Saint Bàra

di Elison95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Act I ; Invasion of the habitat. ***
Capitolo 2: *** Act II ; Hidden Demons. ***
Capitolo 3: *** Act III ; Fox ears. ***
Capitolo 4: *** Act IV ; Shadows and darkness. ***
Capitolo 5: *** Act V ; Doubts and solutions. ***
Capitolo 6: *** Act VI ; Weeping specter. ***
Capitolo 7: *** Act VII ; destruction. ***
Capitolo 8: *** Act VIII ; Kisses and secrets. ***
Capitolo 9: *** Act IX ; Possession. ***



Capitolo 1
*** Act I ; Invasion of the habitat. ***


ACT I ; Invasion of the habitat.
 
Accadde per la prima volta in un pomeriggio d’inverno. I miei genitori avevano sempre preteso che io diventassi la donna perfetta, invidiata da tutti e all'altezza di quella sforzata nobiltà che da sempre caratterizzava la nostra famiglia. Per questo sin dalla tenera età ero stata costretta a trattenermi in classe per le lezioni supplementari che si tenevano ogni pomeriggio nelle scuole prestigiose che frequentavo, sebbene i miei voti superassero la media di ogni studente.
Eppure, quella volta sentivo di dover tornare a casa prima, secondo mia madre era tuttavia disdicevole; “non andrai da nessuna parte in questo modo, Eireen! Dovresti smetterla di sottrarti ai tuoi impegni”, continuava a ripetermi come se una volta diventata adulta, non avrei mai potuto prendere un giorno di malattia all'ipotetico futuro lavoro. Insomma, per caso una cosa simile avrebbe potuto compromettere la mia “entusiasmante” e promettente carriera futura?
Come al solito in quei mesi la notte calava troppo presto... non avevo mai sofferto il buio, eppure quando qualcuno mi toccò la spalla sobbalzai spaventata. Altri non era che Noemi, una piccola e fin troppo gentile ragazzina che passava la sua vita a scrivere appunti scolastici.
«Scusami, non volevo spaventarti, ma pensavo potesse servirti.» Mi porse due o tre fogli che mi erano caduti dalla cartellina verde che avevo in mano, mi ricomposi quasi subito gettando le ciocche dei capelli lunghi dietro le orecchie e la ringraziai con un cenno di capo, non ero solita parlar molto, i miei genitori mi tenevano così sotto controllo che anche farmi degli amici era diventato difficile ormai, quindi non mi ci sforzavo nemmeno più. Avevo dimenticato come si dialogasse con un altro essere umano, a Noemi nemmeno sembrò importare diventar mia amica, difatti ricambiò con un flebile e spento sorriso andando via subito dopo.
Ero agitata e non riuscivo a capirne esattamente il motivo, sebbene non fossi mai stata nemmeno un tipo sospettoso o pregno d’ansia. A dire il vero ero quel tipo di persona che viveva le cose molto passivamente, spesso mi comparavo alle dame dell’ottocento, sempre attente ai bisogni della propria famiglia e così a modo da ammirarle solo da lontano. Con un sospiro rammaricato mi liberai dei soliti pensieri, continuai per la mia strada e fu proprio qualche minuto più tardi che si verificò l'inimmaginabile.
Un piccolo gruppo di ragazzi mi circondò poco prima di rientrare nel vialetto di casa, l’asfalto inumidito dalla pioggia pomeridiana, con quella puzza mista al fumo di sigarette che fuoriusciva dalle loro bocche, mi dava la nausea. Il nostro non era un quartiere malfamato, vivevo lì sin sa quando ne avevo memoria ed anzi poteva definirsi lo spazio più agiato della città, avevamo persino un parco ed una fontana tutta nostra dove le sentinelle del vicinato si ripromettevano di proteggere la quotidianità dei più piccoli, eppure, c’era da un po’ voce che un gruppo di ribelli si divertisse a spaventare le ragazze del posto, nessuno aveva compreso se si trattasse di esterni o semplici figli di papà stufi del solito atteggiamento bonario; fatto stava che in quel momento ero io quella ad essermeli ritrovata davanti. Avevano delle divise diverse da quelle delle mia scuola, ma lo si poteva capire lontano un miglio che appartenevano ad un istituto privato; certi abiti si distinguevano dalle stoffe pregiate e gli stemmi delle scuole sul petto.
“Adesso ci divertiremo”, continuava a ripetere quello che probabilmente era il leader mentre gli cercavano di avvicinarsi, eppure io non li sentivo molto bene. Non riuscivo a percepire la realtà in cui mi trovavo. Era come se fossi sospesa in un ammasso d’aria troppo pesante per poter respirare, quindi trattenevo il fiato senza nemmeno rendermene conto. Sentivo solo la rabbia, riservata per qualcuno che stesse invadendo il mio habitat, il mio spazio. Ero fuori di me come poche volte, forse perché ero sempre stata abituata a trattenere l'ira per troppo tempo. Mia madre mi aveva sempre detto che le signorine rispettose dovevano contare almeno fino a cento prima di sbottare o dire qualcosa fuori luogo ed io l'avevo sempre fatto, costretta per troppe volte in una vita che non mi apparteneva.
Le mani di alcuni mi spintonavano da una parte all'altra, lasciando che la cartellina cadesse ed i fogli si bagnassero in mezzo a quelle pozze d'acqua sporca, dove adesso il mio riflesso veniva storpiato per tutto il trambusto; non vedevo né loro, né me stessa.
Riuscii a sentire, dopo quel momento, solo il tonfo della borsa schiantarsi al suolo, una luce accecante e persi coscienza.
 
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‘ 𝓅𝑒𝓇 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝑒 𝑔𝓁𝒾 𝓊𝑜𝓂𝒾𝓃𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝓅𝑒𝒸𝒸𝒶𝓉𝒾 𝒾𝓃𝒻𝒾𝓃𝒾𝓉𝒾
𝒹𝒾𝑜 𝓂𝒾 𝒽𝒶 𝒹𝒶𝓉𝑜 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒶 𝓅𝑒𝓁𝓁𝑒 𝒸𝒽𝒾𝒶𝓇𝒶,
𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝓁𝓊𝓃𝑔𝒽𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾 𝓇𝒶𝓇𝒾
 𝒸𝒽𝑒 𝑒𝓈𝓈𝑒𝓇𝑒 𝓊𝓂𝒶𝓃𝑜 𝓅𝑜𝓉𝓇𝑒𝒷𝒷𝑒 𝓅𝓊𝓃𝒾𝓇𝓂𝒾?
𝓂𝑒𝓏𝓏𝑜 𝓋𝑒𝓈𝓉𝒾𝓉𝒶 𝒹𝒾 𝓆𝓊𝑒𝓈𝓉𝒾 𝒸𝒶𝓅𝑒𝓁𝓁𝒾
𝒹𝒶𝓁 𝒸𝑜𝓁𝑜𝓇𝑒 𝓇𝑜𝓈𝓈𝑜 𝓅𝒶𝓁𝓁𝒾𝒹𝑜,
𝒹𝒶𝓁 𝓉𝑒𝓉𝓉𝑜 𝒹𝑒𝓁𝓁𝒶 𝓅𝒶𝑔𝑜𝒹𝒶 𝓋𝑒𝒹𝑜𝒾 𝓅𝑒𝓉𝒶𝓁𝒾 𝒹𝑒𝒾 𝒸𝒾𝓁𝒾𝑒𝑔𝒾,
𝒸𝒶𝒹𝑜𝓃𝑜 𝓃𝑒𝓁 𝓋𝑒𝓃𝓉𝑜 𝒹𝒾 𝓅𝓇𝒾𝓂𝒶𝓋𝑒𝓇𝒶.
𝓈𝒸𝓇𝒾𝓋𝑒𝓇𝑜' 𝓁𝒶 𝓂𝒾𝒶 𝒸𝒶𝓃𝓏𝑜𝓃𝑒 𝓈𝓊𝓁𝓁𝑒 𝓁𝑜𝓇𝑜 𝒶𝓁𝒾.
𝒾𝓃𝑔𝒶𝓃𝓃𝑒𝓇𝑜' 𝒾 𝓋𝒾𝓋𝒾 𝑒 𝒹𝑒𝓈𝓉𝑒𝓇𝑜' 𝓈𝒸𝑜𝓂𝓅𝒾𝑔𝓁𝒾𝑜 𝓉𝓇𝒶 𝒾 𝓂𝑜𝓇𝓉𝒾.
 
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È vero, avevo sempre preferito la carne quasi cruda ed avevo un olfatto molto sviluppato, oltre all’udito che a volte poteva definirsi una cosa agghiacciante. I miei capelli erano di un colore strano, un caramello misto ad un rosso vivo che diciamolo, erano piuttosto insolito per il nostro albero genealogico, costituito pressoché da chiome scure e ricce. Le lentiggini contro la mia pelle, scandalosamente chiara, e gli occhi di un color ghiaccio quasi accecante che a volte diventavano persino verdi, mi avevano fatto sempre pensare all’eventualità che quelli non fossero i miei veri genitori. Insomma, con quella scusante avrei saputo e potuto anche spiegarmi perché il mio spirito in continua ricerca di libertà, si trovasse estremamente a disagio in quel rigido ambiente in cui, invece, avevo vissuto sino a quel momento.
Ecco, questa era una buona ipotesi. Questa, e non quella che i presunti “guardiani” di non so quale setta oscura, stessero sostenendo al mio risveglio.
Una Kumiho, così mi avevano chiamato. Una creatura leggendaria d’origine orientale, una volpe a nove code.
Io, una volpe.
Inghiottii la notizia e stetti in silenzio, la divisa scolastica ormai mal ridotta, fu l’ultimo dei miei pensieri e stranamente fu l’ultimo dei pensieri anche di mia madre. Lei continuava a guardarmi in cagnesco, come se tutta quella vicenda fosse una mia colpa.
«…Per tanto, dovrebbe prendere le sue cose e venire immediatamente alla Saint Bàra.» Fece l’uomo più alto, entrambi erano vestiti di nero e con indumenti talmente larghi che in quel momento faticai a capire se fossero tuniche o maglie lunghe con sotto i pantaloni, avevano i capelli più lunghi del normale (almeno per la moda del momento) e quasi non gli si vedevano gli occhi.
«…Sapevo sarebbe accaduto, oh caro sono così mortificata!» Mia madre si crogiolò tra le braccia dell’unico uomo di famiglia, anche lui mi guardò con un certo fare pietoso mentre scuoteva la testa, ero completamente tramortita. Per quanto io non volessi accettarlo, la notizia di essere una qualche specie di creatura fuori dalla norma, non mi sconvolse quanto il fatto di dover andare con quegli uomini e lasciare quindi casa mia.
«Non voglio venire proprio da nessuna parte.» Mi alzai dal comodo divano che avevamo in salotto sbottando stizzita e cercando di non dare segno di debolezza, quando mi accorsi che la testa girava più del dovuto.
«Sono le regole, signorina.» Disse uno degli uomini misteriosi, inchinandosi subito dopo.
«Non essere sciocca Eireen! Come pretendi di poter restare qui quando potresti tramutarti in qualsiasi momento in quella cosa ...Oh – in quella cosa orribile!» Mia madre sembrava disgustata, dopo aver detto la sua si portò il palmo alle labbra cercando di trattenere un conato.
Lei era indignata ma io sentivo di poter vomitare da un momento all'altro.
«Dovresti ascoltare tua madre, Eireen. Per una volta almeno. Ce lo devi insomma, ti abbiamo cresciuto come meglio potevamo e non vogliamo divenire gli zimbelli di nessuno. Sono certo che anche tu la pensi in questo modo.» Quelle parole, quelle di mio padre fecero più male forse di qualsiasi altra cosa. Mi sorrise come se avesse appena ammesso di volermi un bene nell’anima ed io restai a fissarlo per qualche secondo di troppo, mentre dava pacche sulla spalla di mia madre a mo’ di consolazione.
Non riuscii a dire molto, né altro. Ci fu poco tempo per riflettere e per rispondere. Sentivo solo la nausa della tipica e tanto sperimentata delusione albergarmi in ogni centimetro del corpo, avrei voluto abbracciare almeno mio padre che sembrava così rammaricato per tutto quanto... mi fece sentire in colpa anche se sapevo fosse una sensazione sbagliata. Mi misero un piccolo braccialetto al polso con un ciondolino a forma di triangolo che pendeva sul dorso della mano. La catenina era costituita da piccole palline simili a perle – si rassicurarono del fatto che non dovessi mai toglierlo, in caso contrario le mie trasformazioni non avrebbero avuto alcun controllo in futuro. Dopodiché mi bendarono, sentii un lieve pizzico al braccio e persi nuovamente conoscenza. Qualsiasi tentata ribellione, fu completamente inutile.
 
«Benvenuta alla Saint Bàra, signorina Cester.»
Una voce non proprio amichevole interruppe del tutto il mio sonno, mi svegliai su di un letto che prima non avevo mai visto, ma era comunque abbastanza comodo e spazioso. La donna mora ed alta di fronte a me, reggeva qualche foglio tra le mani mentre mi fissava ignorando qualsiasi regola della privacy, poteva apparire probabilmente più giovane dei suoi anni, ma la voce non mi ingannava – era sicuramente molto vecchia.
Aveva una specie di neo rialzato proprio all’angolo della bocca; avrei potuto vomitare se solo l’avessi osservato un po’ più a lungo, ma tutto il resto del viso e del corpo era così bello che mi fece dimenticare in fretta di quel particolare.
«…Cosa diavolo è questa Saint Bàra?» Mi alzai di lì irritata e confusa, avevo fatto solo un brutto sogno? Cercai di sistemarmi in qualche modo i capelli arruffati, provocai nella donna una garbata, sebbene irritante, risata.
«La Saint Bàra è l’accademia più antica è rispettabile di tutto il globo, signorina Cester. Farebbe meglio quindi a moderare i termini o temo che non partirà col piede giusto.»
«Cosa ci faccio qui?… Ai miei non bastava mandarmi nelle migliori scuole?»
«Lei non è del tutto umana, signorina Cester. È qui infatti per imparare tutto ciò che c’è da sapere per convivere al meglio sulla terra ed in modo pacifico con quelle strane creature chiamate esseri umani.» Disse come se fosse la cosa più normale del mondo, come se quella faccenda avesse un senso talmente logico, che non c’era nemmeno bisogno di spiegarlo.
«… Ah giusto, sono una kumiho. Quindi troverò qui il mio branco ed impareremo a convivere felici e contenti?» Lei scosse la testa e rise probabilmente prendendosi beffa di me e della mia titubanza, io incrociai le braccia al petto e mi accigliai. I miei genitori mi avevano davvero abbandonato? E perché non erano sembrati sorpresi di tutta quella faccenda? Ma sopratutto... c'erano altre persone a soffrire di quella strana forma di malattia?
«No, lei è un umano con sangue di demone, semplicemente. Vedrà, presto si ambienterà alla nostra accademia. Se ha un po’ di fortuna potrà trovare studenti pronti a spiegarle almeno le basi.» Spulciò qualche foglio che aveva in mano e me ne porse qualcuno. «…Qui trova gli orari delle lezioni e della mensa, mi raccomando non perda nulla o saranno guai. Ora, se non le dispiace...» Fece un piccolo inchino col capo, e si congedò, i suoi passi erano lenti e rumorosi. Spezzavano il silenzio che mi avvolgeva facendo sì che i miei timpani diventassero succubi di quel suono, era qualcosa di tremendamente agghiacciante e per quanto mi sforzassi non riuscivo nemmeno a capirne il motivo. Mocassini con un tacco doppio e basso – orribili forse per qualsiasi stilista degno di essere chiamato tale, eppure ancora una volta ai suoi piedi sembravano terribilmente adatti.
Mi lasciai cadere contro il letto, già stanca di tutta quella faccenda, o meglio di tutte quelle notizie surreali e per niente comode alla mia persona. Osservai il braccialetto che avevo ancora al polso e lo strinsi tra le dita provando a sfilarlo, mi accorsi che fu uno sforzo inutile; era appena cominciata ma mi chiedevo già quando sarebbe finita.
«Oh, tu devi essere Eireen!» Una voce squillante mi fece sobbalzare. Una ragazza dai capelli lunghi e ricci oltrepassò la porta della mia camera senza complimenti.
«E tu chi sei?» Chiesi col mio solito tono non proprio amichevole, lei alzò le mani e sollevò un sopracciglio.
«Oh scusami tanto, ma questa non è la reggia della regina. Sono la tua compagna di stanza, mi chiamo Dorothée. Sentiti libera di affibbiarmi qualsiasi soprannome tu voglia, sempre che c’entri qualcosa con me – ovvio.» Mi porse la mano prontamente una volta avvicinatasi al mio letto. Gliela fissai per qualche secondo e dopo aver esitato un po’ gliela strinsi di rimando. Fu il primo contatto diretto che ebbi con lei.
«Scusami, ma non so ancora bene come funziona questo posto...» Bofonchiai.
«Oh ma non c’è niente da sapere, è una semplicissima scuola come quelle che hai sicuramente frequentato sino ad ora.» Si voltò a guardarmi per un istante e mi sorrise, poi tornò a riporre le sue cose in modo ordinato negli scaffali della grande libreria, vicino a quello che sembrava essere il suo letto. Delle piccole e graziose piantine in piena fioritura – in quel periodo era possibile? Dorothée insieme a sé aveva portato profumo di lavanda con un retrogusto fresco di muschio. Mi fece sentire quasi al sicuro.
Mi alzai dal letto sospirando, senza dilungarmi troppo in quei pensieri tipici di me, e vagai un po’ all’interno della stanza.
«Mh, capisco.» biascicai.
«Oh su andiamo, non fare quella faccia! Adesso ti porto a fare un piccolo ed interessante tour dell’accademia. Vedrai che non è poi così male.»
«In realtà io vorre–…» “vorrei riposare”, ma a quanto pareva lei sembrava non fregarsene poi molto. Mi prese sotto braccio e chiuse la porta dietro di noi con uno schiocco di dita. Mi voltai a guardarla incredula ed a dire il vero anche un po’ eccitata.
«Fantastico! Come ci sei riuscita?» Esclamai strabuzzando gli occhi per delucidarmi.
«Uhm, cosa? …Ah, la porta. Per me è del tutto normale, sai sono una Wiccan.»
«Wiccan?» Mentre le parlavo mi accorsi che il dormitorio femminile era davvero enorme, anche se tutte le stanze erano chiuse e sembrava non abitarci nessuno.
«Oh mamma, tu non sai proprio niente allora. Una Wiccan è una strega che pratica magia bianca. Gli umani spesso conoscono la Wicca, ma credono sia solo una religione. Non sanno che in realtà noi siamo delle vere e proprie streghe, streghe buone s’intende.» rise appena e si strinse meglio sotto il mio braccio. Era sicuramente un tipo bizzarro. Cercai di non fossilizzarmi sull'assurdità di quella situazione, tanto se fosse stato tutto un incubo... prima o poi sarebbe passato, no?
Quando uscimmo dall’edificio, potei osservare come effettivamente quella sembrava un accademia normalissima. Eccetto per i soggetti che vi vivevano all’interno.
Sull’immensa distesa di prato, c’erano panchine, campi da basket, qualche piccolo chiosco ed una marea di studenti. Sul serio il mondo era popolato da così tante persone non umane? Mi vennero i brividi solo a pensarci.
«Qui più o meno ci conosciamo tutti. Sei una delle poche, se non l’unica che è rientrata così tardi. Vedi, i ragazzi vengono portati qui sin dalla tenera età, soprattutto i vampiri.»
«Va-vampiri?» Feci sgranando gli occhi ed inghiottendo un bolo di salive che parve infuocato.
«Sì, vampiri! ...Vedi, loro sanno di essere ciò che sono fin dalla nascita, mi spiego? Come per noi streghe e le creature mannare. Le creature leggendarie come te, invece, manifestano la prima trasformazione ai dieci o nove anni, ma di solito i genitori ne parlano prima ai loro figli, è una questione di eredità ogni cento anni la vostra, capisci? …Tuttavia è realmente strano che a te sia capitato ai diciassette. Ti restano solo due anni per recuperare ciò che a noi insegnano sin da piccoli.» Mi fermai di colpo quando Dorothée pronunciò quelle parole, la guardai con gli occhi ancora spauriti ed insicuri. Esattamente quante creature popolavano quel posto? E la mia famiglia aveva realmente ereditato i geni delle kumiho che si manifestavano ogni cent’anni? …Tutto quello era completamente assurdo, e furono molteplici le volte in cui mi pizzicai il braccio per scoprire se stessi effettivamente dormendo o meno.
«Insomma dico... CREATURE MANNARE?» Quasi mi feci sentire da tutto il campus.
«Oh insomma perché alzi la voce? Guarda che a loro mica piace essere nominati così e con quel tono poi. Tranquilla tranquilla, so a cosa stai pensando. Siamo divisi in quattro razze; i vampiri, le streghe, le creature mannare ed infine voi, le creature leggendarie.»
«Creature mannare… Esistono? Sento che la mia mente non reggerà a tutto questo.» Come se tutte le altre razze fossero più normali.
«Non essere sciocca, Eireen. In cuor tuo sai qual è la tua vera identità e sono sicura che sei più sorpresa di doverti ambientare in un posto che non conosci piuttosto che condividere con persone che effettivamente, non sono semplici persone.»
Come diavolo faceva a saperlo? Me ne resi conto meglio proprio quando lei lo disse. Dorothée aveva un aura strana attorno a lei, ma sentii di potermi fidare, almeno per ora. Sospirai e riprendemmo a camminare per il campus.
«…Oh, guarda. Loro sono Thomas e Dyanne.»
Voltandomi notai i due, il presunto Thomas sembrava essere africano, capelli mossi e degli occhi che non riflettevano nessun anima – pensai che non dovesse avercela in effetti. Dyanne invece aveva un aria superba, lui la seguiva senza batter ciglio e reggendo le sue mille cose.
«Thomas è un Impundulu.» Proseguì la mia nuova amica. «È un servo vampiro di una strega, in questo caso di Dyanne. È un tipo di vampiro dall’insaziabile appetito, ma può nutrirsi solo della sua padrona e da chi lei decide. Gli schiavi vampiri si tramandano da generazioni alle famiglie di streghe... vedi, loro sono una delle poche eccezioni.»
Osservando i due che si fermarono su di una panchina, potei notare come Thomas bramava il collo di Dyanne, che sembrava invece riservarsi con accennato divertimento. A quanto pareva si divertiva a farlo soffrire in quel modo.
«Di che eccezioni parli?...» Mi voltai verso Dorothée che riuscì a catturare la mia attenzione con quella frase.
«Vedi, per noi è impossibile instaurare un rapporto come dire… d’amore con una persona della razza opposta. A loro invece è concesso. I servi vampiri delle streghe, quasi come d’obbligo diventano amanti delle loro padrone.»
«Dorothée, cosa capita se due razze opposte si innamorano?»
«Oh… niente di promettente mia cara Eireen, ma questo lo saprai sicuramente presto.» Sorrise in modo criptico.
«Cosa vuoi dire?» Mi accigliai, con un ovvia curiosità nel tono di voce.
«Nulla nulla. Oh, vieni ti presento Richard!» Avanzò poi lasciandomi qualche passo indietro.
Cominciai a seguirla in modo distratto guardando Thomas e Dyanne, sembravano stuzzicarsi di fronte a tutti come se il resto del campus non fosse lì. Si amavano sul serio? Mi sembrò una coppia insolita, ma probabilmente sincera. Ad un tratto gli occhi quasi rossi del vampiro mi osservarono cogliendomi in fragrante. Sobbalzai accelerando il passo e mi voltai di scatto per guardare dinanzi a me, quando sbattei però la testa da qualche parte. Caddi a terra in meno di un nano secondo, ma cercai di alzarmi quanto prima massaggiandomi il fondoschiena a causa del dolore. Ciò che mi ritrovai davanti mi lasciò senza fiato. Era un ragazzo, anche lui dotato di una pelle candida che appariva quasi luminescente. Aveva i capelli corvini, gli occhi, neri come la pece facevano sì che tra pupille ed iride non ci fosse alcuna differenza.
«Dovresti guardare in avanti quando cammini, volpe.» Aveva una voce quasi roca, a tratti inquietante. In viso nessuna forma di espressività lasciava trapelare una qualche emozione maligna o benigna che fosse. Mi chiamò "volpe" e la cosa mi lasciò senza fiato per qualche secondo.
«Scusami… mi sono distratta per un po’.» Non riuscivo a distogliere lo sguardo. Mi accorsi che nell’occhio destro aveva una venatura dorata che spiccava in modo decisamente affascinante. «...Ma come, come sai che io...?»
«Eireen! Insomma cosa stai facendo? Sbrigati.» Dorothée venne a richiamare la mia attenzione senza lasciarmi finire la domanda e prendendomi per il braccio, guardò il ragazzo per qualche istante e poi schiarendosi la voce mi rivolse uno sguardo preoccupato. Mi trascinò via con sé subito dopo, mi voltai a guardarlo ma lui era già sparito tra la folla di persone apparentemente normali.
«Dimmi un po’, sei impazzita?» Mi bisbigliò all’orecchio.
«Perché…?» chiesi ancora intontita.
«Quello è Marek, non è consigliabile avvicinarsi a lui, soprattutto per una ragazza tanto bella come te, Eireen.»
«Cosa? Ma perché? Chi è, Dorothée?»
Lei non fece in tempo a rispondere alla mia domanda, il suo amico Richard era più vicino di quel che pensassi e come non detto, un altro ragazzo alto, ma questa volta più palestrato e decisamente più scuro di pelle, si stagliò dinanzi ad i miei occhi chiari. Restò a guardarmi per qualche secondo, dopodiché mi porse la mano ed io ricambiai.
«Lei è Eireen, quella nuova. È una Kumiho, Rich.» Dorothée mi risparmiava parole inutili. Abbassai il viso e guardai altrove, la trovavo una situazione imbarazzante, paradossalmente.
«Ora mi spiego perché è tanto bella. Credo che qui non avrai vita facile, Eireen. Questo potrebbe trarti in svantaggio. Ad ogni modo sono contento di conoscerti.» Richard sembrava avere un’espressione particolare che lo caratterizzava in ogni istante, ovvero quella di essere accigliato. Difatti sembrava arrabbiato anche quando in realtà non lo era. Aveva gli occhi color ambra, un colore singolare ed affascinante che non avevo mai visto e che dubitavo potesse esistere altrove.
«Tu… tu cosa sei?» Chiesi cercando di non essere invadente.
«Strano, voi volpi avete un istinto raffinato. Avresti dovuto capirlo dalla sola stretta di mano... sono un licantropo.» Disse con vago disagio.
«Ci sono altre kumiho?...»
«No, sei l’unica per ora, in tutto il campus e credo lo sarai per un bel po’.» Rise, giusto... la storia dei cent'anni avrebbe dovuto già darmi la risposta che volevo.
Passai il resto della giornata con Dorothée e Rich. La domenica non c’era alcuna lezione da seguire e gli studenti non dovevano indossare la solita divisa, così potemmo andare in mensa con tutta tranquillità e senza rispettare alcun orario di legge. Come al solito io preferii la carne rigorosamente al sangue e Rich mi seguì a ruota. Mi accorsi che potevamo essere più simili di quanto non credessi. Dorothée optò per un insalata vegetariana, capii sin da subito che era un tipo in estrema armonia con la natura e sembrava proprio che la vista della carne che avevamo preso io e Rich le dava il disgusto.
«Per fortuna qui alla Saint Bàra servono i cibi giusti per ogni tipo di razza. Non dovrai patire la fame.» Rich mi rivolse una sottospecie di sorriso mentre addentava la sua carne con gusto. Aveva un modo di mangiare animalesco ed io non potevo non dire lo stesso della mia natura. Per quanto mia madre avesse inutilmente cercato di incularmi le regole del galateo, io non le avevo quasi mai prese in considerazione. Almeno non quando cenavo da sola.
Per un attimo mi incupii pensando alla mia famiglia. Mi avevano liquidato con così tanta facilità, anzi, mi avevano ripudiato con così tanta naturalezza. Pensai di avergli fatto realmente schifo.
Le nove code che dicevano io avessi, le orecchie da volpe e tutto il resto... dovevano senza dubbio essere terrificanti, cercai di non dargli tuttavia peso, ma con un occhiata veloce alla mensa mi accorsi che altre persone avevano il mio stesso bracciale, me lo toccai e guardai Dorothée interdetta.
«Oh quella? Viene data solo alle creature leggendarie. Voi non avete controllo delle vostre trasformazioni, avete un istinto troppo… animalesco?»
Annuii e cercai di finire il mio cibo, Dorothée sembrava leggermi nella mente rispondendo alle mie domande prima che gliele ponessi e ne avevo avuta l’impressione sin da quando ero arrivata in quel posto.
Le rivolsi uno sguardo e lei scrollò le spalle sorridendo mentre mangiucchiava un oliva.
 
Probabilmente era stata una chiara risposta ai miei pensieri.

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Capitolo 2
*** Act II ; Hidden Demons. ***



ACT II ; Hidden Demons.

La mia nuova divisa scolastica era di colore beige e verde scuro, ma mi accorsi che rispetto a quella di Dorothée era diversa… per i colori più che altro, la sua per l’appunto era beige ed arancione.  Dovevo dire però che mi piaceva più di quella che ero solita indossare nella vecchia scuola, alla Saint Bàra infatti, era costituita da una gonna a pieghe beige e giacca dello stesso colore ma dai bordi verdi, e sul braccio destro lo stemma della scuola; una croce dorata con al centro un triangolo simile a quello del mio bracciale, solo che all’interno vi erano le iniziali della prestigiosa scuola. Camicia bianca e fiocchetto sottile verde, sistemato sul colletto della camicia. Mi sembrò più raffinato ed inquietante di tutte le scuole che avevo frequentato sino ad allora, persino le parigine che indossai erano bianche e con i bordi verdi, arrivavano fino a sopra le ginocchia, erano graziose e comode.
   «Perché anche se andiamo nella stessa accademia, le nostre divise sono di colore diverso?» Una volta infilate anche le scarpe, mi rivolsi a guardare Dorothée che invece era intenta ad acconciarsi in qualche modo i capelli mori e ribelli allo specchio.
    «Oh, non te l’ho detto? Qui ogni razza ha colori diversi. Le creature leggendarie sono verdi, le streghe arancioni, le creature mannare gialle ed i vampiri rossi. I colori di base però sono tutti uguali, donne beige e uomini neri. Figo vero?»
  «Almeno in questo modo saprò chi è chi…» Borbottai annodandomi il fiocchetto, dopo aver sospirato un po’ più del dovuto, Dorothée mi prese il polso per trascinarmi fuori dalla stanza, a suo dire eravamo in gran ritardo, ma io ancora non avevo saputo quale sarebbe stata la punizione per quel tipo di infrazione.
Per fortuna però, arrivammo in classe giusto un secondo prima che la campanella suonasse. Guardandomi attorno mi resi conto per la prima volta forse, che avrei diviso i banchi di scuola con creature abbastanza pericolose. Mi accorsi inoltre che ogni banco era condiviso da tre persone, Dorothée lo divideva con Richard, che salutai, e con una ragazza dalla divisa bianca e rossa – era ovviamente un vampiro ed era anche impossibile non notare che la sua era una rara bellezza, sembrava d’obbligo fermarsi a guardarla. Probabilmente era un vampiro di razza Aswang, Dorothée me ne aveva parlato quella notte. Possedeva una bellezza unica durante il giorno, ma la notte invece si tramutava in uno spaventoso e disgustoso demone in cerca delle sue prede, di notte infatti viene guidato nelle case delle vittime da stormi di uccelli notturni. Il suo nutrimento è sempre il sangue, e di norma preferisce i bambini; Dorothée mi aveva detto che la si poteva riconoscere grazie all’aspetto gonfio che assumeva dopo essersi nutrita, facendola sembrare incinta. Si diceva inoltre che se l’Aswang sfiorava l’ombra di qualcuno, questi sarebbe morto a breve. Smisi di guardarla subito dopo mentre un brivido di raccapriccio mi fece venire la pelle d’oca.
“Fiutai” l’unico posto libero che era vuoto insieme a tutto il banco, sistemai lì le mie cose.
   «…Cosa ci fai qui?» Un rimprovero improvviso mi sorprese e sobbalzai all’istante. Di fronte a me un ragazzo alto dalla pelle olivastra, la divisa parlava chiaro; nera e rossa. Era un vampiro.
   «Uhm… scusami non volevo invadere lo spazio di nessuno, ma questo era l’unico posto libero e allora…» Mi grattai la nuca guardando le due sedie vuote ai miei lati.
    «Signor Vanhomrigh, le consiglio di fare meno storie e sedersi prima che la lezione cominci.» Quello che parlò fu il professor Alais. Dorothée mi aveva parlato anche di lui e lo seppi riconoscere dalla barba ed i capelli bianchi sfumati in un monotono grigio. Insegnava astronomia, filosofia, logica, retorica, chiromanzia e piromanzia, che a quanto pareva era la materia che spiegava delle pratiche antiche col fuoco, per buoni auspici e malocchi. Insomma, in quel posto era una vera e propria enciclopedia umana. Aveva una fascia verde sul braccio destro, a conferma del fatto che fosse una creatura leggendaria proprio come me, la cosa avrebbe dovuto rendermi fiera o qualcosa di simile, ma ciò non mi scaturì alcuna emozione. Per la precisione comunque, era un Furcas. Dorothée mi aveva spiegato che quello era un cavaliere dell’inferno che comandava venti legioni di demoni, ma non mi aveva detto nello specifico, in cosa gli impediva di trasformarsi il braccialetto. Il fatto che una creatura simile facesse da professore mi stranì e mi fece quasi ridere.
Il signor Vanomrigh, con tutta la sua aura nervosa e la cravatta annodata in modo scialbo, decise di sedersi alla mia destra dopo quel richiamo, senza dire più nulla in proposito alla mia posizione; guardandolo mi accorsi che aveva dei lineamenti veramente delicati, ma allo stesso tempo virili.
   «Si può sapere cos’hai da guardare?» Voltandosi scoprii di potermi riflettere perfettamente nei suoi occhi verdi, mi rimisi sull’attenti con aria vagamente sorpresa e ricominciai a grattarmi la nuca in evidente disagio.
    «In realtà ecco… io sono nuova e per me è ancora tutto un po’ strano.» La tirai giù senza pensarci troppo.
    «So che sei nuova, sono qui da diciassette anni e questa è la prima volta che ti vedo, dovrà pur significare qualcosa.» Brontolò guardando nuovamente dinanzi a sé, mentre il professore sistemava le sue cose sulla cattedra, attendendo gli ultimi due minuti prima della lezione.
    «Visto che saremo compagni di banco, io credo che dovremmo presentarci… Mi chiamo Eireen. Eireen Cester.» Formulai il mio nome quasi come se ne fossi soddisfatta. Lui sbuffò e mi guardò seccato per più di un secondo, notai per una breve frazione di attimo però, un lieve disagio da parte sua, questo prima che si voltò nuovamente e parlasse.
    «Uriel. Uriel Vanhomrigh.» Incrociò le braccia al petto e si rilassò contro la sedia chiudendo gli occhi in un sospiro.
Una lieve folata di vento mi fece però voltare dall’altra parte. Era Marek. Il ragazzo che Dorothée il giorno prima mi aveva consigliato di stare alla larga, lo stesso ragazzo che avevo urtato distrattamente. Si sedette in modo silenzioso alla mia sinistra e così mi ritrovai ben presto tra due esseri taciturni ed incredibilmente spaventosi quanto assurdamente belli.
Durante la lezione, mi schiarii la voce un paio di volte per parlare, ma mai lo feci. Ero l’unica a prendere appunti su appunti, mentre gli altri due non se ne interessavano minimamente. Uriel era probabilmente intento a dormire, mentre l’altro a fissare un punto indefinito dinanzi a lui, non lo sorpresi mai a battere le palpebre, mi accorsi solo più tardi della sua divisa dai bordi rossi.
    «Ecco… non dovremmo svegliare Uriel?» Bisbigliai con fare impacciato.
    «Credi sul serio che un essere simile possa dormire in pieno giorno?» Marek si voltò a guardarmi, sembrò chiamarmi stupida con quel solo sguardo.
    «Beh, le leggende non raccontano questo?»
    «Ti sembriamo una leggenda?» Intervenne Uriel sollevandosi dalla sua posizione mentre poggiava stancamente i gomiti sul piano del banco, le loro voci massicce se calate a quel tono mi sembravano troppo inquietanti.
    «Ecco io… no.» Ammisi.
    «Faresti meglio a stare attenta ragazzina, sei sul serio una kumiho? Non mi sembri poi tanto astuta, ciò che ti rispecchia è solo quest’incredibile bellezza, latticino.» Continuò Uriel.
    «Faresti meglio a stare zitto, razza di maggiordomo.» Marek ammonì l’altro subito dopo, i due si scambiarono ovvi sguardi di sfida, io cominciai ad agitarmi, quindi feci in modo che la visuale di entrambi fosse interrotta da me.
   «Io credo che lui non volesse offendermi.» Mi precipitai a dire, guardando Marrek; incredibile, la sua espressione non cambiava proprio mai.
   «Cosa potrebbe importarmi se lui ti offende o meno, volpe? Non sopporto la sua voce e basta.» Ringhiò.
   «Io credo che sopporteresti ancor di meno i miei pugni.» Fece l’altro e quasi mi sovrastò per mostrare la mano chiusa a pugno al compagno, aveva un aria minacciosa e qualsiasi essere umano vagamente normale, non si sarebbe mai permesso di replicare. Ma lì, non c’era proprio niente di normale.
Marek angolò un lato delle labbra in mezzo sorriso, poggiò la mano contro il mio petto ed io mi immobilizzai all’istante, mi spinse appena, quel tanto che bastava a farmi spostare ed avere completa visuale su Uriel. I due si fissarono per qualche secondo, erano così vicini che probabilmente l’uno sentiva il respiro dell’altro… semmai i vampiri respirassero, poi.
   «Ti senti così inutile da dovermi dimostrare il tuo minimo di forza, Uriel?» Marek in quel momento sembrò, probabilmente, la persona più spaventosa di tutto l’intero globo ma l’altro non fece in tempo a rispondere, che il professor Alais era già dinanzi a noi con un aria decisamente non attendibile. Mi vennero in mente le venti legioni di demoni e mi chiesi perché non me la fossi già data a gambe.
   «Sapete già cosa io stia per dire, vero ragazzi?» Introdusse poggiando i palmi ai fianchi, sembrava stanco. Poteva esserlo?
   «…Mi spiace per lei, signorina Cester. Come primo giorno non è proprio il massimo e visto che ha perso tutti questi anni, poi. Non credevo che una kumiho potesse realmente essere così disdicevole. Già ho dovuto sopportare il vostro ritardo senza dir nulla.» Scosse la testa ed andò poi verso la cattedra a riprendere ciò che stava scrivendo alla lavagna, non credette al fatto che si dispiacesse per me. Quei simboli che continuava a scivere in ogni caso, mi sembravano solo scarabocchi eppure li stavo ricopiando ugualmente sul quaderno. Sarà che era forza d’abitudine.
Nell’aula non volava una mosca, e quando Uriel e Marek si alzarono provocando quel rumore sordo con le sedie strusciate contro il pavimento che solo a me sembrò dar fastidio, nessuno fiatò ma io li guardai perplessa. Cosa stavano facendo esattamente?
   «Ti muovi o dobbiamo restare qui fino a stanotte? Sai com’è, di solito per quell’ora ho un po’ da fare.» Marek si era già avviato verso la porta, mentre Uriel aveva per lo meno speso quelle brevi parole per farmi capire che dovevo seguirli. Dove eravamo diretti esattamente?
Evitai di guardarmi attorno e quando uscii in modo precipitoso dall’aula sbattei ancora contro il petto di Marek, quella volta però sentii il suo braccio stringersi attorno la vita, in modo tale da evitare un mio possibile tonfo. Ci soppesammo per qualche istante e poi lui distolse lo sguardo lasciando anche me, in modo non proprio delicato.
Mi sentii stranamente in imbarazzo.
   «Dove siamo diretti esattamente?» Domandai seguendo i due nel lungo corridoio.
   «Direzione.» Rispose Marek secco.
   «Cosa? …Andremo dal preside solo per qualche parola in classe?» Ero decisamente sconvolta alla notizia. Ma ehi, magari mi avrebbero espulso in fretta da quel passo.
   «Preside? Nessuno ha mai visto il preside.» Rise appena Uriel. «E nemmeno stavolta lo vedremo. Ci penserà semplicemente la signorina Packard dopo che avrà discusso con lui della nostra punizione.»
   «Pu…nizione?» domandai ancor più interdetta. Insomma, io non avevo fatto nulla per cui essere punita e poi non osavo nemmeno immaginare che tipo di punizioni potessero esserci in un posto come quello.
   «Il preside di questa scuola è famoso per la sua rigidità, sembra si diverta a metterci in punizione anche se infrangiamo una sola di quelle assurde regole che trovi scritte ovunque.» Uriel sembrava più propenso alle spiegazioni ed al dialogo. Lo considerai un bene, ricordandomi che non avevo ancora letto tutto il regolamento.
   «Di solito di che tipo di punizioni si tratta?»
   «Le punizioni variano, a volte sembrano farlo persino da creatura a creatura. Non si sa mai cosa aspettarsi.»
   «Che scocciatura.» Mormorò Marek contrariato. Non fui in grado di percepire se si riferisse allo scambio di parole mio e di Uriel, o alla problematica delle assurde punizioni imposte in quel posto.
La sala d’attesa fuori la porta della direzione metteva abbastanza soggezione, c’erano sedie a circondare ogni angolo delle mura ed una cattedra al centro, che si scoprì essere di quella donna che mi aveva accolto il primo giorno. La chiamavano signorina Packard.
   «Di solito accoglie ogni nuovo studente…» Mi spiegò Uriel. «…Dimmi, qual è la prima impressione che ti ha dato?»
   «Mh… nonostante sembri giovane, la sua voce è molto roca e rugosa, mi chiedo quanti anni abbia. È incredibilmente alta e sarebbe una bella donna se non fosse per quel neo disgustosamente peloso.»
   «Sul serio, non riesco a capire cosa ci fai in questo posto.» Marek interruppe il mio pensiero col solito tono freddo ed irritante. «Sei sul serio una kumiho? Non ti sei accorta di niente. In realtà la signorina Packard è ultra centenaria. Ha un aspetto orribile.»
Sobbalzai nel momento in cui la porta dell’ufficio del preside si aprì, i due al mio fianco invece sembrarono non scomporsi, come al solito. Quella che uscì fu una smagliante signorina Packard. Marek diceva il vero? Non mi sembrava poi così orribile. Si avvicinò a noi e ci consegnò dei fogli con su scritto il regolamento da seguire mentre si era in classe, probabilmente come promemoria. Rimandai ancora una volta la lettura integrale del pezzo di carta.
   «Signorina Cester, non mi aspettavo di vederla qui così presto, mi sorprende.» Rimase perfettamente eretta con la sua cartellina rossa sotto braccio, aveva una espressione severa, ma non più inquietante di quella che emanava il professore. Per questo preferii non sapere di che razza era la “signorina”.
   «Mi scusi, noi stavamo solo scambiando qualche parola di conoscenza, come sa io sono nuova e loro cercavano solo…»
   «Il signor Vanomrigh ed il signor Kowalski cercavano solo di metterla nei pasticci, signorina Cester. D’altronde non è una delle loro prime punizioni. Vero signor Vanomrigh?» Mi interruppe bruscamente e ciò che riuscii a captare fu il cognome che m’era nuovo. A quanto pareva Marek aveva origini polacche o qualcosa di simile. «Per tanto, siete pregati di seguirmi.» Continuò e finì dandoci le spalle.
Mi alzai a mia volta dopo i due ragazzi ai miei fianchi, percorremmo i lunghi corridoi della scuola, alcuni ancora inesplorati per me e che dovevo ammettere in tutta quell’assurdità che lo stile barocco dava un aria lussuosa all’intero stabile – mi chiesi se avessi mai potuto visitarlo tutto, finimmo per uscirne da un grande portone con rifiniture in oro.
   «Dove stiamo andando esattamente?» Bisbigliai all’orecchio di Marek, o almeno tentai di avvicinarmi ad esso.
   «Lo saprà molto presto, signorina Cester.» Ed ancora una volta mi fece sobbalzare con la sua voce squillante e autoritaria. Camminammo per circa quindici minuti, forse percorrendo tutto il campus, ed invece eravamo solo usciti dal retro del palazzo in cui si tenevano le lezioni.
Fu allora che me ne accorsi; la signorina Packard si voltò verso di noi ed io cercai di trattenere il mio spavento. I nei pelosi apparirono persino più rialzati e la pelle costellata da rughe profonde, quasi gli copriva occhi e labbra. Era difficile distinguere mento e collo, mi sembrò ingrassata d’improvviso e decisamente più bassa. La voce rimase la stessa; ma forse era ciò che voleva dire Marek poco prima? Era il vero aspetto di quella sottospecie di demone vivente. Feci mezzo passo indietro, che sembrò essersi congelato sotto il suo sguardo vigile.
   «Come sapete, è proibito oltrepassare la Caed Dhu e difatti nemmeno voi lo farete. Per lo meno non del tutto.»
  «Cosa significa.» Mi voltai appena verso Marek, fu la prima volta che lo vidi con le sopracciglia aggrottate.
   «Che ci dovremmo fermare ai piedi della foresta per qualche motivo.» Uriel spezzò le parole alla signorina Packard, che accennò un sorrisetto compiaciuto, o almeno così sembrava. Non volevo guardarla a lungo – faceva quasi male.
   «Dovrete consegnare questo pacchetto al guardiano della foresta.» Porse l’oggetto, che sembrava anche troppo leggero, a Marek. Lui lo sistemò nella tasca interiore della giacca. «Bene, il mio lavoro è finito. Sono certa che la prossima volta ci penserete su due volte, prima di infrangere qualche regola.» Sebbene si stesse già avviando verso la scuola e parlasse con tono calmo e basso, riuscii a sentirla alla perfezione come se fosse a pochi centimetri di distanza da me. Diversi brividi mi scossero e purtroppo non riuscivo a nasconderlo.
   «Come tuo primo giorno non è il massimo.» Uriel avanzò qualche passo dopo quella frase, poi si voltò verso di noi e guardò Marek in modo diverso dal solito. Sembrarono capirsi senza dover parlare.
   «Anche per me è strano.» Disse l’altro infilando le mani nelle tasche, tuttavia entrambi avanzarono verso l’erba fresca del campus. Sentii del vento lieve dietro la schiena e ciò mi spinse a raggiungerli alla svelta.
   «Marek… cosa intendevi prima? C’è qualcosa che mi state nascondendo?»
   «Pensiamo semplicemente che sia strano, volpe. Questa foresta è invarcabile, persino fino al rifugio del guardiano che si trova proprio ai piedi di essa. Pensare che il preside abbia voluto mandarci qui solamente per qualche parola scambiata in classe, non mi sembra possibile.»
   «Cosa… cosa c’è in questa foresta? E perché è invarcabile?» Mentre la mia mente si riempiva di domande a cui poi davo voce poco dopo, mi voltai con lo sguardo verso il cielo, in prossimità di quella foresta sembrava non battervi mai sole, l’azzurro spiccato andava via via a sfumarsi in un blu sempre più tetro.
   «Ci sono i demoni disobbedienti, se vogliamo chiamarli in questo modo. Questa foresta è sigillata da una potente barriera che permette loro di essere rinchiusi qui in eterno. È una specie di inferno, mi spiego? Non possono nutrirsi e quindi patiscono la fame, sono assetati di sangue e di carne pregiata, per questo io e Marek non ci spieghiamo la cosa. Tu non dovresti essere qui
   «A noi è permesso venirci solo durante il campeggio che si tiene una volta al mese, ma quello è un altro discorso perché i demoni vengono neutralizzati dai professori… sei una kumiho Eireen, il tuo sangue emana un profumo estasiante per loro e la tua carne è una delle più pregiate, se non la prima. Quelle della tua razza si manifestano una volta ogni cento anni. Non è roba da poco.» Marek continuò il discorso di Uriel ed in poco tempo riuscirono a farmi comprendere la situazione in cui ci trovavamo. Diciamo che mi accorsi sin da subito che non erano bravi a far sentire qualcuno al sicuro.
   «E’ come essere gettati nella fossa del coccodrillo.» Dissi guardando nel vuoto, mi fermai senza rendermene conto. Cosa stava accadendo? Davvero gli apici di quella scuola erano così spietati? Non riuscivo a capacitarmene, sapevo già di non essere immortale come altre creature in quel posto e questo non era d’aiuto.
   «È già difficile per noi, resistere.» Uriel si voltò verso di me, aveva gli occhi tendenti al rosso e dopo avermi scrutato per qualche istante si voltò di scatto avanzando più velocemente. «Raggiungiamo quel cazzo di rifugio alla svelta.» Sembrò turbato tutto d’un tratto.
Con mia sorpresa Marek non obbiettò l’ordine, con lo sguardo mi fece intendere di stare al loro passo e mi posizionò tra lui ed Uriel, in modo tale che uno mi guardava le spalle e l’altro mi dirigesse.

 
A quel tempo non sapevo che quello sarebbe stato l’inizio di tutto.
 

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Capitolo 3
*** Act III ; Fox ears. ***



Act III ; Fox ears.

   «Di questo passo non arriveremo mai.» Sbottò Uriel guardando subito l’altro ragazzo, si lanciarono l’ennesimo sguardo d’intesa.
   «Cosa possiamo fare?» Domandai intontita. Nessuno dei due mi rispose, ma Marek mi si parò davanti e si inginocchiò quel tanto che bastava, voltandosi poi per fissarmi con espressione indecifrata.
   «Sali.» Sentenziò con un tono che non ammetteva repliche. Voleva portarmi in spalla, ma per quale motivo? Non obbiettai comunque e salii sentendo le mani fredde che mi reggevano le gambe. Avvinghiai le braccia al suo collo e distolsi il viso lievemente imbarazzata per la piega che aveva preso tutta la situazione in sé.
   «Ci vediamo tra… due minuti.» Sogghignò Uriel guardandoci, improvvisamente non lo vidi più. Sparì dai nostri occhi cominciando a correre talmente veloce che sembrava quasi volasse. Rimasi sbigottita e con le labbra socchiuse per la sorpresa.
   «Reggiti.» Fece Marek prima di partire. Non appena cominciò a muoversi mi resi conto di quanto anche la sua velocità fosse incredibilmente sorprendente, strinsi le braccia attorno a lui e nascosi il viso tra la nuca e la spalla, un po’ perché non riuscivo a sopportare tutto il vento che provocava spostarsi in quel modo ed un po’ perché ero troppo in imbarazzo. Il profumo di quel ragazzo in quel momento era ancora più palpabile ed inebriante. Qualcosa di unico e mai sentito, probabilmente non si trattava di colonia né di altre fragranze artificiali.
Le guance mi si colorarono di un consueto rosato che probabilmente faceva spiccare ancor più le lentiggini che odiavo, non ero in imbarazzo ma forse solo a disagio. Marek era freddo e sotto la sua pelle sembrava non pulsare nessun sangue, non riuscii a sentire nessun battito. Non aveva cuore? O forse la situazione mi giocava brutti scherzi? …Non appena mi mise giù tornai alla realtà, piegandomi momentaneamente su me stessa per l’improvviso conato che mi disgustava lo stomaco – era uno degli effetti collaterali dello spostarsi così velocemente, ma in modo ovvio loro ci erano abituati. Uriel era già lì che ci aspettava.
   «Sei lento come al solito, farfallina.» Fece riferendosi a Marek e rise appena. Io non ero in vena di ridere, mi accorsi solo qualche istante più tardi del buio che ci circondava in quel posto. Mi rizzai subito guardandomi attorno abbastanza spaventata, d’istinto mi avvicinai ai due trattenendo la manica della giacca di Uriel; ne scaturì un occhiata torva da entrambi i ragazzi. Le mie dita andarono a strattonarne il tessuto stringendolo appena.
   «L’avete sentito?» Domandai allarmata quando uno strano fruscio si levò tra i cespugli inquietanti di qualche passo più avanti a noi. Loro se ne accorsero qualche secondo più tardi e si pararono dinanzi a me facendo sì che potessi nascondermi dietro le loro schiene. «Dovremmo consegnare in fretta questa cosa ed andarcene all’istante…»
«Non vorrei allarmarti, ma hai mai sentito parlare di spettri?» Marek parlò a bassa voce, modulandone il tono in maniera tale forse da non farmi venire un infarto in quel momento. Uriel sospirò come seccato, anche se le loro espressioni rimanevano terribilmente serie, mi trascinarono con loro alla ricerca di quello stramaledetto guardiano che sembrava giocare a nascondino con noi. Fu proprio in quel momento che lo vedemmo, indietreggiai di qualche passo nonostante Marek mi tenesse il polso, ed era proprio impossibile liberarmici. Il mio viso era sconvolto, gli occhi pieni di terrore parlavano chiaro. Avevo paura.
«Cosa… cosa è quell’essere…?»
La figura completamente nera si fece spazio tre le erbacce secche, avanzava verso di noi e fu proprio allora che tutti e tre potemmo capire cosa ci stava davanti. Sembrava un essere umano, ma era chiaro che non lo fosse; aveva due bocche dai denti aguzzi e larghi tra di loro, i capelli sembravano le spire di un serpente. Non era molto alto, eppure bastò l’umidiccio attorno a quelle bocche larghe ad incutermi il giusto timore.
«Voi dovreste essere gli studenti di cui mi hanno parlato gli spiriti del bosco.» Parlò. Aveva una voce che sembrava non uscire dal suo corpo deforme, per un attimo infatti pensai che a parlare fosse stato qualcuno proprio dietro di me, ad un centimetro di distanza… ma voltandomi di scatto per lo spavento, constatai che non c’era proprio nessuno alle mie spalle. Dando un occhiata ai miei compagni mi accorsi che i loro denti si erano allungati e gli occhi di entrambi adesso fiammeggiavano in un rosso vivo; stranamente di loro non mi spaventai. Marek consegnò il pacco allo spettro del bosco ed indietreggiò poco dopo ritornando al fianco di Uriel.
   «Adesso possiamo andare?» Quest’ultimo sembrò controllare il suo solito tono irascibile, lo spettro storse i lineamenti già sfocati in un guizzo cattivo; “andate, ed attenti alla notte”, fu tutto ciò che disse prima di sparire nella coltre della sera.
I miei compagni rientrarono i canini e a me qualche brivido percorse la schiena; cercai di ignorarlo.
   «Mi rendo conto del perché la gente qui non ami le punizioni, siamo solo ai piedi della foresta, ma lì dentro…»
   «Uriel, torniamo.» Marek lo ammonì guardandolo di traverso, Uriel dal canto suo stette qualche secondo a soppesarlo, poi mi fece segno con la testa di seguirli per il ritorno in accademia.
Il ragazzo dagli occhi pece e la venatura dorata, mi prese in spalla proprio come all’andata, e circa un minuto dopo l’improvvisa luce ci stordì tutti e tre, ea qualcosa di incredibile, il tempo sembrava andare al contrario… se andando verso la foresta sembrava accelerare il processo notturno, tornando all’accademia gli ingranaggi partivano al rovescio inondando la radura di nuova luce. L’ultimo balzo di Marek ci portò a dieci metri dai cancelli d’ingresso, mi poggiò a terra facendomi segno di avanzare – Uriel intanto già si era incamminato qualche passo davanti a noi.
   «Almeno fino ai cancelli fingiamo di aver camminato.»
Borbottò la chioma corvina, proseguendo per conto suo.
 
Quella notte non riuscii proprio a dormire, continuavo a ripensare alle cose successe negli ultimi giorni, allo spettro agghiacciante che avevamo visto ai piedi della Caed Dhu e poi… non ero ancora riuscita a scoprire di che razza erano Marek ed Uriel; ormai avevo imparato che la parola “vampiro” non bastava a descrivere uno studente.
Sbuffai per l’ennesima volta, Dorothèe dormiva dall’altro lato della stanza con un sereno sorriso in volto ed i raggi del sole ormai oltrepassavano il tessuto delle tende lillà che la mia compagna aveva messo davanti la finestra, sorrisi di rimando mentre scendendo dal letto quasi non scivolai su un foglio abbandonato sul pavimento, raccogliendolo mi resi conto fossero le regole scolastiche che ancora non avevo preso la briga di leggere.
 
“Regolamento scolastico:
1: non rivelare la propria identità (né mostrare i propri poteri) agli umani.
2: Non oltrepassare i confini dell'accademia.
3: E' vietato l'uso delle proprie capacità all'interno dell'accademia, se non durante dimostrazioni e/o lezioni inerenti.
4: Non saltare le lezioni, a meno che non siano giustificate dal preside.
5: Rispettare il coprifuoco notturno. ( Si ricorda agli studenti che il controllo nelle camerate è prefisso per le 22:00 ).
6: Sono vietate le relazioni amorose tra gli studenti. 7: Qualsiasi creatura che abbia bisogno di sangue, o altro nutrimento derivato da esseri umani, dovrà procurarselo alla mensa.
8: E' previsto una volta al mese un campeggio che si terrà nella Caed Dhu - a rotazione per ogni classe, nessuno studente può sottrarsi senza ricevere penalità.
9: E' ASSOLUTAMENTE vietato introdursi nella Caed Dhu nei giorni comuni e senza permesso.
10: E' vietato disturbare le lezioni ed arrivare in ritardo ad ognuna di esse.
11: E' severamente proibito girovagare nell'ala est dell'accademia.
12: E' vietato agli studenti di sesso maschile girovagare nei dormitori femminili, e viceversa.”
 
Recitava così il foglio attaccato quasi in ogni angolo dell’accademia. Roteai gli occhi al cielo e lo abbandonai sul letto alzandomi di lì; chiamai Dorothèe per avvertirla ch’era ora di alzarsi mentre mi apprestavo ad indossare la divisa. Quell’azione che ormai ripetevo spesso mi faceva render conto d’essere diventata a tutti gli effetti un allieva della Saint Bàra. Eppure nonostante fossi parte integrante di quel mondo, mi sentivo sempre come il pezzo di un puzzle che non riusciva ad incastrarsi col disegno che lo circondava, ma che per disgrazia anzi aveva perso i pezzi perfetti per lui, per me.
Vidi Marek entrare in aula poco dopo il mio arrivo, aveva le solite cuffie alle orecchie ma io non ci avevo messo molto a capire che non ascoltava proprio nessun tipo di musica; probabilmente le teneva su solo per non esser disturbato da nessuno. Poco dopo arrivò anche il professore, ma di Uriel nessuna traccia, Dorothèe mi aveva detto che lui saltava spesso le lezioni scolastiche per “questioni di salute” anche se non seppe dirmi nello specifico di cosa si trattasse.
   «MAREK KOWALSKI!» La voce dell’insegnante tuonò all’interno dell’aula, cercando disperatamente di richiamare il mio compagno che si era appisolato sul banco. Marek sollevò il viso allargando appena le narici in un’espressione dallo sguardo apatico. «Pensi di essere in camera tua? Questa è una lezione, non vedi?»
Il mio compagno sorrise mesto grattandosi il mento e togliendo una cuffia.
   «Me ne dispiace, non volevo addormentarmi ma Eireen mi ha detto che solitamente le sue lezioni sono inutili e che potevo tranquillamente occupare il tempo dormendo.»
Il panico dilagò sul mio viso, ed invano cercai di giustificarmi in qualche modo. Una volta sbattuti fuori dall’aula, lo guardai da qualche passo di distanza, infuriata e delusa da non so cosa.
   «Sei uno stupido, un imbecille!» Sbottai, gli diedi istintivamente un calcio sullo stinco dimezzando completamente la distanza tra noi.
«Vuoi lottare con me, piccola volpe?» ghignò in modo malvagio e sembrò che il mio colpo non gli aveva sortito nessun effetto. In meno di un nano secondo Marek si avventò su di me bloccandomi per le spalle e sbattendomi contro il muro. Il tonfo che si sentì fece piombare il silenzio lungo tutto il corridoio. Poggiò le labbra tra il muro e l’incavo del mio collo, allungando i canini il giusto necessario perché ne sentissi la consistenza sulla carne.
   «Quando decidi di lottare con qualcuno, assicurati di poterne uscire vincitrice.» Sussurrò maligno, ritirò poi i denti lasciandomi andare come se mi ripudiasse, io dal mio canto non riuscii a catalogare una solo singola emozione che sentivo in quel momento e fu proprio allora che la mia schiena scivolò contro il muro lasciando che mi rannicchiassi a terra. Non ero imbarazzata ma anzi, avrei potuto morire per la paura che quell’idiota mi aveva provocato. Magari era proprio come nei film e sarei diventata un vampir-volpe o qualcosa del genere, il solo pensiero mi fece raggelare, non volevo bere il sangue di nessuno.
Il corridoio era deserto e dall’aula sembravano non aver sentito nulla o forse lo ignoravano semplicemente. Marek aveva gli occhi rossi, evitò in tutti i modi di incrociare i miei e si poggiò contro il muro a pochi passi da me.
   «Sei brava a sferrare calci, dovresti farlo per professione.»
Lo fulminai con gli occhi, mi sollevai da lì e a grandi passi lo raggiunsi, misi le mani contro le sue spalle e gli conficcai le unghie nella giacca anche se non erano di certo affilate ed in grado di lacerargli il tessuto. A stento trattenevo la rabbia.
Lo guardavo negli occhi nuovamente neri, tentai di mantenere lo stesso sguardo duro con tutta la buona volontà ma mi scappò una lacrima proprio nel momento meno opportuno e chissà poi per quale assurdo e sconcertante motivo.
   «Andate tutti al diavolo.» Bofonchiai stizzita, allontanandomi da lì; punizione o meno non m’importava molto. Mi sentii afferrare però il polso poco dopo, le dita di Marek erano così fredde da incutermi tristezza immediata.
   «Per ora andiamo a mangiare, ho fame.» Disse dopo qualche secondo passato a soppesarci e dove il silenzio aveva regnato sovrano, mi trascinò con sé verso la mensa e ogni qualvolta cercassi di liberarmi da lui, mi stringeva di più – capii che era tutto inutile e quando mi calmai intrecciò le sue dita alle mie. Il cuore si spostò dal petto alla gola, non ne fui certa ma in quel preciso istante avvertii un lieve sorriso sul suo viso.
   «Non puoi fare sempre come pare a te!» Sbottai stizzita, la mensa a quell’ora era completamente vuota.
   «Dicono che da sazi il mondo si veda con occhi diversi, pensa a tutta la carne che hai desiderato sino ad ora e mangia.»
Avevo sempre desiderato carne di lepre o capriolo, ma mentre pensavo a quello Marek recuperò dalla mensa un bicchiere contenente liquido rosso e una cannuccia; non faticai a capire che quello non era vino, evitai di pensare all’assurdità invece della cannuccia. Presi tuttavia la mia porzione di carne al sangue ed occupai un tavolo a caso, alla Saint Bàra la mensa era sempre aperta. Incredibile.
   «Vuoi provarlo? Se ne ingurgiti una sorsata farò qualcosa che vuoi particolarmente. Tranne morire, non ne sono in grado.» Fece sedendosi di rimpetto a me.
   «Non ci penso proprio, puzza da morire. »
   «Ci sono vampiri che per questa puzza perderebbero ogni traccia d’umanità.» I suoi occhi s’incupirono, temporeggiai per qualche istante, poi decisi di ignorare quella sensazione angosciante.
   «Fai questo perché speri che ti offra un po’ del mio coniglio forse?» Storsi il naso accentuando quello spruzzo di lentiggini, cercavo di non toglierti gli occhi di dosso come se lo stessi sfidando e nel mentre rendevo più noto il fatto di star sgranocchiando ossa di coniglio facendo un sonoro rumore con la lingua e fastidiosi schiocchi di labbra. Marek inarcò un sopracciglio e si sporse contro il tavolo verso di me, chiudendo gli occhi e respirando profondamente.
  «Tu hai un sapore decisamente più buono di questo coniglio, eppure non ti ho mai mangiata… perché dovrei assaggiare questo?» Piantò gli occhi adesso violacei sul mio viso, mantenendo un tono basso mentre un lento sorriso gli curvava le labbra. In quel momento arrossii per la prima volta davanti a lui, sentivo qualcosa di strano sulla mia testa e quando lo vidi alzare lo sguardo su di essa con espressione quasi assorta, mi toccai il capo sentendo la morbidezza di due orecchie… da vera volpe. Che diavolo stava accadendo? Bastava che m’imbarazzassi e spuntavano quelle cose da mostro? …L’osso che fino a poco prima stava tra i miei denti cadde nel piatto, di scatto andai a rintanarmi sotto il tavolo coprendomi quelle cose orripilanti.
   «Se mi guardi ti ammazzo!» Dissi stringendo gli occhi, era la temperatura sotto quel tavolo ad essere tanto elevata? …Osservai le gambe di Marek che non si mossero di un millimetro, allungai titubante la mano verso la sinistra e gli strinsi appena la stoffa dei pantaloni. «Sei serio quando dici di volermi mangiare?»
Con un movimento repentino liberò la gamba dalla mia presa e si abbassò accucciandosi insieme a me sotto il tavolo, mi afferrò il polso prima che potessi sfuggirgli. Vidi i suoi denti scoprirsi in un ghigno divertito.
   «Tu che dici? Secondo te voglio mangiarti sul serio? Avrei potuto farlo quando mi sei venuta addosso la prima volta, poi la seconda ed infine anche prima in corridoio. Potrei farlo anche ora pensandoci.» Si sporse verso di me aprendo la bocca quasi come se si stesse preparando a mordermi, io sobbalzai appena e lui si fermò invece esattamente ad un centimetro dal mio viso, soffiandoci sopra il suo alito freddo, quasi glaciale. «Ho deciso che per oggi sarai mia. Scommettiamo che entro la fine del mese sarai tu quella a seguirmi spontaneamente?»
 
Il suo tono basso e roco mi fece immobilizzare, la mano libera di Marek carezzò il mio orecchio che come turbato da una scossa elettricità si mosse appena, arrossii di nuovo. Mi sentii nuda davanti a quegli occhi dal colore sempre diverso e travolgente quanto malinconico.
Mancavano ventisei giorni alla fine di quel mese, ventisei giorni in cui un finale già incerto sarebbe divenuto impossibile.

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Capitolo 4
*** Act IV ; Shadows and darkness. ***




Act IV ; Shadows and darkness.


Mancavano ventiquattro giorni allo scadere quella tacita scommessa che Marek aveva deciso d’imporre, per quanto tentassi di non pensarci e fingere che la cosa non mi toccasse – c’era qualcos’altro che m’impediva la totale indifferenza sulla questione. Dopo aver raccontato a Dorothèe cos’era successo in mensa, lei aveva messo su un’espressione dubbiosa ed affranta, non ne conoscevo di preciso il motivo ma ormai per tutte le volte che mi aveva consigliato di star lontana sia a Marek che ad Uriel, avevo capito che non gli stessero molto simpatici. Eppure ogni qualvolta cercavo spiegazioni lei mi sorrideva carezzandomi la testa, il modo in cui lo faceva era così dolce e magnanimo che il cuore sembrava sciogliersi poggiandosi nelle sue mani. Di solito accostava la fronte contro la mia e cantava melodie per rassicurarmi o forse per trovare il modo giusto di sviare troppe domande, mi rilassavano la sua voce ed i suoi mugugni – tanto che ogni altra informazione mi pareva superflua, sul momento.
Ma Dorothèe quella sera non c’era in camera, doveva scontare una punizione di cui non aveva potuto dirmi nulla. Lo stesso pomeriggio come di suo solito si era spogliata restando completamente nuda ed aggirandosi per i corridoi del dormitorio toccando e dando vita ad ogni piantina appassita; a volte mi piaceva paragonarla a madre natura, era così bella e delicata, così libera e priva di barriere che le sue stramberie passavano in secondo piano ogni volta.
Mancavano quindici minuti all’inizio del coprifuoco notturno, decisi che il tempo era abbastanza per poter fare una passeggiata schiarendomi le idee e magari per trovare una soluzione per scoprire le razze dei due vampiri decidendo così da me se fosse il caso o meno di starne alla larga. Tutto quel mistero mi asfissiava, mi rendeva stanca, fiacca.
All’ennesimo sospiro alzai lo sguardo verso la lontana foresta che avevo visto da vicino qualche giorno prima, il raccapriccio invase la spina dorsale ed aggrottai la fronte sentendomi bruciare gli occhi a tenerci troppo su lo sguardo. Lo distolsi quanto prima, avanzando il passo a testa bassa fino a schiantarmi con la fronte contro qualcosa.
   «Accidenti!» Mi massaggiai il capo leggermente stordita, da quando ero lì avevo sbattuto contro Marek, contro la testiera del letto, lo stipite della porta, il professor Alais ed ora… ora cosa avevo colpito? …Per fortuna il sorriso mi tornò osservando una figura amica. Uriel mi guardava dall’alto con un’espressione che mi pareva diversa da quella che aveva durante il giorno. «Ah scusami… sembro avere la brutta abitudine di sbattere contro cose o persone.» Il mio piccolo riso apparì nervoso, non sapevo perché. Chinai appena il capo per congedarmi e superarlo – l’orologio al polso segnava meno cinque minuti all’inizio del coprifuoco.
I movimenti che seguirono furono rapidi, Uriel fece un passo verso di me e la mandritta raggiunse il mio braccio, cercò di avvolgerlo tramite una mano senza permettermi di fuggire da lui e ci riuscì senza ulteriori sforzi.
   «Ti sembra il modo di farti perdonare, latticino?»
La sua voce era leggermente diversa, roca, bassa. Mi strattonò con forza verso di sé.
   «Uriel… cosa ti prende? Lasciami subito.» Sbottai presa da un improvviso panico, mi tornarono in mente le parole di Dorothèe e chissà perché anche il viso di Marek.
Cercai di far del mio meglio per non guardarlo ancora una volta negli occhi, da quando l’avevo fatto uno strano senso di tristezza ed inquietudine mi avevano pervaso il petto, eppure la tentazione di fissarli era talmente grande che pareva impossibile non cedere.
   «Facciamo un gioco, che ne dici, latticino?... Fammi compagni per altri…» Ci fu un momento di pausa, l’altra mano recuperò il proprio cellulare e controllò su di esso l’orario tornandomi a guardare con un sorrisetto divertito. «…Due minuti?»
Sgranai gli occhi rendendomi conto che due minuti dopo sarebbe scattato il tanto odiato coprifuoco, cercai di divincolarmi dalla sua presa con scarso successo protestando in ogni modo a voce bassa e con qualche colpo che gli davo sulla schiena con la mano libera, Uriel aveva preso a trascinarmi all’interno dell’accademia ma eravamo troppo lontani per raggiungere i dormitori in due minuti.
   «Dovresti imparare a convivere con le stranezze di questo posto.»
   «Non è il momento giusto di inculcarmi lezioni su questo posto Uriel, mi spieghi che ti prende? …Pensavo fossi diverso, mio amico…» Si fermò di scatto, voltandosi verso di me e guardandomi in silenzio per qualche secondo.
   «Regola numero due: non fidarti di nessuno qui dentro, è un azione stupida e mi aspetto tu abbia un minimo di intelligenza.» Uriel sembrò cercare qualcosa con lo sguardo subito dopo, poi recuperò il telefono nuovamente, ghignò soddisfatto guardando lo schermo che gli illuminava il viso adesso. «Regola numero tre: dal momento in cui metti piede in questa accademia la tua vita dipende costantemente dal ticchettio di un orologio.» Sentimmo il bruscio dei passi di chi, a quell’ora, doveva controllare che nessuno fosse in giro, mi allarmai in brevissimo tempo cercando una soluzione che non arrivò. «Sta a te capire se vuoi essere condizionata fino a questo punto od opporti. Sono le dieci, latticino.» Le sue ultime parole furono accompagnate dal richiamo di due guardie notturne.
  «Ti sto dicendo che voglio decidere di non trovarmi di nuovo in un assurda punizione.» Lo guardai risentita ed accigliata, lui picchiettò la lingua sotto al palato e mi trascinò nella direzione opposta alle guardie. «Uriel che accidenti fai? Lasciami! Andiamo in segreteria prima che la punizione degeneri…» Afferrai con la mano libera il braccio con cui mi teneva, la sua sembrava un assurda tenaglia. Pareva imboccare i corridoi durante quella fuga senza riflettere, ma essi indirettamente ci portano verso i dormitori. Gli schiamazzi delle sentinelle erano forti e chiari, alle due iniziali se ne aggiunsero altre due davanti alle quali passammo davanti in un bivio,
   «Sei con me, la punizione sarà grave a prescindere.» Disse con tono quasi malinconico. Rallentò un momento la corsa imboccando un altro corridoio, ci fermammo davanti ad una colonna barocca, avvolse la mia vita per trascinarmi nell’angolo di essa, all’ombra di quelle luci fioche attaccate alle pareti. Mi si parò davanti, sfiorava i miei tratti per la vicinanza e le sue mani si poggiarono al muro alle mie spalle. «Fai silenzio.» La voce grave sembrò rallentare persino il mio respiro spaventato, portandomi ad un livello di terrore che non seppi catalogare. Si allontanò di poco, guardando il pavimento mi accorsi di un particolare agghiacciante. Ai piedi di Uriel vi erano due ombre, fu come se nel giro di un secondo esse prendessero sostanza, aprì gli occhi improvvisamente, iridi e pupille completamente candide, di un bianco ottico spaventoso – sentii le gambe cedere e senza rendermene conto chiamai Marek mentalmente.
Le ombre ai piedi di Uriel si sollevarono avvolgendoci del tutto, come se diventassimo una cosa sola con l’oscurità.
Le sentinelle passarono senza vederci, dopo pochi minuti abbandonarono il corridoio decidendo che non ci fosse nessuno – il mio cuore eppure palpitava talmente tanto che temevo potessero sentirlo da un momento all’altro. Quando fummo nuovamente soli, tutto tornò alla normalità, anche se Uriel aveva sempre due ombre ai suoi piedi. Che diavolo di razza era la sua? …Si allontanò di qualche passo da me, mi accorsi che evitata volutamente il mio sguardo.
   «Volevo solo farti capire quanto può essere inaffidabile questo posto. Tieni in considerazione le regole che ti ho detto.» Prese qualche momento di pausa, poi sospirò. «Riesci a muovere le gambe, vero?»
Annuii, ma non riuscii a parlare, restai con la schiena contro il muro e con la bocca impastata, le mani contro il petto a cercare invano di calmare i respiri affannosi. Uriel tentò di voltarsi verso di me, non ci riuscì. Il silenzio fu spezzato solo da quei passi che si allontanavano per conto loro.
Non seppi esattamente quanto tempo restai in quella posizione, non appena mossi un passo le gambe cedettero facendo rimbombare il tonfo del mio corpo verso terra, lungo tutto il corridoio deserto.
   «Dorothèe… devo andare da Dorothèe.» Biascicai, mandai giù il fastidioso e bruciante bolo di saliva e mi alzai reggendomi alla colonna, mossi passi lenti verso l’ingresso del dormitorio femminile e via via presi a correre fino ad arrivare alla mia stanza, aprii la porta richiudendola subito dopo alle mie spalle non preoccupandomi dello schianto che non fece sobbalzare nessuno. La mia compagna non era ancora rientrata in camera, che punizione stava scontando la mia Dorothèe?
Mi guardai attorno allarmata, andai verso la finestra aperta che lasciava oscillare la tenda lillà all’interno della stanza; ero sicura di averla lasciata chiusa prima di uscire, in un gesto veloce la calai verso il basso sentendo il tessuto violetto aderire alla mia schiena in mancanza di vento che lo facesse svolazzare. Sospirai di sollievo e tentai di liberar la mente dalle mille domande, mi chiesi se Dorothèe sapeva delle ombre di Uriel. Avevano sicuramente a che fare con la sua razza.
Mi misi sotto le coperte dopo una doccia fredda, guardai il letto vuoto della mia amica e le diedi mentalmente la buonanotte – non fu difficoltoso addormentarmi per fortuna.
 
Cominciai a sudare solo dopo diverse ore, il respiro divenne corto e sentivo un peso allo stomaco che mi rendeva impossibile il normale rigonfiamento della pancia che mi serviva a prender fiato. Gli occhi sembravano chiusi col cemento, feci una così grande fatica ad aprirli che temetti d’essermi privata di qualsiasi forza avessi. Le tenebre mi avvolgevano facendomi sentire claustrofobica, il senso di oppressione al petto non svaniva… vidi due occhi od almeno mi parve di vederli, erano dapprima distinti solo da qualche venatura dorata sospesa in mezzo a tutto quel nero, poi divenirono di un rosso accecante che sembrò illuminare anche il corpo della persona che mi stava accovacciata sulla pancia. Era un viso che conoscevo bene, Marek mi osservava bramando qualcosa che non riuscivo a capire, si era messo sul mio corpo concentrandone il peso proprio sul punto in cui avvertivo difficoltà, aveva il viso scarno e delle occhiaie violacee. Si leccò le labbra naturalmente rosse e ne avvicinò il viso al mio. Chiamai il suo nome mentalmente ancora una volta, siccome era impossibile per me prendere parola.
Lui non mi rispose, nemmeno allora.
Marek mi privò di tre respiri, lo sentii risucchiarli dalle mie labbra con eccessivo desiderio. Le mani, ora più calde rispetto a tutte le altre volte mi carezzarono la guancia in segno di scuse probabilmente.
Toccò la mia bocca con la sua, mi privò di altri due respiri ma stavolta fui io che non feci uscire il fiato – sospendendo ogni attività necessaria ed abituale che al mio corpo serviva per sopravvivere. Quando si staccò i suoi occhi si mischiarono di nuovo alla coltre della notte e la sua figura assunse un aspetto deforme, sino a disperdersi con l’ambiente circostante.
  
    «MAREK!» Esclamai mettendomi a sedere in mezzo al letto, mi toccai la gola cercando di regolarizzare il respiro con scarso successo inziale. Avevo la fronte imperlata di sudore ed un affaticamento improvviso mi premeva sulla schiena, voltandomi verso il letto di Dorothèe notai il bozzo di coperte che mi avvertiva fosse lì con me, finalmente.
   «Dorothèe…» Chiamai il suo nome una sola volta e con voce modulata, cauta, come se non volessi svegliarla sul serio… eppure lei si alzò subito mettendosi a sedere come me al centro del suo letto, mi guardò con un sorriso criptico dall’altro lato della stanza.
Allargò le braccia, invogliandomi ad andarle incontro e passare la notte con lei.

 
                                  
 
Marek special POV.
 
 

Aveva un profumo al quale non sapevo resistere. Ne ero rimasto catturato sin dal nostro primo incontro perché quel particolare odore era sopito tra i miei ricordi recenti. Se quindici anni possono effettivamente essere considerati tali, ma il tempo per un “non morto” è sempre una questione effimera e priva di sostanza. L’odore, quell’odore, era sempre provenuto da quei capelli color caramello, dalla pelle bianca ed il battito del cuore appena accelerato – ogni volta che i suoi occhi vispi incontravano i miei troppo cupi per tutta quella vita che si portava dietro. Riuscivo quasi a vedere attraverso le vene sottili del braccio, il flusso sanguigno che lento pompava fino al cuore.
Ciò che lei non poteva sapere, era che quello in accademia fu il nostro secondo incontro – ma non mi premurai di farglielo sapere, d’altronde perché dirle che quindici anni prima le avevo portato via il primo respiro?
Era la mia condizione di non vita, il modo in cui la notte amavo nutrirmi. Avevo due modi per farlo ed entrambi servivano a scopi diversi.
I canini da sempre, mi erano serviti per portar via il sangue dolce di persone pure e con esso me ne nutrivo e sopravvivevo, ma per tenere in vita la mia anima invece il sangue non bastava – era l’agonia della razza a cui appartenevo; ero un ALP, uno scomodo e lurido vampiro a caccia di sangue e respiri vivi. Di sogni e dormiveglia.
Ero l’essere coinvolto nelle paure della mente e del sonno, virtualmente impossibile da uccidere. Avrei potuto portar via venti o più respiri ai petti sui quali mi sedevo la notte sino ad ucciderli soffocandoli, tutto ciò solo per tenere sveglia la mia anima ed avere un giorno la speranza di non perdere totalmente i pochi stralci d’umanità che essa portava con sé.
Ma lei, lei era qualcosa che non potevo uccidere. Ad impedirlo un legame che nemmeno io a quel tempo sapevo spiegare, sulle prime pensai di starle alla larga, di ripudiarla ed evitare la vista di quei occhi che sembravano avere la costante necessità di tuffarsi nei miei come meglio credevano. Poi, l’averla accanto più di quanto volessi, cambiò leggermente le cose.
Come una falena dalla luce, la mia anima malridotta era attratta indissolubilmente dalla sua.

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Capitolo 5
*** Act V ; Doubts and solutions. ***




Act V ; Doubts and solutions.

Quando i primi raggi disturbarono le palpebre dormienti, riuscii a muovermi a malapena sotto la stretta ancora salda di Dorothèe. Dopo tanto tempo riuscii a svegliarmi con un sorriso sulle labbra e anche lei sembrava esser serena; come sempre del resto. Scostai il suo braccio tentando di non svegliarla e con mia sorpresa ci riuscii; di solito ogni mattino libero dalle lezioni mi recavo in biblioteca per poter studiare meglio i mille appunti e capire un po’ di quelle strane materie uniche al mondo, che di sicuro una volta uscita da lì non mi permettevano di certo di entrare nella facoltà di medicina. Probabilmente se mia madre l’avesse saputo sarebbe andata su tutte le furie, o forse no? Forse aveva solo abbandonato l’idea di avermi come figlia? Dopotutto dopo i fatti accaduti non ero nemmeno sicura di avere un posto in cui stare una volta uscita di lì. Pensai che probabilmente avrei potuto stare con Dorothèe, sempre se avesse cercato un tetto sotto il quale vivere e non un albero covo da abbellire e coltivare.
Oppure avrei potuto chiedere a Marek… no, ma che pensieri assurdi e sconcertanti facevo? Scossi la testa con insolita energia e proseguii verso il corridoio a quell’ora desolato e come volevasi dimostrare, lo era anche la biblioteca.
I miei passi calmi e lenti quasi facevano da eco a quel posto maestoso ed affascinante, interamente in legno di pino e con delle grandi finestre che toccavano addirittura il soffitto – non volendo esagerare, pensavo che fosse alto come un palazzo di tre o quattro piani. Vi erano pile e pile di libri su qualsiasi cosa, variavano tra i titoli più improbabili a quelli invece più semplici, sembravano infatti suddivisi per soddisfare lacune e curiosità di ogni studente.
Quella volta però, contrariamente alle altre, non ero lì per decifrare i mille termini indicibili dei miei appunti, bensì per cercare il massimo di informazioni che riuscivo a ricavare sulle kumiho e… sui vampiri. Il sogno della notte precedente era stato così reale che sebbene Dorothèe mi stoppò prima che glielo avessi raccontato, faticavo a credere non fosse successo realmente.
Sfioravo con l’indice ogni copertina che oltrepassavo e che non era nel mio interesse, fino ad arrivare finalmente ad uno di quelli che volevo.
   «Ah! Ti ho trovato.» Dissi entusiasta, sfoderando un semplice ed impulsivo sorriso. Feci per sfilare il libro dallo scaffale ma una forza me ne impedì il completo atto, tanto che poco dopo mi fu completamente tolto di mano dando visuale al viso di Marek che ghignava già divertito.
   «Mi hai trovato davvero volpe, hai fiuto… ma ti ricordo che manca ancora un po’ alla fine dei trenta giorni.» Scomparve dalla mia vista prima che potessi rispondere, sospirai roteando gli occhi al cielo e quando mi voltai me lo ritrovai accanto.
   «Devi proprio apparire in questo modo?» Sbottai toccandomi il petto e modulando il respiro affinché non svenissi… poi smisi completamente di emetter fiato quando i ricordi della notte precedente m’invasero ogni pensiero.
Marek era lì davanti a me che scrutava quel libro, se lo rigirava tra le mani cercando probabilmente qualcosa da dire.
   «Dovrei ridartelo?» Mi domandò.
   «No, dovrei semplicemente riprendermelo.» I ruoli iniziali sembravano essersi invertiti, forse anche lui se ne accorse ed infatti sentendo il mio tono inviperito aggrottò la fronte cercando di scrutarmi.
   «Perché hai smesso di respirare prima?» Chiese insospettito, Allungò il libro quasi come volesse restituirmelo e non appena la mia mano fece per chiudersi su di esso, lo ritirò di scatto sollevandolo appena sopra la testa. «Dovresti parlarmi con tono più gentile sai? Non va mica bene. Com’è che da altri ti fai abbracciare dietro i pilastri la notte, e quando vedi me sei perennemente arrabbiata?»
Sgranai gli occhi, come diavolo faceva a saperlo? Ci aveva visti? Perché non era venuto da me quando avevo chiamato il suo nome? Lo guardai per qualche secondo non sapendo cosa dire, poi mi sollevai sulle punte tentando di raggiungere il libro tenendo il viso alzato, il naso per un istante andò a sfiorare il suo mento facendomi scostare all’istante.
   «Non stavo abbracciando Uriel, lui mi stava solo proteggendo dai…» abbassai la voce volendo essere sicura che nessuno sentisse. «…Dai guardiani notturni.»
   «Non m’interessa la tua versione dei fatti, Eireen. Né tanto meno m’interessa cosa fai con gli uomini la notte. D’altronde che sei una volta ormai lo sappiamo tutti.» Abbassò improvvisamente il braccio facendo collidere la copertina dura del libro con la mia testa, provocando un rumore sordo.
   «Sul serio ti chiedi perché sono sempre arrabbiata quando ti parlo, Marek? …Non volevo incontrare nessuno oggi, non sono dell’umore e mi sento stanca come se mi avessero privato di una forma d’energia di recente.» Decisi di metterlo alla prova, di constatare se quello della notte precedente era stato sul serio un sogno o meno. Lo guardai volendone studiare ogni cambiamento d’espressione, ma quella volta la sua non mutò molto – nessun segno di colpevolezza o dispiacere oltrepassò il suo viso. Mi fece cenno di seguirlo anzi, sventolando il volume a mezz’aria iniziando ad inoltrarsi lungo gli scaffali e corridoi dell’immensa biblioteca fino ad arrivare ad un tavolo che sembrava quasi messo lì di proposito. Accerchiato da tre file di scaffali, sembrava posto al centro di un’ala fatta solo per noi di fronte ad una vetrata che dava sul giardino accademico. Spostò una delle sedie sedendovisi.
   «Cos’è che stai cercando esattamente in questo libro?» Mi domandò cambiando completamente discorso.
   «Può dirtelo anche solo il titolo, magari così capisci che non sono una volpe, ma una kumiho.» Mi sedetti al suo fianco storcendo le labbra in una smorfia.
Perché non avevo paura di lui? Perché?
Sfiorai la copertina, dopodiché lo guardai per un secondo ed aprii la prima pagina leggendo in silenzio l’introduzione.
   «Voglio che leggi anche per me.» Disse tenendosi il viso contro il palmo della mano, rivolto verso di me per potermi osservare. Il tono di voce fu modulato, rassicurante quasi.
   «C’era scritto che le volpi sono aggressive se vengono stuzzicate anche solo un minimo, ma sono molto docili ed affettuose se invece gli vengono fatte le coccole.» Sorrisi appena rivolgendogli uno sguardo, lui non cambiava mai espressione eppure quegli occhi neri sembravano inghiottirmi ogni volta. «Ah, eccolo! Questo capitolo parla nello specifico delle kumiho, mnh… vediamo…» Il mio dito vagava velocemente tra quelle righe scure e ci si soffermava per un po’ in alcuni punti per poi ricominciare. «Secondo la mitologia giapponese, la volpe è un essere dotato di grande intelligenza…»
  «Beh, avrei da ridire.» Mi interruppe, lo ammonii con lo sguardo e lui scrollò appena le spalle.
  «…In grado di vivere a lungo e di sviluppare con l’età poteri soprannaturali. Non saprei se è attendibile… ah, qui dice: le kumiho appaiono spesso con l’aspetto di una bella donna a cui nessun uomo può restare indifferente. Ha doti innate da seduttrice…» Mi voltai ancora verso di lui, volendo sapere interiormente se aveva da ridire anche su quel punto. Non espose parole, si limitò ad invogliarmi a continuare con un colpo secco col viso. Finsi di schiarirmi la voce e ripresi. «Le kumiho nascono ogni cento anni, dalla morte della precedente – nella stessa stirpe familiare. Possono vivere massimo mille anni, ma se solo una delle proprie code viene tagliata, potrebbe morire anche subito.»
Il tono in cui lessi le ultime righe fu vagamente triste, Marek sollevò una mano dandomi un buffetto sulle fronte, inarcando un sopracciglio, sporsi le labbra in una smorfia e finsi di dargli un pugno.
   «Mille anni pensi siano pochi o molti? Ti dico io la risposta esatta: non esiste risposta. Se nella tua strada vi è qualcosa che vale la pena di vivere allora mille anni potrebbero quasi volare. Se invece non c’è… sarà il supplizio e l’agonia in terra, e mille anni li sentirai tutti. Uno per uno.» Un brivido mi percorse la schiena, volevo sapere quanti anni avesse in realtà. «Nessuno toccherà la tue code, se non posso mangiarle io perché dovrei dar questo piacere ad altri?» Mi canzonò stendendo il capo sulla scrivania, inchiodandomi lo sguardo addosso; nel mio stomaco si smosse qualcosa. «Penso che se i miei ultimi cent’anni fossero stati così… non mi sarebbero pesati così tanto.» Restò in silenzio per un istante. «Perché in quel caso avrei potuto passare il tempo a tormentarti.»
Per qualche motivo non volli credere a quella giustificazione, chiusi il libro facendolo scorrere lontano da noi. Lo imitai senza pensarci oltre e poggiai quindi il viso contro il ripiano in legno, parandolo di fronte al suo ad una distanza abbastanza minima, posai le mani sulle ginocchia e ricambiai il suo sguardo mentre gli sorridevo, avrebbe potuto vedere la fossetta che si venne a creare sulla guancia scoperta.
   «Ti sei appena preso la responsabilità per le mie code.» Biascicai, dimenticando i respiri che mi aveva già rubato nel sonno; in quel momento si era preso qualcosa di molto più importante. «Hai detto che le proteggerai.»
Lì, in quel pomeriggio che avrebbe fatto parte dei miei ricordi e dove voltandomi indietro avremmo avuto entrambi la stessa età. Quando io sarei invecchiata e lui invece avrebbe continuato nella sua maestosa e giovane età, se entrambi avessimo guardato attraverso la serratura di quella porta, nei nostri cuori ci saremmo rivisti in quel modo; testa contro testa, una bruna e l’altra rossa, a guardarci parlandoci e perdendoci.
   «Penso che le code siano una delle parti più attraenti di una kumiho.» Sorrise curvando un solo angolo delle labbra, allungò il dito sulla mia fossetta, scavandola quasi con delicatezza per aggrottare poi la fronte. «…Anche queste sarebbero carine da proteggere, e anche le orecchie. Certo mica faccio niente per niente, dovresti proteggere anche tu qualcosa. Dare per ricevere, il riassunto di tutti i rapporti… umani e non.» Sentii il respiro di Marek, gelido che mischiato al mio così caldo temevo potesse condensarsi e dar vita ad un uragano delle stesse dimensioni di quello che a breve si sarebbe spalancato nello stomaco.
   «Non sono sicura che tu voglia sul serio la mia protezione, ma… proteggerò il tuo calore che dura solo un secondo.»
La ricordavo, la sua pelle quella notte, la notte in cui aveva rubato i miei respiri era diventata calda quasi quanto la mia. Era quello che avrei voluto proteggere; istintiva e forse anche troppo avventata nel proferire parole tanto importanti. Eppure in quel momento era ciò che più desideravo.
   «Voglio il tuo calore per più di un misero secondo.»
Quella frase arrivò con prepotenza a far scompiglio tra i miei pensieri già troppo ingarbugliati, non ebbi né il tempo di fargli una domanda, né il tempo di capire cosa intendesse dire perché me lo spiegò con un semplice, ma tormentato gesto; porse il viso verso di me e le sue labbra fredde toccarono le mie, s’incastrano perfettamente alle sue quasi come se fossero state create apposta.
Divenne via via più caldo.
Mi rubò il primo bacio senza chiederlo, le sue labbra erano morbide e turgide e rosse e… e saporite. E profumate. Erano le labbra di Marek che in quel breve lasso di tempo, erano diventate le mie labbra. La somatizzazione di quel bacio provocò in me gli stessi effetti di una iniezione di adrenalina. Sublimai quel tiepido tremore al petto in un impetuoso brivido – alimentato dalla bellezza del suo viso tormentato, che osservai quando si allontanò da me nuovamente.
   «…Vai via Eireen.» Più delle parole forse mi immobilizzarono quegli occhi improvvisamente scarlatti. «Vai via e dimentica tutto questo.»
Furono le ultime parole, alla fine andò via lui. Non cercai nessun altro libro oltre a quello, non cercai null’altro nemmeno su me stessa.
Avevo solo voglia di ritrovare i miei respiri rubati, e non pensarci più.
 
Un passo, due passi, tre passi… arrivai a contarne esattamente cinquantanove, poi decisi di tornare indietro. La mia solita passeggiata notturna prima che il coprifuoco scattasse, era quasi giunta al termine. Mi venne un insolito magone e la malinconia che mi attanagliava non osava allontanarsi un solo istante.
Stava per succedere qualcosa e non sapevo dirmi pronta o meno a quell’evento che sicuramente sarebbe stato catastrofico. Se solo avessi saputo di cosa si trattasse… magari avrei potuto prevenire, eppure nessuno dei miei poteri prevedeva la predizione del futuro. Ma allora, cosa potevo farmene dell’intuito?
Mi toccai le labbra troppe volte ripensando al bacio di quella mattina, altrettante volte scossi la testa imponendomi di non pensarci. Decisi di andare in camera e crogiolarmi in quell’odore così piacevole e naturale che Dorotohèe e le sue piante sprigionavano.
Dorothèe. Mentre salivo in modo silenzioso le scale del dormitorio, il pensiero andò a lei. Non sapevo bene se fosse stato destino il fatto che c’incontrassimo, eppure quel caso era stato talmente benevolo con entrambe che non potevo che ringraziare qualsiasi Dio – se mai ce ne fosse esistito uno.
Il corridoio parve più lungo del solito e con lui anche raggiungere la nostra stanza divenne un’impresa quasi impossibile. Cominciai ad avanzare il passo velocemente ma il pavimento sembrava scorrere sotto i miei piedi mentre questi rimanevano sempre allo stesso posto. Come se fossi stata appena messa su un tapirulan immaginario, impiantato sul pavimento stesso. Quella sensazione d’angoscia riprese il sopravvento sul mio corpo e respirare mi parve di nuovo difficile, mi voltai immaginando ci fosse qualcuno alle mie spalle, ma niente videro i miei occhi dal taglio affilato e felino. Afferrai la maniglia della stanza con precipitazione; le targhette di legno che incidevano i nostri nomi probabilmente colpirono terra quando richiusi la porta. Ero così agitata da non sentirne il tonfo dall’altra parte.
Avevo il respiro affannoso e le sopracciglia corrugate in un’espressione quasi stanca. Mi guardai attorno, non vidi nulla di strano e pensai che infondo non dovesse esserci niente, come se quando c’era Dorothèe la nostra stanza fosse protetta da una barriera impenetrabile.
   «Eireen, penso che dovresti anticipare le tue passeggiate per le cinque, sai? È tardi, ti avrò detto mille volte di non aggirarti nei corridoi di notte.» La voce scappò dalle sue labbra come un rimprovero ma potevo avvertire quel sottile strato di rassicurazione che aveva nel vedermi. Avevo la costante sensazione che lei sapesse molto più di quanto raccontasse.
   «Pensavo che non ci fossi… mi fa sentire bene uscire per pochi minuti prima del coprifuoco. E il mio piccolo momento di pazzia.» Biascicai, mi diressi verso di lei che sostava dinanzi allo specchio e le avvolsi le mie braccia attorno alla vita da dietro, per quanto fosse magra, Dorothèe sembrava incredibilmente forte. La sua pelle profumava di freschezza e dei fiori più belli in un immensa distesa di verde, macchiata qui e lì di petali pregiati e rari. Profumava di tutto ciò che era vivo, vivo per davvero s’intendeva.
   «Eireen…» Sopirò quasi rammaricata. «Non occorre che tu ti trattenga dal fare ogni cosa e che soprattutto sopprima così a lungo il tuo vero io.» Si voltò verso di me sciogliendo momentaneamente quell’abbraccio, piantandomi le mani sulle spalle – ma con delicatezza. «…I tuoi genitori non sono qui, nessuno ti controlla. Nessuno ti impedisce di uscire allo scoperto, anzi… è proprio quello che non vogliono.» Distolse lo sguardo per un istante. «Quello che voglio dire è… smettila di tener rinchiuso il tuo animo libero e graffiante, sono stanca di vedere il tuo manichino e non la tua persona.»
Le sorrisi senza gioia, lei sapeva sempre tutto. Mi voltai andandomi a sedere sul letto e presi un respiro decidendo di affrontare l’argomento che da giorni mi tormentava.
   «Allora smettila Dorothèe, smettila di trattarmi come qualcosa da rinchiudere in una bolla.» Ci soppesammo per diversi secondi. «Dimmi perché Uriel ha due ombre.»
Il suo viso sbiancò per un istante, poi si morse il labbro sedendosi di fronte a me.
   «Sapevo le avessi viste l’altra notte…» Mi chiesi se in quel posto tutti mi spiassero, tacqui comunque per non interrompere la sua spiegazione. «…Sì, hai visto bene lui possiede due ombre. Una è la sua… quella che tutti abbiamo, mentre l’altra… l’altra è quella che si nutre delle sue vittime.»
   «Che… che significa?»
   «Eireen, c’è un motivo per il quale ti ho detto di stare alla larga da quei due. Le ombre di Uriel sono letali, possono mettere in trappola ed ingannare la loro vittima. È schiavo delle sue ombre, a volte lo sfiniscono nutrendosi della sua energia quando è a digiuno per lungo tempo.»
Non seppi come catalogare la cosa nella mia mente, finii col sorridere in modo nervoso e distogliere lo sguardo da lei, che invece mi guardava aspettandosi una reazione.
   «Quindi per questo merita di essere evitato?»
   «Eireen, non conosci ancora i tuoi poteri, non sei riuscita nemmeno a tirar fuori ciò che sei. È troppo presto per te.»
Mi sollevai improvvisamente da quel letto che pareva d’improvviso infuocato, la guardai per la prima volta con astio. «Non guardarmi così, lo dico per te. Lo dico per… ciò che potrebbe accadere.»
   «Ciò che tu non mi dici, intendi?»
   «Pensi che se potessi, non lo farei?» Il suo sguardo chiedeva perdono in modo così disperato che il mio cuore vacillò.
   «Devo andare.» Feci frettolosa.
   «Eireen, il coprifuoco è già scattato.»
   «Lo so. Ma non voglio più nascondermi dietro all’immagine di una studentessa perfetta.» La guardai aspettando che capisse, lei sospirò e m sorrise. «Non è sicuro per te stanotte… se accade qualcosa chiama il mio nome.»
Annuii ed uscii dalla stanza, osservai il corridoio desolato… sembrava più lungo del normale esattamente come prima. Ripresi a correre e correre, forse lo feci per dieci minuti buoni – non sapevo ancora spiegarmi quel fenomeno tanto angosciante e che ti rendeva senza forze alcune. Decisi di pensarci in secondo momento.
Per la prima volta feci il mio ingresso nel dormitorio maschile, non sapevo nemmeno quale fosse la camera di Marek, né quali esseri orridi occupassero quel piano.
   «Eireen, giusto?» Una voce alle mie spalle mi fece voltare di soprassalto, i miei occhi incontrarono una figura che avevo già visto il primo giorno di scuola. Thomas, il servo vampiro di quella strega mi osservava con occhi scarlatti ed un ghigno sul volto.
   «Non sono in vena di presentazioni.» Mi misi sulla difensiva, Dorothèe mi aveva detto che si nutriva solo sotto ordine della sua padrona. Scioccamente pensai che non potesse far nulla di cui avrei dovuto preoccuparmi.

 
 
 
Che mondo,
dove i fiori di loto vengono arati
e trasformati in campo.

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Capitolo 6
*** Act VI ; Weeping specter. ***



Act VI ; Weeping specter. 

 «Se non sei in vena di presentazioni, dovremmo passare direttamente agli inviti? …Magari il solito invito a cena.» Il suo ghigno scoprì il canino appuntito che sembrò spiccare nella penombra del corridoio di quel dormitorio maschile, illuminato solo dal chiarore della luna piena che traspariva dalle grandi finestre. Indietreggiai lentamente, quasi come temessi che l’altro potesse accorgersene.
L’avevo sentito nei corridoi della scuola qualche giorno prima, se un vampiro ti mordeva poteva privarti per giorni delle tue forze, trasformandoti nella stessa razza della creatura stessa… ma questo sempre se lo faceva con moderazione, quegli occhi che avevo di fronte invece, mi fecero pensare che quella volta sarei semplicemente morta.
   «Conviene lasciarmi in pace, le volpi adoro la carne fresca.» Cercai di avere un tono minaccioso, evidentemente non ci riuscii affatto visto che lui se la rise passandosi subito dopo la lingua contro le labbra carnose.
   «Dev’essere un vero peccato…» Disse sparendo poco dopo dalla mia visuale, mi guardai ovunque fino a che sentii il respiro gelido alle mie spalle. «…Visto che la mia è carne putrefatta da tempo.» Sussurrò al mio orecchio, la sua mano fu più veloce delle mie gambe che tentarono di scappare un secondo dopo, con essa infatti mi afferrò il collo stringendolo con forza – il respiro mancò sin da subito mentre mi sentivo i piedi lontani dal pavimento. Graffiai le sue mani scalciando per liberarmi con scarso successo; mi annusò profondamente accennando un sorriso desideroso di chissà quali atrocità.
   «Così profumata…» Disse portando avanti quel tono di voce per niente affidabile, mi leccò la guancia quando ormai sentivo di star perdere coscienza a causa del respiro che mancava. Sentii la sua bocca spalancarsi contro una porzione di epidermide scoperta, tra l’incavo del collo e la spalla – almeno fino a che una forma indefinita non si scaraventò contro di noi facendo cadere entrambi, me contro la finestra su cui delle crepe si formarono per la violenza dello scontro e Thomas, insieme a quell’essere che l’aveva colpito, dall’altra parte del corridoio.
Mi toccai il collo tentando di riprendere tutto il fiato perso mentre assottigliavo lo sguardo con la speranza che mi tornasse vivida anche la vista. Thomas era sovrastato da un animale? A primo impatto mi parve una sorta di cane o magari un lupo dalle grosse dimensioni, ne sentivo i ringhi di entrambi intenti a difendersi reciprocamente dagli attacchi. Quando misi a fuoco l’immagine, mi resi conto che quello era Marek ed ancora una volta sembrava avesse preso sembianze diverse.
   «Marek…» Bisbigliai il suo nome incredula, sollevandomi da lì sentendo il rumore di qualche crepa che si sgretolava ancor di più. Mi sentivo come quel vetro; rotto, fragile. Illuminata per metà solo da quella luna piena – timida a tratti per via delle nubi notturne. Marek si voltò di scatto, mise un’espressione quasi dispiaciuta letta da quegli occhi color ambra che mi tennero inchiodata a lui per diversi secondi. Thomas lo spintonò via approfittando di quel momento di debolezza, il corpo di Marek volò verso la mia direzione, colpì il vetro rompendolo del tutto; mi sentii disgregare allo stesso modo.
Afferrai in tempo il tessuto della sua maglia aggrappandomi ad essa e volando dal terzo piano insieme a quel corpo adesso eccessivamente caldo, dalla pelle dura e gli occhi colorati. Mi prese tra le sue braccia proteggendo del tutto il mio corpo, quando toccammo suolo i piedi di Marek attutirono alla perfezione il colpo.
  «EIREEN!» La voce di Dorothèe giungeva allarmata da qualche metro da noi, con lei vi era qualcun altro ma non mi ci impegnai a capire chi fosse.
   «Che diavolo ci facevi lì?» La voce di Marek tuonò facendomi sussultare, le mani poggiate contro il suo petto tremarono appena. «Non sai usare i tuoi poteri… ED ERI LI’?»
   «Ero venuta a dirti che quello di stamattina non era l’unico libro che stavo cercando.» Mi allontanai di un passo, le sue urla non mi aiutavano, ci soppesammo qualche istante poi Dorothèe una volta avvicinatasi cominciò a toccarmi ovunque per accertarsi che stessi bene. Con lei c’era Uriel; ero più confusa del solito.
  «Che diavolo ci fai qui.» Marek ammonì l’altro ragazzo, che si limitò a guardare in alto dove Thomas attendeva il secondo round osservandoci dalla finestra. Marek tentò di balzare nuovamente alla finestra, ma fu interrotto dalle luci forti delle torce che alcuni guardiani notturni ci piantarono addosso, prendendoci in flagrante.
Avevamo appena dato il via ad una catena d’eventi problematici.
 
   «Molto male signorina Cester, molto male signorina Bardou… mi pare di avervi avvisate che non avremmo fatto nessuna eccezione in quanto punizioni da riservare a chi disobbediva le poche e per giunta oneste regole della Saint Bàra. Per quanto riguarda voi, signor Vanomrigh e signor Kowalski… non mi aspettavo nulla di meglio. Danneggiare la struttura e gironzolare oltre il coprifuoco… inammissibile.» La signorina Malefica, per gli sconosciuti signorina Packard, bofonchiava da diversi minuti mentre percorrevamo l’ampio corridoio del palazzo in cui si tenevano le lezioni, per raggiungere gli uffici dell’apice si impiegavano circa quindici minuti. Di tanto in tanto occhieggiavo Marek che nemmeno una volta si voltò verso di me – per quanto riguardava Dorothèe ed Uriel, non ero riuscita a scoprire perché si trovassero insieme… ma in quel momento mi parve un’informazione irrilevante.
   «Sedetevi qui e non combinate altri guai.» Ci indicò le sedie in quella ampia stanza, dove ero già stata il primo giorno di scuola. «Vi assicuro che ci sarà molto lavoro da fare per voi, mi consulterò col rettore e vi farò avere notizia.» Sorrise in modo raccapricciante, sparendo oltre la porta.
   «Perché eravate insieme?» Fui la prima a parlare, voltandomi verso la mia compagna di stanza ed Uriel – che non mi guardò.
   «Dovevamo chiarire alcuni punti…» Farfugliò Dorothèe. Calò il silenzio per altri minuti interminabili.
   «…Tu perché eri nel dormitorio maschile?»
   «Cercava me, Uriel.» Marek mi precedette, i due si guardarono lanciandosi saette immaginarie.
   «Andrò dritta al punto…» Malefica interruppe il momento di tensione facendo subito ritorno dalla presidenza, ne fui quasi lieta. «Uno spirito è fuggito dalla Caed Dhu e sapete perché? Perché ogni qualvolta un portale viene oltrepassato un po’ dell’equilibro tra un mondo e l’altro si scuote provocando ferite temporali. Degli studenti hanno disobbedito passandovi all’interno, visto che vi abbiamo sorpresi in cortile non è stato facile risalire ai colpevoli.» Dorothée mi aveva parlato anche dei portali, per quanto ne sapeva erano sorte di varchi che apparivano in un punto preciso nel cortile dell’accademia, poco lontano dalla Caed Dhu. Collegavano l’isola immaginaria su cui si trovava la nostra accademia, al mondo reale. Ma il fatto era che quella sera nessuno di noi vi era entrato. «Il vostro compito sarà quello di riportarlo da noi… entro ventiquattrore.»
Le ultime parole furono dette con malignità e al contempo felicità. Sentii poco dopo Marek schiarirsi la voce.
   «Le punizioni dovrebbero essere date in base all’atto commesso e dubito che le due studentesse qui presenti abbiano fatto qualcosa che meriti tanto.»
   «Non è compito suo, signor Kowalski decidere cosa è consono e cosa non lo è. Andrete stanotte, questo è tutto. Il prossimo portale si aprirà tra quarantacinque minuti.» La donna ci fece segno d’uscire, la linea piatta delle labbra e l’espressione severa fecero tacere tutti.
I due ragazzi decisero di dividerci in due gruppi, Dorothèe sarebbe rimasta ai piedi della Caed Dhu con Uriel a quanto pareva c’era la possibilità che lo spettro tornasse in qualche modo all’accademia, mentre io e Marek invece decidemmo di oltrepassare il portale. A decidere quelle coppie furono Dorothèe ed il vampiro con cui avevo ancora molte cose da chiarire.
   «Dovremmo arrivare in un tempio, dovrò uscire da lì in fretta però… non avere paura e raggiungimi all’ingresso delle mura.» Marek spezzò il silenzio, mentre ci eravamo allontanati dagli altri due aspettando che il portale si aprisse.
   «Prima è successo qualcosa vero?... C’era qualcosa di diverso in te.» Biascicai, preferii non incontrare quegli occhi che sapevo stessero continuando ad omettere cose che necessitavo sapere. «Ma ovviamente non lo dirai.»
   «Perché dovrei farlo? Non ne ho nessun obbligo.» Disse secco.
   «Come io non avrei avuto nessun obbligo di stare in coppia con te.» Mi voltai, mi accorsi che anche lui adesso mi guardava abbastanza intensamente. Il portale in quel momento mandò un bagliore accecante: l’apertura era appena comparsa.
   «Pensiamo solo allo spettro.» Parlò a bassa voce, poi con uno strattone deciso mi spinse all’interno del portale. In un battito di ciglia eravamo stati catapultati dall’altra parte.
Marek era uscito dal tempio in meno di un nano secondo, diceva di non poter stare troppo a lungo in certi luoghi. Mi sentii le gambe intorpidite, come se avessi appena fatto un salto alto senza il riscaldamento di consuetudine. Mi alzai a fatica dal pavimento, sentii un lieve venticello alle spalle ma quando mi voltai non scorsi niente dietro di me.
Il tempio era buio e non riuscivo quasi a vederne le caratteristiche, non sapevo nemmeno in quale città o continente ci trovassimo. Avanzai verso il grande portone, i miei passi erano lenti e pesanti, come se caricassi un enorme peso sulla schiena, la curvai infatti sentendomi affaticata e stanca.
   «Marek…» Continuavo a mormorare il suo nome, cosa stava succedendo esattamente? Caddi con le ginocchia al suolo, ormai pochi centimetri mi separavano dall’imponente porta di legno, allungai la mano senza riuscire però a toccarla.
   «Non andrai da nessuna parte, mia dolce kumiho.»
Una voce lontana mi fece rabbrividire.

 
 
 
 
 
 
 
 
Marek.
 
 
Qualcosa mi turbò. Il vento portò alle narici l’odore della volpe e anche di qualcos’altro, unito alla flebile voce di Eireen che sembrava chiamarmi. Sbarrai gli occhi voltandomi con lentezza, che diavolo stava succedendo adesso? Perché quella tonta non appariva? Mossi un passo arrestandomi subito dopo, sentivo il terrore innaturale invadermi la pelle, chiusi gli occhi muovendone un altro; li aprii, le pupille rosse come il sangue, mentre i movimenti divennero man mano più veloci fino alla grande porta d’ingresso che come mi aspettavo era bloccata. Scossi la testa muovendo qualche passo indietro; era una fortuna il fatto che avessi bevuto sangue prima di partire, come se sapessi già che avrei avuto bisogno di tutte le mie capacità quella notte. Una sola pedata e la porta si schiantò con un rombo infernale, facendo apparire la giovane kumiho in ginocchio e alle spalle… che accidenti aveva alle sue spalle?
Un ringhio cupo proruppe dal mio petto, il segreto era dimenticare ogni cosa avessi attorno e concentrarmi solo su ciò che mi stava di fronte. Magari capendo anche cosa fosse.
Optai per l’ipotesi dello spirito, vi era una leggenda popolare secondo cui le volpi non potevano entrare nei tempi, ma non ricordavo con esattezza… perché non studiavo mai in classe?
Lo spirito sembrava voler avvolgere Eireen completamente, la quale inerme e per un qualche motivo a me sconosciuto sembrava persino sprovvista di qualsiasi volontà. Un balzo in avanti e la mia mano era già serrata sul polso della volpe, la strattonai dandole un leggero slancio che la fece finire contro di me; ammortizzai l’urto continuando a guardare lo spirito, andando lentamente indietro. La mia pelle cominciava a bruciare; lì non vi era luna piena che mi facesse dimenticare fisiologicamente dei miei poteri di vampiro, le capacità da licantropo mi sarebbero servite in quel momento. 
Presi in braccio lei nell’attimo in cui lo spettro si slanciò contro di me, arrivando quasi ad afferrare i capelli della giovane prima che mi lanciassi fuori da lì. Avevo sempre odiato i templi, e ora avevo pure una doppia motivazione. Mi rannicchiai fuori le mura con lei ancora tra le braccia, era più pallida del solito.
   «Com’è che devo sempre avere dei rivali quando si tratta di te?» Mormorai, per fortuna lei non mi sentì.
   «Andiamo via di qui…» Sussurrò al mio orecchio stringendo le braccia attorno al mio collo. Eravamo come fuoco e ghiaccio, noi eravamo proprio così. La sua temperatura corporea fin troppo calda e la mia fin troppo fredda, caratterizzavano anche i nostri temperamenti.
Eravamo del tutto opposti, eppure ci attraevamo proprio per quello.
Da quel momento in poi decisi di ascoltare tutte le lezioni scolastiche che riguardavano lei.
La feci scendere dalle mie braccia ed allora cominciai a pensare con lucidità, il primo step era concluso ma mi chiedevo se avessimo dovuto temere il secondo.
   «Posso fiutare lo spirito che cerchiamo, ma non assicuro di beccare quello giusto, questo posto pulula di spettri e quello nel tempio ne è un pallido esempio. Quindi si ricorre al piano B: la fortuna. Dai fascicoli che Malefica ci ha dato… io ed Uriel abbiamo letto che lo spettro era uno studente dell’accademia, ma prima di esserlo però era una persona comune e viveva qui. Cosa faresti tu da morta se tornassi nella tua città natale, Eireen?»
La parola “morta” accanto al suo nome non mi piaceva per niente, soppesai comunque quelle parole volgendole uno sguardo interrogativo.
   «Ma certo… tornerei a casa mia! Dopotutto gli studenti lì si sentono in prigione no? Non fanno altro che parlare del “mondo esterno”» simulò le virgolette con due dita agitandole nell’aria fresca della notte. «Quindi le soluzioni sono semplici. O tornerei a casa mia, o nella mia vecchia scuola.» Sembrò essersi ripresa del tutto.
   «Esatto. Andremo a casa sua, sui fascicoli c’era anche l’indirizzo per fortuna.» Sì, ma come muoversi? Di certo non potevo mettermi a saltare per i palazzi con lei in spalle, se qualcuno ci avesse scoperti quella sarebbe stata solo la prima di una valanga di punizioni. «Dovrebbero esserci autobus notturni.» Constatai a voce alta, le afferrai il polso trascinandola in una corsa perdifiato verso la fermata più vicina, e per ironia o semplice fortuna il mezzo sembrò arrivare nel perfetto istante in cui ci fermammo. Ci salimmo senza indugiare oltre; era praticamente deserto, la dirottai verso gli ultimi sedili.
   «Dimmi cosa è accaduto prima.» Mi parlò non appena riprese fiato, stavo imparando a capire che la piccola volpe non demordeva facilmente.
   «Cosa intendi? Ho solo aggredito Thomas prima che ti risucchiasse via ogni goccia di sangue.»
Non mi credette, glielo lessi negli occhi vagamente delusi.
   «Eri caldo, la tua pelle sembrava così dura ed avevi gli occhi di un colore che non avevo mai visto. Tu corri veloce, ma non ringhi come un lupo, non ti reggi su quattro vampe… tu non…» Si bloccò, parlarne ad alta voce le fece probabilmente capire chi fossi. Il pensiero che potesse avere paura di me, mi rendeva inquieto.
   «Succede nelle notti di luna piena.» Introdussi dopo uno sconsolante respiro. «Sono nato come un vampiro, Eireen. Il mio destino era già segnato per metà… mi cibo di sangue, alle volte ne ho così tanta voglia che temo di poter sterminare metà dell’accademia.» Mi voltai a guardare il suo volto, mi osservava aspettando che mi aprissi completamente a lei – non vi era alcun terrore nei suoi occhi. «…Ma possiedo metà anima, io sono un ALP. Mi nutro anche dei respiri e dei sogni delle persone dormienti, non voglio che i miei bricioli di umanità scompaiano del tutto, se questo dovesse accadere… sarò costretto ad restare metà lupo e metà vampiro per sempre.»
   «Cosa significa… tu, tu hai detto di esser nato vampiro… come puoi adesso…?»
   «Una donna diede il mio respiro in dono ad una strega, perché avevo interrotto uno dei sogni della sua preziosa nipote… ma per qualche motivo non riesco a ricordare niente di quella notte. La strega mi rese un licaone, se riuscirò a resistere al desiderio di mangiare carne umana nei giorni di luna piena, per vent’anni, mi libererò di questa mezza razza. Me ne rimangono pochi da scontare.»
Risi senza gioia, mi sentii improvvisamente nudo, evitai di guardarla – non volevo conoscere la sua espressione in un momento simile. Eireen non capiva che il suo profumo, la sua bellezza e la sua carne pregiata erano droga per esseri orridi come me, come Uriel e forse anche come Dorothèe.
   «Avresti dovuto essere chiaro sin da principio.» Voltandomi scorsi il suo sorriso, gentile e per niente pretenzioso. Per niente impaurito, per niente falso. Pensai fosse il suo potere più grande.
 
Il viaggio durò mezzora e per me valse come un solo schifosissimo secondo, il tempo con lei sembrava sempre volare e ogni volta che l’avevo accanto mi sentivo scisso tra le mie emozioni e i sentimenti foschi che accompagnavano costantemente il mio cammino. Stringendole la mano avrei potuto congelarla con la mia temperatura? Se avesse mai poggiato il capo sulla mia spalla, essa sarebbe stata troppo dura? Perché non potevo far battere il mio cuore più veloce ogni volta che lei mi accarezzava od urtava per sbaglio? Non ricordavo neppure più che sensazioni si provassero ad avere un anima integra, eppure lei era l’unica a farmi sentire un pallido bagliore di ciò che si provava in certe circostanze. Era gioia e dolore insieme, ogni volta che la mano della volpe mi accarezzava, sembrava dirmi “questo è tutto ciò che ti sei perso sino ad ora”.
Eravamo in un quartiere che sembrava non avere molte luci, le case erano silenziose e non vi era anima viva. C’erano parecchie abitazioni abbandonate a loro stesse, ci insediammo tra alcune sostenendole il gomito quando inciampava in pezzi di macerie lungo il cammino – città fantasma era il nome di quel posto, ne ero certo.
Eireen cominciò a guidarmi senza rendersene nemmeno conto, il suo fiuto era infallibile e lei nemmeno lo sapeva.
 «Sento qualcosa di riprovevole.»
Biascicò, ogni nostro passo produceva un rumore sordo e sinistro, arrivammo nei pressi di una porta, anch’essa vecchia e malconcia. Gli spiriti erano tutti eccessivamente prevedibili, anche loro restavano attaccati da morti a ciò che più avevano amato in vita; il problema però si poneva, così come per i vampiri, quando tutto ciò che possedevi spariva e moriva a differenza tua che restavi qui solo frustato e disperato.
   «Qualsiasi cosa succeda non aver paura, non parlerà come me o te. Quindi mantieni la calma.» Lei annuì, ancora una volta la sua tranquillità mi sorprese; sembrava diversa dai primi giorni di scuola.
Quando aprimmo la porta di una delle stanze di quella casa in cui eravamo entrati, l’unica luce all’interno della camera era quella di una lampada ad olio posta sopra una panca impolverata; un dondolo si muoveva scricchiolando contro le assi del pavimento. Lo spettro era lì, non era seduto ma più accucciato come una scimmia. Ci bloccammo a qualche metro di distanza, l’essere voltò appena il capo, coperto da lunghi capelli neri, gli occhi incavati nelle orbite sembravano volerci raggelare. Urlò, ed Eireen, dall’udito così sensibile fu costretta a tapparsi le orecchie con le mani.
   «SMETTILA, SMETTILA!» Fece infastidita. Si curvò con la schiena cercando di proteggere il suo udito, la presi facendola scontrare contro il petto fino a che lo spirito non smise di urlare. La sentii tremare, si allontanò aveva lo sguardo vacuo ed il respiro corto. Si voltò verso lo spettro che imperterrito ricominciò ad assordarci facendomi scoprire i denti – gli ringhiai contro con troppa frustrazione, la fiammella della lampada si mosse come se un’improvvisa folata di vento fosse entrata nella camera, ma neppure un granello di polvere si era mosso.
   «Dille che possiamo darle ciò che vuole.» Parlai a bassa voce, non volendo rompere l’equilibrio di quel momento, Eireen era ferma dinanzi a me, quando lo spettro si voltò si guardarono negli occhi per lungo tempo.
   «Dice che non si fida.» La voce della volpe era come entrata in trance. Non riuscivo a muovermi, quasi pareva che la negatività della figura maligna mi indebolisse. «BASTA!» Urlò Eireen, lo spettro smise all’istante. «Se il tuo corpo è realmente nella Caed Dhu, noi ti ci porteremo. Veniamo da lì.» Continuò. Lo spettro allora si mosse nella stanza in modo confuso, andò a circondare il corpo di Eireen, poi il mio e strusciò infine sul pavimento rompendosi in un pianto agghiacciante, assordante.
Fu allora che la volpe si voltò verso di me, alcune gocce di sangue uscirono dalle sue orecchie, mi avventai contro di lei prendendola tra le braccia prima che venisse meno nelle gambe.
   «Diche che può aprire un portale o qualcosa del genere, non… non riesco più a sentirla…»

Il nuovo portale si aprì di colpo proprio come lei aveva pre-annunciato, presi Eireen tra le braccia e lo attraversai insieme allo spettro; ero sempre più convinto che quelle punizioni nascondessero molto più di lezioni disciplinari.

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Capitolo 7
*** Act VII ; destruction. ***



Act VII ; destruction.



Al mio risveglio mi accorsi d’essere nell’infermeria dell’accademia, la conoscevo grazie ad una delle tante esperienze insieme a Dorothèe che dopo avermi portato con lei in angoli remoti dell’accademia per raccogliere foglie di thè da poter preparare in camera, malauguratamente le avevo preso qualche foglia poco attendibile che subito mi aveva fatto venire varie bolle violacee sulle mani – l’espressione allarmata di lei mi fece ridere per tutto il tragitto dai giardini all’infermeria, combattuta per ogni scalino salito tra l’idea di usare i propri poteri e rischiare quindi una punizione o chiedere il permesso di portarmi in un ospedale competente.
Ero circondata in quel momento da tutto il candore di quella stanza, quasi non m’accecò la vista facendomi perdere l’uso di un altro senso. Il vuoto mi assaliva, nessun rumore o sospiro ero in grado di captare nemmeno al di fuori della porta – mi sollevai a fatica guardandomi attorno, scossi il viso cercando di riprendermi al meglio ed il fruscio delle lenzuola, insieme al ticchettio dell’orologio da parete di fronte a me, mi diedero la lieta notizia che non fossi diventata sorda.
Quando la porta si aprì, sebbene lo fece con lentezza il rumore quasi non mi fece sanguinare ancora le orecchie. La figura sconosciuta oltrepassò l’uscio e le lancette dell’orologio si fermarono improvvisamente, quell’uomo aveva un aspetto abbastanza affascinante sebbene l’età non nascondeva un certo invecchiamento – aveva difatti una barba grigiastra accuratamente rasata e gli occhi piccoli e distanti; sintomo di enorme intelligenza, pensai.
   «Sono contento si sia risvegliata, signorina Cester.» La voce bassa e vagamente graffiata dagli anni mi resero per un attimo inquieta.
   «Posso dire esattamente lo stesso…» Borbottai guardandolo con circospezione.
   «Oh, ne sono certo.» Sorrise ed una strana irrequietezza m’invase, poi avanzò verso di me sostando ai piedi del letto. «Lei non è stata abbastanza attenta, signorina Cester. Temevamo avrebbe potuto perdere il suo prezioso udito e mi creda…» poggiò una mano contro il petto con aria risentita. «…Per noi oltre che un gran dispiacere, sarebbe stata una sconvolgente perdita.»
   «Per voi… chi esattamente?» Feci storcendo le labbra ed increspando le sopracciglia in un’espressione dubbiosa.
   «Ma per la Saint Bàra, ovviamente.» Allargò appena le braccia con fare ovvio, per la Saint Bàra, disse lui.
   «Già, per la Saint Bàra…» Dissi io. «Lei è l’infermiere? Le serve il mio udito per caso?»
L’infermiere rise.
   «In realtà vede...» La porta si aprì interrompendolo, l’immagine di Uriel mi fece rilassare contro la spalliera i suoi preoccupati mi osservarono avvicinandosi per assicurarsi stessi realmente bene. Ma perché non c’era Marek con lui?
   «Pensavano ti avessero privato delle orecchie, latticino.» Disse sarcastico, si finse non interessato e solo allora si rese conto della presenza estranea, che invece lo guardava con un’espressione indecifrabile. Uriel sembrò irrigidirsi sotto quello sguardo, chinò appena il capo in segno di rispetto e si schiarì la voce.
   «Sta saltando le lezioni, signor Vanhomrigh?»
   «Oh no signore, avevo qualcosa da recuperare in infermeria… sono provvisto di permesso.»
   «Mi aspetto grandi cose da lei, signor Vanhomrigh… non mi deluda.» Inclinò appena il capo verso destra aggrottando la fronte con fare quasi compassionevole, Uriel annuì chinando nuovamente il capo. «Si riprenda presto, signorina Cester.» Fece poi prima di congedarsi e rimanermi solo col ragazzo.
   «Non mi pare sia un professore…» Borbottai osservando la porta.
   «Cosa? …Tu non sai chi sia?»
   «Tu sì?» Sembrò sbigottito.
   «Era… il preside, Eireen.» Mi rizzai d’improvviso al centro del letto, avevo appena dato dell’infermiere al preside di quell’assurda accademia?
   «Cosa? Dorothèe mi aveva detto che nessuno l’aveva mai visto, com’è possibile sia venuto da me… adesso? E poi… perché tu lo conosci?»
   «Credo siamo gli unici, infatti… probabilmente si è reso conto che la punizione è stata troppo severa e quindi voleva scusarsi… ma cosa ti ha detto nello specifico?»
   «Cosa le ha detto chi?» La voce di Marek mi distrasse da qualsiasi preside e conversazione, aveva la divisa scolastica perfettamente in disordine e le solite cuffiette bianche adagiate sulle spalle.
   «Mi stai seguendo per caso?» Uriel sbottò, cadendo sconsolato contro la poltrona al fianco del mio letto.
  «Accidentalmente sono stato sbattuto fuori dopo la tua uscita.» Scrollò le spalle e si accorse che lo stavo guardando, non disse nulla e con le mani nelle tasche dei pantaloni andò a posizionarsi di fronte alla finestra, dove si poggiò stancamente.
   «Certo… come no.»
   «Cos’è successo allo spirito? Dorothèe sta bene?»
   «Sì, è andato tutto liscio… Uriel e Dorothèe l’hanno condotto al suo corpo che era nel bel mezzo della Caed Dhu.» Diversi brividi mi invasero le ossa. «…Ci chiedevamo se lo spirito di avesse detto altro, quella notte.» Marek sollevò per la prima volta lo sguardo verso di me e rimase esattamente in quel modo, mi sentii la gola secca.
   «No… perché lo chiedi?»
   «Perché dovrebbero farci sapere certe cose, latticino?» Uriel si alzò dalla poltrona sospirando. «Non credi anche tu sia strano facciano fare certi lavori a quattro studenti?»
Non seppi cosa dire, in tutta onestà la cosa aveva tormentato anche me.
   «Nessuna guardia ha sorpreso Thomas nei corridoi, hanno guardato solo noi.» Feci come sovrappensiero.
   «Beh, se c’è qualcosa sotto lo scopriremo col tempo. Forse è solo una nostra mera fantasia.» Uriel scrollò le spalle, si avvicinò a me chinandosi contro il mio viso – il riflesso di Marek alle sue spalle sembrò scattare in quel preciso istante. «Tempo scaduto latticino, a presto.» Mormorò posandomi un bacio sulla fronte, si scambiò un occhiata di fuoco con Marek prima di andar via e poi rimasi sola col mio tormento.
   «Come stai?» Chiese. Io annuii senza rispondergli. «Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Inarcò un sopracciglio, il sole alle sue spalle che penetrava i suoi raggi tramite quella maledetta finestra gli rendeva un aria luminescente.
   «Sto bene… e tu?»
   «Adesso vi salutate in quel modo?» Evitò la mia domanda ed il suo sguardo divenne gelido.
   «È la prima volta che mi ha salutato così…» Abbassai il viso, poi aggrottai la fronte incrociando le braccia al petto. «E comunque perché la cosa dovrebbe importarti?»
   «Così fastidiosa.» Digrignò i denti distogliendo lo sguardo. «Dorothèe è stata con te tutta la notte, non ha permesso a nessuno di avvicinarsi… tra dieci minuti, a fine lezione verrà a portarti il pranzo. L’infermiera dice che per il pomeriggio puoi tornare in camera.»
   «Stai andando via?» Strinsi tra le dita le lenzuola bianche, perché lui non mi salutava come Uriel?
   «Non ho motivo di restare.» Disse dandomi le spalle.
   «Allora perché sei venuto?» La voce mi uscì più dura di quanto volessi, lui si voltò gli occhi dal nero stavano sfumando nel rosso che ormai conoscevo bene.
   «Ti ho detto chi sono, non l’hai capito forse?»
   «Va via Marek, sono stanca.» Mi guardò per diversi secondi, io mi stesi dandogli le spalle fino a che non sentii la porta chiudersi dietro di lui.
Quando mi mossi tornando a respirare, m accorsi del bigliettino che aveva lasciato Uriel al mio fianco quando si era chinato per salutarmi. “Ti aspetto alle 21:30 fuori al dormitorio femminile. Non tardare latticino.”  Quando Dorothèe entrò nella stanza, nascosi il foglietto sotto le lenzuola sorridendole; passai il pomeriggio in sua compagnia e poi mi accompagnò in camera dove le raccontai l’avvenuta con Marek e con quell’assordante spirito.
 
Mi alzai cercando di non far rumore visto che se la mia compagna l’avesse scoperto, mi avrebbe impedito qualsiasi tipo di fuga. Ero certa che Uriel volesse parlarmi, altrimenti perché mi avrebbe invitato in piena notte? Esclusi ancor prima di tutte l’ipotesi che volesse mangiarmi.
Quando arrivai nel punto concordato notai Uriel che quasi non si  mimetizzava nel buio pesto mi avvicinai silenziosamente e piano, mi fermai tutta d’un tratto… non sapevo con certezza che tipo di aura emanasse, chiusi gli occhi e provai ad inalarne il profumo; appariva lontano, come sfocato e confuso. Aveva un profumo diverso dal solito, ma non del tutto estraneo.
   «Per quanto ancora hai intenzione di restare lì?» Sobbalzai muovendomi subito in sua direzione e sorridergli appena.
   «Scusa, era sovrappensiero… perché hai chiesto di vederci?»
   «Giusto, se si tratta di me devo avere per forza un motivo vero?» Sembrò deluso.
   «Non intendevo questo… solo che è insolito.»
   «Dorothèe ti ha detto tutto, vero?» Uriel prese a camminare a passo lento, io lo seguii annuendo. «Per questo pensavo che non venissi.»
   «Non ho paura di te… e nemmeno di Marek.» Una folata di vento mi fece stringere tra le braccia, Uriel accorgendosene si sfilò la felpa poggiandomela sulle spalle, lo ringraziai con un sorriso. Si guardò intorno un’espressione meditabonda, qualcosa ne occupava i pensieri e che non sapevo come estorcergli. «Era questo ciò che ti turbava, Uriel?»
   «Figuriamoci se sono turbato da queste cose, latticino.» Il tono scocciato non lo tradì, ma io risi ugualmente.
   «Io la sento la tua potenza Uriel, non seguo le lezioni perché voglio avere ottimi voti… io le seguo semplicemente per conoscere meglio me stessa e per imparare a proteggermi anche se la forza fisica in alcuni casi non bastasse. Ma ho sentito la vostra forza sin dal primo giorno in cui vi incontrato… non mi fido di nessuno e allo stesso tempo mi fido di tutti, ma se c’è una cosa che non fallisce mai, è il mio istinto. Questo l’ho imparato presto.» Uriel si fermò guardandomi, mi tolsi la felpa dalle spalle e gliela porsi sorridendogli. «Non devi convincermi di qualcosa né tanto meno devi chiedermi di vederci di notte per poter parlare con me.» Prese la felpa dalle mie mani, angolò un lato delle labbra in mezzo sorrisetto, poi mi guardo serio.
   «Sii abbastanza forte nel giorno in cui ti aggredirò.» Il tono di voce mi lasciò di fronte ad un completo estraneo per qualche secondo.
   «Lo sarò.»
   «Ci vediamo presto, suppongo tu adesso abbia da fare.» Nemmeno il tempo di chiedergli a cosa si riferisse che sparì dalla mia vista, sospirai soffermandomi a guardare qualche istante le stesse e poi decisi di tornare in camera prima che il coprifuoco scattasse. Qualcosa mi fermò pochi metri più avanti, Marek era poggiato contro il muro col capo chino e le mani nelle tasche – feci per avvicinarmi ed in quel momento lui sollevò la testa facendo poi un passo indietro, alzò un braccio come per bloccarmi.
   «Non avvicinarti, puzzi di tutto ciò che più detesto, Eireen.» Il tono malevolo con cui lo disse sembrò quasi enfatizzare quelle parole rendendole persino più pessime di quanto già non fossero in realtà.
   «Oh mi dispiace, non volevo infastidire i tuoi sensi. Dovrei farmi una doccia, vero?» Feci con tono sarcastico.
Ogni parola pronunciata da quelle labbra che avevo baciato persino nei sogni, sembravano stiletti trafitti un po’ ovunque. La rabbia cresceva ad ogni sua sillaba. Lo vidi sorridere nella penombra, senza avvicinarsi, allargando le braccia in un gesto eloquente.
   «Potrei dirti che sì, dovresti farti una doccia… ma non credo la puzza svanirà, quindi mi dispiace vople, non puoi porre rimedio. Succede a chi frequenta strani studenti nel cuore della notte.»
   «Starò attenta a non farti più sentire il mio tanfo.» Ero ferita e delusa, cercai di tenere lo sguardo duro ma non ci riuscii per molto tempo, sfociando nella solita aria intristita.
   «Tu sei…» Si bloccò ridendo in maniera poco carina, abbassando il capo che scosse appena osservandosi i piedi. Si leccò le labbra tornando a puntare i suoi occhi adesso rossi su di me. «Tu sei davvero una volpe. Credo avesse ragione il libro che abbiamo letto, ammali le persone, compreso me. Ma sono abbastanza bravo dallo sciogliere queste cose. Il tuo scopo esattamente qual è? Far la carina con tutti e vedere chi casca prima? Allora complimenti, il primo stupido è proprio qui di fronte, il secondo potrebbe essere andato via pochi minuti fa.» Mi guardo rabbioso, stava realmente dicendomi delle cose simili? Strinse la mano a pugno le nocche divennero bianche e le labbra si schiusero in un sorriso che scoprì i denti. «Se torni solo ora mi vien da chiedere dove sarete stati, sono curioso.»
Mi avvicinai a lui con passi veloci ed ampi e quando fui abbastanza vicina gli mollai uno schiaffo abbastanza forte sulla guancia, lo schiaffo sembrò quasi una molla, gli gettò di lato il viso per poi rigirarglielo subito dopo trafiggendomi ancora una volta con quegli occhi. Serrò le labbra in una linea sottile.
   «Oh Marek, mi dispiace tanto di non profumare di gelsomino e sangue AB, ma sai una cosa? SEI UN GRANDISSIMO CAFONE. Sono qui, annusami, vomita su questo prato per il mio tanfo!» Gli urlai senza pensare minimamente alla sua reazione, divenni rossa ma non per l’imbarazzo. Mi tremavano le mani, le gambe e tutto il corpo insieme allo stomaco che si era aperto in una mostruosa voragine. «Hai ragione, sono proprio una volpe… una stupida volpe che si è lasciata ammaliare da uno stupido vampiro!»
   «Stai sul serio giocando con me o sei stupida? Nel primo caso ti consiglio di giocare bene, sono un ottimo avversario e ti batterei ad occhi chiusi. Nel secondo, lascia che ti spieghi meglio ciò che ho da dire.» Sorrise ammorbidendo i lineamenti, era tutta una farsa e io lo sapevo, mi si avvicinò costringendomi ad indietreggiare fino al muro, bloccandomi con le braccia. I nostri visi si sfiorarono. «Ti ho espressamente chiesto dove sei stata. DOVE.» Un pugno si abbatté sul muro dietro di me. «SEI.» un altro ancora, serravo gli occhi ad ognuno di esso. «STATA.» Il terzo sfondò il calcestruzzo. La mano si conficcò dentro, ma lui sembrò non provar dolore. In un quel momento un nuovo sentimenti si fece spazio dentro di me; la paura.
Cominciai a tremare contro la parete fredda, odiavo quelle sensazioni e provarle con lui di fronte ancor di più.
   «Io…» Mossi le labbra, ma la voce non uscì. Era come se le corde vocali si fossero rotte, persino le lacrime sembravano uscir più lentamente adesso – il tempo si era fermato in quell’odioso momento ed i mille anni che avevo da vivere sperai si fossero consumati in una sola volta. Scivolai con la schiena contro il muro fino a rannicchiarmi a terra con la testa tra le mani. «Vattene…»
   «Vattene tu, torna in camera tua. Non c’è più nessuno in giro, non rischierai neppure una punizione, quindi alzati e vattene dove ti pare, che sia in camera tua o a farti un’altra passeggiata, vai dove vuoi. Lontano da me.»
Marek sembrava avere una scorta infinita di colpi di grazie, sollevai il viso e lo guardai senza dire una parola.
   «Non siamo andati da nessuna parte, abbiamo chiarito che io non avessi paura né di lui, né di te. Mi ha detto di essere forte, poi l’ho salutato.» Il mio sguardo d’un tratto freddo e distaccato non lasciò intendere nulla. Mi voltai stringendomi nelle spalle dopo essermi alzata da lì, pronta ad allontanarmi da quel posto senza voltarmi più indietro. Mi aveva fatto già abbastanza male e non intendevo essere la sua pedina stupida ancora per molto. Le sue parole avrebbero rimbombato nella testa per tutta la notte e forse anche nei giorni a seguire.
   «Sei proprio una volpe.» Lo sentii quel sussurro, quasi stesse parlando tra sé e sé ma col chiaro intendo di ferirmi. Il tono dispregiativo che usò, mi fece salire un conato.

 
 
 
 
“Se mi amate cari venite a vedermi
Mi troverete laggiù
Nel grande bosco di Shinoba della provincia di Izumi
Dove le foglie di hozu frusciano sempre d’umor pensoso.”

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Capitolo 8
*** Act VIII ; Kisses and secrets. ***




Act VIII ; Kisses and secrets.


Dal giorno precedente ero diventata un vero e proprio zombie e dovevo ammettere che quella figura non stonava affatto nell’ambiente in cui, malauguratamente, mi trovavo. Non avevo nemmeno avuto l’occasione di accoccolarmi tra le braccia di Dorothèe quella notte e sicuramente ciò aveva giovato al mio malumore. Indossai la divisa svogliatamente, per la prima volta in tanti anni, vista da fuori quel giorno ero la solita secchiona con i capelli fluenti ed in ordine. Se c’era una cosa che avevo imparato in quel posto, era proprio il fatto che nessuno di quegli individui mi aveva compreso a pieno. Sospirai stancamente dopo essermi fissata allo specchio, passai un dito su quelle lentiggini come a volerle cancellare, ma ovviamente dopo il lieve rossore provocato dal contatto rude, tornarono esattamente come prima.
Al solito il dormitorio non era per niente rumoroso ed anche se poteva apparir piacevole, era comunque inquietante; consapevole del fatto che oltre quelle porte potevano esserci creature molto più potenti forse di Marek od Uriel, o di Dorothèe ed anche di me, era momentaneamente impensabile.
   «Guarda chi c’è, la piccola Eireen.» Una voce acida interruppe i miei pensieri, quella che avevo davanti era Dyanne. Padrona e fidanzata dello stesso Thomas che varie notti prima mi aveva aggredito scontrandosi con Marek. Storsi le labbra in un’espressione di puro disgusto e sospirai scocciata, decidendo di ignorarla e passare oltre. Il suo odore mi dava la nausea. «Ehi dove vai così di fretta? Volevo solo fare due chiacchiere con la più bella del reame.» Canzonò parandomisi davanti.
   «Dyanne, vado abbastanza di fretta. Se vuoi parlarmi del tuo pseudo ragazzo, sappi che la cosa non mi interessa minimamente, piuttosto ti consiglio di tenerlo a bada.»
   «No? Strano, visto che hai sedotto persino lui.»
    «Cosa?» Sbottai guardandola con sgomento, mi veniva dietro con totale naturalezza. «…Senti, non so cosa ti abbia raccontato quel vampirello da strapazzo, ma forse dovresti pensarci tu prima di lasciarlo a digiuno per giorni interi. Ho sentito che incontra molte più ragazze di notte e di certo io non sono interessata ad una feccia simile.» Dosavo la mia istintività in tempi decisamente sbagliati, lei mi guardò ridendo mentre si copriva la bocca col dorso della mano, un gesto fintamente galante e che al momento non le si addiceva affatto. Sotto gli occhi il nero della matita era talmente calcato che quasi non gli si riusciva a distinguere il colore degli occhi, quando si calmò sollevò una mano in mia direzione come se stesse per schiaffeggiarmi, gliela bloccai quasi subito soppesandoci con evidente astio. Quando sollevò anche l’altra, a fermarla prima di me fu Dorothèe.
Una strega ed una Wiccan al confronto? Non sapevo se fuggire dall’isola o dal pianeta intero.
   «Gira a largo Dyanne.» Fece la mia amica, la strega strattonò le mani liberandosi delle nostre strette e si sistemò la giacca della divisa modificata secondo i suoi macabri gusti.
   «Non è affar tuo, fiorellino di campo. Ma visto che siamo in tema, dì a questa cosa di stare lontano dagli uomini di razze opposte. Non sarà colpa di nessuno se finirà sepolta nella Caed Dhu, è qualcosa che non le hai ancora spiegato?» Scrollò le spalle e mi guardò schifata, dopo aver lanciato la bomba che fece ammutolire sia me che Dorothèe, tolse il disturbo proseguendo spedita verso il dormitorio maschile. Roteai gli occhi al cielo scuotendo appena la testa.
   «È così fastidiosa.» Dorothèe venne scossa da evidenti brividi, li enfatizzò con un verso di disgusto che sfociò in il riso di entrambe.
   «Nell’ultimo punto non aveva completamente torto…» Sospirai seccata, Dorothèe mi lanciò uno sguardo compassionevole e mi carezzò la spalla, non vi fu bisogno di parlare oltre.
Ci separammo per un impegno misterioso di cui Dorothèe non fece in tempo a parlarmi ed io proseguii verso il cortile approfittando del fatto che mancava ancora un po’ all’inizio delle lezioni.
Continuavo a pensare all’espressione di Marek il giorno prima, traboccava di disgusto e disprezzo, senza parlare dello schiaffo che gli diedi… per quanto era ovvio non gli avesse fatto male, me ne ero pentita quasi subito. Inconsciamente mi recai proprio nel luogo in cui avevamo litigato la notte prima, camminando a testa bassa e sospirando per tutte quelle parole dette e non dette. Per il fatto che non ero riuscita a fargli capire chi ero davvero e lui ovviamente aveva travisato.
   «Cos’è, vuoi aiutarmi a riparare il buco? O sei qui per goderti lo spettacolo in assenza di meglio?» Fu ciò che Marek disse quando i nostri occhi s’incrociarono per più di qualche secondo.
   «Figuriamoci… passavo di qui solo per… per prendere delle erbe a Dorothèe, sì.» E cosa avrei dovuto dire del resto? “Sono qui perché non facevo altro che pensarti, quindi i miei piedi mi hanno portato involontariamente qui con la speranza di sentire ancora il tuo odore?” Oh no, non se ne parlava minimamente. «Infatti ora vado via.» Vidi Marek nascondere un ghigno, passando l’ennesima mano di calcestruzzo e tornando a guardarmi. Inarcò un sopracciglio allungando la mano verso di me, mosse l’indice in un gesto eloquente.
   «Quando ti ho dato il permesso di andare via, Eireen? Le brave ragazze dovrebbero prendersi la responsabilità di ciò che fanno, se il muro è rotto la colpa è anche tua.» Inarcai un sopracciglio sbuffando incredula, incrociai le braccia al petto facendogli intendere che non mi sarei mossa di un sol centimetro. «Devo venire a prenderti io di peso, o muovi le tue belle gambe fino a qui?»
Mi fulminò con un’intensa occhiata, fermandosi per un secondo sulle “mie belle gambe”. Rimuginai qualche istante su tutta quella situazione e alla fine decisi di avvalorare l’idea che la notte prima mi aveva tormentato. Forse Marek era geloso? O forse voleva solo proteggermi? In entrambi i casi mi sentivo una tonta per non averlo capito. Avanzai di qualche passo fino ad arrivare a lui che tentò di grattarsi il naso ma era evidente non volesse sporcarsi – alzandomi sulle punte lo feci al posto suo.
   «Scusami.» Per averlo toccato, o per averlo schiaffeggiato?
   «Detesto quando chiedi scusa per qualcosa che hai ormai fatto.»
   «Dimmi cosa vuoi che faccia qui e facciamola finita.» Risposi a tono.
   «Non so bene cosa tu debba fare, ci sto pensando seriamente. Sto pensando con attenzione a cosa tu debba fare per farmi passare la rabbia che ho. Qualche proposta?» Mi sorrise beffardo, diede un calcio al secchio ai suoi piedi che rotolò fino al giardino.
   «È così divertente prenderti gioco di me, Marek?» Indietreggiai quando mi si avvicinò di un passo, gli occhi sottili e la mascella serrata di lui mi infastidivano. «Onestamente parlando, sei tu quello che dovrebbe farsi perdonare. Dovresti chiedermi scusa per tutte le cattiverie che mi hai detto e per avermi baciato anche se pensavi quelle cose di me, per avermi detto di sparire subito dopo avermi scombussolato tutto quanto! …Volevi proteggermi per paura che mi facessi male? Beh indovina un po’, sei stato il primo a farlo ma ovviamente io sono la volpe quindi perché credere a ciò che dico?»
Lui alzò il viso guardandomi vacuo, quasi come se non mi vedesse.
   «Se non capisci che mi da fastidio vederti andare la notte con altri ragazzi, allora sono problemi tuoi. Se non capisci che detesto quando sorrisi o ti fai prestare indumenti da altri, ripeto: sono problemi tuoi.» Si fermò per un istante, lasciandomi senza fiato, dopodiché mi afferrò per il polso trascinandomi qualche metro più in là dietro una colonna alla penombra. «Le mie scuse te le scorsi, non se devo scusarmi per quel bacio.»
Intrappolò tra le sue mani anche il polso libero stringendomeli in una presa ferrea, i nostri nasi si sfiorarono. Socchiuse gli occhi soffiando sul mio viso prima di avventarsi sulle labbra, provai a divincolarmi ma lui rafforzò la presa tenendomi ferma, sollevando i miei polsi sopra la testa ed inchiodandoli al muro. Schiuse le mie labbra a forza, lasciando che le nostre lingue si accarezzassero e lottassero disperatamente tra loro per vedere chi alla fine sarebbe sopravvissuto. Mi rilassai gradualmente e quasi non lo divoravo io stessa con quel bacio, ero realmente io quella? La stessa Eireen alla quale non era concesso avere la tv il camera senza poterla guardare se non con il consenso dei propri genitori? La stessa Eireen che indossava solo ciò che la madre le comprava e che non aveva nessun tipo di stimolo sessuale o passionale. La stessa che avrebbe disdegnato un contatto così diretto con la lingua di un'altra persona?
Sentirmi sua mi faceva sentire incredibilmente viva ed era assurdo scoprire di esser stata morta sino a quel momento.
Ansimai contro le sue labbra e tutte le barriere crollarono; mi lasciò i polsi per accarezzarmi il collo scoperto, fermandosi ai fianchi che strinse con prepotenza per avvicinarmi di più a sé, insinuai le dita nei suoi capelli sentendomi talmente libera da poter morire in quel preciso ed unico istante.
Caldo e freddo. Fuoco e gelo, ancora una volta. In qualsiasi legge fisica del mondo questi due elementi erano gli opposti, sempre in lotta con sé stessi proprio come noi. Eppure per un dannato scherzo del destino, per quanto ci opponessimo c’era qualcosa che ci calamitava l’uno tra le braccia dell’altro.
Brividi continui da parte mia caratterizzarono il momento, insieme a mugugni e brevi gemiti che esalavo quando lo sentivo possessivo per quelle prese.
Non appena la mano del vampiro oltrepassò il tessuto della mia camicia per accarezzarmi la pelle, si bloccò. Le sue mani, sebbene erano fredde come ghiaccio, bruciavano come carboni ardenti sulla sull’epidermide ancor più calda. Si staccò con sentita riluttanza mollando la presa sul mio corpo e lasciandomi priva di qualsiasi forza.
   «Questo è riuscito a farti passare i dubbi sulla sincerità di quel giorno? O pensi che bacerei in pieno giorno chiunque indossi una bella gonna scozzese?» Le sue pupille erano rosse, emise un verso che non seppi definire e fece un passo indietro – era la prima volta che pensai volesse mangiarmi sul serio.
Vederlo lontano da me mi fece sentir male, avanzai senza pensare al fatto che qualcuno avesse potuto vederci, lo abbracciai affondando il viso contro il suo petto.
    «E sei io non volessi essere una brava ragazza?» Biascicai.
    «E se io non te lo chiedessi?» Mormorò lui.
    «Hai frainteso, ieri…»
    «Non pensavo sul serio quelle cose…» ammise, ma non mi abbracciò. «Guardati. Guardami. Se ci fosse un subdolo tra noi due, quello sarei io.» Si staccò da me, mi accarezzò il labbro inferiore con le dita e lo tirò appena. «Non abbracciarmi. Non farlo qui e adesso, ci sono troppi occhi e non voglio che tu finisca ancora in punizione… non prima di capire quella questione.»
   «E tu non guardarmi come se volessi mangiarmi, potrebbero fraintendere e pensare che ti ho stregato, come una perfetta kumiho.» La mia voce si assottigliò in un sussurro suadente che mai prima di allora avevo sperimentato, sorrisi appena e lui sembrò per un istante non vedermi, gli occhi perennemente rossi non mi facevano più paura. Mi sistemai la camicia senza smetterlo di guardarlo. «Dobbiamo andare a lezione.» Dissi rendendomi conto troppo tardi dell’ora.
   «Io devo andare a darmi una ripulita, sono completamente sporco ed impresentabile e mi beccherei un rimprovero gratuito. Quindi a meno che tu non voglia lavarmi la schiena, vai alla lezione senza di me.» Sorrise beffardo come spesso faceva, io scossi la testa e mi voltai per andare.
Ci scambiammo un altro sguardo di fuoco quando eravamo a diversi metri di distanza; poi lui sparì per l’interno giorno.
 
Entrando in camera dopo un lungo giorno passato a cercar di capire dove fosse finito Marek, trovai Dorothèe accovacciata contro le lenzuola di un letto ancora sfatto. Alle volte mi fermavo a guardarla di nascosto per poterne capire meglio i meccanismi affascinanti e seducenti che solo lei poteva sfoggiare con tanta naturalezza.
Dorothèe mi aveva raccontato del suo passato, nata dall’unione d’una donna e d’un uomo non era niente. Ma Desdemona, figlia dell’Ombra e della Luce, figlia della Terra e del Cielo, figlia della Grande Dea e del Dio Cornuto, lei era qualcosa.
Leggiadra e delicata, avvertiva lo scorrere della vita nelle radici che d’energia pervadevano il Creato. Danzava, piroettava spensierata anche se aveva tutto il mondo sulle spalle, onorando la sua Dea ed il suo Dio. Inalava l’odore dell’incenso che adesso invadeva anche camera nostra, e delle candele. Sorrideva, rideva, gioiva.
Si prendeva cura di me senza chieder nulla in cambio.
Lei mi disse che sua madre le somigliava molto: libera da ogni pregiudizio, da ogni vincolo. Libera di volteggiare, d’unirsi alla natura. Libera d’essere. Già… avevo rimuginato su quell’espressione per giorni, sua madre carezzava sempre i capelli di Dorothèe cullandola in caldi abbracci e questa cosa mi disse che la confortava molto, le mancavano gli abbracci di sua madre.
Suo padre invece, aveva mollato tutte e due per una lolita o qualcosa di simile. Il fascino perverso della combinazione vecchio-nuovo come l’agrodolce nel palato, diceva, cattura l’attenzione degli ormai adulti appesantiti dalle troppe candeline ed attratti da adolescenti prese da fascinazioni stagionali.
Suo padre le chiamava pazze, povere pazze figlie dei fiori. Guardava sua moglie e gli ripeteva d’averlo stregato, poi si dedicava ad attività più ludiche, passionali, quali calar giù slip umidi e sporcarsi di rossetto rosso volgare.
Poi… dimenticandosi quasi quell’ira che gli provocavano i ricordi del padre, tornava a sorridere raccontandomi di come lei e sua madre chiudevano gli occhi e si rifugiavano nella natura, continuando a danzare a piedi nudi abbracciate dalla brezza profumata dei pini della Francia. Se sulle prime l’immagine mi fece sorridere, dopo pensai che fosse una cosa assurdamente dolorosa per lei esser rinchiusa in un posto simile.
Il padre di Dorothèe si stufò del loro spirito libero e della loro gentilezza, lo reputò un atteggiamento pazzo ed incriminabile, come se ormai solo il male fosse normale nella società in cui vivevamo.
Urlò prima di chiamare uno psichiatra con l’intenzione di farle rinchiudere. Divorziare per lui sarebbe stato troppo costoso, alimenti, soldi da versare mensilmente e reputazione di uomo saggio che rischiava di macchiarsi.
Mi chiesi come poté la madre della mia Dorothèe unirsi in un sacro vincolo con un uomo di quel tipo.
Il racconto di Dorothèe non proseguì mai oltre quel punto, decisi di non chiederle oltre – mi andava bene anche così.
   «Resti sempre a fissarmi, penso che alle volte tu mi voglia consumare l’anima.» La sua voce flebile uscì dalle coperte, ma lei restò immobile, rannicchiava nella sua magrezza ed i capelli sparsi un po’ ovunque sul candore delle lenzuola.
   «Spero che tu non possa consumarti mai.» Dissi con un sorriso, poi mi avvicinai affiancandomi sul letto insieme a lei.
   «Oh Eireen… penso di starmi consumando più di quanto non mi stia rendendo conto.» Alle volte pensavo sostenesse segreti troppo grandi per una sola singola figura come la sua.
   «Lo impedirò, puoi starne certa. Mi caverò gli occhi per non rischiare di consumarti, se necessario.» La strinsi attirandola a me, era così piccola e fragile alle volte. Si voltò nascondendo il viso contro il mio modesto seno, io le carezzai i capelli abbracciandola – imitando le gesta di sua madre per come potevo.
   «Alle volte penso che tu abbia stregato anche me.» Biascicò.
   «Alle volte spero di averlo fatto sul serio.» Dissi.

 
‘Come un lampo o un bagliore di candela
I tuoi occhi, non già il rumore mi destarono.
Così (poiché tu ami il vero)
Io ti credetti sulle prima un angelo,
ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
che conoscevi i miei pensieri meglio di un angelo,
quando interpretasti il sogno
sapendo che la troppa gioia mi avrebbe destato e venisti
devo confessare
che sarebbe stato sacrilegio crederti altro da te.
Il venire, il restare ti rivelò. Tu sola.
Ma ora che ti allontani
Dubito che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura
E non tutto spirito limpido e valoroso
Se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce sono prima accese e poi spente.
Così tu fai con me.
Venisti per accendermi, vai per venire.
E io
Sognerò nuovamente quella speranza, ma per non morire.
 
 
 
 
 
 
 
Dorothèe.
 
 
“C’era una volta”, la formula delle favole dal finale felice, dal “e vissero felici e contenti.”
Adoravo le favole che mi madre mi raccontava prima di addormentarmi, accompagnate da un dolce bacio della buonanotte posato sulla fronte. Adoravo la voce che mi guidava verso le braccia di Morfeo, adoravo il tepore delle coperte, le cime innevate dei Pirenei che intravedevo dalla finestra, quel clima che sapeva di famiglia, nulla a che vedere con le grida e l’indifferenza che mio padre ci riservava.
La mia fiaba preferita tra tutte, era la storia del vampiro che si ritrovò senza denti. Un protagonista cattivo, un mostro perennemente affamato e senza scrupoli. Certo in tutte le versioni di favole o storie dove c’era la figura del vampiro esso veniva sempre raffigurato con tali aggettivi, ma non nella mia. Non nell’universo in cui mi trovavo.
In quell’orfanotrofio che si nascondeva dietro il titolo “collegio”, i figli dal mondo di quelli diversi ed anormali, erano tutti accolti a braccia aperte tra quelle quattro mura apparentemente sicure e degne di fiducia, ma cosa sarebbe successo se io avessi rivelato i miei sospetti? Cosa sarebbe successo se io avessi rilevato le predizioni che avevo sul futuro? …No, non nera quello il momento, ciò che potevo fare era impedire il susseguirsi di alcuni eventi.
Poco alla volta vidi il cortile della scuola popolarsi di nuovi volti, gente proveniente da tutti gli angoli del mondo, come se fossero scarti della società costretti a rispettare regole ed eseguire punizioni al primo sgarro. Si riunivano tutti al suono della campanella in un giardino verdeggiante simile ad un classico cortile scolastico.
Portavo quella divisa contro mia voglia, passavo il tempo ad osservare con aria sperduta i fiori spenti che coloravano quel quadretto magistralmente.
Quel giardino mi regalò il primo incontro con Uriel.
Nessun sorriso, alcun saluto, nemmeno uno scambio di sguardi. Un Uriel di un anno più giovane ed ancora spaesato, s’avvicinò ad una me distratta e sorridente.
   «Tu.» Mi disse sgarbatamente.
   «Io…?»
   «Profumi di fiori in maniera assurda. Esagerata.» I suoi occhi verdognoli mi studiavano attentamente, così come il suo olfatto acuto.
    «Davvero? …Grazie.» Alzai lo sguardo, incrociai quello del mio nuovo amico e sorrisi.
   «Non mi pare di aver detto che il mio fosse un complimento.»
   «Non ti piace il profumo dei fiori? Puzzo? Perché nessuno me l’ha mai detto? L’avessero fatto avrei provato a puzzar di meno.»
Lui si grattò la nuca in un gesto carino.
   «Beh, in classe sei quella che puzza di meno.»
Non capii se fosse un complimento o meno, mi limitai a tendergli la mano ed aprire il palmo.
   «Uriel, Uriel Vanhomrigh.»
   «Dorothèe, Dorothèe Bardou.»
 
Uriel: così cambiato da quel momento, così allontano da me. Così misterioso, così diffidente. Così… così solitario adesso.
Mi chiesi cosa facesse, mi chiesi cosa gli stessero facendo. 

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Capitolo 9
*** Act IX ; Possession. ***



Act IX ; Possession.


Avevo fatto uno dei soliti incubi anche se non ricordavo con precisione quale, mi alzai dal letto a piedi scalzi non mi domandandomi perché non sentissi freddo al contatto gelido che la mia pelle ebbe col pavimento. Mi diressi nella grande cucina per prendere un po' d'acqua fresca - sapevo di avere la gola secca, quasi arida. Il frigo illuminò metà della stanza in cui mi trovavo e voltandomi scorsi un ombra possente all'angolo opposto al mio, ebbi il tempo di urlare più forte che potevo quando mi si scagliò quasi contro facendo alzare i miei genitori, che si precipitarono da me. Aprivo bocca, ma non riuscivo a parlare; vidi le facce dei miei parenti dopo tanto tempo, avevano un sorriso maligno in volto e cercavano di abbracciarmi in modo anche troppo insistente. Avevano delle mani affilate, come le unghia di quella bestia che scorsi, voltando appena il capo verso destra. Tamburellava le dita in modo impaziente contro un orologio enorme, le lancette segnavano l'ora con gocce di sangue - non so perché, ma sapevo che quella mano era la mia. Me le guardai, erano identiche.
Mutate in qualcosa di mostruoso tutto d'un tratto.
 
Quando aprii gli occhi davvero, Dorothèe mi scosse il braccio in un tocco gentile, io ero in una pozza di sudore ed avevo il fiato corto, come se quello che avevo sognato fosse avvenuto sul serio, facendo in modo che il respiro mi venisse a mancare per la paura tremenda.
   «Eireen, sbrigati. I professori ci aspettano alle nove in punto fuori ai dormitori.» Già, qualcuno mi aspettava.
Era il giorno del fantomatico campeggio alla Caed Dhu, di cui avevo sentito parlare sin dal primo giorno in cui ero lì. Si teneva una volta al mese per circa due giorni ed era l’unico momento in cui avremmo potuto addentrarci in quel luogo, punizioni escluse.
Mi preparai alla svelta proprio come mi suggerì Dorothèe, quel giorno non c'era bisogno di indossare la divisa per cui espressi la mia contentezza alla compagna di stanza e mi misi un grazioso vestito color pesca lievemente svasato e che arrivava alle ginocchia. Grazie alla mia temperatura corporea estremamente calda era raro sentissi freddo, ma optai comunque per un cardigan chiaro che mi copriva le spalle.
Io e Dorothèe raggiungemmo il punto d'incontro insieme e potemmo scorgere alcuni studenti della nostra classe che già aspettavano impazienti, non sapevo ben dire per cosa.
Sapevo però che quel campeggio sarebbe stato... intenso.
Salutai alcuni di loro quando li vidi; Uriel, Richard, persino Dyanne. Non mi curai del fatto che mi ricambiassero o meno.
Avevo un insolito sorriso che metteva in evidenza le due fossette ai lati delle guance, ormai avendo completamente scordato l'incubo di poche ore prima o forse era solo un modo per convincermene, anche se la sparizione improvvisa di Marek il giorno precedente ancora mi destava qualche sospetto e preoccupazione.
Poggiai le mani contro le maniche dello zaino che avevo sulle spalle e con sguardo vispo lo cercai. Non appena potei trovarlo, mi parai al suo fianco spalleggiandolo in maniera scherzosa.
   «Quando penso di esser tranquillo, ecco che subito appari.»
   «Vuoi morire di primo mattino, vampirello?» Storsi le labbra in una smorfia e giurai di averlo visto sogghignare per un istante. «Forse ieri sei stato punito?» Chiesi fingendomi non troppo interessata.
   «Mi sono solo addormentato mentre mi davo una ripulita, mi è toccato sgomberare la mensa dopo pranzo. Ei preoccupata forse?»
   «Ah, sono eccitata per questo campeggio.» Sviai il discorso raggiungendo Dorothèe a pochi passi.
Ricordavo che la prima volta mi beccai una punizione in prossimità di quel posto insieme a Marek ed Uriel e dovettimo ricorrere alla loro abilità per raggiungere la foresta vista la lontananza. Eppure quella volta, stranamente, ci vollero solo quindici minuti di passeggiata insieme ai compagni.
Era come se ogni passo avesse dimezzato quella immensa distesa di verde, che sembrava divenir sempre più arida.
Ci scortavano due professori, il centenario e temuto Alais e la graziosa signorina Lois, insegnava vegetazione e non a caso era la preferita di Dorothèe, era una Wiccan proprio come lei.
Ci fermammo in prossimità di un laghetto che sembrava incantato e fuori luogo se paragonato a tutto l’ambiente circostante, tetro e per niente in piena fioritura.
Avevo sentito da Marek ed Uriel che i professori prima di recarci sul posto dedicato al campeggio, creavano una sorta di barriera per impedire agli spiriti di far sorgere qualsiasi inconveniente spiacevole – dal mio canto non ero più impaurita come i primi giorni ed a quel pensiero mi accorsi mancassero esattamente ormai sedici albe allo scadere di quella scommessa che Marek aveva imposto in biblioteca.
Pensai avesse già vinto, ma non glielo dissi.
Dopo aver sistemato le cose nelle rispettive tende, Dorothèe mi trascinò con sé al lago che per quanto vicino all’accampamento bisognava comunque camminare un po’ per arrivarci.
Penso che quello sia diventato uno dei ricordi più felici di entrambe.
Ridemmo e scherzammo senza pensare ad altro, Dorothèe aveva dimenticato momentaneamente i suoi pensieri oscuri ed io allo stesso modo non avevo più pensato a tutti i misteri che ancora mi rendevano ignorante, avevo smesso di pensare ai miei incubi che di solito preannunciavano catastrofi, finimmo per bagnarci i vestiti e restare completamente zuppe ma ridenti; quando decidemmo di rientrare negli accampamenti, Dorothèe adocchiando la figura di Uriel in lontananza mi disse di proseguire per conto mio, alle volte mi sembrava strano che i due fossero così vicini ma al tempo stesso distanti anni luce.
   «Dove pensi di andare così? Hai dei vestiti di ricambio?» Marek arrestò la mia camminata a testa bassa mettendomi un dito contro la fronte.
   «Non pensavo ci saremmo inzuppate a tal punto, ho lasciato tutto in tenda.» Bofonchiai corrucciata, le tende delle ragazze erano abbastanza lontane da quelle maschili. «Sto morendo di freddo e se mi congelo prima di raggiungere la tenda? Oh no… vedo i miei mille anni sgretolarsi in pochi secondi.» Dissi fingendomi drammatica, portando una mano alla fronte per enfatizzare il tutto e poi sfociare in una spontanea risata. «Andrò subito a cambiarmi.»
Mi fece cenno di bloccarmi sul posto, dirottò i miei passi verso destra fino a che non raggiungemmo una tenda leggermente isolata rispetto alle altre, non faticai molto a capire che fosse la sua. Vi gattonò all’interno e ci stette fino a che il fruscio di vari tessuti non cessò e lui fece capolino porgendomi tra le mani una felpa bianca.
   «I bagni sono qui vicino, cambiati lì. Togli gli abiti bagnati e asciugati prima, pensi di farcela o dovrei venire ad aiutarti?» Si avvicinò a me fino a che i nostri nasi non si sfiorarono. Finse di baciarmi le labbra per poi dirottare alla guancia, sulla quale stampò un sonoro bacio.
   «So cambiarmi anche da sola.» Sbottai, prima di allontanarmi verso i bagni dove mi cambiai velocemente, sentivo il freddo pungermi la pelle, lasciai i capelli sciolti lungo la schiena, erano umidi ma non me ne curai. La felpa di Marek era così grande da coprirmi mani e natiche, uscii di lì con i vestiti bagnati tra le mani, andai alla ricerca di Marek per ringraziarlo e… per stare ancora un po’ con lui.
Mi sentii afferrare il polso passando proprio dinanzi alla sua tenda.
   «Presa.» Disse velocemente il vampiro, facendomi ricadere praticamente addosso a lui, anche se capovolse in poco tempo la situazione lasciando che la mia schiena incontrasse il materassino. Salì su di me bloccandomi le cosce con le proprie ginocchia.
   «Marek… cosa stai facendo? Se non ci trovano ci cercheranno.» Furono le uniche parole che fui in grado di tirar fuori, Marek era incredibilmente bello visto anche da quel punto di vista.
   «La tua idea di dormire abbracciata alla wiccan dovrà aspettare la prossima sera, non credo ti lascerò andare tanto facilmente da qui. Puoi sempre provare a liberarti con la forza.»
I miei capelli erano sparpagliati un po’ ovunque su quel materasso sottile che prendeva colore grazie solo allo spiccato ramato delle mie ciocche. Mi morsi il labbro, improvvisamente il caldo tornò ad invadermi completamente.
   «Fa un po’ troppo caldo qui dentro…» Sentivo il sangue vibrare vertiginosamente nelle vene e pulsare più del solito. Non avevo mai visto gli occhi di Marek con quel bagliore particolare, erano singolari e mi ispiravano curiosità.
Sembrò simile al granito, neppure un suo muscolo si mosse, mentre le ombre giocavano sui nostri visi formando figure astratte ed affascinanti. Sorrise scoprendo i denti, le sue mani si poggiarono accanto al mio viso facendogli da leva.
   «Hai caldo? Eppure indossi solo la felpa, dovrei raffreddarti?»
Unì le nostre fronti, ghiaccio e fuoco fusi insieme. «Dicesti che avresti protetto il mio calore.» La voce gli uscì quasi attutita, gli occhi erano di nuovo rossi.
Sentivo sensazioni nuove e strane dentro di me, il cuore accelerò di due o tre battiti al secondo quando il naso di lui sfiorò il mio. Le mani, comandate da chissà quale assurda entità, andarono a circondargli il collo.
   «Mantengo sempre le mie promesse.» Sollevai il viso di poco, pochissimo. Quel tanto che bastò per unire le nostre labbra in un bacio dal quale mi staccai quasi subito, Marek mi guardava senza respirare. Le mani dal collo si spostarono sul petto che bramavo ogni volta che lui non era con me. «Mi piace il tuo petto.» La mia voce suonò come un sussurro.
   «Se ti piace davvero dovremmo restare così. A me piacciono tante cose di te.» Mi carezzò il labbro inferiore con le dita. «Queste mi piacciono più di tutto il resto, per esempio. Penso potrei arrivare a sognarle.» Mi sorrise ambiguamente, scendendo con le dita lungo il collo appena scoperto ed accarezzandone la vena principale. Proseguì la sua corsa come una lenta carezza, non sapevo bene se punitiva o di pura e semplice scoperta, arrivando alle gambe nude e piantandosi lì. «Anche queste mi piacciono particolarmente.» Strinse la mia coscia con forza, facendomi mugugnare.
La mia mente era annebbiata, come la vista del resto, una sensazione piacevole ma troppo avvolgente. Sospirai contro le sue labbra ancor prima che mi baciasse e quando le nostre bocche si unirono in un contatto stavolta più diretto e passionale, non esitai a ricambiarne i movimenti. Fu un bacio delicato come se un velo di fosse posato sulle nostre bocche, ma diventò presto ebbro del miscuglio tra passione e la dolcezza selvatica delle labbra carnose ed appena screpolate di Marek. Quelle stesse labbra si mossero, facendo gonfiare leggermente le mie e finirono per schiudersi più e più volte. Mi abbandonai a quel bacio, così morbido e turbolento. Esalai un gemito nella sua bocca adesso più calda.
Vezzeggiai il suo petto ripetute volte mediante movimenti premurosi. Per un attimo sentii il suo respiro infrangersi sulla pelle del mio volto. Gli occhi, fatalmente incatenati.
   «Obbligami a rimanere sveglia.» Avrei potuto anche affermare di averglielo chiesto sulla bocca, tanto percepii la vibrazione delle sue labbra, inevitabilmente (quasi) di nuovo a contatto. Avevo una punta di malizia nella voce, non erotica, non machiavellica; semplicemente mi era sorto spontaneo un simile tono.
   «Non so se il mio modo di tenerti sveglia di piacerebbe.» Bassa e roca, la sua voce mi colpì piacevolmente le orecchie da volpe. Dirottò le sue labbra sul mio collo, non provai paura. Le schiuse vagando e delineandone il contorno con la punta della lingua.
   «Marek…»
   «Marek cosa? Marek fermati o… Marek continua? È un abissale differenza questa e io voglio saperla, perché se non vuoi ammetterlo sai perfettamente cosa potrebbe accadere se continuassi.» La consistenza dei suoi canini mi eccitò; fu allora forse che scoprii d’essere attratta dal pericolo. Percepire a tratti il peso di Marek sul mio corpo fu piacevole, rendeva definitivamente tangibile e reale la sua presenza. Perché lui era lì anche se respirava a tratti.
Lo sentii annaspare, il suo fu quasi un ringhio. Capii che quella vicinanza al mio collo lo stava uccidendo, presi tra le mani il suo viso e lo posai contro il petto.
Con il suono della voce cominciò ad imitare i battiti del mio cuore, uno per uno.
“Tum tum, tum tum”
Il mio organo vero ed il suo artificiale vissero in simbiosi per vari istanti.
   «Mi chiedo quale dei due morirà prima.» Mi domandai senza capirne nemmeno il senso. O forse l’avrei scorto più tardi quando da distesa mi ritrovai seduta sul suo bacino, gli sfiorai le guance, era il primo contatto della pelle quella sera, almeno da parte mia.
   «Mi chiedo quanto impiegherai a fuggire via.» Marek si sedette insieme a me, cinsi le gambe attorno alla sua vita.
   «Non voglio fuggire da te. Sono venuta per rimanere e sono così contenta che sia successo tuto così in fretta, abbiamo solo mille anni dopotutto… mille anni e non potrò più respirarti.» Sussurrai quelle parole in così totale sofferenza che non mi parve un momento felice. Eppure la mia gioia era ugualmente palpabile perché sapeva di lui. Socchiusi gli occhi, sentivo il suo fiato – mi rendeva serena.
   «Tra mille anni in qualche modo troverò il modo di vederti ancora.»
   «Non smettere di respirare.» Marek poteva decidere anche di non farlo, non era il respiro a tenerlo vivo.
Saccheggiò le mie labbra prendendo tutto ciò che poteva, ci rincorrevamo come se qualcuno dei due potesse svanire da un momento all’altro.

 

 
 
 
Uriel.
 
Forse la Caed Dhu si stava dimostrando per come non era. Illudendoci che il fuoco potesse realmente scaldarci e perché no, renderci degli studenti normali in un posto dove c'erano graziosi e rinfrescanti ruscelli. Eppure ero certo di non averne sentito nemmeno l'odore di ognuno di questi, forse anche Marek se n'era accorto, ma d'altronde vivere nell'illusione era qualcosa che piaceva a tutti.
   «Ieri è toccato a me prendere la legna, se aspettate che lo faccia di nuovo... scordatevelo!» Una voce di cui ignoravo l’identità disturbò i miei pensieri, eravamo proprio fuori alle tende dove il fuoco che non serviva a molti, stava quasi per spegnersi in piccole scintille.
   «Posso andari io.» Disse Eireen scrollando le spalle, suscitando subito occhiate preoccupate da parte di Dorothèe – divenuta ormai suo angelo custode, la cosa in qualche modo m’infastidiva. Poi la wiccan guardò me con aria che non seppi decifrare, alle volte era così enigmatica che mi veniva voglia di sequestrarla per estorcergli ogni singolo e più piccolo segreto… o forse mi veniva voglia di sequestrarla per altri motivi. Non dimenticai le parole che ci scambiammo nell’incontro di qualche giorno prima, dove sosteneva che di lì a poco avrei attaccato Eireen senza che me ne rendessi conto, finsi che la cosa non m’importasse e non ci credetti sulle prime. Ma quando mi ritrovavo da solo coi miei pensieri, con le mie asfissianti ombre, sapevo che dentro di me stava accadendo qualcosa – da quando il preside mi si era palesato senza apparenti motivi, sentivo di star cambiando interiormente e non mi ero mai chiesto perché quest’ultimo ci tenesse tanto al fatto che mi avvicinassi ad Eireen e nemmeno perché continuasse a convocarmi segretamente per sapere come stavano andando le cose.
Era incredibile come i professori di quel posto sparissero chissà dove, improvvisamente.
Eireen si allontanò senza che nessuno, a parte me e Dorothèe la notasse e a quel proposito mi chiesi che fine avesse fatto Marek.
Sentivo i passi della giovane volpe allontanarsi, insieme ad una folata di vento improvviso che le attraversò la carne, la sentii sospirare. Mi alzai di lì; c’era qualcosa che mi turbava decisi di seguirla restando a debita distanza non preoccupandomi degli occhi di Dorothèe alle mie spalle che come sospettavo mi stava seguendo.
Vidi Eireen in lontananza voltarsi e rivoltarsi verso il nulla fino a che dinanzi a lei non apparve uno spirito della foresta nera. Aveva capelli scuri e la faccia spaventosamente cadaverica con delle fosse nere al posto di occhi e labbra. Era sospeso a mezzaria, con la parte inferiore mancante e ciò che si poteva intravedere dal busto in poi forse era meglio non descriverlo. Eireen cadde, strusciò il sedere conto il terreno arido, quell’essere si scagliò contro di lei lasciando una scia nera nell’aria sparendo poi completamente tra le sue fauci.
Gli vennero le fosse sotto agli occhi, le labbra dapprima rosse fuoco invece diventarono pallide, screpolate e di un rosa malato.
Si alzò, dirigendosi verso di noi – puntò gli occhi su Dorothèe che era alle mie spalle, Eireen mostrò un canino affilato che mai prima di allora aveva avuto.
   «Eireen, guardami. Guardami, torna in te.» Tentai di restar calmo, incatenai gli occhi ai suoi sperando di persuaderla in qualche modo ma evidentemente mi uscì male visto che in un sol attimo la volpe posseduta si avventò contro la wiccan in un gesto improvviso, la prese per i capelli lanciando un urlo disumano e mentre Dorothèe cercava di difendersi e parlarle, lei le squarciò quasi il vestito.
Le mie pupille si dilatarono, probabilmente diventando completamente bianche – sapere Dorothèe in pericolo era qualcosa per me troppo forte da gestire. Furono pochi secondi, le mie ombre avvolsero il corpo della volpe facendola cadere in terra e quindi staccandola dall’amica. Le andai incontro con un balzo mettendomi sul suo petto a fauci spalancate che avevano come unico obbiettivo il suo collo.
   «URIEL NON TOCCARLA.» La voce di Marek interruppe il tutto, mi distrasse per un secondo e quando tornai con gli occhi in quelli di Eireen venni sbalzavo in un nano secondo dalla parte opposta, finendo contro un albero senza che nemmeno mi sfiorasse.
   «Tu bastardo pazzo, ti scavo la fossa qui e ti ci seppellisco stanotte.» Marek mi sputò quelle parole addosso sovrastandomi col suo corpo e mentre eravamo intenti ad attaccarci a vicenda, la voce di Dorothèe che chiamava il mio nome mi distrasse; la vidi in terra, agonizzante per lo schianto di poco prima con gli occhi mi supplicava di calmarmi rassicurandomi che fosse tutto apposto. Marek in quel momento mi lasciò rivolgendosi ad Eireen che con un ghigno malefico si avvicinava a noi col chiaro intento di squarciarci la palle. Il piede di Marek si abbatté sul mio stomaco sbalzandomi qualche metro più lontano direttamente contro un masso che si distrusse in miliardi di pezzi.
Eireen guardò Dorothèe e proprio come poco prima fece con me, la fece sbalzar via con la sola forza del pensiero; capii che quell’abilità era opera della volpe e non dello spirito, corsi usando le mie capacità in direzione della wiccan e la presi tra le braccia prima che potesse scontrarsi contro una grande quercia.
   «Stai bene?» Chiesi allarmato, lei mi sorrise teneramente.
   «Sei stato bravo.» Era per questo che qualche giorno prima mi avvertì? Per impedire una catastrofe? Ero scattato in quel modo solo per l’ira di vederla farsi male – non mi era importato se a patire sotto le mie forze fosse Eireen o qualcun altro.
   «Non voglio farti male, non mi riconosci? Eireen, sono io… sono Marek.» Marek si avvicinava alla volpe con lentezza; portai Dorothèe lontano da lì per metterla in salvo.

 
 
 Marek.
 
Allargai le braccia, i palmi delle mani ben aperti mentre lento continuavo l’avanzata verso quello che era divenuto a tutti gli effetti un nemico. La volpe mi guardò rabbiosa ad ogni passo verso di me spalava una fossa di terreno sotto i piedi, ma qualcosa nel suo sguardo sembrò mutare, che Eireen mi avesse riconosciuto?
Eravamo a pochi centimetri l’uno dall’altra, i nostri sguardi si incatenarono perdendosi. Non c’era altro modo, se non quello per poterla salvare. La mia mano si mosse veloce afferrando il polso esile di lei che con uno scatto rabbioso provò a dimenarsi, era ormai troppo tardi perché i miei canini avevano già forato la sua pelle succhiando quel sangue che sembrava riportarmi lentamente all’oscura e mai dimenticata natura. Scostai appena le labbra solo per sussurrare.
   «Adesso farai ciò che ti dico io.» Dalla ferita inflitta dai miei denti il sangue dolce di Eireen le macchiava la pelle candida. «Manda via lo spirito e torna te stessa… puoi aiutarti con la forza della mente, con quella non hai forse messo in salvo Dorothèe ed Uriel spingendoli via? Spingi via anche lo spettro Eireen, fallo per me.»
Il mio morso doveva servire a soggiogarla, le mie parole ad armonizzare il tutto. Ma quell’odore, quella sete… lei fremeva sotto di me e del vapore nero uscì dal suo corpo, evidente prova che m’avesse dato ascolto – ero riuscito a raggiungerla ma i miei occhi rossi non smettevano di fissare quel sangue puro e pregiato.
Le leccai il collo portando via il liquido in eccesso, emisi un grugnito di estasiante piacere.
   «Marek…» La sua voce gradualmente prese le sfumature che aveva sempre avuto. Era debole.
Sentivo le sue vene pulsare, così calda ed invitante da risvegliare il mio animo predatore. I miei canini affondarono ancora, succhiai il suo sangue per poterla ipnotizzare ma il destino cambiò ancora le carte in tavola; la mia fame si spalancò formando un buco al centro esatto dello stomaco.
Bevevo come un assetato, notando a malapena la presenza improvvisamente inquietante di Uriel accanto a me, lo spazio ed il tempo sembravano essersi annullati sostituiti da una nebulosa consapevolezza di ciò che stavo compiendo ai danni di Eireen.
Uriel non fece nulla, rimase semplicemente al nostro fianco mentre le sue ombre mi deridevano assicurandosi che quel momento durasse a lungo. Non capii cosa mi avesse riportato alla ragione, forse il cedimento della ragazza ormai priva di forze, o forse la scomparsa improvvisa dello spettro; o magari furono i ricordi che nitidi passarono dentro di me; vi era il nostro primo vero incontro che improvvisamente ricordai.
Sbarrai gli occhi sopraffatto dal disgusto per me stesso, emettendo un ringhio basso e disperato, la lasciai finalmente andare.
Mi allontanai da lei ormai priva di sensi, sembrava più pallida del solito.
   «Cos’hai fatto, Marek?» La voce di Uriel mi sconvolse; c’era qualcosa di strano in lui. Me lo chiese con sadico divertimento.
Mi voltai fuggendo verso il fitto della foresta, andai nuovamente incontro allo strapiombo in cui ero qualche ora prima.
Scappavo non da lei, ma da me stesso.
Qualche istante dopo, un urlo disperato squarciò l’aria.
 
 
28 Agosto 2005 ;
 
Ero alla sua finestra, in quella casa al lago a sud della città, sapevo vivesse la bella Kumiho ormai ridotta agli ultimi giorni di vita dei suoi mille anni. Una sola goccia del suo sangue valeva come oro, dicevano fosse il più buono e il più pregiato in circolazione; una volta provato sarebbe stato impossibile farne a meno ed io ero troppo annoiato dalla mia stessa esistenza per ignorare tali informazioni.
Saltai sulla finestra del terzo piano della villa, aperta per dare aria a quella piccola fanciulla dormiente su un letto a baldacchino – che fosse lei la kumiho di cui avevo sentito parlare? Mi avvicinai sedendomi sul suo petto gracile; cinque anni di puri sogni.
Gli rubai i primi quattro respiri, furono i più soddisfacenti che avessi mai rubato. Quando stavo per assaporare anche il suo sangue dopo essermi insinuato nei suoi sogni di prati fioriti e persone sorridenti, la porta si spalancò facendomi saltare dall’altra parte della stanza.
Mi mimetizzai nel buio di essa, osservando il candore di quella donna dai capelli lunghi e simili a quelli della bambina. Le andò vicino posandogli una mano sul petto, poi tornò eretta.
   «Come hai osato.» Tuonò, la voce bassa e suadente ma al tempo stesso temibile. «Come hai osato rubato quattro attimi di vita alla mia bambina?» Si voltò verso di me, avvicinandosi i suoi occhi limpidi sembrarono farmi bruciare la pelle.
   «È una sorta di mestiere.» Feci scrollando le spalle. «Cercavo la kumiho a cui sono rimasti pochi giorni da vivere, imbattendomi in una purezza simile non potevo farne a meno.» Scoprii i denti quando la vidi troppo vicina.
   «Quella sono io.» Congiunse le mani tra di loro e mi osservò. «E allora vieni, nutriti e lascia la mia più cara nipote in pace per sempre. Nutriti, ma non avvicinarti a lei mai più o il destino ti riserverà atroci sofferenze.»
In quel momento non le credetti, avevo solo sete di sangue e bellezza, di purezza. Sebbene la donna avesse mille anni era incredibilmente eterea, la più bella che avessi mai visto. Mi avvicinai per rubarle tutti i pochi respiri che gli erano rimasti e a metà della mia opera mi piantò i suoi artigli da volpe nello stomaco; mi allontanai accusando un momentaneo fastidio.
   «Volevi ingannarmi?» Lei sapeva che se sarebbe arrivata al mio cuore m’avrebbe ucciso; conosceva la mia razza. Fu la prima volta che temetti qualcuno.
La donna mi rubò tre respiri, li chiuse in una boccetta vuota e li diede alla strega che mi tolse metà anima dannandomi nelle notti di luna piena. Pativo il sangue, come in quelle notti pativo la carne viva.
 Uccisi quella donna prima che potesse morire naturalmente, vendicandomi per quel supplizio al quale mi aveva crudelmente sottoposto; sua nipote, la piccola Eireen mi osservava dietro lo stipite della porta non riuscendo a capir molto, mi avvicinai a lei usando una velocità non umana.
   «Tornerò anche da te, tornerò e mi vendicherò per questa mezza anima e per questo mezzo lupo.»
 
Biascicai, mi leccai le labbra mentre la bambina mi sorrise intimidita.
Il primo di tanti sorrisi, che non meritavo affatto.

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