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di Kristy 10
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'inizio ***
Capitolo 2: *** E poi... sei arrivato tu! ***
Capitolo 3: *** Imprevisti... ***
Capitolo 4: *** La maledizione del primo mese ***



Capitolo 1
*** L'inizio ***


1

L'inizio


L'orologio in cucina segnava le dieci esatte. Ciò significava che avevo un'ora per prepararmi con tutta calma: fare la doccia, asciugarmi i capelli, scegliere con cura il vestito che avrei indossato per il colloquio e perché no mettere sotto i denti uno spuntino e mandare qualche messaggino ad Angelica e Maia. Era tutto sotto controllo mi dissi con un sorriso ebete che non riuscivo a far sparire. Mi diressi in bagno consapevole che quella leggerezza alla testa e il senso di pace che provavo, che sostituivano il nodo allo stomaco pre-colloquio, dovevano essere l'effetto della tisana che Maia mi aveva preparato quella mattina.
<< E' un infuso alle erbe – mi aveva detto porgendomi la tazza fumante, al che la guardai poco convinta, aveva un odore sgradevole - vedrai ti sentirai... molto più positiva >> mi scompigliò i capelli e se ne andò tutta pimpante. Sapevo che Maia era una tipa strana (e chi non lo era?) con tutti quegli infusi, gli incensi e le erbe ma mi sorse il dubbio che il suo erbologo di fiducia questa volta avesse proprio toppato dandole qualche strano composto allucinogeno al posto del solito. Questo avrebbe spiegato il perchè la mia amica fosse sempre su di giri con un sorriso da mille watt a illuminargli il viso e non provasse neanche un crampo quando le veniva il ciclo mentre a me e Angelica con tutti i dolori che avevamo al seno, alla schiena, gli stiramenti alla gamba (in particolar modo a quella destra) sembravamo le superstiti di un incontro con Mike Tyson.
Presi la biancheria e mi diressi in bagno, una bella doccia fredda mi avrebbe aiutata a schiarirmi le idee e a liberarmi dalla tortura del caldo. Mi ficcai sotto il getto d'acqua e la mia pelle sfrigolò al contatto, Dio che sensazione bellissima! Sarei rimasta là sotto volentieri fino a sera pur di non sentire quell'afa; in estate Menphis era una città davvero calda, il sole faceva capolino e cominciava a bruciare la città già dal mattino presto, se non avevi l'aria condizionata in casa o non ti rifugiavi in qualche negozio in centro eri finita. Mi insaponai i capelli e il cellulare in soggiorno cominciò a suonare, maledizione perchè dimenticavo sempre di portarmelo dietro? Di andare a prenderlo non se ne parlava e una vocina dentro la testa mi diceva che la persona all'altro capo era di sicuro mia madre, perciò lasciai squillare. Già la vedevo andare avanti e indietro per la cucina, aggiustandosi lo chignon perfetto con piccoli tamponamenti, mentre il volto cambiava da un'espressione all'altra: speranzosa, irritata, indecisa e poi spaventata. Ah, mia madre! Non esisteva un vocabolo adatto per descriverla, avrebbero dovuto crearne uno apposta e metterci la foto accanto. Forse “esasperante” le si addiceva molto. Non ho mai conosciuto una donna bella, affascinante, spiritosa, arguta e allo stesso tempo fragile, ansiosa e iperprotettiva come lei. Era una donna in carriera, un avvocato di successo anche se alla mia nascita decise di abbandonare il lavoro per dedicarsi completamente a me. Non so se fosse un bene o un male ma da allora aveva cominciato a controllare la mia vita, ergendomi attorno dei muri fra me e la realtà senza lasciarmi la possibilità di vivere sul serio. So che lo faceva a fin di bene e senza rendersene conto ma non ne potevo più di vivere in una campana di vetro, desideravo la libertà. Per questo motivo avevo deciso di trasferirmi con le mie amiche in una casa tutta nostra. Certo non era a Los Angeles ma all'altro capo della città, ed era pur sempre una distanza tale da non sentire il suo fiato sul collo. Come volevasi dimostrare non aveva reagito bene alla notizia del mio trasferimento, il chè non era una novità per me. Non capiva come avessi potuto prendere una decisione del genere mentre io non riuscivo a capacitarmi di aver aspettato così tanto tempo prima di farlo.


Flashback


<< Tutta questa storia è assurda Ariel, non capisco perchè lo fai >> a braccia incrociate percorreva la mia stanza da un capo all'altro mentre io preparavo le valige in preda al mal di mare
<< Mamma lo sai bene >> santo cielo era la millionesima volta che affrontavamo quella conversazione e non voleva farsene una ragione.
<< E invece ti sbagli, so solo che da un giorno all'altro mia figlia ha deciso di abbandonare la sua casa per andarsene con le sue amiche a vivere da sola chissà dove >> si era fermata al centro della stanza con le braccia stese davanti a sé e gli occhi fuori dalle orbite. Cercai di nascondere un sorriso, era davvero buffa.
<< Mamma non ti sembra di esagerare un po'? >> ora capivo cosa intendeva la gente per “tipica madre del sud”.
<< Affatto – scosse il capo risoluta – tu forse non te ne rendi conto ma sei ancora una ragazzina e la mia coscienza di madre non può accettare di abbandonarti sola a te stessa >> si portò le mani al petto guardandomi fissa negli occhi.
<< Ti ricordo che ho ventidue anni, direi che non sono più una ragazzina >> ironizzai, bhè sembrava non avermi sentito perchè riprese a passeggiare su e giù per la stanza ancora più determinata a farmi rinsavire.
<< Tu non immagini cosa ci sia lì fuori, il mondo è crudele Ariel, è un continuo cercare di scavalcare gli altri ad ogni costo, di soddisfare i propri egoistici bisogni. Là fuori nessuno ti aspetta e se non sei il primo a lottare per crearti un posto nella società va a finire che ti schiacciano >> ecco come mi mostrava la vita mia madre, una giungla abitata da bestie feroci, dove “cucciolotti” come me non ne sarebbero mai usciti vivi, ero più che sicura che lei e Darwin sarebbero andati molto d'accordo, la legge della sopravvivenza, fantastico.
<< Mamma, io... >>
<< In vent'anni di lavoro – proseguì nel suo monologo con ancora più fervore – ne ho viste di storie, di ragazzine della tua età che avendo bisogno di lavoro finivano nelle mani di loschi personaggi e... - le si strozzò la voce ed io la guardai angosciata prese un respiro e parlò di nuovo – poi quando venivano nel mio studio e mi guardavano negli occhi con quell'espressione addolorata, istantaneamente pensavo a te Ariel e mi ripetevo “Non posso permettere che una cosa del genere accada a mia figlia” “Non posso permettere che individui come questi si approfittino di altre ragazze” >> si fermò e si sedette sul letto davanti a me con quegli occhioni dolci che mi chiedevano di abbracciarla e di non lasciarla mai più.
<< Ariel sai che se dico questo è perché ti voglio bene e lo faccio solo per proteggerti – mi prese le mani tra le sue e le strinse forte – la vita è difficile e se ne infischia di tutto e di tutti – si soffermò a guardare le nostre mani e sussurrò – ho paura per te, per le ragazze... come farete ad andare avanti tra studio, lavoro, l'appartamento.... E' una pazzia >> sentenziò. Sospirai la sua preoccupazione era più che normale e mi fece tenerezza la sua confessione, ma sapevo che se ora avessi ceduto non sarei più tornata indietro e avrei continuato a fare quello che secondo lei era più giusto. Mi feci coraggio e cercai le parole adatte per rassicurarla, era il minimo che le dovevo.
<< Mamma non posso dire di aver cambiato idea o che andrà tutto alla grande - iniziai con voce ferma – ma ti chiedo soltanto una cosa. Devi avere fiducia in me – perchè era questo il suo problema, non credeva che ce l'avrei fatta – Io, Angelica e Maia non saremo nè le prime e né le ultime ad affrontare una situazione del genere, siamo adulte e... >> vidi che stava per aprir bocca ma la fermai.
<< Devi darci... mi correggo, devi darmi la possibilità di dimostrarti che posso farcela che non sono più una bambina. Voglio che tu sia orgogliosa di me >> le sorrisi, era la prima volta che glielo confessavo.
<< Ma io sono orgogliosa di te tesoro, non c'è bisogno di... >> scossi la testa.
<< Ti prego mamma lascia che ti dimostri cosa sono in grado di fare, abbi fiducia in me >> la supplicai. Mi guardò e dopo quella che mi parve un'eternità annuì lentamente. L'abbracciai di slancio tirando un bel respiro di sollievo, pensavo che dopo tutto quel discorso sarebbe stata una vera impresa convincerla e invece avevo ottenuto ciò che volevo Certo, non mi illudevo di aver messo fine alla “guerra” ma avevo pur vinto una battaglia, no? E come volevasi dimostrare...
<< Non ti libererai tanto facilmente di me, lo sai vero? >> mi domandò ancora abbracciate.
<< Lo so >> risposi ad occhi chiusi.
<< E che verrò a trovarti ogni giorno? >>
<< D'accordo >>
<< E che... >>
<< Che ne dici mamma di aiutarmi con le valige? >> le proposi non aspettando nessuna risposta, dovevo evitare che finisse col trasferirsi da noi.
<< Certo >> prese alcuni vestiti e cominciò a piegarli, quella sera ci attendeva un lungo lavoro.




Ritiro quanto detto un'ora e mezza fa. Niente era sotto controllo. Mi ritrovai a scendere i gradini senza nemmeno toccarli tanto ero in ritardo. Ma come fanno le persone ad organizzare giornate intere, addirittura mesi e a rispettare gli impegni quando io non ero riuscita a rispettarne neanche uno in una sola mattina? Ha ragione mia nonna Luisa quando afferma che non bisogna mai programmare le cose con anticipo, mai (tranne le visite mediche alla mutua, ovviamente), perché l'imprevisto è sempre in agguato, bastava guardarmi in quel momento per intuire che qualcosa era andato storto. Avevo ancora i capelli bagnati per la doccia perché proprio oggi il phon si rifiutava di collaborare tanto da emanare scintille ogni volta che lo accendevo. Mi si era impigliata la tracolla tra i battenti della porta mentre mia madre continuava a tartassarmi di telefonate e dulcis in fundo non avevo fatto neanche mezzo metro che avevo già la camicetta madida di sudore attaccata alla schiena e due aloni sotto le ascelle che sembravano due piccoli laghi di garda, ringraziai il cielo di averne scelta una di colore nero che nascondeva un po' tutto.
Entrai tutta trafelata nel supermercato benedicendo l'uomo che aveva inventato l'aria condizionata e prima di chiedere in giro mi detersi la fronte con un fazzolettino. Espirai, ero pronta.
<< Buon giorno – dissi avvicinandomi ad una signora bionda sulla cinquantina con una uniforme rossa a strisce verticali – sono qui per il colloquio di lavoro, per caso sa dirmi a... >> non feci in tempo a concludere che la vidi aprirsi in un sorriso caloroso.
<< Tu devi essere Ariel, non è vero? >> stavo per parlare ma si rispose da sola.
<< Sì sì, sei proprio tu. Occhi verdi, capelli rossi, viso sbarazzino, una montagna di goffaggine e di ingenuità. A proposito – mi indicò la testa – sono fantastici >> dire che ero scioccata era un eufemismo, non sapevo se ridere o piangere di fronte ad una descrizione del genere, mi feci forza e optai per la prima.
<< Non c'è dubbio sono io – risi, quella signora cominciava ad essermi simpatica – mi scusi ma ci conosciamo? >> cercai di ricordare se l'avessi già vista da qualche parte, ma i suoi impertinenti occhi marroni e la targhetta col nome Sonia, non mi dicevano nulla.
<< No, cara ma qualcuno mi ha parlato di te, vieni >> mentre elaboravo quelle parole mi spinse verso quello che doveva essere l'ufficio del direttore, vale a dire uno sgabuzzino sul retro vicino alle celle frigorifere. Sonia bussò, un tocco forte e veloce. Il panico assopito dalla tisana mi investì come un treno in corsa, il cuore mi rimbombava nel cervello.
<< Sta tranquilla tesoro, andrà tutto bene vedrai >> mi incoraggiò. Le sorrisi riconoscente. Avanti! Gridò una voce burbera da dietro la porta. Mi si accapponò la pelle. Un uomo calvo e con una cravatta gialla un po' allentata se ne stava seduto dietro a una piccola scrivania, (anche se aveva tutto l'aspetto di uno di quei banchi di quando andavo a scuola), intento a pigiare con forza i tasti di un'enorme calcolatrice. Non aveva alzato lo sguardo né quando eravamo entrate né quando mi sedetti su invito di Sonia.
<< Cosa c'è? >> chiese con tono alto e asciutto. Sonia alzò gli occhi al cielo.
<< Ti ho portato una ragazza, è venuta per quel posto di lavoro, oggi aveva un colloquio ricordi? >> per la prima volta mi guardò. Nessuna stretta di mano, nessun convenevole, nessun sorriso, nessuna espressione, sembrava una statua con gli occhi fissi su di me e il viso paffutello imperturbabile, pronto a spezzarsi al minimo accenno di movimento. Mi fissò da capo a piedi mettendomi a disagio. Prima di dargli altro tempo per analizzarmi anche la mente decisi di dover porre fine a quell'incontro il più presto possibile. Mi sistemai meglio sulla sedia e cominciai a presentarmi.
<< Salve, mi chiamo Ariel Dasy Emanuela Luce Morelli – sapevo di essere diventata rossa, detestavo dire ad alta voce il mio nome completo – ho ventidue anni, mi sono diplomata in lettere con ottanta – qui divenni bordeaux, se solo avesse saputo come avevo ottenuto quel voto – ho lavorato... >> mi bloccò come un vigile che dirige il traffico.
<< Ha portato il suo curriculum? >> mi chiese con voce severa infischiandosene di quello che stavo dicendo.
<< Certo >> dissi troppo in fretta. Datti una calmata Ariel, quest'uomo fiuta il panico come un cane da tartufi fiuta un tartufo, sii più sicura di te; mi ammonì una vocina nella testa.
<< Certo >> risposi con tono il più professionale possibile. Presi il curriculum dalla borsa. Accidenti, era tutto spiegazzato ai lati. Con nonchalance stirai il foglio sulle gambe e glielo porsi sostenendo il suo sguardo impassibile. Lo prese e lo continuò a stirare sul tavolo aspettando una mia reazione. Era evidente che voleva mettermi in soggezione, ma non gliela avrei data vinta. Sostenni il suo sguardo fino a che non iniziò a leggere in silenzio. Dio mio, questo è il peggior colloquio di lavoro che abbia mai avuto. Dov'è finita l'umanità? Il calore umano, le relazioni interpersonali? Certo, non mi aspettavo che questo tizio mi accogliesse con pasticcini e caffè, che fra l'altro non mi piacevano, o con una danza di benvenuto, ma almeno un sorriso, un saluto, un gesto? Era chiedere troppo per caso? Per tutto il tempo che sono rimasta qui, non ha fatto nulla per mettermi a mio agio, anzi semmai tutto il contrario. Era a questo che si riducevano le relazioni personali? A quei dieci minuti in cui una persona seduta di fronte, ti giudica dal tuo aspetto, dal modo in cui rimani seduta e da ciò che è scritto su un foglio, senza poter scambiare una parola? Il direttore alzò gli occhi dal foglio e mi osservò aggiustandosi gli occhiali che gli erano scivolati di nuovo sul naso.
<< Ho letto il suo curriculum, signorina Ariel >> annunciò, sembrava di essere al Millionario in attesa di conoscere l'esito della risposta: assunta o non assunta?
<< Lei sa che offriamo un posto di commessa? >> domandò mentre i suoi occhietti grigi mi scrutavano da quelle lenti doppie quanto il fondo di una bottiglia. Annuii non capendo il senso di quella domanda.
<< Sa anche che si tratta di un impiego full time, giusto? >> Annuii ancora una volta senza capire dove volesse andare a parare.
<< E che è richiesta la massima serietà – a quel punto lo vidi sporsi verso di me e asciugare delle gocce d'acqua cadute sulla scrivania, ero stata io con i miei capelli. La mia miglior faccia da poker era andata a farsi benedire - puntualità – gli occhi a due fessure si posarono su di me ed io mi feci piccola, piccola; ed io che pensavo che fosse troppo preso da calcoli e scartoffie per accorgersene – ma soprattutto professionalità sul lavoro? >>
<< Bene – ripeté per la seconda volta - credo che sia tutto – concluse con quel volto senz'anima – le faremo sapere >> e detto questo mi congedò ritornando al suo “passatempo”. Wow è stato il colloquio più breve e impersonale nella storia dell'intero universo, ed io ne ero la protagonista, non sapevo se esserne felice o impiccarmi. Prima di alzarmi da quella sedia mi presi qualche altro minuto mentre il mio cervello vagliava delle strategie per convincere quell'uomo a tenermi con sé.
<< Credo che dovresti assumerla >> una voce ormai familiare comparve alle mie spalle, solo allora mi ricordai che Sonia aveva assistito a tutto. L'uomo la guardò.
<< Quante volte devo ripeterti di non restare in ufficio quando sono impegnato con qualcuno? >> la rimproverò.
Sonia sbuffò spazientita << Signor antipatico scusami se sono tua moglie e mi interesso agli affari di famiglia >> carramba che sorpresa! Sonia era sposata con il tizio qui davanti? Spostai lo sguardo dall'uno all'altra cercando di capire quale oscuro legame potesse unire due anime tanto diverse: uno privo di emozioni e l'altra un'esplosione di vita.
<< Non è questo il punto, devi smetterla di immischiarti in affari che non ti riguardano, questo è il mio lavoro >> obiettò con il l'espressione e la voce del medesimo tono ovvero: insofferente.
<< Ah si? E quale sarebbe il mio lavoro? Farmi in quattro tutto il giorno per mandare avanti questo negozio mentre tu te ne stai lì a decidere chi deve o non deve lavorare come un Dio? >> Oh, Oh credo che qui le cose si mettano proprio male, chi l'avrebbe mai detto che un semplice colloquio di lavoro potesse degenerare in una furiosa lita tra coniugi? E che la mia assunzione era l'oggetto della loro disputa? A proposito ho già detto che questa giornata sta assumendo una piega a dir poco bizzarra?
<< Non sto dicendo questo, non posso assumerla così di punto in bianco senza ponderare la decisione per bene, non sarebbe corretto nei confronti delle altre candidate >> spiegò senza entusiasmo. Sonia alle mie spalle irruppe in una risata sarcastica.
<< Non sarebbe corretto? >> lo schernì << Ma se non c'è nessun'altra candidata >> gridò sporgendosi oltre la mia sedia e rompendomi un timpano. Davvero ero stata l'unica a presentarmi? Che la notizia non fosse circolata in giro? Solo io necessitavo di guadagnare qualche gruzzoletto?
<< Da quando abbiamo messo l'annuncio, nessuno si è fatto vivo a causa tua >> proseguì infervorata mentre il suo profumo al gelsomino mi dava alla testa.
<< Non capisco cosa intendi dire? >> chiese senza interesse. In quel momento mi venne il dubbio se quell'uomo ci faceva o ci era.
<< Davvero non capisci? Bhè te lo spiego io Saverio, tu non vuoi assumere nessuno, hai pubblicato quell'annuncio solo per tenermi tranquilla, perchè a te non ha mai importato nulla di me – la sua voce pian piano iniziò a incrinarsi - non ti importa se ho bisogno di una mano con il negozio, – era così amareggiata che mi dispiacque moltissimo – e proprio quando ti chiedo di prendere questa ragazza tu trovi mille scuse per non farlo - si fermò a corto d'aria per poi proseguire – ammettilo... la verità è che tu non mi ami più >> sussurrò con un dolore immenso, Santo Cielo riuscivo a sentire l'odore di divorzio lontano un miglio, che Saverio non se ne fosse ancora accorto? Forse era il caso di mettere qualche buona parola per lui? In quell'istante la voce di nonna Maria mi balenò in mente come monito: “[I]tra moglie e marito non mettere il dito” .[/I] Oh al diavolo, non potevo starmene lì con le mani in mano mentre quei due si separavano davanti ai miei occhi.
<< Io... >> Sonia mi strinse una spalla ed io dovetti soffocare un gemito di dolore mentre mi faceva l'occhiolino. COSA? La osservai stralunata cercando di capire il senso di quel gesto e notai che non era in lacrime come immaginavo anzi i suoi occhi da cerbiatto avevano un non so che di furbesco, stava tramando qualcosa.
<< Allora è così? - domandò fingendo di accigliarsi davanti alla muta ostinazione del marito – d'accordo se è questo che vuoi, io e te non abbiamo più niente da dirci allora >> mentre si allontanava mi strizzò una spalla. La guardai interrogativa mentre Saverio si agitava sulla sedia allentando la cravatta, già allentata, che era diventata improvvisamente troppo stretta. Sonia si diresse verso la porta contando a bassa voce fino a tre. E poi accadde tutto troppo in fretta: Saverio che mi comunicava che avevo ottenuto il posto, Sonia che aggirò la scrivania per saltargli al collo, io che firmavo il contratto senza neppure leggerlo, incredula di quanto appena accaduto, Sonia che si congratulava con me e che mi trascinava fuori dall'ufficio in preda ad una crisi d'isteria.
<< Ancora congratulazioni Ariel >> mi abbracciò stretta a sé come se fossi un'amica di vecchia data.
<< Grazie, Sonia >> il suo entusiasmo mi commuoveva.
<< Sono io che devo ringraziarti. Con tutti questi vecchi attorno – e indicò gli altri dipendenti – temevo di diventare una vecchia mummia ingobbita e di cominciare a sentire i primi acciacchi dell'età – risi per l'espressione terrorizzata e allo stesso tempo disgustata che le si dipinse in volto – ma con te, ragazza mia so già che ci divertiremo >> si sfregò le mani eccitata come una bambina davanti ad una bambola nuova, sorrisi nascondendo il terrore di fare qualche guaio.
<< Mi dispiace per il signor Saverio, sei stata crudele con lui >> Sonia conoscendo il carattere restio del marito aveva messo in piedi tutta quella farsa in ufficio facendo leva sui suoi sentimenti, per costringerlo ad assumermi. Senza un vero motivo mi sentii in colpa nei confronti di Saverio. Sonia se ne accorse.
<< Niente dispiaceri bambina – mi alzò il mento per guardarmi negli occhi, i suoi sembravano sorridere sempre – se l'ho fatto è perché conosco il mio pollo! >>


[I][/I][I]Ho fatto il colloquio...[/I]


[I]… e ti hanno presa.[/I]


[I]Come fai a saperlo?[/I]


[I]Una madre sa sempre tutto...[/I]


[I]Mamma...[/I]


[I]Devo lasciarti tesoro, ho un appuntamento con un cliente. Ti chiamo appena finisco, ok[/I]?


[I]Ok.[/I]


Rilessi più volte gli sms, cercando una qualche verità nascosta. Era stata lei a parlare di me a Sonia? Impossibile. Me lo aveva promesso. Non avevo detto a nessuno quale era il supermercato per cui avevo presentato domanda, neppure alle nonne temendo che si facessero sfuggire qualcosa con mia madre, Angelica e Maia erano le uniche a saperlo e non erano ancora tornate per poterlo scoprire. Rimandai la mia curiosità per dopo quando le avrei viste faccia a faccia. Per ora mi toccava stendere il bucato e aspettare. Attesi che la spia della lavatrice lampeggiasse sulla parola fine. Aprii lo sportello e cacciai il bucato dentro al cesto, presi le chiavi di casa e mi avviai fuori. Salii gli scalini che mi conducevano in terrazzo e avvertii subito una deliziosa corrente d'aria fresca. La porta di metallo incrostata di ruggine era spalancata. Che strano. Avanzai di qualche passo ma mi bloccai nell'istante in cui lo notai. Era lì. Voltato di spalle e con le mani in tasca contemplava un punto lontano all'orizzonte, completamente ignaro che io fossi a un paio di metri da lui. Mentre me ne rimanevo impalata al pavimento come se mi avessero versato addosso una valanga di cemento a presa rapida, una marea di domande mi colpì come uno tsunami: chi era quell'uomo? cosa ci faceva sul tetto, con l'aria di uno che nell'orizzonte riesce a leggervi i misteri più profondi della vita? E soprattutto se abitava nel palazzo perché non lo avevo mai visto prima?... e contemporaneamente: annuncio la mia presenza? Non so con un colpo di tosse o con il ciabattare delle mie infradito? O attendo pazientemente che risolva uno degli enigmi che attanaglia metà della popolazione mondiale, ovvero: Dio esiste? E se sì, ci vorrà molto? Insomma sono pur sempre una persona educata e non vorrei interromperlo proprio mentre ha una tale illuminazione che potrà dare un senso alla vita di milioni di persone. Ahimè la risposta era ovvia, avrei aspettato che se ne andasse con la sua scoperta, poi avrei steso il bucato, dopo una mezz'oretta lo avrei ritirato e me ne sarei tornata a casetta. Niente di più semplice. Perciò inspirai silenziosamente e non sapendo cos'altro fare, lo osservai. Visto di schiena faceva la sua figura. Era alto, snello, i capelli mossi dal vento sembravano argento vivo sotto il cielo stellato, del viso in ombra riuscivo a scorgerne solo il profilo, liscio e perfetto ed un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte. Voltato di spalle com'era non avevo la possibilità di squadrarlo per bene, ma era evidente che qualcosa non andava. Strizzai gli occhi per guardarlo meglio. Da quando ero arrivata era rimasto immobile in quella posizione come se stesse trattenendo il respiro da ore, se non avessi saputo che era fatto di carne ed ossa avrei potuto perfettamente scambiarlo per una di quelle statue che ornano le terrazze. Spostai lo sguardo sul viso. Aveva la mascella serrata e gli occhi leggermente socchiusi che fissavano lontano. Non era felice. Quel pensiero mi colpì come una secchiata d'acqua gelata, togliendomi il respiro. Non avevo mai creduto che gli occhi fossero lo specchio dell'anima ma mai come in quel momento il dolore di quello sconosciuto mi scorreva davanti come un film alla tv. Mi pentii per ciò che avevo pensato di lui ma soprattutto mi sentivo tremendamente in colpa per come mi stavo comportando, ero la spettatrice di un evento privato a cui non erano previsti invitati. Tenni gli occhi chiusi un po' più a lungo intimando alle gambe di muoversi, ma un odore particolare mi colse alla sprovvista. Era una fragranza familiare che mi riportava in tempi passati, a quando ero una bambina e mi piaceva andare all'asilo per giocare con i miei amichetti con le costruzioni, con le bambole e a fare disegni con i colori a matita, con i pennarelli e... con gli acquerelli. Riconobbi quel profumo e sorrisi al ricordo di quando ero piccola e mi impiastricciavo le mani nell'ora di disegno e la maestra mi sgridava perché sporcavo i fogli degli altri bambini e non volevo pulirle. Dio che nostalgia! Aprii gli occhi e mi si congelò il sorriso sulle labbra. Lui era lì nello stesso atteggiamento di poco prima con la sola differenza che aveva il viso leggermente voltato dalla mia parte e mi stava guardando di traverso. Non riuscii a vedere i lineamenti del suo volto ma bastò incrociare il suo sguardo per capire che ero finita sulla sua lista nera, proprio accanto a Hitler e Bush che occupavano i primi posti. Mi domandai da quanto tempo era lì a fissarmi ma non ebbi il tempo di rimuginarci sopra perché accadde tutto troppo in fretta. Sotto quella coltre di morbide e lunghe ciglia, due occhi chiari, quegli stessi occhi in cui avevo visto tanta sofferenza, mi guardavano con freddezza e disprezzo. Se il momento non fosse stato tanto carico di pathos avrei detto che sarebbe potuto rientrare nel guinness dei primati per la velocità con cui aveva solidificato il proprio dolore in un muro inaccessibile fatto di astio. Sì ci avrei scherzato su se non fosse che sapevo con esattezza che tutte quelle cose erano rivolte a me. E non potevo certo biasimarlo. Perciò feci ciò che avrei dovuto fare molto prima, andarmene. Con fatica distolsi lo sguardo da quegli occhi di ghiaccio, presi il cesto dei panni e scesi le scale con il cuore che minacciava di uscirmi dalle orecchie. Peccato che nella mia fuga avevo tralasciato un piccolo dettaglio, le infradito. Poggiando male il piede una mi si era sfilata e in un secondo mi ritrovai a ruzzolare per la tromba delle scale assieme alla roba lavata. Dio che dolore tremendo!
<< Ahio! >> mugugnai mettendomi a sedere in quel groviglio di lenzuola e biancheria intima. Mi diedi una rapida ispezione. Niente testa rotta, niente gambe rotte, niente braccia rotte a parte qualche dolore al gomito destro che aveva sbattuto contro la ringhiera durante la caduta. La parte più lesa era il fondo schiena. Nulla di nuovo. Le cadute che finivano col sedere a terra erano sempre state il mio pezzo forte. Facendo attenzione a non compiere movimenti bruschi, cercai le chiavi di casa e mi accorsi che erano finite dentro la maglietta. Le presi sentendo un formicolio... no, mi spiego meglio, un milione di aghi pungermi dalla nuca fino alla all'ultima vertebra della spina dorsale. Ero conscia della sua presenza dietro di me più di me stessa. Gettai alla rinfusa tutta la roba che era sparsa sul pavimento senza mai guardarmi indietro e con uno scatto da fare invidia ad un campione come Bolt (ma da far protestare le ossa del mio corpo) infilai la chiave nella toppa, aprii e mi infilai dentro. Mi lasciai scivolare contro la porta e respirai profondamente, con il cuore che si rifiutava di battere ad un ritmo ragionevole. Dio mio, mi sembrava di aver partecipato alla maratona di New York! Certo avrei potuto fare le cose con più calma invece di capitombolare a quel modo e provocare le proteste della mia povera spina dorsale che ora emetteva suoni sinistri, ma non avrei retto un momento di più il suo sguardo congelatore, anche se per la verità, sarebbe stato un vero toccasana per la mia povera parte lesa!
<< Ariel? >> una voce perfetta risuonò nell'appartamento annunciandomi che non ero sola. Cercai di raddrizzarmi, ma una fitta lancinante al sedere mi intimò di andarci piano. Ero in posizione quasi eretta quando un paio di gambe lunghe e abbronzate mi si pararono davanti.
<< Tutto bene? >> chiese; anche se non potevo vederla sapevo perfettamente che stava sorridendo. Mi schiarii la gola.
<< Certo >> mi uscii con voce strozzata.
<< Ah si? >> riusciva a stento a trattenere una risata.
<< Si >> cercai di darmi un contegno. Finsi di fare un po' di stretching imponendomi di non massaggiarmi il fondo schiena.
<< E si può sapere che stai facendo? >> ma insomma non era evidente?
<< Allungamenti, negli ultimi tempi ho i muscoli un po' indolenziti >> dissi con indifferenza mentre mi allungavo fino a raggiungere la punta dei piedi e poi sollevavo il busto; il tutto gradualmente finchè non riuscii a starmene dritta e a guardarla negli occhi. Una cascata di morbidi ricci scuri incorniciavano un grazioso viso a forma di cuore capeggiato da due grandi occhi verdi che in quel momento mi squadravano con ilarità, il naso sottile, gli zigomi pronunciati e due labbra sottili. Indossava una canotta verde militare che metteva in risalto la pelle olivastra abbronzata dal sole e gli shorts. Pareva la modella di una di quelle riviste patinate, bella, sicura di sé, sensuale; peccato che non avesse nessun interesse in quel campo. Da giovane femminista incallita che era, Angelica condannava qualsiasi atto che sminuisse la donna a misero oggetto di desiderio. A suo parere le figure femminili che sfilavano sulle passerelle di alta moda non erano altro che fantasmi delle donne che avrebbero potuto essere, dei corpi minuti con un doppio nodo allo stomaco e uno sguardo affamato nel vero senso della parola. Angelica era fiera di essere donna e lo dimostrava in ogni suo gesto, dalla sua mentalità aperta in una fascia di terra dove la visione della vita era alquanto ristretta, da come esortava me e Maia a essere noi stesse e a non sentirci mai inferiori a nessuno e dal modo in cui si batteva per gli altri, per difendere i loro diritti; ed io le ero amica per questo, perché era speciale.
<< D'accordo >> cantilenò con un sopracciglio inarcato dal canto mio sostenni il suo sguardo impassibile.
<< E' arrivata? >> gridò qualcuno dalla cucina: Maia.
<< Sì >> gridò di rimando Angelica con le braccia conserte, mi fissò mordendosi il labbro << E' caduta di nuovo >> aggiunse dopo un minuto di silenzio e scoppiò a ridere seguita dallo sghignazzare dell'altra che se ne stava in cucina. Sbuffai spazientita, ma come facevano a scoprirmi sempre?
<< Facevo solo un po' di ginnastica >> borbottai, incrociando a mia volta le braccia al petto.
<< Come no >> ironizzò dandomi una pacca sul sedere.
<< Ahia! >> gemetti massaggiandomi, mentre se la rideva di puro gusto.
<< Dove sei cascata stavolta? >> domandò con sincera curiosità, la guardai di traverso e quel gesto mi ricordò il tizio di poco prima, scossi la testa per scacciarlo via.
<< Sulle scale, stavo venendo dalla terrazza >> la vidi subito diventare seria e avvicinarsi per scrutarmi bene in viso forse in cerca di qualche commozione cerebrale.
<< Mi dispiace, sei sicura di star bene? >>
<< Sicura, tranquilla >> sorrisi. Mi diede un ultima occhiata a labbra strette e annuì, certe volte si comportava come mia madre.
<< Che ci facevi in terrazza? >> mi chiese allora con l'aria più angelica di tutti gli amorini esistenti sulla faccia della terra.
<< Ero andata per il bucato >> buttai lì sorpassandola per evitare che investigasse troppo, non avevo alcuna intenzione di raccontarle quanto accaduto, non in quel momento almeno, non avrei saputo cosa spiegarle... poiché neanche io sapevo cosa fosse successo esattamente; e poi avevo altre cose a cui pensare, tipo quella che mi stava passando per la testa adesso...
<< Sei stata tu a parlare di me a Sonia? >> fu buffo vedere l'espressione di Angelica passare da sospettosa a confusa.
<< Ma di che stai parlando? >>
<< Lo sai benissimo >> la incalzai con tono fermo, senza volere mi ero messa sulla difensiva.
<< Ti sbagli, non conosco nessuna Sonia >> scosse il capo con la fronte aggrottata, sembrava sincera.
<< Sei stata tu a – non riuscivo a trovare la parola giusta, anche se raccomandata era quella esatta, ma mi rifiutavo di utilizzare un vocabolo del genere - … parlargli di me? >> scosse di nuovo la testa guardandomi con tenerezza << Non lo farei mai, non senza il tuo permesso >> era vero, le mie amiche conoscevano ciò che avevo passato a causa di mia madre e dei suoi continui interventi nel mettermi a posto la vita, dal corrompere il presidente della commissione agli esami di maturità; al farmi assumere da tre aziende per cui avevo presentato domanda senza sostenere alcun incontro conoscitivo per poi essere licenziata ogni volta il mese successivo alla mia assunzione. Era stato davvero umiliante scoprire che dietro ad ogni datore di lavoro che avevo incontrato si nascondeva mia madre con i suoi fili da burattinaia e tutti erano stati più che disposti a sottomettersi alle sue macchinazioni. Da quel momento mi ero fatta giurare che non si sarebbe mai più immischiata nella mia vita, altrimenti sì che mi sarei trasferita all'altro capo del mondo e l'avrei telefonata una volta l'anno. Sospirai.
<< Scusami >> sussurrai.
<< Tranquilla >> mi accarezzò un braccio << ... quindi ti hanno presa? >> mi chiese come se stessimo avendo una conversazione sul tempo, anche se il sorriso che le aleggiò sulle labbra tradiva una certa speranza. Annuii sghignazzando, era troppo forte.
<< Sono contenta per te >> mi abbracciò di slancio, ricambiai inspirando a fondo l'odore di lavanda che la circondava. Mi allontanò per osservarmi.
<< Pensi che tua madre... >>
<< Non credo sia stata a lei – stavolta ero sicura che non c'entrasse nulla - a meno che voi... >>
<< Credimi Ariel non ne abbiamo fatto parola con nessuno, né io e né... >> impiegò qualche secondo a pronunciare il suo nome, la guardai intuendo il suo stesso pensiero.
<< Maia >> dicemmo all'unisono. Che stupida a non averlo pensato prima, era stata proprio lei a suggerirmi di presentare il curriculum in quel negozio e ad assicurarmi che mi avrebbero presa. Dio mio, questa volta ero stata... non osavo pensare a quel termine, dalla mia migliore amica, non sapevo cosa provare al riguardo. Non ero arrabbiata con lei questo era sicuro, anche se... No, Maia non aveva fatto altro che parlare di me alla moglie del mio futuro capo solo per preparare il terreno e farmi sentire a mio agio, e per questo dovevo solo ringraziarla. Mi schiarii la gola.
<< Questo non fa di me una... raccomandata, vero? >> avevo bisogno di sentirmelo dire.
<< Certo che no, altrimenti come l'avrebbe convinta ad assumerti? >>
<< Promettendole mazzette di erbe al timino e infusi della giovinezza? >> chiesi io. Ci guardammo senza fiatare e poi scoppiamo a ridere a crepapelle, tenendoci la pancia con le mani. Maia ci sorprese in quel momento.
<< Bé mi sono persa qualcosa? >> sorrise unendosi a noi.
<< Si chiacchierava di mazzette alle erbe, infusi, robe così >> Maia smise di ridere all'istante.
<< Non capisco cosa ci troviate di tanto divertente >> sbottò con espressione imbronciata.
<< Niente, niente >> sdrammatizzai io, guai a chi menzionava le sue strampalate brodaglie dall'odore nauseabondo << Cosa c'è per cena? >> chiesi per cambiare discorso ed avventurarmi in un territorio neutro.
<< Speravo che me lo chiedessi! >> disse con la voce che saliva di tre ottave dall'eccitazione, i suoi repentini cambi d'umore mi facevano paura, temevo soffrisse di bipolarismo. La guardai senza capire.
<< La scelta del menù dipende da te >>
<< Da me? >> la vidi annuire e battere le mani come una bambina il giorno di Natale.
<< Allora abbiamo due menù >> disse elencandoli sulla punta delle dita << Il primo si chiama “Uno su mille ce la fa” e comprende pizza e patatine con Mamma mia il musical come contorno >> dovetti mordermi più volte il labbro per non scoppiare a riderle in faccia.
<< Il secondo invece si chiama “Dopotutto domani è un altro giorno” e comprende una vaschetta di gelato di tutte le varietà di cioccolato con una cascata di panna montata e con Titanic come contorno >> guardai di sottecchi Angelica che come me faticava a trattenersi. Era evidente che i menù dipendevano dall'esito del colloquio di oggi, uno era per festeggiare, l'altro per consolarmi. Mi sentii commuovere da quel gesto, come avrei potuto essere adirata con lei, dopo tutto quello che aveva fatto per me?
<< Allora – tornò a chiedermi – quale scegli? >> la finta nonchalance con cui lo chiese mi fece capire ancora di più quanto fosse sulle spine.
<< E se scegliessi tutti e due? >> non volevo rendergliela facile.
<< Non è possibile >> disse spazientendosi. Finsi di pensarci su per un lungo minuto mentre lei tratteneva il fiato.
<< Ok credo che sceglierò il primo >>
<< Ottima scelta >> mi fece l'occhiolino e si avviò in cucina sorridente ma io la trattenni per un braccio e l'abbracciai.
<< Grazie di tutto, Maia >> dissi baciandole la guancia, lei mi guardò sconcertata. Sapeva che io sapevo, ma dal mio sguardo capì che non ce l'avevo con lei.
Quella sera mangiammo come se non ci fosse un domani, peccato che non fosse vero dato che il giorno seguente avrei cominciato a lavorare. Con uno strappo alla regola ci ingozzammo anche di gelato e panna senza vedere però Titanic, non potevo permettermi di arrivare in ritardo il primo giorno di lavoro, non dopo oggi.
Era bizzarro il modo in cui era iniziata quella giornata e altrettanto strano il modo in cui si era conclusa, nonostante quelle ore felici, di tanto in tanto sentivo la tristezza avvolgermi come un manto invisibile, inevitabilmente finivo col pensare all'uomo che avevo incontrato quella sera e alla sua solitudine. Insomma era abbastanza facile per la gente fingere di non notare il dolore altrui, allora perché mi era impossibile fare altrettanto? Perché non riuscivo a dimenticare la sofferenza che ho letto negli occhi di quello sconosciuto? Ma soprattutto perché non sopportavo l'idea che lui soffrisse? Quella notte mi girai e rigirai nel letto, in preda a sogni, popolati da occhi azzurri che mi fissavano in silenzio.


Salve a tutti, ecco a voi il primo capitolo. Spero che vi piaccia! Ringrazio chiunque si sia imbattuto nella mia storia e abbia iniziato a leggerla.
Mi farebbe piacere conoscere i vostri pareri quindi grazie a chi commenterà!
Al prossimo capitolo!




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Capitolo 2
*** E poi... sei arrivato tu! ***


2

E poi... Sei arrivato tu!

 

Sono due settimane che lavoro qui, e già mi sento a casa mia. E per casa mia intendo in tutti i sensi! Ormai nessuno fa più caso alla ragazza dagli strani capelli rosso fragola che si aggira per il negozio e che con quella divisa indosso sembrava la figlia di Babbo Natale parcheggiata lì in attesa che il babbo faccia il giro del mondo e venga a riprenderla per portarla dalle sue care e amate renne dal naso luminoso; di conseguenza si sono presto abituati al mio vagare tra le nuvole, al vedermi scivolare ogni giorno all'ora di chiusura quando il pavimento è stato appena lavato e a riderne di gusto, a sentirmi canticchiare a ritmo della musica che aleggia nell'aria mentre sto alla cassa o a prezzare i prodotti, ad essere sgridata puntualmente dal capo per aver perso tempo a chiacchierare con una vecchina, indecisa se prendere il latte fresco o quello a lunga conservazione invece di lavorare, e ad essere allo stesso tempo protetta da Sonia che è diventata la mia paladina.

Sonia è sempre gentile e affabile nei miei riguardi, prende le mie difese anche quando non dovrebbe e il più delle volte se combino un casino lei nasconde ogni cosa e si fa una bella risata. Non so se sia possibile, ma le ho voluto bene dal primo giorno che ho messo piede qui dentro, più come una dipendente mi tratta da figlia e questo mi fa sentire orgogliosa, perché lei mi accetta così come sono nonostante rischi di mandarle all'aria il negozio e non ha mai tentato implicitamente di cambiarmi come ha sempre fatto mia madre convincendomi a tingere i capelli di un bel biondo luce come il suo per poi vedermi tornare rossa più di prima, di spingermi a vestirmi con abiti più femminili tipo gonne, tacchi o delle vere calze da “donna”: i collant, al posto dei soliti jeans scoloriti, delle magliette con disegni senza senso e dei calzini colorati dove ogni dito del piede ha uno spazio proprio; dall'iscrivermi ad un corso di buone maniere a cui poi non sono mai andata. Devo ammetterlo mia madre ha un modo di fare un po' ottocentesco ma è una brava madre, è la figlia il problema!

Qui tutti mi avevano accolta ben volentieri e nonostante l'età media della popolazione dipendente partisse dai quaranta in su rendendomi di fatto la più piccola del gruppo, tutti mi trattavano come una loro pari facendomi sentire a mio agio e in quel poco tempo ero riuscita a conquistarmi la loro simpatia nonché la loro fiducia. Dai signori Antonio e Daniele che lavoravano rispettivamente alla salumeria e alla macelleria, due gemelli identici ma divertentissimi che trovavano gusto, ogni volta che li salutavo, a scambiarsi l'identità, diventando l'uno l'altro e viceversa mandandomi in confusione; a Susanna, che aspettava il suo terzo figlio e che non ha appena mi ha visto mi ha offerto un cracker spezzandolo a metà dando inizio alla nostra amicizia ed infine la signora Alice che mi ricordava un po' le mie nonne con i capelli cotonati e la grinta che la caratterizzava nello svolgere il suo lavoro.

Salutai tutti quando entrai, evitando di proposito di passare davanti all'ufficio del signor Saverio, andai nella stanzetta adibita a camerino, indossai la divisa in un battibaleno e ritornai in negozio. Non c'era molta gente in giro per essere le otto del mattino, perciò ne approfittai per sbrigare il lavoro di Susanna. Avevo proposto di occuparmi io di sistemare la roba sugli scaffali, purtroppo con una gravidanza inoltrata come la sua e con quella pancia era consigliabile evitarle sforzi inutili, perciò ora se ne stava seduta alla cassa sbuffando come una locomotiva. Odiava essere un peso per gli altri e starsene lì a battere scontrini, soprattutto se con le precedenti gravidanze era rimasta attiva fino all'ottavo mese, la irritava abbastanza.

Presi il taglierino che avevo in tasca e aprii il primo scatolone, cominciai a disporre le varie confezioni di biscotti sui ripiani inferiori, cercando di non soffermarmi troppo sugli invitanti frollini alla panna che avevo tra le mani; il brutto di lavorare in un supermercato era il continuo contatto con il cibo: biscotti, merendine, cioccolatini, patatine facevano bella mostra di sé invitandoti ad assaggiarli, per non parlare poi del profumo che proveniva dal reparto salumi che mi faceva brontolare lo stomaco, a tal proposito evitavo con cura di passare da quelle parti e se vi ero costretta lo facevo sempre a naso chiuso. Finito di sistemare i piani inferiori e quelli centrali mancavano quelli superiori. Con tutta la dignità di questo mondo presi la scaletta che Sonia mi aveva fatto trovare quella mattina prima del mio arrivo e salii tre gradini. Lo so, lo so può sembrare assurdo che uno scaffale risulti alto quanto i grattacieli di new york ma non è colpa mia se sono alta un metro e sessanta e se hanno costruito dei ripiani adatti per dei giocatori di basket! Presi i pacchi di biscotti di marca differente da quella precedente e iniziai disporli in ordine quando intercettai il movimento di una mano dalle dita lunghe e affusolate che si avvicinava in direzione dei pan di stelle.

<< Non si preoccupi glieli prendo io >> ligia al dovere mi sporsi nella direzione opposta alla scala e afferrai i piccoli dolcetti punteggiati di stelle, ottima scelta, pensai una volta presi. Purtroppo per me non avevo fatto i conti con la forza di gravità e il mio scarso senso di equilibrio, scivolai con il piede su cui avevo fatto leva e mi sbilanciai di lato. Stavo per cadere, era inevitabile. Mi preparai all'impatto con il pavimento, sperando di farmi male ma non troppo, altrimenti stavolta niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi dalle iniezioni di nonna Luisa. Aspettai qualche secondo in attesa di avvertire la superficie fredda e liscia su cui ero appena caduta. Non accadde niente di tutto ciò. Aprii gli occhi e come prima cosa vidi la scala rovesciata a terra mentre la mia mente registrava lo strano calore che proveniva dalla mia schiena e si riverberava sulla pancia. Lentamente spostai lo sguardo verso il basso e notai un braccio cingermi la vita.

Ero caduta addosso a qualcuno.

Quel qualcuno mi stava abbracciando.

Sentii un formicolio familiare attraversarmi la spina dorsale mentre sollevavo il capo per incrociare lo sguardo del povero malcapitato.

Il mio cuore perse un battito. Due occhi limpidi come il mare mi guardavano impassibili sotto le lunghe ciglia scure. Mi ritrovai a trattenere il respiro nell'istante in cui compresi che avevo già visto quello sguardo freddo e magnetico capace di farti scappare a gambe levate e di tenerti incollata al pavimento al tempo stesso. Rimanemmo alcuni minuti così, schiena contro petto, testa contro collo, in attesa che mi facessi da parte.

Non volevo farmi da parte.

<< Scusami, non volevo finirti addosso >> mi sentii dire con una voce che somigliava lontanamente alla mia. Lui sembrò non fare caso a quanto appena detto perché si staccò da me per oltrepassarmi e proseguire dritto senza degnarmi di uno sguardo. Wow, soffocai una risata nervosa. Non so se fossi più stupita per la reazione che aveva avuto o per l'umiliazione che mi bruciava le guance. Credo fosse più la seconda ipotesi. Insomma che cosa avevo detto per farlo arrabbiare a quel modo? Bè arrabbiare è una parola grossa riflettei, richiedeva una certa partecipazione emotiva, cosa che non avevo notato affatto in quello sconosciuto, neanche quando mi aveva visto. Se io ero rimasta scioccata nel ritrovarmelo lì e per di più fra le sue braccia lui non aveva mostrato il minimo segno di stupore nel rivedermi. Cosa alquanto strana dato che la prima e ultima volta che ci siamo visti mi ha guardato con un disprezzo e un odio tale da farmi ruzzolare per le scale. Che diavolo gli era preso? Di certo non lo avrei mai saputo se continuavo a starmene impalata lì. Con un salto superai la scala e gli corsi dietro. Lo intravidi vicino al frigo, stava prendendo il latte. Mi avvicinai. La sua espressione era chiarissima. Non era contento di vedermi, ma potrei anche sbagliarmi perché non sembrava neanche triste. Forse era indifferente ed io stupidamente mi sentii offesa.

<< Hai dimenticato i biscotti >> gli dico con il migliore dei sorrisi che ho a disposizione mentre glieli porgo. Lui mi guarda senza aggiungere nulla e il suo silenzio è più gelante del frigo davanti a quale ci siamo fermati.

<< Il latte deve essere sempre accompagnato dai biscotti >> aggiungo per poi darmi dell'imbecille nel momento in cui mi accorgo di sembrare la voce petulante della pubblicità della Mulino Bianco. Ma lui non sembra farci caso il chè è un bene o un male, dipende dai punti di vista. Continua a fissarmi e non ha ancora preso questi benedetti biscotti ed io sono sempre più tentata di chiedergli se mi ha riconosciuta, se si ricorda di quella sera, sulla terrazza e della mia imbarazzante caduta (anche se è successo per causa sua!) e se si perché finge il contrario, ma non mi dà neanche il tempo di trovare il modo per formulare la domanda che con gesto brusco mi toglie il pacco di mano e fa per avviarsi alla cassa. Dannazione, penso mentre con uno slalom che farebbe invidia a Fernando Alonso, lo raggiungo e mi paro davanti. Lo osservo e noto con piacere che il suo sguardo si è indurito tanto che i suoi occhi sembrano smeraldo puro e la mandibola è tesa mentre mi fissa. Finalmente, credevo non fossi umano, pensai nascondendo il sorriso che rischiava di spuntarmi, con un'espressione di finta preoccupazione mentre pensavo a quello che stavo per dirgli.

<< Non ti disturberò più lo giuro – dico unendo le mani in segno di preghiera – ma volevo davvero ringraziarti per prima >> mentre gli parlo cerco di leggere in lui qualche reazione e contemporaneamente di non perdere il filo del discorso mentre incateno i miei occhi con i suoi, cosa alquanto dura dato che mi presta la sua più totale attenzione.

<< Se non ci fossi stato tu avrei fatto una delle mie solite cadute >> buttai lì con una risata sperando di vedere scattare in lui qualcosa ma non batté ciglio al riguardo anzi sembrava stesse per perdere la pazienza mentre i clienti dietro di lui lo sorpassavano. Per una frazione di secondo mi sorse il dubbio di aver sbagliato persona; ma poi mi diedi della stupida, non potevo essermi sbagliata, era lui ed ero pronta a scommettermi il mio primo stipendio (che tra l'altro non avevo ancora preso). Insomma quante probabilità vi erano di incontrare un tizio dagli occhi identici ai suoi? Gli occhi non erano una prova sufficiente a sostenere la mia tesi, certo, ma la sua statura e i capelli chiari erano la prova inconfutabile che non sbagliavo affatto. Lo scrutai in cerca di qualche altro indizio rivelatore in grado di appoggiare la mia tesi e fu come vederlo per la prima volta... Dio mio! Quel.Ragazzo.Era.Bellissimo! Come avevo fatto a non accorgermene prima?! Ero così presa da non perdermi nemmeno un battito di ciglia che avevo tralasciato tutto il resto... e che resto! Strizzai gli occhi come se lo vedessi per la prima volta e lo squadrai da capo a piedi riuscendo a stento a tenere la bocca chiusa. Bello era troppo sbrigativo. Lui era stupendo da mozzare il fiato. Alto almeno venti centimetri più di me, il fisico asciutto, indossava una semplice t-shirt bianca che risaltava sulla carnagione chiara e dei jeans scoloriti. Ma tuttavia era il viso, il suo pezzo forte. Il volto allungato e dai tratti decisi, ospitava due occhi screziati di verde incorniciati da morbide ciglia scure, il naso dritto e aggraziato e il labbro superiore leggermente più pieno rispetto a quello inferiore. I capelli biondi, lunghi sul davanti gli ricadevano sulla fronte in maniera disordinata quasi avesse dimenticato di pettinarsi. Essere così disumanamente belli è un crimine, mi ritrovai a pensare non appenai finii di squadrarlo per la seconda volta. Incrociai di nuovo il suo sguardo stavolta irritato e decisi che era meglio arrivare dritte al punto.

<< La verità – sospirai – è che poco fa rivedendoti mi è venuto in mente il modo in cui ci siamo incontrati l'ultima volta e volevo dirti che non stavo affatto spiandoti, ero uscita per stendere il bucato e per caso ti ho trovato lì e... >>

<< Mi confondi con qualcun altro >> disse oltrepassandomi di nuovo mentre io rimasi pietrificata. Non poteva essere. Sapevamo entrambi che non mi sbagliavo e che di certo non l'avevo confuso con qualche altro. Stava mentendo, era evidente. Ma perché lo faceva? Non saprei spiegarlo. In fondo non gli avevo fatto nulla per meritarmi un'accoglienza del genere allora perché non aveva battuto ciglio quando gli ero finita addosso? Che davvero lo avessi scambiato con qualcun altro? Impossibile. Forse dopo il nostro incontro deve aver battuto la testa da qualche parte e aver perso la memoria o semplicemente non si ricordava di me, molto più probabile; rimasi un tantino delusa. Mi voltai dal lato in cui qualche minuto prima mi era passato accanto e già non c'era più. Rimasi ferma a guardare la strada fuori spinta dallo strano desiderio di seguirlo, ma qualcuno non era affatto d'accordo con i miei piani.

<< Ariel – gridò una voce in collera dalla sua postazione in ufficio – sbrigati a sistemare il casino che hai combinato, altrimenti ti licenzio >> dimenticavo, i miei colleghi erano abituati tra l'altro a vedermi minacciata di essere licenziata almeno due volte al giorno. Mi ripresi in un attimo.

<< Subito signor Saverio >> gridai di rimando mettendomi sull'attenti anche se non poteva vedermi, feci un cenno a Susanna che sghignazzava senza sosta e ritornai al mio posto pensando che fino all'ultimo quell'uomo avrebbe rischiato l'esaurimento nervoso per colpa mia.

 

                                                                                                                   *************

Stranamente quel pomeriggio ero giunta al terzo rimprovero da parte del signor Saverio; dopo il misfatto di quella mattina avevo continuato a combinare guai: avevo rotto tre bottiglie di salsa, camminando all'indietro con la pedana carica di confezioni d'acqua mi ero scontrata con una signora robusta quanto un armadio facendola cadere, Dio solo sa se non ci è voluto l'intero personale per aiutarla ad alzarsi da terra! Avevo dato male il resto ad un vecchietto che mi aveva accusato di essere una ladra e di aver tentato di truffarlo e per concludere in bellezza avevo fatto cadere senza volere una bottiglia di olio di extra vergine d'oliva e tutti sapevano che una bottiglia d'olio rotta significava rogne a non finire, non solo perché per pulire bisognava chiamare Mastro Lindo in persona bensì perché avevo attirato la sfortuna su quel negozio come le api col miele; ed eravamo ancora a metà giornata, non osavo immaginare come sarebbe andata fino all'orario di chiusura.

<< Giornata dura? >> avvertii la sua voce prima ancora che mi poggiasse una mano sulla spalla.

<< Un po' >> ammisi con una smorfia mentre incrociavo il suo sguardo. Mi sorrise gentile.

<< Non preoccuparti sono intoppi del lavoro, succedono a tutti >> mi consolò circondandomi le spalle con gesto materno. Mi gustai quell'abbraccio pensando che era la prima volta che mi capitava che qualcuno mi volesse così bene conoscendomi appena e mi sentii tremendamente in colpa per questo, perché non lo meritavo, lei fra tutte doveva essere l'ultima persona a stare lì a tirarmi su di morale dopo tutti i guai che le stavo causando.

<< Perché ti ostini a difendermi dal signor Saverio? >> chiesi sinceramente curiosa di conoscere il motivo che si celava dietro tanta determinazione.

<< Ariel.. >> pronunciò il mio nome con lo stesso tono di chi sta per parlare ad un bambino di cinque anni, ma la interruppi.

<< In fondo sono solo un'estranea per te, una dipendente come le altre che non giova agli affari di famiglia e che oltretutto sarà la causa della separazione da tuo marito >> mi allontanai da lei e cominciai a camminare avanti e indietro.

<< Ariel ascolta... >>

<< Faresti meglio a dargli retta, sai? – col capo indicai in direzione dell'ufficio sul retro – licenziandomi gli eviteresti un attacco cardiaco e la bancarotta >>

<< Ariel... >> tentò invano mentre io ero partita con il gas a manetta.

<< O forse è meglio che mi licenzi di mia spontanea volontà... >> mi morsi il labbro, non credo che ne avrei avuto davvero il coraggio.

<< ARIEL VUOI FERMARTI E STARMI A SENTIRE PER UN MINUTO? >> gridò Sonia riportandomi bruscamente alla realtà e facendo voltare l'intero negozio. L'espressione allegra di poco prima lasciò il posto ad una seria e decisa, in quel momento era identica al marito quando me ne diceva quattro. Feci come mi aveva ordinato in attesa che si calmasse e proseguisse, questo lato di Sonia mi era del tutto sconosciuto, conoscevo la Sonia simpatica, amica, protettiva ma non quella autoritaria ed ero del tutto impreparata. Tirò un respiro profondo e ricordandosi che non eravamo sole assunse l'espressione più mite che le avessi mai visto e diede un'occhiata attorno rassicurando tutti che non mi avrebbe uccisa seduta stante contemporaneamente fece cenno a Susanna e alla signora Alice di avvicinarsi. Tornò a prestarmi attenzione.

<< Finalmente un po' di silenzio – spalancò le braccia alzando gli occhi al cielo – certo che quando parti in quarta non si riesce a starti dietro >> ironizzò << non so quante stupidaggini hai potuto dire in mezzo secondo >> vidi il suo sguardo addolcirsi segno che era ben disposta a perdonarmi.

<< Altro che dura, la tua giornata deve essere stata tremenda se mi proponi tu stessa di dar retta a quell'energumeno di mio marito e di licenziarti su due piedi >> mi scappò una risatina, quando raccontava le cose lei lo faceva con una leggerezza e un'ironia che anche l'evento più catastrofico diventava una barzelletta. Rise anche lei e mi toccò un braccio.

<< Te lo ripeto sono cose che succedono, tutti hanno una giornata no e tu non fai eccezione >> strano però che fino ad allora le mie giornate fossero in una percentuale minore rispetto a quelle No.

<< Non posso mandarti via, sei una brava dipendente, spesso combini qualche guaio è vero, ma ciò non toglie che ce la metti tutta per svolgere il tuo lavoro al meglio >> mi commosse la sincerità delle sue parole, molti altri al posto suo avrebbero potuto sbattermi fuori dal primo giorno invece lei non lo aveva fatto anzi in più occasioni si era dimostrata comprensiva e pronta a darmi un'altra possibilità come adesso e questo ai miei occhi la rendeva una donna ancora più degna di ammirazione.

<< E poi sei una ragazza divertente il ché non guasta >> mi lanciò un'occhiata maliziosa.

<< Quindi è per questo che hai convinto tuo marito ad assumermi? Perché ti faccio sbellicare dalle risate? >> scherzai.

<< Mi hai scoperto >> disse con sguardo colpevole ed io scoppiai a riderle in faccia.

<< Vederlo perdere le staffe a causa delle tue malefatte non ha prezzo >> aggiunse, l'allegria di qualche istante prima ricomparve in quei suoi occhi da cerbiatto.

<< Beata te che ci provi gusto a me toccano sempre le lavate di capo >> scossi il capo fingendomi afflitta anche se in realtà ero abituata a prendermi le ramanzine oramai potevo dire di averci fatto il callo.

<< Già >> appena pronunciata quella parola avvertii di colpo l'atmosfera cambiare, mi voltai ad osservarla per capire il motivo del suo repentino cambio d'umore e vidi che aveva un sorriso triste stampato in faccia e guadava con attenzione il contenitore delle caramelle davanti a noi.

<< Nostra figlia vive a New Orleans, ritorna a casa un paio di volte l'anno ma non si ferma mai abbastanza per disfare le valige >>, aggrottai la fronte confusa dal repentino cambio d'argomento. Non sapevo che avessero una figlia e che per giunta vivesse in un altro continente, ora mi era più chiaro il perché il signor Saverio fosse sempre di malumore e Sonia fosse sempre così allegra, era il loro modo per nascondere il dolore e mettere a tacere la nostalgia che provavano.

<< E' una ricercatrice >> il modo in cui lo disse lasciò trasparire tutto l'orgoglio che sentiva per sua figlia. << Non chiedermi di cosa si occupa nello specifico perché non saprei proprio risponderti >> alzò le mani imbarazzata e scosse la testa << so solo che questo paese le stava troppo stretto e ha deciso di partire >> nel suo sguardo per una volta lessi un profondo dolore, doveva mancarle molto e mi si strinse il cuore sapendo che non avrei potuto fare niente per alleviare un po' la sua pena.

<< Per questo Saverio è sempre così sgorbutico, non voleva che partisse e ora che Sofia non è qui non riesce neanche a chiamarla per dirle che le manca, di solito è lei a telefonargli >> ed io che pensavo che il signor Saverio fosse un uomo burbero incapace di qualsiasi dimostrazione d'affetto a parte quella di assumermi per far piacere alla moglie; questo però non spiegava cosa c'entrasse la figlia con me. Sonia come se avesse intuito i miei pensieri mi rassicurò.

<< E' un bravo uomo anche se è difficile crederlo ma soprattutto è un buon padre, ama sua figlia più di ogni altra cosa al mondo credimi >> annuii poggiando una mano sulla sua.

<< Tu le assomigli molto >> affermò con un sorriso.

<< Io? >> chiesi stentando a crederci, ed io che pensavo che avessero gettato lo stampo! Annuì.

<< Perciò è tanto duro con te – mi spiegò mortificata – e il fatto che io ti sia tanto affezionata non migliora le cose >> confessò colpevole. Vide la confusione sul mio viso e cercò di spiegarsi meglio.

<< Teme di vedermi soffrire ancora se un domani tu decidessi di andartene >> non mi guardò negli occhi e ciò bastò a farmi comprendere quanto fosse importante la mia presenza per lei lì e quanto fosse aumentato il suo affetto per me in quelle settimane. Il signor Saverio quindi non mi sopportava perché gli ricordavo sua figlia con la quale non era rimasto in buoni rapporti e perché era preoccupato che potessi lacerare ulteriormente il cuore di sua moglie. Ora finalmente cominciavo a vederci chiaro e non potevo fare a meno di comprendere i suoi timori. Forse avrei dovuto prendere sul serio l'idea di lasciare tutto e andarmene prima che potessi farle del male. Sonia si accorse del tumulto di pensieri che mi si agitava dentro e decise di correre ai ripari.

<< Ariel non... >>

<< Tranquilla non pensiamoci adesso>> la rassicurai e accennai alla sua destra. Susanna e la signora Alice ci raggiunsero.

<< Sei ancora viva! >> mi canzonò Susanna massaggiandosi il pancione, mi sa che quell'esserino là dentro scalciava peggio di un toro impazzito.

<< Come vedi sono ancora qua >> ironizzai lasciandole il mio posto per sedersi.

<< Grazie – disse accomodandosi e tornando sull'argomento – si può sapere che stavate combinando? >> mi chiese facendo il terzo grado, una cosa che avevo scoperto di questa donna era che voleva sempre essere al corrente di tutto e che le piaceva spettegolare, le mie nonne l'avrebbero etichettata come una delle tante comare che con la scusa che seguivano la processione del santo di turno tra un Ave Maria e un Padre Nostro, criticavano gli abitanti di mezza città.

<< Le stavo dicendo che deve stare più attenta se non vuole che la licenzi >> intervenne Sonia che di nascosto mi strizzò l'occhio con fare complice.

<< Poveretta non è colpa sua se oggi era tra le nuvole più del solito – alla sua affermazione non potei fare a meno di roteare gli occhi – stamattina è passato quel ragazzo >> alla parola ragazzo raddrizzai le antenne, captavo in avvicinamento un momento di grande imbarazzo.

<< Quale ragazzo? >> domandò Susanna d'un tratto interessata io dal canto mio sperai che non si trattasse di quello che stavo pensando.

<< Quello lì... >> disse schioccando le dita e corrugando la fronte concentrata, Sonia mi guardò ed io alzai le spalle per dirle che anch'io ne sapevo quanto lei, o quasi. << ... il belloccio, quello alto e biondo – ok, non avevo bisogno di ulteriori informazioni per capire che si stesse riferendo a lui - che passa di tanto in tanto di qua per fare la spesa? >> Sonia e Susanna ci rifletterono su, sembrava di partecipare ad una partita di Indovina chi? Non mi sarei meravigliata se si fossero chieste a vicenda il colore degli occhi o se avesse la barba. All'improvviso la signora Alice spiazzò tutti.

<< Il fusto? >> non so se ero più scioccata per il sostantivo che aveva utilizzato o per il semplice fatto che una parola simile fosse uscita dalla sue labbra con l'espressione di chi è in attesa di incassare un milione di euro in contanti.

<< Esatto >> la assecondò Susanna come nulla fosse.

<< E con questo? >> incalzò Sonia che pareva averne abbastanza di tutti questi giri di parole.

<< Gli è andata addosso >> le rispose Susanna con un'occhiata maliziosa.

<< Cosa? >> credetti non aver sentito bene.

<< Stai cercando di negarlo? >> questa volta si rivolse direttamente a me.

<< Sì – risposi per poi rimangiarmi subito quanto detto non appena incrociai i loro sguardi stupefatti – no, cioè, volevo dire non nel modo in cui intendi tu >> dissi in preda all'agitazione. Dovevo essere diventata un camaleonte perché il mio viso era della stessa tonalità dei miei capelli e questo poteva indurre a fraintendere le cose.

<< Non gli sono andata addosso di proposito è stato un incidente >> ammisi imbarazzata. Susanna inarcò un sopracciglio scettica. << Mi sono sporta per prendergli un pacco di biscotti ma ho perso l'equilibrio e sono finita col cadere, tutto qui >> raccontai maledicendomi di essere così imbranata se poi avevo la sfortuna di dover spiegare certe cose.

<< Questo non spiega il motivo per cui gli sei corsa dietro subito dopo >> si intromise la signora Alice, ma nessuno lavorava a quell'ora? A quel punto siccome avevo fatto trenta avrei fatto anche trentuno. Sospirai.

<< Mi era parso di conoscerlo e volevo sapere se si ricordasse di me >> dallo sguardo divertito di Susanna intuii che sapeva già come era andata a finire ma non si privò del piacere di continuare l'interrogatorio. Quella donna aveva un ché di sadico.

<< Hai avuto conferma? >> chiese cercando di mascherare quanto si divertisse.

<< No >> le risposi controvoglia. Dopo qualche attimo di silenzio Susanna tornò all'attacco.

<< Comunque per come la penso io – disse portandosi una mano al petto – la tua era tutta una sceneggiata per saltargli addosso >> sentenziò.

<< Ti ho già detto che non è andata così >> sibilai furente di fronte a quelle insinuazioni, giuro che l'unica cosa che mi trattenne dal gridare, erano i clienti presenti. A quel punto Sonia intervenne per calmare le acque.

<< Tranquilla Ariel noi ti crediamo, non è vero Susanna? >> l'espressione con cui lo chiese era tutt'altro che amichevole. Susanna mi guardò e scoppiò a ridere. Okay, era un dato di fatto, quella donna aveva qualche rotella fuori posto.

<< Certo che le credo – rispose tra un attacco di ilarità e l'altro – solo che l'espressione di un attimo fa era così buffa che era un peccato non continuare a prenderla in giro >> sghignazzò; simpatica, pensai. Lanciai un'occhiata a Sonia che mi rispose mimando il gesto che era pazza e tornò a parlare.

<< Tornando al punto – disse guardando nella mia direzione con aria di chi la sa lunga - ora mi è tutto chiaro >> convenne prendendosi il mento tra pollice e indice << Ecco perché sei stata distratta tutto il giorno, hai visto lui! >> esclamò come se avesse rimesso a posto le tessere di un puzzle. Guardai il banco dei surgelati a disagio. E' vero, sono stata con la testa fra e nuvole un tantino più del solito ma non per quello che insinuavano loro.

<< Non è così – la contraddissi – si è trattato semplicemente di una giornata no >> provai a convincerla inutilmente, ma non era stata proprio lei a dirmelo? Scosse la testa esasperata.

<< Ariel – pronunciò il mio nome con lo stesso tono che si usa per convincere i bambini a prendere lo sciroppo dal sapore disgustoso – se c'è una cosa che capisco al volo sono le bugie e tu una bugia non sai neanche dove abita >> affermò con un angolo della bocca sollevato. Accidenti, cominciava ad infastidirmi il fatto di essere un libro aperto per tutti. Sospirai, avevano ragione loro. Quella mattina non avevo fatto altro che pensarlo, avevo provato a smettere ma era come se qualcuno nella mia mente avesse pigiato il tasto rewind e rivedessi tutta la scena di quella mattina all'infinito. Rivivevo ogni singolo istante di quel momento, soffermandomi su dettagli cui all'inizio non avevo fatto caso, come la rigidità che avevo avvertito mentre mi teneva fra le braccia o il modo in cui la punta della sue scarpe toccasse il dietro delle mie quasi fossimo incollati o le piccole lentiggini del color del miele che gli punteggiavano il naso e sotto gli occhi. E poi c'era il suo profumo. Lo stesso che avevo sentito la prima volta che lo avevo incontrato, solo che in questa circostanza avevo potuto sentirlo più da vicino ed era una fragranza che inebriava i sensi, un misto di bagnoschiuma e un vago sentore di acquerelli. Dio mio lo avevo ancora addosso e questo mi dava alla testa.

<< Ti piace non è così? >> la signora Alice aveva stampata la stessa espressione delle fan di Justin Bieber quando cambiava taglio di capelli. Mi piace non è così? Silenzio dentro e fuori della mia testa.

<< No >> risposi, tutte mi guardarono come se avessi una rotella fuori posto, compresa Sonia, nonostante tutto proseguii imperterrita.

<< Non nel senso che intendete voi >> mi beccai altre occhiate stranite, sospirai era chiaro che dovessi spiegarmi meglio.

<< Ammetto che sia un bel ragazzo... >> fu impressionante vedere come tutte tre inarcarono il sopracciglio contemporaneamente << okay, bello non è esattamente il termine adatto per descriverlo... >> concessi imbarazzata << forse bellissimo... >>.

<< ...o stupendo... >> intervenne Sonia con occhi sognanti.

<< ...appetitoso >> aggiunse poi Susanna socchiudendo gli occhi e leccandosi il labbro inferiore.

<< ... fusto >> ripeté la signora Alice con gli occhi che le brillavano. Restai ammutolita. Un po' di contegno, insomma! Che fossero andate tutte e tre da un bel pezzo era un dato di fatto. Non ero affatto stupita dall'effetto che quel ragazzo suscitava sulle donne che avevano la fortuna di stargli attorno, di qualsiasi età si trattasse. Espirai rassegnata, non potevo biasimarle, dopotutto non ero caduta anch'io di fronte al suo fascino? Era evidente che avevamo a che fare con un Richard Gere dei poveri, ed altrettanto evidente che era riuscito a mettere d'accordo tre generazioni: nonne, madri e figlie. Ah se fosse bastato un bell'uomo per porre fine alle guerre nel mondo, saremmo in pace da un pezzo! Scossi la testa e tornai a rivolgermi a loro.

<< Ehm sì, avete reso l'idea ma il punto è... che finisce lì. La mia è pura e semplice curiosità >> ammisi con un'alzata di spalle; ed era la verità. Quel tizio mi incuriosiva e parecchio anche, soprattutto adesso che mi aveva mentito senza un reale motivo e che sospettavo vivesse nel mio stesso palazzo, a tal proposito mi ripromisi di investigare.

<< Quindi lui non ti interessa? >> enigmatica Susanna si alzò facendo un passo avanti.

<< No >> la fissai per nulla intimidita, non avrei fatto la loro stessa fine, ero ancora in tempo per salvarmi.

<< Non ti importa sapere se e quando si ripresenterà qui? >> mi stuzzicò avvicinandosi di un altro passo insieme alle altre. Mi sentii vacillare. Com'era possibile che dall'argomento del mio licenziamento fossimo passate a lui? E poi mi importava saperlo? Certo che no! Era tutta la mattina che continuavo a ripetermelo. Feci un passo indietro. Avevano un'espressione inquietante in volto.

<< No >> mi umettai le labbra in difficoltà.

<< E non vuoi conoscere il suo nome? >> si fece avanti la signora Alice con gli occhi fuori dalle orbite. Cominciava a mancarmi l'aria. Arretrai.

<< ...o dove abita? >> insistette Sonia presa anche lei da quell'attimo di follia. Andai a sbattere contro il banco dei gelati. Ero circondata. Le mie orecchie si tesero all'istante. Volevo saperlo. Ma ammetterlo era come dare loro soddisfazione e quel po' di orgoglio che mi rimaneva mi impediva di chiederglielo.

<< No >> pronunciai determinata ricomponendomi << e ora se volete scusarmi - aggiunsi guardandole una ad una - devo aiutare i signori Antonio e Daniele >> detto ciò scivolai lungo il bancone. Inspirai profondamene e mi allontanai aggiustandomi la divisa sul davanti. Avvertii lo sguardo di quelle tre scivolarmi lungo la schiena e perforarmi la nuca. Non ci badai e proseguii per la mia strada lasciandole alle loro chiacchiere su fusti e bei giovanotti.

 

 

*****************

 

Arrivato l'orario di chiusura fui la prima fra tutti ad uscire, presa da una strana fretta che sapeva di verità. Dopo quella giornata, avevo bisogno di risposte e tornare a casa era un modo per averne una, tanto per cominciare. Mi fermai davanti al portone indecisa sul da farsi. Stavo davvero per farlo? L'idea di partenza era quella di bussare porta per porta come uno di quei rivenditori di aspirapolvere e presentarmi come la nuova inquilina dell'ultimo piano. Sapevo che non sarebbe stato facile convincere quelle persone a farmi entrare, ero pur sempre una sconosciuta che bussava alle nove di sera per stringere dei rapporti di vicinato, perciò a tale riguardo prima di tornare a casa mi ero portata dal negozio dei piccoli omaggi, per lo più cibarie che avrei spacciato per mie. Se avevo capito una cosa nei miei ventidue anni di vita era che non esisteva niente al mondo migliore del cibo per fare conoscenza con qualcuno. Non era forse vero che le grandi amicizie e le grandi decisioni avvenivano di fronte ad un delizioso piatto di pasta? Okay nel mio caso era un po' diverso, si trattava per lo più di prodotti caserecci: tarallini e biscotti, ma il principio era lo stesso. Dicevo, una volta entrata avrei fatto in modo di farmi presentare l'intera famiglia, gli avrei fatti allineare di fronte a me quasi fossero dei sospettati e gli avrei squadrati uno ad uno e se ciò non fosse bastato, gli avrei convinti a tirar fuori i vecchi album di famiglia e mi sarei fatta mostrare tutti i famigliari in cerca di qualche somiglianza con lui. Ecco, dovevo ammettere che il mio piano era un tantino folle e forse, e sottolineo forse, difficile da applicare ma non mi feci scoraggiare, quella sera avrei avuto una risposta ed era questo che contava. Guardai il citofono alla mia sinistra scorrendo la lista di cognomi degli inquilini che vivevano nel mio stesso condominio. Erano in tutto sette campanelli e se escludevamo il mio e un altro vuoto, ne rimanevano cinque. Lessi quei cognomi a me sconosciuti e li ripetei assaporandone ogni sillaba sulla lingua e immaginandoli addosso a lui: Bosco, Caldarella, Buonasperanza ecc... non mi dicevano nulla, era come se fossero dei vestiti di misure diverse e nessuno fosse della taglia giusta, ed io invece ero sicurissima che per uno come lui ne esistesse uno su misura, particolare, unico nella sua forma, capace di metterne in risalto lo sguardo screziato e distante, il portamento sicuro e altero e il profumo che sapeva di colori e fantasia. Accidenti, mi sentivo una stupida con certi pensieri per la testa! Era ovvio che una semplice parola non potesse dirmi niente di più e niente di meno di ciò che non sapessi già, vale a dire nulla, ma dentro di me avevo la stupida convinzione che lo avrei riconosciuto al primo sguardo, come se attraverso quelle lettere fossi riuscita a scorgerne il profilo perfetto e la voce bassa e dura. Mi rigirai le chiavi di casa tra le mani, indecisa. E se in realtà mi stessi sbagliando su tutta la linea? Se lui non vivesse lì? Se mi fossi sognata tutto? Sospirai ammettendo a me stessa che all'inizio avevo creduto che si trattasse di uno scherzo della mia mente, in fondo non era cosa di tutti i giorni veder gironzolare di notte, un tizio che sembrava avere l'inferno dentro, su una terrazza per giunta. Ma poi quando si era presentato al supermercato, avevo capito. Non era stato il frutto della mia fervida immaginazione, perché non esistevano allucinazioni tali da reggere il confronto con la realtà. Lui era vero, e ciò significava che vi era la concreta possibilità che lo avessi avuto sotto il naso tutto il tempo senza accorgermene. E questo mi portava a pormi mille domande: com'era possibile che io non l'avessi mai notato da quelle parti? Insomma non conoscevo tutti i condomini ma di certo uno come il sottoscritto non lo avrei dimenticato tanto facilmente e cosa ancora più importante un tipo come lui, difficilmente passava inosservato... Scossi la testa. Era uno spreco di energie farsi delle domande se non ero capace di darmi delle risposte. E sapevo che almeno una mi aspettava varcando quella soglia. Infilai la chiave nella serratura del portone e inspirai profondamente, spinsi uno dei battenti ed entrai salendo le scale che mi avrebbero portato dritto alla verità.

 

 

************************

 

Due ore e mezza e tre chili più tardi, mi avviai verso il mio appartamento con l'umore a terra, senza una risposta in tasca e con una cerchia di amicizie che superava di gran lunga l'età pensionabile.

<< Ugh >> singhiozzai sonoramente, tenendomi la pancia con le mani mentre tutta la roba nel mio stomaco minacciava di risalire. Salii un gradino alla volta evitando ulteriori scossoni che ne avrebbero aiutato la fuoriuscita, strisciando lungo la parete e immaginando di teletrasportarmi in cucina e di mandar giù un bicchiere di cedrata con la sola forza del pensiero. Ero ubriaca. Ubriaca di tutti gli zuccheri che avevo ingerito durante la scalata verso la verità. Avanzai di un altro scalino maledicendomi sottovoce tra un singhiozzo e l'altro. Non avrei dovuto ingozzarmi a quel modo, non se dopo non potevo usare l'ascensore ed ero costretta a salire le scale a piedi per tornare a casa mia! A mia discolpa potevo dire che il mio piano mi si era ritorto contro senza che io potessi far nulla.

Non avevo scoperto nulla.

Nessuno di quelli con cui avevo parlato lo aveva mai visto da quelle parti. Nessuno ne aveva sentito parlare. Mi sentii prosciugata. Avevo speso tutte le mie energie in false speranze. Chi volevo prendere in giro? Era scontato che sarebbe andare a finire in quel modo. Riflettendoci l'unica nota positiva dell'intera faccenda fu l'impresa in sé. Con il mio illogico piano, avevo finito per fare una scoperta sensazionale. Io e le mie amiche eravamo le uniche persone lì dentro a non aver vissuto la seconda guerra mondiale poiché l'intero stabile brulicava di simpatici vecchietti dagli occhi lattiginosi e da altrettante signore dai capelli bianchi come la neve che vivevano nella completa solitudine, con i figli in altre città e con i nipoti che venivano a trovarli raramente; a parte Assunta, una signora tutta pepe, che abitava al terzo piano, che promise di presentarmi i suoi tre nipoti, Antonio, Maurizio e Lucio, tre teppistelli che andavano a farle visita spesso e che giocavano a pallone nei giardinetti davanti alla chiesa. E così fra una chiacchiera e l'altra non solo mi incaricai di fare la spesa a domicilio per tutti loro, poiché a causa dell'età avanzata e degli acciacchi faticavano a muoversi, ma finii con lo spazzolarmi i “pensierini” che mi ero portata dietro con l'aggiunta di cinque tazze di caffè, un pezzo di crostata di mele, biscottini al limone con la panna e dolcetti fatti in casa al cioccolato. A mia difesa potevo dire che in quel momento fu preferibile annegare i dolori nel cibo che ammettere di aver sbagliato su tutta la linea.

Ciondolante come un orologio a pendolo, arrivai sul pianerottolo del mio appartamento. Cercai le chiavi di casa nella borsa, sapendo in partenza che Angelica e Maia mi stavano aspettando da un pezzo, avevo ricevuto i loro messaggi nel mezzo della mia operazione, le avevo rassicurate che sarei tornata presto dato che ero solo qualche piano sotto di loro. Trovata la chiave giusta, la infilai nella toppa. Non sopportavo l'idea di rientrare e di avere mille domande per la testa. Perché tanto accanimento? Cosa mi spingeva a fare tutto questo? Non lo sapevo. Inconsapevolmente mi ritrovai a fissare la porta dell'appartamento di fronte al mio. Fu un gesto istintivo. Era quello con il campanello senza cognome. Non avevo mai fatto caso se ci vivesse qualcuno o meno ma a quel punto immaginai fosse disabitato, eppure... qualcosa dentro di me si tese in direzione della porta. Inconsciamente feci un passo in avanti, sentivo il sangue pomparmi nelle vene ad una velocità mai avvertita prima mentre un formicolio mi attraversava dalla base della nuca fino alla spina dorsale. Avevo smesso di ragionare da un po' quando arrivai davanti al pulsante del campanello con gli occhi fissi sulla porta; il battito del mio cuore come sottofondo alla speranza che era stata più volte distrutta quella sera. Appoggiai il dito sul pulsante. Sarebbe bastata una leggera pressione e avrei scoperto la verità. Iniziai a premere...

<< Ariel! >>

Come bruciata ritrassi di scatto la mano portandomela al cuore che martellava furioso. Mi voltai in direzione della voce. Un omino con i capelli grigi radi sulle tempie e un'enorme calvizia scendeva le scale che portavano in terrazza reggendosi al corrimano.

<< Signor Giovanni, cosa ci fa lei qui? >> era la prima persona che avevo conosciuto quella sera, assieme a sua moglie Anna viveva al piano rialzato ed erano stati così gentili con me che una volta venuti a conoscenza che non ero sola e che avevo delle amiche ad aspettarmi a casa, avevano preparato un piattino con gli stessi dolcetti che mi avevano offerto, anche per loro. Inutile dirlo l'ospitalità del sud era imbattibile ed io ne andavo fiera.

<< Sono andato a controllare che l'antenna fosse a posto. La televisione non prende >> mi rispose mentre con un fazzoletto di stoffa si detergeva il sudore dalla fronte. Quella sera sarebbe stata dura dormire, in tutti i sensi. Annuii.

<< E tu? Che ci fai ancora in giro? >> mi guardò sinceramente incuriosito.

<< Sono appena stata dalla signora Caldarella >> sorrisi al pensiero.

<< Immagino che ti abbia tenuta ore e ore a casa sua >> esclamò divertito, conoscendo già la risposta.

<< Quella donna è una chiacchierona, non appena trova due orecchie a portata di mano, comincia a parlare e non la smette più>> scherzò. << Avrei dovuto avvertirti >> si scusò con un sorriso.

<< Non si preoccupi – con una mano feci finta di scacciare qualcosa - in fondo è una brava persona >> sorrisi gentile.

<< Un po' logorroica, forse >> aggiunse con un angolo della bocca sollevato.

<< Forse >> ammisi io con una smorfia. Calò un silenzio imbarazzato. Mi dondolai da un piede all'altro.

<< Bhè allora io vado a dormire – dissi arretrando di un passo – buona notte >> mi voltai dando le spalle alla porta che solo un attimo fa mi aveva catturato come una calamita, inconsciamente sospirai.

<< Non ti ha portato a nulla andare di casa in casa, non è così? >> lo guardai, anche se mi ero proposta di presentarmi da loro con il solo intento di stringere delle relazioni di vicinato, senza lasciar trapelare il vero motivo che si nascondeva dietro quella visita, ero finita col raccontargli la verità. A quell'ora tutto il condominio sapeva che ero alla ricerca di un ragazzo, spinta da una curiosità che superava di gran lunga quella di Cristoforo Colombo mentre si accingeva a scoprire le Americhe.

<< E' vero in parte – risposi avvicinandomi, quell'uomo mi ricordava mio nonno, anche se non l'avevo mai conosciuto perché entrambi i miei nonni erano morti prima che io nascessi, per fortuna ero cresciuta con l'affetto delle mie nonne – perché questo mi ha portato a conoscere tutti voi, ed io ne sono davvero felice >> ammisi, il fatto che mi avessero accolta nonostante fossi un'estranea facendomi sentire la benvenuta dimostrava quanto fossero straordinarie come persone.

<< Sei gentile Ariel >> l'eco della sua voce calda risuonò lungo la tromba delle scale << volevo solo dirti che non troverai nessuno - con il capo accennò all'appartamento di fronte al mio – sono passati anni dall'ultima volta che lo hanno affittato a qualcuno >> spiegò. Annuii di nuovo non sapendo cos'altro aggiungere, se non che fosse del tutto irrazionale il modo in cui mi stavo comportando. Il signor Giovanni mi posò una mano sul braccio con fare benevolo, doveva aver intuito cosa mi passasse per la testa ancor meglio di me, senza dire niente.

<< Buona notte, Ariel >> mi augurò entrando in ascensore.

<< Buona notte >> risposi mentre le porte si chiudevano ed io rimanevo di nuovo sola.

Mi voltai nuovamente. Tenni lo sguardo fisso, in attesa di qualcosa. Qualunque cosa in grado di cancellare quanto appena detto perché nonostante il signor Giovanni fosse certo che lì non ci fosse nessuno, io continuavo ad avvertire la strana sensazione provata poco prima. Dovevo fugare ogni dubbio. Mi avvicinai alla porta e mi accinsi a terminare quanto avevo iniziato prima di essere interrotta. Stavo per suonare quando... un trillo nella mia borsa mi avvisò che era arrivato un messaggio. Era Angelica.

 

SI PUO' SAPERE DOVE SEI ANDATA A FINIRE??!!

 

Seguito da:

 

NON COSTRINGERMI A CHIAMARE CHI L'HA VISTO?

O PEGGIO ANCORA.... TUA MADRE.

 

Alzai gli occhi al cielo esasperata, sapevo che se avessi tardato un minuto di più, avrebbe messo in atto le sue minacce aiutata da quell'altra pazza di Maia. Feci dietro front e inserii la chiave nella toppa entrando. Prima di chiudere diedi un'ultima sbirciata. Sorrisi, anche questa volta non ero riuscita a suonare il campanello. Qualunque cosa fosse, il destino o gli dei, c'era il suo zampino dietro e per questa volta aveva vinto la partita. Ma domani sarebbe stato un altro giorno, ed io non avrei smesso di giocare. Non lo avrei mai fatto.

 

Ecco a voi il secondo capitolo, spero che vi piaccia! A presto!

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Capitolo 3
*** Imprevisti... ***


3

 

Imprevisti...

 

Nei giorni successivi andai a lavoro come al solito. Disfavo scatoloni, cambiavo le etichette dei prezzi sugli scaffali, stavo alla cassa, mi sentivo la ramanzina del capo e ricominciavo da capo, invertendo di tanto in tanto l'ordine degli eventi. Sonia e le altre non tornarono più sull'argomento fusto secondo tacito accordo, mentre io fingevo di non notare le occhiate eloquenti da parte di Susanna. Sapevo che era solo questione di tempo, prima che lui si ripresentasse in negozio e fossimo di nuovo faccia a faccia, e avevo il sospetto che fossero tutte in attesa di quel momento per vedere una mia reazione. Io, da parte mia, ce la mettevo tutta per non dare a vedere quanto fossi impaziente di rivederlo. Più di una volta avevo distolto l'attenzione da quello che stavo facendo per allungare il collo e cercarlo fra la massa di persone per poi scoprire che non c'era.

Guardai l'ora sul display del cellulare, mancava poco all'orario di chiusura. Presi la lista della spesa che la signora Assunta mi aveva dato quella mattina e mi diressi nel reparto della pasta. Presi due pacchi di penne rigate e uno di spaghetti e mi spostai nel reparto dell'igiene della casa. Nello svoltare l'angolo andai a sbattere contro una parete d'acciaio. Accidenti non ricordavo che ce ne fosse una! E infatti mi bastò dare un'occhiata in basso, per intuire che quello che avevo davanti non era un muro d'acciaio bensì una persona che aveva una consistenza tale. Tornai in me.

<< Ops, mi scusi >> dissi facendo un passo indietro e recuperando immediatamente il pacco di tovaglioli che avevo fatto cadere. Mi sollevai tenendo ben stretta al petto la pasta con una mano mentre con l'altra gli porgevo i tovaglioli. Rimasi di sasso appena mi accorsi di trovarmelo davanti. Indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate con delle piccole macchie blu somiglianti a dei delfini tenuta fuori dai jeans scoloriti che gli ricadevano sui fianchi in un modo talmente sexy da lasciarmi con la bocca secca.

<< Ciao >> dissi facendo appello alle ultime risorse di saliva che avevo a disposizione mentre incrociavo il suo sguardo. Come poco prima, sembrò di andare a sbattere contro due lastre di ghiaccio, i suoi occhi, di un insolita via di mezzo tra il verde mare e l'azzurro, mi fissavano impassibili sprigionando una tale freddezza da farmi venire la pelle d'oca. Il fatto che non avesse risposto al saluto, non era buon segno.

Inconsapevolmente mi sporsi verso di lui.

<< Stai bene? >> chiesi dovendo sollevare il capo per osservarlo meglio. Bè se lui era d'acciaio non voleva dire che io fossi di polistirolo e compresi che la mia domanda andava aldilà del dolore fisico. Non disse nulla ed io indietreggiai di un passo dondolandomi da un piede all'altro a disagio.

<< Sembra che io e te non riusciamo proprio ad evitare di incontrarci senza scontrarci >> scherzai tentando di rompere il ghiaccio, ma il tentativo sembrò non riuscire. Lui raddrizzò il capo e dal suo metro e ottanta pieno mi guardò sotto le lunghe ciglia scure. In quell'istante scoprii che non esisteva al mondo cosa più eccitante e paurosa allo stesso tempo, dei suoi occhi. Sembrava di essere in mezzo a una tempesta sulla cima di un alto ghiacciaio circondati dal nulla. Mi sarebbe bastato un solo passo per cadere in quell'azzurro senza fondo e non riemergere mai più e in quel momento era la cosa che desideravo di più in assoluto. Distolsi lo sguardo in preda alle vertigini. Non avevo mai sofferto l'altezza ma ora vi era una causa precisa; guardai i tovaglioli che avevo in mano cercando di riprendermi. Dannazione, erano solo due occhi! E che occhi... misi a tacere la vocina impertinente nella mia mente. Come se ciò non bastasse il mio cuore che non aveva cessato un minuto di battere forsennato sembrò impazzire furioso quando lentamente vidi la sua mano raggiungere la mia. Nonostante evitò accuratamente di toccarmi, con la punta delle dita mi sfiorò il palmo della mano. Un fremito mi percosse. Era stato un breve contatto, ma sentii divampare un incendio nel punto in cui mi aveva sfiorata. Chiusi la mano a pugno e tornai a guardarlo, ma era già scomparso. Quel ragazzo pareva avere un talento innato nello sfuggirmi. Ma non questa volta, non adesso. Mi girai e lo scorsi attraversare il reparto della pasta diretto alla cassa. Mi affrettai a raggiungerlo. Nel mentre notai che dei miei colleghi nemmeno l'ombra. Strano. Senza soffermarmi troppo a riflettere, raggirai l'espositore delle caramelle e presi posto dietro la cassa.

<< Ciao >> lo salutai nuovamente con un sorriso da mille watt e il batticuore da rischiare un infarto. Si comportò come se niente fosse. Tirò fuori i prodotti dal cestino e cominciò a disporli sul nastro, senza guardarmi. Rimasi leggermente delusa, perché faceva così? Schiacciai il pedale sotto al bancone e il nastro iniziò a muoversi, presi il pacco di tovaglioli di poco prima e passai il codice a barre davanti al lettore a infrarossi; passai un detersivo per lavare i piatti e uno shampoo agli estratti di miele senza smettere di fissarlo mentre lui a stento si ricordava della mia presenza. Mi morsi un labbro frustrata, le cose non stavano affatto andando bene. Senza che se ne accorgesse sbirciai nel cestino, era quasi vuoto, ciò significava che presto se ne sarebbe andato ed io l'avrei rivisto chissà quando. Accidenti, dovevo escogitare un piano per trattenerlo lì il più a lungo possibile, e alla svelta anche. Mentre litigavo con il lettore che non riusciva a leggere il codice a barre di un pacco di caffè, mi balenò un'idea. Presi il barattolo di marmellata alla ciliegia e lo strisciai davanti al lettore, con tutta calma, cercando di non far trapelare nulla di ciò che mi frullava per la testa. Fu il turno della confezione d'acqua, il mio asso nella manica, cercai di non sogghignare quando con una nonchalance di cui non non mi credevo capace, la feci scorrere sul nastro e con una mano scivolai lungo il bordo del bancone e premetti il tasto di spegnimento del lettore a infrarossi. Ecco che arrivava la parte più difficile. Tirai un lungo respiro e mi schiaffai in viso la miglior faccia da poker che avessi a disposizione, pregando che anche lui non fosse un gran lettore di “libri aperti” come me, e al tempo stesso che fossi stata in grado di recitare quella messinscena. Presi l'articolo successivo e lo strisciai con il codice a barre rivolto verso il lettore. Era il momento decisivo. Non udimmo nessun click, segno che l'articolo in questione non era stato registrato alla cassa. Repressi un sorriso. Feci il gesto di passarlo due volte e sbottai fintamente frustrata. Alzai lo sguardo e lo sorpresi a fissarmi. Per un attimo rimasi interdetta, mi sembrava impossibile mentire con quegli occhi di ghiaccio addosso. Avanti Ariel puoi farcela! Ingoiai a vuoto e parlai.

<< Mi dispiace – dissi indicando l'oggetto in questione – deve essersi ammattito, perché funzionava fino ad un attimo fa >> mi giustificai, il tremolio iniziale nella mia voce scomparve man mano che proseguivo. Avrei giurato che non battesse ciglio mentre se ne stava lì a fissarmi impassibile e mi faceva sentire una deficiente, perché ero sicura che mi si leggesse in faccia ciò che stavo facendo. Distolsi in fretta lo sguardo e mi prodigai in un ultimo tentativo per rendere più credibile quella farsa. Con in mano una confezione di lamette, alzai la testa per comunicargli il verdetto.

<< Temo che ci vorrà un po' più del previsto – cominciai rigirandomi il prodotto tra le mani – purtroppo sono costretta a riportare il codice manualmente >> annunciai con il sorriso di scuse più sincero di cui ero capace. Mi voltai senza attendere una risposta, perché sapevo che non ce ne sarebbe stata una mentre con la coda dell'occhio notai un impercettibile rigonfiamento del petto che aveva tutta l'aria di un sospiro trattenuto. Mi morsi il labbro, per trattenere l'euforia che minacciava di travolgermi come un fiume in piena e iniziai a battere la lunga serie di minuscole cifre sul retro della confezione, pensando che avevo ottenuto ciò che volevo e che dovevo sfruttare al massimo quell'occasione per scoprire quanto più possibile sul ragazzo che stava al di là del bancone.

<< Vieni spesso a fare la spesa qui? >> che domanda stupida, ma era ancora più stupido il fatto che una parte del mio cervello fosse in attesa di una risposta mentre l'altra proponeva immagini di lui con il volto ricoperto di schiuma da barba nell'atto di radersi, costringendomi a ripetere l'operazione per ben due volte. Come al solito non rispose, nemmeno un monosillabo. Lanciai una rapida occhiata nella sua direzione e lo trovai con il busto chino a prendere la roba nel cestino, ne approfittai per osservare la leggera peluria sulla nuca congiungersi con i suoi capelli biondi. Prima che potesse beccarmi a osservarlo, mi girai verso la cassa. Poggiò qualcosa sul nastro e lo afferrai.

<< Immagino di sì – mi risposi da sola annuendo, chiedendomi se non mi fossi sognata tutto, la volta che mi ha parlato – quindi mi sembra ovvio che tu abiti da queste parti >> non era una domanda. Rimase in silenzio, e dovetti ammettere che ero piuttosto divertita dalla situazione. Non mi era mai successo di avere una conversazione a senso unico, e più lui si ostinava a tacere più domande mi si formavano sulla punta della lingua. Ero certa che sarebbe stato più semplice estorcere una parola ad un sordo muto che a uno come lui. Sorrisi, non solo perché avevo tra le mani un pacco di biscotti pan di stelle ma perché ormai non riuscivo più a trattenermi. Continuai a battere alla cassa col sorriso sulle labbra, smisi di assillarlo, non perché mi fossi arresa, non lo avrei mai fatto, ma perché non volevo esasperarlo tanto da indurlo a non venire più qui. Una volta passati tutti i prodotti, chiusi il conto e mi voltai vedendolo mettere tutto nelle buste. Mi sporsi per dargli lo scontrino. Peccato di essermi accorta solo dopo di aver commesso un terribile errore. Rimasi imbambolata a guardarlo senza evitare di nasconderlo quando i suoi occhi del colore del mare incontrarono i miei. Santo Cielo, aveva davvero le lentiggini, non mi ero immaginata niente! Aprii e richiusi la bocca un paio di volte, perché avevo dimenticato cosa dire, perciò me ne uscii con una delle mie.

<< So che non ci siamo conosciuti nel migliore dei modi – dissi riferendomi a quella sera e a tutto il resto, al ché mi sembrò per un istante di vedere un lampo attraversargli lo sguardo – ma permettimi di rimediare >> dissi allontanandomi un po' per porgergli la mano libera.

<< Io sono Ariel >> mi presentai con il cuore a mille in attesa di una sua reazione. Mi avrebbe stretto la mano o si sarebbe rifiutato? Passarono alcuni dei secondi più imbarazzanti della mia vita, con me che gli tendevo la mano e lui che mi stava a fissare. Scelse la seconda opzione. Nonostante l'imbarazzo bruciasse più dei carboni ardenti, lasciai ricadere il braccio lungo il fianco con tutta la dignità del mondo. Era davvero un tipo tosto, dovevo riconoscerlo. Diedi uno sguardo allo scontrino e gli dissi il conto.

<< Sono cento euro >> prima ancora che mi accorgessi della gaffe appena fatta, mi restituì uno sguardo sprezzante. Era impossibile, confondersi. Mi stava dicendo a chiare lettere, che ero una stupida patentata e che col cavolo mi avrebbe mai rivolto la parola. Mi schiaffò una banconota da dieci, non nel senso letterale del termine, anche se di certo lo avrei preferito allo sguardo pieno di sufficienza che mi rivolse, e se ne andò.

Rimasi lì immobile nella stessa posizione di qualche momento prima che mi umiliassi pubblicamente. Il mio cervello era vuoto. Nessuna immagine, nessun pensiero, nessun rumore, nessun motivetto in sottofondo. Ero in stand-by, nella speranza che riavvolgessero il nastro e mi impedissero di commettere l'ennesima figura. Non sarei mai riuscita a dimenticare il suo sguardo. Dio mio, mi ero giocata tutto. Non avrebbe mai più rimesso piede li dentro e la colpa era solo mia. Guardai nel punto in cui qualche attimo prima si trovava lui e rividi di nuovo il suo sguardo, al quale si aggiungeva l'espressione di quella sera e della volta in cui mi vide al supermercato. E finalmente capii. E ancor prima che me ne accorgessi ridevo come una matta. Non era una risata di gusto né tanto meno isterica o di quelle delle streghe della Walt Disney, no, era... liberatoria. Risi così tanto da andare avanti per un paio di minuti buoni, mi guardai attorno perché ero certa che i miei colleghi non si fossero persi nemmeno una parola di quell'incontro, e se ci fosse stata tale probabilità, c'erano le telecamere del negozio ad aver immortalato tutto, compreso il mio attacco di risa. Scivolai con la mano lungo il bordo del bancone e tra un attacco e l'altro di ridarella accesi il lettore a infrarossi. Finalmente ci ero arrivata. Lui mi odiava. Ed era assurdo perché... lui mi piaceva. Mi piaceva più del lecito.

 

 

*******************

 

<< Sono a casa >> annunciai poggiando le chiavi sul mobiletto all'entrata e sgusciando fuori dalla tracolla. Sentii l'acqua scorrere dal rubinetto in cucina, la porta era socchiusa, vi passai davanti senza fermarmi chiedendomi vagamente chi delle due avesse preparato il pranzo quell'oggi. Entrai in camera mia. Con la punta del piede mi sfilai l'altra scarpa lanciandone via prima l'una e poi l'altra. Mi tuffai sul letto e seppellii il viso nel cuscino. Non volevo pensare a niente o per lo meno non avevo la forza per farlo, sapevo solo di essere stanca, stanca e poi stanca. Chiusi gli occhi e mi concentrai sui rumori provenienti dalla finestra che dava sulla strada, i clacson delle auto nel traffico, le saracinesche dei negozietti che chiudevano per l'ora di pranzo e le risate dei bambini appena usciti da scuola. Proprio quando credevo di essermi addormentata avvertii il letto spostarsi, aprii un occhio in tempo per vedere Maia stendersi accanto a me e non appena fummo alla stessa altezza d'occhi, il mio sguardo si posò sui suoi capelli e inevitabilmente scoppiai a ridere. Oddio, non potevo crederci! L'aveva fatto sul serio?! Tornai a guardarla, l'aria compiaciuta di quando era entrata non era affatto scomparsa, anzi ne era divertita quanto me.

<< Wow >> esclamai a corto di parole.

<< Sapevo che ti sarebbero piaciuti >> annuì soddisfatta.

<< Fa molto fata turchina, lo sai? >> Maia si prese una ciocca blu e se la rigirò tra le dita ammirandola, dal sorriso che fece intuii che era proprio l'effetto che voleva.

<< Sì, oggi mi sentivo in vena di magia >> rispose lei facendomi l'occhiolino, alzai gli occhi al cielo, questa non l'avevo ancora sentita.

<< Quando li hai tinti? >>

<< Stamattina, appena rientrata dall'università >> si girò su un fianco e si mise a disegnare piccoli cerchi sul mio avambraccio con la punta dei capelli. Erano morbidissimi, segno che aveva usato il balsamo. Spostai la testa sul cuscino per guardarla meglio, mi stava omettendo qualcosa, finsi di non accorgermene, non era ancora il momento di chiederle spiegazioni, e proseguii.

<< Non ti faranno problemi per quelli? >> con il capo accennai alla lunga chioma blu con cui stava giocando. Mi immaginai le occhiatacce dei professori quando se la sarebbero trovata davanti mentre Maia li salutava del tutto ignara di dare nell'occhio, ma Maia era così, libera dalle convenzioni, non aveva problemi ad essere se stessa, anche se ciò comportava passare per quella strana, che cambiava colore di capelli alla stessa velocità con cui Mario Balotelli cambiava fidanzata, non le era mai interessato il giudizio della gente, non perché fosse una superficiale, era la sua visione della vita a renderla immune a certi pregiudizi. Lei viveva secondo il motto “vivi e lascia vivere”.

<< Naaa >> inarcai un sopracciglio alquanto scettica, non credo che all'asilo dove svolgeva il tirocinio, avrebbero accolto il nuovo look di buon grado, escludendo i bambini che non avrebbero resistito di fronte a una vera fata delle favole.

<< E anche se fosse? – aggiunse – Sarebbero problemi loro, io non ho infranto nessuna regola del buon costume >> scrollò le spalle per niente sfiorata dall'idea che il suo lavoro potesse terminare domani stesso, sapeva di stare dalla parte del giusto e le bastava.

<< A me piacciono >> le arruffai i capelli, era la pura verità; il blu creava uno straordinario contrasto con l'azzurro accecante dei suoi occhi, ma d'altronde Maia stava benissimo con tutto, non esisteva taglio o colore che le stonasse.

<< Grazie, non avevo dubbi >> sorrise aggiustandosi le ciocche che le avevo spettinato.

<< Anche se Angelica andrà su tutte le furie >> constatai. Se c'era una cosa che Angelica non riusciva a sopportare, erano le tinte. Era convinta che una donna dovesse andar fiera del proprio colore di capelli anche se questi a vent'anni diventavano bianchi il ché era in netto contrasto con il principio femminista secondo il quale la forza di una donna sta nell'essere se stesse indipendentemente dai capelli scuri, biondi o rossi. In realtà credo che la sua avversione per le tinte avesse radici. E così ogni qual volta che Maia cambiava colore, Angelica le rinfacciava che presto i capelli le sarebbero caduti come foglie . Io conoscevo Maia quel tanto per capire che la sua lotta contro Angelica era più per una presa di posizione che per altro.

<< Peggio per lei – sospirò – vorrà dire che saremo in due a usufruire delle mie speciali magie >> alzò le spalle con l'espressione da bambina biricchina. Risi mentre il mio stomacò borbottò qualcosa, Maia se ne accorse.

<< Bene - annunciò mettendosi a sedere - è l'ora di una delle mie magie >> mi prese per mano e mi aiutò a mettermi in piedi, con le mani ancora unite mi trascinò in cucina a prendere l'acqua e poi in sala da pranzo che fungeva anche da soggiorno.

<< Non aspettiamo Angelica? >>

<< No, oggi pranza con Andrea >> il suo tono indispettito non mi sfuggì. Andrea era il fidanzato di Angelica, stavano insieme da tre anni anche se a me sembravano molti di più. Era la coppia più improbabile che io avessi mai visto, lei autoritaria, forte e padrona di sé, lui intelligente, premuroso e innocuo come il pane nelle perenni grinfie della madre, una donna dal polso di ferro che aveva preso in mano le redini della famiglia alla morte del marito, costringendo i figli a seguire la strada che lei aveva tracciato per loro.

<< A casa della suocera? >>

<< Certo che no – mi rifilò un'occhiata scioccata – quella casa è troppo piccola per entrambe >> e stavamo parlando di un appartamento di circa centocinquanta metri quadri!

<< Saranno andati in qualche ristorante – con un gesto accennò a qualcosa di lontano – anche se potevano perfettamente venire a pranzo da noi >> disse piccata. Okay era davvero offesa anche se in realtà comprendevo il motivo per cui Angelica non ci aveva nemmeno pensato a presentarsi qui. Se Maia era fantasiosa nello stile e nel modo di fare era ovvio che lo fosse anche in cucina; più di una volta, da quando vivevamo insieme, io e Angelica eravamo state costrette a mangiare strane zuppe dai colori misteriosi e dagli odori altrettanto sospetti e l'occhiata di prima in cucina mi suggeriva che Angelica aveva preso la decisione giusta a stare lontano da qui, peccato che io non lo fossi altrettanto. Non appena varcai la soglia della stanza venni investita da un profumo delizioso e familiare. Sbirciai oltre la spalla di Maia e intravidi la tavola apparecchiata con due piatti in ceramica con un motivo a fiori gialli sul bordo. Mi avvicinai e notai che si trattava degli spaghetti al sugo con tonno, capperi e olive nere; il mio piatto preferito! Questa sì che era una magia!

<< Li hai fatti tu? >> chiesi incredula scostando la sedia e prendendo posto, Maia alla mia destra fece lo stesso lasciando cadere al centro la bottiglia d'acqua.

<< Bè... >>

<< Dio, sto morendo di fame >> ammisi avventandomi sul piatto senza darle il tempo di rispondere. Erano buonissimi, le papille gustative erano letteralmente in estasi.

<< Sono ottimi, Maia – ero sconcertata, quindi quando voleva era capace di cucinare piatti “normali” - quando hai avuto il tempo per farli? >> santo cielo, mia madre ci metteva due ore per prepararli, dovendo stare attenta a non far bruciare il pomodoro, non riuscivo a credere che Maia avesse avuto il tempo di tingersi i capelli e cucinare.

<< Ecco il punto è... >> il tono incerto con cui parlò non lasciava intendere niente di buono; feci un cenno del capo per indurla a proseguire, si agitò sulla sedia a disagio sbuffando mentre io avvertivo degli strani campanelli d'allarme che gridavano Mamma!Mamma! Mamma!

<< ... il punto è... che non sono stata io >> ammise ad occhi bassi, l'allarme nella mia testa aumentò di volume.

<< Tutto questo – indicò il cibo davanti a noi – non è opera mia >>, fissai il piatto in silenzio, digerendo l'implicita rivelazione.

<< Mia madre >> dissi in tono neutrale, lo sguardo mortificato che Maia mi rivolse, bastò a fugare ogni dubbio. C'era da aspettarselo, era di sicuro un gesto carino da parte sua, anche se nessuno glielo aveva chiesto, era il suo modo per dimostrarmi quanto le stessi a cuore nonostante vivessimo separate, ci sarei passata sopra anche stavolta ma noi due avremmo dovuto comunque parlare. Ripresi a mangiare, notando che Maia spostava un'oliva di qua e di là nel piatto, quasi stesse giocando ai passaggi. Qualcosa mi diceva che non era finita. Ingoiai il boccone e mi pulii la bocca, segno che ora aveva la mia più completa attenzione.

<< Domenica siamo invitate a pranzo dalle nonne >> annunciò dividendo l'oliva in tanti piccoli pezzettini. Bene, era una buona notizia no? Mi rilassai un pochino, non vedevo l'ora di andarle a trovare, mi erano mancate parecchio in quelle settimane, con la faccenda del trasloco, il lavoro e lo sconosciuto non avevo avuto il tempo di dedicarmi anche a loro, mi sentii in colpa, ma Domenica sarebbe stata l'occasione giusta per farmi perdonare.

<< Ci saranno anche i tuoi >> aggiunse strappandomi alla mie fantasticherie su torte giganti con la scritta Vi voglio bene nonne! Okay, un pranzo di due ore con mia madre non era quello che desideravo di più al mondo, ma lo avrei superato indenne, in fondo non sarei stata sola, ci sarebbero state le mie amiche con me, quel sant'uomo di mio padre a cui volevo un bene dell'anima ed infine le mie nonne, le mie più grandi sostenitrici. Sì, in fin dei conti potevo farcela.

<< D'accordo >> acconsentii con un sorriso sereno.

<< C'è dell'altro >> esordì. Ancora! Questa volta fui io quella che si agitò sulla sedia, mi era completamente passato l'appetito. La osservai scivolare con l'indice lungo la circonferenza del bicchiere, indecisa se parlare o meno. Le diedi altro mezzo secondo e poi sbattei il palmo della mano sul tavolo, spaventando entrambe << Maia sputa il rospo una volta per tutte >>, mi guardò dritta negli occhi.

<< Stefania è stata qui stamattina >> mi appoggiai allo schienale della sedia confusa, certo che era stata a casa nostra, chi avrebbe preparato il pranzo altrimenti?

<< Non riesco a seguirti >> confessai con la fronte aggrottata.

<< Intendo dire che stamattina ero in bagno, apro la porta e mi imbatto in tua madre >> smise di accarezzare il bicchiere e iniziò a impastare la mollica del pane che era caduta sul tovagliolo. << Ci siamo prese un bello spavento – con la mano libera si grattò la nuca in imbarazzo – lei perché mi ha sgamata conciata così – e con un cenno indicò la nuvola turchese che aveva in testa – ed io perché me la ritrovo in casa senza averle aperto la porta >> non appena pronunciò l'ultima frase abbandonò la mollica e tornò a concentrarsi su di me. In quel momento mi risultava difficile elaborare le sue parole.

<< Mi stai dicendo... >> non trovavo il coraggio di completare la frase, non potevo credere che mia madre si fosse spinta fino a questo punto. Per fortuna la terminò per me.

<< ... che se né io, né Angelica e tanto meno tu, le abbiamo dato il duplicato, allora... >>

<< ... ha un mazzo di chiavi suo >> sussurrai debolmente. Annuì appoggiandosi allo schienale e incrociando le braccia sul petto con aria pensierosa. Mia madre aveva superato il limite. Mi sbagliavo di grosso, se credevo che la storia delle assunzioni in quelle tre compagnie le superasse tutte, addirittura l'ottanta alla maturità pagato sotto banco, questa andava ben oltre il confine che avevo tracciato. Mia madre, non si sa come, era in possesso delle chiavi dell'appartamento dal quale poteva entrare e uscire a suo piacimento a mia insaputa. Ora si spiegava il perché alcuni giorni la casa brillasse più del solito e la roba fosse sistemata in perfetto ordine a differenza del guazzabuglio che c'era nel mio armadio. Mi sentivo invasa. Mia madre aveva invaso la mia privacy. Ed era una cosa totalmente assurda, se si pensava che a farlo era stata proprio un avvocato che di queste cose ne faceva il proprio pane quotidiano. Non mi sentivo più al sicuro. E se per caso avesse infestato la casa di cimici e altri gadget simili per tenermi sotto controllo? O avesse dotato il mio cellulare di un localizzatore in grado di misurare ogni passo che compievo? Iniziai a prendere seriamente in considerazione la possibilità di andarmene il più lontano possibile da lì, senza dire niente a nessuno, semmai un semplice bigliettino con tre parole: Tornerò... un giorno. Peccato che l'avvocato/madre in questione era famoso per scovare chiunque ovunque.

<< Tutto bene? >> avvertii la mano di Maia stringermi l'avambraccio comprensiva. Avrei voluto risponderle: a parte la delusione che ho appena ricevuto e la rabbia che minaccia di incenerire la prima cosa che mi passa sotto mano, direi che sto piuttosto bene, però mi trattenni, non era colpa di Maia se mia madre giocava a tenermi sotto controllo. Poggiai la mia mano sulla sua e le sorrisi rassicurante.

<< Sì, sono solo un po'... amareggiata, tutto qui >> fissai il piatto che avevo davanti, non sarei riuscita a gustarmelo, non in quel momento. Espirai pesantemente.

<< Domani le parlerò >> annunciai per farmi coraggio, pregando che capisse dove aveva sbagliato.

<< Noi ci saremo >> mi sorrise sincera.

<< Lo so >> ricambiai.

 

 

*******************

 

Domenica mattina cominciò nel peggiore dei modi. Non sentii la sveglia alle otto o per meglio dire, la misi a tacere prima ancora che potesse suonare. Non avevo dormito bene quella notte, il letto mi sembrava troppo scomodo per poter chiudere occhio o forse fu l'agitazione per l'incontro con mia madre a tenermi sveglia per ore, fatto sta che riuscii ad appisolarmi verso le prime luci del mattino, con il risultato che quando fui in posizione eretta, ero mostruosamente indietro rispetto alla tabella di marcia e mi ritrovai a sfrecciare da una parte all'altra della casa come una pallina da flipper impazzita. Ero in ritardo. Come al solito.

<< Il dolce? >> chiesi trattenendo a stento l'isteria nella voce.

<< Preso >> Maia salì sul sedile posteriore allacciandosi la cintura, con una mano tratteneva il vassoio al suo fianco con l'altra si teneva alla maniglia superiore.

<< Possiamo andare >> accennò pronta, non me lo feci ripetere due volte e affondai a tavoletta il piede sull'acceleratore. Dopo una decina di minuti arrivammo sane e salve a destinazione.

<< Ricordami perché ti ho lasciato guidare la mia auto? >> mi voltai a guardare Angelica accanto a me, se ne stava con il busto in avanti e la mano appoggiata al cruscotto, aveva un'aria sofferente. I ricci definiti che le incorniciavano il volto parevano una massa cespugliosa e informe, notai che era più pallida del solito, Maia non se la passava meglio, aveva stretto così forte la maniglia durante il viaggio che le si erano sbiancate le nocche e aveva un insolito colorito verdastro il ché se si aggiungeva ai suoi nuovi capelli, sembrava un personaggio dei Muppet.

<< Perché oggi toccava a me? >> chiesi retorica.

<< Bè spero che ti sia goduta il viaggio, perché questa è stata la prima e ultima volta che ti ho permesso di ammazzarci >> sbottò irritata slacciandosi la cintura e dandosi una ritoccata nello specchietto dell'aletta parasole.

<< Sei la solita esagerata >> ribattei risentita.

<< Ariel oggi siamo vive per miracolo e non so neanche quale santo ringraziare per questo! >> non stava affatto scherzando, era serissima.

<< Stai per caso mettendo in dubbio le mie capacità al volante? >> incrociai le braccia al petto indispettita.

<< Certo che sì – ammise impassibile, lasciandomi a bocca aperta per la sua sincerità - se non avessi accertato io stessa che la tua patente non fosse falsa, direi che solo un cieco avrebbe potuto dartela! >> esclamò esasperata, alzai gli occhi al cielo a quel ricordo, era stato davvero umiliante se ripenso che Angelica continuava a ripetere all'addetto della Motorizzazione “Ma non è possibile, deve esserci un errore!”

<< Ma... >>

<< Ragazze – s'intromise Maia infilandosi nello spazio tra i sedili davanti – stiamo perdendo di vista il vero punto della situazione >>

Angelica ed io ci scambiammo un'occhiata sconcertata, anche lei faceva sul serio.

<< Ariel – mi richiamò prendendomi per una spalla – hai un pranzo con tua madre da affrontare e tu – disse appoggiando una mano sulla spalla di Angelica – sei qui per aiutarla e fare in modo che tutto fili liscio >> ci rimproverò come due scolarette scoperte a tirarsi le trecce.

<< Perciò se ci tenete ad uscire di qui, scambiatevi un segno di pace >> ci intimò, passò un secondo in cui entrambe guardammo Maia stralunate e scoppiammo a ridere, solo lei poteva recitare una frase del genere di Domenica con lo stesso tono di Steven Segal quando si preparava a picchiare di brutto.

<< Mi dispiace – cominciò Angelica – non avrei dovuto prendermela con te, non oggi almeno >> la abbracciai di slancio.

<< Scusami tu se oggi ho attentato alla tua vita e mi sono comportata da stupida >> mi sentivo in colpa, mi ero comportata in maniera infantile solo perché ero stressata all'idea di incontrare mia madre e avevo finito per riversare tutta la mia ansia su Angelica.

<< Sono perdonata? >> chiesi con la faccia da cucciolo a cui non sapeva resistere. Alzò gli occhi al cielo.

<< Perdonata >> sorrise. Aprii lo sportello.

<< Significa che al ritorno guido io? >>

<< Non.se.ne.parla. >>

 

 

******************

 

Le nonne abitavano in una villetta a schiera, in uno degli ultimi quartieri formatisi di recente in città. Era ben attrezzato, vi era una farmacia, un bar, un tabaccaio, un negozio di bibite, uno di alimentari, un ortofrutta, la scuola superiore e perfino un parrucchiere. E poi c'era così tanto verde da rendere la zona molto più accogliente, non solo per le famiglie ma anche per gli animali della zona. Il quartiere delle nonne era ad alto tasso di animali domestici, ciò era possibile riscontrarlo non solo dalle singole specie di cani che dormivano spaparanzati al sole nei loro giardini o dai gatti dagli occhi grigi che restavano immobili all'entrata di casa come sfingi egizie, bensì dall'enorme quantità di pupù che rivestiva i marciapiedi di ambo i lati della strada rendendo impossibile il passaggio; ma a parte questo direi che era un luogo a posto. Suonai il campanello e dopo pochi secondi il cancello si aprì. Entrammo e una parte dell'ampio giardino (non c'erano cani nè gatti) era occupata dalla macchina di Nonna Luisa, una vecchia '500 verde a tre porte, tutta sgangherata, con i finestrini che si abbassavano con la manovella, lo stereo a cassette e un rumore tremendo alla marmitta che se non la conoscessi, da lontano la scambierei per il rombo di una motocicletta. Ci passai accanto notando un'ammaccatura sulla fiancata, dovrebbero toglierle la patente, era una spericolata, d'altronde nonna Maria reciterebbe: djm a ki si figlj eje te dec a ki assmeglj, appunto. Salimmo i due gradini della veranda e alla porta trovammo mio padre ad accoglierci.

<< Ciao papà >> lo salutai gettandogli le braccia al collo, quanto mi mancava da quando non abitavamo più assieme, sin da piccola mi aveva sempre coccolato e incoraggiato ad essere me stessa, perché io ero la sua principessa e questo non sarebbe mai potuto cambiare. Quando decisi di andare a vivere da sola fu dura per me saperlo solo e indifeso ad affrontare mia madre che in quel momento si sentiva tradita e abbandonata dalla propria figlia ma era anche vero che fosse l'unico in grado di prendersi cura di lei e di farla ragionare.

<< Ciao, principessa >> ricambiò l'abbraccio.

<< Mi sei mancata, fatti guardare >> mi prese per le spalle e mi osservò con una punta d'orgoglio in quei suoi bellissimi occhi azzurri.

<< Sei bellissima >> lo disse con un'enfasi che per poco non gli credetti davvero.

<< Anche tu, papà >> ed era la pura verità. Mio padre era un uomo di bell'aspetto, alto, aitante, con i capelli di un castano scuro, gli occhi azzurri luminosi, le labbra sottili e due mani enormi capaci di trasmetterti tanta forza e tanta dolcezza in un solo gesto.

<< Salve ragazze >> salutò stringendo affettuosamente prima l'una e poi l'altra.

<< Salve signor Marcello >>

<< Te ne prego Angelica te l'ho detto mille volte di chiamarmi solo Marcello, non mi piace mi fai sentire vecchio >> la rimproverò bonariamente << Non è vero Maia? >> cercò il suo appoggio, quei due andavano molto d'accordo.

<< Certo Marcello, qui nessuno può sentirsi vecchio, a proposito dove sono le ragazze? >> papà rise divertito e ci fece cenno di entrare; un profumo invitante proveniente dalla cucina ci raggiunse nell'atrio. Sentii le voci delle nonne arrivare dalla sala da pranzo. Mi tolsi la giacca guardandomi attorno. La casa era uno spettacolo adesso che era stata ristrutturata. Finalmente dopo vent'anni, nonna Maria e nonna Luisa si erano decise ad iniziare i lavori e a rendere quella che era una tetra dimora, una splendida casa sulla spiaggia, perché era questo l'aspetto che avevano deciso di darle. Il portico con la facciata bianca e le persiane color carta da zucchero. All'inizio prima che entrambe vivessero insieme, ad abitarla per un certo periodo di tempo era stata nonna Maria che dopo la morte di suo marito aveva deciso di lasciare la campagna e trasferirsi in città per stare accanto a mia madre che si era appena sposata. I miei genitori erano preoccupati che il ritrovarsi tutta sola in quella grande casa e per di più in lutto, potesse indurla alla depressione, così cercarono di starle vicino fino a quando un giorno morì il mio nonno paterno e anche mia nonna Luisa rimase sola. Da lì papà convinse sua madre a trasferirsi a Menphis non senza le proteste di quest'ultima, e a trasferirsi a casa della consuocera per farsi compagnia a vicenda. Come potrete immaginare mia nonna Maria non si dimostrò affatto entusiasta all'idea di dividere il suo tetto con un'altra persona, che nelle rare occasioni in cui si erano incontrate, vale a dire il giorno in cui i miei genitori presentarono entrambe le famiglie per annunciare loro il matrimonio e il giorno del suddetto evento, l'aveva snobbata sin dal primo momento sottolineando quanto la "sua gente" vivesse ancora come ai tempi del Medioevo mentre da loro al nord fossero più avanti sia da un punto di vista economico che sociale. Inutile dire che all'inizio la convivenza si rivelò un vero e proprio braccio di ferro fra le due; se nonna Maria si svegliava la mattina alle cinque mettendo sotto sopra la casa per dedicarsi alle pulizie, nonna Luisa era quella che rimaneva a letto fino alle nove con i suoi tappi di sughero nelle orecchie e la benda da notte, sosteneva che dormire poco facesse male alla pelle e dato che non era una donna che andava a coricarsi presto come le galline, rimaneva in letargo fino a tarda ora che era del tutto inaccettabile per l'altra mia nonna. Se nonna Maria stirava la sera davanti alla tv, l'altra era tutta intenta a sfogliare riviste con la sigaretta fra le labbra e lo smalto rosso appena spennellato sulle dita di mani e piedi. Sembravano appartenere ad epoche diverse, in realtà avevano più o meno la stessa età. La mia famiglia e chi le stava intorno era convinta che questo loro perenne litigare fosse solo questione di abitudini di vita differenti e che con il trascorrere del tempo l'una si sarebbe abituata all'altra ma non fu così perché quello che non sospettavano gli altri ma che io avevo intuito, era che fosse in atto un vero conflitto territoriale, una scontro aperto fra Nord e Sud. Una era una signora all'antica, divisa fra casa sua e quella di mia madre fino a quando ci abitavo anch'io e il gruppo della chiesa con cui si incontrava ogni sabato, cucinava sempre su scala industriale e si ostinava a parlare in dialetto costringendo anche a me a farlo per il puro gusto di indispettire l'altra; l'altra amava la vita mondana e trascorreva gran parte delle sue giornate con le amiche giocando a briscola o a scarabeo 0 al club del libro di cui era la fondatrice, insomma... è quasi una vita che stanno insieme e qui non sempre è tutto rose e fiori.

Sentii un braccio cingermi le spalle e mi ridestai dai miei pensieri.

<< Allora come va? - mi chiese mio padre una volta soli - tua madre mi ha raccontato che hai trovato lavoro >> gli passai un braccio attorno alla vita e mi strinsi a lui annuendo, il familiare odore di dopobarba mi avvolse come una coperta.

<< Sì, dopo vari buchi nell'acqua sono finalmente riuscita a trovarne uno che si adatti a me >> con la coda dell'occhio lo vidi sollevare un angolo della bocca, mio padre era al corrente dei vari mestieri in cui mi ero cimentata e dei miei disastrosi fallimenti.

<< In un supermercato, giusto? >>

<< Esatto >> affermai, passeggiando con lui nel corridoio, Maia e Angelica erano in sala da pranzo con le nonne a scambiarsi i convenevoli. Aspettai un po' prima di chiedere, ma avevo bisogno di sapere se tutto andava bene anche per lui.

<< E tu come te la passi? >> sollevai il capo per osservarlo meglio, abbassò a sua volta lo sguardo e puntò i suoi occhi nei miei.

<< Sei preoccupata per me >> non era una domanda. Imbarazzata cercai di sviare lo sguardo anche se era difficile con mio padre, lui mi conosceva come nessun'altro.

<< No >> dissi di getto, inarcò un sopracciglio scuro alquanto scettico << E va bene, sì >> ammisi con un sospiro << non sono affatto tranquilla sapendoti solo con mamma >> non appena ebbi pronunciato quella frase mio padre scoppiò a ridere, facendo tremare anche me.

<< Papà non c'è niente da ridere >> lo rimproverai faticando a restare seria, la sua risata era davvero contagiosa. Quando i singulti cessarono parlò.

<< Credi che tenterà di ammazzarmi mentre dormo? >> chiese, il sorriso che aleggiava sul suo volto suggeriva che qualsiasi sarebbe stata la mia risposta era pronto a farsi un'altra bella risata.

<< Certo che no – scossi forte il capo – non intendevo questo... >> ridacchiò interrompendomi ma tornò subito serio.

<< So a cosa ti riferisci >> mi strinse una spalla a sottolineare le sue parole << tua madre sta dando di matto negli ultimi tempi >> lo sapevo, la mia assenza in casa l'aveva resa ancora più instabile e mio padre ne stava pagando le spese e tutto per colpa mia.

<< Devo letteralmente trattenerla di peso per evitare che venga da te a qualunque ora del giorno >> esclamò scuotendo il capo, i suoi splendidi occhi azzurri erano divertiti mentre io mi sentivo stringere lo stomaco al pensiero che papà dovesse sopportare questo da solo. Dire che mia madre stesse dando di matto era un eufemismo a parer mio, era fuori controllo ed evidentemente mio padre era all'oscuro di tutto riguardo la faccenda del mazzo di chiavi dell'appartamento di cui era in possesso, perciò non ne parlai, avrei dovuto risolvere la faccenda da me.

<< Non fare quella faccia Ariel >> mi sollevò il mento con le dita e mi accarezzò la punta del naso con l'indice, sorrisi era solito farlo anche quando ero bambina.

<< So badare a me stesso e poi stiamo parlando di tua madre >> appunto! Vedendo che non mi tranquillizzavo si fermò e si accostò più vicino a me con fare cospiratorio. Quando aprì bocca il suo alito mi solleticò l'orecchio.

<< Sapevo a cosa andavo incontro quando l'ho sposata, perciò... >> scrollò le spalle con un'espressione talmente buffa che non trattenni un sorriso. Ero sollevata, papà se la sarebbe cavata anche senza di me, era l'unico in grado di darle un freno e di tenerle testa. Una volta che l'argomento mamma venne messo da parte mi informò che anche per lui tutto procedeva per il meglio e che nell'agenzia immobiliare in cui lavorava aveva assunto un ragazzo della mia stessa età che aveva piacere di presentarmi. Dopo la chiacchierata raggiunsi le nonne in soggiorno mentre erano intente ad apparecchiare ognuna dal lato opposto del tavolo, era divertente stare a osservarle mentre si facevano i dispetti: nonna Luisa piegava il tovagliolo avvolgendolo attorno alle posate come un neonato in fasce e nonna Maria correva a dispiegarlo e a metterlo bene aperto con le posate in vista e così via fino a quando terminavano il giro del tavolo e ricominciavano da capo. Mi schiarii la gola al primo accenno dell'ennesimo battibecco. Non appena si accorsero della mia presenza smisero di fare ciò che stavano facendo e mi vennero incontro.

<< Ariel! >> gridò nonna Maria non appena mi vide, le andai incontro mettendo l'interruttore del traduttore mentale su On.

<< Ciao nonna >> la abbraciai di slancio inspirando a fondo il suo odore di pulito << Come sta la figlia mia? >> mi allontanò da sè senza lasciarmi andare, i suoi occhi identici ai miei mi squadrarono con quella grinta e quella positività tipiche della terra in cui vivevo.

<< Sto benissimo nonna >> la rassicurai sorridendole << e tu? Mi dispiace di non essere venuta prima a trovarvi ma ho avuto un sacco di faccende da sbrigare >> mi voltai a guardare anche nonna Luisa sperando che capissero. Annuì mentre l'altra con la mano sembrò scacciare una mosca nell'aria.

<< Tranquilla tesoro, non ci pensare basta che sei qui oggi >> il sorriso che mi rivolse le illuminava il viso formando piccole increspature agli angoli degli occhi.

<< Lo so ma siccome volevo farmi perdonare vi ho portato un bel dolce, a proposito dov'è? >> chiesi guardandomi attorno.

<< Le ragazze lo hanno portato in cucina, è stato un pensiero gentile da parte tua cara >> mi rispose nonna Luisa che osservava la scena in attesa di abbracciarmi anche lei.

<< A proposito della tua amica, Maia, - disse l'altra a bassa voce - ma che le è successo ai capelli? Ti sta facendo concorrenza per caso? >> sghignazzai di fronte alla sua espressione confusa.

<< Sai com'è fatta, - mi ritrovai anch'io a parlare con lo stesso tono - le piace cambiare. Mi ha confidato che in questo periodo si sente in vena di magie >> scrollai una spalla non capendo neanch'io cosa volesse dire fino in fondo, ma a me stava bene così mentre mia nonna stava realizzando solo in quel momento quanto fosse strana l'amica di sua nipote.

<< Si ma a furia di tingerseli non ha paura di restare pelata? >> mia nonna che non si è mai tinta i capelli in vita sua era sempre più sbalordita davanti alla versatilità di Maia.

<< Non darle retta tesoro >> si intromise nonna Luisa << la vecchietta qui è solo invidiosa >> ghignò squadrandola dalla testa ai piedi con sufficienza. Ci risiamo.

Nonna Maria mollò la presa e si voltò ad affrontarla. << Ah si? E di cosa sarei invidiosa? >> domandò con le mani sui fianchi e il piede che batteva sul pavimento.

<< Ma è ovvio lei al tuo posto ha dei veri capelli e non un topo morto da chissà quanti anni a coprirle la testa! >> si strinse nelle spalle con noncuranza e per mia nonna fu troppo. Si sporse in avanti puntandole il dito contro minacciosa.

<< Senti, vecchia rimbambita che non sei altro >> sbottò arrabbiata << come ti permetti di dire che ho un animale morto in testa? Ma ti sei vista allo specchio? >> la domanda fu accompagnata dalla sua mano che indicava per intero la figura di nonna Luisa. Tipico atteggiamento di noi del Sud, affiancare a frasi, insulti e ragionamenti, dei gesti per avvalorare ciò che stiamo dicendo.

<< Certo cara, e ogni giorno sono sempre più soddisfatta da ciò che vedo >> affermò con orgoglio spostando il peso del corpo su una gamba, incrociando le braccia la petto e portandosi una mano al mento, sembrava si fosse messa in posa in attesa dei flash dei fotografi. Bè che mia nonna Luisa fosse vanesia non era un segreto per nessuno e ad essere sinceri se lo poteva ancora permettere. Grazie a Dio, o ai numerosi cosmetici di cui faceva utilizzo, non saprei, la sua bellezza pareva non sfiorire mai e questo infastidiva parecchio nonna Maria che invece dimostrava a tutti gli effetti la sua età. Se nonna Maria risultava una donna nella norma, di statura media, con i capelli grigi, gli occhietti marrone cioccolato e un po' di rotondità, da renderla anonima; di certo non si poteva dire lo stesso per mia nonna Luisa che di anonimo aveva solo il numero di scarpe, che sembrava la sorella gemella di Raffaella Carrà separate alla nascita, con i capelli di un biondo platino che le arrivavano fino alle spalle, la frangetta, gli occhi marroni, il fisico asciutto dove un filo di grasso non riuscivi a trovarlo nemmeno per sbaglio, e la grazia e l'eleganza innate. Nonna Maria poveretta, era costretta a rosicare e l'altra lo sapeva e non faceva nulla per impedirlo; anzi se a ciò ci aggiungiamo uno stuolo di corteggiattori da fare invidia ai tronisti di uomini e donne, e un ego grande quanto la circonferenza terrestre, mia nonna Luisa non la scalfiva niente e nessuno.

<< Sei ridicola! >> la canzonò nonna Maria << sembra che ti fai lo shampoo con la candeggina! >> nonna Luisa incassò il colpo impassibile.

<< L'invidia è una brutta bestia, non è così? >> nel suo tono una punta di scherno. Nonna Maria sbuffò alzando gli occhi al cielo << Tutte quelle creme devono averti affumicato il cervello se credi che io sia invidiosa di te! >>

<< Così come i medicinali di cui ti imbottisci che offuscano la realtà dei fatti >> sollevò l'angolo della bocca in un sorriso altezzoso << Continuo a ripetergli che dovrebbero rinchiuderti in uno ospizio, ma non vogliono sentire ragioni >> scosse il capo riferendosi ai miei genitori. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. L'espressione dapprima incredula di nonna Maria si trasformò in furente. Alzò lo sguardo al cielo come inveendo contro qualcuno e si portò la mano alla bocca nell'atto di morderla.

<< Ecco ora comincia con i suoi sproloqui>> annunciò nonna Luisa.

<< Dio mio, perché mi hai dato questa croce? Signore non hai pietà di me?... >> blaterò tra la rabbia e la disperazione rivolta al soffitto mentre nonna Luisa roteava gli occhi annoiata. Lanciai un'occhiata a mia nonna che era in contemplazione e capii che era giunto il momento di intervenire. Per tutto lo scontro ero rimasta a osservare per il semplice motivo che tutta la scena si era svolta nei rispettivi dialetti ed io ci impiegavo un po' a capire quello che si dicevano soprattutto perchè la lingua di nonna Luisa continuava ad essere arabo per me.

<< Nonna – la chiamai avvicinandomi – ho una fame da lupi, che ne dici se vai a dare un'occhiata in cucina per vedere se è tutto pronto? >>

<< Sì forse è meglio >> guardò prima me e poi fulminò con lo sguardo la sua rivale e se ne andò.

Io e nonna Luisa rimanemmo da sole. L'aria di scherno scomparve lasciando il posto all'affetto che provava nel vedermi lì.

<< Finalmente tesoro, ti ho tutta per me >> esordì stringendomi fra le sue braccia, anche se all'apparenza mia nonna poteva apparire fredda e sulle sue, con me scopriva il suo lato "meridionale" stupendomi ogni volta con le sue sfaccettature.

<< Quando la smetterai di punzecchiarla in quel modo? >>

<< Finché non mi sarò annoiata >> rispose con aria capricciosa.

<< Le farai venire un malanno >> la rimproverai in tono bonario.

<< Oh non esagerare, Dio solo sa cosa ci vuole per mettela K.O quella là >> scossi la testa esasperata.

<< Sarà meglio che vada di là a dare una mano, hai bisogno di qualcosa? >>

<< Tranquilla tesoro me la cavo da sola >> e come fosse niente cominciò a ripiegare i tovaglioli, questa volta in forme ancora più complicate. Lasciai il soggiorno e mi diressi in cucina, dove trovai mia madre che parlava con le mia amiche. Rimasi ferma sulla soglia ad osservare la scena. Mia madre era di spalle occupata a tirare fuori dal forno la teglia di lasagne ascoltando contemporaneamente Angelica che le parlava di non so cosa mentre Maia di nascosto faceva la scarpetta con il mestolo del sugo, la mamma la intercettò << Maia ti rovinerai l'appetito! >> la rimproverò.

<< Lo so, Stefania ma cosa vuoi farci non è colpa mia se prepari il sugo più buono del mondo >> l'addolcì Maia passandole un braccio attorno alle spalle, mia madre inarcò le sopracciglia per nulla convinta delle sue parole anche se la conoscevo così bene da sapere che stava fingendo e che quelle parole le facevano davvero piacere. Sorrisi, era emozionante vederle interagire tra loro in quel modo. Ogni volta che mi scoprivo ad osservarle non potevo fare a meno di notare quanto Maia e Angelica fossero parte integrante della famiglia e questo non aveva niente a che vedere con il fatto che ci conoscessimo dai tempi dell'asilo, niente affatto, i miei genitori le trattavano più come semplici amiche della loro figlia, le trattavano come figlie soprattutto alla luce della loro infanzia. Angelica era orfana di entrambi i genitori i quali erano morti in un incidente stradale durante un viaggio di lavoro, lasciando così Angelica nelle cure dei nonni paterni. Un anno fa, sua nonna Eugenia se ne andò anche lei dopo che il marito Edoardo la lasciò a causa di un infarto. Ed ora Angelica era sola, non aveva più nessuno su cui poter fare affidamento a parte qualche cugino lontano che viveva fuori città. I genitori di Maia, invece, erano separati, suo padre scappò con un'altra donna abbandonando lei e sua madre dopo aver scoperto che quest'ultima aspettava un bambino. Entrambe avevano alle spalle un passato doloroso ma ciò non gli aveva impedito di diventare le splendide persone che erano oggi e credo che fosse per questo che i miei le amavano come figlie, perché nonostante il loro destino avverso erano riuscite ad andare avanti senza mai abbattersi trovando nei miei genitori, un porto sicuro in cui approdare quando le difficoltà della vita diventavano insostenibili. Maia e Angelica erano le mie sorelle, indipendentemente se avessimo lo stesso sangue o meno, ed io ero orgogliosa di loro così come ero fiera dei miei genitori perché le avevano accettate e accolte in casa senza riserve. La mamma scosse il capo di fronte a un altro complimento smiellato di Maia e incrociò il mio sguardo. Mi si mozzò il fiato in gola. Per un attimo fu sorpresa di trovarmi lì impalata a spiarle ma poi mi sorrise, mi feci forza e le andai incontro. Posò la teglia bollente sui fornelli in ghisa della cucina e si girò a guardarmi. Come spesso accadeva quando mi ritrovavo faccia a faccia con lei, mi stupì la nostra somiglianza. Eravamo identiche, capelli a parte ovviamente. Quando guardavo lei mi sembrava di vedere me a quarant'anni, aveva l'incarnato chiaro quasi quanto il mio, gli occhi a mandorla di un intenso color cioccolata, eredità della famiglia di mia nonna Maria, il naso da aristocratica con la punta leggermente all'insù e le labbra carnose. Era alta quanto me e nel portamento aveva quella raffinatezza e quell'eleganza da suscitare invidia a una ballerina di danza classica. Peccato che io non avessi ereditato anche questo tratto, sarebbe stato salutare per la mia spina dorsale. Mi squadrò a lungo e non riuscii a non notare quella luce familiare che le accendeva gli occhi quando il suo sguardo si soffermava sulla mia testa. Conoscevo quella luce, mi aveva accompagnata fin da quando ero alta quanto il tavolino del salotto. Una sorta di insofferenza condita da un pizzico di compassione. All'epoca avrei detto che mia madre non sopportasse i miei capelli perché erano un groviglio di ricci e nodi impossibili da districare, che le toglievano ogni briciola di energia, lasciandola stanca e frustrata sul bordo della vasca con la spazzola in mano a fissarli con odio. In realtà col passare del tempo, compresi che il vero problema non fosse se i miei capelli erano lisci o mossi, ma il colore. Arrivata ad un'età in cui ero capace di dare i soldi giusti al commesso del supermercato e a comprendere cosa fossero quelle strane confezioni dai nomi strani e dalle frasi insolite del tipo: "...per la sicurezza di entrambi" accompagnate dalla dicitura "tenere fuori dalla portata dei bambini", che riflettendoci era piuttosto ridicolo dato che si trovavano alla cassa accanto all'espositore di dolciumi alla portata di un bambino!; capii che mia madre detestava i miei capelli con tutta se stessa. Lo capii non solo, perché da piccola al momento di lavarmeli, mi sfregava la testa come se stesse pulendo una macchia di ruggine da una piastrella del pavimento, col risultato che era tutta fatica sprecata, e che i miei capelli rimanevano identici a prima; ma anche il giorno in cui si presentò a casa con la tintura per capelli, avevo dieci anni. Se ripenso alle settimane successive a quel fatidico giorno, provo tanta tenerezza per lei, che nonostante si fosse spinta a compiere un atto del genere, vide il biondo ramato che aveva sempre sognato, sbiadire ad ogni lavaggio e un rosso fragola tornare prepotente. Sembrava che a ogni tentativo di mia madre di cambiarli, dal farli schiarire al sole agli impacchi di creme inventate di sua mano, i miei capelli si prendessero gioco di lei ritornando ogni volta più rossi di prima. I suoi "esperimenti", se così possiamo chiamarli, terminarono nell'istante in cui compresi che a me piacevano così come erano e che non avevo nessuna intenzione di cambiarli. Non so quale giustificazione ci fosse dietro tutto quell'odio, probabilmente devo aver ereditato il gene del colore dei capelli da mio padre e lei non se n'era mai fatta una ragione. Era possibile, per fortuna avevo preso qualcosa anche da lui. Tornò a guardarmi negli occhi per un attimo, sospirò e mi abbracciò.

<< Stai bene? >> mi chiese passandomi la mano fra i capelli, ricambiai l'abbraccio.

<< Sì e tu? >> domandai pensando a quanto fosse familiare la sensazione delle sue braccia che mi avvolgevano, con la coda dell'occhio vidi le altre uscire dalla stanza.

<< Sto bene – si prese una pausa e poi sospirò – anche se potrei stare meglio >> aggiunse allontanandosi un po'. Okay, era ufficiale, il momento madre e figlia era terminato e mi stupii che fosse durato più a lungo del solito. Sapevo perfettamente dove voleva andare a parare perciò non dissi niente e la fissai aspettando che proseguisse.

<< Voglio sapere da te dove lavori >> il tono perentorio e la maniera diretta in cui me lo chiese, mi ricordò che di fronte non solo c'era una madre bensì un avvocato, uno dei migliori per giunta, ed essendo figlia della categoria non mi sfuggì il significato implicito di quella richiesta, ovvero o mi dici per chi lavori o saprò io a chi rivolgermi per scoprirlo, e questo mi riportava al vero motivo per il quale dovevo incontrare la mamma.

<< No >> risposi mettendo ulteriore spazio fra noi e incrociando le braccia al petto. Chiuse gli occhi un secondo, trattenendo a stento la frustrazione. Mi fissò stringendo i pugni lungo i fianchi.

<< Perché? >>

<< Perchè non mi sembra il caso che tu lo sappia >> la mia voce era calma, quasi stessi parlando dell'aumento della borsa di Milano, ma dentro di me sentivo alternarsi cocente l'ir ritazione per ciò che aveva fatto e il timore di ferirla con le mie parole.

<> ripetè incredula strabuzzando gli occhi << ma io sono tua madre, ho il diritto di saperlo >> avrei voluto ricordarle di aver perso ogni diritto su di me il giorno in cui ho compiuto diciotto anni, ma mi trattenni dal sottolinearlo.

<< Lo so mamma – accennai un sorriso sapendo già che quello che avrei detto dopo non sarebbe stato piacevole – ma io non voglio che tu ti intrometta >> la vidi arretrare di scatto impietrita, quasi le mie parole fossero state uno schiaffo in pieno viso. Sentii un nodo formarsi all'altezza dello stomaco.

<< Tu... credi che io... >> scrollò il capo incapace di assimilare le mie parole, si portò una mano al petto << ... insomma sono tua madre >> ripetè. Distolsi lo sguardo combattuta se continuare o meno quella conversazione, vedere mia madre in quello stato, mi feriva, mi faceva sentire un'ingrata nei suoi riguardi; ma mi era costato tanto ottenere la mia libertà che dovevo continuare a lottare, a battere sul ferro finché era ancora caldo, se volevo che lei mi lasciasse i miei spazi, che capisse. Mi portai una ciocca dicapelli dietro l'orecchio e tornai a posare lo sguardo su di lei. Inspirai a fondo prima di parlare.

<< Sai a cosa mi riferisco >> dalle labbra serrate intuii che avesse compreso << e a proposito di questo mamma... >> respirai a fondo di nuovo prima di continuare << ... so che sei venuta di nascosto a casa – lanciai la bomba dandole il tempo di assimilare la notizia - ... e pensandoci bene non solo una volta >> aggiunsi, con la coda dell'occhio la vidi trattenere il respiro, era la verità. Fissai le mie scarpe e proseguii

<< Non desidero che tu mi restituisca le chiavi – la voce appena udibile – ma... ti prego non farmi più una cosa del genere >> mormorai, non sarei riuscita a sopportare altro. Passarono alcuni minuti durante i quali nessuna delle due aggiunse altro, sollevai il capo e la osservai mentre si ricomponeva senza incrociare i miei occhi. Il messaggio era arrivato. Senza porre altri indugi, mi avviai verso la porta, ero sulla soglia quando mi chiamò. Chiusi gli occhi in attesa.

<< Riguardo a ciò che è accaduto – si fermò in cerca del fiato e forse del coraggio – ti prometto che non succederà ancora >> soffocai un sorriso sul nascere mentre già la immaginavo entrare di nascosto in casa, di nuovo, come un ladro. Sì, un ladro con le chiavi, però. Mia madre non era tanto brava con le promesse, almeno quelle che riguardavano me. Feci un passo avanti aspettando il colpo di grazia.

<< Ma mi premeva informarti che c'è un impiego disponibile presso una banca – annunciò timidamente per poi rivelarsi un po' troppo entusiasta per i miei gusti – certo all'inizio dovresti fotocopiare documenti o roba così ma c'è la possibilità di avanzare di grado >> si fermò per la domanda finale <<... che ne dici?>> chiese in tono speranzoso. Ecco il colpo di grazia. Questa volta addirittura una banca, sperai che scherzasse. Conoscendola ne dubitai. Sospirai, era da considerare di per sè un miracolo il semplice fatto che riuscissi a gestire le mie esigue finanze, figuriamoci se avessi dovuto occuparmi di quelle di altre persone. Le avrei mandate sull'astrico nel giro di un mese, se non anche meno. Santo cielo, quale incarico mi avrebbe trovato la prossima volta? Giudice del tribunale, consigliere alla giunta comunale o forse parlamentare? Probabile. Quando si trattava di mia madre niente era da sottovalutare, anche se per diventare un politico dovevi essere il cinquanta per cento comico e l'altro cinquanta ladro, ed io non ero nessuna delle due cose.

<< Grazie ma no >> fu la mia risposta al ché la sentii sospirare pesantemente intuendo fosse pronta ad un nuovo attacco. Scossi la testa sorridendo di fronte alla sua tenacia. Sapevo che non si sarebbe data per vinta tanto facilmente, lo sapevo.

 

 

****************

 

Lunedì mattina tornai a lavoro con uno strano senso di inquietudine. Mi si era incollato addosso nello stesso istante in cui avevo messo piede fuori casa delle nonne. Dopo il confronto con la mamma, il pranzo era proseguito come se nulla fosse ed era terminato nel più prevedibile dei modi, con noi tutti abbuffati come maiali all'ingrosso e l'invito delle nonne a ripresentarci la Domenica successiva alla stessa ora e con la promessa da parte loro di venire presto a farci visita. Inutile spiegare il motivo della mia inquietudine. Sentivo che l'incontro del giorno precedente era servito a ben poco e nessuno riusciva a togliermi dalla testa che mia madre avrebbe escogitato di certo qualcos'altro pur di farmi lasciare questo lavoro e tenermi sotto controllo. E se a ciò si aggiungeva il malumore che il signor Saverio stava riversando su di me come un vulcano inattivo da lunghissimo tempo, era un chiaro segnale che la giornata non era cominciata nel migliore dei modi.

<< Da quanto tempo lavori qui? >> il signor Saverio era in piedi dietro la scrivania dell'ufficio con i palmi delle mani appoggiati sul ripiano, ed era furibondo oltre ogni dire.

<< Da... da quasi un mese >> risposi incerta temendo di farlo arrabbiare ancora di più.

<< E allora mi spieghi cosa ti costa ricordarti di allungare la mano e lasciare al cliente un semplice pezzo di carta? >> domandò infastidito piegandosi in avanti sugli avambracci per guardarmi meglio negli occhi. Da quella distanza riuscivo a notare le vene del collo in rilievo pronte a scoppiare mentre la cravatta ostacolava il passaggio del sangue, fui tentata di allentargliela lì stesso prima di dover richiedere l'intervento del 118.

<< Niente >> risposi prima di rendermi conto che si trattasse di una domanda retorica e di beccarmi il suo sguardo in tralice.

<< Mi dispiace so di aver sbagliato – tentai di giustificarmi – ma stavo aiutando quella signora a scegliere il vestito da regalare alla nipote e... e mi è passato di mente... >>

<< Cosa stavi facendo? >> dal tono basso e dall'occhiata sprezzante che mi rivolse compresi di averla combinata grossa. Ingoiai a vuoto.

<< Ecco... io >> cercai la porta con gli occhi nella speranza di vedere materializzarsi Sonia al mio fianco.

<< Ariel – scandì bene il mio nome – non ti pago né per chiacchierare con la clientela né tantomeno per essere la loro personal shopper >> sentenziò alterato intanto che io diventavo piccola piccola sul posto prendendomi a pugni mentalmente per non aver prestato più attenzione quando tutti mi avevano avvertito che oggi era una di quelle giornate no per il signor Saverio. Sonia aveva accennato al fatto che di lì a pochi giorni sarebbe stato il suo compleanno e che tale nervosismo dipendesse dalla presenza non troppo certa della figlia Sofia. Immaginai dovesse essere difficile per un padre celebrare la festa di compleanno con la propria figlia in un altro continente. Provai tanta tristezza per lui.

<< Mi sembra di essere stato più di una volta chiaro a riguardo>> proseguì elencando i miei divieti sulle dita << non si conversa con le vecchine attempate vicino al banco surgelati, non si regalano lecca-lecca o leccornie varie ai bambini dietro promessa di un pagamento nell'immediato futuro e soprattutto... - aggiunse l'ultimo punto della lista fulminandomi con lo sguardo - ...niente casini. Niente deve rompersi, niente, niente e niente >> sottolineò il concetto con la mano che fendeva l'aria in orizzontale. Annuii e lo vidi aggiustarsi gli occhiali che nel frattempo erano scivolati sulla punta del naso.

<< Spero finalmente di esserci intesi >> e detto questo si alzò dalla scrivania, vi girò intorno e si avviò fuori dalla stanza.

<< Signor Saverio – lo chiamai, lui si voltò di tre quarti con ancora l'espressione corrucciata di poco fa – mi... dispiace se di recente è sempre di cattivo umore >> confessai stringendomi tra le braccia a disagio di fronte a un'altra delle mie uscite, lo vidi per un attimo rimanere interdetto per tornare subito dopo a nascondersi dietro la facciata da burbero che avevo imparato a conoscere.

<< E le prometto che quanto è accaduto oggi non si ripeterà nell'avvenire >> sollevai un angolo della bocca in un accenno di sorriso.

<< Bene >> borbottò sistemandosi la cravatta sul petto con gesti imbarazzati, annuì e se ne andò. Tirai un sospiro di sollievo, il peggio era passato. Mi apprestai ad uscire dall'ufficio quando il telefono sulla scrivania si mise a suonare spaventandomi. Mi voltai in direzione dell'apparecchio indecisa sul da farsi, non era compito mio rispondere al telefono, da quello che sapevo nessuno in negozio rispondeva alle chiamate dell'ufficio, perciò era logico che dovevo rintracciare il signor Saverio o Sonia. Raggiunsi la porta ma il trillare insistente del telefono suggeriva che chiunque fosse dall'altro capo aveva urgenza di parlare con qualcuno nell'ufficio e al momento quel qualcuno ero io. Esitante raggiunsi la scrivania e sollevai la cornetta.

<< La bottega dei sapori, buongiorno? >> risposi sperando con tutte le mie forze di aver azzeccato il saluto iniziale.

<< Pronto? Con chi parlo? >> chiese una voce femminile dall'altra parte.

<< Salve, io sono Ariel una dipendente del negozio >> spiegai girandomi nervosamente una ciocca di capelli tra le dita.

<< Ariel... Ariel... >> ripetè più volte il mio nome quasi non le suonasse nuovo mentre la sua voce mi giungeva lontana tanto quanto il suo sforzo di ricordarsi chi ero.

<< La "nuova" giusto? >>

<< Ehm, sì >> confermai dubbiosa. La sentii sorridere.

<< Mia madre mi ha parlato molto di te >> spiegò. Ovviamente dovevo essermi persa parte della conversazione, perchè quella frase sembrava fuori posto.

<< Ah >> fu la mia intelligente risposta. Stentavo ad afferrare il senso di quella conversazione e doveva averlo compreso anche lei perchè aggiunse: << Sono Sofia, la figlia di Sonia >> rimase in attesa di una mia reazione che non tardò ad arrivare. Mi sedetti sulla sedia d'ufficio sorpresa di chiacchierare con la figlia del capo.

<< Oh... - dissi bloccandomi nello stesso istante in cui lo pronunciai, dovevo darci un taglio con quelle stupide esclamazioni – Sofia scusami >> mi portai una mano alla fronte imbarazzata, ringraziai il cielo che non potesse vedermi << Non avevo capito... >>.

<< Tranquilla non scusarti >> affermò pacata togliendomi dall'imbarazzo.

<< Come va da quelle parti? >> mi domandò con uno strano rumore in sottofondo. Sembrava lo svolazzo di una matita su un foglio di carta.

<< Qui è tutto a posto. Il negozio va alla grande >> le raccontai omettendo di proposito le parti riguardanti i miei casini.

<< Sono contenta >> nella sua voce ferma e determinata avvertii una punta di sollievo << ... e il mio vecchio come sta? >> non mi sfuggì il modo in cui aveva pronunciato la parola vecchio. Era pieno d'affetto. La matita, nel frattempo, aveva cessato di scrivere.

<< Bene – esitai prima di proseguire – è sempre... come dire... - burbero, dispotico, bisbetico? Ariel ricordati con chi stai parlando, è in gioco il tuo stipendio! Mi redarguì una vocina nella testa. - ... un uomo... tosto, ecco >> dissi invece sperando di mascherare i miei pensieri. Dall'altro capo mi giunse un grugnito. Guardai la cornetta perplessa.

<< Tosto... – ripetè – ed io che credevo fosse rimasto il solito scontroso, autoritario, irascibile e litigioso di sempre >> ironizzò scoprendo che anche Sofia come la madre era in grado di leggermi nel pensiero, accidenti. Passò un minuto senza che entrambe parlassimo poi la sentii sospirare pesantemente.

<< Non l'ha presa affatto bene che me ne sia andata, eh? >> chiese più a se stessa che alla sottoscritta. Non era davanti a me ma me la immaginai rigirarsi la matita tra le mani con un sorriso dispiaciuto. Non sapevo cosa significasse decidere di andare a lavorare all'estero e allontanarsi dalla propria famiglia ma capivo che era una scelta difficile e che richiedeva una certa maturità, perciò mi sentii in dovere di consolarla.

<< Sono certa che sia il lavoro a tenerlo sottopressione, – lo giustificai - insomma anche se la situazione è tranquilla, non vuol dire che non abbia delle responsabilità a cui far fronte. Tra fornitori e spese varie è sempre indaffarato >> mi accorsi che quello che le stavo dicendo era la realtà e mi sentii in colpa pensando ai problemi che gli avevo causato.

<< Fra qualche giorno compirà gli anni >> esordì dandomi a intendere che non aveva ascoltato neanche una parola di quello che avevo detto.

<< Sì tua madre me ne ha accennato >>

<< Non sono sicura di riuscire a tornare >> confessò con voce flebile dopo qualche attimo.

<< E' per il lavoro? >> domandai cauta.

<< Mmm mmm – assentì – nonostante quel giorno sarò di ritorno in Italia non potrò... >> smisi di seguirla troppo presa da un'altra informazione.

<< Verrai in Italia? >> la interruppi intanto che nella mia testa prendeva forma la soluzione più ovvia di questo mondo.

<< Te l'ho detto... >>

<< I tuoi ne sono a conoscenza? >> la bloccai di nuovo avvertendo addosso una strana euforia. La percepì anche lei perché fu molto più cauta quando mi rispose: << No, non gliel'ho ancora detto >>

<< Perfetto! >> esclamai compiaciuta, era davvero un bel colpo di fortuna.

<< Posso sapere cos'hai in mente? >> chiese curiosa.

<< Ho trovato una soluzione >> gongolai trionfante agitandomi sulla sedia, per fortuna non mi vide nessuno mentre battevo i piedi per terra come una bambina davanti a una cioccolata calda ricoperta con panna e scaglie di cioccolato al latte..

<< Okay dimmi tutto >> sentivo che ci andava con i piedi di piombo. Mi ricomposi.

<< Sei disposta davvero a vedere i tuoi? >> suonai un po' presuntuosa per una con cui era la prima volta che parlava, ma d'altronde mia nonna mi ha sempre insegnato che: "volere è potere"; e se Sofia aveva intenzione di essere presente al compleanno del signor Saverio doveva essere pronta a fare qualsiasi cosa.

<< Certo che si >> rispose un tantino ferita.

<< Aspetta un momento >> l'avvertii prima di dirigermi alla porta e controllare che non ci fossero orecchie indesiderate in giro. A parte qualche cliente abituale, la via era libera. Con ampie falcate ritornai alla scrivania riflettendo di sfuggita che quella chiamata le sarebbe costata molto cara.

<< Allora, ecco il piano >>.

 

 

****************

 

Intanto che i giorni trascorrevano e il piano prendeva forma all'insaputa di tutti, il ragazzo biondo si presentò nuovamente in negozio.

<< Ehi! >> sussurrò Sonia indicandomi qualcosa attraverso i ripiani. Come al solito ero intenta a disfare scatoloni, quella mattina Sonia si era offerta di aiutarmi nell'arduo compito di riempire e riordinare i ripiani con la pasta che era arrivata il giorno precedente. Alzai gli occhi e guardai sul fondo dei ripiani dove erano accatastati bicchieri, piatti e posate di plastica. Fra le fessure non scorsi qualcosa bensì qualcuno. Strabuzzai gli occhi incredula. Era lui. Il fusto, a pochi passi da me nel reparto adiacente. Dio, da quanto tempo lo aspettavo? Non ci fu bisogno di rispondere. Cinque giorni. Ormai tenevo il conto dei giorni che mancavano alla volta successiva in cui si sarebbe presentato. Mi sentivo come quei bambini che marcano con la x sul calendario i giorni che li separano dal Natale. Ed era folle, lo sapevo, ma negli ultimi tempi mi sorprendevo sempre più spesso a pensare a lui e ad attendere il suo arrivo con impazienza. Come quel giorno. Incurante dell'espressione divertita di Sonia al mio fianco mi avvicinai allo scaffale con il cuore che martellava come un tamburo. Poggiai le mani sulla superficie del ripiano e mi alzai sulle punte badando a non fare il minimo rumore. In quel momento mi sentivo tanto uno di quegli studiosi che nei documentari si nascondono dietro siepi o cespugli studiando il comportamento di una specie animale inavvicinabile. Aguzzai la vista e mentre era voltato di spalle lo osservai allungare un braccio e prendere una confezione di sapone per i piatti. Parve sul punto di proseguire quando improvvisamente si voltò. Rimasi immobile dov'ero con il respiro incastrato fra la gola e le labbra. Era vicinissimo. Talmente vicino che riuscii a riconoscere il suo profumo di colori in mezzo a quello della plastica e della polvere. Nonostante la roba ostruisse la visuale pregai tutti i santi in paradiso che non mi scoprisse, altrimenti sì che sarebbe fuggito come l'animale di quel documentario. Gli sarebbe bastato abbassare lo sguardo di qualche centimetro per trovarmi a fissargli il pomo d'Adamo ma il destino volle che non accadesse. Dopo aver preso quello che gli serviva si allontanò. Mi affrettai a seguirlo. Per mia fortuna percorreva il corridoio tenendo il viso girato nella mia direzione ignaro di me dall'altra parte. Io dal canto mio, sembravo un granchio sul bagnasciuga, mi spostavo di lato e indietro nell'assurdo tentativo di guardarlo in viso. Dannati scaffali di due metri! Sonia rideva sotto i baffi. Dovetti ammettere però che riuscii nel mio intento, più indietreggiavo più riuscivo a ricomporre il suo viso. Prima la mascella ricoperta da un accenno di barba, le labbra rosee e morbide, poi il naso ricoperto di lentiggini color miele ed infine gli occhi verdi della consistenza del ghiaccio. Furono quelli a catturare la mia attenzione. Erano vivi, arroganti, magnetici ma sul fondo riuscii a scorgere i tratti definiti del tormento. Il suo tormento. Mi parve di rivivere la scena di quella sera quando mi ero ritrovata a dover osservare un uomo dilaniato dal dolore. Mi portai una mano al petto, turbata. Non vi erano più dubbi che fosse lui, l'uomo della terrazza. Fui scaraventata nella realtà da qualcosa di freddo che si abbattè sul fianco.

<< Stia più attenta >> mi rimbrottò una vecchina passandomi accanto con il carrello della spesa senza darmi il tempo di scusarmi. Poggiai la mano sul punto dolorante e le mie dita incontrarono dei fili. Accidenti, il carrello nell'impatto aveva tirato la tasca della divisa e adesso un lembo di tessuto mi penzolava da un lato. Perfetto!

<< Si può sapere cosa aspetti ancora? >> domandò affannata Sonia quando mi raggiunse. Alzai la testa per guardarla. Era agitata.

<< Cosa? >> le domandai a mia volta senza capire.

<< Il fusto se ne sta andando >> disse spingendomi per un braccio. Ci volle un secondo per rimettere in moto il cervello. Mi era sfuggito di nuovo. Mi avviai verso la cassa senza un'idea precisa in mente, mentre Sonia gridava alle mie spalle: << Va e seguilo! >>. Mi arrestai di botto presa alla sprovvista. Non intendeva per caso...

<< Come scusa? >> alzò gli occhi al cielo davanti alla mia espressione stralunata.

<< Seguilo >> ripetè quasi scandendo ogni sillaba. Era fuori di testa.

<< Non posso lasciare tutto e andarmene >> la contraddissi, insomma doveva aver preso una bella insolazione mentre arrivava qui, se credeva che avrei fatto una cosa del genere. Avanzò con falcate ampie e veloci e mi affiancò.

<< Non preoccuparti Saverio non c'è in questo momento >> mi parlò in fretta cominciando a sfilarmi la divisa dalle maniche.

<< E qui posso sbrigarmela benissimo da sola >> mi girò come un manichino e me la fece passare dalle spalle.

<< Non ci penso neanche >> mi rifiutai, sempre di tutta fretta, oh avanti sapevamo entrambe che sarei uscita di lì per pedinare un ragazzo che ce l'aveva a morte con me per non so quale motivo.

<< Non è una scusa buona per piantare tutto e... >> stavo per cedere avevo bisogno solo di una spintarella... che naturalmente arrivò....

<< E va bene è necessaria una scusa? Bene te la do io >> disse prendendomi per un gomito e portandomi di volata nell'ufficio del marito.

<< Va da Gianni – Gianni era il proprietario della pasticceria a una decina di metri da casa mia – e comprami la pasta più buona che ci sia >> aprì un cassetto e tirò fuori un cappellino con la visiera nero e me lo mise in testa senza lasciarmi modo di capire cosa stesse facendo.

<< E non scoraggiarti se i dolci non sono ancora pronti, tu aspetta e non tornare a mani vuote >> mi condusse in corridoio stavolta spingendomi per le scapole continuando a blaterare.

<< E' sufficiente come scusa? >> mi domandò con un sopracciglio inarcato.

<< Assolutamente >> risposi trattenendo a stento un sorriso. Arrivammo alla cassa trafelate, Susanna anche lei visibilmente in visibilio, mi indicò le porte automatiche.

<< E' appena uscito >>

<< Hai soldi con te? >> si accertò Sonia. Annuii, se il signor Saverio fosse arrivato prima del mio ritorno non potevo certo presentarmi con le mani vuote altrimenti la sceneggiata non avrebbe retto.

<< Grazie >> dissi soltanto e senza idugiare oltre mi diressi fuori mentre dei buona fortuna appena accennati si perdevano alle mie spalle. Fuori dal negozio il sole di settembre brillava immenso nel cielo terso, di un azzurro così luminoso che faceva ben sperare che l'assurda pazzia che stavo per compiere avrebbe dato i suoi risultati. Forse una denuncia per lesione della privacy, ma era pur sempre un risultato. All'angolo del marciapiede mi guardai attorno in cerca di una testa bionda. Dopo un paio di minuti trovai quello che cercavo anche se sulle prime non ne fui tanto sicura. Una figura slanciata si muoveva con grazia lungo la strada che portava al mio appartamento. Oltre alla tracolla che teneva sulla spalla sinistra reggeva in una mano una confezione di bottiglie d'acqua e nell'altra una busta con il marchio del negozio in cui lavoravo. Non potevo sbagliarmi, era lui. Gli corsi dietro distanziandolo di qualche paio di metri. Mi sembrava di essere catapultata in uno di quei film americani, dove io vestivo i panni di un'agente della CIA incaricata di eliminare un ex membro dei nostri che aveva venduto segreti di stato all'intelligence russa. Ed ora ero alle prese con un pedinamento dai risvolti tragici. Scossi la testa. Non potevo perdermi in fantasticherie del genere. Tenni lo sguardo fisso sulla sua schiena, meravigliandomi del fatto che non sembrasse sentirsi osservato, pronta a nascondermi nel caso si fosse voltato. A tal proposito ero sprovvista di giornale per mimetizzarmi. Che sfortuna! Promemoria per me: ricordarmi di avere sempre un giornale dietro, quale fosse necessario ai fini di un pedinamento d'urgenza; o male che vada per leggere la sezione dell'oroscopo. Camminai fiancheggiando il perimetro dei giardinetti che separavano il negozio all'angolo dal portone del mio stabile. L'adrenalina circolava come fuoco nelle vene incendiando ogni cosa al suo passaggio, tutti i sensi erano all'erta mentre cercavo di fare notare il meno possibile la mia presenza. Il rumore delle bottiglie che cozzavano le une con le altre cullò il flusso di pensieri che tampinavano per essere formulati e ascoltati. Il primo fra tutti era l'assurdità dell situazione. Era del tutto illogico. Per quale motivo Sonia mi aveva spinto a fare una cosa del genere? Ed io perché l'avevo assecondata? Cosa mi era saltato in mente? Cosa avrei ottenuto comportandomi in quel modo? L'indirizzo di casa sua? Certo sarebbe stato gratificante scoprire finalmente dove vivesse dato che il giorno dopo il mio "faccia a faccia" con la porta dell'appartamento di fronte al mio, mi ero ripresentata al campanello ottenendo come risposta il suono sordo e prolungato del silenzio. Così la mia unica certezza rimasta fino a quel momento era sapere che il ragazzo della terrazza e quello del supermercato erano la stessa persona. Ed eccomi ritornare al vero nocciolo della questione. Perché avvertivo il bisogno di trovarmi lì in quel momento? Insomma, non vi era una spiegazione valida a giustificare la mia presenza lì. Lo osservai, era dura tenere gli occhi fissi su un solo punto. Era come se ogni parte del suo corpo mi invitasse a guardarlo e presa dalla corrente non me lo lasciai ripetere due volte. Lentamente dalla schiena risalii con lo sguardo lungo le scapole per poi sollevarlo sul collo candido come la camicia che indossava quel giorno, e soffermarmi sui capelli. Sospirai, la realtà è che da quando lo avevo incontrato era come se qualcuno avesse spostato l'interruttore della mia vita sull'istinto e la vecchia razionalità fosse andata a farsi benedire. La brezza calda della mattina si insinuava fra i suoi capelli di un biondo scuro a volte accarezzandoli come una mano materna altre scompigliandoli a regola d'arte. Quella vista era ipnotizzante. Istantaneamente mi sentii invadere dalla serenità. In mezzo a quell'oceano di tranquillità, notai che ci stavamo avvicinando vicino al portone di casa. Il cuore prese a battere veloce quando lo vidi fermarsi davanti al suddetto portone. Mi fermai di riflesso a distanza. Incurante di trovarmi sul punto di essere scoperta. Posò l'acqua a terra e infilò una mano in tasca mentre io stentavo a ricordare come si respirava. Dopo secondi lunghi quanto ore ne estrasse un cellullare. Controllò qualcosa, lo rimise in tasca e riprese il cammino. Io, invece lottavo contro la conferma di quanto aveva detto il signor Giovanni e la voglia di seguirlo. Nei tre quarti d'ora successivi percorremmo l'intero isolato lui davanti ed io dietro, dopo aver oltrepassato la chiesa di St. Patrick imboccò una strada che sboccava sul corso principale. Non so se lo persi di vista quando mi fermai a bere un sorso d'acqua o mentre riponevo la bottiglietta nella borsa seppi solo che era scomparso dalla circolazione neanche fosse stato un fantasma. Mi affrettai a svoltare l'angolo prendendomi a schiaffi mentalmente per la mia stupidità. Lo cercai tra la folla nel caldo mezzogiorno e non lo trovai. Accidenti a me e alla mia stupida sete! Pensai, riprendendo a passo di carica la via per il negozio. Non riuscii neanche ad appoggiare un piede davanti all'altro che finii con lo scontrarmi con qualcuno. L'impatto fu così forte che mi ritrovai sbalzata all'indietro barcollante, come fulmini le mie mani agguantarono due braccia incamiciate che mi circondarono la vita impedendomi di cadere, a dire la verità non so chi dei due prese l'altro, fatto sta che ci ritrovammo abbracciati, vicinissimi l'uno all'altra che mi fu impossibile non riconoscere chi mi stava squadrando ancora prima di sollevare lo sguardo. Rimasi a bocca aperta. Un po' per la troppa vicinanza, un po' perché il cervello aveva deciso proprio in quel momento di andare in vacanza. Il ragazzo del supermercato era comparso di nuovo come per magia e mi teneva stretta a sè. Con un'occhiata veloce ne approfittai per godermi il suo viso. Gli guardai le labbra, non so perché decisi di partire da lì, ma volevo lasciarmi gli occhi per dopo e probabilmente fu la scelta migliore in quel momento. Indugiai quel tanto che bastava da indurre a chiedermi quale fosse la loro consistenza, nel frattempo che il mio corpo registrava la stretta ferrea ma delicata su di me. Mi feci strada lungo quel prato di lentiggini, scoprendo che erano la cosa che più adoravo in assoluto, dopo i suoi occhi naturalmente e infatti mi bastò sollevare i miei di qualche centimetro per incontrare due pozzi di un verde brillante. Santo cielo, ma esistevano al mondo occhi del genere? Come un'ebete sospirai. Gli si formò un cipiglio mal nascosto tra i ciuffi di capelli che gli ricadevano sulla fronte. Oh oh, brutto segno. All'improvviso mi guardò sprezzante. Okay, non così all'improvviso, probabilmente era da un po' che lo faceva ma io ero nella mia fase contemplativa da non rendermene conto così come non feci caso al fatto che ora vi erano venti centimetri buoni a dividerci. Gli restituii uno sguardo innocente.

<< Nooo! Ma tu guarda! - esclamai giungendo le mani come se fossi realmente sorpresa di vederlo – Non ci posso credere! >> scossi la testa rendendomi conto un secondo dopo che il cappello giaceva a terra accanto al mio piede, doveva essere caduto nell'urto. Mi chinai a raccoglierlo continuando a parlare.

<< Ero da queste parti a salutare un'amica – spolverai il cappello sulla gamba rimettendomelo in testa.

<< ... quando di punto in bianco appari tu >> scossi il capo incredula sorridendo, con la coda dell'occhio vidi la sua espressione divenire di granito, uhm non sembrava che la mia messinscena stesse funzionando.

<< Ci scontriamo come al solito e per di più mi salvi da un'irrimediabile caduta >> mi concessi il lusso di guardarlo apertamente e fu un errore perché non era affatto amichevole << ... quando si dice il destino... >> buttai lì non riuscendo a tapparmi la bocca, il sorriso mi si congelò sulle labbra quando parlò.

<< Tu >> pronunciò solo una sillaba ma alle mie orecchie suonò come un insulto. Wow, ma allora sa parlare! pensai, invece. Era affascinante constatare quanto la sua voce e la sua calma nel sistemarsi il polsino della camicia fossero letali: << Non hai niente di meglio da fare nella vita? >> il modo pacato e tagliente con cui mi si rivolse mi fece sentire come una bambina colta con le mani nella marmellata. Di certo non gli si poteva rinfacciare di non essere una persona che va dritta al sodo. Ci misi qualche secondo per rispondere.

<< Non capisco a cosa ti riferisca >> confessai. Socchiuse gli occhi minaccioso e a mio parere infuriato era ancora più attraente.

<< Non.Seguirmi. >> mi avvertì e se il messaggio non fosse stato abbastanza chiaro mi lanciò una delle sue occhiate glaciali. Si sistemò la tracolla sulla spalla e mi oltrepassò dirigendosi verso "il palazzo di barbie", di un insolito colore rosa tendende al viola appunto da Barbie. Mi voltai e lo seguii.

<< Ehi >> lo richiamai, se credeva di piantarmi in asso anche quella volta, si sbagliava di grosso. Accellerai l'andatura e dopo un paio di metri gli fui accanto.

<< Cosa ti ho appena detto? >> sibilò tra i denti senza distogliere gli occhi davanti a sè.

<< Di non seguirti e di fatto non lo sto facendo, è una strada pubblica questa, non lo sapevi? >> gli risposi sarcastica guardando nella sua stessa traiettoria con un sorriso tronfio stampato in viso, lo sentii sospirare pianissimo senza aggiungere altro. Passarono alcuni minuti in cui gli unici rumori che si udirono durante il tragitto furono il suono dei clacson per la strada e il vociare delle persone. In lontananza qualcuno ascoltava la musica in auto a tutto volume.

<< Fa un caldo pazzesco oggi, eh? >>

Silenzio.

<< Verrebbe proprio da andare al mare, non ti pare? >>

Silenzio.

<< In giornate come questa la soluzione è un bel gelato >> affermai sporgendomi al di sopra della sua spalla per guardarlo in viso.

<< Io impazzisco per quello al cioccolato e fior di latte con una spruzzata di panna sopra, e tu? >> Non rispose. Non mosse un muscolo. Non battè ciglio. Sembrò addirittura non respirare. Sospirai, era il suo modo di dirmi che il discorso, se così si poteva definire, era chiuso. Non mollai.

<< Hai intenzione di evitare di rivolgermi la parola per tutto il tragitto? >> anche stavolta non disse niente, la furia di poco prima era stata sostituita da una totale indifferenza.

<< Bene – dissi tornando a prestare attenzione alla strada – non è un problema, per fortuna sono un tipo loquace e se tu non hai voglia di parlare... Vorrà dire che lo farò io per te >> non lo vidi ma per un attimo avvertii il suo sguardo su di me. Blaterai a più non posso su ogni cosa che mi passava per la testa, del fatto che la primavera fosse la mia stagione preferita, di come odiassi qualsiasi tipo di verdura, dei miei tre colori preferiti: il rosso, l'azzurro e il verde, ognuno rappresentante una parte della mia vita, il rosso per l'infanzia, l'azzurro per l'adolescenza e il verde bè... mi piaceva da sempre ma mai come negli ultimi tempi (questo ovviamente lo tenni per me), l'insofferenza verso le brodaglie preparate da Maia, o il fatto che mi piacesse la pioggia e che ogni anno speravo in un Natale con la neve. Era improbabile che avesse ascoltato una singola parola del mio monologo senza senso, ogni tanto sbirciando accanto a me lo trovavo intento a consultare un file o qualcosa sul suo modernissimo tablet o a inviare qualche mesaggio con il cellulare o fissare dritto davanti a sè come se io non esistessi. Ci rimasi male anche se cercai di non darlo a vedere. Il perché restassi ancora lì a farmi umiliare, era un mistero. Ah, il masochismo femminile! Com'era prevedibile, insoddisfatta dell'imbarazzante situazione in cui mi ero cacciata, decisi di dare il colpo finale e perciò me ne uscii con una delle mie sparate.

<< Sai – iniziai titubante – credo... che questo scontrarci ripetutamente, ecco... non sia una cosa del tutto casuale >> eccetto questa volta, certo, ma lui non poteva saperlo. Mi voltai per vedere una sua reazione che non arrivò. Okay, stavo per dirlo, ero davvero pronta a farmi etichettare come matta dopo avergli dimostrato di non avere un briciolo di amor proprio? Sì, ero pronta a tutto. Proseguii: << Forse, chi lo sa... c'è dietro lo zampino del destino... non credi anche tu? >>

<< Dovresti smetterla di dire idiozie >> la sua voce mi colpì come una frustata arrestandomi sul posto.

<< Cosa? >> mormorai in un sussurro. Lui mi superò incurante di me, del mondo, di tutto. Te l'avevo detto! Risuonò la solita vocina indesiderata. Mentre si allontanava sul marciapiede con la sua camminata aggraziata, la rabbia mi montò dentro con la stessa forza distruttrice di un tornado pronto a spazzare via ogni cosa sul suo cammino. Scattai come una molla, lo raggiunsi e mi parai davanti bloccandogli il passaggio.

<< Cosa? >> ripetei incrociando le braccia al petto infuriata. Sotto le morbide ciglia scure vidi i suoi occhi squadrarmi da capo a piedi, quando finalmente incontrò i miei occhi, il mio equilibrio mentale già precario, per un istante cedette, mi ripresi subito.

<< Allora? >> chiesi col mento all'infuori.

<< Spostati >> mi intimò freddo con la sua solita aria impassibile, tanto meglio perché anche io ora come ora mi sentivo immune al freddo della sua voce e al caldo del mezzogiorno.

<< Con quel caratteraccio che ti ritrovi non devi avere poi tanti amici >> lo schernii con una smorfia. Inclinò il capo da un lato, evidentemente chiedendosi dove volevo arrivare, senza accettare il mio guanto di sfida; mi riservò però, una sguardo, strano, obbliquo. Fece un passo di lato ed io con lui. Non era lui a dettare le regole del gioco. Lo osservai risoluta a non mollare apprezzando nel contempo il suo abbigliamento. Era la prima volta che lo vedevo vestito a quel modo. Era casual ma estremamente elegante: jeans scuri su sneakers tirate a lucido, la camicia inamidata sbottonata sul colletto era di un bianco immacolato, pregai che nell'impatto non gli avessi lasciato delle impronte con le mani sudaticcie, e priva di pieghe, a parte quelle sulle braccia che gli avevo procurato io, la giacca posava dimentica sulla tracolla. Immaginai fosse la sua tenuta da lavoro. Non riuscii a trovare parole adatte a descriverlo se non che fosse perfetto. Tornai a concentrami su di lui.

<< Diventerò tua amica >> gli comunicai senza tanti giri di parole e non mi importava se mi ritenesse pazza. Mi piaceva essere chiara con la gente, e lui non faceva differenza. Se mi aspettavo da parte sua totale indifferenza, il semplice fatto che si adoperasse per darmi una risposta mi lasciò stupita. Piantò gli occhi nei miei e più che sorridermi mi riservò un ghigno.

<< Io e te non saremo mai amici >> pronunciò senza emozione se non l'assoluta fondatezza di quanto detto. Io, dal canto mio, sentii la rabbia pian piano scemare, mentre avvertivo un sorriso farsi strada dallo stomaco verso le labbra. Serrai la stretta sulle braccia.

<< L'hai detto e adesso te la sei cercata >> lo avvertii mezza seria, mi restitui un'occhiata impassibile, ma mi sentii generosa, gli dovevo almeno una spiegazione.

<< Non hai mai sentito il detto mai dire mai? >> gli chiesi senza fare nulla per celare il sorriso che mi era spuntato e non accennava ad andarsene.

<< Nel caso in cui non lo sapessi – continuai – ogni qual volta qualcuno dice che una certa cosa non succederà mai, quella qual cosa finisce matematicamente col realizzarsi >> conclusi trionfante. Ero consapevole che la mia teoria fosse del tutto infondata ma io ci credevo e per prendere in prestito le parole della mia amica Maia, avvertivo nell'aria vibrazioni positive. Lo guardai, non sembrava affatto colpito, ed io capii che era venuto il momento di andare. Mi spostai di lato liberando il passaggio, accennai un passo. Fissai un punto imprecisato davanti a me. Oramai avevo preso la mia decisione e non mi sarei tirata indietro, quando fummo spalla a spalla parlai sistemandomi il berretto.

<< Che ti piaccia o no, io e te diventeremo amici Mr. Inverno >> e detto questo mi congendai senza voltarmi indietro.

Mr. Inverno! Ma come mi era saltato in mente?! Però... dovevo riconoscere che come nomignolo gli stava proprio bene!

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Capitolo 4
*** La maledizione del primo mese ***


La maledizione del primo mese

 

 

L'odore del caffè strisciò come un topo sotto la porta della camera e mi solleticò le narici costringendomi a svegliarmi. Aprii un occhio lottando per non cedere al sonno che mi reclamava, la sveglia sul comodino accanto al letto segnava le 08:10 a caratteri cubitali. Abbassai la palpebra e mi girai dall'altro lato pronta a ricadere fra le dolci braccia di Morfeo. Impiegai due secondi buoni per saltare giù dal letto e fiondarmi nell'armadio per recuperare i vestiti. Ero in ritardo. Fra venti minuti avrebbero aperto il negozio e io ero ancora in pigiama. Uscii dalla stanza puntando dritta al bagno. Angelica sbucò dalla cucina già vestita reggendo fra le mani un vassoio con due tazze di caffè e una di latte e biscotti per me.

<< Sei in ritardo >> mi canzonò dirigendosi in salotto.

<< Lo so >> sbuffai in preda al panico chiudendole la porta in faccia. Oggi era il compleanno del Signor Saverio e non mi andava proprio di sorbirmi un'altra ramanzina. Non quel giorno per lo meno. Accidenti al fusto! La colpa era solo sua se arrivavo in ritardo a lavoro. Dopo l'incontro avvenuto quella mattina ero preda di una continua euforia, sognavo ad occhi aperti e la notte faticavo ad addormentarmi, con il risultato che finivo col prendere sonno verso le prime luci del mattino. Ci era mancato poco che non saltellassi durante il tragitto di ritorno al negozio. Ero felice. Sonia se ne accorse non appena misi piede nel locale. A quanto pare la gioia del momento era contagiosa tanto che Sonia non mi sgridò per non averle portato il dolce che mi aveva chiesto anzi, immaginando il finale aveva provveduto lei a recarsi da Gianni e a comprare un vassoio di cornetti ripieni di cioccolato e a offrirli a noi del personale. E poi... sorridevo. Sempre. Ventiquattro ore su ventiquattro. Doveva essersi bruciato qualche neurone perché non riuscivo più a smettere. Era stata una semplice chiacchierata, di sicuro non una delle migliori, ma era comunque un passo avanti ed io fremevo dalla voglia di scoprire come sarebbe stata la volta successiva in cui ci saremmo visti. Se a ciò si aggiungeva che il fatidico giorno era arrivato e che la sorpresa era pronta, non stavo più nella pelle. Uscii dalla doccia alla stessa velocità con cui vi ero entrata. Mi vestii e andai a fare colazione tenendo mentalmente il tempo. In salotto Angelica e Maia se ne stavano sedute sorseggiando il caffè con lo sguardo incollato alla tv.

<< Qualcosa non va? >> chiesi prendendo posto, diedi uno sguardo alla tazza davanti a me e calcolai che mi sarebbero serviti dieci minuti per mandare giù tutto e lavare i denti.

<< Delle rapine >> commentò Maia allungando un braccio per prendere un biscotto.

Non mi stupii. I crimini erano all'ordine del giorno qui, come in qualsiasi altro punto del pianeta. La voce lagnosa della giornalista alla tv mi spinse a domandarmi chi fosse quel tale che le aveva permesso di torturare la povera gente assegnandole il notiziario del mattino. La ignorai. Finii di bere il latte rimasto nella tazza e scostai indietro la sedia, uno sparo risuonò nella stanza. Immediatamente seguii la direzione di quel suono. Proveniva dalla televisione. Il servizio in onda mostrava le immagini di una rapina in un supermercato della zona. Era una scena surreale, i tre rapinatori col volto coperto dal passamontagna, impugnavano le pistole intimando i clienti presenti a non compiere alcun gesto avventato nel frattempo che uno di loro incitava la povera cassiera a riempire una busta col denaro contante sotto la minaccia di una pistola. Lo sparo di poco prima era stato un avvertimento verso il direttore che si era spinto a proteggere la ragazza. Il filmato terminava con i ladri in fuga ma non prima che uno di questi facesse l'occhiolino alla telecamera di sorveglianza sollevando in una mano una busta della spesa. La giornalista affermava che la banda in questione avevo compiuto quattro rapine nel giro di una settimana in zona. Dove abitavamo. Proseguiva inoltre dicendo che la polizia era sulle loro tracce e che vi erano indizi che conducevano su una buona pista. Raccomandava infine la massima cautela e di non andare in giro con troppi contanti in tasca ma solo il minimo necessario. Detto questo ci fu un cambio d'argomento e venne lanciato un servizio sull'amministrazione comunale. Tutte e tre restammo in silenzio, perse ognuna nei propri pensieri.

<< Assurdo hanno derubato quasi tutti i negozi della zona >> disse Maia scuotendo il capo alzandosi. Prese la sua tazza e le nostre e le dispose sul vassoio assieme al contenitore dei biscotti.

<< A dire la verità mi dispiace molto per la commessa. Non oso immaginare il terrore che deve aver provato con un'arma puntata alla testa >> Angelica tracciava sul tavolo disegni immaginari persa nella sua riflessione. Già, neanch'io non osavo immaginare la paura provata da quella ragazza in quella circostanza, e pensare che potevo essere io al suo posto. Ingoiai a vuoto.

<< Speriamo che riescano ad acciuffargli e a sbatterli in galera >> sospirò.

<< E che una volta dentro gettino via la chiave >> aggiunse Maia pienamente d'accordo. Io mi ritrovai ad annuire preoccupata.

<< Nel frattempo auguriamoci che non facciano un salto dalle tue parti >> disse Maia quasi leggendomi nel pensiero, la guardai, sorreggeva il vassoio con una mano mentre con l'altra avvicinava la sedia al tavolo.

<< Insomma non so chi fra voi se la vedrebbe peggio, se tu minacciata a morte o loro con una carriera giunta al termine >> sdrammatizzò con un'alzata di spalle sorpassandomi per dirigersi in cucina.

Angelica la fulminò con lo sguardo prima di rivolgersi a me: << Non darle retta per favore >> si alzò e mi posò una mano sulla spalla << Solo, fa attenzione okay? >> si raccomandò scrutandomi bene in viso.

<< Okay >> concessi con un sorriso, non potevo lasciarmi spaventare dall'idea che il nostro negozio potesse essere il prossimo della loro lista. C'era il compleanno del signor Saverio da organizzare e non era quello l'umore da tenere quel giorno. Mi alzai a sedere e mi diressi alle scale. Scendendo rivolsi una preghiera. Se davvero avevano intenzione di farci visita, bè... pregai che non scegliessero proprio quel giorno, in fondo si trattava di un festivo. Anche i furfanti disponevano di un codice che gli obbligava a rispettare le festività, non era così?

 

 

                                                                                                                            ********************

 

Quando arrivai in negozio vidi una Sonia trafelata correre nella mia direzione.

<< Sonia tutto bene? >> le chiesi fermandola per un braccio, sollevò lo sguardo dalla borsa nella quale stava trafficando e mi guardò in faccia.

<< Oh ciao, tesoro. E' tutto a posto, solo che sono proprio di fretta in questo momento >> rispose poggiandomi una mano sull'avambraccio e spostandomi di lato. Non mi mossi. Aggrottai la fronte << Sei sicura? >>.

<< Sicurissima >> accennò un sorriso. Non le credetti, sospirò pesantemente. << Stamattina hanno chiamato Saverio. Ci sono stati dei problemi con alcuni carichi e adesso è costretto a partire per capire cosa è successo >> si rimise di nuovo a frugare nella borsa scuotendo il capo irritata.

<< Odio andare di corsa >>. La guardai interrogativa << Vuoi dire che andrai via anche tu? >> sarebbe stato un vero colpo di fortuna non averla in giro per il negozio.

<< Certo, non me la sento di lasciarlo solo e poi conoscendolo con quel caratteraccio che si ritrova potremmo dire addio a questi nuovi fornitori >> annuii la signora Alice mi aveva accennato qualcosa.

<< E a che ora pensate di tornare? >> mi informai con noncuranza. Mi rispose continuando con la sua “pesca miracolosa”: << Credo verso l'ora di pranzo, salvo imprevisti >> smise di parlare e il volto le si illuminò di trionfo. Tirò fuori il braccio con le chiavi dell'auto nella mano << Nel caso tardassimo vi telefono >>

<< D'accordo >>

<< Bene, io vado, ciao Ariel >> mi salutò uscendo in strada. Non compì neanche dieci passi che la vidi tornare indietro. Parlò con il corpo in parte all'interno del negozio e in parte all'esterno.

<< Mi raccomando non combinare casini >> mi avvertì con quel tono materno con cui era solita rivolgersi a me. Ci pensò su, poi si corresse << O meglio combinali ma non troppo >> annuii imbarazzata, ce l'avrei messa tutta per fare la brava. Quando sparì sul serio dalla mia visuale, Susanna e Alice si avvicinarono trepidanti. Dalle loro espressioni era evidente che morivano dalla voglia di mettersi all'opera.

<< Allora notizie di Sofia? >> domandò Susanna reggendosi la schiena con la mano, la pancia enorme occupava gran parte del cerchio che si era venuto a creare.

<< Ancora non l'ho sentita, ma devo avvisarla sugli ultimi avvenimenti >> risposi io estraendo il cellulare dalla tracolla.

<< Noi nel frattempo cosa facciamo? >> i capelli della signora Alice erano elettrizzati almeno quanto lei, se ne stavano ritti in testa come se avesse infilato il dito in una presa e ci fosse rimasto un'ora intera.

<< Per ora nulla. Prima dobbiamo sapere se la faccenda dei fornitori si protrarrà per le lunghe e solo allora potremo entrare in azione >> spiegai spostandomi un ciuffo di capelli dalla fronte. Annuirono entrambe e tornarono ai loro posti. Chiamai Sofia.

 

 

                                                                                                                                     *****************

 

Nel corso della mattinata, dopo aver avvertito Sofia degli ultimi cambiamenti, ricevetti la telefonata di Sonia che dispiaciuta mi comunicava che sarebbero rientrati verso sera, più precisamente per l'orario di chiusura. La rassicurai che non vi era nessun problema e che avremmo chiuso noi il negozio e di fare le cose con calma. Era una fortuna che fossero impegnati per tutto quel tempo, perché dalle nostre parti le cose andavano storte. Il piano iniziale consisteva nel preparare un piccolo rinfresco in negozio con l'aiuto di tutti noi, Sofia sarebbe stata la ciliegina sulla torta, sarebbe venuta alla festicciola e avrebbe completato la sorpresa con la sua presenza, ormai non più certa per i genitori. Peccato che durante il cammino eravamo incappati in parecchi intoppi come l'arrivo di Sofia ad esempio. Avevamo deciso che dall'America sarebbe partita almeno due giorni prima, avrebbe sostato a Roma per un giorno e poi sarebbe venuta a Menphis; purtroppo per noi i voli erano pieni e Sofia era stata obbligata a partire ieri rispetto a quanto pattuito ed ero alquanto preoccupata, era tutta mattina che non la sentivo e come se non bastasse i rustici che Susanna aveva preparato quel giorno se gli era mangiati tutti il marito con i due bambini perciò toccò recarmi al forno e comprarne un vassoio intero assieme alla pizza. Lo so può sembrare che ci ho fatto l'abitudine a uscire durante l'orario di lavoro, ma oggi si trattava di una vera emergenza! Chiudemmo al pubblico prima del solito, ci serviva tempo per trasportare la scrivania dall'ufficio in sala, sistemare tutte le cibarie e chiudere la cassa. Un colpo lieve alla saracinesca mi fece sussultare. E se fossero già tornati? No, non potevano, Sofia non era ancora arrivata! Il signor Daniele si avvicinò e sbirciò fra le grate, lo vidi sgranare gli occhi e affaccendarsi per sollevare la saracinesca e lasciare entrare il nuovo arrivato. Una testa ramata spuntò all'interno del locale e scomparve tra le braccia del sig. Daniele che le sussurrò qualcosa all'orecchio poi fu il turno di Antonio e delle mie colleghe. Poggiai le bibite che avevo preso dal magazzino sul tavolo, e aspettai che l'ospite della serata mi si fermasse davanti.

Semplice.

Fu il primo pensiero non appena la vidi. E non mi riferivo all'abbigliamento, non saprei spiegarlo ma in lei c'era qualcosa che al primo impatto suggeriva una semplicità unica. Mi ritrovai a stringerle la mano, a caccia di somiglianze con Sonia o con il sig. Saverio. Era carina, gli occhi verdi risaltavano su quel viso da porcellana e i capelli di un biondo ramato portati alla maschiaccio le davano un'aria energica.

<< Tu devi essere Ariel >> ricambiò la stretta e solo in quel momento notai quanto fosse minuta, addirittura più bassa di me << Finalmente, è un piacere conoscerti di persona >> sorrise sia con la bocca che con gli occhi, ricordava molto il modo in cui lo faceva sua madre.

<< Il piacere è mio >> sorrisi a mia volta << spero tanto di non averti fatto spendere una fortuna con tutte quelle chiamate al cellulare >> era stata sempre lei a telefonarmi e se ero io a farlo di solito usavo il telefono dell'ufficio dato che le chiamate verso numeri fissi costavano un botto.

<< Se per te va bene appena incasserò l'assegno dello stipendio ti rimborserò per il disturbo >>.

<< Non dirlo neanche per scherzo >> arretrò la testa con una smorfia per dire “ma che sei matta!” << Non è stato affatto un disturbo, anzi >> scrollò le spalle serena. Quella ragazza mi era simpatica.

<< Allora – disse sfregandosi le mani – come posso aiutarvi? >> si guardò intorno in cerca di qualche mansione da svolgere. Mi chiesi se sarebbe riuscita a spostare la scrivania con quei trampoli che si ritrovava ai piedi, io mi sarei slogata la caviglia con un solo passo, figuriamoci trasportare un peso del genere.

<< Come vedi abbiamo già predisposto tutto nell'attesa che arrivino. Se ti va puoi dare un'occhiata al buffet >> suggerii.

<< Credo che lo farò >> mi sorrise, l'espressione famelica con cui puntò la torta di compleanno e i dolcetti mi fece intuire che ne andava ghiotta, chi non avrebbe potuto capirla. Persino io facevo una certa fatica a stare lì accanto senza nemmeno intingere un dito nella panna della torta. Pregai che arrivassero presto. Dopo quella che mi parve un'eternità sentimmo da fuori lo sportello di auto sbattere furiosamente e una voce burbera imprecare contro tutti i santi del paradiso. Okay il sig. Saverio era arrivato. Feci segno ad Alice di spegnere tutte le luci mentre nel silenzio totale io e Sofia con l'accendino accendemmo tutte e cinquantadue le candeline. Ci disponemmo dietro al tavolo con Sofia nascosta alle nostre spalle come stabilito, la luce aranciata delle candele gettava strane ombre sul pavimento frattanto che i passi del sig. Saverio si avvicinavano e la voce della moglie lo seguiva consigliandogli di calmarsi.

<< Cosa? >> domandò senza rivolgersi veramente a qualcuno quando si trovò davanti al negozio buio e alla saracinesca mezza abbassata << Hanno chiuso a quest'ora? Ma come gli è saltato in mente >> sbraitò, l'ombra alla porta proiettava gesti spezzati.

<< E per di più si scordano anche di chiudere tutto >> lo sgomento e la rabbia nella sua voce andavano a braccetto.

<< Augurati che non sia stato chi penso io >> minacciò la moglie. Mi sfuggì un grugnito, compresi che si riferiva a me. Sperai che la sorpresa riuscisse a distoglierlo dalle sue minacce.

<< Forse sono dei ladri >> la voce di Sonia mi suonò un tantino allarmata. Il marito non l'ascoltò << Dovresti chiamare la polizia prima di entrare >> lo implorò. Oddio! Già me la immaginavo la notizia su tutti i rotocalchi: Commessa licenziata per aver organizzato festa di compleanno a sorpresa al supermercato dopo l'arrivo degli agenti di polizia. Il proprietario dichiara: Credevo fossero dei ladri! No, no, no sig. Saverio non le dia ascolto!

<< Hanno scelto il giorno sbagliato allora – bravo il mio capo, così si fa – perché non sono in vena >> si abbassò sulle ginocchia e con una agilità improvvisa sollevò la serranda ed entrò, nello stesso istante intonammo la solita canzoncina che si canta in queste occasioni. Il sig. Saverio si avvicinò come una falena attirata dalla luce. Lo sconcerto sul suo volto era visibile. Non si aspettava una cosa del genere. Sonia dietro di lui giungeva le mani come in preghiera commossa mentre il suo sguardo si posava su ognuno di noi. Vidi il mio capo ingoiare un paio di volte ma senza ottenere nulla. Dopo l'applauso Susanna si allontanò dal gruppo per accendere le luci. Applaudimmo e lo incitammo ad esprimere un desiderio e a spegnere le candeline. Tentennò un po' ma poi con un unico soffio spazzò via le piccole fiammelle tremolanti. Si rialzò impacciato tentando inutilmente di mantenere un atteggiamento serio e distaccato.

<< Gra... grazie a tutti >> l'espressione corrucciata era in netto contrasto con l'emozione che cercò di camuffare con un colpo di tosse.

<< Siete stati stupendi ragazzi >> si congratulò Sonia poggiando una mano sulla spalla del marito e guardandolo con l'aria di chi la sapeva lunga.

<< Ma le sorprese non sono finite qui >> mi intromisi aggirando la scrivania e avvicinandomi a loro.

<< Cosa significa? >> mi domandò Sonia incuriosita.

<< Vedrai >> risposi vaga << Posso chiedere a entrambi di voltarvi e chiudere gli occhi? >>

<< Non ci... >> cominciò il sig. Saverio ma la moglie lo ammonì rincarando la stretta sulla spalla.

<< Certo Ariel >> obbedirono mentre il sig. Saverio borbottava a mezza voce.

<< Avanti Sig. Saverio non faccia così >> lo rimproverai bonariamente, mi girai andai a prendere Sofia che era rimasta nascosta e la posizionai alle spalle dei suoi genitori senza smettere di parlare.

<< Oggi è la sua festa ed abbiamo in serbo per lei un regalo che so per certo non rifiuterà >> lo vidi agitarsi sul posto. Sofia coprì gli occhi della madre e del padre con le mani. << Sapete dirmi di chi sono queste mani? >> Sonia ci impiegò un attimo per riconoscerle ma era troppo emozionata per riuscire a parlare.

<< No >> disse il mio capo ormai al limite della sopportazione incrociando le braccia sulla grossa pancia. Trattenni un risolino quando vidi Sofia alzare gli occhi al cielo.

<< E la mia voce la riconoscete o mi avete già dimenticata? >> a quel punto fu la stessa Sofia a porgli la domanda. Non fu necessaria la risposta.

<< Sofia >> urlò Sonia voltandosi ad abbracciarla. Madre e figlia si strinsero forte, la cosa sorprendente fu assistere al repentino cambiamento del mio capo, abbracciò le due donne e baciò la fronte della figlia. Era la prima volta che presenziavo ad una dimostrazione d'affetto da parte del sig. Saverio. Ero felice per lui. Per loro. Alla fine si erano riuniti. Per poco certo, Sofia sarebbe dovuta tornare al suo lavoro il giorno seguente, ma credo fosse importante per lei essere qui.

Al termine della serata eravamo rimasti in pochi. Susanna corse, letteralmente, a casa a preparare la cena per i figli e il marito, non senza incartare un pezzo di torta e portarselo dietro. I signori Antonio e Daniele erano stanchi e ritornarono dalle rispettive mogli ignare con piatti colmi di delizie. La sig. Alice chiacchierava amabilmente con l'intera famiglia intanto che io ammiravo sconsolata l'ultima fetta di torta ricoperta di panna che giaceva tutta sola sul tavolo. Era da mezz'ora che andavo avanti e indietro accanto al tavolo indecisa sul da farsi. Mangiare o non mangiare? Questo era il problema. Da un lato, andavo matta per i dolci e qualsiasi solido che avesse al suo interno una spruzzata di glucosio, dall'altro non mi sembrava educato servirmi l'ultimo pezzo, in fondo non era la mia festa. Dopo aver ponderato bene la mia decisione, stabilii che avevo mangiato abbastanza e che avrei abbandonato lì la torta in balia di chissà quale stomaco malgrado me la sarei sognata quella notte stessa. Dissi addio alla mia dolce amica e feci per allontanarmi ma urtai contro il sig. Saverio. La gravità della sua espressione mi impose a mandar giù un ghiotto di saliva. Merda. Era venuto a comunicarmi che mi avrebbe licenziata?

<< Mi scusi non volevo >> mi affrettai a dire, forse se me la fossi svignata in tempo senza dargli il tempo di annunciarmi una tale brutta notizia. Mi spostai di lato.

<< Ariel >> pronunciò il mio nome in tono severo. Addio al mio progetto di fuga. Mi rivolsi a lui.

<< Sì? >> squittii.

<< Volevo parlarti >> ecco, lo sapevo era la fine.

<< Ce...certo >> balbettai, non avrei dovuto pianificare il banchetto, la sorpresa ecc. Non erano affari miei e invece ero sull'orlo del licenziamento. Inquieta rovistai con lo sguardo la stanza in cerca di Sonia. La intercettai accanto alla sig. Alice, beveva coca-cola da un bicchiere di carta. Feci assegnamento che i miei occhi le trasmettessero il seguente messaggio: “S.O.S. Tuo marito ha intenzione di licenziarmi, solo tu puoi salvarmi!!” ma l'unica reazione che ottenni fu una strizzatina d'occhio. Okay probabilmente anche lei era d'accordo con il marito riguardo il mio congedo. Sospirai rassegnandomi all'inevitabile.

<< Mi dica. Sono pronta >> corrugò la fronte disorientato dalla mie parole, io lo ero alquanto lui dalla sua reazione.

<< E' stata mia moglie a mandarmi qui – ci fu una pausa in cui guardò in aria – per parlarti >> Ah. Bene. Non sapevo cosa dire.

<< Sofia mi ha riferito di come vi siete conosciute, della telefonata in ufficio >> seguì un'ulteriore pausa, stavolta più lunga della precedente. Oddio, mi avrebbe mandata via per questo? Mi morsi il labbro presa dal panico attendendo che proseguisse, gli occhi grigi nascosti dietro le spesse lenti mi fissavano senza tradire alcuna emozione.

<< Mi ha raccontato che sei stata tu a preoccuparti dei preparativi e del resto insieme agli altri, nel tempo che lei era lontana >> lo sgomento cresceva ad ogni minuto, non erano quelle le parole che credevo avrei sentito. Dovette accorgersene anche lui perché tutto a un tratto cessò di parlare e dinnanzi al mio stupore prese un piatto di plastica e si servì la fetta di torta a cui avevo rinunciato. Avrei preferito non essere a conoscenza della pancia nella quale sarebbe finita, ma a volte il destino giocava brutti scherzi.

<< E sempre tu hai insistito affinché lei volasse qui e fosse presente il giorno del mio compleanno >> okay, in quel momento mi rendevo conto anch'io che non era stata una buona idea parlare con la figlia del capo.

<< Senta sig. Saverio... >>

<< Cucchiaio o forchetta? >> mi interruppe. Ma che razza di domanda era? Lo osservai stralunata. Era una sorta di indovinello da cui dipendeva il mio lavoro? Poi guardai il piatto che teneva in mano, e mi diedi della sciocca, si stava riferendo al dolce.

<< Forchetta >> consigliai senza esitazione. Ne sollevò una dal mucchio e la poggiò nel piatto. Tornò a voltarsi ma tenendo lo sguardo fisso sul piatto.

<< Mia moglie mi ha mandato da te... >> ripeté goffo, sbuffò un paio di volte e si passò una mano sulla nuca a disagio mentre io faticavo parecchio a capire il perché di tanto imbarazzo. Era chiaro perfino a me che volesse congedarmi. Prese un respiro profondo e girò la testa in direzione di Sonia che gli fece un leggero cenno di incoraggiamento col capo. Sospirò e mi fissò << Ecco... insomma... era giusto ringraziarti >> buttò d'un fiato per poi aggiustare il tiro impacciato << Volevo ringraziarti >>. Rimasi interdetta. Il sig. Saverio non aveva nessuna intenzione di cacciarmi, era lì solo per ringraziarmi. Non ci potevo credere. Non era possibile che fosse la stessa persona che mi aveva sgridato nelle ultime tre settimane. Sarà stata la presenza di Sofia. Ecco un incentivo a non lasciarla partire. Lo shock iniziale fu sostituito dalla speranza che da ora in avanti i nostri rapporti sarebbero gradualmente migliorati.

Sorrisi a trentadue denti e anche di più: << Non deve. Mi ha fatto piacere vederla di nuovo sereno e se ci fosse occasione lo rifarei ancora >> confessai. Annuì con quello che aveva tutti gli aspetti di un sorriso timido.

<< Tieni, te la sei meritata >> disse porgendomi esitante il piatto che aveva preparato. Lo guardai emozionata. Sapevo che quel gesto racchiudeva qualcosa di più di un mero scambio di zuccheri. Era un'ascia che veniva sotterrata. L'accettazione di quella che ero compreso il bagaglio di pasticci che mi portavo dietro. Mi stava comunicando che si sarebbe sforzato per trattarmi meglio ed io gliene ero grata per questo.

<< Grazie >> mormorai commossa accettando “il dolce del nuovo inizio”. Non aggiunse altro e si avviò per tornare dalla sua famiglia. Lo chiamai a metà strada, lui si voltò di tre quarti.

<< Ancora Auguri! >>

Ci pensò su e << Grazie >> poi se ne andò. Wow, era il secondo grazie in una serata. Sentivo che tutta quella riconoscenza iniziava a darmi alla testa e in questo caso avevo urgente bisogno di zuccheri per aumentare la pressione. Presi una forchettata di torta al cioccolato e panna e la portai alla bocca. Un'esplosione di dolcezza mandò letteralmente in estasi le papille gustative, chiusi gli occhi mugolando dal piacere, in fondo la sorte quella sera non era stata tanto avversa.

 

 

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Presi una scatola di piselli surgelati a la strisciai davanti al lettore sbuffando di nascosto. Ero alla cassa da cinque minuti e già mi pentivo di aver fatto a cambio con la sig. Alice. Era faticoso per una donna della sua età restare tutto il giorno in quella postazione perennemente esposta alla luce del sole che penetrava da fuori e alle ondate di caldo torrido che sgusciavano in negozio ogni qual volta le porte automatiche si aprivano per far entrare o uscire un cliente perciò avevo deciso di prendere il suo posto e di affidare a lei il compito di prezzare i prodotti. Non lo avessi mai fatto.

<< Posso chiudere il conto? >> domandai interrompendo la fitta conversazione di due anziane signore cominciata dal reparto salumeria. Ne avevo fin sopra i capelli della loro vocetta stridula e dei loro argomenti macabri. Ma avevano visto che ore erano? Non sapevano che le storie dell'orrore vanno raccontate di notte? Una testa avvolta da uno scialle nero, su un vestito rigorosamente nero, accompagnato da un paio di scrupolosi collant neri corredato da sandali immancabilmente neri si voltò a guardarmi infastidita.

<< Sì sì >> feci come mi veniva chiesto lottando contro l'impulso di mettere la spesa nelle buste e lanciargliele fuori in strada. La seconda donna, identica all'altra per l'amore sviscerato per il nero attese paziente che ultimassi il conto anche per lei. Nel frattempo non persero occasione per ciarlare ancora un po'.

<< Se continuerà a far caldo in questa maniera credo che per un po' non andrò più al mercato, c'è troppo sole e con tutta quella gente si corre il pericolo di trovarsi a terra senza accorgersene >> esordì la prima con il viso a punta.

<< Non me lo dire con queste temperature sono sempre sudata e col venticello che tira la sera non mi sorprenderei se prendessi un colpo d'aria >>, ci credo, avrei voluto risponderle io, se vanno in giro vestite come mummie con quella calura, che cosa pretendevano? E poi è risaputo che il nero attira i raggi del sole. Mi morsi la lingua per non farmi scappare commenti non richiesti. Segnai alla cassa il codice di una sacca di limoni fingendo di non ascoltarle.

<< Hai sentito le voci che circolano in città? >> la interrogò l'altra decidendo di cambiare argomento e addentrandosi in un terreno fertile di pettegolezzi.

<< No perché? >>

<< Ma come è possibile che tu non sappia niente? >> domandò indignata dallo scarso interesse dell'amica.

<< Scusami se non sto tutto il giorno a interessarmi degli affari degli altri! >> sbottò offesa posando alcuni pelati di pomodoro sul nastro. Ben fatto! pensai. La dama di nero dal viso affilato incassò il colpo e finse di dimostrarsi generosa: << Meno male che ci sono io – concesse – ascolta, hai presente il figlio di Mariacetta? >>

<< Chi? Quello appena uscito di galera? >>

<< Stsss! >> l'ammonì volto appuntito indicandomi. Le rivolsi uno sguardo innocente. Okay ora ero davvero curiosa. Parlò a voce bassa. Raddrizzai le antenne.

<< Si dice – fece una pausa per guardarsi attorno – che abbia ricominciato a... >> si interruppe e con la mano fece un gesto alquanto eloquente, meglio conosciuto come “cinque meno quattro è uno”, un modo colto dalle nostre parti che sottintende rubare. Da qui è facile dedurre che colui che inventò tale detto era un vero appassionato della matematica. Di conseguenza i ladri sono dei matematici incompresi. Ah quanto è vero che la matematica è una disciplina applicabile in tutti i campi della vita!

<< Noooo >> la vecchina con gli occhiali si tappò la bocca incredula. Con la coda dell'occhio vidi l'altra annuire con espressione solenne.

<< Povera Mariacetta, ha pregato così tanto che il figlio cambiasse vita e adesso ha ripreso la cattiva strada >> disse occhialini scrollando la testa affranta. Anche se non conoscevo di persona questa Mariacetta aveva tutta la mia solidarietà.

<< E c'è di peggio! >>

<< Cosa? >> ci ritrovammo a chiedere io e occhialini all'unisono. Mi beccai l'occhiataccia di volto appuntito.

<< Mi scusi >> mormorai tornando a concentrarmi sul mio lavoro ma con un orecchio teso a captare altri stralci di conversazione. La donna continuò a discutere a voce ancora più bassa: << A quanto pare c'è chi afferma che Nicola sia uno dei membri della banda che di recente ha rapinato gli esercizi di mezzo quartiere >> io e la mia compagna di ascolto sgranammo gli occhi. Sentirla nominare riportò a galla la preoccupazione. E se fossimo stati noi il prossimo bersaglio?

<< Gesù, Giuseppe e Maria >> si fece il segno della croce l'altra. Già, lo avrei fatto volentieri anch'io in quel momento.

<< Perciò stai attenta. Pure quando vieni a fare la spesa qui. Non si sa mai >> si raccomandò volto appuntito.

<< Sono €18,50 >> le interruppi infilando la roba nelle buste. La signora ancora un po' sconcertata si affrettò a tirar fuori il portafoglio e ad estrarre i soldi richiesti. Le diedi il resto della banconota da venti assieme allo scontrino sotto l'occhiata altezzosa dell'altra. Quella donna avrebbe potuto benissimo lavorare per una rivista scandalistica con il naso e la lingua che si ritrovava. Occhialetti prese le buste e si avviò.

<< Arrivederci e buona giornata >> le augurai

<< Grazie cara, mi raccomando fa attenzione >> mi consigliò.

Annuii. Con un cenno del capo mi salutò e andò via. Quando fui rimasta sola cacciai l'aria dai polmoni. Avvertivo addosso una sensazione inquietante che mi fece accapponare la pelle.

<< Se ne sono andate? >> domandò la sig. Alice venendomi incontro.

<< Sì >> inspirai dal naso, scacciando quella brutta sensazione dalla testa.

Mi studiò attentamente << Il duo novembre ha colpito ancora >> sghignazzò.

<< Il duo novembre? >>

Sorrise: << Le due tizie che erano qui un momento fa >>

<< Lo avevo capito ma perché... >>

<< A parte gli abiti scuri in un periodo come questo, il perché mi sembra ovvio no? >> ripensando i discorsi avvenuti poco prima, dovevo confessare che non erano proprio l'allegria in persona. Tra malattie, morti e sciagure di altro tipo non dovevano trascorrere un'esistenza all'insegna della pazza gioia.

<< E' un soprannome che le ha affibbiato Susanna qualche tempo fa >> ora capivo l'origine del nome così fantasioso. Una cliente entrò con un bambino nella carrozzina e l'aria torrida di inizio settembre fece il suo ingresso.

<< Santo Cielo >> mormorai confidando che le mie amiche avessero calato giù tutte le tapparelle per rendere un po' più fresca la casa visto che eravamo sprovvisti di aria condizionata.

<< Non darle retta >> disse a un certo punto la sig. Alice rompendo il silenzio che era venuto a crearsi.

<< A quelle due piace spargere addosso alle persone tutta l'angoscia che si portano dentro >> non so perché ma mi sentii confortare dalle sue parole, l'assillo di poc'anzi era scomparso.

<< Grazie >> le dissi riconoscente.

<< Di niente >> e con la mano sembrò scacciare una mosca nell'aria.

<< Fossi in te, la prossima volta che si ripresentano toccherei ferro >> suggerì ed entrambe scoppiammo a ridere.

 

 

                                                                                                                                    *******************

 

Di solito verso metà mattina quando non ero alla cassa o impegnata in altre faccende mi concedevo una breve pausa per sgranocchiare qualcosina. Ero seduta sulla sedia girevole della cassa chiusa mentre aprivo il pacchetto di cracker che mi ero portata da casa, attenta a non farli cadere in una cascata di briciole salate, quando la voce tonante del sig. Saverio gridò il mio nome. Mi raddrizzai all'istante.

<< Ariel! >>

<< Sono qui sig. Saverio >> sventolai la mano per indicargli dove mi trovavo. Chissà perché mi cercava. Di solito quando mi chiamava c'era solo una spiegazione: doveva farmi una lavata di capo. Rapidamente ripescai dalla mente qualche episodio di quella giornata degno di nota. Non me ne venne in mente nessuno. Forse vi era la possibilità che volesse me per scambiare quattro chiacchiere da persone civili, visto che negli ultimi due giorni pareva diverso. Sì, doveva essere così, mi convinsi. Sospirai e mi preparai a riceverlo. Con ampie falcate raggirò l'espositore delle caramelle e si posizionò di fronte a me. Era più sereno del solito, il chè spiegava come mai il cielo si fosse rannuvolato all'improvviso, la cravatta quel giorno era di un bel verde senape e non gli andava poi così stretta, gli occhiali spessi quanto una bottiglia giacevano inermi sul pancione del sig. Saverio appesi ad una cordicella; con una mano, poggiato a terra, reggeva un enorme sacco nero. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, un cipiglio dubbioso si fece largo sulla fronte spaziosa.

<< Stai mangiando >> esordì, dal tono non sembrò affatto un rimprovero ma neanche una domanda, più che altro una presa di coscienza.

<< In realtà stavo per iniziare >> ammisi rimettendo i cracker in tasca.

<< Ah >> disse preso alla sprovvista << ...bene non importa allora >> aggiunse colto da una strana fretta. Si avviò.

<< Aspetti sig. Saverio >> lo richiamai correndogli dietro << mi dica pure in cosa posso aiutarla >> lo esortai. Si fermò incerto. Mi guardò per un paio di secondi e poi sbuffò: << Dovresti gettare questo sacco nella spazzatura e consegnare la spesa alla sig. Orazio del palazzo qui vicino >>

<< Certo >> sapevo dove viveva la signora in questione, a un centinaio di metri da qui, a furia di recapitarle la roba avrei potuto fare tutto il tragitto bendata. Il sig. Saverio alternò lo sguardo da me al sacco e poi sospirò profondamente.

<< Lascia stare, me ne occuperò io dopo >> proseguì come se non avessi aperto bocca << Torna pure alla tua pausa >> mi invitò con un cenno sbrigativo della mano sfuggendo al contatto visivo. Era a disagio. Non potevo biasimarlo. Da quando Sofia era partita la sera precedente, le cose erano cambiate tanto che nemmeno io sapevo come gestirle. Il sig. Saverio si era come rabbonito, e le poche volte in cui ci rivolgevamo la parola si sforzava di apparire un po' più tollerante nei miei confronti, forse perché la figlia gli aveva fatto una lavata d'orecchi prima di partire o forse perché in qualche maniera avevo contribuito al ritorno di Sofia. Chi lo sa? Fatto sta, che temevo che il nuovo sig. Saverio potesse dissolversi da un momento all'altro e quello cattivo riprendersi il posto.

<< Dia qua >> senza chiedergli il permesso gli tolsi il sacco dalle mani e me lo misi in spalla.

<< Ma cosa?... >>

<< Dov'è la spesa della sig. Orazi0? >> domandai sorridendo per la faccia sbigottita che mi riservò.

<< Lì nell'angolo >> indicò il cantone accanto al banco surgelati. Afferrai le due buste in una mano mentre nell'altra reggevo il sacco dal contenuto sconosciuto.

<< Allora io vado, rientro presto >>

<< Guarda che non ce n'è bisogno >> tentò di convincermi imbarazzato.

<< Non si preoccupi è il mio lavoro >> lo tranquillizzai con un sorriso. Mirò altrove come se avesse parlato una mosca.

<< Bene >> ripeté indossando di nuovo il cipiglio scontroso a cui ero abituata.

<< Sta attenta! >> ordinò voltandosi per dirigersi in ufficio. Lo osservai darmi le spalle. Sì, era il Saverio burbero il mio preferito!

 

Stare fuori all'aria aperta si rivelò un'esperienza traumatica. Ero ancora sulla soglia del negozio quando l'afa di quella rovente giornata di fine estate si appiccicò sulla pelle come una sanguisuga. Tolsi dalla tasca dei jeans l'elastico per capelli che mi portavo sempre dietro e li legai in una coda alta osservando i coraggiosi passanti con il viso corrucciato dal sole. Così andava meglio anche se la coda sfregando sulla schiena generava un calore indesiderato. Non ci badai e mi incamminai per la mia strada rimpiangendo la frescura del negozio. A pochi metri dall'entrata posteriore, notai con la coda dell'occhio un furgone di quelli grandi che scarica il pane, sostare in doppia fila accanto al marciapiede. A bordo seduto dalla parte del guidatore un uomo sulla quarantina leggeva avidamente il giornale spiegato sul volante, non gli prestai molta attenzione, fu il ragazzo al posto del passeggero a suscitare il mio interesse. Dimostrava la mia età, forse qualche annetto in più. Se ne stava stravaccato sul sedile con l'aria di chi sa di poter ottenere tutto dal mondo, tra le labbra una cannuccia da cui sorseggiava thé ghiacciato, i piedi poggiati sul cruscotto e dettaglio da non tralasciare: non aveva smesso un solo istante di adocchiarmi. Che aveva tanto da fissare? Distolsi lo sguardo concentrandomi sul calore tremolante che si innalzava dall'asfalto, era impossibile trovare riparo dal sole che inondava la via, un rettangolino d'ombra lì era come un'oasi nel deserto: un miraggio. Man mano che procedevo diedi una sbirciatina facendo attenzione a non farmi scoprire. Capelli scuri, occhi grigi, abbronzatura. No, non lo conoscevo, mai visto in vita mia. E allora perché insisteva a quel modo? Che avessi qualcosa fuori posto? Tipo la striscia di bava secca all'angolo della bocca con la quale mi svegliavo ogni mattino o addirittura peggio una caccola al naso? Serviva uno specchio. Lo scorsi allontanare la cannuccia dalla bocca continuando a seguirmi con gli occhi. Accidenti se ne avevo bisogno. Costretta a sfilargli accanto assunsi una postura rigida e affrettai il passo evitando di incrociare i suoi occhi. Peccato che non sfuggì l'occhiolino e il sorriso malizioso che mi serbò quando fui a portata di braccio. Finsi di non vederlo e di non sentirmi la schiena in fiamme, stavolta non per il sole, e proseguii dritto. Arrivai ai bidoni della spazzatura in fondo al viale in una pozza di sudore, chiedendomi vagamente cosa ci facesse a quell'ora il furgone del pane visto che solitamente arrivava in negozio al mattino presto. Mi sbarazzai del sacco nero e mi diressi all'ultima meta del mio viaggio, consapevole di ognuna delle singole gocce di sudore che dalla nuca scivolavano giù lungo la schiena inzuppandomi la maglietta. Non sopportavo il sudore o l'idea di sudare in generale. Ero tentata di fare marcia indietro e buttare la testa sotto l'acqua della fontanella che avevo superato poc'anzi, ma il dovere chiamava; il pensiero che al mio rientro a casa ci fosse una doccia fresca ad attendermi era la sola cosa che mi persuase a non mollare. Giunta al portone a specchio del palazzo in cui viveva la sig. Orazio, non ci fu bisogno di citofonarla in quanto si fece trovare lì ad aspettare il mio arrivo. Le consegnai la spesa mostrandole lo scontrino, incassai il denaro e me ne andai. Libera da ogni peso il cammino di ritorno fu più veloce di quello all'andata, ormai vicina al negozio preferii entrare dalla porta sul retro. Notai il furgone. Era ancora parcheggiato lì. Che strano. Girai la maniglia e mi voltai un attimo per guardare all'interno del veicolo. Del ragazzo non vi era traccia, forse con quelle temperature era sceso a fare rifornimento di bevande ghiacciate per lui e il suo compagno. L'uomo era al volante, il giornale era sparito, quando si accorse che lo osservavo mi restituì uno sguardo obliquo che mi impose di staccargli gli occhi di dosso. Nell'istante in cui spalancai l'uscio una sagoma mi investì scaraventandomi a terra con la forza di un carro armato. Accidenti che botta! Mi doleva il sedere (di nuovo), il gomito mi pulsava ed ero super sicura che una pietra appuntita mi avesse appena bucato la spalla. Feci per mettermi seduta ma una figura imponente si intrufolò nel mio campo visivo. Lo riconobbi. Era il ragazzo con la cannuccia. Si accovacciò al mio fianco e mi scrutò con i suoi occhi d'argento liquido.

<< Stai bene? >> si interessò, una ruga a solcargli la fronte. Stando seduto non mi ero accorta di quanto larghe fossero le sue spalle né degli appariscenti bicipiti che minacciavano di strappare la maglietta ad ogni minimo movimento.

<< Credo di sì >> risposi frastornata anche se immaginavo che l'indomani sarei stata piena di lividi. Mi rivolse un sorriso sghembo dai denti bianchissimi: << Mi dispiace, non eri prevista nei piani >> il tono caldo e basso della sua voce fu sovrastato dal ruggito di un motore sotto sforzo. Entrambi guardammo il punto da cui proveniva il trambusto. L'uomo nel furgone ci fulminò e gridò all'amico di sbrigarsi. Come mai tanta fretta? Occhi grigi tornò a parlarmi: << Sta più attenta la prossima volta dolcezza >> mi sussurrò a pochi centimetri. Vedendo che non rispondevo sorrise divertito. Ma perché tutti mi dicevano di stare attenta? Riuscii solo a pensare in quel momento. Il ragazzo con uno slancio tornò in posizione eretta raccolse una busta arrotolata di cui non avevo fatto caso. Si era allontanato di un passo quando l'occhio mi cadde sulla lattina d'estathè che giaceva accanto alla mia gamba. Come sospettavo era sceso per comprarsene un altro. Lo richiamai: << Ehi tu? >> al suono della mia voce ruotò il busto per guardarmi. Inarcò un sopracciglio interrogativo. << Il tuo thè >> glielo indicai con il capo. Sulle prime credetti che avrebbe girato i tacchi e sarebbe salito sul furgone infischiandosene della bibita, in fondo poteva trattarsi di un tizio schizzinoso, a cui non piaceva la roba abbandonata per terra soprattutto se poi doveva entrarci a contatto con determinate parti del corpo; ma poi celermente avanzò verso di me, si chinò a raccogliere la lattina di thè .

<< Sbrigati cazzo sta arrivando la polizia >> urlò l'amico sporgendosi dal finestrino. La polizia? Stavo per chiedergli a cosa si riferisse, quando un lampo saettò negli occhi grigi del ragazzo facendolo scattare. Scappò via non prima di avermi elargito un'ulteriore strizzatina d'occhio. Montò a bordo e sfrecciarono lontano sgommando. Mi rialzai sgomenta dell'accaduto. Un'inquietudine crescente si abbarbicò allo stomaco stringendolo in una morsa. Mi avvicinai all'entrata. Perché aveva nominato la polizia? Mi affacciai dalla porta spalancata e la stretta aumentò nell'attimo in cui incrociai i loro sguardi. I volti ammutoliti dei miei colleghi e della gente mi scrutavano senza battere ciglio. Avevo la sensazione che il tempo fosse sospeso e bastasse uno schiocco di dita per rimetterlo in moto. Quando i miei occhi incontrarono la sig. Alice, non vi furono dubbi. Il duo novembre aveva colpito ancora!

 

 

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<< Hai visto cosa è successo l'altro giorno? >> chiese volto appuntito a occhialetti.

<< Sì ho seguito il telegiornale >> rispose l'altra agitata. Forse chissà si aspettava che da un minuto all'altro entrassero in scena due uomini vestiti da banditi.

<< Te l'avevo detto io che questo sarebbe stato il prossimo >> indicò l'intero locale chiaramente compiaciuta di aver azzeccato le previsioni dell'ultima volta. Bè se mi avessero avvisato che le predizioni di questa anziana donna avevano le stesse probabilità di avverarsi quanto quelle di trovare i pacchi da duecentocinquantamila euro ad Affari tuoi forse l'avrei presa più seriamente.

<< Hai sentito quanto c'era in cassa? >> domandò retorica << Cinquecento euro >> scosse il capo incredula.

<< Mi meraviglia che Sonia non si sia organizzata meglio, doveva prevedere la possibilità che venissero anche da queste parti >> certo, pensai sistemando le tavolette di cioccolata nell'espositore con troppa foga, perché ora Sonia è un'indovina. Secondo il loro parere i furti venivano stabiliti a tavolino fra ladri e commercianti. Già me la immaginavo una conversazione tra il sig. Saverio e il ladruncolo di turno.

L: ”Facciamo per venerdì mattina prima di pranzo?”

S: “Sì forse è meglio, ci sono più clienti e il bottino sarebbe più sostanzioso”

L: “Hai ragione”

S: “Anche se venerdì siamo impegnati”

L: “Oh, allora che ne dici di sabato? Sempre se per te non è un problema ovvio”

S: “E' perfetto così avremo tutto il tempo di prepararci per il vostro arrivo. Tu si che sei un ladro di altri tempi”.

Sbuffai furibonda, era facile parlare quando si era dall'altro lato del bancone. Come poteva Sonia pronosticare un evento del genere? Forse... io avrei potuto fiutare qualcosa. Poggiai alcuni pacchetti di chewin-gum con più forza del necessario che finirono col rovinare per terra. Mi chinai a raccoglierli. Per mia sfortuna uno era finito accanto ai sandali immancabilmente neri del duo novembre. Mi avvicinai a testa bassa. Le due signore smisero di discutere all'istante, non ci voleva un mago per intuire quale sarebbe stato il prossimo argomento del loro chiacchiericcio. Mi allontanai di un passo e le vidi darsi di gomito come due tredicenni.

<< Ma era proprio lei? Quella Ariel? >> questa volta fu occhialetti a rivolgere la domanda. La compagna entusiasta dall'improvviso interesse dell'amica fu più che lieta di risponderle: << Proprio lei >> era fastidioso il pensiero che l'intera città conoscesse il mio nome, la mia faccia per non parlare degli imbarazzanti nomignoli affibbiatimi dai notiziari locali. Li immaginavo diversi i miei quindici minuti di celebrità, avrei preferito essere riconosciuta per strada, non so, per aver aiutato un bambino ad attraversare un incrocio pericoloso o per aver salvato un gattino da un ramo troppo alto, peccato che di questi tempi e dalle mie parti fosse difficile, se non raro, incontrare un micio indifeso appollaiato su un albero e questo non sapevo se dipendesse dal fatto che i gatti italiani fossero refrattari a salire su piante tanto alte o che in realtà i felini non amino affatto arrampicarsi come scimmie e che tutte quelle storie naufragate sino a noi da oltreoceano di gatti e bei pompieri pronti a trarli in salvo muniti di scaletta fossero frutto della mente di casalinghe borghesi frustrate. Avrei apprezzato una Ariel eroina ad una Ariel sospettata di essere complice dei due tizi del furgone. Grazie al cielo i nastri delle telecamere a circuito chiuso dimostravano distintamente la mia estraneità ai fatti (non ero presente al momento del furto) anche se purtroppo il mio breve colloquio con il ladro/ragazzo con la cannuccia non era sfuggito alla polizia che successivamente mi interrogò. Inutile sottolineare la presenza di mia madre che fece valere la sua autorità di avvocato impedendomi di rispondere alle domande degli agenti se non in sua presenza. Fu incredibile vederla presentarsi all'interno dell'ufficio del sig. Saverio sicura e impeccabile come sempre e prendere le mie difese quasi fossi una criminale. Era la mia prima esperienza a diretto contatto con le forze dell'ordine e devo concedere che i carabinieri non sono come gli stereotipi delle barzellette, ritardati e con un mancato senso dell'umorismo anzi inquadrando mia madre il poliziotto che mi aveva interrogata mi trasmise con uno sguardo tutta la sua comprensione, poveraccio evidentemente anche lui aveva alle spalle una mamma del tipo. Il colloquio fu semplice: io parlavo lui prendeva appunti su un taccuino anche se erano del tutto futili in quanto le telecamere esterne della banca accanto avevano ripreso tutto, l'interrogatorio era solo una prassi ed una maniera per ricavare ulteriori informazioni dato che io avevo avuto un confronto faccia a faccia con l'uomo; stranamente quando parlai di lui una parte di me si augurò che non si trattasse di Nicola il figlio di Mariacetta la donna di cui discutevano quella mattina le donne in nero. Accertata la mia innocenza, supponevo di aver risolto ogni problema in verità ne sono sorti alcuni più grossi. Questo ad esempio.

<< E' strano >> mormorò volto appuntito avanzando nella fila appoggiandosi con un fianco al carrello.

<< Cosa? >> volle sapere l'altra spingendo in sù la montatura degli occhiali.

<< Che non l'abbiano ancora licenziata. Insomma cosa aspettano a cacciarla via? >> spiegò indicandomi col dito nodoso. Okay se non volevo rovinarmi la giornata, anche se prevedevo che l'avrei rovinata eccome, dovevo smetterla di ascoltare i loro vaneggiamenti perciò mi concentrai sul mio lavoro. Destino volle che capitassi nello scaffale accanto alla cassa dove mi era impossibile fuggire alle chiacchiere delle due vecchie signore che continuavano a discutere di me quasi fossi la moglie dell'uomo invisibile. Spruzzai lo sgrassatore sul ripiano e con uno straccio iniziai a pulire gli aloni di sporcizia che si erano creati con il sotto delle bottiglie di liquore. Un impresa ardua la mia dato che da ogni strofinata dipendeva la sorte delle centinaia di bottiglie colorate che avevo davanti. Canticchiai a bocca chiusa per segnalare la mia presenza, anche se in alcuni casi mi venivano fuori suoni strozzati come se avessi un pezzo di scotch sulle labbra. Quando neanche i versi da cane rabbioso servirono a metterle sull'attenti ero arrivata a due conclusioni: erano sorde come campane oppure lo facevano apposta. Propendevo per la seconda ipotesi. Sospirai, non avevo altra scelta se non stare lì e ascoltare le cattiverie gratuite sul mio conto. Da quello che ero riuscita a recepire non si erano poi discostate tanto dall'argomento principale: il mio licenziamento.

<< Non sono d'accordo con te – stava dicendo occhialetti trascinando curva il carrello alle sue spalle – perché mai dovrebbero? >>

<< Semplice rappresenta un problema >> mi irrigidii visibilmente al ché volto appuntito sogghignò. Godeva a parlar male di me senza che io potessi difendermi. La voglia assassina di sgrassargli la faccia mi ottenebrò la mente. Chissà se rientrava tra i servizi da dispensare ai clienti? Fatto sta che io ero pronta ad elargire il servizio gratuitamente.

<< Che vuoi dire? >> chiese ingenuamente occhialetti. Cominciai a ricredermi sul suo conto. Non era cattiva come credevo semmai era succube dell'altra. Quest'ultima scoppiò in una risata breve e gracchiante: << Che la sua presenza qui non è un bene per l'immagine del negozio >> chiusi gli occhi di scatto, quella donna mi aveva appena schiaffeggiato senza muovere un dito.

<< Guardati attorno il locale è deserto. Dopo le immagini trasmesse alla tv e alle voci che circolano è normalissimo che non venga più nessuno >> affermò convinta, avvertivo il suo sguardo perforarmi la schiena, era palese che si stesse rivolgendo alla sottoscritta. Bè avrei voluto gridarle che non c'era bisogno che me lo rammentasse che lo vedevo con i miei occhi che a causa mia attorno al negozio girava una brutta pubblicità ma non potevo. Mi morsi il labbro fra i denti incitando Susanna ad accelerare i tempi mentre io sfregavo con forza pur di cancellare gli aloni e i pettegolezzi. Dopo quella che mi parve un'eternità le due donne sparirono dal negozio ed io mollai la presa sul labbro. Riposi nel bagno il panno e lo sgrassatore, mi sciacquai le mani nel lavandino cercando coraggio nell'immagine riflessa allo specchio. Non vi era scelta. Avevo riflettuto a lungo nei giorni precedenti e presentare le mie dimissioni sembrava l'unica idea sensata che mi era venuta in mente. Ponderare i pro e i contro sul momento fu preoccupante, in quanto i contro vincevano su tutta la linea ma mi convinsi che lo facevo per il bene di tutti. Non potevo immaginare che la faccenda della rapina avrebbe riscosso tanto interesse mediatico. La notizia occupava le prime pagine dei quotidiani locali, non vi era caffetteria, giornalaio, barbiere in cui non fosse reperibile un giornale che riportasse per intero la vicenda ma la cosa più assurda è che a capeggiare trafiletti su trafiletti di questa storia vi era sempre l'immagine di me e il ragazzo della cannuccia insieme. Molte testate mirarono come obiettivo al lato tenero delle persone architettando la roccambolesca storia d'amore dalla trama scadente con noi due come protagonisti. Il culmine però arrivò un martedì con il notiziario delle 13:00. La giornalista trattenendo le risate lanciò l'ennesimo servizio sulla rapina con l'aggiunta, a suo parere “esclusiva”, delle registrazioni del fatidico giorno. All'inizio mi sembrava uno di quei film in bianco e nero degli anni '50, i commessi spaventati, i malviventi con le pistole finte ma quando l'inquadratura si spostò su di me mi stupii di non sentire un motivetto da circo equestre in sottofondo. Maia indicava il televisore quasi ci fosse Michelle Pfeiffer sullo schermo. Fui vicina alla morte per soffocamento quando vidi me stessa a gambe all'aria sull'asfalto e l'espressione tesa del ragazzo/ladro con la cannuccia mentre si abbassava per sincerarsi delle mie condizioni intanto che il cronista faceva strani commenti sulla natura del nostro rapporto e sulla mia comica caduta. Al termine del servizio la giornalista in studio era in preda ad un eccesso di risa camuffate da acuti attacchi di tosse. Sospettavo che anche il mio compagno di sventure si stesse sbellicando da qualche parte. I colpi di tosse furono nulla in confronto ai numerosi servizi su noi due. Certo ammettevo che vedendo quelle immagini era facile cadere in errore ma non mi sarei mai aspettata la follia che ne susseguì. In un paese romantico per eccellenza come il nostro dove sole, cuore e amore facevano da cornice alle più improbabili storie d'amore, nacquero su alcuni social-network, fanpage dedicate a me e al ladro gentiluomo, gruppi su facebook, delle fan-fiction tanto che alla fine non mi sarei sorpresa di ricevere la proposta di girare un film incentrato sulla nostra “non-storia”. Allora si che il ragazzo/ladro con la cannuccia avrebbe attaccato il passamontagna al chiodo e si sarebbe goduto la bella vita! Peccato che questa celebrità indesiderata aveva soprattutto risvolti negativi come le voci che mi vedevano come una possibile complice che aveva finito col gettare fango sulla serietà del negozio o l'essere diventata lo zimbello della città. Se qualcuno mi incontrava per strada finiva sempre col dire: ma tu sei la commessa della tv! O peggio: deve essere dura per lei stargli lontano non è vero? Non rispondevo mai a queste domande perché prima ancora che me le ponessero io ero bella e schizzata per la mia via. Un conto però era la fama del mio amore impossibile con il ragazzo con la cannuccia un altro era che le maldicenze su di me pesassero sugli affari del negozio. Bussai alla porta ed entrai senza attendere nessun invito, dietro la scrivania dalle fattezze di un banco di scuola, Sonia se ne stava ricurva su un documento di fianco al marito seduto con la fronte aggrottata. Appena mi videro alzarono il capo contemporaneamente. L'espressione di Sonia era impensierita e qualcosa mi suggerì che avesse a che fare con i conti che non quadravano. Indugiai a mezzo metro dalla sedia.

<< Scusate se vi disturbo ma dovevo parlarvi >> annunciai, l'urgenza nella mia voce non passò inosservata a Sonia che mi rivolse un'occhiata preoccupata.

Si raddrizzò: << Certo Ariel, accomodati >> mi fece segno di sedermi sulla stessa sedia sulla quale un mese addietro affrontavo il colloquio tutta accaldata e gocciolante, un'ondata di amarezza mi investì al pensiero che anche quella volta non ero riuscita a tenermi stretto il posto per più di un mese.

<< Forse è meglio di no >> confessai torcendomi le mani a disagio. Sperai che non se la prendesse a male ma in quel momento necessitavo di spazio.

<< D'accordo – disse lei confusa dal mio comportamento – cosa volevi dirci? >> chiese poggiando delicatamente una mano sulla spalla del sig. Saverio, il quale, contrariamente al solito accantonò il foglio che stava visionando e mi prestò totale attenzione. Guardai entrambi sforzandomi di restare calma e impassibile.

<< So che non è corretto da parte mia comunicarvelo solo ora senza avervi dato neanche il giusto preavviso ma... >> le parole mi tremarono sulla lingua quando al limite del mio campo visivo una mano rafforzò la stretta, mi ripresi subito.

<< ... ho riflettuto a lungo in questi ultimi giorni e... >> arrancavo in cerca d'aria, me l'ero immaginata diversamente questa scena ma a quanto pare...

<< ...ho deciso di licenziarmi >> buttai d'un fiato, Sonia inspirò di scatto, il sig. Saverio si tolse gli occhiali e congiunse le mani meditabondo.

<< E' la cosa migliore per tutti >> aggiunsi accennando a un sorriso, solo che ne uscì la brutta copia. Come previsto Sonia non la prese bene. Aggirò la scrivania e in un baleno bruciò i centimetri che ci distanziavano.

<< Cara, non puoi fare sul serio >> le mie mani tra le sue << ormai sei parte di questa grande famiglia non puoi andartene >> mi si formò un nodo in gola, era questo il motivo per cui avevo bisogno di spazio, le emozioni mi travolgevano e oscillavo tra i ripensamenti ed io non ero lì per tornare indietro.

<< Non posso più restare qui, non se voglio evitarvi la bancarotta >> Sonia scosse la testa in disappunto.

<< Non sai cosa stai dicendo, chi ti ha messo queste strane idee in testa? >> era convinta che mi stessi sbagliando, per un istante mi sembrò di discutere con mia madre.

<< Nessuno >> risposi fissandola in quegli occhi da cerbiatto che mi avevano colpito sin dalla prima volta << ...ma non serve il bilancio della settimana per capire che se gli affari continuano di questo passo sarete costretti a mandare tutti a casa >> sussultò. Avevo ragione i miei sospetti erano fondati. Sonia non si arrese.

<< Non è affar tuo la gestione del negozio, non addossarti responsabilità non tue >> era proprio questo il punto, anche se indirettamente il destino dei miei colleghi, di Sonia, del sig. Saverio dipendeva da me, semplicemente non potevo comportarmi da egoista. Se licenziarmi significava di nuovo clienti in negozio, allora lo avrei fatto. Si voltò senza lasciarmi andare per chiedere aiuto al marito.

<< Diglielo anche tu Saverio >>. Il povero sig. Saverio non disse nulla, il suo sguardo sconsolato valeva più di mille parole.

<< Ho preso la mia decisione Sonia >> dissi per salvarlo dall'imbarazzo, Sonia tornò a osservarmi. Era visibile il tormento che l'affliggeva: il desiderio di tenermi con sé e la voce della ragione che le suggeriva che andarmene era la scelta giusta. Sospirò, le braccia le ricaddero lungo i fianchi inerti. Mi avvicinai e l'abbracciai.

<< Non preoccuparti – le mormorai roca, la gola mi doleva – verrò a trovarvi spesso >> era la verità. Sentii la divisa inumidirsi all'altezza della spalla.

<< Ci mancherai >> sussurrò Sonia con voce strozzata, guardai il soffitto mordendomi la guancia, la diga che avevo dentro minacciava di cedere e di allagare l'intera stanza da un momento all'altro. La strinsi un'ultima volta e mi scostai per guardarla in volto.

<< Anche voi mi mancherete >> ammisi sorridendole, guardai oltre la sua spalla e incrociai lo sguardo del sig. Saverio, sembrava combattuto, serrava le labbra in silenzio. Avevo imparato a conoscerlo e anche se non era mai stato un tipo di molte parole sapevo che dietro quella facciata burbera e dura si nascondeva un uomo pieno di sentimenti, perciò supposi che la mia assenza gli avrebbe procurato se non tristezza se non altro un po' di nostalgia. Gli rivolsi un cenno del capo che aveva tutta l'aria di un inchino.

<< Allora... - mi schiarii la voce - finisco il turno e saluto tutti >> non era una domanda, Sonia non mi ascoltò, si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Mi accinsi ad uscire quando il sig. Saverio mi chiamò: << Ariel? >>

<< Si? >> mi voltai, gli occhiali erano tornati al loro posto. Si schiarì la gola: << E' stato un piacere lavorare con te >> annuii, l'emozione si attorcigliò come un serpente alla bocca dello stomaco. Ero felice. In quel posto non lasciavo solo cocci di vetro o l'eco dei rimproveri del sig. Saverio, no. In quella stanza, per quei corridoi, dietro quella cassa ci sarebbe sempre stato un pezzetto di me. Chiusi la porta alle mie spalle e tirai un sospiro. Avrei dovuto ricominciare daccapo. L'alba di un nuovo inizio si stendeva all'orizzonte. Chissà cosa mi avrebbe riservato stavolta il futuro.

 

 

                                                                                                                        ****************

 

Era trascorsa una settimana dal giorno in cui avevo rassegnato le mie dimissioni. Ero ufficialmente disoccupata, (ah per la cronaca sospetto, anzi ne sono certa che qualcuno deve avermi scagliato contro una maledizione perché anche stavolta sono stata licenziata dopo un mese esatto), sette giorni passati in una sorta di silenzio stampa. Non mi smuovevo dal letto se non per starmene sul divano e non mettevo naso fuori dall'appartamento se non per salire in terrazza a stendere il bucato. Era il massimo che potessi fare. Maia e Angelica erano preoccupate per me anche se non lo davano a vedere. Dalla sera in cui ero rientrata con gli occhi lucidi e una vaschetta di gelato con i nostri gusti preferiti fra le braccia, mi erano rimaste accanto. A loro avviso ero ammalata. Influenzata per la precisione. La mia di malattia portava solo il nome. Niente che prevedesse la dura lotta dei miei anticorpi contro un virus malvagio. Il malessere che provavo intaccava sfere che neanche i grandi luminari nel campo della scienza erano in grado di guarire: lo spirito.

Ero spenta. Per citare Maia ero il carnevale di Rio ma senza carnevale: una palla. Non potevo darle torto. Le giornate si rincorrevano uguali fra loro. La mattina mi svegliavo per fare un salto in bagno, tornavo a dormire fino all'ora di pranzo, pranzavo, mi rimettevo a letto, guardavo un po' di tv sul divano in salotto, cenavo e tornavo a dormire. Ah dimenticavo... non rispondevo alle chiamate di mia madre. Non me la sentivo di affrontarla. Non ero ancora pronta a reggere le sue prediche, su quanto fosse poco adatto a me quel lavoro, che era un'idea insensata andare a vivere da sola, la mia cocciutaggine a non accettare gli incarichi che mi offriva... Non volevo sentirmi una bambina, perché, siamo sinceri, è così che mi vedeva mia madre. Una bambina a cui piaceva giocare a fare l'adulta e che aveva finito con lo sbagliare tutto. La verità è che non ero più sicura delle mia scelta, sapevo che andarmene fosse la cosa più giusta da fare in quel momento ma di tanto in tanto mi sorgeva il dubbio di aver commesso un terribile errore, di essere stata troppo impulsiva. Non riuscivo ad ammetterlo con me stessa ma forse più che un atto di altruismo il mio è stato un atto di pura vigliaccheria. Se solo fossi stata più coraggiosa, se solo non avessi dato importanza ai pettegolezzi. No, mi zittì la vocina nella mia testa, la tua è stata una decisione matura, eri consapevole che la tua presenza lì gravasse sull'immagine del negozio! Sbuffai esasperata. Per fortuna avevo le mie amiche a tirarmi su il morale. Mentre vivevo in una specie di status zombiano, Angelica e Maia non mi lasciarono sola un istante nel vero senso della parola. Ogni pretesto era buono per rimanere in casa e coinvolgermi in qualche folle attività: dalla maratona di episodi di Dawson Creek alla ceretta alle gambe simultanea (io strappavo le strisce a Maia, Maia le strappava ad Angelica che a sua volta le strappava a me) ai trattamenti terapeutici di Maia per rimettere a posto il mio chakra che a suo dire schizzava fuori dal mio corpo come pus da un brufolo. Mi limiterò a informarvi che oltre alle dolorose cure fisiche ed estetiche che mi strappavano alla mia miserevole autocommiserazione, il resto fu del tutto inutile al ché se ne dovettero accorgere anche loro. Mi sentivo tremendamente in colpa. In qualche modo le avevo costrette a seguire una vita da recluse, Angelica non vedeva Andrea da giorni e Maia si era data malata per starmi accanto. Se poi a questo si aggiungevano le imboscate di mia mamma a cui entrambe erano sottoposte per evitarmi di incontrarla ero in debito con loro per l'eternità.

Mi sistemai comoda sul divano piegando le gambe sotto di me e abbracciando il cuscino con i ricami all'uncinetto. Era pomeriggio inoltrato, tutte tre ce ne stavamo a guardare la tv in salotto. O meglio io fissavo lo schermo del televisore mentre Angelica e Maia osservavano me di sottecchi. Mandavano in onda un episodio de La vita secondo Jim. Mi ero persa buona parte delle battute finali ma preferivo di gran lunga vedere Jim farsi strada in mezzo a quella catena di equivoci piuttosto che pensare alle loro occhiate poco nascoste. Fu sufficiente ascoltare il silenzio assordante dei loro respiri per intuire la postura rigida con cui sedevano tese attorno al tavolo. Okay mi sarei concessa il tempo dei titoli di coda per prepararmi al loro assalto. Quando l'ultimo nome dell'infinito elenco di persone della troupe televisiva scomparve sul quadro nero, ci voltammo in sincrono. Non le diedi nemmeno il tempo di spiccicare le labbra che già ero in piedi all'altro capo della stanza dicendo: << Vado un attimo in bagno >> e me ne corsi con la coda tra le gambe. E va bene non ero ancora preparata. Rimasi appoggiata con la schiena alla porta del bagno per un tempo che ritenni sufficiente, feci scorrere l'acqua del rubinetto e preso un profondo respiro, uscii. Dal soggiorno risuonò il gingol del telegiornale delle 18:00 così mi affrettai (a proposito era una settimana che avevamo smesso di sentire i notiziari locali), quando fui a portata d'orecchio e di occhi, per poco la mascella non mi cascò sul pavimento a mattonelle stile anni '50. Mi ci volle un secondo per riconoscere le immagini alla televisione. Era una rapina. La rapina avvenuta nel mio negozio e poi c'ero io. Non.Ci.Posso.Credere.

Non era stato già abbastanza umiliante sbattere la mia faccia su tutte le tv locali, ora finivo anche su una rete nazionale? Era sconcertante e avvilente allo stesso tempo che addirittura il nonno di Heidi in montagna conoscesse la mia imbarazzante storia. Quanto sarebbe durato tutto questo? Quanto avrei dovuto ancora aspettare per tornare alla mia vita senza preoccuparmi di mostrarmi in pubblico? Angelica bisbigliò a Maia di spegnere immediatamente prima che io rientrassi. Temevano che la cosa potesse turbarmi. Ero davvero fortunata ad avere amiche come loro, pensai. Non volevo farle preoccupare, glielo dovevo, perciò presi un profondo respiro, mi ricomposi ed andai a sedermi al mio posto fingendo di ignorare quanto appena successo nella stanza. Spostai lo sguardo da loro alla televisione e viceversa in attesa di una spiegazione. Chissà se mi avrebbero detto la verità?

<< Non c'era niente di interessante >> si affrettò a spiegare Maia.

<< Oh, d'accordo >>

<< ...davvero niente di importante >> aggiunse lei sempre più nervosa.

<< Capito >> risposi io annuendo. Povera Maia, mantenere i segreti non era mai stato il suo forte.

<< ...nulla che ti riguardasse, - continuò incapace di tenere a freno la lingua – insomma... non sei comparsa sul serio su uno dei più importanti canali dell'intero paese... Ah! >> gridò all'improvviso Maia quando Angelica le mollò uno schiaffo sul braccio. La guardò furente massaggiandosi la parte lesa << Ma che ti è saltato in mente? Sei impazzita? >>

<< Avevi una zanzara che si stava abbeverando del tuo sangue, dovresti ringraziarmi >> ribatté Angelica per niente dispiaciuta.

<< E per quale motivo? >>

<< Per averti salvato da una nottataccia all'insegna del prurito, mi sembra chiaro >>

<< Ma... >> iniziò a protestare Maia, Angelica non le prestò ascolto, si concentrò su di me: << Quello che stava cercando dire prima Maia è che potremmo approfittare di questa occasione per fare quattro chiacchiere noi tre sole che ne dici? >> era arrivato il momento non mi era più permesso scappare.

<< Sì >> intervenì Maia ancora imbronciata << ...così per passare un po' il tempo, ti va? >>

<< Va bene, parliamo >> sospirai. Per un attimo mi sembrò di vederle esultare. Angelica si sporse sul tavolo e mi guardò seria con le mani intrecciate, per un breve attimo mi sembrò di ritrovarmi davanti alla commissione agli esami di maturità.

<< Non mi perderò in inutili giri di parole >> annunciò << perciò sarò schietta: hai intenzione di continuare a vivere in questo modo? >> ammiravo la franchezza di Angelica, non era il genere di persona a cui piace girare intorno alle cose, arrivava dritta al punto nel bene e nel male.

<< No >> risposi decisa << ho solo bisogno che passi un po' di tempo, che la gente dimentichi >>

<< E quanto credi che ci vorrà? Due settimane? Tre mesi? Un anno? >> la punta di sarcasmo che lessi nella sua voce mi infastidì, sapeva benissimo che in una città come la nostra dove tutti si conoscono, i pettegolezzi rimanevano sulla bocca di tutti fino a quando un fatto ancora più sconvolgente non prendeva il posto di quello precedente.

<< Non lo so >> confessai controvoglia << Per adesso il mio obiettivo è starmene qui buona buona in attesa che si calmino le acque senza creare ulteriori casini. Non mi sembra di agire in maniera sbagliata >>

Sbuffò: << E' questo il punto >> i suoi occhi verdi fiammeggiarono << Non fai nulla. Non sei più tu >> le parole colme di rabbia trattenuta aleggiarono per la stanza indisturbate depositandosi nel mio cervello.

<< Cosa vuoi che faccia allora? >> domandai esasperata. Lei si avvicinò sedendosi accanto a me sul divano. Mi portai le braccia al petto soffermandomi di sfuggita sul suo aspetto. C'era qualcosa di selvaggio in lei, lo avvertivo dal modo in cui mi stava guardando in quel momento, con le sopracciglia leggermente ravvicinate e gli occhi pieni di determinazione, o forse erano i ricci che le incorniciavano il viso abbronzato a darle quell'aria indocile.

<< Sii te stessa! >> esclamò come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Inarcai un sopracciglio scettica.

<< Avanti schioda da questo divano, rimboccati le maniche, usciamo! Che ne è stato della casinista rompipalle della mia amica? >>

<< Angelica! >> la rimbrottò Maia venendo verso di noi e cadendo a peso morto sulla poltrona di fronte.

<< Okay – alzò gli occhi al cielo - volevo dire: casinista rompiscatole della mia amica, contenta? >>

<< In realtà mi riferivo alla mia, forse intendevi dire: che ne è stato della casinista rompipalle della nostra amica? >> la corresse Maia con espressione canzonatoria.

<< Sì sì come vuoi tu >> la tolse di mezzo con un gesto della mano per poi voltarsi di nuovo verso di me

<< Detesto quando fa la maestrina >> mi confidò nonostante Maia fosse a pochi centimetri da noi intenta a studiarsi le unghie replicò: << E' quello per cui mi sto laureando cara >>

<< Tornando a noi – fece ignorandola – Ariel so come ti senti, davvero, e mi dispiace. Questa “cosa” >> e mimò le virgolette << ... è stata ingigantita dai media, dalla gente. Ma tu sai che sono tutte menzogne, tu hai la coscienza pulita amica mia >> accennai a parlare ma mi bloccò, devo concederglielo ce la stava mettendo tutta per convincermi.

<< Hai paura che le persone possano riconoscerti e del loro giudizio e allora, cosa te ne importa? Quanti politici combinano delle vere e proprie schifezze eppure camminano per strada a testa alta? Invece tu che sei stata vittima delle circostanze ti punisci per colpe non tue! >> sentivo le lacrime pungermi gli occhi, adoravo la ragazza che avevo di fronte. Sapeva sempre come prendermi nonostante per tutto quel tempo mi fossi comportata come una bambina di due anni.

<< E sai una cosa? Con questa grande epopea che si è creata attorno a te e quel ladro con la cannuccia, che fra l'altro non è niente male, ma ricordati qui lo dico e qui lo nego, hai fatto guadagnare un bel po' di soldi a quei trafficanti dell'informazione >> sorrisi con la vista annebbiata.

<< Anzi dovrebbero essere loro a pagare te >> mi sforzai di non ridere ma lei continuò << Puoi considerarla come la tua buona azione della giornata >> scherzò ed io non riuscii a frenare le risate che mi nacquero dalla pancia. Anche Maia rideva e per la prima volta in quella settimana mi sentii libera di un peso.

Angelica mi abbracciò << Quanto mi è mancata la tua risata >> sorrise fra i miei capelli. << Anche a me >> mi scostai, per un attimo parve essere tornato tutto come prima, quando la sua espressione guardinga mi suggerì che non aveva ancora concluso.

<< Bene adesso che abbiamo appurato questo punto. Ce n'è un altro che vorrei affrontare con te >> inconsciamente mi irrigidii, mi girai in direzione di Maia, l'espressione innocente che le si dipinse sul volto mi confermò che stavamo per affrontare un discorso per niente piacevole.

<< Ah si? >> domandai con voce stridula.

<< Certo >> annuì con un sorriso felino, Dio mi metteva i brividi, sembrava il gatto che giocava con il topo, e non tutti i topi erano furbi come Jerry.

Proseguì: << Maia ed io – e qui si scoccarono un'occhiata a vicenda - non abbiamo creduto, nemmeno per un secondo, che il motivo per cui soffrissi fosse solo ed esclusivamente il lavoro... >> oh, oh! Voltai di scatto la testa quando fu Maia a parlare, era come se quelle due avessero provato già in precedenza quella conversazione. L'istinto mi disse che ero in trappola.

<< ...perciò: c'è qualcosa che vorresti confessarci? Lo sai che noi siamo le tue amiche del cuore... > il tono mieloso con cui pronunciò ogni sillaba mi fece venire il diabete.

<< Cosa state insinuando voi due? >> distesi le gambe e incrociai le braccia al petto indispettita.

<< Che ti piace qualcuno, magari un... fusto? >> domandò retorica Angelica con un vago sorriso sornione. Avvampai di botto. Sgranai gli occhi per lo shock: << E tu come fai a saperlo? >>

<< Monologhi notturni tesoro >>

<< S-stai dicendo che parlo nel sonno? >> balbettai sempre più sconvolta. Giuro che non avrei retto una risposta affermativa.

<< Mmm mmm >> assentì lei sorridendo apertamente di fronte alla mia espressione sbigottita, dovevo essere uno spasso.

<< Impossibile io non ho mai parlato nel sonno, neanche da piccola, devi aver sentito male >> era una spiegazione plausibile, insomma lo avrei saputo se di notte mi mettevo a far discorsi senza senso col rischio di essere ascoltata da mia madre e mio padre, no?

<< Ci sento benissimo ed è qui che sbagli, – disse puntandomi un dito al petto - tu hai sempre chiacchierato nel sonno, persino i tuoi ne erano a conoscenza! >> esclamò sicura con gli occhi che le brillavano divertiti. Mi rifiutavo categoricamente di credere a una simile idiozia, era come accettare di aver sbandierato i miei segreti per anni senza il mio permesso, almeno conscio intendo.

<< Ammesso e non concesso che abbia parlato nel sonno – le sfidai – avete appena detto che parlavo di un fusto, non è così? E cosa ci sarà mai di strano? Vi faccio presente che alcune sere fa a Superquark hanno trasmesso un documentario sulle sequoia in America perciò è palese che il mio inconscio deve aver elaborato tutte le informazioni per poi memorizzarle mentre dormivo >> le spiegai il mio punto di vista. Le due si scambiarono un'occhiata e iniziarono a ridere come matte. Immaginai le loro urla riecheggiare lungo la tromba delle scale e il sig. Giovanni chiamare la Neuro.

<< Non c'è niente da ridere >> le rimproverai stizzita ma quelle due si sbellicavano dalle risate ancora di più.

<< A-Ariel – singhiozzò Angelica in preda alle lacrime – tu... tu mi farai morire >>

<< Altro che alberi...e... e fotosintesi clorofilliana >> le andò appresso Maia stropicciandosi la faccia ormai orizzontale sulla poltrona.

<< Siete insopportabili ve lo garantisco >> mormorai mentre loro ci davano dentro con un altro attacco di ridarella. Aspettai furente che si calmassero. Avevo bisogno che fossero serie per indagare sulla faccenda. Una volta che Angelica si ricompose e Maia tornò in posizione verticale le domandai: << Visto che non mi credete allora sentiamo, che cosa avrei blaterato? >> apparentemente la mia voce era decisa ma dentro di me il cuore batteva all'impazzata. Angelica poggiò i gomiti sulle ginocchia e mi squadrò serena, non vi era più traccia della follia di poco fa.

<< Niente di piccante! >> mi rassicurò come se fossi il tipo da pensare a certe cose << Emettevi perlopiù suoni inarticolati, ma ripetevi di frequente: lo sconosciuto, il fusto ed eri fissata con certi occhi di ghiaccio, davvero ne eri ossessionata e poi farneticavi di acquerelli e pan di stelle >> raccontò alquanto dubbiosa mentre la mia salivazione aveva raggiunto i livelli critici. Altro che discorsi nel sonno questi erano dei veri comizi! Argh! Non aveva alcun senso continuare a nasconderlo. All'inizio me l'ero tenuto per me perché volevo aspettare di instaurare un po' di confidenza con lui ma poi con la storia del licenziamento mi era parso inutile metterle al corrente del ragazzo del negozio dato che non vi era la possibilità di rivederlo a meno che non mi accampassi notte e giorno davanti al supermercato. Senza rendermene conto le avevo servito su un piatto d'argento i miei pensieri più intimi che mi avevano tormentato per tutto quel tempo.

<< Anche se io non ho ben capito se il fusto e lo sconosciuto siano la stessa persona >> commentò Maia grattandosi la testa confusa. Sospirai rassegnata: << Sì, ma è una lunga storia >> annunciai.

Sorrise entusiasta: << Siamo tutte orecchi! >>

Scrollai il capo divertita, mettendo ordine ai pensieri. Da dove cominciare? Nel momento in cui la storia spingeva sulla punta della lingua per essere narrata, il campanello suonò ed io ringraziai chiunque fosse di avermi salvato in corner, augurandomi che non fosse mia madre.

 

 

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