Malombra - Le origini di un eroe

di La_Moltitudine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***
Capitolo 3: *** Atto III ***
Capitolo 4: *** Atto IV ***
Capitolo 5: *** Atto V ***
Capitolo 6: *** Atto VI ***
Capitolo 7: *** Atto VII ***
Capitolo 8: *** Atto VIII ***
Capitolo 9: *** Atto IX ***
Capitolo 10: *** Atto X ***
Capitolo 11: *** Atto XI ***
Capitolo 12: *** Atto XII ***
Capitolo 13: *** Atto XIII ***
Capitolo 14: *** Atto XIV ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


Atto I

Gaetano non sapeva spiegarsi cosa, di preciso, desse alla casa di Arthur quell’alone di antica nobiltà che la permeava. Forse erano i pavimenti rosso borgogna, o magari il mobilio in mogano scuro, o ancora i quadri e gli arazzi che riempivano le pareti altrimenti spoglie.
Nel soggiorno scoppiettava un allegro fuocherello, che consumava i grossi ceppi di legna a piccoli morsi, uno dietro l’altro. Dalla finestra, attraverso i lucidi vetri, filtrava la grigia luce di Londra: lei, la città sempre in presentimento di pioggia.
Gaetano era un uomo abituato all’eleganza, alla raffinatezza, anche nella sua versione più informale portava come minimo una giacca e una cravatta. Dall’occhiello faceva capolino il suo fazzoletto di seta, con sopra ricamate le due “J”. Era il ricordo di un passato che si era lasciato alle spalle ormai da molto tempo, quel fazzoletto gli era stato donato da nientemeno che sua maestà, la regina d’Inghilterra, per ringraziarlo del suo operato durante la crisi in Medioriente.
Con le dita affusolate Gaetano sfiorò un lembo del fazzoletto, ripensando con un po’ di nostalgia alla cerimonia in pompa magna durante la quale l’aveva ricevuto, e poi tirò su’ gli occhiali quadrati, lungo la gobba adunca del naso.

-Perdonami se ti ho fatto aspettare, amico mio. – Disse una voce, spezzando il vuoto che la lunga attesa aveva creato, distogliendo Gaetano dai ricordi che si erano ripresentati nella sua mente.
-Non preoccuparti, Arthur. – Rispose, con un inglese fluido almeno quanto quello dell’amico.

Arthur era un inglese doc: nato e cresciuto a Londra, nella stessa casa in cui viveva attualmente. Proprio come Gaetano, Arthur esibiva un vestiario sempre elegante e impeccabile, anche se, nel suo caso, c’era quella sfumatura di retrò data dal cappello a cilindro e dall’ombrello con tanto di testa di cavallo intagliata, usato a mo’ di bastone da passeggio. Del resto Arthur aveva sulle spalle il peso di una famiglia di antichi e nobili natali, che non poteva certo disonorare con zaffate di casual e sciatteria.
Chi non avesse conosciuto Arthur, o meglio, chi non avesse mai vissuto a Londra, avrebbe potuto pensarlo un damerino, viziato da una vita agiata e da fin troppe fortune. Ma talvolta la verità è ben diversa da ciò che appare: dietro quel corpo da spilungone, dietro gli abiti costosi, si celava il più grande e famoso eroe di Londra. Colui che da solo aveva dimezzato il tasso di criminalità della City nel giro di un solo anno, l’uomo che ogni londinese conosceva con lo pseudonimo di “The Gentleman”.
Non era raro trovarsi faccia a faccia con un supereroe, il fenomeno del cosiddetto “eroismo” era ormai globale: l’ Associazione Eroi era diffusa in ogni angolo della terra, con l’autorizzazione e la funzione di mantenimento dell’ordine pubblico. Talvolta gli eroi arrivavano a sostituire la polizia e l’esercito nelle loro mansioni. Quelli più attivi diventavano vere e proprie celebrità, con schiere di fan adoranti e cartelloni pubblicitari con le loro facce stampate sopra. Effetto collaterale dell’eroismo era la nascita di una nuova figura professionale: l’hero manager. Uomini e donne deputati al sostegno degli eroi in erba, con l’obbiettivo di farli emergere. Un buon hero manager doveva non solo curare l’addestramento fisico e mentale del suo protetto, ma anche, e soprattutto, preoccuparsi della sua immagine pubblica. Un eroe che non fosse benvoluto dalla gente raramente faceva strada.
Se c’era qualcuno davvero bravo a far di un aspirante eroe una star, quello era Gaetano Scalpelli. Nella sua lunga carriera si era occupato di mostri sacri del calibro di Elmetto Giò, Dynamo First, Madame Bastille. Il suo più recente successo era stato proprio The Gentleman, con cui aveva stretto un’amicizia profonda, favorita da una fortuita comunanza di carattere e interessi.
-Come stai J.J.? – Chiese Arthur, accomodandosi sulla poltrona accanto alla sua.
-Bene, Arthur – rispose, non troppo convinto – ma devo confessarti che da qualche tempo avverto una strana melanconia in me, qualcosa che non so’ spiegarmi…
-O magari che non vuoi ammettere. –
Lo rimbeccò giocosamente, esibendo un sorriso d’intesa. – Ti conosco fin troppo bene vecchio mio.
-Hai ragione … - ammise – non fraintendermi, amo il mio lavoro ma credo di aver bisogno di una pausa da tutta questa baraonda. Starmene per i fatti miei, capisci? Almeno per un po’.
-Non sentirti in colpa, lavori come un ossesso! Anche i migliori hanno bisogno di staccare a un certo punto. Potresti andartene in vacanza, in effetti conosco un posto che farebbe al caso tuo.
-In realtà avrei già un posto in mente, un luogo che mi è familiare ma in cui non torno da tanto, tantissimo tempo.
-Uhm, non parlerai forse dell’Italia? –
Chiese Arthur, con un’espressione entusiasta in viso.
-Hai ragione quando dici di conoscermi troppo bene, vecchio mio.
-L’Italia è bella, c’è un luogo in particolare? –
Continuò l’Inglese.
-Un piccolo paesello sulla costa.
-E qual è questo “paesello” di cui parli?
-Sentinella delle acque, lì dove sono nato. È in Puglia, nel sud. L’odore di mare ti riempie i polmoni se passeggi per il porto, durante le calde giornate estive, e la sera c’è sempre quella brezza leggera che ti scompiglia i capelli. –
Non poté fare a meno di sorridere ricordando i giorni della sua giovinezza. – Sì, è lì che andrò. È proprio quel che mi ci vuole.

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Capitolo 2
*** Atto II ***


Atto II

Era una bella mattina di metà settembre nel paesino pugliese di Sentinella della Acque. Il canto dei passerotti appena ridestati accompagnava il risvegliarsi del giorno, col suo cielo limpido, ancora azzurro degli ultimi sprazzi d’estate. Per le strade, deserte sino a qualche tempo prima, adesso muovevano i passi frotte di giovani, pronti o quasi ad affrontare la ripresa delle lezioni, dopo i tre lunghi mesi di vacanza. I più fortunati potevano raggiungere la propria scuola a piedi, qualcun altro ci si faceva accompagnare, ma gli altri, quelli che studiavano fuori città, dovevano adattarsi ai ritmi e agli orari dei mezzi pubblici.
I pendolari, questa razza di temerari avventurieri del primo mattino, in costante lotta con le avversità che una simile vita comportava: ritardi, anticipi, macchinette per obliterare che si rifiutavano di funzionare una volta sì e l’altra pure, posti a sedere che si manifestavano talmente di rado da apparire più simili a miraggi che ad effettive realtà. Una sinestesia di suoni, odori e immagini, capaci di guastare l’umore del più trasognato e tenacemente spensierato degli individui. Insomma, una vita che faceva delle difficoltà il suo fulcro centrale. Ma la vera piaga che affliggeva ogni quotidiano viaggiatore, era costituita da loro: la cricca del fondo pullman. Un branco di pubescenti senza altro apparente scopo nella vita se non quello di molestare gli altri passeggeri nei modi e nelle forme più disparate.
Del resto, il bullismo era un problema già molto tempo prima che gli eroi facessero la loro comparsa nel mondo. Eppure l’A.E. aveva cercato di porvi rimedio, o almeno, di arginare il problema. Giacché la maggioranza dei cosiddetti bulli aveva un’età inferiore ai 18 anni, non si poteva certamente ricorrere ai normali eroi che, oltretutto, avevano di meglio da fare che gambizzare qualche moccioso ricolmo di testosterone.
Così, l’Associazione aveva scelto di estendere l’iscrizione nei loro ranghi anche ai minorenni, prevenendo eventuali contrarietà dell’opinione pubblica e dando vita ai “Baby Heroes”. Ragazzi e ragazze con la piena facoltà di difendere i loro coetanei, e scoraggiare atti di violenza verbale e fisica. Non era dunque raro trovare in un mezzo pubblico uno, o più, di questi baby heroes, pronto a intervenire in caso di necessità.

Quella mattina di metà settembre, sul pullman diretto verso Molfetta, Angelo, un sedicenne di periferia, voleva conquistarsi il rispetto dei suoi compari per entrare a pieno titolo nella cricca del fondo pullman. Per una ben consolidata tradizione, questo “battesimo del fuoco” non poteva che celebrarsi con un pestaggio. Angelo scelse con cura la sua preda, valutando i rischi e l’entità di eventuali reazioni. Non gli ci volle molto per trovare un candidato che si prestasse allo scopo: un ragazzino con lo zainetto rosso si era fatto avanti, piazzandosi in piedi proprio di fronte alle porte posteriori dell’automezzo. L’ignara vittima si chiamava Mario, anche noto come Mariolino, un esile ginnasiale al suo primo giorno di liceo. Nei suoi occhi ingenui brillava tutta quella congerie di grandi speranze, riposte in un futuro lungo cui muoveva i suoi primi passi, attraverso una strada lastricata d’amicizie, sfide e nuovi amori. Un mondo nuovo, che l’avrebbe traghettato dall’adolescenza sino all’età adulta. Gli anni delle superiori.
Dapprima Angelo si limitò a blande provocazioni, cui Mariolino, coerentemente con la sua natura mite, non diede risposta. Dopo si passò agli scappellotti, sino a giungere al vivo del pestaggio. Il bulletto di periferia si sentiva forte e potente come non lo era mai stato prima. Dalla cricca del fondo pullman si levavano risa e schiamazzi d’approvazione, mentre gli altri passeggeri rimanevano lì a guardare, con giusto qualcheduno che si arrischiava a uno sguardo di disapprovazione, senza osare alzare un solo dito. Non era un problema loro, perché darsi pena? Perché rischiare di cacciarsi nei guai?
Ogni membro della cricca faceva affidamento su quell’indifferenza, sul silenzio, sulla paura di esporsi. Eppure, quel mattino di metà settembre, fra i tanti … i troppi rimasti a guardare, qualcuno scelse di fare la differenza.
Indossava abiti decisamente poco adatti al clima corrente. Il suo volto era celato dal cappuccio della felpa e da uno scaldacollo tirato fin sopra il naso. I suoi occhi scuri, resi gravi dalle occhiaie, fissavano Angelo come se non lo stessero guardando affatto, come se contemplassero un vuoto oltre le sue spalle. Quando il bulletto di periferia se lo ritrovò a un palmo di naso, il povero Mariolino ebbe finalmente un po’ di tregua, anche se il suo aguzzino non se lo lasciava certo scappar via dalle grinfie.

-Senti, coso. Oggi non sto proprio di quarto, quindi vedi di mollare il ragazzino e rimettere il tuo culo su quel sedile.

La voce annoiata ma sicura, l’aspetto inconsueto: non poteva che trattarsi di un baby hero, Angelo ne era consapevole. Quel tizio incappucciato lo superava di dieci centimetri buoni e le spalle erano almeno il doppio delle sue. Nella cricca del fondo pullman era disceso un silenzio innaturale … il bulletto di periferia fu quasi tentato di lasciar perdere, finirla lì. Eppure qualcosa glielo impediva, nella testa continuava a risuonargli il tono con cui quel tipo gli aveva parlato, come se lo considerasse una nullità, poco più che un insetto che poteva schiacciare con una lieve pressione del piede.
No, non poteva sopportare una simile offesa, non di fronte ai suoi amici. Non poteva mostrarsi debole: ne andava del suo orgoglio, della sua reputazione.
Raccolse quanto coraggio aveva in corpo e gli rispose, tirando fuori la faccia più tosta che si ritrovava.

-Fatti i cazzi tuoi tu, fila via che non ti riguarda.
-Non lo ripeterò, molla il ragazzino. –
Disse l’incappucciato, per nulla intimorito quanto piuttosto annoiato e infastidito da quella tenace mancanza di buonsenso.
-Perché? Sennò che  fai?! – Lo provocò Angelo, ora certo che quel tipo non avrebbe osato alzare un dito contro di lui.


                                         
BABY HERO SPEZZA IL BRACCIO A UN SEDICENNE
Rissa su un pullman, Baby Hero accusato di abuso di potere: siamo davvero al sicuro?

Per poco non glielo sbatteva in faccia quel titolo di giornale, inciso a caratteri cubitali sulla carta.

-Questa me la chiami buona pubblicità?! – La donna aveva tirato fuori lo sguardo da vipera, uno sguardo che Giacomo conosceva ormai fin troppo bene. I suoi occhi di ghiaccio si socchiudevano un poco, lo guardavano quasi volessero incenerirlo e l’elegante profilo della bocca si storceva in una smorfia grottesca.

Un cartello con su scritto “furia omicida” non sarebbe stato altrettanto eloquente su quanto la donna fosse incazzata. Il ragazzo sapeva che, date le circostanze, avrebbe fatto meglio a tacere e cuccarsi la sfuriata, magari tirando fuori la sua espressione più contrita ed affranta. Ma Giacomo Pagusa non era il tipo che sapeva tenersi la bocca chiusa, specie quando lo si accusava e lui, di contro, aveva la ferma convinzione d’essere nel giusto.

-Andiamo, Mag – disse, facendo un sorriso sbarazzino – sai che i giornalisti ci calcano sempre la mano su ‘sto genere di cose. E poi, anche se fosse, ti assicuro che quello stronzetto se lo meritava.
-Ci vogliono trascinare in tribunale, Jack! Calcarci la mano un paio di palle! Hanno referti medici e testimoni pronti a farci pelo e contropelo. E indovina un po’ chi è la stronza che per l’ennesima volta dovrà pararti il culo davanti al giudice?! –
Non attese di ricevere l’ovvia risposta. – La sottoscritta! Ti dico una cosa, se non ci fosse una tale carenza di eroi in questo buco di paesino, non mi darei tanto disturbo per te.

“Ah, questo era un colpo basso…”
pensò il Pagusa, toccato da quell’ultima affermazione. Tuttavia sapeva, dentro di sé, che per quanto quella donna perdesse le staffe con lui e ci andasse giù pesante, il rapporto che li legava andava ben oltre il semplice ambito professionale. Dall’inizio della sua carriera come eroe, il Pagusa ne aveva combinate di ogni, ma Magda era sempre stata lì per lui, pronta a limitare i danni e rimediare in qualche modo ai suoi errori. Ignorava i motivi che avevano spinto quella donna dal caschetto biondo e le unghie sempre curate a prenderlo così a cuore, ma era certo che presto o tardi gli avrebbe perdonata anche questa, come molte altre stupidaggini passate. Forse era arrivato il tempo di mettere la testa posto, quel giorno compiva diciott’anni e ciò significava: uno, diventare penalmente perseguibile e, due, passare dalla fascia protetta dei baby-heroes al duro e feroce mondo degli eroi, dove la competizione era a dir poco spietata. L’A.E. non si caricava di pesi morti e gli eroi che non riuscivano ad emergere e farsi notare venivano lasciati alla porta, privati della licenza senza troppi complimenti. Il tempo degli sgarri, il tempo delle stronzate finiva lì.
Con il futuro che gli si prospettava era meglio fare ammenda e tenersi ancor più stretti i pochi amici che aveva. Giacomo abbassò lo sguardo e con voce bassa e pentita le disse:
-Grazie, per tutto quello che hai fatto per me in questi anni. Prometto che non ricapiterà più.
-Lo ripeti tutte le volte, e poi siamo di nuovo punto e a capo. È l’ultima volta che mi metto nei casini per salvarti.
-E questo è quello che “tu” ripeti tutte le volte. –
La stuzzicò, sperando che servisse a sdrammatizzare. L’espressione della donna si addolcì impercettibilmente.
-Sono troppo buona…
-E per questo che ti voglio bene, Mami.
-Non chiamarmi così! –
Gli disse, fingendosi infastidita. – Comunque, so’ che oggi qualcuno diventa maggiorenne, come ti fa sentire?
-Un giorno più vecchio rispetto a ieri. –
Rispose il Pagusa, facendo spallucce.
-Fai poco lo spiritoso, Jack, sai a cosa mi riferisco. – Disse lei. – Hai intenzione di continuare?
-Sicuro, su questo non ho dubbi, e poi non avrei alternative.
-Sappi che le cose si faranno più complicate d’ora in avanti. Gli eroi hanno bisogno di finanziamenti per continuare a lavorare, e il solo modo per ottenerli è farsi conoscere.
-Magari dovrei propormi per uno spot della Coca Cola.
-Sei il solito idiota. Ti toccherà far di più che malmenare un paio di bulletti sui trasporti pubblici… ti consiglierei anche di far sparire quella pancia, non si sposa bene con le calzamaglie.
-Non me la metto una calzamaglia. –
Protestò, sbuffando rumorosamente.
-In ogni caso sono problemi di cui potrai iniziare a preoccuparti da domani, per oggi goditi il tuo compleanno. – Un sorriso quasi materno le illuminò il viso. – A proposito, questo è per te. – Disse, porgendogli un pacchetto incartato.
-Oh, che bello! Sono soldi?
-Li spenderesti per comprarti le sigarette, scordatelo che ti regali del denaro. È solo un pensierino da parte mia. Ora sparisci, che ho del lavoro da fare. –
Concluse, tornando alla sua consueta aria da vipera.

Magda era una donna sposata con il suo lavoro e il tempo per formarsi una famiglia non lo aveva mai avuto. Ogni sua aspirazione di maternità aveva finito per ricadere sul Pagusa, che era al momento la persona più simile ad un figlio che ci fosse nella sua vita.
Per quel che riguarda Giacomo, Jack per gli amici, a differenza di tanti eroi da fumetto, una madre e un padre ce li aveva e per fortuna godevano entrambi di ottima salute. Ciò non toglieva che negli anni avesse finito per considerare Magda una sorta di seconda mamma, pur con le sfumature dell’amicizia che li legava.
La famiglia Pagusa viveva in quell’anello di antichi edifici che circondava il centro storico di Sentinella delle Acque. Non erano gente ricca, ma neanche sulla soglia di povertà, insomma persone nella media che, di tanto in tanto, qualche sfizio potevano toglierselo.
Il signor Antongiulio Pagusa faceva da contabile per un’azienda di prodotti per la casa, dopo un brutto periodo in cui era stato costretto a far la spola da un impiego all’altro.
La signora Maria, sua moglie, lavorava invece nella casa di cura locale (ex manicomio), la quale dava lavoro a metà del paesino e dei centri vicini.
Luca, fratello di Jack, dopo aver studiato nell’alberghiero di Pescara, in Abruzzo, era tornato a Sentinella per lavorare come cameriere in un ristorante del posto.
Per ultima la sorella, Lisa Pagusa, era partita a Londra in cerca di lavoro come infermiera, col desiderio di farsi una vita fuori dalle comode e sicure mura casalinghe.
Giacomo era il più giovane dei fratelli. Era l’unico a non aver mai avuto né trovato quello che poteva definirsi “un lavoro vero”. La sua carriera da eroe era iniziata a sedici anni, quando, annoiato dagli studi, aveva mollato tutto per entrare nell’A.E.
Di certo la predisposizione fisica non gli mancava: alto, spalle larghe e con una certa prestanza, anche se negli ultimi tempi aveva messo su’ un po’ troppa pancetta.
La sua mente era stata resa agile da un certo gusto per i libri. Non mancava d’intuito e  della capacità di imparare in fretta (almeno ciò che destava il suo interesse).
Il vero problema del Pagusa stava nel suo caratteraccio: era annoiato da più o meno qualsiasi cosa, tendeva a porsi in modo caustico e cinico verso chiunque, rendendo difficile il suscitar simpatia nelle persone intorno a lui, anche quando faceva del bene. C’era chi apprezzava questo suo modo di fare, ma in genere queste persone facevano parte della ristretta cerchia di amici di cui s’era circondato, che, guarda caso, erano aspiranti eroi pure loro.

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Capitolo 3
*** Atto III ***


Atto III

Dai finestrini dell’aereo poteva vedere il sole al tramonto sprofondare nella terra, accendendo d’un bagliore rosso il cielo, come un ultimo saluto prima della sera.
Si era levato in volo dal cielo grigio di Londra ormai da un’ora e, adesso, il mondo lì fuori era talmente piccolo da vedersi appena, poco sotto il vello delle nuvole.
Quando Gaetano aveva informato l’A.E. inglese della sua intenzione di tornare a Sentinella (con obbligo di mantenere l’informazione riservata), l’Associazione gli aveva messo a disposizione un aereo privato. La compagnia aerea affiliata all’organizzazione, la Jet-Jet Airlines, disponeva dei velivoli più sicuri e all’avanguardia del pianeta, anche se il loro utilizzo era destinato solo agli amministratori e alle personalità più importanti dell’Associazione.
Fra le tante comodità a disposizione sull’aereo, la più utile per Gaetano era sicuramente il Wi-Fi installato a bordo. Da molto tempo non tornava nel suo paese natale e informarsi sulle ultime notizie lo avrebbe aiutato a limitare, almeno un poco, la sensazione di spaesamento che avrebbe provato all’arrivo.
Con un gesto aprì il portatile e si collegò a internet, navigando dritto al quotidiano online che aveva più o meno ogni comune d’Italia. Quello di Sentinella si chiamava “Sentinellalive”, certamente non brillava per originalità, ma forniva informazioni rapide e facili da trovare, com’è buona norma d’ogni giornale sulla rete.
La notizia del giorno parlava di un suicidio nei pressi del centro storico: il corpo era stato rinvenuto la notte prima e, leggendo il nome della vittima, Scalpelli strabuzzò gli occhi dietro gli occhiali quadrati. Il nome di Don Calogero Busconi suonava familiare ad ogni uomo, donna e bambino di Sentinella: il Busconi proveniva da una lunga tradizione di falegnami, maestri nell’arte di lavorare il legno, ma la sua vera passione era di tutt’altra natura… egli era un criminale, un signor criminale.
Chiunque nel paesino gli portava rispetto e prima di parlargli s’inchinava e gli baciava la mano. Che un uomo tanto potente e celebre potesse mettere fine alla sua stessa vita non c’era da aspettarselo, eppure i fatti parlavano chiaro. Forse le ombre delle sue malefatte avevano infine avuto la meglio su di lui, portandolo a un gesto tanto estremo. Questo, tuttavia, Gaetano non poteva saperlo con certezza, ciò che era certo era che questi evento avrebbe rimescolato le carte in tavola, e i giocatori erano i malavitosi di Sentinella e della provincia. Si era creato un vuoto di potere e questo non poteva portare che a una lotta per accaparrarselo.
Ma perché se ne preoccupava? Stava tornando a casa in cerca di tranquillità, non certo per mettersi a fare il supereroe e impicciarsi di affari che non lo riguardavano. Se ne sarebbe occupata l’A.E. e la polizia di simili faccende, lui se ne sarebbe stato fuori, per conto suo. Nel tentativo di accantonare questi pensieri, Gaetano passò a dare uno sguardo alle altre news: fra le feste, le sagre, le processioni varie, ecco spuntargli dinanzi un altro articolo, capace di stuzzicare il suo interesse: stavolta si parlava di un baby hero che aveva rotto il braccio a un sedicenne. Gaetano non poté fare a meno di sorridere, gli eroi che facevano di queste cose raramente vivevano a lungo, professionalmente parlando. Ma c’era altro, dopo l’iniziale ilarità, una voce gli sussurrò nella testa: non erano parole chiare, era più un’indefinita suggestione che lo invitava a…
“No!” disse, fra sé e sé, chiudendo il portatile di scatto “Sono in vacanza!”.

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Capitolo 4
*** Atto IV ***


Atto IV

Nella contrade più interna di Sentinella delle Acque, fra i viottoli scuri e i palazzi di pietra calcarea, sorge il centro di origine medievale del paese. In quel luogo la gente rimaneva legata alle antiche tradizioni dei loro padri, si parlava lo stretto dialetto sentinellino: fatto di vocali brevi e consonanti dure. Qui, in questo posto dimenticato dal tempo, Sentinella custodiva i suoi tesori più preziosi e inestimabili: la Cattedrale, con le reliquie dei tre santi patroni; l’antica residenza nobiliare di Lucrezia Borgia con la bugnatura della sua facciata esterna, e, infine, l’ulivo secolare, assunto a simbolo della città, impresso sullo scudo rosso del suo stemma.
Quell’albero aveva visto il paesino crescere dal suo primo nucleo originario. Lo aveva visto evolversi e cambiare, generazione dopo generazione. Ai padri si sostituivano i figli, la gente invecchiava sotto il suo silente sguardo, c’era chi andava, chi veniva, ma lui era sempre lì. Le sue radici scendevano sin nelle profondità della terra e, a vederlo, veniva da pensare che dovesse vivere almeno quanto Sentinella stessa.
Tuttavia, ogni fantasia o credenza era stata vanificata dalla cruda realtà degli eventi: il gigante aveva infine ceduto, logorato dall’inesorabile scorrere del tempo, come lo sono tutte le creature viventi. Nell’ultimo anno i suoi rami s’erano spogliati di foglie e di frutti, lasciando il posto a secchi artigli nodosi; la robusta corteccia era costellata di squarci e ferite da cui scorreva ambrata linfa. Qualcosa lo stava uccidendo dall’interno, se avesse avuto una bocca per gemere forse l’avrebbe fatto. La sua era una sofferenza muta, che trovava voce solo in coloro che vi posavano sopra gli occhi e sentivano quel dolore che si prova nel vedere decadute le cose belle e antiche, simboli di una storia più lunga della vita di qualsiasi uomo.
Dopo numerosi e vani tentativi di rimetterlo in salute, il Comune ne aveva infine ordinato l’abbattimento, affidando l’ingrato compito a Don Calogero Busconi che, data la sua attività di falegname, avrebbe quantomeno riutilizzato tutto quel legno per ridare in qualche modo vita e lustro all’ulivo secolare, anche se in una forma differente. Così, dove una volta sorgeva l’albero di Sentinella, adesso c’era un largo ceppo: lasciato a desolata memoria di ciò che quell’accenno di tronco era una volta. Sugli anelli concentrici impressi dagli anni nel cuore del vegetale, si proiettava l’ombra della Villa Busconi, quel giorno tetra e silenziosa per la morte dell’uomo che l’aveva abitata per tanti lunghi anni.

I funerali di Don Calogero s’erano svolti in pompa magna, e metà del paese era andata ad assistervi. Ma alla sera, a riempire la tenuta, non v’era che la vedova affranta dell’uomo e un manipolo di loschi figuri ben vestiti, riunitisi nella bottega da falegname del vecchio Busconi.
I loro sguardi scorrevano per le pareti, soffermandosi inquietati su quei pupazzi da ventriloquo con cui Don Calogero aveva riempito il suo posto di lavoro, burattini con gli occhi vuoti e senz’anima più dei loro.
Si erano accomodati intorno a un tavolo circolare, alla luce di una lampadina appesa al soffitto e parlavano, parlavano con il tono grave e serioso di tutte le questioni di una certa importanza. I loro volti erano segnati, segnati dal lutto e dalla congerie di preoccupazioni quotidiane per persone della loro pasta, preoccupazioni non comuni alla gente per bene, che conduce una vita onesta e lontana dai malaffari.

-Ora che Don Calò se ne è andato, gli andriesi bussano nuovamente alla nostra porta. – Disse un uomo minuto, con la faccia da roditore e la coppola ben calcata sul capo. – Sono anni che manteniamo l’indipendenza dalla Triade, sappiamo noi con quali e quanti sacrifici. Io dico ‘na cosa: stringiamo alleanza, diventiamo soci e risolviamo il problema!
-E dove sta allora il nostro onore?! –
Protestò un uomo tarchiato, che dal cipiglio pareva uno avvezzo a menare le mani.
-Son d’accordo con Bastianazzo. – Intervenne un altro – Andria, Barletta, Trani, la Triade c’ha tutta la provincia! Dobbiamo combattere, Don Calò questo voleva!
Un uomo alto, secco come un fuscello e gli occhiali tondi in viso, prese la parola, schiarendosi la voce. Il suo nome era Pierangelo Catino, cognato del compianto Busconi e suo socio in affari non esattamente puliti. Dal tono di superiorità che adoperava, si sentiva che almeno a cultura era un gradino sopra ogni altro presente in bottega.

-Signori miei, quietate gli animi. Mio cognato teneva a bada la Triade perché aveva il loro rispetto, cosa che a noi non è data di avere. Questo credo sia un dato di fatto. – Gli altri risposero con un cenno di sofferto assenso. – Non verremo mai trattati come loro pari. Se davvero abbiamo un po’ di onore in corpo e amore per il nostro paesino, dovremmo combattere e tenere le loro sudicie mani lontano dai nostri affari.
-Ma che v’è preso a tutti quanti? Volete davvero scatenare un’altra guerra?! Siete dei folli, io mi chiamo fuo-
l’uomo con la faccia da topo non fece in tempo a concludere la frase, che il volto gli divenne rosso e prese a boccheggiare, nell’inutile tentativo di tirare un po’ d’aria nei polmoni. Un filo sottile gli serrava la gola. Prima che chiunque potesse intervenire, il piccoletto era già bello che stecchito.

Un figuro incappucciato, alto come un bambino, prese il posto appena liberatosi al tavolo, poggiando le sue minuscole mani guantate sul tavolo. Qualcuno, preso forse dallo spavento, fece partire un colpo: la pallottola trapassò il petto dell’incappucciato con un fracasso assordante. L’incappucciato non parve però esserne disturbato e prese a parlare con una calma e una naturalezza che, date le circostanze, avrebbero fatto venire i brividi in corpo a chiunque.

-Ora che le vostre divergenze sono state appianate, direi che è tempo di metterci seriamente al lavoro. – Disse il nuovo arrivato, accennando un risolino.
-Gli ho sparato!! Doveva essere morto! – L’energumeno, con ancora la pistola in mano, si era fatto bianco e pallido come uno straccio, pareva che da un momento all’altro dovesse avere un mancamento.
-Caruso, mantieni la calma. – Disse Catino. – Ci può spiegare di grazia chi è lei e che ci fa qui?! –Continuò, malcelando il groppo in gola che gli era venuto per lo spavento e l’irritazione. Normalmente Catino aveva un’impeccabile autocontrollo, ma una situazione simile avrebbe messo a dura prova anche il più lucido e stoico degli uomini.

-Oh, mio caro zio… ma questa è casa mia, dove altro vuoi che stia? – Replicò il figuro, divertito.
-“Zio”? Conosco Gianni e Caterina da quando erano bambini, non si sono mai interessati all’attività di mio cognato. Quindi ripeto la domanda, chi sei tu?
-Sono ferito, -
lo sconosciuto si portò una mano guantata al petto – come? Non ti ricordi del tuo dolce Marcellino?
Pierangelo sbarrò gli occhi e prese a balbettare, forse per la prima volta in vita sua era sorpreso.
-Ma … ma Marcellino è morto! Non è possibile! È morto che era un bambino!
-Già,
- ancora quell’inquietante risolino ­– ma alle volte i morti ritornano, caro zio.

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Capitolo 5
*** Atto V ***


Atto V

Illuminato dalle luci del centro, il tendone bianco se ne stava lì, con i lembi scompigliati dalla brezza leggera. Nel suo ventre di plastica un agglomerato di tavoli, sgabelli e sedie malferme ripiegabili. Sulla parete, proprio sopra l’ingresso, c’era l’insegna del locale: caratteri bianchi e corsivi, impressi su uno sfondo borgogna.
Si chiamava “Il Birrozzo”.
Ci sono posti nella propria città in cui si è spinti a ritornare, a cui ci si affeziona e ci si abitua come ad una seconda casa. Quella birreria, per il Pagusa e i suoi compari, era qualcosa del genere.
Non sapevano spiegarsi il perché, forse dipendeva dall’atmosfera calda e accogliente del locale, magari dai prezzi accessibili o dalla macchina delle freccette proprio di fronte al bancone; oppure, molto semplicemente, dipendeva dalla possibilità di poter fumare comodamente seduti al tavolo, giocando a carte e segnando i punti sulle tovagliette. Forse non c’era una ragione precisa, ma il Birrozzo era diventato il loro luogo di ritrovo, un rifugio in cui prendersi una pausa dal groviglio delle loro quotidianità.
Si conoscevano ormai da anni, si erano visti crescere e cambiare, ma la loro amicizia non si era mai sfaldata, nonostante il tempo passato insieme. Tutti e quattro erano eroi, anche se vivevano la cosa in modo differente l’uno dall’altro. Sumo-cho aveva intrapreso questa strada quasi per noia, desideroso di trovare finalmente uno scopo alla mole di muscoli nascosta sotto quel corpo all’apparenza flaccido e pesante. Broccolo l’aveva fatto per una sua naturale attitudine ad aiutare il prossimo, ma con il corpo esile ed emaciato che si ritrovava, si era limitato al volontariato, tenendosi fuori da un eroismo più violento e pericoloso, ormai in voga in tempi come quelli.
Mariachi, unica ragazza della combriccola, aveva iniziato un po’ per capire cosa ci trovassero i suoi amici di così stimolante, e un po’ per trovare la sua strada, cercando risposte alle centinaia di domande che può farsi una ragazzina di diciassette anni.
E poi c’era lui, il Pagusa, che a parte l’eroe non avrebbe saputo che altro fare nella sua vita. Qualsiasi alternativa gli destava solo noia, e alimentava quel sentimento di vuoto che riempiva le sue giornate. Se aveva scelto di essere un eroe, non era per nobili ideali, tutt’altro, negli ideali non ci aveva mai neanche creduto. Tutto ciò che lo motivava era la frenesia data da quella violenza socialmente accettata, quel superare le proprie paure, dimostrando a sé stesso di avere coraggio, di servire a qualcosa, anzi, di valere qualcosa.
Come sempre accade quando si tratta di ciò che riguarda noi stessi e ciò che ci guida, il Pagusa non aveva piena coscienza di tutto questo e la sua consapevolezza di sé era tanto mutevole da essere indefinita, come un cerchio disegnato nell’acqua o uno sbuffo di fumo in una giornata ventilata.

Giacomo tracannò l’ultimo sorso di coca, e piazzò il suo asso di picche fresco di pescata in cima alla scala, messa a terra qualche turno prima, dopodiché scartò quel tre di cuori che lo perseguitava ormai da cinque turni. Aveva appena chiuso la partita e l’ennesimo giro di burraco di quella sera.
Broccolo strabuzzò gli occhi verdognoli, ingigantiti dagli occhiali spessi, e lasciò le carte, senza neanche darsi la pena di contare i punti.
-Ogni tanto dovremmo cambiare le squadre. – Disse Sumo-cho, storcendo il naso a patata sul viso porcino.
-Cosa vorresti dire? – Reagì Broccolo, irritato. – Ho fatto tutto io! Dimmi, ti piace contemplare le carte che hai in mano, o semplicemente ti dimentichi di metterle a terra?
-Senti chi parla, quello che li ha fatti andare a pozzo.

Mariachi scoppiò a ridere, divertita da quell’ormai famigliare battibecco fra i due amici. Sulla sua pelle olivastra anche un comune sorriso appariva bianco e luminoso, come fosse animato di luce propria.
-Bel lavoro nanerottola. – Gli disse il Pagusa, scompigliandole i sottili capelli scuri.
-Ehi, non chiamarmi così! Sono alta per essere una ragazza. – Protestò lei, fingendosi offesa.
-Ma andiamo, - la provocò Sumo-cho – sei alta un metro e una merendina.
-Perché non te ne vai a quel paese?
-Solo se mi accompagni.


Gli scambi di battute erano una costante nella combriccola, e questo dava al Pagusa uno strano senso di pace. Da quando aveva raggiunto la maggiore età, le ansie per il futuro gli erano precipitate addosso come un acquazzone a ciel sereno. Doveva darsi da fare, farsi conoscere, ma come? Come? Non era mai stato bravo a piacere alla gente, lui era il tipo di persona che se ne sta per i fatti suoi e si comporta così come gli viene.

-Beh, diciottenne, l’hai scelto un nome da eroe? – Gli chiese Sumo-cho, dando una lisciata ai lunghi capelli neri.
-In realtà una mezza idea ce l’ho. – Giacomo si tirò indietro sullo schienale della sedia e aprì le braccia, come a voler mostrare una vistosa scritta incisa su un’insegna sopra di lui. – “La Sentinella di – fece una pausa per creare un po’ di suspense – Sentinella”!
Gli amici lo guardarono attoniti.
-Beh, wow… - disse Broccolo, dopo un imbarazzante silenzio.
-C’è di peggio, dai. – Si sforzò di dire Mariachi.
-Fa schifo. – Concluse Sumo-cho, che fra tutti era il più schietto.
-Andiamo, non è così brutto. – Sebbene il Pagusa cercasse di giustificarsi, sapeva bene anche lui di star solo mentendo a sé stesso.
-E poi il nome non è così importante per un eroe, conta quello che si fa. – Lo sostenne il ragazzo mingherlino, risistemandosi il colletto della camicia a quadri.
-Disse quello che si fa chiamare “Capitan Broccolo”. – Lo rimbeccò Sumo-cho.
-È un nome simpatico!
-No, non direi.
-Jack, -
intervenne la piccola Mariachi – secondo me dovresti trovare qualcosa che ti descriva, che sia più… ecco, personale.
La nanerottola aveva ragione, lei aveva scelto il nome “Mariachi” per via della sua passione per la musica e le sue origini messicane. Era qualcosa che, a pensarci bene, riusciva a descriverla in pieno. Ma non c’era nulla nella vita del Pagusa che potesse ispirarlo in tal modo: non aveva una storia particolare, non aveva una passione, niente a cui si sentisse particolarmente legato o che potesse rappresentarlo. “Pazienza” si giustificò “il nome è una questione di secondaria importanza”.
-Se vuoi un consiglio –
disse Sumo-cho, per una volta serio – fatti un giro in Periferia, che qualcosina da fare la trovi. Pensa a questo, e poi ti trovi un nome, chissà che non ti venga la giusta ispirazione.
-Grazie, Cho. –
Gli rispose il Pagusa, accennando un sorriso e spegnendo il mozzicone di sigaretta nel posacenere.
-Figurati, non voglio certo vederti finire alla mensa dei poveri come qualcun altro. – Disse, facendo un cenno verso Broccolo.
-Ora mi hai rotto, guarda che aiuto molta più gente di quanto non faccia tu. – Protestò il biondino occhialuto.
-Certo, dando broccoli e tofu ai barboni, secondo me ti odiano.
-Non chiamarli così, si chiamano clochard.
-Chiamali come ti pare. Sei l’eroe più palloso che abbia mai visto, lo sai?

Valeva la pena seguire i consigli di Cho, alla fine era quello con più esperienza lì in mezzo. Certo, non aveva raggiunto la fama, ma perlomeno riusciva a conservarsi un posto all’interno dell’Associazione.

Quando Jack tornò a casa quella sera, in lui si prefiguravano tutti i modi in cui sarebbe potuta andare. Si sentiva ansioso e al contempo eccitato, come un bimbo al suo primo giorno di scuola. Forse aveva paura, ma sapeva che non si trattava di altro che d’una preoccupazione passeggera. Presto sarebbe diventato tutto così semplice, forse fin troppo semplice…
Prese fra le mani il regalo che Magda gli aveva dato: lenti a contatto hi-tech, con comandi psico-neuronali, in parole povere poteva usarle tramite il pensiero e funzionavano come una sorta di mini computer.
Fra le numerose funzioni c’era il visore notturno, per orientarsi in ambienti bui e senza luce; visione a infrarossi, per captare il calore corporeo, e la preferita del Pagusa, più scenica che nei fatti utile: le lenti potevano colorarsi di rosso, emanando un bagliore scarlatto anche nella più pallida penombra. Magda sapeva che avrebbe apprezzato questo tocco di stile, e Jack sorrise, pensando a lei, mentre calava il cappuccio della felpa sul viso.
Allo scaldacollo quella sera sostituì una bandana di un rosso accesso, mentre alle sole mani nude aggiunse due monconi di legno, ricavati da un vecchio manico di scopa.
Con una cinghia se li agganciò dietro le spalle, e rimase un attimo a contemplare la sua figura riflessa nello specchio. Si trovava tanto differente da sé, conciato a quel modo, con un brivido che gli correva dietro la schiena al solo immaginare ciò che lo aspettava: sangue, ossa rotte e adrenalina. Quel volto nel vetro era la sua ombra, e la sua ombra rivendicava per i malfattori l’unica giustizia possibile: una giustizia violenta e spietata.
L’Ombra lo inquietava, ma al tempo stesso era la forza cui si richiamava quando le cose si mettevano male. Chi dei due era la maschera? Giacomo Pagusa, detto Jack, o l’Ombra, in piedi di fronte a lui?
“Gli eroi devono farsi pubblicità” la frase di Magda gli tornò alla mente come un vecchio spot della televisione e lo distolse da quei pensieri scuri alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Cavò dalla tasca dei jeans il cellulare, scattò una foto e la postò sul profilo Istangram fornitogli dall’Associazione Eroi, aggiungendovi una descrizione banale del tipo “Stanotte si va’ a caccia di criminali”, insomma, la prima cosa che gli era venuta in mente.
Era la prima volta che pubblicava qualcosa su un social network, ma prima o poi doveva capitare. In pochi secondi il cellulare, connesso al wi-fi di casa Pagusa, trasmise i dati e la foto fu in rete, sotto gli occhi di chiunque fosse passato dal suo profilo. Jack storse la bocca: quello non era il genere di cose per cui se ne andava pazzo, ma “La vita è fatta anche di sacrifici” o almeno fu questo ciò che si ripeté, mettendo via il cellulare.
Uscì di casa, dirigendosi di gran carriera verso la zona più malfamata di Sentinella delle Acque: la Periferia.


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Capitolo 6
*** Atto VI ***


Atto VI

Con la fortuna accumulata in anni di carriera certamente avrebbe potuto permettersi qualcosa di meglio di quello squallido appartamento in Periferia. Non era mai stato un uomo dai gusti spartani, lo si poteva intuire dalla ricercatezza nel suo vestire e la maniacale cura della sua persona.
Gaetano non mancava però delle capacità e della forza d’animo necessarie a chi, per scelta o per condizionamenti esterni alla sua volontà, si ritrova ad adattarsi alle situazioni più svariate.
Quando era tornato nella sua città natale lo aveva fatto con l’intento di staccare un attimo dalle incombenze del suo lavoro e prendersi una vacanza. Dunque, spendere una somma importante, per una bella casa in centro, o magari una camera d’hotel con vista sul mare, sarebbe risultato quanto mai controproducente. La gente parlava e amava farlo: tempo qualche giorno si sarebbe trovato un funzionario dell’Associazione di fronte alla porta, pronto ad appioppargli l’ennesimo caso umano da trasformare in un eroe di successo.
Per questo motivo aveva scelto di affittare quel tugurio in periferia. Certo, non avrebbe vissuto nell’agio, ma perlomeno se ne sarebbe stato tranquillo per i fatti suoi. E poi quell’appartamento non era neanche così malaccio: c’era l’acqua calda, il pavimento era pulito (o non eccessivamente sporco), e dal balcone poteva vedere tutto ciò che la Periferia di Sentinella della Acque aveva da offrire allo sguardo, anche se non era poi molto. Inoltre il proprietario gli aveva lasciato come regalo di benvenuto una bella ciotola di ciliegie rubiconde, piazzate sul tavolino nell’ingresso.

Dopo una bella doccia, d’obbligo dopo il viaggio in aereo, Gaetano uscì fuori al balcone, con indosso la vestaglia da notte ricamata in seta blu notte e un pugno di frutti rossi da smangiucchiare mentre contemplava il panorama offerto dalla città: la Periferia, lontano dalle rassicuranti luci del centro. Qui i palazzi e le case popolari componevano un intricato dedalo di cemento, animato dalle luci spettrali della sera. Qui le strade non si riempivano di gente, ed era più facile incrociare un branco di cani randagi a caccia d’un pasto di fortuna, che un innocuo passante capitato lì per caso. Qui in Periferia l’aria non sapeva di mare, qui l’aria aveva l’odore della cenere e dell’asfalto, il sapore acre del fumo e del gas di scarico, la sembianza di una triste desolazione senza speranza. Qui la Triade regnava incontrastata.
Durante la sua giovinezza, nei turbolenti anni dell’adolescenza, Gaetano aveva visto con i suoi stessi occhi l’infuriare della violenta guerra fra il clan Busconi e la Cosca della Provincia: sparatorie, minacce e regolamenti di conti firmati con il sangue, erano all’ordine del giorno. Da sempre la Triade adottava il medesimo modus operandi, quando intendeva conquistare una città: dapprima si infiltrava nelle periferie, raccogliendo nelle sue fila frotte di giovani sbandati e piccoli criminali locali, poi, lentamente ma inesorabilmente, come l’acqua che frantuma la roccia, scorreva verso il centro e a quel punto o il clan dominante si sottometteva, oppure era guerra.
In qualche modo Don Calogero Busconi era riuscito a segnare uno spartiacque nel paesino, confinando la Triade nella contrade più degradata di Sentinella.
S’era venuta a creare una pace instabile, un equilibrio precario, definitivamente spezzato dalla morte improvvisa del boss.
Gaetano poteva sentirlo nell’aria, la tensione era palpabile: una nuova guerra avrebbe sconvolto la tranquillità di quel paesino affacciato sul mare, affondandolo nel caos. Gli eroi di Sentinella sarebbero stati messi alla prova, un battesimo del fuoco che avrebbe messo a repentaglio le loro vite e quelle di molti altri.
Gaetano sperava di avere perlomeno il tempo di godersi un po’ di pace, che quella quiete perdurasse il più possibile prima che la tempesta si scatenasse, ma sapeva che quella speranza altro non era che una blanda illusione: conosceva il mondo, sapeva come andava, e che se un disastro è in arrivo non si lascia mai aspettare troppo a lungo.

Con le dita affusolate si portò una ciliegia alla bocca, mordendola con i denti e lasciando che l’aroma dolciastro del frutto gli riempisse il palato. Dopo averla spolpata, lasciò cadere giù il nocciolo, che picchiettò contro l’asfalto della strada sottostante.
In lontananza, nella penombra, un gruppetto di loschi figuri si era riunito per discorrere di una qualche questione. Per l’animosità con cui parlavano doveva trattarsi di qualcosa d’importante. Con discrezione Gaetano tese l’orecchio, e si mise in ascolto, stando ben attento a non farsi notare.
-Così vi dico di fare, - disse quello che pareva il capo, un uomo sulla trentina con un vistoso rigonfiamento nella tasca posteriore dei jeans, - tra mezz’ora facciamo una capatina da Michele, entriamo come se niente fosse e gli chiediamo di lasciarci l’incasso della giornata. Magari incentivandolo con la messa in mostra dell’artiglieria, un lavoretto veloce e pulito.
-E se il tabaccaio ci da’ problemi? –
Chiese uno del gruppo, probabilmente il più giovane, che se sua madre gli avesse dato qualche scapaccione in più quand’era marmocchio, lì non ci sarebbe neanche stato.
-Se Michele ci crea problemi gli piantiamo un proiettile in fronte, ed ecco che problemi non ne stanno più. – Rispose il tipo, divertito da quella domanda che riteneva ingenua e superflua.

“Gli piantiamo un proiettile in fronte” ripeté Gaetano fra sé e sé “i criminali di oggi vedono troppi film americani, almeno un tempo i malviventi si sforzavano di essere originali”.
Avrebbe potuto fermarli, lì e ora, senza darsi neanche il disturbo di scendere in strada. Ma perché negare a un giovane eroe in erba come l’incappucciato che si avvicinava, l’occasione di farsi valere e dar mostra di sé? No, Gaetano scelse di rimanere a guardare, almeno per il momento. Mise in bocca un paio di ciliegie, della prima si serbò il nocciolo nella mano sinistra, mentre lasciò che quello della seconda cadesse giù, picchiettando sordo contro l’asfalto.

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Capitolo 7
*** Atto VII ***


Atto VII

Jack li vide lì, rintanati all’ombra delle case popolari di cui era intessuta la Periferia. Uomini con il cipiglio fiero e strafottente che raccontava una storia: una storia fatta di ristrettezze economiche, pessimi esempi genitoriali, violenza domestica e chissà cos’altro. Lo sguardo di vittime che si erano fatte a loro volta carnefici, perché del mondo non conoscevano altro. Jack aveva imparato a riconoscerle alla prima occhiata, semplicemente guardandole in faccia, e raramente si sbagliava.
Dapprima li aveva odiati con tutto sé stesso, in ricordo di ciò che aveva dovuto subire quando ancora era gracile e indifeso, poi crescendo aveva iniziato a capire… non era solo colpa loro. Se lui, Giacomo Pagusa, fosse cresciuto in un ambiente famigliare come quello, sarebbe stato davvero tanto differente da quelle persone? Poteva averne certezza?
 Ciò non di meno, quegli uomini avevano fatto una scelta, come Jack aveva fatto la sua. Essere un eroe lo metteva nella condizione di essere il loro nemico naturale: un giustiziere violento e spietato. Una minaccia che avrebbero conosciuto e imparato a temere, perché così tragicamente simile a loro, seppure su un versante opposto.
Ma per adesso nessuno aveva la minima idea di chi fosse Jack, e quali intenti si nascondessero sotto il cappuccio e la bandana di un rosso acceso.

-E quello chi è? La Malombra?! – Disse uno del gruppo, divertito.
La “Malombra” era un demonietto del folklore Sentinellino e in genere di quello del Meridione, noto per far dispetti e tirare i piedi durante la notte. Quel nome veniva usato anche per burlarsi di persone particolarmente cupe, o abituate a starsene zitte zitte per conto proprio.
-Levati dalle scatole, coso. Prima che ti conciamo per le feste, tornatene a casa. – Disse un altro degli energumeni, guardandolo sprezzante.

Jack non si scompose, alzò solo lo sguardo, rivelando i bagliori rossi che permeavano i suoi occhi nella penombra. Il più giovane e inesperto della banda mosse un passo indietro, preso da un brivido di gelo che gli percorse la spina dorsale.
-Ti avevamo avvisato. Gigi, dagli il benvenuto. – Disse il capo della combriccola.
Un uomo corpulento, dal collo taurino, cavò dal taschino un coltello a serramanico e andò incontro a Jack, con un grugno che non lasciava spazio ai dubbi riguardo le sue intenzioni. Quando il fendente arrivò, Jack si limitò a scartare di lato e ad assestargli una sonora mazzata sul cranio, spedendolo al tappeto con un singolo colpo. Il suo corpo fu pervaso da un brivido di piacere quando il legno cozzò contro la superficie coriacea di quel testone,
Per sfregio, una volta a terra, gli piantò un calcio nel ventre, lasciando Gigi a boccheggiare sanguinante in cerca d’un filo d’aria.

-Addosso ragazzi! – Urlò il capo, rimanendo in disparte per assistere all’imminente spettacolo.
Il manipolo era composto da sei uomini: qualcuno aveva a disposizione solo i nudi pugni, qualcun altro si avvaleva di un coltello, ma di certo nessuno fra loro avrebbe attaccato per ferire.
Jack lo sentì arrivare, eccolo, il momento in cui ogni paura svanisce e l’Ombra prende il sopravvento: il tempo rallenta il suo inesorabile fluire, gli occhi si sgranano e il cuore pulsa con una tale forza e intensità da sentirselo nelle orecchie. L’adrenalina colmava ogni cellula del suo corpo e i suoi riflessi, forgiati in anni di karate-shotokan, si acuivano, trasformando Jack in un’arma fatta di carne, ossa e volontà.
Il primo moncone partì dalla sua mano, saettando nell’aria, per andare a schiantarsi sul viso di uno dei malviventi, l’altro legno colpì il tizio armato di coltellino che per poco non aveva aperto la gola del giovane eroe.
In quella che pareva una coreografia studiata fin nel minimo dettaglio, Jack schivò, incassò, diresse i suoi attacchi con una ferocia quasi animale. Alternava al bastone i pugni. Se qualcuno si insinuava nella sua difesa, torceva il polso dello sprovveduto fino a sentirlo spezzarsi sotto le dita e taceva l’urlo che ne seguiva con una botta secca sulla trachea. Al più inesperto spaccò addosso uno dei monconi, fino a quando non fu ridotto a un verme strisciante, che malediceva il momento in cui aveva deciso di metter piede fuori di casa quella sera. Un altro ancora lo prese a testate e quando fu a terra non mancò di infierire. In breve quel gruppetto fu una massa di carne dolorante, più morta che viva. E Jack, avvolto e conquistato dalla furia, rivolgeva adesso le sue attenzione verso il capo. L’uomo non sembrava affatto intimorito, anzi, mostrava un sorrisetto provocatorio mentre volgeva una mano verso la tasca posteriore dei jeans.
Per un istante il Pagusa tornò in sé “Una pistola, che cazzo, dovevo immaginarlo!”. Non era che a pochi metri da lui: forse con uno scatto poteva atterrarlo ed evitare il proiettile, o almeno guastargli la mira quel tanto che bastava da non farsi beccare in un punto vitale. Ma ogni piano, ogni progetto, sembrò evaporargli dalla testa, quando vide quell’uomo rivolgergli l’arma proprio in direzione del viso, col metallo che riluceva al tenue lume dei lampioni distanti.

-Ebbene, hai rovinato i miei progetti per la serata, caro mio. Ammetto di essere impressionato: potevi diventare un gran bel eroe per questa città e un problema per i miei capi. Peccato che la tua carriera finisca qui, la Triade ti manda i suoi saluti.

Nella vita vera non si possono schivare i proiettili, soprattutto a una distanza tanto ravvicinata, questo Jack lo sapeva bene. Poteva solo sperare in una mira poco accurata, in un colpo di fortuna o che la pistola si inceppasse. Strinse i pugni.
Ma proprio quando l’uomo stava per premere il grilletto, l’arma gli volò via dalla mano, cadendo in terra con un tonfo, senza alcuna apparente spiegazione.
L’Ombra colse l’occasione, tornò in Jack e in poco tempo l’eroe fu addosso al malvivente, ancora incredulo per ciò che era accaduto. Lo picchiò, lo pestò sino ad arrossarsi le nocche, fino a quando non sentì la cartilagine del naso cedere sotto i suoi pugni, bagnati di sangue, e il criminale perdere i sensi per il dolore, lasciando scivolare le braccia lungo l’asfalto.
Jack sospirò, tornando in sé e guardandosi attorno: l’aveva scampata bella, qualcuno lassù doveva volergli un gran bene, ma davvero tanto! Senza indugi raccolse la pistola e si mise in tasca il caricatore, gettando in terra il resto.

Adesso che aveva finito il lavoro, era tempo di fare qualche foto per i fan, ma prima doveva legare quegli idioti, sarebbero stati decisamente poco contenti una volta svegli e circondati da poliziotti.
Mentre si accingeva a quel lavoro , vide per terra qualcosa di estremamente curioso: un nocciolo di ciliegia, spogliato da ogni residuo di polpa, era lì ai suoi piedi “Chissà da dove viene fuori” si chiese il ragazzo, confuso, ma troppo impegnato per rimanerci a pensare ulteriormente.

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Capitolo 8
*** Atto VIII ***


Atto VIII

Il giovane eroe se l’era già filata quando sul posto arrivarono le volanti della polizia, la penombra era rischiarata dall’alternarsi epilettico della luce delle sirene, sprazzi di rosso e azzurro fra i vicoli e i muri della Periferia. Qualcuno dei criminali cominciava a riprendere i sensi. Gemeva, tornando a sentire anche il dolore che lo svenimento aveva obliato.
Erano pesti di sangue, sul volto e sul corpo macchie violacee e pulsanti. Il capo della banda era sicuramente quello ridotto peggio: con il naso spaccato e gli occhi talmente gonfi da riuscire ad aprirli a stento.
Gaetano serrò la mano in un pugno, per quietare il tremore che la agitava. C’era un motivo se aveva abbandonato il mestiere di eroe per darsi all’hero management: quel potere che in gioventù l’aveva reso uno dei più grandi eroi dell’A.E., adesso lo consumava dall’interno, come una malattia. Era ormai sulla quarantina e il suo fisico non reggeva più come un tempo le “vibrazioni”. Era così che le chiamava, “vibrazioni”: il cuore si slanciava in un unico battito poderoso che lo percuoteva dalla testa sino alla punta dei piedi, un battito che lo scagliava in un’altra dimensione, dove il tempo scorreva con una lentezza esasperante e anche il librarsi di una farfalla pareva greve e stentato, come il trascinarsi d’un masso lungo una strada accidentata. Il suo corpo di contro si faceva leggero come una brezza e, anche se per pochi minuti, quel mondo pressoché immobile era alla sua mercé.
Ma quando “l’incantesimo” si spezzava, il suo fisico pagava le conseguenze di quello strano miracolo. Più a lungo il mondo rimaneva fermo, più la reazione era violenta e debilitante, poteva passare da quel blando tremolio, a sputare sangue dalla bocca, con il corpo spezzato in due dalla fatica.
Ah, nel mondo dei fumetti un potere come quello sarebbe stato persino banale, ma lì, in quel mondo assurdo ma reale, una simile capacità era qualcosa di davvero speciale.
Gaetano Scalpelli non era certamente l’unica persona al mondo con dei poteri, ma per quanto ne sapeva lui stesso, era sicuramente una delle prime note all’opinione pubblica, anche se sotto falsa identità.
Gaetano rientrò nell’appartamento, stendendosi sul divano: aveva bisogno di una lunga dormita, ma nella sua testa si affollavano le immagini della scena cui aveva assistito poco prima.
Quel giovane eroe era forse un po’ troppo rude e mancava di eleganza nell’agire, eppure in lui c’era qualcosa che non vedeva da molto, molto tempo: passione, spontaneità, voglia di misurarsi. Era potente, trascinato da emozioni che sfuggivano al suo controllo. Aveva un demone dentro di sé, ma c’è della bellezza in quelle battaglie che si combattono contro sé stessi, anche quando si ha un nemico da fronteggiare. Una bellezza che Gaetano percepiva e apprezzava.
Comportandosi in modo così impulsivo, prima o poi quel giovane si sarebbe fatto ammazzare, ma se avesse potuto averlo fra le mani e plasmarlo quel tanto che bastava per renderlo un vero eroe, chissà che ne sarebbe uscito … ecco che ancora una volta cercava di fuggire dal suo lavoro, e questo lesto lo ritrovava, sottraendolo a una quiete che per quanto disperatamente ricercata, forse non desiderava affatto, nel profondo del suo cuore.

Da quando era diventato un hero manager, tutte le volte che si occupava di un nuovo protetto in lui si riaccendeva l’entusiasmo, la grande speranza di materializzare i suoi progetti. Per lui, creare eroi era una forma d’arte e forse, proprio per questo, era il migliore sulla piazza. Attraverso i suoi clienti, era come se una piccola parte di lui potesse tornare a svolgere quel lavoro che tanto dolorosamente aveva abbandonato, e che tanto disperatamente amava. Per gli altri hero manager poteva essere un lavoro, tutt’al più una passione, ma per Gaetano era qualcosa di più… molto di più: era la sua ossessione, lo scopo e il fine ultimo della sua esistenza. Se avesse avuto quel ragazzo fra le mani, che sfida sarebbe stata! Che meraviglia ne sarebbe scaturita! Doveva trovarlo! Da domani avrebbe intrapreso la sua ricerca, adesso le sue palpebre si erano fatte pesanti, e come il sole che tramonta placido, affondando nell’orizzonte, così calavano le sue palpebre sugli occhi, trascinando il suo sguardo in un mondo animato di sogni e visioni.


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Capitolo 9
*** Atto IX ***


Atto IX

Quando il Pagusa si risvegliò la mattina dopo, dire che si sentiva invecchiato di almeno cinquant’anni nel giro di una notte, era dire poco. Non c’era una sola parte del corpo che non gli dolesse, fra l’acido lattico, i lividi e le escoriazioni medicate alla meno peggio. Arrancando per il soggiorno arrivò in cucina, dove sua madre, dopo il caffè mattutino, fumava la prima sigaretta della giornata.
La signora Maria, da quando il suo terzogenito era entrato nell’A.E., aveva smesso di fare domande, forse per paura delle risposte, quando lo vedeva zoppicare per casa. Cercava di ignorare quel ruggito materno che voleva prendere il sopravvento, vedendo il suo pargolo ridotto a quel modo.

-B-buongiorno Giacomo. – Disse, tenendo gli occhi fissi sul piccolo schermo del cellulare, fingendosi calma e imperturbabile.
-Buongiorno ma’. – Rispose, ignorando per quanto possibile le fitte di dolore.

Si avvicinò alla macchinetta del caffè e verso un pugno di polvere bruna nel filtro, agganciandolo al macchinario a forma di moka. Dopo aver premuto un tastino, la macchina prese a borbottare, rilasciando nella tazzina la bevanda scura e bollente. Per il Pagusa il caffè era la salvezza dallo stordimento per il sonno arretrato e il primo pensiero ad ogni risveglio. La signora Maria, mentre il figliolo beveva a piccoli sorsi, azzardò una domanda. Pur essendosi ripromessa di non farne.

-Beh, come è andata ieri sera? – Chiese, continuando a nascondere lo sguardo dietro lo smartphone.
-Bene, è stata una uscita piuttosto … movimentata.
-Lo vedo, lo vedo. –
Rispose, chiudendosi in un teso silenzio, che tuttavia durò solo qualche istante. – Giacomo, ma sei sicuro di non-
-No, mamma. –
La stoppò lui, con una punta di irritazione nella voce. – Non ho intenzione di sprecare il mio tempo e i vostri soldi a fare qualcosa che non mi va’ di fare, come tornare al liceo. Non me ne faccio niente di un diploma, se di studiare non ne ho voglia.
-Vi ho sempre lasciato, a tutti e tre, la libertà di scegliere cosa fare delle vostre vite. –
Cedette, gettando il telefono sul tavolo. – Ma questo!? Uscire di notte, rischiando di farti ammazzare! Come pretendi che possa restarmene zitta e tranquilla,  lasciandoti fare?!

Maria Pagusa era nata e cresciuta prima dell’avvento dell’eroismo e, come tutte le persone della sua generazione, non apprezzava, né tantomeno comprendeva, questo fenomeno. Per lei erano solo un manipolo di matti in costume, che se ne andavano in giro alla ricerca di grane.
-Ma’, lo sai che non è solo questo. – Disse Jack, prendendole le mani. – Vedrai che un giorno te lo dimostrerò e sarai fiera di me.

La donna lo guardò in quegli occhi scuri, così simili ai suoi, quegli occhi in cui bruciava la stessa caparbietà che era in lei. Era in tutto e per tutto simile a suo padre nell’aspetto, ma quegli occhi li aveva presi da lei, su questo non aveva dubbi. Dei tre figli che aveva avuto, nessuno aveva intrapreso la strada che lei aveva sperato, la facoltà di medicina e un remunerativo impiego come medico: Lisa era quella che ci si era avvicinata di più, con la sua laurea in infermieristica. Ma Giacomo, lui era quello che le dava più preoccupazione, con quel sogno folle e pericoloso, frutto dell’incoscienza giovanile. Eppure, nel suo sguardo, non vedeva la pallida luce di un’illusione, ma il fuoco di una passione vera e incontenibile. Per i primi tempi l’aveva ostacolato in tutti i modi, ma lui trovava sempre una maniera per far quello che desiderava e infine Maria non aveva potuto far altro che dargli il suo permesso. La donna si richiuse nuovamente nel suo silenzio e il figlio le stampò un bacio sulla guancia, vuotando in un sorso la tazzina di caffè, fattasi ormai tiepida.

Jack uscì in veranda, per godersi il tocco leggero della brezza sulla pelle, poggiando le braccia sul tavolo di legno, coperto dalla plastica protettiva a fiori. Posò lo sguardo sui vasi, in cui le piante, innaffiate da poco, se ne stavano ferme a respirare. Il movimento appena accennato dei giardini pensili, con i rampicanti inerpicati lungo i cordoni che li tenevano sospesi. Guardò tutto quel verde, e si sentì pervaso da un senso di pace.
Si accese una sigaretta, com’era sua abitudine dopo il caffè e fissò i muri del palazzo di fronte, a pochi metri dalla ringhiera. Casa sua e l’edificio che aveva davanti erano congiunti e saldati, come gran parte delle abitazioni del centro storico. Muri antichi, con l’intonaco sbriciolato, a mostrare lo strato di malta e le scure pietre sottostanti. In quei muri, dove si fondevano le tinte del grigio, del bianco, del nero, del rosato. In quelle macchie variopinte, si divertiva a immaginare volti spettrali, sprazzi di epiche avventure e panorami opacizzati dal fumo nero di un focolare. Con i gomiti sulla ringhiera, voltava e rivoltava una molletta, aggrappata a bocca chiusa sul filo di plastica dello stendipanni, picchiettandola con un dito:
Alle volte aveva bisogno di sentirsi così, come un personaggio di quei libri con momenti di vuoto, un vuoto inutile, ma poetico, quasi quelle azioni casuali e dettata dall’ozio nascondessero dentro sé un qualche significato profondo e recondito, ignoto alla gente comune e proprio dei poeti.
Ma Jack non era un poeta, di certe cose non ne capiva il significato, eppure gli piacevano senza un vero perché.
Finita la sigaretta cavò di tasca il cellulare e si fiondò su Istangram per scoprire se qualcuno avesse dato un occhio alle foto della sera prima.
Su quelle post-pestaggio c’erano un paio di likes, mentre su quella allo specchio, oltre ai “mi piace” della sua cerchia di amici, c’erano anche un paio di commenti

broccohelper (Broccolo): Wow bel restyling
marychi (Mariachi): Spaccali tutti!
Cho (Sumo-cho): sembri scemo, ma in realtà sei proprio coglione


Jack storse la bocca, ma tanto alla consueta “simpatia” dell’amico ci aveva fatto l’abitudine.

dadylero: nice guy :)

Eccolo, il solito tizio americano spuntato da chissà dove, venuto a commentargli la foto.
Si spostò sulla pagina personale, per verificare il numero di followers, notando con dispiacere che il contatore registrava un misero cinque. Erano pochini, ma perlomeno c’era un ampio margine di miglioramento. E poi non vedeva l’ora di dare un’occhiata al tg locale, poteva scommetterci un braccio, avrebbero parlato di lui!

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Capitolo 10
*** Atto X ***


Atto X


Ciò che più gli mancava di Sentinella delle Acque era il piacere del caffè mattutino. Nelle grandi città, lontano dai paeselli illuminati dal sole, la gente non ha mai tempo per prendersi una pausa e i bar sono un manicomio affollato di gente, in fila per prendere una colazione al volo e tornare a lavorare. Ma qui, a Sentinella, dove le persone erano poche e i bar in esubero, Gaetano avrebbe avuto tutto il tempo per viziarsi un po’, con una tazza di caffè, un croissant e una pagina del quotidiano locale da sfogliare in santa pace.
Ovviamente doveva vestirsi per l’occasione, com’era sua abitudine: prese una camicia bianca in lino, con bottoni di madreperla. Giacca gessata lapislazzuli e un paio di pantaloni dello stesso colore. Scarpe in pelle nera, fresche di lucidatura e due centimetri di zeppa sotto il tallone. Al collo una cravatta scura, con sfumature blu notte. Occhiali con montatura spessa e lente sottile, per non sottrarre nulla alla potenza del suo sguardo. Un paio di gemelli in avorio, con incisa un “G” tinta di nero, con i bordi dorati. Profumo all’essenza di brezza di mare e un tocco di muschio selvatico, gocciolato in parti uguali sui polsi sporgenti e in doppia dose sulle clavicole, il collo e il volto accuratamente rasato. Infine, come tocco di classe, il fazzoletto di seta con ricamate le due “J”.
Si diede uno sguardo allo specchio: impeccabile come sempre!

Gaetano uscì fuori di casa, dirigendosi verso il centro, a passo spedito. La città intorno a lui mutava, dai giganteschi palazzi della Periferia, grigi e fatiscenti, agli appartamenti variopinti dove i panni stesi erano cullati dalla brezza. Dall’odore di asfalto e di fumo, all’aroma leggero del mare, che discreto gli si insinuava nelle narici.
Entrò nel primo bar che trovò aperto, non molto distante dal centro storico, e si accomodò ad un tavolino piuttosto appartato, con il giornale che pareva esser stato lasciato lì apposta per lui. La prima pagina riportava del pestaggio avvenuto la sera prima, ci avrebbe dato con piacere un’occhiata, sì, ma dopo la colazione.
Quando una cameriera con gli occhiali e una coda lunga fino a metà schiena gli chiese cosa prendesse, lui ordinò un caffè amaro, senza zucchero, accompagnato da un croissant ripieno e una caraffa d’acqua con bicchiere di plastica annesso. Gli fu portato tutto dopo qualche minuto: dalla tazza si levava un aroma irresistibile, dal cornetto di sfoglia fuoriusciva un piccolo ricciolino di crema pasticciera, invitante nel profumo quanto nell’aspetto. Gaetano addentò il dolce, lo masticò con calma, mentre guardava l’acqua salir su’ in minuscole bollicine, dentro la caraffa di vetro. Quando ebbe finito con il croissant, si pulì la bocca con uno dei fazzolettini nel dispenser e prese il giornale. Mentre le parole gli scorrevano nello sguardo, sorseggiava il suo caffè, cancellando a poco a poco il sapore dolce della crema rimastogli nel palato.
Il titolo in prima pagina recitava:
RISSA IN VIA BERBIANI: SENTINELLA HA UN NUOVO GIUSTIZIERE?

Era decisamente ad effetto, i giornali locali amavano i termini sensazionalistici. L’articolo riportava che le vittime del pestaggio erano ridotte piuttosto male, sebbene nessuna di loro fosse in pericolo di vita. All’inizio la polizia aveva pensato ad un’aggressione, ma arrivati sulla scena era nato il sospetto che fosse opera di un eroe, sospetto poi confermato dalla testimonianza di una delle vittime. “Quella sera dovevamo rapinare un tabacchino, quand’ecco che spunta questo tizio incappucciato e inizia a darle di santa ragione a tutti quanti”, un’altra testimonianza riportava “Non era di questo mondo, aveva gli occhi di fuoco e colpiva come una creatura infernale…”, a dirlo era stato il più giovane dei malviventi, ancora sotto shock.
Gaetano sorrise soddisfatto, quel giovane eroe, chiunque fosse, aveva fatto il botto. “Se la tua prima impresa fa’ notizia, il tuo sentiero sarà lastricato d’oro” recitava una delle massime dell’hero management, era un peccato che non fosse ancora noto lo pseudonimo che aveva adottato, almeno avrebbe potuto rintracciarlo in qualche maniera.
Un modo per trovarlo però c’era, a pensarci bene, ma questo voleva dire esporsi e mettere fine alla pace  conquistata con tanto discrezione. Vuotata la tazza di caffè, Gaetano infilò la mano in tasca, cavandone fuori il cellulare. Prese a scorrere i numeri in rubrica sino a trovare il nome che andava cercando “Magda”. Se agli altri suoi protetti aveva insegnato ad essere eroi, a lei, beh, aveva insegnato tutto lo scibile umano sull’eroismo e l’hero management. Era in poche parole la sua erede, anche se al momento si limitava a lavorare come avvocato nella fitta schiera di legali dell’A.E. Quasi senza che se ne accorgesse il dito gli scivolò sul tasto verde dello schermo e un ritmico squillo seguì subito dopo.

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Capitolo 11
*** Atto XI ***


Atto XI

Mai, in tutta la sua vita, aveva atteso con tanta trepidazione qualcosa, come quella mattina attendeva il telegiornale regionale “TG Puglia”. Dopo aver imposto il silenzio in tutta la casa, il Pagusa si fiondò sul divano e sparò il volume della tv al massimo.

“Le autorità parlano di un vigilante, un eroe, un giustiziere dai metodi poco ortodossi, che la scorsa sera avrebbe sventato una rapina nel paesino di Sentinella delle Acque, in provincia di BAT. Ma passiamo la linea al nostro corrispondente Balducci, già lì sul posto per noi”.

“Buongiorno a voi in studio, sono qui con la signora Nicoletta, che ieri sera, dal suo balcone, ha assistito all’intera scena”.
La signora aveva una ragnatela di rughe al posto del viso, i capelli bianchi e ispidi, pareva avesse duecento anni oltre a una gran voglia di parlare, con quelle sue labbra sottili e rattrappite.
“Questi signori giravano spesso da queste parti, non si poteva stare tranquilli con loro in giro. Ma l’altra notte è intervenuto quello che ora chiamano un eroe. Ma ve lo dico io: quello non era un eroe! Non era neanche un uomo! Era la Malombra!” disse la vecchia, baciando il vistoso rosario che si portava al collo.
“Se quei disgraziati sono finiti male, è perché non si pronuncia il nome della Malombra senza dopo baciare la croce di nostro Signore” concluse la signora Nicoletta, ripetendo il gesto di poco fa’.
Il Pagusa si portò una mano sotto il mento, e tamburellò con le dita, ripensando alla sua impresa del giorno prima. Anche uno di quei malviventi l’aveva chiamato “Malombra”, anche se solo per burlarsi del suo aspetto, e adesso quella vecchietta … ma in quegli occhi opacizzati dagli anni, aveva letto una genuina e spontanea paura. Che quella non fosse l’ispirazione che stava cercando per il suo nome da eroe? Forse “Malombra” era un pochino lugubre, ma in fondo anche il suo aspetto non era da meno: con quegli occhi scarlatti e il cappuccio calato sul viso. Lo ripeté più volte, a bassa voce, tra sé e sé “Malombra, Malombra, Malombra!” sì, non suonava male, e comunque era sempre meglio di “La Sentinella di Sentinella”.
Proprio mentre il Pagusa stava per andare su Istangram, per modificare il suo nickname, ecco che lo schermo del suo cellulare si oscurò, per mostrare il segnale di chiamata. Sopra la testa dell’omino azzurro su sfondo grigio, c’era il nome a caratteri bianchi “Magda”, la sua avvocatessa d’ufficio nell’A.E. Magari si trattava della causa riguardante il tizio sul pullman.
Per fugare ogni dubbio non gli rimaneva che rispondere. Portò il cellulare all’orecchio, sentendo la voce, stranamente melliflua ed entusiasta, della donna.

-Ehi, Jack!
-Ciao Mag. È successo qualcosa? Com’è andata la causa?
-Come vuoi che sia andata?! –
Chiese lei, stizzita. – E’ ovvio che abbiamo vinto, se c’ero io a difendere le tue ragioni. – Sbuffò. – Comunque, ho buone notizie.
-Di che si tratta?
-Un mio vecchio amico è venuto a trovarmi dopo molto tempo, e senti qua, mi ha chiesto di te!
-E chi è questo “amico”? –
Chiese il Pagusa.
-Non voglio rovinarti la sorpresa. Fatti trovare fra un’ora nel mio ufficio. Vedi di non tardare!

La donna chiuse la chiamata senza disturbarsi a salutare. Se Mag si era presa la briga di chiamarlo per fargli conoscere quel suo amico, si trattava certo di qualcuno di importante. Magari uno sponsor! Già si vedeva a recitare nello spot della Coca-cola, questa poteva essere l’occasione per mettere in tasca un po’ di dindini e magari investirli in una corazza protettiva: lividi ed escoriazioni non erano bei ricordi da portarsi addosso. Doveva fare colpo, e questo significava tirar fuori dall’armadio i vestiti eleganti, di quelli che sua madre teneva sottochiave tutto l’anno, in attesa di feste in sala e matrimoni vari. Giacomo non si metteva mai quella roba di sua sponte, dovevano sempre convincerlo con la forza, ma “ehi” si disse “c’è sempre una prima volta per tutto, no?”.
 

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Capitolo 12
*** Atto XII ***


Attenzione: a causa di impegni per la giornata di domani, questo capitolo è stato pubblicato con un giorno di anticipo.
-La Moltitudine.

ATTO XII


Mentre aspettavano il ragazzo, Gaetano si accomodò sulla sedia girevole, nello studio di Magda. Lei era così cambiata, così diversa da quella studentessa dagli occhi luminosi che seguiva i suoi seminari sull’hero management alcuni anni fa. Adesso aveva lo sguardo da predatrice, lo stesso sguardo che è nel viso di ogni avvocato dopo qualche anno di lavoro.
Occhi che diventano freddi, calcolatori, pronti a cogliere ogni più piccola debolezza per rivoltarla a proprio favore. Gli dispiaceva vedere quel cambiamento, quella purezza, che magari era stata sempre e solo nella sua testa, svanita così, divorata dall’ambizione e dalla carriera.
-Erano anni che non ti vedevo, - disse lei – eppure non sembri invecchiato di un solo giorno.
-Solo da fuori, cara mia. Dentro sono rugoso e cadente.

Lei gli rispose con un sorriso. Era ancora bella, l’attrazione che li aveva legati non si era raffreddata del tutto con il tempo e la distanza. Poteva sentire quell’attrazione nell’aria, diventata densa e calda come burro.
Magda, forse avvertendo il peso di quel silenzio carico d’imbarazzo, gli fece il favore di impegnarlo in una conversazione che lo distogliesse da quei vecchi e bellissimi ricordi.

-Vedrai che il ragazzo ti piacerà, Gaetano, ha talento per questo lavoro. Forse è un po’ indisciplinato, ma sotto la tua guida sono certa che potrà fare grandi cose.
-L’ho visto in azione, non potrei essere più d’accordo con te. –
Convenne lui.
-Parli dell’altra sera? La rissa in periferia? Sì, con quella ha fatto colpo: l’opinione pubblica è ancora indecisa, ma i riflettori sono puntati su di lui e questa è già una gran cosa.
-Vero, come dico sempre-
-Bene o male, basta che se ne parli.
-Ti ho insegnato bene, forse troppo. –
Disse lui, con un sorriso tanto spontaneo da farlo sentire in imbarazzato subito dopo.
Si passò una mano sul volto con la scusa di risistemarsi gli occhiali, e proprio in quell’istante la porta dello studio si spalancò, rivelando un ragazzo robusto e vestito con abiti eleganti.
Era davvero lui l’eroe dell’altra sera? Se lo immaginava diverso, con uno stile più underground, per così dire, e lo sguardo meno spaesato. Ma la sorpresa più grande, risiedeva nel fatto che il giovanotto, guardandolo, non avesse un briciolo di reazione: davvero non sapeva chi aveva davanti?
-Jack, hai fatto presto, accomodati. – Gli disse Magda, indicandoli una sedia vicino alla scrivania. – Vedo che ci siamo messi in ghingheri.  Ti donano giacca e cravatta.
Da quelle poche, semplici parole, Gaetano intuì che il giovane Jack non era abituato all’eleganza.
-Sei tu lo sponsor? – Chiese il Pagusa, tendendogli la mano.
Gaetano diede una stretta decisa, non sapendo bene cosa rispondere.
-Oh, Jack, ma che dici?! – Intervenne Magda, rossa per l’imbarazzo. – Ti presento Gaetano Scalpelli. – Disse, lasciando intendere che quel nome avrebbe dovuto suggerirgli qualcosa, ma lo sguardo vacuo di Jack fu eloquente su quanto ne sapesse dell’uomo dinanzi a lui.
-Giacomo Pagusa, per gli amici Jack. – Si limitò a dire, laconico.
-Ciao Giacomo, sono molto felice di conoscerti. – Gaetano prese le redini della situazione. – Ho avuto l’onore di assistere a una delle tue imprese l’altra sera, mi piace come lavori e se ti va’, vorrei darti una mano.
-A fare cosa? –
Chiese il Pagusa, non riuscendo a trattenere un sorrisetto da gnorri.
-L’eroe, Jack… - sussurrò Mag, facendo aderire il palmo della mano alla faccia.
-Oh, capisco, ti ringrazio ma non cerco una spalla. – Il sorrisetto si tendeva sempre di più.
“Il bastardello si diverte, ci prende per fessi e pensa che non ce ne accorgiamo” pensò Gaetano, “mi piace”.
-Sono un hero manager, Jack.
-Il migliore sulla piazza. –
Aggiunse Magda, lieta di non essere più messa in imbarazzo dallo strano senso dell’umorismo del Pagusa.
-Ah, fantastico, ma io non ho una lira.
-Di questo non devi preoccuparti, -
lo rassicurò l’uomo, - non chiedo soldi.
Fra i risparmi e lo stipendio da manager ne aveva abbastanza per vivere dignitosamente per almeno tre vite belle longeve.
-Tutto ciò che ti chiedo è collaborazione e massimo impegno, in cambio ti offrirò la mia conoscenza e la mia professionalità. Pensaci pure e domani dammi una risposta.
Jack fece un cenno d’assenso. Era sospettoso, nessuna sorpresa, atti di gentilezza come quello, la maggior parte delle volte nascondono grandi fregature, ma nel caso di Gaetano era tutt’altra storia: non si trattava di generosità, ma di ambizione. Quel “Malombra”, come lo chiamavano i Sentinellini, aveva il potenziale per diventare una star.

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Capitolo 13
*** Atto XIII ***


Atto XIII
Raramente il Pagusa era stato entusiasta di qualcosa nella sua vita: feste, regali, viaggi, uscite, tutt’al più lo mettevano di buonumore, ma nulla come la proposta di quell’hero manager gli aveva dato un tale impulso di correre per il paese, abbracciare e baciare ogni passante, cantando spensierato e contemplando il mondo illuminato di gioia ed euforia. Perché un manager voleva dire una guida in quel folle mondo in cui procedeva per tentativi, voleva dire diventar ricchi e famosi in uno schiocco di dita, voleva dire dimostrare ai suoi genitori che le sue non erano banali fisse adolescenziali o puerili fantasie, no, erano la sua ragione di vita.
Non aveva bisogno di aspettare ventiquattr’ore per prendere una decisione, ma che diamine, prima di accettare doveva raccontarlo a qualcuno! E a chi, se non alla persona che la sera prima gli aveva consigliato di bazzicare in Periferia, dando inizio alla serie di fortunati eventi che l’aveva portato a quel punto?
Come sempre, Sumo-cho si presentò al bar con una buona mezz’ora di ritardo. Indossava il suo solito “costume”, nome con cui definiva quello che il resto del gruppo aveva battezzato “Pannolone da battaglia”, l’indumento tipico dei lottatori di sumo, che Cho imitava pedissequamente per interpretare il suo personaggio.
Il corpulento amico del Pagusa diede un lungo sorso alla tazza di cappuccino che aveva di fronte, dopodiché si pulì via i baffetti di schiuma, passandosi un tovagliolo sulle labbra.

-Da quando ti conosco è la prima volta che mi offri qualcosa. È per ringraziarmi per la dritta di ieri sera, o ti sei scopato mia madre e vuoi rabbonirmi prima di dirmelo?
-Direi la prima. Per la seconda non credo mi sentirai mai confessare. –
Rispose Jack, dandogli corda. – Comunque devo darti una notizia.
-Hai deciso di fare coming out?
-No, deficiente, senti qua: ho trovato un hero manager!
-Woh! Queste sì che è una bomba! –
Disse lui, sorridendo. – Aspetta che lo sappia Broccolo, sarà verde d’invidia.
-Davvero pessima, Cho. Comunque, oggi dovrei dargli conferma.
-Guarda, è davvero una bella cosa, ma devo avvertirti: gli hero manager sono gente seria, dovrai smazzare un bel po’ se ne assumi uno.
-Sì, sì, me lo ha detto pure lui, ma sembra un tipo apposto.
-Come hai detto che si chiama?
-Gaetano Scopelli, Cappelli, Capelli, qualcosa del genere.

Sumo-cho si fece bianco in volto.
-Gaetano Scalpelli?! – Chiese, riuscendo a scandire le parole.
-Sì, proprio lui! Com’è che lo conosci?
A quel punto Cho riprese colore e anche il solito dente avvelenato di sempre.
-Ma tu dove vivi? – Domandò al compare, con aria incredula e perplessa. - Idiota, è il più grande e famoso hero manager dell’Associazione. Una vera e propria leggenda vivente!
-Bah, io non l’ho mai sentito. –
Brontolò il Pagusa.
-Hai presente Madame Bastille? La tizia del poster su cui ti spippetti in camera?
-E come dimenticarsela con quei due me- comunque sì, beh?
-L’ha tirata su’ lui. E la Jet-Jet Airlines si chiama così in suo onore.
-Caspita, ma come le scopri tutte ‘ste cose?
-Una cosa chiamata internet, geniaccio. Sappi che non serve solo per scaricare porno. –
Rispose Cho, ciondolando il capo in un gesto di desolazione.
-Uhm, se ciò che dici è vero … dovrei chiamarlo seduta stante!

Il Pagusa cavò il cellulare fuori dai jeans, e selezionò il numero di Magda in rubrica (tramite lei, avrebbe contattato lui), stava per premere il tasto verde quando qualcosa lo bloccò. Il suo pollice non si muoveva di un millimetro. Eccolo, a confronto con la strada che aveva sognato di intraprendere per tutta una vita: adesso si faceva sul serio, doveva mettersi sotto per essere all’altezza del suo manager, lasciando da parte il disfattismo e l’indolenza che lo accompagnavano da quando aveva fatto capolino nel mondo. Succede spesso con i sogni troppo grandi: quando sono a un passo, si esita a portare una gamba avanti e poggiare il piede per terra. Perché allora non sono più semplici fantasie, ma la realtà. La realtà con tutto il suo carico di impegni, aspettative e responsabilità che ne conseguono.
Forse non doveva farlo, forse doveva pensarci di più, forse doveva rassegnarsi alla comoda mediocrità in cui era sempre vissuto: non proprio felice, ma sereno e tranquillo. Quando si è sulla soglia di un burrone e si ha paura di saltare, è proprio allora che si ha bisogno di una spinta. Il dito grassoccio di Sumo-cho premette il pulsante al posto suo, negandogli ogni possibilità di esitare, di temporeggiare ancora. Stava saltando, stava volando, non poteva più tornare indietro.

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Capitolo 14
*** Atto XIV ***


Atto XIV

Catino entrò nella bottega da falegname dove colui che si presentava come suo nipote, da tempo defunto, aveva stabilito fissa dimora. Quell’essere non mangiava, non beveva, non usciva. Si accontentava di contemplare i visi dei tanti pupazzi da ventriloquo appesi alle pareti. Sfiorava le loro dita senza vita con le sue, animate da chissà quale assurdo maleficio. Senza voltarsi, il piccolo incappucciato gli parlò, spezzando il silenzio con la sua voce stridula e glaciale.
-Papà iniziò a fabbricarli dopo che morii, non lo trovi buffo? Quasi volesse infondere la mia anima perduta in uno di questi burattini di legno. Forse lo ricordi, negli ultimi tempi era diventata un’ossessione: trascorreva le sue giornate fra la sega, il martello e la pialla … tutto per ricreare una pallida imitazione di quella vita perduta, che tanto gli era cara. – Disse, parlando come colto da un’amara ironia.
-Don Busconi, mi spiace disturbarla, ma ci sono cattive notizie dalla Periferia.
-Zio, non essere così formale, sono il tuo nipotino. – Puntualizzò la creatura, ridacchiando. – Chiamami pure Marcellino, come facevi quando ero piccolo.
Eppure gli riusciva tanto difficile usare quel nome. Da quando aveva visto quell’essere in volto, era stato certo che non si trattava del suo defunto nipote. Marcellino era un pargolo allegro, dolce e spensierato. Niente a che vedere con quella creatura fredda, spietata, calcolatrice e avida di potere. Lo odiava, lo temeva, ma non poteva permettersi di rendere manifesti quei sentimenti. Ogni membro della cosca, spinto forse dal terrore, l’aveva accettato come boss, e Catino non aveva potuto far altro che seguire l’esempio degli altri. Ma lo odiava, lo odiava perché si era preso quel posto a cui aspirava e per cui lavorava da tutta una vita. Una posizione che gli era stata portata via da sotto il naso. Il massimo a cui poteva aspirare, adesso, era essere il suo braccio destro. L’occhio puntato sul mondo da cui quella creatura, quel mostro, aveva scelto di non farsi vedere.
-M-marcellino, la Triade programmava un attacco ai danni di uno dei nostri avamposti nella Periferia, il tabacchino gestito da Michele Arganti.
-Oh, e dimmi, com’è andata a finire? –
Chiese il piccoletto, incuriosito.
-La rapina è stata sventata da un eroe, un certo Malombra, ma capisci? Anche se il colpo non è andato a buon fine, questa rimane una provocazione. Un’offesa al nostro onore!
-Ne sono consapevole, questa volta la fortuna è stata dalla nostra, ma non sarà sempre così. –
Il nanetto si accomodò al tavolo, giungendo le mani guantate. – Forse è giunto il momento di accelerare i tempi e mettere subito in atto i nostri piani. Vorrei che organizzassi un incontro, caro zio.
-Con chi? –
Chiese Catino, allarmato.
-Con i capi della Triade, mi pare scontato. – Osservò la creatura, perplessa.
-E credi che si prenderanno il disturbo di venir fin qui?
-Che lo facciano in onore di papà, nutrivano rispetto nei suoi riguardi, no?
-Questo è vero, ma cosa speri di ottenere? Credevo non volessi stringere alleanze con quei bastardi.
-Difatti non intendo farlo, caro zio, ma non fare domande: mi occuperò io del resto, tu fai solo in modo che si presentino.
-Me ne occuperò subito, allora. –
Disse Catino, rassegnato, ma impaziente di uscire fuori da quel tugurio buio e inquietante.
Proprio mentre si accingeva ad uscire dalla porta, il piccoletto lo richiamò.
-Aspetta, zietto, devo farti una domanda.
Catino cominciò a sudare freddo, anche se terrorizzato come mai in vita sua, trovò la forza e il coraggio di parlare.
-Cosa c’è, caro nipote? – Rispose, con la voce più affettata e serena che riuscisse a simulare.
-Dimmi, saresti interessato a diventare il sindaco di Sentinella delle Acque?

La prima parte di questa storia si conclude qui. Non so' dirvi quando pubblicherò la seconda, ma vi assicuro che la fase di stesura è quasi terminata. Ringrazio tutti coloro che mi hanno seguito fin qui:
Uptrand, per le sue recensioni puntuali e le sue osservazioni.
Rory Jackson, per l'amore e la passione che ha provato per questa storia.
yoyo_whitehole, per la sua recensione completa, sincera e puntuale. Ricca di consigli e suggerimenti per migliorare come scrittore e narratore.
Ringrazio anche tutti voi lettori silenziosi, sappiate che se un giorno vorrete esprimere la vostra opinione io sarò sempre pronto ad ascoltarvi.

In attesa della seconda parte,
La Moltitudine vi porge i suoi saluti.
 

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