Volti gli occhi a fronteggiare il sole. di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un segreto segretissimo. ***
Capitolo 2: *** Promesse da marinaio. ***
Capitolo 3: *** Accidenti al diavoletto. ***
Capitolo 4: *** Hai detto una parolaccia. ***
Capitolo 5: *** Mamma non aver paura. ***
Capitolo 6: *** Il Grande Sole Rosso. ***
Capitolo 7: *** Il Grande Max. ***
Capitolo 8: *** Come l'irruzione di un'alba. ***
Capitolo 9: *** La sua parte di cattiva sorte. ***
Capitolo 10: *** Guglie e merlature e raffinate decorazioni in conchiglie. ***
Capitolo 11: *** Lista delle cose belle di una vita. ***
Capitolo 1 *** Un segreto segretissimo. ***
Volti
gli occhi a fronteggiare il sole.
«Ma
chi disdegnerebbe di acquistare un mondo
per
una sola ferita, o anche pagando il prezzo
di
un qualche dolore più grave?»
John
Milton,
Paradiso Perduto, Libro X, vv. 499-501.
Capitolo
I –
Un segreto segretissimo.
«Max,
senti...
devo dirti una cosa.»
«Uhm,
sì?»
«Ho
una
figlia, Max.»
Ci
sono notti
in cui Max vorrebbe veramente sognare di annegare.
Pensa
che
l'acqua che sale, sale, fino a inghiottirlo e a soffocarlo,
sprofondandolo nel suo grembo azzurro e rassicurante, sarebbe l'unico
rimedio a quest'arsura che lo dilania.
Ma
tutto ciò
che Max riesce a vedere è questo grande sole caldo che
brucia e
irrora la terra dei suoi raggi che la inaridiscono. Non riesce a
guardarlo direttamente. È una grande sfera arancione,
sorprendentemente bassa sull'orizzonte, e molto più grande
di un
sole normale. La sua luce è così splentente che
sostenerne la
vista, persino in sogno, è impossibile.
Eppure
a Max
piacerebbe vederla, ma proprio non è possibile. Sente che
questo
sole conoscerebbe qualche risposta, se solo egli riuscisse a
guardarlo abbastanza a lungo da concepire dentro di sé le
domande.
Ma
davanti al
sole, Max si sente come nudo. All'improvviso si accorge che non ha
nulla con cui difendersi dal sole, che il calore è troppo
forte, è
insopportabile e bruciante e brucia la sua pelle come fosse fuoco!
Ogni
notte Max
si sveglia ansimante e sudato e fa fatica a ricordarsi dove si trova.
Rimane immobile col petto che si gonfia affannosamente
finché la
luce che filtra attraverso le persiane non abitua la sua retina a
distinguere nel buio quei tratti della loro camera che ormai stanno
diventando familiari: vede la cima dell'armadio in rovere, le lame di
luce delle persiane, la sagoma della porta rimasta aperta. Alla sua
sinistra, nel letto, sente quella grande massa di calore che
è Ivan.
Sarebbe
troppo
facile attribuire quegli incubi al calore emesso dal suo corpo
robusto, così vicino a lui nel letto. C'è una
parte molto razionale
della sua mente che vorrebbe convincersi di questo, attribuire le sue
angosce a ragioni fisiche, ma Max – in quei momenti di
straordinaria sincerità con se stesso che si concede nel
dormiveglia
– sa che si tratterebbe di una bugia. Se così
fosse, non sarebbe
possibile spiegare per quale motivo, non appena egli si accosta
maggiormente a Ivan sotto le coperte e si appoggia contro la sua
schiena, gli incubi cessano fino al mattino. Appoggiando l'orecchio
contro la sua pelle nuda, Max ascolta il suo cuore battere attraverso
la cassa toracica a un certo ritmo familiare e rassicurante e si
riaddormenta.
Max
spalanca la
finestra e il mattino irrompe nella stanza sotto forma di luce
dorata, ma di una luce tiepida e benevola, priva di qualsiasi
minaccia, e gli riempie le narici il profumo del mare. Vi è
un
continuo cinguettio di uccelli, fuori dalla loro casa, ma Max ha
finito col trovarlo rilassante. Si concede qualche minuto di silenzio
in quella luce e in quel canto.
«Hai
voglia di
parlare?»
Max
non si
volta. Anche così, continuando a dargli le spalle, riesce a
vedere
Ivan con precisione nella propria mente: sa che è seduto sul
letto,
a petto nudo, colle lenzuola drappeggiate attorno ai fianchi in modo
così casuale e vaporoso da risultare terribilmente
provocante, e che
lo sta fissando. Percepisce sulla schiena la forza del suo sguardo,
come una luce proiettata attraverso una lente.
Non
lo
sorprende che glielo abbia detto proprio ieri sera, soltanto ieri
sera, in fin dei conti. Vivono insieme da quasi una settimana, e di
certo può non sembrare molto, ma in realtà questi
cinque giorni
sono solo la punta di un iceberg che si protrae ormai da mesi
– un
iceberg di notti insonni e di giornate trascorse assieme in silenzio
e di una strana quotidianità che avrebbe fatto impazzire
chiunque se
solo non si fosse trattato di loro. Non che la decisione di vivere
insieme sia stata particolarmente studiata. Semplicemente una mattina
Max si è svegliato nel letto di Ivan con tanta naturalezza
che non
si ricordava più come o quando ci si fosse addormentato, e
Ivan
stava guardando il soffitto con aria pensierosa. Devo
comprare un
letto più grande, ha detto solamente, e questo
è stato l'inizio
ufficiale della loro convivenza.
«Certo.»
«Bene,
perché
io ho un sacco di cose da dire.» Sente che Ivan si sistema
meglio
sul letto: probabilmente sta cercando di fargli spazio, ma Max non ha
voglia di andare a sedersi accanto a lui. Non per ora, almeno.
«Da
cosa vuoi partire?»
Bisognerà
che
si decida ad affrontarlo, dopotutto, perciò Max si decide a
voltarsi
e a guardarlo in faccia, appoggiandosi al davanzale della finestra.
«C'è
qualche
motivo particolare per cui non me l'hai mai detto?»
Questa
è la
domanda più stupida, più infantile e forse
più egoista che
potesse fargli, è vero, eppure Max deve
sapere. Per quale
motivo conosce Ivan da più anni di quanti ne riesca a
ricordare, e
forse meglio di quanto conosca se stesso, ma non ha mai saputo che
avesse una figlia. E non è che sia arrabbiato, o deluso, o
che altro
– non prova niente di tutto questo – ma
semplicemente è qualcosa
di rivoluzionario. Lui e Ivan si sono inseguiti e braccati e
rifuggiti a vicenda in impeti d'amore e d'attrazione e di
rivalità
per quasi tutta la vita ch'egli conosce, e ora viene fuori che
durante tutto questo, in un piccolo mondo protetto e distante
relegato sullo sfondo del loro scontro, Ivan aveva una figlia. Max
non è arrabbiato, non gli importa di quella bugia, se tale
vogliamo
chiamarla – è solo un rimasuglio di quel passato
in cui entrambi
hanno sbagliato e perso e si sono confrontati, e Max non potrebbe mai
rinfacciargli niente che faccia parte di quel passato - ma vuole
sapere. Ivan è sempre stato ciò che si chiama un
libro aperto, che
tradisce i suoi segreti con la voce e col corpo, se mai ne ha, di
segreti... eppure, per tutto questo tempo, ha tenuto sua figlia
segreta più ancora dei suoi piani.
Anche
ora che
vuole capire, Max non si limita ad ascoltare. Osserva, e vede Ivan
nella sua solita postura aperta e disponibile al mondo, franca e
schietta, gonfiare il petto ed emettere un lungo fischio assordante.
«Ehi, Max, sei impazzito? Non è che non l'ho detto
a te. Non
volevo che questo potesse rientrare nello scontro tra i nostri
Team...»
«Sai
bene che
non me ne sarei mai servito!» protesta Max inorridito, e
forse non
lo è tanto perché Ivan ha appena prospettato
questa possibilità,
quanto perché non è davvero sicuro che non
l'avrebbe fatto.
Sta
cominciando
a rivalutare quello che ha fatto, Max. Non è una cosa che
ammetterebbe ad alta voce, ma è così: nei suoi
piani di
miglioramento del pianeta, la falla era tanto grande che non essere
riuscito a vederla gli dà un'idea molto precisa della sua
propria
cecità. Il suo piano così elaborato e ingegnoso
era perfetto, e
proprio il fatto che fosse tale ha rischiato di condannare tutta
l'umanità. Semplicemente, Max ha sbagliato, e le conseguenze
delle
sue azioni sarebbero state irreparabili, se non fosse stato per
l'intervento di altri. La verità è che Max non sa
ancora se
riuscirà a perdonarsi per ciò che ha fatto, ed
è proprio questo il
motivo per cui ora si domanda se davvero, se solo avesse saputo prima
della figlia di Ivan, non avrebbe tentato di sfruttarla pur di avere
la meglio sul suo Team.
Ivan
scaccia
quell'idea agitando la mano. «Non mi riferivo a te! Ma
andiamo,
credi davvero che se per caso questa cosa fosse venuta fuori, anche
solo per errore, qualcuno come Rossella non se ne sarebbe
approfittato?»
Rossella,
già.
Max non ha idea di cos'abbia fatto dopo ch'egli ha deciso di
sciogliere il Team Magma, e francamente neppure gliene importa. Si
augura che sia stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico, comunque,
perché non osa neppure immaginare cosa potrebbe combinare se
trovasse qualcos'altro a cui appassionarsi nel suo modo morboso.
Oppure che sia emigrata in qualche regione veramente lontana. Tipo
Unima, magari.
«Giusto»
conviene a bassa voce, ma il fatto che Ivan non lo reputasse capace
di una cosa del genere non gli dà il sollievo che sperava.
Forse è
ancora troppo suggestionato dal suo sogno divenuto ormai ricorrente,
quello di un grande sole caldo che brucia la terra.
Ivan
è ancora
lì, sul letto, e aspetta. Vuole davvero parlare di questa
cosa,
perciò Max pesca a caso dal mucchio di domande che gli
affollano la
testa.
«Come
si
chiama?»
Anche
stavolta
Ivan pare gonfiarsi tutto, ma stavolta è d'orgoglio. Max
scorge un
luccichio insolito nei suoi occhi.
«Hyra,
ha
sette anni. Vive a Ciclamipoli con sua madre. Ti piacerà,
Max,
vedrai: è una bambina intelligentissima.»
Max
deve ancora
incontrare un padre che sostenga di avere una figlia scema, e di
certo quello non sarà Ivan. È veramente
orgoglioso di
parlare di lei, come se il merito della sua intelligenza, o di
qualsiasi eventuale altra sua qualità, fosse interamente
suo. In
questo momento è un po' come un enorme piccione gozzuto che
si stia
mettendo in mostra, e Max decide di punzecchiarlo un po' per
allentare la tensione.
«In
tal caso,
suppongo che tu debba ringraziare la madre.»
Il
cuscino che
Ivan gli scaraventa contro sbatte con un suono sorprendentemente
forte contro l'intelaiatura della finestra, ma Max lo sa che non
è
arrabbiato. La sua grassa risata roboante riempie la stanza, e Max si
sente giusto un po' meglio.
«Aye,
hai
ragione, Max! Sua madre non è una scema, anche se non ha due
lauree
come te.»
Ivan
è così
dannatamente a suo agio. Stanno parlando di una cosa come la sua
figlia segreta, eppure è aperto e sereno e ci scherza anche
sopra. A
volte Max invidia la sua semplice visione del mondo (che comunque,
come non perde occasione di ricordare a se stesso, era migliore della
sua. Ivan ha cercato di fermarlo, anche se non ci è
riuscito. Ivan
sapeva che lui stava sbagliando).
Finalmente,
Max
si sente abbastanza a suo agio da andare a sedersi sul letto, accanto
a lui. È ancora caldo della notte movimentata che ha
passato, ed
egli deve cercare di reprimere tutti i pensieri correlati al suo
sogno.
«Chi
è sua
madre?»
Ivan
si stringe
nelle spalle, come se la cosa non avesse poi particolare importanza.
«Una ragazza che voleva entrare nel Team Idro, qualche anno
fa.»
«Sì,
e poi?»
chiede Max un po' spazientito. Non c'è bisogno che Ivan
abbia
riguardo dei suoi sentimenti proprio ora. «Ivan, ci hai fatto
una
figlia. Suppongo che tu la conoscessi almeno un po'.»
«Oh,
va bene.»
Ivan sembra dover raccogliere i pensieri per un po', come se
precisamente questo pensiero, quello di aver avuto una relazione con
una donna misteriosa sette od otto anni prima, gli desse un lieve
disagio davanti a lui. Ma perché, poi? Ha forse paura che
lui possa
essere geloso?
«Ha
seguito il
percorso di addestramento per diventare una Recluta, ma ha deciso di
smettere dopo che ci siamo lasciati. Non è stata una grande
storia,
alla fine» lo avverte. «E non molto romantica.
Forse volevo solo
dimostrare a me stesso che... non so, che ero veramente un uomo,
magari. Che riuscivo ancora ad andare a letto con una donna e roba
simile.» Max riesce quasi a vedere l'Ivan
di quasi dieci anni
prima, risentito e offeso con se stesso per quelle pulsioni che non
riusciva a dominare, comprendere e ad accettare (a dire il vero si
ricorda ancora com'era quando finivano accidentalmente l'uno nel
letto dell'altro le prime volte, ormai una vita fa, così
giovani e
un po' più inesperti e passionali di ora, forse. Si ricorda
bene la
rabbia negli occhi di Ivan quando si accorgeva che nonostante tutto
ciò che li separava lo voleva). Per
questo forse riesce a
immaginarselo così vividamente mentre si ritrova a letto con
questa
sconosciuta senza volto con il furioso proposito di farselo
piacere... non c'è dubbio, tutto questo
è molto da Ivan.
«Hyra
è
venuta fuori per caso, sai... un incidente. Io e Aima non siamo mai
stati insieme, neppure quando è nata lei, ma beh... penso di
poter
dire che siamo sempre stati due genitori piuttosto civili, e ci siamo
organizzati molto bene.»
Finalmente
Ivan
finisce queste poche parole che sembrano pesargli moltissimo, ma ora
eccolo lì, un colosso di quasi un centinaio di chili
d'orgoglio
paterno. Forse è il sentimento più delicato che
Max gli abbia mai
visto esprimere.
Ora
entrambi
rimangono in silenzio, per un po', e Max torna a guardare fuori dalla
finestra. In realtà Ivan gli ha detto pochissimo, ma a lui
sembrano
un mucchio di informazioni da analizzare. Ora che nessuno dei due sta
parlando, il canto degli uccelli sembra molto più forte e
insistente
fuori della finestra, ed egli socchiude per qualche istante gli occhi
in quella luce. È felice che il loro mondo ci sia ancora,
malgrado
le sue azioni, e che all'interno di quel mondo ci sia ancora spazio
per una casa modesta e confusionaria come la loro, e per una bambina
dal nome esotico che pare rendere tanto felice il suo compagno
(amante?, ragazzo? È una fortuna che Ivan non sia uno che
dà peso
alle definizioni, perché per quella loro strana relazione
Max non ha
voglia di trovarne nessuna).
Finalmente,
Ivan parla ancora. Max si volta verso di lui, e per una volta i suoi
occhi scuri sono forse quanto di più serio egli abbia visto
mai.
«Forse
avrei
dovuto parlartene prima, Max, ma è successo tutto in modo
così
rapido che non ho neppure capito quand'è che abbiamo
cominciato a
fare sul serio, e ora non posso più aspettare. Se
c'è una cosa a
cui penso di non poter rinunciare, quella è Hyra.
Perciò ho solo
bisogno di sapere che tu accetti mia figlia, Max. Credimi, non voglio
altro.»
Max
si ricorda
ancora perfettamente di quanto, nell'estate dei loro vent'anni, ha
disprezzato profondamente Ivan per la sua manifesta
incapacità di
mentire e per la sua sincerità totalizzante, palese, che
traspariva
persino dai suoi muscoli. Ivan non ha mai cercato di manipolarlo, e
non lo farà neppure ora. E questo, per come la vede Max,
è
straordinario, in parte perché per tutta la vita egli non ha
fatto
nient'altro che questo – manipolare e rigirare la
verità a proprio
vantaggio, cioè – ma soprattutto perché
in questo momento Ivan
avrebbe ogni genere di motivo e di opportunità per
ricattarlo
subdolamente, ma non lo farà mai. Potrebbe ricordargli,
direttamente
o per velate insinuazioni, che l'uomo che ha rischiato di distruggere
Hoenn non è proprio nella posizione migliore per rifiutarsi
di
accettare sua figlia, solo per fare un esempio, oppure ancora che,
semplicemente, Max gli deve così tanto per essere rimasto
con lui
nel momento della sua massima aberrazione che... ma Ivan non
è il
tipo di persona che ragiona così, fortunatamente. Quello
è lui.
Ivan, invece, non si accontenterà di nient'altro che del suo
pieno
assenso incondizionato e per quanto possibile entusiastico –
beh,
entusiastico per i suoi standard, naturalmente.
Perciò,
stringendosi le ginocchia al petto, Max alza le spalle e borbotta:
«Non sarò obbligato a guardare le tue foto di
famiglia, vero?»
Ivan
scoppia a
ridere – un suono caldo e avvolgente, basso e ritmico come
sentir
cannoneggiare in lontananza – e lo afferra per stringerlo a
sé.
C'è sempre un che di erotico nell'urtare contro il suo petto
nudo –
Dio, ma quand'è che quest'uomo scoprirà
l'utilizzo del pigiama? -
ma dato che stanno parlando di qualcosa di così serio Max si
sforza
d'ignorarlo.
«No,
niente
foto di famiglia, Maxie! Aye, non c'è mai stata una
famiglia, lo
sai: io e Aima non siamo mai stati davvero insieme, te l'ho
detto.»
Beh,
bene così,
dopotutto.
Che
poi, non è
che Max sia poi così sorpreso come dovrebbe essere dal fatto
che
Ivan abbia una figlia. Anzi, in un certo senso, avrebbe dovuto
aspettarselo. Insomma, se lui fosse stato nei panni della natura
nell'atto di un processo evoluzionistico e avesse dovuto scegliere il
maschio con più possibilità di riprodursi e
mandare avanti la
specie, avrebbe scelto Ivan senza neppure bisogno di pensarci troppo.
Da un punto di vista meramente biologico, questo ammasso di muscoli e
violenza è praticamente tutto ciò che una madre
potrebbe volere...
e quanto del resto all'orientamento sessuale, Ivan non è
certo il
tipo da porsi problemi, e Max, sin da quando lo conosce, non ha mai
creduto nemmeno per un momento che Ivan non andasse a letto anche con
qualche ragazza, oltre a lui (e anzi è piuttosto convinto,
anche se
non glielo chiederà mai direttamente, di essere stato
l'unica
relazione omosessuale della sua vita. Per quanto ne sa, Ivan non ha
mai guardato un altro uomo che non fosse lui, mentre di ragazze Max
gliene ha sempre viste attorno non poche e tutte diverse... ma deve
ammettere, pensandoci bene, che già negli ultimi anni, molto
prima
degli eventi di Groudon, ha avuto l'impressione che queste altre
relazoni si facessero sempre più rare e
inconsistenti).
Quanto
al lato,
per così dire, affettivo della faccnda, deve ammetterlo, non
ci
aveva mai pensato, ma tutto sommato non è così
difficile figurarsi
Ivan nei panni di una figura paterna. Ha la sensazione che Ivan sia
istintivamente molto portato a tutelare la prole, come gli Ursaring,
il che non è così sorprendente. Probabilmente, e
a maggior ragione
dato che gli è nata una figlia femmina, sarà uno
di quei padri
gelosi e protettivi, o roba del genere... bah. Lo vedrà col
tempo.
In
conclusione,
l'unico aspetto veramente sorprendente della faccenda è
proprio il
fatto che Ivan sia riuscito a tenerglielo nascosto per ben sette
anni. Questo, in effetti, per lui che conosce Ivan più di se
stesso,
ha davvero del prodigioso, insomma... è Ivan. L'uomo che non
riusciva a trattenersi dal venire a letto con lui nemmeno quando ce
ne sarebbe stato più bisogno è davvero riuscito a
tenere nascosta
sua figlia non solo a lui, ma anche alla maggior parte del suo Team?
(Perché Max è certo che se quest'informazione
fosse stata nota
anche solo a una recluta del Team Idro, nel giro di pochi giorni
sarebbe giunta anche alla sua attenzione. Non si gestisce una squadra
come la sua senza un buon servizio spionistico, che è
qualcosa che
Ivan non è mai riuscito a capire, per la disgrazia di
entrambi.)
Il
che,
probabilmente, è qualcosa che dovrebbe farlo sentire
quantomeno
ferito, o qualcosa del genere. Eppure, per quanto ci ripensi, Max non
può fare a meno di sentirsi persino (oh! quanto gli ripugna
collegare questo sentimento a Ivan) un tantino ammirato nei suoi
confronti.
Insomma,
chi
l'avrebbe mai detto che Ivan sapesse essere tanto bravo a mentire?
Buon
pomeriggio a tutti!
Confesso
che ho tanto esitato a pubblicare finalmente questa storia alla quale
lavoro ormai da quasi un anno (già, sembra impossibile,
considerando
che doveva trattarsi di una sciocchezza, nata per caso una mattina di
maggio in cui stavo pulendo il bagno. Non penso possa esistere una
genesi meno poetica per una storia), e che è stata tanto
gentile da
scriversi praticamente da sola mentre io ero troppo impegnata con
Cronache di Inenarrabili Eventi. Ho potuto dedicarle
più
tempo solo nelle ultime settimane, in effetti, ma questo non toglie
che è probabilmente uno dei miei progetti preferiti e una
storia che
adoro, e forse quella in cui, al momento, mi rifletto maggiormente.
Una
nota importante: per il momento, dato che non mi sembra di essermi
allontanata troppo dal canone dei personaggi, ho deciso di non
inserire l'avvertimento OOC alla storia, ma è una decisione
sulla
quale sono disposta a tornare. Sarei lieta di ricevere pareri in
merito per poter valutare nuovamente la questione, anche col
progredire dei capitoli.
Sento
di dover specificare, nel caso qualcuno fosse intenzionato a
proseguire con la lettura che gli aggiornamenti saranno con ogni
probabilità assolutamente irregolari (nel mio caso, questa
non è
esattamente una novità, ma suppongo che sia sempre meglio
avvertire!). Me ne scuso anticipatamente.
Nel
frattempo, i miei più sentiti ringraziamenti a chiunque
abbia deciso
di aprire comunque la storia e sia arrivato addirittura fin qui.
A
prestissimo (spero)!
Afaneia
|
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Capitolo 2 *** Promesse da marinaio. ***
Buonasera
a tutti!
Suppongo
sia inutile dire che mi sento un mostro per averci messo
così tanto
ad aggiornare questa storia – quando ho avvertito che gli
aggiornamenti sarebbero stati irregolari, per la verità,
nemmeno io
pensavo niente del genere! - ma purtroppo, lo giuro, questo
è il
massimo che sono riuscita a fare: ho avuto degli orari
all'Università
semplicemente impossibili, da assommare ai continui disagi causati
dai mezzi di trasporto e, come se non bastasse, ogni singola sera che
non mi ritrovavo a letto già alle dieci c'era qualcuno che
insisteva
per uscire. Paradossalmente il capitolo era pronto già da un
po' di
tempo, ma copiarlo al computer mi ha portato via quasi altrettanto
tempo che scriverlo.
Ciò
detto, mi decido finalmente a pubblicare stasera, sperando che questo
nuovo capitolo possa valere almeno un minimo dell'attesa che ha
comportato.
Ci
tengo anche a fare i miei ringraziamenti a crystal_93, Persej Combe e
Stag Tree per le loro deliziose recensioni al precedente capitolo: so
di essere ripetitiva, ma mi hanno fatto davvero piacere!
Un
bacio enorme a tutti e vi auguro buona lettura.
Al
prossimo capitolo! (Che spero di poter pubblicare in tempi un po'
più
decenti, con la fine delle lezioni)
Afaneia
Capitolo
II
– Promesse da marinaio.
Se
c'è una
lezione che gli ha insegnato la sua recente esperienza di vedere un
colossale leggendario di quasi quattro metri alzarsi e andarsene a
spasso con disinvoltura in mezzo al mare, è che conviene
avere un
piano B in qualunque situazione. Che poi questo piano B sia spedire
una bambina di dieci anni negli abissi di una grotta segreta con
nient'altro che una tutina per ripararsi dal calore non importa:
l'importante è che un piano B ci sia. Sempre.
Quindi
Max, che
in quanto uomo di scienza ha imparato dai suoi errori, si è
presentato a questo appuntamento con almeno una decina di piani
diversi da attuare in base a tutte le possibili situazioni che
potessero verificarsi e ogni eventuale piega che potesse assumere la
conversazione. Il problema, come ha scoperto stasera nel giro di
pochi minuti, è che il comportamento dei bambini non rientra
esattamente in quella categoria di eventi di cui si può
prevedere in
anticipo lo svolgimento.
Hyra
starà con
loro per tutto il finesettimana, dopo che Ivan è andato a
prenderla
direttamente a Ciclamipoli, all'uscita da scuola. Nei giorni scorsi,
Ivan gli ha spiegato che si è sempre occupato di lei per la
maggior
parte dei week end dell'anno e circa la metà delle varie
vacanze
scolastiche, ma in modo piuttosto flessibile, senza regole precise:
in effetti, lui e Aima sembrano un perfetto esempio di
civiltà
genitoriale (Max se ne è sorpreso, in un certo senso, ma
dopotutto,
a ben pensarci, ha il sospetto che se qualcuno proibisse a Ivan di
vedere sua figlia, finirebbe col passare un quarto d'ora non
precisamente edificante). Questo regime si è interrotto per
qualche
mese nel periodo in cui le attività dei loro Team si sono
intensificate, ma ora, a quanto pare, Ivan non ha più alcuna
intenzione di perdersi i suoi momenti con sua figlia.
A
questo
proposito, Ivan ha tassativamente insistito perché lui
rimanesse in
casa per tutto il week-end. Egli gli aveva proposto di trovarsi
un'altra sistemazione per i finesettimana in cui Hyra si
fermerà da
loro, o almeno per i primi tempi, per non confonderla troppo
(«...dopotutto io e te non siamo sposati. Potrai
resistere per un
paio di notti da solo senza dovermi denunciare per abbandono del
tetto coniugale»), ma Ivan si
è mostrato decisamente
contrario(«Smettila, Max. Hyra capisce molte
più cose di quelle
che credi, non si sconvolgerà perché dormiamo
insieme. È una
bambina intelligente, sai?»), e Max, alla fine,
è rimasto.
Ivan
ha voluto
fare le presentazioni tra di loro non appena entrato in casa, e per
Max, che lo conosce più del suo proprio respiro, non
è stato
difficile intuire il perché: emozionato e orgoglioso
così, lui
quest'uomo non l'aveva visto mai.
Quanto
alla
bambina, per la verità, all'inizio gli è stato un
po' difficile
giudicare. Dopo aver nascosto per almeno un paio di minuti la faccia
contro il ginocchio di suo padre, forse sperando che in quel modo
egli non potesse vederla, alla fine tutte le affettuose insistenze di
Ivan hanno portato i loro frutti: finalmente Hyra si è
decisa a
guardarlo e, con grande solennità, gli ha teso la mano.
Allora Max
ha visto uno scricciolino di forse trenta chili, con lunghissimi
capelli neri, sopracciglia scure e molto folte, che quasi si
congiungono alla radice del naso, la carnagione olivastra e vellutata
di qualche paese esotico, e gli stessi occhi di Ivan. Da questo
dettaglio, chissà perché, Max si è
sentito molto colpito, senza
che ce ne fosse un vero motivo. Ma perché, poi? È
la figlia di
Ivan. È poi tanto strano che una bambina abbia gli occhi di
suo
padre?
Ma
la
somiglianza con Ivan non si limita a questo. Vinti i primi iniziali
minuti d'imbarazzo, dopo che Ivan le ha spiegato con calma che lui
era il ragazzo di papà e che da allora
in poi sarebbe rimasto
sempre con lui, Hyra si è limitata a far cenno di
sì un paio di
volte col capo, per dar segno di aver capito, ha aspettato un po' e
infine si è decisa a domandare a suo padre quello che,
evidentemente, non vedeva l'ora di chiedergli sin dal suo arrivo:
«Papà, ora posso andare a giocare in giardino con
Mightyena, però?
Non lo vedo da così tanto tempo!»
Dopodiché,
completamente dimentica della loro presenza, Hyra ha afferrato la
Pokéball che Ivan le porgeva e si è defilata
strillando,
immensamente felice di poter finalmente incontrare di nuovo il suo
amico Pokémon.
In
effetti, di
tutti i piani B che aveva elaborato nella propria mente, Max si rende
conto soltanto ora di non averne approntato nessuno per
l'eventualità
che alla figlia del suo compagno non importasse semplicemente nulla
della sua presenza.
«Beh,
è
andata bene, no?» constata Ivan allegramente, appogiandosi
allo
schienale del divano con aria immensamente compiaciuta, non appena i
latrati giocosi di Mightyena e le risate sguaiate di Hyra provenienti
dalla finestra aperta lo informano che no, non c'è alcun
pericolo
che sua figlia li senta.
Max
è
abbastanza sicuro di avere un'espressione assolutamente idiota in
viso da almeno qualche minuto. È inutile dire che la
reazione di
Hyra gli è giunta alquanto... inaspettata. Per la
precisione, si
sente stupido esattamente come quella volta che Groudon si è
risvegliato e se n'è andato allegramente a spasso per
l'oceano in
barba a ogni sua possibile previsione... solo che stavolta a
confonderlo così tanto è una bambina.
«Tu
dici?»
chiede con sincera perplessità.
«Sicuro
che lo
dico.» Certo, è inutile parlare con lui. Ivan
è felice come un
bambino che abbia appena ricevuto un regalo desiderato da troppo
tempo. «Anzi, sai che ti dico? Dopo cena potresti presentarle
i tuoi
Pokémon, che ne pensi? Sono certo che Hyra li
adorerebbe.»
«Sì,
certo.
Senti, Ivan, non so se ci hai fatto caso, ma non mi è parso
che le
importasse molto.»
«Beh,
certo
che no!» risponde Ivan, scoppiando a ridere della sua risata
roboante. Avvicinandosi a lui gli tira quella che dovrebbe essere,
almeno nelle sue intenzioni, un'amorevole pacca sulla spalla, che per
poco non gli provoca una lussazione. «Max, Hyra è
una bambina
intelligentissima, ma è una bambina. Ha bisogno di abituarsi
a
vederti qui ogni week end, prima di capire veramente che sei il mio
ragazzo. Che ti aspettavi?»
Già,
che si
aspettava? A questa domanda Max non si sente in grado di produrre una
risposta così, su due piedi, ragion per cui evita cautamente
di
rispondere. La verità è che forse non si
aspettava niente, e che
anche lui stesso, a sua volta, ha veramente realizzato per la prima
volta l'esistenza di Hyra solo nel momento in cui essa ha assunto una
forma precisa, davanti a lui, e nel suo viso egli ha riconosciuto gli
occhi di Ivan. Comunque, questo pensiero suona troppo stupido da
pronunciare ad alta voce, perciò Max si limita ad
appoggiarsi per un
solo attimo, familiarmente, al petto di Ivan.
«Immagino
che
tu abbia ragione» ammette malvolentieri (e lo ammette solo
perché i
bambini sono uno dei rarissimi campi in cui Ivan possa vantare una
maggiore conoscenza, tanto teorica quanto pratica, della sua, insieme
alle barche e poco altro).
Per
tutta
risposta, Ivan scoppia di nuovo a ridere. «Aye, sicuro che ho
ragione, Maxie. Fidati, conosco mia figlia.»
Ovviamente
questo Max non lo riconoscerà mai, forse neppure di fronte a
se
stesso, ma in fin dei conti è rassicurante sentire nel petto
di Ivan
tutta questa certezza.
Max
ha la
certezza che sta per accadere qualcosa di sgradevole quando, per la
prima volta non solo dall'inizio della loro convivenza, che non ha di
certo una durata degna d'esser presa in considerazione, ma
addirittura dalla prima volta che sono andati a letto insieme, Ivan
(già perfettamente vestito nonostante sia sabato mattina) lo
sveglia
passandogli due dita sulla guancia; e non perché Ivan,
abitualmente,
dorma sino a chissà quale ora tarda, o perché non
lo abbia mai
svegliato prima d'ora; ma perché vederlo alzato prima del
tempo ha
sempre voluto dire, solitamente, vederlo sgusciare via dal suo letto
prima dell'alba, il che andava bene, al tempo della loro inimicizia,
oppure sesso mattutino, il che è sempre andato bene in
qualunque
circostanza. Ma stamattina Max è abbastanza certo che non
possa
verificarsi nessuna delle due cose, ragion per cui, con la
consapevolezza dell'infarto che sta sicuramente per arrivargli, egli
balza a sedere sul letto e domanda: «Che vuoi?»
«Ehi.
Guarda
che stavo cercando di svegliarti dolcemente» ribatte Ivan,
che non
sembra essersela presa particolarmente, comunque, dato che conclude
la frase, allontanandosi dal letto, con un disinvolto «O una
roba
del genere, insomma.»
«Preferisco
il
vecchio metodo, grazie» ribatte Max, senza specificare quale
vecchio metodo, prima di guardare l'orologio. Sono le sette e
quarantacinque. «Che diamine ci fai alzato così
presto?»
Chinandosi
ad
allacciare le scarpe con l'aria di uno che stia spudoratamente
evitando di guardarlo, Ivan risponde con tutta la simulata noncuranza
di cui è capace (cioè pochissima):
«Lavoro.»
No,
no, no, no.
Questo assolutamente non era nei patti.
«Che cosa?»
«Oh,
andiamo,
Max... solo un paio d'ore» garantisce Ivan, nel tono
più serio che
riesce a produrre; ma per quanto egli si sforzi, la sua voce continua
a vibrare incontrollabilmente di divertimento, ed egli continua a
evitare di guardarlo direttamente. «Alan mi ha chiesto di
dargli una
mano con un paio di scartoffie che ci siamo dimenticati di compilare.
Lo sai com'è con la burocrazia.»
In
una
situazione normale, Max pondererebbe con la massima cura ciò
che sta
per dire in questo momento, per evitare di suonare come una ragazzina
isterica in preda al panico.
Il
problema è
che Max è in preda al panico.
«Non
puoi
lasciarmi solo in casa con tua figlia!»
«E
perché?
Sono assolutamente certo che non mangi carne umana.»
Forse
lei
no, ma io mangerò la tua se continui a divertirti alle mie
spalle.
«Non
la conosco neppure, Ivan!
Che cosa pensi che dovrei dirle?»
«Max,
non è
che ci sia tanto da conoscere. Ha sette anni. Non ha ancora deciso
neppure se il suo colore preferito è il giallo oppure il
rosso!»
Finalmente,
Ivan si decide a voltarsi e a guardarlo negli occhi. Ma se Max ha
coltivato finora la speranza di vederlo dispiaciuto, o come minimo
serio, per una volta nella sua vita, a questo punto non può
fare
nient'altro che rimproverarsi da solo della sua ingenuità.
Questo
bastardo si sta divertendo come mai prima d'ora. «A
proposito, è
abituata a svegliarsi da sola, ma se per le nove non si fosse ancora
alzata dovresti andare a darle un'occhiatina. Per colazione prende
del latte col cacao e i biscotti al cioccolato che abbiamo comprato
ieri. Le piace tanto quel cartone animato con una bambina che vive
con un Ursaring, e ha il permesso di guardarlo dopo le undici se
prima ha fatto i compiti. A proposito, come te la cavi con le
divisioni a due cifre?»
«Credevo
che
avessi detto che starai fuori solo due ore» obietta Max, che
non ha
alcuna intenzione di farsi distrarre dal problema principale.
È
evidente che
Ivan si sente colto in fallo.
«Aye,
certo,
certo, Maxie! Te lo dicevo così, per dire. E poi, se sei in
dubbio,
puoi sempre chiamarmi. Lascio il telefono acceso, okay?»
A
questo punto
della conversazione, Ivan è ormai perfettamente vestito e
pronto per
uscire. Sta cercando di svincolarsi dalla conversazione per potersene
finalmente andare abbandonandolo al suo destino, e Max sa di non aver
più molto tempo a disposizione per fare la sua ultima mossa.
«Ivan»
riprende con voce bassa e distinta, molto lentamente, e scandisce le
parole con la massima serietà. «Io ti
ucciderò se varcherai quella
soglia.»
Per
tutta
risposta, Ivan si protende sul letto e lo bacia sonoramente sulla
bocca. Max rimane così stupefatto che per un po',
effettivamente,
non gli viene in mente nessuna osservazione valida con cui
controbattere.
Al
contrario,
Ivan è perfettamente padrone di sé. Tornando a
tirarsi su per
allontanarsi dal letto, con l'aria compiaciuta e gongolante di
qualcuno che abbia appena trovato un'argomentazione semplicemente
inattaccabile e non si aspetti repliche, recupera la sua giacca e lo
guarda soddisfatto. Max rimane stupidamente immobile.
«Oh,
Max, ti
ricordi? Avevamo vent'anni la prima volta che hai minacciato di
uccidermi. Quanta passione che c'era, eh?»
Dopodiché,
senza attendere risposta, Ivan esce tranquillamente dalla camera,
canticchiando allegramente a bassa voce qualcosa a proposito di un
ragazzo su di un Lapras.
Come
Ivan aveva
predetto, Hyra fa la sua apparizione in cucina attorno alle otto e
venticinque, con addosso un delizioso pigiamino con su disegnato uno
Skitty e gli occhi ancora piccoli di sonno che girano pigramente
sulla stanza.
Più
la guarda,
e più Max non riesce a non pensare a quanto dannatamente
questa
bambina somigli a Ivan.
«Buongiorno,
piccoletta.»
Collo
sguardo
ancora assonnato e l'aria assente di qualcuno che non sia del tutto
convinto di essere sveglio, Hyra lo guarda per un po' e poi risponde
cautamente: «Ciao. Papà non
c'è?»
Quello
stronzo ci ha abbandonati a noi stessi. Reprimendo
a fatica l'impulso omicida che lo sta animando in questo momento, Max
si sforza di suonare rilassato e rassicurante quando risponde:
«È
dovuto andare a sistemare un paio di cose al lavoro, ma
tornerà
sicuramente per pranzo.» Altrimenti
farà meglio a non
tornare affatto,
ma quest'ultimo
pensiero, incidentalmente, rimane non detto.
«Okay»
risponde Hyra a bassa voce, ancora un po' perplessa, ed esita sulla
porta.
«Ti
ho
preparato la colazione» annuncia Max un po' troppo
precipitosamente,
per evitare che i primi minuti della loro vera conoscenza sprofondino
in una sorta di silenzio imbarazzato. È lui l'adulto della
situazione, dopotutto. Attirarla in cucina col cibo come una preda,
almeno sulla carta, sembra una buona idea. «Ti vuoi
sedere?»
«Grazie»
borbotta Hyra con aria un po' impacciata, e forse un tantino
più
sveglia rispetto a pochi minuti fa, prima di decidersi a inerpicarsi
una buona volta sulla sedia.
Nonostante
gli
sforzi di Max, ma forse a causa della sua pressoché
inesistente
disinvoltura coi bambini, i primi minuti della sua colazione
trascorrono avvolti da una cappa di mortale silenzio. Per ingannare
l'attesa, ed evitare di farla sentire troppo osservata, Max si sforza
d'inventarsi qualcosa da fare o da pulire o da riordinare attorno al
piano cottura, in silenzio, e aspetta.
Dopo
un po',
Hyra sembra finalmente essersi acclimatata alla sua presenza
abbastanza da domandare con voce squillante: «Dove hai detto
che è
andato papà?»
Tutto
sommato,
non è un brutto modo per iniziare una conversazione. Max si
volta
con calma verso di lei, per non dare l'impressione di non aver atteso
altro che qualche sua parola. «Al lavoro, piccoletta. Il suo
amico
Alan aveva bisogno di una mano.»
«Oh»
commenta Hyra, pescando un biscotto dal pacchetto e valutandone con
occhio attento la quantità di gocce di cioccolato.
«Anche tu lavori
con lui?»
«Beh,
no.
Io... lavoro in casa, per il momento.»
Hyra
non perde
un colpo. «Anche mia zia lavora in casa, sai? Lo zio lavora
in un
negozio e lei sta a casa e cucina e lava i vestiti e fa la spesa e fa
un sacco di altre cose. Anche tu?»
La
brusca presa
di coscienza che sì, è esattamente questo che sta
facendo nella sua
vita – la casalinga che se ne sta a casa a lavare i panni
mentre il
suo uomo lavora – lo coglie alla sprovvista a tal punto da
lasciarlo senza fiato. Fortunatamente, Max riesce a riprendersi
abbastanza in fretta da rispondere: «Non
esattamente.»
«Oh...
e
quindi che cosa fai?»
Come
si fa a
spiegare a una bambina di sette anni in cosa consista – o
consistesse – la sua principle occupazione? Nonostante non
sia
esattamente sicuro di aver trovato una metafora adatta, Max decide
comunque di fare un cauto tentativo. «Ecco, hai presente i
cattivi
dei videogiochi?»
«Quelli
che
buttano per terra gli ingredienti delle torte?» chiede Hyra
aggrottando la fronte.
Ma
con che
razza di videogiochi giocano i bambini di oggi?
«Volevo
dire
che sono uno scienziato» conclude in fretta Max, vedendosi
costretto
a una brusca inversione di tendenza, e questo lascia lui un po'
più
imbarazzato e Hyra un po' più confusa di prima.
Certo,
non che si tratti di una confusione tale che non si possa affogarla
in una sorso di latte e in qualche nuovo biscotto, a quanto pare.
Approfittando di questa pausa nella loro farraginosa conversazione,
Max torna ad alzarsi e ad affaccendarsi attorno al niente
della loro cucina, domandandosi con una certa parte della sua mente
se quella bambina sia in grado di smettere da sola di mangiare o se
continuerà per un indefinibile numero di biscotti. Nel
dubbio,
tuttavia, ritiene più saggio non pronunciarsi al riguardo.
Per
buona
fortuna, Hyra trova assai presto un nuovo problema su cui soffermarsi
mentre mangia.
«Comunque
la
mamma aveva detto che papà doveva aiutarmi a fare i
compiti»
borbotta a un tratto, rivolgendo al biscotto al cioccolato che tiene
in mano uno sguardo molto, molto contrariato, prima di inzupparlo
meticolosamente per tre quarti nel latte.
«Posso
aiutarti io, sai» risponde Max, cercando di mostrarsi il
più
gentile e, per quanto ne è in grado, entusiastico possibile.
Non
gli sembra un buon modo di instaurare un rapporto con la figlia del
suo ragazzo, quello di mostrarsi alquanto restio nei suoi confronti.
«Me la cavo bene. Hai molti compiti da fare?»
Tutto
quello
che è stato detto pochissimi minuti fa sull'essere uno
scenziato
dev'esserle entrato da un orecchio per poi uscire dall'altro. Hyra
gli rivolge uno sguardo scettico, che non deve lasciargli alcun
dubbio su quanto poco sia convinta delle sue capacità.
«La
maestra ci
ha dato delle divisioni difficili» spiega in tono di grande
importanza, come a volergli tacitamente suggerire, senza tuttavia
dirglielo direttamente, che un comune mortale come lui non
può di
certo ambire a simili vette di erudizione. «A due
cifre.»
«Già,
posso
immaginarmelo. Ma sono certo di poterti aiutare, se mi fai vedere il
quaderno.»
Dopo
un lungo
momento d'incertezza, Hyra beve lentamente un sorso di latte, si
asciuga la bocca col dorso della mano, e infine borbotta
pensierosamente, senza guardarlo dritto negli occhi: «Non
potrei
aspettare papà, così mi aiuta lui?»
Ed
è in questo
preciso momento che Max si rende conto di non aver mai
veramente avuto l'intenzione di aiutarla a fare i compiti... fino a
ora. In fin dei conti, Hyra non è sua figlia, e Max,
francamente,
aveva in mente modi d'instaurare un rapporto con lei assai migliori
che obbligarla a fare i compiti (beh, in ogni caso
è certo
che qualcosa gli sarebbe venuto in mente), per non parlare del fatto
che Ivan gli ha letteralmente scaricato addosso la patata bollente
–
ma questa è un'altra storia. Perciò, nei suoi
piani, tutto il suo
dovere in questo senso consisteva nel cercare delicatamente di
convincerla, nel prendere atto del fallimento di ogni sua strategia,
e nel permetterle infine di guardare i cartoni fino al ritorno di
Ivan. Il quale avrebbe poi dovuto vedersela da pari a pari con le
divisioni a due cifre o con qualunque genere di esercizio assegnino
alle elementari.
Il
problema è
che Hyra ha appena commesso l' ingenuo errore di sfidarlo.
Quando
Ivan
torna a casa, la bellezza di due ore dopo – e Max non manca
di
appuntarsi mentalmente anche questo ritardo nella lista delle cose
che deve far scontare col sangue al suo uomo – tutti i
compiti sono
miracolosamente stati fatti e Hyra, che si sta godendo un meritato
riposo davanti alla televisione e al suo cartone animato con
l'Ursaring e la bambina bionda, si precipita ad accoglierlo
strillando per farsi prendere in braccio. Al contrario, Max deve
trattenersi quasi fisicamente per impedire a se stesso di andare ad
accoglierlo sulla porta con l'intento di ucciderlo, e restare invece
lì davanti al tavolo, sminuzzando qualcosa con un coltello
che,
francamente, preferirebbe tanto piantare da qualche altra parte. Ma
non vuole sconvolgere Hyra subito dopo i compiti, per oggi.
Quando
Ivan
entra finalmente in cucina, presumibilmente dopo aver scaricato di
nuovo la bambina davanti alla televisione, con l'aria compiaciuta e
rilassata di qualcuno che decisamente non abbia
trascorso
l'intera mattinata a ripetere le tabelline (e anche a scrivere uno
stupido racconto su uno Skitty che dorme in cucina, e che egli le ha
proposto sarcasticamente di intitolare Una storia al
cardiopalma,
prima di ricordarsi che Hyra è un po' troppo piccola per
comprendere
al volo il sarcasmo), non c'è neppure bisogno di fare grandi
scenate
per mettere le cose in chiaro. Max si limita a brandire il coltello,
con tutta la calma di questo mondo, e ad affermare serenamente:
«Dovrei ucciderti, lo sai?»
«Oh,
andiamo... dillo che ti sei divertito» ribatte Ivan,
scrutandolo con
l'aria fintamente sorpresa che ha sempre quando sa di
aver
fatto qualcosa che non avrebbe dovuto, e ne sia ugualmente troppo
compiaciuto per riuscire ad ammetterlo. Max lo sta odiando. Tanto
–
e del suo odio Ivan sembra consapevole, dato che compie un movimento
istintivo per avvicinarsi a lui, come fa sempre quando torna a casa,
ma poi inspiegabilmente sembra considerare
un'opzione molto
più valida quella di rimanere a una prudente distanza da lui
e dal
suo coltello. «Hyra si è trovata bene con te.
Quando l'ho presa in
braccio mi ha detto nell'orecchio che sei molto bravo con le
divisioni.»
«Era
ovvio che
l'avrebbe detto» risponde Max senza scomporsi, né
tantomeno
concedere al suo nemico d'intenerirlo con questi mezzi meschini.
«Dopotutto, suppongo che il suo metro di paragone fossi tu.
Non era
poi una grossa sfida.»
Ma
forse
qualcosa nel suo contegno dev'essersi ammorbidito comunque, senza che
egli se ne accorgesse né tantomeno ne avesse l'intenzione,
perché
Ivan si decide infine ad avvicinarsi, rinunciando al confortante
riparo del tavolo frapposto come un ostacolo tra di loro, e lo
circonda da dietro con le braccia per dargli un morso –
giocoso ma
neppure tanto – sul collo. Max si ritrova costretto a posare
il
coltello per un attimo per evitare di deconcentrarsi troppo, mentre
Ivan appoggia il mento sulla sua spalla e rimane lì per un
po'.
«Che
cosa ne
pensi, Max?»
In
fin dei
conti lo sapeva che questo momento sarebbe arrivato. Come se fosse
una domanda facile poi, questa. Che altro si può dire che
non siano
banalità? Che è una bambina intelligente, certo,
e poi? Che è
simpatica, è dolce, d'accordo, e poi? Ma come si fa a
parlare di una
bambina?
Alla
ricerca di
qualcosa che possa suonare un tantino meno banale del resto, Max ci
pensa un po' e poi risponde: «Ti somiglia un sacco,
sai?»
Colla
faccia
affondata nella curva del suo collo, e la schiena che combacia con la
sua schiena, Ivan ride sommessamente. «Aye, lo dicono tutti.
Gli
occhi li ha presi da me, eh?»
«Non
è solo
questo.» O meglio sì, ma quella strana somiglianza
dei suoi occhi,
per quanto sia la cosa più palese di quella bambina, Max non
è
ancora riuscito a inquadrarla perfettamente. «È
anche un tipetto...
vivace.» Sembra sicuramente un modo gentile di dire che
quella
bambina è sufficiente da sola a far casino per una classe
intera.
Ma
per quanto a
lungo egli possa parlar d'altro, girare intorno alla questione e
fingere di credere che sia questo che Ivan vuole
sentirsi dire
da lui, Max lo sa che qui non si sta parlando degli occhi di Hyra o
della sua voce o della sua vivacità. Ivan gli sta chiedendo
che cosa
ne pensa lui.
«Beh,
mi
piace. Dobbiamo conoscerci meglio, ma... sì. Penso che
andremo
d'accordo, io e lei. Anche se io non sarò mai molto portato
per i
bambini.»
Per
tutta
risposta, Ivan lo stritola –
letteralmente! - stringendolo a
tal punto che Max non riesce davvero più a respirare per
qualche
istante, e lo morde di nuovo, questa volta decisamente forte,
peraltro – e basta, non ha bisogno di dire nulla. Max lo sa,
lo
sente che gli è grato, e in parte è anche questo
a togliergli il
respiro, perché vorrebbe che Ivan non lo fosse. Ma sa anche
che
parole per dire tutto questo non esistono, perciò tanto vale
spezzare in altro modo la tensione.
«Ehi,
Ivan...
senti.»
«Mh?»
«Non
ti sei
inventato di avere da fare al lavoro solo per lasciarmi apposta da
solo con tua figlia, vero?»
«Ehm.
Che si
mangia a pranzo?»
Questa
domenica, eccezionalmente, Ivan deve riportare Hyra a Ciclamipoli
già
nel primo pomeriggio, dato che un compagno di scuola ha organizzato
una festa di compleanno intorno alle quattro.
Ragion
per cui,
subito dopo pranzo, Ivan si è tirato su le maniche, ha
aiutato Hyra
a lavar via dalle mani e dalla faccia i postumi di un week end di
scarabocchi coi pennarelli, ha sorvegliato attentamente l'operazione
di vestizione di un vestitino blu con le balze bianche – fino
a
quel momento nascosto, religiosamente incellophanato, nella piccola
valigia della bambina – e infine, con una serie di sbuffi e
imprecazioni che i suoi occhi esprimevano molto bene anche senza
bisogno di ricorrere alla voce, e una non indifferente serie di
tentativi, le ha pettinato i capelli in due trecce un po' meno
pietose di quanto fosse lecito aspettarsi da lui, e sorprendentemente
simmetriche.
Ma
al termine
di questa lunga e, a quanto pare, estenuante cerimonia, Ivan non
accenna neppure ad andarsi a cambiare, per presentarsi alla festa in
modo un po' meno informale che in jeans e T-shirt bianca. Quando Max
tenta di farglielo cautamente notare, Ivan si limita a stringersi
nelle spalle e a argomentare: «Perché dovrei
cambiarmi? La mamma
del bambino ha preso degli animatori per la festa, perciò
non c'è
bisogno che restiamo a sorvegliare i bambini mentre giocano. E poi le
altre mamme mi fissano sempre» aggiunge in tono di grande
disappunto. «Non voglio mica dargli la soddisfazione di
pensare che
mi sono messo in tiro per loro.»
«Non
credo che
ti guardino per il tuo abbigliamento, Ivan, sai» risponde Max
aggrottando la fronte, ma Ivan non fa in tempo a chiedergli a che
cosa si riferisca. Proprio in quel momento, Hyra si precipita fuori
dalla sua cameretta in un tripudio di balze e di pizzo, portando in
modo un po' instabile un delizioso pacchetto regalo dall'aria molto
colorata, ed esclama: «Papà, andiamo! Siamo in
ritardo.»
Ivan
deve avere
una sorta di curioso presentimento riguardo alla sorte del regalo e
alla vivacità dell'impazienza di Hyra, perché con
grande
discrezione, e senza neppure aver l'aria di essere preoccupato, le
sfila il pacco dalle mani e le sistema le trecce.
«Aye,
in
marcia allora! Ma prima non vuoi salutare Max?»
«Sì,
però
poi andiamo» ci tiene a ribadire Hyra, assumendo un certo
tono
serioso e ammonitore come a dire se
non ci fossi io a pensare a tutto, chissà che cosa
combineresti. Dopodiché,
e senza
che la cosa paia costarle il benché minimo sforzo di
volontà o di
riflessione, né la minima affettazione, Hyra gli si
avvicina, lo
abbraccia familiarmente alla vita e domanda con voce squillante:
«Ciao, Max. Sei qui anche il prossimo week-end?»
C'è
qualcosa
in quell'abbraccio affettuoso e puerile, così dannatamente
privo di
secondi fini, che inspiegabilmente pare soffocarlo, togliergli il
respiro molto più e più bruscamente di quando
Ivan lo ha stritolato
il mattino precedente. Sotto lo sguardo irridente e derisorio e
profondamente compiaciuto di quel maledetto, Max si ritrova a
boccheggiare e a cercare alla rinfusa nella sua mente spiazzata
qualcosa di sensato da risponderle. «Sicuro. Anche la
prossima
settimana, certo.»
Finalmente,
dopo questi due giorni di inferno, Ivan deve essere riuscito a
concepire nella propria mente almeno una briciola di pietà
per la
sua precaria situazione, perché per una volta si decide a
venirgli
in aiuto. «Max da adesso vivrà sempre con
papà, tesoro. Io e la
mamma te l'abbiamo già spiegato. Ti ricordi?»
«Allora
facciamo i compiti insieme anche sabato prossimo» conclude
Hyra
allegramente, come se questa fosse l'unica deduzione logica che le
viene in mente al riguardo. Per il momento, Max ritiene che sia
più
saggio non soffermarsi a chiedersi se sia un bene che, nella sua
mente, quella sia la massima conseguenza notevole del fatto che suo
padre conviva con un uomo. Con ogni probabilità, lo
scoprirà col
tempo. Per il momento, egli le concede di sbilanciarsi tanto da darle
una sorta di rapida carezza, o pacca, o per meglio dire un minuscolo
colpetto sulla spalla, e da accennare a fatica un sorriso.
«Certo,
piccoletta. A venerdì.»
Il
che, per
lei, dev'essere una garanzia sufficiente. Staccandosi allegramente da
lui, Hyra se ne torna saltellando da suo padre con l'espressione
seria e coscienziosa di qualcuno che abbia compiuto debitamente il
proprio dovere, ed esclama: «Papà, andiamo!
È tardi.»
Quando
alza lo
sguardo su Ivan, appoggiato a braccia incrociate contro lo stipite
della porta già aperta, Max si ritrova a pensare di non
averlo mai
visto tanto felice come oggi.
«Grazie»
mormora Ivan quasi senza voce, mentre sospinge delicatamente Hyra
verso l'auto sul vialetto.
Pochi
minuti
dopo, quando la voce eccitata di Hyra e il rombo dell'automobile si
sono spenti in lontananza, e Max si ritrova completamente solo per la
prima volta da quando è iniziato quell'infernale week-end,
si
stupisce un po' di scoprire la casa un tantino più
silenziosa e
forse più solitaria di quanto sia abituato a percepirla, il
che è
strano, per lui che trascorre la maggior parte delle sue giornate da
solo mentre il suo compagno è al lavoro. Ma è
meglio non
soffermarsi a riflettere su questo strano senso angoscioso di vuoto e
solitudine e di estraneità che lo assale. Al momento, Max si
arrangia a cercare per l'ennesima volta qualcosa con cui tenersi
impegnato, nel vano tentativo di reprimere almeno per qualche ora il
desolante pensiero che per quanto egli possa impegnarsi, e lottare, e
riuscire persino a far felice Ivan da qui all'eternità per
ogni
singolo giorno della sua vita, nulla di tutto questo potrà
mai fare
di lui una persona migliore e cancellare tutto quello che ha fatto.
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Capitolo 3 *** Accidenti al diavoletto. ***
Buongiorno
a tutti!
Come
al solito, ho un
ritardo mostruoso nell'aggiornamento, me ne rendo perfettamente
conto: se ci ho messo così tanto a finire di scrivere il
capitolo, di cui una buona parte faceva peraltro parte del nucleo
iniziale
della storia risalente all'estate scorsa, è
perché la sessione
estiva degli esami non mi ha davvero dato tregua e ho dovuto mettere
da parte più di un hobby; e in aggiunta, come se non
bastassero le
giornate dedicate interamente allo studio, è da maggio che
non
riesco a trascorrere a casa più di una serata a settimana.
Ma ora
sono qui, finalmente, e mi scuso sinceramente per il ritardo.
Questo
è sempre stato
probabilmente il mio capitolo preferito della storia, sul quale ho
ragionato davvero un sacco. Mi fa piacere pubblicarlo ora, a distanza
di un anno da quando è stato progettato, e rendermi conto di
quante
cose più o meno grandi siano cambiate nella mia vita... e di
quanto
comunque rimanga vivida in me l'idea di un amore come questo. Ma
meglio non dire altro, per evitare rischi di spoiler!
Come
mio solito, i miei
ringraziamenti più sinceri a crystal_93 e a Persej Combe per
le loro
dolcissime recensioni (e per la spinta a pubblicare infine questo
capitolo!), e in generale a chiunque continui a seguire la storia in
qualsiasi modo. Ogni minimo apprezzamento fa sempre piacere!
A
questo punto, direi che
davvero non posso fare altro che lasciarvi al capitolo.
Buona
lettura!
Afaneia
Capitolo
III
– Accidenti al diavoletto.
Non
c'è quasi
giorno che Ivan non cerchi di convincerlo a fare qualcosa, e questo
non perché gli stia rinfacciando alcunché. Max lo
sa, lo vede nei
suoi occhi che Ivan sta disperatamente cercando di aiutarlo, eppure
ha l'impressione di essere lontanissimo da lui, a una distanza
infinita da ogni suo tentativo di approccio, e si sente come se
attraverso quell'enorme distanza deserta che si apre tra di loro ogni
sua parola fosse come un urlo che la lontananza soffoca, e che giunge
a lui attutito e sfumato e a malapena udibile.
«Potresti
tentare l'insegnamento» gli suggerisce Ivan una sera.
«Hai due
lauree, no? Potresti insegnare geologia... o biologia... o quello che
è.»
La
sera dopo è
la volta di un dottorato di ricerca (Max non vuole neppure scoprire
dov'è che Ivan possa aver sentito la parola dottorato,
e a
ogni modo è alquanto certo che non sappia comunque di cosa
si
tratta) e quella dopo ancora di un'azienda per prodotti di
giardinaggio. Ma quando si accorge che la prospettiva del lavoro non
pare scuoterlo, Ivan non si scoraggia affatto. Visto dai suoi occhi,
il mondo deve apparire come un luogo ricco di possibilità e
occasioni per reinventarsi, per uno che abbia rischiato di provocare
l'apocalisse, e Max invidia un poco questa sua visione del mondo. Gli
piacerebbe essere in grado di vedere anche lui queste infinite strade
che Ivan gli disegna davanti, ma per quanto lo riguarda, davanti a
sé
egli non vede altro che la terra bruciata che per poco non ha creato
davvero.
«Ada
mi ha
parlato di un corso di primo soccorso qua vicino, sai, per quelli che
aiutano sulle ambulanze. I soccorritori, ecco. Non so, magari ti
poteva interessare.» Ivan, ho rischiato di uccidere
delle
persone. Non sono proprio la persona giusta da far salire su
un'autoambulanza, ma questo Max non lo dice. Non vuole
aggredire
Ivan con tutta la sua meschinità.
Ma
poi, ancora:
«Sai, c'è un gruppo che si occupa di pulire la
spiaggia, la sera
verso l'ora di cena», e poi altre cose ancora, fino ad
arrivare al
fondo dell'abisso: «Sai, il sabato mattina c'è un
gruppo di
volontari che aiuta i bambini della scuola elementare a fare i
compiti.»
Non
è che Max
rifiuti. Ivan si sta impegnando a trovargli un'occupazione molto
più
di quanto stia facendo lui stesso, ma se si soffermasse a riflettere
un solo istante si renderebbe conto che quelle sue mezze risposte
incerte sono molto più irrispettose e terribili di un netto
rifiuto.
«Ci
penserò»
dice qualche volta, e altre volte ancora invece: «Beh, sembra
interessante», o persino: «Dovrei compilare un
curriculum». (Ma
chi vuole prendere in giro? Che potrebbe mai scriverci di nuovo? Il
suo tentativo di distruggere Hoenn è davvero considerabile
una buona
referenza? Ah, Max ne ha sentite tante di stronzate in vita sua, ma
questa le batte tutte.) Qualche volta dice solo
«Grazie», e per
tutti i lunghi secondi successivi Max sente lo sguardo deluso,
spaesato di Ivan sulla schiena. Sa che vorrebbe una risposta in
più,
un cenno, la più piccola manifestazione d'interessamento o
determinazione in risposta alle sue parole. Nella fissità
dei suoi
occhi confusi, Max sente che Ivan vorrebbe davvero vederlo alzarsi,
muoversi, fare qualcosa: sollevare il telefono, leggere un annuncio,
accendere il computer per aggiornare il curriculum... forse gli
basterebbe anche solo questo, un minimo segnale d'impegno da parte
sua, anche se questo non dovesse comportare alcuna conseguenza
pratica: per un po' Ivan si accontenterebbe di vederlo in piedi,
colla mente intenta a qualcosa di concreto, e basta.
Ma
questo gesto
così minimo, questo brevissimo passo, Max non ha ancora
alcuna
intenzione di compierlo, e non perché non lo voglia, ma
perché il
semplice atto di sollevare una mano o alzarsi in piedi gli pare
richiedere uno sforzo sovrumano, troppo grande e sproporzionato per
le sue reali forze, come se ogni parte del suo corpo - non sempre, ma
solo quando egli vi si sofferma col pensiero - fosse intrappolata in
un unico blocco di metallo immane e pensantissimo, impossibile anche
solo a smuoversi, e non valesse neppure la pena di provarci. Ma tutto
questo a Ivan non si può dire, semplicemente
perché parole per
dirlo non esistono a questo mondo, e allora tutto ciò che
Ivan vede,
quando guarda verso di lui, è il suo compagno che non
accenna ad
alzarsi dal divano e che a malapena lo ascolta.
In
fin dei
conti, Max l'ha sempre saputo che questo momento sarebbe arrivato,
prima o poi... e anzi, la pazienza e la capacità di
tolleranza di
Ivan l'hanno sorpreso oltre ogni dire. È riuscito a
sopportare molto
più di quanto si sarebbe aspettato mai, ma ora, decisamente,
basta.
Non
sa neppure
dire come sia iniziata. Probabilmente non c'è neppure stato
un vero
motivo. Semplicemente, quando Ivan è tornato a casa dal
lavoro ed è
entrato in salotto a salutarlo, l'ha trovato sul divano, più
o meno
nello stesso identico punto dove l'aveva lasciato stamattina. Non
è
certo la prima volta che succede una cosa del genere, in
realtà, e
di certo è proprio questo il problema.
«Che
hai fatto
oggi, Max?»
La
sua voce è
tagliente, questa sera, e molto, molto calma. Questa sera, per la
prima volta, Max sente che la sua non è una semplice domanda
di
cortesia. Stavolta esiste una risposta giusta alla domanda, ed egli
sa di stare per dare quella sbagliata.
«Ho
cercato
lavoro.»
Per
la cronaca,
non è esattamente una bugia, questa. È da
settimane ormai che non
pensa ad altro che a come poter impiegare la sua miserabile esistenza
in un modo un po' diverso che distruggendo Hoenn, e questo coinvolge
anche l'intera riflessione sui suoi possibili sbocchi
occupazionali... il problema è che nessuna di tutte queste
sue
immani elucubrazioni lo ha ancora condotto da nessuna parte. Ci ha
pensato, è vero, ma tutti i suoi pensieri sono stati
perlopiù
angoscianti circoli viziosi che iniziavano e terminavano sempre entro
la sua testa, e niente di più.
Ivan
non
risponde, e Max sente che il suo sguardo ora non è
più fisso su di
lui. Sta guardando il giornale, per esempio, ancora appoggiato sul
tavolino dove l'ha lasciato lui stesso questa mattina, e
pressoché
intonso, e poi altre cose ancora, ma in modo troppo inconsistente
perché Max possa intercettare il suo sguardo e dedurne cosa
stia
pensando.
«Cazzo»
borbotta dopo un po', e Max non può proprio fare a meno di
sentirsi
colto in fallo, a questo punto.
«Senti,
Ivan...»
«Lascia
stare,
Max.» La voce di Ivan è ancora stranamente calma e
fredda, gelida e
distante da lui quanto gli abissi dell'oceano, e molto più
disturbante. Di fronte alla rabbia scostante che il suo tono esprime,
Max si scopre improvvisamente ancor più spiazzato di prima,
perché
di solito, negli ultimi vent'anni, è sempre stato Ivan a
infuriarsi
e urlare e spaccare i mobili. Perché ora non sta urlando?
«Non
rimango a cena. Sentirò se Alan ha voglia di una birra al
pub, o
qualcosa del genere. Non mi aspettare alzato.»
Praticamente
l'unica cosa che Max abbia fatto oggi, esattamente come tutti i
giorni precedenti da quando si è trasferito in questa casa
– oltre
ad andare tre o quattro volte al bagno e a guardare un'interminabile
serie di televendite, che sembrano essere l'unica cosa che la sua
scarsa attenzione sia in grado di seguire - è stato
preparare la
cena per lui e Ivan. (Non è una cosa ch'egli faccia per
sentimento,
o per spirito di sacrificio, o per niente del genere. È
l'unica cosa
sensata che possa fare per occupare almeno una minima parte delle sue
giornate, e la fa, senza neppure chiedersi se debba farlo o ne valga
la pena o cose simili.) Non sa neppure se il fatto che Ivan non
voglia cenare a casa lo intristisca, o lo spaventi, o semplicemente
lo faccia sentire come una stupida massaia insensata.
«Oh...
giusto.
Fai bene.»
Per
la sequenza
di secondi più infinita e più angosciante ch'egli
ricordi d'aver
mai provato in vita sua, Ivan non risponde e lo guarda. Max lo sa, lo
vede nei suoi occhi che è arrabbiato.
«Aye,
Max»
risponde finalmente, senza distogliere lo sguardo da lui.
«Certo che
faccio bene. Perché mai dovrei voler stare qui con
te?»
È troppo, Max
non può farcela a restare in silenzio. Anche se si era
ripromesso di
non protestare mai, perché diritti di cambiare le cose sa
bene di
non averne, e poi perché Ivan non gli appartiene e gli ha
già fatto
il favore di restare con lui dopo tutta quella storia. Mentre Ivan si
volta ed esce a grandi passi dalla stanza, d'improvviso Max si rende
conto che non può lasciare che se ne vada così.
Per la prima volta
in tutta la sua vita, Max scavalca il divano e lo segue
nell'ingresso.
«Ascolta,
Ivan...»
Ma
mentre
s'infila di nuovo il pesante giubbotto di pelle, e si fruga
più
volte le tasche cercando nervosamente le chiavi, Ivan non lo guarda
neppure.
«Lascia
stare,
Max. Io non ero del Team Magma, ti ricordi? Alle tue colossali
cazzate non ci ho mai creduto, quindi non affannarti a inventarne
un'altra.»
«Ivan...
voglio davvero cambiare le cose. È solo che...»
«È
solo che
cosa?»
Quando
Ivan
finalmente si volta e lo affronta, e gli domanda che cosa
esattamente lo trattenga dal fare qualcosa, Max lo sa qual è
l'unica
risposta giusta: la sua meschinità e la sua codardia, e il
fondo
dell'abisso della sua autocommiserazione. Sarebbe così
facile
ammettere tutto e sgravarsene la coscienza, certo, e questo sarebbe
proprio il momento giusto per farlo. Ma quando è in procinto
di
ammettere tutto e cercare nella confessione una sorta di pace, Max si
ritrova senza voce, perché confessare tutti questi orrori
non li
farà magicamente sparire, e soprattutto perché si
accorge che, in
fin dei conti, essi non sono neppure il vero problema.
«È
solo che
non capisco perché sei rimasto con me.»
Perché
Ivan si
sia preso carico di questo relitto umano che per poco non ha
distrutto Hoenn, perché lo abbia gravato del peso immenso di
questa
gratitudine e di questo debito ch'egli non potrà saldare
mai. Max è
sicuro che una risposta semplice a tutti questi perché, da
qualche
parte, esista, ma al contempo è consapevole che tutta la sua
intelligenza non basterà mai ad arrivare a comprenderla
appieno; e
questo perché, se c'è qualcosa che ha davvero
capito in
tutti questi mesi, è che se le cose fossero andate
diversamente, se,
in un qualche universo parallelo distante e diverso dal loro per
nient'altro che pochi dettagli, fosse stato Ivan a risvegliare
Kyogre, Max non sarebbe rimasto con lui. Anche questa consapevolezza,
un poco alla volta, è andata ad aggiungersi al complesso
delle sue
colpe e della sua gratitudine, ma questa, a differenza di tutto il
resto, non si potrà confessare mai.
Tutto
ciò che
Max può fare, ora, è rimanere immobile a vedere
lo sgomento e la
rabbia farsi più grandi e più brucianti negli
occhi di Ivan, e ad
aspettare che finalmente la tempesta del suo rancore si riversi su di
lui e lo travolga e lo anneghi, una volta per tutte.
Ma
quella
tempesta, ch'egli ha contemporaneamente tanto temuto e tanto sperato,
non arriva. Allora Max guarda meglio, più a fondo, e si
accorge che
non c'è solo rabbia negli occhi di Ivan.
All'improvviso, ed
egli è certo di non sbagliarsi, il suo compagno gli appare
tremendamente deluso. Ma perché?
«Per
scopare,
Max» risponde infine Ivan a voce bassa, molto lentamente; e
la sua
voce è così carica e vibrante di dolore e di
sgomento e di
sarcasmo che Max non può proprio sentirsi ferito da questa
risposta,
perché non è la verità. Ma allora
perché sta dicendo questo? «Per
quale altro motivo sarei dovuto restare con te? Credevo che lo
sapessi... dopo vent'anni.»
Dopodiché,
senza attendere da lui nemmeno una parola di risposta, Ivan si volta
ed esce di casa in silenzio, senza guardarlo. Non sbatte neppure la
porta.
Max
è solo,
ora. La casa è silenziosa, e questo silenzio pare
affliggerlo e
angosciarlo più di un intero universo che urli. Ma come si
fa a
metterlo a tacere?
Max
non vuole
pensare, non vuole ascoltare, non vuole fare niente di tutto
ciò e
allora, per l'ennesima volta, fa l'unica cosa che abbia imparato a
fare in questi mesi. Si rimbocca le maniche e lava i piatti, sistema
in frigo la cena intoccata, pulisce il bagno, le finestre, la cucina,
la camera da letto, ogni singola cosa che trovi, e disperatamente si
concentra sugli oggetti e sulle proprie mani e cerca di non
pensare a niente.
Ma
anche la
casa ha una fine. Quando ormai praticamente tutto quello che lo
circonda brilla o quantomeno profuma di candeggina e disinfettante e
deodorante per ambienti, e non gli rimane proprio più nulla
su cui
mettere le mani, Max si ritrova di nuovo seduto sul divano, e pensare
diventa inevitabile. Il silenzio lo circonda ancora da ogni parte,
insistente tanto che neppure il mugghiare sordo della lavatrice
riesce a coprirlo, ed egli deve dargli ascolto, finalmente, e
fronteggiare la realtà.
Per
la prima
volta in vita sua, Max è costretto a fare i conti col fatto
che Ivan
potrebbe decidere di non tornare mai più.
Quando
finalmente Ivan lo raggiunge a letto e s'infila in silenzio sotto le
coperte, al buio, Max si sforza di capire così, senza
toccarlo, se
indossa o meno il pigiama. Questo gli darebbe almeno qualche
indicazione sul suo attuale stato d'animo: solitamente, la massima
concessione al vestiario che Ivan ammetta sotto le coperte è
un paio
di boxer. Se indossasse il pigiama vorrebbe dire che è
davvero tanto
arrabbiato con lui, ma Max è costretto ad affrontare la dura
realtà
che neppure uno scienziato plurilaureato può capire che cosa
indossa
il suo uomo semplicemente dal calore che la sua pelle emana.
Può
solo rimanere immobile, rannicchiato nella sua metà del
letto, e
aspettare mentre finge di dormire.
Ivan
è rigido,
freddamente distante da lui nel letto, e troppo composto. Max sente
che anche il suo respiro, di solito rumoroso e invadente anche prima
ancora di cominciare a dormire, è lento e misurato,
silenzioso, come
se Ivan volesse preservare quel silenzio perché sia lui a
parlare, o
forse avesse troppe cose da dire da non saper da dove cominciare.
Per
parte sua,
Max non l'ha mai sentito, questo silenzio. Ivan non è certo
il tipo
da gelido silenzio indignato: la sua rabbia è sempre stata
esplosiva
e violenta, fulminea e impetuosa come un temporale che tuoni molto
più di quanto compia effettivamente, ma stasera è
diverso. È la
prima volta che Max non sa come prenderlo e questo, stupidamente, lo
spaventa. Aspetta.
«Non
sono
arrabbiato, Max.»
La
voce di Ivan
è calda e stanca, estenuata, e vibra vagamente di conforto.
Non sta
mentendo, e all'improvviso Max sente una grande ondata rassicurante
invadergli il petto e riscaldarlo. Il sollievo che quelle parole gli
danno è stupido e puerile, ma al contempo è
così grande che Max
non si sofferma neppure a riflettere su questo aspetto.
«Ma
non ti
chiederò neppure scusa. Lo sai anche tu che ho ragione
io.» Ivan fa
una pausa, e Max sente chiaramente che si aspetta che sia lui a dire
qualcosa, ora. Si ritrova ad annaspare, ma tutto ciò che gli
viene
da dire è: «Lo so.»
«Mh.
Bene»
borbotta Ivan, e a questo punto, Max pensa che per stasera basti
così. Non si aspetta davvero niente di più, dopo
il suo
comportamento di tutti i mesi precedenti, e dopo quello che ha fatto,
e tutto il resto: dopotutto, Ivan non era tenuto a perdonarlo.
«Ti
amo, Max.»
La
sua voce è
così calda e rassicurante che Max sente che potrebbe
tremarne. In
una coppia come la loro, e alla loro età, poi, certe
sciocchezze non
si dicono spesso. Fa parte di quella categoria di cose che a un certo
punto si cominciano a dare per scontate, e a quel punto, come tutte
le cose che si danno per scontate, si dimenticano.
«Già...
ti
amo anch'io.»
«Guarda
che io
lì non ci vengo. Se vuoi, vieni tu qui.»
Anche
questo è
giusto. Con un sospiro, Max si volta e attraversa con un po' di
difficoltà quella striscia gelida di letto inviolato che li
separa.
Ma una volta varcato il confine, c'è il grande calore
accogliente
del corpo di Ivan, e Max sente di essere al sicuro come nel mare
calmo.
Ivan
è in
mutande, per fortuna, e Max sa che è sciocco essere tanto
contento
per una simile inezia ma, dopotutto, non è che gliene
importi poi
tanto. Le sue braccia sono calde e rassicuranti, e sul suo petto
caldo Max dorme per tutta la notte per la prima volta dopo mesi.
(A
fine capitolo, per
evitare qualsiasi riferimento troppo affrettato al contenuto dello
stesso, mi pare opportuno inserire una piccola spiegazione relativa
al titolo: l'ho scelto in riferimento a una canzoncina molto usata
dai bambini per fare pace. Digitando Accidenti al diavoletto su
Google potrete trovare tutte le varianti di questa breve filastrocca,
che non so quanto sia effettivamente diffusa in tutta Italia.)
|
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Capitolo 4 *** Hai detto una parolaccia. ***
Capitolo
IV
– Hai detto una parolaccia.
Hyra
ha ancora
un po' di vergogna a rivolgersi a lui quando Ivan non c'è, e
a dire
il vero anche Max non si sente pienamente a suo agio.
(Perché quel
maledetto, da quando ha scoperto di poter sbolognargli sua figlia
ogni volta che vuole, ha cominciato ad aiutare sempre più
spesso
Alan al lavoro il sabato mattina). Perciò, quando si accorge
che
Hyra si è messa a sedere al tavolo alle sue spalle e lo
fissa in
silenzio da un po', senza avere il coraggio di parlare mentre egli
sta cucinando, si sente in dovere di dirle qualcosa.
«Hai
fame?»
«No,
grazie.
Ho fatto merenda» risponde sussiegosamente la bambina. Max
sente i
suoi talloni che percuotono ritmicamente le gambe della sedia e si
domanda se dovrebbe dirle che non si fa, ma poi decide di no. Non ha
mai confidato molto sulla durata del loro mobilio, a dire il vero,
non con Ivan in casa.
«Hai
già
finito i compiti?»
All'improvviso,
come se avesse trovato un coraggio e delle parole che le mancavano da
un po', Hyra balza in piedi ed esclama con voce acutissima:
«Mi
sapresti aiutare col progetto di scienze?»
Max
rimane
tanto sorpreso che quasi gli sfugge il coltello di mano. Si decide ad
appoggiarlo sul lavello, per buona misura, e poi, asciugandosi le
mani, si volta lentamente verso la bambina. Hyra la sta fissando con
la sua piccola espressione accorata e contratta in attesa di una sua
risposta, allora Max si schiarisce la voce e domanda:
«Perché lo
stai chiedendo a me?»
«Ti
prego»
sbotta la bambina sbattendo un piede a terra. Non che un gesto del
genere, da parte di una bambina che si è fatta pettinare i
capelli
dal padre meno di tre ore prima, costituisca una grossa minaccia.
«Io
non so che cosa fare e papà ha detto che tu hai studiato
scienze!»
Oh,
papà. Max
stringe nervosamente il pugno, immaginando di stritolare al suo
interno la testa di Ivan: ma certo. Una delle sue solite idee per
fargli stringere un rapporto con sua figlia, e anche per trovargli
qualcosa da fare. Quando lo capirà che lui non è
portato per i
bambini?
«Beh,
Hyra,
tanto per cominciare...»
Ma
Ivan o non
Ivan, di certo il progetto di scienze non sembra un'invenzione. Hyra
la sta fissando con tutta l'aria di una bambina che potrebbe mettersi
a urlare o a fare le bizze da un momento all'altro, o qualsiasi altra
cosa, e Max non si sente assolutamente in grado di fronteggiare una
cosa del genere. E poi, è un progetto di scienze. Di che
cosa potrà
mai trattarsi? Qualche ricerca sulle rocce e un paio di passeggiate a
raccogliere dei campioni? Certo, potrebbe farlo Ivan, ma non
è nulla
di cui Max non possa occuparsi in un pomeriggio. Hyra lo adorerebbe e
fine della storia.
«Di
che si
tratta?» chiede perciò, appoggiandosi al piano
della cucina.
Ma
prima di
rispondere Hyra vuol mettere le cose in chiaro. «Allora
accetti?
Accetti?»
La
sua
eccitazione lo fa quasi ridere. «Ma certo che accetto. Di che
si
tratta?»
Prima
di
scoprirlo, deve aspettare che Hyra improvvisi un suo piccolo balletto
di giubilo, saltellando in giro per la cucina e strillando la propria
vittoria. Dopodiché, quando anche questa piccola
manifestazione di
gioia è terminata, Hyra torna a sedersi sul bordo della
sedia, tutta
eccitata, e spiega: «Lo fanno tutte le classi! La terza A ha
l'acqua, la terza B ha l'aria, e così via, e poi ci siamo
noi che
abbiamo la terra. Ciascuno deve fare un progetto e poi facciamo una
grande festa e poi facciamo una recita e poi...»
Max
la lascia
spiegare per un po', senza interromperla, che cosa
riguarderà la
recita e varie altre cose per cui finge un po' più interesse
di
quello che realmente prova, e infine chiede: «Bello. Ma tu
che
progetto vorresti fare?»
È
qui che si
scatena il dramma.
«Non
lo so!»
esclama Hyra, cacciandosi le mani tra i capelli in quel modo un po'
melodrammatico che hanno i bambini. «Non lo so, capisci? Io
non so
niente della terra!»
«Beh,
non ti
preoccupare. Troveremo sicuramente qualcosa» cerca di
rassicurarla
Max, un po' perplesso da tutte quelle sceneggiate. Non riesce mai a
capire perché i bambini ingigantiscano sempre tutto. Si
guarda un
po' attorno cercando di raccogliere le idee, e a quel punto lo
sguardo gli cade accidentalmente fuori dalla finestra. All'orizzonte
si eleva una grande montagna, la cui cima è ammantata da una
coltre
di fumo leggera, che gli dà un lieve disagio quando egli la
guarda.
«Possiamo
costruire un vulcano» propone con decisione. Tutto fa pensare
che
sia una buona idea: è una cosa piuttosto banale,
realizzabile in
appena una manciata di ore, e i bambini vanno matti per quel genere
di cose colorate e rumorose.
Ma
evidentemente Hyra non è del suo stesso parere: Max la
osserva
arricciare le labbra sbuffando e fissarlo delusa.
«No,
un
vulcano no!» protesta scuotendo la testa. «Il
vulcano lo fanno
tutti. Io voglio qualcosa che faccia schiattare d'invidia tutti i
miei compagni!»
Il
dovere di un
genitore ora, probabilmente, sarebbe quello di rimproverarla e di
farle notare che questo non è un linguaggio né un
pensiero degno di
una bambina come lei; che lo scopo del progetto non è
questo, che i
valori che contano sono ben altri che l'invidia, che...
È
una vera
fortuna che Max non sia suo padre.
«Hai
ragione.
La conosci la tettonica delle placche?»
Hyra
dà in un
forte sobbalzo sulla sedia, guardandolo sconvolta. «Hai detto
una
parolaccia!»
Chissà
quando
è stata l'ultima volta che ha sentito qualcuno pensare che
la
tettonica delle placche fosse una parolaccia: a Max viene quasi da
sorridere. «Non è una parolaccia, è un
termine scientifico. Ne
deduco che tu non sappia che cos'è. Ma che v'insegnano a
scuola?»
Fissandolo
in
silenzio con l'aria di qualcuno che non sia affatto convinto di non
aver appena sentito una parolaccia, Hyra scuote la testa. Allora,
domandandosi in silenzio se la punizione per i peccati che ha
commesso sia questa, quella di dover spiegare la tettonica a una
bambina di sette anni, Max scuote la testa e va a cercare un vecchio
manuale.
Lui
e Hyra
lavorano senza sosta per tutto il week end. È sorprendente
quanto
una bambina di quest'età sia in grado di appassionarsi a una
cosa
del genere. Certo, a volte si distrae, guardando fuori dalla finestra
o prendendo a chiacchierare di qualche argomento assolutamente
inutile in tono irritante, e più di una volta Max ha dovuto
salvare
l'inizio del loro progetto dall'attentato di un bicchiere di succo di
frutta incautamente posato troppo vicino a un gomito... ma certo, il
progetto prosegue a una velocità davvero dignitosa. Quando
Ivan
rientra, quella sera, Max sarebbe pronto a giurare di aver sentito
la sua contentezza di vederlo lì, seduto al tavolo a
lavorare con
sua figlia, da nient'altro che dal suo sguardo incredulo e dalle sue
bocca spalancata per la sorpresa. E basta, per fortuna,
perché una
sola occhiata di Max basta a fargli capire che no,
non
occorrono commenti. Che ha accettato il progetto di Hyra, e di
sottolinearlo proprio non ce n'è bisogno.
Hanno
davanti a
loro un paio di settimane per concludere il progetto e, anche se per
qualche bambino non sarebbero davvero poche, a conti fatti lui e Hyra
hanno a disposizione soltanto due week-end: con la massima
solennità
possibile, Hyra gli ha fatto promettere che durante la sua assenza
egli non avrebbe continuato a lavorare al loro modellino senza di
lei, e Max, posandosi una mano sul cuore, ha promesso.
Ragion
per cui,
nella settimana seguente, Max passa molto tempo attorno al progetto -
che al momento campeggia in modo piuttosto ingombrante nel loro
salotto – a osservarlo e a studiarlo e a riflettere su come
poterlo
migliorare ancora senza complicarlo troppo, e ad annotare idee su un
vecchio taccuino pieno di calcoli che credeva di aver gettato via.
Ma
anche se
questo semplificherebbe un po' le cose, accelerando il lavoro, e
anche se probabilmente Hyra non se ne accorgerebbe neppure, Max
neppure una volta solleva la mano per fare fisicamente qualcosa. Sa
bene che, da parte sua, è profondamente stupido voler tener
tanta
fede a una stupida promessa fatta a una bambina di sette anni un po'
troppo testarda: dopotutto, è comunque lui a fare la maggior
parte
del lavoro. Ma egualmente Max non fa niente se non limitarsi a
riflettere sul loro progetto in silenzio e a scarabocchiare qualcosa
ogni tanto, perché una piccola parte un po' meno cinica
della sua
mente, dopotutto, lo sa che non sarebbe corretto.
Quando
Hyra
torna, il week-end successivo, non lo saluta nemmeno. Il suo primo
pensiero, non appena varcata la soglia, è quello di
precipitarsi in
salotto, strillando con la massima apprensione possibile:
«Non sei
andato avanti senza aspettarmi, vero?»
Così,
per
tutto il week-end, o quasi tutto, Max si ritrova a monopolizzare
completamente l'attenzione di Hyra, e la cosa lo farebbe sentire un
po' in colpa, se solo Ivan non girellasse insistentemente per il
salotto con quell'odioso sorriso ebete in faccia. Comunque, con suo
gran sollievo, il tempo a loro disposizione è sufficiente:
domenica
sera, quando Ivan carica in auto quasi di peso una bambina ormai
praticamente addormentata, il progetto che illustra gli spostamenti
delle placche tettoniche è finito, finalmente, e Max
potrebbe
smettere di interessarsene una volta per tutte.
Eppure,
quando
come al solito egli si sveglia in piena notte, cogli occhi colmi
della luce acciecante del sole e il naso pieno dell'odore salato
della pietra bruciante, andare in salotto e sedersi sul bordo del
divano, davanti al progeto ormai terminato, è stranamente
confortante. Non accende neppure la luce. Anche così, al
buio, egli
lo conosce così bene da percepirlo, e
sarebbe in grado, senza
toccarlo, di descriverne perfettamente la forma e l'aspetto e le
dimensioni...
Si
era dimenticato cosa volesse dire lavorare a qualcosa. Quando torna
in camera e s'infila sotto le coperte, sente che Ivan è
sveglio
dalla diversa qualità del suo respiro, ma non dice nulla, e
sa che
neppure lui dirà niente. Col viso premuto contro il cuscino
e un
russare un pochino troppo affettato per poter essere autentico, Ivan
sta gongolando
(perché
sì, è stata sua l'idea che Hyra chiedesse aiuto a
lui per il
progetto, il merito è anche suo, d'accordo), ma ormai
è diventato
troppo furbo, e sa che non vale la pena di rischiare di essere
soffocato con un cuscino solo per rinfacciargli il proprio
autocompiacimento.
Dev'essere
maturato,
conclude Max tra sé e sé, rigirandosi pigramente
sotto le lenzuola.
Vent'anni
fa avrebbe rischiato.
«Sei
assolutamente certo di non voler venire? Non siamo ancora in ritardo.
Se vuoi...»
Nei
suoi sforzi di essere elegante e rispettabile quando va a scuola di
Hyra, Ivan probabilmente non si rende neppure conto di quanto sia
dannatamente sexy. Max deve quasi sforzarsi di resistere alla
tentazione di dirgli di indossare la giacca, o di abbottonarsi meglio
la camicia, o qualcosa del genere. Non servirebbe comunque a nulla,
perché la camicia resterebbe comunque dannatamente aderente
sul suo
largo petto pronunciato, e la giacca non farebbe probabilmente altro
che esaltare ancor più la larghezza delle sue spalle
robuste.
Ma
più ancora che dal suo petto, l'attenzione di Max
è attratta dai
suoi occhi. Ivan vorrebbe davvero che andasse con lui, a presenziare
e ad annoiarsi e a fare finta di divertirsi in mezzo a quella marea
di bambini urlanti sovreccitati dagli zuccheri; e questo non tanto, o
non soltanto, perché egli speri di trovare un sostegno e una
via di
fuga nella sua presenza, ma perché da quel mondo di saggi
scolastici
e dita sporche di crema e ginocchia sbucciate Ivan non lo ha mai
considerato estraneo. Max lo sa, questo, perché anche se gli
piace
fingere il contrario egli è consapevole di cosa dovrebbe
significare
stare
insieme;
ma per quanto possa esserne consapevole, egli sa anche che Hyra non
è
sua figlia, e che quel mondo, per quanto ciò a Ivan possa
dispiacere, non gli appartiene.
Per
evitare di
doverlo guardare direttamente, Max si avvicina e finge di sistemargli
il collo della camicia. «Mi auguro che tu stia scherzando. Mi
spiace
dovertelo dire ma, francamente, tra la festa della scuola di tua
figlia e la prospettiva di una serata rilassante in compagnia di un
film muto di quattro ore e mezzo, non ho proprio alcun dubbio. Nulla
di personale, lo sai.»
Quando,
dopo
qualche secondo, Max si decide finalmente ad alzare lo sguardo e a
incontrare i suoi occhi – perché la scusa del
colletto, ormai, non
può proprio più reggere – si rende
conto all'istante che lo scudo
del suo cinismo non l'ha ingannato neppure per un momento. Ivan
è
serio e assorto.
«Senti,
non è
per Aima, vero? Perché lo sai che lei non avrebbe nulla in
contrario.»
Negare
che una
parte della sua mente su questo pensiero si è soffermata
– il
pensiero finalmente d'incontrare Aima, conoscere questa donna
distante di cui finora egli non ha conosciuto altro che il nome
–
sarebbe una bugia tanto spudorata da suonare troppo irreale. Max si
limita diplomaticamente a scrollare le spalle. «Non
è per Aima.
Tranquillo.»
Ma
Ivan non
accenna a demordere. «A Hyra farebbe tanto piacere, lo
sai.»
Questo
è un
colpo un po' basso però. Max potrebbe quasi pensare che Ivan
stia
diventando subdolo e mendace quanto lui, se solo non sapesse che
è
impossibile. «Non dire sciocchezze, non se ne
accorgerà nemmeno. E
poi è bravissima a esporre la ricerca.»
«Non
dicevo
della ricerca» prova ancora a borbottare Ivan, ma alla fine
anche le
sue proteste trovano pace. Sapeva già che non sarebbe
riuscito a
convincerlo, ma Max gli è grato di averci provato comunque.
In fin
dei conti, lo sa che Ivan ci proverà sempre.
Quando
Ivan
ritorna a casa, il mefistofelico dottore sta ormai avventurandosi per
la sua via di fuga lungo le fogne, segno che il finale
dell'interminabile film si sta avvicinando. Max si sorprende a
voltarsi sul divano, con una strana curiosa ansia, che non ricorda di
aver mai provato, di vedere Ivan per cercare di dedurre dal suo
sguardo come sia andata, prima ancora di realizzare logicamente nella
sua mente di volerlo sapere.
«Ehi.»
Ivan
sembra stanco ma soddisfatto, e piacevolmente compiaciuto di trovarsi
di nuovo a casa. Gli appoggia una mano familiare sulla spalla, a mo'
di saluto, e guarda verso il televisore. Nel suo sguardo assente e
rilassato, che certa ristoro nelle piccole cose che lo circondano,
Max percepisce con quale voluttà di riposo si trovi qui
ora... e
dopotutto, non è poi sorprendente che sia stanco. Ha
trascorso le
ultime cinque ore in compagnia della sua ex, e in balia di una
mandria di bambini sovreccitati, a sorbirsi una serie di ridicole
esposizioni a tema ambientale. «Che stai guardando?»
«Oh...
un
film. È quaso finito.» Scostandosi pigramente sul
divano per fargli
spazio, Max si decide infine a porre quella domanda. «Allora,
com'è
andata?»
«Oh,
è stato
fantastico, Max, a parte per il fatto che era noioso da morire. Hyra
era così felice. Pensa che tu sia l'uomo più
intelligente del
mondo, perciò ti prego di non disilluderla» lo
avverte
scherzosamente Ivan, mentre si lascia cadere sul divano con la
delicatezza di un piccolo terremoto. Si distende su tutto quello che
può, fino a trovare la posizione più comoda per
appoggiargli la
testa sulle ginocchia, e rimane a fissarlo dal basso con aria
soddisfatta. Beh, tutto sommato, conclude Max tra sé, sembra
andata
bene.
«Sono
contento» ammette senza sbilanciarsi troppo. «Hyra
si è impegnata
così tanto.»
«Già,
ha
spiegato il progetto a tutti i suoi compagni e alle maestre.»
Rigirandosi pigramente sulle sue gambe, Ivan guarda distrattamente
verso lo schermo, senza neppure sforzarsi di trovare un significato
nella sequenza di immagini mute e per lui insensate che vi si
susseguono. «Insomma, non avrà vinto, ma non
ricordo di averla
vista così emozionata almeno da quando...»
Max
ha un
sobbalzo così inaspettato che Ivan è costretto a
sollevarsi
immediatamente dalle sue ginocchia.
«Come
sarebbe
che non ha vinto?» Con un progetto di quella portata, anche
se
ovviamente non a uso e consumo di bambini di sette anni, Max avrebbe
potuto vincere una dannata borsa di studio ai tempi
dell'Università.
Com'è possibile che Hyra sia stata sconfitta a una stupida
gara per
bambini? «Vuoi dire che qualcun'altro ha presentato un
progetto
migliore del suo?»
«Oh,
andiamo,
Maxie. Mi prendi in giro?» L'idea sembra divertirlo
immensamente.
«Pensi che un bambino potesse fare di meglio? No, Hyra non ha
vinto
perché la sua maestra ha detto che l'abbiamo aiutata un po'
troppo,
e che non sarebbe stato corretto nei confronti degli altri
bambini.»
«Oh.»
A
dire il vero,
Max si sente un po' sciocco per non aver pensato prima a
quest'eventualità. Non è molto sicuro di cosa si
debba dire a
questo riguardo, ma, nel dubbio, fa un tentativo. «Mi
dispiace.»
«E
di che?»
Qualsiasi
suo
tentativo di scusarsi o di rammaricarsi o che altro sembra destinata
a rifrangersi come un'onda contro l'incrollabile scoglio della
contentezza di Ivan. «Non le importava niente di vincere,
Max. Ha
passato tutta la sera a raccontare in giro quelle cose sulla terra
che le hai insegnato tu, e tanto le basta. È intelligente,
eh?»
«Oh»
borbotta
Max, ma ormai più per dar segno di aver capito che
perché ne sia
veramente convinto. C'è qualcosa che lo perplime in tutto
questo,
sebbene non riesca esattamente a capire di che cosa si tratti, per la
verità. Oltretutto non c'è neppure un vero
motivo. Hyra non ha
vinto, d'accordo, ma, ora che ci pensa, egli non gliene ha mai
neppure sentita esprimere l'intenzione. Tutto ciò che voleva
era
l'ammirazione dei suoi compagni, e questo l'ha ottenuto.
«Mi
dispiace
che la maestra vi abbia dato la colpa.»
«Ma
dai, mi
conosci, Max. Non penserai davvero che mi sarei preso la colpa al
posto tuo.» Prima che Max faccia in tempo a suggerirgli che
forse la
parola che stava cercando era merito, Ivan
torna a
stiracchiarsi sulle sue gambe come un gatto steso al sole e riprende:
«Ho detto alla maestra che Hyra aveva tanto insistito per
fare il
progetto col mio ragazzo, perché sei uno scienziato e tutte
quelle
cose lì. L'ho messa a tacere come si deve, avresti dovuto
vederla.»
Max
non
potrebbe rimanere più stupefatto di così.
«Hai detto alla maestra
di tua figlia che stai con me?»
«Beh,
certo.
Insomma, andiamo... non avrebbe mai creduto che l'avessi aiutata io,
non credi?»
Se
si trattasse
di un film solo un po' più moderno, ora Max dovrebbe
togliere
l'audio per poter seguire il discorso di Ivan. «Oh, giusto. E
la
maestra che ha detto?»
Ivan
si limita
a scrollare distrattamente le spalle. «Che la cosa importante
è che
la bambina abbia stretto un buon rapporto con te. Seriamente, che
altro doveva dire?»
Beh,
in
effetti. Mentre si sforza di tornare a dare allo schermo la sua
completa attenzione, Max si ritrova a cercare di capire se vi sia
qualcosa, in tutto questo, che sia veramente andato storto. Hyra non
ha vinto, ma ha ottenuto ciò che voleva. È
davvero possibile, per
una volta, che sia riuscito a fare una cosa giusta?
Sullo
schermo,
il dottore sta ormai cominciando la sua ultima celeberrima partita a
carte. Mancherebbero davvero pochi minuti all'eccellente finale, ma,
dopotutto, non è che questa sia la prima volta che Max lo
vede.
Con
aria
perfettamente indifferente, Max spegne la televisione e domanda:
«Andiamo a letto?»
Ivan
non
potrebbe essere più felice di così.
Buongiorno
a tutti!
Copiare
questo capitolo
è stato, se possibile, un lavoro assai più lungo
e faticoso che
scriverlo, anche in considerazione del fatto che il mio povero
vecchio computer, ormai, comincia a non poterne davvero più.
Giuro
che ho fatto il più in fretta possibile, ma di
più non ho proprio
potuto!
Come
mio solito, tengo
a ringraziare di tutto cuore crystal_93, Persej Combe e StagTree per
le loro deliziose recensioni, e in generale, ovviamente, chiunque
segua la storia in qualsiasi modo. Fa sempre molto piacere!
Qualche
piccola
noticina a proposito di questo capitolo: non so se i riferimenti che
ho inserito siano sufficienti a riconoscere il film, ma, in caso
contrario, si tratta de Il dottor Mabuse di Fritz
Lang, del
1922. Dura davvero 270 minuti, ma credetemi, ne vale davvero la pena.
Per
quanto riguarda il
progetto, ho cercato di descriverlo nei termini più generici
che mi
fossero possibili per evitare di scadere in imbarazzanti errori: come
forse ho già accennato altrove, io studio in un ambito
prettamente
umanistico e non m'intendo molto di materie scientifiche, meno che
mai di geologia. Se qualcuno avesse consigli o correzioni da
suggerirmi li accetterei con vero piacere!
Detto
questo, non mi
rimane proprio altro da aggiungere. Grazie di cuore a chiunque sia
arrivato sin qui, e al prossimo capitolo!
Afaneia
|
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Capitolo 5 *** Mamma non aver paura. ***
Capitolo
V –
Mamma non aver paura
Quando
torna a
casa ed entra in salotto per salutarlo, Ivan gli appare orgoglioso e
tronfio proprio come un piccione troppo pasciuto. Non fa alcun
commento incerto o amareggiato, oggi: oggi, al contrario, si piazza
in piedi accanto al divano, senza neppure togliersi la giacca, e lo
fissa gongolante come se non vedesse l'ora di raccontargli qualcosa.
A questo punto della loro vita, Max lo conosce così bene da
sapere
che non c'è alcun bisogno di chiederglielo per sapere di che
cosa si
tratti. Difatti, poco dopo, Ivan proclama orgogliosamente:
«Hyra ha
fatto a botte con un bambino.»
Okay,
questo di
solito non è il genere di cosa di cui un padre dovrebbe
essere
fiero. Max spegne la televisione e alza lo sguardo verso di lui, ma
la sua protesta gli muore sulle labbra prima di venir pronunciata.
Ivan sta sorridendo.
«Non
mi sembri
preooccupato» osserva con cautela.
«Certo
che non
lo sono! Hyra mica le ha prese.»
«Ma
non sei...
uhm, arrabbiato?» Max si discosta un po' sul divano per
fargli
spazio. «Insomma, fare a botte è sbagliato, lo
sai. Dovresti
saperlo.»
«Aye,
certo,
certo.» Gettando la tracolla da lavoro al suolo, Ivan si
siede
accanto a lui, circondandogli le spalle con un braccio. «Ma
ci
penserà già Aima a sgridarla, e non mi pare
giusto punirla troppo.
Non ha mica cominciato lei: lo ha fatto per difendersi.»
«Difendersi
da
cosa?» indaga Max. Sa che provare a protestare, o a farlo
ragionare,
sarebbe inutile: in fin dei conti, Ivan non è mai stato quel
tipo di
persona che risolve i problemi con le parole e una stretta di mano.
L'idea che sua figlia sia tanto tosta da picchiare un maschietto,
anche solo per legittima difesa, dev'essere per lui una specie di
trionfo personale riportato dal suo DNA.
«Beh,
anzitutto, quello stronzetto le ha tirato i capelli.»
«Uhm.
Non è
un po' troppo chiamare stronzetto un bambino di otto anni?»
«Ma
non è
tutto» prosegue Ivan infervorandosi, senza neppure averlo
udito.
«Prima le ha detto che è una femminuccia e poi
l'ha presa in giro
per il fatto che io e te viviamo insieme. Perciò, per quanto
mi
riguarda, Hyra aveva tutti i diritti di spingerlo e di tirargli un
pugno, e non dire che non è così, Maxie. Sono
convinto che gliele
avrebbe date di brutto, se la maestra non li avesse separati»
conclude con l'aria del padre più orgoglioso della terra.
In
effetti,
Ivan non ha poi tutti i torti: Max non può fare a meno di
pensare a
come si sarebbe sentito lui, alla stessa età di Hyra, se
qualcuno
gli avesse detto qualcosa del genere sui suoi genitori. «Hyra
ci
sarà rimasta malissimo.»
«Oh,
si è
arrabbiata, questo sì.» Per quanto abbia assunto
un'espressione
grave e severa a questo riguardo, Ivan non può impedire alla
sua
voce di tremare segretamente di soddisfazione. «Ma rimanerci
male...
no, direi di no. Lo sa che i bambini dicono cose stupide.»
«Oh.
Beh,
meglio così, immagino.» Per un attimo Max si
chiede se debba
continuare a insistere sul concetto picchiare la gente
è
sbagliato - più per una questione di principio
che perché ci
creda veramente - ma poi decide di lasciar perdere. Non è
affar suo
come Ivan decide di educare sua figlia, dopotutto, e poi,
fortunatamente, come ricorda spesso a se stesso, da qualche parte del
mondo, a Ciclamipoli, esiste una santa donna di nome Aima che
potrà
contribuire a insegnare a Hyra tutto ciò che suo padre
ritiene
superfluo. Come a non fare a botte con stupidi bambini omofobi, per
esempio.
Non
c'è motivo
di dar troppo peso all'accaduto, dopotutto. Max torna ad accendere la
televisione, a un volume troppo basso perché valga davvero
la pena
di guardarla, e appoggia distrattamente una mano sul ginocchio di
Ivan. «Ci sarà qualche conseguenza con la
scuola?»
«La
preside ci
ha convocati per un incontro con i genitori dell'altro bambino. Nulla
di grave, suppongo.» Ivan si stringe distrattamente nelle
spalle.
«Comunque, io e Aima siamo del parere che sarà
solo una
chiacchierata: Hyra l'ha picchiato, ma quello stronzetto ha detto
delle cose gravissime, quindi saranno i suoi genitori a doverci
chiedere scusa, alla fine. Non c'è da
preoccuparsi.»
«Mh,
meglio
così.» Quasi senza pensarci, Max lo attira a
sé senza guardarlo.
Il peso familiare del suo capo sulla spalla è gradevole in
un certo
suo modo domestico e intimo. «Ivan...»
«Sì?»
«Cerca
di
mostrarti contrario alla violenza, almeno il giorno dell'incontro coi
genitori, siamo intesi?»
Contro
la curva
della sua gola esplode il ruggito basso e vibrante della risata di
Ivan.
Solitamente,
durante la spesa settimanale del venerdì pomeriggio, Ivan si
dimostra attento e collaborativo come un bambino di dieci anni, e fa
anche gli stessi capricci, ma, quantomeno, partecipa. È
anche vero
che, prima d'oggi, non gli aveva mai telefonato la madre di sua
figlia durante la spesa.
Attualmente,
il
suo compagno sta passeggiando su e giù da circa un quarto
d'ora nel
reparto dei surgelati, discutendo concitatamente al telefono con
Aima. Concitatamente è l'eufemismo
più adatto che gli venga
in mente: a dire il vero, Ivan sta praticamente urlando e, a
giudicare dalle parole che usa, dev'essere veramente arrabbiato.
È
una fortuna
che il supermercato sia veramente affollato, questo pomeriggio, e che
il brusio degli acquirenti che si affollano lungo le corsie copra
almeno in parte il turpiloquio del suo compagno, perché
quando gli
passa vicino Max prova quasi vergogna per lui. Comunque sia, Max
continua a fare la spesa senza di lui, e aspetta.
Ivan
pone
bruscamente fine alla chiamata, con un'imprecazione irripetibile,
proprio poco prima che debbano andare alla cassa. Max sta per dirgli
qualcosa sul suo straordinario tempismo, ma prima che possa anche
solo aprir bocca, Ivan erompe violentemente: «Dio, come sono
fortunato a stare con un maschio!»
Questa
se la
sarebbe potuta anche risparmiare. Fulminandolo con lo sguardo, Max lo
afferra per un braccio e lo avvicina a sé. «Si
può sapere che
succede?»
«Ehi,
ora non
preoccuparti.» Per quanto Ivan abbia litigato per tutto il
quarto
d'ora precedente, non appena posa lo sguardo su di lui, sembra
calmarsi improvvisamente. Gli batte la mano sulla spalla in un
benevolo sfoggio di violenza. « Non hai idea di quali
sceneggiate
facciano le donne per le cose più inutili. Ah, hai
già preso
tutto?» soggiunge stupito, gettando un'occhiata verso il
carrello.
«Ivan,
vorresti cortesemente spiegarmi che succede?» sbotta Max in
un picco
d'impazienza. Prima o poi ucciderà quest'uomo, se lo sente,
e
paradossalmente lo farà proprio ora che stanno ufficialmente
insieme, dopo essersi faticosamente trattenuto per tutti gli anni
della loro lotta.
«Succede
che
Aima ha spaventato a morte Hyra, con tutte le sue sceneggiate
isteriche» esclama infine Ivan, e al solo pensiero i suoi
occhi
lampeggiano. «Ti rendi conto? Far credere a una bambina che
sua
madre potrebbe morire! E tutto per uno stupido neo...»
Fino
all'ultima
parola, Max avrebbe pensato che si trattasse di un semplice alterco
tra due genitori non poi così civili quanto si vantavano di
essere,
ma all'improvviso cambia qualcosa. Lascia finalmente il braccio di
Ivan. «Che cos'hai detto?»
«Ecco,
vedi?
Lo pensi anche tu» sbuffa Ivan coll'aria di chi, trovandosi
perfettamente compreso e appoggiato dal suo interlocutore, sia ormai
disposto a lasciar perdere un argomento che non gli interessa
più
sostenere. «È ridicolo, ma lo sai come sono le
donne... esagerano
sempre tutto.»
«Cos'è
questa
storia del neo?» insiste Max con uno strano senso di urgenza,
per
cercare di capirci qualcosa prima che Ivan rivolga tutta la sua
attenzione al contenuto del loro carrello. Non che, anche
così, la
sua reazione cambi molto: Ivan si limita a scrollare le spalle, come
se la cosa fosse un'inezia che non lo riguardasse minimamente.
«Ah,
non ne ho
idea, Maxie, non l'ho quasi ascoltata. Ho capito soltanto che sua
sorella le ha notato questo neo sulla schiena mentre prendevano il
sole e Aima è andata nel panico. Il problema è
che si è messa a
piangere davanti alla bambina» soggiunge, calcando con
particolare
intensità sull'ultima parola, quasi a voler mettere a tacere
ogni
possibile protesta al riguardo. «Ha già fissato un
appuntamento per
farlo rimuovere, quindi che bisogno c'era di spaventare Hyra?»
Solo
un anno
prima (quand'era in procinto di devastare Hoenn, per esempio), Max
non avrebbe mai creduto di poter udire Ivan parlare così,
come il
padre iperprotettivo e ostinatamente cocciuto che è davvero,
ma non
è questo il punto. Al momento, egli sta cercando di
riordinare e
rielaborare le informazioni nella propria mente, e tutto ciò
che
riesce a dedurne con certezza, per ora, è che non
finirà mai di
sorprendersi di quanto Ivan sia stupido.
«Tu
lo sai che
potrebbe trattarsi di una cosa grave, non è vero?»
«Oh,
andiamo,
Max.» Le sue parole, evidentemente, non riescono neppure a
scalfire
la sua corazza di solida sicumera. «Senti, ti ho mai detto
quanti
anni ha Aima? Non ne ha ancora compiuti trenta. È una
ragazza
giovane, mangia sano e fa attività fisica due o tre volte
alla
settimana. Che razza di problemi vuoi che abbia alla sua
età?»
La
logica di
Ivan, pur nella sua cieca chiusura ostinata, non fa una piega. Max sa
che le cose, con i melanomi, non funzionano esattamente così
– ha
fatto un paio di esami di Oncologia ai tempi della sua laurea in
Biologia – ma in questo momento, per qualche strano motivo,
non se
la sente di ribattere. Non vale la pena distogliere Ivan dalle sue
convinzioni, dopotutto... no? In fin dei conti, con ogni
probabilità,
ha ragione. La sua ex si farà rimuovere subito quel neo, la
biopsia
risulterà negativa, e questa storia finirà in una
bolla di sapone,
tutto qui.
Ma
più Max
cerca di convincersi di questo, più sente crescere in
sé e
radicarsi la sgradevole sensazione che ci sia qualcosa che non va.
C'è
qualcosa
che non va. Max lo ha percepito già dalla tarda mattinata,
quando al
telefono la voce di Ivan gli è parsa strana e assente,
troppo cupa,
ed egli ha ostinatamente eluso le sue domande negando che ci fosse
qualcosa di anormale.
I
suoi sospetti
si sono consolidati quando, nel pomeriggio, un asettico messaggio di
Ivan lo ha informato che il suo compagno sarebbe tornato più
tardi
del solito, e che perciò non c'era bisogno di aspettarlo in
piedi. A
questo punto, negare che qualcosa non andasse era semplicemente
assurdo, perciò Max si è messo l'anima in pace e
ha aspettato. Ha
preparato la cena, ha mangiato da solo, ha lasciato un paio di piatti
coperti in caldo dentro il forno, ha riordinato la cucina e infine,
per non saper che fare, ha aperto un libro a caso e si è
messo a
leggere.
Quando
sente la
porta d'ingresso aprirsi e poi richiudersi piano, è quasi
l'una, e
le parole scritte davanti ai suoi occhi cominciano a confondersi e a
incrociarsi, ma lo scatto della serratura lo riscuote bruscamente
dalla sua pigra sonnolenza. Quando Ivan si trascina lentamente in
cucina, Max è perfettamente sveglio.
Non
ricorda di
averlo visto mai così. Ivan è distrutto,
estenuato come neppure nei
grandi terribili giorni in cui Groudon devastava i mari, e nei suoi
occhi arrossati non c'è la minima traccia di speranza. Di
fronte a
quello spettacolo di sofferenza, Max non trova nulla di sensato da
dire. Chiude il libro sulle ginocchia, si protende in avanti sulla
sedia, e aspetta.
Per
un po',
Ivan non dice niente. Tutto ciò che riesce a fare, per
qualche
secondo, è accennare un sorriso appena abbozzato, afferrare
una
sedia e trascinarla accanto alla sua.
«Scusa
se ho
fatto tardi.» Le scuse sono superflue, certo, ma sono un
ottimo modo
per cominciare. Max minimizza la cosa agitando distrattamente una
mano in aria.
Ivan
si siede
pesantemente davanti a lui, emettendo un sospiro che sembra
più un
gemito. È stanco davvero, e dai suoi occhi vitrei
è evidente che il
lavoro non c'entra.
«Sono
stato
finora da Aima. Le è arrivato il risultato di quella biopsia
che...
ti ricordi, no?»
Certo
che se lo
ricorda. Da quel giorno non ci ha più ripensato,
è vero, ma ora che
Ivan glielo rammenta, ogni cosa gli torna alla memoria come se ne
avessero parlato appena ieri.
«È
andata
male?» domanda a bassa voce, in un patetico tentativo di
aiutarlo a
dirlo, ma anche soltanto questo sembra fare la differenza. La fronte
di Ivan è impercettibilmente rischiarata da un accenno di
gratitudine.
«Deve
fare la
chemioterapia, credo.» Nel dire finalmente questa
verità c'è una
specie di liberazione, come se poterla condividere con lui lo
alleggerisse di un fardello che, per lui solo, era troppo pesante da
portare. Si passa una mano sugli occhi. «Non ci abbiamo
capito
molto, in realtà, né io né lei.
È tutto così confuso, Max. Mi
sembra un incubo. Com'è possibile tutto questo?»
Max
lo conosce
ormai da più anni di quanti riesca a ricordare, ma in questo
preciso
momento, davanti a quest'uomo devastato e affranto, spezzato, si
rende conto di non averlo mai visto tanto umano. Ivan non ha mai
amato Aima, e di questo Max non potrebbe dubitare mai, neppure
volendolo, eppure egli non l'ha visto mai più distrutto e
impotente
di così. Tutti i suoi muscoli, i suoi Pokémon e
il suo coraggio
sono inutili e privi di significato davanti alla malattia di quella
donna.
«Ha
già
parlato col medico?»
Ivan
scuote la
testa come se la cosa non avesse molta importanza: i suoi occhi sono
vacui e persi, del tutto assenti, e Max vede da essi che egli lo
ascolta, ma la sua mente è presa da altro: è
ancora ferma a quel
momento in cui ha saputo della biopsia.
«Sì,
ma dovrà
tornarci domani per capire meglio. Credo che debba fare una risonanza
magnetica, o qualcosa del genere. Oggi abbiamo cercato di spiegarlo a
Hyra senza spaventarla...»
La
sua voce ha
un fremito, un tremore terribile, e poi si spegne. In tutto questo
è
Hyra che lo spaventa di più, e come potrebbe essere
altrimenti?
«Che
cosa le
avete detto?» mormora Max dopo un po', quasi solo per
infrangere
quel silenzio troppo grave e angosciante. C'è un'idea
mostruosa che
si sta formando rapidamente in fondo alla sua coscienza e che sta
assumendo voce, e Max sente di doverla mettere a tacere prima che
cominci a urlare e assordarlo. Le darà retta più
tardi, e sa che
allora, se deciderà di prestarle attenzione, essa
finirà per
ammutolirlo e paralizzarlo... e ora non può permetterselo.
«Le
abbiamo
detto che la mamma sta poco bene e che dovrà fare delle
cure.» Ivan
si strofina gli occhi, stancamente, come tutto quello che fa.
«Il
problema è che ha capito, ovviamente. È anche per
questo che ho
fatto tardi, sai... abbiamo dovuto tranquillizzarla prima di poterla
mettere a letto.»
In
tutti gli
anni della loro conoscenza, Max non ricorda d'aver visto mai Ivan
arrendersi, lasciar perdere e smettere di lottare, che fosse contro
qualcuno o qualcosa o anche solo contro un'idea (la sua, per
esempio), ma oggi, semplicemente, lottare è mero spreco di
forze. La
malattia di Aima non è una persona e non è un
ideale - è un abisso
che cresce dentro di lei, ingombrante e irragionevole, e tentare di
combatterlo sarebbe come sgolarsi inutilmente contro la vasta distesa
del mare.
«Hyra
è molto
intelligente. Non avreste potuto tenerglielo nascosto.» Non
è del
tutto certo che questa sia una consolazione, ma quantomento Ivan
sembra apprezzare. Gli sorride appena.
È
tardi,
ormai. L'una è passata da un pezzo, e parlare ancora della
malattia,
ormai, è inutile e controproducente come sale su una ferita.
Alzandosi in piedi, Max gli passa una mano tra i capelli e si muove
per allontanarsi. Ha bisogno di riprendere il controllo, di
concentrarsi e di rimanere un po' solo coi propri pensieri.
«Sono
sicuro
che Aima ce la farà, Ivan. È riuscita a stare con
te dopotutto,
no?»
Senza
preavviso, Ivan lo abbraccia.
Somiglia
più a
un placcaggio, a dire il vero, ma quello che conta è che Max
non può
muoversi, ora, colle braccia calde e muscolose del suo uomo strette
attorno alla vita. Ivan ha bisogno di lui, si rende conto Max per la
prima volta nella vita.
Prima
di questo
momento, egli non ha realizzato mai quanto profondamente tutti questi
anni li abbiano uniti, o quanto davvero voglia dire stare
insieme.
Ha sempre pensato che fosse Ivan, tra di loro, l'elemento stabile e
concreto, incrollabile, attorno al quale far orbitare la sua
genialità, prima, e poi il suo disagio e la sua
depressione... ma
ora Ivan è più fragile che mai, e
sorprendentemente questo non lo
spaventa tanto quanto dovrebbe.
Le
dita di Ivan
affondano nella sua schiena, ma Max, da questa posizione, non riesce
a vedere i suoi occhi.
«Non
può
morire, Max.» La verità, semplicemente,
è che Ivan ha paura. La
sua voce trema e sembra supplicare una pietà che Max,
purtroppo, non
è in grado di dargli. «È la madre di
mia figlia, Max. Hyra ha
ancora tanto bisogno di lei. Non può morire ora, non... non
è
giusto.»
Oh,
Ivan.
Mentre la sua
coscienza pare
ribollire e ululare dai reconditi del suo petto, Max appoggia le mani
sulle spalle di Ivan. Non c'è nulla che sia in grado di
dirgli, e
tutto ciò che può fare, ora, è sperare
che il solo contatto con le
sue mani possa parlare in sua vece e dirgli tutto ciò per
cui la sua
voce è muta. La morte è
sempre ingiusta.
E
non vi è
nessuno più adatto di lui per dirlo, lui che ha tanto
lavorato
perché nessuno mai fosse estromesso dal banchetto di vita,
per dare
all'uomo più terra e meno morte.
No,
non vi è
nessuno più adatto del grande Max, che ha scatenato su Hoenn
l'inferno di un sole che bruciava, e che sa benissimo quali effetti
il sole abbia sulla pelle.
No?
Questa
notte,
la paura di sognare del sole è così angosciosa
che Max lotta con
tutte le sue forze per non addormentarsi. Pensa. Ha bisogno di
pensare, stanotte, e non solo perché non può
continuare a ignorare
l'idea che è affiorata in lui mentre Ivan parlava, ma anche
e
soprattutto perché, in questi mesi, si è reso
conto che pensare
alla sua colpevolezza è molto meno spaventoso che sognarla.
A
differenza dei sogni, il suo pensiero è l'unica cosa della
sua vita
che sia rimasta sotto il dominio della sua volontà, e a
questo Max
cerca disperatamente di aggrapparsi.
Aveva
creduto
di aver già fronteggiato ogni possibile conseguenza delle
sue
azioni, Max, prima coll'aiutare quella sciocca ragazzina dagli occhi
vacui negli abissi di quella grotta, e poi, ancora, nei giorni
dell'avvento di Rayquaza sulla terra... e proprio per questo motivo,
scoprire che i danni comportati dai suoi errori sono molto
più
gravi, e molto più numerosi e impensabili di quelli ch'egli
è già
riuscito a contenere e a riparare lo spaventa oltre ogni dire. Per la
prima volta da ormai molti mesi, Max si sente di nuovo soffocare
proprio come in quei giorni terribili in cui la terra andava per
colpa sua inaridendosi, e ora ha la precisa consapevolezza che
quell'inferno da lui creato non è ancora finito.
Sollevandosi
sul gomito, Max passa gran parte della notte a osservare Ivan. Nella
luce sfumata e grigiastra della notte di Porto Selcepoli, egli lo
scorge appena, e la memoria lo aiuta a ripercorrere i suoi tratti
molto più dei suoi occhi.
Stasera,
per la
prima volta, egli ha fatto caso realmente ai primi accenni di rughe
attorno ai suoi occhi, alla stanchezza della sua voce,
all'incurvatura esausta delle sue spalle larghe, ed è stato
allora
che, all'improvviso, egli si è accorto che Ivan davvero
non è
più il ragazzone testardo e aggressivo della loro antica
militanza
in quella vecchia squadra. Ma quand'è che è
diventato uomo? Forse
mentre Max non stava guardando?
Cercando
di
reprimere i dubbi che lo assalgono, Max si concentra sul volto del
suo uomo per tutte le ore che lo allontanano dall'alba. Questa notte
neppure il grande calore accogliente del suo corpo potrebbe farlo
dormire serenamente, ma sentire il suo respiro nel buio è
comunque
la cosa più rassicurante della sua vita, al momento.
Buongiorno
a tutti!
È
veramente strano,
per me, ritrovarmi a pubblicare questo capitolo proprio in questo
periodo, in cui una persona molto importante della mia vita (la
persona che ha ispirato questa storia, in effetti) sta nuovamente
male. Ma immagino che esistano molte coincidenze di questo tipo
nell'universo, e forse non dovrei sorprendermi più di tanto.
Anche
per questo motivo
questa storia è per me sinceramente importante, e spero che
possa
contribuire a dar voce a certe tematiche che sento molto vicine.
Desidero naturalmente mettere in chiaro sin da ora che, se
darò di
determinate malattie una visione non perfettamente inerente alla
realtà, è perché non sono un medico e
non sono in grado di fare
altrimenti; ma ho cercato d'investire in queste pagine tutta la mia
sensibilità e le mie esperienze, e se ci saranno errori o
imprecisioni non vorrà essere una mancanza di rispetto o di
attenzione. Il mio cuore è con coloro che soffrono, per se
stessi o
per qualcuno di caro.
Detto
questo, desidero
ringraziare sinceramente per le loro recensioni cristal_93 e Persej
Combe: mi hanno fatto davvero tanto piacere!
A
questo punto non
posso che ringraziare semplicemente chiunque sia arrivato anche solo
sin qui con la lettura: per essere una storia nata davvero per caso,
è davvero un bel passo avanti!
Un
abbraccio enorme a
tutti!
Alla
prossima
Afaneia
|
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Capitolo 6 *** Il Grande Sole Rosso. ***
Buonasera
a
tutti!
Capitolo
brevissimo, lo riconosco, e che forse non aggiunge neppure molto al
precedente: ma è stato anche uno dei primi a venire scritti,
ed era
assolutamente fondamentale allo sviluppo dei prossimi, ma non c'era
alcun modo in cui potessi accorparlo ad altri.
Sono
davvero,
davvero dispiaciuta di non aver pubblicato prima: ammetto che avevo
sperato di riuscire a pubblicare durante le feste, ma poi l'ansia per
gli esami mi ha letteralmente assalita, e non ho più avuto
in minuto
libero senza un libro aperto davanti.
Non
posso
davvero che ringraziare di tutto cuore cristal_93 e Persej Combe per
le loro recensioni e per le loro carissime parole. Siete un sostegno
grandissimo, sotto tutti i punti di vista.
Grazie
a
chiunque di essere arrivato anche solo fin qui, e, anche se in
leggero ritardo, buon anno!
A
presto
Afaneia
Capitolo
VI
– Il Grande Sole Rosso.
Per
far
confessare i bambini, Max ha stabilito che la cosa migliore da fare
è
coglierli di sorpresa. Perciò, mentre Hyra sta disegnando
con aria
concentrata un grosso obbrobrio sproporzionato che, secondo l'ipotesi
più plausibile, dovrebbe voler rappresentare lo Sharpedo di
suo
padre, Max si china su di lei e le chiede senza preavviso:
«Tu te lo
ricordi il grande sole rosso?»
È
sabato, per
fortuna, e Hyra non ha trovato nulla d'inusuale nel rimanere a casa
loro per tutta la mattina, anche se soltanto con lui. Del resto,
è
abituata al fatto che suo padre lavori di sabato, e non sa che Ivan
oggi ha preso un giorno di permesso per accompagnare Aima in
ospedale.
»Il
grande
sole rosso? Che cos'è?» cinguetta Hyra per tutta
risposta, senza
peraltro distogliere gli occhi dal foglio, dove si comincia a
intravedere quella che, almeno secondo le sue intenzioni, dev'essere
una pinna dorsale. Preoccupato dai movimenti un po' troppo
entusiastici e irregolari del suo gomito, Max allontana
l'inconsapevole bicchiere di succo di pesca che aspetta con aria
apparentemente innocua in un angolo del tavolo.
«Non
te lo
ricordi?» insiste piano, scrutandola attentamente per
saggiare le
sue reazioni. «È stato qualche mese fa. Non ti
ricordi che c'era un
po' troppa luce, e il sole era troppo caldo, e...»
«Di
che colore
è la pancia degli Sharpedo?» lo interrompe Hyra,
che dev'essersi
evidentemente già scordata del fatto che egli, in
quel preciso
momento, le stava parlando.
«Bianca»
risponde asciuttamente Max, guardando il disegno con un certo
disappunto. Non che si capisca che è uno Sharpedo, comunque.
«A
ogni modo, tornando a noi...»
«Oh,
no!»
esclama Hyra, cacciandosi disperatamente le mani tra i capelli.
«Stai
scherzando?»
Max
non impiega
molto tempo a trasferire il suo disappunto dal disegno a
lei.«Cielo,
non hai visto abbastanza volte lo Sharpedo di tuo padre?»
«Ma
guarda!» proclama Hyra tragicamente, porgendogli l'astuccio
delle
matite con lo stesso spirito di sacrificio di una moderna Ifigenia
avviata al martirio. Con un'occhiata compassionevole alle matite
mordicchiate e perlopiù spuntate, a Max non occorrono
più di un
paio di secondi per capire qual è il problema. Non
c'è una matita bianca.
«Come potrò finire il mio disegno,
adesso?»
Gli
accenti
melodrammatici di questa bambina risulterebbero dannatamente
irritanti, se solo Max non potesse fare a meno di trovarli suo
malgrado divertenti. Il fatto di non possedere una matita bianca deve
sembrarle un problema mortalmente serio, in questo momento, e in fin
dei conti è giusto così. Istantaneamente, Max
decide che non è da
lei che potrà sanare i suoi dubbi e mettere in pace la sua
coscienza, e semplicemente lascia perdere. Non sa per
quant'è che
Hyra potrà essere ancora serena, e rubarle questi ultimi
giorni di
quiete apparente sarebbe un crimine peggiore di quello ch'egli ha
commesso nei confronti di sua madre.
«Perché
non
fai finta che sia sott'acqua e lo colori di azzurro chiaro?»
propone, aggiustandosi gli occhiali sul naso con l'aria di esporre la
conclusione di un lungo e complesso studio scientifico. «Sai,
i
colori cambiano sott'acqua. Può funzionare.»
La
disperazione di Hyra si tramuta in un tripudio di gioia, non tanto
all'idea dell'azzurro, quanto alla prospettiva di poter trasporre il
suo aborto di Sharpedo non più sull'anonimato di un foglio
bianco,
ma su uno scenario esotico e concreto e in quache modo esotico.
«Oh,
ma è fantastico! Grazie, Max, grazie! Allora voglio farci
anche uno
sfondo blu e una stella marina e... tu sai dirmi com'è fatta
un'alga?»
Ma
ora neanche
Max la sta più ascoltando. È sorto qualcosa, in
quella
conversazione, che sta pungolando la sua coscienza nel profondo del
petto, e non saprebbe dire cos'è – o forse non
vuole soffermarsi a
riflettervi – ma ora per qualche strano motivo parlare con
lei a
quel modo lo sta mettendo tremendamente a disagio. Non vuole che Hyra
gli chieda niente. Non vuole aiutarla, non vuole consigliarla e non
vuole, assolutamente non vuole che lei lo ringrazi mai più!
Alzandosi
in
piedi, dice forzatamente: «Se ti vesti, ti porto a finire il
tuo
disegno al Museo Oceanografico. Così potrai guardare tu
stessa che
cosa c'è in fondo al mare. Sai, è proprio quello
che fanno i
pittori. Corri a cambiarti.»
«Hyra
mi ha
detto che siete stati al Museo Oceanografico.»
Ogni
volta che
Max lo guarda, malgrado tutte le sue speranze, Ivan è
così...
distrutto, e stanco. Ogni singola volta, vederlo così
è un dolore.
A
giudicare dal
suono rassicurante di personaggi che s'inseguono tra ridicole minacce
irrealizzabili e suoni onomatopeici tanto da suonare irreali, Hyra
è
tornata a guardare i suoi cartoni animati subito dopo aver salutato
suo padre. Bene così.
Ivan
si
accascia sul divano in una profusione di sospiri. Continua a parlare,
certo, ma senza guardarlo, e Max ritiene che sia più
prudente non
fare domande, per un po'.
«Già.
Hyra
stava disegnando un fondale marino, e pensavo che...»
Ma
Ivan non lo
sta veramente ascoltando, e non perché non gli interessi. Ha
gli
occhi vacui, perdutamente infissi nel vuoto, e forse non sa neppure
lui a che cosa precisamente stia pensando. Semplicemente, è
stanco.
Max però continua egualmente a parlare, perché di
solitudine, e di
silenzio, e di stanchezza e di pensieri orribili, la mente di Ivan
dev'essere anche troppo piena.
«Dice
che vi
siete divertiti un sacco.» Sono parole meccaniche e fiacche,
remote
e fredde come provenienti da un universo lontanissimo. Ivan sta
ancora fissando il vuoto, eppure Max fa finta di niente.
«Beh...
Hyra
si è divertita. Ha fatto un bel disegno.» Hyra ha
fatto la brava
per tutta la mattinata. Durante la lunga passeggiata al museo ha
chiacchierato ininterrottamente, colmando il vuoto con le sue parole,
ma non si è data peso dei suoi silenzi, e Max gliene
è stato grato.
Ha parlato del mare, della spiaggia, degli Wingull, e gli ha anche
fatto sentire un campionario del suo vasto repertorio di imitazioni
dei versi dei Pokémon, alcuni dei quali non sono neppure
tanto male,
per dirla tutta. Ma si è comportata notevolmente bene
durante la
coda d'ingresso al Museo, senza disturbare nessuno; e poi, non appena
sono entrati nelle vaste sale luminescenti di bagliori d'acqua che si
specchiavano sul pavimento, lo ha trascinato per il braccio lungo
l'intero edificio, raccontandogli tutto quello che sapeva delle
stelle marine e dei Magikarp e di tutto il resto, e poi, finalmente,
con buona pace dei suoi sensi stanchi e della sua coscienza
rimordente al centro del petto, si è messa a sedere, ha
tirato fuori
il suo disegno e ha ricominciato a disegnare. In silenzio, che era
una cosa della cui esistenza Max stava dubitando ormai da diverse
ore. «Credo che sia in camera sua. Se vuoi te lo vado a
prendere...»
«Max.»
La
voce di Ivan è profonda e non lascia adito a obiezioni. Per
una
volta, Max si lascia interrompere senza protestare.
«Grazie.»
Max non vuole
dare a questo grazie un significato più
profondo di quello
che può attribuirgli Ivan. Si sforza di trovare in fretta
qualcosa
da dire per sdrammatizzare un poco la situazione. «Di niente.
In
fondo, beh, quella bambina ha bisogno di un adulto che l'avvicini un
po' al mondo della cultura, no?»
«Non
parlavo
di... cioè, certo. Sei stato gentile a portarla al museo,
l'hai
fatta distrarre. Ma volevo dire... grazie di cercare di stringere un
rapporto con lei, Max. Io credo...»
«Che
cosa
credi?» chiede Max, quando l'esitazione di Ivan diventa
silenzio e
troppo carico di tensione, ed egli sente che potrebbe urlarne.
«Credo
che
Hyra dovrà passare moltissimo tempo con noi, d'ora in poi.
Aima non
potrà più prendersi cura di lei molto a lungo, e
vorrei che si
trovasse bene con te, e che vi voleste bene, se dovrà vivere
in
questa casa.»
Oh.
|
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Capitolo 7 *** Il Grande Max. ***
Capitolo
VII
– Il Grande Max.
Quando
Max si
sveglia per la seconda volta, stamattina, si sorprende nel constatare
che Ivan è sveglio – e da un bel po', si direbbe
– e che lo sta
guardando. Ma di più, non lo sta solo guardando –
Ivan lo sta
soppesando, e Max ne è così sorpreso che non gli
viene neppure in
mente nulla da dire. Che diamine succede?
«Che
cosa
stavi sognando?»
«Prego?»
Questa
poi, Max
proprio non se l'aspettava, ma di fronte al suo sbigottimento Ivan
non cede minimamente. Ha la fronte corrucciata e stanca, pensierosa,
e a Max non piace vederlo così assorto.
«Che
cosa
stavi sognando?» ripete Ivan con calma.
«Perché
devo
aver sognato?» ribatte Max bruscamente, sollevandosi a sedere
contro
lo schienale del letto, un po' per prendere tempo e un po'
perché, a
dire il vero, lo sguardo attento di Ivan, a così breve
distanza da
lui, lo sta mettendo a disagio. Se c'è qualcosa di Ivan che
proprio
non sopporta – beh, tra le varie cose –
è che sa quando
mente. Bastardo.
Ma
con la
massima calma, e sempre senza distogliere gli occhi da lui, Ivan si
stringe nelle spalle, si stiracchia pigramente sul letto, e risponde:
«Perché non me lo dici tu?»
Sa
tutto,
questo stronzo, o quasi tutto... perché al di là
della sua pelle
sudata e dei suoi occhi stravolti, e forse del tremore che lo ha
scosso mentre dormiva – perché a questo punto Max
non può non
sospettare di essersi agitato parecchio nel sonno – al di
là di
tutto questo, insomma, Ivan non può certo aver indovinato
niente di
più. Nonostante ciò, Max è certo che
Ivan non lo lascerà in pace
finché non avrà ottenuto la sua dannata risposta.
Non che egli
intenda dargli più soddisfazione di quanta se ne meriti,
comunque.
«Ho
sognato il
sole» risponde senza giri di parole, scaricandogli addosso
tutto il
compito di districare da solo il significato del sogno e di
ciò che
questo comporta. Quanto a lui, egli non intende fare proprio niente
per aiutarlo, a maggior ragione dal momento che averglielo detto
così, bruscamente e senza mezzi termini, non ha avuto
proprio niente
che ricordasse anche solo vagamente il sapore vivificante e remissivo
di una confessione. Quanto a questo, Max è sempre stato
così
disilluso da non provare nemmeno un poco di delusione.
E
poi,
quand'anche volesse spiegarsi più chiaramente, che diamine
dovrebbe
dirgli? Che è da quando è accaduto,
inesorabilmente, ch'egli non fa
che sognare quel sogno, e che la cosa più terribile
è proprio
questa: che in quel sogno non c'è niente che possa fargli
tanta
paura? Che dopo aver bramato per anni quel paradiso fatto di terra e
di sole e di vita – di vita! - egli ora non riesce proprio a
liberarsi gli occhi del ricordo angosciante di ciò che per
poco non
è riuscito a creare, e che quel paradiso che ha scatenato
sulla
terra era l'inferno del sole che bruciava, e che forse è per
quell'inferno che Aima sta morendo e sua figlia si ritroverà
orfana?
Ma
quando si
volta a fronteggiare Ivan, in un parossismo di rancore e di sfida e
di chissà che altro, Max non tarda ad accorgersi che nei
suoi occhi
non c'è alcuna traccia di perplessità. Ivan ha
capito tutto, e
subito, anche. Ivan, che ha assistito alla sua grandezza e al
compiersi della sua vittoria, e poi alla sua rovina ch'è
stata
maggiore e più rovinosa dal momento che si è
compiuta al culmine
del suo trionfo, Ivan ha capito all'istante il significato del suo
dolore e del suo tormento, e forse è possibile anche che lo
sapesse
già da molto tempo prima di chiederglielo. Bastardo, di
nuovo.
«È
per Aima,
vero?»
Certo
che è
per Aima, per questa donna senza volto che per lui non consta d'altro
che di un nome, e forse appena dell'indistinta identità che
a questo
nome egli è riuscito ad associare. È per Aima,
perché per la prima
volta da quando tutto questo è cominciato, nella prospettiva
concreta della morte di una madre, Max ha finalmente saggiato con
mano, senza possibilità d'appello, i frutti del suo ideale e
della
sua vittoria. Ma come dirgli che il ricordo del suo errore lo ha
perseguitato ogni giorno da quando lo ha compiuto, certo, ma che solo
da quando ha saputo di Aima si è fatto insopportabile?
«Max.»
C'è
un'inaspettata tenerezza nella voce di Ivan.
«Perché non me l'hai
detto prima?»
«Per
ottenere
cosa?» Per gravarlo forse di tutta la
responsabilità morale della
propria colpevolezza? Questa sì che è proprio una
bella idea.
Se
questo è il
livello delle argomentazioni di Ivan, la loro conversazione non
può
che essere inutile. Scostando decisamente le coperte, Max si alza dal
letto e prende a cercare con rabbia qualcosa nella stanza. Non che
stia davvero cercando qualcosa di specifico, ma è
confortante poter
fare finta di avere qualche ottimo motivo per aggirarsi per la camera
come un cane rabbioso.
«Perché
se tu
me l'avessi chiesto, io ti avrei detto che né Aima
né Hyra erano a
Hoenn quando tu hai risvegliato ArcheoGroudon» lo interrompe
Ivan
bruscamente.
Il
tempo ha
come un piccolo singulto nell'aria della stanza.
«Che
cosa?»
esclama Max voltandosi.
Ancora
seduto
sul letto, appoggiato alla testiera contro un cuscino rovesciato,
Ivan ha l'aria di qualcuno che sia appena riuscito a farsi finalmente
ascoltare dopo aver tanto urlato invano.
«Dio,
Maxie!
Mi credi proprio così stupido? Pensi davvero che sapendo
quello che
stavi per fare avrei veramente lasciato mia figlia in
pericolo?»
Di
fronte
all'ineccepibile logica del suo ragionamento Max apre la bocca, poi
ci ripensa e la richiude. Si sente la testa un po' troppo vuota e
spiazzata, dopo esser stato colto così, alla sprovvista, e
preferisce evitare di dire qualche sproposito, per il momento.
«Beh,
non l'ho
fatto, Max. Non appena ho sentito parlare delle Cascate Meteora e ho
intuito che dovevi essere a un punto di svolta, le ho imbarcate tutte
e due sul primo aereo per Sinnoh. Aima ha una zia a Giardinfiorito e
ogni tanto vanno a trovarla, perciò la bambina non si
è spaventata
troppo.»
C'è
qualcosa
di splendido e meraviglioso in tutto questo, cui Max non pensava
neppure di poter ancora credere. Torna a sedere sul bordo del letto,
molto lentamente, e guarda Ivan con attenzione. Non è che
non gli
creda – lo sa bene che Ivan non gli mentirebbe mai
– ma in
qualche modo mantenere il contatto con la franchezza schietta e
diretta del suo volto lo aiuta a essere certo che quella è
la
verità. Che non ha ucciso la madre della figlia del suo
compagno.
«Aima
non era
qui» ripete.
«No.»
«E
non c'era
neppure Hyra.» È per questo, dunque, che Hyra non
ha avuto la
benché minima reazione quando lui le ha parlato del grande
sole
rosso: non se lo ricordava perché non lo aveva mai
visto.
«No»
conferma
Ivan sorridendo. Aggrotta un sopracciglio. «Ah, e prima che
tu me lo
chieda, sono state via per tutta l'estate. Ho aspettato che la
situazione si stabilizzasse prima di farle tornare, perciò
non hanno
mai corso alcun pericolo. Beh, a parte per la meteora,
ovviamente.»
Aima
non era a
Hoenn nelle ore di terrore in cui Groudon la devastava.
All'improvviso, Max ha la sensazione di tornare a respirare per la
prima volta veramente da quando è iniziato tutto,
è una grande
boccata d'aria fresca non più torrida che gli riempie i
polmoni e lo
rianima... ma proprio quando non vorrebbe altro che abbandonarsi
definitivamente a quest'aria e a questo sollievo, e crogiolarsi per
un solo istante nella consapevolezza di non esser stato lui a far
ammalare Aima, all'improvviso proprio quel profondo respiro salvifico
pare bloccarglisi in gola. Dov'è finito quel sollievo?
Perché, ora
che è tutto finito, Max non si sente definitivamente leggero
e
redento da ogni peccato che abbia commesso in quei giorni?
Ma
la verità,
che Max arriva a cogliere giusto un attimo dopo il primo intuito,
è
che il responsabile della malattia di Aima non è stato lui,
ma
avrebbe potuto esserlo. Che la rassicurazione che
Ivan si è
tanto prodigato a dargli è parziale e incompleta proprio per
questo
fatto: che non lo rende meno colpevole per ciò che ha
effettivamente
compiuto. Il suo errore è ancora lì, alle sue
spalle, immenso e
immutabile, e il fatto che Aima in questo preciso momento non stia
morendo per colpa sua non lo redime nel modo più assoluto.
Quella
che per lui sarebbe stata una catastrofe è stata solo
sfiorata,
d'accordo, ma può veramente sentirsi sollevato?
«Ehi,
Max.»
La voce di Ivan, così calda e rassicurante anche quando,
come ora,
egli è perplesso. «Che cos'hai?»
Per
una volta,
di fronte alla legittima confusione del suo uomo, Max gli
farà il
piacere di non credere che sia troppo stupido per la
complessità dei
dubbi che lo attanagliano, ma ciò nonostante, non se la
sente ancora
di parlargliene. Per il momento, ha bisogno di pensarci un po' da
solo.
«Niente,
Ivan.
Sono solo... sollevato.»
La
cosa straordinaria quando si parla di Ivan è che, per quanto
Max non
gli abbia detto poi niente di che – perché,
davvero, non è che
sia poi una grande reazione, rispondere sono
sollevato
quando il tuo compagno t'informa che non hai ucciso la madre di sua
figlia – la sua reazione è smisuratamente,
sproporzionatamente
felice. Forse, tutto sommato, un po' stupido lo è comunque
–
perché per quale motivo quest'uomo s'intestardisca tanto a
investire
su di lui la sua felicità, purtroppo, è qualcosa
che esulerà per
sempre dalla sua comprensione – ma Max non gliene
farà una colpa,
per il momento. Gli occhi di Ivan hanno saputo vedere proprio
là
dove egli era cieco, e Max non potrebbe essergli più grato
di così
per aver dubitato di lui e aver cercato di fermarlo, e per aver
limitato i suoi danni, che è forse la cosa migliore che
chiunque
potesse fare per lui.
Ma
tutti questi
pensieri e questa gratitudine, pronunciati a voce alta, non
suonerebbero poi tanto bene, e magari chissà, forse Ivan lo
accuserebbe persino di essersi rammollito un po'. Perciò,
afferrando
una felpa da una sedia, tanto per dare un senso all'aver girovagato
per la stanza per tutti i minuti precedenti, Max gliela getta sul
letto senza tanti complimenti e gli fa cenno di vestirsi.
«Dai,
su...
preparati. Facciamo in tempo ad andare a fare colazione fuori, prima
che tu parta.»
Era
da così
tanto tempo che non portava Mightyena sulla spiaggia. Chissà
perché,
poi.
Stamattina,
quando ha proposto a Ivan di andare a fare colazione da qualche
parte, non gli sembrava poi di aver fatto la proposta del secolo, a
maggior ragione dal momento che l'ha detto non tanto per un vero e
proprio desiderio di uscire di casa (cosa che non ha mai realmente
avuto, negli ultimi mesi), quanto piuttosto per poter prospettare una
valida scusa per essersi alzato così presto e aver vagato
per la
stanza in preda a chissà quali pensieri. Ma la reazione
compiaciuta
e soddisfatta di Ivan gli è parsa, per la seconda volta in
quella
mattinata, un tantino spropositata, e solo dopo qualche momento Max
ci ha ripensato e si è accorto che, effettivamente, quella
doveva
essere la prima volta da quando abitano insieme che era lui a
proporre spontaneamente di uscire a fare qualcosa che avrebbero
potuto tranquillamente fare a casa.
Subito
dopo
colazione, quando Ivan ha inforcato la bicicletta e si è
avviato per
raggiungere gli altri del vecchio Team, improvvisamente Max si
è
ritrovato fuori di casa, da solo, senza aver fatto niente per cercare
di evitarlo, e soprattutto, cosa ancor più sorprendente,
senza
provare alcun desiderio di tornarci. Ci ha riflettuto un po', poi ha
deciso di lasciar perdere e di rinunciare, per una volta, a voler
capire sempre tutto, e si è avviato a passo lento verso la
spiaggia.
Non
che sia
stata una buona idea. Max non è mai stato un vero e proprio
amante
del mare neppure nel pieno sole estivo, e oggi, nella fattispecie, fa
un freddo dannato. L'aria è umida e salmastra,
già profumata della
pioggia che il cielo preannuncia, e un vento forte che rigonfia le
onde gli fustiga il viso in grande sferzate violente che lo graffiano
di sabbia. Ma di questo vento roboante, e del ruggito vorace delle
immani onde che si accavallano e urlano come a volerlo assordare, e
persino di questa sabbia che gli graffia e gli brucia il viso, Max si
sente stranamente grato, e chiudendo gli occhi e reclinando il capo
all'indietro egli si bea ciencamente di questo fragore e di questo
profumo.
Per
quale
motivo voleva distruggere tutto questo?
Per
dare al mondo meno acqua e più vita, vorrebbe
rispondere dentro di lui il Grande Max, il folle Max che scagliandosi
contro la natura voleva risvegliare la forza immane e incontrollabile
di Groudon. Ma quell'uomo, che pure non è affatto morto
dentro di
lui – e perché dovrebbe? Ci vorrebbe proprio un
bel coraggio,
dall'alto del senno di poi, a rinnegare quell''uomo tanto geniale
quanto ottuso che ha operato per tanti anni indefesso, infaticabile,
senza mai neppure una volta concedere a se stesso o ad altri il lusso
di mettere in dubbio i suoi piani, e Max non è tanto
ipocrita da
rinnegare così, al punto di disconoscerlo, il se stesso di
allora –
quell'uomo ha oggi quantomeno la decenza di tacere eloquentemente,
dopo aver imparato la lezione.
Mentre
osserva
con la coda dell'occhio il suo Mightyena correre sulla spiaggia
sollevando una miriade di spruzzi, vergognosamente felice, Max guarda
dentro di sé e si risponde che tutto ciò che ha
sempre voluto, sin
dai suoi anni universitari, era salvare l'umanità. E tutto
il suo
sbaglio è stato voler puntare troppo in alto, e troppo in
fretta, e
voler salvare tutti e tutti insieme, e... e poi, beh, sappiamo tutti
com'è andata.
Il
problema è che quest'umanità ch'egli ama con
tutte le sue forze
vorrebbe salvarla ancora, Max, e che tutta la sua angoscia e la sua
frustrazione scaturiscono proprio da lì. E di
quest'umanità così
variegata e indistinta ed egualmente amata, seppur dall'alto della
sua vana illusione di superiorità, egli ora disperatamente
vorrebbe
salvare qualcuno che è un po' meno di un volto e un po'
più di un
nome, ed è Aima. Perché se non è stato
lui a ucciderla – e di
questo il suo cuore non fa che urlare grazie,
grazie, grazie!
- quella donna che ora sta morendo a pochi chilometri di distanza non
è davvero la prova di ciò che avrebbe
potuto essere,
se altri non l'avessero fermato, e di quell'umanità che
egli, pur
cercando di salvare, stava per condannare?
Ma
al punto a
cui si è giunti, esiste ancora una qualche forza al mondo in
grado
di salvare Aima?
Quando
Ivan
torna a casa, per la prima volta da quando abitano insieme, non trova
la cena pronta, e questa è una novità. Non ne
è risentito,
ovviamente (beh, il suo stomaco lo è, ma Ivan ha almeno la
buona
grazia di non farglielo notare), ma di certo è sorpreso. Max
percepisce la sua confusione nell'aria, esplicita a sufficienza
perché non ci sia bisogno di dichiararla a parole, e sarebbe
disposto a dissiparla se solo non fosse troppo impegnato ad
aggiornare le sue conoscenze in oncologia e dermatologia, che sono
decisamente un po' stantie, dato che risalgono ai tempi della sua
seconda laurea.
Il
tavolo della
cucina è stato promosso di grado, nel corso del pomeriggio,
e
attualmente sta svolgendo il ruolo di scrivania, dato che
nell'appartamento di Ivan non c'era niente di assimilabile a uno
studio quando ci si è trasferito. Ivan si ferma alle sue
spalle e
rimane in silenzio così, per un po', a cercare di capire che
cosa
stia facendo e per quale diamine di motivo non ci sia niente da
mangiare in casa.
«Sono
tornato»
prova dopo un po', forse coltivando l'insolita convinzione che
un'ottantina di chili di muscoli possano passare inosservati quando
entrano in una stanza.
«Già,
ciao»
risponde Max, senza per questo alzare lo sguardo dal suo manuale.
C'è
qualche
attimo di silenzio, che Ivan impiega a decretare il fallimento della
sua strategia di sottolineare l'ovvio per ottenere la sua attenzione,
quindi torna alla carica.«Che cosa stai facendo?»
Sollevando
finalmente lo sguardo per gettare un'occhiata d'insieme alla distesa
di libri che ha davanti, Max ha la viva sensazione di sentire le loro
pagine animarsi ed esclamare a gran voce: giochiamo
a canasta! «Studio.»
«Oh.»
La voce
di Ivan esprime una certa contentezza che non si premura di
nascondere, ma è certo che non vuole fargli pesare troppo il
suo
radicale cambiamento di abitudini. «Ottimo. Senti... tu non
hai
fame?»
«Certo.
Potresti ordinare un paio di pizze, che ne dici? Io ne avrò
ancora
per un po'.»
«Un
paio di
pizze?»
Di
fronte al
suo genuino, spontaneo stupore, Max stabilisce infine di potersi
distrarre per qualche secondo dai suoi manuali per voltarsi a
guardarlo.
«Perché
no,
Ivan? Non è il genere di cose che piace a voi uomini grandi
e
grossi, pizza e birra sul divano davanti alla televisione? Sono quasi
sicuro che ci sia una partita di qualche sport, stasera.»
C'è
qualcosa
nella sua voce che deve togliere a Ivan ogni velleità di
protesta,
per quanti dubbi Max possa scorgergli negli occhi: semplicemente,
dopo qualche momento, Ivan si limita a scuotere il capo, un po'
confuso ma senza la minima traccia di disappunto, ad afferrare il
cordless dal tavolo e il menù della pizzeria d'asporto dal
frigorifero, e a uscire dalla stanza.
Per
la
successiva ora e mezza, la serata trascorre senza intoppi, proprio
come Max aveva previsto: lo squillo del campanello e un breve suono
di voci basse che si scambiano, e poi, da qualche parte nel loro
soggiorno, il brusio indistinto dei canali televisivi che vengono
cambiati in modo rapido e inquieto.
Chino
sul
tavolo con gli occhi che si arrossano e cominciano a bruciare, Max
continua a studiare e a cercare nei libri un modo per salvare Aima.
Si sente un po' tornar giovane, questa sera – il ragazzo
geniale e
insicuro dei suoi primi esami, il genio studioso e solitario che
s'isolava giorno e notte nell'eremo della sua stanza... ma è
diverso, ovviamente. Oggi c'è Ivan, in questa casa, con lui.
La
consapevolezza della sua presenza è confortante, per nulla
fastidiosa, e Max si sorprende di non esserne in alcuna misura
distratto. È bello sapere di non essere solo.
Chissà come sarebbe
stato avere Ivan come coinquilino, ai tempi dell'Università.
Quando
Ivan
rientra in cucina sono quasi le dieci, e Max si sente la testa piena
di concetti confusi e sovraffollati che lotttano per farsi spazio nel
suo cervello. Qualche minuto di pausa, dopotutto, può
concederselo:
socchiudendo il libro che sta leggendo, si appoggia allo schenale
della sedia e alza lo sguardo sul suo compagno.
Ivan
è in
piedi accanto a lui, in silenzio, e sta percorrendo con lo sguardo la
catasta di libri e riviste che sovrastano il tavolo. Non sta facendo
nient'altro, ma Max sa che ha capito per quale motivo, di punto in
bianco, egli si è procurato tutta la possibile bibliografia
in
merito ai tumori della pelle, e non c'è bisogno di dire
niente.
Si
schiarisce
un po' la voce. «Allora... non c'era niente di interessante
in
televisione?»
«Che
cosa?»
Ivan sembra faticare un momento a distogliersi dalla sua
contemplazione e a concentrarsi su di lui. Sta pensando ad Aima.
«Ah... no. Sai com'è. Sono un po'
stanco.»
Sì, è
stanco, certo, ma nei suoi occhi assorti e pensierosi Max legge anche
qualcos'altro. Ivan è sollevato. Sente che è
cambiato qualcosa, per
la prima volta da quando stanno insieme, anche se non sa ancora bene
di che cosa si tratti, e forse non riesce ancora a crederci.
«Se
sei
stanco, puoi andare a dormire» lo incoraggia. «Io
ti raggiungo tra
un po'. Non importa che mi aspetti in piedi.»
Al
suo invito
non giunge alcuna risposta ma, del resto, non c'è fretta.
Max
continua a sentire la sua calda presenza rassicurante al suo fianco,
silenziosa e piacevolmente confortante, mentre si china in avanti e
torna ad appuntare sul libro gli occhi brucianti.
E
poi, dopo un
minuto, finalmente, il fragore di una sedia trascinata sul pavimento,
e Ivan si siede accanto a lui.
«Ti
tengo un
po' compagnia.»
A
questo non
c'è nulla da ribattere. Ivan si appoggia a lui con tutto il
suo
peso, reclinando il capo sulla sua spalla, e sorridendo tra
sé Max
solleva pensierosamente la mano ad accarezzargli la nuca, con un
certo gesto meccanico e pensieroso e non privo di affetto.
Per
tutto il
tempo che segue, Max continua a studiare malgrado la stanchezza,
mentre il cuore di Ivan batte forte forte contro la sua spalla,
pulsando attraverso la pelle tutta la sua gratitudine.
Buongiorno
a
tutti!
Spero
che questo
aggiornamento sia stato un po' più corposo del precedente:
penso che
finalmente si sia arrivati a un vero e proprio punto di svolta nella
storia, anche se non posso anticipare nulla sui prossimi capitoli.
Come
al solito,
un grazie infinito a cristal_93 per la sua recensione al precedente
capitolo, mi ha fatto davvero molto piacere!
Non
posso
inoltre che ringraziare di cuore chiunque anche solo per essere
arrivato sin qui con la lettura.
Detto
questo, un
caro saluto a tutti, e alla prossima!
Afaneia
|
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Capitolo 8 *** Come l'irruzione di un'alba. ***
Capitolo
VIII – Come l'irruzione di un'alba.
A
partire da
quel giorno, e per tutti i giorni a venire, Max sente di aver
ingaggiato una titanica lotta contro il tempo.
Ogni
giorno,
quando torna a casa, Ivan gli parla di Aima, e non sempre o non
necessariamente con la voce. Le notizie peggiori Max le intuisce
proprio quando Ivan è troppo stanco, troppo disperato per
parlare...
e allora, Max non chiede niente. In questi casi, quando il suo
compagno torna a casa esausto, cogli occhi troppo pieni di qualcosa
d'inesprimibile, Max deve esercitare su se stesso uno sforzo di
volontà ancora più intenso del normale per
obbligarsi a staccare
dai suoi libri, a un orario decente, e a infilarsi sotto le coperte
con lui. Ivan non chiede niente, non dice niente, eppure Max sa
ch'egli ha un disperato bisogno della sua presenza.
E
sarebbe poi
capace di spiegare ad alta voce, se qualcuno glielo chiedesse, che
cosa spera di ottenere, con queste notti insonni trascorse sui libri
e le sue competenze che si accrescono e sempre di più
affollano e
colmano la sua mente, ma che sono destinate a rimanere lì
– nella
sua mente – sterili e inservibili e totalmente
insignificanti? Aima
sta morendo, e se anche poi non fosse? Forse che ci sarebbe qualcosa,
qualsiasi cosa ch'egli potrebbe fare per salvare la sua vita? Max non
è un medico, non è niente di niente, impotente
come il più
miserabile studente del primo anno di Medicina, e la sua impotenza lo
fa sentire ignobile e furente come se si sfiancasse urlando contro
una marea di onde che lo affondano!
È
possibile
che non ci sia nulla, che non esista nulla, che tutto il suo impegno
e la sua rabbia siano destinati a rimanere insignificanti come atti
non compiuti?
E
poi, proprio
quando la lotta pare sopraffarlo, come un nemico invisibile e troppo
potente, una sera in cui Ivan è tornato a casa tanto
desolato e
furioso col mondo e con se stesso e con l'universo intero da non
riuscire neppure a guardarlo negli occhi, è stata la sua
impotenza a
parlare per lui. A un tratto Max si è accorto di essere
seduto a un
tavolo da ore, a rileggere e sottolineare in continuazione gli stessi
libri, sprecando le sue forze e il suo tempo proprio come se cercasse
di abbattere un muro con le sue mani nude. Sta sbagliando tutto.
Nulla di quanto potrà mai leggere in quei libri
potrà mai salvare
Aima, semplicemente perché, se questo è il
massimo che la scienza
può offrire allo stato attuale delle cose, non
è sufficiente, e
non c'è niente che né lui né
nessun'altro possano fare. Ai
miracoli, dopo averne cercato per anni uno che per poco non ha
distrutto Hoenn, Max ha ormai smesso di credere da un po', e la
scienza, ch'è stata sempre l'altro fondamentale caposaldo
della sua
vita (e anche quello che, alla fine dei giochi, si è
rivelato il più
sicuro), non è sufficiente a salvarla. Non ancora,
quantomeno.
E
improvvisamente Max capisce che quel non ancora è
tutto
quello a cui può aggrapparsi. Nella morte di Aima, che
è ormai una
certezza assoluta che si staglia davanti a lui coll'imponenza
dell'ineluttabile, Max si accorge finalmente che quella è
l'unica
via percorribile, e scoprirla è una liberazione, come
l'irruzione di
un'alba attraverso una coltre di nubi. È la chiave di tutto,
finalmente, e una volta che l'ha trovata, questi libri gli diventano
completamente inutili, per il momento.
«Ti
vedo in
forma» commenta Max a mo' di saluto, sinceramente sorpreso.
Al
suo
complimento è alquanto evidente che non farà
seguito alcuna
risposta, ma per la verità Max si ritiene già
abbastanza fortunato
per il fatto che Ottavio abbia deciso di presentarsi
all'appuntamento. Convincerlo a venire a incontrarlo in questo bar di
Ciclamipoli è stato di per sé un mezzo miracolo,
e in quanto al
resto egli non ha proprio idea di come farà a persuaderlo ad
ascoltarlo per più di cinque minuti, per non dire a
collaborare con
lui. Con ogni probabilità, Max non riuscirà a
ottenere da lui che
un secco no, ma doveva almeno tentare. Ottavio ha
collaborato
con lui a partire dal suo primo progetto sulle rocce effusive al suo
primo anno di Geologia, e l'idea d'intraprendere un progetto senza di
lui, semplicemente, gli era impensabile. Certo, Max sa di dover
riscrivere parecchie cose della sua vita, ma non vede per quale
motivo cancellare proprio le migliori: e Ottavio, pur con tutti i
suoi evidenti difetti, è stato comunque una delle persone
più
importanti del suo passato. Almeno questo, Max glielo deve.
Le
apparenze
sono fatte per ingannare, ma qualcosa nell'aspetto del suo antico
collaboratore gli dice che Ottavio, quel tormento di rancore e di
rimorso che Max conosce anche troppo bene, lo ha già
superato. Non
era lui a portarsi dietro la responsabilità morale
più grossa per
quello che hanno fatto, dopotutto – Ottavio ha cercato di
fermarlo!
La sua coscienza, per quel tanto che un tardivo tentativo di fare la
cosa giusta può bastare a cancellare tutti gli anni che
hanno
trascorso inseguendo il medesimo obiettivo, è pulita. Anche
se non
immediatamente come Ivan, Ottavio ha cercato d'impedirgli di
distruggere Hoenn. Quello che è successo dopo, dal momento
che Max
si è rifiutato di prestargli ascolto, non è stata
colpa sua.
Ottavio
si
siede rabbiosamente davanti a lui, alla prudente distanza del tavolo
che li separa, e lo guarda. Forse non è arrabbiato tanto con
lui per
averlo convinto a incontrarlo, quanto con se stesso per avergli dato
retta, per l'ennesima volta.
Per
la sua
rabbia e per il suo rancore, Max nutre il massimo rispetto.
«Buongiorno,
Ottavio» riprende lentamente, ma con decisione. Sa
già che, con
ogni probabilità, Ottavio gli dirà comunque di
no, ma ormai la sua
strada è già tracciata e un suo eventuale rifiuto
non potrà in
alcun modo fargliela perdere di vista. Questo percorso, quali che
possano essere le difficoltà. Max ha intenzione di compierlo
tutto
sino alla fine, senza allontanarsene mai, alla stregua di chi segua
l'inestinguibile corso di un fiume, che prosegua la sua via verso il
mare anche dopo aver percorso un breve tratto sotto terra.
«Ti
ringrazio di essere venuto.»
«Veniamo
al
dunque, Max» ringhia Ottavio. «Hai detto di avere
bisogno di me,
quindi va bene, sono venuto qui a sentire quale nuova stronzata avevi
in mente. Ti confesso che sono curioso. Vuoi archeorisvegliare
qualcun'altro, prima di pranzo?»
Max
incassa il
suo sarcasmo a testa alta, senza replicare. Se lo merita. Non gli
viene in mente neppure per un momento che potrebbe fargli notare, in
modo più o meno velato, che quel piano folle lo ha concepito
lui,
d'accordo, ma che Ottavio lo ha aiutato per anni, prima di cambiare
idea e di tirarsi indietro a un minuto dalla fine. Non ne vale la
pena. Questo gioco delle responsabilità e delle colpe non ha
più
alcuna ragion d'essere, e tutto ciò che gli viene in mente
di
replicare, ora come ora, è: «Mi dispiace,
Ottavio.»
Con
l'aria di
qualcuno che fosse già in proncinto di lanciarsi in una
lunga tirata
alla sua volta, e che inaspettatamente sia costretto a rimangiarsela
prima ancora di averla cominciata, Ottavio spalanca gli occhi,
annaspa un po' e domanda: «Che cosa?»
«Mi
dispiace»
ripete Max con calma, senza timore di scandire bene le sillabe. Lo
guarda negli occhi, serenamente e a lungo come forse non ha fatto per
anni, e per una volta è contento di
riuscire ad ammettere
così, in modo spontaneo e del tutto indipendente dalle
circostanze
che lo circondano, di aver inseguito un miraggio per quasi vent'anni.
Gli ci è voluto un po' (beh, quasi un anno), ma ora
finalmente può
offrire al suo migliore amico delle scuse sincere dal profondo del
suo pentimento e della sua accettazione. Solleva le mani per
impedirgli di parlare, per il momento. «Mi dispiace,
Ottavio... per
davvero, questa volta. Per tutto. Per averti convinto a perseguire
quel piano e per aver creduto che intendessi tradirmi. E anche per
aver sciolto il Team quando le cose si sono fatte difficili.»
Quando
anche i loro occhi erano divenuti insopportabili per la sua coscienza
rimordente, quando le loro bocche e le loro fronti stanche, deluse,
tutto, tutto di loro gli era parso urlare e accusarlo, a ogni singolo
incrocio di sguardi, di averli ingannati tutti e trascinati con
sé
nell'abisso del suo errore di valutazione.
Ma
l'onestà
delle sue scuse a Ottavio non basta. Chinandosi in avanti sul tavolo
per non cedergli altra via di fuga, lo incalza: «E per
Rossella.
Non è vero?»
Ripensare
a
Rossella gli fa ogni volta più male. Rossella è
stata il suo grande
errore, l'erede e continuatrice del suo sogno di progresso e di
distruzione, e ora Max sa di averla odiata proprio per questo: per
avergli mostrato, nel modo più efficace possibile, con la
violenza
delle sue azioni, quale uomo egli era e sarebbe ancora, e quali
aberrazioni sarebbe stato in grado di compiere, se solo gliene si
fosse offerta l'occasione...
Max
ha odiato
Rossella per la semplice colpa di essere identica a lui, e proprio
per questo motivo l'ha allontanata, alla fine. Ora che l'ha capito,
che si è finalmente reso conto di cosa quella ragazza
disturbata
abbia significato per lui, a distanza di quasi un anno, egli
è
finalmente in grado di perdonarla... ma proprio per fare
ciò, per
poterla finalmente comprendere e perdonare, quest'anno gli era
necessario quanto una boccata d'aria dopo ore di apnea: Max ha potuto
perdonarla per aver compiuto i suoi stessi errori solo dopo aver
perdonato se stesso per averli commessi per primo.
«E
per
Rossella» conferma a bassa voce. Esita un poco, e poi:
«Hai avuto
notizie di lei?»
Che
sia per
l'onestà che gli ha letto negli occhi, o per il semplice
fatto di
avergli sentito pronunciare il nome di Rossella per la prima volta
dopo mesi, Ottavio appare più rilassato, ma si passa
egualmente una
mano sugli occhi. Il pensiero di Rossella estenua anche lui,
evidentemente.
«Credo
che sia
tornata a casa, dai suoi genitori, ma non ha voluto che
l'accompagnassi. Posso solo sperare che sia rimasta con loro»
ammette tristemente. «Alle mie chiamate non ha mai risposto.
Credo
che stia cercando di cancellarci, sai.»
In
risposta
alle sue considerazioni, Max si limita ad annuire in silenzio.
È
giusto così, si dice pensierosamente. Rossella è
malata e ha
bisogno di un aiuto che in questo momento né lui,
né Ottavio, né
nessun'altro è in grado di darle: Max ha conosciuto i suoi
genitori,
tanti anni fa, ed è certo che essi fossero e siano tuttora
in grado
di aiutarla meglio di chiunque altro... ma ora che Ottavio gliel'ha
detto, sa che non smetterà di pensarci e di domandarsi se
tutto vada
bene, e chissà, forse troverà anche la forza per
cercare di
ricontattarla, in futuro.
«E
tu,
invece?» chiese a bassa voce.
Ottavio
si
stringe nelle spalle come se quella domanda, per lui, fosse
irrilevante. Quest'uomo è sempre stato dannatamente pieno
delle
risorse e degli appigli più insospettabili, e Max non dubita
neppure
per un momento della risposta che gli sta per dare. «Ho
ripreso a
lavorare per la Devon. Credo di essere rimasto simpatico al Campione,
sai, Rocco. Mi ha aiutato lui a riottenere il posto.»
«Sono
contento
per te» risponde Max, e lo è davvero. È
sempre stato praticamente
certo che Ottavio avesse avuto fortuna in qualche altro modo, e non
è
venuto a offrirgli questo nuovo progetto perché pensava che
ne
avesse bisogno.
In
tutto
questo, comunque, non gli era venuto in mente che Ottavio avesse
potuto tenersi impegnato anche su di lui.
«Quanto
a te,
so che vivi con Ivan, adesso. Era l'ora» constata Ottavio in
tono
molto divertito, come se per tutta la conversazione non avesse atteso
altro che poter parlare di questo. Max aggrotta la fronte in un moto
di perplessità. «E tu come lo sai?»
«Oh,
andiamo,
Max. viviamo in un presente meravigliosamente aperto alla libera
circolazione delle notizie, e le voci girano» riprende
Ottavio. «E
comunque, ho conosciuto un'ex recluta del Team Idro, una di quelle
che hanno lasciato Ivan. Cercava lavoro a Ferrugipoli, ma non so se
abbia avuto fortuna, poi... se fossi stato in lui, non mi sarei
allontanato così tanto dal mare, a dire il vero. E chiunque
abbia
piantato Ivan senza avere una valida alternativa è stato
stupido, te
lo dico io, ma che vuoi farci... erano un branco di ragazzini che
avevano solo voglia di litigare con i nostri, era ovvio che avrebbero
lasciato perdere tutto quando avrebbero dovuto scontrarsi soltanto
con l'inquinamento dei mari e rimboccarsi bene le maniche, senza
troppi ideali e sfide di mezzo. Ma gli saranno rimasti i suoi
fedelissimi, no? E poi ho sentito che stanno lavorando molto in
questo periodo, è vero?»
Quello
di cui
Ottavio, ormai lanciato nel suo interminabile monologo, non sembra
essersi accorto, è che Max ha smesso di ascoltarlo
praticamente
subito, anche perché il destino di qualche anonimo ex-
accolito di
Ivan, per la verità, gli interessa ben poco. Non si
aspettava
affatto che Ottavio sapesse già della loro convivenza.
«Suppongo
che
tu sappia già anche della bambina, quindi» dice
pensierosamente.
Per
la prima
volta dall'inizio della loro conversazione, Max ha la soddisfazione
di vedere Ottavio veramente sconvolto.
«La
cosa?»
esclama stupefatto, appoggiandosi al tavolo con ambo le mani e gli
occhi spalancati per lo stupore. Cerca invano di riprendersi e di
riacquistare un contegno, ma subito dopo, lasciando perdere una
partita persa in partenza, prosegue: «Ma, Max... tu non hai
mai
sopportato i bambini! Vuoi dirmi che ne avete adottata una?»
Almeno
questo
non lo sapeva. Non che Max intendesse tenere nascosto niente,
beninteso – andiamo, anche volendolo, non avrebbe
più l'età per
una relazione clandestina – ma gli fa piacere aver assunto
una più
precisa percezione di quanto della sua vita sia già noto ad
altri.
«Niente
di
così complicato, Ottavio» si affretta a
spiegargli. «È la figlia
di Ivan, l'ha avuta prima che... beh, insomma. Non vive neppure
stabilmente con noi.» Non ancora, quantomeno,
pensa con una
stretta allo stomaco.
Se
il suo
tentativo era quello di tranquillizzarlo, Max ha fallito alla grande.
Ottavio ha l'aria di uno che potrebbe avere un infarto da un momeno
all'altro.
«Ivan
ha una
figlia? E da quando? E tu lo sapevi?»
«Certo
che non
lo sapevo, Ottavio!» protesta Max, sentendosi quasi offeso da
tale
mancanza di fiducia. «L'ho saputo pochi mesi fa, dopo che
abbiamo
cominciato a vivere insieme. E ti prego, risparmiami le tue
considerazioni in merito alle insospettabili capacità di
segretezza
di Ivan» soggiunge. Ottavio, che stava già
preparandosi a
interromperlo per obiettare ancora, chiude immediatamente la bocca.
«Qualunque riflessione tu possa esprimere, l'ho
già pensata mesi
fa. Ivan ha eluso ogni nostro tentativo di spionaggio e l'ha tenuto
nascosto anche al suo stesso Team, informando solo il suo stato
maggiore. Non c'era modo per noi di scoprirlo, se gli unici a saperlo
erano Ada e Alan.»
«A
dire il
vero, ero solo sorpreso che a te stesse bene così»
risponde Ottavio
cautamente, dopo qualche istante di silenzio.
Max
lo scruta a
lungo senza capire. «Che mi stia bene cosa?»
«Beh,
il tuo
uomo ha avuto una figlia da un'altra donna.» Ottavio sembra
quasi
far fatica ad articolare una frase compiuta, come se temesse,
spingendosi troppo in là, di offenderlo.
«Insomma... a me farebbe
impazzire, penso. È da anni che va avanti tra voi
due.»
«È
successo
più di otto anni fa, Ottavio» risponde Max con
calma. È la prima
volta che ha modo di parlare con qualcuno di quest'argomento, ed
è
stupefacente che la cosa non lo metta minimamente in imbarazzo e che
egli sia in grado di ripetere così, ad alta voce e con la
massima
tranquillità, le stesse riflessioni che ha concepito nella
sua mente
ormai sei mesi prima. Questa è la verità,
dopotutto: non ha
accettato Hyra per compiacere Ivan, ma perché credeva
sinceramente
che fosse la cosa giusta da fare, e le legittime osservazioni di
Ottavio non mettono minimamente in crisi la sua convinzione.
«Non
stavamo neppure insieme all'epoca. Non ho mai minimamente creduto di
avere l'esclusiva su di lui, fino a dopo Groudon. E poi, beh... ti
dirò che sua figlia Hyra è sorprendentemente
intelligente. Non è
poi male come pensavo, con i bambini.»
«Oh»
risponde
Ottavio, stranamente colpito. Se ne rimane in silenzio per un po'.
«Va
bene,
allora» conclude finalmente, dopo un po', appoggiandosi alla
sedia,
con aria seria e concentrata e aperta al dialogo. «Dopo tanti
anni
direi che possiamo mettere da parte i convenevoli, no? Ora dimmi
perché hai voluto incontrarmi.»
Max
tamburella
per un po' con le dita sul tavolino, cercando dentro di sé
le parole
per cominciare il discorso. Ma un modo giusto per dirlo non esiste,
ormai lo sa anche troppo bene, perciò, con un sospiro
profondo,
finisce per lasciar perdere.
«La
madre di
Hyra sta morendo. Ha un melanoma. Hanno provato a operarla, ma le
metastasi sono troppo estese, perciò... non c'è
niente da fare.»
«Oh»
balbetta
Ottavio solamente. È senza fiato, e forse un po' confuso.
«Accidenti, Max, io... mi dispiace. Ivan sarà
distrutto.»
«Lo
definirei... incazzato.» Non esiste un momento migliore per
avanzare
la sua proposta, ormai. «Senti, Ottavio... quanto ne sai tu
della
tecnologia usata nella rimozione delle cellule cancerogene?»
«La
che cosa?»
Ma è evidente che Ottavio ha capito benissimo, e ha solo
bisogno di
un attimo di pausa per fare mente locale. «Cielo, Max... che
razza
di domanda! Bisognerebbe che mi documentassi almeno un po'! Ma Max,
ascolta... se i medici dicono che non c'è più
nulla da fare, dubito
molto che io...»
«Non
è per
sua madre, Ottavio» lo interrompe gentilmente Max.
«Non lo è più,
ormai. Lei mi ha solo... aperto gli occhi su quello che voglio fare
della mia vita, d'ora in poi.»
Gli
ci è
voluto un po' di tempo a lasciar andare Aima nella sua mente, e ad
ammettere a se stesso, con la massima e più dolorosa
sincerità
possibile, che non è e non sarà mai in grado di
salvarla. Che è
troppo tardi, troppo tardi per chiunque, a parte forse per un
miracolo, e che continuare a sfiancarsi a cercare una soluzione era
inutile e controproducente, come ostinarsi a fissare l'orizzonte con
un cannocchiale troppo piccolo per poterlo vedere interamente.
Seduto
di
fronte a lui, in questo locale così luminoso e vitale in
questa
Ciclamipoli accarezzata dal giorno, Max ha modo di osservare con
tutta calma la consapevolezza prendere forma negli occhi di Ottavio.
«È
questo che
volevi propormi, quindi?»
«È
questo»
conferma Max con calma. «Non ho ancora ben chiaro tutto,
ovviamente,
ma ora so che è questo che voglio fare nella vita, Ottavio.
Aiutare
le persone, ma in un modo migliore. Ora so che è quello che
hai
cercato di mostrarmi quel giorno, di fronte alla Grotta dei Tempi,
quando io non sono stato in grado di ascoltarti fino in fondo. Mi
piacerebbe cambiare di nuovo il mondo al tuo fianco, se sei
d'accordo.»
«Max,
io...
non so cosa dire.» Ottavio è spiazzato, preso alla
sprovvista tanto
da non sapere neppure dove guardare. «Lo sai, vero, che non
è
proprio una cosa che si fa dalla sera alla mattina? Non è
come
risvegliare un leggendario e puff!, qualche milione di ettari di
terra coltivabile in più. Si tratta di studiare anni e anni
per
ottenere un miglioramento di ordine infinitesimale nelle tecniche
già
esistenti. Insomma, sei proprio certo...»
«Lo
sono,
Ottavio.»
I
miracoli non
esistono, l'umanità non può essere salvata in un
giorno. Max ha
cercato di opporsi a questa verità per tutta la vita,
scontrandovisi
di petto come contro un muro, e dopo vent'anni la sua resa è
ormai
completa e incondizionata. Ha fallito, e a distanza di quasi
vent'anni dal giorno in cui per la prima volta egli ha concepito il
suo folle piano, finalmente Max si è reso conto di quanto
tempo
abbia sprecato a inseguire una chimera e a rischiare di rovinare
tutto per voler ottenere troppo in un colpo solo.
Non
può
salvare il mondo da solo, ma può fare qualcosa, e
forse un
giorno questo infinitesimale qualcosa
potrà salvare una vita.
Questa è forse la massima speranza che può
permettersi di
coltivare, e veramente, va bene così. Ha sbagliato per tutta
la
vita, ma per fortuna, ringraziando il cielo, ha aperto gli occhi
prima che fosse troppo tardi, e ora è ancora in tempo per
rimediare
e fare la cosa giusta.
«Allora
ci
penserò, Max» afferma Ottavio, solo un po'
più convinto e meno
esitante di prima. «Dopotutto, sai... non è che
alla Devon il
lavoro sia così interessante. E poi non era male lavorare
con te,
quando non c'erano di mezzo leggendari di novecentocinquanta
chili.»
Per
oggi, Max
ritiene che sia più corretto non mettere in chiaro proprio
tutto.
Rimane sottaciuto, per esempio, il fatto che non ha più
alcuna
intenzione di avere sottoposti di alcun tipo, e che da oggi non vuole
altro che soci alla pari. Non vuole lusingare il suo orgoglio. Se
Ottavio accetterà, Max vorrà soltanto la sua
convinta
partecipazione, e basta.
«Grazie,
Ottavio. Confesso che non mi aspettavo che avresti preso in
considerazione la mia proposta.»
Ottavio
fa un
cenno noncurante con la mano, quasi a scacciare un'idea molesta che
non possa che disturbare la conversazione.
«Ci
conosciamo
da tanto, Max. Lascia perdere i ringraziamenti. In fin dei conti,
sai... potrebbe darsi che anche io abbia qualcosa da farmi perdonare
dal mondo.»
Fa
piacere
ritrovarsi con un vecchio amico, dopo tanto tempo. Per la prima volta
da quando tutto questo è cominciato, Max ha come la
sensazione di
essere ringiovanito di dieci anni.
Buonasera
a tutti!
Nuovo
capitolo di svolta, direi ormai decisiva e conclamata, e purtroppo
ancora più radicale che nel capitolo precedente. So che
forse Max ha
preso una “decisione” che non tutti si aspettavano,
ma (anche se
a malincuore) ritengo che questa presa di coscienza fosse
fondamentale nel suo percorso di redenzione, se così
vogliamo
chiamarlo: i miracoli non esistono, ed esigerne uno dall'universo non
può portare che danni.
Mi
viene quasi da dire che Ottavio sia entrato da solo nella storia,
perché non mi ricordo affatto di aver mai deciso di
inserirvelo. Mi
è piaciuto rappresentarlo come una persona un po'
logorroica, che ha
bisogno di dire tutto quello che pensa, subito, di qualsiasi
argomento, e anche come qualcuno che abbia sempre una soluzione in
tasca e sappia sempre come reinventarsi. Nel videogioco mi dava un
po' questa sensazione, anche per il fatto che (potrei ricordare male,
qualcuno mi corregga se sbaglio) viene specificato che al Team Magma
sono molto utili le sue conoscenze acquisite durante il lavoro alla
Devon.
Penso
di aver detto tutto quello che dovevo riguardo a questo capitolo:
come al solito, i miei più caldi ringraziamenti a cristal_93
e a
Persej Combe per le loro recensioni al precedente, e in generale a
chiunque sia arrivato a leggere sin qui!
Alla
prossima
Afaneia
|
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Capitolo 9 *** La sua parte di cattiva sorte. ***
Buonasera
a tutti!
Devo
dire che questi
sono stati per me mesi un po' confusi, oltre che carichi di esami, di
tesi da scrivere e quant'altro. Posso solo dire che aver sconfitto un
boss in Legend of Zelda – Ocarina of time è
stata la cosa
migliore e più emozionante che mi sia successa da qualche
settimana
a questa parte, e ammetto che in tutto questo la pubblicazione ne ha
un po' risentito. Ma spero che con l'arrivo dell'estate – e
la fine
della sessione estiva – finalmente le cose si facciano un po'
meno
pesanti per me.
Ciò
detto, che dire?
Questo capitolo è stato uno dei primissimi a essere scritti,
probabilmente il primo che scrissi quando decisi razionalmente di
inserire nella storia la malattia di Aima: sono cambiate tante cose
da allora, e ho potuto ultimarlo e rifinirlo in un modo che
personalmente mi soddisfa molto. I percorso di Max sta proseguendo
pagina dopo pagina.
Prima
di lasciarvi alla
lettura, non posso che ringraziare come al solito cristal_93 e Persej
Combe per le loro gentilissime recensioni.
Un
abbraccio enorme a
tutti!
Afaneia
Capitolo
IX
– La sua parte di cattiva sorte.
Nelle
ultime
settimane, la situazione si è aggravata tanto che si
è reso
necessario ricoverare Aima in ospedale. Le metastasi ai polmoni le
hanno tolto il respiro, e i dolori si sono fatti insostenibili.
Curarla a casa, anche con l'assistenza continua di sua sorella Samah
e suo cognato, e di Ivan che trascorreva a Ciclamipoli quasi ogni
minuto libero, non era più possibile. Hyra sta con loro,
adesso.
È
mezzanotte,
Ivan ancora non è rientrato dall'ospedale. È
normale, Max sa bene
quanto ci voglia a tornare da Ciclamipoli, e che il suo ritardo non
significa niente: Ivan e la sorella di Aima rimangono al capezzale
della malata finché gli inflessibili infermieri non li
allontanano.
Hyra,
però,
questo non lo sa. Max non si è sorpreso affatto quando ha
visto la
luce della cucina accesa, ma è rimasto un po' pensieroso,
indeciso
se entrare o meno. Sa che Ivan non vuole che sua figlia rimanga
alzata fino a tardi e che probabilmente, se fosse qui, la prenderebbe
in braccio e fingerebbe di sgridarla, con quella sua bassa voce roca
e il tono da pirata, mentre la riporta a letto. Ma lui non è
Ivan, e
soprattutto Ivan non è qui: Max non ha idea di quando
tornerà e sa
bene che adesso, con tutti i pensieri e i problemi che ha, non
può
permettersi di chiamarlo e disturbarlo per qualcosa che dovrebbe
essere perfettamente in grado di risolvere da solo. Non gli piace
porsi con troppa autorità nei confronti di Hyra, ma in
qualche modo
bisogna che quella bambina vada a letto.
Schiarendosi
discretamente la voce, Max entra in cucina e si sofferma sulla
soglia. Hyra è seduta al tavolo, con le gambe che oscillano
dalla
sedia a un ritmo mesto, e ha davanti a sé una tazza di latte
ancora
piena. Sulla sua superficie bianca, egli scorge il riflesso del
lampadario che vi si specchia in silenzio. Hyra sa che è
lì – lo
ha sentito – eppure non si muove.
«Ancora
sveglia a quest'ora?» chiede ad alta voce in tono di
conversazione.
Non sa mai come prenderla, questa bambina. Forse, se non dà
tanta
importanza all'andare a letto, Hyra non si sentirà messa
sotto
pressione.
Finalmente,
la
bambina alza lo sguardo e si volta verso di lui. Ha gli occhi stanchi
e tristi, gonfi, e Max si sente quasi male nell'accorgersi per
l'ennesima volta di quanto siano simili a quelli di Ivan, persino
nella tristezza. Le loro labbra hanno la medesima increspatura.
Chissà come fa una persona così giovane a
somigliare già così
tanto a suo padre.
Hyra
alza le
spalle e annuisce appena, come colta in fallo, colle labbra strette,
prima di tornare a concentrarsi sulla sua tazza di latte che non sta
bevendo.
Dopo
un po',
Max parla ancora, in tono neutro. «Non sapevo che ti piacesse
il
latte freddo a quest'ora. Ti va un po' di cioccolata, magari?»
«No,
grazie.»
Hyra scuote il capo con tanta dolcezza che a Max fa quasi male.
Questa
bambina
è piena di ottimi motivi per non dormire. Suo padre non
c'è, sua
madre è in ospedale, e per quanto lui e Ivan e sua zia
possano
cercare di tranquillizzarla e di nasconderle la reale
gravità della
situazione, in realtà tutti sanno benissimo che Hyra ha
capito
tutto. Si chiede quanto debba sentirsi sola e triste e conclude che,
al suo posto, neppure lui avrebbe voglia di dormire.
«Hai
ragione,
sai» dice infine, ma non più nel tono leggero e
colloquiale che ha
usato fino a ora. Ora la sua voce è sbrigativa e
professionale ed
egli marcia a passo deciso verso i fornelli. «La ciocccolata
è una
cosa da bambini piccoli. Gli adulti bevono caffè. Tuo padre
te lo
prepara mai?»
Quando
finalmemte, nel lucido piano dei fornelli, Max vede il riflesso degli
occhi di Hyra che lo fissano con attenzione, egli è certo di
averla
in suo potere.
«Papà
dice
che il caffè mi fa male» risponde sospettosamente.
«Tuo
padre
esagera sempre, lo sai. Ne vuoi un po'? Sarà il nostro
segreto.
Certo, se preferisci la cioccolata...»
Questa
bambina
che ancora non raggiunge il metro e trenta di altezza somiglia a Ivan
più di quanto lei stessa creda, e proprio come lui non
riuscirebbe
mai a rifiutare una sfida. Max la vede raddrizzarsi all'improvviso
sulla sedia, spingendo orgogliosamente via con la mano la tazza di
latte freddo, e sente la sua voce squillante e decisa affermare:
«Un
caffè, grazie!»
Naturalmente
Max non vuole veramente dare del caffè a una bambina di
sette anni,
e non solo perché sa che Ivan lo picchierebbe. Ragion per
cui
prepara con cura due cioccolate calde acquose e amare, vi spolvera
sopra una minuscola quantità di caffè
decaffeinato in polvere,
quanto basta per ingannare Hyra, e le porta in tavola con aria
d'importanza.
«Spero
che non
sia troppo amara per i tuoi gusti» soggiunge gravemente
mentre si
siede.
La
cioccolata
che ha preparato dovrebbe essere abbastanza cattiva da farle passare
la voglia di bere caffè almeno fino alla maggiore
età. Max la
osserva attentamente berne un piccolo sorso coraggioso ma incerto e
stringere un poco le labbra. Con la fronte stoicamente aggrottata,
Hyra si pulisce la bocca sulla manica del pigiama e afferma:
«Buona.»
Hyra è
coraggiosa e testarda come Ivan, e i suoi occhi scuri e assenti hanno
la medesima sfumatura triste dei suoi. Sono molto meno disillusi,
però. Max ha sempre trovato disturbante questa somiglianza,
fin
dalla prima volta che ha visto questo scricciolo di otto anni e forse
trenta chili di peso, e ora che per la prima volta si trova a
guardarla negli occhi e basta, senza nulla da
doversi
inventare per tenerla impegnata, e che non ci sono luci o rumori o
contrattempi o nient'altro a distrarlo da lei, capisce finalmente
perché.
Hyra
ha gli
stessi occhi di Ivan quando aveva vent'anni, al tempo delle grandi
illusioni magnanime e generose della giovinezza, quando facevano
parte di quella squadra da quattro soldi che aveva ambiziosi e
nebulosi progetti di grandezza e che poi è svanita, a poco a
poco,
senza lasciare traccia sulla terra. A quei tempi, Max ritiene di aver
parlato con Ivan forse sei o sette volte in tutto, e solo per
litigare, dato che litigare e farsi grossi e alzare la voce sembrava
l'unico modo per affermarsi e farsi notare in quella banda di
ragazzetti spauriti che si atteggiavano a criminali e salvatori del
mondo. Non si conoscevano bene, allora. Guidavano due gruppi diversi
e con compiti opposti, e odiarsi in quell'ambiente era naturale, e
Max provava un cordiale disprezzo per quel ragazzo grande e grosso,
rumoroso e confusionario che era sempre circondato da squinzie e che
portava sempre a termine ogni missione col massimo spreco possibile
di risorse e di tempo e di uomini perché si
divertiva così.
Ma dell'Ivan di quegli anni, oltre al frastuono e alla confusione e
alla vanagloriosa baldanza, Max ricorda ancora la franchezza limpida
dei suoi occhi. Con l'età la franchezza è
rimasta, certo, ma la
portata delle sue illusioni, ovviamente, si è ridotta.
È strano
ritrovare quella medesima luce negli occhi di Hyra, a distanza di
tanto tempo.
«Sei
preoccupata per tua madre?»
Gli
occhi di
Hyra si riempiono improvvisamente di lacrime, eppure lei non piange.
Mordendosi le labbra per ricacciarle indietro, con un orgoglio che
Max non pensava che i bambini potessero provare, Hyra deglutisce e
scandisce faticosamente: «Sono preoccupata perché
nessuno mi dice
mai niente.»
Nessuno
sono Ivan, sua sia, forse anche lui, per quanto poco egli sappia
davvero di ciò che sta accadendo. Max annuisce gravemente.
Hyra ha
ragione, dopotutto.
«Vedi,
Hyra...
tuo padre non ti dice alcune cose perché non vuole che ti
preoccupi.» Gli occhi incupiti di Hyra hanno un lampo al di
sotto
delle sopracciglia scure, e Max si affretta a specificare:
«So che
ottiene l'effetto opposto, ma tuo padre vorrebbe solo che tu fossi
tranquilla... e anche la tua mamma. È per questo che a volte
non ti
dicono qualche cosa, ma nessuno vuole tenerti all'oscuro.»
«Sì,
lo so,
però» borbotta Hyra senza alzare lo sguardo. A
questo però
non ci sarà alcun seguito: Max sta ormai imparando il
linguaggio
viscerale e istintivo dei bambini, con la sua vasta portata
espressiva.
«È
per questo
che sei ancora sveglia?» domanda cautamente. «Vuoi
aspettare tuo
padre per sapere come sta la mamma?»
Hyra
incassa il
capo tra le spalle e fa cenno di sì con la testa.
È ancora
imbronciata, certo, ma quantomeno parlare sembra esserle di qualche
conforto. «Ho pensato che se lo aspetto sveglia non
potrà non dirmi
niente.»
Certo
che
no. In compenso picchierà me per non essere stato in grado
di
mettere a letto una bambina di otto anni. Ma in
realtà, per
quanto cinico Max possa illudersi di essere dentro di sé, sa
benissimo che non è per questo motivo che si trova seduto
qui, al
tavolo della cucina, a cercare di mandare a letto la figlia del suo
compagno.
«Senti,
io ho
un'idea migliore. La vuoi sentire?»
Hyra
alza lo
sguardo su di lui, con l'aria di qualcuno che non abbia niente di
meglio da fare che starlo ad ascoltare, e Max si sente autorizzato a
parlare.
«Tuo
padre
sarà esausto quando tornerà e non gli
farà piacere trovarti
alzata. Invece domattina potrei pensarci io a farlo alzare presto e a
mandarlo da te. Così potrebbe svegliarti lui e tu potresti
mettertelo sotto torchio e fargli tutte le domande che vuoi. Ci penso
io a non farlo scappare. Che te ne pare come idea?»
Quanto
alle
risposte, beh, gli dispiace, ma Ivan dovrà cavarsela da
solo. Max ha
un'idea molto chiara di dove finisce il suo rapporto di patrigno,
se è così che può definirsi, e non ha
proprio alcuna intenzione di
spingersi oltre quel confine invisibile ch'egli ha ben delineato
nella sua mente.
Con
tutta la
caparbietà e la cocciutaggine che ha ereditato da Ivan, Hyra
ha
comunque otto anni, e gli occhi esausti e piccoli di sonno e gonfi di
pianto. La sua proposta, tutto sommato, dev'essere allettante.
«Davvero
lo
sveglierai presto?»
«Ehi,
sono il
grande Max, piccoletta. Pensi davvero che sia arrivato a essere
quello che sono raccontando bugie?»
Beh,
o almeno
non aveva mai saputo che fossero bugie, il che, tecnicamente, non le
rendeva tali.
«Se
me lo
prometti...» borbotta Hyra, che forse ancora non vuole
ammettere che
la sua idea tenta la sua stanchezza. Ma Max, che ormai sente d'aver
vinto ogni sua possibile resistenza, non ha intenzione di demordere.
«Già,
te lo
prometto» ribadisce con calma, spingendo discretamente via la
tazza
del suo pseudo caffè poco meno che vomitevole. «E
ora vai a letto,
piccoletta. Ci parlo io con Ivan. E basta caffè. Siamo
intesi?»
Finalmente,
dopo questa lotta che Max ha combattuto e ha vinto con tutta la
delicatezza di cui disponesse, Hyra accetta di abbandonare il campo.
Allungando le gambe, scivola giù dalla sedia e si avvia
verso la
porta, e Max può tirare un sospiro di sollievo. Forse,
dopotutto,
Ivan non lo ucciderà per questa volta.
«Max,
tu sei
uno scienziato, giusto?»
O
forse sì,
dipende. Con
un sospiro, Max si
volta sulla sedia. Hyra è tornata ad appoggiarsi alla
soglia, e a
quanto pare è anche da lui che si aspetta delle risposte,
questa
notte. Le fa cenno di sì con la testa.
«Già... una specie.»
«Pensi
che mia
mamma morirà?»
Max
vorrebbe
mentirle più di ogni cosa al mondo. Ma davanti a questa
bambina
estenuata e confusa, che non vuole nient'altro che il ritorno di suo
padre e la salvezza di sua madre, tutto ciò che trova la
forza di
dire è: «Va' a dormire, Hyra. È tardi.
Tua madre non è sola. C'è
tuo padre con lei.»
E
non c'è
niente che né lui né lei possano fare, ora. Colle
labbra strette e
gli occhi lucidi di pianto e di delusione, Hyra fa cenno di aver
capito e riprende lentamente la via della sua camera. Non ci saranno
altre domande vane, per questa notte.
Max
era così
stanco che ha finito per addormentarsi, anche se si era ripromesso di
aspettare Ivan. Ma dev'essere rincasato davvero tardi, o forse il suo
sonno doveva essere davvero profondo, perché Max si accorge
che il
suo uomo è rientrato a casa solo quando si sveglia e se lo
ritrova
accanto a sé, già – o più
probabilmente ancora –
sveglio. La cosa lo lascia un po' spiazzato.
«Quando
sei
tornato?»
Ivan
ha gli
occhi assenti, infissi nel muro di fronte al letto. Non si volta
verso di lui, ma aggrotta un sopracciglio a mo' di saluto, e questo
sembra il massimo che sia in grado di fare, al momento.
«Penso
fossero
le tre. Aima è stata... molto male. Mi dispiace se mi hai
aspettato.»
Puntellandosi
al materasso, Max si solleva a sedere sul letto. Non ha più
l'età
per le notti piccole.
«Che
cos'ha
avuto?»
«Non
l'ho
capito bene. Una specie di crisi... ha vomitato. Ma poi le hanno
messo un tubo dal naso ed è andata meglio,
credo...»
Max
fa cenno di
aver capito, anche se non è sicuro che Ivan lo stia
guardando. Pensa
di aver capito cosa è successo e, se le cose stanno come
pensa, non
c'è nulla per cui essere ottimisti.
«Hai
fatto
bene a restare là.»
Ivan
accenna un sorriso stanco, tirato, e questa è tutta la sua
risposta.
La verità è che Ivan è ancora là,
a Ciclamipoli, in quella stanza d'ospedale il cui odore
indescrivibile di disinfettante e medicinali Max conosce bene quanto
lui, per averlo sentito infinite volte sulla sua pelle e sui suoi
vestiti. Vorrebbe che esistesse un modo per strappare la sua mente da
quell'ospedale, almeno per qualche minuto, e da quell'odore terribile
e dal volto morente di quella donna, ma sa bene che questo è
impossibile.
«Ho
parlato
con Hyra, stanotte. Ho faticato un po' a mandarla a dormire. Le ho
dovuto promettere che le avresti parlato tu, stamattina.»
Parlare
di Hyra
sembra riportarlo al presente, almeno un po'. Voltandosi lentamente
verso di lui, Ivan annuisce. «Già, io... penso che
dovrò farlo.
Ieri l'ho lasciata da sola per tutto il giorno, e non penso che abbia
capito perché. Ma grazie di essere stato con lei.»
Grazie.
Forse che son
cose per cui si
debba dir grazie, queste? Ma di lanciarsi su una conversazione sopra
i massimi sistemi dell'essere genitori e patrigni e condividere
insieme la buona e la cattiva sorte e stronzate varie, francamente,
Max non ne ha propria voglia e sicuramente non l'avrà mai.
«Non
c'è di
che. Ma se dovesse dirti che le ho dato da bere del caffè,
tu non
crederle. Era cioccolata amara, solo che lei non lo sa.»
Ma
Ivan, che
normalmente dovrebbe come minimo scoppiare a ridere della sua risata
esplosiva e roboante, o infuriarsi, o qualsiasi altra cosa, non ha
alcuna reazione.
Continuare
a
insistere non servirà a niente. Per il momento, Max decide
di
lasciar perdere e di rimanere in zona: Ivan gli parlerà
quando e se
ne avrà voglia. Nel frattempo, tanto vale andarsene un po'
di là a
fare qualcosa di utile, come preparare la colazione, e aspettare.
«Max.»
Il
dolore negli
occhi di Ivan è qualcosa che Max non imparerà mai
a fronteggiare,
eppure, per quanto male sappia già che questo gli
farà, si volta
quando si sente chiamato, e si prepara a sostenere la parte che di
quel dolore gli spetta. La sua parte di cattiva sorte.
«Sì, Ivan?»
«Il
dottore è
stato chiaro. Non ce la faranno mai più portare a casa. Non
arriverà
al prossimo compleanno di Hyra e forse nemmeno a questo sabato. Ma io
come faccio a dirlo a Hyra?»
Max
si augura
con tutto il cuore che Ivan lo sappia che una risposta a questa
domanda non può esistere in nessun luogo della terra, e che
di
certo, quand'anche esistesse, non potrebbe essere lui a conoscerla.
Ma, in fin dei conti, egli lo sa che Ivan non gli ha posto questa
domanda perché spera di poter ricevere da lui una risposta,
e questo
è se possibile più terribile ancora,
perché in questo caso come
può venirgli in aiuto?
Tutto
ciò che
per il momento può fare è non uscire dalla stanza
e rimanere lì.
Anche se il peso troppo greve di domande irrisolvibili sembra rendere
la stanza opprimente e l'aria irrespirabile e lo spazio invivibile,
per lui come per il suo compagno, e sarebbe così facile
andarsene di
là e fingere che tutto questo non stia accadendo.
Perciò,
Max si
ferma sulla soglia, coraggiosamente, e aspetta.
La
voce di Ivan
è così dolorosa che potrebbe piangerne.
«
Non so cosa
fare, Max. Vorrei che Hyra restasse con sua madre per le ultime ore
che le restano, ma Aima ha un tubo nel naso e non riesce quasi a
parlare. Come posso permettere che se la ricordi
così?»
Non
c'è niente
da fare. Per quanto Max si sforzi di cercare qualcosa, dentro di
sé,
che possa almeno in parte costituire un conforto, egli non trova
niente che non sia arido e desolato e disperato e del tutto privo di
risposte. È questo tutto quello che ha da offrirgli, ma Ivan
lo sa,
ed è esattamente questo che gli sta chiedendo.
Max
torna a
sedere sul letto e aspetta.
|
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Capitolo 10 *** Guglie e merlature e raffinate decorazioni in conchiglie. ***
Buonasera
a tutti!
Finalmente
sono tornata
con questo nuovo capitolo, che, preannuncio essere il penultimo.
Naturalmente
so di
averci messo un bel po', ma a mia discolpa posso dire sinceramente
che questo è stato il periodo più stressante
della mia vita e me ne
sono successe diverse tutte insieme (tra l'altro, per una delle
curiose coincidenze della vita, mi è anche cambiato un neo
che ho
sempre avuto fin da piccola sul petto. Fortunatamente la mia
dermatologa sostiene che non ci sia nulla di cui preoccuparsi, quindi
il rapporto con questa storia è davvero minimo, ma l'ho
trovato
davvero un caso curioso). La cosa buona è che, lo stesso
giorno in
cui ho smesso di scrivere la tesi, ho finalmente ritrovato
l'ispirazione per riprendere a scrivere storie di buona lena.
Ringraziando
come mio
solito Persej Combe e cristal_93 per le loro cortesi recensioni, non
posso che augurarvi buona lettura!
Alla
prossima
Afaneia
Capitolo
X –
Guglie e merlature
e raffinate decorazioni in conchiglie.
Se
avessero
dato retta all'entusiasmo, ora Max e Ottavio sarebbero già
all'opera, a pianificare e scardinare progetti e idee e prototipi
come ai tempi dell'università. Hanno ancora lo stesso
entusiasmo di
allora, e questo Max non l'avrebbe creduto possibile, alla loro
età... ma in quanto alle responsabilità, nessuno
di loro conduce
più la stessa vita di allora. Ottavio non può
permettersi di
lasciare una seconda volta il suo lavoro alla Devon, almeno non senza
avere un'alternativa sicura, e lui ha Hyra di cui occuparsi a tempo
pieno, ora che sia suo padre che sua zia devono accudire sua madre.
Ragion per cui, per il momento, tutto ciò che stanno facendo
per
avviare il loro progetto è consultare tutta la letteratura
scientifica disponibile, confrontandosi giornalmente in videochiamata
per paragonare i rispettivi appunti, e incontrarsi ogni tanto a
metà
strada, quando è possibile.
È
durante uno
di questi rari incontri che il telefono di Max squilla.
Questa
volta è
stato Ottavio a raggiungerlo a Porto Selcepoli. La Devon rimane
chiusa per non sa quale ponte o festività, e quando egli ha
saputo
che Max voleva portare la bambina al mare – perché
distrarla
quotidianamente tenendola chiusa tra quattro mura è un po'
troppo
difficile – si è autoinvitato senza pensarci
troppo. A Max l'idea
è piaciuta, perché in fin dei conti lui e Hyra
sono sempre soli nel
corso della giornata, quando Ivan è a Ciclamipoli; e quando
gli ha
esposto il progetto, Ivan è stato contento dell'idea del
mare e di
quella della compagnia.
«Se
torno
presto, vi telefono e vi raggiungo. Nel peggiore dei casi, ci
troviamo a casa e prendo delle pizze tornando» ha proposto.
«Pensi
che Ottavio resterebbe a cena anche se ci sarò io?»
Hyra
è stata
elettrizzata alla proposta di andare a mare, e Max non ha potuto che
congratularsi con sé stesso per la propria idea.
Ottavio
sembra
portato per i bambini, sicuramente più di quanto fosse lui i
primi
teimpi, e a Hyra, dopo un attimo di timidezza, è piaciuto
subito
questo grasso sconosciuto simpatico che ha lasciato cadere nel
discorso, del tutto casualmente, di essere in grado di costruire uno
di quei grossi castelli di sabbia con le torrette e il fossato e le
merlature e tutto il resto, come quelli dei libri di favole.
Perciò,
dopo
una prima mezz'ora di bagno e dopo un pranzo a base di panini sotto
l'ombrellone, Ottavio mantiene la promessa e insegna a Hyra a
costruire questo meraviglioso prodigio di guglie e merlature e
raffinate decorazioni in conchiglie. Non che ci fosse da dubitarne,
naturalmente, vdato che Ottavio è probabilmente l'uomo
più
egocentrico dell'intera spiaggia, o di Porto Selcepoli. O di Hoenn,
magari. Beh, diciamo che se la gioca da pari a pari con
quell'eccentrico capopalestra di Ceneride. Come si chiamava?
Il
cellulare
suona proprio mentre Hyra sta debutamente scavando il canale che deve
approvvigionare l'acqua del loro fossato e Max, dopo essersi
assicurato con lo sguardo che Ottavio non si muoverà di un
centimetro dal cantiere del castello, si allontana di qualche passo
per rispondere, cercando un punto dove poter sentire meglio.
È Ivan.
Ma perché sta chiamando così presto?
«Pronto...
ehi.»
«Aima
è
morta, Max.»
D'un
tratto le
strida degli Wingull e gli spruzzi dei bagnanti e persino il sole si
fanno agghiaccianti e come immobilizzati, e solo dopo un po' Max
torna a udirli, ma come ovattati da una grande distanza. Egli cerca
dentro di sé, ed è sicuro che dovrebbero esserci
delle urla da
qualche parte, perché ne sente l'eco nelle orecchie, ma ora
persino
il suo cuore sembra ridotto al silenzio, agghiacciato.
«Ivan...»
«Non
credevo
ch sarebbe successo oggi.» Ivan sta piangendo, e Max non
credeva che
sarebbe stato così terribile sentirlo così, per
telefono, e non
poter fare niente. Lui è a Porto Selcepoli, Ivan
è a Ciclamipoli, e
non c'è alcuna possibilità di contatto tra loro.
«Ha avuto una
crisi polmonare... no, respiratoria. Non lo so. Ce lo avevano detto
che era solo questione di tempo, ma noi non avevamo capito...
pensavamo... non lo so cosa pensavamo.»
«Dobbiamo
venire lì?» È l'unica idea che gli
venga in mente, a pochi passi
da lui, sopravvento, Hyra sta ancora giocando coi capelli pieni di
sabbia e le mani traboccanti d'acqua di mare. Max aveva sperato di
regalarle qualche ora di serenità, lontana dall'idea
ossessionante
della malattia di sua madre, e invece è andato tutto storto.
Che
deve fare?
«Sì...
no,
anzi, no. Meglio di no. Hyra ti ha sentito?»
«Sta
giocando
con Ottavio. Non sa nulla.»
«Okay,
allora... per favore, non dirle niente. Torno a casa tra poche ore,
solo che ci sono tante cose da firmare, e non posso lasciare Samah da
sola. Glielo diremo stasera.»
«Stasera,
allora.» Per una volta, Max non prova neppure a tirarsi fuori
dalla
responsabilità che quel plurale implica: Ivan ha detto diremo,
implicando necessariamente anche lui, perciò è
esattamente quello
che faranno: glielo diranno. Ed è poi
ovvio che sarà Ivan a
parlare, perché Hyra è sua figlia e ha tutto il
diritto di venire a
sapere della morte di sua madre dalle labbra del suo proprio padre;
ma Max resterà lì, anche quando le cose si
faranno troppo difficili
e gli verrà voglia di andarsene. A seconda del bisogno,
farà ciò
che ci si aspetterà da lui, che si tratti di consolare Hyra,
o
aiutare Ivan, o anche solo restare in disparte. Qualunque cosa
accada, ha fatto finta anche troppo a lungo che Hyra lo coinvolgesse
solo in parte.
«Grazie,
Max,
io... cerca di farla distrarre, okay? So che ti sto chiedendo
tanto.»
Come
dirgli che
c'è tutta una parte di lui che sta tumultuando e scalpitando
perché
vorrebbe poter fare qualcosa, qualunque cosa che
non sia
restar qui a fare finta di niente e a costruire castelli di sabbia?
Ma
non c'è
nient'altro da fare, al momento. Reprimendo la forte tentazione di
scagliare il telefono in acqua e mettersi a urlare perché
quella
giovane donna è morta, Max si morde le labbra e risponde:
«Penso io
a tutto, qui. Tu fai quello che devi fare.»
«Max!
Stai
parlando con papà?» strilla alegramente Hyra, che
sta compattando
con le mani un grosso bastione difensivo attorno al castello.
«È
papà?»
Se
le
rispondesse di sì, Hyra vorrebbe a qualsiasi costo parlare
con lui,
e si accorgerebbe subito che suo padre è disperato. Coprendo
il
microfono con la mano, colla sensazione terribile di star dicendo la
peggiore bugia della sua vita, Max si sforza di sorridere e fa cenno
di no col capo.
«No,
piccoletta... tuo padre non ha ancora chiamato. Non
preoccuparti.»
«Ti
lascio
andare, Maxie... non la fare insospettire troppo.» Ivan ha
sentito
tutto. «Torno a casa appena possibile. Dobbiamo solo finire
qui, e
poi...»
E
poi, e poi. E
poi verrà la parte difficile: affrontare tutti i giorni, dal
mattino
alla sera, con Hyra.
«A
dopo. Ti
amo.»
Ottavio
si
accorge che qualcosa non va non appena incrocia i suoi occhi. Tutti
questi anni di amicizia dovevano pur servire a qualche cosa,
dopotutto.
«Sai,
Hyra,
credo proprio che servano più conchiglie qua sulle
merlature. Perché
non vai a raccoglierne qualcuna col secchiello?»
Buon
vecchio
Ottavio, molto più sveglio e più reattivo di
quanto il suo aspetto
faccia intendere a chiunque. Max gli accenna un ringraziamento con lo
sguardo, mentre Hyra sguscia via correndo, tutta lieta di poter
andare a bagnare i piedi nell'acqua e sguazzare un po'.
Egli
continua a
sorvegliarla con la coda dell'occhio, per essere certo di non perdere
di vista nemmeno per un istante la sua lunga treccia nera e il suo
costume a righe tra la folla dei bagnanti.
«Ehi,
Max...
che è successo?»
A
Ottavio non
si può nascondere nulla, e Max non ne è mai stato
più lieto in
vita sua.
Sentendosi
colto alla sprovvista da quello che sta per pronunciare a parole, Max
deglutisce a vuoto, un paio di volte, e risponde: «La madre
di Hyra
è morta.»
«Oh...cazzo.»
I
costumi da
bagno hanno la dannata caratteristica di non offrire alcun posto dove
mettere le mani quando non si sa che cosa farne. Quelle di Ottavio
sembrano cercare spasmodicamente un posto dove posarsi.
«Così,
all'improvviso?»
Per
il momento,
Max si limita ad annuire. All'improvviso, già.
«Accidenti,
io... mi dispiace, Max, davvero. Tu come ti senti?»
Questa
domanda
gli giunge totalmente inattesa. Max si volta lentamente a guardarlo,
un po' perplesso, e si sente in dovere di specificare qualcosa che a
lui pareva molto ovvio, ma che forse non lo è. «Io
non la
conoscevo.»
«Questo
lo so,
ma... insomma, riguarda anche te. Era l'ex di Ivan, ora Hyra
rimarrà
per sempre con voi. È un grosso sconvolgimento.»
Il
pensiero che
Hyra rimarrà con loro per tutti i prossimi anni non lo
spaventa più
come avrebbe fatto una volta, e non solamente perché ormai
ne è
consapevole da settimane. Max si stringe un po' nelle spalle,
sentendosi profondamente triste.
«Voglio
bene a
Hyra, lo sai. Non vorrei che stesse in nessun altro posto che con
noi. Ma...»
Ma
nonostante
il pensiero di Hyra non lo spaventi minimamente, Max non potrebbe
onestamente dire che quella morte non lo turbi neanche un po'
– e
non si tratta di Hyra, o di Ivan, o meglio sì, si tratta
anche di
loro, ma non nel modo che pensa Ottavio. Ma come dirgli che la morte
di una donna ch'egli non ha mai vista né conosciuta pare
trafiggergli il cuore come una moltitudine di aghi, e questo non
perché egli abbia una minima parte nella sua morte, ma solo
perché
non ha saputo come salvarla – e come dirgli che lui Aima non
l'ha
mai incontrata, d'accordo, ma che c'è tutta una parte di lui
che ha
la sensazione di averla conosciuta veramente, e non
per averla
mai vista, ma perché l'aveva percepita,
e gli era parso
qualche volta d'incontrarla negli abiti di Hyra che una mano gentile
aveva piegato e ordinato per colore nella sua piccola valigia...?
Max
si sente
tremendamente egoista a pensare questo perché Aima non lo
riguardava
e lui, di partecipare a questo lutto, non ha proprio alcun diritto
–
ma le cose stanno così, e al momento quella parte di lui
vorrebbe
piangere proprio per questo fatto, che quelle due mani gentili che
stiravano e piegavano quegli abiti con tutto l'amore del mondo, e che
sono state per mesi l'unico tramite tra lui e questa donna, ora non
esistono più.
È
veramente
finita, ora.
Hanno
fatto
tutto quello che dovevano fare. Quando Ivan è tornato a
casa, ha
preso sulle ginocchia una Hyra confusa e un po' inquietata dalla
serietà dei suoi occhi, l'ha riempita di baci e di coccole e
di
carezze e abbracciandola le ha detto la verità.
Max
è rimasto
lì fuori per tutto il tempo, seduto contro la porta, ad
ascoltare, e
a desiderare di bruciare la casa e spaccare tutto, distruggere tutto,
e di sovvertire l'universo pur di fare in modo che Hyra non piangesse
più, ma invano. Tutta la sua rabbia e la sua disperazione
sono
rimaste confinate dentro di lui, brucianti e desolanti tanto ch'egli
si è chiesto come fosse possibile che quella pressione
immane
ch'egli avvertiva dentro di sé non finisse per erompere da
lui e
spaccarlo come un guscio troppo stretto per contenere qualcosa.
Questo
senso
d'impotenza Max non l'aveva provato mai, né di fronte
all'ineluttabilità del grande vulcano silente, immobile,
né di
fronte all'imponenza vorace e distruttiva di Groudon, semplicemente
perché ora è veramente troppo
tardi per provare a cambiare
le cose.
Che
Ivan si
rivelasse così calmo, invece, non l'avrebbe mai supposto. Ha
collaborato a organizzare il funerale per telefono, parlando sempre a
bassa voce, e ha passato con Hyra tutta la notte, disteso nel suo
letto a cercare di farla dormire almeno per qualche ora, nella
speranza di darle con la propria presenza, che è l'unica
cosa che
abbia da offrirle al momento, almeno un po' di conforto: che la
malattia di Aima, oltre a portarla via da loro, dovesse anche
togliere il sonno alla sua bambina, questa sembrava una sconfitta che
non era disposto ad accettare.
Anche
oggi si è
rivelato stranamente calmo. Si è vestito lentamente, cogli
occhi
spenti, indossando volontariamente un completo scuro, poi è
andato
in camera di Hyra e l'ha vestita e pettinata, in silenzio, con tutta
la tenerezza che poteva, ma non di nero – perché i
bambini non devono mai vestire di nero, neanche ai funerali,
ha sentenziato
con l'aria di echeggiare una certa massima sapienziale risalente a
qualche nonna o bisnonna particolarmente autorevole. Per parte sua,
Hyra è così istupidita dal dolore che non sembra
accorgersi di
quello che le succede intorno. Si è lasciata lavare e
sistemare e
caricare in auto come una bambola, e non ha detto una parola per
tutto il tragitto.
La
camera
mortuaria è piena di gente, e Max si sente profondamente
colpito al
vedere quanto siano giovani. Ogni volta che il suo
sguardo
scorre sui presenti egli ha l'impressione di scorgere qua e
là i
volti tristi di reclute del Team Idro dei giorni in cui tutto andava
bene, e si sente quasi male al pensiero che qualcuno di quei ragazzi
avrebbe potuto essere uno dei suoi, se solo le cose fossero andate
diversamente...
Ha
finalmente
conosciuto Samah, oggi, la famosa zia di cui Hyra gli ha parlato
quella prima mattina a colazione. Anche lei, come sua nipote,
è
talmente attonita e istupidita dal dolore da non sembrare neppure in
grado di parlare, del tutto dipendente da suo marito.
Ma
di vedere
Aima, per la prima e l'ultima volta nella sua vita, prima che
chiudano la bara, di questo non se ne parla. Max non lo sa il
perché
– forse è solo che questa donna è stata
così presente nella sua
vita per tutto l'ultimo anno, ed egli l'ha così idealizzata,
che non
vuole vederla morta. Perciò, mentre Ivan si avvicina alla
tomba e si
china per dare un ultimo saluto alla madre di sua figlia, Max rimane
con Hyra, seduto in prima fila, ad aspettare – e mentre
aspetta che
ritorni suo padre, Hyra gli prende la mano e la stringe, e Max prova
di nuovo quell'impulso sovrumano di urlare e distruggere tutto.
Quando
guarda
Ivan, invece, Max vede l'opposto dell'uomo che ha sempre conosciuto,
vede un uomo composto e dignitoso che si è sentito addossare
d'improvviso il peso di crescere sua figlia da sola e di darle il
buon esempio e di essere forte per lei. Quando lo guarda, Max si
sente come se fossero stati invertiti i ruoli, e questo lo spaventa.
È
questo
allora l'effetto che ha la morte?
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Capitolo 11 *** Lista delle cose belle di una vita. ***
Lista delle cose belle di una vita
Capitolo XI –Lista delle
cose belle di una vita.
Certe
volte, la sera, prima di addormentarsi, Max recita a se stesso la
LISTA DELLE COSE BELLE DI
UNA VITA
guadagnate in tanto tempo
(in ordine casuale).
·
Aver
insegnato a Ivan a preparare una torta.
È stato mostruosamente
divertente. Non c’è bisogno di aggiungere altro, a proposito di questa voce.
(Per la verità, Max ha imparato proprio mentre lo insegnava a Ivan, ma questo
non vale neppure la pena di ricordarlo. Dopotutto, aver impiegato anni a
costruirsi la fama e l’immagine di un uomo posato ed esperto deve pur
comportare qualche vantaggio.)
·
Donare
regolarmente sangue ed emocomponenti, ed esser conosciuto all’ospedale per
questo. Fa sempre piacere.
·
Aver
visto Hyra stracciare Ottavio a dama, dopo ch’egli le aveva appena insegnato a
giocare.
Max non si convincerà mai
fino in fondo che Ottavio l’abbia cortesemente lasciata vincere in virtù della
sua giovane età, malgrado tutte le sue rassicurazioni in merito.
·
Aver
parlato per telefono a Rossella.
È stato Ottavio a
incoraggiarlo, e lei gli è parsa serena. Spera che potranno rivedersi un
giorno, chiacchierare un po’ e provare a confrontarsi l’uno con l’altra, e
forse non è ancora il momento adatto, ma è certo che un giorno questo sarà
possibile; e chissà, se Rossella sarà d’accordo, forse sarà possibile
coinvolgerla nella sua nuova vita, quel giorno.
·
Aver
coinvolto Ivan nella questione degli aghi. Ah, sì, e aver scoperto che ha paura
degli aghi.
Una paura fottuta degli
aghi.
Oh, Max si è divertito,
quella volta, a maggior ragione dato che Ivan si è sempre ostinatamente
rifiutato di ammetterlo. Sta di fatto che, in seguito, Ivan si è sempre
dimostrato alquanto restio alle sue proposte di donare, e che si è sempre rifiutato anche solo di pensare
di poter donare il midollo, dopo che gliene è stato illustrato il procedimento.
·
La
volta che Ivan gli ha detto, per scherzare, che in fin dei conti si potrebbero pure sposare.
Questa minaccia non avrà mai
alcun seguito, ovviamente, e per fortuna, ma è piacevole venire a sapere così,
semplicemente, a mezzo di una battuta e senza troppe smancerie, che nonostante
tutto Ivan è ancora contento di aver scelto lui. Che nonostante tutti i loro
difetti (che, accumulati insieme, sono davvero un bel numero e
considerevolmente grossi), questa vita che hanno vissuto insieme Ivan sarebbe
pronto a riviverla, e che l’abitudine, ormai, tra di loro non c’entra niente.
·
Hyra.
Chi l’avrebbe mai detto, in quel giorno ormai lontanissimo in cui Ivan gliel’ha
confessato, che avere una figliastra gli sarebbe piaciuto tanto?
Max non vorrebbe mai essere
considerato o attribuirsi i diritti o i doveri di un padre nei confronti di
Hyra, ma in compenso essere il suo patrigno, o più semplicemente il compagno di
suo padre, gli piace molto.
Hanno
trovato una piccola intimità, loro due, che di certo non sarà mai neppure
comparabile a quella che hanno lei e Ivan, ma la cui bellezza risiede proprio
in questo: non deve esserlo. Hyra non è sua figlia né mai lo sarà, ma proprio
questo gli concede una grande libertà di movimento.
A
modo suo, gli piace condividere con lei dei momenti di cui Ivan non è
partecipe, e non perché ci sia alcuna consapevole volontarietà di escluderlo,
ma perché Hyra vive stabilmente con loro ormai da più di cinque anni, e Max si
è reso conto a poco a poco di poter costituire per lei una figura autonoma e
del tutto diversa da suo padre, e avere con lei un rapporto diverso e a modo suo
complementare, e tutto sommato questo gli piace.
Per
esempio, ci sono piccole cose che Hyra ha detto a lui soltanto, cautamente
all’oscuro di Ivan, e su cui Max ha perlopiù mantenuto il silenzio senza
tradire la sua fiducia. Per esempio, Ivan non saprà mai della gravissima
insufficienza in matematica al suo primo anno delle scuole medie, e del resto,
che motivo avrebbe di venirlo a sapere? Con il suo aiuto, Hyra ha recuperato, e
per quel poco che Max ricorda del suo periodo scolastico, questo dovrebbe essere
l’importante. No?
Ma
poi, col passare del tempo, via via che Hyra è cresciuta, questi attimi di
vicinanza si sono moltiplicati e variegati, e Max si è sorpreso a esserne
soddisfatto. C’è una certa complicità tra di loro che Ivan nota, ma di cui non
può necessariamente prendere parte, e che si manifesta in atti che non potrà
mai avere chiari.
Esiste
un patto non scritto tra lui e Hyra, per cui è sempre Max ad andarla a
riprendere il sabato sera, ora che ha cominciato a uscire con qualche amica.
Non che faccia molto tardi: si tratta perlopiù di una passeggiata in centro per
mangiare un gelato, o al più di qualche film al cinema… il che, per la sua età,
va più che bene, ed è oltretutto il massimo che le consenta la malcelata
iperprotettività di Ivan.
Il
patto non scritto consiste semplicemente nel fatto che Max le concede di star
fuori un quarto d’ora in più ogni volta, più o meno regolarmente. Quando
tornano a casa, e Ivan lo guarda con aria interrogativa, come a chiedergli solo
aggrottando la fronte perché abbiano fatto tardi, Max gli mente molto
seriamente spiegando con la massima naturalezza che si sono fermati sulla via
del ritorno a guardare le stelle, o che hanno fatto una deviazione per vedere a
che punto fossero i nuovi lavori al molo… una cosa così. Ivan non sospetta
nulla, naturalmente, e Max non si sente minimamente in colpa, perché non è come
se stesse mentendo veramente. Sa
benissimo dov’è Hyra e con chi è e che va tutto bene, e Hyra gli è grata e
complice e tutto il resto, perciò va bene così.
Oltretutto,
Max non ha l’impressione di mentire anche per un altro motivo, e cioè perché
tutte queste cose che lui inventa per Ivan, lui e Hyra le fanno veramente ogni
tanto. A Hyra piace moltissimo farsi indicare le stelle e sentirsi dire i loro
nomi, o deviare sulla strada di casa per passare dal molo e leggere i nomi
delle grandi barche a motore che non vede l’ora di poter guidare, non appena
avrà l’età per prendere la patente nautica…
Hyra
per lui non è una figlia e non potrà esserlo mai, semplicemente perché di figli
Max non ne ha voluti né cercati mai, o forse non ha mai avuto l’occasione di
averne; ma c’è stato un momento della sua vita in cui questa figliastra
inattesa è arrivata per conto suo, e Max l’ha voluta non solamente perché faceva parte della vita che Ivan
portava con sé dal proprio passato, e dunque non si poteva avere Ivan senza
accettare necessariamente anche Hyra, ma anche perché egli è arrivato a capire
che nella sua vita c’era spazio anche per lei – e soprattutto che nell’economia
della vita di Hyra c’era spazio anche per lui.
Forse
non possiamo essere tutti padri a questo mondo, ma pare che di patrigni
volenterosi ci sia ancora una cospicua richiesta.
Non
che tutto questo sia stato facile, all’inizio, come suona facile ora a
raccontarlo. Il primo anno dopo la morte di Aima è stato terribile, e Max lo
ricorda ancora con angoscia. Se ora affermasse che è stato tutto facile, bello
e divertente con una lieve punta di drammaticità come in quei film che danno la
sera sul quinto canale, direbbe la peggiore bugia dell’universo. A questo
equilibrio ci sono approdati, è vero, ma non è stato facile affatto.
Hyra
ha reagito alla morte di sua madre in tutti i modi peggiori descritti nei
manuali per l’infanzia: per mesi è stata intrattabile e aggressiva, e non è
trascorsa una settimana in cui lui e Ivan non dovessero accorrere a scuola,
richiamati dalla maestra per via di qualche rissa coi compagni. Ai loro
rimproveri Hyra sembrava tanto insofferente e ribelle quanto ai loro tentativi
di confortarla, e di punizioni materiali Ivan (ch’è sempre stato un po’ troppo
propenso a viziare questa bambina per compensarla almeno un po’ della morte
della madre, a onor del vero) non ha mai voluto neppure sentir parlare.
Quando
ha smesso di essere aggressiva e di picchiare gli altri bambini, Hyra ha poi
cominciato a bagnare il letto di notte. Forse questa è stata la fase peggiore,
perché alla rabbia si è aggiunta l’umiliazione: Hyra è orgogliosa come suo
padre, e svegliarsi in piena notte nel letto caldo e bagnato l’ha fatta
piangere e inalberarsi d’intollerabile mortificazione, perché persino coi suoi
nove anni di esperienza di vita sapeva perfettamente d’esser troppo grande per
queste cose.
Trattandosi
di un problema di natura fisiologica, Max ha deciso di trattarlo come un uomo
di scienza, naturalmente, e ha perciò fatto ricordo alle più eminenti riviste
di pedagogia e psicologia infantile, e in genere a qualsiasi articolo o
monografia incentrata specificamente sull’enuresi. A saperle leggere con
attenzione, era sicuro che ne sarebbero venute fuori un sacco di soluzioni
applicabili.
Ma
prima che Max riuscisse a cavarne fuori qualche cosa di concreto da usare nella
vita quotidiana, all’ennesima volta che il pianto di Hyra proveniente
dall’altra stanza li ha svegliati nel cuore della notte, Ivan gli ha detto in
un modo estremamente esplicito e insieme incredibilmente sintetico dove
potevano andare tutti gli psicologi e i pedagogisti del mondo e che cosa
esattamente potevano fare con tutti i loro studi e i loro articoli e le loro
riviste peer-reviewed. È andato nella camera di Hyra, l’ha consolata e fatta
smettere di piangere e poi, ignorando i suoi occhi piccoli di sonno e la sua
stanchezza e la sua confusione, l’ha fatta lavare e vestire e se l’è portata
fuori senza dire una parola.
Sono
stati fuori tutta la notte, tanto che Max, a un certo punto, ha capito che non
valeva la pena di aspettarli ed è tornato a dormire. Sentiva che in qualche
modo anche solo restare sveglio ad aspettarli sarebbe stato come intromettersi
in un qualche momento privato e personale che doveva far parte della Storia raccontata da Ivan, non da lui.
Quella notte poteva avere un solo punto di vista, e quello non era il suo.
In
effetti ha saputo solo da pochi mesi che cosa è successo quella notte, e cioè
che Ivan ha fatto l’unica cosa che la sua irruenza e la sua esasperazione gli
abbiano suggerito. Ha portato Hyra al molo, le ha infilato un giubbino
galleggiante allacciato stretto, l’ha caricata in barca e ha preso il largo.
Hanno veleggiato fino al mattino, spingendosi sin quasi a Ciclamare, e Ivan le
ha parlato ininterrottamente per tutto il tempo, senza neppure curarsi che sua
figlia fosse del tutto sveglia. Tutto ciò che gli importava, in quel momento,
era che Hyra sentisse la sua voce e sapesse che suo padre le stava parlando ed
era con lei, e ci sarebbe stato sempre.
Quando
Ivan gli ha raccontato tutto questo, a distanza di quattro anni da quando è
accaduto, Max si è astenuto dal commentare che gli sembra un metodo
assolutamente poco ortodosso e anche un po’ traumatico per risolvere il
problema, non solo perché a questo punto non avrebbe più senso farlo presente,
ma anche perché ricorda benissimo che il mattino seguente, quando ha visto Hyra
a colazione, gli è parsa molto più calma che nei giorni precedenti. Dopo quella
notte in barca ha continuato a bagnare il letto per un po’ di tempo, ma non si
è sentita più così umiliata, e poi, alla fine, ha finito per smettere. Se
questo sia stato merito della sola crescita e del superamento del trauma, o se
davvero, quella notte, Ivan sia riuscito a dirle cose tanto importanti e
confortanti da aiutarla, Max non saprebbe dirlo, ma non ha dubbi su quale sia
l’ipotesi che gli piace di più.
Ottavio
gli dice spesso che in parte è anche merito dell’influsso positivo esercitato
da Hyra nella sua vita, oltre che naturalmente della presenza di Ivan al suo
fianco, se è riuscito a uscire dal baratro di autodistruzione in cui il
fallimento del suo progetto lo aveva sprofondato. Potrebbe anche darsi,
naturalmente (Max non può sinceramente vantare una tale conoscenza della
propria psicologia e delle proprie profondità da poterlo confutare con
certezza); ma questo gli pare un modo assai banalizzante di vedere la cosa, e
non sarebbe questa la chiave di lettura che sceglierebbe per una propria
eventuale autobiografia, se mai gli venisse il ghiribizzo di produrne una.
Certo,
nel percorso ch’egli ha compiuto, Ivan c’entra eccome, e allo stesso modo
c’entra anche Hyra; ma la verità è che salvarsi richiede un atto di volontà
talmente intenso, da escludere necessariamente ogni intervento esterno. È
proprio come sfiancarsi a nuotare disperatamente controcorrente contro il mare
che ci affoga, e sperare, prima o poi, di intravedere una riva: non si può fare
che da soli. Ma Max è contento che, in tutto questo, Ivan gli abbia nuotato
accanto, urlando e chiamandolo ogni volta che la forza avversa delle onde lo
ricacciava sotto minacciando di annegarlo. A quella riva, dopo innumerevoli
sforzi, Max ci è arrivato da solo, e non poteva essere altrimenti, perché se
non avesse compiuto alcun cammino, se qualcuno semplicemente si fosse limitato
a salvarlo, per quanto banale possa
sembrare questa parola, forse non sarebbe annegato, certo, ma non ci sarebbe
stata alcuna riva ad aspettarlo.
Purtroppo,
o per fortuna, non ci si può salvare che da soli.
«Max,
papà dice di andare a prepararti» lo ammonisce Hyra affacciandosi sulla porta
del suo studio. Questa sera sono a cena da sua zia, come praticamente una volta
a settimana per tutte le settimane negli ultimi cinque anni, ed effettivamente,
pensa Max gettando un’occhiata all’orologio, si sta facendo un po’ tardi. (Oh,
Max adora Samah, e non soltanto perché, avendo conosciuto Ivan quando aveva
diciott’anni e avendolo sempre visto come un cognato piuttosto che come il boss
di un Team eco terroristico, conosce su di lui gli aneddoti più meravigliosi
dell’universo. È sicurissimo di adorarla anche per altri motivi, solo che ora
non gli vengono in mente.)
«Dì
a tuo padre che andrò a prepararmi quando lui avrà cominciato ad allacciarsi le
scarpe, e che mi rimarrà comunque abbastanza tempo» risponde senza distogliere
gli occhi dal computer, dove file di numeri e dati scorrono incessantemente
fino a incrociarsi davanti ai suoi occhi. È da giorni che lui e Ottavio stanno
cercando di preparare un articolo per una prestigiosa rivista scientifica, e
Max ha la sensazione di non aver mai avuto tanto materiale su cui lavorare
tutto in una volta. Naturalmente questa è la medesima sensazione che lo ha
sempre accompagnato per tutta la vita, dagli esami universitari agli studi su
Groudon, perciò, effettivamente, la cosa non vuol dire poi molto. Ottavio è
dannatamente ottimista riguardo a questo articolo, e chissà che non abbia
ragione. Quel ragazzo ha un intuito dannatamente premonitore.
«Papà
dice che non devi lavorare così tanto perché ti stanchi gli occhi» lo
rimprovera Hyra, appoggiandosi allo schienale della sua sedia per guardare il
computer. «È sempre per quell’articolo?»
Max
accenna un sorriso rapido mentre si sfila gli occhiali e si sgranchisce le
braccia. Effettivamente è da diverse ore che lavora, e comincia a essere
stanco. «Esatto, piccoletta. Quello che sto scrivendo con Ottavio.»
Hyra
strizza un po’ gli occhi per cercare di leggere le lunghe file di numeri che si
susseguono intabellandosi sullo schermo, e Max si sente un po’ a disagio. È la
prima volta che Hyra si mostra tanto interessata agli aspetti tecnici del suo
lavoro e che non si limita a bollarlo come qualcosa di troppo complicato e
noioso da meritare un tale spreco di attenzione. È cresciuta così tanto da
quando gli ha chiesto, una mattina di un secolo fa, se fosse uno di quei
cattivi dei videogiochi che buttano per terra gli ingredienti delle torte?
«Che
cosa dicono quelle tabelle?»
Le
sue mani vorrebbero disperatamente chiudere tutti i file che sono aperti sullo
schermo in questo momento, e mettere tutto da un lato e rifiutare di dirglielo;
ma è uno stupido sentimento immaturo e iperprotettivo, questo, ed egli lo sa
benissimo.
Reprimendo
con forza nel fondo della sua coscienza questo sentimento, Max deglutisce un
po’ più difficoltosamente del normale e ingrandisce gentilmente la tabella
perché Hyra possa leggerla meglio.
«Beh,
noi speriamo che documentino l’efficacia del trattamento che stiamo
sperimentando per la soppressione delle cellule cancerogene» spiega con una
voce molto più fioca di quella che ricordava di avere.
«Oh»
risponde Hyra solamente, e i suoi occhi si velano di una profonda tristezza.
È
diventata molto bella nella primavera dei suoi tredici anni, e forse assomiglia
sempre di più a sua madre, se sua madre somigliava a sua zia anche solo una
metà di quanto le somiglia lei. Ha gambe lunghe e slanciate e lunghi capelli
neri e lucidi, e un volto ambrato ed esotico dagli zigomi alti e pieni, ma ingentilito
dai liquidi occhi di Ivan, e forse Max guarda a lei con troppo orgoglio, ma è
diventata davvero molto carina.
Per
ora è ancora un po’ piccola, forse, ma c’è una certa voce dentro di lui che ci
tiene molto a far presente che, tra qualche tempo, sicuramente farà la sua apparizione sulla scena il personaggio del
fidanzatino. Di questa sua conclusione, di cui è assolutamente certo, Max non
ha ancora fatto parola con Ivan, ma è alquanto certo che, nella sua qualità di
padre, Ivan non accetterebbe molto volentieri questa prospettiva. Dal suo punto
di vista, Hyra continuerà ad avere dieci anni ancora per i prossimi dieci anni,
e continuerà a rimanere perfettamente asessuata di qui all’eternità. Ma la
verità è che un giorno non troppo distante scopriranno che Hyra esce di
nascosto con qualche ragazzo, e Ivan avrà con ogni probabilità un infarto, e
Max non vuole perdersi tutto questo per nulla al mondo.
«Mi
sarebbe tanto piaciuto salvare tua madre, Hyra.»
Era
da così tanto tempo che voleva dirglielo, che Max si accorge d’improvviso che
questa semplice confidenza pare sgravare il suo petto dello stesso peso di
un’innominabile confessione.
Nella
morte di Aima il risveglio di Archeo Groudon non ha avuto alcun ruolo, e per la
propria innocenza Max non fa che ringraziare ancora il cielo, a distanza di
cinque anni da quando è avvenuta; ma Max, che per un periodo molto lungo della
sua vita avrebbe voluto poter salvare l’umanità, non ha mai perdonato a se
stesso di non esser stato in grado di salvare una vita. La storia non è certo
fatta di se, d’accordo; ma è davvero
possibile smettere di domandarsi, un giorno, se le cose avrebbero potuto andare
diversamente, se solo egli avesse perso meno tempo a cercare Groudon, e avesse
capito un po’ prima qual era la strada giusta da percorrere?
La
verità è che Max ha sempre aspettato che fosse Hyra a perdonarlo per non aver
saputo salvare sua madre, e solo stasera, quando un lampo di comprensione le
attraversa fugacemente gli occhi, e lei distoglie lo sguardo per un attimo,
egli si rende conto per la prima volta che Hyra è finalmente diventata grande
abbastanza da potergli dare l’assoluzione che egli da anni aspetta da lei.
«Lo
so, Max» risponde senza guardarlo, con un piccolo sorriso triste. «Anche a me
sarebbe piaciuto.»
E
la sua risposta è tutta qui, ma neppure per un momento Max dubita che abbia
capito, e che nel profondo della sua anima lo abbia perdonato per non esser
stato grande abbastanza da salvare sua madre. Il Grande Max ha finito qui,
finalmente, e ha finalmente ottenuto tutte le assoluzioni che cercava.
«Con
questo puoi salvare le persone, quindi? Le persone con il cancro?»
Abbandonandosi
contro lo schienale della sedia girevole, Max si prende un lungo attimo di
silenzio prima di rispondere e incrocia pensierosamente le mani in grembo.
«È
un po’ più complicato di così, ma… sì. Voglio dire, la speranza sarebbe
quella.»
C’è
un lampo di desiderio nello sguardo che Hyra getta allo schermo, adesso.
«Puoi
spiegare anche a me come funziona?»
Max
sorride pazientemente. «Non certo prima di andare a cena dalla zia. Domani, se
vuoi.»
«Pensi
che sarei in grado di studiare anch’io queste cose? Tipo all’università?»
«Oh,
Hyra.» Quando già la sua mano sta per muoversi e assestarle un’affettuosa pacca
sul capo, come quando era piccola, Max ci ripensa e si trattiene. Quella che ha
di fronte è una piccola adulta, ed egli le farà il piacere di trattarla con
tutto il rispetto che merita. «Tu sei in grado di fare tutto quello che vuoi.»
C’è
tutto un dilemma che si agita e combatte in fondo agli occhi di Hyra e che
lotta per venir fuori, e Hyra pare fare uno sforzo enorme per trovare le parole
per esprimerlo.
«Non
vorrei rinunciare ad allenare i Pokémon, però.»
Anche
se sarebbe potuta partire tre anni fa, Hyra ha deciso di posticipare per continuare
a studiare ancora un po’, ma quest’anno, a quanto pare, si è decisa. Ivan ha
deciso di regalarle un Pokémon per il suo compleanno, e lui e Ada stanno
praticamente vagliando tutti i mari di Hoenn alla ricerca di Quello Perfetto. Che poi, ovviamente, sarà
un Carvanha, e questo lo hanno già previsto tutti, ma è ammirevole che Ivan
stia almeno sforzandosi di provare a prendere in considerazione anche altri
Pokémon.
«Beh»
inizia lentamente Max «So che suona un po’ troppo autoreferenziale detto da me,
ma nulla ti obbliga a rinunciare a niente. Io sono diventato un discreto
allenatore e ho padroneggiato anche la Mega Evoluzione frequentando
l’Università, e mi sono laureato con il massimo dei voti.»
Ci
sarebbe anche quel dettaglio del team di malviventi di cui faceva parte a
vent’anni, quando non doveva studiare, insieme a Ivan, ma sarebbe veramente troppo autoreferenziale… insomma, non
vuole certo gravare Hyra del peso di un modello troppo difficile da seguire.
No?
(E
poi, diciamocelo, non lo rifarebbe. Studiare di pomeriggio e introdursi nei
Centri Pokémon di notte e andare a letto con Ivan all’alba e litigare alle otto
e presentarsi all’esame alle nove. No, no, era uno stile di vita decisamente
troppo stressante.)
«Già,
è vero» risponde Hyra, e dalla ritrovata luminosità dei suoi occhi è evidente
che non ci aveva pensato, ma che quell’idea, tutto sommato, non le dispiace, e
che potrebbe anche pensarci su.
«Certo
che è vero, l’ho fatto io» conclude Max alzandosi. «E comunque hai un sacco di
tempo per pensarci. Io invece devo andare a cambiarmi, prima che tuo padre
venga di qua a uccidermi.»
«E
che la zia si arrabbi» lo ammonisce Hyra in tono di rimprovero. «Anche lei dice
che lavori troppo.»
Questo
dev’essere un complotto. Com’è che quando si dava tanto da fare per distruggere
Hoenn nessuno veniva mai a dirgli che stava lavorando troppo?
«E
che la zia si arrabbi, giusto» concede Max pazientemente. «Vai a dire a Ivan
che spengo il computer, va bene? Io arrivo subito.»
Ma
dopo che Hyra ha lasciato la stanza per andare a riferire a suo padre, tutta
gongolante, il frutto delle sue fatiche e della sua vittoria, Max indugia
ancora un po’ di fronte a quelle interminabili file di numeri prima di spegnere
il computer.
Quando
inseguiva i grandi e terribili miracoli che la leggenda di Groudon gli
prometteva, ed era convinto di poter ottenere tutto e tutto insieme con il
minimo sforzo possibile, una parte di lui aveva dimenticato quanto
incredibilmente lenti fossero i progressi della scienza, e di quanto frustrante
potesse essere lavorare anni per ottenere quei miglioramenti di ordine infinitesimale di cui gli parlava Ottavio;
eppure, quando guarda questa infinita serie di dati e risultati statistici, il
cuore pare pulsargli in petto di un silenzioso battito di conforto. È la prima
volta ch’egli sente davvero di star
ottenendo qualcosa in questa vita che gli è stata restituita, e magari potrà
pure non salvare l’umanità, ma gli piacerebbe così tanto che tutto il suo
lavoro servisse a salvare una vita.
Ora
che tutti i suoi errori hanno trovato rimedio e tutte le sue mancanze perdono,
Max può fronteggiare il sole, finalmente, e salutarlo come un vecchio amico.
Il
perdono è un atto troppo grande e difficile per una sola persona. Ne richiede
due: chi ha tradito e chi è stato tradito.
Tu
quale sei dei due?
Hannibal,
Episodio
3x03: Secondo.
Fine.
A distanza di quasi tre anni da quando
questa storia è stata concepita, finalmente, eccomi qui.
È stato un percorso meraviglioso, per
me, perché per quanto ciò sia paradossale parlando di una fanfiction, questa
storia ha una larga componente autobiografica. E anche perché mi ha permesso di
valutare tante cose di me stessa: quanto io sia cambiata in questi tre anni e
quanto no. Mi ha sorpresa accorgermi che un amore come quello di Ivan e di Max
come l’ho raccontato in questa storia lo desidererei ancora, e anche quanto io
sia riuscita ad attenermi perfettamente
al progetto della storia come lo avevo fissato nel 2015. Questo capitolo finale
potrà esser piaciuto o meno, ma ho usato esattamente le stesse parole che mi
ero studiata anni fa, e che sono riuscita miracolosamente a ricordare senza
annotarle da nessuna parte: persino la citazione di Hannibal è la stessa. Non sapevo di saper essere così coerente.
Le parole che conosco non possono
bastare a ringraziare chi mi ha seguita con pazienza per tutti questi mesi,
ripresentandosi a ogni mio saltuario aggiornamento: mi avete veramente
commossa. Tutto quello che posso fare per il momento è ringraziare di cuore
cristal_93, Persej Combe e StagTree per il loro continuo sostegno a questa
storia, per me ha significato tantissimo.
Detto questo, potrei probabilmente
continuare a scrivere per ore, ma non direi nient’altro che valga la pena
leggere.
Un abbraccio enorme a tutti, e usate
buone protezioni solari!
Afaneia
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