Opus Magnum

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima - Nigredo ***
Capitolo 2: *** Parte seconda - Albedo ***
Capitolo 3: *** Parte terza - Rubedo ***



Capitolo 1
*** Parte prima - Nigredo ***


Riporto come da prescrizione lo specchietto di presentazione della storia al contest:



Nome sul forum: OldFashioned

Nome su EFP: Old Fashioned

Titolo: Opus Magnum

Artista e opera: Wallis, Chatterton  

Genere e rating: Genere Giallo, Sottogeneri Azione, Mistero, Storico. Rating Giallo

Lunghezza storia: Il contatore di Libre Office mi dà 23.774 parole. La storia è composta da 42 pagine suddivise in 3 capitoli.

Note: nonostante il soggetto fosse assai evocativo in tal senso, ho preferito evitare tutte le storie romantiche, sia perché il genere slash non veniva accettato, sia perché a prescindere da ciò il genere romantico non è esattamente il mio. Ho pensato di fare in modo che il quadro diventasse una "scena del delitto", di quello che a prima vista appare un suicidio ma poi si rivela non esserlo affatto. La storia è ambientata nel 1752 in Prussia ed è un breve giallo che ha a che fare con società segrete e alchimia. L'investigatore è un ufficiale di Federico il Grande.









OPUS MAGNUM



Parte prima – Nigredo

Espressione alchemica che indica il primo procedimento dell’Opera: consiste nella soluzione o liquefazione, cioè nella morte del Dragone. È il Solve che consentirà il Coagula.



Il roseto era in piena fioritura. Vi erano corolle di un bianco candido, vaporose come nuvole, altre di un rosa carnicino, fiori in boccio tondi e compatti che lentamente si schiudevano petalo dopo petalo, altre ancora di un colore sanguigno, vellutato, che nella luce dorata del tardo pomeriggio diventava un vermiglio sontuoso.
Una dama dal volto pallido e fine, con l’acconciatura incipriata e un abito di seta sui toni del verde, si fermò davanti a una pianta un po’ isolata dalle altre, raccolse un fiore nella coppa delle mani e si chinò ad aspirarne il sentore delicato. Poi si raddrizzò e sfiorò con le dita i petali, che erano bianco alabastro sul bordo e delicatamente rosati nella parte più interna.
Questa varietà l’ho chiamata come lui,” sospirò.
L’uomo che la accompagnava, un imponente ufficiale della Guardia che aveva i suoi stessi occhi cerulei, le chiese: “Konstantin?”
Sì, mi ricorda il suo incarnato.”
Fecero qualche passo lungo il vialetto coperto di ghiaia. L’aria era tiepida, carica degli effluvi della tarda primavera e vibrante del canto degli uccelli.
È molto che non lo senti?” chiese l’uomo.
Da Natale. Mi ha mandato una lettera in cui diceva che stava bene e ripeteva che non aveva intenzione di tornare a casa.” Si interruppe, emise un secondo sospiro. Si voltò a dare un ultimo sguardo al roseto, dove la pianta battezzata Konstatin brillava in un’aiuola tutta per sé, poi disse: “Ti ricordi quando era piccolo?”
L’ufficiale annuì. Un frugoletto dai capelli color fiamma, il cui massimo divertimento era fare il cavalluccio sulle sue ginocchia. “Diceva che sarebbe diventato come me.” Lo rivide girare per le sale della residenza agitando una spada di legno, con il suo tricorno che gli scendeva fino agli occhi e lo costringeva a tenere una comica postura con la testa rovesciata all’indietro.
E adesso, invece...” mormorò la donna, sedendosi su una panchina di marmo. La voce aveva un’incrinatura di pianto.
L’uomo si sedette accanto a lei, le prese una mano, la strinse fra le sue. “Gli parlerò io, Luise. Lo convincerò a tornare.”
L’altra estrasse un fazzolettino dalla scollatura e si tamponò gli occhi. “Non servirà a nulla. Non ha mai risposto a nessuna delle mie lettere, tutti i soldi che gli ho mandato li ha rispediti indietro. Dice che vuole stare a Berlino e vivere delle sue poesie. Dice che non ha nessuna intenzione di diventare ufficiale come Leopold e Gottfried.”
Alla frase fece seguito un lungo silenzio. Il sole stava calando e le ombre degli alberi disegnavano sul prato lunghe strisce scure. Sulla linea dell’orizzonte il cielo cominciava a prendere un tono aranciato. “Sarà meglio che rientriamo,” disse l’ufficiale alzandosi. Porse il braccio alla sorella.
I due si incamminarono fianco a fianco verso un palazzo che si stagliava imponente dietro la vegetazione.



La sala di marmo del Sanssouci era occupata da un minuetto in pieno svolgimento.
In piedi vicino alla parete, le braccia dietro la schiena, il colonnello della Guardia Wilhelm von Kleist seguiva distrattamente le evoluzioni delle coppie.
Ripensava al colloquio avuto con la sorella sul figlio di lei, ovvero il suo giovane nipote Konstantin, che si ostinava nonostante ogni preghiera a vivere di ristrettezze in una specie di topaia.
Considerò che se il ragazzo avesse avuto quella stessa determinazione nel diventare ufficiale, a quel punto sarebbe già stato da almeno un anno Fahnenjunker[1] nel suo stesso reggimento, proprio come avrebbe tanto voluto fare da piccolo.
Poi però si era iscritto all’Università, aveva conosciuto altri studenti, si era riempito la testa di idee strane e alla fine aveva abbandonato Potsdam e le tradizioni di famiglia in favore di una solitaria vita da spiantato nella Capitale.
Sospirò. Aveva abbandonato la disponibilità a comprendere certe ubbie giovanili dopo il primo fischiare di pallottole in campo aperto.
Mentre stava così meditando, fecero il loro ingresso nella sala tre donne. Il loro aspetto lo colpì immediatamente, in primo luogo perché erano tutte e tre molto belle, e in secondo luogo perché la loro avvenenza aveva un che di vistoso e selvaggio, con una nota esotica che al tempo stesso affascinava e spingeva sulla difensiva.
La più vecchia poteva avere sui quarant’anni. Era alta quasi come lui e asciutta come un abete. Aveva occhi neri dallo sguardo febbrile, che brillavano come braci in un viso di eccezionale pallore. I suoi lineamenti erano severi ed eleganti come quelli di una kore greca. Portava un collier di rubini che sembrava uno spruzzo di sangue. Nei generali toni pastello della sala, il suo abito scarlatto impensieriva come un principio di incendio.
Le altre due dovevano essere le figlie, perché le somigliavano straordinariamente ma erano molto più giovani. Una aveva occhi verde acqua, l’altra li aveva neri come la madre. Nemmeno la meticolosa incipriatura riusciva a nascondere del tutto l’ebano lucente delle loro capigliature.
Anch’esse avevano abiti dai colori sgargianti, una celeste e l’altra verde smeraldo, di seta lucida e frusciante.
Una voce lo distrasse dalla contemplazione: “Anche voi siete incantato dalle nostre ospiti, von Kleist?”
L’ufficiale si voltò e vide von Bissing, un collega della cavalleria. “Chi sono?” gli chiese semplicemente.
Non lo sapete? L’alchimista e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.” L’uomo ebbe un sogghigno. “Pensate, la più vecchia, una certa madame de Pfuel, si è presentata a Sua Maestà sostenendo di essere in grado di creare l’oro a partire dai metalli vili.”
E Sua Maestà?”
Von Bissing fece un’altra risatina. “Invece di cacciarla come tutti si sarebbero aspettati, le ha concesso una rendita e una villa sul Templiner See. Pensate che vi ha addirittura fatto allestire un laboratorio secondo le sue richieste, in modo che madame potesse fare le sue trasmutazioni.” Alzò le spalle e soggiunse: “Del resto, se quelle due figliole arrivassero nel mio reggimento con la pretesa di fare gli ufficiali, pensate che mi libererei di loro?”
Von Kleist diede un altro sguardo alle giovani, che pur costrette nei rigidi passi del minuetto sembravano delle nereidi intente a giocare fra le onde. “Non credo proprio,” concluse.
Ecco, appunto. Ma ora basta contemplare le grazie muliebri, collega. Di là ci sono von Zieten e von Falkenhausen che avrebbero piacere di rievocare qualche aneddoto di guerra in vostra compagnia.”
Von Kleist si staccò dalla parete per seguirlo, ma nel movimento il bastone da passeggio col pomolo d’argento che vi aveva appoggiato cadde a terra.
Al rumore del legno sul pavimento, la ragazza in verde abbandonò le danze agile come un felino, raccolse l’oggetto e glielo porse. “A voi, signor ufficiale,” disse fissandolo negli occhi. La voce era bassa e leggermente arrochita. Evocava la zampa di un gatto, morbida ma con dentro gli artigli.
Molte grazie, mademoiselle,” disse l’altro accennando un inchino, ma la giovane stava già raggiungendo la sorella.
Muovetevi, von Kleist!” lo richiamò alla realtà von Bissing, tirandolo scherzosamente per una manica.

Si spostarono in un salottino in cui il colore dominante era il blu scuro delle uniformi. La musica giungeva ovattata e in generale la confusione del ricevimento era solo un’eco lontana.
Ve l’ho portato, finalmente!” annunciò von Bissing ai presenti.
Tutti si voltarono nella loro direzione.
Buona sera!” disse von Kleist a voce alta. “Nel vedere lor signori tutti insieme mi sembra di tornare alla vigilia della battaglia di Hohenfriedberg[2].”
Il nostro ottimo von Kleist!” lo salutò un generale sollevando nella sua direzione il calice che teneva in mano.
L’ufficiale rispose al saluto con un cenno del capo. “Generale von Falkenhausen.”
Venite qui, ragazzo mio. Prendete un po’ di questo chiaretto, non c’è niente di meglio per scaldare il cuore di un vecchio soldato.” Fece una pausa, che utilizzò per bere un sorso. “Sebbene voi non siate affatto vecchio, dico bene?”
Lo è quanto basta per abbandonare la sala senza rimpianti quando entrano le due ragazze von Pfuel!” intervenne ridendo un altro ufficiale.
Me lo ricordo quando era un giovane sottotenente nella battaglia di Mollwitz,” replicò von Falkenhausen. “Quanto tempo è passato da allora?”
Von Bissing fece il conto. “Dieci anni, signor generale.”
Ne avete fatta di carriera in questo decennio, ragazzo mio.”
Un altro ufficiale si avvicinò al gruppetto e disse: “Niente rende rapide le carriere come le promozioni per meriti sul campo.” Alzò a sua volta il bicchiere in direzione di von Kleist, poi aggiunse: “E per fortuna, presto ci sarà nuovamente questa magnifica occasione per tutti noi. Io credo che tra un po’ ci sarà una guerra.”
Voi dite?” domandò qualcuno, con un tono a metà fra la preoccupazione e l’aspettativa.
L’altro annuì grave. “L’arcinemica del nostro amato sovrano, Maria Teresa d’Austria, non rinuncerà facilmente alla Slesia.”
Si fece avanti von Zieten, un colonnello di un reggimento di linea: “Non si è ancora rassegnata? Ha bisogno di un altra Kesseldorf[3] per capire come stanno le cose?”
Non si rassegnerà mai. C’è un odio personale tra lei e Sua Maestà. Del resto lo sanno tutti in che rapporti sono. Io credo che Maria Teresa tenterà di allearsi con Caterina di Russia per stringere la Prussia in una morsa.”
Il generale von Falkenhausen vuotò il bicchiere e lo appoggiò sul tavolino, poi solennemente proclamò: “Io dico che finché il nostro amato sovrano ci comanderà in battaglia, sarà impossibile che quella strega riesca a mettere le mani sulla Slesia, o su qualsiasi altra parte del regno di Prussia!”
Tutti approvarono rumorosamente, venne versato un nuovo giro di chiaretto, si brindò alla salute del Re.



Il colonnello von Kleist non fece in tempo a scendere dalla carrozza che già la porta del suo alloggio si era aperta e sulla soglia era comparsa la figura erculea del suo valletto con un candelabro in mano.
Bentornato, Eccellenza,” lo salutò l’enorme giovanotto con un inchino.
Grazie, Franz.” L’ufficiale entrò nell’ingresso e si accorse che su una delle mensole che si trovavano sotto le specchiere c’era un vassoio d’argento con una busta. “Cos’è quella?” chiese.
L’altro scattò sull’attenti. “Una lettera, Eccellenza.”
Von Kleist sorrise. “Una lettera, di chi?”
Non saprei, Eccellenza.”
Chi l’ha portata?”
Uno che ha detto di venire da Berlino, Eccellenza.” Poi, dopo una pausa, con tono vagamente incerto: “Dovevo trattenerlo, Eccellenza?”
No, hai fatto bene a mandarlo via. Gli hai dato un Groschen[4] di mancia come ti ho insegnato?”
Franz annuì fiero. “Sì, Eccellenza.”
Molto bene. Ora portami quella lettera e va a dormire.”
Sì, Eccellenza.”

Von Kleist si ritirò nella sua stanza, quasi sollevato dal non sentirsi rivolgere l’epiteto ‘Eccellenza’ ogni tre parole. Kretschmer era un bravo ragazzo, ma faticava ancora a capire quando era il caso di usare le cerimonie e quando invece sarebbe stato necessario un tono più informale.
Prese la busta e lesse il mittente. Sorrise fra sé e sé: lupus in fabula. Forse Konstantin dopotutto si era stufato di fare l’anacoreta.
Aprì la lettera e subito sollevò le sopracciglia perplesso. Se non fosse stato più che sicuro di aver riconosciuto la grafia di suo nipote, avrebbe giurato di aver a che fare con un impostore che si spacciava per lui.
Ciò che stava leggendo non aveva nulla a che fare con il Konstantin che conosceva, tanto che la seconda ipotesi che formulò fu quella della malattia. Forse il ragazzo non stava bene con la testa.
Rilesse la lettera:

Stimatissimo signor zio,
è vero senza menzogna, certo e verissimo che voi siete il mio zio prediletto.
Mi rivolgo a voi nell’ora del bisogno, e non esito a dirvi che mai mi sono trovato, nella mia breve vita, in una tale profonda e impellente necessità della vostra presenza.
Qualora voi veniste a trovarmi ma io non ci fossi, guardate con melancolia fuori dalla finestra: allora ciò che era manifesto sarà nascosto e ciò che era nascosto sarà manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il motivi del mio turbamento.
Vi prego, caro signor zio, non indugiate: se voi non intervenite, il nostro sole potrebbe essere spento per sempre da una luna invidiosa.

Il vostro devoto nipote Konstantin von Jagow

Von Kleist rilesse ancora una volta la lettera, capendoci ancora meno. L’unica cosa chiara di tutta la missiva era che il ragazzo aveva bisogno di vederlo con urgenza.
Trasse di tasca una chiave, andò a uno stipo e lo aprì: dentro vi erano vari sacchetti di talleri. Ne prese qualcuno. Sicuramente Konstantin si era messo in qualche guaio che non aveva il coraggio di confessare ai genitori. Probabilmente cercava di attirarlo a Berlino per intenerirlo facendo leva sull’affetto che nonostante tutto sapeva di suscitare in lui.
Poco male: questa volta l’avrebbe riportato indietro. Con la forza, se necessario. Quello stupido gioco di fare il poeta spiantato era già durato anche troppo a lungo.
Franz!” chiamò.
Si udì un tramestio, poi comparve il ragazzone in camicia da notte. “Eccellenza?”
Prepara tutto, domattina partiamo per Berlino.”
Sì, Eccellenza.”



Il giorno dopo, di buon mattino, Wilhelm von Kleist salì sulla carrozza portando con sé cinquecento talleri, il suo bastone animato, la sua spada e un paio di pistole cariche. Non che pensasse di fare chissà cosa, ma il tono della missiva di Konstantin non gli era piaciuto per niente, e non voleva rischiare di farsi cogliere alla sprovvista in nessuna situazione.
A cassetta con il cocchiere sedeva il suo valletto, al quale probabilmente sarebbe bastata la sola mano sinistra per ridurre all’impotenza il suo efebico nipote. Se il ragazzo si fosse ribellato ancora una volta alla voce del buon senso, avrebbe dato ordine a Franz di caricarselo in spalla. Ormai non ne poteva più di certi capricci da bambino viziato.
Sorrise fra sé e sé nell’immaginare la scena.
La carrozza si mise in movimento. Si lasciò in breve alle spalle la cittadina di Potsdam, e dopo un breve tratto di campagna giunse ai sobborghi di Berlino.
Da lì non fu difficile arrivare all’edificio in cui aveva trovato alloggio di Konstantin.
La carrozza vi si fermò proprio davanti, attirando lo sguardo di parecchie persone: non dovevano passarne molti, di esponenti della nobiltà, da quelle parti.
Nella curiosità generale, l’ufficiale scese e rimase a guardarsi intorno con i pugni puntati sui fianchi. Se quello fosse stato un acquartieramento per le sue truppe, avrebbe dato una bella strigliata a chi gliel’aveva messo a disposizione. “Franz!” chiamò.
Eccellenza?”
Va a vedere se c’è qualcuno in questa topaia.”
Sì, Eccellenza.” Il ragazzo salì i gradini che conducevano al portone d’ingresso e batté qualche colpo sulla porta.
Von Kleist nel frattempo osservava critico il palazzo: era un caseggiato di quattro piani, con la facciata di mattoni scuri e le finestre piccole. Qualche vetro era stato sostituito da tavolette di legno.
In generale aveva un aspetto umido e fatiscente, che non invitava certo a prendervi alloggio.
Se mai ce ne fosse stato bisogno, quella era un’altra conferma della necessità di portare Konstantin in ambienti più consoni al suo rango e alla sua cultura.
Nel frattempo, il portone si era aperto e sulla soglia era comparsa una signora di mezz’età corpulenta e bassa di statura, con un neo posticcio sulla guancia e un’elaborata parrucca di crine bianco. “Che cos’è questo fracasso?” inveì la donna, asciugandosi le mani arrossate nel grembiule che aveva addosso. Poi notò alle spalle di Franz la presenza della carrozza, ma soprattutto di von Kleist. Immediatamente si ricompose e omaggiò quest’ultimo di una riverenza. “Signor ufficiale...” disse ossequiosa.
Il colonnello si fece avanti e si presentò, poi chiese: “Abita qui Konstantin von Jagow?”
La signora rimase perplessa. “Von Jagow?” ripeté. Dall’espressione era piuttosto evidente che il nome non le diceva nulla.
Un giovane di circa diciott’anni, con i capelli rossi, snello, non particolarmente alto.”
La signora tirò fuori dai recessi del suo abito una lorgnette e squadrò con quella il colonnello, come se il vederlo attraverso le lenti avesse il potere di rendere più chiara la descrizione del misterioso inquilino. Infine disse: “L’unico che potrebbe corrispondere alla vostra descrizione è il signor Theophrastus.”
Theophrastus?” fece eco von Kleist perplesso.
La donna si sciolse in un sorriso affettuoso. “Un giovanotto che sta all’ultimo piano. Tanto beneducato e gentile. Non fa mai rumore, non disturba mai. Qualche volta non ha i soldi per l’affitto, ma io gli faccio sempre credito, sapete? E immancabilmente dopo qualche giorno lui mi paga fino all’ultimo Pfenning.”
Vorrei parlare con lui,” disse l’ufficiale. Tirò fuori dalla tasca un mezzo tallero d’argento.
Alla vista della moneta, la signora si illuminò in viso. “Vi faccio strada!” esclamò, e raccolte le gonne li precedette in un androne che sapeva di cavolo bollito e salsiccia di fegato.

Dopo innumerevoli rampe di scale, l’ultima delle quali ripidissima e piuttosto tarlata, arrivarono a una soffitta. Nonostante la stagione, il luogo era freddo e l’aria umida. Refoli di vento si insinuavano dalle finestre con i vetri rotti. Un piccione si alzò in volo con gran sbattere di ali al loro arrivo.
Ecco qua,” disse la signora, con un po’ di affanno per via delle scale. “Un posticino tranquillo e confortevole per un giovane studente.” Poi si avvicinò a una porta e bussò con discrezione. “Signor Theophrastus?”
Non le giunse risposta.
Strano,” constatò la donna, poi bussò in modo più energico. “Signor Theophrastus? Ci sono delle visite per voi!”
Konstantin!” subentrò il colonnello, “Sono io, lo zio Wilhelm! Apri la porta!”
Ma di nuovo rispose solo il silenzio.
Siete sicura che non sia uscito?” chiese l’ufficiale.
Sicurissima, Eccellenza. Probabilmente starà dormendo. Sapete come sono gli studenti: fanno tardi la sera, fanno baldoria, e poi...” Alzò gli occhi al cielo.
Il colonnello bussò di nuovo, poi provò ad abbassare la maniglia, ma la porta era chiusa a chiave. “Konstantin!” ripeté, “Apri! Sono tuo zio Wilhelm!”
Al protrarsi del silenzio, si rivolse alla signora: “Aprite quella porta!”
La donna tirò fuori dalle pieghe del vestito una chiave universale e fece scattare la serratura, quindi dischiuse l’anta e si affacciò all’interno. Subito si portò le mani al viso e strillò: “Mio Dio!”
Franz fece appena in tempo ad afferrarla prima che crollasse al suolo svenuta.

Von Kleist si affacciò a sua volta nella misera stanzetta: Konstantin giaceva immobile sul letto. Aveva visto abbastanza cadaveri nella sua carriera da capire con sicurezza che suo nipote era morto.
Fece qualche passo nella camera. Il ragazzo era posizionato su un fianco, con il capo abbandonato sulle coltri e un braccio che pendeva verso terra. I capelli color fiamma, sciolti, rendevano ancora più profondo il pallore dell’incarnato. Aveva addosso una camicia bianca, un paio di pantaloni color indaco, le calze e una sola scarpa. La marsina rosso scuro era appoggiata alla spalliera di una sedia.
Accanto al letto c’era un piccolo baule aperto e pieno di carte strappate. Sul pavimento, poco lontano dalla mano del giovane, si trovava una fialetta di vetro.
Si avvicinò, gli toccò il collo: la pelle era già fredda, non vi era più la pulsazione delle arterie.
Aggrottò le sopracciglia: perché mandargli quella lettera chiedendogli di raggiungerlo, se poi la sua intenzione era quella di uccidersi? O quello di uccidersi era stato un gesto impulsivo, dettato dal suo carattere irruente?
Si guardò intorno: la stanza era di una miseria sconcertante. A parte il letto, coperto da un semplice panno marroncino, gli unici mobili presenti erano una sedia e un tavolino con sopra una bugia. La candela doveva essersi consumata di recente, perché dal piccolo oggetto si levava ancora un lieve filo di fumo.
Sempre sul tavolino c’era l’abbozzo di una lettera indirizzata alla madre.
Dietro il letto c’era una finestra aperta, sul davanzale c’era un vaso di terracotta in cui cresceva una piantina di rose.
Sospirò al pensiero di quello che avrebbe dovuto dire a sua sorella.
Si avvicinò al ragazzo, lo osservò con più attenzione. La prima cosa che lo colpì fu la pace che sembrava distendere i suoi lineamenti. La fialetta di vetro suggeriva che per uccidersi avesse usato del veleno, ma nessun veleno di sua conoscenza regalava una tale tranquillità nella morte. Di solito il trapasso avveniva fra atroci dolori, in mezzo a sbocchi di sangue, vomito ed escrementi.
Konstantin invece sembrava un Endimione. Peraltro non c’erano né macchie ipostatiche né rigidità cadaverica, sebbene non vi fosse ormai più traccia di calore corporeo.
E la camicia. Era aperta fino alla cintura. Il ragazzo non l’aveva mai portata in quel modo, lo riteneva volgare. Scostò appena i lembi dell’indumento e notò al centro del petto, proprio alla fine dello sterno, una macchia scura. Una delle mani di Konstantin si trovava proprio lì, come se quell’alone fosse il segno di qualcosa che gli aveva in qualche modo provocato sofferenza.
Sotto il letto trovò la scarpa mancante, in una posizione in cui non poteva essere finita perché sfilatasi dal piede dopo la morte. Da quando in qua ci si suicida con una scarpa sola, pensò?
Guardò le carte a brandelli: erano fogli scritti. Tutto suggeriva che il giovane li avesse stracciati prima di porre fine alla propria esistenza.
Controllò in giro, guardò nel cassetto del tavolino, ma a parte la chiave della stanza non trovò nulla di rilevante, né soldi né oggetti preziosi.
Udì passi pesanti su per le scale e dopo un po’ si affacciò Franz, che osservò la scena, assunse un’aria costernata ed esclamò: “Eccellenza! Povero signorino...”
Quell’accorata constatazione ebbe il potere di spingere brutalmente von Kleist fuori dalla trincea di distacco che era riuscito a crearsi. Di colpo realizzò che il corpo lì steso era quello del bimbo che gli saltellava sulle ginocchia cantando ‘Hoppe Hoppe Reiter’[5] e del giovanotto per cui aveva immaginato una carriera nella Guardia. “Sì, povero signorino,” sospirò.
Lo rivide in uno dei suoi atteggiamenti favoriti: chino su un libro, la mano a sostenergli il volto, lo sguardo assorto. I capelli sciolti che gli ricadevano da un lato come una cortina di rame lucente.
Diede un’ultima occhiata al corpo immobile, poi trasse un secondo sospiro e disse: “Bene. Mettiamoci al lavoro, ci sono parecchie cose da fare. Vammi a chiamare la padrona di questo posto.”
Sì, Eccellenza.” Franz scomparve giù per la scala.

Rimasto solo, von Kleist prese tutti i brandelli di carta che riuscì a trovare, sfilandoli addirittura dalla mano gelida di Konstantin, e li ripose nel baule, poi prese il fazzoletto e con esso raccolse la fialetta di vetro, che poi si mise in tasca.
Guardò in giro una seconda volta, controllò anche le tasche della marsina abbandonata sulla sedia, ma non trovò nulla. Considerò fra l’altro che non c’era un Pfenning[6] in tutta la stanza, e che i miseri averi del ragazzo ammontavano a pochi vestiti, qualche oggetto da toeletta, una penna e un calamaio.
Rivolse una nuova occhiata al corpo. Konstantin si era suicidato per disperazione? Forse aveva pensato che nonostante la lettera nessuno sarebbe arrivato a soccorrerlo? Cosa gli aveva impedito, se era in tali ristrettezze, di tornare a Potsdam anche a piedi? L’orgoglio, forse? Ma allora perché scrivere quella lettera?
Scosse la testa: in quel suicidio c’erano parecchie cose che non quadravano affatto.
Sentì di nuovo i passi di Franz salire le scale. Alle sue spalle una voce femminile diceva: “Ah, no! Io lassù non ci torno per tutto l’oro del mondo! Signore Iddio, non dimenticherò quello spettacolo campassi mille anni!”
Arriva la signora, Eccellenza,” annunciò il valletto.
Vi ho detto di no!” si fece udire la voce della donna dal piano di sotto. “Io lassù non ci salgo. Venite voi quaggiù, Eccellenza, se volete parlarmi.”
Von Kleist emise uno sbuffo infastidito. Si avvicinò alla tromba delle scale e in tono severo chiese: “Come vi chiamate, signora?”
Hermine Pfannenschmied.”
Molto bene, signora Pfannenschmied. Io ho appena perso mio nipote. Fatemi il favore di non creare ulteriori turbative con le vostre paturnie.”
Il tono del colonnello convinse la signora a salire le scale senza replicare.
Quando furono faccia a faccia, von Kleist le disse: “Ora voglio che voi chiudiate la porta e la finestra di questa stanza e che non facciate entrare nessuno fino a che non verranno a prendere il corpo, cosa che succederà al più tardi domattina. Il ragazzo vi doveva qualcosa?”
La donna esitò.
Allora?”
Ecco… l’affitto del mese, Eccellenza.”
Von Kleist le diede un tallero d’argento. “Prendete questo. Se seguirete le mie istruzioni alla lettera, quando tornerò ve ne darò un altro.”
Alla signora Pfannenschmied si illuminarono gli occhi. “Oh, grazie, Eccellenza!” esclamò. “State tranquillo, vigilerò io personalmente: nessun altro metterà piede in questa stanza.”
L’ufficiale annuì soddisfatto e disse: “Franz, prendi il baule del signorino e portalo sulla carrozza.” Poi, rivolto alla donna: “Come vi ho detto, torneremo al più tardi domattina.”



L’incontro con la sorella era stato più straziante del previsto. Von Kleist aveva già avuto l’ingrato compito di recare simili annunci alle famiglie di giovani ufficiali caduti del suo reggimento, ma nulla l’aveva preparato all’abisso di dolore in cui era sprofondata Luise nel ricevere la notizia.
Non aveva versato una lacrima, non aveva emesso un suono. Era rimasta immobile, aveva rifiutato gli abbracci, si era lasciata scivolare addosso le parole di conforto. Solo i suoi occhi chiari si erano incupiti come laghi che in inverno si coprono di ghiaccio. Infine si era alzata dalla sedia lenta, solenne, già un’ombra dolente di quello che era stata. “Vado al roseto,” aveva annunciato con voce incolore, ed era scomparsa nel parco.

Osservò il bauletto che aveva preso nella camera di Konstantin. Un semplice contenitore di legno, del valore di pochi Pfenning.
Rivide il corpo adagiato, la miseria delle poche cose che lo circondavano, lo squallore della soffitta umida e sporca.
Nulla quadrava.
Il fatto che il ragazzo gli avesse inviato una lettera in cui chiedeva il suo aiuto ma poi si fosse comunque ucciso. Il contenuto della lettera: frasi sconnesse, senza apparente senso. Il contesto in cui aveva trovato il corpo: elementi che deponevano a favore di un suicidio ma altri che sembravano negarlo nella maniera più decisa.
Inspirò profondamente. Forse era il coinvolgimento affettivo che lo rendeva incapace di ragionare in modo razionale. Forse la morte assurda del suo nipote prediletto gli faceva desiderare e quindi immaginare che ci fossero persone a cui poter attribuire la colpa di quanto era successo.
Aprì il baule, rovistò immergendo la mano fra i brandelli di carta straccia. Potevano essere le sue poesie? Tirò fuori una manciata di frammenti, cominciò ad allineare sul tavolo i pezzetti di carta. ‘Mio caro Theophrastus,’ lesse su uno di essi.
Alzò le sopracciglia: dunque erano lettere. O perlomeno c’erano anche delle lettere in quel mucchio di frammenti.
Liberò completamente il tavolo, vi rovesciò sopra il contenuto del baule, stando ben attento a non perdere nemmeno un brandello. “Franz!” chiamò.
Subito comparve il valletto. “Eccellenza?”
Franz, va a preparare della colla arabica e poi portamela assieme a dei fogli di carta.”
Sì, Eccellenza.”

Era stata necessaria tutta la notte, ma alla fine von Kleist era riuscito a ricomporre il contenuto del baule, che stava finendo di asciugarsi incollato su fogli più grandi.
Osservò il risultato del suo lavoro. C’era un disegno che rappresentava una donna alata in posizione seduta, con una corona di fiori sul capo e un compasso in mano, circondata da svariati oggetti. Nella figura si vedevano anche un putto e un cane, un quadrato con dentro dei numeri e un solido dalla forma strana.
C’erano dei versi. Rime che in apparenza non avevano alcun senso, con espressioni come sole nero, lupo dei metalli o bagno dell’androgino.
Infine c’erano delle lettere. La grafia non era quella di Konstantin. Erano tutte indirizzate a Theophrastus e firmate da un certo Basilius. In esse si faceva riferimento fra le altre cose a una Grande Opera che doveva essere portata a compimento e a una Regina che l’avrebbe resa possibile. In tutte le lettere ricorreva una specie di sigla, V.I.T.R.I.O.L., che si trovava sempre prima della firma, al posto dei convenzionali saluti.
Se Konstantin era uscito di senno, quindi, non era rimasto solo nella sua follia: c’era perlomeno un’altra persona che aveva vaneggiato con lui, e che aveva scambiato con lui delle misteriose missive.
Immaginò che Basilius fosse un nome falso esattamente come Theophrastus, quindi non avrebbe avuto alcun senso andare a cercarlo. Non come Basilius, in ogni caso.
Uno scambio di lettere, ragionò, presuppone che ci sia qualcuno che porta le suddette lettere avanti e indietro. Sarebbe bastato trovare quel qualcuno.



Arrivò alla pensione della signora Pfannesnschmied proprio mentre stavano caricando su un carro la bara di Konstantin. Per l’occasione, la donna aveva indossato uno scialle nero, e in piedi sulle scale seguiva il feretro con un atteggiamento di serietà grave. Non appena lo vide sopraggiungere gli andò incontro e, a bassa voce per non turbare la solennità del momento, lo informò che aveva seguito le sue istruzioni alla lettera, e che nessuno poteva aver messo piede nella stanza che era stata del signor Theophrastus.
Molto bene,” rispose von Kleist.
La signora lo scrutò per vedere se era in arrivo il tallero promesso, ma l’ufficiale disse: “Ho ancora una cosa da chiedervi, signora Pfanneschmied.”
L’altra faticò per nascondere il disappunto che quell’ulteriore complicazione le comunicava, tuttavia chese: “Che cosa, Eccellenza?”
Il signor Theophrastus riceveva lettere?”
Sì, Eccellenza. Tutti i giorni.”
Chi le portava?”
Un ragazzo. Non lo conosco di nome.”
Ne ha portate in questi ultimi due giorni?”
No, Eccellenza.”
Von Kleist sollevò le sopracciglia. “Molto interessante,” constatò. “E il signor Theophrastus scriveva lettere?”
Sì, Eccellenza.”
Le consegnava a quel ragazzo?”
No, Eccellenza, quelle le portava il nostro Sepp.”
Posso parlarci, con questo Sepp?”
La donna era sempre più in apprensione per il compenso promesso che sembrava non arrivare. “Sì, Eccellenza.” La sua espressione diceva chiaramente: purché non gli venga in mente di darlo a Sepp, il mio tallero.

Grazie alle indicazioni del giovane garzone di nome Sepp, che in effetti aveva quotidianamente recapitato lettere da parte del signor Theophrastus, von Kleist arrivò a una villa circondata da un parco.
Il posto aveva uno strano aspetto fatiscente, i vialetti erano invasi dalle erbacce, le piante erano lasciate libere di crescere a loro piacimento. Qua e là si vedevano strane statue, isolate o in gruppi. Lo colpì un gruppo di quattro donne, ognuna in piedi su una sfera e con una specie di fiasco in equilibrio sulla testa. Più oltre c’era una grotta con l’entrata fatta come le fauci spalancate di un drago. L’ipotesi della follia condivisa si fece più consistente. Suo nipote era stato un ragazzo intelligente, ma ingenuo e cresciuto negli agi: quanto poteva essere stato difficile suggestionarlo o plagiarlo? Magari era venuto in contatto con le stranezze che stava vedendo e ancora inesperto del mondo, senza una guida che lo sostenesse, ne era stato risucchiato, perdendo in tal modo il senno.
Mentre stava così ragionando, la carrozza arrivò allo spiazzo davanti all’ingresso della villa e si fermò.
L’edificio, che aveva porta e finestre serrate, era nelle stesse condizioni del giardino. Se non fosse stato per un filo di fumo che si alzava da uno dei comignoli, si sarebbe detto abbandonato.
Al centro della facciata c’era un bassorilievo che rappresentava un serpente nell’atto di mordersi la coda.
Franz scese dalla carrozza e andò a bussare alla porta.
Passò forse un mezzo minuto prima che l’anta si schiudesse. Sulla soglia comparve un giovane uomo con i capelli neri e il volto soffuso di pallore. Non aveva l’aria di appartenere alla servitù.
Von Kleist scese a sua volta dal veicolo e si avvicinò. “Sto cercando la persona che si fa chiamare Basilius,” disse.
L’uomo si voltò verso di lui, lo squadrò con occhi così chiari da sembrare senza colore. Non parve particolarmente impressionato dal trovarsi di fronte un ufficiale della Guardia. “Con chi ho l’onore?” domandò.
Siete voi Basilius?” chiese di rimando von Kleist.
Forse. E voi chi siete, di grazia?”
Di nuovo si squadrarono. Nessuno dei due abbassò lo sguardo. Infine, l’ufficiale disse: “Il mio nome è Wilhelm von Kleist. E ora vorrei sapere il vostro.”
Rainer Brandt.”
Siete voi che vi fate chiamare Basilius?”
Sì. Posso sapere perché siete qui?”
Il giovane che si faceva chiamare Theophrastus è morto, e vorrei cercare di capire perché, dal momento che era mio nipote.”
La frase suscitò nel misterioso padrone di casa poco più di un’alzata di sopracciglio. “Mi dispiace molto,” disse dopo un po’, “e vi faccio le mie condoglianze per il lutto che vi ha colpito.”
Sapevate che era morto?”
Brandt abbassò gli occhi. “L’ho appreso adesso da voi.”
Lo conoscevate da molto?”
Qualche mese.”
Come mai quei soprannomi nelle lettere? Che cosa significano?”
Il giovane fece spallucce. “Un gioco fra noi.” Si accorse che von Kleist stava cercando di dare un’occhiata all’interno della villa e si chiuse la porta alle spalle. “La morte fa parte della vita,” disse poi. “Certo è penoso perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi. Ma purtroppo sono cose che succedono, e bisogna farsene una ragione. Vi consiglio di darvi pace, cercare di ripercorrere i suoi ultimi momenti nella speranza di trovare una spiegazione al suo gesto sarebbe solo una pena inutile.”
Il colonnello fissò di nuovo negli occhi il suo interlocutore, poi annuì grave. “Ma certo. Vi chiedo scusa per il disturbo e vi auguro buona giornata, signor Brandt.”
Tornò alla carrozza.

Mentre il veicolo procedeva verso Potsdam, von Kleist rimuginava sulle parole del misterioso signor Brandt: Certo è penoso perdere un ragazzo così giovane. In quel modo, poi.
Non aveva mai detto in che modo era morto Konstantin.
E poi c’erano quei nomi strani, Theophrastus e Basilius, che Brandt aveva liquidato definendoli un gioco, e c’era in generale la sensazione che quell’uomo sapesse molto di più di quello che gli aveva rivelato.
Tutta la vicenda, del resto, a partire dalla lettera che Konstantin gli aveva inviato e finendo con il suo misterioso suicidio, se tale era stato, sembrava necessitare di una chiave di lettura, senza la quale era destinata a rimanere incomprensibile.
C’era un filo conduttore che univa tutti gli elementi in suo possesso, ne era certo, ma con le sue competenze da militare non riusciva a coglierlo. Ci voleva un altro tipo di sapienza.



Von Kleist si guardò intorno incuriosito: ogni volta che andava a fare visita al suo vecchio compagno d’armi, trovava qualche nuova meraviglia da ammirare.
Era costumanza che nei palazzi agiati ci fosse una Wunderkammer[7] piena di oggetti misteriosi provenienti da paesi lontani, ma la residenza di Johannes von Ruchel era diventata nel corso degli anni un’unica, immensa e fantastica Wunderkammer, dove scheletri di animali esotici si mescolavano con manufatti di popoli sconosciuti e conchiglie madreperlacee gareggiavano in splendore con minerali colorati.
Franz, che seguiva il colonnello a rispettosi tre passi di distanza con la cassetta e le lettere del povero Konstantin, come ogni volta si guardava intorno a bocca aperta, e di certo al ritorno da quella visita avrebbe intrattenuto il resto della servitù per giorni con i racconti di ciò che aveva visto.
Johannes?” chiamò von Kleist, procedendo con attenzione lungo un corridoio con due file di armature da samurai allineate lungo le pareti. Le orbite vuote delle maschere di lacca sembravano seguire il suo passaggio con disappunto, come se la sua presenza in qualche modo le disturbasse.
Johannes?”
Sono qui,” rispose una voce, “nella stanza dei fossili.”
Poi si udirono il raschiare di una sedia che veniva spostata e un passo claudicante, accompagnato dal ticchettio regolare di un bastone. “Eccomi qui,” disse un uomo sulla quarantina, di altezza media, vestito con una semplice camicia dalle maniche rimboccate e un paio di pantaloni scuri e impolverati. I capelli biondi erano legati in una coda. “Scusa la tenuta, stavo classificando delle ammoniti,” si giustificò. Poi si rivolse al valletto: “Salve, Franz. Come stai?”
Il ragazzo accennò un inchino. “Molto bene, Eccellenza, grazie.”
Beh, venite qui,” disse il padrone di casa. Poi, rivolgendosi a von Kleist: “Hai detto che avevi bisogno della mia sapienza, se non sbaglio.”
Sempre appoggiandosi pesantemente al bastone, precedette i due verso un salotto dove si trovavano un tavolino e delle poltrone. Fece cenno di sedersi e prese posto a sua volta. “Hai visto?” chiese a von Kleist. Batté con le nocche sulla sua coscia destra, producendo un rumore legnoso. “Questa volta hanno fatto il tutore secondo il mio disegno. Quando lo porto riesco quasi a camminare senza il bastone.”
Ti fa ancora male?” chiese von Kleist.
L’altro alzò le spalle. “Ormai sono passati più di dieci anni da Chotusitz[8], ci ho fatto l’abitudine. Quello che mi fa più male è che adesso la mia unica possibilità di servire il Reggimento è aiutarti con le traduzioni in latino.”
Eri il migliore di noi, se ti può consolare.”
Von Ruchel si limitò ad alzare di nuovo le spalle. “Allora, questa faccenda misteriosa?” chiese poi.
Si tratta di mio nipote Konstantin,” esordì von Kleist. Gli raccontò tutto, senza tralasciare il minimo particolare.
Alla fine gli porse la lettera del ragazzo.
L’altro la lesse con attenzione, poi rialzò lo sguardo e chiese: “Che tu sappia, tuo nipote si interessava di alchimia?”
Di che?” replicò von Kleist perplesso.
Alchimia. Solve et coagula, pietra filosofale, creazione dell’oro a partire dai metalli vili. Ti dice nulla?”
Von Kleist scosse la testa. Infine ripensò alla serata al Sanssouci e chiese: “Come quella tale von Pfuel e le sue figlie?”
Ah, quelle.” Von Ruchel fece una risatina. “Ne ho sentito parlare. Non so se lo sappiano creare, l’oro, ma di sicuro sanno come fare per accaparrarselo.” Poi, dopo una pausa: “Comunque, per tornare a noi, nella lettera del povero Konstantin ci sono chiare allusioni alchemiche. L’incipit è l’inizio della Tabula Smaragdina, e anche quella frase sulle cose nascoste che divengono manifeste è un chiaro riferimento all’Arte.”
Sarebbe?”
L’Arte, o Ars Regia, è l’alchimia. La Tavola di Smeraldo è uno scritto sapienziale attribuito a Ermete Trismegisto.”
Ne so quanto prima.”
L’altro sospirò. “È per dire che tuo nipote ha citato testi basilari di questa disciplina. Posso tenere la lettera per qualche giorno? Vorrei studiarla meglio.”
Fa pure.”
Von Ruchel indicò la cartella che Franz aveva sulle ginocchia. “E lì cosa c’è?”
Lettere che Konstantin riceveva da uno che si faceva chiamare con un soprannome. E che chiamava lui con un soprannome. Poi c’è un disegno strano.”
Tirò fuori la figura ricomposta.
È la Melancolia di Dürer,” disse von Ruchel dopo averla osservata. “Anche questa è un’immagine con chiarissimi riferimenti alchemici. Vedi, ci sono la scala a pioli che rappresenta le tappe della sapienza, la clessidra, gli attrezzi… e poi c’è un quadrato magico a sedici caselle, proprio qui sulla destra, sopra la donna alata.”
Von Kleist osservò la figura, poi si passò una mano fra i capelli emettendo un sospiro. “Tu dici che mio nipote aveva perso il senno?” chiese dopo un po’.
L’altro scorse le carte. “No, ma penso che si sia trovato in una faccenda più grande di lui.”
Che cosa, ad esempio?”
Non lo so, devo studiare meglio tutte queste lettere.” Sfogliò il contenuto della cartella e come parlando fra sé e sé soggiunse: “Sembra una specie di codice da decifrare. Questi nomi, Basilius e Theophrastus, hanno di certo un significato.”
Ci fu qualche secondo di silenzio. Von Kleist fece scorrere lo sguardo sugli innumerevoli oggetti che coprivano le pareti. Si fermò a fissare un’ampolla di alabastro di epoca romana.
Tu credi che si sia ucciso?” buttò lì.
Tirò fuori dalla tasca il fazzoletto nel quale aveva avviluppato la fiala di vetro, lo spiegò e mostrò il contenuto all’amico. “Hai modo di controllare se qui dentro c’è stato del veleno?”
Certo. Ci metto dentro qualche goccia d’acqua e poi la do a un topo. Dove l’hai presa?”
Era nella stanza di Konstantin, sul pavimento vicino alla sua mano.”
Von Ruchel alzò le sopracciglia. “Ah, in bell’evidenza.”
Già.”
Molto sospetto. Beh, fammi fare la prova in corpore vili e poi vediamo.”



Il mattino dopo, von Kleist ricevette un biglietto che diceva: “Il topo sta benissimo.”
A questo punto non c’erano più dubbi: Konstantin non aveva posto fine da solo alla propria esistenza. Era stato ucciso.
Chiamò il valletto, che subito comparve sulla porta. “Eccellenza?”
Fa preparare la carrozza, partiamo per Berlino.”
Sì, Eccellenza.”

La signora Pfanneschmied accolse il ritorno dell’ufficiale con sentimenti contrastanti: da una parte le dava fastidio che quel ficcanaso girasse su e giù per la sua pensione facendo commenti. La voce del suicidio era corsa, i suoi ospiti ne avevano parlato, e non certo in termini positivi. Qualcuno aveva addirittura ventilato l’ipotesi di cambiare pensione. A meno che non fosse rivisto il costo settimanale della stanza, ovviamente. Qualcun altro aveva parlato di passi e lamenti ai piani superiori. Aveva dovuto far venire il reverendo per benedire la soffitta, e le era costato ben cinque Pfenning di donazioni alla chiesa.
C’era da dire, però, a proposito di donazioni, che l’ufficiale le aveva già elargito fra una cosa e l’altra due talleri e mezzo, e quello era sicuramente un argomento a suo favore.
Si aggiustò la parrucca incipriata, si accertò che il finto neo fosse al suo posto all’angolo esterno dell’occhio, nella posizione che veniva definita La Passionnée, e andò incontro a von Kleist.
Caro signor ufficiale, che magnifica sorpresa!” esclamò, omaggiandolo di una riverenza.
L’uomo rispose al saluto, quindi senza preamboli disse: “Signora Pfannenschmied, ho bisogno di tornare nella camera del signor Theophrastus. Mandatemi lassù anche Sepp, per favore, ho delle domande da rivolgergli.”
La signora tirò fuori la lorgnette e lo squadrò dall’altro in basso, cosa che lasciò von Kleist perfettamente impassibile.

L’ufficiale tornò alla soffitta. Lo precedeva un garzone di circa sedici anni, con una zazzera scomposta di capelli color paglia e una pipa che spuntava dalla tasca della giacca.
Questi prese una chiave e aprì la piccola stanza. A parte il fatto che il corpo e gli effetti personali erano stati rimossi, tutto era rimasto esattamente come la prima volta che l’aveva vista. Von Kleist vi entrò e si guardò intorno, palpò le pareti e infine andò alla piccola finestra, la aprì e guardò fuori. Dabbasso, quattro piani più sotto, c’era un cortile lastricato nel quale stava passando un carretto. A parte le finestre dei piani sottostanti, da quella parte la parete non offriva appigli, ma a destra e a sinistra c’era il prolungamento del tetto. Una persona con una buona agilità avrebbe anche potuto camminarci sopra.
Vossignoria era parente di quel giovane, vero?” lo distrasse la voce del ragazzo alle sue spalle.
Von Kleist rientrò. “Sì.”
La signora ha detto che Vossignoria deve farmi delle domande.”
Il colonnello annuì. “Voglio sapere se è possibile andare sul tetto”.
Sul tetto?” fece eco il ragazzo, “E che ci va a fare Vossignoria sul tetto? A rompersi l’osso del collo?”
Tu dimmi solo se è possibile.” Gli mostrò una moneta.
Oh, beh...” Il ragazzo si grattò la testa. “La padrona mi ammazza se sa che ho portato Vossignoria in quel posto pericoloso.”
Sono stato sotto il fuoco nemico, le cose pericolose non mi spaventano.” Le monete divennero due.
Il ragazzo guardò rapido verso la porta, come se temesse di veder spuntare la signora Pfannenschmied all’improvviso, poi disse: “D’accordo. Accompagnerò Vossignoria dove vado sempre con Gretchen, ma non oltre.”

Lucido per le recenti piogge, spruzzato qua e là da qualche chiazza di muschio, il tetto ricordava la groppa squamosa di qualche animale mitologico, e di certo il suo andamento irregolare e i suoi fianchi ripidi non invitavano alla scoperta dei suoi anfratti.
Io l’avevo detto a Vossignoria,” disse Sepp notando l’espressione di von Kleist.
L’ufficiale considerò che il ragazzo aveva parlato di una certa Gretchen, quindi di qualcuno che andava in giro con scarpette e sottane lunghe. “Tu come ti muovi qui sopra?”
C’è un percorso. Per andare alla torre.” Indicò una torretta al centro del tetto.
È lì che vai con Gretchen?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Lì non ci disturba nessuno.”
Lo credo bene. Ora fammi vedere questo percorso. E avvisami quando passiamo sopra la finestra della stanza di Konstantin.”
Di chi, Vossignoria?”
Del Signor Theophrastus.”
A ben guardare, c’era in effetti un passaggio, più che altro uno scolo un po’ più largo degli altri con il fondo di rame verdastro, che serpeggiava lungo il tetto. Da quello era possibile, con una buona dose di coraggio e agilità, raggiungere gli abbaini che si affacciavano ai due lati.
Presso la finestra della stanza di Konstantin il muschio era raschiato via in qualche punto, esattamente come sarebbe successo se una suola avesse per un attimo perso la presa.
Ho visto abbastanza,” disse von Kleist, “ora torniamo dentro.”
Rientrò nella cameretta e andò al davanzale della piccola finestra, che controllò alla ricerca di tracce. Gli tornò in mente la frase della lettera: guardate con melancolia fuori dalla finestra.
All’inizio aveva pensato che ‘con melancolia’ si riferisse a un atteggiamento di mestizia, ma dopo aver scoperto che la stampa con la donna alata si chiamava in quel modo, era certo che ci fosse una correlazione fra le due cose.
Cercò donne alate, angeli, clessidre, scale, cani accucciati. Provò addirittura a mettersi nella postura torva e ingobbita della donna dell’immagine, ma non vide nulla di interessante.
Poi gli tornò in mente il quadrato magico: sedici riquadri, esattamente come quelli in cui erano suddivise le due ante della finestra.
Si avvicinò e notò che negli angoli della parte fissa c’era ancora un residuo dell’umidità della notte.
Sepp, vammi a prendere una tinozza di acqua bollente,” ordinò.
Vossignoria?” gli rispose la voce stupefatta del ragazzo.
Una tinozza d’acqua bollente, scattare!” ripeté con tono duro von Kleist, che non era abituato ai tentennamenti quando impartiva un ordine.
Il ragazzo scomparve giù per le scale e tornò poco dopo reggendo con precauzione una pentola fumante. Dietro di lui, la signora Pfannenschmied si lamentava a gran voce del pranzo mandato a monte.
L’ufficiale dovette faticare per reprimere un moto di fastidio. “Forza con quell’acqua,” disse soltanto, ignorando le proteste della donna.
Pose il recipiente sotto la finestra dopo averla chiusa. Subito i vetri si appannarono e nella parte fissa apparve in ognuno dei riquadri una lettera tracciata con le dita.
Carta e penna!” ordinò secco von Kleist.
Ma Eccellenza!” piagnucolò la signora Pfanneschmied.
Carta e penna, presto. Devo copiare quelle lettere.”
Riprodusse la sequenza e la posizione delle lettere disegnando anche la griglia nella quale erano inserite, poi tirò fuori il fazzoletto e sotto gli occhi stupiti del ragazzo cancellò dai vetri ogni traccia di scrittura.



La tappa successiva fu la villa misteriosa.
Questa volta fu von Kleist in persona a scendere dalla carrozza per bussare.
Dopo alcune serie di colpi sempre più energici, l’anta si schiuse lentamente e il volto pallido di Brandt fece capolino. “Ah, siete voi,” disse aggrottando le sopracciglia.
Noi dobbiamo parlare, Basilius,” replicò l’ufficiale per tutta risposta.
L’altro scosse la testa. “No, non c’è proprio niente di cui dobbiamo parlare.” Fece per richiudere la porta, ma von Kleist infilò il piede tra l’anta e il battente. “Non così in fretta.”
Il padrone di casa tentò di nuovo di serrare la porta, ma a questo punto subentrò Franz, che gliela strappò letteralmente dalle mani, mandandola a sbattere contro la parete.
Rainer Brandt si fece indietro, gli altri due lo seguirono all’interno dell’abitazione e il valletto riuscì ad afferrarlo per un braccio. Von Kleist si avvicinò.
Il padrone di casa diede qualche strattone nel vano tentativo di liberarsi. Ansava leggermente, continuava a guardarsi intorno. “Ho cercato di farvelo capire,” disse, “ma dovevo immaginare che il mio fosse un linguaggio troppo ermetico per un militare. Lasciate perdere, è meglio per voi. Dimenticate ogni cosa, nulla di ciò che avete in animo di fare riporterà in vita il ragazzo.”
L’ufficiale scosse la testa. Fissandolo negli occhi, lentamente gli disse: “Riportare in vita i morti non è in mio potere, purtroppo, ma assicurare alla giustizia gli assassini, sì. Farete meglio a dirmi quello che sapete con le buone, signor Brandt.”
Passarono lunghi secondi di silenzio.
Infine, l’altro emise un sospiro. “D’accordo, ma non qui.” Si guardò intorno con fare significativo. “I muri hanno orecchie.”
Von Kleist fece girare a sua volta lo sguardo nell’ingresso: una stanza oscura, dove la poca luce filtrava da tende di velluto mostrando una tappezzeria color sangue e pesanti mobili neri. C’erano varie porte, tutte chiuse, e strani dipinti alle pareti. Tra essi notò draghi a tre teste, creature di forma umana ma con ali di pipistrello, che sembravano l’unione di una metà maschile e una femminile, rappresentazioni del pio pellicano in atto di nutrire la prole e alberi che al posto dei frutti avevano dei dischi solari.
Lasciate stare, non è cosa per voi,” gli disse Brandt notando la direzione del suo sguardo. “Ci troveremo a mezzanotte presso il Teufelsee nel Grünewald, lontano da occhi e orecchie indiscreti. Poi però non voglio mai più sentir parlare di voi. E ora andate, siete già rimasto anche troppo tempo.”
Von Kleist fece cenno a Franz di lasciare il braccio di Basilius, quindi i due tornarono alla carrozza.



La notte era scura e senza stelle. Coperto da una spessa coltre di nubi, il cielo brontolava promettendo tempesta.
La carrozza procedeva lenta, preceduta dal chiarore tremulo delle lanterne. Sopra di essa, i rami degli alberi secolari si intrecciavano formando una coltre impenetrabile, che frusciava agitata dal vento.
All’interno dell’abitacolo, von Kleist sedeva poggiando il mento sull’impugnatura della spada. Di fianco a sé aveva le due pistole cariche. Quel Brandt non gli piaceva, e ancora meno gli piaceva il luogo dell’appuntamento.
Cercò di ricapitolare quello che aveva scoperto fino a quel momento: Konstantin era stato ucciso, ma qualcuno aveva allestito una messinscena per far credere che si fosse suicidato. Prima di morire, il ragazzo gli aveva mandato una lettera nella quale gli aveva lasciato delle informazioni in codice, quindi evidentemente sapeva di essere in pericolo.
Chi lo minacciava? E perché?
In quel momento echeggiò un colpo di pistola.
Un attimo dopo, i cavalli si fermarono nitrendo di fronte a un tronco buttato attraverso la strada.
Ci fu un secondo sparo, Franz rispose al fuoco, poi lui e il cocchiere saltarono giù dal veicolo.
Von Kleist scaricò la prima pistola dalla carrozza, poi scese con la spada sguainata e la seconda pistola nella mano libera.
Nel cono di luce delle lanterne, reso corposo dai fumi degli spari, saettò una sagoma scura. L’ufficiale sparò, si udirono un urlo e il rumore di un corpo che cadeva.
Si fece sotto un assalitore dal volto coperto, lo ingaggiò con una punta dall’alto, von Kleist parò e rispose con un tondo dritto. L’altro si fece indietro evitando il colpo, poi attaccò di nuovo con un fendente. L’ufficiale parò e rispose con un altro tondo dritto al corpo, riuscendo a tagliare la giubba del suo avversario.
Franz nel frattempo stava duellando con altri due uomini dal volto coperto. Un groppo di briglie girato intorno a un braccio, il cocchiere faceva del suo meglio per trattenere i cavalli, e intanto ricaricava un moschetto.
Von Kleist abbatté il proprio avversario, quindi si mosse per aiutare il valletto, ma vedendolo avvicinarsi i due assalitori abbandonarono la lotta e scomparvero nel buio, facendo perdere in breve le loro tracce. Il cocchiere puntò il moschetto nella direzione in cui si erano allontanati e fece fuoco, ma la palla si perse nella foresta.
L’ufficiale si scambiò un’occhiata col giovane servitore, poi rinfoderò la spada e si diresse verso il ferito, che era rimasto a terra ai margini del cerchio di luce. Quando l’uomo lo vide arrivare, trasse di tasca una scatoletta tonda che conteneva una specie di tampone, si strappò la camicia mettendo a nudo il petto e prima che chiunque riuscisse a fermarlo si premette sulla pelle il misterioso oggetto. Subito si contrasse, ebbe due sussulti e poi si accasciò immobile.
Von Kleist andò a prendere una delle lanterne e si chinò per controllare le sue condizioni, ma dovette constatare che era deceduto. Notò che dove il tampone l’aveva toccato gli era rimasta una traccia grigia simile a quella che aveva visto sul petto di Konstantin. “Dannazione!” ringhiò. Poi, rivolto a Franz: “L’altro è morto?”
Sì, Eccellenza. Mi dispiace.”
Lascia, tu e Rudolph avete fatto il vostro dovere. Aiutami a perquisirli, piuttosto, vediamo se troviamo qualcosa.”
Raccolse con un bastoncino il misterioso tampone e lo rimise nella sua scatola, che poi avvolse in un fazzoletto e ripose nella tasca della marsina.
Successivamente si infilò i guanti di capretto e con quelli addosso cominciò a inventariare le tasche del cadavere.
Non trovò assolutamente niente, nemmeno un Pfenning, un fazzoletto o altro. Era come se il suo aggressore avesse voluto deliberatamente presentare una tabula rasa a un’eventuale ispezione dei suoi effetti personali.
Gli aprì meglio la camicia, stando attento a non toccare l’alone grigio lasciato dal veleno, e vide che l’uomo aveva al collo una catenina da cui pendeva un piccolo contenitore di metallo. La staccò con cura e disse: “Va a vedere se ce l’ha anche l’altro, Franz.”
Il ragazzo fece un controllo e disse: “Si, Eccellenza. Ce l’ha anche questo.”
Bene, prendila. Controlla anche le tasche.”
C’è una scatoletta tonda, Eccellenza.”
Non aprirla. Non c’è altro?”
No, Eccellenza.”
Porta tutto qui e andiamo.”








[1] Grado intermedio fra cadetto e sottotenente.
[2] Battaglia della seconda guerra di Slesia che vide la vittoria prussiana.
[3] Altra battaglia della stessa campagna, di nuovo a vittoria prussiana.
[4] La ventiquattresima parte del tallero prussiano.
[5] Canzone infantile.
[6] La dodicesima parte di un Groschen.
[7] Letteralmente ‘Stanza delle Meraviglie’, da noi prende il nome di Gabinetto delle Curiosità: una stanza dove si raccoglievano oggetti strani come conchiglie, rettili impagliati, manufatti di altre culture e cose del genere. La pratica cominciò nel Rinascimento ma si diffuse particolarmente in epoca barocca.
[8] Battaglia della prima guerra di Slesia.

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Capitolo 2
*** Parte seconda - Albedo ***


Parte seconda – Albedo

Secondo procedimento dell’Opera, che consiste nella purificazione tramite il Fuoco della massa informe scaturita dalla Nigredo al fine di prepararla alla fase successiva.


Seduti a un tavolo, von Ruchel e von Kleist stavano studiando gli oggetti riportati dall’escursione berlinese.
“Che ne pensi?” chiese il colonnello.
L’altro sollevò una delle catenine e osservò il contenitore, un cilindretto di metallo grande come l’ultima falange di un mignolo. Vi fece scorrere sopra le dita, ne palpò ogni asperità e infine fece cenno all’amico di passargli il tagliacarte che teneva sulla scrivania.
Con la lama smussata fece leva in un punto dove si vedeva una piccola intaccatura, e il cilindro si aprì in due metà per il lungo, rivelando un cartiglio arrotolato.
I due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel distese il piccolo pezzo di carta e subito apparve una sequenza di lettere:

V.I.T.R.I.O.L. (V.M.)

Nel secondo contenitore c’era la stessa cosa.
Von Kleist osservò perplesso i biglietti e chiese: “Tu sai cosa significa questa serie di lettere?”
L’altro annuì. “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, Veram Medicinam. Ovvero, visita le profondità della terra e attraverso la purificazione troverai la pietra segreta, vera medicina. È un motto dei Rosacroce attribuito a Basilius Valentinus, fa riferimento alla necessità di scendere nelle viscere della terra, ovvero negli anfratti oscuri dell’anima, per conseguire l’iniziazione.”
L’ufficiale aggrottò le sopracciglia. “Aspetta un attimo. Hai detto Basilius?”
“Basilius Valentinus, frate benedettino e alchimista vissuto nel secolo scorso.”
“È come si fa chiamare quello là. Dici che può esserci un collegamento?”
Von Ruchel annuì. “Penso di sì. Del resto, anche Theophrastus proviene dallo stesso ambito, dal momento che era il nome di Paracelso.”
Il colonnello si alzò e fece qualche passo per la stanza. “Tutto questo non ha senso,” disse. Andò alla porta finestra e per un po’ stette a guardare fuori. Infine, con voce dura riprese: “Ma qui niente ha più senso. Credevo di avere a che fare un nipote un po’ eccentrico, che invece di diventare soldato voleva fare il poeta, ed ecco che mi trovo alle prese con società segrete, frasi incomprensibili e codici cifrati.” Tirò fuori di tasca il pezzo di carta su cui aveva copiato la sequenza di lettere trovata nella camera di Konstantin e lo mostrò all’amico. “Guarda cosa c’era nei vetri della finestra, una lettera per ogni riquadro.”
Von Ruchel osservò il foglio:

S S A I
M L O M
F C U R
U U B V

“Passami la Melancolia,” disse dopo qualche secondo.
Brontolando qualcosa di inintelligibile, von Kleist si alzò, andò a un tavolo ingombro di fogli, scartabellò un po’ e infine estrasse il disegno. “Eccola qui,” disse porgendola a von Ruchel.
L’amico, cui si era acceso lo sguardo come accadeva solo in occasione delle scoperte più interessanti, disse: “Ora proviamo a leggere queste lettere seguendo la sequenza del quadrato magico che c’è nell’immagine.”
Il risultato fu:

VASUM CUM FLORIBUS

Von Kleist aggrottò le sopracciglia. “Vaso con fiori? Cos’è, un codice segreto anche questo?”
L’altro scosse la testa. “Non direi, sembra più un messaggio per te.”
“Per me?”
“Nella lettera c’era scritto di guardare fuori dalla finestra con melancolia, giusto? E tu mi dici che sui vetri c’erano queste lettere disposte a quadrato. Secondo me tuo nipote ti stava suggerendo il modo di leggerle nella giusta sequenza.” Si alzò con fatica, andò alla ricerca della lettera di Konstantin che si trovava ancora sulla sua scrivania, la aprì e citò: allora ciò che era manifesto sarà nascosto e ciò che era nascosto sarà manifesto e di certo vedrete la via per comprendere il motivi del mio turbamento.
Sì, ma ‘vaso con fiori’ non significa niente,” disse von Kleist dopo un po’.
“Che tu sappia, c’era qualche vaso da fiori che avesse un particolare significato per lui?”
L’ufficiale ci pensò su. “L’unica cosa che mi viene in mente sono le rose di sua madre, ma non sono nei vasi. Stanno in terra.”
“E allora perché avrebbe parlato di un vaso?”
“Lo chiedi a me?”
“Beh, sì. Il messaggio è indirizzato a te, quindi dovrebbe fare riferimento a qualcosa che conosci.”
Von Kleist scosse la testa. “Abbiamo sempre parlato di tante cose, io e lui, ma mai di fiori. Non so come possa essergli venuta in mente una frase del genere.”
I due si scambiarono un’occhiata delusa: la pista che avevano cominciato con tanto entusiasmo a percorrere rischiava di rivelarsi un vicolo cieco.
Si udì tossicchiare. Entrambi si voltarono verso Franz, ovvero la provenienza del rumore. Vagamente imbarazzato da quell’improvvisa attenzione, il valletto disse: “Ecco, Eccellenza… Vi chiedo scusa. Non per mancarvi di rispetto, ma nella camera c’era un vaso con dei fiori. Forse era di quello che parlava il povero signorino.”
Von Kleist rivide la stanzetta di Konstantin: il letto, il tavolino. Il davanzale. E sul davanzale c’era un vaso di terracotta in cui cresceva una piantina di rose.
“Maledizione, è vero!” esclamò. “Il vaso con i fiori, ecco a cosa si riferiva.” Poi, alzandosi bruscamente: “Torniamo a Berlino!”
“Wilhelm, ragiona,” intervenne von Ruchel, “tra un po’ sarà buio.”
“Motivo in più per sbrigarci. Quello che sappiamo noi, lo sanno anche loro.”
“Loro chi?”
“Quelli che hanno ucciso Konstantin. Gli stessi che ci hanno assaliti sulla via per il Teufelsee. I Rosacroce, o quel che diavolo sono. Dobbiamo arrivare prima di loro, o possiamo dire addio al nostro unico indizio.”



La signora Pfannenschmied comparve sulla soglia in camicia da notte ma con la parrucca. In mano aveva la lorgnette, attraverso la quale scrutava con disappunto i nuovi arrivati. “Credevo che ci fossimo salutati ieri mattina,” proclamò sussiegosa.
“Abbiamo bisogno di dare un’occhiata alla camera,” disse von Kleist per tutta risposta.
“A quest’ora?”
“È cosa della massima importanza. Siate così gentile da farci strada.”
La signora fissò l’ufficiale costernata. “Ma sono in déshabillé,” protestò.
“Per reggere un lume e accompagnarci in soffitta non c’è bisogno dell’abito da sera.”
La donna sospirò. “Voi dovete ringraziare che sono una persona di buon cuore e che voglio essere gentile perché avete subito un terribile lutto,” brontolò, poi prese una candela e cominciò a salire le scale.
Von Kleist mantenne il silenzio.
“Se no vi farei tornare domattina, ecco cosa farei.” Continuò a ciabattare su per le rampe scricchiolanti reggendosi la gonna con la mano della lorgnette.
Arrivarono finalmente alla soffitta. L’ufficiale spalancò la porta già vedendosi davanti agli occhi il vasetto di terracotta con dentro la piccola rosa.
Sul davanzale non c’era nulla.
Si voltò costernato verso la signora Pfannenschmied e chiese: “Dov’è il vaso?”
“Che vaso?”
“Quello che era sul davanzale.”
La donna mollò le sottane e inforcò la lorgnette, scrutando poi l’ambiente come se lo vedesse per la prima volta. Infine chiese: “Parlate forse del mio vaso di rose, che avevo lasciato nella camera del giovane signor Theophrastus per allietarlo nelle sue giornate solitarie?”
Von Kleist sospirò: ci sarebbe stato da contrattare. “Proprio quello,” rispose.
“Beh, si dà il caso che io nutra una profonda affezione per quelle rose, dal momento che le ho coltivate con le mie mani...”
“Signora Pfannenschmied...”
“...Ed erano quelle che crescevano sulla tomba della mia povera madre. Le ho trapiantate io stessa un giorno di dicembre, con il gelo che mi piagava le mani.”
“Signora Pfannenschmied, le do un tallero per quel vaso.”
“Quanto siete prosaico, signor ufficiale. Credete forse che l’amore si possa comprare con i soldi?”
“Qualsiasi soldato che sia stato in una città di guarnigione sa che si può, signora.” La donna lo fissò costernata, inforcando la lorgnette per sottolineare il suo sdegno. “Due talleri,” concluse poi l’ufficiale, “non un Pfenning di più. Se non accettate, quant’è vero Iddio da domani in poi verrò a trovarvi tutti i giorni fino a che i due talleri non me li darete voi per convincermi a togliermi di torno.”



Von Kleist e von Ruchel rimasero a osservare per un bel po’ il piccolo vaso posato sul tavolo. Era un semplice contenitore di terracotta, non aveva scritte, motivi decorativi o qualsiasi altro tratto distintivo. La pianticella era una semplice rosa rossa, senza altre particolarità che la grazia di un piccolo fiore che si stava schiudendo.
“Proviamo a guardarci dentro,” propose alla fine von Ruchel.
L’ufficiale annuì, poi disse: “Non rovinare la pianta, se puoi. La voglio portare a Luise.”
“D’accordo.”
Si spostarono in un laboratorio, andarono a un tavolo e ricavarono uno spazio libero fra le innumerevoli cose che vi erano posate sopra, quindi von Ruchel distese uno strofinaccio e vi rovesciò sopra il contenuto del vaso. Tra le radici della rosa apparvero una chiave di bronzo decorata con elaborati ornamenti e una scatoletta non più grande di una tabacchiera, con il coperchio sigillato dalla pece.
I due si scambiarono un’occhiata. Von Ruchel prese il piccolo contenitore e con la lama del tagliacarte lo aprì: dentro c’erano una chiave più piccola e un foglio ripiegato su cui era scritta una frase:

Cerca l’Ouroboros presso cui si trova il Custode delle Dodici Chiavi. Passa attraverso le fauci del drago, cerca i Sette Sigilli di Paracelso. V.I.T.R.I.O.L.

“Oh, no,” si lamentò l’ufficiale, “degli altri enigmi.”
Osservò il foglietto: la grafia era senza dubbio quella di suo nipote. Ma perché anche in quello che evidentemente doveva essere un messaggio per i suoi eventuali salvatori aveva usato quel linguaggio incomprensibile? Emise un sospiro desolato e poi disse: “Va bene. Cos’è un Ouroboros? E chi è il Custode delle Chiavi?”
“Delle Dodici Chiavi,” lo corresse l’altro.
“Che siano Dodici o Ventiquattro non mi interessa. Quando finalmente riuscirò a mettere le mani addosso a chi ha ucciso Konstantin, gli farò pagare anche tutto questo.”
Von Ruchel rilesse il foglietto. “Le Dodici Chiavi hanno sicuramente a che fare con Basilius.”
“Ah, sì?”
“Le Dodici Chiavi della Filosofia è il suo libro più famoso. Non riesco a capire cosa c’entri l’Ouroboros, però.”
“Sarebbe?”
“Il serpente che si morde la coda. Simbolo di eternità, indica la natura ciclica di tutte le cose. È uno dei simboli più usati nell’alchimia.”
Von Kleist annuì assorto. Man mano che il suo amico li enumerava, tutti quegli elementi pian piano stavano componendo un quadro nella sua mente. Rivide la villa con le statue misteriose, cosa c’era sulla facciata?
“Ci sono!” esclamò alla fine. “So dov’è.”
“Dove?”
“Nella villa di quel tale Basilius. C’è anche una specie di grotta fatta come la bocca di un drago.”
“Hai intenzione di andarci?”
“Si capisce che ci andrò,” rispose l’altro, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Questa sera stessa.”
Von Ruchel emise un sospiro. “Non sai cosa darei per poter venire con te.”
L’ufficiale si girò verso di lui e vide che aveva lo sguardo fisso sulla propria gamba. Gli appoggiò una mano sulla spalla e stringendola piano gli disse: “E tu non sai cosa darei per averti al mio fianco come ai vecchi tempi. Mi sentirei più tranquillo sapendo che ci sei tu a coprirmi le spalle.” Poi, dopo una pausa: “Come a Mollwitz, ti ricordi?”
L’altro ebbe un lieve sorriso. “Già.”
“Lì mi hai praticamente salvato la vita.”
“Sì, una volta combattevo. Ora non posso fare altro che stare qui come un povero invalido a scartabellare vecchi libri.” Afferrò il bracciolo del divanetto con tanta forza che lo fece scricchiolare, poi si alzò con fatica e si allontanò con un movimento brusco dandogli le spalle. Von Kleist rimase in silenzio per un po’, poi disse: “Questi sono i casi della vita, Johannes, non possiamo farci niente. Non te lo meritavi di certo, ma lo sai meglio di me come vanno le cose sul campo di battaglia.”
Von Ruchel emise un altro lungo sospiro, sembrò ricomporsi. “Già. È successo e non serve a niente lamentarsi. Ora dammi un pezzo di carta, sii gentile, così ti disegno quei sigilli di Paracelso che dovresti cercare.”
“Sì, è meglio, perché io non li riconoscerei nemmeno se ci fosse scritto sotto che cosa sono.”
L’altro tracciò su un foglio dei segni che a von Kleist parvero scarabocchi di bambini, poi sotto a ognuno si essi scrisse il nome di un metallo: oro, argento, rame, piombo, stagno, ferro e mercurio.



La notte stessa, a cavallo, in borghese e armato, Wilhelm von Kleist si diresse alla misteriosa abitazione. Lo accompagnava l’immancabile Franz, anche lui armato fino ai denti.
Si fermarono a circa un quarto di miglio dalla villa e l’ufficiale disse: “Tu aspetta qui con i cavalli. Se fra un paio d’ore non sono di ritorno, corri ad avvisare il signor von Ruchel.”
“Eccellenza! Non vorrete andare da solo!” esclamò il valletto allarmato.
“In due ci faremmo notare troppo, e poi ci vuole qualcuno che faccia la guardia ai cavalli.”
“Ma Eccellenza...”
“Non discutere, Franz.” Il tono era di quelli che non ammettevano repliche. “Sai cosa devi fare. Mi aspetto che tu lo faccia.”
Il ragazzo chinò il capo. “Sì, Eccellenza.”
“Molto bene. Ricorda: due ore.” disse l’ufficiale, poi prese dalla sella una lanterna cieca, l’accese e si incamminò.
Per evitare di essere visto abbandonò la via battuta dopo la prima curva e si addentrò nella macchia.
Avanzò per un po’ in mezzo a un fitto sottobosco, poi la vegetazione cominciò a diradarsi per lasciare spazio alle vestigia di aiuole e siepi. Si imbatté in una stele di pietra consumata dalle intemperie, sulla quale si riconoscevano al tatto delle antiche incisioni.
Schermò completamente la lanterna e procedette affidandosi alla luce delle stelle. Ben presto distinse nel buio la sagoma delle quattro donne con le ampolle sulla testa.
Si acquattò nel buio e rimase in ascolto per lunghi minuti, ma a parte i rumori degli animali notturni e il lieve frusciare del vento sull’erba incolta, il luogo era perfettamente silenzioso. Si avvicinò piano e subito riconobbe la voragine nera della bocca di drago.
Strisciò in avanti un altro po’, rimase ancora in ascolto, ma l’ambiente di nuovo gli rimandò un messaggio del tutto rassicurante. I suoni della natura gli parlavano di tranquillità, il che significava che non c’erano presenze umane. Si arrischiò a produrre un piccolo pennello di luce, col quale ispezionò l’interno della grotta.
Quello che trovò lo lasciò piuttosto perplesso. Si era aspettato di vedere da qualche parte dei sigilli, fra i quali magari anche quelli di Paracelso, invece si trovava in una piccola stanza di pietra nuda, senza alcun ornamento, dalla quale partiva una scala che conduceva verso il basso.
Rimase in ascolto, ma da sotto non proveniva alcun rumore.
Cominciò a scendere. La scala era di pietra, ricoperta di una leggera patina di umidità. Sulle pareti c’erano delle nicchie a intervalli regolari, probabilmente per metterci dei lumi. La fine della scala si perdeva nel buio.
Dopo parecchi gradini arrivò a una seconda stanza, sulla quale questa volta si affacciavano tre porte. Da una di esse partiva un corridoio, le altre due invece davano su scale, una che andava verso l’alto e una verso il basso.
Von Kleist ripensò alle parole del motto alchemico, Visita Interiora Terrae, e scelse quella che andava verso il basso. Ancora una volta si mise in ascolto, ma da essa non sembrava provenire alcun rumore.
Percorse di nuovo una quantità interminabile di gradini, poi finalmente arrivò a un vestibolo con una porta chiusa. Trasse di tasca la più grande delle chiavi e la provò nella serratura. La porta si aprì senza nemmeno un cigolio, rivelando una stanza che si intuiva molto grande, con la volta sostenuta da colonne. Decise di arrischiare un po’ più di luce e aprì completamente il diaframma della lanterna: si trovava in effetti in un locale che rammentava la navata di una chiesa. In fondo c’era una specie di altare sormontato da un’immagine di una rosa sovrapposta a una croce. Ai lati c’erano due statue che rappresentavano un pellicano e un’aquila.
Lungo le pareti laterali si aprivano delle porte sormontate da archi variamente decorati. Von Kleist si avvicinò alla prima e sollevando la lanterna guardò dentro. Illuminò una piccola stanza quadrata, che aveva le due pareti laterali occupate da librerie cariche di tomi antichi e quella di fondo affrescata. Ancora una volta rimpianse che Johannes non fosse lì con lui, perché non era in grado di dare un senso a quello che stava vedendo: c’era uno scheletro in piedi su un sole nero, con un corvo appollaiato su una mano e due angeli ai lati, poi c’era un’ampolla tutta nera nella quale giacevano un uomo e una donna nudi.
Scosse la testa perplesso e passò oltre.
Nella stanza successiva c’erano di nuovo due librerie e la parete di fondo dipinta. L’affresco rappresentava un re e una regina che si davano la mano. Ai loro piedi c’era un leone con due corpi e una testa sola, con una specie di torrente che gli usciva dalla bocca.
Andò avanti per un po’ a controllare, tutte le stanze erano strutturate nello stesso modo, suggerendo che quel luogo fosse una specie di biblioteca. Alla fine, proprio nella stanza più vicina all’altare, trovò un affresco che rappresentava un vecchio re con la corona e la barba bianca assiso sul trono e dinnanzi a lui sei giovani uomini in atteggiamento di postulanti. Ognuna delle figure era sormontata da uno dei simboli che stava cercando.
Si guardò intorno. A questo punto, ci sarebbe dovuto essere da qualche parte un buco dove infilare la chiave piccola.
Osservò dapprima con attenzione l’affresco, ma nulla sembrava suggerire la presenza di una serratura. I simboli non erano mobili né in rilievo, non c’erano asperità di sorta sulla superficie della pittura, e in definitiva, a parte il soggetto, sembrava in tutto e per tutto un normalissimo dipinto.
Guardò l’orologio: erano già passati tre quarti d’ora. Si augurò che Franz fosse ancora dove lo aveva lasciato. Capacissimo di decidere che aveva bisogno di aiuto e correre al suo salvataggio, creando più problemi che altro.
Estrasse un libro e lo sfogliò: di nuovo figure strane, qualche chiosa in latino. Lo rimise via.
Con un sospiro di frustrazione si guardò intorno. Aveva studiato l’arte della guerra, la tattica e la logistica. Nessuno l’aveva mai preparato ad affrontare enigmi e templi sotterranei.
Cercò di ragionare: se il luogo era quello – e lo era, dal momento che la prima chiave aveva funzionato perfettamente – ci doveva essere in quella stanzetta qualcosa che stava trascurando.
Come farei per nascondere qualcosa qui dentro?, si chiese. Gli unici mobili presenti erano gli scaffali. Tenendo in mano la lanterna, cominciò a estrarre libri e a controllare cosa c’era dietro. Trovò per parecchio tempo solo muro grezzo, poi finalmente si imbatté in una fenditura verticale. Tolse un altro libro, la fenditura piegava in alto e in basso ad angolo retto, suggerendo la presenza di uno sportello.
Impilò libri sul pavimento fino a che non mise a nudo una specie di rozzo tabernacolo munito di serratura. Infilò la chiave più piccola nella toppa e anche quella girò senza sforzo, rivelando una cavità nella quale si trovava un quaderno rilegato in pelle.
Von Kleist lo estrasse e lo sfogliò: la grafia di Konstantin.
Se lo infilò in tasca, richiuse lo sportello e rimise i libri al loro posto, quindi schermò la lanterna fino ad avere solo un sottilissimo fascio di luce e tornò sui suoi passi.

Quando arrivò alla stanza con le quattro porte si fermò. Tirò fuori l’orologio e controllò l’ora: aveva ancora tempo.
Sollevò la lanterna illuminando il corridoio pianeggiante. Considerata la posizione della bocca del drago e l’orientamento della prima scala che aveva disceso, calcolò che portava alla villa. Probabilmente era un passaggio per raggiungere il tempio dall’interno.
Secondo il principio che più informazioni si raccolgono sul nemico, più efficacemente viene condotta l’offensiva, vi si inoltrò.
Percorse un tratto che nel buio gli riuscì difficile valutare, ma che gli parve abbastanza lungo, tanto che ad un certo punto si chiese se per caso non avesse già oltrepassato la villa.
Poi finalmente il sottile pennello di luce della lanterna gli rimandò l’immagine di un panneggio rosso scuro.
Si avvicinò. Il corridoio era chiuso da una pesante tenda di velluto.
Di nuovo schermò completamente la lanterna e rimase in ascolto, cogliendo dopo un po’ un lieve ribollire come di acqua sul fuoco.
Spostò la stoffa producendo una piccola fessura: al di là l’aria era calda e umida, gravata di odori che gli ricordavano la bottega di un farmacista. C’era una debole luce.
Si affacciò cauto. Oltre la tenda c’era una stanza così grande che la scarsa luce non permetteva di apprezzarne i confini. Il soffitto era altissimo, e da esso pendevano tre lampadari di ferro battuto, uno solo dei quali parzialmente dotato di candele accese.
Nel centro del locale troneggiava una struttura tronco-conica a più piani, alta più di un uomo, dotata di vari sportelli di ferro, al cui interno rombava di sicuro un fuoco, perché emanava un intenso calore. Da essa si dipartivano dei tubi. Sui ripiani c’erano ampolle che ribollivano e riversavano il vapore all’interno di tubi di vetro serpentiformi.
Tutt’intorno a quell’immensa fornace c’erano tavoli, strumenti e scaffali carichi di vasi e libri.
Sembrava che non ci fosse nessuno, ma l’ufficiale non fu per nulla rassicurato da quella constatazione: il forno doveva essere alimentato, non funzionava da solo. E qualcuno di certo doveva occuparsi di tutti quegli alambicchi pieni di roba che bolliva.
Quindi qualcuno in realtà doveva esserci, in quel posto.
Scivolò oltre la tenda, si appiattì contro una parete. Di nuovo si guardò intorno, ma non vide anima viva.
Cominciò a esplorare il posto alla ricerca di un passaggio che portasse all’interno della villa. Il caldo nel frattempo si era fatto opprimente, tanto che dovette allentarsi il colletto. Si terse il sudore dalla fronte. Anche l’odore era malsano: prendeva alla gola, rendeva addirittura difficile respirare.
Si aggirò per qualche tempo nel misterioso laboratorio, poi si imbatté in una porta chiusa. Abbassò la maniglia ed essa cedette senza sforzo.
Si affacciò e si trovò davanti un’enorme cisterna di vetro nella quale guizzavano dei pesci di una specie che non aveva mai visto prima. Contro la parete c’era un retino. Al suo apparire, i misteriosi animali si gonfiarono diventando delle palle irte di aculei. L’ufficiale aggrottò le sopracciglia. Rimase a osservarli perplesso per qualche secondo, di nuovo pensando a quanto gli avrebbe fatto comodo avere Johannes con sé, poi uscì e richiuse la porta.
Guardò di nuovo l’orologio: avrebbe fatto meglio a ritirarsi in buon ordine.
In quel momento sentì dei passi. Subito si nascose sotto un tavolo in un angolo particolarmente buio. Da lì vide sopraggiungere Rainer Brandt, come al solito pallido e vestito di nero. L’uomo andò alla fornace, spalancò uno sportello e ci buttò dentro numerosi pezzi di legno, facendosi indietro ogni volta per evitare le lingue di fiamma che ne uscivano. Poi aggiunse qualcosa nelle ampolle che stavano bollendo, raddrizzò un tubo un po’ storto e infine controllò un vaso che si trovava ad un’estremità di un tubicino di vetro dal quale un liquido denso e trasparente stava colando goccia a goccia.
Si mise un paio di spessi guanti di pelle, sostituì il recipiente mezzo pieno con uno vuoto, tappò quello che aveva tolto e fece per andarsene, ma qualcosa sembrò attirare la sua attenzione.
Scrutò in giro per un po’, poi fissò lo sguardo sulla porta della stanza con i pesci. Von Kleist represse un’imprecazione: era rimasta socchiusa.
Brandt si sfilò i guanti e andò a controllare, si affacciò all’interno, quindi richiuse accuratamente, con un movimento che avrebbe potuto fare solo chi sapeva di doverlo fare. Si udì uno scatto metallico e la porta rimase bloccata al suo posto.
A questo punto, l’uomo andò verso la tenda e la scostò, rivelando un cancello di ferro. Lo chiuse sul corridoio e diede due giri con una chiave che poi si fece scivolare in tasca, quindi uscì da dove era entrato.
Von Kleist rimase per un po’ immobile nel suo nascondiglio.
Non era del tutto certo che l’uomo si fosse accorto che c’era qualcuno. La chiusura del cancello dava più l’idea di una precauzione. In ogni caso, di lì non sarebbe più potuto passare, a meno di non lasciare chiare tracce della sua presenza scardinando la serratura.
Si voltò nella direzione in cui Brandt si era allontanato: si trattava di entrare nella villa e uscire da quella parte.
Ponderò che se per caso Brandt aveva chiuso il cancello perché immaginava che nel laboratorio ci fosse qualcuno, probabilmente sarebbe stato da qualche parte ad aspettarlo.
Riguardò l’orologio: poteva fare tutti i ragionamenti del mondo, ma come aveva imparato sul campo, la sorte delle battaglie non si decide a tavolino. Doveva uscire di lì e doveva farlo in fretta: le due ore stavano per scadere, ed era sicuro che Franz non sarebbe affatto andato da von Ruchel come gli aveva ordinato, ma si sarebbe messo sulle sue tracce con l’intento di salvarlo.
Guardò un po’ in giro alla ricerca di un’altra uscita, ma trovò solo la porta da cui era passato Brandt. Vi appoggiò contro l’orecchio: non sentì alcun rumore, ma la cosa non lo rassicurò.
Abbassò comunque la maniglia e spinse l’anta, che cedette con un lieve cigolio. Al di là era buio.
Von Kleist andò a prendere la lanterna e di nuovo si affacciò con cautela. C’era un vestibolo senza mobilio, con le pareti di pietra grezza. Da esso una scala conduceva verso l’alto.
Estrasse dalla cintura la pistola che si era portato dietro, e tenendo quella nella destra e il lume nella sinistra, cominciò a salire i gradini.
Ancora una volta, non incontrò nessuno. Non c’era un rumore, se non avesse visto con i suoi occhi Rainer Brandt giungere a sorvegliare le preparazioni alchemiche, avrebbe giurato che la casa era disabitata.
Arrivò a un’altra porta. Di nuovo rimase in ascolto, poi la aprì, la varcò e si guardò intorno: era sbucato in una specie di salottino con le pareti dipinte a scene pastorali. Constatò che la porta che aveva appena chiuso alle proprie spalle era stata fatta in modo da confondersi con le pitture e gli stucchi del muro.
Non sapendo che c’era, sarebbe stato piuttosto difficile trovarla.
Continuò a camminare nella casa buia. Due o tre volte si voltò di scatto convinto di aver udito un rumore, ma invariabilmente non trovò nessuno alle sue spalle.
Dopo un po’ che girava ritrovò l’ingresso con i mobili neri e le stampe misteriose. Da lì fu facile aprire il portone di ingresso e uscire.



Mentre camminava svelto nel sottobosco augurandosi che Franz fosse ancora dove l’aveva lasciato, von Kleist ragionava fra sé e sé sulla propria fuga. Sembrava quasi che qualcuno gli avesse indicato la via per allontanarsi, come si fa nella foresta per far arrivare gli animali da cacciare esattamente dove è stata allestita la postazione dei tiratori.
Si guardò intorno, anche se nel buio sarebbe stato impossibile scorgere eventuali nemici. A parte lui il bosco sembrava immobile, addirittura disabitato: le quinte di un teatro, esattamente come la misteriosa villa.
Raggiunse finalmente il punto in cui aveva lasciato il valletto con i cavalli, Franz era dritto in piedi e teneva in mano le redini degli animali. Von Kleist poteva immaginare l’espressione ansiosa con cui scrutava il buio aspettando di vederlo ricomparire.
Franz!” chiamò.
Il ragazzo si voltò di scatto. “Eccellenza!”
Tutto tranquillo qui?”
Sì, Eccellenza.
Allora andiamo.” Si palpò la tasca della giacca controllando che il prezioso contenuto fosse ancora al suo posto. “Dobbiamo arrivare alla residenza prima possibile.”

Quando giunsero a destinazione, il cielo stava cominciando a schiarirsi. I due smontarono da cavallo, il ragazzo prese in consegna gli animali e si mosse per portarli alle scuderie, ma von Kleist gli fece cenno di immobilizzarsi. Estrasse la pistola.
Vieni fuori con le mani alzate,” ordinò puntando l’arma verso una macchia di vegetazione.
Una giovane voce maschile implorò: “Non fatemi del male, per favore.”
Vieni fuori,” ripeté l’ufficiale senza abbassare l’arma.
Si udì un fruscio di foglie e una figura smilza si alzò lentamente. “Vossignoria non mi faccia del male, per favore,” ripeté.
Von Kleist fece un passo nella sua direzione. “Sepp?”
Sissignore, sono io.”
Azzardò un passo avanti, entrando nel cerchio di luce dei lampioni che si trovavano ai due lati della porta d’ingresso. Aveva gli abiti insanguinati e strappati, il volto pesto e una fasciatura di fortuna a una mano.
Che ti è successo?” gli chiese l’ufficiale.
Zoppicando lievemente, il ragazzo fece qualche altro passo. “Sono arrivate delle persone, Vossignoria. Erano tre uomini e una giovane donna.” Represse un brivido.
Von Kleist lo prese per le spalle, lo costrinse a guardarlo negli occhi. “Sono arrivate, dove? Chi erano?”
Dalla signora Pfannenschmied. Non lo so chi erano, Vossignoria.”
Che cosa volevano?”
Il ragazzo deglutì. “Chiedevano del signorino. Volevano sapere dov’era la sua roba.”
A chi lo hanno chiesto? A te?”
A me e anche alla signora Pfannenschmied.” Deglutì di nuovo, e dopo qualche secondo soggiunse: “Chiedo perdono a Vossignoria, ma ho detto tutto quello che sapevo, che voi eravate venuto, che avevate voluto vedere il tetto, che avevate chiesto l’acqua calda. Ogni volta che non rispondevo a una domanda, mi...” s’interruppe scosso da un brivido.
Sono stati loro a procurarti queste ferite?”
Il ragazzo annuì. “Sissignore. La donna.”
Com’era fatta questa donna?”
Alta e magra, con i capelli e gli occhi neri. Vestiva come un uomo.”
L’ufficiale lo scrutò pensoso. “Perché ti hanno lasciato andare?” gli chiese.
Non mi hanno lasciato andare, Vossignoria. Sono scappato. Mi avevano chiuso nella conserva, ma io sono abbastanza magro da passare per lo scolo della neve, e così sono andato via prima che mi ammazzassero.”
Come fai a sapere che volevano ammazzarti?”
La signora l’hanno ammazzata.”
Von Kleist si scambiò un’occhiata con il suo valletto e poi disse: “Franz, porta questo ragazzo da Gertrud. Dille che medichi le sue ferite e gli dia mangiare. Io devo andare subito dal signor von Ruchel.”
Come ordinate, Eccellenza,” disse Franz. Mise una mano sulla spalla del nuovo arrivato, che in piedi accanto a lui sembrava ancora più magro e più piccolo di quanto non fosse.
L’ufficiale prese il cavallo e montò in sella. “Tieni gli occhi aperti,” raccomandò al valletto. “Se lo stanno cercando, non ci metteranno molto a capire dov’è scappato.”
Non dubitate, Eccellenza.”



Mentre galoppava a briglia sciolta verso l’abitazione dell’amico, von Kleist rifletteva sulle parole del giovane Sepp.
Posto che fosse tutto vero, la misteriosa organizzazione contro cui si stavano misurando sembrava essere sulle tracce del diario di Konstantin.
Sicuramente il tale che si faceva chiamare Basilius sapeva della sua esistenza, e aveva riferito quell’informazione a chi di dovere.
Di nuovo la mano andò alla tasca e attraverso la stoffa ripercorse la forma del piccolo quaderno.
Se quei tizi avevano interrogato la signora Pfannenschmied con gli stessi sistemi che avevano usato con il ragazzo, senza dubbio erano riusciti a sapere di lui e del vaso di fiori.
Arrivò alla villa di von Ruchel, percorse il parco lasciandosi alle spalle le serre di piante rare e le voliere di uccelli esotici. Ormai albeggiava, ma in giro non c’era nessuno. Neppure il vecchio giardiniere di nome Michael, quello che di solito si alzava quando era ancora buio.
Si diresse verso la parte posteriore dell’edificio, ai quartieri della servitù. Anche lì, silenzio.
Una porta era socchiusa.
Von Kleist smontò da cavallo ed estrasse la pistola. Si avvicinò adagio, tenendosi rasente al muro, e con la canna dell’arma spinse l’anta della porta in modo da poter guardare dentro.
Il locale era una lavanderia, c’erano lenzuola e abiti stesi ad asciugare, e vasche piene d’acqua. L’aria era umida e aveva odore di liscivia.
Una cameriera giaceva a terra supina. L’ufficiale si avvicinò cauto e pur nella scarsa luce notò che la ragazza aveva sul collo una macchia grigiastra come quelle che aveva già visto su Konstantin e sull’aggressore del Teufelsee.
Proseguì verso l’interno del palazzo. Tutto era silenzioso, nelle cucine i fuochi erano spenti, non si udiva da nessuna parte l’usuale cicaleccio delle ragazze della servitù.
Arrivò nella parte nobile dell’edificio, si diresse verso la camera da letto dell’amico. Non appena vi si affacciò, notò i segni di una furiosa colluttazione: c’erano soprammobili rovesciati, le coperte erano sparse a terra e spruzzate di sangue. La spada di von Ruchel, inconfondibile per la lama damascata, spuntava da sotto il letto. Un pesante candelabro di bronzo doveva essere stato gettato contro qualcuno e aveva esaurito la sua inerzia sulla parete, si vedeva l’intaccatura che aveva prodotto nella tappezzeria.
Il tutore che l’amico doveva portare per poter usare la gamba destra era per terra, così come il suo bastone con l’impugnatura a forma di testa di levriero.
Si avvicinò al letto. Sul cuscino c’era un foglio arrotolato e chiuso con un sigillo che rappresentava una croce con sopra una rosa.
Lo aprì e lesse:

Se volete rivedere vivo il vostro amico Johannes von Ruchel, tornate senza indugio a casa vostra e attendete. Un nostro emissario verrà a recuperare un oggetto di nostro interesse. Dopodiché non dovrete uscire di casa e non dovrete comunicare con nessuno fino a domani al tramonto.
Se allo scadere di questo tempo avrete fatto ciò che vi chiediamo, all’alba successiva un nostro emissario vi farà sapere dove potrete trovare von Ruchel. Se non lo avrete fatto, ritroverete ugualmente von Ruchel, ma un pezzo per volta, a partire dalla gamba che per colpa vostra non può più utilizzare.

Non c’era firma.
Si costrinse a rileggere la lettera con lo stesso spirito scientifico che avrebbe animato Johannes. Primo, la stoccata finale lasciava capire che qualcuno aveva raccolto informazioni su di lui, sulla sua amicizia con Johannes e sulle battaglie che avevano combattuto insieme. E che volesse far leva, oltre che sul suo affetto per lui, anche sul suo senso di colpa nei suoi confronti.
Era vero, infatti, che von Ruchel era rimasto ferito a causa sua: nel corso della battaglia di Chotusitz un eccessivo entusiasmo lo aveva portato a farsi troppo avanti, e se non fosse stato per il suo più saggio amico, che l’aveva afferrato e buttato al coperto, avrebbe trovato una prematura morte tagliato in due da una palla di cannone.
L’ordigno però aveva rovinato per sempre la gamba destra del maggiore Johannes von Ruchel, costringendolo ad abbandonare una carriera che si preannunciava delle più brillanti.
Rammentò che all’epoca Sua Maestà in persona aveva espresso il proprio rammarico per una tale perdita.
Abbandonò i ricordi per tornare alla realtà contingente.
L’oggetto che quella gente stava cercando non poteva essere che il diario di Konstantin. Si chiese cosa potesse contenere di così importante da giustificare tutto quello che stava succedendo.
Andò al laboratorio di Johannes, a soqquadro al pari della camera. La pianta di rose giaceva sul pavimento in mezzo a cocci e terra sparsa. L’ufficiale dapprima la raccolse e la avvolse in uno straccio bagnato, poi si sedette alla scrivania, trasse di tasca il quaderno e lo aprì.
Le prime annotazioni erano vecchie di circa un anno, ed erano piuttosto generiche. Il ragazzo enumerava i motivi per cui aveva deciso di andarsene dalla dimora avita, ove conduceva un’esistenza di agi e tranquillità, per vivere dei proventi delle sue poesie a Berlino.
Von Kleist sospirò: se Konstantin fosse stato suo figlio, gli avrebbe fatto passare lui certe ubbie. Invece Luise era sempre stata troppo buona con lui, troppo permissiva. Forse perché era così bello, e di aspetto così delicato. Magari, con atteggiamento del tutto materno, l’aveva assecondato perché inconsapevolmente temeva che la dura vita militare sarebbe risultata troppo pesante per quell’efebico fanciullo.
Il padre non era stato in grado di opporsi a quel comportamento protettivo, forse perché anche lui in realtà considerava Konstatin come una specie di statuetta di ceramica incapace di reggere gli urti della vita.
E quelli erano stati i risultati.
Con un sospiro, continuò a leggere.
Ecco che comparivano i Rosacroce. Konstantin ne parlava come di un gruppo di studiosi dediti alla poesia ermetica e alla ricerca. Trovò per la prima volta l’acronimo V.I.T.R.I.O.L., al quale il ragazzo attribuiva un significato del tutto simbolico ed introspettivo.
Lesse poi dell’arrivo dalla Sassonia di una donna che a quanto pareva era un personaggio di spicco nell’ambito dei Rosacroce. Il linguaggio di Konstantin non sempre era chiaro, spesso era inquinato da ermetismo o figure retoriche, ma in generale il ragazzo faceva allusione a lei chiamandola di volta in volta la Luna, l’Argento o la Regina.
La donna era sempre accompagnata da due misteriose figure, che nel diario venivano chiamate Atalanta Fugiens e Aurora Consurgens.
Non riuscì a capire se si trattava di persone reali o se anche quei nomi erano espressioni ermetiche per indicare qualcos’altro.
Il ragazzo scriveva poi di Rainer Brandt. Ne parlava come di una specie di mentore che avrebbe dovuto accompagnarlo nel suo percorso all’interno della setta dei Rosacroce. Spiegava che era stato lui ad attribuirgli in nome di Theophrastus, in omaggio a Paracelso e al suo homunculus, in quanto anche lui era un homunculus, un piccolo essere frutto dell’ingegno e non della procreazione, che avrebbe dovuto crescere e apprendere grazie a un maestro.
Di nuovo, l’ufficiale scosse la testa come di fronte a qualcosa di incomprensibile e fondamentalmente stupido.
Ach, Konstantin, Konstantin,” mormorò fra sé e sé, “se tuo padre ti avesse raddrizzato quando era il momento...”
Tornò alla lettura.
Seguivano, nei giorni successivi, varie considerazioni sulla bellezza dell’ermetismo e dell’alchimia, e sul loro valore come simbolo della ricerca interiore.
Scorse rapidamente le pagine imponendosi di ignorare il fastidio che il panegirico di quella sottospecie di filosofia gli suscitava.
Si imbatté in un foglio bianco.
Poi Konstantin scriveva:

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa!
L’Opus Magnum che vogliono portare a compimento non è certo la realizzazione della Pietra Filosofale, reale o simbolica che sia, come ingenuamente credevo. Basilius lo nega, ma io ho messo le mani su alcune delle lettere che la Regina nasconde nella sua casa, ovvero quella villa nascosta sulle rive del Templiner See che tutti credono essere solo il salotto più alla moda di Potsdam.
Solo Iddio, o forse il Diavolo, sa che cosa succede nei suoi sotterranei.
Io però ho capito che la Luna intende divorare il Sole, e lo farà in occasione del concerto. E ho capito che la donna di nome Maria che la istiga è ben altri che la Profetessa[1].
Devo avvertire lo zio prima che succeda l’irreparabile.

L’ufficiale rimase pensoso. Visto così, quel diario gli sembrava troppo poco per giustificare un omicidio e un rapimento. Era solo una raccolta di frasi senza senso, messe su carta da un nobilotto adolescente fuggito di casa. Nessuno avrebbe dato importanza a dichiarazioni del genere.
Ci doveva essere qualcosa di più.
Sfogliò di nuovo il quaderno pagina per pagina, lo scosse, osservò ogni foglio controluce alla ricerca di segni o fori in posizioni particolari. Poi palpò la copertina: sembrava piuttosto grossa.
Andò alla ricerca di una lente di ingrandimento e controllò le cuciture, notando subito che avevano un’aria recente, che non si adattava alla generale patina di tempo che rendeva la pelle della rilegatura lucida per l’uso.
Prese una lama, la infilò in una cucitura e fece saltare qualche punto: l’anima rigida della copertina era stata tolta, e al suo posto c’erano dei fogli ripiegati.
Finì di scucire la pelle, tirò fuori tutto e quando ebbe visto che cosa c’era nei fogli sollevò le sopracciglia stupefatto.
Non è possibile,” disse a mezza voce.
Si trattava di lettere. Un carteggio tra due donne, la destinataria delle missive era una certa Diana, mentre l’autrice si firmava Maria.
Una frase lo colpì particolarmente:

Voi lo ucciderete, mia cara, con quel veleno del quale conservate il segreto. Vi consiglio di metterlo sul suo flauto, è un oggetto dal quale non si separa mai. Alla prova della sua morte io verserò in una banca di vostra fiducia diecimila dei miei talleri.

L’allusione al flauto lo fece riflettere. Sua Maestà suonava il flauto. E Konstantin nel diario parlava di un concerto.
E, neanche a farlo apposta, Sua Maestà dava concerti per flauto al Sanssouci. Cominciò a sentire una specie di formicolio addosso, come gli succedeva ogni tanto alla viglia di battaglie dall’esito incerto.
Il veleno, i talleri...
Diana, rimaneva da scoprire chi fosse quella Diana.
Pensò a cosa avrebbe fatto Johannes al posto suo ed emise un sospiro sconsolato. Probabilmente gli sarebbe bastato attingere alle sue immense conoscenze per citare senza alcuna difficoltà almeno dieci personaggi della storia e della mitologia di nome Diana.
Fece girare lo sguardo sulla stanza, letteralmente tappezzata di libri. Si alzò e scorse rapidamente i titoli, senza trovare altro che trattati di scienze naturali, astronomia e geologia.
Si trasferì in biblioteca alla ricerca di libri di storia e mitologia, ed ebbe un attimo di sgomento nel contemplare l’immensa raccolta di volumi, disposta su tre piani di scaffali in un locale che da solo era grande quasi quanto la sala di marmo del Sanssouci.
Dopo qualche ricerca, trovò fra i libri di più frequente consultazione una copia del Lexicon Universale di Hofmann. Lo aprì, lo sfogliò febbrilmente fino alla sezione dedicata alla mitologia. Alla voce ‘Diana’ lesse: Artemide-Diana, dea della caccia, della verginità, del tiro con l'arco, dei boschi e della Luna.
Posò il libro.
Ripensò alla donna di cui parlava Konstantin, quella che di volta in volta il ragazzo chiamava la Luna, l’Argento o la Regina.
Diana poteva essere la Luna?
Diamo per scontato che lo sia,” disse a voce alta, imitando il modo di ragionare dell’amico. “Questo a cosa ci porterebbe?”
Ci pensò su, quindi si diede anche la risposta: “Alla conclusione che la donna alla quale sono indirizzate le lettere e la Regina di cui parla Konstantin sono la stessa persona.” Annuì soddisfatto, poi però fece una pausa e soggiunse: “Il che comunque ci riporta all’inizio del gioco. Se non riesco a sapere chi si nasconde dietro questa Regina, e chi è la donna di nome Maria che le scrive, la partita finisce prima di cominciare.”



Incapace di dare ulteriori spiegazioni al criptico contenuto del diario, von Kleist si risolse a rientrare alla propria abitazione, anche solo per rimanere in attesa del misterioso emissario che avrebbe dovuto contattarlo.
Cosa fare, poi, con il suddetto, era un altro problema che sembrava non avere soluzioni. Aspettarlo e obbedire ai suoi ordini senza creare problemi, o catturarlo e cercare di ottenere in qualche modo delle informazioni?
Non voleva rischiare di mettere in pericolo Johannes. Gli aveva già distrutto l’esistenza, sebbene non volontariamente, e per quanto fosse certo che l’amico avrebbe preferito mille volte vedere salva la vita del Re piuttosto che la propria, quel pensiero lo faceva esitare.
Si sistemò il diario, la richiesta di riscatto e le lettere in tasca, tornò in cortile, rimontò in sella e fece la strada a ritroso.
Sulla porta delle scuderie c’era Franz che lo aspettava.
Tutto bene?” chiese l’ufficiale.
Sì, Eccellenza. Tutto come avete detto. Il ragazzo è in cucina con Gertrud.” Poi, dopo una pausa: “Quella signora Pfannenschmied non doveva dargli molto da mangiare. È da quando siete andato via che sta divorando di tutto e non ha ancora smesso!”
Von Kleist sorrise. “Buon pro gli faccia. Se si comporterà come si deve lo raccomanderò a qualche mio collega come valletto.”
Penso che ne sarebbe felice, Eccellenza, anche perché adesso è senza lavoro.”
Vedremo. È venuto nessuno mentre ero via?”
No, Eccellenza.”
Von Kleist non replicò. Qualcuno lo stava evidentemente tenendo d’occhio e si sarebbe presentato una volta sicuro di trovarlo.
Rientrò in casa immerso in cupi pensieri, indeciso sul da farsi. Andò nel suo studio e gli cadde l’occhio sul bastone da passeggio con l’impugnatura d’argento. Dopo la serata al Sanssouci era ancora sulla scrivania, mobile dal quale la servitù aveva l’ordine di non rimuovere mai nulla.
Vederlo e rievocare l’episodio in cui la ragazza von Pfuel l’aveva raccolto e gliel’aveva restituito fu tutt’uno.
Gli tornarono in mente le parole del suo collega von Bissing: L’alchimista e le sue figlie, direttamente dalla Sassonia.
Fu come se di colpo gli cadesse una benda dagli occhi: ecco chi era la Regina, e chi erano Atalanta Fugiens e Aurora Consurgens.
Invece di cacciarla come tutti si sarebbero aspettati, le ha concesso una rendita e una villa sul Templiner See.
Tutto corrispondeva.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta.
Ma ora von Kleist sapeva anche cosa fare.
Spostò la pistola in modo che fosse coperta dalla marsina, poi ordinò a Franz di aprire.
Sulla soglia c’era Basilius. Portava un manto nero e un tricorno dello stesso colore. Il volto era talmente pallido da apparire quasi diafano.
Le parti si invertono, vedo,” lo salutò il colonnello.
L’altro non rispose. Si limitò a fissarlo serio, poi si tolse il tricorno e con uno scatto del capo spostò all’indietro le ciocche corvine che gli ricadevano sulla fronte. “Avete ciò che vi chiediamo?” domandò freddo.
Von Kleist annuì. “Ovviamente. Ma non lo tengo certo qui.”
E dove, allora?”
Nel mio studio. Venite, vi accompagno.”
No, portatelo qui voi.”
L’ufficiale lo fissò beffardo. “Pensate che metterei a rischio la vita del mio migliore amico per quella cosa?”
Io non penso nulla. Sono qui per prendere ciò che ci dovete e andarmene. Quindi ora portatelo qui.”
Von Kleist alzò le spalle. “D’accordo, se proprio ci tenete.”
Andò nello studio, strappò la copertina dal diario e la mise su un fascio di fogli bianchi, poi prese altri fogli e li piegò come per imitare le lettere. Le carte originali le ficcò in una cartella di giornali vecchi e fogli d’ordini del Reggimento, poi tornò dal suo ospite. “Eccolo qui,” disse mostrando il simulacro che aveva costruito.
Basilius lo stava aspettando con una mano in tasca. “Bene. Datemelo.”
Prima voglio una prova che Johannes stia bene.”
L’uomo rispose con un ghigno. “Nessuna prova. Dovete fidarvi di noi.”
Che sarebbe come dire che devo infilare la mano in un nido di serpi e confidare sul fatto che non mi morderanno.”
Di nuovo calò fra i due un silenzio teso, poi Brandt si avvicinò e ripeté: “Il diario.”
Certo.” Von Kleist allungò l’oggetto verso di lui, ma non appena questi estrasse la mano di tasca per prenderlo, egli sfilò la pistola che si era nascosto dietro la schiena, la puntò e fece fuoco.
L’uomo cadde a terra e vi rimase immobile. Nella mano che aveva allungato verso di lui stringeva ancora un tampone di stoffa.
Ci fu qualche secondo di silenzio, poi von Kleist ordinò: “Franz, dì a Rudolph di attaccare immediatamente, ci servirà la carrozza. E poi chiama Jürgen e digli di mandare gente a casa di von Ruchel, ci sono alcune cose da sistemare.”
Il valletto, che aveva sentito fischiare le pallottole più di una volta assistendo il suo padrone sul campo di battaglia, tranquillamente rispose: “Sì, Eccellenza. Devo far pulire il pavimento, Eccellenza?”
Buona idea. Porta con te le pistole e la spada, ci sarà da combattere.”
Sì, Eccellenza.”







[1] Maria la Profetessa, detta anche Maria Prophetissima o Maria d’Alessandria, è stata una filosofa e alchimista vissuta nel terzo secolo d.C.

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Capitolo 3
*** Parte terza - Rubedo ***


Opus 3
Parte Terza – Rubedo

È l'ultima fase della Grande Opera, il compimento finale delle trasmutazioni chimiche, che culminano con la realizzazione della Pietra Filosofale e la conversione dei metalli vili in oro.



Partirono non appena fu pronta la carrozza. Si lanciarono lungo la strada frustando i cavalli e si inoltrarono nel folto della foresta che circondava il Templiner See. Von Kleist ordinò che il veicolo procedesse per sentieri secondari, in modo da celare il più possibile la sua presenza agli uomini che sicuramente dovevano essere stati inviati a sorvegliare i dintorni.
Conosceva la villa in riva al lago: era stata vuota per molto tempo, dal momento che si credeva infestata dagli spiriti dopo che vi si era svolto un fatto di sangue. A quel pensiero non poté impedirsi di sogghignare: se nelle dimore nobiliari vi fossero stati fantasmi in proporzione diretta ai fatti di sangue che vi avevano avuto luogo nel corso dei secoli, non conosceva palazzo in cui non ci sarebbe stata un’autentica legione di trapassati.
A quanto si diceva nei salotti, comunque, l’eccentrica signora von Pfuel l’aveva scelta proprio per quel motivo. Nelle notti di luna piena era solita organizzare delle cacce al fantasma in compagnia delle nobildonne di Potsdam, le quali la mattina dopo giuravano di essere state sfiorate da gelide mani di spettri o di aver udito misteriosi sussurri nelle sale buie.
Non era raro che qualcuna cadesse in deliquio nel rievocare le emozioni delle terribili serate.
Guardò fuori. Già fra i tronchi secolari appariva e scompariva la superficie calma del lago. Fece fermare la carrozza, quindi scese e si guardò intorno. Lungo la riva, seminascosta dagli alberi, si intravedeva la mole grigia della villa. Si protendeva da essa un molo al quale erano legate alcune imbarcazioni a remi.
Sul molo comparvero due uomini che lo percorsero completamente. Uno di essi estrasse un cannocchiale e cominciò a sondare i dintorni con quello.
Maledizione,” ringhiò von Kleist ritornando nel folto della vegetazione.
Non potremmo avvicinarci di notte, Eccellenza?” propose Franz.
No, non abbiamo tutto quel tempo. Avanzeremo nel folto della vegetazione, tenendoci nascosti.” poi, rivolto al cocchiere. “Tu ci aspetterai qui, Rudolph. Hai il tuo moschetto, non è vero?”
Sì, Eccellenza.”
Molto bene. Nel caso, usalo. Non far avvicinare nessuno.”
Contate su di me, Eccellenza.”

Seguito dal suo valletto, l’ufficiale prese a muoversi cauto. Mentre si manteneva al coperto nel sottobosco, concentrava i suoi pensieri all’avanzare, senza indugiare troppo sul piano che aveva elaborato.
Non c’era nemmeno un piano, in realtà. Aveva pensato di entrare nel palazzo e cercare Johannes. Posto che Johannes fosse lì, ovviamente.
In ogni caso, scelte non ce n’erano molte. Rainer Brandt aveva preparato un tampone per ucciderlo, e l’avrebbe fatto, se lui non fosse riuscito a precederlo, il che significava che anche rimanere fermo e buono per il giorno richiesto non avrebbe portato a nessun risultato positivo. Avrebbero ucciso anche Johannes, o forse l’avevano già fatto.
Alzò la testa: le cuspidi coniche delle torri ornamentali poste ai quattro angoli della villa erano già in vista.
Controllò per qualche decina di secondi se vi si scorgeva qualcuno, ma gli parvero vuote.
Arrivò al limitare del parco e si fermò in una fitta macchia di conifere. Da lì rimase a osservare i dintorni: la villa, un massiccio finto medioevo che ricordava un maniero delle favole, aveva porte e finestre chiuse. Se non avesse saputo per certo che vi abitava la signora von Pfuel con le figlie e che ogni settimana vi si tenevano sontuosi ricevimenti, avrebbe pensato di trovarsi di fronte a un edificio vuoto.
Guardò il tetto: dai camini principali non usciva fumo, ma da una canna fumaria seminascosta fra i rampicanti si levava una strana caligine verdastra.
Si voltò verso Franz, che gli restituì uno sguardo a metà fra lo stupore e il disgusto.
Udirono dei passi. Si appiattirono tra le fronde e videro arrivare due uomini armati, che camminarono lungo tutto il lato dell’edificio, quindi svoltarono l’angolo e scomparvero alla vista.
Von Kleist e Kretschmer li seguirono a distanza e li videro scomparire in una piccola porta di servizio porta alla base di una delle torri.
Si scambiarono un’altra occhiata e annuirono in segno di intesa. Subito dopo, attraversarono di corsa lo spiazzo coperto di ghiaia che separava la villa dalla vegetazione e si appiattirono contro la parete.
Von Kleist abbassò la maniglia, che cedette senza rumore. Socchiuse appena la porta.
Al di là c’era silenzio. Intravide una vaga penombra, percepì odore di cera per mobili e candele. Si arrischiò ad aprire un po’ di più, ma di nuovo non incontrò che silenzio. Scivolò dentro e fece cenno a Franz di seguirlo.



La luce che arrivava dai finestrini della torre consentiva a malapena di vedere i contorni delle cose. C’era una scala a chiocciola che andava verso l’alto, da essa proveniva la fioca eco dei passi di due persone. Sotto la scala c’era uno scaffale che sembrava carico di barattoli e scatole.
Nella parete opposta c’era una porta. Von Kleist provò ad aprirla, e anche quella cedette senza opporre resistenza, e senza emettere il minimo rumore.
Si affacciarono su un corridoio. Si trattava chiaramente di un ambiente di servizio, funzionale e disadorno. Vi regnava un silenzio greve, sospeso, che dava una penosa impressione di attesa.
I due lo percorsero fino a che non sbucarono in un androne con il pavimento di ciottoli. Il soffitto alto e il lieve odore di sterco di cavallo facevano capire che si trattava di un ambiente nel quale entravano le carrozze.
Si scambiarono un’occhiata poi Franz, molto più a suo agio di von Kleist nelle stanze della servitù, gli disse: “Di là, Eccellenza.” Indicò una piccola scala a chiocciola che si intravedeva in una nicchia seminascosta in un angolo del locale. “Con quella si arriva di sicuro in qualche posto interessante.”
Cominciarono a salire. Man mano che procedevano, la già scarsa luce scemò del tutto e dopo poco si trovarono completamente al buio. Von Kleist, che procedeva davanti, appoggiò una mano al muro e continuò a muoversi facendo affidamento su quella.
Arrivarono in quel modo a un pianerottolo. Ormai abituati all’oscurità completa, i loro occhi furono immediatamente colpiti da una sottilissima fessura dalla quale filtrava la luce.
L’ufficiale vi si avvicinò: sembrava uno spioncino. Fece scorrere le mani sulla parete e percepì che era di legno. Palpandola con attenzione trovò anche un meccanismo d’apertura.
Stava per farlo scattare quando dall’altra parte si udirono dei passi. Avvicinò l’occhio alla fessura e rimase a osservare.
Entrarono nella stanza la signora von Pfuel e le sue figlie. La prima aveva un frusciante abito di seta nera, e al collo la stessa collana di rubini che le aveva visto al ricevimento. Acconciati ma non incipriati, i capelli erano una lucente cascata d’ebano.
Una delle ragazze, quella con gli occhi verdi, aveva un abito simile a quello della madre, mentre la ragazza con gli occhi neri era vestita da uomo.
Tutte e tre avevano al collo una catenina con un ciondolo simile a quello che avevano trovato sugli assalitori del Teufelsee, solo che era d’oro.
Io credo che sia morto, madre,” disse la ragazza dagli occhi neri. “Ho detto a Basilius di usare su di lui una dose di morte d’acqua, non può essere sopravvissuto.”
La più anziana si voltò verso di lei in un gesto altero. “Ne sei certa? L’hai visto con i tuoi occhi?”
L’altra aggrottò le sopracciglia mentre un guizzo di rabbia le attraversava lo sguardo. “No, madre.”
Che cosa vi ho insegnato? Non bisogna lasciare nulla al caso. Quell’uomo è ficcanaso e testardo esattamente come il mocciosetto coi capelli rossi che piaceva a tua sorella.”
Chiamata in causa, la ragazza dagli occhi verdi abbassò lo sguardo con fare contrito.
È stata lei a farlo venire qui!” proseguì la madre. Si rivolse direttamente alla colpevole: “Sei stata tu! Tu l’hai portato qui e l’hai lasciato curiosare in giro.”
Mi dispiace, madre,” rispose la ragazza a testa bassa.
Mi dispiace, mi dispiace!” fece eco la più anziana. “Ormai il danno è fatto!” Poi, rivolta all’altra figlia: “E quindi, dove sono le mie lettere? Perché quel tuo amichetto non le ha ancora portate?”
Io penso che arriverà presto, madre.”
Non vorrei che quell’ufficiale si fosse salvato.”
Come potrebbe, madre? La morte d’acqua uccide istantaneamente.”
Bah.” La più anziana fece un gesto di spregio. “Certo è facile usarla su un ragazzetto immobilizzato, o su se stessi. Tutt’altra cosa è usarla su un uomo adulto e robusto, che si aspetta un’aggressione e sa come difendersi.”
Le due rimasero a fissarsi negli occhi per qualche secondo. Il nero delle iridi e il pallore dei volti squadrati dava a quel confronto una connotazione singolarmente drammatica. Alla fine fu la più giovane a distogliere lo sguardo. Abbassò la testa e chiese: “L’altro? L’avete ucciso?”
Non ancora. Può servirmi per i miei esperimenti.”
Non avevate mai pensato di liberarlo, vero?”
La donna si limitò a un’alzata di spalle. “Sa troppe cose. E ora andiamo,” disse poi, “dobbiamo preparare tutto. Sarà meglio che quel Basilius arrivi in fretta.”
Attraversarono la stanza, passando così vicino allo spioncino che von Kleist riuscì a percepire il vago sentore di erbe officinali che emanavano, poi uscirono chiudendosi con cura la porta alle spalle.

Von Kleist aspettò qualche minuto, poi armeggiò nel buio alla ricerca del meccanismo di apertura che aveva trovato prima e lo fece scattare. Una porta si aprì silenziosamente consentendo l’accesso a un salottino dalle pareti coperte di pannellature di legno laccato.
Una volta richiusa, la porta di accesso alla scala diventava completamente invisibile tra gli stucchi e le decorazioni.
Andò alla porta dalla quale erano uscite le tre donne, vi appoggiò contro l’orecchio: silenzio. Abbassò la maniglia, arrischiò uno sguardo al di là e vide una camera in penombra, con un’altra porta sulla parete opposta.
Attraversò varie stanze che immettevano l’una nell’altra e infine giunse a uno studio con le pareti rivestite di librerie. Non c’erano altre porte, ma nel picciolo locale non c’era nessuno. “Ci dev’essere un altro passaggio segreto,” mormorò guardandosi intorno.
Lo colpì un mobile secrétaire in legno pregiato, intarsiato con simboli simili a quelli che aveva visto nell’ingresso della villa di Brandt. Si avvicinò e aprì la ribalta, rivelando un piano di scrittura e un’infinità di cassetti di varie dimensioni. Febbrilmente prese a scorrere con le dita in ogni anfratto, alla ricerca delle cavità segrete che venivano celate in tutti i mobili di quel genere.
Ci deve essere,” disse fra sé e sé.
Sapeva dove normalmente venivano collocati i nascondigli, ma in nessuno di quei posti riuscì a trovare meccanismi o rientranze. Nessun cassetto aveva un doppio fondo, e nella nicchia centrale non c’erano parti mobili.
Dannazione,” imprecò fra i denti, mentre i suoi gesti di facevano sempre più nervosi. Gli sfuggì di mano un cassettino che aveva estratto e cadde sul piano di scrittura spargendovi il suo contenuto, consistente in stecche di ceralacca e sigilli con vari monogrammi.
Mentre si dava da fare per raccogliere gli oggetti e riporli, percepì un lieve movimento sotto le dita. Abbassò lo sguardo e vide che uno dei pannelli intarsiati si era leggermente spostato, rivelando quella che finalmente sembrava essere una cavità nascosta.
La aprì quel tanto da poter dare un’occhiata all’interno e vide che conteneva dei fogli piegati esattamente come quelli che aveva visto nel diario di Konstantin.
Ne estrasse uno.
Altro che Maria la Profetessa!” proferì ad alta voce dopo averlo letto.
Franz lo fissò perplesso. “Eccellenza?”
Maria Teresa d’Austria! Questa specie di strega infernale si scambia lettere con Maria Teresa d’Austria!”
Avrebbe voluto aggiungere altro, ma in quel momento un’anta della libreria si spalancò come una porta e da essa uscirono due uomini con la spada in pugno.
Von Kleist estrasse immediatamente la pistola e fece fuoco, abbattendo uno dei due, poi lasciò cadere l’arma scarica e sfoderò la spada.
Subentrò anche Franz con la propria pistola, ma in quel momento la porta dello studio si aprì e da essa entrarono altri uomini armati.
In alto le mani,” intimò quello che sembrava essere il capo dei nuovi arrivati.



Una volta che li ebbero disarmati, gli uomini legarono loro le mani dietro la schiena e li spinsero verso la porta segreta. Da essa si dipartiva una scala a chiocciola che conduceva verso il basso.
Von Kleist pensò che sarebbe sbucata nell’androne come quella che avevano percorso per salire, ma essa si rivelò molto più lunga del previsto: continuarono a scendere fino a che la testa non cominciò a girargli lievemente e fino a che, a suo giudizio, non si trovarono ben al di sotto del piano terra.
A questo punto la scala terminò in quello che a prima vista parve all’ufficiale un girone infornale: l’ambiente, enorme e dal soffitto a volta, era illuminato da fiaccole e candele. Vi regnava un caldo soffocante. Odori di ogni genere colpivano le nari, alcuni per la loro sgradevolezza, come lo sterco o il grasso rancido, altri semplicemente per la loro violenza. Distillati di erbe officinali rilasciavano effluvi così forti da causare il mal di testa.
Al centro della sala vi era un enorme forno, più grande di quello che aveva visto nella villa di Brandt, e da esso scaturivano fiamme. Sulla sua superficie innumerevoli ampolle e bottiglie stavano ribollendo.
Intorno al forno erano disposti dei tavoli, sui quali erano allineati strumenti di ogni genere, crogioli, alambicchi, mortai, vasi e libri. Da una parte c’era anche una grande vasca con dentro alcuni di quei pesci che potevano trasformarsi in palle irte di aculei.
La signora von Pfuel, con addosso un grembiule lungo fino a terra e un paio di spessi guanti di pelle, li stava prendendo uno ad uno con un retino, e man mano che li catturava, li decapitava e li buttava in un secchio.
Quando sentì arrivare gente interruppe il suo lavoro, si girò e chiese: “Li avete presi?”
Uno degli uomini si fece avanti e si inchinò profondamente. “Sì, Regina. Sono qui.”
La donna si avvicinò. Il bagliore igneo delle fiaccole conferiva al suo volto duro una connotazione demoniaca. Gli occhi brillavano come giaietto. Si pose le mani sui fianchi e alzò le sopracciglia. “Siete un po’ troppo curioso, signor ufficiale,” sentenziò.
Von Kleist non rispose.
Sarò costretta a mettervi in gabbia con il vostro amico, allora,” proseguì l’altra, “e poi, a cose fatte, vedremo di trovare anche per la vostra inutile esistenza uno scopo. Fungere da corpus vile per i miei esperimenti, ad esempio.” Sollevò una mano, gliela pose sotto il mento e gli sollevò il viso. “Siete piuttosto robusto, credo che resisterete molto di più dei ragazzini e dei vagabondi che sono costretta a usare di solito.” Si voltò verso Franz. “E il vostro servo, qui, mi pare ancora più adatto di voi a sopportare certe prove.” Poi, a voce più alta: “Portateli via, perquisiteli e buttateli nella gabbia!”

Vennero sospinti verso una zona del laboratorio particolarmente buia. Lì c’era in effetti una grande gabbia con le sbarre costituite da pali di legno sagomati in modo da avere una sezione quadrangolare. Ogni giuntura era rinforzata in ferro e vi era una porta d’ingresso chiusa da un pesante lucchetto.
Al suo interno si intravedeva nella penombra una figura rannicchiata.
Dopo averli palpati in tutto il corpo alla ricerca di armi o oggetti nascosti, uno degli uomini aprì la porta e senza slegare loro i polsi li spinse dentro, quindi richiuse con un tonfo e fece scattare il lucchetto nuovamente al suo posto.
Buttato dentro come un sacco, von Kleist non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde al suolo. Rotolò sulle pietre masticando un’imprecazione, poi si raddrizzò, mise a fuoco ciò che lo circondava ed esclamò: “Johannes! Stai bene?”
La figura rannicchiata era il suo amico. Per quello che poteva vedere, non sembrava ferito o sofferente.
L’altro emise un sospiro e disse: “Me lo sentivo che avresti finito per combinare qualcosa di molto stupido.”
Venire a salvarti la chiami una cosa stupida?” replicò l’altro piccato.
Se siamo tutti qui, direi che lo è stata.”
La von Pfuel sta progettando di uccidere Sua Maestà,” disse von Kleist ignorando l’osservazione tagliente, “è in combutta con Maria Teresa d’Austria.”
Stai scherzando?”
Ho visto le lettere.”
Von Ruchel non rispose. Finalmente, dopo un tempo che all’amico parve interminabile, a bassa voce disse: “Dobbiamo trovare il modo di uscire di qui.”
Perché, se non fosse stato per quello che ti ho detto saresti rimasto qui dentro a subire tutte le angherie che quella strega avrebbe ritenuto di farti?”
Diciamo che non mi sarei mosso con tanta precipitazione. Hai le mani legate?”
Sì.”
Allora vieni qui che ti libero. E anche tu, Franz.”
Sì, Eccellenza,” rispose il valletto.



Una volta liberi dalle corde, i tre rimasero a guardare quello che la signora von Pfuel stava facendo.
Dopo aver pescato tutti i pesci che c’erano nella vasca e averli uccisi e buttati in un secchio, la donna prese il recipiente e andò a un tavolo.
Sempre con i guanti, a ogni pesce aprì l’addome e ne estrasse qualcosa di scuro. Quando ebbe fatto ciò con ognuno degli animali, pose ciò che aveva raccolto in un contenitore di vetro.
Aggrappati alle sbarre, i tre seguivano perplessi quella procedura. “Che starà facendo?” chiese sottovoce von Kleist.
Von Ruchel si strinse nelle spalle. “Non lo so. Sembra che le interessi un certo organo di quei pesci.”
Li hai mai visti?”
Solo nei libri. Non so come faccia ad averli qui, sono pesci dei tropici.”
Stanno in mare?”
Anche in acqua dolce.”
La donna prese il contenitore e se ne andò.
I tre rimasero per un po’ in silenziosa attesa, ma la von Pfuel non ricomparve. Arrivarono un paio di uomini ad attizzare la fornace, poi di nuovo calò il silenzio.
Siamo soli?” chiese dopo un po’ von Kleist.
Così pare,” fu la risposta dell’amico.
Bene, allora cerchiamo il modo di uscire di qui, bisogna fermare quella donna. Quand’è il concerto di Sua Maestà, a proposito?”
Che giorno è oggi?”
Il venti.”
Allora è stasera.”
Dannazione, dobbiamo sbrigarci!”
Von Ruchel si sollevò aggrappandosi alle sbarre. “Fammi dare un’occhiata,” disse poi.
Rimase in osservazione per un tempo desolatamente lungo. Al suo fianco, von Kleist non osava dire nulla per timore di disturbare la sua concentrazione. Dopo un po’ comunque chiese: “Hai qualche idea?”
La chiave è appesa a un gancio sulla parete di fronte. Dobbiamo solo trovare il modo di arrivarci.”
L’ufficiale guardò il punto che l’amico aveva indicato, ed effettivamente notò una grossa chiave di ferro, nera nella scarsa luce, che pendeva da un anello.
Calcolò la distanza dell’oggetto e le conclusioni furono piuttosto sconfortanti. “Non possiamo restarcene qui dentro mentre quella là va ad avvelenare il Re!” esclamò comunque, come a ribadire la sua ferma intenzione di evadere.
Ci vorrebbe una canna da pesca,” disse von Ruchel alle sue spalle.
Von Kleist si guardò intorno, riuscendo a individuare dopo un po’ un bastone che veniva usato per spostare i recipienti sulla fornace rovente.
Purtroppo era stato messo a distanza di sicurezza dalla gabbia.
L’ufficiale recuperò i pezzi di corda che erano rimasti per terra e li legò fra loro, poi si sfilò la marsina, si strappò una manica della camicia e ne fece lunghe strisce, che poi annodò fra loro. Con il colletto, i polsini e lo jabot fece una palla che assicurò a una delle estremità dell’improvvisata corda.
Ora andiamo a pesca,” disse poi. Si spostò più vicino possibile al bastone e cominciò a tirare in quella direzione la palla di stoffa cercando di agganciarlo.
Per un tempo imprecisato, gli unici rumori che si udirono furono i tonfi soffici della palla, accompagnati di tanto in tanto da qualche imprecazione.
Il tempo passava inesorabile. La fornace continuava a funzionare a pieno regime, il che significava che presto qualcuno sarebbe arrivato ad alimentarla.
L’ufficiale inspirò cercando di non farsi prendere dall’eccitazione. Fece finta di essere su un campo di battaglia, in procinto di ordinare un assalto.
Tirò la palla, che finalmente portò il laccio ad avvolgersi intorno al bastone. In quel momento si udirono dei passi.
Von Kleist si immobilizzò: non poteva rischiare di fare rumore e attirare l’attenzione. Scambiò un’occhiata furtiva con gli altri, che gli rimandarono la stessa preoccupazione.
Arrivarono due uomini. Parlavano fra loro, sembravano piuttosto rilassati ora che la signora von Pfuel non era più in vista. Andarono a prendere due gerle di legna e cominciarono a gettare i pezzi dentro gli appositi sportelli.
Quando ebbero finito, uno dei due si terse il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte e disse: “Ci sarebbero da spostare quei vasi.” Indicò le ampolle che bollivano.
L’altro scosse la testa. “No, lascia. Lo sai come fa quella là quando vai a toccare le sue cose. Capace che ti usa per i suoi esperimenti.”
Sì, ma poi traboccano e si arrabbia lo stesso. Ci metto un attimo.” Fece per muoversi verso il bastone. Von Kleist sentì un brivido freddo lungo la schiena. Se l’uomo si fosse avvicinato un altro po’ avrebbe visto la corda di stoffa e avrebbe distrutto la loro unica possibilità di fuga.
Aspetta, questo è più lungo,” disse l’altro.
Ah, meglio. Quell’affare è caldo come l’inferno.”
L’ufficiale sospirò di sollievo. Aspettò che i due se ne fossero andati, poi prese a tirare pian piano il bastone verso la gabbia.
Ci vollero molta cautela e svariati momenti di angoscia, ma alla fine il bastone arrivò abbastanza vicino alla gabbia da poter essere afferrato. Von Kleist lo prese e con quello ricominciò lo stillicidio di tentativi, questa volta per agganciare la chiave e farla arrivare a portata di mano senza lasciarla cadere.
Protendendo il braccio al massimo, riuscì dopo innumerevoli prove a sollevare l’anello e a farlo scorrere lungo l’asta. La chiave arrivò.
Meno male,” sospirò.
Aprì il lucchetto, ma quando fu sul punto di uscire si rese conto che Johannes non avrebbe potuto camminare. Non aveva il suo tutore, e anche se fossero riusciti a trovargli un bastone o una stampella, non avrebbe potuto fare altro che arrancare penosamente.
Come se gli avesse letto nel pensiero, von Ruchel disse: “Devi andare.”
Ma non posso lasciarti qui.”
Al momento sono quello che corre meno rischi. Va, prima che sia troppo tardi.”
Von Kleist deglutì. Di colpo si sentiva pesante come il piombo. Di nuovo, l’altro sembrò intuire perfettamente i motivi del suo turbamento. “Devi andare,” ripeté, “pensare al passato non servirà a nessuno. Né a te, né tanto meno a me.”
Pur nella scarsa luce, i due si scambiarono una lunga occhiata. Infine, von Kleist disse: “Franz, resta qui con il signor von Ruchel.”
Sì, Eccellenza.”
Uscì senza aggiungere altro.

Tornò rapido alle scale dalle quali era arrivato, le salì fino allo studio della von Pfuel. Il secrétaire era aperto, lo scomparto segreto vuoto. “Le ha portate via!” imprecò.
Ma aveva ancora il diario, e le lettere che aveva preso Konstantin. Inoltre non escludeva di riuscire a recuperare anche quelle ancora in possesso della donna.
Guardò fuori: ormai il sole si stava dirigendo verso l’orizzonte, presto gli ospiti avrebbero cominciato ad affluire al Sanssouci per presenziare al concerto di Sua Maestà, che nessuno voleva mancare, perché si trattava di un evento di importanza molto più politica che musicale.
Sentì un galoppo di cavalli sul viale. Guardò in basso e vide uscire dal palazzo una carrozza di gala con nappe e piume: la von Pfuel si stava dirigendo alla residenza della famiglia reale.
Fece per abbandonare la stanza, ma gli si parò davanti la ragazza dagli occhi neri. Impugnava una spada, e dal modo in cui lo faceva era chiaramente in grado di usarla per uccidere. L’ufficiale arretrò.
Si guardò intorno rapidamente alla ricerca di qualcosa che gli permettesse di affrontare una lama e non poté fare altro che strappare un tendaggio e avvolgerselo attorno al braccio. Si mise in guardia.
La ragazza rimase immobile. Non aveva neppure bisogno di attaccare, le sarebbe bastato tenerlo a bada per un tempo sufficiente e sua madre avrebbe già vinto la partita.
I due si scambiarono un’occhiata. “Mademoiselle, fatemi passare,” le disse serio von Kleist. “Ho fatto troppa guerra per non considerare le donne pericolose quanto gli uomini, quindi non aspettatevi da parte mia delle remore nel colpirvi.”
Voi mi lusingate, signore,” rispose la ragazza con un sorriso beffardo, quindi buttò indietro i capelli con uno scatto del capo e alzò la lama.
L’ufficiale strinse gli occhi. La tenda che si era arrotolato intorno al braccio lo avrebbe protetto dai fendenti, ma non dalle punte, e questo la ragazza lo sapeva molto bene.
Fece una finta spingendo in avanti il braccio protetto, e mentre la sua avversaria scattava per colpire, con la mano libera afferrò la sedia del secrétaire e gliela buttò addosso. Ella intuì la minaccia e riuscì a schivare parzialmente il colpo, ma perse la compostezza e aprì la guardia. Von Kleist ne approfittò per dare un secondo colpo, ma la sedia non resse e nell’impattare sulla ragazza si frantumò.
L’altra riprese immediatamente il controllo di sé, attaccò con una punta al petto. L’ufficiale sottrasse bersaglio spostandosi di lato, poi le afferrò il braccio della spada e impossibilitato a fare altro la colpì con un pugno alla mandibola. La ragazza cadde a terra con un mugolio che sembrava il soffiare di un gatto inferocito, rotolò, si rialzò con uno scatto delle reni e scrollò la testa un paio di volte. “Ripeto, signore: voi mi lusingate,” disse. I suoi occhi erano accesi di sfida.
L’ufficiale raccolse da terra una gamba della sedia e si mise in guardia. La ragazza attaccò con un’altra punta, lui parò e con l’improvvisato randello le assestò un colpo sulla nuca. La sua avversaria gemette, un rivolo di sangue prese a scorrerle sul collo niveo. Von Kleist non le diede il tempo di riprendersi: la incalzò con un colpo alla tempia. La ragazza cadde di nuovo, ringhiò, in un ultimo sforzo si lanciò in avanti e lo ferì al fianco, poi si afflosciò al suolo e vi rimase immobile.
Ansante, con il sangue che dal fianco gli scorreva lungo la gamba, l’ufficiale si terse il sudore dalla fronte, poi raccolse la spada, scavalcò il corpo esanime e si lanciò di corsa lungo la teoria di stanze che aveva attraversato per raggiungere lo studio.
Ritrovò il pannello che conduceva alla scala segreta, la discese, riprese la corsa attraverso l’androne. Un paio di uomini gli si fecero incontro. Von Kleist non perse tempo: attaccò il più vicino con un tondo rovescio squarciandogli la gola, poi incalzò sul secondo con una punta, gli trapassò la spalla, estrasse la lama e lo finì con un fendente dritto al corpo.
Passò oltre.
Si inoltrò nella foresta incurante del fitto sottobosco. Raggiunse la carrozza. “Presto, al Sanssouci” cominciò a gridare prima ancora di raggiungerla. “Rudolph, partiamo immediatamente!”
Il cocchiere montò di corsa a cassetta e prese in mano le redini. I cavalli, che stavano brucando un po’ di biada, alzarono la testa con uno scatto.
Il tempo di salire a bordo e già il veicolo procedeva alla massima velocità verso la reggia.



Al Sanssouci c’era la folla delle grandi occasioni. Carrozze di gala con tiri a due, a quattro e addirittura a sei, piene di piume di struzzo e stucchi dorati, si susseguivano scaricando sulla soglia della reggia tutti i nobili di Potsdam e di Berlino che avevano avuto l’enorme onore di ricevere un invito.
Le signore facevano a gara sfoggiando le toilettes più eccentriche e le parrucche più incipriate, gli uomini, a loro volta in parrucca bianca, davano il braccio alle dame e si guardavano intorno controllando a quanti altri fosse stato accordato il privilegio di un invito. Gli ufficiali erano tutti in alta uniforme.
Von Kleist arrivò al gran galoppo, con i cavalli schiumanti. Scese di corsa, spettinato, sporco di sangue, con una camicia che aveva una manica sola, le scarpe infangate e i pantaloni strappati.
Fu fermato dai valletti.
Fatemi passare!” esclamò, strattonando per liberarsi.
Vi prego di non insistere, signore!” gli disse un valletto più robusto degli altri.
Sono il colonnello von Kleist, fatemi passare!”
Non è possibile, signore. Sua Maestà comincerà a suonare fra poco.”
Vi dico di farmi passare, Sua Maestà è in pericolo!”
Nel frattempo si stava formando un capannello. Signore vestite a festa lo osservavano curiose con la lorgnette. I più credevano si trattasse di un pazzo.
Von Kleist si guardò intorno con l’aria di un cinghiale aizzato. Vide passare von Bissing. Lo chiamò, poi con uno spintone mandò a gambe all’aria il valletto che lo stava trattenendo e raggiunse il collega.
Questi lo fissò stupito. “Von Kleist? Ma che diavolo...”
Non c’è tempo,” lo interruppe il colonnello, “Venite con me!” Si lanciò di corsa lungo il corridoio.

Mi volete dire che accidenti vi prende?” insisté von Bissing cercando di tenere l’andatura dell’amico nonostante l’uniforme di gala.
Muovetevi!”
Arrivarono alla sala della musica, von Kleist spinse il collega dietro una tenda e vi si occultò a sua volta.
Nella sala c’erano solo alcuni valletti impegnati negli ultimi preparativi. Le candele ardevano già nei lampadari, riflettendosi nelle alte specchiere. Gli stucchi dei pannelli rococò mandavano bagliori dorati. C’erano già il leggio di Sua Maestà con gli spartiti e il suo flauto traverso di avorio.
Comparve la donna. L’ufficiale non riusciva a capacitarsi di come fosse riuscita a entrare nonostante la sorveglianza, tuttavia era lì. Vestiva un abito nero e aveva al collo, oltre la catenina d’oro con il pendente a forma di cilindro, un’opulenta collana di ametiste dal colore particolarmente intenso e ricco. I capelli erano come sempre color dell’ebano.
Si avvicinò con l’aria di chi è nel suo pieno diritto. Osservò lo spartito, mosse appena il dito nell’aria come se ne stesse seguendo la melodia e sorrise compiaciuta. Un valletto le disse qualcosa e lei gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla con aria complice, con tutta l’aria della signora che riesce a rubare uno sguardo più intimo alle cose di Sua Maestà e non vede l’ora di vantarsene il giorno dopo con le amiche.
Il valletto le sorrise, fiero di poterle concedere quel piccolo attimo di felicità.
La signora riprese a seguire la melodia dello spartito.
Sottovoce, von Bissing disse: “E allora? Mi avete trascinato fin qui correndo come se avessimo il Diavolo alle calcagna per vedere la von Pfuel che curiosa in giro?”
Tenetevi pronto.”
Tenetevi pronto a che? Siete diventato matto per caso?”
La donna estrasse dalle pieghe dell’abito una scatoletta, e da quella tirò fuori un tampone di stoffa.
Ecco che lo fa, guardate!”
Fa cosa?”
La signora von Pfuel passò il tampone sulla boccola e intorno a tutti i fori del flauto.
Von Bissing si voltò verso il collega con aria interrogativa, questi semplicemente gli disse: “Appena esco per agguantare lei, voi prendete quel flauto, senza toccarlo con le mani nude, e fate in modo che non lo tocchi nessun altro.”
D’accordo.”
In quel momento, la donna si voltò verso il tendaggio. I suoi occhi di giaietto ebbero un guizzo, ella si slacciò un nastro che aveva in cintura e in un attimo si liberò dell’ampia gonna, rivelando pantaloni e stivali da caccia. Scavalcò agilmente l’ammasso di stoffa ai suoi piedi e si lanciò fuori dalla sala con insospettata velocità.
Von Kleist scattò al suo inseguimento.
Aiuto! Aiuto! Mi uccidono!” strillò la signora, e per prima cosa l’ufficiale fu intercettato dal valletto. “Che cosa volete fare a quella donna?” chiese l’ignaro cameriere. Lo afferrò a mezzo corpo per trattenerlo.
Von Kleist proferì un’imprecazione e abbatté l’uomo con un pugno, quindi riprese l’inseguimento.
La donna lo vide arrivare e senza rallentare si buttò dietro le spalle una piccola ampolla di vetro. Il contenitore si ruppe e da esso cominciò a sprigionarsi un fumo denso e acre, che faceva lacrimare gli occhi e bruciare la gola.
L’ufficiale si costrinse a non indugiare, ma quando finalmente smise di tossire e la vista gli si schiarì di nuovo, fece appena in tempo a vedere la signora von Pfuel che usciva da una porta secondaria, montava a cavallo e scompariva al galoppo.
Il buio la inghiottì.



Dov’è?” chiese von Bissing, sopraggiunto alle sue spalle. Teneva in mano il flauto avvolto in un fazzoletto ed era seguito da un nutrito gruppo di guardie.
Von Kleist emise un sospiro. “Andata. Se non fosse stato per quel dannato valletto l’avrei presa.” Poi, dopo una breve pausa: “Mi serve un cavallo.”
Dove volete andare?”
Alla villa sul Templiner See. Forse riusciamo ancora a prenderla.”
A voce alta, von Bissing ordinò: “Un cavallo per Sua Eccellenza il colonnello von Kleist, presto!” Poi, rivolto al collega: “Io vi raggiungo con uno squadrone dei miei.”
D’accordo.”
Pochi minuti dopo, in sella a un robusto baio, von Kleist sfidava le tenebre galoppando verso la dimora della signora von Pfuel.
Nel frattempo ragionava sulla situazione. Una delle figlie era fuori combattimento, dell’altra non sapeva nulla. L’attentato era fallito, ma la Regina era ancora viva e vegeta.
Se glielo avesse permesso, quelle specie di erinni sarebbero fuggite facendo perdere le loro tracce e l’erinni peggiore di tutte, ovvero Maria Teresa d’Austria, sarebbe uscita dalla faccenda più pura della madre di Cristo.
Spronò il cavallo.

Immersa nell’oscurità, la villa aveva un’aria spettrale.
Von Kleist smontò e si guardò intorno. Sotto i raggi della luna, il maniero dava l’impressione di essere disabitato da anni. Solo guardando attentamente si coglieva nella canna fumaria nascosta fra i rampicanti un fioco bagliore rosso, come di braci che covano sotto la cenere.
L’ufficiale non si perse nella contemplazione della notte di primavera. Si diresse risoluto verso l’ingresso di servizio alla base della torre e penetrò silenziosamente nella sontuosa dimora.
Facendo affidamento sui deboli raggi della luna, seguì il percorso della mattina e tornò al piccolo studio. La ragazza dagli occhi neri era ancora lì. Era stata rivoltata sulla schiena, e qualcuno le aveva strappato dal collo il ciondolo fatto a cilindro.
Il secrétaire era stato vuotato di ogni suo contenuto, i cassetti giacevano sparsi sul pavimento.
Il passaggio segreto della libreria era semiaperto.
Von Kleist lo osservò dubbioso: anche quello sembrava un invito.
Si avvicinò, constatando che dal basso saliva una colonna d’aria torrida. Scese cauto alcuni gradini: la temperatura diventava sempre più alta. Gli parve di sentire odore di fumo.
Percorse il resto della scala, e quando arrivò in basso temette di essere finito nel bel mezzo dell’inferno: la fornace stava divorando un enorme carico di legname e le sue strutture surriscaldate stavano portando a temperatura di combustione tutto ciò con cui si trovavano in contatto. L’odore di fumo, come di legno e stoffa bruciati, era così intenso da far lacrimare gli occhi. Tutta la vetreria era sparsa al suolo in frantumi, liquidi di varia natura scorrevano fra le pietre del pavimento, frammisti a polveri ed erbe officinali.
Johannes! Franz!” gridò l’ufficiale guardandosi intorno angosciato.
La gabbia era aperta, dentro non c’era nessuno. Il corpo di uno dei guardiani giaceva riverso.
Johannes! Franz!” ripeté.
Siamo qui, Eccellenza!” gli rispose la voce del valletto. Proveniva dalla zona in cui si trovava la vasca dei pesci.
L’ufficiale si voltò in quella direzione e vide che con l’ausilio di una trave il giovanotto stava per rovesciare il serbatoio d’acqua. Lo raggiunse. “Dov’è il signor von Ruchel?” gli chiese per prima cosa.
Sono qui,” rispose la voce dell’amico. Poi, rivolto al valletto: “Forza con quella cisterna.”
Sì, Eccellenza.”
la vasca finalmente si rovesciò, inondando il pavimento e riversandosi all’interno della fornace, dalla quale cominciarono ad uscire sibilando getti di vapore.
I tre si diressero verso le scale.
Avete visto la von Pfuel?” chiese il colonnello.
È venuta qui e ha fatto distruggere tutto, poi se n’è andata,” rispose Johannes.
La figlia?”
Non l’abbiamo vista.”
Abbandonarono il laboratorio.
Arrivarono al piano nobile ansanti ma incolumi. Guardando dalla finestra, von Kleist si accorse che il cortile era occupato da uno squadrone di cavalleria. Con un sorriso di sollievo disse: “Ecco von Bissing.”

I soldati erano smontati da cavallo e avevano acceso delle fiaccole per illuminare la zona. Due di essi tenevano per le braccia la ragazza superstite, che imprecava e scalciava tentando di liberarsi.
Un altro aveva recuperato il cavallo con cui la signora von Pfuel aveva raggiunto il palazzo. Di lei non c’era traccia.
Von kleist si diresse verso il collega e gli chiese: “Avete scorto la donna?”
L’altro scosse la testa. “Solo il cavallo, come vedete. Ma ci sono pattuglie dappertutto, se si fosse allontanata l’avremmo vista.”
Il primo annuì pensoso, poi disse: “Se si fosse allontanata via terra, sì.”
Cosa volete dire?”
Il molo.”
Accidenti, avete ragione!” Poi, a voce più alta: “Sergente! Prendete otto tiratori e venite con me!”
Corsero tutti verso il lago. Alla tremula luce delle fiaccole videro che l’acqua era appena increspata dal movimento di una piccola imbarcazione. A bordo c’era una figura intenta a remare con vigore.
Puntate!” ordinò il sergente.
I soldati si posizionarono quattro in piedi e quattro in ginocchio, mirando in direzione della barca.
Fuoco!”
Partì la scarica di fucileria. Il fumo degli spari rese dapprima impossibile vedere cosa fosse accaduto, ma quando esso si fu diradato, apparve la barchetta a chiglia in su. L’acqua era tornata immobile.
È fatta,” disse von Bissing.



Accanto alla pianta battezzata Konstantin, Luise aveva sistemato la piccola rosa recuperata dalla soffitta.
In mezzo ai fiori pregiati, la piantina da pochi Pfenning era fuori posto in maniera commovente, ma Luise sembrava non farci caso. Era proprio a lei, anzi, che tributava le cure più affettuose.
È stata l’ultima a vedere Konstantin vivo,” mormorò rincalzando la terra intorno allo stelo. Prese un piccolo innaffiatoio che una cameriera le stava porgendo e bagnò la pianta.
Si alzò in piedi.
Von Kleist accorse per offrirle il braccio. Nel breve volgere di poche settimane, sua sorella sembrava invecchiata di vent’anni. Si era temuto per la sua salute, inizialmente, e una volta scongiurato il rischio della malattia fisica, si era temuto per i suoi nervi.
Se già prima passava ore nel roseto, dopo quello che era successo era diventato difficile vederla in posti diversi. Fuggiva gli eventi mondani, rifiutava di incontrare amici e conoscenti. A parte il marito e i figli, accettava di vedere solo lui.
Si incamminarono lentamente per uno dei vialetti. Per un po’ rimasero semplicemente in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, poi Luise domandò: “Come vanno le indagini?”
Ancora niente,” rispose von Kleist.
Quindi è riuscita a fuggire?”
L’ufficiale lasciò passare qualche secondo, poi rispose: “Oppure è morta.”
La donna scosse la testa. “Io non credo.” Poi si voltò verso le piante di rose, che la brezza del tardo pomeriggio faceva ondeggiare lievemente. “Lo sentirei se fosse morta. Lui me lo farebbe sapere.”
L’altro non rispose. Sapeva che la sorella ogni tanto parlava con la piantina, convinta che dentro ci fosse l’anima di Konstantin, ma aveva sempre fatto finta di niente. “Gli uomini della setta li hanno presi tutti, però,” disse, anche solo per stornare il discorso dalla china inquietante del contatto con gli spiriti. “Era una branca dei Rosacroce. Hai mai sentito parlare dei Rosacroce?”
La domanda sembrò cadere nel vuoto. Passarono diversi secondi prima che la sorella rispondesse: “Si finisce sempre per parlare di rose, vedi? E di croci.”
Lui le circondò le spalle esili con un braccio. “Lo so. È terribile quello che è successo. Io stesso non me ne faccio una ragione.”
Lei annuì in silenzio. Era diventata una sottile dama di ghiaccio, che sembrava sciogliersi lentamente, una goccia dopo l’altra, una lacrima dopo l’altra, sotto il sole primaverile.
Von Kleist non aggiunse altro. Era un uomo d’azione, sapeva spingere i soldati all’assalto, infiammare gli animi con parole esaltanti, ma aveva ritegno di quel dolore silenzioso come un paesaggio invernale, che nulla al mondo avrebbe mai più potuto lenire.
Andiamo dentro,” si limitò a proporle. La sospinse delicatamente lungo il vialetto.



Seduto nella serra di von Ruchel, von Kleist stava osservando una vasca nella quale nuotavano lenti i pesci misteriosi trovati nel laboratorio di Brandt.
Si avvicinò e picchiettò il vetro con le nocche, e subito una delle creature più vicine si gonfiò trasformandosi in una palla irta di aculei. “Ach!” commentò l’ufficiale, facendosi leggermente indietro.
Ti piacciono i miei nuovi amici?” chiese Johannes alle sue spalle. Si avvicinò con la sua andatura claudicante finché non fu accanto a lui, poi disse: “Li volevano ammazzare, pensa che spreco.” Prese un piattino che conteneva pezzetti di carne e lo rovesciò nella vasca, poi si sedette e rimase a contemplare con espressione soddisfatta i pesci che si nutrivano.
Che fine hanno fatto quelle lettere che avevi conservato?” chiese dopo un po’.
Ce le ha la Polizia di Sua Maestà,” rispose von Kleist sedendosi accanto a lui, “per le indagini. Spero solo che mi ridaranno il diario di Konstantin alla fine, Luise ci sta facendo una malattia.”
Von Ruchel si rigirò il bastone fra le dita con fare pensoso. “Devi capirla,” disse dopo un po’. “Secondo me Konstantin era il suo figlio prediletto.”
Sì, sono convinto anch’io che lo preferisse. In realtà non le sono mai piaciute le uniformi.”
Per un po’ di tempo rimasero in silenzio a contemplare i pesci, poi von Ruchel buttò lì: “Comunque ti ringrazio, Wilhelm.”
Per cosa?”
L’altro ebbe un sorriso velato di mestizia. “Per avermi fatto sentire vivo ancora una volta. Ero un po’ stufo di fare il topo di biblioteca storpio.”
Senza di te non ce l’avrei mai fatta. Non avrei neanche capito di cosa stava parlando il povero Konstantin.” Rimase per un po’ a contemplare i pesci, poi soggiunse: “Pensavo che avesse perso il senno.”
Con un sospiro, von Ruchel disse: “La sua disgrazia non è stata perderlo, ma ritrovarlo. Appena hanno capito che era rinsavito dalla follia ermetica e voleva avvisarti del crimine che stavano preparando, quei maledetti lo hanno ucciso.”
Calò di nuovo il silenzio. Arrivò con passo grave un pavone, li fissò sussiegoso e fece la ruota esibendo il piumaggio variopinto. “Vuoi fare a gara con la mia uniforme?” gli chiese von Kleist. L’uccello storse la testa e lo guardò con un occhio solo, quindi richiuse la coda e se ne andò.
Von Ruchel rimase per un po’ a guardare il pavone che si allontanava, poi disse: “Ci vorrebbe una fenice.”
Ma la fenice non esiste.”
Sei sempre il solito pragmatico. La fenice rappresenta il compimento della Grande Opera, e visto che anche noi abbiamo portato a termine un Opus Magnum, penso che ce la meriteremmo.”
Von Kleist sogghignò e disse: “Visto che qui tutti parlano per simboli, per una volta lo farò anch’io: fa lo stesso se non abbiamo catturato una fenice. Abbiamo spennato l’aquila bicipite[1], e tanto basta.”







[1] L’aquila bicipite è il simbolo dell’Impero austro-ungarico.

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