「Part Three」—『Crimson — A tale of loss』

di Black Swallowtail
(/viewuser.php?uid=840819)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I —Memories of days lost. ***
Capitolo 2: *** II —The art of being empty. ***
Capitolo 3: *** III —Glass smile. ***
Capitolo 4: *** IV —Damaged both, we sought out each other. ***
Capitolo 5: *** V —In sheep's clothing. ***
Capitolo 6: *** VI —What makes us humans. ***
Capitolo 7: *** VII—“Remember the me, the way I used to be.” ***
Capitolo 8: *** VIII —Crimson. ***



Capitolo 1
*** I —Memories of days lost. ***


Part Three

CrimsonA tale of loss

 

I

Memories of days lost.

 

È una giornata piuttosto nuvolosa ed uggiosa; l'aria profuma di umidità, preannuncia l'arrivo della pioggia, di uno di quei temporali primaverili, così violenti, tanto quanto rapidi a scomparire, lasciando poi spazio ai timidi raggi del sole. Su di me, una pesante cappa grigia stende le sue dita scure fin dove l'occhio riesce ad arrivare, tingendo di colori smorti le figure dei palazzi e delle case che intravedo facendo spaziare lo sguardo tutt'attorno, attraverso il vetro della finestra, reso leggermente opaco dal calore del mio respiro; con le braccia poggiate sul davanzale, il mento che riposa sulle nocche, adagiato con stanchezza contro le mani, tento di districarmi tra i grovigli di pensieri che si avvolgono e si intrecciano l'uno con l'altro, in una matassa all'apparenza senza un bandolo, senza possibilità di sciogliersi. O meglio, senza che io voglia scioglierla, senza che io voglia avvicinarmi al centro della tempesta che è la mia mente.

Forse è per questo, per non soffermarmi sul cuore del subbuglio, sul motivo di questa mia vaga agitazione che riesco a sentire, insistente, mai del tutto soffocata, da qualche parte nel retro della mia mente, che mi sono lasciata trascinare dalla corrente di eventi di tutti i giorni, dalla banale vita scolastica che viviamo tutti, ripetitiva, sempre identica. Nemmeno una singola increspatura, nelle ultime settimane, ha scosso l'assoluta normalità in cui siamo immersi.

Dopo due settimane di convalescenza, il tesoriere del consiglio studentesco, Jeiviel Kondras, è tornato a prendere il suo posto e ha ricominciato la sua attività, in un modo o nell'altro. Non ho più avuto occasione di incontrarlo, da quel giorno in cui abbiamo infranto la maledizione che gravava sulle sue spalle, ma credo che, in qualche modo, qualcosa sia profondamente cambiato, in lui. E d'altra parte, le splendide, malinconiche melodie che serpeggiano al di fuori dell'aula di musica, che sembrano portare con loro un vago odore di tulipani ed un tepore impalpabile, non sono cessate.

Passo accanto ad un cartello affisso contro il muro, un piccolo manifesto che la maggior parte degli studenti ignora, senza nemmeno gettare un'occhiata al suo tenue colore zaffiro; d'altronde, un concerto in auditorium, per pianoforte, seppure eseguito da una persona così talentuosa, non riesce ad attirare l'attenzione di molti. Ma mi basta leggere il nome della compositrice, e l'elegante grafia con il quale è stato scritto il titolo dell'opera, per capire che a lei importi solo che la senta una persona, tra tutte. “Masquerade”, un nome appropriato, per quanto abbia un sapore amaro, nella mia bocca, ed una sorta di triste arrendevolezza.

Il picchiettio delle gocce di pioggia contro il vetro accompagna quello dei miei passi nel corridoio vuoto, mentre fiancheggio una classe dopo l'altra, mordendomi il labbro inferiore in un impeto di impazienza, un vago tormento che inizia a crescere, mentre si avvicina, inesorabilmente, l'ora dell'appuntamento. Provo a colpirmi leggermente le guance, a scacciare via quella sensazione di tensione che si allunga ad attorcigliare lo stomaco e ad aumentare il battito del mio cuore, senza alcun successo. Il groviglio così intricato di pensieri e dubbi, alla fine, si stringe attorno alle lancette dell'orologio che sta in cima alla scalinata dell'atrio, le cui punte sembrano muoversi così lentamente da essere immobili. Come se ogni ticchettio costasse loro una fatica inimmaginabile, come se il tempo non volesse scorrere, lasciandomi crogiolare, ancora nel mio dubbio e nella mia tensione. Nel mio terribile senso di impotenza, di incapacità, che mi ha attanagliato fin da quando mi sono resa conto di non essere riuscita a vedere oltre una maschera.

Non ho mai capito davvero. Non ho mai nemmeno visto il suo inseguire l'occulto, il suo essere attirato morbosamente dal suo mondo nebuloso, così lontano , tanto da non poter essere visto e toccato dagli altri, ma abbastanza vicino da poter immergersi in esso fino al collo, nemmeno il sentimento, che a volte mi è sembrato autodistruttivo, con cui si è dedicato ad ogni causa.

Le mie labbra si chiudono appena, nell'istante in cui mi rendo conto di aver vanificato ogni mio sforzo di distrazione, nell'esatto momento in cui il mio pensiero è andato, inevitabilmente, verso la fonte della mia confusione, del mio nervosismo – della mia silenziosa, spasmodica attesa.

Per quanto abbia osservato il panorama tetro, smorto della città che si sfoca ed appanna, sotto la fine pioggerellina che inizia a gocciolare dal cielo, per quanto abbia tentato di non portare l'argomento nelle mie conversazioni con Aidan, questo chiodo fisso non se n'è mai andato. Dal giorno stesso in cui ho conosciuto quell'esperto di occulto che sembra camminare nel mondo, senza tuttavia farne del tutto parte, da quando ho appreso come ognuno che si invischi nel mondo invisibile, senza eccezione alcuna, desidera scappare dalla realtà, mi sono chiesta quale fosse il motivo a sospingerlo.

Aiutare coloro che sono vittima di un fenomeno paranormale, di una creatura mostruosa, di una maledizione, di un desiderio distorto, è un lavoro estremamente pericoloso, che richiede una conoscenza ed una dedizione incredibili. Eppure, nonostante questo, Aidan, come ha fatto con me, presta la sua mano a chiunque ne abbia bisogno, senza chiedere nulla in cambio, senza mai fermarsi a dubitare di quel che fa, quasi come se fosse intimamente sicuro di non poter sbagliare, di non potersi fermare, lungo quella strada scoscesa, e visibile solo a lui, che sta percorrendo. Un sentiero che non riesco a percepire, per quanto io abbia tentato di affiancarmi a lui; per quante cose siano accadute, per quante volte sia stata accanto a lui, solo dopo mi sono resa conto di quanto poco io riesca a capirlo.

Ogni volta che mi volto, e provo a guardarmi alle spalle, non riesco a comprendere da dove abbia iniziato a camminare, né quanto abbia arrancato, quante volte sia crollato, e quante ancora abbia esitato, quasi sul punto di arrendersi.

Ogni volta che lo osservo, non riesco a capire quali pensieri si agitino in lui, quali parole reprime, proprio sulla punta della lingua, preferendo rimanere in silenzio; quali tormenti lo lacerino, quale determinazione lo sospinga, nel bene e nel male, a trascinarsi pesantemente in avanti.

Quando ancora mi trovavo privata delle mie emozioni, chiedendomi se il passo che stavo per compiere fosse il più giusto, quando la paura mi stava divorando, al limitare di un parco giochi abbandonato, nel cuore di un quartiere residenziale, incolore, come tutti gli altri, la sua voce si è incrinata per la prima volta. Ho sentito rabbia, in lui, una sorta di rimorso orribile, di fronte alla mia esitazione, al mio dubbio, come se volesse evitare un fallimento. Come se volesse impedirmi di compiere un errore che lui conosce bene.

Mi sono chiesta se le maschere che indossiamo, corrispondano all'oscurità che sentiamo. Se è davvero così, allora quale genere di tormento divorante può sentire, lui, che se ne sta lontano dalla realtà, indossando un travestimento che lo faccia apparire impassibile ed estraneo, quando in realtà si lascia divorare ogni volta dal sovrannaturale, con una foga tale da apparire non meno di disperazione?

L'atrio principale è completamente deserto, privo di vita, come se fosse stato abbandonato a se stesso. Privo perfino della musica che serpeggia, facendo vibrare l'aria, fuori dalle dita della musicista che solletica il pianoforte, è come se fossi lontana da ogni cosa, talmente distante da sentirmi quasi tremolante. Ci sono solo ombre, che si accumulano tutt'attorno, ammutolite, ad osservarmi, incapaci di proferire una parola, di emettere un suono; perfino il tamburellare incerto di qualche goccia, o l'avanzare spasmodico, pieno di sforzo indicibile, delle lancette non giunge alle mie orecchie. È in momenti come questi, quando sono completamente abbandonata a me stessa, lasciata sola con i miei pensieri, i miei dubbi e le mie paure, che non riesco ad evitare di pensare quale sia il mio scopo, in tutto questo.

Sono stata egoista, o forse piena di paura, o di desiderio – ma gli ho chiesto di ricordarmi, nonostante tutto, di non dimenticarsi di me. E, di conseguenza, siamo rimasti l'uno accanto all'altra, legati dal destino. Mi sono poggiata a lui, nei miei momenti più bui, sorretta dalla sua figura che non sembra essere mai sfiorata dalla paura, dal dolore, dall'indecisione, come se sapesse esattamente quale sia il suo posto nel mondo. Mai una volta, lui si è poggiato a me. Mai una volta, ha voluto lasciarmi una parte del suo fardello. Non si è trattata di pietà, o di poca fiducia, ma solo di terrore.

Qual è il terrore più grande, per chi non può che contare solo su se stesso?

—Confidare la propria debolezza agli altri.

Sarebbe come ammettere la propria sconfitta, il proprio fallimento. Significherebbe ammettere di essere deboli, incapaci di stare in piedi sulle proprie gambe. Mostrarsi fragili, così vicini a rompersi ed incrinarsi, significa strapparsi di dosso ciò che permette di rimanere non piegarsi. E si finisce così per essere divorati e corrosi da quel che si annida dentro di noi. Non è forse quel che è successo anche a me? Incapace di chiedere aiuto, di parlare con chi mi stava attorno, sono crollata su me stessa. Senza chiedere aiuto, nemmeno alla fine, nemmeno quando il Gatto, leggendo dentro di me, ha capito.

Non so cosa sia accaduto ad Aidan, né perché l'ombra della ragazza di nome Ayane incomba su di lui. Il suo nome, pronunciato dalle sue labbra, con la sua voce tremante, è come una stilettata contro il mio petto.

Tuttavia, per una volta, voglio essere capace di sorreggerlo, anche solo per un istante.

Le lancette raggiungono il sei, producendo solo un breve schiocco, che tuttavia, nel silenzio assoluto, è come se rimbombasse cristallino. Le ginocchia sembrano quasi tradirmi, quando mi metto in piedi esitante, alzandomi dai gradini che portano al piano superiore. Appoggio una mano contro il petto, a saggiare le vibrazioni che si espandono fino ai miei polpastrelli, regolari, talmente potenti da infrangere l'assoluto silenzio tutt'attorno.

Sono passate due settimane dal giorno in cui abbiamo salvato la vita di Jeiviel Kondras, impedendone la pietrificazione. Sono passate due settimane e tre giorni da quando il nome di Ayane è comparso per la prima volta, da quando ho deciso di scoprire i tormenti che si annidano dentro Aidan.

“Quando tutto sarà finito... Ti risponderò. Ti dirò chi è Ayane.” Mi ha sussurrato, senza voltarsi, quando ho stretto la manica della sua divisa, per trattenerlo accanto a me, per impedirgli di sparire. Di sfuggire dalle mie dita.

Il filo delle mie riflessioni si spezza al rumore di una porta che viene aperta, scivolando sui cardini con un leggero scricchiolio, lo scricchiolare di una maniglia che si abbassa, spinta brevemente, per poi rialzarsi e tornare al suo posto. Nonostante volessi trattenermi, non riesco a controllare il riflesso di trasalire al leggero risuonare di passi alle mie spalle, scarpe che, un gradino dopo l'altro, discendono la scalinata, avvicinandosi alla base, avvicinandosi a me, ancora esitante a voltarmi.

Serro le labbra, e posso quasi sentire i denti strusciare gli uni contro gli altri. Non riesco a sentire nulla, al di fuori del battere delle lancette dell'orologio, o di quella goccia d'acqua, di quella singola lacrima di pioggia che scivola contro la porta dell'atrio, o quei passi che ritmicamente si avvicinano. Ma sopra ogni altro, sento affollarsi, tra i miei pensieri, un rumore indistinto, che si attorciglia e riecheggia solo in me. No, non un rumore, ma una sorta di vibrazione. Il battito del cuore folle, che risuona nelle parole, nel nome, che mi ha detto con una voce appena udibile.

“...Chi è Ayane.”

Ayane.

Quando la figura si ferma alle mie spalle, emettendo un basso sospiro, pieno di esitazione, prima di poggiarmi una mano spalla, mi irrigidisco a tal punto a quel contatto fisico da rischiare di perdere l'equilibrio. Divincolandomi da quella presa con una violenza esagerata, faccio un passo all'indietro e mi volto appena le mani ancora poggiate contro il petto, in modo da essere di fronte ad Aidan, una mano affondata in una tasca, l'altra ancora tesa dove fino ad un attimo fa c'era la mia spalla.

Le sue labbra si muovono, ma la voce non raggiunge le mie orecchie, assorbita come sono dalla sua espressione.

La sua espressione, che per la prima volta, dopo tanto tempo, mostra il segno di un'increspatura, che mi sembra di aver intravisto, una volta, all'ombra di un parco abbandonato, degli scheletri di scivoli d'acciaio che si tendevano contro il cielo albeggiante.

Quello che ho intravisto per un istante, era rimorso, era dolore?

Era malinconia?

“—Mi stai ascoltando?”

Un battito di palpebre è quanto basta per riportare tutto all'apparente normalità. La sua espressione, seppure più scura del solito, come ombreggiata dai ricordi che stanno ribollendo dentro di lui, è sempre la stessa. Fuori, il pigro ticchettio della pioggia è cessato, segno che, almeno per ora, non ci bagneremo uscendo dall'atrio, addentrandoci nel cuore della giornata grigiastra e temporalesca.

Scuoto la testa, “Scusami, ero sovrappensiero.”

“Ti ho chiamata tre volte. Sei sicura di stare bene?”

Non sei tu quello che dovrebbe preoccuparsi, in questo momento. Ho visto, per un secondo... “Sì, tranquillo.” Non sembra molto convinto della risposta, ed è quasi sul punto di chiedermi ancora qualcosa; ma all'ultimo istante, scrolla le spalle e, a testa bassa, mi fa cenno di seguirlo. Seguendolo appena dietro, ci facciamo stringere dall'aria insolitamente fredda che spira al di fuori, dal tenue venticello che, soffiando, agita i rami degli alberi contro le nuvole nerastre e gonfie, un tetto di oscurità indefinita sopra di noi.

Completamente in silenzio, abbandoniamo la scuola, lasciandoci il suo edificio tetramente silenzioso alle spalle, inghiottiti dalle strade intricate della città. Non chiedo dove stiamo andando, né riesco a mettere insieme sufficiente coraggio dal rompere il silenzio glaciale che gravita tra di noi. Ci sono volte, in cui non c'è stato bisogno di parole per capirci, per comprendere cosa uno stesse pensando; ma questa volta, si tratta di un silenzio diverso. Le sue spalle sono leggermente piegate, come gravate da un peso che non riesco a vedere, un peso talmente poderoso da creare una distanza tra di noi.

Per qualche ragione, sono sicura che quel peso abbia la forma di una ragazza. Abbia la forma di Ayane.

Percorriamo strade che iniziano a divenire, dopo un po', sempre più familiari. Riesco a riconoscere negozi ed incroci, palazzi e giardini; intravedo la grande, sontuosa casa dei Neires, e vaghi ricordi di mesi fa attraversano la mia mente per un secondo, prima di sparire non appena giriamo l'angolo. Mentre attraversiamo le strisce pedonali per immetterci in quartiere fin troppo noto, capisco dove i suoi passi mi stanno portando e mi stupisco di non averci pensato subito. Era inevitabile, dopotutto, che saremmo finiti in questo luogo che per entrambi, per ragioni diverse, ha un'importanza distorta, ma indissolubile. Proprio sul limitare di questo parco, Aidan si è incrinato per un secondo, mostrandomi quello che cela, nascosto, a tutti coloro che lo circondano. Un luogo che, in qualche modo, ci rispecchia e che, nelle sue macerie contorte ed abbandonate, nella sua desolazione, è evitato da tutti. Un luogo solitario, invisibile, nonostante tutti lo abbiano sotto gli occhi continuamente – come il mondo in cui viviamo noi, su quella linea indefinita che sfuma a metà tra la realtà ed il sovrannaturale che la contamina.

“Te lo ricordi?” Non si volta per gettarmi un'occhiata interrogativa, limitandosi a sfiorare con i polpastrelli uno dei cancelletti divelti, come se temesse di sgretolarlo al tocco. Faccio un cenno di assenso, che non può vedere, tutto preso com'è dal camminare tra la ferraglia strappata e contorta di quel parchetto. Non mi sono chiesta cosa lui possa vedere, tra queste macerie. Non mi è mai passato per la mente, nemmeno per un secondo, che questo luogo potesse avere un'importanza, per lui, che la sua memoria lo possa animare con spettri sbiaditi e vecchi fantasmi direttamente dai ricordi. O forse, da un solo fantasma, dai contorni così vividi, nei suoi ricordi, da essere insopportabile.

Superiamo senza degnarlo di più di un'occhiata il piccolo spiazzo dove, qualche mese fa, ho incontrato il Gatto, ho riacquistato le mie emozioni, me stessa... Ed ho deciso di rimanere al fianco di Aidan, nella speranza che, almeno lui, possa ricordarmi. Un piccolo cavallo a molla giace estirpato tra l'erba alta, e la molla alla sua base vibra appena, quando Aidan si accovaccia accanto ad esso per toccarne esitante la figura. Riesco ad intravedere i denti che si conficcano nelle labbra, per un solo attimo, ma è già in piedi prima ancora che io possa anche solo tendere la mano per sfiorarlo.

Cosa può essere accaduto, in un luogo desolato come questo? Perché, per lui, è così doloroso, al punto da suscitare tutto quel rimorso... Cos'è accaduto, Aidan?

Infine, arriviamo ad un nuovo spiazzo lastricato, circondato dai resti di tre panchine sfracellate e spaccate, di cui rimangono solo assi di legno marcite e acciaio contorto, arrugginito. Si ferma a contemplarne una, le mani affondante nelle tasche, perso in qualche pensiero troppo profondo perché possa interromperlo. Ma quel che gli interessa davvero, è ciò che si erge, scheletrico, all'angolo di questa piccola area. In mezzo all'abbandono e allo sfacelo, quell'unica struttura arrugginita appare fuori posto, così integra, seppure provata e scricchiolante. In sé, non ha nulla di speciale. È solo un'altalena come tante, mal ridotta e ormai inutilizzata, dalle catene malandate, al punto che potrebbero rompersi perfino sotto il mio esile peso.

Ora che sono così vicina al conoscere la verità, mi sento quasi schiacciata da qualcosa e, per quanto tenti di controllarlo, il battito del mio cuore non vuole rallentare. Mi siedo esitante su uno dei due posti rimasti dell'altalena, le ginocchia una contro l'altra, muovendomi appena con la punta delle scarpe in un lento, esasperante oscillare.

Non riesco a guardare Aidan se non con la coda dell'occhio, mentre si poggia, accanto a me, sull'altalena rimasta. Continua ad osservare l'erba incolta e le panchine solitarie, mentre solletica la ghiaia con le suole.

L'altalena produce un basso, costante scricchiolare, uno sferragliare affaticato di catene, ogni volta che mi spingo stancamente in avanti con i piedi. Il freddo acciaio delle catene sembra scivolare attraverso la mia pelle; ma non so se i brividi siano dovuti al vento che soffia delicatamente, facendo dondolare il posto accanto a me, oppure al pensiero di quel che sta per accadere.

Nessuno dei due ha proferito parola, da quando siamo arrivati in questo parchetto abbandonato che entrambi conosciamo bene. Su di noi, aleggia un'aria di tensione, pesante come un macigno, un silenzio talmente delicato da poter essere incrinato solo con il rumore dei nostri respiri. Per questo, anche se il mio petto si alza e si abbassa, non emette alcun suono.

Con le mani poggiate sul viso, gli occhi vitrei, perso nei suoi pensieri, sembra così lontano dal mondo, da questa realtà, immerso nei suoi ricordi peggiori, più torbidi. Gli stessi ricordi che gli ho chiesto di rivangare.

“Ti racconterò tutto, come promesso.”

Alza lo sguardo verso i ruderi di questo parco ormai lasciato a se stesso, a marcire e ad arrugginirsi. Un parco che preserva, tra le sue rovine di acciaio e plastica, i fantasmi di vecchi ricordi sbiaditi.

“— È la storia di come sono diventato quel che sono ora.

È la storia di una morte e di un senso di colpa.

È la storia di una stupida promessa, che mantengo ancora oggi.”

Le catene sferragliano un ultima volta, prima di immobilizzarsi del tutto.

“Questa è la storia della mia perdita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II —The art of being empty. ***


II

The art of being empty.

Un nuovo inizio viene sempre accolto come un'opportunità di cambiare vita e, magari, imparando dai propri errori, di provare a migliorare un po', rispetto alla precedente. Almeno, questo è quello che ho sentito ripetere artificialmente, come una sorta di mantra, da ogni persona attorno a me, dal giorno stesso in cui sono salito sul treno che, sfrecciando attraverso paesaggi di campagna e collinette punteggiare da alberi nel pieno della fioritura, mi ha portato tre giorni fa in questa cittadina come le altre, completamente anonima tanto nel nome quanto nella sua topografia. Quando ho poggiato il mio piede fuori dalla carrozza, lasciando che il caldo afoso di quel giorno primaverile mi investisse, l'unica cosa che sono riuscito a pensare, è quanto, tutt'attorno, apparisse insulso, privo di qualsivoglia attrattiva o di particolarità che la differenziasse dal resto del mondo.

Non ne ho fatto una colpa alla città, ai suoi palazzi che si allungano verso l'alto, affusolati, come se tentassero pallidamente di imitare il profilo di una grande metropoli, o ai suoi abitanti, poco più che figure nerastre dai tratti sbozzati e dalle voci monotone. Non è certamente un loro difetto, quello di essere così scialbi, tante macchiette che si affannano, l'una dopo l'altra, in chissà quali futili attività. Loro, ognuna delle persone che si aggira tra le strade di questo enorme diorama, sbiadito e tremolante, di una vera vita, in cui sono precipitato, non hanno alcuna colpa. Il problema sta tutto negli occhi di chi guarda. Il problema è tutto, completamente pesante sulle mie spalle.

Con le mani affondante nelle tasche della divisa scolastica, lo zaino che pende floscio sulla spalla, dondolando ritmicamente adeguandosi alla mia lenta, faticosa andatura, lascio che il mio sguardo scorra di ombra in ombra, tra gli edifici in costruzione, attraverso questo dipinto surreale che è la realtà distorta attraverso i miei occhi. Gli occhi di un malato, di una persona che non riesce più a vivere in un mondo di cui non si sente parte, un mondo scialbo e talmente nebuloso, che tuttavia non cambia mai. Per quanto mutino i luoghi, per quanto le persone vengano e vadano, nulla sembra riuscire a toccarmi.

Non c'è repulsione, in me, non c'è disgusto o sofferenza per questa mia situazione. Ci sono persone che, di fronte ad una condizione come questa, sprofonderebbero in un abisso che le divorerebbe, le attanaglierebbe. Si lascerebbero fare a pezzi da se stessi, dal terrore, dal disgusto. Invidio quelle persone, che guardandosi allo specchio, riescono ancora ad avvertire un minimo di sensazione, seppure ributtante, verso se stessi, verso ciò che li circonda; li invidio da morire, perché io non provo assolutamente nulla, se non una silenziosa, remissiva accettazione di quel che mi accade.

Nessuno se ne rende conto, perché è qualcosa che non salta all'occhio immediatamente. Perché si dischiuda di fronte a qualcuno, è necessario rompere il guscio della superficialità, del rapporto di mera cortesia, di una interazione derivata dalla necessità. Un sorriso di cortesia, una vuota risata ad una battuta, un errore apparentemente impacciato, possono costruire una facciata sufficiente a nascondere la torbida palude in cui si è immersi fino al collo. Una palude che non risucchia, né rigetta; un abisso che non ti vuole accogliere, un cielo che ti rifiuta. Rimanere sospesi, nell'impassibilità, ad osservare ogni cosa ingrigire e venire meno, sfiorire senza riuscire a toccarla, piegare la testa di fronte alle maree della quotidianità...

Il cancello della scuola, aperto, lascia entrare un fiume umano di persone dissimili, eppure così sfocate, alla mia vista, che riesco a malapena a percepirne la differenza. Uno tra i tanti, mi immergo nella folla che avanza disordinatamente verso l'atrio dell'edificio squadrato, spingendosi, ridendo, protestando, in un brusio del quale riesco a cogliere solo frammenti di conversazioni sparse.

Una squadra di basket dalle ottime prestazioni, una rottura di un fidanzamento durato il tempo di un'estate, quella ragazza del terzo anno che, ancora una volta, non si è presentata all'ennesima lezione per rintanarsi tra le macchinette, quel nuovo, promettente ragazzo appena entrato nei ranghi del concilio studentesco, quel professore intransigente che—

Un gradino dopo l'altro, avvolto in questo bozzolo di spesse parole e sagome umane irriconoscibili, seguo la calca verso il corridoio in cui si dovrebbe trovare la nuova aula, una come tante altre, indistinguibile nel suo anonimato. L'insegnante che mi attende fuori dalla classe, lo sguardo vigile su ogni studente che attraversa questo corridoio, mi fa cenno di avvicinarmi non appena mi scorge tra la folla; facendomi largo tra un capannello di ragazze prese da qualche discussione di cui avverto solo frammentati commenti, mi avvicino alla figura che mi rivolge uno di quei sorrisi.

Nei loro corpi fumosi e nerastri, come inchiostro sbozzato a formare una figura umanoide, i tratti del loro viso sono appena distinti, e raramente riesco ad imprimerli del tutto nella memoria; tuttavia, quello che più rimane nella mia mente, nei miei ricordi, di ogni persona con la quale incrocio lo sguardo, è la curvatura del loro sorriso. La sua grandezza. Sorrisi placcati d'oro, curvature che appaiono così naturali, per nascondere i veri pensieri. Non gliene faccio una colpa – è qualcosa che anche io mi ritrovo ad utilizzare, d'altronde; si tratta della base dell'interazione sociale più superficiale.

Sono sicuro che per lui non sono altro che un fastidio, l'ennesimo nessuno piombato dal nulla e con poco preavviso, che è stato inserito forzatamente nella sua classe per chissà quale stupido motivo. Forse c'era un buco, forse nessun altro era disposto ad accettare un ulteriore studente, un fastidio dalle sembianze di un nuovo arrivato. Non c'è nulla di male, nel voler evitare i problemi. È più che naturale. Lo capisco.

Vorrei dirglielo, ma preferisco rimanere in silenzio, annuendo alle sue parole di benvenuto, mentre mi invita ad entrare per presentarmi alla nuova classe, con la quale passerò del meraviglioso tempo insieme. Fuori, soffia un vento impetuoso che agita i rami degli alberi carichi di foglie tanto verdi da essere accecanti, e porta con sé un vago profumo di orchidee e tulipani; quando il professore si scosta per permettermi di entrare, la luce che entra dalla finestra mi colpisce in volto, costringendomi a schermarmi, per un attimo, mentre mi avvicino alla cattedra rialzata con la testa alta, proprio come farebbe una persona pronta ad accettare una nuova, soddisfacente vita scolastica, in una nuova città, piena di nuove opportunità.

Probabilmente, qualcuno al mio posto si sentirebbe emozionato, indagato da tutti quegli sguardi. Forse, l'aria tersa di questa giornata primaverile gli darebbe una sensazione di vitalità, addirittura di commozione, per la bellezza della natura che rifiorisce. Non invidio queste persone, ma non posso dire di comprenderle appieno. Senza dubbio, ricordo che c'è stato un tempo, anni fa, in cui anche io mi sarei sentito così. Ma ora, nonostante tenga la testa alta, nonostante mi sforzi di non far ingrigire il mio sguardo, di renderlo opaco, vitreo, semplicemente sento in me una rassegnazione che sfiora l'inerzia.

Accetto quel che accade, così come viene, con un atteggiamento che hanno additato come passivo, mancante di spirito di iniziativa, privo di risposta agli stimoli esterni. Qualcuno mi ha definito privo di emozioni – ma non è così. Io provo ancora emozioni, altrimenti, come spiegherei questa rassegnazione, questa inerzia, di fronte a ciò che mi accade intorno? La risposta è molto più semplice. Mi sento lontano, come se tutto questo non mi riguardasse, come se fosse tutto pesante. Insopportabile. Faticoso.

“Mi chiamo Aidan Reiss, mi sono trasferito solo tre giorni fa per esigenze di tipo medico.”

La mia bocca si muove automaticamente, come una segreteria che ripete insistentemente un messaggio già registrato, artificioso e terribilmente falso; ma quel che importa, d'altronde, è ciò che loro sentono. Li osservo uno ad uno, contando quanti, di questi sorrisi, di queste occhiate curiose, di questi sussurri che fuoriescono dalle loro bocche riesco a cogliere. Tra di loro, sono una figura, solitaria, in disparte, completamente lontana da ogni cosa, non come se nulla la riguardasse, come se fosse finita in questo luogo per colpa di una coincidenza. Come se essere qui non provocasse in lei alcuna reazione.

È l'attenzione di un momento, che sparisce non appena mi siedo al posto indicatomi da quel docente di cui ho già dimenticato il nome, conficcato in qualche angolo remoto della mia memoria, che non va al di là della sua figura dietro a quella cattedra in fondo all'aula. Nessuno mi rivolge la parola, ma sussurrano, guardano, chiedendosi chi sia, quale problema medico io abbia; la tipica curiosità di chi si trova faccia a faccia con qualcosa di nuovo, e ne è attratto morbosamente, perché gli appare criptico, impossibile da comprendere. Una sensazione che ho dimenticato, ma che serbo nella memoria. La mancanza che mi invalida, che mi tiene sospeso nel mondo incolore che fluttua tra l'alto ed il basso, dove non importa nulla, dove niente tange.

Sono sicuro che, il giorno in cui sentirò una scintilla di curiosità per qualcosa, il giorno in cui nuovamente i tratti di una persona torneranno ad apparirmi chiari, la sua voce non distorta e lontana come riprodotta da una cassa malmessa e consunta, allora forse potrei tornare a credere che ci sia un minimo di speranza per me. Una speranza di cui ho dimenticato il sapore, che ho abbandonato da tempo.

Non c'è vaccino per curare chi ha perso interesse per quello che lo circonda. Non c'è modo per riaccendere la scintilla in chi si lascia trascinare dalle onde impetuose del mare di ogni giorno. Non mi sento affogare, non mi sento morire. Non voglio abbandonare questa vita, non voglio correre via. Non ci sono catene a trattenermi.

L'unico peso che mi tiene ancorato—è quello che mi sono forgiato io stesso.

Quando il suono acuto e lancinante della campanella soffoca le ultime parole della lezione, segnando la fine della giornata scolastica, senza alcuna fretta particolare, rimetto a posto ogni singolo libro all'interno dello zaino, abbandonandolo contro la spalla destra. Tra il pigro vociare degli ultimi studenti che si attardano a lasciare l'aula, il professore mi chiede di trattenermi per un attimo, per sbrigare qualche incombenza riguardo al mio piano di studi, probabilmente per farlo combaciare con il programma di questa nuova scuola, e di aspettarlo in corridoio mentre termina di mettere a posto qualche documento.

Il corridoio è già piombato nel silenzio che sembra innaturale, per un luogo solitamente animato dalla presenza delle persone; mi avvicino alla finestra, lasciata aperta in modo da far trapelare gli ultimi barlumi di luce della nuova primavera, l'odore dei fiori stipati nella serra di fianco al cortile, e sopratutto, per lasciare indugiare gli occhi su quelle figure che si affollano sul grande cancello, fermandosi a scambiarsi le ultime parole della giornata, prima di farsi inghiottire dalle strade, dai palazzi, dalla calca al di fuori, sparendo dalla mia visuale, perdendo identità nel momento in cui scompaiono dal mio occhio.

Mi porto una mano al viso, sfiorando i miei lineamenti, passando lentamente i polpastrelli su ogni angolo del mio volto, su ogni palmo della mia pelle, constatando che è ancora lì, che la mia faccia non è cambiata. La sua espressione è la stessa di sempre, immersa nella sua neutralità, come se non potesse incresparsi, ma non è sparita, non è sfumata.

“Cosa stai facendo?”

Una voce femminile, alle mie spalle, che soffoca il brusio sommesso proveniente dal cortile, trascinandomi bruscamente nella realtà. Mi volto lentamente verso sinistra, come se ogni movimento mi costasse una fatica disumana, come se degli ingranaggi in me si fossero bloccati ed arrugginiti, preso per un secondo dall'incredulità; un'incredulità non tanto per quella figura che mi osserva dubbiosa, giocherellando con una ciocca di capelli che avvolge attorno all'indice con un ritmo ossessivo, quasi maniacale, quanto per la reazione che il suo commento ha provocato in me.

Nessuno, prima d'ora, mi ha mai visto toccarmi il viso in questo modo, saggiarlo accuratamente palmo per palmo. È un'abitudine che ho acquisito tempo fa, quando ho realizzato qualcosa di contorto, una possibilità che non ha instillato in me la paura, più una sinistra consapevolezza.

Non so se è questo il motivo per il quale sono trasalito così bruscamente, per il quale mi sono sentito colto in flagrante; e non so, ancora, se è proprio per questa improvvisa reazione che è esplosa in me, senza che riuscissi a controllarla, con la stessa naturalezza con la quale respiro. Eppure, i miei occhi sono calamitati su di lei, le pupille dilatate per raccogliere completamente ogni dettaglio del suo viso.

Il primo viso, dopo così tanto tempo, che non è ombreggiato dall'inchiostro e dalla sfocatura.

Quando i miei occhi si riflettono sulla sua figura, quando mi rendo conto di poterla distinguere chiaramente, è come se qualcosa si incrinasse, come se una crepa si fosse formata nel mio campo visivo. Mentre la brezza mi fustiga appena le guance, la ragazza mi si avvicina, con un abbastanza affilato da potermi ferire, se solo si avvicinasse al mio viso.

È impossibile non guardarla, la sua sola presenza funge da magnete che morbosamente richiama su di sé l'attenzione. I capelli neri, più scuri dell'abisso sul quale vortico ogni istante, scivolano dolcemente, con precisione maniacale, fino al collo, lasciandone scoperta la pelle sottile, lattea, che sembra voluttuosamente ammiccare, e su di essi nel lato destro, porta un fermaglio a trattenere in ciuffo ribelle che le scivolerebbe, altrimenti, sulla fronte; talmente elaborato da essere naturalmente appariscente, è una rosa nerastra come inchiostro sbiadito, che sembra fiorire direttamente dalle radici dei suoi capelli, e sbocciare crudelmente assieme al suo ghigno.

Nonostante viga un codice molto stretto circa il vestiario, lo ignora completamente. Con il solo scopo di trovare soddisfazione per il suo narcisismo, indossa calze appena sopra al ginocchio dalle fantasie più disparate, righe bianche e nere, punteggiate da piccoli teschi, stelle, pois; l'altra, di un unico colore, banalmente nero, è stridente nella sua sobrietà, rispetto alla compagna destra. Le gambe, esposte per metà, sono perfettamente dritte e sottili, talmente sinuose ed eleganti da ipnotizzare con il loro esasperante movimento, mentre incede per il corridoio con quell'aria annoiata e di distacco, quasi come se nulla le appartenesse, o le interessasse, mentre si avvicina di colpo a me, specchiandosi nel mio viso – un'espressione che conosco fin troppo bene, ma contaminata da una sorta di malizia sinistra, velenosa.

Indossa una giacca della divisa troppo grande per il suo corpo minuto, intenzionalmente larga, in un perverso e sapientemente studiato gioco di feticismo visivo, nascondendosi agli sguardi penetranti e calamitati, ma lasciando ad essi l'ondeggiare della sua gonna a scacchi, di tinte scure; un tessuto color vinaccia, come sangue raggrumato strappato dalle vene, alternato a riquadri neri, che sembra creata appositamente per stringerle il sottile profilo delle gambe, lasciando tuttavia scoperto lo spazio tra l'orlo e le calze, una zona di distorta attrazione che per una ragione sconosciuta, grazie al suo gioco perverso fatto di atteggiamenti, movimenti e vestiario, produce una ossessione morbosa, un dettaglio dalla carica talmente deviata da apparire irresistibile.

Le sneakers leggermente rialzate, non sono per compensare la sua statura, che arriva a malapena permetterle di guardarmi negli occhi, ma per soddisfare un suo gusto estetico portato all'esagerazione, ed il piccolo tacco produce un rumore secco battendo ritmicamente sul pavimento, come una sorta di campanello d'allarme.

Nell'insieme, è come se desiderasse attirare su di sé sguardi morbosi, attenzioni distorte, solo per il proprio piacere personale, una ipocrita soddisfazione che trasuda da ogni parte della sua figura. Ne ho viste tante, di persone che si costruiscono attorno un'immagine studiata per apparire agli altri; ma in lei, c'è qualcosa che va oltre l'apparenza. È quasi come se si trattasse di un'aura insita nel suo atteggiamento.

“Stai bene?” Questa volta, la domanda ha quasi un tono di preoccupazione, “Non ti ho mai visto prima. Fammi indovinare, sei il nuovo studente, non è così?” Unisce i polpastrelli di fronte al viso, poggiandoli appena contro il naso, in un gesto di esagerata riflessione, “Non c'è dubbio. Quindi, perché ti toccavi la faccia, tutto da solo in corridoio?”

Non mi è mai accaduto di esitare, nel rispondere. Non mi è mai accaduto di faticare, nel trovare la forza di estrarre delle parole dalla gola, di trascinarle attraverso la secchezza della bocca. È una sensazione che ho quasi dimenticato, che mi sembra aliena, impossibile che appartenga a me, non più. Eppure, di fronte a lei, preso alla sprovvista, catturato dalla sua figura così distorta, che sembra volermi divorare semplicemente con lo sguardo, la mia passività scivola via, come se un velo fosse stato strappato via dalla mia testa.

Ci sono cose che sembrano poter accadere solo nei libri. Ed effettivamente, tristemente, è così. Me ne rendo conto quando, lentamente, l'effetto del primo impatto si esaurisce, e torna in me il solito, meccanico ragionare della mia mente stanca e rassegnata. Per quanto lei non si oscuri, in qualche modo, si sbiadisce, perde parte del suo colore, della sua interezza; nonostante ciò, rimane qualcosa che mi attira indissolubilmente verso di lei, qualcosa che non riesco a definire, a comprendere nemmeno osservandola con la mia sola inerzia.

“Sto aspettando che il professore mi chiami per sistemare dei documenti.” Il mio tono non è laconico quanto la risposta, ma in esso risuona la tipica nota incolore della mia voce, ormai tanto familiare da non farmi più rabbrividire, seppure i miei interlocutori, spesso la trovino insolita, quasi inquietante, nella sua inerte passività.

La misteriosa ragazza, gettando uno sguardo di sottecchi alla classe, annuisce con un gesto impercettibile, riservandomi un'espressione piena di comprensione, “Capisco. Questo risponde ad una parte della mia domanda, indubbiamente. Ma ora, dimmi—” Come se la realtà fosse divenuta improvvisamente vischiosa, il tempo distorto e frammentato, un dito si allunga verso il mio volto, con una decisione che mi fa trattenere il fiato. Le mie labbra si chiudono istintivamente, poco prima che il polpastrello si fermi ad un soffio dal mio viso, provocando una sorta di silenziosa risata in lei, “Perché ti toccavi la faccia?”

Vorrei sapere esattamente cosa mi spinga ad aprire la bocca e rispondere in questo modo; forse perché, per la prima volta dopo tanto tempo, ho sentito qualcosa scattare in me, qualcosa muoversi, strapparmi dal limbo di passività in cui sono precipitato; e, con una disperazione, con un desiderio, che credevo morti, mi aggrappo inconsciamente a questa sensazione effimera.

“Ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, mi chiedo se il mio viso diverrà come quello degli altri. Invisibile, scuro, indefinito.” Non riesco nemmeno a sentire quello che sto dicendo, perché è poco più di un doloroso, tenue sussurro, che fuoriesce dalle mie labbra come un respiro faticoso. La pausa che segue quell'affermazione è accompagnata dall'agitarsi della cacofonia di parole degli studenti, dal brusio sommesso ed indistinto delle persone ammassate nel cortile, di quei volti scuri che ho sempre guardato con un sentimento di consapevole, nascosto dubbio. “O forse lo è sempre stato... Ed è quello delle persone attorno, che io non riesco a vedere.”

“Capisco come ti senti.” Si ritrae leggermente, scoccandomi un'ultima occhiata, prima di girarsi, iniziando ad allontanarsi con quel suo passo ipnotico, talmente leggero da apparire etereo, un'apparenza rotta solo dal leggero battere delle scarpe contro il pavimento; quando arriva sul primo gradino delle scale che conducono all'atrio principale, si ferma, come in bilico, sospesa a riflettere se poggiare o no il piede, se compiere il passo successivo. Al di sopra della spalla, piegando appena la testa verso di me, la intravedo sorridere, “Se ti può consolare, io riesco ancora a vedere il tuo viso—e anche quello che nascondi al di sotto.”

Non so esattamente cosa mi abbia spinto a rispondere in quel modo, perché improvvisamente, venuta meno la mia passività, le abbia svelato quale sinistro orrore alberghi nel fondo dei miei intricati pensieri grigiastri e ricolmi di macerie.

Mentre sparisce dal mio campo visivo, si sottrae al mio sguardo, scendendo uno ad uno i gradini della scalinata, mi rendo conto di come la sua figura sia rimasta impressa dentro di me. Di come non sia scomparsa, sbiadita come tutte le altre. Di come ricordo ancora, distintamente, il volto. Non appena è sparita, la realtà è piombata nuovamente su di me con tutto il suo peso, con tutta la sua indifferenza; tuttavia, in mezzo a questa rassegnazione, a questa arrendevolezza, le sue parole risuonano con un tono colorito di vago conforto.

Una figura senza nome, ma più reale di tutte le altre.

Riesce ancora a vedere il mio viso.

 

La vita scolastica procede lentamente, precipitata in una routine che, gradualmente, spentasi la novità del nuovo studente, della scuola sconosciuta da scoprire, torna ad essere la stessa di sempre, il ripetersi meccanico di giornate tutte uguali. I contorni della nuova città sono velocemente divenuti, per me, un paesaggio familiare, non diverso da quello della metropoli, solo più piccolo, più modesto. Le differenze, tuttavia, si sono fermate meramente al panorama che, in qualche giorno, è ingrigito ed appassito, perdendo dettagli e contorni netti, per sfumare come tempera annacquata, poco più che uno sfondo sbozzato.

E così, il trasferimento dalla grande città si è rivelato solo una misura superflua, inutile, senza alcuno scopo, che mi ha lasciato indifferente, perpetuamente immerso nella mia bara di vetro, ricolma di acqua talmente profonda da impedirmi di osservare chiaramente l'esterno, di udire le voci limpidamente. Imparare meccanicamente i nomi dei compagni di corso è stata una necessità basilare, ma le chiacchiere con loro sono andate diradando tanto velocemente, quanto rapidamente sono nate. Dopo i primi giorni, le parole che sono fluite dalle mie labbra sono state pesanti e distanti, al punto che non riesco nemmeno a ricordare quella piccola conversazione occasionale con la ragazza della terza fila, che di nascosto scorre annoiata qualcosa sullo schermo pallido del cellulare, o con chissà quanti altri studenti che, volente o nolente, sono per qualche istante entrati nel mio campo di percezione così smussato e stanco.

Tuttavia, quel continuo grigiore, come tante foto scattate da una vecchia macchina fotografica, che è l'avvicendarsi dei giorni della mia vita quotidiana, sembra lentamente andare sfumando, assumere vaghe tinte che riesco di nuovo ad intravedere, perfino a ricordare, nonostante tutto il tempo in cui non le abbia più viste. E, per quanto sia difficile ammetterlo, per quanto risulti strano, addirittura leggermente imbarazzante, al punto da mordermi le labbra ogni volta per nasconderlo, la scintilla che riluce per un attimo – deriva da quella figura che ho inseguito affannosamente per due settimane.

In realtà, scoprire chi fosse quella ragazza eccentrica, quasi velenosa, eppure, proprio per questo, dotata di un distorto fascino, non è stato difficile. Mi è bastato accennare al suo aspetto fisico per attirare diverse occhiate di sottecchi ed ottenere, seppure con un po' di esitazione, un nome. Effettivamente, è normale che una come lei, che spicca ovunque vada per l'aura di estremo narcisismo che emette da ogni poro e che si rispecchia in ogni suo atteggiamento, divenga famosa per la scuola. Il suo nome passa di bocca in bocca nei corridoi, tra le aule, e perfino i nuovi studenti del primo anno la conoscono, spesso prima di averla vista.

La parte difficile non è scoprire chi sia, o cosa faccia quando non è impegnata nelle lezioni; si tratta di avvicinarla, di riuscire ad attirare la sua attenzione. Di farsi guardare da lei, e non solo di ammirarla.

O almeno, questo è quello che tutti sussurrano, vedendola passare accompagnata dal ticchettare delle sue scarpe, dallo svolazzare acuminato della gonna rossastra, dell'ondeggiare del suo corpo sottile. La verità è che la sua fama è un deterrente sufficiente a tenere lontani tutti coloro che vorrebbero avvicinarla; per questo, per l'immagine sfrenatamente edonistica ed irraggiungibile che si è creata, si è circondata di una solitudine fatta di occhiate e sussurri.

Non so dire se questa cosa le dispiaccia, o se le sia indifferente; d'altronde, esattamente come me, lei non mostra mai il suo vero viso.

“Pensavo non saresti venuto, oggi.”

Il vento che spira sul tetto dell'edificio scolastico mi scompiglia leggermente i capelli, costringendomi, con uno sbuffo infastidito, a sistemarmi un paio di ciuffi, un'azione in sé inutile, in quanto i miei capelli scompigliati non hanno un loro ordine. Si tratta più di un riflesso automatico, di un modo per non rispondere ad un saluto inesistente. Seduta all'ombra della tettoia che circonda il piccolo atelier estivo del circolo di arte e pittura, le dita che seguono il bordo della lattina che tiene in mano, facendola oscillare secondo il ritmo della brezza, è una figura quasi aliena, dai colori scuri e del tutto fuori posto in questo panorama.

Nonostante questo, è l'unica che, per me, abbia un colore. L'unica di cui distingua i lineamenti, che risalti su uno sfondo insondabile. Un colore scuro e torbido, eppure in grado di risaltare sullo scialbo nulla che la circonda.

Ayane Weister conduce uno stile di vita deleterio. Mangia poco, quasi a forza, piccoli bocconi di cibi leggeri e snack insapore, che mastica senza gusto particolare e beve una quantità spropositata di caffè freddo in lattina; comprata la bevanda, si rannicchia nello spazio tra i due distributori automatici, nei mesi che ora si fanno più freddi. O, come accade tra la primavera ed i primi giorni di autunno, si rifugia nella sua solitudine, sulla panchina del tetto, le ginocchia unite e raccolte al petto, lo sguardo perso nel vuoto, trascinata via dalla corrente impetuosa dei suoi pensieri; e, per quanto tenti di sondare cosa si agita in lei, per quanto tenti di capire su cosa sia concentrata, è come provare a sciogliere un indovinello scritto in una lingua sconosciuta. È impossibile riuscire a distinguere la menzogna dalla verità, quando la sua voce morbida e carezzevole, ma perennemente vagheggiante un tono annoiato, si apre a muovere le piccole e pallide labbra. La sua testa è un inferno tenuto nascosto al mondo – e nessuno vorrebbe sapere quale follia vi infuri all'interno.

Come ho scoperto dalle voci di corridoio, è spaventosamente intelligente – una intelligenza ben più di una spanna al di sopra degli altri. Sembra guardare tutti dall'alto in basso, dal suo grado superiore, suscitando stupore ed ammirazione, attirandosi odio ed irritazione, perché il suo aspetto minuziosamente costruito è coronato da questo intelletto divorante, che si traduce in una capacità disumana e corrosiva di manipolare il prossimo.

Per via della sua scostante, attrattiva ed allo stesso tempo repulsiva indole, è rimasta sola in poco tempo. Le persone attorno a lei sono stregate dal suo fascino, ed al tempo stesso se ne sentono schiacciate; e, non potendo sopportare questo conflitto, quei pochi che riescono ad avvicinarsi, finiscono per allontanarsi da lei in preda al terrore. Non sembra interessarle. Le piace la solitudine, visto quanto spesso la ricerca. Più il tempo trascorre, più le rimango accanto, e sempre più realizzo che è come se incedesse separatamente da noi, in un mondo irraggiungibile, invisibile, filtrato attraverso i suoi occhi instancabili, il suo sguardo criptico.

“Non stai dipingendo neanche oggi?” Mi siedo accanto a lei, i gomiti poggiati sulle ginocchia, la testa leggermente abbassata, ad evitare i raggi solari, ed il mio sguardo si alza esitante verso di lei, verso le labbra che stringono un bastoncino di qualche gelato, che arrotola sovrappensiero attorno alla lingua, facendolo roteare lentamente.

Scuote la testa, biascicando qualche parola che riesco a malapena ad udire, la stecca che segue l'andamento delle sue labbra mentre parla stancamente, “Niente ispirazione.” poggia la lattina vuota ai suoi piedi, abbandonandola insieme alle altre quattro, disposte in una precisa fila davanti alla panchina, una vista che mi fa storcere appena la bocca. Non ha senso ripeterle, per l'ennesima volta, di non ingerire così tanta caffeina, perché so benissimo che non mi ascolterebbe, ma sono sicuro che arriverà il giorno in cui le causeranno seri problemi. Le occhiaie, abilmente nascoste dal trucco, ma che so benissimo essere appena sotto gli occhi, sono la testimonianza più eloquente del suo sregolato ciclo di sonno e veglia.

“Immagino che nessuno si sia fatto avanti, per entrare nel club di arte, vero?”

Ovviamente è una domanda retorica. La presidentessa, nonché unico membro, è uno spauracchio sufficiente a tenere lontani perfino gli animi più arditi o appassionati. Per questo motivo, lei è l'unica che ancora si dedica alla pittura, che tiene in vita l'organizzazione con la sua passione, con la sua smodata, incessante ricerca della bellezza, molto spesso infruttuosa. Nel tempo che ho trascorso con lei, non l'ho mai vista prendere in mano un pennello, né tentare uno schizzo a matita, un semplice disegno. Quando le ho chiesto il motivo della sua riluttanza, si è limitata a scuotere le spalle, dicendo che, per lei, la ricerca della bellezza è un fine, indispensabile per raggiungere uno scopo. Uno scopo che mi ha taciuto.

Non so dire cosa mi leghi esattamente ad Ayane; quel che è accaduto il primo giorno, quando l'ho incontrata per caso in quel corridoio, quando ho scambiato quelle poche parole con lei, è stato quasi surreale. Qualcosa in me si è acceso, per un attimo, ed ha pulsato – le ha dato dei contorni, un viso, una voce. Dei colori. È come se in lei, inconsciamente, avessi trovato qualcosa in grado di strapparmi via con prepotenza dall'indolenza, dalla vita sfocata nella quale sono costretto a fluttuare. Non so ancora dire se lei mi sia trascinando in basso, verso l'abisso, o conducendo in alto, verso l'indefinito trapuntato di stelle lattiginose; so solo che la sua voce, i suoi occhi, la sua intera figura, sono così vivi, così veri, da attirarmi inesorabilmente, da riuscire a colorire languidamente i miei occhi.

Per quanto lei ami la solitudine, non mi ha respinto. Il suo atteggiamento, rispetto alle storie raccontate da altre persone che sono riuscite a frequentarla, non mi appare così terribile, schiacciante o corrosivo. I lunghi silenzi che gravitano tra di noi, seduti in cima a questo tetto, sono i momenti in cui mi sembra di essere vivo per la prima volta durante l'arco di una giornata.

È ridicolo, qualcosa a cui non avrei mai creduto, prima di incontrare Ayane – una persona, un singolo individuo, a cui ci sentiamo affini, è in grado davvero di accendere una tenue fiammella in noi.

“Certo che no. Nessuno mi si avvicina più, ormai...” scrolla le spalle, allungando le ginocchia mentre si stiracchia stancamente, facendo toccare le punte delle scarpe tra di loro, la testa inclinata leggermente verso di me, “Tu, piuttosto. Sai che se rimarrai con me, inizieranno tutti a guardarti, a sussurrare, ad inventare storie?” Un accenno di sorriso affilato si apre sul suo viso, un sogghigno che, tuttavia, non è pregno di falsità, di finta naturalezza. Le sue labbra si curvano, senza nemmeno scoprire i denti, semplicemente allungando gli angoli verso l'alto, “Non che ti interessi, dopotutto.” Si piega leggermente verso di me, la mano che si allunga a carezzarmi il volto, a sfiorarlo appena con le dita, “Hai detto che sono l'unica persona che puoi vedere, no?”

Mi irrigidisco di colpo, poco prima che i polpastrelli mi sfiorino, all'udire per l'ennesima volta quelle parole, quel tono a metà tra il carezzevole sussurro e la canzonatura, di chi trova divertente richiamare alla memoria ricordi imbarazzanti o delicati. Non importa quante volte le abbia ripetuto che ha travisato le mie parole, quante volte abbia raccontato l'accaduto, sembra del tutto impermeabile alle mie parole.

“E come farai, il prossimo anno, quando non ci sarò?”

“Smettila di distorcere le mie parole, per favore...” Il sospiro che sfugge dalle mie labbra ha il sapore della rassegnazione, ma nasconde, in realtà, una sorta di celata malinconia. Nonostante siano passati solo sei mesi da quando ho conosciuto Ayane, da quando ogni mia giornata è spesa con lei nelle attività di tutti i giorni, la consapevolezza che i due anni che ci dividono la allontaneranno da questa scuola, da me, alla fine di questo anno, mi trafigge dolorosamente. Ayane è una di quelle persone che rimangono impresse, con la propria personalità, che lo si voglia o no; ed una volta che è entrata in me, la sua presenza è divenuta talmente vivida, talmente costante, da essere l'unica fonte di nitidezza. Perderla significherebbe precipitare di nuovo nella monotonia, nell'incapacità di provare attenzione, attaccamento per qualcosa.

So benissimo quanto io sia egoista, quanto il mio rapporto con Ayane sia dettato solamente dal desiderio di non essere di nuovo abbandonato dall'unica persona che sia stata in grado di vedere il mio viso, di accendere per dei brevi istanti la mia attenzione.

È una attrazione distorta, quella che provo per lei. Distorta ed indefinita, come la nostra relazione. Incolore e mutevole, costruita sui nostri bisogni, sul mio egoismo e sulla mia debolezza nascosta – su ciò che teniamo taciuto, nascosto all'altro. Per quanto la guardi, per quanto sia l'unica che riesco davvero a vedere, non la capisco, non la comprendo, ed è un mistero assoluto, per me. Il suo modo di essere, di fare, le sue parole criptiche, contorte, come a nascondere qualcosa.

Avvicina la sua borsa, poggiandola sulle ginocchia, le mani che affondano al suo interno in una ricerca improvvisa, lasciando cadere la mia debole protesta priva di convinzione. Il sole sta iniziando a tramontare, ed alzando stancamente gli occhi al cielo, riesco ad intravedere già qualche stella che spunta sul limitare del crepuscolo, dove il cremisi sfuma in bluastro, in nero notturno.

“Ayane, oggi mi chiedevo una cosa. Ci ho pensato un bel po', in classe, e poi mentre venivo qui. È una domanda che voglio farti da tempo.” Indico la tela bianca che, ormai un mese fa, ha portato fino in cima al tetto dall'aula e poi poggiato, senza pensarci troppo, con indifferenza, al centro dello spiazzo, come se fosse intenzionata a dipingere, generando in me il dubbio. Una sfiducia lecita, visto che poi nessuna vernice ne ha imbrattato il perfetto candore, se non per apporci una firma svolazzante ed elegantissima in un angolo. “Perché non hai mai dipinto? Se sei nel club di arte, non dovresti...”

“Sai cos'è l'arte, Aidan?”

Rispondere ad una domanda, con un'altra domanda, sembra qualcosa di terribilmente adatto a lei, alla sua ambiguità. Ha interrotto la sua ricerca affannosa, poggiando la borsa tra le sue gambe, tra le due stridenti calze, rossa a righe nere, nera tempestata di stelle bianche, cercando i miei occhi, sfiorandoli appena con i suoi. La sua mano scivola a togliere la stecca di gelato dalla bocca, per poi gettarla via con un gesto stizzito. Sulla parte inferiore, arrovellata nella bocca e segnata dai morsi marcati dei suoi canini, la scritta “hai perso” campeggia beffarda e scheggiata.

“L'arte è espressione dell'animo umano.”

Non credo di aver mai visto Ayane rivolgermi un sorriso in cui potessi rintracciare un briciolo di un'emozione come la malinconia. Mentre si alza in piedi, evitando elegantemente di far cadere le lattine di caffè vuote a terra, e con la borsa in spalla si allontana, riesco solo a pensare che, per uno strano, quasi paradossale, motivo, quell'espressione di tristezza spenta è quella che più le si addice. Quella che ho visto riflettersi per un attimo nei suoi occhi.

“Quella tela bianca—” L'espressione che più mi ha fatto tremare. “...è un quadro già finito.”

“Torni a casa?” mi volto di colpo, poggiando una mano contro lo schienale, quasi sporgendomi per rivolgerle quella domanda, che la ferma sulla soglia della scala che scende al piano inferiore. Ayane fa spallucce, “Ho da fare. Non soffrire troppo mentre non ci sono.” Agita la mano svogliatamente, senza darsi la pena di voltarsi verso di me, così che posso solo vederne le spalle esili, le gambe affusolate, la mano da pittrice mai utilizzata per dipingere alcunché, nemmeno una macchia, su quella tela bianca. “Ci vediamo domani, Aidan.” Il suono dei suoi tacchi riecheggia nell'aria per qualche istante, prima che lei sparisca, insieme alla luce del sole, risucchiando con sé tutto il colore, tutta la vita che vedo in lei.

Essere dipendenti da una persona è qualcosa di terribilmente triste. Essere abbandonati sembra quasi un tradimento, un supremo atto di ripudio. Ho fatto l'abitudine all'improvviso cambio d'umore di Ayane, ai suoi moti nascosti, che ogni tanto affiorano sulla superficie, per un attimo, specchiandosi negli occhi, nel sorriso, nel viso. Sono cambiamenti che nessun altro è in grado di vedere, perché nessun altro, oltre a me, riesce a vedere in lei quelle sottili increspature che la scuotono.

Torno a guardare il posto dove fino ad un attimo prima era seduta, dove il sole scivolava sulla sua pelle candida, assorbito dall'oscurità mutevole dei capelli, si rifrangeva nei suoi occhi. Ma della sua figura non è rimasto nulla, se non un vago profumo di caffè in lattina, ed un pennello abbandonato senza alcuna attenzione o cura. Allungo la mano ad afferrarne l'asta, girandolo tra le dita, senza trovarvi nulla di insolito, uno strumento come un altro, forse preso dall'aula del club di arte. Quando, però, le mie dita scorrono sulla sua lunghezza, avverto una piccola scanalatura, qualcosa che è stato tracciato nel legno, con fatica ma grande attenzione. Una lettera dopo l'altra – formano il suo nome.

Come ha potuto dimenticare il suo pennello personale qui? Dovrò portarglielo prima che sia buio, prima che torni a casa...

Ripeto a me stesso che non si tratta di una scusa per vederla ancora. Per osservarne di nuovo il suo viso così criptico, così incerto, ma allo stesso tempo così nitido. Forse è perché non riesco a togliermi dalla testa quello spiraglio di tristezza. Quella frazione di dolore che ho visto nelle sue labbra, nei suoi occhi.

La prima delle quattro lattine cade a terra con un leggero tintinnio, urtandola mentre mi avvicino al quadro candido, imbrattato solo dalla firma, minuscola, in basso a sinistra. Dei brevi colpi di pennello, nero su bianco, il suo nome tracciato con mano ferma, ma timidamente relegato dove nessuno lo guarderebbe, se non risaltasse in quel biancore accecante. Per questo ricerchi la bellezza, Ayane? Per questo hai deciso di dipingere, ma non riesci mai a tracciare nemmeno una linea?

Mi chiedo cosa veda, quando si guarda allo specchio. Mi chiedo se veda un'immagine riflessa, o solo questo nitido, infinito, nulla che sembra attirarmi violentemente.

Ha una fissazione per la bella arte e l'estetica esasperata. È convinta che possa mitigare il suo vuoto, circondandosi di bellezza.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III —Glass smile. ***


III

Glass smile.

Non sono molti gli studenti rimasti a passeggiare tra le aule e nei corridoi. Con l'avvicinarsi della sera, e l'imbrunirsi del cielo, sopratutto in una giornata come questa, mentre le nuvole iniziano ad ammassarsi, per nascondere le scintille luminose delle stelle, la maggior parte delle persone si è già affrettata verso casa; per questo, quando scendo le scale che mi portano fino all'atrio, i miei passi rimbombano con una violenza scaturita dalla fretta, amplificata dalla totale assenza di altre figure, oltre a me. Con le mani in tasca, stringendo nella destra il pennello che Ayane ha abbandonato inavvertitamente, mi ritrovo a lasciarmi sfuggire un mezzo sbuffo, chiedendomi come possa essersi dimenticata di qualcosa di tanto importante.

Se si fosse trattato di uno stilo come gli altri, avrei aspettato l'indomani per riportaglielo, o lo avrei lasciato nell'aula del club di arte senza dargli troppo peso, ma questo piccolo oggetto che stringo tra le mani ha un'importanza che va ben oltre la sua utilità. Non c'è nemmeno bisogno che mi fermi ad osservarlo un momento di più, perché so benissimo che non è mai stato sfiorato da vernice o tempera, se non per qualche schizzo nero appena percettibile sulla punta dei crini attorcigliati tra di loro.

Il pennello con cui appone la propria firma, sul quale ha inciso il suo nome, il primo che abbia mai preso in mano, rappresenta una sorta di reliquia, a cui, strano a dirsi, la lega un valore affettivo di cui non ha mai fatto parola, ma che riesco ad intravedere semplicemente sfiorandolo. È stato toccato, accarezzato, con la massima cura, ma mai utilizzato o trattato con noncuranza; per lei, in qualche modo, ha un valore nebuloso ed insolito.

Una parte di me sembra punzecchiarmi, dicendomi che sto solo esagerando, che sto meramente cercando un motivo per starle accanto, per continuare a sentire la sua voce debole, annoiata, o osservare la sua espressione pensosa mentre riflette, immersa nella marea dei suoi pensieri tempestosi, di cui non riesco mai ad afferrare il burrascoso corso. La stessa parte di me mi ripete, tagliente, che ho bisogno di averla vicino, di sentire ancora qualcosa muoversi in me. È come quando si intravede un dettaglio meraviglioso, colorato, ma ancora pallido e fragile, nel mezzo di una distesa piana e stinta – se ne è fatalmente attratti, come una falena dalla fiamma che la brucia irrimediabilmente, come veleno che divora e consuma, ma il cui sapore è irrinunciabile.

Senza che nemmeno me ne sia accorto, la mia andatura è aumentata gradualmente, fino quasi a diventare corsa lungo l'ultima rampa di scale, accompagnato solo dal mio respiro veloce, improvvisamente più rapido, e la sensazione delle lettere sull'asta di legno, nella mia tasca, che i polpastrelli seguono senza pensarci, istintivamente, una scanalatura dopo l'altra, a formare il nome di Ayane.

Le porte sono aperte e l'aria gelida della sera mi investe con un prepotente aroma di terriccio secco e fiori esausti, che fuoriesce dalla serra socchiusa, in un angolo dell'ampio cortile. Il cielo si è venato di sfumature violacee che si avviluppano alle tinte oscure della notte imminente, che arriva dall'alto, dipanandosi in nero assoluto, senza nemmeno che uno spicchio di luna si riveli; i lampioni ai lati della strada già accesi rilucono di riflessi giallastri e arancioni che ricadono su una figura poggiata contro l'imponente cancello d'ingresso, la schiena sorretta dalle sbarre gelide e la testa leggermente piegata su un piccolo libretto, uno di quei romanzi in formato tascabile che si possono tenere aperti anche con una mano, mentre l'altra riposa, rilassata, nella tasca dei pantaloni.

Appena in penombra, rischiarato solo dall'albume di luce incerta accanto al quale sta attendendo con pazienza, non sembra disturbato dallo sporadico passare di qualche macchina o dal soffiare del vento autunnale, che solleva turbinii di foglie secche e minaccia di stropicciare le sottili pagine del suo romanzo; non capita di rado che qualche ragazzo rimanga ad aspettare fino all'orario di chiusura delle attività dei club scolastici, e non sembra esserci nulla d'insolito nella figura di questo studente che si limita a leggere un romanzo piuttosto spesso.

Quando gli passo accanto, e la luce ne illumina la figura a metà, gettando ombre spigolose e taglienti sul suo volto irriconoscibile e indefinito, la prima cosa che mi salta all'occhio è l'uniforme che indossa, dai colori leggermente più chiari della mia, e la spilla appuntata al petto che lo identifica come membro di una scuola che non appartiene a questo quartiere; giocherellando con la cravatta sfilacciata, liberata dal nodo, che ricade sfatta sulla giacca abbottonata, alza per un secondo gli occhi indistinguibili dal volume, un libro sulla cui copertina campeggiano appuntiti caratteri gotici, che non riesco a leggere. È una scrittura troppo spigolosa e complessa per riuscire ad interpretarla con un'occhiata così rapida, un'immagine che ho intravisto per una frazione di secondo, prima che, con un gesto deciso, chiuda il volume; l'indice rimane tra le pagine, senza perdere il segno, come se non volesse interrompere la sua lettura se non per poco.

È ovvio che si sia mosso per avvicinarsi a me, proprio come se mi avesse aspettato fino ad ora; è solo questione di un secondo, proprio mentre lo sto per superare, allontanandomi dal cancello, quando sento una sensazione di gelo diffondersi lungo la schiena. Come se una mano di cristalli ghiacciati mi abbia carezzato la pelle, scivolando fino nelle mie viscere, un brivido impercettibile si allunga fino a raggiungere la mia spina dorsale, bloccando il mio passo proprio quando la sua voce mi chiede di fermarmi.

“Sei uno studente di questa accademia, giusto?” Non c'è minaccia o alcuna nota intimidatoria, nella sua voce, né il suo aspetto sembra fuori dall'ordinario. Nel complesso, non c'è nulla di sinistro o allarmante tale da giustificare la sensazione di inquietudine che è improvvisamente sbocciata in me senza apparente ragione. L'uno di fronte all'altro, sul limitare del cancello principale della scuola, i suoi tratti si fanno leggermente più chiari, distinguibili, fino a che non riesco a vedere la sua figura risaltare contro il paesaggio di desolazione autunnale, in una strada ormai buia, di cui siamo gli unici abitatori.

Ma non è da lui che spira questa improvvisa ansia e, per quanto mi affanni a spostare impercettibilmente lo sguardo tutt'attorno, non mi sembra di intravedere nessun altro all'infuori di questo studente senza nome. Per quale ragione stia aspettando davanti ai cancelli, a quest'ora della sera, in un quartiere ben diverso da quello in cui si trova la scuola che frequenta, sono domande che ronzano nella mia testa, disturbate tuttavia dal rumore bianco che è la sensazione di allarme e gelo che ho sentito un secondo fa.

“Volevo chiederti se, per caso, tu abbia notato qualcosa di strano negli ultimi tempi.”

Scrollo le spalle, più per allontanare i brividi improvvisi e violenti, che per dargli una risposta, “Non sono una persona che presta molta attenzione alle cose che gli stanno attorno.”

La mia attenzione per le cose, la mia volontà di comprendere il mondo privo di colore, come un enorme distesa di bozze incompiute, si è spenta, bruciata tempo fa, riducendosi in cenere. L'unica eccezione, dopo tanto tempo, è stata proprio Ayane – e tutto quello che la circonda, che le sue dita sfiorano mai inavvertitamente. L'anonima figura picchietta le dita contro la copertina di brossura, producendo un basso ticchettio ritmico, che accompagna la sua espressione corrucciata, per un secondo, che si è fatta di colpo più seria.

“Immagino tu non sappia delle sparizioni degli ultimi mesi, allora.” La luce del lampione tremola, modificando il gioco di ombre sulla sua figura, nascondendo il suo viso per qualche istante, mentre faticosamente l'alone giallastro esita, comparendo e scomparendo, insieme al suo sguardo annoiato, alle sue labbra immobili in una piega di disappunto, “Alcuni studenti dell'accademia che risiedono in questo quartiere sono spariti mentre tornavano a casa a quest'ora di notte, negli ultimi tempi. Una strana coincidenza, non trovi?”

Qualcosa inizia ad agitarsi. Un rumore assordante, che riverbera per tutto il mio corpo, per tutte le mie ossa. Il battito sempre più veloce, sempre più rabbioso ad ogni parola, del cuore che si dimena ed urla. Urla di muovermi, di allontanarmi, perché il pericolo incombe su di lei.

Le mie dita stringono il pennello, seguono le lettere del suo nome, una dopo l'altra, con un nervosismo, una foga dettati dalla paura, dall'improvvisa allerta che quelle parole hanno innescato in me.

“Le ultime tre sparizioni sono avvenute tutte attorno a quel parco abbandonato nella zona residenziale, proprio al calare della notte.”

Il suono della sua voce è distante ed ovattato, a malapena discernibile, quasi soffocato dall'agitarsi del cuore, dall'urgenza di correre.

Le mie dita trovano l'ultima lettera del suo nome. Se n'è andata prima del solito, quando il sole stava calando, senza che io abbia provato a fermarla. Senza che riuscissi a dirle di rimanere.

Non sento nulla di ciò che mi sta dicendo, non riesco più a vedere nulla, al di là della strada sfocata di fronte a me, nella corsa affannosa scandita dall'ansimare della mia bocca, dall'abbassarsi irregolare del petto, dal battere folle che mi percuote e risuona dentro di me, scandendo quei pensieri aggrovigliati e pungenti.

L'ho lasciata andare senza nemmeno guardarla negli occhi, senza nemmeno cercare di capire cosa la tormentasse. Se solo le avessi detto di rimanere, se solo le avessi chiesto di svelarmi cosa si agiti in lei, se solo l'avessi trattenuta, se solo avessi provato a capirla, se solo avessi parlato, invece di osservarla, invece di tacere—

Non so chi sto supplicando sottovoce, non so a chi sto rivolgendo, con tutto me stesso, la disperata preghiera che stia bene, che non sia in pericolo, che non le sia accaduto nulla. Perché, nei giorni in cui è così divorata dal dubbio e dal tormento che tiene dentro e che la corrode, che non lascia mai intravedere a nessuno, c'è solo un luogo in cui la solitudine riesce a darle conforto. Un luogo che le è sorprendentemente affine, nella sua diversità; perché, se lei è così appariscente, così perfettamente costruita, nel suo aspetto esteriore, vive in un mondo di disperate macerie, un divorante vuoto, una rovina di abbandono.

Nei giorni in cui vuole fuggire, in cui qualcosa in lei si spezza, si rifugia in quel luogo che è anche la sua antitesi. In un parco abbandonato e ridotto in pezzi, in mezzo al quartiere residenziale.

Avrei voluto tendere la mano per prendere la tua, stringerla per trattenerti. Cercare di farti capire che, per quanto tu appaia così invincibile e spinosa, velenosa e divorante, non c'è bisogno di essere forte, con me. Non c'è bisogno di nascondersi, di rifugiarsi in te stessa – perché quel vuoto assoluto che tenti di colmare, lo sento anche io, che mi consuma e distrugge. E se non possiamo guarirlo, non ci resta che poggiarci l'uno all'altro, e leccare le nostre ferite a vicenda. Due animi danneggiati che si cercano e si aggrappano egoisticamente l'uno all'altro.

Avrei voluto farti comprendere che, per quanto poco, per quanto inutile, tu avresti sempre potuto contare su di me, senza bisogno di dirmi nulla, senza bisogno di mostrarmi le tue ferite invisibili, i tuoi più profondi e distorti abissi.

Ed invece, ti ho lasciato scivolare via, ancora ed ancora, senza riuscire a parlare, senza riuscire a toccarti – mi odierò per sempre, per questo.

Attraverso strade tra il rumore di clacson infuriarti ed urla cariche di insulti, quando mi lancio sulla strada senza controllare il colore del semaforo, senza prestare attenzione alle persone che spintono, in mezzo a questa via sbozzata, di cui distinguo appena i contorni, disegni abbandonati su una tavola incompiuta. Rischio di inciampare, ma mi mordo le labbra e continuo a correre incespicando, insultandomi a bassa voce, con le gambe che fanno fatica a sorreggermi, a spingermi ancora, a sopportare lo sforzo di questa corsa disperata. Crollo in ginocchio di fronte ad un cancello arrugginito e scardinato, prendendolo a pugni, mentre la mia vista minaccia di offuscarsi, non so se per la fatica o per le cocenti lacrime di vergogna al pensiero di quel che ho fatto. Di quel che non ho fatto.

L'erba secca che cresce tra le attrazioni dimenticate di questo parchetto mi è familiare, con il suo pallido colore verdastro che conserva ancora le reminiscenze dell'estate passata. È abbastanza alta da arrivare alle ginocchia e, agitandosi al vento notturno, graffia le mie mani quando mi rialzo in piedi, ansimando, nel tentativo di riprendere fiato dopo quello scatto improvviso. Mentre avanzo lungo la stradina consunta che si snoda tra i cespugli di rovi e l'erba rinsecchita, le foglie cadute dagli alberi frusciano sotto i miei piedi, le prime staccatesi dai rami, svuotate della vita dall'avvicinarsi del gelo invernale. Con le ginocchia doloranti e il cuore che ancora si contorce e ulula, i polmoni che bruciano ed implorano un momento di riposo, barcollo fino ad uno spiazzo dove lampioni sradicati e schegge di vetro sono pallidamente illuminati da quella parte della luna che si è faticosamente fatta strada tra le nubi; non c'è nessun rumore che spezzi il silenzio tombale di questo luogo e perfino la brezza, spegnendosi, zittisce il frusciare dei ciuffi selvaggi ed incolti, o delle foglie morte ed abbandonate.

Non c'è traccia di lei, né di nessun altro. Se non fossi così terribilmente spaventato ed anche esausto, allora potrei quasi rompermi e lasciarmi scivolare a terra, ridendo della mia ingenuità, della mia inutile preoccupazione. Ho dato troppo peso alle parole di quel ragazzo sconosciuto, fuori dalla scuola, senza nemmeno rifletterci; la paura, il senso di colpa, mi hanno spinto subito a muovermi, come se un presentimento impalpabile mi avesse detto che Ayane fosse in pericolo. Probabilmente non è venuta qui, questa sera, forse è semplicemente tornata a casa.

Devo essermi autosuggestionato, impaurito al punto da correre qui senza nemmeno pensare a quello che stavo facendo.

Poi, il rumore. Un tenue graffiare, una sorta di grattare, accompagnato dal basso rumore di qualcosa che viene risucchiato, non diversamente da come lei beve quelle innumerevoli lattine di caffè, producendo un lieve, impercettibile deglutire, perché tenta sempre di prenderne grandi sorsate, e la sua gola ogni volta si contrae per inghiottire tutto il liquido gelido ed amarognolo. È un suono talmente caratteristico, che conosco alla perfezione, da non poterlo confondere con nessun altro; ascoltandolo, riesco quasi ad immaginare le sue labbra che si avvicinano al bordo della lattina, lasciando scivolare quella brodaglia nerastra nella bocca, trangugiandola come se ne dipendesse la sua vita.

“Ayane..?” riesco a sussurrare, con quella poca aria che rimane nei miei polmoni, con la voce che è appena udibile perfino alle mie stesse orecchie, ma che nella desolazione di questo luogo appare fin troppo forte, come se stessi infrangendo un silenzio sacro.

Un altro suono sgradevole si accompagna, cacofonico, al trangugiare di Ayane, una sorta di stridio metallico, come di catene arrugginite che vengano tese faticosamente. Questo scricchiolare si ripete, regolarmente, risuonando sinistramente da una zona d'ombra dove i miei occhi non riescono bene a scorgere altro che una struttura che assomiglia ad un'altalena abbandonata, poco più che uno scheletro di acciaio solitario nel mezzo di uno spiazzo di erbacce e spazzatura, che si erge decrepito contro il cielo notturno.

Quando la fioca, incolore luce lunare rischiara la fonte di quel suono inquietante, un sospiro di sollievo sfugge dalle mie labbra. Riconoscerei quelle spalle esili, quei capelli corvini, quelle calze colorate, ogni dettaglio di lei, perfino in mezzo alla folla, nella quale spiccherebbe in ogni caso. Se ne sta seduta, dandomi la schiena, le scarpe che sfiorano appena il terreno erboso, spingendosi a malapena con le punte dei piedi, in un lento, svogliato dondolare. L'altalena si muove impercettibilmente, senza troppa convinzione, formando archi stanchi, come se fosse mossa più dall'inerzia, che dalla forza delle sue esili gambe.

Assorta com'è dall'osservare il cielo, quelle poche stelle che riescono a brillare fiocamente attraverso la coltre di nubi, il disco pallido e biancastro della luna, bagnata appena dai suoi raggi, sembra quasi essere lontana da ogni cosa; quasi come se riuscisse a vedere qualcosa, al di là del velo grigio che ricopre uniforme ogni cosa, in cui lei è l'unico dettaglio nitido, perfettamente delineato. I suoi capelli che si muovono ogni tanto, poco più che l'oscillare di qualche ciocca, insieme all'altalena, le sue dita sottili che giocherellano con la linguetta di una lattina scura, che regge debolmente tra le dita.

Sembra quasi che un peso sia stato sollevato dalle mie spalle. Mi accovaccio, una borsa con i colori della nostra scuola è poggiata poco lontano, sul limitare dello spiazzo, per metà affondata nell'erba, senza alcuna cura o attenzione. Scuotendo impercettibilmente la testa, mi chino a raccoglierla, sollevandola dall'erba e trovandola semivuota, probabilmente perché, dopo averla lanciata nell'angolo in questo modo, gli oggetti devono essere volati fuori. Ayane non ha molta cura delle sue cose, dopotutto, sopratutto per i libri scolastici e—

Un dettaglio salta all'occhio, una specie di nota stonata che rimbalza nella notte, risuonando violenta e sgradevole alle mie orecchie. Il mio stomaco si attorciglia per un secondo, nel notare che quell'oggetto rosa, dalla forma rettangolare, chiuso da una cerniera dorata, è troppo sobrio per appartenere a lei.

Il portafogli dentro la borsa è diverso dal suo. Allungo la mano tremante nell'erba alta, trovando un volume di testo che ne spunta fuori, sul quale è segnato un nome con una grafia elegante, femminile, ma che decisamente non è la sua.

Questa non è la borsa di Ayane..?

Il respiro torna a farsi improvvisamente corto.

“Ayane.” La chiamo di nuovo, questa volta con più decisione.

Il rumore dell'altalena che si muove ritmicamente si interrompe di colpo, lasciando il parco in un silenzio innaturale, congelato. Perfino la sua sottile figura è immobile, come se le mie parole l'avessero fatta irrigidire di colpo. Riesco ad intravederla, mentre si porta rapidamente le mani al volto, in un movimento che conosco fin troppo bene, ma che non avrei mai creduto di vedere compiuto da lei; il gesto di chi si asciuga qualcosa dal volto, con fretta, ma senza rabbia, quanto piuttosto con una sorta di sottile malinconia, un movimento improvviso ma tremante.

Arrivo alle sue spalle, ad un passo da lei, dalle sue dita che stringono le catene rugginose; le sue dita sono bianche per il freddo, nonostante la sciarpa che le pende dal collo, di un profondo colore cremisi, un rosso palpitante e vivo, che non credevo avrei mai più rivisto. La sento sospirare, quasi con rassegnazione, mentre mi fermo dietro di lei, schiacciando l'erba che graffia i pantaloni, avvinghiandosi alle gambe, quasi a trattenermi dall'avvicinarmi, ad impedirmi di raggiungere questa figura diafana che sta, solitaria, con i suoi dolori, i suoi tormenti, le sue paure, in mezzo all'abbandono che sente proprio.

Si volta appena, dandomi, per un secondo, l'immagine dei suoi occhi, senza alcuna traccia di lacrime, senza nemmeno un velo di umidità ad indicare il suo pianto, un silenzioso scorrere di lacrime. Le sue labbra sono strette, serrate con forza, nel tentativo di darsi un'espressione che sia indifferente, la solita gelida maschera che riserva a questo mondo, come se non ne fosse parte, come se vi camminasse, senza riuscire ad entrarvi del tutto. Come se lo sentisse stretto, una costrizione, un peso.

“Cosa sei venuto a fare?” le sue ginocchia si piegano, mentre si dà una nuova spinta, questa volta imprimendo più forza nelle gambe, facendo scricchiolare violentemente le catene, “Sei corso dall'Accademia fino a qui?”

“Io...” Per qualche ragione, ora che lo sento dalle sue labbra, ora che lo ha pronunciato ad alta voce, mi sembra quasi di aver fatto un'idiozia. Di essermi precipitato qui preso da un'ansia ingiustificata. Eppure, la borsa che reggo nella mano, le parole di quel ragazzo, sembra tutto—Scuoto la testa. Se Ayane è qui e sta bene, se non sembra ferita o preoccupata, allora non deve esserci nulla di cui preoccuparsi. Ripromettendomi di consegnare la borsa agli oggetti smarriti della nostra scuola, la poggio a terra, sollevando uno sbuffo di polvere, che si dissolve nell'aria notturna.

Ogni respiro si condensa in una nuvoletta che scricchiola nell'aria, per un secondo, ad ogni sua nuova spinta, ad ogni nuovo arco nel cielo scuro, quasi come se ambisse a toccare il cielo, a sfiorarlo anche solo per un istante con la suola di una scarpa, o di afferrarne un lembo per portarlo con sé.

Per trovare un po' di conforto in quella luce morente che punteggia l'oscurità sopra di noi.

“Avevi dimenticato questo.” riesco finalmente a sussurrare, tendendole il piccolo pennello, scorrendone, un'ultima volta, le lettere. Avrei potuto dirle qualsiasi altra cosa; avrei potuto dirle che mi sono precipitato sulla strada, solo seguendo una sensazione di terrore e di gelo; che ho corso fino a non sentire più le gambe e a farmi ardere i polmoni, preso dal rimorso per non averla mai capita, di non averla ascoltata, di non essere riuscito a trattenerla e a sorreggerla, nel momento in cui si è sentita schiacciata.

Invece, riesco solo a tenderle questo pennello, senza riuscire a toglierle lo sguardo di dosso, mentre con i talloni a terra blocca il movimento della gemente altalena; mentre, alzandosi in piedi, sembra esitare, indecisa se voltarsi o meno, se distogliere lo sguardo da quella desolazione che le sta davanti.

Mentre, guardandomi porgerle quel pennello, qualcosa anima i suoi occhi, il suo viso, le sue spalle, come un fremito impercettibile.

L'ho vista sorridere per la prima volta.

Un sorriso che tremola e minaccia di incrinarsi, che può sembrare quasi artificioso, perché non lo ha mai fatto.

Un sorriso di vetro.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV —Damaged both, we sought out each other. ***


IV

Damaged both, we sought out each other.

 

I miei pensieri si accavallano continuamente l'uno sull'altro, mentre cammino sotto la leggera pioggerellina che cade gelida, picchiettando con insistenza sul mio ombrello. Intorno a me, gruppi di altri studenti, poco più che manichini dalle forme umane, mi passano accanto, producendo un basso brusio di cui non riesco a cogliere nemmeno una parola; immerso nel ricordare frammenti sparsi, in cui la sua figura sfocata è sempre la protagonista, il fulcro, non riesco nemmeno a rendermi conto di quanta strada abbia percorso.

Sono passate due settimane e, assecondando una sensazione in fondo allo stomaco, ho scoperto che la borsa apparteneva ad una studentessa scomparsa proprio quella sera, mentre tornava a casa, passando per il parco. Una parte di me sapeva che non poteva che essere così, per cui, uscendo dall'ufficio degli oggetti smarriti, ho scrollato le spalle senza riuscire a sentire alcuno sgomento, né alcuna preoccupazione. Una parte di me diceva che non si trattava di Ayane, ma solo di un viso tra i tanti, privo di tratti e di colore, una figura ritagliata sullo sfondo grigio della mia insipida quotidianità.

Il sole non sembra volersi mostrare, debole e stanco, attraverso la coltre di nubi massicce e annerite, che formano una grossa cappa sopra i tetti delle palazzine, vomitando di quando in quando qualche scroscio più violento, rimbalzando sul marciapiede ed accumulandosi in fangose pozzanghere ai lati della strada, che minacciano di infiltrarsi nelle scarpe ad ogni passo, o alzano violenti schizzi quando una macchina vi sfreccia sopra, lasciandosi alle spalle solo una mezza imprecazione di qualche studente ed il rombo del motore che si affievolisce.

Non c'è una gran folla al semaforo che dà sulla strada principale, la stessa in cui mi sono gettato a perdifiato inseguendo il fantasma di un pericolo che stesse minacciando Ayane. Gettando un rapido sguardo al di là della mia spalla, attraverso un autobus verdastro e slavato dalla pioggia, riesco ad intravedere quella stradina secondaria che si perde tra un gruppo di case a schiera dalla facciata anonima e silenziosa, un vicoletto all'apparenza senza alcuna importanza, se non per me... e per lei. Se socchiudo gli occhi, mi sembra quasi di intravedere qualche erbaccia che cresce fuori da una ringhiera, o la figura scheletrica ed abbandonata di un'altalena scricchiolante, e forse, con la schiena poggiata contro un muro sgualcito e scolorito, la figura di una ragazza minuta, senza uniforme, la pioggia le scorre addosso, scivolando sul suo maglione, come se non se ne accorgesse. Il viso è avvolto in una sciarpa nera che lo nasconde, lasciando scoperti solo due occhi di un verde torbido e penetrante. Due occhi che sembrano restituirmi lo sguardo.

Non è particolarmente freddo, oggi, eppure sento un brivido quasi familiare stringermi, diffondendosi lungo la schiena, sfiorarmi il collo e le mani, abbastanza da farmi impercettibilmente tremare, una sensazione che mi fa attanagliare le viscere; l'istante di un respiro, di un battito di ciglia, è quanto basta per scacciare questo malessere. L'autobus, allo scoccare del semaforo, mi scivola di fronte, nascondendo il vicolo, il parco e quella figura che, in un attimo, si è come volatilizzata, sparita senza lasciare traccia.

Scuoto la testa, tornando improvvisamente in me stesso, e combattendo l'impulso di stropicciarmi gli occhi, non posso fare a meno di chiedermi dove abbia già provato questo freddo improvviso, più simile ad una vaga sensazione di essere osservato, di essere scrutato con innaturale attenzione,ma non riesco a ricordare il motivo di questa distorta familiarità. Il semaforo inizia a ticchettare, il simbolo del pedone, di quel verde acceso, mi dà una sensazione quasi aliena, e rimango per qualche istante immobile ad osservarlo mentre inizia a mutare in giallognolo, avvisandomi, con l'aumentare dello schiocco, che è la mia ultima occasione di attraversare.

La mia ultima occasione di raggiungere l'edificio scolastico sfocato nella distanza, attraverso le gocce di pioggia sempre più fitte, che cadono ora in grossi rivoli lungo il mio ombrello, rimbalzandomi sulle scarpe in un rumore quasi assordante. Mentre il gelo mi abbandona, attraverso lentamente la strada, gli occhi bassi per non dover osservare, in questo assoluto grigiore, in questa lente perennemente sfocata ed appannata, un altro viso, un altro dettaglio, un altro frammento di realtà che mi ricordi, ancora una volta, questa apatia divorante.

I cancelli sono aperti, lasciando scivolare una processione brulicante e rumorosa di studenti dalle voci ovattate e dalle figure terribilmente simili, come disegnate frettolosamente dalla mano di un illustratore che non voglia perdere tempo sulle figure di sfondo. Ironicamente, io che dovrei essere la più grigia, tra queste figure, il personaggio più piatto, più scolorito, mi sento come in primo piano, in mezzo a loro; eppure, nonostante ciò, preferirei essere incolore, come tutti loro. Preferirei non dover essere un personaggio di spicco nella mia stessa monocromatica storia.

È un flusso di pensieri convulso e sfilacciato, che non riesco ad afferrare, né ad organizzare, mentre salgo le scale per raggiungere la mia aula, passando accanto al deserto laboratorio di educazione artistica. Meccanicamente, come ogni giorno da mesi a questa parte, allungo la mano verso la maniglia, per abbassarla, socchiudere l'uscio ed entrare a salutarla prima che sparisca, assorbita da qualche lezione, presa dai suoi noiosi, pesanti impegni, che la costringono ogni giorno, come catene insopportabili che la trattengono.

Tuttavia, quando stringo la maniglia, la porta non si smuove dai cardini, rimanendo ostinatamente immobile e chiusa. Stringo le labbra, senza staccare le dita, chiedendomi cosa sia successo, perché non sia qui; trascorre ogni suo momento libero, quando il tempo è troppo scuro per poter fuggire sul tetto, nella semioscurità di questa stanza, prima delle lezioni. Non è mai successo, nei mesi in cui la conosco, che non la trovassi seduta, impegnata ad osservare una delle sue tele candide, con una lattina di caffè mezza vuota tenuta tra le dita della mano, l'espressione assorta, presa da chissà quale abisso gorgogliante di pensieri indecifrabili.

Mi allontano mestamente dalla stanza, le mani in tasca e le spalle abbassate, la mente assalita da una serie di domande pulsanti, insistenti e senza risposta; sedutomi al mio posto, sembra che la giornata mi scorra davanti senza mutare, un'uniforme susseguirsi di persone e parole che rimbalzano e scivolano, senza raggiungermi, mentre le mie dita si rigirano nervosamente la penna, facendola roteare su se stessa, in un movimento ipnotico, ripetuto ogni istante, ogni volta che mi chiedo dove abbia già sentito quella sensazione, cosa abbia intravisto questa mattina.

Ma sopratutto, dove sia finita Ayane, questa mattina.

Mi mordo il labbro. Quando il suo nome viene a me, automaticamente torno a quella serata, nel parco, torno alla sua immagine seduta sull'altalena, a muoversi con inerzia, in un impercettibile malinconia che accompagnava ogni spinta.

Non ho mai visto Ayane sorridere, prima di quel giorno. Dev'essere per questo che quell'immagine è rimasta impressa in me in ogni più piccolo dettaglio; dev'essere per questo che, quella notte, non riuscendo a trovare sonno, ancora scosso dagli avvenimenti, mi sono trovato costantemente a richiamarla alla memoria, immobile sotto il chiaro di luna, circondata da un paesaggio sfocato e pallido, rispetto alle sue labbra, al loro lento, quasi infinito movimento, fino a formare il sorriso che è sbocciato sul suo viso.

Un sorriso incerto e tanto fragile da potersi rompere in un istante.

In questo momento, poggiandomi il braccio sugli occhi, mi lascio affondare nell'oscurità più profonda, cercando con tutto me stesso di scacciare quella domanda che mi ronza in testa, una sorta di tarlo divorante – perché quest'immagine continua a tornare? Nei momenti in cui mi sento svuotato, in cui mi ritrovo a guardare il soffitto incolore, mi chiedo perché l'unica cosa che sembra avere un colore abbacinante, l'unica cosa in grado di raggiungermi, l'unica cosa che sembra trascinarmi con sé, è lei?

L'ultima campanella suona assordante, spezzando il filo dei miei pensieri, cancellando brutalmente la vivida, sorridente, incerta Ayane, lasciandomi solo nel buio dei miei occhi chiusi, e devo quasi sforzarmi per aprirli, lasciando che davanti a me compaia una figura familiare, abbastanza da farmi scattare immediatamente, dritto sulla sedia, cancellando con un battito di ciglia ogni residuo della sua immagine. Ayane, in piedi di fronte a me, con un'espressione quasi annoiata, sta muovendo lentamente, sventolandola ritmicamente, come un orologio a pendolo, una lattina nerastra, una di quelle con quei chicchi di caffè stampati sopra. Uno dei suoi caffè in lattina, che mi ritrovo tra le mani, dopo averlo afferrato istintivamente.

“Ayane..?” le lancio un'occhiata interrogativa, il mio tono di voce pieno di una sorpresa palpitante, “Cosa ci fai qui? No, anzi, dov'eri stamattina? Pensavo non fossi—” Scuote le spalle, senza rispondere a nessuna delle mie domande confuse, facendomi semplicemente cenno di seguirla. Confuso, mi guardo attorno, senza trovare nessuno, oltre a noi due, la stanza vuota, la lavagna ancora piena di appunti sulle guerre napoleoniche, le sedie abbandonate, in disordine, dove gli altri le hanno lasciate alzandosi. Un silenzio di tomba, al di fuori di noi, al di fuori di lei poggiata contro lo stipite della porta.

“Devo mostrarti una cosa.” la sua espressione, nel pronunciare la frase, non cambia, né il suo tono di voce sembra essere diverso dal solito, tuttavia, le sue dita che giocherellano nervosamente con la linguetta della lattina, lo strusciare, appena percettibile, della sua suola contro il pavimento, mi sussurrano che c'è qualcosa, nella sua impazienza. Per un momento, osservando il suo sguardo, lasciando che i miei occhi scivolino sul suo viso, mi sembra quasi di poter intravedere l'ombra familiare di quel sorriso. Con un sospiro che solo io so essere falso, annuisco stancamente, “Va bene, andiamo.” Sembra soddisfatta della mia scelta, perché smette di giocherellare con la sua lattina e, dopo averne ingollato un ultimo sorso, portandosela alle labbra con deliberata lentezza, scivola in corridoio.

Non sono rimasti molti studenti, la maggior parte ha preferito andarsene immediatamente, prima che il temporale fuori peggiori. L'acqua cade ormai in grossi grappoli, sbattendo violentemente contro il vetro, ed il suo scrosciare contro l'asfalto del cortile risuona violento fino a questo piano, mentre ci aggiriamo tra le aule vuote e silenziose, dove incrociamo occasionalmente qualche inserviente impegnato nelle ultime pulizie.

Il suono dei suoi tacchi contro il pavimento rimbalza tra le pareti, un suono fantasma, che riecheggia di aula in aula, mentre saliamo le scale; Ayane, che cammina di fronte a me, non sembra diversa dal solito, nell'incedere, nel tenere le mani intrecciate dietro la schiena, nel battere con decisione ogni mattonella ad ogni passo, nell'ondeggiare dei suoi capelli. Eppure, mi sembra che vibri, che ogni suo movimento abbia un'energia nuova, che non ho mai visto in lei. Mi chiedo cosa debba mostrarmi, cosa sia accaduto di talmente importante da dovermi mostrare immediatamente.

Ayane non è mai venuta nella mia classe. Non è mai venuta a cercarmi. Per natura, è una persona che esiste da sola, che allontana le persone attorno a lei, come poli magnetici opposti. È una di quelle persone che non sono adatte a stare accanto agli altri, forse perché, in fondo, sentono di avere un veleno che si allunga e contagia, consuma e divora. Forse perché, nel vuoto che sente, avverte meno dolore nel rimanere da sola.

Per questo l'ho cercata a lungo, attirato da lei, dal suo colore, da quella specie di vago riverbero che sembra emettere. Perché è così nitida, ai miei occhi, me lo sono chiesto a lungo. Perché mi abbia permesso di rimanerle accanto, è una domanda che ancora mi tormenta.

Forse sono solo uno strumento per riempire il suo vuoto.

O forse, è proprio questo ad accomunarci—

Mentre ci avviciniamo all'aula, lasciata socchiusa, mi sembra di riuscire ad unire dei puntini l'uno all'altro, di riuscire a vederla, per la prima volta, per bene, nella sua interezza. Spinge la porta, che si apre scricchiolando leggermente, investendomi con l'odore di tempera e pastelli, di matite appuntite e carboncino abbandonato, un sentore che mi solletica il naso, che conosco alla perfezione. L'odore della sua arte, abbandonata e sola, gelida nel suo biancore.

Sta in piedi, di fronte ad una tela, candida ed intonsa, abbastanza grande da abbracciare la sua figura, quasi a volerla assorbire, ad imprigionare la sua esistenza enigmatica e fluttuante, per tenerla lontana da questo mondo che la disprezza e la respinge, che le vortica attorno e le soffia addosso il suo vento di gelida indifferenza.

Il suo sguardo si è incrinato, assorto com'è nel contemplare questa tela che, all'apparenza, è esattamente come le altre. Non c'è alcuna differenza, se non qualcosa che solo lei è in grado di distinguere; eppure, senza che dica nulla, senza che mi esorti, so che devo cercare, so che devo guardare come farebbe lei. Con uno sguardo vibrante, ed allo stesso tempo spento, gelido, ma completamente, orribilmente vivo e torbido. Con un velo scuro che non riesco a penetrare.

Stacco a fatica lo sguardo dal suo viso bianco, come scolpito in un marmo palpitante e vivo, come un disegno a matita ed inchiostro tracciato in una giornata uggiosa, dove il cielo è scuro e la pioggia infuria, dove l'unica luce è quella di un lampo in lontananza che getta milioni di ombre diverse, illuminando ogni dettaglio del suo volto.

Dev'essere stata la prima volta in cui Ayane ha tracciato qualcosa. Non è nulla più che una linea rossa, una tonalità scura, poco più di uno schizzo su una tela bianca, come sangue che sgorghi da una ferita e macchi un pavimento completamente liscio ed immacolato; come un seno rosso tracciato di impulso, senza pensiero e senza studio, ma solo seguendo un movimento istintivo, un rigurgito, un urlo, un bisogno urgente.

Per qualche motivo, provo una gelida tristezza, nel constatare come anche solo tracciare quella misera curva sia stata una battaglia, per lei. Come se fosse un peccato mortale tentare di darsi un colore, di riempire il biancore accecante e monotono con una goccia vermiglia.

—Sì, deve essere proprio questo ad accomunarci. A permetterci di rimanere l'uno accanto all'altro, senza proferire parola, contemplandoci di nascosto, studiandoci ogni giorno, nascondendoci ma chiamandoci silenziosamente.

Tra noi, c'è solo un grande silenzio, un silenzio che mi afferra il petto e si aggroviglia su di me. Un unico, segno rosso, come una rosa schiacciata. Come uno zampillo di sangue da una ferita. La cerco con lo sguardo, solo per sfiorare il suo in un istante, in cui la sua cappa scura sembra volermi soffocare. Una parte di me si agita, perché, in fondo, lo aveva già capito, nel momento in cui il suo colore è risuonato nel nulla che mi investe. Nel momento in cui ho iniziato a cercarla, a starle accanto, ad osservarla. È come un fiore, come una di quelle rose che lei si ferma ad osservare con sguardo spento, sussurrando a mezza voce, “Sono così belle, ma...”

Sono così belle— “...ma se ne andranno così presto.”

“Aidan.” Non la vedo irrigidirsi, non la vedo cambiare espressione, forse solo rabbuiarsi un po', forse accartocciarsi, per un secondo, su se stessa. La sua voce, tuttavia, trema, come sul punto di infrangersi, di incrinarsi sotto un peso invisibile, che minaccia di spezzarla e di mandarla in pezzi, “Non cercarmi, stanotte.”

L'unica cosa che riesco a sentire, è la porta dell'aula che sbatte alle mie spalle, l'unica cosa che intravedo è la sua gonna che svolazza per una frazione di secondo, prima di sparire. Non riesco nemmeno a fermarla, non perché sia corsa via, ma semplicemente perché una parte di me si rifiuta di muoversi. Di nuovo, quel brivido gelido si allunga nel mio stomaco, lungo la mia schiena, addentandomi la pelle, attanagliandomi il petto, come a volermi scuotere, impedirmi di voltarmi a guardarla.

Camminando da solo, lungo il corridoio, mentre torno sui miei passi, attraverso quella serie di porte ormai chiuse e tutte uguali, mi sembra che tutto sia divenuto smisuratamente grande, senza una fine, che il profilo della mia aula appaia tanto distante da essere irraggiungibile. Mi sembra di procedere in una infinita, irreale, schiacciante ripetizione, sfocata dalla mia alienazione. Lo scalpiccio delle mie scarpe batte il ritmo dei miei pensieri, si mescola alla pioggia, all'ululato del vento, mentre apro la porta con un movimento secco, avvicinandomi al mio banco quasi meccanicamente.

Non riesco a non pensare a quel quadro, a quel singolo segno rosso, alla sua figura quasi minuscola di fronte all'enormità di quel gesto; ed ogni volta che rivedo quel dipinto, di nuovo appare lei, il suo sorriso tremolante, e mi chiedo quanto poco basti per infrangerlo. Quanto vuoto ci sia, sotto la sua armatura ed i suoi grandi muri, dietro alla fortezza nella quale si è riparata.

Mi siedo stancamente, afferrando lo zaino abbandonato a terra nella fretta e poggiandolo sulla spalla destra, lasciandolo penzolare, mentre mi piego sullo schienale della sedia, ad osservare il soffitto. So bene dove andrà, anche oggi; si è allontanata di colpo, ha cambiato umore di colpo, come se avesse improvvisamente realizzato qualcosa, come se avesse intravisto un dettaglio che non sono riuscito a cogliere. L'ho sentita, per un secondo, tremare e minacciare di spezzarsi, una debolezza che le si addice perfettamente, ma che non avrei mai immaginato di vederle addosso.

“Non cercarmi stanotte,” sussurro a bassa voce, lo sguardo che scivola istintivamente fuori dalla finestra, dall'altra parte della strada visibile dall'aula, fino a raggiungere il vicolo, il parco abbandonato e quell'altalena. Mi sembra di vederla camminare sotto la pioggia, lo sguardo basso, lasciando che l'acqua le cada addosso, come se non la disturbasse.

Il mio sguardo cade sulla lattina abbandonata, solitaria, nell'angolo del mio banco.

Con un sospiro, allungo la mano ad afferrarla leggermente umida, abbastanza gelida da mandarmi un pizzicore ai polpastrelli; mi basta un sorso per storcere la bocca, il sapore amaro che aggredisce la mia lingua e scorre pungente nella gola. Da solo, con il caffè tra le mani, lo rigiro tra le dita, senza berne un altro sorso; fuori, la pioggia sta diminuendo, il temporale si sta placando, e mi ritrovo a pensare che mai, prima d'ora, mi ha dato una lattina del suo caffè.

Che, all'apparenza, non mi ha trattato in modo diverso dagli altri giorni, che non mi è sembrata meno distaccata o pensosa, meno assorta nei suoi pensieri indecifrabili; tuttavia, qualcosa è cambiato, nei suoi gesti, nel suo venirmi a cercare, aspettando che fossi solo, questa lattina di caffè lasciata sul banco, il suo entusiasmo nel mostrarmi quella sua prima, faticosa pennellata. Per un istante, è come se una porta si fosse socchiusa, lasciando uno spiraglio tra di noi, abbastanza da permettere ai nostri timidi polpastrelli di toccarsi attraverso l'uscio, ancora prima di poterci guardare negli occhi. Ma nel momento in cui ci siamo sfiorati, nel momento in cui ho capito, tutto si è richiuso, come se la realizzazione l'avesse colpita con violenza; mi sono reso conto, all'improvviso, osservando quella striscia di colore, ricordando quel sorriso, la corsa folle, il mio terrore che potesse esserle accaduto qualcosa, questo distorto desiderio di poterle stare accanto, che, anche solo per un istante, siamo riusciti a colmare il nostro vuoto.

Nel momento in cui lo ha capito, nell'istante in cui ha compreso perché ci ostiniamo ad essere l'uno accanto all'altra, qualcosa si è spezzato. Una porta si è chiusa.

Abbiamo entrambi capito, che in fondo, ci cercavamo da tempo.

Alla ricerca di qualcosa di simile, nella speranza non di comprenderci, ma di colmarci, almeno un po'.

Almeno un attimo.

Entrambi danneggiati, ci cerchiamo disperatamente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V —In sheep's clothing. ***


V

In sheep's clothing.

 

Una porta si è chiusa.

La sento sbattere alle mie spalle, mentre esco dalla classe con le mani in tasca, lo zaino che penzola dalla spalla, oscillando stancamente, seguendo il ritmo dei miei passi, come se alzare il piede, meccanicamente poggiarlo di fronte a me fosse un compito arduo, come se invisibili pastoie mi impedissero di correre. Come se una parte di me mi stesse sussurrando di rimanere al mio posto, di non lanciarmi di nuovo ad un folle inseguimento. Quella parte di me ha la sua voce, dal tono tremante, di chi implora, di chi non ha via d'uscita.

Mi fermo di fronte all'enorme vetrata che si spalanca sul cortile, abbracciando la distesa grigia e bagnata della città, silenziosa e congelata nel grigiore del temporale; i contorni degli edifici sono smorzati e i rari palazzi che si allungano verso l'alto, con le loro tozze figure squadrate, non sono più che reticolati di luci giallognole e smunte, che tentano inutilmente di spiccare attraverso la malinconica barriera temporalesca. La coda dell'occhio cattura, di quando in quando, gli sprazzi rossastri dei fanali di coda delle macchine, che rilucono per un istante, quando sfrecciano sull'asfalto fradicio, sparendo senza un rumore sotto di me. Nel pomeriggio che si va spegnendo, senza alcun tramonto, senza nessun colore, senza poesia, mi ritrovo a cercare di nuovo quel luogo abbandonato, quel parco zuppo e decadente, senza riuscire a vederne nemmeno un albero rinsecchito o lo scivolo spaccato su cui lei sarà seduta, senza prestare attenzione all'acqua che la inzuppa, che le scivola dentro le ossa, le riempie la gola.

Fuori, tutto è gelido ed uniforme, ammantato nel malinconico sudario della pioggia senza vento, un lampo squarcia il grigiore, troppo lontano per illuminare quell'improvviso buio che sento scivolarmi lungo la gola, fino allo stomaco. Una sensazione talmente violenta da mozzarmi il fiato, che mi stringe la gola avviluppandosi attorno a me, ma che accolgo come una vecchia amica, come se l'avessi conosciuta a lungo, senza riuscire a darle un nome. Una sensazione di impotenza di fronte alla realtà che mai avrei creduto di provare; per tanto tempo, sono rimasto immobile ad osservare il mondo passarmi davanti, senza riuscire ad esserne parte, senza poter assumere un ruolo, senza smuovermi dalla mia immobile posizione di spettatore seduto in una scomoda poltrona.

Tanto a lungo non ho potuto che guardare gli altri muoversi attorno a me, come marionette senza volto e dalla voce ovattata, senza un desiderio vero e proprio di potermi affiancare a loro. Dentro di me, tuttavia, c'è sempre stato uno spettro, una punta di amarezza che mi sussurrava parole troppo indistinte per poterle comprendere; o forse, sono stato io a non volerla ascoltare, a non volermi piegare a sentirla, perché, in fondo, sapevo cosa mi avrebbe detto. Sapevo quale verità mi sarei trovato ad affrontare.

Ci sono stati giorni in cui mi sono ritrovato immobile a chiedermi, osservandomi allo specchio, specchiandomi in quelle occhiaie, in quelle iridi smorte, in quello sguardo di vetro, cosa sarebbe stato di me. Se sarei semplicemente finito nello svanire, una volta che tutti si fossero dimenticati di me. Ero convinto che, in un modo o nell'altro, vivessimo tutti incatenati a qualcun altro, che la nostra esistenza è quella di un attore incollato su uno sfondo, con una propria parte. Ed in tutto questo, non ho mai avuto, mai voluto un copione. Ogni volta, ho scosso le spalle, socchiudendo appena le labbra, senza dire nulla, fingendo che, in fondo, non mi sarebbe interessato svanire in questa nebbia.

Non mi sarebbe dispiaciuto perdermi del tutto.

Non cercarmi stanotte.

Ogni volta che ripeto queste parole, ogni volta che la rivedo svanire attraverso la porta, come portata via dalla pioggia, non posso fare a meno di bloccarmi, di stringere i pugni, di digrignare i denti.

Immobile di fronte alla città, al suo velo umido e uggioso, nulla più che una macchiolina scura stagliata contro una vetrata, mi chiedo cosa sia scattato, dentro di me, quando l'ho vista; quale meccanismo si sia sbloccato, per farmi istintivamente muovere verso di lei, come un polo magnetico capace di attirarmi, io che sono sempre rimasto inerme, io che sono sempre stato fermo, mentre tutti gli altri camminavano, io che ho sempre voltato la schiena e sono rimasto ad osservare il movimento degli altri, con la consapevolezza che non avrei mai potuto sollevare quella sensazione di immobilità, di indifferenza smorta e pesante dalle mie spalle.

La porta dell'aula di educazione artistica è ancora aperta, e quella enorme, intonsa tela, sporcata solo dal movimento sottile del pennello, di quello squarcio rosso, da quel guizzo del suo animo in tempesta, mi osserva come in attesa, come se mi chiedesse di essere guardata, di essere raggiunta, in quella solitudine desolante. Il cremisi del pennello è smunto, scuro e privo di quella tonalità viva e pulsante che chiunque le assocerebbe, quella vitalità unica, divorante che sembra spirare da lei come veleno che consuma.

Nessuno l'ha mai davvero osservata, nei suoi più lievi movimenti, nessuno ha mai guardato la sua espressione tremolare, accartocciarsi, al di sotto della superficie,mentre osservava le sue tele bianche, il pennello tra le mani. Nessuno ha mai capito che la sua arte non è espressione dell'animo umano, ma unicamente del suo. Nessuno le è mai stato abbastanza accanto, per capire cosa si agiti davvero in lei. Nemmeno io, che l'ho vista più vivida di ogni cosa, riesco a comprenderla del tutto; forse è questo il suo modo di essere, la sua condanna assoluta, come per me l'immobilità, il grigiore, l'indifferenza, per lei l'incomunicabilità, il vuoto divorante. Dev'essere questo sottile, tremolante filo invisibile che ci lega.

Rimango per un lungo istante ad osservare la pennellata, mentre fuori il buio si allarga ad ampie chiazze, e il pomeriggio piovoso sfocia nella notte, senza che lo scrosciare smetta di risuonare lì fuori, senza che ogni goccia rimbalzi nelle mie orecchie. È troppo buio per riuscire a distinguere la tela, è troppo buio per riuscire a capire cosa abbia gridato, silenziosamente, quando ha mosso appena i crini del pennello, poggiandolo sulla tela.

Mi trascino faticosamente fino alla scalinata, attraversando di nuovo quella vetrata che mi offre lo stesso, immutato spettacolo, mentre i lampioni si accendono tutti simultaneamente, illuminando con occhi di bue stentati e tremuli il marciapiede consunto. Forse è per questo che il mio sguardo si muove verso l'ingresso del cancello, forse semplicemente perché ho avvertito una sorta di sensazione familiare, gelida e schiacciante, punzecchiarmi nuovamente per la seconda volta in questa giornata, ma che dura l'istante di un battito di ciglia. Una figura di spalle è poggiata contro l'inferriata che circonda il perimetro dell'accademia, reggendo a fatica un ombrello pregno di pioggia, in un equilibrio precario, probabilmente stringendolo sotto l'ascella e poggiandolo sulla spalla, mentre tenta di continuare a sfogliare un grosso volume.

Una sensazione di vertigine arriva insieme al ricordo, che mi colpisce come un treno, nel ricordare un viso quasi indistinto rivolgermi qualche parola su delle aggressioni al parco, sul cancello della scuola. Anche oggi, come gli altri giorni, è fermo ad aspettare qualcosa, o qualcuno. Un dettaglio che sparisce appena volto le spalle, che si amalgama con il resto del quadro slavato di questa serata, mentre scendo i gradini uno ad uno, le mani affondate nelle tasche, l'ombrello che pende inutilmente, mentre l'aria gelida dell'esterno mi accoglie insieme alla cascata violenta d'acqua che colpisce l'asfalto al di là del cancello, formando pozzanghere sparse nel cortile piastrellato, accumulandosi nello spazio tra quelle mattonelle sconnesse.

Il peso che ho sulle spalle è quello delle sue parole. È quello della sua richiesta accorata, malinconica, fatta con una voce sul punto di rompersi e di mostrare qualcosa, al di là di quel vuoto, quella indecifrabilità che fino ad ora l'ha sempre accompagnata. Quello scudo che ha alzato per difendersi e che, per un secondo, ha abbassato, prima di chiudersi nuovamente in se stessa.

Cosa dovrei pensare di quel quadro, Ayane? Cosa dovrei credere che stia accadendo, dentro di te, se continui ad essere così distante, se continuiamo a sfiorarci, a passarci accanto, a guardarci senza toccarci, senza osare mostrare le nostre parti più buie e lacerate?

Non cercarmi stanotte.

Cosa dovrei vedere, in quel rosso cremisi?

Cosa dovrei vedere attraverso il tuo viso di vetro che si incrina ma non si spezza?

La pioggia mi cade gelida sul viso, mi scivola tra i capelli, finendomi sul collo, sul naso, sulle guance, sulla schiena, sul mento, mentre barcollo verso l'uscita, gli occhi che non si soffermano su nessun dettaglio di questa distesa sfocata e sbozzata della realtà, come un disegno rovinato dall'acqua, dai suoni ovattati, quasi alieni, in un'atmosfera irreale. Come se questa non fosse la vera realtà, come in quest'ora impalpabile, tra il giorno e la notte, in questo crepuscolo invisibile, nascosto dalle nuvole, ogni cosa si sia fatta sgranata.

Nessuna macchina sfreccia per la strada, nessun semaforo sembra voler cambiare il suo colore, rimanendo di un uniforme, indecifrabile sfumatura grigia, una fotocopia malriuscita con inchiostro difettoso. Perfino il rumore della pioggia è lontano, tanto distante da essere meno del sottofondo dei miei pensieri più tumultuosi, un aggrovigliarsi di immagini, di parole, di istanti che si attorcigliano, che mi riempiono, che le girano attorno. Che finiscono sempre su di lei.

“Di nuovo in giro a quest'ora?” la voce del ragazzo è sorprendentemente chiara, non intralciata da nessun altro dei suoni della città congelata, nemmeno da quello di una moto che ci sfreccia vicino rombando e stridendo silenziosamente. Non ha alzato lo sguardo dal tomo, si è limitato a voltare pagina con un movimento impacciato, cercando di non far cadere l'ombrello in posizione precaria. Sul suo volto, c'è un mezzo sorriso sornione, quasi ironico, nel farmi quella domanda retorica, “L'altra volta te ne sei andato di corsa, all'improvviso.”

Stringo le labbra, voltando la testa verso di lui, osservandolo mentre volta un'altra pagina fitta di caratteri gotici, di parole che sembrano latino, vergate dalla mano di un copista e mi chiedo per quale motivo una persona legga un codice medioevale in caratteri gotici, sotto la pioggia di una notte come questa, fuori dal cancello di una scuola che non frequenta. Mi chiedo perché si interessi così tanto alle sparizioni in quel parco e, se è così, perché non sia sul posto, invece di perdere tempo qui.

C'è qualcosa in lui che non capisco, che lo fa sembrare stranamente meno distorto, più vivido degli altri, come se rilevassi, in lui, una sorta di colore, qualche dettaglio che non coglierei mai in tutte quelle figure uguali e sbozzate che mi circondano di solito. Scrollo le spalle, senza dargli una vera e propria risposta, mi limto a passargli accanto, lo sguardo basso, ad osservare le gocce d'acqua che cadono sull'asfalto, che rimbalzano sulle mie scarpe, inzuppandole, filtrandovi all'interno. Al limitare del mio campo visivo, lo vedo alzare gli occhi dal tomo, con un movimento quasi incuriosito, ed il tonfo del volume che viene chiuso con un movimento secco della mano mi blocca, quasi come se sapessi che sia il preambolo ad un'altra domanda dall'apparenza beffarda.

Si stacca dalla recinzione, mettendosi dritto sulle gambe, al centro del marciapiede deserto, dove la luce smorta e arancione del lampione lo illumina con riflessi sporchi e stentati. Per un secondo, sembra che ci sia qualcosa di sospeso, come se mi osservasse con sguardo indagatore; come se ci fosse qualcun altro ad assistere alla scena, e di nuovo quel brivido si allunga dalla mia schiena, al mio petto, spingendomi a guardarmi rapidamente attorno, alla ricerca di quella stessa figura che ho intravisto stamattina. Tuttavia, la via è completamente vuota, al di fuori di qualche macchina che ci sfreccia accanto, illuminandoci con i suoi fanali rossicci, di noi due che siamo fermi sotto la pioggia battente.

“Non starai di nuovo andando lì, vero?”

Irrigidirmi a quelle parole è un riflesso naturale, ancora prima che le abbia del tutto assimilate, che le abbia del tutto comprese. I miei denti si serrano, strusciando l'uno contro l'altro, con violenza, mentre fatico perfino a trovare la voce per chiedergli come faccia a saperlo. Sento solo che le mie labbra si muovono, ma nessuna voce ne fuoriesce, nessun suono che io possa sentire, al di là dell'acqua che sbatte contro l'asfalto, contro il suo ombrello, contro le mie spalle.

“Hai la stessa faccia di allora. Hai quell'espressione contorta e tormentata di chi non può fare a meno di rincorrere qualcosa.” C'è una nota tagliente nella sua voce, o forse è solo la mia immaginazione, o forse è solo la mia voce, quella tremante che sussurra, poco più di un respiro faticoso strappato a forza. Scuote appena la testa, “Hai già giocato abbastanza con la fortuna. Questa volta, potresti finire male. Questa volta...” le sue labbra perdono ogni sembianza beffarda, il suo tono ogni vena di superiorità o ironia, per farsi mortalmente serio, completamente rigido e risoluto, “...potresti incontrare il lupo sotto quella bella pelle d'agnello.”

C'è una pausa, nel suo discorso, durante la quale sembra quasi che l'aria si alleggerisca di colpo, come se un macigno estremamente pesante fosse stato sollevato dalle mie spalle, mentre termina quell'avvertimento con uno schiocco di lingua, “Puoi fare quello che vuoi. Il mio è solo un consiglio. Puoi correre da lei, se non riesci a trattenerti—” La sua figura si allontana nell'oscurità, uscendo di scena come un attore da un palcoscenico sconfinato, quando,voltatemi le spalle, lascia che la notte bagnata lo accolga, sparendo dall'occhio di bue del lampione, senza che io riesca a sentire le sue ultime parole, già troppo lontano, sotto il semaforo che pigramente sembra intenzionato a non lasciarmi attraversare questo brandello di strada.

Questa volta, non c'è quel senso di paura, di preoccupazione che mi aveva attanagliato l'ultima volta. Una parte di me è convinta di trovarla, ancora una volta, seduta sotto quell'altalena, ad osservare la luna, a combattere contro i fantasmi che la divorano e la tormentano. Una parte di me sa con che sguardo mi accoglierà, come sfuggirà da me, per non mostrarmi le sue ferite e i suoi dolori e chissà quale tempesta o rivoluzione che nasconde dietro alla sua indifferenza. Improvvisamente, sul ciglio della strada, bagnato fino all'osso, mi chiedo se avrò la forza di dirle tutto quello che non riesco nemmeno ad ordinare, tutti quei pensieri che si accalcano e mi spingono, che nemmeno io so spiegare; se riuscirò a rimanere saldo, nel tenderle la mia mano, nel dirle che, in fondo, forse c'è della speranza per noi. Che forse, una parte di noi può ambire a riempirsi, anche solo per un istante.

O se, come le altre volte, rimarrò immobile, seduto accanto a lei, ad osservarla dondolarsi sull'altalena malinconicamente, mentre mi indica una costellazione, spiegandomi quale distorto, impalpabile significato le persone le attribuiscano per trovarvi conforto.

O se, come l'altra volta, rimarrò in silenzio alla sua domanda, se la eviterò per non doverle mostrare cosa ci sia in fondo al mio animo ingrigito. Forse, in realtà, ho paura che lei mi lasci indietro. Che, dopo aver visto quanto vuoto ed inutile io sia, mi abbandoni a me stesso, che mi utilizzi per un istante, che scopra per il tempo di un battito di ciglia, di un respiro, dello sfiorare di un dito, cosa voglia dire sentirsi un po' più di vuoti, e che mi lasci indietro.

Come è accaduto oggi.

Improvvisamente, le mie gambe sembrano cedere ed abbandonarmi, lasciarmi crollare sul selciato del parco abbandonato in cui non ricordo di essere arrivato. Senza forza di combattere con me stesso, lascio che le mie ginocchia colpiscano violentemente le piastrelle sconnesse, che le erbacce e le graminacee bagnate si avvinghino ai pantaloni, mandandomi un sordo dolore ed una sensazione fangosa ed umidiccia lungo tutto il corpo. I palmi delle mie mani mi sorreggono tremante al di sopra della pavimentazione, ed, osservandoli, mi rendo conto di colpo di quanto sia bagnato, di quanto sia gelido, qui fuori. Di quanta strada io abbia percorso, senza curarmi del temporale che mi sferzava.

Una porta si è chiusa di colpo, quando ci siamo intravisti per un istante, quando abbiamo osato sfiorarci. Quando ho visto quel quadro, quel singolo segno cremisi che è la concentrazione dei tumulti del suo animo. È fuggita una volta, mi ha lasciato indietro. Mi ha chiesto di non cercarla. Ed io, egoisticamente, per combattere quest'impotenza, questo veleno divorante, l'ho inseguita lo stesso, senza pensarci nemmeno per un istante. Senza riflettere sul fatto che ci sia qualcosa che non vuole mostrarmi, di se stessa, qualcosa che è riuscita a malapena a tirare fuori in quel quadro.

Ma se lo ha dipinto, se ha tracciato quel segno rosso, se in qualche modo mi ha trascinato con sé ad osservarlo piena di nervosismo, se mi ha chiesto di guardare quel moto del suo animo...

Sbatto un pugno a terra, sento le nocche che esplodono di dolore, arrossendo e sbucciandosi contro i sampietrini, mentre impreco a bassa voce.

—Perché dovrei guardarti andare via?

Nel silenzio totale del parco, tra le erbacce fradice che si intrecciano e sbatacchiano, spinte dalle ultime gocce di pioggia, sento solo il mio respiro affannoso, l'acqua che mi batte stancamente contro la schiena, prima di spegnersi. In mezzo a questo abbandono, a questa distesa incolore di rottami e fantasmi, mi chiedo per quale motivo mi senta così inerte; perché, quando ho tentato di raggiungerla, mi sia sfuggita dalle mani.

Non ho mai corso così tanto per nessuno, nella mia vita sbiadita. Eppure, ora, guardando le nocche arrossate, i graffi sulle mani, la divisa zuppa che aderisce al mio corpo, non posso che incolparmi per non averlo fatto prima. Non posso che dirmi di alzarmi e barcollare, fino a raggiungerla, solitaria, sederle accanto, come sempre.

Le ginocchia tremano, protestando in un'esplosione dolorosa, mi mandano un lungo brivido per tutto il corpo quando mi forzo di stare in piedi, la vista appannata ed il petto che si alza e si abbassa rapidamente, irregolare, ancora provato dalla corsa. Dal peso che mi sento sopra, tanto forte da piegarmi, da accelerare i miei battiti al punto da sentire ogni spasmo come un ululato nel buio della mia cassa toracica.

Istintivamente, mi stringo la camicia, lì dove sembra che un dolore pungente si diffonda ad ogni contrazione, ad ogni nuovo battito. Non avrei mai creduto di poter sentire questa sensazione, così attanagliante, così soffocante, eppure mi sospinge a barcollare in avanti, quasi trascinandomi sotto al cielo notturno, immobile, indifferente.

Non c'è nemmeno una di quelle stelle che abbiamo guardato insieme, non c'è nemmeno una luce morente, sopra di noi, non uno spazio nella coperta di nuvole scure da poter osservare, in cui perdersi per un istante. Riesco solo a vedere, di fronte a me, la strada acciottolata che si snoda tra l'erba cresciuta a dismisura nell'incuria, tra le graminacee ed i fiori selvatici rossastri. Un colore profondo, un rosso che risalta su questo prato di ciuffi biancastri ed iridescenti, come se fossero tanti segni tracciati, come se fosse una ripetizione di quella singola tela che ha toccato con un pennello.

Sulla mia destra, c'è la figura diroccata di una casetta in legno dalle finestre infrante, le assi scheggiate, ormai ridotta ad un rudere fantasma dalle orbite vuote; mi sembra quasi, per un istante, che una figura mi osservi dall'interno, attraverso dalla finestra svuotata, due occhi vitrei che seguano il mio avanzare inesorabile.

Il mondo non mi è mai sembrato così lontano. È come se ogni cosa, in quest'ora tra giorno e notte, in quel battito di ciglia che è il crepuscolo, sia tremolante come la fiamma di una candela, irreale e distorta; battendo le palpebre, per dei momenti sfuggenti, mi sembra che l'aria abbia un colorito proprio, che il tempo sia congelato, che l'erba sia perfettamente immobile, che le gocce non scivolino più sugli steli, anche se poco prima del vento li carezzava.

L'inquietudine in me ha un solo nome, ed una sola forma. Ha la sua sagoma, la sua bocca socchiusa mentre pensa, le sue labbra serrate mentre osserva impotente una tela, le sue dita che scorrono tra i ciuffi ribelli, stringendoli, avvolgendoli attorno alle dita, dei suoi occhi tremolanti, un abisso vitreo ed indecifrabile. La sua voce che lentamente è mutata nel tempo, quasi impercettibilmente, un tono che solo io posso riconoscere, che solo io che non riesco a vedere nulla, se non lei, posso notare.

Quando la vedrò, sento che una parte di me si romperà; che probabilmente, senza volerlo, in mezzo a questa desolazione, alla sua desolazione, crollerò su me stesso e mi strapperò di dosso questa esitazione. Le dirò, con tutto me stesso, che non c'è bisogno di andare via; che quel suo segno rosso, quella singola pennellata cremisi è la cosa più bella che io abbia mai visto, perché, dopotutto, non è altro che una parte di lei.

Mi porto le mani al viso, toccandolo appena, incredulo. Asciugandolo, senza riuscire a capire.

Le dirò che ho bisogno di lei, come di nessun altro. Che potremmo essere un universo per noi stessi. Che, alla fine, rotti come siamo, non possiamo che gravitare l'uno verso l'altro.

E le chiederò scusa per ogni volta in cui l'ho vista sfiorire, senza dire nulla. In cui l'ho vista appassire, senza porgerle la mano. In cui l'ho vista urlare, senza ascoltarla.

Le nuvole nerastre si squarciano, aprendosi in un singolo, preciso taglio che lacera la massa grigiastra ed uniforme. Il lembo che fuoriesce appena dal buio è desolatamente vuoto, nulla più che un fazzoletto impersonale e qualsiasi di un vasto, deserto cielo piovoso, solo uno spicchio di luna morente e spenta allunga qualche raggio smunto sull'altalena lasciata a se stessa, senza nessuna figura seduta lì sopra, a spingersi desolatamente, in un movimento meccanico malinconico, mosso solo dall'inerzia di gambe stanche di reggersi in piedi da sole.

Fermo accanto al sedile vuoto, che si muove appena scricchiolando e gemendo, riesco come a rivederla seduta, spingersi pigramente, nascondendo la sua debolezza in una maschera di forza impermeabile e distaccata. Quella sera, qualcosa si è spezzato. Ho rotto quell'equilibrio in cui si trovava sospesa, immobile e lontana, come se nulla la riguardasse e potesse toccarla o capirla.

Le spalle pesanti, come se mi sentissi di colpo esausto, mi siedo con la testa tra le mani, lo sguardo perso ad osservare i profili squadrati ed indefiniti degli edifici, scatole di cartone senza alcun tratto distintivo, come forme geometriche abbandonate, gettate casualmente tutt'attorno, rischiarate dalla luce perlacea della luna. Mi spingo maldestramente, avanti ed indietro, senza alcuno sforzo, senza alcuna voglia, facendo pigramente leva sulle scarpe ancorate al suolo.

Getto un'occhiata di sottecchi all'altalena accanto alla mia, quasi sperando di trovarla occupata, che lì seduta ci possa essere lei, desiderando che questa sia una sera come le altre.

Vorrei che potessimo rimanere in uno dei nostri lunghi silenzi, rotti solo dai rumori di un luogo dimenticato, che va lentamente in rovina.

Per quanto tempo ha cercato qualcuno che la seguisse, mi sono chiesto, e da quanto tempo ha smesso di sperare? O meglio, ha mai avuto il sogno che qualcuno riuscisse a sedersi accanto a lei, in questo abisso di desolazione, immergendosi con lei fino al collo?

Ogni volta che ci penso, la rivedo avvicinarsi a me come un'animale da preda, scivolarmi attorno, come a saggiarmi prudentemente, annusandomi con circospezione, nascondendosi dietro a quel modo di fare lontano e spensierato, soppesandomi, cercando di capirmi, di sospingermi, di stringermi tra le sue fauci.

Proprio come un lupo con la pelle d'agnello.

Eppure, nessun lupo è così debole. Nessun lupo scappa da se stesso, dagli altri, dal suo dolore, di fronte alla realtà, quando ha capito di essersi mostrato, di aver lasciato trasparire, per un secondo, la sua debolezza, il suo silenzioso sussurro d'aiuto.

Fermo il lento, pigro movimento dell'altalena, rimettendomi in piedi, mentre i miei occhi scivolano attraverso i vicoli laterali che si perdono nell'oscurità, poggiandosi fuori dalla recinzione in ferro arrugginito, dall'altra parte della strada, appena sotto ad un lampione dalla luce tremula, un'esitazione che dura solo qualche istante, prima di spegnersi del tutto, lasciandomi precipitare nelle tenebre.

Mi volto, scuotendo la testa, piegandomi a raccogliere lo zaino scivolatomi dalle spalle e caduto sul terreno sabbioso, guardandomi attorno. Il cigolare metallico svanisce mentre seguo l'unica strada che si snodi all'interno di questo cimitero, la vista che tremola leggermente, le dita che pulsano ancora per la violenza dei pugni. Pozze d'acqua fangosa riflettono la mia immagine stralunata quando passo loro accanto e, gettando al loro interno qualche occhiata di sfuggita, non riesco nemmeno a riconoscere il mio volto così affannato. Così terribilmente vivo, nel suo pallore mortale, nella stralunata lucidità degli occhi.

Sono davvero io, che cammino sperduto e disperato in questo parco irreale, le mani ferite in tasca, le spalle tremanti, gocce di pioggia che scivolano dai miei vestiti ancora umidi, le labbra vorrebbero muoversi, dirle di aspettarmi, perché sto arrivando a trovarla, si vorrebbero scusare perché non l'ho ascoltata.

No, perché l'ho ascoltata fin troppo, perché l'ho guardata così a lungo, perché sono riuscito a vederla.

Vederla, così lontana, sul selciato di una delle tante piazzole scalcinate e piene di crepe, inginocchiata sul mattonato umido, con il volto teso in alto, verso il cielo, una cascata di capelli carbone che scivolano sulle spalle, le sfiorano appena ad ogni movimento impercettibile della testa. Non c'è nulla da vedere, in quel lembo di cielo, se non una luna impietosa e gelida, ma che in questo momento, la illumina come se fosse un disegno, o un'immagine in uno specchio, un istante immobile ed impresso nella mia mente, insieme a quel basso rumore della sua gola che cerca di ingoiare troppo caffè in una sola volta.

Il mio corpo, tuttavia, è completamente paralizzato, all'udire quell'altro suono, stridente e sbagliato, assolutamente inconcepibile. Un suono che mi provoca, ogni volta, un dolore velenoso nel petto, come se mi divorasse lentamente, secondo dopo secondo, istante dopo istante, singhiozzo dopo singhiozzo.

Per quanto disperata, per quanto infranta, per quanto spezzata, ha sempre trattenuto le lacrime, come l'altra volta, senza emettere un solo rumore, asciugandosi gli occhi in un gesto rabbioso, come se le ripugnasse, come se non volesse mostrare a nessuno la sua debolezza. Eppure, questa volta, quel rumore che risuona alle mie orecchie più tagliente, più gelido, più divorante, è quello di un singhiozzare sommesso e soffocato a metà. Un singhiozzare pieno di una disperazione che non ho mai sentito, ma che ho solo potuto intravedere, per un istante, fatto di lacrime brucianti e pieno di amarezza.

Incapace di reagire, mi ritrovo solo fermo al limitare di questa piazzetta, dove l'erba pallida, biancastra, cresce invadente tra le pietre e, quasi come a circondarla, fiori rossastri indefiniti, dalle foglie spinose ed irriconoscibili, fioriscono facendosi strada nella gelida pietra.

L'unica cosa che riesco a fare, è avvicinarmi lentamente, con un senso di colpevolezza struggente, ma sentendo, allo stesso tempo, che ogni cosa che ho detto, ogni rigurgito del mio animo, ogni mia promessa, potrebbe andare in pezzi di fronte al suo vero viso. Mi sono chiesto, per tanto tempo, se quel fragile sorriso di vetro fosse il tuo; se io fossi davvero riuscito a toccarti, a sfiorarti appena, nel mio disperato e maldestro starti accanto. D'altronde, l'unica cosa che ho sempre voluto, Ayane, è riuscire vederti davvero, al di sotto di quel muro che ti sei costruita attorno. Riuscire a vedere un tuo dipinto completo. Riuscire a non incrinare mai quel sorriso di vetro. Riuscire a sedere in queste rovine, lontano da tutto e da tutti, per sempre, accanto a te, a dondolarci infinitamente sulle altalene distrutte, ad osservare un cielo indifferente e cercarvi una stella morente nella quale perderci.

Riuscire a farti capire che non siamo così vuoti, dopotutto.

Che siamo solo rotti e che, non potendo ripararci, possiamo solo stare l'uno accanto all'altro, senza parlare, senza spiegare, senza guardare. Solo camminare l'uno accanto all'altro.

Eppure, non sono capace di dirtelo, nemmeno questa volta. Forse sono solo fatto così, Ayane. Forse sono solo incapace di mostrarmi al mondo, di mettere a parole quella marea divorante che si agita dentro di me, come dentro di te. Forse, in questi momenti, non serve dire nulla. Forse, in questi momenti, l'unica cosa che basta a sussurrare è...

“Ayane..?” riesco a sussurrare, con la voce rotta ed il petto che si sgretola.

Inginocchiata nell'angolo più buio della piazza, lontana dal mondo, ad un solo respiro di distanza da me, riesco a intravedere la sua schiena che si irrigidisce, nel sentire la mia voce, nel sentirmi chiamarla per nome. Proprio come l'altra volta, il suo intero corpo ha un unico fremito. Come se il tempo si fosse fatto improvvisamente più pesante, come se la realtà si stesse spaccando ed andando in pezzi, Ayane si volta verso di me.

Ayane, con le labbra vermiglie e un rivolo di sangue che le cola dalle labbra, si volta verso di me.

Ayane, con gli occhi che rilucono leggermente, che si assottigliano, giallastri, si volta verso di me.

Ayane, con lo sguardo colpevole e le lacrime che le rigano le guance, si volta verso di me.

La sua borsa è lì, poggiata tra le sue gambe. Insieme ad un corpo inerme, un corpo con un'uniforme scolastica orribilmente familiare, identica alla sua, identica a quelle che vedo ogni giorno. Il nero così ordinario, macchiato da una lunga, unica striscia rossa, come una beffarda imitazione di quel singolo segno. Un corpo inerme, dal collo squarciato, due fori prodotti da due zanne affilate, come quelle di un animale. Come quelle di un lupo. La mia bocca si apre, senza riuscire ad emettere un suono.

“Aidan?” la sua voce trema leggermente, come se fosse sul punto di infrangersi.

Di fronte a me, c'è un incubo osceno ed intollerabile, talmente vero da essere nitido ai miei occhi, perfettamente visibile. Non ci sono sbavature, imperfezioni, volti sfocati o figure incolori. È tutto meticolosamente delineato. Apro la bocca, alla disperata ricerca di una parola, di una risposta a quella voce che sembra sul punto di spaccarsi in dolore e lacrime. Una voce piena di vergogna e disgusto.

“—Vedrai il lupo sotto quella belle pelle d'agnello.”

Quelle parole risuonano nella mia testa gelide come una lama, mentre il mio respiro si spezza, e la mia bocca si apre nuovamente, annaspando, alla ricerca di aria, di qualcosa da gridare, di qualunque cosa per evitare di sentire, ancora una volta, quelle parole. Vedo i suoi denti aguzzi gocciolare, vedo la sua bocca macchiata, vedo la sua lingua imbrattata.

Ma non riesco ad emettere alcun suono. Riesco solo a crollare in ginocchio, le mani al volto, le unghie che affondano nella carne, mentre un conato di vomito irrefrenabile si innalza dal mio stomaco fino alla bocca, portando il sapore amaro e acido della bile, che cola dalle mie labbra e poi a terra, mischiandosi alle lacrime che stanno sgorgando dai miei occhi, incontrollabilmente.

Non riesco a crederci. È tutto falso, vero? Non è possibile, non è così? Sto impazzendo.

Devo stare impazzendo. Non c'è altra spiegazione.

Se è così, perché sembra tutto così vero? Perché è tutto così reale?

“Aidan, ti prego—”

Perché le tue mani sono così fredde, Ayane?

Perché i tuoi occhi sono così pieni di tristezza, se è sangue quello che cola dalla tua bocca?

“Non guardarmi. Non guardarmi, ora.”

Le tue esili braccia si stringono attorno alla mia schiena. Ed è tutto vero, è tutto così folle da non poter essere che vero, perché ti sento, qui, sento la tua pelle, sento il tuo cuore che batte, sento le tue labbra che respirano calde accanto al mio orecchio, esitanti.

Ero venuto perché pensavo di aver capito, Ayane.

Ed invece—

“Mi dispiace, Aidan.”

Anche se hai la voce rotta, non stai piangendo.

“Mi dispiace...”

Non stai piangendo, perché non lo hai mai fatto. Perché non hai mai voluto essere debole. O non hai mai potuto. Dovresti essere un mostro, eppure siamo stretti così, in questo abbraccio surreale dal quale non riesco ad allontanarmi. Dovrei fuggire, allontanarmi da te, eppure qualcosa mi dice di restare.

Eppure, se sei un lupo, se sei davvero un mostro, perché mi stai stringendo così forte, così disperatamente? Perché hai voluto salvarmi, perché hai voluto tenermi vicino, perché hai voluto mostrarmi qualcosa di te? Alla fine, siamo tutti così deboli, da non poter evitare di mostrarci, per un istante, per quel che siamo davvero. Tutti quei giorni passati sulla terrazza, quella notte sull'altalena, quel quadro bianco, questo tuo tono di voce, quell'incresparti in un sorriso, quel quadro rosso, questo tuo tremare disperatamente, non sono una finzione.

Il tuo viso affondato nella mia spalla, il tuo tremolare leggermente, i tuoi capelli che scivolano a nasconderti, le due dita che annaspano per stringermi più forte, le tue esili braccia che non vogliono abbandonarmi, che non vogliono lasciarmi andare. Per tutto questo tempo, sei stata lontana da tutti, per paura del mostro che nascondevi al di sotto.

Perché, allora, posso ancora stringerti così, perché non voglio lasciarti crollare su te stessa?

Se sei un lupo, perché tutta questa debolezza?

Se sei un predatore, perché sei fuggita?

Se sei un mostro, perché ti sei spezzata?

Se non sei umana, perché tutto questo dolore?

“Nonostante tutto, sono così fragile. È passato tanto tempo... dall'ultima volta che ho pianto.”

Forse sono così. Forse sono incapace di allontanarmi da te. Forse è proprio vero, che il nostro disperato bisogno, l'uno dell'altro, è qualcosa di autodistruttivo. Forse è vero che non riesco a sentire nulla, al di fuori del tuo colore, al di fuori del tuo vivo cremisi.

Forse è vero che siamo entrambi così danneggiati da cercarci disperatamente.

Forse è vero che—

“Se puoi sentire dolore—vuol dire che sei umana anche tu.”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI —What makes us humans. ***


VI

What makes us humans.

 

Ci sono dei punti fermi, nella vita di ognuno. L'ho capito nel momento in cui tutto è diventato grigio e slavato, cercando disperatamente qualcosa che scandisse l'avanzare dei miei giorni tutti uguali, qualche costante che mi ricordasse che il tempo, in un modo o nell'altro, va avanti, ignorando la nostra percezione o la nostra volontà. L'ho realizzato per la prima volta in una notte limpida di primavera, abbandonato contro il muro esterno del mio giardino; le luci labili e soffuse della città erano smorte e non riuscivano ad offuscare quei punti luminosi sopra di me, tanto lontani da essere già spenti, ma che sono rimasti impressi nella loro effimera luminosità nella mia mente. Le stelle ferme del cielo sono qualcosa di tanto scontato che, fino a quel momento, non avevo mai creduto che potessero avere un senso. Per qualche ragione, però, le ho sempre trovate più confortanti, più vive della luna beffarda e pallida, ed allo stesso tempo capaci di darmi una sinistra inquietudine, perché il loro pulsare, alla fine non è altro che il riflesso lontano di un corpo ormai spento.

Lentamente, ho iniziato a mettere dei paletti, dei segni invisibili sulle cose attorno a me, in modo che mi ricordino, con il loro eterno muoversi e tornare, che seppure mi senta ancora adesso fluttuare in una realtà attutita, tanto lontana da non poterne avvertire i suoni e vederne le figure, che ogni cosa procede e minaccia di lasciarmi indietro, in un ciclo che culmina, alla fine, in un quieto spegnersi.

Il ticchettare delle lancette dell'orologio a muro, il regolare rumore del camion della pulizia stradale, il battere metallico e tetro della campanella.

Ed il più importante, che solletica appena le mie palpebre pesanti dal sonno leggero e divorato dagli incubi, il sorgere del sole, l'inizio di un nuovo giorno insapore. Un unico raggio dell'alba biancastra scivola attraverso una persiana socchiusa, nugoli di polvere dorata che si contorcono nella sua scia, prima di arrivare al mio viso, dritto sui miei occhi pigramente socchiusi. La schiena protesta, mentre mi agito leggermente in una coperta morbida e tiepida, pregna di un profumo che conosco vagamente, come una fragranza familiare che associamo immediatamente a qualcosa di tanto piacevole e quotidiano da poterlo vedere.

Ci vuole un secondo perché i miei pensieri sconclusionati, la mia mente rallentata dal sonno agitato e dagli incubi, si ricompongano e che mi renda conto di essere sdraiato su un ampio letto troppo morbido per la mia schiena, quasi come a volermi risucchiare tra i suoi cuscini, avvolto in una coperta dai colori pastello e punteggiata da stelle ricoperte di crepe, nella camera da letto di una casa che non è chiaramente la mia.

La fronte manda impulsi rabbiosi di protesta, quando provo a seguire uno sfilacciato insieme di ricordi confusi e sbiaditi, come se volesse aprirsi in due per il dolore pur di trattenermi dal rimettere insieme queste scene tanto diverse l'una dall'altra, di cui solo vagamente mi sembra di essere il protagonista.

Sono davvero io, questa persona che ha corso disperatamente fino ad un parco, che è caduta sulle ginocchia a graffiarsi le nocche sull'asfalto, il petto dolorante ed il corpo tremante per la pioggia gelida? Sono davvero io, questa figura sperduta, con gli occhi palpitanti che si riflettono in una pozzanghera, che barcolla sulle ginocchia malferme fino a quelle spalle esili, a quel corpo rigido?

Sono davvero io, che guardo Ayane con la bocca sporca di sangue, un corpo poggiato sulle ginocchia, tenuto dalle braccia come se lo stesse cullando, se non fosse per quel collo lacerato dai denti, la carne viva che palpita arrossata appena sotto la pelle?

È come un pugno nello stomaco. Provo a tirarmi a sedere, ma il fiume di ricordi mi investe con tanta prepotenza da darmi la nausea, per cui mi lascio cadere di nuovo con la testa su un morbido cuscino, quasi molle, gli occhi piantati contro il soffitto lucido, disadorno se non per un lampadario dozzinale che pende al centro della stanza, al limitare del mio campo visivo.

Tutti gli avvenimenti della notte piombano come un macigno su di me, dandomi un conato di vomito irrefrenabile, un riflesso naturale del mio corpo. Stringo i pugni e mi mordo le labbra tanto forte da avvertire una vaga punta metallica sulla lingua, prima di riuscire a capire che quel lungo incubo ricorrente, che questa notte mi ha visitato infinite volte, è crudamente, crudelmente reale. Il vago tremore che mi scuote, nel rivedere Ayane in lacrime, eppure insanguinata, eppure fragile e spezzata, eppure con il corpo di una ragazza morta—no, svenuta, o quanto meno lo spero…

Provo a togliermi la coperta di dosso, a strapparmi via questo calore soffocante, non più dolce e rassicurante, solo per sentire di nuovo un giramento di testa quando i miei occhi si posano sulla maglietta. Prima di rendermene conto, sto respirando affannosamente, cercando di ingurgitare più aria possibile con la bocca spalancata, per calmare la sensazione di atroce terrore che mi contorce le viscere. L'incredulità si spegne del tutto solo quando mi rendo conto che queste macchie sull'uniforme, nel punto in cui Ayane ha affondato il viso disperatamente, sono sangue scuro e secco, che emette ancora un vago odore simile a quello che sento in bocca, il rivolo che dal labbro inferiore gocciola sulla mia lingua.

Solo l'istinto riesce, anche attraverso il panico e la paura gelida che mi avvolgono di colpo, a farmi caracollare fino ad un bagno che non ricordavo esistesse, per crollare in ginocchio sulla tazza e sputarci dentro la bile amara e pungente che è risalita dal fondo dello stomaco. Guardo il liquido verdastro gocciolare dalle mie labbra socchiuse mentre l'intera stanza mi vortica attorno, le pareti tanto grandi da volersi chiudere su di me, senza un soffitto, una gabbia illuminata dal pallido riverbero dell'alba fuori dalla finestra.

Riesco a trovare il lavandino e ad appoggiarmici abbastanza da tirarmi su, le ginocchia ancora incerte, abbastanza da poter aprire un getto d'acqua gelida. Le braccia poggiate sui bordi di ceramica, riesco solo ad osservare il getto d'acqua abbattersi violentemente sul fondo e gorgogliare giù per lo scarico, un rumore attutito ma che, per qualche motivo, riesce a darmi una vaga sensazione di tranquillità. L'acqua pungente che mi bagna il viso mi scuote dal torpore e lava via, per qualche istante, il terrore che mi ha stretto le viscere.

Lo specchio lucido, appeso appena sopra al rubinetto, sembra quasi nebuloso, come a volersi increspare quando la figura al suo interno alza gli occhi a ricambiare il mio sguardo stralunato, la pupilla leggermente vibrante per la paura aggrappata alla mia mente. L'uniforme sporca, il viso mortalmente pallido, la fronte corrucciata ed il labbro percorso da un taglio irregolare, i capelli in disordine, due occhiaie nerastre, il viso come assorto; ogni cosa mi dice che sono io, eppure questo sguardo così alieno, questi occhi ricoperti da un'ombra irriconoscibile, sono quelli di un'altra persona. Di qualcuno che ha osservato in faccia una verità orrenda, una realtà mostruosa. Come se avessi squarciato un velo. Queste parole affiorano silenziosamente alle mie labbra, risuonando nella mia testa con un tono di voce che non è il mio, come se le avessi udite da qualcun altro e stessero riaffiorando solo ora dalla mia coscienza a pezzi ed incredula.

Cos'è successo, ieri notte, dopo il parco? Dopo che ho stretto Ayane al petto, dopo che l'ho rassicurata con il cuore che scoppiava? Ricordo vagamente di aver camminato per strade buie, a malapena illuminate da lampioni pallidi ed incerti, il suo corpo contro il mio, il suo braccio stretto attorno alle mie spalle. L'ho sentita scusarsi ancora ed ancora ed ancora, supplicarmi, ringraziarmi ad ogni mia rassicurazione; è come se, accanto a me, in quel momento, ci fosse stata una persona completamente diversa. Una Ayane distrutta e fatta a pezzi, senza più alcuna maschera, senza più alcuna indifferenza.

Ricordo di essere entrato in una casa come le altre, in una delle innumerevoli vie di questa città, strade che si assomigliano tutte, in un'atmosfera surreale. La porta si è aperta dopo che Ayane vi ha infilato la chiave, girandola con le dita tremanti, uno, due, tre scatti metallici; quando ho meccanicamente chiuso l'uscio alle nostre spalle, lei mi ha portato su un divano color crema, ricoperto da cuscini ruvidi, ornamentali, non fatti per poggiarci la testa sopra. Per qualche ragione, mi sono ritrovato con una tazza di caffè scuro in mano, dall'aria acquosa, americana, e berne un sorso amaro mi ha dato una sensazione di vertigine. Il tepore che filtrava attraverso la tazza, il vapore che si intrecciava in colonne irregolari, mi hanno dato un momento di pace, spazzato via dalla figura rannicchiata e fragile di Ayane.

Le ginocchia tirate al petto e la fronte poggiata contro di esse, il viso nascosto per evitare di incrociare il mio sguardo, sembrava ferita e spaccata, ricoperta di crepe e squarci – completamente, assolutamente divorata da se stessa, incapace anche solo di aprire la bocca per trovare una parola. Mi sono reso conto, alla fine, che per tutto questo tempo non sono mai riuscito davvero a capirla; che credevo di averne afferrato, anche solo per un attimo, la vera natura. Solo dopo averla vista assolutamente sconfitta, completamente priva di ogni maschera, di ogni barriera, sono riuscito a vederne l'assoluta fragilità. In quel momento, nella semioscurità, ho temuto che toccandola, sfiorandone appena la pelle diafana, potesse andare in pezzi e sparire per sempre, come se solo sfiorarla volesse dire infrangere il precario equilibrio, sporcarla con l'inchiostro gocciolante di una realtà crudele.

Il silenzio assoluto si è rotto solo quando la sua voce flebile, ancora incerta, si è fatta strada dal fondo della stanza, “...Sono nata così. Da quando riesco a ricordare, sono stata costretta a cibarmi in quel modo.” Lentamente, ha staccato il viso dalle gambe, poggiando la testa contro lo schienale della poltrona, ma tenendo gli occhi bassi come se non sopportasse l'idea di incrociare i miei, di sapermi lì, capace di poterla vedere in questo stato, “Aidan, credimi – non posso fare altro. Non l'ho scelto io, non posso fare altrimenti. Questa è la mia maledizione.” Ha alzato le mani, portandole di fronte al viso ancora macchiato, come se cercasse qualcosa su di esse, come se fossero aliene, così schizzate di quel rosso che ha tentato disperatamente di pulirsi dalle labbra, “Ora che lo sai, ti prego, vattene via. Lasciami stare. Fai finta che non esista. Non voglio ferirti, non tu, chiunque altro, ma non tu. Non è la mia natura. Ma è inevitabile.”

Ed è stato allora, che i nostri occhi si sono incontrati.

È stato allora che ho visto un'ombra di assoluta, completa disperazione e rassegnazione, un baratro come mai ho avuto l'occasione di scrutare, tanto profondo da potermi inghiottire.

“Sono un mostro.”

Con il polso ancora scosso da qualche tremito insicuro, chiudo il rubinetto, lasciando che il silenzio precipiti ancora una volta nella stanza. Alle mie spalle, la porta socchiusa che mi divide dalla camera da letto lascia uno spiraglio semibuio, dove l'oscurità si fa più sottile solo grazie a quel singolo raggio di luce che mi ha svegliato. A giudicare dal poco che riesco a vedere dalla finestra del bagno, non devono essere nemmeno le sette di mattina; il sole è ancora all'inizio della sua parabola e mi chiedo, ancora una volta, come sia possibile che riesca a sorgere ogni volta puntualmente, indifferente, nonostante tutto sembri impazzito, fuori posto.

I miei ricordi non sono ancora abbastanza chiari, per ricordare cos'è accaduto dopo. Solo ombre, frammenti di parole e corpi, un tepore quasi rassicurante e poi incubi orrendi, sogni di parchi abbandonati e di Ayane china su corpi gocciolanti – con una luna rossastra, su un cielo cremisi e pungente.

Le ho detto che, se può sentire dolore, dev'essere umana anche lei. Che se prova tanto rimorso e disperazione, se non riesce a darsi pace, per questa sua natura inspiegabile, allora qualcosa in lei sopravvive ancora. Una parte di me è sicura che Ayane sia umana, che non sia un mostro, ma che sia solo schiacciata da una maledizione che supera ogni razionalità. Una parte di me vorrebbe poterla stringere ancora, come ieri notte, per sentirne il tepore, il corpo esile tremare fino a precipitare nel sonno.

Tuttavia, un'altra parte ne ha un terrore assoluto. Continua a vedere, ancora ed ancora, quel corpo insanguinato, quel collo lacerato dai canini, le lacrime mescolate al sangue e sentire la sua voce che mi supplica di non guardarla, di non avvicinarmi. L'idea che tutte quelle aggressioni, quelle presunte sparizioni, siano state opera sua mi manda un brivido lungo il corpo. Una maledizione dalla quale non può liberarsi, perché lei è nata così; improvvisamente, il suo pallore, il suo carisma, il suo mangiare così poco, e quel caratteristico rumore nell'ingollare a grandi sorsate il caffè, ogni cosa sembra unirsi in un puzzle distorto ed ombroso, un ritratto di luci ed ombre.

Mi passo una mano sul viso, per cercare di ritrovare ancora un po' di calma. Non riesco a tornare a letto, né sopporto di rimanere in questa casa, ho bisogno di uscire di qui, di sentire l'aria gelida, di camminare e di guardare la città scorrermi accanto, di riflettere. Di capire.

Provo ad aprire la porta con delicatezza, i cardini scivolano silenziosamente senza nemmeno scricchiolare, come ad assecondarmi. Non so dove Ayane stia dormendo, ma non vorrei svegliarla ora, non sarei in grado di affrontarla, di guardarla in faccia; capirebbe perfettamente, capirebbe ogni cosa, avvertirebbe il mio dubbio e la mia paura. Si sentirebbe ancora abbandonata, irrimediabilmente ferita, perfino dall'unica persona che è riuscita a raggiungerla, a toccarla per un momento. Perfino da chi le ha che è umana.

Il letto sul quale ho dormito è abbastanza grande da poter ospitare due persone ed il lato rivolto verso la finestra è in disordine, scompigliato dai miei incubi e dal mio improvviso flusso di ricordi. La coperta giace per metà abbandonata a terra, abbastanza lunga da sfiorare il parquet lucido, senza nemmeno un graffio, tenuto con una cura maniacale; nemmeno controluce riesco ad intravedere una macchia o un segno. Seguendo il profilo della spalliera, piuttosto bassa, in legno oscuro ondulato e senza alcuna decorazione particolare, mi rendo improvvisamente conto di un dettaglio, abbastanza da farmi irrigidire e fluire del colore al viso.

Sull'altro lato del letto, avvolta come in un bozzolo dalla spessa coperta, al punto che solo la parte superiore dei suoi disordinati capelli neri si può intravedere nella semioscurità, c'è una figura profondamente addormentata; le ciocche scure sparse sul cuscino sembrano dissolversi nel buio e il movimento impercettibile del suo petto è appena visibile sotto le coltri, mentre è assorta nel tepore che la circonda. Immersa nei suoi sogni più scuri e distorti, riesco ad intravedere l'espressione corrucciata, le sopracciglia aggrottate, le labbra che si serrano ritmicamente; la sua mano destra, che fuoriesce leggermente dalla coperta, sembra tastare di riflesso verso il mio cuscino, come se cercasse istintivamente.

Mi chiedo quale incubo stia vivendo, quanti ancora ne dovrà subire, se vede i volti di coloro che aggredisce, se li sente urlare ed implorare, se immagina di essere braccata o guardata con terrore e disgusto; se, nelle sue fantasie inconsce, lei è la vittima maledetta o il predatore pieno di rimorso. Mugola per un istante, quando sono sulla soglia, come se sentisse che mi sto allontanando da lei, tanto che mi irrigidisco con la mano sulla maniglia, il terrore di averla svegliata che serpeggia lungo la schiena. Mi getto un'occhiata di sottecchi alle spalle, ma con la coda dell'occhio riesco a vederla agitarsi ancora per un istante, prima di cambiare fianco e tornare a vivere chissà quale tormentoso sogno.

Qualche ricordo confuso si fa più chiaro, quando chiudo la porta alle spalle con un impercettibile tonfo. Ricordo vagamente Ayane che mi si stringe contro, il respiro affannoso e gli occhi ancora umidi, che mi implora, mi sussurra, mi accarezza appena, supplicandomi — “Non lasciarmi sola.” E poi, quelle due parole che mai prima d'ora avevo sentito, forse mai sentirò più. Solo ricordarle mi dà una strana, bruciante sensazione allo stomaco, come se volessi strapparmi le viscere, un accavallarsi di sensazioni indescrivibili. Due parole che mi hanno dimostrato quanto, alla fine, lei abbia deciso di poggiarsi a me, di credere in me, di avermi al suo fianco. “Non tu.”

Il salotto è più luminoso della camera da letto, perché le finestre a vetri scorrevoli che danno sul giardino, con vista sulla strada, hanno le tende sottili, di un elegante quanto anonimo colore perlaceo, attraverso il quale i raggi smunti riescono a filtrare senza sforzo. La mia giacca e la mia borsa sono abbandonate sul divano, proprio dove le avevo poggiate prima di andare a letto. Mentre afferro la giacca, ricordando che è stata Ayane a sfilarmela gentilmente, insieme alla cravatta abbandonata chissà dove, istintivamente mi passo di nuovo la mano sul viso.

Il mio primo pensiero è chiedermi cosa sto facendo. È tutto reale, non è così? Non c'è altra spiegazione. Perché non sono scappato, allora? Perché sono rimasto con lei, nonostante tutto?

In mezzo al soggiorno incolore, con la giacca stropicciata in mano, anch'essa leggermente macchiata, mi ritrovo a pensare che ho sempre saputo, in fondo, che qualcosa di sbagliato doveva esserci. Che forse, in un modo o nell'altro, mi ero già preparato a questa eventualità. Che una parte di me aveva già deciso, quando ho avvicinato questa figura, l'unica con un colore, che ne sarei rimasto invischiato.

Osservo appena la porta alle mie spalle. Una sola possibilità per pensarci, poco tempo per riflettere. Un bivio che si apre, davanti a me, una strada che sparisce nel grigiore, nella nebbia di tutti i giorni, una promessa di vita senza più colore, ma lontana da questa follia, da questa irrealtà, lasciandomi alle spalle un animo spaccato, distrutto, che ha avuto il coraggio di aprirsi e di farsi confortare, solo per essere ripudiato. Ammetterei che, alla fine, non c'è nulla di umano in lei.

Frugo nella tasca della giacca, fino a che le mie dita non avvertono la familiare, liscia sensazione del metallo ticchettante; estraggo l'orologio da polso, uno di quei punti fermi che ho stabilito, tanto tempo fa, le lancette che schioccano inesorabilmente, un monito per il tempo che scorre, ricordandomi che ogni secondo è prezioso.

Sono le sei di mattina, quando chiudo la porta di casa di Ayane dietro di me, silenziosamente.

Sono le sei ed uno, quando arrivo al cancello in fondo al giardino, dopo essermi fermato ad osservare la strada nebbiosa, la figura familiare poggiata contro il cancello, in paziente attesa.

Sono le sei ed uno e quaranta secondi, quando un brivido gelido mi percorre la schiena, incrociando il suo sguardo.

Sono le sei e due, quando, chiude il libro con un tonfo, voltandosi verso di me, “Ce l'hai fatta, eh? Sei uscito vivo dalla tana del lupo.”

“Si può sapere chi diavolo sei?” le parole fuoriescono dalla mia bocca con un tono rabbioso, tagliente, senza che nemmeno me ne accorga, “Cosa sai di questa storia?”

“Vieni con me, facciamo un giro. Ti dirò tutto quello che vuoi sapere.” Non si degna di aspettare una mia risposta, semplicemente sta già camminando, la figura che quasi tremola e sparisce nella nebbia. Quando cammina, avvolto da questa coltre grigiastra ed indefinita, mi sembra quasi che ci sia qualcuno, al suo fianco; la luce tremula è appena sufficiente a rischiarare una figura vagamente familiare, che mi sembra di aver già intravisto. È piccola ed esile, le mani che spariscono nelle maniche di una felpa troppo grande per lei, come assorta nell'osservarmi, ricambia il mio sguardo con due occhi immobili e vitrei, quasi stesse spaziando nei suoi pensieri, piuttosto che guardarsi attorno. Stringo le labbra, cercando di richiamare alla memoria l'istante in cui l'ho già vista, il luogo dove i nostri occhi si sono incrociati, ma i miei ricordi sono sempre offuscati dagli ultimi avvenimenti.

In un battito d'occhi, la figura accanto a lui è sparita, dispera nella nebbia stessa, lasciandomi con la bocca semiaperta ed un'altra domanda irrisolta. Schiocco la lingua con irritazione, prima di affrettarmi a raggiungerlo, seguendo il suo incedere tranquillo ma deciso, le mani affondate nelle tasche della sua uniforme nera, il libro tenuto saldamente sottobraccio, nonostante la sua mole e il suo stato di conservazione suggeriscano che si tratti di un tomo antico e prezioso.

“Si può sapere chi sei?”

“Ethan Ilgard. Sembri un tipo interessante, Aidan,” prosegue, non mi dà il tempo di rispondere, di fargli un'altra domanda, sospingendomi lungo l'impetuoso discorso senza sforzo, “Devi esserlo, se sei riuscito a stare attorno ad un mostro pericoloso come quello senza farti aggredire.”

“Mostro?!” Il mio tono suona brusco e sorpreso alle mie stesse orecchie, ma la sua unica reazione consiste nell'inclinare appena la testa, come se stesse rapidamente pensando alle sue parole, prima di rispondermi più tranquillamente, “Sei una di quelle persone che preferisce definirli Esseri, per caso? Secondo me, è un appellativo troppo clemente per certe… bestie.” Mi scossa un'occhiata pungente, come se attendesse una mia reazione di qualche tipo, ma non sembra soddisfatto dalla mia occhiata confusa.

“Ne vuoi sapere di più, immagino.” C'è quasi una punta tagliente, nella sua voce, una sorta di rigurgito velenoso, di odio corrosivo, “Vorrai sapere tutto riguardo al mondo dell'occulto… Riguardo a lei.”

Sto per chiedergli ancora qualcosa, qualunque cosa, vorrei sapere di cosa sta parlando, come fa a sapere la verità su Ayane, anche solo sapere dove ci stiamo dirigendo, ma lui mi fa cenno di aspettare, mentre prosegue imperterrito lungo il marciapiede. La città inizia a svegliarsi, il quartiere vede le luci dell'alba e qualche movimento dietro le finestre; una macchina passa sfrecciando a qualche metro da me, emergendo dalla nebbia come due grosse torce rossastre che spariscono superandomi, divorate dal grigiore spesso ed uniforme. È strano che, filtrando attraverso la nebbia, di quando in quando compaia la luce del mattino; ma, dopo quel che è accaduto nel parco, questa è una delle cose più normali che possa pensare ora. Il rumore delle nostre scarpe risuona sul marciapiede in un ticchettare regolare e serrato, mentre questa marcia non sembra mai terminare, e procediamo nel grigiore dal quale emergono, tozze e distorte, vecchie case, villette a schiera, uno o due appartamenti. Di quando in quando, una luce di un semaforo si accende con uno schiocco, prima di spegnersi, ma non ho veri e propri punti di riferimento, nell'avanzare.

È come se tutto attorno il mondo si fosse congelato, come se non fossimo altro che fantasmi che incedono in un purgatorio di luce biancastra, pallida. Anime in pena, unite da una silenziosa catena che fa capo ad Ayane.

Di quando in quando, quella figura torna a comparire nella nebbia, camminando per uno o due passi accanto ad Ethan, oppure osservandomi dall'altro lato della strada, quasi come fosse un sinistro spirito che ci segua nella nostra discesa nel nulla.

“Siamo arrivati.”

Come se le sue parole che infrangono il silenzio avessero richiamato qualcosa, dalla nebbia emergono i dettagli di un edificio cadente, abbandonato, che si alza tetramente sul fondo di questo vicolo di periferia. Le finestre rotte, come orbite oscure e vuote, punteggiano la facciata scrostata e ricoperta da una ragnatela di crepe. L'intonaco cade a grandi pezzi, lasciando vistose macchie di nudo cemento consunto al di sotto, attorno al quale si aprono accozzaglie di murales e graffiti sporchi e slavati, in uno sfoggio di decadenza quasi artistica e fiera.

I cancelli arrugginiti sono accostati, lasciando a malapena lo spazio perché una persona vi cammini in mezzo, con il lucchetto ed annesso catenaccio spaccati e gettati a terra con spregio, sull'asfalto bucherellato di un cortile in disuso da tempo, ma sul quale ancora risaltano i segni delle gomme di innumerevoli automobili.

Sul fondo, l'ingresso dell'atrio è spalancato, in un invito tutt'altro che confortante ad entrare, ed attraverso i suoi vetri infranti, i frammenti sono accumulati sull'uscio, vedo sedie rovesciate e panche sfondate, rotte in un impeto di rabbia e sfogo da chissà quale individuo attirato fatalmente dalle rovine.

In un certo senso, l'impressione che scaturisce da questo luogo è simile a quella che si prova nel parco abbandonato, lasciato a se stesso; ma qui manca quello strano senso di appartenenza, si avverte solo una cupa, bassa rabbia, o forse un senso di malinconica disperazione che permeano ogni mattone, ogni finestra, ogni sasso. Un cartello danneggiato svetta accanto all'ingresso, ricoperto di vernice e scritte oscene, di avvertimenti e di nomi, arrugginito e piegato verso sinistra, probabilmente a causa di qualche macchina che lo ha colpito senza pensarci troppo.

“Questo posto verrà demolito presto. Ma ha una certa importanza, per me, per questo mi piace tornarci, di quando in quando.” La sua mano sembra quasi accarezzare il cancello, con una sorta di nostalgia che traspare nelle sue parole, “Ci sono delle memorie… amare e dolorose.” La figura della ragazza, languidamente, per la prima volta, allunga una mano quasi a volerlo sfiorare, ma le sue dita si fermano poco prima di toccare il suo viso. Il sorriso nostalgico di Ethan si congela di colpo, prima di scrollare le spalle e di varcare lo stretto spazio tra le due sezioni in ferro rugginoso.

“Cos'è?”

“Una vecchia accademia. Le hanno cambiato sede tre anni fa, spostandola più in centro. Qui sono rimaste sono le cose non volute o considerate inutili: le attrezzature inutilizzate, i vecchi manifesti, le sedie rotte...” Alza appena la testa, come a cercare qualcosa, nelle finestre rotte e buie, che solo lui può vedere, “...I ricordi.”

Con riluttanza, lo seguo attraverso lo stretto cancello rugginoso, la nebbia che mi striscia umidiccia attorno al corpo, appiccandosi ai vestiti come se volesse scivolarmi dentro, come se volesse entrare a forza nel mio corpo, attirata dalla sensazione pungente e gelida nel petto. La figura di Ethan sembra quasi sparire, di quando in quando, come se camminasse su un sottile filo che lo faccia barcollare tra un mondo e l'altro; forse è solo questa massa impalpabile e soffocante, ma sembra che tutt'attorno, questo intero luogo sia lontano, infinitamente distante da tutto il resto.

Le porte d'ingresso danno su un atrio buio, ricoperto da uno spesso strato di polvere che rende l'aria pastosa, difficile perfino da respirare. Il vetro è stato infranto con rabbia ed ora è sparso in affilati frammenti scricchiolanti, che si contraggono e si spezzano quando ci camminiamo sopra, in un suono solitario, quasi spettrale che ci segue varcando l'uscio scardinato.

L'atrio è poco più che un grosso androne con una serie di armadietti ribaltati a terra, il loro contenuto rovesciato sul pavimento e sparso tra i detriti e la polvere, fogli, vecchie matite, quaderni sgualciti; oggetti che raccontano una storia ormai lontana. La testimonianza di quei ricordi felici che ci hanno condotto fino a qui.

Tuttavia, i miei pensieri si contorcono ed annaspano nei dettagli solo per distrarsi. Ma non ci riesco, perché è impossibile sfuggire ad un'ombra tanto grande e torbida, non posso dimenticare quello che è accaduto ieri notte, né posso ignorare il fatto che ci sia… qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non riesco a comprendere, che mi sfugge, ma che allo stesso tempo sembra essere stato perennemente sotto i miei occhi.

Le parole di Ethan sono criptiche, volutamente contorte. In un certo senso, è come se desse per scontato che io sappia, che io conosca qualcosa, come se fosse stato sotto ai miei occhi per tutto questo tempo. Ogni volta che l'ho intravisto fuori dal cancello dell'accademia, ogni volta che abbiamo parlato, ora quelle frasi enigmatiche di avvertimento mi appaiono più chiare – ma c'è qualcosa che manca.

L'intera atmosfera è surreale. Forse è il silenzio, forse è la situazione, forse è il mio cuore che sembra avvinghiarsi al petto, forse è il mio respiro che si fa sempre più faticoso, forse sono i miei pensieri sfilacciati. Eppure, ad ogni passo sui gradini che ci stanno portando verso l'alto, verso il primo, poi il secondo ed il terzo piano, mi sembra che tutto divenga più attutito, più distante. Perfino il mio corpo, lo sento così pesante, così irreale, che ho il terrore di guardarlo, di scoprirlo tremante. Il dolore alla spalla si fa sempre più acuto, un leggero palpitare, come di aghi conficcati nella carne, un fastidio che ho cercato di evitare, di scacciare via.

“Dove stiamo andando?” riesco a malapena a sussurrare, ma l'unica risposta che ricevo è un vago cenno della mano verso il corridoio che si apre di fronte a noi, al terzo piano, e si allunga a destra e sinistra sparendo nella foschia. Come se fosse infinito, fatto di curve ed angoli, di scrivanie a pezzi, sedie accatastate in piramidi tremolanti, volantini che penzolano inerti da bacheche congelate a tre anni fa. Un foglietto ricorda agli studenti dell'assemblea di istituto, un altro gli orari della biblioteca. Un altro avvisa di fare attenzione, sulla via di casa, perché sembra che nella zona si siano verificati casi di aggressione, ad orari che conosco perfettamente. Orari che ricordo, perché ho già visto simili avvisi nella mia accademia.

Le mie gambe fanno fatica a reggere, mentre lo leggo. Devo poggiarmi contro la parete, sento l'intonaco gelido che si deposita sulle mie mani, tra le dita, mentre mi porto una mano alla bocca per trattenere un improvviso scatto di nausea.

L'immagine di ieri sera è talmente vivida da colpirmi come un pugno allo stomaco. L'immagine di Ayane piegata su un corpo, la bocca rossa di sangue. L'immagine di qualcosa di non completamente umano. Volto appena la testa, impedendo ad un getto di bile di risalire lungo la gola, solo per incrociare lo sguardo opaco di Ethan, le labbra strette, nell'osservare la bacheca, lo squarcio che la attraversa, il foglio proprio di fronte a me. Come se conoscesse alla perfezione cosa vi sia scritto, si volta schioccando la lingua, “Un mostro rimane pur sempre un mostro.”

La porta che apre con uno scricchiolio non è diversa dalle altre che abbiamo passato senza nemmeno degnarle di un'occhiata. Nessun segno, nessuna targhetta di riconoscimento, grattata via dal tempo, strappata via dall'abbandono. I cardini sono ugualmente arrugginiti, il legno ugualmente scheggiato e quando rivela l'interno, non posso che sentirmi vagamente deluso.

Un'aula come tante, come quelle che vedo ogni giorno, con l'unica differenza di essere mortalmente immobile. Un gelido, assoluto silenzio, diverso da quello dell'accademia quando rimango da solo per i corridoio.

Ma per Ethan è diverso. È come se vedesse qualcosa che a me è precluso. Si muove tra i banchi spostando lo sguardo da una parte all'altra, gli occhi come se seguissero un movimento che va dal fondo dell'aula, fino alla lavagna; rimane assorto, per qualche istante, ad osservare la grossa lastra di ardesia nera, ricoperta da un vago strato di gesso fluttuante, sul quale sono ancora vagamente leggibili degli appunti di letteratura classica.

Forse è perché l'aria è colma di nebbia o sono ancora scosso da quello che ho visto, forse perché l'intera situazione sembra averci estraniato e portato lontano, ma per un istante mi sembra di vedere la stessa figura esile in piedi di fronte alla lavagna, che osserva con sguardo opaco, distante, il mio eccentrico accompagnatore. La sua bocca immobile, congelata in un'espressione neutra, si piega appena in una increspatura di malinconica tristezza. Ma è l'istante di un battito di ciglia, perché Ethan mi supera per avvicinarsi alla cattedra polverosa e crepata, sopra la quale sono state poggiate cinque o sei sedie.

Sembra che questa classe sia stata utilizzata come magazzino, ad un certo punto, perché una grande quantità di arredamento è stato accatastato alla rinfusa tutt'attorno, come a creare una sorta di enorme, torreggiante pila di panche, banchi, sedie, tra i quali riesco ad intravedere mucchi di registri e scatoloni ricolmi di test e compiti in classe. Quasi a concentrare questa scuola devastata in una sola, stretta aula.

Lo osservo per un secondo, mentre si siede sul bordo della cattedra, il voluminoso tomo poggiato sulle ginocchia, il palmo della mano che sembra come carezzare la copertina. Le sue dita indugiano sulla rilegatura nera, i polpastrelli sentono ogni più piccola escrescenza, ogni dosso, ogni leggera crepatura.

Il petto continua a contorcersi e le viscere sembrano attorcigliarsi ogni momento che passa. Ogni respiro è come ingollare una boccata di cenere appiccicosa e pungente, che indugia nella gola e scende vischiosa fino ai polmoni.

C'è una sorta di tensione che si allunga in tutto il mio corpo. Non so cosa stia per accadere, ma è come se incombesse su di me. Come se fossi seduto di fronte ad un sipario che sta per essere aperto. Dentro di me, c'è una sorta di corrosiva voglia di capire.

Ed un divorante terrore.

“L'hai vista, quindi. Nonostante i miei avvertimenti. Hai visto di che mostro si trattava, che essere orrendo c'è sotto quel suo sorriso affilato e quegli occhi ammiccanti. Hai capito perché sembra attirare fatalmente ma respingere sistematicamente. Eppure, nonostante tutto, le sei rimasto accanto.” Il suo tono di voce è assorto, come se stesse parlando più a se stesso che a me, quasi stesse rileggendo un blocco di appunti nascosto da qualche parte nella sua mente, mentre le dita voltano le pagine di spessa e ruvida carta ingiallita, producendo un caratteristico, ritmico fruscio. Alza lo sguardo, adombrato da una sorta di torbido riflesso paludoso, prima di lasciare il libro accanto e incrociare le braccia tamburellando con le dita sull'avambraccio destro, in un riflesso nervoso, “Ascoltami bene. Le cose che non vediamo, a questo mondo, sono innumerevoli; molte, invisibili al nostro occhio, divengono leggende e superstizioni. E l'unico modo che l'uomo, nel corso dei secoli, ha trovato per spiegarle, è affidarsi agli esperti dell'occulto.

Tuttavia, c'è un intero mondo, a contatto con quello di tutti i giorni, che sono in pochi a poter scrutare e comprendere, persone che, in qualche modo, sono fuggite dalla vita e hanno scelto di osservare attraverso il velo che copre gli occhi della realtà.

Ci sono persone che rifiutano il mondo. Se ne sentono prigionieri, legati a forza da catene che si trascinano dietro. Sono persone come me e come te. Queste persone sono studiosi dell'occulto, che riescono a vedere oltre – entrano loro malgrado a contatto con Esseri che vivono al limitare della razionalità e della sensibilità. Fenomeni invisibili… ma non agli occhi di chi crede.”

Scuoto la testa, come se quell'improvvisa cascata di informazioni mi stesse per annegare. Quello che sta dicendo sfugge alla logica, al buon senso. Eppure, suona tutto come tremendamente vero. Ed è così vero perché io stesso sono entrato in contatto con questo mondo aderente al nostro, la doppia facciata della nostra esistenza.

“Quindi vuol dire che anche Ayane può vedere questi Esseri? Anche lei si sente isolata da questo mondo?”

Conosco la verità. Ormai l'ho capita. Il mio subconscio ne è consapevole, io ne sono consapevole. Sento la bile, il sapore amaro ancora nella bocca, la gola che arde. Il dolore del petto che si contrae, che fa fatica perfino ad alzarsi ed abbassarsi, come se non ci fosse aria, come se respirare non bastasse. Come se stessi annegando in una marea scura che mi stia risucchiando. La marea della verità innegabile, che non mi lascia andare, sulla quale rimango a pelo d'acqua solo perché non voglio ammetterlo.

Non voglio ammettere che Ayane possa essere così. Non voglio pensare che Ayane sia qualcosa di diverso da me.

Non riuscirei a sopportarlo. Significherebbe distruggere tutto.

Mi spezzerei insieme alla sua immagine.

“Non fare domande di cui conosci già la risposta. Lo hai capito, vero? Te lo leggo in faccia. Quella bestia… quel mostro non è un essere umano. L'hai vista tu stesso ma hai preferito chiudere gli occhi. Hai preferito credere che, in fondo, ci sia umanità in lei. Ti stai solo convincendo che non sia così.”

Il dolore alla spalla aumenta esponenzialmente, come se il veleno circolasse al suo interno, come se la carne viva stesse bruciando. Digrigno i denti, le dita che toccano appena la camicia, la macchia rossastra ormai secca che mi sono sforzato di ignorare, che ho continuato a sminuire, come se fosse solo un graffio.

I miei occhi sono sbarrati ed ogni respiro è un peso in più sulle spalle, un nuovo tremolio alle gambe che minacciando di spezzarsi.

“So che ne sei consapevole. Sai che non c'è umanità in lei. È un mostro. Un mostro pericoloso, che preda ed assale gli umani per continuare a vivere. È una creatura immonda che uccide senza pensarci due volte. L'hai vista. Sai benissimo di cosa si tratta. È un essere dei peggiori, maledetto dalla nascita – compare in diversi libri, con nomi diversi...” la sua mano raggiunge il libro, inizia a sfogliarlo febbrilmente, rivelando, una dopo l'altra, pagine fitte di caratteri gotici ed illustrazioni grottesche, immagini di esseri abominevoli, mostruosi, deformi o sinistramente attraenti, “Brucolacas, Vrykolakas, Strigoi, Lilith. Un essere umano affetto da una malattia di natura occulta, che consuma i suoi globuli rossi e le sostanze fondamentali al loro interno per rallentarne il processo di invecchiamento. Creature portentose quanto rivoltanti, che si nutrono del sangue che non riescono a produrre.” La sua mano si ferma sul disegno di una aristocratica ricoperta di sangue, circondata da cadaveri anneriti e squarciati, il nome Carmilla vergato con grafia svolazzante, “Un Vampiro.”

“...Come fai a saperlo?” sussurro, barcollando all'indietro, “Come fai a sapere tutto questo?”

Storce la bocca, in un'espressione a metà tra la compassione ed il disgusto malcelato, come se ai suoi occhi non fossi che un folle, un fuori di testa, “L'ho studiata. Ho seguito i suoi movimenti. Il suo modo di fare. Pensi che non abbia notato il sangue, lì dove ti ha morso? Sei un idiota che rischia la sua vita per sostenere quella di un mostro.”

No, non è così. Cosa ne vuole sapere, lui, che la vede solo come una bestia a cui dare la caccia per risentimento e rabbia? Non può sapere qual è la vera Ayane. Non può averla vista appassire e soffrire, nella sua solitudine, nella sua incomunicabilità. Non può comprendere quanto sia avvizzita, rinchiusa tra quelle pareti che si è creata per tenere lontano il mondo, per la paura che ha di se stessa.

Non l'ha vista piangere, quella notte.

Non sa nulla. Lei non è un mostro, è solo la vittima di una malattia che le è crollata addosso. E se io posso trattenerla, se io posso essere il suo freno, forse...

“Ti sei maledetto da solo, concedendoti a lei. Credevi di essere l'eroe della storia, ed invece sei solo l'ennesimo che crede di poter fare la differenza,” continua con voce annoiata, come se questo facesse parte di un copione già visto, già scritto, già letto più e più volte, fino alla nausea, “Io lo so perfettamente. Stai bene ora, ma la malattia farà il suo corso e ti ritroverai avvizzito. A meno che...”

“A meno che tu non intervenga.”

La mia voce trema. È poco più che un sussurro disperato.

A meno che io non mi faccia da parte e la abbandoni.

“Perché, per quanto ti atteggi ad esperto dell'occulto, per quanto tu sia uno studioso, tu non sai niente di lei.”

La voce di chi è con le spalle al muro. La voce di chi ha capito dove la strada di fronte a lui sta andando a finire – in un baratro senza fondo, o nell'apatia distruttiva, nel senso di colpa divorante.

Vedo i suoi denti stringersi rabbiosamente l'uno contro l'altro, posso quasi sentirli graffiarsi in quel movimento meccanico di odio e disgusto, a quelle parole, “Non mi interessa di quello che pensi. Io sto solo svolgendo il mio lavoro. Ma se tu fossi una persona normale, dovresti renderti conto di che essere abominevole hai vicino. Hai visto cos'ha fatto a quella ragazza, hai visto quanti attacchi quest'anno. Tre anni fa non era diverso, le è comparsa davanti, ed io ero lì; tre anni fa avremmo potuto fermarla. Ma non ci siamo riusciti, perché abbiamo esitato. Perché ci siamo lasciati prendere da quello che provavamo per lei. Eravamo degli idioti come te.”

“Tu e chi altro?” La domanda mi sfugge dalle labbra nel momento stesso in cui formulo un pensiero. È come se i tasselli del puzzle si stessero lentamente mettendo al loro posto, uno dopo l'altro, mostrandomi un quadro, una storia lunga, di anni ed anni.

Un quadro dove la persona accanto ad Ayane, da sola in un'accademia dove tutti la ammirano, ma non riescono ad avvicinarla, in cui le loro mani e le loro voci non la raggiungono, è Ethan Ilgard. Ed una terza figura, che assume lentamente, quasi con esitante vergogna, le fattezze di quell'apparizione che sembra fluttuargli attorno.

Tre anni fa, Ayane si è rivelata, la ragazza ed Ethan Ilgard hanno visto tutto. Hanno capito tutto. E poi, qualcosa si è spezzato; quel sottile filo che teneva in equilibrio il rapporto è andato in pezzi, bruciandosi, lasciano tra le loro dita solo i resti sfilacciati.

Qualcuno di loro lo ha reciso – e qualcun altro non lo ha mai perdonato.

L'aria nella stanza è polverosa e riesco a vedere i granelli dorati che fluttuano attraverso gli spiragli di luce grigiastra che penetrano dalle tapparelle malconce, ragnatele d'acciaio divorate dal tempo e dall'incuria. Il suo viso è immobile, come se le mie parole lo avessero improvvisamente congelato, come se lo avessero costretto a guardare qualcosa, in questa stanza, che lo stia assorbendo. Riesco quasi a vedere, nel riflesso dei suoi occhi, la polvere e la nebbia che formano figure di persone, persone vive nei suoi ricordi come se oggi fosse un giorno qualsiasi.

Il lungo silenzio per me, è pieno di rumori per lui.

“Quell'abominio morirà. Con o senza il tuo aiuto.” Il suo tono è netto, gelido, più fermo di quanto non fosse prima. Fermo sulla soglia, con il voluminoso tomo sottobraccio, stringe la maniglia grigiastra per un momento, come se stesse riflettendo su qualcosa, come se ci fossero delle parole che indugino sulle sue labbra, “Tu credi che lei sia l'umana ed io il mostro. La conosco bene quanto te. L'ho vista uccidere la persona che le è stata più vicina e che, come te, credeva disperatamente... e tanto mi basta. Lo capirai anche tu, quando sarà il momento: i mostri sono mostri e noi non possiamo fare nulla per cambiarli.”

Conosco la risposta.

Ma non voglio ammetterlo.

Perché io sono sicuro che ci sia qualcosa di umano, in lei. Ci deve essere una scintilla di umanità, nonostante tutto.

Altrimenti, perché avrebbe eretto quelle pareti, perché avrebbe esitato, perché lasciarmi avvicinare, perché cercare la solitudine, perché incolpare se stessa, perché tentare disperatamente di scavare alla ricerca di qualcosa, di quel qualcosa che la rendesse ancora umana, nonostante tutto. Altrimenti, perché avrebbe pianto disperatamente, sotto quella lunga insensibile?

Altrimenti… perché ho sentito del calore, in lei?

L'accademia mi è sembrata più buia di quando sono entrato, mentre mi lasciavo le sue fondamenta di polvere e ricordi alle spalle. Mentre attraversavo il cancello, con il ferro che mi spingeva, mi sono ritrovato a pensare se, tra quelle ombre, non ce ne fosse una insieme a noi, un'ombra proiettata da un ricordo, per lui, da una persona, per me.

Il passato di Ayane è un buco nero di cui non riesco a vedere se non qualche pezzo sul fondo, frammenti fatti di voci, volantini, racconti pieni di rabbia, di amarezza, di odio, di rimpianto, sguardi vacui ed un infinito silenzio. Ho creduto di conoscerla, per tutto questo tempo, ho creduto di poterle stare accanto e di poterle dare quel supporto che nessuno era mai riuscito a donarle. Quel simbolo rosso è ancora lì, che palpita al centro della tela, al centro del buco nero.

E solo ora capisco che non è un segno, ma uno squarcio, lo squarcio di una ferita ed il rosso della perdita – una storia impossibile da raccontare, rinchiusa in una pennellata abbandonata nella disperazione.

Perfettamente, assolutamente da lei: di fronte a tutti, ma impossibile da leggere. Nemmeno da me.

Mi sono chiesto a lungo, mentre camminavo per le strade della città illuminate dalla luce del primo mattino, cosa ci renda umani. Disperatamente, mi sono chiesto come un folle, vagando di vicolo in stradina, di semaforo in pensilina, cosa ci possa definire umani.

L'unica cosa alla quale sono riuscito a pensare, è il suo passato, il suo trasferimento di tre anni fa e queste persone che, standole attorno, l'hanno vista per quel che è davvero. Una persona che le ha creduto fino in fondo, che l'ha difesa, si è fatta il suo scudo, è finita divorata di fronte agli occhi di Ethan inerme.

Per questo odia gli Esseri, per questo odia i mostri. Li ha maledetti, uno ad uno. Mi chiedo se, in fondo, non si dia la colpa di quello che ha fatto. Se non si senta schiacciato dall'idea di essere stato lui ad aver spezzato il filo, per essersi lasciato frenare, per non aver voluto agire.

Per questo ha tentato di avvertirmi, fino all'ultimo? Perché rivedere in me se stesso, con tutti i suoi errori, lo ha fatto di nuovo morire dentro, giorno dopo giorno?

Nessun edificio a cui ho posto silenziosamente la domanda ha risposto, nessun albero, nessuna nuvola. Nemmeno il cielo che da bluastro è divenuto grigio, senza lasciare un solo squarcio di aria mattutina, riempiendo ogni mio respiro dell'umidità uggiosa prima dei temporali.

Seduto su una panchina di gelido acciaio, scrostata, con pezzi di scuro verde sbiadito che si staccano a rivelare la ruggine al di sotto, mi ritrovo a guardare le persone che passano di fronte ai miei occhi, una dopo l'altra, cercando qualcosa, qualsiasi cosa possa accomunarle, quel dettaglio che possa definirle umane.

Tuttavia, non riesco a vedere nulla, di loro, se non le forme, i contorni dei loro grigi corpi, asettici e senza viso, senza lineamento. Ogni cosa è senza colore, come è stato fin dall'inizio, fin dal primo giorno.

Una goccia di pioggia gelida mi scivola sulla guancia. Alzo appena lo sguardo, mentre una seconda precipita sui miei pantaloni, allungando un alone scuro su di essi; prima che me ne renda conto, mi ritrovo a sentire ogni singola sferzata sul mio corpo, scivolarmi tra i capelli, nei vestiti, come se volesse arrivarmi alle ossa. Le persone iniziano a diradare, a sparire una ad una.

Cosa ci rende umani?

È una domanda a cui una persona come me non può dare risposta. Conosco a malapena me stesso, perché ogni cosa mi appare troppo distante e troppo attutita. Dev'essere per questo che sono attratto da lei come una falena dalla fiamma – perché non c'è mai stato, accanto a me, nulla di più vivo, nulla di più colorato.

Nulla di più bello, tragicamente disperato, come se in lei il mondo avesse vomitato i suoi paradossi.

Ed ora, ne ho una paura folle. Il dolore alla spalla non fa che aumentare, ha iniziato a formicolare, ad allungarsi fino all'avambraccio, alla base del collo e non posso fare a meno di pensare a quanto possa peggiorare, quanto possa diffondersi e a quello che mi succederà dopo. Lei mi ha morso, quando le ho chiesto di farlo; lei ha affondato i suoi denti nella mia carne, piangendo disperatamente, quando le ho stretto le braccia attorno alle spalle esili. Temevo che svanisse dalla mia presa, che il suo corpo bianco e cadaverico potesse disfarsi, tornare ad essere un sogno o un'allucinazione.

In quel momento, quando le ho preso gentilmente la nuca e l'ho spinta contro la mia pelle, per farle affondare i denti più a fondo, riluttante e singhiozzante, credo di aver davvero realizzato che in lei ci fosse qualcosa di più dell'essere mostruoso.

Forse sono state le sue parole. Forse è stata la sua ammissione di colpa o forse è stata la sua bugia.

Nonostante tutto, sono così fragile. È passato tanto tempo dall'ultima volta che ho pianto.”

Non le ho detto che sapevo perfettamente che si trattava di una bugia.

Mi alzo in piedi, la pioggia che mi scivola addosso, mi inzuppa, mi penetra nella carne, nelle ossa, e attraverso la strada, sparendo tra due case anonime.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII—“Remember the me, the way I used to be.” ***


VII

—“Remember the me, the way I used to be.”

 

“Credevo fossi scappato. Mi sono svegliata ed eri sparito. Non ti avrei biasimato.”

Le parole che mi accolgono, non appena spingo lentamente la porta sui suoi cardini che scorrono lisci senza nemmeno uno scricchiolio.

Più che parole, sono un sussurro malinconico, quasi amarognolo, che scivola dalle sue labbra socchiuse come un respiro trattenuto a lungo.

Le esili ginocchia tirate al petto, la testa leggermente piegata in avanti, come se fino ad un attimo fa avesse poggiato la fronte su di esse, il suo intero corpo sembra perdere una sorta di rigidità che intravedo sotto la leggera vestaglia bianca, immacolata. Se non per il sangue sulla spallina, due o tre gocce cadute in un perfetto triangolo, quasi come se fosse un disegno studiato ad arte. Un disegno del mio sangue, colato dalla sua bocca, dai suoi denti che hanno scavato nella carne quasi disperatamente.

Nei suoi occhi, appena nascosti dai capelli, in mezzo a quella nebbia vorticosa ed indecifrabile, riesco a leggere una sorta di vago sollievo; come se per tutto questo tempo, non avesse fatto altro che starsene rannicchiata sul divano, in attesa. Riesco a vedere quella vaga, caratteristica patina umida, che sono riuscito ad osservare solo due volte, ieri notte, nel parco gelido, quando l'ho incontrata; e nel suo letto, quando le ho sussurrato che poteva farlo. Che non c'era altro modo, dopotutto.

Credeva sarei scappato, come è già successo. Credeva che sarei fuggito, vedendola come una creatura orrenda, una bestia assassina. Lei stessa è più che consapevole della sua natura, della sua singolare maledizione che la tormenta, che la riduce ad un fantasma pallido destinato alla solitudine e al senso di colpa; sa di apparire come un mostro, agli occhi degli altri.

Il rumore dell'orologio che ticchetta ritmicamente è assordante, tanto da poterlo sentire rimbombare nelle ossa, rimbalzare nella mia testa offuscando i miei pensieri, fili annodati e contorti che non hanno un capo, né una fine. Solo una serie di sconclusionate immagini dai colori indecifrabili, dove le parole non sono altro che statiche violente.

Più la guardo, più osservo la pallida, debole figura, schiacciata, devastata dal suo peso invisibile, più sento una sensazione pungente che si diffonde nello stomaco, come se le viscere volessero annodarsi; più catturo i dettagli del suo corpo stravolto, dei suoi lividi, del suo viso provato, dei suoi occhi cerchiati, del loro riflesso lucido, della loro amarezza e disperazione, abbandono e soffocamento, più il ronzio nella mia testa aumenta. Più parole, frammenti di discorsi, si accavallano l'uno sopra all'altro, emergendo dal rumore bianco che mi divora e mi impedisce di ragionare. Di capire cosa pensi di lei.

Perché più la guardo, più in lei vedo una vittima di se stessa… ed una vaga ombra che le torreggia sopra, come se ne deformasse i lineamenti, dettagli mostruosi che prima non ero riuscito a percepire. I canini affilati, la pelle tanto bianca da sfiorare il cadaverico, il corpo che sembra sempre più fragile. Come se stesse lentamente avvizzendo.

La luce grigiastra fatica a filtrare attraverso le finestre, riesco ad intravedere le gocce di pioggia che, scivolando tra le persiane, battono ritmicamente contro i vetri delle finestre, inumidendoli con piccoli, desolati rivoli, una vaga orchestra di sottofondo che riempie il silenzio tra di noi, il silenzio vibrante di chi vorrebbe parlare, ma non riesce a dire nulla.

Come se il silenzio rimandasse l'inevitabile, come se inconsciamente ognuno frenasse le parole in gola, soffocandole sulla lingua, cercando di non aprire la bocca per respirare, per timore che possano sfuggire e distruggere la sospensione irreale in cui siamo immersi fino al collo, sperando, magari, che arrivi fino al mento, alla bocca, congelandola, alla testa, al cervello, spegnendolo, bloccando il flusso di pensieri fuori controllo.

Entrambi sappiamo che il filo sta per spezzarsi. Ed una parte di me non riesce a tollerarlo, vorrebbe poter rimanere disperatamente aggrappata a questo sottile nastro rosso che ha annodato le nostre esistenze fino ad oggi, come se un beffardo gioco del destino, o una realtà folle avesse deciso di stringerlo per spingerci fino a questo punto.

Ne eravamo entrambi consapevoli, lo siamo stati fin da quando mi sono avvicinato esitante, fin da quando mi ha lasciato avvicinare esitante, che entrambi danneggiati come eravamo, come siamo, non avremmo potuto fare altro che cercarci fatalmente a vicenda. Perfino in questo momento, perfino fino all'estremo limite della nostra coscienza.

...perché abbiamo esitato. Perché ci siamo lasciati prendere da quello che provavamo per lei.

Parole, frasi, che sembrano ripetute da un vecchio grammofono rotto, che sputi fuori echi attraverso le statiche assordanti dei miei pensieri, attraverso il respirare faticoso del mio petto, attraverso lo sfuggire dei miei occhi, dei suoi occhi, l'uno dall'altro. Perché toccarli, sfiorarli, vorrebbe dire rompere questo attimo di finzione che ci concediamo. Forse l'ultimo della nostra lunga, contorta relazione.

Ancora un po', solo per un po', ti prego, voglio fare finta che tutto questo non sia accaduto. Voglio credere che lei sia la Ayane indecifrabile e tormentata, ed io nulla più che una figura vuota che viveva alla sua ombra, solo per riempirsi di lei, del suo colore, dei suoi dettagli, unici in un mondo insapore e spento.

Per questo, quando sento la sua testa poggiarsi sulla mia spalla, quando sento le sue dita cercare vagamente le mie, sfiorandole appena per poi ritrarle, quando sento il gelo dei suoi polpastrelli, come se in lei mancasse il sangue, l'unica cosa che mi viene in mente, l'unica cosa che riesco a pensare è che ci sia qualcosa di estremamente sbagliato, in noi. Ma che proprio questo qualcosa ci ha spinti l'uno verso l'altra. Ed è questa screpolatura della nostra esistenza che ci ha portati fino a qui. Per questo, mi ritrovo a pensare, vorrei che fossimo senza tempo, congelati in questo istante, come se nulla fosse mai accaduto.

Sento la sua mano carezzarmi leggermente il braccio, ed un fremito incontrollabile passa lungo la spina dorsale, irradiandosi dalle sue dita che sfiorano la carne attraverso i vestiti, un riflesso che non riesco a nascondere nella mia espressione, perché scivola fino al suo viso, accartocciandolo leggermente, come se minacciasse di spaccarsi per il tempo di un battito di ciglia, prima che torni a nasconderlo da me, voltandosi, offrendomi soltanto i suoi capelli arruffati ed in disordine, i capelli di chi si è alzato dal letto e si è trascinato fino al divano, in attesa.

Non possiamo girarci attorno per sempre. Non possiamo rimanere sospesi qui. Lo sento attraverso il suo corpo, che cerca di non muoversi, ma che lentamente sembra come attraversato da un brivido inesorabile.

La domanda che fuoriesce, fievole, dalla sua bocca, che tocca appena le mie orecchie, “Dove sei stato?”

Mi mordo il labbro inferiore, la testa abbassata, gli occhi che osservano le mani immobili, poggiate sulle ginocchia, quasi come se sfuggendo i suoi occhi, potessi evitare di rispondere e allungare, ancora per un attimo, anche solo per lo spazio di un respiro, l'inevitabile. Allontanare ancora il dubbio e fare finta che tutto sia normale, che in me non si agiti quel dilemma, quella domanda divorante a cui non riesco a trovare risposta. Stringo i pugni, intravedo le nocche sbiancare attraverso il mio sguardo perso, ricoperto da una patina irreale che sfoca ogni dettaglio.

Ayane rimane in silenzio, senza ripetere la domanda, senza pressare per una risposta, in attesa che io prenda il respiro, collezionando, uno ad uno, fotogrammi sconclusionati e voci meccaniche per renderle immagini, ricordi, condensarli fino alla bocca ed aprire le labbra.

La mia stessa voce suona alle mie orecchie come una scarica, un'interferenza, nulla più che un bisbiglio di rumore bianco incapace di trasformarsi in parole.

“Nella tua vecchia scuola.”

“...Hai incontrato Ethan.” Non è una domanda. Lo ha sempre saputo, è sempre stata consapevole dello squarcio che si è lasciata alle spalle, perché è lo stesso che porta su di sé. Uno squarcio rosso cremisi, come quello tracciato sulla tela, in un solo movimento. “Ti ha parlato di quel che è successo?”

Dev'essere stato in quel momento che lo ha realizzato del tutto, che è riuscita come ad arrivare a patti con se stessa e con il senso di colpa. Quando ha avuto il coraggio di tracciare la sua stessa ferita e di mostrarla a qualcuno, come in un disperato atto di redenzione, alla ricerca di qualcuno che potesse comprenderne la profondità.

“Sono passati due anni. Mi sembra un'eternità o un battito di ciglia. A volte mi sembra di essere ancora lì. Mi sveglio la mattina e mi chiedo se fuori non ci saranno Ethan ed Ether ad aspettarmi, mi chiedo cosa diranno, di cosa rideranno; mi chiedo quante volte Ether mi rimprovererà per essere in ritardo, o quando Ethan mi darà un libro da leggere.” La sua voce trema leggermente, come se fosse uno specchio che si ricopra di sottili, invisibili crepe, ogni parola uno scricchiolio, ogni sospiro un frammento, “E poi la realtà mi cade addosso. Insieme ai sensi di colpa. Insieme al peso sul petto. Insieme alla sensazione di disgusto. Alla paura di guardarmi allo specchio. Al terrore di sentirmi tanto debole da dover…” Una pausa, come se esitasse, come se non riuscisse a strappare le parole dalla bocca, come se stesse per spaccarsi completamente, per andare in pezzi, in una nube di frammenti trasparenti tra le mie braccia, “...mangiare ancora.”

Vorrei poter allungare la mano per sfiorarla, ma qualcosa mi trattiene. Una parte di me ha il terrore assoluto che, se la sfiorassi, potrebbe rompersi e sparire, lasciandomi da solo, in questa casa vuota. Un'altra parte, invece, ha paura, un sottile, gelido terrore di fronte a lei, che cozza rabbiosamente con la sensazione di pietà, la volontà di avvicinarmi, di sfiorarla.

Non riesco a parlare, perché la bolla in cui siamo rinchiusi è fragile, tanto sottile da reggersi solo sul mio silenzio che la conforta e sulle parole che escono come rivoli da un rubinetto gocciolante, che sia rimasto serrato per tanto tempo. Ma che ora, dopo anni, si sblocchi ed inizi timidamente a singhiozzare e lasciare gocciolare acqua nerastra, intrisa di disperazione e colpa.

“Due anni fa ero sola, all'Accademia. Come ora, tutti mi giravano attorno, senza avvicinarsi, come se temessero, come se sapessero. Mi guardavo attorno, mi sentivo un'estranea, un mostro nascosto dentro alla pelle di un umano. Ether fu la prima ad avvicinarsi, tirandosi Ethan dietro; erano amici da tempo e lui la seguiva perché forse lei era l'unica persona che riuscisse a comprenderlo, almeno un po'.

Sai come ci si sente, quando qualcuno riesce a tenderti una mano. Quando, improvvisamente, non sei così abbandonato come credi, quanto il mondo che ti sembrava ostile e mostruoso ti rivela, per un attimo, uno spiraglio. Loro due erano le uniche persone che avessi al mondo, capisci? Una come me, un mostro maledetto dal suo stesso sangue, era felice. Non mi sentivo in diritto di esserlo. Mi sentivo sempre più disperata, nei giorni in cui la fame e la debolezza mi costringevano a nutrirmi.

Il senso di colpa mi distruggeva. Ogni volta, mi sembrava di tradire la fiducia che mi era stata tesa. Mi sembrava di bruciare e consumare il filo che ci legava. Mi sentivo sporca ed indegna, mi sentivo morire ogni volta che Ether mi abbracciava, ogni volta che Ethan esitava nel parlarmi. Mi sentivo morire quando rimanevo sola con lui e il mio cuore accelerava leggermente. Provavo disgusto per me stessa quando osservavo i loro colli, le loro vene, e immaginavo solo il sangue che pompava dolcemente al loro interno.

Per questo, ho iniziato a trattenermi. Ho provato a non mangiare, a tentare di trovare delle vie di fuga, di soffocare il bisogno con altri vizi. Ma quando il tuo sangue è anomalo, niente può infettarlo e la tua mente non sembra voler dimenticare il bisogno. L'alcool mi disgustava, mi sembrava di ingollare veleno dal sapore ributtante, ma finivo bottiglie su bottiglie pregando che arrivasse l'ubriacatura, la sbronza, il coma etilico.

Ether mi vedeva sempre più debole, macilenta, come se stessi appassendo, come se stessi lentamente morendo. Un giorno, dopo due mesi di astinenza, Ethan mi prese da parte e mi chiese cosa non andasse, se si trattava dell'alcool; io riuscii solo a negare, debolmente. Lui insisteva. Mi aveva stretto per le spalle. Il suo sguardo mi uccideva ogni volta, ogni volta, ogni volta. Era come il tuo.

Disperatamente fiducioso, assolutamente preoccupato.

Forse è stato in quel momento che qualcosa in me si è spezzato. Deve essere stato in quell'istante, che ho realizzato di non avere speranza. Di non poter fare nulla per combattere la mia natura. Ho capito di essere un mostro. Un mostro che non può guarire da se stesso. Non riuscivo a sopportare i loro sguardi, le loro occhiate, le loro attenzioni; per quanto volessi, per quanto lo desiderassi, mi sentivo incapace di accettarle. Mi sentivo indegna, sporca, distorta. Ogni giorno mi chiedevo per quanto avrei potuto resistere, quando sarei crollata.

La risposta arrivò quella notte, quando scappai dalla presa di Ethan e corsi via nella notte, piangendo disperatamente sotto la pensilina di un autobus. La sua uniforme era della mia stessa Accademia. Non la conoscevo, non la odiavo, non aveva fatto nulla per provocarmi; si era solo avvicinata, poggiandomi una mano sulla spalla, chiedendomi se andasse tutto bene.

Non la vidi nemmeno in faccia, perché stavo piangendo troppo forte, e continuai a singhiozzare perfino quando la sbattei a terra, affondando i canini nella giugulare, succhiando disperatamente tutto il sangue che riuscì ad ingollare.

Trascinai il suo corpo in un vicolo e scappai, corsi fino a casa, barcollai dentro senza nemmeno rendermi conto di quello che mi accadeva intorno.

Tentai il suicidio, quella notte. Bevvi bottiglie su bottiglie, ingollando pasticche e pasticche di medicinali sparsi per la casa, senza la forza di urlare o di lamentarmi, semplicemente asciugandomi le lacrime silenziose che continuavano ad appannarmi la vista. Mi trovai distesa sul pavimento, debole ed incapace di alzarmi, con del vomito nerastro e macchiato di sangue rappreso.

Da quel giorno, tornai a nutrirmi regolarmente. Come è accaduto anche quest'anno, iniziarono a notare le aggressioni, le sparizioni ed Ether si preoccupava fin troppo per me, che passavo proprio nel luogo dove le persone venivano assalite più frequentemente.

Per un periodo, mi sembrò che tutto potesse andare per il verso giusto. Ebbi l'illusione che, nonostante tutto, il legame tra di noi sarebbe potuto rimanere per sempre. Ed è lì che ho sbagliato, lì ho commesso l'errore peggiore: mi sono illusa di poter essere felice.”

L'orologio si è fermato, la pioggia ha smesso di battere violentemente contro il vetro; il tempo si è immobilizzato, lasciando che la storia di Ayane si dipani e si condensi. Riesco a vedere, ora, quello che Ethan intravedeva nella scuola. Riesco a vedere le persone nei corridoio, marionette e fantocci senza volto e senza fili; ma sopratutto, riesco a vedere loro tre, poggiati contro una finestra, seduti attorno allo stesso banco, abbandonati sui gradini dell'ingresso con la pioggia che colpisce l'asfalto del cortile, come se fossi lì, con loro, nei resti distrutti dell'Accademia improvvisamente abitata da immagini scolorite.

“Avevano capito che qualcosa non andava. Non immaginavano che io fossi un mostro, ma c'erano i segni, evidenti, che ci fosse qualcosa che mi tormentava, che avessi un peso inspiegabile sulle spalle. Forse era la mia costante solitudine o i periodi in cui apparivo più debole; forse era la difficoltà con cui comunicavo, quanto poco comunicassi a parole.

Lo fecero solo perché ci tenevano a me molto più di quanto mi meritassi. Forse credevano fossi caduta nell'alcolismo. Lo avrei preferito, sarebbe stata una verità facile da accettare, da spiegare. Mi seguirono, una sera di febbraio, mentre tornavo a casa, scivolando in un vicolo secondario. Di solito, una studentessa di un anno più grande tagliava per quel vicolo, risparmiando qualche minuto di camminata. L'avevo osservata per giorni.

Ogni volta che arrivava il momento, una nausea violenta si impadroniva di me. Un disgusto per quello che stava per accadere, una divorante, rabbiosa sensazione di repulsione—eppure, allo stesso tempo, non potevo fare a meno di sentire l'adrenalina, l'anticipazione, pregustare vagamente il momento; ed era questa la cosa che più mi disturbava e mi distruggeva lentamente, pezzo per pezzo, la testimonianza che, in fondo, ero pur sempre la creatura ripugnante che nessuno vedeva.

Sono consapevole del fatto che avrebbero potuto abbandonarmi, addirittura uccidermi, se solo lo avessero voluto. Non avrei protestato, avrei capito perfettamente. Nessuno dovrebbe vivere accanto ad un mostro pericoloso come me… Eppure, hanno deciso di rimanermi accanto.

Non capivo perché lo stessero facendo. Non mi sentivo sollevata, non credetti ingenuamente che le cose sarebbero andate per il verso giusto; avevo solo un'assoluta paura del mostro che ero e che non riuscivo a contenere del tutto. Lentamente, i miei bisogni si fecero più impellenti, più urgenti. Iniziavo ad avere paura per loro. Ho perso il conto delle volte in cui sono tornata a casa in preda allo choc, il viso imbrattato di sangue, le mani sporche di liquido rossastro gocciolante, ancora tiepido.

C'erano delle notti in cui, troppo sconvolta, mi trascinavo fino a casa di Ethan per piangere disperatamente fino ad addormentarmi sul suo letto, chiedendomi perché fosse ancora lì. Lo sentivo, nell'altra stanza, che aspettava mi addormentassi e non potevo fare a meno di pensare cosa passasse, in quei momenti, nella sua testa.

Forse, in qualche modo, ne ero consapevole; ed è proprio per questo che correvo da lui e non da Ether. Perché sapevo che lui avrebbe perdonato ogni cosa, mi avrebbe sempre accolto, qualunque cosa avessi fatto; e nonostante ciò mi desse una piacevole sensazione di tepore, mi spaventava terribilmente al tempo stesso, mi impediva di guardarlo in faccia, di specchiarmi nei suoi occhi come avrei voluto.

In quei giorni, la corda era già tirata, sul punto di spezzarsi.

Fui io stessa a reciderla.

—Aidan.

Ho ucciso Ether. Ho ucciso la prima persona che si è avvicinata a me. L'ho uccisa e poi l'ho abbracciata, mentre si spegneva. L'ho uccisa, l'ho abbracciata, ho sentito il sangue colare sui vestiti, sulla pelle, sul viso, mischiarsi alle mie lacrime. L'ho uccisa perché era nel posto sbagliato, al momento sbagliato. Perché era buio, perché non sapevo fosse lei.

No, queste sono solo bugie che mi ripeto prima di dormire.

L'ho uccisa perché sono un mostro, Aidan.

Sono un mostro senza speranza che si merita la solitudine.”

Si volta verso di me, mostrandomi il suo viso distrutto e spaccato, ricoperto da crepe di lacrime e disperazione che colano lungo le guance, lacrime incolori, chiare come le sue parole, le sue scuse, pronunciate con una voce che non ha nemmeno una traccia del tremore.

Chiede scusa ad Ether, per averla uccisa.

Chiede scusa ad Ethan, per averlo distrutto.

Chiede scusa a me, per non essere riuscita a tenermi lontano. Per aver ripetuto gli errori del passato.

Vorrei riuscire a dire qualcosa, poterle stringere le spalle e lasciare che le sue lacrime inzuppino la mia spalla, soffocare i suoi singhiozzi fino a farli spegnere debolmente; eppure, mi sembra di non riuscire a muovermi, come se il mio corpo istintivamente rimanesse inchiodato al suo posto, un leggero brivido che si allunga sulla schiena, viticci gelidi che sfiorano la mia pelle, screpolandola appena di una vaga sensazione di paura. Un timore nero e tagliente, che germoglia nel mio petto come un rampicante, una grondante edera soffocante, stringendo i polmoni, la trachea, il mio cuore che sembra rallentare il suo battito. Eppure, in fondo a questa gramigna nerastra e piena di spine, riesco a sentire ancora quella vaga attrazione, quel magnetismo innato mi fa allungare lentamente la mano, le dita tremanti, quasi non fossero le mie, che formicolano leggermente mentre mi avvicino alla sua pelle bianca, innaturalmente bianca, terribilmente anemica. Terribilmente bisognosa di sostegno.

Quella stessa sensazione di ieri sera, la stessa che mi si attorciglia nelle viscere, è come un sottile sospiro nel retro della mia coscienza, un sussurro che mi sfiora leggermente le orecchie, quando la vedo ridotta in pezzi, lacerata e raggomitolata su se stessa, divorata dai suoi fantasmi, dai suoi sensi di colpa che non potrà mai lavare via. Riesco quasi a vederli, come se fossero tanti, lunghi graffi rossastri, che la attraversavo da cima a fondo, purulenti, che si attorcigliano e si scuotono seguendo il ritmo del suo affannoso respiro. Come tanti viticci di rose che sbocciano conficcando le spine nella carne, creano una rete, un rosario intrecciato orrido e pulsante che rappresenta ogni singolo peccato, ogni colpa, ogni stilla di sangue che ha bevuto.

Porta su di sé il peso divorante e la consapevolezza che non c'è modo per sfuggire, per sottrarsi a questa natura divorante che è parte di lei. Si può voltare le spalle a tante cose, ci si può lasciare indietro il passato, tentare di rimediare ai propri errori, infliggersi punizioni e sentirsi morire dentro ogni giorno, mentre ci si guarda nello specchio per vedere solo un'immagine distorta ed insopportabile; ma non ci si può strappare di dosso se stessi.

—Cosa ci rende umani? Qual è quel dettaglio, quell'infimo frammento di noi stessi che ci permette di stringere i denti e convincerci di essere come gli altri? La carne, il cuore che batte ritmicamente, il sangue nelle nostre vene, le emozioni che scaturiscono tra neuroni, il respiro affannoso dei petti, la paura inspiegabile e divorante di noi stessi, gli occhi vitrei o tremolanti, l'insopportabile sensazione della coscienza che si contorce, i polpastrelli che sfiorano esitanti, la consapevolezza dei nostri errori…

La risposta è semplice ma desolante. La risposta fuoriesce dalle mie labbra secche e screpolate, come se strisciasse a fatica attraverso la gola e le corde vocali non riuscissero a tirarla fuori del tutto, una risposta di rassegnazione assoluta, una ammissione di piccolezza – “Non lo so.”

Alza appena lo sguardo, gli occhi ancora umidi, dove ombre liquide si addensano e accumulano, di un profondo inchiostro come la sua pupilla che si riflette nelle gocce trasparenti. Uno sguardo confuso, in cui riesco a vedere riflessa la mia immagine. Forse è così che mi vede, è in questo modo che mi osserva sempre? Sono davvero così patetico, poco più che un relitto di un essere umano?

La figura riflessa in quegli occhi non è altro che un ragazzo impotente, dal viso scavato e pallido, gli occhi cerchiati che non riescono a stare fermi, che continuano a muoversi impercettibilmente, le labbra strette rabbiosamente, le spalle abbassate e rigide, come se fossero congelate insieme al suo corpo immobile, incapace anche solo di sfiorarla.

“Non so cosa ci rende umani. So solo che mi sento terrorizzato. Eppure, nonostante tutto...” le parole mi si strozzano in gola. Come sempre, sono desolante, incapace di riuscire a toccarla. Incapace di farle capire questo groviglio divorante di terrore ed attrazione ed incredulità, di pensieri corrosivi, che mi consumano di volta in volta, di immagini orrende e malinconiche. Una ad una, messe insieme, come tanti frammenti di specchi che riflettano un'immagine diversa, possono ricomporre l'Ayane che è davanti a me.

L'Ayane davanti a me è la stessa che è sempre stata sola. La stessa che cercava di tenere lontano chiunque, ma che attirava fatalmente gli altri. La stessa che, malgrado tutto, malgrado le promesse fatte a se stessa, voleva soltanto che qualcuno la capisse e le stesse accanto – nella speranza di sentirsi più umana di quanto non si vedesse. La stessa che piange quando si macchia di sangue, che rimane sola in un parco in silenzio per tentare di rivedere vecchi fantasmi del passato. La stessa Ayane che, dentro di sé, ha un vuoto che la inghiotte, un vuoto assolutamente incolore in cui risalta solo un unico, squarcio rosso.

La stessa Ayane che riesco a vedere tinta di colori perfino quando tutto il resto scompare nella nebbia e nel grigiore, che dà colore a quello che la circonda.

Si avvicina di nuovo a me esitante, come se temesse di essere respinta, come se non toccasse più qualcuno, in questo modo così impacciato, da tempo. La pelle del suo braccio è gelida, come ieri notte, e quando le sue dita scivolano sul mio viso, cercandone i lineamenti alla cieca, ho un leggero, impercettibile sussulto. Sotto la mia maglietta, brividi di freddo mi percorrono irradiandosi dai suoi polpastrelli. Mi accarezza il collo e la schiena, seguendo la colonna vertebrale centimetro per centimetro, come se stesse cercando di passare su ogni brandello della mia carne.

Il suo tocco arriva al morso, al segno sulla spalla, ne percorre il bordo con studiata lentezza, quasi a volerne imparare alla perfezione la forma, volerla imprimere nella sua mente. Una grandezza pari a quella dei suoi canini, dei suoi denti perfettamente bianchi, che ho visto solo digrignarsi.

“...nonostante tutto, non riesco a non pensare che tu non sia un mostro. Volevi solo essere umana. Volevi sentirti meno sola.”

“Non sai quanto a lungo ho desiderato essere come gli altri. Perciò, ho commesso un errore, ed ho finito per sporcarmi di quel rosso che mi attraversa da parte a parte.” La sua mano scivola lungo il mio avambraccio, seguendone la linea, fino a sfiorare il polso, soffermandosi sulle vene, sulle diramazioni, per sentire il sangue che scorre. “Non mi sono mai perdonata quello che ho fatto. Non potrò mai farlo. Ho ucciso chi aveva creduto in me. Quel giorno, credevo di aver pianto tutte le mie lacrime; è stato il momento in cui ho realizzato brutalmente che, per quanto lo desiderassi, avrei procurato solo sofferenza a chi mi sarebbe stato attorno.” I polpastrelli solleticano il palmo della mia mano, muovendosi lentamente in una spirale pensierosa, fino a che le nostre dita non si sfiorano, come tante schegge di ghiaccio che mi pungano. “Non saresti dovuto starmi vicino. Avrei dovuto allontanarti fin da subito. Il mio problema, Aidan… è che io non ho mai smesso di sperare di poter avere, per qualche momento, la sensazione di essere umana. Perdonami. Sono un'egoista, ora come allora.”

Le nostre dita si allontanano, senza riuscire ad incrociarsi, così come i nostri sguardi. Istintivamente, per quanto provi a cercarla, continua a sfuggirmi, allontanarsi dai miei occhi, senza però staccare il suo fianco dal mio, senza rompere il contatto fisico, quasi come se la cosa la spaventasse. Come se tentasse di imprimerlo in sé, in qualche modo.

“Saresti dovuto essere terrorizzato da me. Sarebbe giusto così. Saresti dovuto scappare. Ed invece, mi hai detto che credevi fossi umana anche io.”

Si alza in piedi, malferma sulle gambe che tremolano leggermente, minacciano di lasciarla crollare, ma combatte contro se stessa, combatte contro il suo corpo esile che sembra volersi spezzare, che si agita appena, quasi come se volesse abbattersi, quasi come se trattenesse all'interno qualcosa. È sempre stata così, d'altronde. Non ha mai lasciato fuoriuscire nulla, non a parole. C'è sempre qualcosa che, per lei, possa sostituire la voce che non riesce a tirare fuori. La sua mascherata, la sua lunga, infinita mascherata non ha mai nascosto del tutto quello che è davvero – perché, come ha detto lei, alla fine era quello il suo desiderio più profondo e corrosivo. Essere capita, avere qualcuno che la facesse sentire ciò che non le era mai stato concesso essere.

“Non riesco a sopportare l'idea di condannare qualcun altro, Aidan. Ho già troppi pesi sulla coscienza per portare anche il tuo… quello dell'unica persona che mi sia rimasta.”

Si deve sforzare per muovere quei pochi passi che la separano dalla porta, prima di fermarsi sull'uscio, esitante, le spalle sottili curvate. Ormai so quanto le costi cercare di resistere all'impulso di fremere o di muoversi di scatto.

Per me, è come se fossimo immersi in acqua, in un'atmosfera sospesa e distorta, tanto surreale da rallentare le nostre azioni, soffocare le nostre parole. L'unico rumore che sento, è quello del battito del mio cuore che si contorce e pompa sangue, sangue che arriva fino al segno lasciatomi dai suoi denti, e ad ogni nuovo rivolo, ad ogni nuova contrazione, corrisponde un dolore sordo ed appena percettibile. Il dolore che lei mi ha inflitto e che ho accettato io stesso, per permetterle di nutrirsi. Per permetterle di vivere.

“Ho vissuto troppo tempo con questo senso di soffocamento, Aidan. Averti vicino mi ha ricordato tutto. Ma, per qualche istante, mi ha fatto credere che ci fosse un po' di speranza, per me.” La sua voce sembra quasi incrinarsi, per un secondo, e la mano raggiunge lentamente il viso, stringendolo con violenza, senza che io possa vederla. La sua voce è soffocata. Ma la sento, rotta. Spezzata. La sento squarciata, come lei. “Non seguirmi, per favore. Non fare nulla per fermarmi. Tutto andrà al suo posto. È la cosa giusta da fare. E nessuno, in fondo, sentirà la mia mancanza.”

Posso solo guardarla, incapace di muovermi. Il respiro congelato.

Posso solo riempirmi di lei per un attimo, incapace di pensare.

Ci sono dei momenti in cui i pensieri sono così ingarbugliati da esser intraducibili. Da poter essere rappresentati solo come un assoluto susseguirsi di statiche senza rumore.

 

 

 

 

E poi, lo scatto della serratura.

“Sai che non è vero.”

 

 

“Se è davvero così, allora ti chiedo solo una cosa. Promettimi che ti ricorderai di me, vivida come ero.

Come sarei voluta essere.”

 

Ayane sparisce così come è arrivata, in un battito di ciglia, riempendo i miei occhi, le mie retine, la mia mente di… qualcosa. Quel qualcosa che non so descrivere. Un qualcosa fatto di colori ed espressioni, talmente vivo da afferrarmi il petto e scuotermi, intorpidito.

Un qualcosa che non riuscirò mai a dimenticare, impresso a fuoco nella mia mente.

Abbiamo entrambi capito, che in fondo, ci cercavamo da tempo.

Alla ricerca di qualcosa di simile, nella speranza non di comprenderci, ma di colmarci, almeno un po'.

Almeno un attimo.

Entrambi danneggiati, ci siamo cercati disperatamente.

La porta si chiude.

Ayane sparisce così come è arrivata.

Una figura più viva di ogni altra.

 

 

Non so cosa ci renda umani. Ma sono convinto, come quella notte… che, in fondo, sia umana anche tu.

 

 

Apro gli occhi stanchi solo per trovarmi immerso nella solita, monotona semioscurità di ogni giorno; quella morbida atmosfera sospesa fatta di buio denso, tagliato appena dalla luce che filtra dalle imposte, solleticandomi le palpebre pesanti e dandomi una gentile, impercettibile scossa.

Il mio corpo ricoperto di un sottile strato di sudore gelido sembra stretto nel sudario di coperte e ci metto più di qualche secondo a realizzare che il respiro affannoso è il mio, che anche questa volta si è trattato di un sogno. È, come capita ogni notte, una di quelle esperienze oniriche tanto vivide da sembrare reali, nelle quali sono immerso fino alla testa, muovendomi tra figure stilizzate che non ho mai incontrato, partecipando a fatti che non ho mai vissuto, espedienti che il mio subconscio ha assemblato con frammenti di vita inconsapevoli, solo per decorazione.

Si tratta di una cornice, come ogni volta, uno sfondo che culmina sempre in lei. Nella sua figura seduta di fronte ad un quadro completamente rosso, sul quale sta apponendo la sua firma.

In questi momenti, sono consapevole che è una vana illusione, qualcosa nel retro della mia coscienza sa che mi trovo in un sogno. Eppure, fatalmente, sento il bisogno di avvicinarmi incredulo. Di toccarla, di sentirla, di parlarle. Solo per vedere tutto puntualmente infrangersi di fronte ai miei occhi. Ad accogliermi, c'è sempre la solita, monotona semioscurità.

Tirarmi a sedere sul bordo del letto, la testa stretta tra le mani sudate, è difficile come sempre. Mi gira sempre un po', quando succede, e ho bisogno di qualche istante per calmarmi, per riprendere il controllo di me stesso. Il respiro si affievolisce fino a tornare regolare, il battito del cuore si allenta e la vista annebbiata finalmente si schiarisce.

Puntualmente, ogni volta, mi trovo ad alzare lo sguardo verso il quadro. Forse l'ho appeso lì perché, inconsciamente, sapevo che lo avrei visto ogni giorno. Forse una parte di me vuole continuare a punirsi per quello che è successo e non riesce a perdonarsi per essere rimasto immobile, per non essere riuscito a trattenerla. Dev'essere per questo che non riesco mai a sfiorarla?

Il motivo per cui non riesco mai a parlarle nemmeno negli incubi orrendi?

La tela è rossa. È come se avesse assorbito un po' di lei, perché il suo colore è vivido come quando la vidi per la prima volta, nell'aula del club di arte. Allora, non era nulla più che un quadro bianco, con un singolo squarcio rosso. Mi sono chiesto quando ha avuto il tempo di cambiarlo. Se forse aveva già deciso tutto prima, quando non mi ha in trovato casa. O se è stata la sua ultima volontà prima di sparire.

Oggi sono quattro mesi e tre giorni dalla sua sparizione. Non posso fare a meno di tenere il conto, anche se ogni volta lo stomaco si torce per un secondo e, istintivamente, sento il bisogno di sfiorare il segno rimasto sulla spalla. Ormai sono poco più che due fori biancastri, l'unica vaga cicatrice rimasta come memento. L'unico segno evidente che abbia lasciato del suo passaggio su di me.

Il sole è ormai alto abbastanza da profilarsi attraverso le serrande e, con l'aumentare della luce qualche raggio sfiora il suo nome elegantemente tracciato in un angolo, mi ritrovo a pensare che queste pennellate cremisi, questa tela completamente, assolutamente rossa, sia l'unico dipinto che non abbia lasciato in bianco.

L'arte è espressione dell'animo umano. È stata lei ad insegnarmelo.

Quattro mesi scorrono lentamente, quando ogni colore si spegne, ma almeno non c'è bisogno di preoccuparsi di nulla, quando niente ha importanza. Basta trascinarsi ed aspettare, arrancando con le proprie catene strette ai polsi, abituarsi al rumore statico violento all'interno della propria testa, che soffoca i pensieri, ogni altro rumore.

È questo quello che mi sono ripetuto per tanto tempo, un giorno dopo l'altro, evitando accuratamente di ascoltare le voci attorno a me. Le voci che inevitabilmente hanno parlato di lei, di come sia sparita, senza lasciare traccia, così all'improvviso. Di come le aggressioni siano terminate di colpo. Chissà, forse hanno parlato anche di me, di come sono sprofondato ancora di più, di come mi sono ritrovato ad annegare senza nemmeno accorgermene, proprio quando mi sembrava di aver intravisto, per un battito di ciglia, la superficie al di là della pozza di inchiostro in cui annaspo.

Gradualmente, le chiacchiere si sono spente. Il tetto è stato chiuso, l'aula del club di arte si è svuotata, sostituita da visi senza lineamenti, fantocci che non riesco a ricordare.

Lei dava colore a quello che le stava attorno. Forse era perché, al contrario, lei si tingeva di colpe e disperazione, che tutto attorno si accendeva, prendeva tinte vaghe, morbide. Quasi ad ammorbidire la sua malinconica esistenza.

Quattro mesi e tre giorni senza colori e senza visi, passai ad osservare il cancello, sperando di riuscire ad intravedere qualcuno, lì fuori, poggiato all'ingresso, con un libro aperto. Quattro mesi e tre giorni in cui mi sono trovato circondato da persone senza volto, tanto vive da sembrare più vuote di quanto non sia io stesso.

Quattro mesi di sogni in cui l'ho vista, ancora ed ancora, un fantasma vivido e pulsante, che mi sfuggiva in ogni luogo, in ogni momento; ho rivissuto, ogni notte, i frammenti della nostra vita fino al suo cupo epilogo. Ed ogni volta, sono stato impotente come sempre, incapace di raggiungerla, fermo su quel divano in cui ero costretto ad osservarla sparire, divorata da quella porta oscura.

Ancora ed ancora, senza mai riuscire ad aprire la bocca. Senza mai riuscire a sfiorarla.

È la mia punizione, mi sono detto. L'ho accettata, come un prezzo per espiare la mia colpa, la mia incapacità di riempire il suo vuoto.

Oggi, tuttavia, è diverso. Guardandomi allo specchio, mi sembra di vedere una chiazza di colore. Mi sembra quasi che il segno biancastro del suo morso sia meno definito, più sbiadito. Come se qualcosa stia sparendo, insieme alla decisione. Come se il peso sulle mie spalle sia più sopportabile, come se riuscissi a respirare.

Oggi l'ho toccata, in sogno. Dopo quattro mesi, sembra che una catena si sia spezzata, liberandomi dalla mia stessa costrizione. Non sono ancora pronto a perdonarmi e forse non lo sarò mai.

Ma se ti ho toccata, forse vuol dire che è arrivato il momento di guardare avanti, non è così?

Forse è arrivato il momento di vivere come avresti voluto.

I miei occhi cadono sul quadro poggiato sul cavalletto, sullo stesso cavalletto dove lo vidi la prima volta. Completamente rosso.

Lo stacco dal cavalletto, poggiandomelo accuratamente sulle spalle, come se non avesse peso, come se potessi solo sentire un calore appena percettibile vibrare dal suo cremisi.

Sì. Completamente rosso.

 

L'ingresso dell'accademia è, anche oggi, deserto, se non per il solito arrancare di studenti che si accalcano come fantasmi verso l'interno, qualche gruppetto si attarda al limitare del cortile, sul cancello, a scambiarsi parole, frasi di cui sento solo un'eco distorta, che faticano ad arrivare attraverso l'aria pesante fino alle mie orecchie quasi sorde, tappate dall'apatia soffocante.

Per molto tempo, quando sono arrivato, mi è sembrato che il mondo andasse avanti, ed io fossi stato incollato a forza sulla sua pellicola. Un elemento estraneo, vuoto.

Per molto tempo, mi sono sentito più vuoto di prima. Ed ora, è come se mancasse un tassello nuovo, allo scoordinato e banale puzzle della mia esistenza ingrigita.

Sono tanti gli sguardi vacui che mi sento addosso, quando entro in classe con grande ritardo, affaticato per aver trasportato un peso per tutte queste rampe di scale. Il mio respiro affannato e le parole di scusa mormorate a mezza bocca non fanno che richiamare come una calamita l'attenzione. Mentre mi siedo al mio posto, lasciandomi praticamente crollare sulla sedia in legno scricchiolante, sembra che l'intera massa di presenti irriconoscibili voltino lo sguardo verso di me.

Tra di loro, sono una figura, solitaria, in disparte, completamente lontana da ogni cosa, non come se nulla la riguardasse, come se fosse finita in questo luogo per colpa di una coincidenza. Come se essere qui non provocasse in lei alcuna reazione. Una figura che prima non aveva colore, al pari degli altri—ma che ora, sembra essersi delineata vagamente, come se riuscissi a distinguerne qualche particolare attraverso un vetro spesso e deforme.

La porta del vecchio club di arte è chiusa. Un foglio di carta è stato affisso senza troppo impegno sulla vecchia targa, a coprire il nome; il cartello posticcio recita, a lettere cubitali, che questa è ora la sede del gruppo di fotografia. Dentro di me, c'è un moto stizzito, lo stesso che avrebbe avuto lei. Non le piaceva la fotografia. Forse perché non le piaceva la realtà nuda e cruda. Forse perché, nelle foto, è sempre stata sola.

Lascio il quadro, dove deve essere. L'ho faticosamente portato fin qui, l'ho appeso sul fondo. Non credo le sarebbe piaciuto esporlo, perché, per lei, questo quadro è tutta se stessa. E nessuno lo avrebbe capito. Ma è qui che deve stare; sono sicuro che questo sia stato il luogo dove, per un po', è stata felice.

Mi fermo sull'uscio, ad osservarlo un'ultima volta. A salutarlo silenziosamente con lo sguardo.

Sì, senza dubbio… quel quadro è lei. È davvero lei.

I corridoi sono vuoti.

Quando mi ritrovo ad uscire dal cancello, attraversando ancora una volta meccanicamente il cortile della scuola, vedo solo macchine sfilare rabbiosamente sull'asfalto, gettandosi all'impazzata nel solito traffico cittadino. Seguo un percorso già collaudato, infilatosi nella mia memoria con la forza, perché è divenuta una mia malsana abitudine.

Mi ripeto che lo faccio solo perché lo voglio. Ma so benissimo che è una bugia. So benissimo che non cammino più a lungo, non compio questa deviazione per arrivare all'ingresso scalcinato ed arrugginito di questa tomba di ferro ed erbacce perché mi va.

Lo faccio perché devo, perché non posso farne a meno. Perché, camminando in questa zona abbandonata, colma di ricordi amari, avvicinandomi all'altalena arrugginita, mi sembra quasi di poterla vedere seduta lì, a dondolarsi pigramente, come quella notte. Anche quella volta mi chiese di non seguirla. Anche quella volta, tentai disperatamente di dirle quello che pensavo, quello che si agitava nella mia coscienza, nella mia mente senza un ordine, senza una consapevolezza.

Anche quella volta, non sono riuscito a farmi sentire abbastanza.

La sensazione appiccicosa e stritolante che mi sale fino al petto si amplia, si diffonde alle gambe e devo fermarmi un secondo, ad osservare il profilo delle solite altalene rugginose e sporche, dalle catene consunte e scricchiolanti, sformate dal tempo e dalla pioggia, da chi come noi continua a visitarle. Le piante invasive si allungano e si impigliano nei miei pantaloni, quando mi fermo sul ciglio dell'acciottolato irregolare, le mani affondante nelle tasche, ad osservare la figura inconfondibile seduta sul seggiolino di destra, immobile, senza nemmeno accennare ad un pigro, stanco movimento.

Non ho un sussulto, il mio cuore non si mette a battere più forte, non digrigno i denti. La mia unica reazione e un profondo respiro. Immagino che, dopo tutto questo tempo passato ad aspettare, dopo tutti i giorni passati a cercare il suo profilo tra la gente, mi sembra solo naturale trovarlo qui, come se stesse aspettando pazientemente.

L'erba produce un morbido fruscio sotto le mie scarpe, quando attraverso quel breve tratto che separa la pozza di terriccio fangoso per la pioggia, per sedermi nell'altalena che avrebbe occupato lei, senza dire una parola. Le catene sferragliano, protestano, abituate ad un peso molto più leggero rispetto al mio, ma è un gemito che si spegne poco dopo, divorato dal profondo, umido silenzio della sera.

Il cielo è coperto e non ci sono stelle, non come quella sera. Riesco a malapena ad intravedere una falce di luna biancastra che si profila, a fatica, in uno squarcio lasciato quasi per caso nella cappa bluastra sopra di noi.

“Ce ne hai messo, di tempo, per deciderti.” La sua voce non tradisce alcuna emozione, né noia o rimprovero né rabbia o rancore. È come se si fosse svuotato, dopo questo tempo, come se avesse trovato la sua catarsi. Perfino il grosso libro, quell'imponente bestiario in caratteri gotici e latino oscuro, ricolmo di aberrazioni, è chiuso sulle sue ginocchia.

Abbasso lo sguardo, per un secondo, su di lui, sul suo viso, alzato verso il cielo quasi a cercare qualcosa, proprio come ho fatto io, prima di rinunciare, deluso. Non c'è più quell'ombra afflitta sotto alle sue palpebre, non c'è più quell'espressione di rabbia, quasi di colpa, che ho visto trasparire dal suo viso quando ha raccontato quella storia, circondato dai ricordi del suo inquieto passato e dall'ombra del suo tormento.

Ethan Braig sembra aver lasciato qualcosa di sé, quella notte. Proprio com'è accaduto a me.

“Ho dovuto riflettere.”

Bugia. È una bugia.

Mi sono dovuto abituare, ho dovuto accettare. Ho dovuto rimettere insieme i miei pezzi.

E poi ho dovuto riflettere.

“Oh, hai pensato a lungo?”

Ci ho pensato a lungo, sì. Ho riflettuto su quello che è successo. Su cosa voglia dire essere umani e sul mondo che non riusciamo a vedere, sui mostri crudeli e sugli spiriti gentili che lo abitano. Ho pensato a lei, che non è stata altro se non una vittima dell'inevitabilità.

Ethan li crede tutti mostri, abomini che vanno tolti di mezzo, eliminati. Lo capisco, dopo quello che gli è successo. Anche se ha perso quella luce sinistra nei suoi occhi, quell'ombra di disperazione che si rifletteva nella sua voce, mi chiedo se la sua opinione sia cambiata. Se con la liberazione dal suo peso, il suo senso di colpa e il suo rabbioso cercare vendetta siano spariti.

“Sì, ci ho pensato a lungo.” Muovo lentamente l'altalena, con inerzia, spingendola appena con la punta delle scarpe contro il terreno fangoso, umido di pioggia; l'odore di erba bagnata impregna l'aria e si intreccia con quello del fumo delle case attorno, con quello del metallo arrugginito, il cui scricchiolare accompagna il mio sussurro soffocato, appena percettibile, più basso del vento che scompiglia le erbacce, i miei capelli, le maniche della mia giacca, “—Lei era una vittima. Non era l'aberrazione che vedevi tu.”

Silenzio. Ma riesco a vedere, con la coda nell'occhio, i suoi pugni che si serrano attorno al libro, stringendone violentemente la costola, al punto da far sbiancare le nocche per qualche momento, prima di rilassarle.

“Ci sono tante cose, a questo mondo, che non riuscivo a vedere. Ma non ci sono solo mostri spaventosi. C'è chi, come lei, ha bisogno di aiuto ma non riesce a chiederlo. Per questo… voglio sprofondare nell'occulto.”

Le labbra di Ethan si serrano per un istante. Posso quasi vedere i denti che si digrignano, sotto di esse, ma dura un'istante, si tratta solo di un momento, prima che la sua espressione torni ad essere la solita, corrucciata ed ombrosa, “Capisco. Se questo è il tuo modo per combattere il senso di colpa, non ti fermerò. È una tua scelta.”

Si alza in piedi, stringendo per un lungo momento il bestiario tra le mani, quasi come se potesse sentire una voce, uscire da quelle pagine. Le sue dita si muovono delicatamente, quasi sovrappensiero, ad accarezzarne la copertina, prima di allungarlo verso di me.

L'incredulità non ha la meglio solo perché lui me lo scuote davanti vedendo la mia esitazione, “Prendilo,” sussurra, scuotendo la testa, “a me non serve più.”

Quando lo tengo tra le mani, mi rendo conto non solo di quanto sia pesante, ma anche della strana, pungente aura che lo avvolge, quasi come se in esso fosse insita una sorta di vibrante magia sconosciuta che lascia scorrere, per qualche secondo, una sorta di brivido fino in fondo alla mia schiena.

“Lei... mi è venuta incontro. È morta scusandosi.” Una pausa. La pausa di chi trattiene qualcosa che si spezza in fondo alla gola. “Sembrava felice. Come non l'avevo mai vista.”

Alzo lo sguardo, cercando delle parole da rivolgergli, ma la sua figura si sta già allontanando, ormai sul ciglio della strada sconnessa. Il suo scalpiccio si ferma quando sente il mio sguardo sulla schiena, come se dovesse dirmi qualcosa.

Esita, per qualche momento, alza ancora gli occhi verso lo spicchio di luna che appena si intravede nel temporale che sta per rovesciarsi su di noi.

“Per quanti mostri salverai, per quanti spiriti scaccerai, il tuo senso di colpa non se ne andrà,” abbassa la testa, “io l'ho capito solo ora.”

Un attimo dopo, è già sparito nel buio del parco, insieme allo scalpiccio dei suoi passi e al rumore della ghiaia.

Lo so bene. Sono consapevole del fatto che non potrò mai guarirne. Questa sensazione bruciante rimarrà qui per sempre. Questo libro, quello che farò d'ora in poi, mi ricorderanno sempre quello è successo.

Il rosso se ne andrà da quel quadro ed il suo nome verrà lentamente dimenticato.

Ma non da me. Perché mi ha chiesto di ricordarla, vivida com'era. Come avrebbe voluto essere.

“Lo so.”

Mi porto una mano al viso, sfiorandolo appena. Caldo ed umido.

“Lo so bene.”

Il rosso rimarrà con me. Mi sembra il colore più adatto… per descrivere la perdita.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII —Crimson. ***


VIII

Crimson.

 

Il silenzio immobile è rotto solo dallo scricchiolare dell'altalena, le catene che la reggono stridono muovendosi lentamente, avanti ed indietro, in un dondolio appena percettibile, causato dalla leggera brezza gelida che scivola attraverso i vicoli del quartiere.

L'erba secca e pallida, quasi biancastra, si agita appena quando una folata più violenta delle altre piega i suoi steli e scuote i miei capelli. La miriade di ciocche si muove per un secondo a mezz'aria, nascondendo la sua figura in piedi di fronte a quel seggiolino vuoto, la mano che sembra voler carezzare ogni anello arrugginito, ogni centimetro di plastica scolorita; è come se cercasse disperatamente un po' di calore rimasto, una presenza persistente in questo luogo che può avvertire solo lui, ma evidente abbastanza da fargli socchiudere gli occhi.

Per qualche istante, rimane assorto, immerso nei suoi pensieri contorti, in quel groviglio di ricordi aspri e pungenti che si intrecciano e crescono, come rampicanti, fiori che germinano da una figura, una solitaria sagoma invisibile, ma vivida nei suoi ricordi.

Le ultime parole del suo racconto muoiono, trasportate via insieme a qualche foglia secca e ad un po' di polvere, trascinate chissà dove da uno sbuffo di vento, insieme a quel tono malinconico, tanto vibrante da pungermi lentamente, parola dopo parola, ricordo dopo ricordo.

Due figure in piedi in mezzo alla rovina, rimaniamo isolati nella nostra bolla personale, una sfera invisibile che copre tutto il parco, un involucro fatto di memorie, rimpianti, sensi di colpa e promesse sussurrate che le sue labbra hanno strappato, pezzo per pezzo, dal fondo del suo animo lacerato.

L'ho osservato, mentre parlava, senza mai staccare gli occhi da lui, cercando di captare ogni minimo cambiamento di espressione, ogni piccola increspatura del suo viso, come alla disperata ricerca di qualcosa, come se una parte di me volesse assolutamente trovare quel dettaglio invisibile all'occhio che, come un fantasma, aspettavo attraversasse i suoi lineamenti.

Per tutto il tempo in cui ha narrato, con una voce tanto bassa da essere poco più di un respiro affannoso, mi è sembrato che i suoi occhi vitrei fossero persi da qualche altra parte; come se, raccontando pezzo per pezzo, giorno per giorno, quelle vicende che hanno lasciato il loro profondo, palpitante segno rosso sulla sua coscienza, potesse tornare ad immergersi in quei giorni perduti.

Quasi come se sperasse di vederla ancora una volta, osservandomi di sottecchi.

Ogni volta che il suo sguardo si è spostato appena verso un angolo del parco, verso lo scivolo avvolto nella penombra, verso un vicolo sperduto al limitare del campo visivo—verso di me, seduta sull'altalena che avrebbe occupato lei, ho visto un guizzo in fondo alle sue pupille, che mi ha dato una sensazione inspiegabile sul fondo dello stomaco, amara e corrosiva quanto la storia che stava raccontando.

Aidan non mi ha mai rivelato i suoi sentimenti o i suoi pensieri. È sempre rimasto chiuso in se stesso, circondandosi di invisibili pareti che nascondessero i suoi tormenti, le sue colpe, la sua rabbia, la sua delusione. Come se avesse deciso di rinchiudere tutto dove nessuno lo potesse captare, come se non volesse aprire le porte dei suoi pensieri a nessuno.

Solo ora ho capito che non può più farlo, che non ha mai potuto, perché una parte di lui è sempre stata rinchiusa in se stessa, ad osservare un grigiore dilagante ed assoluto, desolante e divorante. Ogni giorno, Aidan si è alzato per ritrovarsi in mezzo ad una realtà che non riusciva più ad avvertire, a toccare, a sentire. Rifiutato da tutto e da tutti, incapace di comprendere, incapace di farsi comprendere, era come un fantasma che camminava sulla sottile linea invisibile che separava se stesso e la realtà in cui non era che una figura caduta per caso, una comparsa nella sua stessa esistenza.

Ferito com'era dalla sua stessa esistenza, non ha fatto altro che cercare quel tono di colore che potesse, per un istante, farlo sentire vivo, attirarlo con la sua brillantezza. L'ha trovato, lo ha sfiorato ed osservato.

Accanto a lei, si è sentito finalmente in grado di respirare, come dopo aver nuotato in un mare d'inchiostro, senza riuscire ad intravedere la superficie; ma è riuscito a tirare solo una boccata d'aria, prima che i gorghi lo prendessero, lo trascinassero nuovamente in basso, dove solo lui può sentirsi. Dove può parlare, ma nessuno può capire.

Dove una sola persona lo ha potuto capire, perché era più in profondità di lui. Per cui, per un momento, si sono toccati ed hanno trovato qualcosa, nel dolore reciproco, una connessione vibrante che li ha fatti sentire, per la prima volta, quello che sempre hanno desiderato. È una sensazione che conosco perfettamente, perché è la stessa che ho provato quando è arrivato da me, quando mi ha teso la mano, quando ha ricordato il mio nome. Ho sentito di non avere più bisogno di sbiadire giorno dopo giorno, condannata ad essere un personaggio mal disegnato sullo sfondo di altre persone. Mi sono resa conto di avere un significato.

Ho desiderato capire cosa custodisse tanto gelosamente, quale nome tenesse stretto a sé, nonostante il dolore che sembrava procurargli. Ho sperato di comprenderlo, di riuscire a muovermi attraverso le paludi torbide dei suoi pensieri taciuti e delle parole che non ha mai detto, soffocandole sulle labbra; ho voluto, con tutta me stessa, riuscire a vedere Aidan Reiss per quello che è completamente, vedere tutte le sue sfaccettature e quei lati più scuri che tiene solo per sé.

Solo ora ho capito di essermi inutilmente illusa. Ho creduto di essere qualcosa di più, di averlo compreso, anche solo per un istante. Il nostro è stato un errore comune, dopotutto, il disperato sbaglio di chi vuole a tutti i costi aggrapparsi a chi gli sta accanto, disperatamente nella speranza di trovare conforto, di sentirsi, per un secondo, più vivi, più veri, convinti che ci sia un destino di qualche tipo che possa unire due storie tanto simili.

Perché il filo rosso che correva tra di noi ora mi sembra così sottile?

Attraverso gli occhi offuscati, riesco ad intravederlo con le mani affondante nelle tasche, che guarda le stelle come a volerne riconoscere una, sperando che si tratti di questa o quella stella che ha intravisto la notte accanto a lei. La sua espressione sembra essere più spenta, come leggermente crepata, come se minacciasse di rompersi insieme alle ultime parole tremanti che ha pronunciato per chiudere la storia.

La sua storia di perdita, di promessa, di dolore, di ombre, di colpe e di un legame di quelli che nei libri si dice ce ne sia uno solo nella vita. Quel tipo di legame che rimane con te e ti logora, ti consuma lentamente e ti soffoca, perché non puoi fare a meno di tornarci sopra, come se ricordare possa aiutare a cambiare le cose.

Non si è mai poggiato a me, perché l'unica volta che lo ha fatto, forse si è sentito stranamente troppo lacerato o forse, al contrario, troppo felice, quel miscuglio di dolce ed amaro che sembrava trasudare da ogni sua parola, da ogni suo ricordo, da ogni singolo dettaglio su di lei. Mentre tutto il resto era solo un ricordo sbozzato, la figura al centro del suo racconto era così perfetta, al punto che anche io sono riuscita a vederla, in tutta la sua sfolgorante, dolorosa imperfezione. E me ne sono sentita tanto schiacciata da non riuscire più a sopportare l'idea che lei fosse perennemente, assolutamente dentro di lui.

Perché quando pronuncia il mio nome, improvvisamente mi sembra quasi di sentire il suo?

È stata colpa mia. Assolutamente, unicamente colpa mia. Ho cercato a lungo di riuscire a capire cosa lo tormentasse, perché non volesse poggiarsi a me, rivelarmi la sua debolezza, le sue ferite, le sue sofferenze. Una parte di me sapeva che ne sarei uscita strappata. Ma l'ho fatto lo stesso, ho ascoltato il suo lento, tremante racconto come se scorresse di fronte a me, come se questo parco fosse sfumato e avesse cominciato ad ospitare, una dopo l'altra, figure vomitate fuori dalla sua gola secca, dalla sua voce assorta.

A me importa cosa pensi, Aidan.

Non sono mai riuscita a dirglielo. Ma ora so che risponderebbe con un grazie, con un sorriso indecifrabile, in cui riuscirei solo a pensare che, qualunque cosa io possa fare, non sarò mai all'altezza di lei. Non sarei mai capace di stargli accanto come avrebbe fatto lei.

Mi sono illusa di poterlo sfiorare per qualche istante, di riuscire a camminare al suo fianco e, in qualche modo, sorreggerci a vicenda. Riuscire a scrutarlo, a toccare le piaghe peggiori del suo animo e, in qualche modo, a vivere in uno spazio che potesse essere nostro. Che potesse accettarci entrambi, nonostante tutto l'accaduto. Perché, accanto a lui, sono riuscita nuovamente ad essere.

L'unica cosa che riesco a fare, ora, è stringere i pugni e seguire quel piccolo, quasi invisibile filo che ci unisce, che ancora lega le nostre esistenze. Non potrò mai essere come lei, non è così, Aidan? Non c'è bisogno che tu risponda.

L'erba si piega sotto le mie scarpe, fruscia quando le mie caviglie la spostano, e le erbacce graffiano appena la mia pelle, dandomi piccoli, pungenti brividi, una vaga pelle d'oca risale lungo il corpo fino a raggiungere la schiena. Lo afferro per il braccio, la mano che cerca la sua, scivolando fino al polso, ai polpastrelli, avvertendo il leggero tepore della pelle, quando intrecciamo le dita debolmente, per un solo secondo. Un'unica, accennata stretta, come a volergli ricordare…

“Grazie.”

Annuisco, senza una parola. È un contatto di qualche istante, che si rompe subito dopo con delicatezza, un semplice scivolare delle dita. Un semplice modo per fargli sentire che, in ogni caso, io sono proprio dietro a lui.

“Grazie per avermi ascoltato,” un mezzo sorriso amaro si apre sul suo viso, poco più che una increspatura delle labbra, una posticcia imitazione, come se faticasse a muovere i muscoli del viso, “è come se mi fossi tolto un peso.” Si volta, la ghiaia che scricchiola sotto le suole delle sue scarpe, lo sguardo che corre all'altalena, al suo movimento fantasma, come se riuscisse a vedervi qualcuno seduto sopra, “Non ne ho mai parlato con nessuno. Non è strano? Se tieni le cose per te, si fanno sempre più pesanti. Iniziano a soffocarti e ti ritrovi a chiederti cosa avresti potuto fare per rimediare. ..” Si porta una mano al viso, poggiandola appena sui suoi occhi, come se volesse nascondere la sua faccia al mondo, come se volesse strapparsela via, evitare di mostrare la sua espressione alla realtà attorno a lui, “...Aveva ragione lui. Per quanti mostri possa salvare, continua a divorarmi.”

L'esitazione mi pietrifica, mi lascia immobile con la mano tesa verso di lui, le dita ad un soffio dalle sue spalle, incapace di toccarlo, di allungarmi anche solo per fargli capire che sono qui. Vorrei dirgli che non è colpa sua, che a volte siamo troppo piccoli per riuscire a fare la differenza. Che lei se n'è andata per il suo bene. Che l'ha resa felice, anche se per poco tempo, anche se solo per qualche istante, e questo è tutto quello che ha bisogno di ricordare di lei.

La perdita lascia una voragine che forse non si può colmare. Vorrei poterlo fare io, Aidan. Vorrei poter sanare la ferita che ti ha squarciato, ma non ne sono capace. Posso solo cercare di alleviare i tuoi tormenti, disperatamente, per qualche secondo. Farti sentire meno solo, nel tuo dolore.

La sofferenza è qualcosa che è solamente nostro, che non possiamo dividere con nessun altro, se non lo vogliamo. E tu non ti poggeresti mai a me, come a nessun altro. Un animo ferito come il tuo preferisce rimanere da solo e fluttuare nella propria solitudine, nel buio gelido, calcare una strada dove nessuno può avvicinarglisi.

Io sono un'eccezione, non è così? Hai visto anche in me, per un istante, un po' di quel colore? Vorrei davvero fosse così. Vorrei sul serio pensare che tu abbia intravisto qualcosa capace di accendere una fiammella, una luce tenue, un fuoco fatuo, nei tuoi pensieri, nei tuoi ricordi. Il fantasma di una tinta nella tua vita grigia ed immobile di tutti i giorni.

Quando le mie dita sfiorano la sua guancia, si irrigidisce di colpo. È umida e calda, bagnata di un pianto tiepido e malinconico, senza alcuna disperazione, senza un singhiozzo. È un semplice scorrere di lacrime trattenute per tanto, troppo tempo.

Non si toglie la mano dal viso, si limita ad asciugarsi gli occhi, per strappare via le ultime gocce, così che quando abbassa lo sguardo su di me, è rimasta solo una vaga patina lucida nella quale posso specchiarmi, posso intravedere la mia espressione. Un'espressione che non avevo mai visto, che non credevo mi appartenesse. Un'espressione malinconica, colma di una irrequieta tristezza, che si contorce lentamente, senza violenza, quasi come se avesse solo aspettato il momento di arrivare al mio petto e lentamente sciogliere quelle schegge che si erano conficcate nella carne.

La sensazione di averlo sostenuto, per una volta, di aver osservato la sua debolezza, averla accettata e sorretta. Di avergli permesso di barcollare ed inciampare, ma non di cadere.

“Non è stata colpa tua,” ho detto, con un filo di voce, senza nemmeno riuscire a sentirla io stessa, parole divorate dal silenzio del parco desolato, “tu l'hai resa più che umana. L'hai resa felice.”

La ghiaia sotto le nostre scarpe scricchiola producendo un suono appena percettibile, mentre ci allontaniamo dal parco, le nostre ombre proiettate dalla luna che si contorcono e si fondono, si separano e tornano insieme, in una danza infinita che è soltanto l'imitazione dei nostri movimenti più nascosti e contorti, di quelle parole che non riusciamo a pronunciare, della voce che non riusciamo a tirare fuori, delle urla che non vogliono essere strappate dalle corde vocali.

Aidan cammina leggermente più avanti, rispetto a me, come se non riuscisse ad avere accanto qualcuno, mentre cammina. Mi sembra di riuscire a vedere, nei suoi occhi, ancora un tentativo di cercare qualche ombra, come quando si insegue un miraggio lontano, che non si potrà mai raggiungere, perché poco più che un fantasma in un'ombra.

Per quanto non sia capace di camminargli accanto, finché le nostre strade saranno le stesse, io continuerò a guardarlo andare avanti, da solo, come è sempre stato. Non posso che sperare, credere che, un giorno, sarò forse in grado di avvicinarmi anche solo per un singolo istante a lui. Fino a quel giorno, non mi resta che sforzarmi di non rompermi. Rimanere integra.

Sforzarmi di avere un po' del colore che cerca disperatamente.

Un giorno mi piacerebbe avere, in me, quello stesso rosso che ti ha incantato.

Il cremisi che tinge i tuoi lontani giorni d'inverno perduti.

 

Scary Monsters and Nice Spirits

『End.』






 

Afterword

Mettere la parola fine ad una storia non è mai facile. Sopratutto se si tratta di una storia che è stata con noi per tanto tempo, abbastanza da sentirne la presenza costante dietro la testa, nel mio caso nella forma delle persone, incluso me stesso, che mi ricordavano di dover tirare avanti in questa storia (persone che non ringrazierò mai abbastanza, in ogni caso, per avermi spinto a tirare avanti nonostante la mia tendenza a procrastinare.)

Scary Monsters and Nice Spirits” è nato due anni fa. Nel corso del tempo, mano a mano che ho iniziato a lavorarci sopra, a cambiare dettagli, sistemare personaggi e vicende, lentamente ha cambiato aspetto e percorso; tuttavia, la sua idea centrale, il suo punto di partenza, è rimasto sempre lo stesso, immutato – raccontare una storia che iniziasse e finisse in se stessa, senza la pretesa di una trama, di grandi colpi di scena, di eventi stravolgenti.

SMNS è semplicemente una storia di persone e, ancora di più, della loro psicologia, delle loro paure, traumi, colpe o presunte tali ma, sopratutto, il filo conduttore che unisce le tre storie è il rapporto umano, le sue declinazioni, le sue difficoltà, le sue ombre.

Ho sempre voluto poter raccontare qualcosa che andasse oltre la semplice azione, l'agire, il fare parte di eventi la cui corrente prende e trascina i pensieri, succhiandoli prepotentemente al di fuori della realtà; ed è anche per questo che le brevi ma intrecciate, contorte storie sono tutte piccole, diversificate finestre inserite in un mosaico che è la vita di tutti i giorni, una vita soffocante, pesante, che opprime e che ha, come protagonisti, persone unite dallo spago rosso che è la propria incomunicabilità. Ognuno di loro, stretto nella propria bolla, incapace di sfiorare il prossimo, che preferisce tenere dentro di sé il proprio dolore, i propri pensieri perché condannato da se stesso, dalla visione che si è costruito della sua realtà e di quella degli altri.

Il sovrannaturale, in tutto questo, non è altro che un veicolo, una lente con il compito di deformare, filtrare e, sopratutto, concretizzare le ombre che ognuno dei personaggi porta dentro di sé, così che spiriti, maledizioni e mostri non sono altro che la personificazione di dubbi e paure, di incertezze e pentimenti, di desideri inespressi.

Non ho preteso che queste storie avessero una trama a muoverle. Al contrario, ho voluto che fossero i personaggi stessi, i loro pensieri, le loro riflessioni, le loro incertezze, a spingere avanti il guazzabuglio in cui si trovano a nuotare, con l'acqua fino alle orecchie e l'incapacità di sentire, di parlare, perfino di vedersi chiaramente.

Proprio perché c'è stato il desiderio di rendere queste storie eventi di persone, ho tentato di lasciare lo sfondo delle vicende il più generico possibile, unendo elementi specifici ma non caratterizzanti, per forgiare una città, una scuola, una strada, una casa, una realtà quanto più universale, perché, alla fin fine, ognuno potesse plasmare i luoghi secondo la propria immaginazione e sperare, almeno per lo spazio di un racconto, di poter incontrare quello spirito o quella creatura che crede lo tormenti, vedere le vicende che si dipanando tra queste pagine in una forma che possa essergli più vicina, più congeniale.

Sono dell'idea che non ci sia un lieto fine, nelle storie, e mi è stato rimproverato più volte. Tuttavia, mi è sembrato giusto che questa storia si chiudesse sulla stessa nota sulla quale è iniziata — malinconica, in un certo senso, ma questa volta con un accento in più.

Una volta che il nostro mostro si è fatto da parte, ne arriveranno altri, certamente, perché la sequela di pesanti, corrosivi sentimenti e problemi che caratterizza i rapporti umani, perfino con se stessi, 

non termina mai.

Al contrario, “Scary Monsters and Nice Spirits” termina così, senza un inizio, senza una fine, ma che si esaurisce in se stesso, proprio come lo avevo pensato, proprio come lo avevo immaginato.

A tutti coloro che hanno avuto la pazienza e la voglia di seguire il mio lavoro in questi anni, che lo hanno apprezzato o criticato, che gli hanno dedicato un po' del loro tempo, va il mio ringraziamento e la mia gratitudine.

Mettere la parola fine ad una storia non è mai facile. Ma posso dire che è stato un viaggio molto più lungo di quanto immaginassi e decisamente più appagante.

Spero che questi mostri, questi spiriti, queste persone così incapaci di vivere rimangano con voi, almeno per un po'.


Black Swallowtail.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3671270