When the children play

di AlenGarou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Avvertenze ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** 1 ***
Capitolo 4: *** 2 ***
Capitolo 5: *** 3 ***
Capitolo 6: *** 4 ***
Capitolo 7: *** 5 ***
Capitolo 8: *** 6 ***
Capitolo 9: *** 6.2 ***
Capitolo 10: *** 7 ***
Capitolo 11: *** 8 ***
Capitolo 12: *** Bonus ***
Capitolo 13: *** 9 ***
Capitolo 14: *** 10 ***



Capitolo 1
*** Avvertenze ***





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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo

 

New York State, 1907

 

D

ahlia gemette. Si rigirò nuovamente nel letto, cercando una posizione in grado di conciliarle il sonno. Tuttavia, tale traguardo sembrava essere diventato irraggiungibile, quasi avverso negli ultimi giorni. Sgradevoli sensazioni avvolgevano il suo corpo raggomitolato contro un materasso all’apparenza marmoreo e i guanciali, ruvidi come corteccia, le pizzicavano la pelle delicata del viso. Eppure era consapevole che tale malessere non era altro che un’illusione; una proiezione del suo disagio. Da quando la signorina Pennington li aveva separati, non riusciva più a riposare bene. Dopo nove anni passati insieme, l’assenza di Dorian le risultava inconcepibile. Più una punizione che una necessità per le buone maniere alle quali le giovani di buona famiglia dovevano sottostare.

A Dahlia certi canoni etici non importavano. Voleva solo stringere la mano del suo fratello gemello prima di addormentarsi, in modo da sapere che tutto andava bene; che erano al sicuro.

Anche se non era altro che un’ingenua menzogna.

Chiuse gli occhi, nascondendo il viso nel vecchio orsacchiotto di pezza che teneva tra le braccia; una delle poche cose che le avevano permesso di portare con sé dopo che la signorina Pennington li aveva presi sotto la sua tutela. Poteva ancora avvertire il profumo della madre intriso nelle cuciture che lo tenevano insieme. Non perfette e accurate, ma intrise d’amore, un sentimento che Dahlia e Dorian potevano solo ricordare.

La tristezza arrivò in onde amare che si propagarono gelide nel suo corpo. Dahlia scosse il capo e si costrinse a non rammentare il passato. Lei e Dorian erano ancora insieme. Era l’unica cosa contava.

Con quel pensiero ben focalizzato nella mente si rilassò e il tempo incominciò a trascorrere lento e inesorabile, scandito dai rumori notturni: il vento che scuoteva le vecchie assi di legno della casa, il tintinnio del vetro, il ticchettio dell’orologio.

Stava quasi per cedere alla stanchezza quando lo udì.

Era solo un fruscio, un suono appena accennato, ma i suoi sensi scattarono in allerta. Si mise seduta, osservando l’oscurità che alleggiava nella stanza come un manto soffocante.

E attese.

Forse aveva frainteso. Era una casa grande e vecchia, i rumori e gli agghiaccianti scricchiolii erano all’ordine del giorno. Ma non fece nemmeno in tempo a finire quel pensiero che avvertì di nuovo quel rumore.

E poi ancora.

Il suo sguardo spaventato corse all’orologio posato sul comodino.

Non era possibile. Era troppo presto.

Un altro suono, questa volta più forte. La prima porta del corridoio era stata aperta.

Uno schiocco.

Poi il boato di una detonazione.

Il terrore s’impossessò di lei, ghermendola con i suoi velenosi artigli. Istintivamente, si nascose sotto le coperte, paralizzata. Il respiro le fuggiva dalle labbra in piccoli ansiti sommessi, diventando sempre più palpabile mentre la notte avanzava e incombeva su di loro come portatrice di mala sorte.

Lo scricchiolio si fece più vicino, una cadenza di passi interrotta dall’eco incessante dei boati.

Dorian…

Nel suo letto di ferro battuto, Dahlia cercò di rimanere immobile, nonostante i tremiti che le scuotevano il corpo. Chiuse gli occhi e incominciò a mormorare la nenia che la loro amata e defunta madre cantava per loro quando erano spaventati. Aveva sempre funzionato; li aveva confortati nel dolore della perdita, nell’accettazione del lutto e nei primi momenti di smarrimento dovute alle espressioni degli altri ragazzi di cui Mrs. Pennington era responsabile; sguardi sforzatamente gentili che nascondevano il dubbio e la ritrosia verso il diverso, la novità. Ma poi tutto sembrava essersi disteso in un quieto tempo, dove la tipica spensieratezza infantile era riuscita a portare con sé un barlume di letizia. Finché non era arrivato lui.

Gli scricchiolii continuarono, sempre più tangibili. Dahlia rabbrividì e proseguì imperterrita a mormorare quella litania sconosciuta e al contempo famigliare.

Poi la porta si aprì e la bambina si pietrificò.

Il cigolio s’interruppe. Nella stanza calò un silenzio opprimente, quasi soffocante, ma Dahlia sapeva che c’era qualcuno con lei.

Quel momento precario si spezzò quando una mano afferrò le lenzuola e gliele strappò di dosso. La bambina stette per urlare con tutto il fiato che aveva in corpo, ma piccole dita si serrarono attorno alla sua bocca, prevenendo il segnale che li avrebbe fatti scoprire.

«Ssh. Tranquilla, sono io.»

Dahlia guardò il riflesso del suo volto attraverso le lacrime. Capelli neri come la pece, naso leggermente aquilino, incarnato ambrato e un piccolo neo sotto l’occhio sinistro. Dorian.

Annuì lentamente, facendo capire al gemello che avrebbe risparmiato il fiato. Poi gli strinse le mani sul braccio.

«È… quello che penso? Come può essere già qui?»

Dorian scosse il capo, poi scattò sull’attenti.

«Vieni, dobbiamo sbrigarci!»

«Aspetta! Non dovremmo…?»

Dorian non perse tempo a risponderle. I passi ripresero, questa volta più vicini e veloci.

Prese per mano la sorella e la condusse verso l’armadio posto dall’altro capo della stanza. Nascosta dai cappotti e dai vestiti, una piccola fenditura percorreva il pannello interno. Dorian fece pressione e scostò il legno finché il passaggio non diventò abbastanza grande per farli passare. Non dovette nemmeno voltarsi per dirle cosa fare.

Dahlia s’infilò dentro e incominciò a strisciare tra lo spazio vuoto dei muri, mentre Dorian richiudeva dietro di loro le porte dell’armadio. Subito dopo ritornò al suo fianco.

«Da che parte?» mormorò Dahlia, facendo attenzione a non produrre il benché minimo suono.

«È inutile tentare di raggiungere il piano inferiore. Procedi verso le scale di servizio. Dobbiamo trovarlo.»

La bambina annuì confusa, dato che la loro destinazione si trovava dalla parte opposta al corridoio dove erano allestite le camere per i bambini, ma seguì le sue indicazioni. In quel labirinto di cunicoli polverosi e marci, Dahlia non riusciva a muoversi liberamente, costretta com’era in quello spazio angusto. Ben presto incominciò a sentire il petto pesante a causa della claustrofobia, ma si costrinse a proseguire.

Erano quasi arrivati al corridoio nord, quando Dorian afferrò per un braccio la sorella e la fermò.

«Aspetta.»

Si avvicinò alla parete, osservando attraverso una piccola crepa nell’intonaco l’ambiente circostante. Il corridoio era vuoto. Le porte delle stanze dei ragazzi chiuse. Non c’era alcuna traccia della sua presenza.

«Andiamo» supplicò Dahlia appena udibile.

Dorian non la badò, certo di aver sentito un rumore. Con il cuore in gola, gli occhi sgranati e i visi pallidi per la tensione, i due gemelli rimasero in attesa per qualche secondo, poi l’udirono.

Le pupille di Dahlia si dilatarono per il terrore. Si protese verso il fratello, ma una mano macchiata di nero penetrò l’intonaco e si chiuse sulla testa del bambino prima che lei potesse afferrarlo. Lo trascinò via, attraverso il muro, attraverso l’oscurità e Dahlia rimase da sola, lì, nel buio.

Giusto il tempo per tornare a giocare a nascondino.

 

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Capitolo 3
*** 1 ***


1.

 

Al giorno d’oggi

 

S

i preannunciava una serata tranquilla. Per quanto potesse esserlo la notte di Samhain.

Mentre il sole compiva il suo perpetuo ciclo, proiettando sulla città le ultime luci vermiglie e dorate, i bambini del vicinato incominciavano a spostarsi in gruppi per andare a caccia di caramelle e guai. Dentro le case adeguatamente addobbate per l’occasione, i genitori e gli abitanti troppo cresciuti o poco vogliosi di prendere parte al gioco si stavano preparando ad accogliere i piccoli mascherati, sperando in cuor loro di non dover ripulire il giardino da uova marce e carta igienica il mattino seguente.

Immersa in quell’ilare baccano, Alex camminava tranquilla verso il punto d’incontro previsto con le sue amiche, fermandosi di tanto in tanto per saltare nei mucchi di foglie secche ammassati ai lati del marciapiede. Con il cappuccio rosso della mantella ben calato sulla testa, sorrise istintivamente nel percepire il frenetico entusiasmo che pulsava nei dintorni come un’entità a sé. Infilò una mano nella vecchia borsa di pelle che teneva nascosta sotto il pezzo forte del suo costume e ne tirò fuori una manciata di caramelle, incurante della tradizione. Se ne ficcò in bocca una, mentre rispondeva con un cenno del capo al lupo mannaro che aveva alzato una zampa per salutarla, più per ironia che per una vera conoscenza.

Era questo ciò che amava di Halloween.

Per una sera, ognuno poteva vivere l’illusione di essere qualcun altro. O ciò che avrebbe voluto essere.

Si lisciò la gonna di lana marrone che aveva indossato sopra alla camicia vittoriana a collo alto per dare un tocco tradizionale al suo personaggio, togliendovi un paio di foglie e ignorando il fatto che le arrivasse fin sotto le ginocchia. Emily l’avrebbe bacchettata per non aver scelto la versione sexy che avevano concordato qualche giorno prima, ma ormai il danno era fatto.

Tornare indietro era impossibile; per suo grande sollievo.

Canticchiando This is Halloween, continuò a saltellare, non facendo caso alle sciocche risatine di un gruppo di spogliarelliste che incrociò per strada, o almeno credette che lo fossero nonostante la giovane età. Forse non avrebbero più riso così di gusto se avessero saputo che nella borsa teneva un coltello da macellaio lungo quindici centimetri per i possibili lupi in agguato. In fondo, una ragazza doveva pur provvedere a se stessa. In qualche modo.

Con un ultimo saltello, si fermò vicino al bar dove andava abitualmente, scenario di molti incontri del club del libro. Anche se chiamarlo club era un’esagerazione bella e buona, dato che gli unici membri di cui era composto erano lei, Emily e Sarah, e perdevano più tempo a litigare tra loro a causa delle diverse vedute sul romanticismo contemporaneo che a discutere amorevolmente su quanto avessero letto.

In altre parole, era solo una scusa per strafarsi di caffeina e zuccheri mentre Emily raccontava loro la sua nuova idea per il romanzo che tentava di scrivere senza troppo successo.

Chiuse gli occhi e inspirò, sollevando la testa per percepire meglio l’odore zuccherino che imprimeva la frizzante aria ottobrina. Mescolato alla fragranza delle foglie che maceravano a terra e delle zucche intagliate sparse per il vicinato, creava un’essenza aromatica strana, quasi unica, percettibile esclusivamente in quel periodo dell’anno. Per non parlare poi degli aromi che provenivano dall’interno del caffè. Il suo stomaco gorgogliò in risposta di tale impulso.

Aveva appena incominciato a pensare a quali dolci i suoi vicini avrebbero spartito ai bambini in processione, quando una voce in lontananza richiamò la sua attenzione.

Reduce da molti incontri ravvicinati del tipo Emily, il suo corpo si preparò istintivamente all’impatto ancora prima dell’apparizione della figura gialla e nera nel suo campo visivo. Lo scontro fu titanico.

«Alex! Per un attimo ho temuto che non venissi!» esclamò la sua migliore amica, lasciandola scombussolata mentre scioglieva il suo abbraccio e le permetteva di respirare.

In tutta risposta, Alex si sistemò in fretta il cappuccio sul volto. «Come potevo mancare? Mia madre ha minacciato di buttarmi fuori di casa a calci se avessi osato darti buca.»

Emily trattenne a stento una risatina, dato che lei e quella donna avevano un progetto comune: riuscire a trasformare quella ragazza asociale e senza alcun interesse per la moda in una principessa. Inutile dire che formavano una squadra temibile e da non sottovalutare; pace alla sua povera anima.

Gli occhi verdi di Emily brillarono per l’emozione, prima di squadrarla da capo a piedi per giudicare il suo look. Per l’occasione, la biondina aveva abbandonato gli occhiali dalla montatura rossa che indossava di solito per quelli di riserva, tondi e neri, degni di Harry Potter.

Sentendosi sotto esame, Alex deglutì, ma quando Emily sorrise raggiante capì di poter tirare un sospiro di sollievo. Per il momento.

«Oddio, sei troppo carina» sentenziò, prendendo il cellulare e puntandoglielo contro.

Il flash l’accecò per qualche momento, giusto il tempo per non vedere l’amica digitare qualcosa alla velocità della luce. «Anche se sembri un enorme fagottino rosso di morte e distruzione, con quei grandi occhi azzurri spalancati e la boccuccia corrugata in un broncio delizioso, sei una Cappuccetto Rosso adorabile.»

Cercando di capire se prendere quell’affermazione come un complimento o un’offesa, Alex fece finta di non aver sentito l’errato commento sui suoi occhi e si concentrò sull’amica.

Sembrava del tutto a suo agio nel costume che aveva scelto dopo intense settimane di preparazione. Le calze a righe gialle e nere facevano riferimento alla maglietta dallo scollo a barca che indossava sotto a un mini vestito nero e alla lunga giacca del medesimo colore. Il corpetto le evidenziava ancora di più il seno prorompente e la curva dei fianchi tondi, donandole un aspetto slanciato. Per completare il tutto, aveva posato tra i biondi ricci vaporosi una piccola tiara ridipinta di giallo a cui aveva attaccato delle antenne nere.

«Allora, che te ne pare?» chiese, girando su se stessa.

Inutile dire che aveva ragione nell’atteggiarsi in quel modo. Nonostante Emily fosse poco più alta di lei, il confronto era impari: patata contro modella curvy.

Sospirò. «Già il fatto che riesci a respirare mi sembra un miracolo.»

L’amica s’imbronciò, per poi afferrare i lembi della mantella.

«Dai, dai. Fammi vedere anche il resto del tuo costume!»

Facendo un passo indietro per evitare le mani curiose dell’amica, Alex sospirò e allargò le braccia come una bambina. Come immaginato, il disappunto di Emily si fece palese quando vide la gonna della nonna sopra la camicia della bisnonna. La bionda inarcò un sopracciglio, ma prima che potesse aprire bocca, Alex la interruppe alzando una mano.

«Giuro solennemente che nessun cadavere patirà il freddo questa notte. Né in tutte le altre, a dire il vero.»

«Lo spero… Beh, non potevo aspettarmi niente di meglio da te, anche se così insaccata sembri una bambina di otto anni» tornò a squadrarla con occhio critico mentre abbassava le braccia.

«Direi che sono perfettamente in tema, dato che un sacco di bambini di quell’età sono in giro.»

«Oh, vedrai! Tra non molto ci divertiremo alla maniera dei grandi.»

Il ghigno divertito che le comparve sul viso non le piacque per nulla. Prima di riuscire a chiederle che cosa avesse progettato per la serata, Alex scorse due sagome avvicinarsi nella loro direzione.

Gregory alzò la mano in segno di saluto non appena si accorse di aver attirato la loro attenzione, mentre la ragazza al suo fianco si limitò a osservarle con un’espressione vacua.

Alex fece un cenno al loro compagno di corso, che per l’occasione aveva scelto il classico completo da zombie: ossia vestiti strappati e sporchi di sangue finto; tuttavia, non poté fare a meno di alzare un sopracciglio nel vedere il kimono bianco di Sarah. Non che ci fosse nulla di male a vestirsi da yurei, fantasmi della tradizione giapponese, ma data la sua etnia cinese sembrava quasi un controsenso.

La ragazza si accorse del suo sguardo dubbioso e, dopo essersi liberata da uno degli abbracci soffocanti di Emily, le rivolse un’alzata di spalle. «Che c’è? Tanto nessuno da queste parti sa distinguere un cinese da un coreano o un coreano da un giapponese.»

«Non basta osservare la chirurgia plastica?» chiese innocentemente Alex, facendo ridere gli altri due, mentre Sarah le lanciò un’occhiataccia.

«Oh, andiamo! Non incominciate» sentenziò Emily mettendosi le mani sui fianchi, anche se stava ancora sorridendo. Ormai era abituata ai loro battibecchi, ma era convinta che un giorno non molto lontano sarebbero andate tutte d’accordo e che il loro cerchio di amicizie si sarebbe allargato in modo esponenziale. Magari aggiungendo i modelli e i vip che seguiva su Twitter. E Instagram. Facebook. Youtube

In fondo, chi era lei per infrangere i suoi sogni a occhi aperti?

«Forza!» esclamò poi Emily, battendo le mani e aprendo il corteo. «Ci conviene incamminarci. Il posto è abbastanza distante.»

«Tu sai dove ci sta portando?» le chiese Gregory, affiancandola, ma Alex si limitò a scuotere il capo.

Quell’informazione era top secret. Insieme a tutte le altre.

Quell’anno Emily si era impegnata a cercare qualcosa di avvincente e nuovo da fare ad Halloween, qualcosa che avrebbe reso quella serata spettacolare e memorabile. E per farlo, Alex era convinta che di mezzo ci sarebbero stati dei cadaveri. Sperava quanto meno che il suo non fosse sulla lista.

Tutto ciò che avevano appreso fino a quel momento, si limitava al compito di guida della biondina, che doveva condurli in un posto segreto a fare chissà cosa. Conoscendola, sarebbe stata capace di portarli in una chiesa sconsacrata per compiere un sacrificio umano con tanto di altare, candele nere e athame, nel tentativo di evocare un enorme unicorno rosa dalla criniera arcobaleno che spargeva ovunque di brillantini.

Cercando di eliminare dalla sua mente pony, glitter e altre cose carine e coccolose, Alex si limitò a seguire le sue amiche con Gregory affianco. Anche lui sembrava dubbioso e incuriosito riguardo la loro destinazione, ma sapeva che qualsiasi tentativo di approfondire tale curiosità sarebbe stata vana.

Da settimane, infatti, Emily aveva pronunciato il voto del silenzio.

E questo non lasciava presagire nulla di buono.

Attraversarono vari quartieri, assaporando ancora un po' l’atmosfera festosa e schivando gruppi di zombie, super eroi, fantasmi, pirati, streghe e fatine, allontanandosi sempre più dal centro della città.

E man mano che il tempo passava, Alex incominciava a percepire una nota d’inquietudine crescere dentro di lei. Generalmente, Emily era una ragazza affidabile, che sapeva bene quali limiti non doveva superare con lei. Ma c’era una cosa ben più peggiore di un enorme pony rosa dotato di corno: un party pieno di adolescenti ubriachi. E si dava il caso che a scuola non si parlasse d’altro che dell’annuale festa di Jason Thompson, allestita nella villa dei suoi genitori. Era forse quella la loro destinazione?

Questo spiegava il motivo di tanta segretezza.

Da sotto la mantella, Alex rabbrividì.

«Hai freddo?» le chiese gentilmente Gregory, accorgendosi del suo tremore. Sembrava pronto a togliersi la giacca per posargliela sulle spalle, quando una voce alle loro spalle li chiamò.

«Ehi!»

Se prima Alex aveva provato dei brividi di disgusto, in quel momento raggelò dalla testa ai piedi.

Avrebbe potuto distinguere quella voce tra mille; persino nel bel mezzo di uno stadio olimpico durante la finale dei mondiali, colmo di tifosi urlanti e ubriachi. E questo perché il suo istinto di conservazione la paragonava alle sirene di Silent Hill, il cui messaggio era chiaro: molla tutto e scappa. E l’avrebbe fatto più che volentieri, se Emily non l’avesse afferrata per la mantella.

Le rivolse un’occhiata di fuoco.

Forse la sua reazione era leggermente esagerata. Dopotutto, Rennis Fauster era solo un ripetente finito nel loro anno di studi invece che al riformatorio e aveva una reputazione peggiore della sua, ma non le aveva mai fatto nulla per meritarsi di essere trattato come un testimone di Geova.

A eccezione dei suoi comportamenti da stalker.

Una volta aveva preso persino la briga di suonarle il campanello di casa.

Trattenendo a stento un’imprecazione, si voltò appena per osservarlo avvicinarsi con passo tranquillo e le mani in tasca. Non si era travestito in alcun modo, ma per una volta aveva fatto uno sforzo e aveva provato a domare la sua chioma ribelle. I capelli neri gli ricadevano solo da un lato del volto, mentre il resto era lisciato all’indietro, scoprendogli i lineamenti cesellati e la linea dura della mascella.

L’effetto avrebbe potuto essere sexy, se il tutto fosse stato rovinato dal suo classico sorrisetto mefistofelico che le faceva venire sempre una gran voglia di prenderlo a pugni.

Distolse lo sguardo e solo allora si rese conto che era seguito. Alle sue spalle, una ragazza così magra da essere quasi comica dentro al suo costume da fata punk tentava di tenere il suo passo, insieme a due ragazzi dall’aria minacciosa a causa di tutto il metallo che avevano in faccia e sui vestiti.

«Ciao Ren. Che ci fai da queste parti?» gli chiese innocentemente Emily quando si fermò davanti a loro.

«Era quello che volevo sapere io. Siete lontani dal centro e poi» abbassò gli occhi per incrociarli con quelli di Alex «queste strade non sono sicure di notte.»

Non più sicure di un coltello nella borsa pronto per essere usato.

Sia Sarah che Emily parvero confuse da quell’affermazione, ma prima che potesse chiedere spiegazioni all’amica, la fatina punk raggiunse Ren e s’incollò al suo fianco.

«Allora, Ren. Vogliamo andare?» chiese Dakota, una loro ex compagna di scuola che si era presa un anno sabbatico. Da quello che Alex poteva vedere, la giovane soffriva ancora di disturbi alimentari, ma non le mancava di certo la repulsione verso tutti quelli che pensavano che il punk rock fosse solo un genere musicale e non uno stile di vita, a giudicare da come le fulminò con lo sguardo, evidenziato dall’eyeliner.

Ren però rimase a osservare Emily e Alex in attesa di una reazione, ignorando volutamente le lamentele della ragazza che, sentendosi esclusa, si guardò alle spalle scuotendo la lunga chioma nera e rossa.

«C’è qualche problema?» chiese uno dei ragazzi dietro di loro, mentre si accendeva una sigaretta.

«Direi di no. Stavamo solo chiacchierando» commentò Ren con un sorriso, voltandosi verso di lui.

Emily approfittò di quella distrazione per strattonare Alex e gli altri lontani dal gruppetto, lasciando di stucco tutti quanti per quell’iniziativa.

«È stato un piacere, ma ora dobbiamo proprio andare» urlò di rimando al quartetto che, dopo un momento di esitazione, incominciò a seguirli.

Pessimo inizio.

«Emily, si può sapere che cosa succede?» commentò Sarah, osservandosi alle spalle.

«Infatti, sembrava quasi che ti aspettassi di trovarli nei paraggi» aggiunse Gregory.

Dopo un attimo di riflessione, Emily scosse il capo.

«C’era la remota possibilità che bazzicassero da queste parti. Lo sapevo, ok? Solo che speravo di non incontrarli» rivelò lei in risposta.

Alex sospirò e immaginò i mille modi in cui quella serata poteva peggiorare. Peccato che la presenza di Ren fosse in top ten. Esattamente tra “hamburger vegani” e “biblioclastia”.

Dopo un paio di isolati e notando che il gruppetto li stava ancora seguendo, Alex prese coraggio, oltre a perdere anche l’ultimo residuo di pazienza che le era rimasta, e si voltò ad affrontare la sua nemesi.

Rimase ferma sul marciapiede, la mano sopra la borsa, aspettando che il ragazzo fosse abbastanza vicino da accorgersi il suo sguardo di sfida.

«Non hai qualcun altro da infastidire?»

Ren parve sorpreso e allo stesso tempo divertito da quella palese ostilità, limitandosi a sorriderle.

«Non mi sembra di aver fatto qualcosa di male e devo presumere che il fatto che stiamo andando tutti nella medesima direzione sia solo una coincidenza, no?» domandò, alzando le spalle in modo innocente.

«Ma davvero?» Alex incrociò le braccia al petto. «Non credevo che uno come te perdesse tempo a festeggiare ricorrenze del genere e di certo i pub per ammazzare il tempo non vi mancano.»

A quel punto, Ren era così vicino che riuscì a notare la sua espressione falsamente melodrammatica. «Davvero mi giudichi così irrispettoso verso Samhain solo perché non indosso uno stupido costume?»

La squadrò da capo ai piedi, finché un sorriso irriverente gli illuminò gli occhi plumbei. Attraversò la strada che li separava, schivando appena in tempo un gruppo di ragazzine in bicicletta. Con una mossa furtiva, riuscì a sfilare dalla testa della ragazza vestita da gatta un cerchiello adornato con un paio di soffici orecchie nere.

Nonostante non fosse della sua taglia e fosse un accessorio femminile, Ren se lo depose in testa come se si trattasse della più sontuosa delle corone.

«Ecco, ora sono il lupo cattivo.»

Alex, che nel frattempo aveva ripreso a camminare all’indietro per mantenere una distanza di sicurezza, finì addosso a Gregory. Non riuscì nemmeno a scusarsi, tant’era presa nell’osservare il giovane con un’espressione imperscrutabile. Rimase in silenzio per un lungo momento, poi si voltò e ritornò a seguire gli altri senza infierire. Non ce n’era alcun bisogno.

Emily trattenne a stento una risatina nel vedere Ren deluso, mentre Dakota e gli altri non si capacitavano di quella silenziosa sfida. Ma il ragazzo non parve prenderla sul personale. Anzi…

«Alex, non dovresti dargli corda» commentò acido Gregory. Sapeva che aveva ragione, ma alle volte doveva accertarsi con i propri occhi di essere di fronte a un completo idiota.

«Oh, non essere così apprensivo, Greg» sentenziò Emily, prendendo Alex per mano. «Alex sa cavarsela da sola, vero Sarah?»

«Lo spero, perché togliere il sangue da uno kimono deve essere terribile.»

Questa volta fu Alex a trattenere un sorriso per quell’osservazione, ma non poté evitare di notare che erano ancora seguiti.

«Allora, mi vuoi dire dove siamo diretti o faccio prima a chiederlo a Ren?»

Emily strinse le labbra, visibilmente indecisa sul da farsi. Stette per risponderle a malincuore, ma da una via laterale sbucarono due figure impegnate in un’accesa conversazione.

«Non ci posso credere! E dire che mi ero preparata con così tanta cura per fare colpo questa sera!»

«Cosa posso farci? Non è colpa mia se… Wow!»

Gli occhi di Keiran s’illuminarono quando li vide dall’altro lato della strada. E Alex non poté fargliene nessuna colpa, dato che con lui c’era Leyla e sembrava piuttosto arrabbiata.

Infatti, quando la ragazza alzò gli occhi dal suo smartphone e li notò, il suo viso truccato alla perfezione si contrasse in una smorfia di disgusto.

«Oddio, deve essere proprio la mia serata sfortunata» esclamò, cercando di darsi tono nel suo succinto costume da infermiera sexy. «Prima la festa a casa dei Thompson viene annullata e ora m’imbatto in voi sfigati. Oh, guarda chi è uscita dal reparto psichiatrico. Dakota, hai messo su qualche chilo vedo.»

Eh, sì. A quanto pare Ren e i suoi amici li avevano raggiunti.

«Per non parlare della cara cuginetta che si porta ancora dietro quella disabile pazza» sentenziò ancora la ragazza, focalizzando la sua attenzione su ciò che nascondeva la mantella rossa.

«Grazie, Leyla. Ti voglio bene anch’io» rispose Emily, mandandole un bacio, mentre Alex roteava gli occhi.

Girò i tacchi, questa volta veramente intenzionata ad andarsene. E avrebbe potuto squagliarsela, dato che Emily era distratta dalla cugina, se non fosse stato per Keiran. A proposito di serate sfortunate…

Il ragazzo le prese le mani e la osservò con il giubilo stampato in volto.

«Mo álainn, come sono felice di vederti!»

Dai ribelli capelli rossi, gli occhi nocciola screziati di verde e il viso da folletto costellato da piccole lentiggini, l’origine irlandese di Keiran era assodata quanto il suo accento e il suo costume da Fae.  Come studente straniero, aveva suscitato non poco scalpore nella popolazione femminile del liceo, che lo aveva da subito degnato di sincere e promiscue attenzioni. In poco tempo, era diventata una delle prede più rinomate per la riproduzione.

 Inutile dire che tale popolarità gli aveva montato la testa e quando ci aveva provato con lei… Beh, Alex lo aveva liquidato senza troppi pensieri. Ma quel disinteresse doveva aver colpito nel vivo il suo ego maschile, perché dopo quell’imbarazzante episodio non perdeva ogni occasione possibile per fare colpo. Con grande dispiacere suo e delle sue ovaie avvizzite.

Di fianco a loro, Gregory si schiarì la gola e Keiran la lasciò andare, ridacchiando. Non perse il sorriso nemmeno quando si accorse dello sguardo infuocato di Ren, anche se lo corrispose con uno sguardo curioso.

«Oh, Rennis. Cos’hai in testa?» gli domandò pacifico, alzando una mano per indicare le orecchie pelose che stava ancora indossando.

«Nulla. Mi sono spuntate durante la notte. Se vuoi ti dico come fare per averne un paio. È un metodo del tutto naturale e non contiene olio di palma» rispose lui impassibile, mentre il ragazzo s’illuminava.

«Allora, come mai anche voi siete in giro?» gli chiese Alex, scuotendo la testa e riportando su di sé l’attenzione del ragazzo. Non ce l’avrebbe fatta a sentire altre stupidaggini.

«Mi avevano invitato alla festa di Jason, ma sembra che ci sia stato un problema di organizzazione.»

«Che equivale agli sbirri» si lamentò Leyla, digitando furiosamente sul suo cellulare, come se potesse fornirle la soluzione ai suoi problemi.

«Beh…» iniziò Emily, ignorando lo sguardo di Alex. «Siamo tutti qui, che ne dite di venire con noi?»

Quella proposta suscitò diverse reazioni contrastanti nello stesso istante.

«Davvero?» esclamò Keiran, gli occhi che gli brillavano per l’eccitazione.

«No!» gemettero in contemporanea Ren e Leyla, come se avessero appena mangiato qualcosa di aspro.

Alex rimase in disparte a rivedere mentalmente la pubblicità dei Miracle Blade.

Sarah e Dakota spalancarono entrambe la bocca, sconvolte nell’udire tale proposta.

E Gregory si scambiò un’occhiata con gli altri due ragazzi, visibilmente infastiditi.

Dopo un attimo di silenzio, in cui molti si guardarono in cagnesco e gli altri fecero finta di essere attratti dalle loro calzature, Ren scosse il capo e sospirò.

«Ormai… Tanto immagino che fossimo tutti diretti a Pennington Mansion, non è così?»

Alex si voltò a scrutare Emily, sperando di scorgere una negazione a tale affermazione, ma a quanto sembrava, per la prima volta condivideva qualcosa con Leyla: una sfiga immensa.

Emily annuì.

 

 

 

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Capitolo 4
*** 2 ***


2.

 

P

ennington Mansion. Il nome rispecchiava adeguatamente l’essenza di quella dimora. Situata all’estremità dei quartieri residenziali, la grande villa abbandonata si ergeva bieca nei suoi tre piani di altezza. Nonostante avesse più di duecento anni, nel corso del secolo passato era stata ristrutturata diverse volte, fino a sfoggiare una pretenziosa facciata grazie allo stile Queen Anne. Corredata da un arioso portico, finestre decorative policrome, una torre sul lato sinistro del corpo principale e un grande giardino posteriore, la tenuta era delimitata dal tetro boschetto situato ai margini esterni e dalla recente rete metallica che la recingeva, abbellita da molteplici cartelli di pericolo e lavori in corso; un semplice monito per tenere lontani i curiosi e i malintenzionati come loro.

Alex non sapeva molto sulla storia della casa ma, nell’osservarla esternamente, non ebbe alcuna difficoltà a credere che durante il suo periodo d’oro fosse stata una dimora di tutto rispetto. Tuttavia, il tempo e l’usura non si erano dimostrati clementi e, nelle condizioni in cui ormai versava indecorosamente, sembrava adatta a essere solo il triste sfondo di un episodio di Ghost Adventures. Figuriamoci per un party di Halloween.

«Volete davvero entrare là dentro?» sibilò Leyla, stringendosi nel suo cappottino di pelle. L’occhiata di disgusto che lanciò alla villa era talmente intensa da poter essere scorta nella penombra.

«Non ci vedo nulla di male» esclamò Ren con un’alzata di spalle. «Noi lo facciamo sempre.»

A quell’esclamazione, Alex si voltò lentamente verso Emily con un’espressione raccapricciante, che fu subito ricambiata con un sorriso di scuse. Ne avrebbero parlato più tardi. In privato.

«Quindi è questo il vostro ritrovo segreto» constatò Sarah, tirando fuori dalla fascia del kimono un block notes e una penna per prendere appunti come se fosse del tutto normale. «Interessante… E da quanto tempo vi ritrovate qui?»

Ren alzò un sopracciglio, osservando dapprima Emily, che sfoggiò un altro sorriso di scuse rischiando così una paralisi facciale, per poi focalizzarsi di nuovo sulla ragazza. «Non starai davvero contemplando l’idea di scrivere un articolo per il giornale della scuola, vero?»

«Non dovrei?»

«Considerando che stiamo per compiere un’effrazione in una proprietà privata, direi che il tuo fiuto da giornalista ha scelto proprio un pessimo momento per venire fuori.»

Nell’udire tale constatazione, Sarah storse il naso e ripose i suoi attrezzi del mestiere, cercando di non badare ai due ragazzi che ridacchiavano dietro di lei. Durante il tragitto si erano presentati come Mark e John, il che aveva rappresentato per Alex un’autentica delusione, dato che si era aspettata qualcosa di più pittoresco, tipo Baudelaire o Edgar. O semplicemente qualcosa che valesse la pena ricordare.

«E, tanto per la cronaca, siamo stati io e Mark a dire a Ren di questo posto» s’intromise Dakota, anche se nessuno le diede retta. L’attenzione generale era di nuovo concentrata sulla dimora.

«Beh, ormai siamo qui» sentenziò Gregory con una punta di rammarico. «Tanto vale entrare.»

«Questo è lo spirito giusto Greg!» Keiran gli diede una rumorosa pacca sulla schiena. Era l’unico a sembrare davvero appagato da quella situazione, anche se il suo carattere gioviale non era ancora riuscito a spezzare il malcontento generale.

«Già, ma come?» chiese Emily, guardando oltre la rete. «Non avevo calcolato le assi a porte e finestre.»

«Non a tutte» intervenne Ren. «La finestra della cucina è inceppata. Possiamo entrare da lì.»

«Non striscerò dentro quel rudere come un ladro da quattro soldi!» sentenziò Leyla, gettandosi dietro a una spalla i lunghi capelli biondi, più chiari di quelli della cugina a causa delle numerose tinture e trattamenti.

«Perfetto, puoi rimanere qui. Oppure puoi ritornartene a casa sola soletta. Mi chiedo quanti isolati riuscirai a fare. Io punterei su quattro. Cinque, se sei fortunata.» Ren le sorrise mesto, ottenendo esattamente ciò che voleva: farla arrabbiare ancora di più.

«Beh, se devo sporcarmi il vestito, spero per te che tu abbia da bere là dentro!»

Gregory scosse la testa esasperato da quella scenetta e Alex gli diede qualche buffetto sul braccio per confortarlo, nonostante l’idea di Leyla da sola al buio la divertisse non poco.

«Ad ogni modo, il cancello è impraticabile» sentenziò Emily, dando uno scrollone alla porta inglobata nella recinzione da cui le persone competenti potevano entrare senza problemi, provocando così uno stridulo rumore metallico. «Non ci rimane che la rete.»

«C’è un passaggio poco più avanti.» Ren si voltò e incrociò lo sguardo di Alex. «Ma il modo più veloce è quello di scavalcarla. Però posso capire se voi ragazze non ve la sentiate. Non è alla vostra portata.»

Alex inarcò un sopracciglio. In cuor suo sapeva che tale constatazione sessista non era altro che l’ennesimo tentativo di stuzzicarla secondo le regole di un qualche primitivo rituale di accoppiamento di cui non ne comprendeva la logica e a cui non voleva avere alcun coinvolgimento, eppure la sua parte diabolica scalpitava per fargli mangiare la polvere. Sospirò nell’avvertire gli sguardi intensi di Emily e Gregory concentrati su di lei, come se avessero intuito cosa le stesse passando per la testa. Per cui si limitò a scrollare le spalle e a fare tre profondi respiri per calmarsi.

Prima di gettarsi contro la rete.

Fu un gioco da ragazzi. Non ci mise più di sei secondi ad arrampicarsi fino in cima. Attenta a non incastrarsi con la gonna, scavalcò la sommità con le gambe e calcolò l’altezza. Poco più di due metri e mezzo. Poteva farcela.

Oscillò leggermente e mollò la presa. Si ritrovò così a cadere nel vuoto, piegando nel frattempo le ginocchia per preparandosi all’impatto con il suolo e tenendosi stretto il cappuccio della mantella sulla testa con una mano. L’urto fu meno duro del previsto, ma quando alzò lo sguardo, preparando il suo miglior sorriso di scherno, si ritrovò davanti Ren.

«Sup

Alex sgranò gli occhi per la sorpresa. Si voltò e vide Gregory che teneva sollevata la rete metallica allentata mentre le ragazze vi passavano sotto, proprio vicino alla porta. L’aveva fregata.

«Avevi detto che era più avanti!» Lo accusò Alex, alzandosi.

«Esatto. Ma non ho mai specificato quanto» esclamò Ren, chinandosi in avanti per arrivare al livello del suo viso. Di nuovo quel sorriso mefistofelico e il luccichio divertito dei suoi occhi.

Alex chiuse le mani a pugno, trattenendosi nonostante il fastidioso formicolio che avvertiva sulla pelle. Intenzionata a non stare ancora al suo gioco, si voltò, osservando il suo amico mentre porgeva una mano a Emily per aiutarla a superare il passaggio. Quando fece lo stesso con Leyla, capì il motivo per cui era ancora single. Con i suoi corti riccioli neri e i caldi occhi nocciola, le camicie sempre stirate e una generosità degna di un buon samaritano, era l’incarnazione di tutto ciò che si poteva trovare in un bravo ragazzo.

E in quella generazione i bravi ragazzi non piacevano a nessuno se non alle pensionate del quartiere.

Sorrise tristemente a quel pensiero, ignorando Keiran che da in cima la recinzione faceva l’idiota per attirare l’attenzione generale. A quanto pareva, gli altri ragazzi avevano preferito seguire il suo esempio e fare un po' di ginnastica.

«Forza, andiamo. Meglio se non gironzoliamo troppo nei dintorni. Qualcuno potrebbe vederci.»

Controvoglia, Alex seguì Ren mentre faceva il giro della casa. Alzando il capo, fu colta da una sgradevole sensazione: sembrava quasi che i tre piani di legno e mattoni accanto a lei fossero inclinati nella sua direzione, pronti a crollarle addosso a tradimento.

Stava per girare l’angolo quando qualcuno le afferrò la mano, calmandola. Sussultando, Alex si voltò e si accorse che Emily l’aveva raggiunta. Il suo sorriso servì a farla sentire meglio, ma non cancellò del tutto la sensazione di disagio. Ricambiò in silenzio la stretta.

Quando arrivarono alla finestra designata, Ren sforzò il gancio con la maestria dovuta alla pratica. Afferrò l’estremità di legno e tendendo le braccia la sollevò senza problemi. L’apertura era relativamente stretta, ma non avrebbero avuto problemi a intrufolarsi all’interno.

«Bene» esclamò Ren, voltandosi verso il gruppo che si era radunato alle sue spalle. «Chi vuole avere l’onore?»

Anticipando qualsiasi cenno d’assenso, Dakota si lanciò su di lui, non perdendo l’opportunità di stringersi contro il suo corpo muscoloso. Ren ignorò quella dimostrazione d’affetto e si limitò a prenderla sotto le ascelle come un gatto bagnato, issandola verso la finestra. Prima di lasciarla cadere dall’altra parte, ne approfittò per tirarle un rumoroso schiaffo sul culo, provocando l’ilarità dei testosteroni presenti.

Ridicolo.

Alex rimase in disparte con le braccia incrociate, osservando i suoi compagni di avventura sparire l’uno dietro l’altro all’interno della dimora, come se fossero stati inghiottiti al suo interno. Ora le era chiaro il motivo per cui il giorno prima Emily aveva insistito per guardare Monster House, stupendola, dato che persino gli horror di animazione mettevano a dura prova la sua tempra d’acciaio forgiata a romanzi rosa.

Non riuscì a trattenere una lieve risatina quando fu Gregory ad aiutare l’apetta a intrufolarsi, sotto lo sguardo stranito di Ren che era stato messo da parte. Purtroppo, il suo rivale seguì a ruota la ragazza, lasciandogli l’ingrato compito di assistere Leyla. Sotto la sua presa, la ragazza incominciò a muoversi come un pesce fuor d’acqua, lamentandosi per il suo vestito e dandogli non poco filo da torcere.

I ragazzi non ebbero alcun problema, ovviamente, ma a nessuno sfuggì l’aiuto che John si prodigò a dare a Sarah, facendo ridere sotto i baffi sia Ren che Emily. Un vero peccato che Eric, il ragazzo di Sarah, non si fosse unito a loro per quella sera.

Dopo che Keiran, sotto lo sguardo minaccioso del teppista, si decise a scomparire all’interno della casa dalla quale iniziavano a provenire commenti e risatine, Ren si voltò verso di lei. Il suo sguardo aveva una sfumatura curiosa, nonostante l’esasperazione che emanava da tutti i pori, anche quelli arrossati per il graffio che Leyla gli aveva lasciato sulla guancia.

Tra di loro scese un silenzio teso. Ren alzò un sopracciglio.

«Hai paura?» Prima di lasciarle il tempo di rispondere, allargò le braccia con un gran sorriso. «Non temere, lo Zio Ren è qui per…»

«Idiota. Certo che non ho paura» esclamò Alex impassibile. Poi distolse lo sguardo. Era del tutto inutile discutere con uno come lui e ormai si era rassegnata all’idea di doverlo sopportare fin quando Emily non si fosse stancata di quella irritante parata e avrebbe espresso il desiderio di tornare a casa. 

Ren sospirò, massaggiandosi il collo.

Sei secondi di silenzio. «Ne vuoi approfittare per scappare, non è così?»

Quando lei s’irrigidì, il sorriso torno ad illuminargli il viso. «Oh, capisco…»

«No, che non capisci. E poi questo darebbe a Emily il giusto pretesto per ammazzarmi» rispose Alex, abbandonando le braccia lungo i fianchi e avvicinandosi a lui.

«Come se non ne avesse già abbastanza.»

Alex gli scoccò un’occhiataccia. «Già… Meglio entrare, prima che il suo diabolico cervello inizi a considerare l’improbabile possibilità che siamo qui fuori a limonare di nascosto.»

Nell’udire quell’insinuazione, Ren rimase esterrefatto. Abbassò lo sguardo, osservandola come se le fosse comparso un altro paio di braccia, e dopo qualche istante scoppiò a ridere così forte da gettare indietro la testa. Alex rimase in silenzio, attendendo imbronciata che riprendesse fiato. Se era fortunata poteva schiattare sul colpo per una crisi respiratoria.

«Wow!» esclamò il ragazzo, asciugandosi le lacrime agli occhi con il dorso della mano guantata. «Non immaginavo che sua Asprissima Altezza, la Regina dal Cuore di Ghiaccio, conoscesse certi volgari vocaboli.» La guardò con visibile interesse. «Ma devo ammettere che questa sera sono aperto a tutte le possibilità.»

Alex fece una smorfia piena di disgusto e, senza perdere altro tempo, lo scansò, oltrepassandolo. Si avvicinò alla finestra, ma poco prima di sgusciare all’interno dell’abitazione si fermò. Avvertiva lo sguardo curioso del ragazzo trapassarle la schiena in attesa di una reazione, tuttavia si limitò a voltarsi verso di lui con la sua consueta espressione indecifrabile.

«A proposito, hai perso un brillantino.»

Ren rimase per un momento interdetto, ma quando si passò una mano tra i capelli, si accorse di indossare ancora il cerchiello con le orecchie. Se lo tolse con una smorfia, lanciandolo nell’oscurità come un frisbee mentre Alex gli dava le spalle, ridendo sotto i baffi. Si issò sulla finestra senza alcuna difficoltà, nonostante la sua misera statura e, non contenta, tentò di tirare un calcio in faccia all’idiota mentre sgusciava all’interno.

Quando si raddrizzò spolverandosi i vestiti, lo scenario a cui si ritrovò dinanzi la stupì. Nella penombra, riuscì a distinguere la vecchia cucina perfettamente attrezzata secondo i canoni dell’epoca. E non solo; sembrava che i vecchi proprietari avessero apportato qualche miglioria, data la presenza dell’impianto elettrico e idraulico, il forno e il frigorifero, nonostante fossero datati agli anni sessanta, forse settanta.

«Andiamo» le fece cenno Ren, che nel frattempo l’aveva raggiunta.

Alex abbassò lo sguardo e si accorse delle diverse impronte sul pavimento impolverato, tutte dirette in un’unica direzione.

Quando uscirono dalla stanza, Alex estrasse dalla borsa la sua torcia elettrica per illuminare favorevolmente l’ambiente circostante e fece fatica a trattenere il suo stupore. Le sembrava di essere finita in una casa delle bambole vintage. Ogni elemento presente gridava lo sfarzo ormai scomparso su cui si fondava quella fortuna immobiliare. E, se la memoria non la ingannava, all’epoca era uso comune regalare alle figlie una miniatura della propria dimora, anche se ormai le sembrava un’idea di cattivo gusto.

Senza accorgersene, rallentò il passo, osservando con vivo interesse ogni dettaglio su cui i suoi occhi si soffermavano: le decorazioni della carta da parati sgualcita, i quadri di nature morte e scene di caccia, i vasi impolverati, e cercò di immaginare il resto dei mobili celati da vecchi teli bianchi in base alle gambe di mogano intagliate in motivi floreali su cui posavano. Forse c’era addirittura qualche pezzo originale proveniente dell’Europa e dalla Cina.

Arrivati nello spazioso androne, si fermò definitivamente, catturata dal grande quadro appeso sullo scalone. Raffigurava un gruppo di bambini, tra cui una sola bambina, che attorniavano una donna vestita in modo impeccabile che avrà avuto poco più di trent’anni, seduta su un’elegante poltrona di velluto. Sembravano congelati in una posa simile a quelle degli annuari scolastici, ma nonostante il pittore avesse cercato di dipingerli in modo serio e composto, sui volti dei bambini apparivano comunque dei sorrisi vispi.

Allungò una mano, sfiorando con le dita il corrimano delle scale principali, quando l’udì.

Sorpresa, Alex alzò lo sguardo verso il soffitto, certa di aver sentito un lieve scalpitare. Attese qualche istante, contando mentalmente fino a sei, ma tutto ciò che percepì furono i rumori ovattati provenienti dall’altra stanza. Riportò lo sguardo sui bambini. Forse era solo soggezione.

Era così concentrata che non si accorse di Ren, che nel frattempo era ritornato sui suoi passi. Non trattenne uno sbuffo nel vederla con la testa tra le nuvole, ma quando sfiorò le sue dita, si ritrasse di colpo. Dopo una lieve esitazione, l’afferrò per il braccio e senza troppi complimenti la condusse a passo di marcia verso il salotto privato situato al pian terreno. Se il resto della casa sembrava inviolato, Alex poté constatare con i suoi occhi che le visite impreviste di quei ragazzi avevano comunque lasciato un segno.

I mobili del salotto erano stati scoperti e spostati in modo da far più spazio nel centro della sala, a eccezione del grande divano imbottito dove Dakota si era lasciata cadere con molta nonchalance. Ai lati, diverse abat-jour erano state accese, ravvivando debolmente l’ambiente polveroso insieme alla composizione di fili di luce bianca che correvano sui muri, circondando i quadri e i soprammobili. Ciononostante, la maggior parte dell’illuminazione proveniva dal camino situato sulla parete laterale che qualcuno si era prodigato ad accendere, riscaldando la stanza. Un altro tocco personalizzato dai ragazzi consisteva nei vecchi manichini disposti come spettatori silenziosi all’estremità della stanza, su cui avevano posato le giacche. Da uno stereo a pile posato su un tavolino da caffè, proveniva un ritmico sottofondo, probabilmente qualche canzone dei Korn. Ma ciò che attirò maggiormente l’attenzione di Alex, furono gli scaffali colmi di vecchi volumi disposti lungo la parete libera.

«Non è fantastico?» le chiese Emily, prendendole le mani e facendola sedere con loro sul divano, scostando malamente Dakota.

«Pensavo che non ci fosse elettricità» mormorò sorpresa Alex, ritornando in sé.

«Lo pensavamo anche noi, ma i proprietari devono aver deciso di mantenere attivo l’impianto elettrico al piano terra, magari per far sembrare meno tetra questa casa ai possibili compratori, anche se sospetto che siano davvero rari. Ma non mi lamento per questa dimenticanza. Ah, nonostante in questi vecchi tubi passi ancora acqua, vi consiglio di non berla. Ho come il presentimento che potrebbe uccidervi» commentò Ren, lanciando la giacca di pelle sui manichini e tirandosi su le maniche della vecchia maglia che aveva sicuramente visto giorni migliori.

«Esagerato. Basterà farla scorrere un po'» esclamò Sarah con un gesto annoiato della mano.

«Ciò che davvero mi stupisce è che non l’abbiate ancora devastata» s’intromise Alex.

«Oh, l’avremmo fatto, tranquilla» sentenziò John. «Ma qualcuno ha deciso di rovinarci la festa.»

Tutti gli sguardi si puntarono su Ren, chino verso il minibar posato in un angolo. Estrasse una birra e sentendosi osservato fece spallucce. «Bisogna portare rispetto verso certe dimore» fu il suo unico commento, come se questo spiegasse il suo improvviso senso civico.

Alex inclinò il capo, per poi tornare a contemplare assorta la stanza. Una volta preso posto, i ragazzi iniziarono a sentirsi più a loro agio, specialmente dopo che Ren incominciò a lanciare in giro lattine di birra.

«Mi casa es tu casa.» Alzò la sua già aperta e questo diede inizio alla festa.

 

 

Buon Samhain a tutti!!!

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Capitolo 5
*** 3 ***


3.

 

L

e persone sapienti sono curiose. Conoscono i più disparati argomenti e riescono a risolvere i problemi più complessi, eppure non sanno come interagire con i loro simili. Preferiscono osservare la vita, piuttosto che viverla e Alexander non era da meno. Appollaiata come un grosso uccello del malaugurio ammantato di rosso accanto a uno dei tavolini ai margini della sala, scrutava annoiata gli altri, trattenendo appena l’impulso di trovare una lettura interessante con la quale passare il tempo. Da un paio di ore, infatti, l’atmosfera tesa che aveva avvolto la strampalata combriccola sembrava essersi sciolta, sostituita da un chiassoso vociare.

E tanti saluti all’idea di tornarsene a casa in tempo per la maratona notturna del caro vecchio Freddy¹.

Alex sospirò, appoggiando il viso su una mano. Chiuse gli occhi per qualche istante nella speranza di alleviare il principio di emicrania che aveva iniziato a martellarle le tempie, ma un’inaspettata risata stridula la fece sussultare sulla sedia. Raddrizzandosi, lanciò un’occhiata di fuoco verso il divano.

Leyla e Dakota e ci stavano dando dentro con una bottiglia di liquore comparsa come per magia tra di loro, sfidandosi a chi si copriva maggiormente di ridicolo. Nonostante le loro divergenze e le diverse filosofie di vita, la comune passione per il coma etilico sembrava averle unite contro ogni pronostico. Ai loro piedi, Emily e gli altri si raccontavano aneddoti ridendo scompostamente sul tappeto, circondati da cartine di snack e lattine vuote. Ogni tanto il flash di un cellulare illuminava l’ambiente come un lampo.

Solo Ren si ostinava ancora a lanciare occhiate di scherno nella sua direzione, occhiate che venivano puntualmente ignorate. Keiran aveva rinunciato ormai da tempo ad attirare la sua attenzione.

Raccontata in questo modo, la festa sembrava procedere a gonfie vele, almeno per gli altri, ma fortunatamente il punto di non ritorno si era spento sul nascere già da qualche tempo. Dopotutto, è verità universalmente conosciuta che, in una festa colma di adolescenti, qualcuno a un certo punto proporrà il gioco della bottiglia nel tentativo di scambiarsi fluidi corporei con il soggetto dei propri sogni bagnati. E, infatti, tale proposta avvenne.

Non era durato nemmeno tre giri, giusto il tempo perché Sarah baciasse Emily, Emily baciasse Keiran e Keiran desse un misero bacetto sulla guancia a Gregory. Ma quando fu il turno del giovane, la bottiglia puntò malauguratamente su Ren il quale, ignorando le lamentele femminili che avevano incominciato a citare la pornografia, si rifiutò categoricamente di continuare il gioco. Fu così che il biglietto di sola andata per la mononucleosi fu interrotto e le labbra velenose di Alex rimasero al sicuro.

Ma non la sua pace interiore.

Accorgendosi del suo isolamento, Emily l’aveva raggiunta diverse volte nel corso della serata. Le sue visite erano state gradite, alcune volte sinceramente, fino al momento in cui aveva interrotto quelle piacevoli chiacchierate per scattarle foto, pregandola di togliersi il cappuccio che le copriva ancora il capo malgrado fossero al chiuso. Purtroppo, se esisteva qualcuno più cocciuto della bionda, era proprio lei. Ogni tentativo di Emily di levarglielo, anche a tradimento, fallì miseramente e alla fine l’amica si arrese, ritornando a sedersi con gli altri. Da allora continuavano a scambiarsi silenziosi sguardi di sfida.

Nota mentale: la prossima volta sarebbe andata dritta verso il cimitero a festeggiare con i morti, ospiti davvero deliziosi e silenziosi, per nulla molesti.

Gemendo, Alex si abbandonò contro lo schienale della sedia sulla quale si era rannicchiata. Stava per controllare per l’ennesima volta l’ora sul suo orologio da polso, quando il suo stomaco reclamò le dovute attenzioni. Si posò una mano sul ventre borbottante, constatando che in effetti non mangiava da ore e, anche se il suo malcontento le aveva sciupato l’appetito, il suo corpo aveva comunque bisogno del dovuto nutrimento. Sollevò un lembo della mantella e aprì la borsa, frugando per un momento finché non trovò ciò che cercava. Ne estrasse un involucro di carta e mentre incominciava a scartarlo, ebbe la sensazione di essere osservata. Nuovamente. Intensamente.

Alzò lo sguardo e gli occhi plumbei di Ren catturarono la sua attenzione con la stessa grazia di un deragliamento ferroviario. Seduto svogliatamente su un lato del divano con le lunghe gambe accavallate, come se cercasse di mettere un po' di spazio tra lui e una rumorosa Dakota, teneva in una mano una sigaretta rollata e nell’altra la bottiglia di alcool che aveva sequestrato alle due ragazze; più per divertimento che per senso civico e preoccupazione verso i loro fegati provati. Sembrava rilassato, ma non per questo vulnerabile.

Si scrutarono in silenzio per qualche istante e, a malincuore, Alex dovette ammettere che in un’altra vita molto, ma molto lontana, avrebbe potuto trovarlo attraente. Specialmente con il gioco di ombre della penombra e la luce soffusa del focolare che gli baciava un lato del viso.

Ma fortunatamente lei non era Jack Dawson² ed era più incline alla sterilizzazione di massa che alla riproduzione.

«Noti qualcosa che ti piace?» le chiese a un certo punto, sorridendo come un gatto che si era appena mangiato il topo nel notare che non accennava a distogliere lo sguardo.

Alex si concesse tutto il tempo che le serviva per squadrarlo meglio, ignorando le occhiate curiose degli altri. «Non particolarmente» rispose innocentemente, dando un morso al panino che finalmente era uscito allo scoperto, mentre continuava a fissarlo. Poi si concentrò sul camino, ignorando il ragazzo.

Della cenere gli cadde sui jeans neri, ma Ren non sembrò farci caso. Sembrava sconcertato.

Mark scoppiò a ridere. «Non l’avrei mai detto. Il tuo potere seduttivo non ha effetto su di lei.»

«Ren è confuso. Ren si colpisce da solo» gli fece eco John, che si teneva le mani sulla pancia dal ridere.

Entrambi si misero sull’attenti non appena il loro boss si voltò con uno sguardo omicida da provetto serial killer. Bevve un sorso dalla bottiglia, per poi lanciarla a John. Si passò una mano sui capelli.

«Ma non mi dire… E voi…»

«Questo ti serve?»

Ren si voltò, come tutti gli altri. Alex aveva finalmente deciso di sgranchirsi un po' le gambe e si era alzata. In mano reggeva l’attizzatoio rovente con il quale Mark aveva riavviato il fuoco.

Uno sguardo dubbioso comparve sul volto del ragazzo. «E che cosa ci devi fare?»

«Oh, allora non ti serve.» Senza troppi complimenti, Alex infilzò il panino e lo mise sospeso sopra le esili fiamme, ammutolendo i presenti.

La prima a riprendersi fu Emily, che ridacchiò. «Alex… ti avevo detto di portarti dietro qualcosa di semplice.»

Alex non si voltò neppure, rispondendole con un’alzata di spalle, mentre rigirava il cibo per ottenere una cottura uniforme. «Perché non approfittarne?»

Emily scosse il capo, senza smettere di sorridere.

Quando decretò che fu pronto, Alex sfilò il panino dal ferro e corse sul tavolino dove aveva fatto il nido, facendo saltellare il suo spuntino tra le mani per evitare di scottarsi. Lo appoggiò sulla carta che aveva deposto in precedenza e, dopo aver agitato le dita per raffreddarsi i polpastrelli indolenziti, lo sollevò. L’osservò attentamente per un attimo e poi gli diede un nuovo morso.

S’illuminò d’immenso.

«A quanto pare il cibo le piace più del resto» sentenziò contrito Kieran, sospirando.

«E puoi contestarla? Con il formaggio fuso, le uova e il bacon nulla può reggere il confronto.» Emily dovette sforzarsi di non scoppiare nuovamente a ridere nel vedere l’espressione delusa dell’irlandese.

«Come uccidere un vegano» ridacchiò John.

«Parliamone, quando venite nel ristorante dei miei si fa sempre fuori mezza dispensa» s’intromise Sarah. Se il suo reale intento era quello di pubblicizzare l’attività di famiglia, rimase un mistero.

«Dimmi che non è per questo che le hanno vietato l’accesso per un mese!» esclamò Gregory, come se avesse avuto una folgorazione.

Sarah si limitò a far spallucce.

«Incredibile» mormorò Ren, esterrefatto. Non riusciva a staccare gli occhi da Alex che, felice e spensierata, dondolava le gambe mentre divorava il suo panino, ignorando totalmente le occhiate che la trapassavano. Data la sua ciclopica statura di nemmeno un metro e sessanta per un peso indefinito a causa degli abiti sformati e troppo grandi per lei che si ostinava a indossare, il fatto che riuscisse a mangiare come una squadra di lottatori di sumo senza essere a sua volta una montagna era un mistero della scienza.

«Ma come fai a mangiare certa roba?» le chiese Leyla con disgusto, facendo mentalmente il calcolo delle calorie. «Per non parlare del glutine!»

Come se fosse rinvenuta dall’overdose calorica, Alex scrollò le spalle. «Con la bocca» sentenziò lei in risposta, buttando giù in un sol boccone l’ultimo assaggio per poi annaffiare il tutto con un po' d’acqua.

«So cos’altro potrebbe fare con la bocca» mormorò piano Mark, ma non abbastanza per non farsi sentire. Prima che Gregory potesse intervenire e ammonire il giovane, Ren prese la briga di sporgersi e rifilare una sberla sulla nuca all’amico, seduto sul tappeto non molto lontano da lui.

«Ma che ho detto di male?» borbottò lui, massaggiandosi la testa.

«Non chiedere» fu la sua unica risposta. Poi Ren si voltò verso Emily. «Allora, vogliamo dare un senso alla serata? Incominciò ad annoiarmi e non vorrei che le venisse di nuovo fame. In quel caso nulla le impedirebbe di ucciderci tutti per trasformarci in roastbeef.»

Emily rimase per un attimo imbambolata al centro della stanza, spostando lo sguardo tra lui e Alex, per poi ricomporsi.

«Ma certo!» Corse a cercare qualcosa nella borsa che aveva lasciato a terra, per poi sventolare in aria un sacchetto colmo di quelli che sembravano dadi. Ma, invece di svelarne il contenuto, lo nascose dietro la schiena. «Prima, però, bisognerebbe spiegare la storia di questa casa.»

Ren sospirò e roteò gli occhi, esasperato, ma Dakota sembrò di tutt’altro avviso. «Lo faccio io! Lo faccio io!»

«Accomodati.»

«Che storia? Mi avevi assicurato che era solo una casa abbandonata!» Il tono accusatorio di Alex era del tutto voluto.

«E infatti non ti ho mentito. È abbandonata.»

«Sssh! Zitte che incomincio!» le rimbeccò Dakota.

Nonostante la reazione annoiata di Ren e dei suoi tirapiedi, gli altri si avvicinarono curiosi, pronti a sentire quel racconto, seppur biascicato.

Dakota chiuse gli occhi e fece un respiro profondo, come se dovesse preparare se stessa all’interpretazione di un ruolo. Quando li riaprì, scoccò uno sguardo intenso ai presenti, mentre una nota greve e maliziosa le illuminava il viso. Si schiarì la voce e incominciò a narrare.

 

Molti anni fa, l’istituto privato di Mrs. Pennington era uno dei più rinomati della zona.

La giovane donna, rimasta prematuramente vedova e senza figli, aveva deciso di allestire nella casa ereditata dal marito un posto dove i giovani rampolli delle famiglie abbienti potessero ricevere un’istruzione adeguata senza attraversare il Paese. Lei stessa si occupava di accudire e istruire i bambini che le venivano affidati con le migliori cure possibili, aiutata da una governante e due cameriere.

Tutti in città l’adoravano per il suo cuore gentile e caritatevole e infatti nessuno si meravigliò quando decise di adottare due gemelli, rimasti da poco orfani, per impedire che venissero separati.

Nonostante fosse sola ad occuparsi interamente della gestione della casa, la vita sembrava trascorrere tranquilla in queste mura e ai bambini non mancava nulla.

Fino a quel tragico incidente.

Tutto incominciò una notte di fine estate particolarmente fredda e inquieta.

La tempesta persisteva ormai da ore e nessun’anima con un po' di autoconservazione avrebbe sfidato quel tempo ostile per mettersi in cammino, eccetto un vagabondo deciso a competere con la sorte. Tuttavia comprese ben presto il suo errore e si fermò sulla soglia della villa in cerca di riparo.

Mrs. Pennington accolse immediatamente l’uomo, stanco e provato per il viaggio e lo invitò a restare finché il tempo non si fosse rasserenato.

L’uomo accettò con gratitudine tale generosità, ma il suo sguardo si fece diffidente quando scorse i bambini che lo osservavano dalle scale.

La notte passò tranquilla, nonostante il rombo e i fischi della tempesta. Il mattino seguente, quando Mrs. Pennington andò a cercarlo per portargli la colazione, lo vide all’opera nel sistemare alcuni tavoli traballanti e fu così che, grata e consapevole che un aiuto maschile non sarebbe guastato, gli propose di rimanere ancora per un po' in cambio del suo lavoro manuale.

Dopo un attimo di esitazione, l’uomo accettò.

Il suo nome era Thomas Gallivan.

L’ospitalità si protrasse per molto tempo. Il signor Gallivan compiva i lavori manuali più faticosi, rimettendo in sesto la casa e dando un valido aiuto a Mrs. Pennington nella gestione generale. Persino i bambini, a poco a poco, lo presero in simpatia.

Ma quell’idilliaco quadretto era destinato a una fine orribile.

Durante una notte, infatti, qualcosa scattò nell’uomo. Viveva nella casetta al margine nel bosco, dove vi erano tenuti gli arnesi da lavoro e i fucili da caccia. Non gli fu difficile prenderne uno e dirigersi verso la villa. Il personale di servizio era stato congedato, per cui in casa non vi erano rimasti altri che la donna e i bambini.

Incominciò proprio da loro.

Si diresse indisturbato nel corridoio dove erano allestite le camere dei ragazzi. Aprì quelle porte l’una dietro l’altra, avvicinandosi ai letti dei bambini addormentati per poi prendere la mira con il fucile.

Non fecero in tempo a reagire.

Non un sussulto.

Non un grido.

Morirono sul colpo mentre dormivano tra le braccia di Morfeo.

Mrs. Pennington accorse nell’udire gli spari e quando si ritrovò davanti a quel macabro scenario impazzì e si lanciò contro l’uomo. Le sparò a una spalla. Il colpo fu abbastanza forte da immobilizzarla, ma non altrettanto grave da ucciderla sul colpo.

Le urla della signora si protrassero nell’aria, attirando l’attenzione dei vicini.

Dopo che il signor Gallivan ebbe finito il suo lavoro, scappò in giardino e quando i soccorritori arrivarono sulla scena del crimine, lo trovarono impiccato a un ramo del melo, dove poco tempo prima aveva costruito un’altalena per i bambini.

I presenti, già inorriditi, rimasero pietrificati nel vedere il granguignolesco spettacolo che si manifestò sotto i loro occhi quando entrarono nella villa.

Tentarono invano di salvare la donna, ma prima di perire, afferrò per il bavero della giacca l’ufficiale e mormorò: «Mi dispiace.»

Da allora, la famiglia e gli eredi dei Pennington si rifiutano di vivere nella villa, ma per qualche strano motivo è ancora funzionale, come se Mrs. Pennington e i suoi bambini fossero ancora tra le sue mura.

Secondo alcune testimonianze, diversi curiosi avrebbero udito voci e passi di bambini nelle stanze della dimora e persino alcuni accordi del pianoforte nell’aula di musica. Che siano dichiarazioni reali?

Ciò che ancora rimane un mistero, è il motivo del folle gesto del signor Gallivan; un gesto così disumano da averlo spedito nelle fiamme dell’Inferno.

 

 

Alex rimase in silenzio per tutto il tempo della narrazione, ascoltando distrattamente la voce impastata della ragazza mentre il suo sguardo era focalizzato sul vuoto davanti a lei. Man mano che quel flusso costante di parole la investiva, ondate gelide si riversavano sul suo umore, soffocandolo in una morsa di disagio. Quando Dakota terminò e fece un profondo inchino mentre gli altri l’applaudivano, lei non si prodigò a imitarli. Era troppo occupata a ragionare su ciò che stava accadendo in quel momento. Da una parte, era arrabbiata con Emily per averle mentito riguardo a tutta quella faccenda e dall’altra si chiedeva dove volesse andare a parare con quella farsa.

Inutile dire che con tutti i film horror che aveva visto nella sua breve vita, la conclusione era una sola.

Quando Dakota ritornò a coccolare la bottiglia, l’attenzione di Alex era concentrata esclusivamente sull’amica.

«Fammi indovinare. Video per emulare i cacciatori di fantasmi utilizzando qualche trucco per renderlo più figo prima di postarlo sul tuo blog o seduta spiritica?»

Emily si strinse nelle spalle, cercando di mantenere un certo contegno. Doveva aver colto il suo tono accusatorio. «Direi più la seconda.»

Le pupille di Alex si strinsero in due fessure.

«Una seduta spiritica? Durante Samhain?» Il tono di Keiran perse la sua naturale vivacità per spegnersi nella preoccupazione. Allora non era così stupido come sembrava.

Mark e John lo presero in giro per quell’esitazione, ma lui si difese affermando di provenire da una famiglia molto superstiziosa. Pensando che anche Ren avrebbe colto l’occasione di punzecchiarlo, si voltò verso di lui, ma Alex rimase stupita nel vederlo pensoso. Sembrava contemplare quella proposta, forse un po' troppo seriamente per trattarsi di un semplice gioco di cattivo gusto. Dopo qualche momento, posò un braccio sopra lo schienale del divano.

«Perché no? Potrebbe risultare interessante.»

«Lo so che vuoi approfittarne per fare il coglione!» esclamò Dakota, dandogli un colpo sul petto. Lui per tutta risposta si chino verso il suo collo, mordicchiandolo e sussurrandole qualcosa che la fece scoppiare a ridere.

«Io ci sto» mormorò Gregory. «Dopotutto è solo un gioco.»

In un altro momento, Alex avrebbe fulminato l’amico con un’occhiataccia per essere così accondiscendente nei confronti di Emily, ma poi si accorse del lieve tremore delle sue mani. Era appena percettibile e lo nascondeva tenendole dentro le tasche dei jeans, eppure il suo nervosismo era palese.

Mark e John accettarono di parteciparvi senza indugio e anche Leyla, dopo qualche incertezza, diede il suo consenso a un gioco così “stupido e infantile”. Sarah però si unì a Keiran, decretando che preferiva limitarsi a osservare.

Quando tutta l’attenzione si concentrò su di lei in attesa di una risposta, Alex si sentì a disagio.

«Alex?» le chiese speranzosa Emily.

«No!» Il suo tono duro sorprese persino lei.

«Cos’è? Non avrai mica paura? Tu sei già un freak… O hai paura della concorrenza?» la denigrò Leyla.

«Come se dovessi tener conto a una che non riesce nemmeno a tenersi addosso un paio di mutande.»

Accadde tutto rapidamente.

Leyla, nonostante fosse visibilmente brilla, scattò in piedi con una velocità impressionante e le si lanciò contro con gli artigli sguainati. E l’avrebbe raggiunta, se Ren non l’avesse afferrata per la vita, costringendola a sedersi nuovamente e a calmarsi. Alex non rimase abbastanza da verificarlo.

Si alzò e si diresse a grandi passi fuori dalla stanza, sotto gli sguardi dubbiosi e di scherno degli altri. Come se qualcuno là dentro avesse abbastanza sale in zucca da capirla.

Paura? Lei?

Stava per arrivare all’entrata quando qualcuno l’afferrò per un braccio, puntando i piedi sul vecchio tappeto per fermarla.

«Alex, ti prego. Calmati.»

Non potendo resistere alla voce dispiaciuta di Emily, si fermò. Sapeva che era un errore. Avrebbe dovuto raggiungere la cucina e uscire da quella casa prima di fare qualcosa di molto stupido, ma doveva concederle almeno la possibilità di spiegarsi prima di fuggire.

«Io… Volevo solo che tutti si divertissero.»

Si voltò. «Emily, non sono arrabbiata per quello.»

«No?» Una nota speranzosa illuminò gli occhi verdi dell’amica.

«No. Sono arrabbiata perché per tutto questo tempo mi hai mentito. Ti avevo detto che ero contro la profanazione di case dove si è effettivamente tenuto un omicidio e tu lo sapevi. Figuriamoci una seduta spiritica!»

Oh, no. Gli occhi da cucciolo no.

«Io… io pensavo che ti sarebbe piaciuto comunque. So che non ti senti a tuo agio con gli altri, per cui volevo trovare qualcosa in grado di coinvolgerti con il resto del gruppo e il fatto che si siano unite altre persone ha fatto sì che… Beh, ormai non volevo rovinare tutto.»

Ecco, ora si sentiva una merda.

Sospirò. «Emily, solo perché mi piacciono gli horror non vuol dire che apprezzi questa roba. Lo sai che non credo ai fantasmi e simili, ma è comunque di pessimo gusto. Sono morte delle persone.»

«E da quando t’importa qualcosa degli altri?»

Bella domanda.

No, non le importava nulla dei morti e dei loro spiriti erranti. Il problema era ben più complesso. Oscuro.

«Lascia perdere.» Scosse il capo.

«Alex, se non vuoi, ok. Capisco. Ma almeno puoi rimanere con me fino alla fine? Ti prego.»

Ormai l’una di fronte all’altra con le mani congiunte, Alex studiò per un attimo il volto dell’amica. Era sinceramente dispiaciuta, questo lo vedeva benissimo, eppure era restia ad accontentarla. Purtroppo c’era qualcos’altro che la frenava. Sapeva che, se fosse tornata a casa prima di mezzanotte, sua madre l’avrebbe ripresa fino all’esaurimento. Quindi cos’era peggio? Una stanza piena di ragazzi intenti a evocare fantasmi o una madre logorroica?

Fece un respiro profondo, avvertendo il naso pizzicarle a causa dell’aria avvizzita e polverosa.

«Ok, resto. Ma…» Il balletto della vittoria di Emily s’interruppe bruscamente. «In cambio dovrai… fornirmi il doppio del mio peso in cibo.»

«Ma non ho tutti quei soldi! E poi come faresti a mangiarlo tutto?»

«Oh, di questo non preoccuparti. Sono sicura che troverai una soluzione. Dopotutto… i Lannister pagano sempre i loro debiti³, no, Emily?»

«Argh! Sei peggio di Cersei!» sentenziò lei esasperata, afferrandole una mano per poi trascinarla verso il salotto.

Alex trattenne a stento una risata, quando un lieve movimento accanto a loro la fece voltare verso il corridoio deserto. Uno spiffero, forse? Non fece tempo a indagare, dato che ormai Emily era partita in quarta, facendola ricredere della sua decisione.

Sperava solo di non pentirsene amaramente.

 

 

 

¹ Conosciuto meglio come Freddy Krueger, protagonista della saga horror Nightmare.

² Giovane artista squattrinato, protagonista del film Titanic.

³ Uno dei motti più famosi con cui è conosciuta la famiglia Lannister, presente nel fantasy Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George Martin.

 

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Capitolo 6
*** 4 ***


4.

 

«S

ei sicura?»

«Sì, sto bene qui.» Per evidenziare tale esclamazione, Alex alzò il libro che aveva selezionato dalla raccolta della casa senza troppa convinzione: una vecchia copia de La Tempesta di Shakespeare. Ritornata al suo posto e impaziente di poter ignorare gli altri con la scusa di quella lettura, lanciava ben poche occhiate al gruppo, nonostante avesse una buona visuale di ciò che accadeva nella sala grazie alla sua posizione. Non l’aveva scelta a caso. Poteva anche trovarsi lontano dal chiarore del fuoco, essendo così costretta a stringere gli occhi per poter leggere le pagine che sapeva già a memoria, ma tale disagio era un prezzo che pagava ben volentieri per la vicinanza alla porta. Se le cose fossero andate male, avrebbe potuto tranquillamente scappare, abbandonando i ragazzi al loro destino. Per cui non si fece scrupoli a posare il libro sul tavolino, trattenendo appena un colpo di tosse per la nuvola di polvere che sprigionò.

Udì Emily sospirare, ma la ragazza decise saggiamente di dedicarsi agli altri. Erano stranamente quieti; un bel passo avanti rispetto al caos che si era protratto fino a quel momento, che le permise di notare subito lo strano comportamento di Keiran. Continuava a lanciare occhiate a Ren, come se si aspettasse una qualche reazione da lui per il suo rifiuto di partecipare al gioco. Il giovane lo ignorava in silenzio, limitandosi a osservarla per conto suo quando non intratteneva Dakota.

Le venne spontaneo chiedersi da quando la sua opinione fosse diventata un caso di rilievo nazionale.

«Molto bene, venite tutti sul tappeto e sedetevi in modo da formare un cerchio. Mi raccomando, durante la seduta non dovrete mai romperlo o…»

«Fammi indovinare» esclamò Mark, interrompendo Emily. «Se il cerchio dovesse spezzarsi, gli spiriti richiamati sarebbero liberi di vagare per il nostro mondo e ucciderci tutti. Lo sappiamo. Tutti noi abbiamo visto almeno un film horror nella vita.»

Con la coda dell’occhio, Alex vide Keiran scuotere amaramente il capo. Lui e Sarah si erano accomodati nella poltrona accanto al fuoco e Sarah… Stava già iniziando a prendere appunti. Probabilmente Emily glieli avrebbe chiesti in seguito, in modo da aggiornare la sua storia.

«Oh, andiamo! Non è mai morto nessuno per una cosa del genere. E poi sono solo bambini. Cosa potrebbero farci?» sentenziò Dakota, posando una mano sulla coscia di Ren.

«Uccidervi, magari?»

Non era riuscita a trattenersi e si era ritrovata a fare il verso a Mark. Inutile dire che ebbe tutti gli occhi puntati addosso.

«Come sei fatalista.»

«Considerando il contesto direi di sì. E tecnicamente non sono bambini, ma fantasmi. E non so quale dei due sia peggio… Forse i bambini.»

Una risatina spezzò l’atmosfera tesa che si era creata, tanto che Ren dovette ricomporsi, ignorando le occhiate stizzite che ricevette a favore di Alex, ritornata nel dimenticatoio.

«In ogni caso sarò io a rivolgere le domande agli spiriti, quindi non parlate a vanvera, non servirà a nulla.» Emily lanciò uno sguardo al gruppo per richiamare l’attenzione e quando il cerchio fu formato annuì soddisfatta. Prese il sacchetto e rovesciò il suo contenuto al centro, rivelando una dozzina di dadi. Al posto dei numeri, sulle facce erano state trascritte le lettere dell’alfabeto con un pennarello nero. Li prese in mano e guardò uno a uno i presenti.

«Molto bene, direi d’iniziare.»

«Ma sei sicura che quei cosi siano affidabili?» le domandò all’improvviso Leyla, facendole scivolare un dado dalle dita. «Non sapevo che foste così sciattoni da non potervi permette una tavola Ouja come si deve.»

«Diciamo che l’intento della serata era quello di fare qualcosa d’interessante e originale, non un pigiama party» la rimbeccò Emily, mentre recuperava il fuggitivo. Alex dovette sforzarsi di non sorridere.

«Ci sono altre domande o possiamo cominciare?»

Silenzio.

Emily sospirò grata e sollevò i dadi. «Ok. Oh, spiriti, questa notte noi vi invochiamo. Dateci un segno della vostra presenza!»

Li lanciò in aria facendoli ricadere sul tappeto e li rimasero, immobili. Alcuni si sporsero a osservare le lettere che erano apparse in cerca di una traduzione, ma non avevano alcun significato.

 

G A U R Z T A N D S M Q

 

Emily aspettò qualche istante, poi li riprese, rigirandoseli tra le dita. Ripeté la domanda un’altra volta, ma come in precedenza non ottenne nessuna risposta concreta. Nonostante gli sguardi divertiti dei suoi compagni, la ragazza non si perse d’animo.

«Riproviamo. C’è qualche spirito in questa casa?»

«Magari sono fuori a festeggiare» mormorò John, beccandosi un pugno sulla spalla da Gregory.

Emily sollevò le mani e fece ricadere i dadi, ignorando gli altri. Mentre i ninnoli volteggiavano in aria, le luci della stanza ebbero un leggero tremolio, così impercettibile che nessuno se ne accorse. Una vivida fiamma sguizzò nel camino. Quando Emily controllò attentamente le lettere s’illuminò.

 

C G Q Y E S P U Z M A R

 

«Sì! Avete visto? È uscito sì! Vediamo… Siete morti in questa casa?»

«Non credo sia molto delicato da parte tua chiedergli…» Ma la voce di Gregory s’interruppe quando comparve la risposta.

Di nuovo un sì.

Alex alzò gli occhi dal libro.

«Chiedigli se è stato Gallivan ad ammazzargli!» esclamò Mark, visibilmente euforico per come stava procedendo la seduta.

Emily lo guardò male e recuperò i dadi. «Volete parlare un po' con noi?»

I cubi formarono di nuovo una sequenza senza senso.

«Uhm… possiamo giocare con voi, se volete?»

Ancora nulla di fatto.

«Notate qualcosa?» chiese Emily, nella speranza di avere un qualche riscontro.

«Da questa prospettiva sembra scritto “cake”» esclamò Dakota.

«Cake? Hanno per caso voglia di torta?»

«Magari nel mondo dei morti sono fanatici della linea.»

Alex scosse il capo nell’udire quei discorsi e calcolò mentalmente il numero di probabilità di una parola concreta con quel metodo. Certa che si trattasse di pura e semplice fortuna, ritornò al suo libro, posando il viso su una mano con fare annoiato.

«Siete ancora con noi?» domandò allora Emily.

La risposta fu “here”.

«Oh, bene. Almeno non ci hanno abbandonato. Dunque volete…?»

«Emily…» iniziò Ren, interrompendo la sua domanda. Colta alla sprovvista, Emily lasciò cadere i dadi sul tappeto nonostante non avesse fatto alcuna richiesta. Gli altri si sporsero a controllare ugualmente, incuranti di sembrare degli idioti. «Ti sei dimenticata la domanda più importante…» continuò lui.

«E quale?»

«Se non ricordo male, in questa casa non sono morti solo dei bambini. Perché sei convinta che si tratti di loro?»

Quella considerazione gettò tutti nel silenzio più totale.

Emily raccolse i dadi, le mani che le tremarono leggermente per l’emozione.

«Siete i ragazzi di Mrs. Pennington?»

Tutti trattennero il fiato nell’attesa di un riscontro. Quando uscì un altro sì, si udirono vari sospiri di sollievo.

Alex sbadigliò, sistemandosi meglio la mantella sulle spalle a causa degli spifferi che provenivano dalla porta. Stava quasi rimpiangendo di non essersi seduta accanto a Sarah e a Keiran, ma in quel momento si sentiva troppo pigra per alzarsi. Oltretutto, il panino stava già facendo il suo corso e iniziava ad avere un leggero abbiocco.

«Cosa state facendo?»

Ci fu un attimo d’incertezza in cui i ragazzi osservarono le lettere senza alcun riscontro, ma poi Ren si sporse e allontanò i dadi superflui finché non rimase “play”.

«Beh, questo è confortante» sentenziò il ragazzo.

«A cosa state giocando?» chiese allora Emily.

La risposta non si fece attendere. “Hide”.

«Nascondino? Bello. Anch’io ci giocavo sempre da piccola. E da chi vi nascondete?»

Di nuovo nessuna risposta.

«Ho capito. Volete giocare con noi?»

Ancora nulla.

«Vi nascondete da Gallivan?» chiese con voce incerta.

Ricomparve di nuovo “hide”.

Le palpebre di Alex si fecero più pesanti e il tepore del sonno incominciò ad avvolgerla con il suo confortante manto. Il suo campo visivo si fece sfuocato, i bordi confusi e sempre più ottenebrati. Scosse la testa e strizzò gli occhi, cercando di concentrarsi sulle parole che le scivolavano sotto gli occhi come acqua torbida. Alla fine, si arrese a quel caldo abbraccio.

«Ok, allora… Chi deve nascondersi?» continuò Emily.

“Her”.

«Oh, quindi state cercando la bambina?»

«Emily, aspetta…»

I dadi ricomposero la parola “her”.

«Cosa c’è?» chiese, stupendosi della mano di Ren posata sulle sue per bloccarla. I loro compagni erano talmente assorti che quasi non si accorsero di quel gesto. Dakota sbuffò dalle narici.

«Credo sia arrivato il momento di concludere. Non è saggio andare troppo oltre. Abbiamo chiacchierato a sufficienza.»

«Ren, non ti ci mettere anche tu» commentò stizzito Mark. «Ormai le cose si stanno facendo interessanti.»

Lui non si scomodò a rispondergli, ma gli lanciò un’occhiataccia mentre interrompeva il contatto fisico con Emily, tornando composto.

«Forse hai ragione… Molto bene. Bambini, grazie della compagnia. Dichiaro conclusa questa seduta. Siete liberi di riposare in pace!»

I dadi le scivolarono tra le dita.  Forse si aspettava un qualche saluto, ma ciò che comparve davanti agli occhi dei giovani fu un’altra sequenza.

 

W B O K O L A X N G H S

 

«Ma cosa…»

«Aspettate, forse ci sono!» esclamò Gregory, protraendosi verso i ninnoli.

Fu allora che i dadi rotearono da soli sul tappeto, provocando una sequela d’esclamazioni sorprese e imprecazioni. Ma quando si fermarono, un silenzio opprimente cadde nella stanza.

 

H E R H E R H E R H E R

 

«Com’è possibile?» chiese Leyla, la voce stridula dal panico. «Fa qualcosa!»

Keiran e Sarah si avvicinarono al gruppo, visibilmente preoccupati per come stava proseguendo la seduta.

Emily fece per recuperare i dadi, ma questi rotearono nuovamente privi di controllo, facendola scattare all’indietro.

 

H I D E H I D E H I D E

 

Le luci incominciarono a sfarfallare. Nella casa echeggiò un raccapricciante rumore simile a un grottesco stridio, come se la dimora si stesse assestando sulle sue fondamenta, facendo scricchiolare le assi di legno e i vetri. Dopo di che, le piccole lampadine dei fili di luce si surriscaldarono, emanando un bagliore così intenso che le fece esplodere. I dadi, come se avessero avuto vita loro, continuarono a ruotare, formando la stessa sequenza di parole più e più volte. Il suolo incominciò a tremare e la lampada situata sul tavolino da caffè vicino al divano traballò sul bordo.

«No!» urlarono in coro Emily e Keiran, ma fu troppo tardi.

La lampada scivolò e cadde. Agendo d’istinto, Mark si alzò per schivarla, allontanandosi dagli altri. Nell’esatto istante in cui infranse quell’invisibile circolo, tutto si acquietò senza alcuna spiegazione. Le luci si affievolirono, il fuoco tornò a morire soffocato nelle proprie ceneri e il silenzio ricominciò a regnare nella casa.

Con il respiro affannato e gli occhi sgranati dietro le lenti degli occhiali, Emily osservò i dadi ormai immobili che formavano la frase “the end”; poi alzò lo sguardo fino a trovare quello di Mark e infine scrutò quelli tesi dei presenti. Ripresa dallo shock iniziale, scattò all’improvviso, agguantando i cubetti per rimetterli velocemente nel sacchetto senza degnarli di uno sguardo. Corse a gettarli nel camino senza alcuna spiegazione, spinta dal desiderio di liberarsi di quei trabiccoli infernali, ma nel mentre non accorse nemmeno di Keiran, che nel frattempo aveva afferrato Mark per il colletto.

«Cosa ti è saltato in mente?» sbraitò.

«Non è successo niente!» Mark lo allontanò con quella flebile scusa e uno scrollone. Non sorrideva.

«Non hai idea di che cosa hai fatto!» Prima che potesse colpirlo, Gregory bloccò Keiran e lo costrinse ad allontanarsi da lui.

«Basta! Calmatevi!» urlò Dakota per riportare l’ordine, anche se lei stessa era un fascio di nervi. «Dobbiamo andarcene da qui! Non ne voglio più sapere di questa storia.»

«Concordo!» esclamò Leyla, correndo a prendere la giacca.

«Avanti, non lasciamoci prendere dal panico» provò a ragionare John, cercando di mantenere la calma. Nessuno lo badò.

«Panico? Direi che Emily si è divertita fin troppo!» urlò Leyla, sistemandosi la giacca così bruscamente da rischiare di far saltare le cuciture delle maniche.

«Pensi davvero che questa sia tutta opera mia?» sbraitò allora lei, avvicinandosi per fronteggiarla.

«Ovvio. Hai avuto tutto il tempo che ti serviva per architettare questo stupido scherzo! Non ti facevo una persona così meschina! Si vede che la sua compagnia non ti fa bene!»

«Smettila, lei non c’entra nulla!» Emily era pronta a rifare la faccia alla cugina a son di pugni, una reazione fin troppo violenta per una persona dal carattere mite come il suo. Con i gelidi artigli del panico conficcati nella pelle, era pronta a commettere qualsiasi sciocchezza, mentre il sorriso di Leyla si allargava vittorioso.

«Ma davvero? Allora perché la tua complice è così tranquilla?»

Emily trattenne a stento un’imprecazione, mentre nel suo animo un altro tipo di preoccupazione prese il sopravvento. Senza pensarci due volte, si voltò verso Alex.

«Alex?»

Alex emise un flebile sospiro. Avvertì la voce di Emily riecheggiare insieme a tutte le altre attorno a lei, confuse e indistinte, mentre un lieve respiro, così simile a una carezza contro la pelle, le scendeva lungo il collo. Nessuno si accorse della mano nera che si ritirò dentro al suo cappuccio, le dita inarcate che le lambivano i capelli.

Emily fece un passo nella sua direzione, inquieta. Nonostante il caos, nonostante le urla e la tensione generale, Alex era rimasta immobile per tutto il tempo, il capo leggermente reclinato in avanti come se si fosse assopita.

«Alex? Stai bene? Mi stai preoccupando.»

Richiamata dal suono della voce dell’amica sempre più vicino, Alex sollevò il capo e aprì gli occhi, confusa. Accorgendosi di avere tutti gli sguardi concentrati su di lei, sbatté le palpebre, cercando di schiarire la propria visuale. Scrutò i ragazzi agitarsi nello sfondo, la lampada rotta che giaceva abbandonata sul tappeto, per poi puntare il suo sguardo sul sacchetto di dadi che bruciava lentamente, rimanendo quasi incantata. Una strana litania le echeggiava debolmente nelle orecchie. Quando si decise a concentrarsi su Emily, la fissò confusa, non capendo il motivo per cui la stava guardando terrorizzata. Almeno finché non avvertì qualcosa di caldo scivolarle sulle labbra. Si portò una mano al viso e rimase attonita nel constatare che le sue dita si erano macchiate di sangue.

«Alex…»

Fece per risponderle, ormai conscia di aver attirato di nuovo l’attenzione generale e irritata per aver macchiato il libro, quando fu distratta da suono sgradevole accanto a lei. Abbassò lo sguardo e si rese conto di aver chiuso le mani ad artiglio sulla superficie liscia del tavolo, rigando il legno con le unghie.

«Cosa…»

Non terminò la frase.

La sua schiena s’inarcò all’indietro con uno schiocco raccapricciante; il cappuccio della mantella le ricadde sulle spalle, insieme a una cascata di lunghi capelli scuri. I suoi occhi si persero a contemplare il vuoto, spalancati quanto la bocca, nella quale un gemito era stato strozzato.

Per la prima volta dopo molto tempo, un sapore aspro, quasi nostalgico, le si sciolse sulla lingua. Un sapore che aveva dimenticato. Quello della paura.

Scossa dalle convulsioni, Alex non poté fare a meno di avvertire i suoi arti scricchiolare e contorcersi, senza avere la possibilità di fermarsi. Tremava così forte che da sotto la camicia sentiva il ciondolo che indossava sbatterle con violenza contro il petto. Attorno a lei si levarono grida, imprecazioni, ma non erano altro che deboli mormorii rispetto a ciò che avvertì nella sua testa.

Erano voci, urla, sussurri, gemiti, ringhi, ruggiti. Senza età, senza sesso, squillanti e profondi. Sconosciuti.

 

A L E X A N D E R …

 

Famigliari.

Il dolore arrivò in un istante. Acido, bruciante, senza perdono. Sentiva la sua carne lacerarsi sotto gli artigli di qualcosa che la stava dilaniando senza pietà, scavando dentro di lei fino a creare una voragine. L’urlo che le salì alla gola si trasformò in una grossolana risata che azzittì i presenti, troppo sconvolti per reagire.

 

A L E X … A N D E R …

 

Dentro di lei maturò il desiderio di scomparire, di scivolare nell’oblio per non dover più sopportare quell’intrusione, ma con esso crebbe anche la brutalità con il quale il suo corpo veniva profanato. Perché il dolore non l’aveva portava alla deriva; l’aveva resa più lucida.

Doveva fermarlo. Doveva pur fare qualcosa.

La sua testa era sul punto di esplodere. Il suo corpo sul punto di arrendersi.

Ma poi, quella presenza così intenta a farsi strada dentro di lei, si bloccò. Non la lasciò andare, ma allentò la presa. In quel momento, il caos raggiunse il suo apice, sbiadendo in un fischio così assordante da cancellare qualsiasi rumore attorno a lei. Il tempo si dilatò in un singolo, interminabile, attimo.

Alex prese un profondo respiro sofferto, mentre avvertiva qualcosa che cambiava dentro di lei. Era impercettibile, una minima differenza, troppo poco accennata per poter essere distinguibile. Eppure la sentiva. Come lo scatto dei meccanismi di una serratura che veniva sbloccata.

Ci fu solo silenzio.

 

C I  S E I  M A N C A T A …

 

Alex chiuse gli occhi; urlò e questa volta la presenza dentro di lei non riuscì a contenerla.

Urlò con tutto il fiato che le era rimasto in corpo. Attorno a lei, le vetrinette degli scaffali s’incrinarono ed esplosero. Le grida di chi le stava attorno si levarono alte, unendosi alla sua in un coro squillante e graffiante.

Udì dei passi correre verso lei, ma chiunque fosse l’impavido stolto non riuscì a raggiungerla. Si ritrovò ad artigliare il tavolino, mentre il suo petto cozzava contro la superfice ormai logora. Non passò che qualche istante quando udì il rumore di qualcosa che cadeva in lontananza o forse era solo la sua testa. Il suo collo scricchiolò, girato di lato come una marionetta.

E fu allora che la vide.

Attraverso i capelli che le coprivano il viso, riuscì a distinguere la tangibile figura di una bambina accanto a lei. Con le mani protese e la bocca socchiusa che si muoveva come se stesse recitando una qualche specie formula, la osservava contorcersi senza pace. I loro occhi s’incrociarono, ma la bambina non mosse un muscolo, né distolse lo sguardo. Nelle sue iridi color ebano Alex poté osservare l’abisso.

Dentro di lei la paura scemò, sostituita da qualcosa di più bruciante e oscuro. Le voci si azzittirono.

Una rabbia senza nome spazzò vie le sue incertezze. Come poteva farsi trattare in quel modo? Come osava quell’entità usare il suo corpo a proprio piacimento senza che lei muovesse un dito per fermarla? Da quanto tempo quella bambina era lì? Da quanto tempo la stava osservando senza fare nulla per aiutarla?

Digrignò i denti, facendo appello alla sua volontà.

Via…

Sotto di lei il tavolino tremolò, come se qualcuno l’avesse colpito con forza.

Va via…

Continuò a fissare la bambina. La stessa del dipinto. La stessa che posava vicino alla donna con uno sguardo tranquillo. Ma non riuscì a provare pietà per lei, nemmeno quando le sue labbra ebbero un fremito e le sue mani si abbassarono. I suoi occhi inespressivi si colmarono di confusione e, così come la rabbia di Alex montava in lei, di paura.

Va…

La bambina fece indietreggiò di un passo.

SPARISCI!

«Ipse venena bibas» mormorò Alex.

Fu di nuovo scaraventata all’indietro e il suo corpo cozzò contro lo schienale della sedia. E in un attimo si sentì senza peso. Libera. Qualsiasi cosa si fosse impadronita di lei, si dileguò senza lasciare traccia e Alex si ritrovò a boccheggiare nuovamente sul tavolo, questa volta inalando la meravigliosa aria insalubre che le riempì i polmoni doloranti.

Si voltò giusto in tempo per vedere la bambina sparire oltre la soglia.

No.

Ignorando i lamenti e le lacrime degli altri, la voce debole di Emily che spezzata dal pianto la chiamava, Alex si tirò a sedere di scatto, incurante del dolore. Scaraventò il tavolo lontano da sé per alzarsi, spedendolo al centro della stanza dove si ruppe definitivamente e partì all’inseguimento con un’espressione mostruosa dipinta in viso. I suoi passi rimbombavano nei corridoi deserti come tamburi di guerra, il suo cuore agognava una dolce e pura vendetta. Doveva trovarla, doveva raggiungerla, doveva…

«Alex!»

Una mano la fermò, bloccandole il polso. Pervasa da un gelido moto d’odio, si voltò, mirando al volto con le unghie sguainate.

«Alex, smettila!»

No. Nessun altro l’avrebbe fermata. Si divincolò con la forza di una fiera in gabbia, mettendo a dura prova il suo assalitore che alla fine si ritrovò costretto a schiacciarla contro il muro per immobilizzarla. E ciò non fece altro che accrescere la sua ira. Ormai accecata dall’istinto di sopravvivenza, Alex lottò con le unghie e con i denti, riuscendo ad allontanarsi quel tanto che le serviva per scappare e…

«Alex guardami, maledizione!»

Ren le schiaffeggiò con forza il viso, per poi afferraglielo con entrambe le mani, costringendola a guardarlo dritto negli occhi senza alcuna possibilità di ribellarsi.

Alex si fermò, rimanendo completamente immobile a causa di quel contatto visivo.

Non era abituata a quella vicinanza. A causa della pigmentazione irregolare delle sue iridi, le persone evitavano solitamente di guardarla apertamente e per lo più le giravano alla larga, ma nello sguardo di Ren non colse né la paura né la diffidenza a cui era abituata. C’era solo apprensione.

«Guardami, Alex. Concentrati su di me.»

E lei lo fece.

Trattenne il respiro. Accorgendosi della sua reazione, Ren le afferrò prontamente il cappuccio e glielo mise di nuovo sul capo, prima di attirarla a sé per permetterle di nascondere il viso contro il suo petto. Non fu un abbraccio tenero o compassionevole. Tutt’altro.

Nonostante il calore del suo corpo, il ragazzo era rigido come un pezzo di legno.

«So che sei sconvolta» le sussurrò contro l’orecchio, «ma ora ho bisogno che ti calmi e che ritorni in quella stanza. Dirai che va tutto bene, ti scuserai con Keiran per averlo gettato contro il muro e non dirai una sola parola su quello che è appena successo. Prenderemo le nostre cose e usciremo da questa casa. Poi andremo in ospedale, che tu lo voglia o meno, intesi?»

Ascoltò il suo tono freddo e pratico e annuì lentamente, posando la mano sul suo polso. Prima di strattonarlo malamente via da lei, riuscì per un istante a sentire la sua pelle liscia e calda sotto le dita.

«Sto bene. Va tutto bene» mormorò senza alcuna convinzione, sperando che non si accorgesse del lieve tremolio della sua voce.

«Ottimo. Perché da morta non mi servi a niente.» Le diede un sbuffetto sul naso, trattenendosi solo un poco per pulirle il sangue rappreso che le si era incrostato sopra il labbro superiore. Dopo di che, si allontanò da lei, portando via tutto il calore del corridoio.

Alex, da brava persona analitica, non fece caso al suo atteggiamento distaccato. Aveva ragione, purtroppo. Gli altri erano già sconvolti e spaventati, ma con la sua fuga improvvisa aveva rischiato di scatenare il panico; l’ultima cosa che serviva in una situazione del genere. Avrebbe avuto tutto il tempo che le occorreva per leccarsi le ferite, una volta fuori da lì.

Fece per seguirlo docilmente, stanca di lottare e indebolita, quando un fruscio dietro di lei la bloccò.

Decisa a proseguire, lo ignorò, ma quando alzò lo sguardo per osservare la schiena di Ren, non vide altri che un ragazzino dall’aspetto famigliare. Al contrario di sua sorella, lui si limitò a indicarle il petto con una mano, gli stessi occhi oscuri che la fissavano immobili.

Alex abbassò lo sguardo e fu allora che mise a fuoco le macchie nere che si stavano espandendo sulla sua camicia dove l’entità l’aveva artigliata. Le sue mani ne erano già impregnate, il sangue nero che le colava tra le dita come pece.

Socchiuse le labbra per richiamare l’attenzione di Ren, ma quando fece un passo in avanti, cadde.

L’ultima cosa che avvertì, furono le braccia del ragazzo chiudersi attorno a lei come una gabbia per trattenerla, ma fluttuò via, galleggiando alla deriva.

 

 

 

Spazio scleri:

 

Eccoci qui con un nuovo capitolo. Incasinato. Molto incasinato. Lasciate pure le lamentele alla segretaria se non capite una cippa.

Ad ogni modo, ringrazio tutti quelli che hanno lasciato una recensione, aggiunto la storia alle loro liste e *momentobimbominkia* se volete lasciare un commento, un parere, una critica (magari) state pur tranquilli che non ho il vostro indirizzo di casa :D *finemomentobimbominkia*

Scherzi a parte, mi auguro che questo speciale vi stia piacendo, anche perché da adesso in poi ci sarà davvero da divertirsi. Se vi piacciono i tripponi nosense…

Ci vediamo tra un paio di settimane!

 

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Capitolo 7
*** 5 ***


5.

 

 

 

E

ra il cigolio di un meccanismo.

Nell’oscurità della sua mente poteva percepirlo, sentire i suoi congegni logori muoversi in un concerto di crepitii metallici. Dietro le sue palpebre, quel mosaico caotico di viti, perni, ingranaggi e pistoni era quasi visibile. Poi il cigolio si fermò, inceppato; la serratura non si schiuse del tutto.

Era sollievo quello che provava?

Fece un respiro profondo. Alex aprì gli occhi e l’immensità del paesaggio attorno a lei la colse alla sprovvista. Senza parole, scrutò il vuoto, lo sguardo che si smarriva in quell’infinita distesa incolore dove cielo e terra erano un’unica essenza. Non c’erano confini, limitazioni. Ebbe un moto di vertigini a tal pensiero.

Inspirò e fece un passo avanti titubante. Il suono di quella mossa echeggiò tutt’intorno in un sinistro riverbero. Tenne lo sguardo basso. L’invisibile superficie su cui posava sembrava sorreggerla, ma ciò non limitò la sensazione di precarietà che il suo cervello continuava a percepire. Se solo ci fosse stato….

Sussultando, Alex scattò all’indietro quando sotto i suoi occhi si materializzarono centinaia e centinaia di candidi fiori, che si espansero in un soffice manto fino ai confini dell’orizzonte. Sconcertata e al contempo lieta di aver un elemento fisico su cui concentrarsi, si chinò quel tanto che bastava per accarezzare un bocciolo, curiosa di avvertirne la presenza. Le sue dita sfiorarono appena i petali quando un gemito alle sue spalle l’arrestò. Si voltò lentamente e nel suo campo visivo comparve una bambina con la schiena incurvata e scossa dai tremiti, che nascondeva il viso piangente tra le mani. Per un attimo, Alex rimase bloccata. Non sapeva cosa fare ma, guidata dal proprio istinto, decise di avvicinarsi. Non si accorse nemmeno della scia di fiori anneriti e morenti che lasciò al suo passaggio.  

Man mano che la lontananza che le separava si assottigliava, Alex incominciò a vedere le similitudini che la univano a quella piccola figura tremante. Il vestito bianco di pizzo, i lunghi capelli scuri, il ciondolo dal cristallo azzurro che le pendeva dal collo.

Allungò una mano. Titubante, il tempo si dilatò nel frattempo che le sue dita sfiorarono il capo della bambina. Come se si fosse resa conto della sua presenza, questa smise di piangere. Abbandonò lentamente le braccia lungo il corpo e girò di scatto il capo verso di lei.

L’oscurità divorò quel luogo. E in quelle tenebre, migliaia di occhi si focalizzarono su di lei.

 

 

Riprendere conoscenza dopo essere stati posseduti da uno spirito errante era più o meno come risvegliarsi in ospedale dopo essere stati investiti dall’intera squadra di rugby della scuola: uno schifo.

Non che parlasse per esperienza, dato che non aveva mai avuto la prontezza di presenziare a un tale evento sociale, ma rimaneva della convinzione che come premio di consolazione le sarebbero aspettati almeno dei popcorn e una coca cola. Magari un hot dog se era il suo giorno fortunato. Purtroppo per lei, il destino aveva un senso dell’umorismo pessimo quanto il suo e tutto ciò che ottenne si limitò alla bocca riarsa per la sete e un fastidioso retrogusto amaro, oltre che al corpo ridotto a un ammasso di membra doloranti e ammaccate. Per cui sì, era davvero uno schifo.

Attraverso il torpore che la soggiogava, Alex gemette appena, gli occhi ancora serrati. La sua mente claudicava nel tentativo di riacquistare una lucidità appena passabile per comportarsi da essere umano. I ricordi sugli eventi della serata erano caotici, confusi, troppo veloci per ghermirli e collocarli in un ordine preciso.

Troppo… estranei.

Alla fine smise di provarci e si arrese all’inevitabile possibilità di aver perso qualche rotella.

Socchiuse gli occhi e sospirò. Distesa su quello che ipotizzò essere il divano, si stiracchiò lentamente, attenta a non attirare subito l’attenzione su di sé. Attorno a lei risuonavano voci famigliari, i cui proprietari si muovevano appena fuori dal suo campo visivo con un’urgenza che quasi la sorprese. Sembravano nervosi, spaventati, come un piccolo gregge confuso che correva dritto verso la sua rovina.  

Con quel pensiero contorto nella mente, incominciò a scivolare nuovamente nell’oblio, finché nella stanza non alleggiò un silenzio soffocante. Pessimo segno.

Un’inequivocabile spostamento d’aria le segnalò che qualcuno si era accomodato accanto a lei, scostandole dolcemente i capelli dal viso.

«Alex! Alex, mi senti?»

Emily.

Controvoglia riaprì gli occhi, osservando il viso sfuocato dell’amica. Attraverso le lenti degli occhiali, il luccichio delle lacrime non ancora versate le decorava il viso gonfio dal pianto; i riccioli biondi sembravano ancora più selvaggi del solito, come se ci avesse passato più volte le mani. Ma non furono quei dettagli a colpirla. Emily la guardava in modo strano, con un miscuglio di preoccupazione e sollievo che non le aveva mai visto prima. Beh, tutto considerato, era anche la prima volta che evocavano chissà quale spirito nefasto per girare una scena di possessione degna di un B movie.

«Ehi…» mormorò lei in risposta dopo qualche istante d’esitazione.

Poi, con sua grande meraviglia, rischiò nuovamente la vita.

«Oddio! Stai bene!» urlò Emily. Le gettò le braccia attorno al collo senza badare alla delicatezza, stringendola in uno dei suoi abbracci soffocanti e sfogandosi piangendo contro la sua spalla.

«Emily…» gemette, ma l’amica parve non sentirla tant’era sollevata.

«Non lo sarà ancora per molto se continui così» sentenziò in lontananza la voce di Sarah.

Emily sussultò e, quando si accorse della sua espressione agonizzante, la liberò immediatamente dalla sua presa mortale, portandosi le mani al viso per togliersi gli occhiali e asciugarsi le lacrime.

«Scusami… Mi dispiace… Alex, ero così preoccupata… Io…»

Alex alzò a stento una mano per fermare il suo sproloquio.  

«Non importa» mormorò in tono appena udibile. Abbassò lo sguardo e il frammento di un ricordo le apparve nella mente, colpendola con violenza. Sorpresa, si ritrovò ad esaminare di sottecchi la propria camicia immacolata attraverso i lembi della mantella. Quelle macchie nere… saranno state un’allucinazione provocata dall’adrenalina e il dolore. Tutto qui.

«Non importa? Ci hai fatto invecchiare precocemente dalla preoccupazione, mo álainn

Alex sgranò gli occhi. Colta alla sprovvista, si tirò a sedere così velocemente da spaventare Keiran che, appoggiato con le braccia sullo schienale del divano, l’aveva osservata per tutto il tempo. Prima che potesse inveire contro di lui, la vista le si offuscò e la stanza iniziò a ruotare attorno a lei. Il giovane la prese giusto in tempo per impedirle di accasciarsi come una pera cotta.

«Ma tu guarda…» Keiran sorrise e l’aiutò a mettersi seduta, per poi accomodarsi al suo fianco, pronto ad assisterla se fosse caduta di nuovo. Dopotutto, era così cavalleresco e preoccupato da essersi praticamente spalmato contro di lei.

«Fallo di nuovo e giuro che ti uccido» gemette Alex, tenendosi la testa tra le mani.

«Cosa? Coglierti alla sprovvista o salvarti da bravo cavaliere? Sappi comunque che quando sei spaventata sei piuttosto carina.»

Alex mise il broncio e gli lanciò un’occhiataccia. Era troppo stordita per ribattere.

«Keiran! Smettila di stressarla o sarò io a prenderti a calci! Ha bisogno di riposo» lo rimbeccò Emily, mentre Sarah sospirava.

«Scusa, non ti arrabbiare» si difese il ragazzo, alzando le mani in segno di resa.

Si era svegliata da nemmeno un paio di minuti e la sua emicrania non faceva che aumentare. Forse avrebbe dovuto fingersi morta ancora per un po’…

«Che cosa è successo?» chiese, interrompendo il litigio dei due. Quasi si stupì nell’udire quanto fosse roca e debole la sua voce.

Come se le avesse letto nel pensiero, Emily le porse immediatamente il resto della sua bottiglia d’acqua in modo che potesse rinfrescarsi e Alex dovette fare uno sforzo per non strappagliela dalle mani. Gemette di piacere quando il liquido le scivolò lungo la gola come un balsamo e non poté fare a meno di apprezzare la compagnia della giovane, anche se ebbe da ridire quando, una volta finito, la costrinse a rimanere seduta.

Uno sbuffo le uscì dalle narici, ma Emily non ci fece caso.

«Va meglio?» le domandò dolcemente l’amica.

«Sì, grazie. Ora però rispondimi.»

«Davvero non ricordi nulla?»

Alex socchiuse gli occhi, incerta su come interpretare quella domanda. Inclinò leggermente il viso e dopo una breve pausa scosse il capo. «Niente di niente.»

Emily fece un respiro profondo. Si massaggiò le tempie, gesto che compiva solo quando accumulava troppo stress o si trovava di fronte a un complesso problema matematico. In quel momento, sembrò solo stanca.

«Dopo… Beh, lo sai, ci hai fatto prendere un colpo. Sei corsa via come una furia, non sembravi nemmeno tu. All’inizio nessuno sapeva che fare, eravamo tutti troppo sconvolti, poi Ren ti ha inseguito e…»

A quella rivelazione, Alex s’irrigidì. Si passò una mano sulla fronte, cercando di ricomporre i suoi ricordi, specialmente quelli che riguardavano la sua discussione con il ragazzo.

… e ti scuserai con Keiran per averlo gettato contro il muro. Perché la voce di Ren le risultava irritante persino nella sua mente?

Voltandosi verso l’amico, notò allora che si teneva un braccio contro il petto e che gli stava comparendo un livido sullo zigomo. Deglutì a fatica.

«Keiran, mi dispiace…» incominciò lei.

Il ragazzo le rivolse uno sguardo gentile.

«Non preoccuparti, mo álainn. Sto bene. Piuttosto, sei pregata di non rifare mai più una scenata del genere. Non scherziamo quando diciamo che ci hai spaventati a morte!»

«Non ne dubito… E poi?»

Il sorriso di Emily, seppur teso, si intensificò.

«Ren è ritornato qui a passo di carica, con te tra le sue braccia e…»

Alex raggelò. Incurante di chi aveva intorno, si alzò la gonna.  Sospirò di sollievo nell’accertare che indossava ancora i leggins. In quel momento, la pelle di Keiran assunse la stessa tonalità dei capelli, ma non osò distogliere lo sguardo.

«Alex! Che diamine stai facendo?» sbottò Emily, riabbassandole con forza la gonna sulle gambe.

«Controllo di avere ancora le mutande» spiegò candidamente lei.

Dopo un attimo di esitazione, Emily le rifilò una sberla sulla testa. «Scema. Era davvero preoccupato.»

«Quando è entrato era una furia, tanto che ha quasi gettato giù dal divano Dakota per farti stendere.»

«È stato molto premuroso» concordò la giovane con Keiran.

«E dato che c’era si è occupato anche del tuo braccio?» domandò allora Alex. Si accomodò meglio sul divano, trattenendo appena un gemito a causa delle sue membra intorpidite. Il collo in particolare le doleva, come se fosse stata punta da uno spillo. Si massaggiò distrattamente, cercando di trarne sollievo.

«In realtà… no» rispose Keiran placidamente, come se non si aspettasse un esito diverso.

Alex sbuffò. Scrollò le spalle, dandosi una sistemata ai vestiti per poi accasciarsi contro lo schienale.

Mentre Emily continuava a raccontarle gli avvenimenti accaduti dopo la sua dipartita, scrutò la sala, ormai rischiarata solo dal chiarore del fuoco. Leyla si era addormentata su una sedia, probabilmente stremata a causa dell’alcool e dell’adrenalina, mentre Sarah stava riordinando gli appunti poco lontano da loro. Nonostante l’atmosfera sembrasse tranquilla a un occhio meno attento, l’inquietudine traspariva nei volti dei presenti come una cerea maschera.

Per un momento, Alex ebbe l’impressione che mancasse qualcosa d’importante in quel delizioso quadretto che rasentava la disperazione, ma evitò di pensarci troppo.

Incominciava a sentirsi irrequieta, il corpo che desiderava mettersi in azione nonostante le sue condizioni pur di non rimanere in quello stato di immobilità.

Fece per alzarsi, tenendo faticosamente a bada la nausea che le montò dentro a causa di quel movimento, ma Emily la bloccò.

«No. Rimani seduta ancora un po'.»

«Emily, sto bene. Davvero non…»

«Smettila di mentire. Non stai bene ed è tutta colpa mia!» esclamò allora la bionda con un tono talmente duro da stupirla.

Sia lei che Keiran si scambiarono un’occhiata confusa. Persino Sarah abbandonò quello che stava facendo e alzò lo sguardo per scrutarli, gli occhi scuri velati dall’apprensione.

«Tutto questo è colpa mia…» gemette di nuovo Emily, i pugni chiusi sulle gambe e il capo chino.

Alex sospirò.

«Little Bunny…» Nell’udire il suo soprannome, Emily sollevò lo sguardo per guardarla. «Smettila di punirti per cose di cui non hai nessuna colpa. Beh, in effetti solo in minima parte, ma…»

«Alexander.» La voce di Sarah la richiamò, facendola sussultare. Solo allora si rese conto che Emily stava tirando rumorosamente su con il naso, gli occhi pieni di lacrime che spiccavano lucidi sul viso arrossato. Lo sguardo di fuoco di Sarah era così intenso da rischiare di perforarle il cranio e Alex non poteva certo dichiararsi innocente. Almeno, non questa volta.

«No, Little Bunny. Non fare così.» Alex si protese per afferrarle le mani, nonostante il suo sguardo vagasse per la stanza. Aveva fatto male i calcoli. Era ancora troppo scombussolata per reagire in modo appropriato alle emozioni degli altri e certamente quell’insinuazione a dimostranza del suo poco tatto era stata del tutto fuori luogo, specialmente per una ragazza emotiva come Emily. «Andiamo… nessuno poteva prevedere un esito del genere. Però dai! Una volta usciti da qui avrai una notizia sensazionale da postare sul tuo blog e…»

Emily scoppiò in un pianto sfrenato, gettandole le braccia al collo.

«Alexander!» sbottò Sarah, questa volta visibilmente alterata.

«Su, su. Signorina Gray, non faccia così.» Keiran si sporse e le avvolse le spalle con un braccio, mentre l’altro finì su quelle di Alex, che s’irrigidì. «Forza Sarah, vieni anche tu. Un abbraccio di gruppo è quello che ci vuole in casi come questo.»

Sarah sospirò, ma nonostante la sua espressione impassibile si limitò a spalancare le braccia e a unirsi a loro, appoggiando la testa contro quella di Emily che, tremante, iniziò a calmarsi.

Improvvisamente, Alex incominciò a capire come dovesse sentirsi il ripieno di un toast. Schiacciato, accaldato, senza aria e a contatto con altre cose appiccicaticce. Il massimo del contatto fisico insomma, anche se pensata in questo modo non era poi tanto diverso nel ritrovarsi nella metro all’ora di punta.

Nel tentativo d’ignorare il disagio provocato da quel contatto fisico, osservò i dintorni, cercando qualcosa che potesse distrarla. E, in effetti, era proprio la mancanza di qualcosa a stupirla. Come aveva fatto a non accorgersene prima?

«Dov’è Ren? Cioè, dove sono gli altri?»

A poco a poco, i suoi compagni di coccole lasciarono la presa e ritornarono ognuno al loro posto, mentre Emily si asciugava gli occhi con il dorso della mano.

«Stanno controllando che la via sia libera» spiegò lei, sedendosi al suo fianco. «Vogliono evitare… beh, altri incidenti.» La sua mano si strinse sull’imbottitura del divano. Alex le posò sopra la sua, cercando di ricambiare il suo triste sorriso senza molto successo.

«Ormai dovrebbero essere di ritorno.» Keiran si mosse accanto a lei, rivelando la sua inquietudine.

«Perfetto, questa è la nostra occasione!»

Alzandosi per poi ricadere nuovamente sul divano, Alex dovette fare diversi tentativi per ritrovare il proprio baricentro e andare a recuperare la borsa.

«Alex, che stai facendo?» domandò stranita Emily.

«Me ne vado, mi sembra ovvio. E dato che c’è un bel po' di carne fresca che scorrazza in giro, è il momento migliore per passare inosservati.»

«Lo sai, vero, che per ritornare da dove siamo venuti dovrai fare il giro della casa?» Keiran incrociò le braccia al petto, osservandola zoppicare verso la porta. Nonostante cercasse di mostrarsi serio, il tremolio delle sue labbra nascondeva il suo tentativo di non scoppiare a ridere nel vederla ancheggiare come una bambola di pezza.

«Lo so. Ed è proprio per questo che non dobbiamo sprecare un minuto di più!»

«Ma non riesci nemmeno a camminare!» sentenziò Emily. «E poi non possiamo lasciare da sola Leyla.»

Come se avesse percepito di essere presa in causa, la cugina si accoccolò meglio contro la sedia, borbottando qualcosa d’indecifrabile e attirando ogni sguardo presente.

Sarah fece spallucce, come per dimostrarsi miracolosamente d’accordo con Alex.

«Oh, tranquilla. Non credo che andrà da qualche parte.» Alex riuscì finalmente ad arrivare sulla soglia e ad afferrare la maniglia. «E poi…»

La porta del salotto si aprì di scatto, facendole perdere l’equilibrio. Alex non riuscì a trattenere un ansito sorpreso, mentre cercava senza successo di rimanere in piedi, finendo contro il petto di Ren prima di cadere a terra a causa dell’impatto.

Il ragazzo si limitò ad osservarla inespressivo, focalizzandosi su di lei come un falco. Poi si concentrò sugli altri con un’occhiata di rimprovero.

«Perché è in piedi? Vi avevo detto di tenerla tranquilla finché non tornavo.»

«Certo, provaci tu» sbottò Emily.

«Alex!»

Gregory si fece strada attraverso gli altri ragazzi, correndo a raggiungerla. Come Emily, anche l’amico aveva il viso tirato dalla preoccupazione e lo sguardo angosciato, che la scrutava attentamente in cerca di chissà quali ferite.

Chinandosi verso di lei, si protese ad aiutarla. «Stai bene? Cos’è successo?»

«Sto bene. Perché continuate tutti a domandarmelo?» sbuffò lei. Accettò volentieri l’aiuto dell’amico, reggendosi a lui mentre la accompagnava verso il divano.

Keiran si alzò per lasciarle il posto, conscio del fatto che Ren li stava fissando, ma Alex lo ignorò, concentrandosi invece sull’amico e ringraziandolo quando le porse la borsa che era caduta con lei. Nel vederlo ancora pensieroso, Alex cercò di apparire nelle sue piene facoltà.

«Sul serio, Gregory. Non preoccuparti» rincarò, passandogli una mano tra i riccioli scuri per rincuorarlo.

Dietro di loro, Ren tossì.

«Abbiamo un problema» disse senza troppi giri di parole, mentre i suoi amici e Dakota lo raggiungevano, rimanendo in piedi al suo fianco. Nessuno di loro trasmetteva qualche sorta d’ottimismo e persino Leyla si risvegliò dal suo letargo, in qualche modo conscia dell’improvviso cambiamento.

«Che cosa è successo?» domandò tremante Emily nell’osservare le loro espressioni.

Ren fece per risponderle, ma prima ancora di poter aprire bocca fu interrotto.

«Non dirmelo. Siamo bloccati qui.» Alex si lasciò ricadere sul divano con nonchalance, come se tale affermazione non avesse alcuna aggravante in quella circostanza. Dopotutto un tale risvolto era palese. Almeno nella sua mentalità da serial killer in erba.

Ren la fulminò con lo sguardo.

«Non dirà sul serio?» sbottò Leyla, la voce acuta dal panico. Persino Sarah s’irrigidì.

Il ragazzo sembrò sul punto di strozzarla. «Grazie per averlo espresso in maniera così superficiale, ma sì. Abbiamo provato a sforzare nuovamente la finestra della cucina, ma sembra essersi inceppata.»

«E fammi indovinare di nuovo: non siete riusciti nemmeno a togliere le assi alle finestre…»

Un vecchio cuscino polveroso le piombò sul viso. Alex cercò di toglierselo di dosso, ma qualcuno glielo stava tenendo premuto contro.

«Non dovresti riposarti, dormire o fare la finta morta?» La voce di Ren era parecchio infastidita. Fortuna che fino a qualche momento prima gli era stato affibbiato l’appellativo “preoccupato”.

«Rennis, così la uccidi sul serio» gli fece notare timidamente Emily, che li stava squadrando attentamente.

Ren sbuffò e si allontanò da lei. Dal canto suo, Alex non gli scagliò contro il cuscino, ma se lo piazzò sotto il capo per stare più comoda. L’impulso di fargli un gestaccio però fu quasi irresistibile. Si costrinse a chiudere gli occhi e a fare finta di dormire, tuttavia alla fine cedette ai piaceri perversi della parola e fermò gli sproloqui del giovane con gli altri, intenti ad elaborare un piano di fuga.

«Avete controllato le finestre degli altri piani?» gli propose, osservandolo con un occhio. Lo vide irrigidire le spalle e voltarsi nella sua direzione, ma prima che potesse rimproverarla, fu interrotto.

«Non mi sembra granché come piano di fuga» sentenziò Dakota.

«Ebbene, potremmo legare insieme i lenzuoli con cui sono coperti i mobili per costruire una fune in modo da calarci. È inutile rimanere qui a girarci i pollici.»

«Sei pazza?» Leyla sembrava essersi un po' ripresa dalla foschia dell’alcool e la osservava sconvolta.

I ragazzi si voltarono verso Ren, il quale non poté fare a meno di sospirare, passandosi una mano tra i capelli. Sembrò costargli molto assentire alla sua idea, ma alla fine incominciò a spartire ordini.

«Direi che non ci rimane molto altro da fare. Mark, prendi Leyla e portala con te e Sarah al primo piano. John, Gregory e Dakota il piano terra. Io controllerò il resto.»

«Ma Ren, il secondo piano è ancora in ristrutturazione! Potrebbe crollare e tu…» Dakota gli afferrò un braccio e lo guardò sinceramente preoccupata.

Il ragazzo si limitò a posarle una mano sulle sue e a liberarsi dalla presa. «Per questo è meglio che sia io a dare un’occhiata. Non preoccuparti, sono sempre attento.»

Cercando di approfittare di quello smielato attimo di distrazione, Alex fece per alzarsi, ma Ren la intercettò con la rapidità di un fulmine e la bloccò puntandole contro un dito. «Tu invece rimarrai qui a riposare.»

«Che cosa?» esclamò lei sorpresa.

Ren la ignorò. «Keiran, non farmi pentire della fiducia di lasciarti qui come cane da guardia, intesi? Trattienila, anche con la forza se è necessario.»

«Non potrei mai farle del male» sentenziò l’altro da bravo gentiluomo.

«Beh, dovrai. Altrimenti sarà lei a farne a te. Ed è per questo che concedo la grazia a Emily di rimanere con voi. È l’unica a cui dà ascolto.»

Alex scattò in piedi, ma Ren le diede un colpetto facendola di nuovo ricadere sul divano con l’unico risultato di farla alterare ancora di più.

«Non sono un’invalida! Posso darvi una mano!»

«Niente da fare. È già tanto se riesci a stare in piedi, quindi per una volta chiudi la bocca e fai quello che ti viene detto.»

Alex lo fulminò con lo sguardo, ma Ren non s’intimorì e ricambiò con la stessa moneta.

Ancora un po' e sarebbe scoppiato un incendio.

Accorgendosi che gli altri erano rimasti impalati a fissarli, il ragazzo si voltò e le rivolse le spalle, procedendo a grandi passi verso di loro.

«Forza, andate a controllare ogni possibile uscita. Mi raccomando, rimanete uniti e se vedete qualcosa…» osservò le ragazze «Non strillate. Non c’è bisogno di risvegliare altri morti.»

Dopo qualche borbottio e delle vivaci lamentele da parte di Leyla, i ragazzi fecero come gli era stato detto, ma prima di uscire a sua volta, Ren si fermò qualche istante per parlare con Emily. Con i capi chini, si dissero qualcosa a bassa voce, ignorando lo sguardo indagatore di Alex.

Alla fine, Ren annuì e uscì dalla sala senza aggiungere altro.

Emily ritornò da loro saltellando, le mani unite e un’espressione più rilassata.

«Allora, che ne dite di fare qualche gioco?»

 

 

 

 

Venghino signori, venghino.

Ben ritrovati con un nuovo capitolo.

Lo so, non succede granché, ma tranquilli. La storia si sta solo mettendo sui giusti binari; si lucida la carrozzeria ed effettua un controllo dei sistemi prima di partire per andare a schiantarsi a tutta velocità contro un muro.

Dopotutto, il nonsense regnerà!

Ringrazio sinceramente tutti coloro che hanno messo la storia tra le seguite e recensito, in particolare Marina Merisi, che ha sopportato le mie lagne incessanti su questo capitolo.

Vi spoilero già che ho deciso di apportare alcuni cambiamenti nel prossimo appuntamento (perché se non faccio la mia pessima azione quotidiana non sono felice) e, essendo già al quinto capitolo, volevo chiudere con una piccola domanda:

 

Quale personaggio suscita in voi irritazione?

 

(Attenzione: le eventuali risposte non modificheranno in alcun modo la trama. Ergo non aspettatevi una carnificina… Almeno… Non subito…)

 

Detto questo passo e chiudo.

A tra un paio di settimane, come sempre, qui su.. Art Att

Cazzo, ho sbagliato di nuovo canale!

*bip*

 

 

 

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Capitolo 8
*** 6 ***


6.

 

 

Q

uando la porta si richiuse alle sue spalle con uno sgradevole gemito causato dai cardini usurati, Ren capì due cose. La prima, era che da qualche parte si era aperto un portone che doveva velocemente sprangare e, grazie alle interminabili maratone di TWD¹, era sicuro di compiere un buon lavoro, dato che aveva perfezionato la sua tecnica in materia; la seconda, forse la più importante, era la possibilità di essere fottuto come mai in vita sua. I gemiti e le imprecazioni soffocate che trapassavano il legno come se volessero colpirlo fisicamente per smentire il significato delle minacce a vuoto, ne erano un valido esempio.

Sospirando, si appoggiò di peso sulla porta, la schiena che premeva contro la fredda superficie consunta. Con movimenti celeri iniziò a cercare nelle tasche della giacca il suo portasigarette. Aveva bisogno di calmarsi, di lasciare che il fumo lo aiutasse a essere obiettivo. Doveva rimanere concentrato prima che la situazione gli sfuggisse di mano ed essendo circondato da idioti era solo una questione di tempo.

Aprì con uno scatto la scatola di metallo e si portò alle labbra una sigaretta rollata. Quando alzò lo sguardo per accenderla, si rese conto di avere tutti gli occhi puntati contro. Aveva già riavviato il generatore situato in cucina prima di ritornare nel salotto, per cui l’intero pianterreno era illuminato dalle lampade a muro ancora funzionanti. Purtroppo, non poteva fare molto per migliorare il panorama. Azionò lo zippo, avvicinando la fiamma all’estremità della sigaretta e ne prese una lunga boccata.

«Mi pare che abbiate di meglio da fare, o sbaglio?» chiese, espirando il fumo. Dal salotto provenne un tonfo soffocato seguito da un’imprecazione. Lo sgorbio doveva essere passato dalla fase “maledici i morti e le future generazioni” a “prendi a calci e distruggi tutto quello che ti capita a tiro”. Nel caso della faccia dell’irlandese forse poteva considerarsi come un miglioramento.

«Lo sai anche tu che è una pessima idea» sentenziò Mark, incrociando le braccia al petto.

Ren sollevò un sopracciglio. Prese un’altra boccata, cercando di non sorridere a quell’ingenuo tentativo di tenergli testa. «Hai forse paura di essere preso di mira da un fantasma? Forza, muovi il culo e porta con te Sarah, prima che John decida di deliziarci con il concepimento di un cinegro

«Ehi!» sbottò l’altro, impegnato fino a poco tempo prima nel tentativo di tranquillizzare la ragazza, che arrossì a disagio nell’udire quella constatazione. «Sei proprio uno stronzo.»

«Grazie, lo so. E ora andate. Prima ci muoviamo, prima troveremo un’uscita da questo buco. E tu» si voltò verso Leyla, cogliendola con la bocca a aperta mentre stava per sganciare qualche altra frase dalla dubbia utilità. «Cerca di non lamentarti troppo. A Mark piacciono le bionde. Non è così?»

L’amico lo fulminò con lo sguardo, ma non rispose a quella provocazione. Dopo aver affiancato Sarah e aver preso per un braccio Leyla che ancora traballava sui tacchi a spillo, le guidò verso le scale di servizio più vicine. E il primo gruppo sparì così dalla lista delle cose da fare. Ora toccava al secondo.

Fece per voltarsi verso i rimanenti, quando John lo fronteggiò. Dalle spalle tese e il petto in fuori sembrava in cerca di rogne. Ren sorrise languidamente. Anche se John lo superava di qualche centimetro, avrebbe potuto stenderlo senza alcun problema e le numerose risse da bar nei loro trascorsi ne erano una valida testimonianza. Per essere entrato nel giro da pochi anni, Ren era riuscito a raggiungere la vetta della scala gerarchica piuttosto in fretta grazie a una sola e semplice regola: pura violenza. Sfidarlo apertamente poteva considerarsi come un invito all’obitorio e in quel momento non era in vena di diplomazia.

«Non so a che gioco stai giocando, Rennis, ma abbiamo già controllato le finestre al pianoterra» sentenziò l’amico.

«E allora ricontrollatele di nuovo» sbottò lui, distaccandosi dalla porta. Strinse la sigaretta tra i denti e si mise le mani in tasca, ciondolando sui talloni mentre Dakota, come al suo solito, si metteva in mezzo. Perché le ragazze dovevano sempre stare tra i piedi?

«Avanti, non litigate» sbottò, per poi rivolgergli uno sguardo da cucciolo bastonato. «Ren, lo sai che non è sicuro andare da soli all’ultimo piano…»

Affondò i denti nel filtro, senza curarsi del sapore amaro che gli penetrò la lingua. Le loro idee sulla sicurezza non coincidevano e personalmente si sentiva più al sicuro con un serial killer che con una ragazzina che fino a ieri aveva intasato Twitter con le sue intenzioni di portarselo a letto. Sospirando, si pizzicò il setto nasale, sentendo crescere in lui il principio di un’emicrania da urlo. E dire che per quella notte aveva previsto solo di bere come una spugna.

Riportò lo sguardo su di lei e le sorrise, ma prima di poter aprir bocca, Gregory ricomparve dall’ombra nella quale l’aveva rilegato. Si era dimenticato di lui. Totalmente.

«Non andrà da solo. Lo accompagnerò io.»

Per poco la sigaretta non gli scivolò dalle labbra per lo stupore. Lui e il secchione che facevano squadra? Un avvenimento del genere era in programma nella sua agenda solo nel giorno poi dell’anno mai. Ma se doveva scegliere tra lui e Dakota, forse non era poi una cattiva idea optare per il male minore.

«Grazie delle tue amorevoli preoccupazioni da mogliettina ansiosa, ma preferisco andare da solo. Se sarò fortunato morirò sul colpo.»

«Sii serio per una volta» rimbeccò il giovane. «E poi dubito che i tuoi amici ti permetteranno di muovere alcun passo senza qualcuno a guardarti le spalle.»

«Forse dovresti preoccuparti delle tue.»

«Ok, basta!»

Tutti i ragazzi si voltarono verso Dakota. Per essere un mucchietto di ossa, possedeva una spiacevole voce acuta.

Combattuta, la ragazza si morse il labbro e si diresse verso John, prendendolo a braccetto nonostante tenesse gli occhi puntati su Ren. «Molto bene. Io e John ricontrolleremo le finestre a questo piano e voi due andrete al secondo. Mi sembra equo. È inutile sprecare altro tempo.»

John le lanciò un’occhiata perplessa, ma alla fine si arrese con una scrollata di spalle. In fondo la loro massima priorità era quella di uscire da lì; perdere tempo a discutere tra di loro era del tutto controproducente, oltre che una pessima idea. «Ok. Ci rivediamo qui tra mezz’ora?»

«Certo» annuì Ren, finendo la sigaretta. La gettò a terra e la schiacciò sotto la suola di un anfibio, ormai del tutto incurante del “rispettare” certe dimore. Attese qualche momento prima di muoversi a sua volta, osservando i due ragazzi scomparire dietro l’angolo.

E così anche il secondo punto della lista svanì, seppur con un membro in meno nel gruppo.

«Forza, andiamo.»

Ren camminò svelto per i corridoi, incurante se Gregory riusciva a stare o meno al suo passo. Nella penombra, i suoi occhi si posarono sul pavimento, ormai costellato d’impronte dissimili che proseguivano in tutte le direzioni. L’effetto che produceva tale visione non era confortante, nonostante fosse la prova della presenza di creature corporee a zonzo per quei corridoi, ma appariva come un macabro sentiero che spezzava il manto di polvere che racchiudeva la villa. La sua immobilità era stata profanata e in quel momento, più che mai, Ren incominciò a sentirsi come un intruso. Avvertiva qualcosa d’indefinito aleggiare sopra di loro e ciò non faceva altro che procurargli la sgradevole sensazione di essere osservato.

Arrivato alle scale di servizio, si fermò quel che bastava per estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans e azionare la torcia, in modo da illuminare i vecchi gradini scricchiolanti.

«Non era necessario.»

Non si voltò nell’udire la voce del secchione alle sue spalle e incominciò a salire.

«Ignorami pure» continuò Gregory. «Ma so perché l’hai fatto.»

Trattenendo l’impulso di voltarsi e di spingerlo giù dalla scalinata con un calcio nella speranza che si spezzasse l’osso del collo, Ren ingoiò un’imprecazione. «Ah, sì?»

Gregory strinse gli occhi quando il raggio di luce della torcia lo colpì in pieno viso, ma non si mosse. Il suo sguardo indagatore parlava da solo, le labbra tese in una dura linea ammonitrice. Sembrava che non approvasse la sua scelta di tenere fuori Alexander da quella storia e per un attimo fu tentato di domandargliene il motivo. Si riscosse: da quando gli importava della sua opinione?

«Volevi che qualcuno rimanesse a disposizione di Alex. Vuoi proteggerla.»

Due frasi, un biglietto garantito di sola andata per Fanculonia. Fu il turno di Ren a stringere le labbra e a voltarsi, proseguendo la scalata fino a raggiungere il primo piano. Si diresse a passo di marcia fino all’ultima rampa di scale.

«Proteggerla?» domandò in tono sfacciato, stringendo con forza il cellulare nella mano. «Come se ne avesse bisogno. Da quello che ho visto finora se la cava benissimo da sola.»

«Eppure hai preferito imprigionarla in quella stanza piuttosto che permetterle di aiutarci» continuò imperterrito il secchione. «Non credi che sia un controsenso?»

Ren digrignò i denti. Sì, lo sapeva. Ed era proprio per questo che non aveva potuto fare a meno di metterle i bastoni tra le ruote. Ma era solo una questione di tempo, ne era consapevole. Alex era il tipo di donna che otteneva sempre ciò che voleva, indipendentemente dalla situazione o da chi osasse mettersi sulla sua strada. Forse perché era dannatamente brillante e proveniva da una buona famiglia, o forse perché era uno schianto, nonostante cercasse in tutti i modi di essere scambiata per una senzatetto. E, dato che nemmeno Dio poteva essere l’autore della personificazione della perfezione, l’aveva dotata della sfera emotiva di una medusa e il carattere di un pittbull aizzato. E questo lo faceva impazzire. In ogni senso.

Malgrado ciò, nemmeno lei era invincibile. Lo sapeva per certo.

Avvertì il ragazzo sospirare a causa del suo silenzio. Prima di permettergli di nuovo di aprire bocca, Ren si voltò e con uno scatto repentino gli fu addosso, costringendolo a indietreggiare contro il muro, che scricchiolò sotto quella pressione.

«Mettiamo in chiaro una cosa» sibilò, gli occhi fiammeggianti che mal celavano la sua rabbia. «Ti ho lasciato venire con me solo per evitare di perdere tempo con discorsi inutili, esattamente come quello che ti ostini a continuare ora. Per cui lascia perdere. Se hai qualche problema con me sono affari tuoi; la cosa non mi tocca, puoi starne certo. Una volta usciti da qui ognuno di noi andrà per la propria strada. Intesi?»

Gregory lo fulminò con lo sguardo. Con uno strattone si liberò dalla sua presa. «Non mi fido di te.»

Ren gli ridiede le spalle e scoppiò a ridere, salendo l’ultima rampa di scale, ancora più malmessa di quelle che collegavano i due piani sottostanti. «Oh, fai bene. E, giusto per la cronaca, se dovesse capitarti qualcosa, ti lascerò a penzolare dal soffitto. Anzi, ti scatterò una bella foto come ricordo, per cui dovresti preoccuparti per te stesso, non per quello sgorbio.»

Convinto di aver avuto l’ultima parola, Ren sorrise soddisfatto, arrivando finalmente alla loro meta. Il secondo piano di Pennington Mansion si rivelò a loro in tutto il suo decadimento. A causa della mancanza di fondi per la manutenzione, nel corso degli anni si era a poco a poco trasformato in un labirinto di stanze vuote con cavi scoperti e travi traballanti, decorato da un pavimento quasi del tutto distrutto e ricoperto da cianfrusaglie e scatoloni. Buona parte dell’ala ovest era mancante e il resto consisteva in un’enorme trappola pronta a crollare sotto il peso del povero malcapitato che aveva avuto la stupida idea di arrampicarsi fin lì. Sam, uno dei barboni che bazzicavano da quelle parti, si era rotto una gamba cadendo proprio in un buco mentre cercava di scappare da una rettata della polizia locale.

Facendo attenzione a dove metteva i piedi, Ren incominciò a guardarsi intorno per individuare un buon punto da utilizzare come via di fuga, dimenticandosi di fare luce anche per Gregory.

Almeno finché non ricominciò a parlare.

«Non mi fido di te perché lei è mia amica. Ecco il motivo. Stalle alla larga, Rennis.»

Ren s’immobilizzò. Non perse nemmeno la briga di voltarsi nella sua direzione.

«Oh, non credo che tu debba preoccuparti di questo. Mi piace l’ebbrezza della caccia.»

 

 

 

«Era proprio necessario?» si lamentò Leyla, per quella che aveva calcolato come la settima volta da quando si erano separati dal gruppo. Arrancava di proposito nei corridoi bui, continuando a gemere e a lagnarsi nel tentativo di ottenere il permesso di svignarsela da qualche parte a riposarsi. Ancora non si capacitava di essersi lasciata trasportare da quegli scellerati e di essere finita in quel guaio. Oltretutto, le sue povere Chanel erano in condizioni pietose a causa di tutta la sporcizia che c’era al suolo e nessuno di loro avrebbe potuto ricomprargliele senza finire sotto un ponte, il giusto posto che li spettava.

«Per l’ennesima volta, sì. È una casa molto grande, per cui abbiamo bisogno di tutti per esplorarla al meglio» gemette Mark.

Leyla scoccò al teppista uno sguardo esasperato. I suoi capelli biondi e neri erano un insulto al buon gusto. Tanto valeva raparsi a zero come quello zotico del suo amico, che non sarebbe stato nemmeno un bravo domestico. Perché doveva sopportare gente del genere?

«Ma io sono ubriaca» protestò di nuovo a gran voce, stringendo i pugni. «Vedo tutto offuscato e mi gira la testa! Non potevano andare quegli sfigati al mio posto?»

Il ragazzo osò alzare gli occhi al soffitto e si voltò per cercare del supporto morale da parte di Sarah. Lei ricambiò il suo sguardo, ma si limitò ad alzare le spalle senza avere alcuna intenzione d’intervenire.

«Senti, devi solo ispezionare le finestre. Non mi sembra un compito così difficile» sbuffò infine il ragazzo.

Leyla s’immobilizzò, lo sguardo esterrefatto. «Ma stai scherzando? Così rischio di spezzarmi un’unghia!»

«Che ne dici allora di rimanere in silenzio a occuparti delle tue unghie?»

«Mi stai dando dell’incapace?»

Mark si fermò non appena svoltato l’angolo per sbattere la testa contro il muro e la ignorò. Di nuovo.

«Avanti, seguitemi. Inizieremo dalla zona più lontana rispetto alla nostra posizione. Cercate di tenere il passo» sbuffò, scostandosi il ciuffo dal viso con esasperazione.

Leyla rivolse una boccaccia al teppista mentre le dava le spalle. Stizzita, rimase in disparte, tenendo le braccia contro il corpo nel tentativo di riscaldarsi. Notando che nessuno dei due la stava degnando di uno sguardo, ebbe un’idea. Sorrise sorniona e rallentò il passo un po’ alla volta, continuando a sbuffare per dare un segno della sua presenza finché i due ragazzi non girarono l’angolo. A quel punto, Leyla annuì soddisfatta e ritornò sui propri passi, allontanandosi di soppiatto per quanto le permettevano i tacchi.

Si arrotolò una ciocca di capelli attorno a un dito ed estrasse l’iPhone dalla borsetta nella speranza di trovare una linea di campo, ma finì con lo sbottare. Non era possibile che la ricezione non arrivasse fin lì. Doveva essere un brutto scherzo.

Traballando sui tacchi, seguì a ritroso le orme che segnavano il pavimento; la luce dello schermo brillava nei corridoi bui come un faro. Finché non iniziò a sfarfallare.

«Ma cosa?» Leyla diede qualche colpo al telefono. «Andiamo, stupido coso. Funzion… ahi!»

Si portò l’unghia rotta alla bocca, iniziando a piagnucolare come una bambina. Si voltò, maledicendo ogni cosa che le veniva in mente, per poi fermarsi a poco a poco, la voce ridotta a un sussurro inudibile. La consapevolezza di essere sola e vulnerabile la travolse all’improvviso, paralizzandola dalla paura.

Si guardò attorno. Un’oscurità opprimente la circondava, soffocando qualsiasi altro dettaglio nei paraggi. La luce intermittente emanata dal suo cellulare era troppo debole per rischiarire ciò che aveva intorno a lei, ma non le sfuggì un fugace movimento con la coda dell’occhio.

Lanciò un urlo squillante. Irrigidendosi, si tappò la bocca con una mano, per poi avvicinarsi lentamente al punto in cui aveva visto qualcuno muoversi.

«Sarah?» mormorò. «Coso? Oddio, come si chiama… Mike?»

La sagoma alla fine del corridoio non rispose, né si mosse. Rimase in silenzio a fissarla, la sua identità celata dalla fitta oscurità che avvolgeva quel luogo.

«Non è divertente!» sbottò Leyla in tono lagnoso. Abbassò lo sguardo verso il suo telefono, come se potesse esserle d’aiuto e all’improvviso lo sfarfallamento scomparve. Prendendo coraggio, lo sollevò davanti a lei e rivolse la luce verso le tenebre, illuminando il nulla. Nell’aria avvizzita volteggiavano solo lenti ed eleganti granelli di polvere. Leyla sussultò appena, mordendosi il labbro per non scoppiare in lacrime. Eppure era sicura di aver visto qualcosa.

Poi lo udì. Un lieve sospiro.

Con il respiro affannato per la paura, si voltò lentamente.

Raggelò.

Un bambino la stava osservando. Avrà avuto poco più di una decina d’anni e indossava una semplice camicia e dei pantaloncini nonostante l’aria frizzante. Aveva la testa inclinata leggermente da un lato, come se la stesse contemplando con vivido interesse nonostante la sua espressione vuota e apatica. Ma c’era qualcosa di strano in lui. La sua figura appariva slavata, come se fosse incolore, la pelle pallida e gli occhi cerchiati di scuro. Non disse una parola. Rimase lì, immobile, semplicemente a guardarla.

Leyla ammutolì, ma poi gli occhi scintillanti di lacrime persero la loro luce. Abbandonò le braccia lungo il corpo e il cellulare le scivolò dalle dita, cadendo a terra con un leggero tonfo. E lì si spense.

Quando lo schermo si riaccese, la sua luce fievole illuminò un corridoio vuoto e silenzioso.

 

 

«Tu credi nei fantasmi?»

Colto alla sprovvista per quell’uscita, Ren rischiò d’inciampare su uno degli scatoloni abbandonati alla rinfusa sul pavimento. Guardò oltre le sue spalle e scrutò Gregory con un’espressione contrariata. Il silenzio che era sceso tra loro era stato colto con reverenziale entusiasmo e aveva permesso a entrambi di concentrarsi sull’obiettivo prefissato, almeno fino a quel momento. Sospirando, Ren tornò a esaminare la grata alla finestra sulla quale avevano deciso di soffermarsi.

«Può essere» ammise dopo una pausa. «Ma non nel senso classico del termine. Credo piuttosto che siano degli echi di noi stessi; un riflesso delle nostre paure. Alcune persone ne hanno qualcuno, altre devono convivere con un’intera legione.» Diede un altro scrollone alla grata e si allontanò con uno sbuffo, procedendo verso la prossima finestra. «Ma il più delle volte sono loro a controllarci.»

Gregory lo seguì in silenzio, soppesando la sua risposta. Puntò la luce del suo cellulare contro il muro in modo da aiutarlo, anche se alla fine bofonchiò.

«Perché ho come l’impressione che mi stai prendendo in giro?» chiese.

Un pigro sorriso si distese sulle labbra di Ren, ma non trasmetteva alcuna allegria. «Perché, mio caro secchione, la vita è troppo breve per comportarsi bene. E ben presto scoprirai che i demoni interiori del genere umano sono nettamente più divertenti delle virtù che continui a ostentare.»

Un altro sbuffo. «Aspetta che questa me la segno.»

«Tatuatela su un braccio, così non la dimentichi più» propose, per poi imprecare, allontanandosi dalla finestra. «Ancora niente. È impossibile che non ci sia una via d’uscita.»

Gregory lo affiancò, guardandosi in giro. «Forse con un piede di porco…»

Non riuscì a terminare la frase. Ren si chinò e pescò dallo scatolone accanto a loro una statuetta di ferro battuto rappresentante una figura classica, forse anticamente posata come decorazione in uno dei salotti. Portò indietro il braccio e la lanciò con forza contro la finestra, ma il vetro non si ruppe. Non presentò neppure la più piccola scalfittura. La statuetta ruzzolò sul pavimento, svanendo nelle tenebre sotto i loro sguardi attoniti.

«Dicevi?» commentò Ren, scostandosi i capelli neri che gli erano ricaduti davanti gli occhi.

«Ok, questo è strano» concordò Gregory, avvicinandosi al vetro opaco per esaminarlo meglio. Lo toccò, rimanendo stupito nel trovarlo del tutto intatto.

«E non è l’unica stranezza…»

Gregory alzò la testa e lo raggiunse, seguendo il suo sguardo. Il raggio di luce del cellulare illuminava la coltre di polvere posata sul pavimento nel corso degli anni, ma non era nulla di nuovo: tutta la casa verteva nelle stesse condizioni.

«Non noto nulla di strano.»

Ren scosse il capo. «Pensaci. Questa casa è abbandonata da decenni ma non c’è nessun segno d’infestazione.» Sollevò il braccio e illuminò gli scatoloni attorno a loro; il cartone si era riempito di grinze, intaccato dall’umidità e dalle infiltrazioni, ma ancora intatto. «Nessun segno della presenza di topi o altri animali infestanti. È come se fosse…»

«Morta» terminò Gregory per lui.

Ren annuì gravemente e continuò il suo giro. Più il tempo passava, più sentiva che c’era qualcosa che non andava. Dubitava che gli altri avessero avuto più fortuna di loro, ma il solo pensiero di dover rimanere in quella casa fino al mattino lo riempiva d’inquietudine. Era rimasto lì fino a tarda notte molte volte con la sua banda, eppure era la prima volta che si sentiva minacciato, la prima volta che doveva vedersela con qualcosa che andava oltre la sua comprensione. E al pensiero di aver risvegliato qualcosa…

Fece una smorfia. Che si stesse rammollendo? E dire che era ancora sobrio.

«Andiamo» mormorò infine. «Torniamo dagli altri. È inutile cercare oltre.»

Gregory parve sorpreso nell’udire quella resa, ma annuì, precedendolo verso le scale.

Ren sospirò, facendo per estrarre un’altra sigaretta, quando un fruscio alle sue spallo lo bloccò. Voltandosi, alzò il cellulare verso le tenebre per indagare. Nei suoi occhi comparve un luccichio divertito.

«Ma tu guarda…» mormorò, dimenticando del tutto il suo piano di andarsene.

Gregory, che nel frattempo si era allontanato di qualche metro, girò su se stesso accorgendosi che il suo compagno di avventura non era al suo fianco. Sbuffando, si affrettò a raggiungerlo, come se l’idea di rimanere da solo in mezzo a un piano buio e decrepito non gli piacesse per nulla. Che mammoletta.

«Che cosa c’è?»

Ren puntò la torcia verso il baule. Si leccò le labbra, arricciate in un sorriso divertito.

«Questo sì che è interessante. È la prima volta che vedo questo piccolino» ammise, avvicinandosi all’oggetto della sua curiosità. Si chinò, cercando di aprirlo, con l’unico risultato di far tintinnare con forza il vecchio lucchetto arrugginito che lo serrava.

Gregory s’irrigidì nell’udire quel frastuono echeggiare nell’aria. «Forza, lascia perdere! Andiamocene.»

Ren roteò gli occhi e sbuffò. Si rimise in piedi e con qualche colpetto deciso si pulì i jeans. Poi si voltò… per caricare meglio il colpo. Prese a calci il lucchetto finché, dopo un paio di mosse ben assestate, si ruppe.

«Visto? La violenza funziona sempre.»

Gregory si limitò ad osservarlo in silenzio, le braccia incrociate e un’espressione furente dipinta sul volto.

«Fa come vuoi» sentenziò l’altro, sollevando il coperchio con grandi aspettative. Da subito infrante.

Vestiti. Un mucchietto di vestiti antiquati appartenenti a una bambina. Cercando di tenere a bada la delusione, continuò a rovistare alla ricerca di qualcosa di prezioso da vendere al banco dei pegni vicino casa, finché le sue dita non sfiorarono qualcosa di morbido. Stupito, estrasse un piccolo orsacchiotto. Date le cuciture irregolari doveva essere fatto a mano, ma sembrava ancora in ottime condizioni, nonostante somigliasse a un quadro di Picasso.

Sorrise lievemente e dopo un’esitazione iniziale se lo infilò in una delle tasche interne della giacca.

«Hai finito?» gli chiese Gregory.

Esasperato, Ren sospirò, distogliendo l’attenzione dal contenuto del baule. Non notò nemmeno l’angolo di diario consunto seminascosto dal cumolo di stoffa.

«Te la stai proprio facendo sotto, non è così?»

«Ma se eri tu che fino a qualche minuto fa volevi…»                     

«Zitto!»

Ren si paralizzò e così fece anche Gregory.

Con i sensi in allerta, Ren richiuse lentamente il coperchio e si raddrizzò. I suoi occhi sondavano l’oscurità alla ricerca del rumore che l’aveva messo sull’attenti. Era stata una specie di vibrazione, come una risata soffocata, e il fatto che fosse provenuta da uno degli angoli più bui del piano non era certo un buon segno.

Il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. Sollevò lo sguardo verso Gregory, il quale lo ricambiò inquieto.

«Hai sentito qualcosa?»

Ren socchiuse gli occhi prima di sgranarli. Con uno scatto repentino, afferrò il ragazzo per la giacca proprio nel momento in cui il pavimento crollò sotto i suoi piedi. Gregory si agitò, mulinando gli arti in cerca di un appoggio, non aiutandolo così a distribuire il proprio peso che gravava ancora di più accanto alla voragine appena aperta. Con un gemito causato dello sforzo, Ren lo aiutò a riportare i piedi per terra al suo fianco.

«Muoviti!» urlò, spostandosi di lato.

Non si voltò per assicurarsi che il secchione lo stesse seguendo. Ren incominciò a correre verso le scale, mentre il frastuono del legno che cedeva dietro di loro spezzava il silenzio con un gran fragore. Si fermarono solo quando il pavimento si assestò con un funereo lamento. Ren e Gregory si osservarono ansanti, gli occhi sgranati, riportando lo sguardo sul baule e sulla voragine che si era aperta tutt’intorno, rendendolo irraggiungibile.

«Fanculo» sibilò Ren. «Andiamocene.»

Fu così che proseguirono, camminando in silenzio verso il salotto, ognuno perso nei propri pensieri.

«Ehi» mormorò Gregory a un certo punto. «Grazie… Per prima.»

Ren si voltò, guardando il ragazzo con sufficienza. «Non l’ho fatto per te. Tengo solo alla mia vita e poi avrei dovuto dare troppe spiegazioni.»

«Oh, certo» sorrise l’altro. Stette per aggiungere qualcosa, quando il suono di passi affrettati riecheggiò nel corridoio in cui erano arrivati. Dallo sguardo sconvolto di Mark, Ren capì che avevano poco da star sereni.

«Oddio, eccoti qui, finalmente» sbottò l’altro, riprendendo fiato. Dietro di lui c’era solo Sarah, anch’essa ansante.

«Che cos’è successo?»

Mark scosse il capo. Si limitò a mettergli in mano un iPhone dalla cover rosa con lo schermo crepato.

«Abbiamo un problema.»

E fu così che quella frase divenne ufficialmente il motto della serata. Seguita sempre, per ovvi motivi, da un’imprecazione piuttosto colorita.

 

 

¹ The Walking Dead

 

 

Eccomi qui! Dopo un mese!

Speravate che fossi morta stecchita da qualche parte con un cotechino in braccio, eh?

Beh, dai. Non lo considero poi un ritardo così mostruoso, dato che prima ero abituata ad aggiornare ogni 5 mesi se tutto andava bene :D quindi pazienza <3

Allora, gente. Come va?

Passate delle belle vacanze? Spero proprio di sì.

So che molti avranno guardato il capitolo e avranno pensato: “Ommiodio! Perché c’è Ren? Dov’è la sociopatica?”. Ebbene, se non incasino le cose non mi diverto. E poi dai. A parlare sempre delle stesse turbe mentali dopo un po' ci si annoia, per cui è meglio passare ad altri disturbi clinici ^^

Come sempre ringrazio tutti quelli che hanno avuto il buon cuore di commentare, d’inserire la storia tra le loro liste e spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento.

Fatevi sentire ogni tanto u.u

Alla prossima ^^

 

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Capitolo 9
*** 6.2 ***


Attenzione: non leggete questo capitolo!

Sconsigliato alle persone sensibili e ai bambini con età superiore ai 9 anni.

E agli unicorni.

Maneggiare con cautela.

 

 

 

 

 

6.2

 

 

Meanwhile

 

 

«A

bbiamo un problema.»

Stupito nell’udire quella constatazione, Keiran distolse lo sguardo dal fuoco morente contenuto nel caminetto e si voltò a osservare interdetto l’espressione sconvolta di Emily. In preda all’esasperazione, la ragazza si era infilata le mani nella nuvola di biondi riccioli che la incoronava, scuotendo la testa e borbottando una sequela di parolacce abbellite e senza senso.  E per senza senso intendeva: “Maledetto unicorno fancuglitterato” o “Porcorosa fluffoloso”. Allarmato, abbandonò la sua postazione accovacciata e le si avvicinò. Seduta sul tappeto, Emily aveva rovesciato il contenuto della sua borsa per terra, in modo da fare un veloce inventario sui viveri rimasti. Quando lo sentì accomodarsi al suo fianco, la ragazza lo guardò esasperata.

«Keiran! Mi erano rimasti solo un pacchetto di Skittles, sette caramelle assortite, un paio di Twinkies e una Pop Tarts al cupcake, ma… è sparita!»

Keiran aggrottò le sopracciglia, confuso dalle priorità della ragazza. «Sicura che non sia finita da qualche parte?» domandò, osservando in modo distratto i dintorni.

Emily sbuffò, incrociando le braccia al petto. «Sì, ho guardato ovunque. Non sappiamo per quanto tempo rimarremmo bloccati qui, per cui dovremmo razionare le scorte rimaste, non farle sparire e…» All’improvviso si bloccò, sbattendo le palpebre come se avesse appena avuto una rivelazione. Chiuse gli occhi e si lasciò andare a un lungo sospiro. «Alex?»

Entrambi i ragazzi si voltarono a guardarla.

Distesa sul divano con la schiena rivolta verso di loro in modo da escluderli, Alex si era appallottolata nella sua mantella ed era rimasta lì, immobile e silenziosa, per un lasso tempo talmente lungo da risultare preoccupante. Il suo malumore l’avvolgeva come un’ombra scura e, nonostante le lamentele iniziali, si era ritrovata a soccombere alla luce dei fatti, insieme al suo ego ferito.

«Avanti, Alex. Smettila di tenere il muso. La situazione è grave» sbottò Emily, alzandosi per andare a stuzzicarla. Iniziò a darle ripetutamente qualche buffetto sul fianco, fino a tirarle un pizzicotto.

L’ammasso informe di stoffa rossa ebbe un lieve fremito. Dopo qualche momento, Alex si voltò verso di loro con quello che rimaneva della merendina incriminata ancora tra le labbra.

«Mmlashiatemmi inh mmpashe.» bofonchiò, rigirandosi.

Sia Emily che Keiran sospirarono afflitti, ma poi la ragazza sorrise. S’inginocchiò di fianco a Alex e le posò una mano sulla testa, incominciando ad accarezzarla con mosse lente e cadenzate attraverso il cappuccio. Si protese su lei; la sua voce era a malapena un dolce sussurro, che non lasciava trasparire alcun fastidio nonostante le rimostranze protratte fino a poco prima.

«Sei fortunata. Ormai ho preso l’abitudine di portare sempre del cibo in più per te.» Fece una pausa per poi aggiungere greve, «Ma guai a te se ci riprovi.»

Nascosta alla vista grazie alla barriera di stoffa che l’avvolgeva, Alex socchiuse le labbra, sentendo improvvisamente uno strano peso che le premeva sul petto. Strinse le mani attorno ai lembi della mantella, cercando di trovare in sé la forza di non voltarsi per abbracciarla. In fondo, nel bene e nel male, Emily sapeva sempre ciò di cui aveva bisogno.

Almeno finché non si allontanò da lei con un sospiro teatrale.

«Oh, beh. Non importa. Dopotutto sei tu che continui a darti la zappa sui piedi da sola» concluse.

Nell’udire quella frase, Alex perse l’ultimo rimasuglio di sentimento che le era rimasto. Si liberò dalla mantella dopo qualche goffo tentativo, ingarbugliandosi più volte in essa, e si voltò definitivamente. Con fatica si mise a sedere, osservando di sottecchi l’amica che gongolava di nuovo sul tappeto.

«Dipende da che cosa intendi» osservò Alex con tono scettico.

Nel scorgere il suo sguardo di ghiaccio, il sorriso di Emily si spense. «Perché?»

Alex sbuffò. «So che non ti stai riferendo al cibo. Prima eri una valle di lacrime e ora sembri… euforica!» Il suo sguardo si assottigliò. Dopo una pausa, una smorfia di disgusto le comparve in viso. «Che vi siete detti?»

Emily aprì la bocca, ma la richiuse prontamente prima di pentirsi delle parole che fortunatamente le rimasero incastrate in gola. Alzò le mani davanti a sé a mo’ di scudo. «Nulla, te lo garantisco!»

Alex la esaminò per qualche momento, per poi spalancare la bocca, completamente spiazzata.

«Tu…» mormorò, puntando il dito contro l’amica. «Tu ti stai facendo i filmini, non è così?»

«Certo che no!» si difese Emily, nonostante il lieve rossore che incominciava a espandersi sulle sue guance paffute.

«Filmini?» chiese confuso Keiran, in sincrono con la risposta di Emily.

Alex sospirò, passandosi le mani sul viso per poi agganciarle dietro il collo. «Ogni volta che qualche ragazzo mi rivolge la parola… o solamente mi lancia un’occhiata, Emily tira fuori la regista che è in lei» spiegò. «In meno di dieci minuti ti sa dire quanti anni, mesi o giorni passeranno prima della dichiarazione; il tipo di casa in cui andremo a convivere; il nome, tipo e quantità degli animali domestici; il tipo di ristorante dove avverrà la proposta; il giorno del matrimonio con annesso il menù, la lista degli invitati, la meta del viaggio di nozze; la vita coniugale e quanti figli…»

«Ai figli devo ancora arrivarci» mormorò Emily, che sussultò quando Alex le scoccò un’occhiataccia colma di gelo. «Ma saranno come minimo tre. Tutti con il tuo brutto carattere.»

«E fortuna che non ti stavi facendo alcun filmino…»

«Certo che no…»

«Oh, guarda!» Alex si inclinò in avanti, osservando da vicino la fronte dell’amica come se potesse guardarci attraverso. «Vedo Ren, bardato nella sua splendente armatura, al trotto su un unicorno tra gli arcobaleni e nuvole rosa.»

Emily strinse le labbra e aggrottò la fronte, gli occhi che scrutavano il soffitto con aria pensosa. «Io me lo immaginavo in calzamaglia, a dire il vero» ammise.

Di fianco a loro, Keiran fece una smorfia disgustata. Ormai aveva rinunciato a capirci qualcosa. E forse era meglio così. Tra migliori amiche mai mettere il dito. «Bleah. Me lo sono appena immaginato nei panni di Jareth in Labyrinth» commentò.

«Dove il vero protagonista è il pacco perennemente illuminato di Bowie.» Alex storse la bocca e scosse il capo, come a cancellare l’immagine che le era apparsa in mente. «Beh, non credo che al drago importi qualcosa del rivestimento.»

Sia Emily sia Keiran la contemplarono confusi.

«E chi sarebbe il drago?» chiese il giovane.

«Io. Mi sono sempre chiesta che sapore abbia un unicorno, anche se sono quasi certa che sappia di torta. Ma è irrilevante, il cavaliere mi rovinerà la digestione.»

Emily scoppiò a ridere in modo incontrollabile. Keiran sorrise sollevato nell’accorgersi che la ragazza aveva ritrovato un po’ della sua solare spensieratezza, ma Alex si limitò a osservarla di sottecchi, per nulla soddisfatta, anzi… sembrava ancora arrabbiata. Posò lo sguardo sul fuoco morente.

Dopo qualche istante di silenzio, Alex parlò.

«Emily, hai per caso con te uno di quei libri che ti piacciono tanto? Quelli scritti male, senza trama, pieni di cliché e di ragazzi con gli addominali perfetti e protagoniste con le gambe sempre aperte per essere socialmente utili?»

A quella strana richiesta, Emily aggrottò la fronte. «No, ho solo un nuovo romanzo che devo ancora finire. Perché?» le domandò stranita, ricambiando il suo sguardo di sfida.

«Oh, nulla. Era solo per alimentare il fuoco.»

Emily la fulminò con lo sguardo. «Lo sai che ormai la maggior parte dei libri di oggi vengono letti in formato digitale, vero?»

Silenzio.

Entrambe mantennero il contatto visivo in quel momento di stallo.

«Tu mi odi, non è così?» chiese Alex.

«Molte volte» ammise l’amica, annuendo.

Dopo qualche istante, Alex sospirò rassegnata. «Ecco perché la gente è sempre più stupida…» bofonchiò in tono appena udibile.

Si stiracchiò, sollevando le braccia sopra la testa e piegando il collo indolenzito. Poi rimase in attesa, osservando i due ragazzi, che ancora la stavano scrutando.

«Posso almeno sgranchirmi le gambe o anche per quello devo avere il consenso di Ren?» sbottò.

Emily scosse la testa impazientita, ma Keiran non riuscì a trattenere un sorriso. «Fai pure.»

Facendo attenzione e non perdere l’equilibrio, Alex si alzò e fece qualche passo nel salotto silente. I muscoli gemettero a causa della forzata immobilità, ma dopo qualche movimento controllato incominciarono a sciogliersi e a tornare operativi. E questo era un bene per i suoi piani di fuga.

Si guardò attorno. Lo spazio sembrava molto più grande, ora che erano rimasti solo loro tre a presidiare il forte. Anche se definirsi in tre era un eufemismo di cattivo gusto. Ogni volta che aveva chiuso gli occhi, ogni volta che aveva provato di cadere nelle braccia di Morfeo mentre aspettava il ritorno degli altri, nella sua mente erano continuate a echeggiare quelle fastidiose voci. E non era nemmeno la parte peggiore. Non con le loro fredde mani che le accarezzavano il viso e il corpo mentre le mormoravano frasi dalla dubbia utilità, condite da un’ovvietà che l’aveva irritata al punto da soffocare la preoccupazione che avrebbe dovuto provare in un contesto simile.

Non saresti dovuta venire qui...”

“Vai via…”

“L’oscurità freme”

Magari… ditemi qualcosa che non so. Bofonchiò mentalmente.

Sospirando, finì con il sbattere la coscia contro il tavolino deposto vicino al fuoco. Alcuni foglietti rischiarono di cadere oltre il bordo, ma riuscì a ghermirli appena in tempo, stropicciandoli tra le dita. Impiegò una frazione di secondo per rendersi conto della loro natura: erano gli appunti di Sarah.

Posandoli nuovamente sulla superficie liscia del mobile e disponendoli in ordine in modo che fossero tutti visibili, incominciò a studiarli, il viso inclinato e perso in un’infantile curiosità.

Le prime annotazioni erano scritte nell’impeccabile grafia della ragazza; le frasi erano disposte in modo ordinato e la pressione della penna sul foglio era così leggera da non lasciare alcun solco. Eppure, man mano che la seduta procedeva, le parole tracciate sulla carta erano state trascritte in fretta e in modo poco accurato, lasciando perdere le righe di riferimento e premendo la biro così forte al punto che alla fine di alcune parole l’inchiostro aveva quasi oltrepassato la sottile membrana di cellulosa. Fortunatamente per lei, la giovane era riuscita a trascrivere anche le combinazioni create dai dadi, non sono le risposte date dagli spiriti.

Il suo sguardo lasciò perdere la disposizione e la grafia e vagò su quelle parole, memorizzandole. Finché non si accorse che qualcosa non quadrava.

«Sono più di uno» mormorò, comprendendo poco dopo di aver dato voce ai suoi pensieri.

«Che cosa?» chiese sorpresa Emily, avvicinandosi a lei.

Alex indicò i fogli. «I tuoi interlocutori. Erano più di uno.»

«Sì, Alex. Erano i bambini» sentenziò Emily, la fronte aggrottata per la confusione.

Scosse la testa. «Non intendevo quello. Alla seduta stavi comunicando con più di uno spirito. Le risposte sono diverse sia per tono che per messaggio. Pensaci un attimo.» Coprì con una mano gli ultimi fogli, in modo da concentrare l’attenzione su quelli che riportavano le prime frasi. «All’inizio c’erano delle pause. Hai dovuto ripetere più volte le domande prima di ottenere una risposta. Erano indecisi, quasi spaventati. Ma poco prima del caos…» Indico con un dito la risposta dopo: “Volete giocare con noi?”. «L’interlocutore era deciso. Il lasso di tempo tra una risposta e l’altra era nettamente più breve.» Scoprì gli ultimi appunti.

«Dove vuoi arrivare con questo, Alex?» le domandò Keiran, senza staccarle gli occhi di dosso.

«Credo…» mormorò lei. «Credo che l’ultimo interlocutore volesse avvisarci. Metterci in guardia del pericolo.» Osservò l’ultimo messaggio prima della ripetizione della sequenza, dove la parola “book” spiccava in mezzo alle altre lettere. E lei in quel momento stava leggendo un libro… Scosse il capo. «Forse avete parlato proprio con Mrs. Pennington.»

Si voltò verso Emily che, tremante, stava ricontrollando nuovamente le annotazioni. Un po’ le dispiaceva; sapeva che per lei era ancora un tasto dolente, ma doveva sapere.

«Emily, non hai avvertito nulla mentre rivolgevi le domande? Una sensazione strana, un suono, un odore, qualsiasi cosa fuori dall’ordinario?»

Emily chiuse gli occhi e scosse la testa. Le tremavano le labbra. «Mi dispiace, ero troppo preoccupata a pensare a cosa domandare, però…» Aggrottò la fronte.

«Sì?» la incalzò Alex.

«In effetti verso la fine ho percepito qualcosa che non andava. Iniziavo ad avere i brividi e… non so. Era come se qualcuno mi guardasse, ma non ero preoccupata. Anzi, era come se dentro di me avessi la certezza di non essere in pericolo. Ed è per questo che… ho continuato a proporre le domande.»

Nella sala calò un silenzio opprimente a quella rivelazione.

«Quindi i messaggi possono avere due connotazioni diverse» sentenziò infine Keiran. «O “nascondete lei” oppure “nascondetevi da lei”. Ma qual è quello giusto?»

«Per quel che mi riguarda, nessuno dei due è rassicurante» mormorò Alex. Poi si accigliò.

«Che cosa c’è ancora?» domandò esasperata Emily nell’accorgersi del suo cipiglio, senza preoccuparsi della nota stridula che le uscì dalla gola.

Alex le fece cenno di tacere. «Non capisco, perché avrebbero dovuto rivolgersi al…»

Non riuscì a terminare la frase. Con un gemito, si portò la mano sul collo, massaggiandosi la parte lesa. Vacillò all’indietro e, se Keiran non l’avesse sorretta afferrandola per un braccio, avrebbe rischiato di cucinarsi il fondoschiena sulla brace.

«Stai bene?» le domandò stupito per quel malore.

Per un istante, Alex non seppe cosa rispondere. Il dolore era sempre lì, persistente ma lieve, come una sorta di formicolio, eppure… Per un momento si era trasformato in una pugnalata.

«Sì, è tutto ok» sentenziò, ritrovando l’equilibrio. «Probabilmente è solo una botta, non è nulla di che» sospirò.

Se tale ammissione aveva convinto Emily, tutt’altro fece con Keiran, che continuò a osservarla di sottecchi. «È da quando ti sei risvegliata che continui a massaggiarti il collo, quindi non direi che “non è nulla di che”.» Si avvicinò al divano e diede qualche colpetto sui cuscini. «Forza, fammi controllare.»

D’istinto, Alex strinse le labbra e scosse il capo. Nel vedere il suo tentennamento, Emily sbuffò. «Alex, sei tra amici. Non hai nulla di cui preoccuparti. Fidati.»

Alex la guardò incerta per un momento ma, quando fu sicura che quel commento fosse del tutto estraneo allo screzio di prima, annuì e si accomodò sull’imbottitura. Abbassò il cappuccio e allentò il nodo che teneva chiusa la mantella, per poi posarla al suo fianco. Scostandosi i capelli scuri, passò a slacciare con mosse rapide i piccoli bottoni della camicia che le stringevano il collo fino a raggiungere quelli del petto, in modo da lasciare facilmente scoperta la spalla. E lì rimase in attesa.

Dopo qualche attimo di tentennamento, come se avesse paura della sua pelle scoperta, Keiran si avvicinò e incominciò a esaminarla. Quando le sue dita fredde le toccarono la pelle, Alex rabbrividì istintivamente, ma si costrinse a rimanere ferma.

«In effetti c’è un piccolo livido» decretò poco dopo il ragazzo. «Vicino l’attaccatura del collo, ma…» S’irrigidì lievemente.

«Cosa?» chiese Emily preoccupata guardando oltre la sua spalla.

Keiran fece una pausa e poi scosse la testa. «Nulla, non credo sia grave.»

Alex fece per ribattere, quando un rumore alle loro spalle li fece sobbalzare.

«Ma cosa…»

Ren era comparso sulla soglia, completamente spiazzato. Il suo sguardo tetro li esaminò con un ardore che non prometteva nulla di buono. Specialmente quando si focalizzò su Keiran, che ancora teneva le mani sulla pelle nuda del collo di Alex. Dal canto suo, il rosso ebbe la buona idea d’impallidire come se fosse stato preso con le mani nel sacco. Dopotutto, dalla prospettiva di Ren, l’inclinazione del viso dell’irlandese verso di lei poteva essere interpretata in un altro modo.

Alex fu la prima a riscuotersi. Allontanò frettolosamente Keiran e si riabbottonò la camicia, nascondendosi poi sotto la mantella giusto in tempo per l’arrivo degli altri. Nessuno di loro aprì bocca e quel dettaglio la inquietò.

Ren dissolse la distanza che li separava con pochi passi, fermandosi davanti a loro. Quando parlò, il suo sguardo era del tutto concentrato su Keiran.

«Ti lascio qui a tenerle d’occhio e per poco non mi ritrovo sul set di un film porno» sibilò, fulminandolo con lo sguardo.

«Ti sbagli, Alex ha male al collo e le sta comparendo un livido. Stavamo solo controllando» esclamò in fretta e furia Emily, sperando di evitare una tragedia.

Nell’udire quella frase, Ren si bloccò e inarcò un sopracciglio. «È la verità?»

«Da quello che dicono loro sì. Sto bene» rispose Alex con un grugnito.

«Ottimo, perché non ho il tempo di preoccuparmi delle tue ferite di guerra.» Il suo tono duro li stupì.

«Che cosa è successo?» domandò Emily.

Ren la osservò, dopodiché le prese una mano e le posò sul palmo un oggetto che purtroppo conosceva bene.

«Mi dispiace Emily. Leyla è scomparsa.»

La ragazza batté le palpebre, come se non avesse capito bene quella notizia. Si rigirò tra le mani il telefono crepato e solo quando Gregory le depose una mano sulla spalla si rese conto della verità. Incominciò a tremare e lasciò che l’amico l’abbracciasse, come se quel conforto avrebbe potuto migliorare la situazione.

Ren li osservò per qualche istante, per poi riportare la sua attenzione su Alex, mentre il resto della banda andava a cercare un po' di alcool per combattere l’ansia e la paura che li avevano ghermiti. Ma quando incrociò gli occhi della ragazza, rimase di stucco.

Alex stava sorridendo.

 

 

 

 

Prima di tutto, se qualcuno è ancora vivo, vorrei ringraziarlo di essere arrivato fin qui.

Posso capire la vostra delusione; un capitolo scritto con la peste nera in corpo è alquanto sgradevole (anche se in effetti con la peste ho solo narrato le battute di caccia verso gli unicorni capitanate dal pacco di Bowie), ma consideratolo come un regalo, una sorta di dono per rendervi più piacevole ciò che ne seguirà. Ormai vi ho lanciato talmente tante briciole di pane da poterci fare dei canederli. L’unica cosa che manca in tavola, a parte i piatti e le posate, sono i cadaveri. Ed essendoci più spiriti che ragazzi, direi proprio che si potrebbe definirlo un episodio di “A cena con il morto”.

Vi anticipo già che nel prossimo capitolo non vedremo, sfortunatamente, Dean e Sam entrare in azione. E nemmeno i Ghostbusters, sia vecchi che nuovi. Anzi, non vedremo proprio nessuno venire in soccorso della povera combriccola, che ha più problemi interni che altro.

Tuttavia, un santo farà la sua apparizione, declamando finalmente la differenza sostanziale tra un vibratore in una fiction e un vibratore nella realtà.

Alla prossima.

 

P.S. Ovviamente ringrazio con tutto il mio cuore deforme chiunque abbia lasciato una recensione e messo la storia nelle proprie liste. Se sopravvivrete a questo avrete tutta la mia stima.

 

 

 

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Capitolo 10
*** 7 ***


7.

 

 

 

E

ra soffocante. Malgrado l’aria derelitta che le riempiva i polmoni di polvere a ogni respiro, nel frangente di tempo in cui era rimasta sola con Emily e Keiran, il salotto le era quasi parso accogliente; un luogo caldo e tranquillo. Quel fragile equilibrio si era tuttavia infranto con il ritorno dei ragazzi. Con loro, un’atmosfera tesa e impregnata di paura era discesa nella sala come un velo opprimente, ricoprendo ogni angolo, ogni dettaglio. Si era avviluppata al suo corpo, facendole formicolare la pelle con fastidiosa insistenza. Da allora, Alex si sentiva accaldata, nonostante il freddo che s’insinuava attraverso i muri marci della villa. La presenza di altri individui che si muovevano attorno a lei senza uno scopo preciso la faceva sentire accerchiata e intrappolata. Il bisogno di uscire da lì, dapprima solo una sensazione irritante, si fece sempre più intollerabile.

Strinse i pugni, cercando di calmarsi. Alla fine, c’erano pur sempre delle buone notizie nell’aria.

Una pecorella aveva smarrito la strada per l’ovile.

E i lupi l’avevano ghermita nelle loro fauci.

Fremette. Le sue mani ebbero un leggero spasmo. Protetta dal cappuccio della mantella, Alex si ritrovò a sorridere. Gli eventi si erano messi in moto; il gioco era iniziato e chiunque fosse il loro avversario aveva già attuato la propria mossa. Mentre loro…

Voltò lo sguardo colmo di disappunto. Seduta al suo fianco sull’imbottitura logora del divano, Emily continuava a rigirare tra le dita il cellulare di Leyla con gesti meccanici. Ormai non lo guardava nemmeno; si limitava a osservare il vuoto davanti a lei, lo sguardo vacuo. Sarah, in equilibrio sul bracciolo, si limitava ad accarezzarle la schiena e a scrutarla con apprensione.

«Dove l’avete trovato?» mormorò Emily, la voce flebile.

Ren, impegnato in un’accesa discussione con Mark per riuscire a ricostruire i fatti, si bloccò. I ragazzi si voltarono entrambi nella sua direzione. Persino John e Dakota, rimasti in disparte accanto al caminetto, si azzittirono e attesero una risposta.

«Al primo piano, vicino la zona del dormitorio» rispose Mark, l’espressione colpevole che gli ammorbidiva i lineamenti del volto. «Non faceva altro che lamentarsi, per cui l’abbiamo preceduta e un attimo dopo puff… sparita. Siamo subito ritornati indietro e abbiamo trovato il suo cellulare per terra.»

«Mi dispiace» aggiunse in fretta Sarah. «Eravamo sicuri che fosse dietro di noi.»

«Forse si è solo infilata in una stanza per smaltire la sbornia» meditò Gregory, ma Mark scosse il capo. «Abbiamo guardato ovunque, ma non c’era alcuna traccia della sua presenza.»

Alex si lasciò sfuggire un sospiro. Proprio si capacitava della loro preoccupazione. Senza Leyla, le loro probabilità di uscire da quella casa infestata si erano alzate di molto, quindi perché angosciarsi tanto invece di elaborare un piano di fuga?

«Beh, andate a cercarla con una bottiglia di vodka alla fragola» commentò alla fine, esasperata da quegli sproloqui. «Se la lanciate in aria magari lei comparirà all’improvviso prendendola in bocca.»

I ragazzi si azzittirono. Improvvisamente al centro dell’attenzione, Alex si accorse dello sguardo esterrefatto che Emily le rivolse. «Alex! Leyla non è un cane.»

In tutta risposta, si limitò a ricambiare il suo sguardo con un sopracciglio alzato in modo plateale.

Emily strinse le labbra, per poi scuotere il capo. «Sei davvero scorretta quando fai così…»

«Little Bunny! Così mi offendi!» sbottò lei. «Quando mai sono stata corretta?»

«Ok, ora basta!» Ren si mise in mezzo, posizionandosi davanti a Emily con un’espressione scura in volto. Sentendosi minacciata dalla sua presenza, la ragazza sembrò sprofondare ancora di più sul sofà.

«Tu, a cuccia!» esclamò Ren rivolto verso Alex, che aveva appena spalancato la bocca per ribattere o per ringhiare a difesa dell’amica. «Emily, presta attenzione qui» continuò, schioccando le dita davanti alla bionda. «Ho bisogno di saperlo e sii sincera. Quanto sei legata a tua cugina?»

Quella domanda la prese in contropiede. Emily lo guardò con occhi sgranati e confusi, incerta su come rispondere, più preoccupata delle implicazioni della sua risposta che dell’effettiva realtà dei fatti.

«Ren, non mi pare il caso…» intervenne Gregory, ma il ragazzo si limitò a liquidarlo con un gesto della mano, gli occhi ancora puntati sulla ragazza.

Alla fine, Emily sospirò.  «Beh, in realtà non molto. Però…»

«Ottimo, possiamo concentrarci su altro.» Ren batté le mani, ignorando completamente il resto della frase. Richiamò l’attenzione generale mettendosi al centro della sala, senza badare all’occhiata di fuoco che la ragazzina gli rivolse. Mark, Dakota e John furono subito al suo fianco, mentre il resto dei ragazzi si accomodò accanto al divano. Nonostante fossero accomunati dal medesimo destino, la divisione netta dei due gruppi era palpabile, così come l’elemento discordante. Dal canto suo, Alex si limitò a scoccare a quel raduno uno sguardo annoiato, pronta a udire l’ovvietà.

«Non ci sono modi più gentili per dirlo» sospirò Ren, passandosi una mano sul collo. «Per cui ecco la nostra attuale situazione: siamo bloccati qui, isolati, senza alcun modo di comunicare con l’esterno. La nostra migliore alternativa è quella di rimanere in questa stanza e aspettare il mattino, quando ormai sarà chiaro della nostra scomparsa. Se siamo fortunati, qualcuno avvertirà la polizia e saranno loro a occuparsi di Leyla.»

«Scusate l’interruzione, ma non credo sia così semplice» sentenziò Gregory, facendo un passo avanti. «Nessuno di noi ha riferito ai propri genitori quale fosse la nostra destinazione e inoltre Keiran e Leyla erano attesi alla festa di Jason. A meno che non abbiate detto ai vostri amici che eravate diretti qui, dubito che i soccorsi arriveranno in fretta. Per loro potremmo essere ovunque.»

Dakota scoccò uno sguardo spaventato a John, il quale scosse il capo. Dunque era vero. Nessuno dei loro conoscenti era a consapevole del loro programma di passare la notte a Pennington Mansion.

«Non potremmo semplicemente appiccare un fuoco da qualche parte?»

Molteplici sguardi si voltarono verso Mark. Aveva parlato con sufficienza, nonostante avesse infilato le mani nelle tasche dei jeans per non lasciar intravedere il loro tremore. Notando la reazione generale, si schiarì la gola. «Voglio dire, un fuoco risulterebbe visibile anche da lontano, per cui qualche passante chiamerà istintivamente i vigili del fuoco. Risparmieremo un sacco di tempo.»

«E nel frattempo rischieremo di morire asfissiati o bruciati. No, grazie» commentò Dakota, incrociando le braccia al petto.

«Perché, preferisci rimanere qui a non far nulla?»

La ragazza strinse le labbra, stranamente sulla difensiva.

Alex chiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro. Tutte quelle chiacchiere non erano di nessun aiuto. Inspirò profondamente, cercando di ignorare il fastidioso brusio che le faceva pulsare i timpani. La tensione nel suo corpo si stava accumulando sempre di più. Si voltò e aprì gli occhi, accorgendosi dell’espressione pensosa che Keiran aveva assunto al suo fianco. Non lo conosceva così intimamente da catalogare le piccole variazioni del suo volto in base alle emozioni, ma dallo sguardo fisso e dalla piccola ruga d’espressione apparsa al centro della sua fronte, stava certamente ponderando qualcosa. Inoltre, non era nella sua natura ilare rimanere in silenzio per un tempo così lungo senza risultare preoccupante.

Il ragazzo tese il braccio ammaccato, aprendo e chiudendo il pugno per essere certo di essersi ripreso, per poi accorgersi del suo sguardo. Keiran si voltò e la guardò con un’espressione a lei estranea. Alex dischiuse le labbra, stupita da quella reazione, ma prima ancora di riuscire a darle un nome, il ragazzo aveva già rivolto la sua attenzione verso Ren.

«Che cosa intendi con “siamo bloccati qui”? Vuoi dire che non ci sono vie di fuga o che non possiamo crearne?»

Ren interruppe il suo sproloquio e lo scrutò sospettoso. «C’è differenza?»

«Rispondi e basta.»

Nel vedere il scetticismo sul volto del ragazzo, fu Gregory a farlo al posto suo. «Abbiamo provato a infrangere una delle finestre al piano superiore, eppure non siamo riusciti a procurarle nemmeno la più piccola scalfittura.»

«Capisco…» mormorò Keiran, per poi alzare lo sguardo per scrutare tutti i presenti. «Potete dirmi che ore sono?»

«E questo che c’entra?» chiese Emily, dando voce al pensiero comune.

«Assecondatemi» mormorò, in un tono stranamente gentile quanto agghiacciante.

Nonostante la confusione generale, tutti obbedirono ed, eccetto Alex, estrassero i loro cellulari. Quando confrontarono l’orario che spiccava sui loro schermi, un silenzio opprimente cadde nella stanza. Sotto lo sguardo shockato dei ragazzi, le cifre erano le medesime: 23.15.

L’ora in cui era stata in atto la seduta.

Keiran soffocò un’imprecazione tra i denti. «È come temevo.»

«Spiegati meglio» sbottò Ren.

«Non siamo bloccati qui. Siamo stati intrappolati.» Ignorando il sussulto di Emily, Keiran prese a camminare per la stanza, tradendo il suo nervosismo. «Avevo sentito storie di spiriti così potenti e antichi da riuscire a rinchiudere le loro vittime nei meandri dei castelli abbandonati per poi… cibarsi della loro essenza. Non avrei mai pensato di finire sul menù di uno di loro, benché meno sul suolo americano» finì di spiegare con un certo disappunto.

«E come facciamo a liberarci, Signor Esperto?»

Keiran trattenne uno sbuffo e si pizzicò il setto nasale. «Non possiamo fare proprio niente. Solo lo spirito che ha creato la barriera può discioglierla, oppure…  potremmo provare a esorcizzarlo. Non sarà semplice, però è pur sempre una soluzione.»

I ragazzi si scambiarono diversi sguardi confusi e preoccupati, ma fu Gregory a parlare per primo. «Keiran. Che cosa succederà se non ci riusciamo?»

Il ragazzo si limitò a scuotere le spalle. «Allora rimarremmo bloccati qui finché non moriremo. O peggio.»

 

 

 

Scoppiò un putiferio.

Per un momento, Alex aveva davvero contemplato la possibilità di cavarsela senza troppi problemi, ragionando sul da farsi ed elaborando un buon piano contemplando ogni imprevisto possibile insieme agli altri. Ma dopo pochi istanti, si ritrovò a chiudere gli occhi, immaginandosi seduta nella sua tavola calda preferita, con davanti uno sfarzoso hamburger doppiamente farcito e un zuccheroso milkshake alla fragola. Con panna.

Tutto, pur di isolare il caos che la circondava.

I ragazzi parlavano contemporaneamente, mangiandosi le parole a vicenda. Alcuni di loro sommersero Keiran di domande, mettendolo in difficoltà, finché una voce non superò il caos.

«Fermi tutti!» tuonò John, improvvisamente pallido nonostante la carnagione scura.

Al suo fianco, Mark sbuffò. «Che c’è ora?»

«Che c’è?» controbatté il ragazzo, lo sguardo stralunato. «Sono nero, fratello. So come vanno queste cose e per me non si mette bene.»

«Come se per noi andasse meglio!» Dakota sbatté i piedi per terra, gli occhi che le luccicavano.

Ren si stropicciò la faccia con una mano. «Beh, John. Direi che oggi è il tuo giorno fortunato. L’oca bionda ti ha surclassato e ha ottenuto il primo posto nella lista delle vittime. Dopo il nero chi viene? Il secchione o lo sportivo? Gregory, preparati…»

Nell’udire quell’insinuazione, Emily scattò in piedi dirigendosi verso di lui, stringendo i pugni come se fosse sul punto di picchiarlo. «Rennis! Sul serio?»

Lui si limitò a fare spallucce. «Beh, perché preoccuparsi? Abbiamo il nero, il fattone, lo scheletro ambulante, il secchione, la cinese, l’irlandese uscito da un libro di fiabe e sua Asprissima Altezza del regno di Menefreghismolandia con al seguito la sua depravata fata madrina. Direi che c’è solo l’imbarazzo della scelta. Meglio di un buffet all you can eat.»

Sarah fischiò lievemente, sorpresa quanto lieta del fatto che il ragazzo non l’avesse scambiata per una coreana o una vietnamita, sebbene fosse l’unica a non sembrare offesa da quel commento. I suoi amici non la presero affatto meglio.

In tutto quel trambusto, Alex si limitò a stiracchiarsi, lanciando al ragazzo uno sguardo di sufficienza. Le mani le fremevano così tanto che per un attimo temette di perdere il controllo di sé e di scagliarsi contro di lui. Si stava avvicinando al limite. «E tu saresti il bel principe del reame di Stronzolandia?»

Ren si voltò verso di lei, rivolgendole un sorriso sghembo. «Oh, quindi sono bello? Che ne dici di una negoziazione orizzontale per unire i nostri due regni?»

«Preferirei seguire l’esempio di Tepes¹ e ridecorare il giardino» mormorò in risposta, senza una qualsivoglia di sentimento nella voce.

Gregory si mise fisicamente tra loro, fulminando entrambi con lo sguardo. «Ok, ora basta. Cerchiamo di rimanere seri! Dobbiamo elaborare un piano.»

Per un momento, Alex sentì l’impulso irrefrenabile di abbracciarlo, tanto che si dimenticò completamente della presenza di Ren. Finalmente!

«Esatto. Greg ha ragione» assentì Emily. A poco a poco nella stanza tornò la calma, mentre ognuno di loro cercava di ragionare sul da farsi. Fu la ragazzina a incominciare a esprimere le proprie idee. «Per prima cosa dobbiamo trovare…»

Trovare una mappa dello stabile in modo da potersi orientare come si deve. Citò mentalmente Alex.

«…del sale» concluse la bionda.

Dapprima Alex annuì, convinta di aver sentito bene, ma quando si rese conto di ciò che era uscito dalle labbra dell’amica, sbatté le palpebre cercando di allontanare la propria confusione.

«Del sale? E a cosa ci servirebbe?» chiese Mark, sorpreso così come la maggior parte di loro.

«Dobbiamo metterlo sulle porte in modo da formare una linea, così gli spiriti non possono oltrepassarlo e raggiungerci» spiegò pratica Emily con un’espressione seria. «E poi…»

Cercare indizi per capire che cosa è accaduto veramente tra queste mura. Continuò Alex.

«Ci servirà anche del ferro allora» sentenziò Sarah. Emily s’illuminò e, accorgendosi della loro intesa, le diede il cinque.

«Ma che…» Dakota scosse la lunga chioma nera, completamente spiazzata.

«Qualcuno ha visto troppi episodi di Supernatural» sentenziò Ren con un sospiro, per poi voltarsi verso Keiran, che era leggermente sbiancato. «Signor Esperto, dici che potrebbe funzionare?»

Tentare un contatto con i locali e scoprire che cosa li tiene legati a questo posto. Finì di elencare Alex, annuendo soddisfatta, senza destare alcun sospetto. Poi il suo sguardo si rabbuiò. Protetta dal cappuccio della mantella, si morse l’interno della guancia. La sua priorità rimaneva sempre la stessa.

Il rosso sospirò e assentì nonostante non sembrasse del tutto convinto. «Considerando che molte delle idee sviluppate in quel genere di telefilm provengono da antiche credenze popolari, direi che sì, dovrebbe andare. Per il ferro non credo ci siano problemi, ma come ci procuriamo del sale?» Il dubbio di Keiran si propagò per la sala.

«Controlleremo la dispensa e mal che vada dovremmo accontentarci di giocare a baseball con gli attizzatoi» commentò Ren, massaggiandosi le tempie.

«E, dato che ci siete, potete anche provare a bruciare del rosmarino e dell’alloro² se li trovate.»

Tutti si voltarono verso Alex. Aveva parlato con noncuranza, continuando a rimanere spaparanzata sul divano in un atteggiamento che rasentava l’annoiato. Tuttavia, i suoi occhi continuavano a sondare la sala con intensità, saettando tra i ragazzi senza mai soffermarsi troppo su ognuno di loro. Erano rivolti quasi sempre in una sola direzione.

«Sei sicura?» le chiese Emily, un sopracciglio alzato.

Alex fece spallucce. «L’ho letto in un libro di erbologia.»

«Ok, ma per l’esorcismo?» domandò John. «Potremmo anche trovare qualcosa per difenderci, ma come facciamo a sconfiggere ciò che ci tiene bloccati qui senza un’adeguata formula?»

A quella domanda, Alex si paralizzò. Non appena sentì lo sguardo di Emily posarsi su di lei, capì quello che stava per accadere e incominciò a sudare freddo. Doveva evitarlo, a tutti i costi. Non poteva permettersi altri contrattempi e fare parte di quel piano strampalato equivaleva a farsi incatenare in quella topaia finché qualcuno non avrebbe rinvenuto il suo cadavere in pieno rigor mortis completo di gestacci. Fece per aprire la bocca, la risposta che fremeva sulla lingua, ma Emily fu più veloce.

«Alex conosce il latino! Ha frequentato una scuola cattolica quando era piccola, per cui è perfetta.»

La blasfemia che le rimase incastrata in gola rischiò di strozzarla.

«È vero, l’ho sentita!» Infierì Mark, mentre Alex tossiva. «Com’era quella cosa? …Ipa benana… Ipsa vebibas…» continuò puoi, l’espressione concentrata del suo viso poteva risultare comica.

«Ipse venena bibas³» tossì Alex, incapace di trattenersi oltre. Il sangue, che fino a quel momento le era bruciato nelle vene, s’incendiò. Una pulsazione fastidiosa le fece contrarre il sopracciglio involontariamente.

«Esatto!» Mark annuì soddisfatto, per poi replicare l’espressione confusa dei suoi amici. «Che vuol dire?»

Alex lo guardò con un’espressione svuotata. «È un frammento proveniente dalla Croce di San Benedetto. Chiunque conosce quella formula.»

Mark si limitò a osservarla in silenzio, così come gli altri. Emily la guardava colma di aspettativa, pronta a carpire qualsiasi informazione utile, mentre Sarah aveva già recuperato il suo block-notes. Solo Keiran sembrava avere qualche speranza. Vedendola in quello stato, Ren si era allontanato rispetto alla sua posizione, probabilmente per evitare di far notare a tutti il suo disperato tentativo di non scoppiare a ridere.

Alex gemette. «Vade retro, Satana?»

Nell’udire tale informazione, i ragazzi annuirono come se fosse ovvio.

«Ah, L’esorcista! Perché non l’hai detto prima?» Commentò John.

Alex rimase in un religioso silenzio; qualcosa dentro di lei si spense.

«Bene. Direi che è fatta» sentenziò vittorioso Mark, nonostante le espressioni dubbiose di Keiran e Gregory, ancora concentrati sulla ragazza.

«Direi esattamente l’opposto.» Alex si alzò, sgranchendosi le gambe. Non perse tempo a considerare le occhiate confuse che le rivolsero e andò a recuperare la sua borsa.

Mark si mise sulla sua strada. «Cosa vorresti dire?»

Lanciandogli un’occhiataccia, Alex lo scansò e si concesse un attimo di tempo per controllare che ogni cosa fosse al suo sposto. Soddisfatta, s’infilò la tracolla sotto la mantella e si diresse verso la porta.

«Non contate su di me per questa pagliacciata. Me ne chiamo fuori.» Fu la sua unica risposta.

A quel punto, Mark la bloccò fisicamente afferrandola per un braccio. Lo sguardo di Alex si posò prima sulla mano che l’aveva fermata, per poi risalire e indugiare sul viso del ragazzo. Non sembrava arrabbiato; dall’espressione del suo volto risultava solo stupito, quasi scioccato. In quello stato le parve quasi tenero e ciò le permise di non saltargli addosso nel tentativo di ucciderlo.

«E quindi non ci aiuterai?» le chiese lui. «Ma siamo tutti sulla stessa barca, insomma… non siamo amici? Non dovremmo cooperare?»

Agitando il braccio, Alex si liberò della sua presa, ma non si mosse. Avvertiva su di sé gli sguardi di tutti e capì la loro silenziosa richiesta. Aiutarli avrebbe significato molte cose, nessuna delle quali rientrava nel suo programma. Né nei suoi desideri. O nei propositi per l’anno nuovo. Rimanere nelle retrovie ad attendere che qualcuno compisse una decisione sbagliata era più rischioso che procedere in prima linea dritto fino al nemico. Fremette. Qualcosa dentro di lei si sciolse e, prima ancora di rendersene conto, si ritrovò a ricambiare Mark con un sorriso talmente teso da farle dolere i muscoli facciali.

«Non ci penso proprio» esclamò. «Noi non siamo amici. Anzi, non vi reputerei nemmeno conoscenti se non per etichettarvi sotto la categoria di persone moleste e irritanti. Per cui non vi devo alcunché, figuriamoci un aiuto. E ora, se volete scusarmi…»

Non appena ebbe dato voce ai suoi pensieri, si sentì molto più leggera, come se si fosse liberata dal groppo che l’aveva infastidita per tutta la sera. Ignorando le espressioni scioccate che incontrava al suo passaggio, si diresse verso la porta, pronta ad andarsene. Tuttavia, qualcun altro fu di tutt’altra idea.

«Alex, aspetta!»

Alex si voltò verso Emily, rivolgendole uno sguardo rassicurante. «Non preoccupatevi. Per il momento rimanete con loro. Verrò a prendervi quando…»

«…Quando riuscirai a uscire da qui» concluse Ren per lei. Scosse il capo, esasperato, soprapponendosi tra lei e la sua meta. «Per quanto vorrei io stesso prenderti a calci per sbatterti fuori, è troppo pericoloso e tu lo sai bene. Qualsiasi strampalata idea tu abbia in mente, scordatela. Non funzionerà mai.»

Alex si limitò a osservarlo impassibile.

«Ma io non corro alcun rischio» inclinò il capo. «E nemmeno tu a quanto sembra. Sentiti rincuorato. Di solito nei film horror sopravvivono i personaggi più inutili. Quindi non hai nulla da temere.»

«Ragazzi siamo seri. Qui potrebbe morire qualcuno. E Alex, concordo con Ren!»

Alex si voltò verso Gregory, quasi emulando lo sguardo sorpreso di Ren. Mark e Dakota, invece, si limitarono a osservare la scena con astio mal celato.

Alex sospirò, coprendosi gli occhi con una mano. «Dei, non credevo di essere morta durante la possessione e di essere costretta a rimanere intrappolata in questa stanza per l’eternità. Dov’è un ufficio reclami quando serve?»

Ren le si avvicinò, costringendola ad arretrare per non scontrarsi fisicamente con lui, allontanandosi così dalla porta. «Ora smettila di comportarti in modo infantile e lasciaci fare la nostra parte.»

«Non credo che questo abbia qualcosa a che vedere con te» sentenziò lei.

«Non costringermi a ricorrere alle maniere forti.»

«O cosa? Mi legherai? Mi chiuderai a chiave da qualche parte? Ah, no. Aspetta. Lo stai già facendo.» Incrociò le braccia al petto. «Dovrai impegnarti un po' di più per intimidirmi.»

Un pigro sorriso sghembo illuminò il volto di Ren. «Non preoccuparti di questo. Ho in mente cose ben peggiori se ti ostini a fare di testa tua. Non costringermi a usare una ball gag per farti star zitta.»

Alex si bloccò, tant’è che si ritrovarono a un respiro di distanza l’uno dall’altra. Tra di loro, l’atmosfera era carica di elettricità, al punto che per un istante Emily decise d’intervenire. Stava per scattare ai due una foto con il cellulare, sotto lo sguardo curioso di Sarah, quando un urlo fece sussultare i presenti.

«Basta! Non ne posso più!»

Alex e Ren si voltarono verso Dakota, entrambi con una smorfia annoiata dipinta in faccia.

La ragazza era sull’orlo delle lacrime. «Non è giusto! Questa notte doveva essere speciale! Avevo già programmato ogni cosa! E invece siete comparsi voi e…» si morse il labbro inferiore.

«Che cosa intendi?» le chiese Mark, aggrottando le sopracciglia.

Dakota emise un verso stridulo. «Io e Ren… Io e Ren avremmo dovuto farlo, mentre voi sfigati ci stavate dando dentro con l’alcool. Ed ecco che è tutto svanito nel nulla! E per di più lei…»

Tra tutti, quello più perplesso era proprio Ren.

«Io?»

Dakota lo raggiunse, nascondendo il viso sul suo petto.

«Non è giusto. Ma io…»

Si bloccò quando Ren l’afferrò per le spalle e l’allontanò da sé infastidito. «Dakota, io non voglio fare sesso con te» disse senza troppi preamboli. «Seriamente, bambina. Credi che dopo esserti ripassata Frank e John la settimana scorsa avrei davvero contemplato l’idea di concludere qualcosa? Ma per favore…»

Tra l’imbarazzo di John e la crisi isterica di Dakota, Ren sembrava del tutto a suo agio, al contrario degli altri spettatori di quella squallida soap opera. Mark ribolliva di rabbia, Gregory e Keiran erano visibilmente a disagio, mentre Emily e Sarah erano così concentrate su ciò che stava accadendo da non accorgersi che lo sguardo di Alex andava in tutt’altra direzione rispetto ai loro. Non si scompose nemmeno quando la ragazza cercò di graffiare Ren per la rabbia e l’umiliazione, né distolse lo sguardo dal soffitto quando lui sghignazzò divertito da quell’attacco.

«Mettiamo le cose in chiaro una volta per tutte. Io non sono un vibratore che puoi usare a tuo piacimento. Vallo a comprare nel negozio cinese vicino casa tua se proprio ne hai bisogno, ma io ho dell’amor proprio. Mannaggia a voi ragazze e alle fantasie pornografiche che vi regalano quei libri assurdi che vi ostinate a leggere! Abbiamo ben altre priorità qui! Ricordi? Leyla sparita, fantasmi ovunque? E dire che sei stata tu a narrare la storia, dovresti saperlo meglio di chiunque altro che non abbiamo tempo per queste cazzate.»

Senza dargli il tempo di finire il suo sproloquio, Dakota scoppiò in lacrime e si diresse di corsa fuori dal salotto, scomparendo alla vista.

Nella stanza cadde un silenzio teso, finché Ren non sbuffò sonoramente.

«Perfetto. Qualcun altro? Così possiamo giocare a nascondino e il primo che trovo lo strozzo con le mie mani.»

«Dobbiamo correrle dietro prima che si faccia ammazzare!» sbraitò Mark, pronto a uscire, finché non si rese conto che l’attenzione di Ren era da tutt’altra parte.

Il ragazzo si rivoltò verso Alex, per poi gemere dallo sconforto.

«Smettila di fare così.»

Lei sussultò. Distolse lo sguardo e per poi voltarsi verso di lui con un’occhiata apatica. «Fare… cosa?»

Ren alzò un braccio e la indicò con un gesto sbrigativo della mano. «Questo.»

Alex si limitò a inarcare le sopracciglia

«Ti comporti come se non te ne importasse nulla.»

«Forse perché è così?» sbuffò sonoramente in risposta. «Avete finito? Posso andare ora?»

«No!»

«Ren! Dakota è…!»

«Mark, parlaci tu con tua sorella, per l’amor del cielo!»

«Ragazzi, calma…» esortò Keiran, cercando di rabbonire gli animi. «Non dobbiamo dimenticarci dell’obiettivo primario…»

«Esatto!» concordò Emily. «E poi Leyla è ancora là fuori da qualche parte.»

Alex si avvicinò alla porta rimasta socchiusa dopo l’uscita di scena di Dakota. Fece per afferrare la maniglia, ma poi si bloccò. Girandosi, puntò la sua attenzione su Ren.

«Hanno ragione, Ren. Avete delle priorità a cui badare e poi credo che ognuno debba risolvere da solo i propri problemi. E tu ne stai accomunando davvero molti.»

Il ragazzo la fulminò con lo sguardo. «Alex, non ti azzardare…»

«Perché?» lo sfidò.

«Perché? È ovvio che qualcosa c’è l’abbia con te! E tu…»

La smorfia di Alex le illuminò il volto come una ferita. «Allora non dovrai temere alcun male. Dopotutto… non sono un tuo problema!» tuonò alla fine, oltrepassando la soglia.

Ren si gettò verso di lei, pronto a ghermirla. I loro occhi s’incrociarono per una frazione di secondo, colmi di una rabbia incontrollata pronta a esplodere. Poi la porta si chiuse improvvisamente tra di loro con un tonfo talmente forte da farla balzare all’indietro.

Alex incespicò, osservando esterrefatta l’uscio che si scuoteva, completamente paralizzata da quell’evento improvviso. La maniglia continuava a girare a vuoto, mentre le imprecazioni di Ren e le urla colme di panico di Emily riempivano l’aria come singhiozzi soffocati.

Si concesse qualche respiro profondo, dopodiché voltò lo sguardo.

Li ignorò.

«Questo sì che è conveniente» mormorò tra sé, mentre scrutava il corridoio nella penombra. La luce delle lampade a muro tremolava fievolmente, per poi acquietarsi di colpo. Una risata infantile risuonò nell’ombra.

Inclinò il capo socchiudendo gli occhi. La pelle iniziò a formicolarle nell’udire quei sussurri.

Alzò nuovamente lo sguardo verso il soffitto, le pupille ridotte a due fessure.

«Sì, si stanno muovendo…» mormorò.

Ritornò a fissare l’oscurità che incombeva su di lei e passo dopo passo vi si inoltrò. Un sorriso spietato le illuminò il viso. Finalmente… La libertà aveva un sapore così dolce.

 

 

 

Nel buio, quella melodia mormorata tra le labbra chiuse risuonava tra gli ambienti deserti. Una cadenza di note antiche come una leggenda. La bambina continuò a dondolare le gambe, seduta sull’orlo della voragine e incurante del vuoto che incombeva su di lei. Tra le mani, teneva aperto un vecchio diario consunto. In alcuni punti, l’inchiostro della penna risultava sbiadito a causa del tempo, ma a lei non importava. Sapeva a memoria il suo contenuto, la sua storia, le sue memorie. Aveva visto nascere quel racconto, l’aveva guidato durante la sua stesura e ne era diventata parte. Parte di una favola dove il lupo mangia a uno a uno gli agnelli per poi giacere sopra le loro ossa.

Le sue labbra si tesero in un lieve sorriso e smise di cantare. Accarezzò le pagine con la punta delle dita pallide e poi richiuse il diario. Se lo portò al petto e si alzò, andando a riporlo al sicuro dentro al baule. Ci sarebbe voluto ancora qualche tempo, ma ne era convinta.

Richiuse il coperchio. Dietro di lei, Dorian la guardava con palese disappunto. I suoi occhi neri erano pozzi di tenebra.

Dahlia inclinò il capo, lo sguardo lontano così simile al fratello, in ascolto.

… Si sta muovendo…

Si voltò verso il fratello. Lui non si mosse.

…Perché?...

…Non dovremmo. Lo sai…

…Ha solo bisogno di tempo…

…E poi?...

Dahlia accarezzò il coperchio del baule.

…Poi noi fermeremo…

Si bloccò. Un movimento improvviso fece voltare entrambi i gemelli verso l’oscurità che li avvolgeva. Seppur incerta, quella presenza avrebbe potuto compromettere tutto. Rimasero in silenzio, i sensi in allerta pronti a captare ogni altra anomalia. Alla fine, Dorian prese per mano la sorella.

…Dobbiamo andare…

 

 

 

 

¹ Vlad Tepes, conosciuto come l’Impalatore.

² Secondo antiche credenze, il rosmarino possiede potenti proprietà terapeutiche e allontana gli spiriti maligni, oltre che spezzare maledizioni. Stessa cosa vale per l’alloro che, se bruciato, purificherebbe gli ambienti.

³ Tradotto: bevi tu stesso i tuoi veleni.

 

 

 

 

 

Alleluja!

Finalmente incominceranno ad apparire i cadaveri! Non vedevo l’ora.

Io stavo schizzando male, Alex pure, Ren altrettanto, quindi party hard :3

Scherzi a parte, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento. Purtroppo tra la peste che mi percula e ritorna a bussare alla mia porta, impegni vari e momenti di sconforto, ci ho messo un po', ma come potete vedere è abbastanza chilometrico. Sono, tuttavia, incerta su alcuni punti, quindi sentitevi pure liberi di dire che è una merda ahahah

Vi anticipo già, che i prossimi due capitoli saranno temporalmente uguali. Un po' come nel capitolo 6.

In uno vedremo il tentato stupro di Ren, nell’altro misteri misteriosi.

Sono troppo teneri, lo so :3

Ringrazio tutti coloro che hanno messo questa storia nelle loro liste e lasciato una recensione ^^

Avviso: a fine mese ho la conclusione di due contest, per cui il prossimo aggiornamento potrebbe risentirne. Cercherò ovviamente di fare del mio meglio, ma per sicurezza ho voluto avvertirvi.

Vi auguro un buon weekend e alla prossima 😉

 

 

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Capitolo 11
*** 8 ***


8.

 

Eeeeeeeh I’m back, Bitches!

Quanto tempo, lo so. Vi sono mancata?

Vi chiedo perdono per essere sparita in questi mesi a causa di problemi di varia natura, ma grazie al cielo sono riuscita a recuperare un po’ di materia grigia per continuare a scrivere.

Spero che, nonostante tutto, il capitolo vi piaccia.

Buona lettura.

 

 

A

nsante, Ren indietreggiò di qualche passo. Emozioni contrastanti turbinavano nel suo corpo, lasciandolo intontito e sconcertato. Destabilizzato dagli ultimi avvenimenti, rimase a osservare sconfitto la porta che lo separava dalla sua preda. Le spalle e le braccia gli dolevano a causa dei colpi con cui aveva provato a sfondarla ma, nonostante i suoi sforzi, questa non aveva ceduto di un millimetro, rallentandolo. Ormai erano passati diversi minuti, troppi, da quando si era interposta tra loro. Malgrado la palese ostinazione, sapeva in cuor suo di essere del tutto impotente e ciò lo faceva profondamente incazzare. Stringendo i pugni fino a far scricchiolare i mezzi guanti di cuoio consunto che gli avvolgevano le mani, digrignò i denti prima di accanirsi nuovamente contro la maniglia arrugginita e inceppata. «Non provarci nemmeno Alex! Osa muovere il tuo culo da lì e vedrai che cosa ti farò se ti prendo! Mi hai sentito?» inveì, sperando che le sue minacce trapassassero il legno consunto.

«Ren…» Il lamento di Emily gli giunse alle orecchie ovattato, flebile. Lo ignorò.

«Preparati, perché…»

«Ren, ora basta. Se n’è andata» sbottò Keiran, abbastanza forte da oltrepassare la nebbia che gli offuscava la mente e fargli capire che stava offrendo ai presenti uno spettacolo ben più che pietoso.

Con un brontolio sommesso, Ren si arrese. Controvoglia, fece per allontanarsi dalla porta, quando un lieve cigolio proveniente dalla serratura lo distrasse. Arrabbiato e allo stesso tempo stupito, allungò una mano e la maniglia si abbassò docile sotto la sua presa. La porta si aprì, rivelando un silenzioso e vuoto corridoio. La richiuse con un moto di stizza, facendola tremare violentemente. «Non ci credo…»

«Wow, è bello scoprire quali siano le tue priorità.» La voce di Mark risuonò così carica di risentimento che non poté fare a meno di rivolgergli un’occhiata sprezzante. Appoggiato accanto al caminetto, il ragazzo l’osservava cupo, gli occhi che brillavano dalla rabbia mal celata.

«Disse colui che aveva il semplice compito di tenere d’occhio una ragazzina ubriaca.» Ren si allontanò dall’uscio per fronteggiare il compagno, ignorando la preoccupazione esibita sui volti degli altri. «E poi, scusami se non voglio entrare nelle mutande di tua sorella, ma non è questo il punto.»

«Ah, sì? Prego, illuminaci Fauster

Ren ricambiò lo sguardo di sfida del ragazzo e fu allora che, con sua sorpresa, se ne accorse. Si frequentavano da quasi tre anni ormai, eppure non erano mai entrati in sintonia. Diamine, era già tanto se in quel lasso di tempo erano diventati compagni di sbronze. Per dirla tutta, Ren non era mai stato un tipo da amici; tuttavia, se qualcuno voleva unirsi a lui per portare un po' di caos in quella pacifica città, era più che il benvenuto. Ecco perché non aveva avuto nulla in contrario nel sopportare la presenza di Mark e quella di John, seguite poi da quella seccatura che rappresentava la sua cara sorellina. Sviluppare legami ed entrare in confidenza con qualcun altro che non fosse se stesso era tutto un altro paio di maniche, per cui non si era mai preoccupato di poter ferire qualcuno con il suo atteggiamento. Benché meno se l’ostilità era reciproca. Malgrado ciò, osservando quel viso così famigliare, si rese conto che la fiducia e la leadership che aveva conquistato senza alcuno sforzo si stavano incrinando pericolosamente. E ciò non avrebbe portato a nulla di buono.

«Pensaci un attimo» ribatté Ren con un sospiro, cercando di farlo ragionare. «Dakota è al sicuro, dato che persino lo spirito l’ha ignorata. E lo stesso vale per Leyla. Ciò non si può dire di Alex o hai dimenticato che cosa è accaduto nelle ultime ore? Non stava nemmeno partecipando alla seduta; il fantasma avrebbe dovuto cercare di possedere uno di noi, non lei. Perché attaccarla?»

Mark scosse il capo con irritazione. «Forse perché ha una predilezione per le sociopatiche con manie di protagonismo e un istinto di sopravvivenza pari a zero? Lasciamola fare quello che vuole, noi abbiamo altri problemi!»

Ren strinse i pugni, pronto a rispondere a tono, quando una voce s’intromise nella loro conversazione.

«Alla luce dei fatti, non posso che essere d’accordo con Mark.»

«Gregory!» squillò Emily con la voce acuita dalla sorpresa. Guardò l’amico accanto a lei con un’espressione basita stampata in volto; gli occhi stralunati e la bocca spalancata le conferivano un’aria quasi comica.

«In parte» si corresse subito dopo il giovane. Nervoso, si passò una mano tra i riccioli neri. «Anche se questa situazione non mi piace, Alex è in grado di badare a se stessa. Lo sai com’è fatta e hai visto come ha reagito poco fa. Per quanto sia preoccupato per lei è inutile negare l’evidenza: lavorare in gruppo non è mai stato il suo forte e obbligarla a rimanere con noi non farà altro che peggiorare le cose. Per il momento lasciamole il suo spazio e concentriamoci sulla realizzazione del nostro piano. Abbiamo ben altro a cui pensare.» Il suo sguardo s’ombrò e si voltò a osservare Ren.

«Oh, quindi ora sarebbe colpa mia?» sentenziò lui, rivolgendogli un gestaccio.

«Appoggio Gregory» intervenne Sarah, ignorando l’occhiata colma di rammarico dell’amica. Subito dopo, John la imitò, facendo un cenno col capo.

Nella stanza discese un silenzio opprimente. I ragazzi si osservarono per qualche momento; alcuni in cagnesco, altri dubbiosi e altri ancora semplicemente stanchi e abbattuti. Fu Emily a riprendere esitante la parola. «Quindi nessuno andrà a cercarla?»

«Credimi, Emily. Sarà lei a non farsi trovare» commentò Gregory con un sospiro.

«Molto bene allora.» Ren digrignò i denti, sconfitto. «Emily, Sarah e Keiran andranno a cercare il sale e, nel mentre, terranno gli occhi aperti per Leyla; dubito che sia andata lontano. John e Gregory, a voi il compito di recuperare qualsiasi cosa fatta di ferro. Mark proverà a far ragionare sua sorella e…»

«No, mia sorella è compito tuo. Io ho ben altro in mente.» Nel scorgere il suo sguardo dubbioso, Mark continuò, staccandosi dal muro e camminando verso di lui. «Hai presente quel vecchio fucile che abbiamo trovato mentre setacciavamo lo sgabuzzino?»

«Sì, e non capisco come una vecchia ferraglia possa esserci d’aiuto in questo momento.»

«Beh, con un po' di lavoro potrei riuscire a ripararlo e d’altronde dove c’è un’arma ci sono anche delle munizioni. Ricordati che lavoro part-time nell’armeria del vecchio Frankie» aggiunse in fine, accorgendosi del suo sguardo scettico.

«E dimmi, che cosa te ne farai di un fucile? Dubito che i fantasmi risentano del piombo.» Al contrario delle persone. Concluse mentalmente Ren.

«Non sono così stupido da sprecare pallottole, ma sono dell’idea che sia sempre meglio avere un’alternativa.» Dalla durezza dello sguardo con cui il giovane lo ricambiò, era probabile che avrebbe crivellato lui di colpi se avesse osato ferire di nuovo la sua cara sorellina e non solo. Anche se non gli dispiaceva l’idea di avere un’arma in più a disposizione, Ren non si sentiva tranquillo; qualcosa aveva fatto scattare in lui una sgradevole sensazione. Perché era una certezza che un’arma da fuoco funzionale prima o poi avrebbe sparato un colpo, indipendentemente dal bersaglio prestabilito. E un fucile nelle mani della persona sbagliata…

Si ritrovò a sbuffare. «E immagino che l’ingrato compito di trovare tua sorella spetti a me.»

Mark gli rivolse un sorriso privo d’allegria. «Esatto. E Ren… spero per te che stia bene.»

 

 

 

Dopo aver ultimato i preparativi e aver racimolato il coraggio necessario, i ragazzi lasciarono il salotto come concordato. Si avventurarono in silenzio nel corridoio, procedendo in fila indiana. Visibilmente tesi, i loro occhi sondarono ciò che li circondava con ansia crescente, presi dalla convinzione che un fantasma avrebbe fatto capolino da dietro una porta per spaventarli come in uno sketch dei vecchi film. Sprezzante del pericolo e incurante degli altri, Mark s’incamminò con passo deciso verso la sua meta, separandosi ben presto dal resto del gruppo senza soffermarsi a dire alcunché. Ren tenne gli occhi puntati contro la schiena del ragazzo fin quando la sua chioma bicolore non svoltò l’angolo, incerto su come procedere. Una parte di lui fremeva dal desiderio di raggiungere Alexander, mentre l’altra, la più seccante, lo spronava per una volta a fare la cosa giusta, rendendolo insofferente. Dopotutto, era Dakota la “damigella in pericolo”, non lo sgorbio. Sospirò amareggiato, ma i suoi dubbi ebbero vita breve.  

Erano quasi arrivati all’androne quando si trovò a fermarsi, il viso rivolto verso un corridoio laterale. Non fu la luce intermittente emessa da una lampada difettosa a catturare il suo interesse, né il lieve spostamento d’aria che aveva mulinato la polvere. Ciò che lo bloccò sul posto fu invece il lieve riflesso che colse con la coda dell’occhio. Una traccia minima, quasi invisibile per una persona inesperta. Per sicurezza, Ren riportò lo sguardo sugli altri, scrutandoli mentre continuavano ad avanzare ignari della sua assenza. Senza alcun ripensamento, voltò loro le spalle e procedette a indagare. Dopotutto, cosa poteva mai accadergli di male?

Non dovette compiere più di qualche passo per scoprire l’origine della sua curiosità. Alcune schegge di vetro scricchiolarono sotto il peso dei suoi anfibi quando fronteggiò lo specchio rotto agganciato al muro. Ignorò la pacchiana cornice di metallo ossidato ed esaminò con attenzione il modo in cui la lastra si era incrinata. Il colpo era stato deciso, forte, al punto da sprigionare una ragnatela di crepe sulla superficie opaca e da far cadere a terra i frammenti situati all’epicentro. Il chiaro segno di un pugno. Spostando lo sguardo sul pavimento, si accorse delle gocce di sangue ormai rappreso che decoravano i pezzi caduti.

«Mary Sue… Perché non poteva essere una Mary Sue?» mormorò tra sé e sé con rassegnazione, inchinandosi a osservare le prove del passaggio di Alexander. Non volle nemmeno scoprire il motivo per cui aveva deciso di affibbiarsi sette anni di sfiga e una lettera di protesta da parte di Bloody Mary, santa protettrice degli specchi. D’altronde, preferiva di gran lunga che quello sgorbio sfogasse le sue turbe psichiche contro gli oggetti inanimati piuttosto che con la sua splendida faccia. Il suo viso si contrasse in un sorriso, ma quella scoperta non lo rincuorò come credeva. Qualcosa doveva averla turbata.

Con un sospiro si raddrizzò, pronto ad andare fino in fondo a quella faccenda. Stette per inoltrarsi ancora di più in quella direzione, quando alle spalle percepì qualcuno che stava accorrendo verso di lui, costringendolo a fermarsi. Dopo qualche istante di tensione, Keiran fece la sua apparizione. I suoi occhi sembravano stralunati nella penombra.

«Eccoti, finalmente! Ti stavo cercando.»

«Non dovresti essere con Emily e Sarah in questo momento?» sbottò Ren, visibilmente irritato da quel contrattempo non richiesto.

Keiran gli si avvicinò di corsa. «Loro sono in cucina, al sicuro. Avevo bisogno di parlarti in privato.»

Ren incrociò le braccia, in attesa. «Ebbene? Ora siamo soli, quindi dì quello che devi e poi tornatene da quelle due, prima che decidano di evocare Crowley per un tè. Quello sgorbio non si troverà da solo…»

«Intendi Dakota» puntualizzò l’irlandese.

«Quello che ti pare» lo liquidò con un gesto della mano. «Avanti, non ho tutta la notte.»

Keiran aprì la bocca per parlare, tuttavia la sua attenzione fu calamitata dallo specchio rotto al suo fianco. A quella vista, sussultò lievemente per la sorpresa. Quando riportò il suo sguardo su Ren, il ragazzo notò il cambiamento nel suo colorito: era impallidito. Keiran fece per riprendere il discorso ma, non appena le prime sillabe gli solleticarono le corde vocali, richiuse immediatamente le labbra. Se dapprima sembrava morire dalla voglia di condividere con lui chissà quale segreto –e in cuor suo sperava non fosse la ricetta del Coddle di sua nonna- in quel momento parve titubante, come se avesse dei ripensamenti. Se a frenarlo era la preoccupazione per come avrebbe reagito nell’udire la sua rivelazione, in realtà era sulla buona strada per farlo incazzare.

«Si tratta di Alex» riuscì infine a mormorare il rosso tutto d’un fiato.

A farlo incazzare di brutto.

«Lei è…» Il ragazzo si bloccò di nuovo, mordendosi il labbro come una ragazzina mentre cercava di trovare le parole giuste. Il suo sguardo continuava a cadere sullo specchio. «Insomma, lei…»

«Per l’amore di Darth Vader, che c’è?» sbraitò Ren, facendolo sussultare.

«Quando la troverai… cerca di non dire nulla che possa offenderla. Abbiamo bisogno di lei, lo sai, e i vostri continui battibecchi non ci sono utili. Quindi… non aizzarla, non flirtare, limitati solo a riportarla da noi e a tenere la bocca chiusa.»

Ren l’osservò in silenzio con un’espressione greve, ragionando sulle sue parole con finto interesse. Dopodiché inarcò un sopracciglio con fare scettico, mettendo a dura prova la sua forza di volontà nel tentativo di non rispondergli in malo modo o peggio. «Tutto qui? Volevi dirmi solo questo?» sibilò.

Keiran lo guardò stizzito, ma attraverso i suoi occhi, Ren capì che c’era un pensiero costante che lo inquietava. Ancora una volta il ragazzo ponderò bene le sue parole prima di esprimerle. «No, io… Sì. Nient’altro. Probabilmente mi sono sbagliato.»

E poi continuavano a ripetergli che picchiare qualcuno non era affatto civile. «Non mi stupisco. E ora, se vuoi scusarmi, ho di meglio da fare…» sentenziò, ritornando sui suoi passi con la speranza di chiudere lì quella inutile conversazione.

«In effetti c’era un’altra cosa» sentenziò all’improvviso Keiran. Ren fu sul punto di saltargli addosso quando il ragazzo continuò. «Mentre venivo a cercarti, ho sentito Mark inveire come uno scaricatore di porto. Da quel che sembrava, deve essergli caduto addosso mezzo sgabuzzino.»

A suo malgrado, Ren non poté trattenere un sorriso divertito.

 

 

Dakota arrancava senza meta nelle tenebre. Teneva il cellulare puntato davanti a sé nonostante la sua luce si stesse affievolendo a poco a poco, rendendo sempre più difficile distinguere i dintorni. Abbandonata la sicurezza del pianterreno, si era avventurata in quello superiore per evitare di essere trovata da quei falliti, in particolar modo da suo fratello. Non voleva che la vedessero in quello stato, né che la costringessero a tornare da… lui. A quel pensiero gemette senza controllo. Gli occhi arrossati le bruciavano sia per la polvere sia per le lacrime nere che ancora le scivolavano silenziose lungo le guance, sciogliendo con il loro passaggio il trucco a cui aveva dedicato tanta cura.

Era un disastro! L’intera serata era un disastro! E la colpa era solo di quella ragazzina! Fece un respiro profondo. No, non era del tutto esatto. Anche Ren aveva una grossa fetta di responsabilità. Così cieco, così perso nell’inseguire i suoi irrealizzabili desideri da non accorgersi della verità, era arrivato al punto di riversare su di lei la sua frustrazione. Se solo le avesse dato una possibilità…

Trattenendo un singhiozzo, si fermò per asciugarsi gli occhi umidi con il dorso della mano, incurante di espandere le chiazze di eyeliner che le macchiavano la pelle. Era stanca di sentirsi la ruota di scorta di qualcuno. Quando Ren era entrato nella sua vita, aveva creduto che fosse la sua possibilità di aspirare a qualcosa di meglio. Era così sicuro di sé, magnifico, oscuro… Molte ragazze la invidiavano per quel poco tempo che riusciva a trascorrere con lui a causa di suo fratello, e quando Ren non si era tirato indietro ai suoi flirt aveva pensato che tra loro fosse scattato qualcosa. Ma ora non aveva più importanza. Aveva capito il suo sbaglio. Avrebbe dovuto essere chiara fin dal principio su cosa voleva da lui.

Persa in quell’autocommiserazione che mal si addiceva alla situazione, Dakota non si accorse dell’ombra rossa comparsa alle sue spalle. La stava seguendo già da qualche tempo, rimanendo celata con il favore delle tenebre. La ragazza avrebbe potuto notare la sua presenza in qualsiasi momento, se solo avesse avuto il coraggio di voltarsi, ma la presenza contava proprio su questa mancanza di coraggio per agire indisturbata.

Alex la stava scrutando in silenzio, gli occhi fissi sulla sua schiena ossuta piegata dal peso di un dolore che non comprendeva e l’annoiava. Non provò ad avvicinarla nemmeno quando ricominciò a piangere, né a consolarla. Si limitò semplicemente a inclinare il capo, protraendo una mano verso di lei. Stava quasi per raggiungerla quando si fermò, il calore emanato dal suo corpo che le solleticava le punte delle dita protratte. Alex abbassò il braccio e le rivolse un lieve sorriso. Poi scomparve di nuovo nelle tenebre.

Dakota si voltò di scatto, avvertendo uno spostamento d’aria dietro di lei. Improvvisamente in allerta e spaventata, scrutò con attenzione ciò che la circondava, ma i suoi occhi carpirono solo il vuoto. Deglutì sonoramente e senza perdere altro tempo si diresse verso l’ultimo piano, certa di poter trovare un attimo di pace. E lo stesso pensava il bambino che la seguiva poco distante. Almeno finché non si rese conto che un altro dei loro ospiti era giunto per giocare con lui.

 

 

Nonostante il turbamento iniziale, Ren appariva piuttosto tranquillo. Con una mano infilata nella tasca dei jeans consunti e l’altra che reggeva il cellulare per illuminare i possibili ostacoli sul suo percorso, procedeva con passo lento e regolare per i corridoi disabitati del primo piano. Se il suo istinto non sbagliava, Alex si trovava lì per evitare di avere compagnie indesiderate. O meglio, così affermavano le prove; le impronte impresse nella polvere accumulata negli anni erano meglio delle briciole di pane lasciate da Hansel e Gretel. E per un rapace vorace come lui consistevano in un lauto banchetto. Inoltre, era stato un gioco da ragazzi riconoscere la sagoma dei suoi stivali in mezzo alle altre, fin troppo grandi per poterle appartenere. Non gli rimaneva altro da fare che seguirle fino a lei, per poi prenderla a sculacciate fin quando non gli fosse stancato il braccio.

Fece per sorridere malizioso a quel pensiero, quando un lieve scalpitio alle sue spalle lo fece sussultare. Colto alla sprovvista, si voltò appena in tempo per scorgere la figura di un bambino scomparire in lontananza. Sbatté le palpebre e… capì di essere nella merda. Ebbe un attimo d’esitazione e scosse il capo; doveva essere un brutto scherzo della sua mente, tutto qui. Ritornò sui suoi passi, questa volta con i sensi in allerta. Ci voleva ben altro per spaventarlo, questo era certo. Finché aveva una luce a guidarlo non aveva nulla di cui temere. E, con crudele ironia, il suo cellulare scelse proprio quel momento per spegnersi. Una risata infantile echeggiò nel corridoio.

Porco diavolo.  

Nelle tenebre, Ren rimase immobile. Controllò il suo respiro, mantenendo una calma glaciale, sapendo che concedersi al panico l’avrebbe fatto cadere dalla padella alla brace. Chiuse gli occhi una, due volte, aspettando che si abituassero all’oscurità quel tanto che bastava per distinguere i dintorni. Una volta ripreso il controllo, si voltò lentamente, conscio di essere osservato.

Il fiato gli si bloccò in gola, ma si trattenne dal compiere qualsiasi movimento, persino il più lieve. Alle sue spalle, un bambino era fermo al centro del passaggio. Il suo aspetto era quanto più infantile: un po' in carne, con le guance paffute e i grandi occhi privi di vita. Avrà avuto poco più di otto anni ed era pallido, quasi traslucido, come se fosse uscito da una foto in bianco e nero.  Ren s’irrigidì, ma il piccolo si limitò a osservarlo in silenzio con la tipica espressione innocente degli infanti.

Poi accadde.

A poco a poco, una strana sensazione gli scivolò lungo il corpo, rendendolo frastornato. Senza rendersene conto, Ren si ritrovò ad avanzare verso il bambino, incurante del motivo che l’aveva spinto fin lì, dimenticando la sua ricerca. Quando fu abbastanza vicino, il piccolo alzò una mano protraendola nello spazio che li divideva, in attesa. Esitò. Fece per stringergliela, ma all’ultimo momento si ritrasse, inchinandosi verso di lui. Il bambino l’osservò stupito, quasi spaventato dalla sua reazione non prevista. Ren dovette sforzarsi di rimanere impassibile finché i loro volti non furono allo stesso livello. Solo allora si concesse di espellere un sonoro “Bo!” dalla bocca. Il piccolo sussultò violentemente, colto alla sprovvista. I suoi occhi vuoti divennero ancora più grandi dalla paura e, senza pensarci due volte, gli diede le spalle incominciando a correre come una furia lontano da lui, fino a scomparire in un muro.

Ren si rialzò soddisfatto, spolverandosi la polvere dai jeans. «Stupidi fantasmi» esclamò con un sorriso ironico dipinto sul viso. Se erano questi gli spiriti con cui avevano a che fare allora… Non concluse quel pensiero. Era stato così stupido da credere di essere la causa di quella fuga affrettata.

Una mano fredda come il ghiaccio lo ghermì per un polso, facendolo letteralmente saltare sul posto. Ren abbassò lo sguardo e la bambina comparsa al suo fianco si portò un dito davanti alle labbra, intimandogli di tacere. Subito dopo e senza aspettare una sua reazione, lo sollevò in alto sopra la testa. In quel preciso istante, un rumore sospetto catturò la sua attenzione, facendogli alzare gli occhi fino al soffitto. Il legno sovrastante scricchiolò sotto il peso dei passi che gravavano su di lui, riempiendo l’aria di polvere. Mentalmente Ren imprecò. Qualcuno era stato così stupido d’avventurarsi fin lì nonostante le precedenti raccomandazioni e, sfortunatamente per lui, sapeva bene chi poteva essere così incosciente da sfidare un simile pericolo per un po' di attenzioni. Fece per riportare la sua attenzione sulla piccola, ma questa si era già dileguata nel nulla, come se non fosse mai stata con lui. L’unica prova della sua apparizione, svettava sul suo polso sotto forma di un’impronta arrossata. Trattenendo un moto di stizza, Ren non indugiò oltre. Aumentando il passo, si diresse verso le scale di servizio più vicine.

 

Come previsto, trovare la causa delle sue pene non risultò difficile: fu lei a saltargli addosso per stringerlo in un abbraccio umido e irritante. Non aveva dovuto compiere più di qualche passo, pregando che il legno marcio sotto i suoi piedi non gli giocasse brutti scherzi, quando Dakota comparve da un angolo per abbracciarlo. Una volta tra le sue braccia, la giovane perse ogni ritegno. Si strusciò contro di lui, mormorando frasi senza senso sul fatto che era sicura che l’avrebbe trovata, fino a interrompere quegli striduli miagolii sulle sue labbra. Preso alla sprovvista da quella massima espressione di felicità, Ren non reagì subito. Lasciò che la calda pressione della sua bocca gli rubasse il respiro. Fu solo quando la ragazza tentò di approfondire il bacio che l’afferrò per le spalle, scostandola da lui.

«Dakota, fermati…»

«Sapevo che saresti venuto. Lo sapevo. Ci tieni a me nonostante…»

«Ora basta!»

Dakota sussultò, impallidendo tra le sue mani. Ren sapeva che avrebbe dovuto sentirsi in colpa per il suo comportamento, ma in quel momento desiderava solo riportarla dal fratello per lo cessare delle ostilità; anche a calci se necessario. Dovevano andarsene da lì il prima possibile e non solo a causa dei fantasmi.

«Ascoltami, dobbiamo tornare subito dagli altri. Qui non è sicuro.»

«Certo… e io dovrei seguirti come un cagnolino solo per vederti filtrare con quella lì? Nemmeno per sogno» esclamò impettita, incrociando le braccia al petto.

Nell’udire quella frase, Ren si passò una mano sul volto, esasperato. «Sul serio? Con tutto quello che sta accadendo ti preoccupi di queste stronzate? Maledizione, bambina. Se non fosse per tuo fratello ti lascerei qui a marcire nella tua gelosia!»

Dakota sgranò gli occhi e spalancò la bocca, sorpresa da quell’uscita. Almeno finché la sua parte offesa non tornò allo sbaraglio. «Oh, sarei io la gelosa? Ma se non hai fatto altro che fulminare con lo guardo chiunque le si avvicinasse per tutta la sera? Sul serio, Ren. Sei patetico! E un illuso!»

Lui si limitò ad alzare un sopracciglio. «Vogliamo parlarne?»

Dakota strinse i pugni e sbatté i piedi per terra, facendolo sbiancare quando il pavimento sotto di loro scricchiolò in risposta di tale capriccio. «Lei non ti guarderà mai come faccio io! Perché non lo vuoi capire? Non ti ho mai mentito su quali fossero i miei sentimenti, mentre tu non hai fatto altro che illudermi! Io… io… ti amo! È solo grazie a te se ho finalmente trovato la forza di rialzarmi. È solo grazie a te se ho capito di poter aspirare a qualcosa di meglio, di reale e…»

Mentre parlava, Ren si era limitato a osservarla con un’espressione indecifrabile, facendole interrompere a poco a poco il suo monologo in un mormorio senza senso.

«Proprio non ci arrivi?» le chiese, riprendendo la parola quando si azzittì. «Non cerco qualcuno da sostenere perché si sente perso in questa vita e nemmeno un santo che mi prenda per mano per consolarmi nei miei fallimenti. Sono circondato da persone che scodinzolano come cagnolini in attesa di un mio cenno di approvazione e non me ne serve un altro! Io desidero qualcuno che cammini al mio fianco come mio pari. Nulla di più. E quella persona non sei tu.»

Nell’udire quella constatazione, le lacrime ricominciarono a scivolarle lungo le guance, bruciando di vergogna. Dakota gli rivolse un sorriso tirato, allontanandosi da lui incerta, come se l’avesse appena colpita. «Dunque è così… Credi davvero che quella mocciosa sia la persona che cerchi? Come minimo ti scaverà la fossa e ti ci butterà dentro a calci!»

A calci? Nah, era più probabile che lo tramortisse con un colpo in testa e lo seppellisse vivo giusto per avere la soddisfazione di saperlo agonizzare. Ren le rivolse un sorriso mefistofelico. «Non vedo l’ora.»

«Tu… tu…» Dakota balbettò, il labbro inferiore che le tremolò privo di controllo. A quella vista, Ren non poté fare a meno di sospirare con rammarico. Ancora non capiva perché avesse deciso di seguire l’indicazione di quella bambina defunta. Avrebbe dovuto prevedere che la fregatura sarebbe stata dietro l’angolo.

«Ascolta, Dakota…» mormorò lui, cercando di addolcire il suo tono nonostante la palese irritazione. «Mi sento generoso: ti concedo cinque minuti per riprenderti; dopo di che, se non vedrò il tuo culo scendere di sotto, verrò a prenderti con la forza. Se non vuoi farlo per me, almeno fallo per tuo fratello.» Affermato ciò, non le lasciò il tempo di replicare. Fece dietrofront e si diresse verso le scale, lasciandola in piedi in mezzo alle cianfrusaglie e alla sua distrutta autostima. Sempre se ne avesse avuta una. Non poteva negarlo; era uno stronzo di prima categoria, ma uno stronzo con dei principi, per quanto la gente non lo credesse impossibile.

Appena scese l’ultimo scalino, incominciò a cercare nelle tasche della giacca il suo portasigarette con impazienza. Ne sentiva un impellente bisogno. Malgrado ciò, invece di trovare la scatola di metallo, le sue dita incontrarono qualcosa di morbido che lo lasciò interdetto. Si era dimenticato di avere ancora l’orsetto di pezza. Lo estrasse, rigirandoselo tra le mani con un’espressione distratta, scordando persino la voglia di fumare che l’aveva colto poco prima. Senza rendersene conto, sul suo viso comparve un lieve sorriso. L’aveva tenuto con sé con l’idea di consegnarlo a quello sgorbio, sapendo che, sotto quell’espressione da sfinge, adorava certe stronzate. Ma ovviamente, una volta insieme, non avevano perso tempo con i convenevoli ed erano passati subito all’urlarsi contro. Sospirò. Era sempre stato così, fin dal loro primo incontro: Alex era capace di stupirlo e di farlo incazzare nel giro di pochi secondi. Come ci riusciva era ancora un mistero per lui, ma doveva ammettere che si divertiva parecchio a causa dei loro battibecchi.

Appoggiandosi al muro, Ren inclinò il capo all’indietro e incominciò a vagare con la mente rivolta al passato, nonostante sapesse che il tempo concesso a Dakota era ormai agli sgoccioli.

 

 

Fece un respiro profondo. Si stropicciò il viso con le mani e cercò di aggiustarsi come meglio poteva l’abito impolverato e dimesso. Se doveva affrontare il plotone di esecuzione pretendeva di farlo con almeno un po' di amor proprio. Con un gemito, Dakota si preparò mentalmente al ricongiungimento con gli altri, trattenendo a stento un gemito insicuro. Senza indugiare oltre, giusto per non cambiare idea all’ultimo, si diresse verso le scale. Ren aveva ragione: non era il momento di lasciare che le sue emozioni prendessero il sopravvento. Fu quando le sue dita sfiorarono il vecchio corrimano che l’udì.

Qualcuno stava piangendo nell’oscurità.

Dakota si bloccò inorridita. Le si rizzarono i peli della nuca e, in preda alla paranoia, incominciò a guardarsi attorno freneticamente. Non potendo contare sulla torcia del suo cellulare, ormai scarico, si limitò a scrutare i dintorni con gli occhi ridotti a due fessure. Mentalmente, incominciò a recitare tutte le preghiere che da piccola le avevano inculcato con la forza.

I singhiozzi continuarono, questa volta più vicini a lei. Echeggiavano nel vuoto, propagandosi in diverse direzioni e redendole così difficile capirne la provenienza. Tuttavia, girandosi verso un angolo, notò la sagoma di un bambino. Avrà avuto poco più di otto anni. Quando si rese conto di essere osservato, il piccolo alzò il capo verso di lei e la guardò con i suoi grandi occhioni. Nonostante avesse emesso suoni riconducibili al pianto, sul suo viso non vi era alcun segno di tale espressione emotiva, a eccezione della curva delle sue labbra e delle sopracciglia fini.

Rimasero in silenzio, scrutandosi a vicenda per qualche istante, incerti sul da farsi. Dakota era paralizzata dalla paura, ma quando il bambino le si avvicinò, incominciò a sentirsi strana… intorpidita. Non durò a lungo.

All’improvviso, il piccolo sgranò gli occhi, osservando la bambina comparsa dietro la ragazza. Il suo sguardo era fisso, concentrato, e le sue labbra si socchiudevano rapide mentre scandiva una litania silenziosa. Quando il bambino alzò lo sguardo, sembrò divenire ancora più cereo nonostante la sua figura fosse già eterea. Senza perdere altro tempo, girò sui tacchi e corse via, diventando tutt’uno con l’oscurità.

Dakota era rimasta immobile per tutto il tempo, incapace di contrarre i muscoli. Non capiva bene che cosa fosse appena accaduto, eppure, in cuor suo, sapeva di non essere lei la causa di quella sparizione. Lo avvertiva. Nitidamente. Qualcosa era alle sue spalle. Sentì una specie di carezza impalpabile sul collo, come un lieve respiro. Con il cuore in gola, si voltò e tutto ciò che i suoi occhi poterono scorgere fu un agglomerato di tenebra che la osservava.

Aprì la bocca…

 

 

Un urlo proveniente dallo scalone lo strappò dai suoi pensieri. Echeggiò nei corridoi vuoti con una forza tale che Ren si trovò a sussultare per la sorpresa. Rimise l’orsacchiotto dentro la tasca interna della giacca e sollevò lo sguardo verso le scale, fremente. Ebbe un attimo di esitazione, nel quale considerò l’ipotesi di correre a recuperare Dakota, ma non avvertendo alcun rumore sospetto, si precipitò a verificare l’origine di quelle esclamazioni sorprese, promettendosi di non metterci molto.

Non si accorse dei due gemelli che correvano nella direzione opposta; il maschio che strattonava la sorella, distratta nell’osservarsi alle spalle con gli occhi puntati verso l’oscurità che stava inondando come una violenta marea l’ultimo piano.

E, con esso, il corpo della ragazza.

 

 

 

 

E ben trovati alla fine.

Allora, è da cestinare? Scherzo, devo un attimo riprendere l’ordine d’idee a causa dell’assenza prolungata. Ovviamente so quello che devo scrivere, tranquilli, il problema è il come.

Ad ogni modo vi ringrazio per la pazienza e chiunque abbia votato, commentato o inserito questa storia nelle proprie liste. Ah, dimenticavo.

Alex dovrà aspettare.

Come pegno di scuse, tra non molto dovrei riuscire a pubblicare un piccolo bonus sempre dal punto di vista di Ren. Il tema di tale obbrobrio probabilmente l’avrete già intuito dal capitolo, per cui mi limito a dirvi che ci sarà da divertirsi. Sì, lo ammetto. Vado avanti a fatica perché rido come una cogliona.

Detto questo, vi ringrazio ancora per essere rimasti sintonizzati con questo canale di disagio e vi auguro una felice Pasqua ^^

Alla prossima :3

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Capitolo 12
*** Bonus ***


Bonus: la prima volta che la vidi

 

 

 

 

 

 

 

 

La vita è composta da attimi, questo è assodato. Malgrado ciò, nel corso della sua breve ma alquanto rocambolesca vita, uno in particolare l’aveva sempre incuriosito, sebbene non l’avesse mai provato in prima persona. L’incontro con l’anima gemella. Ebbene sì, lo trovava persino divertente; da scompisciarsi dalle risate, soprattutto nel sentire le storie di chi ne aveva incontrate un bel po’ di “anime gemelle”, al punto da poter gestire un cimitero di buon senso. Per non parlare delle diverse vedute. Un ragazzo l’avrebbe definito come “un caso”, “un incidente di percorso” o “qualche birra di troppo”, mentre le donzelle avevano una visione prettamente cinematografica di tale evento. Espressioni come “magico”, “emozionante”, “ineguagliabile” erano solo un misero contorno di ciò che in realtà accadeva nelle loro menti. Tempo che rallenta? Presente. Sviolinata fuori campo? A discrezione della persona. Pioggia battente che non riesce a raffreddare i lombi roventi? Per chi si aspetta del gran sesso dopo il cambio scena ci può stare. Drammi a palate dopo il primo scambio di sguardi? Una necessità morale, dato che non esisterebbe la storia altrimenti!

Eppure, a dispetto dell’opinione comune che lo inquadrava come un collezionista di mutandine realizzate col filo interdentale, Ren non rientrava in nessuna delle due categorie, malgrado gli piacesse pensare di avere ancora una sfumatura rosa e romantica nel suo cuore rinsecchito. Almeno, era questo ciò che pensava. Poi aveva avuto la geniale idea di “cogliere l’attimo” e tutto era cambiato. No, il suo incontro con l’anima gemella non aveva avuto nulla di magico e di certo non era stato un caso, dato che se l’era andata a cercare. Eppure sapeva benissimo come definirlo. E tale definizione si trovava su tutti i manuali di diritto penale sotto la dicitura: “tentato omicidio”. Il suo, per l’esattezza.

Ma come ogni storia d’amor e d’odio, vendetta e desiderio, che si rispetti, era giusto andar con ordine e ricordarsi in seguito di cancellare la cronologia del browser, oltre che lavarsi le mani.

La scuola era appena ricominciata, incombendo su di lui come una noiosa seccatura di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ragion per cui, come ogni anno, si era limitato a non farsi vedere, conscio del fatto che sia lui, sia i professori, la pensavano allo stesso modo: “Quel ragazzo è senza speranza”. Lui ci pisciava sopra alle loro aspettative. Aveva ben altro da fare invece di perdere tempo a frequentare lezioni noiose che non gli sarebbero servite a nulla, benché meno a istruirlo. Quei poveri idioti non potevano far altro che spiegargli nozioni di cui era già a conoscenza. Ma quell’anno sarebbe stato diverso, perché c’era una novità dell’aria. Si trovava nel vecchio parco da skate quando ne ebbe la conferma. Disteso sopra a una delle pedane più alte, con una sigaretta rollata tra le labbra e una lattina di birra scadente posata accanto a lui, se ne stava bellamente a pensare ai fatti propri quando delle risate sguainate catturarono la sua attenzione. Alcuni dei suoi tirapiedi erano ritornati dalle lezioni, spettegolando a proposito di una ragazzina da poco arrivata in città e iscritta al primo anno. Un mostro, da come la rappresentavano. Un appellativo strano per loro, da sempre impegnati a selezionare le ragazze più facili e carine dei vari corsi, sebbene alla fine si accontentassero della prima che ricambiava le loro moine. Inizialmente seccato da quei pettegolezzi, si ritrovò infine ad ascoltarli per l’intero pomeriggio, assorto come un bambino davanti ai programmi rating R. E quello fu solo l’inizio. Man mano che i giorni trascorrevano, le loro storie incominciarono a stuzzicare sempre più la sua curiosità, fino ad assumere la forma di una fastidiosa pulce nell’orecchio. E così, dopo due settimane di gossip, Ren aveva creato nella sua mente una precisa immagine dell’oggetto del suo interesse; non gli rimaneva altro da fare che scoprire con i propri occhi quanto si fosse avvicinato alla realtà.

Ritornare a scuola rappresentò solo l’inizio della fine. La sua entrata in scena creò come al solito il giusto scalpore. Le ragazzine del primo anno lo fissarono a bocca aperta e con gli occhi sognanti, perse in chissà quali universi rosa. Non si poté dire lo stesso delle loro compagne più grandi. Gli rivolsero i soliti sguardi schifati, nonostante fosse ben consapevole di quanto desiderassero delle ripetizioni di anatomia “pratica” dopo le lezioni. Per quanto riguardava i maschioni alfa tutti steroidi e crema per i brufoli che setacciavano i corridoi come predatori, non gli sarebbe dispiaciuto rimarcare il proprio territorio, ma aveva una missione da compiere e non doveva distrarsi. Incominciò dunque la sua ricerca attraverso le aule, i corridoi, la mensa… E non ne cavò un ragno dal buco.

Della misteriosa ragazza non c’era traccia.

Certo, il karma si stava divertendo alle sue spalle e comunque non sapeva quali lezioni frequentasse. Eppure, essendo un pluriripetente decorato, doveva pur avere un corso con lei essendo bloccato allo stesso livello. Alla fine del primo giorno si ritrovò a essere un fascio di nervi e nemmeno quello seguente ebbe fortuna, finché…

Lui e la presidenza avevano da sempre avuto un rapporto difficile. Tutti questi tira e molla, tutte queste strusciatine, eppure nessuno dei due era pronto per una storia seria. Per fortuna c’era Doris a fare da intermediario. La piccola e corpulenta donna ispanica non si stupì nel vederlo entrare nell’ufficio con il suo solito sguardo da cane rabbioso e si limitò a rivolgergli un pigro sorriso. «Passata una bella estate, Rennis?»

«Nah, purtroppo le mie giornate sono noiose e tetre se non posso ammirare il tuo splendido viso, mi amor.»

Come previsto, la segretaria emise una risata civettuola. «Oh, se le lusinghe potessero portarti in alto saresti già un dirigente, piccolo diavoletto. Il semestre è appena incominciato e, non solo inizi già con le assenze, ma ti becchi persino una punizione. E per cosa? Per aver incominciato una rissa con quei gradassi della squadra di rugby?» Lo sguardo che la donna gli lanciò era simile a quello di una madre delusa e inviperita allo stesso tempo. Non che lo sapesse per esperienza…

«Qualcuno deve pur insegnarli a placcare come si deve» sentenziò lui con un’alzata di spalle, infilando le mani nelle tasche dei jeans e dondolandosi sui talloni. «Allora, cos’hai oggi per me dolcezza?»

«Buone notizie. Dovrai solo fare l’inventario del laboratorio di Chimica, ma…» Stava già per dimostrare la sua stizza nel dover compiere un lavoro così noioso, quando la donna lo anticipò. «…Non sarai da solo. A quanto pare avrai una giovane donzella a farti compagnia» terminò la donna.

Questa sì che era bella.

«Una ragazza?» chiese scettico, afferrando il foglio che Doris gli stava porgendo dall’altra parte del bancone.

«Oh, sì. Non hai sentito?» Lo sguardo di Doris s’illuminò per la possibilità di fare ciò che rendeva le sue giornate meno uggiose: spettegolare. «A quanto pare c’è stata una lite tra due ragazze del primo anno. Brutto affare. La più piccola ha spaccato il naso a quella biondina inviperita che mi ha stressato in questi giorni per sapere delle selezioni per le cheerleader. Uhm… Leyla Gray, se non ricordo male. La notizia però mi ha lasciato perplessa: passavano parecchio tempo insieme quelle due. Un’amicizia così breve… Si vede che non era destino.»

Ren si limitò a bofonchiare, ma la sua mente stava già elaborando quelle preziose informazioni, in preda a una sorta di euforia. E se fosse… lei? Troppo preso dai suoi pensieri, non si accorse del lieve fruscio che emise la porta quando si aprì alle sue spalle. Fu solo grazie all’espressione di Doris, dapprima stupore e poi un disagio così palese da costringerla a distogliere lo sguardo, che si girò e il tempo incominciò a rallentare finché non la vide. O meglio, la notò quando abbassò lo sguardo, dato che lo scricciolo che gli comparve davanti raggiungeva a fatica il suo petto.

E… ne rimase profondamente amareggiato.

Niente corna insanguinate, niente lingua biforcuta, niente coda da diavolo o zampe caprine… E addio ai suoi sogni perversi. Ora capiva perché non l’aveva adocchiata fin da subito: quella ragazzina era il mix perfetto di elementi che avrebbero fatto ammosciare il desiderio a qualsiasi un uomo. La felpa e i jeans che indossava erano della taglia sbagliata e dai colori deprimenti. Le pendevano sul corpo sfigurandone la figura, rasentando così l’assomiglianza con un sacco di patate. Inoltre, si ostinava a non scostare il cappuccio che le ricadeva sul volto, nascondendo così buona parte dei lineamenti superiori.

Stava per etichettarla come racchia, quando le osservò pigramente il viso cercando di capire quale fosse il suo problema. E fu allora che si accorse della sua ecceità.

I suoi occhi… Erano qualcosa di straordinario e allo stesso tempo inquietante. Glaciali, apparivano così limpidi e profondi che per un istante si sentì affogare in essi, imbrigliato in una fredda morsa. Ren dovette costringersi a non indietreggiare, sebbene in lui fosse partito a sirene spiegate l’istinto primordiale di sopravvivenza. La ragazzina dovette accorgersi del cambiamento nella sua espressione, perché distolse immediatamente lo sguardo. E in quel momento lo vide. Durò solo un istante, qualcosa che molti non avrebbero nemmeno percepito, eppure eccolo lì, a incrinare quella maschera austera. Disagio.

E capì.

Capì il perché dell’esagerazione delle storie che aveva udito e il motivo di quella triste scelta sartoriale. Gli occhi di quella mocciosa erano qualcosa di spettacolare e infido, che sembravano tramortire persino i più coraggiosi, tanto erano in grado di scrutarti fin dentro l’anima. Eppure erano distanti, come se il mondo attorno a lei fosse privo di stimoli. Ma quella era solo apparenza. In realtà lei gli odiava, ecco il perché di quell’abbigliamento poco appariscente. Non voleva essere al centro dell’attenzione che il suo sguardo le garantiva quotidianamente. E ciò gliela fece rivalutare immediatamente. Dovette persino trattenersi dallo scoppiare a ridere come un perfetto idiota.

E sì, era un genio. Avrebbe voluto complimentarsi con se stesso e stringersi la mano.

Senza indugiare oltre, fece un passo avanti, cercando con insistenza d’incrociare di nuovo il suo sguardo. Lei non lo ricambiò. Non si diede per vinto. «Ciao, sono Rennis.»

Silenzio. Sembrava più interessata a osservare l’ufficio che a socializzare con lui. Doris in compenso li stava scrutando incuriosita. Anzi, si stava letteralmente sporgendo dal balcone per avere una visuale migliore.

«Sai» le disse, dato che continuava a ignorarlo. «Ero ansioso di conoscerti. Volevo essere certo che fossi il mostro di cui ho sentito tanto parlare.»

«Rennis!» sbottò Doris esterrefatta. «Non si dicono queste cose a una signorina!»

Lui si limitò a sbuffare. «Signorina? Siamo sicuri che là sotto ci sia una ragazza? È una tale delusione. È dire che sono venuto in questo buco solo per conoscerla.»

«Ma insomma!»

La osservò di sottecchi. Niente. Non si era scomposta. Se le sue affermazioni l’avevano colpita in qualche modo, era un mistero. La sua unica reazione fu quella di rivolgere alla segretaria uno sguardo annoiato.

«Sono qui per la punizione» disse e Ren dovette ammettere che, nonostante tutto, persino la sua voce risultava gradevole.

«Certo, cara. Tu e questo bell’imbusto dovete fare l’inventario del laboratorio di Chimica. Non preoccuparti. Ren ti spiegherà come fare. Dopotutto non è la prima volta che rimane invischiato in un simile castigo...»

La ragazzina prese il foglio che Doris la stava porgendo. Dopo averci dato una veloce occhiata, si limitò a ringraziarla con un cenno del capo e a dirigersi verso la porta. Lasciandolo lì, in piedi, come un allocco.

«Ehi, aspetta! Ciao tesoro, ti chiamo io!» esclamò lui, rivolto alla donna che stava scuotendo il capo con un’espressione divertita sul volto. Uscì nel corridoio giusto in tempo per scorgerla svoltare l’angolo. Dannazione, per avere delle gambe così corte era veloce.

«Ehi, dico a te. La prossima volta potresti anche aspettare!» le urlò dietro.

Silenzio.

«E rispondere.»

Ancora silenzio.

Dovette trattenersi dal fare qualcosa di molto stupido. Ormai si trovava dietro di lei e si ritrovò con insistenza a fissarle la schiena. «Non mi hai ancora detto come ti chiami.»

Senza smettere di camminare, la ragazza si voltò quel tanto che bastava per lanciargli un’occhiata storta.

«Alexander» mormorò seccata.

A quel punto, Ren si ritrovò a sganasciare senza controllo. E tanti saluti all’idea di sembrare serio. «Chissà perché non mi stupisco. Avrebbero potuto chiamarti Hannibal a questo punto» ridacchiò, appoggiandosi con un gomito a un armadietto per riprendere fiato. Con suo grande stupore, lei si fermò.

Asciugandosi le lacrime, la guardò e fu sul punto di scoppiare di nuovo. Alex…ander lo stava osservando con un’espressione che voleva dimostrarsi minacciosa, ma in quel contesto si rivelò piuttosto comica. Sulla sua piccola e carnosa bocca si era formato un broncio non indifferente e, nel notare il lieve spasmo delle sue dita, si rese conto che nemmeno lei non poteva dimostrarsi impassibile a tutto. Tuttavia, ben presto il suo sguardo mutò e diventò più gelido del polo artico. Ren dovette ingoiare la risata che gli stava risalendo su per la gola e si ritrovò a desiderare di scomparire. Se lo sguardo potesse uccidere…

«Muoviti» disse lei senza alcuna intonazione. Poi riprese a camminare, incurante se la stesse seguendo.

Questo gli permise di poterla osservare meglio. Un leggero sorriso gli comparve sul viso. Sì, ne era valsa davvero la pena. Quella ragazzina era interessante, quasi lo intrigava. Era un agglomerato di opposti che a una prima occhiata potevano risultare inconcludenti e non degni di nota, ma da vicino tutto cambiava.

Nonostante il suo aspetto esile e minuto, conteneva in sé un carisma capace di azzittire persino lui. Si nascondeva, eppure camminava a testa alta, la schiena dritta, come se osasse sfidare il mondo attorno a sé a disturbarla e a pagarne le conseguenze. E il suo carattere freddo e scostante… quale modo migliore di stuzzicare il suo interesse? Chissà quale altre reazioni aveva in serbo per lui. Non vedeva l’ora di scoprirlo.

 

Giunsero al laboratorio senza altri incidenti di percorso, o quasi. Ren ignorò i banchi di lavoro e la precedette verso il fondo dell’aula, dove erano allestiti gli scaffali e gli armadi contenenti sostanze all’apparenza innocue e materiale di vario genere. Un bel casino. Sospirò afflitto, udendo la porta chiudersi con un tonfo secco alle sue spalle. Si voltò e rimase immobile mentre Alexander lo raggiungeva, sempre senza incrociare il suo sguardo.

«Allora, da che parte vogliamo incominciare?» le chiese, ritornando a osservare la selezione di oggetti da quantificare.

Alexander non rispose. Non che la cosa lo sorprendesse più di tanto dati i recenti sviluppi, ma quando lei gli si avvicinò e strinse tra le dita un lembo della sua maglietta, si ritrovò spiazzato da quel gesto. In particolare quando lo strattonò leggermente, facendogli capire di assecondarla. Ren deglutì a vuoto, incerto su come reagire: erano soli, lei aveva chiuso la porta e aveva cancellato le distanze, rendendolo improvvisamente nervoso. Ma perché? Le opzioni erano due: o voleva pomiciare -del tutto improbabile- o ucciderlo per le uscite di prima -molto probabile-. Tuttavia, la sua crisi esistenziale terminò nel momento in cui osservò le dita strette intorno alla stoffa, stupendosi di quanto fossero piccole le sue mani. Ciò gli fece quasi tenerezza. Si ritrovò così a seguirla verso l’angolo più lontano dell’aula ma, prima di ritrovarsi con le spalle al muro, Alexander lo lasciò e si allontanò da lui con grandi falcate, fino a raggiungere il lato opposto.

Una volta fuori portata, gli lanciò un’occhiata di sufficienza. «Io comincio da questa parte e tu dall’altra. Mi sembra equo.»

A separarli c’era l’intera larghezza dell’aula.

«Ti hanno mai fatto notare quanto tu sia amichevole?» le domandò, cercando di non lasciar trasparire la stizza che provava in quel momento.

«Tutti i giorni» rispose Alex come se nulla fosse e senza corrispondere il suo sguardo. Ren rimase spiazzato dalla risposta. Non aveva avuto alcuna inflessione sarcastica. Quella ragazza… era socialmente inetta? Non c’erano altre spiegazioni e, chissà come mai, non dubitava del contrario. Rimase a scrutarla per qualche istante, osservandola mentre apriva tutte le ante degli armadi dalla sua metà e incominciava a osservare con attenzione ciò che la circondava, senza però appuntare nulla sul foglio che Doris le aveva dato. Era confuso, così confuso che tra poco si sarebbe colpito da solo. Ma da dove spuntava fuori quello sgorbio? Dal Circo dei Freak? Perché in tal caso avrebbe pagato il suo peso in oro per un biglietto.

«Ma che diavolo stai facendo?» chiese all’improvviso.

«Faccio il quadro generale» gli spiegò lei, come se fosse una cosa ovvia.

Ren scosse la testa e si mise all’opera, nonostante volesse perdere tempo in modo da studiarla meglio. Lavorarono in silenzio per qualche minuto. O per ore, difficile a dirsi. Ren non era mai stato un tipo paziente, ragion per cui iniziò a parlare del più e del meno, infastidito e annoiato dalla piega che avevano preso gli eventi. Non gli importava se lei rimaneva zitta e chiusa nella sua bolla antisociale fatta di odio e lacrime di bambini, poteva benissimo intrattenere da sé una conversazione. E così fece. La tempestò di domande, per lo più riguardanti la sua vita e su come si trovava nella loro città, per poi rispondersi da sé. Andò avanti per un po', intontendosi da solo con le sue stesse chiacchere, finché Alex non sbatté qualcosa su uno scaffale, facendolo voltare nella sua direzione.

Non riuscì a trattenere un sorriso divertito. «Qualche problema?»

«Sta… zitto» sbottò lei, la fronte aggrottata come se avesse mal di testa. «Sei terribilmente irritante.»

«Mi dispiace, Alexander» soppesò il suo nome con una nota ironica nella voce. «Ma stiamo scontando una punizione e il tuo gradimento a tale attività è del tutto irrilevante.»

Lei si voltò lentamente. Da sotto il cappuccio, i suoi occhi brillavano di rabbia mal celata. Doveva proprio averla infastidita. Si ritrovò a sorridere ancora di più.

«Senti, voglio solo finire l’inventario e tornarmene a casa. Non m’interessa conversare. Né con te, né con nessun altro. Benché fare amicizia» ammise lei.

Ren inarcò un sopracciglio. «Vai al liceo. Dovrai per forza parlare con qualcuno prima o poi.»

«Questo si chiama effetto collaterale.»

«O socializzare.»

«O perdita di tempo. I rapporti interpersonali sono così… inutili» sibilò in fine.

Ren alzò un sopracciglio. «Strano, credevo che per costruire un rapporto servissero due persone. E da quel che vedo hai una coda di ammiratori in attesa di un tuo autografo.»

Altra occhiataccia. «Tranquillo. Non sono interessata.»

«Non stavo parlando di me.»

Questa volta, lo sgorbio si voltò verso di lui con un’espressione annoiata.

«Ok, forse è così. Ma mi conosci così bene da dirlo con certezza?» Non riuscì a evitare una nota curiosa nella propria voce. Sapeva che in quelle quattro mura i pettegolezzi viaggiavano alla velocità della luce, eppure non si era mai soffermato a pensare che, come lui aveva saputo della sua esistenza, Alexander avrebbe potuto sentire le storie che circolavano sul suo conto. E non tutte erano vere, intendiamoci. Ma era divertente e proficuo far credere agli altri che non aveva remore nel picchiare cuccioli e rapinare vecchiette indifese.

«Ho sentito parlare di te. E capisco come ti senti, riguardo la delusione intendo.» Con sua grande sorpresa, Alexander si voltò nella sua direzione, inclinando il capo con fare pensoso. Rimase in silenzio per qualche istante, scrutandolo con estrema attenzione, finché sul suo viso non comparse l’ombra di un sorriso ironico. Chi l’avrebbe mai detto, era capace di fare quella smorfia senza rischiare una paralisi. «I teletubbies incutono più timore di te, bad boy.»

«Sì, su questo non posso darti torto» esclamò Ren con un’alzata di spalle, per poi gongolare. «Ma dimmi di più, sono curioso di sapere che idea ti sei fatta sulla mia persona.»

L’espressione di Alexander divenne di nuovo apatica. Senza esitazione, ritornò a osservare gli scaffali. «La mia idea? Penso che sia fortemente necessaria una riforma del sistema scolastico. È alienante pensare che a un individuo della tua reputazione, che non ha il minimo rispetto per quest’istituzione, venga dato il permesso di gironzolare per questi corridoi, sprecando così non solo il suo tempo, ma anche quello degli insegnanti. Vengono già sottopagati per permettere a un branco di marmocchi senza alcuna prospettiva di uscire da qui con la vacua speranza di andare al college, non hanno bisogno di uno come te. Sei una delusione su tutti i fronti. Sfrutti a tuo vantaggio una figura sociale senza averne i requisiti giusti e pensi ogni cosa ti sia dovuta. Per quel che mi riguarda, sei solo una perdita di tempo. Esattamente come questa punizione. Quindi, abbiamo finito con i convenevoli e possiamo tornare all’inventario?»

Ren ci mise qualche momento a riprendersi dal torpore che l’aveva soggiogato. «Wow. Sono senza parole…»

«Magari» la udì bofonchiare.

«… Mi sarei accontentato di lusinghe e del tuo numero di telefono, ma grazie del complimento.»

Alexander sussultò. Si girò a osservarlo e rimase sorpresa nel vederlo sorridere divertito. Certo, il suo cuore sanguinava arcobaleni e polvere di stelle nell’udire che per lei era solo “una perdita di tempo”, ma era riuscito a farle perdere la pazienza, il che poteva essere considerato come un suo traguardo personale.

Dopo qualche momento di stallo, Alexander scosse il capo e prese il foglio dell’inventario, incominciando a catalogare con precisione e velocità tutto ciò che aveva trovato nella sua metà. Dopodiché gli si avvicinò a passo di marcia e gli schiaffeggiò il documento contro il petto senza nessuna delicatezza.

«Ho finito» sentenziò. «Tu puoi occuparti del resto.»

Fece per andarsene, ma Ren l’afferrò per un braccio. «Aspetta! Come sarebbe? Non puoi aver…» Il suo sguardo cadde sulle sue annotazioni e si rese conto che aveva per davvero finito di annotare la sua metà.

«Sei intelligente…» mormorò basito.

«Si chiama memoria eidetica. Allora, posso…»

Non terminò la frase. Ren avvertì dei rumori provenienti dalla porta e si concentrò verso quella direzione. Attraverso il vetro, notò due ragazzi intenti a spiarli. No, si rese conto dopo aver seguito il loro sguardo: stavano guardando lei. Alexander sussultò, voltandosi verso di loro con un’espressione che Ren si augurò di non veder mai rivolta a lui. I loro scocciatori furono presi alla sprovvista, al punto da inciampare su loro stessi mentre se la davano a gambe, ridendo e schernendo la ragazzina ad alta voce. Nell’udire tale frasi poco galanti, Ren si ritrovò a sospirare. «Doris mi ha detto quello che è accaduto. Hai scelto d’inimicarti la persona sbagliata e questo è il risultato.»

Alexander rimase in silenzio a osservare la porta, per poi scrollare spalle. «Non m’interessa.»

«Dovrebbe invece. Non conosco bene Leyla, ma ho sentito molte cose sul suo conto. L’ho persino incontrata ad alcune feste quest’estate, mentre saggiava la fauna dell’istituto per prepararsi al suo primo giorno. Chissà se c’è l’ha ancora con me per non aver… Ops, si stava parlando di te. Giusto. Ma immagino che nei prossimi giorni non si farà altro. Chissà quali storie…»

«Tutte cavolate» sbuffò lei. Con sua sorpresa, incominciò a rigirarsi tra le mani la catenina che portava al collo. Era nervosa? Ren fece per sondare il terreno, quando Alexander lo anticipò.

«Posso raccontarle io una storia. Una favoletta che parla della classica ragazza che si trasferisce in una nuova città e non conosce nessuno. Chiusa in se stessa, ha difficoltà ad ambientarsi nella sua nuova scuola, dove si sente sempre giudicata e presa di mira. Finché non conoscerà amiche fantastiche che alla prima occasione la derideranno in pubblico. La parte succosa però rimane il ragazzo. Il belloccio di turno che tutte desiderano, ma che per qualche strana ragione è interessato alla nuova arrivata, al punto da scombussolarle la vita. E indovina un po’?» Si bloccò, smettendo di tormentare la collana. Quando si rivolse a lui, non c’era segno dell’ostilità mostrata fino a poco fa, solo una ammirevole fermezza. «Alla ragazza non importa. Né ha bisogno di struggersi per certe stupidaggini. Lascerà parlare quegli adolescenti in piena crisi ormonale fino allo stremo perché tanto avrà cose ben più importanti di cui occuparsi.»

«Già» commentò lui, sebbene non stesse capendo più nulla. Si stava riferendo a lei, a una sua conoscente o alle protagoniste dei romanzi scritti dalle sue coetanee? «Potrebbe essere la ragazza incasinare la vita del belloccio… per una volta» sussurrò lui, per poi rivolgerle un sorriso, che venne ricambiato con un’espressione disgustata.

«Rick, per favore. Vorrei uscire da questa punizione senza dovermi far controllare la glicemia.»

Ren sussultò, come se l’avesse colpito in pieno. «Rick???» sbraitò offeso.

Alexander strinse le labbra, pensosa. «Ronald?» riprovò.

Fu il suo turno nell’osservarla rabbioso. «Mi chiamo Rennis, o Ren! Hai appena detto che hai quella strana memoria eppure sbagli il mio nome!»

«Ricordo quello che vedo, genio. Non mi pare tu abbia una targhetta addosso. Come se memorizzare nomi servisse a qualcosa…»

Seccato, Ren decise di prendere la situazione in mano. «Direi che è ora di rimediare.»

Ignorò il suo sguardo confuso e, appoggiandosi al bancone dietro di loro, girò il foglio dell’inventario in modo da scriverci sopra il suo nome.  Con tanto di didascalia e dedica. Rennis: il gran bel tenebroso che ti condurrà in un magico mondo di meraviglie. E molte altre cose. Troppo pomposo? E dire che si era trattenuto. Una volta terminato, lo sollevò orgoglioso di sé prima di voltarlo verso lo sgorbio, in modo che potesse memorizzare cotanta meraviglia.

Alexander osservò il foglio. Poi lui. E di nuovo da capo. «Wow» esclamò apatica dopo un profondo silenzio. «Grazie per avermi appena rovinato l’esistenza.»

«Prego.» Ren sorrise gongolando. «Ora assocerai il mio nome a…»

«…Idiota.»

«Il gran bel tenebroso o…»

«…Egomaniaco.»

«L’uomo dei tuoi sogni proibiti o…»

«…Depra…»

«Ok, direi che abbiamo chiarito la nostra posizione comune. Tuttavia, ancora un punto ci tiene lontani.»

«E sarebbe?» chiese lei con una scrollata di spalle. «No, aspetta. Non m’importa.» Il suo sguardo cadde di nuovo sul foglio e la sua bocca si storse in una smorfia disgustata. «Lo sai vero che dobbiamo riconsegnarli alla fine della punizione?»

«Oh, non preoccuparti. Doris è stregata dal mio fascino. Ma tornando a noi, Hai sbagliato strategia. Stai fornendo a “quei ragazzi senza alcuna prospettiva” i giusti elementi per renderti la vita un inferno. Beh, solo gli anni che passerai qui tra noi poveri mortali che non possono comprendere la tua genialità, ma…»

«Sei stato chiaro, grazie» sentenziò lei, sforzandosi di sorridergli come si fa con i bambini troppo capricciosi. «Ma non ho alcun bisogno del tuo aiuto. Anzi, a dire il vero mi hai già aiutata abbastanza, Rennis.»

«Davvero?» le domandò confuso.

«Certo. Ora so che devo evitarti a qualsiasi costo. Ne va della mia sanità mentale.» Fece per andarsene senza degnarlo di uno sguardo. Ren si tuffò letteralmente per afferrarla per un polso, bloccandola sul posto con sua grande sofferenza. Alexander si voltò per fulminarlo con lo guardo e lui alzò le mani per dichiarare la resa.

«Ascoltami solo un attimo. Ok? Fammi compiere la mia buona azione mensile e poi potrai andartene per la tua strada.»

Alexander soppesò le sue parole, per nulla contenta. Dopo un attimo di esitazione annuì. «Sentiamo questa perla di saggezza. Ho come l’impressione di non avere alcuna scelta in merito.»

Ren le rivolse un grande sorriso. «Molto furbo da parte tua. Dunque, il tuo piano “ignora e conquista” deve essere rivisto. Vada per la parte di sua Asprissima Altezza, ma lasciatelo dire: il tuo aspetto fa pietà. E, prima che tu me lo chieda, ho ragione. Devi far capire a quei caproni con chi hanno a che fare e camuffarti da sacco dell’immondizia non ti aiuterà in questo. Nasconditi, e farai il loro gioco. A meno che tu sotto quella trapunta non nasconda un monociglio, un’acne da cavallo o un neo peloso…»

Prima che potesse rendersi conto della sua prossima mossa, Ren le tolse il cappuccio dalla testa con uno scatto repentino quanto l’attacco di un cobra. Alexander rimase interdetta, quasi spaventata da quel gesto, ma mai quanto lui. Si era aspettato la classica secchiona priva di fascino -occhi a parte-, eppure fu costretto a voltarle le spalle dopo una sola occhiata. L’aula di musica era aperta quel giorno? Perché aveva appena avvertito una stridula sviolinata protrarsi nell’aria. Con il viso in fiamme, Ren dovette compiere uno sforzo inimmaginabile per calmarsi. Alexander… era adorabile. Chi l’avrebbe mai detto? Non solo era intelligente, ma sotto quell’aurea minacciosa si nascondeva uno schianto. E probabilmente non sapeva nemmeno di esserlo. Per un momento fu sul punto di rimangiarsi il suo consiglio. Voleva pregustarsi quella visione senza doverla condividere con altri e… Dei, era lui quello che avrebbe dovuto farsi controllare la glicemia una volta uscito da quel girone infernale.

Qualcuno dietro di lui si schiarì la voce. Fece un respiro profondo e si girò. Alexander lo stava osservando apatica come sempre, sebbene i suoi capelli scuri fossero sparati in tutte le direzioni. Quella visione riuscì a farlo ritornare in sé. Oltre che farlo ridacchiare.

«Era davvero necessario?» gli domandò lei. Notando il suo sguardo, si portò una mano sulla testa e tentò inutilmente di sistemarsi la chioma incriminata.

«No… Cioè, sì. Ora che abbiamo chiarito il punto della questione direi che sistemando la tua immagine potresti far rimpiangere amaramente quegli inetti per le loro offese.»

«Le stesse offese che mi hai rivolto tu nemmeno un’ora fa?»

Colpito e affondato.

«Cercavo solo di stabilire un imprinting» si difese lui, cercando di apparire offeso.

«Sarebbe più divertente farsi sbranare da mamma orsa» sbottò lei, posando le mani sui fianchi. «Allora, posso andare? Il nostro tête-à-tête inizia ad annoiarmi sul serio.»

Niente. Per quanto ci provasse, bastava una sola frase e ritornava al punto di partenza. Non sapeva se essere più irritato o scandalizzato dal fatto che il suo fascino non riuscisse a far presa su di lei. Chissà, magari preferiva i secchioni con i completi coordinati. O forse dovrebbe andare dritto al punto.

«Sei… Incredibile» sbottò esasperato. «Davvero incredibile. Incredibilmente irritante, incredibilmente insensibile, incredibilmente odiosa. Potrei quasi innamorarmi di te per farti dispetto.»

Calò il gelo.

Alex si era letteralmente pietrificata sul posto, gli occhi sgranati e un’espressione sconvolta in viso. Non solo l’aveva colta alla sprovvista, ma non si era nemmeno accorto di essersi cacciato una fatale situazione. Non aveva per nulla tenuto conto della sua reazione. Le si avvicinò, cercando di capire se stesse bene, quando lei agì con una rapidità sorprendente. Afferrò la prima cosa che trovò sullo scaffale e gliela ruppe in testa senza troppi complimenti. Solo quando udirono i frammenti di vetro tintinnare a terra si accorsero di quello che era appena accaduto. Ren strizzò gli occhi sbalordito, mentre un fiotto di sangue gli usciva dalla ferita causata del vetro che gli era penetrato nel cuoio capelluto. Il suo unico pensiero fu di non voler ricomprare una beuta nuova. Poi crollò a terra.

«Oh» mormorò.

«Oh dei! Mi dispiace!» esclamò Alexander. Sembrava essere ritornata in sé e si era inchinata al suo fianco per controllare il taglio. Con sua grande sorpresa si accorse che era sincera. Beh, una lieve consolazione. Era riuscito a farle provare un’emozione umana solo in punto di morte.

«Tranquilla io…»

«Ora che faccio?» lo interruppe come se non avesse nemmeno aperto bocca. Sembrava presa da qualche turbe mentale che la rendeva nervosa. Era preoccupata per lui? Forse dissanguarsi sul pavimento del laboratorio di Chimica non era solo una perdita di tempo. Stava per sorriderle, quando Alexander continuò il suo monologo. «Avevo promesso a mia madre di non uccidere nessuno all’interno della scuola. Ce la fai a camminare? Potrei portati fuori e lasciarti dissanguare nel parcheggio, lì dovrebbe andar bene. No, aspetta... Fa parte dell’Istituto per caso?»

Ah… Come non detto. «Perché non puoi semplicemente accompagnarmi in infermeria?» le chiese in un sussurro.

«Giusto» esclamò lei, facendosi di nuovo pensosa. Poi, senza lasciargli il tempo di prepararsi mentalmente a ciò che stava per accadere, si sfilò la felpa e gliela premette sulla ferita, cercando di rallentare l’emorragia. Ciò non servì a molto, dato che la sua pressione sanguigna schizzò alle stelle.

Ren rimase allibito. Con lo sguardo fisso sulla maglietta bianca che Alexander indossava, si focalizzò su due punti focali non indifferenti, nascosti a malapena dalla stampa di un vecchio gioco arcade. Dimenticò persino l’incidente. Quella ragazza era stata mandata da qualcuno con l’intenzione di ucciderlo, questo ormai era un dato di fatto. E per farlo non aveva nemmeno dovuto infilzarlo con il ferretto del reggiseno, dato che ne era del tutto sprovvista. Forse non era un brutto modo per morire in fin dei conti.

«Riesci ad alzarti o devo trascinarti per le braccia?» gli chiese poi Alexander, cogliendolo di sorpresa.

«Che?»

«Muovi. Il. Culo.» sibilò lei, cercando di aiutarlo a muoversi. Capendo che non si sarebbe spostato, sbuffò sonoramente e gli schioccò le dita davanti al volto. «Dammi il cellulare.»

«Che?» ripeté lui come un’idiota.

Senza metterci nemmeno un grammo di delicatezza, Alexander lo rivoltò come un calzino. Estrasse il cellulare dai suoi jeans -purtroppo non lo palpò- e si scattò una foto al petto, per poi lanciargli il telefono sotto il suo sguardo sbalordito.

«Bene, ora direi che puoi smetterla di fare l’idiota, sempre se ne sei in grado. Dei, non credevo che fossi un tale fanatico dei giochi arcade. Dato che abbiamo risolto la questione, finiscila di esibire quella faccia da pesce lesso o giuro che ti lascio qui a dissanguarti.»

Il torpore lo abbandonò a poco a poco, ma continuò a osservarla stralunato; questa volta per motivi ben diversi. Socialmente inetta, violenta, dalla lingua tagliente e desiderosa di sporcarsi le mani di sangue. Il cuore iniziò a battergli forte nel petto, nonostante il dolore donatogli dalle frecce di Cupido che l’ornavano come un puntaspilli. Alzandosi in piedi, si appoggiò a lei di peso, nonostante fosse in grado di camminare benissimo sulle sue gambe. Aveva bisogno di sentirla, in un modo che non aveva mai provato prima. Chiuse gli occhi per qualche istante, godendo del calore del suo corpo e inebriandosi del suo profumo. E capì.

Era fottuto.

In ogni senso.

 

 

E quello che accadde in infermeria fu tutta un’altra storia.

 

 

 

 

Come promesso, eccoci qui con il bonus.

Mi dispiace farsi aspettare sempre un’eternità, ma purtroppo liberarsi del blocco non è semplice. Detto questo spero che come lettura vi sia piaciuta. Preparatevi mentalmente al ritorno della sociopatica per il prossimo capitolo :3

Come sempre ringrazio coloro che hanno aggiunto questa storia alle loro liste e recensito.

Alla prossima :3

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Capitolo 13
*** 9 ***


9.

 

 

S

e essere bloccati in una villa abbandonata e infestata dai fantasmi poteva apparire come un funesto scenario, essere bloccati in una villa abbandonata e infestata dai fantasmi e andarsene in giro da soli era indubbiamente peggio. Ma non si trattava né di un atto di coraggio o d’incoscienza. Era una necessità. Almeno per quanto la riguardava. Certo, i pericoli erano dietro ogni angolo. Se l’entità richiamata dal suo sonno l’avesse trovata e attaccata, Alex avrebbe dovuto contare sulle sue sole forze per uscirne vittoriosa. Nessuno avrebbe potuto difenderla, rassicurarla o, semplicemente, disturbarla. Per questo saltellava in modo allegro, canticchiando tra sé e sé una canzone come se stesse andando al parco vicino casa. A volte si ritrovò addirittura a fischiettare, in modo da coprire le parti musicali. Eh già. Si stava cacciando in un mare di guai e la cosa la divertiva. Perché mai avrebbe dovuto aspettare il bel tenebroso di turno -demone, angelo, Taddeo¹, Hagrid², le era indifferente- per far sì che le incasinasse la vita quando poteva provvedere da sé? Oltre che a incasinarla a lui, sia chiaro. Al ricordo dell’espressione sconvolta di Ren le venne da ridere. In quel momento il bel tenebroso di turno stava probabilmente perendo a causa di un embolo provocato dalla sua fuga. E se ne prendeva tutto il merito.

 

«A bullet for them/A bullet for you/A bullet for everybody in this room…³»

 

Le ombre la seguivano. Le percepiva vicine, nascoste negli angoli più bui e remoti, in attesa. I loro occhi erano concentrati su di lei, eppure non sembravano intenzionate ad avvicinarsi per instaurare un contatto. Almeno non ancora. Non faticava a immaginarne il motivo. Nemmeno lei avrebbe voluto invitarle a bere un tè per le opportune presentazioni, ma la timidezza si rivelava un problema alla luce dei fatti. Già, gli agglomerati di ectoplasma esistevano sul serio, chi l’avrebbe mai detto? Ma il suo quasi stupore non cambiava il piano. Doveva trovare il modo di convincerle a uscire allo scoperto e, a parte disegnarsi addosso un bersaglio gigante completo di led, non sapeva che altro fare. Forse doveva semplicemente stendersi a terra e fingersi morta?

 

«…Metaphorically I'm the man/But literally I don't know what I'd do…»

 

Si ritrovò a sospirare dalla frustrazione. Ormai era a corto di idee. Persino la sua mente claudicava nel tentativo di elaborare una strategia di riserva, ma nel mentre riportò alla luce la bislacca idea di Emily e con essa tutta la disapprovazione provata al riguardo. Non che la sua si stesse rivelando geniale alla luce dei fatti, ma andiamo… Un piano basato sulla messa in pratica di superstizioni popolari mai verificate prima in senso logistico era del tutto fallimentare, oltre che uno spreco di risorse e tempo. Inoltre, se mai fosse stato realizzabile e concreto, sarebbe andato a ostacolare il suo tentativo di mettersi in contatto con le entità che si aggiravano per quei corridoi, il che era del tutto controproducente. Affidarsi poi alla sua esperienza nella pratica di una lingua morta per purificare quel luogo tramite il nome di Dio, era l’equivalente di un suicidio. E mai avrebbe evocato quell’entità suprema nel pieno delle sue facoltà mentali, figuriamoci richiedere il suo aiuto. Non c’era posto per Dio nelle attività del Diavolo. Così come non c’era posto per il Diavolo nelle sue attività extracurriculari. In fondo era giusto rispettare lo spazio altrui per un mondo civile.

 

«…All these questions they’re for real/Like who would you live for? Who would you die for?/And would you ever kill?...»

 

Stette per passare al ritornello quando una forza esterna la costrinse a fare una pausa. Si bloccò. Con una mossa infastidita arricciò il naso e, camminando all’indietro, ritornò nel punto in cui aveva visto il bambino scomparire. O meglio, credeva di averlo visto, dato che aveva solo percepito un movimento con la coda dell’occhio. Tuttavia vi era una prova inconfutabile; una delle lampade collocate nel corridoio laterale aveva incominciato a emanare una lieve luce intermittente e tanto bastava a segnalare la presenza di qualche entità ultraterrena. O almeno, così dicevano i film.

Sia ringraziato Hollywood e le sue pellicole didattiche su cosa non fare mai e poi mai in una casa stregata. Anche se poi le faceva comunque, giusto per godere appieno dell’esperienza. Altrimenti che divertimento c’era? Il reparto souvenir prevedeva solo sangue dal naso, maschere di pessimo gusto, armi di plastica e vomito verde: sai che bei regali!

 

«…Oh, oh/I'm falling so I'm taking my time on my ride…»

 

Decisa a indagare, Alex s’inoltrò in quella direzione, provando a ignorare il fastidioso lampeggio che le feriva le retine a ogni battito di ciglia. Le bastarono solo pochi passi per comprendere di aver compiuto un’infausta scelta. La sensazione di essere osservata ritornò, questa volta più intensa. Più vicina. Esattamente quello che voleva. Sperando di cogliere in flagrante uno spirito, si voltò all’improvviso, il corpo pronto a scattare all’occorrenza, ma finì col l’incrociare il proprio sguardo riflesso in uno specchio.

«Oh» mormorò, sentendosi stupida. Si ricompose, fronteggiando la superficie resa opaca dal tempo. Esaminò pigramente la cornice, prima di soffermarsi sulla propria immagine riflessa. Forse aveva capito il motivo per cui nessuno fantasma aveva provato ad abbordarla: con il cappuccio rosso calato sul volto e le labbra corrugate in un broncio esasperato, chiunque l’avrebbe scambiata per l’assassino di turno. Beh, a questo poteva facilmente porvi rimedio, dato che la sua frustrazione stava filtrando senza ritegno con il nervosismo, rendendo la loro relazione esplosiva e pornografica. Desolata per quel contrattempo, fece per ritornare al punto di partenza, quando si rese conto che qualcuno le stava sorridendo. E lei non ricambiava.

Si pietrificò.

Ritornò a fronteggiare lo specchio. Il luccichio emanato da quegli occhi famigliari risplendeva attraverso la patina di sporco con un’incauta malizia. Il suo riflesso le rivolse un sorriso tirato, spietato, che le procurò una stretta allo stomaco. Eppure, nonostante il suo istinto le gridasse di reagire e scappare, Alex non riuscì a muoversi. Nel notare la sua espressione sconcertata, la smorfia della sua immagine si allargò sempre più, fino a risultare contorta e disumana. Ma il ghigno che tanto la stava inquietando all’improvviso si spalancò, trasformandosi in un orrendo e silente grido. Gli occhi del riflesso si rovesciarono all’indietro mostrando la sclera percorsa da capillari, mentre due mani nere, comparse dalle tenebre alle sue spalle, l’afferrarono per il collo, scivolando lungo le spalle, il petto finché…

Il pugno di Alex sfondò lo specchio con una precisione millimetrica, anticipando qualsiasi conclusione.

«Oh…» Battendo le palpebre come se si fosse appena risvegliata da uno stato d’apatia, Alex ritrasse lentamente il braccio, facendo cadere a terra diversi frammenti di vetro. Quando posò lo sguardo sul pugno ancora serrato, storse il naso nel vedere i piccoli tagli comparsi sulle sue nocche. Alcune gocce di sangue le scivolarono lungo la pelle, finendo miseramente a far compagnia a ciò che rimaneva dello specchio.

«Perfetto» sbottò, scuotendo la mano prima di portarsela verso le labbra. «Stupidi fantasmi.»

Succhiò le piccole ferite riportate, sentendo il sapore del sangue sulla lingua. Stette per controllare di nuovo le nocche provate nella speranza di vederle rimarginate, quando un ringhio la fece scattare in allerta. Dimenticò il bruciore, i fantasmi, il piano… Il suo sguardo si concentrò sul resto del corridoio, cercando di capire l’origine di quel suono così fuori luogo. Ma la fortuna non venne in suo aiuto. La lampada a muro emise un ultimo sfarfallio e si spense, facendo piombare i dintorni nella penombra. Il ringhio risuonò più vicino.

Tutto ciò che le uscì dalle labbra fu una simpatica, quanto innocente, esclamazione: «Merda!»

La luce si riaccese di colpo nell’udire la parola magica, facendola sussultare. Alex si voltò di scatto, ritrovandosi a faccia a faccia con un bambino dall’espressione irrequieta quanto la sua. Il piccolo spalancò gli occhi scuri per la sorpresa quando si rese conto di poter essere visto e, prima di permetterle di riesumare l’intero catalogo delle parole magiche, si girò e incominciò a correre come un razzo nella direzione opposta.

«Ehi!» urlò Alex, partendo all’inseguimento. Per quanto potesse essere veloce, nel giro di pochi istanti perse di vista la sua preda. Cercando di trattenere l’urlo di frustrazione che le salì lungo la gola, non si diede per vinta e continuò la sua ricerca, facendo capolino nell’androne. I volti dei bambini dipinti sul quadro sopra lo scalone sembravano deriderla per il suo fallimento. Desiderò tanto avere un pennarello a portata di mano.

Alex riprese fiato, chiudendo gli occhi nel tentativo di calmarsi. Al diavolo gli specchi spiritosi, gli animali da compagnia idrofobi e i figli illegittimi di Usain Bolt. Quella caccia al tesoro non la stava portando da nessuna parte; doveva provare un approccio più diretto. Dopotutto i suoi genitori le avevano regalato un libro sulla comunicazione e, sebbene l’avesse letto per solo metà dato che non le interessava l’argomento, era ben consapevole della sua importanza. Doveva essere diretta, concreta e per nulla intimorita. Ecco perché enunciò senza alcun preavviso: «So che siete qui, nei dintorni, a spiarmi come dei piccoli stalker depravati. Vi conviene ascoltarmi attentamente perché non mi ripeterò. Vi farò molto male, se me ne darete motivo. E no, la vostra condizione non è un’attenuante. Cerchiamo dunque di andare tutti d’accordo fin da subito. Non sono una minaccia per voi, così come sono sicura che voi non siate una minaccia per me. Voglio solo andarmene da qui e immagino che tale desiderio sia reciproco. Per cui vi propongo quest’accordo: voi aiutate me e io tenterò di aiutare voi a passare oltre. Dopotutto non credo abbiate chissà quali questioni in sospeso; siete solo…» deglutì, cercando in non far trasparire il suo disgusto «…bambini. E ora forza. Uscite fuori.»

Contò mentalmente fino a dieci, battendo un piede per terra per scandire il tempo. Al nono secondo, quello che assomigliava di più a un ragazzo che a un infante comparve dalle ombre, avvicinandosi. Era alto e dinoccolato; sulla sua pallida faccia erano ancora visibili le lentiggini che gli chiazzavano le guance e il lungo naso. Doveva essere il capo della banda a giudicare dallo sguardo fiero che le rivolse. Poco dopo, anche gli altri bambini seguirono il suo esempio. Alcuni la guardarono con timore, altri invece ostentarono una sicurezza che poco si addiceva ai loro occhi spaventati. Avevano paura di lei, il che era un bene.

«Ottimo. Sono felice che siate piccole persone giudiziose» sentenziò, studiandoli con attenzione. Il gruppetto che aveva davanti era composto da sette bambini di età compresa tra gli otto e i dodici anni nel constatare la presenza del loro capo. Nonostante l’apparenza slavata, i loro tratti caratteristici erano ancora visibili, rendendole più facile avere un riscontro con il quadro, unico suo punto di partenza. Nel notare i loro sguardi indagatori dovette trattenersi dal ridere.

«Oh, non guardatemi così. Ho avuto tutto il tempo di metabolizzare la vostra triste esistenza. In fondo mi hanno solo rinchiusa in una fo…» si bloccò appena in tempo, ricordandosi all’improvviso le buone maniere. E poi non poteva certo irretire fin da subito quelle povere anime. «… folle stanza. A parte pensare alla remota quanto irreale possibilità di una vita dopo la morte e alle tragiche macchinazioni che mi hanno condotta qui, non avevo niente di meglio da fare» concluse in tono frivolo.

Il bambino più piccolo, una cosina bionda e paffuta che fino a quel momento l’aveva studiata da dietro uno dei suoi compagni più grandi, scoppiò in una risata silenziosa. Il ragazzino che lo stava schermando gli rivolse uno sguardo irritato e gli diede un buffetto sulla testa, facendolo ricomporre all’istante.

Annuì soddisfatta. «A quanto pare riuscite a capirmi, risparmiandomi così tempo e bestemmie preziose. Dunque, prima domanda: perché i gemelli non sono con voi?»

Accadde tutto in un istante. Il ragazzo dalle lentiggini e i capelli rossi la fronteggiò senza darle il tempo di battere ciglio. Il suo sguardo era furente, carico dell’odio che avrebbe riversato su di lei se non si fosse spostata in tempo, vanificando così il suo tentativo di spingerla all’indietro. Ma Alex non si preoccupò di quella reazione violenta. L’aveva ipotizzata e ora aveva la prova che le serviva. Dunque i gemelli inquietanti e il resto dei bambini sperduti formavano due gruppi distinti. Buono a sapersi.

«Provaci ancora e ti farò pentire di non essere all’Inferno» mormorò al giovane, prima che si allontanasse da lei. Una volta fuori dalla sua portata, l’espressione di Alex mutò, perdendo la malevola luce che le aveva illuminato lo sguardo. Ritornò a rivolgere ai bambini un’espressione leggera, un po’ seccata. «Molto bene. Ora che abbiamo messo in chiaro che quei due non si uniranno a noi nel prossimo futuro, direi d’iniziare a darci da fare. Punto uno: ho bisogno di una mappa. Non conosco il posto e di certo non posso mettermi a girare alla cieca; devo sapere dove andare. Ma per mia fortuna questa residenza è stata ristrutturata qualche decennio fa, seppur in modo parziale. Ragion per cui, da qualche parte, dovrà pur esserci una planimetria o dei progetti originali…» Nel notare gli sguardi confusi dei bambini non riuscì a trattenere un sospiro. «Un foglio con sopra disegnate le varie stanze della casa» spiegò.

I piccoli si guardarono l’un l’altro. Se per decidere di aiutarla o di ignorare la sua richiesta era un mistero, ma non le scappò lo sguardo furbo che i due mocciosi dai capelli castani si scambiarono; probabilmente fratelli data l’assomiglianza, avrebbero passato un brutto quarto d’ora se avessero provato a combinarle qualche scherzo.  

Dopo qualche tentennamento, uno dei ragazzini più grandi si fece avanti.

«Tu sai dove trovare ciò che mi serve?» gli chiese.

Lui annuì e, sotto lo sguardo scrutatore dei suoi compagni, la precedette verso la giusta direzione.

«Certo che prima eravate più loquaci» borbottò Alex, ignorando gli sguardi confusi dei bambini nell’udire quella constatazione. Seguì il biondino verso quello che a una prima occhiata sembrava uno sgabuzzino. La maniglia fece una debole resistenza quando provò a girarla ma, con una delicata mossa definita in un calcio, alla fine la porta si aprì, andando a sbattere contro gli scatoloni disposti sulla sua scia.

«Oh, perfetto» sospirò Alex nel vedere le caotiche condizioni in qui versava quella minuscola stanza. Non solo era gremita fino al soffitto, ma non sembrava esserci alcun ordine nella disposizione del suo contenuto. Davvero allentante. «Spero che siate bravi negli scavi archeologici perché…»

Non completò la frase. Una forza misteriosa la spinse all’interno del cubicolo, mandandola a sbattere contro i contenitori stipati sul fondo. La porta si richiuse alle sue spalle con un botto deciso, bloccando così la luce proveniente dal corridoio e lasciandola nell’oscurità totale. Supina, dolorante e scocciata da quel trattamento, Alex provò a rimettersi in piedi ma, prima di poter esclamare un’imprecazione liberatoria, la mano gelida di uno dei bambini le coprì la bocca. Rivolse al ragazzino uno sguardo irato, tuttavia lui si limitò a portarsi un dito davanti alle labbra, intimandole di tacere. Poi con un cenno del capo le indicò la porta chiusa. Attese qualche istante. Nel silenzio, udì chiaramente dei passi risuonare all’esterno. Passi pesanti, dalla cadenza calma e dalla falcata troppo ampia per poter appartenere a uno dei bambini. No, quello che si stava avvicinando era qualcos’altro. Un’ombra distorse la luce proveniente dallo spiraglio inferiore della porta, decretando che, effettivamente, qualcuno la stava cercando. Alex trattenette il fiato e, seppur non gli servisse, fu certa che il bambino al suo fianco fece altrettanto. Non osarono muovere un muscolo mentre l’entità si fermava davanti la soglia, in attesa. Rimase lì per attimi che parvero infiniti, scomparendo all’improvviso quando un rumore lontano attirò la sua attenzione. Alex, che non si fidava di se stessa, stette in silenzio ancora per qualche momento, per poi raddrizzarsi con un sospiro.

«Gallivan?» chiese, cercando una conferma alle sue supposizioni, ma non ottenne alcuna risposta; il bambino era scomparso. E ti pareva… «Dovete proprio rivedere le vostre buone maniere» sbottò, cercando di togliersi quanta più polvere possibile dalla mantella. Impazientita, riaprì la porta con un calcio, in modo da far entrare abbastanza luce da poter distinguere gli oggetti stipati in quell’ambiente minuscolo. Si ritrovò così -davanti a uno scaffale posato lungo la parete, quasi del tutto invisibile a causa della mole di arnesi e scatole che sorreggeva. Grattandosi il naso e lasciandovi sopra una macchia di sporco, Alex si preparò a passare in rassegna ogni centimetro di quell’ambiente, sperando in cuor suo che i bambini non l’avessero presa in giro. In tal caso avrebbe dovuto rivedere il suo piano, perché li avrebbe esorcizzati seduta stante.

Si mise al lavoro senza indugiare oltre. Nonostante la propria impazienza, controllò meticolosamente ogni ripiano finché, spostando l’ennesima scatola, notò dei tubi portadisegni stipati sull’ultimo scomparto. Esattamente il sogno di tutte le persone provviste di gambe da lillipuziano. Mettendosi sulle punte, Alex si sbracciò cercando di raggiungere l’oggetto dei suoi desideri, riuscendo solamente a sfiorarlo con la punta delle dita. Dopo diversi tentativi, dovette arrendersi.

«Un aiuto sarebbe gradito!» chiocciò al nulla.

Silenzio.

Stette per enunciare l’ennesima minaccia, quando una vibrazione improvvisa fece sussultare gli oggetti sullo scaffale, avvicinandoli al bordo. Impressionata, non riuscì a complimentarsi di quell’aiuto eccezionale perché vi fu un altro colpo, e un altro ancora… finché l’intero ripiano non tremò e s’inclinò pericolosamente, incombendo su di lei. I tubi scivolarono, rimbalzandole sulla testa, ma si ritrovò troppo impegnata a reggere l’intero scaffale con entrambe le mani per preoccuparsi di recuperarli dal pavimento sudicio.

«Oh, grazie. Così va molto meglio!» ringhiò, mentre il peso che sopportava diveniva sempre più ingestibile. Digrignando i denti, cercò di far scivolare la tracolla dei tubi su un piede, in modo da calciarli verso la porta. Inutile dire che quell’attimo di distrazione le costò caro. Sempre più schiacciata contro gli scatoloni alle sue spalle, Alex decise di tentare il tutto per tutto. Con fatica riuscì a spostare i tubi e a tirarli lungo la giusta traiettoria. Una volta al sicuro, mollò la presa e si tuffò verso l’esterno prima di finire schiacciata, chiudendo la porta dietro di sé. Un frastuono soffocato risuonò alle sue orecchie, ma liquidò il tutto con un’alzata di spalle, dato che aveva recuperato ciò che le serviva. Svitò il tappo e osservò con un sorriso il contenuto dei tubi. Ora non le serviva altro che un posto dove poterli esaminare con tranquillità.

 

 

Il posto in questione si rivelò un piccolo studio al primo piano. Nonostante non fosse illuminato e l’aria all’interno fosse avvizzita a livelli quasi irrespirabili, si trovava in una posizione ideale per continuare le sue attività senza visite sgradite. Ormai poteva percepirli: i suoi sventurati compagni d’avventura avevano lasciato il salotto per esplorare meglio la villa in cerca di ciò che li serviva per fare… chissà cosa. E non era ancora pronta a tornare tra loro. Non prima di aver ottenuto le informazioni che le servivano.

Senza indugio, liberò la scrivania sul fondo della stanza dal telo che la tappezzava, sollevando una nuvola di polvere che la fece tossire. Una volta esposto il piano, vi rovesciò senza troppi complimenti il contenuto dei tubi, dispiegandoli al meglio. Diede poi qualche colpetto alla piccola lampada posata su un angolo, sebbene fosse del tutto inutilizzabile.

«Vi dispiace?» chiese, nonostante al suo fianco non ci fosse nessuno. Come per magia, la lampada riprese vita, emanando una lieve e calda luce che illuminò i dintorni.

«Grazie!» esclamò Alex, senza alzare la testa dalle carte che aveva davanti. La planimetria era consunta e macchiata dal tempo, ma ricca di note e informazioni utili. Il tutto era a nome di un certo Gilman; il suo collegamento con i Pennington le era del tutto sconosciuto, ma forse si trattava di una povera anima che aveva deciso di tentare la sorte comprando la proprietà a poco prezzo in modo da rimodernarla. L’uomo però le risultò di grande aiuto. Aveva appuntato ogni dettaglio, riportando sia le modifiche, sia la conformazione originale delle varie stanze. Il pian terreno aveva una pianta piuttosto semplice. Composto principalmente da stanze di varia grandezza trasformate in aule per i bambini, possedeva la cucina -orientata verso nord rispetto all’androne- con accanto la lavanderia, una grande sala da pranzo probabilmente riutilizzata come salone da ballo durante gli eventi mondani, un paio di salotti, una biblioteca e tre bagni: uno per ogni ala e quello destinato alla servitù. Le varie aree erano collegate da diversi corridoi principali, ma ve ne erano alcuni più piccoli e stretti, utilizzati dai domestici per le varie mansioni. Con sua grande sorpresa, vicino al salotto che avevano utilizzato come base operativa vi era pure un’aula di musica. I suoi occhi sondarono la pianta con attenzione, finché non fu certa di aver memorizzato ogni più piccolo particolare. Una volta finito, distese sulla scrivania il progetto del primo piano. Questo, a differenza del precedente, era per di più organizzato per scopi abitativi. Vi erano gli uffici personali di Mrs. Pennington e i suoi appartamenti privati. Il resto era suddiviso in varie stanze degli ospiti e aree relax; la sezione dormitorio utilizzata dalla servitù era orientata verso l’ala est, mentre quella destinata a ospitare i bambini era…

Il suo istinto agì per lei. Prima ancora di capire quale fosse la minaccia, Alex scattò all’indietro, evitando per un pelo la lama del coltello che andò a conficcarsi nella pianta, esattamente nel punto che stava analizzando. Se non si fosse spostata in tempo… Scrollandosi di dosso lo stupore, alzò gli occhi verso la porta. Ebbe solo un momento, ma riuscì a scorgere i due fratelli scomparire oltre la soglia. Rimase immobile, cercando di assimilare quello che era appena accaduto. Poi la sua mano scattò, estraendo il coltello dal legno con uno strattone e riponendolo nella sua borsa, il posto dove era stato collocato precedentemente.

«Stupidi fantasmi» bofonchiò nuovamente, ritornando a osservare la planimetria ormai rovinata. Si accorse subito che il foro lasciato dalla lama indicava un punto ben preciso: il dormitorio dei bambini, il luogo dove era avvenuta la carneficina. Inclinando il capo vi passò sopra un dito, domandandosi se quell’attentato alla propria vita non fosse in realtà un avvertimento. Ma quando mai aveva dato retta a qualcuno che non fosse la fastidiosa vocina nella sua testa? Inoltre, il fatto che avessero reagito in modo così drastico, le diede da pensare. Forse avrebbe potuto trovare lì le informazioni che le servivano. Come punto di partenza era l’ideale, considerando gli eventi che vi si erano verificati.

Decisa ad arrivare al fondo della questione, arrotolò nuovamente i fogli e li depose al sicuro all’interno dei tubi, preparandosi al punto successivo della sua lista delle cose da fare. Fece per fare il giro della scrivania quando il bambino più piccolo le comparve davanti, guardandola con i suoi grandi occhioni insicuri.

«Che cosa c’è?» chiese seccata, cercando di non essere troppo brusca. Il piccolo rimase in silenzio, per poi afferrare un lembo della sua mantella. La costrinse a indietreggiare, allontanandola così dalla porta. Quando Alex cercò di liberarsi dalla sua presa, lui s’impuntò, gonfiando le guance e mettendo il broncio.

«Oh, smettetela di fare i…» Finì la frase con un sospiro desolato. «Ascoltate. Vi ringrazio della preoccupazione e apprezzo il vostro aiuto, per quanto possa essere discutibile. Sebbene siate dei fantasmi e per di più dei bambini, in quest’avversità mi risultate più utili di quei sacchi di carne dei miei compagni. E poi non posso certo biasimarvi per le vostre condizioni: nessuno è perfetto. Tuttavia dovete capire che sono io a decidere quando e cosa fare e in questo momento desidero perlustrare il vostro dormitorio.»

Dall’ombra comparvero gli altri ragazzi. Si guardarono nervosi, incerti sul da farsi, a eccezione del più grande. Il suo sguardo continuava a sfidarla e ciò le piacque, anche se non poteva attendere oltre; più aspettava, più le possibilità di passare inosservata svanivano nel nulla.

Sbuffò. «Ok, datemi una buona ragione per non farlo. E questa volta senza usare i coltelli altrui» esclamò, incrociando le braccia al petto.

Quello che seguì, fu uno dei silenzi più irritanti al mondo. Non solo i piccoli aprirono la bocca all’unisono come tanti pulcini affamanti, ma dalle loro labbra non uscì una singola parola, nemmeno il più piccolo singulto. Si ritrovò a sospirare dalla frustrazione. Di nuovo. A quanto pareva, c’erano dei limiti ben precisi su cosa uno spirito poteva fare e non sul piano dei vivi.

«Ci serve un modo migliore per comunicare» sbottò, stropicciandosi il volto con una mano. «Non ho la pazienza necessaria per giocare a indovina indovinello con voi. Se avessi almeno una ouja, una lavagna… i dadi che Emily ha bruciato. Grazie tante…» sospirò Alex, in preda allo sconforto. Dato che il suo piano stava procedendo a rilento a causa di complicazioni tecniche che andavano oltre le sue competenze, non le rimaneva altro da fare che provare a giocarsela con l’astuzia. Era riuscita a instaurare quel primo contatto e, sebbene le avversità, si era dimostrato alquanto fruttuoso. Forse poteva incanalare l’attenzione dei suoi nuovi aiutanti in qualcosa che avrebbe potuto avvantaggiarla, oltre che darle il tempo necessario di sgattaiolare via da loro. Ma cosa? Iniziò a giocherellare con la catenina che portava al collo, decidendo il da farsi. Le informazioni in suo possesso erano troppo frammentarie per poter fare un quadro generale. Non sapeva il motivo del gesto di Gallivan, né il ruolo dei gemelli in tutta quella faccenda e tanto meno come annullare la barriera che li teneva imprigionati in quel rudere. Oltretutto le risposte che le servivano erano a pochi passi da lei, inutilizzabili, e questo rischiava di sviarla dalla rabbia. Finché non avrebbe trovato un modo per comunicare con i bambini, avrebbe dovuto provvedere da sé. Ordinaria amministrazione. Fu allora che si bloccò, ricordandosi un dettaglio che il suo subconscio aveva decretato futile fino a quel momento. Un sorriso le distorse il volto. Forse c’era qualcosa che quei demonietti potevano fare per lei nel frattempo.

«Ho un nuovo compito per voi» sentenziò, attirando la loro attenzione. «Nulla di strano o pericoloso, s’intende. Credo che abbiate già avuto l’occasione di farlo questa sera, dato che sono piuttosto sicura che dietro a tutto questo ci sia il vostro zampino. Vi andrebbe di giocare un po’?»

 

 

 

Fortunatamente, tale proposta ebbe fin da subito dei risvolti positivi.

Non solo era uscita senza altre complicazioni dallo studio, aveva evitato Dakota e scansato per un pelo Gregory e John mentre controllavano le stanze, ma i bambini se ne andarono per la loro strada senza disturbarla oltre, probabilmente eccitati per il compito che li aveva affidato. Una tale vivacità l’aveva presa in contropiede, ma ciò che sarebbe accaduto non sarebbe stato un suo problema. Anzi, tutto l’opposto.

Approfittando di quell’attimo di distrazione da parte dei suoi ospiti, decise di passare al successivo punto della sua lista mentale. Ora che aveva memorizzato la pianta dell’abitazione, muoversi si stava rivelando piuttosto semplice, fatta eccezione per la polvere che continuava a caderle in testa. Dopo l’ennesimo starnuto, Alex sollevò il capo, osservando rabbiosa il soffitto. Una lieve cadenza di passi tamburellava contro il pavimento sovrastante, mettendo a dura prova la sua pazienza. Quando al concerto di scricchiolii se ne aggiunse un’altra, dovette raccogliere tutta la sua determinazione. Forse la fortuna avrebbe continuato a sorriderle e sia Dakota che Ren sarebbero precipitati in un buco, mettendo fine a quella sofferenza; la sua.

Scuotendo il capo e stringendo più forte la torcia tra le mani, ritornò a concentrarsi sulla sua missione. Non doveva distrarsi. Camminò per un po’ e, una volta svoltato l’ennesimo angolo, Alex rallentò, improvvisamente a disagio. Non era il genere di persona che si lasciava intimorire dai pettegolezzi e le superstizioni, ma quando mise piede nel dormitorio, incominciò ad avvertire un’opprimente sensazione sulla pelle. Si fermò al centro del corridoio, osservando l’ambiente tetro che la circondava. Su entrambi i lati, spiccavano quattro porte chiuse; porte che conducevano alle stanze un tempo appartenute ai bambini. Illuminandole con la torcia, notò che erano state sostituite. Il legno era meno consumato e danneggiato rispetto al resto della dimora e ciò non lasciava presupporre a nulla di buono. Ma sapeva in cuor suo che non era l’aspetto desolato di quel luogo ad angustiarla. L’oscurità che vi aleggiava era più densa, l’aria rarefatta e malsana; l’atmosfera era pesante, quasi soffocante, come se la strage avvenuta tra quelle mura avesse lasciato un segno indelebile e perpetuo. Non si era sbagliata quando aveva ipotizzato che fosse quello il centro del loro piccolo inferno casalingo. Iniziava persino a comprendere il motivo per cui i bambini lo evitavano.

Per un attimo il suo coraggio venne meno. Sapeva che una volta superato quell’ambiente avrebbe potuto raggiungere lo studio di Mrs. Pennington, eppure qualcosa la frenava. Si sentiva le membra intorpidite, ma ciò che serpeggiava dentro di lei era ben peggiore. Risultava quasi terrificante nella sua contraddizione. Si era già sentita in quello stato, per l’esattezza poco prima dell’attacco che era venuto all’interno del suo corpo. E, anche il quel momento, la medesima sensazione minava la sua sicurezza: conforto. Era strano. Avrebbe dovuto essere inorridita o per lo meno cauta, e invece il suo corpo era invaso da un tepore confortevole. Era proprio questa sensazione a spaventarla a dispetto dell’ambiente in cui si trovava.

Socchiuse gli occhi, inclinando il capo. «Sì, lo so» mormorò. «Non dipende da me. Non adesso, almeno.» I sussurri si acquietarono.

Si fece coraggio e avanzò di un passo. E poi un altro ancora. Aveva quasi raggiunto la metà del corridoio quando si bloccò di nuovo, la fronte corrugata dall’incertezza. L’aveva percepito solo per un istante, ma ne era certa: qualcosa di fronte a lei si era mosso e non si trattava di un nanerottolo. Sollevò la torcia, puntandola contro il muro in lontananza. Nulla avrebbe potuto prepararla a tale visione. Sebbene il fascio di luce, le tenebre che scivolavano sulla parete formavano un agglomerato talmente denso da resistere a quel contrasto. Fluide e viscide come tentacoli, si contorsero sotto i suoi occhi, finché non si schiusero nel punto in cui la torcia le feriva. E fu da lì che eruppe una sagoma umana forgiata negli incubi. Nera, ricoperta da una sostanza oleosa, emise un sibilo graffiante. E si accorse della sua presenza. Il volto privo di dettagli dell’ombra si focalizzò su di lei, puntandola come una fiera pronta a colpire. Alex non ebbe nemmeno il tempo di reagire. L’ombra alzò un braccio e la sollevò in aria, scaraventandola all’indietro come una bambola. Cozzò duramente contro il pavimento, lampi bianchi di dolore le distorsero la vista. La torcia le sfuggì di mano, rotolando lontano da lei e illuminando la figura che l’aveva attaccata. Sollevandosi sui gomiti, Alex non perse tempo e provò ad allontanarsi dall’essere che, con grandi falciate, incombeva su di lei sempre più minaccioso. La sua corsa ebbe però vita breve: finì per sbattere la schiena contro la parete opposta. Il suo aggressore si fermò a pochi passi da lei, consapevole di averla alla sua mercé. Ormai in trappola, Alex si rialzò con difficoltà, fronteggiando il suo avversario a testa alta. Questo tuonò in un grido profondo che la fece rabbrividire fino alle ossa e le si scagliò contro. Ma lei non si spostò. Attese fino all’ultimo istante prima di gettarsi a terra, lontana dalla portata di quelle nerborute mani pronte a ghermirla. Ricominciò a respirare solo nel momento in cui ebbe la conferma che quella cosa era sprofondata nel muro, scomparendoci dentro.

Con i polmoni in fiamme, il corpo dolorante e la mente colma di domande, Alex incominciò a comprendere la gravità della situazione. L’anima che l’aveva attaccata era corrotta o in qualche modo occultata. Era forse Gallivan? Era a causa delle sue azioni che si era ridotto in quello stato, a dispetto degli altri spiriti che aleggiavano in quella dimora? Era davvero così perverso da voler perdurare il gioco iniziato un secolo prima?

Confusa, fece per rialzarsi, quando dall’intonaco rovinato fuoriuscì una mano che provò ad agguantarla. Il suo corpo questa volta fu pronto. Scattò in piedi come una molla e corse via, in direzione delle scale. Con la coda dell’occhio, percepì altre due sagome scomparire nelle ombre poco lontano da lei; minute, silenziose, imperscrutabili. Qualcuno a lei famigliare.

Ma non fece in tempo a formulare alcun pensiero. Girò l’angolo, finalmente giunta all’androne, e si scontrò con un essere vivente. Eh già, aveva quasi dimenticato che in quella casa vi era ancora qualcuno a sangue caldo. Colta alla sprovvista, lanciò un urlo di sorpresa, imitata poco dopo da John, che esplose in un grido di puro terrore degno di un Oscar. Entrambi caddero a terra in un intrico di arti e lamenti.

«Ma che cazz…» imprecò il giovane, massaggiandosi la schiena. Quando la vide, la sua espressione mutò del tutto. Ma non durò. Non appena Alex incrociò il suo sguardo, scorse la meraviglia nei suoi occhi sparire per lasciare posto al disagio. Repentinamente, si toccò la testa, accorgendosi di non essere più riparata dal cappuccio. Altra parola magica!

«Alex!» Gregory comparve al suo fianco, aiutandola a rimettersi in piedi con delicatezza. Ignorò John completamente. «Grazie al cielo, stai bene? Che cosa è successo?» La esaminò accuratamente in cerca di ferite. Quando la felicità nel ritrovarla sana e salva fu superata, l’amico cambiò rotta e la guardò iracondo. «Ma ti rendi conto di quanto ci hai spaventato? Andartene via così, senza nemmeno una spiegazione! Aspetta di vedertela con Emily e rimpiangerai quello che hai fatto!»

«Sì, Gregory. Ti trovo bene anch’io» commentò Alex in risposta, seppur a disagio. L’amico però non le lasciò scampo: continuò a osservarla con le braccia conserte finché non ottenne una risposta sensata. «E va bene, ti chiedo scusa. Sto bene, solo un po’ ammaccata e ho perso la mia torcia. Quello che è successo non lo vuoi sapere, fidati.»

Si allontanò da loro di qualche passo, rimettendosi sul capo il cappuccio. Stette per stringere il nodo della mantella, quando qualcuno alle sue spalle vanificò il suo operato. Stupita e ignorando i capelli che le ricoprirono la faccia, Alex si voltò, incrociando lo sguardo di Ren. Perfetto. Perché non era rimasta nel dormitorio a farsi smembrare da quella cosa?

L’espressione del ragazzo fu così indecifrabile da mettere a tacere sul nascere le lamentele di Gregory, il quale, capendo di essere di troppo, si prodigò a dare una mano a John a raccogliere gli attizzatoi che gli erano sfuggiti di mano durante l’impatto. Ah, quindi a loro era toccato il ferro.

Alex si guardò nervosamente in giro, cercando una via di fuga, ma non poté evitare di squadrarlo incuriosita. Perché non le aveva ancora gridato contro?

«Non sei arrabbiato.» Non era una domanda.

«Servirebbe a qualcosa?» le domandò semplicemente, senza abbandonare quell’espressione imperscrutabile che incominciava a metterla a disagio.

Scosse la testa.

Il giovane sospirò. «Esattamente come immaginavo. Ecco perché ho deciso di sprecare il fiato per altro.»

A quel punto Alex si bloccò, intimorita. «Sai, credo di preferire la parte dove mi sbraiti addosso senza riserbo. Mi spaventa quello che tu possa intendere per “altro”.»

Ren rimase in silenzio per qualche istante. Decine di emozioni turbinarono nei suoi occhi, scurendoli in un modo così profondo da inquietarla. Alla fine sbuffò. «Se non vivessimo in una società basata sul perbenismo e l’ipocrisia, in questo momento ti picchierei senza riserbo. E no, questo non è sessismo» mormorò serio.

Alex sollevò un sopracciglio. «Sono più che sicura che lo sia, dato che non hai contemplato la possibilità di perdere qualche dito nel tentativo di sfiorarmi.»

«Ti piacerebbe…»

«Ma non dovevi recuperare Campanellino idrofobo?» gli domandò allora a tradimento, mettendo fine a quel confronto verbale. Tuttavia Ren non fece una piega. Si limitò a farle cenno di anticiparlo giù per le scale, come se preferisse non averla alle spalle. Mossa furba. Alex accettò il suo invito e lo precedette, ignorando le occhiate indagatrici che Gregory continuava a lanciarle.

«Ci raggiungerà a momenti» esclamò Ren, lo sguardo puntato sulla sua schiena. Alex fece per rimettersi il cappuccio, ma si bloccò appena in tempo: sarebbe stata solo fatica sprecata. Si limitò quindi a voltarsi per lanciare al ragazzo un’occhiataccia.

«Oh, certo. Prima deve sistemarsi…» S’interruppe.

«Alex?»

Non gli rispose. Scese l’ultimo gradino e si bloccò, i suoi occhi che scrutavano febbrili i dintorni. «L’avete sentito?» mormorò a nessuno in particolare.

«Che cosa?» le chiese Gregory, preoccupato dalla sua reazione.

Alex aprì la bocca nel tentativo di rispondere a quella domanda, quando una scheggia di legno le cadde davanti al viso. Si spostò appena in tempo. Uno schianto agghiacciante echeggiò nei dintorni. Qualcosa precipitò dal soffitto, interrompendo la sua rocambolesca caduta cozzando contro il pavimento. Alex si ritrovò sballottata all’indietro, cadendo malamente su un fianco, circondata da una miriade di pezzi di legno e intonaco. Quando sollevò lo sguardo per capire che cosa fosse la sagoma responsabile di un tale disastro, incrociò il volto cereo di Dakota. Come una bambola di pezza, riposava a terra con gli arti ripiegati in angolazioni disumane, il bianco dei frammenti ossei che rilucevano al chiarore delle lampade.

Trattenendo il fiato, Alex rimase immobile, osservando la luce svanire dagli occhi della ragazza.

«Avevi ragione…. Ci ha raggiunti» ansimò, rimettendosi in piedi. John e Gregory erano pietrificati dallo shock. Ren, dal canto suo, era sbiancato così tanto da poter far concorrenza alla ragazza che giaceva morta ai suoi piedi.

Dei passi frenetici risuonarono nella loro direzione. Poco dopo, il resto della banda fece la sua apparizione nell’androne. Il viso di Emily s’illuminò di gioia nel scorgere la figura di Alex davanti a lei, ma quando si accorse di ciò che giaceva a terra s’immobilizzò. Il suo urlo rimbombò nei meandri della villa, fino al suo cuore oscuro.

 

 

 

 

 

 

¹ Personaggio dei Looney Tunes

² Personaggio di Harry Potter.

³ Testo di “Ride” dei Twenty One Pistols

⁴ Famoso velocista giamaicano.

⁵ Tributo a Walter Gilman, protagonista de I sogni della Casa Stregata di H. P. Lovecraft.

 

 

 

 

 

 

Eccomi qui, finalmente con un nuovo capitolo. Ammetto di non essere pienamente soddisfatta di tale cosa: un po' perché ho tentato di essere sintetica (sì, non sembra), un po’ perché Alex sta ai guai come Ryan Reynolds sta a DeadPool e un po’ perché volevo concludere il prima possibile…

E sì, mi sa che lo riprenderò in mano.

Comunque, ringrazio le povere anime che sono riuscite a sopravvivere fin qui. Porterò un cero in chiesa per voi, promesso! Ridendo e scherzando… grazie, sul serio. So di dover riprendere il ritmo, ma vi prometto che i prossimi capitoli saranno molto più contenuti… almeno credo.

Grazie a tutti quelli che, nel bene e nel male sopportano me e questa storia e che si prendono il disturbo di lasciare un commento… E non so più cosa dire senza sembrare una ruffiana di quattro soldi.

Beh, spero che tale capitolo non sia del tutto un disastro.

Alla prossima :3

 

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Capitolo 14
*** 10 ***


10.

 

 

N

on doveva andare così…

Il silenzio era ritornato a Pennington Mansion. Niente più urla, niente più lamenti; solo una fragile quiete aleggiava negli ambienti desolati, annullandoli col suo tetro manto. Tale equilibrio non era niente più che una mera apparenza. Lo sapeva. Aveva percepito i singulti di Emily farsi sempre più flebili mentre Keiran la riaccompagnava al sicuro nel salotto insieme a Sarah, cercando di rincuorarle come meglio poteva. Aveva assistito al momento in cui Mark era comparso nella sala, osservando con occhi sbarrati il corpo della sorella. E, infine, aveva provato le ripercussioni della rabbia del giovane. Incontenibile, distruttiva, era divampata come un incendio, prendendo il controllo della sua mente e accecandogli la ragione. John aveva dovuto trattenere l’amico con la forza mentre inveiva e malediceva Ren, provando a liberarsi dalla presa che lo bloccava dall’ottenere vendetta. Il suo volto si era deturpato dalla cieca ira che bruciava in lui. E quando l’aveva finalmente scorta…

Alex non aveva avuto il benché minimo cedimento. Era abituata a suscitare nelle persone le più disperate reazioni; lei stessa le studiava, cercando di comprenderle. Ed era per questo che non aveva reagito, limitandosi a rimanere in silenzio mentre Mark la incolpava della morte della sorella. Lei e Ren erano degli assassini. Sarebbero dovuti morire loro al suo posto. Come ribattere di fronte a quella patetica manifestazione di dolore? Alla fine era solo un ragazzo che non voleva accettare la perdita di un famigliare.

C’era voluto molto tempo prima che Mark ritornasse in sé. Più di quanto avesse sperato a dire il vero. Senza forze, si era accasciato a terra accanto al corpo della sorella. Le aveva chiuso gli occhi e, incurante delle grottesche ferite, l’aveva stretta a sé, accarezzandole i capelli e mormorando parole insensate. John lo aveva lasciato piangere in silenzio per qualche momento, poi gli aveva posato una mano sulla spalla, richiamando la sua attenzione. Dopo un paio di tentativi, era riuscito a convincerlo a spostare il corpo di Dakota in un posto più indicato. Ren si era prodigato ad aiutarli e Mark non aveva emesso una parola di protesta quando si era avvicinato alla sorella perduta. Eppure, nei suoi occhi vi era ancora quella scintilla; una scintilla di puro odio, destinata a perdurare a dispetto di ogni buon’azione.

Alex li aveva osservati allontanarsi come un triste corteo funebre finché la sua attenzione non era stata calamitata altrove. Non seppe esattamente che cosa l’aveva distratta, ma quando si era voltata verso lo scalone, lei era lì. La bambina aveva ricambiato il suo sguardo, sostenendolo imperturbabile per un lungo istante. E poi, così come era apparsa, se ne era andata, salendo i gradini con una calma quasi rivelenziale. Solo il tocco di Gregory l’aveva rinsavita. Si erano guardati l’un l’altro per un breve istante, per poi dirigersi verso i gradini.

E ora, seduta sulla scalinata, Alex non poteva fare a meno di chiedersi il motivo di quella cerimonia. Si passò le mani tra i capelli scompigliati, gettandoseli dietro le spalle con una mossa infastidita. Quando le sue dita estrassero l’ennesimo pezzo di muratura che le era rimasto incastrato nella chioma, si limitò a gettarlo oltre il corrimano con uno sbuffo. Al suo fianco, Gregory osservava un punto indefinito davanti a sé, perso nei suoi pensieri. Inclinato in avanti con le mani congiunge sulle ginocchia, era di un pallore spettrale che forse avrebbe dovuto preoccuparla. Non avevano parlato molto di quello che era accaduto. Anzi, non avevano parlato affatto. Entrambi avvertivano semplicemente il bisogno di schiarirsi le idee per conto loro, ma la reciproca compagnia non li recava alcun disturbo. O, forse, il ragazzo era rimasto con l’unico scopo di controllarla e prevenire un’altra fuga. Anche se era più probabile che desiderasse riprendere il controllo di sé senza far notare a Emily la sua temporanea debolezza.

Alex inclinò il capo, appoggiando una guancia contro la balaustra. Da quella posizione riusciva a scorgere il punto in cui Dakota aveva terminato di esistere. Chiuse gli occhi per un istante, rivedendo mentalmente la scena, più e più volte, analizzandola in ogni dettaglio alla ricerca di qualcosa. Non era certo il primo cadavere che vedeva in vita sua, ma non era questo a turbarla. No, aveva ben altre motivazioni.

«Non doveva andare così…» mormorò irritata, dando voce ai suoi pensieri. Senza preavviso, si ritrasse dal parapetto per appoggiare a tradimento il volto sulla spalla dell’amico.

Preso alla sprovvista da quel gesto inaspettato, Gregory sussultò, quasi lieto da quel principio di dialogo. Titubante, le diede qualche buffetto sul capo, come se temesse di perdere qualche dita nonostante il permesso insito in quel gesto. «Lo so. È assurdo. Non posso credere che sia morta» si limitò a rispondere.

«È davvero una gran seccatura» continuò Alex, sbuffando.

Gregory s’irrigidì. Inclinò il viso verso di lei per poterla osservare con attenzione, incapace di credere a ciò che avevano udito le proprie orecchie. Alex poté avvertire il suo respiro tra i capelli. «Non immaginavo che la morte di Dakota ti turbasse così tanto. O che t’importasse qualcosa di lei… Voglio dire, voi due non siete mai andate d’accordo» constatò sospettoso, cercando di capirci qualcosa.

Fu il turno di Alex a essere presa alla sprovvista. Si distaccò da lui e ricambiò il suo sguardo con un’espressione interrogativa. «Eh? Di che cosa stai parlando? La sua morte in sé non mi disturba. Ciò che m’infastidisce è il fatto che fosse l’unica tra noi a sapere qualcosa di questa casa. E solo gli dei sanno quanto disperatamente abbiamo bisogno di capirci qualcosa…»

Nero su bianco. Gregory non si prese il disturbo di ribattere. Rimase interdetto per qualche istante, per poi sospirare affranto. «Perché continuo a stupirmi?»

«Scusa se non mi metto a piangere» sbottò lei in risposta al suo tono amareggiato. «Magari con un po’ d’impegno dovrei riuscirci. Aspetta, ora ci provo…»

«Alex! Smettila di scherzare» la rimbeccò Gregory, tornando composto. Questa volta non si voltò solo con il viso; tutto il suo corpo si protese verso di lei, in modo d’affrontarla apertamente. Le sue mani si agitarono impazienti. «Dakota è appena morta! Mark è distrutto, Emily e Sarah sono sotto shock, Leyla è ancora dispersa, probabilmente Ren si ritroverà con una pallottola nella schiena e… Ed eccola che mangia…»

«Che c’è? Ho fame!» sentenziò lei, addentando uno dei Twinkies che aveva rubato a Emily. «E stai iniziando a diventare noioso. Motivo per cui ne approfitto per intrattenermi con altro. Se non ti fosse chiara la situazione, siamo intrappolati in una casa infestata da fantasmi e chissà che altro. Al tuo posto mi stupirei di essere ancora in grado di respirare e non perderei tempo a compiangere i morti. Quelli al momento hanno ben altro da fare.»

Gregory scosse la testa. Si prese il viso tra le mani, trattenendo un grido di frustrazione, ma quando ritornò a scrutarla, qualcosa nel suo sguardo la mise in allerta. I suoi occhi le sondavano viso, alla ricerca di qualcosa che, a quanto sembrava, non c’era. Alex incominciò a masticare sempre più lentamente, improvvisamente a disagio.

«Perché non hai paura, Alexander?» mormorò il giovane, come se stesse cercando di decifrare un enigma.

Ingoiò il boccone, che le scese amaro giù per la gola. «Paura? Certo che ho paura. Solo uno sciocco non ne avrebbe.»

«Non mentire. Non con me. Non ne hai motivo.»

Alex strinse le labbra, resistendo all’impulso di andarsene. Finì il resto della merendina con un morso, per poi togliersi con gesti bruschi le briciole ai lati della bocca. Gregory non le mise fretta, ma il suo sguardo rimase fisso su di lei, rendendola sempre più infastidita. Alla fine, si arrese e scrollò le spalle. «Perché uno dovrebbe avere paura di una pozzanghera quando ha visto ciò che si nasconde nell’abisso?» sussurrò, appallottolando la cartina del Twinkies.

«Che cosa significa?»

Alex fece spallucce, imperturbabile. «Significa che là fuori c’è molto di peggio. E sai cosa si fa in questi casi?»

«Illuminami.»

«Si fa amicizia.»

Gli occhi di Gregory assunsero una sfumatura esasperata oltre che guardinga. «Ed è quello che hai fatto fino adesso?»

«Esattamente. Certo devo ancora risolvere qualche problema tecnico e trovare qualche indizio che non sia eticamente compromesso, ma direi che come primo approccio è andato bene. Non è morto… No, aspetta. Qualcuno è morto» concluse con un attimo d’ingenuità.

Gregory non commentò quella sua mancanza di tatto. Ormai era diventata un’abitudine. Prendere o lasciare. «Quindi sei riuscita a metterti in contatto con dei… fantasmi?» mormorò.

«Mi stupisce, mr. Gregory. Non è da lei dimostrare così poca attenzione durante le mie spiegazioni» sentenziò lei, fingendosi offesa.

«Alex… Com’è possibile?»

«Cosa? L’essere distratti? In realtà è situazione piuttosto comune.»

Il ragazzo scosse il capo. «Ok, ammetto che in questa casa sono accaduti fatti… raccapriccianti. Ma perdonami se metto in dubbio quanto mi dici. Voglio dire… sono fantasmi!»

Alex rimase in silenzio, aspettando che l’amico continuasse il suo discorso. Quando le fu chiaro che quella strampalata dichiarazione era tutto ciò che aveva da dire, scrollò le spalle e inarcò un sopracciglio. «Esatto, sono fantasmi. E a quanto pare sono più svegli di te, dato che non si perdono in certe piccolezze. E se consideriamo il fatto che non possono comunicare con noi è grave.»

Gregory ebbe la decenza di arrossire imbarazzato, per poi ritornare improvvisamente serio. «Va bene, mettiamo che hai ragione, ciò non toglie che non sappiamo ancora quello che è avvenuto veramente tra queste mura. Quindi, cosa pensi di fare?»

Alex rimane in silenzio per qualche istante, attorcigliandosi la catenina che portava al collo su un dito. Dopo aver osservato con insistenza il vuoto davanti a sé con gli occhi che le brillavano malevoli, rivolse al giovane uno sguardo pieno di significato. Una smorfia divertita le comparve sul viso. «Non ne ho la più pallida idea. Tuttavia, alla luce dei fatti, non posso che sperare nell’aiuto dei miei piccoli nuovi schi… amici.»

«Non ne hai idea, eh?» ripeté Gregory, per nulla convinto. La scrutò intensamente, ma Alex non fece una piega. Anzi, ricambiò il suo sguardo con un ampio sorriso. «E ti fidi veramente di quei… fantasmi?»

Si limitò a lanciargli uno sguardo eloquente. «Non mi fido dei vivi, perché dovrei fidarmi dei morti? E, per favore, puoi smetterla di dire “fantasmi” con quel tono incredulo? Inizia a infastidirmi. E dire che dei due la scettica sarei io.» Detto questo, Alex si alzò e allungò le braccia sopra il capo, stiracchiandosi. Dopo aver inarcato la schiena, posò le mani sui fianchi. Incominciò a guardarsi attorno, tamburellando le dita con impazienza. «Dobbiamo assolutamente arrivare in fondo a questa faccenda. Persino il più piccolo dettaglio può essere…» si bloccò.

«Alex?» Gregory si raddrizzò e la raggiunse, preoccupato per il suo improvviso silenzio. Quando non gli rispose, seguì il suo sguardo, del tutto focalizzato verso il quadro. Dato che non diede segno di averlo udito, riprovò. «Alex, cosa c’è?»

«Il quadro» esclamò lei, senza guardarlo. «È storto.»

Nell’udire quell’affermazione, Gregory non poté fare a meno che inarcare un sopracciglio. «Sì… Quindi?»

Alex abbassò il capo, chiuse gli occhi e sbuffò. «Quindi da quando i quadri si muovono?»

«Deve essersi sposato durante la caduta di Dakota.»

«Poco credibile. L’impatto è stato violento, ma l’urto ha compromesso solo il soffitto e non si è propagato lungo le mura. Inoltre, anche se le vibrazioni del colpo fossero state abbastanza forti, se consideriamo le dimensioni della tela e il materiale della cornice, il quadro è semplicemente troppo pesante. Quindi le soluzioni sono due: o è sempre stato così inclinato, il che è impossibile dato che il mio cervello avrebbe fin da subito registrato l’angolatura, o è stato spostato manualmente. E, tanto per la cronaca, non è solo inclinato, ma anche scostato a giudicare dall’ombra che proietta sul muro. Hai altri dubbi?»

Gregory si limitò a rimanere in silenzio, la bocca tirata in una linea sottile. Dopo un paio di respiri, rilassò le spalle. «E va bene. Che devo fare?»

«Mettiti in ginocchio.»

La guardò male. «Cosa?»

Alex si voltò. Nonostante gli arrivasse a malapena alle spalle, il carisma che emanava compensava quella carenza in centimetri e il suo sguardo gli diceva che qualsiasi protesta sarebbe stata puntualmente messa a tacere. Non aveva molta scelta. «Io non ci arrivo. Tu neppure. L’unica soluzione è quella di collaborare.»

«Se proprio insisti» sospirò riluttante il ragazzo. Si mise in ginocchio come stabilito ma, non appena Alex gli salì sulle spalle, dovette trattenere un ansito. Si raddrizzò a fatica, ondeggiando pericolosamente nel tentativo di ritrovare il proprio equilibrio. Dalle labbra gli fuggì un gemito. «Mio dio, ma quanto pesi?»

«Sta zitto e avvicinati» esclamò lei, rifilandogli un calcio sul petto. Una volta addossati alla parete, Alex si mise all’opera. Valutò con il tatto la resistenza del gancio e, quando fu certa che il quadro non li sarebbe crollato addosso schiacciandoli, incominciò a ispezionarlo.

«C’è qualcosa» gli disse, mentre affondava sempre più il braccio nel retro della tela. «Dammi un secondo.»

«Anche due se vuoi. Tanto non ho fretta» si lamentò Gregory, facendola sbuffare.

«Ok, ci sono…» Alex diede uno strattone, riuscendo a estrarre dal retro del dipinto quello che aveva tutta l’aria di un piccolo quaderno logoro. «…Preso!»

Ma la sua espressione vittoriosa ebbe vita breve. A causa del suo slancio, s’inclinò troppo all’indietro, trascinando con sé anche Gregory. Il ragazzo perse l’equilibrio ed entrambi caddero rovinosamente per terra in un coro di gemiti e lamenti.

Indolenzita in diversi punti, Alex si puntellò sui gomiti per rialzarsi, ma qualcosa che si muoveva al di sotto della sua gonna catturò la sua attenzione. Non riuscì a trattenere un sorriso sornione. «Ti stai divertendo là sotto?» domandò pigramente.

Gregory s’irrigidì. Senza darle il tempo di ridacchiare, si tolse in fretta e furia dalle sue gambe, arricciandole la gonna fino alle ginocchia. Quando riemerse, aveva il viso in fiamme e i riccioli neri spettinati in tutte le direzioni. Quella visione servì a farla sorridere ancora di più. La sua timidezza non era solo un impedimento sociale, ma anche una continua fonte di divertimento.

«Tranquillo. È tutto a posto» sentenziò, prima che iniziasse a balbettare scuse prive di senso. Si mise seduta incrociando le gambe ed esaminò il piccolo quaderno che reggeva in mano. Dalla copertina rovinata e dallo stato delle pagine ingiallite, doveva trovarsi in quella casa da molto tempo. Fece per aprirlo, ma si accorse dell’aria dubbiosa di Gregory. Alzò lo sguardo, incuriosita dalla sua reazione. «Che cosa c’è?»

Il ragazzo scosse il capo, sebbene la sua fronte rimase aggrottata. «Nulla è solo che… Probabilmente mi sbaglio. Continua pure.»

Alex inarcò un sopracciglio, ma lo assecondò. Sfogliò il libro e, quando i suoi occhi scorsero le parole scritte a mano che spiccavano sulla prima pagina, non poté fare a meno che strabuzzare gli occhi dalla sorpresa.

«Gilman…»

«Lo conosci?» chiese Gregory, che ne frattempo si era sporto per poter osservare anche lui il contenuto del loro ritrovamento.

Alex scosse il capo. «No, ma ho trovato la planimetria della villa con la sua firma. Deve essere l’ultimo proprietario o, per lo meno, il responsabile del progetto di ristrutturazione. E questo…» la sua voce si affievolì, mentre girava le pagine. «… è il suo diario.»

«Quindi abbiamo fatto bingo.»

Alex alzò gli occhi dal diario e squadrò l’amico. «Bingo? Forse abbiamo trovato la soluzione al nostro problema. O almeno così spero. Forse questo Gilman ha riportato qualcosa che potrebbe aiutarci a capire come agire. Magari persino qualche dettaglio sui nostri ospiti. Eppure…»

Chiuse il diario, tenendolo sulle sue gambe. Mordendosi l’interno della guancia, Alex riportò lo sguardo sul quadro, per poi osservare la sala con sospetto. «Non mi convince.»

«Perché?» le domandò Gregory, sorpreso dal cambio repentino della sua espressione.

«Prima di tutto, perché nasconderlo in un posto del genere? Perché non lasciarlo in bella vista se lo scopo era quello di farlo rinvenire? E poi chi ha avuto la brillante idea di metterlo lì? È solo un caso? Devi ammettere che è sospetto.»

Gregory non rispose. La scrutò in silenzio per qualche istante, per poi aggrottare la fronte. «Devi sempre fare così tante domande?»

Alex incassò il colpo e l’osservò come se avesse appena detto una stupidaggine. «Quando si tratta della mia vita? Sì, sempre. Mi piace filosofeggiare mentre tento di non farmi uccidere. A volte aiuta. Dovresti provare.»

«Grazie del consiglio» mormorò lui, lanciandole un’occhiataccia. Si passò una mano sulla fronte, scostando qualche ricciolo ribelle. Riportò la sua attenzione sull’oggetto della loro discussione. «Ad ogni modo dovresti leggerlo. Giusto per non tralasciare qualcosa d’importante. Alle tue domande penseremo poi, ok?»

«Va bene» disse poco convinta. Fece per riaprire il diario quando dei passi attirarono la loro attenzione. Dopo qualche istante, Keiran apparve nella loro visuale, osservandoli confuso.

«Che cosa ci fate ancora lì? Ah, non importa. Emily chiede di voi… Beh, di Alex in realtà. Credo che abbia paura di vederti al posto di Dakota se continuerai a fare di testa tua.»

«E morire di una morte così poco violenta? Che divertimento ci sarebbe?» chiese lei, lasciandosi andare con un sospiro. Riportò incerta lo sguardo sul quaderno che giaceva sulle sue ginocchia, ma Gregory anticipò ogni sua risposta.

«Non preoccuparti. Ci penso io a tranquillizzarla. Promettimi solo che non te ne andrai di nuovo.»

Alex esaminò i due ragazzi, per poi annuire lievemente. Keiran fu sul punto di replicare, ma l’amico l’agguantò per una spalla e lo ricondusse verso la loro base operativa. Prima di svoltare l’angolo, Gregory le rivolse uno sguardo apprensivo, al quale Alex ricambiò con un misero sorriso.

A volte era davvero comodo avere un amico.

Una volta che i due ragazzi furono scomparsi inseguiti dal loro parlottio, Alex ritornò a concentrarsi sulla sua nuova scoperta. Riaprì il diario e lo sfogliò finché non s’imbatté nel momento che le serviva. Trattenne il suo entusiasmo e incominciò a leggere.

 

 

28 giugno 1965

 

 

Il primo sopralluogo è stato un successo. Le condizioni della villa sono pessime, ma non ci sono segni di vandalismo o d’infestazione, il che può considerarsi un miracolo dati gli anni di questo rudere. Questo ci farà non solo risparmiare tempo, ma anche un mucchio di soldi.

Ho già molte idee per il pianterreno e anche il primo piano sembra auspicare bene. Tuttavia, prima di procedere oltre, dovrò aspettare il prestito dalla banca. Se saranno colpiti dai risultati ottenuti, finanzieranno senza problemi anche il resto del progetto.

Il giardino sarà l’ultimo a essere rimesso a nuovo. Aspetterò l’arrivo di Martha e delle gemelle. Ho avuto la fortuna di sposare non solo una valente artista, ma anche una donna dall’incommensurabile pollice verde. Sono certo che si divertirà a esplorare l’immenso parco della tenuta. Persino il boschetto ai margini si potrebbe riutilizzare per qualche progetto.  Per quello che mi riguarda, è già una fortuna che Mrs. Bubble -il cactus preso da mia moglie durante la luna di miele- sia ancora vivo. Le avevo detto di non affidarmelo, ma lei ha insistito; è il nostro portafortuna e solo dio sa quanto ne ho bisogno in questo momento.

Domani io e la squadra decideremo il piano per l’impianto elettrico e le tubature. Spero di non trovare brutte sorprese.

 

 

9 luglio 1965

 

 

I lavori procedono bene. Durante le pause mi sto dedicando alla catalogazione di ciò che è rimasto all’interno della villa. Ho già contattato un esperto di antiquariato che vive qui vicino nella speranza di poter quantificare il tutto. Nel migliore dei casi, potrei finanziare i lavori ancora per un po’ con la vendita di alcune cianfrusaglie. I miei angeli custodi mi hanno spedito una cartolina per il 4 luglio. Mi mancano… molto. Ma una volta terminato questo progetto potremmo finalmente voltare pagina. Nota: Mrs. Bubble ha preso una sfumatura giallognola. Domani mattina andrò a comprare qualcosa per tirarla su di morale. Io l’avevo detto a Martha che non sono portato con le piante.

 

 

17 luglio 1965

 

 

Hamebus Lux! O almeno credo. Si dice così?

Siamo riusciti a far partire l’impianto elettrico al pianterreno. Un miracolo! Per quanto riguarda il collegamento con il piano attiguo siamo ancora in alto mare, ma sono fiducioso. Le lampade funzionano perfettamente e questo luogo inizia a essere meno lugubre. Tuttavia alcuni operai sono ancora restii a lavorare nella zona dei dormitori. Posso capire che l’evento che si è consumato tra queste mura sia terribile, ma appartiene al passato. Non dobbiamo farci frenare da certe sciocche superstizioni.

 

 

20 luglio 1965

 

 

Mrs. Bubble ci ha definitivamente lasciati. Domani la seppellirò in giardino.

 

 

27 luglio 1965

 

 

E anche le tubature sono state cambiate. Quelle di prima erano un ammasso di ruggine ingestibile. È ancora presto per cantare vittoria, potrebbero esserci delle perdite o dei problemi con la caldaia, per cui dovrò tenere gli occhi aperti. Nel frattempo ho ricevuto il responso dell’esperto e non è confortante: l’eredità della villa è quasi tutta robaccia. Incredibile, ma vero, i Pennington se la stavano passando male già da un bel po’, al punto da ricorrere a dei falsi per mantenere la loro facciata privilegiata. Insomma, ostentavano ricchezze che non avevano. Ora capisco perché mia nonna ha voluto distaccarsi dalla famiglia…

 

 

Alex dovette fermarsi. Perplessa, si rese conto di un dettaglio non di poco conto: Mr. Gilman era uno dei discendenti dei Pennington. Quindi aveva effettivamente un collegamento con quella casa. Con rinnovato vigore, riprese la sua lettura.

 

 

 

29 luglio 1965

 

 

Dopo aver venduto il pianoforte nella sala da pranzo a un pezzo stracciato, sono rimasto sorpreso nel scoprire che quell’ammasso di legno e tasti abbandonato nella sala di musica vale almeno il triplo. Avevo dato istruzioni per trasportarlo fuori in modo da rimetterlo in sesto in attesa di qualche compratore, quando gli operai sono corsi fuori urlando a più non posso. Ecco cosa succede quando si assume gente del posto. Siamo andati a controllare la situazione, ma tutto sembrava in ordine, eccetto lo sgabello rovesciato. Gli uomini incaricati del trasporto si sono rifiutati di entrare, affermando di aver percepito una presenza inquietante alleggiare su di loro. Inutile dire che ho dovuto chiamare un tecnico esperto per una visita a domicilio. A parte il prezzo, l’accertamento è andato bene, anzi, l’uomo è rimasto sorpreso dalle buone condizioni dello strumento. L’unico problema rimane spostarlo.

 

 

31 luglio 1965

 

 

Io… non so che cosa ho visto. Deve esserci qualche strana muffa nell’aria, ecco perché sono tutti così inquieti. Tra non molto ci saranno le ferie estive ma, a dispetto delle raccomandazioni ricevute, ho deciso di stabilirmi qui per andare avanti con il lavoro. Ora che i servizi e l’elettricità funzionano senza problemi non mi mancherà niente. Anzi, risparmierò molto tolte le spese del motel. O almeno, era quello che pensavo fino a questa mattina. Deciso a spostare quel dannato pianoforte anche a costo di trascinarlo da solo, mi sono recato nella sala di musica con le migliori intenzioni di questo mondo, eppure…

No, non è possibile.

Deve essere stato solo un miraggio causato dal troppo lavoro. Quella bambina era solo una proiezione del mio subconscio. E poi tutti lo sanno: i fantasmi appaiono di notte, non in pieno giorno!

Forse dovrei prendermi un periodo di riposo, ma c’è ancora così tanto da fare. I pavimenti devono essere rimessi a nuovo, così come i muri; alcuni hanno ancora le tubature scoperte. Per non parlare del resto della casa! Avevo promesso a Martha di ritornare a casa per l’inizio del nuovo anno scolastico, in modo da accompagnare le gemelle al loro primo giorno di scuola, ma ora non sono così sicuro di poter mantenere la mia parola…

 

 

Come se qualcosa l’avesse colpita a tradimento, Alex scattò in piedi come una molla. Strinse il diario tra le mani così forte da spiegazzarlo, ma non se ne curò molto. La sua mente stava già elaborando quanto aveva appena letto e studiando le diverse possibilità di quell’apparizione. Quella bambina… Chiuse gli occhi al ricordo di quello che era accaduto nel salotto. Poteva ancora sentire dentro di sé quella forza misteriosa strisciarle sottopelle con il chiaro tentativo di dominarla, soffocarla. E lei era lì. La piccola era indubbiamente coinvolta e non in senso buono. Tuttavia le servivano delle prove concrete, prove non alterate dal tempo o da delle semplici ripicche infantili. Ecco perché avrebbe dovuto procurarsele da sé e Mr. Gilman le aveva gentilmente offerto un punto di partenza.

Aspirando l’aria tra i denti, depose il diario nella borsa e si preparò a esplorare la sala di musica. Scese gli ultimi gradini con un balzo ma, prima di dirigersi verso la sua meta, si arrestò. Persa nei suoi pensieri, sollevò lo sguardo fino ad ammirare il quadro e i volti riportati in esso, scrutandoli uno per uno. Dopo qualche momento di silenzio, un sorriso ferino si distese sul suo volto, rispecchiandosi nei suoi occhi con una luce malevola.

«Molto bene... Giochiamo.»

A risponderle fu una fitta alla tempia. Portandosi una mano al viso, Alex annaspò, cercando di schiarirsi la vista annebbiata da quell’improvviso attacco. Le sue orecchie si riempirono di urla, che si acquietarono all’improvviso, lasciandola senza forze. Cadendo in ginocchio sul pavimento, si costrinse a inspirare a fondo, per poi rilasciare l’aria con un sibilo. Così com’era apparso, il dolore scemò, confondendola per quel breve ma intenso intermezzo. Si guardò intorno, cercando di riprendersi, quando un suono inatteso la costrinse a immobilizzarsi.

Per la seconda volta in quella lugubre serata, un ringhio echeggiò tutt’intorno, seguito da uno scalpitio di unghie che graffiavano contro il pavimento. Alex si girò lentamente, giusto il tempo di poter scorgere un ammasso di pelo comparire nel lato esterno della sala. E fu allora che li vide. Completamente spiazzata, non osò emettere un fiato, mentre quelli che apparivano come tre, no, quattro grossi lupi, si spintonavano verso il muro. Anche se definirli lupi era un complimento in assenza di aggettivi migliori. Erano della stazza di un pony, dal folto pelo che sembrava fatto di tenebra e fumo. Nonostante la stazza, i loro movimenti possedevano un’eleganza ferina; scivolavano come ombre nel corridoio muovendosi cauti. I loro occhi ardevano come braci nella penombra.

Sperando di non attirare le loro amabili attenzioni, Alex si rimise in piedi con mosse lente e controllate. Ma non fece nemmeno in tempo a compiere un passo all’indietro che un corno risuonò in lontananza, facendo rizzare le orecchie agli animali e sobbalzare lei. Come risposta a quel richiamo, le bestie incominciarono ad abbagliare e a ululare, graffiando il muro con le loro possenti zampe. E fu allora che Alex notò i lembi di tulle intrappolati nei loro artigli.

Dakota.

Il corno risuonò di nuovo e questa volta le fiere uggiolarono frustrate, impossibilitate a raggiungere il loro… Un momento! Se la barriera che li teneva bloccati lì, voleva dire che agiva solo dall’interno e quindi…

Uno dei lupi sollevò il capo, annusando incuriosito l’aria. Alex s’immobilizzò, trattenendo il respiro. Uno dopo l’altro, i predatori si voltarono nella sua direzione, riducendo gli occhi a due fessure malevole quando si accorsero della sua presenza. I muscoli di Alex si prepararono a scattare in preda al disperato tentativo di mettersi in salvo, quando qualcosa di freddo e piccolo l’agguantò per un braccio, sospingendola all’indietro con una forza sorprendente. Quell’attimo di distrazione fu sufficiente. In un battito di ciglia, nell’androne ritornò il silenzio.

Alex era rimasta immobile per tutto quel tempo. Confusa, scrutò i dintorni, accertandosi di essere da sola con quasi una punta di delusione. Che cosa era appena accaduto? Forse Gilman aveva ragione riguardo alle muffe. Portandosi una mano sul viso, cercò di calmarsi e di fare il punto della situazione. Non doveva bloccarsi, non ora che aveva una pista da seguire. Ciononostante, l’inquietudine incominciò a serpeggiare nel suo corpo.

Non era il momento giusto per soffrire di allucinazioni. Ma forse Keiran aveva ragione a preoccuparsi. Dopotutto era Samhain; la notte in cui non solo gli spiriti riuscivano a ritornare nel regno dei vivi, ma anche i cacciatori.

 

 

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