The Almost Lion King

di QueenOfEvil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scar. There is nothing either good or bad, but thinking makes it so ***
Capitolo 2: *** Taka. We know what we are, but know not what we may be. ***
Capitolo 3: *** Scar. Listen to many, speak to a few ***
Capitolo 4: *** Taka. It is not nor it cannot come to good. ***
Capitolo 5: *** Scar. One may smile, and smile, and be a villain ***
Capitolo 6: *** Taka. But break, my heart, for I must hold my tongue ***
Capitolo 7: *** Scar. Though this be madness, yet there is method in't ***
Capitolo 8: *** Taka. When sorrows come, they come not single spies. But in battalions ***
Capitolo 9: *** Scar. A little more than kin, a little less than kind. ***
Capitolo 10: *** Taka(?) God hath given you one face, and you make yourself another. ***
Capitolo 11: *** Scar. Let the doors be shut upon him. ***
Capitolo 12: *** Scar. Thus bad begins, and worse remains behind. ***
Capitolo 13: *** Scar. I must be cruel only to be kind. ***
Capitolo 14: *** Scar. Assume a virtue, if you have it not ***
Capitolo 15: *** Scar. Tis the times' plague, when madmen lead the blind ***
Capitolo 16: *** Scar. Our wills and fates do so contrary run ***
Capitolo 17: *** Rafiki. Goodnight, sweet prince. ***



Capitolo 1
*** Scar. There is nothing either good or bad, but thinking makes it so ***


Piccola prefazione (e state tranquilli, poi potete passare al racconto):
Devo ammettere di essere abbastanza emozionata al pensiero di pubblicare questa storia, la quale trama, per quanto scontato possa sembrare, mi è stata ispirata da un sogno. Il re leone è il mio film Disney preferito in assoluto ed in particolare fin da piccola sono sempre stata perdutamente innamorata del personaggio di Scar. Forse è per l'intelligenza, forse la malvagità, forse il sarcasmo, fatto sta che è ed è sempre stato il mio villain/personaggio in generale preferito sia nel Re Leone che fra gli altri film di animazione e quindi ho voluto fargli, finalmente, un piccolo tributo.
Il progetto è (o meglio era considerando che sto pubblicando i capitoli a storia già completamente scritta) di riscrivere la sceneggiatura del film al pari di un libro, ma concentrando l'attenzione proprio sul suo personaggio, cosa ha pensato, cosa ha provato, durante le sue scene, oltre ad ampliarle con dei Missing Moments durante il suo regno e, perché no?, durante la sua infanzia. Mi sono tenuta strettamente al canon per quanto riguarda il rapporto con i personaggi, dunque ho considerato ogni cosa non detta esplicitamente nei film (ho tenuto conto sia del primo che del secondo) come non realmente avvenuta... perciò mi dispiace fan della Scar/Zira, ma qui questa coppia non è presente, anche se i due ovviamente si conoscono, né compariranno OC. L'unica cosa che ho tratto da "A tale of two brothers" sono i nomi di Ahadi e Uru ed il fatto che Scar prima della sua cicatrice si chiamasse Taka, null'altro, quindi anche la storia della sua infanzia sarà diversa da come veniva presentata in quel libro. 
Detto ciò, saranno in tutto diciassette capitoli, postati uno ogni due settimane e regolamente, avendo già tutto pronto: ci saranno parti riprese direttamente dal film, con dialoghi invariati, e parti totalmente inventate da me, che spero vi possano piacere. È un progetto a cui tengo particolarmente, perché ci ho dedicato molto tempo e, come ho già detto, sono molto affezionata alla figura di Scar, perciò mi piacerebbe davvero tanto se voleste lasciare una recensione, giusto per dirmi che non ho fatto a pezzi il suo personaggio e non l'ho reso totalmente OOC.
Un'ultima cosa: i titoli dei capitoli hanno tutti qualcosa in comune, un particolare che vi sfido a notare e a comunicarmelo nel caso lo capiste. Vi rivelerò l'arcano alla fine della storia.

The almost lion king

1. Scar. There is nothing either good or bad but thinking makes it so.

Squittii. Barriti. Nitriti. Un suono che aveva tutta l’aria di provenire dal muso di un ippopotamo con seri problemi gengivali. Il frastuono che proveniva dalla Rupe dei Re era sempre più insopportabile e rendeva difficile, molto, estremamente, troppo difficile ignorare la causa di quella che Scar avrebbe volentieri definito l’ultima delle nuove trovate del fratello per rovinare i suoi già tesissimi nervi. Alzati gli occhi al cielo e infastidito oltre il proprio, a detta sua altissimo, limite di sopportazione, si diresse verso una caverna lì vicino, rassegnato ormai all’idea di non poter evitare di ascoltare quegli insopportabili lacchè di cui Mufasa si contornava, ma decisissimo a ridurre il più possibile la tortura uditiva ed eliminare al più presto quella visiva. 


Con la flemma tipica del suo carattere, si avviò con andatura ciondolante all’interno, non senza aver scoccato un’ultima occhiata al penoso spettacolo che si presentava davanti ai suoi occhi e la sua espressione si riempì di disgusto: Rafiki, quello stupido, stupido babbuino che Scar era assolutamente certo avesse qualcosa di avariato nel cervello, aveva appena sollevato l’oggetto di tanta adorazione in aria e lo stava mostrando, quasi come fosse un trofeo, alla folla esultante. Cosa ci fosse di speciale nel primogenito di Mufasa e Sarabi, questo proprio lui non riusciva a capirlo: aveva due giorni e l’aveva appena intravisto, sempre rintanato com’era nel grembo della leonessa, ma sembrava a tutti gli effetti una palla di pelo con quattro zampe e due occhi sproporzionatamente grandi, marroni come quelli del padre e come quelli, a quanto pare, di ogni altro leone divenuto Re delle Pride Lands. Con le sue iridi verdi, verdi come l’invidia del sempre secondo, avrebbe potuto dire qualcuno, la criniera corvina e il corpo snello, Scar tendeva a confondersi con le ombre della notte, non certo a brillare al sole come il fratello, ma lui aveva sempre preferito, aveva imparato a preferire, in tal modo: era opportuno in alcuni casi, a sua opinione, sapersi muovere per fili sottili, invisibili e indisturbati, senza l’ausilio della mera forza bruta di cui i suoi predecessori sembravano tanto ricolmi e di cui egli si ritrovava invece totalmente sprovvisto. Il cervello batte muscoli e apparenze, questa era sempre stata la sua convinzione. Una piccola occhiata a quello che ormai sentiva universalmente chiamare “l’erede al trono”, e sia dannato il cielo se i suoi denti non digrignavano impercettibilmente ogni volta che quelle tre parole uscivano dalla bocca di qualcuno, gli era bastata per capire che sarebbe stato esattamente come il padre, un altro prototipo di sovrano buono, bello, giusto, quasi creato con uno stampino per ricreare esattamente tutti i tratti fondamentali dei suoi antenati, e la sua convinzione sulla predominanza della mente sulla forza aveva vacillato per qualche momento. Poi si era riscosso, aveva lanciato il suo sguardo più disinteressato al cucciolo e, senza neanche degnarsi di commentare con qualche parola di circostanza, aveva lasciato la caverna, senza dare a Sarabi né al caro fratello, così abituato a ricevere i complimenti e l’ammirazione di tutti, la soddisfazione di sentirsi elogiato anche quella volta. 


Era per quello che aveva deciso di non presentarsi a quella stupida cerimonia: perché partecipare ancora e ancora ad un successo che non era e mai sarebbe stato suo? Un sottile ghigno si aprì sul muso del leone, pensando a quanto il suo perfetto parente si sarebbe dimostrato indignato e deluso per la sua mancata apparizione… sempre che lo avesse notato, tutto preso com’era a festeggiare la nascita del suo pupillo.


Il piccolo era ancora esposto, anche se era evidente che fra poco la cerimonia si sarebbe conclusa, e per un attimo nella mente di Scar si delineò un’immagine confusa, ma dai foschi contorni: vide Rafiki perdere la presa o scivolare, magari per incidente, o spinto forse, sì, spinto proprio da lui, e vide il cucciolo senza nome, quel cucciolo che conteneva tutte le speranze per la successione di Mufasa, cadere dalla rupe, cadere esanime e indifeso in mezzo agli animali che sicuramente lo avrebbero calpestato, sotto lo sguardo atterrito dei genitori, morto. E da quella morte magari sarebbe potuta nascere una nuova opportunità, una nuova era, un nuovo regno… un nuovo sovrano, forse?


Scosse la testa con decisione, allontanando quella fantasia, stranamente allettante, è vero, ma altrettanto utopicamente irrealizzabile e volse finalmente la schiena alla scena, in tempo per non vedere i due genitori e il babbuino dare il benvenuto ufficiale al piccolo nella famiglia reale e nel Grande Cerchio della vita.

 

                                                    *******************

 

Rintanatosi all’ombra, Scar, annoiato oltre ogni limite, si guardò intorno, tentando disperatamente di trovare una qualsiasi occupazione per ingannare il tempo, e raggiunse il suo obiettivo quando vide la coda bianca di un piccolo topolino spuntare da un anfratto della caverna; realizzando che effettivamente era quasi mezzogiorno e non aveva toccato cibo dalla sera prima, lo stomaco troppo serrato dalla frustrazione per il “grande evento”, decise che quel magro spuntino era al contempo un compenso meritato per la sua eccezionale capacità di tolleranza e una distrazione dovuta per non pensare a ciò che stava accadendo poco distante da lui. Rimase per qualche secondo in silenzio, quindi, immobile e invisibile, aggettivi che aveva ben imparato a sopportare e a sfruttare a suo vantaggio in qualità di ignorato secondogenito della famiglia reale, accompagnando la poca aspettativa di potersi effettivamente soddisfare con una preda tanto piccola con l’inutile tentativo di concentrarsi esclusivamente in quella pressoché vana iniziativa. 


Quasi confermando i suoi pensieri l’animaletto, apparentemente dimenticatosi della presenza di un leone grosso cinquanta volte lui, sporse il muso e poi il piccolo corpo fuori dal suo rifugio, dimenando velocemente la sua coda sproporzionatamente lunga: Scar non perse tempo e, con una zampata fulminea, catturò quell’esserino con i suoi lunghi artigli. 


Alzando il suo trofeo fino all’altezza degli occhi, si ritrovò a pensare come fosse ironico che nessuno, neanche le bestie più indifese e minuscole, paresse considerare la sua presenza o denotarla come una possibile minaccia. Certamente questo non sarebbe successo con Mufasa, il perfetto, forte, coraggioso Mufasa che tanto sapeva essere rispettato da tutti, e non era difficile, ragionava lui, avere l’attenzione del prossimo quando era possibile stenderlo con facilità: guardando il topo, il leone per meno di un secondo si immaginò che al suo posto ci fosse suo fratello e che fosse suo fratello a squittire, dimenandosi in modo decisamente poco dignitoso e finalmente dimostrando di avere paura di lui.


“La vita a volte è ingiusta, non è vero?” disse alla sua preda, con la sua tipica espressione rassegnata e annoiata insieme, ottenendo come unica risposta un ancor più rapido agitarsi del suo poco loquace interlocutore.


“Guarda me. Sì, io non diventerò mai re” Lasciò momentaneamente andare la presa, voltando la zampa in modo che il topolino potesse muovercisi sopra, con qualche speranza di libertà: speranza breve, perché Scar lo riprese nuovamente per la coda dopo qualche attimo, sorridendogli cinico e con, forse, un lieve e fugace sentore di superiorità.


“E tu domani, amico mio, non vedrai sorgere il sole” Rise fra sé brevemente, prima di portarsi il suo pranzo alla bocca “Adieu”


“Tua madre non ti ha mai detto che non si gioca con il cibo?” La voce di Zazu lo interruppe proprio prima che le sue fauci si chiudessero sulla bestiolina: alzando gli occhi al cielo e infastidito dall’inopportuna presenza del pennuto, assunse un atteggiamento composto e allo stesso tempo ricolmo di indifferenza, poggiando a terra entrambe le zampe ed emettendo un sonoro sospiro.


“Che cosa vuoi?” L’unica cosa che invece in quel momento era Scar a volere era che si togliesse di mezzo velocemente, in silenzio e non facendosi più vedere per un tempo indefinito: non era assolutamente dell’umore per sopportare la petulante saccenza di quell’uccellaccio, tantomeno visto che ella sovente corrispondeva alla vicinanza del fratello tanto adorato, da tutti meno che da lui.


“Sono qui per annunciare l’imminente arrivo di Re Mufasa” rispose il pennuto, con le piume tutte alzate nel tentativo, assolutamente patetico secondo il leone, di aggiungere solennità alle sue parole “Perciò è meglio che trovi una buona scusa per la tua assenza alla cerimonia di questa mattina”


Come osava uno stupido uccello rivolgersi con quel tono saccente e pieno di rimprovero a lui, lui che era un membro della famiglia reale, mentre quell’essere non era assolutamente nulla? Gli artigli di Scar si ritrassero impercettibilmente nel tentativo di mostrare indifferenza e noia, atteggiamenti che sapeva per esperienza innervosivano il prossimo molto più di qualsiasi dimostrazione di fastidio, e grazie a questo il topolino riuscì finalmente a liberarsi dalla sua presa, guadagnando un sicuro ritorno nella propria dimora fra le rocce.


“Con le tue chiacchiere Zazu mi hai fatto perdere il pranzo” commentò ad alta voce, per poi aggiungere fra sé “E se ti azzarderai a parlarmi di nuovo in quel modo farò in modo che tu diventi il mio prossimo spuntino”


“Ah! Perderai molto di più quando il re farà i conti con te. È infuriato come un ippopotamo con l’ernia” Il sorrisetto che il suo interlocutore gli aveva rivolto prima di rispondergli sarebbe già stato sufficiente a rendere la sua minaccia una risoluzione, ma il tono di sufficienza e malcelata soddisfazione con cui aveva parlato fecero decidere al leone che probabilmente la sua carne non sarebbe stata poi così male da digerire. Lasciando cadere dunque la sua espressione annoiata si girò verso di lui, guardandolo sinistro con un sorriso che, con suo grande piacere, bastò a far cadere l’insopportabile pomposità dell’altro.


“Uuuh, sto tremando di paura!” lo schernì dunque, incrociando le zampe anteriori pronto ad alzarsi in piedi: si sentì alquanto divertito nel vedere gli occhi di Zazu illuminarsi di terrore mentre tentava di ragionare con lui e lo pregava di non fare gesti avventati. Amava vedere le suppliche altrui, ma non altrettanto accoglierle: si sentì perciò decisamente meglio dopo aver chiuso le zanne sopra quel dannato uccello e avergli finalmente tappato la bocca.


Non era del tutto sicuro che lo avrebbe inghiottito, dopo aver passato tutto quel tempo con Mufasa era probabile che gli avrebbe rovinato lo stomaco, ma la questione si semplificò alquanto perché dopo neanche qualche secondo, sentì l’unica voce che aveva disperatamente tentato di evitare dall’inizio del giorno alle sue spalle.


“Scar?” Si voltò di quarantacinque gradi, abbastanza per intravedere la figura del fratello, ma anche per non dare l’impressione di essere particolarmente interessato in quello che l’altro aveva da dirgli. “Mollalo” Appena pronunciata quella parola, dal muso del secondogenito spuntò il becco della sua preda che, a quanto pare per nulla intimorita dalla sua precaria situazione e altrettanto priva del senso della misura, commentò l’arrivo del suo salvatore.


“Tempismo impeccabile, Vostra Maestà” Quattro parole che rendevano la voglia che Scar aveva di masticarlo fino a ridurlo in poltiglia ancora maggiore, ma, pensando che sarebbe stato più uno stupido dispetto che un’azione realmente efficace, senza contare il saporaccio che era certo gli avrebbe lasciato in bocca, si decise infine a sputarlo, senza maledirsi interiormente per quello che senza dubbio era sembrato un atto di ubbidienza al volere dell’altro.


“Io non prendo ordini da nessuno, men che meno da te” pensò, ma non lo disse e, dopo aver lanciato un’occhiata quantomeno divertita a Zazu, tutto coperto di saliva e con un’espressione a metà fra la schifata e la traumatizzata, rivolse l’attenzione a Mufasa, sorpreso e, sì, anche compiaciuto che egli si dimostrasse quasi offeso dal suo comportamento.


“Ma guarda! È proprio il mio fratellone disceso dall’Olimpo per mescolarsi con i comuni mortali!” Gli si avvicinò con il suo miglior sorriso di superiorità e tono indifferente, per poi, facendo segno di ignorare le fosche nubi che apparentemente gravitavano sul muso del suo interlocutore, volgergli nuovamente la schiena, aspettando la ramanzina che sicuramente l’altro non avrebbe perso l’occasione di fargli.


“Sarabi ed io non ti abbiamo visto alla presentazione di Simba” Era proprio da Mufasa fare quel tipo di affermazioni: non era una domanda, anche se ne sottintendeva una, non era un’accusa, ma il tono non lasciava molti dubbi sul perché venisse pronunciata e la sua voce offesa era calibrata apposta per far sentire in colpa chiunque. Beh, chiunque tranne lui, che ormai trovava il fratello se non quasi ridicolo, almeno alquanto prevedibile. Tra questo e la scelta del nome per il cucciolo, chiamare un leone “Leone” non era esattamente la scelta più intelligente che si potesse fare, non che ci si potesse aspettare molto di più da un re di nome “Re”, dovette fare un grande sforzo per non ridacchiare. 


“La cerimonia era oggi?” chiese, con il suo miglior tono fintamente sorpreso e colpevole “Quanto sono mortificato!” Fece stridere poi i suoi artigli sulla pietra, producendo una cacofonia che evidenziasse quanto poco, in realtà, era stata la sua attenzione per quello che il fratello gli aveva detto: le scuse erano di circostanza, ma doveva essere immediatamente chiaro quanto esse fossero false.


“Deve essermi sfuggito di mente” aggiunse poi, guardandosi le unghie in tono nuovamente indifferente.


“Sì… beh, per quanto la tua mente possa essere sfuggevole, come fratello del Re avresti dovuto essere in prima fila” Quell’uccello proprio non voleva capire quale fosse il suo posto: Scar non avrebbe saputo dire se ad essere più irritante fosse il tono con cui egli osava rivolgerglisi o il fatto che il suo vero interlocutore lasciasse che un microbo simile gli parlasse in quel modo. Fece schioccare i denti, rivolgendogli il suo miglior sorriso acuminato e, con suo sommo gaudio, la sicurezza dell’altro venne meno, facendolo nascondere fra le zampe del suo protettore: le piccole soddisfazioni della vita. Si chinò verso di lui, cercando un contatto visivo che improvvisamente Zazu non era più tanto disposto a concedergli.


“Beh, ero io il primo della fila. Finché non è nato quel micio spelacchiato”


“Quel micio spelacchiato è mio figlio. Ed il tuo futuro Re” Improvvisamente, si ritrovò a guardare negli occhi il fratello e, perso ogni divertimento nel tentare di torturare il consigliere, distolse lo sguardo, non senza provare un certo pungente fastidio all’idea che un giorno quella cosina tanto piccola e inutile avrebbe avuto lo stesso potere che adesso Mufasa aveva su di lui. Come poteva avere rispetto di qualcosa che aveva per il momento come unica occupazione leccarsi e ricercare le costanti attenzioni altrui?


“Oh, dovrò perfezionare la riverenza” Considerando il discorso finito e non volendo passare un altro minuto in quella compagnia, dopo aver rivolto ancora un sorriso falso all’altro, si girò verso l’uscita della caverna, più di ogni altra cosa intenzionato a passare il resto della giornata, e magari anche della settimana o del mese, perché no?, il più lontano possibile da quel pallone gonfiato del fratello.


“Non voltarmi le spalle, Scar” 


Che cos’era, un ordine forse? Un ordine a lui? Non poteva veramente pensare che gli avrebbe ubbidito esattamente come tutti erano soliti fare, vero? Oppure si sentiva di potergli dire e comandare tutto quello che voleva per via della sua ostentata superiorità? Lo credeva davvero così innocuo e inutile? Sapeva di doversi mordere la lingua, ma le parole gli uscirono di bocca prima di poterci, o volerci, ripensare.


“Oh no, Mufasa, forse sei tu che non dovresti voltarmi le spalle” Non era del tutto chiaro neanche per lui a cosa volesse mirare con quella frase: forse era una semplice provocazione, non era la prima volta che diceva cose simili per il gusto di scatenare reazioni altrui né sarebbe stata l’ultima, ma, al contrario che in precedenza, si ritrovò a credere veramente in quel che diceva, seppur solo per un battito di ciglia. Era la stessa sfuggevole sensazione che aveva provato alla vista di Rafiki che sollevava Simba o dei pensieri che l’avevano assalito alla vista del topolino catturato, ma non ebbe tempo di soffermarcisi: il fratello, ovviamente ferito nell’orgoglio per questa improvvisa mancanza di rispetto, si slanciò contro di lui con un impeto e una furia tale che per un attimo Scar temette che davvero volesse aggredirlo. Era sempre sorpreso dai suoi sbalzi d’umore, lui che invece sembrava averne sempre solo uno, indifferenza condita con sarcastico cinismo: era ovvio che quella fosse una facciata, ma era diventato talmente bravo a sostenerla che anche decifrare i propri diversi stati d’animo si presentava come un problema.


“Mi stai sfidando?” Sarebbe stato bello, magnifico, potergli rispondere affermativamente: purtroppo, sapeva bene quali fossero le sue chance di vittoria in un combattimento diretto ed era altrettanto certo quanto la sorte non lo avesse mai favorito, altrimenti avrebbe fatto in modo di confrontarsi con Mufasa decisamente prima nel tempo. La sua non era codardia, semplicemente… istinto di sopravvivenza: aveva sempre atteso un momento opportuno che non si era mai presentato, ecco tutto.


“Stai calmo, stai calmo” gli rispose quindi, con il suo miglior tono annoiato “Non mi sognerei mai di sfidarti, no” O meglio, a dire la verità ci aveva fantasticato parecchio, soprattutto in gioventù, ma alcune umiliazioni piuttosto cocenti nei suoi primi anni di vita gli avevano insegnato un’importante lezione: se non puoi batterli, unisciti a loro, perlomeno fino a che non ne avrai tratto un vantaggio.


“Peccato, perché no?” Non era certo se Zazu avesse degli istinti suicidi piuttosto spiccati o stesse solo facendo l’arrogante, forte della sua posizione privilegiata tra le zampe del fratello, ma sicuramente non doveva avere un grande senso del tempismo e della buona educazione: avrebbe molto gradito insegnargli alcuni concetti basilari sull’intromissione nelle conversazioni altrui, ma preferì non scendere nei dettagli e levarsi di torno entrambi il più in fretta possibile.

“Per quanto riguarda la materia grigia ne ho a sufficienza” ribatté quindi, non senza aggiungere mentalmente che probabilmente era più intelligente di quei due messi insieme “Ma se si tratta di forza bruta, lo sai: temo che l’impronta genetica sia piuttosto carente”


Dopo aver rivolto un’ultima occhiata rassegnata a Mufasa e al suo inutile consigliere, che certamente non avrebbero perso occasione per parlare di lui alle sue spalle, si allontanò definitivamente e questa volta nessuno cercò di fermarlo. Si diresse quindi fuori senza una vera meta, tentando di mettere più spazio possibile fra lui e tutto quello che la presenza del fratello comportava.


A distanza di qualche minuto di cammino, si fermò per qualche secondo e lanciò uno sguardo alla Rupe dei Re e al trono che ormai aveva perso qualsiasi speranza di conquistare: al pensiero del sovrano che sarebbe potuto diventare, degli onori e del rispetto che gli sarebbero toccati e del Potere che avrebbe posseduto se l’accoppiata padre-figlio non si fosse messa in mezzo i suoi artigli si conficcarono violentemente nella terra, scalfendola nel profondo.


A Scar non dispiacque immaginare che fra le sue zampe ci fossero insieme Mufasa e il suo prezioso Simba. 


E che stesse squarciando la gola ad entrambi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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Capitolo 2
*** Taka. We know what we are, but know not what we may be. ***


2. Taka. We know what we are, but know not what we may be


Nessuno si aspettava che sarebbe successo quel giorno, né Ahadi né tantomeno Uru: era ancora presto, mancavano almeno due settimane al momento. Non poteva, non doveva avvenire proprio allora. Eppure a quanto pareva la sorte aveva deciso diversamente. Forse la leonessa si era sforzata troppo in quell’ultimo periodo, andare a caccia in quelle condizioni non era consigliabile, e sia Rafiki che il suo compagno l’avevano severamente ammonita, malgrado sapessero benissimo che non avrebbe seguito i loro consigli, o forse mangiando aveva ingerito inavvertitamente un’erba o una bacca particolarmente velenosa… nessuno poteva essere sicuro di quale fosse la causa primaria.


Fatto stava che, mentre il piccolo Mufasa giocava tranquillamente poco distante dalla Rupe dei Re con Sarabi e altri cuccioli del branco, Uru stava facendo nascere il suo secondo figlio, largamente in anticipo rispetto a quanto sarebbe stato opportuno. Il Re e lo sciamano, al suo fianco, rabbrividivano sentendo i lamenti della Regina, e ancor più temendo in quali condizioni il piccolo, o la piccola, sarebbe venuto al mondo: era presto, troppo presto, e, se con il loro primogenito fortunatamente non c’erano state complicazioni e la sua costituzione era subito risultata sana e forte, probabilmente non si sarebbe potuto dire lo stesso del secondo.


Se fosse stato nelle facoltà di Ahadi scegliere, lui avrebbe senz’altro preferito che quel cucciolo fosse una femmina: aveva già un erede, qualcuno che avrebbe potuto prendere il suo posto e che avrebbe regnato, lui ne era certo, grazie alla sua guida, saggiamente e giustamente ed il nome che aveva scelto per il piccolo era una conferma dei suoi pensieri. Avere un secondo maschio avrebbe complicato inutilmente le cose, senza contare quanto poco i due leoncini fossero distanti come età l’uno dall’altro: Uru era rimasta incinta nuovamente appena un mese dopo aver partorito Mufasa e ora, con questa nascita prematura, la differenza fra i due si sarebbe assottigliata ancora di più. Se invece fosse stata una leonessa, il problema non si sarebbe posto, anzi, ella sarebbe potuta essere poi unita con il capo di un altro territorio vicino, suggellando alleanze che sicuramente avrebbero giovato a entrambi i regni.


Sì, Ahadi aveva una chiara idea di come sarebbero dovuto andare le cose e fu senz’altro per quel motivo che, quando finalmente le doglie cessarono e la sua compagna poté finalmente riprendere fiato, i suoi occhi si incupirono alquanto quando vide che accanto ad ella vi era un leoncino, indubbiamente maschio, piccolo e fragile, e dall’aria malaticcia. Anche con un’occhiata sommaria, era evidente come egli fosse completamente diverso dal primogenito: al manto color miele di quest’ultimo, infatti, si contrapponeva un arancione quasi bruciato, talmente scuro da non lasciare dubbi sul fatto che l’avesse ereditato dalla madre, e in mezzo ad esso spiccavano due occhi verde acceso, per nulla simili a quelli marroni del fratello e del padre, in cui nulla vi era dell’espressione forte e volitiva che caratterizzava gli altri due maschi della famiglia. In essi compariva una luce diversa, quasi strana per un esserino così piccolo e appena nato, soprattutto considerando che le sue condizioni di salute erano alquanto precarie: nonostante le leccate della madre, egli sembrava non reagire, o reagire in modo molto fievole, e sia il re che Rafiki, dopo essersi lanciati un’occhiata, convennero con la mente al pensiero che quello fosse un segno della precoce morte a cui egli sarebbe andato incontro. 


Il babbuino, comunque, prese il leoncino tra le sue braccia, visitandolo e cercando in ogni modo di attirare la sua attenzione, tutto sotto gli occhi preoccupati di Uru, che non aveva assolutamente intenzione di perdere il suo cucciolo, e di Ahadi, il quale sembrava però già rassegnato all’idea che per lui non ci fosse nulla da fare.

Passarono delle ore, silenziose e meste, nelle quali non fu scambiata una parola: anche Mufasa, che nel frattempo era rientrato con la giocosa baldanzosità dei giovani, aveva intuito che qualcosa non andasse e perciò si era accucciato vicino alla madre, tentando di consolarla per qualcosa che neanche lui riusciva pienamente a comprendere.

“Dovremmo dargli un nome” disse infine la regina, guardando il batuffolo di pelo scuro che, già esausto, dormiva accanto a lei, respirando faticosamente “Dovremmo dargli un nome e presentarlo al regno”


Non ebbe subito una risposta, ma quella che ricevette non le piacque affatto: “Non credo che ce ne sarà bisogno”


“Come può non essercene bisogno? È nostro figlio! Abbiamo il dovere di dargli il benvenuto nella nostra famiglia!” le sue sopracciglia si incurvarono, facendo ancora più risaltare gli occhi azzurri contro il suo manto bruno: era un mistero per il re da dove il loro secondogenito avesse preso quegli smeraldi che si ritrovava incastonati sul muso.


“Anche se fosse solo per pochi giorni?” Il padre era restio a chiamarlo in alcun modo, non perché non gli interessasse del destino del cucciolo, quanto perché a parer suo il suo fato era già stato segnato: non aveva senso dare un nome a qualcosa che avrebbe perso nel giro di un battito di ciglia, né avrebbe probabilmente retto il pensiero di doversi separare da qualcosa che aveva già sentito come suo.


“Ancora di più se fosse così” ribatté lei, stupendolo con la sua fermezza: era sempre stato così con Uru, sapeva essere docile e mite, ma non appena aveva qualcosa da difendere, sapeva essere più persuasiva e forte di quanto lui sarebbe mai stato “Ma non sarà questo il caso. Nostro figlio vivrà e sarà un fratello amorevole e gentile per Mufasa. Non è tipico della nostra stirpe arrendersi e lui ha ereditato le nostre stesse caratteristiche. È comunque necessario che si senta a casa, non importa per quanto tempo egli resterà con noi”


Quelle parole lo colpirono e lo fecero riflettere: sì, non era l’erede ideale che avrebbe voluto, e aveva già un figlio che avrebbe dovuto svolgere quel compito, né la figlia che avrebbe potuto unire più di un regno, ma era comunque sangue del suo sangue. Anche se era così diverso da lui e il suo futuro era incerto, aveva comunque il diritto ad un riconoscimento, per quanto piccolo potesse essere.


“Taka” rispose perciò “Il suo nome sarà Taka” La moglie provò a controbattere, disapprovando la scelta del marito e soprattutto non volendo che il figlio venisse d’ora in poi chiamato in modo tanto denigratorio, ma questa volta fu lei a dover tacere, quando il Re parlò nuovamente.


“Se dovesse resistere, cosa che non sono certo che succederà, troveremo un altro appellativo più adatto a lui, ma per il momento faccio valere la mia autorità e decido per entrambi. In più, come tu ben sai, esiste un altro significato che questo nome custodisce, meno conosciuto, meno apprezzato, ma c’è: volere(1). E credo che tanto tu quanto gli Antenati siate a conoscenza di quanto io voglia che lui sopravviva” Si avvicinò al figlio, che, svegliato dai passi pesanti del padre, rivolse lo sguardo verso di lui. Non era spaventato, come era accaduto con Mufasa da piccolo, anzi: nelle sue iridi leggeva una forma di curiosità che lo intrigò a sua volta, seppur per un breve momento. Poi il piccolo sbadigliò e si rivolse nuovamente alla madre, che lo leccò e lo guardò con affetto.


“Benvenuto nel Grande Cerchio della Vita, Taka” sussurrò, allontanandosi piano e aspettando che il tempo facesse il suo corso.


                                                               *************


Taka non ebbe una cerimonia come quella del fratello, come quella di chiunque nato dalla stirpe reale: la sua condizione di salute rendeva impossibile per lui prendere ventate o anche solo stare esposto al sole per troppo tempo. La vita del cucciolo era appesa ad un filo e tutto avrebbe potuto sbilanciarne l’equilibrio, perciò passarono più di due settimane prima che chiunque, a parte Rafiki e i due genitori, potesse vederlo. Anche Mufasa, che pure non vedeva l’ora di avere un nuovo compagno di giochi con cui condividere le sue avventure, fu accuratamente redarguito così che non si avvicinasse troppo al secondogenito, per paura che, con la sua tipica irruenza, gli facesse male, seppur involontariamente. Tutti tranne Uru si aspettavano che la vita in quel piccolo corpo si spegnesse da un giorno all’altro, che un mattino avrebbero trovato Taka freddo, morto, raggomitolato in un angolo della tana.


Contro tutte le previsioni, invece, lui sopravvisse e Ahadi sospettò subito, anche se era impossibile, per qualcuno nato così da poco, che questo suo aggrapparsi alla vita e infine conquistarla pienamente fosse stato per puro spirito di contraddizione verso tutti gli altri, una sfida che egli aveva preso sul personale. E, forse, visto il particolare carattere che egli ebbe fin da subito, l’ipotesi poteva non rivelarsi così errata.


Dopo il primo mese di vita, gli venne finalmente accordato di iniziare ad uscire e orientarsi con gli altri cuccioli: il pericolo era passato e, anche se madre e padre dubitavano che avrebbe mai avuto la corporatura fisica di un leone pienamente in forze, era comunque ben saldo sulle gambe e aveva un ottimo senso dell’equilibrio. Non si poteva dire, quindi, che fosse totalmente svantaggiato rispetto agli altri, anche più grandi di lui, che ancora facevano quasi fatica a reggersi sulle quattro zampe. Malgrado quindi le previsioni del padre fossero state disattese, nessuno pensò di cambiargli nome: ormai egli si era infatti abituato ad essere chiamato in quel modo, e a lui non sembrava dispiacere. O forse era solo troppo piccolo per sorprendersi per quella strana e inusuale etimologia.


Quello che stupiva, invece, era il profondo contrasto presente fra i due fratelli, che, oltre per l’aspetto, differivano in tutto anche nel carattere: se Mufasa era impulsivo e coraggioso fin quasi all’imprudenza, Taka era riflessivo e flemmatico, tanto in alcuni casi da rasentare la codardia, se il primogenito amava lanciarsi in nuove avventure e perdersi nell’ambiente circostante tutto d’un colpo, il fratello tendeva ad avvicinarsi al nuovo con cautela, indagando e sicuro di avere la situazione in mano prima di fare qualsiasi altra mossa. Parlando in termini militari, Uru e Ahadi avevano creato un comandante indomito e un eccellente stratega. Il contrasto era forte, ma in qualche modo i due riuscivano a completarsi a vicenda: il loro era un legame molto stretto, reso ancora più forte dalla relativa vicinanza di età e questo rendeva molto fiera la madre e sollevato il padre. Se nella prima giovinezza il loro affetto reciproco fosse stato sempre così stretto, rifletteva, quando il momento fosse giunto per Mufasa di salire al trono non sarebbero nati dissidi o faide a cui lui avrebbe dovuto porre rimedio.


“Taka? Taka…? Taka!” l’erede al trono scosse una zampa più di una volta davanti al muso dell’altro, che non stava dando segno di prestargli attenzione: gli capitava spesso, in realtà, di perdersi nei suoi pensieri, che spesso trovava più interessanti del mondo attorno a lui e detestava, anzi, odiava, quando altri lo interrompevano. Ma per il fratello poteva fare un’eccezione, specialmente se sapeva che non avrebbe smesso fino a che non avesse ottenuto quello che desiderava. Era un’altra differenza nel loro carattere, avevano un concetto molto diverso di costanza: se Mufasa era capace di chiedere una cosa cento volte fino allo sfinimento altrui e o ottenerla una volta per tutte o dimenticarsene dopo meno di un’ora, Taka era solito fare sempre una sola richiesta, al massimo due se era necessario, ma calibrando bene momento e umore altrui. Se non l’otteneva immediatamente, apparentemente desisteva, ma era capace di ricordarsene per giorni, fino a che erano i suoi interlocutori ad essersene scordati: a quel punto tornava e, con poche parole, riusciva nel suo intento. Erano due metodi diversi, anche se ad una prima occhiata era il primogenito ad apparire il più determinato.


“Che succede?” sospirò quindi, alzandosi in piedi e squadrando l’altro con un’occhiata poco entusiasta.


“Vieni con me: ti devo far vedere una cosa! Sono sicuro che ti piacerà” sussurrò il primogenito, dopo aver fatto attenzione che nessuno degli adulti fosse nei paraggi.


“Di che si tratta?” Taka non aveva alcuna intenzione di muoversi di lì, non almeno fino a che l’altro non gli avesse dato una buona ragione per farlo: dal tono della sua voce, intuiva come quello che egli voleva mostrargli non fosse qualcosa che i suoi genitori avrebbero approvato e non era entusiasta nel mettersi nei guai. Non senza un ottimo motivo.


“È una sorpresa! Dai, dai, vieni con me!” Mufasa iniziò a saltellargli attorno, tentando di trasmettergli un po’ del suo spirito avventuriero, senza ottenere un gran risultato però.


“Sai che odio le sorprese. Quasi quanto gli indovinelli” L’idea che il fratello desistesse era quantomai remota, più un’utopia che una reale possibilità, ma era assolutamente determinato a non lasciarsi convincere per una sciocchezza.


“Non rovinare tutto come al solito: sono certo che ti divertirai anche tu” Come volevasi dimostrare, Taka si sentì afferrare per un orecchio e trascinare per un metro abbondante prima di riuscire a piantare gli artigli, ancora poco sviluppati, nel terreno e arrestarsi, facendo perdere l’equilibrio all’altro, che rotolò al suo fianco. Ostinato a non rispondere e a lasciarsi convincere, voltò lo sguardo dall’altra parte e si stese per terra, tentando di ignorare il sottile velo di curiosità che si stava pian piano adagiando su di lui.


“Il fatto che per te qualcosa sia divertente, Mufasa, non vuol dire che lo sia per tutti. Si chiamano “differenze di opinione” ne hai mai sentito parlare?” Socchiuse gli occhi, ma questo non gli impedì di fissare, con le sue iridi verdi tanto diverse da quelle di chiunque altro nel branco, gli occhi bruni del fratello, per nulla scoraggiato dalla sua apparente mancanza di interesse.


“Facciamo un gioco. Se vinci tu ti lascio in pace, se vinco io vieni con me” La competitività era uno dei pochi tratti che avevano in comune e, insieme ad un certo grado di vanità, era l’unico punto debole di cui Taka non riuscisse a liberarsi: dannandosi per questo e al contempo non potendo trattenersi, alzò le orecchie e la testa, squadrando torvo il suo interlocutore.


“Cosa proponi?” Capendo di essersi già in parte arreso al volere altrui, tentò di mantenere un po’ della sua ritrosia, determinato, in ogni caso, a non accettare una sfida in cui non avesse avuto possibilità di vittoria: non gli piaceva essere umiliato. Per tutta risposta, l’altro gli diede una spinta, rendendo chiaro quale fosse la sfida che gli stava proponendo: una mera questione di forza bruta. Il secondogenito non era entusiasta dell’idea e abbassò le orecchie, fermamente intenzionato a rifiutarsi di prendere parte ad un’attività in cui sarebbe sicuramente stato sconfitto. Mufasa sembrò accorgersi della reazione dell’altro, perché si affrettò ad aggiungere, con una malizia che Taka non credeva potesse possedere:


“Andiamo, non fare il fifone: solo perché non hai molte possibilità di battermi non devi ritirarti senza neanche tentare” Ed ecco che il secondo nervo scoperto del cucciolo era stato toccato: l’amor proprio. Arrabbiato e momentaneamente reso cieco dall’insinuazione del compagno, il leoncino scuro ringhiò debolmente contro l’altro e gli mosse contro con impeto. Felice di aver scatenato una qualche reazione e sicuro dell’esito dello scontro, il primogenito lo imitò. Poco prima del loro impatto, però, Taka, riguadagnata la lucidità, decise di evitare lo scontro diretto e, scartato di lato, affondò le unghie nel terreno, sollevando una nuvola di terra e lanciandola negli occhi dell’amico che, momentaneamente accecato, si lasciò prendere di sorpresa e vincere quasi troppo facilmente.


“Atterrato” gli sbatté in faccia il fratello, con un sorriso sarcastico e insieme vittorioso sul muso, attirandosi gli sbuffi del cucciolo dal manto color miele.


“Hai barato!”


“Non lo definirei barare, fratellone, quanto piuttosto sfruttare la situazione: è una cosa che dovresti imparare anche tu, se non vuoi farti prendere di sorpresa in futuro”


“Non vale, voglio la rivincita” Era tipico di Mufasa, lamentarsi quando non otteneva quello che voleva: con un sospiro di superiorità, il secondogenito commise l’errore di scuotere la testa in una maniera che poteva essere interpretata come un cenno di assenso, dando quindi la via libera all’avversario per liberarsi dalla sua presa con una zampata e farlo rotolare di quale metro, fino a finire contro la parete di roccia. Aspettò con ansia che si rialzasse per riprendere la lotta, ma, vedendo che egli rimaneva immobile e non accennava ad affrontarlo nuovamente, iniziò a sospettare che qualcosa non andasse: che lo avesse spinto troppo forte e si fosse fatto male? Che si fosse fatto… più che male? Era consapevole della natura delicata del fratello, non avrebbe mai voluto che gli succedesse qualcosa! Si avvicinò quindi con circospezione e, chiamando il compagno di giochi per nome, spinse delicatamente il suo naso contro la pelliccia dell’altro: per qualche eterno secondo, nulla si mosse. Poi, con uno scatto fulmineo, Taka si avvolse su se stesso e si tirò in piedi repentinamente, tanto da far perdere l’equilibrio a Mufasa, che si trovò nuovamente bloccato dalle zampe del fratello.


“Atterrato di nuovo” disse, questa volta con il caldo piacere della soddisfazione che gli montava nel petto.


“E tu hai barato di nuovo! Dai fammi alzare!” Consapevole della sconfitta, il primogenito si alzò con le orecchie basse e la voce mesta “D’accordo, hai vinto… ti lascio in pace” Per i Re Antenati quanto odiava vederlo con quell’espressione di vittimismo stampata sul muso: anche se aveva ottenuto quello che voleva, un po’ di pace, le parole gli uscirono di bocca prima di avere tempo di pensare.


“È qualcosa per cui vale davvero la pena correre un rischio?” Si maledisse per la propria debolezza quando vide l’occhiata vittoriosa che il fratello gli rivolse, ma era sempre così fra di loro: alla fine l’irruenza del primogenito prevaleva anche sulla sua enorme ritrosia.


“Assolutamente! Vedrai: sarà fantastico” E senza neanche aspettarlo, corse fuori, obbligando il cucciolo dal manto scuro a precipitarsi al suo inseguimento, tentando di raggiungerlo, anche se sapeva che sarebbe stato tutto inutile: la prestanza atletica, la forza, la resistenza … quelle erano caratteristiche che traboccavano in Mufasa, mentre in lui erano appena accennate. Ne aveva quanto bastava, certo, ma mai avrebbero potuto competere in quello.


Al fratello minore, però, non dispiaceva: ognuno eccelleva in qualcosa, d’altronde, ed era consapevole di essere di gran lunga più intelligente e scaltro del leoncino che in quel momento saettava davanti a lui. Fintanto che le due cose si fossero equilibrate, non aveva nessun motivo per provare alcun tipo di gelosia, anche se ogni tanto, ma solo ogni tanto, gli sarebbe davvero piaciuto avere una costituzione leggermente più piazzata.


Arrivarono alla pozza d’acqua e videro che Sarafina e Sarabi erano già lì, in attesa, per prendere parte a quella nuova avventura: erano amiche del fratello, e perciò anche sue, ma spesso notava come lo guardassero con apprensione, quasi si aspettassero che crollasse in pezzi al primo soffio di vento. Avrebbe voluto dire loro che non c’era alcun bisogno che si preoccupassero per lui, ma sospettava che gran parte di quel timore fosse costituito dalla possibilità che i suoi genitori le incolpassero se gli fosse capitato qualcosa e questo non gli faceva affatto piacere: sapeva di essere fragile, sua madre non faceva che ricordarglielo perché non si sforzasse troppo e il padre lo metteva continuamente in guardia perché non si confrontasse con leoni più grandi in scontri che non avrebbe potuto vincere, ma ciò non voleva dire che dovesse essere trattato come un peso.


“Oggi” ragionò “Potrebbe essere il giorno giusto per dimostrare chi sono, dopotutto”, per poi rivolgersi all’altro “Allora, qual è questa sorpresa che tanto volevi mostrarci?”


“Ho trovato un posto fantastico! Nessuno me ne aveva mai parlato prima, ma ho sentito di una gazzella che aveva sentito da uno gnu che aveva parlato con una giraffa che…”


“Se continuerai in questo modo, fratello, il sole calerà prima che tu ci abbia anche solo potuto dire di che si tratta”


“Non rovinare sempre il divertimento, Taka” ribatté Sarabi, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione all’amico “Avanti, mi stai incuriosendo” Odiava essere zittito da chicchessia, ma specialmente da lei: non sapeva esattamente per quale motivo, ma sentiva che fra lei e il primogenito c’era un legame molto stretto e venire rimproverato dalla cucciola era quasi come venire rimproverato da un componente della famiglia. Eccetto che lei non lo era. Stava per risponderle a tono, usando la lingua che sapeva poter essere sufficientemente tagliente da far tacere chiunque, quando il compagno si decise a risponderle.


“Beh, si tratta di un cimitero” L’eccitazione nella voce di Mufasa fece venire i brividi agli altri tre presenti, in particolare al fratello minore “Un cimitero di elefanti”.

 

 

 

 

 

 

 







1) non me lo sono inventato. Cercando su Google Traslate effettivamente “Taka” è anche parte di un verbo che significa “volere” in Swahili… ciò non toglie che per prima cosa stia per “spazzatura”


Angolino dell'autrice: Allora... che ne pensate? vi potrebbe sembare un inizio plausibile per la storia di Taka e Mufasa? Devo ammettere che la parte èiù dura è stata immaginare perché mai un padre amorevole avrebbe dovuto chiamare il proprio figlio "spazzatura" (seriamente, sfida tutte le logiche da me conosciute), ma sono piuttosto soddisfatta del risultato e spero che valga lo stesso per voi.

Per quanto riguarda il titolo dei capitoli... con due nomi avete iniziato a capire cosa abbiano in comune? Posso dirvi che è comunque qualcosa collegato con "Il Re Leone", anche se indirettamente. 

Grazie a chiunque legga, a chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite e, ovviamente, a chi commenti: recensoni e critiche negative sono sempre bene accette e aiutano a migliorare, o a dare sproni per continuare a scrivere, quindi spero davvero che mi direte come l'avete trovato.

Ci risentiamo fra due settimane!

L_A_B_SH


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Capitolo 3
*** Scar. Listen to many, speak to a few ***


3. Scar. Listen to many, speak to a few

Il cimitero degli Elefanti non era certamente il luogo più allegro e solare in cui si potesse passare il tempo e Scar avrebbe mentito se avesse detto che esso era di suo gradimento, ma poteva rivelarsi un’ottima postazione da cui osservare i dintorni senza doversi per forza imbattere nell’ingombrante presenza di Mufasa. O del pargolo reale.

A tre settimane dalla sua nascita, il leone non aveva cambiato affatto opinione su di lui: continuava ad essere insopportabilmente inutile e, ora che si muoveva, ancora un po’ malfermo sulle zampe, non faceva che stare accollato a chiunque gli degnasse un briciolo di attenzione, non capendo evidentemente ancora quale fosse il suo posto nel mondo. Sempre che ne avesse uno. L’unica cosa positiva dell’intera faccenda, a parer suo, era che ora il fratello sembrava troppo preso dalla presenza del cucciolo per dedicargli attenzione o rimproverarlo per le sue supposte mancanze: quella palla di pelo che non faceva altro che miagolargli dietro lo stava distraendo in maniera eccezionale, ma a quanto pare nessuno sembrava accorgersene. L’opinione nella savana era sempre la stessa: Mufasa era un grande re, chiunque doveva portargli rispetto e ogni volta che sentiva parole simili i suoi denti stridevano e doveva sforzarsi di non rispondere in maniera alquanto acida che anche lui sarebbe potuto essere degno di tali affermazioni, anzi, perfino di più del fratello, se qualcuno gliene avesse data la possibilità. Cosa che nessuno si era neanche mai dato la briga di provare.

Saltò giù dalla roccia su cui era disteso, camminando nervosamente avanti e indietro e aspettando l’arrivo delle uniche tre creature di sua conoscenza che avrebbero potuto gareggiare per stupidità e idiozia con un facocero affetto da demenza: Shenzi, Banzai ed Ed erano un seguito misero, e si sentiva quasi umiliato a tenerli con sé, ma aveva bisogno di loro perché spiassero e riferissero cose che lui non doveva, o non avrebbe dovuto, udire. Era molto più semplice che loro si esponessero al posto suo, loro che non chiedevano altro che una coscia di zebra ogni tanto per ricompensa, e se anche quelle tre sciocche iene fossero state scoperte non ci sarebbero state conseguenze. Per lui, s’intende. D’altronde il grande Re avrebbe mai creduto che il suo povero, caro e inetto fratellino minore fosse in compagnia di quella che da sempre era stata ritenuta la feccia della savana? Era troppo ingenuo Mufasa, lo era sempre stato e probabilmente la sua morte sarebbe stata causata da una fiducia mal riposta: se di un parente o di un amico, questo solo il tempo l’avrebbe potuto dire.

“Dove diavolo si sono cacciate questa volta?” pensò infastidito; era quasi un’ora che aspettava e si stava alquanto innervosendo: sarebbe stato meglio che avessero avuto una scusa pronta, quando si fossero presentate. La sua conoscenza con loro risaliva ad anni prima, quando ancora sul suo viso non c’erano marchi e portava un altro nome, un nome con un significato esattamente opposto a quello del futuro sovrano e che già aveva chiarito quello che tutti pensavano e avrebbero sempre pensato di lui.

Taka. Rifiuto. Spazzatura. A chiunque lo incontrasse e non sapesse chi era gli angoli della bocca si sollevavano per la derisione o al massimo per la pietà quando lui si presentava, nel primo periodo della sua vita con la vanagloria e l’esuberanza di un cucciolo e poi sempre più malvolentieri, con la consapevolezza del ruolo che la sorte aveva scelto per lui e che a quanto pare avrebbe dovuto recitare. Certo, c’era un’altra accezione, che richiamava al desiderio e che senza dubbio era più tollerabile della precedente, ma era talmente poco conosciuta da non essere certo quella ad apparire per prima nella mente di chi lo incontrava. E poi, se paragonato con “Mufasa”, qualsiasi altro nome perdeva di importanza. Quello che l’aveva colpito delle iene, il giorno in cui si erano conosciuti, era che non avevano neanche tentato di mascherare il loro divertimento per l’etimologia del suo nome, ma anzi, gli erano scoppiate a ridere in faccia: lo aveva fatto infuriare e incuriosire insieme, quel comportamento così sfrontato verso un membro della famiglia reale, che invece sarebbe dovuta essere, a quanto lui aveva sempre sperimentato, comunemente e universalmente onorata e rispettata, per finta o realmente. Aveva immediatamente capito di che materiale erano fatti quegli animali: creta, facile da plasmare e manipolare a suo piacimento, e nonostante li disprezzasse immensamente per il loro lecchinaggio e la considerevole piaggeria che avevano iniziato a dimostrare verso di lui non appena avevano intuito che la sua vicinanza avrebbe potuto fruttare loro dei vantaggi, era utile avere un contatto, per quanto basso e di poco conto, con la parte più repressa e ignorata della savana. Non erano coraggiose, anzi, codarde fino al midollo e mai avrebbero preso posizione contro il Re che tanto dicevano di disprezzare se Scar glielo avesse chiesto, ma non poteva pretendere di più da quei microbi. Senza contare che quello era l’unico ambiente in cui riuscisse a sentire parlare di suo fratello in termini che non sfiorassero l’adorazione, come se ci si stesse riferendo ad un dio sceso in terra.

Era quasi deciso ad andarsene, portandosi con sé l’immeritata ricompensa che aveva promesso a quelle tre nullafacenti se fossero riuscite a trovare quello che voleva, quando sentì dei passi affrettati e scoordinati che, con un sospiro di rassegnata superiorità, non poté che attribuire a loro.

Spiccato dunque nuovamente un balzo sulla roccia dove era stato accomodato fino a poco prima, ritornò nella sua posizione originaria e aspettò che si facessero avanti, meglio se con un’ottima scusa per il ritardo, un’aria contrita e mesta per averlo fatto aspettare e delle buone notizie.

Ovviamente, non ottenne nessuna delle tre.

“Mollami, Ed! Mollami, non sono un’antilope dannazione!” Banzai fu il primo ad arrivare, trascinandosi dietro Ed che, con il suo solito comportamento, si era attaccato alla zampa del compagno e lo stava mordendo fino quasi a farlo sanguinare, il tutto mantenendo gli occhi spalancati e ricolmi di quella stupida follia che tanto gli si addiceva: il leone trattene un sospiro di disapprovazione, vedendosi costretto ancora una volta ad avere a che fare con degli individui tanto inferiori.

“Lascialo stare, sai come è fatto: fra un paio di minuti si dimenticherà cosa sta facendo e la smetterà” Shenzi era a pochi passi da loro con le labbra incurvate in segno di divertimento e per nulla intenzionata a fare nulla per aiutare Banzai a liberarsi del suo incomodo, che sembrava sempre più deciso a spolpare la caviglia dell’amico. Sempre che ci fosse qualcosa attaccato a quelle ossa, considerando quanto fossero magri tutti e tre.

“Grazie per la considerazione, me lo ricorderò la prossima volta che sarai tu a doverlo sopportare” Dopo trenta secondi buoni di tentativi, finalmente la “preda” riuscì a liberarsi dal suo aguzzino, che rotolò per cinque buoni metri prima di fermarsi, sbattendo la testa contro la roccia e cominciando a ridere come un ossesso, presto seguito a ruota dagli altri due.

“Idioti, sono assolutamente, completamente idioti” pensò Scar, passandosi una zampa sul muso, con espressione sconsolata: erano lì da cinque minuti e non sembravano aver neanche notato la sua presenza. Accennò dei falsi colpetti di tosse, forti quanto basta da attirare finalmente la loro attenzione, e fu almeno un po’ compiaciuto di vedersi finalmente degnato dei loro sguardi.

“Oh, Scar… sei, sei qui!” Banzai sembrava nervoso, il che probabilmente non era un buon segno: solitamente, quando le notizie riportategli erano buone, cosa che succedeva alquanto raramente, purtroppo, nessuno si faceva pregare per annunciargliele, anzi, facevano a gara per essere ciascuno il primo e ottenere la propria ricompensa. Parassiti, ecco cosa erano per lui, parassiti che potevano avere una qualche utilità se debitamente sfruttati. Fece comunque segno di non accorgersi dello stato d’animo della iena: la paura era la loro punizione essersi presentati in ritardo al suo cospetto.

“Sì, sono qui, esattamente come, se la memoria non mi inganna, avevamo concordato. Voi, piuttosto, non credete di aver dimenticato qualcosa?” Inclinò leggermente la testa e abbozzò un ghigno, aspettando una risposta che, ne era certo, sarebbe arrivata in modo alquanto rapido, anche se probabilmente non era quella che avrebbe voluto ricevere.

“A questo proposito…” Shenzi si fece avanti, senza guardarlo direttamente negli occhi: era la più sveglia, o forse la meno stupida, del terzetto e quella che Scar trovava più sopportabile da ascoltare “…Noi ci abbiamo provato, sul serio, ma sembra che nessuno, e intendo davvero nessuno, sappia o abbia sentito dire di qualunque tipo di malcontento nel reame. Niente, nada! Sembra che tutti siano soddisfatti e felici qui intorno…”

“Tutti tranne noi” Banzai si stava controllando la zampa morsicata, ma non perse tempo per lamentarsi “Qui chiunque fa la bella vita, mentre noi siamo confinanti in questo orrendo posto”

Il leone alzò nuovamente gli occhi al cielo, mentre nella sua testa mulinavano pensieri scaturiti da quella, purtroppo prevedibile, scoperta: aveva sperato che ci fosse qualcuno, qualche specie oltre alle qui presenti iene, insoddisfatta e bisognosa di un nuovo leader che la guidasse. Mufasa poteva essere il Re, ma lo sarebbe stato solo fino a quando avesse mantenuto il consenso del popolo ed era possibile, improbabile, ma possibile, che la sua nuova attività di padre a tempo pieno lo avesse portato a trascurare qualcosa, un dettaglio, una qualsiasi faccenda su cui lui potesse fare appiglio: dalla nascita di Simba, il pensiero di riuscire ad accedere al trono, ora più lontano che mai, continuava a tormentarlo. L’impressione di venire messo da parte, di essere destinato a rimanere per sempre nell’ombra, ignorato e dimenticato, mentre suo fratello si gustava il successo e l’onore che sarebbero dovuti spettare a lui lo rodeva dall’interno: ma come fare a ribaltare la situazione senza affrontarlo direttamente?

Ci aveva provato una volta, in passato, e portava ancora addosso i segni del suo fallimento.

No, lo scontro frontale era fuori questione e mal si adattava alla sua personalità: era più sicuro che gli altri facessero il lavoro al posto suo, in modo tale che se la faccenda non fosse andata a buon fine, lui non ne avrebbe subito le conseguenze, mentre altrimenti avrebbe accettato gloria e onori senza dover giustificare il suo comportamento, all'apparenza impeccabile.

“Scar…? Scar? Scar!” I suoi ragionamenti vennero spezzati dal continuo chiacchiericcio delle iene sotto di lui, che a quanto pare lo stavano chiamando e ricercando la sua attenzione: lanciò loro un’occhiata sbieca, alzandosi a sedere.

“Che cosa c’è?”

“Ti abbiamo riportato le notizie che volevi… perciò che ne dici della ricompensa promessa?” Al suono della parola “ricompensa” Ed alzò la testa, la lingua già penzolante per l’acquolina, seguito dopo non molto dagli sguardi speranzosi degli altri due. Il leone era tentato di andarsene senza dire loro una parola: gli avevano deliberatamente mancato di rispetto, non che questa fosse una novità, e in più non gli avevano neanche portato utili informazioni, ma era necessario accontentarli per essere sicuro che gli fossero fedeli. Trattenendo un moto di fastidio, quindi, prese il cibo portato e, dopo averlo tenuto sollevato per qualche momento e aver contemplato le loro espressioni fameliche, lo lasciò cadere davanti a loro: la scena si ripeteva da anni ormai, ma non poté fare a meno di sollevare il sopracciglio, disgustato ancora una volta dalla loro totale mancanza, non solo di decenza e intelligenza, ma anche a quanto pareva di amor proprio. 

Le lasciò dunque mangiare, non avendo assolutamente intenzione di intraprendere un’altra discussione con loro che, ne era certo, avrebbe guastato ancora di più il suo umore, e, alzatosi silenziosamente, si diresse verso le Pride Lands, con la snervante risata del terzetto ancora nelle orecchie. 

                                                                     ****************

Arrivò nei dintorni della Rupe dei Re verso il calar della sera, ma ancora in tempo, purtroppo, avrebbe potuto aggiungere, per vedere Mufasa rientrare e venire accolto da Sarabi e dal cucciolo che, esuberante come sempre, si andò a strofinare sulle sue zampe e articolando qualche parola sconnessa, probabilmente con qualche significato misterioso che Scar non riusciva assolutamente a comprendere, che fece sorridere i due genitori. 

Trovava quella scena di intimità familiare assolutamente patetica.

Fece per andarsene, non volendo essere visto né sentito, ma anzi, desiderando un po’ di tranquillità e pace per poter meglio pensare a quale sarebbe potuta essere la sua prossima mossa, ma, proprio nell’atto di voltare la schiena, la sua criniera nera venne in qualche modo vista dal cucciolo che, dimenata la coda con l’entusiasmo tipico di chi si è appena affacciato alla vita, iniziò a chiamarlo con il linguaggio infantile che tanto lo infastidiva.

Ora che l’attenzione su di lui era stata attirata, non poteva fare altro che scendere in scena e confrontarsi con un altro terzetto, non meno fastidioso del precedente, senza contare che la presenza del fratello rendeva il tutto ancora più insopportabile: alzò comunque la testa e, con un sorriso che si sforzò di non far assomigliare ad una minaccia di morte, incontrò lo sguardo del primogenito, che lo squadrava con aspettativa. Dalla sua assenza alla presentazione di Simba, Mufasa sembrava aver tentato di tutto per assicurarsi che il cucciolo si abituasse alla presenza dello “zio” il più in fretta possibile: non era stata un’impresa facile, perché, somigliando così poco al fratello, veniva visto dal leoncino più come un estraneo che come membro della famiglia. Scar avrebbe sempre ricordato, con un sentimento di disgusto misto forse a un pizzico di piacere, come, al loro primo incontro, qualche giorno dopo la cerimonia, l’altro si fosse messo a piangere solo a vederlo. Aveva sperato che questo mettesse fuori discussione un futuro contatto con il pargolo, ma a quanto pare i genitori erano di tutt’altra idea e avevano fatto in modo che se lo ritrovasse fra i piedi ancora e ancora in quel breve arco di tempo, fino a che il quadretto della famigliola felice si era perfettamente assestato. Quello che più non sopportava era che Mufasa, in un modo o nell’altro, riusciva ad ottenere sempre quello che desiderava: il regno, l’amore di Sarabi, un figlio sano e somigliante in tutto e per tutto a lui… si illudeva, probabilmente, di avere anche il rispetto e la stima del fratello. 

Senza fretta, si avvicinò alla rupe, evitando di incrociare direttamente lo sguardo con nessuno dei tre: ancora prima che di trovarsi direttamente di fronte al fratello, Simba trotterellò verso di lui con l’andamento giocoso tipico dei giovanissimi, ricercando probabilmente delle attenzioni che lui non era assolutamente disposto a concedergli. Si limitò quindi ad avvicinarsi al padre, con il cucciolo che gli zampettava accanto, probabilmente eccitato dal vedere una figura molto spesso assente nella famiglia.

“E così a quanto pare il grande Re ha finalmente trovato un po’ di tempo per la sua famiglia” sorrise, cinico “Sono sorpreso. Pensavo che governare la savana fosse un compito a tempo pieno”

“Non sono dell’umore giusto per il tuo sarcasmo, Scar. È stata una giornata piena” fece una pausa, assolutamente non necessaria a parere dell’altro, probabilmente calibrata per aggiungere più enfasi alle sue parole “La mandria degli gnu oggi era particolarmente inquieta: è stata una fortuna che il loro movimento non abbia causato troppi danni. A quanto pare tre iene sono uscite dal territorio e l’hanno spaventata: quegli esseri si stanno facendo sempre più sfrontati, ogni giorno che passa. Ho dovuto presentarmi personalmente perché facessero ritorno nel loro territorio. Mi chiedo cosa le spinga a rischiare tanto…”

Quindi era questa la causa del ritardo di quegli idioti; ne era doppiamente infastidito: da una parte perché questo implicava che sicuramente non avevano svolto il loro compito in maniera sufficientemente accurata, dall’altra perché, se si fossero traditi in qualche modo davanti a Mufasa, ora lui avrebbe dovuto fornire spiegazioni doppie. Era stato fortunato, o forse il fato aveva deciso di compensare l’enorme stupidità del suo seguito con un piccolo risarcimento, ma decise che era meglio non sfidare la sorte ancora, o almeno non nel breve futuro. Se fossero stati scoperti nuovamente, anche al fratello sarebbero potuti sorgere dei dubbi sul reale motivo della loro presenza. Avrebbe trovato un altro modo per arrivare al suo obiettivo, anche se la presenza della palla di pelo che stava saltellando davanti a lui tentando di coinvolgerlo in una sua qualche misteriosa attività non rendeva certamente tutto più facile. Non gli diede attenzione, così alla fine il cucciolo si stancò e corse verso la madre, che lo prese per la collottola e, dopo aver rivolto uno sguardo sorridente a Mufasa e uno, decisamente più fosco, a Scar, lo portò all’interno, lasciando i due leoni soli sulla Rupe.

Il primogenito li seguì con lo sguardo, prima di rivolgersi nuovamente all’altro “Ti vedo sorpreso… eppure passi molto tempo, gran parte del giorno in verità, a camminare per la savana, dovrai pur aver notato un movimento tanto ampio”

“Se sapessi dove passo realmente il mio tempo, fratello, probabilmente molte cose di sarebbero più chiare” pensò lui di rimando, dicendo invece “Oh, sai, preferisco non badare troppo a queste faccende” alzò la zampa, facendo segno di indifferenza “D’altronde, non è questo il mio compito: sei tu il sovrano, tu hai il compito di governare tutto questo, non certo io. E al momento giusto questa incombenza passerà a tuo figlio”

Apparentemente Mufasa non mostrò segno di aver inteso il tono acido del fratello, perché, colto il riferimento a Simba, sul suo muso si delineò un enorme sorriso: “Sta crescendo bene, non è vero? Sarabi ed io siamo molto orgogliosi di lui.”

Scar rimase in silenzio per qualche secondo, cercando le parole giuste con cui rispondere: “È ancora giovane, ma è evidente che siete molto simili” Una frase che aveva due diversi significati, per chi l’aveva pronunciata e per chi l’ascoltava, ma da entrambe le parti sentita con sincerità: per il fratello, era la garanzia di una discendenza sana e forte, che avrebbe dato lustro e orgoglio a lui e ai sovrani del passato, per lui era invece la conferma dell’eterna ombra che sarebbe calata sulla sua figura se non avesse al più presto fatto qualcosa.

“È sorprendente come tu riesca sempre a trovare le parole giuste per tutto: è sempre stata una tua caratteristica, fin dall’infanzia”

“Questa è una sorpresa! È un mezzo complimento quello che sento? Il grande sovrano deve essere davvero stanco per lasciarsi sfuggire parole simili” Malgrado il suo tono cinico e anche se non lo avrebbe mai ammesso, né ad alta voce né tantomeno, soprattutto, con se stesso, le parole del fratello lo avevano sorpreso. Sapeva molto bene quali fossero le sue abilità, quello che tendeva a non vedere era il riconoscimento di esse da parte altrui: questa strana dimostrazione di considerazione da parte dell’altro era quindi arrivata assolutamente inaspettata; doveva essere la nuova paternità a renderlo così sentimentale.

“Non farmi rimangiare ciò che ho detto, Scar” La risata di Mufasa era esattamente uguale al suo carattere: calda, corposa, forte e, soprattutto, assolutamente sincera. Quand’era l’ultima volta che invece lui aveva provato quell’abbandono tipico di un riso genuino? Non se lo ricordava assolutamente né ne sentiva la mancanza in assoluto: anzi, probabilmente non era neanche mai successo. Ridere significava vittoria, avere qualcosa da festeggiare e celebrare e cosa poteva possedere lui, intelligente e scaltro sì, ma senza prospettive di essere nulla di più di un’immagine sfocata? Ma soprattutto, quel genere di gioia era propria di chi dimostra illimitata fiducia nel prossimo, di chi si aspetta il meglio dalla vita e crede di poter continuare in quel modo in eterno: era un segno di debolezza. Spesso si sorprendeva di quanto Mufasa potesse dimostrasi naïf e dentro di lui nasceva orgoglio, superiorità, perché, al contrario suo, vedeva le cose come stavano. 

Solo gli sciocchi potevano permettersi di essere felici e lui non era tale.

La sera era completamente calata e il primogenito, dopo averlo salutato, si diresse verso la grotta per raggiungere Sarabi e il cucciolo, lasciando il fratello nella stessa posizione, perso nei suoi pensieri: se stesse macchinando nuove soluzioni a quello che riteneva un problema irrisolvibile o se si stesse invece domandando se davvero non avesse mai provato autentica felicità, forse neanche lui avrebbe saputo dirlo.
















Angolino della pseudo-autrice: Allora... come avrete capito, io sono dell'idea che Scar non abbia pensato immediatamente all'omicidio, insomma, uno come lui avrà sicuramente valutato tutte le opzioni a sua disposizione prima di prendere una scelta tanto drastica, e anche il rapporto che ho descritto con Shenzi, Banzai ed Ed spero vi abbia almeno in parte ricordato l'originale.
So che probabilmente non servirà a nulla (siamo un fandom piccolo e poco frequentato), ma volevo ancora incoraggiarvi a lasciare un pensierino per dirmi come la state trovando o nel caso vi accorgiate di qualche svista: fa davvero piacere e aiuta anche a stimolare la voglia di continuare a pubblicare (cosa che farò in ogni caso, quindi l'unico modo per liberarvi di me è dirmi che questa storia fa solennemente schifo)
E... niente, continuo a lanciare la sfida ad indovinare cosa abbiano in comune i titoli dei capitoli (con tre inidizi forse è più chiaro, ma non ne sono sicura) a parte il fatto che siano in inglese: mandatemi un messaggio se pensate di averlo capito.
Grazie a tutti coloro che in ogni caso leggono e arrivano fino alla fine di ogni capitolo,
L_A_B_SH

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Capitolo 4
*** Taka. It is not nor it cannot come to good. ***


4. Taka. It is not nor it cannot come to good

Taka era senza dubbio felice, malgrado non sapesse bene come sentirsi mentre seguiva, ancora una volta, il fratello verso la loro destinazione: era al corrente del fatto che un cimitero di elefanti fosse un posto pericoloso da esplorare, non ci voleva certo un genio per giungere a quella conclusione, e che quindi sarebbe stato senza dubbio meglio voltare le spalle al gruppo e tornare a casa, per poter raccontare ai genitori quanto Mufasa avesse in programma ed evitare a tutti una valanga di guai. Ma non appena apriva bocca, pronto ad esprimere la sua opinione, lo sguardo gli cadeva sul cucciolo che procedeva vicino a lui, sicuro e con lo sguardo luccicante per la prossima avventura che l’avrebbe aspettato, e si riempiva di una smisurata ammirazione per il fratello, che riusciva a non spaventarsi mai: coraggioso, ripeteva una voce dentro la sua testa, più coraggioso di quanto tu potrai mai essere. Sconsiderato, sussurrava un’altra, e un giorno questo gli costerà caro.

Ma a determinare la sua decisione di rimanere in silenzio e aspettare lo svilupparsi degli eventi furono soprattutto le occhiate che le due leonesse rivolgevano al suo compagno: così ammirate, così… fiduciose che era certo si sarebbero buttate da una cascata se lui glielo avesse detto. Era l’effetto che Mufasa faceva a chiunque: era talmente sicuro di sé, talmente ricolmo di energia che sembrava avere tutto sotto controllo anche quando non era vero. Taka aveva l’esatto problema, tendeva a ragionare troppo e ad appellarsi alla ragione altrui, che spesso non era disposta ad ascoltare e questo lo portava ad apparire più insicuro di quanto in realtà non fosse: sperava che seguendo e, perché no?, in qualche maniera emulando il fratello, sarebbe riuscito anche lui a conquistarsi la stima della gente attorno. Perso nei suoi ragionamenti, non si accorse che gli altri si erano fermati fino a che non andò letteralmente addosso a Sarabi, che lo guardò scocciata. Non fece in tempo a borbottare delle scuse che il cucciolo al suo fianco aprì bocca, presentando loro la destinazione finalmente raggiunta:

“Ecco a voi, ragazzi” Davanti al gruppo si estendeva un enorme ossario, completamente appartenente a elefanti di cui in qualche caso si riusciva ancora a distinguere la forma: metteva i brividi e allo stesso tempo era piuttosto invitante. Ognuno di loro si sentì percorrere da un brivido di eccitazione che scompigliò la loro pelliccia… beh, ognuno tranne Taka, la quale eccitazione era stata sostituita dalla improvvisa certezza che lì non ci fosse nulla di buono pronto ad aspettarli.

Al diavolo il coraggio e tutte quelle stupidaggini! Qui si trattava di avere buonsenso e in quello era sicuramente più provvisto degli altri: se il suo istinto gli suggeriva di correre, scappare e non voltarsi indietro era quello che avrebbe fatto e fosse stata l’ultima cosa in vita sua avrebbe fatto retrocedere anche suo fratello.

“Molto bene, ci hai fatto vedere… tutto questo” inarcò un sopracciglio “Ma ora è meglio tornare: la strada è lunga e il tramonto non poi così distante; non vorrete rimanere bloccati qui di notte, mi auguro”

Quello che a lui era sembrato un ragionamento assolutamente logico, venne accolto con delle risate da parte di Sarafina: “Uhhh, a quanto pare hai paura”

“Non si tratta di avere paura o meno, si tratta di avventurarsi da qualche parte senza avere la minima idea di…”

“Ci stai rovinando il divertimento ancora una volta, Taka” Lo sguardo che Sarabi gli rivolse valeva più di mille parole: non dovevamo portarti con noi. Era sempre quello il problema alla fine, sempre quello lo scoglio che trovava insuperabile: far ammettere loro che anche lui sarebbe potuto essere divertente, una piacevole compagnia esattamente e anche più di Mufasa e non solo il patetico fratellino minore che lui si portava sempre dietro. Lo desiderava, sì, desiderava il riconoscimento degli amici del compagno più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma ora non era importante: doveva seguire il suo cervello, non la massa, doveva dimostrarsi responsabile. D’altronde, anche se era il più piccolo, aveva spesso tirato lui stesso l’altro fuori dai guai.

Decise dunque di cambiare tattica: assunse un’aria indifferente e lanciò uno sguardo sprezzante davanti a sé: “Non vedo cosa ci troviate di tanto eccitante qui dentro: è solo un vecchio mucchio d’ossa, putride e mezze decomposte. Si trovano cose molto più divertenti appena fuori dalla nostra grotta: ci annoieremmo e basta a passarci il pomeriggio”

“Lo dici solo per darti un tono: la verità è che stai morendo di paura” Sarabi lo stava nuovamente fissando, ma in modo diverso da prima: c’era un dubbio nelle sue iridi castane, castane come quelle del fratello e del padre, un dubbio labile, sì, ma c’era. Taka non aveva bisogno di sentirlo uscire dalla sua bocca per saperlo: possibile che lui forse non sia così codardo come sembra?

Stava quasi per darsi una metaforica pacca sulla spalla, congratulandosi con se stesso per essere riuscito a convincere gli altri, quando ovviamente il futuro erede al trono si sentì in dovere di rovinare tutto.

“Se davvero sei così coraggioso, ti sfido ad entrare nel cimitero degli elefanti. Da solo” Le parole pronunciate da Mufasa ebbero l’effetto di scariche elettrice sulla pelliccia di Taka, che si girò verso il fratello sforzandosi di mantenere la calma.

“Non si tratta di coraggio, come ti ho detto: non vedo solo quale possa essere il divertimento nel fare una cosa…” 

“Appunto per questo non dovresti avere alcun problema a provarcelo: scendi là sotto, rimani un paio di minuti e torna indietro. Capiremo che ci stai davvero dicendo la verità e ti asseconderemo”

“Io non devo dimostrare niente a nessuno” rispose, sulla difensiva: possibile che davvero il compagno non sapesse intuire quando era il momento di smettere?

“Non devi, o non vuoi?” Sarabi, apparentemente riguadagnata la sua sicurezza, si era nuovamente schierata in favore del cucciolo dal manto color miele e Sarafina, propensa a seguire il gregge com’era, avrebbe sicuramente fatto la stessa cosa: ora Taka aveva due scelte. La prima era non dare loro ascolto, lasciarli lì e tornare alla Rupe, con la certezza di aver per sempre certificato la sua fama di codardo, mentre la secondo era accettare la sfida, entrare in quel posto così inquietante e pericoloso da solo, provando invece il coraggio necessario a un compagno di giochi, un amico fidati e, chissà, magari anche a un ottimo sovrano. Malgrado la sua coscienza lo stesse tirando per i pochi ciuffetti di pelo che costituivano la sua criniera invitandolo ad essere ragionevole, il suo istinto e competizione ebbero la meglio e, maledicendosi per quello che stava per fare, fece segno a Mufasa di spostarsi, dirigendosi, con una calma solo apparente, verso il basso e ignorando le occhiate stupite e anche un po’ ammirate che gli venivano rivolte dalle leonesse. I suoi compagni sparirono quasi subito dalla sua vista e, mentre scendeva e faceva attenzione a non cadere sopra le ossa scivolose che coprivano completamente il terreno, si trovò a reprimere un ringhio di frustrazione al pensiero dell’assurda situazione in cui si era infilato, anzi, in cui Mufasa l’aveva praticamente spinto a forza. Certe volte lo odiava proprio.

Beh… odiare era forse una parola grossa, si trattava pur sempre di suo fratello: come avrebbe mai potuto provare un sentimento tanto negativo nei confronti di un membro della sua famiglia? Si sentiva male solo al pensiero. No, era più un senso di fastidio, molto fastidio, dettato dal fatto che qualsiasi cosa si decidesse di fare era sempre lui ad avere l’ultima parola e che tutti prendessero ciò che diceva come oro colato, quasi fosse già lui il Re delle Pride Lands, quando il padre non aveva ancora assolutamente scelto il suo successore. E chissà, magari avrebbe valutato maggiormente la sua intelligenza e il suo buon senso piuttosto che il coraggio e il buon cuore del fratello: sì, era vero, il primogenito era sempre disponibile ad aiutare chiunque si fosse trovato in difficoltà, ma se tutti avessero ascoltato di più i suoi suggerimenti e direttive era certo che non ci sarebbe stata nessuna crisi da affrontare e prevenire era molto meglio che curare, giusto? Taka alzò la testa e chiuse gli occhi, immaginando un mondo in cui lui fosse diventato la guida del branco e dove gli sguardi di ammirazione fossero solo per lui: sorrise, a metà fra la realtà e il sogno, prima che le sue fantasie venissero interrotte da uno scontro piuttosto violento contro la spina dorsale di un elefante. Aprì gli occhi di colpo, il naso dolorante per l’improvviso colpo subito, e ringraziò i Re Antenati che la struttura davanti a lui fosse ancora sufficientemente solida da non crollare, altrimenti sarebbe stato davvero in grossi guai. Si guardò attorno, rabbrividendo alla vista dello stato di impressionante desolazione del paesaggio attorno a sé, prima di decidere che era rimasto lì intorno anche troppo e quindi avrebbe certamente fatto meglio a tornare dai suoi amici. Aveva provato il suo valore, non serviva dare una conferma anche della sua infermità mentale.

Fece quindi inversione di marcia, girando intorno a quel grosso scheletro e… un momento. Era arrivato da destra o da sinistra? Il cucciolo si guardò intorno, disorientato: tutto preso com’era dai suoi pensieri, non aveva fatto caso a dove si fosse diretto e in quel momento non aveva la più pallida idea di quale strada dovesse fare per uscire di lì. Sentì la gola diventargli pesante al pensiero di essersi perso, ma si impose di mantenere la calma: non aveva camminato per molto tempo e, a rigor di logica perciò, anche la sua via di fuga non doveva essere lontana. Gli sarebbe bastato, si disse, fare pochi passi per rivedere il mantello del fratello e riempirlo di morsi per l’assurda situazione in cui si era cacciato.

Accennò quindi una svolta a sinistra, tenendo sempre presente la spina dorsale gigantesca come punto di riferimento provvisorio e avanzò per qualche secondo: quando alzò la testa, il paesaggio era ancora totalmente sconosciuto. Sempre più disorientato e spaventato, continuò a procedere, affrettando il passo fin quasi a correre, pensando anche che era colpa di Mufasa se si era perduto e colpa sua che gli aveva dato retta: da quando in qua gli importava così tanto dell’opinione altrui da mettersi volontariamente in pericolo? 

Quando vide che, dopo quelle che gli sembrarono ore, non era riuscito a venire a capo della faccenda, decise di tornare nel posto da cui era partito e che, fortunatamente, riusciva ancora a scorgere da lì; una volta arrivato, si mise a sedere in mezzo a quel marciume, con le zampe che tremavano e le lacrime agli occhi: tentò di fare chiarezza fra i suoi pensieri e arrivare ad una strategia da seguire. Non avrebbe avuto senso continuare a vagare senza meta, con il rischio di perdersi ancora di più e, anche se tutto quello che avrebbe voluto era semplicemente sdraiarsi e mettersi a piangere, il poco senso pratico che ancora era rimasto in lui gli diceva che arrendersi non era una soluzione. Improvvisamente, gli venne in mente che, se davvero si era allontanato poco quanto credeva e i suoi amici erano vicini, forse se avesse fatto rumore lo avrebbero visto e sentito e lui avrebbe potuto seguire le loro grida per raggiungerli: non aveva di meglio che fare un tentativo, tanto più che il luogo sembrava completamente deserto e inoffensivo. A parte i poveri pachidermi defunti, l’unica presenza che poteva sentire oltre alla propria era quella degli insetti.

“Ehi, ragazzi, mi sentite?” domandò quindi, la voce senza volerlo ridotta a un sussurro “Ragazzi?” chiese di nuovo, leggermente più forte.

“Mufasa! Dai andiamo non è divertente!” Il tono era aumentato e fu piacevolmente sorpreso quando avvertì un fruscio dietro la sua spalle destra, anche se sobbalzò lievemente udendolo: probabilmente quei tre erano scesi per seguirlo e ora si stavano facendo quattro risate alle sue spalle.

“Ah ah ah! Molto divertente gente, davvero, mi sto rotolando per terra, ma se ora volessimo andarcene da questo posto orrendo ve ne sarei…” Si interruppe quando il suo naso fiutò un odore assolutamente nuovo e per nulla piacevole: ebbe l’improvvisa consapevolezza che, dietro di lui, non ci fossero due leonesse e un giovane leone.

“Orrendo posto? Qualcuno qui deve imparare le buone maniere: non si scherza in casa altrui, non è vero Banzai?”

“D’accordissimo, Shenzi: forse dovremmo essere noi ad insegnargli a comportarsi in maniera appropriata”

Taka si girò lentamente, senza fare movimenti bruschi e cercando di dominare il terrore che si era impadronito di lui una volta per tutte, e quando fu faccia a faccia con gli sconosciuti… non poté fare a meno di essere quantomeno un po’ deluso. Davanti a lui, a qualche passo di distanza e con un’espressione più confusa che arrabbiata in viso, erano in piedi tre cuccioli di iena, all’incirca della sua età. Una era chiaramente una femmina, e quindi probabilmente era quella che rispondeva al nome di Shenzi, mentre il suo vicino, presumibilmente Banzai, era maschio, così come l’ultimo componente del terzetto, che però inquietava alquanto il leone: il modo in cui pendeva la lingua e teneva gli occhi costantemente sbarrati non era… normale.

Rincuorato dal non avere di fronte tre predatori adulti, ma comunque intimorito dall’idea di essere tre contro uno, si alzò su quattro zampe e li fissò dritti negli occhi, tentando di non mostrare debolezze: “È stato uno sbaglio che mi ha portato qui” disse quindi “Non ho intenzione di farvi del male o di disturbarvi, perciò se mi lasciate passare mi leverò dalla vostra vista in un attimo”

L’animale ancora senza nome si mise a ridere come un ossesso alle parole del piccolo, che aggrottò le sopracciglia, non capendo cosa avesse detto di tanto divertente, ma non essendo molto sicuro di volerlo sapere.

“Oh, e piantala Ed!” Shenzi diede un calcio al compagno, che rotolò per qualche metro e poi si azzittì, pur mantenendo quello strano sorriso che Taka era già passato dal trovare disturbante a tremendamente innervosente.

“Tornando a dove eravamo” la iena rivolse nuovamente lo sguardo verso di lui “Devi sapere che qui tu sei un estraneo e a noi, a tutto il nostro branco, in realtà, non piacciono gli estranei, specialmente se sono parte dei leoni: capisci per quale motivo la tua posizione è particolarmente scomoda?”

Il piccolo ragionò velocemente, cercando la risposta più appropriata possibile: sì, era a conoscenza del divieto di valico che quella razza aveva nei confronti delle sue terre, anche se non ne aveva mai compreso pienamente la ragione, e sapeva anche che, malgrado loro fossero molto giovani e gracili, non avrebbe avuto nessuna speranza di farcela se avessero deciso di allertare il branco.

E morire divorato dalle iene non era esattamente il modo in cui desiderava terminare la propria vita. 

Decise dunque di tentare con un’altra strategia che non prevedesse l’attacco diretto e frontale.

“Comprendo perfettamente” disse dunque “Ma spero che anche voi comprenderete che non vi conviene farmi del male, per il vostro stesso bene: non sono solo, altri tre leoni sono nei paraggi e non sarebbero per nulla felici se sapessero che mi avete minacciato, figuriamoci se mi attaccaste. Non vorrete pagare le conseguenze di un’azione tanto misera e priva di scopo, vero?” C’erano alcune lacune logiche nel suo discorso: tanto per cominciare, se davvero questi fantomatici aiuti erano tanto vicini, perché non l’avevano ancora soccorso? O ancora, perché si era ritrovato separato dagli altri se davvero aveva tutto questo controllo e protezione? A questo stesso ragionamento, Taka avrebbe potuto trovare almeno altre quattro obiezioni, ma era possibile che quegli animali davanti a lui non le notassero: non sembravano molto furbi dopotutto. Tirò quindi un sospiro di sollievo quando l’unica domanda che gli venne posta, da un Banzai leggermente più nervoso di prima, fu:

“E perché dovrebbero essere così in pensiero per un esserino minuscolo come te?”

“Perché io sono il Futuro Re delle Pride Lands” Bugia a metà, esattamente come la presenza dei tre leoni: aveva in fondo un buon cinquanta percento di possibilità che si realizzasse nell’immediato futuro “Avete davanti a voi il figlio di Ahadi, il Principe Taka”

Aveva sperato di incuriosirli, intimidirli, persino spaventarli con quella dichiarazione, ma ottenne esattamente l’effetto opposto: i tre compagni si misero a ridere fragorosamente, lasciandolo ancora una volta interdetto.

“Questa è proprio bella: un Principe di nome Taka. Certo che nella savana non scelgono nomi molto lusinghieri per i loro pargoli” Shenzi aveva le lacrime agli occhi e questo diede immensamente fastidio al suo interlocutore che, dimentico delle preoccupazioni provate fino ad un minuto prima, si ritrovò alquanto sulla difensiva:

“Che cosa c’è che non va con il mio nome?”

“Beh, è alquanto singolare: un reale, anzi, un futuro sovrano chiamato “spazzatura” non l’avevo ancora mai sentito. Cos’è: una nuova moda?” 

Il piccolo abbassò lievemente le orecchie, pensieroso: non era la prima volta che rifletteva sull’etimologia del suo nome, non esattamente lusinghiera, ma nessuno glielo aveva mai esplicitamente fatto notare, per cui era giunto alla conclusione che fosse assolutamente normale, un modo come un altro per identificare qualcuno. Ora che invece il problema veniva posto da altre bocche, appariva assai più grande: quante volte agli altri erano passate per la mente le stesse cose e non gliel’avevano mai dette?

“E poi” Banzai sembrava ancora più perplesso, e anche abbastanza incredulo “Io sapevo che il discendente di Ahadi fosse un altro… com’è che si chiamava? Muffosa… Muflasa…”

“Mufasa è mio fratello” lo corresse, non senza una punta, anzi, più che una punta, di fastidio perché il nome del primogenito era arrivato a quegli individui prima del suo.

“”Re” e “Rifiuto”? Non farò parte della tua famiglia, ragazzino, ma mi sembra piuttosto ovvio chi fra voi due sia il cocco di mamma eh?” Le parole di Shenzi lo fecero a dir poco inferocire: non c’erano preferenze fra lui e Mufasa, erano assolutamente uguali, tutti lo sapevano. Però… se tutti lo sapevano perché allora quei tre idioti conoscevano solo uno dei due? Sapeva di non aver avuto una presentazione “ufficiale” per via della sua nascita travagliata, ma credeva che la sua esistenza fosse almeno nota nel regno e al di fuori di esso… Era davvero così ignorato da tutti?

L’atmosfera si era rilassata, o almeno, nessuno dei tre sembrava più disposto a farlo fuori, così decise di approfondire la questione: “Davvero non sapevate chi ero?”

“Neanche la minima idea. Fossi in te, io chiederei ai tuoi genitori qualche spiegazione una volta tornato a casa” Shenzi sembrò ricordarsi solo ora che in teoria avrebbe dovuto presentarsi come una nemica “Sempre che tu riesca a tornarci…” Ma il tono era poco convinto, non era una minaccia, più una constatazione: Taka aveva l’impressione che nessuno dei presenti avesse mai ucciso né che fossero molto entusiasti all’idea di cominciare quel giorno. Erano strani, davvero strani, e anche molto magri da come le loro costole si vedevano sotto la pelle tirata: da quant’era che non mangiavano? Stava giusto per chiederlo, quando sentì una voce che sembrava chiamarlo: riconosciuto il tono, il fratello riusciva sempre ad avere una risonanza eccessiva in qualsiasi luogo si trovasse, e sollevato all’idea di non essere davvero più da solo, ma consapevole che era meglio che i suoi nuovi conoscenti non si scontrassero con gli altri tre, si affrettò a prendere commiato da quella comitiva.

“Mi stanno cercando: devo andare”

“Vai, vai, principino: di sicuro noi non ti tratteniamo” Banzai e Shenzi accennarono, quasi senza accorgersene, ad un cenno di saluto che l’altro ricambiò con riluttanza. Ed, da canto suo, non sembrava neanche essersi accorto che ci fosse qualcun altro con loro. Voltate loro le spalle e con la costante certezza di essere osservato, Taka si affrettò a raggiungere gli amici e non poté trattenere un sospiro di sollievo quando distinse i loro manti chiari intorno a tutto quel candore innaturale.

“Fratello!” Mufasa gli corse incontro, strofinando il muso contro la sua pelliccia in un atteggiamento che l’altro trovò estremamente eccessivo “Non ti trovavamo più: siamo scesi e ti abbiamo cercato a lungo! Dove diamine ti eri cacciato?”

“Sì, Taka: pensavamo ti fosse successo qualcosa!” la preoccupazione nell’intonazione di Sarabi fece inorgoglire ancora di più il cucciolo che, lanciato uno sguardo di sbieco dietro di sé e sollevato dal non vedere più le tre iene, rispose, evitando accuratamente di menzionare l’accaduto per uscire da lì il più in fretta possibile.

“Nulla di particolare: ho perso semplicemente la cognizione del tempo. Ve l’avevo detto che qui intorno era tutto uguale!”

“Avevi ragione, è assolutamente noioso: non c’è nulla a parte queste vecchie ossa… è stata solo una perdita di tempo.” Mufasa si voltò, seguito dalle altre due “Beh, dai, andiamo a casa”

Si incamminarono e, malgrado il leone dal manto scuro avesse tutte le ragioni per essere fiero di se stesso, le parole delle sue nuove conoscenze continuavano imperturbabili a vorticargli nel cervello.

                                                                  *******************

La serata trascorse in silenzio per Taka, anche troppo considerando quanto invece il fratello fosse eccitato per ciò che avevano fatto quel giorno: erano stati entrambi molto attenti a non dire nulla ai genitori, inventando una plausibilissima giornata passata a qualche passo di distanza dalla pozza d’acqua più vicina, ma nulla, neanche le occhiate complici che Mufasa continuava a rivolgergli, potevano distoglierlo da quello che l’avevano indotto a considerare le tre iene. Possibile che davvero Ahadi amasse il suo primogenito più di lui?

Fu la madre ad accorgersi per prima del comportamento insolito del figlio e ad avvicinarsi a lui, mentre già l’altro dormiva e il compagno era all’aperto, a guardare i Re del Passato e a riflettere sul destino del regno.

“C’è qualcosa che non va, Taka?” Al sentire il suo nome, il cucciolo avvertì un tremito in tutto il suo corpo: non riusciva a capire come non avesse potuto accorgersi prima di quanto male suonasse, di quanto sporco esso fosse. Come potevano averlo chiamato così pur volendogli bene?

Rimase qualche secondo in silenzio, non sapendo bene cosa fare o cosa dire, desiderando essere lasciato in pace e al contempo esigendo delle risposte: alla fine si decise a rispondere con un’altra domanda.

“Madre, tu e mio padre mi odiate per caso?” Lo shock negli occhi di Uru fu tale da fargli rimpiangere di aver anche solo aperto bocca e desiderò potersi rimangiare ciò che aveva appena detto, pur sentendosi in parte sollevato per essere riuscito ad esprimere quello che provava ad alta voce.

“Perché mai ti è venuta in mente una cosa simile?”

“Perché…” Era dannatamente difficile avere quella conversazione “Beh, per come avete chiamato me e mio fratello: “Rifiuto” e “Sovrano”. Ho forse fatto qualcosa da appena nato per meritarmi un’etimologia tanto misera?” Gli occhi della leonessa si riempirono di qualcosa che Taka non riusciva bene a comprendere, un misto di strana tristezza e rabbia che gli fece temere che ella si sarebbe adirata con lui; invece, davanti ai suoi occhi, fece un bel respiro e, dopo avergli dato una leccata, gli disse: 

“Credo che sia compito di tuo padre spiegarti la faccenda. Ora vado a chiamarlo, d’accordo?” Se c’era qualcuno per cui il piccolo provava assoluto rispetto e desiderio di emulazione, quello era Ahadi e l’idea che fosse lui a doverlo confrontare in quel momento lo rendeva alquanto nervoso: non avrebbe pensato che avesse davanti un debole, più di quanto sicuramente già credeva? Quando vide vicino a sé la figura severa del leone, il suo cuore mancò di un paio di battiti e le orecchie si abbassarono, aspettando quello che credeva sarebbe stato un castigo: rimase quindi sorpreso quando si sentì afferrare per la collottola delicatamente e poggiare sopra la schiena del genitore, che si sdraiò all’entrata della grotta.

“Sai, Taka” iniziò, con la sua voce profonda che aveva sempre fatto sentire i due fratelli protetti e al sicuro “quando sei nato io credevo che non saresti sopravvissuto. Nessuno lo credeva, tranne tua madre” Abbassò gli occhi, in un atteggiamento che, se il figlio non l’avesse conosciuto bene, avrebbe potuto dire quasi pieno di rimorso “Eri piccolo, indifeso, debole… così diverso da Mufasa: avevo paura di perderti da un momento all’altro e ho fatto uno sbaglio”

“Uno sbaglio? Tu?” credeva di averlo solo sussurrato, ma evidentemente non era stato così perché il padre sorrise e lo fissò negli occhi mentre si perdeva nella folta criniera nera che probabilmente anche lui avrebbe ereditato.

“Sì. Anche i re fanno errori, sai? Io ho commesso quello di tentare di non affezionarmi a te per timore di perderti: è per quello che ti ho assegnato il tuo nome, Taka, perché non volevo essere costretto a dire addio a qualcosa di prezioso quale eri tu” Strofinò leggermente il suo muso contro quello del piccolo “E quando ho finalmente capito che non saresti andato da nessuna parte, ormai era troppo tardi per rimediare. Ma di una cosa devi assolutamente essere certo e non dimenticarla mai: tua madre ed io ti amiamo, figlio mio, non dovrai mai, nella tua vita, pensare il contrario.”

Sentire quelle parole fu come sollevare un enorme macigno dal cuore del leoncino, che ringraziò il padre con un filo di voce e, non sapendo bene come comportarsi, non essendo mai stato bravo con le manifestazioni di affetto, rimase nella stessa posizione fino a quando il sonno non lo vinse: mai nella giornata come in quel momento, si sentì così lontano dalle parole di quelle tre iene.














Monologhi interiori dell'autrice: Questo, devo ammetterlo, è uno dei miei capitoli preferiti (al contrario del precedente, che mi convinceva abbastanza poco), perché mostra un momento su cui ho fantasticato a lungo: l'incontro fra Scar (ancora Taka) e le tre iene. Spero come al solito di aver reso giustizia ai personaggi e di non averli stereotipati troppo, per questo motivo, altrettanto come al solito, vi invito a lasciare un feedback positivo o negativo che sia, tanto per sapere.
Rinnovo anche la sfida a capire cosa abbiano in comune i titoli, sperando che adesso sia un po' più chiaro!
Ci si risente fra due settimane,
L_A_B_SH

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Capitolo 5
*** Scar. One may smile, and smile, and be a villain ***


5. Scar. One may smile, and smile, and be a villain.

 

Quando i raggi del sole iniziarono ad illuminare le Pride Lands e riscaldare il terreno, segnando l’inizio di un nuovo giorno, Scar era già sveglio da tempo e squadrava il sorgere dell’astro con l’amara consapevolezza che nulla sarebbe cambiato al suo tramonto. Aveva perso, con gli anni, l’abitudine di dormire fino in tarda mattinata che aveva da cucciolo, quando ancora gli sembrava di avere tutto il tempo del mondo a sua disposizione e che nulla potesse turbare quell’ordine di cose apparentemente eterno, in maniera direttamente proporzionale a come Mufasa sembrava invece avere adottato quella filosofia di vita in gioventù tanto avversa, accogliendo con gratitudine il sonno ristoratore.

Il leone storse la bocca a quel ricordo assolutamente sgradito, per poi modificare la sua espressione in una smorfia infastidita alla vista del Re, ancora insonnolito, che usciva dalla grotta in cui aveva trascorso la notte, circondato dalle leonesse e alla sua preziosa Sarabi, in compagnia della palla di pelo meglio nota come Simba. A sei mesi dalla sua nascita, era impressionante quanto somigliasse al padre quando aveva la sua stessa età: gli stessi occhi marroni, lo stesso manto color miele, perfino i pochi ciuffi di pelo che aveva all’estremità della coda erano della stessa sfumatura della criniera del genitore, tanto che a Scar sembrava di avere davanti due Mufasa, passato e presente, quando l’unico che sarebbe stato grato di osservare era quello futuro, vecchio, privo della sua imponente figura e, ultimo ma non meno importante, possibilmente morto. Il sentimento di odio feroce che sentiva per il sovrano si era in breve quindi trasferito anche al leoncino che, incurante e probabilmente neanche consapevole del disgusto con cui lo zio stava guardando le sue mosse, si affrettava a trascinare un padre piuttosto divertito dal suo entusiasmo verso la sommità della Rupe. Il leone dal manto scuro volse loro le spalle, alzando gli occhi al cielo e tristemente consapevole di quello che sarebbe stato il prossimo passo: il suo adorato fratellone aveva avuto lo stesso dialogo con Ahadi anni prima e, sebbene egli, per motivi evidenti, non avesse potuto assistere in prima persona, gli era piuttosto chiaro di cosa avrebbero parlato. Il Cerchio della Vita… l’armonia che accomuna tutti gli esseri viventi… e tante altre scempiaggini simili: tutti nella sua stirpe sembravano avere in comune quello sciocco sentimentalismo. Beh, tutti tranne lui, a cui quei discorsi erano sempre sembrate favole, piacevoli da ascoltare come cucciolo, ma che non aveva mai preso in considerazione seriamente come sembrava necessario fare. 

Era un’altra delle tante prove sulle basi delle quali proclamava la sua indubbia superiorità, il suo far prevalere sempre una logica fredda al punto di sfociare nel cinismo sulle emozioni, un altro dei segni che avrebbero a parer suo reso la sua figura un sovrano molto più degno e grande di quanto Mufasa avrebbe mai potuto diventare e lo stesso discorso si poteva fare per Simba, vista la sua propensione a camminare esclusivamente sulle orme del genitore. Aveva tentato ogni via gli fosse venuta in mente in quei sei mesi, ogni spiraglio che potesse lasciare intravedere la minima speranza di sbarazzarsi di quei due e finalmente raggiungere il suo obiettivo, ma a nulla era valso il suo sforzo o quello, seppur scoordinato e, sospettava, neanche troppo costante, delle iene: se lo scontro frontale era fuori questione, e lo era, di questo era assolutamente certo, anche altri tipi di approcci apparivano vani. Il re era inattaccabile, forte, protetto dai suoi lacchè di fiducia, e se anche fosse riuscito a colpirlo sarebbero sempre sorti due problemi: il primo, meno grave e più facilmente risolvibile, era costituito dalla possibile presenza di un qualche testimone, come quell’insopportabile pennuto che gironzolava costantemente attorno a Mufasa, che potesse raccontare il vero sviluppo della faccenda e rendere vani i suoi sforzi. Il secondo, che invece lo preoccupava alquanto, era la presenza del pargolo reale: ponendo anche come ipotesi, ed era una grande ipotesi, visti i fatti correnti, che si fosse in qualche modo liberato del fratello e avesse con successo fatto ricadere la colpa su qualcun altro, il cucciolo sarebbe comunque rimasto in vita, pronto a prendere il suo posto come legittimo re non appena fosse giunto all’età adatta. 

Era nato per governare, non per ricoprire il ruolo di un semplice reggente!

La sua pazienza stava per giungere al limite, lo sentiva: erano anni, anni che aspettava il momento giusto, anni che calcolava, rifletteva, attendeva il giorno in cui Mister Perfezione avrebbe finalmente commesso uno sbaglio di cui avrebbe potuto approfittare e ora quel micio, quel micio spelacchiato lo spodestava ancora una volta dalla posizione che sarebbe dovuta toccare a lui. Si voltò, suo malgrado, guardando di sbieco il quadretto padre e figlio con un’espressione che lasciava trasparire solo in minima parte la quantità enorme di bile che provava a quella vista e inavvertitamente incrociando gli occhi di Sarabi.

“Buongiorno, Scar” la voce della regina, così calma e posata, aveva sempre il potere di confonderlo: ricordava perfettamente quanto fosse diversa da giovane, quanto amasse l’avventura e certamente non fosse altrettanto posata. Era anche vero che nessuno di loro era più lo stesso di qualche anno prima.

“E buongiorno a voi, Vostra Altezza” rispose, di malavoglia, senza potersi trattenere dall’aggiungere uno dei suoi soliti commenti “Perdonami se non mi inchino alla vostra presenza, ma sapete: temo che le tante sfide lanciatemi da mio fratello in gioventù abbiano compromesso le mie giunture”

“Potresti evitare di pronunciare veleno all’inizio di una così bella mattinata? Te ne sarei grata”

Quanto detestava quel tono di sufficienza mista a rimprovero con cui praticamente tutti si rivolgevano a lui, come se avessero il diritto di criticarlo seguendo l’esempio di Mufasa, che, a sua volta prendendo spunto da Ahadi, non si faceva mai mancare l’occasione: nessuno gli avrebbe più parlato in tal modo, nessuno si sarebbe più permesso di farlo, una volta che fosse diventato sovrano.

“Se mi togliessi anche questa soddisfazione non credi che sarebbe difficile impiegare le mie giornate?” le sorrise, sarcastico, nella speranza di smuovere e far cambiare quell’espressione di perenne disappunto che sembrava regnare sul suo muso. Tutto inutile, anzi, non sembrò neanche cogliere la provocazione e spostò l’argomento su qualcosa che Scar non aveva alcun desiderio di sentire.

“Tuo nipote vorrebbe conoscerti meglio, sai?” Non pensavano davvero di accollargli quella palla di pelo! Era già difficile tollerare la sua esistenza, non era sicuro che sarebbe riuscito a fare altrettanto con la sua presenza.

“Beh, tuo figlio dovrebbe imparare che non sempre si può ottenere quello che si desidera… anche se è difficile immaginarlo, guardando suo padre” ghignò, facendole finalmente alzare un sopracciglio e provando almeno una lieve sensazione di soddisfazione. Soddisfazione che durò molto poco.

“Un motivo in più per cui dovrebbe trascorrere più tempo con te” Quella frase gli avrebbe quasi fatto emettere un ringhio se fosse stato meno allenato a controllare le sue reazioni e, anche così, per meno di un secondo manifestò una chiara intenzione omicida nei confronti della leonessa. Voleva mettere fine a quella conversazione indesiderata il più in fretta possibile.

“In ogni caso, se ha preso la metà delle caratteristiche dei suoi genitori non credo che gli servirà a molto nella sua vita: meglio non sconvolgere la sua bella testolina con strani concetti quali “delusione” e “insoddisfazione”, non credi?” Senza aspettare la sua risposta, si girò di schiena e, lanciatale non più di un’occhiata di sbieco, saltò su una roccia più in alto e poi proseguendo in una strettoia, desideroso di trascorrere quante più ore possibili lontano da quell’agglomerato che qualcuno avrebbe definito impropriamente la sua famiglia.

                                                                    **************

Non sapeva quanto fosse passato dal suo incontro con Sarabi, ma certamente oramai era mattina inoltrata: stava camminando lentamente su una stretta lastra di pietra da cui poteva osservare tutta la savana e un sospiro uscì dalla sua bocca, realizzando come a quanto pare anche quel giorno si sarebbe svolto come i precedenti. Il cielo era azzurro, il sole splendeva, l’erba cresceva, gli animali nascevano, morivano e tutto era governato da Mufasa: sarebbe stato un quadretto quasi noioso e scontato, formato costantemente dalle stesse immagini che si ripetevano all’infinito, se non fosse stato per il tremendo senso di frustrazione che continuava ad attraversarlo. Doveva liberarsi di lui e del figlio in qualche modo, ma l’occasione continuava a sfuggirgli e quello che più lo infastidiva era proprio non riuscire a predisporre con successo una situazione che l’avrebbe visto vincente. Forse, se avesse avuto dei complici più capaci, invece di quel branco di idioti dal nome di iene che si trovava costretto a frequentare, la faccenda sarebbe risultata più semplice da sbrogliare, ma avrebbe dovuto arrangiarsi altrimenti: non era neanche il caso, a parer suo, di andare al Cimitero. Avrebbe solo perso tempo per sentirsi ripetere le stesse cose, insulsaggini mascherate da informazioni utili, e davvero non aveva la pazienza in quel momento per avere a che fare con una razza tanto inferiore a lui. 

Venne distratto dai suoi pensieri dall’arrivo di una delle figure che aveva tutta l’intenzione di evitare e dannò mentalmente suo fratello ancora una volta per ciò che gli imponeva di sopportare. Fece un movimento carico di stizzita noia con la zampa destra, buttando giù dalla scarpata sottostante un osso di scarto di un qualche animale: sarebbe stato bello, rifletté con rimpianto, potersi sbarazzare in modo altrettanto facile dell’inopportuna presenza alle sue spalle.

“Zio Scar! Indovina!” Simba gli corse incontro, con la stessa andatura gongolante che anche Mufasa, prima di lui, adottava quando era eccitato per qualcosa: gli ricordava così tanto suo fratello da fargli venire mal di stomaco solo a vederlo. Tentando di levarselo dai piedi in fretta e possibilmente in modo indolore, gli rivolse una breve occhiata, prima di replicare, senza neanche sforzarsi di mascherare il cinismo nella sua voce, sicuro che tanto il cucciolo, tutto preso da chissà quale novità, non l’avrebbe compreso.

“Io detesto gli indovinelli” Ora, se il suo interlocutore fosse stato intelligente avrebbe senz’altro compreso che la sua presenza non era gradita e avrebbe tolto il disturbo. Sfortunatamente per Scar, a quanto pare l’ingenuità dell’altro era ancora troppo spiccata per recepire il messaggio.

“Io sarò il Re della Rupe dei Re!” E secondo lui non lo sapeva? Questa non era una novità, ma una scomoda evidenza sbattuta in faccia; a quanto pare era un’altra caratteristica che padre e figlio avevano in comune: amavano ricordare, anche inconsciamente, al prossimo quanto loro fossero migliori e più fortunati di loro.

“Oh, congratulazioni” rispose, sarcastico, nel vano tentativo di smorzare l’entusiasmo del cucciolo.

“Il mio papà mi ha appena fatto vedere tutto il regno ed io lo comanderò tutto quanto! Ah!” Anche ridondante, la palla di pelo: non riusciva proprio a capire come la savana sarebbe potuta essere governata da un simile individuo. Era ancora giovane, molto giovane, d’accordo, ma aveva anche tutte le premesse per diventare esattamente come il padre e niente poteva fare meno piacere al leone dal manto scuro che venire costantemente ricordato di come la stirpe dei re sarebbe andata avanti senza lasciare traccia di lui. Sforzandosi di non commettere gesti di cui si sarebbe potuto pentire, continuò a rispondere al nipote sullo stesso tono.

“Sì? Beh, scusami se non salto dalla gioia… la mia povera schiena, sai?” Schiena che il suo paparino gli aveva distrutto un numero imprecisato di volte nella loro gioventù a forza di saltargli addosso, rifletté, e, anche se sicuramente non era quello il motivo per cui si trovava ad essere tutto meno che entusiasta per l’ovvia rivelazione di Simba, era possibile che non fosse poi così falsa. 

Si lasciò quindi contemporaneamente cadere su un fianco con rassegnazione: quella conversazione non faceva che continuare ad invogliarlo a trovare un modo per liberarsi del micio spelacchiato lì presente… ma come toglierlo di mezzo senza incappare nella furia del fratello? Avrebbe potuto chiedere l’aiuto delle iene, certo lui non era il tipo da sporcarsi le zampe, ma non era sicuro che sarebbero riuscite a portare a termine il lavoro e le conseguenze nel caso avessero fallito e il suo ruolo fosse venuto allo scoperto sarebbero state troppo grandi per rischiare e in più… come rimediare alla distanza fra il territorio di Mufasa, sempre illuminato dal sole e splendente, con quello delle iene, scuro e inospitale, dove presumibilmente sarebbe dovuto capitare la sua vittima?

“Ehi, zio Scar!” Simba gli si appoggiò sulla criniera, mettendo seriamente alla prova i suoi nervi e tentandolo seriamente di scrollarselo di dosso rudemente: anche questa convinzione intrinseca nella sua persona che chiunque avesse sempre voglia di avere a che fare con lui e che nessuno potesse trovarlo irritante era una caratteristica che non poteva che aver preso dal padre. Se i combattimenti giocosi almeno erano cessati con la crescita, lo zio pensò che purtroppo quell’aura di sicurezza e superiorità non l’avrebbe mai abbandonato. “Quando sarò re, tu che cosa sarai?”

“Nulla, sciocco cucciolo, nulla se non un’ombra. Ed è per questo che sto tentando di liberarmi di te e del tuo insulso parente… se solo tu mi dessi uno spunto, una possibilità per farlo te ne sarei grato” ovviamente queste parole non uscirono dalla sua bocca, sostituite da un annoiato “Lo zio di un curioso”

E mentre quella replica veniva pronunciata, Scar ebbe quella che avrebbe definito un’illuminazione. Sì, il cucciolo era esattamente come Mufasa ed esattamente come Mufasa era costantemente alla ricerca di avventura… ricordava molto bene l’idea che il fratello aveva avuto di visitare il Cimitero degli Elefanti, una delle sue poche trovate che, anche se indirettamente, era stata vantaggiosa per il minore, ed era assolutamente certo, sicuro, che neanche la sua prole avrebbe resistito ad una sfida simile. Certo, doveva fare in modo che sembrasse una sua idea, in modo che, qualsiasi fosse stato l’esito della sua esplorazione, non fosse possibile dare la colpa a lui.

Simba nel frattempo stava ridendo alla battuta dello zio, completamente ignaro degli oscuri pensieri che stavano attraversando la sua mente, e, rotolato al suo fianco, gli rivolse un’occhiata divertita: “Se così strano” gli disse, incrociando le zampe davanti e squadrandolo con giocosità. Sì, sarebbe stato quasi troppo facile convincerlo a fare esattamente come desiderava, talmente facile che Scar si domandò, sorpreso, come quella possibilità non gli fosse venuta in mente prima. Beh, in ogni caso, meglio tardi che mai.

“Non ne hai la più pallida idea” gli rispose, sorridendo per la prima volta dall’inizio della conversazione “Come non hai la più pallida idea di tante cose, piccolo” pensò, alzandosi e iniziando a mettere in pratica quello che fino ad allora aveva solo considerato ipoteticamente.

“Allora, il tuo paparino ti ha mostrato tutto il regno, vero?” continuò, con un’espressione e un tono assolutamente noncurante, come se l’argomento non gli interessasse per nulla e controllando al contempo la reazione del suo interlocutore.

“Tutto quanto” Sì… di questo non era così sicuro. Conoscendo il padre, non avrebbe mai potuto mettere a conoscenza il figlio di un luogo quale l’ossario, soprattutto perché, certamente memore delle sue esperienze giovanili, aveva considerato, e a ragione, che era meglio che una sua piccola copia non venisse a sapere della possibilità di provare un brivido di avventura in un modo tanto pericoloso. Il buonsenso era un’altra delle qualità che a quanto pare mancavano in quella linea genetica.

“Ti ha fatto vedere cosa c’è dietro l’altura del confine Nord?” gli chiese dunque, con la medesima espressione sul muso, sedendosi e squadrando il cucciolo, trattenendo poi un’esclamazione di vittoria quando gli vide abbassare le orecchie e sedersi, pensieroso e anche un po’ deluso.

“Eh, lì no. Ha detto che non ci posso andare” Perfetto! Basandosi sulla sua esperienza personale, Mufasa da piccolo non aveva mai reagito molto bene ai divieti e se Simba era davvero così simile al genitore quanto lui sperava che fosse…

“Una decisione assolutamente sensata, è troppo pericoloso!” si affrettò quindi a replicare, sforzandosi di apparire in perfetto accordo con il fratello e al contempo di suscitare una reazione totalmente opposta da parte del suo interlocutore. Vedendolo alzare le orecchie con maggiore interesse, pensò di toccare un altro tasto che sapeva avrebbe funzionato fin troppo bene: l’orgoglio. “Solo i leoni più coraggiosi ci possono andare”

“Io sono coraggioso! Cosa c’è?” Gli sembrava che il leoncino stesse seguendo un copione, tanto le sue rispose coincidevano con il programma che si stava rapidamente delineando nella mente di Scar: la sua mente era sempre stata veloce, molto più veloce di quelli che gli stavano attorno, ma in quel momento stava viaggiando con un ritmo che non aveva più sperimentato da anni, da quando gli sembrava di aver perso ogni speranza di arrivare ai suoi obiettivi.

“Mi dispiace Simba, non posso proprio dirtelo” La parte dello zio premuroso era così esilarante da recitare che si sorprendeva per ogni parola che riusciva a pronunciare senza scoppiare a ridere: qualsiasi cosa fosse successa, in questo modo, le sue zampe sarebbero state pulite come quelle di un cucciolo appena nato.

“Perché no?” Non aveva mai considerato la petulanza come una caratteristica positiva, ma in quel momento si ritrovò a benedirla, mentre, con finto affetto, strofinava la sua zampa sulla testa del nipote, guardandolo con condiscendenza.

“Simba, Simba, mi sto solo preoccupando per il mio nipote preferito”

“Sì, certo, sono il tuo unico nipote” rise l’altro, scostandosi.

“E se tutto andrà come spero presto non ne avrò neanche uno” sorrise dentro di sé il leone, prima di continuare con la sua recita “Una ragione in più per essere protettivo verso di te. Un Cimitero degli Elefanti non è un posto per un giovane Principe… Ops!” si coprì la bocca, fingendo sorpresa e rammarico per quello che aveva detto: in realtà, era anche per nascondere il piccolo sorriso che si stava facendo strada fra i suoi denti.

“Un cosa di elefanti? Wow!” l’espressione eccitata di Simba gli confermò che i suoi sforzi non erano stati vani: a quanto pare, sembrava che finalmente il destino avesse deciso di aiutarlo. E sarebbe anche stato dovuto, visto quanto aveva sembrato favorire Mufasa in tutti quegli anni.

“Oh, che stupido, ho parlato troppo!” Simulando senso di colpa e costernazione, si portò una zampa alla fronte, chiudendo gli occhi ed esagerando volutamente nella sua recita, sicuro che il cucciolo, che a quanto pare non brillava per ingegno, avrebbe creduto alle sue intenzioni genuine “Beh, tanto prima o poi l’avresti scoperto: del resto tu sei così intelligente!” L’adulazione funzionava sempre e di questo aveva avuto la riprova negli anni passati, inoltre era bene che il suo interlocutore avesse una buon iniezione di fiducia prima di tentare di avventurarsi nel Cimitero: era assolutamente certo che non ci sarebbero stati problemi, ma non voleva rischiare che il nipote avesse un’improvvisa botta di buon senso e decidesse di lasciar perdere la faccenda.  Lo tirò quindi a sé nel simulato tentativo di dissuaderlo dal tentare ciò che, invece, si augurava di tutto cuore che facesse.

“Senti, fammi un favore: promettimi che non andrai mai in quell’orribile posto”

“Tranquillo” La voce di Simba era tutto tranne che convinta e, Scar ne era sicuro, avrebbe fatto il contrario di quanto promesso: finse in ogni caso di essere tranquillizzato dalla sua affermazione, e in effetti lo era, ma per motivi diametralmente opposti, e lo spinse affettuosamente, o meglio, in un modo che si augurò sembrasse sufficientemente affettuoso.

“Bravo il mio ragazzo. Ora vai a giocare e divertiti… e ricorda il nostro piccolo segreto” Lo guardò allontanarsi correndo, potendo finalmente sorridere di soddisfazione: sentiva che qualcosa si stava mettendo in moto, una buona volta, e avrebbe fatto in modo che quell’occasione, che gli si presentava più sfolgorante che mai, non venisse sprecata.

Forse, dopotutto, il giorno non si sarebbe concluso allo stesso modo di come era iniziato.

 

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Capitolo 6
*** Taka. But break, my heart, for I must hold my tongue ***


6. Taka. But break, my heart, for I must hold my tongue

 

Quando Taka si svegliò, la prima cosa che gli venne in mente era che aveva dormito sorprendentemente bene. Fin troppo bene. Ormai, dopo mesi di convivenza con il fratello, era abituato ad essere svegliato dal suddetto che gli tirava alternativamente un orecchio, la coda o, se proprio era in vena di follie, gli affondava direttamente i denti nella collottola nel tentativo di farlo alzare il più in fretta possibile: la calma che lo contornava era sospetta, sospetta e potenzialmente pericolosa, ma non era certo sua intenzione rompere bruscamente il dolce idillio di pace che l’assenza di Mufasa aveva creato. Si stiracchiò quindi lentamente, aprendo piano un occhio e poi l’altro e rivolgendo un ringraziamento sincero agli Antenati per avergli concesso quella serenità. Non si chiese esattamente cosa diamine fosse capitato al suo compagno fino a quando non notò che effettivamente nella tana c’erano solo lui e la madre. Incuriosito dallo spazio vuoto rappresentante non solo il cucciolo, ma anche il padre, si avvicinò alla leonessa, pretendendo spiegazioni che, in modo alquanto strano, non ricevette.

Uru sembrava a disagio, come se gli stesse nascondendo qualcosa, e questo non gli piacque: “Sono andati a… beh, fare un giro per la savana”

Piegò la testa da un lato, non credendo alle sue parole “Perché non mi hanno svegliato allora? Sarei potuto andare con loro! Non passiamo mai del tempo insieme in questo periodo…” Erano passate tre settimane dalla loro avventura al cimitero e non aveva potuto evitare di notare come, a distanza di pochi giorni, suo padre e il primogenito avessero iniziato a passare sempre più tempo insieme e come Mufasa tornasse sempre con il sorriso sulle labbra, raccontandogli tutte le meraviglie che gli erano state mostrate durante la giornata. Certo, capitava che anche lui prendesse parte a quelle escursioni, ma, vuoi per il carattere più indipendente e riflessivo che lo caratterizzava, vuoi per la sottile impressione che Ahadi avesse sempre qualcosa da dire all’altro più che a lui, non si trovava particolarmente a suo agio in quelle occasioni. Gli sarebbe piaciuto passare più tempo con loro, in realtà, gli sarebbe davvero piaciuto molto.

“Sono sicura che avrebbero voluto, ma ti hanno visto così pacifico e rilassato che non hanno avuto cuore… tuo fratello sa quanto ti piaccia avere un po’ di pace la mattina e per una volta ha pensato di assecondare questo tuo desiderio”

Mufasa che si preoccupava dei suoi bisogni? Questa non era solo una bugia, questa era fantascienza! Taka era più che convinto che Uru gli stesse nascondendo qualcosa, ma era anche certo che non sarebbe servito a nulla continuare ad insistere con le domande, tanto più che avrebbe potuto chiedere al compagno, non appena fosse rientrato: era decisamente più facile raggirare lui che la madre. Malgrado avesse compiuto da poco dieci mesi era ancora ingenuo come un cucciolo appena nato.

“Posso andare a giocare alla pozza dell’acqua?” chiese quindi, scoprendo i denti in un sorriso che, ne era certo, avrebbe fatto sciogliere anche i massi: ottenne infatti il permesso, anche se non era sicuro se fosse per le sue capacità di persuasione o per il senso di colpa che aleggiava nella grotta, e poco gli importava il reale motivo. Corse fuori, alla ricerca di Sarabi e Sarafina: da quando aveva passato tutto quel tempo tra gli scheletri dei pachidermi, lo avevano iniziato a guardare con luce diversa e sperava, credeva, che avrebbero potuto divertirsi insieme anche senza Mufasa finalmente. Quando le vide e le salutò, erano già intente a bere lentamente dal piccolo lago e a malapena alzarono gli occhi per ricambiare il buongiorno che aveva rivolto loro.

“Allora, ragazze, che intenzioni avete oggi?” domandò, sperando che lo coinvolgessero nelle loro attività. Rimase piuttosto deluso dalla loro risposta.

“Credo che aspetteremo il ritorno di tuo fratello qui: ci ha detto che non sarebbe stato via a lungo e avrà di sicuro un sacco di storie da raccontarci appena sarà arrivato. Se vuoi puoi stare con noi” La proposta era stata fatta senza malizia, e magari a loro davvero non dispiaceva averlo intorno, ma Taka non se la sentiva di passare ore senza far nulla ancora una volta per colpa dell’altro: da un po’ di tempo a questa parte, gli era sembrato sempre più evidente come ogni animale, ogni suddito delle Pride Lands avesse qualcosa da discutere o elogiare a proposito del primogenito. Anche lui gli voleva bene, ma aveva iniziato a trovarlo ridondante e anche parecchio fastidioso: “Mufasa di qui, Mufasa di là…” perché non si poteva parlare di lui una volta tanto?

Scacciò quei pensieri dalla mente, ragionando che probabilmente erano state le iene a fargli quell’effetto, era tutta colpa loro. Già… le iene: malgrado si fosse ripromesso che non avrebbe messo piede in quel posto orrendo un’altra volta in tutta la sua vita, continuava a pensare a Shenzi, Banzai ed Ed con una curiosità eccessiva, che, si sforzava di ripetersi, non era per nulla dettata dal desiderio di rivedere quella compagnia così strana e assolutamente priva di regole che lo aveva a tal punto colpito.

“Piuttosto che stare fermo qui, farei qualsiasi cosa” rifletté, e improvvisamente ebbe un’idea: era folle, assolutamente folle e sconsiderata, ma era pur sempre un’idea e più la accarezzava più gli piaceva e gli sembrava un’alternativa preferibile a stare a sentire Sarabi sproloquiare sul suo, pff, caro fratellone. Aveva capito che fra quei due c’era del tenero da almeno due settimane ormai, anche se non era sicuro che i diretti interessati ne fossero a conoscenza: potevano essere decisamente ottusi quando volevano. Comunque, l’infatuazione della leonessa era una motivazione in più per declinare l’invito e mettere in pratica il suo piano: se c’era qualcosa che aveva sempre detestato, più degli indovinelli e delle sorprese, erano le smancerie romantiche.

Preso quindi congedo con qualche scusa dalle due amiche, si diresse verso la sua destinazione, non senza bloccarsi dopo poco: al pensiero di dove effettivamente stesse andando, si ritrovò a ragionare che non era per nulla consigliabile presentarsi a zampe vuote, specialmente dopo aver già visto con i suoi occhi le condizioni del luogo in questione. “Prendere qualcuno per la gola” era un ottimo inizio per una relazione, anche se non era sicuro che Mufasa avrebbe colto la fine affermazione e non sarebbe stato più propenso a seguire l’indicazione alla lettera.

Così, avvicinatosi di soppiatto alle riserve di cibo cacciato dalle altre componenti del branco e mentre nessuno guardava, riuscì ad impossessarsi di un cosciotto di zebra molto succulento e, presolo con difficoltà fra le fauci, si avviò questa volta definitivamente, non senza pensare che doveva essere o molto stupido o molto annoiato per tentare un’impresa simile.

Arrivò al cimitero degli elefanti dopo almeno un’ora di cammino, dettata non solo dal non sapere l’esatta posizione grazie agli strani giri che il fratello gli aveva fatto fare la prima volta, ma anche dalla fatica, sottovalutata evidentemente, causata dal portare appresso una quantità di cibo superiore a quella a cui era abituato. Dovette fermarsi varie volte, prima di riuscire a intravedere le ossa di pachidermi che tanto l’avevano spaventato la prima volta: il posto gli sembrava ancora inquietante, ma molto meno della sua prima incursione e il disagio stava lasciando posto al disgusto per l’essersi avventurato in un ambiente tanto squallido. Preso comunque un bel respiro e socchiusi gli occhi, decise di tentare la sorte e, facendo bene attenzione a dove poggiava le zampe, fece la stessa strada già percorsa una volta, tentando e infine riuscendo ad identificare la spina dorsale dell’elefante dove aveva avuto il suo primo incontro con le iene. Poggiò il suo carico vicino a sé, improvvisamente non più tanto sicuro di quello che stava facendo: come poteva essere certo che quel terzetto fosse ancora nei paraggi? Come poteva sapere anche che non si sarebbe presentata una iena adulta e affamata che gli avrebbe fatto fare una fine orrenda?

Si maledisse per la sua decisione ed era sempre più propenso a lasciare il cosciotto lì e tornarsene alla pozza d’acqua quando sentì la risata inconfondibile di Ed che si faceva sempre più vicina: ormai era troppo tardi per farsi venire rimorsi o ripensamenti. Era in ballo, giusto? E allora avrebbe ballato. Rimase dunque fermo, nello stesso identico punto e sfoggiando una sicurezza che in realtà non aveva, ma era sempre riuscito a fingere molto bene, fino a che tutte e tre le iene non gli furono davanti e non l’ebbero riconosciuto.

“Guarda guarda” esclamò Shenzi, sorpresa e anche abbastanza incredula di averlo nuovamente davanti a sé “Il principino è tornato fra noi comuni mortali: cosa ha spinto la Sua Maestà a mescolarsi nuovamente con coloro da cui il Grande Sovrano l’avrà sicuramente messo in guardia?”

“E soprattutto, chi gli assicura che questa volta ne uscirà vivo?” Anche Banzai si era posto accanto alla compagnia e squadrava Taka con uno sguardo famelico che egli non apprezzò per nulla: fingendo di non aver sentito o non voler rispondere alle loro domande, spostò leggermente una zampa, rivelando il cosciotto portato.

“Ho semplicemente pensato che avreste gradito uno spuntino più sostanzioso rispetto ai vostri soliti pasti… mi sono sbagliato per caso?” Un sorriso di trionfo e soddisfazione personale gli si aprì sul muso quando vide le espressioni che i suoi interlocutori, anche Ed, avevano assunto alla vista del cibo: no, evidentemente non si era sbagliato.
Shenzi, in ogni caso, era sospettosa “E perché dovresti volerci dare qualcosa? Noi siamo il nemico, l’hai dimenticato? Avremmo potuto mangiarti…”

“Ma non l’avete fatto, o sbaglio?” si mise di lato, scoccando loro un’occhiata quasi d’intesa “Ritenevo giusto compensare con qualcosa la vostra… gentilezza” l’ultima parola era suonata alquanto poco convinta, ma a quanto pare bastò per vincere le resistenze dei suoi interlocutori che, ormai ne era certo, non brillavano affatto per intelletto: qualche secondo dopo si stavano tutti abbuffando come se non avessero mai visto del cibo, facendo reprimere al giovane leone un ringhio di disgusto. Si era ridotto a ricercare la loro compagnia piuttosto che quella di Sarabi e Sarafina? Notando che anche mentre mangiava Ed sembrava mantenere la sua espressione stralunata, si arrischiò a domandare agli altri due:

“Che è successo al vostro… amico?”

“Oh, nostro fratello? È sempre stato così: suppongo che abbia preso qualche botta in testa da molto piccolo quando nessuno di noi poteva ricordarsene” Shenzi alzò la testa, guardandolo con più interesse “Ma perché ti dovrebbe importare?”

Non era esattamente che gli importasse, infatti, non nel significato più profondo del termine, ma l’occhiata che gli avevano lanciato quando aveva fatto loro vedere ciò che aveva portato con sé, quel desiderio misto a dipendenza che aveva sentito diretto se non direttamente a lui, quantomeno alle sue azioni, era stata alquanto gratificante e assolutamente nuova: era abituato a vedere sguardi simili diretti ad Ahadi, dal popolo, o al fratello, dai loro compagni di giochi, ed era… stranamente inebriante. Decise quindi di dire una mezza verità.

“Ho semplicemente pensato che, come futuro re, sarebbe stato necessario indagare le condizioni di vita dei miei sudditi… anche di quelli più, come posso dire, ignorati”

“Molto gentile da parte tua” rispose l’altra, non senza marcare il tono ironico nella voce “ma punto primo noi non siamo tuoi sudditi, non tecnicamente dato che la nostra razza è stata esiliata dalle Pride Lands, e punto secondo saresti l’unico tra quegli spocchiosi che si sia mai degnato di farci una visita”

“Davvero?” Questo effettivamente gli sembrò molto strano: sì, gli era stato accennato che le iene non fossero le benvenute per via di alcuni problemi causati in passato, ma non aveva idea che la situazione fosse a questi termini. Gli sembrava impossibile che suo padre avesse trascurato un’intera specie. “Beh” disse, peccando forse di arroganza “Quando comanderò io le cose cambieranno”

“Sempre che questo tuo sogno nel cassetto si realizzi” si aggiunse Banzai, con un sorriso che non gli piacque per nulla “Considerate le preferenze che il tuo vecchio sembra fare nella tua famiglia”

Ricordare quel discorso non fece piacere a Taka: era stato soddisfatto dalla spiegazione che aveva sentito qualche settimana prima rispetto all’origine del suo nome, ma ripensandoci continuava a trovare nuove obiezioni al discorso che gli era stato fatto e che all’epoca aveva trovato tanto ragionevole. Anche queste strane uscite che Mufasa faceva in compagnia del genitore erano un altro punto da aggiungere alla lista delle cose che non lo convincevano.

“Se ti riferisci all’etimologia dei nostri nomi posso assicurarvi che c’è una spiegazione perfettamente razionale a…”

“Mi riferisco al fatto che il tuo adorato fratello venga scorrazzato per tutto il regno e gli venga mostrato ogni angolo e ogni segreto di esso mentre tu passi il tuo tempo in questo ossario. Perdonami, ma non trovo questo atteggiamento equilibrato…” l’animale iniziò a sghignazzare, aumentando ancora di più l’irritabilità di Taka: come si permetteva di ridere di lui? Ma le iene non conoscevano davvero neanche un briciolo di gratitudine? E soprattutto… era quindi quello che la sua famiglia stava facendo alle sue spalle? No, rifiutava di crederci. Dovevano avere mentito per forza.

“E voi come fate a sapere quello che il mio branco fa o non fa? Lo avete detto voi stessi, vi è proibito attraversare il confine!” Si era messo sulla difensiva, anche se tentava di non mostrarlo: era superiore a loro, non poteva assolutamente mostrare debolezza in quel modo.

“Il fatto che in teoria non possiamo non vuol dire che in pratica non troviamo una soluzione: dovremo pur mangiare anche noi, non trovi?” Il ragionamento aveva senso, ma faticava ancora a credere che fosse la verità: la sua decisione di chiedere spiegazioni a Mufasa una volta arrivato si rafforzava di minuto in minuto. Sì, sarebbe stata la cosa più pratica da fare quando fosse tornato a casa. E, a proposito di tornare, dopo aver lanciato un’occhiata al cielo sempre più scuro ragionò che sarebbe stato meglio avviarsi: non aveva nessuna intenzione di venire rimproverato dalla madre o dal padre per un suo eventuale ritardo.

Volse dunque la schiena alle tre iene e si diresse verso l’uscita, senza neanche salutarle: la sua camminata, dopo qualche secondo, venne però interrotta da Banzai.

“Ehi, Taka… in teoria noi, ecco, ti abbiamo risparmiato anche questa volta quindi… saresti ancora in debito con noi di un pasto, no?”

Quando capì a cosa volessero arrivare con quel giro di parole alzò gli occhi al cielo con fastidio, ma, con un tono di sufficienza che mai aveva avuto modo di usare prima, rispose “Vedrò cosa posso fare”, per poi andarsene una volta per tutte.

                                                            **************

Il suo arrivo alla tana coincise perfettamente con la ricomparsa di Ahadi e di Mufasa: quest’ultimo, dopo essersi strusciato contro la madre in segno di saluto, si affrettò a saltare addosso al fratello con la sua caratteristica irruenza e Taka si sorprese quando, per la prima volta da quando poteva averne memoria, fu più irritato da quella manifestazione di affetto che benevolmente infastidito. Doveva essere stata una giornata davvero lunga se non riusciva neanche a sopportare il comportamento infantile del suo compagno.

“Allora, come è andata la giornata?” gli chiese, una volta che fu riuscito a scrollarselo di dosso.

“È stato assolutamente fantastico! Nostro padre mi ha mostrato ogni angolo del regno, dal primo all’ultimo ciuffo di erba e mi ha insegnato tutto quello che sa! Insomma, tutto quello che un vero sovrano deve sapere!”

Quindi era vero quello che gli era stato detto: il padre davvero passava le sue giornate ad allenare Mufasa e ad educarlo… perché non stava facendo lo stesso con lui? Insomma, aveva diritto anche lui ad essere istruito: era uguale all’altro, gli era sempre stato detto questo… possibile che gli avessero sempre mentito? Tutto quello che un futuro re deve sapere: voleva quindi dire che la decisione era già stata presa? No, non era possibile, glielo avrebbero detto, non avrebbero mai potuto dare per scontato una questione così grande e importante.

Senza accorgersene, aveva tirato fuori gli artigli e stava raschiando il terreno, lasciando che dalla sua bocca venisse emesso un sottile ringhio che non passò inosservato all’udito di Mufasa.

“C’è qualcosa che non va, Taka?” Non poteva credere che l’altro fosse davvero così ottuso: doveva aver capito cosa lo stesse angustiando, era ovvio, e si stava sicuramente prendendo gioco di lui. La voce della sua coscienza gli stava gridando di essere ragionevole, che non era colpa del primogenito quello che era accaduto e che sapeva benissimo che al compagno mancava completamente quella malizia necessaria per giocargli un tiro tanto mancino, ma non era sicuro di volerla ascoltare.

“Assolutamente nulla, fratello” marcò molto la parola “fratello” con un tono acido che confuse ancora di più l’altro, abituato alla sua indifferenza, giocoso fastidio, ma mai a quello che sembrava un aperto rifiuto delle sue attenzioni. Perplessità che aumentò ancora quando Taka, senza dirgli nient’altro, si stese lontano da lui, in un angolo della grotta a riflettere, cercando di ignorare il cuore che gli batteva talmente forte da quasi uscirgli dal petto. Sperava di non dover parlare con nessuno quella sera, aveva bisogno di pensare e fare ordine nella sua mente, che in quel momento stava viaggiando troppo velocemente anche per lui, ma Mufasa non era della stessa idea: credendo di aver fatto qualcosa di sbagliato e di aver quindi indispettito l’altro, si mise al suo fianco, tentando di guadagnare la sua attenzione.

“Sai che oggi nostro padre mi ha raccontato una storia orribile sul cimitero degli elefanti?” A queste parole le orecchie del secondogenito si rizzarono, curioso di sapere cosa mai l’altro potesse aver saputo di così sconvolgente.

“Di che si tratta?”

“Beh, a quanto mi ha detto quello è il territorio delle iene” il cucciolo dal manto color miele si sedette vicino a lui, che intanto non aveva la minima intenzione di alzarsi “Siamo stati fortunati a non averne incontrata nessuna: sono estremamente aggressive e perfide. Nessuno è mai riuscito a farsi ascoltare da loro, o almeno così mi è stato detto… devono davvero essere delle creature orribili”

“Già… beh, faremo bene a seguire il consiglio dei nostri genitori e starcene lontani da quel posto” lo disse poco convinto, con un sorriso che gli divorava il muso: se nessuno era mai riuscito a trascorrere del tempo con quegli animali e lui si era visto con loro non una, ma due volte, questo doveva renderlo speciale. Se fosse riuscito a rendersele amiche, a fare in modo che si fidassero di lui, avrebbe potuto fare colpo sul padre e stupirlo, magari al punto da fargli cambiare idea su Mufasa. Doveva rimanere un segreto però, il suo piccolo segreto fra lui e il terzetto dell’ossario, fino a quando non avesse potuto portare al sovrano i frutti del suo operato: forse, dopotutto, aveva fatto bene ad entrare lì dentro, tre settimane prima. Sorrise quindi falsamente al fratello che, contento di essersi riappacificato con lui, si stese al suo fianco e si addormentò, lasciando Taka a sognare ad occhi aperti su quello che, ne era sicuro, sarebbe stato per lui un glorioso futuro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolino dell’autrice: spero che per il momento la storia vi stia piacendo... io mi sono divertita un sacco a scriverla, quindi mi auguro davvero che stia divertendo in egual misura anche voi; anche il passaggio da Taka a Scar, come potete vedere, sta avvenendo in maniera lenta, o almeno questo era l'intento, quindi mi scuso se è invece risultato affrettato. Detto ciò, rinnovo la sfida a dirmi cosa hanno in comune i titoli di questi capitoli e ringrazio di cuore StellaCadente per aver recensito i primi capitoli e aver messo la storia fra le seguite!

A presto!

L_A_B_SH

 

 

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Capitolo 7
*** Scar. Though this be madness, yet there is method in't ***


7. Scar. Though this be madness, yet there is method in’t

Immagini che avevano la tinta della vittoria, o quantomeno di una fondata speranza, illuminavano la mente di Scar, mentre si dirigeva verso il Cimitero degli Elefanti il più in fretta possibile: aveva tutta l’intenzione di assistere alla morte del nipote da una postazione preferenziale e, perché no?, intervenire magari, una volta che fosse stato troppo tardi e riportare il suo corpicino senza vita alla Rupe, in modo tale da gustarsi anche le espressioni che avrebbero dominato i volti dei genitori alla vista del loro prezioso cucciolo ridotto in quello stato. Se Shenzi, Banzai ed Ed fossero stati in grado di rendergli questo servizio decentemente, avrebbe dovuto riconsiderare almeno in modo parziale la sua opinione su di loro, soprattutto perché quel poco sangue versato avrebbe segnato l’inizio di una nuova era: non sarebbe stato difficile, sicuramente non come fino ad ora, sbarazzarsi di un Mufasa infiacchito dal dolore per una perdita tanto grave e probabilmente neanche troppo desideroso di reagire. Scar non era del tutto sicuro di come avrebbe fatto, ma confidava che non avrebbe faticato ad escogitare qualcosa: d’altronde, essere paziente dava i suoi frutti.

Quando intravide le prime ossa e scorse la spina dorsale dell’elefante vicino alla quale aveva incontrato per la prima volta le tre iene, rallentò il passo e tese le orecchie, in modo da captare qualsiasi rumore potesse provenire dal piccolo visitatore: dopo qualche secondo, iniziò a sentire qualcosa. Qualcosa che però non gli piacque molto. Oltre alla voce di Simba, le cui parole gli arrivavano solo in parte per via della distanza che li separava, credette di udire anche un’altra intonazione, più squillante, femminile, che attribuì alla piccola leonessa con cui l’erede al trono era solito trascorrere le sue giornate e che, a quanto pare, era già la sua promessa sposa. Non che il problema fosse la sua presenza in generale, una vittima in più o in meno non era un fastidio fintanto che il suo nome non fosse venuto fuori, ma quello che lo preoccupava era che, se il piccolo principe aveva deciso di farsi accompagnare da un’amica era possibile che qualcuno fosse venuto a sapere della loro intenzione di allontanarsi dalle Pride Lands e come conseguenza potesse avere deciso di seguirli per fare loro da balia…

Timore, il suo, che venne malauguratamente confermato dal un improvviso guizzo blu fra gli scheletri e che, con grande rammarico, Scar non poté che attribuire a Zazu: quel pennuto a quanto pare non faceva solo da messaggero e consigliere, ma si era assunto anche l’incarico di fare da baby-sitter alla prole regale nel tentativo di mettersi ancora un po’ più in mostra. Il disprezzo che provava per lui stava aumentando di minuto in minuto e probabilmente, se Mufasa non fosse stato così legato al suo lacchè di fiducia, avrebbe già fatto in modo di toglierlo di mezzo. Decise, in quel momento, che quella sarebbe stata la cosa migliore da fare non appena fosse diventato sovrano.

Riprese a guardare la scena e, delizia per le sue orecchie, appena qualche secondo dopo, sentì la familiare voce di Shenzi in un tono che non lasciava dubbi su quali intenzioni avesse: era lo stesso con cui si era rivolta a lui la prima volta che l’aveva sorpreso nel suo territorio, ma con due importanti differenze. Da una parte, infatti, all’epoca entrambi erano cuccioli e meno a conoscenza delle leggi che regolavano il rapporto fra iene e leoni, mentre dall’altra Scar aveva già fatto largamente presente a lei e ai suoi fratelli che nel caso si fossero ritrovati suo nipote nel loro territorio per una qualsivoglia ragione avrebbero dovuto fare in modo che non ne uscisse vivo. E la loro ricompensa sarebbe stata ingente. Erano stupidi, ma soprattutto avidi e perennemente affamati: bastava la promessa di una coscia di zebra ogni tanto per renderli obbedienti e servili.

Il movimento che sentiva sotto di sé attirò la sua attenzione, così si affrettò a guardare e, con sua grande soddisfazione, vide due macchie gialle correre inseguite a precipizio da altre tre più scure, con una rapida saetta azzurra che si agitava, smarrita, in tutta quella confusione: per quanto più veloci e agili, Simba e Nala erano comunque due cuccioli che si stavano confrontando con tre esemplari di predatori adulti, per di più nel loro territorio. Non avevano alcuna speranza di farcela. 

Iniziò dunque a seguirli, determinato a non perderli d’occhio e al contempo a non farsi assolutamente vedere da chicchessia: un lampo di gioia attraversò i suoi occhi quando vide che i suoi tirapiedi erano riusciti a far rintanare i due leoncini in una stretta strada senza uscita, contornata da rocce e assolutamente impossibile da scalare. Almeno per un cucciolo. Conosceva bene quei luoghi, erano anni che li percorreva in lungo e in largo ed era arrivato a potersi orientare fra quelle rupi e ossa bene quasi quanto i loro abitanti: non fu dunque difficile fare rapidamente il giro della spelonca, per ritrovarsi nuovamente in una posizione sopraelevata, da cui era possibile osservare l’intera scena senza essere visto. Simba e Nala erano accerchiati e spaventati, privi di qualsiasi arma di difesa: bene, molto bene, pensò Scar, affondando le unghie nel terreno con un sorriso venefico sul muso, già pregustando la scena a cui a breve avrebbe assistito: ora neanche il loro prezioso uccello avrebbe potuto fare nulla per impedirlo…

Un momento. Dove diamine si era cacciato quell’impiastro?

Nel medesimo istante in cui quella considerazione gli balenò nella testa, udì un ruggito potente, talmente potente da fare tremare la terra e per un attimo, ma solo per un attimo, quel ruggito gli fece tornare in mente il padre, Ahadi, e come era solito richiamare l’attenzione dei suoi sudditi con una tonalità egualmente impressionante, qualcosa che lui non era mai riuscito a fare. Un secondo dopo, la figura di Mufasa comparve nella sua visuale, rompendo quel breve ricordo e riconducendolo alla triste realtà dei fatti: un ringhio frustrato, che fortunatamente si confuse con tutto il frastuono circostante, gli uscì dalle labbra, mentre guardava quei tre idioti, leccapiedi e imbecilli sciogliersi come neve al sole alla vista del Re delle Pride Lands e, dopo essersi umiliati in scuse assolutamente ignobili, darsela a gambe il più velocemente possibile, lasciando il fratello, illeso, in compagnia di Zazu, illeso, e di Nala e Simba, ancora una volta illesi. 

Distolse lo sguardo, disgustato e infuriato con le tre iene per non essere riuscite a portare a compimento un ordine tanto semplice, ma soprattutto perché vedeva ancora una volta sfumare quella che gli si era presentata come occasione irripetibile. Quando mai il cucciolo sarebbe stato ancora così vulnerabile e indifeso, senza il padre a proteggerlo? Padre, che, vista l’evidenza, si ostinava a mettere in pericolo anche se stesso purché nulla capitasse al pargolo: Scar trovava questo atteggiamento assolutamente insulso e stupido… come poteva sapere che i suoi avversari sarebbero stati solo tre e non molti di più? Come avrebbe reagito se si fosse trovato davanti l’intero branco? Era forte, questo era vero, ma non sarebbe mai riuscito ad avere la meglio su un’intera schiera di animali. Eppure lo aveva fatto, si era deliberatamente esposto…

Il leone interruppe la sua camminata, fulminato dalla seconda illuminazione della giornata e perfino migliore della precedente: aveva sempre visto Simba come un ulteriore ostacolo e invece poteva diventare la chiave del suo successo! Nessuno scontro diretto, si era deciso, e al contempo aveva sempre considerato la versione adulta di Mufasa quantomeno troppo responsabile per correre rischi inutili, ma vedendo quella scena… ecco qual era il punto debole del caro fratello! Si permise di ridere, realizzando quanto il sentimentalismo e quelle inutili emozioni che egli si ostinava a mettere davanti alla ragione si stessero rivelando fondamentali per le sue decisioni: l’avrebbero portato alla rovina, ne era sempre stato sicuro, e ora ne aveva la conferma. Sarebbe bastato una piccola spinta da parte sua e la questione si sarebbe risolta: in un colpo solo, si sarebbe liberato di entrambi i pretendenti al trono!

Si sentiva fremere dall’eccitazione mentre i dettagli si disponevano e allineavano velocemente nel suo cervello, arricchendosi di particolari e contribuendo a dare uno schema ancora più chiaro e sorprendentemente dettagliato di quanto avesse potuto pensare: avrebbe avuto bisogno delle iene, sì, ma non solo, non si fidava di loro, dopo quel giorno più che mai, e poi, sopratutto, era impensabile per tutte loro uscire dalle terre di confine senza destare sospetti. No, doveva servirsi di un altro tipo di complicità, seppur inconsapevole: qualcuno che non avesse un grande cervello, che fosse facilmente manipolabile, insomma, il suo tipo ideale di collaboratore, ma al contempo che avesse la forza fisica necessaria per mettere seriamente in difficoltà il suo odiato fratello. Ripensò alle discussioni, poche e mal concluse, che lui e Mufasa avevano avuto in quegli ultimi mesi e alla mente si ripresentò la scena risalente a tre settimane dalla nascita di Simba, quando era venuto a sapere che Shenzi, Banzai ed Ed invece che fare come gli era stato chiesto avevano dato la caccia ad una mandria di gnù, causandone la fuga precipitosa e una serie di gravi danni: era perfetto, anche quello era perfetto, sembrava davvero che tutto si stesse disponendo in suo favore, che una forza misteriosa lo stesse spingendo ad impadronirsi di quello che era suo di diritto e, anche se non aveva mai creduto in sciocchezze simili, era divertente pensare che gli stessi spiriti che il primogenito si era affannato ad onorare per anni ora ne stessero irrimediabilmente causando la fine. Ora doveva solo comunicare la sua decisione ai suoi impiastri preferiti, sperando che avessero abbastanza buon senso per non rovinare tutto ancora una volta, ma si sentiva fiducioso, non per loro merito, ma per un calcolo delle probabilità: non era possibile che danneggiassero sistematicamente ogni cosa con cui venivano a contatto.

Le trovò al loro solito punto di ritrovo, intente a leccarsi le ferite dopo lo scontro con Mufasa e, ancora una volta, non mostrarono il minimo segno di aver inteso la sua presenza: di norma sarebbe stato irritato dall’essere ignorato in quel modo, soprattutto in qualità del benefattore che ormai era diventato per loro, ma quel giorno si sentiva particolarmente magnanimo e il suo umore era molto alto, perciò decise di stare ad ascoltare le loro lamentele.

“…Sapete, se non fosse per i leoni questo posto sarebbe in mano nostra” 

“E riuscireste a mandare tutto a rotoli nel giro di qualche minuto, se vi conosco abbastanza bene” pensò Scar, alzando gli occhi al cielo: se Shenzi era la meno stupida del terzetto, questo non voleva dire che avesse un quoziente intellettivo dignitoso.

“Accidenti, odio i leoni” aggiunse Banzai, prendendo parte alla discussione e suscitando un moto di fastidio nel loro silenzioso osservatore: ogni giorno di più rimpiangeva di avere bisogno di loro.

“Così prepotenti”

“E così pelosi”

“E bruti” Ad ogni insulto sentiva la sua pazienza che si sgretolava lentamente.

“E accidenti se sono dei gran puzzolenti” conclusero insieme le due iene, scoppiando a ridere e rendendo necessario al secondogenito intervenire prima che continuassero con quello che riteneva una lode alla stupidità spicciola.

“Oh, via! Noi leoni non siamo poi così male” li interruppe, con un tono di condiscendenza che avrebbe voluto invece essere di rimprovero: aveva perso le speranze di ottenere rispetto e ammirazione, gente come loro rispettava solo il proprio stomaco, ma avrebbe gradito non sentirsi continuamente insultato.

“Ah, Scar, sei solo tu!” Banzai tirò un sospiro di sollievo che, in altre occasioni meno favorevoli, avrebbe fatto scattare un moto di stizza nell’animo dell’interlocutore che però rimase sostanzialmente calmo, rassegnato nella propria superiorità e attendendo di poter avere la loro attenzione.

“Già, temevamo fosse qualcuno di importante” anche Shenzi sembrava voler infierire, non era certo se guidata solo dalla propria incapacità di serietà o con tutta l’intenzione di offendere.

“Sì, qualcuno tipo Mufasa!”

“Già!”

“Capisco”, si limitò a commentare, con un senso di fastidio che, nonostante il suo ottimo umore, stava mano a mano crescendo: era sempre così quando trascorreva più di qualche minuto in loro compagnia. Riuscivano a fargli rimpiangere anche solo di aver mai messo una zampa all’interno del Cimitero e anche il loro comportamento verso il fratello, che tanto lo aveva intrigato all’inizio della loro conoscenza, non faceva che irritarlo: lo disprezzavano, o almeno facevano mostra di disprezzarlo, per poi subito dopo affermare di avere paura di lui molto più che del lì presente, pur sapendo quanto questo fosse letteralmente un nervo scoperto nella sua personalità. Strinse i denti, aspettando lo sfogo finale che, sospettava, sarebbe sicuramente culminato con una richiesta di cibo.

“Sì, quello è potere!” sussurrò Banzai, facendo conficcare le unghie di Scar nel terreno sopra il quale si era steso.

“Non dirlo a me, mi basta sentire il suo nome per tremare!” 

“E fra poco tremerete al mio di nome se tutto va come deve andare” si trattenne dal sputare fuori il leone, conscio che si sarebbe attirato solo ulteriori commenti addosso se avesse dimostrato segni lampanti di quella che gli altri avrebbero chiamato invidia e che lui si ostinava a definire con il riduttivo termine di “insofferenza”. Perse in ogni caso la pazienza quando si vide costretto ad assistere alla scena patetica delle due iene, Ed escluso ovviamente, che fingevano brividi e al contempo ridevano pronunciando e udendo il nome del fratello.

“Sono circondato da un branco di idioti” si lamentò quindi, con il suo solito atteggiamento di rassegnata superiorità, passandosi una zampa sul muso e lanciando uno sguardo di disgusto allo spettacolo sotto di lui.

“Dai Scar, sei uno di noi, voglio dire… sei un amico!” la dichiarazione di Banzai non poteva fargli meno piacere: a che livello doveva essersi abbassato per essere considerato al pari di quegli scarti della società? Beh, almeno la loro vicinanza avrebbe portato i suoi frutti in breve tempo.

“Enchanté” si limitò quindi a commentare, con un tono che lasciava intendere quanto sarcastico in realtà fosse e quanto poco lo toccasse un tale riconoscimento da parte di quel terzetto.

“Oh, come parla bene, non è il re, ma è egualmente così bene educato” Stava per replicare che un buon comportamento prescinde dalla posizione di sovrano, che avrebbe in ogni caso dovuto occupare, quando il fratello di Shenzi, finalmente, si decise a fare la domanda che, sperava, li avrebbe almeno un po’ azzittiti e gli avrebbe permesso di esporre chiaramente i suoi progetti.

“Già e… ci hai portato qualcosa da mangiare, Scar, vecchio amico, compare, che ci hai portato, che ci hai portato?” Il tono eccitato della iena, il cui muso sembrava illuminarsi esclusivamente per le questioni di stomaco, fecero tendere il leone in una smorfia di disgusto, ma, volendo procedere con le questioni di maggiore importanza, si rassegnò a tendere verso di loro il cosciotto di zebra che si era procurato.

“Non sono sicuro che ve lo meritiate” disse, vedendo le loro espressioni fameliche e con la grande tentazione di ritirare il cibo giusto per vedere quei sorrisi così stupidi spegnersi “Perché vi avevo consegnato quei cuccioli su un vassoio d’argento e non siete stati capaci di sistemarli a dovere” Era arrabbiato per la loro inettitudine, questo era vero, infuriato per la loro incapacità di portare a termine un ordine, ma al contempo sentiva che questo sbaglio gli aveva aperto grandissime possibilità, perciò alla fine si decise a tirare loro il tanto aspirato premio, per poi assistere alla scena della loro abbuffata, da sempre trovata poco dignitosa e assolutamente sgradevole da guardare.

“Beh, sai” si difese Shenzi, con la bocca piena “Non è che quei cuccioli fossero proprio soli, Scar” Questo lo sapeva benissimo, ma non tollerava la loro lentezza nell’agire.

“Cosa potevamo fare?” rincarò la dose Banzai “Uccidere Mufasa?” Ecco, per una volta avevano esattamente centrato il punto. Si allungò verso di loro con un enorme sorriso sul muso, sentendo nuovamente l’eccitazione che l’aveva assalito poco prima tornare ad invadere il suo corpo prepotente: aveva tutto pronto, ogni cosa perfettamente in assetto nel suo cervello, ma, al contrario della sua giovinezza quando ancora credeva, in modo troppo naïf, ora lo capiva, di poter contare anche sul buon senso altrui e che il gioco pulito desse i suoi frutti, era più freddo, meno trascinato dalla voglia di rivalsa. O meglio, quella c’era, e non di meno degli anni passati, ma si univa ad una spregiudicatezza e una freddezza che derivavano dalla pura ambizione personale.

“Esattamente” sussurrò quindi, causando una reazione di sorpresa e stupore da parte delle iene, che, per la prima volta, sembrarono vedere qualcosa in lui mai scorto fino ad ora: pensavano forse che le sue fossero solo parole? 

Avrebbe dimostrato loro il contrario, avrebbe dimostrato a chiunque il contrario!

Saltò giù dalla roccia dove era disteso sul terreno, iniziando a spiegare ciò che avrebbe messo in pratica con il loro aiuto.

Da ciò che vi leggo negli occhi, io so già che il terrore vi squaglia

Non siate, però, così sciocchi! Trovate l’orgoglio marmaglia

Son vaghe le vostre espressioni, riflesso di stupidità

Parliamo di re e successioni! Ritrovate la lucidità!

Erano spaventati, spaventati e confusi da quello che aveva appena detto: sembravano non capire quali fossero le sue intenzioni. Non li aveva mai visti in quel modo, mai aveva sentito così facile attirare e conquistare la loro attenzione: che si stessero rendendo conto di quello che stava capitando? Della nuova era che sarebbe presto sorta una volta che i pezzi si fossero ricomposti, dell’onore che sarebbero arrivato a lui e che di riflesso avrebbe colpito anche quegli idioti, quella razza inferiore che aveva avuto la fortuna e il privilegio di servirlo nell’ombra per anni? Non lo sapeva e, per la verità, non gli importava: gli bastava che avessero perso quella perenne espressione da imbecilli e lo stessero finalmente compensando con la considerazione che meritava.

Il mio sogno si sta realizzando, è la cosa che bramo di più!

È giunto il momento del mio insediamento.

Sì, aveva aspettato quel giorno per anni, nella polvere, nell’ombra di qualcun altro, di Ahadi, di Mufasa e adesso che correva il rischio di venire oscurato anche da Simba, da quello scricciolo che altro non era che un prolungamento del fratello tanto odiato, gli era stata finalmente data l’opportunità di scuotersi di dosso tutti: sarebbe diventato ciò che era stato predestinato ad essere fin dall’infanzia, fin dalla nascita. Il sovrano che nessuno mai aveva visto in lui.

“Ma noi che faremo?” Shenzi era confusa, confusa dallo strano entusiasmo e vivacità di Scar, quasi febbrile nei suoi movimenti, lui che era sempre così composto e posato in tutto quello che faceva, ma non ricevette risposte dirette: il leone, con un sorriso di sufficienza sulle labbra, si limitò a pizzicarle le guance con gli artigli.

“Seguite il maestro” rispose semplicemente, prima di tornare a muoversi in mezzo a loro con rinnovata energia.

E voi smidollati, verrete premiati, l’ingiustizia è una mia gran virtù!

Avrà gli occhi di Scar, sai perché? 

Sarò Re!

Si innalzò sopra di loro, buttando giù dalla roccia su cui era saltato Ed, ancora intento a masticare un osso spolpato e apparentemente ignaro dei grandi cambiamenti che sarebbero seguiti di lì a poco: la scena era solo per lui, nessun altro, l’aveva ceduta ad altri per lungo tempo, troppo tempo, era giunto il momento di diventare il protagonista, l’eroe della vicenda.

“Sì, siamo pronti! Saremo pronti!” esclamò Banzai, emergendo dal mucchio di scheletri su cui si ritrovava e già il leone si sorprendeva della velocità con cui avevano capito di cosa stesse parlando quando l’altro si affrettò a domandare “Ma per cosa?”

“Per la morte del Re” proclamò, solenne, presentandosi loro con un orgoglio e una potenza che mai gli altri avevano visto il lui: com’era dolce pronunciare quelle parole, com’era dolce finalmente poter immaginare il primogenito disteso a terra, senza vita, e non più sovrano, non più perfetto, più niente se non carne per gli avvoltoi. Com’era dolce pensare anche ad Ahadi, padre indegno che non aveva saputo riconoscere le reali qualità del proprio figlio, maledirsi per non avere previsto che una mente come la sua sarebbe comunque giunta all’obiettivo prefissatosi: “Guardate tutti, ora” pensava “guardate e rimpiangete di avermi negato a suo tempo quello che era mio di diritto”

“Perché? È malato?” Con un artigliata portò la iena più vicina a sé, in un falso sussurro udibile anche agli altri due e al resto del branco che, notava con la coda dell’occhio, si stava avvicinando, attirato da tutto quel frastuono.

“Idiota, lo uccideremo noi… e Simba con lui” Sarebbe stato come eliminare due volte il fratello: la versione adulta, quella che somigliava tanto agli Antenati e che tanto si discostava da lui, e quella fanciulla, rumorosa, arrogante, che l’aveva privato di così tanti riconoscimenti in gioventù. Avrebbe ripagato ogni torto, ogni offesa.

“Sì, buona idea a chi serve un re? Niente re, niente re lalalalalala” Quanto potevano essere stupidi quegli animali? Riuscivano davvero a non capire anche le faccende più ovvie? Alzò ancora il tono di voce, mettendo fine alle loro chiacchiere inutili e al contempo catturando l’attenzione delle centinaia di silenti osservatori nascosti nell’ombra.

“Idioti! Un Re ci sarà!”

“Ehi, ma tu hai detto…”

“Io sarò Re!” gridò, non solo a loro, all’intero branco, all’intera Rupe, all’intera Savana e anche a tutti quegli spiriti di cui non credeva l’esistenza, ma che certamente, se fossero stati reali, meritavano di essere messi al corrente dei fatti “Seguitemi! E non soffrirete più la fame!” Era un’antica promessa, quella, qualcosa che aveva già accennato loro in passato, anche se, per i tiri mancini che gli erano stati giocati, non aveva potuto mantenere. Ebbene, quel giorno gliela riproponeva, ma con più cognizione di causa, con più sicurezza. E poi sapeva che le iene avevano la memoria corta: sarebbe stato facile rieccitare il loro entusiasmo.

“Evviva!! Lunga vita al Re! Lunga vita al Re! Lunga vita al Re!” Come volevasi dimostrare, era bastata una piccola assicurazione per guadagnarsi nuovamente la loro fedeltà.

Avremo la sua compiacenza, sarà un Re adorato da noi!

Vederle sfilare in quel modo, ai suoi ordini, disposte a tutto pur di guadagnare il suo appoggio, gli riempiva il cuore di un trionfo tanto grande che, fosse stato più incline alle emozioni, avrebbe potuto farlo scoppiare: ma non sentiva nulla in quel momento, nulla a parte una determinazione calcolatrice che sì lo rendeva euforico, ma non lo scaldava, anzi. Mai si era sentito più freddo di quel momento. Era però il momento di chiedere in cambio qualcosa: non era possibile che pensassero che i suoi favori non costassero nulla. Aveva bisogno della loro collaborazione se voleva sbarazzarsi con successo degli ostacoli, ostacoli che avevano una criniera rossiccia, un manto color miele e due paia d’occhi uguali a quelli di Ahadi.

Ma in cambio di quest’indulgenza, qualcosa mi aspetto da voi

La strada è cosparsa di omaggi, per me e anche per voi lacchè

Ma è chiaro che questi vantaggi, li avrete soltanto con me!

Saltò in mezzo a loro, guardandoli negli occhi e scorgendo finalmente una paura e un rispetto totali: non si faceva illusioni, non sarebbe durato a lungo, giusto il tempo di una giornata, ma una giornata gli sarebbe stata sufficiente per avere quello che voleva. Ogni secondo che passava lo faceva sentire più sicuro.

E sarà un gran colpo di stato! La savana per me Tremerà!

Il piano è preciso, perfetto e conciso. 

Decenni di attesa, vedrai che sorpresa!

Le iene lo stavano circondando, ma lui spiccava su tutte, esattamente come si sarebbe innalzato sull’intera savana: ventiquattr’ore, nulla di più di un cammino del sole e ogni cosa che vedeva, ogni branco di animali, ciuffo d’erba, refolo di vento gli sarebbe appartenuto. E li avrebbe fatti inginocchiare, sì, li avrebbe piegati tutti, uno ad uno, le leonesse che mai l’avevano guardato perché non somigliava abbastanza a Mufasa per venire anche solo preso in considerazione come essere vivente, figuriamoci come aspirante erede al trono, quell’uccello che si era sempre ostinato a mancargli di rispetto e a servire il fratello e che invece adesso avrebbe dovuto inchinarsi e umiliarsi fino a toccare terra se avesse voluto sopravvivere, e anche Rafiki, stupida scimmia, che l’aveva sempre guardato come se già avesse capito tutto di lui, del suo passato del suo presente e del suo futuro, si sarebbe dovuto ricredere.

Sarò un Re stimato, temuto ed amato: nessuno è meglio di me!

Affiliamo le zanne perché, Sarò Re!

Affiliamo le zanne perché 

Sarò Re!

E mentre rideva al cielo, più in alto di quanto si fosse mai sentito prima d’allora, ebbe l’assoluta certezza che nulla l’avrebbe fermato.












Angolino dell'autrice: Ed eccoci giunti al punto di svolta: la pianificazione della morte di Mufasa. Se devo essere sincera, sono particolarmente contenta di questo capitolo, o almeno, mi sono divertita da morire a scriverlo qualche mese fa, quindi, come al solito, mi piacerebbe sapere cosa voi ne pensiate!
Ringrazio StellaCadente e Justmeonhere per aver commentato l'ultimo capitolo e aver messo la mia storia fra le seguite!
Ci si risente fra due settimane!

 

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Capitolo 8
*** Taka. When sorrows come, they come not single spies. But in battalions ***


8. Taka. When sorrows come, they come not single spies. But in battalions.

Taka procedette lentamente, dietro ad una roccia, lanciando uno sguardo alla scena davanti a lui che a parer suo si era ripetuta fin troppo, non potendo trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo: erano passati mesi dall’incidente con le iene, mesi da quando aveva deciso di fare loro visita una seconda volta e gli era sempre più chiaro quali fossero le differenze fra lui e Mufasa. Se prima i due fratelli giocavano quasi tutto il tempo insieme e i loro comportamenti si equilibravano a vicenda, la scaltrezza di uno con il coraggio dell’altro, adesso era raro che trascorressero più di qualche ora in compagnia: ciò era causato non solo dai crescenti impegni che sembravano coinvolgere il primogenito e da cui l’altro, con suo grande fastidio, era costantemente escluso, ma anche dallo sviluppo dei loro caratteri, i cui tratti fondamentali si stavano piano piano amplificando. Per questo, il leone dal manto scuro, non più cucciolo, distorse la bocca quando vide Mufasa lottare scherzosamente con Sarabi prima di strofinare il suo muso contro quello della giovane: erano una coppia ormai, e questo al fratello non dispiaceva più di tanto, ma era un’altra la questione che proprio non riusciva a sopportare. La corporatura dell’altro, come tutti si aspettavano, somigliava in ogni particolare a quella del padre, forse perfino più grande e forte, e questo sembrava dare il permesso e il dovere al primogenito di risolvere qualsiasi tipo di conflitto, anche il più banale, con l’uso della forza bruta: aveva partecipato, di malavoglia, a qualcuno di quei combattimenti giocosi in cui l’altro amava tanto cimentarsi, ma aveva presto perso ogni interesse per la vicenda. 

Se da piccoli riuscivano ad equilibrarsi in quella attività, ora la sproporzione era davvero troppo grande e quella che avrebbe dovuto essere una competizione si era trasformata in una costante umiliazione: non aveva alcuna intenzione di finire nuovamente nella situazione di un mese abbondante prima quando, atterrato in maniera particolarmente dolorosa, era stato costretto ad ascoltare cinque minuti buoni di complimenti rivolti al caro fratello da parte delle leonesse che da un po’ di tempo a questa parte gli giravano costantemente intorno prima di riuscire a ricordare alla massa sopra di lui che avrebbe gradito alzarsi. Né avrebbe sopportato un’altra volta gli sguardi di pena mista compassione che gli venivano costantemente rivolti in quelle occasioni. Ma la cosa peggiore era che nulla di quello che il fratello faceva aveva intenti cattivi nei suoi confronti: sarebbe stato più sopportabile sapere che la volontà di Mufasa era quella di farlo sentire inferiore, invece che la consapevolezza che il primogenito non si rendeva assolutamente conto di quanto fosse pesante averlo intorno. Certo, nessuno gli aveva mai fatto notare altrimenti, come avrebbe potuto?

Scosse la testa con rassegnazione, facendosi finire sugli occhi i ciuffi neri che avevano iniziato a crescergli: era l’unica caratteristica che aveva preso da Ahadi e ne andava particolarmente fiero, anche se era l’ennesimo attributo che lo differenziava dal primogenito, possessore di una criniera rossiccia e già molto folta.

Voltò le spalle alla scena e, perso nei suoi pensieri, si diresse in automatico verso il cimitero degli elefanti che in quel periodo era quasi diventato una sua seconda casa: sempre se si potesse chiamare casa un luogo sporco, desolato e squallido che Taka disprezzava con tutto il suo cuore. Aveva superato completamente la sensazione di inquietudine provata da cucciolo e ora si sentiva quasi annoiato e infastidito quando entrava lì, specialmente perché sapeva in che compagnia avrebbe trascorso il suo tempo: Shenzi, Banzai ed Ed si erano abituati alla sua presenza e lo seguivano, con la loro camminata disordinata e scoordinata, un po’ dappertutto lui volesse dirigersi. L’avevano anche presentato al resto del branco che l’aveva accolto all’inizio con riserva e mano a mano con maggiore entusiasmo più vedevano i vantaggi che averlo dalla loro parte avrebbe comportato: con il suo portamento composto, gli occhi severi e un sorriso di sufficienza quasi sempre sulle labbra, il giovane leone spiccava per la prima volta in tutta la sua vita in mezzo a quella massa di stupidi e, malgrado sentisse spesso il vano desiderio di avere una discussione edificante con qualcuno invece che assistere alle povere dimostrazioni di idiozia che vedeva ogni giorno, ricordava costantemente a se stesso per quale motivo si stava mescolando con simili creature. Conquistare la loro fiducia, dare loro un ordine e delle regole e presentarsi al padre con la soluzione ad un problema apparentemente ignorato per anni: con quale coraggio egli avrebbe potuto continuare a preferire Mufasa con una dimostrazione così lampante di superiorità? E poi le iene, con quel loro disprezzo totale per la sua famiglia e per i Re del Passato, che era sempre stato abituato a venerare come dei, erano una boccata d’aria diversa: non era soddisfatto della loro compagnia, ma se l’alternativa era vivere costantemente contornato dalle esaltazioni e complimenti rivolti al fratello allora quella era senza dubbio la soluzione migliore.

Ogni tanto, in realtà, specialmente di notte, quando dormiva vicino a Mufasa e ai genitori si sentiva leggermente in colpa per quello che sicuramente sarebbe stato visto come un tradimento se gli altri l’avessero saputo, soprattutto vedendo l’espressione serena e pacifica del compagno, steso al suo fianco, ma si ripeteva che la sua era una competizione assolutamente dovuta, che non si era mai arreso in vita sua e non l’avrebbe certo fatto in quel momento e, soprattutto, che ne sarebbe valsa la pena una volta che fosse diventato sovrano. Una volta che il suo popolo avesse riconosciuto finalmente il suo valore. E gradualmente, quel senso di imbarazzo era stato sostituito da una determinazione ferrea a portare a termine il suo obiettivo, senza preoccuparsi delle conseguenze.

“Ehi, ehi, compare!” Banzai fu come al solito il primo a dargli il benvenuto, indagando con gli occhi se quel giorno avesse portato per loro qualcosa di succulento da mangiare: speranza vana.

“La vostra gioia nel vedermi arrivare è sempre toccante” rispose ironico, alzando gli occhi al cielo e non rallentando il passo, costringendo l’altro a seguirlo “Ma sfortunatamente non sono riuscito a portarvi nulla. Mi chiedo però come voi idioti sopravviveste prima di conoscermi”

“Di sicuro peggio” Shenzi lo raggiunse, trascinandosi dietro un Ed ancora più rincitrullito del solito “È stata una fortuna averti trovato quel giorno, eh?”

“Vorrei poter dire la stessa cosa” ribatté, cinico, prima salire su una roccia, guardandoli dall’alto in basso: solitamente non lo faceva, ma quel giorno aveva bisogno di sentire fra di loro un po’ di distanza, di differenza, e l’effetto gli piacque. Chissà, sarebbe potuta diventare un’abitudine.

“Oh, andiamo principino, sai anche tu che ci adori!”

“Sì, quanto una carie fra i denti” pensò, prima di dire invece ad alta voce “Vi ho detto non so quante volte di non chiamarmi in quel modo”

“Ci hai anche proibito di chiamarti con il tuo vero nome, ottima, ottima scelta a parer mio, quindi dimmi: come vuoi che ci presentiamo al tuo cospetto?” Lo canzonò Shenzi, facendogli digrignare i denti per il fastidio.

“Preferibilmente in ginocchio” pensò poi con un sorrisetto, ripensando anche, con un moto di stizza, al fatto che effettivamente ora anche il suo vero nome gli suonava assolutamente insopportabile: Ahadi gli aveva fatto un bel discorsetto mesi prima, era vero, ma assolutamente insufficiente per riparare alle occhiate che gli erano sempre state rivolte quando si presentava. Era stato insopportabilmente naïf da parte sua non accorgersene prima e non aveva intenzione che accadesse di nuovo. Il problema non si sarebbe più posto una volta che fosse salito al trono, invece: Sua Maestà, Vostra Altezza… erano tutti appellativi che gli si sarebbero adattati perfettamente.

“Trovate qualcos’altro” ribatté quindi, spostando poi l’argomento di conversazione su un punto che invece gli interessava particolarmente “Quanto a voi: avete convinto il vostro branco? Sarebbe disposto ad accettare le mie condizioni? Vi avevo detto di ripetere esattamente le mie parole, senza cambiare una virgola, mi auguro che abbiate seguito le mie direttive” Aveva elaborato un discorso efficace, che, era sicuro, avrebbe garantito che le cose andassero come voleva, ma non si fidava neanche lontanamente di quei tre incapaci: doveva essere sicuro che tutto fosse in ordine prima di fare la sua mossa.

“Sai benissimo della reputazione che godi qui: non è stato difficile convincerli che tu ci avresti aiutato molto se ti avessimo seguito! Perché sarà così, giusto amico? Grandi benefici, è quello che ci porterai, no?”

“Assolutamente” Sorrise fra sé nuovamente, riflettendo che quei grandi benefici in realtà consistevano solamente in una dignitosa quantità di cibo al giorno ed era più che sicuro che, se quegli animali si fossero organizzati per conto loro, avrebbero benissimo potuto impadronirsi delle Pride Lands anche da soli, non mancando di forza ed essendo in numero superiori al nemico. Peccato che avessero un’enorme lacuna: non avevano assolutamente cervello. Invece, sotto la sua guida, avrebbero potuto ambientarsi nella savana nel migliore dei modi e assicurare una pacifica convivenza con i leoni. Sì, suo padre e sua madre sarebbero stati orgogliosi di lui per il modo in cui avrebbe posto fine a questa sorta di conflitto mai scoppiato e anche Mufasa avrebbe finalmente capito che anche lui poteva valere qualcosa: sarebbe stato perfetto, gli equilibri sarebbero stati ripristinati e il suo popolo lo avrebbe finalmente riconosciuto come qualcosa di più che un semplice principe cadetto.

“Ehi! Sognatore? Ci sei? Ti abbiamo appena detto che siamo pronti!” Ritornò alla realtà di colpo a causa della petulante insistenza delle iene e le squadrò con rassegnazione, prima di scuotere il capo affermativamente.

“Ho inteso perfettamente e questo è un grande passo: vedrete che la nostra collaborazione porterà grandissimi vantaggi per entrambe le parti” Detto questo, saltò giù dalla roccia in mezzo a loro e si diresse verso l’uscita “Se oggi tutto andrà come deve andare, vi assicuro che questa sarà l’alba di una nuova era!”

Le salutò in tal modo, pregustando già il successo sulla punta della lingua: il grande momento era arrivato, dunque. Non poteva non ammettere di sentirsi alquanto nervoso al pensiero di confrontarsi con Ahadi: aveva un grande rispetto per il padre e le sue capacità di decisione ed era sicuro che, se gli avesse dato un buon motivo per ricredersi, avrebbe certamente scelto lui invece di Mufasa. Oppure, ed era un’alternativa che ogni tanto attraversava la mente di Taka e non gli dispiaceva neppure poi così tanto, avrebbe potuto scegliere di lasciare governare ad entrambi il regno, mettendoli sullo stesso piano: non era necessario che il fratello venisse surclassato, rifletteva, bastava che venisse stabilito una volta per tutte che erano entrambi pari.

                                                              *****************

Giunse alla Rupe dei Re in tempo perché il fratello lo vedesse e gli corresse incontro, atterrandolo come al solito nelle sue dimostrazioni di affetto: la sua energia lo sorprendeva sempre, non era più un cucciolo, ma l’entusiasmo non accennava minimamente a diminuire.

“Taka! Dove sei stato tutto il giorno? Sparisci sempre più spesso, non abbiamo praticamente più occasione di stare insieme!”

“Oh, sai, gli impegni: certo, non possono competere con i tuoi, ma in quanto pretendente al trono ho anche io la mia… come posso dire… agenda che devo rispettare” lo disse con un tono annoiato che ormai adottava costantemente quando parlava con il primogenito e quest’ultimo, abituato al comportamento piuttosto antisociale del fratello gli sfregò una zampa sulla spalla, quasi buttandolo a terra.

“Tu non me la conti giusta: sono sicuro che mi stai nascondendo qualcosa” Possibile che avesse dei sospetti? Che non fosse così ingenuo come sembrava? Il giovane leone pensò freneticamente se avesse per caso commesso un qualche sbaglio o un’imprudenza e come avrebbe potuto giustificarsi, prima di essere interrotto dall’altro “Avanti, dimmi il suo nome”

… E no. Non aveva proprio capito nulla. “Che cosa diamine vai blaterando, fratello?” replicò, non senza sentirsi davvero molto divertito dalla conclusione a cui Mufasa sembrava essere giunto.

“Oh, andiamo: è evidente cosa ti stia succedendo. Sei sempre pensieroso, sparisci per ore e sembri avere costantemente la testa fra le nuvole: devi esserti per forza innamorato! Avanti, chi è? La conosco?” Questa volta Taka non poté trattenersi dallo scoppiare a ridere in faccia al primogenito, che lo squadrò piuttosto confuso e anche lievemente offeso.

“Sei assolutamente fuori strada, mi dispiace: capisco che tu adesso sia perdutamente innamorato di Sarabi e che per questo motivo tu tenda a vedere coppie e sdolcinatezze ovunque, ma ci sono altri motivi per cui…” La sua frase si interruppe a metà, quando vide il padre sulla Rupe dei Re che scrutava le terre: era il suo momento, non poteva assolutamente perderlo. Quasi senza salutare Mufasa, quindi, si diresse verso Ahadi, tentando di mantenere la calma, ma con brividi di eccitazione che gli attraversavano tutto il corpo: aveva progettato quel giorno da mesi, immaginato, sognato ad occhi aperti. Era sicuro che tutto si sarebbe svolto esattamente come aveva progettato.

La figura del genitore si stagliava sul tramonto e sembrava ancora più imponente, colpita dai fasci di luce che illuminavano la pelliccia color miele che solo uno dei suoi figli aveva ereditato: lo aveva sempre messo in soggezione, fin da cucciolo, ma per la prima volta, mentre si affiancava a lui e attendeva di prendere la parola, si sentì del tutto uguale, pronto per regnare come non lo era mai stato prima d’ora. Doveva solo convincerlo, ma persuadere coloro che lo circondavano con l’uso delle parole era sempre stata la sua specialità.

“È proprio uno spettacolo, non è vero?” la voce del sovrano, calda e profonda, lo riscosse dal suoi pensieri e le zampe gli si contrassero per la tensione, malgrado, rispondendogli, si sforzasse di non far trasparire l’agitazione che lo muoveva dall’inizio del giorno.

“Assolutamente, padre: il nostro regno è florido e in pace come mai prima d’ora” Prese un bel respiro prima di continuare “E proprio a questo proposito vorrei parlarvi di una…”

“È tutta una questione di equilibrio” lo interruppe il suo interlocutore, non dando segno di aver sentito la sua seconda frase “come Re delle Pride Lands è mio compito mantenere tutte le specie in accordo e sullo stesso piano fra di loro: sono sicuro che coloro che verranno dopo di me sapranno fare altrettanto”

Il fatto che non avesse pronunciato il nome del primogenito diede un’altra spinta a Taka per continuare la conversazione e anche un barlume di speranza: se davvero egli era indeciso su a chi affidare questo compito, l’annuncio che gli stava per fare sarebbe stato probabilmente determinante.

“Ne sono convinto anche io: tuttavia, mi è sopraggiunto alla mente un dilemma, una questione di cui vorrei discutere con voi” Non voleva esporsi troppo e troppo in fretta, non era nel suo stile: avrebbe lasciato che fosse almeno apparentemente Ahadi a condurre il discorso fino a che non fosse arrivato il suo momento.

“A cosa ti riferisci?”

“Si tratta… delle iene” Vide il volto dell’altro scurirsi e si preparò, ripassando mentalmente quello che aveva programmato di rivelargli per fare in modo che si convincesse: il suo cuore prese a battere ancora più forte e sperò che la sua agitazione non fosse visibile dall’esterno.

“Hanno causato altri guai? Perché se è così vanno punite immediatamente…”

“No, mi avete frainteso!” si affrettò a correggerlo “Mi domandavo solamente quale potesse essere il motivo per cui un’intera specie fosse stata tanto soggetta ad odio nelle generazioni passate…”

“Come ho già spiegato a te e tuo fratello” gli venne risposto, con espressione severa “quegli animali sono ingordi, avidi e sciocchi: non concepiscono regola alcuna e tantomeno sembrano preoccuparsi del labile ordine che gli Antenati hanno faticosamente costruito nel corso delle varie generazioni. Per questo vanno allontanate e segregate, senza alcuna eccezione”

“E questa senza dubbio è una scelta molto saggia, ma mi chiedo se davvero non sia possibile una riconciliazione: è evidente, d’altronde, che quegli animali non sono disposti a tollerare un regime stretto quanto quello a cui sono sottoposte tutt’ora. Non è più pericoloso averle emarginate e scontente, costantemente da tenere sotto controllo perché non si organizzino, piuttosto che tentare di avvicinarle in qualche modo?” Sperava che il padre avrebbe ragionato sulla faccenda, che avrebbe pensato e sarebbe giunto alla stessa conclusione a cui era giunto anche lui: che le iene erano una risorsa troppo grande per essere lasciate in disparte. Per questo venne quasi ferito dalla risposta che gli venne data:

“È una scelta che non va neanche presa in considerazione: quegli esseri hanno dimostrato da sempre di non voler ascoltare altri che i loro stomaci e ne hanno dato la prova anche in questi ultimi anni… cosa che sapresti anche tu, se fossi stato più presente in quest’ultimo periodo” Quell’ultima frase colpì il giovane come uno schiaffo sul muso: quella non era assolutamente la piega che avrebbe dovuto prendere il discorso; doveva essere il suo momento di dimostrare la sua intelligenza, non un ulteriore rimprovero! Tentò di chiarire la situazione, di spiegare che quello che stava facendo era per il bene del regno, del regno che avrebbe dovuto essere suo, ma venne interrotto ancora prima di poter aprire bocca “Credi che non l’abbia notato? Sparisci per ore e solo i Re Antenati sanno dove tu sia: tua madre dice che non è il caso di preoccuparsi, che sei responsabile e non ti metteresti mai nei guai e io vorrei crederle, ma davvero non capisco cosa ti passi per la testa in questo periodo. Siamo tutti parte di un Grande Cerchio, figlio mio, e questo vuol dire che è necessario mescolarsi con gli altri, tentare di comprenderli e aiutarli per essere veramente vivo: questo però tu non sembri capirlo, ti ostini a rimanere in disparte, a squadrare tutti quasi dall’alto in basso. Dimmi, reputi davvero ciò che ti circonda così inferiore a te da non degnarlo neanche della più piccola occhiata?”

Voleva ribattere che era a buon diritto che lo faceva, perché lui sarebbe diventato sovrano ed era giusto che un sovrano osservasse il suo regno in modo sopraelevato e imparziale, senza lasciarsi coinvolgere dalle vicende dei suoi sudditi, ma le parole che vennero pronunciate subito dopo da Ahadi gli gelarono il sangue.

“È questa la grande differenza fra te e tuo fratello: lui ha compassione, comprende le leggi che governano il nostro mondo e non è spaventato di farne parte come invece tu sembri. Perché non puoi essere più come Mufasa, Taka?”

Ed ecco, di nuovo il paragone, di nuovo il confronto: odiava sentire quei due nomi così vicini, odiava sentire la differenza con cui essi venivano pronunciati, odiava pensare ai significati opposti che essi contenevano, ma ancora di più odiava il motivo per cui apparentemente il padre sembrava tanto preferire il primogenito. Una semplice questione di emozioni! Di cuore! Di… debolezza! Sì, perché a dispetto della forza bruta di cui tanto si vantava, alla fine era quello che suo fratello era: un debole, incapace di pensare logicamente, troppo trainato dai sentimenti che provava. Lui aveva la logica, lui aveva l’intelligenza necessaria per reggere la savana, perché questo nessuno sembrava capirlo?

Strinse i denti, provando per la prima volta qualcosa che somigliava molto a odio per quell’ingiustizia, per il modo di pensare assolutamente scorretto di tutti quelli che lo circondavano, per la sua famiglia e stava per controbattere, non potendo trattenersi e pronto già a subire le conseguenze di quello che avrebbe detto, quando il consigliere di Ahadi, un uccello, stupido, arrogante ed estremamente giovane che a Taka non era mai piaciuto e che sospettava avesse un’avversione uguale nei suoi confronti, arrivò a precipizio, senza neanche posarsi per terra e con un’espressione di allarme che sembrò molto strana al giovane principe.

“Vostra Maestà… ho fatto più in fretta che ho potuto… la regina… vostra moglie… si è sentita male alla pozza d’acqua! Non riesce più ad alzarsi: dovete assolutamente soccorrerla!” Tutto quanto detto e pensato fino ad allora si cancellò immediatamente dalla mente sia del padre che del figlio che, scoccatisi un’occhiata di medesimo allarme, si precipitarono alla rincorsa del pennuto, che li guidò fino alla posizione di Uru.












Angolo dell'autrice: Dramma Time! (Non che il resto fosse felice, in effetti) E così Taka non è riuscito a dire al padre quello che voleva, in più ora Uru si è anche sentita male... previsione: non credo che le cose si metteranno bene per il nostro protagonista. Grazie a tutti quelli che leggono e, ovviamente, un grazie speciale a quelli che seguono questa storia: come al solito, vi invito a commentare per farmi sapere la vostra opinione!
Ci sentiamo fra due settimane!
L_A_B_SH

 

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Capitolo 9
*** Scar. A little more than kin, a little less than kind. ***


9. Scar. A little more than kin, a little less than kind.

Non aveva quasi dormito quella notte. Ore ed ore si erano succedute lente, mentre, sforzandosi di prendere sonno, si ritrovava immancabilmente ad aprire gli occhi al più piccolo suono: niente doveva essere lasciato al caso, per il giorno dopo, tutto doveva essere perfetto. Sapeva di avere calcolato ogni fattore al millesimo e anche il ruolo che aveva dato alle iene era talmente minimo che perfino uno scarso intelletto come il loro sarebbe riuscito a portarlo a termine, ma era anche a conoscenza di quanto spesso i suoi progetti venissero scombinati, per cause interne o esterne che fossero, e questa volta ciò non poteva accadere. Era perciò con gratitudine che aveva accolto l’arrivo dell’alba che, insieme alla luce, aveva dissipato i suoi ultimi dubbi, facendo rinascere nel suo spirito la stessa ferrea confidenza che l’aveva accompagnato la sera prima: Mufasa e Simba sarebbero morti, senza alcun dubbio. E il trono sarebbe stato suo.

Questa sua certezza non bastò però ad istillare in lui una fiducia eccessiva nei suoi collaboratori: incontratosi con loro appena riuscito ad assentarsi dal regno, si assicurò più e più volte che avessero bene in chiaro quale sarebbe stato il piano.

“Siete certi di avere inteso?” chiese, inarcando un sopracciglio e manifestando una chiara perplessità circa le loro capacità di comprensione.

“Te l’abbiamo già detto: sì!” Banzai era esasperato per quella che aveva tutta l’aria dell’ennesima predica “Ce l’hai fatto ripetere almeno cinquanta volte: quanto stupidi pensi che possiamo essere?”

Scar alzò gli occhi al cielo e storse la bocca “Non credo che voi vogliate davvero che risponda a questa domanda”. Si rivolse quindi a Shenzi, avendo fiducia, se non nella sua intelligenza, almeno nulla sua capacità di mantenere la concentrazione per più di dieci secondi di fila “La mandria di gnu è dietro quella collinetta, fortunatamente non è troppo distante dal canyon quest’oggi, perciò non dovreste avere troppe difficoltà a spingerla nella direzione indicatavi, ma” fece una pausa, per sottolineare quanto la successiva direttiva fosse essenziale “Solo ed esclusivamente dopo che ve l’avrò segnalato. Siamo d’accordo?”

“Assolutamente d’accordo, capo! Puoi contare su di noi e quei due saranno stecchiti prima che Ed possa dire “si mangia”” Lanciando un’occhiata alla iena che, sentendo il suo nome nella frase, si era messa a ridere con la lingua di fuori rotolando per terra, il leone fece un profondo respiro e scosse la testa, sforzandosi di ripetere come un mantra che neanche quei tre erano tanto inetti da poterlo deludere in una faccenda così semplice. E non ne era in ogni caso così persuaso. 

Li lasciò, dopo l’ultima raccomandazione di rimanere vigili e di non distrarsi, tornando alla Rupe dei Re per raccogliere l’ultima pedina mancante e la trovò che ciondolava, priva come sempre di un qualsiasi scopo o meta, intorno al luogo dove l’aveva incontrato appena il giorno prima: dal sorriso spensierato che aveva sul muso, quel sorriso che padre e figlio avevano in comune e che sembrava non avere alcuna ragione di esistere se non per la stolida fiducia che entrambi avevano nei confronti del mondo, concluse con una punta di insoddisfazione che la scappatella da lui stesso incoraggiata qualche ora prima non aveva avuto alcuna ripercussione sul principino. D’altra parte, con spensieratezza ed entusiasmo intatti, sarebbe stato più facile condurlo dove voleva.

Simba non si accorse della sua presenza fino a quando non si vide oscurato il sole dall’ombra del leone e quest’ultimo pensò con ironia che anche Mufasa non avrebbe visto ciò che stava per accadergli fino a che non fosse stato troppo tardi per tornare indietro.

“Zio Scar!” Il piccolo gli corse incontro, appoggiando le piccole zampe sul manto scuro dell’altro che, con un grandissimo sforzo di volontà, riuscì a resistere all’impulso di spostarsi per mettere fine a quel contatto fisico assolutamente sgradito. Invece, senza perdere la propria compostezza, gli rivolse uno dei suoi migliori sorrisi ed iniziò la propria recita. Se fosse andato tutto come previsto, quella sarebbe stata l’ultima della sua vita.

“Simba! Per fortuna che ti ho trovato, ti ho cercato ovunque!” distolse per un momento lo sguardo, come per controllare che nessuno a parte loro fosse in ascolto e stimolando in quel modo la curiosità del suo interlocutore, che alzò le orecchie, interessato. Abbassò poi il tono di voce e il muso, incrociando lo sguardo con quello dell’altro e tirandolo a sé con una zampa “Devo assolutamente farti vedere una cosa speciale”

“Davvero?” gli occhi di Simba si accesero di entusiasmo e la coda si rizzò, alla prospettiva di una nuova avventura e anche quelli di Scar si accesero, seppur per un breve secondo, vedendo quanto era facile manipolare quella palla di pelo.

“Sì! Ma dobbiamo fare in fretta” aggiunse, socchiudendo le palpebre e lanciando al principino uno sguardo di intesa “Quindi sarà meglio mettersi in cammino”

“Dammi solo qualche secondo: chiamo Nala e…” Era più veloce di quanto si aspettasse: tempo zero ed era già schizzato via e, se non fosse stato sufficientemente pronto a pararglisi davanti, probabilmente avrebbe raggiunto più che in fretta quella sua amichetta, mandando ancora una volta inconsapevolmente in fumo tutto il suo progetto. Non doveva esserci nessun testimone, nessuna presenza in più che potesse sopravvivere e raccontare lo svolgersi dei fatti. E poi, era meglio che non si sapesse con chi l’erede avesse effettivamente passato le sue ultime ore.

“Mi dispiace, Simba” disse quindi, con una voce che davvero poteva sembrare addolorata “Ma lei non può venire”

“Perché no?” Ancora con quella dannatissima petulanza! Beh, almeno non avrebbe dovuto sopportare quella voce piagnucolosa ancora per molto: decise dunque di dire una mezza verità.

“Perché solo i Re e futuri Re possono comprendere appieno quello che stai per vedere” gli strizzò l’occhio dunque, pensando che era forse una delle frasi più veritiere che aveva pronunciato nell’ultimo periodo e che a quanto pareva bastò per convincere il cucciolo. Questi, infatti, ancora più convinto che si dovesse trattare di qualcosa di assolutamente unico, non si fece pregare nuovamente e anzi, iniziò a spingere, debolmente, ma con tutte le sue forze, lo zio affinché si affrettasse verso la meta e al contempo non riuscendo a trattenersi dal tempestarlo già di domande.

“Sarà un lungo tragitto” sospirò Scar, avanzando e al contempo tentando di non inciampare nel nipote che gli trotterellava e saltellava accanto.

*************

Dopo quelle che gli erano parse ore di insopportabile tortura, ma che in realtà non erano altro che venti minuti scarsi di camminata, il leone finalmente riuscì ad arrivare al canyon e ad individuare il punto preciso dove aveva intenzione di scaricare il suo piccolo accompagnatore, che, per tutto il percorso, non aveva fatto altro che chiedergli di cosa si trattasse quello che si stavano dirigendo ad osservare: era certo che a quel punto avrebbe commesso in ogni caso un omicidio, che gli gnu funzionassero o meno. La roccia e l’albero erano stati scelti da lui non a caso: se da una parte, infatti, avrebbero dato a Simba l’impressione che quello fosse un punto d’incontro ben preciso invece che un luogo come un altro per aspettare, dall’altra erano anche piuttosto facili da tenere d’occhio e quindi da indicare al caro fratello come punto di riferimento per trovare il figlio. Senza contare che la loro posizione non era neanche troppo vicina all’imbocco da dove sarebbe entrata scalpitando la mandria: avrebbe corso il piccolo, avrebbe corso per salvarsi la vita e cercare aiuto. Peccato che questa volta non sarebbe servito a nulla.

“Ora aspetta qui” gli fece segno con la testa “Tuo padre ha una magnifica sorpresa per te” E oh, sarebbe una sorpresa effettivamente, ma una sorpresa così grande che neanche Mufasa ne sarebbe stato al corrente fino all’ultimo.

Con la prospettiva di scoprire qualcosa di più finalmente dal tanto misterioso zio, il cucciolo si lasciò sfuggire un’esclamazione emozionata e sgranò ancora di più i suoi occhi, eccitato “Wow! Che cos’è?”

“Se te lo dicessi non sarebbe più una sorpresa, non trovi?” Era così strano come fosse facile convincere quel micetto a fare tutto quello che desiderava, ma dovesse continuamente riempirlo di spiegazioni per soddisfare la sua curiosità, strano e tremendamente fastidioso: non era tanto l’inventare scuse che gli dispiaceva, era maestro e sovrano in quello e lo era sempre stato, ma piuttosto quanto tempo dovesse sprecare in dialoghi totalmente inutili. Ma del resto, le iene lo avevano abituato a sopportare molto peggio.

“Se me lo dici, fingerò di essere sorpreso!” L’altro era salito sulla roccia e lo guardava come se avesse trovato l’argomento vincente della discussione: era sempre stato abituato ad ottenere tutto quello che voleva facendo due occhioni e una voce supplicante, esattamente come Mufasa, ma, se il giorno prima lo zio aveva finto di assecondarlo per ottenere quello che desiderava da lui, ora era ben determinato a tenerlo all’oscuro fino alla fine. Finse dunque una risata divertita, quando avrebbe invece voluto emettere un ringhio di frustrazione, e gli si avvicinò ulteriormente.

“Ma lo sai che sei proprio un bel birbone?” E, di nuovo, Simba tentò di impietosirlo, con la stessa manovra con cui lo aveva accolto poco prima: era talmente tenero che, se Scar avesse avuto anche un solo sprazzo di sentimento positivo nei suoi confronti, probabilmente non avrebbe più avuto il coraggio di continuare con la sua opera. Ma i sentimenti erano per i deboli ed il secondogenito non si era mai definito tale, specialmente se essi erano da riferirsi al fratello o al figlio di lui: solo odio per quest’ultimo e neanche quello per il cucciolo. Indifferenza totale unita ad un senso di fastidio per l’ostacolo al trono che costituiva.

“Avanti, zio Scar!”

“No, no, no, no, no! È una questione fra te e tuo padre” Esattamente come fra Mufasa e Ahadi erano stati quasi tutti gli avvenimenti della sua fanciullezza. Distolse lo sguardo, quasi disgustato da quello che stava per dire “Sai, è una di quelle cose che ai padri… fanno piacere” Alzò la zampa, come per dire che quello che doveva succedere non lo riguardava né aveva il minimo interesse a prendervi parte. No, quella era una questione che i due avrebbero affrontato insieme, l’ultima che avrebbero affrontato insieme. E chi era lui per privare una tanto bella famigliola di un finale momento di riunione?

“Bene, sarà meglio che vada a chiamarlo” Si sentiva assolutamente euforico e non credeva di potersi trattenere ancora a lungo: per questo, quasi scattò d’ira quando Simba, evidentemente non soddisfatto e desideroso di impiegare al meglio l’energia, si affrettò a seguirlo.

“Vengo con te!”

“No!” quasi urlò trattenendosi dall’aggiungere di non rovinare tutto, di stare al suo posto e di fare da esca come aveva deciso che avrebbe dovuto fare. Si riprese appena in tempo e, con una risata nervosa che aveva anche il compito di calmarlo, aggiunse “No, tu… aspetta su questa roccia”. Lo spinse nuovamente indietro, ma vedeva che non era ancora convinto, così decise di giocare un tiro piuttosto mancino, ma sicuro che avrebbe sortito l’effetto sperato.

“Non vorrai metterti di nuovo in qualche pasticcio come hai fatto con le iene?” gli chiese, apprensivo e con un apposta malcelato tono di rimprovero, facendo scattare nel giovane principe qualcosa che aveva tutta l’aria di un senso di colpa e in lui qualcosa che sapeva di piena soddisfazione.

“Lo hai già saputo?” domandò mortificato il cucciolo, abbassando le orecchie e riducendo, con sua grande gioia, l’entusiasmo che sembrava sempre dominarlo. Era talmente divertente vederlo in quello stato che pensò di rincarare la dose

“Simba, tutti sanno che cosa hai combinato” 

“Davvero?” Più il tempo passava, più non vedeva l’ora di potersi finalmente gustare lo spettacolo: era meglio muoversi in fretta.

“Oh sì! È stata una fortuna che tuo padre fosse lì per salvarti!” gli disse, trattenendosi dall’aggiungere che lo era stata per entrambi, perché se il cucciolo era ancora vivo ora Scar sapeva come liberarsi una buona volta del padre, perché se il giorno prima non aveva portato a termine metà del suo obiettivo, nel giro di pochissimo avrebbe rimediato con gli interessi. Stava per andarsene, quando pronunciò ancora una frase: “Oh, senti, detto fra noi! Credo proprio che dovresti perfezionare quel tuo ruggito, sai, mh?” Non seppe mai bene perché l’avesse detta: forse perché credeva che con un passatempo il suo interlocutore non avrebbe fatto passi falsi, forse per pura voglia di infierire su di lui con una alquanto spiccata vena sadica, o forse, ma solo forse, perché aveva il presentimento che quei suoi tentativi sarebbero arrivati al momento giusto, in qualche modo, che uno di essi sarebbe giunto proprio mentre la mandria si metteva in movimento e sarebbe stata davvero una coincidenza troppo bella se, oltre che uccidere Mufasa, fosse riuscito a far sentire in colpa il figlio stesso, che tanto glielo ricordava, per la sua morte. Erano comunque considerazioni sfuggevoli, su cui non si soffermò più di una manciata di secondi e già aveva pensato conclusa la conversazione quando si sentì rivolgere un’ultima domanda alla quale non poté, malgrado il fastidio, trattenersi dal rispondere.

“Ehi, zio Scar! Mi piacerà la sorpresa?”

“Simba, credo proprio che ti piacerà da morire”

Una volta fuori dalla vista del nipote, salì sul versante del canyon, dirimpetto a dove si era accordato di trovarsi con le iene e, con suo grande sollievo, le trovò al loro posto, attente e pronte a reagire al suo ordine. 

Qualche secondo più tardi, la mandria di gnu iniziò la sua fuga precipitosa.

Qualche secondo più tardi, Simba si accorse di quello che stava capitando e si mise a correre.

Qualche secondo più tardi, Scar sentì nel petto qualcosa che aveva tutto il sapore del trionfo. Determinato in ogni caso a non lasciarsi annebbiare la mente da ciò, avrebbe avuto tutto il tempo di esultare dopo aver visto i risultati totali e non importava se vedere quella macchia gialla metri più sotto che tentava vanamente di salvarsi la vita lo stava eccitando come poche volte si era sentito prima di allora, stampò sul muso la sua migliore espressione angosciata e, con determinazione, si lanciò alla ricerca del fratello. Effettivamente aveva tutti gli interessi a trovarlo in fretta, per quanto gli potesse sembrare bizzarro: se fossero arrivati troppo tardi, con la carica già ultimata e il pargolo reale morto, Mufasa non avrebbe più corso pericoli e il grande obiettivo sarebbe stato da considerare non raggiunto ancora una volta. Fortunatamente, per lui, s’intende, non tardò a scorgere il manto miele del re ancora per poco, accompagnato, e questo non gli fece piacere, come sempre da Zazu.

“Goditi i tuoi ultimi istanti di serenità, fratello” pensò, un secondo prima di dare inizio all’atto finale di quello che considerava il suo capolavoro “Assaporali a fondo e di’ loro addio”. Prese fiato dunque, prima di presentarsi davanti ai due, con una preoccupazione talmente genuina e ben finta che mai nessuno avrebbe potuto sospettare avesse un secondo fine.

“Mufasa! La mandria è impazzita! Nella gola! Ho visto Simba laggiù!” Poche parole che ebbero l’effetto di un tornado: il muso del primogenito mutò in fretta, talmente in fretta da lasciare sorpreso perfino l’altro.

“Simba?” Una parola ripetuta, una domanda che non aspettò risposta: tutti e tre si precipitarono, all’unisono, verso il punto indicato da Scar, che, da parte sua, stava recitando in maniera impeccabile la parte che si era assegnato. Giunti al canyon, i due leoni si guardarono intorno, spasmodicamente cercando entrambi il cucciolo perduto, ma per motivi opposti: se il padre tremava di paura per quello che poteva capitare al figlio, lo zio fremeva di eccitazione per quello che stava accadendo, anche se la sua espressione non faceva trasparire che accorata disperazione. Videro il piccolo nello stesso momento grazie a Zazu, che, avendoli preceduti, lo aveva già individuato ed era subito corso indietro, rendendosi utile, a parere di Scar, per la prima volta in vita sua.

“Eccolo lì! È su quell’albero!” Aguzzando la vista, effettivamente, si poteva vedere come il principino fosse appeso con le quattro zampe e la forza della disperazione ad un ramo rinsecchito, scosso dalle centinaia di bestie che stavano passando sotto di lui.

“Reggiti Simba!” Il grido del padre era quasi un ruggito e, per il leone dal manto scuro, quello era l’ultimo passo incerto verso la vittoria: se l’altro avesse ritrovato la ragione, se avesse deciso di chiamare aiuto e non avesse ceduto all’istinto e alle emozioni come sperava che facesse, tutto sarebbe andato a rotoli. Era il momento di vedere se davvero conosceva bene il primogenito come credeva.

Il fato, di nuovo, nel giro di poche ore, giocò a suo favore.

Improvvisamente, e in modo alquanto prevedibile, il leoncino perse la presa ed egli, con un grido tanto suo quanto del padre, si ritrovò a ciondolare con solo due zampe attaccate, dritto sopra le bestie che continuavano a passare, come una marea infinita. Senza pensare, e anche se l’avesse fatto la decisone sarebbe stato probabilmente la stessa, Mufasa fece quello che ogni genitore avrebbe fatto e che il fratello aveva pregato che avvenisse: si buttò anche lui nel canyon.

“Oh, Scar, è orribile! Che facciamo? Che cosa possiamo fare? Ah!… andrò a cercare aiuto, andrò a cercare aiuto….” L’uccello aveva iniziato nuovamente a farneticare, ma questa volta non trovò neanche un aiuto apparente nel suo interlocutore che, avendo finalmente la possibilità di agire come voleva e non secondo copione e parecchio infastidito dalla voce del pennuto, lo sbatté con una zampata violentemente contro la parete di roccia, facendolo svenire. Nulla avrebbe potuto interessarlo di più della scena che stava avvenendo in quel momento ai suoi piedi. Il suo corpo era in tensione, ogni muscolo pronto a scattare e al contempo non riusciva a distogliere gli occhi: vide Mufasa correre in mezzo a quella mandria e venire calpestato una, due volte, prima di riuscire ad avvicinarsi al piccolo. 

“Troppo poco, troppo poco per uno come lui” il secondogenito iniziava a temere che qualcosa si sarebbe intromesso e avrebbe rovinato tutto, proprio quando l’alberello cedette completamente e Simba venne scaraventato in aria. Prima che potesse cadere, però, il padre lo prese in bocca, tentando di proteggerlo e di farsi strada tra gli gnu: il cuore di Scar mancò un colpo quando identificò quei due, insieme, ancora in piedi in mezzo a quella valanga e pregò, pregò intensamente, di non aver sottovalutato la forza fisica del fratello. Improvvisamente, il cucciolo sfuggì dalla presa del genitore, cadendo finalmente a terra: se a quel punto il leone dal manto scuro sperava che ormai il suo destino fosse segnato, restò alquanto deluso, e furibondo, quando Mufasa, con un’ultima scarica di energia, riuscì a proteggere ancora il piccolo e a porlo al sicuro su una roccia sopraelevata. Questo non era stato previsto e, per un attimo, Scar ebbe veramente timore che il fratello si sarebbe riuscito a salvare, che avrebbe spiccato un balzo e ancora una volta avrebbe dimostrato quell’invincibilità che tutti gli attribuivano, rendendo la sua posizione alquanto scomoda: come gli avrebbe spiegato la presenza di Simba là sotto se quest’ultimo gli avesse raccontato ciò che il fratello aveva detto? Un sorriso di vittorioso sollievo si aprì perciò sul suo muso quando vide il primogenito nuovamente trascinato dalla mandria, privo di forze e senza alcuna speranza di salvezza: in contemporanea udì l’urlo disperato del figlio e pensò con un angolo della mente che ci sarebbe stato tempo per occuparsi anche di lui, ma dopo, più avanti, in quel momento voleva solo godersi lo spettacolo. Vide il Grande Re trascinato, sbattuto, calpestato quattro, cinque, sei volte fino a che il suo manto non si confuse con la polvere alzata dalla fuga precipitosa.

E infine, proprio quando riteneva che ormai non ci fosse più nulla da fare, lo vide spiccare un balzo con la forza della disperazione, talmente potente che, ne era sicuro, se fosse stato completamente in sé sarebbe riuscito ad arrivare alla roccia dov’era anche lui. Ma Mufasa era allo stremo, lo capiva da come affondava gli artigli nella parete, da come i suoi occhi fossero annebbiati e dall’espressione sul suo muso: stava scivolando, lentamente e irrimediabilmente e presto sarebbe caduto. Era determinato a non fare nulla, a guardarlo con altera superiorità e a godersi semplicemente da spettatore quello che stava per diventare l’attimo più bello della sua esistenza, quando il primogenito disse qualcosa che lo convinse ad agire.

“Scar! Fratello! Aiutami!” Aiutarlo? Aiutarlo?! Possibile che quindi ancora non avesse capito? Ebbe così la certezza, in quel momento, che semplicemente osservare la sua fine non gli avrebbe dato tutta la soddisfazione possibile. Oh no, quello che veramente voleva era essere sì stratega, ma anche carnefice, desiderava essere lui, lui e nessun altro, l’assassino di Mufasa. 

L’assassino di chi l’aveva messo in ombra per tanti, troppi anni.

Con uno slancio, dunque, si protese verso la sua figura, affondando gli artigli dentro il suo manto fino a lacerare la carne viva e facendo emettere alla sua vittima un ruggito di dolore e sorpresa: “Stai comprendendo, finalmente, fratello? Stai comprendendo che tutto quello che ho fatto è stato solo per arrivare a questo? Questo esatto istante, con te in mia mercé, mi sta ripagando di tutte le umiliazioni che ho dovuto sopportare, di tutte le volte che mi sono dovuto piegare davanti a te. Dov’è nostro padre, adesso, dove sono quegli Antenati in cui tu tanto confidi? Sei ancora disposto a dare loro fiducia nello stesso sciocco modo in cui lo facevi solo fino a qualche ora fa? Chi aveva ragione, chi ha sempre avuto ragione? Avanti, dillo una buona volta!” Avrebbe voluto gridargli questo e molto altro, ma quando gli occhi di Mufasa si riaprirono e si incontrarono con le sue iridi, verdi e scintillanti, tutto gli sembrò superfluo: lo sguardo che gli stava lanciando, quella paura mista ad improvvisa realizzazione, era ciò di più inebriante che avesse mai sperimentato. Non stava guardando solo lui, ma anche Ahadi, anche gli Antichi Re del Passato, anche tutto il resto della savana che finalmente si stava rendendo conto di chi fosse davvero il migliore fra i due. E cosa si può dire al proprio fratello in un momento simile, come ultimo commiato? Cosa si può dire a tutto il mondo quando lo si sente completamente ai propri piedi? 

Un sussurro. Quattro parole.

“Lunga vita al re!” 

E mentre in contemporanea osservava la luce spegnersi negli occhi di Mufasa, quella luce che testimoniava tutta la gioia e la fiducia che lo contraddistinguevano e che tanto aveva sempre odiato, e staccava con violenza gli artigli dalla pelliccia di lui, scagliandolo indietro e facendolo cadere dalla roccia, Scar si sentì travolgere da una sensazione talmente distruttiva e assoluta che non poté che darle il nome di felicità.












Angolino dell'autrice: Ahhh finalmente ci siamo! La scena madre del film! E anche una delle mie preferite se devo essere sincera... Che dire, spero davvero di aver reso bene sia Scar che (per quanto poco) Mufasa: quel «lunga vita al re» mi fa venire i brividi a distanza di anni ogni volta che riguardo «Il Re Leone». Essendo questa (come hi già detto) una scena a cui sono molto affezionata, come al solito, spero di sapere cosa ne pensiate voi (e colgo l'occasione per ringraziare Stellacadente che ha recensito lo scorso capitolo).
Ci si risente fra due settimane con il prossimo e ultimo capitolo su Taka!
L_A_B_SH
 

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Capitolo 10
*** Taka(?) God hath given you one face, and you make yourself another. ***


10. Taka(?) God hath given you one face, and you make yourself another

Il funerale della regina delle Pride Lands trascorse in silenzio. Anche Ahadi, che in quanto sovrano e compagno avrebbe dovuto tenere un discorso, si limitò a qualche frase di circostanza, senza riuscire davvero ad esprimere lo sconcerto e il dolore che ognuno di loro stava attraversando: era stato un malore improvviso, nessuno sapeva esattamente cosa lo avesse provocato, ma restava il fatto che quando la sua famiglia era sopraggiunta alla pozza d’acqua era stato subito chiaro che le sue condizioni erano critiche e, prima ancora che Rafiki potesse sopraggiungere per guarirla, ella si era spenta, sotto gli occhi del marito e del figlio.

Figlio che in quel momento era in disparte, gli artigli affondati nella terra e lo sguardo assolutamente spento: non si capacitava di quello che stava accadendo, o almeno, forse il problema era che lo capiva fin troppo bene, ma si rifiutava di accettarlo. Sua madre era stata l’unica che non l’avesse mai fatto sentire inferiore ad altri, l’unica che mai l’avesse paragonato a Mufasa, l’unica che sembrava avere sempre avuto fede nelle sue possibilità; persino la storia della sua nascita confermava questo suo pensiero e, anche se spesso in quell’ultimo periodo l’aveva mentalmente rimproverata perché mai l’aveva sentita opporsi alla volontà di Ahadi, rimaneva comunque che tutto ciò che aveva compiuto era stato per il bene dei suoi figli, di entrambi. E ora se n’era andata.

Taka vide il fratello, con l’espressione addolorata e gli occhi lucidi di chi ha pianto da poco, venire consolato da Sarabi e trattenne un moto di fastidio per quella dimostrazione così aperta di debolezza, completamente contraria al suo comportamento che invece, anche in quell’occasione, era rimasto composto, perfettamente coerente e fermo. Dall’esterno, si sarebbe potuto dire assolutamente indifferente alla situazione, ma era sempre stato piuttosto bravo a mascherare le sue emozioni. Venne in breve raggiunto da Mufasa, che, dopo essersi congedato dalla leonessa, si era diretto verso di lui con un’espressione grave e seria che mai il secondogenito aveva notato sul suo muso: il giovane giocoso e pieno di energia aveva lasciato il posto ad una figura austera e quasi imponente per la solennità con cui sembrava muoversi e, forse per la prima volta, a Taka sembrò di scorgere dentro di lui il sovrano che un giorno sarebbe potuto diventare.

“Nostra madre è in pace” gli disse, cercando nel fratello un qualsiasi segno di comprensione e conforto, una rassicurazione simile a quella che lui stava tentando di dare a sua volta, che però non ottenne: invece, il minore sembrò quasi infastidito dalle sue parole.

“Intendi con i Re Antenati?” gli chiese, alzando un sopracciglio: non poteva pensare che l’altro avesse davvero fede in quella sciocchezza che il padre aveva raccontato loro per anni. Non c’era nulla dopo la morte, nessun tipo di Paradiso ad attenderli e anche la storia di quella meravigliosa ed idilliaca armonia che avrebbe dovuto coinvolgerli e renderli vicini agli altri sudditi non era altro che una stupida serie di insulsaggini. Solo gli ingenui come Mufasa potevano permettersi di credere in quelle cose.

“Ascolta, so che tu non sei disposto ad affidarti facilmente a ciò che non puoi vedere, ma…”

“No, fratello, la questione è ben diversa: si tratta di avere semplicemente cervello. Nostra madre è morta, ci è stata portata via prima del tempo, apparentemente senza alcun motivo e niente di questo è sopportabile.” gli rivolse un’occhiata quasi furente: odiava che gli si parlasse di faccende simili, che si tentasse di superare il dolore o afflizioni di qualsiasi tipo rinchiudendosi in una dimensione inesistente. Che senso aveva avere speranza in un miraggio irrealizzabile? “Ma non accetto inutili tentativi di consolazione usando favole che ci venivano raccontate da cuccioli”

“Dovresti essere più rispettoso per gli Antichi Sovrani del Passato” gli rispose il primogenito, abbassando quasi la voce in segno di rispetto per gli spiriti che era certo stessero vegliando su di loro anche in quel momento “Comprendo il tuo dolore, ma non puoi negare l’esistenza di qualcosa solo perché non la comprendi”

“Non si tratta di comprendere, si tratta di guardare in faccia la realtà: nostra madre se ne è andata e non la rivedremo più, non importa cosa tu inventi per rendere meno dolorosa questa perdita. Tu credi davvero che quelle luci lassù siano gli spiriti dei nostri cari e che ci uniremo a loro una volta che la nostra vita finirà? Svegliati Mufasa, per l’amor del cielo! Tutto quello che ci è stato detto non sono altro che fandonie!” Stava alzando la voce, anche se tentava di dominarsi “Erano favole, accidenti, favole che ci sono state raccontate da appena nati come qualunque genitore fa con i propri figli. È esattamente come il Cerchio della Vita: non siamo collegati, non siamo tutti uguali. Ci sono predatori e prede, dominatori e dominati, vincitori e vinti, è questa l’unica legge che mantiene l’equilibrio nella savana: perché credi che siamo noi leoni a comandare e non le gazzelle? Non posso credere” disse poi, scuotendo la testa con sufficienza “Che tu sia così legato a nostro padre, così dipendente da lui da credere che ogni parola che esce dalla sua bocca sia una verità assoluta”

Anche il suo interlocutore stava iniziando ad innervosirsi, pur mantenendo il tono basso per non disturbare la cerimonia, che stava volgendo al termine “Non sono sicuro di essere io lo sciocco, fratello: parlando con tanto sdegno e sufficienza delle nostre tradizioni, di tutto quello che ci ha formato e che costituisce ciò che siamo dimostri di non aver compreso affatto quale debba essere il nostro posto. Non è una questione di dominare e regnare, è la natura, ciò che siamo e a cui torneremo: un bravo sovrano deve saper vivere in sintonia con i terreni e la popolazione che amministra e stabilire l’armonia attraverso la quale tutti possono godere delle migliori condizioni possibili. È in questo senso che funziona il collegamento che tu tanto disprezzi ed è proprio perché ogni cosa si lega con le altre che c’è speranza, una speranza che tu puoi definire sciocca, ma persistente, che il nostro spirito si preservi dopo averci lasciati. Mi addolora profondamente che tu non abbia colto nulla di quello che nostro padre ha tentato di insegnarci fino ad ora”

Taka stava per rispondergli che era un discorso commovente, ma sarebbe stato ancora più convincente se Ahadi si fosse degnato di farglielo personalmente, invece che delegarlo al suo figlio preferito, quando il sovrano interruppe la loro conversazione. Dimostrando di aver ascoltato ogni parola fece segno a Mufasa di seguirlo, non degnando il secondogenito di un’occhiata se non uno sguardo breve, carico di qualcosa che sarebbe potuto somigliare molto alla delusione.

Il minore restò per un attimo pietrificato, non sicuro di cosa fosse appena successo, ma con il presentimento che non avrebbe portato a nulla di buono: le sue sensazioni vennero confermate dalle parole del padre che, salito sulla Rupe dei Re insieme al fratello, attirò l’attenzione dei sudditi prima di iniziare a parlare.

“In un giorno simile, in cui ci è stata portata via qualcuno di caro in modo inaspettato e rapido, mi rendo sempre più conto di quanto sia facile cadere vittima del fato prima di aver raggiunto il nostro apice e l’obiettivo che ci eravamo prefissati: io stesso, con il procedere dei giorni, mi sento sempre meno sicuro e, ora che la mia, la vostra, regina è mancata, sarà tutto ancora più difficile. Per questo motivo, per garantire che le Pride Lands abbiano un futuro glorioso anche senza di me, quando un giorno non sarò più in grado di governare, ho deciso di designare già adesso il mio erede, colui che salirà al trono quando io avrò raggiunto i Nostri Antenati. Popolo della Savana, ho l’onore di presentarvi il vostro futuro re. Vieni pure avanti, Mufasa”

Una doccia fredda.

Anzi, no, una doccia fredda in qualche caso può essere quasi piacevole.

Quello che Taka provò vedendo il fratello salire a fianco del padre e venire omaggiato da tutti i sudditi presenti fu più un fulmine, talmente potente da spaccare, distruggere e quasi annientare: per poco non cadde dalla sua posizione e certamente perse la sua proverbiale compostezza al suono di tutte quelle esclamazioni e dimostrazioni di devozione che sentiva attorno a sé. Uru morta… Mufasa re… tutto nello stesso giorno? No, non poteva, non doveva avvenire in quel modo!

Avrebbe dovuto esserci lui al suo posto!

Chiunque al suo posto sarebbe scappato, anche lui era sul punto di fare lo stesso, ma per qualche strana ragione il suo corpo non si muoveva: era pietrificato, le zampe improvvisamente diventate troppo pesanti per poterle sollevare e l’espressione bloccata in quella che, ne era sicuro, doveva essere una smorfia sorpresa, arrabbiata e ferita insieme. Con grande fatica, dopo un tempo che gli parve eterno, voltò la schiena alla scena avendo come ultima immagine il viso di suo fratello che sorrideva, mostrando per la prima volta timidezza in tutta la sua esistenza, al branco di sudditi che si era immediatamente precipitato a rendergli omaggio: una parte di lui voleva andarsene, scappare al cimitero degli elefanti o persino più lontano e non tornare mai più. Era proprio questa che lo perseguitava da quanto lui riuscisse ad avere memoria, a continuare ad urlargli nella testa quanto fallito fosse e come tutti lo pensassero, come tutti lo sapessero. Dire che non era tentato di ascoltarla, darle retta e arrendersi sarebbe stata una bugia in quel momento, eppure qualcosa lo tratteneva; era un pensiero, una convinzione che era andata rafforzandosi in quegli ultimi mesi, mentre convinceva le iene, le addestrava e al contempo iniziava a progettare quello che sarebbe stato il suo futuro dominio: lui era migliore di Mufasa. 

Lo era sempre stato e nessuno se n’era accorto: era sopravvissuto quando chiunque lo avrebbe dato per morto, aveva affrontato tre iene da cucciolo e ne era uscito indenne, mentre gli era stato detto che non avrebbe mai vinto una battaglia, aveva ridotto in suo potere e all’ordine una specie conosciuta per la sua indisciplinatezza e odio per i leoni anche se gli era stato detto che mancava di carisma… aveva puntualmente disatteso tutte le aspettative che gli venivano rivolte, ma, se fino ad allora aveva visto questa come una sua caratteristica negativa, in quel momento comprendeva quale fosse il suo potenziale: d’altronde, chi aveva pensato che avrebbe potuto essere re? Nessuno. Ebbene, avrebbe dimostrato il contrario ancora una volta. Doveva solo attendere il momento giusto e avrebbe potuto provare al padre e al fratello di cosa in realtà fosse fatto.

Ma per questo aveva bisogno mantenere la calma e non commettere gesti avventati e questo era più facile a dirsi che a farsi visto come il sangue gli stesse ribollendo nelle vene: aveva bisogno di calmarsi, di ragionare e tentare di nuovo, d’altronde, la costanza era sempre stata una delle sue qualità. Si incamminò verso la tana, con il cuore che martellava e ogni passo che faceva doveva trattenersi dal prendere ad artigliate qualcosa: se era giunto alla conclusione che la pazienza fosse la virtù dei forti, questo non voleva dire che fosse disposto a dare ascolto alle sue stesse massime. Quello che gli serviva in quel momento era pace e silenzio per riflettere. E, soprattutto, non trovarsi di fronte il fratello per almeno una settiman…

“Taka!”

I suoi muscoli si indurirono al suono di quella voce e dovette fare un enorme sforzo per non voltarsi immediatamente e aggredire il suo interlocutore, pensando che in ogni caso sarebbe stata una battaglia persa, che non era da lui avere quel tipo di comportamento e che se l’avesse ignorato a sufficienza Mufasa se ne sarebbe andato.

“Taka, ascolta, ti devo parlare” Ruotò la testa di poco, guardandolo di sbieco e non accennando a nessun movimento che potesse essere interpretato come un invito a procedere. Sfortunatamente, a quanto pareva, “Chi tace acconsente” perciò il primogenito gli si pose davanti, obbligandolo a fermarsi e a guardarlo in viso: non l’aveva mai visto così turbato e, per un attimo, ma solo un attimo, si sentì sinceramente preoccupato per quello che egli poteva dirgli. Sentimento che sparì, mutò e cambiò completamente non appena l’altro aprì bocca.

“Ascolta, io… non so davvero cosa pensare di quello che è successo oggi. Prima la morte di nostra madre e… e ora questo… sono così confuso.” Scosse la testa, frustrato “Sono giovane, molto giovane, forse troppo giovane per regnare e, anche se tutti tentano di rassicurarmi, sento che il loro non è un giudizio obiettivo: nostro padre… Sarabi… a volte mi piacerebbe che non fossero tutti così condiscendenti verso quello che faccio. Tu, invece, tu sei quello fra di noi che ha la mente più lucida e razionale, lo sei sempre stato… cosa ne pensi? Riuscirò ad essere il sovrano che tutti si aspettano che io sia?”

Taka era attonito e quello che stava provando in quel momento non poteva essere descritto con nessuna parola di sua conoscenza: suo fratello si stava… lamentando? Lamentando di essere stata scelto “troppo presto”? Di avere tutto quello che lui aveva sempre desiderato? Di essere amato e di avere l’approvazione della sua famiglia? No, non poteva davvero dimostrarsi tanto ingrato, non poteva stargli sbattendo in faccia ancora una volta quanto la sua esistenza fosse perfetta e quanto lui invece non possedesse nulla. E non gli bastava! Desiderava che anche il suo caro fratellino si piegasse, che lo osannasse esattamente come tutti sembravano fare da sempre? Era ovvio che credeva in una risposta affermativa, altrimenti non glielo avrebbe neanche chiesto: come poteva dimostrarsi ipocrita fino a quel punto?

Era lui ad aver perso tutto, lui non Mufasa!

Ma l’altro pretendeva un giudizio, giusto? E Taka decise in quel momento che gliel’avrebbe dato, fosse stato l’ultimo della sua vita.

“No” disse quindi, trattenendo un sorriso quando vide l’espressione sorpresa e ferita del suo interlocutore “Non credo che riuscirai ad essere all’altezza del regno, né di nostro padre e tantomeno degli Antenati che tu sembri così ansioso di compiacere”

“Io…” Il primogenito sembrava non avere parole per quello che gli era stato appena detto e il giovane principe ne approfittò per infierire ancora di più, avvertendo chiaramente che la situazione stava sfuggendo al suo controllo, ma non riuscendo a fermarsi.

“Cosa c’è? Eri venuto da me per un parere sincero e io te l’ho dato! Ma mi sorprende che tu dia tanto peso alle mie parole, considerando che non mi hai mai ascoltato in vita tua: dimmi, Mufasa, dimmi una sola volta in cui tu abbia preferito prestarmi ascolto invece che correre dai tuoi amici! Volevi davvero la verità oppure ti aspettavi che ti avrei indorato la pillola come sembrano fare tutti attorno a te? Sii sincero con te stesso!” l’ultima frase era stata quasi ringhiata e bastò per scuotere il primogenito dall’espressione scioccata che aveva assunto.

“Non essere ingiusto con me, fratello: comprendo che il dolore per la morte di nostra madre ti abbia offuscato la mente, ma non puoi accusarmi di mentire quando sai che sono sempre stato sincero con chi mi era vicino. Sono venuto da te con intenzioni genuine e mi dispiace che tu abbia pensato altrimenti, però…”

Non poteva più sopportare questo insulso modo di parlare: il fratello era sempre calmo, sapeva sempre vedere le migliori intenzioni negli altri e anche questo addurre scusanti al suo comportamento, che voleva essere meramente cattivo, lo fece infuriare ancora di più, fino al punto di rimanere privo della sua proverbiale freddezza per un momento.

Momento in cui, per far tacere quella dannata bocca, tentò di dargli un’unghiata e stenderlo per terra.

Momento in cui il primogenito, intercettando le intenzioni del fratello e reagendo per istinto, si dimostrò ancora una volta più veloce ed esperto nel combattimento dell’altro: se il colpo del secondo, causato dall’ira e privo di precisione, mancò il bersaglio, quello del primo, che nel suo anno e mezzo di vita aveva messo in pratica tutti gli insegnamenti di Ahadi, andò perfettamente a segno, con una potenza inaspettata da entrambi e certamente non voluta.

Un dolore lancinante esplose sul muso di Taka, che arretrò immediatamente di qualche passo e portandosi una zampa alla parte sinistra di esso, guardando con l’occhio destro per qualche secondo un incredulo e chiaramente colpevole Mufasa prima di voltargli la schiena e fuggire a perdifiato lungo la scarpata, lasciandosi alle spalle in breve tempo la Rupe dei Re. 

Correva, neanche lui sapeva dove, tentando di mettere più distanza possibile fra quello che era successo e lui e soprattutto cercando disperatamente di aprire la palpebra colpita, che non accennava minimamente a rispondere ai suoi comandi. 

Si fermò solo molto più avanti, in prossimità di una pozza d’acqua deserta e di ridotte dimensioni, e, facendosi coraggio, si sporse leggermente sul riflesso del liquido, vedendo per la prima volta le reali condizioni in cui versava dopo lo scontro con il compagno. Riportava piccoli tagli e ferite, probabilmente causate dalle unghie che avevano appena scalfito la pelle, ma quello che lo spaventò quasi al punto di spingerlo a riprendere la sua fuga fu la vista di un taglio profondo e centrale, che percorreva interamente la palpebra superiore e inferiore e sanguinava copiosamente.

“Mi ha fatto questo…” pensò, sconcertato, mentre contemplava la sua nuova immagine sfigurata “mio fratello… mio fratello mi ha fatto questo!”

Non tuo fratello lo corresse una voce sibillina nella sua testa Mufasa. Tu non hai un fratello. Non lo hai mai avuto.

Quale fratello d’altronde poteva ferire a tal punto un altro componente della sua stessa famiglia?

Il suo ultimo colloquio con lui continuava a turbinargli nel cervello: se era stato patetico e parecchio scorretto da parte del primogenito venire a chiedere la sua compassione in un momento simile, doveva anche ammettere che lui stesso si era dimostrato stupido a tentare di attaccarlo, seppure solo mosso dalla rabbia. Rabbia che in quel momento stava sbollendo in maniera sorprendentemente veloce, lasciando spazio ad un sentimento che solo pochi mesi fa Taka non credeva che avrebbe mai potuto provare per chiunque, specialmente non per qualcuno che era sempre stato così vicino a lui.

Odio. 

Sì, odiava Mufasa, in quel momento a tal punto da desiderare con tutte le sue forze di ucciderlo. Lo odiava per essere sempre stato al centro della scena, mentre lui veniva confinato nell’ombra. Lo odiava perché nessuno si permetteva mai di criticarlo, perché sembrava sempre fare la cosa giusta al momento giusto, per l’occhiata di sincero senso di colpa che gli aveva lanciato subito dopo averlo aggredito, perché era sempre così coraggioso, nobile, sincero da far sfigurare chiunque al suo fianco, ma soprattutto il fratello che ormai non si riteneva più tale. Lo odiava perché il padre l’aveva sempre preferito, in qualsiasi cosa, credendolo perfetto incapace di fallire…

Al pensiero di Ahadi, Taka si trovò a sorridere malignamente e con un pizzico di speranza nonostante le fitte lancinanti che ancora sentiva al muso: se avesse saputo quello che il suo protetto gli aveva fatto sicuramente sarebbe stato furioso. Si sarebbe arrabbiato, adirato, avrebbe rimproverato ampiamente Mufasa e, perché no?, avrebbe potuto decidere che la sua scelta era stata sbagliata. Anzi, sicuramente sarebbe andata così.

Improvvisamente, il segno che gli attraversava l’occhio non gli parve più come una disgrazia, quanto come una nuova opportunità: si bagnò delicatamente la ferita nell’acqua, facendo disperdere il sangue raggrumato e, con sua grande gioia, riuscendo finalmente ad aprire le palpebre fino a quell’attimo serrate. Si ammirò per qualche secondo, giungendo alla fine alla conclusione che quasi certamente non sarebbe mai tornato come prima; non era necessariamente uno svantaggio però: non era sicuro di voler ancora essere lo stesso leone che era stato in precedenza. 

In tutti i sensi

 ****************

Tornato alla Rupe, trovò il sovrano già ad aspettarlo e, cercando di assumere un’aria afflitta e al contempo scioccata che contrastava completamente con quanto in realtà sentiva, gli si avvicinò lentamente, non distogliendo lo sguardo e facendo in modo che i suoi occhi fossero sempre fissi in quelli di Ahadi.

“Padre, io…” iniziò, venendo subito interrotto dal suo interlocutore.

“Non serve che ti spieghi. Mufasa mi ha già raccontato tutto. Sappi che sono molto deluso” la sua espressione incollerita non sfuggì al principe, che alzò lievemente le orecchie, in segno di vittoria: malgrado tutto ciò che era successo in passato, ora era certo che il re avrebbe preso la decisione giusta e si sarebbe ricreduto. Aprì la bocca, pronto ad esprimere il suo assenso e, se possibile, rigirare ancora di più la faccenda in suo favore, quando nuovamente gli venne tolta la parola.

“Come hai potuto comportarti in quel modo verso tuo fratello, Taka?”

Una frase. L’ennesima risposta inaspettata della giornata. Scosse la testa, incredulo: aveva davvero intenzione di rimproverare lui e non il primogenito? Il rimanente rispetto che sentiva per il genitore si stava dissolvendo rapidamente, lasciando posto ad una sensazione di fastidio che somigliava molto a quello che provava già per Mufasa.

“E cosa avrei fatto questa volta, per meritarmi tanta asprezza?” rispose quindi, non curandosi neanche di mascherare il tono arrogante della sua voce.

“Hai anche il coraggio di domandarlo?” Ahadi si parò davanti a lui in tutta la sua imponenza in un atteggiamento che solo qualche ora prima lo avrebbe intimorito, ma che in quel momento non poté che trovare quasi divertente: avanti, che gli dicesse pure quanto fosse un fallimento, sicuramente non l’avrebbe più sorpreso o ferito. “Sei stato ingiustamente crudele verso di lui quando ti chiedeva esclusivamente il tuo appoggio, lo hai colpito dove sapevi che era più insicuro e non contento hai anche tentato di ferirlo! Per i Re Antenati, cosa pensavi di ottenere con la violenza?”

“Quello che entrambi sembrate guadagnare continuamente con lo stesso metodo: rispetto. Perdonate il mio fallo, ho semplicemente creduto fosse il momento per mettere in pratica i vostri consigli e rimproveri: non dite sempre che dovrei essere più come Mufasa?” inclinò il muso, mettendo bene in evidenza lo squarcio che ancora non si era rimarginato “E poi, correggetemi se sbaglio, non è lui quello ad avere qualche centimetro di pelle in meno sulle palpebre”

“Tuo fratello è stato già rimproverato a sufficienza” ringhiò il padre “Gli ho ribadito che la violenza non è la soluzione, in nessuna situazione e che avrebbe potuto farti seriamente del male, il che fortunatamente non è avvenuto, ma il suo senso di colpa era genuino e in più si era solamente difeso. Cosa che non si può certo dire di te, che invece hai dimostrato una cattiveria che non pensavo potessi provare. L’unica scusante che posso addurre per il tuo comportamento è la morte di tua madre, anche se non sono sicuro che essa sia la causa scatenante, e in memoria sua ho deciso di non prendere altri provvedimenti più seri come ero tentato di fare”

“Intendete cosa?” il corpo del giovane leone si contrasse per la rabbia “Se volete, padre, io di certo non vi trattengo né voglio la vostra pietà: date un ordine come sovrano o risparmiatemi le minacce vuote. Sappiamo molto bene entrambi che non mi hanno mai spaventato”

“Non sfidarmi, Taka!” ruggì Ahadi, prima di prendere fiato e, dopo un bel respiro, tentò di calmarsi “Questo è stato un giorno difficile per tutti nel regno e non sommeremo ulteriori cause di sconforto a ciò che è già avvenuto. Mufasa diventerà il sovrano delle Pride Lands una volta che io sarò morto e non voglio più sentire alcuna lamentela in merito, da parte tua o di chiunque altro. E a proposito di ciò, voglio che tu vada da lui immediatamente e gli chieda perdono per il tuo inqualificabile comportamento: tuo fratello ti vuole bene, lo ha sempre fatto ed era distrutto dopo le frasi che gli hai rivolto. Non posso permettere che questo lo avvilisca e distragga dai suoi compiti come futuro re e neanche puoi tu, se ancora, come spero, ricambi il suo affetto. Bada bene, inoltre, di essere convincente: so quanto abile tu possa essere con le parole e non accetterò delle scuse non sentite”

La richiesta dell’ennesima umiliazione a cui Taka si sarebbe dovuto sottoporre gli riempì l’animo di rinnovato rancore e, se avesse seguito l’istinto e l’orgoglio, gli avrebbe detto chiaramente in faccia ciò che pensava di lui, di suo figlio e del suo dannatissimo regno, ma, con la sua rinnovata lucidità di pensiero unita ad una strana freddezza mai sperimentata prima d’allora, comprese che in quel momento la cosa migliore da fare era stringere i denti e piegarsi: avrebbe avuto tempo e modo, un giorno, di ripagarli entrambi con la stessa moneta.

“Come desiderate” rispose, quindi, accennando un inchino e accentuando il veleno nella sua voce “Vostra Maestà”

Non lo avrebbe mai più chiamato con l’appellativo di padre. Non era degno di esso, esattamente come Mufasa non meritava di essere definito “fratello”, non in modo sincero, almeno. Se fino ad allora il desiderio del trono gli era parso come un modo per affermarsi e dimostrare il proprio valore, comprese, allontanandosi, come avesse guardato il problema dalla direzione sbagliata: lui non bramava il regno solo in vece di sfida contro la sua famiglia, o i suoi sudditi, no. Per giungere al suo obiettivo avrebbe dovuto iniziare a considerarlo al pari di una competizione personale e privata, in cui solo lui e il tempo sarebbero stati i giocatori. Non era necessario arrivare al traguardo in fretta, commettendo sbagli simili a quelli che aveva fatto fino ad ora, affidandosi alle emozioni e alla logica, a quanto pare carente, altrui, quanto piuttosto arrivare vittoriosi: avrebbe contato solo su se stesso, si sarebbe creato la sua strada da sé e non importava se ci sarebbero voluti mesi, anni o anche tutta la vita. Giunse a questa conclusione e si fece tale promessa nel momento esatto in cui entrava nella tana dell’ex compagno, assolutamente ripugnato per quello che stava per fare.

“Mufasa…” Il suo interlocutore si voltò con una rapidità e una sorpresa dipinta sul muso che fece nuovamente venire il desiderio al minore di rimangiarsi la parola data e ripetergli nuovamente quello che pensava davvero di lui e delle sue capacità di comando. Si sforzò di controllarsi e, con un’aria di assoluta afflizione, continuò il suo piccolo discorso improvvisato “… volevo solo scusarmi per il mio comportamento. La morte di nostra madre… il suo funerale… credo mi abbiano scombussolato al punto di non riuscire più a capire cosa stessi facendo. Non devi pensare, neanche per un momento che quello che ti ho detto sia vero.” stava sputando fuori quelle parole una dopo l’altra, pronunciandole e correggendole nel pensiero una per una e provando sensazioni contrastanti da quella serie di bugie: se da una parte detestava l’idea di dover ancora una volta piegarsi davanti al primogenito, quelle menzogne, proprio perché erano tali, lo facevano sentire stranamente libero.

“In realtà” l’altro si avvicinò, con un sorriso sincero che gli diede ancora più fastidio “Credo di non meritare le tue scuse: tu hai reagito di istinto e io non avrei dovuto colpirti. Guarda quello che ti ho fatto… ho paura che non se ne andrà via per un bel po’” Solo Mufasa poteva essere così dannatamente gentile ed equilibrato in ogni situazione, anche quando avrebbe avuto tutte le ragioni per essere furioso: la voce che il principe cadetto usò, quando ribatté alle sue parole, era talmente melliflua che per un attimo si preoccupò che potesse effettivamente suonare falsa.

“Non preoccuparti, fratello” e come era dolce quella parola ormai che aveva perso ogni significato affettivo “Ammetto di essermelo meritato”

“Allora… siamo pari?” Oh, non sarebbero mai stati pari. Mai, o almeno per un periodo indefinito di tempo.

“Certamente. Questo d’altronde è stato un gran giorno per te, seppur offuscato dal lutto: è giusto che ora pensi al futuro, senza perderti in un passato che non ci è dato di cambiare” Con un ultimo sorriso, si diresse verso l’uscita, sicuro di aver tranquillizzato a sufficienza Mufasa e rispettato ciò che Ahadi gli aveva chiesto di fare, perché, anche se molti non lo avrebbero detto, lui manteneva sempre le promesse, quando nuovamente la voce del primogenito lo chiamò, facendolo voltare.

“Grazie. Grazie davvero, Taka” Quanto odiava quel nome, in quel momento più che mai, perché rispecchiava qualcosa che non era, qualcuno che ormai aveva deciso non dovesse più esistere: si era aperto un nuovo capitolo nella sua vita e la spazzatura non trovava spazio in esso, né in quelli seguenti. Un sorriso gli si distese sul muso, pensando alla sua immagina sfigurata che si rifletteva in quella piccola pozza d’acqua e rispondendo nel medesimo istante:

“D’ora in avanti, chiamami Scar”











 
Angolo dell'autrice: Ehhhhh ci siamo finalmente! Taka è ufficialmenre diventato Scar! Allora, che ne pensate? Spigeazione plausibile? Come al solito, aspetto impaziente di sapere le vostre opinioni! Ormai siamo a più di metà storia, perciò i prossimi capitoli saranno solo su "Scar" e non su Taka... ma spero possano interessarvi lo stesso!
Ci risentiamo tra due settimane!
L_A_B_SH

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Capitolo 11
*** Scar. Let the doors be shut upon him. ***


11. Scar. Let the doors be shut upon him.

La corsa degli gnu non durò ancora per molto tempo, qualche minuto, non di più, ma diede modo a Scar per tornare lucido e freddo dopo ciò che era successo. Dunque era quello ciò che si provava ad essere finalmente vittoriosi, rifletteva, non riuscendo a distogliere lo sguardo dal punto in cui il non più sovrano era caduto ed era stato travolto dalla mandria: trionfo, soddisfazione, potere, tutte sensazioni che aveva ricercato per anni adesso gli si proponevano davanti sfolgoranti come mai prima d’allora e, se fosse stato appena meno se stesso, probabilmente vi avrebbe ceduto, dimenticando un particolare piuttosto importante, ovvero che ancora vi era un erede e che quell’erede era ancora in vita. Fortunatamente, o sfortunatamente, dipende dai punti di vista, egli non era il tipo da cedere alle emozioni, buone o cattive che fossero, e di certo non al punto di perdere lo sguardo di insieme sulla situazione: godutosi dunque quei pochi secondi, quando vide che l’ondata di animali si stava lentamente, ma inesorabilmente assottigliando, iniziò la sua discesa lungo la scarpata, per arrivare al fondo del canyon e ricercare l’ultimo tassello mancante del suo schema, altrimenti perfetto, con già una vaga idea di dove trovarlo. Vaga idea che si trasformò presto in certezza.

Alla vista del corpo del fratello, steso a terra, immobile e privo di vita, Scar non poté trattenersi da abbozzare un sorriso, giungendo alla conclusione che mai, neanche nella suoi sogni più irreali, avrebbe potuto immaginare una scena tanto perfetta per la conclusione della vita del primogenito: nella polvere, in una gola abbandonata, con il manto sporco e la criniera scompigliata. Di certo, non la fine che si dovrebbe addire ad un sovrano. Fece in ogni caso sparire ogni traccia di esultanza dal muso: ci sarebbe stato tempo in seguito per festeggiare, anche se in silenzio e in disparte, fingendo al contempo dolore; se il trono era oramai suo, e per gli Antenati quanto poteva essere dolce quel pensiero!, doveva anche assicurarsi che rimanesse tale. Per questo motivo, nulla traspariva dalla sua espressione se non finto dolore quando si avvicinò al cadavere di Mufasa e al piccolo Simba che, incurante dell’ovvia condizione del padre, stava in tutti i modi cercando di farlo rialzare per tornare a casa con lui alla Rupe: una scena che lo lasciò completamente indifferente, anzi, ora che poteva ben osservare i due leoni, le somiglianze che li accomunavano gli parvero sempre maggiori. Sì, se il cucciolo fosse cresciuto sarebbe diventato uguale in tutto e per tutto al suo genitore, ma anche così non poteva che far ricordare a Scar scene di vita infantile che avrebbe voluto dimenticare.

E se credeva di aver sempre provato nulla di più che occasionale fastidio per quel piccolo, considerato da lui sempre come un’immagine riflessa di un passato ormai sepolto e un ostacolo ancora per arrivare al potere, sentì dentro di lui un moto d’odio: ucciderlo, concluse, non era abbastanza, non lo era mai stato. Così come lasciare scivolare Mufasa da quella rupe non sarebbe stato altrettanto soddisfacente come spingerlo di persona, liberarsi di Simba in quel modo, per quanto rapido e indolore, non sarebbe stato sufficientemente appropriato. Doveva assicurarsi che soffrisse, più di quanto stesse già facendo, provare una sensazione analoga, per intensità, a quella che aveva visto negli occhi del primogenito, un momento prima che precipitasse. Ma cosa c’era di peggiore che perdere un padre in quel modo?

“Simba, che cosa hai fatto?” Ovviamente, il pensiero di essere stato tu la causa. La reazione del piccolo, che ancora singhiozzava e piangeva sotto la grande zampa del genitore, fu immediata: liberatosi da quell’abbraccio, freddo ed inquietante, si voltò verso lo zio con uno sguardo di puro orrore e shock, scuotendo la testa e al contempo tentando di formulare poche parole, balbettate e di difficile comprensione, viste le lacrime che continuavano a scendergli dal muso.

“La mandria era come impazzita e lui ha cercato di salvarmi!” 

“E sfortunatamente ci è riuscito… anche se non per molto” pensò fugacemente Scar, tornando poi ad ascoltarlo.

“Io… Io non l’ho fatto apposta!” Ed eccola, l’ammissione di colpa che stava aspettando, giunta anche in modo piuttosto spontaneo, ma d’altronde era anche prevedibile che egli si comportasse così: era solo un cucciolo e i cuccioli tendono a piazzare loro stessi al centro dell’universo, sia in bene che in male. Era quasi troppo facile approfittarsi di lui in quella maniera per provare piacere nel farlo. Quasi.

“Ma certo, ma certo che no!” Si affrettò quindi a rispondere, in quella che sarebbe potuta a prima vista apparire come una consolazione, ma che in realtà nascondeva solo ancora più intento di ferire. “Lo so! Nessuno vorrebbe che accadessero cose del genere” aggiunse, tirando a sé Simba e sorridendo internamente per l’ironia della situazione, per il fatto che proprio dalla sua bocca stessero uscendo parole simili. Mutò dunque tono di voce, passando ad un portamento più austero e freddo, in modo da far sentire il cucciolo ancora più a disagio e oppresso di quanto non fosse già.

“Ma il re è morto” scandì quelle parole lentamente, gustandole sulla punta della lingua, potendo finalmente usare un passato, non un presente, non un futuro, per la figura di Mufasa: immaginava già, con soddisfazione, tutte le volte in cui, nei giorni, mesi, anni seguenti, gli sarebbe stato concesso di fare la stessa cosa. Se dentro di sé si sentiva raggiante, la sua espressione per contrasto si indurì ancora di più e quella che gli occhi sgranati del nipote andarono a fissare, orripilanti e in cerca di affetti, non era altro che una maschera di pietra. “E se non fosse stato per te sarebbe ancora vivo” Per Scar, effettivamente, quella non era una bugia: era grazie al principino che aveva potuto mettere in atto il suo piano, grazie a lui aveva saputo finalmente sfruttare la più grande debolezza del fratello, i sentimenti, e grazie a lui finalmente sarebbe diventato re. Rimaneva dunque il problema di cosa fare della palla di pelo che aveva fra le sue zampe in quel momento: avrebbe potuto ucciderlo, ovviamente, ma c’erano un paio di punti che non lo convincevano in quella risoluzione. Il primo, e forse quello essenziale, per una mente logica come la sua, era il fatto che, se il corpo fosse stato ritrovato, avrebbe presentato segni evidenti di artigli impossibili da nascondere. Certo, avrebbe potuto nasconderlo così bene che nessuno l’avrebbe mai trovato, ma indubbiamente sarebbe stato sparso sangue e il sangue sarebbe rimasto. Si trattava comunque di un rischio e a lui i rischi non erano mai piaciuti: tutti i punti si erano incastrati perfettamente fino ad allora, non era disposto a scivolare sul finale. In più, e questa era una ragione che avrebbe svogliatamente definito come sentimentale, era certo che, se per la morte di Mufasa adulto, fiero e possente e invincibile, avesse dovuto essere lui il protagonista in modo da provare la sua superiorità una volta per tutte, per il Mufasa piccolo, indifeso e debole e tremante, servisse un agente esterno, da lui comandato ma che lo facesse risultare come semplice mandante, a testimoniare tutto il disprezzo che ormai provava per quella famiglia. E anzi, non voleva neanche assistere alla scena: l’ultimo ricordo che desiderava avere di Simba era quello di una pulce in fuga. Giunse a quella conclusione in pochi secondi, quando, con simulata sorpresa e rammaricata disapprovazione, affondò nuovamente il coltello nella piaga, toccando l’unico tasto che avrebbe potuto fare male al nipote più di ogni altro.

“Che cosa penserà tua madre?” Lo fissò, lasciandogli il tempo di riflettere su quanto terribile fosse la sua situazione, fino a che il piccolo pigolò, con un filo di voce:

“Che cosa posso fare adesso?” Ed ecco che il sipario si apprestava a calare sulla scena.

“Devi scappare, Simba” disse quindi, facendolo indietreggiare e continuando a guardarlo fisso negli occhi “Scappa, scappa lontano e non tornare mai più” Non fu neanche sorpreso quando, non più di un secondo dopo, il suo interlocutore fece esattamente ciò che gli era stato consigliato e, gustandosi quelle che, ne era certo, sarebbero state le ultime immagini della discendenza di Mufasa, una volta che sentì dietro di lui la presenza delle tre iene, comandò, con voce assolutamente atona, una sola parola.

“Uccidetelo”.

Una volta rimasto solo, solo con il cadavere del primogenito, si permise finalmente di sorridere e, camminando in circolo attorno ad esso, lo squadrò da diverse angolazioni: assaporò ogni passo, ogni movimento e anzi, quasi accentuò le sue movenze come per mettere in luce le diversità che oramai li separavano. Uno era vivo, in salute, pronto a cominciare una nuova vita e l’altro era morto, calpestato e martoriato, con i suoi giorni che già iniziavano a sbiadire.

“Ti piace il Cerchio della Vita adesso, fratello?” sussurrò, sedendosi poi dinnanzi a lui e inclinando leggermente il capo, come in attesa di una risposta. Ovviamente non ottenendola, continuò: “Perché, sinceramente, sto iniziando a capire a cosa ti riferivi quando dicevi che saremmo tutti diventati erba… sennonché il tuo manto somiglia molto più alla polvere in questo momento e immagino che anche Simba sarà nelle tue medesime condizioni una volta che chi so io avrà finito con lui.” Scosse la testa, affondando gli artigli nella polvere e poi alzandosi in piedi: presto le iene sarebbero arrivate e il suo compito sarebbe stato quello di guidarle, non poteva permettersi di perdere tempo inutilmente. Quasi a rispondere a quel pensiero, Shenzi, Banzai ed Ed comparvero davanti, coperti di polvere e con qualcosa nel pelo che avrebbe potuto giurare fossero spine di cactus.

“Allora?” domandò, corrucciato, scrutando la loro espressione.

“Tutto a posto, capo! Voglio dire: il cucciolo è morto. Nulla di cui preoccuparsi” Shenzi sembrava nervosa e anche la risata che scaturì dalle labbra di Ed era più isterica che realmente divertita, ma non ci diede troppo peso: quei tre erano un insulto alla sua intelligenza da sempre, non doveva indagare ogni loro movimento, specialmente in un giorno simile.

“Molto bene. Tornate per l’ultima volta al Cimitero e radunate il vostro branco, poi conducetelo oltre i confini. Se qualcuno dovesse opporre ancora resistenze” i suoi occhi si accesero mentre lo diceva “Ditegli che avete ufficialmente il permesso del sovrano delle Pride Lands” Stette poi a guardarli mentre correvano via, soddisfatti e certamente pregustando il lauto pasto che sarebbe loro spettato per i loro servigi, prima di avviarsi verso il punto dove aveva lasciato Zazu, ancora svenuto presumibilmente, e quindi verso la Rupe. Era giunto il momento di dare la notizia al resto della savana.

Rivolse ancora uno sguardo di sbieco al corpo dietro di lui, mentre le sue labbra si aprivano in un sorriso venefico: “Oh, giusto, quasi dimenticavo. Adesso, siamo pari”.                                                         

Quando tornò al punto di partenza, il pennuto era ancora lì disteso, intontito, ma sveglio, e Scar attese impazientemente che si riprendesse a sufficienza prima di parlare: non aveva assolutamente intenzione di causare un nuovo mancamento da parte sua.

“Cosa… cosa è successo?” domandò Zazu, frastornato, una volta che fu nuovamente in grado di parlare. Prima che il leone potesse aprire bocca, però, la sua mente tornò alle ultime immagini da lui registrate e scattò in piedi, pronto a riprendere il volo “Il re! Il re è in pericolo! Devo andare a cercare aiuto! Devo andare a…” Le parole gli morirono in bocca quando vide l’espressione del suo interlocutore, che, spostato lo sguardo da lui, indicava con il muso verso il punto in cui Mufasa era caduto.

“Purtroppo siamo arrivati troppo tardi” disse, socchiudendo le palpebre per celare lo scintillio nei suoi occhi verdi “Dopo che hai sbattuto la testa, ho tentato in tutti i modi di avvicinarmi a mio fratello e a Simba ma…” scosse la testa “Quando li ho raggiunti non c’era già più nulla da fare”. Vide con piacere che l’ex consigliere regale non ricordava il motivo del suo svenimento, meno spiegazioni avrebbe dovuto dare meglio sarebbe stato, e ancora una volta fu piacevolmente sorpreso dalla facilità con cui le sue parole venivano accettate: era sempre stato rimproverato, redarguito, umiliato perfino, ma nessuno avrebbe mai ritenuto che la sua mente potesse spingersi a tanto. In fondo, venire sottovalutati forse non era poi così male.

“Questo… questo significa che…” la voce dell’uccello si era affievolita e aveva perso di colore e anche le sue penne sembravano mosce, meno blu, tanto il peso di quello che gli era appena stato detto l’aveva schiacciato.

“Il nostro sovrano è morto” pronunciò nuovamente quelle parole e, invariata, provò ancora quella scarica di adrenalina che l’aveva assalito quando il suo desiderio era diventato realtà “e il suo erede con lui”.

                                                              ***************

Dense nubi si addensavano sulle Pride Lands mentre i due facevano ritorno, con umori totalmente opposti, alla Rupe dei Re: Scar proibì a Zazu di volare davanti a lui e comunicare la terribile notizia in quanto, come parente e profondamente toccato da quello che era avvenuto quel giorno, sentiva che fosse giusto annunciare di persona l’accaduto. Soprattutto, voleva assistere alle loro espressioni in diretta, godersi l’ennesimo spettacolo che quella giornata stava riservando per lui.

La prima a vederlo fu Sarabi, che passeggiava vicino alla sua tana con l’atteggiamento perennemente impassibile che tanto aveva da sempre infastidito il secondogenito: aveva come la sensazione, man mano che si avvicinava, che questa notizia l’avrebbe finalmente scossa. Ella sembrò accorgersi dello strano incedere dei due, del fatto che il consigliere del re, solitamente inseparabile da quest’ultimo e che mai era stato in buoni rapporti con Scar, camminasse, non volasse, al suo fianco, con un’aria talmente mesta e addolorata che non poteva che far presagire una grave tragedia. Il secondogenito la vide dunque correre verso di loro con una scintilla di preoccupazione che si propagava per tutto il suo corpo e si infiammava con l’accorciarsi della distanza: represse il ghigno che minacciava di formarglisi sul muso e, anzi, volgendo il muso verso sinistra e assumendo un’aria afflitta, sospirò pesantemente, come se si stesse preparando per un compito che non aveva nessuna intenzione di portare a termine.

“Che succede? Perché quell’aria angosciata?” Sarabi non ricevette subito risposta, un po’ perché il suo interlocutore voleva conferire un’aria ancor più solenne al momento, un po’ perché egli doveva adoperare tutto il suo autocontrollo per non commettere gesti inappropriati. 

“Dov’è Mufasa, Zazu?” Sentiva una nota di panico nella sua voce e questo lo rendeva ancora più euforico: lanciò un’occhiata alla creatura che aveva fra le zampe, in modo da assicurarsi che nulla uscisse dalla sua bocca, ma, da come esso sembrava tremare, dubitava che anche se avesse voluto sarebbe riuscito a spiccicare parola.

“Dov’è?” La regina ruggì, con un tono tale da spaventare per un attimo anche il leone dal manto scuro e sicuramente attirando sul duo l’attenzione di tutto il branco presente, esattamente come il secondogenito desiderava. La guardò dunque negli occhi, non mostrando che lutto e dolore, e potendo finalmente rendere noto a chiunque ciò che aveva tenuto in serbo per loro fino a quel momento.

“C’è stato… un movimento insolito, particolarmente violento, nella mandria degli gnu” iniziò, lentamente, gustando ogni parola, ogni sillaba che pronunciava “Simba si trovava nel canyon, non so per quale ragione fosse lì ma…” osservò con interesse quasi morboso le pupille di Sarabi dilatarsi e pensò che se una semplice caduta gli era valsa quella serie di attimi, allora davvero aveva fatto la scelta migliore della sua vita “la carica lo ha travolto”. La leonessa rimase impietrita per qualche secondo, le labbra leggermente dischiuse a far uscire un “no” privo di suono, per poi fare un passo indietro, quasi volendo fuggire da lui, da ciò che stava dicendo, da quello che stava per dire. Sfortunatamente, Scar non aveva ancora finito né aveva intenzione di rendere più lieve la sofferenza della regina con la scelta di parole dolci e confortanti, cosa che avrebbe potuto fare, certo, ma a cui non pensava minimamente.

“Ho cercato di aiutarlo, ma ho pensato che da solo non avrei potuto farcela, così…” abbassò lo sguardo, come se si sentisse in colpa “sono andato a cercare Mufasa. Forse se avessi agito diversamente… forse ora ci sarebbe solo una morte da piangere” Lanciò un’occhiata fugace al branco attorno a sé, di sottecchi, quasi senza farsi vedere e notò come ogni leonessa si fosse raggelata. Sembrava che nulla si muovesse, che il tempo si fosse fermato e, se non fosse stato per i sottili refoli di vento che gli scompigliavano leggermente la criniera a testimoniare il temporale che presto sarebbe giunto, avrebbe quasi potuto credere che si trattasse davvero di quello.

Rimasero in quella posizione a lungo, in silenzio, con nessuno che riusciva a fare o dire nulla, nessuno tranne lui, che però preferì lasciare la scena ad altri, seppur momentaneamente, e recitare la parte dello zio e fratello afflitto. Sarafina si era avvicinata a Sarabi e stava tentando di scuoterla dallo stato quasi catatonico in cui era caduta, mentre Nala, spaesata e ancora non del tutto sicura di quello che stesse effettivamente accadendo, si nascondeva dietro la madre, squadrando ciò che la circondava con occhi lucidi: dopo un tempo che parve infinito a Scar, infine, la leonessa prese la parola. La voce era rotta, ridotta ad un sussurro, eppure ancora si scorgevano in lei le tracce dell’antica compostezza che il suo interlocutore aveva sempre cercato di spazzare via. Ma non si può spezzare una regina, non del tutto, e di questo ebbe la conferma sentendola fare un’unica richiesta, malferma sulle zampe e con la vista appannata, che non era un grido di dolore, non era un lamento né tantomeno un’accusa, solo un semplice:

“Posso vederli?” 

Se Zazu a quel punto non resistette oltre e scoppiò a piangere in silenzio, imitato dal resto del branco, se anche il cielo sembrava oscurarsi per onorare e portare lutto verso quelle due vite spezzate, se la natura stessa si stava ingrigendo in linea con il dolore di una compagna e di una madre, così come di tutte le Pride Lands, il cuore di Scar rimase più freddo della pietra. Nulla di quanto vedeva riusciva a farlo dubitare delle sue azioni, nulla era capace di scalfire la sensazione di trionfo che covava, ben nascosta, ma intaccata, dentro di sé e fu proprio su quest’onda di insensibilità mascherata da accorato sconforto che disse, muovendosi infine dalla sua postazione e dirigendosi verso alla salita che l’avrebbe portato alla Rupe:

“Mufasa è ancora nel canyon. Non ho avuto cuore di spostarlo né sono riuscito a rimanere davanti a lui per molto…” socchiuse gli occhi “dopo quello che è accaduto. Era troppo doloroso, osservarlo in quelle condizioni, trascinato, calpestato, lacerato… era davvero orribile.” Lanciò uno sguardo a Sarabi, la sua espressione che si indurì leggermente nel frattempo “Per quanto riguarda Simba, ho paura che la mandria lo abbia trascinato via. Non ho idea di dove sia in questo momento”

Colse un movimento con la coda dell’occhio e, dietro ad una roccia, nascoste e in attesa di mostrarsi, colse le iene, con la loro espressione stupida e famelica come al solito, e decise che aveva aspettato abbastanza: era il momento di prendere quello che era suo.

Salì dunque su una roccia, in modo da essere appena sopraelevato rispetto alle leonesse in ascolto, e, con voce grave e addolorata, si apprestò ad iniziare il suo regno.
“La morte di Mufasa” iniziò, dunque, solenne “è una terribile tragedia. Ma perdere Simba! Che si era appena affacciato alla vita! Per me, è una grave perdita personale” Aveva sempre saputo di essere un eccellente bugiardo, ma sentendosi di dire quelle parole, usando un tono che di certo sarebbe sembrato genuino a chiunque, lo sorprese quasi: anche il tremore della voce, lo sguardo basso, le reazioni del branco attorno a lui, confermavano le sue impressioni. Era quello il potere autentico, reale, assoluto, realizzò, reprimendo un sorriso.

“Perciò è con la morte nel cuore che oggi salgo al trono” E, oh, la morte effettivamente lo accompagnava, e probabilmente l’avrebbe seguito per tutta la sua vita, ma più come un’alleata, un’amica, un pensiero riconoscente piuttosto che un fantasma pronto a perseguitarlo. 

“Ma dalle ceneri di questa tragedia, non disperate!” I suoi collaboratori stavano alfine venendo allo scoperto e, ignorando le espressioni scioccate delle leonesse attorno a lui, si affrettò ad avvicinarsi a loro, finalmente assumendo un’espressione che non era di lutto né tantomeno di disperazione, ma di pura e semplice esaltazione “Perché sorgerà l’alba di una nuova era, nella quale leoni e iene collaboreranno insieme, per costruire un grande e glorioso futuro!”

Giunto alla fine della Rupe dei Re, nella stessa posizione in cui Ahadi e Mufasa, entrambi scomparsi, avevano da sempre comandato la savana, ruggì, inaugurando quello che sarebbe stato il suo dominio con un’esaltazione febbrile fino a poche ore prima sconosciutagli. Era l’attimo per cui aveva lavorato una vita intera, per cui aveva scavato nel fango, si era piegato, ma non spezzato, mai spezzato, ed ora che esso era alla sua portata capiva perfettamente che le sue azioni erano giustificate, anzi, di più, perché una sensazione tanto potente quanto quella che stava provando non sarebbe mai dovuta essergli stata negata. Sì, pensò, guardando il cielo scuro, dal quale però non accennavano a cadere gocce di pioggia, era davvero l’inizio di qualcosa, non di un nuovo capitolo, ma di un’intera nuova storia e sarebbe stato lui a scriverla e ad essere il protagonista. Lui, nessun altro.

E mentre qualcuno potrebbe dire che il sonno viene gustato ed è appropriato solo per i giusti, Scar, ricordando gli attimi per la prima volta passati nella tana reale, circondato dalle leonesse e finalmente al centro della scena, risponderebbe di non avere mai dormito meglio di quella notte.

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Capitolo 12
*** Scar. Thus bad begins, and worse remains behind. ***


12. Scar. Thus bad begins, and worse remains behind

Alla fine, quella notte non aveva piovuto. Né successe quella dopo, o quella dopo ancora. L’atmosfera cupa e inquietante che aveva accolto Scar quando era salito al trono, quell’oscurità densa che tanto si addiceva alle tenebre in cui aveva tramato per anni, si era dissolta nel giro di qualche giorno ed aveva lasciato posto ad un caldo torrido, soffocante, con un sole che picchiava talmente forte da costringere tutti gli animali a ricercare l’ombra e il fresco, alla pozza d’acqua più vicina, e ad attendere con fiducia che quell’ondata insolita si placasse. 

L’unico che non sembrava sentire assolutamente il cambiamento climatico improvviso era proprio il nuovo re, che, dal giorno della morte di Mufasa, sembrava camminare tre metri sopra il cielo: certamente, recitava ancora davanti al suo popolo la parte del parente afflitto, ma aveva decisamente allentato la guardia con il passare dei giorni. Aveva conquistato le Pride Lands, ciò che aveva sempre desiderato era suo, e, mentre guardava l’alba sorgere sul regno, il regno che era stato per lungo tempo tutto tratte che in suo potere, ma che ora gli apparteneva, ora possedeva, gli parve tutto dieci, cento, mille volte meglio che quando a governare era il fratello, che presto sarebbe stato eclissato dalla sua gloria, dimenticato da tutti. Avrebbe dovuto lasciare tempo al tempo, quello era ovvio, tutti erano ancora troppo afflitti dai recenti avvenimenti per lanciare uno sguardo d’insieme, come faceva lui, alla situazione, ma avrebbero capito, avrebbero compreso la sua superiorità e si sarebbero resi conto di quanto avessero perso negli anni passati.

Sì, sarebbe iniziata una era d’oro, di questo si sentiva assolutamente certo.

Venne distratto dai suoi pensieri, sempre meno cupi e sempre più grandiosi, dall’arrivo dei suoi seccatori di fiducia: aveva sperato che, con un intero regno a disposizione, l’avrebbero finalmente lasciato considerevolmente in pace e sarebbero andate a caccia, a zonzo da qualche parte, facendo in modo che non dovesse confrontarsi con la loro presenza come in passato. Ma a volte, i sogni sono troppo fantastici per essere realizzati.

“Ehi, compare!” Banzai gli si era avvicinato, affiancandolo sulla cima della Rupe con un atteggiamento che gli diede profondamente fastidio: non era più un leone qualunque, era il sovrano, per l’amor degli Antenati, e come tale avrebbe preteso il rispetto che gli era dovuto. Lanciò dunque un’occhiata talmente torva e piena di biasimo alla iena che ella, pur nella sua stupidità, si sentì intimorita da retrocedere di qualche passo, facendo allargare sul suo muso un sorriso: ecco, così gli piacevano. Ubbidienti, silenti e adoranti.

“Che cosa volete?” alzò gli occhi al cielo, sapendo benissimo che quando veniva chiamato “compare” c’era sempre una richiesta in arrivo.

“Ed si stava domandando… beh…” Sì, certo: Scar aveva seri dubbi sul fatto che il fratello del suo interlocutore potesse domandarsi qualsiasi cosa, anzi, aveva anche il sospetto che non pensasse proprio. Usarlo come scusa era alquanto stupido, oltre che inutile “… È mattina, ormai, ed il nostro branco è affamato: quando arriverà il cibo?”

Sospirò, infastidito: da quando quegli animali avevano saputo che erano le leonesse a cacciare e che dunque essi non avrebbero più dovuto lavorare per il resto della loro esistenza, avevano preso l’irritante abitudine di richiedere che vi fosse un rifornimento praticamente ad ogni ora del giorno, senza pause né freni. Per lui non ci sarebbero stati problemi, sennonché era letteralmente impensabile per il branco rincorrere animali a tutte le ore del giorno e della notte per soddisfare la fame a quanto pare perenne dei nuovi arrivati: ammetteva lui stesso, con profondo nervosismo, che erano ritmi impensabili da chiedere, ma era confidente nel fatto che presto o tardi l’equilibrio si sarebbe stabilizzato, in un modo o nell’altro. Doveva solo trovare una soluzione che non esasperasse nessuno: era indispensabile avere l’appoggio delle iene, indispensabile per mantenere il controllo e al tempo stesso per dimostrare quanto lui fosse capace di migliorare le condizioni di entrambe le specie. Molto meglio di Mufasa.

“Allora Scar? Che intendi di fare? Ci dai il permesso di svegliare quelle perditempo?” Banzai stava diventando seccante e, soprattutto, insopportabile: avrebbe dato qualsiasi cosa per toglierselo di torno il più in fretta possibile, soprattutto perché aveva ben altri progetti per la giornata. Aveva deciso anzitempo, infatti, con ben più di una punta di sadismo, che avrebbe messo alla prova Zazu e le sue autoproclamate eccellenti capacità di maggiordomo. Certo però non poteva fare ciò che desiderava con quella sottospecie di ameba attaccata alla pelliccia tutto il tempo. Pensò in fretta e giunse ad un’idea che gli parve, se non brillante, quantomeno accettabile: avrebbe pensato più avanti a come sistemarla in modo permanente.

“Sbrigatevela da soli” disse quindi, mantenendo immutato il suo atteggiamento austero “Avete per caso dimenticato come si caccia? Siete predatori e avete un’intera landa a vostra disposizione: vedete di approfittarne”

Le sue parole sembrarono confondere il suo interlocutore: “Ma io pensavo che il compito di procurare cibo a sufficienza per tutti dovesse spettare a…”

“So benissimo come devo amministrare il regno!” ringhiò Scar, stufo di essere messo in discussione: le sue erano parole da re, quindi legge. Le Pride Lands erano sue, poteva disporre di esse da signore e padrone e così avrebbe fatto: nessuno era nelle condizioni impedirglielo. Non più. “Ma se per voi quello che loro riescono portano qui non è abbastanza non dovete fare altro che andarvene dalla Rupe e prendere quello che volete. Le terre sono floride, ricche di tutto quello che desiderate e, sapete?, la legge che imponeva solo alle leonesse di cacciare era una legge assolutamente inutile” si stava arrabbiando, ma si ricompose in tempo, aggiungendo fra sé e sé “Inutile esattamente come tutto ciò che mio fratello ha fatto in tutti questi anni” 

“Perciò… ci dai il permesso di andare?” L’altro fremeva, già con la bava alla bocca: era un’immagine disgustosa, talmente disgustosa che non riuscì neanche a rispondere, ma, alzando la zampa in un segno sdegnoso, fece in modo di far capire a Banzai di essere stato congedato e, una volta rimasto nuovamente solo, si permise di sorridere. Non di amarezza o malcelata invidia, però, come spesso aveva dovuto fare negli anni passati, ma con la totale consapevolezza di quello che oramai poteva definire il suo completo trionfo.

Il pensiero del fratello, e dell’erede di questi, l’aveva sfiorato in quei tre mesi in modo fugace, appena un accenno quando sentiva il loro nome pronunciato dal branco, ancora distrutto per l’improvvisa perdita, oppure la mattina presto, mentre contemplava il panorama dalla Rupe, come in quel momento, riflettendo come tutto ormai fosse in suo potere: i sensi di colpa non l’avevano mai sfiorato, anzi, gli sembrava quasi ridicolo potersi pentire di qualcosa a cui aveva mirato per tutta la vita, senza considerare che l’immagine di Mufasa che cadeva da quella roccia era l’unico suo ricordo che avesse intenzione di conservare. Dopo aver dunque osservato, con altera indifferenza, lo sciame di iene che si disperdevano per la savana e aver pensato che, dopotutto, era stato quasi banale da risolvere come problema, sempre che si potesse chiamare tale, volse la schiena allo spettacolo, con la risoluzione di andare una buona volta alla ricerca di quell’insopportabile presenza piumata dal nome di Zazu.

Da quando era salito al potere, sembrava che il bucero avesse improvvisamente deciso di trascurare i suoi compiti da lacchè, pardon, maggiordomo reale e trovasse ogni scusa abbastanza convincente per assentarsi: Scar era stato disposto a sopportare un mancato arrivo al suo richiamo in una, due occasioni, e solo per il suo autoproclamato buon cuore, ma non aveva intenzione di farsi prendere in giro da un sottoposto di Mufasa. Ex sottoposto, per essere precisi, pensò con soddisfazione.

La sua ricerca procedette per una buona mezz’ora mentre, percorrendo più volte i sentieri vicino alla Rupe, pensava a come avrebbe potuto fare in modo di guadagnarsi la timorosa obbedienza, ed era sicuro che il rispetto sarebbe venuto di conseguenza, dell’uccello. Le leonesse lo seguivano, dopotutto, e nessuna aveva ancora mostrato rimostranze per le sue azioni, il che era comprensibile, essendo lui il sovrano ed avendo potere di vita e di morte su tutte loro, mentre Rafiki, con suo grandissimo piacere non si era più fatto vedere dal giorno della morte del primogenito: aveva già le iene a distrarlo con la loro strana follia, non avrebbe sopportato un altro pazzo intorno al suo dominio. No, l’unico che mancava all’appello degli esseri che si erano piegati, tra i seguaci di Mufasa, era proprio Zazu ed era assolutamente determinato a fare sì che imparasse il suo posto, in un modo o nell’altro.

Esultò, dunque, quando lo vide posato su una roccia, vicino ad un albero le cui foglie sembravano alquanto ingrigite e scolorite: doveva essere uno degli effetti del caldo improvviso, ma non c’era alcun motivo di preoccuparsi, periodi torridi e più temperati si erano susseguiti negli anni e mai qualcosa aveva influito sulla regolare vita della savana. Quell’arbusto sarebbe tornato verdeggiante nel giro di una luna e certamente non era il suo problema più grande in quel momento. Si avvicinò alla sua vittima in silenzio, non emettendo un suono fino a che il suo fiato quasi non sfiorò le sue penne ed infine parlando, in un tono scherzoso solo all’apparenza.

“Credevo che un maggiordomo tanto valente quanto dici di essere, Zazu, non dovesse mai lasciare il fianco di un sovrano” Vide con piacere l’altro trasalire alle sue parole e voltarsi con un’espressione insicura e anche vagamente impaurita: sapeva benissimo quanti rischi avesse corso negli anni passati, prendendosi gioco di lui e venendo protetto solamente dalla benevolenza che il precedente re aveva manifestato nei suoi confronti. Ora che il vento aveva cambiato direzione e si stava ritrovando a servire proprio il leone che aveva da sempre sbeffeggiato, era plausibile comprendere come mai si sentisse quantomai a disagio in sua presenza, soprattutto perché, anche se non aveva mai commentato troppo malvagiamente il comportamento di questi in sua presenza, era convinto che Scar sapesse. E Scar effettivamente sapeva.

“Oh, v-v-vostra maestà, non vi avevo visto arrivare” iniziò, balbettando e subito dopo inchinandosi, facendo distendere il muso del suo interlocutore in un ghigno impercettibile.

“Questo l’avevo intuito dal mancato saluto che mi hai rivolto…” distolse per un momento lo sguardo, come per ricercare la stessa visuale di cui stava godendo il lacchè reale fino a qualche secondo prima e, con falsa noncuranza, aggiunse, aggrottando un sopracciglio “Ma mi aspettavo che, come ti ho detto, un tassello tanto importante nell’amministrazione quale tu ti sei sempre vantato di essere volesse essere sempre presente ed accompagnare il suo sovrano. D’altronde” gli rivolse un sorriso sottile, accompagnato però da occhi mortalmente seri “se non desideri più svolgere questo compito mi chiedo proprio come potrei sistemarti…”

Il doppio senso della frase venne immediatamente colto dal pennuto, che si affrettò a deglutire e ad alzarsi il volo, andandosi a posare su una roccia lì di fianco, ma abbastanza in alto da essere fuori dall’immediata portata del leone, sforzandosi di trovare una scusa quantomeno poco ridicola: “No, mio signore! Io stavo solo… solo… controllando un’ultima volta di avere tutte le informazioni necessarie prima di recarmi da voi per il rapporto mattutino”

Giusto. Il rapporto mattutino. Un’altra tradizione inventata dal fratello che non aveva mai potuto sopportare, specialmente se protratta dalla voce petulante e saccente del bucero e se, come sovente succedeva, cantata in rima. Non sapeva se quest’ultima scelta artistica fosse dettata da un patetico tentativo di esaltare la propria bravura o semplicemente dall’idiozia intrinseca che sospettava quell’uccello covasse dentro di sé, ma era certo che avrebbe dovuto fare immediatamente qualcosa se avesse voluto salvare le proprie orecchie da quella tortura.

Avrebbe trovato senza dubbio un altro metodo di informazione che non richiedesse un intervento forzatamente musicato.

“Non è necessario, Zazu” affermò dunque, alzando gli occhi al cielo e suscitando, per la seconda volta in poco tempo, la perplessità del suo interlocutore.

“Ma… ma voi in quanto sovrano dovete essere informato degli avvenimenti principali della savana” si arrischiò a rispondere “Altrimenti come farete a mantenere l’ordine…”

“Osi mettere in dubbio le mie decisioni, forse?” ringhiò Scar, provocando un salto di considerevoli dimensioni da parte del pennuto.

“Oh, no Sire, questo mai, stavo solo pensando…”

“Il tuo compito non è di pensare” lo interruppe irritato, trattenendosi dall’aggiungere che i suoi compiti si dovevano esaurire al prendere ordini ed eseguirli: calmo, doveva stare calmo. Avrebbe imparato, anche lui avrebbe imparato a non contraddirlo e a piegarsi senza fare troppe storie. Tutti l’avrebbero fatto. Anche se forse ci sarebbe voluta una punizione esemplare per farlo ragionare e… dunque, qual era la compagnia che l’uccello odiava più di qualsiasi altra? La risposta era molto facile e anche alquanto soddisfacente, specialmente se poteva trasformarsi in qualcosa di effettivamente produttivo. Riguadagnata quindi la sua postura composta ed il suo atteggiamento altero, mosse una zampa per indicargli di andarsene:

“Allora, Zazu, da bravo potresti andare dalle iene e richiedere la loro attenzione? Ho bisogno di sapere se per caso stiano riscontrando dei problemi nell’organizzazione e non vorrei che fossero proprio i nuovi arrivati a sentirsi emarginati o a disagio” Il disagio sarebbe stato tutto del bucero, ne era sicuro e l’espressione che aveva in quel momento glielo stava confermando, tanto che per qualche secondo ebbe anche l’impressione che questi potesse trovare qualcosa da ridire su ciò che gli era appena stato chiesto e, per gli Antenati, la discussione che sarebbe giunta in quel caso sarebbe stata esilarante.

Sfortunatamente, il suo interlocutore sembrò trovare un briciolo di coraggio e di amor proprio e, dopo aver chiuso gli occhi per racimolare tutta la forza d’animo in suo possesso, senza più controbattere e accennando solo un ultimo inchino, si levò in cielo alla ricerca del branco. E uno era sistemato. Non gli importava più di tanto quello che quel conglomerato di imbecilli avesse da riferirgli, in realtà, ma era sempre meglio dare loro l’impressione di essere ascoltati: fintanto che avessero avuto un osso fra i denti, comunque, non ci sarebbero stati problemi.

Quello che credeva si potesse trasformare in un momento di relativa pace venne improvvisamente interrotto da una voce fredda e calma dietro di lui: “Scar!” Si sentì chiamare e, con un moto di fastidio, si voltò verso Sarabi la quale stava venendo verso di lui, con un incedere regale che a quanto pare la privazione del titolo di regina non le aveva tolto: con suo grande dispiacere, si era ripresa relativamente in fretta dallo shock emotivo causatole dalla perdita in simultanea di compagno e figlio, o perlomeno fingeva molto bene di averlo fatto, e la sua maschera austera che aveva sempre mostrato in sua presenza e si era appena incrinata quel giorno di qualche mese prima era tornata più intatta che mai.

Se contava di piegare tutti gli altri, con lei aveva intenzione di procedere ancora più violentemente. L’avrebbe spezzata e anche l’ultimo ricordo di Mufasa sarebbe stato sepolto.

“Sì, Sarabi?” le chiese dunque, con un sorriso mellifluo che nulla si addiceva al suo portamento e mascherando la difficoltà con cui il suo nome potesse essere pronunciato da lui senza storcere il muso.

“Ho saputo che hai dato alle iene il permesso di cacciare in modo indipendente da noi.” La lentezza con cui scandiva le frasi l’aveva sempre fatto innervosire.

“Dunque?” replicò, sprezzante e poco propenso ad ascoltare la lamentela, perché sarebbe stata una lamentela, ne era certo, quando essa fosse uscita dalla bocca della leonessa.

“Avrei gradito che le altre ed io fossimo informate prima di prendere una decisione simile: quegli animali non sono abituati ad avere simili risorse a disposizione e potrebbero approfittarne in maniera eccessiva…” Aveva forse dimenticato quale fosse diventato il suo posto? Non era nessuno per prendere decisioni, non dopo che il primogenito era morto, e in ogni caso non gli era mai sembrato che ella, come regina, avesse mai partecipato attivamente alla burocrazia regale… quindi perché iniziare in quel momento? Per puro spirito di contraddizione nei suoi confronti, ovviamente.

“Non mi sembra di dover rendere conto a nessuno di quello che faccio” ribatté, ostinato e con un tono saccente che sembrò forse anche a lui un poco infantile, ma, in fondo, era il sovrano: poteva e doveva parlare nel modo che più gli aggradava.

“Non si tratta di questo” ripose lei, ancora con più flemma, come se stesse parlando con un cucciolo appena nato a cui dovesse spiegare i ragionamenti più semplici senza perdere la calma “ma è un grosso cambiamento e ci sarebbe stato utile saperlo per tempo in modo da organizzarci al meglio e magari discuterne con calma…” Scar stava per interromperla con un qualche pretesto quando lei disse una frase che lo fece quasi scattare. “… Mufasa non avrebbe mai dato un ordine simile senza prima essere sicuro di quello che avrebbe comportato”

“Mufasa è morto!” stava per ruggirle, aggiungendo anche che presto tutto quello in cui egli credeva e per cui aveva lavorato sarebbe perito con lui: stava nascendo una nuova era, nessuno avrebbe più dovuto rimpiangere i tempi antichi ed era meglio che lei stessa si adattasse in fretta. Si riprese appena prima di aggredirla: doveva dimostrarsi superiore, il resto sarebbe venuto spontaneamente e risultati avrebbero parlato, facendola ricredere.

“Mufasa non è qui per giudicare” disse dunque, tentando di non far trasparire il disgusto che nominare il fratello provocava nel suo animo, sicuro di essersi ormai liberato di lui e irritato dal dover costantemente reggere il confronto. Non ricordava che questo passaggio fosse avvenuto per il primogenito, quando era succeduto al padre dopo la sua morte, ma d’altronde sarebbe stato sconveniente che il principe perfetto avesse qualche tipo di pressione addosso: se era il preferito del precedente sovrano allora non c’era nessun motivo di mettere in dubbio le sue decisioni, questo quello che certamente gli animali della savana avevano pensato quando egli era salito al trono e con il cui atteggiamento totalmente opposto Scar si stava invece confrontando. “E, se non ci sono problemi immediati di cui intendi discutere e che non implichino un sottile rimprovero, non permesso, gradirei essere lasciato solo. Ho faccende di maggior importanza che devo prendere in considerazione” Lo disse con tono sdegnoso ed arrogante, gustando il piacere di trattarla con la stessa sufficienza che ella gli aveva riservato per anni ed esultando soddisfatto, seppur non esteriormente, quando anch’ella, come Zazu, dovette piegarsi alla sua volontà.

“Come desideri” Non era quello che avrebbe voluto dire, lo sentiva e lo capiva, ed era proprio per quello che trovava tutta la scena estremamente divertente: per anni non era riuscito ad attaccarla o a farle compiere azioni non di suo gradimento e in quel momento invece si trovava a doversi rimettere a lui, lui che aveva potere di manovrarli e disporre di loro come più gli aggradava.

Quanto adorava essere re.

Non le rivolse più uno sguardo, fino a che non se ne fu andata, in modo da essere certo che avesse recepito il messaggio: Sarabi non era più una regina, non era più nulla, esattamente come più nulla tranne polvere era Mufasa.

“Vostra Maestà” una voce, sconosciuta e piuttosto tagliente, lo fece nuovamente voltare infastidito proprio quando pensava di essersi liberato di tutti gli scocciatori possibili per quella mattina: davanti a lui si trovava una leonessa magra, con il muso piuttosto appuntito e la carnagione chiara, interrotta solo al centro della fronte da una striscia di pelo più scura. Doveva essere molto giovane, sicuramente più di lui, diventata adulta solo da pochi mesi: il suo pelo aveva ancora la classica sfumatura tipica della prima fase della vita. Notò, con annoiato interesse, che un lembo del suo orecchio destro era stato strappato via da un morso; non era qualcosa che avveniva lì, nelle Pride Lands: doveva essere un’esterna, o almeno qualcuno che era arrivato lì da molto poco tempo. Rammentava vagamente di un gruppo di leonesse accolte da poco nelle terre, qualche mese prima della morte del fratello, ma non se n’era interessato troppo, tutto preso com’era a risolvere il problema della sua successione al trono. A quanto pare, avrebbe dovuto affrontarlo infine.

“Sì?” si pose davanti a lei, con atteggiamento altero e l’aspettativa di trovarsi nuovamente davanti ad una fervente ammiratrice del primogenito che gli avrebbe ancora una volta esposto le sue inutili lamentele.

“Volevo solo presentarmi a voi ufficialmente” rispose l’altra, sorprendendolo positivamente per l’assenza di quella sfida malcelata che tutti i sudditi gli avevano fino ad allora dimostrato “Alcune mie compagne ed io siamo arrivate da poco nel vostro regno e, dopo la morte del precedente sovrano, mi sembrava opportuno che anche voi ci conosceste”

La stava ascoltando, con interesse: forse loro erano davvero il primo segno di come le cose stessero finalmente volgendo in suo favore. Finalmente, gli animali si stavano rendendo conto di chi fosse il legittimo sovrano! Rimase dunque in silenzio, permettendo alla sua interlocutrice di procedere, cosa che ella fece, incoraggiata dalla apparente benevolenza che egli le stava riservando.

“È un onore fare parte del vostro branco.” disse, con uno scintillio negli occhi che l’altro reputò quantomeno singolare “Il mio nome è Zira”.

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Capitolo 13
*** Scar. I must be cruel only to be kind. ***


13. Scar. I must be cruel only to be kind.

La pozza dell’acqua vicino alla Rupe dei Re si era rimpicciolita e questo avrebbe potuto dirlo anche uno stupido. Anche le cause della sua progressiva scomparsa non erano difficili da individuare: era passato più di un anno da quando nella savana era piovuto in modo dignitoso. Certo, c’erano stati un paio di fini pioggerelle, ma nulla che si avvicinasse neanche lontanamente ai diluvi a cui tutti erano sempre stati abituati. Siccità, dunque, e di quelle serie: il sole continuava a picchiare spietato, in un cielo dal blu così intenso da risultare nauseante. Neppure questa situazione era ardua da comprendere. La risoluzione di questo problema era invece un quesito decisamente più impegnativo, a cui Scar era stato posto di fronte dopo che, infuriati, vari animali si erano presentati da lui a porre delle rimostranze, mal accettate e ignorate, e delle suppliche, alquanto più gradite.

“Deve piovere prima o poi, non c’è nulla di cui preoccuparsi” continuava a ripetere, agli altri e a se stesso, mentre lanciava occhiate sopra di lui tentando di scorgere qualche nuvola. Tutto inutile. E in ogni caso cosa diamine avrebbe potuto fare a riguardo? Era un leone, non controllava certo le precipitazioni atmosferiche! Avrebbero dovuto chiedere a Rafiki, non a lui, se davvero erano così disperati, sempre che riuscissero a trovarlo: dal giorno della sua ascesa al trono il babbuino non si era più fatto vedere e, se fino a poco prima Scar ne era quasi eccessivamente felice, avendo sempre provato un disprezzo piuttosto malcelato per la scimmia in questione, forse in quel momento si trovava ad ammettere che uno sciamano avrebbe fatto comodo al regno. Non perché credesse veramente che le sue sciocchezze avrebbero potuto funzionare, quanto per il semplice motivo che dare un po’ di speranza ai branchi di animali avrebbe quietato le acque ed evitato che precipitassero in quell’isteria collettiva che tanto sembrava contagiare i suoi sudditi.

Possibile che fosse il solo a mantenere la calma? Certamente la crisi non sarebbe potuta durare per sempre, sempre che si potesse usare un termine tanto grave per quella da lui ritenuta una stupidaggine.

Era nella sua tana, la sua personale, che gli era appartenuta da prima della sua incoronazione, l’unico posto in cui potesse trovare un poco di pace, e la stava percorrendo a grandi passi, sbuffando e riflettendo su ciò che Sarabi gli aveva appena riferito: mandrie di bufali, probabilmente spaventate dalla penuria di acqua, si stavano spostando al di là del confine sud, oltre le loro, sue, terre e questo toglieva una risorsa importante, a quanto la leonessa sosteneva, per la caccia e l’approvvigionamento del branco. Senza contare che, sempre dalle sue affermazioni, sembrava che le iene stessero largamente approfittando delle ricchezze che quelle lande avessero da offrire e, perennemente affamate com’erano, avessero fatto calare la popolazione ad un ritmo allarmante.

Allarmante secondo la passata regina, assolutamente comprensibile secondo Scar: erano state allontanate e tenute recluse, quasi morte di stenti, per decenni sin dai tempi di Ahadi, era più che plausibile che pretendessero un compenso. Ed egli lo stava fornendo loro, sicuro, assolutamente certo, che anche in questo caso si sarebbe giunti ad un equilibrio: d’altronde, fino ad allora non era stato riscontrato alcun problema di grave portata.

Alzò gli occhi al cielo, pensando per una manciata di secondi che nulla di tutto ciò, né il malcontento, né l’assenza di Rafiki, né tantomeno la mancanza di acqua si era verificata durante il regno del fratello, fortunato ancora una volta, per poi scacciare dalla mente quelle considerazioni con uno scatto infastidito: non doveva più pensare a Mufasa, non voleva, Mufasa era morto ormai da molto tempo, era passata l’epoca in cui era costretto a confrontarsi continuamente con lui.

Scar era un sovrano, perfettamente in forze e nel pieno degli anni, mentre il primogenito non era che un’ombra: e come poteva un’ombra oscurare e competere con un vivo?

La giornata era iniziata piuttosto male, per usare un eufemismo, e in quel momento il leone dal manto scuro non desiderava che una distrazione piuttosto buona per ritrovare una parvenza di serenità, qualcosa che non avesse nulla a che fare con inutili iene, stupidi pennuti od ostinate leonesse della tempra di Sarabi. 

Proprio quando stava per emettere un ringhio di fastidio, un movimento catturato con la coda dell’occhio nei pressi di una roccia subito fuori dall’entrata della sua tana e una pelliccia dal colore ambrato catturarono la sua attenzione: nessuno dei membri del branco aveva mai passato del tempo in quella parte della Rupe, ed era una delle tante ragioni per cui egli l’aveva sempre amata, o almeno, nessuno che facesse parte delle Pride Lands da molto tempo. Sporse dunque il muso fuori, socchiudendo gli occhi per la forte luce del sole che, come sempre, batteva in picchiata e trovandosi di fronte, con sua momentanea sorpresa, a Zira. La sua presenza, al contrario di quella di Sarafina e delle altre, non gli risultava sgradita, soprattutto perché solitamente essa si traduceva in complimenti e poco trattenuta adulazione nei suoi confronti: ad un anno di distanza dal loro incontro, Scar poteva dire di avere capito molte cose sul suo conto e di averne saputo approfittare altrettanto bene.

A quanto ella gli aveva raccontato, infatti, la sua compagine, di cui aveva sempre fatto parte fin da cucciola, era stata abituata a non avere un regno o un territorio in cui vivere e quindi, da che ella aveva memoria, si erano spostate da una parte all’altra, godendo di una discreta libertà e non curandosi dei confini, finendo quindi, irrimediabilmente, per invadere il territorio allora appartenente al defunto sovrano. Sovrano che, con una mossa politica non particolarmente furba a parere di Scar, aveva imposto loro un bivio, una volta scoperte: vivere definitivamente lì e non oltrepassare più i confini, oppure andarsene, tornando nella parte arida della savana, e non posare più zampa nelle Pride Lands. La scelta era stata quasi obbligata, ma a nessuna di loro era andata a genio questa soluzione, tanto che, alla fine, qualcuna se n’era andata separandosi dalle altre in cerca di miglior fortuna nel giro di pochi giorni: fra di esse c’era stata anche la sorella di Zira, il cui nome, se anche era stato detto, non era stato classificato dalla mente del re come rilevante, e Zira stessa era sul punto di seguirla quando Mufasa era caduto vittima di quel “tragico incidente”, così il secondogenito amava definirlo. La sua visita a lui, dunque, quasi un anno prima, aveva avuto lo scopo di saggiare il terreno nuovo, incuriosita dal cambio di gestione e dall’arrivo delle iene, ma timorosa che anch’egli potesse dimostrarsi come il fratello, troppo rigido e poco condiscendente: non appena il leone aveva capito questo, non era stato difficile fare in modo che ella, insieme al resto delle sue compagne, venissero accontentate nella loro richiesta di libertà, ponendo come unica condizione che ritornassero al calar del sole all’interno dei confini e guadagnandosi, praticamente senza sforzo, l’ammirazione della leonessa. Aveva delle potenzialità, Scar l’aveva subito notato, soprattutto perché il suo carattere, impetuoso ed incline agli eccessi, di entusiasmo o di ira, incuteva particolare timore alle sue seguaci, che la vedevano come leader. C’era un piccolo particolare però: era giovane, non cucciola, certo, ma giovane e come tale facilmente influenzabile. Malgrado la sua apparente indipendenza, infatti, aveva bisogno di qualcuno che la guidasse in modo quasi disperato e forse, anzi, quasi sicuramente, era proprio questo motivo che la spingeva a ricercare la considerazione del sovrano con una lealtà e tenacia impressionante, trascinando con sé il resto del suo branco: era gradevole, per Scar, avere finalmente qualcuno che riconoscesse le sue qualità ed era sicuro che ella gli sarebbe tornata utile un giorno, anche se non sapeva precisamente ancora per cosa.

“Vostra Maestà” la sua suddita si inchinò davanti a lui, in un gesto che gli fece immensamente piacere: se tutti lo avessero trattato con la sua stessa ossequiosità la situazione sarebbe stata alquanto più piacevole da gestire. 

Le rivolse dunque una breve occhiata compiaciuta, prima di tornare a guardare davanti a sé ed assumere il tipico atteggiamento altero che ormai sentiva di potere, dovere, adottare con ogni suo suddito, seppur privo, in quel caso, della traccia di fastidio che caratterizzava il suo muso quando il suo interlocutore era un altro, come ad esempio Zazu o una delle iene.

Rifletté brevemente sulle proprie parole, prima di pronunciarle: “Immagino che la tua presenza qui abbia un motivo ben preciso, Zira” 

Vide i muscoli della sua interlocutrice tendersi impercettibilmente e la mascella indurirsi e concluse che ciò che avrebbe sentito non gli sarebbe piaciuto, o quantomeno l’avrebbe infastidito maggiormente di quanto già non fosse quel giorno: ella non era venuta, come aveva sperato, semplicemente per un’adulazione spicciola, altrimenti non avrebbe adottato quello che da lui era identificato come un assetto da guerra. Aveva un problema di qualche genere e, come tale, probabilmente avrebbe voluto che lui, dall’alto della sua superiorità, autoproclamata e da lei confermata, lo risolvesse.

“Mio Re, come voi ovviamente sapete, noi Outlanders abbiamo ricevuto il permesso di usufruire di alcuni… benefici, in virtù della nostra particolare condizione” La velocità con cui ella parlava, quasi a scatti talvolta, era un altro fattore che contribuiva rendere la sua presenza migliore di quella di Sarabi: non aveva quella flemma, quell’esasperante controllo che Scar faticava ogni volta a scalfire nella passata regina, anzi, era molto semplice solleticare il suo umore, toccando le corde giuste “E fra queste concessioni, c’è quella di poter cacciare e provvedere alla nostra sussistenza in modo più indipendente rispetto al resto del branco”

“Ti prego di venire al punto” voltò il capo lui, con fare vagamente infastidito e un’intonazione abbastanza annoiata nella voce: non serviva che gli ripetesse ciò che già sapeva, ma anzi, che si spiegasse al meglio e si sbrigasse. Aveva già iniziato la mattinata in maniera pessima, non aveva intenzione di peggiorarla ulteriormente.

Zira stava per riprendere la parola, con uno scintillio d’ira negli occhi probabilmente causato dal pensiero del problema presentatosi, quando, da dietro la parete di roccia e lungo uno stretto sentiero, comparve la figura di Sarabi, composta come sempre e solo un incedere maggiormente deciso del passo rivelava uno suo stato d’animo quantomeno non totalmente sereno. Se il conflitto era sorto fra quelle due, il leone prevedeva già che la questione sarebbe diventata alquanto difficoltosa da sbrogliare, ma, tutto sommato e con sua grande sorpresa, il risultato poteva non dispiacergli: sarebbe stata una buona occasione per mettere ancora una volta alla prova la resistenza morale della compagna di Mufasa.

Storse in ogni caso leggermente il muso quando vide che, al suo fianco, stava procedendo il bucero, ancora una volta più interessato a supportare la leonessa piuttosto che prestare il suo dovuto servizio al suo sovrano: era sul punto di domandare alla nuova arrivata il motivo della sua presenza, anche se lo considerava abbastanza ovvio, quando la sua precedente interlocutrice prese la parola, con un tono di voce pericolosamente vicino al ringhio.

“Che sei venuta a fare qui, Sarabi? Non mi sembrava che tu fossi particolarmente interessata all’opinione del nostro re fino a qualche minuto fa”

La risposta arrivò, calma e imperturbabile come sempre “Né a me che tu fossi disposta ad ascoltare secondi pareri, ma a quanto pare abbiamo entrambe cambiato idea”

Scar attirò l’attenzione su di sé, con un paio di colpi di tosse, interrompendo sul nascere una seconda obiezione di Zira che, sapeva conoscendola, sarebbe stata alquanto violenta: le parole non erano mai state il suo forte, preferiva di gran lunga la mera forza bruta, e questo sospettava fosse derivato dal suo passato da vagabonda, ma in ogni caso era una caratteristica che non lo allettava particolarmente. Aveva conosciuto fin troppi individui incapaci di anteporre la lingua alle azioni, come invece lui tendeva a fare, e non aveva bisogno di aggiungerne di nuovi.

Rivolse poi lo sguardo verso di lei, sorridendo in modo quasi mellifluo: “Vorrei capire cosa stia succedendo… è chiedere troppo una veloce spiegazione che riassuma tutta questa confusione?”

“È solo colpa sua se siamo in questa situazione!” la voce del pennuto fece voltare il leone e gli fece affondare gli artigli nella polvere, innervosito: non lo avrebbe certamente lasciato parlare, non se era certo che avrebbe rivoltato la situazione almeno in parte a suo favore. E poi, era più interessato ad ascoltare una sua ammiratrice che due sostenitori del fratello.

“Non mi sembra di avere chiesto la tua opinione, Zazu” disse seccamente, quindi, prima di tornare a rivolgere l’attenzione all’altra, che gli rivolse uno sguardo di gratitudine “Credo sia il momento di cominciare a parlare, Zira” Ed ella non si fece certo pregare oltre.

“Vogliono che la mia squadra di cacciatrici divida il cibo che abbiamo procurato con loro” sputò quindi fuori, con astio “quando era stato già messo in chiaro che la nostra indipendenza comprendeva anche la totale autosufficienza in questo campo”

“Sii ragionevole” Sarabi si intromise, con flemma e apparentemente sicura di sé “la siccità sta allontanando le mandrie e le iene, con la loro ingordigia, certamente non aiutano a provvedere carne abbastanza per tutti: sarebbe più facile se le nostre due compagnie si unissero e…”

“L’unica ragione per cui dici che c’è un problema è che le tue leonesse non sono capaci di trovare le mandrie, cosa in cui invece io, ad esempio, eccello: ti sembrerebbe giusto che io vi ceda qualcosa che ho guadagnato con duro lavoro quando voi non fate assolutamente nulla?” L’atmosfera si stava scaldando piuttosto in fretta e Scar non era sicuro se trovare lo spettacolo un ottimo intrattenimento o un potenziale pericolo.

“Abbiamo semplicemente più componenti da mantenere e dunque la ricerca deve essere fatta più velocemente e con un maggior numero di richieste da soddisfare: non vedo perché le risorse debbano essere sfruttate in maniera parziale quando potremmo unirci. D’altronde, siamo tutti abitanti di queste terre come un unico branco” il sopracciglio della vecchia regina si alzò leggermente “sempre che voi vogliate farne parte”

“Fare parte di qualcosa non significa per forza rinunciare alla propria indipendenza e dover costantemente riparare all’incapacità altrui!” Ecco, forse era il caso di intervenire: i toni si stavano scaldando davvero troppo. Si pose dunque davanti alla sua interlocutrice, che sembrava già pronta a scattare e ad assalire l’altra, bloccando il suo impeto con una semplice occhiata, per gli Antenati, quanto adorava questo tipo di potere!, e scuotendo la testa in un gesto di quasi sorridente sufficienza, si rivolse ad entrambe in contemporanea.

“Calma, calma signore: non vedo davvero la necessità di arrivare allo scontro, quando si può risolvere tutto con facilità” Anche se aveva quasi già preso la decisione su a chi dare ragione ancora prima di sentire cosa avessero da dire, la questione appariva sorprendentemente chiara: certamente non poteva rimangiarsi la parola data alla sua più grande sostenitrice, non se desiderava avere il suo appoggio, adulazione e, soprattutto, incrollabile fedeltà. Sentimenti di ammirazione forti quanto quelli che era sicuro lei provasse nei suoi confronti erano difficili da incrinare, questo era vero, ma era altrettanto vero che non era disposto a farle qualcosa che probabilmente avrebbe visto come un torto; era un concetto basilare della politica, dopotutto: accontentare chi può darti vantaggi e sfruttare quelli acquisiti per mantenere sotto controllo lo scontento. Senza contare che non aveva intenzione di dare ragione a Sarabi, neanche se, cosa che non era assolutamente possibile, egli avesse davvero commesso un’… imprecisione nell’assegnazione dei compiti e mansioni: era il re e come tale lui e lui solo doveva amministrare ciò che avveniva nelle Pride Lands. E lo faceva, lo aveva fatto e avrebbe continuato nello stesso modo.

“Se la legge, ovvero io, ha stabilito una certa disposizione, non vedo perché dovrebbero esserci eccezioni: una regola va sempre rispettata, non sei d’accordo con me, Zira?” Il muso della leonessa si illuminò e perse per qualche secondo la scintilla d’ira che caratterizzava le sue pupille, beandosi di quell’apparente considerazione che il suo sovrano le stava rivolgendo. Dall’altra parte, la passata regina stava assumendo l’espressione lievemente corrucciata che Scar interpretò come arrabbiato sdegno: che cosa avrebbe potuto replicare in ogni caso? Non si era mai opposta alla sua volontà e dubitava che l’avrebbe fatto in quel momento.

“Non puoi davvero essere serio! Siamo in una situazione in bilico: le nostre terre si stanno impoverendo ogni secondo di più, le giovani non hanno cibo a sufficienza, l’acqua scarseggia! Dovrebbe essere un momento per lavorare insieme, non per dividersi ancora di più”

“Io sono al comando, io ho deciso in tal modo: so cosa è meglio per il mio regno ed è quello che sto facendo” la sua voce era fredda e quasi annoiata mentre pronunciava quelle parole, come un mantra ripetuto quasi all’infinito: non serviva che lo rispettasse, solo che gli obbedisse. Stava per aggiungere che se non avevano altro di cui lamentarsi era bene che tutti, Zira compresa, si togliessero di mezzo al più presto, quando un sussurro del bucero lo fece scattare.

“Dubito fortemente che lui sappia cosa stia facendo”

“Cosa hai detto?” ruggì, volgendosi verso di lui con una velocità tale da far emettere all’uccello un sussulto strozzato: poteva tollerare tante cose, ma non che lo si insultasse. Era accaduto per troppo tempo nel passato, davanti o dietro le sue spalle, e non aveva intenzione che capitasse nuovamente.

“N-n-nulla mio Signore assolutamen…”

“Ha detto che non è certo che tu conosca davvero il meglio per le Pride Lands. E anche io penso lo stesso” Le parole di Sarabi lo ghiacciarono nel profondo: che cos’era? Insubordinazione, forse? Dimenticava del branco di iene che controllava e che avrebbe potuto sbranarla se solo lui l’avesse comandato? Ovviamente non l’avrebbe mai fatto, soprattutto perché ella era troppo benvoluta da Sarafina e le altre per rischiare di compromettere la posizione già precaria con la sua morte, ma la minaccia avrebbe dovuto almeno trattenerla dall’assumere un comportamento tanto sfrontato.

Evidentemente, aveva fatto male i suoi calcoli.

“Ti sfido a ripeterlo! Ti sfido ad insultare nuovamente il Nostro Sovrano…” ovviamente l’Outlander si era messa in mezzo, i denti già scoperti e con un ringhio tutto tranne che rassicurante: se da una parte questa sua reattività e indubbia lealtà gli facevano piacere, però, dall’altra lo infastidivano profondamente, almeno in quell’occasione. Era compito suo mettere al proprio posto quei due una volta per tutte e l’avrebbe fatto immediatamente, senza pensarci due volte.

“Tranquilla, Zira, non c’è bisogno di ricorrere alla violenza” le disse dunque, facendole assumere un’espressione confusa per il suo tono apparentemente calmo, prima di rivolgersi di nuovo verso i suoi obiettivi, con un’espressione che intimorì non poco il pennuto, ma che sembrò, ancora una volta, lasciare indifferente la passata regina “È davvero questo il vostro parere, mh?” Girò intorno alla coppia, gli occhi socchiusi e gli artigli che si conficcavano nella polvere ad ogni suo passo “Beh, è un peccato, un peccato davvero” scosse la testa, fingendo rammarico “Ma sembra che siate solo voi ad avere questa opinione… e perciò non vedo come farei costretto a tenerne conto. Come potete osservare ho sudditi a sufficienza pronti a sostenermi” Lanciò un’occhiata a Zira, che la ricambiò con fierezza “Senza contare quelle… centinaia di iene che ho salvato dalla loro misera situazione”

Fissò Sarabi dritto nelle iridi castane, con un sorriso sicuro ed arrogante sul muso “Perciò pensate davvero che mi possa importare?”

“Dovrebbe, se fossi un re giusto qual era Mufasa”

Il paragone. Di nuovo. Quel dannato paragone da cui fuggiva da una vita intera.

Quel nome che continuava ad essere ripetuto come un mantra, sulle bocche di tutti, anche da morto, quando al suo posto ci sarebbe dovuto essere lui. Lui solo! Come potevano ancora una volta ricordare il passato, ricordare un sovrano che non esisteva più, che aveva regnato per troppo poco tempo, ancor meno di Ahadi? Come potevano piegarsi davanti a regole che l’altro aveva stabilito e che presumibilmente erano morte con lui, piegarsi davanti al suo nome in segno reverenziale, ma non davanti al loro attuale e più che legittimo re?

Aveva detto alla leonessa che aveva l’appoggio di tutti tranne che di loro due, ma era una bugia: tutto il branco, quello vecchio, escluse le nuove arrivate, faticava a seguirlo e questa atmosfera di insofferenza, creatasi dal momento esatto in cui era salito al trono, si rifletteva anche sugli altri animali della savana. Se n’era accorto, ma aveva deciso di ignorarlo, di dare il tempo al tempo, di essere paziente esattamente come aveva fatto per gli anni precedenti.

Non lo avevano accettato, non lo avrebbero mai accettato, Scar se ne rese pienamente conto solo in quel momento. L’avrebbero visto solamente come un usurpatore anche se non avevano la minima motivazione per farlo. O meglio, esse c’erano, ma non erano conosciute, quindi equivalevano a nulla.

Ebbene, lo volevano in quel modo? Avevano stabilito che sarebbe stato un re ingiusto e incapace fin dall’inizio, giusto? Un’altra di quelle aspettative, quelle aspettative che erano sempre state opposte per lui ed il fratello e che aveva combattuto tutta la vita per disattendere in positivo.

Forse era bene dare loro quello che desideravano, dopotutto: qualcosa per cui lamentarsi. 

“Mufasa è morto” ringhiò quindi, ad alta voce, non pensato né sussurrato come aveva fatto in altre occasioni e, con quella affermazione, pronunciata per la prima volta con voce fredda e carica di rabbia, senza neanche la preoccupazione di fingere il dolore che la perdita di un parente avrebbe dovuto comportare, riuscì finalmente a smuovere dalla sua posizione Sarabi. Ma si sbagliava, si sbagliava ancora una volta, se pensava che quella fosse l’unica cosa che sarebbe cambiata.

“E, dato che vi aggrada così tanto rimembrare il passato, dato che a quanto pare preferite vivere nel ricordo piuttosto che darvi da fare per migliorare la situazione delle Pride Lands, eccovi la notizia della giornata: potete scegliere. Andatevene da qui e non tornate, ma continuando ad omaggiate il vostro prezioso fantasma, oppure rimanete, ma non azzardatevi mai più a pronunciare quel nome dinnanzi a me!”

Aveva quasi urlato, i suoi muscoli erano in tensione come non gli capitava da anni: non era giusto! Non era giusto che continuassero con quella tortura, che gli facessero continuamente notare quanto quello non dovesse essere il suo posto. Perché lo era, eccome se lo era, se l’era guadagnato, aveva lottato e desiderato molto più duramente di quanto il primogenito avesse mai dovuto fare in tutta la sua vita!

“Non puoi dire sul serio…” la sua interlocutrice era piacevolmente scioccata da quella sua dichiarazione: a quanto pareva, l’aveva sottovalutato nuovamente.

“Oh, eccome se posso, anzi, farete bene, tu e Zazu” rivolse un’occhiata all’uccello, ricomponendosi e con un sorriso di soddisfatta superiorità “ad andare ad avvertire anche le altre di questa nuova legge: non vogliamo che qualcuna delle tue compagne, cara Sarabi, venga esiliata per colpa tua, no?” Prima che qualcuno di loro potesse replicare, e dubitava che avrebbero ritrovato le parole molto presto, dalle espressioni che leggeva sui loro musi, scorse un movimento dietro una roccia, accompagnato dalla comparsa di una pelliccia scura, tendente al nero, e sei paia di zampe: per una volta, pensò compiaciuto, quegli impiastri erano arrivati al momento giusto.
“Shenzi, Banzai, Ed!” li richiamò dunque all’ordine, facendoli uscire allo scoperto “Accompagnate quei due alla Rupe e badate che spargano la notizia in modo sufficientemente rapido!” si girò nuovamente verso i suoi precedenti interlocutori, un sorriso venefico sulle labbra “Sempre che loro non abbiano qualcosa da obiettare in merito” Messa alle strette dalla presenza di tre iene e due leoni evidentemente contro di lei, Sarabi non poté far altro che rimanere in silenzio, senza aggiungere altro, ma non accennando neanche per un secondo ad abbassare gli occhi, mentre Zazu, che continuava a tremare, le si posò sulla groppa, tentando di darsi un contegno.

“Come fatto, capo!” Shenzi aveva, come al solito, un’espressione perplessa, guardando quella strana scena e volgendosi un’ultima volta verso il suo sovrano, prima di seguire la leonessa ed il bucero che si stavano incamminando “Ma di quale notizia state parlando?”

“Ve lo diranno loro lungo la strada” disse il leone, con un moto di stizza: voleva rimanere solo il più in fretta possibile “Ora levatevi di torno”.

Tirando un sospiro di sollievo e al contempo leggermente frustrato, realizzò di avere ancora una compagna al suo fianco, quand’ella gli rivolse la parola, con quel tono come sempre esaltato e carico di ammirazione: “Avete fatto molto bene a trattarli in tal modo: la prossima volta vi porteranno il rispetto che meritate”

Forse qualche ora prima una frase simile l’avrebbe fatto sentire meglio, ma in quel momento non fece che aumentare la sua insoddisfazione: quale miglioramento al suo umore avrebbe potuto dargli una dimostrazione così evidente di piaggeria? Soprattutto se proveniente da qualcuno che non aveva mai davvero conosciuto Mufasa?

“Sì…” le rispose dunque, storcendo il muso e socchiudendo le palpebre “Gradirei essere lasciato solo ora, Zira. Comunica anche al tuo branco quello che ho stabilito” Non servì neanche aggiungere altro, come temeva avrebbe dovuto fare, perché ella, con un senso del tempismo almeno decente, ebbe l’accortezza di non replicare, ma, dopo un sussurrato “come desiderate” si eclissò.

Rimase dunque solo, davanti alla sua tana, con tutto il tempo che potesse volere per pensare. E pensò Scar, pensò a molte cose mentre guardava il sole calare ed infiammare l’orizzonte davanti a lui: rifletté sul suo passato, quei giorni che avrebbe desiderato non avere mai vissuto, quelli tristi ma soprattutto quelli felici, perché così tanto stonavano con il sentimento di odio che provava per coloro che li popolavano, considerò il suo presente, desiderato e conquistato pienamente dopo tanta attesa, che si stava rivelando ancora una volta insoddisfacente, come insoddisfacente era stata tutta la sua vita, e immaginò il futuro, tentando di figurarselo splendente, privo di zone scure o poco piacevoli. 

E soprattutto, in cui fosse del tutto assente quella dannatissima ombra che per anni aveva chiamato fratello.

 

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Capitolo 14
*** Scar. Assume a virtue, if you have it not ***


14. Scar. Assume a virtue, if you have it not

Fuoco. Fuoco ovunque. Questo tutto quello che Scar riusciva a vedere davanti a sé. Ovunque si girasse, per quanto provasse a sforzare la vista, intorno a lui non c’erano che fiamme. Non capiva come potesse essere accaduta una cosa simile, per la verità non sapeva neanche esattamente dove fosse: era tutto talmente rosso… Forse, a qualche metro da lui, poteva esserci la Rupe, ma non avrebbe saputo dirlo con certezza.

Improvvisamente, dietro quel muro incandescente, gli parve di vedere delle figure che si muovevano a scatti, comparendo e scomparendo nel giro di pochi secondi: riconobbe Zazu, quel becco a forma di banana era inconfondibile, Sarabi, Sarafina, o forse era sua figlia, Nala?, si assomigliavano così tanto quelle due, Zira… e poi, proprio quando credeva di essere nuovamente solo, un’ultima immagine gli si presentò davanti, con una violenza e sorprendendolo a tal punto da costringerlo a spiccare un balzo all’indietro, seppur involontariamente.

No! Non era possibile! Mufasa era morto!

Era sicuro di aver inteso male, doveva aver inteso male, eppure, al contrario delle precedenti, quell’ombra non sembrava voler scomparire, ma anzi, si faceva sempre più grande e, se non ci fossero stati nebbia e fumo a fargli bruciare gli occhi, il leone ormai avrebbe potuto distinguere molto più dei suoi semplici lineamenti: scosse la testa, tentando di farlo scomparire, ma sembrava tutto inutile. Sentiva qualcosa di molto simile al panico, un’emozione che non aveva mai provato fino ad allora con quell’intensità, impadronirsi di lui e che diventò ancora più forte quando un ruggito fece tremare la terra, potente quanto quello di Ahadi, quanto quello del defunto fratello, sulla quale dipartita iniziava ad avere qualche dubbio.

Aveva bisogno di aiuto, aveva bisogno di qualcuno che lo tirasse fuori di lì e immediatamente! Ruotò precipitosamente su se stesso, sforzandosi inutilmente di mantenere la calma e chiamando le iene, che, ne era sicuro, sarebbero accorse in fretta e gli avrebbero aperto la strada: non era ancora tutto perduto, doveva solo andarsene, riorganizzarsi e…

La risata dei suoi tre compari gli arrivò alle orecchie, ma era una risata cattiva, ostile, ancora più inquietante di quella in cui scoppiavano di solito e, nel medesimo istante, la figura misteriosa spiccò un balzo, oltrepassando quella barriera che fino ad allora l’aveva tenuta così lontana: l’ultimo barlume di speranza si spense nella sua mente, vedendosi accerchiato, ed iniziò ad arretrare precipitosamente, tentando di mettere più distanza possibile fra lui e il fantasma, perché cosa poteva essere se non uno spirito quello che stava fronteggiando?

Correva, correva, ma si trovava sempre nello stesso punto, con i ghigni di quelli che una volta aveva impropriamente chiamato “amici” costantemente davanti agli occhi e il rumore delle zampe del suo inseguitore sempre più vicine; ad un certo punto, un muro di roccia gli si parò di fronte, costringendolo ad arrestarsi e a voltarsi: si rannicchiò in un angolo, chiuse gli occhi ed aspettò, contando i passi che si susseguivano, sempre più vicini, sempre più vicini…

Scar si svegliò all’improvviso, con il cuore che gli martellava nel petto e la risata delle iene ancora nelle orecchie: per qualche secondo, non riuscì a capire dove effettivamente fosse e quando riconobbe la sua tana, vuota e nella penombra dell’alba, non poté trattenersi dall’emettere un grande sospiro di sollievo, abbassando lo sguardo e socchiudendo le palpebre. Non era la prima volta che aveva simili sogni, ma mai così intensi e, soprattutto, così oscuri; era uno dei motivi, oltre la maggiore privacy e tranquillità, che l’avevano portato a preferire la sua vecchia abitazione rispetto a quella in comune con il resto del branco: non aveva intenzione di apparire codardo, o, ancora peggio, debole, per via di una cosa tanto stupida quanto degli incubi. Neanche se si ripetevano ad intervalli regolari ormai da mesi.

Si alzò in piedi di scatto, scacciando quei pensieri e scuotendosi di dosso il sonno: era certamente colpa della situazione in cui versava il regno se si sentiva così teso. Non pioveva, ancora, ed erano ormai passati due anni abbondanti dalla sua ascesa al trono: ormai non poteva non notare quanta poca erba ci fosse sul terreno, quanti pochi animali circolassero intorno alla Rupe, quanto malcontento regnasse tra i suoi sudditi. Fingeva di non vedere, ovviamente, fingeva di essere superiore e che non gli importasse nulla di quello che avveniva, ma i provvedimenti che aveva dovuto adottare nelle settimane precedenti lasciavano trasparire quello che pensava realmente: non aveva potuto più permettere a Shenzi, Banzai, Ed ed ai loro compagni di continuare ad approvvigionarsi liberamente, non c’era abbastanza cibo per soddisfare la loro fame perenne che, a dispetto delle sue ottimistiche previsioni, non si era affatto placata ed era stato costretto a comandare alle leonesse di ricominciare a provvedere alla carne anche per loro, pensando che un minore afflusso di animali avrebbe potuto rallentare, se non fermare, la crisi: non che gli fosse dispiaciuto in assoluto vedere l’espressione di disappunto sul muso di Sarabi, anzi, aveva deciso che dato che non sarebbe mai riuscito ad avere il suo rispetto avrebbe fatto in modo di costringerla ad obbedire a tutti gli ordini più spiacevoli che potessero venirgli in mente, ma qualcosa gli diceva che neanche quella soluzione sarebbe stata sufficiente.

D’altronde, un giorno o l’altro avrebbe piovuto, ne era certo, non poteva davvero continuare in quella maniera, e allora si sarebbe risolto tutto; non era pensabile non mettere in relazione l’improvvisa siccità con la sua presa di potere e questo lo rendeva ancora più nervoso: non era giusto, non doveva essere giusto, che non appena lui avesse raggiunto il suo obiettivo qualcosa lo mettesse nuovamente in difficoltà. Ma, considerando la situazione, cosa mai avrebbe potuto fare, a parte aspettare?

In un flash, le immagini che fino a qualche minuto prima la sua mente stava creando gli si presentarono nuovamente dinnanzi, facendolo rabbrividire: non aveva mai temuto la morte, o almeno, si era sforzato di non soffermarsi a lungo su un concetto tanto spiacevole, ma in quel momento, con le Pride Lands inevitabilmente impoverite, il tempo che passava, e lui lo sentiva fin troppo bene, e nessun cenno di miglioramento, non poteva che iniziare a considerarla. Non credeva negli Antenati, non credeva nel Cerchio della Vita, non credeva che di lui sarebbe rimasto nulla eccetto che il ricordo una volta che i suoi anni fossero scaduti, e non ignorava che sarebbe successo, per quanto credesse nella propria potenza e superiorità, ed era ben determinato a fare in modo che esso fosse eterno. Però come? Come assicurarsi che il suo nome non perisse con lui, ma rimanesse invece impresso nella mente delle future generazioni?

La risposta era piuttosto ovvia e si profilò nella mente del sovrano con una chiarezza impressionante: doveva trovare una discendenza, qualcuno che proseguisse sulla sua stessa onda e scia la direzione del regno. Si sedette sul terreno, riflettendo attentamente: la questione era facile da identificare, ma non altrettanto da risolvere, principalmente perché avere un erede avrebbe implicitamente significato avere una regina, qualcosa che aveva rapidamente scartato fin dal primo periodo del suo dominio, non tanto perché non fosse una decisione quantomeno logica, quanto perché non concepiva chi potesse davvero adattarsi a stare al suo fianco.

C’erano le Outlanders, ovviamente, che avrebbero immediatamente accettato se solo avesse fatto loro una proposta simile, e sospettava che Zira in particolare si sarebbe offerta volontaria, vista l’adorazione che a quanto pare continuava a nutrire per lui, invariata se non addirittura accresciuta, ma aveva un problema piuttosto grave con questa soluzione: non era affatto sicuro che sarebbe riuscito a volerla come compagna. L’adulazione era piacevole, specialmente per qualcuno che non l’aveva mai ricevuta in tutta la sua vita, e sicuramente Scar era felice che ci fossero sudditi tanto appassionati che fossero disposti a tutto per guadagnarsi una sua parola, un suo gesto, ma erano solo quello: sudditi. Sarebbe stato deprimente ed estremamente insoddisfacente prendere una di loro ed elevarla a regina quando, tutto sommato, non provava interesse o stima, ma anzi, in qualche caso la considerazione che aveva di loro si abbassava fin quasi alla sufficienza. E poi, quella parte del branco non conosceva Mufasa, non era davvero membro delle Pride Lands: se avesse voluto dividere il potere con qualcuno, e anche quello era un grande “se” considerando quanto tenesse alla completezza del suo dominio, sarebbe stato certamente con qualcuno che lo meritava tanto quanto lui.

Dunque il cerchio si era ristretto alle compagne di Sarabi, ma anche quello era fuori questione: senza contare che nessuna di loro avrebbe mai voluto affiancarglisi, e di questo purtroppo era a conoscenza anche senza che una proposta esplicita venisse fatta, ma avrebbe potuto costringerle, in fondo, lui era il sovrano, il pensiero di vivere, seppur per poco tempo e senza risvolti sentimentali di alcun tipo, con una ammiratrice del fratello a cui la sua amministrazione non era riuscita a far cambiare idea lo disgustava alquanto.

Tentando di fare chiarezza nella sua mente, uscì dalla tana, con la luce sole che, appena sorto, iniziava ad illuminare la savana, e, a testa bassa e con una moltitudine di pensieri in testa, iniziò a camminare, senza una precisa meta: era un bene avere un po’ di tempo da solo con se stesso, un periodo che non comprendesse un dialogo con quell’irritante pennuto, con la passata regina o, e questa era una nuova aggiunta, Nala. Se la madre era sempre stata piuttosto remissiva e disposta a seguire la massa, un atteggiamento estremamente utile a parer suo, la figlia non era fatta per nulla della stessa pasta: eccellente cacciatrice, e questo senza dubbio non poteva esserle tolto, non perdeva occasione per schierarsi dalla parte opposta alla sua in qualsiasi decisione venisse presa con una costanza che lui trovava alquanto irritante. E ora che era stato negato loro il buffet completo, anche le iene sembravano meno contente del suo regno: non osavano lamentarsi, ovviamente, non erano così stupide dal mordere la zampa che aveva garantito loro un’esistenza decente per anni, ma rimaneva il fatto che già più di una volta aveva visto sul muso di Shenzi un’espressione che poteva ricondursi all’esasperazione. Aveva tutto sotto controllo, per il momento, ma non era detto che ciò rimanesse immutato in eterno: una discendenza sicura avrebbe aiutato a consolidare la sua posizione, quantomeno sperava che si sarebbero messi una buona volta il cuore in pace vedendo che neanche la sua morte avrebbe cambiato le cose, ma il problema sembrava non avere soluzione.

Scese lentamente dalla Rupe, lanciando un’occhiata di sbieco al panorama che si gustava dalla cima e digrignando i denti alla vista di quanta desolazione, quanta povertà si stesse spandendo a macchia d’olio sui suoi domini; era a lui che davano la colpa, anche se non ne aveva alcuna: era la siccità, la siccità alimentata dall’ingordigia delle sue “guardie del corpo”, che probabilmente non dava una ragione in più agli altri animali per restare in un luogo già gravemente danneggiato dalla mancanza d’acqua. E così se ne andavano, una scelta che, per quanto accolta da fastidio e nervosismo da parte sua, non poteva che trovare logica: anche lui avrebbe fatto una cosa simile se non fosse stato Re del branco, ma proprio la sua posizione e lo scopo che si era posto anni prima erano i motivi che lo trattenevano ancora più fermamente dal prestare ascolto alle voci che, sempre più forti, stavano chiedendo una migrazione.

Se avessero lasciato le Pride Lands, questo avrebbe significato non solo il suo fallimento, assolutamente inconcepibile, ma anche che quelle terre, floride e rigogliose un tempo, sarebbero per sempre appartenute al fratello e che le storie che sarebbero state raccontate a proposito di esse, quei racconti carichi di nostalgia di un tempo passato che lui aveva desiderato ardentemente venissero associati alla sua figura, sarebbero invece state permeate dalla presenza di Mufasa. Meglio la morte che una cosa simile.

Pensando e ripensando, era giunto ai piedi della Rupe, nei pressi della grotta dove, separate dalle altre, vivevano Zira e le sue compagne: non sapeva esattamente il motivo che lo aveva spinto a ritrovarsi in quel punto, ma d’altronde un luogo valeva l’altro. Appena la sua figura venne avvistata dalle abitanti della tana, un paio di leonesse uscirono allo scoperto, tutte con lo stesso muso appuntito della loro leader, precedute ovviamente da quest’ultima, che si inchinò, ossequiosa, davanti a lui, facendogli riguadagnare, almeno per qualche secondo, una parvenza di buon umore.

Non le considerava alla sua altezza, ed era molto difficile in effetti trovare qualcuno che egli pensasse come tale, ma erano piuttosto soddisfacenti da osservare, specialmente se in contrapposizione alle fosche riflessioni che animavano la sua mente in quel periodo.

“Vostra Maestà, è un onore avervi presente qui, specialmente dato che non ci avevate avvertito della vostra visita” Stava per rispondere una qualche frase di circostanza sul fatto di essere solamente di passaggio e di voler essere lasciato in pace possibilmente per un tempo indefinito, quando due cuccioli uscirono dalla grotta, rincorrendosi e infilandosi fra le zampe di Zira, non badando affatto alla sua presenza in un modo che egli considerò alquanto poco rispettoso. Evidentemente, anche la sua interlocutrice dovette avere la stessa realizzazione.

“Nuka! Vitani! Smettetela di comportarvi da idioti! Siete al cospetto del vostro re!” Solo in quel momento i due sembrarono accorgersi della quarta presenza in quel quadretto familiare, tanto che la più giovane, la femmina dal manto chiaro color miele e dagli occhi azzurri, che a dispetto della sua età aveva atterrato il suo compagno di giochi, scese da quest’ultimo e si pose, seduta, davanti a Scar, guardandolo con due occhi sgranati ed estremamente curiosi. L’altro, invece, con la pelliccia maggiormente chiara tanto quasi da confondersi con la polvere e la terra, rimase nella stessa posizione, con lo sguardo intontito e l’espressione perplessa.

“Un genio davvero” pensò sarcastico il leone dal manto scuro, lanciando un’occhiata veloce ad entrambi e poi una non più lenta a quella che, evidentemente, doveva essere la madre: non era una novità che una delle Outlanders avesse dei figli, d’altronde la loro libertà e raggio di azione avevano altri vantaggi a parte la caccia, ma lui non aveva mai voluto sapere nulla di loro. Erano lì, considerava alla lontana la loro presenza, pur senza interessarsene: non era affar suo quello che facevano lontano dalle Pride Lands, fintanto che questo non avesse compromesso il suo regno.

“Vi sembra questa la maniera di presentarvi? Speravo almeno che faceste una buona impressione…” L’adulta scosse la testa, per poi rivolgersi al sovrano, con un tono di accorata scusa e profonda costernazione “Mi scuso per questa scena, davvero, io avevo stabilito che badassero al loro fratello” L’ultima affermazione era stata quasi un ringhio indirizzato al maggiore, che, ritrovato un briciolo di intelletto, si alzò in piedi, continuando ad ignorare Scar, che iniziava a sentirsi molto più che innervosito da quella scena e stava per andarsene, non volendo passare ancora del tempo con quelle presenze che, gli era bastato poco per capirlo, non brillavano certo per ingegno.

“Non è colpa nostra, mamma! Kovu non fa altro che fissarci! È così noioso!”

Non fu tanto l’affermazione del piccolo a fargli cambiare idea e a far sollevare il suo sopracciglio sinistro con meraviglia, quanto il nome che sentì pronunciare: Kovu*. Davvero troppo strano perché potesse essere una coincidenza e, se anche lo era, di sicuro era alquanto piacevole.

Zira dovette notare l’espressione vagamente sorpresa sul muso del suo sovrano, perché abbassò lo sguardo, lievemente imbarazzata e dimentica per un momento del figlio degenere, che risultò molto grato per l’improvvisa e insperata distrazione, approfittandone per filarsela e trascinarsi dietro Vitani.

“Avrei voluto che faceste la loro conoscenza in un altro momento, davvero, solitamente non sono così rumorosi…” Ne dubitava fortemente, ma lasciò che continuasse: era incuriosito, anche se non l’avrebbe mai ammesso, da quella situazione e aveva la vaga idea che sarebbe giunto qualcosa di buono dall’incontro, seppur inaspettato. Sembrava comunque che ella non avesse intenzione di continuare il discorso e che non sarebbe mai arrivata al punto che invece lo intrigava: con un grandissimo sforzo di volontà per quello che gli sembrava una dimostrazione eccessiva di interesse, perciò, si ritrovò a prendere lui stesso il controllo della conversazione.

“Da questo deduco che ci sia una terza… parte rimasta priva di presentazione, giusto?” Non l’aveva neanche guardata mentre diceva quelle parole, concentrando lo sguardo sulla sua sinistra per non attribuire troppa importanza alla frase, ma a quanto pare bastò perché la leonessa saltasse quasi sull’attenti, fulminata da quell’inaspettata richiesta. Perché era una richiesta quella di Scar, una richiesta come quelle che lui era solito fare: silenziosa, pacata, apparentemente casuale e priva di importanza, ma che sapeva imporsi nella mente del suo ascoltatore. D’altronde, era così che aveva irretito le iene tempo addietro ed era così che continua ad affascinare i suoi proseliti: un piccolo, discreto, invisibile passo alla volta.

“Oh, sì! Sì, ovviamente, Mio Signore!” Ella scomparì immediatamente, per tornare qualche secondo dopo con un fagottino minuscolo fra le fauci, preso delicatamente per la collottola: era piccolissimo, non poteva avere più di qualche giorno di vita, e teneva gli occhi chiusi, probabilmente assopito, ma quello che colpì il leone fu il colore del suo manto. Scuro, più scuro del suo ad un primo sguardo. Non aveva mai visto un colore simile, neanche Uru, neanche sua madre, era così. Si chiese da chi avesse preso quella caratteristica.

Zira appoggiò il figlio per terra con una delicatezza che non aveva dimostrato mai per niente e per nessuno e che Scar trovò quasi contraddittoria con la sua personalità, ma in fondo non si era mai dato più di tanta pena per conoscerla, quindi non poteva esserne sicuro. Si avvicinò di qualche passo alla palla di pelo, mantenendo sempre e comunque il suo atteggiamento altero ed osservò con distacco il muso della madre che scuoteva dolcemente il leoncino per svegliarlo. Quando questo avvenne, l’espressione del sovrano mutò radicalmente per lo stupore: aveva sempre creduto di essere l’unico con gli occhi verdi, e che questo sarebbe rimasto invariato negli anni, ma ciò che aveva davanti in quel momento provava il contrario. Le iridi che stava fissando e che, incredibilmente, sembravano ricambiare il suo sguardo con un’espressione curiosa, avevano la stessa esatta sfumatura smeraldina che aveva notato fin da piccolo quando si specchiava nelle pozze d’acqua, quello stesso colore tanto particolare, tanto unico, che aveva contribuito a farlo sentire costantemente diverso dagli altri. Era strano, anzi, quasi paranormale, vedere la sua principale caratteristica ora trasferita sul muso di un cucciolo, ancora di più se quel cucciolo aveva un ciuffo nero al termine della coda e una pelliccia bruna, di una sfumatura che si differenziava da quelle prima di allora comunemente viste. Per un attimo, ma solo per un attimo, perché lui era Scar, e Scar non cedeva ai sentimentalismi né tantomeno ad emozioni improvvisi, perché il suo ruolo era quello dell’essere freddo e logico e non poteva avere reazioni simile, quello era il compito dei deboli al pari di Mufasa, rivide se stesso: fratello minore, piccolo, strano, giudicato noioso per la predilezione del pensiero piuttosto che dell’azione.

Ora capiva il motivo per cui sua madre lo avesse chiamato con quel nome.

Si riscosse dopo appena qualche secondo, storcendo vagamente il muso per quelle considerazioni assolutamente fuori luogo e che non gli appartenevano sicuramente, rivolgendo poi uno sguardo più tecnico e calcolatore al micetto davanti a lui e trovando una risposta al problema che si era presentato quella mattina: nessuna regina, nessuna compagna dall’irritante presenza pronta a dividere il potere da lui unicamente meritato, ed eppure ecco che si presentava la possibilità di avere un erede che gli somigliasse e che, opportunamente indirizzato ed addestrato, seguisse le sue orme. Era certo che fosse la soluzione migliore, per lui e anche per la leonessa a cui avrebbe comunicato la sua decisione: non avrebbe potuto rifiutargli una cosa simile, conoscendola.

“Allora, Vostra Altezza? Cosa ne pensate?” Come pensava, anche in questo caso Zira aveva bisogno del suo giudizio, ma in quel momento, più che fargli piacere o innervosirlo, trovava la sua dipendenza piuttosto utile da sfruttare. Aveva avuto ragione, dunque, quando l’aveva conosciuta: sarebbe servita a qualcosa nel futuro.

“C’era un motivo per cui ero venuto nei dintorni del tuo branco” rispose, aggirando momentaneamente la domanda e dandole le spalle “Stavo valutando la possibilità di avere una discendenza, insomma, qualcuno che continuasse il mio regno in mia vece alla mia morte” E, per qualche motivo, pronunciare quella parole gli diede l’impressione che quel momento sarebbe venuto prima di quanto avesse voluto. Scacciando quella sensazione, si rivolse verso di lei, voltandosi di quarantacinque gradi, con un sorriso soddisfatto sulle labbra “E credo che potrei averlo trovato”. 

Il silenzio che seguì per qualche secondo fece quasi pensare a Scar che le sue previsioni sarebbero state disattese e che sarebbe andato incontro ad un secco rifiuto da parte della madre, cosa piuttosto insolita e che in ogni caso non l’avrebbe fermato, semmai avrebbe reso solo più lunga la conversazione, ma, proprio quando iniziava a spazientirsi e pensava di esigere una risposta, Zira scattò in piedi dalla posizione seduta che aveva assunto e, con un’espressione ancora più fanatica del solito, iniziò a felicitarsi e acclamare la decisione del proprio re.

“Oh, Mio Signore, Mio Signore per me è un grandissimo onore! Avere uno dei miei figli come successore al trono sarebbe… anzi, sarà magnifico! Vi assicuro che non vi deluderà: è molto piccolo, ma intelligente, sì, alquanto intelligente e farò in modo che cresca esattamente come un sovrano” Fu grato che la dichiarazione di voler in qualche maniera “adottare” quella palla di pelo non avesse messo strane idee nella testa della leonessa come la possibilità di diventare regina: era talmente emozionata che quel pensiero non le si era neanche affacciato e il leone aveva tutte le intenzioni di fare in modo che in quel modo la questione rimanesse, tanto più che non considerava neanche un’opzione l’avere a che fare direttamente con Kovu fino a che non fosse diventato almeno decentemente grande.

Non era un padre e non lo sarebbe mai diventato.

“Spero lo stesso anche io” Aveva deciso che il colloquio era terminato, tanto più che, con lo stato d’animo risollevato ed il mattino inoltrato, poteva benissimo tornare a rivolgere le sue attenzioni alle questioni regali che sicuramente gli sarebbero state poste: si iniziò dunque ad avviare verso la Rupe, aggiungendo ancora, ad una Zira assolutamente in visibilio, che sarebbe tornato dopo un quattro lune circa ad osservare i progressi del piccolo, sempre che ce ne fossero stati.

Riprese poi a camminare, soddisfatto della sua decisione e determinato a comunicarla di persona a Sarabi, solamente per vedere l’espressione che il suo muso avrebbe assunto quando finalmente si sarebbe resa conto che il suo regno non sarebbe culminato con la sua dipartita: che sperasse, che pregasse quanto voleva i suoi preziosi Antenati, ma la realtà era che lui e solo lui avrebbe avuto potere di vita e di morte sulle Pride Lands ancora per molto tempo. Avrebbe invece delegato a Zazu il compito di spargere la notizia fra tutto il resto dei suoi sudditi.

E, a proposito di Zazu, il suo rinnovato buon umore, una punta di sadismo e la necessità improvvisa di un intrattenimento di qualche tipo con cui passare le ore e i giorni che sarebbero seguiti, gli suggerì una maniera piuttosto divertente per sfruttare il bucero, una volta maggiordomo, in quel momento molto più schiavo, e le sue doti canore.

 

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Capitolo 15
*** Scar. Tis the times' plague, when madmen lead the blind ***


15. Scar. Tis the times' plague, when madmen lead the blind

Con sua grande sorpresa, dopo quel giorno di un mese prima gli incubi erano cessati: niente più fuoco, niente più iene e, soprattutto, niente più Mufasa. Sarebbe dovuto esserne felice e sollevato ed in un certo senso lo era, sicuramente preferiva svegliarsi dopo un sonno leggero e privo di immagini ad infastidirlo al batticuore che lo aveva accompagnato fino ad allora, ma qualcosa dentro di lui, che si poteva benissimo ricondurre o ad un sesto senso o ad una paranoia crescente, gli suggeriva che potesse essere esclusivamente la calma prima della tempesta.

Parlando di tempesta, era possibile che quello fosse il giorno buono per un poco di pioggia, finalmente: il sole non splendeva, e quella non era una novità, specialmente nell’ultimo periodo ove quasi sempre c’era una nebbia ed un’atmosfera funerea ovunque nel regno, ma ciò si accompagnava ad una nuvola scura che, gradualmente, si stava avvicinando dai confini verso la Rupe dei Re. Non che a Scar importasse, ormai: aveva deciso che avrebbe atteso lo svilupparsi degli eventi e si sarebbe messo l’anima in pace, anche se in realtà non se n’era mai preoccupato più di tanto. Sarebbe arrivato un temporale? Bene, meglio. Non sarebbe arrivato? Sarebbero andati avanti lo stesso, esattamente come avanti erano andati per quei due anni e mezzo.

Determinato dunque a non lasciarsi abbattere dall’aria tetra che dominava i suoi possedimenti e a vedere il lato positivo della situazione, sempre che ce ne fosse uno, trascorreva sempre più tempo nella sua tana, in modo tale da non dover incappare negli sguardi di disapprovazione delle leonesse, tra le quali, fortunatamente, non compariva più Nala. Non sapeva se questo fosse dovuto ad un incidente durante la caccia, ma ne dubitava, visto che nessuna sembrava particolarmente in pena per lei, o se semplicemente avesse deciso di andarsene, abbandonando la propria famiglia ed il proprio branco, e men che meno gli interessava: aveva la convinzione, infatti, che probabilmente sarebbe morta nel giro di pochi giorni, sola, senza nessuno, lei che era abituata ad avere sempre delle compagne su cui contare.

In ogni caso, la questione che trovava più importante in quel momento era quella del suo intrattenimento personale, di scarsissimo livello a causa della sua reclusione, più o meno volontaria, nella grotta: aveva perciò stabilito, come regola, come legge e non come semplice casualità, che proprio Zazu provvedesse al suo divertimento, facendo finalmente sfoggio utilmente delle sue strabilianti doti canore ormai non più adibite all’enunciazione del rapporto del mattino, abolito fin dai suoi primi mesi come sovrano. E d’altronde, ci sarebbe stato ben poco da segnalare anche se avesse potuto continuare: si sa bene che gli scheletri e gli arbusti morti non sono particolarmente facili da mettere in rima in modo interessante.

Il suo buonumore, dunque, tentava di rimanere invariato mentre, circondato da vari scheletri e crani di animali morti, perfettamente in linea con l’aspetto che le Pride Lands avevano adottato, stava disteso supino su un incavo della roccia, cercando di non deprimersi sentendo la canzone che il bucero stava intonando, con una voce che avrebbe fatto deprimere anche una iena.

“Dolore e lacrime io devo patire e solo il bluse mi salverà…” Dopo quell’ultima strofa, che toccava il fondo nel pessimismo cosmico che sembrava dominare la mente dell’uccello, Scar si stufò di ascoltare quella lagna e, allontanando per un attimo dalle fauci l’osso che stava usando come stuzzicadenti, lanciò uno sguardo verso la gabbia toracica in cui aveva infilato il suo intrattenitore personale affinché non scappasse. Alzò poi gli occhi al cielo e, tirando con nonchalance e una mira impeccabile ciò che aveva tra le zampe a pochi millimetri dalla testa dell’altro, emise un sospiro annoiato.

“Oh, Zazu, su con la vita!” Un sorriso divertito gli passò tra le zanne “Canta qualcosa di… un po’ più brillante, d’accordo?” Finse di ignorare l’occhiata contrariata che gli venne lanciata, solo per scattare stizzito ed irritato quando le note di “È un mondo piccolo” risuonarono nella tana: aveva sempre detestato quella canzone fin da piccolo, quando la sentiva come un ritornello infinito uscire dalla bocca di Mufasa. E certamente il fatto che il fratello sembrasse adorarla non contribuiva ad attribuirle dei punti.

“No, no! Qualunque cosa tranne questa!” Incominciava quasi a rimpiangere la nenia che fino a poco prima gli aveva fatto sanguinare le orecchie quando, per fortuna sua ma soprattutto dell’uccello, che sarebbe sicuramente andato incontro a seri guai se non avesse obbedito al suo ordine in maniera soddisfacente, quello iniziò ad intonare un ritornello alquanto più divertente:

“Ho tante noci di cocco splendide, tutte in fila per tre per tre per tre! Grandi, grosse anche più grandi di te!” Scuotendo la testa e tenendo il ritmo, il leone prese con un unghia un teschio che si trovava proprio al suo fianco ed iniziò a scuoterlo, facendogli chiudere ed aprire la mandibola, seguendo l’andamento della canzoncina. Canzoncina che, con suo grande disappunto, si interruppe quasi subito per lasciare spazio ad un commento la cui tipologia egli sperava di avere eliminato già molto tempo addietro.

“Oh, questo Mufasa non me l’avrebbe mai chiesto!” Non era neanche un insulto, detto con odio e in un momento di rabbia particolarmente acuto, qualcosa che comunque non avrebbe potuto sopportare, ma che in ogni caso sarebbe stato meglio di quello che stava ricevendo: una constatazione. Una constatazione detta con fastidio e irritata rassegnazione.

Come si permetteva quel pennuto, quella nullità, di fare commenti simili nella sua posizione? Come si permetteva di metterlo ancora a confronto con l’altro? Ne aveva abbastanza di quello che gli altri potevano pensare! Quello era il passato, il fratello non era altro che il passato! Perché nessuno sembrava capirlo? Aveva forse dimenticato di chi dovesse ricercare l’approvazione? Chi dovesse temere? Avrebbe fatto in modo di ricordarglielo immediatamente.

“Cosa? Che cosa hai detto?” Neanche la reazione di Zazu, che, intimorito, si appiattì contro la parete poté soddisfarlo, tanto da spingerlo a ringhiare perfino più forte, facendo passare il muso fra le ossa in cui il suo servo era rinchiuso, nell’improvviso tentativo di azzannarlo “Conosci la legge! Non mi bisogna mai pronunciare quel nome in mia presenza! Io sono il re!”

Non avrebbe mai pensato che quelle parole gli sarebbero potute suonare stomachevoli, che sarebbe giunto il momento in cui proclamare di essere sovrano non gli avrebbe più dato soddisfazione, eppure… eppure perché si sentiva quasi nauseato ripetendolo per l’ennesima volta a qualcuno che evidentemente mai ci aveva creduto? E le stava davvero urlando al bucero, o forse più a se stesso? Pensieri che svanirono in un lampo, quasi senza venire messi a fuoco, quando l’altro, piegato dal quella furia improvvisa, si ritrovò a balbettare delle scuse che quantomeno lo tranquillizzarono momentaneamente, pur lasciandogli in bocca un retrogusto abbastanza amaro.

“Certo, Sire, voi siete il re! Io l’ho solo nominato per illustrare le differenze nel vostro sistema… manageriale” Non aveva ancora finito con lui, e sospettava che non avrebbe finito fintanto che le sue piume non si sarebbero macchiate di sangue se la situazione avesse seguitato a procedere in tal modo, quando sentì una voce tristemente nota che lo chiamava.

“Ehi, capo!” Irritato, e anche rassegnato alle brutte notizie che gli sarebbero arrivate, perché da un po’ di tempo a quella parte pessimi resoconti era tutto ciò che riusciva ad ottenere, con un deja-vu che gli ricordava pesantemente i suoi anni prima della successione al trono, si girò verso l’entrata della caverna, senza togliere però la zampa dalla gabbia toracica e quindi non alleviando la sensazione di pericolo che Zazu doveva star provando.

“Oh, che cosa c’è adesso?” Davanti a lui, come aveva immaginato a malincuore, stavano entrando nella tana Shenzi, Ed e Banzai, quest’ultimo, in particolare, con un’espressione talmente nera da potersi confondere con le cupe nubi che vorticavano ormai da ore sulla Rupe dei Re.

“Qui la questione è ridotta all’osso” iniziò la iena, prima di venire interrotta subito dalla sorella, che, con l’aria di avere perfettamente sotto controllo la situazione, si rivolse prima a lui e poi al sovrano davanti a loro.

“Me ne occupo io. Scar? Non c’è più né cibo né acqua” Era un’affermazione talmente scontata che il loro interlocutore alzò gli occhi al cielo, domandandosi se davvero erano così stupidi da pensare che lui non si fosse accorto delle condizioni in cui versava il suo regno. E poi “Non c’è più” era un’esagerazione, non poteva che esserlo: da qualche parte, anche in piccole dosi, doveva pur rimanere qualche gnu solitario o una piccola pozza. O no?

“Già! È ora di cena e non c’è neanche un osso da rosicchiare!” Ovviamente l’unica preoccupazione di quell’ammasso di idioti era lo stomaco, e quella non era una novità; quello che davvero innervosiva il leone era che si presentassero al suo cospetto per questioni simili: credevano davvero che avrebbe agitato una zampa e davanti a loro per magia si sarebbe materializzato un cosciotto di zebra? Non stava a lui cacciare, non era un suo problema né lo era mai stato: certo, se le altre componenti del branco avessero fatto il loro lavoro il problema non si sarebbe neppure posto.

“Sapete che spetta alle leonesse il compito di cacciare” disse, con un’aria quasi stanca e al contempo terribilmente annoiata dalla situazione che si stava presentando “Io non…”

“Ma non vanno a cacciare!” Già, quella nuova moda dell’insubordinazione, che a quanto pare si stava diffondendo tra i suoi sudditi grazie alla combinazione degli sforzi di Sarabi e della possibilmente deceduta Nala, non gli era nuova e contava di prendere provvedimenti al più presto, oppure di non prenderne affatto e aspettare quello che il cielo avesse in serbo per la savana, possibilmente pioggia, ma in quel momento non gli importava assolutamente nulla né del cibo né di qualsiasi altro problema: come sempre era accaduto e come sempre più spesso accadeva, sentiva come unico desiderio quello di passare il più possibile tempo da solo. Pensò quindi bene di concludere la discussione con una concessione infastidita e priva di interesse, mirata esclusivamente ad un contentino veloce e di poco conto.

“Oh, mangiate Zazu!” Effettivamente non vedeva più l’utilità di quel pennuto da mesi ormai, senza contare che era nient’altro che una bocca in più da sfamare, una bocca insolente ed irrispettosa da sfamare. La soluzione non sembrò dispiacere troppo ai suoi seguaci, ma non entusiasmò neanche troppo il diretto interessato che, emerso dalla condizione di saggio silenzio in cui aveva deciso di mantenersi per evitare di ricordare al re la sua presenza, si affrettò a difendersi nel modo migliore che poté.

“Non vorrete davvero mangiarmi! La mia carne è dura, filacciosa, bleah” Per qualche ragione, la vista del passato galoppino del fratello che si denigrava in quel modo risollevò, anche se di poco, l’umore di Scar che, ancora più convinto della sua scelta, si affrettò a replicare con complimenti spinti da una vena piuttosto sadica e dalla speranza di poter accontentare con un sacrificio praticamente nullo i tre che gli stavano a fianco.

“Su, Zazu non essere ridicolo!” ridacchiò quindi, voltando la schiena al quartetto, compiaciuto per la soluzione da lui trovata “Basterà aggiungere un po’ di…”

“Ed io che credevo che le cose andassero male sotto Mufasa”

Anche loro. Anche quegli ingrati, dopo tutto quello che aveva fatto per loro si azzardavano a fare un commento simile, loro che per anni avevano sfruttato le risorse del regno, loro che non erano altro che miserabili parassiti che grazie a lui avevano finalmente potuto godere di un po’ di libertà dopo anni di sofferenza. Anche loro osavano rimpiangere il regno passato. E quel che era peggio, osavano rimpiangerlo in sua presenza. La sensazione di nausea che aveva iniziato a provare poco prima era tornata ad assalirlo prepotente, unita ad una enorme scarica di bile, che lo fece girare in modo fulmineo e guardare dritto negli occhi Banzai, colpevole di quell’affermazione così oscena.

“Che cosa hai detto?” lo sfidò dunque a ripetere, giusto per mettere in chiaro come stessero le cose e come i pensieri dovessero essere accuratamente filtrati prima di uscire dalla bocca: evidentemente questo avvertimento non dovette essere recepito dal latitante cervello della iena che, dando prova ancora una volta della sua idiozia, stava per ripetere le stesse parole, venendo interrotto fortunatamente da una gomitata provvidenziale della sorella, che gli fece comprendere quanto stesse rischiando. Con un sorriso teso ed una risata forzata, dunque, si affrettò a correggere il tiro:

“Ho detto ¿Que pasa?”

“Bene” Disse seccamente Scar, gli artigli che si conficcavano nella terra per il nervoso che quella conversazione gli stava procurando “E ora sparite!” Li vide correre via con la coda fra le gambe, spaventati ed insoddisfatti, non prima di avere ribadito ancora una volta quanto affamati fossero, e, dopo che furono spariti dalla sua vista, si affrettò a lasciare a sua volta la grotta, non sopportando più di rimanere il quel luogo ma senza alcuna intenzione di liberare il bucero: che ammuffisse pure in quella vecchia carcassa.

Si guardò intorno per qualche secondo, per poi decidere di prendere uno stretto passaggio nella roccia, talmente stretto che solo lui, con il suo fisico asciutto, quasi emaciato, poteva percorrerlo senza il rischio di rimanere incastrato o intrappolato: era il luogo ideale per riflettere senza che terze parti lo andassero ad importunare in momenti inopportuni, come spesso sovente accadeva. Le parole pronunciate poco prima in ogni caso continuavano a turbinargli nella mente e a fargli digrignare i denti per lo sforzo di controllarsi e non cedere ad un attacco d’ira: “Bene” aveva detto, ma nulla andava bene. Nulla di nulla. La savana stava morendo, gli animali erano presenti solo in forma di scheletri ed ossa, l’acqua era un lontano ricordo e, cosa peggiore di tutte, sembrava che ogni sua deliberazione venisse compensata esclusivamente con insulti a bassa voce, malcelata disapprovazione e sognanti commenti riguardo ad una fantomatica età d’oro passata.

L’età di suo fratello.

Come poteva il fantasma di Mufasa continuare a tormentarlo a più di due anni e mezzo dalla sua morte? Avrebbe dovuto scomparire per sempre dalla sua vita con quel giorno, quel bellissimo giorno che era culminato con la corsa degli gnu, la fuga della sua discendenza, il suo funerale e invece Scar lo rivedeva continuamente. Lo rivedeva nella pioggia che non cadeva, nel caldo che malgrado tutto non diminuiva, nelle occhiate che gli venivano rivolte in cui tutto c’era tranne che il rispetto che si dovrebbe convenire ad un re

Inizialmente non l’aveva neanche cercato, sicuro che, come per le generazioni passate prima di lui, anche nel suo caso si sarebbe riuscito a conquistare la deferenza del branco, e forse non gli era importato neanche più di tanto, tutto preso com’era a godere della sua nuova posizione e, soprattutto, dell’assenza materiale del fratello, ma in quel momento non poteva che sentirsi frustrato: era circondato da idioti, idioti ostinati, come nel caso di Sarabi, idioti ossequiosi, le Outlanders, o semplicemente completi idioti, chiaro riferimento alle iene. Nessuno di loro era il tipo di suddito che avrebbe voluto, tutti peccavano di qualcosa: c’era l’obbedienza, ovviamente, i pezzi della sua macchinazione si erano incastrati talmente bene da assicurargli il completo controllo su tutto e su tutti, ma era un’obbedienza spicciola, quasi vuota, e malgrado riconoscesse che alla fine era meglio che niente, almeno in qualche caso riusciva ad ottenere paura, di malavoglia la sua mente tornava indietro nel tempo, confrontava ciò che lui aveva ottenuto con quello che Ahadi aveva avuto e non poteva che digrignare i denti per la bile che quella indubbia differenza gli procurava. Voleva l’ammirazione, voleva gli onori, voleva che il suo nome venisse sussurrato con deferenza oppure acclamato a gran voce! Eppure si ritrovava con un paio di scheletri, due piante bruciate e infinite paia d’occhi severi che lo squadravano con disapprovazione: se nei primi mesi quell’atteggiamento l’aveva quasi divertito e la sensazione di poter disporre di loro a suo piacimento, costringendoli anche ad azioni che non avrebbero voluto fare, era stata parecchio inebriante, in quel momento avrebbe davvero gradito che dai loro musi cadessero le espressioni cupe e restie che chiunque sembrava rivolgergli.

Era il re, continuava a ripetersi ogni giorno in una cantilena che aveva quasi finito per annoiarlo, il re della savana, il re di tutto quello che poteva immaginare. Ma quel tutto aveva il sapore del niente in quel momento, niente che gli potesse portare un briciolo di sollievo. Non avrebbe scambiato la sua posizione con nient’altro al mondo, dopotutto era quello che aveva sempre sognato, ma al contempo continuava a sentirsi frustrato, un sentimento che anni prima sperava sarebbe finalmente scomparso una volta che Mufasa fosse morto e non ci fosse più stato motivo di ricordargli continuamente quanto il primogenito fosse migliore di lui. E forse proprio quello era il problema: del fratello non era rimasto nulla, nulla se non il ricordo, ma era un ricordo talmente luminoso da oscurarlo in vita ancora una volta.

Il pensiero delle iene e della loro continua fame, venutogli improvvisamente in mente, gli fece decidere di tornare davanti alla Rupe, per convocare Sarabi e vedere esattamente quanto la situazione fosse come l’aveva dipinta: sarebbe stata capace di dichiarare il falso pur di non aiutarlo. Ma, prima di fare ciò, lanciò ancora una occhiata al panorama davanti a sé, imponente e macabramente poetico a parer suo, pur nella sua distruzione, e si ripromise, giurò, che in un modo o nell’altro la memoria dei Grandi Re del passato l’avrebbe incluso molto presto o, se avesse continuato a disdegnarlo, sarebbero tutti periti con lui.

“Sarabi!” ruggì dunque, una volta giunto davanti al branco di iene, chiamandola da lui. Anche la sua camminata riuscì ad innervosirlo, così composta, sicura, priva di qualsiasi segno di cedimento di fronte alle iene che facevano segno di morderla e sbeffeggiarla: il suo muso era sempre quello, lo era sempre stato, e averle tolto il sorriso che una volta la presenza del fratello le procurava non era abbastanza. Come probabilmente tutto quello che aveva fatto nella vita non lo era stato.

“Sì, Scar?” era una domanda annoiata quella che gli veniva rivolta, obbediente di malavoglia e al contempo seccata, che lo fece innervosire ulteriormente e lo spinse ad adottare un tono di voce ancora più duro.
“Dov’è la tua squadra di cacciatrici? Non stanno facendo il loro lavoro!” Le diede la schiena, camminando avanti e indietro sul posto ed attendendo una risposta.

“Scar, non c’è più cibo: le mandrie si sono spostate” Per quanto la situazione potesse essere critica, non era possibile che fosse così critica quanto ella la dipingeva: qualcosa doveva pur essere ancora a disposizione e, se non fossero state prese a tal punto a lamentarsi, probabilmente l’avrebbero anche trovato.

“No! Non si stanno impegnando abbastanza!” Il pensiero che effettivamente la desolazione delle Pride Lands fosse totale era stato preso in considerazione, ma aveva già scartato tutte le manovre estreme che questo avrebbe comportato: l’unica rimasta era rimanere lì, in attesa di qualcosa, ed era sicuro che quel qualcosa sarebbe arrivato, prima o poi.

“È finita” gli rispose lei, scandendo bene le parole “non è rimasto più nulla, ormai non abbiamo altra scelta: dobbiamo lasciare la Rupe dei Re” Ed ecco la soluzione che lui odiava più di tutte: arrendersi, ammettere di avere fallito, di dover permettere che tutto quello per cui aveva lavorato, tutto quello a cui aveva dedicato una vita intera, venisse eclissato ancora una volta: non l’avrebbe mai permesso, mai!

“No, non andiamo da nessuna parte” ribatté, determinato, squadrandola negli occhi e facendole accendere nelle iridi castane una scintilla di sorpresa indignazione.

“In questo modo ci stai condannando a morte!” Morte. Chissà perché, ma il pensiero della morte non lo spaventava neanche più di tanto, anzi, in quel momento era decisamente preferibile alla migrazione: se fosse piovuto, ed era un grande se, e le mandrie fossero tornate, d’altronde, avrebbe dimostrato di avere ragione, sarebbe stato considerato il salvatore di quelle terre e finalmente avrebbe ricevuto il rispetto che meritava. Se invece nulla fosse mutato e loro fossero morti… in ogni caso non ci sarebbe più stato nessuno per ricordare. Ricordare gli Antenati, ricordare Mufasa, ricordare a lui quanto fosse diverso e inferiore. Se la morte coincideva davvero con la fine della memoria, ed era indubbio che fosse così, allora sì, meglio che essa sopraggiungesse e li portasse via tutti, lui compreso.

“Allora che sia!” affermò, senza perdere nulla del suo atteggiamento e della sua voce graffiante.

“Non puoi farlo, Scar!” Non poteva farlo? Non poteva farlo. Non fosse stato così arrabbiato, sarebbe scoppiato a ridere: continuavano a dirgli, ad anni di distanza, di cosa potesse o non potesse essere capace, anche se aveva puntualmente disatteso e reso ridicole le loro opinioni. Chi era al potere? Chi aveva un’armata di iene che avrebbe potuto farla a pezzi ad un solo suo comando? Chi aveva le redini del gioco?

“Sono il re!” disse dunque, pronunciando quelle parole ancora una volta e, di nuovo, sentendosi quasi nauseato dal tono infantile che stava adottando, riparandosi dietro a parole che sarebbero dovute essere accompagnate da trionfo, non da scusa “Posso fare ciò che voglio!”

“Se solo valessi la metà di quanto valeva Mufasa…!”

Basta.

Adesso basta. Aveva tollerato tante cose in quegli anni, davvero troppe, più di quante avesse avuto intenzione, ma quella era l’ultima goccia: non aveva mai usato la violenza nel senso stretto del termine, mai prediletta e mai adoperata, eppure gli venne quasi naturale, in quel momento, girarsi di scatto verso Sarabi e colpirla al muso con tutta la forza che aveva in corpo, pur di farla stare zitta, di farla tacere, di eliminare una volta per tutte la rappresentante maggiore del ricordo del fratello che ancora serpeggiava fra di loro.

“Io valgo dieci volte più di Mufasa!”

E, di nuovo, per un decimo di secondo, si chiese se quelle parole fossero indirizzate più a chi stava osservando o a se stesso. 

Era in ogni caso ad andare ben oltre una semplice zampata, non era riuscito a spezzarla e dunque l’avrebbe distrutta con altri mezzi, quando un tuono ed un fulmine illuminarono la scena e, se in un angolo del suo cervello Scar li registrò come una cosa buona, perché forse finalmente avrebbe piovuto, la sua attenzione venne immediatamente catturata dalla figura che si ergeva, imponente ed in controluce, proprio sopra la Rupe.

No. Non poteva essere! Non poteva essere davvero…

… Mufasa?

 

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Capitolo 16
*** Scar. Our wills and fates do so contrary run ***


16. Scar. Our wills and fates do so contrary run

“Mufasa! No… sei morto!” 

Morto e sepolto da anni, o almeno così aveva sempre creduto. Un terrore cieco travolse Scar per qualche secondo, facendolo arretrare di un paio di passi, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla scena e al contempo non spiegandosi quello che stava vedendo: i fantasmi non esistevano, gli Antenati non esistevano, nulla di tutte le insulsaggini che gli avevano raccontato da cucciolo esisteva… e allora perché aveva davanti a sé quello che sembrava proprio lo spirito del fratello? La figura intanto era scesa verso Sarabi che, ancora distesa, non accennava a reagire né a rialzarsi: se fino a qualche secondo prima quella reazione così remissiva gli avrebbe dato molta soddisfazione, in quel momento, con la prospettiva del primogenito nuovamente fra di loro, non poteva che augurarsi che la sua condizione non fosse così critica come appariva. Per il suo stesso bene.

Emise quindi un impercettibile sospiro di sollievo, impercettibile anche per se stesso, quando vide la leonessa alzare lievemente la testa, ricambiando il gesto di tenerezza che le veniva rivolto dal compagno. Sempre che compagno fosse: ora che poteva scorgerlo meglio, seppur con la mente ancora ottenebrata dalla paura, il sovrano non poté non notare quanto la sua silhouette fosse più snella, meno imponente, rispetto a quella del fratello. Ma davvero non riusciva a capire chi potesse assomigliargli a tal punto.

“Mufasa?” sussurrò la passata regina, gli occhi socchiusi e lo stupore sul muso, solo per essere contraddetta dal suo interlocutore.

“No” rispose infatti quello, scuotendo la testa e con un sorriso tenero a distendere la sua espressione “Sono Simba” Ed ecco che i pezzi infine sembravano mettersi al loro posto: quella rivelazione, Scar dovette ammetterlo, lo colse completamente impreparato, avendo scartato da anni la possibilità di un suo ritorno, soprattutto dopo che le iene avevano giurato e spergiurato di essersene occupate. D’altronde, le occhiate nervose e quasi colpevoli che gli avevano rivolto una volta tornate dal loro incarico avrebbero dovuto metterlo in guardia: non ci aveva fatto caso, tutto preso com’era ad esultare per il completamento del suo capolavoro, ed in quel momento ne stava pagando le conseguenze. Decise in ogni caso, con il senso dell’opportunismo che da sempre aveva coltivato e che non gli era mai stato ben chiaro da dove avesse ereditato, erano tutti talmente ingenui e stomachevolmente onesti nella sua famiglia, di fare buon viso a cattivo gioco: possedeva ancora qualche risorsa non troppo difficile da sfruttare a suo vantaggio ed era conscio che “sfruttare” era una delle sue specialità.

Iniziò lui stesso la conversazione con il nipote perciò, una volta che egli si fu riconciliato con la madre in modo sufficiente. Sempre che si potesse considerare sufficiente una manciata di secondi in confronto a quasi tre anni di lontananza.

“Simba?” esclamò dunque, gli occhi dilatati da uno stupore per una volta genuino, che subito dopo vennero però incorniciati dalle palpebre, con un sorriso falsamente felice a completare la sua mimica “Simba! Sono un po’ sorpreso di vederti… ancora vivo” Lanciò un’occhiata di sbieco verso la sommità della Rupe, in tempo per vedere quei tre idioti, quei tre imbecilli, inutili galoppini che si nascondevano nell’ombra, temendo l’arrivo di una punizione. E sarebbe arrivata, potevano starne certi, avrebbe fatto in modo che la pagassero molto cara dopo essersi liberato del figliol prodigo.

Figliol prodigo che stava avanzando verso di lui con un’aria tutt’altro che rassicurante.

“Dammi solo una buona ragione per cui non dovrei farti a pezzi” Non sembrava scherzare, anzi, la sua espressione omicida avrebbe potuto intimidire anche il più impavido e senza macchia degli animali: il leone dal manto scuro si ritrovò dunque ad arretrare, sul muso un’espressione che come minimo si sarebbe potuta definire “inquieta” fino a ritrovarsi con le spalle al muro e l’obbligo di pensare a qualcosa, e in fretta, per ribaltare la situazione in suo favore.

“Oh, Simba, tu devi comprendere! La preoccupazione di un regno da governare…”

“È una questione che non ti riguarda. Fatti da parte Scar” E invece ovviamente avrebbe dovuto riguardare lui, il piccolo figlio di Mufasa, scappato anni prima? Cosa ne poteva sapere lui di come si reggeva un dominio, cosa ne poteva sapere del modo in cui l’ordine doveva essere stabilito e mantenuto, lui che per anni era vissuto chissà dove a fare chissà cosa, senza la minima regola? Non aveva intenzione di retrocedere di un millimetro.

“Oh beh, certo, lo farei con piacere!” Sì, con lo stesso piacere con cui aveva assistito a tutti i trionfi del fratello per i primi quattro anni abbondanti della sua vita “Ma, sai, c’è solo un piccolo problema” Alzò una zampa verso l’alto, accompagnandola con lo sguardo e mettendo in evidenza la schiera di iene appollaiate come avvoltoi sopra le loro teste “Vedi lassù? Loro pensano che io sia il re” Lo disse con un sorriso imbarazzato, quasi volesse scusarsi per una questione che, evidentemente, lo stava mettendo a disagio, quando in realtà sentiva che gradualmente stava tornando in una situazione di vantaggio rispetto al suo avversario: il suo cervello, momentaneamente destabilizzato dalla sorpresa, e, perché no?, paura di avere davanti una vecchia conoscenza così inaspettata, aveva nuovamente iniziato a lavorare a pieno regime, reggendo una recita che l’avrebbe ingannato ancora una volta. Stava giusto per aggiungere altro, quando una voce indesiderata lo fece voltare verso il branco di leonesse.

“Ma noi no” Aveva sperato di non dover avere più a che fare con Nala per il resto della sua esistenza, ma a quanto pare quella sconsiderata era tornata, giusto in tempo per peggiorare la situazione. Avrebbe chiarito i conti anche con lei dopo essersi sbarazzato del nipote “Simba è il legittimo sovrano” Incoraggiato da quella presa di posizione, lo stesso giovane si rivolse di nuovo verso di lui, il volto fisso sempre nello stesso atteggiamento che, se ad una prima vista poteva effettivamente risultare intimidatorio, più lo guardava più gli pareva patetico.

“A te la scelta, Scar: o ti fai da parte o dovrai affrontarmi” Evidentemente il suo interlocutore aveva preso dalla famiglia lo stesso carattere impetuoso e stolidamente coraggioso tipico dei suoi Antenati e che invece sembrava aver ignorato totalmente lo zio nella catena genetica: ogni secondo passato ad osservarlo, pareva più simile a Mufasa, ma un Mufasa giovane, privo di autorevolezza e sicurezza, sicuramente meno temibile della sua versione adulta. D’altronde, tale padre tale figlio, giusto?

E, a proposito di padri, forse era meglio ricordare al piccolo come fossero andate le cose quel giorno di due anni prima, nel canyon. O meglio, come lui aveva sempre creduto fossero andate.

“Oh, bisogna risolvere tutto con la violenza” esclamò quindi, con tono sconsolato, affiancando e poi superando il nipote, sentendosi ogni istante più sicuro di quello che stava facendo e di come si sarebbe evoluta la situazione di lì a poco “Mi risulterebbe insopportabile l’idea di dover uccidere un membro della famiglia, non sei d’accordo, Simba?” Era da anni che non mentiva così spudoratamente e dovette ammettere, mentre rivolgeva un’occhiata annoiata al suo interlocutore, quasi senza considerarlo affatto, per poi concentrare l’attenzione sul branco davanti a sé, che era una boccata d’aria fresca poter manipolare qualcuno in maniera tanto bieca e pura. Ironicamente, era più soddisfacente questo di molti dei momenti passati come sovrano.

“Non funzionerà, Scar. Quella storia l’ho dimenticata” Il tono era sicuro e l’espressione ferma, ma era sicuro che mentisse: un trauma come quello di vedere il proprio padre morire sotto i tuoi occhi, di rannicchiarsi sotto le sue zampe fredde tentando di farlo rialzare dalla sua posizione abbandonata, di sentirsi dire di essere il suo uccisore, non poteva essere superato tanto facilmente. E poi, se anche fosse stato apparentemente così, era sicuro che sarebbe bastato smuovere un po’ le acque per riportare tutto in superficie: il modo migliore per riuscirci, dunque, era affidarsi all’inconsapevole aiuto di coloro il quale giudizio era certo avesse la maggiore importanza per l’aspirante re.

“E che cosa ne pensano i tuoi fedeli sudditi? Anche loro l’hanno dimenticata?” Sorrise loro mellifluo e con un’aria di sfida malcelata, che si tramutò in una confermata soddisfazione vedendo le loro espressioni confuse: era tanto semplice da sembrare scontato e forse quasi deludente come il dubbio si insinuasse nelle loro belle testoline.

“Simba… di cosa sta parlando?” 

Si sentiva sempre meglio, ogni momento che passava, ed iniziava a provare dentro di sé un tipo di trionfo misto a pura esaltazione simile a quello che gli aveva riempito il cuore il giorno in cui il fratello era precipitato giù dal canyon: affiancò dunque il suo avversario, con dei movimenti suadenti e sinuosi, serpentini, accerchiandolo e gustando ogni sillaba che gli stava uscendo di bocca quasi senza sforzo.

“Ah! Allora non gli hai ancora svelato il tuo piccolo segreto! Bene Simba, ora hai l’opportunità di dirglielo! Di’ loro chi è il responsabile per la morte di Mufasa!” Pur nel suo fervore e nella facilità scontata con cui stava abbindolando tutti ancora una volta, dovette ammettere a se stesso che poteva anche capitare che l’assemblea lì davanti, composta da quelle lacchè travestite da predatrici, avesse un briciolo di cervello: se era stato facile addossare tutta la colpa su un cucciolo quando solo loro due erano presenti sulla scena e l’influenza che egli aveva su quest'ultimo era ancora enorme, la scusa avrebbe potuto non reggere davanti ad una intera schiera di animali pensanti. Insomma, chi avrebbe mai veramente dato la colpa ad un piccolo di sei mesi per la dipartita di un leone adulto? 

Il silenzio era calato e, proprio quando iniziava a considerare che forse aveva fatto una scelta un tantino azzardata, il nipote, facendo un passo avanti e con un’espressione colpevole sul muso, sussurrò, con voce mesta: “Sono io”. 

E quello che successe dopo fu considerato da Scar assolutamente magnifico, nella sua paradossalità e stupidità, proprio perché testimoniava quello che aveva sempre pensato, ma che era arrivato a confermare da pochi mesi: era circondato da un branco di idioti.

Le spettatrici trasalirono, tutte, nessuna esclusa, e sui loro musi, prima così volitivi e determinati, in quel momento compariva solo sconcerto, sconforto e… dubbio. Una sola conversazione aveva davvero il potere di ribaltare tutto ciò che avevano predicato e considerato fino ad allora su di lui e sui suoi parenti? Fu grato ancora una volta di possedere il dono della retorica, invece che della forza bruta.

“No, non è vero!” Sarabi si era avvicinata a Simba, le orecchie abbassate e lo sguardo pieno di orrore, insomma, esattamente come una madre si dovrebbe rivolgere al proprio figlio in una situazione simile, e lo stava pregando di ritirare le sue parole “Dimmi che non è vero”. Ma certo che non era vero! Il leone dal manto scuro era sempre più favorevolmente sorpreso dalla loro reazione, ma soprattutto da quella della regina, da lui ritenuta da sempre così super partes da non potersi davvero bere una stupidaggine simile, ma che invece si stava rivelando in quel momento esattamente come tutte le altre: l’aveva piegata, infine, in un modo o nell’altro aveva piegato anche lei. La ciliegina sulla torta, e l’occasione per tornare nuovamente al centro dell’attenzione, fu gentilmente servita dalla sua vittima in persona, in modo assolutamente spontaneo, che, abbassando lo sguardo e con un atteggiamento che nulla aveva della prestanza e sicurezza dimostrata fino a pochi secondi prima, sussurrò un mesto: “È vero”. Era il segnale per Scar, il segnale atteso per affermare nuovamente la sua supremazia e si sorprese, cogliendo l’occasione al volo, di non essersi neanche dovuto impegnare troppo per rivoltare la situazione a suo favore: era bello, davvero bello, quasi troppo bello per essere reale.

“Avete sentito?” proclamò quindi, con voce dura e sguardo cattivo, accusatore, ponendosi davanti al suo “nipote preferito” e facendo sfoggio per una volta di tutta la sua malvagità “Lo ha dovuto ammettere! Assassino!” E forse provò quasi troppo piacere nel dire quelle parole a qualcun altro, nel riflettere la sua azione, la sua colpa, negli occhi e sul muso di un innocente, specialmente quando la reazione dell’altro fu tanto perfetta, tanto in linea con quella che avrebbe desiderato vedere.

“No! È stato un incidente” Lo dicono tutti, Simba. Lo dicono tutti. Specialmente chi sa di essersi macchiato di un delitto orribile. E questo lo zio lo sapeva fin troppo bene per non approfittarne. Riprese dunque a girargli attorno, ma più deciso questa volta, con impeto, dirigendo la sua arringa dalla posizione che più gli piaceva: quella di comando, quella di potere.

“Se non fosse per te Mufasa sarebbe ancora vivo!” Ed era probabile che quella non fosse una bugia, non nel senso più stretto del termine “È solo colpa tua se è morto!” Quello era un punto di vista leggermente più discutibile “Lo vuoi negare?”

“No” Per gli Antenati, così era davvero troppo facile!

“Allora sei colpevole!” Conclusione logica per un ancor più logico discorso, effettivamente.

“No! Non sono un assassino!” L’orrore sul muso del giovane si rifletteva benissimo in tutto il resto delle sue compagne, amica e madre comprese.

“E allora cosa sei, Simba?” pensò Scar, mentre, con un cenno impercettibile del capo ordinava alle iene di schierarsi dietro di lui e di aiutarlo a spingere l’altro all’indietro, esattamente come prima lui era stato costretto a retrocedere “Ti reputi colpevole eppure non un assassino, non hai mai voluto assumerti le tue responsabilità eppure ora vorresti pretendere la corona, somigli tanto a tuo padre ma non ne hai né la sua forza né la sua fiducia in se stesso… cosa sei, Simba, se non un pallido fantasma di un passato che mi ha trascinato verso l’oblio per troppo tempo? Cosa sei, Simba, se non l’ultimo di una lunga catena di ostacoli di cui mi sono liberato per arrivare al posto che mi spetta?” Pensò questo e altre mille cose confuse in quei secondi, ma le parole che trovarono spazio sulla sua lingua, mentre assaporava istante per istante il degno epilogo di quella storia, furono ben diverse.

“Oh, Simba, sei di nuovo nei guai!” E le immagini del cucciolo, sospeso su un albero, in procinto di cadere, con la mandria di gnu che sfilava sotto di lui gli apparvero dolci e chiare nella mente “Ma questa volta non c’è il tuo paparino a salvarti” Oh, certo che non c’era, come non c’era mia stato in tutti quegli anni. L’atto finale di una recita durata troppo a lungo si stava concludendo infine: mancavano solo pochi passi.

“E ora” Uno.

“Tutti quanti” Due.

“Sanno” Tre.

“Perché!” La chiusura di una frase. Lo schianto di un fulmine. Sterpaglie che prendevano fuoco. E, sommo gaudio, somma gioia!, il piccolo, adorabile, tanto amato Simba che scivolava dalla Rupe, rimanendo aggrappato solo per le zampe anteriori sopra una fornace incandescente. Scar sentì un grido in lontananza, forse era Nala, forse si era resa conto troppo tardi del pericolo a cui egli stava andando incontro, forse ancora una volta faceva quello che tutte loro avevano sempre saputo fare meglio in tutta la loro vita, aspettare e guardare, senza prendere una posizione, tentennando davanti ad accuse ridicole e bugie talmente vecchie da apparire scontate, ma in quel momento non gli importava: tutto quello che riusciva a vedere era una scena che si ripresentava, invariata nella sua orrida bellezza, a distanza di anni, portando con sé un senso di familiare deja-vù e trionfante sicurezza. Ecco, in quella posizione riusciva finalmente a vedere le somiglianze fra il figlio ed il padre.

Tutti e due belli, tutti e due valorosi, tutti e due buoni, tutti e due ingenui. E, molto presto, tutti e due morti. Tutti e due per mano sua. La scarica di adrenalina che stava avvertendo in quel momento era quasi da far girare la testa. 

Sarebbe stato come uccidere Mufasa una seconda volta e in modo definitivo per di più: niente altre possibilità di errore, niente altre rivendicazioni, vendette, niente altri tradimenti, solo l’onore. Onore perché finalmente la savana intera avrebbe visto di cosa era capace e l’avrebbe riconosciuto per la sua grandezza. Oppure paura. Paura giustificata dalle azioni viste compiere, una paura paralizzante, totale, completa, e ormai Scar avrebbe goduto anche di quella: “Che mi odino pure, purché mi temano!”* avrebbe detto qualcuno ed in quel momento non sarebbe potuto essere più d’accordo. Ed ecco nuovamente quella sensazione assoluta, distruttiva, quella a cui aveva dato il nome di felicità che tornava finalmente dopo anni interi e che, sapeva, sarebbe sbocciata e divenuta totale solo alla fine della commedia, quando il sipario fosse calato, in questo caso per sempre: desiderava goderne fino all’ultimo istante, fino all’ultima goccia. Desiderava che il cielo assistesse a quella che sarebbe diventata la sua vittoria totale nel modo più spettacolare possibile.

E, da bravo attore quale era, decise di recitare il suo ruolo fino in fondo.

“Ma guarda, questo mi ricorda qualcosa” disse, sguardo fintamente perplesso e artiglio vicino al muso, non dando segno di preoccupazione, semmai piuttosto evidente piacere sadico, per la situazione precaria di Simba, le cui unghie stavano scalfendo la roccia nell’inutile tentativo di trovare un appiglio “Mmh… dov’è che ho già visto questa scena?” Ed era divertente, davvero divertente, questa evidentemente finta ignoranza, il palcoscenico che si era creato e nel quale lui ancora una volta era al centro, protagonista indiscusso, eroe perfino: desiderava, voleva, che tutto si ripetesse invariato come in precedenza. Voleva dare il benservito al nipote allo stesso modo in cui si era liberato del fratello, far vedere a lui, a Mufasa, ad Ahadi, a tutta quella genealogia che mai l’aveva considerato degno di diventare come loro, chi alla fine li avrebbe sepolti, chi era riuscito ad eclissarli.

Che le trombe squillassero, si intonasse una marcia solenne: il re stava per reclamare eternamente il suo trono!

“Oh sì adesso me lo ricordo!” Sorrise mentre lo diceva, un sorriso talmente genuino e al contempo venefico da risultare inquietante “Tuo padre aveva la stessa espressione quand’è morto!” E anche Simba presto l’avrebbe raggiunto, nella stessa esatta scena che uno aveva sognato ad occhi aperti per anni e che invece probabilmente aveva occupato gli incubi del piccolo per altrettanto tempo. Con uno slancio, esattamente come allora, affondò gli artigli nella pelliccia dorata della sua vittima, esattamente come allora, e si protese verso di lui, esattamente come allora, per sussurrargli poche parole e, esattamente come allora, vedere la luce spegnersi da quegli occhi e lui precipitare giù nel dirupo, morto ancora prima di toccare terra, ucciso da una rivelazione troppo grande, un tradimento estremo.

Ma le parole in questo caso cambiarono, dettate da un desiderio di vanagloria, non più pesate e riflettute, non più ragionate da una mente fredda, quanto dalla pazzia di chi, sull’orlo del baratro, tenta di gettare gli altri sotto di sé per rimanere a galla.

“E adesso ti dirò il mio piccolo segreto” esalò con un sussurro, nulla di più, all’orecchio di Simba “Ho ucciso io Mufasa” Un errore. L’unico. Forse il primo di una breve serie, o forse l’ultimo di una troppo lunga.

In meno di un attimo, prima che Scar avesse anche solo il tempo di comprendere cosa stesse avvenendo, le posizioni si erano ribaltate: con un grido, un grido di dolore, rabbia e tradimento, tradimento, sì, perché quella rivelazione era giunta inaspettata anche dopo tutto quello che lo zio aveva già dato mostra di poter fare, il nipote era riuscito a tirarsi in piedi dalla sua precedente posizione, gettandolo a terra e puntandogli gli artigli alla gola. Non era stata distruttiva la frase che aveva sentito, il suo effetto era stato l’opposto di ciò che aveva invece suscitato in Mufasa: da una parte rimpianto, arrendevolezza, paura ed annichilamento di qualcuno già stanco ed ormai condannato, pugnalato alle spalle da una delle persone di cui si fidava di più, dall’altro desiderio di rivalsa, vendetta, verità di un giovane che finalmente aveva capito che le colpe che gli erano state addossate anni addietro erano davvero troppo grandi per un cucciolo qual era all’epoca.

Il leone dal manto scuro forse intuì tutto questo, seppur confusamente, mentre, sorpreso e scioccato da quell’improvviso indirizzo che la situazione aveva preso, un trionfo desiderato che aveva invece tutto il sapore della disfatta, si ritrovava ad implorare per la sua vita.

“Simba, Simba ti prego!”

“Di’ a tutti la verità!” Non si faceva illusioni, sapeva cosa sarebbe successo qualora avesse seguito quell’ordine: ogni autorevolezza che possedeva nel branco sarebbe morta, ogni speranza che aveva di essere considerato il legittimo re si sarebbe dissolta. Tentò dunque di sviare il discorso, in un modo che lui stesso trovò alquanto blando.

“La verità? Ma la verità è sempre relativa!” Rideva nervosamente mentre lo diceva, tentando di raccapezzarsi, di capire dove avesse sbagliato, ma la sua frase venne troncata da una zampata particolarmente vicina alla giugulare, che lo costrinse ad obbedire e acconsentire seppur di malavoglia alle richieste di chi era sopra di lui in quel momento.

“Va bene! Va bene!” disse, con voce strozzata “Sono stato io…” Una frase appena percettibile all’orecchio che sperò potesse bastare, ma venne puntualmente disatteso dall’ordine perentorio del nipote.

“Così non possono sentirti” D’accordo. Voleva la guerra? Ebbene l’avrebbe avuta. Ma forse non aveva fatto i conti con un paio di cosette, prime fra tutte le diverse centinaia di iene che aveva ancora ai suoi comandi: la battaglia non sarebbe stata indolore, questo poteva prometterglielo. E, forse, ma solo forse, nel pronunciare quell’affermazione, seppur strappata di malavoglia, godette anche un poco, rivendicando un’azione che era stata causa di dolore e sofferenza per tutti.

“Io ho ucciso Mufasa!” 

Se alcuni dei presenti pensavano di avere visto l’Inferno prima di allora, ebbene si dovettero ricredere.

In poco più che un secondo, quanto bastò alle leonesse per iniziare lo scontro con le iene e alle iene per saltare addosso a Simba, Scar fu completamente libero, libero di andarsene, libero di sottrarsi al combattimento che aveva sempre detestato, libero di fuggire e trovare un buon punto di osservazione per decifrare le sorti della battaglia: non si fermò a guardare la scena, a vedere il nipote che veniva aggredito dai suoi tirapiedi e poi liberato dall’azione combinata di un babbuino, un facocero e un suricato, ad osservare come Nala e Sarabi, fianco a fianco, respingevano gli attacchi mano a mano che si presentavano e causavano grandi perdite fra le file delle iene, ad ammirare come anche Sarafina, dolce, calma Sarafina, avesse finalmente deciso di prendere posizione e di unirsi alle altre per un ritorno della libertà. Non si accorse di nulla di tutto questo, preso com’era a salvarsi la vita, né probabilmente gli sarebbe importato anche se non avesse avuto di meglio da fare: fintanto che lui fosse stato al sicuro, gli altri sarebbero potuti benissimo soccombere, indipendentemente dalle parti che avessero preso. Le vie erano quasi tutte bloccate, in uno scenario ardente che per un attimo gli fece venire in mente un ricordo angosciante e sfuggente, subito ricacciato nelle profondità della sua mente, e faticò davvero per trovare un sentiero abbastanza percorribile, solo per vedere dietro di sé, come un fantasma vendicatore, l’immagine di Simba, che lo spinse ad una corsa forsennata per la salvezza, arrestatasi solo davanti ad un precipizio, le sterpaglie che bruciavano impietose pochi metri più in giù. Gli occhi gli lacrimavano per il fumo e le braci, ma ciò non gli impedì di vedere saltare in mezzo alla barriera di fuoco e dunque davanti a lui, suo nipote, le palpebre ad incorniciare gli occhi e sulla bocca una sola parola: “Assassino”. Il sogno che l’aveva tormentato per mesi e che si era volatilizzato così convenientemente dopo la scelta del suo erede si ripresentò di nuovo nella sua mente in modo prepotente e, fugacemente, si dannò per non avergli dato più credito. Ma in quel momento aveva altri problemi più grandi.

“Simba, ti prego, abbi pietà! Ti scongiuro!” Stava implorando e, malgrado gli riuscisse piuttosto bene, c’era una parte che rigettava quello che stava dicendo con tutto il cuore: aveva giurato che mai più si sarebbe piegato davanti a Mufasa o ad un suo simile, cosa diamine sativa facendo?

“Tu non meriti di vivere” D’accordo, la situazione si stava mettendo piuttosto male e se magari il suo cervello, paralizzato dalla paura, si fosse deciso a rimettersi in funzione e dargli uno straccio di idea su come uscire da quella situazione piuttosto scomoda, per usare un eufemismo, sarebbe senza dubbio stato meglio per tutti. 

“Simba, io faccio parte… della tua famiglia!” Gli venne da ridere nervosamente: quella era una scusa patetica, perfino per il contesto disperato in cui si trovava, e la prima cosa che gli venne in mente, il primo segno che forse dopotutto la sua mente non si era atrofizzata totalmente, fu quella di scaricare la colpa su una terza parte, qualcuno che non gli era utile, anzi, in quel momento più che mai di impiccio, e che aveva più di una volta provato di essere stato per lui più dannoso che salvifico “Sono state le iene!” affermò quindi, quasi con disperazione, le iridi ridotte a non più di un puntino in mezzo agli occhi “Sono loro il vero nemico! La colpa è loro, loro hanno avuto l’idea!”

“Perché dovrei crederti? Fino ad ora non mi hai raccontato altro che bugie” Era un’affermazione detta con odio, astio e a stento trattenuta violenza, ma che in qualche modo riuscì a tranquillizzarlo e a fargli ricordare che, dopotutto, quello che aveva davanti non era qualcuno di cui dovesse chiedere la pietà, perché, in fondo, era certo che l’avrebbe ottenuta: era il figlio di Mufasa, d’altronde, e Mufasa mai avrebbe fatto qualcosa contro il suo tanto caro Cerchio della Vita. Doveva solo ricordarglielo indirettamente.

“Cosa hai intenzione di fare?” gli chiese dunque, abbassandosi e squadrandolo con un’aria supplichevole che nascondeva invece una provocazione piuttosto evidente “Non vorrai mica uccidere il tuo vecchio zio?” Ci fu un momento di silenzio in cui i due leoni si guardarono, in cui le iridi verdi del primo squadrarono, ricambiate, quelle castane del secondo, in cui si riflettevano anche le fiamme che giravano attorno a loro e, per un attimo, Scar pensò davvero che la sua ora fosse arrivata e che, dopotutto, padre e figlio non fossero poi così simili. Ma, come già è stato detto, fu appunto questione di un attimo.

“No, Scar” rispose il nipote, con un tono che tradiva tutto il disprezzo che stava provando nei suoi confronti “Io non sono come te” Ed eccola, nuovamente, la differenza che tanto era stata declamata per anni, sbattutagli in faccia da sempre, la differenza fra il ramo buono della famiglia e lui, la zebra senza strisce, la mela marcia, di cui anche l’aspirante re si stava inconsapevolmente appropriando: se fino ad allora lo aveva odiato solo per una questione di principio, perché era uguale al padre e al nonno e probabilmente anche al bisnonno che mai aveva conosciuto e perché lui invece era diverso, quella frase bastò per infiammare il suo animo con una rabbia tutta nuova. Avrebbe accettato la sua carità solo per sputargliela in faccia alla prima occasione. In contrasto con quei pensieri, il tono divenne ancora più untuoso.

“Oh, Simba, grazie!” Grazie per esserti dimostrato ancora una volta un debole e uno sciocco “Che nobile gesto!” Si mise sulle quattro zampe, guardandolo e assumendo un tono di assoluta obbedienza che gli fece serrare lo stomaco in una morsa di doloroso disgusto “Mi farò perdonare, te lo prometto: come posso sdebitarmi, con te? Dimmi: farò tutto ciò che vuoi!” Le parole che si sentì rivolgere subito dopo, nonostante tutto, lo sconvolsero e sorpresero profondamente.

“Vattene. Vattene, Scar, e non tornare mai più” Chi si aspettava che quelle parole, pronunciate quasi tre anni prima, sarebbero tornate a perseguitarlo in modo così improvviso? Chi si aspettava soprattutto che il cucciolo le avesse conservate così vicine al suo cuore e alla sua memoria per anni? La prospettiva dell’esilio era spaventosa quanto dolorosa, perché quella era la sua casa, quelle erano le sue terre, quello era il suo regno e nulla avrebbe potuto o dovuto portarglielo via, perciò, se anche qualche sottile remora e dubbio era rimasto, dovuto a quello che lui chiamava istinto di conservazione particolarmente radicato ed altri semplicemente codardia, cadde completamente al sentire quella frase. Non era neanche più desiderio di vittoria ciò che lo spingeva, o almeno, forse lui l’avrebbe ancora identificato in quel modo, ma sarebbe stato inesatto: era pura furia, istinto omicida, decisione inconscia che se lui fosse andato a fondo avrebbe trascinato chiunque con sé ed in particolare Simba, Simba e Mufasa, le cui immagini erano oramai talmente sovrapposte nella sua mente da non lasciargli chiaramente contraddistinguere chi fosse l’uno e chi fosse l’altro. Anche se, tutto sommato, il significato che quelle due racchiudevano era lo stesso. Neanche l’attacco diretto lo spaventava più, qualsiasi cosa poteva andare bene, pur di ferire, pur di annientare: non voleva nulla che non fosse la loro distruzione e, se anche nella sua mente balenavano ancora sogni di un glorioso futuro, una parte di sé sapeva che tutto ciò che non era riuscito a realizzare fino a quel momento non avrebbe trovato una concretizzazione nei giorni a venire.

“Sì” disse perciò, la voce che si incrinava e l’espressione del muso tutto meno che convinta “Sarà fatto” Si guardò intorno, perché sì si sentiva pronto ad attaccare, ma non era così stupido da poter pensare di avere la meglio su un leone più forte e giovane di lui senza un piccolo aiuto esterno e trovò quello che cercava in un mucchio di ceneri incandescenti, adagiate lì vicino come se stessero aspettando lui.

“Hai barato!”

“Non lo definirei barare, fratellone, quanto piuttosto sfruttare la situazione: è una cosa che dovresti imparare anche tu, se non vuoi farti prendere di sorpresa in futuro”

Non aveva imparato, alla fine, Mufasa. Non aveva imparato e gli era costato molto caro.

Un ricordo che lo sorprese quasi a tradimento, infastidendolo per la potenza con cui si era presentato dopo anni in cui, credeva, forse sperava, avesse perso qualsiasi significato affettivo e per meno di un secondo un sorriso quasi amaro gli attraversò il muso, venendo rapidamente soppresso dalla macchina calcolatrice e fredda della sua mente, quella che aveva sempre prevalso su questioni insulse quanto i sentimenti. Non fu difficile perciò trasformare un flashback in una nuova risorsa e, lanciata un’occhiata alla sua arma improvvisata e a Simba, pronunciare velenoso le stesse parole che tanto tempo addietro aveva rivolto a suo padre in una situazione totalmente diversa.

“Come desiderate… Vostra Maestà!” Con uno scatto fulmineo buttò la cenere negli occhi del nipote che, ringhiando di dolore, non si poté accorgere della sua mole che lo travolgeva, sbattendolo a terra e tentando di azzannarlo alla giugulare. Il combattimento fu veloce, frenetico, quasi troppo confuso perché Scar potesse avere davvero idea di cosa stesse succedendo: i suoi denti che penetravano a fondo nella carne di Simba, i denti di Simba che trovavano presa nella sua collottola, un colpo andato a segno per il più giovane e poi uno, due che mirati da lui centravano il bersaglio. Non sapeva neanche più cosa stesse facendo, tutta la sua forza ed energie residue erano mirate verso il niente, rimanere in quella posizione, nessuna speranza, nessun obiettivo ed era certo, se ne rese conto per un attimo appena prima di attraversare il muro di fuoco al di là del quale aveva scaraventato il suo avversario ed essere a sua volta sbalzato fuori dalla Rupe, rotolando poi lungo il fianco della roccia, che qualsiasi fosse stato l’esito di quella giornata per lui sarebbe stata la fine.

La caduta non fu neanche così dolorosa, certamente si sarebbe aspettato di peggio dopo una lotta come quella, mai avvenuta in tutta la sua vita, e fu sollevato dal notare, dopo qualche secondo passato disteso sul terreno, che poteva alzarsi con facilità, senza nulla di rotto o storto: forse, dopotutto, la fortuna gli arrideva ancora! In questa ventata di ottimismo, che aveva presto cancellato i pensieri foschi, e, chissà, premonitori?, che gli avevano attraversato la mente durante lo scontro, aguzzando la vista, riuscì ad intravedere tre sagome che non crede sarebbe mai stato così contento di vedere com’era in quel momento: Shenzi, Banzai ed Ed lo stavano fissando, ancora una volta fedeli alla zampa che li aveva nutriti per anni.

“Oh, amici miei” disse dunque, untuoso, ricercando il loro appoggio ed aiuto per uscire di lì e, forse, ma solo forse, riorganizzarsi in attesa di una prossima occasione, di una prossima rivalsa: progetti gloriosi stavano già iniziando a delinearsi nella sua mente, progetti in cui uccideva Simba, Nala, Sarabi, tutti quanti, in cui lui, solo lui, ancora una volta e per sempre sarebbe stato il sovrano, solo per essere stroncati da una frase, pronunciata dalla sorella maggiore, che gli fece gelare il sangue nelle vene.

“Amici? Ahahah, io credevo ci avesse chiamati nemici” No! Non potevano essere davvero stati presenti a quel colloquio, non poteva davvero essere stato così cieco da non vederli! La sua espressione mutò radicalmente, sentendo un panico totale, agghiacciante, paralizzante, impadronirsi di lui, accresciuto e reso permanente dalla conferma da parte di Banzai e di una risata cattiva, terrificante, da parte di Ed. La stessa che aveva sempre sentito nei suoi sogni e grazie alla quale sempre si era svegliato.

Solo che quello non era un incubo.

Retrocedette, disperato, le iene che lo circondavano da ogni parte, la tensione che sentiva salire e i ghigni malefici di quelli che una volta erano stati i suoi servi, ora completamente rivolti verso di lui: pregò, pregò per la prima volta nella sua vita, pregò gli Antenati, pregò che lo salvassero, pregò il padre, pregò il fratello di non abbandonarlo alla loro mercé, mentre balbettava scuse impotenti e men che meno convincenti ai suoi assalitori, nei cui occhi si scorgeva solo una fame troppo tempo trattenuta, ed il suo ultimo pensiero, prima che il primo animale si lanciasse su di lui per farlo a pezzi, fu che era possibile, solo possibile, dopotutto, che il Cerchio della Vita esistesse davvero.

Non appena il non più sovrano della savana esalò l’ultimo respiro, sulle Pride Lands iniziò a piovere.









Ehi...
E così siamo giunti alla fine. Il Cerchio della Vita ha fatto il suo corso, Taka Scar è morto e il film è giunto a conlcusione, esattamente come questa storia. Manca solo più l'epilogo (che posterò, come al solito, fra due settimane) e poi potrò cliccare sulla scritta «completa». Se devo essere sincera, un po' mi fa effetto pensare di averla davvero finita, ma solo contenta di averla portata a termine.
Ora, non so se qualcuno stia continuando a leggerla con lo stesso interesse dell'inizio (so che il fandom è piuttosto abbandonato, quindi non mi stupirei del contrario), ma mi piacerebbe davvero tanto che quel qualcuno (se esistente) esprimesse il suo giudizio sulla storia nel complesso. Vorrei sapere se il passato che ho creato per Scar è credibile o meno, se ho gestito in modo effettivo le scene del film... non pretendo che sia positivo, mi farebbe immensamente piacere anche ricevere una critica: ho messo davvero tanto in queste pagine e mi hanno aiutato a superare un blocco dello scrittore che durava ormai da quasi un anno e mezzo. Devo la storia (originale, completamente inventata da me) che sto scrivendo attualmente (e che però probabilmente non pubblicherò mai su EFP) solo a questa fanfiction, perciò posso dire di esserle molto affezionata.
Ringrazio comunque anche solo quelli che sono arrivati fino a qui (e lo farò ancora meglio fra due settimane nell'epilogo) e spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento.
A presto!
L_A_B_SH
 

 

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Capitolo 17
*** Rafiki. Goodnight, sweet prince. ***


17. Rafiki. Goodnight, sweet prince.

Erano anni che non si vedeva un tramonto così bello. Il sole scendeva lentamente incontro all’orizzonte, senza più seccare o inaridire la terra, né nascosto da scure nubi non portatrici di pioggia, solo splendente, con i suoi raggi a tingere il cielo di rosso e rosa, in un’atmosfera di pace ed armonia che credeva di aver dimenticato, o comunque a cui non avrebbe potuto assistere per lungo tempo ancora. Lo sciamano si stava avviando veloce verso il suo albero, bastone alla mano e andatura saltellante, ma si permise di fermarsi per qualche secondo, lanciando un’occhiata all’immagine della Rupe dei Re colpita dall’ultima luce del giorno ed un sorriso sereno si delineò sulle sue labbra, al pensiero di Simba, finalmente tornato a casa, finalmente pronto ad essere quello che era sempre stato destinato a diventare: non era stato facile convincerlo che sarebbe stata la cosa giusta da fare, giorni prima, non era stato facile neanche rassicurarlo solo ventiquattro ore addietro, quando aveva deciso di reclamare il trono, pur con il supporto di Nala, della madre e del branco, ma alla fine tutto si era svolto nel migliore dei modi, una volta che la battaglia si era conclusa. 

E fu proprio quel pensiero, il pensiero del fuoco, del sangue, dell’orrore che sicuramente sarebbe rimasto impresso nelle menti di tutti per molti anni, a far oscurare l’umore del babbuino, mentre, ripreso il cammino, giungeva infine al suo baobab, apprestandosi ad un compito che gli pareva vagamente liberatorio, ma anche profondamente, troppo profondamente, penoso e doloroso: era strano, per anni una parte di sé aveva desiderato che succedesse qualcosa, che la siccità finisse, che quella storia giungesse al termine, ma in quel momento, mentre si arrampicava fra le fronde in cerca di un posto preciso sul tronco, un posto che conosceva solo lui e che sempre solo lui avrebbe dovuto conoscere, non riusciva a provare gioia. 

Ricordava perfettamente il giorno in cui era giunto nelle Pride Lands la prima volta, cucciolo entusiasta e ignorante al fianco di un più vecchio e stanco nonno. Erano trascorsi anni, da allora, tanti anni, decadi, e nessuno di coloro che aveva conosciuto in quell’epoca era ancora vivo: il tempo aveva continuato a scorrere impetuoso ed inesorabile, come era giusto che facesse, portando via tutto e tutti e non lasciando altro che ricordi, ricordi di cui solo lui era depositario e che, molto probabilmente, sarebbero spariti completamente una volta che anch’egli avesse lasciato le Pride Lands, e quella terra in generale, per sempre. C’erano, però, delle cose che probabilmente si sarebbero tramandante di padre in figlio, assumendo sempre più l’aspetto di una leggenda, arricchendosi di particolari che avrebbero avuto del fantasioso ed incredibile, ed aveva l’amara sensazione che il corso che si stava apprestando a concludere, relegandolo in un passato via via più sfumato, sarebbe stato una di quelle, mentre altri momenti, forse più felici, forse più belli, probabilmente sarebbero scomparsi, primo fra tutti quello che aveva come protagonista colui che da sempre aveva considerato il suo migliore amico. 

Mohatu era stato il suo primo sovrano, con la sua criniera rossa, il mantello chiaro e gli occhi verdissimi, più verdi delle terre che aveva governato e che sarebbero certamente tornate più rigogliose di prima, dopo quella che appariva ormai come la fine della siccità: era piccolo quando l’aveva conosciuto, appena giunto da un’altra regione di cui ormai non conservava che sensazioni confuse, ed anche il re era giovane, poco più che cucciolo, ma già in carica dopo che i genitori erano morti tragicamente. 

L’aveva seguito, erano cresciuti insieme mentre uno imparava tutto sugli spiriti, le erbe e i riti magici e l’altro apprendeva le regole del Cerchio della Vita, della sopravvivenza, della sicurezza e giustizia che deve trasmettere un regnante per essere considerato tale. L’aveva accompagnato nel suo viaggio, quando il suo vecchio parente era morto e lui aveva assunto il ruolo di sciamano, attraverso la guarigione di malattie, celebrazione di matrimoni, oh, quanto si era divertito quel giorno!, e gioiose nascite: non era sempre stato così sicuro di sé, e sospettava di non esserlo ancora veramente, perciò le sue prime operazioni ufficiali erano puntualmente accompagnate da un enorme carico di nervosismo, ma mai si era sentito così sotto pressione quanto il giorno in cui era nata Uru, né forse aveva provato una felicità così grande nel vedere il leone con cui era cresciuto illuminarsi alla prospettiva di essere diventato padre di una bellissima leonessa. E crebbe davvero bellissima Uru, se lo ricordava, affiancata dai genitori e con il rispetto di tutto il resto del regno, in quello che Rafiki avrebbe facilmente definito come il periodo più spensierato della sua vita, ma che, come ogni cosa splendida, non era destinato a durare.

Non fu mai ben chiaro cosa avesse portato alla morte di Mohatu, forse una bacca velenosa ingerita per sbaglio, una malattia di quelle che circolavano già da tempo tra il branco, oppure semplicemente il suo momento era arrivato: tutto quello che sapeva era che mai si era sentito così solo e devastato come il giorno in cui la figlia, corsa nella sua caverna per dirgli di avere conosciuto un leone straniero apparentemente simpatico, lo aveva trovato disteso al suo interno, morto.

I funerali si erano svolti in silenzio, sotto gli occhi disperati di tutta la savana, ma soprattutto sotto i suoi, che si vedeva privato del suo più grande confidente, già più vecchio di tutti gli animali lì presenti, ma incredibilmente giovane per un babbuino: in quel momento, per la prima e forse unica volta in tutta la sua vita, aveva criticato e messo in dubbio la giustizia del mondo che l’altro aveva fino ad allora governato, che gli aveva prima strappato il nonno, con il quale però non aveva mai avuto un buonissimo rapporto, e poi l’essere che aveva più caro. Poi, dopo, gradualmente, giorno dopo giorno, il dolore si era cicatrizzato, non era scomparso, quello mai sarebbe accaduto, ma aveva imparato a sopportarlo e a portarlo con sé come ricordo di qualcuno che aveva significato tanto per lui. E la vita era andata avanti, con Uru ed il suo compagno, Ahadi, conosciuto per sbaglio durante una caccia particolarmente lunga e sfiancante che le aveva quasi fatto perdere la strada di casa e che subito entrò nella loro famiglia, pur non riuscendo a stabilire con Rafiki lo stesso legame di fiducia e rispetto reciproco che aveva avuto con il padre della sua compagna, non con la medesima profondità. Avevano dunque iniziato a regnare loro sulla Rupe dei Re e, dopo pochi anni, avevano a loro volta messo al mondo, come i genitori della leonessa prima di loro, due cuccioli.

Mufasa e Taka.

Perso nei suoi pensieri, era infine giunto alla parte dell’albero che desiderava, o non desiderava tutto sommato, trovare e, dopo aver emesso un sospiro mesto, si apprestò a portare a termine il suo lavoro: prese un frutto da un recipiente che teneva costantemente a disposizione, lo spezzò a metà e immerse due dita nel liquido zuccherino che esso conteneva, per poi guardare la corteccia esattamente davanti a lui. Lo aveva fatto altre volte, in fondo: lo aveva fatto per Mohatu, per Uru, per Ahadi, per Mufasa, perfino, sbagliando, per Simba, e anche se quella volta avrebbe dovuto essere più facile, perché era giusto che fosse così, perché se non fosse accaduto l’equilibrio si sarebbe definitivamente spezzato, perché chi faceva del male doveva pagare, non lo era affatto. Eppure, in fondo, avrebbe dovuto decidersi molto tempo prima. 

Quello che conosceva, che tutti conoscevano, come Taka era morto da anni, ormai.

Aveva sempre guardato con curiosità quei due fratelli, due era un numero insolito per una dinastia regale in cui solitamente si cercava di non avere più eredi, per di più così vicini di età, per il contrasto che formavano vedendoli affiancati: erano diversi come il giorno e la notte, contrastanti in tutti i sensi e formavano di certo un’accoppiata veramente strana, se si pensava attentamente al fatto che fossero imparentati. Il minore soprattutto lo impressionava per i suoi occhi verdi, un colore che così tanto somigliava a quello del nonno mai conosciuto e che Rafiki non credeva avrebbe mai potuto rivedere, causandogli un senso di nostalgia quasi insostenibile per l’amico perduto. Eppure, aveva in fretta capito la differenza fra le iridi del passato sovrano e quelle del cucciolo: se le prime erano sempre gioiose, cariche di vita e ottimismo, le seconde erano un pozzo luminosamente scuro, imperscrutabile, il cui sguardo era difficile da sostenere senza provare un briciolo di inquietudine, e spesso il babbuino si era chiesto perché proprio quella caratteristica fosse toccata a lui, lui che niente aveva del suo antenato, quando Mufasa era invece una sua copia sputata. In ogni caso, si era in fretta affezionato ad entrambi, li aveva visti crescere, esattamente come aveva visto crescere Uru e come era cresciuto insieme a Mohatu, aveva imparato ad apprezzare il carattere irruento e coraggioso del primo ed al contempo quello riflessivo e calcolatore del secondo, anche se non aveva mai passato con loro molto tempo né li aveva educati, lasciando quell’incombenza ai genitori. 

In ogni caso, anche se affermava di conoscere bene quella famiglia, si sentiva colpevole e responsabile per non aver visto il profondo cambiamento che era gradualmente avvenuto nella mente e nell’animo del minore. Forse avrebbe dovuto comprenderlo quando aveva iniziato a passare più tempo da solo che con gli altri, quando l’aveva sorpreso più di una volta ai confini Nord del regno e ad alle sue domande su dove si stesse dirigendo gli veniva risposto che non erano affari suoi, quando mano a mano il suo carattere, già introverso, si chiudeva sempre di più, la sua lingua si faceva più tagliente, i suoi sorrisi sinceri si diradavano per lasciar spazio ad un ghigno cinico. Sì, avrebbe dovuto prestare più attenzione ai segnali che indicavano cosa si celasse dietro la maschera del secondogenito, eppure non aveva visto, o aveva preferito non vedere, attribuendo tutto quello all’adolescenza, alla sua personalità che si sviluppava, e anche quando aveva rinnegato il suo nome, cambiandolo in quello con cui probabilmente sarebbe passato alla storia nella memoria del suo branco, non si era intromesso, credendo che sarebbe stato meglio così, non appena egli avesse trovato la sua strada. Una strada, sempre che potesse essere definita in tal modo, che si era ridotta ad un sentiero tortuoso, di cui non si riusciva a distinguere inizio e fine, deformato da un odio e da una gelosia covata per anni, di nascosto da chiunque avesse mai provato un briciolo di affetto nei suoi confronti. Di nascosto anche da lui che, in quanto sciamano, avrebbe dovuto comprendere meglio degli altri gli stati d’animo di ognuno di loro. 

Probabilmente, ancor più del resto, avrebbe dovuto metterlo in guardia la sua reazione al funerale di Ahadi, così diversa rispetto all’addolorato contegno mantenuto alla morte della madre. In quanto erede al trono, Mufasa era stato obbligato a pronunciare un discorso, a ricordare il passato sovrano e a prendere ufficialmente il suo posto nella guida della savana, ma, con un gesto di umiltà che gli ricordò moltissimo il vecchio amico perduto, chiese al fratello di affiancarsi a lui per onorare la memoria del padre. Ma le parole che uscirono dalla sua bocca, seppur perfettamente calibrate per suonare sincere alle orecchie di tutti, lo fecero rabbrividire quel giorno così come ogni volta che il suo pensiero ritornava a soffermarcisi per la profonda inquietudine che trasmettevano: non era così che un figlio avrebbe dovuto rivolgersi al proprio genitore defunto.

“La morte del nostro re è una gravissima disgrazia, per la savana e soprattutto per noi, che siamo stati privati della sua saggia guida in modo precoce e inaspettato: non c’è stato modo di fare tanto, di dire tanto, tante verità che probabilmente rimarranno nei nostri cuori e nelle nostre menti. Eppure, non pronunciare una frase non vuol dire non pensarla davvero così come rimandare un’azione non significa che essa non troverà compimento ed io ti prometto, padre, ti prometto su tutto ciò che ho di caro che il tuo insegnamento, ciò che mi hai fatto comprendere non si perderà con te e che quello che non ti ho dimostrato mentre eri in vita verrà realizzato col tempo. D’altronde, uno dei più cari messaggi che mi hai fatto comprendere in questi anni, è quanto importanti siano pazienza e perseveranza”. Sembrava un giuramento di un figlio addolorato, questo era vero, ma l’intonazione fredda con cui era stato fatto, priva di coinvolgimento, di qualsiasi emozione in realtà, lo scintillio che i suoi occhi verdi avevano assunto solo per un attimo, prima di ritornare vuoti, e il sottile sorriso che più di una volta aveva osservato vedere represso sul suo muso l’avevano fatto assomigliare più ad una minaccia, una vendetta annunciata. Neanche in quel caso aveva fatto nulla, illudendosi, o cercando di illudersi, che fosse solo una sua impressione, ma aveva fatto male, perché alla fine, dopo anni, quando tutti, lui compreso, sembravano essersi dimenticati anche di quello, Taka, anzi, Scar, aveva colpito, profondamente e dimostrando di non avere più pietà o compassione per chiunque si fosse frapposto fra lui e quello che credeva dovesse rappresentare il proprio destino. Qualcuno avrebbe obiettato che quei sentimenti gli erano sempre stati sconosciuti, che sempre era stato cattivo, malvagio nel profondo, e tale probabilmente sarebbe stata l’immagine di lui che sarebbe stata tramandata alle future generazioni da Simba, Nala e tutto il resto del branco e, anche se non li poteva biasimare ed era convinto che le orribili azioni commesse non avessero alcuna giustificazione, non poteva che chiedersi se tutto sommato anche quella non fosse una rappresentazione parziale. 

Cosa ne sarebbe stato del cucciolo dal manto scuro che nei suoi primi mesi di vita guardava al fratello più grande come esempio da seguire? Cosa ne sarebbe stato delle sere in cui il piccolo, gli occhi verdi che brillavano nell’oscurità della notte, si rannicchiava in mezzo alla sua famiglia, ascoltando storie e fantasticando su un futuro che mai si sarebbe realizzato? Erano ricordi che stonavano così tanto con quello che era successo in seguito, con l’odio che era arrivato a provare verso quello che una volta era stato il suo migliore amico, che rendevano quasi impossibile ricondurli ad uno stesso essere, tanto che sovrapporli dava a Rafiki un senso di capogiro e di profonda tristezza, e che non sarebbero stati condivisi con la nuova generazione del branco, così come già a Simba non erano stati raccontati, finendo quindi per scomparire con il tempo, una volta che non ci fosse più stato nessuno di quell’epoca per richiamarli alla memoria.

Già, la memoria era uno strumento pericoloso, perché era vista come strumento oggettivo, mentre si trattava forse della parte più soggettiva che chiunque potesse possedere: c’era quella comune, ovviamente, condizionata non solo dall’individuo, ma dalla società, ed essa era molto facile che variasse, manovrata dai vincitori di guerre e conflitti, non dai perdenti, mai dai perdenti, la storia non la scrivono i vinti, per condannare ed oscurare i predecessori. Ma poi c’era quella singola, quella privata, influenzata da nessuno se non dagli stessi che l’avevano creata, ed era perfino peggiore della precedente, perché conservava tutto, anche momenti che si preferirebbero dimenticare, creando contrasti forti e paradossali nei confronti di oggetti, luoghi, persone. Ed era quello che stava provando lo sciamano in quel momento, mano intinta nel succo del frutto e sospesa sopra la figura stilizzata di un leone dalla criniera nera e il manto del colore della terra bruciata: se era facile, sorprendentemente facile, provare un odio assoluto al pensiero di Scar, soprattutto perché si affiancava a Mufasa, Mufasa che così tanto gli aveva ricordato Mohatu, era quasi impossibile far rimanere immutato quel sentimento ritornando al momento in cui era nato Taka, palla di pelo scura nelle sue mani, piccola, troppo piccola, destinata a parere di tutti, anche suo, ad una morte precoce e che invece era sopravvissuta, aggrappandosi alla vita con una tenacia invidiabile. Era sempre stato perseverante, perseverante ed estremamente testardo, e quello almeno, o purtroppo considerando ciò che poi la sua caparbietà, trasformatasi in ossessione e follia, aveva portato, non era mai cambiato come era invece mutato tutto il resto della sua personalità. Questo, insieme alla strana capacità di disattendere le aspettative altrui, erano stati i suoi tratti fondamentali, a cui purtroppo si erano aggiunti gelosia, odio ed una sete di potere che mai avrebbe creduto potesse provare. Ma, d’altronde, Taka era sempre stato bravo a sorprendere coloro che gli stavano attorno. Eppure, non sapeva se attribuire la sua bravura ad una sua intrinseca capacità di comportarsi contro corrente, oppure all’atteggiamento altrui, che forse mai si era aspettato grandi cose dal micio spelacchiato che era venuto alla luce minuto e fragile dopo che già un re predestinato aveva iniziato a vivere: non era una giustificazione per le sue azioni quella a cui il babbuino stava pensando, perché uccidere il proprio fratello, sangue del tuo sangue, a mente fredda non era un’azione per il quale si potessero trovare delle scuse efficaci, semmai una spiegazione. Una spiegazione in cui comprendeva che il costante paragone, anche se giustificato, può ferire, che non aspettarsi nulla di interessante da qualcuno che invece qualcosa avrebbe potuto dare può essere un errore, che la sete di attenzioni, se ripetutamente insoddisfatta e certamente accompagnata ad un’indole arrogante, e forse anche un poco insicura, può trasformarsi in altro, meno innocuo e più distruttivo.

Rafiki, con un profondo sospiro, un’ultima pausa ed infine un movimento deciso, passò la mano sopra la figura davanti a sé, che si oscurò e sbiadì a contatto con il liquido che aveva fra le dita: era finita. Anche quella vita si era conclusa, quella strada era giunta ad un termine. E la nostalgia di un tempo passato per il babbuino diventava sempre più grande ogni volta che si ritrovava a compiere quello stesso gesto. Ogni volta troppo presto. 

Lanciò poi un’occhiata di insieme alla corteccia, passando in rassegna tutti i sovrani con cui aveva vissuto, che aveva visto nascere, a cui poi aveva dovuto dire addio e lo sguardo gli cadde irrimediabilmente sui due fratelli, vicini lì quanto distanti erano stati in vita, le cui immagini erano ormai entrambe distorte e dai contorni non definiti, esattamente come probabilmente sarebbero divenuti i loro ricordi, seppur in senso totalmente diverso.

Perché Mufasa aveva fatto degli errori, pochi, quando era più giovane, più inesperto, più arrogante, ma li aveva fatti. Ed essi sarebbero scomparsi, mai rammentati, per lasciare posto alla figura che tutti avrebbero conosciuto, quella del re integerrimo, perfetto, abbagliante nella sua gloria. 

Perché Scar aveva compiuto delle buone azioni, quando era più piccolo, onesto, innocente, Taka, ma le aveva compiute. Ed anche esse sarebbero scomparse, dimenticate, facendo costruire nella mente delle nuove generazioni l’immagine dell’assassino, del tiranno usurpatore, del mostro, tutti appellativi che forse meritava, ma che forse sarebbero dovuti essere completati da altro.

Perché uno di loro, dal manto color miele e la criniera rossa, che mai aveva ricercato la fama, solo la giustizia, sarebbe stato onorato ed omaggiato per decenni come uno dei migliori leoni la savana avesse mai conosciuto.

Perché l’altro, criniera nera e pelliccia arancione chiaro, che voleva solo essere ricordato ed acclamato quasi al pari di un dio, avrebbe avuto il suo nome pronunciato a bassa voce e con disprezzo, portatore di odio e di rabbia per un passato che nessuno avrebbe mai voluto rivivere.

Lo sciamano scosse la testa, sapendo che un giorno anche il suo momento sarebbe arrivato, e con amarezza si chiese quale sarebbe stata la memoria che gli altri avrebbero portato avanti di lui, prima di scendere da quel ramo. Rivolse uno sguardo in alto, diretto agli astri e a chi sperava, anzi, sapeva, stesse guardando lui e tutti gli altri da quel luogo lassù e si avviò nuovamente verso la Rupe dei Re, lasciando impressa sulla corteccia, dietro di sé, l’immagine sfocata di un leone che probabilmente non avrebbe trovato posto nel cielo stellato che tanti stavano osservando in quel preciso istante.

Opposto al fratello ancora un’ultima volta.

 

 

 


FINE

 

 

 

 

 




Wow. E così è finita. È strano, devo ammetterlo: ho iniziato questa storia ormai otto mesi fa e vederla completa è... abbastanza traumatico. Ma tutte le cose belle devono finire, giusto? E così anche questa storia. Scar è morto, il Cerchio della Vita ha ripreso il suo corso e il nuovo re della savana non è che all'inizio del suo dominio: ho voluto lasciare le ultime parole ad un personaggio, a parer mio, molto ignorato, ma che meglio di tutti probabilmente ha potuto avere un quadro della situazione: i babbuini vivono più o meno sei volte più a lungo dei leoni (ho controllato), quindi è piuttosto logico che lui più di Scar, di Mufasa, di Simba abbia potuto vedere l'evoluzione delle Pride Lands e mi piace pensare che abbia voluto bene, in fondo, un po' a tutti i sovrani da lui conosciuti. Taka compreso, prima che diventasse Scar.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito in quest'avventura e hanno messo questa storia tra le seguite, perché è anche grazie a loro se ho mantenuto l'interesse di aggiornare, sapendo che qualcuno, almeno avrebbe letto quello che stavo scrivendo:

1 - Clairefreiser 

2 - Justmeonhere 

3 - Nerd_Girl_97 

4 - Plutonia

5 - QueenElsa_ 

6 - Sherlocklupinirene

7 - Stella cadente 

8 - Total Nintendo Drama

9 - WildeFox 

 

E, ovviamente, un grazie speciale a Stella Cadente, Nerd_Girl_97, Justmeonhere e Sir Joseph Conrard per aver commentato ed avermi sponato ad andare avanti: spero che troviate anche quest'ultimo capitolo di vostro gradimento e che mi lasciate un'ultima recensione generale.

Incoraggio, in realtà, tutti quelli che sono arrivati fin qui ad esprimere il loro giudizio complessivo: piaciuta? Non piaciuta? Cosa potrei migliorare?

Grazie infinite a tutti quelli che sono arrivati fino a qui e anche a quelli che, spero, ci arriveranno anche a storia conclusa,

A presto, magari su un altro fandom,

L_A_B_SH

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