How Can it Be?

di FairLady
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** So good to be near you, so dark when you walk from my side ***
Capitolo 2: *** Life is what you make it, You must shake it to make it right ***
Capitolo 3: *** Love is never easy, only in some poetry. But I'm not Oscar Wilde. ***
Capitolo 4: *** Creating what we can't reverse Nothing will ever be the same again ***
Capitolo 5: *** But it's just the end of one more lonely dream Just the end of one more lonely night ***
Capitolo 6: *** I cheated and lied, I know that you loved me but my hands they were tied ***
Capitolo 7: *** You might lose your dignity But it's not what it used to be ***
Capitolo 8: *** We cry, we learn We think about the things we’re crying for ***
Capitolo 9: *** It's a constant fight to get through each day and night, It's a war between the present and the past ***
Capitolo 10: *** A reason to fall to your knees and die? What is love? ***
Capitolo 11: *** It wastn’t a question before I knew It’s just an answer here by my side I found it out just in time. It’s you ***
Capitolo 12: *** You’re not the one I need You’re just the one that I want Makes perfect sense to me ***
Capitolo 13: *** Take me back Before we all explode, Before we turn to stone, Before the light is gone ***
Capitolo 14: *** I have so many, so many flaws. If you take me, if you take me, they’re yours ***
Capitolo 15: *** We can stay here if you hold still We can stay here for life if you say you will We’ll be caught in a moment of time If we all freeze… ***
Capitolo 16: *** Climb upstairs for a mile Jumping into your smile It's a lovely way To die today ***
Capitolo 17: *** Maybe today I've lost you ***
Capitolo 18: *** If I could take your blows, If I could get pass go, If I could find a way of fixing the things that I broke Then I would, if I could And I might understand now I ended outta mind ***
Capitolo 19: *** Maybe I should try to live alone or raise the flag of mercy to unknow, Maybe I should run and hide away untile another day ***
Capitolo 20: *** Here we come now on a dark star, seeing demons, not what we are. Tiny minds and eager hands will try to strike but now will end today ***
Capitolo 21: *** Everyone's running Me though, I'm crawling Picking up the pieces of your heart I'm trying to put you back together ***
Capitolo 22: *** I was fearless but so easly I let life fade away the colour of my dreams ***
Capitolo 23: *** I've been waiting for the storm to surrender my soul ***
Capitolo 24: *** spent my time here just holding on Afraid to let go, the weight's swinging in my soul ***
Capitolo 25: *** Saving the hearts that were breaking ***



Capitolo 1
*** So good to be near you, so dark when you walk from my side ***





 
Era il classico giorno piovoso di Londra. Nonostante la primavera inoltrata, quella città meravigliosa indossava sempre il suo vestito umido e un po’ misterioso, come un velo trasparente e sottile che la teneva avvolta e le donava un’aurea dolce e malinconica.
Marta, ventiquattrenne italiana, diplomata da qualche anno, l’aveva scelta per un master nei servizi turistici, per imparare una lingua che aveva sentito sua sin da quando era poco più che una bambina e, sì, anche per cercare quella fortuna che, dove era nata, aveva sempre temuto di non trovare.
Aveva vissuto gli inizi in quella nuova città un po’ alla giornata. Qualche lavoro saltuario in bar o ristoranti; un paio di mesi in uno studio dentistico come assistente alla poltrona; quasi un anno in un’agenzia di promozione turistica come guida italiana e poi, grazie ad una conoscenza, era riuscita ad ottenere un posto nel front office di uno degli alberghi di lusso più importanti della città, e vi lavorava ormai da un paio d’anni.
Dopo aver cambiato casa almeno un paio di volte – o forse erano tre –, aveva trovato la sua dimensione insieme a due ragazze, una spagnola e l’altra irlandese, sue coetanee, con le quali condivideva da quasi tre anni un appartamento a South Kensington.
Credeva di aver trovato finalmente la sua dimensione. Non aveva un ragazzo, a differenza delle sue coinquiline, dalle quali spesso – specie nel week end – si trovava messa alla porta per qualche ora di privacy, ma si sentiva completa così. Non sentiva il bisogno di legarsi a qualcuno, né di avere un compagno accanto che la vincolasse o la obbligasse a scendere a compromessi su qualcosa. Non che fosse un’acqua cheta dal maglione a collo alto, no; e gli uomini le piacevano parecchio. Preferiva semplicemente evitare le relazioni. Forse, centrava qualcosa il fatto che le uniche due storie che aveva tentato di portare avanti – una in Italia e una a Londra – erano finite con il farla sentire uno schifo. Da quelle esperienze aveva capito che quegli esseri non erano altro che un fascio di nervi guidati dall’ormone e che, per qualche ora di sesso, erano disposti a qualunque cosa. Anche tradire la persona amata. Per cui, aveva fatto pace con se stessa e si era convinta a tenere lontano gli uomini, per un ragionevole lasso di tempo che poteva andare da qualche anno a per sempre. Viveva la sua vita serenamente, ed era fermamente convinta di essere felice così. Finché un giorno, il classico giorno piovoso di Londra, tutto cambiò.
 
London
May, 7th 2006
 
«Lo so, lo so, sono davvero una cosa vergognosa, scusami Gaz, sto arrivando!»
Il piccolo Mark Owen, che ormai tanto piccolo non era più, corse trafelato attraverso la hall, brandendo ancora in mano il cellulare. Non si capacitava del fatto che, di nuovo, si era addormentato e che, di nuovo, sarebbe arrivato in ritardo alla prove. Quella era sempre stata una prerogativa di Rob, non sua. Ma, ovviamente, il fottuto Re del Pop, non sarebbe stato lì con loro, per cui, mentre si avvicinava al bancone della reception, pensò che forse stava solo cercando di creare la stessa atmosfera di dieci anni prima per evitare di sentire troppo la mancanza del suo amico.

O, forse, era solo che avrebbe dovuto smettere di portarsi in camera delle donne. Forse.

Per un millesimo di secondo, il suo pensiero andò a Emma, e al fatto che l’aveva lasciata a casa, in attesa di loro figlio, mentre lui se ne stava in un lussuoso hotel della city e occupava il tempo che non passava a cantare, a sollazzarsi con belle donne, come era abituato a fare parecchi anni prima… in quegli anni in cui, sì, essere un membro dei Take That, giovane e single, era davvero uno spasso! Qualcuno avrebbe dovuto ricordare a Mark che il tempo era passato, che lui era cresciuto e che avrebbe dovuto mettere la testa a posto; ma come era possibile, se da quando la band si era sciolta a metà degli anni Novanta, e all’apice del successo, non aveva fatto altro che sperare e sognare che quella gloria tornasse?

Tutti quei pensieri, però, furono spazzati via solo pochi istanti dopo, quando il biondino, giunto dinnanzi al front office dell’albergo, incrociò un paio di occhi castani con i propri. Di solito, quelli scuri, erano occhi poco profondi, poco espressivi – o così era sempre stato abituato a credere. Quelli che aveva di fronte in quel momento erano davvero tante cose, ma di certo non inespressivi. E di sicuro non superficiali. Per un attimo Mark perse il respiro. Sapeva che avrebbe dovuto chiedere un taxi o che, comunque, avrebbe dovuto spiccicare qualche parola che avesse un senso affiancata ad altre, ma si sentì smarrito in quello sguardo, come se si fosse buttato in mare da uno scoglio altissimo e non riuscisse più a riemergere. L’unica cosa che era riuscito a fare era stata cogliere – in che modo, non se lo sapeva spiegare nemmeno lui – il nome della proprietaria di quegli occhi, dal cartellino che aveva appuntato sul bavero della giacca blu. Marta.

Dal canto suo, Marta, non appena percepì su di sé lo sguardo limpido e rassicurante dell’uomo di fronte a lei, sentì il cuore iniziare a batterle furioso nel petto e le mani sudare in modo preoccupante. Il suo cervello avrebbe dovuto lavorare il doppio del normale per riuscire a partorire una qualunque frase di senso compiuto. Si sporse impercettibilmente sul bancone, poggiandovi i gomiti e cercando – probabilmente, senza trovarla – un’aria almeno apparentemente professionale, ma un profumo buono, di uomo, di pulito, le invase le sinapsi rischiando di mandarla in tilt. Era incredibilmente bello, con quelle guance leggermente arrossate dalla concitazione e il viso appena sbarbato. Scosse lievemente la testa, nel tentativo di non far trasparire quanto la sua presenza la turbasse, e si forzò a parlare.
«Come posso aiutarla, signore?» riuscì a chiedergli, ma anche lui sembrava in qualche modo… perso. Non volle certo peccare di presunzione credendo che fosse lei la causa del suo momentaneo smarrimento, anche se in una piccola parte del suo ego di donna sperava proprio fosse così. Raddrizzò le spalle, aumentando così la presa sulla propria coscienza e si trovò a ripetere a quell’uomo la stessa domanda.
«Come posso aiutarla, signore?»

Finalmente, Mark si riebbe da se stesso e le sorrise come solo lui era in grado di fare. Se poco prima Marta era riuscita a darsi un contegno, con quell’ultimo, apparentemente innocuo, gesto, poteva tranquillamente mandare a farsi benedire ogni tentativo di sembrare una professionista. Il suo sguardo era incatenato alle rughette d’espressione che increspavano quei meravigliosi, piccoli, occhi azzurri, e accecato da quel volto luminoso che, senza rendersene conto, aveva illuminato anche lo spazio intorno a loro.
«Per favore, PER FAVORE, – disse, con una lieve apprensione nella voce – ho bisogno di un taxi per Wembley quanto prima, sono in un tremendo ritardo»

Quella sua fretta, quella sua costernazione, le fecero una grande tenerezza. Per un attimo, si sentì sopraffatta dalle emozioni che quella vicinanza le faceva provare, e ne ebbe paura, mentre lui continuava a sorriderle in quel modo così dolce e genuino. Le mani le pizzicavano dalla voglia di accarezzare quelle labbra rosse. Riuscì a concentrarsi quel tanto che bastò per assicurargli che avrebbe fatto il possibile, ma, quando prese la cornetta del telefono, l’imbarazzo la pervase. Le dita tremavano mentre completava il numero sulla tastiera, e la voce non era da meno mentre comunicava con la società dei taxi alla ricerca di una macchina super disponibile e super veloce disposta a portare quell’uomo bellissimo ovunque volesse.

Peccato – pensò – che lo avrebbe portato lontano da lei.

Erano passati solo dieci minuti da quell’incontro. Mark viaggiava già sul taxi super disponibile e super veloce diretto a Wembley, dove le prove per il concerto di quella sera erano iniziate senza di lui. Avrebbe dovuto fare qualcosa a riguardo. Fare il bravo, almeno al lavoro. Ma più cercava di concentrarsi su quello che avrebbe dovuto fare per evitare che Gaz s’inviperisse, più quegli occhi incredibilmente profondi ed espressivi torturavano i suoi pensieri. E non solo gli occhi. Anche le labbra, che di sicuro erano le più belle che avesse visto da un bel po’ di tempo a quella parte.

Chissà come sarebbero state morbide al contatto con le sue…

E, a un tratto, quella donna si era trasformata nella sua ossessione personale. Era possibile che fossero stati sufficienti cinque minuti, in cui, per altro, non era successo assolutamente nulla di anche solo lontanamente rilevante, per farlo impazzire?

Quando giunse allo stadio, senza troppi drammi da parte dei suoi compagni, si mise al lavoro – buttandoci dentro anima e corpo –, ma il pensiero di quella ragazza dall’aria dolcissima continuava a farlo smaniare. L’unico pensiero che lo aiutò ad arrivare in fondo alla giornata era che, quella sera, se fosse stato fortunato, l’avrebbe rivista. Non sapeva come – e, a essere onesto, nemmeno perché, dato che aveva una compagna ed era già colpevole di fin troppe scappatelle -, ma avrebbe voluto far capire a Marta che il solo pensarla gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Che il solo immaginare di baciare le sue labbra, lo faceva impazzire di desiderio.

Nei giorni seguenti, Mark aveva soggiornato ancora nella stanza 520 di quell’albergo. Lui e Marta erano riusciti ad incrociarsi solo due o tre volte. Lei si era limitata a qualche sorriso da lontano, ad un cenno con la testa, cercando di nascondere con i colleghi il desiderio di vederlo, la trepidazione dell’attesa, nella convinzione che sarebbe arrivato da un momento all’altro… e il sollievo quando, infine, lo vedeva spuntare con quel suo sorriso disarmante stampato in volto che voleva credere destinato a lei – neanche fosse una ragazzina di dodici anni.
Lui si limitava a lasciare in strada le fan, appollaiate sotto l’albergo nella speranza di essere portate in camera. Non sapeva perché, ma non voleva che lei vedesse quel lato di lui. Passava di fronte alla reception diretto agli ascensori e, quando si accorgeva della presenza di Marta, si avvicinava, avanzando le richieste più disparate. Aveva già perso due chiavi magnetiche e un pass-par-tout. Senza contare la collezione di dépliant abbandonata sulla poltrona della sua camera e la pigna di asciugamani intonsi che aveva richiesto, nella vaga speranza di vederla arrivare in camera per portarglieli. Ma non era mai lei.

Poi era partito per proseguire il tour. Non si erano mossi di un centimetro da quella prima mattina in cui niente era successo, eppure tutto era cambiato. Ma Mark sapeva che, prima o poi, sarebbe giunta la loro occasione. Sorrise mentre, nel tour bus, scorreva con lo sguardo le settimane di Maggio sul calendario. Avrebbe dovuto aspettare altre due settimane e sarebbero tornati a Londra per ulteriori quattro show. Avrebbe dovuto aspettare altre due settimane e l’avrebbe rivista.
Aveva un presentimento, sentiva che quelle quattro serate avrebbero cambiato molte cose. Di certo, però, non avrebbe potuto immaginare che gli avrebbero cambiato l’intera vita. 
 
So good to be near you,
so dark when you walk from my side




 

Angolo dell'Autrice

Buonsalve a tutti!
Mi ritrovo qui a pubblicare una longfic nel fandom dei Take That. Non ci posso credere! Avevo ormai dato per dispersa la mia ispirazione al riguardo, ma, complice la mia amica Ohra_W, sono riuscita a buttare giù questa sottospecie di prologo.
Vorrei spiegare due cosine, giusto per dovere di cronaca. Il personaggio di Marta appartiene alla sopracitata Ohra_W che me l'ha gentilmente concesso per elaborare questa coppia che compare all'interno della sua longfic "Look Forward, Don't Stare". Erano una coppia-meteora che ha avuto una breve comparsata, non approfondita, ma siccome mi è piaciuta tanto le ho chiesto se avrei potuto utilizzarla e raccontare la loro storia! ♥ E poi, vabbé, io adoro Mark da almeno due decenni, diciamo che gioco in casa! *_*
Niente, smetto di parlare perché rischio di scrivere note più lunghe del capitolo! :p
Spero che fin qui vi sia piaciuta.
A presto
Fair ♥


 
 
 

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Capitolo 2
*** Life is what you make it, You must shake it to make it right ***





 

Una sera, seduta nell’ufficio del capo turno, Marta controllava le presenze di quel giorno. Mentre sfogliava le stampe, con lo sguardo scorreva i nomi e sentì il cuore fare una capriola quando scorse quello di Mark. Lui era tornato in quell’albergo. Lui era già lì, nello stesso edificio dove si trovava lei, e non lo aveva ancora visto! Le mani presero a sudare e quel muscolo traditore che aveva nel petto iniziò a battere sempre più furioso, concitato, come se volesse prendere il volo.
Non riusciva a capacitarsi di quanto poco le ci fosse voluto per arrivare a sentirsi in quel modo. Non riusciva a credere che, proprio lei, che aveva bandito le relazioni amorose dalla sua vita, si sentisse così presa da una pop star qualunque di cui, per altro, sapeva poco o niente.

E quel poco che sapeva non era certo una buona cosa.

Era stata Gale, la collega con la quale solitamente divideva il turno, a farle notare, qualche giorno prima, che quel Mark Owen si diceva fosse impegnato e, a quanto pareva, pure in attesa di un bambino. Quando lo apprese, per poco non le venne un colpo e si convinse a toglierselo dalla mente con la stessa velocità con cui se ne era invaghita. Ma in quel momento, rivederlo si stava trasformando in una prospettiva così allettante che ritrosie e crisi di coscienza erano già andate a farsi benedire. Di certo, però, non era una di quelle donne senza scrupoli pronta a fregare il fidanzato a un’altra, soprattutto se c’erano figli di mezzo. Anzi, spesso, quando si perdeva in divagazioni mentali poco consone su di lui, su di loro, se ne vergognava da morire. Tuttavia, il dramma era che non riusciva proprio a farne a meno.

Finché fossero rimaste delle fantasie – pensò – avrebbe anche potuto perdonarsi, dopotutto.

Ciò che Marta non sapeva, però, era che anche Mark si abbandonava con regolarità in fantasie analoghe alle sue. La sua vita era cambiata da quando i loro sguardi si erano incrociati la prima volta, e non era in grado di controllarsi. Non importava dove fosse, con chi e cosa stesse facendo, quegli occhi scuri erano sempre lì, pronti a strapparlo dalla realtà e fargli credere che esistesse un modo per averla solo per sé. 
Fine maggio era ormai giunto e quella mattina Mark avrebbe fatto ritorno a Londra.
Non dormì affatto la notte precedente. Erano due o tre notti buone che riposava male, in effetti. Probabilmente aveva preso qualche virus perché si sentiva strano, stanco, spossato. Una volta in aeroporto, i suoi colleghi s’incamminarono verso le loro vetture per far ritorno a casa; lui, che viveva fuori Londra, avrebbe alloggiato in albergo, come sempre. Gary però non si sentiva sicuro, lo vedeva malandato e si preoccupò.
«Sei sicuro di non voler venire da noi? Non mi sento tranquillo nel saperti solo. Non hai una bella cera, amico.»
Anche gli altri colleghi erano dello stesso avviso, ma Mark aveva aspettato così tanto per rivedere la sua bella receptionist – sua, stava decisamente dando i numeri, visto che sua non lo era mai stata –, che non avrebbe permesso a un’innocua influenza di tenerli separati.
«No, tranquillo – gli rispose prendendo il borsone in spalla –, mi prendo un paio di pastiglie, un the e me ne vado a letto. Domani sarò come nuovo»
«Chiama, se dovessi aver bisogno, capito?» lo redarguì Howard prima di allontanarsi verso i parcheggi.
«Prometto che starò bene, ci vediamo dopodomani» rispose guardando i suoi amici con affetto. Erano la sua famiglia e in quel momento, come in altri della sua vita, gli stavano dimostrando quanto il loro legame andasse al di là di fama e successo.

Ma se avesse confessato loro dei suoi pensieri riguardo Marta – si chiese –, cosa avrebbero detto?

Gary, Howard e Jason sapevano perfettamente dei lussi che si concedeva – e delle donne che spesso si accompagnavano a quei lussi. Non erano affatto contenti, ma, d’altro canto, non lo erano stati nemmeno quando avevano incontrato Emma la prima volta…
Scosse la testa cercando di svicolare da quei pensieri idioti. Stava fasciandosi la testa prima ancora di essersela rotta. Per quel che ne sapeva, Marta avrebbe potuto tranquillamente restare un’addetta alla reception, bellissima e dallo sguardo magico – di certo doveva esserlo, per averlo stregato a quel modo -, senza che accadesse mai nulla. Probabilmente, lei nemmeno provava le stesse cose che, invece, torturavano lui.
Poi, trascinandosi addosso quella specie di influenza, entrò nella hall dell’albergo, con la speranza di vederla e sentirsi subito un po’ meglio. Solo che lei non era lì, al suo posto c’era un’altra donna – di, all’incirca, una quarantina d’anni – che lo salutò con un sorriso eloquente che lui ricambiò senza interesse. E si sentì improvvisante ancora più malato.

 
***

Marta aveva sempre preso il suo lavoro con grande impegno e non aveva mai permesso che qualcosa, o qualcuno, la distogliesse dalla sua concentrazione, rischiando di mettere in dubbio le sue capacità. Quella sera, però, mentre sistemava le prenotazioni, si rese conto di non riuscire a pensare a nient’altro che a Mark, chiuso nella sua camera al quinto piano. Si maledisse per l’ennesima volta, per colpa della sua poca forza di volontà nel volerlo mettere alla porta della sua mente. Si maledisse perché quell’uomo era impegnato, perché lei aveva giurato che non si sarebbe più fatta abbindolare e, soprattutto che, se per puro caso fosse successo, sarebbe stato con qualcuno di tranquillo, single e…

Avrebbe dovuto smettere subito di fare tutti quei pensieri. Subito! E poi non era detto che lui la ricambiasse. Quanti film mentali per niente!

«Marta, – la chiamò Myles, il suo collega dell’housekeeping, facendola tornare sul pianeta terra – porta un termometro alla 520. Il tizio dice che non si sente bene, probabilmente ha la febbre, ma io non posso muovermi, Kyla è in pausa.»
La sua testa collegò immediatamente il numero 520 con il volto di Mark e, se fino a poco prima avrebbe voluto tenere lontano dalla sua vita quell’uomo, in quel momento non vedeva l’ora di rivederlo. Sapeva che sarebbe stato un rischio, sotto ogni punto di vista, ma gli era mancato ogni giorno, durante quelle tre settimane, e anche se cosciente di doverlo dimenticare, non riuscì ad evitarsi di prendere il termometro dalla cassetta del pronto soccorso e affrettarsi su per le scale.
Era una persona attiva e l’ascensore sarebbe stato sicuramente più lento delle sue gambe!
Quando fu alla porta d’accesso al piano si fermò un istante, realizzando che aveva il fiato corto – e non di certo per le scale, cui era abituata. Si concesse ancora un secondo, poi spinse la maniglia antipanico ed entrò nel corridoio.  
La 520 era poco distante, e in quel breve tragitto cercò di darsi un contegno, di spolverare la sua leggendaria professionalità che da qualche tempo aveva lasciato nel cassetto a causa degli occhi azzurri che avrebbe rivisto entro pochi secondi. Le sarebbe bastato accarezzare ancora una volta con lo sguardo la sua figura – probabilmente ci si sarebbe soffermata un po’ più del dovuto, nel tentativo di imprimersela bene nella mente – e non avrebbe chiesto più nulla. Certo, i suoi desideri andavano ben oltre una sbirciatina, ma a volte, nella vita, capitava di doversi accontentare senza forzare troppo la mano. E lei aveva già sognato abbastanza.
Bussò alla porta con un paio di colpi ben assestati, come le era stato insegnato.
«Housekeeping, signore.» disse, tenendo basso il tono della voce, per non disturbare gli altri ospiti e pensando che se Mark avesse davvero avuto la febbre, non avrebbe sicuramente gradito una cornacchia urlante.
Passarono solo una manciata di secondi e quell’unica barriera che ancora li teneva divisi, sparì. Mark comparve di fronte a lei che per un attimo rimase impietrita. Stava sicuramente male, a giudicare dal sudore che gli imperlava la fronte e i capelli madidi – nonostante lo coprissero solo un misero paio di pantaloncini –, ma anche così era senza dubbio la cosa più bella e sensuale che Marta avesse visto in tutta la sua vita. Teneva il termometro a mezz’aria fra di loro, nel timore che, una volta consegnato, la porta si sarebbe richiusa e avrebbe dovuto fare a meno di quella visione celestiale.
Mark, dal canto suo, la fissava imbambolato, un po’ per la febbre e un po’ – parecchio – per la sorpresa di trovarsi finalmente faccia a faccia con la sua receptionist. E, sì, un po’ anche per la vergogna di trovarcisi in quello stato pietoso.
«Oh, – sospirò, appoggiandosi con la mano allo stipite – signorina, è lei. Mi scusi, non volevo disturbarla… È solo che credo, io credo proprio di avere la febbre alta e vorrei misurarla…» continuò, spostandosi leggermente verso l’interno. «Mi scusi davvero, sono in pessime condizioni.»
Marta continuava a fissarlo, e più analizzava ogni particolare, più lo trovava meraviglioso. Il termometro se ne stava ancora lì immobile in mezzo ai loro corpi. Lui non si muoveva, così come lei continuava a registrare ogni minuscolo dettaglio dell’uomo che aveva di fronte. Era così sensuale, pensò, con i capelli umidi che gli cascavano a ciocche davanti agli occhi chiari, e il sottile velo di sudore che ricopriva il suo corpo snello, lo rendeva ancora più sexy di quanto fosse umanamente possibile.
La ragazza non aveva coraggio di aprire bocca; non era affatto sicura che sarebbe stata in grado di proferire anche solo una parola che avesse senso. Per fortuna, lui le venne in soccorso, ma in un modo che lei proprio non si sarebbe mai aspettata.
«È bellissima, lo sa? – le chiese, infatti, continuando a reggersi alla porta, ma non distogliendo lo sguardo azzurro da quello di lei – In effetti, sono mesi che la osservo, tornando in questo albergo, e non ho mai trovato il coraggio nemmeno di dirle quanto la trovassi bella.»
Si guardarono per pochi attimi ancora, in silenzio. Lei incapace di credere a ciò che aveva appena udito; lui incapace di credere di aver davvero detto quelle cose.
«Oddio, mi, mi scusi. Io, io ho parlato senza riflettere. Non so nemmeno se ha un fidanzato o, beh, insomma… Non mi sarei dovuto permettere…»
In quel momento Marta riuscì a elaborare un unico pensiero coerente: lui si preoccupava se lei avesse un fidanzato, e non sembrava curarsi affatto di avere una compagna incinta ad attenderlo a casa?
Ma fu un pensiero così veloce che non ebbe nemmeno il tempo di soffermarcisi. L’unica cosa – poco, anzi, per nulla coerente – che riuscisse a fare, era perdersi in quelle iridi azzurre. Nacque dentro sé l’impulso incontrastabile di stringerlo e baciare quelle labbra perfette e, al di là di ogni buon senso, lo fece. Sì avvicinò a lui velocemente, lasciando cadere a terra il termometro, e afferrandolo per la nuca rubò a quella bocca un bacio che entrambi avevano agognato per troppo tempo.
Mark s’irrigidì appena – forse, nel tentativo di realizzare che stesse succedendo davvero e non si trattasse solo di una sua fantasia –, ma la tensione durò poco meno di un istante. Subito dopo aveva già scordato l’influenza e la febbre, la prese in braccio e, guidandola all’interno della camera, chiuse il mondo fuori dalla porta.
L’adagiò sulla moquette, sicuro che non avrebbe resistito fino al letto per ricambiare con ardore quel bacio. Non avrebbero potuto aspettare oltre, c’erano almeno tre settimane da recuperare. Settimane in cui si erano desiderati – e fatti male –, a vicenda, in silenzio. Senza nemmeno saperlo.
 





Angolo dell'Autrice

Buonasera popolo!
Sto facendo una fatica immane con le note, ultimamente. L'unica cosa che mi viene da dire al momento è che spero di non star facendo una brutta figura con la "mamma" di Marta: Ohra_W. Mi auguro che, fino a qui, la mia interpretazione ti piaccia. Spero di fare sempre meglio, you know, ma il momento è quello che è. :D
Siccome oggi stavo un po' giù, ho provato a drogarmi di Owen e TT. Sembra aver funzionato. Ora proverò a dormire, con il desiderio di riuscire a tirare fino a domattina.
Vorrei precisare che il titolo del capitolo è preso da un verso della canzone dei Take That "Lady Tonight" e, basta, mi dileguo.
Buonanotte! :3

Fair


 

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Capitolo 3
*** Love is never easy, only in some poetry. But I'm not Oscar Wilde. ***





 
Nella penombra della camera, illuminata dal flebile bagliore dell’abat-jour, Mark tentava di calmare la sete di lei, che tanto l’aveva fatto impazzire durante le passate settimane. Erano già sdraiati sul letto – senza sapere come ci erano arrivati –, lei sotto, che febbrilmente sfiorava ogni angolo di quel petto asciutto e allenato; lui sopra, che con una mano si adoperava per slacciare i bottoncini della camicetta bianca, e con la bocca esplorava avidamente quella di lei. Nessuno dei due era ancora andato oltre – nonostante lui stesse cercando di toglierle di dosso almeno la parte superiore dell’uniforme –, ma a quel ritmo ci sarebbero arrivati presto.
Da come si cercavano e toccavano, il desiderio che l’uno aveva trattenuto verso l’altra era palese, palpabile con mano. Finalmente, l’ultimo madreperla di quel candido indumento che Marta indossava si liberò e sarebbero andati avanti fino a non poter più tornare indietro, se in quel momento non si fosse messo a squillare il telefono della camera.
Mark sgranò gli occhi chiari, incerto, guardando Marta con un enorme punto interrogativo stampato in volto. Lei si alzò di soppiatto, presa in contropiede da se stessa e da quello che sarebbe stata in grado di fare se quel suono non li avesse riportati alla realtà. Intanto, l’apparecchio continuava a squillare e nessuno si muoveva.
«Rispondi – gli chiese, mesta, sistemandosi la camicetta -, sarà sicuramente il mio collega.»
Lui non se lo fece ripetere e si avviò spedito al comodino; cercando di darsi un contegno – di certo, il testosterone in circolo non lo avrebbe aiutato granché -, rispose:
«Pronto?»
«Signor Owen, buonasera. È l’housekeeping. Come si sente? La signorina Mancini è salita a portarle il termometro?»
Lui non aveva ancora staccato gli occhi da Marta - probabilmente, non aveva nemmeno capito le domande della persona che parlava all’altro capo del telefono -, e più la guardava, più la trovava incantevole. E in quel momento, arrossata dal desiderio e con i capelli scarmigliati, era davvero irresistibile.
«Sì, mi sta aiutando con il termometro e, - fece una pausa, insicuro su cosa dire – e a sistemarmi. Ho combinato un mezzo casino qui» disse, cercando di arrampicarsi sugli specchi.
A Marta venne da ridere. Lo trovava estremamente buffo nella sua incertezza – caratteristica che non aveva affatto notato poco prima, mentre si trovava sotto di lui – e decise di toglierlo d’impiccio. Afferrò la cornetta e parlò con il collega.
«Myles, il signor Owen ha sporcato gli asciugamani e le lenzuola. Mi sto occupando della sostituzione. Tra dieci minuti sono giù» tagliò corto, sicura. Non poteva certo farsi scoprire; non era vietato, ma sicuramente poco professionale, intrattenersi con un ospite dell’albergo, soprattutto durante l’orario di servizio. Riagganciò in un istante, sorridendo trionfalmente. Poi, tornò a fissare quegli occhi azzurri che non avevano smesso un attimo di accarezzarla. Sembrava stare un po’ meglio, per fortuna.
«Bene – disse, allacciando perfettamente gli ultimi bottoncini e dandosi una ravvivata ai capelli scuri con le mani – sembra proprio che lei si stia riprendendo» annunciò raccogliendo il termometro, non senza un flebile sorriso imbarazzato dipinto sulle labbra. «Lo tenga p…»
E due secondi dopo si ritrovò schiacciata alla porta sotto al peso di un Mark che non aveva affatto dimenticato la passione di poco prima. Anzi, sembrava fomentare ogni secondo che passava, sempre di più. Lei gli lasciò libero accesso, infilando con naturalezza le dita sottili in mezzo a quel groviglio di capelli ancora leggermente umidi. Quando si sentì accarezzare il palato con la lingua, in un gesto estremamente delicato – ma al contempo incredibilmente erotico – capì che se non fosse corsa via subito da quella stanza, non avrebbe più trovato la forza di farlo. In un ultimo barlume di lucidità, lo spinse via piano, con riluttanza.
«Io devo tornare dal collega – sussurrò, mentre ancora sentiva le labbra dell’uomo scivolare lungo le zone sensibili del collo, appena sotto l’orecchio – Io devo… Mark…»
Lui smise di baciarla e la guardò con uno sguardo carico di tante emozioni diverse, troppe per credere davvero che si conoscessero appena da un quarto d’ora. Troppe anche solo per pensare che era passato un solo mese dalla prima volta che si erano visti.
«Resta… – la implorò con espressione supplichevole – resta qui con me.»
L’uomo rimase immobile a fissarla, con la speranza di convincerla grazie alla forza delle sensazioni che stavano abbattendosi su di lui – su di loro – come uno tsunami, e che avrebbe potuto tranquillamente leggergli negli occhi.
«Non posso. – si limitò a dire lei, volendo però dire tutt’altro – Vorrei, ma non posso»
Lo baciò un’ultima volta e si mosse, oltrepassando la porta e sparendo dietro di essa, lasciando Mark lì da solo, con il termometro per terra e la febbre nel cuore. Una febbre inspiegabile che non si sarebbe mai spenta.
 
***

Era mezzanotte passata quando finì il turno di Marta. Da quando era tornata al suo posto, dopo quell’incontro con Mark, aveva cercato in tutti i modi di calmarsi, ma niente sembrava in grado di spegnere quel tornado di emozioni contrastanti che sentiva e non faceva altro che confonderla.
All’inizio, aveva sentito una semplice attrazione: dopotutto, era sicuramente un uomo molto avvenente, non c’era niente da dire. Poi curiosità, legata anche agli sguardi che lui aveva continuato a lanciarle durante le sue brevi permanenze in hotel. Solo quando se n’era andato, aveva iniziato a provare qualcosa di simile al bisogno – di vederlo, di sentire la sua voce, di accontentare qualche sua bizzarra necessità per avere occasione di stargli accanto, anche solo per pochi secondi. Gli mancava. Terribilmente. Ad esso andava aggiungendosi la gelosia per chiunque potesse stare con lui e parlargli, invidia per la sua compagna – della cui esistenza, comunque, non aveva avuto conferma –, per chiunque fosse la donna autorizzata a svegliarsi con lui la mattina; e anche un po’ di senso di colpa e vergogna, per il semplice fatto di volere l’uomo di un’altra.
Poi, quel giorno, quando aveva scoperto del suo ritorno, era esploso lui: il desiderio.
Era detonato con impeto dentro di lei, scatenando adrenalina e tutte quelle altre reazioni prettamente chimiche che sconvolgono fino alla radice dei capelli. Per cui non si era fatta problemi quando Myles le aveva chiesto di portargli il termometro: non aspettava che una buona occasione per correre alla stanza 520, bussare e trovarselo davanti in tutto il suo angelico splendore. 
L’emozione peggiore, però, giunse più tardi. Quando si ritrovò sopra quel letto con lui e sentì quelle mani docili ed esperte esplorarla. Quando capì che tutto ciò che fino ad allora aveva solo sognato come una ragazzina era lì a portata di mano. Sarebbe bastato dire sì e stendere il braccio per addentrarsi in un mondo nuovo, sconosciuto e dannatamente attraente; ma in quel momento aveva fatto il suo ingresso trionfale la paura. Di se stessa, in primis, per ciò che avrebbe potuto fare se si fosse permessa il lusso di perdere il controllo. Paura di lui e di quello che le faceva provare.

Se n’era andata da quella camera e, nonostante il suo corpo la stesse maledicendo, il suo cuore la stava ringraziando. Non aveva certo bisogno di altri drammi e, sicuramente, avere a che fare con una pop-star non rientrava proprio tra le cose più sicure e intelligenti da fare se ciò che si cercava era tranquillità.

Perché, per una volta, non poteva essere tutto meno complicato, più normale? Ma, dopotutto, solo nelle poesie era tutto perfetto, giusto?

Andò a casa e filò direttamente a letto, tentando di non pensare assolutamente a lui e a quanto successo – fallendo miseramente. Quando l’indomani, dopo pranzo, si recò in albergo per il secondo turno, Gale la raggiunse in camerino e chiuse la porta.
«Credo che tu mi dovrai un grande favore, signorina» sentenziò la donna mentre sfilava dalla tasca della giacca un biglietto, tutta sorridente.
«Che favore? Gale, cos’è quel biglietto?» le domandò Marta, sorridendole a sua volta. Gale era sempre stata piuttosto teatrale – e anche un po’ bizzarra, doveva ammetterlo – chissà cosa aveva combinato…
«Quando lo leggerai mi vorrai così bene che deciderai di farmi un regalo costosissimo – proseguì, continuando quella specie di indovinello –, magari un bel bracciale di Tiffany, per esempio…»
«Dai, smettila, Tiffany – si ribellò Marta saltando verso la collega nel tentativo di strapparle il foglietto di mano – Cosa c’è scritto?»
«Ok, mi accontento di una pizza all’italiana…» si arrese Gale, lasciandoglielo prendere.
Marta lo aprì con crescente curiosità. Diceva sempre di odiare le sorprese, eppure dentro di sé sapeva che era una bugia. Lei le sorprese le amava, eccome. Svolse il pezzo di carta con mani tremanti e lesse:
 

«So che non sei di turno, stasera. E nemmeno domattina. Lavoro fino a tardi… ti aspetto intorno alla mezzanotte. M.»
 

Marta alzò gli occhi verso la collega, che la fissava sorniona. Ovviamente, c’era lei dietro a tutto questo. Non riusciva a decidersi ancora se doveva ringraziarla o odiarla a morte. Per il momento, non sapeva nemmeno se fosse stata capace di arrivare viva alla fine di quella giornata, che si prospettava davvero infinita. 
 


We all fall down


 
Buonsalve!
Mi limiterò a dire che il titolo del capitolo l'ho preso dalla canzone "We all fall down", dei TT ovviamente, e saluto la Ohra_W, ringraziandola per il sostegno. 
:3


Fair

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Capitolo 4
*** Creating what we can't reverse Nothing will ever be the same again ***





 
Marta aveva passato tutto il pomeriggio ad arrovellarsi il cervello con pensieri contrastanti. Non sapeva nemmeno lei cosa fare, perché – soprattutto – non era in grado di decifrare perfettamente il livello di infatuazione che provava per quell’uomo. E aveva paura, una di quelle potenti che non ti fanno pensare ad altro che al buio pesto cui stai andando incontro. 
«Smetti di ragionare e vivi una buona volta le occasioni che ti si presentano sul cammino…» erano state le ultime parole di Gale, prima di andarsene, a fine turno; l’aveva trovata più volte persa in se stessa e, ovviamente, sapeva il motivo. Conosceva Marta abbastanza bene da intuire ogni piccola sfaccettatura dei discorsi mentali che si stava facendo. La conosceva sufficientemente da vedere chiaramente il terrore nei suoi occhi, ogni qual volta provava a convincersi che buttarsi e vivere davvero senza farsi troppe paranoie poteva essere una soluzione. 
E poi, senza che se ne rendesse conto, il turno era finito, mezzanotte era alle porte e ancora non aveva la benché minima idea di cosa dovesse fare. Si fermò per un istante di fronte allo specchio del bagno, dopo essersi cambiata, e si prese il tempo di un lungo respiro. Le dita stringevano con un po’ troppa forza i bordi cesellati del lavandino.
«Vivere le occasioni…» si ripeté, fissandosi intensamente nelle iridi scure. «E se poi le cose dovessero andare male?»
Sbuffò, odiandosi per l’innata capacità di attirare a sé solo situazioni potenzialmente disastrose, e perché era ormai consapevole che di lì a poco sarebbe stata di fronte a quella camera e avrebbe fatto ciò che, se fosse stata sana di mente, non si sarebbe mai sognata di fare.
Nel frattempo, Mark percorreva in taxi il tragitto dallo stadio all’albergo; quel giovane ragazzo di origini indiane al volante stava andando decisamente troppo piano per i suoi gusti. L’elegante scarpa nera ticchettava ritmicamente con il piede sul tappeto consunto della vettura, segno che l’impazienza e la nevrosi lo stavano consumando, ma ancora di più Emma, all’altro capo del telefono, che lo tartassava di domande alle quali non aveva voglia di rispondere.
«Allora sabato rientri a casa?» gli stava domandando, mentre Mark lasciava al vetro del finestrino fresco il compito di tranquillizzarlo un po’. Come diavolo faceva a sapere se la settimana successiva sarebbe tornato, quando non sapeva nemmeno cosa sarebbe successo di lì a pochi minuti?
Marta sarebbe successa? Lei e le sue labbra sulle proprie sarebbero successe? I suoi occhi languidi pieni di desiderio? Le sue mani tra i capelli…
Non poteva pensare a un’altra donna – e a quello che gli provocava ad ogni livello psico-fisico – proprio mentre stava parlando con la sua compagna. Era ignobile, sbagliato e vergognoso, ma – no! – lui non si sentiva in nessuno di quei modi, e si malediceva per questo. Non si era mai sentito in colpa tutte le volte che aveva finito con il rotolarsi tra le lenzuola insieme a delle donne qualunque, per cui non provava altro che una semplice, fugace, puramente sessuale attrazione; perché mai avrebbe dovuto farlo ora che per quella Marta sentiva ben altro – anche se non riusciva ancora a decifrare cosa, esattamente?
«Ci provo, Em, ma non ti prometto niente. Lavoriamo venerdì sera e non so…» lei non gli fece nemmeno finire la frase. Mark percepì la frustrazione della donna nel sospiro appena soffocato che gli giunse dall’altoparlante dell’apparecchio. Non poteva certo biasimarla, non tornava a casa da più di un mese. Eppure lei sapeva quanto quel successo ritrovato fosse importante per lui, quanto quella fosse la vita sempre a mille che aveva sempre sognato di tornare a fare. Sapeva chi era, fin dall’inizio.
«Ok, tranquillo. Fammi sapere…» si era limitata a dire, e aveva riagganciato. Fu in quel momento, quando sentì la chiamata chiudersi e quel tu-tu inquietante rimbombargli nelle orecchie, che un senso viscido di inquietudine e risentimento per se stesso si fece largo nel petto. Per un momento, uno solo, si sentì davvero una merda.
«Siamo arrivati, signore. Sono ventisette sterline e quaranta» Mark si volse verso il tassista e gli passò una banconota da cinquanta. «Tenga il resto» sussurrò, prendendo la borsa e uscendo dall’auto con l’aria affranta, poco consona a una popstar che aveva mandato in visibilio un intero stadio per più di due ore, fino a pochi minuti prima.
Una volta entrato nell’albergo, però, il suo sguardo era già fisso sulla reception. Era passata la mezzanotte per cui sapeva che lei non poteva essere lì, ma quel movimento del viso era diventato ormai un’abitudine e, nonostante i pensieri cupi – generati dal suo comportamento riprovevole nei confronti della donna che lo avrebbe reso padre –, non riuscì a evitarlo.
Quando fu sull’ascensore e iniziò a salire verso il quinto piano, però, la sua mente venne annebbiata nuovamente dal viso pulito e dolce di Marta, dalla sua voce e da quelle labbra carnose che aveva agognato per un mese, ogni giorno e ogni notte. Il desiderio di vederla di fronte alla sua porta era troppo grande, così grande da far sparire i turbamenti di poco prima. Strinse le dita ancora più forte intorno alla maniglia della borsa, fino a far diventare bianche le nocche. Era nervoso, più di quanto avrebbe immaginato.
Poco dopo stava già camminando verso la sua stanza. Avanzava lentamente, a pugni chiusi. Svoltò l’angolo del corridoio e alzò lo sguardo, fino a quel momento puntato sulla pregiata moquette del pavimento, ma non c’era nessuno ad attenderlo. Quelle pareti sembrarono farsi più strette intorno a lui: anche se per un breve istante aveva sperato nella sua assenza, realizzare che davvero Marta non era lì fu… doloroso. Sì, semplicemente doloroso.
La chiave magnetica aprì la serratura elettronica con un gesto blando del polso. La mano abbassò la maniglia e il corpo spinse la porta fino a farla spalancare. La oltrepassò, e pochi passi dopo quel dolore che ancora gli toglieva il respiro si trasformò in sorpresa, sollievo e, infine, in una gioia che non credeva avrebbe provato così intensa… così potente.
«Sei… sei qui» riuscì solo a dire, guardandola. Era bellissima, accarezzata dalla stoffa leggera del vestito fiorato che indossava. Lei gli sorrise un po’ timida, un po’ compiaciuta, forse dall’espressione estatica che doveva avere in quel momento dipinta in volto. Mark abbandonò la borsa a terra con noncuranza e subito dopo si era già avventato su quelle labbra rosse che lo avevano tentato dal secondo in cui i suoi occhi vi si erano appoggiati.
Marta aveva tante di quelle cosa da dire – il suo cervello era come un fiume in piena –, e forse anche lui ne aveva. In un paio di occasioni in cui si erano concessi il lusso di prendere respiro avevano anche provato a parlare, ma la potenza di certi desideri è incontrastabile se fomentata dall’attesa. E loro avevano atteso parecchio.
«Dopo – la rassicurò lui, dolcemente –, abbiamo tutto il tempo, dopo» mentre le mani vagavano su quel corpo che – incredibilmente – senza i vestiti addosso era anche più bello di quello che aveva immaginato.
Marta aveva tante – troppe – cose da domandargli. Troppi punti di domanda irrisolti a cui, salendo verso la camera una manciata di minuti prima, si era promessa avrebbe dato risposta. Ma contro di lei e la sua volontà c’erano quelle labbra abili e tentatrici; per non parlare di quel mare azzurro pieno di lei che erano i suoi occhi. E, se voleva dirla tutta, c’erano anche quei capelli ancora un po’ umidi: a loro, le sue dita non riuscivano proprio a resistere. Così, tra un sospiro e un gemito soffocato, rispose con un sussurro su quella bocca bella e accogliente: «Va bene, dopo».


 
Creating what we can't reverse 
Nothing will ever be the same again





 
Angolo dell'Autrice

Buonasera popolo – o forse dovrei dire buongiorno? (Ho scritto queste note a mezzanotte, ma non so quando pubblicherò, perché la rete non mi assiste xD)
Torno da queste parti dopo un’assenza vergognosa a pubblicare il nuovo capitolo. Sicuramente risulterà una mezza schifezza, ma a mia discolpa vorrei dire che la mancanza di ispirazione nel campo della scrittura non mi sta aiutando. Sto facendo del mio meglio, perché HO BISOGNO di scrivere e vorrei sbloccarmi. Mi sto facendo violenza fisica per riuscirci e spero che questo capitolo non sia stata una totale perdita di tempo.
Qui “vediamo” la prima volta tra Mark e Marta. Ovviamente entrambi sono così attratti l’una dall’altra da lasciare le parole al dopo – e come non comprenderli, hanno aspettato parecchio. Ovviamente, vorrei specificare che io non conosco i dettagli della storia tra Mark ed Emma e quello che leggerete riguardo a loro è solo ad uso e consumo della fanfiction e della trama di quest’ultima.
Bene, me ne vò. Non vi prometto niente, spero non far passare Pasqua prima di aggiornare. ;)
A bientot.
FairLady



 
 



 

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Capitolo 5
*** But it's just the end of one more lonely dream Just the end of one more lonely night ***





 
Avevano fatto l’amore tutta la notte, senza stancarsi mai. Più l’uno entrava dentro l’altra, più si faceva largo in quei cuori disillusi una profonda sensazione di calore, di appartenenza. Di abbandono.
A un certo punto Mark si era addormentato, aggrovigliato a Marta come una pianta rampicante. Le gambe nude incrociate a quelle di lei lo facevano sentire protetto e al sicuro come non gli era capitato da troppo tempo – forse mai, nemmeno con Emma. Di solito, quando si portava in camera qualcuna, una volta finito era veloce a mandarla via almeno quanto lo era stato ad invitarla. Invece, con Marta fu diverso: una volta finito, ne aveva chiesto ancora, e ancora, e ancora, e lei glielo aveva concesso senza riserve finché entrambi non ebbero più nemmeno la forza di tenere gli occhi aperti.
Erano quasi le otto del mattino e Marta era sveglia da un po’. Mark le dormiva appiccicato, tanto che poteva scandire senza difficoltà i battiti di un cuore capace di una passione travolgente che davvero non si era aspettata. Il sonno se n’era andato e l’aveva lasciata in uno stato di molle torpore. Si sentiva indolenzita e rilassata, ma nonostante questo, inquieta.
Le domande che la sera prima vorticavano in quella sua testa matta, e tutte intorno a loro, stavano ancora lì. Poteva quasi vederle, come piccoli folletti dispettosi, con le gambette appoggiate al muro e lo sguardo sospeso tra rimprovero e curiosità. Quelle domande sembravano metterla di fronte a qualcosa di più grande di lei; sembravano dirle: «Te lo avevamo detto, ma non ci hai ascoltato. Hai commesso un errore e ora ne pagherai le conseguenze».
Ma qual era l’errore vero?
Essere andata a letto con una persona che, per quanto ne sapeva, era impegnata e in attesa di un figlio, oppure essersene innamorata?
A quell’ammissione, sfuggita senza controllo dalla sua mente ormai sopraffatta da tutto – anche da se stessa –, sgranò gli occhi ed ebbe un sussulto quasi impercettibile che però Mark, chissà come, riuscì a registrare.
«Sei sveglia?»
«Mm-mm»
«A cosa pensi?» le chiese, premendo delicatamente il suo corpo caldo a quello di lei e stringendola.
Marta si mosse appena, cercando di aderire al meglio contro quella pelle che già era diventata un po’ anche sua. Quanto più vicino lo percepiva, tanto più i pensieri si allontanavo, rumorosi. Deliranti.
«Al niente» gli rispose un po’ asciutta dentro, meno arida fuori a causa delle lacrime che stavano già sgorgando involontariamente. Non sapeva nemmeno perché stesse piangendo. Forse vedeva già la fine di qualche cosa che ancora non era iniziato?
«Al niente?»
«Sì, - lei sospirò, cercando di evitare che Mark si accorgesse dello smottamento interno da ragazzina senza speranza che la stava facendo franare poco a poco - il niente che conosco di te. Il niente che siamo noi.»
Lui lo sapeva che quel momento sarebbe arrivato, anche se dentro sé sperava di no, che si sarebbero potuti chiudere in quella bolla di beatitudine per sempre, senza dover più preoccuparsi del mondo.
E, invece, come tutte le cose belle anche quell’istante di annullamento uno nell’altra era destinato a svanire, perché entrambi sapevano che le cose non dette, in attesa sopra le loro teste, avrebbero finito con l’abbattersi su quella strana relazione un po’ morbosa, un po’ esagerata, un po’ troppe cose per due che in fondo non si conoscevano affatto; e avrebbero finito con il distruggerla.
La mano di Mark accarezzò la spalla di lei, invitandola delicatamente a voltarsi. Quella ragazza meritava più di ciò che lui poteva darle, se ne rendeva conto. Meritava di essere amata nei suoi momenti di felicità e coccolata nei momenti di tristezza. Meritava un uomo presente, in grado di farla sentire come se fosse l’unica al mondo – e la cosa che più lo faceva star male all’idea di doverla lasciare andare era proprio che per lui, da quando l’aveva incontrata, sembrava non esserci nessun’altra.
«Con te è tutto così strano, nuovo… - ammise lui, con gli occhi pieni di lei -, e non ero pronto al tuo arrivo, io… tu mi hai preso alla sprovvista…»
«Mark, dimmi chi sei. Per favore…» e non era una semplice richiesta: lo stava implorando. Per quanto Mark fosse meraviglioso, non poteva permettersi di rimandare ancora le spiegazioni. La sera prima si erano lasciati sopraffare da ciò che per un mese avevano ardentemente desiderato, ma non c’era più il tempo di tirarsi indietro. Erano già andati troppo avanti.
«Bene, hai ragione. – sospirò, mettendosi a sedere – È giusto che tu sappia e… beh… decida cosa devi fare, cosa è meglio per te.» Lo disse con la morte che gli scivolava sul cuore, ma era consapevole della verità di quelle parole, per cui lasciò andare un lungo sospiro e tornò a guardarla. Aveva un espressione contrita, un po’ preoccupata. Era stupenda.
«Convivo da circa un anno con una donna e aspettiamo un bambino che nascerà ad Agosto.»
Lo aveva detto, finalmente. Si era tolto quel macigno dal petto, anche se un altro lo aveva già sostituito. Si aspettava che Marta si alzasse dal letto, raccogliesse le sue cose e fuggisse via a gambe levate, lontano da lui, lontano dal caos e da tutto ciò che di sbagliato c’era nell’iniziare una qualunque relazione con un uomo impegnato e famoso, per giunta. Soprattutto per una ragazza come lei. Non la conosceva bene, ma quel poco che aveva capito – ciò che la rendeva così speciale ai suoi occhi – era proprio il genuino bisogno di amore che traspariva dai suoi sguardi… e dal modo in cui l’aveva amato quella notte; non poteva certo desiderare una storia di quel tipo, con una persona impegnata.
Eppure Marta era ancora lì. Il lenzuolo candido in cui gli era stato concesso il privilegio di stringerla fra le braccia continuava ad avvolgerla come prima e il suo corpo non si era mosso di una virgola. Solo la sua espressione era mutata, sapeva di rassegnazione.
«Lo sapevo, Mark. La mia collega me lo aveva accennato.»
In tutto quel casino, l’unica cosa che lui riusciva a provare era sollievo. Di certo non era normale! Era quasi felice perché, nonostante Marta sapesse di Emma e il bambino, si era comunque presentata da lui e lo aveva amato.   
«E sei venuta lo stesso all’appuntamento…»
«Sono stata sul punto di non venire, credimi.»
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
Stavano parlando placidamente e anche la tensione di poco prima andava affievolendosi. Le dita di Mark accarezzavano piano il braccio di Marta. I loro occhi si cercavano, si scrutavano e si fuggivano di continuo. Forse nessuno dei due era in grado di ammettere che ciò che provavano l’uno per l’altra era già così forte da impedire qualsiasi decisione ponderata, cosciente. E questo era il problema principale: se lei avesse risposto a quella domanda sinceramente – come era sua abitudine, peraltro – si sarebbe definitivamente esposta. Gli avrebbe concesso l’ultima parte di sé, quella cui teneva di più, quella che le avrebbe impedito di tornare indietro, se mai avesse voluto. Così, con l’ultimo barlume di lucidità che le fosse rimasto, trovò lo sguardo di lui, curioso, quasi speranzoso e gli diede l’unica risposta plausibile in una situazione come quella: una mezza verità.
«Sapevo che sarebbe stato un errore, ma sapevo anche che se non avessi seguito il mio istinto avrei finito con il pentirmene.»
A quelle parole Mark si sentì ulteriormente sollevato: dopotutto, alla fine, non se ne sarebbe andata. Le si avvicinò e non poté fare a meno di baciarla, mordendole piano il labbro inferiore.
«Dovrò ringraziare il tuo istinto, allora.» le sussurrò, tornando ad assaporare quella bocca che non avrebbe mai immaginato così deliziosa.
Allo stesso tempo, però, si malediceva perché avrebbe dovuto sperare il contrario, avrebbe dovuto lasciarla andare perché lui non era giusto per lei; perché lui aveva una donna ad attenderlo a casa, un figlio in arrivo… delle responsabilità che continuava a fuggire.
Ma avrebbe avuto la forza di allontanarla? Ora che aveva scoperto cosa significava averla per sé, sarebbe riuscito a stare senza?
Lo avrebbe scoperto presto, perché Marta si era allontanata quel tanto che bastò per sentire fra i loro visi un’aria gelida che sapeva di abbandono.
«Non credo, sai – replicò soffusamente, incapace forse di completare una frase che avrebbe finito con l’ucciderla – Ora mi sta dicendo di andarmene per non tornare più.»
Immobili, occhi negli occhi, sembravano ghiacciati in quella consapevolezza che dopotutto era di entrambi. Sarebbe stato chiaro anche al più stolto che una situazione come quella avrebbe portato solo dolore, frustrazione e, infine, lontananza. Lui era di un’altra e Marta sapeva già cosa volesse dire condividere un uomo, essere la rivale – talvolta anche la tradita. Sentiva nel cuore che andarsene da lì e chiudere quella strana storia, che altro non era se non un embrione d’amore, sarebbe stata la decisione più difficile che avesse mai dovuto prendere, ma c’era già inspiegabilmente troppo dentro e fare la terza incomoda era decisamente un’alternativa poco attraente.
Se ne sarebbe andata, si sarebbe chiusa quella porta alle spalle, avrebbe sofferto e poi, piano piano, avrebbe ripreso a vivere normalmente. E anche se lo sguardo di Mark chiedeva tutt’altro, lucido e implorante, sapeva di stare facendo la cosa giusta per tutti quando, tra le lacrime nascoste, si rivestì e si allontanò da quella stanza. Si lasciò alle spalle quell’uomo che senza chiedere permesso le si era infilato sotto la pelle, abbattendo immediatamente ogni difesa. 




 
But it's just the end of one more lonely dream
Just the end of one more lonely night

 
 
 

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Capitolo 6
*** I cheated and lied, I know that you loved me but my hands they were tied ***





 
Erano passate un paio di settimane da quella notte.
Marta si era costretta a tornare alla sua vita normale, quella di tutti i giorni, quella del prima – prima della disfatta, della perdizione. Quella prima dell’amore. Che poi non lo sapeva nemmeno lei se era amore veramente, o se era semplicemente una forte attrazione che le impediva di passare un minuto senza pensare a quella persona… sì, ok, forse era proprio amore. Ma era sbagliato, sconsiderato, incauto e quanto meno impossibile, per cui l’unica scelta che aveva a disposizione era archiviare – come altre volte era stata obbligata a fare – e guardare avanti.  Il lavoro sarebbe stata la sua unica scappatoia. La via che avrebbe dovuto aiutarla ad allontanare la mente da lui e da tutto ciò che aveva solamente assaggiato, ma che già le mancava come l’aria.
 
Lo aveva perso, ed era stata lei a volerlo perdere. Ed aveva ragione a volerlo perdere!
 
Peccato che quel dolore al petto – come se le avessero strappato a forza il cuore – non accennava minimamente a spegnarsi e, per quanti sforzi facesse, quell’uomo era il suo primo pensiero appena sveglia e l’ultimo che a stento le permetteva di addormentarsi la notte. Sfinita. Prosciugata.
In cuor suo sapeva che prima o poi quel vuoto che sentiva dentro sarebbe stato rimpiazzato da qualcos’altro. Non sapeva cosa, forse rassegnazione, ma sarebbe successo; e allora Mark sarebbe diventato una flebile presenza, per poi trasformarsi in un caldo ricordo con cui coccolarsi di quando in quando… e non avrebbe più fatto così male.
«Probabilmente sarebbe il caso che ti prendessi un paio di settimane di ferie, Marta. Potresti tornare a casa dai tuoi… cambiare aria per un po’ potrebbe farti bene.»
Furono queste le parole che Gale le rivolse una sera – troppo lontana da quella notte, tanto che Marta iniziava a scordare la sensazione della sua pelle sotto le proprie mani, e troppo vicina al giorno in cui avrebbe dovuto rivederlo, tanto che già quelle mani traditrici prudevano dalla voglia di ricordare quella sensazione.
Sì, lo avrebbe rivisto. Tutta colpa del dannato destino. I Take That, dopo il tour della reunion, erano tornati all’improvviso sulla cresta dell’onda e non passava giorno che in città non si sentisse parlare del loro ritrovato successo. Avevano ricevuto in quegli ultimi giorni in albergo una prenotazione della Polydor. Otto camere, cinque singole e tre doppie, per dodici giorni. Gale le aveva appena consigliato di sparire da Londra per quelle due settimane, dal tono sembrava quasi un ordine, in verità. Marta ci pensò su qualche secondo, giusto il tempo di realizzare che avrebbe anche potuto farlo, ma poi… ? Sarebbe servito a qualcosa? Sarebbe riuscita a guarire?
«Non posso evitarlo per tutta la vita, Gale. È una dannatissima popstar, e da come si stanno mettendo le cose temo che non saranno sufficienti due settimane fuori città per cancellare…»
«Era solo un’idea, tesoro – la interruppe subito l’amica – credo anche io che fuggire dai problemi non aiuti a risolverli. È che nell’ultimo periodo…»
Marta si avvicinò alla donna e l’abbracciò stretta. Non aveva voglia di sapere quanto miserabile le fosse apparsa in quei giorni, era stato già abbastanza doloroso vedersi allo specchio ogni mattina.
«Dammi ancora un po’ di tempo… mi passerà. Giuro che mi passerà.»
Gale ricambiò l’abbraccio con calore, stringendola più forte che poté nella speranza di infonderle un po’ di coraggio, un po’… di grinta.
Poco dopo Marta fu in bagno. Aveva finito il turno e doveva cambiarsi. Sì rimirò nello specchio – lo stesso che ogni giorno le ricordava quanto il suo corpo sentisse la mancanza fisica di Mark –, respirò a fondo un paio di volte e cercò nel proprio viso riflesso la donna che era stata fino a solo un paio di mesi prima. Inutile dire che non la trovò, era sparita. E nel frattempo, realizzò, lui non l’aveva cercata, non si era fatto vivo. L’aveva dimenticata.
 
Lui l’aveva dimenticata. Lei lo amava. E nel giro di qualche giorno lo avrebbe rivisto. Uno schifo.
 
***

Erano passate un paio di settimane da quella notte.
Mark aveva fatto ritorno a casa. Da Emma. Dal bambino che portava in grembo.
Mark aveva fatto ritorno a casa con il corpo, ma con la mente e con il cuore era ancora fermo là, in quel letto, tra quelle braccia delicate e calde.
Mark aveva fatto ritorno a casa indossando quel suo solito candido, ingannevole, meraviglioso sorriso, mentre dentro avrebbe solo voluto urlare – non sapeva cosa, ma voleva urlare.
Odiava con tutto se stesso il cellulare. Non lo aveva mai odiato tanto in vita sua. Le mani fremevano dalla voglia di prenderlo e digitare il suo numero, aspettare che rispondesse, sentire la sua voce. No, non l’avrebbe costretta a tornare sui suoi passi. Voleva solo bearsi di quel suono ancora una volta – o forse no. Forse le avrebbe parlato, le avrebbe detto che da quella notte tutto dentro di lui era mutato irrimediabilmente. Forse l’avrebbe pregata di ripensarci, di riprenderlo. Forse…
«Mark, siamo arrivati – Emma lo stava richiamando alla realtà, come già troppe volte in un paio di settimane aveva dovuto fare -, scendi.» Stavano andando nello studio della ginecologa per il solito monitoraggio mensile; per lui era la prima volta.
Chiuse gli occhi nell’istante in cui la dottoressa ebbe appoggiato l’ecografo alla pancia della sua compagna. Un veloce e deciso battito di cuore irruppe nella stanza, nelle sue orecchie, nel suo cervello… nel suo cuore. Una lacrima tracimò solitaria, mentre Emma gli stringeva commossa la mano.
Era stato cieco fino a quel momento. Era stupido che avesse dovuto attendere di sentire il cuore del bambino, di vederlo nel monitor, per rendersi conto della cazzata che stava facendo – delle cazzate che aveva fatto. Aveva avuto sette mesi per realizzare che sarebbe diventato padre, che la donna con cui viveva gli avrebbe dato un figlio. Eppure i suoi occhi si erano aperti solo in quel momento.
La ragione e il sentimento non andavano di pari passo, quello no, ma non poteva sottrarsi alle sue responsabilità, così come non poteva pretendere che una ragazza come Marta s’impegolasse in una storia così sbagliata per tutti. Lui non era adatto a lei e probabilmente non lo sarebbe mai stato. Era uno che tradiva, che mentiva. Uno che era arrivato a innamorarsi di una donna a cui non avrebbe mai potuto appartenere, una donna che non avrebbe mai potuto essere sua, mentre c’era un’altra persona a cui aveva promesso fedeltà e rispetto e le aveva mancato di entrambe le cose.
Avrebbe fatto meglio a rispettare ora sia Emma che Marta, non sarebbe stato ancora troppo tardi.
La parte difficile, però, sarebbe arrivata a breve. L’impresa titanica si sarebbe compiuta a giorni, quando con i ragazzi avrebbe fatto ritorno a Londra per terminare le registrazioni del nuovo album.  
 
Nel giro di qualche giorno l’avrebbe rivista.
 
L’avrebbe rivista e avrebbe dovuto fingere di non desiderarla. Avrebbe dovuto ostentare sicurezza, tranquillità. Avrebbe dovuto recitare, fare l’indifferente, voltare le spalle ai suoi sentimenti. Aveva mentito a tutti fino a quel momento, ora avrebbe dovuto farlo anche con se stesso.
 
Luglio 2006
 
Il van viaggiava placidamente tra le vie di Londra. Mark guardava fuori dal vetro oscurato, stranamente silenzioso. Da quando aveva sentito il battito del bambino si era convinto che la cosa migliore da fare fosse scordarsi di Marta, impegnarsi con Emma al cento per cento e smetterla di fare il cretino… e per un primo periodo gli sembrò di essere anche più bravo di quanto si fosse aspettato. Ogni tanto aveva pensato a lei – con non poca malinconia –, ma per quanto il malessere per la sua perdita fosse pressante, era sempre riuscito ad andare avanti. Persino con Emma si comportava diversamente, tanto che il loro rapporto era visibilmente migliorato. Certo, pochi giorni di sole non avrebbero evitato al temporale di scoppiare, ma era certo che fosse la strada giusta, e pure più facile da percorrere di quanto avesse previsto. Fino a quella mattina; fino a quando si era accorto che il momento di rivederla era arrivato e lui aveva iniziato a stare male ancora.
Il solo posare lo sguardo sull’insegna dell’albergo gli aveva chiuso la bocca dello stomaco.
«Ehi, Owen, tutto ok?» Gary aveva finalmente sputato il rospo. Mark si era accorto delle sue occhiate incuriosite, a tratti preoccupate, che non aveva nemmeno finto di nascondere durante il tragitto dalla stazione, ma aveva a sua volta finto di non farci caso.
«Sì, Gaz, sto bene, perché?» gli rispose scendendo dal van e sentendo le gambe sempre più dure via via che l’ingresso si avvicinava.
«Non hai proferito parola per tutto il viaggio, nemmeno quando Doug ti prendeva in giro per il tacco delle scarpe!»
Mark cercò di rilassarsi, cercando nel suo famoso repertorio di sorrisi quello più sereno, ma in quel momento varcarono la soglia dell’albergo e, inconsapevolmente i suoi occhi si erano già posati su quelli di Marta che li stava aspettando con il suo solito atteggiamento professionale e un’espressione cordiale sul volto. L’espressione da «Buongiorno, in cosa posso esservi utili?»
La loro assistente si era già presentata per l’espletamento delle pratiche di check-in, a loro non restava che stazionare nella hall in attesa delle chiavi. Normale amministrazione. Marta e lei parlavano, si scambiavano documenti. Lui, come un assetato nel deserto, cercava il cioccolato dei suoi occhi – un po’ più scavati di come li ricordava, ma sempre bellissimi – senza trovarlo. Sentiva il chiacchiericcio dei suoi compagni di viaggio, e forse Howard lo stava ancora prendendo in giro, ma nonostante la mente gli stesse chiedendo di stare concentrato, tutti gli altri sensi lo spingevano verso Marta.
«Se fossi in lei ti avrei già denunciato per molestie» di nuovo Gaz, il grillo parlante, lo aveva distolto dai suoi pensieri – e forse avrebbe dovuto ringraziarlo, se non fosse stato per il fatto che aveva bisogno di guardarla, ne sentiva il bisogno fisico.
«Non la trovi meravigliosa?» gli sfuggì dalle labbra, pentendosene subito.
«È molto carina, sì. Ma, anche se mi costa ricordartelo, tu sei impegnato… e lei probabilmente è una giovane ragazza sana di mente. Non attirarla nella tua tela, spider man!»
Riuscì quasi a sorridere per quella frecciatina, ma poi fu di nuovo risucchiato da quella velata indifferenza che Marta gli stava riservando. Forse la sua era rabbia, perché lei riusciva a fingere mentre lui aveva già mandato a ramengo – ancora – qualsiasi buono proposito che si fosse imposto. O forse era semplicemente che lei era lì a due metri e lui non poteva nemmeno sfiorarle una mano per sbaglio.
Era bellissima, come la ricordavano i suoi sensi. Era perfetta, come solo lei sapeva esserlo.
Era lì a pochi passi, ma la sentiva lontana chilometri.
Marta e la collega consegnarono loro le chiavi con un sorriso professionale stampato in volto, come fosse disegnato.
«Benvenuti e buona permanenza. Per qualsiasi cosa non esitate a contattare l’housekeeping premendo il tasto uno del telefono che troverete in camera. Buona giornata.»
Lo aveva detto senza guardarlo neanche una volta. Aveva rivolto un’occhiata veloce a tutti, meno che a lui. Lo stava palesemente ignorando e questo lo mandava fuori di testa.
Non era giusto per lei. Lui tradiva, mentiva. Aveva una famiglia.
Eppure proprio in quel momento, mentre lei fingeva di non conoscerlo – mentre fingeva di non essersi rotolata con lui nelle lenzuola della 520 solo un mese prima – tutto quello a cui riusciva a pensare era stringerla e implorarla di essere sua.
 
 
 
I cheated and lied,
I know that you loved me
but my hands they were tied





 
Ultimamente produco solo di notte - quelle poche volte che lo faccio.
Siate buone!

Buonanotte.

Fair

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Capitolo 7
*** You might lose your dignity But it's not what it used to be ***





 
Le gambe stavano ancora tremando anche se Mark si era già allontanato da un po’. Quando si era ritrovata a dover assegnare le camere gli aveva appositamente affidato la 520, Marta sperava così di riuscire a fargli provare almeno un terzo del dolore che da settimane lei si portava appresso. Non era sicura che a lui facesse qualche differenza; probabilmente, vista la velocità con cui l’aveva dimenticata, non gli avrebbe fatto né caldo né freddo, ma sperava che da qualche parte dentro sé, l’uomo meraviglioso che l’aveva stretta ci fosse ancora, e stesse male al pensiero di non poterla più avere.
«Gale, ho bisogno di una pausa, vado a bere un thè », comunicò alla collega incamminandosi poi al bar dell’hotel.
Poco dopo, seduta al bancone con una tazza fumante di Earl Grey davanti, si maledisse per l’ennesima volta. Era stata lei ad allontanarlo, a non volere quella storia – nonostante ci fosse già dentro con tutte le scarpe –, perché mai avrebbe dovuto desiderare vendetta? In fondo, la colpa era solo e soltanto sua, non di Mark. Però lui era fidanzato e non glielo aveva detto. L’aveva corteggiata e l’aveva intrappolata in quegli occhi profondi e in quel sorriso maledetto, senza soluzione, senza ritorno.
Presa da un eccesso di stizza – verso se stessa, più che verso altri – sbatté una mano sul tavolo prendendo accidentalmente la tazza che aveva di fronte e rovesciando tutto il contenuto bollente sul bancone, sulle sue mani e per terra.
«Ahia! Dio, Jimmy, scusami! Scusami – disse rivolgendosi al suo collega, mortificata e dolorante –, accidenti come scotta!» continuò correndo al di là del bancone per mettere le mani sotto l’acqua fredda.
«Ti sei fatta male?»
Tra tutte le voci che avrebbe voluto sentire, tra tutte le persone che avrebbe voluto si preoccupassero per lei, quella che le stava rivolgendo parola era proprio l’ultima. Non si volse nemmeno per guardarlo in faccia, anzi, continuò a massaggiarsi le mani sotto al getto freddo – che non fece altro che acutizzare il dolore – pronunciando un secco «Sì, è tutto ok».
«Non dovresti metterlo sotto l’acqua fredda, è peggio…» proseguì imperterrito, come se la sua indifferenza non lo toccasse minimamente, come se fosse tutta normale amministrazione.
Intanto Jimmy, constatata la non gravità della scottatura, si era allontanato a prendere gli stracci per pulire, mentre Mark si era avvicinato a lei per controllare.
«Fammi vedere – le chiese alzando una mano in cerca di quelle di lei -, probabilmente ci vuole una guardia medica.»
«Non mi serve proprio niente, grazie. Almeno non da te…»
Marta ritrasse le mani e in tutta fretta si diresse verso il retro della reception da dove Gale aveva visto tutta la scena. Quando quest’ultima vide la collega raggiungerla come una furia, tirò fuori la cassetta del pronto soccorso e si preparò a un’altra puntata della soap opera.
«Come si permette di rivolgermi parola – sbottò infatti Marta, aprendo con uno strattone la porta del retro – dopo avermi accantonata, dopo non avermi cercata per settimane! Dopo…»
«Smettila, vieni qui che ti metto la crema!» le intimò Gale con il tubetto della lozione già pronto. «Hai visto a voler fare sempre di testa tua? Adesso ti sei scottata!» E probabilmente non si riferiva solo al thè bollente.
«Penso sia arrivato il momento che tu vada a casa, prima che succeda qualcosa di più grave», le consigliò infine l’amica/collega, «Conciata così, oggi, non mi saresti di alcun aiuto.»
Poco dopo, ascoltando stranamente il consiglio di Gale, Marta prese le sue cose e si diresse verso l’uscita diretta a casa. Forse avrebbe dovuto darle ascolto anche quando le aveva detto di prendersi due settimane di ferie, ma ormai la frittata era fatta e sicuramente sparire per quindici giorni non avrebbe risolto le cose.
Mentre voltava l’angolo verso la stazione della metro, qualcuno la afferrò per un gomito e la trascinò per qualche metro fino a fermarsi in un vicoletto in penombra.
«Mi dispiace ricordarti che sei stata tu ad andartene e a lasciarmi solo in quella dannata stanza. Mi dispiace ricordarti che sei stata tu a decidere di allontanarti da me, a fare una scelta per tutti e due. Mi dispiace… Mi dispiace…»
Un Mark così sconvolto non lo aveva mai visto. Marta se ne stava schiacciata tra lui e il muro con gli occhi sgranati, un po’ colpita dalla verità di quelle parole che le bruciavano addosso come lava incandescente, un po’ spaventata da quegli occhi azzurri pericolosamente lucidi. Il problema era che non riusciva a parlare.
«Mi dispiace di aver semplicemente cercato di rispettare la tua decisione, di aver creduto che allontanarmi davvero fosse la cosa migliore per te. Mi dispiace soprattutto di averci provato con tutto me stesso… - lentamente le gambe cedettero sotto al peso di quella consapevolezza, fino a farli trovare uno in ginocchio davanti all’altra – … e di non esserci riuscito.»
Il groppo in gola che lei sentiva temeva l’avrebbe presto soffocata. I muscoli erano rigidi a tal punto da impedirle qualsiasi movimento. Si stupì che il diaframma si abbassasse ed alzasse ancora! Mark le stringeva le mani – che a quel punto non le facevano nemmeno più male, o forse era così concentrata su altro che anche le bruciature erano passate in secondo piano – e teneva il capo chino.
«Dì qualcosa, ti prego, sto impazzendo…» furono le successive parole di un Mark in pezzi, che ancora non riusciva a guardarla negli occhi. Marta pianse, erano giorni che non piangeva più, credeva di averle finite quelle dannate lacrime!
«Scusami, Mark. Hai ragione, ho deciso io e non avevo il diritto di trattarti a quel modo…» sussurrò, cercando con le dita di alzargli il viso per poterlo guardare negli occhi. Lui la lasciò fare, sembrava un cucciolo smarrito.
«Credimi, Marta, ci ho provato a vivere la mia vita, a lasciarti vivere la tua, e per un attimo mi sembrava di esserci riuscito, ma appena ti ho vista io…»
Lei si alzò, aiutando anche lui a fare altrettanto. Quella volta, si disse tra sé, non avrebbe sbagliato. Avrebbe preso una decisione prendendosene tutte le responsabilità.
«Non continuare, per favore. Ho detto che hai ragione, ma non che voglio tornare indietro.»
Quelle parole fecero male a lei per prima, così vicina com’era all’oggetto dei suoi desideri; in grado com’era di sentire ancora il suo profumo su di sé. Il fatto è che l’orgoglio e la dignità non avrebbero mai dovuto lasciare il posto ai sentimenti, non in un caso come quello. E più sentiva la lama conficcarsi dolorosamente nelle carni, più si rendeva conto che sarebbe stato meglio così.
«Mark, dispiace più a me che a te, credimi, ma io non voglio essere la seconda scelta di nessuno.»

 
***

Da quel giorno in quel vicolo di Londra Mark non fu più lo stesso. E non solo perché Marta lo aveva allontanato di nuovo, ma soprattutto perché, nonostante fosse pienamente conscio che fosse la cosa migliore per entrambi, non riusciva a vedere la fine del tunnel senza di lei; perché più la guardava, giorno dopo giorno, più si convinceva che fosse lei quella giusta per lui, che fosse quella in grado di salvarlo da se stesso e dall’autodistruzione a cui si stava sottoponendo.
Sera dopo sera Marta lo vedeva rientrare in albergo più tardi degli altri, ogni sera sempre più sbronzo, più in pezzi… meno se stesso.
All’orgoglio per aver preso la decisione giusta – e alla forza che ci stava mettendo per tentare di andare avanti senza di lui –, ben presto si aggiunse il senso di colpa: si sentiva responsabile di quel dolore, glielo leggeva scritto in viso ogni sera quando rientrava. Quel dolore lancinante portava il suo nome e lei non sapeva cosa fare per aiutarlo a stare meglio.


You might lose your dignity
But it’s not what it used to be

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Capitolo 8
*** We cry, we learn We think about the things we’re crying for ***





 
I giorni passavano, diventando settimane, che lentamente divennero mesi.
Da quell’ultima volta in albergo, Marta non aveva più visto Mark, e aveva cercato in tutti i modi di non pensare a lui, di evitare qualsiasi occasione anche solo di incrociare la sua figura di sfuggita.
Si era dedicata anima e corpo al lavoro, si era iscritta a un corso di giapponese e a uno di fotografia, giusto per riempire quegli spazi vuoti della sua vita che l’avrebbero inevitabilmente costretta a star sola con se stessa e pensare – ed era ben conscia che in quei momenti c’era solo una cosa che spingeva prepotentemente per tornare a galla, ed era assolutamente determinata a impedirlo.
Per le vacanze di Natale si concesse persino il lusso di due settimane di ferie, in cui finalmente sarebbe tornata a casa per la prima volta dopo almeno tre anni.
Quando le porte scorrevoli degli arrivi si aprirono, la prima cosa che vide fu uno striscione grande e colorato che le dava il benvenuto, e sotto di esso la sua famiglia al completo che era venuta ad accoglierla in pompa magna. Fu in quel momento che tutte le lacrime non piante in quei mesi, passati in compagnia di un senso di solitudine molesto – quello che fa più male perché ti colpisce anche quando sei in mezzo agli altri –, disintegrarono ogni sorta di margine che fosse riuscita a edificare. Si sgretolò come un castello di sabbia, succube di una marea troppo potente perché riuscisse a conservare la sua integrità. Roberta, sua sorella, le corse incontro poco prima che anche le ginocchia cedessero sotto il peso insostenibile di quel dolore che non aveva più condiviso con qualcuno, nemmeno con Gale; l’abbracciò forte, tenendola stretta, e le accarezzò i capelli come tante – troppe – volte aveva già fatto in passato, prima che Marta decidesse di partire per il Regno Unito.
«Sei a casa, piccola – le sussurrò, - sei a casa!» e Marta sentì che sua sorella, sebbene sapesse poco o niente della sua vita degli ultimi anni, aveva compreso appieno quanto gravi fossero i danni di quel terremoto che, dall’Italia, lei non aveva avvertito. 
Più tardi, quando erano rimasti solo i suoi occhi gonfi a testimoniare quanto fosse felice di essere a casa – o almeno così sembrava alla sua famiglia, ignara della vera causa della sua cera poco avvenente –, se ne stavano tutti in taverna a bere cioccolata calda e parlare, raccontare aneddoti, ma soprattutto fare domande. A Marta.
Il più insistente era suo fratello che continuava a chiedere quando gli avrebbe portato a conoscere il fidanzatino inglese, e alla risposta di Marta che non c’era nessun inglese, tantomeno fidanzatino, lui la squadrava strano e ripeteva «Se, se, come no.» Stava iniziando a diventare una situazione pesante, perché anche i suoi genitori, specie sua madre che sognava nipotini sgambettanti da coccolare e viziare, non perdeva occasione per ricordarle che a ventitré anni lei aveva già due figli.
«Io non mi sposerò mai, per cui abbiamo già sistemato anche la faccenda dei figli!» pensò tra sé mentre saliva in quella che un tempo era stata la sua camera, quando finalmente la famiglia le accordò il permesso di congedarsi per qualche minuto.  
Non aveva ancora sistemato la valigia, non si era nemmeno data una rinfrescata per riconciliarsi dopo il viaggio – e dopo quel patetico pianto all’accoglienza arrivi –, ma decise che per quello avrebbe avuto tempo; in quel momento sentiva solo il bisogno di chiudere gli occhi e svegliarsi in un’altra vita.

 
***

Quando lui ed Emma scoprirono di aspettare un figlio, Mark aveva iniziato a sognare ad occhi aperti. Immaginava per il nascituro un’infanzia serena e spensierata come l’aveva avuta lui con Tracy e Daniel, in quel loro piccolo giardino di Oldham. Avevano poco – tutto quello che i loro genitori potevano permettersi – ma quel poco per loro era tutto il mondo. Si divertivano sempre, anche con un semplice pallone da calcio ormai consumato e con qualche toppa mancante. Era tutto più semplice, più facile e, forse, migliore.
Eppure era cresciuto, aveva fatto fortuna. Era diventato famoso e con quello che aveva messo da parte avrebbe potuto garantire alla sua famiglia stabilità e fare per suo figlio anche l’impossibile. Con tutte quelle possibilità avrebbe avuto la stessa fantastica infanzia che aveva avuto lui?
Era una domanda a cui non sapeva rispondere, ma di certo, con un padre come lui che, al posto di creare con la moglie un solido rapporto basato su fiducia, lealtà e, soprattutto, fedeltà, la tradiva spesso - e, per giunta, si era innamorato di un'altra donna come mai gli era successo prima -, non sarebbe stato semplice.
Stava finendo di decorare l’albero di Natale – ormai mancavano solo pochi giorni, ma era stavo via con i ragazzi per la promozione di Beautiful World per cui non ne aveva avuto il tempo prima –, mentre Emma allattava il piccolo Elwood seduta sul divano lì vicino. Negli ultimi mesi, tra la nascita del bambino, la definizione del nuovo progetto con i Take That e il conseguente inizio della promozione, era stato risucchiato in un vortice pazzesco che lo aveva aiutato a non crollare del tutto, a restare sobrio quel tanto che bastasse per tenere insieme i pezzi di se stesso che, dopo Marta, avevano minacciato più volte di disintegrarsi; ma quando si ritrovava solo, in quei momenti, le crepe riprendevano a scricchiolare, i cardini delle porte che aveva chiuso nel suo cuore cigolavano pericolosamente, segno che di lì a poco avrebbero ceduto e tutto ciò che non voleva sentire, tutto ciò che lo avrebbe distrutto, sarebbe colato fuori come lava incandescente. E lui sarebbe finito.
L’unica cosa che alleggeriva quel senso di oppressione era l’alcool.
Era una scelta da codardo, lo sapeva, e a volte – soprattutto quando era in giro con i suoi amici – esagerava sbronzandosi come un idiota e svegliandosi la mattina accanto a qualche volto sconosciuto.
Si sentiva una larva, anche se poi, sul palco, splendeva come una stella, felice e allegro come la gente là fuori era abituata a vederlo. Era un circolo vizioso da cui non riusciva a uscire; un continuo, enorme, colossale errore che, però, era in grado di seppellire il ricordo di Marta… di nascondere quanto in realtà si sentisse miserabile senza di lei.

 
***

La cosa peggiore successe la mattina di Natale.
Come ogni anno, tutta la famiglia aspettava l’alba per andare sotto l’albero e aprire i regali. Non c’erano più bambini piccoli, ma Marta aveva sempre mantenuto la dolcissima abitudine di posizionare vicino al camino un piatto di biscotti al cioccolato e un bicchiere di latte per Babbo Natale, che puntualmente venivano spazzolati da suo padre. Lo aveva fatto ancora e, quando tutti furono insieme nel salone, piatto e bicchieri erano vuoti. Fu un tripudio di abbracci e baci, più felici del solito perché la famiglia finalmente era di nuovo al completo, successivamente sedettero intorno all’abete addobbato per scartare i regali che il fantomatico Santa Klaus aveva lasciato per loro.
Marta non aveva dormito granché, nonostante gli sforzi, quel vuoto al centro del petto non accennava a chiudersi, anzi, pareva ingrossarsi sempre di più a causa delle feste, in cui di solito si sta con la gente che si ama; lei era con i suoi cari, infatti, ma c’era un grande assente che, anche contro la propria volontà, bussava di continuo nel suo cuore alla ricerca di un piccolo spiraglio per venire fuori.
Non lo aveva permesso fino a quel giorno, e avrebbe mantenuto ferrea la difesa sulle mura. Peccato, però, che sua sorella aprì il regalo che sua madre le aveva fatto e, con una cannonata, la fortezza capitolò.
Era il nuovo cd dei Take That e, pur senza volerlo, gli occhi di Marta erano già caduti lì dove non avrebbero dovuto, e fu di nuovo baratro.

 
***

Più cerchi di dimenticare, più ti sforzi ad andare avanti – sconfitto, traballante, ma ci provi –, più il destino sembra metterti alla prova, spingerti verso quei limiti che ancora non sei riuscito nemmeno a porti, e successe che la promozione portò Mark in Italia. A Milano. L’ultimo dei posti in cui sarebbe voluto andare.
Mentre dall’aeroporto viaggiavano in van verso l’albergo – e anche se non sapeva dove lei fosse in quel momento, con chi e come stesse – sentiva la città parlarle di lei, della sua semplicità, del suo modo di sistemarsi la ciocca di capelli sbarazzina – sempre la stessa a causa della rosa – dietro l’orecchio, di quel sorriso genuino che le illuminava il volto e del modo appassionato con cui faceva l’amore. In quei pochi minuti, tutto ciò che aveva così prepotentemente cercato di accantonare in un angolo remoto della sua anima, tornò a galla insieme a quell’amore sbagliato che aveva desiderato non provare. E fu di nuovo baratro.
 

 
We cry, we learn
We think about the things we’re crying for
 
 
 
 
                                                                                                                             

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Capitolo 9
*** It's a constant fight to get through each day and night, It's a war between the present and the past ***





 
Marta credeva di aver toccato il fondo del barile la mattina di Natale, invece, dietro l’angolo, l’aspettava qualcosa di peggio: sua sorella e la promozione italiana del nuovo album dei Take That.
 
Avrebbe voluto inventarsi una scusa qualunque per anticipare il ritorno a Londra, per mettere quanti più chilometri possibili tra lei e Mark, ma il destino doveva volerle male, perché aveva acquistato un biglietto di un volo non rimborsabile, e di certo il cambio data non glielo avrebbero regalato. C’era anche da considerare che non stava con la sua famiglia da un sacco di tempo, e sicuramente non avrebbero preso bene la sua decisione di partire prima – e avrebbero pure avuto ragione da vendere.
L’unica sua – vana – speranza rimaneva una: che sua sorella non si inventasse qualche cavolo di anteprima, o manifestazione, o registrazione a cui farsi accompagnare per vederli. Non avrebbe retto!
Ovviamente, tutto ciò che Marta desiderava ultimamente sfumava in cenere, e Roberta non avrebbe certo sprecato la succulenta opportunità di incontrarli, soprattutto se erano nella sua città!
 
Era passato qualche giorno da Capodanno.
Marta aveva deciso che starsene chiusa in casa a piangersi addosso non le avrebbe giovato – dopotutto era tornata in famiglia per cercare un po’ di tranquillità e, invece, non aveva fatto altro che piangere e immusonirsi – così prese sua sorella e l’accompagnò in giro per Milano a fare un po’ di shopping, reso più appetibile dai saldi.
Mentre vagavano in auto per le vie del centro, nella infruttuosa ricerca di un posto in cui parcheggiare, alla radio partì una delle nuove canzoni dei Take That che, guarda il caso, era cantata interamente da lui, l’oggetto dei suoi incubi – e purtroppo anche dei suoi sogni, non poteva negarlo.
Roberta si mise a strillare come una pazza invasata, iniziando poi a cantare a squarciagola, totalmente dimentica dei ventisei appena compiuti, e facendo saltare la sorella sul sedile.
«Cioè, – allibì Marta in direzione della sorella, cercando di sovrastare la musica altissima – mi stai dicendo che hai l’album da poco più di una settimana e conosci già tutte le canzoni?!» ma Roberta era atterrata su un altro pianeta e nemmeno l’ascoltava. Si arrese all’evidenza che in quel momento l’elettroencefalogramma della sorella era una linea piatta e, incrociando le braccia al petto, attese pazientemente che quel supplizio finisse: ascoltare la voce di Mark rimbombarle in testa non faceva altro che peggiorare il suo già precario equilibrio psicologico, ma a sua sorella non aveva raccontato granché di quanto era successo e, ovviamente, non aveva fatto nomi. Roberta, quindi, non poteva sapere che la sua felicità le stava costando molto cara.
Finalmente, dopo più di tre minuti, la canzone finì e Marta poté prendere un respiro nel tentativo di riportare il suo cuore a ritmi più regolari.
«E questa era Shine, nuovo singolo dei Take That, in uscita il prossimo febbraio e trasmesso solo da Play Radio in anteprima nazionale per i nostri ascoltatori. – lo speaker continuava a gracchiare quel dannato nome – Ma faremo di più! Nei prossimi giorni il famoso gruppo inglese sarà nel nostro paese per la promozione di Beautiful World e noi vogliamo regalare a cinque fortunati di voi la possibilità di incontrarli! Avete capito bene!»
Roby inchiodò quasi in mezzo alla strada, per poi spostarsi – tra clacson e imprecazioni varie da parte degli altri automobilisti – all’esterno della carreggiata. Fermò la macchina e fece cenno alla sorella di stare in silenzio, anche se praticamente non aveva ancora fiatato.
«Faremo ascoltare le intro mixate di cinque loro famosissime canzoni; i primi cinque che invieranno al nostro numero un messaggio con i titoli esatti vinceranno un meet&greet con il gruppo nei nostri studi il prossimo venerdì!»
E la frittata era fatta!
 
Nemmeno una mezz’ora più tardi, mentre stavano finalmente camminando per Corso Buenos Aires e Roberta non faceva che pregare in stile Santo Rosario, il suo telefono si mise a suonare. Lei e Marta si scambiarono un’occhiata quasi atterrita – probabilmente, una per l’adrenalina della possibile vincita, l’altra per la paura che sua sorella vincesse davvero costringendola poi ad accompagnarla agli studi, ovunque essi fossero.
«Pronto?» rispose Roberta con la voce tremolante; ascoltò l’interlocutore per qualche secondo, poi un sorriso a trentadue denti le aprì il viso in due. «Sì, sono io. Sì. Sì… Oddio!!!» l’ultima parola esplose così forte che tutti i passanti nel raggio di cinquecento metri si voltarono verso di loro.  
«Ho vinto, tesoro! Ho vinto! Dio non ci posso credere! Li vedrò, li incontrerò, parlerò con loro!»
Saltava, piangeva, gridava, cantava. Sua sorella era incontenibile, e improvvisamente Marta si sentì in colpa per non essere in grado di gioire con lei. Non c’entrava nulla Roberta con i suoi disastri sentimentali, non aveva nulla a che fare con la sua vita amorosa distrutta da un uomo a cui si era donata anima e corpo pur sapendo che non sarebbe mai stato suo veramente; e poco importava se quell’uomo si chiamava Mark Owen: avrebbe dovuto ugualmente essere entusiasta per sua sorella che, dopo tanti anni di attesa, avrebbe finalmente coronato il sogno di una vita, incontrare i suoi idoli!
«Ovviamente tu mi devi accompagnare! A parte il fatto che… – bla–bla–bla, Marta sentiva solo il chiacchiericcio, ma annuiva cercando di sfoggiare la migliore espressione divertita che riuscì a indossare – … non so se potrai salire anche tu, ma devi assolutamente farmi da sostegno morale.»
Marta guardò la sorella, sicuramente vicina a un collasso cardiocircolatorio, e per un fugace momento riuscì a sorridere genuinamente per lei, che se ne stava lì di fronte – con quei suoi due occhioni scuri, lucidi ed ebbri di gioia – e non desiderava altro che condividere quell’emozione speciale con la sua sorellina.
«Sono davvero troppo eccitata per te, Roby – riuscì a dire, abbracciandola stretta – Ti accompagno volentieri. Sarà una bella esperienza da condividere prima che me ne ritorni a Londra!»
Passarono il resto della giornata a fare shopping, ridere e scherzare, mentre Roberta aggiornava la sorella sulle ultime notizie riguardanti i suoi cantati preferiti: quando iniziava a parlare di loro era peggio di un vulcano in eruzione, non smetteva più! E nonostante il dolore al petto che Marta provava ogni qualvolta sentiva nominare Mark e la sua famiglia, riuscì a cacciare indietro le lacrime e fingere che tutto fosse perfetto.
Per un istante fu tentata di raccontare alla sorella tutta la verità riguardo al fantomatico uomo inglese che le aveva spezzato il cuore, ma non avrebbe voluto mai e poi mai rovinare quel momento per lei tanto importante, per cui si morse la lingua, come aveva fatto sino ad allora, e andò avanti per la sua strada.
Di lì a qualche giorno probabilmente, dopo parecchio tempo, avrebbe rivisto l’uomo che amava – e odiava; non credeva di poter affrontare quell’incontro senza poi uscirne ammaccata, ma per sua sorella avrebbe rischiato il tracollo. E non solo per lei, il suo amore malato non si era ancora spento, era giunto ormai il momento di ammetterlo. Per quanti sforzi facesse, non era proprio in grado di dimenticare quelle mani, quella voce e quegli occhi cerulei che l’avevano amata al primo sguardo - e che lei aveva amato in risposta.
 
***
 
Milano non aveva mai fatto così male. Aveva sempre amato l’Italia, i suoi abitanti, il calore che emanavano – e quel tepore italiano, dolce e irresistibile lui se lo trascinava ancora addosso –, eppure, mentre correvano da una parte all’altra della città, in ritardo come al solito, avrebbe voluto essere ovunque, ma non lì.
«Mark, è tutto ok?»
Gary era quello che più di tutti riusciva a leggergli nello sguardo quel disagio interiore che si portava appresso. Da quando erano saliti sul primo aereo per l’inizio di quella promozione, non aveva fatto altro che squadrarlo, studiarlo e interrogarlo con gli occhi, senza mai ottenere uno straccio di risposta.
Nemmeno lui era in grado di capirsi, figuriamoci se sarebbe mai stato in grado di raccontare a qualcun altro i suoi dissidi personali!
Il fatto era che sapeva perfettamente dove Marta fosse – solo a pensarlo, quel nome, lo faceva sanguinare –, era a Londra, non in Italia, ma in ogni angolo avrebbe voluto incrociarla. Su ogni marciapiedi, in mezzo alle folle urlanti, avrebbe voluto scorgerla e magari, con un po’ di fortuna, sfiorarla  per sentire di nuovo quel suo dolce profumo inebriante.  
Era ben consapevole di stare dicendo una marea di fesserie: lei non lo avrebbe più voluto nella sua vita, glielo aveva detto chiaramente, eppure nel suo cuore ferito tremolava ancora una minuscola fiammella di speranza. Da idioti, pensò, ma i sentimenti non puoi spegnerli come una candela, e quando divampano prorompenti non c’è nulla che si possa fare per evitare l’incendio.
E lui non riusciva proprio a estinguerlo. Ci aveva provato – eccome se ci aveva provato –, ma i suoi tentativi fallivano continuamente, confermandogli ogni volta quanto ancora fosse innamorato di lei.
 
 
It’s a constant fight to get through each day and night
It’s a war between the present and the past
 

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Capitolo 10
*** A reason to fall to your knees and die? What is love? ***





 
Quella mattina – di quel maledetto venerdì – si era svegliata, se così si poteva dire, con un’ansia pazzesca che si faceva mano a mano sempre più intensa. Ogni secondo e mezzo cambiava idea su cosa indossare, su cosa mangiare e, soprattutto, sull’accompagnare o non accompagnare Roberta a quello studio radiofonico che nella notte le aveva causato incubi atroci.
«Marty, è tutto ok? – le chiese sua sorella mentre facevano colazione – Mi sembri un po’ sciupata, hai dormito?»
Cosa? Sciupata, lei? Per carità! Era semplicemente a pezzi e, dati i molteplici presentimenti che sentiva riguardo quella giornata – che avrebbe dovuto finire prima di subito –, avrebbe preferito andare ad ammaestrare a mani nude un branco di leoni.
«Sì, sì, va tutto bene. È solo il mio vecchio letto, non sono più abituata e faccio un po’ fatica a prendere sonno.»
Come raccontava le balle lei, nessuno al mondo. Infatti, Roberta come al solito non le aveva creduto, ma era troppo elettrizzata da quello che avrebbe vissuto di lì a poco per preoccuparsene più di tanto. Aveva deciso di rimandare qualsiasi tipo di attacco psicologico a sua sorella, per farsi raccontare cosa non andasse, al giorno dopo.
«Ok – rispose, prima di correre in bagno –, tra venti minuti pronta che si parte! I Take That mi aspettano!»
 
Mentre zigzagavano nel traffico milanese Marty si chiese come mai si stessero muovendo a quell’ora se l’incontro era fissato per le tre di quel pomeriggio, ma siccome Roberta era tutto un nervo decise silenziosamente di non domandare, di non parlare e, soprattutto, di non prendere alcun tipo di iniziativa. Avrebbe fatto esattamente quello che fino ad allora era parso funzionare così bene: lasciarsi trascinare dalla corrente senza muovere un muscolo.
«Visto che te lo stai domandando, cara la mia sorellina, prima di andare a Play Radio c’è un’altra tappa che ci aspetta!» prima di ringraziare il Signore per la telepatia tra consanguinei, Marta s’irrigidì sul sedile, mentre la voce di Mark, che lanciava coltelli dall’altoparlante della vettura, continuava a scarnificarle, brandello dopo brandello, il poco di sanità mentale che ancora aveva attaccata alle ossa.
«Ho paura a domandarti cosa» soffiò fuori accusando, una dopo l’altra, quelle dolorose coltellate senza apparentemente colpo ferire. Apparentemente.
«Ho scoperto dove alloggiano, quindi prima si va lì a vedere com’è la situazione, successivamente li seguiremo a Radio Montecarlo. È a pochi passi dall’albergo, per cui potremo pure andare a piedi e lasciare l’auto lì nella zona della stazione.»
L’hotel dove alloggiano.
Se non fosse stata ancorata con le unghie alla stoffa del sedile, probabilmente Marta avrebbe vacillato, forse le sarebbe mancata l’aria e poi sarebbe crollata a terra sotto al peso soffocante di quella possibilità, quella di incontrarlo. Le sarebbe semplicemente bastato vederlo da lontano per tornare a sanguinare, e più occasioni si creavano, più il pericolo di incrociarlo – e magari essere anche vista – aumentava; però non poteva tirarsi indietro e fare la guastafeste, agli occhi di sua sorella non ne avrebbe avuto alcun motivo. A forza di ingoiare bocconi amari sarebbe soffocata veramente.
Quando giunsero davanti al Westin Palace la situazione si presentò piuttosto tranquilla. C’era un gruppetto di donne sedute sul ciglio del marciapiedi, chiacchieravano, ridevano e, di quando in quando, buttavano un occhio all’ingresso maestoso dell’hotel, sicuramente con la speranza di vedere uno dei componenti della band affacciarsi o uscirne. Roberta, con la sfacciataggine che l’aveva sempre contraddistinta, si avvicinò loro e fece un paio di domande. Marta rimase un po’ in disparte, appoggiata alla parete esterna del muro di cinta, mentre la sorella aveva già trovato qualcuno con cui sfogare la sua eccitazione riguardo quel gradito ritorno e con cui condividere la passione in comune; avrebbe tanto voluto utilizzare lo spirito di cameratismo ritrovato di sua sorella come scusa per tornare a casa – dopotutto non l’avrebbe lasciata sola –, ma solo al pensiero si sentiva estremamente in colpa; e, comunque, conoscendola, lei non glielo avrebbe permesso.
Qualche istante dopo, una delle donne presenti attirò l’attenzione con una gomitata alla vicina.
«Ragazze, ma quello non è Howard?»
Marta lo avrebbe riconosciuto con una veloce occhiata, dopo tutte le volte che lo aveva visto entrare e uscire dall’hotel dove lavorava a Londra: era davvero lui, uscito sotto al portico della hall per fumare una sigaretta. Questo le fece presumere che gli altri – che Mark – non fossero troppo lontani, e sperare che nessuno di loro uscisse a fare compagnia all’amico. Fece un ulteriore passo indietro verso il muro, quasi infossandocisi, mentre sua sorella, che le teneva salda un’estremità della manica del giubbotto, continuava a tirarla a sé, vicino alle altre.
Se quei quattro fossero stati affabili e disponibili come lo erano stati a Londra e si fossero avvicinati a loro per fare due autografi, sarebbe stata la fine.
 
Per fortuna – o sfortuna, data la faccia funerea di Roberta che ancora non era riuscita a vederli da vicino –, il momento “albergo” era terminato e Marta, sua sorella e il nuovo gruppo di amiche avevano già raggiunto gli studi di RMC. Ammise con se stessa che, se cercava di non pensare al motivo che l’aveva portata lì e al fatto che forse avrebbe rivisto l’ultima persona che avrebbe mai voluto rivedere, stare con loro e tornare a essere delle ragazzine spensierate per qualche ora non le stava dispiacendo, anzi. Alcune di quelle ragazze, sue coetanee, erano davvero divertenti, e quando smettevano di blaterare riguardo a ipotetici scenari sensuali insieme a Mark – o a un altro qualsiasi del gruppo –, riuscivano a parlare anche di cose interessanti. Analizzando i suoi stessi pensieri si rese conto di stare facendo un po’ la stronza: quelle ragazze non c’entravano nulla con il suo malumore; erano solo ragazze, cresciute con un sogno che si trovavano a due passi dal realizzare – Roberta compresa –, ma quando sentiva una di loro parlare di come avesse passato i suoi migliori anni sognando di fare l’amore con Mark Owen, le partivano le coronarie. In quei momenti la sua mente le giocava proprio dei pessimi scherzi che non facevano ridere proprio per niente.
Poi, d’un tratto, il caos.  
 
***
 
Da quanti anni faceva quel lavoro? Da tanti ormai. Quante folle aveva visto sotto ai loro piedi, urlare e strepitare alla ricerca di un secondo di felicità? Uno sguardo, un sorriso, un saluto con la mano… un bacio volante.
I fan, un popolo di gente che vive di passione, scrivevano sui cartelloni appesi negli stadi “Continuate a farci sognare”, senza rendersi conto che erano loro a far sognare chi stava su quel palco. A Mark era sempre piaciuto viversi il pubblico, fino in fondo, renderlo partecipe, fare in modo che quel sogno lo vivessero tutti insieme, come un unico, immenso cuore.
In quel momento, però, – in realtà si trattava di un periodo, non solo di quel momento – non riusciva a fare i conti con quei visi appiccicati gli uni agli altri, perché in ogni paio d’occhi cioccolato ci vedeva i suoi: Marta era diventata un diavolo tentatore pronto a insediarlo dietro a ogni angolo, a ghermirlo con i suoi artigli, a rendergli la vita impossibile… perché non c’era vita dopo di lei.
Prima che James aprisse il portellone del van per farli scendere, prese un lungo respiro e indossò la maschera con il suo sorriso migliore; le guardie del corpo aprirono loro un varco in mezzo alla folla urlante e lui si lasciò trascinare all’interno dell’edificio.
 
Quegli studi gli erano sempre piaciuti un sacco, doveva ammetterlo. Il bancone di registrazione affacciato all’enorme finestra al primo piano del palazzo, permetteva a chi vi era seduto – in quel caso, loro – di avere una visuale pazzesca della piazza e di chi stava fuori, sotto di loro. Da quella posizione potevano vedere i fan appollaiati sul marciapiedi, i fan potevano vederli e salutarli.
Mark si permise per qualche istante di studiare i volti sorridenti di chi era accorso a salutarli e a trasmettergli un po’ di quel calore che tanto gli era mancato, e improvvisamente raggelò, convinto di aver scorto davvero tra tutti quei paia d’occhi quelli di Marta. Chiuse gli occhi e li riaprì subito dopo, cercando di mettere a fuoco meglio, per assicurarsi che fosse lei, che però non c’era più.
Se l’era immaginata di nuovo.
 
***
 
Poteva sentire distintamente ogni goccia di sangue scivolarle dal cuore, scendere attraverso i suoi organi interni e andare a morire da qualche parte nella sua anima.
Mentre la bolgia si accalcava intorno a loro era riuscita a non vederlo – e tutte le altre invece si dimenavano per dargli anche solo una rapida occhiata –, ma quando alla fine giunsero allo studio ci fu poco da fare. Tutti e quattro se ne stavano seduti a quel bancone, in bella mostra, e Mark era proprio sopra al lato in cui lei e Roberta si erano posizionate. Aveva il cuore a mille, il respiro corto. Si sarebbe tranquillamente mimetizzata tra le presenti, se non fosse che, ad un certo punto, si accorse di una cosa: Mark l’aveva vista. I loro occhi, per qualche centesimo di secondo, si erano incrociati e lei, tutte quelle sensazioni devastanti che aveva sempre provato con lui, le aveva sentite di nuovo, una a una, più forte che mai. L’attimo dopo, senza che Roby se ne rendesse conto, si era accovacciata a terra, sparendo tra la folla in movimento.
In ginocchio, come una povera imbecille, stava sgattaiolando via.
 


A reason to fall to your knees and die?
What is love?

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Capitolo 11
*** It wastn’t a question before I knew It’s just an answer here by my side I found it out just in time. It’s you ***




 
«Senti, Roby, mi dispiace. Mi dispiace davvero tantissimo, ma io non ce la faccio, non posso accompagnarti a Play Radio.»
Mentre ancora la folla si accalcava sotto gli studi, Roberta si era voltata in cerca della sorella, la cui mano aveva lasciato la presa dalla sua da un po’. Nel panico, si era fatta strada attraverso le persone fino a vederla accovacciata a terra nella via perpendicolare, fuori dal casino e lontana dall’evento.
Ora le era di fronte e l’aveva sentita dire che non l’avrebbe accompagnata alla radio; tremava leggermente sotto al pesante cappotto e si teneva le ginocchia abbracciate al petto.
«Marta – e quando la chiamava con quel tono serio erano davvero guai –, mi spieghi cosa diavolo sta succedendo? Sono giorni che sei strana, capisco i tuoi problemi di cuore anche se al riguardo non ne so praticamente niente, ma proprio non riesco ad afferrare quale sia il tuo reale problema», e Marta scoppiò in lacrime. Roberta aiutò la sorella ad alzarsi da terra e l’abbracciò forte.
Dopo qualche minuto in cui nessuna della due si permise di aprire bocca, la maggiore prese la sorella minore per mano e cercò i suoi occhi.
«Io spero davvero che prima o poi mi dirai cosa ti turba tanto, piccola. Nel frattempo ti riaccompagno a casa e andrò da sola alla radio, non c’è problema.»
Nemmeno Marta seppe per quale motivo, cosa l’avesse spinta a rispondere scuotendo il capo, ma in quel momento sentì la sua voce dire:
«Tranquilla, ora sto meglio. Non c’è bisogno che mi riporti a casa, finiresti con il far tardi e non voglio farti perdere la tua occasione» baciò la guancia di Roby e le sorrise, anche se l’ansia non l’aveva ancora abbandonata.
«Però vorrei andare in un bar ora, mi è venuta fame.»
Tutto pur di allontanarsi da lì ed evitare il momento in cui i Take That fossero usciti per raggiungere il van.
 
E fu così che tre interminabili ore dopo furono nel cortile degli studi di Play Radio.
Marta si sentiva a disagio, nervosa e, soprattutto, frustrata dal non poter dar sfogo a quei sentimenti, dovendoseli tenere dentro per non creare altri problemi alla sorella e per non rovinargli ulteriormente quella giornata che doveva essere per lei la più bella della sua vita.
Quando furono alla porta d’ingresso Roberta si volse a guardarla.
«Vieni anche tu, provo a chiedere se possono farti entrare. Non mi va l’idea di lasciarti qui da sola al freddo» le disse, rammaricandosi di non aver domandato al telefono il permesso di portare un’accompagnatrice.
«Stai tranquilla, resterò qui e ti aspetterò con un defibrillatore pronto all’uso in mano – le rispose sfoggiando un sorriso finto quanto una banconota da due euro –, non preoccuparti.»
Roby però non era affatto tranquilla, tutt’altro, così la prese per mano e la trascinò dentro al palazzo, sicura che non avrebbero avuto il cuore di lasciarla nel cortile a congelare.
Infatti, pochi minuti dopo Marta sedeva su una sedia nella regia degli studi, mentre la sorella, già perfettamente calata nella parte della fan invasata, stava scambiandosi pressione arteriosa e battito cardiaco con le altre quattro vincitrici nel tentativo di capire chi sarebbe svenuta per prima.
Da dove si trovava poteva vedere i due presentatori della trasmissione e le cinque ragazze sedute su dei divanetti dietro di loro. Vedeva tutto. Questo significava che…
«Dall’altra parte ci vedono anche loro?» chiese, cercando di contenere il panico che sentiva crescerle dentro a un ritmo preoccupante.
«Non siamo mica in un commissariato di polizia e questo non è un interrogatorio – rispose simpaticamente il dj, sperando di strapparle un sorriso –, certo che ci vedono.»
Marta, però, non sembrò divertita.
Era in trappola.
Sua sorella era di fronte a lei, con gli occhi lucidi e le mani strette intorno a “Beautiful World”, in procinto di essere frantumato da quelle dita troppo nervose.
Lei si trovava su una nave che stava per affondare; era come un topolino che, dalla stiva, avrebbe corso come un ossesso verso la superficie, cercando di scappare.
Solo che era già arrivata in alto e non c’era nessun’altro posto dove cercare salvezza.
Mark, a breve – molto breve – sarebbe stato in quello studio di registrazione e con tutta probabilità si sarebbe accorto di lei. Non aveva scampo.
Mentre tentava di capire se il dj avrebbe ritenuto strano vederla sgattaiolare sotto la consolle, intercettò del movimento nel corridoio che aveva percorso qualche istante prima, quando era arrivata con Roberta. Il cuore iniziò a battere talmente forte che se non ci fosse stata la musica alta probabilmente il suo coinquilino accidentale lo avrebbe percepito chiaramente.
Pochi secondi dopo intravide dal vetro dello studio un biondo sospetto; poi un riccio, uno spilungone… e infine comparve Mark in tutto il suo “dannato” splendore.
Entrarono nello studio in fila indiana e, uno alla volta, abbracciavano le cinque ragazze. Roberta era così tesa che il sorriso le si era paralizzato sul viso; a Marta venne momentaneamente da ridere – solo perché grazie a tutta quella cerimonia Mark dava ancora le spalle alla regia - nel vedere sua sorella in quello stato. Sembrava fatta di legno. Comunque, fino a qui, tutto bene.
La situazione precipitò quando fu il turno di Roberta di presentarsi a Mark.
«Piacere, Mark, sono Roberta Mancini.»
Il cantante s’irrigidì come una corda di violino – Marta se ne accorse subito, pur sforzandosi non riusciva a togliergli gli occhi di dosso –, ma scosse impercettibilmente la testa e si volse verso i due presentatori, abbracciandoli e regalando sorrisi. Si misero a sedere al lungo bancone, uno vicino all’altro; lei pregava silenziosamente che per qualche miracolo divino Mark non si accorgesse di lei, anche se i suoi occhi cioccolato pareva stessero trapanando il vetro che la divideva dallo studio in cerca di quelli di lui.
Non avrebbe voluto averci più nulla a che fare. Avrebbe voluto andare avanti, superare tutta la situazione, ma con quegli occhi azzurri lì davanti, a un passo dall’incrociarsi di nuovo con i suoi, non sapeva più nemmeno lei cosa sperare.
E il secondo dopo Mark la stava fissando così intensamente che le sembrò di morire.
 
***
 
Da quando aveva creduto di averla vista in mezzo alla folla, Mark non aveva fatto altro che pensare a quanto ormai fosse caduto in basso se era arrivato a soffrire di allucinazioni così realistiche.
Doveva concentrarsi sul lavoro, sulle interviste, sulla promozione, invece sprazzi di ricordi dolorosi e sogni a occhi aperti gli sfrecciavano nella mente facendolo impazzire.
Arrivarono a Play Radio con un ritardo spaventoso sulla tabella di marcia, a causa della folla enorme che li aveva travolti in Piazza Duomo, ed erano tutti molto di fretta, tesi e nervosi.
Quando però incontrarono Petra e Marco, che li avevano sempre sostenuti in Italia come pochi altri, si sentirono subito a loro agio e più tranquilli. Avrebbero dovuto affrontare un breve Meet&Greet con qualche fan e poi sarebbero finalmente tornati in albergo.
Entrarono nello studio e vi trovarono subito i due presentatori e le cinque ragazze vincitrici dell’incontro. Come di consueto si avvicinarono e parlarono brevemente a ognuna di loro prima di iniziare l’intervista.
Quando Mark arrivò all’ultima donna, di nuovo l’ossessione che lo tormentava si palesò come un coltello piantato nella gola.
«Piacere, Mark, sono Roberta Mancini.»
Come diavolo era possibile – come? – che tra tutte le persone che avrebbe potuto incontrare, ne aveva di fronte una con lo stesso cognome di Marta? Stava già impazzendo di suo, e ora ci si metteva anche qualcosa nell’universo che cercava di impedirgli di dimenticarla: non potevano essere tutte solo coincidenze!
 
Un uomo fa ciò che può, finché il destino non si rivela*
 
Aveva provato con tutte le sue forze a scacciare quei pensieri, a demonizzare quei sentimenti sbagliati e inutili – visto che lei lo aveva definitivamente allontanato –, ma ogni cosa remava contro di lui, contro la sua volontà.
Poi… alzò gli occhi.
Vedersela lì davanti, con lo sguardo sgranato, teso, umido, caldo fu davvero troppo; averla a pochi passi e tornare a sentirla pulsare nelle proprie vene come se non se ne fosse mai andata.
Il suo destino si era appena rivelato.
 
 
It wastn’t a question before I knew
It’s just an answer here by my side
I found it out just in time
It’s you.

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Capitolo 12
*** You’re not the one I need You’re just the one that I want Makes perfect sense to me ***




Aveva una gran voglia di uscire da quello studio e correre più veloce del vento, lontano, dove quegli occhi azzurri non avrebbero più potuto farla sentire disarmata, senza protezione, nuda. Ne aveva davvero una gran voglia e per un breve istante si sentì quasi in grado di farlo.
Il problema non era mettere un piede dopo l’altro diretta chissà dove, il vero problema era che Marta non riusciva a distogliere lo sguardo da quello di Mark, che l’aveva incatenata a sé dal primo momento in cui si era accorto di lei, e non accennava a lasciarla andare. C’erano solo brevi istanti in cui, per esigenze lavorative, si vedeva costretto a guardare altrove, ma in quelle rare occasioni Marta si sentiva così sopraffatta da avere giusto il tempo di riprendere fiato prima di essere di nuovo risucchiata da quel vortice che erano i suoi occhi azzurri.
Non respirava. Non si muoveva.
 
***
 
Gli mancava il fiato. Non riusciva ad articolare un pensiero che fosse uno.
Fortuna che Gary aveva preso il sopravvento nell’intervista, spinto da quello slancio di amicizia che li aveva sempre legati. Evidentemente non solo Mark si era accorto di Marta al di là della vetrata, e sebbene non conoscessero nel dettaglio ciò che era successo tra lei e il loro amico, gli altri tre si erano da subito resi conto – da quel primo giorno a Londra –, che l’Owen si era preso una bella cotta; e sapevano tutti dove andavano a finire quelle cotte: in un mare di guai.
Quando finalmente l’intervista fu terminata e le prime note di “Shine” si diffusero nell’aria, quello studio già piccolo iniziò a farsi terribilmente stretto per Mark. Sentiva il bisogno di uscire da lì e raggiungere Marta. Doveva parlarle, doveva fare qualcosa o lo avrebbe rimpianto per tutta la vita.
Ormai era palese che senza di lei non sarebbe riuscito ad andare avanti; era chiaro come il sole che loro due – in un modo assurdo che faticava a comprendere –, si appartenevano.
Mark sorrise ai padroni di casa e ai suoi compagni, sfoggiando la sua solita espressione serafica – che però Gary e gli altri due non si bevvero neanche un po’ –, e approfittando della pausa musicale si alzò.
«Scusate, ho bisogno della toilette» si congedò, uscendo velocemente dalla stanza.
Aveva il cuore in gola e le mani che formicolavano pericolosamente e appena fu di fronte alla porta della regia strinse immediatamente le dita intorno alla maniglia, pronto a riprendersi la sua vita, ma qualcosa lo bloccò. Abbassò lo sguardo e ripensò all’ultima volta che avevano parlato. Lei aveva sofferto così tanto per lui. Cosa era cambiato? Cosa poteva darle di diverso da allora?
Lasciò penzolare il braccio e fece dietro front verso i bagni.
«Aspetta!» quanto aveva sognato di sentire ancora quella voce. «Mark, aspetta un secondo…»
 
***
 
Quando lo aveva visto uscire dallo studio con quell’aria assente, pensierosa, per un momento Marta si sentì sollevata: non averlo più davanti agli occhi le avrebbe permesso di riprendere il controllo di se stessa e scappare via a gambe levate.
Eppure, in un angolino dentro sé si ritrovò a sperare di vederlo spalancare la porta della regia, entrare e stringerla tra le braccia con un’intensità tale da fondere i loro corpi uno nell’altro.
Da quando lo aveva rivisto, le sensazioni che si erano susseguite – paura, desiderio, angoscia, dolore, amore… ancora desiderio – l’avevano così confusa che non era stata in grado di riflettere su cosa avrebbe voluto davvero, su cosa realmente provasse, ma quando, dopo qualche istante, si rese conto che non sarebbe mai arrivato da lei, si sorprese nel sentire nel cuore un’inspiegabile frustrazione.
“Lui avrebbe dovuto venire a parlarmi!”
Perché lo desiderava? Perché si sentiva ferita dal suo disinteresse? Perché era così stupida da volersi autoinfliggere dolore psicofisico così intenso? Perché?
Ma non c’erano risposte a quelle domande. C’era solo la sua mano che si alzava sulla maniglia e con vigore inaspettato l’abbassava per poi tirare la porta verso di sé.
Mark era lì dietro, a pochi passi, girato di spalle. Stava andando da qualche parte che non fosse da lei e questo la spinse ad aprire la bocca.
«Aspetta!» sussurrò con il cuore in subbuglio. «Mark, aspetta un secondo…»
Fece un passo, e poi un altro, nella sua direzione. Lui si era fermato, ma non accennava a voltarsi.  

 
 ***
 
Stringeva i pugni in basso, le braccia stese lungo i fianchi.
Mark non aveva la forza di voltarsi per paura di scoprire che quella voce non era che l’ennesima delle sue dolorose allucinazioni. Non aveva avuto il coraggio di forzarla, di obbligarla a guardarlo negli occhi o, peggio, parlargli cercando di essere cordiale con lui, ma solo Dio sapeva quanto avesse desiderato che fosse lei a fare tutto di sua spontanea volontà.
Aveva bisogno di sentire quella voce meravigliosa accarezzare ancora il suo nome. Aveva bisogno di vedere quello sguardo magnetico fissarlo con intensità. Aveva bisogno di sentirsi di nuovo nudo e vulnerabile sotto ai suoi occhi, perché solo lei era in grado di spogliargli l’anima come nessuna prima era riuscita a fare.
E alla fine lei lo aveva esaudito, come mesi prima quando aveva sentito dentro il bisogno di essere amato e Marta era apparsa nella sua vita.
«Mark…» lo chiamò ancora lei. Si convinse a voltarsi lentamente, cercando di non farsi prendere dal pathos correndo verso di lei, per abbracciarla con trasporto come avrebbe voluto fare; come facevano nei film.
Si fissarono per un attimo interminabile, incapaci di trovare la cosa giusta da dire.
 
«Mark, stiamo ricominciando…»
Petra uscì dallo studio, togliendo d’impaccio i due ragazzi rimasti impalati in mezzo al corridoio.
L’uomo alzò lo sguardo e sorrise alla presentatrice, per poi tornare a guardare Marta.
«Io, io dovrei andare. – disse, sperando in cuor suo che quell’interruzione non arrivasse a rovinare la possibilità di poterle parlare – Mi piacerebbe, ecco…»
La sua mente non vedeva altro che loro due abbracciati, e questo gli impediva di riuscire a dire due cose di senso compiuto una in fila all’altra.
«Vorrei trovarti qui, dopo. Avrei, ci sarebbero cose… delle cose da dire.»
Marta si guardò intorno per una manciata di secondi, analizzando la situazione. Mark fece altrettanto, in attesa di una risposta, di un cenno che gli desse la speranza di poterla rivedere.
«Penso che sarebbe meglio se parlassimo altrove, non qui.»
 
***
 
Marta lo sussurrò guardando quasi il pavimento. Forse non voleva che Mark leggesse nei suoi occhi più emozione di quanta desiderasse rivelare. Mentre parlava si dava della stupida, perché ancora una volta stava cedendo alle richieste del cuore che – come le accadeva sempre più spesso – non andava per niente a pari passo con la ragione. Anzi, viaggiavano su due binari completamente diversi.
Ma cosa poteva farci se, nonostante la volontà di stargli alla larga, l’universo sembrava stesse complottando per tenerli uniti? E cosa poteva farci se più lo guardava e più tutto ciò che riusciva a immaginare di bello si trovava tra quelle braccia?
Odiava fare la parte della cattiva, e si era sempre ripromessa che mai avrebbe fatto come alcune delle sue amiche, legate tutte a uomini sposati che non potevano dar loro niente se non regali costosi e sesso “a portar via”.
Eppure, contro ogni sua ideologia, a dispetto di qualsiasi valore lei avesse mai avuto e a cui avesse voluto tener fede, stava dicendo a Mark che si sarebbero visti quella sera in albergo, e avrebbero così avuto l’occasione di parlare con calma.
Il sorriso che spuntò su quel viso angelico e meraviglioso era la prova inconfutabile che quella sera, in hotel, non avrebbero solo parlato. La cosa peggiore era che, per la prima volta dopo tanto tempo, non vedeva l’ora.
 

 
You’re not the one I need
You’re just the one that I want
Makes perfect sense to me

 
 
 

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Capitolo 13
*** Take me back Before we all explode, Before we turn to stone, Before the light is gone ***




 
Marta gironzolava da un tempo indefinito all’esterno dell’hotel, nella stessa piazzetta dove quella mattina era stata con Roberta e dove avevano incontrato le altre fan; ovviamente sia la sorella che le fan in questione erano insieme a lei, e questo le metteva un’ansia incredibile.
Come avrebbe fatto a incontrare Mark senza essere scoperta?
Come avrebbe potuto parlargli senza che sua sorella – o peggio, le altre ragazze – capissero cosa stesse succedendo?
Ovvio: non era materialmente possibile.
Sarebbe stata una catastrofe!
In quel momento si pentì amaramente di non aver raccontato alla sua cara sorellona la verità su Mark e sul casino che si era venuto a creare; se lei lo avesse saputo sarebbe stato tutto sicuramente più semplice. Per un brevissimo istante l’idea di prenderla in disparte e raccontarle il minimo indispensabile, utile a far sì che potesse aiutarla a gestire quella situazione, le sfiorò la mente, ma non fece in tempo a renderla una possibilità: Mark e gli altri fecero il loro ingresso nella piazza dell’albergo a bordo del minivan e qualsiasi via di fuga ormai era preclusa.
Come avrebbe fatto?
Le veniva da piangere…
 
***
 
Mark aveva adocchiato, nonostante il buio, la figura di Marta – per lui assolutamente inconfondibile – sostare nella piazza dell’hotel: aveva mantenuto la promessa, quindi!
Il problema era che lei aveva compagnia e certamente, pensò, le sarebbe stato difficile – se non impossibile – poter entrare e comportarsi come se andargli a parlare fosse una cosa assolutamente normale: se la conosceva bene come credeva nessuno era a conoscenza di quanto accaduto e avrebbe incontrato non poche difficoltà per raggiungerlo.
Mentre lui e i suoi compagni entravano nella struttura, però, fu colto da un improvviso lampo di genio, se così si sarebbe potuto chiamare. Non aveva però considerato che quell’idea fantastica che credeva di aver avuto avrebbe comportato il dover chiedere aiuto a Gary, Howard e Jason. Glielo avrebbero concesso?
Stava ancora pensando a come mettere giù tutto il discorso quando, mentre si avviavano verso la reception, Howard si volse verso di lui con un Gary rassegnato alle sue spalle.
«Adesso vado fuori a fumare e le porto dentro. Verrà fuori una fantastica scenetta, vedrai. E tu potrai parlare con la pulzella!»
Uno degli aspetti positivi del non aver avuto privacy per anni, sempre in giro con quei ragazzi, scambiandosi anche le mutande, era quello: non aver bisogno di aprire la bocca per capirsi.
«Ma non fare altre cazzate, Mark. Metti un punto a tutta questa faccenda nel modo più amichevole possibile e…»
«Jason, basta! – Gary, che era rimasto sempre ad ascoltare, aveva deciso finalmente di intervenire – Mark sa bene cosa è meglio per lui e cosa è giusto, non ha bisogno che ogni volta gli si faccia la morale.»
Nemmeno il tempo di finire il discorso che Howard, accendino alla mano, stava già varcando la soglia dell’albergo, pronto a fumarsi una sigaretta e a racimolare qualche gridolino d’ammirazione.
Mark osservava da lontano la scena un po’ in apprensione; l’ultima cosa che avrebbe voluto era mettere a disagio Marta o creare qualche casino peggiore, ma doveva assolutamente parlarle  e, anche se forse per l’ultima volta, abbracciarla e stringerla forte abbastanza da imprimersi addosso la sensazione per tutta la vita. Non avrebbe potuto sopportare di vedere sbiadire con il tempo il ricordo di ciò che aveva provato con lei. Avrebbe voluto tenerlo con sé per sempre.
Howard, intanto, se la stava cavando piuttosto bene. Era fuori dalle porte di vetro, tutto bardato e intento a fumarsi la sua sigaretta. Non aveva forzato la mano, facendo insospettire qualcuno; si era limitato a starsene lì impalato sapendo che prima o poi la più intraprendente del gruppo si sarebbe avvicinata a parlargli. E così fu…
Una moretta, accompagnata da un’altra ragazza bionda, aveva aspettato solo qualche minuto prima di lasciarsi vincere dalla tentazione di due facili parole con il Donald – e non sembrava nemmeno tanto intimidita. Ovviamente Mark, come anche gli altri due che erano vicino a lui a fissare la scena divertiti, non riusciva a sentire ciò che veniva detto lì fuori, ma conoscendo il loro compagno sapeva che a breve si sarebbero ritrovati in compagnia delle ragazze a sentirsi porre le solite domande – e a dare le solite risposte.
Passarono solo pochi altri attimi prima di vedere l’amico attraversare le porte girevoli, seguito a ruota da quattro ragazze – tra cui Marta – e raggiungerli.
Mark la scrutava, analizzava ogni suo movimento e, conoscendola, indovinò facilmente il suo imbarazzo. Si morsicava il labbro cercando di non far trapelare il suo nervosismo, ma a lui quegli occhi non lo aveva mai tradito.
 
***

Per un attimo Marta credette di svenire: quella che fino a poco tempo prima era l’ombra lontana di un amore impossibile – alla cui perdita pensava di essersi rassegnata – sembrava farsi sempre più vicina, sempre più nitida. Sempre più spaventosa.
Mark era seduto di fronte a lei e, nonostante a quel tavolo non ci fossero soltanto loro due e le voci delle sue amiche risultassero più alte del dovuto, Marta non riusciva a concentrarsi su nient’altro che quegli occhi azzurri – quelli stessi che fin dal primo sguardo le avevano spogliato l’anima.
Sapeva che i sentimenti che ancora la scuotevano erano tutto fuorché giusti; sapeva che avrebbe dovuto continuare a contrastarli finché un giorno, finalmente, si sarebbero spenti lasciando solo un segno sbiadito del loro passaggio.
Eppure, quando Mark si alzò per rispondere al cellulare e le fece quel segno quasi impercettibile con il sopracciglio, le vane consapevolezze che si era costruita non le impedirono di lasciar passare qualche secondo prima di alzarsi, diretta verso i servizi igienici.
Ferma immobile davanti agli specchi dell’antibagno cercò in quei suoi occhi traditori un segnale – anche solo un accenno – di tentennamento, di voglia di fuggire via lontano, di spirito di conservazione; purtroppo, vi trovò solo ansia di rivederlo, smania di riabbracciarlo e desiderio di essere amata come solo lui era stato in grado di fare. Odiava quel suo masochismo – al limite dell’autolesionismo –, ma quell’uomo le aveva lanciato un incantesimo troppo potente per la sua vacillante forza di volontà: non sarebbe riuscita a contrastarlo.
Eppure, si ripeté tra sé, non avrebbe potuto dargliela vinta così facilmente. Lui era pur sempre sposato e aveva dei figli; lei sarebbe rimasta comunque la terza incomoda, la cattiva, la sfascia–famiglie… e in quel momento la bramosia di lui sembrò perdere lentamente la sua accecante intensità.
Non me la merito una vita a metà: se mi vuole, deve darmi tutto.  
E in quel momento, quegli occhi azzurri piccoli e penetranti spuntarono da dietro la porta.
«Finalmente ti ho trovata!» le sussurrò, entrando velocemente.
«Credevo che non ce l’avremmo mai fatta a parlare un po’… – furono le prime parole che vennero in mente a Marta –, certo forse il bagno non è il luogo adatto per una conversazione, però…»
Non sapeva che altro dire. Le mani tremavano e sudavano freddo.
Il cuore batteva forte, forse troppo, e il suo corpo fremeva pericolosamente, dai piedi fino alla punta dei capelli.
Sentiva il bisogno di abbracciarlo, e contemporaneamente la necessità di trattenersi.
Covava il desiderio di assaggiare di nuovo le meravigliose e infime labbra che l’avevano distrutta, ma quel debole istinto di conservazione, che ancora riusciva a tenere incollati i pezzi di sé, non le permetteva di staccarsi dal lavabo.
 
Si guardarono negli occhi per un minuto infinito senza aprire bocca, ma forse quegli sguardi stavano parlando per loro già da quel pomeriggio, in radio.
Probabilmente si erano detti molte più cose di quanto le parole avrebbero saputo fare.
 
***
 
«Lo so che è assurdo, Marta, e che è difficile; so anche che sarà doloroso per tutti, e persone innocenti soffriranno, per primo mio figlio. So che non mi crederai, almeno non fino a quando vedrai con i tuoi occhi che davvero puoi fidarti di me, ma io ti desidero… da morire.»
Marta lo fissava con il castano di quegli occhi belli che quasi cancellava le pupille. Non fiatava e stringeva la ceramica del lavabo talmente forte che le nocche erano diventate spigoli bianchi come la neve. Forse lo avrebbe respinto, ma decise di correre il rischio facendosi più vicino; poteva già percepire il dolce del suo profumo annebbiargli i sensi.
Lei non si mosse.
«Non ti desidero semplicemente come un uomo può carnalmente desiderare una donna. Io ti voglio, Marta, nella mia vita.» L’uomo prese un respiro prima di proseguire. «È che da quando ci siamo detti addio io non ne ho più una. Respiro perché devo, cammino perché le gambe mi portano, ma sono un guscio vuoto… e me ne sono reso conto veramente quando ti ho rivista oggi.»
«Mark – finalmente lei parlò – io…»
Quel suono lo mandava al manicomio; non riuscì più a resistere alla tentazione di sentirla ancora sua, anche solo per un attimo, e l’abbracciò. Si limitò a stringerla – non la baciò, non l’accarezzò, intimorito dalla sua possibile reazione contrariata.
«Shh, non devi dire nulla. Non voglio una risposta ora. Fatti solo abbracciare un po’, poi rifletti. Ne parleremo quando torneremo a Londra.»
Sentì la ragazza rilassarsi un po’ tra le sue braccia e infine percepì un sospiro.
«Ok, ci penserò.»
«Se dirai di sì, te lo giuro, sarò tuo. Sempre.»
 
***
 
Erano quelle le parole che avrebbe tanto voluto sentire, ma quanto di vero ci sarebbe stato in esse?
Quanto poteva realmente fidarsi, Marta?
Solo una cosa era certa: sarebbe stato un cammino lungo e tortuoso, e si chiese se quell’uomo ne valesse la pena.
Non aveva intenzione di dargli una risposta su due piedi, ma con se stessa avrebbe potuto essere sincera fin da subito. Mark valeva la sofferenza dell’attesa? I pianti che sicuramente si sarebbero fatti? L’ansia, la paura di essere additata come una poco di buono che toglie un padre ai suoi figli e un marito a una moglie? Valeva tanto?
Marta lo guardò negli occhi come da troppo tempo non aveva più potuto fare: intensamente, con quell’amore che aveva cercato di reprimere con rabbia e frustrazione. E di nuovo lo vide, un po’ annebbiato da sofferenza e tristezza: rivide in essi quel sole splendente che l’aveva fatta innamorare. 



Take me back before we all explode
Before we turn to stone
Before the light is gone

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Capitolo 14
*** I have so many, so many flaws. If you take me, if you take me, they’re yours ***



 
 
Erano passati ormai svariati giorni da quell’ultima sera in cui si erano visti, Marta e Mark. Le pareti lucide e fredde di un bagno non erano mai state per lei così preziose, così care. I suoi pensieri erano un nastro continuo che trasmetteva sempre le stesse scene, in sequenza. Gli sguardi, i sospiri, le parole dette – e, soprattutto, quelle non dette; la fugace e intensa consapevolezza che quei pochi minuti insieme l’avrebbero forse riportata indietro ad ansie e preoccupazioni che tempo prima aveva deciso di eliminare dalla sua vita. Purtroppo, però, aveva anche recentemente scoperto che senza quelle amare sensazioni non sarebbe più stata in grado di vivere.
Le giornate avevano ripreso a scorrere apparentemente tranquille e, dopo le vacanze, tutto era tornato alla solita routine: lavoro, casa, casa, lavoro… saltuariamente – quando non doveva fare doppio turno in hotel – palestra e corso di giapponese; e tutte queste attività erano a tratti intervallate da brevi telefonate di Mark che terminavano sempre troppo velocemente.
È sempre troppo impegnato, tra lavoro e quella che dopotutto è la sua famiglia.
Troppo impegnato per vederla, troppo anche solo per stare al telefono con lei più di cinque minuti.
Non che si dicessero granché, poi.
«La promozione sta andando bene, siamo tutti molti eccitati all’idea del tour, ti ho riservato un pass per le date inglesi…»
Lavoro, lavoro e sempre lavoro. Si parlava quasi sempre di lui, dei ragazzi, dei viaggi e mai, a parte qualche rarissima volta, gli aveva sentito pronunciare un “mi manchi”, “vorrei vederti”, “scappo per due giorni e ti raggiungo”. Ok, sì, forse l’ultima ipotesi sarebbe stata al limite del fantascientifico, ma… accidenti!
«Se la temperi ancora, quella matita, finirai con il temperarti anche il dito», Gale richiamò la collega all’attenzione, visto che evidentemente se la stava viaggiando su un altro pianeta. «Me lo spiegherai, prima o poi, quello che sta succedendo o devo continuare a vivere di supposizioni basate su quanto bene ti conosco?»
Era vero, Marta, da quando era tornata in Inghilterra, non aveva mai parlato a nessuno di quanto successo in Italia. Si era limitata a brevi racconti goliardici di aneddoti quasi mai accaduti veramente, e aveva pompato parecchio su quanto si fosse divertita e quanto avesse riso tra partite a carte e abbuffate di panettone. Tutto pur di non dover raccontare la verità di giorni passati con addosso un pigiamone di due misure più grandi e il cardigan di suo nonno pieno di toppe inzuppati di lacrime, e goffi tentativi di dimenticare l’indimenticabile.
Tutto, pur di non doverle raccontare che Mark è tornato prepotentemente nella mia vita, che sto soffrendo ancora come un cane e che, anche se so che è vergognosamente sbagliato, l’unica cosa che allevia un po’ quel dolore è il pensiero che prima o poi potrò rivederlo, perdermi nel suo sorriso e farmi risucchiare via l’orgoglio da quei baci che non so più scordare.
«Penso che opterò per la seconda che hai detto; sono certa che le tue supposizioni non saranno così distanti dalla verità. Da qualunque punto di vista la guardi, la mia vita al momento è opaca come un brillante tarocco.»
Marta aveva detto a Gale già molto più di quanto avesse mai pensato di fare; Gale aveva capito molto più di quanto Marta potesse credere.
«Non sta a me giudicare cosa è giusto e cosa no: la vita è vostra; però stai attenta, per favore. Sono certa che le sue siano state davvero belle parole, ma tra il dire e il fare…»
«Non faccio che ripetermelo, Gale», rispose la ragazza all’amica, con un tono più stizzito di quanto avesse voluto. «Me lo ripeto di continuo, ma è così difficile dare retta alla ragione, quando il cuore ha una voce così acuta, così straziante.» Avrebbe voluto mordersi la lingua, Marta; più ne parlava, più il sentimento di illegale appartenenza che sentiva per quell’uomo che non era mai stato suo veramente – e forse non lo sarebbe mai stato – ingigantiva, coprendo tutto il resto. Si alzò di scatto dallo sgabello, abbandonando matita, temperino e l’ultimo brandello di lucidità mentale che possedesse; s’incamminò verso lo spogliatoio per dare sfogo a quella frustrazione dirompente, come tante volte aveva già fatto in passato. Prima di sparire dietro la porta, però, si volse ancora in direzione della collega.
«Grazie per aver capito senza che abbia avuto bisogno di parlare.»
Le lanciò un bacio volante e si chiuse dentro a quel piccolo sgabuzzino, così stretto intorno alla sua figura sempre più esile, che forse le avrebbe impedito di andare in pezzi.
 
***
 
Erano rientrati a Londra da una mezz’ora e l’unico pensiero di Mark era Marta. In realtà, non era trascorso un minuto senza che la sua mente corresse a lei, ma dopo quella sera niente era stato in grado di smuovere la sua attenzione da quegli occhi scuri e appassionati.
Pensava solo a lei. Non alla sua famiglia, a Emma… al piccolo. No, il solo volto che riuscisse a vedere era quello dell’unica donna che fosse stata capace di rapirgli la vita come nessuna prima; i suoi giorni senza lei erano vuoti e privi di senso, come un venticinque dicembre senza albero di Natale. Stando in giro per la promozione, in quel periodo, si era accorto che nemmeno il successo avrebbe potuto qualcosa contro quella mancanza; nonostante fosse riuscito a sentirla ogni giorno, anche solo per pochi minuti, quel buco nel petto non aveva mai accennato a chiudersi. Di quell’incontro, ai ragazzi, aveva raccontato poco: una breve discussione alla quale erano seguiti dei chiarimenti e la promessa di restare amici; forse aveva sbagliato ancora una volta, ma non se l’era sentita di dire tutta la verità, almeno fino a quando non fosse riuscito a mettere chiarezza con Emma e tutti i tasselli di quel puzzle sempre incompleto fossero stati messi finalmente al loro posto.
Appena furono usciti dall’aeroporto, come di consuetudine, i ragazzi si salutarono e ognuno andò per la propria strada diretto a casa. Tutti, meno uno.
 
A Londra ormai era l’imbrunire; l’aria, fredda e tagliente; la pioggia, fine e fastidiosa.
Mark avrebbe dovuto correre verso casa – e magari, per strada, fermarsi a prendere un mazzo di fiori per la sua compagna e un giocattolino nuovo per il piccolo Elwood –, ma l’unica direzione che riuscì a prendere lo stava conducendo all’albergo dove Marta lavorava.
Era certo che si fosse risentita per quelle spoglie telefonate, povere di tutte quelle emozioni che aveva per forza dovuto reprimere di fronte ai suoi amici; gli ultimi messaggi erano stati un susseguirsi di cordiali scambi di battute e poco più. Aveva provato a spiegarsi per sms, ma l’esperienza gli aveva insegnato che sarebbe stato meglio farlo di persona, per evitare fraintendimenti.
Un’ora più tardi fu nel parcheggio di quell’hotel, ché al solo guardarlo il suo corpo fu percosso da quei soliti, profondi brividi; sperò in cuor suo che Marta fosse lì, perché non era certo di riuscire ad attendere oltre: provava un dolore fisico, un desiderio prepotente di stringerla e trasmetterle così tutto quello che a parole non era mai stato capace di raccontare.
S’incamminò verso l’ingresso, lentamente; gli stava salendo l’ansia, la cosa che più temeva era rovinare tutto… non voleva più compiere passi falsi che avrebbero potuto portare Marta ancora lontana da lui. Si fermò di scatto sotto la pioggia – perché diamine non aveva portato l’ombrello? - quando la intravide al di là dei vetri: meravigliosa nella sua semplicità, un cappotto lungo che le copriva quasi completamente quelle gambe stupende, il cappello calcato in testa e un ultimo saluto al suo collega, da lontano.
La vide uscire a testa bassa dalle porte scorrevoli, mentre lui tentava di mandare giù qualcosa che gli si era fermato in gola – o forse era il cuore che galoppava lungo la trachea.
Marta alzò il viso per controllare la strada, in procinto di attraversarla, e i loro sguardi si incrociarono. Il cuore di Mark finì la sua corsa, pompando pericolosamente in testa; non era possibile, non poteva provare quelle devastanti emozioni, non alla sua età… eppure lei era capace di qualunque cosa, lo aveva capito ormai. Riusciva a renderlo inerme, disarmato, incontrollabile; incapace com’era di proferire parola, fu lei ad attraversare e avvicinarsi. Aveva l’ombrellino da borsetta stretto in mano – probabilmente aveva avuto intenzione di aprirlo qualche secondo prima –, ma lasciava che la pioggia le scorresse addosso. I suoi occhi erano lucidi, letali; saperla triste a causa sua faceva male, come una pugnalata in pieno petto.
 
***
  
«Ciao…», avrebbe voluto mettere più voce, ma ciò che uscì dalla bocca di Marta fu quasi un sussurro; forse perché non credeva davvero che Mark fosse lì di fronte a lei, sotto la pioggia che si era fatta battente e con quegli occhi dolci che la stringevano già, ancor prima delle braccia.
Eccola lì la ragione di quel sentimento che non era stata in grado di spegnere: il suo sguardo, capace di spogliarle l’anima in un secondo; le sue labbra, prima incerte, poi aperte a svelare quel meraviglioso sorriso che l’aveva fatta innamorare.
«Ciao…» le rispose, avvicinandosi ancora di più a lei nel tentativo di azzerare quella distanza che si era fatta anche troppo dolorosa.
Mark alzò una mano verso il viso di lei, la liberò dal cappello e le sistemò una ciocca di capelli ormai zuppa dietro l’orecchio, finendo poi per accarezzarle il volto; a Marta si piegarono le ginocchia.
Emozione immensa di sentire di nuovo quel tocco sul suo viso; sollievo, calore, come una coperta calda appoggiata su un’esistenza vissuta all’addiaccio.  
«Dimmi che non te ne andrai più, dimmi che sarai mio, anche se dovesse essere ancora una gigantesca bugia. Dimmelo come se ci credessi davvero…» la sua era quasi una supplica; lo stava pregando e, per la prima volta, non si sentì patetica. Aveva bisogno della sua presenza e di vivere l’amore in quel modo solo loro; anche se a piccoli sorsi, ma intensi e preziosi.
«Piccola...» quella preghiera a mezza voce doveva aver fatto il proprio lavoro, perché Marta vide lo sguardo di Mark dipingersi di un’espressione incredula e felice, al limite della commozione – o forse si era già commosso, ma la pioggia nascondeva ad arte le lacrime.
«Zitto, per favore… prima di qualunque altra cosa, baciami», intraprendente come non lo era mai stata, s’impadronì di quelle labbra, spegnendo il dolore sordo che l’aveva straziata nell’ultimo periodo. Non sarebbe guarita, non subito - forse mai -, ma quelle piccole dosi di lui sarebbero state il suo antidolorifico naturale.
Si potevano scorgere sorrisi, in mezzo a quei baci. Si potevano percepire sospiri, tra le carezze che quel vicolo buio dietro l’hotel stava nascondendo; e non sembrava importare a nessuno dei due se il giorno dopo avrebbero avuto la febbre alta, l’importante era solo il calore che sentivano in quel momento.    
Quando, dopo un tempo indefinito, presero fiato e i loro occhi si incontrarono nuovamente, i loro volti erano luce pura; le fronti madide appoggiate una all’altra e sorrisi a non finire. Erano felici, di nuovo, pur sapendo che quel tipo di beatitudine, soprattutto nella loro situazione, non avrebbe avuto vita facile.
«Piccola… - tornò a ripetere lui, fissandola con intensità -, io sono un casino, uno di quelli veri. Sono pieno di difetti. Ma se mi vuoi, anche così, imperfetto e incasinato, sono tuo.»



I have so many, so many flaws
If you take me, take me they’re yours

 

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Capitolo 15
*** We can stay here if you hold still We can stay here for life if you say you will We’ll be caught in a moment of time If we all freeze… ***



 
Marta sedeva al tavolo di un piccolo ristorante sperduto in mezzo alle campagne della periferia est di Londra, lontana dal rumoreggiare dalla città; lontana quanto più possibile da occhi indiscreti, anche se, lo aveva imparato, in Inghilterra tutto aveva occhi e orecchie.
Mark si era assentato un attimo per andare in bagno, prima di pagare il conto e fuggire via, chissà dove. Lui non le aveva rivelato niente di quel week-end, si era limitato semplicemente a dirle di non prendere impegni, presentandosi poi sotto casa sua quel venerdì sera e rapirla.
Era stato bello, bello davvero; fino a quel momento ogni cosa era stata perfetta, esattamente come l’aveva sempre immaginata. Lui era stato per tutto il tempo il Mark che aveva conosciuto e che per troppo tempo le era mancato.
«A cosa stai pensando?» la sua voce, come era già successo in passato, la richiamò dalle divagazioni mentali a cui si stava abbandonando. Lei alzò lo sguardo verso di lui, fissandolo in tutto il suo splendore mentre tornava a sedersi, e gli sorrise.
«A quanto sto bene quando sono con te, nient’altro.»
Dall’espressione che gli vide dipinta in volto capì che quell’ammissione lo aveva fatto felice; rispose al sorriso, facendole tremare come al solito le ginocchia, e le prese la mano nella sua.
«E non hai ancora visto niente! Ho intenzione di renderti spudoratamente felice…»
In quel momento, Marta non si chiese se la promessa era riferita solo a quei tre giorni o al resto della vita; con il passare delle settimane si era rassegnata a non guardare troppo a un futuro lontano: con Mark avrebbe dovuto preoccuparsi solo del presente e di quello che giorno per giorno riusciva a strappare alla realtà.
“Ma fa male, accidenti se fa male!”
«Sono nelle tue mani, fai di me ciò che vuoi.»
Quelle parole andavano rivelandosi ogni ora sempre più innegabili verità. Permettendo che fosse lui a dettare legge, permetteva nel contempo alla vita di sfuggirle di mano, lasciando a lui la possibilità di plasmarla a suo piacimento, annullando se stessa; non poteva far altro, d’altronde: la libertà di scelta non era compresa in quel tacito contratto che avevano stipulato, non subito almeno. Il fatto era che non aveva la minima idea di quando quella libertà sarebbe stata sua, ma il pensiero di vivere senza di lui era di certo molto più doloroso di una dolce schiavitù – anche se avrebbe potuto rivelarsi eterna.
«Se mi dici così però, finisco per mandare a monte ogni piano e trascinarti direttamente alla parte migliore del programma!» berciò il cantante, quasi scandalizzato, regalandole uno di quei suoi sguardi magnetici che le toglievano quasi la forza di respirare autonomamente, e che – lei lo aveva già potuto constatare – nascondevano anche molto altro. Quell’uomo che ormai credeva di conoscere così bene, continuava a rivelarsi uno dei più grandi misteri con cui avesse mai avuto a che fare.
Era tutto, e il contrario di tutto.
Era la dolcezza, e l’irruenza della passione.
Era il freddo di una sera d’inverno, e il calore di un sole tropicale.
Era tristezza, ma anche grande gioia.
Era paura, e un coraggio da leoni.
Era tutto, e il contrario di tutto.
Era perfetto nella sua totale, irrecuperabile imperfezione.
«Perciò, adesso, se me lo concede – si era già alzato, mentre Marta come al solito si perdeva nei propri pensieri, e porgendole la mano la stava invitando a seguirlo – l’accompagno verso la seconda tappa del viaggio, prima che lei possa cambiare idea.»
«Adesso però sei tu che mi incuriosisci e mi riempi di aspettative…» sussurrò, avvicinando le labbra all’orecchio dell’uomo e sfiorandolo con un bacio. «Farai bene a non deluderle!», gli intimò, agonizzando un poco quando sentì le loro dita intrecciarsi. Non si sarebbe mai abituata all’idea che quei brevi – quasi banali – contatti fossero reali e non una sua ingannevole elucubrazione.
«Non dovrai aspettare molto», le sussurrò in un orecchio, tirandola più vicina a sé e lasciandola per l’ennesima volta inebetita.
 
Poco più tardi, a bordo del fuoristrada di Mark, stavano attraversando la brughiera, diretti in un luogo non precisato – anche perché lui, nonostante la sua proverbiale bocca larga, era stato molto attento a tenere per sé ogni minimo particolare di quel loro primo vero viaggio. Marta, dal finestrino, scrutava il paesaggio, totalmente rapita dai colori del tramonto all’orizzonte. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quelle ore insieme, ma la mano dell’uomo seduto accanto a lei appoggiata sulla propria gamba, in un gesto così dolce e naturale, la obbligava a mettere da parte ogni pensiero negativo e a vivere quel presente così piacevole e romantico.
Ormai la notte era calata, così come la patina di nebbiolina e freddo tipica di quei luoghi. Marta si strinse un po’ di più nel suo cappotto, poi volse lo sguardo alla propria destra; Mark, che aveva appena imboccato una strada sterrata, sembrava sempre più concentrato nella guida. Era così buio che ormai procedevano da tempo con gli abbaglianti accesi, altrimenti chissà dove si sarebbero trovati!
«Hai intenzione di proseguire fino in Scozia alla cieca, oppure prima o poi ci fermeremo da qualche parte?»
E fu in quel momento che, svoltando a un angolo pressoché invisibile, si aprì un vialetto illuminato da torce infuocate che rischiararono improvvisamente il paesaggio intorno a loro, guidandoli verso un grande casolare nel mezzo del nulla; dietro esso, Marta poteva scorgere innalzarsi verso il cielo un’enorme ombra sferica. Non riuscì subito a capire di cosa si trattasse, ma Mark, che si fermò prima di imboccare l’ingresso al cortile interno, le impedì di studiare meglio la situazione, sogghignando come un bambino pronto a combinarne una delle sue e coprendole gli occhi con una benda.
«Mi dispiace, amore, ma dovrai soffrire ancora un po’…» aggiunse, mentre le stringeva con forza la benda, per impedirle di sbirciare.
«Stai tranquillo, non sbircio, ma se stringi ancora rischi di farmi esplodere la testa!»
 
***
 
E fu meraviglioso per Mark leggere l’emozione in quegli occhi cioccolato quando, una volta tolta la benda, scorsero la terra sotto di loro allontanarsi sempre di più; e il quadro incantevole che era la campagna inglese – macchiata di piccole chiazze di luce – si espanse miracolosamente intorno a due sguardi stupiti, gioiosi e finalmente felici come non lo erano mai stati.
Quando erano insieme riusciva a dimenticare quanto complicata fosse la sua vita, quello che non andava quando erano lontani, quanta finzione ci fosse all’interno di quella casa ormai troppo spoglia di sentimenti veri e sorrisi. Marta era stata l’unica in grado di saperlo prendere quando nessuno ormai voleva provarci più; era stata la sola capace di comprenderlo senza che ci fosse vero bisogno di spiegare.
«Non ti avevo mai visto prima quel sorriso addosso», il grande pallone aerostatico fluttuava nell’aria, ballonzolando, dondolandoli lentamente; Mark era dietro di lei, la teneva stretta e reggeva entrambi al cesto. 
«È meraviglioso, Mark!» lo sussurrò quasi, sorridendo con tutto il viso, non solo con quella bocca bella che tanto lo rendeva felice; ed era il panorama più emozionante che avesse mai visto.
«Resta così, felice per sempre. Sei bellissima con la gioia che circonda come un’aura.»
«Se tu resti, sarò felice per sempre.»
 
***
 
Era davvero fantastici quei momenti di puro amore. Mark cercava sempre di goderne profondamente, perché gli sarebbero mancati da morire nell’apatia della sua vita quotidiana, quando la realtà sarebbe tornata a schiaffeggiarlo prepotente.
Sapeva che avrebbe dovuto mettere ordine in quel cassetto pieno di sogni, incertezze e ragnatele di relazioni che avrebbero finito con il togliergli il respiro, ma tanto più lui aspettava il momento propizio per chiudere quella porta ormai scardinata – per aprire il portone dell’amore potente che provava per Marta – quanto più il destino sembrava remargli contro.
Quel week end era stato davvero magico, ed era arrivato a confermargli quanto lui e Marta fossero fatti per stare insieme, quanto lei fosse speciale.
Mentre vedeva scivolare via l’ennesima opportunità di parlare con Emma, si domandò quanto ancora Marta avrebbe sopportato quella situazione; si chiedeva quanto tempo sarebbe passato prima che qualcuno si accorgesse dei mille modi in qui sapeva essere meravigliosa e gliel’avrebbe soffiata via dalle braccia, insieme alla sua opportunità di essere davvero felice. 


 
We can stay here if you hold still 
We can stay here for life if you say you will 
We’ll be caught in a moment of time 
If we all freeze…

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Capitolo 16
*** Climb upstairs for a mile Jumping into your smile It's a lovely way To die today ***




 
«Sì, signora, le mando subito qualcuno… Mi dispiace dell’inconveniente, non so come sia potuto succedere…»
«Non si preoccupi, le scaleremo l’importo dovuto dal conto finale, probabilmente c’è stato un errore nel sistema…»

I momenti meravigliosi con Mark erano ormai lontani e gli ultimi giorni a lavoro si erano rivelati tra i più disastrosi di sempre. Non ne avevano imbroccata una, lei soprattutto, e continuava a percepire strane – negative – vibrazioni dal mondo.
Era sempre stata una che le cose se le sentiva addosso e, se i suoi presentimenti avevano poco delle sfumature rosa che stare insieme al suo uomo le aveva lasciato sulla pelle, voleva dire che non c’era proprio un cavolo da stare tranquille: lei ci indovinava sempre!
Alcune settimane erano passate da quel favoloso week end nelle campagne inglesi; ogni tanto si perdeva nei ricordi, cercando di assaporare le sensazioni magiche che aveva provato tra le sue braccia, in cima al mondo, a bordo di quella stupenda mongolfiera; e quello era stato solo l’ennesimo sogno nello spettacolo di quelle ore. Peccato che ogni raggio di felicità a due che riuscivano ad acchiappare durasse giusto il tempo di un respiro. Rimasta al buio, si sentiva quasi soffocare. 
Durante un momento di pausa, tra un check–in e una lamentela da gestire, sorseggiando un caffè, prese il telefono con l’intenzione di scrivergli un messaggio.
«Mi manchi t…», Marta cancellò per l’ennesima volta l’inizio di quella frase mai completata veramente, con la paura e l’ansia che Mark non fosse solo – che fosse con lei; quella “lei” tanto scomoda, che le dava un fastidio enorme, ma che purtroppo non avrebbe più potuto cancellare come fosse una semplice lettera su uno schermo. Quella “lei” c’era, e ci sarebbe sempre stata.
Odiava i periodi in cui dovevano stare lontani, perché erano quelli in cui più di ogni altro la lucidità mentale tornava a farle visita e gli ostacoli che insieme sembravano bazzecole diventavano improvvistamente dei mostri a otto teste. I suoi mostri, quelli che non la facevano dormire la notte.
L’improvvisto squillo del telefono la fece tornare alla realtà…
«Mi manchi troppo…», era lui. Le aveva scritto esattamente quello che lei aveva tante volte cercato di scrivergli. Si mancavano, ma com’era possibile non riuscire a trovare un modo per smettere di mancarsi e cominciare a viversi davvero?
«Vieni da me, stasera…», Marta aveva inviato subito dopo aver digitato l’ultimo puntino. Lo aveva fatto per evitare che la sua mancanza di coraggio remasse di nuovo contro di lei e glielo impedisse.
«Marta, ho bisogno di una mano!», Gale la stava richiamando all’ordine.
«Sì, arrivo!», «Ordine! Sì, come se fosse facile…»
 
***
 
Mark era riuscito a convincere Gary a uscire per bere qualcosa. Non che fosse un’impresa senza rischi, ma aveva bisogno di parlare con qualcuno, di vuotare definitivamente il sacco e, soprattutto, allontanarsi per anche solo un paio d’ore da quella grande casa che diventava ogni giorno sempre più soffocante.
«So che adesso mi dirai che devo smetterla di fare il coglione e che devo concentrarmi su Emma e sul bambino e…» l’uomo aveva appena raccontato per filo e per segno al collega e amico che gli sedeva di fronte tutto quello che era successo con Marta. Gli era costato caro, soprattutto perché da mesi aveva promesso a lui e agli altri che avrebbe messo giudizio e che avrebbe tenuto fede agli impegni presi… di qualunque natura essi fossero; si aspettava davvero una gran lavata di testa, ma non avrebbe potuto andare avanti con quel peso enorme addosso.
«No, Mark, tu non sai niente. Onestamente, sia io che gli altri già avevamo capito che con quella ragazza non avevi chiuso affatto. Pensi che siamo così stupidi?» Gary non sembrava arrabbiato, più che altro sembrava… dispiaciuto, e lui non riusciva a capirne il motivo. Dispiaciuto per cosa?
«Io… no, è che avevate tanto insistito…», Mark non sapeva che dire. Sapeva solo che, ancora una volta, gli unici che lo comprendessero e lo capissero davvero erano loro.
«Non abbiamo mai fatto mistero del fatto che secondo noi Emma non è la persona per te, ma siamo più o meno tutti dell’idea che tu non sei in grado di sopportare certe situazioni senza combinare casini. Ti ficchi in cose più grandi di te e poi non sai come uscirne. Temi di ferire gli altri, quindi cerchi dei diversivi per stare meglio senza compromettere i sentimenti delle persone a cui tieni. Il risultato di solito è proprio l’opposto: tutti soffrono e tu forse sei quello che paga di più.»
Mark si mise le mani nei capelli, abbassando il capo sul tavolo.
«Cosa devo fare, Gaz?» non sapeva nemmeno lui se quella era una reale richiesta d’aiuto o solo la reazione esasperata di una persona che si trova nelle sabbie mobili e non sa a che cosa aggrapparsi per uscirne.
«Devi fare chiarezza, prima con te stesso. Ti stai logorando, amico, e il lavoro da solo non basta a salvarti.»
Gary aveva ragione, ne aveva da vendere. Certo, parlarne e agire erano due cose ben distinte, e conosceva Emma abbastanza da sapere che, se avesse deciso di troncare la loro relazione, avrebbe fatto il diavolo a quattro. Però, più ci pensava…
«Io l’amo, Gaz. Non so che incantesimo mi abbia fatto e onestamente non mi interessa… – esalò un sospiro di rassegnazione, quello che non lo avrebbe più fatto tornare indietro – l’amo davvero… » era forse la prima volta che lo diceva così apertamente, così genuinamente. Da parecchio se n’era accorto, ma fino a quel momento non lo aveva mai sentito così vero.
«Ti sei messo proprio un gran casino, Owen… in un gran bel casino.»
Ovviamente Mark stimava Gary e lo aveva sempre rispettato molto. Era un tipo tradizionale e tranquillo, il suo amico, si era scelto una vita e la stava portando avanti con orgoglio e responsabilità. Certo, forse a lui con Dawn gli era andata meglio, ma era certo che se anche Gary avesse sposato una mezza arpia, sarebbe stato in grado di gestire le cose in modo molto più intelligente di quanto non stesse facendo lui con Emma.
«Lascio che finisca il tour e poi parlerò con Emma. Non voglio far venire fuori la merda ora che siamo in giro, sai che i giornali ci sguazzano, ma poi chiuderò una volta per tutte. Spero solo che lei non usi Elwood contro di me…»
 
E le date si susseguirono per tutto l’autunno, dando via il countdown verso l’inverno… e il Natale.
E Capodanno.
E la fine del tour.
 
***
 
Marta era volata a Manchester la settimana prima di Natale, bruciandosi l’unica settimana di ferie che avrebbe potuto prendersi, per stare con Mark. In cuor suo, certo, aveva sperato fino all’ultimo che un miracolo divino le avrebbe permesso di trascorrere con lui anche le feste, ma con un bambino a casa ad attendere il papà sarebbe stato chiedere troppo. E di certo non voleva togliere a suo figlio una presenza già così poco costante per via del lavoro.
Lui, però, sapeva come diradare le nuvole, i pensieri tristi; gli bastava quel suo sguardo perso e il suo caldo sorriso per farle sperare un domani felice anche per lei.  
«È meraviglioso svegliarmi e vederti dormire al mio fianco, sentire le tue mani che mi cercano. Sei fantastica», quando poi le dice cose come quella, come faceva a non amarlo e a non sentirsi la persona più fortunata del mondo, solo al pensiero di potergli stare accanto?
«Tu sei fantastico…», si ritrovò a dirgli, con un sorriso enorme stampato in volto e con una voglia di stringerlo tale che, se non lo avesse fatto subito, le braccia avrebbero iniziato a farle male per l’enorme peso di quel vuoto. Sì spostò su di lui con un veloce movimento, accarezzandogli il petto con le mani e continuando a sorridere estasiata a quel momento di pura gioia. «Io ti amo, Mark, e vorrei non doverti più lasciare andare via.»
In quel momento, Marta riuscì a vedere completamente dentro l’anima di quell’uomo che le aveva rubato le notti – i giorni, i sorrisi, le lacrime, la vita – e ci vide una grande insicurezza; ci vide paure e ansie che conosceva bene e ci vide tanto di quell’amore… amore da ricevere, ma soprattutto amore da donare.
«Ti amo anche io, non sai quanto», e aveva gli occhi lucidi, mentre lo diceva. La tirò a sé e la strinse talmente forte che quasi le mancava il fiato, ma da quell’amore si sarebbe pure lasciata soffocare.
«Ti prometto che sarà per sempre.»
 
 
Climb upstairs for a mile
Jumping into your smile
It’s a lovely way
To die today

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Capitolo 17
*** Maybe today I've lost you ***


 


Era trascorso più di un anno dall’inizio di quella pazza giostra sulla quale era salita e, nonostante i problemi e le crisi attraverso cui erano passati, non si era pentita della scelta fatta. Certo, Marta si rendeva perfettamente conto che la parte difficile doveva ancora venire, ma Mark le aveva detto più volte che ci stava lavorando e che presto tutto si sarebbe risolto; avrebbero potuto stare insieme, alla luce del sole, per sempre.
Gale, da brava amica, cercava di farla ragionare e di aiutarla per quanto possibile, ma lei credeva all’uomo che amava e ormai c’era troppo dentro per tirarsi indietro.
«Lui mi ha dimostrato che ci tiene, Gale, che vuole stare con me. Non sarà facile, ma prima o poi potremo guardare indietro e riderci su.»
Le vacanze di Natale erano passate e non era ancora riuscita a fare un salto in Italia dalla famiglia, proprio per questo sua sorella Roberta, approfittando di qualche giorno di ferie, si era autoinvitata da lei.
Non che a Marta dispiacesse, per altro capitava proprio a fagiolo: Mark l’aveva avvisata che sarebbe stato preso con il lavoro per un paio di settimane e a lei non andava molto a genio l’idea di stare chiusa in casa a struggersi; almeno con Roby in mezzo alle scatole avrebbe senz’altro avuto modo di svagarsi.
«Allora, dimmi che mi porterai in giro per locali, la sera, e che faremo un sacco di shopping! Ho bisogno di rilassarmi, sorellina!», Roberta, arrivata da poco più di un’ora, già aveva scatenato tutta la sua vivacità e Marta non poteva fare a meno di sorriderne.
Ti ho accennato, vero, che ho un lavoro?», le berciò fintamente irritata. «Comunque, non preoccuparti, troverò sicuramente del tempo per te.»
Erano state sempre molto legate, loro due, e mancava a entrambe vivere un po’ insieme la quotidianità. Si mancavano, questo era innegabile.
«E mi sento terribilmente in colpa per non aver raccontato, perlomeno a lei, il mio piccolo, grande segreto.»
Prima o poi avrebbe dovuto dirglielo, prima o poi. Doveva solo trovare il coraggio di sciogliere quel grosso groppo che ormai era diventata brava a mandare giù senza colpo ferire, a sentirsi le ramanzine della sorella per non averglielo detto prima e ad ammettere che si sentiva tristemente patetica ad essere la terza incomoda, ad attendere dietro le quinte che sulla prima donna dello show si spegnessero le luci per poter prendere il suo posto.
«Vado a farmi una doccia, Roby, poi ci facciamo un boccone fuori e mi accompagni al lavoro. Va bene?», urlò quasi, mentre entrava in bagno, sperando che la sua cara sorellina non si fosse già addormentata sul divano.
«Sì, va bene. Sbrigati, però, che c’ho una fame!», e Roberta, per far passare il tempo, si mise a guardare la tv.
Poco dopo, il cellulare di Marta, lasciato incustodito sul tavolo della cucina, vibrò.
***

Non era certo nelle abitudini di Roberta sbirciare negli effetti personali di chicchessia, figuriamoci della sorella, ma negli ultimi tempi quella persona che aveva sempre creduto di conoscere come le proprie tasche le stava dando da pensare, e non poco. L’aveva vista pochissimo e sentita ancora meno, ma quelle rare volte le era sempre sembrata sulle spine, in attesa, nervosa. Per non parlare poi del momento depressione del Natale passato a Milano; quei comportamenti strani, inusuali, anche per Marta che già normalmente tendeva a prendersela un po’ troppo per ogni cosa.
Fu così che Roby, più per apprensione che per vera e propria curiosità, buttò un occhio sul display dell’apparecchio e lesse l’anteprima del messaggio che era appena arrivato:
«Ho bisogno di vederti! Mer…», il mittente era un tale Mark.
Non sapeva nemmeno quando lo avesse deciso, ma Roberta era più che mai decisa a scoprire cosa stesse bollendo in pentola. Magari non c’era nulla da scoprire, magari tutto.
Se sua sorella non sputava il rospo, era suo compito accertarsi che stesse bene e non ci fossero problemi, anche se voleva dire utilizzare modi poco ortodossi come il pedinamento.
***

Quando Mark la vide arrivare le gambe gli tremavano come gelatina. In quel baretto nascosto dietro Porto Bello non li aveva mai disturbati nessuno e avrebbero potuto starsene in santa pace per qualche manciata di minuti, a parlare, finché entrambi non ne avessero avuto abbastanza di chiacchiere; finché la camera di quel loro B&B, così discreto e complice, non li avesse accolti nuovamente.
Doveva stare fuori Londra con i ragazzi altri dieci giorni ancora, ma a un certo punto quell’assenza pungente che solo Marta gli lasciava nell’anima – come a volergli costantemente ricordare quanto fosse indispensabile per lui – era diventata insostenibile.
Si sorrisero ancor prima di essersi visti. Marta era raggiante, luminosa, e il cuore dell’uomo si sciolse per l’ennesima volta; si alzò e l’abbracciò, accarezzandole una guancia mentre le sfiorava le labbra con le proprie.
«Come fai a essere ogni volta sempre più bella?», lo sussurrò appena, mentre tentava di lasciarle la mano e la invitava a sedersi.
«Come mai tu mi fai ste improvvisate? Mi aspettavo di non rivederti che in primavera, ormai.»
«Ti da fastidio?», le chiese, abbassando lo sguardo.
«Ma che scherzi?», la risposta arrivò immediata, ma il suo sorriso aveva già parlato e l’unica cosa che Mark avrebbe voluto per il resto della vita era poterlo vedere fiorire su quel viso ogni giorno.
Eppure sapeva che forse quella sera sarebbe stata l’ultima che avrebbero passato insieme. L’ultima volta che Marta gli avrebbe permesso di avvicinarsi ancora, di parlarle.
Doveva dirle qualcosa che sicuramente avrebbe messo la parola fine per sempre alla loro relazione.
***

Roberta era pratica di appostamenti e atti di stalkeraggio, anche se di solito si trattava di personaggi famosi, non di sua sorella. Niente, comunque, l’aveva fermata dall’uscire appena dietro Marta – che si era congedata da casa inventandosi una sostituzione al lavoro che la sorella maggiore sapeva fosse una balla – e l’aveva seguita fino a Porto Bello.
Non era stato facile tenere un profilo basso, ma era riuscita ad arrivare sul ciglio di quel piccolo bar sguarnito e nascosto al mondo senza farsi beccare.
Era rimasta fuori, vicino alla piccola vetrata di lato, sperando di riuscire a seguirla con lo sguardo e capire così da chi era stata invitata, ma – accidenti! – quei pertugi londinesi erano davvero uno spillo negli occhi! L’aveva persa quasi subito dopo averla vista varcare la soglia.
Riuscì a scorgere il barista che la salutò al passaggio, come se l’avesse vista già altre volte, come se si conoscessero. Quindi? Era una cliente abituale? Beh, si disse Roberta, poteva essere, dopotutto.
Più rifletteva, più incredibili congetture si facevano largo nel suo cervellino dalla fantasia galoppante, più la curiosità le smangiava le ossa. Voleva sapere, subito.
Calcò più stretto il cappello in testa, cercando di camuffarsi il più possibile, e si decise ad entrare e prendere posto al bancone.
«Buonasera signorina, cosa desid…», il cameriere solerte stava già facendo il proprio lavoro, ma Roby aveva in mente tutto tranne che bere.
«Sh, zitto che non sento!», cosa doveva sentire non lo sapeva nemmeno lei, visto che non riusciva nemmeno a vedere dove sua sorella fosse seduta, ma immaginava che, se ci fosse stato nell’aria qualche indizio, la voce calda e roca del barista avrebbe disturbato il segnale.
«Ha visto la ragazza che è entrata qui poco fa?», la ragazza era già passata a Sherlock Holmes livello master, si era protesa sul bancone con fare cospiratorio e parlava con un tono così basso che forse l’avrebbero udita solo i cani.
«Sì – le rispose il tizio, abbassandosi di qualche centimetro verso di lei, mettendola anche un po’ a disagio – cosa vuole sapere? Forse potrei spifferare qualche informazione se mi pagasse bene…», e Roberta era certa, da come la stava fissando, che il bell’imbusto non stesse parlando di sterline sonanti.
Ma non ci fu bisogno di baratti o pagamenti, in quel momento sentì dei passi concitati e la voce di sua sorella saettare un “Non voglio vederti mai più”. D’un tratto comparve nella saletta del bancone e Roby dovette incassarsi nello sgabello, coprendosi quanto possibile per non farsi vedere.
Dietro sua sorella di pochi passi, sopraggiunse il fantomatico uomo che la stava implorando di fermarsi e parlare, che cercava di afferrarle la mano mentre Marta guadagnava la porta d’uscita.
«Non ci posso credere, porca vacca!», Roberta non si rese nemmeno conto di aver parlato ad alta voce. Per fortuna l’aveva sentita solo il barista.
“Mia sorella ha una storia con Mark, Mark Owen?”


Maybe today I’ve lost you

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Capitolo 18
*** If I could take your blows, If I could get pass go, If I could find a way of fixing the things that I broke Then I would, if I could And I might understand now I ended outta mind ***




Aveva corso per una distanza che le sembrava enorme, eppure sentiva Mark ancora troppo vicino. Avrebbe voluto mettere fra loro quanti più chilometri possibili; in verità, in quel momento, mentre aspettava la metro per andare nemmeno lei sapeva dove, avrebbe voluto non averlo mai conosciuto. Avrebbe voluto non aver mai deciso di andarsene dall’Italia.
Cosa aveva risolto, rifugiandosi in quel luogo che credeva ermetico – per il suo cuore ferito, per la sua ingenuità? Nulla, perché anche lontana da casa lei rimaneva sempre la solita stupida…
«Marta…», la voce inconfondibile di sua sorella la fece scattare. Che ci fa lei qui? Ma lo sguardo di Roberta era già abbastanza eloquente senza che ci fosse bisogno di parlare.
«Eri lì?», si sforzò di chiederle, sapendo comunque già la risposta. Un silenzio assenso che si trasformò in un espressione risentita, poi dispiaciuta, infine triste.
«Perché non mi hai detto niente?» furono le uniche parole che si scambiarono per ore. Il resto erano lacrime e singhiozzi di Marta; abbracci e carezze di Roberta.
 
***
 
Quando, ormai a tarda notte, Marta si fu addormentata sfinita dal lungo pianto dirotto – e incredibilmente vuota, dopo averle raccontato tutto –, Roberta le si accoccolò a fianco.
C’era tanto da metabolizzare, forse troppo. Tralasciando l’identità dell’uomo con cui la sorella aveva stretto una relazione clandestina – e Dio solo sapeva quanto le costasse non pensarci –, si trattava di una persona sposata che, come nei più classici dei triangoli, le aveva promesso un futuro insieme alla luce del sole e, come da copione, si era presentato annunciando l’arrivo di un figlio. Il secondo.
“… e mi diceva che non riusciva più a toccarla, che non facevano l’amore da tempo, perché il solo pensiero di stringere un corpo che non fosse il mio lo faceva impazzire…”
Continuava a rimuginare su quanto doveva essere stato difficile per sua sorella vivere in quel modo, tenendosi dentro tutto.
All’inizio c’era rimasta male perché credeva che loro due non avessero segreti l’una per l’altra, ma poi aveva capito: Marta si vergognava per quello che stava facendo, ma allo stesso tempo non era in grado di evitarlo perché c’era ormai troppo dentro. Come poteva biasimarla? Probabilmente anche lei al posto suo avrebbe fatto lo stesso. E quel Mark… proprio quello che aveva sempre idealizzato come il principe azzurro da quando era poco più che una bambina: una delusione unica. L’aveva presa in giro, l’aveva illusa per poi spezzarle il cuore.
Doveva fare qualcosa per lei, doveva aiutarla ad uscire velocemente da quella situazione; non poteva sopportare di vederla stare così per quell’idiota!
«Perché non dormi?», Marta si era svegliata e, con gli occhi gonfi di sonno – e non solo – la guardava. «È quasi l’alba.»
«Lo so, ma non riesco ad addormentarmi – si fissarono per un lunghissimo istante -, perché non torni a casa, tesoro. Forse dovresti semplicemente tornare dalla tua famiglia e lasciarti tutto questo alle spalle. Non ti…»
«Ci ho già pensato, credimi. Ma sono venuta in Inghilterra proprio per scappare dall’Italia, cancellare il passato, cambiare… e abbiamo visto che non è servito a molto. Non voglio più scappare, Roby. La mia vita qui mi piace…», fece una pausa, un’espressione contrita e rassegnata dipinta sul volto. «O meglio, mi piaceva, prima che tutto si incasinasse, ma voglio ancora stare qui.»
Roberta le accarezzò i capelli in un gesto dolcemente materno. Le sorrise prima di accovacciarsi accanto a lei, abbracciandola stretta.
«Va bene, sorellina. Va bene… Adesso cerchiamo di dormire un po’.»
 
***
 
Erano passate da poco le dieci quando Marta si decise ad alzarsi dal letto. Sua sorella doveva essere definitivamente crollata in un sonno catatonico, perché riuscì a staccarsela di dosso senza che quasi lei facesse una piega. Stette lì vicino al letto, a fissarla in silenzio. Un accenno di sorriso le increspò le labbra secche: era stata una stupida a non fidarsi di Roby fin dall’inizio, a non raccontarle niente di quanto le stava capitando. Lei, qualunque cosa fossa successa, sarebbe stata sempre dalla sua parte. Le accarezzò i capelli e le coprì i piedi che, fin da quando era piccola, la mattina spuntavano sempre fuori dalla coperta.
Si chiuse in bagno, decisa a ritrovare un minimo di dignità – sotto a quel trucco colato che l’aveva trasformata in una tavolozza incasinata di grigi e rosa pallido – celata da profonde occhiaie e uno sguardo non ancora perfettamente asciutto. Probabilmente, per quello ci sarebbe voluto molto più di un superficiale restauro esteriore, ma sperava proprio che prima o poi sarebbe riuscita a superare anche quella tempesta, ancora.
Mentre l’acqua le scrosciava addosso, contro la sua volontà ricordi le affioravano nella mente, come minuscole schegge che infilate sottopelle provocano un dolore penetrante e continuo. Mark rappresentava per lei quel dente che duole, ma sopra al qualche non puoi evitare di far passare la lingua. Dio, se faceva male! Da morire…
Esaurì per l’ennesima volta la scorta di lacrime, si asciugò, indossò la divisa e lasciò un biglietto a sua sorella attaccato al frigorifero. Era determinata – e come ne fosse in grado fu un mistero anche per lei – a non permettere a un altro uomo di decidere ancora per lei e per il suo futuro. Per quanto Mark le fosse entrato dentro, così profondamente da non riuscire quasi più a ritrovare se stessa, era stanca di lasciarsi condizionare dai propri errori e dalla propria inesistente capacità di giudizio nelle questioni d’amore. Questa volta avrebbe vinto lei. O almeno ci sperava.
 
***
 
Mark aveva preso la macchina, dopo quell’ultimo incontro con Marta, e aveva guidato come un pazzo senza meta, diretto fuori città. Non sapeva dove andare, ma ovunque sarebbe stato meglio che a casa da Emma. Si sentiva in preda a un attacco di panico con i controfiocchi, disorientato e vuoto come mai gli era capitato in trentasei anni.
Continuavano a vorticargli nella mente quegli ultimi minuti con lei, le parole che si erano scambiati – quelle che lui era stato costretto a dire…
“… io, non so proprio come, vedi… è complicato. Emma… lei aspetta un altro…”
Non era stato nemmeno necessario terminare la frase per vedere l’espressione di Marta cambiare, da felice per essere lì con lui a disgustata – di essere lì con lui; di avergli dato tempo, fiducia, comprensione e amore. Sì, perché lui se ne rendeva conto perfettamente: ogni minuto che lei aveva deciso di spendere in quella loro storia intricata e difficile, era una costante dichiarazione di amore e di speranza per un “noi” che, a quel punto ormai, non avrebbe più potuto essere.
Continuava a maledirsi mentre, a centottanta sull’autostrada, batteva le mani con frustrazione sul volante e lasciava che le lacrime lo inondassero.
Avrebbe dovuto rincorrerla, fermarla. Implorarla di non andare via? Avrebbe dovuto inginocchiarsi e chiederle altro tempo, chiederle di non lasciarlo in balia di se stesso? Lui, a parti invertite, avrebbe acconsentito? Si sarebbe dato un’altra opportunità?
No, di sicuro no.
Per questo, quando si era alzata e gli aveva urlato addosso che non avrebbe voluto vederlo mai più, l’aveva lasciata andare. Le doveva rispetto, almeno alla fine… perché, sì, quella era fine. Quella parola bruciava nel suo cuore, fino a fargli mancare il fiato. Gary aveva ragione – lui l’aveva sempre –, non era stato in grado di gestire quella cosa così grande, enorme.
Qualche scappatella, quelle sì che era stato bravo. Nessun coinvolgimento, nessun intoppo. Nessun ostacolo.
Ma Marta, lei era un’altra cosa. Lei era l’amore, e ora lo aveva perso.
Si sarebbero rivisti forse, un giorno. Si sarebbero incrociati, con un po’ di fortuna avrebbe potuto risentire la sua voce. Magari l’avrebbe vista per la strada, mano nella mano con un altro, e si sarebbe nascosto dietro l’angolo per sbirciarli; forse avrebbe provato ad immaginarsi al posto di quell’uomo, che sicuramente l’avrebbe meritata più di quanto non abbia fatto lui. E si sarebbe sentito uno schifo. Proprio come in quel momento.
Aveva preso un’uscita a caso e si stava costringendo ad invertire il senso di marcia per tornare in città, ché tanto dov’è che voleva andare? In Scozia?
Aveva dei doveri da assolvere, delle responsabilità a cui non avrebbe potuto sottrarsi neanche volendo.
Sapeva che asciugandosi le lacrime e cercando di cancellare i segni di quel dolore dal viso non avrebbe mai eliminato il ricordo di lei.
Con buona probabilità lui, Marta, l’avrebbe amata sempre. Anche se fossero passati anni, era sicuro che, se e quando l’avesse rivista, il suo cuore avrebbe iniziato a galoppare come un pazzo e le sue mani avrebbero tremato dalla voglia di accarezzarla, anche solo per un momento.
C’era da chiedersi solo una cosa: come avrebbe ora fatto senza di lei? Come avrebbe affrontato quel futuro così vicino – così opprimente – a fianco di una persona che non amava?
 
 
If I could take your blows, If I could get pass go,
If I could find a way of fixing the things that I broke
Then I would, if I could
And I might understand now I ended outta mind

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Capitolo 19
*** Maybe I should try to live alone or raise the flag of mercy to unknow, Maybe I should run and hide away untile another day ***



 
MAGGIO 2009
Londra
 
«Alla fine le damigelle di Lesley hanno organizzato l’addio al nubilato in un sudicio pub di Whitechapel e io, hai presente che abito praticamente dall’altra parte della città, ho dovuto…», per Marta quello era il primo vero giorno di relax dopo quanto? Mille secoli? Forse era esagerata, ma gli ultimi mesi di lavoro se li portava addosso come un grosso cappotto pesante in un’assolata giornata di Agosto; quando quella mattina si era svegliata e, ingurgitando il suo beverone detox – nuova moda fra le sue colleghe, che l’avevano trascinata con loro in quella strana setta del benessere –, pregustava quella giornata wellness con l’amica come fosse stata un’oasi in mezzo al deserto, non aveva per niente messo in conto che Violet non avrebbe smesso un attimo di blaterare scemenze riguardo la festa per l’addio al nubilato della cugina – di cui era sinceramente, innegabilmente e segretamente invidiosa.
«Avresti dovuto esserci, amica mia, ci saremmo divertite un mondo a smontare pezzo per pezzo ogni minimo dettaglio della serata!», le disse, smettendo poi per qualche secondo di chiacchierare e infondendo nella ragazza la speranza – vana – di poter avere qualche meraviglioso attimo di silenzio.
Da quando, un anno prima, Marta aveva lasciato il suo posto all’hotel per dedicarsi a una carriera tutta nuova, molte cose erano diverse, non solo a livello professionale.
Dopo tutto ciò che aveva passato, si era resa conto – come fosse stata una specie di illuminazione – che non sarebbe servito a niente cambiare città se il vero cambiamento non fosse avvenuto prima dentro di lei.
Aveva tagliato i capelli e “azzardato” un caldo color caramello; si era decisa a dare una rinvigorita al suo guardaroba – cercando di usare lo shopping come deterrente per la depressione – e, cosa più importante, non abitava più a South Kensington. Aveva deciso di prendersi in affitto un appartamento tutto suo – senza coinquiline che improvvisamente si davano alla macchia o poco collaborative –, e tramite un amico di Gale aveva trovato un bilocale nella zona di King’s Cross. Certo, i primi tempi erano stati un po’ difficili: nuova zona, nuove conoscenze e, soprattutto, nuovo canone, un bel po’ più alto rispetto a quello cui era abituata, ma non ci mise molto a ritrovare il suo equilibrio – reinventarsi e rimettersi in piedi era diventata una delle sue più spiccate peculiarità.
Tramite una cliente abituale dell’albergo, che le aveva dato una soffiata su alcune posizioni aperte, era riuscita ad ottenere un colloquio da Sotheby’s e nel giro di qualche settimana era finita nelle loro sontuose sale vicino a Bond Street a bandire aste le cui cifre la lasciavano sempre sbalordita. Lì, in quei corridoi, aveva conosciuto Violet, portavoce di un’importante galleria internazionale di Bloomsbury. E aveva conosciuto Adam, il fratello gemello di Violet, come obbligato danno collaterale: da quando li aveva presentati, durante una delle loro prime uscite, in un pub vicino al lavoro, ogni occasione era stata buona per fare presente quanto la ritenesse bella, divertente e intelligente – niente meno le stesse organizzando il profilo per iscriverla a Miss Mayfair.
Era inutile prendersi in giro: in quei mesi subito successivi alla fine della sua tormentata storia con Mark, avrebbe potuto farle la corte anche il Principe Harry: lei non avrebbe fatto altro che pensare a lui.
Aveva alternato momenti di rabbia, in cui il solo pensiero di averlo di fronte le faceva desiderare di spaccare tutto, ad altri di sconforto pesante, in cui credeva di non essere nemmeno più in grado di compiere i gesti più naturali come respirare, senza di lui. Le mancava ogni giorno, a volte solo con la pressante necessità di averlo lì per insultarlo, a volte per farci l’amore – che, in entrambi i casi, significava semplicemente essere ancora sotto a un tram.
Poi la sua nuova vita aveva preso il sopravvento, non aveva più rischiato di imbattersi in lui in albergo e – per sua fortuna – nemmeno per strada, ché sapeva da fonti certe essere molto impegnato e, comunque, abitavano in zone diverse e non le era mai capitata la sfortuna di incrociarlo.
Sarebbe stata un’ipocrita a negare che le avrebbe fatto piacere rivederlo, fosse stato anche solo di sfuggita. Le era capitato di leggere qualcosa su di lui – aveva saputo pure della nascita della bambina –, ma averlo davanti sarebbe stata un’altra cosa.
Stava bene? – lo sperava, anche se, in parte, gli augurava di passarsela male senza di lei. In qualche modo, se la sarebbe meritata un po’ di sofferenza, dopo tutta quella che le aveva inferto.
«Penso che avrai modo, mia cara Vee, di allietarmi con le tue teorie da malata di mente alla cena di prova del matrimonio», Marta aveva abbondonato ogni idea di assoluta tranquillità, perciò l’alternativa era darle corda. «Adam questa volta non mi permetterà di disertare, non ho più scuse per evitare il supplizio di tua zia Bethany che canta “Ten Fat Sausages”(*)».
«Meglio così! Dobbiamo prendere appunti per la lista del disgusto: 1001 cose da non fare per la buona riuscita di una festa di matrimonio».
In quel preciso momento il telefono di Marta prese a squillare e lei fu ben felice di interrompere quella conversazione.
«Adam! Meno male, mi hai salvata!», cinguettò, voltandosi verso l’amica e facendole una smorfia. «Tua sorella ha deciso che devo morire di noia prima di poter partecipare alla prova della cena di tua cugina».
Il ragazzo, all’altro capo della cornetta, rise di gusto. «È inutile che ci provi, devi venire per forza, siamo i testimoni! A proposito, ti volevo chiedere se puoi passare a ritirare le fedi in gioielleria, mi hanno avvisato che sono pronte, ma io oggi farò un po’ tardi a lavoro.»
«Non c’è problema, tesoro, saremo di strada mentre andremo dal parrucchiere… ci penso io.»
 
***
 
GENNAIO 2010
L.A.
 
«Me ne porta un altro, per favore?»
Quella, negli ultimi mesi, era una delle frasi che Mark pronunciava più spesso. Un’altra poteva essere senz’altro: «Vai via prima dell’alba e non farti vedere da nessuno.»
Se ne stava seduto al bancone del bar dell’hotel di Los Angeles dove lui, Emma, Dawn e Gary alloggiavano per una vacanza. Che poi ancora si domandava cosa gli fosse saltato in mente al Capitano, di organizzare quelle due settimane. Come se già non vivesse l’inferno a Londra. Almeno là la temperatura era sopportabile; lì in California il caldo torrido gli faceva sembrare la sua vita ancora più difficile. Se almeno ci fossero stati i suoi figli…
«Cosa fai ancora qui, Owen?», il suo amico e collega era diventato quasi un angelo custode, soprattutto dopo che una certa persona era sparita dalla sua vita. Quel nome – Marta – era ormai diventato l’elefante nelle loro conversazioni. Entrambi sapevano perché Mark si comportasse da coglione, quando era sufficientemente lontano da casa da non rischiare di essere beccato, e bevesse fino a stordirsi senza preoccuparsi invece di dove si trovasse. Ogni giorno doveva essere una festa per lui, perché sempre più spesso lo si poteva beccare sbronzo.
 
Gary era triste per l’amico, provava – e ci provava davvero – a non giudicarlo, ma era convinto che, fintanto che non avesse toccato il fondo, nessuno a parte lo stesso Mark sarebbe stato in grado di aiutarlo veramente. Non gli aveva certo fatto mancare il proprio appoggio, e spesso si era ritrovato a metterlo in guardia da Emma: era strano e difficile pensare che una donna, vedendo il proprio uomo in quello stato, potesse restarsene lì in disparte senza dire o fare nulla, nemmeno incazzarsi. Quella donna era diventata parecchio inquietante – almeno, più del solito. tni i suoi figli...ceva sembrare la sua vita ancora più difficile. elle due settimane? amareona riuscita di una festa di matrimonio albergo e - er lligente, nient
«Ne porti due, uno anche per il mio amico», Mark parlò al cameriere senza nemmeno guardarlo, con gli occhi ridotti a due fessure e le sillabe strascicate, segno che sarebbe stato meglio darsi a un litro di caffè, anziché allo scotch.
«Lasci stare, - Gary era venuto in suo soccorso, non ad aiutarlo a darsi il colpo di grazia – stiamo andando in camera. Metta tutto sul conto», sorrise mestamente al cameriere e diede a Mark una pacca sulla spalla per invitarlo ad alzarsi. «Andiamo, amico, hai bisogno di dormire».
Forse, se Mark fosse entrato in camera da Emma in quello stato, non avrebbe dormito comunque, ma se lei non era neanche scesa a cercarlo, dopotutto, non le sarebbe importato di vederselo arrivare a letto carponi, con l’occhio vacuo e la puzza di alcool attaccata ai vestiti.
 
***
 
Passavano i giorni, le settimane, i mesi, finché il tempo era diventato una grossa chiazza scura indecifrabile che aveva perso qualunque importanza. Cercava di stare sobrio quel tanto da permettersi di lavorare, e di farlo bene, ma per il resto avrebbe preferito semplicemente non esistere. Con Emma non riusciva più nemmeno lui a capire cosa stessero facendo e dove stessero andando. Ormai anche quello non contava.
Mark aveva deciso che si sarebbe trascinato in quella storia; anzi, si sarebbe lasciato trascinare da lei, che ormai faceva il buono e il cattivo tempo, conscia che a lui sarebbe andata bene qualunque cosa. Per questo, a novembre duemilanove si era ritrovato protagonista di una festa per pochi intimi: il loro matrimonio. In effetti, Mark,  si domandava spesso perché ci avessero messo tanto.
Alla fine, comunque, era accaduto. Si erano sposati veramente, e si era anche divertito. Se non altro, aveva avuto un’ottima scusa per continuare ad alzare il bicchiere al cielo – e il gomito.
Erano marito e moglie.
E se Marta fosse tornata, nonostante i figli – nonostante il coglione che era? – cosa avrebbero fatto? Avrebbe dovuto anche divorziare…
Basta, Mark, be tornataei non tornerà.
e i figli - nonostante tae. erante camere d'trovato protagonista di una festa per pochi intiminutile pensarci: lei non sarebbe tornata, mai più.
 
 
MARZO 2010
Londra
 
Marta percorreva a piedi il tratto da casa alla metropolitana, come ogni giorno nell’ultimo anno. Quella mattina avrebbe avuto appuntamento con Adam prima di andare da Sotheby’s, ché avevano deciso di fare colazione insieme prima che lui prendesse il treno per Cardiff, dove avrebbe dovuto recarsi per lavoro, ma si sentiva inspiegabilmente di cattivo umore. Ansiosa. Preoccupata.
Era davvero strano, in realtà; ormai da mesi aveva dimenticato cosa volesse dire avere una giornata storta.
Il suo lavoro le piaceva da morire! Adorava il fatto di non essere vincolata da turni assurdi o dover stare in giro fino a tardi la sera. Quando andava male, alle otto era libera. Aveva finalmente tempo per gli amici, per dedicarsi ad attività extra e, sì, anche per coltivare la sua storia con Adam. Non sapeva se quella che sentiva fosse felicità – e non sapeva nemmeno se quel ragazzo sarebbe stato quello giusto, ché sicuramente non provava per lui l’amore come lei lo aveva sempre inteso –, ma di certo si sentiva serena come non le capitava da tanto, troppo tempo. Lui era sempre dolce, disponibile. La riempiva di carinerie che generalmente gli uomini dedicano solo fino al secondo o terzo appuntamento – finché non arrivano alla meta, insomma.
Sì, era un po’ troppo pignolo, ed era un po’ troppo fissato con la pulizia. Era un patito di Lego – che lei aveva sempre odiato – e se dovevano andare al cinema e scegliere tra la nuova commedia con Jennifer Aniston e il nuovo film d’avanguard di quel regista indipendente dal nome impronunciabile di sicuro c’era da discutere – “le commediole non hanno alcun spessore intellettuale”, le aveva detto una volta –, ma a parte quei piccoli particolari, Adam sapeva essere divertente. Era generoso, brillante, amorevole e, soprattutto, presente. Sempre.
Stava svoltando l’angolo, passando di fronte alla solita edicola, quando vide qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere, e il suo malumore di quel mattino – neanche fosse stato un presentimento – fu in un attimo quasi giustificato.
“Mark Owen ha tradito più volte la moglie”
“Take That: Mark Owen in clinica per alcolismo e depressione”
E, come un pugno in pieno stomaco, la tossicità di quei sentimenti che credeva dimenticati per sempre tornarono a chiedere il conto.
Senza nemmeno pensarci, prese una copia di ogni testata e pagò l’edicolante. Le mani tremavano, aveva come la sensazione che il peggio dovesse ancora venire fuori.
Aprì il primo giornale e, a pagina quattro, appena sotto al titolo “Mark Owen: ha tradito la moglie” capeggiava una foto che non avrebbe dovuto vedere, che nessuno avrebbe mai dovuto vedere: lei e Mark che uscivano da un pub di Earl’s Court.
Scorse con agitazione crescente l’articolo, nel quale si diceva che avevano avuto una relazione di due anni e che Mark aveva poi avuto ancora una decina di altre scappatelle. Non solo c’era una sua foto, ma quel che era peggio anche il suo nome!
«Dio…»
Il telefono trillò l’arrivo di un sms, lo prese velocemente in mano e rispose automaticamente ad Adam che le dispiaceva, ma che aveva avuto un contrattempo e non sarebbe andata a fare colazione con lui.
La vergogna e l’ansia che provava l’avevano improvvisamente privata di ogni raziocinio; avrebbe voluto tapparsi in casa e sparire, risucchiata in un buco nero.
Ma in quel momento il cellulare riprese a suonare, questa volta per una chiamata. Era un utente privato, e in cuor suo immaginava anche chi potesse essere. Se quella porcheria stava facendo il giro dell’Inghilterra – e, per sua sfortuna, non solo – quell’aggeggio infernale avrebbe suonato più di una volta quel giorno.  
«Pronto?», rispose, con tono incerto, tremolante, quasi impaurito.
«Marta, tesoro, sono Gale… dimmi che non hai ancora visto i giornali!», il sollievo che provò nel sentire la voce della sua ex-collega le provocò un giramento di testa. Fece pochi passi e sedette su una panchina.
«Purtroppo ne ho appena comprati una manciata, e riportano tutti la stessa foto, con il mio nome scritto in grassetto», le veniva troppo da piangere.
Aveva sperato – ci aveva sperato con tutta se stessa – di poter considerare chiusa quella parte della sua vita. Non importava quanto i suoi sentimenti fossero sempre rimasti gli stessi, voleva davvero fingere di non aver mai vissuto quella storia, di non aver mai incontrato Mark.
Ma come faceva ora, con davanti le prove inconfutabili che qualcosa c’era stato, e con il mondo intero lì a sbirciare in quei cassetti che credeva di aver sigillato?
La vita le stava giocando l’ennesimo tiro mancino e lei non sapeva proprio che cosa fare.
 
 

 
Maybe I should try to live alone
Or raise the flag of mercy to unknow
Maybe I should run and hide away
Until another day
 
 
 
 
 
  
(*)canzone popolare inglese

 

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Capitolo 20
*** Here we come now on a dark star, seeing demons, not what we are. Tiny minds and eager hands will try to strike but now will end today ***



 


QUALCHE GIORNO PRIMA L’USCITA DEGLI ARTICOLI
 
Non era certo la prima volta che lui ed Emma litigavano, come non era certo la prima volta in cui, per una cosa o per l’altra, passava la notte fuori. Non era la prima volta che l’ombra di qualche infedeltà, vera o presunta tale, aleggiava sulle loro teste.
Era la prima volta, però, che quelle infedeltà venivano a galla, come cadaveri le cui carcasse lentamente percorrevano un fiume vicino alla secca, e che s’impigliavano in cumuli di macerie trascinate dall’inerzia.
Era la prima volta dopo tanto che Mark si permetteva il lusso di pensare a Marta. Ogni tanto si abbandonava ai ricordi della sua mente, troppo spesso offuscata dall’alcool.
Ciò che il suo subconscio aveva conservato di lei, però, non le rendeva di certo giustizia, ed era quasi sicuro che molte cose che pensava di aver vissuto con lei fossero in realtà situazioni mai state, ma che avrebbe voluto vivere veramente.
La realtà e il sogno spesso si confondevano, creando ancora più casini di quanti già non ve ne fossero.
Era la prima volta dopo tanto che riusciva a rivederla come se fosse lì davanti a lui e, come quel primo momento nella hall dell’hotel, il suo cuore esplose.
Suonò al citofono dell’amico che era piena notte.
All’orecchio di Emma erano giunte voci nei giorni precedenti, circa il suo comportamento negli ultimi tempi, e da quello che lei gli aveva detto, quelle voci tendevano ad essere abbastanza veritiere. Avevano litigato tutto il giorno e gran parte della serata; lei si era addormentata, sfinita dalle grida, sul divano del salotto, allora lui si era buttato velocemente sotto la doccia. Era ancora ubriaco – in verità, lo era quasi sempre, ultimamente – e sentiva la necessità di qualche minuto di lucidità, se mai fosse arrivata a dargli un po’ di tregua. Quando era tornato di sotto, Emma era di nuovo sveglia e sul piede di guerra. Non aveva detto molto in aggiunta ai migliaia di improperi vari precedenti, si era limitata a guardarlo torva e intimargli di andarsene.
Ecco perché era di fronte a casa Barlow. Non aveva neanche potuto salutare i suoi figli, che Emma aveva lasciato dai nonni quella mattina.
Una luce si accese al secondo piano; qualche istante dopo, alla finestra dell’ingresso. La porta si aprì e Gary, in vestaglia e piedi scalzi, cercò con lo sguardo lo sfortunato avventore nella sottile foschia della notte.
«Mark, che ci fai qui?»
«Posso dormire da voi questa notte?»
 
Il comitato Barlow era riunito – e per comitato Barlow si intedevano Gary e Dawn, in pigiama, in cucina, davanti a un thè bollente e due fette di limone.
La fettina gialla nel liquido ambrato di Mark galleggiava come una boa mollata alla deriva; un po’ come si sentiva lui in quel momento: un’imbarcazione lasciata in mezzo al niente, nell’attesa della prossima tempesta.
«Senti, Mark, io lo so che non vuoi sentirtelo dire, e credimi che non ti sto per fare una paternale riguardo le tue “scappatelle”, ma hai bisogno di aiuto. Prova a parlare con Emma, dille che ti dispiace, che sei un coglione e offriti di andare in riabilitazione.»
Aveva parlato Gary, ma da come Dawn lo guardava, era chiaro che il comitato concordava riguardo ogni punto.
«Ma ci credete! Vuole che vada in riabilitazione, mi ha dato dell’ubriacone schifoso che non si rende conto di dove infila il pisello!»
Gary si limitò a rilasciare un breve sospiro tra le labbra strette; Dawn pareva compatirlo, ma Mark sapeva che non lo faceva con cattiveria. Lei gli voleva bene.
«Io un ubriacone?! Sì, ho alzato un po’ il gomito ultimamente, ma in casa sono sempre stato ineccepibile… con i bimbi e anche con lei. Dio…!»
«Mark, sai che di solito non mi pronuncio, ma… - questa volta fu Dawn a parlare – credo che forse dovresti considerare l’idea di fare quello che ti ha chiesto, se è l’unico modo per convincerla ad aggiustare le cose, fallo per i bambini.»
«Giusto – sentenziò l’amico, come se le parole della moglie fossero state pronunciate dalla voce divina -, e considera che si tratta solo di qualche settimana. Poi iniziamo con l’album, e la promozione. Rimettiti in sesto, vedrai che vi servirà.»
Non so nemmeno se voglio che serva.
Mi manca. Lei, Marta.
Dovrei vivere una vita che non sento mia?
Ci sono Elwood e Willow… dovrei pensare a loro.
Ma posso insegnar ai miei figli ad accontentarsi?
Io non sono felice così.
Forse dovrei imparare ad esserlo.
Marta, ti amo.
 
Dawn lo sistemò nella camera degli ospiti; nell’aria c’era ancora odore di nuovo, come se nessuno avesse ancora mai dormito tra quelle mura. Le coperte panna erano perfettamente tirate e, appesi alle pareti, campi di lavanda cercavano di restituirgli un po’ di colore, senza riuscirci.
Si sdraiò sulle coperte immacolate, ancora vestito e con le scarpe ai piedi. Pensava non sarebbe riuscito a prendere sonno, invece in pochi istanti crollò in uno stato di totale incoscienza.
Fuori il sole si preparava a spuntare.
 
***
 
DOPO GLI ARTICOLI
 
Durante tutto il tragitto a piedi fino a casa, Marta non aveva fatto altro che ripetersi che era stata solo colpa sua e che se l’era cercato, quell’enorme casino.
Anche se aveva provato con tutta se stessa a cancellare dalla sua vita ciò che era successo – illudendosi di esserci riuscita, per altro – si era dovuta arrendere alla realtà e ammettere che, in un modo o nell’altro, Mark e ogni cosa che quel nome voleva dire non si sarebbe mai trasformato in un puntino lontano nell’orizzonte che desiderava lasciarsi alle spalle. Mark ci sarebbe sempre stato, e per questo l’odiava.
Aveva camminato a testa bassa, cercando di farsi piccola, così piccola da riuscire a perdersi nelle crepe profonde dell’asfalto di Mayfair. Le sembrava che ogni singola persona che incrociasse la fissasse con indignazione; leggeva compatimento perfino sui muri. Anche il suo riflesso nella vetrina di Primark sembrò guardarla storto – con una certa aria di superiorità, per giunta – come se la donna in quel vetro opaco e sporco non fosse la stessa Marta che tentava di convincersi di non avere colpe, se non quella di aver amato troppo una persona che amore non ne meritava.
Non ne meritava?
E ora, avvolta in una coperta, accartocciata su se stessa in quel divano beige troppo piccolo e troppo poco confortevole – ché con quello che pagava di pigione, mica se l’era potuto permettere un divano che potesse realmente definirsi tale – la luce fioca di un pensiero sconnesso, ma stranamente piacevole, baluginò in un luogo recondito della sua mente.
E se questo fosse finalmente l’inizio?
Il telefono prese a squillare per l’ennesima volta, facendo schizzare da codice giallo a codice rosso fuoco il cerchio alla testa che la martoriava da quella mattina.
Ovviamente era Adam, ancora.
Prima o poi avrebbe dovuto decidersi a rispondergli o se lo sarebbe trovato alla porta, preoccupato – forse arrabbiato per quella sua inusuale reticenza nel rispondere alle sue chiamate – e non voleva certo che la trovasse in quello stato.
Non voleva che la trovasse. Punto.
Non avrebbe saputo come affrontare il discorso, come spiegargli cose che nemmeno lei aveva capito; più di tutto, però, non avrebbe potuto sopportare il suo sguardo deluso nel caso avesse già letto i giornali… nel caso avesse già scoperto che la donna meravigliosa che credeva di avere al suo fianco fosse una sfascia–famiglie.
Ho voglia di sentire la sua voce.
Lo odio, mi sta rovinando la vita anche senza farne parte.
Ma perché doveva capitare proprio a me?
E adesso come faccio ad andare a lavoro, cosa dico ai miei amici?
Adam non vorrà più parlarmi.
Mark, mi manchi da impazzire.
Hai lasciato un vuoto incredibile, ma non puoi mancarmi. Non devi.
Dio, quanto ti voglio.
Ti odio!

Regnava un silenzio tombale in quella stanza, eccetto che per qualche sporadico singhiozzo, brevi spasmi dovuti al continuo piangere e quelle urla silenziose che, risucchiate dalle mura intorno a lei, esplodevano invece nella sua testa.
Stava diventando tutto semplicemente troppo da sopportare e, quando finalmente la spossatezza vinse, Marta si addormentò in un sonno tormentato.
Qualche ora dopo aprì gli occhi e la prima cosa che percepì fu il tamburellare flebile della pioggia sulla finestra. Si stiracchiò, regalando un accenno di sorriso a quella Londra tanto amata che non si smentiva mai, neanche in primavera.
Si tirò su dal divano, dove si era addormentata, e prima di riempire il bollitore buttò un occhio all’orologio. Aveva dormito tutto il giorno!
Non ricordava bene, ma era certa di aver sognato durante quel pisolino non programmato; nonostante tutto il casino che stava passando, era stato anche un sogno piacevole, rilassante, tanto che, al risveglio, sperò che in realtà non ci fosse alcun articolo di giornale, nessuna foto e, soprattutto, nessuno scandalo svelato.
Purtroppo, però, le decine di chiamate perse sul telefono fecero svanire quella mera illusione.
Gale le aveva lasciato decine di messaggi, così come Adam e Violet.
Persino sua sorella le aveva mandato un sms sospetto: purtroppo, con internet, i peccati non si erano fermati prima della Manica.
Forse era ancora in tempo per rivalutare l’ipotesi di quel viaggio oltreoceano – o meglio, oltre Via Lattea. A quel punto, solo cambiare universo l’avrebbe aiutata.
«Marta! Marta, ci sei? Aprimi, per favore! So che sei lì!», di colpo, Adam era dietro la porta di casa sua e lei avrebbe voluto possedere una via di fuga, un’uscita secondaria, una scala antincendio, invece quel palazzo maledetto non aveva neanche quella!
«Marta, per favore, aprimi! Non hai alcun motivo di nasconderti, sono qui per te!»
Il fatto che quell’Adam del cavolo fosse sempre così accomodante con lei, comprensivo e di conforto, per assurdo, non le era di alcun aiuto. Anzi, la spingeva ancora più in basso, più in fondo di qualsiasi fondo avesse mai toccato prima.
«Per favore, Adam, vai via! Non ho voglia di uscire e non ho voglia di vedere nessuno!», si era costretta a urlargli attraverso la porta chiusa. Sapeva di aver assunto un atteggiamento irragionevole, ma tutta quella situazione era così ingiusta! Non voleva che s’immischiasse, che cadesse vittima anche lui dei suoi errori.
«Marta, per favore…», sentì il suo corpo appoggiarsi alla porta, con un tonfo rassegnato. Lo sentì scivolare contro di essa. Si era seduto e con buona probabilità lì sarebbe rimasto fino a che lei non gli avesse aperto.
La ragazza sentì di nuovo il fiume in piena dentro sé cercare di straripare. I suoi occhi, che credeva non avessero più lacrime da piangere, si inumidirono lasciando che la frustrazione fuoriuscisse.
«Scusami, Adam, ma non posso. Vai via.»
 
Non sapeva per quanto tempo Adam era rimasto lì dietro. Non sapeva per quanto tempo lei era rimasta lì seduta vicino alla porta. Non sapeva. Niente.
Il telefono aveva continuato a suonare fino a che, esausto, si era spento da qualche parte in cucina e lei si era decisa, ad un certo punto e solo perché iniziava a sentire l’odore della sua tristezza, a buttarsi sotto la doccia. Ci era rimasta parecchio, considerando che quando uscì dal bagno ormai era notte fonda. Aveva perso la cognizione di ogni cosa.
Rovesciò sul letto ancora intatto tutta la sua stanchezza, venuta per chiedere il conto salatissimo di quegli anni in cui aveva amato, aveva tentato, aveva persistito diabolicamente in cause perse e aveva mollato per poi riprovare di nuovo; di quegli ultimi mesi in cui aveva disperatamente cercato un appiglio cui attaccarsi per riprendere a respirare aria sana, senza Mark.
Ovviamente, non ci era riuscita.
 
Un nuovo giorno – o pomeriggio, o sera, ormai non lo sapeva più – era arrivato e quando Marta aprì gli occhi, che le dolevano dal tanto piangere che aveva fatto, il susseguirsi delle ultime ore gli aveva di nuovo riempito la testa.
Si era data malata a lavoro, unica cosa che era stata in grado di fare senza troppi traumi – ché il suo capo, quando aveva sentito la sua voce, si era seriamente molto preoccupato.
Si preparò la colazione, lo stomaco iniziava a farle male dato che, in pratica, non mangiava da almeno trentadue ore.
Mentre il latte scaldava e le fette di pane tostavano, decise che era giunto finalmente il momento di affrontare la situazione, così attaccò il telefono alla presa di corrente e lo accese.
Immediatamente, una serie infinita di bip di ogni tipo prese possesso dell’apparecchio, tanto che divenne un unico fastidioso suono; lo abbandonò sulla dispensa mentre proseguiva con i preparativi del suo pasto, lasciandolo suonare come impazzito.
Quando, dopo qualche minuto, il beato silenzio tornò a regnare nella casa, prese il cellulare in mano e iniziò ad analizzare chiamate e messaggi.
Tra i tanti che trovò ne vide uno particolarmente accorato di sua sorella, così decise di ignorare momentaneamente tutti gli altri e chiamarla.
Non aveva ancora risposto all’altro capo del telefono quando qualcuno suonò alla porta; senza pensare, Marta, con ancora il cellulare appoggiato all’orecchio, si avvicinò a essa e guardò attraverso lo spioncino.
Tra tutte le persone che avrebbe pensato di trovare lì dietro, di certo non avrebbe mai immaginato che potesse essere Mark.
Mark, lui era lì e Marta non era affatto sicura che sarebbe stata in grado di affrontarlo.
L’unica cosa che la convinsero ad aprire fu il suo sguardo.
Quello stesso che l’aveva incatenata a sé quattro anni prima.
 
 
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but now will end today.

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Capitolo 21
*** Everyone's running Me though, I'm crawling Picking up the pieces of your heart I'm trying to put you back together ***




 
E dire che c’era stato un tempo in cui Mark e Marta avevano riempito ore di parole, di chiacchiere allegre, dolci; di discorsi ricchi di aneddoti, di pezzetti di vita che li avevano portati poco a poco a legarsi in quel modo speciale che era solo loro.
Chi l’avrebbe mai detto che lì, in piedi uno di fronte all’altro, per la prima volta da quando si erano conosciuti, sarebbero rimasti completamente in silenzio a fissarsi?
«Ciao…»
Lo avevano sussurrato contemporaneamente. In poche lettere, tante sensazioni inespresse, promesse fatte – e infrante –, vita non vissuta.
Mark la fissava, le mani in tasca, le braccia tese. Era nervoso, Marta lo conosceva abbastanza da intuirlo. Anche lei lo era, lui se ne sarebbe accorto subito se avesse potuto vedere la sua mano stringere la maniglia della porta fino quasi a farsi male.
«Sarà meglio se entri…», si era spostata mentre lui allungava la gamba all’interno dell’appartamento. Aveva paura, una folle paura di percepire il calore del suo corpo troppo forte e di finire con il desiderarlo ancor più di quanto non avesse mai fatto.
Non doveva provare desiderio per lui, doveva odiarlo, doveva essere arrabbiata e urlargli contro che l’aveva messa nei casini ancora, che gli aveva spezzato il cuore, ancora. Glielo aveva frantumato di nuovo nonostante fosse stato lontano, nonostante lei lo avesse chiuso in un cassetto e lo avesse sigillato lì.
«Come stai?», chiese lui, timidamente. Aveva alzato appena lo sguardo in cerca dei suoi occhi, ma Marta aveva subito voltato il capo e chiuso la porta dietro di lui.
«Sei proprio sicuro di voler sentire la risposta?», il tono secco, tagliente.
Aveva pronunciato quelle parole con un’asprezza che non aveva pensato di sfoggiare, ma la rabbia che sentiva si stava rivelando incontrollabile. Era arrabbiata, sì, ma molto più con se stessa che con lui. Era stata lei a permettergli di insinuarsi nella sua vita, come acqua nelle crepe profonde della sua esistenza.
«Scusami, – sospirò, accasciandosi sul divano – non volevo essere acida. Sono solo molto stanca…», e sapevano entrambi che era vero. Erano stanchi, tutti e due. Stanchi di finire sempre con lo scontrarsi anche quando facevano di tutto per evitarsi.
Marta aveva così faticato per innalzare quei confini tra loro, fabbricare un muro all’apparenza indistruttibile per poi scoprire che era solo un’illusione.
Lei, Mark, non sarebbe mai riuscita a odiarlo. Quegli occhi chiari riuscivano a riportarla sempre a quel primo incontro, a quella prima volta in cui, da due semplici estranei, erano diventati l’uno la vita dell’altra.
C’erano esistenze in rovina, danni da calcolare, vite da ricostruire, lacrime da piangere, ma tutto ciò che Marta riuscì a pensare, mentre nel silenzio si fissavano, era che lo amava.
«Non volevo assolutamente tutto questo, non volevo, io… è stata tutta colpa mia.»
Fu lui il primo a riempire quell’imbarazzante, doloroso vuoto.
«Farò qualunque cosa per sistemare questa faccenda e, ti giuro – alzò lo sguardo e tornò a fissarla, gli occhi lucidi e amorevoli come li aveva sempre custoditi nei suoi ricordi – io te lo giuro, nessuno verrà a importunarti. Né Emma, né in giornali, nessuno…»
«Per quello arrivi tardi, credo che qualcuno abbia già il mio numero e il telefono – che in quel momento, neanche a farlo apposta, prese a suonare – squilla continuamente.»
Mark si alzò dal divano e, preso in mano l’apparecchio, ne staccò i cavi.
«Cambieremo il numero, non dovrai essere immischiata in tutto questo, non...»
E, nonostante l’amore che Marta sentiva di provare ancora – inequivocabilmente – per lui, in quell’istante avrebbe voluto prenderlo a schiaffi.
«Mark, forse non te ne sei accorto, ma io sono già immischiata!», si alzò anche lei, presa da un attacco di frustrazione incontrollata. La furia era finalmente emersa, la sentiva salire e prendere possesso di ogni fibra del suo essere.
«Sono quattro stramaledettissimi anni che navigo in questo stato di totale caos! Che vivo ogni mio giorno nel tentativo di dimenticarti, nel tentativo di andare avanti e convincermi che non sei la persona giusta per me. E, dio!... – Mark la fissava, atterrito – smettila di guardarmi con quei due occhi da bambi indifeso!», si portò le mani tra i capelli. «Ci ero riuscita, io… ce la stavo facendo, sai? Ho cambiato casa, lavoro; ho cambiato compagnie… ho persino tagliato i miei dannati capelli a cui tenevi tanto! Ho – alzò gli occhi al cielo, occhi che stavano piangendo, da un tempo infinito, forse non avevano mai smesso –, o meglio, avevo un ragazzo… e quando finalmente pensavo di averti lasciato indietro, di aver archiviato il mio solito passato incasinato, una stupida foto riporta tutto a galla! Io…» si lasciò cadere a peso morto sul divano, quel peso sulla testa l’aveva fatta definitamente crollare.
«Dio! Io, io ti amo, Mark. Così non riesco a vivere, così, con te, poi senza di te, non posso, non riesco a dimenticarti. E anche quando cerco di convincermi di averlo fatto, è una menzogna… vivo mentendo a tutti, a me stessa. Io non potrei dimenticarti nemmeno se lo volessi veramente.»
 
***
 
Aveva sempre odiato vedere le donne piangere, che fosse di gioia o di dolore, erano situazioni che non era mai stato capace di gestire. Più di tutto, odiava sapere di essere la causa di quelle lacrime, perché lo faceva sentire in dovere di asciugarle e lui non era mai stato in grado di consolare la gente. Tutti lo avevano sempre creduto dolce, sensibile e, sì, per certi versi lo era, anche troppo, ma quando una donna piangeva si sentiva impotente, come davanti alla fame nel terzo mondo, come davanti a una guerra senza soluzione, quindi riusciva solo a voltarsi dall’altra parte.
Ma Marta, lei, nonostante tutte le bugie che si sarebbe potuto raccontare, lei era parte di lui, era la sua vita e sentiva quelle grida, quello sfogo, come se facessero parte del suo stesso dolore. Sentiva ogni singolo chilo di quell’enorme peso che aleggiava su di lei, perché era lo stesso che aveva sempre sentito anche lui. Come avrebbe potuto voltarsi e ignorare quella disperazione?
La raggiunse, un paio di passi ed era lì vicino a lei, la strinse come se volesse assorbire dalla sua anima tutto il cupo, il male, la rabbia; come se volesse estirpare dal suo cuore quell’enorme cancro che lui stesso aveva generato. Se ne avesse avuto il potere, avrebbe fatto in modo che lei non lo avesse più amato, tutto piuttosto di vederla soffrire in quel modo.
«Non so spiegarti quanto io mi odi per quello che ti ho fatto e per quello che ti sto facendo ancora. Se potessi, tornerei indietro a quella notte, ti lascerei andare, ti manderei via… cambierei ogni cosa pur di non vederti soffrire in questo modo. Tutto…»
Il problema era, però, che lui l’amava, l’amava esageratamente, dolorosamente. Non avrebbe potuto vivere sapendo di non essere ricambiato da lei; pensando che non lo avrebbe più guardato come lo stava guardando in quel momento, con un amore talmente potente da arrivare ad annientare entrambi. No, non ce l’avrebbe fatta.
«… è solo che…», stava facendo uno sforzo immenso per trattenere le lacrime, perché sapeva che lei non avrebbe retto, la conosceva, ma per quanto si impegnasse, quel suo odore così buono, la sensazione della sua pelle sotto le dita, delle sue spalle così esili – che avevano sopportato pesi così grossi da non riuscire a capacitarsi di come potesse essere ancora così meravigliosa – tra le braccia lo fecero cadere nell’oblio di un infinito buco nero.
Tutto, tutta la sua vita, il suo futuro, quello che sarebbe stato di lui da quel momento in poi avrebbero dipeso da quell’istante fra loro due. Sentiva chiaramente i binari nel suo cuore correre veloce verso il cambio.
C’era solo da muovere una leva e decidere.
Ormai il tempo stava per scadere.
«Non devi sentirti responsabile per me, non devi odiarti… non è colpa tua se ti amo.»
Marta, rannicchiata sul suo petto, aveva pronunciato le ultime parole con una sorta di rassegnazione nel tono della voce, che aveva rimbombato nella cassa toracica, facendolo vibrare dall’interno.
Era entrata nella sua vita con la forza di un uragano, eppure in quel momento la sentì fragile come il cristallo. 
Avrebbe dovuto smetterla di mandarla in pezzi così; a quanti terremoti avrebbe retto ancora prima di frantumarsi definitivamente?
E lui, senza di lei, quanto sarebbe riuscito a sopravvivere?
 

 
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Capitolo 22
*** I was fearless but so easly I let life fade away the colour of my dreams ***


 

Era passata una manciata di giorni da quel loro ultimo incontro a casa di Marta; in quella di Mark, di casa, regnava un silenzio tombale, alternato di tanto in tanto da qualche sfuriata tra lui ed Emma. Ormai il capitolo scappatelle e figure di merda con la stampa di mezzo mondo andava esaurendosi e la signora Owen – o quello che ne restava – non aveva più insulti nuovi da sfornare, per cui si attaccava anche alla più piccola delle piccolezze.
Mark era sfinito, così come lei, ma riusciva a restare lucido a sufficienza da non perdere totalmente il senno grazie al pensiero che di lì ad un paio di giorni sarebbe ripartito con i ragazzi per proseguire il tour.
Tutto negli ultimi tempi era andato male – ché dire male era la barzelletta del secolo. Tra liti furiose, minacce di divorzio e riabilitazione, non si erano fatti mancare proprio niente. Nonostante questo – e il peggio che lo aspettava proprio dietro l’angolo –, il suo chiodo fisso restava Marta.
Da quando si erano rivisti pochi giorni prima, da quando si era reso conto di quanto anche lei si sentisse vuota senza di lui – da quando gli aveva detto che lo amava ancora, che lo aveva amato sempre nonostante i… nonostante – sentiva che quelle poche ragioni a cui ancora si aggrappava per cercare di tenere in piedi il suo matrimonio andavano sempre più sbiadendo. Guardava Emma e ciò che riusciva a vedere era solo la madre dei suoi figli, non più l’amore della sua vita, la metà del suo cielo – e si rese conto che, con tutta probabilità, non lo era mai stata veramente. Non c’erano dubbi che lui fosse stato un pessimo marito per lei; di certo si sarebbe meritata di più, sin dall’inizio, ma se paragonava il sentimento – il trasporto, la devozione, l’annullamento, il dolore, la passione – che nutriva per Marta a ciò che avesse mai provato per Emma sin dall’inizio della loro relazione, poteva capire con facilità cosa ci fosse di sbagliato tra loro: mancava l’amore – quello vero.
«Owen! Owen! Mi stai ascoltando!?»
Ormai quella era una delle frasi più gettonate. Lui perso nei suoi pensieri, lei imperterrita oratrice – o urlatrice – piena di domande, discorsi e congetture. «Mi domando cosa diavolo parlo a fare se è chiaro che non ti interessa minimamente quello che sto dicendo! Ti rendi conto che ti sto parlando di noi e del nostro matrimonio? Te ne importa un accidenti di qualcosa della donna che hai portato all’altare o no?»
«Em, certo che me ne importa… ho sbagliato e sono un cazzone, te l’ho detto e mi sono scusato una cosa come un miliardo di volte. Continuare a inveirmi addosso non migliorerà la situazione!»
Non ce la faceva più! Doveva uscire di lì più veloce della luce. «Ho bisogno di una boccata d’aria». Stava ancora parlando che già era uscito, sbattendo la porta senza volerlo fare, lasciandola ancora da sola. E sapendo già dove sarebbe andato.
 
***
 
Londra era straordinariamente calda per il periodo, o forse erano gli sguardi che sentiva su di sé mentre camminava verso casa dopo il turno di lavoro. Era probabile che la sua fosse solo soggezione, dopotutto. Poteva essere possibile che ogni persona che incrociasse avesse letto quelle riviste e potesse con certezza riconoscere in lei la ragazza delle foto?
Poteva, eccome. L’Inghilterra era famosa per la sua inequivocabilmente becera indiscrezione, il suo amore per i pettegolezzi e per la pubblica umiliazione riservata alle celebrità che osavano commettere un passo falso. Certo, lei non era una celebrità, ma Mark sì.
Eccola di nuovo, anziché pensare a se stessa e ai problemi – o l’esposizione mediatica – cui era stata involontariamente sottoposta, di nuovo la mente vagava a lui.
Chissà i problemi che gli avrà fatto la casa discografica, o i ragazzi… Emma…
Non poteva immaginare la persona che amava – eh, sì, ormai era inutile continuare a fingere che così non fosse – star male, patire le conseguenze di tutto ciò che era capitato, da solo. Sperò almeno che i ragazzi, i suoi compagni di lavoro e di vita, lo sostenessero, sopperendo all’impossibilità di farlo in cui lei viveva.
Avrebbe voluto andare da lui, aiutarlo, magari prenderlo e portarlo via per un po’ ma, dopo quel casino, non sarebbe stata la cosa più brillante da fare, e certo lo avrebbe messo ancora più nei guai. Soprattutto con Emma. Chissà come sarebbe finita tra loro – chissà se sarebbe mai finita.
Svoltò l’angolo con la via di casa accarezzando l’idea di prendere la cena a portar via ed estinguersi nel suo appartamento – almeno fino a lunedì – quando in lontananza le sembrò di scorgere la figura di Mark entrare nel portone del suo palazzo. Non ne era del tutto certa, ché ormai a Londra, alle cinque di sera, c’era già la stessa luce delle due di mattina, ma si trovò ad accelerare il passo per accertarsene quanto prima – e addio cena a portar via.
Raggiunse svelta il suo palazzo, entrando con il cuore in gola. Non avrebbe dovuto sentirsi così, ma le sensazioni che quell’uomo era in grado di farle provare erano incontrollabili, come se fossero un’entità in tutto indipendente da lei. Abbandonò persino l’idea dell’ascensore, lanciandosi su per le scale, mangiando i gradini due a due, finché non vide di fronte a sé proprio Mark, proprio lui, che stava salendo.
Adorava il fatto di essere in grado di riconoscerlo anche da piccoli dettagli. Quella nuca, il suo incedere, quelle scarpe consumate – sempre le stesse –, i capelli spettinati, come se si fosse appena alzato dal letto. Tanti piccoli dettagli che lo rendevano ciò che era, adorabilmente perfetto.
«Mark, ehi» lui si volse immediatamente, lo sguardo spento, eppure sempre pieno di cose – sogni, promesse, luci – quando incrociava il suo. «Cosa è successo? Cosa ci fai qui?»
L’uomo non rispose, si limitò ad azzerare la distanza tra loro e abbracciarla, intensamente – nel profondo. L’aveva spogliata pur lasciandole i vestiti addosso.
«Ti prego, salvami!», Marta gli accarezzò i capelli, glieli arruffò. «Non posso andare avanti così!»
Non era semplice per lei vederlo in quello stato, non era facile per lei vivere quello stato – lo stesso in cui lei stessa si trovava. Vuota, ma ancora piena di sogni, di se e di ma rimasti incastrati tra una pioggia di baci.
C’era però sempre quel piccolo campanellino, situato da qualche parte nella sua testa. Una disfunzione, o forse l’unica cosa che in tutto quel marasma ancora funzionasse a dovere. Doveva stare attenta, aprire gli occhi. Cosa mai avrebbe potuto fare Marta per aiutarlo? Per salvarlo?
Per tutti quegli anni gli aveva promesso che ci sarebbe sempre stata – non solo a parole, ma dimostrandolo con i fatti. Per tutti quegli anni era stata in piedi, immobile ed inerme, a prendere pugni in faccia da una situazione che avrebbe voluto scollarsi di dosso, ma che le si era appiccicata sulla pelle indissolubilmente. Quante volte aveva provato a cancellare quella parte della sua vita, quante volte?! Eppure era ancora lì, a tenerlo tra le braccia, ad accoglierlo, a perdonarlo per le illusioni massacrate, per i giorni che le aveva strappato via, per le lacrime - anche per quelle ancora non piante.
«Puoi salvarti solo tu, Mark. Tu hai in mano le redini, e puoi decidere dove vuoi andare», Marta lasciò la presa dall’abbraccio e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«L’unica cosa che posso fare, per quel che conta, è prometterti che ci sarò. Se, come e dove vorrai, io ci sarò, capito?»
 
***
 
Se mai ce ne fosse stato bisogno, Mark quella sera capì quanto davvero avesse bisogno di Marta nella sua vita. Erano state poche parole, ma che avevano avuto la capacità di infondergli una forza mai provata. Era preoccupato per i suoi figli, ma qualcuno una volta gli aveva detto che sarebbero stati meglio due genitori separati e felici, a due insieme ma infelici e continuamente in lotta. Si maledisse per non averlo capito.
Entrarono in casa di Marta mano nella mano, lui le accarezzava il dorso con il pollice. Si guardarono per un istante che parve interminabile e, ancor prima che avessero potuto chiudere la porta, si baciarono.
Quello che non sapevano era che Emma aveva seguito Mark fino a lì, e aveva visto e sentito tutto.

 
 
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I let life fade away the colour of my dreams 
Now you're with me, I know I can be 
Higher, higher than higher

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Capitolo 23
*** I've been waiting for the storm to surrender my soul ***



Erano passate alcune ore da quando Mark aveva lasciato il suo appartamento.
Non si era fermato molto, giusto il tempo di sfogarsi – con un tè, qualche coccola – di tutti i giorni passati a litigare con Emma.
Marta aveva percepito spesso, fra le sue parole, una vaga confusione. Sì, lui le aveva detto che voleva risolvere la questione, voleva separarsi e, un giorno – sperava non troppo lontano – poter vivere la loro storia d’amore alla luce del sole, fino in fondo. Allora perché continuava a sentire nello stomaco quel nodo, quel peso, come un’incudine che non sarebbe mai riuscita a levarsi veramente di dosso?
Continuava a ripetersi, come una vecchia poesia imparata alle elementari, le ultime parole che Mark aveva pronunciato prima di chiudersi la porta alle spalle e tornare a casa sua.
“Sapere che tu ci sarai è il salvagente che mi tiene a galla. Sapere che mi ami, nonostante quello che ti ho fatto in questi anni, l’ancora che mi salverà.”
Le aveva parlato senza sfiorarla, era già sulla porta pronto ad andarsene; lei lo aveva fissato come un cieco che vede il blu dell’oceano per la prima volta. E lui aveva annullato nuovamente la distanza tra loro, per stringerla in un abbraccio che sentì arrivarle dritto nelle ossa.
“Non lo so, proprio non me lo spiego, come fai a guardarmi con quello sguardo innamorato dopo averti fatto a pezzi il cuore in modi che nemmeno credevo possibili. Non ti merito, e lo sappiamo entrambi, ma spero comunque che continuerai a desiderarmi, per sempre, con le mie mille, umane imperfezioni.”
E lei sapeva che sarebbe stato proprio così perché, nonostante quelle imperfezioni, quei continui tira e molla, le debolezze, le violenze psicologiche che si erano inferti in passato, lei avrebbe continuato a volerlo per il resto dei suoi giorni. Se anche, per qualche inspiegabile motivo, fosse mai riuscita ad andare avanti senza di lui, la sua vita sarebbe stata come un’enorme imbarcazione perennemente alla deriva. Non avrebbe mai trovato terra e sarebbe morta senza mai vivere davvero. 
 
Marta si ritrovò a letto, ormai a tarda notte, senza riuscire a ricordare nemmeno come ci fosse arrivata. Sapeva di aver mangiato qualcosa, perché in bocca aveva un retrogusto di spezie piccanti – forse aveva riscaldato le ali di pollo del giorno prima; si era sicuramente fatta la doccia, perché i suoi capelli profumavano di shampoo – quello stesso shampoo che anche Mark adorava.
Era chiusa in una bolla, fluttuava nell’incoscienza di ciò che sarebbe stato. Il suo cervello aveva così tanto a lungo bollito, afflitto da mille ansie e paure moltiplicate per altre mille che ormai aveva dato forfait. Non ce la faceva più, e quell’intorpidimento arrivava più come un sollievo che come una tortura.
Decise che qualsiasi cosa fosse successa, l’avrebbe lasciata al domani. E crollò in un sonno senza sogni, per la prima volta dopo tanto tempo.
 
Quando la mattina dopo aprì gli occhi si sentì stranamente rilassata – non era abituata a riposare bene – e quella sensazione non l’abbandonò per tutto il giorno.
Era uscita di casa molto presto per andare a fare colazione da Gale, ché solo per raggiungere il quartiere in cui abitava ci volevano tre quarti d’ora. Da quando Mark era ricomparso nella sua vita anche loro due si vedevano sempre più spesso, forse perché avevano vissuto insieme quel prima con Mark, che – un po’ per la novità, un po’ per l’emozione di un amore appena nato, pieno di speranze e illusioni – l’aveva fatta sentire così felice.
E così disperata.
«Ciao tesoro», Marta sfiorò una guancia di Gale con la propria, non appena quest’ultima le ebbe aperto la porta, e le piazzò in mano un sacchetto di Starbucks. «Ecco la parola d’ordine – sentenziò lasciandosi cadere paciosamente sul divano – Carboidrati!»
Era un sacchetto esageratamente grande per contenere solo una colazione per due, ma sapeva che Gale aveva smesso di farsi domande da un bel po’ quando si trattava di lei.
«Hai deciso di lasciarti uccidere dai grassi saturi o è una delle nuove diete delle star che trovi su People Magazine?»
Marta le sorrise e si rese conto che, finalmente, non si trattava più di un sorriso finto o di circostanza. La cosa non sfuggì alla sua amica, come certamente non era passato inosservato il modo rilassato in cui sedeva. Si sentiva morbida, riscaldata da un sentimento familiare ma senza nome. Era tantissimo tempo che non si sentiva così, e quella mattina finalmente qualcosa si era smosso.
«Marta, sei sicura di stare bene?», Gale la fissava con uno sguardo strano, tra il seriamente preoccupato e la presa in giro. «Ho come l’impressione che tu abbia iniziato ad assumere sostanze poco ortodosse, non è vero?»
Si avvicinò a Marta e finse di analizzarle le pupille. «Marijuana? Oppiacei? Benzodiazepine?»
Gale rise e con un veloce gesto di polso le spinse la testa indietro; Marta si lasciò cadere sul divano, sdraiandosi.
«Niente di illegale, mi sono sbranata un muffin ai mirtilli nel tragitto da Starbucks a qui. Anzi, perché tu lo sappia, purtroppo ce n’era solo uno e sono stata così egoista da mangiarlo da sola.»
«Ok, dai, a parte gli scherzi, cosa c’è? Le tue occhiaie sono quasi scomparse e hai sorriso già tre volte nell’arco di dieci minuti. Profumi di bagnoschiuma, segno che ti sei lavata da meno di dodici ore, e hai mangiato un muffin intero, senza contare l’enorme quantità di cibo che c’è in quel sacchetto. A proposito – le chiese, dubbiosa - hai organizzato un breakfast party a casa mia?»
Marta si alzò dal divano, raggiunse il tavolo dove Gale aveva poggiato il sacchetto, ed estrasse un mini–donut ricoperto di glassa rosa e granelle di zucchero; lo mangiò in un boccone, finendo poi per leccarsi le dita una a una. Sorrise ancora, prima di impiastricciare la faccia dell’amica con le dita umide e appiccicaticce.
«Dai, smettila, schifosa, e raccontami che diavolo è successo di così importante da essere quasi riuscita a tornare in un qualche stato di grazia ultraterrena.»
«Ieri sera Mark è stato da me.»
«Eh – Gale la fissò per qualche istante, prima di inarcare pericolosamente il suo sopracciglio potente, meglio conosciuto come dov’è la fregatura o io te l’avevo detto - quindi? Mi farai morire nell’attesa o ti decidi a raccontarmi qualcosa di più?»
 
Marta raccontò all’amica tutto ciò che era successo, senza quasi mai prendere respiro, con un trasporto e una passione che persino lei stessa non avrebbe creduto di poter provare ancora. Rivivere ad alta voce ciò che si erano detti, raccontare quell’ologramma di futuro che sperava di poter finalmente veder materializzato presto, le confermò – come se ce ne fosse stato bisogno – che amava Mark più di qualunque altra cosa al mondo. Non importava quanto ancora ci sarebbe voluto, fosse anche successo da anziani, rattrappiti e gobbi, avrebbe aspettato.
Lo avrebbe aspettato sempre.
 
***
 
Mentre Marta riversava su Gale ogni sua più piccola speranza, ogni suo più minuscolo desiderio, dall’altra parte della città Mark era ancora alle prese con una Emma furibonda.
Lo aveva beccato e ormai a lui non restavano armi per difendersi – in realtà, non ne aveva mai avute, perché stronzo lo era stato, eccome.
Erano arrivati al punto in cui lui taceva e lei urlava, accompagnandosi con il lancio furioso di qualsiasi oggetto le capitasse a tiro. Fortunatamente per Mark, non aveva mai avuto un’ottima mira.
Dopo l’ennesimo piatto rotto e la millesima frase di ricatto del tipo “Quando potrai rivedere di nuovo i tuoi figli forse si saranno già laureati”, Mark non si sentiva più il corpo, non percepiva quasi nemmeno più il battito del suo cuore.
C’era poco che potesse dire o fare, sentiva nel petto la stessa sensazione che si prova quando si sogna di precipitare. Stava precipitando, solo che non era un sogno. Era tutto vero. Ormai aveva toccato il fondo e da lì poteva solo risalire.
C’era un unico posto in cui, in quel momento, sarebbe potuto andare. In verità, ce n’erano due, ma non poteva certo correre ancora da Marta. Non in quello stato: l’avrebbe fatta soffrire, si sarebbe sentita in colpa per una cosa di cui non ne aveva mai avuta nessuna. Per cui, a capo chino e senza dire altro, uscì di nuovo da quella casa lasciando Emma ancora una volta sola.
Non appena ebbe raggiunto il cancello e l’ebbe chiuso, sentì nel profondo che quella sarebbe stata l’ultima.
 
***
 
Gary stava riposando nella sua camera d’albergo a Londra. Stava ricaricando le energie per il successivo show all’O2, con della musica rilassante nelle orecchie. Stava quasi per addormentarsi quando all’improvviso sentì dei colpi alla porta, vigorosi, urgenti. Gli prese quasi il panico: chi poteva bussare a quel modo? Cos’era successo?
Non gli servirono risposte quando aprì la porta. Mark, capelli scarmigliati, occhi gonfi di chi non conosce riposo, di chi non sa cosa voglia dire serenità.
«Cosa diavolo è successo, Mark?»
Come una furia, l’amico iniziò a farfugliare, agitarsi, pronunciare frasi monche senza senso.
«Mi ha, lei mi ha visto. Lei sa… i bambini. È finita… non c’è soluzione. Il fondo, Gaz… sono arrivato…», lacrime e altre parole a caso.
Gary per la prima si sentì impotente.
Non aveva capito niente di quello che era capitato al suo amico, ma sicuramente il suo aspetto e la sua agitazione non facevano presagire nulla di buono.
Non era in grado di calmarlo, almeno non da solo.
Mark continuava a piangere e l’unica cosa che gli venne in mente di fare fu prendere il telefono e chiamare la persona che, in tutti quegli anni, era riuscito a capire Mark come nessun altro.
 
I've been waiting for the storm 
To surrender my soul 
Bathe me in your holy water and lay me down 
 
 
 

Note dell'Autrice

E niente, per chi ancora c'è, sono tornata dopo parecchio.
Mi dispiace di aver diradato tanto gli aggiornamenti e, soprattutto, di aver diradato tanto il tempo che dedico alla scrittura. 
Vorrei averne di più, o dedicargliene di più, ma attraverso spesso dei momenti in cui mi convinco di non essere più tanto capace, e questo mi toglie la voglia di farlo.
Qualcuno mi ha detto di scrivere, sempre e comunque, e che in questo modo la voglia e quindi la sparuta autostima che credevo di possedere tornerà con essa. 
Forse ci proverò, ma non prometto niente. :3
Spero che i pochi di voi ancora lì fuori, mi facciano sapere cosa pensando di questo capitolo.
Ringrazio la mia beta, Chara, che mi ha aiutato a controllare questo scatafascio di parole.
A presto,
Fair ♥


 

 
 
 

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Capitolo 24
*** spent my time here just holding on Afraid to let go, the weight's swinging in my soul ***



Mentre Mark continuava a vomitare e singhiozzare nel bagno di Doug – e solo Dio poteva sapere quanto stessero tutti soffrendo nel vedere il loro amico, loro fratello, conciato così – Gary prese il cellulare e compose quel numero, l’unico che in quel momento potesse digitare.
«Cazzo, Gaz, dimmi almeno cosa è successo!», Rob era andato subito su di giri quando gli aveva detto che Mark era ridotto uno straccio. Gary non si era sentito di spiegargli le cose al telefono, aveva bisogno che l’amico corresse da loro all’istante.
«Rob, devi stare tranquillo, Mark sta bene, o almeno così pare. Penso che ne abbia combinata un’altra delle sue, ma forse stavolta ci deve essere andato giù pesante. È completamente fuori di testa, soltanto tu puoi calmarlo. Siamo da Howard.» L’amico all’altro capo del telefono rispose tra i denti: «Sto arrivando.»
Gary si sentì subito rinfrancato all’idea che Robbie li stesse raggiungendo. Per la prima volta si trovava nella condizione di non sapere cosa fare e Mark aveva bisogno di tutto il sostegno possibile.
 
Era passata qualche ora da quella telefonata, Howard aveva fatto cancellare gli impegni del pomeriggio e lo staff li aveva lasciati in pace, avendo subito compreso la gravità della situazione. Robbie non era ancora arrivato; Mark aveva smesso di piangere e vomitare, ora si limitava a starsene seduto sulla moquette con le spalle ricurve appoggiate al muro e lo sguardo vacuo, perso nel vuoto cosmico. I ragazzi gli stavano attorno, seduti per terra vicino a lui.
Si scambiavano occhiate preoccupate, a tratti quasi terrorizzate; avevano paura per l’amico, ne avevano molta perché tutti sapevano cosa Mark avesse passato, quanta volontà gli ci fosse voluta per rialzarsi da certe situazioni che nessuno di loro si sentiva ancora in grado di chiamare per nome. Temevano che potesse ricascare in quell’oblio autodistruttivo che per poco non se l’era portato via per sempre e nessuno di loro si sarebbe perdonato se fosse successo di nuovo.
Di colpo la porta della stanza si spalancò e Robbie entrò come un comandante dell’esercito pronto a fare una lavata di testa agli insubordinati. Dietro di lui lo seguiva Asia, la sua nuova fiamma…
Jason si alzò e andò ad appoggiarsi sul letto, non prima di aver lanciato un’occhiataccia a Rob che aveva portato una fan – perché così lui la reputava – in un momento così privato e delicato per il loro amico. In realtà, anche gli altri sembrarono dello stesso avviso. Nessuno espresse il disappunto ad alta voce, ma i loro sguardi non lasciarono molto spazio all’interpretazione. Non che Robbie ci badò più di tanto, comunque. Con espressione impassibile si avviò verso Mark; al suo passaggio gli altri si dispersero per la stanza per lasciare loro un po’ d’aria. Gary si accorse che Asia stava uscendo dalla camera da letto per prendere poi posto su un puff, in un angolo del salotto, come a volersi estraniare dalla situazione e lasciare loro un minimo di privacy. Gliene fu grato.
 
***
 
Mark, suo amico, suo fratello, suo compagno di avventura. Si passavano due anni, Rob era il più piccolo di tutti in effetti, eppure verso quello scricciolo aveva sempre provato uno strano istinto di protezione. Soprattutto dopo tutta la merda che lui stesso aveva dovuto affrontare dal 1993 in poi, da quando aveva scoperto appieno i vizi – e i danni - del Dio denaro e quasi ci era morto affogato dentro.
Si sentiva come il Sopravvissuto, come il peggiore dei peggiori, che aveva annusato l’odore del fondo e si giocava ogni carta per evitare a chi amava di sentire lo stesso putrido odore. E lui Mark lo amava, lo amava davvero. Avrebbe dato la vita per lui, c’era da scommetterci.
Guardarlo in quello stato gli fece così male che gli venne da piangere. Era incazzato da morire con lui, che nonostante tutti i consigli che avevano cercato di dargli, era riuscito a ficcarsi in quella cazzo di situazione. Mark si accorse della sua presenza e lo guardò dal basso verso l’alto, Rob si piegò sulle ginocchia per guardarlo negli occhi e in un istante la rabbia sfumò per diventare affetto, comprensione. Fratellanza.
«Che succede, Marky?», cercò di sfoggiare un tono intimidatorio, ma gli uscì quasi una cantilena materna.
«Eh, che succede!? Non ha ancora capito cosa vuole fare da grande, il nostro piccolo Marky!», bofonchiò Gary, che stava consumando la moquette a furia di camminare su e giù per la stanza.
«Voglio sapere da lui cosa è successo, Gaz, grazie!», tornò a fissare l’amico, che aveva pianto probabilmente tutte le lacrime e aveva due occhiaie così viola da far paura.
«Cosa succede, Mark Sono qui, dimmi.»
L’amico sospirò e sembrò leggermente più tranquillo. Chinò appena il capo, prese un altro respiro e sputò fuori tutto.
«Ha detto che sparisce dalla circolazione, che mi porta via i bambini. Ha detto che sono un fallito testa di cazzo e che se non avessi voi finirei sotto i ponti a chiedere l’elemosina, malato di cirrosi. E la cosa peggiore sai qual è? È che credo che lei non abbia tutti i torti. Sono una testa di cazzo e fallisco in ogni cosa che faccio, e soprattutto con lei… non sono stato onesto con lei fin dall’inizio e ho passato i nostri anni insieme a deluderla! Io…», Rob lo interruppe appoggiandogli una mano sulla spalla.
«Non dire stronzate, per favore. Queste cose non voglio più nemmeno sentirle, devi smettere di credere alle cazzate che ti racconta quella. Sei grande nel tuo lavoro e sei grande come padre; è il lavoro di marito che non ti viene bene, ma solo perché ancora non vuoi fare i conti con il fatto che quella donna non è giusta per te e non lo è mai stata!»
Gli altri si avvicinarono di qualche passo, si fecero loro intorno. Mark alzò lo sguardo e disegnò sulle labbra una lieve curva. Non era un sorriso, Rob percepì in quella smorfia compassione per se stesso.
«Lo sai che ho ragione, te lo abbiamo sempre detto tutti. Non ami quella povera donna e non l’hai mai amata veramente, amavi l’idea che ci fosse qualcuno a prendersi cura di te, ma non lei. E questa storia continua solo a farti del male, a farvi del male.»
Mark e gli altri rimasero in silenzio. Rob, che era ancora in ginocchio di fronte a lui, gli si sedette accanto con le mani incrociate sulle gambe.
«Va bene, io chiedo e tu rispondi, ok? Chi è la malcapitata stavolta? Ed Emma cosa ha visto esattamente, vediamo se possiamo mettere una pezza a questa cosa.» Mark sospirò di nuovo.
«Non c’è nessuna pezza da mettere, Rob, e non voglio neanche. Penso che tutta la mia disperazione sia legata solo alla paura che ho di perdere Elwood e Willow», tirò su con il naso e riprese a parlare. «Rob, lei mi ha seguito, capisci? Non mi ha fatto seguire, era proprio lei dietro di me. Ha visto tutto! Dopo l’ennesima litigata sono uscito di casa per sbollire e, senza nemmeno rendermi conto, mi sono trovato a casa di Marta. Emma mi ha seguito e ci ha visti mentre ci baciavamo sulla porta. Questa volta non ho nessuna balla da potermi inventare. Era lì.»
Rob si prese la testa tra le mani. «È sì, amico, in questo caso c’è poco da fare…»
«Si è messa a strillare come una pazza, urlava che stavolta l’avevo fatta davvero troppo grossa e che mai e poi mai si sarebbe di nuovo fidata di me. Ha gridato che i miei figli non meritano un padre così. Te lo giuro, era fuori di senno. Il punto è che ha ragione.
Improvvisamente una voce si levò dall’altro lato della stanza, come se si trattasse di un narratore esterno che aveva lasciato scorrere la storia senza commentare.
«Beh, se avessi in testa più corna di un cesto di lumache, anche io sarei un tantino inviperita, mi sembra una reazione abbastanza normale.» Così come Asia aveva parlato, tutti si erano voltati a guardarla attoniti. La ragazza si portò una mano davanti alla bocca con gli occhi scuri sgranati, conscia di aver detto qualcosa di troppo. «Scusatemi, – disse, quasi balbettando – io, io ho pensato ad alta voce. Forse è meglio che io mi tolga di mezzo, vado a prendere qualcosa da bere al bar.»
Howard, chiedendo il permesso a Rob, si offrì di accompagnarla e anche gli altri li seguirono. Quella stanza era diventata improvvisamente troppo affollata.
 
***
 
Mark in serata era tornato a casa, ma le cose non erano andate certamente meglio. Avrebbe voluto prendere una stanza in albergo per quella notte, ma nonostante tutto Emma meritava che tornasse a casa, anche se avrebbe voluto dire continuare a litigare.
Alternava momenti di tristezza e lacrime ad altri in cui, per distrarsi, fantasticava su lui e Marta insieme. Ogni tanto bussava il senso di colpa, perché in quel momento così caotico e triste – perché, nonostante tutto, un matrimonio in frantumi era sempre triste – riusciva quasi a ritagliarsi degli istanti in cui gioire del fatto che dopo la tempesta il sole sarebbe finalmente sorto con Marta. E nessuno poteva sapere davvero quanto quel pensiero gli desse forza.
Emma, dopo qualche ora di silenzio, aveva iniziato a urlargli contro di nuovo. Mark ormai non sapeva più cosa dire, ché alla fine cosa aveva ancora da aggiungere?
Poi, di colpo, gli tornarono alla mente le parole di Rob dello scorso pomeriggio e tutto fu irrimediabilmente chiaro.
Già, irrimediabilmente, perché dopo questa chiacchierata sarà sicuramente la fine.
«Sai cosa mi fa incazzare di più di tutto questo, porco schifoso? Che io ti ho visto, ho visto nei tuoi occhi sollievo quando ti ha raggiunto. Ho visto come la guardavi. Ti sei innamorato di una ragazzina e per questo hai buttato all’aria la tua famiglia! Fai schifo!»
«Emma! Emma!», la donna, dopo aver sfogato l’ennesimo attacco di rabbia, corse in bagno e si chiuse dentro. Mark le andò dietro, ma Emma fece in tempo a chiudersi dentro a chiave lasciandolo fuori.
L’uomo poggiò la schiena alla porta e si trascinò giù fino a sedersi, sfinito.
«Em, non lo sai… tu non lo sai quanto mi dispiace. Io – prese un respiro lungo un’eternità – io, non avrei mai voluto che finisse così, avrei dovuto essere più onesto con te, fin dall’inizio.»
«Stai zitto, merda!», echeggiò dal bagno. Mark pianse per la frustrazione.
«Il fatto è che io non ti ho mai amata come meritavi che un uomo ti amasse, Em! Ti ho sempre voluto un gran bene, ma non ti ho mai amata come speravi di essere amata da me.»
La porta si aprì all’improvviso dietro la sua schiena. Mark si alzò di scatto e la prima cosa che vide fu un’ira furiosa negli occhi verdi. In quel momento più che mai toccò con mano il male che le aveva fatto e la voglia di liberarla.
«Io non ti amo, Em. Meriti di trovare la felicità. Io ti faccio solo del male.»
Il secondo dopo Emma stava scaraventando fuori dal bagno ogni oggetto che le passasse tra le mani e lo colpì in testa con una spazzola.



 
Va bene, lo so, sicuramente qui non c'è più nessuno, ma seppur con una lentezza logorante voglio continuare e finire questa fan fiction. Perché Mark merita lo sforzo.
Chi c'è batta un colpo per favore. 
Un abbraccio
Fair

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Capitolo 25
*** Saving the hearts that were breaking ***


Da un paio di giorni Mark non si faceva sentire.
Marta era molto preoccupata. Lo stato di grazia in cui era caduta, ora dopo ora andava sempre più scemando e senza avere neanche un cenno da lui finì con lo scomparire completamente.
“Tieni conto che se sta davvero facendo quello che ha detto avrebbe fatto, forse per qualche giorno potresti non sentirlo. Non credo che lei si farà lasciare tanto facilmente… G.”
Aveva riletto il messaggio dell’amica fino ad impararlo a memoria.
Il pensiero che in quelle ore Mark stesse davvero lasciando definitamente Emma per lei le provocava conati di vomito nervoso misti a crisi di euforia incontrollata. Anche se, per lo più, aveva paura per lui e odiava che stesse passando quell’inferno da solo.
“E se lei lo convincesse a ripensarci? In fondo sono sposati, hanno due figli. Se lei è stata in grado di perdonargli i tradimenti pur di stare con lui, chissà cosa potrebbe inventarsi?
E in effetti, anche tu, cara Marta, cosa hai sopportato, subìto… quante volte hai ribaltato la tua vita durante tutti questi anni pur di stare con lui?”
«La prossima opera all’asta è un olio su tela quarantadue per cinquantotto. L’artista è quotato sette punti, Alois Schönn, Diciannovesimo secolo…», le parole defluivano dalle sue labbra come miele. Erano veloci e chiare. All’apparenza tutto era normale, ma dentro lei scorreva un fiume in piena di emozioni contrastanti. Mentre dirigeva le contrattazioni, ormai come una vera professionista del settore, continuava a pensare a ciò che stava accadendo fuori dal quel palazzo, a quello che ancora non sapeva – e che probabilmente avrebbe continuanto ad ignorare –, e a quello che invece aveva bisogno di sapere.
“Chissà se sta bene… speriamo che i ragazzi almeno non gli diano addosso e gli stiano accanto, visto che io non posso essere lì.”
Qualche istante dopo, senza neanche rendersi conto, aveva battuto “Il campo di Gypsy in riva al fiume” di Schönn a cinquemiladuecento sterline, duemilatrecento in più del suo valore di mercato, e fu in grado di chiamare dieci minuti di pausa. Violet, che per un breve periodo le aveva tolto il saluto per aver fatto soffrire suo fratello, era tornata a parlarle e le stava facendo cenno di raggiungerla dall’altra parte della sala.
«In sala caffè girano delle chiacchiere su un certo Owen… - Vee smise di parlare all’istante, forse alla vista degli occhi sgranati dell’amica – non è strano che proprio io ti porti pettegolezzi sulla persona che ha causato la rottura tra te e mio fratello, vero?», disse d’un fiato la ragazza, guardando Marta con aspettativa.
“Oh, sì, è proprio per quello che sono scioccata!”
«Ma no! Ma va, che dici. Piuttosto lo chiedo io a te, non sei obbligata a starmi dietro in questa cosa…»
«Oh, figurati, è acqua passata. D’altronde con uno come quello avrei avuto dei ripensamenti anche io!», Vee le rifilò una goliardica gomitata nel fianco e scoppiò a ridere. «Comunque c’è un articolo su People – “E figuriamoci se non dovesse esserci ancora di mezzo quel giornaletto da quattro soldi!” – che parla di ferri veramente corti ormai, tra lui e sua moglie. Tu non ne sai nulla, eh, mascalzoncella?!»
Violet se la rideva e continuava a comportarsi come un giocatore di football negli spogliatoi a fine partita, e Marta riuscì anche a divertirsi i primi istanti, poi il sorriso si spense.
«Non sono proprio sicura che ci sia qualcosa da ridere, Vee. Sarà meglio tenere un basso profilo, non voglio che si sparga troppo la voce. Ti ho raccontato la verità perché con la storia di Adam mi sentivo di dovertelo, ma non mi va di sbandierare la cosa ai quattro venti. Oltretutto stiamo parlando di una famiglia rovinata, di bambini che ci vanno di mezzo…», anche Vee piano piano perse il sorriso. Marta sedette su una poltroncina al limitare della sala e si chiuse le mani in grembo. L’amica poggiò una delle sue su di esse.
«Non sentirti in colpa, tesoro. Se quella famiglia sta andando in pezzi non è certo colpa tua. Non sei una rovina famiglie.»
«Come fai a dirlo, Vee? Forse tu non lo pensi, ma quando tutto questo sarà alla luce del sole ci saranno migliaia di persone che invece daranno contro a Mark, che daranno contro a me, senza sapere la sofferenza e i sacrifici che abbiamo dovuto fare. Senza preoccuparsi della verità, sputeranno sentenze. E io ho le spalle larghe, l’ho messo in conto ormai, ma lui… dopo tutto quello ha dovuto superare.» Marta sospirò, come se un enorme peso le stesse bloccando il respiro. Guardò l’amica e incurvò le spalle, tornando a fissare poi il pavimento.
«Non sai quanto ho desiderato questo momento, Vee. Non sai quanto ardentemente io desideri una vita con lui, quanto l’ho sognata e quanto ci ho pianto negli ultimi anni. Ma non mi potrei mai perdonare se, a causa dei miei desideri, lui dovesse perdere i suoi figli. Questo lo ucciderebbe…»
Una lacrima furtiva le rigò la guancia, l’amica gliel’asciugò subito, sorridendole.
«Non preoccuparti, tesoro. Vedrai che andrà tutto bene alla fine. Non è la prima coppia con figli che si separa. Certo, forse i primi momenti sarà dura, c’è da metterlo in conto, ma con il passare del tempo sono sicura che tutto troverà il giusto equilibro. Emma non può negare a Mark di vedere i suoi figli o, meglio, non può negare ai suoi figli di vedere il loro padre. Stai tranquilla… e poi, lui ha te, che saprai stargli accanto come solo una donna innamorata come te può fare.»
Marta si sentì un po’ meglio, anche se quella sensazione di pesantezza sullo stomaco non accennava ad andarsene, ma l’unica cosa che potesse fare ormai era vivere la cosa come veniva.
Le due amiche si alzarono, dovevano tornare a lavoro. Poco dopo il suo telefono vibrò, sullo schermo comparve un messaggio di Mark.
“Tesoro, ho bisogno di te, ti prego. Stasera prima che vada all’Arena passa al solito albergo, ho preso una camera qui. M.”
Sul suo viso comparve un sorriso così disteso che l’intero volto si illuminò. Vee la guardò negli occhi e le disse: «Andrà tutto bene, ne sono sicura.»
 
***
 
Quel pomeriggio fu il più lungo di tutta la sua vita, tra quadri, statue e martellino da battere ad un certo punto Marta non ne poté più. Continuava a guardare l’orologio nella speranza che la fine di quella lunga ed estenuante giornate arrivasse il più in fretta possibile. E poi, finalmente, il momento scoccò e lei non ebbe neanche la forza di andare a cambiarsi. Salutò Vee veloce come un fulmine e ticchettò via, liberando la coda da quell’elastico straziante e prendendo il taxi, per fare prima.
Dieci minuti dopo fu sotto all’albergo, il cuore che pompava nel petto come un pazzo per l’ansia.
“Tesoro, ho bisogno di te, ti prego”
Quelle parole le rimbombavano nella testa come palline antistress che, però, lo stress glielo facevano aumentare. Si avvicinò alla reception e chiede della camera di Mark, non gli aveva detto il numero. Ovviamente il concierge fu restio, come dovrebbe essere; per fortuna dietro di sé senti la voce di Robbie chiamarla. Non avevano mai parlato direttamente, non sapeva neanche che lui conoscesse il suo viso, ma gli fu grata. «Robbie, sì, sono io.»
Lui le concesse un sorriso tirato, probabilmente i ragazzi la odiavano tutti, ma in quel momento sarebbe passata attraverso il fuoco per raggiungere Mark per cui non se ne curò.
«Vieni, ti accompagno io da lui…» le disse, calmo. Si avvicinarono agli ascensori e lui ne chiamò uno. «Stavolta ha fatto un bel casino, eh…». Marta non capì se quella di Rob fosse un’affermazione o una domanda, si limitò a chinare il capo. «Spero solo che tutto questo casino alla fine ne valga la pena. Quel piccolo idiota sembra totalmente asservito da te…» commentò quando furono ormai nella cabina dell’ascensore.
«Sono io che non posso fare a meno di lui.» riuscì a tirar fuori lei. «Questa cosa non va avanti da un mese, non so se Mark vi ha spiegato bene la situazione.» Marta non capiva il motivo, ma si sentiva quasi in obbligo a dare spiegazioni, come se la loro vita in qualche modo centrasse con quella degli altri ragazzi. Ed in effetti in parte era così.
«Ho provato ad allontanarmi, a fare la cosa giusta>> gli disse, con semplicità ed onestà. «Ma nel tentativo di proteggere il mio cuore ho finito con lo spezzarne due.»
Lo guardò per un attimo sperando che il resto delle parole lui potesse percepirle dal suo sguardo, ma il campanello dell’ascensore che precedeva l’apertura delle porte lì riportò alla realtà. Lui le mise una mano sulla spalla, accompagnandola lentamente verso la camera di Mark. Lei voleva correre più forte del vento, ma l’aria le si bloccava in gola al solo pensiero che lo avrebbe riabbracciato.
Si ritrovò in un attimo catapultata a qualche anno fa, all’albergo dove lavorava e a quel termometro portato alla camera 520, la stessa di fronte cui si trovava ora. Un mezzo sorriso le si dipinse sul volto leggermente contratto per l’ansia. «Da qui posso andare avanti da sola…» Marta guardò Rob, mise una mano su quella di lui poggiata ancora sulla propria spalla e delicatamente la staccò.
«Vai, non preoccuparti, mi prenderò io cura di lui.»
 
 
 
 
Saving the hearts
That were breaking
Oh yeah, it's coming
To those who are waiting
You know that it's true

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