Riflessi di sangue di Ayr (/viewuser.php?uid=698095)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 1 *** I ***
Lo specchio si groria
forte
tenendo dentro a
sé specchiata la regina,
e, partita quella, lo
specchio riman vile.
-Leonardo da Vinci-
I
«Hai
giocato troppe volte con la morte, Ivory, prima o poi si
stancherà e verrà a reclamare quello che sei
riuscito a sottrargli per troppo tempo.»
Ivory
non prestò la minima attenzione alle parole dell'altro,
troppo impegnato a civettare con una mezz'elfa filiforme dai grandi
occhi grigi e i lunghi capelli blu; le sorrise e la ragazza
ricambiò il sorriso, arrossendo violentemente.
«Mi
stai ascoltando?» lo richiamò all'attenzione
Brandbury, dandogli un colpetto sul gomito.
«Sì,
Brand» sospirò l'altro senza nemmeno voltarsi,
«Stai facendo il melodrammatico come tuo
solito.»
«Il
melodrammatico?» esclamò sconvolto Brandbury,
«Stai per affrontare un torneo contro i migliori tra i
guerrieri di Actardion: i più forti, i più
astuti, i più brutali e i più
sanguinari!»
«E
allora?» lo interruppe bruscamente Ivory, stanco
dello sproloquio dell'amico. Brandbury sapeva essere davvero logorroico
e asfissiante, soprattutto quando non era d'accordo sulle sue scelte,
ovvero la maggior parte delle volte.
«Stai
volontariamente andando verso il suicidio!»
«Non
è uno scontro all'ultimo sangue e per quanto possano
essere brutali
e sanguinari
i
miei avversari sono capace di tenerli testa. Non è
la cosa più spaventosa e letale che ho affrontato fino ad
adesso, so come si combatte e mi sembra di cavarmela anche
discretamente. Quindi smettila di preoccuparti per
me!»
Ivory
e Brandbury erano cresciuti assieme: la madre di quest'ultimo aveva
avuto pietà di lui quando l'aveva trovato solo, infreddolito
e affamato in mezzo a una strada, abbandonato dai suoi simili ed
evitato come una malattia contagiosa dagli uomini; per Sarah, invece,
Ivory era sempre stato solo un bambino, in quel momento bisognoso di
un pasto caldo e di un letto confortevole. L'aveva preso con
sé, sotto il suo tetto, e l'aveva allevato come fosse stato
figlio suo, nonostante il colore così chiaro della pelle,
inconsueto anche per la razza degli Elfi.
Ivory
era un elfo albino: una creatura alquanto rara e mal vista,
tanto dagli uomini quanto dagli Elfi, i quali credevano che fosse un
messaggero del dio dai Nessuno e Cento nomi e che portasse con
sé la morte, il cui marchio era proprio quella pelle
così chiara e bianca come avorio, che gli aveva dato il
nome, e che somigliava troppo al pallore mortale dei
cadaveri.
Brandbury
era stato per lui come un fratello maggiore che l'aveva sostenuto,
consolato e consigliato; ma alla veneranda età di
venticinque inverni non reputava più necessario il suo aiuto
e sopportava sempre meno le sue intromissioni. Nonostante questo,
provava un sentimento di profonda gratitudine e affetto nei
suoi confronti e non avrebbe mai avuto il coraggio di dirgli
che tutta quell'apprensione lo soffocava e lo infastidiva: in fondo,
era il modo con cui Brandbury esternava la propria affezione per il
fratellino.
«Al
vincitore verrà affidata una missione per la quale
verrà pagato profumatamente, e solo gli dei del Sacrario
sanno quanto in questo periodo abbiamo bisogno di soldi. Non potevo
rifiutare una proposta così allettante!»
«Ma
se non dovessi vincere?» domandò timidamente
l'altro.
«Almeno
ci avrò provato. Non possiamo permetterci di lasciarci
sfuggire occasioni del genere, non in questo
momento.»
Brand
dovette dare ragione al fratello: il lavoro per i due scarseggiava, non
c'erano campagne militari per le quali Ivory potesse partecipare come
mercenario, e con l'arrivo dell'inverno, gli animali si erano rintanati
per ripararsi dal freddo, lasciando a mani vuote i cacciatori.
Da quasi due mesi sopravvivevano solo grazie ai guadagni di Brandbury
come erborista e cerusico, che, però, guadagnava quel poco
che bastava per farli vivere decentemente: vivevano in un piccolo
villaggio ed erano veramente in pochi quelli che si rivolgevano a lui,
solitamente contadini che avevano mal di schiena o donne che chiedevano
qualcosa per non rimanere incinte o far passare il mal di testa, vecchi
che cercavano rimedi per i reumatismi e il buon vecchio Curt, che
viveva in fondo alla strada, dopo la piazza del mercato e che
dopo gli orrori di quasi quarant’anni passati
nell’esercito, la notte non riusciva a dormire e chiedeva a
Brandbury sonniferi sempre più potenti.
Il
giovane si massaggiò la fronte: da un lato non
poteva dargli torto, ma dall'altro era seriamente preoccupato
per la sua incolumità, non sapeva cosa ci si potesse
aspettare da un evento del genere, soprattutto per il fatto che fosse
stato organizzato niente poco di meno che dalla Regina in persona, e
tutti erano a conoscenza dei suoi gusti alquanto macabri e discutibili;
per quanto potesse aver promesso che non ci sarebbero state morti,
nessuno poteva affermarlo con sicurezza. Era risaputo come, in
realtà, finissero gli scontri del genere: in mezzo alla
mischia e all'euforia generale nessuno si sarebbe accorto del baluginio
di un pugnale non spuntato affondato nel costato di un avversario, e
l'omicidio sarebbe stato relegato a semplice incidente che, in
occasioni come questa, potevano capitare.
«Andrà
tutto bene» gli assicurò Ivory poggiandoli una
mano sulla spalla, «Sono un guerriero esperto e ho
partecipato a tantissime battaglie nei luoghi più strani,
impervi e desolati. Cosa vuoi che sia un torneo?»
Brandbury
avrebbe tanto voluto avere la sua fiducia e il suo coraggio, ma dei
due, era sempre stato quello più prudente e riflessivo, che
ci pensava due volte prima di gettarsi in qualsiasi impresa senza prima
averne valutato i pro e i contro, a maggior ragione se era a rischio la
propria vita.
Ivory,
dal canto suo, era sempre stato impulsivo e avventato, e anche la
scelta di diventare un mercenario era giunta improvvisa ed era stata
abbracciata immediatamente, senza pensarci; il suo sangue di elfo gli
permetteva di essere agile, veloce e scattante e la vista acuta
facilitava l'uso dell'arco e il lancio di pugnali, sempre preciso e
letale.
«Che
cosa altro potrei fare?» gli aveva domandato quel giorno,
quando gli aveva rivelato la sua decisione, «Per gli elfi
sono un abominio e per gli uomini un reietto e un miserabile. Non
potrei mai aprire un'attività mia, studiare all'Accademia o
entrare in una Gilda, il colore della mia pelle mi sarà
sempre di ostacolo. Di un mercenario, invece, non importa da dove
provenga, che faccia abbia o cosa abbia fatto in passato,
ciò che conta è come sappia maneggiare una spada
e che sia efficiente e letale. Alla fin fine è solo un
soldato di ventura che pagato per fare il lavoro sporco al posto di
altri, lo si vede una volta e non lo si rivedrà mai
più, sia che sia morto in battaglia sia che vada a lavorare
per qualcun altro.»
Quelle
parole così amare avevano rattristato Brandbury, soprattutto
per il fatto che fossero dolorosamente vere: l'unica strada possibile
per Ivory era quella di mettere al servizio degli altri
le proprie abilità e di essere pagato per esse,
nessuno si sarebbe mai accorto che sotto l'elmo si nascondeva il volto
pallido di un elfo albino, e tra le fila dei mercenari nessuno ci
avrebbe badato.
Così
il ragazzo era partito per Derenstor, dove era stato iniziato
all'arte della spada e della guerra, e dove si era guadagnato il nome
di Spettro, sia a causa del suo aspetto sia per i suoi movimenti
silenziosi e appena udibili. Si era rivelato un assassino formidabile e
un guerriero impavido che metteva tutto sé stesso
nell'ardore della battaglia e non si risparmiava, arrivando allo stremo
delle forze e continuando imperterrito a combattere, guadagnandosi
l'ammirazione e il rispetto dei suoi compagni e dei suoi
superiori.
Brandbury,
da allora, lo aveva visto molto di rado, e sempre più
sciupato e segnato dagli scontri, dalla stanchezza e dalla fatica;
dietro di sé portava costantemente puzzo di morte,
distruzione e disperazione, un odore misto di sudore, lacrime e sangue
che non lo abbandonava mai, nemmeno nei momenti di
riposo.
Il
fratello aveva sempre disapprovato la scelta, ma non aveva mai fatto
nulla per ostacolarlo ed impedirgli di rischiare la vita ad ogni
respiro, ad ogni movimento di spada, ad ogni fischio di freccia, ad
ogni caduta e ad ogni nuova carica. In fondo, era la sua vita e stava
all'elfo decidere come viverla: se sull'orlo di una bava
di ragnatela sospesa perennemente tra la vita e la morte, o
nella sicurezza confortevole di una casa modesta ma vivibile.
Più
volte si era domandato se la scelta non fosse stata dettata da qualche
errore da parte sua che l'aveva spinto ad allontanarsi da lui: in
quegli anni, aveva sempre cercato di non farlo sentire diverso e fuori
posto, ma, forse, tutte le sue premure avevano sortito l'effetto
opposto facendolo sentire ancora più escluso e
bisognoso di cure particolari perché non si riteneva degno
di essere trattato come tutti gli altri.
Da
bambini era stato più semplice: l'ingenuità e la
spensieratezza dell'età avevano permesso un rapporto
spontaneo e sincero, genuino; ma con il passare del tempo la
consapevolezza delle malelingue e delle voci che correvano sul conto di
Ivory avevano appesantito l'atmosfera e avevano fatto chiudere il
ragazzo in un guscio da cui, a volte, nemmeno Brandbury era stato
capace di farlo uscire.
Il
disagio dell'elfo si era sempre più acuito, sebbene cercasse
di tenerlo nascosto in tutti i modi, soprattutto a sua madre. A Brand,
però, non erano sfuggite le occhiate malevole e le
frecciatine più o meno velate che venivano lanciate
all'indirizzo del fratello e non gli era sfuggito nemmeno quanto queste
lo ferissero e lo facessero soffrire. Per questo l'aveva lasciato
andare: credeva che allontanarsi dalla mentalità ristretta e
bigotta del piccolo villaggio per cercare il suo posto nella grande
tela della dea Maras gli avrebbe giovato e l'avrebbe aiutato ad
accettare sé stesso e quello che era, senza farsene una
colpa e senza vederlo come un difetto o una condanna.
Ora
che l'aveva di fronte a sé, alto, robusto, con le spalle
larghe e la pelle segnata dalle cicatrici ma la schiena dritta e il
portamento fiero e sicuro, sapeva di aver fatto la scelta giusta e che
quegli anni trascorsi sui campi di battaglia l'avevano fatto maturare e
crescere, sebbene avessero lasciato una piega
spiacevolmente cinica e malinconica sulle labbra
sottili.
«Non
ti preoccupare, Brand, vincerò» gli
assicurò Ivory, vedendolo ancora preoccupato, «E
porterò a casa tante di quelle monete d'oro, che non saprai
più dove metterle!» la promessa venne siglata da
un'abbondante sorsata di idromele Rovonero e da un sorriso ampio,
luminoso, incoraggiante e contagioso.
Il
famoso Angolino Buio dell'autrice:
la stupenda copertina all'inizio del capitolo è
stata disegnata da una mia carissima amica, per altre sue opere amene
andate a fare un giretto sul suo profilo
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Capitolo 2 *** II ***
II
«Quindi
sei il migliore tra i
guerrieri di Actardion...»
«Solo di quelli che hanno partecipato al torneo, Vostra
Maestà»
rispose Ivory, tenendo rispettosamente il capo abbassato e lo sguardo
fisso
sulle piastrelle di marmo bianco e nero della sala del trono.
Quando gli era stato riferito che avrebbe dovuto incontrare la
Regina di persona, il suo cuore aveva perso un battito: solo pochi
potevano
vantarsi di aver ricevuto un simile onore; lei era estremamente
selettiva e non
permetteva nemmeno ai nobili di più alto rango o ai suoi
stessi consiglieri di
incontrarla senza un suo invito esplicito. Molto spesso il numero delle
visite
e i fortunati scelti, che avrebbero avuto il privilegio di parlarle,
dipendevano dal suo umore, generalmente instabile e imprevedibile,
peggiorato
subito dopo la partenza della sorella, la quale le aveva fatto visita
poco
tempo prima. I medici avevano fatto risalire la causa dei frequenti
sbalzi
d'umore alla nostalgia e alla sensazione di mancanza dovuta alla
lontananza
dell'amata sorella.
Il regno del re loro padre era estremamente vasto dal momento che
univa sia i suoi possedimenti sia quelli della propria consorte,
l'unica figlia
dei sovrani dell'antistante Regno di Damevar. Con
l’approssimarsi della sua
morte aveva ritenuto opportuno dividerlo tra le sue due splendide
figlie: alla
maggiore, Rosalba, era toccato il regno del padre, più
esteso, fertile e
prospero; la minore, Celeste, aveva, invece, ricevuto in dono il regno
che era
stato la terra natia della madre, coperto da nevi perenni ma colmo di
miniere
di argento e oro, l'unica ricchezza di quella distesa di ghiacci e
pinete.
Periodicamente le due sorelle si facevano visita l'un l'altra, ma
dopo l'ultimo incontro con Celeste, le condizioni di Rosalba erano
peggiorate:
era diventata più incostante, volubile, suscettibile,
capricciosa ed eccentrica;
non si poteva mai prevedere cosa avrebbe fatto o detto, il suo umore
cambiava
troppo repentinamente ed era perennemente propenso verso una rabbia,
che a
volte sfociava nella furia. Nessuno sapeva spiegarsi perché
fosse in quello
stato, né contro che cosa o chi fosse indirizzata la sua
ira, nessuno osava
avvicinarsi più a lei senza il suo consenso e anche solo
rivolgerle la parola
poteva significare la morte.
Per questo Ivory si sorprese quando sentì la Regina
scoppiare in
una risata cristallina, simile al gorgoglio di un ruscello di montagna.
L'elfo non resistette e osò sollevare lo sguardo per vedere
a chi
appartenesse una risata così incantevole e fresca: seduta su
un trono di legno
placcato d'oro e decorato con bassorilievi di foglie d'acanto e volute,
sedeva
una giovane donna vestita di un lungo abito porpora dalla scollatura
profonda
che lasciava intravedere i seni prosperosi e bianchissimi, messi in
risalto dal
monile d'oro e granati color sangue; su di esso, si intrecciavano
mollemente le
morbide onde rosso fuoco dei lunghi capelli, lasciati liberi da
qualsiasi
acconciatura ricercata e tenuti indietro da una semplice cerchietto di
fiori
d'oro e rubini. Non un'imperfezione guastava il delicato candore della
pelle,
simile a quello della neve, su cui risaltavano due magnifici occhi
azzurri e
una bocca dalle labbra di rosa, schiusa in una risata soave. Ivory non
aveva
mai visto una creatura più bella di quella: si perse nella
contemplazione del
suo splendore e si dissetò, fino a ubriacarsi, di quella
bellezza così sublime
e perfetta da sembrare irreale; per un attimo temette di trovarsi al
cospetto
di una creatura ultraterrena e non di una semplice regina. Non si era
mai
interessato agli dei, ma se mai gli avessero chiesto che aspetto
dovessero avere,
non avrebbe avuto dubbi nell'affermare che somigliassero alla Regina.
«Oltre che valoroso sei anche modesto...»
commentò quest'ultima
ricomponendosi e Ivory riabbassò immediatamente il capo,
«Come ti chiami?»
«Ivory, Vostra Maestà» le rispose lui.
«Ivory» la Regina ripeté sottovoce quel
nome più volte,
assaporandone ogni sillaba ed ogni lettera fino a quando non decise che
il loro
suono era dolce e piacevole.
«Bene, Ivory, a quanto pare sei riuscito a distinguerti per
abilità, coraggio ed un pizzico di fortuna in mezzo a quella
turba di guerrieri
grandi il doppio di te, e sei anche riuscito a prevalere su di loro.
Ciò
significa che sei il migliore tra questi e che sei colui che
è destinato a
compiere la missione» il tono della sovrana si era fatto
improvvisamente grave
e serio, facendo preoccupare l'elfo, «Ciò che sto
per chiederti è molto
pericoloso e potrebbe anche essere considerato tradimento, se prima di
questo
non ne fosse già stato compiuto un altro: mia sorella, dopo
l'ultima visita, mi
ha sottratto una cosa a me molto cara, nella speranza che non mi
accorgessi
della sua assenza... Si tratta di uno specchio. Ora, potrà
sembrati una pretesa
eccessiva o un capriccio da bambina viziata data la banalità
dell'oggetto,
inoltre ne possiedo a centinaia, più di quanti riesca a
utilizzarne, ma quello
specchio ha un grande valore affettivo per me: apparteneva a mia madre,
e
quando ero più piccola soleva pettinarmi ed acconciarmi
davanti ad esso, è
l'unico ricordo che serbo di lei, o meglio, l'unico oggetto che mi
permetta di
tenere viva la sua memoria. Pertanto, potrai capire quanto ci sia
legata e
quanto sia stato meschino da parte di mia sorella sottrarmelo senza un
valido
motivo e senza dirmi nulla, come una ladra... Il tuo compito
sarà riportami
quello specchio, nella più completa segretezza, evitando di
farlo sapere a mia
sorella; se lo scoprisse potrebbe addirittura scoppiare una guerra:
è sempre
stata molto cagionevole sia di salute sia mentalmente, e inoltre era
fissata
sull'idea che mia madre preferisse lei a me, ha voluto farmi un
dispetto ma
potrebbe considerare un'offesa personale il recupero di quest'oggetto e
utilizzerebbe questa scusa per muovere guerra contro questo regno, di
cui è
sempre stata invidiosa. Io preferirei evitare un inutile spargimento di
sangue,
soprattutto per un motivo così futile», il
discorso della Regina era stato
intervallato da un sospiro stanco e rassegnato, come se la battaglia
con sua
sorella fosse stata una lunga ed estenuante campagna che doveva ancora
volgere
al termine, «Damevar è una terra ben diversa da
Actardion, dominata da un
eterno inverno e popolata da creature e bestie che non esistono nel
nostro e
sono perlopiù selvagge, feroci e letali: se non
sarà il gelo a divorarti per
primo, lo faranno loro. Inoltre dovrai riuscire a raggiungere il
castello
attraversando lande desolate e ghiacciai, steppe e altri paesaggi
ostili e
deserti, dovrai riuscire a introdurti e a scoprire dove mia sorella
custodisce
lo specchio, prenderlo e riportarmelo, tutto questo prima che lei se ne
accorga. Ovviamente per un'impresa di tal portata verrai lautamente
ricompensato: verrai accolto con tutti gli onori e ricoperto d'oro, i
miei
forzieri straripano di gemme e preziosi che non aspettano altro di
essere
donati a qualcuno dal cuore impavido e caritatevole, da un uomo
coraggioso e
intelligente, che non sopporta le ingiustizie ed è disposto
a rischiare la vita
pur di risolverle e risanare quei dissidi che possono nascere da un
gesto tanto
spregevole e immondo. Sei disposto ad affrontare tutto
questo?» gli domandò
bruscamente.
La sicurezza di Ivory era vacillata a mano a mano che la Regina
aveva elencato le difficoltà che avrebbero costellato il suo
cammino, ma
quell'oro e quei gioielli gli erano necessari, e aveva affrontato prove
ben più
difficili e avversari ben più temibili delle bestie feroci e
degli inverni
rigidi, fu per questo motivo che rispose con voce ferma e sicura,
piegando
ancora di più il capo: «Ho l’onore,
Madam, di essere il vostro servo più umile
e ubbidiente.»
La sovrana si abbandonò ad una nuova risata di giubilo e
mancava
poco che corresse ad abbracciare il giovane elfo che aveva accettato
senza
tentennamenti il compito che gli era stato proposto.
«Verrai ricoperto d'oro, diventerai il mio favorito, nulla
più ti
mancherà, basterà un tuo cenno perché
tutti accorrano a te ed esaudiscano ogni
tuo desiderio!»
Ivory si abbandonò a quella visione di ricchezza e potere:
se la
Regina avesse mantenuto anche solo la metà di quello che
aveva promesso, lui e
Brandbury avrebbero potuto vivere il resto dei loro giorni nel lusso
più
sfrenato, senza più preoccuparsi di nulla; un largo sorriso
si fece spazio sul
volto dell'elfo, completamente assorbito in quella chimera di oro,
gemme, cibi
prelibati, abiti raffinati, donne e divertimento.
«Per raggiungere Damevar non ti basterà una
semplice mappa»
dichiarò improvvisamente la Regina infrangendo il sogno di
Ivory e riportandolo
brutalmente alla realtà «I nostri regni non sono
segnati su alcuna mappa, in
questo modo siamo protetti dalla maggior parte di coloro che vogliono
invaderci: se non vedono alcuna terra al di là della propria
non avranno il
desiderio né di esplorarla né di conquistarla.
Per raggiungere l'uno o l'altro
regno, nostro padre fece costruire delle bussole per sé e
nostra madre affinché
potessero spostarsi tra i due regni senza che il segreto della loro
ubicazione
venisse compromesso. Sono bussole particolari: mostrano due sole
direzioni e
quando ci si trova a Actardion indicano la via per Damevar e viceversa,
inoltre
funzionano solo se è il sangue dei discendenti di mio padre
a bagnarle. Io ne
possiedo una e l'altra è in possesso di mia
sorella.»
La Regina estrasse dalla scollatura del vestito un medaglione
d'argento e lo sfilò, facendo passare la lunga catenella
sopra la testa: si trattava
di una scatolina non più grande della mano della sovrana,
finemente cesellata
con motivi floreali che intrecciavano rune antiche. Quando fece
scattare il
meccanismo, il coperchio si aprì rivelando una superficie
liscia e vagamente
luminosa, il quadrante non mostrava alcun grado e non c'erano lancette
ad
indicare direzioni che non erano segnate.
La Regina fece cenno a Ivory di avvicinarsi e l'elfo, con molta
cautela e trepidazione si accostò a lei.
Con sua somma sorpresa, vide la donna mordersi un dito fino a
quando non ne uscì una goccia di sangue che la sovrana si
premurò di far
ricadere sul quadrante vuoto; improvvisamente il vago bagliore che lo
illuminava si intensificò, accecando Ivory. Lentamente la
luce si modellò e si
trasformò, assumendo i contorni sempre più nitidi
di un reticolato simile a
quello delle mappe geografiche, su cui prendevano forma montagne e
fiumi,
villaggi e città.
Quando gli occhi di Ivory si abituarono alla luce, ciò che
gli
mostravano lo lasciò completamente basito: tra le mani della
Regina brillava
una mappa completa di Actardion in tre dimensioni, e un sottile filo di
luce,
più denso e scuro, lo attraversava andando a perdersi nei
picchi delle montagne
del nord, indicando la via per Damevar.
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Capitolo 3 *** III ***
III
«Che
intenzioni hai?»
«Mi sembrava ovvio: vengo con te!»
«Sei impazzito! Perché dovresti venire
anche tu?» Ivory gettò uno sguardo sconcertato
allo zaino mezzo pieno di Brandbury. Quando era tornato a casa dopo
essere stato dall'armaiolo, l'aveva trovato intento a fare i bagagli,
per due.
«È un viaggio pericoloso, Brand, e la
Regina ha incaricato me!» sbottò, «Non
si tratta di una scampagnata, di una gita in montagna: devo
attraversare due regni, e le montagne sono infestate da leoni e orsi e
tigri, per non parlare dei briganti e dei malintenzionati che si
trovano lungo le strade!»
«Ma
potrei esserti utile!» replicò l'altro,
«Sono un medico e proprio perché il viaggio
è pericoloso, potresti avere bisogno di me.»
«Mi hai insegnato le tecniche principali e
più semplici, Brand, riuscirò a cavarmela anche
senza un cerusico appresso.»
Ivory non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo il
fratello coinvolgendolo in un viaggio lungo e periglioso. Lui era
abituato al freddo, agli stenti e ad affrontare belve feroci o
briganti; ma Brand aveva sempre vissuto in quel villaggio, immerso tra
i libri e le erbe, e non aveva idea di come sopravvivere all'infuori di
quelle quattro mura sicure.
«Non puoi venire con me» cercò di
blandirlo, «non sei abituato a questo genere di cose,
rischieresti solo di mettere in pericolo la tua vita.»
Brandbury era il fratello maggiore, quello più
giudizioso e prudente, e quel comportamento era così
insolito per lui: prima di allora, mai si era impuntato nel voler
imbarcarsi in qualcosa che fosse esplicitamente pericoloso, e Ivory si
domandò il motivo di una tale insistenza e ostinazione.
«Mi sono stancato di vederti partire, senza sapere se saresti
tornato!» esclamò il giovane
all’improvviso, cogliendo l’altro di sorpresa,
«Sei il mio unico vero amico, il mio unico affetto, l'ultimo
che mi sia rimasto: mamma è morta ormai da anni e
papà non si è mai fatto vedere, non ho mai avuto
altri fratelli o altri parenti all'infuori di te. Permettimi di venire
con te, solo per questa volta!»
Brandbury sollevò lo sguardo dal baule in cui
stava rovistando, e ciò che l'elfo lesse negli occhi del
fratello lo sconvolse: tra le iridi turchine erano racchiusi un dolore
straziante e una preoccupazione indicibili, sedimentatisi lentamente
negli anni, che si erano avvinghiati alla sua anima e avevano steso la
loro patina scura su quello sguardo sempre sorridente e luminoso,
adombrandolo. Quegli occhi così carichi di tristezza e
apprensione lacerarono l’elfo e lo fecero sentire ancora
più in colpa; la supplica del fratello gli strinse il cuore,
ma per quanto comprendesse la sua sofferenza e la sua frustrazione,
così come Brand non voleva perdere Ivory,
quest’ultimo non poteva permettersi di perdere il fratello:
non sarebbe mai riuscito a sopportare la sua assenza, il ricordo di lui
sarebbe stato troppo straziate e l’accoglienza calorosa, che
gli riservava ogni volta che tornava dopo una campagna, sarebbe stata
una mancanza troppo grande e troppo dolorosa. Brand rappresentava un
porto sicuro a cui tornare dopo essere stato trascinato in lungo e in
largo dalle correnti e strapazzato dai venti impietosi; era
l’unico punto fermo e sicuro della sua vita movimentata e
incerta, era un faro, una guida e una roccia a cui aggrapparsi nei
momenti di difficoltà, ma anche un focolare domestico presso
cui riposarsi e sentirsi amato…Non si sarebbe mai perdonato
se fosse successo qualcosa a Brand, a maggior ragione se lui ne era la
causa e avrebbe potuto evitarlo, e preferiva di gran lunga saperlo
depresso ma vivo e al sicuro, piuttosto che accanto a lui e
costantemente in pericolo.
«Non voglio rischiare di perderti, come non lo
vuoi tu» mormorò l’elfo, sperando che
l’altro capisse e accettasse la sua scelta, anche questa
volta, sebbene a malincuore.
«Non voglio rimanere, non
più» si imputò, invece, Brandbury,
«Ho vissuto per troppo tempo questa situazione ed
è diventata insostenibile: tu non hai idea dell'angoscia,
della preoccupazione e del terrore che provo ogni volta che ti vedo
partire; devo ingerire quantità esorbitanti di passiflora
per riuscire a dormire la notte...Sono distrutto!»
Ivory non sapeva come replicare: non voleva che Brandbury
venisse con lui, ma d'altro canto quel cocciuto di suo fratello si era
intestardito a voler venire con lui.
Improvvisamente un’idea balenò nella sua mente:
sarebbe stata una mossa meschina e crudele, ma era l'unico modo per
evitare che il fratello lo seguisse.
«Va bene» concesse alla fine,
«Partiremo domani mattina, all'alba. E sappi che se non ti
sveglierai non ti aspetterò e rimarrai qui.»
Un largo sorriso piegò le labbra sottili del
ragazzo, illuminandogli il viso.
«Grazie» mormorò, mentre
finiva di preparare lo zaino.
Ivory sorrise a sua volta, ma il piano che aveva appena
ideato rese il suo sorriso più amaro e triste.
Quella notte aspettò che Brandbury si
addormentasse e non appena sentì il suo respiro farsi lento
e regolare, sgusciò silenzioso e svelto come uno spettro
fuori dalla porta, portandosi dietro lo zaino pronto che era stato
lasciato all'ingresso. Si sentì un ladro e un traditore, ma
si disse che era per una buona causa e che Brandbury avrebbe capito.
La luna stendeva una cortina d'argento sui tetti di legno delle
casupole; non erano molte ma erano tutte ben mantenute e ordinate,
segno che quel villaggio per quanto modesto, non fosse così
povero, e che i suoi abitanti potevano permettersi di far riparare un
tetto. Era un luogo tranquillo e pacifico, in cui Ivory si sentiva a
disagio e rinchiuso, come in una gabbia, abituato agli accampamenti e
ai campi di battaglia, molto più vasti e frementi tanto
nell'attesa quanto nell'azione, pregni dell'odore di sangue, sudore ed
eccitazione, con l'aria perennemente carica e un'atmosfera sempre tesa
o rimbombante di grida, imprecazioni e incitazioni. Era il luogo
perfetto per Brandbrury, invece, ugualmente pacifico, tranquillo e
silenzioso, dedito allo studio e alla riflessione, abituato a
comodità che in un viaggio come quello erano assolutamente
impossibili da ottenere o anche solo da immaginare.
È
la cosa migliore, cercò di convincersi
l’elfo, sistemando lo zaino sulla spalla. Ma allora
perché si sentiva così male, quasi avesse
commesso un’azione turpe e imperdonabile?
Gettò un altro sguardo alla casupola,
l’ultimo, e diede il suo silenzioso saluto al fratello ancora
addormentato e ignaro dell’inganno. Cercò di
scacciare quel pensiero insistente dalla mente e si ripeté
per l’ennesima che era la sola cosa giusta da fare.
Con un sospiro iniziò ad avviarsi verso i campi
che si aprivano appena oltre la locanda del vecchio Tom: il primo
edificio che accoglieva i viandanti con l’invitante profumo
del vino speziato e il calore delle risa e dei canti dei contadini che
si radunavano lì dopo la giornata di lavoro, oppure
l’ultimo che li salutava malinconicamente con la vedova Becky
sulla porta stretta nello scialle e un sacchetto di paste dolci in
mano, appena sfornate, da sbocconcellare lungo il cammino. A
quell’ora della notte, però, la locanda era buia e
silenziosa e non c’era nessuna vedova ad augurargli un buon
viaggio.
Ivory estrasse da sotto la camicia la bussola che gli aveva
donato la regina, fece scattare il meccanismo e il coperchio
svelò la mappa luminosa e diafana, il nastro di luce scura
indicava la medesima direzione di quel giorno, dalla regina, e puntava
stabilmente verso nord.
La sovrana aveva corredato quel dono con uno più
macabro ma essenziale: l’elfo si assicurò di avere
in tasca la fialetta contenente il sangue della donna,
l’unico che fosse capace di azionare la bussola. Questa,
infatti, non funzionava sempre e dopo qualche giorno
l’effetto del sangue si esauriva e la mappa scompariva,
lasciando il quadrante vuoto e freddo come Ivory l’aveva
visto la prima volta; per evitare di rimanere senza indicazioni nel bel
mezzo dei Giganti di Ghiaccio, la regina aveva provveduto a rifornirlo
della linfa per alimentare la bussola, e sotto il suo sguardo sorpreso,
aveva praticato un piccolo taglio sul palmo della mano, facendo
gocciolare il sangue in quella minuta fiala di vetro e oro, che ora il
guerriero stringeva tra le dita, rassicurato dalla sua presenza.
Assicuratosi sulla direzione da prendere, Ivory scomparve, inghiottito
dalle brume sfilacciate che aleggiavano sui campi.
La notte scivolava lenta e le stelle ammiccavano,
volteggiando lievi nella volta celeste come fanciulle alla festa del
Solstizio; per trascorrere il tempo cercò nel cielo le
figure immaginarie che gli uomini avevano creato per potersi orientare
e per avere una guida anche nella tenebra: la Fanciulla gli sorrideva a
est, sciogliendo la sua chioma d'argento verso il Cacciatore che,
affiancato dal suo Cane fedele, vegliava sulla danza turbinosa delle
Sette Sorelle strette in un abbraccio, ignare della Vipera appostata ai
loro piedi e schiacciata dalle zampe del Cane; seguendo il corpo
sinuoso della Vipera giunse alla Brocca e al Veggente che aveva
incastonata in fronte la stella più luminosa del firmamento,
accanto a lui sostavano la Matriarca e il Pastore, mentre l'Ardito
cavalcava contro l'Idra e mozzava le sue teste armato di Spada.
Ivory era cresciuto con le storie di quelle figure, sua madre soleva
raccontargliele prima di andare a dormire e il ragazzo si imbeveva di
quelle immagini siderali e fantasiose, così affascinanti e
lontane. Le stelle avevano rappresentato per lui un conforto e una
compagnia durante le notti prima della battaglia, quando non riusciva a
prendere sonno, o mentre era il suo turno di guardia e passeggiava
assorto per l'accampamento, o ancora quando era in viaggio verso casa o
tornava al fronte; non mancava mai, in nessuna occasione, di alzare lo
sguardo verso il cielo e di ritrovare quelle care amiche pazienti e
scintillanti. Le stelle gli ricordavano casa, la madre e il calore dei
suoi abbracci, il suono della voce reso flebile dalla malattia, le sue
mani morbide e profumate, i suoi dolcetti del giorno di festa e le ore
trascorse a rammendare i suoi abiti alla luce del focolare.
Una sera, ormai consapevole della sua imminente dipartita,
gli aveva rivelato che chi lasciava questo mondo non lo faceva mai
completamente, perché diventava una stella e continuava a
vigilare sui suoi cari, osservandoli dall'alto e guidandoli.
L'elfo ogni notte alzava lo sguardo al cielo nella speranza
di ritrovare il volto di quella donna caritatevole e immensamente buona
che l'aveva accolto e cresciuto.
Brandbury aveva gli stessi occhi di sua madre e ogni volta che il
mercenario incrociava per un momento il suo sguardo, aveva come
l'impressione di cogliervi un frammento della donna, evanescente e
subitaneo. Condividevano anche lo stesso buon cuore e sperava con tutto
sé stesso che al fratello non venisse qualche strana idea
dettata dalla sua generosità.
Il suo istinto gli suggeriva che non l’inganno non
l’avrebbe fermato, e il suo istinto raramente si sbagliava.
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Capitolo 4 *** IV ***
IV
I
suoi sensi gli suggerivano che ci fosse qualcuno- o qualcosa- che lo
stesse
seguendo: cercava di essere il più silenzioso possibile ma
l’udito finissimo
dell’elfo riusciva a captarne i passi leggeri che cozzavano
contro i sassi
della strada sterrata, che dal villaggio conduceva verso i Danaver, i
Ciclopi
di Ghiaccio, la mastodontica catena montuosa che divideva Actardion da
Damevar:
una successione infinita di imponenti massicci perennemente ammantati
di neve,
dove nessuno osava avventurarsi di sua spontanea volontà. La
Porta di Lorran,
che si incuneava tra l’Etrion e l’Edemor, era
l’unico passaggio conosciuto,
sebbene la sua esatta ubicazione fosse incerta e molti viandanti si
fossero
persi nella sua ricerca, trovando la morte tra quelle vette; ma, grazie
alla
bussola, Ivory non avrebbe rischiato di vagare tra quella distesa di
roccia e
neve fino ad incontrare la morte.
Nei
tempi in cui la guerra dilagava su quelle terre, la Porta era stata un
fondamentale punto nevralgico controllato dall’occhio attento
di Volkyria, la
Fortezza Nera, una roccaforte di granito e basalto di forma ottagonale
con otto
torri, anch’esse della medesima forma, che si innestavano ad
ogni spigolo e che
davano alla struttura un aspetto vagamente floreale. Con
l’avvento di tempi di
pace e concordia, la fortezza era stata abbandonata e non ne rimanevano
che
delle rovine, smangiate dal vento e dal freddo, ma ancora valide per
offrire un
riparo dai venti impetuosi delle tempeste di neve, che spesso
spazzavano il
valico, grazie ai muri spessi e solidi. L’elfo aveva pensato
di fare tappa alla
fortezza, che si trovava a metà strada tra i due regni, e
contava di
raggiungerla in due o tre mesi: doveva attraversare buona parte di
Actardion e
se fosse arrivato a Danilia, l’ultimo villaggio prima dei
Ciclopi entro due
pleniluni, sarebbe stato un grande traguardo…sempre che,
durante la marcia, non
fosse infastidito da briganti molto arditi o molto disperati, come
quello che
si ostinava a pedinarlo.
L’elfo
si era scocciato: aveva cercato di ignorarlo come meglio aveva potuto,
ma quel
continuo scalpiccio lo innervosiva, non tanto perché avesse
paura di essere
attaccato e derubato- si trattava pur sempre di un mercenario e aveva
visto
cose ben peggiori di un brigate- ma detestava il fatto che
quell’inconveniente
gli avrebbe fatto perdere tempo: voleva giungere a Melinger entro il
mattino,
comprare un cavallo in qualche fattoria nei dintorni e giungere a
Casernya
entro sera, in modo da potersi concedere un pasto decente e un letto
comodo; la
Regina si era premurata di rifornirlo di tutto il denaro necessario per
il
viaggio insieme a qualche piccolo extra per soddisfare un capriccio
ogni tanto.
All’elfo sembrava di essere partito per una scampagnata
piuttosto che per una
missione: avrebbe avuto la possibilità di soggiornare in
locande lungo il
viaggio e persino di cavalcare, così da dimezzare il tempo;
nelle campagne
militari era sempre stato costretto a ritmi di marci serrati ed
estenuanti e a
dormire all’addiaccio, per non parlare della sbobba
ripugnante che gli
rifilavano da mangiare avendo pure il coraggio di chiamarlo cibo!
Quell’incarico sarebbe stata una passeggiata, almeno fino a
quando non fosse
giunto a Damevar e allora avrebbe dovuto ideare un qualche piano per
penetrare
nel Palazzo della Regina Bianca scoprire dove tenesse nascosto lo
specchio e
riportalo; accantonò quei pensieri, per il momento si
trovava ancora ad
Actardion e non aveva senso angosciarsi per qualcosa che doveva ancora
accadere.
I
rumori si interruppero bruscamente, e quel silenzio irreale fu
più
preoccupante: o il suo misterioso inseguitore si era volatilizzato,
oppure
doveva essergli accaduto qualcosa.
La
strada era circondata da campi coltivati e frutteti, e non offriva
molti ripari
per possibili briganti; ma questa era l’opzione
più plausibile, non c’erano
foreste in cui potessero annidarsi belve feroci e il villaggio non era
abbastanza grande e rinomato per attirare banditi di alto calibro.
L’elfo
estrasse la spada, ruotando su sé stesso con circospezione e
sondò con lo
sguardo la nebbia serale, che si sfilacciava e si riannodava a seconda
dei
capricci del vento. Questa foschia poteva risultare un vantaggio per
gli
aggressori, ma l’albino aveva sensi abbastanza sviluppati da
poter fare anche a
meno della vista.
Aguzzò
le orecchie, per poter captare anche il minimo respiro, ma gli rispose
solo il
silenzio. Poi, un gemito soffocato nella notte.
Una
sensazione spiacevole gli attanagliò la bocca dello stomaco:
quella voce, per
quanto ovattata e lontana, gli suonava famigliare. Scattò
nella direzione da
cui proveniva, addentrandosi nelle nebbie. Queste lo accarezzavano e lo
ghermivano con le loro dita di fumo, lasciando come ricordo del loro
passaggio
uno strato di goccioline sui capelli e sui vestiti dell’elfo.
Ivory
arrivò nel mezzo di un frutteto, e scorse ombre muoversi
furtive, staccandosi
dalle sagome degli alberi per poi fondersi nuovamente con loro: erano
in
quattro e sembrava ne stessero trasportando una quinta, con sommo
disappunto di
quest’ultima.
Il
mercenario rinfoderò la spada: i filari di alberi erano
troppo serrati e
l’avrebbero impacciato nei movimenti; estrasse, invece, un
pugnale dalla lama
più corta e maneggevole, che abbandonò la sua
guaina in un sibilo
agghiacciante.
Anche
le ombre dovettero averlo sentito, perché si fermarono, in
allerta.
«Forse
è stato il vento» bisbigliò uno di
loro. Aveva la voce soffocata, segno che
doveva portare una sciarpa o una bandana per nascondere i tratti del
volto, e
la cadenza era tipica delle città che si affacciavano sul
mare, con il loro
caratteristico strascicamento delle vocali finali.
Ivory
si mosse fulmineo e l’uomo si accasciò a terra con
un gemito, i resti
dell’ultima parola ancora rimasti incastrati nella gola. I
restanti tre si
allarmarono e iniziarono a scrutare febbrili quelle nebbie che celavano
lame.
Il
quinto, invece, aveva iniziato a scalciare e a dimenarsi, per provare a
sottrarsi alla morsa, e provava a parlare, ma la sua voce era soffocata
dalla
tela che gli era stata infilata sulla testa. Gli uomini lo lasciarono
cadere
come un sacco di patate per ricorrere alle armi, che estrassero in uno
stridio
sincrono.
Ivory
non si fece spaventare: quei pugnali spuntati non avrebbero potuto
fargli nulla
e gli individui parevano piuttosto inesperti, aveva avuto a che fare
con avversari
più temibili di tre briganti spauriti, non valeva nemmeno la
pena ucciderli: il
primo era stato messo fuori gioco con una semplicità
disarmante.
Scivolò
accanto ad uno di loro e fece sbocciare un sorriso sul polpaccio di
questo.
L’uomo si accasciò a terra, trattenendosi la parte
lesa e Ivory ne approfittò
per tiragli un calcio e fargli perdere i sensi; questi si
afflosciò con un
pigolio patetico.
I
due superstiti strinsero convulsamente le impugnature delle loro lame e
iniziarono a fendere la nebbia, quasi fosse stata essa stessa la
colpevole,
nella vana speranza di ferire il loro aggressore.
Ivory
se la rideva sotto i baffi, nascosto dietro un albero, e gli osservava
mentre
si accanivano contro il nulla, ciechi e nervosi, tremando come foglie.
Sgusciò
tra una pianta e l’altra, per poi afferrare uno dei
sopravvissuti per il braccio
e farlo sparire nella nebbia, stenderlo con il pomolo del pugnale e
dedicarsi
all’ultimo.
Il
compagno si era voltato, ma ciò che si trovò
davanti fu la figura prestante
dell’elfo, ingigantita dal bagaglio e resa più
minacciosa dal mantello da
viaggio in cui era intabarrato, che si fondeva e confondeva con i
rivoli di
nebbia. I capelli bianchi e la pelle diafana risaltavano contro il nero
uniforme del cielo e gli occhi d’ambra scintillavano come
quelli dei felini; la
lama del pugnale baluginava sinistra
nell’oscurità. Nel complesso appariva come
una figura terribile, simile ad un vendicatore, seminatore di morte e
sofferenza. Uno spettro venuto dall’oltretomba per punirlo
della sua pessima
condotta.
Questo
dovette essere il pensiero che attraversò la mente
dell’ultimo brigante, perché
questi lasciò cadere il coltello e si diede alla fuga,
sparendo in un soffio,
senza nemmeno provare ad assalirlo.
Ivory
sorrise soddisfatto e si chinò verso il malcapitato,
cercò di rassicurarlo e
con movimenti misurati e delicati, lo liberò del sacco.
Un
odore famigliare gli invase le narici: era lo stesso profumo delle erbe
che
Brandbury metteva nell’armadio per tenere lontane le tarme,
ugualmente
penetrante e pruriginoso.
«Cosa
diamine ci fai qui!» esclamò sorpreso.
Il
fratello era proprio davanti a lui, intabarrato in un enorme giacca e
con uno
zaino ancora più grande da cui fuoriusciva la fragranza.
Probabilmente aveva
riesumato coperte e cappotti di lana per affrontare al meglio il rigido
freddo
delle montagne. I capelli biondi erano spettinati e il volto era
distorto in
un’espressione stranita.
«Che
domande!» rispose l’altro, tornando a respirare,
«Avevo detto che sarei venuto
con te! Però sei partito con largo anticipo:
all’alba mancheranno ancora sei
ore!»
L’elfo
non sapeva se urlare contro il fratello, rispedirlo indietro o
ucciderlo sul
posto. Forse con l’ultima opzione sarebbe stato sicuro che
non l’avrebbe più
seguito. Nemmeno l’inganno era riuscito, eppure era sicuro di
essersi mosso
silenziosissimamente.
«Ho
il sonno molto leggero» disse Brand, rispondendo ai
suoi dubbi, «E per
quanto tu possa essere silenzioso e lieve, la porta non lo è
e l’ho sentita
gemere e sbattere. Credevo fosse già arrivata
l’alba e mi sono precipitato
fuori casa, scoprendo che era ancora piena notte» non
sembrava esserla presa,
nei suoi occhi non c’era alcuna traccia di rabbia o rancore.
«Ho
immaginato perché l’avessi fatto»
continuò, quasi stesse leggendo i pensieri
dell’altro, «So che
non vuoi che mi accada nulla e che preferiresti sapermi al sicuro a
casa, ma io
non sarei riuscito a sopravvivere un giorno di più rinchiuso
in quella gabbia
di legno senza sapere nulla di te. Quindi mi dispiace, ma sarai
costretto a
prendermi come tuo compagno di viaggio.»
«Vedo
quale compagno di viaggio utile saresti. Non sono passati neanche dieci
minuti
e vieni aggredito dai briganti!»
«Avevo
la situazione perfettamente sotto controllo»
replicò Brand rialzandosi con
l’aiuto del fratello. Il peso del bagaglio gravava sulle
spalle e lo
destabilizzava.
«Ma
ti sei portato dietro l’intero guardaroba
invernale?» esclamò Ivory.
«I
Ciclopi sono famosi per le loro temperature rigide, e le piaghe da
congelamento
sono veramente brutte.»
«Quindi
sei proprio convinto di volermi seguire, anche dopo quello che ti
è successo? I
briganti saranno il nemico meno pericoloso che dovremo
affrontare» cercò di dissuaderlo,
di indurlo a un ripensamento dell’ultimo momento.
«Sappiamo
perfettamente entrambi che non demorderò: ti
seguirò fino a Damevar, che a te
piaccia o no!»
Ivory
alzò gli occhi al cielo: suo fratello sapeva diventare
davvero testardo e
inamovibile quando si impuntava su qualcosa.
Pensandoci
bene, però, forse, avere qualcuno con cui
condividere il viaggio non era
nemmeno un’idea tanto terribile: Brandbury avrebbe potuto
fargli compagnia e
distrarlo dalla fatica e, soprattutto, dalla noia dei lunghi giorni di
marcia
che li attendevano; inoltre era un ragazzo molto intelligente, per
quanto non
ancora esperto del mondo, e avrebbe potuto dargli qualche idea su come
entrare
nel Palazzo della Regina. Si trattava solo di tenerlo il più
possibile lontano
dai guai e dagli scontri.
Alla
fine, sarebbe venuto lo stesso, quindi perché non
approfittarne?
Con
un sospiro rassegnato, l’elfo fece cenno al giovane di
seguirlo.
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Capitolo 5 *** V ***
V
Sembrava
che un qualche dio avesse gettato dei massi senza preoccuparsi troppo
di dove sarebbero andati a cadere, dando vita ad una catena di monti
frastagliati e dalle punte aguzze, simile ad una fila di denti pronti a
serrare l’incosciente viaggiatore nella loro morsa letale. Le
Zanne di Dorvan erano l’ingresso per i Danaver, o meglio, il
punto indicato dalla bussola per accedere al massiccio. Ivory
cercò di rintracciarne l’estremità
superiore che andava a disperdersi nelle dense nubi bianche che
ricoprivano costantemente i Ciclopi, impedendo di stabilirne
l’altezza esatta, ma tutto ciò che il suo sguardo
incontrò fu un bianco accecante e uniforme.
Brandbury,
accanto a lui, batteva i piedi e si stringeva nelle pesanti pellicce
che lo facevano somigliare ad un piccolo orso.
«Se
hai freddo ora, non oso immaginare a quando saremo nei pressi di
Volkyria» commentò l’elfo, il suo sangue
era più caldo di quello degli umani e ciò gli
permetteva di resistere a temperature non troppo rigide. Ma nemmeno il
suo sangue elfico avrebbe potuto qualcosa contro le temperature
vertiginose che si registravano nei pressi della fortezza.
«Non
ho freddo» rispose l’altro, «Ho solo una
tremenda paura. Questi ammassi non sono molto rassicuranti, mi sembrano
le fauci spalancate di una qualche belva feroce.»
«Sei
ancora in tempo per tornare indietro» replicò
Ivory, «Puoi sempre ritornare a Danilia e aspettarmi
lì.»
«E
abbandonarti proprio nel momento in cui avresti più bisogno
di un compagno?» sbottò l’altro,
«Ho promesso che sarei venuto con te e questo implica che ti
segua fino in fondo, anche se questo significa avventurarsi per queste
guglie minacciose. Inoltre, se siamo in due, abbiamo maggiore
probabilità di sopravvivere.»
L’elfo
scrollò le spalle e sistemò lo zaino sulla
schiena, stringendo le cinghie: era tornato pesante, riempito fino
all’orlo con vettovaglie a lunga conservazione, coperte e
pellicce di riserva.
Ivory
sparì oltre le zanne e Brandbury lo seguì a
ruota, si addentrarono in una selva di pinnacoli di roccia coperti di
bianco, in una distesa infinita e omogenea di neve che si squarciava in
corrispondenza di crepacci e di gole, simili a ferite della terra che
si inabissavano in baratri senza fondo. Si domandarono come qualcosa
potesse vivere in un luogo tanto inospitale e minaccioso, e come
fossero riusciti a costruirci addirittura una fortezza.
La
marcia si fece lenta e faticosa: i passaggi erano stretti ed erti, a
volte dovevano camminare in equilibrio su fili di roccia aggettanti su
uno strapiombo, altre affondavano nella neve fino alla vita e altre
ancora si trovavano costretti ad arrampicarsi e a scalare come capre i
fianchi scabri e taglienti; il cibo era o troppo secco o ammollato e
sempre gelido; i venti impetuosi del nord si abbattevano su di loro,
penetrandogli fin nelle ossa e raggelandoli; il silenzio surreale che
aleggiava sulle montagne era diventato assordante, ma non osavano
alzare la voce al di sopra di un bisbiglio per paura di risvegliare
qualsiasi cosa fosse rimasta sopita tra quei recessi; il paesaggio
sempre uguale li nauseava e li stordiva, ma grazie alla bussola
sapevano in che direzione andare. La notte trovavano riparo in qualche
anfratto roccioso oppure Ivory scavava un riparo nella neve e
sfruttavano l’uno il calore dell’altro per sentirsi
al caldo. Spesse volte erano stati costretti a fermarsi a causa di una
tempesta di neve, e in quei momenti cercavano riparo dietro a speroni
di roccia e attendevano che si calmasse, ma la tempesta aveva
modificato profondamente il paesaggio costringendoli a prendere altre
vie; altre volte aveva nevicato e i due erano andati avanti fino a
quando l’elfo non riusciva più a vedere nemmeno le
immagini luminescenti della bussola, anche in quel caso il nuovo strato
nevoso cambiava lo scenario ed erano costretti a ricominciare da capo,
cercando di recuperare l’orientamento e scegliendo altri
punti di rifermento.
Erano esausti, raffreddati e intorpiditi dal gelo, i loro sensi si
erano affievoliti, stremati dal gelo e dalla stanchezza. Fu per questo
che si accorsero del leopardo un attimo prima che li attaccasse.
Stavano
arrancando lungo un crinale coperto di neve, facendosi strada
attraverso il manto nevoso, i vestiti fradici, la pazienza e le forze
ormai al limite; procedevano in silenzio, risparmiando il fiato per la
traversata e l’unico suono che accompagnava la loro avanzata
era il cupo lamento del vento e lo scricchiolio dello strato di neve
ghiacciata, spezzato dal loro passaggio.
Improvvisamente
Ivory percepì un movimento con la coda
dell’occhio, ma pensò che la vista stanca e
provata gli avesse giocato qualche scherzo e non vi badò; il
movimento si ripeté e un’ombra saettò a
lato del campo visivo dell’elfo, la neve si
sollevò in una lieve nuvola e Ivory capì che
erano in pericolo: gridò a Brandbury di buttarsi a terra e
cercò di recuperare la spada tra gli strati di abiti.
Riuscì a estrarla dal fodero un attimo prima che un'enorme
massa bianca e soffice lo investisse e lo catapultasse nella neve.
Sopra di lui torreggiavano due occhi azzurro ghiaccio, dalle pupille
ferine, e poco sotto si spalancava una bocca irta di rostri acuminati;
il manto bianco era punteggiato di macchie più scure e
l’elfo comprese di trovarsi tra gli artigli di un leopardo
delle nevi molto affamato.
Brandbury gridò terrorizzato ma la sua voce giunse in
ritardo e ovattata, quasi che l’urlo provenisse da
un’altra dimensione; Ivory sperò che al fratello
non venisse in mente di fare qualcosa d’altro di molto
stupido.
La belva lo aveva atterrato e l’aveva inchiodato al suolo,
schiena a terra, con i suoi artigli poderosi. Aveva provato a mordergli
il collo, ma aveva incontrato solo uno spesso strato di abiti e
pellicce senza riuscire a raggiungere la carne; ringhiando e soffiando
frustrata iniziò a menare colpi con le unghie
così repentinamente che Ivory non poté fare altro
che proteggersi il petto e il collo per evitare che venissero
squarciati.
Tentò di opporre resistenza a quelle zampe e i lunghi
artigli gli lacerarono la carne degli avambracci. Girò la
testa da un lato proprio nel momento in cui i denti
dell’animale si chiudevano, feroci, dove era rimasta fino ad
un istante prima. Il leopardo gli lacerò il petto passando
attraverso gli strati di abiti e pellicce e cercò di nuovo
di mordergli la gola.
Un
sibilo attraversò l’aria e qualcosa si
piantò nel collo del felino, facendolo ululare di dolore, la
belva si tirò indietro e lo graffiò sulle spalle
con le zampe anteriori. Un altro sibilo, e un’altra freccia
raggiunse la prima.
Il
leopardo emise un verso straziante: un misto tra un gemito e un grido
di rabbia, i suoi occhi color del ghiaccio si puntarono su Brand che
imbracciava un arco e stava incoccando un’altra freccia.
Intendevo
proprio questo con qualcosa di molto stupido
pensò Ivory; cercò la sua spada, dispersa nella
neve e mentre un’altra freccia veniva scagliata,
riuscì a rimettersi in piedi, ma le ginocchia cedettero e
sprofondò nella neve, gocce di sangue dorato macchiarono il
manto immacolato.
La
belva aveva puntato al fratello e le frecce erano diventate inutili:
sarebbe bastato un balzo e il leopardo sarebbe stato
sull’altro, uccidendolo con un solo morso, dal momento che il
giovane, per essere più agile e sciolto nei movimenti, si
era liberato degli strati di pellicce, rimanendo coperto della sola
giacca.
Ivory ringhiò e con uno sforzo sovraumano scattò
un momento prima che lo facesse il felino. Piombò sulla
schiena dell’animale, la spada alta sopra la testa e la
piantò nel cranio del leopardo, affondandola con tutta la
sua forza. L’animale soffiò in modo
raccapricciante, gelandogli il sangue nelle vene; gorgogliando e
gemendo, provò a togliersi Ivory di dosso. L’elfo
perse la presa sulla spada e venne scaraventato contro un cumulo di
neve. Un terribile ululato si propagò per il massiccio, un
nuovo sibilo fendette l’aria seguito da un tonfo tremendo che
fece tremare la terra. Quando Ivory riemerse dalla neve, il leopardo
era morto e un silenzio irreale era piombato sulla montagna.
Si
puntellò sul braccio sinistro, che mandò una
fitta atroce, ricadde nella neve e si tastò la spalla
destra, gemendo di dolore. Dovette reprimere un moto di stizza: con lui
in quelle condizioni sarebbero stati costretti a rallentare. Brandbury
si fiondò al suo fianco e iniziò a esaminargli le
ferite, il sangue dorato dell’elfo e quello cremisi della
bestia impregnavano ogni cosa e ad ogni lembo di abito che Brand
scostava si rivelavano nuovi tagli: gli squarci al petto erano profondi
quanto quelli sulla spalla e altre lacerazioni si aprivano sulle
caviglie, dove la bestia l’aveva abbrancato con le zampe
posteriori per tenerlo fermo a terra, altri tagli e ferite
più piccole laceravano la pelle del collo, delle braccia e
della schiena e mandavano fitte atroci e pungenti ogni volta che
provava a muoversi.
«Mi
domando come tu sia riuscito a uscirne vivo»
borbottò Brand.
«È
stato anche grazie a te» ansimò Ivory,
«Da quando sai tirare con l’arco?»
«Me
l’hai insegnato tu, cretino, anni fa e io mi sono sempre
tenuto in esercizio. Non si può mai sapere quando
può servire un arciere.»
«Grazie»
mormorò l’altro, il dolore indicibile che gli
soffocava la voce.
«Mi
ringrazierai quando ti avrò rimesso a nuovo»
replicò l’altro, «E tu che dicevi che
un’erborista non ti sarebbe servito a niente!»
Brand
iniziò a trafficare con unguenti e bende, puliva le ferite
con la neve e le fasciava con i brandelli di stoffa ricavati dagli
abiti, Ivory stringeva i denti e cercava di sopprimere qualsiasi gemito
o grido di dolore osasse affacciarsi alle sue labbra.
«Probabilmente
le ferite alle caviglie ti impediranno di camminare spedito»
commentò Brand, «E ti proibisco di sforzarle, se
non vuoi rimanere zoppo per tutta la vita. Devi dare tempo alle ferite
di rimarginarsi e di cicatrizzarti o non guarirai
più!»
«Non
possiamo prenderci del tempo! Non qui e non adesso!»
protestò l’altro.
«Non
sei nelle condizioni per decidere» replicò Brand,
«Arriveremo fino a Volkyria e lì ci fermeremo fino
a quando non starai meglio. Nel frattempo diminuiremo i ritmi di marcia
e faremo più pause.»
«Di
questo passo non arriveremo mai a Damevar!»
«Ci
arriveremo!» lo rassicurò l’altro,
«E soprattutto ci arriveremo vivi!»
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Capitolo 6 *** VI ***
VI
La Fortezza Nera spiccava prepotentemente sul paesaggio circostante, bianco e uniforme, e le sue torri di pietra svettavano alte fino al cielo, sfidando le vette aguzze che l’accerchiavano.
Brand tirò un sospirò di sollievo, fino all’ultimo aveva temuto che la bussola si fosse sbagliata e sarebbero stati condannati a vagare per quelle montagne fino a quando la morte non li avesse presi, Ivory per primo.
Le ferite erano peggiorate, nonostante le costanti cure di Branbury: lo sforzo della marcia non aveva permesso che si rimarginassero del tutto e l’erborista temeva che potessero essersi infettate, Ivory era accasciato contro di lui, caldo, prostrato dalla febbre che l’aveva colto una settimana dopo l’uccisione della belva. La pelliccia di leopardo lo avvolgeva e lo proteggeva dal freddo, un trofeo meritato per quello scontro, ma Barnd si domandò se fosse stato davvero l’elfo ad uscirne vincitore.
«Siamo quasi arrivati» fece forza all’altro, trascinandolo verso la roccaforte, «Resisti!»
Arrancarono nella neve che gli arrivava a metà coscia e più volte il giovane soccombette al peso dell’altro sprofondando nel manto soffice.
Quando ormai pareva aver perso ogni speranza, Brand riuscì a toccare le fredde pareti dei muri della fortezza e si abbandonò contro di esse, iniziò a visitare Ivory per riprendere fiato e si accorse che la febbre si era alzata, l’elfo era scosso da tremiti convulsi e biascicava parole senza senso, galleggiante in un limbo sospeso tra lucidità e delirio. Era stata una follia pretendere che continuasse a camminare, ma sarebbe stato ancora più folle se si fossero fermati nel mezzo delle montagne, senza nessun riparo sicuro e un punto di riferimento a cui aggrapparsi. Volkyria era la loro ancora di salvezza per non affogare in quel mare di neve e roccia, che pian piano li aveva consunti, costringendoli a procedere senza sapere esattamente in che direzione stessero andando. Brand si era affidato completamente alla bussola e l’aveva consultata quasi febbrilmente, con il terrore di rimanere intrappolato tra quelle guglie. La prima volta che gli si era spenta in mano si era disperato: aveva iniziato a piangere e aveva stretto convulsamente la bussola tra le dita, aveva iniziato a scuoterla, ad aprirla e a richiuderla più volte, l’aveva esaminata in ogni dettaglio, alla ricerca di qualcosa che permettesse di farla funzionare di nuovo, temette di averla rotta e un sentimento irrazionale e indicibile si impossessò di lui, un misto tra frustrazione, impotenza, rassegnazione, rabbia, stanchezza e disperazione, tutto quello che aveva accumulato in quei giorni si era condensato in un delirio allucinato che l’aveva portato sull’orlo di un crollo emotivo. Aveva afferrato i pochi barlumi di lucidità che gli rimanevano, si era aggrappato ad essi e si era trascinato fuori dallo sconforto distruttivo in cui era caduto. Aveva chiesto ad Ivory cosa fare e questi aveva iniziato a parlare di sangue e di una boccetta di materiale ematico della regina, nascosto da qualche parte. Brand fu sicuro che stesse vaneggiando, ma quando trovò la fiala di cui parlava nei recessi dello zaino, si domandò che razza di macabro incantesimo contemplasse l’uso di sangue per far funzionare una bussola. Lasciò scivolare qualche goccia sul quadrante grigio e l’immagine precisa e dettagliata della regione si modellò sotto i suoi occhi, lasciandolo senza parole: non aveva mai visto qualcosa del genere.
Rincuorato aveva ripreso la marcia, trascinandosi il corpo sfatto e spettrale dell’altro, più volte aveva temuto che potesse spirargli tra le braccia e aveva cercato in tutti i modi di contrastare la morte che accarezzava e vezzeggiava Ivory, gettando la propria ombra sul suo viso.
Le torri erano state sbriciolate dal tempo e dall’incuria, frammenti alti cinque volte Brand erano disseminati attorno alla piana; anche le basi non erano state risparmiate: la roccia si era sgretolata per il gelo aprendo dei varchi nella corazza di pietra. Brand ne trovò uno, e caricandosi Ivory sulle spalle, penetrò nella fortezza: lo accolsero stanze vuote e tetre, buie e pregne di umidità, ma quantomeno il gelo sconcertante dell’esterno era stato stroncato dalle spesse pareti di granito.
Adagiò Ivory sul pavimento polveroso e iniziò a controllare le ferite: con suo sommo sollievo nessuna si era infettata, sebbene stessero impiegando più tempo per guarire; lo avvolse in coperte e pellicce, privandosene per tenere lui al caldo.
Mentre sistemava l’ultima pelliccia sentì qualcosa afferrargli il polso: era una mano di Ivory resa scheletrica dalla fatica e dalla malattia, sotto la pelle impalpabile si riusciva a intuire il reticolo di vene, simili a fili d’oro intessuti nel pallore innaturale.
«Avevi ragione» mormorò, ogni parola che gli costava uno sforzo enorme. Ma stava per morire, sentiva il canto seducente della nera signora chiamarlo a sé e sentiva il bisogno di dire quelle parole e ringraziare Brand per tutto quello che aveva fatto per lui, prima che fosse troppo tardi.
«Avevi ragione» ripeté, «Per troppi anni ho giocato con la morte e l’ho sfidata e adesso si è ripresa la sua rivincita. Dopo avermi messo alla prova con il leopardo, ecco che mi fa crepare nel modo più assurdo e indegno per un guerriero…»
«Sta zitto !» gli intimò l’altro facendogli ingollare un preparato amarissimo per far abbassare la febbre.
«Grazie» biascicò Ivory, «grazie per essere venuto con me. Avevi ragione anche su questo punto: una volta che sarò morto, avrai la possibilità di concludere la missione al posto mio!»
«Smettila di dire stronzate!» sbottò l’altro, «Non morirai, non se sarò io a curarti, e quando sarai guarito, sarai costretto ad ammettere che avevo ragione anche sul fatto che avere un erborista sia utile e indispensabile.»
Ivory strinse la mano i Brand, «Da quando sei diventato così ottuso?» domandò.
«E da quando tu sei diventato così melodrammatico?» lo rimbeccò l’altro, «Le tue ferite non si sono infettate e basteranno un po’ di caldo e di riposo per rimetterti in sesto. Sei un guerriero! Il tuo corpo è abituato a privazioni ben maggiori, è stato indebolito dall’attacco della belva e adesso sta lottando per tornare forte come prima. Mi dispiace deluderti, ma non morirai.»
Brandbury aveva ragione: nel giro di un paio di settimane Ivory si era perfettamente rimesso, la febbre era scomparsa e le ferite avevano avuto il tempo di cicatrizzarsi, per gli elfi i tempi di guarigione erano più rapidi e in un mese gli sfregi che deturpavano il petto e la spalla del guerriero si erano ridotti a sottili segni biancastri.
Trascorse un’altra settimana di convalescenza, in cui Ivory era irrequieto e desideroso di partire: misurava con ampie falcate il perimetro della stanza, simile ad un animale in gabbia, e scalpitava e fremeva per tornare tra la neve e gli speroni rocciosi.
Fu quasi con gioia e rinnovato entusiasmo che ripresero la marcia. Le tappe erano diventate meno forzate, per evitare che ci fossero ricadute, ed entrambi avevano i sensi all’erta per cogliere qualsiasi suono diverso dal fischio del vento e qualsiasi movimento che non fosse la danza lenta e leggiadra della neve.
Fortunatamente, non fecero altri incontri spiacevoli e in una trentina di giorni, secondo i calcoli molto approssimativi di Brand, continuamente scompaginati dalle tempeste di neve e dalle nuvole basse che coprivano il sole, raggiunsero un varco che si apriva tra le punte acuminate e sfrangiate dei Ciclopi e lasciava trapelare il bacio tiepido del sole: erano riusciti a raggiungere l’altro lato della Porta.
Abbandonarono l’incubo dei Ciclopi, ritrovandosi su un promontorio roccioso che si allungava sul Regno di Damevar.
La loro delusione fu grande e si sentirono sbeffeggiati dal destino: un’altra distesa infinita di neve e ghiaccio li accolse, punteggiata qua e là da quelli che dovevano essere villaggi, ma per la maggior parte disabitata. Il colore dominante era il bianco, che si confondeva con quello del cielo, rendendo l’orizzonte indistinto e uniforme. Altre montagne e altre gole movimentavano la distesa, rendendola una grottesca prosecuzione dei Danaver, anche se meno minacciosa e aguzza.
Se si fosse riusciti a non perdersi in quel dedalo di roccia, ci avrebbe pensato il regno di Damevar con la sua uniformità e il suo biancore opprimenti a portare chiunque su ciglio della follia. Fortunatamente erano ancora in possesso della bussola, e avevano sangue abbastanza per essere guidati in quel delirio candido, impedendogli di perdere la direzione e il senno.
Un nastro fiordaliso che risaltava come una cintura azzurro sull’abito di una giovane donna, attraversava il mare bianco e immobile, spezzando la monotonia, e gemmava in lacrime color zaffiro, dove s’apriva in laghi dalle placide acque cristalline: si trattava dell’Amias, la loro destinazione.
Nei pressi dell’omonima Gola, sarebbe dovuto sorgere il Palazzo della Regina Bianca, un minuscolo puntino blu elettrico che nuotava nell’inverosimile vastità di rilievi e depressioni della mappa luminescente.
Quell’immensità li scoraggiava e li deprimeva, sentivano la mancanza della primavera sempiterna di Actardion, dei suoi frutteti, dei suoi campi biondi, delle fattorie e dei villaggi di legno e pietra, del sole caldo e accecante, che poco aveva a che fare con quest’ombra pallida e malata che a malapena riusciva a diradare le nebbie che ammantavano il fiume, e si domandarono quando avrebbero potuto ritornarvi.
Avevano impiegato circa quattro mesi solo per raggiungere Damevar, e un altro mese di marcia li separava da Ebana, il Palazzo di Ghiaccio, residenza della Regina Bianca.
La prospettiva non era delle migliori e lo scenario non migliorava di certo la situazione: era un paesaggio inquietante e opprimente, bianco e immoto; se Ivory avesse dovuto dare un volto all’oltretomba, non avrebbe esitato ad associarla ad esso.
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Capitolo 7 *** VII ***
VII
Ivory
si schermò con una mano: il riverbero del sole sulla neve lo
accecava e gli
impediva di vedere con chiarezza, sullo sfondo glauco del cielo gli
pareva di
cogliere i contorni sbiaditi di una costruzione imponente ma non
avrebbe saputo
dire con certezza se si trattasse del castello della Regina Bianca o di
un'allucinazione. Stavano camminando da così tanto tempo che
non si sarebbe
sorpreso di avere le traveggole.
I
rantolii di Brandbury si fecero sempre più vicini, segno che
stava arrancando
verso di lui.
Era
stato capace di sorprenderlo: quel ragazzo calmo e riflessivo era
sopravvissuto
al viaggio, resistendo alle tempeste di neve, alle notti di gelo e ai
leoni di
montagna; aveva marciato per giorni senza emettere un lamento, aveva
dormito
all'addiaccio senza protestare e aveva mangiato pane raffermo e carne
troppo
salata senza fare troppo lo schizzinoso. Si era dimostrato molto
più tenace,
resistente ed elastico di molti suoi commilitoni.
L'elfo
gettò uno sguardo al fratello: il volto era coperto da una
spessa sciarpa di
lana grezza e il capo era riparato da un cappuccio imbottito di
pelliccia, di
lui si riuscivano a vedere solo gli zigomi arrossati dal freddo e gli
occhi,
che parevano ancora più chiari e freddi nella luce sfumata
della valle.
Brandbury
si trascinò fino ad un albero gelato, dai rami lunghi e
sottili, simili ad
artigli, e si lascio cadere nella neve.
«Dimmi
che siamo quasi arrivati, ti prego, anche se è una
bugia» ansimò, stremato.
«Siamo
quasi arrivati» lo accontentò l'elfo.
«Davvero?»
replicò speranzoso l'altro.
«Se
la vista non mi inganna quell'edificio che si intuisce sullo sfondo
dovrebbe
essere Ebana, la Fortezza di Ghiaccio.»
Brandbury
tirò un sospiro di sollievo: non ne poteva più di
camminare: l'avanzata si era
fatta molto più difficile e faticosa dal momento che ad ogni
passo affondava
nella neve fino a metà coscia, e la paura di cadere nel
burrone lo teneva sul
lato interno, dove il manto nevoso era più alto e morbido.
Ivory
estrasse la mappa e sul quadrante apparve chiara e lucente l'immagine
di una
costruzione possente, irta di torri sottili e acuminate, ricamate di
guglie e
pinnacoli, preceduta da un ponte sospeso sulla cascata che si gettava
nello
strapiombo: il Varco di Amias, l’ingresso alla maestosa
Ebana. Prima di
raggiungerlo, però, avrebbero dovuto superare i Guardiani:
un altro ponte,
sorretto da due mastodontiche statue di troll del gelo, scolpite nel
granito e
rivestite di una sottile e costante patina di ghiaccio e brina, che
faceva
somigliare i pilastri alle creature originali; l'impalcato era
costituito dalle
loro braccia muscolose che da un alto s’intrecciavano in una
salda stretta fino
a fondere le mani tra loro, e dall’altro affondavano le dita
di pietra nelle
pareti del burrone.
«Preferisci
Ebana o Dalysium?» domandò l'elfo, mettendo a
confronto i palazzi delle due
Regine.
«Sono entrambe molto
belle ma di una bellezza diversa: Dalysium è calda,
accogliente e
sovrabbondante per certi aspetti, interamente ricoperta d'oro e
circondata da
giardini magnifici; Ebana è fredda, distante, diafana ed
effimera ma
affascinante e incantevole, la paragonerei a quella contessa sdegnosa a
cui hai
cercato di fare la corte qualche mese fa.»
«Addirittura!»
lo prese in giro Ivory, «Se non fossi diventato un erborista,
saresti stato un
ottimo poeta.»
Brandbury
arrossì e non solo per il freddo: la poesia e la musica
erano sempre state la
sua passione e il suo diletto, nei momenti liberi o di noia si
divertiva ad
abbozzare qualche verso, ma nulla di troppo serio e nulla che gli
sarebbe valso
l'ingresso all'Accademia dei Bardi; sapeva strimpellare un liuto e
conosceva a
memoria tutte le ballate di Biancospino, un poeta delicato e sublime
che
narrava strazianti storie di amori tragici, ma non aveva mai preso
seriamente
in considerazione l’idea di diventare un cantastorie
giramondo.
«Quella
contessa non era niente di che, in realtà» riprese
il discorso Ivory calciando
un cumulo di neve che si dissolse in una pioggia di candidi fiocchi,
«Aveva un
collo troppo lungo e un naso troppo adunco»
«Ma
gli sei corso dietro per ben due settimane!» gli fece notare
l’altro.
«Solo
perché era piuttosto ricca e potevo approfittarne per avere
qualche regalo»
si difese
l’elfo.
«Non
ti facevo così opportunista!» lo prese in giro
Brand.
«In
guerra e in amore tutto è
lecito!» citò Ivory, sebbene la frase non
c’entrasse completamente con il contesto.
Ma
la trovava tragicamente veritiera: quando in inverno la fame divorava
lo
stomaco e il freddo tranciava le dita dei piedi, solo la
bontà di cuore di
qualche dama, signora dei possedimenti che stava attraversando per
tornare a
casa, l’aveva salvato da morte certa. Aveva sfruttato il suo
fascino e il suo
carisma per affascinarle e farsi ospitare, in attesa che una giornata
particolarmente fredda o piovosa terminasse e lasciasse il posto a
condizioni
più favorevoli per riprendere il viaggio.
Le
campagne militari si snodavano per tutta Actosia e non sapeva mai dire
con
assoluta certezza dove sarebbe finito e quanto gli sarebbe occorso per
tornare
a casa dopo il congedo. Una volta aveva impiegato addirittura un anno
per
tornare, quanto avevano richiesto i suoi servigi all’estrema
propaggine nord
del regno, per sconfiggere una ciurma di pirati che minacciava la
città di
Samanar e i suoi fiorenti commerci.
Le
dame si erano sempre dimostrare molto disponibili nei suoi confronti:
mai
avevano negato un pasto caldo e un letto comodo
all’affascinante guerriero
dagli occhi d’ambra e i capelli bianchi, e Ivory, sapendolo,
non aveva perso
occasione per dare sfoggio a tutto il suo fascino e la sua galanteria.
Non li
avrebbe lesinati nemmeno con la Regina Bianca e avrebbe sfruttato tutte
le sue
risorse per riuscire a ottenere il suo favore e la sua attenzione,
sempre che
la donna fosse attratta da guerrieri dalle orecchie a punta e la pelle
diafana.
Giunsero
ai Guardiani quando il sole stava declinando all'orizzonte, infiammando
il
cielo e insanguinando le due statue: due giganti di pietra terribili,
minacciosi e bellissimi, uno scultore aveva plasmato la roccia in modo
da
conferire ai due troll un volto arcigno e per nulla amichevole,
corredato di un
paio di zanne di alabastro, che spuntavano dalle labbra sottili, mentre
le
braccia erano saldamente legate tra loro, in continuità.
Sullo sfondo, Ebana
aveva assunto una forma più chiara e distinta: si
pavoneggiava nello splendore
evanescente e arrossiva lievemente, sfiorata dai raggi dell'astro
morente;
Ivory poteva ritrovare le guglie e i pinnacoli che fino a quel momento
aveva
visto solo sulla mappa e Brandbury si mise a contare le torri,
sormontate da
cupole di vetro colorato che spandevano nell'aria vespertina un
caleidoscopio
di colori vivaci e sorprendenti.
«È
immenso!» si lasciò sfuggire sorpreso, e
l’elfo accolse quel commento con un
sorriso amaro: più il palazzo si sarebbe rivelato vasto e
labirintico, più
sarebbe stato difficile scoprire dove tenesse custodito lo specchio.
Ivory
iniziò a saggiare il terreno attorno ai piedi enormi dei
troll, che facevano da
base per i pilastri del ponte, e a scandagliarlo attentamente con il
suo
sguardo dorato: in quel punto il sentiero si riduceva ad una lingua
larga un
paio di metri che si intrufolava e si incuneava tra le gambe del troll
e la
parete di roccia; il terreno pareva cedevole e il passaggio stretto e
difficoltoso, dovevano contorcersi per riuscire a percorrerla, stando
attenti a
non cadere nell’abisso che rasentava la pietra granitica del
piede.
«Vuoi
passarlo adesso?» domandò Brand notando i
movimenti dell’altro.
«Volevo
approfittare delle ultime ore di luce disponibili» rispose.
«A
me sembra pericoloso» iniziò il giovane inarcando
un sopracciglio, scettico.
Ivory alzò gli occhi al cielo: ecco che iniziava a ribattere
e criticare, come
suo solito.
«Più
andiamo avanti oggi, meno strada avremo da fare domani»
replicò.
«Non
potremmo attraversarlo con la luce del giorno?» non demorse
l’erborista. Quel
tratto gli sembrava poco stabile e alquanto infido, non che temesse che
potesse
crollare da un momento all’altro- aveva sostenuto quegli
enormi troll per
secoli- ma aveva paura che con la soffusa luce crepuscolare non
avrebbero visto
qualche insidia celata, magari un cumulo di neve meno resistente, o
qualche
buca o cedimento nascosti.
Ivory
sospirò e ignorò le proteste
dell’altro, sondò cautamente il terreno con uno
stivale, accertatosi della sua stabilità, mosse un passo e
invitò Brandbury a
fare altrettanto.
Il
ragazzo rimase fermo, a braccia conserte, deciso a non proseguire: era
stanco
che l’altro non prendesse mai in considerazione quello che
diceva e persistesse
nel fare di testa sua, era umiliante e frustrante e Brandbury non
riusciva più
a sopportarlo; che si arrangiasse da solo, dal momento che teneva in
così gran
conto le sue opinioni! Lo inchiodò con uno sguardo
risentito, mentre l’elfo
proseguiva senza preoccuparsi di accertarsi che lo stesse seguendo o
meno:
probabilmente aveva dato per scontato che Brandbury, come suo solito,
gli
sarebbe corso dietro, ricapitolando e rinunciando alle sue
considerazioni. Ma
questa volta, non gliel’avrebbe data vinta, e rimase fermo e
saldo nella sua
posizione, simile per immobilità alle statue del ponte.
Improvvisamente,
Ivory mise un piede in fallo: la zolla si sbriciolò sotto il
suo stivale,
lasciandolo privo di appoggio, si sbilanciò e perse
l’equilibrio, spalancò gli
occhi, incredulo, mentre le sue mani iniziarono a mulinare in cerca di
un
appiglio, ma le dita scivolarono sullo strato di brina che ricopriva la
pietra,
senza riuscire ad agguantarla. Sotto lo sguardo stupefatto di
Brandbury, l’elfo
cadde e scomparve alla sua vista, inghiottito dall’abisso.
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Capitolo 8 *** VIII ***
VIII
Il terrore
si dipinse sul volto di Brandbury che scattò verso il
fratello, allungò spasmodicamente un braccio, mentre sentiva
le gambe cedere e
il corpo scivolare sulla neve; le sue dita si chiusero e per un attimo
temette
di stringervi solo aria.
Invece,
afferrò qualcosa di
solido e morbido: Ivory penzolava sul precipizio, appeso per il polso
alla mano
di Brandbury, sotto di lui l’Amas scorreva impetuoso, spinto
dalla forza della
cascata, le pareti di roccia crollavano a precipizio e si scheggiavano
in
spuntoni simili a punte di lancia e ugualmente letali; se non
l’avesse
afferrato in tempo sarebbe rimasto infilzato come un maiale sullo
spiedo.
Il ragazzo
deglutì, si puntò
con i piedi nel manto nevoso, e pregando tutti gli dei che conosceva,
iniziò a
strisciare nella neve, trascinando con sé l’altro.
Si muoveva lentamente,
stando attendo a non far franare il terreno e stringendo convulsamente
il polso
del fratello, senza preoccuparsi di fargli male; aveva tutti i sensi
all’erta,
attenti a percepire ogni più piccolo movimento sotto di lui
e a fare il passo
successivo di conseguenza: aveva paura che il terreno riservasse
qualche altra
brutta sorpresa, che non reggesse e facesse cadere entrambi nel
precipizio. Le
lacrime gli ostruivano la vista e aveva la mano sudata, il suo cuore
batteva a
mille e uno spiacevole ronzio gli invadeva le orecchie, non riusciva a
respirare e aveva il terrore che qualsiasi movimento superfluo o
avventato,
anche il più insignificante, avrebbe condannato entrambi a
morte.
A fatica,
Brand indietreggiò
fino a quando il braccio e la testa di Ivory non spuntarono oltre
l’orlo
scheggiato del burrone; l’elfo si issò sulla
sponda con l’altro braccio e
facendo leva su di esso, spinse il resto del suo corpo oltre
l’orlo. Lo slancio
non fu sufficiente e ricadde, Brandbury sentì uno strattone
e si vide
trascinare verso il burrone, la paura gli svuotò mente e
polmoni, disperato
afferrò anche con l’altra mano quella di Ivory e
si inchiodò al manto nevoso
con la punta degli stivali; sotto lo strato di neve la pietra sbeccata
offrì un
pertugio dove andò ad incastrarsi il piede del ragazzo,
frenando la caduta di
entrambi. L’erborista si cocesse un secondo per riprendere
fiato, poi,
nuovamente, strisciò sulle ginocchia, trainando
l’altro, e nuovamente la testa
bianca di Ivory fece capolino oltre l’orlo. Ancora, l'elfo
appoggiò l’altro
braccio sulla neve e puntellandosi alla parete si diede la spinta:
questa volta
fu troppo impetuoso e lo slancio lo proiettò contro
Branbury, travolgendolo.
Il ragazzo
si ritrovò
schiacciato dal corpo dell’altro, a breve distanza dal suo
viso: Ivory sorrise
e un lampo di gratitudine ne incendiò lo sguardo dorato.
«È
l’ultima volta che ti salvo
la vita» ansimò, togliendosi di dosso il peso del
fratello. «La prossima volta
che avrai un’altra di queste idee geniali ti
lascerò al tuo destino!»
L’elfo,
per tutta risposta,
scoppiò a ridere. Brandbury si rialzò e gli
gettò una breve occhiata,
domandandosi cosa avesse tanto da ridere: aveva rischiato la morte e
rideva
sguaiatamente, sdraiato sulla neve e tenendosi la pancia.
«Io,
a volte, non ti capisco
proprio» mormorò, spazzolandosi i vestiti. Aveva
il viso cinereo per la
preoccupazione e chiazzato di rosso per il freddo e lo sforzo, gli
occhi
traballavano e le iridi chiare annegavano nelle lacrime, ma non avrebbe
dato ad
Ivory la soddisfazione di vederlo piangere.
L’altro
si ricompose e si mise
a sedere, qualche lucciola di ilarità indugiava ancora nei
suoi occhi.
«Rido,
perché nemmeno oggi sono
morto» rispose «Sebbene, per un momento, abbia
creduto che fosse davvero
arrivata la fine...E una fine piuttosto biasimevole per un prode
guerriero.»
«Che
ti sia di lezione!» lo
rimbeccò l’altro, trasformando la sua apprensione
in rabbia. «Non sei morto
oggi, ma continuando a comportarti così succederà
molto presto.»
Brandbury
era arrivato al
limite: la fatica e la stanchezza del viaggio, l’ansia e la
preoccupazione per
lo stesso e per il fratello l’avevano logorato a tal punto
che bastava un
nonnulla per farlo scattare; ma la possibilità
così reale e concreta di perdere
il fratello l'aveva scosso nel profondo, lasciandolo spezzato e
tremante, e il
fatto che fosse causa della sua stupida presunzione rendeva il tutto
più
insopportabile. Si sentiva vuoto e spento, senza più forze
né impulsi, si
sentiva condotto e sostenuto dalla sola inerzia.
Dopo aver
raccattato lo zaino,
il giovane riprese la marcia verso il palazzo, senza aggiungere
né una parola
né uno sguardo all'altro e lasciando l'elfo spiazzato: si
aspettava una
sfuriata, una di quelle tipiche paternali noiosissime, in cui ripeteva
quando
fosse sconsiderato e incosciente, di come si prendesse gioco della
morte, di
come questa avrebbe reclamato il suo pagamento una volta che avesse
smesso di
divertirsi con lui… insomma le stesse identiche filippiche
che gli ripeteva da
almeno cinque anni; e invece, dopo quel breve e lapidario commento,
Brandbury
aveva innalzato un muro di silenzio tra i due e vi si era barricato,
volgendogli le spalle e riprendendo a camminare. La sua furia di Brand
ridusse
anche Ivory al silenzio: lo seguì remissivo, il volto basso
e lo sguardo
concentrato sugli stivali ricoperti di neve.
Il cielo
si era scurito e il
suo colore era virato verso un macabro color sangue, il disco rosso del
sole
mostrava solo le ultime propaggini della sua fronte e bucava con i suoi
raggi i
batuffoli di nubi che si rincorrevano nell'aria crepuscolare, avrebbero
avuto
ancora un paio di ore di luce e Brand non era intenzionato a passare la
notte
su quella lingua di terra cedevole: avrebbero potuto tornare indietro,
ma sarebbe
stato inutile aver
proseguito, oppure avrebbero potuto superare i Guardiani e riposare
oltre le
loro gambe di pietra, dove la strada ritornava larga e spaziosa,
abbastanza da
non farli rasentare l’orlo del dirupo.
Si
appiattirono contro la
parete di roccia e strisciarono dall'altra parte, passando tra questa e
la
gamba del troll. Brandbury continuava ad ignorarlo e si limitava ad
indicargli
i punti meno scivolosi con un laconico cenno del capo, senza aggiungere
altro.
Questa
volta, il guerriero
temette di averla combinata grossa: lo spavento per il giovane doveva
essere
stato davvero enorme e sconvolgente, Ivory stesso aveva temuto di
morire. Solo
in quel momento si era reso conto di quanto avesse rischiato e di come
fosse stata
fondamentale la presenza dell'altro, se non ci fosse stato Brand a
quest'ora
sarebbe stato un ammasso di carne e pellicce smembrata nell'Amas:
Brandbury gli
aveva salvato la vita. E lui non l'aveva nemmeno ringraziato.
Quella
consapevolezza lo colpì come
un pungo allo stomaco e lo fece vergognare profondamente di
sé: da quanto era
diventato così insensibile e meschino da non ringraziare
nemmeno chi gli aveva
appena salvato la pelle? Si morse le labbra mortificato e arrabbiato
con se
stesso, Brandbury aveva tutte le ragioni per avercela con lui.
«Grazie»
mormorò, ma gli
rispose solo l'ululato del vento che scivolava attraverso le fenditure
della
roccia.
Con
l'approssimarsi della
notte, questo si era alzato e ora spazzava la piana superiore
sollevando mulinelli
di neve e detriti, ma i due erano protetti dalla gola e ne ricevevano
una
misera bava.
Brandbury
sgusciò con un
piccolo salto fuori dallo scomodo passaggio, si sedette nella neve, nel
punto
più lontano dal precipizio, appoggiò la schiena
alla scarpata ed estrasse un
tozzo di pane dallo zaino.
Ivory lo
imitò e si lasciò
cadere accanto a lui, umile e contrito.
«Ho
capito» mormorò dopo un
po'. Il silenzio gli era diventato insopportabile e voleva che Brand
gli
tornasse a parlare, anche solo per insultarlo e rimproverarlo: quel
mutismo
gelido e acre gli faceva male più di un colpo di spada o di
freccia, scivolava
dentro di lui e lo raggelava, lento e straziante, terribile.
«Che
cosa?» domandò l'altro con
voce atona. Non aveva più voglia di discutere con Ivory, le
sue parole erano
rimaste inascoltate e inutili, non aveva più le forze per
tentare di inculcagli
una briciola di buon senso, era stanco di essere considerato meno di
niente, di
essere dato per scontato, di non contare nulla se non nella misura in
cui
serviva al fratello. Lui lo amava incondizionatamente e avrebbe dato
tutto se
stesso, si preoccupava e soffriva per lui, cercava in tutti i modi di
proteggerlo e di sostenerlo, stando attendo a non soffocarlo troppo, ma
trovava
avvilente vedere ricambiato in quel modo il suo affetto e il suo
impegno:
sembrava quasi che all'altro non importasse nulla di lui, che lo
considerasse
solo un fastidioso impedimento quando non appoggiava le sue idee, e un
utile
compagno di viaggio quando cedeva e lo seguiva docilmente.
Non
metteva in dubbio l'affetto
di Ivory, sapeva che gli voleva bene, ma il suo atteggiamento egoista e
menefreghista lo faceva infuriare; gli sarebbe bastato un piccolo
gesto, che lo
ascoltasse anche solo una volta, mettendo in pratica quello che gli
diceva e
allora si sarebbe ritenuto soddisfatto...Non chiedeva tanto.
«Ho
capito di aver sbagliato»
continuò Ivory, «E che tu, come sempre avevi
ragione.»
«Allora
perché non mi hai dato
retta?» non c'era rabbia nella sua voce, quella era sbollita
un momento dopo
essersi accesa, ma solo una profonda ed incommensurabile delusione,
quasi
avesse perso ogni speranza.
Ivory non
rispose subito, in
realtà non sapeva che cosa dire, si prese qualche momento
per riflettere e
dentro di sé trovò la risposta: l’aveva
fatto per dimostrare che aveva ragione,
che non era più uno sbarbatello e che era diventato un uomo,
capace di
cavarsela da solo e non più bisognoso dell’aiuto
del fratello, voleva fargli
capire come quelle scelte fatte, che lui disapprovava tanto, gli
avessero
permesso di crescere…Ma come al solito, aveva solo dato
prova della sua
avventatezza e della sua arroganza.
«Mi
dispiace» balbettò Ivory, e
gli dispiaceva davvero, per tutte le preoccupazioni che dava al
fratello, per
tutte le volte che aveva cercato di riscattarsi ma era caduto nello
stesso
errore, per tutte le volte che aveva voluto mostrargli che si sbagliava
ma
aveva fallito miseramente.
«Io
non contesto la tua scelta
di essere diventato un soldato e non disprezzo nemmeno tutte le tue
idee, ammiro
il tuo coraggio e il tuo ardore, ma vorrei che ogni tanto mettessi da
parte il
tuo orgoglio e mi ascoltassi… Io non dico le cose per
impedirtele di farle,
perché voglio ostacolarti, ma le dico solo per proteggerti,
perché sei l’unica
cosa che mi è rimasta e che mi sarebbe troppo doloroso
perdere.»
Ivory sollevò
lo sguardo e incrociò quello adamantino del fratello, ogni
traccia di rabbia e
delusione era svanita ed era tornato il solito sguardo luminoso e
sorridente di
sempre.
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Capitolo 9 *** IX ***
IX
Ebana
danzava in equilibrio sullo strapiombo delle cascate
dell’Amias: il
palazzo si estendeva su entrambe le sponde, e le due parti erano
collegate da
un esile ponte in pietra bianca, ricamato di galaverna e stalattiti,
sotto il
quale rombava e schiumava il fiume, gettandosi con un salto maestoso
nella
piana sottostante.
Le due
alte e sottili torri in vetro, sostenute da uno scheletro nascosto di
acciaio e
fondamenta di pietra, catturavano la luce del sole e la rifrangevano
come
schegge di ghiaccio. E come il ghiaccio,
infondevano un’idea di fragilità
e caducità, come se bastasse sfiorarle per vederle crollare
in mille pezzi.
Ivory
e Brandbury non avevano mai visto
edifici del genere:
ad Actardion erano tutti costruiti in pietra o legno, rivestiti poi da
materiali più preziosi, e il palazzo stesso sotto lo strato
di oro zecchino,
celava una volgare e rozza muratura comune. Ebana, invece, pareva
essere stata
forgiata direttamente nel cristallo, appariva leggera e volatile, come
un
fiocco di neve.
Si
trovarono proprio sotto il Varco, accanto a loro la cascata
mandava spruzzi
e gorgoglii, mentre davanti ai loro occhi torreggiavano gli imponenti
pilastri
di pietra che sorreggevano il sottile arco candido. Oltre a questo si
riusciva
ad intuire una foresta irta di guglie e di archi rampanti, di torrette
e di
guardiole, accarezzata dall’Amias che scorreva placido e
pigro tra le
costruzioni, tutte rigorosamente in vetro o direttamente scolpite nella
pietra.
Arrivarono
davanti ad una delle postazioni di guardia che si trovavano incassate
nei
pilastri del Varco. Il soldato, avvolto in una scintillante armatura
smaltata
di bianco, li scrutò con interesse: non erano molti i
viaggiatori che si
avventuravano fino a quel luogo inospitale e freddo.
«Chi
siete e cosa volete?» domandò brusco.
Ivory
schiuse le labbra per rispondere, ma Brandbury lo precedette.
«Siamo
solo umili poeti girovaghi, messere, e vorremmo sottoporre la nostra
arte
all’orecchio di Vostra Maestà. Sappiamo che ha
un’eccellente gusto ed è molto
esigente, per questo siamo giunti fino a lei.»
L’elfo
guardò stranito l’altro, mentre snocciolava con
garbo e indifferenza la sequela
di bugie e parole affabili e ricercate; si chiese quando avesse ideato
una
storia simile e quante volte l’avesse ripetuta e aggiustata
per farla sembrare
il più credibile possibile.
La
guardia parve tentennare e Ivory temette che l’inganno non
fosse riuscito:
suonava inverosimile che due poeti si fossero spinti in quei
recessi,
mossi dal solo desiderio di cantare versi al cospetto di una regina che
viveva
in mezzo ai ghiacci.
«Dovrò
chiedere alla regina se posso lasciarvi passare. Non si vede molta
gente da
queste parti, soprattutto stranieri.»
E
sparì, lasciando i due imbambolati nella neve. L'elfo e
l’umano si scambiarono
uno sguardo, increduli.
«Secondo
me non ha funzionato» sentenziò il primo, battendo
i piedi per scaldarsi, «cosa
ti è saltato in testa di dire?»
Brand
sorrise, un sorriso storto e sornione che l’altro non gli
aveva mai visto,
e lo inquietava.
«Se
ogni tanto non pensassi solo alle armi, alle battaglie e alle donne, ma
ascoltassi i pettegolezzi che circolano, soprattutto quando viene in
visita la
Regina, sapresti che vengono cercati sempre i musici e i menestrelli
migliori. La Regina adora la musica e la poesia, non
resisterà alla
rospettiva di conoscere due nuovi poeti. Le piace avere l'eslusiva e la
possibilità di mostrare le sue nuove scoperte ad altri.
Purtroppo è molto
rigida nel suo giudizio: una
volta ha abbandonato il banchetto in suo onore nel bel mezzo della
portata
principale, perché le sembrava che i musicisti stessero
scuoiando un maiale
invece che suonare» il giovane
scoppiò a ridere per un avvenimento di cui solo lui era a
conoscenza, lasciando l’altro ancora più
interdetto, «Per di più,
quei
musicisti
erano
venuti appositamente da qui ed erano i preferiti della
Regina!»
Da
quelle poche parole Ivory comprese quanto fosse volubile e
capricciosa
anche questa donna, esattamente come la sorella, e non gli fu difficile
immaginare che fosse stata capace di rubare lo specchio, per dispetto o
ripicca. Non si sarebbe sorpreso se la guardia fosse tornata dicendo di
ritornare
da dove erano venuti.
Invece,
quando l’uomo ricomparve, con somma sorpresa di Ivory, li
introdusse nel lungo
corridoio di pietra che collegava la postazione di guardia al palazzo
vero e
proprio. All’interno del pilastro, le pareti sudavano e
l’aria era calda e
densa; i due stavano soffocando sotto gli strati di abiti di lana e
pellicce, e
pian piano iniziarono a liberarsene. Si inerpicarono per
un’erta scaletta,
stretta e dai gradini piccoli e scivolosi per
l’umidità. Al caldo e al sudore
si aggiunsero il respiro affannoso, le guance purpuree e lo
sguardo
stranito.
Finalmente
giunsero nelle sontuose stanze di Ebana, e rimasero accecati dalla luce
fulgida
che si riverberava e si sfilacciava nei mille colori
dell’arcobaleno, invadendo
ogni spazio: le pareti di vetro lasciavano entrare tutto quello che
riuscivano
a catturare- e che il pallido cielo coperto di nubi lasciava trapelare-
e lo
moltiplicava, rifrangendolo in miliardi di schegge. Faceva quasi male,
e
i due
furono costretti a socchiudere
gli occhi. La seconda cosa che li
lasciò senza fiato fu la stranissima sensazione di camminare
sospesi nel vuoto,
poggiando i piedi sull’aria: i pavimenti erano fatti di vetro
e lasciavano intravedere
i piani sottostanti, con gli stessi lunghi corridoi di cristallo e di
luce.
La
guardia li guidò in quel labirinto trasparente, attraverso
volte istoriate con
motivi floreali e porte di pietra bianca decorate con bassorilievi di
marmo. In
quel palazzo tutto era bianco o trasparente e riprendeva gli stessi
colori del
ghiaccio e della neve esterni, quasi fosse costituito esso stesso di
neve e
ghiaccio; era un dedalo di porte e corridoi che si dipanavano identici
tra
loro, un luogo in cui perdersi fisicamente e mentalmente nei propri
deliri. A
Brandbury quel luogo metteva a disagio: lo
stordiva e lo confondeva, gli trasmetteva un
senso di algida austerità che lo soffocava e gli toglieva il
respiro; mal
sopportava tutto il chiarore e il candore dominanti.
Si domandò
come qualcuno potesse vivere in un posto tanto freddo e
luminoso,
sopportando la luce intensa e quasi artificiale e la
solidità effimera di
quelle pareti di vetro. Gli dava l’impressione di una gabbia,
in cui qualcuno
avesse voluto chiudersi dentro volontariamente, e abbellire per rendere
più piacevole
la prigionia.
Anche
Ivory osservava il palazzo, ma per impararne la
struttura: scrutava
con
interesse ogni porta e ogni corridoio domandandosi se lo specchio
potesse
essere custodito in quelle stanze, cercava scale nascoste e porte
camuffate,
passaggi segreti e pareti ingannevoli dietro cui potesse celarsi l'oggetto.
La
guardia si arrestò davanti ad un portone a due battenti,
decorato con le
immagini di alberi lussureggianti e fiori esotici, che solo nelle serre
di
Dalysium potevano essere ritrovati. Non potendo permettersi fiori e
piante in
rami e petali, la Regina Bianca si era accontentata di surrogati in
pietra e
cristallo.
L’uomo
aprì il portone, creando un piccolo spiraglio, vi
infilò la testa e iniziò a
confabulare con qualcuno dall’altra parte, probabilmente
un’altra guardia;
annuì svariate volte prima di spalancare del tutto il
portone e immettere i due
nell’imponente, incredibile e maestosa sala del trono.
Si
trattava di un locale circolare, con al centro una piattaforma
di marmo su
cui era adagiato un trono che pareva fatto di ghiaccio. Quest'ultimo
catturava e
risucchiava i colori delle vetrate intrappolandoli nei raggi
dell’alto
schienale, simile per forma ad una coda di pavone. La piattaforma era
collegata
all’anello più esterno del pavimento in vetro
-sotto cui
scrosciava tumultuoso l’Amias- da passerelle di cristallo,
che destabilizzavano
e confondevano il visitatore, non sapendo dove l’accogliesse
il pavimento e
dove l’attendesse il vuoto. Una vertigine colse i due
fratelli, e la paura di
cadere strinse loro la bocca dello stomaco, provocandogli un vago senso
di
nausea.
Erano
circondati da un cerchio di venti colonne di tufo bianco, invase da
rampicanti
di cidonia di pietra e vetro rosso, che sostenevano una cupola in cui
erano
stati raccolte tutti le screziature dell’arcobaleno
e frammentate in una
cacofonia di tasselli di cristallo, che creavano un caleidoscopio quasi
allucinato di luci e colori che li colpì come un pungo e li
stordì, lasciandoli
boccheggianti.
«Benvenuti»
mormorò una voce gentile e soave, ed entrambi impiegarono
qualche
momento per capire da dove provenisse, cercando di riemergere da quel
delirio
vertiginoso.
Sul
trono di ghiaccio sedeva, altera e composta, una giovane donna, dalla
bellezza
delicata e fragile, avvolta in un vaporoso abito bianco, ricamato di
minuscoli
cristalli. Aveva lo sguardo di una bambina, e scrutava con interesse e
meraviglia i nuovi arrivati, con una ingenuità e una
spontaneità disarmanti. Tutto in lei sprigionava innocenza e
candore: la pelle delicata di un bianco
perlaceo, le labbra piegate in un tenue sorriso, le lentiggini che
spruzzavano
il naso elegante e l’azzurro fiordaliso degli occhi.
L’unica nota di colore era
la folta capigliatura rossa, lasciata sciolta sulle spalle e trattenuta
da una
tiara di fiori d’argento e perle che accarezzava
dolcemente la fronte alta
e nobile.
Se
la sorella era fuoco, passione, voluttà, seduzione e fascino
e i suoi capricci
erano quelli di un’amante esigente; la Regina Bianca era neve
pura, soffice e
delicata, fragile ed evanescente, e le sue pretese erano quelle di una
bambina
viziata, abituata al lusso. Pur essendo così simili nei
tratti principali del
volto, nel taglio degli occhi e pur avendo lo stesso naso, lo stesso
rosso dei
capelli e lo stesso azzurro degli occhi, non avrebbero
potuto
essere più diverse e antitetiche.
«Benvenuti!»
ripeté la donna a voce più alta.
«Lascia
parlare me!» soffiò Brand all’orecchio
dell'altro, mentre si genuflettevano di
fronte alla regina.
«Mi
è stato riferito che siete dei poeti»
continuò, una scintilla che le accendeva
lo sguardo.
«Qui
per servirvi» rispose teatralmente Brand, esibendosi in un
inchino esagerato.
La Regina parve apprezzare e scoppiò in una risatina
delicata e ilare,
trattenuta a stento dalla mano ricoperta di pizzo.
«Come
vi chiamata e da dove venite?»
domandò
curiosa. Quei due
rappresentavano per lei solo una novità, un trastullo e un
diversivo fino al
momento in cui non si sarebbe stancata di loro e li avrebbe gentilmente
cacciati da palazzo. Sia Ivory sia Brandbury lo sapevano, e se
il primo
sperava che il secondo avesse una minima idea di cosa fare,
quest’ultimo
sperava che la sua idea e il suo piano funzionassero, e che la farsa
durasse
abbastanza a lungo per permettere il compimento della
missione.
«Siamo
Rododendro e Biancospino, mia signora. Non proveniamo da nessun luogo e
da
tutti: siamo nomadi, e il mondo è la nostra casa.»
Ivory
cercò di trattenersi dallo scoppiare a ridere per
l’assurdità dei nomi, e si
chiese quale dei due fosse stato destinato a lui.
«E
vi procurate da vivere poetando?» volle sapere la donna. Quei
due la
incuriosivano e la divertivano, soprattutto quello più
mingherlino, dai capelli
biondi e gli occhi azzurri, buoni e ridenti. L’altro aveva lo
sguardo più truce e le iridi dorate come quelle di un
felino, la sua pelle era
di un pallore spettrale e i suoi capelli erano candidi come la
schiuma
dell’Amias; aveva un aspetto meno canonico e più
esotico, a tratti inquietante,
sebbene ugualmente attraente.
«Ci
proviamo, mia signora» ridacchiò Brand,
«Ma non tutti sono disposti ad
ascoltare due girovaghi dalle scarpe bucate e il volto consunto, senza
una
dimora né un soldo, con la testa tra le nuvole e
gli occhi tra le stelle.»
«Per
questa sera consideratevi miei ospiti, sono proprio curiosa di sapere
cosa
hanno da offrire questi poeti girovaghi che sanno usare espressioni
così belle
e delicate e che hanno nomi così buffi
e…floreali» l’ultima battuta fece
scoppiare la giovane in una risata cristallina a cui seguì
quella di Brand e
quella più titubante di Ivory, che non riusciva a
comprendere appieno cosa
fosse successo.
Le
uniche certezze dell’elfo erano che -almeno per quella sera-
avrebbero avuto un
pasto caldo e forse un letto comodo, e che l’idea strampalata
di Brandbury
aveva loro aperto le porte del palazzo, e forse, anche la
possibilità di non
vedersele immediatamente chiudere in faccia.
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Capitolo 10 *** X ***
X
Durante
il banchetto, Brandbury aveva
intrattenuto la Regina raccontando della loro vita di poeti girovaghi.
Era sta inventata sul momento, e densa di avventure divertenti e
tragiche,
molte delle
quali erano un calco dei racconti di guerra e degli aneddoti di Ivory,
rivisitati in chiave romanzata e scevri dei particolari più
macabri e
sanguinolenti. La donna aveva trascorso la serata sorridendo
all’altro e spesso
la sua risata cristallina era risuonata nella sala dagli alti soffitti,
illuminando le sale vuote e silenziose.
Da
allora, Celeste continuava a ricercare la
compagnia di Brandbury, o come aveva scelto di chiamarsi, del cantore
Biancospino: la divertiva il modo in cui era capace di giocare con le
parole e
di costruire espressioni sagaci o evocative, sorprendendola con formule
innovative e ingegnose e incantandola con versi musicali e
delicati.
Biancospino
amava le parole, così come Celeste,
e quell’interesse in comune li avvicinò sempre di
più portandoli a scoprire che
condividevano tanto la passione per la poesia quanto per qualsiasi
altra forma
d’arte. Iniziarono a trascorrere i pomeriggi a discorrere di
poeti,
pittori, scultori e
menestrelli. La Regina Bianca era un’avida lettrice e non
avendo la possibilità
di altri svaghi in una terra per la maggior parte ghiacciata, aveva
letto una
quantità esorbitate di libri e si divertiva a confrontare le
sue letture-
decisamente più sconfinate e approfondite- con quelle
dell’altro, che si
limitava a piluccare qualche libro scovato in una biblioteca o
rileggeva sempre
lo stesso.
Facevano
lunghe passeggiate, e mentre l’uno le
narrava di una vita mirabolante e fittizia, l’altra confidava
la sua esistenza
monotona e noiosa, divisa tra i suoi doveri di Regina e lunghe ore
morte,
trascorse tra le pagine crepitanti di un libro di poesie. Le uniche
distrazioni
che le erano concesse erano le visite alla sorella e quelle poche che
aveva
l’onore di ricevere; ma anche questi minuti piaceri erano
minati dall’onere di
governare un regno e amministrare un territorio tanto vasto quanto
problematico, perennemente oppresso dalla neve e dal ghiaccio e che
fondava la
propria ricchezza sulle miniere, invidiate e desiderate da molti. Nei
momenti
di maggiore sconforto, iniziava ad elencarle le sue preoccupazioni, i
suoi
crucci e le sue ambasce, gli rivelava i grandi sacrifici che
aveva
compiuto in segreto, senza che il suo popolo lo sapesse. Durante quelle
lunghe
ore di conversazione si dimostrò una regina premurosa,
solerte e attenta, e una
sorella affettuosa e gentile, preoccupata per la salute
dell’altra. Confidò a
Biancospino di come fosse impensierita e angosciata per il carattere
volubile,
lunatico e irascibile della sorella, che era peggiorato dopo la morte
della
madre e si era inasprito con il passare degli anni, minando la sua
salute
fisica e mentale.
Brandbury
era sempre disponibile ad ascoltarla,
e la Regina trovò in lui un confidente e un amico fidato, al
quale
poter aprire il proprio cuore
e
affidare i suoi pensieri,
le sue pene e le sue aspirazioni. Quel ragazzo gentile e generoso,
avvenente e
colto, aveva fatto colpo sulla donna, stuzzicandola con le sue parole
accorte e
confortanti e i suoi versi dolci e leggiadri, e conquistandola con il
suo
fascino e il suo sguardo buono e luminoso, i lunghi capelli biondi
leggermente
ondulati e l’ombra di barba dorata che era spuntata dopo mesi
di viaggio senza
potersi radere, e che gli dava un’aria trasandata e vissuta,
perfettamente in
sintonia con il personaggio che aveva deciso di interpretare.
Al
ragazzo spiaceva ingannare in quel modo
quella fanciulla e temeva il giorno in cui sarebbe venuta a conoscenza
della
realtà; per il momento approfittava del favore che
riscuoteva presso di lei e
cercava di distrarla come poteva e accontentarla in tutto; il suo animo
caritatevole l’aveva spinto a cercare di rendere
più sopportabile
quell’esistenza tanto grigia e
travagliata.
Lentamente
aveva conquistato la sua simpatia e
la sua fiducia, e a poco a poco era penetrato nei recessi
più profondi della
sua mente e del suo cuore: la ragazza aveva aperto le porte invitandolo
ad
entrare e Brand non si era lasciato sfuggire un’occasione
simile, nella
speranza che nel tumultuoso mare di pensieri vorticosi e confessioni
mormorate
a mezza voce, le sfuggisse anche lo specchio, il suo potere e la sua
ubicazione.
Con
il passare del tempo, la complicità e
l’intesa divennero qualcosa di più intenso e
profondo di una semplice amicizia,
evolvendosi in modo inaspettato per entrambi: la Regina
scoprì di amare quel
misterioso cantore venuto dal mondo e di desiderare di vivere il
resto della
sua vita con lui; era convinta che con Biancospino al suo fianco,
l’esistenza
non sarebbe stata tanto penosa, e la sua solitudine sarebbe stata
allietata
dalla sua compagnia, dal suo supporto e dal calore dei suoi
baci.
Dal
canto suo, nemmeno Brandbury era rimasto
indifferente alla bellezza eterea e deliziosa della ragazza:
l’aria da eterna
bambina lo intrigava e lo attraeva, soprattutto perché era
associata ad una
mente sveglia e matura, scattante e curiosa, sempre pronta ad imparare
pur
parendo esperta in tutto.
Le
conversazioni con lei erano piacevoli e
stimolanti, il suo modo di pensare e la sua visione del mondo lo
intrigavano,
l’avrebbe ascoltata per ore. Amava il suono della sua voce,
soave e fresco come
un refolo di vento primaverile, e la sua risata argentina e i
grandi occhi
azzurri, perennemente persi in un punto che andava oltre quella
realtà. Più
volte aveva stretto tra le sue le mani di lei, tanto piccole, morbide e
fragili, e più di una volta l’aveva avvolta in un
abbraccio, nella speranza di
assorbire un poco delle sue pene.
All’inizio
aveva visto quella relazione solo
come un’opportunità per ottenere in maniera
più semplice e veloce delle
informazioni sullo specchio, ma il tanto tempo trascorso assieme, i
lunghi
discorsi e la fiducia cieca e speranzosa con cui si era completamente
affidata
a lui, l’avevano trasformata in qualcosa di più:
in una creatura da proteggere
e da sostenere, come lo era suo fratello Ivory, a cui si era accorto di
essersi
affezionato.
Fu
in una fredda sera, riscaldata appena dal
torpore del camino di marmo bianco e rosa, che la Regina ebbe il
coraggio di
esternare il proprio sentimento. Brand stava leggendo per lei e la
donna
pendeva dalle sue labbra, rannicchiata al suo fianco, i piedi scalzi
sul
pavimento di vetro e una leggera veste da camera rosa cipria a coprirne
le
forme acerbe. Lentamente avevano raggiunto
un’intimità profonda, e il contatto
tra i due era diventato spontaneo e quasi anelato. Quando la Regina
Bianca si
trovava con il cantore, svestiva i suoi panni di sovrana e diventava
semplicemente Celeste, una ragazza profondamente innamorata.
Seguiva
i
movimenti delle labbra del giovane che si piegavano e si modellavano
sulle parole sussurrate appena al suo orecchio. Erano piene e sempre
piegate in un
sorriso trasognato, e davano l'impressione di essere calde e morbide,
come la voce di lui. Erano diventate la sua ossessione, e si sorprese a
domandarsi come sarebbe stato baciarle.
Con
cautela e paura si avvicinò a lui, il
profumo familiare della sua pelle l’avvolse in un abbraccio
inebriante, e fremendo
come una foglia d’autunno ai primi venti
dell’inverno, si allungò verso le sue
labbra. Il respiro di lui le solleticava la pelle e la faceva
rabbrividire.
Si gettò senza pensarci sull’orlo di quei cigli di
velluto rosa, e intrappolò
con un timido bacio, l’ultima parola della ballata.
Brandbury
si irrigidì, colto di sorpresa da quel
gesto così inaspettato, e dopo un primo momento di
confusione, rispose al bacio
tanto tenero e disperato assieme; avviluppò tra le sue
braccia il corpo gracile
e tremante di lei e accolse la morbidezza e il sapore dolceamaro di
quelle
labbra. La fece sussultare iniziando a esplorare con la lingua la sua
bocca,
all’inizio con cautela e delicatezza, poi con sempre maggiore
bramosia, avvinto
dal fuoco della passione che quel bacio aveva acceso in entrambi. Le
afferrò la
nuca e affondò la mano nella folta chioma color del
tramonto, trascinandola
verso di sé, e lei si lasciò condurre
docilmente, soggiogata dalla fiamma
che le ruggiva dentro. Celeste prese coraggio e gettò le
braccia al collo di
lui, aggrappandosi alla sua camicia per cercare di non precipitare in
quel
baratro di piacevoli sensazioni che l’avevano travolta,
invadendola con il loro
dolce calore.
Si
scostarono per riprendere fiato, e parve che
riemergessero da un’altra dimensione distante e
irraggiungibile: avevano entrambi
il respiro accelerato e le guance imporporate e sorridevano
come due
ebeti, senza riuscire a trovare qualcosa da dire per riempire il
silenzio
pesante e denso che era calato tra loro, rotto dai singhiozzi dei
ciocchi
brucianti.
«Non
rimarrò qui per sempre» mormorò
alla fine
Brand, triste. Non voleva illudere ulteriormente la donna, tutte le
bugie che
aveva già accumulato gli stringevano il cuore e gli
appesantivano l’animo,
macchiandolo in maniera nascosta ma indelebile e rendendo sempre
più difficile
continuare quella messinscena.
«Ma
ora sei qui, e nessuno ti impedisce di
rimanervi per sempre» sussurrò lei, la voce rotta
e tremante.
«Rododendro
scalpita per ripartire, rimanere in
uno stesso luogo troppo a lungo lo rende nervoso e
intrattabile»
«Lascialo
partire da solo» lo pregò lei, «Non
sei obbligato ad andare anche tu. Io ti amo, Biancospino, e non sopporterei di vederti
andare via, mi si
spezzerebbe il cuore e porteresti con te uno dei frammenti
più grandi»
Brand
accarezzò dolcemente il volto della
ragazza, innaturalmente bello e perfetto, assimilabile a quello delle
statue di
marmo, con lo stesso profilo scolpito dalla mano sapiente
dell’artista e reso
privo di imperfezioni. Sfiorò con le labbra
ciascuna delle
lentiggini che ricoprivano il naso e le guance di lei, e si
fermò con più
fervore, dolcezza e amarezza sulla sua fronte alta e bianca.
«Anche
io ti amo» confessò e solo quando udì
quelle parole lasciare la sua bocca, si accorse della verità
racchiusa in esse:
l’amava
profondamente, ma non come un’amante o una moglie,
quanto come una sorella
minore da difendere e accudire; proprio per questo non voleva farla
soffrire e
preferiva troncare sul nascere una relazione che mai avrebbe avuto un
futuro. Lui apparteneva ad Actardion, al suo negozio di erborista, ai
suoi libri
e al suo
piccolo orticello di piante medicinali, di cui iniziava a sentire la
mancanza e
a cui sperava di riuscire a tornare, un giorno.
Per
un momento, prese
seriamente
in considerazione l’idea di abbandonare tutto e vivere per
sempre in quel
castello di cristallo, ma non vi era alcuna possibilità: una
volta preso lo
specchio la Regina avrebbe scoperto l’inganno e il tradimento
l’avrebbe
spezzata e distrutta più di questo; inoltre Brand non si
sentiva pronto a
vivere in quell’enorme prigione di cristallo, dove la
primavera era un
artificio e il tempo trascorreva sempre uguale a sé stesso,
rinchiuso tra le
stesse mura che a poco a poco avrebbe iniziato ad odiare.
«Io
appartengo al mondo» sussurrò alla
fanciulla, giocando con i suoi capelli, «E per
troppo tempo ho vissuto
senza legami veri e senza vincoli, non riuscirei a rimanere qui: mi
sentirei
incatenato e il mio affetto verrebbe corrotto dal fastidio per le
catene, non
sarebbe mai un amore pieno e completo, perché aspirerei
sempre a quel mondo
che ho abbandonato a malincuore.»
Quelle
parole avevano reso Celeste triste e
cupa, il suo volto si era spento e come tramutato in pietra, fissava
sconsolata
le loro mani intrecciate, e calde lacrime iniziarono a bagnarle il
volto.
«Non
piangere» la consolò luì,
catturando
con il pollice quelle stille salate, gli dispiaceva immensamente farla
soffrire, ma preferiva amareggiarla in quel modo piuttosto che in
uno più
doloroso e turpe, come il tradimento. Continuava ad ingannarla,
cercando di
salvare sé stesso e l’immagine che lei aveva di
lui: aveva scelto di farle
credere che l’avrebbe abbandonata, come un cantore volubile,
e
non che sarebbe
fuggito come un subdolo traditore. Così facendo,
l’avrebbe
preservata da una
sofferenza più grande e imperdonabile.
La
Regina sospirò e asciugò le guance con il
dorso delle mani.
«Mi
sto comportando come una bambina» si scusò
con un sorriso appena accennato.
«Ti
stai comportando come un essere umano» replicò
lui rispondendo al sorriso con un altro non meno mesto.
«Posso
chiederti un favore?» domandò con voce
sommessa la donna, Brand annuì.
«Finché
non deciderai di partire, non
abbandonarmi. Ho bisogno di te: sei il mio conforto, il mio sostegno e
il mio
sole, che illumina questa vita altrimenti fredda e spenta. Senza di te
sarei
perduta. Mi hai trovato nel labirinto tetro della mia esistenza e mi
hai
condotto fuori, verso un prato fiorito invaso dalla luce del sole, e
voglio
godere di questo sole e di questo prato finché ne
avrò la possibilità,
assorbendo tutta l’energia vitale che può
donarmi, in modo che rimanga
qualche scintilla per quando non ci sarai
più.»
«Te
lo prometto» rispose lui, guardandola con
intensità negli occhi, «E tu promettimi che
cercherai di vivere ogni momento in
cui rimarrò qui come se fosse
l’ultimo.»
Celeste
annuì e i due suggellarono il loro patto
con un bacio straziante e dolcissimo.
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Capitolo 11 *** XI ***
XI
Stavano
passeggiando, come ogni pomeriggio, lungo i viali che si snodavano tra
gli
alberi in fiore del giardino di Celeste, il suo orgoglio e la sua sfida
più
grande: un’enorme serra in cui i migliori ingegneri e i
migliori botanici erano
riusciti a ricreare il clima perennemente mite di Actardion e
permettere, così,
la crescita delle piante e dei fiori che fiorivano nel regno della
sorella; in
questo modo aveva trasferito nel cuore dell’inverno, una
scheggia di primavera
e un piccolo frammento dei luoghi della sua infanzia, da cui si era
dovuta
allontanare a malincuore, richiamata dai suoi doveri di figlia,
principessa e
regina.
Si
fermarono ai piedi del mandorlo, splendido nella piena esplosione
rosata della
sua fioritura; era l’albero preferito della donna, e
più volte Brand l’aveva
sorpresa sotto i suoi rami, intenta a leggere o con lo sguardo perso
nelle
azzurrità infinite del cielo. Si accoccolarono tra le
radici, nel cantuccio che
era diventato loro, e la regina iniziò ad accarezzare
distrattamente la mano
dell’altro, stretta nella sua.
«Mi
trovi bella?» domandò improvvisamente, lasciando
Brand spiazzato. Il giovane
non ebbe nemmeno tempo di pensare ad una replica che la regina
continuò, senza
attendere risposta: «La bellezza è
l’ossessione di mia sorella, farebbe
qualsiasi cosa per mantenerla. Ha paura del tempo perché a
poco a poco strappa
uno stralcio di bellezza e lo brucia, consumandola tutta. Ed
è sempre stata
gelosa di me, della mia giovinezza e del mio aspetto, sebbene entrambi
non
siano troppo dissimili dai suoi…»
Brand
le sollevò il mento con delicatezza e fissò il
suo sguardo in quello di lei: le
iridi fiordaliso si erano tramutate in un mare in tempesta, sconvolto
da marosi
e nuvole grigie, che ne oscuravano la limpidezza.
«Sei
preoccupata per tua sorella o per te?» le chiese a bruciapelo.
«Per
lei!» rispose subito la donna indignata per una simile
domanda, ma sotto lo
sguardo indagatore di Brandbury si trovò costretta a
ritrattare, «Per entrambe,
in realtà. Ho paura che questa follia colpisca anche me e mi
renda come lei:
ossessionata da qualcosa che non si può controllare, che non
si può
fermare…Almeno fino ad adesso» mormorò.
«Cosa
intendi?» domandò l’altro, incuriosito.
La regina si morse le labbra; aveva
parlato troppo, trascinata dall’ondata dei suoi sentimenti e
dei suoi pensieri.
«Nulla»
provò, ben sapendo quanto fosse inutile e sciocco quel
tentativo, ormai quelle
parole erano sfuggite dalla sua bocca e non potevano più
essere rimangiate.
Lo
sguardo intenso e penetrante di Biancospino la perforava e la denudava,
rendendola debole e vulnerabile; ma, paradossalmente, si sentiva al
sicuro e
protetta: poteva fidarsi di lui, confidarsi, non l’avrebbe
giudicata.
Strinse
la presa sulla mano dell’altro e il suo sguardo si
incupì ancora di più.
«Promettimi
che non lo dirai a nessuno, nemmeno al tuo amico cantore»
mormorò, supplicando
Brand con gli occhi, questi promise e la Regina lo condusse lontano dal
giardino fino alla sua camera da letto.
Brandbury
rimase interdetto, non riuscendo a comprendere le intenzioni della
donna, mai
l’aveva condotto in quella stanza e sebbene avessero messo le
cose in chiaro
fin dall’inizio, temeva che a Celeste non bastassero
più i suoi baci e
pretendesse un altro genere di attenzione, a cui lui non era preparato.
La
Regina, però, lo abbandonò sul letto a
baldacchino dalle cortine di seta
azzurro polvere, e sfiorò la parete di fronte, completamente
vuota. Questa girò
silenziosamente su sé stessa, rivelando uno specchio
quadrangolare circondato
da una cornice di volute fiorite rivestite di bronzo dorato; sembrava
molto
antico e aveva la superficie leggermente ossidata. Non era uno specchio
degno
di una regina, troppo rovinato e troppo piccolo, riusciva a catturare
appena
l’intero ovale della donna, e si domandò come un
oggetto tanto insignificante
fosse tenuto in così gran conto e così segreto,
dal momento che era stato
celato dietro una parete.
Capì,
e dentro di sé esultò di gioia.
«Ora
mi crederai pazza» ridacchiò l’altra,
«Come molti altri prima di te, del
resto…»
«Non
mi permetterei mai» le assicurò lui con
un sorriso affabile.
«Non
importa» continuò lei, «Dopo questa
storia inizierai a pensarlo. Non posso
biasimarti, sembra incredibile persino a me che ho avuto
l’occasione di
testarlo in prima persona…»
La
Regina si graffiò appena al di sotto dell’occhio e
una linea rosseggiante
sottile quanto un capello sbocciò sul suo zigomo, Brand
rimase sconcertato: perché
aveva fatto un simile gesto? Aveva forse davvero perso la ragione?
Stava per
precipitarsi dalla ragazza ma questa lo fermò.
«Non
ti preoccupare, serve per dimostrarti che questo non è uno
specchio qualsiasi.
Guarda!»
Brand
continuava a non capire e guardava confuso Celeste mentre si voltava
verso lo
specchio.
Bastarono
pochi secondi perché il graffio scomparisse completamente,
lasciando la sua
pelle liscia e perfetta come era sempre stata, senza nemmeno una
lacrima di
sangue.
«È
incredibile!» esclamò Brandbury stupefatto ed
entusiasta, «Quello specchio può
guarire!»
«Mi
dispiace deluderti» lo raffreddò lei,
«Ma questo specchio non può guarire, o
meglio può far scomparire solo i segni di una ferita,
vecchia o nuova che sia,
e può nascondere i segni della malattia, ma si limita a far
riassorbire le
cicatrici e a far rimarginare i graffi, non cura. È capace
solo di rendere la
pelle priva di qualsiasi bruttura o imperfezione. Questo specchio rende
chiunque vi si rifletta più giovane e bello, assorbe il
corso degli anni e
annulla il tempo, lasciando tutto in uno stato di assoluta ed
imperitura
perfezione.»
Brand
era rimasto senza parole, mai aveva visto un oggetto simile e non
credeva che
ne esistessero, fino a quel momento.
«Questo
specchio apparteneva a nostra madre e lei lo lasciò ad
entrambe, ma mia
sorella, scoperto il suo potere, se ne appropriò e ne
divenne ossessionata.
Trascorreva le sue giornate specchiandosi e, con mio sommo orrore,
scoprì che
lo specchio poteva anche celare le mostruosità date dal
vizio e dal peccato.
Una sera, la sorpresi mentre contemplava la sua immagine riflessa, ma
la donna
nello specchio non era lei, non era nemmeno una donna: era una
bestialità
deforme e ripugnante, un accumulo di tutte le nefandezze che aveva
commesso, di
tutte le oscenità e le efferatezze che lo specchio aveva
assorbito lungo gli
anni assieme ai sensi di colpa e alla sofferenza, senza lasciare su di
lei alcun
segno. A poco a poco si trasformò in un’invasata:
lo specchio l’aveva
inaridita, assorbendo anche la sua umanità e il suo senno,
rendendola folle e
violenta, spietata e crudele, non più un essere umano ma un
mostro! Lo specchio
aveva assorbito la sua anima, lasciandola solo un involucro bellissimo
ma
completamente vuoto! Dopo quella vista atroce, vedendo lo stato in cui
si
trovava, decisi di sottrarglielo, convinta che allontanando lo
specchio, lei
sarebbe guarita dalla sua morbosa dipendenza.»
Brand
era rimasto a bocca aperta: non credeva più che fosse una
buona idea restituire
lo specchio alla Regina Rossa, quell’oggetto
l’aveva alterata e deteriorata,
trasformandola in una dea: bellissima ma terribile, indifferente verso
il resto
del mondo e concentrata solo su sé stessa e sulla
soddisfazione dei suoi
capricci.
«Mi
fido di te: so che comprendi la pericolosità che questo
specchio cela e so che
il tuo animo è tanto puro e tanto buono da non subirne il
fascino, ma giurami
che non lo dirai a nessuno!» si assicurò la donna,
«Se qualcuno, uno qualsiasi,
dovesse venire a conoscenza della sua esistenza e del suo potere lo
desidererebbe per sé e farebbe di tutto per
averlo…Come ho fatto io del resto,
sebbene per una buona causa…»
Il
giovane capiva: quello specchio rappresentava un’arma capace
di ingannare e
vincere il tempo, di mutare le apparenze e di rendere reali i
più grandi
desideri di un uomo: essere bello e giovane per sempre; chiunque
l’avrebbe
voluto tra le mani e si sarebbe giunti persino ad uccidere per entrarne
in
possesso.
«Mia
sorella si è macchiata di crimini indicibili per poterlo
tenere nascosto, e non
oso immaginare cosa accadrebbe se altri ne venissero a conoscenza: ci
sarebbe
il caos!»
Brand
non stentava a credere a quello che la donna gli aveva rivelato, non
era
difficile immaginare uno scenario di guerra come i tanti che gli aveva
raccontato Ivory: uomini che avrebbero ucciso altri uomini per entrarne
in
possesso, spargendo fiumi di sangue e seminando morte e distruzione. Si
trucidavano l’un l’altro per molto meno, e quello
specchio rappresentava un
motivo ben più valido e concreto.
Ma
se si trattava di un oggetto tanto pericoloso e ingannevole,
perché la Regina
non l’aveva distrutto? Era la soluzione migliore e la
più semplice, perché si
era limitata a sottrarlo all’altra e a nasconderlo?
Quelle
domande si affacciarono prepotentemente alla mente di Brand e lo
lasciarono
perplesso: sarebbe bastato romperlo, ridurlo in mille pezzi e la sua
minaccia
sarebbe scomparsa. Perché la Regina non ci aveva pensato?
E
se l’aveva immaginato, perché non
l’aveva attuato? Non desiderava, forse,
salvare la sorella dalla sua bramosia? Allora perché non
distruggere
direttamente l’oggetto verso cui era rivolta? In questo modo
avrebbe aiutato
l’una e avrebbe scongiurato il pericolo che altri cadessero
nello stesso
attraente tranello.
Che
fosse rimasta anche lei avvinta dal fascino del potere dello specchio?
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Capitolo 12 *** XII ***
XII
Ivory era
intenzionato a scoprire come funzionasse lo specchio: sapeva che donava
giovinezza e
bellezza, ma temeva che la sottraesse ad altri.
Da
quando Brandbury era
diventato intimo della regina sembrava essersi ammalato: era diventato
pallido
e spento, la sua abituale vitalità si era affievolita, e la
scintilla che gli
accendeva lo sguardo si era estinta. Era preoccupato per
l'incolumità del fratello e voleva capire il cambiamento
fosse collegato, in qualche modo, allo specchio. Quest'ultimo era un
artefatto affascinante e pericoloso, come Brandbury gli aveva spiegato,
e non stentava a credere che fosse coinvolto.
Il
fratello gli aveva confessato ogni cosa in gran segreto, con voce
tremante e smorzata, rompendo la promessa fatta a Celeste di non farne
parola con nessuno; ma l'urgenza e l'apprensione con cui gli aveva
sussurrati quella scoperta, non erano dovute all'angoscia per il
tradimento, bensì alle proprietà dello specchio
stesso. Brandbury credeva che l'oggetto racchiudesse un'aura malvagia e
velenifera, capace non solo di rendere chi vi si specchiava dipendente
ma anche spingendolo ad azioni spietate per il suo possesso. Il
ragazzo, però, non aveva saputo dire quale fosse il
meccanismo che sottendeva tale potere.
L'elfo
attraversò
i corridoi a passo sostenuto, alla ricerca della camera da letto della
regina,
dove sapeva essere custodito lo specchio; Brand gli aveva rivelato
anche quel particolare, dimostrando come la sua strategia fosse stata
meravigliosamente efficace.
Come
il fratello, anche lui era diventata una presenza abituale e scontata:
nessuno
più lo fermava chiedendogli dove fosse diretto o
impedendogli l’accesso a
determinati locali del palazzo, e arrivò senza alcun
ostacolo fino all’ala est,
dove si trovava la stanza, sita in modo che la Regina potesse ricevere
il
tiepido bacio dei primi raggi del sole. Era una zona più
spartana, dove le
vetrate si limitavano a ricoprire una sola parete, mostrando squarci
dell’Ansa
dell’Amias e del villaggio di Bucaneve, che sorgeva nei suoi
pressi; i soffitti
erano stuccati e decorati con motivi floreali e il pavimento era di
legno
chiaro, così come le porte che si affacciavano sul
corridoio. Quella parte non
era fatta per sorprendere l’ospite e lasciarlo senza fiato ma
era stata concepita
come un luogo che donasse pace e serenità, senza alcuna
pretesa di affascinarlo
e suggestionarlo con arditi giochi di luce.
Un
urlo disumano, risuonò improvvisamente per i corridoi
silenziosi, non una
guardia presidiava quell’ala del palazzo e Ivory fu
l’unico ad udirlo. Il
sangue gli ghiacciò nelle vene: aveva riconosciuto la voce
di Brandbury.
Si
precipitò verso il luogo da cui era provenuta e non appena
aprì la porta della
stanza da letto della regina, rimase pietrificato dalla scena che gli
si parò
davanti: Brandbury era riverso sul letto, sotto di lui sbocciavano
fiori
cremisi che insanguinavano le lenzuola, gli occhi e la bocca erano
spalancati
in un muto grido di sorpresa. Sopra di lui, torreggiava la Regina
Bianca,
simile all’angelo della morte: la pelle era di un pallore
cadaverico e i lunghi
capelli rossi simili a fili di sangue strisciavano sull’abito
crema, su cui
fiorivano gocce amaranto; tra le mani stringeva un lungo spillone, di
quelli
che si usavano per fermare i cappelli.
La
donna si voltò, aveva gli occhi rossi e gonfi e calde
lacrime rigavano le
guance, sciogliendo il trucco. Aveva un aspetto diverso, non solo per
il fatto che fosse sfatto e
distrutto, ma pareva più maturo, quasi che in una notte
fossero trascorsi dieci anni:
il suo viso aveva perso la freschezza e l’innocenza
infantile, ed era diventato
più simile a quello di una donna che aveva superato
l’acerba
indecisione delle forme della giovinezza.
«Non
volevo» mormorò, guardando inorridita le proprie
mani e lo spillone macchiato
di sangue, con cui aveva squarciato la gola del ragazzo.
«Non
volevo» ripeté
meccanicamente, con voce atona e flebile. Aveva cominciato a tremare
vistosamente e lo spillone le cadde dalle dita frementi con un
tintinnio
cristallino, che risuonò lugubre nel silenzio tombale della
stanza.
«Non
volevo!» urlò infine, tremando convulsamente,
«Ma ho dovuto! Ne avevo bisogno!
Lo specchio, lo specchio ne aveva bisogno! E io avevo bisogno dello
specchio!»
Ivory
temette che avesse perso completamente la ragione e stesse vaneggiando.
La vide incespicare
verso la parete dove era appeso uno specchio quadrangolare
dall’elaborata
cornice dorata e la superficie leggermente ossidata; era un oggetto
piuttosto
squallido e banale, ma pareva avere una grande importanza per la donna.
Non
appena vi si specchiò, il suo volto si spianò e
ringiovanì: davanti allo
sguardo stupefatto dell’altro, la pelle tornò
liscia e perfetta, luminosa e
serica, le rughe si distesero e le labbra riacquistarono la loro
bellezza
seducente. Il tempo pareva essersi cristallizzato su quel viso in un
attimo di
eterna giovinezza e sublime bellezza.
«Una
vita in cambio di una vita» sussurrò lugubre con
lo sguardo fisso alla
superficie riflettente, «è il tributo di sangue
che lo specchio richiede, e
Biancospino è stato il pagamento.»
Ivory
ebbe una fugace visione del riflesso della donna e ciò che
vide lo lasciò senza
parole: l’immagine che lo specchio restituiva era quella di
un mostro in cui il
tempo impietoso aveva scavato la pelle e la carne, mentre il vizio, il
peccato
e le azioni truculente e imperdonabili avevano corrotto e consunto il
volto
rendendolo irriconoscibile, e riducendolo ad un ammasso di carne
putrida,
purulenta, molle e crepata di rughe, pregna di sangue. Tutte le
brutture
dell’animo della Regina erano imprigionate in quel riflesso,
e di lei si aveva
solo l’ingannevole immagine dolce, gentile e innocente.
Quella visione
disgustosa continuava ad alternarsi in un macabro gioco di maschere e
volti con
il riflesso del volto perfetto della regina, lasciando l’elfo
paralizzato dall’orrore
e dalla meraviglia.
«Fui
io a scoprire il segreto dello specchio» iniziò la
donna, «e feci l’errore- il
madornale errore- di rivelarlo a mia sorella. Glielo mostrai,
perché mi
credesse e non mi considerasse una pazza come credevano tutti: davanti
ai suoi
occhi ringiovanii di due anni, lasciandola senza parole e senza fiato.
Avevo
scoperto il segreto per l’eterna giovinezza e una bellezza
imperitura! Da
allora lo specchio divenne per lei un’ossessione: aveva paura
del tempo, che
corre senza chiedere, che passa e ti investe, lasciandoti a terra
sanguinante,
senza rimorsi né sensi di colpa, che va sempre avanti passa
oltre e sparisce. Le
faceva paura la vita, così irraggiungibile, piena,
incontrollabile, e la morte
che ne sarebbe seguita con il disfacimento della bellezza che avrebbe
portato
con sé. Guardava con orrore i giorni che trascorrevano
inesorabili e che
portavano via un frammento della sua avvenenza. A poco a poco si
sarebbe ridotta
ad un cumulo di rughe e pelle cadente e quella visione la
terrorizzava» la
donna riprese fiato, cercando di controllare il tremore delle mani e
della
voce, «Fu lei, però, a scoprire il tributo di
sangue, e con esso il segreto per
la vita eterna: lo specchio non si limita a concedere giovinezza e
splendore,
annullando il trascorrere dei giorni e degli anni, ma assorbe la linfa
vitale
di chi viene ucciso davanti a lui e la restituisce a chi vi si
specchia. Fu così
che iniziò la spirale di sangue che avvolse mia sorella: la
sua prima vittima
fu nostra madre, e da allora il terrore per la vecchiaia, e con essa
della
morte, la trascinò in un vortice di perdizione e omicidi.
Lei, però, rimaneva
sempre pura e bellissima, il suo riflesso a nascondere le sue
malvagità.
Io
fuggii, terrorizzata da quello che mi sorella era diventata, e mi
ritirai in
questi luoghi impervi e inospitali, ma candidi e intonsi.
L’incubo della
vecchiaia e della morte, però, raggiunse anche me, e con
essa, la smania per lo
specchio e il desiderio irrefrenabile di specchiarmi, anche solo per un
momento, anche solo per riprendermi due anni di vita e rubarli al
passato e
alla morte. Periodicamente tornavo da mia sorella e ne approfittavo per
usufruire del potere dello specchio. Con il passare del tempo,
però, l’effetto
iniziò a svanire più in fretta e le mie visite si
fecero più frequenti e
ravvicinate. Mia sorella cominciò a sospettare che non
fossero dettate solo
dall’affetto fraterno e dalla nostalgia, l’assillo
l’aveva inasprita e
inaridita, bruciandole ogni sentimento e rendendola fredda, spietata e
crudele,
ma nel contempo aveva acuito la sua attenzione, quasi fino alla
paranoia; era
gelosa del suo tesoro e l’ossessione per esso
l’aveva quasi spinta sull’orlo
della follia.» la regina sfiorò la cornice, e
qualche lacrima di sangue rimase
impigliata tra gli intricati arabeschi di bronzo dorato, «Le
ho sottratto lo
specchio, dicendo a me stessa che era per il suo bene, che
l’avrei salvata…Ma
la verità è che lo volevo tutto per me,
soprattutto ora che il suo effetto ha
iniziato a svanire rapidamente. Credevo che sarei stata capace di
resistere al
suo potere, che avrei potuto farne a meno. Avevo negli occhi ancora
l’immagine
agghiacciante di mia sorella. Ma il terrore della morte era
più forte e ha preso il sopravvento, trascinandomi nel mio
incubo peggiore»
Ivory
era rimasto immobile, troppo sconvolto e incredulo anche solo per
pensare: non
poteva credere che Brand fosse morto, la sua mente si rifiutava di
concepire un
simile pensiero, e lo rigettava con disgusto e orrore; era troppo
assurda e
inaspettata, inconcepibile. Il suo sguardo non riusciva a staccarsi
dagli occhi
vitrei del ragazzo, puntati verso il soffitto a cassettoni. Le
rivelazioni
della donna gli sembravano folli, i vaneggiamenti di una mente malata e
questo
serviva a rendere l’assassinio di Brand più
insopportabile. La
regina seguì il suo sguardo e scivolò verso il
ragazzo, prese ad accarezzarlo
dolcemente, sfiorando le guance fredde e le labbra sottili, a cui tante
volte
aveva strappato un bacio.
«Non
toccarlo!» sibilò l’elfo, minaccioso, la
mano che scattò automaticamente verso
l’elsa di una spada inesistente. Dovendosi fingere un cantore
aveva lasciato le
sue armi nel baule della sua stanza, sotto chiave.
La
regina lo ignorò, «Non mi crederesti se ti dicessi
che lo amavo» le sue dita
iniziarono a giocare con i capelli biondi dell’altro, sporchi
di sangue,
«Eppure è così: era l’unico
che riuscisse ad andare oltre il mio bel viso e a
vedere che cosa fossi veramente.»
«Una
strega psicopatica e omicida?» sputò con vemenza
Ivory, fremente di rabbia. L’immobilità data
dalla sorpresa e dal dolore si era trasformata in una furia cieca che
ribolliva
e schiumava come la cascata dell’Amias: avrebbe ucciso quella
bestia disumana e
vendicato la morte dell’amato fratello.
La
regina non parve averlo udito, o lo ignorò deliberatamente,
e con una
delicatezza e una dolcezza sorprendenti abbassò le palpebre
del ragazzo.
«Non
volevo ucciderlo, ma l’ho sorpreso mentre cercava di
distruggere lo specchio.
L’ho fermato in tempo, prima che la mia fonte di vita eterna
venisse
frantumata» la lama sottile e affilata di uno stiletto
spuntò tra le dita
ingioiellate della donna, «Conosceva troppe cose, ho fatto
l’errore di
rivelargli troppi segreti. Non ho pensato che questo potesse rivoltarsi
contro
di me» la donna si rigirava l’arma tra le dita.
Ivory stava cercando
febbrilmente qualcosa per contrastarla, ma lo spillone era rotolato
troppo
lontano da lui e non aveva con sé nemmeno una lama.
«Purtroppo
lo stesso vale per te: mi spiace doverti uccidere, ma sei a conoscenza
di
troppe informazioni e non posso permettermi che vengano diffuse. Spero
tu possa capir e e perdonarmi.»
La
regina si slanciò verso Ivory, ma l’elfo aveva
anni di addestramento e campi di
battaglia alle spalle, e schivò con facilità il
fendente della donna, le afferrò
il polso e volando alle sue spalle le torse il braccio, costringendola
a
mollare la presa. Qualsiasi tentativo di gridare e chiamare aiuto venne
prontamente soffocato
dalla mano dell’altro premuta contro la sua bocca.
La
regina cercò di divincolarsi, ma la presa del guerriero era
ferrea e stretta,
come una morsa. Celeste, allora, fece scattare la testa
all’indietro e colpì il
volto dell’altro con tutta la forza che aveva. Ivory fu
costretto a liberarla,
stordito dal colpo. Sangue dorato, caldo e
vischioso gocciolava dal setto
rotto.
«Sei
un mostro!» sibilò.
«I
miei crimini sono uguali ai tuoi: quante persone innocenti hai ucciso,
quando
volte hai peccato di lussuria, di invidia o di ingordigia? Non sei
esente da
desideri di denaro e di potere più di quanto lo sia io, e la
brama ti ha
portato a uccidere, rubare o ingannare. Non sei migliore di
me!»
La
regina scattò verso il pugnale caduto a terra e lo
lanciò verso l’elfo, che lo
schivò con agilità. La lama andò a
conficcarsi nella parete, lacerando la carta
da parati; la donna si gettò su Ivory con le ultime armi che
le rimanevano a
disposizione: le unghie e le mani.
Caddero
entrambi a terra e Celeste avvolse le lunghe dita curate sulla gola
dell’altro,
togliendogli il fiato: Ivory boccheggiò in cerca
d’aria e cercò di allontanare
la donna, seduta a cavalcioni sul suo petto. Afferrò i polsi
della donna,
cercando di allentare la presa, i suoi polmoni iniziarono a bruciare
per la mancanza
d’aria.
Con
uno sforzo sovraumano, riuscì a strappare quegli artigli
lontano dal suo collo
e a scaraventare la donna lontano da lui, contro il tavolo da toeletta.
Lo
specchio che lo sovrastava andò in frantumi.
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Capitolo 13 *** XIII ***
XIII
Una
pioggia di frammenti di vetro investì Celeste, e la donna
temette che lo
specchio si fosse rotto. Fortunatamente, questo era rimasto illeso e le
restituiva lo sguardo acceso di ira e di sete di sangue
dell’elfo albino: i
suoi occhi dorati brillavano come quelli di una belva ferita e le
labbra erano
distorte in un ghigno famelico: voleva vendetta e non si sarebbe
ritenuto
soddisfatto fino a quando non avesse saziato la sua brama.
Con
un solo movimento estrasse il pugnale dalle assi della parete, mentre
la regina
recuperò lo spillone: era in evidente svantaggio; ma come
aveva ucciso il
ragazzo, poteva uccidere anche lui, sebbene si fosse rivelato un
combattete
abile ed esperto. Probabilmente, si trattava di un mercenario o di un
criminale che aveva
offerto la propria spada per avere salva la vita; il colore della sua
pelle
non gli avrebbe permesso di avere un lavoro più onesto o
meglio retribuito.
Chiunque
fosse, però, non era da sottovalutare, e la regina avrebbe
dovuto giocare
d’astuzia.
Con
uno scatto si rimise in piedi, decisa a recidere la gola di quel
ficcanaso dagli occhi d’ambra. In quel momento, la stava
studiando con
attenzione, carpendo ogni suo movimento e analizzando ogni sua mossa.
Celeste
si fiondò sull’avversario, lo spillone puntato
alla giugulare dell’altro, ma
all’ultimo fece una finta, sorprendendolo, e regalandogli una
lacrima dorata,
che gli accarezzò lo zigomo candido.
Ivory,
però, si riprese immediatamente dallo stupore, maledicendosi
per aver
sottovalutato quella donna: l’aspetto di ragazzina innocente
l’aveva
destabilizzato e tratto in inganno, impedendogli di colpire come
avrebbe
voluto: non era convinto di voler fare del male a quella creatura
delicata e
celestiale.
Ma
la creatura tanto angelica non demorse e provò un nuovo
attacco, spinta dalla
disperazione di eliminare quello scomodo testimone. Questa volta, Ivory
non si
lasciò ingannare, schivò il colpo e con
un’abile contromossa disarmò la donna e
la spinse contro la parete su cui era appeso lo specchio. Il fiato di
lei si
condensò in una nuvola di vapore che andò ad
appannare la superficie lucida. In
uno scherzo grottesco, lo specchio restituì il suo profilo
abominevole e
veritiero, che andò a fondersi con l’altro, quasi
lo specchio volesse mostrare
le due nature della donna: quella ingannevole, bellissima e ingenua, e
quella
reale, spietata e incattivita dal desiderio. La regina provò
a divincolarsi,
dibattendosi furiosamente e provò a colpire Ivory, ma
l’elfo aveva imparato dai
propri errori e si teneva a distanza dalla testa scalpitante della
donna e
dalle sue unghie. Le mise una mano sulla bocca, impedendole di chiamare
le
guardie e soccorrerla e cercò di ignorare i denti di lei che
cercavano di
scavarsi una via per la libertà.
Senza
alcun rimpianto né esitazione, Ivory trafisse la Regina al
fianco, immergendo
il pugnale fino all’elsa nelle sue carni; viscido sangue
cremisi colò lungo
il manico, e imbevve le dita e la camicia. L’elfo
ruotò il pugnale e
sangue schizzò sul suo volto e sullo specchio, che
catturò l’espressione
distorta dalla sorpresa e dal dolore della donna.
Lasciò
la presa, e il corpo
della regina si accasciò a terra, lasciando una scia di
sangue sulla carta da
parati; la bocca, lasciata finalmente libera, emise un gemito di dolore
sommesso, che si spense quasi subito, assieme all’ultima
scintilla di vita,
prontamente catturata dallo specchio.
«Una
vita in cambio di una vita» commentò lapidario.
Ivory
sollevò lo sguardo e incrociò quello della sua
immagine riflessa, sebbene non
fosse propriamente lui: gli anni di guerre, fatiche e privazioni erano
scivolati via lasciando al loro posto pelle liscia e serica, priva
delle
cicatrici e delle rughe; il suo naso era stato sistemato e il taglio
provocato dallo
spillone si era rimarginato senza lasciare nemmeno una cicatrice, non
una
goccia di sangue sporcava il suo volto. Era diventato più
giovane e più bello,
e per un attimo Ivory accarezzò l’idea di
approfittare di quel potere e
recuperare un paio di anni. La tentazione era seducente e la
possibilità di
attuarla così vicina e allettante: sarebbe bastato
continuare a specchiarsi e lo specchio avrebbe fatto da sé.
L’elfo
sollevò una mano e accarezzò lentamente
l’immagine riflessa, spostando poi le
dita verso il suo viso e percorrendolo tutto come se fosse la prima
volta che
lo toccasse e lo vedesse: con sua somma sorpresa, aveva perso ogni
forma di
imperfezione e di bruttura, la pelle era morbida e setosa, il naso
aveva smesso
di sanguinare e i lividi e i graffi provocati dalla lotta erano
scomparsi, i
segni dei duri allenamenti erano svaniti, perfino i calli alle dita e
le
cicatrici che correvano sulla schiena e sul petto si erano
volatilizzati; era
diventato perfetto e puro, quasi che né il tempo
né la fatica lo avessero sfiorato.
Assaporò quell’assaggio di eternità, e
se lo godette fino all’ultima goccia.
La
sensazione di invincibilità e di onnipotenza che quello
specchio donava era
incredibile.
Il tempo era stato, da sempre, il più grande terrore
dell’uomo,
troppo lento e troppo debole, per uscire indenne da questo incontro di
forze
impari; ma Ivory disponeva di un’arma che avrebbe potuto
vincere lo scontro e
donargli vita eterna ed eterna giovinezza: grazie a quello specchio
avrebbe
potuto ingannare la morte e vincerla, sottraendosi per sempre al suo
sguardo.
Dietro
il suo splendido volto Ivory, scorse il corpo senza vita di Brand: la
Morte era
legata indissolubilmente allo specchio, era intrecciata strettamente
agli
arabeschi della cornice e intessuta nella superficie riflettente. Solo
con la
morte ci sarebbe stata la possibilità di ricevere la vita,
rubando il tempo di un altro per
concederlo a se stessi, appropriandosi indebitamente di anni di vita
per poter
vivere un giorno in più.
Il
richiamo della vita immortale era seducente e attraente come quello
delle
sirene, e come esso, nascondeva dietro la melodia armoniosa e le
promesse
attraenti, gli scogli e i cumuli di ossa spolpati; era un richiamo che
puzzava
di morte, pericoloso non perché letale, ma perché
lusinghiero e ingannevole.
Ivory
a fatica riusciva a discostarsi dal pensiero di poter vivere per
sempre, di
poter fare tutto quello che desiderava e spadroneggiare su quelle terre
ormai
prive di governo e di una guida, di poter commettere le più
turpi nefandezze e
di rimanere sempre puro e bello, senza che i sensi di colpa, le
preoccupazioni
e la miseria lo sfiorassero con le loro dita scheletriche, lasciando i
loro
indelebili marchi. Lo specchio rappresentava tutti i peccati e i
desideri che
non aveva mai avuto il coraggio di commettere,
ma che ora si palesavano vicini e raggiungibili; quasi poteva toccarli
e
palparli e saggiarne la consistenza: avrebbe potuto avere oro a
profusione,
donne in abbondanza, domini e terre da governare e sfruttare, avrebbe
potuto
appagare i suoi desideri più vili, più reconditi
e più sordidi. Sarebbe stato
il più ricco e il più vezzeggiato, si sarebbero
inchinati al suo cospetto e
nessuno avrebbe più osato insultarlo o deriderlo per il suo
aspetto; avrebbero
avuto paura di lui e l’avrebbero rispettato, non avrebbero
mai osato mettersi
contro di lui, bellissimo e perfetto, capace di vincere il tempo e di
ingannare
la morte. Sarebbe stato onnipotente e immortale, come un dio, e come
tale
sarebbe stato idolatrato e venerato, temuto e amato.
A
fatica riuscì a distogliere lo sguardo da quelle visioni e a
posarlo sul
cadavere del fratello. Tutto quello sfarzo e quella potenza
richiedevano un prezzo
e lo specchio era molto esigente: per poter vivere eternamente si era
costretti
a provocare una strage, a circondarsi di morti e potenziali vittime
sacrificali. Le relazioni umane sarebbero state sacrificate in nome
dell’immortalità, e proprio come un dio, si
sarebbe diventati soli e lontani, circondati
da esseri troppo abietti e troppo deboli per meritarsi di sopravvivere.
Lo
specchio aveva reso folle la Regina Rossa, costringendola a uccidere la
propria
madre, e aveva sviato la Regina Bianca, obbligandola, crudelmente ad
assassinare l’uomo che amava, lasciandole sole nei loro
deliri.
Con
orrore, Ivory, si rese conto che lo specchio agiva solo in funzione di
sé
stesso, per soddisfare la sua insaziabile fame di sangue e di morte, e
affascinava l’indole avida e suscettibile dei mortali con la
promessa di poter
sconfiggere la loro più grande paura: la caducità
della vita.
Era
uno strumento che mai sarebbe dovuto esistere: nessuna creatura sarebbe
stata
in grado di resistere ad una tale possibilità,
così allettante, così
desiderata, così vicina e fattibile. Per quanto gli costasse
fatica ammetterlo,
Ivory comprese che la soluzione migliore sarebbe stata distruggerlo. Un
potere
troppo grande e troppo incontrollabile era racchiuso in esso: il
più grande
desiderio di un uomo era incarnato in un riflesso, che secondo una
macabra e
perversa legge del contrappasso, invecchiava e si abbruttiva al posto
dell’originale, scambiando i volti della realtà e
della menzogna, e fondendoli
fino a confonderli.
Lentamente
alzò il braccio, la mano che reggeva il pugnale tremava e
calde lacrime
iniziarono a scorrergli lungo le guance: non piangeva per Brandbury,
non
piangeva per la regina e nemmeno per tutte le persone che dovevano
essere morte
a causa dello specchio; piangeva per sé stesso,
perché rompendo quello specchio
sarebbe tornato ad essere il mercenario albino coperto di cicatrici-
visibili e
nascoste- che era un tempo, umiliato ed escluso per il suo aspetto, a
cui erano
state precluse tutte le possibilità a causa del colore della
sua pelle. Se
avesse rotto lo specchio, non avrebbe più avuto
l’occasione di diventare quello
che aveva sempre desiderato essere, avrebbe frantumato una vita di agi
e di
onore, in cui sarebbe stato guardato con rispetto e ammirazione e non
con
disgusto o scherno; avrebbe reso vano persino quel viaggio tanto lungo
e
faticoso, lasciando volare via la sua possibilità di
diventare ricco. Ma se
avesse riportato lo specchio alla Regina, quello avrebbe continuato a
richiedere vittime e la donna a procurargliele.
Un
singhiozzo vergognoso uscì dalle labbra spaccate, gli
sembrava meschino
piangere, ma non poteva farne a meno: distruggendo quello specchio
avrebbe
infranto i suoi sogni, ma non rompendolo avrebbe distrutto
sé stesso.
Era
disposto a pagare un prezzo così alto, un tributo di sangue
per un capriccio e
un desiderio egoistici?
La
Regina Rossa e la Regina Bianca lo erano state ed erano diventate
l’ombra di
loro stesse, ossessionate dal trascorrere del tempo e dal bisogno di un
giorno
in più, da vivere nell’ansia costante di
guadagnarsi quello dopo, annullando la
propria vita per poterla prolungare. Ivory non era disposto ad un tale
sacrificio, non se significava doversi trasformare in un mostro e
perdere coloro
che amava.
Gettò
un lungo sguardo a Brand, quell’amatissimo fratello che non
aveva mai avuto
l’opportunità di ringraziare per il sostegno e il
conforto silenziosi che gli
aveva sempre offerto, per la sua disponibilità e il suo
amore incondizionato
che andava oltre la sua pelle innaturalmente bianca, e gli diede
l’ultimo
saluto.
Si
abbandonò contro la parete, ricercando il suo sostegno e il
suo supporto: non
aveva la forza e la volontà per compiere un simile atto; si
morse le labbra,
cercando di trattenere l’urlo disumano di dolore e
disperazione che si
arrampicava lungo la gola, lacerandola.
Con
uno sforzo sovraumano, affondò la lama, lo specchio si
crepò e si infranse in
mille pezzi.
Ringraziamenti:
È la
prima volta che scrivo dei ringraziamenti al termine di una mia storia,
ma in questo caso sono doverosi.
Ringrazio innanzitutto Chiara, la prima lettrice ed estmatrice di
questa storia (nonché l'artista mirabile della sua
copertina), che mi ha supportato e sostenuto in ogni fase della
stesura, sopportando pazientemente i miei deliri, i miei dubbi e le mie
idee e che è stata tanto gentile da leggere e sistemare lo
scritto, perfezionandolo e limandolo.
Ringrazio
sentitamente anche Nirvana e Morgengabe che mi hanno seguita
e sostenuta in queta avventura, leggendo e commentando OGNI capitolo,
facendomi percepire la loro presenza e il loro supporto. È un
piacere scrivere per persone del genere, entusiaste, presenti e
gentilissime.
Vi sono profondamente grata, per aver investito il vostro
tempo nel leggere e recensire questa storia.
Ringrazio tutti
coloro che hanno aggiunto la storia tra le seguite o le preferite
(Elgul, GothicGaia, TotalEclipseOfHeart e Sophia99)
e tutti i lettori silenziosi che hanno seguito questa storia
nell'ombra.
Grazie di cuore
a tutti
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