Cripto

di nuvolArcobaleno
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Evasione ***
Capitolo 3: *** Fuggitivi ***
Capitolo 4: *** Guardie ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prefazione

Questa "storia" mi è venuta in mente per caso e forse per sbaglio ma mi sembrava interessante scriverla, spero almeno sia di vostro gradimento... se qualcuno mai la leggerà...
Comunque, la mia idea nello scrivere Cripto era di andare a "improvvisazione" diciamo, senza scrivermi la trama o i personaggi. Ovviamente ciò può cambiare e  un giorno potrei decidere di prendere questa storia sul serio, ma, per ora, l'idea di base è "improvvisazione".
C'è, se mai qualcuno arriverà tanto lontano nella lettura, una trama, ovviamente, e dei personaggi definiti. Il problema con questo metodo alternativo sarà far uscire fuori, in modo naturale, tutte le informazioni e arrivare a una conclusione. State tranquilli, chiunque voi siate che avete deciso davvero di leggere sta roba, non sarà una storia troppo lunga. Anche se non so ancora quanti capitoli avrà.
Siccome non so neanch'io bene cosa aspettarmi da questa storia, sia il rating che il genere li ho messi un po' a sentimento. Se volete, potete fare tutte le critiche che volete e io cercherò di adattare la storia a questa. Per ora è sotto "Tematiche delicate", ma perché, effettivamente, parte con una situazione un po' disturbante (se sono riuscita bene nel mio intento, altrimenti sarà solo tutto molto strano)
Detto questo grazie per aver finito di leggere questa mia prefazione e... buona lettura immagino.

 

Prologo

Axel fu spinto a forza nella cella. Dietro di lui la porta si schiuse con un pesante tonfo, che rimbombò nella piccola oscurità che lo avvolgeva freddamente. Dalla parte opposta della parete una figura evanescente fu gettata insieme a lui nel buio, accompagnata dal solito tonfo profondo.

«Buon divertimento!» si sentì gracchiare dall’altra parte della porta blindata.

 

Axel rimase dov’era, guardando incuriosito la figura ancora stesa a terra riprendersi lentamente e guardarsi intorno disorientata.

«Salve« accennò con un sorriso sornione «Come va?»

La figura finalmente alzò la testa. Era una ragazza abbastanza bella nella penombra della cella. I capelli, neri e lucidi, sembravano lunghe alghe bagnate. Abbastanza inquietante come analogia, realizzò, ma forse era perché dietro a quella massa algosa si scorgeva a fatica un’espressione di odio e disgusto. Indirizzata a lui.

Lui, dal canto suo, non si era ancora mosso dalla sua piastrella, l’unica cosa che aveva fatto era stato chiederle come stava. Restò in attesa.

«Sai,» provò ancora «non deve per forza essere una cosa così… imbarazzante, diciamo» La ragazza continuava a fissarlo con disprezzo. «Potremmo anche… non so… conversare, conoscerci» Aveva parlato lentamente, tentando di tenere un tono rassicurante e magari caldo, nel freddo umido di quel cubo di piastrelle. Lei, per tutta risposta, lo fissò con ancora più disprezzo.

Silenzio.

«E va bene» e avanzò verso di lei di un passo. La ragazza si ritrasse verso il muro. Le manette tintinnarono sinistramente alle sue mani. Si fermò.

«Vedo che non te le hanno tolte» continuò. Evidentemente voleva davvero fare conversazione. Alzò le mani davanti a sé, «A me sì» accennò un altro sorriso. Nello sguardo della ragazza si intuì un accenno di paura.

Dall’altra parte dello spesso muro di ferro e acciaio non si sentiva alcun suono. Nulla del mondo esterno penetrava in quella stanza delle torture, anche se probabilmente non ce n’era bisogno: l’orrore che vagava fuori si era già infiltrato a sufficienza in quello spazio angusto, largo appena 7 metri quadri. A starci dentro si sarebbe detto che nulla sarebbe potuto neanche uscire, in realtà, in un angolo in alto era nascosta una silenziosissima ed efficiente ventola per il cambio dell’aria, di una grandezza tale da non permettere nemmeno ad un bambino di passarci dentro.

I due prigionieri rimasero ancora immobili a fissarsi. Il tempo non scorreva la dentro. Le porte lo avevano escluso dal fluire naturale del mondo.

Axel cominciò a muoversi sulla nuova mattonella con calma impazienza. Ad ogni suo movimento, la ragazza si raggomitolava ancora di più dietro la massa di alghe.

«Senti, sinceramente, ammettiamolo… prima è meglio è per entrambi!» la ragazza continuò a fissarlo, immutabile. «Saremo entrambi fuori di qui in un lampo, e per di più liberi!» Immutabile. Axel si sentiva spossato, era come ragionare con un cerbiatto spaventato. Non sapeva più che fare. Probabilmente non avrebbe ceduto. Era un peccato.

Si mise le mani tra i capelli e si voltò dall’altra parte, era davvero un peccato.

«Davvero pensi che saremo liberi come prima?» la voce flebile e quasi roca lo aveva sorpreso. Si girò lentamente.

«Perché?»

«Non sarà mai più come prima, non saremo mai più liberi» parlava in un sussurro, quasi un sibilo «Ma in fondo non lo siamo mai stati»

Nell’oscurità dei suoi capelli non riusciva a vedere la sua bocca muoversi, ma se la immaginava sottile e pallida. Si ritrovò a pensare che alla fine non sarebbe stato male. E si sentì una bestia per questo.

«Fai sempre questi pensieri allegri tu?» Perché si sentiva sulle difensive?

La ragazza ci mise un po’ a rispondere. Il suo sguardo lo schiacciava.

«Sei un mostro» e ne era convinto anche lui.

«Mostro, io?»

«Umpf!» i capelli le si mossero dal volto per una frazione di secondo per poi ricadere pesantemente «Sappi che io non cederò mai a quelli come te!» adesso sibilava come un serpente velenoso.

«Guarda che ci metto un attimo a chiamare la guardia» minacciò lui di risposta, indicando la porta.

Si stavano entrambi difendendo.

«Chiamala pure, ma sappi che non avrai comunque una vittoria facile. Dovrai uccidermi prima che accetti una mostruosità del genere! Ti graffierò e ti morderò e scalcerò e urlerò finché avrò fiato in corpo!» come un cobra che cerca di apparire più grande e minaccioso gonfiando il collo, la ragazza si protese in avanti, le mani puntate sul pavimento, gli occhi che dardeggiavano da quella massa di oscurità ondeggiante.

«Credi che sia facile per me?» Axel ritrovò anche se stesso in posizione di attacco, le mani strette in pugni pressate contro il petto, gli occhi spenti arrossati, la voce un rantolo strozzato nel tentativo di non urlare, disperato.

La ragazza si ritirò di nuovo nel suo angolo, non gli credeva.

Lui sospirò esausto, tentando di calmarsi riportò le mani alla testa. Aveva davvero delle belle braccia.

«Senti…» il suo tono era diverso dagli atteggiamenti assunti fino a quel momento: rassegnato, dimesso, di uno che sa di essere in trappola. La ragazza si rilassò un poco.

«Non l’ho scelto io di fare questo ok?» le sue parole dovevano suonare come delle scuse. «Loro me l’hanno proposto e io…» non sapeva come continuare «Era il modo più veloce per uscire da qui» Non suonavano come delle scuse all’orecchio della ragazza. Tuttavia non sentì di doversi allarmare come prima.

Non disse niente. Non era prudente rispondere.

Il ragazzo sospirò ancora, il secondo di una lunga serie in quella conversazione.

«Se non- Se tu- Insomma…» era difficile «Almeno concedimi di sapere il tuo nome…» Si rese conto che suonava davvero malissimo, ma cercò di non darlo a vedere.

Nessuna risposta. Il suo sguardo lo penetrava dolorosamente.

«Io… mi chiamo Axel. Axel Carpenter» Provò a tenderle la mano, ma la ritirò subito. Che stupido.

Quella situazione era assurda.

Forse avrebbe soltanto dovuto porre fine a tutto.

«Scusami» sentenziò sinceramente dispiaciuto. Sperò che lei capisse quanto gli dispiacesse. Si avvicinò alla porta. Alzò il pugno per dare due colpi. Momento di esitazione.

«Garla»

Axel si bloccò di colpo.

«Come?»

«Garla. E’... è il mio nome»

«... Garla?» Garla annuì.

 

I due rimasero ancora in silenzio. Un silenzio freddo e umido, che li faceva freddare il sudore addosso e che acuiva la fitta nel cuore di entrambi, sapendo cosa facevano lì. Ormai non si guardavano più negli occhi, lo sguardo era diventato troppo pesante da sopportare e adesso fissavano un punto indeterminato del pavimento di piastrelle grigie al lato.

Axel si mise a sedere con un tonfo, che fece riprendere Garla dal filo dei suoi pensieri.

A gambe incrociate, il volto seminascosto nella mano, sembrava quasi una statua antica. Ritrovatasi a fare certi pensieri, si vergognò immensamente di se stessa.

«Perché sei qui?» La domanda l’aveva presa di sorpresa e non l’aveva capita.

«Eh?»

«Perché sei… qui, qui dentro?» Con ampi gesti delle braccia indicava vagamente l’aria intorno a sé.

Garla si mise seduta composta in ginocchia, le mani in grembo, ma non si spostò i capelli dal viso. Sembrava non le dessero fastidio. Non che volesse vedere chiaramente niente, in una situazione tetra come quella.

«Ufficialmente, per “opposizione ostinata all’autorità e alla normale funzione data da svolgere”. In poche parole, per aver urlato contro il soldato che stava picchiando il mio collaboratore di lavoro» Non sapeva neanche perché glielo stesse dicendo.

«Quindi… per un Atto di Eroismo?» Gli rispose con uno sguardo di odio. Non le piaceva quell’espressione.

Il ragazzo si mise a sogghignare. Continuava a non capire perché glielo avesse detto. Voleva che smettesse di ridere.

«E tu?»

«Io cosa?»

«Perché sei dentro tu?»

«Furto»

«... Furto?»

«Furto»

«Tutto qui?» Non sapeva perché si aspettasse che le raccontasse qualcosa di più. Si sentì una stupida ad aver messo in dubbio la viltà di quella bestia. Ritornò a disprezzarlo.

Lui intanto aveva mantenuto un sorriso sornione sul volto squadrato. Lo disprezzò ancora di più.

«Mi hai detto il tuo nome, ma non vuoi dirmi la tua storia? Non sei molto coerente» Questo gli tolse il sorriso dalle labbra. Alzò lo sguardo su di lei. Uno sguardo duro. Garla stava tornando lentamente a sentirsi in pericolo.

«Se proprio lo vuoi sapere,» anche la sua voce era dura «ho rubato i soldi dal bancone di un negozio» Continuava a fissarla. Adesso era lei a sentirsi oppressa dal suo sguardo.

«Un negozio di falegnameria» tornò a fissare il pavimento. sembrava avvilito dal ricordo. «Non avevo altra scelta»

A Garla quelle parole non suonavano nuove. Qualcun altro le le aveva dette in una situazione diversa, ma in qualche modo simile. Tempo fa. In quella che sembrava un’altra vita.

«Stavi coprendo qualcuno?» Il ragazzo alzò la testa di scatto, sorpreso, gli occhi stretti verso di lei. Allora era vero.

«Ma non sei costretto qui, adesso. Tu hai una scelta. C’è sempre una scelta» Garla si accorse che il suo tono era quasi supplichevole. Sperò che l’altro non si arrabbiasse per questo.

Non si arrabbiò. «Una scelta?» sbottò invece. «E che scelte avrei sentiamo? io ne vedo solo due: marcire in cella per il resto dei miei giorni, o usarti… agire… con te... e uscire da questo buco!» Aveva esitato un attimo, la voce si era quasi spenta, ma si era ripreso subito. Ormai però lei aveva capito, e voleva tentare il tutto per tutto. Altrimenti, l’unica scelta che le sarebbe rimasta, sarebbe stata la vergogna.

«Io ne vedo un’altra. Possiamo uscire di qua. Uscire davvero»

«Non ti seguo» ma la sua espressione esprimeva di più oltre al semplice dubbio.

«Io dico fuggire. Non solo dalla prigione, ma dal regno. Fuggire questa dittatura, da questa agonia, da questa pazzia!»

 

Ad Axel sembrò trascorrere un eternità tra i loro primi sussurri e quella che fu la sua risposta. Il volto di lei gli sembrava estremamente vicino, eppure non si erano mossi, e lo fissava. Fissava la sua anima. Gli venne da ridere.

«Tu sei pazza» non sapeva cos’altro dire.

«Te lo leggo negli occhi che mi credi, non puoi mentire» d’improvviso si sentì con le spalle al muro.

«Non hai mai pensato di andare a cercare un mondo migliore da questo delirio?»

«Questo non è un delirio, è un regno. Abbiamo un re. Ci sono dei consiglieri. Non è una dittatura!» Ma le parole vacillavano nella sua mente prima di uscirgli dalla bocca, come fossero registrate e ripetute da una macchina.

«Certo che è una dittatura! Credi davvero che fino a dieci anni fa ci avrebbero sbattuto dentro per un misero furto e delle urla? Pensi che ci avrebbero costretto a questo?» Quasi involontariamente, la ragazza si mosse verso di lui, e lui fece per indietreggiare.

«il Progetto Ripopolamento e Riabilitazione serve a consapevolizzare i cittadini che non hanno ancora una chiara visione del mondo...» come una macchina ripeteva lo slogan senza emozione. Gli occhi sempre fissi su Garla.

Non ci fu bisogno di risposta.

Axel si arrese.

«Lo so. E’ ovvio che lo so» Si sentiva sprofondare sempre di più nell’oscurità della cella, avrebbe voluto sparire nell’ombra.

Un debole sorriso soddisfatto sfiorò le labbra di Garla. Erano davvero sottili.

«Ma anche se fosse,» aggiunse prima che lei potesse aprir bocca «come pensi di fare? Siamo chiusi in una cella blindata, sorvegliati da una guardia, in una prigione, circondati dal nulla…!» Axel davvero non sapeva come continuare. Aveva perso le speranze molto tempo prima.

«Io ho un piano»

Queste parole lo sorpresero più di tutto quello che gli era successo fino a quel momento.

 

Non sapeva dire se il piano fosse semplice o solamente stupido. La sua essenza era quasi completamente svanita nel nulla.

«Per favore,» si sentì pregare «in fondo cos’hai da perdere?»

Che cos’ho da perdere? Più ci pensava e più non sapeva se aveva una vera risposta. Lei avrà avuto qualcosa da perdere? In fondo, il fallimento significava morte certa, il successo la libertà assoluta. Se non avesse fatto niente e avesse continuato da copione, avrebbe vissuto l’inferno.

«D’accordo» sentenziò risoluto.

Da quel nulla che lo stava inglobando riprese la determinazione.

Si alzò in piedi.

Si avvicinò alla porta.

Alzò il pugno per dare due colpi.

Si girò verso Garla, che annuì decisa.

Momento di esitazione.

Che cos’ho da perdere?

Bussò due volte sulla porta.

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Capitolo 2
*** Evasione ***


Evasione

Tra il momento in cui finì di bussare e quello in cui la guardia aprì lo sportellino della porta blindata una moltitudine di pensieri si sovrapposero nella mente di Axel.

Questo piano non funzionerà mai. Moriremo. Cazzo. Devo tornare a casa. Devo tornare devo assolutamente. L’avevo promesso. Cazzo. E ora invece morirò qui. Saranno contenti quei bastardi. Loro e le loro leggi del cazzo. Stupido re stupidi finti consiglieri stupide leggi e stupide cazzo di leggi sociali. Certo perché se non fai come vogliono loro sei un degenerato un debole un’aberrazione. Maledetti. Mi avevano anche dato la possibilità di tornare. Sarebbe stato tutto come prima. Sarei tornato e mi avrebbero accolto. Mi avrebbe accolto. Certo come se niente fosse. Ma per favore! Menti a te stesso. Sei proprio un coglione. Dovevi rifiutare. Dovevi rassegnarti e invece no. Hai accettato. Idiota. Non ce l’avresti mai fatta non ce la farai mai. Sei proprio un debole. E’ perché sei debole che hai accettato di mettere in scena sto piano del cazzo. E ora morirete tutti. Morirai tu morirà lei che neanche conosci e con te non c’entra niente. Sei un’ameba. Mi fai schifo. Dovevamo fare come dicevano loro. Dovevamo andare con la corrente. Nessuno ci avrebbe disprezzato. Ma lei sì. Lei sarebbe morta. In tutti i casi sarebbe morta. Ora capisco perché vuole provarci. Ma io perché? Perché che voglio tornare a casa? Ma voglio tornare a casa? Non avrei comunque avuto speranza. Probabilmente lo sanno già tutti. Sarei morto comunque anch’io.

«Che vuoi?» La sua voce era odiosa e gracchiante. L’astio che trasmetteva verso il suo interlocutore faceva venire voglia di fargli abbassare la cresta. Questo diede coraggio ad Axel.

«Senti,» cominciò con voce calma e misurata, si stupì di quanto sembrasse a suo agio nel chiedere «Non vuole collaborare, ho il permesso di fare a modo mio?»

Dall’altra parte della piccola fessura si sentì come un sussulto.

«Apperò! E dimmi, ti serve qualcosa in particolare?»

Axel provò un mix di disgusto e stupore nel trovare se stesso dire «Una frusta»

La guardia disse che l’avrebbe portata subito e si allontanò ondeggiante sghignazzando tra sé. Da dentro la cella piastrellata si sentiva il rumore dei suoi passi pesanti allontanarsi.

Siccome nessuno si sognerebbe mai di voler uscire da una stanza dove si è chiusi a chiave con una bella donna, o almeno così diceva il regolamento, nessuno era lasciato come guardia di riserva ai due prigionieri. Quel giorno non faceva eccezione.

Intanto Garla era abilmente riuscita a bloccare con le manette lo sportellino dal chiudersi. Dopo averlo riaperto completamente con l’aiuto di Axel, Garla controllò l’esterno.

«Tutto libero, come da programma»

«Come fai a dirlo? Io da qui non vedo praticamente niente» ma lei non diede il minimo ascolto alla voce che gli sussurrava scettica all’orecchio.

«Tanto per sicurezza, mi ripeti il piano?»

«Distraiamo la guardia, apriamo la porta, sgattaioliamo nel condotto dell’aria, e usciamo senza farci sorprendere»

Questo piano non ha senso fu l’unico pensiero che riuscì a formulare Axel. Innanzitutto, come avrebbero fatto ad aprire la porta?

Axel iniziò a guardarsi nervosamente intorno, ma Garla sembrava perfettamente tranquilla. Appoggiò entrambe le mani sulla porta e chiuse gli occhi. Guardando meglio, gli sembrò che stesse borbottando qualcosa. Axel non riuscì a capire cosa stesse facendo, complice un po’ il buio, un po’ la massa di alghe davanti al viso e la completa inutilità dell’azione dal suo punto di vista.

Si stava spazientendo. Da un momento all’altro la guardia sarebbe tornata con la frusta. Lui, nella disperazione più piena l’avrebbe presa e avrebbe tentato di strozzarla. Avrebbe fallito e li avrebbero giustiziati entrambi. Il finale che si aspettava, ci rimase quasi deluso.

Fu riscosso alla realtà da una serie di rapidi “click”. Garla era tornata accanto a lui e guardava la porta. Che si stava aprendo.

 

Axel era rimasto a bocca aperta. Non sapeva più che dire. Non sapeva più che pensare. La sua mente si era svuotata davanti a un fatto tanto straordinario. Garla stava probabilmente cercando di dirgli qualcosa, ma lui non sentiva, era stato inghiottito dallo stupore.

Poi uno schiaffo.

La realtà gli piombò addosso violenta e irrazionale qual era. La sua mente ripercorse in fretta gli eventi degli ultimi giorni per riprendersi: la lite, il malinteso, il furto, l’incarcerazione, la proposta ignobile, la tizia dai capelli di alghe, il piano impossibile, la frusta, la porta che si apriva come per magia. E tornò al presente.

«Eh?»

«E’ la nostra occasione, sbrigati, il condotto dell’aria dovrebbe essere di qua!»

Axel seguì Garla come per inerzia. Voleva farle delle domande ma non riusciva a trovare le parole.

Il corridoio era stretto e lungo, ci passavano due persone accanto a fatica. La porta da dove erano usciti si trovava in fondo al corridoio, l’altro accesso alla cella era in un corridoio speculare a quello, come se avessero murato lo stesso passaggio a metà. Come nella stanza, era tutto pavimentato a mattonelle, anche pareti e soffitto.  Mattonelle bianco sporco che ti opprimevano e ti schiacciavano al suolo. Se non ci fossero state le lampade a neon, non avresti distinto quale fosse il sopra e quale il sotto. Le lampade illuminavano di una luce bianca e opaca l’atmosfera, creando ombre flebili e tremolanti. L’ambiente nel complesso era spoglio e asettico e tuttavia disturbante.

I due impiegarono dei minuti per adattarsi alla luce improvvisa. Ma Garla sembrava già sapere dove fosse la conduttura e andava spedita tastando il muro. Axel brancolava nel buio, vedeva debolmente dove era la ragazza ma anche procedendo a tentoni non riusciva a concentrarsi con tutti quei flash che gli baluginavano davanti tutte le volte che provava a chiudere gli occhi.

«Trovata!» annunciò gioiosa Garla.

Ritrovata parzialmente la vista, Axel aiutò l’altra ad aprire la grata ed entrarci dentro. La condotta era larga appena il necessario per farci passare un uomo. Axel avrebbe dovuto stringersi nelle spalle. Si chiese come mai avessero bisogno di condutture dell’aria tanto ampie.

Axel stava giusto spingendosi dentro lo stretto cunicolo quando sentì risuonare l’eco di uno sghignazzo in lontananza. Il sangue gli si gelò nelle vene.

«Che c’è, che succede?» Garla era già un pezzo dentro.

Si fece coraggio.

«Resta immobile e non parlare»

Da dentro l’oscurità del condotto, Garla sentì Axel scendere, il suono metallico della grata che si appoggia al vano, il suono sinistro e cupo di qualcosa di pesante che si chiude. Sentì un “clang”.

 

La guardia si fermò un attimo all’inizio del corridoio. Gli sembrava di aver sentito un rumore. Tuttavia il corridoio era come lo aveva lasciato e, una mano appoggiata alla cintura e nell’altra la frusta richiesta, si avviò verso la camera.

Non aveva mai veramente capito perché il governo tutelasse quel programma. Ma non si era mai neanche interessato veramente a saperlo. La cosa, d’altro canto, non lo riguardava, non influiva sul suo lavoro. Che gli importava a lui se il regno era disposto a perdonare quei criminali che avessero accettato di mettere su famiglia? Tanto, in breve tempo sarebbero tornati lì, in un modo o nell’altro. Se uno diventa criminale resta criminale, diceva sempre lui, non importa cosa. Non gli piaceva tuttavia essere assegnato a quel programma. Come guardia, doveva solo portare il prigioniero nella camera, aspettare, portargli ciò che gli serviva in caso di non collaborazione e aspettare ancora. Certe volte doveva solamente dire “Sì, hai il permesso.” Non gli era concesso neanche sbirciare. Era un lavoro tremendo. Non poteva neanche lamentarsi con qualcuno di quell'ingrato compito, perché l’altra entrata era bloccata alla sua vista da una parete e la guardia dall’altra parte non era umana, quindi non avrebbe comunque fatto conversazione. Certo, in effetti non aveva senso mettere una vera guardia dall’altra parte: la ragazza non sarebbe dovuta riuscire prima delle ventiquattro ore dopo, e non sarebbe potuta comunque scappare. Nessuno corre più veloce di un robot, o almeno non è abbastanza veloce da schivare i suoi colpi.

Tra tutti questi pensieri, la guardia arrivò a passi pesanti davanti alla pesante porta.

Aprì lo sportellino. Dentro non si vedeva niente.

«Ehi!» ma nessuno rispose.

La guardia estrasse le chiavi dalla cintura con non poca ansia. Che fosse successo qualcosa? Doveva controllare. Che diceva il regolamento in questo caso?

Mise la chiave nella serratura e provò a girare. Ma la porta non era serrata.

Aprì lentamente l’immensa porta di acciaio e legno.

Uno scricchiolio tetro risuonava nel silenzio mentre entrava nella camera.

Ancora sulla soglia, provò a guardarsi intorno. L’oscurità gli inghiottiva i mille pensieri sconnessi che lo tartassavano.

Silenzio.

Dalla pece uscì una possente mano che lo prese e lo scaraventò nel vuoto della cella. Le piastrelle apparivano perle impolverate viste da vicino. Alzò la testa terrorizzato. Due cerchi bianchi lo fissavano sospesi sopra di lui. La follia e la morte brillava in quegli occhi.

L’aria intorno a quei demoni vibrò e una forza oscura si avventò su di lui.

Fu il buio.

 

Nel condotto, Garla iniziava a sentirsi a disagio. I rumori che sentiva dietro di sé erano vicini e inquietanti.

La tensione le gocciolava lungo le tempie mentre pregava che andasse tutto bene.

Rumori sordi le arrivarono come dietro la nuca. Il terrore le faceva battere il cuore nelle orecchie.

Silenzio.

Cercò di captare anche il minimo rumore. Ma sentì soltanto la grata che si riapriva e sussultò.

«Possiamo andare»  la voce di Axel suonava greve e spenta.

«Che è successo?» Dietro di sé sentiva il compagno d'evasione arrampicarsi a fatica nello stretto condotto. Sembrava tenesse in mano qualcosa.

«Niente… Ho solo- mi sono equipaggiato»

I due continuarono in silenzio nel cunicolo.

«Secondo te, quanto tempo è passato da quando siamo entrati nella cella?» Garla non ne aveva idea.

«No lo so, perché?»

«Perché da quando siamo entrati avevamo due ore di tempo prima che qualcuno venisse a controllare che tutto procedesse liscio…

E quando arriveranno non ci metteranno molto a capire cosa sia successo»

Garla raggelò. Questo non lo aveva calcolato nel suo piano.
 

Note
La mia intenzione nel primo primo paragrafo di questo capitolo era di rendere uno "stream of conciousness" o "flusso di coscienza" per i comuni mortali. Mi sono resa conto che non potevo effettivamente farlo, anche perché non si capiva niente, cioè... meno di così. Lo stesso vale per la guardia, ma ho cercato di differenziare tra loro i due discorsi per rendere diverse impressioni: nel primo caso Axel sta pensando molto in fretta e fa pensieri più sconnessi; mentre nel secondo la guardia è più rilassata, quindi ho aggiunto della punteggiatura, per spezzare il ritmo.
Inoltre, sì, mi ci è cascato l'elemento fantastico. Eh lo so, mi dispiace. Non sarà propriamente magia, ma è comunque nella sfera del fantastico e inspiegabile.
Vi ricordo inoltre che questa storia procede sotto il segno dell' "improvvisazione" e che quindi potrebbe finire per cercare modi un po' trash, diciamo, per sbrogliarsi dalle situazioni più spinose. Cercherò tuttavia di non farlo accadere così spesso.

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Capitolo 3
*** Fuggitivi ***


Fuggitivi

Garla avanzava con fatica nello stretto cunicolo, m sentiva che Axel la seguiva, e faticava più di lei. Da quel che aveva potuto capire, doveva essere piuttosto alto e con le spalle larghe; data la forza che aveva, probabilmente aveva delle braccia possenti, probabilmente faceva un lavoro fisico. Si chiese che lavoro potesse mai fare. Prima gli aveva accennato di una falegnameria, ma non aveva detto che era la sua. Del suo volto ricordava soltanto il contorno squadrato, ma non aveva notato niente di più particolare. Non riusciva a ricordarsi gli occhi; li aveva fissati così a lungo, eppure non ricordava né la forma né il colore. Né Era riuscita a capire come avesse i capelli, ma di sicuro erano piuttosto corti.

Certo che era proprio stupido pensare a certe cose in una situazione del genere. A quanto pare sarebbero partite delle ricerche, ma non sapeva quando e ciò le metteva ancora più urgenza.

«Sai dove sbuca questo buco?» la voce dietro di lei era poco più che un sussurro, ma in quello stretto canale di tenebra non c'era bisogno di parlare più forte.

«Dovremmo arrivare ad una specie di crocevia ad un certo punto» lo sentì annuire.

«E come fai a sapere che non ci sentiranno che stiamo strisciando nei condotti dell’aria?»

«Questi condotti sono piuttosto nuovi rispetto all’edificio primario, furono costruiti pendenti dal soffitto e murati dentro un nuovo soffitto. Così hanno reso le stanze più piccole e le pareti più spesse e resistenti» lo sentì annuire ancora. Non sembrava molto convinto, ma non fece altre domande.

Dopo un tratto interminabile d’alluminio giunsero finalmente al crocevia annunciato da Garla. Si trattava di uno spazio molto ampio e circolare, alto come il resto dei condotti, in cui si intersecavano almeno 8 cunicoli.

Axel adesso era accanto a lei. «E adesso?» C'era una certa rassegnazione nella sua voce.

Garla guardò i condotti uno ad uno.

«Là» indicandone uno a destra. «Dobbiamo scendere»

Il condotto indicato effettivamente, sembrava scendere in un vuoto ancora più oscuro.

Si aspettava che controbattesse qualcosa, invece Axel non disse niente e si avviò per primo verso la fessura. In mano sembrava tenere una corda spessa.

Si infilò di testa e lei lo sentì scivolare giù. Fece un profondo respiro e lo seguì.

 

Più che un condotto dell’aria sembrava uno scivolo, lungo e dritto. I due si ritrovarono a scivolare giù sempre più giù, in una caduta sempre più ripida. Infinita e oscura. L’aria sferzava violenta il volto di Axel, i nervi tesi al primo accenno di fine di quella folle corsa. Garla dietro di lui a stento riusciva a distinguere i piedi del suo complice davanti a lei. Le sembrava di acquistare sempre più velocità.

Poi, tutt’a un tratto, il condotto finì. E i due si ritrovarono catapultati contro una grata, che venne sbalzata fuori violentemente insieme agli altri due. Il suono del semplice alluminio risuonò tetro e a lungo intorno a loro. Ma dov’erano loro?

Axel cercò di alzare la testa, ma lo scontro con la grata non aveva aiutato ad alleviare la caduta e adesso la testa gli girava e la sua vista era offuscata. Si sentiva pesante. Si rese conto suo malgrado che la ragazza gli era caduta addosso.

«Tutto bene?» mugolò.

«Ooooouuh...» Garla si mise lentamente a sedere. Adesso anche lui poteva alzarsi, se solo ci fosse riuscito.

«Sei tutta intera?» provò ancora a chiedere.

«Credo di sì… Tu?»

«Sono vivo» non riusciva a descrivere a parole la strana sensazione che provava: si sentiva stretto in una morsa tra le membra doloranti e la testa che gli scoppiava.

Tentò di nuovo do aprire gli occhi. Erano ancora avvolti nell’oscurità, ma l’aria sembrava pervasa da una flebile brezza, diversa dalla soffocante atmosfera condizionata di prima. Guardandosi meglio attorno, iniziò a notare piccoli particolari fuori posto. Innanzitutto, non c’erano piastrelle: il pavimento intorno a loro era di pietra. Grosse pietre ruvide e umidicce di dimensioni leggermente diverse l’una dall’altra incastrate a formare un pavimento. anche le pareti sembravano di pietra, ma anche lì erano tutte particolari: alcune quadrate e altre rettangolari, davano l’impressione di poter reggere qualsiasi peso posto sopra di loro. Non riuscì ad arrivare al soffitto, inghiottito anch’esso dall’oscurità, come loro.

«Ce la fai a continuare?» si accorse che Garla si era messa in piedi e si stava sistemando la veste. I suoi capelli, lunghe alghe in via d’essiccazione, continuavano a nasconderle il volto, come se stare nascosto alla vista fosse il suo stato naturale.

«Dove…?»

«Per ora siamo al sicuro, ma dobbiamo spostarci da qui. Se davvero ci staranno cercando ci serve un luogo più nascosto» Non era proprio questo che voleva sapere, ma ok.

Si mise in piedi a fatica, rimise a posto la grata e continuò a seguire la ragazza misteriosa, quasi come spinto da una forza invisibile.

«Che posto è questo?» ma non gli rispose.

 

Gli sembrava di camminare in un sogno. Tutto era così assurdo che non gli sembrava vero. Era convinto che da un momento all’altro si sarebbe svegliato nella sua cella, una fragorosa stangata sulla porta a riportarlo dal mondo dei sogni.

«Che cos’hai in mano?» Garla non si era nemmeno voltata, procedendo sempre tastando il muro si dirigeva verso chissà quale anfratto oscuro.

Axel si guardò la mano. Stava effettivamente stringendo qualcosa in mano. Non lo aveva lasciato durante la discesa e neanche dopo la caduta.

«Fammi controllare… Uhm, una cintura con… un taser, una pistola, una torcia, un- tesserino, bene, e poi… una frusta» concluse senza entusiasmo.

A quel punto la ragazza si bloccò e si voltò a fissarlo da quella massa di alghe.

«E’ la cintura della guardia quella?» sembrava quasi sconvolta.

Lui ci mise un po’ a rispondere.

«Sì»

«Perché l’hai presa?»

«A lui non serviva,» cominciò a legarsela addosso «e a noi potrebbe» ci fissò anche la frusta.

Garla lo guardava allibita. Lui rimase apatico.

«Che è successo prima, prima che entrassi nella condotta?»

Quasi impercettibilmente la sua espressione si colorò in una forma di odio e colpevolezza.

«...»

«Che è successo?»

«...»

«Dimmi cosa- »

«Non sono tenuto a dirti nulla!» in un ambiente tanto vasto e vuoto, la sua voce autoritaria risuonò contro le pareti. «Io non conosco te e tu non conosci me. Ho accettato di unirmi a questa tua folle impresa perché era la mia unica speranza di salvezza. Tutto qui!»

Un silenzio pesante cadde tra i due fuggiaschi. Per qualche momento nessuno dei due si mosse.

«Io- » riprese più calmo lui, «non so come tu sappia tutte queste cose su questo posto. E non mi interessa. Al momento voglio solo finire con questa assurdità in cui mi ritrovo e andarmene. Quindi, se sai cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo andare, io ti seguo» Tolse la torcia e la porse a Garla che, ancora un po’ stordita, la prese.

 

Continuarono in silenzio per un’altra eternità. La debole luce della torcia illuminava pietra dopo pietra, accentuando l’ombra dietro ogni svincolo che passavano. Dopo un numero interminabile di pietre squadrate Garla annunciò che erano vicini. In lontananza sembrava di sentire lo scroscio di acqua corrente.

«Qui intorno dovrebbe esserci un canale» annunciò, puntando la torcia a destra e a manca del terreno.

«Intendi dell’acqua?» proprio in quel momento la torcia illuminò quello che sembrava essere un antico e largo canale di scolo fognario. Seguirono il flusso finché il rumore non fu assordante. In fondo al tunnel cominciarono ad intravedere una debole luce.

Garla spense la torcia e la rese ad Axel, che proseguiva sempre più sbalordito accanto a lei. Uno scroscio impetuoso gli riempiva le orecchie e la testa, lavando via ogni altro pensiero, ogni ricordo.

Si fermarono davanti a un’enorme apertura tonda, alta circa due metri, bloccata da grandi sbarre, alla cui base si ammucchiavano sporcizia e grossi rami ormai melmosi, prima di cadere in un’altra oscurità, stavolta più blu e tridimensionale.

«Mancano ancora delle ore all’alba» Mentre Axel era fermo ad ammirare a bocca aperta lo strapiombo vaporoso Garla stava tastando le pareti circostanti l’apertura.

«Stai cercando qualcosa?»

«Sì, se lo trovo, siamo nel posto giusto»

«Non faresti prima colla- »

«No, non è prudente: da fuori potrebbero vedere la luce e insospettirsi»

«Ok allora… ti aiuto, cosa stiamo cercando?» si avvicinò anch’egli al muro e iniziò a tastare a caso, in cerca di eventuali sporgenze o rientranze sospette.

«Una parola scavata nella nella pietra: Cripto»

«Cripto?» il suo scetticismo permeava da ogni singola lettera pronunciata. Lei annuì. Axel smise di cercare di dare un senso a quella serata, tanto era inutile.

Controllarono l’intera parete in pochi minuti e alla fine Garla esclamò di averla trovata. E adesso?

«Possiamo andare»

Axel era molto perplesso «Dove?»

«Giù» la guardò incredulo e spaventato, ma non servì a nulla. «Dobbiamo saltare»

Il ragazzo guardò alternativamente prima lei e poi la caduta, varie volte.

«Non abbiamo molto tempo!» improvvisamente la ragazza era diventata impaziente, si muoveva a scatti sul posto e guardava axel supplichevole.

E va bene, tanto ormai.

«E dopo saremo liberi?»

«Una volta a terra potremo nasconderci nel bosco, ma dovremo comunque continuare a camminare un po’, almeno finché c’è buio» sembrava convinta delle sue parole. Perché discutere?

Annuì deciso e si mise accanto a lei oltre le larghe sbarre muffite.

Si scambiarono un ultimo sguardo risoluto.

Che cos’ho da perdere?

Si gettarono nel vapore.

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Capitolo 4
*** Guardie ***


Guardie

Quando la guardia andò a controllare che al collega filasse tutto liscio, rimase non poco perplessa alla scena.

Il suo lavoro non gli era mai piaciuto, e non solo quella parte riguardante quell’assurdo Programma, ma tutto in generale. Gli sembrava che la maggior parte dei detenuti fosse finita lì per sbaglio; una buona metà acquisiva l’aria di un morto vivente man mano che passava il tempo in cella; probabilmente nessuno si sarebbe reintegrato a pieno nella società civile, neanche partecipando al “programma”.

Erano passate due ore, e siccome era ancora il suo turno, toccò a lui andare a fare il giro di controllo. Se odiava tutto del suo lavoro, quello lo odiava in particolare. Arrivava lì; chiedeva se andava tutto bene; si sentiva rispondere con una qualche battutaccia; proseguiva verso il blocco successivo, seguendo la lista. I turni del Programma iniziavano tutti insieme anche per semplificare quel processo. Ogni guardia segnalava quando chiudeva il prigioniero nella cella e ancora quando lo faceva riuscire, se dopo due ore ancora non aveva fatto rapporto, il nome della guardia e del prigioniero a lui assegnato venivano segnati sulla lista di controllo.

Quel giorno la sua lista conteneva soltanto tre nomi. Li scorse velocemente: lo odio, lo odio, accidenti questo quanto lo odio. Iniziò quella noiosa routine.

Tutto bene? Sì, sì, ci stanno ancora dando dentro quei due eh eh. Odio.

Tutto bene? Seee, la cagna ha fatto un po’ di zuffa, tu sentissi come urlava ah ah. Molto odio.

Guardò ancora l’ultimo nome sulla lista. Di tutti i suoi colleghi, pochi gli stavano simpatici, e non è che gli stessero proprio simpatici, semplicemente li sopportava volentieri. Tutti gli altri li considerava come ignoranti cani da guardia: buoni solo ad abbaiare, potenti solo con chi non poteva reagire, addestrati a ricevere un croccantino se facevano i bravi. Ogni tanto sentiva che anche lui faceva in qualche modo parte di questa categoria e un senso di disgusto gli attraversava la spina dorsale. L’ultimo del giro di oggi era uno come gli altri, rozzo e  stupido, ma gli stava particolarmente antipatico perché se lo ritrovava sempre nei paraggi, a mensa, in fila per il bagno, nel giro della sera. Una di quelle persone che anche se non ti rivolgeva la parola lo disprezzi, e sfortunatamente era anche un gran chiacchierone.

Prima di arrivare all’ultima svolta e ritrovarselo davanti guardò l’orologio: 12.15. Cavoli, ci aveva messo un quarto d’ora per levarsi di dosso quei due balordi. Speriamo che non abbia voglia di parlare, finito qui posso andare a casa.

Girò l’angolo con la triste certezza che quello lo avrebbe apostrofato già dall’inizio del corridoio. Ma quando svoltò non vide nessuno.

 

Si bloccò un attimo e provò a chiamare. Ma non ci fu risposta.

Aspettò ancora qualche secondo, dopodiché prese la pistola, tolse la sicura e si avvicinò lentamente alla cella.

Arrivato davanti alla porta si fermò. Provò a chiamare ancora, in un sussurro. Posta silenziosamente la lista a terra, prese la torcia con l’altra mano. Con il piede aprì il portone socchiuso e illuminò l’interno stando sullo stipite. Per terra, accasciato vicino al muro davanti alla porta, stava un corpo a pancia sotto, il volto rivolto al muro. Si sentì raggelare, intorno alla testa c’era una pozza di sangue.

Illuminando passo passo l’interno della cella si avvicinò cautamente al cadavere. Era la guardia di turno alla cella. Lo girò, aveva il volto tumefatto. Con la torcia controllò il resto del corpo: sembrava aver riportato ferite soltanto alla testa; l’uniforme era stata lasciata intatta; soltanto la cintura era sparita, ma avevano avuto cura di lasciare la radio lì.

Si asciugò il sudore con una mano, era un vero macello.

 

Tornò nel corridoio, indeciso sul da farsi. La testa gli pulsava; le mani gli tremavano; sentiva che le gambe avrebbero ceduto da un momento all’altro. Rimise la pistola e la torcia a posto e con grandi passi si mise a misurare l’ampiezza del corridoio; la testa, rivolta al pavimento, fissava il vuoto e sembrava persa in un’altra dimensione.

Sicuramente c’erano delle direttive anche per casi del genere. Cosa poteva essere successo? Il prigioniero probabilmente aveva convinto l’altra sventurata a collaborare nella fuga, poi aveva ingannato la guardia per farsi aprire, lo aveva attirato dentro e lo aveva messo fuori gioco, poi erano fuggiti. Si guardò intorno. E’ improbabile che siano passati dal corridoio, la via è più volte bloccata da porte sbarrate e controlli armati. Allora vide la grata del condotto di ventilazione. Si avvicinò e constatò che era soltanto appoggiata al muro.

Con un simile quadro della situazione, prese la radio e chiamò la Centrale di Controllo della prigione.

«Centrale mi sentite?Passo»

«Forte e chiaro, che succede? Passo»

«Parla la guardia carceraria Norto Northop, settore 3, dal settore 3. Mi trovo davanti alle cella cinque della zona adibita al Progetto RR. La cella è aperta e la guardia Gil Menphis del settore 3 è morta all’interno. Sembra sia stata colpita alla testa. Nessuna traccia dei prigionieri Axel Carpenter numero 007472 e Garla Bron numero 007483. Credo stiano tentando la fuga tramite i condotti dell’aria. Chiedo istruzioni. Passo»

Si sentono rumori confusi sullo sfondo dall’altra parte, qualcuno sembra stia imprecando.

«Ne sei sicuro? Qui sembra una faccenda seria. Passo»

«Affermativo signore. Passo»

«Da quanto tempo potrebbero essere spariti? Passo»

«Non lo so… credo massimo un’ora e mezza. Passo»

Pausa. «Va bene. Faremo partire immediatamente l’allarme. Tu vai direttamente dal capo a fare rapporto. Manderemo degli ispettori al tuo posto al più presto. Passo e chiudo»

«Ricevuto- » ma aveva già staccato. Immediatamente si sentì partire la sirena d’allarme, l’unico suono che riusciva ad attraversare tutte le pareti in quel luogo.

Norto indugiò un attimo. Non capiva perché c’era qualcosa che non gli tornava e ciò lo rendeva frustrato. Si girò verso la cella buia dove ancora giaceva riverso il cadavere del suo collega. E d’improvviso capì cosa c’era di sbagliato: come aveva fatto il prigioniero a far aprire la porta alla guardia? Perfino un fesso come Gil non l’avrebbe mai aperta; non solo era contro il regolamento, ma Gil era uno che non perdeva l’occasione per veder soffrire qualcuno, e questo lo diceva anche spesso in giro, quindi avrebbe preferito far morire i prigionieri, che aprire. Si mise a tastare il portone. Non gli venivano in mente possibili scenari per cui quel sadico avrebbe aperto la porta, ma non sembrava neanche che fosse stata forzata dall’interno. Gocce di sudore freddo gli scendevano lungo il volto mentre realizzava che non riusciva a trovare una spiegazione logica e razionale alla situazione.

Si allontanò lentamente dalla porta, senza staccare lo sguardo dall’oscurità della cella, come se da un momento all’altro si aspettasse di vedere Gil che gli veniva incontro col volto tumefatto e gli occhi vuoti. La sirena gli rimbombava nelle orecchie.  Lo risvegliò da questo delirio ad occhi aperti lo scontro con la grata, che cadde fragorosamente a terra.

Tirò un sospiro di sollievo. Quindi si chinò a raccogliere la grata. E allora si ribloccò.

La grata ferma tra le mani iniziò a tremare insieme alle braccia che la stringevano.

Sul suo viso si dipinse un’espressione di puro terrore.

No, non è possibile.

Avvicinò il volto allo sportello quasi a volerci entrare dentro. Ma quella scritta glielo impediva. Non sarebbe mai entrato di proposito in un suo incubo.

Davanti ai suoi occhi cominciarono a balenare immagini di mulini a vento, pistole , corpi riversi a terra, flash bianchi e quella parola che si ripeteva all’infinito, a intervalli irregolari, sussurrata al suo orecchio da voci sconosciute. CRIPTO.

Fece cadere fragorosamente la grata a terra e corse via.

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