Do you ever believe you were stuck in the sky?

di Kim WinterNight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Is it a joke? ***
Capitolo 2: *** Under the sofa ***
Capitolo 3: *** Who the fuck are you? ***
Capitolo 4: *** Can I help you? ***
Capitolo 5: *** Welcome to the Skye Sun Hotel! ***
Capitolo 6: *** Beach under the Sun ***
Capitolo 7: *** Fuck to Forget ***
Capitolo 8: *** Jamaican Breakfast ***
Capitolo 9: *** Groupies ***
Capitolo 10: *** Bad Ideas ***
Capitolo 11: *** Fuck N' Kill ***
Capitolo 12: *** Fyah ***
Capitolo 13: *** Rage ***
Capitolo 14: *** Feeling ***
Capitolo 15: *** Armageddon come alive! ***
Capitolo 16: *** Two Shots ***
Capitolo 17: *** Oh, what a disaster! ***
Capitolo 18: *** Must be Serious! ***
Capitolo 19: *** Dam ***
Capitolo 20: *** Tonight may be our Last ***
Capitolo 21: *** The Truth ***
Capitolo 22: *** Peace after the Storm ***
Capitolo 23: *** Hard nut to crack ***
Capitolo 24: *** Who's the Star? ***
Capitolo 25: *** Here comes the Night ***
Capitolo 26: *** Friendship is the Cure ***
Capitolo 27: *** Cheeseburger ***
Capitolo 28: *** We are so close ***
Capitolo 29: *** I just want to feel good! ***
Capitolo 30: *** Stuck in the Sky ***
Capitolo 31: *** Our mistakes ***
Capitolo 32: *** Paddleboat ***
Capitolo 33: *** Heartbeats ***
Capitolo 34: *** LOL ***
Capitolo 35: *** Taxi! ***
Capitolo 36: *** Breakdown ***
Capitolo 37: *** In my arms again ***
Capitolo 38: *** Dead Memories ***
Capitolo 39: *** Anyone ***
Capitolo 40: *** Slash! ***
Capitolo 41: *** Time is running out ***
Capitolo 42: *** Feelin' the same ***
Capitolo 43: *** Take it easy! ***
Capitolo 44: *** Back Home ***
Capitolo 45: *** LAX ***
Capitolo 46: *** You I need ***
Capitolo 47: *** This Shit ***
Capitolo 48: *** Special ***
Capitolo 49: *** On the road again! ***
Capitolo 50: *** Reunion ***
Capitolo 51: *** Storytellers ***
Capitolo 52: *** Trust? ***
Capitolo 53: *** Angels ***
Capitolo 54: *** Pre-show ***
Capitolo 55: *** Shy Guy ***
Capitolo 56: *** Ready ***
Capitolo 57: *** Love, Music, Sea ***
Capitolo 58: *** #homies ***
Capitolo 59: *** Projects ***
Capitolo 60: *** Touches ***
Capitolo 61: *** Insecure ***
Capitolo 62: *** Portrait ***
Capitolo 63: *** Happy Birthday! ***
Capitolo 64: *** Bad cold! ***
Capitolo 65: *** Leave me alone ***
Capitolo 66: *** Decisions ***
Capitolo 67: *** Everything's gonna be alright! ***
Capitolo 68: *** Psychopath ***
Capitolo 69: *** Interviews ***
Capitolo 70: *** Family ***



Capitolo 1
*** Is it a joke? ***


ReggaeFamily

Is it a joke?

[Shavo]




Una vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. Mi rendevo perfettamente conto di dovermi muovere, ma solo l'idea di uscire nel caos losangelino mi metteva addosso un'ansia indicibile.

Che palle.

Mi rigirai nel letto e chiusi gli occhi. Forse avrei dovuto alzarmi, prepararmi un tè dai tratti giamaicani, poi prendere qualche vestito a caso e fare una passeggiata. Sì, una passeggiata...

Le palpebre pesanti, ecco cosa mi fregava. C'era un meccanismo secondo il quale io lottavo come Don Chisciotte contro i mulini a vento, e questi mulini mi fottevano sempre. Merda.

Udii uno squillo estremamente fastidioso e quasi gridai per lo spavento. Chi cazzo era? Perché qualcuno suonava alla mia porta? Quando mi trovavo in questi periodi di reclusione domestica, tutti sapevano che avrebbero dovuto lasciarmi tranquillo.

Il campanello suonò ancora.

Probabilmente era un venditore porta a porta; forse avrei dovuto ricordarmi, la prossima volta, di staccare il campanello, almeno in certi momenti...

La persona al di sotto del mio palazzo si attaccò letteralmente al pulsante, e allora capii di chi si trattava.

Lanciai via le coperte, conscio che, se non avessi risposto, quel dannato coglione non avrebbe mai smesso di suonare e avrebbe presto cominciato a suonare anche i campanelli degli altri condomini.

Mi precipitai vicino all'ingresso e afferrai il citofono, strappandolo quasi dalla parete su cui era sistemato.

«Malakian, giuro che sei morto! Che cazzo vuoi?» strillai, la voce ancora impastata per il sonno uscì simile a quella di un orco cattivo. Forse lo avrei spaventato, almeno un po'.

«Ritenta, sarai più fortunato» gracchiò una voce familiare, ma che non riconobbi come quella di Daron.

«Ah... ehm... John?!» farfugliai.

«Già, Daron mi ha spiegato come fare per costringerti a rispondere» disse il batterista, utilizzando un tono innocente, per il quale quasi scoppiai a ridere.

«Mi ricorderò di scollegare quell'arnese infernale la prossima volta che decido di...»

«Posso salire o devo stare qui a fare la muffa?» mi interruppe John.

«Ah già, okay. Sali.»

Schiacciai il pulsante per aprire il portone d'ingresso del palazzo e socchiusi la porta, mettendo fuori la testa e attendendo che John arrivasse.

Proprio in quel momento, la porta di fronte alla mia si spalancò e ne uscì una ragazza abbigliata in modo bizzarro, cosparsa di tatuaggi e piercing, con i capelli arruffati e tinti di blu elettrico.

«Ehi pelatone, come te la passi? Hai deciso di uscire dal tuo antro oscuro?» mi apostrofò la mia dirimpettaia, trascinandosi dietro una grossa valigia.

«Abby, è sempre un piacere vederti» replicai in tono sarcastico. «E anche i tuoi capelli sono piacevoli da osservare, sì.»

«Sono sexy, ammettilo!» ammiccò.

John ci raggiunse e strabuzzò gli occhi nel notare Abby.

«Ah ecco perché sei uscito dalla tana» commentò la ragazza, squadrando John da capo a piedi, in maniera del tutto spudorata. «Per accogliere questo bel manzo! Divertitevi miei cari, io parto.»

«Dove saresti diretta? Un altra marcia per i diritti degli omosessuali in crisi di peso?» la punzecchiai.

«Spiritoso Shavy, davvero spiritoso.» Abby mi mostrò il dito medio e si infilò nell'ascensore poco prima che questo si richiudesse.

«Simpatica» commentò John.

«La lesbica più etero del mondo. Entra.»

Lasciai passare il mio amico e richiusi la porta, per poi appoggiarmici contro e incrociare le braccia al petto; volevo assumere un'aria contrariata, ma mi resi presto conto che con indosso un pigiama azzurro sformato non dovevo incutere molto timore.

Dolmayan mi lanciò un'occhiata interrogativa, poi disse: «Piantala di fare il cretino, Shavo. Mi offri qualcosa da bere? Sono venuto a piedi fin qui, sono abbastanza affaticato».

«Ma che ore sono?» domandai.

«Le otto e un quarto» annunciò fieramente il batterista, battendo con un dito sul suo orologio da polso.

«E tu... tu... hai osato svegliarmi così presto? Merda, Dolmayan!» sbottai.

«Devo dirti una cosa. Smettila di rompere, andiamo in cucina.»

Lo seguii controvoglia, neanche fossi io l'ospite in casa mia. Bizzarro come possano mettersi le cose, a volte...

«Spero per te che si tratti di qualcosa di vitale importanza» sottolineai, decidendomi a preparare un caffè per entrambi. Conoscevo John, non amava il tè come me, non glielo proposi neanche.

Mentre aspettavo che il bollitore facesse il suo dovere, recuperai il mio materiale per prepararmi una sigaretta e vidi John roteare gli occhi al cielo.

«Vuoi favorire, socio?»

«Fottiti. Ascolta, piuttosto. Ieri qualcuno ha proposto a Rick una data per noi» mi riferì, tornando improvvisamente serio.

«Per noi

«Per i System Of A Down, Shavo.»

«Cazzo. Dove? Quando? Devo prepararmi psicologicamente...» cominciai a sparare a zero, facendomi subito prendere dall'ansia.

«Odadjian, stai calmo! Se te lo dico non ci credi.» John mi sorrise.

Mi alzai per finire di preparare il caffè e lo passai a John senza porgergli lo zucchero, mentre io me ne versai tre bustine.

«Quello è zucchero con caffè, Shavo!» commentò inorridito.

«Macché. Allora? Me lo vuoi dire o no?» lo incalzai, mescolando la bevanda fumante con un cucchiaino.

«Al Dodger Stadium» buttò lì lui con nonchalance.

Avevo appena sorseggiato un po' di caffè e per poco non glielo sputai in faccia, rischiando di soffocare. Allontanai la tazza da me e presi a colpirmi sul petto, cercando di respirare almeno con il naso.

John si alzò e venne a picchiarmi sulla schiena, ridendo come un deficiente.

«Non mi prendere per il culo!» gli gridai contro. «Se tu e Malakian avete deciso di farmi uno scherzo, avete sbagliato giornata!»

«Ma quale scherzo?! È tutto vero, Odadjian!» si difese il batterista, tornando a sedersi di fronte a me.

Lo guardai perplesso. Com'era possibile che noi fossimo stati invitati a suonare nello stadio dei Dodgers? Mi sentivo male, giuro, mi stavo sentendo realmente male. Non era possibile, era uno scherzo, sì, doveva esserlo.

«Devi calmarti. Non so perché ho accettato di dirtelo io, non mi aspettavo una reazione del genere.»

«Frena, amico. Sta' un po' zitto.»

Ripresi a costruire la canna che avevo lasciato a metà mentre preparavo il caffè e me la riempii per bene. Osservai il mio astuccio e aggrottai la fronte: era ora di uscire di casa, dovevo rifornirmi di erba.

«Quello ti aiuta davvero a calmarti?» borbottò John, finendo di bere il suo caffè amaro.

«Sicuro.»

Afferrai l'accendino e lo feci scattare. Già con il primo tiro, sentendo la gola bruciare, mi sentii subito meglio; ero in grado di ragionare, di darmi una calmata e farmi passare quel dannato senso d'agitazione che mi attanagliava ogni volta che capitava un fuori programma come quello.

«Quindi, lo hanno chiesto a Rick?» domandai dopo qualche tiro, notando che John si avvicinava alla finestra e la socchiudeva appena. Quell'odore lo infastidiva, ne ero cosciente, ma non potevo farci niente.

«Sì.»

«Avrebbe potuto proporre Shakira, no?» scherzai.

«Hanno esplicitamente chiesto di noi.»

«Ah.»

Il cellulare di John prese a squillare: la sua suoneria consisteva in un esercizio eseguito da lui, in cui applicava sulla sua batteria una roba impossibile come ritmi dispari di percussione araba. Era un genio, questo non avrei mai potuto negarlo.

Lui afferrò il telefono e aggrottò la fronte, poi rispose: «Sì?».

Io continuai a fumare tranquillamente, sentendomi decisamente meglio. Tuttavia, ero ancora sotto shock.

«Ah, cazzo. E adesso?» borbottò Dolmayan con sguardo preoccupato. «Chiama un medico, no? Che cazzo ne so io?!» Rimase in ascolto, poi riprese a parlare con fare pratico: «Va bene, ti raggiungo. Sì, sono da Shavo. Dammi... mmh... sono a piedi, quindi penso che ci impiegherò una cinquantina di minuti».

Gli lanciai un'occhiata interrogativa. Avevo come l'impressione che la giornata fosse iniziata nel modo sbagliato.

«Okay, a dopo. Ciao.»

John si ficcò il cellulare in tasca e sospirò pesantemente.

«Ehi, che c'è?» gli chiesi.

«Daron» biascicò. «Ha un attacco di panico e Serj non riesce a farlo uscire da sotto il suo divano, non si capisce che cazzo gli sia preso. Dio, quel ragazzo ha seri problemi...»

«Di nuovo?»

John annuì.

«E cosa ci fa a casa di Serj?» mi informai perplesso.

«Ieri ha cenato da lui, poi a quanto pare si è ubriacato e Serj ha deciso di lasciare che dormisse da lui. Poi stamattina...»

Annuii. «Il solito, insomma.»

«Pare che stessero festeggiando per questa cosa del concerto... okay, grazie per il caffè. Poi ci aggiorniamo per questa storia, va bene? Cazzo, devo andare» farneticò John, afferrando la giacca e avviandosi verso l'uscita.

Lo seguii e gli posai una mano sulla spalla, prima che potesse lasciare il mio appartamento. Gli indicai un quadro che avevo appeso poche settimane prima alla sinistra della porta d'ingresso.

«Un altro regalo di Malakian Senior?» ammiccò.

«Sì. È fantastico.»

John sorrise brevemente, poi mi salutò con un cenno e si avviò di corsa giù per le scale. Ci avrei scommesso che non avrebbe preso l'ascensore.

Osservai il quadro dai colori scuri e tetri, e mi parve di riconoscere in esso l'animo tempestoso e tormentato di Daron; suo padre dipingeva da dio, e con i suoi lavori riusciva a cogliere delle emozioni, a metterle su tela e a trafiggere l'anima di un acuto e appassionato osservatore. Qualcuno lo definiva sconclusionato, ma del resto l'arte era solo arte, non era fatta per seguire una logica.

Mentre mi avviavo in bagno per buttarmi sotto la doccia, fui stranamente grato a John per aver impedito che la mia reclusione tra quelle quattro mura proseguisse oltre.




Ciao a tutti e grazie per aver letto questo primo capitolo.

Sono fiera di annunciarvi che ho deciso di cominciare a pubblicare questa long sui SOAD perché sono, per me, i migliori; non so che dirvi, non ci posso fare niente, è così e basta.

Quest'idea è nata quasi per caso, e mi fa piacere poter fare qualcosa per ripopolare una categoria così tristemente scarna qui su EFP... l'ispirazione per scrivere anch'io su questa band è nata anche e soprattutto grazie alle storie di StormyPhoenix, di cui vi consiglio di leggere tutto ciò che ha scritto su di loro, ma non solo: è davvero brava e merita su tutta la linea!

Il titolo della storia prende ispirazione dal testo di “Peephole”, brano presente nel primo e omonimo lavoro dei SOAD. Se non la conoscete, ascoltate un po' qui, e preparatevi a ballare un bel valzer XD

Vi lascio con questa domanda, la stessa che sorge alla band in questo brano: voi, cari lettori, avete mai creduto di sporgervi nell'immenso del cielo, di sfiorarlo con un dito?

Forse ciò che intendono loro è ben diverso, ma io l'ho interpretata così e vorrei sapere cosa ne pensate... :D

Grazie a chiunque sia arrivato da queste parti, attendo i vostri commenti e ci sentiamo al prossimo aggiornamento, che sarà giovedì prossimo ♥

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Capitolo 2
*** Under the sofa ***


ReggaeFamily

Under the sofa

[John]




Arrivai a casa di Serj in fretta e furia. Notai che ci avevo impiegato cinque minuti in meno del previsto, il che mi fece piacere; in certi casi, il tempismo era molto importante. Udii una sirena in lontananza e sperai che il mio amico avesse chiamato l'ambulanza.

Impaziente, schiacciai tutti i pulsanti dei campanelli e qualcuno mi aprì il portone, così presi a salire gli scalini a tre a tre e mi fiondai nell'appartamento di Serj non appena lui socchiuse la porta.

«Dov'è?» chiesi subito, senza neanche salutarlo.

«Di qua» replicò lui, facendomi strada fino al salotto. Si trattava di una stanza accogliente e ordinata che conoscevo molto bene.

Quando entrai, notai subito che Angela era accucciata accanto al divano e ci guardava sotto, con sguardo colmo di preoccupazione.

«Daron, caro... è arrivato John, adesso vuoi uscire di lì?» gli disse la moglie di Serj, allungando titubante una mano.

«Ciao Angie. Ma che succede?» domandai, inginocchiandomi accanto a lei e sbirciando sotto l'ampio divano in similpelle. Notai una figura rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.

«Non vuole uscire di lì... non so più cosa fare» sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte.

Serj ci raggiunse e fece segno ad Angela di lasciarmi solo con Daron, così i due si avviarono verso la cucina in religioso silenzio.

«Daron» lo chiamai. Non ottenendo risposta, capii che dovevo parlargli, raccontargli qualcosa che potesse tranquillizzarlo e distrarlo un po'. Mi sedetti meglio e appoggiai la schiena contro il muro. «Sai, sono andato da Shavo. Sapessi quanto era in ansia per il concerto allo Stadium! Ma sì, lui è fatto così, lo sappiamo bene, no? Ha detto che non poteva crederci... e sai, avevi ragione: mi è toccato attaccarmi al citofono per costringerlo ad aprirmi, era in una di quelle sue fasi di reclusione totale. Penso che quando è in certi periodi, be'... chissà se mangia. L'ho visto un po' magro, più del solito... e poi ho conosciuto una sua vicina di casa, una tipa singolare. Potrebbe piacerti, sai? Peccato che sia lesbica...»

Stavo farneticando senza fermarmi, il che mi costava una fatica enorme. Preferivo sempre ascoltare piuttosto che parlare per ore, non ero una persona molto espansiva, ma del resto con i ragazzi della band era tutto un altro discorso.

Udii un movimento al di sotto del divano e mi sporsi per controllare cosa Daron stesse facendo: si era spostato leggermente verso il bordo e aveva aperto appena gli occhi.

«Daron?» lo chiamai con cautela.

Lui stette in silenzio per un po' e io temetti che non rispondesse neanche stavolta.

«John?» lo sentii mormorare, il tono di voce stridulo e quasi inudibile.

«Dimmi.»

Ci fu ancora una pausa, poi il mio amico finalmente rispose: «Jessica si sposa».

Senza che lui potesse vedermi, roteai gli occhi al cielo: ancora pensava alla sua ex fidanzata storica? Era logico che una modella come Jessica Miller si ricostruisse una vita. Certo, Daron era rimasto scottato da tutto questo, ma possibile che stesse in quelle condizioni per questo?

«Capisco» sospirai. «E a te cosa importa?» buttai lì facendo spallucce.

«Sei un pezzo di merda. Pensavo di potermi fidare di te, Dolmayan.»

Strinsi gli occhi per un attimo, mantenendo la calma. «Puoi fidarti di me.»

«Allora non fare lo stronzo.»

«Okay, okay. Allora tra lei e Ulrich è una cosa seria» commentai, pensando alla bizzarra accoppiata che l'ex di Daron formava con il batterista dei Metallica, Lars Ulrich.

«Chi lo sa? Ora so solo che non ho più alcuna speranza» disse il chitarrista in tono piatto.

«Questo ha fatto scattare qualcosa in te? È per questo che stai così... male?» provai a indagare.

«Male, ah. Bella questa!»

Sbirciai nuovamente sotto il divano e incontrai gli occhi, ora aperti e vigili, del mio amico.

«Vieni fuori? Così mi racconti tutto.»

Lui annuì leggermente e poco dopo sbucò dal suo nascondiglio con aria circospetta, controllando che fossimo soli.

«Angie e Serj sono in cucina, non preoccuparti. Dai, siediti e cerca di stare tranquillo» lo esortai, alzandomi a mia volta e lasciandomi cadere sul divano; battei sul posto accanto a me per invitarlo a imitarmi, e infine Daron cedette e si accomodò accanto a me.

«Perché proprio con lui? Perché non ha pensato di tornare con me?» domandò più a se stesso che a me.

«Questo non lo so, amico. Non ho il potere di leggere nella mente della gente, chiaro? Però so che tu puoi conquistare il mondo se vuoi, puoi fare tutto quello che ti pare e puoi andare dritto per la tua strada senza guardarti indietro. Pensa a tutto ciò che hai passato, alle critiche ricevute per il nostro lavoro... e allora? Niente ci ha buttato giù, o mi sbaglio?»

Lui scrollò le spalle. «Questo è diverso.»

«Va bene, è vero. Però tu sai di poter comandare la tua mente, che puoi rendere tutto razionale e in tuo potere.»

«Mi sembra impossibile. John... è stato terribile stamattina» disse, abbassando la voce e incassando la testa tra le spalle, come se temesse che una nuova crisi fosse in agguato di fronte a lui.

«Adesso è passato.» Gli posai cautamente una mano sul braccio e lui si ritrasse, come scottato. «Non ti mangio mica! Ascoltami: è tutto a posto adesso.»

«Per voi è facile parlare...»

«Per noi?» chiesi sorpreso.

«Per Serj, Angie...» accennò. «Loro non capiscono.»

«Loro sono preoccupati per te come lo sono io. Noi tutti teniamo a te» affermai con sicurezza.

Il mio cellulare prese a squillare, ricordandomi che dovevo assolutamente esercitarmi all'infinito con i ritmi dispari di percussione araba. Ci stavo lavorando da un po', e mentre con la darbuka mi riusciva abbastanza bene riprodurli e improvvisare, con la batteria era un po' più complesso.

Guardai sul display e notai che si trattava di Shavo. Che voleva adesso?

«È Shavo» annunciai, poi risposi: «Che c'è?».

«Come sta il mio chitarrista preferito?» domandò con apprensione.

Aggrottai le sopracciglia. «Perché chiami me se vuoi sapere di Daron?»

«Vuole sapere di me?» disse perplesso il chitarrista. «Passamelo.»

Mollai il telefono al mio amico e mi alzai per raggiungere Serj e sua moglie in cucina.

«Come sta?» domandò subito Angela.

«È uscito da sotto il divano, è già qualcosa» risposi con un sospiro.

«Ascolta, stavo pensando a una cosa» intervenne Serj.

«Di che si tratta?» volli sapere, appoggiandomi con i gomiti sulla penisola situata sulla destra della stanza.

«E se Daron si prendesse una vacanza? Ti andrebbe di accompagnarlo e tenerlo un po' d'occhio?» mi propose il cantante.

«Io? Perché non tu e Angie?» chiesi perplesso.

«Non è il momento, non possiamo spostarci da Los Angeles» mi spiegò lui. «Ho molto da fare in questo periodo, ho diverse serate di beneficenza a cui non posso mancare e qualche set acustico in giro. Sono troppo impegnato.»

«Capisco. Pensi che a lui potrebbe essere utile? Io non so se... potrei chiedere a Shavo» riflettei. «Era rinchiuso in casa per settimane, non potrà che fargli bene partire con Daron. Io ho da studiare, non penso che...» continuai a borbottare.

Sentii la mano di Serj posarsi sul mio braccio e lo guardai.

«Non essere stupido. Parti anche tu. Staccare ti farà bene» mi consigliò con un sorriso tranquillo stampato in viso.

Angela mi sorrise dolcemente e annuì con convinzione. «Lo credo anche io. Ragazzi, vi farà bene partire.»

«Daron ha saputo di Jessica e Lars» dissi ai miei amici.

Loro si scambiarono un'occhiata complice, poi Serj osservò: «Ci pensa ancora, eh?».

«Già.»

Udimmo Daron salutare Shavo e interrompere la telefonata, e poco dopo il chitarrista entrò con disinvoltura in cucina, comportandosi come se niente fosse accaduto.

«Tutto okay, caro?» lo intercettò Angela.

«Certo! C'è del bacon per caso?» domandò con noncuranza il chitarrista.

Serj storse il naso ed evitò di commentare, limitandosi a dare le spalle a Daron.

«No, lo sai che qui non girano certe cose» gli rispose pazientemente la donna. «Se vuoi c'è del burro, un po' di marmellata e...»

«Mi farò un caffè.»

Serj sospirò e si voltò verso di lui.

«Daron? Abbiamo una sorpresa per te» annunciò in tono allegro.

L'altro gli indirizzò un'occhiata interrogativa, senza smettere di armeggiare con il bollitore. «Ovvero?»

«Che ne diresti di un viaggio in Giamaica?»

Sgranai gli occhi, ma non ebbi il coraggio di replicare o di ribellarmi, perché sul viso del mio amico e chitarrista comparve un sorriso a trentadue denti che illuminò perfino i suoi occhi arrossati.

«Ecco... partiamo insieme, ti va?» intervenni infine, capendo che ormai non avevo vie di scampo.

«Con te? Non ci divertiremo mai, sei troppo serio, Dolmayan.»

«Ci sarà anche Shavo!» esclamò Angela.

«Già» borbottai. «Dobbiamo solo convincerlo.»

«Non sarà un problema. E... a cosa devo questa bella proposta?» indagò Daron con curiosità.

«Una vacanza serve a tutti voi, ragazzi» disse Serj serafico.

«A voi no, eh?»

Angela ridacchiò. «Non è il momento.»

Daron fece spallucce. «Non sapete cosa vi perdete. Okay, mi faccio un caffè e poi vediamo di trascinare Shavo fuori casa, che ne dici Dolmayan?»

«Per oggi penso di avergli rotto le palle abbastanza, ma quando sentirà la parola Giamaica, sono sicuro che uscirà di lì senza neanche pensarci» ghignai.

Speravo seriamente che questa cosa funzionasse: non mi piaceva per niente il fatto che Daron avesse avuto un altro attacco di panico, non era affatto rassicurante e non volevo che si ripetesse.

Avevo creduto fino all'ultimo che quella fase della sua vita fosse ormai conclusa da tempo, ma evidentemente mi ero sbagliato.




Eccomi qui con il secondo capitolo, stavolta dal POV di John. Cosa pensate del modo in cui ho caratterizzato lui e gli altri personaggi?

Mi dispiace di aver fatto succedere questo disastro al povero Daron, mi auguro che la cosa non vi abbia rattristato troppo!

Aspetto le vostre recensioni, e ringrazio chi mi ha già supportato nel primo capitolo: Hanna, Stormy e Soul, siete fantastiche ♥

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Capitolo 3
*** Who the fuck are you? ***


ReggaeFamily

Who the fuck are you?

[Daron]




Stavo imprecando come un ossesso contro gli automobilisti rincoglioniti che affollavano l'autostrada. Intanto, nella mia mente lampeggiavano i ricordi della brutta esperienza vissuta qualche giorno prima, a casa di Serj e Angela.

Era successo di nuovo, come cazzo era possibile? E tutto per colpa di Jessica Miller e la sua nuova fiamma. Fantastico.

Era stato orribile ritrovarmi fermo e terrorizzato, immobile e irrigidito da un senso di terrore che mi aveva attanagliato la gola e mi aveva quasi impedito di respirare. Mi ero accasciato a terra e avevo serrato gli occhi. Poi, non so... non so minimamente come fossi finito sotto il divano, rannicchiato e deciso a non muovermi di lì.

Anche se ci avevo provato, non ero riuscito a spiccicare parola. Per un bel po' il mio cervello aveva inviato dei comandi al corpo, e questo si era rifiutato di obbedire. Anche quando John era arrivato di corsa e aveva cercato di scuotermi, ci avevo impiegato diversi minuti prima di riuscire a parlargli.

Come cazzo era potuto accadere? Avrei dovuto meditare, pensare, concentrarmi e tenere a bada l'ansia, non pensare troppo a Jessica e Lars, dare ascolto alla parte razionale di me. Ma non ci ero riuscito, non quel giorno.

Premetti con forza sul clacson, mentre le auto di fronte a me non accennavano a muoversi. A Los Angeles, dopo le cinque si scatenava l'inferno: l'ora di punta era terribile, il traffico intenso e invalicabile. Osservai perplesso un'auto della polizia che, con lampeggianti attivi e sirene spiegate, riuscì in un attimo ad aprirsi un varco nel traffico. Fui tentato di seguirla, approfittando di quel privilegio, ma lasciai perdere.

Il cellulare prese a squillare, ma lo ignorai e misi su un po' di musica per evitare di concentrarmi ancora su pensieri negativi.

Le casse dell'auto propagarono a volume altissimo All For You degli Annihilator. Proprio quello che mi ci voleva per scaricare la rabbia che provavo ultimamente.

Mi misi a cantare come un forsennato, e finalmente il traffico sulla freeway prese ad avanzare lentamente. Era già qualcosa.

Il cellulare squillò ancora.

«Vaffanculo, chi cazzo è?» imprecai.

Misi in pausa il brano che stavo ascoltando e afferrai quell'aggeggio infernale, premendo sul display per rispondere e impostai l'altoparlante.

«Chi è?» strillai con foga.

«I timpani mi servono, Malakian» mi salutò una voce familiare, che tuttavia non fui subito in grado di associare a qualcuno in particolare.

«Non me ne fotte. Chi parla?» ripetei.

«Sono Lars.»

Per poco non andai a schiantarmi contro un furgone. Inchiodai di botto e rischiai di essere travolto da un SUV argentato. Il conducente mi indirizzò il dito medio e mi sorpassò a tutta velocità.

«Cosa cazzo vuoi da me?» mi rivoltai. Ero fermo in mezzo al traffico e sapevo di star creando un casino, però in quel momento non riuscivo a fare nient'altro che stringere convulsamente il cellulare e serrare gli occhi.

Ulrich ridacchiò. «Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a invitarti personalmente al mio matrimonio.»

Digrignai i denti e osservai, senza neanche vederli, gli automobilisti a bordo dei loro veicoli che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare contro di me e schiacciare sul clacson con fare contrariato.

«No, grazie» grugnii, cercando di mantenere una calma che non ero certo di possedere.

«Perché no? A Jess farebbe molto piacere rivederti» disse lui in tono mellifluo.

Quelle parole bastarono per farmi davvero incazzare. Gli chiusi il telefono in faccia, poi lo spensi e rialzai il volume della musica. La canzone stava per finire, così la mandai indietro e la feci ripartire da capo.

Dopodiché ingranai la marcia e procedetti sulla freeway, guidando come un pazzo e fregandomene altamente delle auto che trovavo sul mio cammino.

Una vacanza in Giamaica mi ci voleva proprio, così decisi di andare a casa di Shavo e cominciare a organizzare la partenza. Non ne potevo più di tutto quello schifo: per quanto Los Angeles fosse grande, in quel momento mi stava fottutamente stretta.


«Sì, Malakian: partiamo presto.»

«Accendi il computer. Cerchiamo un volo, il primo disponibile. Non me ne frega del prezzo. Vi pago tutto io» affermai, aggirandomi con nervosismo crescente per il salotto di Shavo.

«Anche John parte con noi, mica possiamo prenot...»

«Ti decidi?» strillai, parandomi di fronte a lui e sollevando bruscamente il coperchio del portatile.

«Stai calmo!» si ribellò il bassista, alzando le mani in segno di resa. «Si può sapere cosa ti prende? Cos'è tutta questa fretta?»

«Questo posto mi ha rotto. Angie e Serj hanno ragione: una vacanza serve a tutti e tre. Dai, cerca!» lo incitai con impazienza.

Shavo borbottò qualcosa d'incomprensibile e prese a smanettare sulla tastiera. Mi spostai dietro di lui e rimasi in piedi a fissare lo schermo. Notai, poco distante sul tavolo, l'astuccio in cui conservava l'attrezzatura per fumare, così mi allungai per afferrarlo.

«Sì, Daron, te la offro una» grugnì contrariato il padrone di casa.

«Grazie.» Aprii l'astuccio e portai fuori una cartina, poi esaminai l'erba che Shavo doveva essersi procurato da poco. Ne feci scivolare un bel po' sulla cartina, poi afferrai un filtrino e mi misi all'opera.

«Almeno sii così gentile da prepararne una anche per me» commentò il bassista.

«Ma certo, mio dolce bassista!»

«Ecco, ne ho trovato uno» annunciò con aria soddisfatta, indicando lo schermo del computer.

Mi chinai per osservare a cosa si riferiva e scoprii che il primo volo disponibile per Kingston sarebbe partito quattro giorni dopo. «Troppo tardi, ma purtroppo bisognerà accontentarsi» commentai.

«Almeno avremo il tempo di fare i bagagli» borbottò Shavo con un sospiro.

«Prenotalo ora. Ho visto che sono rimasti solo sette posti liberi sul volo» conclusi, per poi accostarmi alla finestra e spalancarla. Una folata di vento tiepido mi investì, ma questo non fece che darmi sollievo. Finii di richiudere per bene la mia canna e l'accesi, poi tirai una lunga boccata e annuii.

«Fatto. Sono quattrocentotrentasei dollari e novanta centesimi a testa.»

«Spero almeno che il viaggio sia piacevole» osservai, senza smettere di fumare. Osservai il panorama poco interessante all'esterno della finestra: si potevano scorgere diversi palazzi grigi e anonimi squarciare il cielo azzurrognolo e punteggiato di nubi grigiastre. Uno spettacolo davvero raccapricciante.

Diedi le spalle al davanzale e mi ritrovai di fronte la figura magra e slanciata di Shavo, il quale mi sovrastava di almeno quindici centimetri.

«Non me l'hai preparata, tappo» mi accusò, armeggiando anche lui con l'erba e tutto il resto.

«Già. Mi sono scordato.»

Avevo la testa da un'altra parte. Stavo ripensando alla squallida telefonata di Lars Ulrich, attraverso la quale aveva provato a farmi sentire una merda. Ci era riuscito, ma non gli avrei mai concesso di saperlo. Era logico che non volesse realmente invitarmi a quel cazzo di matrimonio, il suo intento era stato fin da subito quello di farmi soffrire. Non capivo perché si accanisse tanto su di me: ormai aveva tutto ciò che io non avevo più.

«Quindi... partiamo per dimenticare, eh?» La voce di Shavo, per quanto bassa, riuscì a fare breccia tra i miei pensieri e a riportarmi alla realtà.

«A quanto pare, sì. Ehi, anche tu hai qualcosa da dimenticare, tutti noi ce l'abbiamo» gli feci notare.

Shavo afferrò un cappellino da baseball che aveva abbandonato sul tavolo e se lo mise in testa. «Hai ragione, amico.»

Un pensiero mi colpì all'improvviso e sorrisi. «Come sta la tua amichetta?»

«Quale amichetta?»

Tirai una boccata di fumo e poi presi a scimmiottare la sua vicina di casa lesbica: «Ciao pelatone, sei sexy con quel pigiama addosso, quand'è che mi fai diventare etero?».

Lui sollevò gli occhi al cielo e mi lanciò un'occhiataccia. «Abby è partita. Ti saluta, dice che aspetta te per diventare etero

«Buona idea» ammiccai.

Chiacchierammo un po' del più e del meno, poi decisi che era arrivato il momento di tornare a casa. Da questo punto di vista, io e Shavo eravamo agli antipodi: lui desiderava ardentemente condurre una vita da pantofolaio depresso, io invece bazzicavo poco a casa mia. Ero sempre in giro, sempre attivo e alla ricerca di nuovi stimoli.

«Preparati per la partenza, mi raccomando» lo ammonii, afferrando la giacca e avviandomi verso la porta. «Merda! Cos'è quest'orrore?» domandai, bloccandomi in mezzo all'ingresso. Avevo notato, appeso alla sinistra del portone, un quadro dai tratti familiari, che non faticai a ricollegare al mio genitore di sesso maschile. Mi avvicinai per esaminare le iniziali riportate sull'angolo in basso a destra della tela e annuii: V. M.

«Tuo padre me l'ha spedito circa un mese fa. Non è carino?» mi spiegò Shavo, raggiungendomi.

«Un amore. Il vecchio Vartan colpisce ancora» bofonchiai.

«Dovresti esserne orgoglioso, amico» mi suggerì saggiamente il bassista.

Feci spallucce. «A me non regala mai un cazzo.»

«Perché sei un figlio degenere e ingrato. Su di me sa di poter contare, adoro le sue opere.»

Aprii di scatto la porta. «Bene. Gli dirò di adottarti, allora.» Detto questo, cominciai a scendere le scale e ignorai l'opportunità di prendere l'ascensore.

Una volta in auto, imboccai l'autostrada e notai con sollievo che il traffico si era diradato e scorreva relativamente tranquillo sulle corsie.

Feci ripartire la musica e mi persi tra le note di un brano piuttosto triste, ovvero Creep dei Radiohead.


You float like a feather
In a beautiful world
And I wish I was special
You're so fuckin' special

But I'm a creep, I'm a weirdo.
What the hell am I doing here?
I don't belong here


Mi sentivo maledettamente triste. Quella canzone mi rispecchiava a fondo. Possibile che mi sentissi così male in quella città, con quelle persone e non trovassi qualcosa a cui aggrapparmi per stare bene? Doveva essere colpa della mia misantropia, ne ero certo; questo lato di me, spesso, evitava che soffrissi e mi procurava una barriera, ma era anche un limite che mi impediva di aprirmi con il prossimo, di scaricare il mio dolore e la mia frustrazione.

Ultimamente le cose non andavano bene neanche con la mia famiglia; inoltre, la notizia del matrimonio mi aveva distrutto. Avrei dovuto fregarmene, ma in qualche modo mi riusciva difficile.

Sentivo un profondo disagio che mi scuoteva fin nel profondo, e cominciavo a dubitare che la vacanza in Giamaica avrebbe giovato alla mia condizione attuale. Provai a immaginare di tornare da uno strizzacervelli, ma subito scacciai quell'idea: non mi era servito a un cazzo in passato e non mi sarebbe servito ora.

E allora cosa dovevo fare?

Smisi di ragionare e mi concentrai sulla guida, senza dar troppo ascolto alle canzoni che si susseguivano nello stereo dell'auto.

Raggiunsi casa mia prima del previsto e quasi mi precipitai all'interno; mi sentivo come mi capitava di rado, ovvero avevo bisogno di rinchiudermi nel mio antro oscuro, spararmi qualche video idiota e ridere fino a non poterne più.

Stravaccato sul divano, afferrai il cellulare ed entrai su YouTube. Cercai quell'orrenda cover che Avril Lavigne aveva fatto della nostra Chop Suey! e cominciai a sbellicarmi dalle risate finché non mi ritrovai con gli occhi umidi e brucianti.

Sì, c'era sempre qualcosa di peggio, qualcosa che mi faceva capire di non essere il peggiore, capace di non farmi abbattere: mi sarei risollevato, in qualche modo ce l'avrei fatta.

E mentre Avril strillava come un'ossessa e non azzeccava neanche una parola del testo, compresi che sarebbe stato pazzesco in Giamaica, lontano da tutto e tutti.




Ciao a tutti, rieccomi con il terzo capitolo! Come vi sembra procedere la storia? Cosa ve ne pare di questa mia scelta di utilizzare un POV diverso per ogni capitolo?

Attendo i vostri commenti, è molto importante per me capire se sto facendo o no qualcosa di decente...

Intanto vi lascio qui qualche nota sul capitolo: le canzoni che Daron ha ascoltato durante il viaggio in macchina, per esempio, qualcuno di voi le conosce? Pensate che All For You degli Annihilator e Creep dei Radiohead siano adatte alla sua personalità e alla situazione che stava vivendo sul momento? Se cliccate sui titoli, potrete ascoltarle e darmi il vostro parere ^^

Inoltre ho nominato una – a mio avviso – deplorevole “““cover””” di Chop Suey! eseguita da Avril Lavigne, sentitela qui, se volete rovinarvi l'umore XDDD

Bene, grazie a tutti per aver letto e per la pazienza che avete nel seguirmi e supportarmi in questa nuova avventura, alla prossima ♥

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Capitolo 4
*** Can I help you? ***


ReggaeFamily

Can I help you?

[Leah]




Conoscevo quel posto a memoria. Erano anni che io e la mia famiglia ci approdavamo per le vacanze. Ogni volta che mio padre disponeva di qualche giorno di ferie, mi trascinava lì senza nessun preavviso.

Io, sinceramente, mi ero rotta i coglioni. Non ne potevo più. Se c'era qualcosa di bello nella Skye Sunset Bay, be', ormai non ero più in grado di apprezzarlo. Dicono che avere i genitori ricchi sia bello, che si possa fare tutto ciò che ci pare e ci piace, ma ovviamente ci sono sempre delle eccezioni, proprio come nel mio caso.

Mio padre, il grande Alan Moonshift, al vertice della compagnia elettrica Moonshift & Sons di Las Vegas, era un uomo tarato, un esemplare che considerava la Skye Sunset Bay come unica meta degna di essere raggiunta per qualsiasi vacanza; la baia era situata a pochi chilometri da Kingston, in Giamaica. Tuttavia, la vicinanza con la città non influiva sul fatto che quell'anfratto di mare, spiaggia e villaggi turistici risultasse sperduto e poco allettante. Poteva sembrare affascinante per chi lo visitava per la prima volta, ma a lungo andare si rivelava una noia mortale.

E così ci eravamo andati di nuovo, nel bel mezzo della primavera, come se niente fosse.

Alan e la sua nuova fiamma, Medison, erano venuti a recuperarmi all'Università e mi avevano costretto a seguirli in Giamaica. In altre circostanze avrei rifiutato, ma mi avevano promesso una sorpresa e io, stupida, ci avevo creduto.

E così, mi ritrovai a essere l'unica sfigata che a ventiquattro anni se ne va ancora in vacanza con il suo papà e la sua amante del momento. Fantastico.

«Leah, non fare quella faccia! Avevo già prenotato per tre, come avrei potuto annullare tutto? E poi qui ci sono tante persone che ti vogliono bene» mi disse Alan quando scendemmo dal taxi che ci aveva condotto alla nostra destinazione.

«Avresti potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia sul petto.

«Avresti rifiutato» si giustificò.

«Appunto. Quindi è meglio mettermi di fronte al fatto compiuto, eh Moonshift?» feci con sarcasmo.

«Su, non farne un dramma...»

«Sappi, padre degenere, che questa è l'ultima volta che mi freghi» tagliai corto, strappando il trolley dalle mani del tassista e avviandomi impettita verso lo Skye Sun Hotel. Alloggiavamo sempre in quel posto, non avevo certo bisogno di essere guidata da lui.

Durante la nostra conversazione, Medison non aveva aperto bocca e questo era stato un punto a suo favore. Rispetto alle solite tizie che mio padre sceglieva come amanti del momento, lei era molto silenziosa e sembrava stare al suo posto senza troppi problemi. Almeno avrebbe evitato di crearmi ulteriori problemi.

Lo Skye Sun Hotel era formato da quattro palazzi in stile moderno, costruiti a ridosso di una scogliera che scendeva a picco sul mare. Quelle bizzarre palazzine erano dipinte ognuna di un colore diverso, tutte in tonalità calde: una era gialla, una arancione, mentre quelle che davano le spalle allo strapiombo erano una rossa e una bordeaux; erano collegate tra loro da una passerella in legno e metallo, la quale poteva essere raggiunta attraverso numerose rampe di scale situate tutto intorno alla costruzione. La hall si trovava invece al pianterreno e consisteva in un cubo di vetro e cemento quasi interamente ricoperto di porte che si aprivano sulle scale o sugli ascensori panoramici che permettevano anch'essi di raggiungere i vari piani delle palazzine contenenti le stanze. All'ultimo piano, infine, si trovava una terrazza che metteva in comunicazione ogni punto dello stabile, la quale ospitava un bar e una vista panoramica mozzafiato.

Entrai nella hall senza curarmi di chi avrei potuto travolgere, e infatti andai quasi a sbattere contro un tizio, che subito prese a imprecare.

«Stai calmo, amico» gli gridai contro.

Poi sollevai lo sguardo: lo conoscevo fin troppo bene. Era un ragazzo di circa trent'anni che lavorava in reception da qualche anno. Si chiamava Dayanara ed era alto quasi due metri, carnagione scura e occhi neri come la pece, così come i capelli corti e ordinatamente pettinati, com'era obbligatorio tenerli in albergo. Sapevo che prima di entrare a lavorare allo Skye Sun aveva dovuto dire addio ai suoi dreadlocks.

«Ciao Day, ah sei tu!» commentai, guardandolo dal basso del mio metro e settanta. In confronto a lui sembravo una nana.

«Ehi Leah, qual buon vento ti porta qui?» mi canzonò, trascinandomi verso il bancone della reception. Nel frattempo mi aveva tolto di mano il trolley, tipica deformazione professionale del suo impiego.

«Oggi conoscerai la nuova fiamma di Alan Moonshift, scommetto che sei emozionato» sospirai, appoggiandomi con i gomiti sul bancone nero e lucido.

«Uh, non vedo l'ora. Quand'è che ci scambiamo il numero? Queste improvvisate mi faranno venire un colpo prima o poi» ammiccò.

«Questa è l'ultima volta che mi vedrai, fanciullo. Il mio vecchio mi ha portato qui con l'inganno e...»

«Signor Moonshift, che piacere rivederla!» strillò Dayanara non appena notò mio padre oltrepassare le doppie porte scorrevoli della hall.

Gli andò incontro e io evitai di voltarmi per non dover assistere ancora una volta a quello squallido teatrino. Decisamente, ne avevo le palle piene.

«La trovo proprio in forma! Qualche giorno qui le farà prendere un bel colorito, vedrà!» continuava a fargli le fusa Dayanara. Sapeva che tutto ciò era irritante per la sottoscritta.

«Grazie giovanotto, so che questo posto mi libererà la mente e mi farà ritrovare la pace! Oh, ti presento la mia compagna, Medison» annunciò fieramente Alan Moonshift, e io fui sul punto di rimettere la colazione sul bancone della reception.

«Piacere di conoscerla, signora! Prego, avvicinatevi al banco, eseguiamo subito la registrazione e poi vi accompagnerò personalmente nelle vostre stanze!» miagolò il receptionist, accostandosi nuovamente a me. Senza che Alan e Medison potessero vederlo, mi strizzò l'occhio, poi si mise al lavoro dietro il computer.

«Day, c'è una stanza libera nella palazzina bordeaux?» indagai. Sapevo che mio padre adorava la suite situata al penultimo piano della costruzione dipinta di giallo, e io volevo stare il più lontano possibile da lui e dalla sua amante.

«Leah! Perché sei così...» provò a dire mio padre.

«Andiamo, padre! Mi hai portato qui e vuoi anche scegliere dove dovrò dormire? Ho ventiquattro anni, dannazione!» mi ribellai.

«Certo, c'è la camera 27, una singola con vista sullo strapiombo sul mare. Che te ne pare?»

Sorrisi compiaciuta. «Allora è mia.» Afferrai il mio trolley. «So come arrivarci, non c'è bisogno che mi accompagni» aggiunsi e allungai la mano libera per fargli capire che volevo mi consegnasse la chiave della stanza.

Dayanara la cercò dentro un cassetto, poi me la lanciò e io la afferrai al volo, avviandomi all'ascensore senza degnare il mio vecchio di un saluto.

Quella vacanza stava cominciando decisamente male. Saremmo stati in quel posto per una settimana e io già volevo tornarmene a casa.


Quando tornai nella hall, dopo essermi fatta una doccia ed essermi cambiata, trovai Dayanara intento a fissare lo schermo del computer con le sopracciglia aggrottate.

Alan e Medison si erano volatilizzati, e non faticavo a immaginare che non li avrei rivisti fino all'ora di cena. Erano da poco passate le sei del pomeriggio e io mi stavo terribilmente annoiando.

«Che fai, Day?» indagai, avvicinandomi al bancone della reception.

«Eh? Ah, ciao. Non sei andata a fare una passeggiata? I tuoi cuccioli sono sempre in tua attesa.»

Sorrisi. Nei pressi dell'albergo vagavano dei gatti randagi che ormai avevo preso l'abitudine di sfamare e di curare quando mi ritrovavo sulla Skye Sunset Bay. Era un modo per non annoiarmi troppo, ed era strano notare che quelle bestiole erano ancora tutte vive e più o meno in forma. Quando ripartivo per Las Vegas, intimavo a Dayanara di prendersene cura per me, e lui aveva sempre tenuto fede alla sua promessa.

«Ci andrò dopo cena» annunciai. «Tu fino a che ora lavori?»

«Non ne ho idea. Sto aspettando degli ospiti, sono un po' in ritardo. Finché non arriveranno loro, non posso spostarmi, anche se il mio orario di lavoro sarebbe dovuto finire già da dieci minuti. Purtroppo il nuovo stagista si è infortunato e mi tocca stare qui fino alle sette, quando Sam Skye arriverà a darmi il cambio» mi spiegò in tono irritato il ragazzo, poi sbuffò contrariato.

«Ehi, hai trovato una ragazza durante la mia assenza?» lo punzecchiai di punto in bianco.

«Nada.»

«Sfigato, eh?» ridacchiai, guardandomi distrattamente intorno. «Poca gente in questo periodo, non è vero?»

Dayanara annuì. «L'albergo non è del tutto deserto, ma quasi. Quasi tutti si sono fiondati nell'ala gialla, proprio come il signor Moonshift. Purtroppo siamo in bassa stagione, però per la settimana prossima ci aspetta una bella comitiva di gente che approderà qui durante una crociera.»

«Almeno avrai da fare» commentai.

«Spero solo che lo stagista rientri al lavoro, altrimenti sarò nella merda. Sam Skye sta a Kingston durante tutta la giornata, questioni burocratiche, sai com'è.»

Scoppiai a ridere. «Capisco bene cosa intendi, Alan Moonshift mi fa spesso notare che lui è un uomo impegnato e con delle responsabilità.»

Io e Dayanara rimanemmo a fissarci per un po', poi lui domandò: «E tu? Hai trovato l'amore?».

«Non voglio trovarlo, Day, lo sai» risposi senza alcuna esitazione.

«Dicono tutti così, finché poi...» Ma Dayanara non terminò la frase, perché catturato da qualcosa alle mie spalle. Incuriosita, mi voltai e notai che un taxi si era appena parcheggiato di fronte all'ingresso dello Skye Sun Hotel.

Subito il receptionist si precipitò ad accogliere i nuovi ospiti, aiutando il tassista a trasportare i loro bagagli. Scrutai attentamente e rimasi a bocca aperta quando riconobbi chi era appena sceso dall'auto.

Mi avvicinai a mia volta alle doppie porte, quel tanto che fu necessario perché rimanessero spalancate e non si richiudessero. Avevo imparato a stare proprio nel punto esatto in cui potevo controllare il sensore di movimento, e questo aveva sempre fatto imbestialire Sam Skye, vicedirettore dell'albergo.

«C'è stato un ritardo, problemi durante l'atterraggio» stava dicendo uno dei nuovi arrivati.

«Fottute turbolenze, non mangerò per i prossimi dieci giorni!» si lamentò il secondo, venendo fuori dall'auto e mostrandosi in tutta la sua altezza. Portava un cappellino da baseball nero e sembrava accaldato, ma soprattutto mostrava un colorito cereo e temetti seriamente che avrebbe vomitato sul vialetto. Lo vidi barcollare leggermente e mi decisi ad attraversare le doppie porte, uscendo allo scoperto.

«Serve aiuto?» mi intromisi con noncuranza, affiancando Dayanara con un sorriso.

«Tu non lavori qui» sibilò lui, cercando di non farsi sentire dagli ospiti.

«Che importa?» Feci spallucce. «Serve aiuto?» ripetei a voce più alta.

L'attenzione del tipo con il cappellino da baseball si concentrò su di me, dato che gli stavo tendendo una mano, temendo che potesse rovinare a terra.

«Dovrei... sedermi, credo...» farfugliò lui.

Lo afferrai per un polso e decisi di portarlo nella hall: fuori faceva caldo, questo sicuramente non avrebbe giovato al senso di nausea che le turbolenze e il viaggio in macchina gli avevano procurato.

«Ehi, Leah, cosa...» sentii strillare dal receptionist.

«Day, uno dei tuoi clienti sta male. Lo accompagno dentro. Ringraziami, anziché rompere i coglioni, che ne dici?» lo interruppi bruscamente, per poi infilarmi tra le doppie porte che si stavano ancora aprendo.

Accompagnai il malcapitato fino a un divanetto rivestito di tela rossa e lo aiutai a sedersi.

«Cazzo... cominciamo bene...» borbottò, prendendosi la testa tra le mani.

«Amico, levati quel cappellino. Non fa che peggiorare le cose, mi sa» gli suggerii, rimanendo in piedi accanto a lui.

Annuì e si sfilò l'oggetto, facendolo atterrare sul divano. Notai che era completamente pelato e madido di sudore. Mi faceva pena, si notava che stava proprio male.

Mi accovacciai di fronte a lui e lo osservai con attenzione. «Vuoi un po' d'acqua, eh?» proposi.

«Sarebbe fantastico... grazie...» accettò con un filo di voce.

«Okay, capo. Te ne procuro un po'. Ah, comunque io sono Leah, piacere» ammiccai, poggiandogli una mano sul ginocchio.

«Shavo» mormorò lui, lanciandomi una breve occhiata colma di riconoscenza.

«Bene, Shavo. Torno subito» conclusi, facendo leva sul suo ginocchio per rimettermi in piedi.

Mentre mi avviavo verso il bar che si trovava sul lato sinistro della hall, notai che Dayanara stava rientrando, seguito dal tassista e dai compagni di viaggio di Shavo.

Sapevo esattamente chi erano quei tre ragazzi, ma per il momento decisi di divertirmi un po': perché mai avrei dovuto cadere ai loro piedi, dimostrando che li avevo riconosciuti e che li amavo alla follia?

Forse quella vacanza non sarebbe stata poi così male, in fondo.




Rieccomi cari lettori, come state?

Cosa ne pensate di questo nuovo personaggio? Ho inventato Leah per una ragione ben precisa, spero che la sua caratterizzazione si sia compresa in questo primo capitolo dedicato a lei. Come potete capire, lei ha riconosciuto i ragazzi, ma ha deciso consapevolmente di fare finta di niente... eheheheh, chissà perché...

Il luogo descritto è stato interamente inventato dalla sottoscritta, quindi non esiste. Siete riusciti a farvi un'idea di questo Skye Sun Hotel e della Skye Sunset Bay?

Spero che anche questo capitolo lo abbiate apprezzato, sto cercando di fare del mio meglio per creare una storia decente :D fino a ora i capitoli erano più che altro d'introduzione, ma vi assicuro che dai prossimi qualcosa comincerà a muoversi :)

Inoltre vi annuncio che d'ora in poi non ci saranno le note finali in ogni capitolo, ma solo quando necessarie per spiegare qualcosa che ho inserito e che potrebbe non capirsi ^^ così vi lascerò in pace e non starò più qui a blaterare, contenti? :D

A presto e grazie di cuore a tutti voi ♥

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Capitolo 5
*** Welcome to the Skye Sun Hotel! ***


ReggaeFamily

Welcome to the Skye Sun Hotel!

[Shavo]




Leah era una ragazza niente male. Non potevo certo definirla di una bellezza abbagliante, però era particolare: presentava dei lineamenti marcati, un viso spigoloso e grandi occhi scuri. I capelli corti e sottili le ricadevano disordinati sul capo e sfioravano appena le spalle; di corporatura era esile, non mostrava chissà quali forme, ma sfoggiava un look semplice e dalle tonalità scure, nonché un atteggiamento fiero e sicuro di sé che la rendeva intrigante.

O almeno, quelle furono le mie prime impressioni quando la conobbi. Si era subito offerta, notando che stavo male, ed ero certo di non aver fatto una buona impressione su di lei. Mi ero seduto sul divanetto della hall che ancora tremavo, sudavo freddo e mi sentivo tremendamente spossato.

Daron e John entrarono nell'albergo poco dopo che Leah si fu allontanata, preceduti dal tassista e dal nervoso receptionist che ci aveva accolto.

Il batterista si guardò intorno e mi individuò, quindi mi raggiunse.

«Ti senti bene?» mi domandò con le sopracciglia aggrottate.

«Di merda» bofonchiai. Avevo come l'impressione che tutto, intorno a me, stesse volteggiando.

John stava per dire qualcosa, ma proprio allora Leah si ripresentò di fronte a me con una bottiglia d'acqua da due litri.

«Ecco a te, Shavo... giusto? Che razza di nome è mai questo?» blaterò, allungandomi la bottiglia.

«Sì, giusto. È un nome armeno, ma Shavo è la forma contratta» spiegai distrattamente, per poi tracannare diversi sorsi d'acqua. Era fresca e dissetante, mi fece sentire subito meglio.

«La forma contratta di cosa?» indagò la ragazza con curiosità, accovacciandosi nuovamente di fronte a me.

Lanciai un'occhiata perplessa a John e lui sollevò le mani in segno di resa, per poi allontanarsi e raggiungere Daron al banco della reception.

«Shavarsh» risposi infine, bevendo ancora qualche sorso.

«Capisco. Da quelle parti avete tutti quanti dei nomi così... singolari?» mi interrogò visibilmente divertita.

«Non ti piace?»

Si strinse nelle spalle. «Non saprei se mi piace o non mi piace. So solo che non lo avevo mai sentito. A Las Vegas la gente si chiama Jim o Tom, forse John... e Nathan, Patrick, Samuel...»

Sollevai una mano per fermarla. «Okay, messaggio ricevuto. E comunque, il mio amico si chiama John, ed è armeno pure lui» le feci notare poi.

«Oddio, adesso mi vuoi dire che tutti e tre provenite da quel posto? Gesù, che ci fate in Giamaica?»

Sorrisi mestamente. «Abitiamo a Los Angeles.»

Leah roteò gli occhi al cielo. «Ripeto: che ci fate in Giamaica?»

«Siamo qui in vacanza, e tu? Dal Nevada ai Caraibi, mica male» osservai, per poi alzarmi dal divano con la bottiglia in mano. La superavo di almeno dieci o quindici centimetri, così dovetti chinare leggermente il capo per poter studiare la sua espressione.

«La mia storia è molto lunga e intricata» rispose evasiva.

«Fammi un riassunto» insistetti, esibendomi in un sorriso sornione.

«Ti basti sapere che il mio genitore di sesso maschile mi trascina qui ogni volta che ha due giorni di ferie» disse infine.

Annuii. «Fantastico. Ma quanti anni hai? Ancora te ne vai in vacanza con il tuo paparino?» ammiccai.

«Non si chiede l'età alle signore. Ti saluto, Shavarsh, è stato un piacere. Ci si vede in giro» concluse, poi mi diede le spalle e si diresse verso l'uscita.

«Leah!» le gridò dietro il receptionist. «Dove vai?»

Lei gli rivolse soltanto un cenno con la mano e uscì dall'albergo.

Leggermente confuso e spiazzato, raggiunsi i miei amici vicino al banco della reception.

«Si sente bene?» si preoccupò subito il ragazzo che ci aveva accolto.

Gli mostrai la bottiglia d'acqua piena per metà. «Quest'acqua è stata miracolosa» scherzai.

«Mi dispiace di averla lasciata nelle mani di quella ragazza... lei non lavora qui, sa. È una cliente abituale, considera questo posto come casa sua e spesso si impiccia in cose che...» prese a giustificarsi lui.

«Con me è stata gentilissima. Nessun problema» lo interruppi.

«Bene.» Il tizio ci guardò a uno a uno.

«Be'? Ci accompagna lei alle nostre stanze o dobbiamo chiedere alla sua amica impicciona?» sbottò Daron all'improvviso, utilizzando un tono piuttosto indisponente e acido.

Il receptionist sussultò e io dovetti sforzarmi in maniera disumana per non scoppiare a ridere. «Daron, su, sii gentile» finsi di rimproverarlo.

«Col cazzo.»

«Oh, be'... seguitemi, prego» farfugliò il ragazzo, facendosi goffamente carico di alcuni dei nostri bagagli.

Daron sbuffò e afferrò qualche altra borsa, così anche io e John lo imitammo.

«Possibile che in questo albergo ci sia solo tu, ragazzino?» domandò bruscamente il chitarrista, mostrandosi profondamente irritato. In realtà se la stava spassando alla grande, lanciava a me e John occhiate complici e si tratteneva a sua volta per non ridere.

L'altro trasalì e premette in fretta e furia il pulsante di chiamata dell'ascensore. «Il fatto è che il signor Samuel Skye è in città per alcuni affari, lo stagista è in infortunio e io...»

«Molto interessante, ma ti rendi conto che noi dobbiamo portarci dietro i bagagli da soli?» sbraitò Daron.

«Ve li avrei recapitati io più tardi, avrei fatto un secondo viaggio, non...»

«Lasciamo perdere» tagliò corto il mio amico, rinchiudendosi in un silenzio carico di risentimento.

Forse quella sua tendenza a darsi un atteggiamento antipatico e piuttosto snob poteva sembrare fuori luogo e spesso gli avevo detto di non esagerare, però era troppo divertente notare quanto le persone rimanessero disarmate e disorientate da quel suo modo di comportarsi.

Non appena l'ascensore panoramico prese a salire verso il terzo piano, guardai fuori dal vetro e mi soffermai sul paesaggio all'esterno: il sole del tardo pomeriggio tingeva di arancione l'acqua calma della baia, la quale riluceva di mille riflessi multicolore. La spiaggia, sulla destra della scogliera, sembrava cosparsa d'oro fuso e una leggera brezza agitava le poche palme presenti lungo la costa.

Rimasi a bocca aperta. Le foto che avevo visto su internet non rendevano assolutamente giustizia a quel luogo magico e suggestivo.

Poco dopo uscimmo dall'ascensore e il ragazzo ci guidò lungo un corridoio ampio. Così come le pareti esterne della palazzina erano dipinte di bordeaux, anche quelle interne riportavano la stessa tonalità, così come le mattonelle che ricoprivano il pavimento: era tutta una lucida e infinita scacchiera che alternava il bianco alla più cupa sfumatura di rosso.

«Questa è la stanza numero 22, la doppia» annunciò il nostro accompagnatore.

Mi feci subito avanti e gli sfilai di mano le chiavi. «Grazie. John, hai tu la mia valigia.»

Il batterista annuì e mi si accostò.

«Prego, mi segua. La sua stanza è più in fondo.» Il receptionist si era rivolto a Daron con timore.

Lui non replicò e si limitò ad andargli dietro.

«Andiamo» sospirò il batterista, e io infilai la chiave nella serratura.


Io e John non avevamo avuto alcun problema a dividerci una stanza, ma Daron era molto diverso da noi. A parte il fatto che era disordinato in una maniera impressionante, diceva sempre di aver bisogno dei suoi spazi. Aveva una personalità particolare, il chitarrista, ed era spesso difficile capire cosa gli passasse per la testa.

Se nel gruppo c'era qualcuno che si poteva definire estremamente chiuso e riservato, be', quello era senz'altro Daron, anche se nessuno avrebbe immaginato che lui fosse così; i fan e seguaci della band, infatti, lo conoscevano come il più pazzo, il più scatenato e il più fuori di testa della formazione. Sul palco ne combinava davvero di tutti i colori, ma nella vita privata era estremamente diverso, ed erano davvero poche le cose in grado di scatenare il suo entusiasmo.

«Sei pensieroso, bassista?» mi domandò John, riportandomi bruscamente alla realtà. Era appena uscito dalla doccia e stava frugando dentro la valigia alla ricerca dell'outfit perfetto. Poi, stanco di tutto il disordine che regnava sul suo letto, cominciò a disfare i bagagli e a sistemare ordinatamente tutti i vestiti dentro l'armadio, senza neanche preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso.

«Stavo ripensando al modo gentile e carino con cui Daron si è rivolto al povero receptionist» sorrisi. «Ma tu sei patologico, Johnny! Che diamine fai? Non ti vesti?»

«C'è troppo disordine, non trovo i miei vestiti» si giustificò, continuando a portare fuori diversi abiti dalla valigia.

«Ripeto: sei patologico» conclusi, lanciando un'occhiata fiera al mio bagaglio abbandonato ai piedi del letto, sul pavimento. John era l'opposto di Daron sotto diversi punti di vista: era fin troppo ordinato e meticoloso, colpa forse della precisione con cui sapeva di dover suonare il suo strumento. Tutto doveva essere al suo posto, seguire un ordine logico e preciso, così come ogni formula matematica che si rispetti.

Dal canto mio, mi sentivo semplicemente tra due fuochi, ma tendevo a conciliare maggiormente con il batterista; era silenzioso, ma sapeva sempre quando era il momento di dire la sua. Quando parlava, non era mai per caso; era intelligente e colto, io un po' lo invidiavo per la voracità con cui divorava un'enorme quantità di libri. Era sicuramente un esempio da seguire e, cosa molto importante, non era invadente o sfacciato.

«Ora va meglio.» John pareva soddisfatto mentre osservava il suo operato: aveva impilato con minuzia i suoi vestiti sui ripiani dell'armadio e si era preso la libertà di occuparli tutti, perché sapeva che io non avrei sfruttato quello spazio. Mi conosceva fin troppo bene. A quel punto, afferrò un paio di jeans neri e una camicia dello stesso colore e se li infilò, poi indossò anche gli anfibi e mi lanciò un'occhiata.

«Sei pronto?» gli chiesi.

«Sì, possiamo andare. Ho fame» replicò, avviandosi verso la porta.

Io rabbrividii. Non avevo alcuna intenzione di buttare giù qualcosa, ero ancora un po' scombussolato dal viaggio in aereo. Però avrei comunque accompagnato i miei amici a cena, forse avrei preso qualcosa di leggero, giusto per non farli preoccupare.

Seguii John fino alla camera di Daron. Rimanemmo in attesa per un minuto, poi il chitarrista venne ad aprirci. Stava in equilibrio precario sul piede destro, mentre tentava di infilare l'altro nei pantaloni della tuta. Aveva ancora i capelli fradici e dentro la stanza regnava un caos apocalittico. John si astenne dal commentare quello scempio, ma non poté evitare di sospirare.

«Sei ancora così?! Ti dai una mossa?» esordii.

Daron fece spallucce. «Ehi, abbiamo gli sbirri alle costole?»

«Sei assurdo.» Alzai gli occhi al cielo. «Sbrigati, John ha fame!» lo incitai.

«Sì, sì...» Daron rientrò, lasciando la porta spalancata. Pescò una maglietta a caso dalla valigia e se la infilò, poi afferrò la felpa abbinata ai pantaloni e mise su anche quella. Inforcò i suoi fidati Ray-Ban dalle lenti scure e ci raggiunse in corridoio, tirandosi dietro la porta.

Solo allora mi resi conto che ai piedi portava un paio di infradito rosse.

Scoppiai a ridere. «Quelle dove le hai prese? Cristo, sono orribili!» commentai, avviandomi insieme ai ragazzi verso l'ascensore.

«Siamo in vacanza o no? Vuoi che vada in giro conciato come John?»

«Cosa c'è che non va in John?» gli chiesi.

«Siamo in Giamaica, cazzo, e lui va in giro con gli anfibi!» strillò, e la sua voce acuta rimbombò per tutto il corridoio.

«E allora?» insistetti.

«E allora io vado in giro con le infradito rosse. Sono stilosissime» concluse il chitarrista con aria soddisfatta.

John premette il tasto per chiamare l'ascensore. Quando le porte si aprirono, notai una figura all'interno.

Leah sgusciò svelta in corridoio, riuscendo a passare tra me e Daron.

«Guarda un po' chi si rivede» la apostrofai con un sorriso conciliante.

«Ciao, Shavarsh.»

Daron sghignazzò e squadrò la ragazza da capo a piedi, poi annuì e sollevò il pollice. «Carina la tua amica impicciona» commentò poi, dando di gomito a John.

«Malakian, ti giuro che...»

«Tu, nanerottolo, non sei per niente carino. Quelle infradito sono disdicevoli!» ribatté Leah senza scomporsi. «Be', è stato un piacere. Ci vediamo in giro» aggiunse, poi girò sui tacchi e si avviò lungo il corridoio.

Una volta all'interno dell'ascensore, Daron parve riprendersi all'improvviso e piagnucolò: «Perché ce l'avete tutti con le mie deliziose scarpette? Non sono disdicevoli!».

John, che lo stava fissando sbalordito, spostò l'attenzione su di me e diede voce alla domanda che gli ronzava in testa da un po': «Com'è che ti ha chiamato Shavarsh?».

Feci un gesto noncurante con la mano. «Lascia perdere» sibilai.

Leah, in fondo, sembrava interessante. Se era riuscita a zittire Daron in men che non si dica, doveva possedere un carattere bello tosto.

La vacanza si faceva intrigante.

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Capitolo 6
*** Beach under the Sun ***


ReggaeFamily

Beach under the Sun

[John]




«Quindi questa storia del concerto al Dodger Stadium è vera?» domandò Shavo, lanciandomi un'occhiata dubbiosa.

«Ma certo che lo è!» confermai.

«Ma perché lo hanno chiesto a Rick e non a David?» indagò ancora con le sopracciglia aggrottate.

Ero preoccupato per lui: non aveva toccato cibo, nonostante avesse ordinato soltanto una porzione ridotta di riso in bianco. Il viaggio doveva avergli fatto davvero male; speravo soltanto che il giorno dopo sarebbe riuscito a mangiare, altrimenti le cose potevano aggravarsi.

«Chi è David?» borbottò Daron con la faccia quasi immersa nel suo piatto ricoperto di cibo in quantità industriale.

«Il nostro manager, magari?» sbottai.

«Ah, perché, si chiama David?» ghignò Daron, poi mi mostrò il dito medio.

«Piantatela!» ci ammonì il bassista.

Sospirai. «Non lo so perché lo hanno chiesto a Rick, ma prima che Rick potesse dircelo, ha dovuto parlare con Beno. Non preoccuparti, non è una cazzata. È una cosa seria.»

Shavo annuì e spostò il piatto alla sua sinistra, per poi poggiarsi con i gomiti sul tavolo. «Okay, ricevuto. Oddio...» biascicò.

«Che c'è?» mi allarmai.

«Ho un'ansia...»

«Cristo, quanto melodramma! Ehi socio, lo vuoi quel riso o no?» strepitò Daron.

Sgranai gli occhi: il chitarrista aveva svuotato in men che non si dica il suo piatto e sembrava avere ancora fame. Osservai inorridito Shavo che gli passava il suo piatto e scuoteva la testa.

«Ottima scelta» esclamò Daron. «Il cibo non si spreca!»

«Sei una spazzatura ambulante, cazzo» brontolai, per poi finire di mangiare la mia insalata di pollo e patate. Avevo deciso che, per quella sera, non avrei sperimentato dei piatti tipici giamaicani. Avrei avuto tutto il tempo del mondo per farlo.

«Cosa facciamo dopo cena?» farfugliò Daron, sputacchiando chicchi di riso già masticati e spargendoli su tutto il tavolo.

«Che schifo! Non parlare mentre mastichi, ma sei proprio un...» mi inalberai, notando che Shavo impallidiva e si prendeva la testa tra le mani.

«Ma avete sempre qualcosa da ridire, voi due? Meno male che non saremo in camera insieme» sbuffò il chitarrista, pulendosi maldestramente la bocca con il tovagliolo rosso che aveva alla destra del piatto.

«Sei disdicevole, proprio come le tue fottute infradito» lo accusò Shavo. «Comunque, io voglio soltanto dormire. Non ho nessuna voglia di fare niente, non ne ho proprio la forza. Quindi passo. Se volete uscire, fatelo senza di me» annunciò, poi sbadigliò discretamente, coprendosi la bocca con una mano.

«Oh merda! Sono venuto in vacanza con due pensionati, che palle!» si lamentò il chitarrista, scolandosi l'ultimo sorso di birra che ancora stava dentro il suo bicchiere.

«Ti prego, non esibirti in qualcosa di schifoso, per favore» sottolineai in preda alla disperazione, guardandomi intorno e sperando che non ruttasse come un animale.

A quel punto notai che la nuova amica di Shavo entrava nella sala e raggiungeva con passo lento e strascicato una coppia che già sedeva a un tavolo poco distante dal nostro. L'uomo aveva dei tratti che lo accomunavano alla ragazza, doveva trattarsi di suo padre, mentre la donna era piuttosto giovane e dubitavo fortemente che si trattasse di sua madre.

«C'è la tua amichetta, Shavarsh» lo punzecchiò Daron, sollevando un po' troppo la voce.

«Ascolta, chitarrista rompicoglioni, sai che facciamo?» lo apostrofai, decidendo di lasciare Shavo in pace per un po'. «Andiamo a fare due passi. Voglio esplorare un po' i dintorni, e tu hai un senso dell'orientamento migliore del mio.»

«Cosa? Non ci penso proprio, detective Bosch» si ribellò lui, scuotendo il capo con forza. «Io mi sa che vado a esplorare la terrazza. O vado a cercare una sauna, una piscina... ho bisogno di relax, visto che nessuno di voi vuole andare a divertirsi da qualche parte. Per oggi vi perdono, ma domani non avrete scampo. Chiaro?»

«Fai come ti pare, nanerottolo, basta che sparisci dalla circolazione» borbottò Shavo, sbadigliando di nuovo.

«Okay, allora andiamo. Shavo, ti accompagno in camera, non vorrei che ti perdessi tra i corridoi... mi sembri molto confuso e stravolto...» decisi, alzandomi e afferrando il mio amico per un braccio.

«Forse è meglio, altrimenti lo troviamo morto in riva al mare, divorato da uno squalo...» scherzò il chitarrista, balzando in piedi a sua volta. «Bene, ci si vede domani, e guai a voi se mi svegliate prima di mezzogiorno!» concluse, per poi rivolgerci un cenno di saluto con la mano destra e avviarsi a grandi passi fuori dal ristorante.

Io e Shavo lo imitammo poco dopo, camminando lentamente. Mi adoperai per sostenerlo, notando che la stanchezza si era definitivamente impadronita di lui. Dopo essere usciti dal ristorante, ci ritrovammo in un piccolo corridoio che, una volta percorso, ci riportò nella hall.

Notai il receptionist che ci aveva accolto avviarsi verso l'uscita, salutando in maniera cortese un certo signor Skye, che doveva essere il proprietario dell'albergo o qualcosa del genere.

«Signori, buonasera» ci salutò quest'ultimo, indirizzandoci un sorriso educato mentre passavamo di fronte al bancone della reception.

«Salve» risposi io.

«Sera...» biascicò Shavo senza sollevare il capo. Mi sembrava di camminare con uno zombie.

«Siete voi a essere arrivati questo pomeriggio da Los Angeles?» domandò ancora l'uomo, e a quel punto mi fermai.

«Sì, siamo noi.» Annuii, sperando che smettesse di parlarci e ci lasciasse andare. «Lei è il direttore dello Skye Sun Hotel?» chiesi, tanto per essere un minimo educato.

«Il vice» annunciò, poi ci raggiunse e mi porse la mano. «Samuel Skye, piacere di conoscerla.»

«John Dolmayan, piacere mio. Mi scuso per il mio amico Shavo Odadjian, è molto stanco e il viaggio è stato traumatico per lui. Non ha neanche cenato... mi scusi, lo accompagno in camera, ha bisogno di riposo» blaterai, riprendendo a muovermi verso l'ascensore. Non avevo nessuna voglia di intrattenermi con quel tipo, non era proprio il momento adatto.

«Ma certo, si figuri. Buonanotte e buona permanenza nel nostro albergo!» esclamò infine in tono allegro, per poi tornare dietro il bancone.

Una volta in ascensore, ripensai all'uomo sulla quarantina che avevo appena incontrato. C'era qualcosa che non andava in lui, ma attualmente non ero in grado di capire cosa.

«Hai visto quei capelli?» bofonchiò Shavo con la schiena appoggiata contro il vetro panoramico. «Erano palesemente tinti di biondo!» esclamò poi.

«Cazzo, hai ragione!» A quel punto scoppiai a ridere. «Ridicolo.»

«Già... e non so neanche come ho fatto ad accorgermene...» farfugliò il mio amico, sbadigliando per l'ennesima volta.

Sospirai e lo spinsi fuori dall'ascensore.


Per evitare di ripassare per la hall e incontrare nuovamente Samuel Skye, decisi di cercare una scorciatoia o un'uscita secondaria. Erano soltanto le dieci di sera e non avevo niente da fare: non avevo particolarmente sonno perché avevo dormito in aereo, però non avevo voglia di stare con Daron a ubriacarmi nel bar sulla terrazza o a stare a mollo in una piscina.

Non mi restava che fare un giro e capire cosa si poteva fare di bello al di fuori dell'albergo. Scoprii, dopo essere uscito dall'ascensore al pianterreno, che c'era una porta di sicurezza che si affacciava verso l'esterno. La spinsi e mi ritrovai sul lato destro dell'edificio dipinto di bordeaux in cui alloggiavo con i miei amici. Un marciapiede di cemento seguiva il perimetro della palazzina, mentre un'altra passerella conduceva verso la spiaggia.

Seguii il sentiero e a un certo punto mi trovai di fronte un cartello con su scritto Beach under the Sun.

Era un nome singolare per una spiaggia.

La luna, un piccolo spicchio seminascosto da qualche nuvola passeggera, illuminava appena la superficie del mare, la quale sembrava nera come pece. Qualche lampione dalla luce tenue era disseminato lungo il sentiero, ma una volta superata la passerella di legno su cui erano sistemati, mi ritrovai immerso quasi del tutto nell'oscurità della notte. Sul lato sinistro della piccola lingua di sabbia si ergeva la scogliera, e in alto intravedevo il profilo della palazzina bordeaux. Soltanto due finestre erano illuminate, per il resto la struttura appariva buia e quasi sinistra.

Mi avvicinai alla riva, dal momento che l'acqua era calma e pareva quasi immobile, come se si trattasse di un quadro posto lì per essere ammirato dai turisti. Mi sedetti in riva, decidendo che mi sarei rilassato un po'. Quell'atmosfera mi incuteva una calma incredibile, non avrei mai immaginato che ciò sarebbe potuto accadere così presto. Si trattava solo di un po' di sabbia, qualche alga sparsa qua e là e una distesa infinita d'acqua salata che non accennava a dar segni di vita. Eppure era tutto così bello, rilassante...

Avvertii un movimento alla mia sinistra e mi voltai di scatto, leggermente allarmato. Notai una figura scendere agilmente dalla scogliera e dirigersi verso la passerella di legno, con passo spedito e qualcosa tra le mani.

Poi si fermò di botto e parve accorgersi della mia presenza. Si voltò nella mia direzione e notai che si trattava della nuova amica di Shavo.

«Cosa diamine fai qui?» mi domandò, avvicinandosi di qualche passo.

«Ho fatto una passeggiata. Non si può?» replicai con calma, rimettendomi in piedi e scuotendomi via la sabbia dai jeans.

«Di notte?» mi apostrofò. Camminò ancora verso di me, poi mi superò e lasciò cadere qualcosa sulla sabbia umida. Infine si inginocchiò sulla riva e immerse le mani nell'acqua, sciacquandole e sfregandole tra loro.

Abbassai lo sguardo e notai che aveva portato con sé un'enorme ciotola in plastica, che dentro doveva aver ospitato del cibo.

«Hai rubato la cena per caso?» scherzai, inclinando la testa di lato.

«No, erano degli avanzi per i gatti» spiegò.

«Gatti?»

«Bado a dei gatti randagi quando vengo qui. Altrimenti se ne occupa Dayanara, cioè... il receptionist.»

«Ah, bello.»

«Direi» borbottò lei, poi si allungò per afferrare la ciotola e la immerse in acqua.

Rimasi in silenzio, non sapevo esattamente cosa dire. Non ero un granché come interlocutore, specialmente quando avevo a che fare con una persona estranea.

«Non sei loquace come Shavarsh, eh?» buttò lì la ragazza.

«Io? Eh, no... mi dispiace» farfugliai.

«Ognuno ha il suo carattere» disse con una scrollata di spalle. «Com'è che ti chiami?» mi chiese poi.

«John. E tu?»

«Leah. Ah, tu sei quello con il nome normale, okay.»

Aggrottai le sopracciglia. «Come?»

«Niente, sono solo cazzate.»

«Okay.»

Leah si rimise in piedi e scrollò con forza la ciotola per liberarla dall'acqua in eccesso, poi si voltò e mi sorrise in maniera un po' incerta. «Okay, John... la, ehm, conversazione è stata molto interessante. Ora vado a buttarmi a letto, ci si vede in giro.»

Annuii e tentai di sorriderle a mia volta. «Certo, sicuro.»

Fece per andarsene, poi ci ripensò e si bloccò. «Come sta Shav? Si è ripreso?» indagò.

«Insomma. Non ha cenato e ho dovuto accompagnarlo in camera e metterlo a letto. Avevo paura che si perdesse per l'hotel o che cadesse addormentato in ascensore...»

Leah scosse il capo. «Poveretto. Be', domani starà meglio. Salutalo da parte mia e fagli tanti auguri di pronta guarigione» concluse, e nella sua voce notai una nota di preoccupazione.

«Senz'altro» assentii.

«Allora ciao.»

«Ciao.»

Detto questo, tornai a sedermi sulla spiaggia e riflettei. Quella ragazza era un po' strana, però avevo come l'impressione che tra lei e Shavo potesse nascere qualcosa. Forse era esagerato da dire, ma era come se tra quei due si fosse creato fin da subito un feeling particolare.

Chissà come sarebbe andata a finire.

Dal canto mio, mi trovavo bene in quel luogo, anche se dovevo ammettere che mi mancavano già i miei amati strumenti musicali.

Sarei sopravvissuto senza?

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Capitolo 7
*** Fuck to Forget ***


ReggaeFamily

Fuck to Forget

[Daron]




Non appena ero arrivato sulla terrazza dello Skye Sun Hotel, avevo immediatamente deciso che avrei trascorso lì la serata.

Da un paio di casse situate ai lati del chiosco in legno si diffondeva della musica reggae, e subito riconobbi dei colleghi californiani che avevano un talento assurdo e riuscivano a fondere due generi come il reggae e il jazz, creando un effetto devastante. Li ascoltavo sempre quando ero in vena di farmi una canna in santa pace e andare con la mente lontano, rilassandomi al massimo.

In quel momento le note di Praising dei Groundation riscaldavano l'atmosfera.

Mi accorsi subito che sulla terrazza non c'era tanta gente: un paio di uomini d'affari discutevano tra loro sottovoce, e sembravano due pinguini con tanto di giacca e cravatta; una famiglia formata da padre, madre e una bimba di circa dieci anni si godeva la vista panoramica scattando qualche foto, mentre una donna sulla trentina stava seduta da sola al bancone, con i piedi incastrati sulle stecche dell'alto sgabello. Mi parve di averla già vista da qualche parte, ma non riuscivo a capire dove.

Mi accostai al banco e la osservai meglio, dopo aver ordinato un Blue Mountain; era bionda e forse un po' troppo magra, abbigliata in maniera deliziosa con un leggero abito nero che le sfiorava le ginocchia e una giacca bianca posata sulle spalle. Era truccata e aveva scelto dei colori tenui, tranne per il rossetto bordeaux che le colorava le labbra sottili. Sembrava silenziosa e solitaria, e per me questo significava che dovevo assolutamente cominciare una battuta di caccia.

Il barista mi servì il rinomato caffè giamaicano in un'elegante tazzina bordeaux decorata in oro, e il profumo intenso e aromatico mi colpì immediatamente, inebriandomi e facendomi venire una gran voglia di berlo subito. Tuttavia era decisamente troppo caldo, così attesi qualche istante e nel frattempo notai che il barman non faceva che spostare lo sguardo da me alla donna seduta sullo sgabello poco distante dal mio.

«Amico, qualche problema?» indagai, afferrando una bustina di zucchero di canna. La strappai e rovesciai il contenuto nella tazzina, poi presi a rimescolarlo con il cucchiaino.

«No, solo... mi sembra di averti già visto da qualche parte» borbottò, aggrottando le folte sopracciglia scure.

Con la coda dell'occhio notai che la bionda accanto a me sorseggiava il suo drink e ascoltava discretamente la nostra conversazione.

«Davvero? Strano, non sono mai stato da queste parti. Anni fa feci un giro nella capitale, magari ci siamo visti lì» dissi con noncuranza. Era divertente notare che in quel posto nessuno sembrava sapere che io e i miei amici facessimo parte di una band abbastanza famosa. In Giamaica, evidentemente, la gente ascoltava solo reggae music.

«Non saprei... non vado spesso a Kingston.»

«Non so cosa dirti, amico» tagliai corto, facendo decisamente il coglione. Anche se può sembrare strano, non amavo vantarmi di essere chissà chi, nonostante suonassi con i SOAD da anni e anni.

A quel punto mi resi conto che la bionda stava scendendo dallo sgabello; la tenni sott'occhio e notai che si dirigeva verso il parapetto, probabilmente intenzionata a godersi il panorama in pieno relax.

Allora bevvi con calma il mio caffè e scambiai qualche chiacchiera con il barista, che in fondo non era poi così male; mi raccontò che aveva abbandonato la carriera musicale per finire a lavorare in quel posto.

«Che peccato, magari eri anche bravo. Cosa suonavi?» gli domandai.

«Il basso. Il fatto è che non volevo fare reggae, capisci? Mi piace, non dico il contrario, ma in questo posto per emergere non puoi far altro. Pare un posto da sogno, ma è molto chiuso mentalmente, non so se mi spiego... provengo da un paesino di cinquemila anime, e lì tutti ascoltano reggae oppure musica tradizionale vecchia come il mondo» mi spiegò lui, mentre sciacquava qualche stoviglia.

«Che genere avresti voluto fare?»

«Vado matto per il blues» ammise con un sorriso. «Forse avrei fatto qualcosa di jazz mischiato con il blues. Ma non reggae.»

Annuii. «Capito. È un peccato. E non hai mai pensato di emigrare? Magari negli States, in Europa, o... in Brasile, per esempio, avresti potuto fare ciò che ti pare. So che in quel paese vengono apprezzati molti artisti rock e metal, così come in Messico...» buttai lì, ricordandomi le magnifiche esperienze con i ragazzi, live come Rock in Rio non potevano essere dimenticati tanto facilmente.

«Già, ma non avevo i soldi per viaggiare. Quando sono arrivato qui, cinque o sei anni fa, pensavo di guadagnare qualcosa per partire. Ma sono sopraggiunti tanti problemi e allora... be', eccomi qua. Alla fine questo lavoro mi piace.»

«Però rimpiangerai di non esserti buttato sulla musica, scusa se te lo dico» gli feci notare.

«Probabilmente hai ragione» mormorò.

«Non è mai troppo tardi, su» cercai di rassicurarlo. Mi faceva un po' pena, poveretto. «Io ho una chitarra con me, magari uno di questi giorni ci facciamo una suonata, ti va?» gli proposi con entusiasmo. La musica era una delle poche cose capaci di risollevarmi l'umore, era sempre stato così.

Il tipo sollevò il capo e notai che i suoi occhi brillavano. «Sicuro! Ci conto allora! Tu com'è che ti chiami?»

«Daron. E tu?» Intanto lanciai un'occhiata alla mia preda e la trovai affacciata a contemplare il panorama, così decisi che era giunto il momento di farmi avanti.

«Io sono Alwan, piacere di conoscerti. Non vedo l'ora di suonare con te, mi sembri un tipo in gamba» rispose lui tutto contento.

Gli strinsi la mano, poi annunciai: «Ora vado a caccia, amico. Ci si becca in giro, okay?».

Alwan mi lanciò un'occhiata interrogativa, poi sorrise quando accennai con il capo alla bionda che stavo per raggiungere.

«Buona fortuna» concluse.

Annuii e balzai giù dallo sgabello, per poi avvicinarmi al parapetto e posizionarmi a circa un metro dalla preda.

Lei parve non notarmi, o forse aveva semplicemente deciso di ignorarmi. Se l'avevo inquadrata bene, quello era un comportamento tipico del suo carattere chiuso e riservato, ma non sarebbe stato un problema per me.

«Questa vista è spettacolare, non è vero?» esordii, poggiandomi con le braccia sulla balaustra in legno; assunsi una posa assorta e pensosa, aggrottando leggermente la fronte e puntando lo sguardo dritto davanti a me.

«Magnifica» la sentii sussurrare appena.

«Non avevo mai visto nulla di simile, è la prima volta che vengo qui» proseguii. Lei rimase in silenzio, e a quel punto mi voltai nella sua direzione. «Tu ci sei mai stata prima?»

«Mai.» La donna spostò finalmente gli occhi su di me e mi osservò per un po'.

«Non è una bella coincidenza che si siamo ritrovati entrambi qui per la prima volta?» buttai lì, indirizzandole il sorriso più timido che riuscii a produrre.

«Suppongo di sì.» Annuì leggermente e notai solo allora i suoi occhi verdi, illuminati appena dalla luce soffusa che riempiva la grande terrazza.

«Oh, che maleducato! Non mi sono presentato, mi spiace. Molto piacere di conoscerti, io sono Daron. Posso sapere il tuo nome?» Allungai con fare titubante una mano nella sua direzione.

Lei la strinse e replicò: «Piacere mio, sono Medison».

«Un nome molto bello. Anche mia sorella si chiama Medison, sai?» inventai su due piedi, trattenendo la sua mano nella mia. Quel contatto mi piaceva, sì, avevo scelto bene anche stavolta.

Lei sgranò leggermente gli occhi per la sorpresa. «Davvero?»

«Sì, anche per me è assurdo! Quante coincidenze... o forse il destino ha voluto quest'incontro» riflettei, guardandola negli occhi; nel frattempo avevo preso a carezzare piano la sua mano, e lei non sembrava intenzionata a ritrarsi da me. Stava andando tutto alla grande.

«Io...» Medison abbassò improvvisamente gli occhi sulle nostre mani. «Sono qui con il mio compagno, non penso che...»

Ci avrei scommesso, una donna come lei non sarebbe mai venuta da sola in una baia sperduta nelle coste giamaicane.

Sospirai piano. «Qual è il problema? Il tuo compagno non si arrabbierà se parliamo un po' o facciamo due passi insieme. Lui dov'è ora?»

«Era molto stanco ed è andato a letto presto.»

Che imbecille. Medison era una preda fin troppo semplice da conquistare. Se io fossi andato in vacanza con la mia donna, non avrei perso tempo a dormire da solo in camera. Chissà che razza di rammollito doveva essersi trovata.

All'improvviso un ricordo mi colpì e rimasi per un attimo interdetto: avevo già visto quella donna, ora ne ero certo. Era seduta in ristorante durante la cena, in compagnia di un uomo più vecchio di lei di almeno quindici anni. Poi i due erano stati raggiunti dalla nuova amica di Shavo.

La questione si faceva ancora più interessante e intrigante.

«Un vero peccato che tu sia sola, Medison. Non penso che lui vorrebbe che ti annoiassi, giusto? Ti tengo solo un po' di compagnia, sempre se ti va.» Feci per ritrarre la mano, ma lei mi trattenne.

«Va bene, in fondo non c'è niente di male, hai ragione» decise, poi allentò la presa e infine interruppe il contatto, posando la mano sulla balaustra.

«Magnifico. E quindi anche tu in vacanza...»

Medison annuì. «So che Alan, cioè, il mio compagno, viene spesso da queste parti per le vacanze. Voleva che visitassi anch'io quest'angolo di Paradiso» raccontò.

«Direi che ha fatto bene. In vacanza si fanno sempre degli incontri interessanti» osservai, cercando nuovamente il suo sguardo.

Stavolta rimanemmo a fissarci intensamente per un tempo incalcolabile, e io avvertivo chiara e forte la tensione sessuale farsi strada tra noi due. Ormai ero certo che avrei potuto fare di lei ciò che volevo, si trattava della classica sgualdrina che, probabilmente, si era messa con un uomo pieno di quattrini e ingenuo come un bambino.

«Medison, sono proprio contento di aver conosciuto una creatura graziosa come te» mormorai, facendo un passo verso di lei. Sollevai cautamente una mano e le scostai una ciocca di capelli dorati dal viso.

Avvertii il suo respiro accelerare per un attimo, poi mozzarsi all'improvviso. Mi afferrò la mano con una forza che non mi sarei mai aspettato e mi fissò per qualche istante.

«So cosa vuoi» disse sottovoce.

«Sì?» mi finsi sorpreso.

«Sì.» Rafforzò la stretta sulle mie dita. «Penso che possiamo divertirci un po'» concluse.

Sorrisi e annuii. «Allora seguimi.»


Se non altro mi servì per sfogarmi, quell'esperienza. Certo, non avrei mai voluto una donna come Medison al mio fianco; era una persona poco seria, ci era voluto ben poco per convincerla a venire a letto con me.

Devo ammettere che ci sapeva fare, e non si preoccupò minimamente del casino che regnava nella mia stanza. Mentre il suo Alan ronfava beato come un vecchio in pensione, io trascorsi un bel po' di tempo a sbattermi la sua compagna in tutti i luoghi possibili e immaginabili della camera d'albergo, facendola miagolare come una gattina in calore.

«Forse ora il tuo compagno avrebbe qualcosa da ridire» commentai, una volta consumato l'ennesimo amplesso.

Medison ansimava ancora, rannicchiata su di me. La sua corporatura minuta metteva in evidenza le forme appena accennate dei seni, dei fianchi e delle natiche, facendola apparire come un bocconcino decisamente appetibile.

«È stato solo un errore...» disse.

«Un errore, dici?» la canzonai, sapendo perfettamente che non era vero.

«Sì, un errore» confermò, lasciandosi cadere ancora una volta sotto di me.

«Gli errori vanno ripetuti all'infinito per essere effettivi, lo sai?»

Poi la possedetti ancora una volta, facendole capire che l'errore più grande sarebbe stato rinunciare a tutto quello che io potevo darle.

Quando infine lasciò la mia stanza, mi buttai sotto la doccia e ci rimasi per un tempo che mi parve infinito. Avevo bisogno di lavare via il suo odore, l'odore del sesso e, forse, la consapevolezza di averlo fatto con la speranza di dimenticare.

La verità era che, mentre provavo un intenso piacere in compagnia di quella sconosciuta, ripensavo a Jessica. E solo ora mi resi conto che ero incazzato nero con il mondo intero, con lei per aver scelto quel pesce lesso di Lars Ulrich, con quest'ultimo per avermi telefonato e umiliato senza alcun riguardo, con me stesso per essermi illuso che quella vacanza mi avrebbe aiutato.

Stavo andando sempre più alla deriva e non sapevo come rimettermi sulla giusta rotta.

Una volta uscito dalla doccia, gettai via lenzuola e coperte, ammucchiandole in un angolo. Frugai nell'armadio e ne trovai delle altre, così le sistemai un po' a caso sul materasso e mi ci lasciai cadere.

Non avrei sopportato di dormire con quell'odore addosso.




Ehilà, come state?

Torno a rompere soltanto per spiegarvi una cosa e chiedervene un'altra.

Ho nominato il Blue Mountain, quando Daron lo ordina al bar sulla terrazza; come ho cercato di spiegare anche attraverso i suoi occhi e i suoi sensi, si tratta di un caffè tipicamente prodotto in Giamaica, il quale è molto rinomato e costoso, coltivato sulle Blue Mountains giamaicane a un'altitudine rigorosamente compresa tra i 1000 e i 2000 metri; questo viene controllato e certificato dal governo, e infatti le piantagioni di caffè situate più in basso danno il nome ad altre qualità meno pregiate o comunque diverse. Pensate che la maturazione di questo tipo di caffè può richiedere fino a dieci mesi ed è rallentata dalla forte presenza di nebbia e precipitazioni. Ma questo è soltanto un pregio per il Blue Mountain, è un fattore che non fa che aumentare la sua rarità e il suo pregio ^^ io sarei curiosissima di assaggiarlo, e voi?

La domanda che invece vorrei porvi è: vi aspettavate un risvolto del genere nella storia? Forse da Daron ci si poteva aspettare qualcosa come una conquista “amorosa”, ma avreste mai immaginato che Medison, l'amante del momento del padre di Leah, potesse darla via così facilmente e concedersi al nostro scapestrato chitarrista?

Attendo il vostro parere e vi ringrazio tutti per il supporto, alla prossima ♥

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Capitolo 8
*** Jamaican Breakfast ***


ReggaeFamily

Jamaican Breakfast

[Leah]




Mi svegliai fin troppo presto e cercai in tutti i modi di riaddormentarmi, ma non ebbi alcun successo.

Così mi alzai, irritata, e mi preparai per andare in spiaggia. Mio padre e la sua amante del momento non sarebbero scesi dalla loro camera prima di mezzogiorno, ne ero certa, e in questo modo avrei potuto godermi un po' di sole senza averli tra i piedi.

Mi affacciai in corridoio con circospezione e aggrottai la fronte; era assurdo che i tre componenti dei System Of A Down dormissero nella mia stessa palazzina e nel mio stesso piano, se lo avessi saputo, mi sarei fatta spedire altrove da Dayanara. Incontrare quei tre non era nei miei programmi del momento, non dopo le urla che avevo sentito provenire da una delle stanze durante la notte precedente. Uno di loro doveva essersela spassata con qualche sventola giamaicana, e io non avevo potuto evitare di sentire i loro gemiti. Possibile che questa gente non avesse un minimo di discrezione?

Ripensai a Shavo e al suo orribile aspetto in seguito al viaggio; lui non poteva essere stato, anche perché John mi aveva assicurato di averlo messo a letto. Doveva essere stato Daron, quel pazzo poteva essere capace di qualunque cosa.

Mi richiusi piano la porta alle spalle e mi avviai all'ascensore. Volevo soltanto mangiare qualcosa e buttarmi in spiaggia, non avevo nessuna voglia di pensare a niente e nessuno.

Quando la porta dell'ascensore si aprì, mi ritrovai di fronte John Dolmayan in tenuta da jogging.

Inclinai la testa di lato e storsi la bocca. «Che problemi hai?» esordii senza salutarlo.

«Buongiorno... Leah, giusto? Non ho nessun problema» rispose senza scomporsi, per poi fermarsi all'inizio del corridoio.

«Sono le otto e mezza del mattino e tu sei già andato a fare jogging. Hai qualche problema serio, amico» gli feci notare. Poi entrai in ascensore e premetti il bottone con il numero zero.

«È tutta salute» commentò Dolmayan in tono piatto.

«Se lo dici tu...» Poco prima che le porte si richiudessero, mi venne in mente una cosa e infilai un piede tra di esse per bloccarle. «Hai già fatto colazione?» gli chiesi.

Nel frattempo lui si era voltato e stava per avviarsi alla sua stanza, ma al suono della mia voce si bloccò e tornò a guardarmi. «Come? No, non ancora.»

«Se vuoi ti aspetto e la facciamo insieme. Magari in terrazza, eh?» gli proposi, accennando al piano superiore con un cenno del capo.

Sono certa che sarebbe arrossito se non fosse stato tanto composto e riservato, il suo sguardo sfuggente mi suggerì che si sentiva in imbarazzo. «Io... vado a vedere se Shavo è sveglio, così può venire anche lui, no?» replicò titubante.

«Lascialo dormire. Ehi, John, non ti mangio mica, sono solo una ragazzina» lo canzonai, facendogli cenno di seguirmi.

Si guardò gli abiti sportivi che indossava, che consistevano in una t-shirt bianca e azzurra, un paio di pantaloncini abbinati e delle scarpe da ginnastica nere; poi sollevò di nuovo gli occhi e annuì leggermente, così gli feci spazio nel box e premetti il tasto con il numero sette.

«Sei sempre così timido?» gli chiesi mentre l'ascensore saliva di tre piani.

«E tu sei sempre così indiscreta?» contrattaccò.

Sorrisi e sollevai il pollice della mano destra. «Touché. Okay, mi dispiace. Ma non volevo fare colazione da sola, sai che noia...»

«In effetti è vero» concordò. «Volevo svegliare Shavo proprio per questo.»

«Io sarei stata sola piuttosto che chiamare il mio genitore e la sua amante del momento» brontolai.

«Immagino...»

Ci ritrovammo poco dopo sulla terrazza invasa dal sole, ombreggiata soltanto dagli ombrelloni sparsi qua e là e dalla tettoia del chiosco in legno. Al bancone riconobbi Alwan, il quale sobbalzò non appena mi riconobbe e corse ad abbracciarmi con slancio.

«Leah! Cavoli, quando sei arrivata?» esultò, sollevandomi da terra e stringendomi forte a sé.

«Al, mettimi giù!» risi, poi riuscii a divincolarmi e a toccare nuovamente terra.

«Soltanto ieri pomeriggio» risposi, risistemandomi i capelli.

«E non sei salita neanche a salutarmi? Day ti ha visto?»

«Sì, mi ha accolto lui. Oh, non avevo voglia di arrampicarmi fin quassù. In ogni caso, ti presento John, un nuovo ospite dell'hotel» sviai l'argomento, indicando il batterista con un cenno.

I due si strinsero la mano e Alwan ci indicò un tavolino.

«Sedetevi. Cosa vi porto?» ci chiese con un sorriso.

Io e John ci scambiammo un'occhiata.

«John, hai fame?» domandai con un sorrisetto malizioso.

«Un po'...» bofonchiò lui.

«Sei vegetariano?» indagai ancora.

«No. Perché?»

Mi voltai verso Alwan e gli dissi: «Allora portaci due Blue Mountain, poi io vorrei del pane tostato con burro e marmellata Guava, mentre direi che per quest'omone qua potresti portare una bella fetta di Bummy».

Alwan annuì e fece per andarsene, e allora notai le sue occhiaie e la stanchezza impressa sul suo viso.

«Al, hai lavorato fino a tardi ieri notte?» gli chiesi.

«Già. Mi sono capitati due turni vicini» ammise con un sospiro.

«Cazzo, è sempre la solita storia qui...»

Lui fece spallucce e si allontanò verso il bancone.

Allora notai che John mi fissava in maniera strana. «Scusa, Leah... cosa devo mangiare a colazione?» indagò con le sopracciglia aggrottate.

«Se ti fidi di me, sono sicura che non te ne pentirai. Ti piace il caffè?»

Il batterista annuì. «Caffè nero e senza zucchero.»

«Allora amerai il Blue Mountain. Non dirmi che non lo hai mai assaggiato!»

Scosse il capo. «Però ne ho sentito parlare.»

«Ottimo. Il Bummy invece è una deliziosa torta a base di manioca. Secondo me ti piacerà anche quella. Insomma, sei qui per mangiare le solite cose o vuoi conoscere nuovi piatti? Mi sembri un tipo un po'...» Ci pensai su alla ricerca di una parola adatta a definirlo.

«Un po'?» mi incalzò, appoggiando una mano sul tavolo e sporgendosi leggermente verso di me.

«Sei classico, mi dai l'impressione di una persona che non ama sperimentare» spiegai, sperando di non offenderlo. Se pensavo alla sua musica, mi sarei rimangiata quelle parole, ma lui non poteva sapere che lo avevo riconosciuto.

«Diciamo che non amo i fuori programma» tagliò corto, studiandomi con rinnovata curiosità.

«Ci ho azzeccato. Ma dimmi, che mangiate in Armenia per colazione?» lo punzecchiai, stiracchiandomi sulla sedia e sbadigliando sonoramente.

«Pane e sale» disse John.

Mi drizzai sul posto e lo guardai con aria sconcertata, poi un leggero sorriso gli incurvò le labbra e io scoppiai a ridere per l'espressione estremamente buffa che aveva assunto.

Nel frattempo Alwan tornò da noi con un vassoio tra le braccia e l'aria sempre più stanca.

«Al, mi preoccupi...»

«Tranquilla, ci sono abituato. Non vedo l'ora di finire il turno, così posso buttarmi a letto. Buon appetito ragazzi, poi fatemi sapere se vi piace questa colazione giamaicana.»

Quando se ne fu andato, notai John che osservava con circospezione la torta Bummy.

«Mangia, altrimenti deperirai» scherzai, cominciando a farcire le mie tre fette di pane tostato.

A fine pasto il batterista ammise che il Blue Mountain era veramente buono, ma che la torta non lo aveva conquistato più di tanto.

«Peccato. Però ho un'idea» dissi, finendo di mangiare.

«Cioè?»

«Facciamo colazione insieme tutte le mattine, e io scommetto che prima o poi troverò qualcosa che ti piacerà da morire» proposi con entusiasmo.

Parlare con lui era diventata ormai una sfida per me; era generalmente taciturno e poco loquace, ma pian piano stavo riuscendo a farlo uscire da quel suo guscio e a prendere un po' più di confidenza con lui. Con Shavo era stato facile fin da subito, mentre John richiedeva più pazienza e uno sforzo maggiore da parte mia. Tuttavia non mi dispiaceva affatto, almeno avevo qualcosa da fare e qualcuno con cui passare il tempo.

«Perché no? Tanto sono l'unico che si sveglia presto, i ragazzi sono più pigri...» accettò John di buon grado.

«Affare fatto, amico!»

Mi alzai e lo salutai con un cenno, poi gridai un «ciao» in direzione di Alwan e tornai in ascensore. Raggiunsi nuovamente la mia stanza e recuperai la sacca per andare in spiaggia, dopodiché uscii in corridoio.

Proprio in quel momento una porta si aprì e Shavo mise fuori la testa; aveva un'aria assonnata e non sembrava essersi ripreso del tutto.

«Ciao Shavarsh.»

Lo notai sobbalzare al suono della mia voce, poi mi individuò a pochi metri da lui e accennò un sorriso. «Ehi. Vai in spiaggia?»

«Sì, vado al Buts. Ti farebbe bene prendere un po' di sole, hai una faccia...» commentai, osservandolo meglio.

«Al Buts?»

«Beach under the Sun, è la spiaggia qui di fronte, alla destra di questa palazzina» spiegai pazientemente.

«Ah, ecco. Prima devo cercare John, chissà dove si è cacciato quel...»

Lo interruppi: «Abbiamo fatto colazione insieme, sta bene e non ha mangiato niente che potesse avvelenarlo. Be', io vado allora. Se vuoi qualcosa, sai dove trovarmi». Detto questo, gli voltai le spalle e camminai verso l'ascensore, per poi entrarci e dirigermi finalmente in spiaggia.


Verso le undici e un quarto la spiaggia era discretamente affollata. Ero stesa sotto il sole da circa un'ora e nessuno dei ragazzi si era ancora fatto vivo.

A ridestarmi dal mio stato di semi-morte fu l'arrivo di un gruppo di persone che si sistemò a qualche metro da me.

«Kelly, Kelly, ma dove sono? Io non li vedo, secondo me te lo sei inventato...» squittì una ragazzina dalla voce stridula.

«E che ne so? A me hanno detto che sono qui...» rispose un'altra voce femminile in tono brusco.

Sbirciai in quella direzione e notai che i nuovi ospiti erano due ragazze che dovevano avere diciassette anni accompagnate dai loro genitori. O almeno così supposi.

«Kelly, secondo me ti sei inventata tutto!» strillò ancora una delle due.

«Ashley, smetti di urlare, stai dando spettacolo» la rimproverò quella che doveva essere sua madre.

«Mamma, tu non capisci!» piagnucolò Ashley.

«Ash, dai, magari stanno dormendo...» tentò di calmarla Kelly.

Mi misi a sedere e le osservai più attentamente, anche se mantenni comunque una certa discrezione: erano entrambe bionde, magre e abbronzate, sembravano gemelle; ma a un esame più accurato non lo erano affatto, e i loro capelli erano palesemente tinti. Ashley assomigliava parecchio ai suoi genitori, mentre Kelly era completamente diversa. Forse non erano sorelle, probabilmente la famiglia di Ashley aveva invitato Kelly in vacanza.

«Non è possibile, hai visto che ore sono?» strepitò ancora Ashley.

«Ma dai, sono delle rock star, vuoi che si alzino all'alba per fare un favore a te?» le fece notare l'amica.

A quel punto aggrottai le sopracciglia e tesi le orecchie per senire meglio la loro conversazione.

«Stronza!» strillò ancora Ashley, poi si tolse di colpo il prendisole color crema e rimase in bikini a fissare in cagnesco la sua amica.

«Ashley, non esprimerti in questo modo» la rimproverò suo padre, un bell'uomo di mezza età dai capelli brizzolati.

«Ma io...»

«Basta, dai! Andiamo a farci il bagno, hai visto che acqua spettacolare?» tagliò corto l'amica, per poi correre verso la rima.

Ashley si guardò attorno un'ultima volta, poi seguì di malavoglia Kelly. Poco dopo le due stavano starnazzando tra le onde e io smisi presto di badare a loro.

Però non riuscii a dimenticare ciò che aveva detto Kelly a proposito delle rock star che non si alzano all'alba. Un dubbio prese velocemente forma nella mia mente e rimasi a domandarmi se si trattasse di una coincidenza oppure no.

Poi intravidi Shavo che camminava verso la spiaggia e mi alzai di botto, intenzionata a rimandarlo indietro il prima possibile.

Se le intenzioni di quelle due invasate corrispondevano al mio pensiero, dovevo assolutamente evitare che il bassista le incontrasse.

Quando gli fui accanto, con le mie cose in mano e le infradito infilate per metà, lo afferrai per un braccio e lo trascinai nuovamente verso l'albergo.

«Leah, cosa stai facendo?!» mi chiese allarmato, cercando di arrestare la mia avanzata.

«Te lo spiego dopo, adesso cammina!» gli intimai.

E mentre raggiungevo a grandi passi l'ingresso laterale della palazzina dipinta di bordeaux, mi resi conto che presto avrei dovuto abbandonare la mia maschera e rivelare ai ragazzi che sapevo fin troppo bene che erano tre componenti dei System Of A Down.




Cari lettori, come va?

Vi piace che Leah stia cercando di coinvolgere John in qualcosa come la scoperta dei piatti tipici giamaicani? Secondo voi troverà il modo per fargli amare qualcosa? ^^

A proposito di questo, ho parlato della Bummy cake e ho spiegato nel capitolo che si tratta di una torta a base di manioca, che si mangia a colazione in Giamaica; poi ho menzionato la marmellata Guava che Leah spalma sul suo pane tostato, molto usata e diffusa nei Caraibi ^^

Detto questo... cosa pensate invece di questa svolta inaspettata nella trama e di queste due nuove comparse che a quanto pare stanno cercando proprio i nostri tre eroi?

Io sono un po' preoccupata, soprattutto perché ora Leah dovrà confessare loro di conoscerli... perché mai non glielo avrà detto fin dall'inizio? Voi avete qualche idea in proposito?

Attendo, come sempre, i vostri commenti e vi ringrazio di cuore per il supporto :)

Alla prossima ♥

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Capitolo 9
*** Groupies ***


ReggaeFamily

Groupies

[Shavo]




«Adesso mi dici cosa ti è preso, Leah?» sbottai, quando ci ritrovammo in attesa dell'ascensore.

La ragazza si era comportata davvero in modo strano e io non riuscivo a comprenderne il motivo; era stata lei a invitarmi in spiaggia, ma non appena mi ero fatto vivo era scattata come una molla e mi aveva ricacciato dentro l'albergo, guardandosi intorno con circospezione.

Ero seriamente preoccupato, ma soprattutto mi domandavo come mai fossi in grado di attirare a me soltanto persone svitate e mentalmente instabili. Dovevo essere una specie di calamita, altrimenti non sapevo che altra spiegazione darmi.

Leah, non appena le porte si aprirono, si fiondò nel box e io la seguii in fretta. Premette il tasto con il numero sei e io presi seriamente ad agitarmi.

«Dove staimo andando? E perché ti comporti così?» strepitai, sentendomi veramente in ansia per quella strana evoluzione dei fatti. Del resto, non conoscevo quella ragazza e lei avrebbe potuto condurmi dove voleva, dal momento che conosceva quel posto a memoria.

«Calmati, Shavarsh» sospirò.

«Come posso calmarmi?!»

«Ascolta, è complicato...» Leah sollevò gli occhi su di me e mi studiò per un po'. «Il Buts al momento non era... adatto a te, ecco.»

Non ci stavo capendo un bel niente. «Ma se mi hai detto tu di raggiungerti laggiù!» le feci notare esasperato.

«Hai ragione, ma poi...»

L'ascensore si fermò e noi uscimmo, per poi ritrovarci in un piano dell'albergo che non mi era familiare. Capii subito che in quel punto si trovavano le piscine, le saune, il centro benessere e la palestra, poiché mi ritrovai di fronte dei cartelli con delle indicazioni chiare e precise scritte sopra.

«Leah, fermati!» La afferrai per un braccio e la costrinsi a voltarsi nella mia direzione. Eravamo a pochi passi dall'ascensore e io non avevo intenzione di continuare a trotterellarle dietro per cercare di estorcerle la verità.

Lei parve preoccupata e, prima di parlare, sospirò. «La prima cosa che devi sapere è che io...»

Ma proprio mentre lei stava per pronunciare una frase che, ne ero certo, sarebbe stata importante e decisiva, l'ascensore alle nostre spalle si aprì e due ragazze ne uscirono di corsa, per poi fermarsi a poca distanza da noi.

Erano bionde e magre, sembravano quasi gemelle, e si scambiavano occhiate allucinate, mentre faticavano a stare ferme. Erano in bikini e con i piedi scalzi, e grondavano acqua.

Fissavano me e Leah e non riuscivano a spiccicare parola.

Poi una delle due sbottò: «Ash, hai visto? Cosa ti avevo detto?».

«Oddio, Kelly... avevi ragione...» balbettò l'altra, per poi portarsi una mano alla bocca.

Le due cominciarono a ridacchiare tra loro, senza smettere di fissarmi. Currugai la fronte e lanciai un'occhiata interrogativa a Leah, la quale però non si scompose e mi ignorò completamente. Cosa le prendeva ora?

«Oddio... tu sei... oddio!» strillò la prima, avvicinandosi pericolosamente a me.

Indietreggiai di un passo, in maniera istintiva, ma poi mi ricordai di dover essere educato e di non dovermi comportare da snob, anche se avrei tanto voluto farlo.

Leah a quel punto scosse il capo e se ne andò, mollandomi lì senza neanche degnarmi di un saluto. Ero sempre più confuso, e ora dovevo avere a che fare con quelle due ragazze che avevano evidentemente capito che ero il basista dei System Of A Down.

«Possiamo farci un selfie?» continuò a squittire la ragazza, poi si rese conto di non avere lo smartphone con sé e si rivoltò contro l'amica: «Ecco, Kelly, questa è tutta colpa tua! Hai avuto fretta e...».

«Ma cosa stai dicendo? Se non fossimo corse fuori dall'acqua lo avremmo perso, cretina!» la rimbeccò l'amica, puntandosi le mani sui fianchi.

«Ma vaffanculo, però almeno avremmo avuto un cellulare per raccogliere le prove di questo incontro!»

Io le ascoltavo e guardavo sconcertato.

«Pazienza, tanto staremo qui per due giorni, no?» si mise sulla difensiva Kelly.

«Lasciamo perdere, sei una stupida! Oddio... e ora? Oh, Shavo, quanto sono emozionata! Quanto ti amo!» prese a cinguettare l'altra ragazza, avvicinandosi ancora a me.

Dovetti fare uno sforzo abnorme per rimanere fermo dov'ero, ma soprattutto per regalare loro un sorriso decente. Le avrei volentieri strozzate con le mie stesse mani, ma dovevo mantenere un certo contegno.

«Non ci posso credere, sei davvero qui, sei davvero tu! Sognavo questo momento da tutta la vita, io ti adoro, sei tutto per me!»

«Ehi, grazie... ehm...» biascicai in imbarazzo. Era una pazza, stavo seriamente cominciando a preoccuparmi.

Poi mi afferrò per le braccia e mi si premette addosso, stringendosi a me come un'anguilla e facendo aderire i suoi seni al mio petto e inzuppandomi tutti i vestiti d'acqua. «Oh Shavo...» mormorava, come se io e lei stessimo facendo sesso o qualcosa del genere.

«Ehi, mi fa... piacere che tu apprezzi la mia... musica, ma...» tentai di allontanarla gentilmente da me, ma lei era irremovibile.

«Shavo, sono vergine e pronta solo per te, lo sai?» disse all'improvviso, sollevando il viso e guardandomi con gli occhi lucidi e sgranati.

Avevo seriamente paura, come potevo liberarmi di quella piattola? La sua amica intanto era impalata e ci fissava con sguardo colmo di invidia.

«Ashley, sei proprio una zoccola» disse all'improvviso, e la mia assalitrice si scostò per poterla incenerire con gli occhi.

«Io sono zoccola solo perché tu non hai il coraggio di fare quello che faccio io, Kelly» rispose Ashley con cattiveria, poi si strinse nuovamente a me e fece strofinare il suo bacino contro il mio. Era troppo, dovevo assolutamente liberarmi di lei, mi stava indisponendo e avrei finto per trattarla male.

«Scusami, Ashley, ma devo raggiungere la mia ragazza, ti spiace? Magari ci vediamo in un altro momento e facciamo una foto, che ne dici?» buttai lì, afferrandola per le spalle e facendola leggermente indietreggiare.

Lei mi gelò con un'occhiata. «Quella è la tua ragazza?»

Allora mi resi conto che avevo appena combinato un disastro e che avevo coinvolto Leah in un casino che dipendeva solo da me. Ma ormai il danno era fatto, così mi ritrovai ad annuire.

«Ma io non sono gelosa, sai?» ritentò.

«Ma lei sì, e io la amo, non intendo tradirla. Mi capisci, vero?» cercai di convincerla, sentendomi sempre più esasperato. L'unica cosa che volevo era non trovarmela più di fronte, ma dubitavo che sarebbe stato fattibile.

«Oh, che carino che sei, che uomo fedele e amorevole!» commentò lei sorridendomi in maniera maliziosa. Doveva avere sì e no diciotto anni e si comportava già come una sgualdrina piena di esperienza. Ero basito.

«Dai, Ash, lascialo tranquillo. Lo hai spaventato» intervenne la sua amica con un filo di voce.

«Eppure sul palco sembravi più intraprendente, Shavo... vedrai, ti farò passare la voglia di desiderare quell'insignificante ragazza con cui esci, fidati di me» affermò Ashley.

Detto questo, afferrò Kelly per un braccio e la trascinò nuovamente verso l'ascensore, ancheggiando in un modo che avrebbe dovuto eccitarmi.

Ero veramente sconvolto e non sapevo che fine avesse fatto Leah e perché se ne fosse andata così in fretta; cominciai a cercarla e la trovai poco dopo a bordo piscina con i piedi immersi nell'acqua. Il luogo era praticamente deserto, evidentemente gli ospiti dell'hotel preferivano stare in spiaggia piuttosto che rinchiudersi in quel benessere artificiale.

«Leah, eccoti!» esclamai, lasciandomi poi cadere accanto a lei e immergendo a mia volta i piedi in piscina. L'acqua era tiepida e piacevole, fu subito in grado di rinvigorirmi.

«Ehi, Shavarsh, carine le tue nuove amiche» commentò, lanciandomi uno sguardo in tralice.

«Chi le conosce, sono due pazze. Mi hanno... scambiato per non so quale celebrità, è stato orribile» mentii. Non seppi neanche io perché, ma non volevo che Leah cambiasse la sua opinione nei miei confronti. Se avesse scoperto che ero un musicista abbastanza famoso e avesse guardato qualche video dei miei live, probabilmente non mi avrebbe più rivolto la parola.

Lei ridacchiò. «Pensa te... non potresti essere famoso neanche se lo volessi, ma ti sei visto?» scherzò, mollandomi una gomitata.

«Hai ragione» concordai. Ormai avevo cominciato con il teatrino, non potevo tirarmi indietro all'improvviso. «Ma cosa volevi dirmi prima? E perché mi hai trascinato via dalla spiaggia in quel modo?»

«Così.» Scrollò le spalle e fissò lo sguardo nell'acqua. «Non mi andava più di stare in spiaggia, troppa gente... qui è decisamente più tranquillo. Ma se tu vuoi tornarci, fai pure.»

C'era qualcosa di strano nelle sue parole, ma non avrei saputo dire di cosa si trattasse.

«No, qui va bene. In realtà stavo scendendo a cercarti, quindi non fa differenza...» borbottai. «Ma volevi dirmi qualcosa, prima che quelle ragazze ci interrompessero, o sbaglio?» le chiesi.

«Ah, sì... ho fatto colazione con John, il tuo amico dal nome normale. Abbiamo deciso di fare colazione insieme tutte le mattine, perché voglio trovare un cibo tipico giamaicano che lo faccia impazzire. Che strano ragazzo, non si scompone mai, sembra sempre triste, o forse... serio, ecco. Non parla molto.»

Riflettei un attimo su quelle parole, poi dissi: «John è particolare, ma è una persona fantastica, credimi. È che ci impiega un po' a fidarsi del prossimo, e non ha certo la mia parlantina o quella di Daron, ecco».

Leah tornò a guardarmi e incilinò la testa di lato. «Daron è ancora più strano. Penso che prima o poi gli ruberò le infradito rosse che portava ieri, a lui stanno davvero male, però sono carine» ammiccò.

Risi. «Può sembrarti eccentrico, Daron.»

«E non è vero?» indagò con curiosità.

Annuii. «Diciamo che lo è, ma in realtà non ama particolarmente stare al centro dell'attenzione. È un controsenso, lo so, ma se potesse vivrebbe da eremita. Non che io sia molto meglio, però lui è...»

La ragazza si sporse verso di me e mi studiò con più attenzione. «Tu? Eremita? Non prendermi in giro, Shavarsh.»

Mi posai una mano sul petto, ancora coperto dalla canottiera umida in seguito al contatto con quella specie di groupie che avevo incontrato poco prima. «Giuro. Ci sono dei periodi in cui non esco di casa, mi rinchiudo in me stesso e non apro a nessuno né rispondo al telefono. Passo il tempo a dormire, pensare, dipingere, suonare e guardare serie tv.»

«Suonare?»

«Già, suono principalmente il basso, ma anche la chitarra, le tastiere... e poi amo fare il dj!» spiegai con rinnovato entusiasmo. Era bello poterle raccontare chi ero senza che lei sapesse già ogni cosa di me e della mia vita professionale e privata.

«Caspita, non l'avrei mai detto. Sei davvero interessante» disse Leah con un sorriso.

«Grazie. E tu invece? Cosa fai nella vita?» volli sapere.

«Studio e vivo a Las Vegas. Ho un padre orribile, pochi amici... sono una tipa abbastanza solitaria, anche se parlo un sacco. Sono schifosamente curiosa e mi piace andare alla scoperta di nuove cose. Amo la musica, ma sono negata per suonare qualunque strumento o per cantare» mi raccontò, poi si sfilò il prendisole azzurro che indossava e lo lanciò su una sdraio. Poco dopo si immerse in piscina e aggiunse: «Vieni? Ci facciamo una nuotata».

Annuii e mi tolsi la canottiera, per poi lanciarla insieme al telo da mare sulla stessa sdraio in cui giaceva il vestito di Leah. Mi immersi a mia volta in acqua e la raggiunsi.

«Sai nuotare, Shavarsh?» mi punzecchiò, tirandomi un calcio sott'acqua.

«È una sfida?»

Gli occhi scuri di Leah incrociarono i miei, e notai che si illuminarono al suono della parola sfida, così mi slanciai all'improvviso nella sua direzione, cercando di afferrarla per un braccio; lei però fu più veloce e mi sfuggì, probabilmente si aspettava una mia mossa di quel tipo.

Cominciammo a nuotare come cretini per tutta la piscina, rincorrendoci a vicenda e gridandoci contro i peggiori insulti che ci venivano in mente. Era divertente trascorrere del tempo con quella ragazza, sapeva come prendermi e non mi faceva sentire diverso, non mi faceva affatto sentire in imbarazzo e, anzi, mi metteva a mio agio.

Mi accorsi, probabilmente in ritardo, della presenza di John e Daron a bordo piscina. I due stavano in piedi con i vestiti addosso e osservavano me e Leah come se fossimo due alieni. Daron aveva stampata in viso un'espressione estremamente maliziosa e teneva in mano il suo smartphone, puntandolo contro di noi. Immaginai che ci stesse scattando delle foto o stesse girando qualche video, così nuotai in quella direzione e lo fulminai con lo sguardo.

«Malakian, cosa diamine stai facendo?»

«Buongiorno pelatone, come butta? Vedo che ti stai divertendo... io che faccio? Niente, sto solo cercando delle prove per alimentare ciò che si dice in giro sul tuo conto...»

Sgranai gli occhi. «Come, scusa? Non ho capito. E smettila di fotografarmi, altrimenti ti trascino qui dentro con cellulare e vestiti e potrai dire addio al tuo strumento per la ricerca delle prove» lo minacciai, allungando una mano verso la sua caviglia.

Lui saltò prontamente all'indietro e notai che indossava nuovamente le infradito rosse. «Oh sì, così, sorridi... sei un fotomodello» mi prese in giro il chitarrista, continuando a scattare foto e spostandosi per potermi riprendere da diverse angolazioni.

«Io ti ammazzo, Malakian! Sei un uomo morto!» strillai, per poi balzare maldestramente fuori dall'acqua e prendere a rincorrerlo.

Leah uscì poco dopo dalla piscina e notai con la coda dell'occhio che avvolgeva il suo telo da mare intorno al corpo, per poi accostarsi a John e scambiare con lui delle occhiate interrogative.

«Cos'è che si dice in giro, razza di nanerottolo impertinente? Se ti prendo ti affogo!» continuai a inveire, mentre Daron correva molto più veloce di me, ridendo sguaiatamente e riempiendo l'aria con la sua voce acuta e squillante.

«Dicono che hai una nuova fidanzata, e che lei sia piuttosto insignificante!»

Nell'udire quelle parole mi bloccai di botto e spalancai gli occhi.

Possibile che quelle due groupies psicopatiche avessero già messo in giro delle voci sul mio conto? E se così fosse, ora come potevo spiegare a Leah che razza di casino avevo combinato?

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Capitolo 10
*** Bad Ideas ***


ReggaeFamily

Bad Ideas

[John]




Rimasi a fissare Shavo per un po', mentre eravamo seduti in ristorante e aspettavamo di mangiare. Aveva un'espressione incredula stampata in viso, ma a renderlo ancora più confuso era l'atteggiamento di Daron, che non voleva raccontargli cosa ci era accaduto mentre ci aggiravamo per l'albergo in cerca della piscina.

«John, c'eri anche tu, no? Raccontami tutto! Questo stronzo non vuole saperne...» si lamentò il bassista.

«Stronzo a me? Come osi?!»

«Daron, sta' un po' zitto, eh? Niente, abbiamo solo incontrato due... pazze» dissi, per porre fine a quello scempio.

«Oh no, anche voi?! Ragazzi, chi è stato a dirmi che qui saremmo stati tranquilli e nessuno ci avrebbe importunato?» sbottò Shavo, portandosi una mano sulla fronte e scuotendo il capo.

«Colpa di Serj.» Daron fece spallucce e si guardò intorno alla ricerca di un cameriere, con la solita impazienza che lo caratterizzava.

«Gli farò causa.»

«Dai, non siate drastici» mi intromisi. «Sono solo due ragazzine, cosa potranno mai farci?»

«Senti un po', se loro diffondono la notizia che noi siamo qui, sarà la fine, capisci? Altro che vacanza in pieno relax, diventerà un incubo...» si agitò Shavo, rischiando di cadere dalla sedia, tanto si muoveva e gesticolava.

«Stai calmo» borbottò Daron, inclinando la testa di lato e studiandolo con attenzione. «Significa che qualcuno di noi si sacrificherà per far tenere la bocca chiusa a quelle due.»

«Cosa intendi?» mi informai, titubante; conoscendo il chitarrista, la sua risposta non mi sarebbe affatto piaciuta, ne ero certo.

«Be', vogliono avere una storiella con noi, sono solo delle groupies, delle puttanelle da quattro soldi, no? Accontentiamole a patto che stiano mute» disse infatti Daron con estrema semplicità, scrollando le spalle.

Prima che potessi rispondere, Shavo balzò in piedi e gli puntò contro un dito. «Tu sei pazzo, completamente andato. Hai trovato qualcuno che ti ha fornito della roba pesante, vero? Perché altrimenti non me lo spiego» ringhiò, gli occhi stretti a fessura e il viso distorto dalla rabbia.

Certe volte il nostro chitarrista diceva delle cazzate astronomiche, e Shavo faticava a dargli retta o a mantenere la calma quando lo sentiva blaterare certe fesserie.

«Ragazzi, non litigate, per carità! Daron scherzava, non preoccuparti...» tentai di sciogliere la tensione.

«No che non scherzavo. Come pensi di liberartene, Dolmayan? Hai sentito cosa hanno detto? Parli bene tu, non ti hanno neanche considerato, mentre io me le sono ritrovate praticamente in braccio e non sapevo come mandarle al diavolo. Non si arrenderanno, sono psicopatiche.»

«Qui lo psicopatico sei tu! Io non farò sesso con quelle due, punto e basta. La questione è chiusa. Se ci tieni tanto, accomodati» concluse Shavo, per poi rimettersi a sedere.

Rimase in silenzio per il resto del pranzo, e io non seppi proprio come comportarmi. Daron continuò a intessere il suo folle piano, asserendo che non sarebbe stato poi così male, che ci sarebbero stati dei lati positivi e che a quelle ragazze sarebbe bastata una botta e poi ci avrebbero lasciato in pace per l'eternità.

«Sono contento che non mi vogliono» tagliai corto.

«Tu sei uno sfigato, Dolmayan» mi punzecchiò il chitarrista, per poi cominciare a ingozzarsi con il suo cibo rigorosamente fritto.

«Gli sfigati siete voi. Almeno posso vivere tranquillo.»

Daron ridacchiò. «Ma io scopo un sacco.»

«Che spasso» commentai sarcastico.

«Sì. Ieri notte mi sono divertito con una bella creatura, sapessi...» mi raccontò, ammiccando.

«Non mi interessano i dettagli, grazie.»

«Peggio per te...»

Shavo era palesemente incazzato e se ne andò prima che potessi intercettarlo; una decina di minuti dopo lo seguii fuori dal ristorante, ma di lui non c'era nessuna traccia.

Passai per la hall e vidi che il receptionist era appena arrivato al bancone, probabilmente pronto a cominciare il suo turno.

«Salve» mi salutò in tono piatto.

«Salve. Qualcosa non va?» domandai. Aveva una faccia da funerale e sembrava avercela con il mondo intero.

«Se trovo quelle due oche sul mio cammino, giuro che le strozzo» sibilò, lanciando occhiate furtive tutt'attorno.

«Di chi parla?»

Lui sollevò lo sguardo e sospirò. «Due ospiti dell'albergo, due ragazzine scapestrate. Hanno allagato l'ascensore perché sono rientrate in struttura scalze e senza pensare di asciugarsi dopo il bagno. Un disastro...»

«Mi pare di averle viste, e in effetti erano grondanti.» Le due groupies che avevamo incontrato in ascensore avevano creato scompiglio anche al personale dell'albergo.

«Perché non si estinguono?» chiese più a se stesso che a me. Poi parve ricordarsi di qualcosa e mi fissò. «Oh, giusto! Prima che mi dimentichi, volevo chiederle se, ecco... se il signor Malakian ce l'ha ancora con me per la pessima accoglienza di ieri...»

Sollevai gli occhi al cielo. «Macché. Daron è fatto così, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che blatera» lo rassicurai.

«Oh, be', io pensavo... okay, ricevuto. Bene, torno al lavoro, buon pomeriggio» concluse in fretta e furia il receptionist, poi si concentrò sullo schermo del computer e io potei dirigermi verso l'ascensore.

Forse Shavo era salito in terrazza a prendere un caffè...


Nonostante gli ombrelloni disseminati ovunque, faceva un caldo terribile quel pomeriggio. Dietro il bancone del chiosco in legno stazionava una ragazza dall'aria annoiata, che ogni tanto lanciava occhiate sognanti verso il mare. Doveva star desiderando di farsi un bel bagno ristoratore, anziché starsene a cuocere a fuoco lento nell'attesa che qualche cliente le desse qualcosa da fare.

Shavo, tuttavia, non c'era, ma presto venni raggiunto da Leah. La ragazza era di ritorno dalla piscina e sembrava allegra e tranquilla come sempre.

«Ciao John, tutto bene? I tuoi amici stanno ancora litigando?» esordì, per poi sedersi al mio tavolo e lanciare un'occhiata alla cameriera.

«Shavo si è incazzato durante il pranzo, non so dove sia. Daron è un po' stupido, a volte...»

«Povero Shavarsh, mi pare di capire che Daron gliene combini di tutti i colori, eh?» volle sapere.

«Indovinato.»

Leah fece un cenno alla cameriera e lei finalmente si decise a dirigersi verso di noi. «Era ora, scansafatiche...» borbottò Leah.

«Salve, cosa vi porto?» ci chiese la tipa in tono piatto.

«Ciao Lakyta, come stai? Vedo che lavori ancora qui, nessuno ti ha ancora scritturato per un film a Hollywood?» le si rivolse Leah, con tono ironico e tagliente.

«Spiritosa. Tu non hai ancora smesso di venire qui? Sei sempre con il tuo paparino, immagino» ribatté l'altra irritata.

«Si fa quel che si può... come va la tua relazione con Alwan?»

La cameriera strinse i pugni e fece del suo meglio per rimanere calma. «Stronza.»

«Oh, grazie, lo prendo come un complimento. Allora, portaci due Blue Mountain, per favore.»

L'altra la guardò in cagnesco, poi se ne andò impettita e con passo spedito.

«Dimmi te questa. John, sapessi quanto è odiosa! Quando l'ho conosciuta sembrava anche una brava ragazza, ma poi si è dimostrata falsa e ipocrita. È andata a sbandierare ciò che le avevo confidato e ora tutto l'hotel sa i fatti miei. Da allora non la sopporto» mi spiegò Leah, poi sospirò e cercò di darsi una calmata, sventolandosi una mano di fronte al viso.

«Magari c'è stata un'incomprensione...»

«L'unica incomprensione ce l'ha lei al posto del cervello, fidati di me» tagliò corto la ragazza.

«Okay, capisco.» Annuii, per poi zittirmi non appena notai Lakyta che tornava verso di noi.

Posò le nostre ordinazioni sul tavolino e se ne andò senza neanche rivolgerci un'occhiata.

«Simpatica» osservai.

«Te l'avevo detto.» Leah si affrettò a bere il suo caffè, poi mi scoccò un'occhiata e annunciò: «Vado a farmi un pisolino. Potrei ripensarci solo se incontro Shavarsh, mi dispiace che sia incazzato e magari vuole fare due chiacchiere».

«Ne dubito. Quando si incazza, è meglio lasciarlo in pace» le consigliai.

«Chissà... ora vado, ci vediamo. E se non ci incontriamo prima, ricordati del nostro appuntamento per domani a colazione. Facciamo per le nove?» proseguì lei come un treno in corsa.

«Va bene.»

Annuì e se ne andò di corsa, salutandomi con un cenno della mano mentre le porte dell'ascensore si richiudevano.

Poco dopo la cameriera tornò al mio tavolo per portar via le tazzine ormai vuote e mi lanciò un'occhiata interrogativa. «Sei un amico di quella pazza?»

Sinceramente, il tono acido della sua voce mi indispose parecchio e mi misi immediatamente sulla difensiva, evitando di risponderle.

«So che lo sei, scusa tanto eh, però quella non è una persona raccomandabile» proseguì, come se io l'avessi incitata a farlo e non la stessi deliberatamente ignorando. «Fa tanto la dura, ma è una stupida rammollita. Prende per il culo me, ma non sa che prima o poi arriverà il mio momento di gloria e andrò a Hollywood per girare un film d'azione con Steven Seagal. È soltanto invidiosa.»

«Non voglio essere scortese, ma non penso siano affari miei» dissi in tono piatto, poi mi alzai con calma dalla sedia e la riaccostai al tavolo.

«Forse hai ragione, scusa eh, ma ogni tanto c'è bisogno di sfogarsi.»

«Già. Grazie per il servizio al tavolo, adesso sono di fretta» tagliai corto e mi avviai verso l'ascensore. Perché quel dannato albergo era popolato da strani esemplari? Dove diamine ci aveva spedito quella carogna di Serj Tankian?


Mentre scendevo verso la hall, intenzionato a uscire per fare due passi ed esplorare la scogliera e i dintorni del Beach under the Sun, il mio cellulare prese a squillare, avvisandomi di una chiamata su WhatsApp.

Fissai lo schermo e notai che si trattava di Serj.

«Pronto, Serj?»

«Oh, finalmente mi ha risposto qualcuno! È da un'ora che cerco di chiamarvi, ma che fine avete fatto?» sbottò il cantante.

«Non so, io ho appena preso un caffè e stavo uscendo a esplorare la zona. Shavo si è incazzato con Daron e dev'essersi rinchiuso in camera, mentre Daron starà cercando di abbordare qualcuno in spiaggia...» spiegai, per poi uscire dall'ascensore e ritrovarmi nella hall dove il receptionist stava accogliendo dei nuovi ospiti. Fortunatamente eravamo entrambi impegnati, così riuscii a uscire dalla struttura senza dover parlare con lui.

«Ma che ore sono lì?» mi chiese Serj stranito.

«Uhm...» Osservai distrattamente il mio orologio da polso e mi resi conto di non averlo ancora impostato sull'ora giamaicana. Imprecai mentalmente e feci spallucce, affranto. «Non lo so, ecco... non ho impostato l'orario sul mio orologio da polso» spiegai.

«Sul cellulare dovrebbe essersi impostato in automatico, ma comunque... perché Shavo si è incazzato con Daron? Okay, sarebbe strano il contrario, però dev'essere capitato qualcosa di grave, no?»

Allontanai un attimo il cellulare dall'orecchio e controllai l'orario, poi lo riportai all'orecchio e replicai: «Sono successe tante cose, sapessi... ma in che razza di posto ci hai spedito? Speravamo di fare una vacanza rilassante, e invece... ma comunque, qui sono le tre e quaranta del pomeriggio, a Los Angeles che ore sono?».

«Mezzogiorno e quaranta. Io e Angie stiamo per pranzare.»

«Oh.»

Sentii Serj sorridere all'altro capo del telefono. «Adesso mi dici cos'è successo?»

Così, mentre passeggiavo e mi dirigevo verso la scogliera, gli raccontai delle groupies che avevamo incontrato io e Daron in ascensore, del disastro che avevano combinato in albergo uscendo zuppe dall'acqua per rincorrere Shavo, del piano folle di Daron per cui il bassista si era incazzato, e poi gli dissi di Leah che cercava in tutti i modi di farmi chiacchierare con lei e di coinvolgermi in quella bizzarra storia della colazione giamaicana.

«Questa Leah pare interessante» commentò Serj infine. «Angie, hai capito? Shavo si è già trovato una ragazza!» gridò poi, rivolto a sua moglie.

«Ehi, ma non è vero, lei è solo un po' esuberante, ma... oddio, se Shavo sa che anche tu pensi questo di lui e Leah, si incazzerà ancora di più.»

«Shavo non si arrabbia mai con me, sarebbe stupido da parte sua. Sa che ci sono mali peggiori nella vita, come Daron, appunto. E quindi soltanto queste due psicopatiche vi hanno riconosciuto? Nessun altro ha fatto intendere di sapere chi siete?» mi domandò curioso.

«No, però ho un sospetto» azzardai.

«Un sospetto?» ripeté Serj sbalordito.

«Già. È come se Leah sapesse qualcosa, mi dà quest'impressione» ammisi con semplicità, dando voce a un pensiero che si era formato dalla sera precedente nella mia mente.

«Questa ragazza mi sembra sempre più interessante.»

Sospirai. «Io non riesco a inquadrarla, e tu sai quanto detesto non avere tutto sotto controllo.»

«Rilassati, amico. Vedrai che, se qualcosa dovesse venire a galla, succederà. Ne sono certo. Che fate stasera, uscite?» cambiò argomento il cantante.

«Mah, lo spero proprio. Devo ancora parlarne con i ragazzi, tra un po' andrò a cercarli. Serj, secondo te come dovremmo fare a liberarci di quelle ragazzine?»

Lui tacque per qualche secondo e io potei quasi udire gli ingranaggi del suo cervello lavorare sodo per darmi il consiglio migliore. Infine disse: «Perché dovreste preoccuparvi di loro? A chi potrebbero mai dire che siete in quell'albergo? E, se pure qualcuno dovesse scoprirlo, non riuscirebbe a raggiungervi tanto presto e non avrebbe neanche senso volare fino in Giamaica per importunarvi».

«Sarebbe più facile che scovarci a Los Angeles» gli feci notare.

«Vero, però al massimo troverete qualcuno all'aeroporto che vi aspetta per qualche foto, per il resto state tranquilli e godetevi la vacanza. Me lo prometti?» incalzò.

Annuii poco convinto, ma subito mi ricordai che lui non poteva vedermi e risposi: «E va bene, ci proverò».

«Poi, se Daron ha voglia di divertirsi con quelle ragazze, lasciateglielo fare. La vita è la sua, ragazzi, non potete cambiarlo. Lui è così e basta».

«Hai assolutamente ragione.»

«Riferisci anche a Shavo questo messaggio, ha spento il telefono o qualcosa del genere, perché non sono riuscito a contattarlo. Mentre la linea di Daron squilla a vuoto.»

Sorrisi appena. «Sarà fatto. Grazie, socio, sei sempre il migliore. Noi tutti saremmo persi senza di te, lo sai?»

«Oh, detto da te è proprio un complimento enorme! La Giamaica sta già facendo effetto ai tuoi sentimenti e al modo giusto di esprimerli, corro subito a raccontarlo ad Angie!» esclamò entusiasta il mio amico, sghignazzando come un matto.

«Oddio, che ho detto?! Me lo rimangio subito» scherzai.

«Ormai il danno è fatto, ora sono cazzi tuoi, Dolmayan. E sappi che ho registrato tutto» mi canzonò a sua volta.

«Ora hai qualcosa con cui ricattarmi, merda» borbottai.

«Già, sei fottuto. Dai, ragazzo, ti saluto e vado a pranzo. Angie mi ha preparato una frittata di zucchine e non vedo l'ora di fiondarmici sopra» concluse Serj.

«Allora corri a pranzo! Grazie della telefonata e dai un abbraccio alla tua mogliettina da parte mia, ci sentiamo in questi giorni» lo salutai.

Quando misi giù, mi sentivo già meglio e proseguii a passeggiare con la mente più leggera; nonostante ciò, il pensiero che Leah doveva aver intuito qualcosa sull'identità mia e dei miei amici continuò a ronzarmi tra i pensieri finché non mi decisi a rientrare in hotel alla ricerca dei ragazzi.




Ehi ehi, come butta?

Sono qui per farvi un saluto veloce e per chiedervi una cosa: che ne pensate di Lakyta, la cameriera che sembra in conflitto con la nostra Leah?

Sono anche curiosa di sapere cosa ne pensate di Daron e delle sue idee bizzarre XD

Grazie per l'affetto che mi state dimostrando, per il fatto che mi state seguendo in quest'avventura e perché pare non vogliate abbandonarmi... penso sia positivo :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 11
*** Fuck N' Kill ***


ReggaeFamily

Fuck N' Kill

[Daron]




«Ascoltatemi bene.»

«Siamo qui per questo, no?»

«Già» concordai, sollevando poi una mano. «Il problema è che Shavo non accetterà la vostra proposta.»

«Allora non se ne fa nulla» sbottò Ashley, accavallando le gambe e sporgendosi verso di me. «Io voglio lui» aggiunse in tono deciso, poi tirò una boccata dalla sua sigaretta.

«Ma lui è impegnato, lui non è come me. Dovrete accontentarvi» ribattei senza scompormi.

«Io mi accontento eccome» intervenne Kelly, poggiando una mano sul mio ginocchio e prendendo a massaggiarlo con movimenti circolari.

Scacciai la sua mano e le lanciai un'occhiata in tralice. «Non qui e non ora, chiaro? Stiamo discutendo per trovare un accordo, visto che la tua amica pare pretenziosa.»

«Ashley è una stupida» borbottò Kelly.

L'oggetto della discussione si rivoltò contro di lei e la afferrò per i capelli. «Prova a ripeterlo, se hai coraggio!» strillò.

Mi guardai intorno. Ci trovavamo a bordo piscina, la quale era come sempre deserta, e sedevamo su delle sdraio all'ombra di alcuni ombrelloni di paglia.

«Evitate di dare spettacolo, potrebbe arrivare qualcuno da un momento all'altro» dissi con calma.

Ashley lasciò andare Kelly e mi rivolse nuovamente la sua attenzione. «La mia richiesta è chiara: o Shavo mi scopa, o vi sputtano su tutti i social. Ho giusto un paio di foto carine che potrei mettere online.»

Sorrisi divertito e mi allungai verso di lei. Afferrai il suo braccio e la feci scivolare verso di me, dopo aver afferrato la sua sigaretta tra due dita. Osservai l'oggetto con disgusto e lo schiacciai a terra con un piede.

«Ascoltami, ragazzina. Tu non preoccuparti, vedrai che ti farò dimenticare Shavo e chiunque altro tu abbia conosciuto in vita tua» affermai. In realtà non pensavo assolutamente quello che stavo dicendo, ma sapevo che era il modo migliore per abbindolarla. «Lui è tutta apparenza, non ti farà piacere starci accanto. Anche perché, quando è innamorato, non riesce a pensare ad altro se non alla sua dolce metà. Sarebbe un'esperienza davvero deludente per te, bambolina. Quindi, io ti consiglio di accontentarti del sottoscritto. Ti prometto che non te ne pentirai. Vogliamo divertirci entrambi, dico bene?» Mentre parlavo, avevo accostato il mio viso al suo e lasciato scivolare una mano lungo la sua schiena.

Ashley sgranò leggermente gli occhi e potei notare come il suo respiro accelerava. In effetti non sarebbe stato poi così male spassarmela con lei e la sua amica, anche e soprattutto perché mi facevano immensamente pena e le avrei trattate come meritavano e come volevano essere trattate, ossia come oggetti insignificanti da usare e gettare nel sacco della spazzatura.

«Potremmo provare, ma se non rimango contenta, sappi che tormenterò Shavo fino alla fine dei suoi giorni. Intesi?»

Scrollai le spalle e scoppiai a ridere, lasciando andare Ashley, che dovette reggersi alla sdraio per non cadere con il culo a terra. Era decisamente una psicopatica, ed ero certo che anche le stronzate che uscivano ogni tanto dalla bocca di Kelly fossero opera sua.

«Non rimarrai delusa, sono sicura che Daron ci farà sognare» disse Kelly con un sorriso malizioso dipinto sul viso giovane e assurdamente magro.

«Vedremo» concluse Ashley.

«Stasera io esco, quindi dovrete aspettare» le informai.

«Puoi venire nella nostra stanza anche ora» strepitò Kelly con impazienza.

«No, verrà stanotte, quando rientra.»

Ridacchiai. «Ottima idea. È la prima cosa intelligente che ti sento dire» commentai.

«Attento a come parli! Oh, vedrai, per te sarà l'esperienza più bella di sempre» cinguettò Ashley con convinzione.

«Non ne sono certo, ma per voi lo sarà di sicuro. Immagino che, anche se siete due sgualdrine, non abbiate avuto molte esperienze positive. Di solito quelle come voi si fanno gli sfigati. Stavolta vi è andata proprio di culo.» Dopo aver pronunciato quelle parole con ironia, mi alzai e le osservai dall'alto in basso. «Già, perché dubito che siate vergini come avete detto a Shavo» aggiunsi.

«Tu che ne sai?!» sbottò Ashley, balzando in piedi con i pugni stretti. Spesso si atteggiava a donna vissuta, ma non era altro che una ragazzina stupida, immatura e irritante.

«Qual è il numero della vostra stanza?» chiesi, cambiando argomento.

«Ottantasei, nella struttura dipinta di arancione» annunciò Kelly tutta contenta. «E tu in che stanza sei?»

«Ti piacerebbe saperlo, vero?» Feci spallucce e lanciai loro un'ultima occhiata colma di compassione, poi mi avviai verso l'ascensore e le lasciai lì a meditare su quanto fosse vuota e inutile la loro scatola cranica.


Mentre stavo per rientrare in camera, venni intercettato da John.

«Malakian! Dov'eri finito?» mi chiese, raggiungendomi sulla soglia della mia stanza. Spalancai la porta ed entrai, lasciandola aperta per permettergli di seguirmi.

«In giro qua e là...» dissi evasivo.

«Chissà cosa stavi combinando... Serj ha provato a contattarci, a momenti ci dava per dispersi!»

«Addirittura!»

John aggrottò le sopracciglia. «Non fare lo spiritoso. Ti manda i tuoi saluti e dice che se vuoi fotterti quelle due psicopatiche, puoi farlo.»

«Ora che mi ha dato il permesso, non mi lascerò scappare l'occasione» ribattei con un sorrisetto enigmatico.

«Vuoi farlo davvero?!» sbottò, e dal suo tono compresi che forse avrei dovuto tenermi quella verità per me.

Feci spallucce e presi a frugare tra i vestiti che avevo disseminato ovunque nella stanza. Non risposi, detestavo quando qualcuno cercava di dirmi cosa dovevo o non dovevo fare.

«Cristo, Daron!» esclamò il batterista in tono disperato.

«A te che importa, eh?» Inclinai la testa di lato e lo guardai storto. «Piuttosto, stasera si esce?» cambiai argomento, per poi riprendere a rovistare tra la mia roba. Non trovavo il cellulare, eppure ero sicuro di averlo abbandonato in camera, da qualche parte...

John sospirò. «Io vorrei uscire, sì. Allora vado a vedere se Shavo è ancora incazzato con te, altrimenti dovrei uscire da solo con te e la cosa non è per niente allettante.»

Roteai gli occhi al cielo. «Grazie infinite, tu sì che sei un amico. No, vado io da Shavo, tu vedi se trovi il mio cellulare, eh? Con la tua vista acuta e sensibile non dovresti avere problemi.» Detto questo, uscii nuovamente dalla stanza e mi fiondai a bussare a quella condivisa dai miei amici.

Avevo fatto incazzare Shavo, ma mi avrebbe perdonato, ne ero certo. Tra noi c'era un rapporto molto particolare, un forte legame che andava oltre la comprensione di chiunque. Se John tentava di fare da paciere con scarsi risultati e Serj era sempre pronto a portare fuori certe frasi filosofiche che soltanto lui capiva e con cui sperava di risolvere tanti dei miei problemi, Shavo era quello che mi capiva e mi accettava senza mai propinarmi consigli inutili o dire stronzate fuori luogo. Ovviamente tutto ciò che i miei compagni di band facevano per starmi accanto era apprezzabile, ma il bassista era una delle persone a me più affini.

«Dai, Shavo! Aprimi, ti voglio bene!» strillai con voce da bambina dell'asilo. Poi ci ripensai e, continuando a bussare con forza, presi a imitare Ashley e il suo modo osceno di porsi: «Oh Shavo, sei tutta la mia vita... scopami Shavo, oh!».

Proprio in quel momento Leah sopraggiunse in corridoio e mi lanciò un'occhiataccia. «Ma che cazzo fai? Smettila di urlare!» sbottò.

«Shavo! La tua ragazza insignificante mi sta molestando, dice che sei tutto suo e che non posso averti!» proseguii, ignorandola deliberatamente. Poi, stufo di stare fuori dalla porta, la tempestai di pugni e gridai: «Esci di lì, cazzo!».

Notai con la coda dell'occhio che John si era affacciato dalla mia stanza; stava per dire qualcosa, quando la porta si aprì e io mi ritrovai a rotolare verso l'interno. Non mi aspettavo che Shavo la spalancasse così in fretta e finii carponi sul pavimento.

«Ma tu hai seri problemi!» mi accusò il bassista in tono rabbioso.

«Shavarsh, ma che gente frequenti?» gli domandò Leah perplessa.

«Ehi!» si difese subito John, per poi raggiungerci e tirarmi per un braccio. Mi aiutò a rimettermi in piedi e mi piazzò il cellulare in mano.

«Grazie, amico, sapevo che avresti risolto il mistero del cellulare scomparso!» esclamai, per poi gettarmi letteralmente su di lui e abbracciarlo. Presi a sbaciucchiarlo su una guancia e lui, inorridito, mi spinse via e prese a imprecare come non mai, pulendosi la mia saliva dalla faccia.

«Fai schifo, Malakian!» disse Shavo con gli occhi sgranati.

«Ce n'è anche per te! Vieni qui!» strillai, per poi cominciare a rincorrerlo per tutta la stanza. Alla fine lo atterrai sul materasso e ripetei le effusioni che avevo già dedicato al batterista.

«Aiuto, che schifo, levati dal cazzo, Malakian!» mugolò.

«Dillo che ti piace! Oh Shavo, sei tutta la mia vita, oh...» ripresi a imitare Ashley, poi gli mollai una pacca sul sedere e balzai in piedi. Feci una giravolta e mi ritrovai faccia a faccia con Leah.

«Dammi il nome del tuo pusher» disse con nonchalance.

«Perché mai?»

«Perché voglio ucciderlo. Quello che assumi è pericoloso per la quiete pubblica» replicò.

«Se sei gelosa, posso riservarti lo stesso trattamento» la provocai, notando che non era niente male come bocconcino.

Lei scoppiò a ridere e poi si rivolse a Shavo, il quale si era faticosamente rimesso in piedi: «Come stai?».

«Credo di stare bene, anche se dopo quest'assalto non ne sono tanto sicuro» ammise il bassista.

«Okay, perfetto. Ragazzi, voi che fate stasera? Io pensavo di fare un giro nella capitale, conosco un paio di posti carini. Però non saprei con chi andarci, e Kingston non è adatta per una giovane donzella carina come me» berciò la ragazza, scoccandomi un'occhiata maliziosa.

«Vuoi forse dire che dovremmo essere le tue guardie del corpo?» mi informai.

«Mah, se tu non vuoi uscire, puoi startene qui insieme a mio padre, la sua amante del momento e quelle strane ragazze che hanno scambiato Shavarsh per una rock star» ribatté lei con sufficienza.

«Uh, compagnia interessante, ci farò un pensierino. Ma prima voglio vedere che luoghi magici conosci nella splendida Kingston.»

«Vada per un giro nella capitale!» esclamò Shavo entusiasta, mentre John annuiva e sembrava rincuorato dal fatto che finalmente avessimo preso una decisione.

«Vi aspetto tra un'ora nella hall» concluse Leah, poi uscii dalla stanza dei miei amici.

John si diresse immediatamente verso il bagno, annunciando che aveva bisogno di una doccia, così io rimasi un attimo solo con Shavo.

«Allora? Cosa volevi prima? Perché bussavi in quel modo?» mi domandò, cercando qualcosa da mettersi.

«Ce l'hai con me?» Gli posai una mano sul braccio.

Si voltò a guardarmi. «No, però non accetterò la tua folle idea, sappilo.»

«Tutto sistemato, non è più un problema tuo. Ho deciso di donarmi in sacrificio per salvare il tuo bel culetto. Ashley ha fatto un po' di storie, ma alla fine l'ho addomesticata» gli spiegai con un sorriso sornione.

«Fai come vuoi, ma non coinvolgermi.»

Ci pensai un attimo su, poi sorrisi. «Ti saresti divertito con loro, sono le classiche ragazzine da una botta e via. Che male c'è? Ogni tanto ci vuole.» L'espressione di Shavo rimase impassibile, così proseguii: «Ma forse non vuoi per un altro motivo».

Mi indirizzò un'occhiata interrogativa e si scrollò la mia mano di dosso.

«Mi sa che ti piace Leah, eh? Dimmelo, perché potrei fare un pensierino su di lei se non ti interessa» insinuai.

«Non mi interessa, fai quello che vuoi Malakian. Ma dubito che Leah vorrà avere a che fare con uno come te, non in quel senso almeno.» Dal suo tono di voce intuii che stava mentendo e dovetti trattenermi per non ridere.

«Okay, allora ci proverò. Non amo le prede troppo facili, dopo un po' mi annoiano, ma anche quelle servono a tappare i buchi» farneticai, cercando una qualsiasi reazione da parte sua.

«I tuoi discorsi farebbero impallidire un senegalese, fai proprio schifo!» mi accusò, ma notai che nel suo tono di voce c'era una nota di ilarità.

«Senti un po', ma perché quella ragazza ha detto che le groupies ti hanno scambiato per una rock star? Davvero non sa chi siamo?» gli domandai perplesso. Mi suonava strana come cosa, ma in effetti in quel luogo nessuno, a parte le due ragazzine bionde, ci aveva riconosciuto o aveva dato segno di sapere qualcosa sulla nostra vera identità. Alwan, il barista che avevo conosciuto la sera precedente, aveva avuto l'impressione di avermi già visto da qualche parte, ma alla fine non era arrivato alla verità.

«Leah non sa chi sono, le ho detto io che quelle due mi hanno scambiato per una rock star» mi confidò Shavo, distogliendo lo sguardo da me come se la cosa gli dispiacesse. «Pensa che mi ha detto che non potrei essere famoso neanche se lo volessi» raccontò ancora.

«Ci è proprio cascata... va bene, corro a prepararmi, altrimenti la tua amica mi uccide se non arrivo in orario nella hall» conclusi, per poi avviarmi nella mia stanza.

C'era comunque qualcosa che non mi convinceva in tutta quella storia, avevo la sensazione che la nuova amica di Shavo nascondesse qualcosa. Però non volevo preoccuparmene, non erano certo affari miei.

Mi gettai sotto la doccia e mi domandai se avessi fatto bene ad accettare il ricatto di Ashley e Kelly. Come sarebbe andato il nostro incontro? Sarebbe stato davvero così facile liberarmi di loro?

Fuck N' Kill, ecco cosa risuonò nella mia mente e fuoriuscì dalla mia bocca mentre mi preparavo. Presi a cantare il brano che avevo composto e mai registrato con gli Scars On Broadway.

Forse avrei fatto bene a fotterle e poi ucciderle, anche se in senso metaforico. E subito mi venne un'idea pazzesca, con la quale sapevo che ne sarei uscito pulito e illeso.

Mi ritrovai a sorridere con aria trionfante, e finalmente riconobbi la figura che mi fissava attraverso lo specchio posto sopra il lavandino del bagno.




Ciao belli, come state?

Be', vi è piaciuto questo delirante capitolo? È capitato un po' di tutto, ma del resto cosa ci si poteva aspettare da un POV Daron? Questo “ragazzo” (?) è piuttosto problematico, ne combina di tutti i colori e, nonostante sia in grado di creare solo guai, alla fine tutti lo perdonano e non possono fare a meno di venir contagiati dal suo modo di fare orribilmente e adorabilmente stupido XD

Ora ha un appuntamento con le groupies... io ho paura, voi? o.o

E cosa capiterà a Kingston? Avete qualche idea in merito? Sono curiosa di leggere le vostre congetture!

Il motivo principale per cui ho inserito le note finali, comunque, è per parlarvi del brano Fuck N' Kill che ho nominato verso la fine del capitolo; si tratta davvero di una canzone che Daron ha portato dal vivo con il progetto Scars On Broadway, ma che ahimè non è mai stata registrata – almeno a quanto mi risulta, dato che non la trovo da nessuna parte, ma qualcuno mi corregga se sbaglio o se ha informazioni diverse dalle mie XD

Vi lascio qui il link di un live, in caso qualcuno non la conosca e voglia ascoltarla e rifarsi un po' le orecchie, anche se l'audio non è il massimo e ho cercato il meno peggio -.- (si nota che adoro questo pezzo, vero? *-*):

https://www.youtube.com/watch?v=9_doz5R0BZk

Be', ora io mi chiedo... ma quand'è che la registrano? ù.ù

E niente, vi lascio e vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che mi date in ogni capitolo, vi adoro :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 12
*** Fyah ***


ReggaeFamily

Fyah

[Leah]




Prima di riuscire a lasciare lo Skye Sun Hotel, John dovette salire a bussare alla porta di Daron per trascinarlo fino alla hall. Dal canto mio, ero abbastanza irritata perché il chitarrista era in ritardo di venticinque minuti, nonostante avesse avuto tutto il tempo per prepararsi.

Quando i due ci raggiunsero, io stavo passeggiando avanti e indietro di fronte al bancone della reception, sotto lo sguardo leggermente preoccupato di Shavo e quello divertito di Dayanara.

«Il cretino si era addormentato» disse John con un sospiro.

«Eh? Ditemi che non è vero» sbottai.

«Purtroppo questi sono avvenimenti all'ordine del giorno» commentò Shavo scuotendo il capo.

Osservai i ragazzi: il bassista indossava una felpa grigia di una taglia in più e dei jeans strappati, mentre ai piedi portava delle semplici sneakers bianche; John era completamente vestito di nero con una camicia, dei jeans e i fidati anfibi; Daron, infine, sembrava un semaforo e attirava irrimediabilmente gli sguardi su di sé, con indosso una felpa multicolore dalla dubbia entità, su un paio di pantaloni rossi e un paio di scarpette in tela verde oliva.

«Tu, pensi davvero di entrare in un locale vestito in quel modo?» chiesi al chitarrista, aggrottando la fronte e scrutandolo meglio.

«Cosa c'è che non va?» fece lui con semplicità.

Scossi il capo e presi Shavo sottobraccio. «Lasciamo perdere e andiamo. Il taxi ci aspetta qua fuori» annunciai, avviandomi verso l'uscita. Poi mi rivolsi a Dayanara: «Day, se vuoi raggiungerci, andiamo al Fyah».

«Okay, dipende dalla mia stanchezza» rispose con un sorriso mesto.

Ricambiai quel gesto e uscii dall'albergo con i ragazzi al seguito.


Il Fyah Pub si trovava nei pressi del centro della città; era uno di quei locali amati dai turisti, ma popolati anche dagli abitanti di Kingston. Era carino, completamente costruito in legno come se si trattasse di un chiosco sulla spiaggia, e presentava due ambienti collegati da un breve ponticello. Nella prima sala si trovava il bancone e una serie di tavolini al coperto, mentre nella seconda stanza si trovava un piccolo palco e qualche altro tavolo, il tutto circondato da alcune vetrate che solitamente rimanevano aperte, poiché lo spazio fungeva anche da sala fumatori.

Sul palco si stava esibendo un gruppo reggae e l'atmosfera era calda e festosa.

«Niente male questo posto!» strillò Daron nel mio orecchio, poi si allontanò e cominciò a girovagare per il locale.

«Sembra una trottola» osservai, dando di gomito a John.

«Uhm, lui è sempre così.»

«Come fate a conviverci? Siete amici da tanto?» domandai, anche se in realtà sapevo che i componenti del gruppo si erano per la maggior parte conosciuti ai tempi della scuola.

«Da molti anni, e non so come abbiamo fatto a stare appresso a quel matto per tutto questo tempo» intervenne Shavo, per poi fare un cenno verso il bancone. Ci avvicinammo per prendere qualcosa da bere e poi ci dirigemmo ad ascoltare il concerto della band che si stava esibendo nell'altra stanza.

Daron era scomparso nel nulla e io immaginai che fosse andato alla ricerca di qualcosa da fumare o di qualche ragazza da abbordare.

«Sono forti, vero?» chiesi a Shavo, mentre sorseggiavo il mio drink, accennando ai ragazzi che stavano suonando.

Lui annuì. «Le linee di basso di Marley e della sua band erano una forza» commentò ammirato, mentre i musicisti eseguivano una cover molto carina di Three Little Birds del re della musica reggae.

«Infatti molte di esse sono utilizzate per un sacco di pezzi del new roots e di molti altri sottogeneri» gli dissi.

«Vero. Ehi John, hai visto che razza di batteria ha questo?» ammiccò il bassista.

John fissava con interesse lo strumento che Shavo gli indicava e i due presero a discutere animatamente su cose che io non riuscivo a capire a proposito di pezzi della batteria, modi di suonare e altri aspetti tecnici a me ignoti.

Quando il cantante, un tipo dai lunghissimi dread rossi, annunciò l'inizio di Lively up yourself, un altro brano di Marley, mi ritrovai a esultare e subito mi gettai in mezzo alla folla che già da un po' ballava accanto al piccolo palco su cui era situata la band.

Prima che mio padre mi trascinasse in Giamaica per le vacanze, non mi ero mai interessata alla musica reggae; ma da quando avevo cominciato a frequentare quell'isola, mi ero gradualmente appassionata di quel genere e avevo scoperto che certi brani potevano trasmettere una carica assurda.

Così mi ritrovai a ballare e cantare a memoria per tutto il tempo.


Lively up yourself and don't be no drag

Lively up yourself, 'cause this is the other bag

Hey, lively up yourself and don't be no drag

You lively up yourself, dig it, the other bag


Hey, you rock so, you rock so, like you never did before

You dip so, you dip so, and you can dip through my door

You come so, you come so, oh yeah,

like I do adore you

You skank so, you skank so, and I can assure you


Verso metà canzone mi ritrovai a ballare come una matta accanto a Daron, che intanto strillava in preda a chissà quale sostanza stupefacente o alcolico, e notai che nel frattempo si era levato la felpa e, accaldato, mostrava una semplice t-shirt bianca a maniche corte che sembrava una maglia intima piuttosto che un capo da indossare per uscire in un locale.

Lui non sembrava affatto preoccupato del suo abbigliamento e prese ad agitarsi come un ossesso sulle note della canzone.

Anche io stavo seriamente cominciando ad avere caldo, così mi sfilai la giacca e corsi verso Shavo. Gliela consegnai e gli feci l'occhiolino, per poi rigettarmi nella mischia. Indossavo una semplice maglia lunga su un paio di leggings e mi sentivo molto più leggera e pronta a ballare ancora e ancora.

«Cazzo, sono fuori come un balcone, ho voglia di suonare!» Daron gridò quelle parole, per poi afferrarmi per un polso. Mi ritrovai a fare una giravolta e a guardarlo con aria divertita.

«Non vorrai rubare il posto a questi ragazzi, spero» lo rimproverai.

«Sì, cazzo... voglio una chitarra!» strillò, per poi lasciarmi andare e dirigersi a passo di marcia verso i musicisti. Mi voltai verso Shavo e John e lanciai loro un'occhiata preoccupata, ma i due si limitarono a sorridere con fare enigmatico e ad annuire senza scomporsi. Possibile che fossero davvero abituati a tutto questo?

Rimasi dov'ero e fissai allibita Daron che, durante una pausa tra una canzone e l'altra, prese a negoziare con il chitarrista del gruppo. Pochi istanti dopo Daron si accostò al microfono e parlò: «Ehi ragazzi, come state? Questo posto è uno sballo, sono veramente felice di essere qui! Che ne dite se vi suono qualcosa?».

I presenti si esibirono in un coro di approvazione, anche se dubitavo fortemente che comprendessero appieno ciò che stava succedendo. Qualcuno, accanto a me, prese a strillare in maniera assordante e io temetti davvero di perdere i timpani.

«Vi piace il rock? Oh sì che vi piace, ne sono sicuro.» Daron sorrise con fare enigmatico. «Sono sicuro che Bob Marley approverebbe» concluse, poi prese a strimpellare la chitarra. Lo vidi storcere il naso e armeggiare con le corde, finché non ottenne quel suono che si avvicinava maggiormente al suo gusto personale.

Shavo e John mi raggiunsero, ma io ero sempre più sconvolta da ciò che Daron stava combinando.

«Cosa ha fumato? Ha assunto qualcosa, altrimenti non me lo spiego» dissi in tono leggermente preoccupato.

«Probabile. Adesso vediamo che fa» replicò Shavo con un sorriso.

Daron si schiarì la gola e cominciò a suonare una melodia a me non del tutto sconosciuta, ma riuscii a capire di cosa si trattasse quando lui cominciò a cantare. Stava eseguendo una versione di Redemption Song dai tratti rock, ma mantenendo un andamento in levare tipico del reggae.


Emancipate yourselves from mental slavery
None but ourselves can free our minds
Have no fear for atomic energy
'Cause none of them can stop the time
How long shall they kill our prophets
While we stand aside and look
Some say it's just a part of it
We've got to fulfill the book

Won't you help to sing
These songs of freedom
'Cause all I ever have
Redemption songs
Redemption songs
Redemption songs


Ero seriamente sotto shock, ma alla fine presi a cantare insieme a lui e la gente intorno a me non fu da meno; Daron sbagliò diversi accordi, ma nessuno sembrava badarci, e al contrario i componenti della band presero a eseguire delle figure ritmiche per accompagnarlo e al secondo ritornello il cantante stava già eseguendo delle armoniche vocali per supportare il canto del nuovo arrivato.

«Questa è magia» disse Daron al microfono, mentre improvvisava un assolo su due piedi. «Questo è fuoco, fyah come dite voi in Giamaica» aggiunse, poi riprese a cantare l'ultima strofa e l'ultimo ritornello del brano.

Tutti ci ritrovammo ad applaudire e acclamare la sua esibizione, mentre lui ringraziava il chitarrista che gli aveva prestato il suo strumento e scendeva a passi malfermi dal palco. Subito un gruppetto di ragazze si accostò a lui e lo circondò, ma da quella distanza non riuscii a sentire cosa gli stavano dicendo.

«Ha già fatto conquiste» commentai, voltandomi verso Shavo e John. «Dio, ma che ha fatto?» mi ritrovai a domandare più a me stessa che a loro.

«Lui è fatto così: quando ha voglia di suonare, niente può fermarlo» confessò Shavo, che nel frattempo si era tolto il cappellino da baseball che indossava e se lo sventolava di fronte per tentare di rinfrescarsi un po'.

«Siete tutti dei musicisti? Tu suoni il basso e tutti quegli strumenti, lui la chitarra...» buttai lì, fingendomi sorpresa.

John sospirò e si diresse verso Daron, annunciando che era arrivato il momento di strapparlo via a quelle ragazze possedute dal demonio.

«Già, è anche per questo che siamo amici» rispose Shavo con cautela.

Non ero certa che avesse capito che io sapevo la sua identità e quella dei suoi amici, ma in ogni caso sembrava restio a parlarmene, e forse era meglio così. Del resto, doveva essere difficile per lui vivere ogni giorno con persone che lo assalivano e lo trattavano da celebrità, e non da Shavo Odadjian e basta. E non volevo essere certo io a causargli disagio. Ero certa, in ogni caso, che le ragazze che stavano importunando Daron lo avessero riconosciuto, e forse John stava cercando di evitare che la cosa degenerasse.

Il gruppo riprese a suonare solo dopo che il chitarrista ebbe nuovamente accordato il suo strumento e poco dopo John stava trascinando Daron fuori dalla stanza. Io e Shavo ci scambiammo un'occhiata, poi li seguimmo e ci ritrovammo sul ponticello che collegava i due ambienti del locale.

«A quelle donzelle è piaciuta la mia esibizione» stava blaterando Daron, tentando invano di liberarsi dalla stretta ferrea di John.

«Non è il caso di dare spettacolo, hai già fatto il tuo show» lo rimproverò l'altro, e nel suo tono di voce potei udire un'incredibile serietà.

«Su, non sgridarlo così! Non è stato poi così male» tentò di sdrammatizzare Shavo, posando una mano sulla spalla del batterista.

«Già, complimenti, hai coinvolto questa gente con un genere insolito» commentai, scrutando il viso accaldato e stravolto di Daron.

Il chitarrista si passò una mano sulla faccia per asciugarsi il sudore e scosse il capo con forza, poi scoppiò a ridere sguaiatamente e si appoggiò con un braccio sulla spalla di John, continuando a ridere come un folle.

«Leah, andiamo a prendergli un caffè, mi sa che si è fatto proprio qualcosa di forte» affermò Shavo.

Annuii e lo seguii verso il bancone.

«Mi fa un po' pena» commentai con un mezzo sorriso.

«Lui è particolare, bisogna avere pazienza» spiegò Shavo, mentre eravamo in fila per ordinare.

Inclinai la testa di lato con disappunto. «Lo giustificate sempre. In questo modo lui si sente sempre autorizzato a fare come gli pare, e voi dovete risolvere i suoi guai.»

«Ti ha mai detto nessuno che parli troppo e che sei un'impicciona?» controbatté lui, continuando a guardare dritto davanti a sé.

«Dico sempre quello che penso, e in effetti questo mi crea non pochi problemi» ammisi.

«Immagino. Ti conosco da un giorno e ti sento già dare dei giudizi su di me e sui miei amici» proseguì il bassista.

Mi sentii leggermente a disagio, così gli afferrai il braccio per attirare la sua attenzione e fare in modo che mi guardasse. «Sul serio ti dà fastidio?» domandai.

Shavo rimase in silenzio per qualche istante, poi rispose: «Non è che mi dà fastidio, più che altro... noi ci conosciamo appena, Leah. E tu hai un modo piuttosto singolare di approcciarti alle persone».

«Mi stai dicendo in parole gentili che ti dà fastidio» conclusi. «Okay, ricevuto.»

«Adesso non te la prendere» si affrettò a dire, aggrottando la fronte.

«Macché.» Scacciai la sua ultima frase con un cenno della mano e mi avvicinai al bancone per ordinare un caffè espresso per Daron. Lasciai una banconota sul bancone e mi voltai per tornare indietro.

Shavo mi sbarrava la strada. «Non c'era bisogno che pagassi.»

«Non importa, ormai il danno è fatto» ribattei in tono piatto.

Mentre tornavamo dai ragazzi, mi ritrovai a riflettere su ciò che mi aveva detto: non era la prima volta che mi si diceva di essere esuberante o invadente, ma io non lo facevo per male. Anche con John avevo cercato di instaurare un dialogo, perché ero fermamente convinta che ogni persona meritasse di essere conosciuta e ascoltata. Forse sbagliavo il modo di pormi, e questo indisponeva gli altri nei miei confronti.

Cominciai a sentirmi in colpa quando consegnai il caffè a Daron e lui lo bevve senza preoccuparsi di aggiungerci dello zucchero. Fece una smorfia piuttosto disgustata, ma riuscì miracolosamente a mandarlo giù senza sputarcelo in faccia.

Poco dopo decidemmo di rientrare in albergo, o meglio, i ragazzi lo decisero mentre io me ne stavo zitta e in disparte ad ascoltare i loro discorsi.

Il viaggio in taxi fu caratterizzato dalle cazzate di Daron, che a metà strada per fortuna si addormentò e prese a russare sulla spalla di John.

Una volta tornati in albergo, il chitarrista parve riprendersi di colpo e fuggì dentro la hall blaterando qualcosa a proposito di un appuntamento a cui non poteva mancare. Era fuori come un balcone, ne ero sempre più convinta.

Quando entrammo in albergo, la hall era deserta, a eccezione di un receptionist che sonnecchiava sulla tastiera del computer. Doveva essere lo stagista di cui Dayanara mi aveva parlato il giorno precedente, o forse un suo sostituto.

Raggiungemmo a bordo dell'ascensore il nostro piano e i nostri passi echeggiarono nel corridoio deserto. Non sapevo neanche che ore fossero, il tempo dentro il locale era volato, ne ero certa: succedeva sempre così, sotto gli effetti del Fyah.

Dopo un saluto appena accennato, mi avviai verso la mia stanza, ma sentii qualcuno afferrarmi per una spalla.

«Leah...»

Sorpresa, sbattei le palpebre e fissai i miei occhi in quelli scuri di John. Quest'ultimo mi lasciò subito andare e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Mi guardai attorno e notai che Shavo era sparito, la porta della stanza che condivideva con il batterista era socchiusa.

«Non è da me intromettermi, anzi mi scuso, ma ho notato una certa tensione tra te e Shavo» esordì, dopo essersi schiarito la gola. «Da quando avete preso quel caffè, non vi siete più rivolti la parola.»

Rimasi a fissarlo, in attesa, senza avere la minima idea di quale piega stesse per prendere il suo discorso.

«Ecco, spero sia tutto a posto» concluse.

«Sono un'impicciona?» sbottai all'improvviso. Non mi importava che Shavo potesse udirmi, mi sentivo veramente in colpa per averlo infastidito e volevo capire se la situazione fosse davvero così grave.

John accennò un sorriso. «Lui ti ha detto questo?»

Annuii.

«Sei impicciona» confermò il batterista, spiazzandomi per il modo diretto con cui mi rispose. «Ma chi dice che questo sia un difetto?» aggiunse poi.

«Non ne ho idea. Io non lo faccio per offendere nessuno. Sono soltanto curiosa, forse anche troppo, perché ci tengo a conoscere a fondo le persone» spiegai con semplicità, senza distogliere lo sguardo da lui.

«Vedrai che tutto si sistemerà» affermò John con calma e sicurezza. «Shavo spesso è scostante, a volte si fa certi film mentali... ma poi capisce, capisce sempre tutto e fin troppo bene.»

Feci un passo verso di lui. «A te non dà fastidio che io sia così? Devi dirmelo.»

«All'inizio un po' mi ha spiazzato questo tuo modo di fare, ma adesso non più» rispose lui con calma, come se gli costasse fatica pronunciare quelle parole ed esternare così le sue emozioni.

«Per fortuna.» Gli sorrisi. «Grazie e... be', io domani alle nove ti aspetto in terrazza, se vuoi ancora avere a che fare con una svitata come me» conclusi.

«Non mancherò. Ora dormi e non pensare a Shavo, gli passerà.» Detto questo, mi salutò con un cenno della mano e rientrò nella sua stanza.

Quando raggiunsi la mia, ero troppo stanca per riflettere, così mi buttai presto a letto e sprofondai in un sonno profondo e ristoratore.




Ehilà!

Oggi mi fermo solo per parlarvi dei brani che ho nominato nel capitolo, perché sono certa che non abbiate voglia di leggere altre fesserie dalla sottoscritta XD

Parto col ricordarvi che si tratta di tre pezzi di Bob Marley, il maggior rappresentante della musica reggae ^^

La prima canzone, Three Little Birds, è datata 1977 e fa parte dell'album Exodus, aprite questo link se volete sentirla (sono certa che lo conosciate, anche se magari il titolo non vi dice nulla ^^):

https://www.youtube.com/watch?v=LanCLS_hIo4

Il brano che Leah e Daron ballano, Lively Up Yourself, è forse il mio preferito in assoluto di Marley – ed è piuttosto difficile scegliere, quindi prendete per buono il forse – che fa parte dell'album Natty Dread del 1974, vi consiglio caldamente di ascoltarla, dà una carica pazzesca:

https://www.youtube.com/watch?v=oyFmNPoDbDU

Infine arriviamo a Redemption Song, anche questa sicuramente conosciuta da tutti voi; ultima traccia di Uprising del 1980, vi consiglio di dargli un ascolto per capire cosa Daron ha combinato durante questa folle serata a Kingston in cui è stato improvvisamente preso dalla voglia matta di suonare:

https://www.youtube.com/watch?v=QrY9eHkXTa4

Ultima informazione, poi vi mollo, giuro :D

Il termine fyah, in patois giamaicano significa letteralmente fuoco, e si pronuncia faia; corrisponde all'inglese fire, dato che i giamaicani devono la loro lingua a un mix di inglese e varie lingue africane ^^

Spero che questo viaggio in Giamaica sia di vostro gradimento e che vi stia incuriosendo abbastanza con le informazioni che lascio disseminate lungo la storia ;)

Alla prossima e grazie di cuore ♥

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Capitolo 13
*** Rage ***


ReggaeFamily

Rage

[Shavo]




John aveva ragione: con Leah avevo esagerato.

Questo fu il primo pensiero che mi assalì quella mattina, quando mi svegliai con il viso inondato dai raggi del sole. Mi misi di scatto a sedere e notai che il mio amico non era in camera.

Ripescai il cellulare dalla tasca dei jeans che avevo indossato la sera prima e constatai che erano le dieci e venti del mattino. Sbadigliai rumorosamente e mi alzai, decidendo in quel preciso istante di andare a fare colazione. Stavo morendo di fame e non ricordavo quando era stata l'ultima volta in cui avevo mangiato qualcosa di veramente sostanzioso.

Trovai in fretta e furia un paio di calzoncini e una canottiera puliti, misi ai piedi un paio di ciabatte nere e lasciai in fretta e furia la stanza, con lo stomaco che brontolava. Presi l'ascensore e mi diressi all'ultimo piano, verso la terrazza. Volevo provare anche io l'ebbrezza di fare colazione lassù.

Quando arrivai, notai con disappunto che le due groupies che mi avevano importunato il giorno prima erano sedute a un tavolino e parlottavano tra loro. Quando si accorsero di me, sollevarono appena lo sguardo, per poi concentrarsi nuovamente su loro stesse. Possibile che Daron fosse davvero riuscito a liberarsi di loro e a farle stare buone? Non avevo idea di cosa avesse combinato il chitarrista, ma prima o poi ogni cosa sarebbe venuta a galla. O meglio, l'avrei costretto a raccontarmi tutto.

Notai Leah e John che, appoggiati al bancone del chiosco, si intrattenevano con il barista, un ragazzo di media statura dal viso simpatico che pareva essere un amico della ragazza.

Mi accostai a loro e li salutai, appoggiando i gomiti sul bancone e sospirando. Avevo un leggere mal di testa e sentivo di avere già troppo caldo su quella terrazza assolata.

«Questo sole mi ucciderà» borbottai.

John fece spallucce e disse: «Siamo ai Caraibi, che ti aspettavi?».

Il barista scambiò qualche altra battuta con Leah, poi mi si rivolse e mi chiese: «Cosa posso servirti?».

«Innanzitutto un caffè bello forte, e poi...» Mi accostai a una piccola vetrinetta in cui facevano bella mostra diverse leccornie. «Prendo quel bignè gigante con il cioccolato» conclusi soddisfatto.

«Hai bisogno di addolcirti?»

Mi voltai di scatto quando udii le parole che Leah aveva appena pronunciato. Mi ritrovai a fissarla leggermente confuso, anche se sapevo di doverle delle scuse o di dover almeno provare a parlarle.

«Temo di sì» ammisi, abbassando leggermente lo sguardo.

John si schiarì la gola e mi picchiettò sulla spalla. «Vado a farmi un giro, stamattina non sono andato a fare jogging e mi sento già arrugginito e pesante. Ci vediamo per pranzo?»

Annuii distrattamente, tenendo d'occhio Leah che se ne stava appollaiata su uno sgabello con le braccia incrociate al petto.

«Allora a dopo» concluse John, per poi dirigersi velocemente verso le scale. Il fatto di aver trascurato la sua corsetta mattutina metteva in moto una sorta di nervosismo in lui, il che lo induceva a fare il possibile per recuperare tutti i passi che aveva perso stando a letto un po' più a lungo. Quindi evitò l'ascensore e io mi ritrovai a domandarmi pigramente come fosse possibile che il mio amico facesse parte della razza umana.

Il barista mi posò di fronte il caffè e il dolce che avevo ordinato; non sapevo cosa contenesse quel bignè, ma avevo così tanta fame che mi ci tuffai letteralmente sopra, cominciando a mangiare con voracità.

Notai che Leah aggrottava la fronte e il ragazzo dietro il bancone sorrideva leggermente.

Afferrai un tovagliolo di carta dal contenitore che si trovava accanto alla ciotola delle bustine di zucchero e mi pulii goffamente la bocca; mandai giù il cibo che stavo masticando e poi farfugliai: «Scusatemi, non so da quanto tempo non mangiavo qualcosa di decente».

«Shavarsh, secondo me il fuso orario ti ha fatto molto male» disse Leah.

«Potrebbe essere come dici tu...»

«Al, da bravo, versagli un bel bicchiere di acqua fresca, probabilmente anche il caldo non gli fa bene» suggerì la ragazza al barista, rivolgendomi un'occhiata preoccupata.

Al si allontanò per eseguire la richiesta e proprio in quel momento giunsero altri due clienti dell'albergo che intrattennero per un po' il barista.

Ne approfittai per parlare con Leah.

«Non sei arrabbiata con me?» le domandai, sorseggiando lentamente il caffè, dopo averci messo dentro quattro bustine di zucchero. Era troppo amaro per i miei gusti.

«Un po' sì» ammise lei, per poi sospirare. «Ma forse sbaglio, forse hai ragione tu a dirmi che sono una ficcanaso.»

«Stronzate!» mi affrettai a esclamare. «Non ho ragione per niente, e non volevo dirti quelle cose ieri. Ero solo preoccupato per Daron, ero... ero in ansia per lui. Quando non so cosa assume, cosa combina, mi sembra di perdere il controllo. E mi sono irritato perché so che stavi dicendo la verità. Però vedi, Leah, Daron non è un bambino e noi non siamo i suoi genitori. Per quanto noi possiamo preoccuparci e cercare di tenerlo d'occhio, non abbiamo il diritto di impedirgli di agire come vuole. Altrimenti ci saremmo già allontanati da molto tempo» spiegai, parlando in fretta e ritrovandomi presto a gesticolare.

Leah mi lasciò finire il discorso e rimase a riflettere in silenzio per un attimo, poi allungò una mano e afferrò la mia. «Mi dispiace» mormorò. «Non avrei dovuto prendermela, certe volte sono proprio stupida. O forse lo sono sempre, chissà... ma non immaginavo che ti sentissi così ansioso per la situazione di ieri sera...»

Ricambiai la sua stretta e cercai i suoi occhi. «Non importa. Tutto okay, davvero.»

«Mi farò gli affari miei d'ora in poi» aggiunse Leah.

«Macché. Dopo che mi hai aiutato a non svenire e non vomitare sul tappeto della hall, l'altro giorno, ti devo mille e più favori» scherzai, cercando di sdrammatizzare e stemperare l'atmosfera.

Lei sorrise e finalmente la tranquillità tornò a distendere i tratti del suo viso. «Okay, se lo dici tu... per farmi perdonare ho una proposta» annunciò.

«Ah sì? Di che si tratta?» chiesi con curiosità.

«Ti invito a pranzo in un posto carino, giù in città» spiegò con rinnovato entusiasmo, lasciando andare la mia mano.

«Sul serio? Solo io e te?» insinuai in tono malizioso. «Non hai paura che ti molesti?»

Leah saltò giù dallo sgabello e, mentre il barista tornava da noi, esclamò: «Shavarsh, non potresti essere più pericoloso di una farfalla variopinta!».

«Variopinta?» Corrugai la fronte e ringraziai Al con un cenno del capo, poi tracannai l'acqua di tutta fretta.

«Si fa per dire» borbottò Leah evasiva.

«Okay, mi fa piacere che tu ti fidi così tanto di me» ammisi, sentendomi davvero compiaciuto.

Lei mi fissò per un istante, poi ribatté: «Non sei un cattivo ragazzo, i cattivi ragazzi non hanno il mal d'aereo».

Scoppiai a ridere e lei mi seguì a ruota.

«Va bene, hai vinto. Ci vediamo nella hall più tardi allora?» proposi.

«Facciamo a mezzogiorno, intanto mi faccio un tuffo in mare. Se vuoi venire...» propose.

«No, ho una faccenda da risolvere» rifiutai a malincuore, ricordandomi che dovevo assolutamente buttare Daron giù dal letto e scoprire cosa aveva combinato con le groupies.

«Okay! Allora a più tardi» concluse Leah, poi salutò il barista in tono caloroso e scappò via dalla terrazza.

«Conosci da molto Leah?» chiesi al barista, mentre finivo di fare colazione.

Lui sorrise. «Da qualche anno. È una forza quella ragazza» commentò.

«Me ne sono accorto... sono arrivato qui l'altro giorno e già non riesco a fare a meno di lei» mi ritrovai a dire; quando mi resi conto di ciò che avevo appena ammesso di fronte a uno sconosciuto, mi tappai la bocca con una mano e vidi il ragazzo ridacchiare.

«Tranquillo, non glielo dirò. Ma Leah fa quest'effetto sulle persone, ti capisco bene» mi rassicurò lui. «Comunque io sono Alwan, piacere di conoscerti. E tu sei? Com'è che ti ha chiamato Leah?»

«Shavarsh. È il mio nome di battesimo, ma per tutti sono Shavo. E non so perché lei continui a usare il mio nome completo» replicai, stringendo la mano che Alwan mi tendeva.

«Solo lei può saperlo. Comunque, più i giorni passano, più ho l'impressione di aver già visto te e altri due ragazzi da qualche parte, ma non riesco a capire dove... uno era John, era prima con Leah. È venuto qui con te?» indagò Alwan.

Annuii. «Io sono qui con John e Daron.»

«Giusto. Anche Daron l'ho già visto da qualche parte... non è che siete star di Hollywood? Attori famosi?»

Risi. «Qualcosa del genere.»

Alwan strabuzzò gli occhi. «Sul serio? Oh, merda...»

«Stai calmo, amico. Facciamo così: io non ti dico niente, dovrai scoprire tu la verità su di noi» lo canzonai.

«Cazzo, le cose si fanno serie...» bofonchiò.

«Macché. È più facile di quanto sembra. Ehi, Alwan? Se lo scopri, non sbandierarlo per tutto l'hotel, ti prego» aggiunsi.

«Okay, non preoccuparti.»

Ci stringemmo la mano come per suggellare chissà quale patto, poi lo salutai e raggiunsi l'ascensore, pronto ad affrontare Daron.


Quando mi trovai di fronte alla porta della stanza del chitarrista, rimasi sorpreso nell'apprendere che Daron non stava ancora dormendo; infatti lo sentii strimpellare la sua chitarra dalla dubbia accordatura e intonare una melodia a me ignota.

Bussai e attesi che venisse ad aprirmi, e quando la porta si spalancò, il mio amico si presentò con indosso un accappatoio in spugna celeste, un paio di boxer bianchi e le sue inseparabili infradito rosse.

«Già sveglio?» gli domandai, seguendolo all'interno e notando solo allora che aveva un'aria stravolta: barcollava leggermente e sembrava debole e sfatto, ma qualcosa mi diceva che non era stato solo ciò che aveva assunto la sera prima a ridurlo in quelle condizioni.

«In realtà non ho dormito» ammise infatti, indicando una sedia su cui potevo prendere posto. In realtà anche quella postazione, come il resto delle superfici esistenti nella stanza, era stracolma di vestiti, ma evitai di commentare e mi ci accomodai, sistemando qualche indumento sulla spalliera.

«Che suonavi?» mi informai, guardandomi attorno e non riuscendo proprio a capire come lui potesse vivere in quel casino assurdo.

«Componevo. Quando trascorro molte ore senza chiudere occhio, il cervello si mette stranamente in moto...» disse distrattamente, accarezzando le corde del suo strumento, per poi riprendere a pizzicarle.

Decisi di arrivare dritto al punto. «Daron, cosa hai combinato la notte scorsa? Perché non hai dormito?»

«Ho fatto mugolare quelle due bambine. Ora non ci daranno più fastidio» disse con estrema semplicità, senza guardarmi. «Ashley dice che ora sono io il suo preferito» aggiunse, anche se sinceramente c'era qualcosa che non quadrava nelle sue parole e nel tono con cui le pronunciò. Era come se non andasse particolarmente fiero di ciò che aveva fatto, o come se qualcosa fosse andato storto. O forse voleva nascondermi qualche aspetto della questione.

Mi sporsi verso di lui con le sopracciglia leggermente inarcate. «Non mi convinci, Malakian» affermai con calma.

«In che senso?»

«Stai evitando di dirmi qualcosa. Parla e non fare lo stronzo» lo incitai senza troppi giri di parole.

Il chitarrista sospirò e finalmente lasciò andare lo strumento, appoggiandolo delicatamente sul letto. Si alzò e mi fece cenno di seguirlo sul piccolo balcone di cui la sua stanza, a differenza della nostra, disponeva. La vista era stupenda: si poteva osservare la spiaggia alla destra della scogliera, l'immensa distesa del mare e il susseguirsi di altre piccole spiaggette di sabbia e ciottoli che si estendevano sulla sinistra oltre il vialetto d'ingresso dell'hotel, intervallate da scogli più o meno appuntiti.

«Fumiamo, questa roba l'ho procurata ieri al locale e ti posso assicurare che è proprio da sballo» riprese a parlare Daron, mostrandomi un sacchetto strapieno di erba.

Strabuzzai gli occhi. «Ne sei sicuro? Se ieri notte eri ridotto uno schifo, non sarà mica colpa di quella merda? Cristo, sono solo le undici del mattino!» sbottai.

«Macché, ieri sera c'è stato qualche incidente di percorso, questa l'ho trovata all'ultimo momento e ti posso assicurare che è buona» ammiccò lui con disinvoltura, estraendo dall'accappatoio il materiale per prepararsi una canna.

«Okay, faccio un tiro da te per verificare» acconsentii. «Ma in cambio voglio sapere i dettagli.»

«Con calma.» Daron armeggiò ancora un po' con cartina e filtrino, eseguendo quell'operazione con estrema calma e precisione, il che andava in netto contrasto con il suo solito fare agitato e frenetico. Poi richiuse il tutto con lentezza, inumidendo la cartina con la punta della lingua e facendola aderire su se stessa. Infine mi passò il prezioso oggetto e disse: «Accendila, io ho qualcosa da mostrarti».

Gli lanciai un'occhiata interrogativa e notai che estraeva, dalla tasca sinistra dell'accappatoio, il suo cellulare. Cominciò a pigiare sullo schermo a una velocità sorprendente, poi annuì e infine voltò l'oggetto nella mia direzione, facendo sì che potessi osservarne lo schermo.

Rimasi basito da ciò che vidi e per poco non lasciai cadere ciò che tenevo in mano. «Ma che cazzo...» balbettai. Deglutii a fatica di fronte all'immagine che appariva sul cellulare del mio amico e ripresi a parlare solo dopo qualche altro secondo: «Cosa cazzo hai combinato? Perché hai una foto di quelle due... nude?».

Daron sorrise con fare cospiratorio e riprese a smanettare sullo smartphone, finché non fece partire una video e me lo mostrò.

«Daron, oh Daron... sai che non vediamo l'ora di averti dentro di noi?» sentii dire da una delle ragazze.

«Sì, Kelly ha ragione! Quando arrivi?» strepitò subito dopo l'altra.

Sullo schermo appariva una scena piuttosto pietosa: le due ragazze erano bendate e completamente nude, il corpo pronto ed esposto agli occhi di Daron; si tenevano per mano e sulle labbra avevano dipinto un sorriso beato.

«La festa è finita» udii la voce di Daron per la prima volta all'interno del video, poi la registrazione terminò e Daron ripose l'oggetto nella tasca da cui lo aveva portato fuori.

Non riuscivo a parlare, non sapevo cosa dire né cosa fare, ero semplicemente immobile, fermo sul posto e dovevo mostrare un'espressione sconvolta.

Il chitarrista infatti mi sfilò gentilmente la canna di mano e la accese al posto mio, poi parlò: «Be'? Non hai niente da dire? Cosa significa quella faccia da pesce lesso che hai?».

«Sei pazzo, Malakian?! E poi non dovrei incazzarmi con te?» strillai d'improvviso.

Lui, colto alla sprovvista, fece istintivamente un passo indietro e sollevò una mano come per difendersi da un mio possibile assalto.

«No, dico, ti rendi conto di quello che hai combinato?» proseguii, mentre la rabbia si faceva sempre più strada dentro me.

«Almeno non ho dovuto sbattermele!» ribatté lui, mettendosi sulla difensiva e sfidandomi con lo sguardo. «Tu come avresti risolto questa faccenda, eh? Ti ho tolto dai casini, ne sei uscito pulito e ho pensato io a tutto. Che cazzo vuoi di più?»

«Tu... cosa? Questo è il colmo! Le hai illuse e poi...» farfugliai.

«Le ho ricattate con quel video e quella foto. Stasera ripartiranno e proseguiranno la loro crociera come se niente fosse mai accaduto. Problema risolto» tagliò corto lui in tono irritato, prendendo ad aspirare furiosamente qualche boccata di fumo.

«Pensi davvero che sarà così facile?» chiesi soltanto, ormai sconfitto dall'evidenza che Daron avesse combinato un altro dei suoi disastri.

«Non lo penso, non lo so, cazzo. Ci ho solo provato e lo spero proprio, mi davano fastidio e ho fatto la prima cosa che mi è venuta in mente» replicò a voce alta, poi mi diede le spalle e tornò dentro la stanza.

«Ascolta... ti rendi conto che è stata una cazzata, vero?» tentai di farlo ragionare, seguendolo a ruota e notando che camminava nervosamente avanti e indietro, divorando quasi la canna che stringeva tra le dita.

«Vorrei solo capire cosa cazzo avresti fatto tu, al mio posto» tuonò incazzatissimo.

«Non lo so, ma non avrei agito come te, questo è certo!» gridai, tagliandogli di botto la strada e sovrastandolo di almeno quindici centimetri; nonostante questo, potevo sentire la tensione in lui, come se fosse in procinto di prendermi a pugni in faccia.

«Vaffanculo Odadjian, forse faresti meglio a farti un giro e mandare un po' a puttane il tuo perbenismo del cazzo. Se me le fossi scopate come un animale, avresti avuto comunque da ridire. Quindi fatti da parte e lasciami i coglioni in pace, chiaro?» Daron sibilò quelle parole tra i denti, sputandole come se volesse liberarsene per sempre.

«Se la pensi così, non sarò certo io a farti cambiare idea» replicai io, utilizzando un tono ancora più calmo e basso del suo. In realtà l'avrei volentieri scaraventato giù dal balcone, ma non volevo avere una vita umana sulla coscienza, non per colpa sua e delle sue stronzate.

«Bravo, l'hai capito. E ora vattene, sono sicuro che troverai qualcun altro da tormentare. La tua nuova amichetta sembra non disdegnare la tua compagnia» sputò ancora il chitarrista, aprendo di scatto la porta della sua stanza e spingendomi fuori.

Non opposi resistenza, con lui non si poteva ragionare, non quando era fermamente convinto di avere ragione e di non dovere delle spiegazioni al prossimo.

Prima che sbattesse la porta, gli lanciai un'ultima occhiata colma di risentimento. «Sta di fatto che sei uno stronzo» conclusi, poi me ne andai verso camera mia con l'intento di prepararmi.

Una cosa era certa: pranzare con Leah e stare lontano dai ragazzi per qualche ora mi avrebbe fatto bene, mi sarei distratto e avrei evitato di pensare a tutti i casini che erano già successi durante quella vacanza.

Ed erano trascorsi soltanto due giorni.

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Capitolo 14
*** Feeling ***


ReggaeFamily

Feeling

[John]




Correre mi faceva bene, non potevo fare a meno di compiere quell'azione almeno una volta al giorno; tuttavia, in Giamaica il caldo cominciava a farsi sentire fin dalle prime ore dell'alba, perciò mi ero pentito di non essermi alzato presto come al solito. Sudavo copiosamente mentre percorrevo gli ultimi metri che mi separavano dallo Skye Sun Hotel e non vedevo l'ora di tracannare almeno un litro d'acqua fresca.

Mi fermai in un punto ombreggiato da una grossa palma e presi ad asciugarmi la fronte con un braccio, respirando affannosamente e cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Il mio orologio da polso segnava le undici e quarantatré, decisamente troppo tardi per compiere attività fisiche all'aria aperta.

Il mio cellulare, con un susseguirsi di colpi di rullante, cassa e crash, mi avvertì dell'arrivo di un sms. Perplesso, lo afferrai per capire chi mai mi avesse spedito un normale messaggio senza accedere a WhatsApp.

Si trattava di Shavo che mi avvisava che avrebbe pranzato in città con Leah, e mi raccontava in breve di aver litigato furiosamente con Daron perché il chitarrista si era cacciato nei guai.

Sospirai. Cosa poteva aver combinato stavolta il nostro amico? Era difficile stargli appresso, per me era quasi impossibile in molte occasioni.

Risposi con un semplice Ok poi mi racconti e riposi il telefono nella tasca dei calzoncini. Accaldato com'ero, decisi che dovevo assolutamente farmi una nuotata: sarebbe stato positivo per rinfrescarmi un po' e anche per bruciare ulteriori calorie e continuare, senza troppo sforzo, il mio esercizio fisico giornaliero. Ogni tanto mi domandavo come mai non avessi seguito una qualche carriera agonistica, ma poi mi ritrovavo a comprendere che anche suonare la batteria richiedeva un certo sforzo fisico e che comunque potevo compensare con quello che già facevo abitualmente. La vita dello sportivo non mi ispirava molto, era un'occupazione che non lasciava tregua e richiedeva un allenamento costante e duro, nonché la tendenza a essere schifosamente competitivi.

Immerso in quei pensieri, feci qualche passo verso l'ingresso dell'albergo, ma una voce femminile attirò la mia attenzione.

«Oh, non ci credo!» esclamò.

Mi voltai verso il vialetto e mi schermai gli occhi con una mano, notando una figura avvicinarsi a me con passo spedito. Si trattava di una donna che doveva avere all'incirca trent'anni, capelli neri e ricci a incorniciare un viso dai lineamenti marcati; due occhi neri come pece mi scrutavano increduli, contornati da un paio di occhiali da vista dalla sottile montatura argentea. Indossava una camicia in jeans sbottonata su una maglia rossa e un paio di pantaloni neri e aderenti. Era formosa, i fianchi larghi e il seno prosperoso le davano un'aria decisamente intrigante, almeno per il sottoscritto.

Quando mi fu accanto, notai che era quasi più alta di me e che mi osservava attentamente, analizzando ogni millimetro della mia persona, come se fosse alla ricerca di qualche particolare a me ignoto. Solo allora notai che in una mano stringeva un registratore e nell'altra un enorme block notes.

Allarmato, sollevai una mano e dissi: «Non rilascio dichiarazioni, non voglio che si sappia che sono qui».

L'espressione sul viso della giornalista cambiò: gli occhi si illuminarono divertiti, mentre le labbra carnose si piegavano in un sorriso capace di infuocare l'intera Giamaica.

«Non ti sputtano, amico» ribatté, per poi riporre gli oggetti che teneva in mano all'interno di un'enorme borsa di tela arancione. «Non sono qui per te, però ehi, non mi aspettavo di incontrare proprio John Dolmayan.»

Mi grattai la nuca leggermente imbarazzato. «Non sei qui per me?»

«Macché. Un informatore mi ha detto che qui avrei trovato Lady Gaga, ma a quanto pare mi ha ingannato.» La donna fece spallucce. «Bastardo, non mi fiderò più di lui. Però almeno posso farmi un paio di giorni di ferie, fingendo di cercare Lady Gaga sotto i sassi» ammiccò, indicando la scogliera alla nostra destra.

«Già, non male» commentai. «Per chi lavori?» le chiesi, sperando sul serio che lei non ingannasse me per vendicarsi del suo informatore.

«Kingston Times, sezione arte, musica e spettacolo. Sono Bryah Philips, qui per servirti!» esclamò lei, fingendo di eseguire un saluto militare. Poi mi tese la mano. «È un piacere conoscerti, soprattutto perché non me l'aspettavo.»

«Bryah, quindi... davvero non scriverai di avermi incontrato?» le domandai per sicurezza, dopo aver ricambiato il suo gesto.

Scosse il capo con decisione. «Non sei al livello di Lady Gaga, che figura ci farei?»

Aggrottai la fronte. «Dovrei offendermi?»

«Dipende se sei permaloso oppure no. Però al giornale quasi nessuno sa chi sei, al massimo possono conoscere di sfuggita Serj Tankian perché ha collaborato con Sizzla, ma tu...» spiegò, gesticolando energicamente.

«Okay, meglio così. Be', scusami, adesso devo proprio prendere qualcosa da bere, ho fatto jogging e sono abbastanza accaldato» dissi, sentendo la gola sempre più secca.

«Ti faccio compagnia» affermò, strizzandomi l'occhio. «Visto che ci siamo incontrati, tanto vale approfittarne.»

Non sapevo esattamente cosa intendesse dire con quelle parole, ma evitai di chiederglielo e sperai che non alludesse a qualcosa di dannoso per me.


Seduti in terrazza, con una spremuta d'arancia a testa, ci osservavamo senza troppo pudore. Bryah era di una bellezza particolare, il suo viso era molto espressivo e riusciva difficilmente a nascondere delle espressioni buffe ed esageratamente allusive.

«Adesso posso farti qualche domanda da giornalista?» domandò all'improvviso.

«Avevi detto che...» mi affrettai a farle notare.

Bryah scosse il capo. «Dai, scherzo. Posso farti qualche domanda? Non pubblicherò queste cose, te lo giuro!»

«Come posso fidarmi di te?» Mi appoggiai meglio allo schienale della sedia e sostenni il suo sguardo.

«Fidati e basta. Il mondo non è pieno solo di impostori, John. Ti sembro una malintenzionata?» mi interrogò con le folte sopracciglia inarcate.

«Non lo so, non ti conosco.» Mi strinsi nelle spalle e sorseggiai la mia spremuta fresca.

«Allora ti chiederò cose facili. È solo curiosità, non capita tutti i giorni di incontrare una rock star in Giamaica» mi spiegò con entusiasmo.

«Abbassa la voce» le intimai, guardandomi attorno e notando la cameriera che si aggirava per i tavolini a raccogliere i resti delle consumazioni di qualche altro cliente.

Notai allora il padre di Leah e la sua compagna avvicinarsi al bancone: lui era vestito di tutto punto, con tanto di completo elegante dal taglio classico color beige, una camicia candida e una cravatta senape, in tinta con i mocassini che portava ai piedi. Non avevo idea di come potesse andare in giro conciato in quel modo senza squagliarsi sotto il sole cocente di mezzogiorno. La sua insignificante accompagnatrice, invece, indossava un mini abito verde acqua e un paio di vertiginosi sandali bianchi con il tacco a spillo.

«John?»

Sobbalzai leggermente quando Bryah mi richiamò. Non mi ero accorto di essermi distratto così tanto dalla nostra conversazione.

«Scusami. Cosa mi avevi chiesto?» le domandai, tornando a concentrarmi su di lei.

«Ti ho chiesto se sei qui da solo» ripeté.

«No, con altri due ragazzi della band.»

I suoi occhi si accesero ancora una volta di curiosità. «Con chi?»

La scrutai per un altro secondo, poi decisi che per una volta potevo anche rischiare, provare a fidarmi, saltare nel vuoto senza paracadute. «Con Shavo e Daron.»

Bryah parve delusa. «Peccato che non ci sia anche Serj, avrei voluto intervistarlo e saperne di più sulla sua collaborazione con Sizzla.»

«Lui è rimasto a Los Angeles» spiegai.

«Sai una cosa, John? Ti confesso un segreto» disse all'improvviso, sporgendosi verso di me con fare cospiratorio.

«Un segreto?»

Bryah annuì. «Vorrei tanto scrivere un libro, la biografia di qualche artista famoso.»

Mi accigliai. «Davvero? È una cosa... singolare» commentai, non sapendo bene cosa dire.

«Non tanto. C'è un sacco di gente che lo fa. Qualcuno mi ha consigliato di scrivere l'ennesimo volume su Marley, ma sinceramente non mi va. Risulterebbe una delle tante opere ripetitive che si trovano anche nelle bancarelle di contrabbando.» Il tono in cui mi dava queste informazioni era concitato, simbolo della grande passione che doveva nutrire verso il suo lavoro.

«E hai rifiutato» affermai.

«Certo che sì. Ma scrivere un libro su di te, su di voi... quello sì che mi piacerebbe davvero. Mi spiego: come la maggior parte dei giamaicani, anche io sono appassionata di reggae e di tutti i suoi sottogeneri. Vado spesso alla ricerca di artisti emergenti che possano avere un qualche talento, mi piace il settore in cui lavoro e mi piace capire cosa ogni musicista vuole comunicare con la sua musica. Anche se può sembrare strano, non sempre il reggae porta con sé temi di pace e protesta sociale, non sempre si parla d'amore e fratellanza. C'è qualcuno che esagera, sperando che nessuno se ne accorga.»

Annuii. «Immagino.»

«Ecco, e questo mi porta a parlare dei System Of A Down. Voi siete degli artisti proprio particolari, che nonostante facciate musica forte, potente, trattate dei temi che si avvicinano molto a quelli della musica giamaicana, capisci?» Bryah, mentre parlava, aveva completamente dimenticato di consumare la sua spremuta, la quale doveva essere diventata ormai bollente e imbevibile.

«Sì» assentii. «Non sei la prima che ce lo dice.»

«Vedi? Perché evidentemente è qualcosa che si nota e che voi stessi volete far arrivare al vostro pubblico» proseguì la donna, sempre più eccitata. «Avete mai pensato di far uscire un libro con la storia della band?» volle sapere poi.

«Una volta ci ho pensato. Volevo scriverlo io, ma poi non ho mai trovato il tempo e ho lasciato perdere» dissi con un leggero sorriso, ricordando il periodo in cui girovagavo per casa con un taccuino in mano, provando a costruire una scaletta di avvenimenti più o meno importanti da riportare in un'eventuale biografia.

«Sul serio? Ti piace scrivere?»

Feci un cenno vago con la mano. «Macché. Amo leggere, ma per la scrittura non mi sento portato. Preferisco le materie scientifiche.»

Bryah si strinse nelle spalle. «Altrimenti non potresti suonare la batteria. Anche questa è una scienza, non trovi?»

Cercai gli occhi neri e profondi della donna che mi sedeva di fronte e fui sorpreso di notare che fossimo sulla stessa lunghezza d'onda su diversi argomenti, primo tra tutti, lo strumento che suonavo e la concezione matematica che ne avevo sempre avuto.

«È proprio quello che penso. Com'è che tu l'hai capito subito e i miei colleghi mi prendono per il culo quando definisco la batteria come un magico incastro di calcoli matematici?» mi ritrovai a osservare, e nello stesso momento un sorriso spontaneo si dipinse sulle mie labbra.

«Non lo so, sei un ragazzo incompreso» ammiccò Bryah ricambiando il mio sorriso con uno ancora più luminoso.

Stavo per ribattere, quando il mio cellulare prese a squillare rumorosamente, con i suoi soliti tempi dispari di percussione araba. Mentre lo estraevo, Bryah mi lanciò un'occhiata sorpresa e divertita allo stesso tempo: ero certo che mi avrebbe chiesto qualcosa anche sulla mia suoneria, ci avrei scommesso qualunque cosa, lo leggevo nel suo sguardo indagatore.

Si trattava di Daron. Sospirai e mi portai lo smartphone all'orecchio sinistro. «Dimmi» esordii.

«Dove cazzo sei?» strillò il chitarrista. Sembrava irritato e seccato, sicuramente stava ancora rimuginando sulla lite avuta con Shavo.

«Intanto datti una calmata, chiaro? Sono su in terrazza. Che vuoi?» lo apostrofai in tono secco.

«Arrivo, non muoverti da lì» tagliò corto e chiuse la conversazione.

Fissai lo schermo del cellulare. Ero perplesso.

«La suoneria l'hai composta tu?»

Alzai gli occhi su Bryah e la trovai a fissarmi con estremo interesse. La domanda che mi aspettavo era arrivata, ed era strano come io fossi riuscito a entrare così tanto in sintonia con quella sconosciuta in così poco tempo.

«Già. Si tratta di tempi dispari di percussione araba. Si usano molto in strumenti come la darbuka, il tamburo a cornice... io ora mi sono messo in testa di studiarli sulla batteria, è uno sfizio personale, non penso che con i ragazzi mi servirà, mi prenderebbero per pazzo se provassi a inserire una cosa del genere nei nostri pezzi, però mi intriga molto studiarli. Le mie origini sono libanesi del resto, e...»

«Ehi, calma. Non ho capito niente!» rise Bryah, sollevando le mani in segno di resa.

«Okay, ehm... scusa» bofonchiai imbarazzato.

Cominciai a spiegarle in termini più semplici che i tempi dispari potevano essere composti da cinque, sette, undici o più colpi, combinati in sequenze da due o tre tempi ciascuno. Si potevano eseguire i tempi base o aggiungere un sacco di abbellimenti e improvvisazioni, poi presi a mostrarle delle immagini da internet degli strumenti più usati per suonarli. Nel frattempo dalle casse posizionate ai lati del chiosco partì un brano che riconobbi subito: si trattava di With My Own Two Hands di Ben Harper, un pezzo dalle forti tonalità reggae e tematiche sociali a me molto vicine.

«Questa la conosci?» mi chiese all'improvviso Bryah. «Adoro questa canzone, e adoro Ben Harper!» esclamò.

«Anche io!» concordai, per l'ennesima volta mi trovai d'accordo con quella donna. Com'era possibile? Inoltre sembrava sempre più interessata a conoscere i segreti delle percussioni arabe, confessandomi che in Giamaica si suonavano per lo più strumenti a percussione africani.

Stavamo ancora scorrendo le immagini riguardanti la darbuka egiziana su Google mentre Bryah canticchiava il brano che amavamo entrambi, quando Daron si catapultò da noi come una furia, scostò rumorosamente una sedia e ci si lasciò cadere.

Non parve badare alla persona che era con me, mi si rivolse in tono irritato e cominciò a parlare a vanvera: «Io Shavo lo ammazzo, giuro che questa volta non andrò a scusarmi con lui, ha superato il limite quello stronzo! Sai che ha fatto? Mi ha insultato, mi ha detto che ho combinato un casino, mentre io ho cercato soltanto di salvargli il culo! È un pezzo di merda, come si permette di fare sempre così con me? Crede forse che io sia un moccioso di quindici anni? Se vuole un figlio da accudire, che si trovi una tizia con cui metterlo al mondo e mi lasci i coglioni in pace, no? Ci vuole molto? Che poi se l'è presa per una stronzata, pensa te... e io che mi sono adoperato per allontanare quelle patetiche groupies da lui... ma ti pare che...».

«Daron!» tuonai all'improvviso, riuscendo finalmente a zittirlo.

Lui si guardò intorno, sembrava quasi spaesato e confuso; mise a fuoco Bryah e sgranò gli occhi più del normale, si portò una mano al mento e se lo grattò, poi tornò a fissare me e aggrottò la fronte.

«Cazzo» sibilò tra i denti.

«Forse è meglio che vi lasci ai vostri discorsi» intervenne Bryah, afferrando la sua borsa e facendo per alzarsi.

«Aspetta, prima ci tengo a presentarti Daron, il chitarrista della band» dissi. «Anche se non è proprio in uno dei suoi momenti migliori, comunque è sempre così più o meno, non farci caso» spiegai, tentando di salvare la situazione per quanto possibile.

«E lei sarebbe...?» domandò il mio amico. «Le hai detto chi siamo? Ma sei pazzo? Dopo il casino con quelle tipe...»

Bryah si alzò e gli mollò una pacca sulla spalla. «Amico, so benissimo chi sei, non c'era bisogno che John me lo dicesse. Ma tranquillo, non sono una groupie, ho già un compagno che mi aspetta a casa» affermò. «Mi chiamo Bryah Philips e sono lieta di conoscerti, ma adesso levo le tende, perché noto che sei un attimo incazzato, non è vero?» aggiunse con un sorriso comprensivo, per poi lanciarmi un'occhiata complice.

Non riuscii del tutto a ricambiare quel suo gesto, perché ero rimasto sorpreso nel sentir parlare del suo compagno. Cosa avevo sperato? Non lo sapevo, ma sentivo di essere attratto da Bryah e forse avrei voluto provarci con lei. Ma questa nuova consapevolezza mi tarpò immediatamente le ali; se fossi stato Daron, probabilmente avrei cercato comunque di portarmela a letto, ma io ero diverso da lui, avevo una morale e seguivo quelli che erano i principi che ritenevo più giusti e adatti per stare al mondo nel modo migliore.

«John, fatti sentire per quella storia del libro» mi si rivolse ancora la donna, allungandomi un biglietto da visita. Lo afferrai meccanicamente, senza neanche guardarlo, intento com'ero a fissare lei e i suoi gesti sinuosi e affascinanti.

Annuii distrattamente e mi ficcai il cartoncino in tasca, mentre Daron borbottava qualcosa di incomprensibile e Bryah controllava di non aver dimenticato nulla sul tavolino.

«Allora vado. Buon proseguimento e grazie per la chiacchierata, batterista. Ciao ragazzi» concluse la giornalista, per poi voltarsi e dirigersi all'ascensore.

Il mio amico mi fissò stralunato, poi esclamò: «Cazzo, che donna! Te la fai, non è vero? No, perché altrimenti ci penso io eh!».

Gli mollai un pugno sulla spalla e scossi il capo. «Non dire cazzate. Raccontami di Shavo e delle groupies piuttosto.»

Lui annuì. «Però prima ho bisogno di qualcosa di forte.» Detto questo si alzò e si diresse verso il bancone, senza aspettare che la cameriera ci raggiungesse.

Nel frattempo, mi ritrovai a pensare a Bryah e alla delusione che avevo provato nell'apprendere che era una donna impegnata. Possibile che mi fossi già fatto dei film mentali assurdi? Eppure, mentre parlavo con lei, mi ero sentivo a mio agio, avevo avuto l'impressione di conoscerla da sempre e di poter prevedere le sue mosse. E inoltre avevo avvertito una certa attrazione, una tensione tra noi.

Mi risultava difficile credere che fosse qualcosa nato soltanto da parte mia, anche se non riuscivo a spiegarmi cosa mi portasse a formulare certe congetture.

Scossi il capo e decisi di non pensarci più. Mi sarebbe bastato buttare via il suo biglietto da visita e, semplicemente, dimenticarmi di averla conosciuta.




Cari lettori, spero stiate bene :)

Ho deciso di aggiornare di mercoledì per un motivo ben preciso, ovvero fare un piccolo regalo alla mia adorata Hanna :3 infatti, dedico questo aggiornamento a lei, perché sperava di trovare qualcuno che facesse girare la testa al caro John ;)

Be', sono molto contenta di come sta procedendo questa storia e mi fa piacere sapere che anche a voi questo mio progetto interessa!

Sono qui principalmente per farvi sentire la canzone che John e Bryah hanno ascoltato in terrazza, mentre chiacchieravano e bevevano la loro spremuta ^^

Si tratta di un brano di Ben Harper, ma questo già è stato spiegato dal nostro John nel corso della narrazione, vi lascio qui il link per l'ascolto, ve la consiglio:

https://www.youtube.com/watch?v=aEnfy9qfdaU

Per il resto, fatemi sapere cosa ne pensate di questo nuovo personaggio, di Bryah Philips la giornalista del Kingston Times, che non so se esista come giornale, ma comunque mi serviva contestualizzarla in questo modo ^^

Alla prossima e grazie di cuore a tutti per il supporto ♥

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Capitolo 15
*** Armageddon come alive! ***


ReggaeFamily

Armageddon come alive!

[Daron]




Dopo aver raccontato a John tutto ciò che era successo durante la notte e quella mattina, mi sentivo decisamente meglio. A differenza di Shavo, il batterista riusciva ad ascoltarmi senza incazzarsi per qualsiasi cosa dicessi, il che era piuttosto positivo.

Quando John mi annunciò che saremmo stati da soli a pranzo e mi informò che Shavo sarebbe stato in città con Leah, presi a sghignazzare e mandai giù l'ultimo sorso del drink che avevo preso poco prima. Non sapevo neanche cosa avevo bevuto, in realtà, mi ero soltanto assicurato che fosse qualcosa di forte per aiutarmi a parlare con John dei guai che avevo combinato. Mi era bastato sbattere le ciglia con la cameriera e lei, dopo l'iniziale riluttanza, era diventata docile come un agnellino.

«Te la ridi, eh?»

Annuii. «Secondo me tra quei due c'è qualcosa, anche se Shavarsh nega di essere interessato a lei» esclamai. Poi mi venne in mente una cosa e scoppiai a ridere. «Ti immagini lei, mentre fanno sesso, gli grida Shavarsh, oh, Shavarsh, ti prego!».

«Sta' zitto! Ma sei proprio un pezzo di merda eh» mi rimbeccò John, guardandosi attorno. Non potei fare a meno di notare che, nonostante mostrasse indignazione, stesse trattenendo a stento le risate.

«Ti sei immaginato la scena, vero? Vorrei esserci, merda!» proseguii imperterrito.

«Smettila, dai!» Ormai John stava ridendo a sua volta, e cercò ancora di nasconderlo, portandosi una mano di fronte alla bocca.

«Sì, insomma... Leah non è mica male! Per il nostro pelatone va benissimo, ed è facile immaginarli mentre fanno certe cose, no?» ammiccai, dando un calcio a John sotto il tavolo.

«Che stronzo!» esclamò lui, ma ormai non riusciva più a trattenersi e scoppiò rumorosamente a ridere, facendo un baccano assurdo e attirando l'attenzione della cameriera e di alcuni clienti.

«Ti ho fatto ridere!» strepitai, sollevando un pugno in aria. «Cazzo, che culo!»

«Sei ignorante come pochi, Malakian!» mi accusò, non riuscendo più a calmarsi; si prese la testa tra le mani e respirò profondamente con l'intento di darsi un contegno.

«Ascolta: ieri gli ho detto che se non è interessato a Leah, ci provo io con lei!» raccontai in tono allegro. Mi sentivo stranamente osservato, così mi voltai di scatto verso il bancone e incrociai per un istante lo sguardo di Medison, la sconosciuta con cui ero andato a letto la prima sera, poco dopo essere giunto in Giamaica. Lei distolse subito gli occhi da me e riprese a chiacchierare con un uomo di mezz'età che doveva essere il suo compagno. Se solo avesse saputo cosa lei aveva combinato, probabilmente l'avrebbe buttata giù dalla terrazza.

«Ma no, perché gli hai detto una cosa simile? Povero Shavo, ci credo che è sempre infuriato con te!» commentò John con disappunto.

«Volevo capire come avrebbe reagito.»

«E cosa è venuto fuori?» chiese il batterista con curiosità.

«Dice che posso fare ciò che voglio, ma era chiaro che intendesse dire esattamente il contrario» spiegai con sicurezza.

«Non vorrai davvero provarci con Leah?» John aggrottò la fronte e tornò completamente serio, guardandomi dritto negli occhi.

Finsi di rifletterci su e sostenni l'espressione contrariata del mio amico, poi ridacchiai e risposi: «Macché, ti pare? Credi davvero che io sia così meschino?».

John alzò gli occhi al cielo. «Con te non si può mai sapere, Malakian.»

Ci pensai un attimo su, poi mi ricordai della donna che sedeva al tavolo del mio amico quando ero giunto in terrazza, così lo interrogai su di lei; venne fuori che Bryah Philips era una giornalista che lavorava nella sezione dedicata ad arte, musica e spettacolo del Kingston Times, non aveva intenzione di sputtanarci al mondo intero e aveva rivelato a John di voler scrivere la storia della nostra band e farne un libro da pubblicare.

«Wow, che donna! Ho visto come la guardavi, Dolmayan, sento che ti piace. Ma stai attento: è una giornalista, e io dei giornalisti non mi fido. Sono come gli sbirri: fingono di esserti amici e poi te la mettono nel culo, dai retta a me!»

Mentre continuavamo a chiacchierare del più e del meno, ci avviammo in ristorante per il pranzo. Sinceramente stavo morendo di fame e non ne potevo più di stare in terrazza a squagliarmi sotto il sole come un ghiacciolo.

Una volta giunti in sala, mi frugai nelle tasche e mi resi conto di aver dimenticato il cellulare sul tavolino.

«Vado a riprendere il cellulare» dissi a John, mentre lui prendeva posto a un tavolo.

«Non metterci troppo» mi intimò.

Corsi all'ascensore e risalii in fretta e furia sulla terrazza, ma quando raggiunsi il tavolino che io e il mio amico avevamo occupato fino a poco prima, del mio cellulare non c'era alcuna traccia. Mi accigliai a riflettei un attimo: possibile che lo avessi abbandonato in camera e non me lo fossi portato appresso fin dal principio? Eppure mi sembrava di ricordare che...

«Ehi, cerchi questo?» Una voce femminile interruppe i miei pensieri.

Mi voltai di scatto e mi ritrovai di fronte alla cameriera, la quale mi sorrideva sorniona e sventolava il mio smartphone come fosse un trofeo.

«Sì, grazie» replicai in tono piatto, allungando la mano per farmi consegnare l'oggetto in questione.

«Sei carino» disse all'improvviso, facendo qualche passo verso di me. «Non ti avevo mai visto prima da queste parti.» Mi consegnò il cellulare e, nel farlo, indugiò con le dita sul dorso della mia mano.

«Già» borbottai. Sinceramente, non avevo voglia di intrattenermi con quella tizia, non la stavo neanche guardando e non mi interessava farlo. Avevo fame e non vedevo l'ora di ingozzarmi come se non ci fosse un domani, per poi buttarmi a letto e dormire per dieci ore di fila.

«Comunque ti ho segnato il mio numero di cellulare» ammiccò la ragazza.

A quel punto sollevai lo sguardo e le lanciai un'occhiata interrogativa. «Cosa?»

«Sei carino» ripeté. «Se non sai come divertirti, chiamami. Ti faccio compagnia se non ho da lavorare.»

Ero basito. Non mi aveva neanche chiesto come mi chiamavo, ma forse era meglio così. Annuii distrattamente e strinsi più forte lo smartphone. Aveva frugato tra le mie cose, questo mi stava facendo incazzare moltissimo, non avrebbe potuto trovare un modo peggiore per cominciare un rapporto con il sottoscritto. Odiavo chi invadeva in quel modo la mia privacy, dovevo essere io a dettare le regole, non potevo sopportare che una perfetta sconosciuta si fosse messa ad armeggiare con il mio cellulare. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto trovare qualsiasi cosa.

Allora mi ricordai del video e della foto che avevo fatto ad Ashley e Kelly, e sentii chiaramente il sangue defluire dal volto. Feci un passo indietro e fui sul punto di fuggire, ma riuscii a evitarlo.

«Forse hai da fare ora, in ogni caso il mio numero ce l'hai.» Sorrise con fare accattivante. «Mi chiamo Lakyta. Tu sei Daron, giusto?»

Annuii senza riuscire a spiccicare parola, poi borbottai delle scuse e mi avviai di tutta fretta verso l'ascensore.

Mentre scendevo nuovamente al piano terra, cominciai a pormi una domanda: come faceva quella sconosciuta a conoscere il mio nome? Doveva avermi riconosciuto, non avrei saputo come altro spiegarmelo.


Ero stato taciturno durante tutto il pranzo e avevo detto a John che ero sfinito e avevo bisogno di una bella dormita; infatti, avevo lasciato il ristorante subito dopo pranzo e mi ero buttato a letto. Mi ero addormentato subito, senza più riuscire a dare spazio ai mille pensieri che mi vorticavano per la mente.

Al mio risveglio mi accorsi di aver dormito soltanto due ore e scesi dal letto imprecando tra i denti, dopo aver provato a riaddormentarmi più e più volte. Feci una doccia veloce e quest'operazione non fece altro che ricordarmi tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Il viaggio in Giamaica si stava rivelando un enorme casino, non somigliava neanche lontanamente alla vacanza rilassante che mi ero illusoriamente aspettato.

Una volta sceso nella hall, incrociai Shavo e Leah che rientravano proprio in quel momento dalla capitale. Il mio amico mi ignorò deliberatamente e io feci lo stesso, ma Leah si fermò un attimo e mi salutò in tono allegro.

«Daron, ciao! Hai una faccia... che ti è successo?»

Scossi il capo ed evitai di rispondere, non era proprio il caso di parlarne con lei, non di fronte a Shavo che mi guardava in cagnesco.

«Stasera torniamo al Fyah?» propose ancora la ragazza. Probabilmente stava cercando di far riappacificare me e il bassista, ma in questo caso non avevo alcuna intenzione di collaborare.

Feci spallucce. «Mi sa che passo.»

Leah roteò gli occhi al cielo. «Avanti, ragazzi! Non fate i bambini e smettetela di ignorarvi, mi piange il cuore a vedervi così!» sbottò Leah, afferrando Shavo per un braccio e trascinandolo di fronte a me.

«Perché non ti fai gli affari tuoi?» le consigliai in tono irritato.

«Perché sono anche affari miei, chiaro? Questo sciocco non ha fatto che parlare di te per tutto il tempo, giuro che stavo per buttarlo sotto un autobus! Neanche foste fidanzati!» ribatté lei senza scomporsi.

Notai il viso di Shavo infuocarsi. «Ma veramente io...»

«Che carino» osservai con sarcasmo.

«Avanti! Sentite, usciamo di qui. Ho visto John che passeggiava verso la scogliera, lo raggiungiamo? Vi porto a conoscere i miei gattini, ci state? L'importante è che la smettiate di fare gli stupidi e mi regaliate un sorriso, dannazione!» strepitò ancora la ragazza, trotterellando intorno a noi come una pazza.

Mi girava la testa, era talmente esuberante che non riuscivo quasi a starle dietro. E per me era strano, visto che in genere potevo essere molto peggio di lei.

Sospirai e appoggiai una mano sul braccio del mio amico. «Forse è meglio se le diamo retta, mi sta facendo venire il mal di testa» farfugliai.

«Anche a me» disse Shavo in tono esasperato.

Ci fissammo per un secondo, poi scoppiammo a ridere e ci scambiammo un abbraccio fraterno con tanto di rumorose e dolorose pacche sulla schiena.

«Sei un coglione, Shavo!» lo accusai tra le risate.

«E tu una testa di cazzo!» mi rimbeccò a sua volta.

«Scusa per stamattina» aggiunsi.

«Già, anche io ho esagerato, mi dispiace. Insomma, Malakian, fai un po' come ti pare. Non sono il tuo babysitter» concluse, battendomi con forza sulla spalla.

«Appunto. Fregatene.»

Leah, di fronte a noi, annuiva compiaciuta. «Bene, così mi piacete. Adesso andiamo da John? Almeno possiamo decidere cosa fare stasera.»

Concordammo con lei e uscimmo in fretta dall'albergo. Presto trovammo John che si dirigeva verso la scogliera e io presi a chiamarlo ad alta voce per intimargli di fermarsi.

Attese che lo raggiungessimo e parve contento di notare che io e Shavo avevamo deposto l'ascia di guerra.

«Torniamo al Fyah stasera? Ve lo chiedo perché Alwan, il barista che sta in terrazza, ha un gruppo e oggi suona al locale» propose ancora Leah.

Accettammo di buon grado la sua proposta e decidemmo di partire verso le dieci.

«Adesso andiamo a vedere questi gatti o no?» domandai con impazienza. Da quando aveva nominato questi misteriosi animali, in me si era accesa una certa curiosità: amavo i gatti perché trovavo la loro filosofia di vita piuttosto simile alla mia.

«Giusto! Seguitemi» esclamò Leah, per poi farci strada sulla scogliera.

Ci arrampicammo lungo uno stretto e sconnesso sentiero, graffiandoci le braccia con le pietre appuntite e rischiando di cadere più di una volta, finché non ci ritrovammo in una piccola radura a circa metà strada. Mi guardai attorno e notai che da quell'angolazione si poteva osservare la spiaggia sulla destra, e sollevando lo sguardo si scorgeva il profilo bordeaux della palazzina in cui alloggiavamo.

«Wow» fece Shavo, sedendosi sul bordo della piattaforma rocciosa e lasciando che le gambe penzolassero nel vuoto. Io e John presto lo imitammo, mentre Leah chiamava i gatti utilizzando nomignoli assurdi e incomprensibili, cercando di convincerli a uscire allo scoperto.

«Non si fidano di nessuno, soltanto di me e di Day» commentò, inginocchiata alle nostre spalle, lo sguardo fisso sull'imboccatura di una stretta insenatura che si apriva sul crinale della montagna.

Trascorsero circa dieci minuti, e infine Leah si arrese e si accomodò accanto a noi, sedendosi tra Shavo e John. Osservammo in silenzio il panorama, poi finimmo a commentare tutto ciò che stava succedendo sulla spiaggia sotto di noi.

«Oddio!» esclamò Leah, schermandosi gli occhi per osservare meglio qualcosa sulla spiaggia. «Qualcuno di voi mi spiega perché Alan Moonshift è in spiaggia con il completo elegante?» sbottò contrariata.

«Cazzo, è vero!» tuonò Shavo, per poi scoppiare a ridere.

«Che problemi ha?» rincarò la ragazza, incrociando le braccia al petto. «Non si vergogna?»

Cercai con lo sguardo il soggetto in questione e notai che in effetti c'era un tizio abbigliato come se fosse impegnato in un'importante riunione di lavoro. Indossava un abito beige e mi parve di averlo già visto da qualche parte. Spostai gli occhi sulla sua interlocutrice e compresi che si tratta di Alan, il compagno di Medison. La donna era stesa sotto il sole con indosso un bikini rosso fuoco, mentre lui se ne stava appollaiato sul bordo di una sdraio.

«Pazzesco!» commentai. «Ehi, volete sapere una cosa?»

«Cosa?» si incuriosì subito Leah.

«Quel tipo dovrebbe tenere d'occhio la sua amichetta, anziché pensare solo a vestirsi come un damerino» dissi.

«Cosa intendi dire?» insistette Leah. Doveva conoscere quell'individuo, dato che mostrava un certo interesse per lui. Anche lui doveva essere un cliente abituale dello Skye Sun Hotel.

Mi strinsi nelle spalle e distolsi lo sguardo da Medison, per poi posarlo sulla mia interlocutrice. «Be', quella donna non è molto seria, sai? Me l'ha regalata come se fosse una caramella alla fragola» ghignai, divertito dal ricordo di quanto fosse stato facile portarmi a letto Medison.

Rimasi scioccato quando vidi Leah sgranare gli occhi e spalancare la bocca, incredula, mentre Shavo emetteva un gemito che non riuscii a interpretare.

«Che vi prende?» chiesi allarmato.

«Cazzo...» imprecò Shavo, serrando i pugni e scuotendo vigorosamente il capo.

«Mi sa che stavolta hai proprio esagerato» sussurrò John in tono apprensivo, spostando lo sguardo da me a Leah e viceversa.

«Che cazzo vi prende? Mi spiegate cosa...»

«Taci!» tuonò Leah con le lacrime agli occhi. «Alan Moonshift è mio padre.»




Torno a rompere, scusate, ma sarò breve: volevo soltanto dirvi che il titolo del capitolo prende spunto dal testo di Fucking degli Scars On Broadway, progetto in cui principalmente Daron e John si sono impegnati dopo aver preso una pausa dai SOAD ^^

Ecco il link per l'ascolto, ditemi poi se non ci sta bene con il casinaccio che è appena successo XD:

https://www.youtube.com/watch?v=OhPmjfSv1jw

Ora attendo i vostri commenti, intanto statemi bene, fate i bravi e mangiate le verdure :P

Ahahahah, a presto ♥

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Capitolo 16
*** Two Shots ***


ReggaeFamily

Two Shots

[Leah]




Stavo tremando di rabbia e delusione, ma non avrei dovuto provare quelle sensazioni nei confronti della vita di mio padre. Da quando eravamo giunti allo Skye Sun Hotel, io e lui non eravamo quasi mai stati insieme, così avevo evitato con estremo piacere di intrattenermi con Medison. Quando ero giunta in quel luogo per l'ennesima volta, avevo odiato Alan Moonshift e la sua folle idea di una vacanza improvvisata in Giamaica, ma adesso era come se gli fossi grata per avermi portato lì, perché avevo conosciuto i ragazzi che mi fissavano in quel momento, mentre cercavo di reagire alla rivelazione di Daron.

«Leah» mi sentii chiamare da Shavo, poi avvertii la sua mano sulla mia spalla. Mi voltai nella sua direzione, senza però riuscire a rispondergli.

«Cazzo, ma perché capitano tutte a me?» strillò Daron, dandosi una manata sulla fronte. «Merda!»

«Cerchiamo di calmarci, per favore. Siate ragionevoli» mediò John, utilizzando il suo solito tono calmo e pratico, lo stesso di chi sapeva esattamente come comportarsi in qualsiasi situazione.

«Tu...» balbettai, puntando il dito contro il chitarrista. «Ti sei scopato... la compagna di mio padre?!» esplosi, per poi avventarmi contro di lui di scatto e senza rifletterci su neanche per un secondo.

Qualcuno mi afferrò per i fianchi e mi trattenne, e poco dopo mi ritrovai con la schiena contro il petto di Shavo. Cercai di divincolarmi, mentre imprecazioni irripetibili fuoriuscivano senza sosta dalle mie labbra.

«Leah, ti scongiuro, calmati» mormorò il bassista, con le braccia strette attorno al mio corpo. Aveva utilizzato un tono di voce morbido e leggermente venato di preoccupazione, il quale fu capace di farmi rilassare. Smisi di agitarmi e mi abbandonai completamente contro il corpo di Shavo.

Fissai Daron senza sapere se essere incazzata o scoppiare a ridere in modo isterico. Gli occhi mi si appannarono e mi ritrovai a piangere in silenzio, incapace di fermare la discesa delle mie stesse lacrime.

«Leah, scusami, io non lo sapevo che quel tizio fosse tuo padre! Ti giuro, come avrei potuto immaginarlo?» attaccò Daron, per poi protendersi verso di me e afferrare una delle mie mani. La strinse con forza. «Non piangere, dai» aggiunse in tono dispiaciuto. «Tuo padre ha scelto male la sua compagna. Temo di non essere stato il primo con cui l'ha tradito.»

Shavo allentò la stretta su di me e sollevò una mano, scostandomi i capelli dal viso e prendendo pazientemente ad asciugare le mie lacrime. «Su, stai tranquilla. Non puoi farti carico di questo problema, lo capisci, vero?» disse con dolcezza.

Annuii. Aveva ragione, tutti loro avevano ragione. Come potevo incazzarmi con Daron se l'amante del momento di mio padre gliel'aveva data senza scrupoli?

«Saresti andato con lei anche se lo avessi saputo» affermai, tirando su col naso. Notai che John si frugava in tasca, poi mi allungò un pacchetto di fazzoletti e io rimasi a fissarlo come se mi stesse porgendo un oggetto alieno mai visto prima.

Daron strinse più forte la mia mano. «No, sciocca. Possibile che abbiate davvero quest'impressione di me?» sbottò contrariato.

«Io... io non so più cosa pensare» ammisi in preda alla confusione.

«Non lo avrebbe fatto, Leah» intervenne Shavo.

Sorpresa, sollevai il capo e cercai il suo sguardo. Forse, se era lui a dirlo, potevo seriamente fidarmi e credere alle parole del chitarrista. Annuii e interruppi il contatto visivo, poi affondai il viso tra le mani e scoppiai in singhiozzi.

«Che schifo... che donna spregevole... come lo spiego a mio padre? Cristo, ma perché sono venuta qui?» gridai in preda alla disperazione.

Shavo, senza lasciarmi andare, prese ad accarezzarmi piano i capelli, mormorando parole rassicuranti e cercando di infondermi coraggio.

«Daron, andiamocene» sentii dire a John; poco dopo udii i loro passi mentre si allontanavano e avvertii i sensi di colpa attanagliarmi lo stomaco.

«Ho combinato un casino, ora Daron ce l'ha con me...» farfugliai.

«Ma no! Leah, perché ti preoccupi per Daron? Lui starà bene. Dopo ciò che ha fatto, come potrebbe stare male? È solo dispiaciuto per aver scoperto che la sua preda era sbagliata» mi spiegò pazientemente Shavo, mentre armeggiava con qualcosa.

Mi scostai da lui e accettai il fazzoletto che mi porgeva. Mi asciugai il viso e soffiai il naso, vergognandomi terribilmente della mia reazione. Cosa mi importava di Alan Moonshift e delle donnacce con cui andava in giro? Era strano, ma provavo un certo dispiacere nell'apprendere che Medison lo avesse tradito; in effetti Daron poteva aver ragione anche nell'affermare che lei avesse avuto molti amanti prima di lui. E forse anche mio padre tradiva Medison con un sacco di donne, come potevo escluderlo? Del resto non era amore quello che intercorreva tra loro, bensì un rapporto basato sull'attrazione fisica da parte di Alan e sugli interessi monetari da parte di Medison.

«Che squallore» osservai, scuotendo con forza il capo.

«Già, hai visto? E perché mai dovresti preoccupartene?» ammiccò Shavo, regalandomi un sorriso luminoso.

«Hai ragione. Che se la vedano tra loro, e sai che c'è? Non sarò certo io a dirglielo» decisi con un'alzata di spalle.

«Ecco, brava, così ti voglio! Tu devi pensare alla tua vita» concordò il bassista con entusiasmo.

Era incredibile quanto fossi grata a quel ragazzo per il modo in cui riusciva a comprendermi e accettarmi, nonostante spesso fossi invadente e fin troppo curiosa.

«Ehi Shavarsh?» lo chiamai.

«Dimmi.»

«Ti ringrazio» sussurrai, sentendomi leggermente in imbarazzo.

«E perché dovresti? Io e te siamo amici, o sbaglio?» si sminuì lui, inclinando la testa di lato senza smettere di sorridere.

«Amici» ripetei assorta. «E gli amici sanno sempre quando abbiamo bisogno di un abbraccio.»

Shavo annuì con convinzione. «Ma certo!»

Mi accostai nuovamente a lui e lo strinsi forte, cercando ancora una volta quel conforto, quella tranquillità, quel calore che soltanto lui era riuscito a darmi poco prima.

Restammo stretti l'uno all'altra per un po', senza dire niente, finché non avvertii le gambe formicolare e dovetti interrompere quel contatto per sgranchirle.

«Forse è meglio se rientriamo e andiamo a cena» ruppe il silenzio lui, con gli occhi fissi su di me e un'espressione indecifrabile dipinta in viso.

Provai disagio nell'essere osservata in quel modo da lui, così mi alzai e annuii. «Andiamo. Stasera il Fyah ci aspetta e io non vedo l'ora di andarci e dimenticare ogni cosa.»

Ci avviammo verso l'albergo in silenzio, uno accanto all'altra, e io avevo come la strana sensazione che qualcosa tra noi fosse cambiato.


Mi diedi un'ultima occhiata allo specchio: avevo indossato un paio di jeans attillati, una maglia rossa con lo scollo rotondo abbinata a un paio di scarponcini dello stesso colore. Afferrai la giacca in jeans e me la gettai sulle spalle, poi mi spruzzai una buona dose di Chloé e uscii finalmente dalla mia stanza. Essendo di pessimo umore, avevo deciso di cenare in camera, non avrei potuto fingere che tutto andasse bene di fronte a Medison e a mio padre.

Controllai l'orologio sul cellulare: mancavano quattro minuti alle dieci.

Poco dopo mi ritrovai nella hall e incrociai Dayanara che si preparava per andare via, dopo aver concluso il suo turno.

«Day, ma si può sapere che razza di orari di lavoro fai? Secondo me ti sfruttano!» gli feci notare.

«Però mi pagano bene e di qualcosa devo pur vivere. Non tutti hanno la fortuna di avere Alan Moonshift come padre» ribatté.

«Sai che fortuna! Piantala di dire stronzate, avanti! Piuttosto, vieni al Fyah? Oggi non puoi perderti il concerto di Alwan» cambiai argomento.

«Arrivo più tardi, passo a casa a darmi una rinfrescata e poi vi raggiungo» annunciò, poi mi salutò in tutta fretta e attraversò le doppie porte.

«Ciao Leah! Sei pronta?» esordì Shavo, mentre lui e John si fermavano accanto a me.

«Io sì. Daron viene o no?» chiesi, vagando con lo sguardo alla ricerca del chitarrista. «O è in ritardo, o ce l'ha con me» riflettei.

«È in ritardo come sempre» disse John.

«Leah, ehi, te l'ho già spiegato: Daron non ce l'ha con te!» esclamò Shavo per l'ennesima volta.

Poco dopo Daron ci raggiunse tutto contento, e subito si avvicinò a me e mi posò le mani sulle spalle, assumendo un'espressione tremendamente seria.

«Ho sentito dire che qualcuno ha bisogno di divertirsi e dimenticare, stasera. Sei tu per caso?» esordì.

Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere. «Indovinato!»

«Allora ci penso io» affermò poi, annuendo più volte per dare enfasi alle sue parole.

Ci avviammo al taxi chiacchierando del più e del meno, e il viaggio fu piuttosto piacevole e non troppo lungo.

Quando scendemmo di fronte al locale, notai che era già gremito di gente e della musica dancehall si udiva fino alla strada. Guidai i ragazzi all'interno e, dopo aver preso Daron sottobraccio, gridai: «Prendiamoci qualcosa di forte, oggi mi ci vuole proprio!».

«E ti ubriachi per colpa mia? Avrò i rimorsi di coscienza per sempre!» finse di piagnucolare, per poi trotterellare verso il bancone.

Anche i ragazzi ci seguirono e ordinammo da bere. Io mi buttai subito sulla vodka lampone e fragola, uno dei pochi alcolici che riuscivo a buttare giù senza problemi e che, soprattutto, arrivava subito al cervello e lo svuotava completamente.

Mandai giù la bevanda in pochi sorsi e ne ordinai subito un'altra, sotto gli sguardi leggermente preoccupati dei ragazzi.

«Che c'è?» strepitai, mentre sentivo ancora la gola bruciare a causa dell'alcol e un intenso calore avvolgermi completamente.

«Leah, sei sicura di reggere l'alcol?» mi chiese Daron, con un bicchiere di Jack Daniel's ancora mezzo pieno tra le mani.

«No, ma oggi me ne fotto!» trillai, per poi trangugiare il secondo drink e sentirmi sempre più confusa.

Mi resi conto che il gruppo di Alwan cominciava a suonare e scesi dallo sgabello, anche se barcollavo pericolosamente. Mi avviai verso la sala in cui si sarebbe tenuto il concerto e mi sentii afferrare per un braccio.

Mi voltai e trovai Shavo che mi sorrideva. «Va bene, per oggi te lo concedo. Penso io a te.»

Annuii confusamente e mi ritrovai presto a ballare sulle note dei brani che Alwan e i suoi amici stavano eseguendo. Il barista dello Skye Sun Hotel suonava il basso e si occupava anche dei cori, e la loro musica era capace di coinvolgere chiunque con un alternarsi di stop and go, one time e mix che rendevano il loro genere un miscuglio perfetto tra reggae e dancehall, arricchito anche dalla presenza in formazione di un dj.

Man mano che l'alcol agiva su di me, mi sentivo sempre più confusa, ma anche euforica e piena di energia, pronta a ballare tutta la notte finché non fossi stramazzata al suolo.

A un certo punto incontrai Dayanara, ma non riuscii a sentire cosa mi stava dicendo, così lui si rivolse a Shavo e io continuai ad andare a ritmo di musica. Il mio corpo si muoveva da sé, non riuscivo a fermarmi o a guardarmi attorno, era come se il cervello fosse spento o come se lo avessi dimenticato da qualche parte.

Shavo non si allontanò mai da me, e ogni tanto mi sorreggeva, sicuramente notando che non riuscivo a stare in perfetto equilibrio; ballai un sacco, lasciandomi invadere dai bassi regolati al massimo, mentre il mondo girava attorno a me in un mare di colori confusi e sfumati. Riconobbi Daron al mio fianco, anche lui si agitava a ritmo di musica.

All'improvviso, non so come né perché, mi ritrovai a circondargli le spalle con un braccio e a gridare a squarciagola, contagiando così tutti i presenti che presero a fare lo stesso; era un delirio, un fottuto casino in cui io non capivo più niente, ma mi sentivo al sicuro perché, in un remoto angolino ancora cosciente della mia testa, sapevo che Shavo si sarebbe preso cura di me come aveva promesso.

Quando la band smise di suonare, il dj continuò a mandare musica e tutti proseguimmo a ballare e divertirci per un tempo indefinito.

«Alwan!» gridò Daron, e poco dopo il mio amico ci raggiunse. «Ehi, amico! Non mi avevi detto che suonavi in una band! Siete fortissimi!»

Alwan si accostò a me e mi osservò con la preoccupazione dipinta sul viso, ma io non ci badai e continuai quello che stavo facendo senza più ascoltare i loro discorsi.

Afferrai Shavo e John per mano e li trascinai vicino alle casse che pompavano ad alto volume; ridevo e li coinvolgevo nella mia danza convulsa, fatta di alcol e frustrazione. Sicuramente l'effetto della vodka stava pian piano cambiando, perché cominciavo a sentire la stanchezza, ma era come se questa mi desse ancora più forza. Dentro mi sentivo triste, l'euforia stava svanendo e mi veniva quasi da piangere perché mio padre mi faceva pena, la sua compagna mi faceva schifo e la mia vita mi faceva schifo e pena insieme perché dipendeva da un esemplare come Alan Moonshift, che per l'ennesima volta mi aveva piegato al suo volere.

Quando partì un brano che adoravo di Protoje, Stylin', impazzii letteralmente e mi catapultai addosso a Shavo, insistendo affinché si muovesse con me a ritmo di musica.


Too much stylin’ can’t pop no style on I, girl
Young girl, you full a too much stylin’
Can’t pop no style on I
I say you full a too much stylin’
And now my love for you is spoiling


Mi sembrava di notare nel suo sguardo qualcosa di strano, indecifrabile, qualcosa che però mi spingeva irrimediabilmente a stargli vicino e a divertirmi con lui, lasciandomi sorreggere dalle sue braccia e illuminare dal sorriso che continuava a regalarmi, nonostante versassi sicuramente in uno stato pietoso.


How many times we’ve had the same conversation?
Why do you always find a reason to lie?


Conoscevo quasi a memoria quella canzone, era una delle mie preferite e mi sentii nuovamente euforica, specialmente perché potevo condividere con Shavo quel momento magico. I pensieri scorrevano fluidi a ritmo di musica, i bassi vibravano insieme alle corde del mio cuore, gli occhi si inumidivano nel rimirare colui che avevo di fronte.

Notai che qualcuno consegnava a Shavo una sigaretta, ma prima che potesse portarsela alle labbra, mi allungai di scatto e gliela strappai di mano. Inspirai una lunga boccata di fumo e sentii i polmoni bruciare terribilmente, mentre un gusto dolciastro invadeva le mie papille gustative; espirai bruscamente e presi a tossire, ma non lasciai andare lo spinello e continuai a fumare, riprendendo presto a ballare su un pezzo di Buju Banton.

Quando restituii l'oggetto a Shavo, lui era ancora allibito per il mio gesto e mi fissava con le sopracciglia aggrottate.

«Scusa!» gridai, poi scoppiai a ridere e mi spostai in cerca di Daron. Lui era un compagno perfetto per ballare e divertirsi, perché probabilmente era fuori di testa almeno quanto me.

Lo trovai che parlava con due ragazze, ma non mi feci problemi a trascinarlo via con me. Cominciammo a ridere e gridare come non mai, attirando l'attenzione di tutti i presenti, i quali si stavano probabilmente domandando cosa stessimo combinando.

All'improvviso avvertii un orribile senso di nausea, fu come se stessi soffocando e avevo decisamente troppo caldo. Daron se ne accorse e fece un cenno a qualcuno dietro di me.

Mi immobilizzai e mi portai le mani alla bocca, dovevo trattenermi, non potevo vomitare lì in mezzo alla pista. Il mondo oscillava attorno a me, facendomi quasi perdere l'equilibrio.

Qualcuno mi afferrò per la vita e mi condusse velocemente fuori dalla stanza, per poi fermarsi solo quando fummo in strada, all'esterno del locale.

Stavo per vomitare, ne ero certa, sentivo lo stomaco ribollire e fare le capriole, mentre la nausea aumentava vertiginosamente. Tuttavia, non accadde nulla. Una folata di aria fresca mi colpì dritta in faccia e mi fece improvvisamente rabbrividire. Mi strinsi le braccia intorno al corpo e riacquistai in un attimo quasi tutta la lucidità persa durante la serata.

Shavo era in piedi di fronte a me e mi osservava, e solo allora notai la sua espressione colma di ansia e preoccupazione.

«Shavarsh...» mormorai. Avevo la gola secca e sentivo la lingua pesante, non riuscivo quasi a muoverla.

«Come stai?» mi chiese lui.

«Ora... ora meglio, ma ho... sete...» biascicai, passandomi una mano sul volto sudato; mi accorsi che avevo i capelli scompigliati e alcune ciocche si erano incollate alla pelle del viso. Dovevo essere inguardabile. Cominciai a provare vergogna per ciò che avevo fatto, non avrei mai dovuto scaricare la mia responsabilità su Shavo, facendolo diventare il mio babysitter. Avevo criticato Daron per lo stesso motivo, la sera precedente, e ora versavo nella sua stessa condizione. Ero patetica.

Shavo si voltò verso l'ingresso del locale e fischiò. «John, acqua per favore!» gridò. «Adesso arrivano i rinforzi, stai tranquilla» mi rassicurò poi.

«Mi dispiace, io... mi sono comportata da stupida...» ammisi, mentre mi sentivo divorare dai sensi di colpa e dalla stanchezza.

«Adesso non pensarci» tagliò corto Shavo.

Qualche minuto dopo John e Daron ci raggiunsero, annunciando che avevano già provveduto a chiamare un taxi. Il batterista mi porse una bottiglia d'acqua e io ne trangugiai parecchia, con il cuore colmo di gratitudine per le attenzioni che quei ragazzi mi dedicavano.

«Ora andiamo» mi incitò Shavo, prendendomi sottobraccio, mentre un taxi si fermava a pochi metri da noi.

Una volta seduti sul sedile posteriore dell'auto, il bassista mi fece appoggiare il capo sulla sua spalla e io chiusi immediatamente gli occhi. Con il calore della sua mano sulla schiena, i dialoghi a mezza voce tra i ragazzi e il motore della macchina in sottofondo, caddi in un sonno profondo senza neanche rendermene conto.




Sì, sì... lo so, avevo promesso che non sarei stata a rompere in ogni capitolo, scusatemi tanto, ma dovevo parlarvi della canzone che Leah balla come una pazza.

Vi lascio qui il link per l'ascolto di Stylin' di Protoje, un artista che ultimamente sta prendendo molto piede nella scena reggae giamaicana e non solo, io l'adoro:

https://www.youtube.com/watch?v=8loYxzB1_fg

Spero vi piaccia, e che anche il capitolo vi sia piaciuto!

In ogni caso fatemi sapere, non esitate a esprimere qualsiasi parere, positivo o negativo che sia, purché sia costruttivo e mi aiuti a capire se e cosa secondo voi potrei migliorare o far capire meglio!

Alla prossima e grazie di cuore ♥

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Capitolo 17
*** Oh, what a disaster! ***


ReggaeFamily

Oh, what a disaster!

[Shavo]




A svegliarmi fu un gridolino proveniente dal letto accanto a cui ero seduto. Sobbalzai sulla sedia e avvertii immediatamente un dolore atroce alla schiena. Farfugliai qualche imprecazione tra i denti e cercai di stiracchiarmi, ignorando le fitte che continuavano a pungere come aghi la mia colonna vertebrale.

«Shavarsh, cosa ci fai qui?!»

Leah si mise a sedere di scatto, ma parve vacillare e si premette le mani sulle tempie; doveva avere un forte mal di testa e sicuramente era confusa su ciò che era accaduto la sera precedente. Non mi sarei sorpreso di scoprire che ricordava poco e niente della nostra uscita al Fyah.

«Ero agitato e non me la sono sentita di lasciarti sola.» Mi portai una mano di fronte alla bocca e sbadigliai, sentendo di essere distrutto. Mi alzai e presi a camminare avanti e indietro per la stanza, cercando di sgranchire il corpo e riattivare i sensi intorpiditi.

«Mi dispiace così tanto per ieri sera...» mormorò la ragazza.

«Allora ti ricordi tutto?» la interrogai, fermandomi ai piedi del letto.

«Purtroppo sì. Ho fatto una figura pessima, mi vergogno. Non avrei mai dovuto perdere il controllo» ammise in tono desolato, senza mai incontrare il mio sguardo. Mi dispiaceva vederla in quelle condizioni, ma la cosa peggiore era notare che non stesse sorridendo come sempre e che si sentisse in colpa anche se non avrebbe dovuto.

«Non pensarci, è tutto finito. Sono rimasto per assicurarmi che non stessi male durante il sonno» le spiegai con semplicità. «Ora stai bene?»

Lei annuì. «Ma... hai dormito su quella sedia?» mi chiese in tono contrariato, posando finalmente gli occhi color cioccolato su di me. Lessi preoccupazione in quello sguardo, ma anche una valanga di sensi di colpa.

«Sì, che sarà mai?» sdrammatizzai con un sorriso. «Ora me ne vado, tranquilla. Non volevo spaventarti.» Detto questo, mi avviai verso la porta e la socchiusi. «Ci vediamo più tardi, okay? Se hai bisogno di qualcosa, cercami. E se non trovi me, puoi fare affidamento sui ragazzi.»

«Ehi Shavarsh!» mi richiamò Leah, proprio mentre stavo per uscire. Mi fermai e attesi che proseguisse. «Grazie di tutto, sei stato... un tesoro» aggiunse infine.

Rimanemmo a guardarci per un attimo, poi annuii e lasciai la stanza.

Mentre tornavo in camera mia, ripensai al tempo infinito che avevo trascorso su quella sedia, fermo e in silenzio, a osservare Leah che dormiva. Non ero riuscito a distogliere lo sguardo finché le palpebre non erano diventate troppo pesanti e si erano chiuse da sole.


Mentre facevo colazione in terrazza, il cellulare squillò. La mia suoneria consisteva in un pezzo dei Nirvana, About A Girl; non riuscivo a immaginare qualcosa di diverso per l'avviso di chiamata, e infatti non cambiavo la suoneria da più di un anno.

Fui lieto di scoprire che a chiamarmi fosse Serj, così risposi in tono allegro: «Ehi cantante, buongiorno!».

«Ciao Shavo» replicò lui, e nella sua voce notai ben poca allegria. Era come se fosse preoccupato, il che fece allarmare subito anche me.

«Che succede? Perché questo tono da funerale? Ti prego, non darmi una brutta notizia...»

Serj sospirò. «Qui sta succedendo un casino, non puoi neanche immaginare cosa...»

Agitatissimo, cominciai a sudare copiosamente e mi guardai attorno in cerca di un appiglio, nonostante fossi ben cosciente di essere circondato da perfetti sconosciuti che non avrebbero badato a me.

«Cosa è successo? Ora mi metti ansia, merda!» strepitai con voce stridula.

«Calmo, Shavo, stai calmo. Respira, avanti» cercò di tranquillizzarmi il cantante.

«No! Angie sta bene? Tu stai bene? I tuoi genitori? Oddio, è successo qualcosa a Beno?» presi a tempestarlo di domande, portandomi una mano alla fronte. Sentii d'improvviso tutta la stanchezza accumulata abbattersi addosso al mio corpo e alla mia mente, e un senso di spossatezza generale mi invase, gettandomi nel panico più totale.

«Stiamo tutti bene» si affrettò a rispondere Serj. «Si tratta di Daron.»

«Daron?! Ma se è qui con noi, come può aver combinato un casino a Los Angeles?» gli feci notare, sempre più confuso.

Proprio in quel momento venni raggiunto da Alwan, che teneva in mano un bicchiere d'acqua e me lo posò di fronte, facendomi segno di bere. Mi posò una mano sulla spalla e rimase un attimo al mio fianco, cercando di capire cosa avessi.

«Una tizia si è presentata al campo da basket stamattina, una ragazzina di circa diciassette anni. Ha asserito di essere figlia di Daron» raccontò Serj, e io potevo percepire la disperazione farsi largo nella sua voce. «Ha detto che ha le prove per...»

«Cosa?» gridai, posando di botto il bicchiere sul tavolino.

Alwan sobbalzò al mio fianco e cercò il mio sguardo, mostrandosi preoccupato per la condizione in cui versavo. Mi sentivo in colpa perché non volevo assolutamente coinvolgere quel ragazzo in una faccenda così complicata, soprattutto perché non lo conoscevo abbastanza. In quel momento avrei voluto che John fosse con me, che Leah fosse con me, persino Daron sarebbe andato bene...

«Shavo, ci sei? Stai bene?» stava continuando a chiedermi il cantante in tono allarmato.

«Non... non ci posso credere» balbettai, abbandonandomi completamente contro lo schienale della sedia.

«Non so cosa dirti» ammise Serj. «All'inizio anche io non ci credevo, però poi mi ha mostrato un foglio e...»

«Un foglio?» Aggrottai la fronte e ripresi il bicchiere per sorseggiare un altro po' d'acqua.

«Penso fosse un certificato di nascita o qualcosa del genere.»

Tossicchiai. «E cosa ti ha detto, poi?»

«Vuole vedere Daron e dirglielo. Io le ho spiegato che ora Daron non è in città e mi sono rifiutato di dirle dove si trova» proseguì Serj. «Ma lei mi ha detto una cosa strana.»

«Ovvero?» lo incoraggiai sempre più preoccupato.

«Dice di sapere dove si trova.»

Sobbalzai, c'era qualcosa che non quadrava. «Com'è possibile?» chiesi. Poi mi venne qualcosa in mente e aggiunsi: «Come si chiama questa fantomatica figlia di Daron?».

Alwan, ancora in piedi accanto a me, prese a scuotere il capo e notai che si tratteneva per non ridere. In effetti la situazione poteva sembrare piuttosto comica, ma io al contrario provavo un disagio enorme.

«Non me lo ricordo» rispose il cantante in tono desolato.

«Senti, se ti ricordi, fammelo sapere» affermai.

«Tanto lei tornerà a cercarmi, ha detto che ormai sa dove trovarmi e vuole delle risposte. Vuole sapere qualcosa di certo. Vuole che Daron la riconosca.»

«Ma che cazzo dice? Merda, che casino!» bofonchiai.

«Dobbiamo mantenere la calma. Senti, parlane con John, ma vi prego di non dire nulla a Daron... lui è sempre così impulsivo, potrebbe andare fuori di testa e combinare qualche casino dei suoi, capisci?» mi ammonì ancora il mio amico.

«Certo, certo! Stai tranquillo! Che casino, porca puttana, ma perché questo demente deve sempre cacciarsi nei guai? Poi ci passiamo sempre noi...» farneticai, non sapendo di preciso a chi mi stessi rivolgendo.

«Ora calmati, dai, non farti prendere dal panico. Ricordati che comunque sono problemi suoi, non tuoi o miei o di John. Intesi?»

Sospirai. «Okay, ci provo» borbottai poco convinto.

«Allora salutami i ragazzi, poi se succede qualcosa ti aggiorno. Non pensarci troppo, pensa a divertirti e basta!» disse ancora Serj. «A proposito... come va con quella ragazza che hai conosciuto?» mi chiese poi all'improvviso.

Pensai a Leah e mi ritrovai a sorridere senza volerlo. «Eh... va bene, insomma... ci stiamo conoscendo» risposi evasivo.

«Ti piace.» Quella di Serj non era stato una domanda, bensì un'affermazione; doveva aver sentito qualcosa nel mio tono di voce che lo aveva fatto giungere a quella conclusione.

«È presto per dirlo» tagliai corto.

«Mmh... okay, se lo dici tu. Ma secondo me ti piace» insistette ancora il mio amico, la voce colma di malizia.

«Vedremo. Ora devo andare, scusa... ci sentiamo» conclusi, notando che John avanzava verso di me per poi sedermisi di fronte.

Chiusi la conversazione e, dopo aver appoggiato i gomiti sul tavolino, mi presi la testa tra le mani e sospirai. «Cazzo» imprecai tra i denti.

«Ehm... ehi, amico?» mi sentii chiamare da Alwan, il quale posò nuovamente la mano sulla mia spalla.

Farfugliai qualcosa di incomprensibile anche a me stesso e ascoltai distrattamente il dialogo tra John e il barista, poi quest'ultimo si allontanò verso il bancone.

«Che ti prende?» chiese il batterista apprensivo.

Dopo aver riordinato un secondo le idee, gli raccontai tutti i dettagli della telefonata con Serj, e lui rimase in ascolto senza interrompermi; tuttavia, man mano che apprendeva ciò che gli stavo dicendo, la sua espressione diveniva sempre più perplessa e confusa.

«Ecco tutto» conclusi, posando i palmi sudati delle mani sul tavolino.

«E ora che cazzo facciamo?» sospirò John in tono esasperato.

«Ce lo teniamo per noi e attendiamo sviluppi» dissi semplicemente.

«Che disastro» borbottò il batterista, mentre Alwan gli serviva un caffè fumante.

«Ragazzi, io non voglio intromettermi, però mi è capitato di sentire qualcosa e, be'... se avete bisogno di aiuto, potete contare su di me» disse infine il ragazzo, poi ci sorrise e si avviò nuovamente verso il chiosco in legno.

«Comunque, Leah come sta?» cambiò argomento John, stanco probabilmente di parlare di Daron e delle situazioni assurde in cui si andava a cacciare.

«Sta bene» risposi. Parlare di Leah mi scaldava il cuore e liberava la mia mente dai cattivi pensieri che la affollavano in quel momento.

«Sei stato carino a starle vicino stanotte» commentò il batterista, indirizzandomi un sorriso appena accennato.

«Non me la sono sentito di lasciarla sola. Era sconvolta ieri, hai notato?»

John fece spallucce. «Già, povera Leah.»

Rimasi a fissare il mio amico per un po', poi dissi: «Serj dice che mi piace Leah. Gli hai raccontato tutto, scommetto».

Il batterista scosse il capo. «Più o meno, ma ricordati che il nostro cantante capisce sempre tutto senza che nessuno gli dica niente.»

«Questo è vero» osservai.

«E ha ragione?»

Guardai John. «Ha ragione?» ripetei.

«Ti piace Leah?» mi interrogò lui.

Fissai le mie mani ancora appoggiate sul tavolino e sospirai. «Spero non si noti troppo» risposi mestamente.

John ridacchiò. «No, macché!»

Continuammo a battibeccare e lui mi prese un po' in giro, finché non fummo raggiunti da una donna che non avevo mai visto prima: era alta, formosa e dalla carnagione olivastra; una cascata di capelli neri e ricci le incorniciava il viso dai lineamenti marcati e un paio di occhiali da vista le contornavano gli occhi scuri. Si rivolse a John come se lo conoscesse, poi mi lanciò un'occhiata e parve illuminarsi.

«Ecco il terzo membro della band!» esclamò con un tono di voce un po' troppo alto.

«Bryah, ti prego, abbassa la voce» sibilò il batterista.

«Giusto, giusto, scusate...» borbottò lei, sfoderando un sorriso luminoso e ampio. «Mi presento: io sono Bryah Philips, sono una giornalista, ma non ho nessuna intenzione di dire a tutto il mondo che voi siete qui».

Ci stringemmo la mano e lei mi raccontò che era giunta allo Skye Sun Hotel in seguito a una soffiata secondo la quale avrebbe dovuto scovare Lady Gaga in questo angolo di paradiso; l'informazione si era rivelata infruttuosa e così aveva deciso di rimanere comunque a trascorrere qualche giorno di ferie. Il giorno prima si era imbattuta in John e, dopo averlo riconosciuto, i due avevano fatto amicizia e lei gli aveva rivelato che le sarebbe piaciuto scrivere la biografia della nostra band.

«Caspita, che storia avvincente!» esclamai.

«Vero?» scherzò Bryah.

Proprio in quel momento anche Leah giunse in terrazza e ci raggiunse: sembrava essersi ripresa completamente ed era luminosa e radiosa come al solito, il che non poté che rincuorarmi e farmi dimenticare del tutto gli avvenimenti negativi di poco prima.

«Buongiorno ragazzi!» esordì la ragazza, poi picchiettò sulla spalla di John e gli lanciò un'occhiata desolata. «Scusa se stamattina non mi sono presentata al nostro solito appuntamento, ero veramente a pezzi» spiegò.

John le strinse brevemente la mano e le regalò un piccolo sorriso. «Non importa, recupereremo. Anche io sono sceso dal letto piuttosto tardi stamattina.»

Leah sospirò e parve tranquillizzarsi, poi si accomodò accanto a me e prese a studiare Bryah Philips che ancora stava in piedi vicino al batterista.

«Leah, ti presento Bryah. Lei è una giornalista» annunciò il mio amico, indicando la sua nuova conoscenza.

«Piacere di conoscerti, Bryah! Hai un nome bellissimo!» esclamò Leah con entusiasmo, protendendosi per stringerle la mano.

«Anche il tuo non è male, sorella» ammiccò la donna con un enorme sorriso, ricambiando il gesto di Leah.

«Sentite» intervenni. «Perché noi quattro non ce ne andiamo a pranzo in città? Ieri Leah mi ha portato in un posto magnifico.»

«Dove lo hai portato?» volle sapere Bryah.

«Siamo stati da Health Inna Roots, lo conosci?»

«Ma certo! Si mangia bene lì! Io ci sto!» accettò volentieri il mio invito Bryah, strizzandomi l'occhio.

Io e John ci scambiammo un'occhiata perplessa.

«Lo diciamo a Daron?» chiese il batterista.

«Tu che ne pensi?» feci io.

Poco dopo ci ritrovammo a scuotere il capo contemporaneamente.

«Non se lo merita» sghignazzai.

«Ci odierà» commentò John.

«Siete cattivi! Che vi ha fatto?» interloquì Leah.

«Sapessi...» borbottai in risposta.

Lei mi studiò per un attimo e compresi immediatamente che probabilmente aveva carpito un certo malessere in me; tuttavia ero grato al fatto che avremmo trascorso del tempo con John e la sua nuova amica, almeno avrei potuto evitare le domande di Leah per qualche ora ancora.

Ci alzammo dal tavolino e, dopo aver salutato Alwan, ci dirigemmo verso l'ascensore, chiacchierando del più e del meno. Quando la porta dell'ascensore si aprì, ci ritrovammo di fronte a Daron che ne usciva.

Si fermò di botto e ci studiò uno a uno, aggrottando la fronte e incrociando le braccia al petto.

«Dove credete di andare?» ci apostrofò con un sorrisetto enigmatico.

«Andiamo a pranzo fuori, perché?» ribatté Leah senza scomporsi, fronteggiandolo con estrema sicurezza di sé.

«E mi lasciate qui?» Daron prese a dondolare con il capo a destra e a sinistre, poi sbuffò rumorosamente.

«Oggi sì» disse ancora Leah.

Il chitarrista le fece una linguaccia e le scompigliò i capelli con un gesto rapido e inaspettato. «Non fare tanto la dura con me, marmocchia. Vedo che oggi stai bene, eh?»

Leah lo schiaffeggiò sulla mano. «Sto benissimo, grazie.»

«Per stavolta vi perdono» concluse Daron. «Ma solo perché non ho voglia di uscire.»

«Meno male!» commentò Bryah, fingendosi preoccupata. Lei e Leah si scambiarono un'occhiata complice e scoppiarono a ridere all'unisono. Sottobraccio, si infilarono in ascensore e ci incitarono a seguirle.

«Ciao amico, divertiti qui tutto solo» salutai il chitarrista.

Lui sollevò il dito medio nella mia direzione. «Troverò compagnia, non temere.»

Sperai seriamente che con quelle parole non intendesse farmi capire che voleva andare alla ricerca di una compagnia femminile. A quel pensiero mi tornò in mente la mia conversazione con Serj, ma subito posai lo sguardo su Leah e la mia mente si svuotò nuovamente.

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Capitolo 18
*** Must be Serious! ***


ReggaeFamily

Must be Serious!

[John]




Mentre aspettavamo un taxi, presi Bryah da parte e feci in modo che Leah non potesse udire la nostra conversazione. Per fortuna lei e Shavo stavano ridendo e scherzando tra loro e parvero non badare troppo a noi.

«Bryah, senti... Leah non sa che io e i miei amici facciamo parte di una band famosa» esordii a bassa voce.

La giornalista inarcò le sopracciglia. «Davvero?»

Annuii. «Già. Cerca di non farglielo sapere, eh?» aggiunsi.

«Come vuoi. Ma sei sicuro?» indagò Bryah con fare cospiratorio.

«Di cosa?»

«Del fatto che Leah non vi abbia riconosciuto» spiegò pazientemente la donna.

Mi guardai attorno e sospirai. «In realtà qualche sospetto ce l'ho.»

Bryah schioccò le dita e sghignazzò. «Beccato. Be', ci penso io, non preoccuparti.»

Stavo per ribattere, quando Shavo ci richiamò e notai che un'auto si era fermata all'ingresso del vialetto.

Quando salii a bordo del taxi, non avevo la minima idea di cosa Bryah volesse fare, ma mi sentivo un poco agitato perché speravo che non rivelasse troppi dettagli a Leah.


Health Inna Roots, meglio conosciuto con l'acronimo HIR, era un locale carino e accogliente: si trattava di un chiosco sulla spiaggia, una struttura articolata su due piani interamente costruita in legno chiaro; Leah e Shavo ci trascinarono al piano superiore, il quale era interamente ricoperto di vetrate che permettevano di mangiare con una visuale pazzesca sull'oceano. Le grandi finestre erano quasi tutte aperte e lasciavano che una forte e tiepida brezza dal profumo salmastro allietasse la permanenza dei clienti.

Una volta seduti a un tavolo posto accanto a una delle tante vetrate, prendemmo a esaminare il menu. Aggrottai le sopracciglia, domandandomi cosa avrei potuto mangiare. Forse rice and peas poteva essere accettabile, in fondo si trattava soltanto di riso e fagioli. Niente di complicato.

Le pietanze avevano dei nomi che non riuscivo a comprendere e non avrei saputo proprio cosa scegliere. Leah se ne accorse e mi lanciò un sorrisetto: sedeva di fronte a me e mi osservava da un po', come se si aspettasse qualcosa che io non riuscivo a cogliere.

«Che c'è, John? Non sai cosa mangiare?» mi punzecchiò divertita.

«Sì che lo so... prendo il riso con i fagioli» affermai.

«Ma John, il rice and peas non ti basterà! Al massimo puoi ordinarlo come contorno» mi fece notare Bryah, scambiando un'occhiata divertita con Leah.

«Dovresti prendere qualcos'altro. Io mi tuffo sul pesce oggi, questo profumo di mare mi mette di buonumore! Quando mangiamo allo Skye Sun Hotel, siamo sempre rinchiusi in ristorante... non è la stessa cosa» borbottò Shavo, indicando una pietanza sul menu che portava il nome di pesce escovitch.

«Vuoi davvero mangiare del pesce marinato nel succo di lime? Ma che roba è? Non mi ispira affatto...» bofonchiai, scuotendo leggermente il capo.

«Oh, andiamo! Devo pregarti anche oggi di provare qualcosa di diverso?» mi stuzzicò ancora Leah, incrociando le braccia al petto.

«Non stiamo facendo colazione, ora il nostro patto non è valido» sottolineai.

«Non fare tante storie» intervenne Bryah. «Ti consiglio qualcosa io. Pesce o carne?»

La osservai dubbioso. «Pesce?» azzardai.

«Se sei diffidente, puoi provare a prendere del pesce fritto e, magari, sperimentare sul contorno. Che ne pensi?» proseguì Bryah.

Annuii. «Forse.»

«Allora... che ne dici di pesce fritto, riso e banane verdi?» propose la donna.

Mi accigliai. «Verdi, hai detto?»

«John, cazzo! Vuoi sperimentare o no?» si inalberò Leah, mollandomi un calcio sotto il tavolo.

«Ahi.»

«Ordinerò io per te» decise Bryah, chiudendo di scatto il menu e richiamando l'attenzione di un cameriere.

Circa mezzora dopo, mi ritrovai a gustare il mio pesce fritto aromatizzato con un sacco di spezie e peperoncino, contornato da riso e banane verdi. L'accostamento era piuttosto strano, ma il mix di sapori riuscì a convincermi e mi ritrovai a finire il mio pasto prima di quanto immaginassi.

Leah e Bryah si scambiarono un'occhiata complice.

«Qui il cinque, sorella!» strillò la giornalista.

«Siamo un'ottima squadra, sista!» esultò l'altra.

«Siete un po' matte voi due» disse Shavo, finendo di mangiare a sua volta.

«Cosa facciamo adesso?» domandò Leah, scrutando al di là della vetrata.

«Una passeggiata?» proposi, sentendo la necessità di sgranchirmi le gambe e scaldare i muscoli. Poteva sembrare assurdo, ma stavo risentendo tantissimo del fatto di non poter suonare la batteria.

«Ma non ti stanchi mai di essere in perenne movimento? Io vorrei buttarmi in spiaggia e dormire...» si lamentò subito Shavo.

«Hai sonno?» si preoccupò Leah, posando gli occhi scuri sul mio amico. Era sempre più palese, almeno ai miei occhi, che tra quei due ci fosse del tenero, o almeno che qualcosa stesse pian piano prendendo forma. Qualcosa di bello, di forte, di inspiegabile.

«Eh, un po'» replicò il bassista, grattandosi dietro l'orecchio destro.

«Colpa mia! Non avresti dovuto dormire su quella sedia.»

«Infatti non ci ho dormito, ero sveglio per quasi tutto il tempo» ammise ancora Shavo, sorridendo mestamente alla sua interlocutrice.

«Sei uno sconsiderato, Shavarsh!» lo rimproverò lei con disappunto.

A quel punto mi venne spontaneo chiedere: «Com'è che non ti incazzi con Leah per come ti si rivolge?».

Tre paia di occhi si posarono su di me, ma non mi scomposi e sostenni le loro occhiate indagatrici.

«Perché dovrebbe incazzarsi con me?» chiese infine Leah, mossa dalla sua solita e implacabile curiosità.

«Lui odia essere chiamato Shavarsh» precisai, godendomi l'espressione del bassista che si riempiva d'imbarazzo.

«Sul serio?» strepitò Leah. «Non è possibile!»

«Possibilissimo» confermai.

«Ma sei uno stronzo, Dolmayan!» mi accusò l'oggetto della discussione.

«Così impari a contraddirmi quando ho voglia di fare due passi, razza di bradipo» controbattei, indirizzandogli un sorrisetto divertito.

«Questa poi!» Ormai Leah stava ridendo e non riusciva più a trattenersi. Si allungò verso Shavo e gli posò una mano sul braccio. «Davvero lo odi?»

«Abbastanza» borbottò lui, senza sollevare lo sguardo su di lei.

«Mi dispiace.»

«Macché...» fece il bassista con noncuranza.

«Mi sa che non gli dà poi così tanto fastidio» intervenne Bryah, strizzandomi l'occhio.

«Per farmi perdonare, ti offro un gelato! Ci stai?» propose Leah, senza staccare gli occhi dalla figura di Shavo.

Lui la guardò in viso e sorrise. «Ottima idea! E poi andiamo in spiaggia a dormire?»

«Ma certo che sì!»

Io e Bryah ci guardammo perplessi.

«Gelato per tutti allora!» affermò la giornalista, poi tutti insieme ci dirigemmo a pagare il conto.

Mi voltai a guardare Leah e Bryah. «Ragazze, possiamo offrirvi noi il pranzo?»

«Non se ne parla!» negò con sicurezza Bryah. «Siamo nel Medioevo per caso?»

«Appunto. E poi Shavarsh... ops, ehm... lui me l'ha offerto anche ieri. Quindi non esiste!» si fece avanti la più giovane, dando di gomito al bassista.

«Ma...» provai a protestare.

«Niente ma, John!»

Le due si avvicinarono al bancone e, dopo aver battibeccato tra loro per almeno dieci minuti, Bryah ebbe la meglio e offrì il pranzo a tutti, asserendo che eravamo suoi ospiti perché lei era l'unica a essere giamaicana.

Non sapevo su quali fondamenta basasse quel ragionamento bizzarro, tuttavia decisi di non contraddirla e la seguii all'esterno, dove Leah e Shavo ci aspettavano.

«Gelato!» gridarono come bambini, indicando un chiosco sulla spiaggia a pochi metri da noi.

Sospirai. Mi sembrava di essere in vacanza con dei figli adottivi, e meno male che Daron non era nei paraggi!


Trascorsi il pomeriggio a passeggiare con Bryah, mentre Leah e Shavo se ne stavano stravaccati in riva al mare.

Io e la giornalista chiacchierammo un sacco, ma io provavo molto disagio; da quando avevo scoperto che aveva un compagno, non riuscivo più a essere spontaneo come all'inizio. Tra noi si era creata una sintonia incredibile, e questo perdurava nonostante io mi comportassi in maniera leggermente fredda e distaccata. Possibile che soltanto io avvertissi quella tensione tra di noi?

Mentre viaggiavamo verso l'albergo, stanchi ma felici, Leah prese a raccontare che aveva cantato la ninna nanna a Shavo e che lui si era addormentato come un bambino con la faccia nella sabbia.

«Ma perché oggi ce l'avete tutti con me?» protestò il bassista contrariato.

«Andiamo, non prendertela! E poi ha anche sbavato!» proseguì Leah imperterrita.

«Leah, sei terribile!» strillò Bryah, per poi scoppiare a ridere e rovesciare la testa all'indietro. Rimasi incantato dal profilo del suo volto, dai capelli ricci e ribelli che le carezzavano il collo, dalla maglia azzurra che aderiva perfettamente alla rotondità delle sue forme...

«E posso continuare a chiamarlo Shavarsh, sapete? Mi sento fortunata!»

La voce di Leah mi riportò alla realtà e mi accorsi solo in quel momento che stavo sorridendo come un idiota. Dove stava andando a finire la mia serietà? Quel fottuto viaggio in Giamaica mi stava consumando i neuroni.

«Prima o poi ti strangolo, Leah Moonshift!» borbottò Shavo, scuotendo il capo con fare esasperato.

«Io pensavo che soltanto Daron sbavasse nel sonno» osservai.

«Cazzo, smettetela!» si lagnò ancora il bassista.

«Ti vogliamo bene, non fare così» lo rassicurò Leah in tono ironico, accarezzandogli la schiena.

Tra quei due era davvero cambiato qualcosa, ne ero certo. E forse neanche loro se n'erano accorti, forse non riuscivano a capirlo, ma era come se cercassero un perenne contatto fisico, come se non potessero stare lontani neanche per un secondo.

Era buffo, però ero proprio contento per Shavo: almeno lui avrebbe potuto concludere qualcosa, a differenza mia.

Una volta in albergo, Bryah mi sussurrò: «Vado a sondare il terreno con Leah».

«Cosa intendi fare?» mi preoccupai.

«Sono una giornalista. Fidati di me» disse soltanto, poi si avvicinò all'altra ragazze e le propose di andare in spiaggia insieme.

Così le due si accordarono per ritrovarsi nella hall poco dopo e si avviarono verso le loro stanze.

Anche io e Shavo salimmo al terzo piano insieme a Leah, godendoci lo spettacolo che si estendeva sotto di noi; l'ascensore panoramico riusciva sempre a incantarmi, era impossibile distogliere lo sguardo dalla spiaggia dorata e dall'infinità del mare.

«Voi venite con noi in spiaggia?» ci chiese Leah, fermandosi di fronte alla porta della sua stanza.

Declinammo l'invito e ci accordammo per vederci più tardi.

«Oggi non usciamo, vero? Io sono distrutto» mormorò Shavo, sbadigliando rumorosamente.

«Come volete» disse Leah. «Tu sicuramente non vai da nessuna parte. Direi che possiamo starcene belli e tranquilli in terrazza.»

«Concordo» affermai.

«Allora è deciso. A dopo, belli! Fate i bravi!» ci salutò Leah, passando distrattamente una mano sul braccio di Shavo.

Una volta rimasti soli in corridoio, decidemmo di andare a controllare che Daron fosse ancora vivo.

Ci aprì, mostrandosi piuttosto stralunato: indossava una camicia hawaiana troppo larga su un paio di bermuda verde militare. Era scalzo e teneva tra le dita uno spinello.

«Qualcosa non va?» gli domandò Shavo, spingendolo dentro, dato che il chitarrista non accennava a spostarsi.

«Direi di no... ehi, state invadendo la mia privacy!» ringhiò Daron poco convinto.

«Che casino questa stanza!» mi lasciai sfuggire, tappandomi teatralmente gli occhi con le mani.

«Fatti i cazzi tuoi, Dolmayan.»

Il bassista si fermò accanto alla portafinestra che conduceva al piccolo balcone di cui la camera disponeva. «Sei di malumore» constatò con cautela, studiando i movimenti nervosi del nostro amico.

«E allora?» esplose Daron, serrando la mano libera e premendosela sulla fronte.

«Cosa è successo?» gli chiesi, posandogli gentilmente una mano sulla spalla. Avvertivo chiaramente la tensione in lui, tremava e riusciva a stento a stare fermo.

«Non è successo un cazzo, okay?» sbottò il chitarrista, scrollandosi le mie dita di dosso.

«Okay, Johnny, lasciamolo in pace. Ma, ehi, Daron... se hai voglia di sfogarti ci puoi chiamare, lo sai, vero?» si arrese Shavo. Doveva essere piuttosto stanco e non aveva molta voglia di discutere o insistere con Daron.

«Sì, sì...»

«Stasera non usciamo, ci troviamo tutti in terrazza anche con Bryah e Leah. Vieni anche tu?» domandai, sperando che quella notizia gli facesse piacere.

Il chitarrista scrollò le spalle. «Non so» si limitò a replicare in tono piatto.

«Ricevuto, ce ne andiamo» concluse infine il bassista, afferrandomi per un braccio e trascinandomi via.

Avrei giurato che Daron, poco prima di sbatterci la porta in faccia, stesse trattenendo a stento le lacrime. Quel ragazzo mi preoccupava sempre più e non sempre sapevo come prenderlo.

Una volta in camera nostra, Shavo si buttò sul letto e sbadigliò per l'ennesima volta.

«Hai dormito in spiaggia e hai ancora sonno?» lo punzecchiai. Mi posizionai in piedi di fronte all'armadio ed esaminai i miei indumenti alla ricerca di qualcosa da indossare dopo la doccia.

«Ho dormito pochissimo» ammise il mio amico, mettendosi su un fianco e socchiudendo gli occhi.

Rimasi un attimo in silenzio, poi osservai: «Tu e Leah state bene insieme. Noto una buona intesa tra voi due».

Il bassista riaprì di scatto gli occhi e tossicchiò. «Ma su, non esagerare...» minimizzò. «Piuttosto, tu vorresti farti la giornalista, non è così?» insinuò.

«Ha un compagno» gli feci notare.

«Ah sì? E che importa?»

«Smetti di parlare come Daron» lo rimbeccai.

Shavo rise. «Dai, siamo in vacanza. Ti dovrai pur divertire, no?»

«Mi sto divertendo.»

Ci fissammo per un po', e anche se non ci scambiammo delle altre parole, sapevo che Shavo riusciva a leggere nei miei occhi e a capire che in realtà ero un po' deluso. In certi momenti mi veniva quasi voglia di comportarmi come il nostro screanzato chitarrista, ma subito dopo i sensi di colpa mi invadevano e me lo impedivano categoricamente.

Sorrisi debolmente al mio amico e mi infilai in bagno. Dovevo ragionare in modo razionale e non farmi turbare troppo da ciò che mi stava capitando durante quella strana vacanza: avevo dei progetti da tenere a mente, dovevo continuare a studiare quei ritmi dispari sulla batteria e poi ci sarebbe stato il concerto al Dodger Stadium.

La mia vita sarebbe andata avanti a prescindere, anzi, era già andata avanti ancor prima che potessi viverla.

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Capitolo 19
*** Dam ***


ReggaeFamily

Dam

[Daron]




«Hai frugato nel mio cellulare.»

«No.»

«No? E allora come hai fatto a segnare il tuo numero nella mia rubrica?»

«Segnare un numero non vuol dire frugarti il cellulare, bello.»

«Per me vuol dire proprio questo.»

«Non te la prendere, dai...»

«Me la sono già presa. Odio chi invade la mia privacy.»

«Dovresti impostare il blocco sulla schermata iniziale allora.»

«Se il cellulare è senza blocco, non significa che chiunque possa ficcare il naso nelle mie cose.»

«Già, le tue cose... quelle cose porno che ci sono dentro, ecco cosa ti preoccupa, Daron.»

«Non gridare.»

«Scusa, amico. Non te le ho cancellate, tranquillo.»

«Sei una stronzetta.»

«E tu sei terribilmente sexy.»

«Questo cosa c'entrava?»

«Facciamo un patto: ci divertiamo insieme e io farò finta di non aver conservato una copia di quei video sul mio cellulare. Ho riconosciuto quelle ragazze, sono state ospiti qui in albergo nei giorni scorsi.»

«Mi stai ricattando? Stai davvero osando fare una cosa del genere? E dopo aver invaso la mia sfera privata, per giunta...»

«Prendila come vuoi. È solo un'idea.»

«Bastarda.»

«Sarà divertente sentire i tuoi insulti quando saremo soli e ti farò impazzire.»

«Non se ne parla.»

«Pensaci. Ti conviene.»


Ero incazzato come una iena. Prima di tutto, lo ero con me stesso per la mia solita sbadataggine, per aver dimenticato il cellulare in giro, lasciandolo alla portata di chiunque; se non ci fossero state le immagini compromettenti che ritraevano Ashley e Kelly, forse non mi sarebbe importato nulla. Ma ora ero nella merda fino al collo. Ed ero infuriato anche con quella cameriera impicciona che ora voleva fottermi, sotto tutti i punti di vista.

Come riuscissi a cacciarmi sempre in situazioni del cazzo, proprio non me lo sapevo spiegare.

Da quando avevo incontrato Lakyta, poche ore prima, non ero più riuscito a darmi pace: non facevo che domandarmi se accettare o meno la sua proposta, anche perché stavolta non mi sarei potuto tirare indietro com'era capitato con le due groupies. Probabilmente Lakyta si comportava in quel modo con più di un cliente, forse era abituata ad abbordare gli uomini in quel modo, sentendosi frustrata per il lavoro che svolgeva. Avevo sentito dire che aspirava a diventare un'attrice e trasferirsi a Hollywood, quindi era palese che avesse qualche problema di autostima se ancora sfaccendava dietro il bancone di un bar.

Se c'era una cosa che mi era chiara, da quando ero arrivato allo Skye Sun Hotel, era che il personale veniva indubbiamente sfruttato: lo avevo capito trovando spesso Alwan in terrazza a tutte le ore del giorno, così come il povero receptionist che avevo maltrattato non appena avevo messo piede in albergo. Anche per Lakyta doveva essere lo stesso, ecco perché cercava in tutti i modi di crearsi un diversivo. In fondo, molto in fondo, la capivo.

A niente era servito il tentativo di Shavo e John che, di ritorno dalla città, erano passati a trovarmi e si erano accorti del mio malumore; avevano provato a fare breccia nella mia rabbia, ma li avevo cacciati via in malo modo. Ero fortunato ad averli come amici, perché loro difficilmente si incazzavano con me se li trattavo male e mi chiudevo in me stesso. Se la prendevano maggiormente per i guai che combinavo, ma quella era tutta un'altra storia.

Durante il pomeriggio, dopo aver saltato il pranzo, ero rimasto in camera a fumare e suonare come un ossesso, finendo sempre sulle stesse note: quelle di Dam.

Ora quel brano non mi lasciava più in pace, mi tormentava anche mentre costringevo me stesso a uscire da quell'antro infernale in cerca di cibo; era quasi ora di cena, ma io stavo svenendo dalla fame e non avrei aspettato oltre.

Evitai di salire in terrazza, non volevo incontrare nuovamente Lakyta. Mi diressi invece nel bar al piano terra: esso sorgeva poco distante dal ristorante, era piccolo e accogliente, dipinto nelle varie tonalità del rosso che caratterizzavano le palazzine dell'hotel; era punteggiato da qualche tavolino all'interno, ma la maggior parte dei posti a sedere si trovava in una piccola veranda sull'esterno, la quale affacciava direttamente sulla spiaggia privata che Leah chiamava Buts. Sul bancone, un cartello annunciava che era possibile affittare dei pedalò o delle piccole imbarcazioni per fare una bella gita sull'oceano.

Mi accostai in fretta e furia al barista, un uomo sulla quarantina, scuro di pelle, alto e massiccio.

«Potrei avere uno yogurt?» domandai senza preamboli, sentendo lo stomaco brontolare sonoramente.

«Salve» mi apostrofò lui in tono ironico. «Come, prego?»

Sollevai gli occhi al cielo. «Già, salve. Vorrei uno yogurt.»

«Che gusto preferisce?» si informò allora lui, indirizzandomi un sorrisetto compiaciuto.

Stavo per rispondergli in modo sgarbato, ma venni distratto da due figure che facevano il loro ingresso nel bar e si accostavano al bancone. Si trattava di Leah e Bryah, la giornalista che John aveva adocchiato. O forse era meglio dire che lei aveva adocchiato il batterista? Non ne avevo idea.

«Ciao Daron!» mi salutò allegramente Leah, picchiettandomi sulla spalla. «Cos'è quella faccia da funerale?»

Scossi il capo e tornai a concentrarmi sul barista, il quale mi fissava con aria spazientita e tamburellava con due dita sul bancone.

«Cocco e ananas» bofonchiai.

«Gradisce dei cereali o della granella di nocciola?» indagò ancora il barista, voltandosi verso un enorme frigorifero che stazionava alle sue spalle.

«Entrambi» confermai.

«Hai fame, eh?» interloquì Leah.

«Non ho pranzato» spiegai in tono piatto.

«Mi sa che è un brutto segno, amico» fece la giornalista, per poi scoppiare a ridere seguita dall'altra ragazza.

Le osservai perplesso. Quelle due erano già diventate amiche? Certo che ce ne avevano messo poco di tempo...

il tipo dietro il bancone posò la mia ordinazione sul ripiano in legno chiaro. «Prego» concluse, per poi rivolgersi alle due ragazze: «Cosa posso servirvi, signorine?».

Smisi di ascoltare i loro discorsi, afferrai l'enorme tazza di plastica stracolma di yogurt, cereali e granella di nocciola e uscii sulla veranda. Mi guardai intorno e decisi di sedermi a un tavolino appartato, in modo da poter mangiare in pace e rimanere per i fatti miei.

Trovai un posto dietro un separé in bambù e mi sistemai comodo, osservando con soddisfazione la mia merenda. Afferrai il cucchiaino e cominciai ad abbuffarmi, senza più preoccuparmi di guardarmi intorno o di riflettere su ciò che mi aveva tolto l'appetito.

Poco dopo, notai con la coda dell'occhio Leah e Bryah sedersi dall'altra parte del separé; evidentemente non mi avevano notato, poiché erano impegnate a non lasciar sciogliere il loro gelato e a parlare tra loro.

Senza smettere di mangiare, mi ritrovai ad ascoltare la loro conversazione.

«Sai, mi dispiace dover ripartire presto per la città» stava dicendo la giornalista.

«Anche a me dispiace. Però puoi tornare a trovarci quando vuoi, non sei lontana!» le fece notare la più giovane.

«Hai ragione. In effetti mi dispiacerebbe non continuare a conoscere te e i ragazzi...»

«Sei dolce, Bryah. Ma, senti, lo so che sono indiscreta, infatti molte persone non riescono a sopportarmi per questo... ma qualcuno di loro ti piace? Ho notato un certo feeling con John...»

Mi venne da ridere: Leah era sempre la solita, non sarebbe mai cambiata. Un po' mi assomigliava, perché era sempre indiscreta, ma odiava che gli altri lo fossero con lei.

La giornalista ridacchiò. «Potresti fare il mio mestiere, sei audace e sfacciata, e questo potrebbe esserti molto utile. Comunque ho un compagno, John non mi piace, non in quel senso almeno. Lo trovo interessante, tutto qui. Mi ha spiegato un sacco di cose interessanti sugli strumenti che suona...»

«Davvero? Io non so tanto di lui, è una persona molto riservata. Cerco in tutti i modi di parlare con lui, ma si apre difficilmente con chi non conosce» ammise Leah.

«Anche con me ha parlato poco, non pensare... ma a te non sembra di aver già visto questi ragazzi da qualche parte?» chiese all'improvviso Bryah.

Drizzai maggiormente le orecchie e rimasi con il cucchiaino pieno di yogurt a mezz'aria, finendo per farlo sgocciolare sul tavolo. Non capivo dove la giornalista volesse andare a parare.

«Ecco...» Leah rifletté un attimo prima di proseguire. «In realtà... in che senso?»

«Dai Leah, ho capito che sai chi sono questi ragazzi» insistette Bryah.

La prima impressione che avevo avuto su quella donna non si era rivelata errata: stava cercando di metterci nella merda, rivelando a Leah qualcosa che lei non sapeva.

«Okay.» La più giovane sospirò. «So chi sono, lo ammetto. Li ho riconosciuti fin dal primo momento, ma...»

Mi venne subito l'impulso di alzarmi e raggiungerle. Non potevo credere alle mie orecchie: se mi aspettavo che la giornalista fosse sleale nei confronti di John, mai avrei immaginato che Leah stesse mentendo spudoratamente fin dal principio. Tuttavia, mi costrinsi a rimanere seduto e feci di tutto per calmarmi e non agire in maniera impulsiva.

La cosa che mi faceva innervosire maggiormente era che Shavo si stesse evidentemente invaghendo di quella ragazza, la stessa che ora stava ammettendo di sapere esattamente che io e i miei amici fossimo parte dei System Of A Down, la stessa che sembrava non sapere nulla in proposito e che aveva finto di credere che le groupies avessero scambiato Shavo per una rock star.

Ma forse anche noi stavamo sbagliando qualcosa: le stavamo mentendo, o stavamo soltanto omettendo un piccolo dettaglio sulla nostra vita professionale? Era così importante che lei sapesse chi eravamo? Forse per me non lo era, ma per Shavo? Non ci capivo più un cazzo, seriamente.

Ma la domanda principale era: perché quella vacanza teoricamente rilassante si stava trasformando sempre più in uno sfacelo?

«Ma...?» Bryah incalzò Leah.

«Non mi è sembrato opportuno dirglielo. Insomma, immagino che siano venuti qui per trascorrere una bella vacanza in pieno relax, non per essere perseguitati da fan deficienti ed esaltati.»

La giornalista sospirò. «Pensi che il vostro rapporto non sarebbe diventato così forte se tu...»

Leah la interruppe: «Esatto. Forse loro non si sarebbero mai fidati di me, mi avrebbero considerato una fan come tante altre, come quelle che li hanno importunati qui in albergo».

«E forse Shavo non si sarebbe legato a te, non è vero?» insinuò ancora la giamaicana, utilizzando un tono malizioso.

«Io... già, ecco... ma io non avrei mai pensato che con Shavo...» balbettò Leah, e per una volta rimase quasi senza parole.

«Chi è il tuo preferito?» volle sapere l'altra.

«Musicalmente, dici? Be', ecco... mi ha sempre ispirato molto Serj, ma lui non c'è...»

Non riuscivo più ad ascoltare quelle cazzate. Possibile che Leah stesse usando noi, e soprattutto Shavo, per arrivare al nostro cantante? Non volevo crederci, non poteva essere.

«Tankian è un genio indiscusso, ma io propendo sempre per il batterista. Sarà che il suo strumento mi ha sempre affascinato» commentò la giornalista.

«Ma Bryah... ora come faccio? Ci pensavo da un po', sai... come faccio a dirgli che so chi sono?»

«Perché dovresti dirglielo? Secondo me lo hanno capito. Ti rivelo un segreto: John ha qualche sospetto in merito.»

Leah rispose dopo qualche secondo. «Merda! Ma io non vorrei che loro pensassero... non vorrei che Shavo...» Si interruppe.

«Hai perso la testa per il bassista, eh?» la punzecchiò l'altra, per poi ridacchiare.

«Non voglio deluderlo, tutto qui» concluse Leah. «Ma non parliamone più, mi viene il malumore al solo pensiero che... senti, andiamo? Sono stanca di stare seduta qui» aggiunse, alzandosi di scatto dalla sedia.

Io sollevai a mia volta lo sguardo e proprio in quel momento i nostri occhi si incrociarono. La ragazza rimase pietrificata, poi afferrò bruscamente il braccio di Bryah e la trascinò verso l'interno. Non so cosa esattamente avesse percepito in me, ma sicuramente aveva capito che avevo scoperto il suo piccolo segreto.

E ora, cosa potevo fare? Si era aggiunto un altro problema all'infinita lista di quelli già esistenti.

Cazzo.


L'atmosfera in terrazza era rilassata, contrariamente a quanto mi sarei aspettato: sedevamo tutti insieme intorno a un tavolino e chiacchieravamo tranquillamente.

Io ero pensieroso e non partecipavo più di tanto alle conversazioni, anche perché ero intento a osservare Leah che evitava accuratamente di rivolgermi qualsiasi tipo di attenzione.

Feci scattare l'accendino e riaccesi la canna che stringevo tra le dita; la riportai alle labbra e aspirai, poi notai che Alwan si avvicinava a noi per chiederci se volessimo bere qualcos'altro. Avevamo già fatto un giro di drink e a me non dispiacque affatto ordinarne un altro.

«Vodka liscia? Sicuro?» mi domandò il barista, strizzandomi l'occhio.

«Sicurissimo» confermai.

«Senti, qui ci si annoia... non è che ti va di portare su la chitarra?» mi propose all'improvviso il ragazzo, indirizzandomi un sorriso complice.

«Perché no? Oggi ho una voglia matta di suonare, non immagini neanche quanta...» ammisi, per poi ricambiare il sorriso e alzarmi. «Grazie, amico, non potevi farmi una proposta migliore.»

«Ma figurati! Vorrei poter suonare con te, ma purtroppo devo lavorare...»

Intanto la stecca che tenevo tra le dita si era nuovamente spenta, così feci scattare ancora l'accendino e presi un'altra boccata. «Peccato. Sarà per la prossima, non mancherà occasione.» Dopodiché mi avvicinai a Shavo e gli porsi la canna. «Vado a prendere la chitarra, finiscila tu se vuoi.»

«La chitarra?» esclamarono in coro Bryah e Leah.

Annuii e mi avviai verso l'ascensore. Nel giro di dieci minuti fui di ritorno, tenendo in mano una chitarra acustica che mi ero portato dietro da Los Angeles. Avevo evitato di portarmi appresso i miei gioiellini preferiti per evitare che si rovinassero, potevo accontentarmi di quell'oggetto per un po'.

«Ho qui un jack! La vuoi amplificare?» accorse subito Alwan, stringendo tra le mani un cavo nero.

«Se non abbiamo un microfono, non penso sia sensato» commentai.

«Un microfono... no, niente da fare. Allora dovrai un po' sgolarti» rispose il barista desolato.

«Nessun problema, lo faccio sempre» scherzai.

Lui posizionò uno sgabello poco distante dal bancone e mi fece segno di accomodarmi; poi notai che armeggiava ancora dietro la sua postazione e ne uscì con uno djambé tra le mani. «Ho solo questo, non ho altri strumenti» annunciò.

Notai che John si alzava di tutta fretta dalla sedia e ci raggiungeva con gli occhi che brillavano. «Quello è mio!» esclamò tutto contento.

«Sbaglio o stiamo allestendo un set acustico?» feci notare al batterista, mentre Alwan portava uno sgabello anche per lui.

«Io faccio il video!» strillò Shavo con il suo cellulare in mano.

Scambiai un'occhiata con John e presi a strimpellare distrattamente, per poi ritrovarmi a riprodurre le stesse note che mi avevano angosciato durante tutto il pomeriggio.

Allora John prese a picchiare con le dita sul tamburo che aveva posizionato tra le sue cosce, andando a ritmo e annuendo tra sé; doveva aver riconosciuto il brano che stavo suonando.

Poco dopo, con gli occhi fissi sulle corde della chitarra, intonai:


Dam you

Stay away from me

I got a disease

Everyone is sleeping


Sollevai un attimo lo sguardo e notai che diverse persone mi ascoltavano e assistevano alla nostra esecuzione con curiosità e interesse: c'erano Leah e Bryah che ci fissavano incantate, c'era Medison che mi sorrideva appena dal fondo della terrazza, c'era Alwan che annuiva mentre si aggirava per i tavoli, e c'erano diversi clienti che sembravano apprezzare ciò che io e John stavamo facendo.

Ripresi a cantare:


I hate you

For putting faith in me

For putting faith in me

Everyone is sleeping


E proseguii a ripetere all'infinito le ultime tre parole, improvvisando un assolo e notando che John ci prendeva la mano con quel tamburo africano, come se si trovasse magicamente nel suo elemento e non riuscisse più a staccare le mani dalla pelle dello djambé.

«Siete forti! Ma adesso fate qualcosa di più allegro, dai!» ci incitò Shavo, senza smettere di filmare.

A quel punto John cominciò a eseguire un ritmo incalzante e allegro, che spingeva i presenti a muoversi a tempo; poco dopo presi ad accompagnarlo con il mio strumento, eseguendo un ritmo in levare.

Notai Leah che si alzava e trascinava Bryah con sé. Le due si avvicinarono a noi e presero a ballare a ritmo di musica, agitando le braccia e gridando come pazze. Mi ritrovai a cantare un famoso brano di Marley di cui non riuscivo momentaneamente a ricordare il titolo, ma le parole erano chiare e limpide nella mia mente.


Hey, mister music, sure sounds good to me
I can't refuse it, what to be got to be
Feel like dancing, dance 'cause we are free
Feel like dancing, come dance with me


Fu bello notare che tutti ballassero e cantassero con noi, e anch'io mi ritrovai in piedi a pascolare per la terrazza con la chitarra in braccio e un sorriso compiaciuto stampato sul viso.

Per quella sera volevo dimenticare, e non c'era niente che potesse realizzare quel mio desiderio se non la musica, la mia chitarra, la mia voce che intonava note.

Non mi preoccupai di stonare, di suonare bene, di fare ciò che un buon musicista avrebbe dovuto fare, ciò che John stava facendo; no, smisi di pensare e mossi le dita sulle corde, facendole vibrare insieme alle mie corde vocali e a quelle emozioni che solo la musica sapeva darmi.

Ero talmente preso da ciò che stavo facendo e dall'atmosfera che si era creata, che non mi curai di star sorridendo a Leah come se non avessi scoperto le sue menzogne.

Quella sera dimenticai, mi persi tra le note e avrei voluto non ritrovarmi mai più.




Carissimi lettori, rieccomi con un nuovo capitolo!

Cosa ne pensate di questi sviluppi della trama?

Ma sono qui per fare, come sempre, delle piccole annotazioni sul capitolo.

Se qualcuno non sa cos'è lo djambé, ovvero il tamburo che John si ritrova a suonare durante questa bizzarra jam session molto improvvisata, date un'occhiata alle immagini su Google e sono certa che capirete subito di che si tratta ^^ è una bellissima percussione africana che ci stava proprio bene con l'atmosfera della serata!

Passando ai brani citati...

Dam è qualcosa di molto particolare e struggente – a mio parere – che mi fa sempre pensare all'animo tormentato del nostro caro chitarrista; vi lascio qui il link per l'ascolto:

https://www.youtube.com/watch?v=dKHF-5nPcOs

Non so se il testo sia giusto, capirete da voi che non si capisce molto bene cosa dice Daron in questa canzone, ma cercando su internet ho trovato varie versioni... qualcuno di voi – tipo Stormy – mi sa dire quale sia il testo esatto? :D merci!

Poi, la canzone di Bob Marley che Daron canta è Roots, Rock, Reggae; ecco il link:

https://www.youtube.com/watch?v=MJB5L9F05tc

Spero vi piaccia anche questo brano ^^

Bene, vi saluto e vi ringrazio di cuore, come sempre, per tutto il sostegno che mi state dando :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 20
*** Tonight may be our Last ***


ReggaeFamily

Tonight may be our Last

[Leah]




«Una gita in pedalò?»

«Sì. Che c'è di male?»

«Shavarsh, finiresti per sentirti male...»

«Ma il mare è piatto come una tavola! Dai, Leah!»

Io e Shavo ci trovavamo in terrazza; da poco si era conclusa la folle serata durante la quale Daron e John avevano suonato per un tempo indefinito e tutti noi avevamo ballato e cantato con loro. Era stato bello, mi aveva permesso di liberare la mente da tutto ciò che mi stava capitando.

Mi sentivo fottutamente in colpa per un sacco di motivi: avevo rivelato a Bryah di sapere che Shavo e i suoi amici facevano parte di una band famosa, ma tutto si era aggravato quando mi ero accorta che Daron aveva ascoltato la nostra conversazione.

Ora non riuscivo a sostenere lo sguardo del bassista che in quel momento, in piedi di fronte a me, cercava di trasmettermi un entusiasmo che io non riuscivo a provare.

«Vedremo domani. Può essere che si alzi il vento e...» replicai ancora, distratta dai mille pensieri che mi vorticavano in mente.

«Non hai voglia di vivere, ragazza mia! Sei ancora fusa dalla sbronza di ieri sera?» mi apostrofò ancora lui, appoggiandosi con i gomiti sulla balaustra.

Scossi lentamente il capo e mi soffermai a osservare Shavo: portava un cappellino da baseball nero a ombreggiare il viso disteso in un'espressione serena; il suo profilo si stagliava nella semioscurità, e soltanto i suoi occhi scuri brillavano ed erano capaci di scaldarmi il cuore. Mi resi conto che lui si fidava di me, che aveva fatto già tanto per aiutarmi e per farmi sentire a mio agio, nonostante ci conoscessimo da quattro giorni soltanto.

All'improvviso avrei voluto scappare, correre via e scendere le scale, poi rifugiarmi dai miei gatti e lasciare che fossero loro a consolarmi e a essere gli unici testimoni delle lacrime che trattenevo a stento. Per contro, avrei voluto gridare tutta la verità e liberarmi da quel peso che mi gravava sul cuore. Perché avevo deciso di mentire? La verità era che non avrei mai immaginato si creasse un rapporto così forte e intenso con quei ragazzi, ma soprattutto non avrei scommesso un centesimo sul fatto che mi sarei sentita irrimediabilmente calamitata verso il bassista.

Quest'ultimo si accorse del mio sguardo e si voltò a osservarmi, senza smettere di sorridere.

«Che succede? Sei silenziosa...» commentò, sollevando una mano e sfiorando appena i miei capelli con le dita.

Mi ritrovai a rabbrividire e scossi il capo. «Ma niente... non c'è niente che non va» mormorai.

«Leah, ho imparato in poco tempo a conoscerti, almeno un po' e... sento che c'è qualcosa che ti preoccupa. Si tratta di tuo padre?» Shavo mi scostò delicatamente una ciocca di capelli dal viso e rimase a guardarmi con attenzione.

Lo sentivo così vicino a me e sentivo che avrei voluto scappare e gettarmi tra le sue braccia contemporaneamente. Era qualcosa di pazzesco, indescrivibile, terribile.

«È tutto okay. Davvero! Se domani vuoi andare in pedalò, ci andremo» tagliai corto, indietreggiando appena per evitare che continuasse a toccarmi. Mi sentivo in subbuglio e non potevo approfittare di quella situazione, non prima di avergli detto la verità. Ed era questo il problema: come potevo fare? Maledizione!

«Ma forse non sarà possibile» osservò il bassista, aggrottando le sopracciglia e scrutando l'orizzonte alle mie spalle.

Mi voltai e seguii il suo sguardo, notando che in lontananza delle strane luci lampeggiavano. Udii dei rombi distanti, e compresi a cosa lui stesse alludendo. «Temporale in arrivo» borbottai.

«A quanto pare... spero solo che non sia troppo violento» rifletté Shavo.

«Hai paura?» gli chiesi, riportando la mia attenzione su di lui.

«Non io» ammise. «John.»

Rimasi basita e sgranai gli occhi. «John ha... paura del temporale?! Assurdo!» Scoppiai improvvisamente a ridere e mi beccai un'occhiataccia dal mio interlocutore.

«Non c'è niente da ridere, Leah» disse serio.

Mi zittii immediatamente. «Scusa, sono sempre la solita! Okay, ma com'è possibile? John è un omone grande e grosso e ha paura del temporale?»

«Gli dà la sensazione di perdere il controllo. Sa che le calamità naturali non si possono tenere a bada come vorrebbe. Gli viene l'ansia e rimane fermo e zitto finché non passa, cercando di nascondere la sua paura e chiudendosi in se stesso.»

«Ma voi ovviamente lo sapete, a voi non può nasconderlo» commentai.

Shavo annuì. «Però è terribile vederlo in quelle condizioni. Trema e sembra totalmente diverso da com'è di solito. Immagino che si sforzi un sacco per non nascondersi da qualche parte come un bambino.»

«Addirittura? Povero John, mi dispiace...» sussurrai costernata. Non avrei mai immaginato qualcosa del genere, sul serio, ero piuttosto sconvolta.

«Già.»

MI accostai a Shavo e cercai nuovamente un contatto con lui, afferrando la sua mano e stringendola forte. «Andrà tutto bene. Se diluvia, possiamo cercare di distrarre John in qualche modo. Puoi venire a svegliarmi a qualsiasi ora della notte e ti prometto che troveremo una soluzione. Va bene?»

Shavo mi guardò intensamente negli occhi ed ebbi più volte l'impulso di distogliere lo sguardo, ma mi costrinsi a sostenerlo per evitare che mi considerasse una stupida.

«Grazie» disse infine.

«Per cosa?»

«Potresti fregartene, potresti pensare solo a te stessa, potresti... oh, non so. Invece sei sempre qui, sei sempre pronta ad aiutarci.» Mentre parlava, Shavo intensificò la stretta sulla mia mano e mi trasse più vicino a sé, senza neanche accorgersene. «Perché lo fai?» mi chiese a bruciapelo.

Avvertivo il calore del suo corpo, l'odore che emanava mischiarsi a un leggero aroma di marijuana, le sue dita sulle mie. Era qualcosa che mi stava mandando in tilt, e anche io mi sentivo come John in quel momento: era come se stessi perdendo il controllo, ma non ero certa che quella sensazione mi piacesse.

«Mi va di farlo, siete dei bravi ragazzi» risposi sincera.

Shavo sorrise e lasciò andare la mia mano, come se si fosse improvvisamente accorto della nostra vicinanza e temesse di darmi fastidio.

«Mi fa piacere che tu lo pensi» concluse.

Intanto i rombi dei tuoni si facevano sempre più vicini, così il bassista decise di tornare in camera sua e raggiungere John, in modo da essere presente in caso di necessità.

Ci separammo fuori dalla porta della sua stanza, ma prima di andarmene dissi: «Svegliami se ti serve aiuto».

Lui si accostò a me e mi sorprese, regalandomi un breve abbraccio che fu comunque capace di mozzarmi il fiato. «Certo. Grazie ancora Leah.»

Prima che potessi decidere se ricambiare o meno il suo gesto, lui mi lasciò andare e rientrò in camera sua.

Rimasi impalata per un attimo, ma subito dopo i sensi di colpa mi trafissero il petto. Stavo cominciando a trovare pesante e insostenibile quella situazione, sentivo sempre più la necessità di parlare chiaramente con i ragazzi e spiegare loro cosa mi aveva portato a fingere di non averli riconosciuti.

Anche perché Daron non avrebbe tenuto la bocca chiusa per sempre, ne ero quasi certa.


Mi risvegliai bruscamente nel bel mezzo del temporale, ma mi accorsi solo dopo qualche minuto che qualcuno bussava insistentemente alla mia porta. Afferrai il cellulare e controllai l'orario: erano da poco passate le tre del mattino e compresi di aver dormito a occhio e croce un'ora e mezza. Fantastico.

Un lampo illuminò a giorno la mia stanza, creando un effetto spettrale che faceva pensare a un vecchio film horror in bianco e nero; poi il rombo assordante del tuono squarciò l'aria e fu immediatamente seguito da altri tre colpi alla mia porta.

Scesi dal letto, accorgendomi di essere completamente sudata a causa dell'afa che ristagnava nella mia stanza. Allora mi ricordai di ciò che avevo promesso a Shavo e mi precipitai ad aprire, immaginando che lui avesse bisogno di me.

Improvvisamente lucida, spalancai la porta e mi ritrovai di fronte Daron.

«Cosa vuoi?» lo apostrofai, asciugandomi il sudore dal viso.

«Mi manda Shavo» replicò senza scomporsi. «Dice che dovresti raggiungerlo. Non so perché abbia chiesto di te, ma siamo già in una situazione del cazzo e...»

«Mi ha raccontato di John» lo informai.

«Ah.» Il chitarrista sospirò appena. «Sai un po' troppe cose, ragazzina.»

«Daron...»

«Non mi piace come ti stai comportando. Hai intenzione di mentire ancora?» proseguì imperterrito.

«Ti prego, possiamo parlarne domani?» lo implorai, richiudendomi la porta alle spalle. Non mi ero neanche preoccupata di indossare un paio di pantofole e mi accorsi troppo tardi di avere addosso soltanto una canottiera e un paio di shorts striminziti.

«Voglio solo che tu sia sincera con Shavo» affermò Daron, ignorando la mia richiesta.

«Ma io...»

«Di me me ne fotto, posso passarci sopra. Un po' ti capisco, io e te ci assomigliamo. Ma Shavo è diverso, è sensibile... ora si fida di te, cerca di non deluderlo. Parlagli al più presto» aggiunse ancora.

Stavo per ribattere, quando dalla stanza di Shavo e John si udì un grido.

«John!» strillò il bassista.

Senza pensarci due volte, ci affrettammo a raggiungere i ragazzi.

Quando misi piede nella camera, notai che Shavo era inginocchiato sul letto di John e lo scuoteva per le spalle; il batterista, tuttavia, era immobile e non sembrava volergli rispondere.

Il rombo di un altro tuono riecheggiò nel silenzio della notte e vidi che il batterista sobbalzava, per poi riprendere a tremare. Era seduto con la schiena contro il muro e stringeva tra le dita il bordo del lenzuolo. Immaginai che stesse compiendo uno sforzo enorme su se stesso per non cedere al panico e per controllare il più possibile le sensazioni negative che il temporale gli provocava.

«Ehi ragazzi!» esclamai, fingendomi tranquilla e allegra. «Chi di voi ha voglia di fare un po' di casino? Quest'albergo è una noia... sapete una cosa? In camera ho uno stereo portatile, lo sistemiamo qui da voi e facciamo baldoria! Io non ho sonno!» proseguii, sperando che la mia idea venisse apprezzata.

«Sul serio?» strepitò Daron in tono complice, decidendo di deporre per il momento l'ascia di guerra. «Corri a prenderlo!» mi incoraggiò.

«E tu perché non vai a chiamare Bryah? So che domani riparte per la città, vorrà divertirsi quest'ultima notte!» consigliai al chitarrista, per poi dargli il numero della stanza della giornalista e spedirlo alla sua ricerca.

Shavo mi fissava interdetto, con una mano ancora posata sulla spalla tremante di John. «Potrebbero cacciarci?»

«Macché! Prendo lo stereo e... ehi, avete qualcosa da bere e da mangiare nel mini bar? Io mi porto appresso anche ciò che c'è nella mia stanza. Se poi non ci basta, posso scendere al bar a trafugare qualcos'altro!» continuai a blaterare, avviandomi rumorosamente in camera mia per recuperare i beni di cui disponevo.

Quando tornai, notai che Shavo armeggiava con il suo cellulare. «Colleghiamolo allo stereo, ho un programma per ascoltare musica che dovrebbe fare al caso nostro» annunciò, finalmente contagiato dall'entusiasmo generale.

Gli consegnai lo stereo portatile e posai gli snack e le bottiglie del mini bar accanto al televisore.

John, intanto, ci scrutava con un'espressione indecifrabile, come se si domandasse cosa diamine stessimo combinando.

Poco dopo Daron tornò da noi, seguito da un'assonnata ma sorridente Bryah; era davvero bellissima con indosso una camicia da notte azzurra che le accarezzava appena le ginocchia e i capelli arruffati che sembravano quasi un cespuglio sulla sua testa. Un po' la invidiavo, perché lei era una di quelle donne che potevano risultare sexy senza compiere alcuno sforzo. Io, al contrario, dovevo avere un aspetto orribile.

John, alla vista della giornalista, sgranò appena gli occhi e cercò di darsi un ulteriore contegno. Lei lo notò e lo raggiunse, sedendosi accanto a lui e prendendo a parlargli in tono concitato. Probabilmente Daron le aveva accennato la situazione in cui ci trovavamo.

«Dai! Metti qualcosa di forte o stiamo qui a girarci i pollici?» incitai il bassista, affiancandolo e osservandolo armeggiare con il mio stereo.

Lui annuì e poco dopo dalle casse si diffuse un famoso brano dei The Darkness. «Può andare?»

«Sei un genio, questa è divertentissima!» strillai, poi cominciai a ballare e gridare come una pazza, muovendomi a tempo sulle note di Everybody Have A Good Time.


It’s time to make, a brand new start
Take off your thinking, gotta listen to your heart
Everybody have a good time
Everybody have a crush, alright
Everybody have a good time
For tonight may be our last, alright


Mi precipitai da Bryah e la trascinai con me, sotto lo sguardo divertito di John; il batterista sembrava essersi un attimo ripreso e osservava con interesse le cretinate che stavamo combinando.

Daron diede il via a un coro da stadio pazzesco sul ritornello della canzone e Shavo ispezionò il frigorifero della stanza, portando fuori altre bevande più o meno alcoliche e altro cibo spazzatura.

Si mise ad aprire tutte le confezioni di cibo e ce le distribuì come fossimo mendicanti; mangiammo e ridemmo, sputacchiando il cibo ovunque e trasformando la stanza in una porcilaia. Anche John presto si unì a noi: prese da bere e da mangiare, e su un pezzo degli Offspring notai che accennava qualche passo di danza.

«Shavo, metti Come Out And Play degli Offspring!» gridai, mandando giù una manciata di patatine alla paprika.

Quando il brano partì, mi misi a saltellare sul posto e lasciai cadere quasi tutta l'aranciata mista a whisky presente nel mio bicchiere.


Hey man you talkin' back to me?
Take him out
You gotta keep 'em separated
Hey man you disrespecting me?
Take him out
You gotta keep 'em separated
Hey don't pay no mind
You're under 18 you won't be doing any time
Hey come out and play


«Leah! Hai fatto un casino!» esclamò John, che finalmente sembrava non badare più al temporale e si divertiva con noi.

In effetti, nessuno udiva più quei rombi fastidiosi, nessuno si curava dello scrosciare della pioggia, nessuno si preoccupava dei lampi e del maltempo; eravamo assorbiti dalla musica, dall'alcol, dal cibo e dalle nostre grida.

Daron accese una canna e cominciò a passarcela, ma solo io e Shavo accettammo. Non era mia abitudine fumare, ma ogni tanto mi capitava di farlo. In Giamaica, poi, si creava un'atmosfera secondo la quale mi era quasi impossibile evitare di sentire quel sapore dolciastro e quel bruciore alla gola e ai polmoni, seguiti poi da una sensazione di benessere interiore che mi rendeva allegra e spensierata.

«Com'è che ascolti musica rock, Leah? Io pensavo che ci andassi giù pesante solo con il reggae» mi interrogò John, in un momento in cui mi posizionai di fronte a lui e ballai come una scema, regalandogli delle espressioni il più buffe possibili.

«Il mio primo amore è il rock. Ho scoperto la bellezza del reggae solo da quando vengo in vacanza qui con Alan Moonshift» raccontai, presa dall'entusiasmo e contenta che il batterista si fosse calmato e stesse partecipando attivamente al divertimento generale.

«Sul serio? E quali sono i tuoi gruppi preferiti?» indagò John con un mezzo sorriso, per poi sorseggiare dal suo bicchiere.

«Vado matta per gli Offspring, ma adoro anche i Limp Bizkit e i Rage Against The Machine!»

«Ottimi gusti!» concordò lui, per poi annuire.

«Dai Leah! Cosa metto adesso?» mi gridò Shavo dall'altra parte della stanza.

Quando lo osservai, notai che barcollava leggermente e non riusciva a smettere di ridere. Daron era più o meno nelle sue stesse condizioni, e riusciva a stento a costruire l'ennesima sigaretta a base di marijuana.

Ci pensai su e mi venne un'idea. «Aspetta, vengo io a scegliere qualcosa!» affermai, raggiungendo la postazione in cui si trovava lo stereo.

«Daron, ti aiuto io... stai spargendo tutta l'erba in giro, che coglione!» gridò il bassista, e i due presero a battibeccare tra loro.

Cercai lo sguardo di Bryah, la quale se la rideva in un angolo con in mano un bicchiere di succo d'arancia. Mi aveva rivelato di essere astemia e io ero contenta per lei, perché l'alcol non sempre portava a qualcosa di buono.

Poi feci partire un brano, e tutti i presenti si immobilizzarono all'improvviso e mi fissarono interdetti, smettendo di compiere qualunque cosa e troncando ogni conversazione.




Cari ragazzi miei, come butta?

Torno a rompere dopo... be', dopo Il Concerto dei System Of A Down, dopo l'esperienza più bella ed emozionante della mia vita; vi assicuro che sono stata a diversi concerti, anche di artisti piuttosto famosi e veramente bravi, ma i SOAD sono stati per me la perfezione, hanno fatto sì che per la prima volta trascorressi quasi tutto il live in lacrime... ora capisco cosa prova chi racconta che ha passato tutto il tempo di uno spettacolo con le lacrime agli occhi e la voce tremante, incapace anche di cantare tutte le canzoni... ora sì, lo so anche io cosa vuol dire.

Lo so e non lo saprei descrivere, lo so e allo stesso tempo ho come l'impressione di non averlo realmente vissuto.

Ho realizzato il mio più grande sogno a livello musicale e non riesco ancora a realizzarlo. È grave?

Ora la smetto, promesso, passo alle note sul capitolo ^^

Parliamo subito dei brani che ho inserito nel capitolo, entrambi dalle sonorità molto allegre, anche se il secondo ha un testo non proprio festoso e leggero come il primo.

Ecco a voi il link per l'ascolto di Everybody Have A Good Time dei The Darkness, che a me piace un sacco e mi mette moltissima carica e allegria addosso:

https://www.youtube.com/watch?v=ManSxjZKgTk

Anche il titolo del capitolo è preso dal testo di questa canzone, spero che l'abbiate trovato attinente :3

Mentre qui trovate la canzone Come Out And Play degli Offspring, vi consiglio caldamente di ascoltarla perché ha un giro di basso pazzesco e poi è bella e basta:

https://www.youtube.com/watch?v=1jOk8dk-qaU

Bene, ora vi chiedo: che brano avrà scelto di mettere Leah? Avete qualche idea?

Io non vedo l'ora di aggiornare, vi ho lasciato sulle spine e anche io sono sulle spine in effetti XD

Alla prossima e grazie di cuore a tutti, come sempre le vostre recensioni mi rendono felice ♥


PS:

Prima di smettere di rompervi, devo assolutamente dedicare questo aggiornamento a Soul e Stormy, le quali sicuramente possono capire come mi sento in questo momento post-concerto e come mi sentivo prima e durante il tutto...

Sono sconvolta, ma non potrei essere più felice di così. Ancora mi si inumidiscono gli occhi al solo ricordo...

Certo, loro non lo sapranno mai, ma i primi che devo ringraziare sono proprio loro: Shavo, Daron, John e Serj.

Miti indiscussi da sempre e per sempre ♥

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Capitolo 21
*** The Truth ***


ReggaeFamily

The Truth

[Shavo]




I went out on a date,
With a girl, a bit late,
She had so many friends,
Gliding through many hands.
I brought my pogo stick,
Just to show her a trick,
She had so many friends,
Gliding through many hands.


Ero sinceramente basito. Mentre quelle note e quelle parole esplodevano dallo stereo portatile di Leah, avvertii come la sensazione di tornare improvvisamente lucido; avevo bevuto e fumato abbastanza per quella sera, e questo mi aveva leggermente mandato fuori dai binari.

Ma in quel momento fu come se tutto fosse passato, svanito, dissolto nel nulla. Leah aveva scelto un brano dei System Of A Down e ci sorrideva compiaciuta, rimanendo in piedi con il mio cellulare ancora in mano.

Daron fu il primo a reagire, precipitandosi da Leah e gridando: «Ma che fai?!».

«Vi dico la verità. È questo che volevi, no?» replicò Leah con semplicità, evitando però di sollevare lo sguardo su di me. Stringeva il mio cellulare e alcune ciocche di capelli le ricadevano sul viso; con addosso solo una canottiera e dei pantaloncini sembrava estremamente fragile, come se all'improvviso avesse perso la sicurezza che ostentava di solito e che fin da subito mi aveva colpito.

«Ma non era questo il momento!» la rimproverò Daron, poi fece scattare l'accendino e aspirò una lunga boccata di fumo, dopo aver acceso la sua canna.

«Perché no? Prima o poi doveva succedere» insistette la ragazza.

Bryah e John erano immobili e si scambiavano delle occhiate perplesse, mentre Bounce proseguiva a risuonare dalle casse dello stereo.

«Tu... tu lo sapevi?» fu tutto ciò che riuscii a dire, puntando lo sguardo sul chitarrista.

«L'ho scoperto questo pomeriggio. L'ho sentita che parlava con Bryah al bar di sotto» spiegò Daron, poi si strinse nelle spalle e strappò lo smartphone dalle mani di Leah.

«Potevi farti gli affari tuoi, eh? Dov'eri? Non ti abbiamo visto!» si intromise Bryah, facendo qualche passo avanti.

«Io l'ho visto, ma ormai era troppo tardi» ammise l'altra ragazza.

«Cazzo!» esplose Daron. «Potevi aspettare a domani, no? Ci stavamo divertendo!»

«Possiamo continuare a divertirci, chi dice il contrario?» lo contraddisse Leah.

Io non sapevo esattamente come mi sentivo. Da un lato era come se me lo fossi aspettato e temuto fin da subito, dall'altro ero deluso perché avevo creduto che Leah non sapesse niente della nostra vita professionale; perché non mi aveva detto la verità fin dall'inizio? Non riuscivo a crederci. Anche stavolta mi ero fidato della persona sbagliata, e rendermene conto mi fece davvero male.

«Perché?» chiesi, avvicinandomi rapidamente a lei. «Perché?» ripetei, afferrandola per un polso in modo da scuoterla e attirare la sua attenzione.

«A quanto pare il suo preferito è Serj. Scommetto che vuole arrivare a lui tramite noi, non è vero Leah?» interloquì Daron in tono maligno.

«Smettila subito! Ma perché ti inventi certe cazzate?» si rivoltò Bryah, piazzandosi di fronte a lui e fronteggiandolo con uno sguardo di fuoco.

«L'ha detto lei» chiarì il chitarrista.

«Stronzate. Non è vero!» sbottò Leah, divincolandosi dalla mia presa e scagliandosi improvvisamente, come una furia, contro Daron. Lo spintonò e lo fece andare a sbattere contro il mobile su cui stazionava il televisore. «Sei uno stronzo, Daron Malakian, lo sai? Un emerito pezzo di merda!» lo accusò con ferocia, con il viso a pochi centimetri dal suo, gli occhi due tizzoni ardenti di rabbia.

Proprio in quel momento la canzone terminò e nella stanza calò un silenzio di tomba. Era come se anche il temporale si fosse calmato, come se tutto si fosse zittito per dar spazio alla lite che si stava svolgendo nella nostra camera.

«Ragazzi, cercate di calmarvi.» John parlò per la prima volta e si accostò a Leah, la afferrò gentilmente per un braccio e la fece indietreggiare in modo che Daron fosse di nuovo libero di muoversi.

«Okay, stop. Smettetela di strillare» convenne Bryah, incenerendo il chitarrista con lo sguardo, per poi studiare il corpo tremante di Leah. «Amica, sei proprio nella merda ora, ma forse possiamo parlarne domani con più calma, che ne dici?» le si rivolse, posandole una mano sulla spalla.

Ma io non volevo né potevo aspettare, volevo chiarezza e la volevo subito, non me ne fregava un cazzo di che ore fossero, del casino che avremmo fatto e del fatto che qualcuno potesse lamentarsi degli schiamazzi che provenivano dal nostro piano.

«Scusa Bryah, ma Leah ora viene con me e mi racconta quest'avvincente storia, sono proprio curioso» affermai, per poi stringere il polso della ragazza e trascinarla con me fuori dalla stanza, nonostante qualcuno stesse tentando di protestare.

Leah, al contrario, non oppose resistenza e mi seguì in silenzio lungo il corridoio. Raggiunsi in fretta la porta di sicurezza che conduceva alle scale antincendio e la aprii, ritrovandomi all'aria aperta. Faceva un caldo bestiale, ma la pioggia, come sospettavo, aveva cessato di cadere e una pressante umidità mi faceva quasi perdere il fiato.

«Allora?» incalzai immediatamente, voltandomi a guardare Leah che era rimasta in piedi sulla soglia.

La ragazza stentava a guardarmi in volto e questo non mi piaceva per niente.

«Che c'è? Hai perso tutta la tua sfacciataggine adesso? Non mi dire!» commentai in tono ironico, incrociando le braccia al petto e sospirando pesantemente.

«Mi sento davvero una merda, Shavarsh.»

«E smettila di chiamarmi in quel modo! Spiegami chi ti credi di essere per avermi mentito in questo modo squallido, per esserti avvicinata a me con l'inganno, per aver creduto che non fosse importante dirmi la verità fin da subito!» esplosi, senza staccare gli occhi da lei, in cerca di una qualche reazione o di una qualche risposta che lei non si decideva a darmi.

«Anche tu mi hai mentito!» mi accusò all'improvviso, sollevando di scatto il viso e trafiggendomi con i suoi grandi occhi color cioccolato. «E io sapevo che stavi mentendo, ma non me la sono presa. No, capisci? Perché pensavo che forse ti andasse meglio stare tranquillo durante questa vacanza, anziché avere a che fare con i soliti fan invadenti!» puntualizzò, prendendo a gesticolare.

La osservai meglio e solo allora notai che era scalza. Forse avrei dovuto scegliere un altro luogo in cui parlare con lei, ma in quel momento non mi importava affatto.

«E tu cosa avresti fatto di diverso dalle altre fan esaltate?» la accusai in tono aspro.

«Cosa stai dicendo?»

«Quello che hai sentito. Tu sei stata anche peggio di loro.» Quelle parole stridettero anche nella mia stessa gola, per Leah dovevano essere come rasoi affilati che si conficcavano nel suo cuore. Era quello che volevo, desideravo ferirla e farla sentire come mi sentivo io in quell'esatto istante.

«È davvero questo che pensi di me?» mi domandò in tono estremamente serio, senza scomporsi troppo.

«Il tuo comportamento mi ha portato a questa conclusione, sì» confermai a malincuore. Ammettere che ero rimasto profondamente deluso non mi faceva piacere, ma non avrei neanche potuto negare l'evidenza.

«Non volevo creare problemi. Ho pensato fin da subito che... che voi ragazzi foste qui per rilassarvi. E se...» Leah sospirò e deglutì prima di proseguire. «Se io ti avessi fatto capire la verità, per te non sarebbe cambiato niente? Mi avresti visto con gli stessi occhi? Avresti riposto in me la stessa fiducia? No, Shavo. Perché ai fan è concesso fare una foto insieme a voi, non conoscervi fino in fondo. Nessuno di loro sa come siete in realtà, nessuno di loro può capire che siete dei ragazzi come tanti, che hanno solo avuto la fortuna di coronare un sogno. Tu non me lo avresti permesso, non avresti lasciato che ti conoscessi. Io volevo essere per te, e anche per Daron e John, solo e soltanto Leah. Non volevo passare per una delle tante ammiratrici o per una groupie fuori di testa.» Si interruppe per riprendere fiato e posò con cautela i suoi occhi sui miei. «E se tu non mi hai detto cosa fai nella vita, il motivo mi pare sia lo stesso. Non è così? Tu volevi essere Shavo e basta, volevi essere una persona comune una volta tanto. Il fatto che io conoscessi la verità non cambia le cose. Perché dovrebbe cambiarle adesso?»

«Avresti dovuto dirmelo» insistetti.

«E allora non saremmo qui ora. Non staremmo parlando, non ci staremmo divertendo insieme, non...» Fece un'altra pausa, poi avanzò di qualche passo verso di me. Posò con delicatezza una mano sul mio braccio e sollevò il viso per potermi guardare meglio. «Non ci sarebbe questo tra noi. Lo senti anche tu?»

Sapevo benissimo a cosa si riferiva, ma improvvisamente non mi andava più di darle ragione. D'un tratto era come se fossi spaventato da tutto: dalla nostra differenza di età, dalla nostra vita che non poteva coincidere in nessun modo, dalla nostra distanza geografica, dalla possibilità che lei continuasse a mentirmi... ero atterrito, totalmente terrorizzato.

Avrei voluto agire con la freddezza di Daron e spingerla via, avrei voluto possedere la razionalità di John e dirle che tra noi non c'era proprio un bel niente, avrei perfino voluto intavolare uno dei discorsi filosofici di Serj e riempirle la testa di cazzate fino ad annoiarla a morte e spingerla a piantarmi in asso; eppure agii come Shavo Odadjian, rimasi fermo e lasciai che le sue dita mi carezzassero piano il braccio, lasciai che Leah mi scrutasse nel profondo e comprendesse da sola, senza che le rispondessi, che anche io sentivo le sue stesse sensazioni, che anche io non avrei voluto rovinare quello strano rapporto che si era creato tra noi in così poco tempo.

«Di cosa hai paura?» volle sapere la ragazza, cercando la mia mano per poi stringerla.

«Dovresti chiedermi di cosa non ho paura» dissi.

«Shavo... mi sento veramente uno schifo, ma ti prego, ti prego... non avercela con me.»

«Non sono un ragazzino, odio queste cose. Odio i giochetti, gli intrighi...»

Leah sospirò. «Ti capisco. So che ho sbagliato, ma io credevo... volevo soltanto trascorrere una vacanza diversa, trovare qualcuno che mi facesse compagnia. Non volevo venire qui, tu lo sai. Mi annoio sempre in questo dannato albergo. Mio padre se la spassa con le sue amanti del momento, mentre io gironzolo annoiata per l'hotel in cerca di qualcosa da fare... è vero, conosco tutti, ma ognuno è impegnato nel suo lavoro e i clienti di questo posto sono tutti terribilmente noiosi come mio padre. Invece voi... non appena vi ho visto, ho capito che sarebbe stato divertente, ecco tutto.»

Rimasi a riflettere per un po', e mi resi conto che non ce l'avevo realmente con Leah, che la delusione era qualcosa che sarebbe passata, perché potevo percepire la sincerità delle sue parole. Stava parlando con il cuore in mano, stava dicendo la verità.

«Hai ragione» ammisi. «Anche io volevo, per una volta, essere Shavo e basta.»

«Lo avevo capito.» Leah sorrise e posò anche l'altra mano sulla mia, racchiudendola in un abbraccio che mi commosse profondamente. «E per me è stato davvero un onore conoscerti. Non perché suoni in una band che amo, ma perché sei una persona splendida e questo l'ho capito fin da subito. Ti ho incontrato in un momento di debolezza, un momento in cui stavi male, e subito mi è stato chiaro che avrei avuto a che fare con una persona totalmente diversa da quella che ho sempre intravisto sul palco, nei video che ho guardato su internet...»

Mi venne spontaneo sorridere. «Non sei mai stata a un nostro concerto?»

«Mai. Però contavo di farlo, prima o poi. Aspettavo che veniste a Las Vegas. Il problema è che nessuno vorrebbe venirci con me. Se ci andassi da sola, scommetto che non ne uscirei viva» scherzò Leah, mentre il suo viso affilato si distendeva e lasciava spazio a un sorriso divertito. «Ma per ora posso accontentarmi del set acustico di Daron e John» aggiunse.

Un lampo improvviso ci inondò di luce, seguito poco dopo da un breve ma rumoroso tuono.

«Ricomincerà a piovere» borbottai, scrutando il cielo scuro e cupo che, coperto completamente di nubi nere, non lasciava intravedere neanche la luna. L'unica fonte luminosa di cui disponevamo era la tenue luce che filtrava dal corridoio.

«John» mormorò Leah, lanciando un'occhiata all'interno della struttura.

Poco dopo udimmo della musica riecheggiare e rimbalzare fino a noi, così dedussi che forse Daron stava cercando ancora una volta di distrarre il batterista dall'imminente temporale che minacciava di abbattersi nuovamente sulla baia.

«Starà bene» commentai con un sorriso. «Daron e Bryah hanno sicuramente capito il meccanismo.»

Leah ridacchiò appena e tornò a rivolgermi la sua attenzione. «Non ce l'hai con me? Sei sicuro? Senti, se posso fare qualcosa per farmi perdonare, sono disponibile! Ai tuoi ordini!»

Scossi il capo e allargai appena le braccia. «Vieni qui» dissi. «Altrimenti non ti perdono» aggiunsi in tono scherzoso.

Leah scoppiò a ridere e si fiondò tra le mie braccia, nascondendo il viso nella mia spalle e soffocando maldestramente le risate. «Che cretino! Ti approfitti di me!» farfugliò.

La strinsi forte a me e smisi di pensare a qualsiasi cosa che non fosse lei, il suo corpo contro il mio e il suo profumo inebriante che sapeva di salsedine e vaniglia. Inspirai a fondo e posai la guancia contro la sua nuca, sentendomi in qualche modo completo e al sicuro.

Non avevo più paura, era scomparsa senza che neanche me ne accorgessi.

All'improvviso qualche goccia cominciò a bagnarmi la testa e il viso. «Piove» mormorai.

Leah, con le mani premute contro la mia schiena, non accennò a muoversi. «È vero» commentò.

«Vuoi rientrare? Sei anche scalza, potresti ammalarti» osservai in tono apprensivo.

«Ma smettila. Sto così bene, perché dovrei tornare dentro?» mi canzonò, sollevando il viso per cercare il mio sguardo. «Sei un essere troppo ansioso, Shavarsh» aggiunse.

«Il mio nome di battesimo ti piace proprio, eh?» notai con disappunto.

«È affascinante, non ti sembra?»

«Proprio per niente. Shavo è più corto, più pratico... più facile» chiarii con convinzione.

Leah sbuffò. «Che rompicoglioni!» mi accusò.

«Scusa eh... è vero!»

«No.» Lei, all'improvviso, si accostò al mio viso e posò le sue labbra sulle mie, in un gesto rapido e sfuggente. Subito si scostò e mi fissò in cerca di una mia reazione. «Allora? È questo che ti serve per farti smettere di dire cazzate?» mi punzecchiò.

Effettivamente ero rimasto interdetto e non avevo saputo né come ribattere né come reagire, anche perché non ne avevo avuto il tempo.

«Hai una faccia...» ridacchiò Leah, sollevando una mano per posarla sulla mia guancia.

Intanto continuava a piovere, le gocce si facevano sempre più grosse e fitte; ormai eravamo bagnati fradici, ma questo sembrava non importarci minimamente. Faceva caldo e quella bizzarra doccia notturna non poteva essere più gradita.

«Mi prendi sempre in giro» borbottai.

«Non è vero, è che hai una faccia da scemo! Scusa per il bacio, non pensavo ti avrebbe fatto quest'effetto devastante» sghignazzò Leah, posando nuovamente la guancia contro la mia spalla e facendosi ancora più vicina a me.

«Ehi!» protestai. Sciolsi l'abbraccio e le presi il viso tra le mani. «Forse è sbagliato, ma non posso evitarlo» ammisi, per poi baciare Leah con cautela, facendo aderire le nostre labbra e assaporando le sue con calma. Il suo sapore si mescolava con quello dell'acqua piovana che cadeva torrenziale su di noi.

Mi scostai lentamente da lei e rimasi a guardarla negli occhi, senza riuscire a capire fino in fondo ciò che avevo appena fatto. Leah aveva dato inizio a quella danza tra noi, ma io avevo risposto e ora non potevo tirarmi indietro. E non volevo farlo.

«Sbagliato?» mi apostrofò con un sorriso compiaciuto.

«Dici di no?»

«Mmh, vediamo... riproviamoci, magari stavolta sarà sbagliato» concluse la ragazza, avventandosi nuovamente sulle mie labbra e mordicchiandole appena, per poi insistere per approfondire quel contatto.

Mi ritrovai a stringerla con più forza, avvertendo la necessità di averla ancora più vicina, anche se non ero certo che ciò fosse possibile.

Tra un lampo che illuminava le nostre figure avvinghiate, un tuono che ci faceva sobbalzare appena e lo scrosciare incessante della pioggia che picchiava su di noi, ci estraniammo dalla realtà e non badammo al tempo che passava, alla notte che si faceva sempre più buia e cupa, ai nostri amici che forse si domandavano che fine avevamo fatto.

Avevamo parlato di verità, della nostra verità, e ora quella verità ci aveva unito e reso inspiegabilmente inseparabili.




Le note di oggi saranno un po' particolari, cari lettori ^^

Partiamo da un link:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3380229&i=1

Non è un link a YouTube, direte; e infatti non lo è, oggi vi voglio parlare di una poesia, una poesia bellissima che ho trovato molto affine a questo mio capitolo.

La cosa curiosa è che ho letto questa poesia proprio il giorno dopo aver scritto questo capitolo, come potrete dedurre anche dalla mia recensione a essa; allora mi sono detta che dovevo ASSOLUTAMENTE chiedere all'autore, il gentilerrimo KUBA, se potessi mettere voi a conoscenza di questo suo scritto.

Leggetelo e ditemi se anche voi notate qualche somiglianza con il momento magico tra Leah e Shavo ♥.♥

Ringrazio infinitamente KUBA per avermi permesso di citarlo qui nelle note, sono rimasta veramente colpita dal fatto che io e lui abbiamo avuto, a distanza di tempo e senza saperlo, la stessa idea su un momento tra due persone che si sentono molto vicine tra loro :3

E non è ancora finita qui, vi riporto qui sotto un altro link:

http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3620289&i=1

Un altro link che non è di YouTube, ridirete :D

Stavolta si tratta di una mia storia, che è strettamente correlata a questa faccenda di John che ha la fobia per il tempoarale; infatti, avevo trattato questa sua particolarità – cosa che mi sono immaginata eh, non vi sto dicendo che è vero, tranquilli – in un'altra mia storia, ovvero la OS che vi ho linkato sopra!

Se vi va dateci un'occhiata, anche se so per certo che alcuni di voi l'hanno già letta e recensita :'D ragazzi, vi ricordavate di questa faccenda?

Il fatto è che mi piaceva troppo collegare così queste storie perché, come qualcuno mi ha fatto notare nelle recensioni al capitolo precedente, è come se così io vi facessi capire che per me i ragazzi sono caratterizzati nello stesso modo, qualunque storia io scriva. Spero che l'idea vi sia piaciuta :3

Bene, aspetto i vostri commenti e non esitate anche a lasciare un parere alla poesia di KUBA, su, fate i bravi, va bene? Ci conto ♥

A presto e grazie di cuore, come sempre, siete speciali per me ♥

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Capitolo 22
*** Peace after the Storm ***


ReggaeFamily

Peace after the Storm

[John]




Al mio risveglio mi ritrovai nel bel mezzo di un casino pazzesco: il mio letto sembrava un'isola intatta, circondata da un mare di spazzatura e macchie sospette sul pavimento; lattine, bottiglie e bicchieri erano disseminati per la camera inondata dai raggi del sole.

Il temporale sembrava ormai un miraggio, lo stesso che mi aveva messo in agitazione qualche ora prima si era volatilizzato nel nulla e mi venne il dubbio di non averlo per caso sognato; ma le immagini della nottata appena trascorsa erano chiare e limpide nella mia mente, e a dimostrarlo c'era anche il disastro che i ragazzi avevano combinato in camera mia e di Shavo.

Vagai con lo sguardo per la stanza e notai due fatti preoccupanti: per prima cosa, la porta era spalancata e non riuscivo a capire come fosse possibile; in secondo luogo, Daron si era addormentato per terra, accanto al mobile del televisore: era rannicchiato su se stesso e aveva la faccia rivolta verso il muro. Ispezionai il letto di Shavo e mi sorpresi nel notare che era vuoto. Mi alzai e andai a controllare in bagno, ma neanche lì c'era traccia del bassista; anche Leah e Bryah erano sparite, forse erano tornate nelle loro stanze a un certo punto della notte...

Poi mi ricordai, all'improvviso, del momento in cui il mio amico aveva insistito per conoscere la verità da Leah e l'aveva trascinata fuori dalla stanza; da allora non si erano più visti ed effettivamente mi ero chiesto cosa avessero di così tanto elaborato da dirsi per sparire così a lungo.

Mi accostai a Daron e lo scossi con forza per svegliarlo. «Malakian, perché cazzo ti sei addormentato per terra?» lo apostrofai.

Lui borbottò qualcosa di incomprensibile e si agitò come un pazzo, per poi aprire gli occhi di botto e voltarsi nella mia direzione. Sbadigliò rumorosamente e notai che aveva un'espressione piuttosto stravolta.

«Ma che cazzo ne so? Sono indolenzito dalla testa ai piedi, merda...» farfugliò, mettendosi faticosamente a sedere. Si guardò intorno con fare frenetico, poi si alzò e barcollò pericolosamente sul posto, mentre si allungava verso il mobile per afferrare qualcosa.

«Non hai altro a cui pensare, eh?» lo punzecchiai, osservando il suo occorrente per costruirsi una bella dose di erba di buon mattino.

«Che vuoi?» si limitò a replicare, poi si avvicinò alla finestra e la spalancò, inspirando profondamente mentre armeggiava sapientemente con la cartina e la marijuana che ci stava mettendo dentro.

«Sono stravolto» ammisi.

«Il temporale è passato, non preoccuparti» commentò il chitarrista con noncuranza, ma nelle sue parole sentivo di poter trovare conforto, perché lui, a dispetto di quanto potesse sembrare, si preoccupava molto per le persone a cui teneva davvero.

«Già, meno male. Sai per caso che fine ha fatto Shavo?» gli domandai, mentre notavo che si frugava nelle tasche dei pantaloni della tuta.

Sbuffò contrariato e si voltò a ispezionare la stanza. «Mi passi l'accendino? Comunque, no, sarà rimasto con Leah...» insinuò in tono divertito.

Afferrai l'oggetto richiesto dal mobile e glielo lanciai. Daron non riuscì ad afferrarlo al volo e imprecò tra i denti, si chinò a raccoglierlo e poi mi incenerì con lo sguardo.

«Be'? Solo l'erba fa rivivere i tuoi sensi intorpiditi? Sei proprio messo male, amico!» lo canzonai, dirigendomi verso il bagno. Nel tragitto, mi fermai a controllare il mio cellulare e notai che erano quasi le undici del mattino.

«Pensa per te, santarellino» bofonchiò il chitarrista con la sigaretta tra le labbra, poi fece scattare l'accendino e un istante dopo il familiare profumo dolce e intenso della marijuana si diffuse nella stanza.

«Anche oggi niente corsa mattutina» mi lamentai, entrando in bagno e lasciando la porta aperta. Mi gettai con la faccia sotto il rubinetto e lasciai che l'acqua gelida mi rinfrescasse le idee.

«Che palle. Sei venuto in vacanza o ti stai preparando per la maratona verso Santa Monica Beach?» gridò il mio amico dall'altra stanza.

«A quella ho già partecipato, stronzetto!» esclamai.

«Ma devi allenarti per l'anno prossimo!»

«Non prendermi per il culo!» strillai, per poi scoppiare a ridere. Mi accostai alla porta e la richiusi, dopo aver spedito Daron al diavolo.

Dopo essermi lavato e preparato, uscii di tutta fretta dalla camera, lasciando il chitarrista che ancora fumava e scrutava il panorama fuori dalla finestra.

Per prima cosa, dovevo trovare Shavo e capire cosa avesse combinato durante la notte; notai che la porta della stanza di Leah era aperta, proprio come la nostra, così mi avviai in quella direzione. La nottata era stata devastante per tutti, evidentemente, perché nessuno si era preoccupato di chiudersi in camera e preservare la sua privacy. Quando giunsi sulla soglia, rimasi immobile a osservare la scena che mi si presentava davanti agli occhi: Leah e Shavo erano abbandonati sul letto della ragazza, uno accanto all'altra, e dormivano profondamente. Il bassista lasciava penzolare un braccio dal materasso, mentre Leah gli circondava il petto con un braccio e riposava con la testa contro la schiena di lui.

Mi ritrovai a sorridere come un bambino, erano davvero carini insieme, e chissà che tra loro non fosse successo qualcosa durante quel temporale pazzesco.

La cosa che mi fece maggiormente piacere fu constatare che probabilmente si erano chiariti e non avevano trascorso il loro tempo a litigare senza risolvere niente. Annuii tra me e me e richiusi piano la porta, per evitare che qualcuno li disturbasse. Se Daron li avesse sorpresi a dormire insieme, avrebbe preso a gridare e li avrebbe risvegliati bruscamente, cominciando immediatamente a dire stronzate su stronzate, come soltanto lui sapeva fare.

Mi affacciai nuovamente in camera mia. «Tu vieni a fare colazione o ti basta quella roba per sfamarti?» volli sapere dal chitarrista.

«No, questa roba mi fa venire ancora più fame. Andiamo!» esclamò allegro.

Lo osservai: indossava una t-shirt spiegazzata arancione fluo e i pantaloni grigi della tuta, era scalzo e i suoi capelli si mostravano in un groviglio incomprensibile.

«Pensi di farti vedere in giro con me in quelle condizioni? Almeno lavati la faccia!» dissi contrariato.

«Nessuno ti ha mai detto che sei una piattola, Dolmayan? Lasciami un po' in pace!»

Dopo qualche minuto in cui battibeccammo, riuscii a convincerlo a lavarsi il viso e a indossare un paio delle mie scarpe.

Ci dirigemmo verso l'ascensore e Daron domandò: «Hai trovato Shavo?».

«No» mentii. «Starà bene, sa badare a se stesso, a differenza tua» lo canzonai, mollandogli una gomitata nelle costole.

«Mi fai male!» si lagnò.

«Ma sta' zitto, te lo meriti!» affermai.

«Perché mi odi, Johnny?» cantilenò, mentre salivamo in ascensore. Mi si accostò e mi rivolse un'occhiata da cane bastonato, atteggiando le labbra a un broncio piuttosto patetico e buffo.

Non potei evitare di sorridere. «Fatti un esame di coscienza e poi ne riparliamo.»

«Ma non è giusto!»

«Oh, sì invece!»

Le nostre risate si persero nell'aria quando ci ritrovammo sulla terrazza. La giornata sembrava piuttosto limpida e del temporale non c'era più alcuna traccia.

Mi sentivo decisamente meglio.


Mi rigirai il biglietto tra le dita, poi mi decisi a prendere il cellulare. Posai entrambi gli oggetti sul tavolino e, dopo aver intrecciato le mani sotto il mento, li studiai con estrema concentrazione.

Ero certo che Bryah fosse tornata in città, e questa consapevolezza mi faceva sentire uno strano vuoto all'altezza del petto; non sapevo se l'avrei rivista, ma non volevo rischiare. Avevo riflettuto molto, mentre tutti si divertivano e cercavano di distrarmi dal temporale, su ciò che avrei voluto dalla giornalista, ed ero giunto alla conclusione di non voler stare con le mani in mano. In effetti, non era un problema mio il fatto che Bryah avesse un compagno, anche perché probabilmente non l'avrei mai più rivista in seguito a quella vacanza. Certo, lei aveva più volte affermato di voler lavorare su una biografia del mio gruppo, ma dubitavo fortemente che la cosa fosse possibile.

Sbloccai il cellulare e, preso da un impulso quasi incontrollabile, composi il numero della donna che mi stava dannando l'anima in quegli ultimi giorni; prima di far partire la chiamata, lo salvai in rubrica e accartocciai in un gesto teso il suo biglietto da visita.

Portai lo smartphone all'orecchio e udii i primi squilli. Forse non avrebbe risposto, forse non avrebbe dato ascolto a nessuna delle mie stronzate, forse si era già dimenticata di avermi consegnato quel cartoncino con su scritto il suo numero di cellulare.

Quando Bryah rispose, sobbalzai leggermente ed espirai all'improvviso, rendendomi conto di aver trattenuto il fiato fino a quell'esatto istante.

«Bryah Philips» esordì lei in tono professionale.

Mi schiarii la gola e affermai: «Sono John. John Dolmayan».

«John, ehi! Ciao! Come ti senti stamattina? Io sono già in ufficio da un paio d'ore e sto schiattando dal sonno, però mi sono divertita con voi, sul serio!» replicò con entusiasmo Bryah, e potei quasi immaginarla con un sorriso luminoso a incresparle le labbra carnose e dal profilo perfetto.

«Sto meglio, grazie. Sono un po' sconvolto dal sonno, però è tutto sotto controllo, finalmente» la rassicurai, sentendomi improvvisamente più sereno. Parlare con lei mi rilassava e svuotava la mia mente da pensieri cupi e malinconici.

«Sono contenta! Nel pomeriggio devo uscire per un servizio, non so se ce la farò. Vorrei soltanto dormire» scherzò.

«A chi lo dici... Bryah, ascolta...» Deglutii e puntai lo sguardo sul biglietto da visita accartocciato sul palmo della mia mano destra.

«Dimmi tutto!» mi incoraggiò.

«Ci rivediamo?» buttai lì, tentando di non utilizzare un tono di voce troppo serio.

«E me lo chiedi? È ovvio! Ho un'idea: perché questo pomeriggio non venite tutti in città? Verso le sei dovrei riuscire a liberarmi e ho in mente di portarvi in un posto fantastico. Potresti proporlo tu ai ragazzi da parte mia?» La donna sembrava veramente felice all'idea di trascorrere ancora del tempo con me e i miei amici, ma questo non mi aiutava a capire se il suo interesse si limitasse alla comitiva in generale o se celasse qualche tipo di riguardo nei miei confronti.

«Direi che si può fare. Dove ci incontriamo?» domandai.

«Nei pressi del Fyah, poi da lì vi scorto io a zonzo per la città. D'accordo?»

«D'accordo» confermai. «Parlo con i ragazzi e ti faccio sapere.»

Bryah ridacchiò. «Accetteranno, vedrai. Okay, devo andare, ci aggiorniamo più tardi. Scrivimi su WhatsApp!» concluse, poi mi salutò di tutta fretta e pose fine alla telefonata.

Mi ritrovai a sorridere tra me: il primo passo era stato fatto, ora dovevo soltanto trovare il coraggio per continuare su quella strada disseminata di sensi di colpa e infiniti dubbi.

La cameriera che era di turno in terrazza quella mattina mi si accostò e sorrise brevemente, poi raccolse la tazza da cui avevo bevuto il mio caffè amaro e forte.

«Daron come sta?» mi chiese all'improvviso, spiazzandomi e costringendomi così a dedicarle maggiore attenzione.

Mi strinsi nelle spalle. «Sta bene.»

«E dov'è? Prima mi è sembrato di vederlo, ma ora è sparito...» indagò ancora la ragazza.

«Ha ricevuto una chiamata importante» tagliai corto. Non capivo minimamente dove volesse andare a parare.

«Oh, immagino.» La cameriera ghignò. «Puoi dargli un messaggio da parte mia?»

Mi limitai a fissarla senza replicare. Era una persona piuttosto strana, non mi era facile inquadrarla.

«Digli che Lakyta deve parlargli perché non c'è più tempo» spiegò con calma, poi mi sorrise freddamente e se ne andò ancheggiando, senza più degnarmi di alcuna attenzione.

Sospirai e mi alzai, scuotendo appena il capo. In questo albergo lavoravano dei personaggi piuttosto singolari, ed era come se io e i miei amici li calamitassimo irrimediabilmente. Ero certo che, in ogni caso, Daron ne avesse combinato un'altra delle sue, coinvolgendo quella cameriera in qualche faccenda a me ignota e a cui non mi andava di pensare.

Mi diressi giù per le scale, intenzionato a raggiungere la hall. Una volta al piano terra, notai che al bancone della reception c'era Dayanara, il quale era intento a parlare con una coppia di clienti. Insieme ai due coniugi, un ragazzo sui sedici anni se ne stava imbronciato in un angolo: era completamente vestito di nero, aveva i capelli lunghi e ribelli sugli occhi e indossava una felpa dei Carcass.

Aggrottai la fronte: come poteva andare in giro con una felpa a maniche lunghe? Faceva un caldo bestiale e anch'io mi ero ormai convinto di dover usare delle ciabatte da spiaggia per evitare di morire a causa dell'afa che impregnava la baia, specialmente in seguito alla perturbazione della notte precedente.

L'adolescente ascoltava della musica con gli auricolari e ogni tanto muoveva la testa a tempo, facendo ondeggiare la chioma crespa. Sollevò per un attimo lo sguardo dal suo cellulare e mi notò. Lo vidi sbiancare per un attimo, poi si strappò via le cuffiette e rimase a fissarmi con la bocca semiaperta.

«Ma che cazzo...?» balbettò.

Mi strinsi nelle spalle e lanciai un'occhiata al receptionist, sperando che si decidesse a registrare i nuovi arrivati, in modo che potessi liberarmi al più presto di quel ragazzino che mi aveva evidentemente riconosciuto.

«Ehi, ma tu sei il batterista dei System!» esclamò, facendo qualche passo verso di me. «Non è possibile, ma cosa cazzo ci fai in Giamaica?» proseguì, per poi cominciare a sghignazzare.

Lo fissai con aria perplessa, senza però prendermi il disturbo di rispondergli, altrimenti sarei potuto risultare scortese e non volevo.

«Merda! Non ci credo! Ehi, possiamo fare una foto?» insistette imperterrito il sedicenne, sventolando il suo I-Phone come fosse un'arma.

Ero piuttosto irritato, tuttavia annuii e mi sforzai di regalargli un debole sorriso. «Va bene» acconsentii.

«Grande! Che gran botta di culo ho avuto, eh? Aspetta, facciamo un selfie...» strepitò il ragazzo, piazzandosi al mio fianco. Mi si accostò e sollevò il cellulare di fronte a noi; io rimasi praticamente impassibile mentre lui si esibiva in espressioni da duro e mostrava le corna alla telecamera.

«Grazie, amico! Ehi, sono emozionato!» blaterò ancora lui, osservando lo schermo del telefono con aria soddisfatta.

«Grazie a te» risposi in tono piatto, sperando ardentemente che i miei colleghi non spuntassero nella hall proprio in quel momento.

«La pubblico subito su facebook!»

Sospirai. «Puoi evitarlo, per cortesia? Non è ufficiale che mi trovo in questo albergo» chiarii.

«Non lo scrivo dove sono, tranquillo» ammiccò ancora, per poi strizzarmi l'occhio.

Mi costrinsi a non sollevare gli occhi al cielo e mi accostai finalmente a Dayanara, mentre i genitori del mio fan gli intimavano di seguirli verso l'ascensore.

«Perché arrivano tutti qui?» chiesi più a me stesso che al receptionist, appoggiandomi con i gomiti sul bancone e sospirando.

Lui rise. «Ah, be'! Siete delle rock star, dovete aspettarvi questo e altro!» commentò divertito.

«Speravo che non venissimo riconosciuti, invece anche la tua amica Leah lo sa perfettamente. Glielo hai detto tu?» indagai, studiando il ragazzo di fronte a me, il quale mostrava un'aria piuttosto stanca.

«No, io e Leah non abbiamo parlato di voi. Non sapevo niente di questa storia. Comunque, in cosa posso esserle utile?»

Sorrisi appena. «Andiamo, non mi dare del lei, mi fai sentire anziano. Volevo solo chiederti di mandare qualcuno su in camera mia e di Shavo, stanotte abbiamo combinato un bel casino e quella stanza ha bisogno di una pulita. Tranquillo, non abbiamo rotto nulla» spiegai.

Dayanara annuì. «Ho sentito dire dallo stagista che stanotte qualcuno ha fatto casino al terzo piano, ma quel babbeo non è stato in grado di capire in quale palazzina fosse successo» borbottò.

«Mi scuso a nome di tutti noi, non volevamo arrecare disturbo.»

Il receptionist fece un gesto noncurante con la mano. «Tanto io non c'ero, non mi importa. Bene, chiamo subito una cameriera e la mando nella vostra stanza.»

Lo ringraziai e mi allontanai. Intravidi Daron che stazionava addossato al bancone del bar e decisi di raggiungerlo. Fortunatamente il sedicenne che mi aveva fermato poco prima non pareva averlo notato.

Mentre mi incamminavo, mi ritrovai a chiedermi come sarebbe andata a finire tutta quella vacanza, ma soprattutto mi domandai cosa ancora sarebbe potuto succedere. Non ne avevo idea, ma sentivo che l'apparente quiete dopo la tempesta non sarebbe durata a lungo.

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Capitolo 23
*** Hard nut to crack ***


ReggaeFamily

Hard nut to crack

[Daron]




Eravamo pronti a partire per la città e aspettavamo il taxi. Erano le sei del pomeriggio e l'aria si era inspiegabilmente rinfrescata, così avevo indossato una felpa un po' più pesante e avevo infilato ai piedi un paio di sneakers. Non mi ero preoccupato di cambiarmi i pantaloni della tuta che indossavo dalla notte precedente, non avevo avuto voglia di cercare qualcos'altro in mezzo al caos della mia stanza.

Ero nervoso. John mi aveva riferito un messaggio equivoco da parte di Lakyta e questo mi aveva messo irrimediabilmente di malumore; inoltre Leah ce l'aveva evidentemente con me, perché da quando eravamo scesi nella hall non si era degnata di rivolgermi nessun tipo di attenzione, limitandosi a scherzare con Shavo e John. Avevo detto qualcosa di sbagliato, lo sapevo, e sicuramente avevo capito male ciò che avevo ascoltato seduto dietro il separé di bambù.

Sospirai e feci scattare l'accendino, poi inspirai una lunga boccata di fumo e scrutai la strada in cerca dell'auto che ci avrebbe condotto nella capitale. Forse avrei dovuto parlare con Leah, forse avrei dovuto scusarmi... già, forse.

Non capivo come mi fosse saltato in mente di insinuare che lei aspirasse ad arrivare a Serj usando noi come le pedine di chissà quale gioco; ogni tanto avevo la tendenza a farmi dei film mentali assurdi, ma questo probabilmente dipendeva dalla mia totale sfiducia nel genere umano. Faticavo a fidarmi di me stesso, come potevo credere nel prossimo con tanta facilità?

Afferrai il cellulare e mi decisi a risolvere almeno uno dei miei problemi, o almeno a provarci.

Scrissi qualche parola e inviai il messaggio su WhatsApp al numero di Lakyta.


John mi ha riferito


Mentre aspettavo una sua risposta, notai che nella foto del suo profilo c'era un'immagine di lei e Alwan che mostravano il cartellino di riconoscimento dello Skye Sun Hotel.


Finalmente ti sei fatto vivo! Dobbiamo parlare al più presto ;)


Ora non posso, sto andando in città


Stasera sono libera, possiamo incontrarci quando rientri.


È proprio necessario?


Certo! :D ci vediamo al Buts? Avvisami quando rientri e io mi faccio trovare lì.


Stavo per rispondere quando lei scrisse ancora:


A qualsiasi ora, non ti preoccupare.


Sospirai e riposi il cellulare, accorgendomi che il nostro taxi era arrivato. Mi avvicinai ai ragazzi e mi infilai sul sedile posteriore, ritrovandomi proprio accanto a Leah. La ragazza, infatti, sedeva tra me e Shavo, mentre John si era accomodato sul sedile del passeggero accanto all'autista.

«Dove vi porto?» chiese l'uomo in tono allegro.

«Al Fyah» rispose Leah, poi mi indirizzò un'occhiata di fuoco e si voltò verso Shavo, ignorandomi deliberatamente.

L'avevo combinata grossa, cazzo. Tra me e Leah si era scatenata fin da subito una sorta di diatriba silenziosa, che ogni tanto sfociava in piccoli scontri e battibecchi; tuttavia riuscivamo anche a divertirci insieme e spesso eravamo sulla stessa lunghezza d'onda, ma il fatto di assomigliarci un po' troppo ci portava irrimediabilmente a scontrarci.

Estrassi dalla tasca della felpa un paio di auricolari e li infilai alle orecchie, decidendo che non era certo quello il momento di parlare con la ragazza; collegai le cuffie al cellulare e aprii un'applicazione che mi permetteva di ascoltare tutta la musica che volevo senza essere collegato a una rete internet.

Forse può sembrare da pazzi, ma mi ritrovai a scegliere l'album dei miei Scars On Broadway come colonna sonora di quel viaggio che somigliava tanto al tragitto verso il patibolo; o forse era il mio umore nero a farmelo percepire in quel modo.

Mentre la mia stessa voce graffiava le mie orecchie, presi a osservare distrattamente ciò che si svolgeva intorno a me: Leah rideva con il corpo completamente abbandonato sullo schienale del sedile, mentre Shavo le raccontava qualcosa; il bassista era rivolto verso di lei e teneva una mano sulla coscia della ragazza, mentre puntava i suoi occhi sul viso di lei e sembrava non riuscire a distoglierli.

Tra quei due era successo qualcosa, era palese. A dispetto di quanto avessi erroneamente affermato la notte precedente, ero contento per loro, notavo che formavano una bella coppia, ma soprattutto immaginavo che Shavo avesse bisogno di qualcuno come Leah che gli tenesse testa e lo trascinasse fuori dalle sue insicurezze infondate.

Sul sedili anteriori, con mia grande sorpresa, John stava intrattenendo una conversazione con l'autista; misi per un attimo in pausa Funny e appresi che stavano parlando di musica e, nello specifico, dello strumento tanto amato dal mio amico. Ci avrei scommesso: John riusciva a essere loquace quando si trovava nel suo elemento naturale.

Ripresi ad ascoltare la mia musica e proseguii finché non ci ritrovammo di fronte al Fyah, interrompendomi nel bel mezzo di They Say per scendere dall'auto. Il pub che avevamo frequentato per due notti di fila, alla luce del giorno, sembrava un comune bar frequentato da persone giovani, ma si mostrava molto tranquillo e poco rumoroso, diversamente da come lo avevo conosciuto nei giorni precedenti.

Bryah stazionava accanto all'ingresso e sembrava estremamente luminosa e piena di energie, nonostante avesse trascorso la notte in bianco proprio come tutti noi.

«Ciao ragazzi! Siete pronti per la gita che ho organizzato per voi?» ci accolse la giornalista, sorridendoci e accostandosi a noi. Scompigliò i capelli a Leah e posò spudoratamente gli occhi su lei e Shavo; seguii il suo sguardo e notai le dita intrecciate dei due, così mi ritrovai a sghignazzare e indirizzai a John un sorrisetto malizioso.

Lui mi si avvicinò e mi mollò una gomitata. «Comportati bene. E vedi di scusarti con Leah.»

«Ne abbiamo già parlato. Lo farò» tagliai corto, senza smettere di esaminare il contatto che si era creato tra il bassista e la nostra nuova amica.

«Andiamo?» Bryah prese me e John sottobraccio e ci incitò a camminare. «Come state? Siete stanchi?» domandò.

«Un po'. Tutta colpa di questo rammollito» borbottai scherzosamente, strizzando l'occhio al batterista.

«Sei così stronzo, Malakian...» mi accusò contrariato.

«Ma dai, povero John! Ognuno di noi ha le sue debolezze, altrimenti non saremmo umani.» Bryan mi pizzicò il braccio. «Tu non hai paura di niente?»

Ridacchiai e scossi il capo. «No, perché io non sono umano. Vi trovate di fronte a un'entità superiore, vedete di portare rispetto e chinarvi per baciare i miei profumatissimi e graziosi piedini!» cantilenai, costruendo sul momento un atteggiamento altezzoso.

Bryah mi lasciò andare e mi mollò una forte pacca sulla schiena. «Che imbecille!» esclamò.

«Come osi offendere la mia magnificenza?»

«Sì, è proprio un caso perso» commentò John, scoccando un'occhiata complice alla giornalista.

«Vi pentirete di avermi provocato!» li minacciai, sollevando un pugno e guardandoli con finta aria minacciosa.

«Che paura! John, proteggimi.» Bryah si strinse al braccio del batterista e finse di essere atterrita, ma io notai che questo a John provocò un effetto devastante; doveva essere difficile per lui averla così vicina e non poter fare ciò che avrebbe voluto. Infatti, aveva assunto un'espressione indecifrabile, che però mi suggeriva un certo disagio nel trovarsi in quella situazione apparentemente stupida e banale.

Mi ritrovai a chiedermi pigramente perché i miei amici si fossero interessati a qualcuno, mentre io continuavo a seminare casini su casini e tutte le creature di sesso femminile con cui avevo avuto a che fare finora si erano dimostrate delle sgualdrine e niente più. In ogni caso, dubitavo che Bryah volesse qualcosa da John, visto che mi era parso di capire che non era interessata a lui in quel senso. Ma la vita era una puttana, chi poteva sapere come stavano realmente le cose?

Poco dopo Bryah si avvicinò a Shavo e Leah, così io presi a sghignazzare in direzione del batterista.

«La smetti?» si rivoltò lui.

«Oh andiamo! Sembri un adolescente in preda agli ormoni, che carino!» strepitai.

«E poi mi chiedi perché ti odio?» ribatté con un sospiro.

«Già, proprio non me lo spiego. Ehi, John?» lo chiamai.

«Che vuoi ancora?»

«Attento a Bryah. Non sono sicuro che voglia da te qualcosa in più... mi capisci, vero?» dissi con noncuranza, non sapendo come altro fargli arrivare il concetto. Non ero molto bravo in queste cose.

«Fai anche il saggio adesso? Non mi dire!»

Mi strinsi nelle spalle. «Sono serio. Per una volta che provo a...»

John si bloccò per un istante e mi studiò, portandosi istintivamente una mano al mento. «Grazie, amico. Ma forse è un po' tardi per stare attento...»

«Sei già un caso così grave?» chiesi, aggrottando la fronte.

«Spero di no, ma...»

«Cazzo, ci mancava anche questa!» esclamai. Sbuffando, lo afferrai per un braccio e lo trascinai vicino agli altri. Non volevo più parlare di queste cose, volevo soltanto divertirmi un po', per poi trovare un momento per parlare con Leah.

Dopodiché saremmo tornati in albergo e avrei incontrato Lakyta. Forse avrei risolto tutti i miei problemi in un colpo solo.


Ci fermammo solo dopo una decina di minuti, ma Bryah fischiò contrariata e ci rivolse un'occhiata desolata.

Sollevai lo sguardo e notai che ci trovavamo proprio di fronte al Bob Marley Museum; ne fui certo perché ogni tanto avevo scorto delle foto su internet, ma questo fatto mi fu ancora più chiaro poiché alla sommità del cancello che delimitava la vecchia casa di Marley vi era un ritratto del cantante giamaicano. Notai che ai lati dell'inferriata sorgevano due colonne dipinte in verde, giallo e rosso, in ricordo dei colori della bandiera etiope. All'interno scorsi soltanto il tetto dell'abitazione, nascosto da una fitta vegetazione.

«Ma è chiuso!» esclamò Leah, mentre John si accostava a un cartello affisso sulla cancellata.

«Qui dice che l'ultima visita disponibile comincia alle quattro del pomeriggio. Siamo arrivati un po' tardi, ora sono le diciannove e tredici» commentò il batterista.

«Oh no! Ragazzi, mi dispiace... avrei voluto farvi una bella sorpresa, invece...» borbottò Bryah in tono deluso, spostando lo sguardo alternativamente dal cancello alle nostre facce.

«Tranquilla, torneremo domani» disse Shavo con un sorriso.

«Io durante il giorno non sono mai libera, che razza di orari fanno in questo posto?» protestò la giornalista.

«Non importa. Possiamo tornarci da soli, anche perché io sono molto curioso» affermai in tono allegro.

«Io ci sono già stata ed è bellissimo» spiegò Leah. «Vale la pena di tornarci domani. Grazie lo stesso Bryah, è stato un pensiero molto carino da parte tua!»

«E adesso che facciamo?» ci chiese ancora la giamaicana.

«Andiamo a mangiare?» saltai su.

«Non pensi ad altro tu, eh?» brontolò John.

«Esattamente.»

«Che ne dite di tornare all'HIR?» propose Leah.

«Che sarebbe?» domandai io perplesso.

La ragazza mi ignorò e fu Bryah a spiegarmi che si trattava di un posto in cui si mangiava molto bene in cui lei e i ragazzi avevano pranzato il giorno precedente, poi mi assicurò che ne sarei stato entusiasta.

«Per me l'importante è mangiare» proclamai.

Riprendemmo a camminare e io decisi che non potevo più aspettare: dovevo parlare con Leah, non sopportavo che continuasse a ignorarmi in quel modo.

Mi accostai a lei, che intanto camminava accanto a Bryah e chiacchierava allegramente con lei, e la toccai sulla spalla.

La ragazza si voltò e il sorriso abbandonò subito le sue labbra. «Che vuoi?» mi apostrofò.

Shavo e John camminavano qualche passo indietro e parvero non accorgersi di nulla, poiché discutevano animatamente di qualcosa che non riuscivo ad afferrare.

«Voglio parlarti» chiarii.

«Non abbiamo molto da dirci, Malakian» tagliò corto.

Mi fermai e la costrinsi a fare lo stesso. Bryah, notando che avevamo bisogno di un attimo per discutere, si accostò al resto del gruppo e prese a distrarre i miei amici, parlando a raffica e attirando completamente la loro attenzione.

«Dai Leah, non fare la stronza.»

«Forse mi hai scambiato per te stesso» replicò all'istante.

«Sì, forse, ma voglio solo scusarmi per ciò che ho detto. Ho capito male ciò che tu e Bryah vi stavate dicendo» ammisi con non poca fatica, distogliendo lo sguardo da lei.

Leah riprese a camminare e io la affiancai subito. «Tu spari troppe stronzate senza riflettere» mi accusò.

«Non posso negarlo.»

«E speri sempre che tutti ci passino sopra come se niente fosse. Ma io non mi chiamo né John e né Shavo. Hai portato fuori un'accusa molto grave nei miei confronti» proseguì la ragazza, utilizzando un tono pregno di delusione che mi fece sentire veramente in colpa.

«No, Leah, il fatto è che...»

«Il fatto è che non dovevi dirlo, punto.» Si strinse nelle spalle. «Sono delusa» aggiunse.

«Me ne sono accorto.» Sospirai. «Posso fare qualcosa per recuperare? Insomma, vuoi ignorarmi ed essere incazzata con me per tutta la vacanza?»

Leah rimase in silenzio per un po', poi rispose: «Perché no? Non ho ancora tanto tempo da trascorrere in Giamaica. Tra tre giorni torno a casa».

Detto questo, sollevò gli occhi su di me e per un attimo i nostri sguardi si incrociarono: lessi malinconia nelle sue iridi color cioccolato, ed ero certo che io sarei stato l'unico a non mancarle neanche un po'. Avevo sbagliato tutto con Leah, a partire dall'essermi scopato la sua attuale matrigna fino ad arrivare alle accuse infondate che le avevo rivolto la notte precedente.

«Come vuoi» mi arresi, fermandomi e lasciando che lei continuasse a camminare. Raggiunse il resto del gruppo e continuò a ignorarmi, mentre io mi sentivo un vero pezzo di merda.

Non avevo risolto niente, proprio niente, ma perché sapevo soltanto cacciarmi nei casini? La mia schifosa sfiducia nel genere umano mi metteva sempre nella merda, anche quando non era necessario né motivato.

«Ehi ragazzi! Ho trovato qualcosa da fare dopo cena!» strillò all'improvviso Bryah, accostandosi alla vetrina di un negozio.

Tutti ci radunammo intorno a lei e, dopo aver seguito il suo sguardo, notammo che stava esaminando una locandina affissa al centro della vetrina: questa era piccola e spoglia, decisamente poco visibile agli occhi dei passanti.

«Burton Selecta» lessi perplesso.

«Sì. Qui dice che questo tizio stasera sarà al Network Jamaica con Eek-A-Mouse e Barrington Levy. Li conoscete?» ci spiegò Bryah con un sorriso enorme.

«Forse» commentò Shavo.

«Oh, vi dico già che sono fortissimi! Sapete che Eek-A-Mouse ha collaborato con una band metal?» proseguì la giornalista.

«Non mi dire!» esclamai divertito.

«Sì, con i P.O.D., nell'album Satellite; penserete che sia una follia, ma solo un uomo come lui poteva arrivare a tanto.»

Aggrottai la fronte. «Non mi suona del tutto nuova questa storia...» riflettei.

«Se vi va, dopo andiamo a sentirli» concluse Bryah in tono concitato.

Accettammo di buon grado, tanto non avevamo niente di meglio da fare. Riprendemmo a camminare verso il locale in cui avremmo cenato e mi ritrovai a chiedermi che razza di svitato potesse celarsi dietro il nome di Eek-A-Mouse. Ero piuttosto curioso.

A un tratto scorsi un negozio di strumenti musicali e mi si illuminarono gli occhi.

«Guardate!» strillai, fiondandomi di fronte all'ingresso del locale.

«Stiamo per chiudere» tuonò un uomo grande e grosso che stazionava vicino alla porta.

«Posso dare solo un'occhiata? Faccio in fretta!» lo implorai, sentendomi come un bambino che entra in un negozio di giocattoli.

Nonostante il proprietario stesse brontolando, mi infilai all'interno e cominciai a gironzolare, scrutando con attenzione tutto ciò che si trovava là dentro; fui colpito dalla consapevolezza di trovarmi in un negozio incentrato sulle percussioni e allora strillai: «Dolmayan! Entra!».

Il batterista mi raggiunse e notai che era rimasto incantate come me da quell'angolo di paradiso; cominciò a esaminare tutto ciò che lo circondava, poi si piazzò di fronte a un espositore di strumenti in miniatura e prese a borbottare tra sé come se stesse commentando un'opera d'arte.

«Sei impazzito?» lo canzonai.

«Questa è una meraviglia, oh, il mio mondo! Ho deciso cosa farò domani: passerò tutta la giornata qui dentro, potrei morire!» sentenziò con un tono di voce da pazzo invasato che raramente gli avevo sentito utilizzare.

«Merda» bofonchiai.

«Zitto! Ecco, questo lo regalo a Bryah, hai visto? Non è un amore?» cinguettò ancora John, prendendo delicatamente tra le mani la miniatura di una darbuka.

«A Bryah? E a me non regali niente?» mi lamentai.

«A te questo!» disse soddisfatto, sollevando un mini triangolo. «Sei fastidioso proprio come questo grazioso strumento.»

«Che pezzente...»

Avvistai un altro espositore che presentava i modellini da collezione di altri strumenti vari e mi avvicinai; fui felicissimo di trovare un sacco di piccole chitarre e lo guardai con attenzione. Ne afferrai una che assomigliava molto alla mia Gibson e sorrisi.

Dopo dieci minuti in cui il proprietario del negozio ci rincorse per il locale intimandoci di fare in fretta, uscimmo nuovamente alla luce dell'imbrunire. John aveva comprato praticamente di tutto, mentre io stringevo in mano un sacchetto contenente solo un oggetto.

Mi accostai a Leah e mi piazzai proprio di fronte a lei, in mezzo al marciapiede.

«Cosa stai facendo?» mi chiese con espressione confusa.

Estrassi dal sacchetto un portachiavi a forma di chitarra e glielo sventolai di fronte agli occhi. «Questo è il mio regalo per farmi perdonare. Vengo in pace, oh mia signora! Ti prego di accettare questo umile oggetto da questo testa di cazzo che ti sta di fronte» declamai in tono solenne, ostentando un'espressione molto seria.

Lei sgranò gli occhi, si voltò verso Shavo e i due si scambiarono un'occhiata interrogativa, poi la ragazza tornò a guardarmi.

«Dai» mormorai con un sorriso. «Lo prendi o no? Mi fa male il braccio a furia di tenerlo sospeso di fronte alla tua faccia!» aggiunsi.

Leah cercò in tutti i modi di rimanere seria, ma notai che tratteneva a stento le risate; quando non ce la fece più, scoppiò a ridere e rovesciò la testa all'indietro. Allungò una mano e mi strappò il portachiavi dalle dita, per poi prendere a esaminarlo con attenzione.

«Ma è bellissimo» commentò estasiata.

«La mia chitarra è molto simile a quella» spiegai.

Leah sollevò gli occhi e incrociò i miei. «Sei veramente terribile, Daron Malakian.»

«Me lo dicono in molti» dissi mestamente.

La ragazza mi sorrise e si protese verso di me per lasciarmi un rapido bacio sulla guancia. «Grazie, non avresti potuto farmi un regalo più bello.» Poi si accostò a Shavo e gli mostrò l'oggetto. «Hai visto che bello?» continuava a ripetere.

«Malakian, e io cosa le regalo?» mi apostrofò il bassista con un sorrisetto.

«Regalale il tuo cuore» sghignazzai, per poi scompigliare i capelli di Leah, la quale mi incenerì con lo sguardo e mi mollò una gomitata.

Risi. «Pace?»

«Neanche per sogno. Va' al diavolo» ribatté fingendosi ancora offesa.

«Lo prendo come un sì» conclusi.

A quel punto Bryah ci richiamò e tutti insieme riprendemmo a camminare verso il luogo dove avremmo finalmente cenato.

Stavo morendo di fame, e il fatto di aver chiarito le cose con Leah non fece che accentuare quella mia condizione.

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Capitolo 24
*** Who's the Star? ***


ReggaeFamily

Who's the Star?

[Leah]




«Io sono il topo, capite? E un topo può cambiare stile in qualsiasi momento.»

Quella fu la prima frase che Eek-A-Mouse pronunciò quando si ritrovò di fronte al microfono.

Io e i ragazzi eravamo arrivati poco prima che il live cominciasse, dato che ci eravamo trattenuti all'Health Inna Roots a chiacchierare. Ero rimasta molto contenta del modo che Daron aveva scelto per scusarsi con me. Era stato originale e carino, ma soprattutto avevo compreso la sincerità nei suoi gesti.

Una volta giunti al locale in cui si sarebbe svolto lo showcase dei due cantanti giamaicani, eravamo andati a prendere qualcosa da bere e poi ci eravamo avvicinati al piccolo palco improvvisato; ero stata da subito molto curiosa di assistere a quel concerto, anche perché conoscevo gli artisti in questione e non avevo mai avuto occasione di sentirli cantare dal vivo.

«Ma che dice? Il topo?» gridò Shavo accanto a me, lanciando un'occhiata al giamaicano sul palco.

«Eek-A-Mouse significa Eek è il topo» gli spiegai con un sorriso.

«Completamente folle!» commentò il bassista.

Daron mi affiancò e mi prese sottobraccio, per poi trascinarmi ancora più vicino al palco. Sapevo che voleva divertirsi e ballare come sempre, ormai avevo imparato a capire che c'erano dei momenti in cui il chitarrista non desiderava altro che svuotare la mente e darsi alla pazza gioia, proprio come la sottoscritta; era sorprendente quanto ci somigliassimo sotto quel punto di vista.

Fece scattare l'accendino e si accese la sua solita sigaretta a base di erba, poi ne aspirò qualche boccata e me la porse. La accettai e ne presi un tiro, poi gliela restituii e dissi: «Magari dopo ne vorrò ancora».

Daron annuì e continuò a fumare con calma, poi fummo investiti dalla voce di Eek-A-Mouse che riprendeva a parlare con estrema flemma, strascicando le parole e annunciando che presto sarebbe arrivato il suo collega Barrington Levy; dopodiché prese a idolatrare il dj che intanto continuava a mandare dei pezzi reggae in vinile. Ogni tanto accennava una sorta di nenia con la voce, un marchio del suo modo di cantare.

Era veramente divertente quell'uomo, doveva avere una personalità interessante ed eclettica, si trattava certamente di un vero e proprio personaggio.

Inoltre, aveva un aspetto singolare: era spaventosamente alto, probabilmente più di Shavo, sfoggiava una buffa barba riccia e un cappello di paglia, il tutto su un viso dall'aria simpatica che raramente rimaneva privo di un sorriso, seppur appena accennato.

Poco dopo l'altro artista che avrebbe diviso il palco con lui lo raggiunse, quasi di corsa, e gli circondò le spalle con un braccio con fare fraterno e affettuoso. Barrington Levy doveva avere a occhio e croce una decina d'anni in più del suo collega, aveva la carnagione leggermente più scura rispetto a Eek, il viso tondo e il naso grande gli conferivano un'aria simpatica e serena, accentuata anche dalla completa assenza di capelli.

Daron sghignazzò e mi mollò una gomitata. «Non sembra Shavo da vecchio?»

Scoppiai a ridere. «Sei davvero uno stronzo!»

«Avanti, gli somiglia, non puoi negarmelo!» insistette il chitarrista.

«Taci!»

I due cantanti presero a parlottare tra loro al microfono, inscenando una sorta di dialogo tragicomico che stava scatenando l'ilarità e l'ammirazione di tutti i presenti.

«Hai visto, Mickey Mouse, quanta gente c'è qui? E non sono qui per te, pensa!» lo canzonò Barrington Levy.

«Caspita, hai ragione! Perché i topi ballano quando il gatto non c'è» blaterò l'altro con un'alzata di spalle, il tono di voce quasi piatto e inespressivo. «E voi, pochi topolini presenti, siete pronti a ballare prima che arrivi il micio?» si rivolse al pubblico, per poi esibirsi in uno strano verso che doveva simulare un miagolio. Il tutto, ovviamente, con estrema serietà e con un atteggiamento quasi svogliato. Questo non faceva che accrescere il divertimento generale.

Io e Daron ci guardammo e scoppiammo a ridere.

«Quest'uomo è un fottuto genio!» strepitò il chitarrista con entusiasmo, continuando a fumare beatamente.

Anche i due cantanti presero ad accendere i loro spliff, felici e contenti, poi il selecta mandò la prima base e il primo a cantare fu Eek-A-Mouse.

I due si alternarono al microfono per almeno un'ora e mezza, trascinandoci e facendoci ballare, nonostante spesso mi ritrovassi a pensare che Eek avesse un'infinita discografia di brani molto simili tra loro e con la quasi totale assenza di testi di senso compiuto. Era un mito perché aveva spinto la sua musica e ottenuto rispetto e successo nella scena reggae, pur non facendo niente di davvero sensato o complicato.

Andai fuori di testa quando Barrington Levy eseguì Here I Come, così mi precipitai da Shavo e lo costrinsi a venire vicino al palco con me e Daron.

Presi a cantare come una pazza e alla fine i due si unirono a me, mentre ci tenevamo a braccetto l'un l'altro e sgambettavamo a destra e sinistra.


I'm broad, I'm broad, I'm broader than Broadway
Yes I'm broad, I'm broad, I'm broader than Broadway


«Questa canzone è fatta apposta per te, Malakian!» gli fece notare Shavo, mentre muoveva la testa a tempo e seguendo il ritmo incessante e meraviglioso del basso, strumento che nel reggae era più che fondamentale.

«Cazzo, sì! Oh, questi due sono fantastici!» continuò a idolatrarli il chitarrista, senza smettere di agitarsi come un ossesso.

John e Bryah si accostarono a noi per chiederci se volessimo qualcosa da bere, poi si avviarono al bancone e subito dopo Eek-A-Mouse eseguì un brano fantastico intitolato Sensee Party, per cui impazzii nuovamente e lasciai andare i miei amici, prendendo a muovermi come non mai.

Daron, preso dal tema della canzone, si accese nuovamente la sua canna e me la passò; fumai, poi sollevai le braccia al cielo e gridai fino a perdere la voce, ancheggiando e cantando a squarciagola.


All day, all night in da party,
Ev'ryone smokin' sensemila.
Dey me sight in anada corner,
De natty dread 'im jus' a rock wid him dawta.


«Leah, sei impazzita!» gridò Daron al mio fianco.

«Come si può non impazzire per questo?» gli feci notare.

Shavo mi afferrò per i fianchi e si sistemò dietro di me, muovendosi a tempo e facendo aderire il suo petto contro la mia schiena; era piacevole stare così con lui, ma ovviamente quel momento non durò a lungo perché il richiamo delle vibrazioni dei bassi mi portò a staccarmi nuovamente da lui e riprendere la mia danza febbrile.

Gli strizzai l'occhio e mi fermai soltanto per baciarlo brevemente sulle labbra, così scatenai l'entusiasmo di Daron che prese a fischiare e strillare come un deficiente, mollando vigorose pacche sulla schiena al suo amico e scompigliandomi ripetutamente i capelli.

«Imbecille!» lo accusò Shavo, scacciandolo via da sé; Daron tuttavia non si allontanò e continuò a importunarlo, finché il bassista non si stancò e gli mollò uno scappellotto, facendolo piegare in avanti e schiattare quasi per le risate.

«Che diamine state combinando?» domandò John, di ritorno dal bar.

Smisi di ballare solo per sorseggiare un po' del drink che Bryah mi passò, poi ripresi a estraniarmi e immergermi nel mio mondo fatto di bassi, grida e vibrazioni profonde come le emozioni che stavo provando in quel momento.


Doveva essere circa l'una del mattino quando lo showcase si concluse; il selecta, in ogni caso, non smise di mandare delle tracce che intrattennero il pubblico ancora un po'.

«È stato pazzesco, non trovate?» interrogai i miei amici, muovendomi leggermente a tempo su un vecchio classico degli Israel Vibration.

«Io ve l'avevo detto» affermò Bryah con un sorriso enorme a incurvarle le labbra carnose.

«Già, avevi ragione, sorella!» esclamò Daron, cercando di far funzionare l'accendino; questo evidentemente aveva deciso di abbandonarlo proprio in quell'istante, poiché il chitarrista prese a imprecare rumorosamente.

«Sei l'uomo che non deve chiedere mai, Malakian?» lo apostrofò Shavo, allungandogli il suo Zippo.

«Simpaticone» borbottò l'altro, strappandogli l'oggetto dalle mani e accendendosi la sigaretta magica.

«Non ringraziarmi, non ce n'è bisogno, è un piacere prestarti il mio accendino» disse il bassista aggrottando la fronte.

«Daron dice che tu sarai come Barrington Levy, un giorno!» esclamai, decidendo di aggiungere sale alla ferita.

«Cosa? Come osi!»

«Oddio, è vero!» esclamò John, poi scoppiò improvvisamente a ridere e io lo osservai sorpresa.

«L'unica differenza è che Shavo non è scuro di pelle!» fece notare Bryah. «Però, in effetti...»

«Shavarsh è una mozzarellina, non è sceso in spiaggia neanche una volta da quando lo conosco» commentai divertita.

«Andate tutti a farvi fottere!» si rivoltò il bassista, incrociando le braccia al petto.

«La verità fa male, eh?» sghignazzò Daron.

Shavo stava per ribattere, quando un chiacchiericcio concitato ci distrasse; mi voltai verso il palco e notai che diverse persone circondavano i due cantanti e chiedevano loro di fare qualche foto o di firmare oggetti e parti del corpo di varie entità.

Ma notai che Eek puntava lo sguardo nella nostra direzione e mi accigliai.

«Scusate, signore e signori, ma adesso io e il mio collega Topolino dobbiamo salutare degli amici. Siete stati molto gentili a venire qui» sentii gridare da Barrington Levy.

I due salutarono i loro ammiratori e si diressero a passo spedito verso di noi, senza smettere di sorridere.

Eek si piazzò di fronte a Daron e accennò una riverenza, per poi offrirgli il suo spliff di erba in segno di pace e fratellanza. «Mio caro amico, ti prego di accettare questo in nome della fratellanza che unisce noi tutti. Del resto, siamo tutti dei topi e dobbiamo stare in pace tra noi, contro il sistema offensivo di Babilonia!».

Daron strabuzzò gli occhi ed ebbi quasi paura che gli uscissero dalle orbite. «Amico, quanto hai fumato?» esordì il chitarrista.

«Abbastanza, ma tu mi sembri ancora attaccato alle cose materiali della vita... devi integrare la pianta santa nella tua esistenza, che cresce sulla tomba di Re Salomone...»

«Eek, insomma, così lo spaventi! Fatti un attimo da parte, su! Piacere di conoscervi, il mio nome è Barrington, spero proprio che la nostra esibizione sia stata di vostro gradimento!» esclamò l'altro, porgendo gentilmente la mano a Daron, per poi tenderla anche al resto del gruppo.

Tutti ci presentammo e Barrington proseguì: «Il mio caro Eek mi ha confidato che voi tre siete dei musicisti da lui molto stimati. Mi dispiace, ma io non penso di conoscere la vostra musica. In ogni caso, sono onorato».

Il suo collega tossicchiò e gli picchiettò sulla spalla. «Dici tante di quelle cazzate, Barry! Ragazzi, voi siete una guida per me, la vostra musica è fonte di ispirazione, anche se sono più vecchio e ho cominciato a fare musica da molto tempo! Sapete, avrei sempre voluto fare qualcosa di rock o metal, ma capite bene che in Giamaica questi generi non vanno... c'è stato un periodo in cui, discostandomi troppo dal reggae, ho perso l'approvazione di un sacco di persone che prima mi apprezzavano. Jah mi perdonerà, ma io non posso fare a meno di ascoltare il vostro genere e quello di tanti altri gruppi come voi» blaterò, gesticolando energicamente e sorridendo sempre più, il che faceva però a cazzotti con il suo tono costantemente flemmatico. «Ma che maleducato! Non mi sono presentato: il mio nome è Joseph Ripton Hylton, Eek per gli amici, quindi anche per voi!»

Gli stringemmo la mano, ma tutti eravamo piuttosto confusi e spaesati dall'esuberanza di quei due; era come se, nonostante avessero sicuramente passato i cinquant'anni, avessero molte più energie di noi.

«Dov'è il vostro talentuoso cantante, miei cari?» volle sapere Eek.

«Serj è rimasto a Los Angeles con sua moglie. Non è potuto venire» spiegò Shavo.

«Oh, che peccato! Ragazzi miei, io e Barry abbiamo un regalo per voi!» disse all'improvviso Eek, poi si rivolse al collega e aggiunse: «Vai di là a prendere qualche disco o qualche vinile, così potranno portarne qualche copia anche a Serj Tankian».

Barrington annuì ed eseguì un finto saluto militare, poi si allontanò e si diresse verso la postazione di Burton Selecta.

«Eek, posso farti una domanda?» mi feci avanti, veramente curiosa. Quell'uomo era assurdamente stravagante e mi faceva sbellicare dal ridere perché era un controsenso deambulante: sembrava sfoggiare sempre un atteggiamento serio, ma ovviamente non ci voleva molto per capire che era totalmente l'opposto.

«Ma certo signorina, dimmi tutto!» accettò di buon grado, prendendo la mia mano tra le sue e guardandomi negli occhi.

«Perché hai scelto un nome d'arte del genere?» domandai, sempre curiosa e affascinata dai nomi altrui. Era un mio debole, non potevo farci niente.

«Oh, è semplice. Eek era il nome di un cavallo da corsa su cui scommettevo un tempo; lui perdeva sempre, sai? Così un giorno evitai le scommesse, e indovina un po' cosa accadde?» mi interrogò in tono ilare, senza però scomporsi troppo.

«Che cosa?»

«Eek vinse! E così, non so, mi sono sentito ispirato! Poi, be'... sono il topo perché i topi possono essere volubili, cambiare stile in ogni istante della loro vita, possono sorprenderti. Sono interessanti, anche se nessuno bada a loro» spiegò ancora con fare concitato, annuendo ripetutamente per dare senso alle sue parole. Per la prima volta si stava mostrando veramente entusiasta, il che era grave, visto che stava dicendo delle cose completamente a sproposito e quasi del tutte privo di logica.

«Oh.» Piegai la testa di lato e notai che Bryah si era avvicinata a noi e se la rideva sotto i baffi. «Interessante.»

«Stai pensando che io sia pazzo» affermò il giamaicano.

Scossi il capo. «Penso che tu sia un genio» ammisi con sincerità.

La giornalista intervenne e chiese a Eek se potesse parlare nel Kingston Times della serata appena trascorsa. Allora il cantante parve illuminarsi e i due cominciarono a chiacchierare animatamente.

Poco dopo Barrington tornò da noi e prese a distribuire CD e vinili a tutti, neanche fosse il rappresentante di un ente di beneficenza.

«Ma noi vogliamo gli autografi!» esclamò Daron, ammirando i suoi nuovi tesori.

«Certamente, sarà un piacere per noi!» accettò Barrington.

John, in tutto ciò, era rimasto in disparte e si godeva la scena con un mezzo sorriso, così lo raggiunsi e lo presi sottobraccio. «Tutto bene?» gli chiesi.

«Certo. Questi due sono fottutamente folli.»

«Macché, scherzi?»

«Ehi, foto di gruppo!» strillò Bryah, battendo le mani per attirare l'attenzione di tutti.

Daron si esibì in una smorfia contrariata e borbottò: «La scatto io, va bene?».

«Direi di no, mio caro! Voglio una foto ricordo con tutti voi. Già devo rinunciare a Serj...» Eek lo afferrò gentilmente per un braccio e lo tirò accanto a sé, per poi scoppiare a ridere nel notare la faccia del chitarrista che si era improvvisamente rabbuiata. Era buffo notare che tra i due dovevano esserci almeno venti centimetri di differenza e che il chitarrista raggiungeva appena la spalla di Eek con il suo metro e settanta appena accennato. In effetti, anche io mi sentivo piuttosto bassa in confronto a quel colosso.

«Non sono fotogenico» protestò ancora Daron.

«Neanche io! Dai, ragazzo mio, ci sono dei mali peggiori nella vita, non farne una tragedia!» sdrammatizzò Eek, per poi strizzargli l'occhio e fare cenno a un cameriere di passaggio.

Questo si avvicinò. «Cosa posso portarle, signore?»

«Giovanotto, dovresti scattare qualche foto a me e Barry insieme a questi tre ragazzoni!»

Il giovane cameriere dai lunghi dreadlocks neri annuì. «Ma certamente!»

«Potrebbe farlo una di noi due, no?» osservò Bryah.

«Ma no, dolcezza, voi due fate la foto con noi!» ci ordinò Barrington tutto contento, appostandosi alla sinistra di Daron.

Il chitarrista sembrava veramente un topo in gabbia e io mi domandai perché fosse così restio a fare una stupida fotografia.

Io e Bryah ci lanciammo un'occhiata, poi prendemmo Shavo e John sottobraccio e tutti ci preparammo per sorridere alla fotocamera del cellulare di Eek; per far sì che Daron smettesse di fare il broncio, i due cantanti presero a fargli il solletico e lui infine scoppiò a ridere come un matto.

Le foto uscirono veramente bene, anche e soprattutto perché tutti noi avevamo delle facce epiche e impagabili. Eek ci inviò tutti gli scatti con il bluetooth e poi i cinque musicisti diedero vita a una cosa assurda, una scena a cui non avrei mai immaginato di assistere: cominciarono a fare un giro d'autografi, scambiandosi vinili e CD, e alla fine non si capiva più chi avesse già firmato e chi no. Tutti ridevamo come matti e continuammo a chiacchierare per un tempo che mi parve infinito.

«Adesso dobbiamo proprio andare!» esclamò a un certo puntò Barrington, mentre Eek si accendeva l'ennesima canna e non smetteva più di sghignazzare con Daron.

«Peccato» commentò John, che intanto si era leggermente aperto alla conversazione e ci stava evidentemente prendendo gusto.

«Magari ci rivediamo in giro» disse Bryah.

«Non venite in California?» fece Shavo.

«Possiamo organizzare qualcosa, perché no?» si eccitò subito Eek con gli occhi che brillavano.

«Allora rimaniamo in contatto» propose il bassista.

Ci fu uno scambio di numeri di cellulare, poi una serie di saluti allegri fatti di abbracci fraterni, strette di mano e pacche sulle spalle, infine i due cantanti si allontanarono e poco dopo li vedemmo lasciare il locale, intercettati da qualche altro fan che chiedeva loro qualche scatto.

«Sono simpatici» commentò infine John.

«Sul serio, sono fuori di testa!» convenne Daron.

Rimanemmo a chiacchierare per un altro po' dopo aver chiamato un taxi, poi tornammo all'esterno per aspettare l'auto.

«Allora, ragazzi... è stata una bellissima serata, vi ringrazio molto per essere venuti qui. E scusatemi ancora per l'inconveniente del museo...» Bryah pronunciò quelle parole poco prima di lasciarci.

«Torni a piedi? Non sarà mica pericoloso?» si preoccupò John.

«No, tranquillo. Abito qua vicino. Ci sentiamo domani per organizzare qualcosa? Dovrebbe essere libero anche Benton, il mio compagno, così ve lo faccio conoscere! Che ne pensate?» proseguì la giornalista con entusiasmo, facendo oscillare i suoi folti capelli ricci e scuri.

Notai che John serrava le labbra, evitando di commentare e di guardarla in viso.

«Sì, certo» accettò Daron a nome di tutti noi.

Anche se mi dispiaceva per il batterista, come avremmo potuto rifiutare la proposta della nostra amica?

«Allora a domani!» concluse lei, poi ci salutò con un cenno e si avviò lungo il marciapiede ancora popolato da diverse persone.

Poco dopo il taxi si fermò di fronte a noi e ci affrettammo a salire a bordo; Daron insistette per stare sul sedile anteriore e si allungò su di esso, sbadigliando rumorosamente. Io mi ritrovai su quello posteriore tra Shavo e John, e sentii la stanchezza cominciare a invadermi tutto il corpo.

Shavo prese una delle mie mani e intrecciò le sue dita alle mie, per poi carezzare con dolcezza la pelle del dorso. Era bello, rilassante, magico, averlo accanto e sentirlo tanto vicino attraverso quei piccoli gesti.

Ripensai al nostro risveglio di quella mattina e sorrisi, ma poi notai che John osservava con sguardo assorto e malinconico l'oscurità della notte oltre il finestrino. Mi voltai verso Shavo e lo trovai appisolato con la fronte contro il vetro, così riportai l'attenzione sul batterista e gli toccai appena la spalla.

Lui si voltò e i nostri occhi si incrociarono nella penombra.

«Domani facciamo colazione insieme?» gli proposi con un sorriso.

Lui annuì. «Certo, va bene.»

«Allora è deciso.»

«Sì.»

«John, ascolta...»

«Dimmi.»

«Ti vedo molto giù di morale» ammisi. «Domani ne parliamo?»

Il batterista stette in silenzio per un po', riflettendo sulla mia proposta, infine rispose: «Forse».

«È già qualcosa» commentai.

Il resto del viaggio trascorse in silenzio, ma io ero certa di voler provare ad aiutare John, anche se non insistetti oltre con le mie domande e con la mia solita sfacciataggine.

Dovevo saper aspettare, aspettare soltanto che passasse la notte.




Ciao a tutti, come procede? Vi sta piacendo questa storia? ;) io mi diverto un sacco a scriverla! *-*

Vi starete chiedendo perché ho saltato l'aggiornamento di settimana scorsa, e io sono qui per spiegarvelo. Le ragioni sono due:

  1. Dovevo pubblicare una OS scritta a quattro mani con Soul, una cosuccia divertente che, se vi va, potete andare a leggere. Non vi anticipo nulla, vi dico solo che si chiama “Oh, quasi me ne dimenticavo!” ;)

  2. Be', ragazzi... ho assistito proprio giovedì al mio primo live di Eek-A-Mouse!!!! Quando ho scritto questo capitolo, ancora non sapevo che sarebbe successo... ma poi l'ho scoperto e ho deciso che sarebbe stato carino aspettare di vederlo dal vivo per capire se ci avevo azzeccato o se sarebbe stato necessario aggiungere qualche dettaglio su di lui! E, be', è stato fantastico, proprio come ha raccontato la nostra Leah! Eek è proprio così: flemmatico, sembra non avere neanche voglia di vivere, però i suoi brani fanno ridere proprio per questo, e io lo adoro proprio per questo! Sono cose nonsense, testi quasi inesistenti ed estremamente ripetitivi, ma non per questo noiosi. Dal vivo fa ballare e cantare, è proprio un personaggio, una specie di pagliaccio XD

Ma bando alle ciance: non sono qui per fare la recensione al live di Eek (anche se ancora non mi sembra vero o.o), bensì per parlarvi dei pezzi che i nostri eroi si sono divertiti a ballare durante quest'altra bella serata; il primo è un brano di Barrington Levy, appunto, ecco a voi il link per l'ascolto a Here I Come:

https://www.youtube.com/watch?v=clCAfLfPWM4

Poi c'è Sensee Party del nostro folle Eek-A-Mouse, sentite un po' qui:

https://www.youtube.com/watch?v=kXFV_anPVLw

Immaginatevi i ragazzi che ballano e fanno i cori da stadio su queste cose, ahahahah, troppo divertente come scenetta da immaginare, soprattutto dopo averne vissuto diverse simili al concerto di Eek! Pura magia, ve l'assicuro! :3

Cosa ve ne pare di questo incontro tra musicisti famosi? Vi confesso che è proprio vero: Eek ha collaborato con i P.O.D., quindi è sinceramente interessato anche al metal e al rock, nonostante possa sembrare difficile da immaginare! Il pezzo si chiama Ridiculous ed è presente nell'album Satellite dei P.O.D., appunto; io vi consiglio di ascoltare questa canzone, è una bellissima follia:

https://www.youtube.com/watch?v=ajm1Qx9duSQ

Bene, spero che questa piccola follia continui a piacervi, e ditemi... secondo voi chi è la vera star della serata? I due cantanti giamaicani o i ragazzi dei SOAD che sono stati da Eek idolatrati?

Io non so scegliere, ecco perché ho messo quel titolo al capitolo :D

Scusate se stavolta mi sono dilungata fin troppo, ma era necessario (almeno credo, ahahah)!

Grazie di cuore a tutti e alla prossima ♥

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Capitolo 25
*** Here comes the Night ***


ReggaeFamily

Here comes the Night

[Shavo]




«Andiamo al Buts?» mi chiese Leah all'improvviso.

Aggrottai le sopracciglia. «Adesso?»

«Sì, perché no?»

«Forse perché sono le due del mattino e domani dobbiamo alzarci presto per andare in città a visitare quel museo, ricordi?» le feci notare con le idee sempre più confuse. Quella ragazza mi avrebbe fatto perdere il senno prima o poi.

«E allora? Oh, Shavarsh! Immagina quanto sarà romantico: io e te, noi due soli soletti, sulla spiaggia, due cuori e una coperta...» blaterò con pungente ironia nella voce, mentre percorreva la mia spalla con una mano.

«Ma non era due cuori e una capanna

«Se hai voglia di costruire un riparo per la notte, fai pure. Io mi accontento di una coperta che ho adocchiato nel mio armadio» borbottò Leah.

Sospirai. Perché mi ero preso una sbandata per una ragazza così simile a Daron? Certe volte aveva delle idee assurde, faticavo già a starle dietro.

«Allora ci diamo una mossa?» strepitò ancora lei, strattonandomi leggermente per un braccio. «O vuoi lasciare che io vada laggiù tutta sola, in balia degli agenti atmosferici e delle intemperie della notte?»

«Se qualcuno volesse aggredirti, desisterebbe subito perché gli riempiresti la testa di fesserie» ribattei con finto tono irritato.

«Che stronzo!»

Mi guardai attorno: nella hall, oltre a noi due, c'era soltanto lo stagista che si stava probabilmente intrattenendo con un videogioco sul computer. Riportai gli occhi su quelli vispi e luminosi di Leah, poi annuii lentamente e mi lasciai sfuggire un sospiro rassegnato.

«Oh, ti adoro!» Leah mi abbracciò di slancio, poi mi lasciò andare e si precipitò a recuperare la coperta che ci avrebbe tenuto compagnia al Buts. Non ero certo di come sarebbero andate le cose, probabilmente saremmo morti assiderati, o forse ci saremo beccati un malanno. Eppure la faccenda si faceva intrigante: io e Leah da soli sulla spiaggia, sotto la luna, con il fruscio delle onde e tutto il resto...

Scossi il capo e cercai di darmi un contegno. Fortunatamente i miei amici si erano dileguati in fretta e furia, non appena eravamo rientrati dalla capitale in seguito al concerto di quei due pazzi: John aveva asserito di essere molto stanco, mentre Daron aveva borbottato qualcosa a proposito di una faccenda da risolvere. Il chitarrista era sempre nei casini, ancor più da quando eravamo giunti in Giamaica.

Sobbalzai leggermente quando Leah si materializzò nuovamente al mio fianco; aveva un sorriso enorme e stringeva tra le mani una grande coperta in lana che doveva pesare almeno un quintale.

«Se morirò stanotte, dovrei almeno lasciare un testamento» commentai, mentre ci avviavamo verso l'uscita laterale situata ai piedi della palazzina dipinta di bordeaux.

«Quanto sei tragico! Allora il tuo basso lo lasci a me?» cinguettò la ragazza in tono allegro.

«Quale dei tanti?»

«Il più bello e il più costoso.» Mi indirizzò un ghigno. «Così potrò rivenderlo e farmi un sacco di soldi!»

«Che donna venale!» la accusai scherzosamente.


Quando giungemmo alla fine della passerella in legno che conduceva sulla spiaggia, ci guardammo intorno e Leah indicò verso la scogliera.

«Saliamo nel punto panoramico dell'altro giorno!» esclamò.

«Cosa? Ci romperemo l'osso del collo, non si vede niente qui!» protestai.

«Shavarsh, ti hanno mai detto che sei ipocondriaco?» mi ignorò, avviandosi a passo spedito verso la parete rocciosa che si stagliava nell'oscurità.

La seguii in fretta. «Qualche volta me lo dicono, sì. Ma la mia è solo prudenza!»

Leah si arrestò di botto, e per un attimo temetti che avesse scorto qualcosa tra le ombre; fui costretto a ricredermi quando si voltò verso di me, mi sorrise con fare condiscendente e poi si allungò per baciarmi. Rimanemmo sospesi in quell'attimo per pochi secondi, infine la ragazza staccò le sue labbra delle mie e mormorò: «Adesso stai zitto, cammina e basta».

Fui costretto a obbedire, anche perché Leah prese la mia mano e mi guidò sapientemente lungo il ripido sentiero che conduceva alla piattaforma che affacciava direttamente sul Buts.

«Forse riusciremo a salutare i gatti oggi, mi sa che l'altra volta Daron li ha spaventati» disse Leah, una volta raggiunta la nostra meta.

«Probabile!»

«Hai visto, Shavarsh? Non ti sei fatto male, siamo entrambi sani e salvi!» mi prese in giro all'improvviso, mentre gironzolava per la piccola piattaforma. Non appena avvistò un punto che le parve abbastanza comodo per noi due, stese l'enorme coperta e ci si inginocchiò sopra, lanciandomi un'occhiata per incitarmi a fare lo stesso.

«Simpaticona. E se fosse andata diversamente?» la punzecchiai, affrettandomi a raggiungerla.

«Non rompere. Vieni qui.» Leah batté sulla coperta accanto a sé, poi si ricordò di qualcosa e cominciò a richiamare i suoi amati gatti.

«Ma che nomi sono?» chiesi perplesso.

«Che hanno di male i nomi dei miei tesori? Il più vecchio si chiama Beasty, non ti piace? E Fake non è delizioso?» Leah era eccitata come non mai per le stupidaggini che stava dicendo.

Scoppiai a ridere. «Che stupida che sei! Il mio preferito è Rasta» commentai.

«Rasta si chiama così perché ha il pelo molto lungo e folto. Per questo gli si creano dei dreadlocks naturali» spiegò con orgoglio la ragazza.

Incredulo, notai che un gatto era finalmente uscito dall'insenatura sulla roccia e mi scrutava con occhi gialli e indagatori che brillavano nell'ombra.

«Fake, ma ciao!» saltò su Leah, allungandosi verso il gatto completamente nero per accarezzarlo. «Shavarsh, gli piaci. Se ti osserva e non scappa, significa che gli stai simpatico. Avvicinati» mi incoraggiò Leah.

Mi inginocchiai sulla coperta e mi accostai a lei, strisciando lentamente per non spaventare la bellissima creatura che avevo di fronte. Daron sarebbe impazzito per quel gatto, ne ero certo: adorava quegli animali, ma i gatti neri erano senza dubbio i suoi preferiti.

Allungai una mano con cautela e carezzai delicatamente il pelo nero e lucido di Fake, trovandolo incredibilmente morbido e pulito. «È molto curato per essere un randagio» osservai con ammirazione.

«Questi cuccioli si lavano più di te, mio caro!» mi sfotté Leah.

«E tu che ne sai?» ribattei, lanciandole un'occhiata in tralice.

Leah scosse la testa e, all'improvviso, mi spinse all'indietro, facendomi cadere con la schiena sulla coperta. Fake fu spaventato da quel movimento brusco e si dileguò come un fulmine all'interno della sua amata cuccia naturale dalle pareti di pietra.

«Ma che fai? Il tuo micio si è spaventato a causa tua!»

Leah si chinò su di me per far sì che i nostri occhi si incrociassero. Rimase in silenzio per un po', scrutandomi nel profondo e con estrema serietà.

«Sai che c'è? Non m'importa» sussurrò.

Feci per afferrarla per le spalle e attirarla a me, quando lei si rimise a sedere e frugò nella sua borsa. Ne estrasse un barattolo di disinfettante e se ne versò un po' sulle mani, poi me lo passò e ridacchiò.

«I gatti sono meravigliosi, ma bisogna sempre pulirsi le mani dopo averli toccati» spiegò in fretta, strofinandosi forte i palmi per pulirli a fondo.

La imitai e per qualche secondo ci dedicammo a quell'operazione. Poi Leah ripose il disinfettante in borsa e la vidi rabbrividire all'improvviso.

«Adesso basta, ho freddo» dichiarò, stendendosi sulla coperta accanto a me. Si mise su un fianco e mi si accostò, poi afferrò un lembo della coperta e la sistemò su di noi. Feci lo stesso con il lembo opposto e in un attimo ci ritrovammo avvolti nella lana come se insieme formassimo un unico bozzolo.

«Ora va meglio?» chiesi, mettendomi a mia volta su un fianco e abbracciando Leah.

«Decisamente.» La ragazza si stiracchiò tra le mie braccia e sbadigliò. «Meno male che hai accettato di venire qui con me.»

«Che avrei potuto fare? Mi hai praticamente obbligato» scherzai, baciandole delicatamente la fronte.

«Sei proprio senza speranze...»

«Colpa tua che mi fai quest'effetto» la accusai, per poi ridacchiare.

Leah sbuffò e mi voltò le spalle. «Ora sono offesa.»

La strinsi forte e feci aderire la sua schiena al mio petto, lasciandole leggeri baci sui capelli, fino a raggiungere la pelle dietro il suo orecchio sinistro.

Sospirò e si premette maggiormente contro il mio corpo. «Così però non vale, Shavarsh» mormorò.

«Ah no?» Sorrisi. «Il mio nome ha un suono davvero bello se sei tu a pronunciarlo. Non l'avrei mai detto» ammisi.

Lei rise e si voltò di nuovo nella mia direzione, posandomi una mano sulla guancia. «E io non avrei mai creduto che un ragazzaccio come te potesse rivelarsi così sdolcinato.»

«Ehi!»

Leah posò le sue labbra sulle mie e pose fine a quel botta e risposta, baciandomi con dolcezza e trasporto allo stesso tempo, insistendo subito per approfondire quel contatto; accettai di buon grado e la presi tra le braccia, facendo combaciare perfettamente i nostri corpi e sentendo di stare davvero bene in sua compagnia. L'avevo conosciuta da poco, eppure era come se fossero trascorsi secoli da quel primo, disastroso incontro.

Quando ci separammo per riprendere fiato, poggiai la fronte contro la sua e dissi: «Qualcosa mi fa pensare che tu abbia dormito altre volte quassù. Dico bene?».

Leah mi regalò un sorriso che riuscii appena a scorgere nell'oscurità della notte. «Lo faccio sempre quando sono qui con Alan e le sue amanti del momento. Mi rilassa.»

Avevo un po' di timore a porle quella domanda, ma mi imposi di non essere sciocco e domandai: «Sei sempre stata sola qui?».

La ragazza scoppiò improvvisamente a ridere e mi mollò un leggero pugno sul petto. «Sei geloso, eh? Oddio, questa è bella!»

«Non è divertente» le feci notare, sentendomi leggermente in imbarazzo.

«Okay, okay! Scusa, è che hai fatto una faccia...» Leah tornò seria. «No, sono sempre stata qui con i miei gatti.»

«Allora mi sento fortunato!» esclamai in tono allegro, in modo da sminuire la mia domanda di poco prima. Dentro, tuttavia, mi sentivo rincuorato dal fatto che quel momento apparentemente banale che stavamo condividendo, fosse in realtà qualcosa di speciale e unico per entrambi.

«Certo, devi sentirti privilegiato!» chiarì lei, conferendo alla sua voce un che di altezzoso che mi fece scoppiare a ridere.

Poco dopo tornammo in silenzio. Proprio quando stavo per romperlo, un grido stridulo proveniente dalla spiaggia sotto di noi ci fece sobbalzare. Rimanemmo immobili a fissarci, tendendo le orecchie per capire cosa stesse succedendo.

Riconobbi due voci: una maschile e una femminile. Discutevano tra loro con fare concitato, e impiegai davvero poco a comprendere che si trattava di Daron. Il chitarrista era in compagnia di una ragazza.

Ma cosa ci faceva al Buts in piena notte?! Probabilmente se il mio amico avesse visto me e Leah in quel momento, si sarebbe posto la stessa identica domanda e avrebbe commentato dicendo che avremmo potuto anche starcene belli e tranquilli in albergo. E forse non avrebbe avuto tutti i torti, ma non stavo poi così male su quella scogliera, avvolto in una coperta con Leah tra le braccia.

«Ma questa è la voce di Lakyta» sibilò la ragazza accanto a me, aggrottando la fronte con fare contrariato.

«Lakyta?» chiesi perplesso.

«La cameriera che lavora su in terrazza» rispose Leah.

«Stiamo a sentire cosa hanno da dirsi» ghignai, mentre ci scambiavamo un'occhiata complice colma di malizia.

«... Daron, insomma! Cosa ti costa?» stava dicendo la cameriera.

Nonostante cercassi di concentrarmi, mi fu impossibile capire cosa stesse dicendo il chitarrista: tendeva a mangiarsi la maggior parte delle parole e parlava a voce troppo bassa per essere udita chiaramente.

«È solo sesso!» strillò ancora Lakyta. «Chissà quante donne ti sei fottuto, ora vuoi rifiutare proprio me?»

Leah cominciò a sghignazzare e affondò la faccia nella coperta per evitare di fare rumore. «Che squallida!» continuava a ripetere.

L'interlocutrice di Daron gridò: «Allora?! Dai, Daron! Neanche questo ti fa effetto, eh?».

Chiusi gli occhi come se temessi di ritrovarmi improvvisamente di fronte la scena raccapricciante che sicuramente si stava svolgendo sulla spiaggia. Avvertii Leah che appoggiava la testa contro la mia spalla, e rimanemmo in silenzio ad ascoltare ancora.

«Mi spoglio e tu rimani lì a sorridere come un idiota?» si rivoltò per l'ennesima volta Lakyta, squarciando il silenzio della notte con la sua voce estremamente stridula e fastidiosa.

Improvvisamente calò una quiete assoluta e io riaprii gli occhi, leggermente confuso. Se n'erano forse andati?

Leah ridacchiò. «Adesso vado a dare un'occhiata» disse con aria terribilmente maliziosa, per poi sgusciare via dalla coperta e avviarsi carponi verso il bordo della piccola piattaforma su cui ci trovavamo.

Stranito, la seguii, morso dalla curiosità e dal fatto che Leah fosse assolutamente fuori di testa e facesse tutto ciò che io non avrei mai fatto.

Quando ci affacciammo per sbirciare, rimanemmo estremamente basiti dalla scena che si presentò ai nostri occhi: la cameriera, completamente nuda, era inginocchiata ai piedi di Daron e gli stava facendo un servizietto in cui, ne ero certo, doveva avere molta esperienza. Il chitarrista sussultava appena, e a un tratto lo sentì commentare con voce rotta: «Almeno ti rendi utile e stai zitta».

Trascinai Leah verso la coperta e, incapaci di trattenerci, scoppiammo a ridere, soffocandoci quasi con la faccia contro il tessuto ispido. Non ci potevo credere, Daron ne aveva combinato un'altra delle sue! E non capivo perché proprio lì, proprio quella notte, sotto i nostri occhi e alla portata delle nostre orecchie.

Quelle erano scene che soltanto a me poteva capitare di assistere, ma era come se la vicinanza di Leah accentuasse lo svolgersi di situazioni piuttosto surreali e incredibili.

Quando riuscimmo a riprenderci dal momento divertente che la scena in spiaggia aveva scatenato, rimanemmo stesi sulla coperta per riprendere fiato.

«Mi fa male la pancia a furia di ridere, cazzo!» esclamò Leah.

«A chi lo dici! Che schifo, penso che mi rimarrà impressa per sempre, che trauma!» concordai ancora con il fiatone.

Poco dopo ci avvolgemmo nuovamente nella coperta, sfiniti. Chissà quanto tempo era passato da quando ci eravamo recati lassù...

«Shavarsh?» mi chiamò Leah con un filo di voce.

«Dimmi.»

«Adesso possiamo dormire? Ti va?»

«Certo, sono stanchissimo» accettai di buon grado.

«Però imposto la sveglia del cellulare, altrimenti potremmo rischiare di non alzarci domani mattina. Inoltre, potremmo prenderci un'insolazione, dato che siamo ai Caraibi e il sole...»

Le feci il solletico sul collo. «Chi è l'ipocondriaco ora?» la interruppi con un sorriso.

«Smettila!» Leah impostò la sveglia e buttò nuovamente il suo telefono in borsa, poi si accoccolò al mio fianco e chiuse gli occhi.

Mi chinai su di lei e la baciai lentamente sulle palpebre, per poi cercare le sue labbra per un ultimo bacio prima di dormire. «Sogni d'oro, Leah» dissi infine.

Lei allungò una mano e tracciò con le dita, senza aprire gli occhi, il profilo della mia mascella. «Sogni d'oro, ragazzaccio» biascicò.

Poco dopo si addormentò, mentre io dovetti attendere ancora un po' prima di seguirla nel mondo dei sogni. Mi chiesi se Daron e Lakyta se ne fossero andati, cosa avesse spinto il chitarrista ad avere a che fare con quella ragazza, cosa sapesse lei sul conto del mio amico...

Prima di scivolare nel sonno, un ricordo mi colpì. Immagini nitide del mattino precedente, quando io e Leah ci eravamo risvegliati insieme per la prima volta.


«Shavarsh, svegliati! Stai per cadere dal letto!» aveva strillato Leah.

Mi ero riscosso in fretta e avevo aperto gli occhi, ritrovandomi con il viso a pochi centimetri dal pavimento. «Cazzo» avevo imprecato, cercando di farmi spazio sul materasso.

Leah mi teneva stretto, ma sicuramente dovevo essere troppo pesante perché lei riuscisse a sorreggermi.

«Sei troppo buffo!» aveva sghignazzato, per poi farmi il solletico sotto le ascelle.

Nel tentativo di ribellarmi, avevo preso a oscillare pericolosamente sul bordo del materasso. All'improvviso mi ero ritrovato a rotolare giù, per poi finire carponi sul tappeto.

Leah era scoppiata a ridere e non riusciva più a smettere. «Bellissima, avrei dovuto fare una ripresa! Perché non ho mai la fotocamera pronta quando serve?» aveva continuato a prendermi in giro.

«Non è divertente! Che risveglio del cazzo» avevo borbottato in tono contrariato, mettendomi faticosamente a sedere.

Leah si era messa nuovamente su un fianco, facendo incrociare così i nostri sguardi. «Buongiorno, Shavarsh!»

«Buongiorno un cazzo, Leah Moonshift! Adesso me la paghi!»

Così avevo dato il via a un assalto fatto di solletico, cuscinate e baci rubati.

Era stato un risveglio meravigliosamente di merda.

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Capitolo 26
*** Friendship is the Cure ***


ReggaeFamily

Friendship is the Cure

[John]




Guardai l'orologio: erano le nove e undici minuti. Sollevai lo sguardo in direzione dell'ascensore e proprio in quel momento Leah sgusciò fuori dalle doppie porte scorrevoli, indirizzandomi un sorriso luminoso.

Sorrisi a mia volta nel notare il suo aspetto: aveva i capelli leggermente arruffati, era vestita come la sera precedente e i suoi abiti erano spiegazzati; tuttavia, non sembrava essere a disagio per la sua condizione e mi raggiunse in fretta, salutandomi con entusiasmo.

«Scusa il ritardo, il fatto è che io e Shavarsh abbiamo dormito al Buts!» esclamò poi, sedendosi di fronte a me.

Sgranai leggermente gli occhi. «Oh» mormorai.

«John, non sentirti imbarazzato, su! Non è successo niente di scandaloso.» Leah posò i gomiti sul tavolo e intrecciò le mani sotto il mento. «Il fatto è che io sono abituata a dormire laggiù almeno per una notte durante le mie vacanze qui. Stavolta ho proposto al tuo amico di farmi compagnia, tutto qui» minimizzò, per poi strizzarmi l'occhio.

«Ecco, ora è tutto più chiaro» commentai, sentendomi ancora in imbarazzo. L'esuberanza di Leah era spiazzante, certe volte non riuscivo proprio a replicare a ciò che lei diceva con tanta naturalezza.

La ragazza lanciò un'occhiata verso il bancone, poi prese a ridacchiare.

«Che succede?» domandai perplesso.

«Vedi quella ragazza?» sibilò Leah in tono malizioso.

«La cameriera? È un po' strana. A volte...» Mi interruppi per schiarirmi leggermente la gola. «A volte attacca bottone e dice delle cose strane.»

«Vuoi ridere?» mi domandò ancora la ragazza di fronte a me.

Annuii.

«Stanotte Lakyta era al Buts. Indovina con chi?» raccontò allora Leah.

Aggrottai la fronte. «Non lo so, con chi?»

Fece spallucce. «Il tuo amico dongiovanni» ammise infine, per poi riprendere a sghignazzare rumorosamente.

Mi sporsi leggermente verso di lei. «Con Daron?»

«Già, si sono divertiti un sacco quei due! O almeno credo» insinuò ancora, facendo segno alla cameriera di avvicinarsi.

«Cosa intendi?» chiesi.

«Lakyta ha fatto divertire il nostro chitarrista, ti lascio immaginare come... ti dico solo che Daron a un certo punto le ha detto: almeno ti rendi utile e stai zitta» blaterò ancora la mia interlocutrice.

Le toccai la mano per farla tacere, dato che l'oggetto del nostro discorso era ormai vicinissima a noi. Dal canto mio, ero seriamente sconvolto: possibile che Daron non riuscisse a rimanere fuori dai guai neanche per un istante? Anziché andare a dormire, anche la notte scorsa aveva seminato casini in giro per l'hotel. Sperai che questo non avesse delle ripercussioni su nessuno di noi, anche se mi risultava piuttosto difficile da credere.

«Ciao Lakyta, buongiorno! Ti vedo un po' sconvolta, stai bene? O devo chiamare un'ambulanza?» esordì Leah con pungente ironia.

Lanciai un'occhiata alla cameriera: aveva cercato di coprire le occhiaie con un'abbondante dose di trucco, ma il caldo che ristagnava sulla terrazza metteva a rischio l'arduo lavoro che aveva dovuto fare per applicarlo; aveva un'espressione stanca, provata, e non sembrava molto contenta di vedere Leah e di dover parlare con lei.

«Non ti riguarda il mio stato di salute» ribatté infatti in tono irritato, poi si voltò e mi chiese: «Cosa posso portarti?».

«Un Blue Mountain e...» Mi interruppi per rifletterci sopra, ma non potei concludere la frase.

«Portagli un po' di polenta con latte di cocco» intervenne Leah, indirizzandomi un ghigno divertito.

«Cosa?» sbottai.

«Devi assaggiare di tutto, ricordi il nostro patto?» mi apostrofò la ragazza. «Lakyta, una porzione anche per me» aggiunse poi, rivolta alla cameriera. «E a me puoi portare anche un buon tè alle erbe.»

Lakyta la guardò in cagnesco. «Decidi tu per lui?» sbottò infine.

«A te che importa? Pensa a fare il tuo lavoro» tagliò corto Leah, smettendo di badare a lei e tornando a fissarmi. «E quindi ieri sera sono stata al Buts» ripeté, mentre ancora la cameriera non se n'era andata.

Notai Lakyta sgranare gli occhi, per poi dirigersi in tutta fretta verso il chiosco in legno.

«Sei tremenda, Leah» commentai.

«Ne sono consapevole, e ne vado anche fiera. Ma non siamo qui per parlare di me, non è vero?» mi punzecchiò, poggiandomi una mano sul braccio.

Tornai improvvisamente serio e abbassai leggermente il capo. «Non ti ho assicurato niente» le feci notare.

«Lo so, e non ti devi sentire obbligato. Guardami» mi incoraggiò poi.

Incrociai nuovamente il suo sguardo e rimasi a fissarla per un po', studiando la sua espressione tremendamente seria. L'ilarità era completamente scomparsa e ora Leah sembrava completamente diversa, come se non avesse più alcuna intenzione di dire sciocchezze e provasse un reale interesse per il mio stato d'animo un po' malinconico.

«John, parlarne ti fa bene. Forse noi due non ci conosciamo abbastanza, ma mi pare di capire che tu non ti sia confidato neanche con i tuoi amici. E questo non è positivo. Tutto ciò che ci teniamo dentro finisce per indebolirci.»

Mi ritrovai ad annuire senza neanche accorgermene. «Ma non è facile per me, non ho quel tipo di carattere» ribattei con calma.

«L'ho capito. Però ho capito anche che c'è qualcosa che non va con Bryah. Forse lei ti interessa, ma vedi, lei ha un compagno. Non dovresti perdere il sorriso per una persona che non può ricambiarti» mi consigliò la ragazza in tono apprensivo.

«Forse parli così perché sei stata fortunata» commentai.

Scosse energicamente il capo. «Ma no! Io non la chiamerei fortuna, ma sintonia. Compatibilità. Non lo so neanche io, John. Io e Shavarsh stiamo semplicemente bene insieme.»

«Ma questo non basta per mettere su una relazione» la contraddissi.

«Ehi, ehi! Una relazione? Aspetta a chiamarla così!» Leah sorrise appena. «Tra meno di tre giorni vado via di qui. Non so se lo rivedrò» ammise in tono triste, distogliendo gli occhi dai miei.

Mi dispiaceva notare la malinconia che scaturiva dalla consapevolezza di ciò che sarebbe potuto succedere di lì a pochi giorni. «Dai, Leah, non dire così. Tra voi è diverso, ma io e Bryah...»

«Diverso da cosa?» Alzò gli occhi al cielo. «Sei troppo romantico!»

Proprio in quel momento Lakyta tornò con la nostra colazione e la appoggiò sul tavolino senza degnarci di uno sguardo né di una parola.

Osservai la mia polenta e storsi le labbra. «Oddio, devo davvero assaggiarla?»

Leah si chinò sul suo piatto e annusò, per poi annuire soddisfatta. «Certo. Ha un profumo delizioso!» esclamò.

Sospirai e afferrai la forchetta, cominciando a spostare il cibo da una parte all'altra del piatto, senza decidermi a portarmene un po' alla bocca. «Posso farcela...» mormorai.

La mia amica scoppiò a ridere. «Sei un caso perso! Dai, mangia, non morirai per un po' di polenta giamaicana!»

Alla fine riuscii ad assaggiare la mia colazione e rimasi sorpreso nel trovarla gradevole da gustare; c'era un contrasto interessante tra la farina di mais, il latte di cocco e una punta leggermente salata che rendeva il tutto molto particolare e piuttosto gustoso.

«Non male!» affermai.

«Evviva!» strillò Leah, lanciando un pugno in aria e agitandosi sulla sedia. «Sono contenta che ti piaccia, lo sapevo!»

«È più buono di quella torta del primo giorno» spiegai, per poi continuare a mangiare.

«Anche io lo preferisco» confermò.

Consumammo il nostro pasto in silenzio, poi Leah tornò sull'argomento che stavamo affrontando prima dell'arrivo di Lakyta.

«Comunque, lascia perdere Bryah, se vuoi un consiglio spassionato. Lei si trova bene con te, davvero, ma non in quel senso.»

Sospirai. «A volte invidio Daron. Lui se ne frega e riesce sempre a conquistare le donne che vuole» borbottai.

«Non invidiarlo, per carità! Non credere che lui stia bene a livello psicologico. Sono sicura che sia proprio il contrario. Lo vedo molto strano, cerca sempre di non dare a vedere le sue emozioni, ma lo fa in quel modo... quel modo... non so, ha un modo tutto suo di comportarsi, che però finisce per evidenziare ancor più il suo malessere interiore. O almeno è quello che ho capito io di lui» osservò la ragazza, sorseggiando un po' del suo tè.

«Non hai tutti i torti. Però lui si diverte. Sta bene solo quando è in mezzo ai casini che lui stesso si crea. E ha un'esistenza movimentata, molto più della mia» replicai in tono sconsolato.

«Dai, John» mormorò Leah, afferrando all'improvviso la mia mano. «Non mi piace vederti così. Siamo tutti in vacanza, cerchiamo di divertirci e basta.»

Restammo a fissarci per alcuni secondi in silenzio, e in quel lasso di tempo compresi che forse quella ragazza aveva ragione, forse dovevo soltanto lasciare che le cose accadessero, smettere di pensare negativo e lasciar perdere le intenzioni serie che avevo con Bryah; ero attratto da lei, certo, ma non potevo obbligarla a provare la stessa attrazione nei miei confronti.

Stavo per ringraziare Leah, quando il mio cellulare prese a squillare rumorosamente nella tasca dei miei pantaloni. Lo estrassi e scorsi il nome di Serj nello schermo.

«Ciao, cantante» esordii.

«Ciao, batterista. Perché questo tono da funerale?» mi chiese subito il mio amico, capendo al volo che c'era qualcosa che non andava.

«Ma niente di grave. A Los Angeles tutto bene?» cambiai argomento, sperando che non tornasse a interrogarmi sul mio stato d'animo.

«Insomma. Ti chiamavo per aggiornarti sulla questione della presunta figlia di Daron» mi spiegò Serj in tono estremamente serio.

«Oh no, che altro è successo?» mi preoccupai subito.

«La ragazza ieri è tornata al campo da basket. Speravo quasi di non vederla più, ma ovviamente mi sbagliavo. Sembra proprio sicura di ciò che afferma. Ha detto che vuole sapere entro domani quando potrà incontrare Daron a Los Angeles» raccontò con rassegnazione il cantante.

«Merda, e adesso?» sbottai.

Leah mi guardò con aria interrogativa e io sollevai una mano per farle segno di aspettare, poi mi appoggiai con la schiena contro la spalliera della sedia e attesi che Serj proseguisse.

«E adesso dovreste decidere quando rientrare» disse soltanto.

«Ma perché dobbiamo dipendere dal volere di una psicopatica qualsiasi? Secondo me non è vero che lei... insomma, hai capito» mi inalberai, prendendo a gesticolare.

«Ha detto che altrimenti metterà di mezzo gli avvocati e quelle stronzate lì» bofonchiò il mio amico. Sentivo che era dispiaciuto di non poterci aiutare in qualche altro modo, tuttavia mi chiedevo come potesse essere così calmo ritrovandosi in una situazione come quella.

Mi battei una mano sulla fronte. «Ci mancava solo questa!» esclamai esasperato.

«Cerca di stare tranquillo. Parla con Shavo e decidete insieme come fare, però dovete farmi sapere entro stasera. Lei domani tornerà e vuole delle risposte» spiegò ancora il cantante in tono pratico.

«E a Daron chi lo dice?» domandai spazientito.

«Glielo diremo quando sarete nuovamente in città» affermò con sicurezza.

«Va bene...» mormorai.

«Dai, John! Ora non pensarci troppo, ricordati che sono pur sempre problemi di Daron, non nostri. Quando lui incontrerà la ragazza, se la sbrigherà da solo e noi ce ne tireremo fuori» cercò di rassicurarmi Serj.

«Speriamo. Allora parlo con Shavo e ti faccio sapere più tardi» tagliai corto, poi ci salutammo e riattaccai con l'ennesimo sospiro rassegnato.

«Ho una domanda» disse subito Leah.

«No, ti prego...»

«Ascolta! Non so cosa sia successo, ma rispondi a questo: sei ancora invidioso di Daron?»

La fissai per un attimo, poi sorrisi leggermente. «No, non più.»

«Ecco, vedi? Meglio essere te che essere lui!» concluse con una scrollata di spalle.

«Giusto» confermai.

Prima che Serj mi telefonasse, mi ero quasi dimenticato che anche a Los Angeles c'erano dei problemi da risolvere, causati da qualche cazzata che il chitarrista aveva combinato. Non si riusciva mai a stare tranquilli. Mi sarebbe piaciuto dare ragione a Serj e fregarmene, ma per il momento la questione riguardava anche e soprattutto noi, dato che Daron ancora non sapeva niente.

«John?» mi richiamò Leah, strappandomi ai miei pensieri.

«Sì» risposi distrattamente.

«Andiamo a prepararci. Abbiamo la visita al museo alle undici» mi ricordò, alzandosi e afferrando la sua borsa.

Annuii e la seguii verso l'ascensore, senza smettere di rimuginare su tutti i casini che mi affollavano la mente. Certe volte pensavo troppo, questo non era certo un bene per me. Avrei voluto essere più spensierato, ma mi risultava troppo difficile.

Quando io e Leah giungemmo al nostro piano, notammo che la porta della stanza di Daron era aperta e ci scambiammo un'occhiata interrogativa.

Il chitarrista stava cantando a squarciagola e strimpellava la chitarra, mentre un intenso odore di marijuana impregnava tutto il corridoio.

Leah si avviò a passo di marcia in quella direzione e si affacciò nella sua stanza, per poi fischiare in modo da richiamare la sua attenzione. «Buongiorno! Siamo di buonumore, Malakian?».

La raggiunsi e gettai un'occhiata all'interno della camera, notando che era sempre più incasinata e invivibile. Storsi il naso e alzai gli occhi al cielo.

«Ehilà, ragazzi!» ci salutò Daron in tono allegro. «Come butta? Avete fatto colazione?»

«Certo. Tu, piuttosto, hai intenzione di arrivare in ritardo anche alla visita al museo?» lo punzecchiai.

«Ma no, però avevo voglia di cantare e suonare, oggi sono contento!» strepitò, aggirandosi per la stanza come una trottola con la chitarra in mano. Poco dopo riprese a cantare:


I believe in a thing called love,

just listen to the rhythm of my heart,

there's a cnance we could make it now,

we'll be rocking 'till the sun goes down,

I believe in a thing called love!

Oooh! Guitar!


«Oddio, smettila! Sei troppo stridulo!» strillò Leah, tappandosi le orecchie con le mani.

Io non potei fare a meno di scoppiare a ridere, liberandomi finalmente di un po' di tensione; mentre Daron cantava e suonava gli accordi tutti sbagliati, si muoveva come il cantante dei The Darkness e faceva delle mosse davvero raccapriccianti, fingendo infine di avere un rapporto sessuale con la chitarra.

«Cos'è tutto questo casino?»

Shavo era apparso alle nostre spalle e aveva gridato quella domanda, per poi fermarsi a fissare con un'espressione indecifrabile le prodezze del nostro amico.

Sospirai. «Daron è già fuori di testa da ora, io ho paura che ci faccia sfigurare al museo» borbottai.

Il chitarrista ci ignorava e continuava a ballare per tutta la camera, agitandosi come un ossesso; allora notai che indossava soltanto un paio di boxer neri e una maglia color senape, mentre i piedi erano fedelmente infilati nelle solite infradito rosse che facevano a pugni con tutto il resto.

«Daron, vestiti!» gli ordinò Shavo, coprendo gli occhi di Leah con le mani.

«Ehi! Ormai è troppo tardi, Shavarsh, la tua fidanzata ha già ammirato abbastanza le mie graziose mutandine!» gridò il chitarrista con una sonora risata.

Il bassista gli si avventò contro e lo scaraventò sul letto. «Non provare mai più a chiamarmi in quel modo!»

Daron si rannicchiò sul materasso e si strinse la chitarra contro il corpo. «Chitarra, proteggimi, zio Shavo si è arrabbiato e ora mi picchia» piagnucolò.

«Sei un coglione!» esclamai, non riuscendo più a trattenermi dal ridere.

Leah mi seguì a ruota e si accostò a Shavo per trascinarlo via. «Ma lascialo tranquillo, dai! Ti ricordo che ieri notte abbiamo assistito a qualcosa di peggio!» esclamò poi con noncuranza. Poi parve accorgersi di ciò che aveva detto e si bloccò in mezzo alla stanza, lanciando un'occhiata dispiaciuta al bassista. «Ops» bofonchiò.

«Raccontatelo anche a noi! Che avete visto ieri notte?» strepitò Daron, balzando giù dal letto e piazzandosi di fronte ai due.

«Leah, non sai tenere la bocca chiusa, eh? Cazzo!» sbottò Shavo.

«Che segreti nascondete?» insistette ancora il chitarrista, sollevando ancora la voce.

«Non strillare, deficiente!» lo zittì Leah, mollandogli un pugno sul braccio. «E se proprio ci tieni a saperlo, io e Shavarsh abbiamo visto te e quella sgualdrina di Lakyta giù al Buts!»

Daron indietreggiò di un passo e inclinò la testa di lato. «Oh.» Prese a sghignazzare. «Piaciuto lo spettacolo? Non smetteva più di urlare, così ho dovuto mett...»

«Okay, basta! Non ci interessa! Voi due» tagliò corto Shavo, indicando poi Daron e Leah. «Andate a prepararvi, altrimenti faremo tardi.»

«Già, giusto!» saltò su la ragazza, per poi sgusciare fuori dalla stanza del chitarrista e avviarsi alla sua.

Io mi rivolsi a Shavo. «Andiamo ad aspettarli da qualche parte?» proposi, cercando una scusa per rimanere solo con lui e affrontare la questione di cui avevo parlato con Serj poco prima.

«Sì. Io devo fare colazione» affermò il bassista, mentre Daron frugava tra i suoi vestiti alla ricerca di qualcosa da mettersi.

«Ma ci conviene andare al bar di sotto se non vuoi incontrare la cameriera che Daron ha allietato la notte scorsa» suggerii con un mezzo sorriso.

«Spiritoso, Dolmayan, davvero! Ma vi giuro, se non glielo avessi messo in bocca, non l'avrebbe smessa di...»

«Cazzo, stai zitto!» tuonò Shavo, poi mi afferrò per un braccio e mi trascinò in corridoio, sbattendo la porta per non sentire più le cazzate del nostro amico.

Tuttavia, una frase giunse ancora alle nostre orecchie: «Siete invidiosi, ammettetelo!».

Sospirammo e ci affrettammo a raggiungere l'ascensore.




Eheheheheh, le cose sembrano complicarsi sempre più, non è vero?

Cari lettori, spero che questa storia continui a piacervi! :3

Sono qui per lasciarvi il link della canzone che Daron stava strillando in maniera stridula (non si può dire che stesse cantando XD) quando Leah e John sono tornati al terzo piano. Si tratta di I believe in a thing called love dei The Darkness, un brano davvero molto energico e allegro, sentite un po' qua:

https://www.youtube.com/watch?v=tKjZuykKY1I

Grazie a tutti, come sempre, per il supporto: senza di voi non saprei proprio come fare :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 27
*** Cheeseburger ***


ReggaeFamily

Cheeseburger

[Daron]




«Adesso mi lascerai in pace?»

Lakyta tossicchiò e si accostò alla riva, immergendo la faccia nell'acqua salata. «Uhm...» bofonchiò.

«Rispondi» le ordinai in tono piatto.

«Sì» mormorò, dopo essersi sciacquata la bocca. Si voltò verso di me, rimanendo però accovacciata in riva. «Anche se io avrei voluto dell'altro, Daron.»

Sbuffai. «Non mi va.»

«L'unico a godere sei stato tu.»

Le sorrisi indolente. «Non sei contenta di esserti resa utile per una volta?»

Lakyta mi fulminò con un'occhiata e replicò: «Stronzo».

Mi chinai accanto ai suoi vestiti, dal momento che lei era ancora nuda, e frugai nelle tasche dei suoi jeans.

«Cosa fai?!» strillò all'improvviso la ragazza, mettendosi di scatto in piedi.

«Eccolo» sussurrai tra me e me. «Adesso vediamo un po'...»

«Daron, molla il mio cellulare!» si infuriò ancora la ragazza, raggiungendomi a grandi falcate.

Imprecai, notando che lo smartphone aveva un codice di blocco. Alzai gli occhi sulla ragazza di fronte a me e non mi soffermai minimamente sulle sue forme, sulla sua nudità e sul fatto che fosse indubbiamente attraente. Afferrai i suoi abiti e allungai il cellulare nella sua direzione. «Adesso sblocca quest'affare, altrimenti questi li prendo io» dissi in tono deciso, per poi mettermi in piedi e sventolare i suoi vestiti.

«Come ti permetti?»

«Tu hai qualcosa che mi appartiene e te lo sei preso senza permesso. Fa' come ti dico» ripresi senza scompormi.

Lakyta sospirò e afferrò il dispositivo per sbloccarlo.

Glielo strappai immediatamente di mano e cominciai a frugare tre le immagini e i video presenti in galleria. Trovai ciò che cercavo, senza badare alle altre foto che erano state salvate. Per evitare di dimenticare qualcosa, selezionai tutti gli elementi e li eliminai in blocco, finché la galleria non fu completamente vuota. Controllai anche nell'archivio per accertarmi che non fosse rimasta traccia delle foto e dei video che ritraevano le due groupies che avevo incontrato qualche giorno prima, dopodiché riconsegnai il cellulare alla sua proprietaria e sorrisi soddisfatto.

«Adesso si ragiona» affermai.

Lakyta controllò il suo smmartphone e lanciò un grido. «Ma sei impazzito?! Hai cancellato tutto! Qui dentro c'erano tutte le foto con Alwan! Sei veramente un pezzo di...»

«Ah, lascia stare. Potrai rifarle quelle dannate foto» borbottai, dandole le spalle.

«Mi sono pentita di averti fatto quel...»

«Ormai è troppo tardi, troietta. Spiegalo al tuo Alwan ora, io me ne vado a dormire.» Voltai leggermente la testa di lato per lanciarle un'ultima occhiata piena di compassione. «Ti saluto, dolcezza. Grazie per la piacevole serata.» Detto questo, mi avviai verso la passerella di legno che conduceva alla palazzina dipinta in bordeaux.


Dopo aver raccontato ciò che era capitato la sera prima, mi sentii subito più leggero. John, Shavo e Leah mi fissavano con occhi e bocca spalancati, palesemente increduli.

«Sono contento che Bryah sia al lavoro» borbottò infine il batterista, scuotendo appena il capo.

Eravamo usciti da poco dal museo di Bob Marley, ma io non avevo prestato granché attenzione a ciò che avevamo visitato; per la testa avevo tutt'altro, e sinceramente avevo voglia di stare all'aria aperta, di fumare e di mangiare un triplo cheeseburger.

Quando infine ci eravamo ritrovati di fronte al cancello, dopo la visita guidata attraverso la vita del re della reggae music, Leah aveva cominciato a insistere per saperne di più sul mio incontro ravvicinato con Lakyta, così avevo finito per vuotare il sacco.

«Quella è davvero una schifosa!» esclamò Leah. «Corre dietro ad Al da un sacco di tempo, e ora che ha fatto? Oddio che squallore! Ha fiutato l'odore della sua amata Hollywood, te lo dico io!» esclamò la ragazza in tono ironico.

«Ah sì?» feci leggermente perplesso.

«Già, lo sai, no? Vuole diventare un'attrice hollywoodiana per fare dei film con Seagal, ti rendi conto? È per questo che ti ha adescato!»

Shavo aggrottò la fronte. «Dici che l'ha riconosciuto come il chitarrista dei System?» domandò.

«Può essere. O magari l'ha scoperto in qualche modo» rifletté Leah.

«Arriverebbe a tanto?» si intromise John con fare incredulo.

«Lei? Oh sì, infatti io non la sopporto! Da quando la conosco, desidera di sbattersi Alwan, ma lui non sembra molto interessato a lei. Per questo va in cerca di qualcuno che lo faccia ingelosire, o in alternativa aspetta un talent scout che la porti con sé a Hollywood» raccontò la nostra amica indignata.

Scoppiai a ridere. «Incredibile!»

Shavo, intanto, sembrava assorto in chissà quali pensieri, e notai che aveva avvolto le spalle di Leah con un braccio; quel gesto mi fece capire più di quanto lui volesse in realtà comunicare: teneva a quella ragazza da poco conosciuta e sperava che lei non fosse assolutamente come la sgualdrina di cui stavamo parlando. Sorrisi tra me e me, comprendendo che il mio amico si era preso proprio una bella sbandata. Da un lato ero felice per lui, ma dall'altro temevo che potesse soffrire per l'imminente partenza della sua nuova fiamma.

Feci scattare l'accendino e mi accesi la canna che avevo appena finito di preparare, poi feci per dire qualcosa, ma proprio in quel momento un enorme gruppo di ragazzi e ragazze, in compagnia di un paio di adulti, uscì dal museo starnazzando; doveva trattarsi di una scolaresca in gita nella capitale, poiché solo gli studenti potevano essere in grado di combinare tutto quel casino.

Alcune ragazzine si bloccarono all'improvviso a pochi metri da noi e presero a parlottare tra loro, rivolgendoci occhiate interrogative e perplesse; qualcuna prese a ridacchiare e una cominciò a squittire come un topolino in fuga.

«Oh no» sentii mormorare John.

Quando compresi cosa stava per succedere, era ormai troppo tardi: alcune studentesse trascinarono un paio di loro compagni di classe verso me e i miei amici, continuando a borbottare cose incomprensibili.

«Be'?» esordii, osservandoli con diffidenza. «Se volete un tiro di erba, avete sbagliato persona» aggiunsi.

«Oddio!» strillò una ragazza dalla carnagione scura con i capelli tinti di biondo platino. «Voi siete tre dei System Of A Down?!»

«Sì, e allora? Voi chi sareste, di grazia?» domandai spazientito. Avevo una fame assurda e zero voglia di parlare con fan invasati.

«Io mi chiamo Lyla, lei è Janine e lei invece è Etana!» strillò la bionda, che a quanto pare era la più audace della comitiva. «Invece, lui è il mio ragazzo, Sam, e quello lì si chiama Adrian. È un vero piacere conoscervi! Possiamo fare una foto tutti insieme? Ce la può scattare lei?» proseguì la ragazza, indicando poi Leah.

Quest'ultima si fece avanti e sorrise ironica. «Ah, ma certo! Tanto io non sono famosa, eh?» commentò in tono pungente.

La bionda si zittì per un attimo, così il suo ragazzo si fece avanti: era carino, aveva i capelli lunghi e ricci ed era vestito di nero, con una maglia dei Red Hot Chili Peppers a completare l'opera. «Scusateci, sul serio. Lyla a volte è un po' invadente.»

Evitai di commentare, e fu Shavo a salvare la situazione. «Nessun problema ragazzi! Il piacere è tutto nostro. Io sono Shavo! Come state? Siete qui in gita scolastica?»

Io e Leah ci scambiammo un'occhiata divertita e prendemmo a sghignazzare.

«Piantatela» ci rimproverò John in un sussurro.

«Quanto sei gentile!» commentò un'altra ragazza, stringendo la mano al bassista. Sembrava essere rimasta folgorata dal fascino e dalla gentilezza del mio amico, così mi accostai maggiormente a Leah e cominciai a prenderla in giro.

«Attenta, la ragazzina potrebbe rubartelo» bisbigliai, dandole di gomito.

«Ma figurati, hai visto che faccia da schiaffi?» scherzò lei, rivolgendomi un sorriso divertito.

«Ma è affascinante, non trovi?»

Leah fece spallucce. «Come un calcio nelle parti basse, sì.» Poi si accostò a Shavo e gli posò una mano sul braccio. «Shavarsh, facciamo questa foto o no?»

I cinque fan rimasero basiti.

«Shav... cosa?!» sbottò Lyla confusa.

«Su, bambolina, non fare così, è soltanto un nome. Chi mi dà un cellulare? Scattiamo questa fotografia, altrimenti si fa notte e io comincio ad avere fame» blaterò Leah, aggirandosi tra i ragazzi con il braccio proteso ad afferrare il primo smartphone utile.

«Certo, certo» borbottò il fidanzato della bionda, consegnando il suo Iphone a Leah.

«Grazie! Su, mettetevi in posa!» ci esortò la ragazza, utilizzando un tono divertito e profondamente ironico.

Sbuffai rumorosamente e guardai John. «Dobbiamo proprio? Non ci pagano neanche!» brontolai.

«Daron!»

Sobbalzai nell'udire una voce acuta e squillante penetrarmi il timpano destro, così mi voltai accigliato e mi ritrovai faccia a faccia con la terza ragazza che Lyla ci aveva presentato. Mi sorrideva con fare ammiccante e sbatteva ripetutamente le ciglia impiastricciate di mascara.

«Io sono Etana, vorrei chiederti un favore» farfugliò in preda all'imbarazzo.

Le rivolsi un mezzo sorriso. «Se posso...»

«Possiamo fare una foto solo io e te?» mi chiese in tono incerto. Improvvisamente aveva abbassato la voce, come se si vergognasse di ciò che stava dicendo e non volesse farsi sentire dai suoi amici.

Sollevai gli occhi al cielo. «Ah, capisco.»

Etana indietreggiò leggermente. «Se ti scoccia, io... scusa, non volevo...» si scusò mortificata, portandosi una mano alla bocca e scuotendo appena il capo. I suoi sottili e corti dreadlocks ondeggiarono. Scorsi l'ombra di un tatuaggio sul suo polso destro e decisi che, in fondo, quella povera ragazzina mi piaceva. Non sembrava poi tanto oca come Lyla, anche se sinceramente non mi andava di fare tutte quelle foto.

«Dai» le concessi. «Scherzavo. Si può fare» aggiunsi accondiscendente.

Etana mi guardò dubbiosa per un po', poi estrasse il suo cellulare e prese ad armeggiarci, ma venne interrotta da Leah che ci incitava a unirci al gruppo per la fotografia tutti insieme.

Ci accostammo agli altri ed Etana posò titubante una mano sulla mia spalla. Era divertente notare quanto fosse imbarazzata dalla mia presenza, così, preso da un improvvisa voglia di spassarmela un po', le circondai la vita con le braccia e la trassi più vicina a me, posando il mento sulla sua nuca.

La sentii sussultare e tremare leggermente. Rimase rigida tra le mie braccia durante la serie di scatti che Leah si adoperò a realizzare e io dovetti trattenermi per non ridere.

La fotografa si accorse di ciò che stavo facendo e sospirò appena, incenerendomi con lo sguardo.

«Gridate tutti cheeseburger!» strillai all'improvviso, facendo sobbalzare la ragazza e il resto del gruppo.

«Daron!» sbraitò John, posizionato proprio accanto a me. Mi mollò uno scappellotto e proseguì a imprecare per alcuni istanti.

Finalmente la sessione fotografica terminò e un professore richiamò i cinque ragazzi, incitandoli a raggiungere il resto del gruppo.

«Dai, la vuoi o no questa foto con me?» scherzai, passando le dita tra i capelli intrecciati di Etana.

Lei sgranò gli occhi pesantemente truccati e annuì appena, senza però ritrarsi dal mio tocco. Sicuramente stava sognando di essere l'oggetto dei miei desideri, ma del resto mi stavo comportando proprio da idiota in quel momento, la stavo trattando in maniera diversa rispetto al resto dei suoi amici.

La ragazza riprese ad armeggiare con il suo cellulare e impostò la fotocamera per un selfie. La attirai accanto a me e, proprio quando stava per premere sullo schermo per scattare la foto, mi chinai a baciarla sulla guancia, poi la lasciai immediatamente andare e infilai le mani in tasca.

«Grazie piccola, è stato un piacere» mormorai in tono accattivante, poi mi avviai verso i miei amici che intanto avevano appena salutato gli amici di Etana e mi guardavano allibiti.

«Che c'è?» domandai con un'alzata di spalle.

«Sei veramente terribile!» mi apostrofò Shavo.

Mi voltai a osservare Etana e la trovai ancora impalata a fissare lo schermo del suo smartphone con gli occhi leggermente lucidi. Poco dopo Lyla la raggiunse e la trascinò verso i loro compagni di classe.

Ridacchiai. «Io? Quella ragazzina voleva fare una foto solo con me, che ci posso fare?»

«Com'è che non l'hai mandata al diavolo?»

«Shavo ha ragione. E poi, com'è che hai detto prima? Nessuno ti paga per queste cose!» affermò John sghignazzando.

«Simpatici, siete i migliori amici di sempre» bofonchiai.

«Ma sta' zitto! L'hai fatta annegare nel suo stesso imbarazzo» mi rimbeccò Leah, spintonandomi all'improvviso.

«Ehi!» strillai, per poi afferrarla e cominciare a farle il solletico.

«Lasciami! Che stupido!» si ribellò ridendo sguaiatamente.

«Daron Malakian, lasciala subito andare!» tuonò Shavo, venendo in soccorso a Leah e trascinandola via dalle mie grinfie.

«Oddio Shavarsh!» esclamò Leah, poi tutti insieme scoppiammo a ridere senza riuscire a smettere.

«Lascia subito andare la mia donna!» scimmiottai il bassista, mentre ero piegato su me stesso dal troppo ridere.

«Non è... divertente...» farfugliò il mio amico.

«Epica, questa è stata epica!» esclamò John, che intanto si teneva la pancia per l'intensa ondata di risa.

«Stiamo dando spettacolo, ma è stato troppo forte! Ah Shavarsh, ecco perché ti adoro!» strepitò Leah, gettandosi sul mio amico e riempiendogli il viso di baci.

«Non vale! Sono geloso!» finsi di infuriarmi, poi mi affrettai a imitare i gesti della ragazza, spingendola via e gettandomi a mia volta su Shavo.

«Malakian, che schifo!» gridò lui, cercando di spingermi via.

John, intanto, si era appoggiato alla parete e non riusciva più a riprendermi, mentre i passanti ci lanciavano occhiate inorridite e scuotevano il capo indignati.

«Vi prego, basta, potrei morire!» ci implorò il batterista, mentre Leah mi tempestava di pugni per rivendicare Shavo.

Infine riuscimmo a calmarci e rimanemmo per un po' a riprendere fiato, ma ogni tanto qualcuno riprendeva a sghignazzare.

«Okay, ragazzi, basta davvero! Sto morendo di fame!» disse Leah, battendo le mani.

«A chi lo dici... ehi, laggiù c'è un Mc Donald's! Ci andiamo? Ho voglia di sbranare tre o quattro cheeseburger di fila!» strillai entusiasta.

«Siamo in Giamaica e tu vuoi mangiare cibo spazzatura?» mi chiese Leah contrariata.

«Stavolta sono d'accordo con Daron. Sono stanco di assaggiare pietanze nuove, per una volta voglio mangiare qualcosa che conosco, per quanto schifoso possa essere quello pseudo-cibo!» mi spalleggiò John annuendo vigorosamente.

«Già» commentò Shavo. «I ragazzi non hanno tutti i torti...»

«E poi John stasera deve affrontare una situazione difficile, ha bisogno di calorie e carboidrati!» rincarai, lanciando un'occhiata complice al batterista.

«Eh?» fece Shavo.

«Ricordate? Oggi Bryah ci presenterà il suo compagno» spiegai con semplicità.

«Daron, chiudi quella cazzo di bocca!» mi ordinò John con rabbia.

«Sei proprio insensibile, chitarrista.» Leah si accostò a John e lo prese sottobraccio. «Su, lascialo perdere. Sai che facciamo? Dopo pranzo ci rifugiamo in quel negozio di strumenti musicali che abbiamo scovato ieri, ci stai? Così non ci pensi troppo» lo rassicurò con dolcezza.

A volte ero proprio un cretino. Mi resi conto che Shavo era proprio fortunato ad aver trovato una persona come Leah, e anche John era fortunata ad averla come amica. Dal canto mio, non ero ancora riuscito a creare un rapporto decente con lei: non facevamo che battibeccare e urlarci contro, o in alternativa trascorrevamo dei momenti divertenti e folli insieme. Per il resto, non si era instaurato un rapporto confidenziale tra noi; la cosa non mi sorprendeva più di tanto, specialmente perché io ero come ero e faticavo ad avvicinarmi alle persone che non conoscevo abbastanza.

«Andiamo?» La ragazza mi riportò alla realtà, tirandomi una ciocca di capelli.

Annuii in silenzio e mi immersi nei miei pensieri, seguendo svogliatamente i miei amici. Improvvisamente non avevo più così tanta fame e mi tornò in mente il motivo principale per cui avevo deciso di partire per quella vacanza: volevo cercare di non pensare al matrimonio tra Jessica e Lars, ma soprattutto volevo liberare la mente e stare un po' tranquillo.

Peccato che, da quando mi trovavo in quel luogo, le cose non avevano fatto che peggiorare. Non ero riuscito a instaurare un buon rapporto con nessuno, mentre John e Shavo avevano fatto amicizia e il bassista aveva trovato addirittura una ragazza che gli piaceva e che sembrava ricambiare il suo interesse.

E io? Io avevo collezionato avventure spiacevoli, conosciuto donne spregevoli che non erano neanche degne di questo nome, combinato casini e creato un sacco di problemi ai miei compagni d'avventura.

Una volta giunti al fast food, smisi di pensare e mi strafogai di cibo di merda, senza però scambiare neanche una parola con il resto del gruppo.

Ero improvvisamente diventato di umore nero.

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Capitolo 28
*** We are so close ***


ReggaeFamily

We are so close

[Leah]




Osservavo Daron mangiare e mi domandavo cosa gli fosse successo; poco prima di andare a pranzo era allegro e scherzava con tutti noi, si comportava in modo spontaneo e non faceva che sorridere. Poi, d'un tratto, si era incupito e aveva smesso di rivolgerci la parola, limitandosi ad abbuffarsi con gli occhi fissi sul suo vassoio.

«Daron?» lo chiamai, allungando una mano attraverso il tavolo per posarla sul suo braccio.

Notai che Shavo mi lanciava un'occhiata ammonitrice, così ricambiai con una interrogativa.

Daron si scrollò la mia mano di dosso e mi ignorò deliberatamente, così compresi che forse il bassista voleva farmi capire che non era proprio il caso di disturbare il chitarrista in quel momento.

Sospirai. Cosa gli era preso ora?

«Mi accompagni a fumare?» mi sussurrò Shavo all'orecchio.

Annuii e lo seguii all'esterno del Mc Donald's, felice di poter uscire finalmente all'aria aperta; il puzzo insopportabile di fritto mi stava facendo impazzire, senza contare che sentivo di avere ancora più fame di prima, dopo aver preso soltanto una porzione di pseudo-patatine fritte.

Shavo si accovacciò su un muretto che delimitava un'aiuola accanto ai parcheggi e si frugò in tasca, estraendo un pacchetto di sigarette. Ne prese una e mi lanciò un'occhiata. «Vuoi stare in piedi a guardarmi?» domandò in tono scherzoso.

«Mi siedo solo se mi lasci un tiro» ribattei con un sorriso.

«Aggiudicato. Ora vieni qui» mi esortò, posandomi una mano sul ginocchio.

Mi posizionai accanto a lui e mi appoggiai con la testa alla sua spalla, socchiudendo gli occhi.

«Ehi» sussurrò, avvolgendomi i fianchi con un braccio. «Tutto bene?»

«Sì. Ma Daron cos'ha?» chiesi con un pizzico di preoccupazione.

Shavo aspirò dalla sua sigaretta. «Allora è questo che ti tormenta» commentò con noncuranza. «Ma non dovresti preoccuparti troppo, sai? Lui è fatto così, è volubile, instabile, scostante...»

«Però...» attaccai.

«Sul serio, Leah. Devi lasciarlo in pace, prima o poi gli passa» tentò di rassicurarmi.

«Se lo dici tu...»

Shavo tossicchiò, poi mi porse la sigaretta. «Se vuoi puoi finirla, non mi va più.»

Aggrottai le sopracciglia e mi voltai a osservarlo. «Sei voluto uscire a fumare e la tua sigaretta non è neanche a metà. Che succede?» gli chiesi in tono sospettoso, sfilandogli l'oggetto dalle dita e portandomelo alle labbra. Ne presi due tiri, poi lo gettai a terra.

«Non fumo spesso di questa roba, solo ogni tanto» spiegò, riponendo il pacchetto di sigarette in tasca. «In realtà volevo parlarti di una cosa.»

Annuii. «Dimmi tutto, però non farmi preoccupare» lo incoraggiai, intrecciando le mie dita alle sue e sostenendo il suo sguardo. Nei suoi occhi scuri scorsi un velo di tristezza che non mi piacque particolarmente.

«Il fatto è che...» Sospirò e abbassò leggermente il capo. La visiera del cappellino che indossava adombrò parte del suo viso e io non riuscii più a leggere con chiarezza la sua espressione. «È successo un casino.»

«Che cosa?»

«Serj ha avuto a che fare con una ragazza che dice di essere figlia di Daron. Noi non sappiamo che fare, ma a lui non abbiamo ancora detto niente. Il problema è che questa tizia ha detto a Serj che vuole sapere quando torneremo a Los Angeles perché vuole incontrare suo padre, così io e John dobbiamo decidere la data di rientro. Questa tizia dice di sapere dove siamo, io penso che... ho un sospetto, potrebbe trattarsi...»

«Di una di quelle due groupies che vi hanno importunato giorni fa?» lo interruppi allibita.

Shavo annuì. «Esatto. O di una di loro, o di qualcuno che è stato mandato da loro per...» Scosse il capo. «Un casino, Leah, credimi.»

«Cazzo» imprecai, serrando una mano a pugno. «Quel ragazzo è davvero problematico.»

«Lo so» ammise mestamente il bassista.

Gli posai una mano sulla spalla. «Dai, stai tranquillo. Tu e John che avete deciso?»

«Quando rientriamo in albergo devo controllare gli orari dei voli.»

Improvvisamente mi resi conto che io e lui ci saremmo presto separati e una sensazione di disagio si impossessò del mio petto. Era strano, era come se qualcosa si stesse pian piano congelando, come se si fosse creato improvvisamente uno spazio vuoto e freddo all'altezza del cuore.

«Shavarsh» mormorai, immersa in tristi pensieri.

«Anche tu devi partire tra pochi giorni» affermò lui in tono ovvio.

«Già.»

Rimanemmo in silenzio, poi fui presa da un forte moto di ribellione e mi alzai di scatto dal muretto. «Non dobbiamo pensarci!» affermai. «Vivremo questi giorni senza riflettere e pensare al futuro, sei d'accordo?» esplosi con entusiasmo, afferrando Shavo per le mani e costringendolo ad alzarsi. «Smettiamo di essere tristi, ragazzaccio mio. Dobbiamo ancora andare in pedalò, ricordi?»

Il suo viso si illuminò di un improvviso sorriso e mi prese tra le braccia, attirandomi a sé e tenendomi stretta. Poco dopo prese a dondolare a destra e sinistra, facendomi venire da ridere.

«Che fai?» farfugliai, con la faccia affondata tra le pieghe della sua maglietta dei Motörhead.

«Niente, faccio il cretino...»

«No, tu sei un cretino, è diverso!» lo accusai, stringendomi forte a lui.

«Allora perché mi stai così vicino?» mi punzecchiò, arruffandomi i capelli.

«Perché sono stanca e avevo bisogno di qualcuno che fungesse da bastone della mia vecchiaia» mentii spudoratamente, facendogli il solletico su un fianco.

«Ti approfitti di me!» mi accusò.

Proprio in quel momento Daron e John ci raggiunsero e il batterista ci sorrise. «Ehi piccioncini, vi va un gelato?»

Io e Shavo ci voltammo appena a guardarli, poi sciogliemmo l'abbraccio e mi accostai ai due ragazzi. «Qualcuno dovrebbe prenderne uno gigante per rallegrarsi» dissi, rivolgendomi a Daron che ancora se ne stava imbronciato in un angolo.

«Che vuoi da me?» bofonchiò il chitarrista, mentre si preparava una sigaretta a base di erba con movimenti meccanici.

«Voglio un sorriso per la stampa!» affermai, piazzandomi proprio di fronte a lui e scuotendolo appena per le spalle.

«Sei una piattola, ragazzina.»

«E tu non sei da meno! Dai, Daron, non fare così. So che ti mancherò quando questa vacanza finirà, però non c'è bisogno di pensarci proprio ora» blaterai, trotterellandogli intorno.

Shavo e John si scambiavano occhiate interrogative e perplesse, trattenendosi appena per non scoppiare a ridere.

«Uff, la smetti?» sbottò il chitarrista esasperato.

«No, finché non reagisci non ti lascio in pace!»

Daron si soffermò a osservarmi con sguardo assorto, poi sospirò e non riuscì più a evitare che le sue labbra si incurvassero in un sorriso. «Sei tremenda» commentò.

«Oh, ce l'ho fatta! Hai vinto un premio per questo sorriso!» gridai, alzando le braccia al cielo con entusiasmo. «Ti meriti un gelato con tutti i gusti che vuoi, senza limiti.»

Daron allungò una mano verso di me. «Affare fatto.»

«Leah, ti sei messa nei pasticci con questa promessa» mi fece notare Shavo; sembrava piacevolmente sorpreso dal fatto che fossi riuscita a far sciogliere la tensione in Daron.

«Non importa, non voglio che qui ci siano delle persone tristi e depresse! Siamo in Giamaica, in vacanza, dobbiamo sorridere e fregarcene di tutto il resto!» esclamai con convinzione.

«Ora smettila di blaterare e offrimi quel dannato gelato» strepitò Daron, afferrandomi per un braccio e trascinandomi alla ricerca di una gelateria.

Quando la trovammo, poco prima di entrare, Shavo mi trattenne per un istante sulla soglia; si chinò su di me e mi baciò brevemente sulle labbra, poi mi sorrise e disse: «Sei stata meravigliosa con Daron. Non so come tu abbia fatto, ma grazie».

Scossi il capo e gli diedi una leggera spinta, per poi raggiungere il resto del gruppo all'interno del negozio.


Trascorremmo gran parte del pomeriggio all'interno del negozio di strumenti musicali; John prese a svaligiarlo senza rimedio, comprando piccole percussioni e miniature di vari strumenti da regalare a questo o quell'amico. I ragazzi comprarono qualcosa anche per Serj e per sua moglie, divertendosi a sguazzare in mezzo a tutti i bellissimi oggetti esposti. Dal canto mio, comprai qualcosa per alcune mie colleghe dell'università, poi mi trovai di fronte a un dilemma: volevo fare un regalo a Shavo, ma cosa potevo donargli?

Trovai addirittura qualcosa per Daron – ovvero una chitarra come quella che lui aveva regalato a me il giorno precedente –, e un portachiavi a forma di rullante della batteria per John. Mi pareva scontato cercare una piccola miniatura di basso per Shavo, così mi aggirai con nervosismo per il punto vendita, incapace di decidermi. Intercettai John chino su una serie di djambé di varie dimensioni e mi accostai a lui per chiedergli un consiglio.

«Cosa regalo a Shavo?» esordii, dando un piccolo colpo sulla pelle chiara di un tamburo.

John si mise nuovamente in posizione eretta e mi scrutò pensieroso. «Uhm, bella domanda.»

«Mi aiuti?»

Il batterista sospirò. «Volentieri, ma non so neanche io da dove cominciare. Che ne dici di...» Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da propormi. «Vediamo...»

«Ehilà, guardate che ho scovato!» strillò Daron all'improvviso, comparendo di fronte a noi con qualcosa tra le mani.

«Ma è perfetto!» esultai, strappandogli un volume rilegato in pelle dalle mani.

«Ladra, ridammelo!» si lagnò lui, allungandosi verso di me.

«Anche secondo me è perfetto» confermò John, esaminando con interesse il libro rilegato in pelle nera che tenevo in mano. Si trattava di un'antologia che esaminava l'evoluzione della musica reggae in Giamaica e la sua diffusione in tutto il mondo, attraverso un esame accurato su tutti gli artisti che avevano contribuito alla sua nascita e crescita. Mi piaceva perché non si limitava a parlare di Bob Marley come unica icona di quel genere musicale, ma si riferiva a tantissime figure che, in un modo o nell'altro, avevano contribuito a rendere il reggae ciò che era poi diventato.

«Che te ne fai?» chiese Daron curioso.

«Lo regalo a Shavo» mormorai.

Il chitarrista sorrise malizioso. «Le cose si fanno serie!» commentò.

«Sta' zitto.»

John mi sfilò delicatamente il libro dalle mani e prese a sfogliarlo lentamente, facendo attenzione a non rovinarlo. «Ehi, ci sono anche loro!» esclamò all'improvviso.

Io e Daron ci sporgemmo a controllare a cosa si riferisse e prendemmo a sghignazzare.

«Eek e Barrington!» dissi entusiasta.

«Qui dice che Barrington è più giovane di Eek, non l'avrei mai detto! Io pensavo...» osservai, leggendo l'anno di nascita dei due artisti giamaicani che, neanche a farlo apposta, erano stati sistemati in due pagine affiancate.

John annuì. «Invece Eek è nato nel 1957, mentre Barrington nel '64.»

«Arriva il bassista» sibilò Daron; John mi riconsegnò il libro e io mi affrettai a dirigermi verso la cassa per pagare ciò che avevo scelto.

Quando tornammo all'esterno, ci dirigemmo in fretta verso il Fyah, dove avevamo deciso di incontrarci con Bryah e il suo compagno per poi andare a cena da qualche parte.

Una volta arrivati a destinazione, prendemmo a chiacchierare del più e del meno, finché la giornalista non ci raggiunse con aria stravolta. Era sola e sembrava stanca e sconvolta da qualcosa.

Nessuno le chiese come mai fosse sola, senza il suo compagno, ma io immaginai che fosse capitato qualcosa tra i due. Decidemmo di andare a mangiare qualcosa sulla spiaggia e Bryah ci promise di portarci in un buon posto.

Mentre ci avviavamo verso il lungomare, mi accostai alla giornalista e la presi sottobraccio, rivolgendole un sorriso. «Bryah, tutto bene?» le domandai.

«Insomma...» Sospirò appena. «Non sto molto bene oggi, ma non volevo darvi buca.»

«Se ti va, puoi parlarne con me» le proposi, sentendomi un po' triste per il suo stato d'animo. Da quando l'avevo conosciuta, Bryah era sempre stata allegra e restia a mostrare troppe emozioni negative; era una di quelle persone che parevano star sempre bene, come se la negatività non fosse qualcosa da loro conosciuta.

«Ho litigato con il mio uomo.» Lo disse senza esitazione, con un'alzata di spalle. «Cose che succedono.»

«Cavoli, mi dispiace» mormorai.

«Con lui è sempre così. Abbiamo entrambi un carattere forte. Ci scontriamo spesso. Forse siamo un po' troppo esuberanti» raccontò con un mezzo sorriso.

«Vi tenete testa a vicenda allora.»

«Molte persone mi dicono che dovrei stare con una persona più tranquilla, capace di farmi calmare un po'.»

Risi. «Oh Bryah, tu sei perfetta così.»

«Tu dici? Benton dice che dovrei darmi una calmata. Mi ha detto che non riesce più a starmi appresso» spiegò con una leggera punta di delusione nella voce. «Ma, Leah, chi ti ama dovrebbe accettarti per come sei.»

«Già, ma chi ti ama dovrebbe anche trovare un modo per stare con te nonostante tutto. Quando lui ha deciso di stare con te, sapeva a cosa sarebbe andato incontro?» le chiesi.

«Certo. Mi sono sempre mostrata così come mi vedi, sono sempre stata me stessa» affermò la giornalista.

«Allora è strano questo Benton!»

Bryah fece spallucce. «Se mi vuole, sa dove trovarmi. Altrimenti, be', affari suoi.»

Le battei una mano sulla spalla. «Giusto, sorella!» concordai con una risatina.

Poco prima di giungere al locale in cui avremmo cenato, raggiunsi John e gli mollai una gomitata ammiccante. «Ehi, batterista, ho una buona notizia per te!»

Lui mi lanciò un'occhiata interrogativa. «Ovvero?»

«Bryah ha litigato con il suo compagno.» Ridacchiai. «Io te l'ho detto, poi vedi tu. Non fraintendermi, io non voglio creare problemi, ma mi dispiace da morire che tu non possa avere un'occasione con la nostra bella giornalista.»

«Ma Leah, io non penso che sia il caso di...»

«Riflettici un po': potresti non rivederla mai più, però lei ti piace. Se non ci provi, vivrai con il rimpianto e ti domanderai per sempre cosa sarebbe successo se...»

John sollevò una mano per arrestare il mio blaterare. «Okay, ci penserò, ma non ti prometto niente.»

Gli indirizzai un occhiolino e annuii, poi mi avvicinai a Shavo e gli presi la mano.

«Che combini?» mi chiese con sospetto.

«Niente» sghignazzai.

«Leah...»

«Su, Shavarsh, tu non ce li vedi bene insieme?» insinuai, accennando a John e Bryah che avevano preso a scambiare qualche parola.

Daron mi sentì e scoppiò a ridere. «Io sì!»

«Non abbiamo chiesto il tuo parere» lo rimbeccò Shavo.

«Antipatico, allora io mi offendo e non ti parlo più!»

«Ragazzi, smettetela, dai! Comunque, io spero che tra quei due succeda qualcosa. Sono troppo carini!» cinguettai.

«Concordo.»

«Voi due avete seri problemi» osservò il bassista esasperato. «Ma la cosa più grave è che vi assomigliate così tanto... non è che siete fratello e sorella e non lo sapete?»

Io e Daron ci scambiammo un'occhiata schifata e scuotemmo energicamente il capo.

«Non dire cazzate, Odadjian!» esclamò il chitarrista.

«Appunto, io non vorrei mai un fratello come lui!» mi ribellai.

Tutti e tre scoppiammo a ridere e seguimmo John e Bryah all'interno di un chiosco.

Stavo davvero bene con quei ragazzi, mi sentivo a mio agio e mi dispiaceva un sacco che il nostro tempo insieme stesse per terminare.

Mentre ci avviavamo a occupare un tavolo, osservai Shavo e il mio cuore si riempì di un intenso calore, alimentato dal suo sorriso, dai suoi occhi scuri e profondi e dalle nostre dita ancora intrecciate.

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Capitolo 29
*** I just want to feel good! ***


ReggaeFamily

I just want to feel good!

[Shavo]




«Sapete cosa ho voglia di fare?» domandò dopo cena Bryah, palesemente brilla.

Lanciai un'occhiata a John, il quale intanto la osservava leggermente preoccupato.

«Sentiamo!» la incoraggiò Leah, posandole una mano sulla spalla.

«Quel cretino di Ben non mi ha chiamato e io...» biascicò la giornalista. «Vorrei venire allo Skye Sun con voi» proferì infine, scolandosi il contenuto rimanente del suo bicchiere di vino.

«Bryah» la chiamò John. «Tu non eri... astemia?»

«Ah, già.» La giornalista ridacchiò. «Lo ero.»

«C'è sempre una prima volta» commentò Daron, il quale giocherellava con gli avanzi del cibo presenti sul suo piatto.

«Daron, piantala!» esclamai esasperato, mollandogli un calcio sotto il tavolo.

Il chitarrista si irrigidì e imprecò rumorosamente, spingendo il piatto al centro del tavolo. «Sei un bastardo, Odadjian.»

«Grazie tesoro» lo canzonai.

«Ragazzi, chiamo un taxi e ci facciamo accompagnare in hotel» affermò John con fare pratico. «Shavo, andiamo un attimo fuori?» mi propose poi.

Mi alzai e, dopo aver passato le dita tra i capelli di Leah, seguii il mio amico all'esterno del chiosco. Ci trovammo con i piedi affondati sulla sabbia e io, mentre il batterista telefonava, mi preparai con calma una sigaretta a base di erba.

«Il taxi sarà qui a momenti» mi informò John mentre riponeva il cellulare in tasca.

«Okay. John, ho parlato con Leah» raccontai leggermente imbarazzato.

«Lei che ne pensa?»

Scrollai le spalle. «Dice che non dovremmo pensare al dopo, ma goderci questi giorni insieme e basta.»

«Possiamo cercare un volo che parta dopo che lei se ne sarà andata. Non mi sembra il caso di rovinarci troppo la vacanza, non ho voglia di tornare a Los Angeles prima del tempo solo per colpa di una... non so neanche come definirla.»

«Certo, hai ragione» concordai, aspirando una boccata di fumo con fare assorto.

«Ti mancherà, eh, bassista?» fece John.

Allungai la canna verso di lui e lui la afferrò, esaminandola per un attimo. Mi guardò pensieroso. «Se Bryah non è più astemia, io posso concedermi un tiro di questa roba. In fondo sono in Giamaica anch'io» rifletté, portandosi infine l'oggetto alle labbra. Aspirò brevemente, poi me lo restituì tossicchiando appena.

«Sei un rammollito» lo presi in giro.

«Pensa per te» replicò fintamente irritato. «Dai, sbrigati a fumare.»

Annuii. «John, ascolta... dovresti prenderti cura della giornalista stasera. La vedo messa male» gli consigliai apprensivo.

«Meno male che viene in hotel con noi. In quelle condizioni non sarebbe in grado di fare due passi da sola» convenne il batterista con un sospiro.

«Poveretta però...»

John accennò un sorriso. «Sai che Leah mi ha consigliato di provarci con lei, ora che ha litigato con il suo compagno?»

«La devo sgridare! Che razza di consigli sono?»

«Eh, non...»

John non fece in tempo a concludere la frase, poiché fummo interrotti dalle grida chiassose dei nostri amici che uscivano dal locale; Bryah camminava strascicando i piedi a terra, mentre Leah e Daron la sostenevano, posizionati ai due lati della giornalista.

«Hai pagato anche a pranzo, Daron!» strillò Leah.

«E a te che importa? Tu mi hai offerto il gelato millegusti!» ribatté il chitarrista senza scomporsi.

«La mia testa... non gridate, oh...» bofonchiò Bryah, portandosi maldestramente una mano sulla fronte. Così facendo rischiò seriamente di cadere, ma fortunatamente John accorse in suo soccorso e la strappò dalle grinfie dei due litiganti.

«Non c'entra niente, la cosa non è paragonabile!» rincarò Leah, piazzandosi di fronte al chitarrista con le mani sui fianchi.

«Oh, che rottura. Quand'è che ti spegni?»

«Senti chi parla!»

«Ragazzi, chiudete la bocca o vi butto in mare!» sbottai, mettendomi tra i due e fulminandoli entrambi con lo sguardo.

Poco dopo il nostro taxi arrivò. John aiutò Bryah a sistemarsi sull'ultimo sedile dell'auto a sette posti che ci aveva raggiunto, poi si accomodò accanto a lei e prese a parlarle per evitare che pensasse troppo a un probabile attacco di nausea.

Daron si sistemò accanto all'autista, mentre io e Leah ci accomodammo sui posti rimanenti.

Durante il viaggio Bryah rimase abbastanza tranquilla, ma il suo stato d'animo non era per niente felice; a un certo punto prese a lamentarsi per ciò che il suo compagno le aveva combinato, per la sua infelicità, per la sua insoddisfazione e per un sacco di altre cose.

Quando arrivammo in albergo, ci riunimmo tutti in camera mia e di John. Il batterista fece stendere la giornalista sul suo letto e si appollaiò sul bordo del materasso.

«Direi che possiamo ospitarla qui» dissi. «Io posso dormire sulla poltrona.»

Leah trotterellò accanto a me e mi abbracciò da dietro. «Tu dormi con me» sussurrò, in modo che soltanto io potessi udirla.

Daron intanto armeggiava con una buona dose di erba, preparandosi una bomba degna di questo nome. Fece scattare l'accendino e se la accese, poi si accostò alla finestra e la aprì.

«Grazie, Malakian» borbottò John, sistemando una coperta sul corpo tremante di Bryah.

Lei sbadigliò appena e socchiuse gli occhi. «Ehi ragazzi, scusatemi tanto...» bisbigliò.

John si chinò su di lei e scosse il capo. «Siamo tuoi amici, non ti avremmo mai abbandonato al tuo destino» la rassicurò, sistemandole meglio il cuscino sotto la testa.

«John...» La giornalista si accoccolò su se stessa e immerse quasi la faccia nel guanciale. «Qui è pieno del tuo odore.»

Spalancai la bocca e notai che il mio amico arrossiva appena, portandosi una mano dietro l'orecchio con imbarazzo. «Uhm, sì?»

«Già» confermò lei in tono sommesso.

Leah cercò il mio sguardo. «Che ti avevo detto? Sono troppo carini insieme!» sibilò con entusiasmo.

«Ehi, Leah, Shavo!» strillò all'improvviso Daron.

«Che c'è?» domandai.

«Avete voglia di fare un giro? Sono solo le undici e mezza, magari in terrazza c'è qualcosa, un po' di musica...»

Proprio in quel momento udimmo un vociare in corridoio, così il chitarrista si affacciò a controllare cosa stesse succedendo, seguito poi da me e Leah.

Trovammo Alwan, Lakyta e Dayanara che si dirigevano verso la nostra stanza, parlando tra loro.

Rimasi piuttosto sorpreso di vedere quei tre insieme, per giunta non impegnati nel loro lavoro.

«E voi che ci fate qui?» esordì Leah, raggiungendoli in fretta.

«Vi stavamo cercando!» spiegò Alwan. «Venite in terrazza?»

«Ci stavamo giusto pensando» borbottò Daron in tono annoiato, senza smettere di fumare.

Lakyta gli lanciò un'occhiataccia e si strinse al braccio di Alwan, ignorandolo deliberatamente.

«Non avete da lavorare?» mi informai perplesso.

«Giù alla reception c'è lo stagista che fa il turno di notte. Alwan e Lakyta hanno la serata libera. Una volta a settimana sta Cornia al bar in terrazza» ci informò Dayanara con un sorriso luminoso.

«Allora veniamo volentieri! Chi è Cornia?» chiese Leah curiosa, prendendo la mia mano.

«Un ragazzino che lavora qui per tappare i buchi, sai com'è» ammiccò Alwan, senza lasciarsi sfuggire il gesto della ragazza nei miei confronti.

«Aspettate qui, chiedo a John e Bryah se vogliono venire, anche se...» li interruppi, per poi rientrare in camera mia.

«Chi ci cerca?» si informò subito John.

«Ci sono Alwan, Lakyta e Dayanara che hanno chiesto se ci va di andare con loro in terrazza. Voi venite?»

Bryah si mise faticosamente a sedere e si appoggiò con la schiena alla spalliera del letto. «Oddio, gira tutto...»

«Perché non sei rimasta distesa?» si preoccupò subito il batterista. «Mi sa che noi rimaniamo qui, Shavo» aggiunse poi.

«Forse è il caso. Ehi Bryah, non farlo dannare e stai a letto. Hai proprio una brutta cera, bella mia» commentai, esaminando il viso stravolto della giornalista.

«Cavoli, mi dispiace. John, ti sto dando noia, non è vero? Se vuoi andare in terrazza...»

John scosse il capo con decisione. «Non se ne parla. Rimango qui con te.»

«Okay, ragazzi, allora ci vediamo più tardi» conclusi, per poi uscire dalla stanza e richiudermi la porta alle spalle.

Dopodiché mi diressi insieme agli altri verso l'ascensore.


«Piacere, io sono Cornia! Ah... cazzo, ma tu sei Daron Malakian dei System Of A Down?!» esordì il giovane cameriere che si era appena avvicinato al nostro tavolo per prendere le ordinazioni.

«Oh, merda! Ecco, ora ho capito chi siete!» saltò su Alwan, battendo una mano sulla spalla di Daron.

Io e il chitarrista ci scambiammo un'occhiata perplessa, mentre Leah scoppiava a ridere fragorosamente.

«Beccati» sghignazzò Dayanara in tono malizioso.

Alwan si mise in piedi e cominciò a gironzolare intorno al tavolo, prendendosi la testa tra le mani. «Cazzo, come ho fatto a non capirlo prima? Oddio...»

«Al, riprenditi!» lo interruppe Leah, afferrandolo per un gomito e obbligandolo ad arrestarsi.

«Già, amico. Grazie a lui hai risolto il mistero» commentai, accennando al giovane cameriere che intanto si era piantato di fianco a Daron e parlava in maniera concitata; era elettrizzato e incredulo, sembrava che stesse avendo a che fare con una divinità scesa in Terra.

«Merda...» bofonchiò ancora Alwan, scrutandomi con attenzione.

«Dai, sono solo una persona» gli dissi, sentendomi leggermente in imbarazzo.

«Ma io... io... suono il basso in maniera schifosa, e mi sono pure esibito di fronte a te... che figura del cazzo, ora andrò a buttarmi dal parapetto!» blaterò il ragazzo, divincolandosi dalla presa di Leah.

«Amore, cosa stai facendo? Io non ho capito niente...» intervenne a sproposito Lakyta, prendendogli la mano e attirandolo accanto a sé.

«Amore?!» sbottò Leah divertita. «Ehi, Laky, da quando è che state insieme?»

«Non stiamo insieme» chiarì immediatamente Alwan. Poi sorrise brevemente alla ragazza e le spiegò: «Ho solo scoperto che ho avuto a che fare con uno dei miei bassisti preferiti senza rendermene conto. Tutto qui».

Lakyta rimase sorpresa. «Quindi questi qui sono musicisti famosi?» chiese confusa.

«Eh già» dissi io.

«Ehi, amico, hai visto che c'è anche Shavo? Non dirmi che non l'hai riconosciuto» sentii dire a Daron in tono esasperato.

«Ah, wow! Ehi, piacere, io sono Cornia! Ma come cazzo è possibile che voi due siete finiti in questo postaccio?» mi apostrofò il cameriere, raggiungendomi in fretta per poi stringermi la mano.

«E ti dirò di più: anche John, il batterista, è qui con noi.»

Cornia strabuzzò gli occhi. «Dove? Dove? Se lo sa mio fratello, mi spacca il culo! Glielo devo dire assolutamente, vorrà un autografo di Dolmayan!»

«Vedi di non spargere troppo la voce, okay?» lo ammonii.

«Certo, certo!» Il cameriere si voltò verso Lakyta e le lanciò un'occhiata di fuoco. «Dolcezza, come stai? Cosa posso portarti?» le domandò, chinandosi per posarle un leggero bacio sulla fronte.

«Ti ho già detto che non sei il mio tipo, Cornia! Lasciami in pace!» strillò lei contrariata.

«Oh, avanti, non fare la difficile» tagliò corto lui con un sorriso furbo sulle labbra sottili.

Era carino, socievole e intraprendente quel ragazzo, sicuramente avrebbe potuto conquistare facilmente un'infinità di fanciulle, eppure sembrava interessato alla più riprovevole di tutte.

«Stammi alla larga» grugnì Lakyta, ignorandolo, mentre concentrava il suo sguardo sulle proprie unghie laccate di verde.

Cornia si chinò a sussurrarle qualcosa all'orecchio, poi sghignazzò tra sé, mentre lei borbottava qualcosa che non riuscii a comprendere.

Infine prese le ordinazioni e si avviò allegramente verso il bancone.

«Però, ragazzi, ci sono un sacco di musicisti tra noi e ancora non abbiamo suonato tutti insieme!» si lamentò Alwan, lasciandosi cadere accanto a Daron.

«Già, te l'avevo promesso, è vero!» esclamò il chitarrista, giocherellando con l'accendino.

«Ma ora John non c'è» sottolineai.

«Però un'occasione come questa potrebbe non ripresentarsi più. Noi abbiamo sempre da lavorare, che palle!»

«Qui ci sfruttano» commentò Dayanara, facendo l'occhiolino a Leah.

«Vero! Io organizzerei una protesta!» esclamò la ragazza accanto a me.

«Ma tu non sai mai stare zitta?» la rimbeccò Lakyta, improvvisamente interessata alla conversazione.

«Laky, sta' calma. Che ti ho fatto di male?» ghignò l'altra con pungente ironia.

«Esisti e vieni qui a distruggere la mia vita ogni tanto, ecco cosa hai fatto!» rispose la cameriera, scattando in avanti.

«Andiamo, tesoro, chiudi quella tua bella boccuccia. Non è il momento di litigare, non trovi? Siamo tra amici.» Leah si sporse verso di lei e abbassò la voce. «C'è anche il tuo adorato Alwan, non vorrai fare una brutta figura con lui, vero?»

«Tu sei veramente...»

«E pensa un po'» proseguì Leah, battendo una mano sul mio ginocchio. «Lui, Daron e John vengono da un posto che a te piace tanto, indovina?»

«Cosa stai dicendo?»

«Già, arrivano proprio da Los Angeles, dove c'è la tua amata Hollywood» sganciò la bomba Leah, poi tornò ad appoggiarsi con la schiena alla sedia e si godette la faccia stralunata e profondamente incredula della sua interlocutrice.

Notai Lakyta fissarmi interdetta, per poi voltare il capo in direzione di Daron e fissare intensamente anche lui, mentre con una mano si tastava il petto all'altezza del cuore, neanche temesse di star per avere un infarto.

Mollai una leggera gomitata a Leah. «Sei incredibile» le dissi.

«Sì, lo so» ridacchiò.

«Dai! Suoniamo o no?» strepitò ancora Alwan, per poi rimettersi in piedi. «Corro a prendere il basso, poi c'è lo djambé là dietro, e... Daron, hai la chitarra, la vai a prendere?»

«Sicuro! Corro, capo!» scattò subito il mio amico, dirigendosi di fretta verso l'ascensore.

Dal canto mio, mi ritrovai con il tamburo tra le mani senza sapere neanche perché.

«Shavo, tanto lo sai suonare!» mi incoraggiò Alwan.

«Insomma...»

«Non ci credo, tu sai suonare qualunque cosa!»

Fissai lo djambé con aria perplessa. Volevano davvero farmi fare una figura di merda? Non ero affatto bravo con gli strumenti a percussione, anche se qualcuno mi aveva fatto notare che spesso tendevo a battere sulle corde del mio basso come se tra le mani stringessi un qualche tamburo.

«Dai, fregatene, andrà tutto bene. Pensa a divertirti» mi incoraggiò Leah, facendomi l'occhiolino e preparandosi a filmare tutto con il suo cellulare.

Noi musicisti ci sistemammo vicino al chiosco in legno, per somma gioia di Cornia e, dopo aver posizionato delle sedie, Alwan e Daron mi lanciarono un'occhiata.

«Non ditemi che devo iniziare io! Non sono mica John...» mi lamentai.

«Avanti, amico, non rompere i coglioni e dacci un ritmo» gridò Daron, mentre l'altro ragazzo annuiva.

Sospirai e presi a battere sulla pelle chiara dello strumento; inizialmente mi parve di star facendo qualcosa di molto sconclusionato, ma poco dopo mi accorsi che Daron e Alwan si accodarono a me, così compresi di essere almeno in grado di fare da metronomo per quella bizzarra esibizione.

Alla fine, non so come né perché, Daron prese a cantare a squarciagola una vecchia canzone degli AC/DC e io scoppiai a ridere per il modo orribile in cui stava eseguendo il brano; rischiai più volte di perdere il tempo, ma alla fine venne fuori qualcosa di decente.

Mi accorsi che Alwan era abbastanza emozionato, ma infine riuscì a lasciarsi andare e a un certo punto prese a passeggiare di fronte a noi con il basso a tracolla, lanciando sorrisi a tutti i presenti e muovendosi appena a un ritmo che solo lui riusciva a percepire all'interno del suo corpo.

«Bravi!» strillò Leah, appoggiando il cellulare sul tavolino per poter applaudire. Anche Lakyta e Cornia si unirono a lei, strillando come pazzi e incitandoci a continuare.

Mi dispiacque che John non fosse con noi, sicuramente si sarebbe divertito e avrebbe preso la palla al balzo per suonare. In cuor mio, tuttavia, sperai che si stesse intrattenendo piacevolmente con Bryah, chissà che quel momento da soli non portasse a una svolta nel loro rapporto.

Proseguimmo a suonare e cantare per un sacco di tempo, poi rimanemmo ancora un po' appoggiati al bancone a chiacchierare animatamente. Cornia continuava a provarci spudoratamente con Lakyta, così io e Leah cominciammo a pensare che non avrebbe impiegato molto a conquistarla, nonostante lei si mostrasse sempre molto interessata ad Alwan e cercasse in tutti i modi di ignorarlo.

Verso l'una e mezza cominciammo a risentire della stanchezza, così Leah mi propose di scendere in camera. Salutammo tutti con calore e ci avviammo all'ascensore, lasciando Daron a fare casino con Alwan e Dayanara.

«Bella serata, non me lo sarei mai aspettato» commentai, mentre l'ascensore si muoveva verso il terzo piano della palazzina dipinta in bordeaux.

«Sì, sul serio. Sei stato bravo con quello djambé» si complimentò Leah compiaciuta, abbracciandomi.

«Ho fatto schifo, però non importa. Tutti si sono divertiti.»

Leah si staccò da me e mi guardò con rimprovero. «Ho fatto il video. Domani lo mostrerò a John e sarà lui a dire se hai fatto schifo oppure no, visto che io non me ne intendo» decise.

Le doppie porte del box si spalancarono e noi trotterellammo nel corridoio, continuando a battibeccare a bassa voce, finché non raggiungemmo la stanza della ragazza.

Una volta all'interno, Leah sbadigliò e si lasciò cadere sul letto. «Non ho voglia di cambiarmi» biascicò.

«Cambiarti? E che bisogno c'è?» le chiesi divertito, raggiungendola. Mi sedetti sul bordo del letto e presi a slacciare la cinghia dei sandali che indossava, per poi sfilarglieli e farli ricadere ai piedi del letto. «Così può andare» commentai.

Mi sentii abbracciare da dietro e il calore del corpo di Leah fece aumentare immediatamente i miei battiti cardiaci.

«Sei pronto?» bisbigliò, per poi posare le labbra dietro il mio orecchio.

Rabbrividii e non mi mossi. «Per cosa?»

«Per dormire con me» rispose con voce roca.

«Dormire?»

Leah ridacchiò e il suo respirò mi carezzo la nuca. «Se hai qualche altro programma, possiamo parlarne.»

Mi voltai di scatto verso di lei e la spinsi sul materasso. La sovrastai e mi chinai a baciarla. «Oppure potremmo soltanto stare zitti» proposi in tono ammiccante.

Leah soffocò una risata e mi attirò a sé, permettendomi di avere tutto il suo corpo premuto contro il mio.

Restammo a baciarci e accarezzarci per un po', ma poi ci rendemmo conto di essere troppo stanchi per pensare, per muoverci e per fare qualunque altra cosa avessimo intenzione di fare.

Con dolcezza avevamo finito per sfilarci i vestiti a vicenda, e ora giacevamo abbracciati tra le lenzuola senza compiere nessun gesto equivoco.

Leah mi carezzava piano la schiena e io rabbrividivo appena, mentre io tenevo il suo corpo magro contro il mio e lasciavo che il profumo della sua pelle mi inebriasse.

Ci addormentammo senza neanche rendercene conto, intrecciati l'uno all'altra.

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Capitolo 30
*** Stuck in the Sky ***


ReggaeFamily

Stuck in the Sky

[John]




Ero preso da un passaggio clou del libro che stavo leggendo: c'era Harry Bosch, il detective creato da Michael Connelly, che si stava dirigendo a Beachwood Canyon per cercare un cadavere; il suo destino era in mano a un detenuto di nome Raynard Waits che aveva confessato alla polizia di Los Angeles di sapere dove si trovava il corpo di una ragazza scomparsa tanti anni prima. Mi sentivo in ansia per l'operazione che il detective stava per compiere, affiancato e scortato da un sacco di esponenti delle forze dell'ordine, e questo succedeva sempre quando leggevo un libro di Connelly; lui era particolare, riusciva a insinuare sentimenti incredibili in me, proprio perché non sapevo mai che aspettarmi.

Ero talmente immerso nella lettura che mi accorsi appena del risveglio di Bryah, così quando sbadigliò, sobbalzai e rischiai di cadere dal bordo del letto su cui ancora stavo appollaiato.

«John?» mi chiamò. «Ti ho spaventato?»

Raccolsi il segnalibro che era caduto a terra e lo infilai tra le pagine del volume, sentendomi leggermente a disagio perché non ero riuscito a concludere la pagina che avevo da poco iniziato.

«Come stai?» le domandai, sollevando lo sguardo su di lei e notando che si metteva a sedere con la schiena contro la spalliera del letto. Diedi un'occhiata al mio orologio da polso e notai che era l'una passata. «Forse avrei dovuto spegnere la luce, almeno avresti continuato a dormire...» mormorai.

«Macché. Che leggi?» volle sapere Bryah, indicando il tascabile che ancora stringevo tra le mani.

«Echo Park di Michael Connelly» risposi, mostrandole la copertina.

«Un poliziesco? Tu? Non me lo sarei mai aspettato!» commentò sorpresa.

«Io leggo un sacco, e leggo davvero qualsiasi cosa. Poi queste storie sono ambientate nella mia città, me la mostrano com'è e come neanche io la conosco. Sono fenomenali, lui è fenomenale» spiegai in tono concitato.

«Capisco. Ehi, mi sorprendi sempre, batterista» osservò Bryah, per poi scendere con cautela dal letto.

«Dove vai?» chiesi subito allarmato.

«In bagno. O vuoi che me la faccia addosso sul tuo letto?» replicò con noncuranza, camminando poi verso la stanza adiacente, a piedi scalzi.

Mi sentii avvampare un poco e mi diedi del cretino. Certo, Bryah era esuberante, non si metteva problemi a dire ciò che pensava o che provava, era come se fosse una versione di Leah più grande di età, anche se leggermente meno invadente.

Sorrisi a quel pensiero, rendendomi conto che in fondo Leah non era poi così male; lei e Shavo formavano proprio una coppia carina, e lei era una brava ragazza, una persona di cui potersi fidare, che era in qualche modo riuscita a penetrare nella mia timidezza e si era messa a mia disposizione come amica, finendo per aiutarmi più e più volte, nonostante io mi mostrassi spesso restio e taciturno. Con me non si era mai arresa, cercando degli espedienti come quello della colazione insieme per avere a che fare con me, per portarmi fuori dal mio guscio e farmi sentire a mio agio.

Era una persona unica e, nonostante fosse giovane, non sembrava una ragazzina sciocca e sprovveduta; con il suo modo di fare intraprendente e spudorato, sapeva sempre come venir fuori dalle situazioni difficili, riusciva ad affrontare qualsiasi cosa con il sorriso sulle labbra e non drammatizzava troppo sui suoi guai.

Bryah un po' le somigliava, ma avevo come l'impressione che fosse più fragile, come se la sua esistenza si basasse su poche certezze e rischiasse di caderle addosso da un momento all'altro. E questo instillava in me il bisogno e la voglia di proteggerla.

A questo pensavo mentre lei era in bagno, così mi sorprese completamente immerso in riflessioni che non poteva immaginare; mi posò una mano sulla spalla e io sollevai lo sguardo per posarlo su di lei.

«Che succede?» mi chiese leggermente preoccupata. «È quella telefonata che hai fatto prima ad averti sconvolto tanto?»

Sorrisi appena. «Ecco...» balbettai.

«Se non vuoi parlarne, non c'è problema.» Bryah si sedette accanto a me e si passò le mani tra i folti e ricci capelli corvini per cercare di sistemarli un po'. «Ma ti vedo più chiuso del solito, il che è un brutto segno.»

«Mi dispiace» riuscii a dire soltanto, incapace di portar fuori le mille preoccupazioni che mi martellavano nel cervello.

Io e Serj avevamo discusso per un po'; la partenza infine era stata prenotata per tre giorni dopo, e questo significava che Shavo si sarebbe presto separato da Leah e che io non sarei riuscito a concludere niente con Bryah, e inoltre non l'avrei mai più rivista dopo quella vacanza. Mi sembrava ingiusto dover abbandonare così presto la Giamaica per colpa di una ragazzina capricciosa che andava in giro a dire di essere figlia di Daron, anche perché stentavo a crederci e non mi sembrava verosimile.

«John.»

Guardai Bryah ed ebbi una tremenda voglia di abbracciarla e tenerla stretta a me. Stavo impazzendo, me ne rendevo conto, ma non riuscivo quasi a controllarmi e sentivo il cuore accelerare i suoi battiti in maniera irregolare. Dovevo calmarmi, respirare, ragionare in maniera razionale e ripetermi che lei non sarebbe mai stata mia in nessun caso. Dovevo farmene una ragione.

«Sei così triste» commentò Bryah, inclinando leggermente la testa di lato.

«Tra tre giorni me ne vado» buttai lì, giusto per tenermi impegnato e non rimanere incastrato nei miei pensieri.

«Come? Di già?»

Annuii. «Non possiamo stare qui per sempre, dobbiamo prepararci per un importante concerto» spiegai, portando fuori una verità parziale.

«Certo, avete da lavorare. Di che concerto si tratta?»

Le raccontai della data al Dodger Stadium e Bryah parve incredula, ma si mostrò anche molto entusiasta.

«Mi piacerebbe venire da voi a fare un servizio per il giornale dove racconto questo grande evento! Che dici, si potrebbe fare?» propose eccitata.

Il mio cuore perse un battito e dovetti far leva su tutto il mio autocontrollo per non esultare come un idiota. «Penso di sì» dissi con calma. «Ma pensi che te lo lascerebbero fare? Questo non avverrà in Giamaica, quindi potrebbe risultare fuori luogo.»

«No invece! Una volta all'anno vengo incaricata di cercare un evento importante in giro per il mondo e vengo spedita a fare un reportage; l'anno scorso sono stata in Spagna, da non crederci!» mi raccontò Bryah allegra.

«In Spagna?» MI sporsi leggermente verso di lei, curioso di conoscere un altro dettaglio della sua vita.

«Già. In estate, a Benicasim, si tiene un importantissimo festival di musica reggae, il Rototom Sunsplash. Un sacco di artisti veramente importanti si esibiscono ogni anno sul palco del Rototom e...»

«Rototom» riflettei assorto. «Nome interessante. C'è un particolare tamburo della batteria che si chiama così.»

Bryah scoppiò a ridere. «Oddio, ma sei senza speranze tu! Pensi solo alla tua batteria, eh?» mi canzonò.

«Ma no, io non uso abitualmente quel tipo di tom, è solo che...» presi a giustificarmi.

«Sì, sì, tutte scuse, Dolmayan!» tagliò corto Bryah, mollandomi una leggera gomitata.

«Dai, racconta. Hai intervistato qualche artista famoso al Rototom Sunsplash?» le domandai con un sorriso.

«Vediamo... ho avuto l'onore di intervistare Alpha Blondy e ho rubato due minuti anche a Max Romeo...»

Strabuzzai gli occhi. «Alpha Blondy?» chiesi allibito.

«Già, proprio lui. Lo adoro, sai? È un artista pazzesco, ma soprattutto è una persona tanto carina...»

Ero senza parole. «Mio padre me lo ha fatto ascoltare e conoscere, sai? Anche io lo apprezzo molto in effetti...» le confessai.

«Ma la cosa più bella è stata assistere a tutti quei concerti pazzeschi... ho visto Alborosie, Protoje, Morgan Heritage, Marcia Griffiths, Steel Pulse, Michael Rose... e tantissimi altri! Tu dirai: “Ma qui in Giamaica faranno un sacco di concerti del genere”, però ti assicuro che l'atmosfera del Rototom è qualcosa di magico! Poi l'Europa è un altro mondo, la Spagna è magica e io ci riandrei anche ora!» proseguì Bryah con la nostalgia nello sguardo. «Ah, e ho visto suonare anche il nostro amico Barrington! Ti giuro che ciò a cui abbiamo assistito l'altro giorno non è paragonabile alla bellezza dei live al Rototom Sunsplash!» concluse con gli occhi che brillavano.

«Da come ne parli, mi viene voglia di andarci...»

Bryah annuì vigorosamente. «Dovresti. E sono certa che piacerebbe tantissimo anche ai tuoi amici.»

Sorrisi. «A Daron di sicuro.»

«Si fuma un sacco laggiù» disse con una risatina maliziosa.

«Allora se voglio convincerlo ad accompagnarmi, glielo dirò» proferii.

«Forse non ti conviene portartelo appresso» scherzò Bryah.

«Forse hai ragione!»

Lei mi guardò negli occhi e si fece improvvisamente seria. «Comunque mi piacerebbe molto venire a scrivere un pezzo sul vostro concerto» ripeté.

«Allora per noi sarà un piacere averti nella Città degli Angeli» scherzai, tenendo i miei occhi fissi sui suoi.

«E sappi che io voglio scrivere il vostro libro.»

Rimasi un attimo sorpreso. «Quindi sei seria?»

«Ma certo! E tu sei uno sciocco» mi accusò con un sorriso malizioso.

«Non pensavo che...»

«Tu pensi troppo, mio caro batterista. Scommetto che ti fai un sacco di film mentali...» commentò Bryah.

«Io?» Mi puntai il dito al petto e scossi leggermente il capo.

«John» sospirò all'improvviso.

«Che c'è?» le chiesi.

Bryah si sporse improvvisamente verso di me e mi baciò. Premette con forza le sue labbra sulle mie e io mi immobilizzai.

Dovetti far leva su tutta la forza di volontà di cui disponevo per indietreggiare leggermente sul letto e staccarmi da lei, mentre un'ondata di desiderio mi invadeva completamente. A causa di quel movimento azzardato, barcollai per un istante sul bordo del materasso e in un attimo mi ritrovai per terra.

Bryah mi fissò perplessa, inclinando il capo verso sinistra, poi scoppiò a ridere e si lasciò cadere all'indietro, producendo un baccano assurdo.

Mi sentii tremendamente in imbarazzo per essere caduto come un idiota, ma la cosa peggiore fu accorgermi che lei mi aveva appena baciato e io non avevo saputo come comportarmi. Non aspettavo altro dal primo istante in cui l'avevo vista, ma in qualche modo stavo pensando al fatto che lei avesse una relazione; poco importava se adesso lei e il suo compagno avevano litigato, ero sicuro che si trattasse di un'incomprensione passeggera e che presto avrebbero chiarito le cose.

«Oh, John! Sei proprio un caso perso» mi disse per l'ennesima volta, per poi mettersi su un fianco e lanciarmi un'occhiata interrogativa.

Mi trovavo ancora seduto sul tappeto e mi limitavo a guardarla senza sapere bene cosa fare, ma lei non sembrava tanto preoccupata quanto me, anzi, era come se si sentisse a suo agio.

«Bryah, non credo che...»

«Perché non stacchi quel dannato cervello per un attimo, eh?» Bryah mi pose quella domanda mentre scivolava giù dal letto e mi raggiungeva sul pavimento; si accostò a me e pose il suo bel viso a pochi centimetri dal mio. «Non ce la fai proprio?» sussurrò.

Ero seriamente in tilt, ragion per cui mi ritrovai ad agire ancor prima di rendermene realmente conto: attirai il corpo formoso e caldo di Bryah contro il mio e tornai a baciarla come lei aveva fatto con me poco prima, senza riuscire a frenare le mie mani che percorrevano bramose i suoi fianchi. Lei si aggrappò a me con forza, facendomi capire che voleva starmi il più vicino possibile e che non intendeva più permettermi di ripensarci.

«Adesso si ragiona, batterista» mormorò, mordicchiandomi il labbro inferiore. «Sei dannatamente irresistibile, lo sai?»

Non fui capace di replicare, la afferrai per i fianchi e lei si posizionò più comoda, a cavalcioni su di me. Ci baciammo con un trasporto indescrivibile, rendendo quel contatto sempre più profondo e intimo. Mi sentivo come bloccato in un angolo di paradiso, improvvisamente non ero più in grado di ragionare o di prendere decisioni sensate e razionali: esisteva solo Bryah, la sua pelle bruna, il suo calore, il suo profumo esotico e la consapevolezza di averla così vicina, di sentirla quasi mia.

Era scattata così, quella scintilla, era stato inevitabile, e io non avevo potuto fermarla, non avevo potuto fermarmi e ancora non ci riuscivo.

Ci trovammo sul letto senza vestiti, avvinghiati e affamati l'uno dell'altra, a rotolarci sul tappeto senza preoccuparci di niente che non fosse il prenderci cura del nostro piacere crescente.

Io mi occupai di lei, tenendola stretta, e lei fece lo stesso con me, con passione e dolcezza.

Ci trovammo a fare l'amore come se fosse qualcosa che ci era stato destinato, come se non potessimo farne a meno e ci sentissimo completi soltanto ora, in quell'istante, bloccati in alto, nel cielo.

«Ti ho desiderato dal primo istante» mi disse Bryah, la voce spezzata dal piacere.

Non le risposi, ma aumentai la stretta su di lei, e lei comprese che anche per me era stato lo stesso; sperai che non se la prendesse con me per la mia incapacità di articolare delle parole o delle frasi sensate, ma ero talmente preso da ciò che mi stava capitando, dal mio cuore impazzito, dal mio corpo in fiamme...

Era indescrivibile, era bellissimo, era semplicemente appagante sotto tutti i punti di vista.

Giacemmo abbracciati per un tempo indefinito, accarezzandoci e impegnandoci a regolarizzare il nostro respiro.

Solo allora mi resi veramente conto di quanto era appena capitato e il mio cervello tornò a mettersi in moto; mi immobilizzai e avvertii chiaramente un'ondata di sensazioni negative invadermi, conferirmi un gelo improvviso e straziante. Avevo sbagliato tutto, non avrei mai dovuto concedermi quel momento con Bryah, no, non mi sarei dovuto lasciare andare così tanto. Cazzo, ero bruscamente tornato con i piedi per terra dopo aver trascorso un momento di sospensione, di completo blackout mentale.

«John, per favore, smettila di rimuginare» disse Bryah all'improvviso, posandomi una mano sul petto e carezzando piano la mia pelle.

Sospirai appena e socchiusi gli occhi, senza però replicare.

«Me ne sono accorta dalla tua espressione e dal modo in cui ti sei improvvisamente irrigidito. Cosa c'è?» insistette lei, sollevandosi su un gomito per potermi scrutare meglio.

«Mi dispiace per questo, non avrei dovuto lasciarmi prendere così...» dissi mortificato.

«Perché?»

«Hai una relazione.»

«Oh John, sei un così caro ragazzo. Sai una cosa? A Ben non importerebbe niente. È stato lui il primo a tradirmi» mi raccontò con una leggera punta di risentimento nella voce.

La fissai negli occhi, ero allibito. «Lo hai fatto per ripicca nei suoi confronti? Era solo questo il punto?» domandai, sentendomi ferito e deluso. Non riuscivo a credere a ciò che stavo ascoltando.

«Vedi che sei sciocco?» Bryah sospirò e si lasciò andare con il capo sul mio petto, avvolgendomi in un abbraccio. «No, questo non c'entra. Tu mi piaci, te l'ho detto. Mi sono sentita attratta da te fin da subito, quando qualche giorno fa ti ho incontrato per caso all'ingresso dell'albergo. È solo che...» Si interruppe e io le posai una mano sui capelli, infilando le dita tra i suoi ricci ribelli e morbidi. «Non volevo ammetterlo, non potevo. Ho pensato a Benton, ho pensato al fatto che l'ho perdonato per avermi tradito, ma... ho fatto di tutto per far funzionare le cose con lui, ma la verità è che io di lui non riesco a fidarmi più. Forse non lo amo più, o forse lo amo, ma questo non c'entra niente con la fiducia. Sono due cose diverse.»

«Ne sei certa?»

«Sì. Il problema è che io con te mi trovo bene, è nata una sintonia pazzesca, non riuscivo a crederci nemmeno io... e poi oggi, be', oggi non ho saputo resisterti. John, senti, dovrei essere io a scusarmi con te, non il contrario. Quindi tu devi smettere di pensare negativo, devi smetterla di sentirti in colpa.» Bryah si allungò verso di me e mi lasciò un bacio a fior di labbra. «Non hai sbagliato niente, sei stato fantastico.»

Non ne ero per niente convinto, ma decisi di non contraddirla; al momento ero troppo stanco per continuare a pensare a qualsiasi cosa, perciò lasciai semplicemente che lei si rannicchiasse contro di me e si appisolasse, mentre io tiravo su le lenzuola e le avvolgevo attorno ai nostri corpi nudi.

Mentre Bryah dormiva, io rimasi sveglio, la mente vuota e il cuore che non accennava a diminuire i suoi battiti. Mi sentivo scosso, spossato, alla deriva.

L'angolo di cielo in cui mi ero rintanato poco prima, solo un lontano miraggio.




Cari lettori, come state?

Avete visto che è successo al nostro John? Chi l'avrebbe mai detto che avrebbe “concluso” prima di Shavo? XD ahahahahah!

A parte queste sciocchezze, sono qui per le solite note sul capitolo: vi confermo che il Rototom Sunsplash esiste e che alla sottoscritta piacerebbe un CASINO andarci, quindi ho pensato di inserirlo nei racconti di Bryah, provando a immaginare l'atmosfera che la nostra giornalista ci ha trovato :3

Poi, per quanto riguarda il libro che John stava leggendo – e sappiate che morivo dalla voglia di inserire questa scena per il nostro batterista, credetemi ♥ –, si tratta di un romanzo bellissimo di Michael Connelly, che in Italia è stato pubblicato con il titolo Il cerchio del lupo; ho voluto inserirlo con il titolo originale perché, boh, mi sembrava più attinente con la storia ^^ sono scema, sì, ditemelo pure! Vi dico anche che da questo romanzo, e da altri due, è stata tratta la prima stagione di Bosch, la serie TV creata e basata appunto sul detective Bosch :3 vi consiglio di guardarla o di leggere i suoi libri, sono per la maggior parte ambientati a Los Angeles, anzi a Hollywood, perciò... *-*

Ultima cosa, ma non in ordine d'importanza, in questo capitolo ho scelto un titolo che a sua volta fa parte del titolo della storia (che giro di parole e di titoli XD), tratto appunto dalla magnifica Peephole dei nostri adorati ragazzi **

Detto questo vi saluto e vi ringrazio per tutto ciò che state facendo per me, per il supporto e per le bellissime recensioni che mi lasciate!

Alla prossima ♥

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Capitolo 31
*** Our mistakes ***


ReggaeFamily

Our mistakes

[Daron]




Era un rumore assordante, indistinto, fastidioso, insopportabile. Mi strappò dal sonno e mi fece imprecare di primo mattino, senza ritegno.

Allora capii che si trattava del mio cellulare che squillava insistentemente. Rotolai sul materasso e lo afferrai, intenzionato a lanciarlo dall'altra parte della stanza in modo che smettesse di trapanarmi il cervello. Ma proprio in quel momento lui smise di squillare e nella mia stanza calò nuovamente il silenzio.

Mi misi a sedere e mi strofinai gli occhi, per poi aprirli e venir accecato dal sole. La giornata era decisamente cominciata nel modo sbagliato.

Osservai lo schermo del mio cellulare e appresi che avevo ricevuto una telefonata da parte di Jessica. Perplesso, avvertii il cuore battere all'impazzata, accelerando in maniera irrefrenabile. Perché la mia ex mi aveva telefonato? Ero riuscito a non pensare troppo a lei e al suo imminente matrimonio, ma ora lei era tornata alla carica.

Sbuffando, lasciai il telefono sul materasso e mi alzai. Non avevo nessuna voglia di richiamarla o di trascorrere il mio tempo ad attendere che lei si decidesse a telefonarmi di nuovo; non avevo idea di che ore fossero, ma mi preoccupai soltanto di uscire da quella claustrofobica stanza il prima possibile.

Mi precipitai in corridoio e mi guardai attorno. C'era silenzio, ma nel tendere l'orecchio mi parve di udire delle risate provenienti dalla stanza di Leah. Mi venne voglia di andare a romperle un po' le scatole, giusto per distrarmi, così mi accostai alla porta e presi a bussare con insistenza.

«Leah? Sei lì?» cantilenai.

Ci fu una pausa, poi un grido squarciò l'aria.

«Malakian! Vattene subito!» strillò Shavo.

Ecco, forse avevo interrotto qualcosa, ma la cosa mi stava divertendo fin troppo, così ripresi a pestare sulla porta. «Dai, non fate i timidi, lasciatemi entrare! Che ne dite di una cosa a tre?»

«Daron Vartan Malakian!» tuonò ancora il bassista, mentre Leah scoppiava a ridere rumorosamente.

Rimasi incollato alla porta e poco dopo cominciai a cantare una canzone a caso.


You keep on shouting,

you keep on shouting,

I wanna rock and roll all nite

and party every day!


Qualche secondo dopo, Leah si materializzò sulla soglia e mi spintonò con forza, fingendosi arrabbiata; infatti nel suo viso potevo leggere un estremo divertimento, ma soprattutto notai che si era avvolta in un lenzuolo e immaginai che fosse senza vestiti. Forse ero arrivato proprio nel momento sbagliato.

«Sparisci» mi liquidò la ragazza, incenerendomi con un'occhiata.

«Perché non mi volete?» mi lamentai.

«Vai a importunare qualcun altro» concluse, per poi sbattermi la porta in faccia e lasciarmi in corridoio come un allocco.

«Ve la farò pagare!» minacciai, per poi voltarmi e dirigermi verso la stanza di John. Il batterista sarebbe stato sicuramente più comprensivo e accomodante nei miei confronti.

Proprio in quel momento la porta si spalancò e io, senza pensarci due volte, mi fiondai all'interno, spingendo il mio amico dentro la stanza. Poco dopo mi accorsi che, però, non era stato John ad accogliermi: Bryah, con addosso solo una maglia di John, mi fissava interdetta con le mani protese in avanti nell'atto di proteggersi.

A quel punto mi guardai intorno e notai che il letto del batterista era sfatto, un libro giaceva sul tappeto accanto a quello di Shavo, rimasto intatto, e alcuni vestiti erano disseminati sul pavimento.

Inclinai la testa di lato e tornai a guardare la giornalista. «Ah, merda» borbottai.

«Daron?! Oddio, vattene!» sibilò Bryah.

«Dov'è John?»

Il batterista comparve proprio in quel momento sulla soglia del bagno, con indosso soltanto i boxer. Mi individuò subito e trattenne il fiato, incapace di reagire. A differenza di Shavo, per lui era più difficile agire d'istinto e dirmene quattro senza pensarci due volte.

«Daron, fai il bravo... noi dovremmo, ehm... prepararci per... la colazione... potresti...?» balbettò John in estremo imbarazzo.

«E non lo cacci fuori a calci nel culo?»

Udii appena quelle parole, e subito dopo venni attaccato da dietro; Shavo mi fu addosso e mi afferrò per la maglia, trascinandomi subito fuori dalla stanza. Mollò un calcio alla porta e questa si richiuse alle nostre spalle, sbattendo con forza e producendo un tonfo assordante.

Il bassista era incazzato nero, questo era ben comprensibile.

«Stammi a sentire» esordì Shavo, afferrandomi per le spalle e guardandomi in faccia. «Oggi stai esagerando di buon mattino, questo non mi piace. Non ho voglia di scherzare.»

«Ehi, Shavarsh, sei incazzato perché sei andato in bianco e te la prendi con me?» lo apostrofai senza scompormi troppo.

Il bassista mi sbatté contro la parete alle mie spalle e io mi sentii percorrere da un lancinante dolore alla nuca. «Malakian, non sto scherzando. Oggi non ho voglia di giocare con te, chiaro?»

Era stato chiaro, sapevo quando Shavo non riusciva a controllarsi quando si svegliava di malumore o quando lo facevo incazzare troppo. Me lo scrollai di dosso e mi divincolai dalla sua presa, sgusciando verso la mia stanza.

«Okay, ricevuto. Però datti una calmata» dissi in tono piatto.

«Io? Vedi di stare tranquillo tu, Malakian.»

Una volta giunto di fronte alla porta di camera mia, mi voltai nuovamente verso di lui e rimasi a fissarlo in silenzio per un po', poi d'un tratto dissi: «Jess mi ha chiamato».

Shavo sbuffò. «E allora?»

Feci spallucce. «Non ho risposto, non ho fatto in tempo.»

«Il tuo problema è che non sai come gestirti. E quindi riversi tutto sugli altri» mi accusò il bassista in tono duro.

Proprio in quel momento Leah fece capolino dalla sua stanza. «Shavarsh? Ti sei incazzato proprio tanto allora...» osservò.

«Leah, non intrometterti» gracchiò lui senza neanche guardarla.

Lei ammutolì, spiazzata. Forse non si aspettava un trattamento così duro da parte del bassista, ma del resto lo conosceva poco e non lo aveva ancora visto seriamente in collera.

«Non trattarla così» mormorai. «Non per colpa mia.»

Quella situazione stava diventando assurda, ero già sfinito e proprio in quell'istante sentii nuovamente il mio cellulare che squillava.

«Okay, io vado in terrazza a fare colazione, chi mi ama mi segua!» finse di sdrammatizzare Leah, ma notai chiaramente un'espressione leggermente delusa farsi largo sul suo volto. Si avviò in fretta verso l'ascensore e, a sua volta, non degnò Shavo di uno sguardo. Se l'era forse presa? E perché quella mattina tutti ci eravamo svegliati con la luna storta e con una voglia assurda di litigare? Il malumore stava formando una sorta di reazione a catena generale.

Sospirai e rientrai in camera, lasciando la porta aperta. Raggiunsi il cellulare ancora abbandonato sul letto e risposi, preparandomi all'ennesima lite di quella mattina.

«Jess» esordii in tono annoiato.

«Buongiorno Daron, ti disturbo per caso?» rispose in tono professionale la mia ex. Sembrava una segretaria che contatta qualcuno per un colloquio di lavoro.

«Macché» biascicai. «Perché mi chiami?»

«Volevo scusarmi per la telefonata che Lars ti ha fatto qualche settimana fa. Non era sua intenzione...»

«Ah no? Non voleva invitarmi al vostro matrimonio quindi? Be', meglio così direi. Non sarei venuto comunque.» Mentre parlavo, notai Shavo che entrava in camera mia e si fermava a pochi passi dalla soglia.

«No, be'... l'invito è sempre valido, ovviamente. Daron, tu sai che per me sei importante, lo sarai sempre.»

Scoppiai a ridere. «Questa è bella. Ehi Jess, tanti saluti al tuo Lars, e sappi che questa chiamata ti costerà un patrimonio. Sono in Giamaica.»

Lei emise un gridolino di sorpresa. «E che ci fai?»

«Che domande! Me la spasso. Ti saluto, buona fortuna per le nozze e buona vita.» Interruppi la conversazione e ributtai il cellulare sul letto, per poi stringere a pugno la mano destra e fissarla con furia.

«Come attore non sei male» osservò il bassista. «Ma Jessica ti conosce. Sa bene che le hai mentito.»

«Ora sei tu a farmi incazzare.»

Io e Shavo ci guardammo per un po' in cagnesco, poi lui disse: «È perché non abbiamo ancora fumato e mangiato».

Mi ritrovai pienamente d'accordo con lui e annuii. «Giusto. Allora che aspettiamo? Andiamo in terrazza, e nel frattempo io preparo un po' di erba per la colazione.»

«Oggi quindi si mangia vegetariano?» sghignazzò Shavo.

Gli battei amichevolmente sulla spalla. «E tu vedi di scusarti con Leah, l'hai trattata davvero di merda prima.»

Lui sospirò. «Sbaglio sempre tutto con quella ragazza.»

Mentre ci avviavamo verso l'ascensore, gli diedi una spallata. «Macché, sei perfetto così. Siete bellissimi insieme!»

«Ma sentilo! Stai diventando romantico o sbaglio?» mi punzecchiò Shavo con un sorriso malizioso.

«Non sia mai!»

Mentre aspettavamo che le porte si aprissero, fummo raggiunti da John e Bryah che ridevano tra loro.

«Scusate per stamattina» attaccai subito. «Sono desolato, ma per me oggi la giornata è cominciata proprio male» continuai a blaterare, fiondandomi poi dentro il box.

Bryah e John si scambiarono un'occhiata.

«Jessica l'ha chiamato» spiegò Shavo.

«Chi è Jessica?» volle sapere subito la giornalista.

«Jessica Miller. La mia ex» spiegai.

«Oh giusto! Sei stato per un bel po' di anni con lei, eh?»

«Purtroppo sì» bofonchiai, guardando distrattamente fuori dall'ascensore panoramico.

«E che voleva?» mi interrogò John.

«Scusarsi perché Lars mi ha chiamato e mi ha invitato gentilmente al loro fottuto matrimonio. Ma ora non parliamone. Ditemi solo che accettate le mie scuse.» Tornai a guardare alternativamente John e Bryah, tendendo loro una mano.

Loro posarono le loro dita sulle mie e sorrisero.

Una domanda mi attraversò la mente e non riuscii a trattenermi. «Bryah, ma tu non avevi un compagno?»

Lei si irrigidì sul posto e si appiattì contro la parete metallica dell'ascensore, mentre Shavo mi tappava la bocca con una mano e digrignava i denti. John mi rivolse un'occhiata glaciale, una di quelle che raramente portava fuori.

Avevo sbagliato ancora, cazzo. Era tutta colpa di Jessica e del fatto che mi avesse svegliato bruscamente per un motivo stupido e insensato.

Rimasi in silenzio e poco dopo Shavo mi lasciò andare. Si accostò a Bryah, che osservava un punto indistinto al di fuori dell'ascensore, e le posò delicatamente una mano sulla spalla.

Le porte si aprirono e noi fummo costretti a uscire sulla terrazza panoramica.

Individuai subito Leah che parlava animatamente con Alwan, appoggiata al bancone del chiosco, così diedi di gomito a Shavo e sussurrai: «Vai, noi ti aspettiamo a un tavolo».

Lui seguì il mio sguardo e annuì, poi prese a camminare verso la ragazza.

Io seguii in silenzio Bryah e John fino a un tavolo, poi mi lasciai cadere su una sedia e mi presi la testa tra le mani. «Cazzo» imprecai tra i denti.

«Daron?» mi chiamò Bryah sottovoce.

La guardai e notai che sorrideva appena. «Non importa, io... tu hai ragione. Ho combinato un casino. John non se lo meritava e...»

MI guardai attorno in cerca del batterista e notai che era sparito.

«È andato al bagno» disse la giornalista, indicando un punto alle mie spalle dove, probabilmente, dovevano trovarsi le toilettes della terrazza. «Comunque... ho sbagliato tutto. Adesso non so come fare.»

Sorrisi amaramente. «Quanto ti capisco. A me succede sempre, tutti i giorni, di sbagliare. Oggi, per esempio, sto sbagliando tutto e non sono sveglio da neanche un'ora... è grave.»

«Già.» Bryah intrecciò le mani sotto il mento e sospirò. «Siamo due casi persi, eh? Tu come fai di solito per rimediare?»

«A volte chiedo scusa, a volte invece sono troppo orgoglioso e cerco di ingraziarmi gli altri in qualche modo bizzarro, sperando di risultare simpatico... ma non dare retta ai miei metodi, non sempre sono efficaci» raccontai.

«Leah mi ha raccontato che le hai regalato un portachiavi per farti perdonare. Sei stato carino.»

Scossi il capo. «Sono solo e soltanto un idiota, fidati.»

«Macché. Pensa a ciò che ho fatto io...»

Lanciai un'occhiata alle mie spalle e notai che John usciva proprio in quel momento dal bagno, così mi affrettai a sussurrare a Bryah: «Parlagli. Cerca di farlo sfogare. Qualunque sia la tua decisione».

Lei annuì. «Grazie.»

Ridacchiai. «Allora oggi non ho sbagliato proprio tutto.»

John tornò da noi e io presi ad armeggiare con un po' d'erba, una cartina e un filtrino, ascoltando distrattamente i loro discorsi. Poco dopo anche Leah e Shavo ci raggiunsero.

«Ragazzi, questo pomeriggio andiamo in pedalò?» esordì la ragazza, sedendosi accanto a me e posandomi di fronte una tazza di caffè fumante.

«Ehi, ti hanno assunto come cameriera? Attenta che questi ti sfruttano» scherzai, arruffandole i capelli per ringraziarla di quel gesto carino.

«Pedalò? Siete antiquati, perché non facciamo canoa?» sghignazzò Bryah.

«Tu non lavori oggi?» le chiese Leah.

«Ho mandato tutti al diavolo. Avevo bisogno di un giorno di svago.»

«Perché dovremmo essere antiquati?» la apostrofò Shavo, posando a sua volta una tazza di caffè di fronte al batterista. «Bryah, cosa prendi? Qualcosa da mangiare?»

«Ehi, facciamo lavorare un po' Al!» strillò Leah, poi si voltò in direzione del chiosco e fischiò per richiamare l'attenzione del cameriere.

«Siete antiquati e anche noiosi. Dovete fare qualcosa di più pericoloso! Siete o no delle rockstar?»

Shavo si grattò il mento. «Uhm, tu dici?»

«Io sono solo un batterista, non una rockstar» intervenne John.

«Senti un po', ragazzina, non sono mica una capra! Che cazzo di modo è per chiamare qualcuno che è qui per guadagnarsi il pane?» sbraitò scherzosamente Alwan, giungendo proprio in quel momento al nostro tavolo.

«Ma sta' zitto, scansafatiche!» lo accusò Leah, mollandogli una gomitata.

«Ma tu, John, sei un caso perso. Non c'entri niente con il discorso delle cose spericolate» stava dicendo Bryah intanto.

Io assistevo a quella scena sempre più confuso, non riuscendo bene a seguire le varie conversazioni che si stavano svolgendo attorno a me.

Finalmente Alwan riuscì a prendere le ordinazioni e tutti ci ritrovammo seduti attorno al tavolino, in attesa che lui tornasse.

Nel frattempo avevo acceso la mia canna e la offrii al resto del gruppo, ma solo Shavo accettò e ne prese un paio di tiri.

«Ragazzi» attirai la loro attenzione. «Ma, non ho capito... in pedalò ci andiamo o no?»

Tutti scoppiarono a ridere perché me n'ero uscito con quella domanda totalmente a sproposito, e alla fine li seguii a ruota, rendendomi conto che una bella risata mi ci voleva proprio.

«Ma sì, andiamoci» decise John. «Da quando siamo qui, non sono ancora stato al mare. È grave. Volevo farmi una nuotata un giorno, ma poi una certa giornalista si è messa nel mio cammino e...»

Bryah sghignazzò. «Oggi devi nuotare come una sirenetta! Ehi, ma quindi niente canottaggio acrobatico?» si lamentò.

«Che cazzo è il canottaggio acrobatico?» sbottai.

«Non lo so» replicò la giornalista in tono ilare.

Continuammo a chiacchierare e scherzare tra noi anche durante la colazione.

Forse la giornata era cominciata male, ma avevo come l'impressione che da quel momento in poi sarebbe soltanto migliorata, poiché ognuno di noi aveva deposto l'ascia di guerra e aveva smesso di pensare a tutti i suoi fottutissimi errori.




Ecco, e secondo voi cos'è il canottaggio acrobatico? Vi giuro che non so se esiste e da dove me lo sono portato fuori XD

Ma bando alle ciance, come butta fratelli e sorelle? *si atteggia a rapper/gangster in the ghetto* X'D

Sì, oggi sono deficiente, vabbè ma mica solo oggi, direte voi...

Comunque... sono qui per una veloce nota sul capitolo: Daron, quando è andato a importunare Shavo e Leah (-.-”), stava cantando Rock & Roll All Nite dei Kiss, potete solo immaginare che scenetta raccapricciante, contando che si era svegliato da dieci minuti, forse... XD

Vi lascio qui il link per l'ascolto di questo brano, in modo che possiate immaginarlo cantato dal nostro chitarrista con la voce di Maria De Filippi:

https://www.youtube.com/watch?v=EFMD7Usflbg

Okay, visto che ho detto abbastanza fesserie anche stavolta, vi saluto e ringrazio per il continuo supporto – e sopporto (si può dire? XD) – che mi date, siete immensi :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 32
*** Paddleboat ***


ReggaeFamily

Paddleboat

[Leah]




«Alwan, scusa, devo parlare con Leah.»

«Nessun problema, per te io farei qualsiasi cosa, Shavo!» esclamò Alwan, mettendosi scherzosamente sull'attenti. Poi ci sorrise e si allontanò per andare a prendere un'ordinazione.

Io mi voltai e guardai il bassista con aria interrogativa. «Che ti prende oggi?» gli chiesi.

«Mi dispiace molto per prima, ero nervoso e...»

Sollevai una mano e la sventolai in aria con noncuranza. «Perché ti scusi sempre per tutto? Shavarsh, davvero, non importa.»

Il bassista mi posò le mani sulle spalle e cercò il mio sguardo. Incrociare i suoi occhi scuri mi fece sentire improvvisamente angosciata, perché vi lessi tristezza e una marea di sensi di colpa.

«Me la sono presa con te, quindi mi devo scusare.»

«No, è che io mi sono impicciata, come sempre. Non riesco mai a farmi gli affari miei» borbottai.

Shavo mi regalò un dolce sorriso e mi carezzò appena una guancia. «Sei proprio incorreggibile. Ed è per questo che con te mi trovo così bene.»

«Ecco, ora non cominciare a fare lo sdolcinato... per prima, comunque, non importa! Ora basta, okay?» lo rassicurai, regalandogli un breve abbraccio. «Adesso andiamo dai ragazzi e proponiamo anche a loro una bella gita in pedalò! Che ne dici?»

Shavo strabuzzò appena gli occhi. «Io pensavo che sarebbe stato qualcosa di romantico, solo io e te...» Mi afferrò per la vita e mi attirò a sé, ridacchiando.

«Romantico?! Piuttosto la morte!» esclamai indignata.

«Oddio, ma...» Shavo si staccò da me e mi guardò con aria improvvisamente seria. «Mi sembra di frequentare Daron, aiuto!» Si portò le mani sulla faccia e scosse il capo.

Gli mollai un pugno sul petto e richiamai l'attenzione di Alwan. «Quanto sei cretino, Shavarsh.»

«Per fortuna l'hai presa bene!»

Gli regalai una linguaccia e compresi che tra noi si stava instaurando un rapporto sempre più confidenziale e delizioso.


Mentre ripensavo agli avvenimenti di quella mattina, sentivo di adorare sempre più il bassista, il che mi elettrizzava e mi faceva un po' paura allo stesso tempo. Ma accanto a lui mi sentivo spensierata e tranquilla, non riuscivo ad abbandonarmi a cattivi pensieri.

Con Shavo era così e basta.

Spostai lo sguardo su Bryah e John, i quali si limitavano a scambiarsi qualche occhiata e a sorridersi di tanto in tanto, e mi resi conto che l'attrazione che intercorreva tra quei due era quasi palpabile.

Shavo, al mio fianco, sbuffò. Si guardò attorno e sbuffò ancora. «Ma che fine ha fatto quel demente di Daron? È già in ritardo di un quarto d'ora» brontolò.

«Si sarà addormentato come al solito» borbottai.

«Se lo prendo, lo butto dalla scogliera...» proseguì il bassista, accennando alla nostra sinistra, dove il promontorio si mostrava in tutto il suo splendore e si lasciava ricadere a capofitto sull'acqua calma e splendente, inondata dai raggi del sole del primo pomeriggio.

«Eccolo!» esclamò Bryah.

Ci voltammo verso il bar e notammo il chitarrista che passeggiava tranquillamente verso di noi, senza minimamente preoccuparsi di essere in ritardo e di averci fatto aspettare per circa venti minuti.

«Datti una mossa, marmocchio!» tuonò Shavo in tono minaccioso.

Lo afferrai per un braccio. «Stai calmo, non ricominciare» sibilai.

Il bassista posò i suoi occhi scuri su di me e mi studiò per un attimo, poi sorrise e annuì appena. «Hai ragione» ammise. Si sistemò il cappellino da baseball sulla testa e tornò a osservare Daron.

«Ciao a tutti! Come state?» esordì l'ultimo arrivato, sorridendo maliziosamente in direzione di John e Bryah.

«Andiamo, Miriam ci aspetta laggiù» dissi, indicando il lato destro della spiaggia, il quale era adibito a ospitare pedalò, gommoni e altre piccole imbarcazioni di cui i clienti dell'albergo potevano usufruire con un piccolo extra.

Ci incamminammo in quella direzione e intravidi colei che doveva essere Miriam, ovvero la bagnina e responsabile della gestione di quell'area. Non la conoscevo, avevo soltanto seguito i consigli e le indicazioni di Dayanara.

Miriam era una bellissima ragazza dal corpo atletico e dalla pelle abbronzata. Aveva i capelli castani legati in una coda di cavallo e i lineamenti del suo viso erano dolci e suggerivano una personalità timida e intelligente. Non so perché ebbi quell'impressione di lei, però avevo come la certezza che fosse una ragazza tranquilla, poco espansiva e ben diversa sia da me che da Bryah.

«Ciao ragazzi, Dayanara mi ha chiamato per avvisarmi che sareste arrivati. È un piacere conoscervi, io sono Miriam» esordì la bagnina in tono professionale, regalandoci un sorriso appena accennato.

Daron si fece subito avanti e si prodigò in un maldestro baciamano. Sicuramente stava già elaborando il modo per conquistare la preda appena avvistata. «Io sono Daron, incantato di fare la tua conoscenza, creatura celestiale!» esclamò.

Miriam arrossì violentemente e si schiarì la gola. «Piacere mio, ehm...»

«Io sono Leah, piacere! Loro sono Bryah, Shavo e John. Per noi ci vuole un pedalò bello resistente, ho paura che Daron si metta a combinare guai e finiamo tutti in acqua!» mi intromisi, spintonando il chitarrista e mollandogli una gomitata sulle costole.

«Ehm... va bene, ecco... seguitemi, la vostra imbarcazione è già pronta!» tagliò corto la ragazza, facendoci strada tra una marea di pedalò di varie dimensioni. Si fermò accanto a uno di colore azzurro elettrico e vi poggiò una mano, per poi voltarsi nella nostra direzione per assicurarsi che tutti l'avessimo seguita. «È lui» affermò infine, come se stesse parlando di un essere vivente.

«Grazie Miriam, molto gentile» le disse Shavo.

«Sapete come funziona?» si informò la bagnina.

«Più o meno» risposi. «Ci sono andata una volta con Day, ma non ricordo tutto...»

Miriam ci spiegò come guidarlo e ci indicò i limiti oltre i quali non dovevamo spingerci, contrassegnati in mare da una scia di boe colorate.

«Tu non vieni con noi?» le domandò Daron speranzoso, regalandole uno sguardo da cucciolo desideroso di coccole.

John gli mollò una possente pacca sulla spalla e lo spinse contro il pedalò. «Sali a bordo e piantala» disse soltanto.

«Vi guarderò dalla torretta, se c'è qualche problema, lo noterò. In ogni caso, vi consegno questa bandiera rossa da sventolare in caso vi troviate in difficoltà e abbiate bisogno del mio intervento» concluse Miriam, porgendomi un pezzo di stoffa rosso fuoco.

Lo misi con cura nella mia borsa e seguii i ragazzi sul pedalò. Miriam ci aiutò a spingerlo in acqua e ci augurò una buona navigazione.

«Visto che hai fatto lo stupido cascamorto, il primo a pedalare sarai tu» disse Shavo a Daron, indicandogli uno dei posti muniti di pedali.

«Io? Ma no, che palle...»

«Non lamentarti, un po' di esercizio fisico non può che farti bene» lo esortò John, accomodandosi sul posto accanto a lui e sistemandosi in fretta con i piedi sui pedali.

Io e Bryah ci scambiammo un'occhiata divertita e ridacchiammo.

Daron borbottò qualcosa di incomprensibile e si lasciò cadere sul sedile in plastica.

«Su, così Miriam vedrà che sei un vero uomo e cadrà ai tuoi piedi» lo canzonai, battendogli affettuosamente un colpetto sulla nuca.

«Come no...» commentò Shavo.

In poco tempo, dopo qualche litigio e varie incomprensioni, John riuscì a spiegare a Daron come fare per guidare il pedalò e i due riuscirono a trovare il ritmo giusto. Per lo sforzò della pedalata – che riguardava specialmente il pigro chitarrista – in pochi minuti entrambi lanciarono via la maglia e si ritrovarono a petto nudo.

Mi ritrovai a sorridere nel notare la netta differenza tra il torace tonico e allenato del batterista, sicuramente molto più abituato a stare all'aria aperta e alle attività sportive, rispetto a quello pallido e meno muscoloso del suo collega, il quale sudava copiosamente e sbuffava dal naso senza mai smettere di lamentarsi per lo sfruttamento che stava subendo.

«Bryah, che ne dici di fare un tuffo dal pedalò?» proposi alla giornalista, mentre mi sfilavo i vestiti. Rimasi in costume mi godetti la brezza tiepida e il sole che accarezzavano piano la mia pelle.

Mi sentii osservata e mi voltai a guardare Shavo, trovandolo con gli occhi su di me. Seguiva il profilo del mio corpo con calma e, per un solo istante, avvertii un leggero imbarazzo farsi strada dentro me; non mi aveva mai guardato così di fronte a tutti, era una sensazione strana, indescrivibile.

«Dici sul serio?» richiamò la mia attenzione Bryah.

Mi strinsi nelle spalle. «Ma certo, sarà un'emozione unica» confermai, ricordando del mio tuffo con Dayanara, risalente ad almeno tre o quattro anni prima.

«Uhm, ma...»

«E se vi fate male?» saltò su Shavo, che era seduto in cima allo scivolo presente sul pedalò. «Forse dovreste scendere da qui, non sarebbe più...»

Mi arrampicai su per i gradini e lo raggiunsi in un attimo. Incollai le mie labbra alle sue, poi tornai giù e, senza pensarci due volte, mi gettai in acqua.

Qualcuno gridò e qualcun altro rise, ma io venni catturata dal mio tuffo e non mi preoccupai di niente. Il mare mi accolse e mi risucchiò per un attimo al suo interno, per poi lasciarmi riemergere poco dopo. La temperatura dell'acqua era perfetta e non soffrii assolutamente il freddo.

«Ehi, chi viene? Mi lasciate qui da sola?» gridai in direzione dei miei amici, per poi dirigermi a nuoto accanto alla nostra imbarcazione.

Shavo era sceso dallo scivolo e si era sporto per assicurarsi che stessi bene. «Sei pazza? Ho perso almeno dieci anni di vita!» gridò in tono apprensivo.

Osservando meglio il suo viso, notai che era tremendamente pallido e mi sentii immensamente in colpa, oltre che presa da un moto di tenerezza nei suoi confronti. Era un ragazzo veramente dolce e sensibile, fin troppo per una fuori di testa come me.

Improvvisamente notai che Daron e John avevano cominciato a fare i cretini e stavano facendo di tutto per far sbandare il pedalò. Bryah si aggrappò saldamente allo scivolo e rivolse ai due occhiate preoccupate.

«Che cazzo fate?» sbraitò Shavo, senza riuscire ad alzarsi e allontanarsi dal bordo dell'imbarcazione. «Smettetela, ma che vi prende? John, almeno tu sii ragionevole!»

Scoppiai a ridere e mi immersi nuovamente in acqua per poi allontanarmi un po' da loro. Quando riemersi, Shavo stava ancora gridando e Bryah sembrava un po' in ansia.

«Ragazzi, dai, fate i bravi» disse la giornalista, mentre batterista e chitarrista non accennavano a smettere di fare i cretini.

«Oddio, non credo di stare molto bene... piantatela, cazzo!» tuonò ancora il bassista in preda alla disperazione.

«Che stupidi che siete!» intervenni.

Daron e John, intanto, non facevano che insultarsi a vicenda, ignorando deliberatamente le proteste di Shavo e Bryah; il pedalò continuava a sbandare e ad agitarsi, così immaginai che trovarsi là sopra non doveva essere per niente bello per Shavo.

Leggermene allarmata, nuotai fino a trovarmi al lato del pedalò, dalla parte di John. «Ragazzi, adesso basta!» tentai di richiamare la loro attenzione.

Daron, all'improvviso, si mise in piedi sul sedile e spalancò le braccia, rimanendo in bilico e oscillando allo stesso ritmo dell'imbarcazione. «Miriam, lo faccio per te!» strillò, poi fece leva sulle gambe e si tuffò di faccia, producendo un suono acuto e una serie di schizzi che raggiunse anche gli altri presenti sul pedalò. Questo, di conseguenza, prese a dondolare ancora di più a causa del contrappeso mancante e Shavo soffocò un'imprecazione.

«Daron, ma sei proprio coglione! Non devi abbandonare così la guida del pedalò!» lo rimproverò John, senza però trattenere una risata.

Nuotai in fretta verso il lato opposto e salii a bordo per poter sostituire Daron che ancora sguazzava contento come un bambino all'acqua park.

«Che idiota, spero che Miriam ti rifiuti malamente» dissi al chitarrista, appoggiando i piedi sui pedali.

Lanciai un'occhiata alle mie spalle e notai che Shavo si massaggiava lo stomaco; era sempre più pallido e temetti seriamente che avrebbe vomitato da un momento all'altro.

Bryah gli si avvicinò e cercò di tranquillizzarlo, mentre io e John ci occupavamo di rimettere in sesto l'equilibro del pedalò.

«Oh no, cazzo!» gridò all'improvviso Daron, precipitandosi verso di noi e risalendo a bordo in tutta fretta. Si appoggiò allo scivolo e, con il fiatone, si frugò nella tasca del costume.

Rimanemmo tutti con il fiato sospeso finché non ci accorgemmo che il chitarrista aveva estratto il suo smartphone e lo fissava con gli occhi sgranati, tentando invano di riaccenderlo.

«Ops» ridacchiò John.

Scambiai un'occhiata con lui, poi scoppiammo a ridere, seguiti improvvisamente da Bryah e Shavo. Dal troppo ridere, persi il controllo dei pedali, così tornammo nuovamente a oscillare. Tuttavia, non riuscivo minimamente a controllarmi, anche perché Daron aveva cominciato a imprecare e bestemmiare come non mai, blaterando a proposito di foto e video che erano andati irrimediabilmente persi.

Improvvisamente udii Shavo che smetteva di ridere. Fece appena in tempo a sporgersi nuovamente oltre il bordo del pedalò, poi fu invaso da un conato di vomito. Questo, tuttavia, non gli impedì di continuare a ridere come un matto.

Preoccupata, saltai su per raggiungerlo, ma questo non fece che peggiorare la situazione sul pedalò; Bryah si offrì di darmi il cambio e prese il mio posto sul sedile, così procedetti a tentoni verso Shavo, cercando di non scivolare.

Nessuno di noi riusciva a smettere di ridere, perché Daron era incazzato come una belva e stava inventando nuovi insulti rivolti all'intero creato, e in ogni caso la risata ormai era diventata troppo contagiosa e incontenibile.

Riuscii ad accostarmi a Shavo, il quale rideva e vomitava a intermittenza o in contemporanea, rischiando quasi di soffocare, ma incapace di arrestare almeno una delle due azioni che stava compiendo. Mi gettai su di lui, avevo le lacrime agli occhi e i crampi allo stomaco per il troppo ridere, ma cercai di rassicurarlo come meglio mi riuscì. Gli tolsi il cappellino che era rimasto miracolosamente sulla sua testa, poi gli accarezzai il viso e provai a parlargli in tono tranquillizzante.

«Cazzo, che schifo» commentò John, lanciando un'occhiata all'acqua in cui Shavo stava riversando il suo pranzo quasi intatto. «Giusto, abbiamo mangiato riso, e poi... uh, ma quello è un pezzo di carne... ora vomito anche io, merda!» proseguì il batterista, per poi distogliere lo sguardo e scuotere il capo disgustato.

Daron intanto sembrava aver terminato gli improperi di sua conoscenza e aveva cominciato a biascicare qualcosa di incomprensibile, fissando senza tregua il cellulare ormai inutilizzabile.

Shavo tossì e rigettò un'ultima volta, poi riuscì a smettere di ridere e si abbandonò completamente contro il pavimento del pedalò, respirando affannosamente.

Stremati, riuscimmo tutti a riprenderci e rimanemmo in silenzio per un po', accompagnati solo dall'incessante borbottare del chitarrista.

Notai che qualcuno si avvicinava a noi a bordo di un gommone a motore e riconobbi subito Miriam, la quale ci scrutava con aria preoccupata.

«Ragazzi, oddio, state bene?» ci chiese subito, raggiungendoci in fretta.

«Insomma...» commentai, lanciando un'occhiata al viso stremato di Shavo.

Daron, preso da un improvviso moto di rabbia, schizzò verso Miriam e temetti che le sarebbe saltato addosso; invece saltò sul gommone e le ordinò: «Riportami subito a riva, cazzo!».

Lei rimase spiazzata e mi lanciò un'occhiata leggermente allarmata. Poi si schiarì la gola e, ignorando le parole del ragazzo, disse: «Forse è meglio se prendo il ragazzo e lo riporto a riva, mentre voi rientrate con calma». Indicò Shavo con un cenno del capo.

«Certo, grazie Miriam» risposi in tono gentile. «Ehi, Shavarsh, dai... ti riportiamo sulla terraferma, contento?» mi rivolsi poi al bassista, aiutandolo ad alzarsi.

Lui annuì e mi si aggrappò addosso, tremando come una foglia. «Vieni anche tu?» balbettò.

Lanciai un'occhiata a Bryah e John e sorrisi. «Certo, andiamo.»

Costrinsi Daron ad aiutarmi con Shavo, poi Miriam ripartì verso la riva, dopo essersi assicurata che i due avessero la situazione sotto controllo.

E, mentre sentivo Shavo tremare contro il mio corpo, ogni tanto mi veniva ancora da ridere per la scena apocalittica di poco prima.

«Certe cose possono succedere solo a noi» osservai.

Shavo non disse nulla, mentre Daron scosse il capo.

«Questo posto è maledetto, ne sono certo...»

Miriam rise appena. «Maledetto» ripeté in tono ironico, senza distogliere lo sguardo dall'acqua.

«Sì, creatura celestiale, è maledetto. Da quando sono arrivato in questo dannato luogo, sono capitate soltanto disgrazie» borbottò il chitarrista.

«Non dargli retta, è che Daron se le va a cercare» lo smontai.

«Vaffanculo, Leah!»

«Sì, anche io ti voglio bene, ma non essere così sdolcinato» lo punzecchiai ancora.

Notai che Miriam aveva lanciato una veloce occhiata al chitarrista e sorrisi. Daron era senza speranze, ma riusciva sempre, in qualche modo, a conquistare il cuore di tutti.

E forse nemmeno lui ne era pienamente consapevole.

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Capitolo 33
*** Heartbeats ***


ReggaeFamily

Heartbeats

[Shavo]




«Come ti senti, Shavarsh?»

«Come se qualcuno avesse scatenato la Terza Guerra Mondiale nel mio stomaco» bofonchiai.

Ero steso sul letto, in camera mia e di John, mentre Leah se ne stava appollaiata sul bordo del materasso e mi carezzava piano il viso. Tenevo gli occhi chiusi, perché ogni volta che li aprivo mi sembrava di stare ancora sul pedalò che oscillava pericolosamente.

«Oddio, ogni tanto mi viene ancora da ridere...» farfugliò la ragazza, portandosi una mano davanti alla bocca per cercare di mascherare l'ilarità.

«Vi siete divertiti alle mie spalle.»

«Ma no, alle spalle di Daron in primis.»

Quando udii il nome del mio amico, mi girai su un fianco e socchiusi appena gli occhi, trovando di fronte a me il viso sereno di Leah.

«Ora Daron ha perso quei video...» osservai.

«Quei video?» chiese lei perplessa.

Mi premetti una mano sugli occhi e sospirai. «Sto davvero male, cazzo. Che vacanza di merda, da quando ho messo piede in aereo, le cose sono precipitate.»

«Ehi!» Leah mi picchiettò sul braccio. «Questo cosa significa? Potrei offendermi!» aggiunse. «E di quali video parli?»

«Non importa. No, Leah, è ovvio che tu non c'entri con tutto questo casino, però...» Sospirai ancora. «Il fatto è che questa dovrebbe essere una vacanza rilassante, invece è uno sfacelo. Perché?» blaterai.

«È che sei un ragazzo sfortunato» rifletté Leah facendo spallucce. «Per prima cosa, mi hai conosciuto. Ti basta come evento disastroso?» mi punzecchiò in tono ironico.

La afferrai improvvisamente per i polsi e la trascinai sul letto con me. «Smettila, non è vero. Tu sei l'unica cosa positiva in tutto questo.»

«Direi di no. Hai visitato il museo di Marley, hai visto un concerto di Eek-A-Mouse e Barrington Levy, hai fatto un giro in pedalò, hai dormito sotto le stelle, hai suonato uno djambé, hai partecipato a un party improvvisato in piena notte... queste sono delle cose davvero belle, no?»

«Uhm...» Affondai il viso tra i suoi capelli. «Non è importante tutto ciò, proprio no» mormorai, stringendola a me per far sì che il suo corpo mi scaldasse.

Nonostante le temperature fossero abbastanza alte, io mi sentivo debole e ogni tanto venivo scosso da brividi di freddo improvvisi.

«Shavarsh, hai la febbre?» Leah si allungò per posare le sue labbra sulla mia fronte, poi sgranò leggermente gli occhi. «Sei bollente! Forse dovrei cercare un termometro...» prese ad agitarsi.

«No, rimani qui.» La tenni stretta e mi sistemai meglio sul letto, sentendomi improvvisamente stanco.

«Dormi un po' allora» sussurrò Leah, posando la testa sul mio petto.

«Tu però non andartene.»

«Ma no, Shavarsh, sono qui» mi assicurò, intrecciando le sue gambe alle mie.

Persi velocemente i sensi, non riuscii più a tenere gli occhi socchiusi e la mente lucida, sprofondai semplicemente in un sonno profondo.


Quando mi risvegliai, il sole tingeva di arancione i contorni dei mobili e le pareti della stanza.

Leah era affacciata alla finestra e il suo profilo si stagliava contro le luci del tramonto, facendola apparire ai miei occhi quasi come una figura eterea, impalpabile, bellissima.

Rimasi a osservarla e scrutai il modo in cui scacciava le ciocche scure dal viso, mentre il vento le scompigliava; mi concentrai sui suoi gesti precisi mentre si portava una bottiglietta d'acqua alle labbra, mentre contemplava il panorama e un'espressione assorta le si dipingeva sul viso spigoloso, mentre sorrideva appena per qualcosa che aveva scorto sul vialetto d'ingresso dell'hotel.

«Leah? Succede qualcosa di divertente là fuori?» le chiesi con un sorriso.

Lei sobbalzò leggermente e si voltò a guardarmi; in quel momento una folata di vento fece sì che i capelli le ricadessero sul viso e nascondessero i suoi occhi alla mia vista.

«Come stai?» volle sapere subito, passandosi entrambe le mani sul viso per ricacciare indietro le ciocche.

«Sto meglio, ma tu non hai mantenuto la promessa» le feci notare.

Leah aggrottò leggermente la fronte. «Quale promessa?»

Battei appena sul materasso accanto a me. «Avevi detto che saresti stata qui.»

Scosse appena il capo e sorrise. «Giuro che avevo troppo caldo, dovevi avere la febbre, eri un termosifone umano!» spiegò.

«Sai, mi sento molto meglio ora. Sicuramente ero debole. Ehi, sai dove sono gli altri?» domandai, mettendomi a sedere e sfregandomi le mani sulle braccia.

«No. Daron è corso in camera sua, mentre John e Bryah... sai che c'è? Quei due...» Leah abbassò la voce e fece qualche passo nella mia direzione.

«Quei due?»

«Vorrei tanto che stessero insieme, sono così carini!» sbottò all'improvviso, per poi gettarsi su di me.

Ricaddi bruscamente con la schiena sul materasso e mi ritrovai il corpo magro di Leah premuto contro, il suo viso a pochi millimetri dal mio.

«E noi? Noi non siamo carini?» scherzai, accarezzandole i capelli.

«Come faccio a saperlo? Io sono bellissima, tu un po' meno...» mi prese in giro.

«Ah sì? Ma sentila! Allora allontanati dal brutto anatroccolo se hai il coraggio!» la sfidai in tono fintamente serio.

Leah sbuffò. «No, il brutto anatroccolo è troppo comodo come materasso» commentò, spalmandosi meglio su di me.

«Che opportunista! Non ti voglio più, vattene.»

«Spiacente, troppo tardi.» Leah posò le sue labbra sulle mie. «Sei un ragazzaccio imbecille.»

«Addirittura? Continui a insultarmi?»

«Certo che sì! È troppo divertente» proferì in tono solenne, solleticandomi il collo con le dita.

La afferrai per i polsi, fulmineo, e in un attimo invertii le posizioni, facendola stendere sotto di me. Intrecciai le mie dita alle sue e la guardai intensamente negli occhi. «E ora?»

«E ora?» Ridacchiò. «Che aspetti a baciarmi?»

Adoravo il suo modo di fare, la sua spontaneità, il fatto che fosse spudorata e riuscisse sempre a dire ciò che le passava per la mente. Adoravo la sua audacia, il modo semplice e ovvio con cui mi si rivolgeva, la sua ironia pungente e le mille sfaccettature della sua sensualità, quella sensualità che mi faceva impazzire e mi mozzava il respiro: Leah non la ostentava e forse non ne era neanche consapevole, ma c'era, era lì e mi attirava inesorabilmente, sempre più vicino a lei.

Così non riuscii a trattenermi e mi avventai sulle sue labbra, facendole mie e cercando di trasmettere, attraverso quel gesto, tutte le emozioni tumultuose che mi scuotevano in quel momento.

Leah si aggrappò alle mie spalle e ricambiò i miei baci con ardore, quasi con un trasporto maggiore del mio, travolgente, impetuoso. In un attimo avvertii le sue mani che esploravano il mio corpo, che lo stringevano al suo e che stimolavano un'infinità di sensazioni estremamente piacevoli.

Sospirai quando Leah mi sfilò la maglia e sfiorò appena il mio petto con le dita, fu un tocco delicato e morbido, ma fu in grado di inondarmi completamente di desiderio.

All'improvviso si staccò da me e mi guardò negli occhi.

«Che c'è?» mormorai.

«Sei dolce» disse soltanto.

«Io?» mi schernii.

«Sì, tu. Dolce e bellissimo.»

Rimasi sorpreso e mi sentii improvvisamente in imbarazzo. «Ma che dici? Poco fa ero il brutto anatroccolo, e ora...»

«Ho cambiato idea» butto lì, per poi cercare nuovamente le mie labbra.

La consapevolezza di cosa sarebbe potuto succedere di lì a poco mi colpì improvvisamente, facendomi provare un po' d'ansia. Non sapevo se fossi abbastanza per Leah, se lei avrebbe accettato il mio modo di farla mia, non avevo minimamente idea di come avrebbe pensato o di come avrebbe reagito.

«Shavarsh, sei pensieroso... ti prego, rilassati» disse lei; era come se mi avesse letto nel pensiero, il che mi fece sorridere appena.

«Abbiamo una bella intesa, già sei in grado di leggere nella mia mente» osservai, mentre facevo scivolare le mani sul tessuto morbido della canottiera di Leah, per poi sfilargliela e lasciarla cadere sul tappeto accanto al letto.

«Sì. E immagino che ti stai preoccupando per niente, vero?»

Fissai Leah negli occhi e li trovai leggermente lucidi, segno che anche lei, come me, provava quel desiderio bruciante e incontrollabile.

«Forse...»

Leah mi regalò un sorriso dolce e senza alcuna traccia della sua solita ironia. «Ti va di prenderti cura di me?» chiese all'improvviso, spiazzandomi completamente.

«Mi piacerebbe molto provarci, ma non so se sono all'altezza» ammisi.

«Io mi fido di te, dovresti imparare anche tu a fidarti di te stesso. Provaci ora» mi incoraggiò, per poi afferrare la mia mano e posarla sul suo ventre morbido e liscio. La guidò fino al bordo dei suoi pantaloncini, infine ripeté: «Provaci, andrà tutto bene».

Annuii appena e, lentamente, finii di spogliarla, così come lei fece con me. Ci ritrovammo senza vestiti proprio come era successo la notte precedente, ma in quel momento non avevamo sonno, non eravamo stanchi e sapevamo bene quale fosse il nostro desiderio comune.

Leah lasciò che le baciassi il collo, che lambissi la pelle dei suoi seni e delle sue spalle. Lasciò che la accarezzassi con calma, senza fretta, nel modo in cui ero sempre stato abituato a fare.

Lei fece lo stesso con me, riempiendo il mio corpo di stimoli, lasciando scie di baci ovunque, ubriacandomi con il suo calore e il suo temperamento.

Io ero più delicato e me la prendevo comoda, mentre Leah era impetuosa e passionale; riuscivamo a completarci, perché lei faceva in modo che mi sentissi a mio agio, mentre io mi dedicavo al suo piacere con tranquillità.

Mi piaceva quel modo che avevamo inconsapevolmente trovato per stare insieme.

A un certo punto Leah mi afferrò il viso tra le mani e posò la fronte contro la mia. «Sei pronto?»

«Sì. Leah, tu...»

«Io lo sono. Su, ragazzaccio, vediamo che sai fare» concluse, per poi inarcarsi contro di me.

La vista mi si annebbiò per un attimo, tutto in me era preda del desiderio, tutti i miei sensi inebriati dal profumo e dal calore della donna che stringevo tra le braccia.

Senza staccare gli occhi dai suoi, lasciai che Leah mi accogliesse dentro sé, con calma e con delicatezza.

Si lasciò sfuggire un sospiro e si ancorò alle mie spalle, per poi avventarsi sulle mie labbra e stravolgerle di baci ardenti, mentre si muoveva appena sotto di me e spingeva il suo bacino contro il mio.

Interruppe presto quel contatto e mi tirò ancora più vicino a sé; era come se stessi per soffocare, ma era bellissimo, non sapevo più neanche come descrivere le mie sensazioni. Leah affondò il viso contro la mia spalla e mugolò, mentre io aumentavo il ritmo delle mie spinte e la tenevo saldamente per i fianchi.

«Leah...» riuscii a chiamarla, anche se il piacere che provavo aumentava vertiginosamente e mi risultava davvero difficile ragionare o formulare pensieri e frasi di senso compiuto.

Lei non rispose, sentivo solo il suo respiro rovente sulla mia pelle, il che non fece che accrescere maggiormente il mix di emozioni che mi stava travolgendo.

«Leah...» biascicai ancora.

Lei rovesciò la testa all'indietro e serrò gli occhi. «Cosa... Shavarsh, cosa...» riuscì solo ad articolare, tra un sospiro e l'altro.

Mi ritrovai a sorridere nell'udire il mio nome pronunciato con difficoltà, con voce roca e lettere strascicate. «Era questo che volevo» mormorai appena, rendendomi conto di quanto mi avesse eccitato il suo gesto apparentemente banale.

Ci stringemmo maggiormente l'uno all'altra, finché Leah non emise un lungo gemito e si immobilizzò d'improvviso, irrigidendosi sotto di me. Poco dopo anche io fui scosso da un violento orgasmo e mi sentii invadere da un calore pazzesco, mentre tutto il mio mondo si sgretolava in un solo istante, per poi ricomporsi lentamente.

Mi separai da Leah e rotolai su un fianco, respirando affannosamente. Premetti la fronte contro la parete che fiancheggiava il letto e trovai estremamente confortante quel contatto fresco e ristoratore.

Lei mi si accostò nuovamente e mi abbracciò da dietro, intrecciando le sue dita alle mie. Le nostre mani ricaddero sul mio ventre e i nostri respiri tornarono regolari dopo qualche minuto.

«Pazzesco» fu la prima cosa che riuscii a dire.

«Sono d'accordo, ragazzaccio» commentò Leah, con la guancia premuta contro la mia schiena.

Mi feci immediatamente serio e sospirai appena, ringraziando mentalmente la posizione che avevamo assunto che impediva a Leah di scrutare la mia espressione.

Tuttavia, mi sarei dovuto aspettare che lei capisse al volo il leggero mutamento del mio umore. «Shavarsh, cosa c'è?» chiese infatti.

«Ma niente» tagliai corto.

«Non mi prendi in giro, bassista!» Leah, all'improvviso, si mise a cavalcioni su di me e prese a farmi il solletico ovunque.

Non riuscii a trattenere le risate e scoppiai a ridere, dimenandomi come un matto per sfuggire alle sue mani che si intrufolavano in ogni parte del mio corpo.

«Se vuoi che la smetta, tu piantala di farti i film mentali e stai tranquillo. A te la scelta» esclamò in tono solenne.

«Okay, okay! Va bene, però... ti prego, smettila!» la implorai.

Leah smise subito di torturarmi e si chinò per guardarmi dritto negli occhi. «Allora, la finisci? Shavarsh, sei stato... aspetta, devo trovare la parola giusta. Fenomenale, fantastico, eccellente. No, pazzesco. Ecco, sul serio, sei stato pazzesco. Perché dovresti preoccuparti?»

«È che sono un po' preoccupato, a volte... a volte mi sembra di non essere abbastanza, di non dare abbastanza. Mi succede in un sacco di occasioni, anche se cerco di controllarmi e di fare il possibile per non farmi prendere dall'ansia di non riuscire a compiere il mio dovere» spiegai, sorprendendomi anche di me stesso.

«Questo l'ho capito, ma io sono davvero felice, lo sai? Sto bene, tu mi hai fatto stare bene e mi fai stare bene sempre. Senza di te questa vacanza sarebbe stata una noia mortale. Devi capire, Shavarsh, che tu riesci a dare agli altri più di quanto immagini. Tu oggi mi hai dato tanto, sei stato dolce e tenero, sei stato perfetto. Perché non mi credi?»

Un sorriso incontrollabile si era allargato sul mio viso man mano che Leah parlava. «Ti credo, va bene. Ma anche questo fa parte del mio carattere, devi capire che...»

Lei scosse il capo e mi regalò un bacio sul naso, per poi ridacchiare. «È anche per questo che ti adoro, sai? Più ti conosco e più mi piaci.»

«E non sono più il brutto anatroccolo?» scherzai.

Leah si accoccolò sul mio petto e prese ad accarezzarne la pelle con movimenti lenti e delicati. «Sei il brutto anatroccolo più bello che io abbia mai visto.»

Scoppiai a ridere e avvolsi il suo corpo tra le braccia, regalandole a mia volta dolci carezze.

Il silenzio che si impossessò di noi non fu imbarazzante, riuscì invece a farmi sentire Leah ancora più vicina.

Ora lei si era spinta oltre, stava pericolosamente raggiungendo il mio cuore.

O forse lo aveva già preso con sé e lo teneva incastrato accanto al suo.

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Capitolo 34
*** LOL ***


ReggaeFamily

LOL

[John]




«Possiamo rimanere ancora un po' in acqua, se ti va» proposi a Bryah, lanciandole una veloce occhiata.

Entrambi ci eravamo voltati verso la riva per seguire con lo sguardo il gommone con cui la bagnina aveva prelevato i nostri amici; per Shavo quella gita in pedalò si era rivelata una vera e propria tortura, ero contento che Miriam fosse accorsa e avesse subito capito la situazione.

Bryah ridacchiò. «Perché no?»

Mi girai nella sua direzione e trovai i suoi occhi su di me. Mi sentii leggermente a disagio, poiché le immagini di ciò che era accaduto tra noi la sera precedente lampeggiavano nella mia mente e mi tormentavano. Ero ben consapevole del fatto che tra noi non potesse esistere un futuro, ma non sapevo se questo fatto mi ferisse o meno.

«Ho un'idea migliore però» osservò lei all'improvviso, battendo con una mano sulla plastica azzurra del pedalò. «Riportiamo quest'affare in riva e facciamoci un bagno come si deve, ci stai?» mi propose, allungando una mano verso di me.

Gliela strinsi e suggellammo quel bizzarro accordo. Riprendemmo a pedalare, cambiando rotta e dirigendoci verso la riva, lasciandoci così le boe alle spalle.

Miriam ci vide arrivare e fece qualche passo dentro l'acqua per venirci incontro; quando fummo abbastanza vicini a lei, afferrò il bordo del pedalò e lo trascinò con forza sulla sabbia umida.

«Saltate giù!» ci incitò.

«Aspetta, ti aiuto» mi proposi, scendendo in fretta dal mezzo.

Miriam scosse il capo e mi sorrise. «Fossero tutti così gentili... in questo posto viene un sacco di gente ricca che però se la tira un sacco e non si sognerebbe mai di darmi una mano con questi lavori stancanti» raccontò. Mi dava l'impressione che si fosse rilassata da quando Daron non era più nei paraggi, il che mi fece venire in mente che il chitarrista era sempre in grado di mettere a disagio le persone, specialmente quelle di sesso femminile.

«Che persone noiose e snob» osservò Bryah, scendendo a sua volta dal pedalò e recuperando la sua borsa. «Su John, aiutiamola! Non sopporterei di passare per una ricca signora con la puzza sotto il naso» aggiunse in tono schifato, compiendo un brusco gesto con la mano come se volesse respingere un insetto fastidioso.

Spingemmo il pedalò sulla piccola lingua di sabbia e lo sistemammo con Miriam accanto agli altri. Lei ci ringraziò e ci augurò un buon proseguimento di giornata, allontanandosi in fretta verso la sua postazione di vedetta.

Io e Bryah ci incamminammo verso la spiaggia, quasi del tutto occupata dai clienti dell'albergo; ci sistemammo in un angolino rimasto libero, appoggiammo le nostre cose sulla sabbia e ci sfilammo i vestiti.

L'occhio mi cadde sul corpo bruno e formoso di Bryah, la quale aveva indossato un bel costume intero color porpora. Rimasi per un attimo incantato da lei, dai suoi gesti e dal modo in cui si legava frettolosamente i capelli con un grosso elastico multicolore.

«Batterista, che ti prende? Sei pronto a perdere la gara di nuoto con la sottoscritta?» mi punzecchiò la giornalista, strizzandomi l'occhio.

«Non sapevo che avremmo fatto una gara» commentai perplesso, piombando bruscamente giù dalle nuvole.

«L'ho appena deciso» affermò in tono solenne.

«Cosa si vince?» domandai curioso, sentendo improvvisamente la mia tensione sciogliersi sotto il suo sguardo caldo.

«Chi perde offre il gelato!» strillò lei all'improvviso, per poi partire di corsa verso la riva.

La seguii con qualche secondo di ritardo, ma alla fine ci tuffammo contemporaneamente in acqua, schizzando senza ritegno i bagnanti che se ne stavano tranquilli a cercare di bagnarsi il meno possibile per scongiurare i brividi di freddo che percorrevano la loro pelle.

Uno strillo mi raggiunse non appena riemersi dall'acqua: vidi una ragazza rivolgere il suo sguardo verso me e Bryah, gesticolando come una pazza e agitando le braccia in modo scoordinato e piuttosto ridicolo.

«Che le prende?» borbottò Bryah, riemergendo a sua volta.

«Non lo...»

«Ma siete impazziti? Che modi sono questi? Mi avete completamente bagnato!» ci sbraitò contro. «Ho i capelli tutti bagnati adesso, mi ero fatta la piastra prima di scendere in spiaggia! E il trucco?! Me lo avete rovinato, ora il mascara è tutto sbavato, ne sono sicura! Siete degli incivili!» proseguì imperterrita, indietreggiando verso la riva come se uno squalo stesse per morderle una caviglia.

Io e Bryah ci scambiammo un'occhiata interrogativa e scoppiammo a ridere.

«Ridete pure! Razza di imbecilli!» continuò a insultarci la tizia, tornando impettita verso la sua sdraio. Smisi di prestarle attenzione e continuai per un po' a sbellicarmi dalle risate insieme a Bryah.

«Si è truccata per venire in spiaggia? Che problemi ha?»

«Non lo so, sono cose che non capirò mai. Non sono una donna» replicai, cercando di riprendermi dal momento ilare che avevamo appena vissuto.

«Ehi! Non offendermi, io non farei mai come lei!» Bryah si finse offesa per un attimo, poi con uno scatto si tuffò di nuovo. Quando riemerse gridò: «La sfida ha inizio, battimi se ci riesci! Chi arriva per ultimo alla boa arancione è uno sfigato e dovrà pagare due mega gelati con tutti i gusti del mondo!».

Senza più pensare a nulla, la seguii e mi sentii immediatamente a mio agio nel nuotare e fare un po' di esercizio fisico. Era una sensazione bellissima, rigenerante e, soprattutto, in grado di liberare la mente da qualsiasi pensiero.


«Sto per morire!» si lamentò Bryah, abbandonata sul suo telo; aveva ancora il fiatone per la nuotata e si massaggiava le gambe indolenzite.

«Esagerata... io sono attivo come non mai!» esclamai, sentendo il mio corpo al massimo della forma. Ero leggermente stanco, ma mi sentivo davvero bene ed ero contento di aver finalmente approfittato di quello splendido mare.

«Ho perso miseramente» mugugnò. «Contro di te non ho speranze.»

Sorrisi. «Sarò clemente. Se ti fa stare meglio, non dovrai offrirmi il gelato» tentai di rassicurarla, accovacciandomi di fronte a lei.

Bryah allungò di scatto il braccio e mi diede una spinta, così persi l'equilibrio e caddi all'indietro, finendo con il culo sulla sabbia. «Sei un rammollito, devi rivendicare la tua vincita!» mi schernì, ridendo fragorosamente.

«D'accordo, l'hai voluto tu!» ribattei risoluto, poi mi rimisi in piedi. La sollevai di peso dall'asciugamano e lei, sorpresa, non poté che aggrapparsi alle mie spalle. Mi avviai tranquillamente verso la riva e presi a fischiettare fingendo di star trasportando un pacco postale.

«No, John, mettimi giù! Ma che fai?» protestò Bryah, prendendo a dimenarsi come una matta.

«Non fare tante storie. Meriti una punizione» borbottai, trattenendo a stento le risate. In realtà, dentro di me sentivo una forte emozione nell'avere il suo corpo tra le braccia e sentire il suo peso mettere alla prova i muscoli delle mie braccia. Era una sensazione incredibilmente bella e dolce, non sapevo neanche spiegarmi come ciò fosse possibile.

Raggiunsi l'acqua e Bryah ormai rideva senza ritegno, mollandomi ripetuti pugni sulla schiena e sulle spalle.

«No, dai, ti prego! Scusa, scusa, scusa! Non lo farò mai più, ma non buttarmi in acqua, ormai mi ero quasi asciugata del tutto!» mi implorò, stringendosi più forte a me per evitare che la lasciassi cadere.

Sussultai appena nell'avvertire i suoi seni sfregare sul mio petto. Dovevo darmi una calmata e riprendere il controllo di me, così decisi di darle tregua e le feci poggiare i piedi a terra, mollando la presa sui suoi fianchi.

«Vedi che sei un rammollito?» mi punzecchiò ancora.

A quel punto le feci lo sgambetto e lei piombò in acqua di schiena, schizzando tutto intorno a sé. Lanciò un grido poco prima di finire con la testa sommersa, poi cominciò a tossire perché dell'acqua era finita nella sua bocca.

Io rimasi impassibile con le braccia incrociate al petto, fissando la scena con le sopracciglia aggrottate, nonostante dentro me sentissi l'enorme bisogno di ridere come non mai. «Chi sarebbe il rammollito?» la sfidai.

Bryah si sollevò e si rimise in piedi, tirandosi indietro i capelli che intanto si erano slegati. «Ritiro ciò che ho detto. Ma così sei stronzo eh» bofonchiò, avviandosi nuovamente verso il suo telo da mare.

«E tu sei incoerente. Non ti va bene niente!» conclusi, lasciandomi finalmente andare a una sonora risata.

Lei sbuffò e scosse il capo, poi mi mollò un pugno sul braccio e annunciò: «Asciughiamoci in fretta, ho voglia di un gelato!».

Annuii. Era bello stare con lei, mi trovavo a mio agio e sentivo un'enorme complicità con lei, la quale cresceva minuto dopo minuto.

E non sapevo se esserne contento o fottutamente spaventato.


«Posso offrire io?»

«John, avevamo un patto, non ricominciare!»

«Non mi importa» affermai con un sorriso.

Io e Bryah avevamo consumato un enorme gelato al bar che si trovava al piano terra dell'albergo, il quale si affacciava direttamente sulla spiaggia. Ora ci trovavamo al bancone, dopo aver finito, e io volevo che quella consumazione fosse segnata sul mio conto, non sul suo.

«Ma perché? Per una volta fammi fare l'uomo» mi prese in giro.

Il barista, un tipo poco amichevole che doveva avere una quarantina d'anni, aspettava impaziente che noi prendessimo una decisione.

«Non se ne parla» ribattei.

«Invece sì! Segni pure sul conto di Bryah Philips, prego» tagliò corto, per poi spingermi verso l'uscita del bar, senza lasciarmi alcuna opportunità di replica.

«Bryah, perché sei così testarda?»

«Perché avevamo un accordo e io rispetto la parola data. Non farne un dramma, Dolmayan» mi spiegò con semplicità, mentre ci incamminavamo verso la hall.

Trovammo Dayanara che si preparava per andarsene: il ragazzo aveva un'aria stanca, tuttavia cercava di non darlo a vedere. Notai che una cliente dell'albergo lo stava importunando e non sembrava aver capito che il suo turno era finito e che avrebbe dovuto rivolgersi allo stagista che già stazionava dietro il computer.

Bryah mi diede di gomito. «L'hai riconosciuta?» bisbigliò.

Aguzzai la vista e mi resi conto di chi si trattava, così mi portai una mano sulla fronte con fare esasperato.

«Mi ascolta o no?! In questo albergo avete degli ospiti incivili e maleducati, state pur certi che non la passerete liscia!» prese a sbraitare la tizia che io e Bryah avevamo accidentalmente schizzato quando ci eravamo tuffati.

«Signorina, cerchi di calmarsi, la prego... si sarà sicuramente trattato di un malinteso» tentò di farla ragionare Dayanara, mentre raccoglieva quelle che dovevano essere le chiavi della sua macchina.

«Un malinteso, eh? Quei due pezzenti mi hanno completamente inzuppato d'acqua, senza neanche scusarsi con me! Si rende conto di che razza di gente ospitate qui? Voglio parlare con il direttore, lei è un incompetente!» tuonò infine la pazza, posando le mani sui fianchi stretti. Mi sembrava quasi di vedere del fumo uscire dalle sue orecchie.

«Il direttore non può riceverla, attualmente non è in albergo, sono spiacente» rispose Dayanara pacato, utilizzando un tono di voce professionale e ignorando magistralmente l'insulto che gli era stato appena rivolto.

Bryah sospirò e si avvicinò ai due. Non avevo idea di quali fossero le sue intenzioni, tuttavia la seguii per non lasciare che affrontasse da sola la situazione.

«Smetta subito di prendersela con questo ragazzo. È fortunata che lui sia una persona civile e non le abbia detto ciò che si meriterebbe di sentire! Accusa noi di essere degli incivili, ma lei non si sta comportando diversamente, a quanto pare» intervenne Bryah, piazzandosi di fronte alla cretina.

«Ecco, vede di chi parlavo?» squittì ancora la ragazza. La osservai meglio e notai che doveva avere più o meno l'età di Leah, aveva i capelli biondi palesemente tinti e schifosamente lisci, era perfettamente truccata e aveva il tipico aspetto di una Barbie.

«Vuole delle scuse per qualcosa che non abbiamo compiuto volontariamente e che non è certo una tragedia! Ebbene, ci scusi, bambolina di plastica, non volevamo arrecare disturbo a quei suoi bei capelli e a quel suo bel faccino! Adesso lei però si scusi con Dayanara» proseguì Bryah, utilizzando un tono che non ammetteva repliche.

«Ma come si permette?! Vada al diavolo! E lei, razza di idiota, mi prepari subito il conto! Non rimarrò in questo luogo squallido un minuto di più!» gridò isterica, per poi avviarsi in tutta fretta verso l'ascensore che conduceva alla palazzina dipinta di giallo.

Dayanara sospirò. «Grazie, signorina Philips, ma sono talmente abituato a gente come quella... per favore, Markus, puoi preparare il conto a quella tizia? Il marito si chiama... ehm... non ricordo...» Si portò una mano dietro la nuca e la massaggiò. «Evans, Alfred Evans, ecco.»

«Sei sfinito, Dayanara. Vai a riposare, su» gli consigliai, posandogli una mano sulla spalla.

Lui mi rivolse un debole sorriso. «Grazie, John. Non vedo l'ora di buttarmi a letto. Vorrei dormire per cent'anni...»

«Immagino» commentai dispiaciuto. «E scusa se hai dovuto sopportare le grida di quella matta per colpa nostra» aggiunsi.

«Ma ti pare... ci vediamo, ragazzi, buona serata» concluse, avviandosi in fretta verso le doppie porte scorrevoli.

Proprio in quel momento fece il suo ingresso il ragazzo che avevo incontrato due giorni prima nella hall: per l'occasione, indossava una felpa dei Mayhem e si era messo in testa un paio di enormi cuffie da studio, le quali ricadevano come un cerchietto sulla sua testa e appiattivano i suoi capelli solo nel punto in cui stazionavano, lasciando che il resto della sua chioma ne fuoriuscisse scompostamente.

«Andiamo, altrimenti quello mi chiede un altro selfie» dissi in fretta, afferrando Bryah per un braccio e trascinandola verso l'ascensore della palazzina bordeaux.

«Un tuo fan?» domandò, mentre attendevamo che la porta si aprisse.

«Non sa neanche come mi chiamo, però ha ben pensato di chiedermi una foto e caricarla subito sui social» spiegai contrariato.

«Che esemplare!»

«È solo un ragazzino» tagliai corto, per poi entrare in ascensore.

All'improvviso mi venne in mente qualcosa e mi voltai di scatto verso Bryah. «Ehi, com'è possibile che tu abbia tutto il necessario per il mare? Ieri sei tornata in albergo con noi e non avevi...»

Lei rise. «Oh, John! Mi fai morire dal ridere!»

«Perché mai?»

«Davvero non sai che qui allo Skye Sun Hotel c'è un piccolo punto vendita dove poter acquistare dell'attrezzatura per la spiaggia in caso d'emergenza?» se ne uscì lei con noncuranza, facendo spallucce.

«Cosa?! No, non ne avevo idea... ma...» Sospirai. «Questo posto non finirà mai di sorprendermi» borbottai confuso.

«Ehi John!» mi richiamò, per poi avvicinarsi a me e cercare il mio sguardo. «Sei troppo buono e ingenuo» commentò, sorridendomi con una punta di dolcezza che mi fece sussultare interiormente.

Poco prima che l'ascensore si fermasse al terzo piano, la spinsi contro la parete metallica del box e mi fiondai sulle sue labbra, preda di un improvviso e incontrollabile impulso.

In un attimo ci eravamo ritrovati avvinghiati, io le mordicchiavo il labbro inferiore e la stringevo per la vita, mentre lei aveva affondato le mani sulla mia schiena e mi premeva contro di sé, lasciandosi baciare.

Non ci rendemmo neanche conto che le doppie porte si erano aperte, finché una voce familiare non ci riportò bruscamente alla realtà e ci costrinse a staccarci l'uno dall'altra.

«Ehi, se volete la mia camera è libera» esordì Daron in tono pungente.

Gli rivolsi un'occhiataccia e lo spinsi da parte mentre uscivo dall'ascensore. «Piantala, idiota» bofonchiai imbarazzato.

«Ciao Daron! Dove stai andando?» gli chiese invece Bryah, la quale non sembrava particolarmente turbata dal fatto che il chitarrista ci avesse sorpresi a essere così vicini.

«Devo trovarmi un nuovo cellulare. Che casino... cazzo, non ci voleva...» rispose lui in tono seccato.

«Capisco. Ma, ehi! Aspetta, io a casa ne ho uno da poterti dare. Quando tornerai a Los Angeles, potrai comprarne uno nuovo, se il mio ti fa schifo» gli disse la giornalista, afferrandolo per un polso prima che potesse entrare nel box.

«Sei sicura? Non è un problema, faccio un salto in città, qualcosa posso trovarlo di sicuro...»

Lei scosse il capo. «No, davvero. Si tratta di un iPhone. È successo che me l'hanno regalato allo scorso compleanno, sono stati tanto carini con me, però io sono abituata con il mio cellulare. Ho anche provato a usarlo, ma proprio non mi ci trovo. Se vuoi te lo regalo» gli propose con entusiasmo.

«Vuoi regalarmi un iPhone? Sei pazza per caso?» sbottò il chitarrista sorpreso.

«Sì, perché? A te serve, a me no. Semplice.»

Daron la guardò negli occhi per un po', poi si fiondò ad abbracciarla. «Cristo, mi salvi la vita!» strillò.

«Macché salvare la vita! Ehi, mi stritoli!» rise lei, ricambiando per un attimo il gesto del chitarrista, per poi spingerlo via.

«Siete tutti acidi, nessuno apprezza i miei gesti d'affetto» si lamentò.

«Ma piantala, Malakian. Piuttosto, dove sono Leah e Shavo?» intervenni.

«Chi lo sa... io dormivo fino a poco fa» mi informò. «Be', troviamoli e vediamo se il nostro bassista si è ripreso, poi decidiamo cosa fare stasera» propose poi, lanciando un'occhiata al corridoio che conduceva alle nostre stanze.

Annuii e tutti e tre ci avviammo verso la mia stanza, immaginando che Shavo potesse trovarsi lì.

«Ehi» sghignazzò Daron. «Bussiamo prima di entrare, non si sa mai!» sibilò, mollandomi una gomitata nelle costole.

«Vacci piano! E smettila di fare l'idiota...»

Daron si piazzò di fronte alla porta e prese a battere con forza i pugni sulla superficie, per poi gridare: «Ehi, piccioncini, possiamo entrare o state facendo qualcosa di scabroso?».

«Oddio, Daron, non gridare!» lo apostrofai.

Bryah scoppiò a ridere e lo spinse via. «Sei sempre il solito indelicato, eh?»

«Daron, sappi che stai rischiando di morire giovane...» sentii gridare da Shavo; poco dopo la porta si aprì e il bassista si materializzò sulla soglia.

Sembrava stare molto meglio rispetto a qualche ora prima, ero contento che si fosse ripreso in fretta.

Leah apparve dietro di lui, dopo essere uscita dal bagno, e sgusciò in corridoio, guardandosi attorno. Dopo aver individuato Daron, partì immediatamente al suo inseguimento, gridando: «Vieni qui, screanzato!».

Lui si mise immediatamente a correre e i due presero a correre lungo tutto il corridoio, avanti e indietro, facendo un baccano assurdo e lanciandosi contro scarpe e indumenti per dare più enfasi alla loro scherzosa lite.

«Ti ammazzo! Come ti permetti di insinuare certe cose, eh? Sei geloso?» lo canzonò Leah, sfilandosi uno dei suoi sandali, per poi scagliarlo contro il chitarrista.

Daron lo schivò per un pelo e scoppiò a ridere, poi si strappò via la t-shirt, la appallottolò e rispose all'attacco di lei, colpendola in pieno viso. «Io? Geloso? Continua a sognare, mostriciattolo!»

Leah imprecò e riprese a inseguirlo, finché non riuscì a bloccarlo contro la porta della sua stanza. Lo tempestò di pugni alla cieca, per poi tirargli con forza i capelli; infine gli mollò uno schiaffo e indietreggiò soddisfatta. «Così impari, pezzente» concluse.

«Non rispondo ai tuoi attacchi solo perché sei una donna e io sono un gentiluomo dai sani principi!» ribatté Daron, massaggiandosi la guancia.

«Ti sta bene» disse Shavo.

Leah lo raggiunse e i due si scambiarono un cinque in segno di vittoria, per poi scoppiare a ridere.

«E comunque la tua maglietta puzza!» gridò Leah in direzione del chitarrista.

«Bugiarda!»

«Dai ragazzi, che facciamo stasera?» intervenni, cercando di capire quale sarebbe stato il nostro futuro.

«Prima recuperiamo il cellulare per Daron, poi vediamo. Preparatevi, così poi passiamo a casa mia e anche io posso cambiarmi» suggerì Bryah. «Spero solo non ci sia Benton...» aggiunse.

Il mio cuore perse un battito e improvvisamente la realtà mi piombò nuovamente addosso, schiacciandomi con il suo insopportabile peso.

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Capitolo 35
*** Taxi! ***


ReggaeFamily

Taxi!

[Daron]




«Il taxi non arriva più?!» sbottai, mentre facevo scattare l'accendino per l'ennesima volta. Tirai una lunga boccata di fumo e lo sbuffai dal naso.

«Non capisco...» bofonchiò John, aggrottando la fronte. Osservava confuso il suo cellulare e lanciava occhiate verso il sentiero che l'auto avrebbe dovuto percorrere per arrivare allo Skye Sun Hotel.

«Eppure Dayanara l'ha chiamato di fronte a noi...» commentò Leah, guardandosi attorno spaesata.

Nonostante il sole ormai stesse scomparendo dal cielo, faceva ancora molto caldo, così Shavo si sfilò il cappellino e prese a usarlo a mo' di ventaglio, sbuffando per la troppa afa che impregnava l'aria.

«Che sfiga!» ridacchiò Bryah.

Leah alzò gli occhi al cielo e rientrò a passo di marcia nella hall dell'albergo, sicuramente intenzionata a sollecitare l'arrivo del nostro taxi.

Bryah, intanto, prese a camminare avanti e indietro con le braccia incrociate al petto; John distolse gli occhi dal cellulare e la seguì con lo sguardo. Mi parve di notare un velo di preoccupazione in quei due, doveva trattarsi di qualcosa legato al probabile incontro con il compagno della giornalista.

Shavo si affacciò nella hall e io rimasi fermo in mezzo al vialetto, con la canna di nuovo spenta e una confusione incredibile in testa.

Aver ricevuto notizie da parte di Jessica mi aveva scombussolato, non potevo certo negarlo; tuttavia stavo cercando di non pensarci troppo, nonostante mi risultasse piuttosto difficile. Ero sinceramente contrariato dal fatto che stesse riuscendo, ancora una volta, a rovinarmi la vita.

Lei e le sue stronzate su Lars, sul matrimonio con lui, sul fatto che per lei fossi davvero importante... non volevo saperne, avrei voluto evitare di risponderle, ma la conoscevo troppo bene e sapevo che avrebbe continuato a insistere.

Jessica Miller era così: andava avanti per sfinimento, uccideva la pazienza altrui a furia di tormentare il prossimo e di angosciarlo con la sua ossessiva determinazione. E avevo come l'impressione che con me non avesse ancora finito.

A distogliermi da quei pensieri fu la ricomparsa di Leah e Shavo che battibeccavano.

«Io te l'ho detto, ma tu non mi hai ascoltato!» stava dicendo lei in tono seccato.

«Scusa se volevo rendermi utile!» si giustificò lui.

Leah prese a gesticolare furiosamente. «Il tuo concetto di renderti utile significa trattare male il povero Dayanara?!» obiettò ancora la ragazza.

«Non l'ho trattato male, ho solo espresso la mia opinione... secondo me prima non aveva telefonato per prenotare il nostro taxi! Se penso una cosa non posso dirla?»

«C'è modo e modo, poveretto!»

Mi scappò un piccolo sorriso e scambiai una rapida occhiata con il batterista, il quale non si era lasciato sfuggire nulla ed esibiva una delle sue solite espressioni serie e indecifrabili. Bryah, accanto a lui, si era fermata e sorrideva appena nell'osservare la scenetta tra Leah e Shavo.

«Gli chiederò scusa più tardi... non l'ho fatto mica per offenderlo, gli ho solo detto cosa pensavo» borbottò il bassista.

Era arrivato il momento in cui si rendeva conto di aver esagerato e doveva ammetterlo a se stesso, lo conoscevo troppo bene e sapevo che presto avrebbe cominciato seriamente a sentirsi in colpa.

«Dai, Leah, lascialo in pace. Sono sicuro che Dayanara non si sia incazzato» cercai di sdrammatizzare.

«Però ha esagerato.»

Sospirai. «Sei assurda, ragazza mia.»

Leah stava per ribattere, quando John intervenne: «Il taxi sta arrivando. Ora smettetela di litigare come bambini, va bene? Fate i bravi».

Tutti ci voltammo verso l'imboccatura del vialetto e notammo un'auto bianca in avvicinamento; questa mostrava in cima un cartellino con su scritto TAXI. Eravamo già pronti a salire a bordo, quando ci rendemmo conto che la macchina in questione aveva solo quattro posti liberi.

«Scusate, ma quello è il nostro?» chiese Bryah perplessa.

«Io vado in braccio a John» sghignazzai.

«Sogna» ribatté prontamente il batterista.

«Shavo, chiedigli se è il nostro taxi!» esclamò Leah.

Il bassista si accostò all'auto, dal lato del guidatore, e cominciò a parlare con l'autista. Notai l'uomo scuotere il capo, così sospirai e mi riaccesi la canna.

«Non è per noi» ci informò Shavo, tornando rapidamente da noi.

«Cazzo» imprecai.

«Io però...» Shavo si tolse e rimise il cappellino con fare nervoso. Si guardò attorno, poi proseguì: «Mi sa che vado a scusarmi con Dayanara...»

John sospirò. «Lo sapevo.»

«Anche io» aggiunsi in tono ironico, sollevando il pollice in direzione del batterista.

«Puoi farlo anche dopo» gli consigliò Leah.

«Sei una contraddizione che deambula, Leah Moonshift!» esclamò il bassista confuso.

Intanto notai una figura femminile uscire dall'hotel. Si avvicinò a passo spedito al taxi e, poco prima di salire a bordo, si voltò a guardarci.

«Ciao» ci salutò Miriam, la bagnina che ci aveva aiutato con il pedalò.

Le indirizzai un sorrisetto enigmatico e subito distolsi lo sguardo, fissandolo altrove. Quella ragazza era davvero bella, non mi sarebbe dispiaciuto conoscerla meglio sotto diversi punti di vista.

«Ciao Miriam!» gridò Leah con entusiasmo.

La bagnina salì a bordo del taxi e l'auto ripartì immediatamente. Rimanemmo ancora una volta in attesa.

«Siamo proprio una banda di sfigati. Avremmo dovuto specificare al tassista che siamo delle celebrità» blaterai.

«Celebrità?! Quali celebrità?!» scherzò Bryah, fingendo di prendere in mano un'immaginaria macchina fotografica.

«Scherza, scherza... tanto...» stava dicendo Shavo, quando a un certo punto qualcuno ci interruppe.

«Ecco, questa sì che si chiama gran bella botta di culo!» esclamò una voce maschile.

Mi voltai verso l'ingresso dell'albergo e mi ritrovai di fronte una ragazzino che doveva avere circa diciotto anni; aveva dei capelli lunghi e ribelli ed era vestito completamente di nero. Sfoggiava una felpa degli Slayer che mi metteva caldo solo a guardarla e ci puntava con lo sguardo neanche fossimo insetti da studiare al microscopio.

«Ecco, appunto, volevo dire proprio questo...» borbottò il bassista in tono esasperato.

«Voi siete quelli dei System, finalmente vi ho trovato tutti! L'altro giorno ho incontrato solo lui» proseguì il ragazzino, additando John.

Quest'ultimo aveva incrociato le braccia al petto e notai che stava trattenendo uno sbuffo. «Già» commentò in tono piatto.

«Quelli dei System hanno un nome, non lo sapevi, amico?» scherzò Shavo, anche se io sentivo chiaramente che non era particolarmente divertito. Lo vedevo nervoso e la cosa non mi piaceva.

«Ehi, io sono Daron, cosa ti serve?» mi feci avanti, facendo nuovamente scattare l'accendino. Feci un tiro dalla mia canna e mi accorsi che il ragazzino la stava puntando con occhi famelici. «Eh no, questa non posso dartela. Ma se vuoi posso autografarti le chiappe, eh?»

Lui sorrise appena, a disagio, poi estrasse il suo smartphone. «Mi basterebbe anche una foto» mormorò.

«Solo una foto? Ti facevo più caparbio, amico. Ti piacciono gli Slayer? Ci vanno giù pesante, vero? Già!» continuai a farneticare. Stavo cominciando a divertirmi, mi piaceva mettere a disagio i fan ridicoli come lui.

«Sì, ci puoi contare! Mi piacciono eccome!» confermò il moccioso, continuando a brandire il suo cellulare come un'arma.

«Sono contento! Allora se vuoi ti saluto il caro Tom Araya, ne sarà felicissimo» inventai sul momento, trattenendo a stento le risate. Intanto notai con la coda dell'occhio che anche per i miei amici stava divenendo difficile trattenersi dal ridere, così aggiunsi: «Dai, John! Shavo! Non fate gli orsi e mettiamoci tutti in posa per una bella foto con questo simpatico ragazzo! Com'è che ti chiami, fratello? Dai il cellulare a quella ragazza, ci pensa lei a scattare!». Feci l'occhiolino a Leah e lei annuì appena. Intuii che aveva qualcosa in mente e attesi di scoprire di cosa si trattasse.

«Mi chiamo Brandon» disse il tizio. Sembrava un po' confuso e intontito dal mio tanto parlare, ed era proprio ciò a cui volevo arrivare.

«Dai ragazzi, venite qui!» strillai verso i miei colleghi, accostandomi apposta all'orecchio di Brandon. Quest'ultimo fece un balzo indietro e imprecò tra i denti.

John e Shavo si scambiarono un'occhiata interrogativa, poi ci raggiunsero e tutti insieme ci mettemmo in posa per una foto. Io circondai le spalle del fan con un braccio e strinsi un po' troppo forte, godendomi il suo crescente disagio. Gli stava bene, mi aveva trovato in un momento poco propizio per i rapporti interpersonali.

Leah si avvicinò a lui e afferrò il cellulare, poi si allontanò di nuovo e scattò qualche foto.

Mi staccai bruscamente da Brandon e gli battei forte sulla spalla, facendo sì che si piegasse leggermente in avanti per il dolore. «Brandon, è stato un piacere. Vedi di fare il bravo, chiaro? Ci si vede in giro!».

Leah gli restituì lo smartphone e tutti lo salutammo velocemente, allontanandoci da lui.

La nostra fotografa d'eccezione ridacchiò. «Gli ho fatto proprio un bello scherzetto» disse, prendendo Shavo sottobraccio.

«Cioè?» volli sapere.

«In pratica...»

«Ragazzi!» strillò all'improvviso qualcuno. Riconobbi quella voce femminile e stridula anche senza voltarmi.

«Lakyta» sospirò Leah.

«Ma quando cazzo arriva il taxi?» si spazientì Shavo, scuotendo il capo.

«Non so, ma è strano...» disse John perplesso.

«Ragazzi, aspettate! Sentite, Day mi ha detto che sta per arrivare un taxi che vi porterà in città. Posso unirmi a voi?» ci chiese Lakyta, piazzandosi di fronte a noi per evitare che continuassimo a ignorarla.

«Cosa?! Scordatelo!» sbottò Leah, freddandola con un'occhiataccia.

«Non decidi da sola!» la fronteggiò l'altra, piantandosi le mani sui fianchi.

«Dai Leah, non fare così...» ridacchiai, accostandomi a lei e posandole una mano sulla spalla. «Non ci costa niente, giusto?»

Leah si voltò a scrutarmi con fare preoccupato. «Che cazzo dici?»

Le strinsi appena la spalla e le strizzai brevemente l'occhio. «Dico che possiamo anche essere gentili per una volta.»

Leah parve capire che avevo in mente qualcosa e che l'avrei aiutata come lei aveva aiutato me poco prima. «E va bene» concesse, per poi rivolgersi nuovamente a Lakyta.

«Allora posso unirmi a voi, perfetto. Meno male che c'è Daron, altrimenti tu ti comporteresti da acida quale sei da sempre» sputò la barista nei confronti di Leah, per poi voltarle le spalle. Prese a frugare nella sua borsa e ne estrasse un piccolo kit per il trucco con tanto di specchietto.

«Vedrai quanto ti divertirai» sghignazzai a bassa voce, dando di gomito a Leah. «E tu che hai fatto con Brandon?»

«Forse ci siamo!» esclamò Bryah, individuando un'auto in avvicinamento.

Stavolta era davvero giunto il nostro taxi, così ci avvicinammo in fretta e io feci in modo di accomodarmi sui sedili posteriori con Lakyta, pronto a divertirmi un po'.

Quando stavamo per partire, notai che Brandon stava sbraitando e abbassai il finestrino per capire cosa stesse dicendo. Ci additava con la mano destra, mentre nella sinistra stringeva convulsamente il cellulare.

«Bastardi, siete dei bastardi!» continuava a gridare.

Fischiai nella sua direzione. «Che succede, amico?»

«Che succede?! Quella cretina della vostra amica non ha scattato nessuna foto!» strillò il ragazzino.

La consapevolezza di ciò che Leah aveva combinato mi colpì, così non riuscii a trattenere le risate. «È perfetto così!» conclusi, per poi risollevare il vetro.

Tutti gli altri presero a ridere insieme a me, complimentandosi con Leah per la sua trovata. Lakyta, dal canto suo, rimase in silenzio finché non smettemmo di sghignazzare.

«Io non lo trovo divertente» commentò poi, totalmente a sproposito e senza che nessuno la interpellasse. «Come al solito è stata maleducata e antipatica, pensa te che novità!» aggiunse acida.

«Tesoro, nessuno ha chiesto il tuo parere» tagliò corto Leah, per poi cominciare a parlottare con Shavo e Bryah che occupavano i sedili davanti ai nostri.

John, come suo solito, stava intrattenendo una conversazione con il conducente. Il batterista era sempre il solito, riusciva a chiacchierare con chiunque, pur rimanendo sempre sul vago e mantenendo il suo atteggiamento pacato e al limite della timidezza.

Mi voltai completamente verso Lakyta e mi sporsi verso di lei, cercando il suo sguardo. «Ehi dolcezza, come va? I video sono ricomparsi sul tuo cellulare?» bisbigliai con ironia.

«Spiritoso» disse irritata.

«Oh andiamo, non possiamo fare pace?» le proposi, allungando una mano fino a sfiorarle un ginocchio. Indossava un vestito piuttosto corto che lasciava poco all'immaginazione, perciò non mi fu difficile far entrare in contatto la mia mano con la pelle nuda delle sue gambe.

«Fare pace con te?» si rivoltò, scacciando senza troppa convinzione le mie dita.

«Certo. Con chi altrimenti? Avanti! Ci tengo troppo» mentii spudoratamente, tornando all'attacco. Stavolta afferrai la sua mano e la strinsi con forza, costringendola ad accostarsi leggermente a me.

«Daron... piantala» mormorò senza alcuna convinzione.

«Lo vuoi anche tu, vero? Ci divertiamo un po' insieme, che ne pensi? Su, non fare la difficile. Tra pochi giorni ripartirò, non ci vedremo mai più... tu non sei triste?»

«Non direi... però...»

Sorrisi. «Oh, dai, lo so che ne hai voglia. L'altro giorno, in spiaggia, mi sono divertito solo io. Non è giusto, accidenti a me!» finsi di schernirmi, battendomi teatralmente una mano sulla fronte.

Lakyta mi fissò dubbiosa, poi si divincolò dalla mia stretta. Pensavo che si sarebbe ritratta ancora una volta, invece fece scivolare le dita sul mio petto e lo carezzò attraverso la stoffa della maglia.

«Cominciamo a ragionare» commentai, per poi scostarmi bruscamente da lei. «Ma non ora» aggiunsi secco.

Mi sistemai comodo sul sedile, dal lato opposto al suo, portai fuori i miei auricolari e li infilai alle orecchie senza neanche degnarla di un'occhiata. Li collegai al cellulare e misi su un po' di musica a caso, senza badare troppo a ciò che stavo ascoltando.

Con la coda dell'occhio notai che la ragazza non fece che fissarmi durante tutto il tragitto, mentre la sua espressione si faceva sempre più confusa e perplessa. Con lei non avevo ancora finito, il mio divertimento era appena all'inizio.


«Quanto le dobbiamo?» chiesi al tassista, quando ci fermammo nei pressi del Fyah; Kingston era piena di vita, i locali pullulavano di gente e molte persone erano a caccia di un buon posto dove cenare. Dovevano essere all'incirca le otto di sera e anch'io cominciavo ad avere una certa fame.

«Sono settantasei dollari e ventisei centesimi» disse l'uomo.

Mi frugai in tasca e sollevai lo sguardo su Lakyta. «Merda, ho lasciato il portafoglio in albergo! Ragazzi, ci pensate voi?» interrogai i miei amici. Quando incrociai il loro sguardo, strizzai leggermente l'occhio sinistro e sperai che mi reggessero il gioco.

«Io non ho abbastanza contanti e mi servono per la cena» dichiarò Bryah, fingendo di guardare dentro il suo borsellino viola.

«Shavo, dovevi portare tu la carta di credito stasera. Ce l'hai, vero?» si informò John con voce studiatamente preoccupata.

«Io?! Ma dico, sei scemo? Dovevi prenderla tu!» si rivoltò il bassista con rabbia.

«Ora non litigate, vi prego! Cerchiamo piuttosto di trovare una soluzione» finse di interloquire Leah.

«Appunto, cerchiamo una soluzione. Tu che dici, eh?» inveii contro di lei.

«Io sono a secco, mio padre non ha sganciato niente oggi. Shavo mi aveva assicurato che ci avrebbe pensato lui per stasera...»

«E allora?» fece John desolato. «Ci scusi, non ci voleva proprio questo inconveniente...»

Quasi contemporaneamente, tutti ci voltammo a guardare Lakyta. Lei si ritrasse contro il sedile, trovandosi improvvisamente al centro dell'attenzione generale.

«Ehm... Laky, tesoro, mi dispiace per prima. So che sono un disastro» cinguettò Leah. «Ma... potresti pagare tu? Non sappiamo proprio come fare.»

«Già, sul serio. Fortunatamente per il rientro posso pagare io il taxi ai ragazzi, dobbiamo giusto passare a casa mia...» rincarò Bryah in tono dispiaciuto.

«Poi te li restituiamo, promesso» aggiunsi a mia volta, rivolgendole un'occhiata accattivante. Le posai nuovamente una mano sulla coscia e la accarezzai piano, sentendola rabbrividire sotto il mio tocco.

«Va bene... sì» accettò.

«Grazie. Ti ripagherò a dovere, non dubitarne» conclusi, per poi scendere in tutta fretta dall'auto.

I miei amici fecero lo stesso e in fretta e furia ci dirigemmo a piedi verso casa di Bryah, lasciando Lakyta a vedersela con il tassista.

In questo modo evitammo che potesse seguirci. Una volta svoltato l'angolo, scoppiammo tutti a ridere come matti.

«Daron, Leah: oggi vi siete superati!» esclamò Bryah.

Io e Leah battemmo il cinque e ci circondammo le spalle a vicenda.

«Siamo una forza!» strillai.

«Non glieli restituiremo mai» concluse Leah.

«Ehi, giù le mani, Malakian!» mi ammonì scherzosamente Shavo, afferrando Leah per i fianchi e stringendola da dietro. «Lascia che anche io mi complimenti con lei per la sua genialità» aggiunse poi, cominciando a farle il solletico.

«Shavarsh, piantala! Che idiota!» si divincolò la ragazza, continuando a ridere.

«Dai, andiamo! Recuperiamo questo dannato cellulare per Daron e poi gettiamoci su qualcosa da mangiare, sto morendo di fame!» esclamò John con un sorrisetto ammiccante.

«Agli ordini, capo!» acconsentimmo in coro.

Riprendemmo a camminare e le nostre risate si persero tra la folla e il baccano dei numerosi locali di Kingston.

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Capitolo 36
*** Breakdown ***


ReggaeFamily

Breakdown

[Leah]




L'abitazione di Bryah era deserta, evidentemente il suo ragazzo non c'era. Mi guardai attorno ed esaminai l'ambiente non molto ampio in cui la giornalista ci aveva condotto: ci trovavamo in un piccolo ingresso che presentava pareti color pesca e qualche pianta finta sparsa qua e là. Individuai un portachiavi a forma di gatto nero sul muro e alcuni piccoli quadri che rappresentavano diverse razze di felino.

«Ti piacciono i gatti, eh?» commentai, rivolgendo un enorme sorriso alla giornalista.

«Già. Solo che lui è allergico e non ho mai potuto prenderne uno, da quando abito qui. Ma almeno mi rifaccio gli occhi con i quadri e altri oggetti che rappresentano il mio animale preferito» spiegò lei, facendoci strada attraverso una delle porte in legno scuro che affacciavano sull'ingresso.

Daron si infilò in fretta davanti a me, così rischiai di andare a sbattergli contro.

«Sei cretino?!» lo apostrofai, spintonandolo con forza.

«Avevo fretta...» borbottò.

Ridacchiai. «Ma di cosa?»

«Aveva fretta di andare al diavolo» commentò Shavo, posandomi delicatamente una mano sulla schiena.

«Odadjian, taci» si rivoltò il chitarrista in tono irritato.

«Siete proprio dei bambini... dai, sedetevi! Cosa vi offro? Vediamo cosa c'è in frigo...» disse Bryah, indicandoci le sedie in ferro battuto che stavano intorno a un tavolo tondo dello stesso materiale. Lei intanto si piazzò di fronte al frigorifero e ne spalancò lo sportello, scrutando al suo interno con la fronte corrugata.

Daron corse a sedersi e appoggiò i gomiti sulla superficie di fronte a sé, prendendo a scandagliare i numerosi quadri che ritraevano gatti di ogni colore, dimensione e razza, messi in tantissime posizioni diverse. «Wow» commentò con ammirazione.

«Ora so cosa regalargli per il compleanno» sghignazzò John, dando di gomito a Shavo.

«Un gatto?» chiesi io perplessa.

«No, un quadro come questi» mi rispose John sottovoce.

«Non sparlate di lui, guardate che si incazza» ci avvertì scherzosamente il bassista.

«Allora? Mi ascoltate o no? Ho detto che c'è solo una birra, mezza bottiglia di succo alla banana – certo, non so da quanto è qui dentro – e poi... dell'acqua.» Bryah sospirò e richiuse il frigorifero. «Sono desolata di non potervi offrire di meglio» aggiunse.

«Ma va'! Ci va benissimo un bicchiere d'acqua fresca, grazie» la rassicurò Daron gentilmente, strizzandole l'occhio.

Lei si allungò verso di lui e gli batté sulla testa come se si stesse rivolgendo a un cane. «Chitarrista, non fare il cascamorto con me, non attacca» lo apostrofò con nonchalance. «A proposito... quand'è che ci provi con la bagnina?»

Tutti scoppiammo a ridere e ci sistemammo sulle sedie attorno al tavolo. Queste, però, non bastarono per tutti, così Shavo si accomodò sul bracciolo del divano che era addossato alla parete che ospitava anche il piano cottura.

«Shavo, siediti sulla sedia, ma che fai?» lo rimproverò la padrona di casa, mentre prendeva dei bicchieri dalla credenza.

«E tu dove ti metti altrimenti? Sto comodo così» la rassicurò il bassista con un'alzata di spalle.

Mi voltai a guardarlo e rimasi per un istante incantata dal suo modo dolce di sorridere: il suo viso magro assumeva un'aria leggermente buffa che faceva tenerezza, facendo sì che si intravedessero appena delle deliziose fossette agli angoli della bocca. Indossava uno dei suoi soliti cappellini da baseball e degli abiti semplici e un po' larghi, che non aderivano affatto al suo fisico asciutto. In quel momento mi venne un'incredibile voglia di abbracciarlo, non sapevo spiegarmi neanche il perché, ma quel ragazzo sapeva sempre trasmettermi delle sensazioni positive e colme di dolcezza, una dolcezza quasi commovente e a cui non ero minimamente abituata.

Rischiai seriamente che i miei occhi si inumidissero, poiché in quel momento mi venne in mente la freddezza di colui che, anagraficamente parlando, era mio padre; Alan Moonshift non si era mai sprecato in carezze e abbracci, lui era sempre stato soltanto un affarista per me, un imprenditore, una macchina per fare soldi. Neanche le sue numerose amanti erano state in grado di scalfire quella corazza di indifferenza, quel suo modo calcolato e studiato di porsi, anche con la sua stessa figlia.

Da quando eravamo arrivati in Giamaica, lo avevo evitato come la peste e lui aveva fatto lo stesso con me, lasciandomi in pace. Sapeva che non avrei retto un'intera settimana con lui e Medison, ne era consapevole anche se cercava di fingere che la nostra fosse una situazione normale, una famiglia normale.

Distolsi lo sguardo da Shavo e lo abbassai sul tavolo di fronte a me; volevo dare a tutti l'impressione di star studiando i ghirigori scolpiti sul ferro battuto, anche se in realtà mi sentivo improvvisamente vuota e triste. Tuttavia, non era da me mostrarlo, né tanto meno lasciarmi prendere dallo sconforto. Inoltre, io e Shavo non eravamo soli, non mi sarei mai permessa di correre ad abbracciarlo come una stupida di fronte a tutti, solo perché mi ero lasciata prendere da quell'improvvisa e insensata malinconia.

«Grazie, quest'acqua è buonissima» esclamò Daron all'improvviso, utilizzando un tono tremendamente ironico.

«Ma piantala, sei proprio un idiota. L'acqua è solo acqua» tagliò corto Bryah.

«Non è vero, mi pare quasi di sentire un retrogusto di vodka... che delizia!» proseguì il chitarrista, scolandosi in fretta e furia il resto del liquido presente nel suo bicchiere.

Avvertii una mano posarsi sul mio braccio e mi voltai, sorpresa. Shavo mi osservava con attenzione e pareva leggermente preoccupato.

«Che succede?» mormorò.

«Niente di che, stai tranquillo» risposi con poca convinzione.

«Ne vuoi parlare?» indagò. Ovviamente non mi aveva creduto, c'era da aspettarselo.

«Non ora.»

«Va bene, ma ora cerca di sorridere. Dai» mi incoraggiò, cercando la mia mano per poi stringerla. I suoi occhi scuri e caldi nei miei non fecero altro che accrescere il desiderio di sentirmi stringere da lui e nascondermi in quell'attimo di sicurezza, uno dei tanti che solo lui sapeva darmi.

«Grazie» sussurrai, regalandogli un debole sorriso. Non volevo si preoccupasse per me, non era il caso.

«Vado a cercare il cellulare. Ah! Leah, scusa, non ti ho versato l'acqua, che stupida!» saltò su Bryah, allungando una mano verso la bottiglia.

Immediatamente prima che potesse raggiungerla, il batterista allungò la sua e le loro dita si sfiorarono. Li notai sollevare contemporaneamente lo sguardo l'uno sull'altra.

«Ci penso io» le disse John con calma, senza scomporsi troppo.

Lei annuì e lasciò la stanza.

John mi verso l'acqua in un bicchiere pulito e me lo passò.

«Daron, ne vuoi ancora?» chiese poi al chitarrista.

«Mmh... forse...»

«Cosa vuol dire forse? O sì o no, decidi» lo incoraggiò il batterista.

«Mmh...»

Daron non fece in tempo a continuare che un rumore ptoveniente dall'ingresso risuonò nell'aria.

La serratura scattò, poi una voce maschile si fece largo nel silenzio che era calato tra noi: «Tesoro? Sei tornata?».

Mi pietrificai sul posto e lanciai un'occhiata preoccupata a John, il quale era diventato di un colorito cadaverico e teneva la bottiglia dell'acqua a mezz'aria; questa prese a tremare leggermente nella sua mano e la plastica produsse un leggero scricchiolio sotto la pressione esagerata delle sue dita.

Mi voltai leggermente verso Shavo e lo interrogai con gli occhi; lui scosse appena il capo e fissò lo sguardo sulla soglia della cucina. Mi domandai se Bryah si fosse resa conto che il suo compagno era tornato a casa.

«Merda» imprecò Daron tra i denti, a bassa voce, osservando a sua volta il rettangolo della porta, che attualmente era spalancata.

«Bryah? Tesoro?» Il portoncino d'ingresso si richiuse e dei passi avanzarono verso la cucina.

D'istinto, senza pensarci due volte, mi alzai di scatto e raggiunsi la soglia, poggiando una mano sullo stipite.

Di fronte mi trovai un uomo dalla carnagione olivastra, ben piazzato e tremendamente muscoloso; aveva diversi tatuaggi sulle braccia, portava i dreadlocks piuttosto corti e sottili e i suoi occhi neri scintillarono non appena mi ebbe individuato.

«E tu chi saresti?» mi apostrofò in tono irritato e perplesso.

Allungai una mano verso di lui. «Piacere, sono Leah, una nuova amica di Bryah. Tu devi essere Ben, giusto?»

«Benton» bofonchiò. «Non ho mai sentito parlare di te» aggiunse con le folte sopracciglia aggrottate.

«Io e Bryah ci conosciamo da poco. Ehm... sono qui con degli amici, te li presento, vuoi? Bryah è andata al bagno» mi inventai sul momento, facendo cenno verso l'interno della cucina.

«Amici? Quali amici?» si insospettì subito il nuovo arrivato; si precipitò all'interno della stanza e quasi mi travolse per quanta foga impiegò nel compiere quel gesto.

Mi voltai su me stessa e notai Benton che guardava in cagnesco i tre componenti dei System. «E voi chi cazzo siete?» ruggì.

«Ehi, Benton, sono solo degli amici. Dei miei amici.» Mi accostai a Shavo e gli posai una mano sulla spalla sinistra. «Lui è Shavo, il mio ragazzo. Loro sono Daron e John, loro tre sono come fratelli. Capisci, non potevo lasciarli in albergo, così Bryah mi ha detto che non ci sarebbero stati problemi nel portarli qui con noi» spiegai. «Ma ce ne andiamo presto, non ti preoccupare.»

Il primo ad aprir bocca fu Daron: «Piacere di conoscerti, amico. Scusa se abbiamo invaso casa tua».

Benton si concentrò su di lui e io potei tirare per un attimo il fiato. Stavo cercando di mettere quel tizio a suo agio ed evitare che si ponesse troppi interrogativi o pensasse che Bryah avesse chissà quali rapporti con qualcuno dei ragazzi.

Mi voltai a scrutare Shavo e lo trovai con gli occhi su di me; aveva un'espressione strana dipinta in viso, aveva gli occhi leggermente sgranati e la bocca semiaperta. Sussultai appena e inclinai la testa di lato.

«Forse ho esagerato a dire che sei il mio ragazzo, vero?» bisbigliai.

«Un po'...» ammise.

«Scusa» borbottai, sentendomi un poco in colpa per averlo messo in imbarazzo. Non avrei voluto, ero partita con l'intenzione di tranquillizzare il compagno di Bryah, ma avevo commesso un piccolo sbaglio.

Spostai la mano dalla sua spalla e la lasciai ricadere lungo il mio fianco, poi distolsi gli occhi da lui e li posai su Daron e Benton.

Quest'ultimo sembrava aver preso in simpatia il chitarrista e i due chiacchieravano come se fossero due amici di vecchia data.

«Ho fatto dei lavori di ristrutturazione al museo di Marley» stava raccontando il padrone di casa. «È stato un buon lavoro, mi hanno pagato bene.»

«Immagino, quel posto è spettacolare» concordò Daron.

Poco dopo Bryah piombò nella stanza; stringeva in mano una scatola a forma di parallelepipedo e sembrava mortificata per averci abbandonato così a lungo.

«Eccomi! Ah, Ben, ciao! Vedo che hai già conosciuto i miei nuovi amici» esordì la giornalista, accostandosi al suo compagno.

Mi concentrai su John e lo trovai con gli occhi fissi sulla bottiglia dell'acqua; nel frattempo l'aveva appoggiata nuovamente sul tavolo e aveva smesso di dedicare la sua attenzione a qualsiasi oggetto o persona. Sentivo che probabilmente era tremendamente a disagio, avrei voluto aiutarlo, fare qualcosa per lui, ma come potevo?

Sinceramente mi sentivo stretta in quella piccola cucina, sentivo improvvisamente il bisogno di respirare un bel po' d'aria, così mi accostai al batterista e gli chiesi: «Andiamo fuori? Ho bisogno di aria».

John si riscosse da quella sorta di trance e annuì, per poi alzarsi e seguirmi all'esterno. Nessuno osò fermarci, probabilmente sia Daron che Shavo avevano capito quali erano le mie intenzioni, anche se forse nessuno di loro intuiva che anche io mi sentivo poco bene.

«Ho combinato un casino» sbottò John, non appena si richiuse il portoncino alle spalle.

L'abitazione di Bryah affacciava direttamente su una stretta stradina, la quale distava qualche centinaio di metri dalla via in cui era situato il Fyah.

John prese a camminare avanti e indietro, le braccia incrociate al petto e i lineamenti del viso duri e contratti in una smorfia di risentimento e dolore verso se stesso.

«Anche io» ammisi, piazzandomi di fronte a lui per arrestare i suoi movimenti nervosi.

«Non direi» obiettò.

«Ho detto che Shavo è il mio ragazzo» ribattei a mia volta. «Ho esagerato e lui me l'ha detto.»

«Shavo è uno sciocco.»

«Non lo è, sono io a esserlo. Oggi c'è qualcosa che non va, mi sento... John?»

Il batterista aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi e mi fissava, in attesa che proseguissi.

«Io e Shavo abbiamo fatto l'amore.»

Lui sbatté le sopracciglia e rimase immobile.

«Non so perché l'ho detto, ma... mi sento davvero strana, è come se... è cambiato qualcosa, John. E non parlo della parte fisica, non parlo di... cazzo, perché non trovo le parole?»

John sospirò leggermente e mi posò le mani sulle spalle. «Respira» mormorò con calma.

Solo in quel momento mi resi conto di essere tremendamente agitata, di star trattenendo il fiato e di star perdendo il controllo su me stessa. Questo non mi piaceva affatto, stavo combinando un disastro.

Seguii il consiglio di John e mi sentii immediatamente meglio; inspirai ed espirai più volte, poi mi portai una mano sulla bocca e soffocai uno stupido singhiozzo che si era fatto largo a partire dal mio petto.

«Leah... ehi, su... ragazza mia, non fare così» tentò di rassicurarmi il batterista. Mi afferrò per un braccio e prese a passeggiare lentamente lungo la via. «Se hai bisogno di sfogarti, io ci sono.»

«Sono un casino, sapevo che sarei rimasta fregata» piagnucolai tra le lacrime, tirando su con il naso. «John, scusami, scusami tanto...»

«Non ti devi scusare.»

Mi fermai di botto e scossi con forza il capo, asciugandomi furiosamente le lacrime. «Basta, diamoci un taglio» affermai con rabbia.

«Il casino lo abbiamo fatto entrambi. Non avrei mai dovuto cedere a Bryah, non sapendo che...» John s'interruppe e si portò una mano sulla fronte, un gesto controllato che tuttavia esprimeva tutta la sua disperazione.

«Accidenti a noi!» Strinsi le mani a pugno e mi morsi convulsamente il labbro inferiore. Dovevo controllarmi, dovevo tornare a essere padrona di me stessa e di ciò che mi stava capitando.

«Leah.»

«John.»

«Siamo spacciati» mormorò lui.

Sorrisi appena. «Sei davvero sicuro che Shavo sia uno sciocco?» gli domandai.

«Ma certo. Vedrai che già si sente in colpa per ciò che ti ha detto» mi assicurò, ricambiando il mio gesto.

«Lo spero...»


«Scusatemi, scusatemi davvero per Benton, lui... io speravo che non ci fosse, invece...»

Eravamo appena usciti da un locale poco distante dal Fyah e Bryah non faceva che scusarsi per ciò che era capitato con il suo compagno; non era certo colpa sua, avevamo provato a dirglielo, ma lei non riusciva a darsi pace.

Quella giornata era stata terribile un po' per tutti, tra alti e bassi ne stavamo uscendo tutti sconfitti e sfiniti.

«Io sto morendo di sonno» sbadigliò rumorosamente Daron. «Oggi è stata una tortura!»

Sospirai. «Anche io» concordai senza troppa convinzione.

La cena era stata per lo più silenziosa e io mi sentivo veramente giù di morale; parlare con John mi aveva aiutato a stare un po' meglio, ma in linea di massima ero davvero malinconica e non avevo più voglia di fare niente. Improvvisamente mi sentivo troppo simile a Daron, il che era inquietante.

«Torniamo in albergo?» propose John in tono piatto.

Bryah si appese letteralmente al suo braccio. «Di già? No, ragazzi, dai...» provò a convincerci.

John si scostò gentilmente da lei ed estrasse il suo cellulare dalla tasca. «Chiamo un taxi» annunciò, ignorando deliberatamente le proteste della giornalista. Si allontanò di qualche metro da noi e si portò l'apparecchio all'orecchio.

«Ce l'ha con me?» chiese lei a nessuno in particolare.

«Ce l'ha con se stesso» disse Shavo.

Gli lanciai appena un'occhiata, ma non mi avvicinai a lui e non intervenni nel discorso; da quando avevo fatto quella figura di merda, non avevo più avuto il coraggio di comportarmi spontaneamente con il bassista. Ero di umore nero e non riuscivo a essere la Leah di sempre.

«Ma tu, mia cara, sei un po' stronza» sbottò Daron all'improvviso, piazzandosi di fronte alla giornalista con le braccia incrociate sul petto.

Lei sbuffò. «Scusa?»

«Hai capito bene. Ti stai comportando male con John, ne abbiamo parlato. Hai ammesso di star sbagliando, eppure non fai che commettere sempre gli stessi errori» la accusò il chitarrista senza giri di parole.

«Ti fai i cazzi tuoi?!» esplose lei irritata.

«No, perché John è mio amico. Io mi preoccupo per lui» sottolineò Daron con estrema sicurezza e serietà.

«Ma questi non sono affari tuoi, fatti da parte e pensa alle cazzate che fai tu!»

«Le cazzate che faccio io non nuociono alle persone che amo.»

«Ragazzi, piantatela» mi lamentai, portandomi le mani a tapparmi le orecchie. «Vi prego!»

«No, Leah! Lui si è messo in mezzo e...»

«E lei sta facendo soffrire John» aggiunse il chitarrista.

«Vi prego!» gridai. «Basta! Possibile che tutti abbiate tanta voglia di litigare? Che vi prende oggi? Cosa cazzo vi prende? Non ne posso più, sono stanca, stanca, stanca...» blaterai, serrando ancora una volta i pugni e avvertendo nuovamente le lacrime che pungevano agli angoli degli occhi.

Tutti mi fissavano allibiti, anche John che da poco era tornato da noi dopo aver telefonato alla compagnia di taxi.

«Leah, ma cosa ti succede?» mi si rivolse Bryah; sembrava essere più scossa rispetto al resto del gruppo.

«Io... io non lo so» farfugliai, mentre le lacrime cominciavano a tradirmi e si riversavano senza tregua lungo le mie guance.

Shavo si mosse in fretta, mi raggiunse in un attimo e mi strinse in un abbraccio caldo e rassicurante, il quale non fece che amplificare ulteriormente le sensazioni che stavo provando. Mi aggrappai con forza alla sua t-shirt e mi lasciai andare a un pianto disperato e implacabile. Finalmente mi trovavo nel posto che da ore avevo desiderato, nel luogo che mi rendeva sicura e che mi faceva sperare di non star vivendo soltanto un sogno.

La verità era che, da quando io e Shavo eravamo stati insieme quel pomeriggio, qualcosa in me si era spezzato, qualcosa come delle invisibili barriere che avevano resistito fino a quel momento, per poi cedere e lasciarsi travolgere dalle sensazioni che solo quel bastardo del mio cuore sapeva farmi provare.

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Capitolo 37
*** In my arms again ***


In my arms again

[Shavo]




La tenevo stretta a me e non volevo che si allontanasse; faceva caldo, veramente troppo per i miei gusti, ma non potevo permettere che Leah mi stesse lontano.

L'andamento costante e tranquillo del taxi cullava il suo pianto, che ormai si era quasi del tutto placato, anche se ogni tanto udivo ancora dei singhiozzi scuotere il corpo esile e minuto della ragazza. Si era rannicchiata contro di me e da quel momento non aveva più osato compiere alcun movimento né pronunciare una singola parola.

Io, intanto, le accarezzavo i capelli e la schiena senza sosta, facendole capire che ero lì unicamente per starle accanto.

Dentro, mi sentivo in colpa e sapevo che quel suo crollo emotivo era stato causato anche da me, dal fatto che l'avessi rimproverata per avermi definito il suo ragazzo. Perché lo avevo fatto, maledizione? Che mi era preso? Ero rimasto sorpreso dalle sue parole, questo era vero, ma non avrei dovuto agire in maniera tanto impulsiva e indelicata.

«Oggi è stato un delirio» commentò Daron, rigirandosi tra le mani l'iPhone che Bryah gli aveva regalato.

«Intanto tu hai un nuovo telefono, Malakian. Il più fortunato sei stato tu» borbottò John; era palesemente di malumore e stentava a nasconderlo.

«Me l'ha regalato anche se l'ho trattata male. Sono decisamente fortunato» concordò il chitarrista.

«Che diamine hai combinato?» volle sapere John.

«L'ho accusata di essere una stronza nei tuoi confronti» raccontò l'altro con semplicità.

Il batterista si irrigidì sul sedile anteriore e si voltò verso Daron. «Perché lo hai fatto?»

Il chitarrista si strinse nelle spalle. «Non sopporto chi fa soffrire le persone a cui tengo, lo sai.»

Leah si agitò tra le mie braccia e tirò su col naso, sollevando il capo. Osservò Daron per un po', poi si schiarì la gola e disse: «Bryah non voleva far soffrire John».

«Non voleva, ma lo ha fatto e lo sta facendo tuttora.» Daron indicò con un cenno il nostro amico. «Guardalo. È distrutto da tutta questa situazione.» Sospirò. «Tu non lo conosci abbastanza.»

«Lo capisco, ma... ah, lascia stare» si arrese la ragazza, tornando a nascondere il viso nel mio petto. «Oggi non ne faccio una giusta» bofonchiò.

«Sta' zitta» la rimproverai sottovoce, tirandole appena una ciocca di capelli.

Il viaggio proseguì in silenzio, ognuno di noi rimase immerso nei propri pensieri e non rivolse la parola agli altri.

Avevamo decisamente bisogno di una bella dormita.


«Adesso andiamo a riposarci, ne abbiamo davvero bisogno» mormorai a Leah.

Una volta scesi dal taxi, mi ero rifiutato di lasciarla camminare sulle sue gambe, così avevo insistito per tenerla tra le braccia e non avevo ammesso repliche. Avvertivo tutta la sua fragilità e non me la sentivo di abbandonarla in quel momento.

«Posso camminare, Shavarsh...» provò a protestare ancora.

«No che non puoi.» Entrai nella hall e attesi che Daron e John richiedessero le nostre chiavi allo stagista che, come al solito, stava facendo il turno di notte con la faccia attaccata allo schermo del computer; nel frattempo mi diressi verso l'ascensore e riuscii a richiamarlo, compiendo una strana manovra con il braccio, evitando però che Leah sgusciasse via dal mio abbraccio.

Daron e John ci raggiunsero poco dopo. Stavano battibeccando, ancora.

«Adesso come faccio con lei? Sai, forse è meglio che neanche la riveda, tanto tra poco ripartiremo e potrò dimenticarmi di tutto questo» stava dicendo John.

«Meglio perderla che trovarla una come lei. Può essere una buona amica, questo non lo metto in dubbio, però per il resto sarebbe meglio lasciar perdere. E poi, Dolmayan, tu non sei fatto per queste cose.»

«Quali cose?»

«Per una botta e via... non sei quel tipo di persona» spiegò Daron.

Nel frattempo l'ascensore si aprì e noi riuscimmo a incastrarci all'interno del box; il batterista premette il pulsante numero tre, poi si rivolse di nuovo a Daron.

«Meglio così, evito di cacciarmi nei guai in cui ti cacci tu ogni giorno.»

«Non mi sembra che tu sia messo molto bene attualmente, caro amico mio» lo contraddisse il chitarrista, per poi sbadigliare ancora.

«Questo non c'entra niente! Ah, Malakian, taci! Così non mi aiuti.»

«Io ho solo provato a fare qualcosa per te, sei solo un fottuto ingrato!» sbottò l'altro con rabbia.

«Hai usato il modo peggiore.»

Leah sospirò e si divincolò dalla mia presa; si mise in piedi accanto a me, ma rimase ugualmente appoggiata al mio corpo e lasciò che le circondassi la vita con le braccia.

«Ragazzi» esordì. «Vi prego» aggiunse.

John e Daron si voltarono a guardarla, ma proprio in quel momento le doppie porte dell'ascensore si aprirono e fummo costretti a riversarci nel corridoio dall'ormai familiare pavimento a scacchi bianchi e bordeaux.

«Facciamo pace? Tutti quanti, avanti» riprese Leah, spostando lo sguardo su di noi. «Oggi è stata dura per tutti, però adesso basta. Per favore.»

Scambiai qualche occhiata con John e Daron, rendendomi conto che anche loro avevano voglia di stare tranquilli e di non preoccuparsi più di niente.

«Me lo date o no un abbraccio?» ci incoraggiò ancora la ragazza.

Mi accostai a lei e lanciai un'occhiata ai miei amici. «Allora?»

Chitarrista e batterista ci raggiunsero e tutti insieme ci stringemmo in un abbraccio di gruppo.

«Non fate più i cretini, chiaro? Abbiamo così poco tempo da trascorrere insieme e io vi voglio così tanto bene...» disse Leah con estrema sincerità. «Mi mancherete un sacco, razza di idioti!» aggiunse con la voce rotta dal pianto.

«Che sdolcinata» si lamentò Daron, divincolandosi per primo dall'abbraccio.

«E tu sei un orso» lo accusò lei.

Sciogliemmo l'abbraccio e scoppiammo tutti e quattro a ridere.

«Maledizione! Siamo proprio stanchi, eh?» disse John tra le risate.

«Abbastanza!» confermò il chitarrista. «Perciò, cari amici miei, io vi lascio e mi butto a letto! Arrangiatevi!» concluse, per poi avviarsi di tutta fretta verso la sua camera.

«Buonanotte Daron, spero di non sentirti russare!» gli gridai contro.

«E tu prenditi cura di quella ragazza, altrimenti mi muore di crepacuore» concluse lui, per poi sparire dal corridoio.

«Shavo, resta con lei» disse John con un sorriso che aveva una nota di amarezza al suo interno. «Almeno tu che puoi» concluse, per poi darci le spalle e andare via a sua volta.

Scambiai un'occhiata con Leah e fui certo che entrambi fossimo in pensiero per il batterista; a entrambi dispiaceva notare quanto fosse triste e sconsolato per tutta la situazione che si era creata con Bryah. Lei aveva deciso di non tornare con noi in albergo, e forse con quel gesto aveva definitivamente chiuso con John e aveva posto fine alla loro piccola avventura.

Il mio amico ne era uscito palesemente distrutto, nonostante cercasse di nasconderlo e tenerlo per sé; era un uomo molto razionale, ma non per questo poco incline a provare sentimenti o emozioni in grado di scuoterlo nel profondo. Sicuramente si era affezionato molto alla giornalista, era rimasto colpito e incantato da lei. Il fatto che tra loro fosse successo qualcosa non aveva fatto altro che accentuare ciò che provava per lei.

Forse non era amore, anzi, sicuramente non lo era, non ancora almeno; ma avevo come l'impressione che per John lo sarebbe diventato, se solo avesse avuto l'opportunità di conoscere meglio quella donna e di costruire qualcosa di serio e duraturo con lei.

Invece si era arreso, rassegnato, aveva smesso di sperarci e io potevo capirlo perché lo conoscevo e sapevo benissimo qual era il suo modo di ragionare. Per lui era stato un terribile errore cedere alla passione che lo aveva unito a Bryah, e ora ne stava pagando le conseguenze all'interno della sua mente che non smetteva mai di lavorare.

«Povero John, non è giusto che lui debba soffrire tanto» ruppe il silenzio Leah.

Annuii. «Già.»

Lei mi prese la mano e i nostri sguardi si incrociarono.

«Andiamo, Shavarsh.»


«Stare con te è stata una delle emozioni più forti della mia vita, credimi. Anche se sembro una ragazza esuberante, espansiva e fuori di testa, la mia vita è piuttosto ordinaria. Non è mai successo niente di che, non ho mai commesso chissà quali pazzie. Ho sofferto molto quando i miei si sono separati, ma il punto non è neanche questo. Mio padre ha cominciato a portarsi a casa un sacco di donne, a fare un po' come gli pareva, senza dare peso a me. Ha sempre pensato solo ai suoi stupidi affari e alle sue stupide amanti del momento; così io mi sono ritrovata a dovermela cavare da sola, non avevo più uno straccio di punto di riferimento.»

Sospirai. «Con quale coraggio ti ha abbandonato così?»

Leah rise con pungente ironia. «Infatti è sempre stato un codardo, non ha proprio nessun coraggio per fare alcunché. Io lo tratto sempre con freddezza e insofferenza, ma dentro di me ci soffro terribilmente. Shavarsh.» Sospirò a sua volta. «Non mi ha mai abbracciato, non si è mai preoccupato di farmi un complimento o di farmi capire in qualche modo che teneva a me. Fortunatamente non sono mai stata una persona che si piange addosso, ho sempre proseguito per la mia strada. Però a volte è dura capire di essere sola. Di non avere una famiglia.»

Mi misi su un fianco e la attirai a me, tenendola il più vicino possibile. «Non è giusto.»

«Lo so, ma è così. Lui non ha mai fatto ciò che stai facendo tu. Non so cosa significa sentirsi davvero apprezzata da qualcuno, non so cosa vuol dire essere ascoltata e compresa» ammise. «Non che io non abbia degli amici, questo non posso dirlo. Però loro non sono mai arrivati fino in fondo, non hanno mai approfondito la mia conoscenza, forse per discrezione o perché convinti che io stessi sempre bene, che la mia esuberanza e la mia solarità non nascondessero qualcosa di più. Non gliene faccio una colpa, sia chiaro, sono io stessa a non riuscire sempre ad aprirmi come vorrei.»

Il cuore mi esplose nel petto a causa della consapevolezza che con me fosse tutto diverso. «E io? Io cos'ho in più di loro? È così facile capirti, apprezzarti... adorarti...» ammisi con estrema spontaneità, senza avvertire il minimo imbarazzo.

«Esagerato! Tu... ecco, il tuo problema è che sei diverso dal resto del mondo, sei una persona sensibile e umana, non so se mi spiego. Tu e i ragazzi siete davvero forti, siete uniti tra voi e riuscite comunque a mettere a proprio agio chi vi conosce.» Leah sorrise e mi lasciò un piccolo bacio sulla spalla. «Sai, Shavarsh, se penso a te, quasi non riesco a credere che tu sia davvero quel pazzo che sul palco fa headbanging come un invasato e suona divinamente il basso. Per me è impossibile crederci.»

Scoppiai a ridere. «E questo cosa c'entrava?» la punzecchiai.

«C'entrava eccome! Sei un idiota, io stavo cercando di essere seria e tu...»

Allungai una mano e la posai sotto il suo mento, per poi sollevarlo e costringerla a guardarmi negli occhi. Nella stanza penetrava solo un leggero barlume di luce proveniente da un qualche lampione posto all'esterno dell'hotel, ma io riuscivo a scorgere ugualmente la sua espressione mortalmente seria.

«Perdonami» mormorai. «Ogni tanto agisco senza pensare, ci sono dei momenti in cui mi prenderei a pugni da solo. A proposito, scusami per come ti ho trattato a casa di Bryah. Non volevo, sono solo rimasto sorpreso.»

«Sorpreso... piacevolmente?» indagò.

«Direi di sì. Forse è presto per dirlo, cioè, per affermare che... che stiamo insieme, ma io con te mi trovo bene ed è questo che conta. Non so come andranno le cose, Leah, sarà sicuramente difficile. Ma se mi sono avvicinato a te in questo modo, se ho permesso che ciò accadesse, sappi che non ho nessuna intenzione di abbandonarti.» Distolsi lo sguardo e mi sforzai di esprimere ciò che stavo pensando. «Non vorrei mai che tu mi odiassi come odi tuo padre.»

La ragazza si gettò letteralmente su di me e prese a riempirmi il viso di baci, mentre calde lacrime scorrevano per l'ennesima volta sulle sue guance.

«Ehi, che ho fatto di male per meritarmi tutto questo?» scherzai, fingendo di volermi ritrarre dal suo assalto.

«Spiritoso! Shavarsh, sei davvero molto spiritoso» finse di offendersi.

Le presi il viso tra le mani. «Ripetilo.»

Mi lanciò un'occhiata perplessa. «Che cosa?»

«Il mio nome.»

«Sbaglio o qualcuno si sta abituando un po' troppo a certe cose?» mi prese in giro, allungandosi per baciarmi sulle labbra. «Shavarsh. Perché ti piace tanto?»

Mi strinsi nelle spalle. «Solo quando lo dici tu.»

«Ruffiano.»

«Ehi! Ma non va mai bene niente» mi lamentai.

«Sì che va bene» sussurrò lei, carezzandomi il petto con delicatezza. «Va decisamente bene» proseguì, spostando le mani sulle mie spalle e facendole scorrere lungo le braccia.

Sentivo un desiderio bruciante farsi largo dentro me, avevo decisamente voglia di fare l'amore con lei, nonostante la stanchezza e l'estenuante giornata che avevamo trascorso.

Leah mi guardò negli occhi. «Prima di approfittarmi di te, vorrei dirti un'altra cosa.»

«Certo» la incoraggiai. «Tutto quello che vuoi.»

Mi afferrò le mani e le strinse tra le sue, distogliendo lo sguardo. «Dopo aver fatto l'amore con te, questo pomeriggio, ho sentito come se qualcosa fosse cambiato. Mi sento diversa, è come se ora mi rendessi conto di tante cose, come se sapessi davvero cosa sei per me, cosa è successo, cosa mi ha portato fin qui. È una cosa strana, Shavarsh, lo so. Mi prenderai sicuramente per pazza, ma ho avuto tante conferme oggi.» Tornò a concentrarsi su di me e a cercare i miei occhi. «Una di queste è che sto davvero bene con te. Sotto tutti i punti di vista, anche quando mi fai incazzare, quando sei paranoico, sei insicuro... quando fai lo stupido, quando ti incazzi senza motivo, quando battibecchi con Daron come un matto per motivi stupidi... sto bene con te anche quando mi dici ciò che pensi, anche se lo fai con poca delicatezza e d'impulso. Io non sono tanto diversa, non trovi? Tra le mie qualità non c'è il tatto, questo si è capito. Sto bene con te perché sei sincero, e sappi che non c'entra niente il fatto che tu mi abbia nascosto chi sei. In quel caso anche io ho commesso un errore, ma tutti e due lo abbiamo fatto a fin di bene. Non volevamo ferirci, io non volevo ferirti e tu non volevi fare del male a me. L'ho capito. E ti adoro, ti adoro per come sei, perché in una settimana ti ho conosciuto davvero perché ti sei lasciato conoscere. In una settimana mi sono aperta come non mai con te, ho lasciato che le mie barriere crollassero e che tu invadessi il mio cuore e i miei pensieri. È una cosa pazzesca, Shavarsh. Pazzesca.»

Ci riflettei su e mi ritrovai d'accordo con lei su tutta la linea, aveva espresso esattamente ciò che anche io pensavo, dalla prima all'ultima parola.

«Lo penso anche io. Sono convinto che ci siano tante cose che ancora non sappiamo l'uno dell'altra, ma è anche vero che siamo a conoscenza di ciò che ci basta, per il momento. Non mi sono nascosto, non ho celato i miei difetti perché con te è stato tutto molto spontaneo, era come se ci conoscessimo da sempre.» Sorrisi. «Ecco, queste sono quelle cazzate che appaiono nei libri o che la gente dice nei film, ora divento patetico!»

Leah ridacchiò. «Schifosamente patetico.»

La attirai al petto e lei fu ben felice di sistemarsi su di me.

«Ora approfittati di me» conclusi, mordicchiandole il lobo dell'orecchio destro.

«Con estremo piacere, Shavarsh» disse.

Poi prese a spogliarmi con estrema lentezza.

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Capitolo 38
*** Dead Memories ***


ReggaeFamily

Dead Memories

[John]




Il sonno non ne voleva sapere di travolgermi, nonostante cercassi di imporre a me stesso un po' di riposo. Ne avevo bisogno, mi sentivo sfinito sotto tutti i punti di vista e non ne potevo più di pensare e pensare e pensare senza sosta.

Dopo essermi rigirato all'infinito sul letto, mi misi a sedere e mi presi la testa tra le mani. Dovevo uscire da quella stanza e fare due passi, non riuscivo a stare fermo, tanta era l'inquietudine che avvertivo in quel momento.

Sospirai e mi mossi nell'oscurità, afferrando i primi vestiti che furono alla mia portata e infilandoli velocemente. Misi ai piedi un paio di infradito e recuperai le chiavi della stanza. Lasciai il cellulare sul comodino, sospirai ancora una volta e uscii in corridoio.

I faretti posizionati al centro del soffitto illuminavano flebilmente il pavimento lucido; nessuno, oltre me, sembrava popolare l'albergo a quell'ora della notte, visto il profondo silenzio che aleggiava tutt'intorno. Avvertii, in sottofondo, lo sciabordare lontano delle onde e un leggero russare che doveva provenire da una delle stanze in cui riposavano i miei amici.

Richiusi piano la porta alle mie spalle e mi avviai verso l'ascensore, deciso però a prendere le scale che si trovavano alla sinistra del box. Inizialmente pensai di scendere di sotto, ma poi cambiai idea e cominciai a salire.

Volevo raggiungere la terrazza, certo che lassù non avrei trovato nessuno. Dovevano essere almeno le quattro del mattino, ma non potevo esserne sicuro, poiché avevo lasciato anche l'orologio da polso in camera.

Quando giunsi alla mia meta, l'ambiente mi parve deserto come me l'aspettavo. Il chiosco in legno era chiuso e vuoto, le sedie impilate le une sulle altre e riposte in un angolo; i tavoli erano spogli e gli ombrelloni ripiegati troneggiavano come sinistri spaventapasseri.

Mi accostai a una delle pile di sedie e ne estrassi una, per poi portarla poco distante dal parapetto. Mi ci sedetti sopra e inspirai profondamente, lasciando che il profumo salmastro proveniente dal mare impregnasse i miei polmoni e liberasse la mia mente dai cattivi pensieri che la affollavano.

La solitudine, il silenzio e la tranquillità di quel luogo mi facevano bene all'anima, anche se quest'ultima era attualmente in condizioni pietose.

Chiusi gli occhi e mi lasciai trascinare dai miei cupi pensieri. Con Bryah era andata male, decisamente male, ed era tutta colpa mia. Non avrei mai dovuto cedere, non avrei mai dovuto permetterle di entrare così tanto a contatto con me. Il fatto che fossimo stati insieme a livello fisico per me significava molto di più, non era stata solo una scopata come tante. Daron aveva ragione a dire che non ero proprio adatto alle avventure di una notte, soprattutto perché, fin da subito, la giornalista per me era stata più di una donna qualunque. Avevo capito fin dal principio che non mi sarebbe bastato portarmela a letto per sentirmi appagato, c'era stata fin da subito una complicità diversa, qualcosa che andava a toccare la parte psicologica e mentale del mio essere.

Qualcosa mi sfiorò la spalla e sobbalzai per la sorpresa, voltandomi di scatto. Mi ritrovai di fronte una figura non troppo familiare che mi fissava con gli occhi lucidi e arrossati dal pianto.

«Ciao» mormorò la ragazza di fronte a me. «Ah, sei tu...»

«Lakyta?» mi sorpresi, sbattendo appena le ciglia.

«Già» sospirò.

«Cosa fai qui?»

Si strinse nelle spalle. «Potrei farti la stessa domanda.»

Annuii appena, ritrovandomi a darle mentalmente ragione. «Non riuscivo a dormire.»

«Neanche io.»

La scrutai per un attimo, poi feci un cenno con la mano verso la pila di sedie. «Siediti qui.»

«Va bene.»

Mentre lei si dirigeva a prendere una sedia in plastica, mi domandai cosa mi avesse spinto a invitarla accanto a me. Poco prima avrei voluto evitare di parlare con chiunque, mentre ora non avevo più tanta voglia di stare da solo a rimuginare. Avrei volentieri svegliato Leah, con lei si era instaurato un buon rapporto, ma ero certo che l'avrei strappata dalle braccia di Shavo e non volevo rovinare i loro ultimi momenti insieme.

Ormai la partenza della ragazza si avvicinava, così come la nostra, ma lei sarebbe andata via soltanto poche ore dopo.

Il tempo era volato per tutti e anche noi avremmo dovuto affrontare la realtà, una volta tornati a Los Angeles.

Lakyta appoggiò la sedia di fianco alla mia e ci si lasciò cadere sopra a peso morto, tirando un lungo sospiro. Sembrava una persona completamente diversa dal solito, preda di sensazioni negative in grado di tormentarla. Non era truccata, non indossava degli abiti appariscenti e provocanti come suo solito e pareva una ragazza molto semplice e a modo.

«Hai pianto» osservai in tono piatto, tornando a fissare la superficie infinita e scura dell'oceano.

«Mi va tutto male» biascicò. «Ed è tutta colpa mia.»

«A chi lo dici.»

«Ho bevuto un sacco... non sto per niente bene e ho già vomitato tre volte. Sono uno straccio» raccontò con una punta di disperazione nella voce roca e tremante.

«È normale che tu stia così.»

«Mi sono sentita ferita, mi sono sentita uno schifo quando... temo di essere confusa.»

«Confusa» ripetei.

«Sì. Sono innamorata di Alwan da un sacco di tempo, ma lui... lui è uno stronzo. Non bada a me, per lui sono solo un'amica. Cornia mi dice di lasciarlo perdere, eppure io non so come fare.» Lakyta si interruppe a causa di un singhiozzo. «E ho sbagliato tutto anche con Daron.»

«Non fare caso a Daron, lui non conta.»

«Conta per me. Ho perso la dignità un sacco di volte. Vorrei solo scappare di qui, vorrei una vita diversa, migliore.» La sentii tirare su con il naso. «Mia madre era un'attrice, sai? Non è mai arrivata a Hollywood, non ha mai raggiunto delle mete davvero importanti, ma per me era la migliore. Mi ripeteva sempre che un vero attore può essere considerato tale solo se riesce a fare il suo lavoro nel modo migliore, con professionalità e serietà. Mi ripeteva sempre che non era fondamentale raggiungere la vetta il più in fretta possibile, ma nel modo migliore.»

Rimasi in silenzio ad ascoltare la sua storia, incapace di trovare qualcosa da commentare.

«L'avevano scritturata per una piccola parte, sei anni fa. Eravamo tutti in fibrillazione e ci stavamo preparando per partire a Hollywood, finalmente. Sarebbe stata la coronazione di tantissimi sogni per lei e per me, ma anche per mio padre che non desiderava altro se non la sua felicità. La adorava, per lui era come una divinità da venerare in ogni momento della sua esistenza.» Fece un'altra pausa, con la coda dell'occhio la vidi che si asciugava le lacrime con le dita. «Poi... lei e mio padre uscirono per festeggiare, una sera, e... e non tornarono più. La polizia mi chiamò e mi disse che non ce l'avevano fatta, che avevano avuto un incidente e che io ero rimasta da sola.»

«È terribile» mormorai, sentendo qualcosa di molto simile alla commozione farsi largo dentro me. Cercai di non darlo a vedere e tenni gli occhi fissi all'orizzonte.

«Da allora sono cambiata. Sono diventata una cattiva persona, qualcuno che mi disgusta ma di cui non riesco a fare a meno per sopravvivere senza soffrire come un cane.»

«Mio padre era un sassofonista abbastanza noto nel panorama jazz degli anni Settanta.» Non sapevo cosa mi stesse prendendo, ma non riuscii più a fermarmi, pur consapevole che non avrei mai più avuto un momento di confidenza con quella ragazza che per me non significava niente. «All'inizio non abitavamo in America, ma in Libano. E io ho sempre avuto una predisposizione per la musica.»

«Eri piccolo allora?»

«Abitavamo a Beirut, la capitale. Non ricordo come si stava laggiù.»

«A Beirut?»

Sorrisi appena, un sorriso amaro e impercettibile. «Sono nato laggiù, i miei genitori sono armeni, ma abitavano in Libano. C'era la guerra.»

«Oh» sussurrò Lakyta. «La guerra. Spero che...»

«Non ricordo niente della mia vita in Libano» mentii. «Ricordo solo che volevo suonare la batteria fin da sempre, ma mio padre non era d'accordo.»

«Perché mai? Suppongo tu sia bravo, se fai parte di una band famosa.»

Una sensazione di vertigine al centro del petto mi costrinse a sospirare prima di poter continuare. «Lui avrebbe voluto che seguissi le sue orme. Mi ha fatto conoscere e apprezzare il jazz, questo glielo devo. Ma non posso dimenticare le liti durante quegli anni in cui lui non voleva accettare la mia passione. Pensa che andavo a suonare la batteria di nascosto, da un amico.»

Lakyta scosse il capo. «Non capisco perché te lo volesse impedire. Ognuno deve essere libero di inseguire i suoi sogni!» affermò con sicurezza.

«Hai ragione, ma lui non la pensava così. Col tempo è riuscito a farsene una ragione, ma non saprei dirti se l'abbia accettato davvero.» Dovetti far leva su tutta la mia forza interiore per non lasciarmi sfuggire le lacrime che pungevano agli angoli degli occhi. Serrai appena i pugni e stetti immobile a fissare dritto di fronte a me, mentre i ricordi legati ai dissapori con mio padre scorrevano nella mia mente.

«Io lo spero, ma... mi dispiace.» La ragazza si portò una mano di fronte alla bocca e non osò proferire altro. Sembrava turbata, come se riuscisse in qualche modo a comprendere la mia situazione.

Rimanemmo in silenzio per un po', poi decisi di rompere il silenzio. «Non preoccuparti, ormai io sono contento e soddisfatto della mia vita. Ho una carriera che mi dà da vivere, che mi rende davvero in pace con me stesso. Se mio padre non è d'accordo, ormai è troppo tardi perché io torni indietro.» Sorrisi appena.

«La vita è ingiusta» commentò la cameriera, lasciando ricadere le mani in grembo.

I nostri sguardi si incrociarono.

«Però noi non possiamo permettere che abbia la meglio su di noi» affermai con calma. «Se è partire a Hollywood quello che vuoi, puoi farlo. Stai lavorando qui, puoi mettere da parte i soldi che ti servono e prenotare il volo. Costa un po', ma sono certo che prima o poi racimolerai la somma che ti serve. Ci vuole perseveranza.»

«Tu dici?»

«Certamente. E quando approderai dalle mie parti, allora dovrai solo cercare me e i ragazzi. Ti daremo una mano se ne avrai bisogno.»

Lakyta inclinò la testa di lato e sorrise tristemente. «Non succederà mai. E poi nessuno vuole avere a che fare con me. Daron mi odia per ciò che ho fatto, Shavo sicuramente ha avuto una cattiva impressione di me, anche perché io e Leah non andiamo d'accordo.»

«Non essere sciocca. I miei amici sono persone mature e comprensive, anche se a volte può non sembrare.»

Lei scosse appena il capo. «Non saprei.»

«Promettimi che ci proverai» aggiunsi.

«Va bene.»

Mi alzai. «Allora buona fortuna.»

Lei mi seguì con lo sguardo mentre riponevo la sedia al suo posto. «Anche a te» concluse, rimanendo ferma dov'era.


Mentre tornavo alla mia stanza, mi ritrovai a chiedermi cosa fosse successo e perché io e Lakyta avessimo intrattenuto quella conversazione assurda e tremendamente triste. Stranamente mi sentivo meglio, più leggero e improvvisamente stanco. Forse ora sarei riuscito a dormire.

Ma dovetti ricredermi non appena misi piede nel corridoio del mio piano: c'era qualcosa che non andava, anche se inizialmente non compresi di cosa si trattasse.

Solo quando fui quasi giunto di fronte alla porta della mia stanza, mi accorsi della figura che se ne stava rannicchiata sul pavimento, la schiena contro il legno scuro dell'uscio e lo sguardo perso nel vuoto.

«Bryah!» sibilai, chinandomi di fronte a lei. «Bryah, che fai qui? Hai un aspetto orribile, che succede?» domandai in preda all'agitazione. La esaminai velocemente con lo sguardo e notai il suo viso gonfio e stranamente provato.

Un sospetto prese a farsi largo in me e una sensazione sgradevole e terribilmente spaventosa mi invase, facendomi tremare le mani.

«Come sei arrivata qui?» insistetti, mentre la mia voce saliva sempre più di tonalità e la preoccupazione si aggrappava con forza alla bocca del mio stomaco.

«Io... i-io... John... oddio!» Si portò le mani sul viso e lo nascose tra di esse, scuotendo con forza il capo.

Mi frugai in tasca e raccolsi le chiavi della mia stanza; mi allungai per aprire la porta, poi mi chinai nuovamente su Bryah e la presi tra le braccia, sollevandola dal pavimento e trasportandola dentro.

Richiusi l'uscio con un calcio e adagiai con delicatezza il corpo tremante della giornalista sul mio letto; nonostante mi costasse fatica starle accanto senza provare dolore, in quel momento non volevo pensare a me stesso e alle cazzate che mi vorticavano in mente.

Un'occhiata veloce al comodino, sul quale riposava il mio orologio da polso, mi fece scoprire che erano le quattro e cinquantatré del mattino.

Bryah, nel frattempo, si rannicchiò su se stessa e nascose il viso sul cuscino, poi il suo corpo venne scosso dai singhiozzi e io mi sentii morire dentro nel trovarla in quelle condizioni.

Scalciai via le infradito e mi stesi accanto a lei; avvolsi il suo corpo tra le braccia, stringendola da dietro, e feci aderire la sua schiena contro il mio petto. La cullai in silenzio, senza osare proferire alcunché, volevo che fosse lei a raccontarmi cosa le fosse successo, nonostante un sospetto terribile si materializzava sempre più nei miei pensieri.

«Benton si è arrabbiato quando... io, John, gli ho detto la verità, gli ho detto che io e te... in realtà non gliel'ho proprio detto, ma... gli ho detto che forse la nostra relazione non può continuare, che qualcosa si è spezzato già da tempo, ma lui...»

Rafforzai la stretta sui suoi fianchi e appoggiai il mento sulla sua nuca, serrando con forza i denti per evitare di digrignarli. Non volevo ascoltare ciò che stava per dirmi, ma sapevo di doverlo fare.

«Mi ha mollato un ceffone, poi un altro, poi... lui mi ha... picchiato.»

Fu una pugnalata al petto, un fendente che raggiunse con furia il mio cuore e lo tagliuzzò in mille pezzi sanguinanti. Dovetti concentrarmi sui muscoli del mio corpo per non irrigidirli e per non stritolare troppo forte quello di Bryah. Era difficile, la rabbia mi stava accecando i sensi, ottenebrava ogni fibra del mio essere e mi mandava quasi in un mondo parallelo dove la ragione non esisteva.

«Io... non ho potuto fare altro che scappare, avevo paura, John. Non era mai arrivato a tanto, non so cosa gli sia preso. Ho lasciato tutto a casa, sono corsa fuori e ho cercato un taxi. Non so quanto ho camminato, non so quanto tempo è trascorso prima che lo trovassi... ho visto il Fyah, forse ho preso lì il taxi, ma... ero così confusa...»

«Basta così» dissi bruscamente. Mi allontanai da lei, poi la costrinsi a voltarsi nella mia direzione e la avvolsi nuovamente in un abbraccio, premendo con forza le labbra sulla sua fronte sudata. «Adesso sei al sicuro. Brava, hai fatto bene a venire qui. Oh Bryah...» La voce mi si spezzò e qualche lacrima scivolò sulle mie guance. Sollevai una mano per asciugare quelle gocce salate e ribelli, ma lei la afferrò e prese a stringerla con forza.

«Non ce l'hai con me? Ti ho fatto soffrire, lo so... ma io volevo solo... volevo chiarire le cose con Benton prima di parlare con te» farfugliò confusamente.

«Non dire niente, ti prego.» Sospirai brevemente. «Abbracciami» mi lasciai sfuggire.

Lei annuì e si strinse forte al mio corpo, lasciando che il contatto tra noi si intensificasse.

Ero profondamente amareggiato e, mentre ripensavo a ciò che avevo raccontato a Lakyta, mi venne in mente che, se non fossi diventato il batterista dei System Of A Down, allora non sarei stato in quella stanza d'albergo in Giamaica, non avrei potuto stringere Bryah a me e non avrei potuto proteggerla.

Ero certo che Benton, prima o poi, avrebbe comunque agito in quel modo nei confronti della giornalista o di qualche altra donna; questo non faceva che accrescere la mia rabbia e il mio risentimento nei confronti di quell'essere immondo e schifoso.

«John, non piangere per me» mormorò Bryah, il viso immerso nella mia t-shirt.

Sospirai. Non sapevo neanche io perché stessi piangendo, non avevo idea di come fare per fermarmi e volevo soltanto scomparire.

«Andrà bene, vedrai» tentai di rassicurarla.

«Sì, andrà bene» confermò debolmente.

Non chiudemmo occhio, rimanemmo soltanto immobili a fissare l'oscurità che, pian piano, cedeva il posto all'alba di un nuovo giorno.




Ciao a tutti, per me non è facile scrivere queste note dopo un capitolo tanto triste e doloroso. Probabilmente mi odierete perché faccio capitare sempre le cose peggiori a John, ma come vedete qui si scoprono delle informazioni in più su di lui, su Bryah e anche su Lakyta.

A proposito di quest'ultima: cosa ne pensate? Non ho raccontato la sua storia per cercare di renderla più simpatica a voi o a me – io comunque non la reggo a prescindere XD – ma solo perché cercavo qualcuno con cui John potesse sfogarsi un po'. Forse non è stata la persona giusta, forse vi aspettavate che fosse Leah a trovarlo sulla terrazza, ma nella vita capitano anche di queste stranezze.

A chi non è mai capitato di confidarsi, magari per una sola volta, con una persona che si era sempre detestata o ignorata? A me è successo e, pur rimanendo un caso isolato, è qualcosa che mi è rimasto impresso proprio per la sua stranezza e assurdità ^^ la vita gioca strani scherzi, non trovate?

La storia che John ha raccontato a Lakyta, invece, è qualcosa che ho letto su internet, o almeno in parte: se non ho capito male, suo padre non era troppo d'accordo, inizialmente, affinché suonasse la batteria; non so se sia del tutto vera come cosa, per questo ho bisogno del vostro aiuto: chi sa qualcosa di più preciso, può dirmelo?

Se la storia non dovesse essere vera, be', non importa; l'ho trovata funzionale alla trama e in ogni caso volevo che John la portasse fuori. Diciamo che se non gli è mai successo nulla del genere, meglio per lui, sarei molto più sollevata perché è qualcosa di poco piacevole non trovare l'approvazione dei propri cari per ciò che si ama fare :/

Cosa pensate invece di Bryah e di ciò che le è successo con Benton? Vi aspettavate qualcosa del genere?

Sono curiosa di leggere i vostri commenti, mi scuso ancora per il capitolo per niente allegro e vi ringrazio tutti perché, dopo trentotto capitoli, siete ancora qui a sostenermi! Vi adoro :3

Alla prossima ♥

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Capitolo 39
*** Anyone ***


ReggaeFamily

Anyone

[Daron]




Notte.

Uno dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona a un rassicurante abbraccio.

Ma io non ero chiunque.


Era buffo rendersi conto che, da quando ero partito per la Giamaica, non avevo dormito bene neanche per una notte; era sempre successo qualcosa, qualcuno aveva intralciato il mio cammino, oppure la mia stessa mente mi aveva giocato brutti scherzi. Come in quell'istante.

La cosa più sorprendente, però, fu notare che la mia non era stata l'unica anima inquieta nell'hotel: mentre mi affacciavo sulla terrazza panoramica, mi resi conto che due figure familiari erano sedute accanto al parapetto e fissavano l'oceano oltre la balaustra. Riconobbi John e Lakyta, il che mi fece aggrottare le sopracciglia. Non capivo perché due persone così diverse si stessero tenendo compagnia, ma decisi che non mi importava. Se non potevo stare da solo lassù, avrei trovato un altro luogo in cui rifugiarmi.

Per evitare di fare rumore, ridiscesi a piedi, evitando per la prima volta di prendere l'ascensore; ero inquieto e non mi andava di rinchiudermi in quel box che, in quel momento, mi sembrava angusto e claustrofobico.

Mi ritrovai al piano terra e lanciai un'occhiata nella hall, notando che lo stagista si intratteneva come al solito dietro il computer. Non avevo voglia di averci a che fare, anche se dubitavo fortemente che avremmo parlato.

Uscii dalla porta laterale che mi avrebbe condotto, attraverso un sentiero, direttamente al Buts; ero certo che la spiaggia fosse deserta, rimaneva abbastanza isolata dal resto dell'albergo e risultava piuttosto inquietante di notte, quasi del tutto priva di illuminazione e con l'imponente profilo della scogliere che si stagliava, nero pece, nel cielo dello stesso colore. Il contrasto era quasi impercettibile, ma dopo un po' gli occhi si abituavano a quella condizione e allora l'atmosfera si creava da sé. A me piaceva, non potevo negarlo, ma forse gli ospiti ricchi e altezzosi dello Skye Sun Hotel la pensavano diversamente.

Rimasi in piedi sulla sabbia, assaporando il profumo salmastro che una leggera brezza trasportava dal mare; quest'ultimo produceva uno sciabordio rassicurante, mi faceva stare subito meglio al solo udirlo.

Avevo voglia di tuffarmi, non faceva freddo. Avevo voglia di abbandonarmi alle onde leggere e schiumose, senza più lasciar spazio al turbinio dei miei cupi pensieri.

Perché, nonostante avessi tutto, mi sentivo insoddisfatto e incompleto; chiunque avrebbe apertamente riso se avesse solo sbirciato tra i miei pensieri, sicuramente sarei stato deriso per il male insensato che sentivo dentro. Ma non potevo farci nulla, semplicemente non ero abbastanza forte per stare davvero bene.

Mi mancavano cose futili, forse, mi mancava qualcosa di simile all'affetto, all'amore; o forse mi sentivo uno stupido fallito perché nei rapporti umani ero una frana e non riuscivo a portar fuori il meglio di me, se questo meglio esisteva davvero.

Sì, volevo tuffarmi. Un'occhiata in giro mi confermò che ero solo. Una condizione a cui ero abituato, in effetti.

Cominciai a spogliarmi con calma, ma poi avvertii una certa urgenza farsi largo dentro me, così finii per strapparmi letteralmente gli abiti di dosso, maldestramente.

Abbandonai i vestiti in mezzo alla spiaggia e mi avviai quasi di corsa verso la riva, completamente nudo, completamente libero.

L'acqua era insolitamente tiepida, cullata dal silenzio avvolgente della notte. Inizialmente fui scosso da profondi brividi, ma decisi di non badarci troppo e mi tuffai senza riguardo nell'oceano, lasciandomi risucchiare da quella distesa infinita. Riemersi e scossi il capo, scrollandomi di dosso l'acqua in eccesso. Una profonda sensazione di calma si impossessò di me, tutti i nodi che stringevano il mio stomaco si sciolsero in un baleno e io mi sentii leggero, quasi potessi fluttuare per sempre su quelle gocce salate, salate come le lacrime che stavano pian piano abbandonando i miei occhi.

Solo in quel momento potevo sfogarmi davvero, me ne resi conto, perché nessuno poteva vedermi, nessuno poteva rendersi conto di ciò che mi stava succedendo. Nuotai in fretta e furia verso la riva, mi inginocchiai sul bagnasciuga e gridai a pieni polmoni, dando fondo a tutto il fiato che avevo in gola. Mi presi la testa tra le mani, mentre il mio lamento si faceva più basso e regolare. Non sapevo cosa mi stesse prendendo, però era bello, era liberatorio, era stupefacente.

Mi sollevai di botto e corsi nuovamente incontro alle onde, lasciando che ancora una volta mi stringessero tra le loro sinuose braccia. E gridai ancora e ancora, ogni volta che riemergevo dovevo farlo, ne sentivo la necessità anche se la gola bruciava e gli occhi con lei, a causa delle lacrime e dell'acqua.

Il sale mi bagnava da fuori e fuoriusciva da me, era una sensazione purificante, un dolore necessario e colmo di aspettative, di momenti migliori.

Mi voltai verso la scogliera e fu allora che la vidi: una figura se ne stava seduta sulla piattaforma che Leah ci aveva mostrato giorni prima, i piedi che penzolavano nel vuoto e l'attenzione rivolta nella mia direzione.

Mi sentii a disagio, vulnerabile, improvvisamente avrei voluto scappare, andarmene, non sapevo chi potesse aver sentito e visto il mio sfogo; forse avrei dovuto controllare meglio, fare un giro, ispezionare ogni angolo della piccola spiaggia.

Le lacrime appannavano i miei occhi e mi impedivano di comprendere di chi si trattasse o se fosse qualcuno di mia conoscenza. Forse avrei potuto uscire dall'acqua, ma ero completamente nudo, non mi andava di mostrarmi in quello stato a uno sconosciuto.

Poco dopo la figura sollevò una mano in cenno di saluto e una voce arrivò alle mie orecchie, nonostante fosse lontana e sopraffatta dal fruscio delle onde: «Daron?».

Riconobbi subito quell'inflessione, quel tono un po' ironico e divertito che ormai avevo imparato a conoscere.

Sospirai. «Leah?! Che fai lì?»

«Raggiungimi e te lo dico!» mi incoraggiò.

Feci una smorfia contrariata. «Ho lasciato i vestiti in spiaggia!» gridai di rimando.

«Non ti guarderò, giuro! Mi tappo gli occhi!» mi assicurò; la vidi sollevare le braccia e posarsi le mani sul viso.

Sorrisi appena e nuotai verso la riva, rapido; corsi verso i miei vestiti e indossai i boxer e la t-shirt, poi mi accorsi che probabilmente avrei dovuto aspettare per mettere il resto, ero fradicio e non avevo con me un telo da mare per assorbire l'acqua in eccesso.

Infilai le mie fidate infradito rosse ai piedi e mi avviai in direzione della scogliera per raggiungere Leah, cercando di non vergognarmi troppo di essere senza pantaloni. La brezza era tiepida e avrebbe impiegato poco ad asciugare le mie mutande.

Risalii lungo lo stretto e tortuoso sentiero che conduceva alla piattaforma, facendo attenzione a non scivolare a causa delle ciabatte e dei piedi ancora umidi.

Leah mi aspettava seduta laddove l'avevo intravista poco prima, non sembrava essersi mossa di un millimetro: teneva lo sguardo fisso sull'oceano e non osò lanciare nessuna occhiata al mio blando abbigliamento.

«Ehi, ma quello è...» commentai a voce bassa, accorgendomi solo in quel momento, dopo essermi accostato di più a lei, che in grembo teneva un gatto. Era piuttosto grande e peloso, nero come la pece, e pareva davvero tranquillo e in pace sulle sue ginocchia. Lei lo accarezzava distrattamente e lui faceva le fusa.

«Si tratta di un essere vivente, Daron, un felino per la precisione. Mai sentito nominare?» scherzò Leah.

Mi sedetti accanto a lei e tossicchiai. La gola ancora mi doleva per le grida che avevo lanciato poco prima, gesto per il quale ora mi sentivo tremendamente stupido. Me ne vergognavo perché probabilmente la ragazza vi aveva assistito e non sarebbe mai dovuto succedere.

Mi schiarii ancora una volta la gola, poi attaccai: «Mi dispiace per quello che hai visto. E sentito. È stato un errore, sono desolato».

Lei ridacchiò e si strinse nelle spalle. «Scherzi, vero? Come potevi sapere che ero quassù? Prima ero sdraiata.» Indicò alle sue spalle e io intravidi qualcosa di simile a un telo da mare o a una coperta. «Poi ho sentito le tue grida e... mi sono spaventata. Così mi sono alzata e ho controllato cosa stesse succedendo.» S'interruppe per un istante e la vidi rabbrividire leggermente. «Ho avuto paura, sembrava... c'era tanta sofferenza, Daron, nella tua voce.»

Lo sapevo, me ne rendevo conto e mi sarei sorpreso del contrario. Ma questo sarebbe dovuto rimanere un fatto tra me e me, nessuno avrebbe dovuto entrare in merito alla questione.

«Ordinaria amministrazione» bofonchiai.

«Chitarrista, che ti prende? Ehi, ascolta... mi rendo conto che io e te siamo un po' come un cane e un gatto, o qualcosa del genere, hai capito. Abbiamo cominciato fin da subito a battibeccare per qualsiasi cosa, però siamo anche in grado di andare d'accordo, non è vero? Siamo un po' simili, per certi versi ci somigliamo fin troppo.» Sorrise tra sé. «Shavarsh a volte mi dice che gli sembra di star frequentando te.»

«Inquietante» osservai perplesso. «Spero tu sia una persona migliore, altrimenti povero Shavo!» A quel punto mi venne in mente una cosa e le domandai: «Non dovresti essere con lui ora? Cosa fai qui fuori? Accarezzi un gatto anziché prenderti cura del tuo uomo».

«Il mio uomo» ripeté Leah assorta, poi aggrottò le sopracciglia e sollevò delicatamente l'animale dalle sue gambe. Con noncuranza lo posò al suo fianco, nel piccolo spazio che era rimasto tra noi due, e prese a spazzolarsi i pantaloni della tuta con entrambe le mani.

«Non è così?» insistetti.

«Non lo so. So solo che tra poche ore devo tornare in quella fogna di Las Vegas e non ho idea di quanto rivedrò Shavarsh. E, se vuoi sapere come mi sento, la risposta è: incazzata.»

«Incazzata?» Ero confuso.

«Sì, incazzata.» Sospirò brevemente e prese a frugare in borsa, per poi portare fuori un flacone di disinfettante. Se ne versò una generosa dose sulle mani e cominciò a pulirle con cura, per poi fare lo stesso con le braccia e con i pantaloni. «Daron, sai cosa penso?»

«No» ammisi sempre più interdetto.

«Penso di essermi innamorata.»

«Cazzo.»

«Appunto. Pensa te in che casino mi sono cacciata. E adesso?»

Leah sollevò per la prima volta gli occhi su di me e i nostri sguardi si incrociarono. Rimanemmo a fissarci per un po'. Notai che nel suo sguardo c'era una leggera nota di disperazione, ma nel complesso sembrava essere molto più felice, completa e soddisfatta di me.

Mi schiarii nuovamente la gola. «Non credo si tratti di un casino, Leah.»

Inclinò la testa di lato. «Ah no? E cosa sarebbe?»

«È bello, soprattutto se è Shavo l'oggetto dei tuoi sentimenti. Lui è davvero un ragazzo d'oro, te lo posso assicurare. Se ti fossi innamorata di me, be', avrei cominciato seriamente a preoccuparmi e probabilmente ti avrei spinto al suicidio.» Sorrisi con amarezza, rendendomi conto ancora una volta di quanto la mia vita sociale facesse schifo.

«Perché mai?» domandò semplicemente.

«Sono un disastro, è risaputo. Non so come i ragazzi possano ancora sopportarmi. Hai visto anche tu che riesco a combinare solo casini, a provarci con le donne sbagliate... e alla fine chiunque riesce a raggirarmi, anche se non sembra. La mia ex mi dà il tormento, insiste perché io sia presente al suo matrimonio con il suo nuovo tipo. Hai presente la coppia rock dell'anno? Lars Ulrich e Jessica Miller...»

Leah sbuffò. «Certo che ho presente, e... ma che razza di gente frequenti, Malakian? Quella è... non voglio essere cattiva, però...»

Sollevai una mano per arrestare le sue giustificazioni. «Qualunque cosa tu stessi per dire, hai ragione e non devi scusarti. Mi sono reso conto anch'io di che razza di donna fosse Jessica. Peccato che io abbia sprecato sette anni della mia vita per stare con lei.»

«Andiamo, non essere così duro con te stesso. Dagli errori che hai commesso non puoi che trarre giovamento.»

«Io sono diabolico, perché continuo a sbagliare all'infinito e non capisco mai un cazzo. Leah, sono una cattiva persona, e ora capisco perché sono l'unico con cui non hai stretto amicizia. Non ci somigliamo così tanto, vedi? Tu sei solare, allegra, simpatica, riesci a farti amare da tutti... io sono il tuo opposto.»

Lei a quel punto mi posò una mano sulla spalla. «Non dire cazzate e smettila di fare la vittima. Se sei così, sei così, okay. Ma non è detto che questa condizione debba durare per sempre, chiaro? Puoi sempre cambiare, migliorare te stesso, se davvero lo vuoi. Daron, tutti sono delle cattive persone se decidono di esserlo. È più difficile essere buoni. Le persone come Shavarsh sono da ammirare, oppure quelle come John... loro riescono a essere buoni, si impegnano per riuscirci al meglio. Io e te, invece, combiniamo sempre un sacco di guai e siamo esuberanti, disturbanti per il prossimo, spesso facciamo solo danni. Ma non per questo meritiamo di essere odiati, perché se vogliamo possiamo sempre darci un taglio, possimo far forza su noi stessi e tirare il freno a mano. E questo lo dico perché ho conosciuto Shavarsh e lui me lo sta insegnando, lo sta facendo davvero.» Fece una pausa e sospirò. «Forse è anche per questo che sto perdendo la testa per lui.»

«Sei una ragazza stupenda, lui non potrebbe meritare di meglio» dissi sincero, stringendole la mano.

«Vedi? Chi l'ha detto che io e te non siamo amici? Sei così testardo e sciocco, Daron... se non fossi arrivato qui, se tu non avessi gridato in quel modo... io sarei rimasta da sola con il gatto tra le braccia e la mente occupata dalla malinconia. Invece ho parlato con te e ora mi sento meglio.»

«Sul serio?»

Leah annuì. «Puoi contarci. Ma tu? Perché soffri tanto?»

«Tante cose.» Sospirai e, dopo aver constatato che i miei boxer erano ormai asciutti, mi infilai in fretta i bermuda. Cominciavo a sentire un po' di fresco.

«Per esempio?»

«I rapporti interpersonali vanno male, così come quelli con mio padre. Non andiamo molto d'accordo ultimamente, forse non è mai corso buon sangue tra di noi.»

Leah mi guardò sorpresa. «Io pensavo che tra voi ci fosse un buon affiatamento. So che ha creato anche le copertine di due album dei System. Sbaglio?»

«Non sbagli. Ma quello era un buon momento, uno dei pochi. Non so, siamo sempre in contrasto, lui dice che sono uno scapestrato e che a trentotto anni non ho ancora messo la testa a posto. Io non so cosa dirgli, so che ha ragione ma allo stesso tempo mi sento smarrito.» Feci spallucce. «È tutto un disastro, come ti dicevo.»

La ragazza scosse il capo e sbuffò contrariata. «Ah, i padri, che bella categoria! Sai che ti dico? Ho trovato un altro punto su cui ci somigliamo.»

Ripensai alla reazione di Leah quando aveva scoperto che la compagna di suo padre l'aveva tradito con me, e mi ricordai anche dei quei momenti in cui lei aveva accennato ai loro problemi, al fatto che lo considerasse un essere a lei quasi estraneo, un uomo d'affari senza nessun riguardo nei suoi confronti.

«Merda» osservai. «Hai ragione!»

Leah rise brevemente, una risata amara e priva di gioia. «Due casi persi, eh?»

«Ma tu hai trovato l'amore. Hai trovato Shavo. Sono certo che con lui potrai costruire qualcosa di buono, Leah.»

«Ho trovato l'amore, ma anche l'amicizia. Perché lui è un amico, prima di tutto; e poi ci siete voi: tu con le tue controversie e il tuo carattere scostante, John con la sua timidezza quasi morbosa e la sua razionalità al limite della patologia, Bryah con la sua fragilità e voglia di vivere... e poi c'è Dayanara. Forse stavolta gli darò il mio numero» concluse con dolcezza.

Compresi che forse non ero l'unico a essermi sempre sentito solo, anche Leah aveva sofferto per cose non troppo diverse dalle mie; alla fine ci eravamo incontrati e avevamo messo a confronto le nostre storie, trovandoci a provare le stesse sensazioni.

Lei aveva trovato degli amici e un uomo che la faceva stare bene, forse anche per me sarebbe giunto quel momento prima o poi. Dovevo, forse, solo aprire il mio cuore e piantarla di essere così burbero e asociale.

«Miriam è carina. Com'è che non ci hai ancora provato? Dico sul serio.»

Scrollai il capo. «Non è qui che devo cercare la pace. Fuggire dalla mia solita vita non mi servirà a risolvere i miei problemi.»

Leah tacque per qualche istante, poi concordò: «Penso tu abbia ragione».

Ci scambiammo un'ultima occhiata eloquente, consapevoli di aver appena instaurato un legame forte, strano, ma che già era in grado di scaldare una piccola parte del mio cuore.

«Torno dal mio uomo, tu che fai?» disse infine Leah, richiudendo la sua borsa. Si mise in piedi e mi osservò dall'alto in basso.

«Rimango ancora un po' qui. Guarda» mormorai, indicandole le mie ginocchia.

Leah notò il batuffolo di pelo che si era accoccolato su di esse e rimase sinceramente sorpresa. «Gli sei simpatico» commentò.

«Come si chiama?» volli sapere.

«Non ha un nome» ammise lei leggermente dispiaciuta. «Puoi sceglierlo tu, se vuoi.»

«Grazie» sussurrai, prendendo ad accarezzare delicatamente la piccola creatura.

«Grazie a te, chitarrista. A domani.»

Sorrisi. «A domani.»

Leah se ne andò silenziosamente e io rimasi immobile a cullare il gatto, il quale aveva cominciato a fare le fusa.

«Il tuo nome sarà Night» decisi, rivolgendomi al mio nuovo amico. Lui si sistemò meglio sulle mie ginocchia e io dedussi che probabilmente doveva aver apprezzato il suo stupendo appellativo.


Notte.

Uno dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona a un rassicurante abbraccio.

Anche io, ora, potevo essere chiunque.

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Capitolo 40
*** Slash! ***


Slash!

[Leah]




Guardarlo dormire era bello, non potevo negarlo; Shavo si rilassava completamente durante il sonno, si abbandonava contro il materasso e lasciava che la sua testa affondasse nel cuscino. Il suo corpo era in pieno relax, non c'era un muscolo teso né il remoto segno che suggerisse la presenza di incubi durante il suo quieto riposare.

Dal canto mio, non avevo assolutamente chiuso occhio: dopo essermi abbandonata tra le sue braccia per un intenso prenderci cura l'uno dell'altra, avevo trascorso un po' di tempo distesa accanto a lui, le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto. Difficilmente mi lasciavo prendere dall'ansia, ma in quel caso era tutto diverso: sarei ripartita tra poche ore, non avevo minimamente preparato i bagagli né mi ero preparata psicologicamente per essere strappata così in fretta a quel sogno da poco cominciato.

Avevo ripensato a tutto ciò che aveva portato me e Shavo ad avvicinarci, ai casini che erano successi, alle bugie a fin di bene, al nostro rapporto che in pochi giorni era diventato così forte... mi sembrava essere passata un'eternità.

Inoltre, mi sarebbe mancato anche John e quella nostra bizzarra amicizia, mi sarebbe mancato Daron e le sue fesserie, mi sarebbe mancata Bryah e la sua fragilità quasi sempre celata sotto una cortina di positività.

Mi sarebbe mancato l'albergo, Dayanara, Alwan, Cornia e perfino quella stupida di Lakyta.

Prima di quell'ultima settimana, lo Skye Sun Hotel non mi aveva mai fatto quell'effetto devastante; non mi ci ero mai affezionata tanto, nonostante lo conoscessi da anni e mio padre si ostinasse a portarmici con ossessiva costanza. Per me era sempre stata sempre una parentesi noiosa e disturbante, mentre ora avevo riscoperto quel luogo, rivalutandolo come la culla dei miei più dolci ricordi.

Infine mi ero arresa ad alzarmi, facendo attenzione affinché Shavo non si svegliasse, ed ero uscita a fare due passi; i miei piedi mi avevano condotto inevitabilmente nel mio rifugio, l'angolo che fin da subito avevo sentito mio e su cui mi ero arrampicata per sgombrare la mente e dimenticarmi della presenza di mio padre e del motivo per cui mi avesse trascinato per l'ennesima volta in vacanza con sé e le sue amanti del momento.

Quella volta, invece, la scogliera era stato il posto che avevo condiviso per la prima volta con delle persone speciali, ovvero i ragazzi dei System.

Seduta con i piedi a penzoloni nel vuoto, non mi ero accorta di Daron finché lui non aveva cominciato a gridare. Era stato straziante ascoltare quei lamenti, il cuore mi si era accartocciato nel petto e mi era parso di avvertire a mia volta quel dolore che non conosceva davvero le sue origini.

Poi mi ero stancata, non potendone più di quella sofferenza travolgente, e avevo attirato la sua attenzione, facendo il possibile perché non si accorgesse di quanto stessi male. In quel momento non aveva bisogno di vedermi più triste e abbattuta di lui, necessitava della Leah di sempre, quella solare e allegra che sminuiva anche le situazioni più drammatiche e che cercava di essere il più concreta possibile.

Avevamo parlato un sacco, ero stata molto contenta che lui si fosse aperto con me e io avevo fatto lo stesso con lui; ero stata sincera nel dirgli come mi sentivo per la partenza imminente, non avevo potuto negare i miei sentimenti.

Ero arrivata alla conclusione che Daron fosse davvero un ragazzo tormentato, che soffrisse per delle motivazioni simili a quelle per cui soffrivo anch'io, ma che spesso trovasse difficile affrontare il suo stesso dolore. Semplicemente, non sapeva come fare: temeva di confidarsi con gli altri, ma allo stesso tempo sapeva benissimo di non potersi tenere tutto dentro, altrimenti sarebbe esploso.

Era una situazione piuttosto complicata la sua, ed ero certa che nascondesse tanti demoni dentro di sé e che forse non sarei mai riuscita a conoscerli tutti. Tuttavia, potevo dire che forse eravamo diventati un poco amici, anche se era complicato definire quello strano legame tra noi.

Nel tornare in camera da Shavo, avevo rimuginato su tutto e niente, ma quando poi avevo messo nuovamente piede nella stanza, mi ero fermata a osservare il bassista immerso nel sonno e una strana pace si era impossessata di me.

Mi ero seduta su una poltroncina situata accanto al letto e, dopo aver gettato un'occhiata all'orologio ed essermi resa conto che erano quasi le cinque del mattino, mi ero limitata a osservarlo senza più pensare a niente.

Quando cominciai a intravedere le prime luci dell'alba attraverso le spesse tende, decisi di mettermi all'opera.

Sempre nel più assoluto silenzio, preparai i miei bagagli e lasciai fuori delle valigie solo il minimo indispensabile, compreso il libro che avevo comprato per Shavo al negozio di strumenti musicali giù in città.

Sospirai brevemente nel rendermi conto che erano da poco passate le sei e che il tempo, inesorabile, trascorreva senza che io potessi fermarlo.

Un bisbiglio raggiunse le mie orecchie, trasportato dalla brezza che s'infiltrava dalla finestra socchiusa; qualcuno, nella camera sotto la mia, stava parlottando e doveva trovarsi fuori in balcone.

La curiosità prese il sopravvento e mi ritrovai ad avventurarmi oltre la portafinestra, raggiungendo il piccolo terrazzo, pronta a scoprire di chi si trattasse.

Mi affacciai di soppiatto dalla balaustra e osservai di sotto.

Notai subito la figura familiare di Alwan che, con indosso soltanto un paio di slip grigi, stava appoggiato con i gomiti alla ringhiera in legno.

Subito mi venne in mente che avrei potuto salutarlo, anche se non avevo idea di cosa stesse combinando in una delle stanze destinate agli ospiti dell'albergo; stavo per aprire bocca, decisa a farlo spaventare un po', quando riuscii a cogliere l'inflessione di un'altra voce familiare.

Così mi immobilizzai, completamene sotto shock, mentre una conversazione prendeva forma e mi raggiungeva, risultando fin troppo chiara e comprensibile alle mie orecchie.

«Dai, alla fine ci è andata bene...»

«Se ci scoprono, cacciano entrambi, lo sai.»

«Sì, me ne rendo conto. Però ci è andata bene.»

«Alwan, tu sei poco professionale, cazzo.»

«Ah, ed è un difetto? Non ne avevo idea.»

«Non è un difetto, è solo... rischioso non esserlo.»

«E tu, Dayanara, lo sei troppo. Anche questo potrebbe crearci dei guai.»

Ero senza fiato, stavo seriamente rischiando di svenire. Di cosa stavano parlando quei due? Perché erano insieme in una delle camere degli ospiti? Che cosa stavano combinando? Mi venne in mente che si fossero cacciati in qualche guaio, che qualcosa di negativo fosse capitato ai miei amici, ma c'era comunque qualcosa che non quadrava.

Incapace di staccare gli occhi dalla figura di Alwan, poiché quella di Dayanara non poteva rientrare nel mio campo visivo, rimasi ancora lì, immobile, cercando di capirci qualcosa.

«Day, vieni qui. Non fare quella faccia, andiamo» incalzò Alwan con un tono di voce insolitamente dolce e caldo.

Il mio stupore raggiunse le stelle quando anche Dayanara mi fu visibile, questo perché si avvicinò ad Alwan e i due si strinsero in un abbraccio che di amichevole aveva ben poco.

E allora, quando vidi che il receptionist era completamente nudo, serrai gli occhi e soffocai un grido, rientrando in fretta e furia dentro la mia stanza e sbattendo la portafinestra con forza.

Mi appoggiai con il corpo contro il vetro fresco e respirai a fondo, cercando di calmarmi e non dare di matto.

Probabilmente avevo fatto un casino assurdo, poiché notai che Shavo si era svegliato e aveva socchiuso appena un occhio, tentando di tornare alla realtà dopo il riposo.

«Leah?» biascicò. Mi individuò, e la mia espressione sconvolta dovette allarmarlo, poiché si svegliò completamente e si mise a sedere di scatto. «Ehi, che c'è? Che succede?»

Scossi il capo e mi avvicinai a lui, lasciandomi cadere sul materasso. «Sapessi...»

Shavo si allungò verso di me e mi circondò i fianchi con le sue braccia, attirandomi accanto a sé. La mia schiena aderì al suo petto nudo e il calore del suo corpo ebbe l'incredibile potere di tranquillizzarmi all'istante. Non ero agitata, né disgustata, avevo soltanto bisogno di un attimo per assimilare quella novità che non mi sarei mai aspettata.

«Dimmelo, ancora non sono in grado di leggerti nella mente» mormorò lui, appoggiando la sua guancia contro la mia.

Inclinai la testa all'indietro per permettergli di baciarmi il collo, poi sospirai. «Dopo la notte insonne che ho trascorso, c'è stato il colpo di grazia, Shavarsh.»

Lui ridacchiò, facendomi rabbrividire leggermente per il suo fiato caldo sulla pelle sensibile della mia spalla.

Sollevai una mano e gli tirai leggermente la treccina che pendeva dal suo mento. «Idiota. Indovina chi è gay?»

Shavo sussultò e si immobilizzò, riflettendo sulle mie parole. «Non saprei. Ma questo che c'entra? Non ci sto capendo nulla...»

Mi scostai gentilmente da lui per potermi voltare e incrociare il suo sguardo perplesso. Sorrisi appena. «Indovina.»

«Leah, non lo so...» Si grattò il collo alla base dell'orecchio con fare pensoso.

«Sei un caso perso, neanche ci provi a indovinare!» Mi allungai verso di lui e gli mordicchiai leggermente il punto che fino a poco prima stava tormentando con le unghie.

«Me lo dici? Non abbiamo tutto il tempo del mondo» si spazientì il bassista, bloccandomi i polsi con una mano. Mi tenne accanto a sé, i nostri volti a poca distanza l'uno dall'altro.

«Okay, okay! Alwan» proclamai.

«Come?! Mi prendi in giro!» Shavo mi spinse via e si mise in piedi, stiracchiandosi per poi sbadigliare rumorosamente. Mosse qualche passo verso il bagno.

«Ehi, dove vai?» protestai.

«A lavarmi la faccia. Se vuoi raccontarmi questa tua avvincente scoperta, puoi seguirmi.»

Alzai gli occhi al cielo e trotterellai verso il bagno, fermandomi sulla soglia. Lui era di fronte al lavandino e aveva appena aperto il rubinetto, lasciando che l'acqua scorresse e divenisse tiepida.

«Allora?» mi incitò, lanciandomi un'occhiata attraverso lo specchio.

«Non sto scherzando, Shavarsh. Alwan è omosessuale. E io, be', non ne sapevo nulla. Sono sconcertata.»

«E sentiamo: come lo avresti scoperto? Stanotte, in preda al sonnambulismo?» mi schernì, per poi buttarsi con la testa sotto il getto dell'acqua.

«Spiritoso. No, e so anche chi è il suo compagno.»

Shavo tossicchiò. «Non mi dire!» farfugliò, le sue parole confuse dall'incessante scorrere dell'acqua sul suo viso.

«Perché non mi credi? Sei proprio un ragazzaccio di poca fede.» Sbuffai. «Sta con Dayanara, comunque» proseguii.

Stavolta, il bassista scoppiò fragorosamente a ridere e chiuse in fretta e furia il rubinetto, per poi afferrare un asciugamano e tamponare la sua pelle fradicia. «Certo, certo... come no...»

Sospirai. «Li ho visti poco fa, Shavo! Erano nella stanza qui sotto, insieme, praticamente erano nudi e si sono anche abbracciati. Ecco perché ero così sconvolta quando sono rientrata!» sbottai infine.

Lui mi osservò con serietà. «Se mi hai chiamato Shavo, dev'essere vero. Caspita!»

«Ah, ma vaffanculo!» esclamai, lasciando il bagno per poi riaccostarmi a una delle poltroncine in cui avevo lasciato il regalo per lui.

Non vedevo l'ora di darglielo, nonostante ancora dovessi riprendermi da quanto avevo appena appreso. Tuttavia, ero contenta che Alwan e Dayanara avessero una relazione; ripensandoci, ora molte tessere del puzzle apparivano incastrate perfettamente. Alwan non aveva mai dato adito alle avances di Lakyta, non aveva neanche provato a frequentarla o a divertirsi un po' con lei. Si spiegava perfettamente anche l'ostinazione di Dayanara nel non voler trovare una ragazza: avevo scherzato diverse volte su questo argomento, ma mai avrei immaginato che il motivo fosse questo. Ora tutto era più che chiaro.

E, riflettendoci un po', dovevo ammettere che erano proprio carini insieme, anche se ancora mi faceva strano immaginare due dei miei amici di vecchia data impegnati in una relazione amorosa. Ma probabilmente mi sarei sorpresa maggiormente se Alwan avesse scelto di stare con Lakyta.

Shavo si trattenne per qualche altro istante in bagno, poi mi raggiunse e interruppe il filo dei miei pensieri, posandomi un leggero bacio sui capelli.

«E quello cos'è?» volle sapere, avvistando il pacchetto che stringevo tra le mani.

Quando ero andata a pagare il libro, mi ero fatta consegnare un foglio di carta blu scuro con disegnate sopra delle note musicali colorate, decidendo di preparare io stessa il pacchetto; non volevo che Shavo si accorgesse di nulla.

«È un regalo, non vedi?» lo punzecchiai.

«Per me?» domandò perplesso.

«No, per John» dissi con estrema serietà.

«Ah.»

Mi strinsi nelle spalle, poi cercai il suo sguardo e gli tesi il pacchetto. «Sciocco, certo che è per te» lo rassicurai infine, sorridendo come una scema, intenerita dalla sua espressione vagamente delusa.

A quel punto i suoi occhi si illuminarono. «Ma... scherzavo! Cioè, se è per John... mica mi offendo...»

«Uff, Shavarsh! Prendi o no questo dannato regalo? Sei proprio ingenuo!» lo canzonai, mettendogli in mano l'oggetto.

Lui lo afferrò con riluttanza e prese a mormorare qualcosa di incomprensibile.

«Cosa stai dicendo?» gli chiesi. «Forse è meglio se ti siedi, mi sembri un tantino emozionato, eh?» Lo afferrai per un polso e lo trascinai sul letto. «Ecco, respira, avanti!»

«Mi prendi in giro, ma io sono davvero... Leah, non c'era bisogno di...»

Esasperata, lo zittii con un bacio e lo avvolsi tra le braccia, ridacchiando. «Sei troppo dolce per me, per colpa tua mi sto rammollendo.»

Shavo scartò con cura il mio regalo, stando attento a non rompere la carta.

«La carta non fa parte del regalo, potresti strapparla per fare prima» gli consigliai.

«No, invece mi piace e la voglio conservare» affermò.

Quando finalmente si ritrovò tra le mani il volume sulla storia del reggae, cominciò a sfogliarlo con un entusiasmo assurdo, accertandosi che fosse reale e non solo un miraggio.

«Ehi, stai bene? Se avessi saputo che avresti reagito così, avrei evitato di regalarti un libro. Avrei optato, uhm... per una calamita.» Risi. «No, ci sono! Una cartolina con la foto del Buts, che ne dici? Sarebbe stato perfetto!»

«Leah?» mi richiamò, il suo tono si era fatto improvvisamente serio.

Smisi di sghignazzare e sollevai lo sguardo per incontrare il suo. «Che c'è? Non ti piace?» mi preoccupai.

Scosse il capo. Appoggiò il libro aperto sulla prima pagina sulle sue ginocchia e mi prese il viso tra le mani. «Sul serio pensi ciò che hai scritto qui?»

Caddi letteralmente dalle nuvole e mi ritrovai ad avvampare come mai prima di allora. Forse perché non era mio solito agire in quel modo, avevo dimenticato di aver annotato una piccola dedica sulla prima pagina del volume. Non ero brava a esprimere i miei sentimenti, ma mi ero sentita di scrivere quelle poche parole sul mio regalo per lui.

«Posso chiederti di leggerle a voce alta?» mi chiese, notando la mia espressione imbarazzata.

Io avevo un modo tutto mio di raccontare le mie sensazioni, invece quella volta avevo fatto qualcosa di anomalo e la cosa mi stava gettando in un mare di agitazione e disagio che difficilmente avevo provato durante la mia breve vita.

«Le hai lette, no? Che bisogno c'è? Non è proprio il caso...»

«Invece sì che lo è.» Mi sorrise con dolcezza e mi carezzò appena una guancia. «Fallo per il tuo Shavarsh, coraggio!» scherzò per cercare, probabilmente, di stemperare un po' la tensione che scorgeva in me.

«Questo è un colpo basso...» borbottai, per poi rubargli il libro e piazzarlo di fronte alla mia faccia. «Devo proprio?» mi lamentai.

«Ti tocca» confermò, poi si accostò a me e mi abbracciò, nascondendo il viso nell'incavo della mia spalla. «Ti ascolto, piccoletta.»

Il mio cuore fece un balzo insolito all'interno del petto e il respiro accelerò leggermente. Mi schiarii la gola e ripercorsi con gli occhi le lettere che io stessa, il giorno prima, avevo tracciato sulla carta bianca con inchiostro nero.

Sì, pensavo davvero ciò che avevo scritto, quelle frasi erano partite dal mio cuore e non avevo saputo fermarle. Volevo che lui ne fosse a conoscenza e che non la dimenticasse.

«Shavarsh...» cominciai con titubanza. «Hai rubato un pezzo di me.» Feci una piccola pausa e lui non osò interrompermi. «Ora sei parte del mio cuore, sei importante. Già ti adoro.» Sentii il mio viso andare a fuoco. «Leah» conclusi, per poi portarmi una mano sulla guancia e rendermi conto che la mia pelle era umida e i miei occhi si erano appannati per via di lacrime traditrici, lacrime di commozione e di malinconica consapevolezza.

«Grazie» sussurrò Shavo, tenendomi stretta a sé. «Grazie davvero.»

Rimanemmo abbracciati per un tempo che mi parve incalcolabile, entrambi immersi nei nostri pensieri e nelle nostre silenziose lacrime.


Le familiari note di Dreadlock Holiday mi accolsero quando io e Shavo giungemmo in terrazza per la colazione. Avevo trascurato per qualche giorno il mio patto con John, ma per quell'ultimo giorno non avrei disertato. Sarebbe stato un modo carino per salutarlo.

Il batterista, nonostante fossero solo le otto e mezza, era già seduto a un tavolino e mi aspettava. Quando notò che ero con Shavo, annuì e sorrise.

Solo allora mi accorsi che Bryah era in sua compagnia e che entrambi avevano dipinta in viso un'espressione terribilmente preoccupata e stanca; la carnagione olivastra di Bryah nascondeva un poco le sue occhiaie, ma in John queste erano ben definite e allarmanti.

«Bryah? Come mai sei qui?» esordii, dopo averli salutati ed essermi seduta su una sedia libera accanto alla giornalista.

«Buongiorno Leah. È... una storia complicata, non mi va di parlarne ora» tagliò corto, tenendo lo sguardo fisso sul caffè che non aveva osato toccare.

«Oddio, oggi riparto e mi porto appresso queste preoccupazioni... ragazzi, vi prego...» li implorai, spostando lo sguardo da Bryah a John e viceversa.

Nessuno poté ribattere perché Alwan ci raggiunse. «Ciao a tutti! Leah, Shavo... cosa vi porto?» ci domandò in tono allegro.

Improvvisamente mi ricordai di ciò che avevo visto quella mattina ed esclamai: «Non so, vengo al banco a vedere cosa c'è di buono da mangiare! Shavarsh, tu cosa vuoi?».

«Uhm... un caffè e poi scegli tu, qualcosa che abbia molto cioccolato» proferì, intento a scambiarsi occhiate enigmatiche con John.

Mi alzai e seguì Alwan verso il chiosco.

«Ehm... Al?» lo richiamai.

Lui si voltò a lanciarmi un'occhiata interrogativa.

«Oggi riparto» lo informai con una nota malinconica nella voce.

«Di già?» protestò.

«Sì.» Annuii. «Ma stavolta ci teniamo in contatto, va bene?» tentai di rassicurare lui, anche se cercavo di farlo più che altro con me stessa.

«Era ora! Vedo che hai smesso di essere la solita Leah mezzo misantropa che si dimentica di avere degli amici in Giamaica!» esclamò con entusiasmo, strizzandomi l'occhio.

Intanto stavo osservando distrattamente la vetrina che conteneva deliziosi dolci, indecisa su cosa scegliere. «Forse. Dev'essere colpa di quel ragazzaccio.»

«L'amore può cambiarti la vita» commentò, sciacquando qualche stoviglia, dopo essere tornato dietro il bancone.

«E tu? Hai trovato l'amore, non è vero?» buttai lì, adocchiando un bignè al cioccolato che sarebbe sicuramente piaciuto a Shavo.

«Ecco... bella domanda.»

«Ehi, Al... vi ho visto stamattina» gli confessai infine.

Lui rimase in silenzio per un po'. «Come...?»

«Eravate nella stanza sotto la mia, mi sono affacciata al bancone perché ho sentito delle voci e...» Mi strinsi nelle spalle. «Ricordati il caffè per Shavo e poi mi dai due di questi bignè al cioccolato. Io voglio un Blue Mountain bello forte.»

«Non siamo stati attenti, Day aveva ragione. Ops.»

«A me non importa, non lo dirò a nessuno e comunque non credo ci sia qualcosa di male. Confesso che non me l'aspettavo e sono rimasta un attimo sconcertata, ma poi... sì, credo che sia meglio se voi state insieme. Siete carini, perfetti direi!» Alzai gli occhi su di lui e sorrisi con sincerità. «Da quanto tempo va avanti?» volli sapere.

«Quasi sei mesi. Ed è magnifico, Leah. Io non sono mai stato meglio. Non pensavo che potesse esistere qualcosa di tanto intenso e rassicurante... forse non dovrei dirtelo, io non so neanche se tu sei d'accordo, se ti dà fastidio...»

«Ma per chi mi hai preso? Dai, vieni qui che ti do un abbraccio!» esclamai, incitandolo a raggiungermi oltre il bancone.

Ci stringemmo in un abbraccio e io mormorai: «Prendetevi cura l'uno dell'altro, ma soprattutto dei vostri sentimenti. È una cosa bellissima e merita di essere vissuta al meglio. Sono fiera di voi e felice per questo vostro legame».

Lui ridacchiò. «Allora dopo vai a trovare Day e congratulati con lui. Io non ho dubbi, ma lui è un po' insicuro e ha paura che il nostro rapporto possa essere scoperto e comprometta il nostro lavoro qui all'hotel.»

«Il solito razionale! Lo strapazzo un po' io, non temere! Dai, torno dagli altri, mi porti tu le ordinazioni?» conclusi.

Lui annuì e aggiunse: «Grazie, davvero».

Stavo per ribattere quando un urlo stridulo proveniente dal nostro tavolo si levò nell'aria e mi fece sussultare.

Mi voltai in quella direzione e rimasi di sasso.




Ehilà! Ce l'ho fatta a tornare!!!!

Mi è mancato un sacco pubblicare questa storia, maledetta connessione ù.ù

Prima di passare alle note sul capitolo, ho un annuncio da fare: tenete d'occhio la categoria dei nostri amati System, perché per il giorno di Natale ho preparato un bel regalino per voi! :D

Per il resto, non voglio disturbarvi con i miei sproloqui... anche perché in questo capitolo abbiamo visto degli sviluppi interessanti, specialmente per i nostri cari Alwan e Dayanara *___*

Sono qui per parlarvi, comunque, della canzone che accoglie Shavo e Leah quando arrivano in terrazza per la colazione, ovvero Dreadlock Holiday dei 10cc, una canzone che ha rappresentato tantissimi momenti della mia infanzia e che conosco da tantissimi anni!

Ecco a voi il link, nel caso voleste ascoltarla (io ve lo consiglio perché parla dell'amore per il reggae e per la Giamaica, molto in linea con questa storia):

https://www.youtube.com/watch?v=fUNTk5xsxk4

Detto questo... aspetto i vostri commenti ed eventuali scleri sulla notizia della nuova coppia slash – vi chiedevate perché avessi dato questo bizzarro titolo al capitolo, eh? :P

Alla prossima e grazie di cuore a tutti voi ♥


Buone Feste!!!!!!

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Capitolo 41
*** Time is running out ***


Time is running out

[Shavo]




Bryah era terrorizzata, sembrava avesse visto un fantasma e il suo colorito era divenuto insolitamente pallido.

«Merda» borbottai, spostando lo sguardo sulla figura che, a passo spedito, si stava avvicinando al nostro tavolo.

La giornalista, di riflesso, si fece piccola sulla sedia e si strinse le ginocchia al petto, nascondendo il viso tra le mani. Per la prima volta la vidi veramente spaventata, fragile, incredibilmente diversa dal solito.

John era serissimo e fissava, senza scomporsi, il visitatore indesiderato che intano si era fermato di fronte al tavolo e aveva spostato bruscamente la sedia che Leah aveva lasciato libera.

«Benton, ti prego...» piagnucolò la giornalista, scossa da profondi brividi e singhiozzi.

«Puttana, lo sapevo! Sei tornata da questo coglione, eh? Andiamo a casa, subito!» sbraitò il compagno di Bryah, allungando una mano verso di lei.

Con uno scatto fulmineo, John fu in piedi e bloccò la mossa di Benton, senza troppi sforzi. «Fermo» ringhiò a bassa voce, in un tono talmente minaccioso che mi fece quasi rabbrividire.

Nel frattempo, Leah ci raggiunse e si piazzò di fronte al nuovo arrivato. «Scusa? Per quale motivo avresti spostato la mia sedia?» esordì in tono irritato.

Il tizio fu costretto a indietreggiare, poiché Leah stava prepotentemente riposizionando l'oggetto che le era stato sottratto.

«Stai importunando i miei amici? Senti, io non so cosa hai fatto, ma da come ha reagito Bryah, mi pare di capire che non gradisca affatto la tua presenza» sentenziò ancora lei, mettendosi a sedere con noncuranza. «Sparisci» gli ordinò.

«Non prendo ordini da un'altra puttanella come lei, chiaro? Viene con me, avete capito? Voi non decidete un cazzo» tuonò ancora Benton.

A quel punto avvertii una sensazione di rabbia cieca e implacabile, mi avventai contro di lui e, nonostante fossi nettamente più magro rispetto a lui, riuscii a farlo indietreggiare di diversi passi, dopo avergli mollato un pugno in faccia.

«Smettila di offendere queste donne, pezzo di merda» gli sputai in faccia.

Poco dopo, qualcuno mi afferrò per un braccio e mi trascinò nuovamente vicino al tavolo; poi, John si frappose tra me e Benton e rivolse a quest'ultimo un'occhiata truce. Era parecchio incazzato, decisamente, me ne accorgevo perché, anche se in maniera impercettibile, i suoi muscoli fremevano e guizzavano per lo sforzo che stava compiendo nel mantenere un minimo di calma.

Leah mi circondò il torace con le braccia e mi si strinse addosso. «Non farlo mai più, hai capito? Ma sei diventato pazzo? Quello è un armadio!» sibilò in preda all'agitazione.

«Hai sentito come vi ha chiamato?! Me ne fotto, Leah, di ciò che potrebbe farmi! Lasciami andare, io lo scaravento di sotto, giuro!»

Lei rafforzò la stretta su di me e mi costrinse a indietreggiare ancora. «Ho detto di calmarti, Shavo» disse con fermezza, utilizzando un tono che non ammetteva repliche.

Benton, intanto, stava continuando a sbraitare e poco dopo un Dayanara trafelato apparve in terrazza e si accostò all'ospite indesiderato.

«Mi scusi, le avevo detto che non poteva entrare in albergo senza l'autorizzazione del direttore. La invito ad andarsene» proferì il receptionist in tono calmo e professionale.

«Vaffanculo, faccio come mi pare. Sono venuto a riprendermi la mia donna» ribatté con rabbia il tizio, facendo nuovamente qualche passo avanti verso Bryah.

A questo punto la giornalista parve riscuotersi e si alzò di scatto dalla sedia. «Stammi lontano! Non ti permetterò mai più di mettermi le mani addosso, schifosa bestia!» strillò in preda alla disperazione, nascondendosi dietro a John. «Ti denuncio, mi hai rovinato la vita!»

«Puttana, non dire cazzate, sei falsa più di Giuda! Ti inventi le cose, sei pazza!» la accusò ancora Benton.

«Il pazzo sei tu, fatti curare da uno bravo!» replicò Leah, senza però allentare la stretta su di me.

Dovevo essere completamente rosso e sudato per via della rabbia crescente, non riuscivo quasi a controllarmi e stavo tremando, mentre le mani mi prudevano per la voglia quasi viscerale di ammazzarlo di botte.

«Signore, glielo dico per l'ultima volta: o lascia questo albergo in questo istante o chiamo la polizia. Ma forse per lei non farà alcuna differenza, visto che mi pare di capire che in ogni caso trascorrerà del tempo in centrale o, peggio, in gattabuia. A lei la scelta. Vuole accelerare il processo? Io le consiglio di godersi i suoi ultimi istanti di libertà.» Il modo professionale con il quale Dayanara si rivolgeva a quel brutto ceffo, mantenendo la calma in maniera quasi assoluta ed evitando di dare di matto, era qualcosa che non potevo che ammirare.

«Me ne vado, ma sappiate che non è finita qui! Tanto ti troverò, non ti libererai di me tanto facilmente, sappilo!» strillò Benton, poi fece per andarsene.

All'ultimo momento si voltò di scatto verso John e riuscì quasi a colpirlo con un ceffone, ma il batterista bloccò ancora una volta il suo attacco e gli diede una spallata, scaraventandolo all'indietro.

Benton ruzzolò a terra e fu quasi sul punto di sbattere la testa contro la balaustra della terrazza. Si ricompose fin troppo presto e prese a marciare giù dalle scale, bestemmiando a voce alta e pestando i piedi come un bambino che fa i capricci.

Decisamente patetico, ridicolo e raccapricciante.

«John...» Bryah posò una mano tremante sulla schiena del batterista.

Lui si voltò e la attirò a sé, stringendola con forza in un abbraccio e cullandola con dolcezza; aveva un fare protettivo nei confronti della giornalista, come se lei fosse la cosa più preziosa che conoscesse.

Io, intanto, mi stavo pian piano calmando e poco dopo smisi di tremare. Leah allentò la stretta, ma non mi lasciò completamente andare.

«Scusate, corro ad assicurarmi che se ne vada!» esclamò Dayanara, partendo all'inseguimento dell'intruso.

Alwan si accostò a noi, agitatissimo. «Oddio, ragazzi... state bene?» Notai che lanciava furtive occhiate verso le scale, sicuramente era in ansia per Dayanara, il che mi fece quasi sorridere tra me e me.

«Sì, stiamo bene! Per fortuna quel coglione se n'è andato, ma vedrete che non la passerà liscia!» esclamò Leah, posandogli una mano sul braccio. «Piuttosto, Day è stato formidabile! Ma come fa?»

«Già, io sono subito partito in quarta... mi dispiace, scusatemi» ammisi con dispiacere, riconoscendo di essermi lasciato un po' troppo trasportare dalla rabbia.

«È che tu sei passionale, Shavarsh!» mi canzonò Leah, sollevandosi sulle punte per baciarmi sulla guancia. «Però mi hai fatto preoccupare, cretino!»

Intanto, notai che John aveva fatto riaccomodare Bryah su una sedia e stava facendo cenno ad Alwan di avvicinarsi.

«Dimmi, John!» esclamò il barista, accostandosi in fretta a lui.

«Le puoi preparare una buona tisana o una camomilla? Fai tu, mi fido di te. L'importante è che la aiuti a stare meglio.»

«Certo, non preoccuparti! Mi converrà prenderne una anch'io, questa faccenda mi ha fatto accapponare la pelle... ma che voleva quello stronzo?»

«Rompere le palle» tagliò corto John, accarezzando i capelli di Bryah, la quale aveva posato la testa contro il suo torace; il batterista era ancora in piedi a fianco alla sedia su cui lei si era abbandonata, e non sembrava intenzionato a spostarsi.

«Ora ti preparo qualcosa di rilassante, stai tranquilla» assicurò il barista, partendo in fretta e furia dietro il bancone.

Sospirai e Leah fece lo stesso, poi tornammo a sederci intorno al tavolo.

«Che casino» mormorai.

«Bryah, tesoro... devi fargliela pagare» disse Leah, posando una mano sul ginocchio della giornalista. «Devi denunciarlo.»

Le due si fissarono per un po', infine Bryah annuì. «Mi ha picchiato. Ecco perché sono qui. Sono tornata da John a bordo di un taxi, stanotte... io...»

Rabbrividii per il disgusto che quelle parole mi provocarono. «Inconcepibile!» sbottai.

«Non ti lasceremo sola» affermò Leah, poi all'improvviso si rabbuiò. «Io oggi devo ripartire. Cazzo, come facciamo?»

Bryah parve atterrita nell'udire quelle parole. «Io... non lo so» ammise con l'angoscia a impregnarle la voce.

John si irrigidì al suo fianco e scosse appena il capo. Cercò il mio sguardo e ci fissammo intensamente per alcuni secondi.

Sapevo a cosa stava pensando, sapevo cos'aveva in mente ed ero consapevole che io avrei fatto lo stesso; il mio amico non voleva abbandonare quella donna, non in un momento così difficile. Leah sarebbe ripartita tra poche ore, io e i ragazzi il giorno seguente; a quel punto lei sarebbe rimasta da sola a combattere contro qualcosa che non sapeva affrontare, contro una bestia che si era illusa di amare e che credeva l'amasse.

E John, ne ero certo, non l'avrebbe permesso.

«Vuoi restare?» gli chiesi infine; il mio fu soltanto un sussurro, le mie labbra si mossero in maniera impercettibile, ma lui comprese e, senza esitare, annuì.

Aveva preso la sua decisione. Forse si sarebbe trattenuto per qualche giorno soltanto, ma in ogni caso sarebbe rientrato a Los Angeles appena possibile, non ci avrebbe abbandonato.

In quel momento, semplicemente, aveva un'altra priorità a cui pensare.

«Non preoccuparti, Leah. Starò io con lei» proferì il batterista in tono rassicurante, una nota di dolcezza a impregnare la sua voce.

Poco dopo, Alwan arrivò con la tisana per Bryah.

Io e Leah ci scambiammo un'occhiata.

«Shavarsh, andiamo a vedere come sta Day? Voglio accertarmi che abbia mandato via quel verme» mi propose la ragazza.

Annuii. «Andiamo.»

Salutammo Alwan e gli promettemmo che avremmo controllato che Dayanara fosse sano e salvo. Lui ci ringraziò con un dolce sorriso e io fui certo che tenesse davvero al receptionist, che tra loro ci fosse qualcosa di speciale.

Eppure, se non si conosceva la verità su di loro, non ci si accorgeva di niente. Erano dannatamente discreti e terribilmente attenti a non far trapelare niente che potesse in qualche modo comprometterli.

Mentre io e Leah eravamo in ascensore, sospirai. «Però non è giusto che debbano nascondersi» riflettei.

Lei distolse lo sguardo dal panorama oltre il vetro e mi scrutò. «Intendi Al e Day? Già, è un vero schifo» concordò in tono dispiaciuto.

«Ma ti rendi conto? Non dico che debbano ostentare chissà quali effusioni in pubblico, quello non lo facciamo neanche noi due, ma... insomma, devono praticamente ignorarsi» mi infervorai, gesticolando con indignazione.

«Ecco, appunto. Arriverà mai l'uguaglianza anche per gli omosessuali?» mi chiese con fare dubbioso.

«Non lo so, ma sarebbe anche ora.»

il nostro discorso si interruppe quando le doppie porte dell'ascensore si aprirono.


Fortunatamente, Dayanara ci aveva rassicurato sul fatto che Benton avesse lasciato l'albergo.

Quando Leah gli aveva confidato che sapeva della sua relazione con Alwan, lui inizialmente era impallidito leggermente, poi era diventato completamente rosso e per la prima volta l'avevo visto in preda all'imbarazzo.

«Non lo diremo a nessuno, se è questo che ti preoccupa» gli aveva assicurato Leah.

Lui aveva scosso il capo e aveva sorriso appena. «Questo lo so. Non dubito di te, Leah.»

«E allora? Noi siamo felicissimi per voi, chiaro? Non penserai mica che ci dia fastidio o altre cretinate del genere, vero?»

«No, no... è che... non me l'aspettavo. Ve lo ha detto lui?»

«No, vi ho visti.»

Allora Leah gli aveva raccontato cos'era accaduto quella mattina e il receptionist era divenuto di un acceso bordeaux, quasi viola, in tinta con la palazzina in cui alloggiavamo.

«Su, Day! Non fare così, sei uno sciocco! Vieni qui» lo aveva apostrofato la ragazza, trascinandolo via dal banco della reception e stringendolo in un abbraccio. «Sai una cosa? Oggi riparto, ma stavolta non sparirò. Non dopo aver saputo questa super notizia! Voglio che mi teniate aggiornata su tutti i dettagli, anche quelli più scabrosi!» aveva sghignazzato.

Dayanara l'aveva lasciata andare e io le avevo tappato la bocca, accusandola di essere sempre la solita indiscreta e impicciona.

«Sai che non te li racconterò mai, vero?» aveva concluso il receptionist, per poi annotare il suo numero di cellulare, indirizzo e-mail e altre informazioni su un post-it verde. Si era allungato poi verso Leah e glielo aveva appiccicato scherzosamente sulla fronte, per poi esclamare: «Fanne buon uso!».

Poco dopo era tornato al suo lavoro, riprendendo il suo atteggiamento professionale e cortese. Lo ammiravo davvero tanto, la mia stima nei suoi confronti cresceva sempre più.

Mentre ci dirigevamo verso l'ascensore, fummo intercettati da un uomo alto e abbigliato in maniera elegante in compagnia di una donna piuttosto insignificante.

Riconobbi a malapena il padre di Leah e dedussi che quella tizia dovesse essere la sua amante del momento.

«Leah, ti cercavo! Ho provato diverse volte a chiamare al numero della tua stanza o al tuo cellulare, ma...»

«Il cellulare l'ho spento prima di partire e non so neanche dove sia. Come vedi, non sono in camera. Come avrei potuto rispondere?» lo rimbrottò subito lei, incrociando le braccia al petto. «Fammi capire... dopo una settimana ti sei ricordato che esisto?»

«Non fare così, su. Oggi dobbiamo partire, ricordi?» le si rivolse lui in tono piatto, ignorando completamente la mia presenza. Per quanto lo riguardava, potevo essere anche un soprammobile o parte della tappezzeria.

«Come potrei dimenticarmene?» sbuffò lei. «A che ora andiamo via di qui?» si informò.

«Il taxi ci viene a prendere alle quattro del pomeriggio. Partiremo con il volo notturno e domattina saremo già a Las Vegas.»

Leah annuì. «Okay, ci vediamo alle quattro nella hall» concluse freddamente, poi fece per dirigersi verso l'ascensore.

Alan Moonshift non ribatté, mi lanciò un'occhiata senza realmente vedermi, e si lasciò trascinare da Medison verso il bar.

Io raggiunsi Leah e scossi il capo. «Però, sono cresciuti un sacco di iceberg intorno a voi» scherzai.

«Io te l'ho detto che è un essere inutile» tagliò corto, mentre entrava in ascensore. «Che ore sono?»

Estrassi il cellulare dalla tasca dei pantaloni e controllai sul display. «Le undici meno venti.»

Leah sorrise e mi attirò a sé, baciandomi sensualmente sulle labbra. «Abbiamo ancora un po' di tempo per noi» mormorò in tono malizioso.

Immediatamente la temperatura all'interno del box aumentò di diversi gradi e il mio corpo reagì senza controllo a quelle parole e al tono con cui le aveva pronunciate.

Cominciammo a baciarci mentre ancora eravamo in ascensore, e raggiungemmo a tentoni la stanza di Leah, senza curarci che qualcuno potesse vederci. Per un istante mi ritrovai a chiedermi se Daron stesse ancora dormendo, ma poi Leah mi trascinò dentro la stanza e cominciò a spogliarmi prima ancora che potessimo raggiungere il letto.

«E questo che significa?» ansimai contro il suo orecchio, stringendo con forza i suoi fianchi tra le mani.

«Significa che ti voglio qui e ora, ragazzaccio» rispose Leah, liberandosi in fretta dei miei vestiti.

La feci stendere sotto di me e finii a mia volta di spogliarla, soffermandomi a osservare il suo corpo magro e spigoloso, quel corpo che mi faceva impazzire perché sapeva essere allo stesso tempo caldo, accogliente e morbido.

«E poi? Che altro significa?» Volevo sentirla parlare, dire delle cose come aveva fatto qualche ora prima quando aveva letto quelle poche parole scritte sulla prima pagina del libro che mi aveva regalato.

«Significa...» Si interruppe per sospirare, dal momento che le mie mani stavano scendendo lungo il suo corpo e la carezzavano con delicatezza e desiderio. «Che mi mancherai, cazzo, mi mancherai troppo» ammise con la voce rotta dall'emozione.

Notai, guardandola in viso, che i suoi occhi si erano inumiditi e che sicuramente i suoi pensieri si stavano facendo malinconici.

«No, adesso non essere triste. Adesso non è ancora arrivato il momento» mormorai, chinandomi per baciarla sulla fronte e sugli occhi, sulle guance e sul mento. «Adesso voglio che tu sia felice e che sorrida.»

Leah mi attirò con forza a sé e mi strinse fino a togliermi quasi il respiro. Prese a riempirmi il viso e le spalle di baci, sembrava non averne mai abbastanza della nostra vicinanza e di quell'unione; poi si inarcò contro di me per farmi capire che mi desiderava e non voleva più aspettare.

Le afferrai con delicatezza il viso tra le mani e, mentre mi facevo lentamente spazio in lei, non staccai neanche per un istante i miei occhi dai suoi. Ancora piangeva, ma non sembrava triste. Forse si sentiva come me, completa, appagata, in un angolo di paradiso.

Eravamo insieme, in alto, sempre più su, mentre il tempo trascorreva inesorabile e per noi si stava pian piano esaurendo quello da trascorrere insieme.

Facemmo l'amore finché non fummo troppo stanchi per muoverci, ma mai ci allontanammo l'uno dall'altra; tenni Leah tra le braccia e la accarezzai per un tempo infinito, le sussurrai che sarebbe andato tutto bene e che per noi quello era solo l'inizio.

«Leah?» la chiamai a un certo punto, lanciando un'occhiata al display del mio cellulare per controllare l'orario: erano le 14:26.

«Sì?» Sollevò appena una mano e prese a lisciare con delicatezza il mio singolare pizzetto.

«Hai mai creduto di essere bloccata nel cielo?» le domandai.

Lei ci rifletté un attimo, poi sorrise. «Peephole» sentenziò.

«Mi hai scoperto. Ma la domanda era seria» le dissi, sollevando il suo mento con due dita affinché i nostri occhi si incrociassero.

Leah aggrottò leggermente la fronte. «Che domande fai, Shavarsh?»

«Non sei per niente romantica. Dio, ma dimmi te in che guaio mi sono cacciato...» borbottai, fingendomi contrariato all'idea di avere un qualche legame con lei.

Leah si sollevò sui gomiti e fece in modo di osservarmi meglio. «Scusa. Mi rendo conto che a volte rovino tutto... tu sai come sono fatta, ormai l'hai capito.»

«Sì, te l'ho chiesto apposta» le feci notare in tono divertito.

«Che bastardo! Allora, per ripicca, ti dimostrerò che anche io posso essere romantica, dolce, anzi... sdolcinata!»

«Oddio, ho creato la reincarnazione di Frankestein...»

«Taci!» Leah si inginocchiò di fronte a me sul materasso e prese a scandagliare ogni centimetro del mio corpo con sguardo attento. «Vediamo... sì, Shavarsh, una volta ho creduto di essere bloccata lassù, nell'immensa distesa blu...» Si interruppe. «Vuoi sapere la mia storia?»

«Sentiamo» le concessi, curioso dalla scenetta che stava mettendo in atto.

«Un giorno incontrai un bassista. Sai, lui era proprio carino, no... era tenero, molto dolce, troppo per una come me. Lui mi colpì perché quando lo conobbi stava male. Questo mi permise di conoscerlo durante uno dei suoi momenti peggiori, uno di quelli schifosi in cui uno vorrebbe soltanto essere da solo ed evitare che gli altri notino le sue debolezze. Ma lui mi colpì. Col tempo imparai a cogliere la sua vera bellezza, il suo essere una persona fantastica, una persona dolce e passionale, impulsiva, ipocondriaca, riflessiva... a volte questo bassista mi appariva come un controsenso deambulante, se devo essere sincera.»

Ridacchiai. «Controsenso deambulante, mi piace.»

«Sì, era proprio così. Ma soprattutto, era sincero. Mi mentii una volta, ma anche io lo feci con lui. Eravamo due stupidi, lo ammetto, ma quell'episodio ci permise di avvicinarci e conoscerci meglio. Lui era famoso, sai? Ma se lo si conosceva, si capiva che non si era mai montato la testa e che non temeva di mostrarsi per ciò che era realmente, per le sue insicurezze e dubbi, per le sue debolezze e passioni, per i suoi difetti... capisci, è stata una persona genuina fin da subito. E io, che sono come sono, come avrei potuto non rimanerne ammaliata?»

Ormai mi ero fatto serio e ascoltavo con attenzione le sue parole. Sentivo che quello era un momento importante, un'occasione che non si sarebbe ripresentata tanto presto.

«Così mi rubò il cuore e, forse, io lo rubai a lui. Non lo posso sapere con certezza, ma ci speravo tanto. Allora ci avvicinammo ancora di più, come per magia mi ritrovai a poterlo quasi considerare il mio compagno. E poi, be'... Shavarsh, sapessi quant'era bello togliergli i vestiti e ammirare quel suo corpo magro e così simile al mio! Sapessi quant'era bello baciarlo ovunque e fare l'amore con lui, sentendolo reagire a ogni mio gesto... e sì, allora mi sentii bloccata nel cielo, anche se sapevo che presto quella forza magica che mi tratteneva in alto si sarebbe esaurita e io sarei caduta precipitosamente, sbattendo la faccia al suolo.»

Senza rendermene conto, avevo preso le sue mani tra le mie e il mio cuore stava sussultando rumorosamente dentro il petto. Aveva detto un sacco di cose bellissime, aveva parlato di noi e aveva riassunto in poche parole ciò che avevamo vissuto fino a quel momento.

«Leah...»

«Dimmi.»

«Sono le tre e sei minuti.»

Si chinò su di me e mi baciò. «Abbiamo ancora tempo, ne abbiamo ancora...»

Facemmo l'amore per l'ultima volta e la finimmo a piangere entrambi come bambini, finché il tempo a nostra disposizione non si consumò del tutto.

Alle quattro meno dieci uscimmo dalla sua stanza e andammo a cercare i ragazzi.

Mancavano cinque minuti alla sua partenza quando, tutti insieme, raggiungemmo la hall.




Ciao a tutti, miei cari lettori ^^

Lo so, lo so... mi odiate, non è vero?

Questo capitolo è così triste che quasi mi veniva da piangere mentre lo scrivevo ç___ç

Non è giusto!!!!

Okay, mi contengo, sono una figura poco professionale e certamente non assomiglio a Dayanara XD

Be', ma sono qui per parlarvi del titolo del capitolo, ovvero Time is running out; forse qualcuno di voi conosce una canzone dei Muse che porta questo titolo, e in effetti non sarebbe male abbinarla al capitolo in questione; in maniera più generica, volevo si capisse che il tempo per Leah e Shavo era davvero agli sgoccioli, anche se mi è costato parecchio doverlo ammettere anche a me stessa :'(

Poi... la frase che ho messo in corsivo, quella che Shavo rivolge a Leah sotto forma di domanda, è più o meno la traduzione del titolo dell'intera long; pensavo fosse carino inserirla nel corso della storia, specialmente a questo punto cruciale della faccenda ^^

Per il resto, aspetto i vostri commenti e spero non abbiate rischiato di piangere come la sottoscritta. Spero di non aver esagerato con il monologo di Leah, ma era anche un modo per riassumere l'evoluzione del suo rapporto con il suo Shavarsh *-* (sto di nuovo shippando come una demente, SCUSATE!!!!)

Grazie di cuore a tutti voi che ancora mi seguite, alla prossima ♥

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Capitolo 42
*** Feelin' the same ***


Feelin' the same

[John]




Salutare Leah non fu facile per nessuno di noi, ma Shavo ne rimase ancor più scosso; c'era da aspettarselo, tra lui e la ragazza era nato un rapporto che pareva quasi indissolubile, in poco tempo si erano legati l'uno all'altra e avevano imparato a volersi bene come se stessero insieme da una vita.

Anche io mi ero affezionato a lei, era diventata una buona amica in un tempo estremamente breve, il che mi aveva sorpreso e fatto piacere allo stesso tempo. Non era da me concedere la mia fiducia e aprirmi in quel modo con chi conoscevo appena, perciò non avevo la minima idea di come tutto questo fosse stato possibile. Mi ero semplicemente lasciato trascinare dal suo entusiasmo, dalla sua solarità e dal suo carattere aperto ed esuberante, in netto contrasto con il mio.

Il momento più difficile si verificò quando Leah consegnò a Daron e me dei piccoli sacchetti di carta azzurra. «È un pensierino per voi, un ricordo di me» disse, la voce leggermente incrinata per via delle emozioni che stava provando.

Shavo se ne stava da una parte con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di non dar troppo a vedere la sua malinconia.

Io rimasi basito e afferrai il mio regalo con cautela, non sapendo se là dentro ci fosse qualcosa di delicato.

«Cosa? Leah, non dovevi!» sbottò il chitarrista, strappando in fretta e furia la carta. Quando si ritrovò tra le mani un portachiavi identico a quello che lui aveva regalato a Leah in segno di pace, sollevò lo sguardo e lo posò su di lei. «Oh» fece soltanto.

«Ti piace?»

Daron spalancò le braccia e corse ad abbracciarla. «Sciocca! Oddio, grazie! Mi ricorderà te in ogni momento della mia vita, hai scelto il regalo perfetto!» strepitò, mentre la stritolava. «Anche se non dovevi» chiarì, lasciandola andare.

«Certo che dovevo!» Lei si voltò verso di me. «John, non lo apri?»

Mi riscossi leggermente e scartai lentamente il mio regalo, ritrovandomi tra le dita un portachiavi a forma di rullante.

«Che ne dici?»

«È bellissimo» mormorai. Ero profondamente commosso, nonostante riuscissi a stento a dimostrarlo. «Leah, grazie!»

«Mi dai un abbraccio, batterista? Chissà se ci rivedremo entro questa vita!» esclamò, accostandosi a me.

Ci stringemmo in un forte abbraccio e Leah sussurrò: «Grazie di tutto. E, John, prenditi cura di Shavo. Sono già in ansia per lui».

«E tu abbi cura di te, okay?»

Lei si allontanò da me e annuì. «Ci proverò.»

«Devi riuscirci, non solo provarci.»

«D'accordo, d'accordo... e tu bada a Bryah, so che con te è in buone mani.»

Lanciai un'occhiata alla giornalista che se ne stava in disparte; non aveva un'espressione particolarmente felice, e io potevo capire benissimo a cosa stesse pensando. Da quel momento in poi avrebbe dovuto combattere contro Benton, ma io non l'avrei abbandonata.

Attirai la sua attenzione e le feci cenno di avvicinarsi. Leah le andò incontro e le due si strinsero in un abbraccio colmo di affetto.

«Mi mancherai tanto, ma so che John si prenderà cura di te e quindi sono tranquilla. Sii forte, Bryah, perché so che ne sei in grado» disse Leah.

Bryah scoppiò a piangere e io la raggiunsi, prendendola tra le braccia e facendo sì che potesse nascondere il viso sulla mia spalla. «Avanti, va tutto bene. Non piangere, coraggio, non sei sola» la rassicurai.

Leah la accarezzò su un braccio e le regalò un bacio sulla guancia. «Per qualsiasi cosa, io ci sono. Mi dispiace solo di...»

«Leah, andiamo?»

La ragazza sussultò e si voltò in direzione di suo padre: abbigliato come un damerino, era già nei pressi delle doppie porte che conducevano al vialetto d'ingresso dello Skye Sun Hotel e attendeva che sua figlia lo raggiungesse.

«Comincia ad andare, arrivo subito» rispose lei freddamente.

«Non impiegarci troppo, d'accordo? L'aereo non ci aspetta.»

«Non avere paura, non te lo farò perdere quello stupido aereo» sputò tra i denti, poi voltò le spalle all'uomo e si accostò a Shavo.

Quest'ultimo scosse il capo, portandosi una mano alla fronte. «Detesto gli addii» ammise.

«Non è un addio, Shavarsh!» si affrettò a contraddirlo lei, tentando di abbracciarlo.

«Per il momento non sappiamo quando potremo rivederci, Leah.»

«Lo so, però... però succederà e... lo so, lo so che è difficile, cazzo. Però non possiamo arrenderci, capisci? Ne abbiamo già parlato!» insistette la ragazza, riuscendo a intrappolarlo tra le sue braccia. «Non fare così, mi fai stare in pensiero.»

Il bassista scrollò le spalle. «Che importa?»

«Shavarsh!»

Daron li raggiunse e batté con forza sul braccio di lui. «Smetti di fare lo stronzo o devo riempirti di ceffoni?» intervenne.

Forse avrebbe dovuto evitare, ma quelle sue parole furono in grado di riscuotere il bassista. Shavo, infatti, lanciò un'occhiata prima a Daron poi a Leah, infine si lasciò stringere dalla ragazza e ricambiò il suo abbraccio.

«Scusami...» sussurrò con voce rotta.

Distolsi lo sguardo perché mi si stava formando un nodo in gola e non riuscivo quasi a controllare le mille emozioni che stavo provando. Mentre io, seppur nella sfortuna, avevo ancora un po' di tempo da trascorrere con Bryah; il mio amico era costretto a separarsi in quel preciso momento dalla persona che gli aveva rubato il cuore.

Era tutto tremendamente triste, ma questa era la vita. Non potevamo che accettarla e affrontarla a testa alta.

Bryah si mosse leggermente tra le mie braccia e io posai lo sguardo sul suo viso: si era scostata da me e mi fissava con un'espressione indecifrabile.

«Va meglio?» le chiesi, sistemandole delicatamente i capelli dietro le orecchie.

«Un po'... mi dispiace, non faccio che piangere e comportarmi come una bambina. Tu... dovresti abbandonarmi, sai? Ti creo soltanto dei problemi.»

Sospirai. «Non farmi arrabbiare, Bryah.»

Lei si esibì in un'espressione leggermente allarmata.

«Ehi, stai tranquilla. Non starai pensando...»

«Se ti arrabbi potresti... fare come lui?» mi chiese atterrita.

«Cosa? No, non pensarci neanche! Però non sopporto che tu dica sciocchezze. Come potrei abbandonarti in un momento del genere?» mi affrettai a spiegarle.

«Io... è che... tu hai una vita, vedi... tutti se ne vanno da qui, perché la Giamaica è un posto magnifico per i turisti, un posto che tutti lasciano con un bel ricordo e a cui aspirano quando sono sommersi dalla quotidianità. Ma alla fine questo posto è come tutti gli altri, con una quantità di brutture e persone orribili che...»

La fissai confuso. «Questo con me cosa ha a che fare?»

Bryah si schiarì la gola e stava per ribattere, quando un grido concitato ci strappò a quella conversazione e attirò inevitabilmente la nostra attenzione.

«Leah!» strillarono in coro Dayanara, Alwan e Cornia, correndo verso la ragazza in partenza.

Lei sciolse l'abbraccio da Shavo e fu sommersa dai tre ragazzi, i quali la intrappolarono in un intreccio infernale e presero a farle le feste come dei bravi cagnolini.

Mi ritrovai a sorridere e feci cenno a Bryah di osservare quella scena.

«Meno male che sei ancora qui!» esclamò Alwan, baciandola sulla guancia.

«Pensavamo di non rivederti... ci siamo fatti una corsa pazzesca giù per le scale!» aggiunse Cornia con entusiasmo, annuendo come per enfatizzare le sue parole.

«Ragazzi, mi sa che tra poco Leah smette di respirare se non la lasciamo andare» fece notare Dayanara, mollando la presa.

«Ecco, bravo, tu sì che mi capisci...» boccheggiò Leah, barcollando leggermente quando i suoi amici la lasciarono andare. «Siete matti?»

«È probabile» commentò il receptionist.

«Tu chiudi il becco, ti stavi lagnando più di noi due messi insieme per la partenza di Leah! Ora fai il finto tonto, eh?» lo apostrofò subito Cornia.

«Piantatela! Ragazzi, devo andare. Vi ringrazio per essere venuti a salutarmi, sul serio. Mi mancherete...» Leah, improvvisamente, scoppiò a piangere e Shavo la raggiunse in un attimo, posandole le mani sulle spalle.

«Se piangi tu, è la fine» osservò il bassista.

Gli lanciai un'occhiata e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi e profondamente tristi.

«Abbiate cura di voi, amici miei» disse Leah tra i singhiozzi. «E ora lasciatemi andare, non sopporto più questa tristezza e se rimango un altro secondo qui, rischio di non riuscire a prendere quel maledetto aereo...»

Fece un ultimo giro di baci e abbracci tra tutti noi, poi saluto Shavo con un lungo bacio e scappò fuori dalla hall.

Lasciò dietro di sé un gelo e un vuoto che sarebbe stato difficile colmare.

Mentre frugavo nella mia mente alla ricerca di qualcosa da dire, mi accorsi che accanto agli ascensori stazionava Lakyta; non sapevo da quanto tempo fosse lì e non mi ero reso conto del suo arrivo. Non sapevo cosa stesse combinando, ma pareva tranquilla e rilassata, forse soddisfatta di essersi liberata di Leah. Loro due non erano mai andate d'accordo, ma non capivo che gusto provasse nell'assistere ai nostri saluti.

Quasi avevo scordato di aver parlato con lei la notte precedente, confidandole cose che probabilmente non avrei dovuto e che avrei fatto meglio a tenere per me. Eppure, era sembrata ben diversa dalla solita ragazza superficiale e insignificante che faceva la cameriera al bar sulla terrazza dello Skye Sun Hotel e che aspettava che qualcuno scoprisse il suo talento da attrice e la portasse con sé a Hollywood.

Io, francamente, non capivo cosa la affascinasse di quel luogo. Non aveva niente di speciale, era un posto qualunque e viverci non era poi così emozionante, anzi; spesso creava disagi per gli spostamenti, vista la grande quantità di turismo e di popolazione presente in quella particolare zona di Los Angeles.

Lakyta, tuttavia, non poteva sapere tutte queste cose, proprio perché non ci era mai stata.

Mi riscossi da quei pensieri e mi ricordai che io e Bryah avevamo una conversazione in sospeso.

«Bryah, ti va qualcosa di fresco? Andiamo su in terrazza?» le proposi, carezzandole piano la schiena.

Lei annuì ed entrambi lanciammo un'occhiata interrogativa ad Alwan, il quale ancora si intratteneva con Cornia e Dayanara. Nel frattempo, anche Lakyta li aveva raggiunti e si era appesa letteralmente al braccio di Alwan.

Notai che Shavo alzava gli occhi al cielo e si avviava con passo lento e strascicato verso l'ascensore.

«Malakian, seguilo e cerca di confortarlo» sibilai in direzione del chitarrista.

«Io?» se ne uscì quest'ultimo, puntandosi un dito sul petto.

«Non mi sembra che ci siano dei tuoi parenti in questo albergo» tagliai corto.

«Okay, ma non ti assicuro nulla. Shavo non vuole mai stare con me, dice che gli rompo i coglioni e non sono comprensivo.»

«Non è che abbia tutti i torti» osservai.

«Vaffanculo, Dolmayan!» Daron partì all'inseguimento del bassista e gli si appiccicò letteralmente addosso, cercando subito di attaccare bottone e di aprire un discorso che non avesse a che fare con Leah.

Sospirai e mi accostai ad Alwan. «Ehi, io e Bryah vorremmo andare su in terrazza a prendere qualcosa. Sei di turno?»

«John! Cazzo, hai ragione, devo tornare immediatamente al lavoro! Andiamo, spero non siano arrivati dei clienti nel frattempo. A dopo, scansafatiche» salutò il barista, rivolta al resto del gruppo, per poi dirigersi verso l'ascensore con noi al seguito.

«Shavo dove si è cacciato?» volle sapere Alwan.

«Non ne ho idea, ma ho mandato Daron con lui.»

Alwan sorrise ironico. «Siamo fottuti.»

Annuii. «Speriamo non fino in fondo.»


«Bryah, voglio che tu sappia una cosa. Io non sono come Benton.»

Forse ero stato freddo, brusco o inopportuno, ma lei aveva messo in dubbio la mia correttezza e il mio rispetto verso il prossimo. Certo, non l'aveva fatto con cattive intenzioni e sicuramente non avrebbe voluto ferirmi, eppure l'aveva fatto.

«Mi dispiace di... io non intendevo...»

«Ci tengo solo a chiarire questa cosa» la interruppi. «Non sono mai stato quel tipo di esemplare.»

«John, lo so! È che... sono ancora scossa, ho paura e... in ogni momento mi sembra di sentire ancora i suoi colpi, il dolore, la rabbia nei suoi insulti, i suoi grugniti...» Si agitò sulla sedia e si portò le mani al viso, coprendosi gli occhi e scuotendo vigorosamente il capo. «È un inferno! Anche se Benton finirà dentro, ormai mi ha rovinato la vita, lo capisci? Non potrò più cancellare questi ricordi!»

Ci trovavamo sulla terrazza e avevamo appena finito di bere un tè freddo. Spostai i nostri bicchieri di lato e mi allungai sul tavolino per afferrare con delicatezza i suoi polsi.

«Lo capisco. E non lo posso sopportare. Ma dobbiamo lottare in ogni caso, non la passerà liscia.» Sospirai appena. «Andiamo al commissariato? Ti accompagno io. Non ti lascio sola, starò con te e ti sosterrò fin quando ne avrai bisogno.» Feci una pausa. «Ti va?»

La sentii tremare sotto il mio tocco. «Non ne sono più tanto sicura...»

«Coraggio» insistetti. «È la nostra battaglia, la dobbiamo vincere a tutti i costi.»

Nel frattempo, Alwan si accostò al nostro tavolo con discrezione e ritirò i nostri bicchieri ormai vuoti.

«Va tutto bene, ragazzi?» ci domandò, notando le nostre espressioni serie e preoccupate.

«Potrebbe andare meglio» borbottò Bryah.

Il ragazzo abbandonò il vassoio su un tavolo vuoto, poi afferrò una sedia e la posizionò proprio accanto a Bryah.

Lei si voltò a osservarlo con aria spaesata.

Alwan sospirò. «Ti capisco, Bryah. Io e te non ci conosciamo, me ne rendo conto, non dovrei neanche permettermi di parlare con te e di entrare così nella tua vita. Ma ti capisco davvero, perché anche io ho subito qualcosa di simile.»

Io e lei ci scambiammo un'occhiata interrogativa.

Alwan sorrise tristemente. «Già.» Fece una pausa piuttosto lunga, poi riprese a parlare. «Se vuoi, Bryah, posso raccontarti la mia esperienza.»

«Io non... non devi sentirti...» balbettò lei.

Feci per alzarmi, immaginando che il ragazzo non gradisse condividere la sua storia anche con me, ma lui mi trattenne poggiandomi una mano sul braccio.

«Puoi restare, John» mi disse.

Annuii e cercai, in ogni caso, di restare in disparte e di non interferire nella loro conversazione; non avevo nessuna intenzione di essere d'intralcio, ero una persona piuttosto discreta e sapevo farmi gli affari miei.

«Te la faccio breve: quando mio padre ha scoperto che le mie tendenze sessuali non erano quelle da lui ritenute normali, io ero ancora un ragazzino. Frequentavo i primi anni del liceo, stavo attraversando una fase piuttosto difficile.»

Bryah strabuzzò gli occhi. «Tu sei...?»

«Gay, omosessuale. Esatto. Possibile che nessuno di voi se ne sia reso conto?» Alwan mi lanciò un rapido sguardo.

Scossi il capo, ero sinceramente sorpreso. «Non se n'è accorta neanche Lakyta, come potremmo averci fatto caso noi? Sei molto discreto» gli feci notare.

«Lakyta, già. Prima o poi dovrò dirle che non potrà mai esserci niente tra noi... ma, tornando a noi, quando lui lo scoprì, andò in bestia. Questa storia sembra un po' banale, sembra una di quelle che si sentono in giro quando si parla di coming out e altre cose del genere. Ma è la verità, è successo anche a me di non essere accettato dalla mia famiglia. Mia madre già lo sapeva, l'aveva capito anche senza che io glielo confidassi. E lei mi ha sempre amato nonostante tutto, ma mio padre...»

«Mi dispiace tanto» sussurrò Bryah.

Alwan parve ignorare le sue parole e concluse la sua triste storia: «Per un po' di tempo mi riempì di botte quasi ogni sera. Non so come ho fatto a sopravvivere, ho ancora qualche cicatrice sparsa per il corpo. Mia madre si nascondeva dietro il divano e non faceva che piangere e urlare. Ancora oggi sento quelle grida nella mia mente, a volte mi sveglio durante la notte in preda al panico e mi sembra di impazzire... sono trascorsi anni, ormai, ma questi avvenimenti sono indelebili».

Bryah piangeva in silenzio, rendendosi conto che Alwan provava le sue stesse sensazioni e poteva realmente comprenderla.

Mi allungai per posare una mano sulla spalla di Alwan. Ci fissammo in silenzio per un po', poi trovai il coraggio di porgli la domanda che avevo in mente. «Di lui che ne è stato?»

«Una sera mia madre provò a difendermi e lui osò alzare le mani anche su di lei. È stato a quel punto che ho sentito di aver toccato il fondo, e allora decisi di denunciarlo. È ancora dentro e dovrà scontare ancora qualche anno. Mia madre vive con mia zia, lei se ne prende cura e cerca in tutti i modi di ridarle una vita decorosa, ma io so che lei non è più la stessa. A volte si immagina delle cose, si dimentica i nostri nomi...» Alwan si portò una mano sugli occhi e asciugò qualche lacrima che si era affacciata da essi, minacciando di rigargli il viso. «Non è più la stessa, lui ha rovinato la vita a entrambi.»

Bryah, di slancio, si gettò su di lui e lo strinse in un abbraccio colmo di affetto e comprensione. «È terribile!» singhiozzò.

Dal canto mio, non sapevo bene cosa fare, così mi limitai a lasciare delle piccole pacche sulla spalla del ragazzo, il quale sembrava profondamente scosso nell'aver riesumato quei brutti ricordi.

«Per questo, Bryah, devi andare a denunciarlo» disse Alwan con convinzione. «Dopo andrà meglio.»

«Lo penso anche io» concordai, mettendomi in piedi e facendo il giro del tavolo per poter raggiungere Bryah. «Io sarò con te, lo giuro» le dissi, accovacciandomi accanto a lei.

Alwan sorrise prima a me, poi a lei. «Quando si trova l'amore, tutto diventa più dolce. Accanto alla persona amata tutto sembra svanire.»

Dopodiché, il ragazzo si accorse che erano giunti dei clienti sulla terrazza e si alzò, rimise a posto la sedia e ci salutò, indossando nuovamente la sua maschera di professionalità.

Mentre io e Bryah ci dirigevamo all'ascensore, ebbi come l'impressione che l'amore di cui Alwan aveva parlato poco prima aveva salvato anche lui dai suoi demoni.

E io? Sarei stato in grado di fare lo stesso con Bryah?

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Capitolo 43
*** Take it easy! ***


Take it easy!

[Daron]




Entrai con cautela nello studio, richiudendomi la porta alle spalle senza lasciare che sbattesse.

«Salve, signor Malakian. Si accomodi, la prego» mi accolse un uomo sulla sessantina, dalla corporatura massiccia e la pelle olivastra. Mostrava una folta chioma di capelli brizzolati, ordinatamente portati all'indietro dall'utilizzo di una generosa dose di gel. Indossava un paio di occhiali che dovevano risalire al paleolitico con la montatura di corno e le lenti a mezzaluna, i quali conferivano al suo viso rotondetto un aspetto piuttosto inquietante e quasi fiabesco. Era un miscuglio tra una qualsiasi fattucchiera delle favole Disney e un buttafuori fallito.

Gli regalai un leggero inchino e mi misi a sedere sulla poltrona situata di fronte alla sua immensa scrivania in legno pregiato. Avevo quasi il timore di insozzarla se avessi posato un solo dito su quel ripiano lucido e immacolato.

«Signore, mi dispiace di averla disturbata, ma sono qui per chiederle un grosso favore.»

L'uomo intrecciò le mani sulla scrivania e si sporse verso di me, scrutandomi con un paio di occhi neri e attenti. «Prima, vorrei sapere se si sta trovando bene nel nostro albergo. La vacanza è di suo gradimento?»

Annuii. «Certamente, mi trovo benissimo. La ringrazio e le faccio i miei complimenti per come gestisce quest'angolo di paradiso.» Stavo facendo un po' il leccaculo, ma del resto avevo un piano in mente e dovevo assolutamente rientrare nelle grazie del direttore. «Signor Skye, per evitare di rubarle altro tempo, arriverò dritto al punto: io e i miei amici domani lasceremo l'albergo e torneremo a Los Angeles. Mi piacerebbe, perciò, trascorrere la mia ultima sera in Giamaica in compagnia di alcuni dei suoi dipendenti. Ho stretto un buon rapporto con qualcuno che lavora per lei, e mi chiedevo se lei potesse concedermeli soltanto per oggi.»

Markus Skye sorrise affabile. «Capisco. Di chi stiamo parlando?» volle sapere, aprendo le mani sulla scrivania e posando i palmi sul ripiano.

«Si tratta di Dayanara, Alwan, Cornia, Lakyta e Miriam.»

L'uomo parve sorpreso. «Noto con piacere che i miei ragazzi sono riusciti a conquistare la sua fiducia, signor Malakian. Questo non può che rendermi felice.» Markus Skye fece una pausa e rifletté per un attimo tra sé e sé. «Non dovrebbero esserci problemi. Cornia, Miriam e Alwan stasera sono liberi. Vedrò di far sostituire Lakyta e Dayanara. Inoltre, farò in modo che i loro turni domani comincino più tardi del solito, visto che lei mi diceva che si tratta della vostra ultima sera qui. Orghanizzerete una festa?» Annuì e parve preso anche lui dall'entusiasmo della mia idea. «Se vi serve, posso mettervi a disposizione la piscina per stasera, oppure potreste organizzare un falò nella nostra spiaggia privata.»

Sgranai gli occhi e fissai incredulo Markus Skye. «Dice sul serio?»

«Ma certo!»

E da quel momento in poi mi ritrovai a organizzare un'assurda festa a sorpresa per tutti i miei amici insieme al direttore dello Skye Sun Hotel.

Ero seriamente senza parole.


«Non ne ho voglia, Malakian, non rompere i coglioni...»

Shavo si rigirò sul letto e mi diede le spalle, appoggiando la fronte contro la parete. Sembrava più morto che vivo, pareva quasi un malato terminale e non aveva alcuna intenzione di alzarsi dal letto.

«Non puoi stare a digiuno, se Leah lo scopre uccide prima me, poi John e infine te. Andiamo, alzati e non fare tante storie!» lo incoraggiai, afferrandolo per una spalla e spingendolo avanti e indietro con l'intento di provocare una qualche reazione da parte sua.

«Mi fai venire il mal di mare, piantala!» protestò debolmente.

«Non se ne parla! Alzati!»

«Ho detto di no, cazzo!»

Sbuffai. Erano ormai le nove di sera e io ne avevo abbastanza. «Okay, l'hai voluto tu» proclamai, uscendo a passo di marcia dalla sua stanza.

John e Bryah ci aspettavano in corridoio, ma vedendomi tornare da solo, mi lanciarono un'occhiata interrogativa.

«Non ne vuole sapere, eh?» fece il batterista.

«Esatto. Per questo mi serve il tuo aiuto.»

Lui mi guardò con fare dubbioso. «Cos'hai in mente?»

«Io lo prendo per le braccia, tu per le gambe, e lo buttiamo giù da quel cazzo di letto! Ormai il materasso ha preso la sua forma e sembra quasi la sua bara!» affermai, afferrando John per un braccio.

«Ma che cazzo dici? Non possiamo...»

«Sì, invece!» Spinsi John dentro la stanza. «Bryah, tu chiudi la porta poi, d'accordo?»

Lei sorrise debolmente, ma parve divertita da ciò che avevo in mente e ci seguì, per poi fermarsi sulla soglia.

«Avanti, Dolmayan, all'opera!» strillai, accostandomi nuovamente al sepolcro di Shavo.

John sospirò. «Che mi fai fare, Malakian?»

«È per una buona causa. Non ti lamentare, su!»

Prima che il bassista potesse protestare o rendersi conto di cosa stava succedendo, io lo afferrai per le braccia e John si occupò delle sue gambe. Con fatica lo sollevammo dal materasso e a quel punto lui prese a gridare per lo spavento e a imprecare contro di noi.

«Cazzi tuoi, Odadjian! Se ti fossi alzato da solo, non saremmo mai arrivati a questo. Dio, pesi un quintale!» esclamai, eseguendo una manovra stranissima per evitare di rompermi la schiena.

«Pezzi di merda, mettetemi giù e lasciatemi in pace! Me la pagherete molto cara, giuro! Merda, siete proprio due coglioni!» sbraitava Shavo, e nel frattempo noi riuscimmo miracolosamente a uscire dalla stanza senza che nessuno si facesse male.

Bryah richiuse la porta e scosse il capo. «Oddio, siete completamente folli! Lasciatelo, poverino!»

«Non se ne parla» affermai, proseguendo lentamente verso l'ascensore.

«Basta, mettetemi giù, aiuto! Giuro su Leah che se mi mettete giù, vi seguirò ovunque vogliate, ma per pietà...»

«Ha detto che giura su Leah. Lasciamolo andare» mi suggerì John con un sorrisetto.

«Sicuro che non abbia incrociato le dita?» scherzai.

John posò lentamente le gambe di Shavo sul pavimento a scacchi bianchi e bordeaux; io, a quel punto, lasciai andare di botto le sue braccia e il bassista rovinò a terra con un tonfo.

«Malakian, io ti ammazzo, ma che cazzo hai al posto del cervello?!» strillò il bassista, rotolando su un fianco e tentando di massaggiarsi la schiena.

Mi accovacciai di fronte a lui e mi chinai a guardarlo negli occhi. «Oh, finalmente reagisci. Sembrava ti fossi trasformato in un bambolotto gonfiabile.»

Shavo si esibì in un grido rabbioso e mi assaltò. Rotolammo sul pavimento, azzuffandoci come pazzi, e la finimmo a sbellicarci dalle risate come non facevamo da un po'.

Anche John e Bryah, assistendo alla scenetta raccapricciante, erano scoppiati a ridere. Il batterista si era dovuto appoggiare alla parete e produceva delle risate sguaiate che poco si addicevano al suo solito essere, mentre Bryah pareva indecisa se sbellicarsi per la nostra performance o per quella del batterista.

«Mi fa male lo stomaco... oddio, non ridevo così tanto da una vita...» farfugliò John, tentando di darsi un contegno.

«Ci credo, farti ridere è sempre così difficile» lo canzonai, rimettendomi in piedi. Poi tesi una mano a Shavo e anche lui si alzò, per poi sistemarsi gli abiti spiegazzati.

«Ragazzi, ma...» Il bassista si guardò i piedi. «Sono scalzo!»

Sospirai. «Merda, non ci avevo pensato. John, recuperagli un paio di scarpe, ho paura che se rientra in quella stanza, potrebbe rigettarsi a letto e i nostri sforzi risulterebbero vani.»

Il batterista alzò gli occhi al cielo. «Sono capitato in un manicomio» bofonchiò, avviandosi verso la porta della sua stanza.


Quando giungemmo finalmente alla spiaggia, il resto della comitiva era già lì.

Alwan, Dayanara e Cornia cercavano di accendere uno straccio di fuoco, mentre Lakyta e Miriam li osservavano con fare dubbioso.

«Ragazzi, secondo me non ce la farete mai. Forza, levatevi. Tanti anni trascorsi a sfacchinare ai campi scout mi avranno pur insegnato qualcosa» intervenne Miriam, guardando i tre con compassione.

«Se una donna riesce ad accendere il fuoco meglio di me, mi butto in mare completamente vestito!» esclamò Cornia contrariato.

«Ricordati di ciò che hai appena detto» lo avvertì Miriam, armeggiando con legnetti, carbone e fiammiferi.

«Ehilà!» li salutai io, adocchiando la mia chitarra in un angolo piuttosto distante dalla zona del falò. Avevo provveduto a consegnarla a Dayanara in modo che la portasse con sé in spiaggia, dal momento che sapevo di dover badare a Shavo e di doverlo trascinare giù dal letto.

«Ce l'avete fatta, finalmente!» esclamò Alwan tutto contento.

«Colpa mia» borbottò Shavo con sguardo basso.

«Macché, stai tranquillo!» Alwan gli si avvicinò e gli batté amichevolmente sulla spalla. «Va un po' meglio?»

«Insomma...»

«Cazzo, non ci credo!» sbottò Cornia all'improvviso.

Tutti ci voltammo nella sua direzione. Miriam gli sorrideva trionfante, mentre una bella fiamma scoppiettante riscaldava l'atmosfera, mentre lui se ne stava imbronciato con le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate al petto.

«Sei o no un uomo d'onore? Devi mantenere la parola data» intervenne Dayanara divertito.

«Che intendi?»

«Devi buttarti in acqua con i vestiti addosso. L'hai detto tu, ricordi?» rincarò Miriam, stiracchiandosi.

Lakyta ridacchiò. «Ben ti sta, cascamorto! E così sottovaluti le donne, eh?»

«Con te, bellezza, faccio i conti dopo.» Cornia cercò sostegno nel resto del gruppo, ma noi facemmo finta di nulla e così si ritrovò a sospirare. «Devo farlo davvero?»

«No» dissi, mentre lanciavo un'occhiata a John. «Ti ci portiamo noi.»

Io e il batterista partimmo all'inseguimento. Cornia ci sfuggì solo per pochi metri, poi lo agguantammo e lo sollevammo da terra, trasportandolo senza troppa fatica verso la riva.

«No, ho il cellulare in tasca, aspettate!» squittì il ragazzo in preda all'agitazione.

«Lo prendo io!» si offrì Alwan, poi ci raggiunse e frugò nelle tasche di Cornia. Recuperò l'oggetto e lo ripose al sicuro in una delle sue tasche. «Ora potete andare!» affermò.

Io e John ci scambiammo un'ultima occhiata, poi percorremmo gli ultimi metri che ci separavano dalla riva.

«Contiamo fino a tre, va bene?» sghignazzai.

«Uno!» cominciò John.

Insieme facemmo sì che il corpo di Cornia oscillasse avanti e indietro.

«Cazzo, aiuto!» protestò il malcapitato.

«Due!» strillai.

Lo facemmo oscillare ancora un paio di volte, poi insieme gridammo: «Tre!». Subito dopo, mandammo il corpo di Cornia pericolosamente indietro, per poi sospingerlo in avanti e lasciarlo andare.

Il ragazzo piombò in acqua producendo un baccano infernale e prese a starnazzare rumorosamente, lagnandosi per il freddo e per un sacco di altre cose.

Intanto, tutti quanti ridevamo come esaltati, rotolandoci sulla sabbia e lanciando grida disumane che, se qualcuno ci avesse visto dall'esterno, avrebbe potuto scambiare per quelle di soggetti mentalmente instabili e prossimi alla psichiatria.

Trascorsero diversi minuti prima che potessimo riprenderci almeno un po'. Ormai eravamo buttati sulla sabbia e ne eravamo quasi del tutto ricoperti, ma le nostre risate erano state estremamente contagiose e non sapevamo come darci una calmata.

«Vi prego, mi farete morire giovane se continuate di questo passo!» disse Miriam con le lacrime agli occhi per il troppo ridere. Era inginocchiata a terra e spostava lo sguardo su di noi, tentando di respirare regolarmente.

«Muoio di freddo... brutti bastardi...» farfugliò Cornia, stringendosi invano le braccia attorno al corpo. «Laky, tesoro, perché non vieni qui a scaldarmi un po'?»

«Scordatelo!» fece lei acida, senza però distogliere lo sguardo dalla figura di lui; notai che osservava con molta attenzione gli abiti che, fradici, aderivano perfettamente al corpo del ragazzo, lasciando ben poco all'immaginazione.

«Qui gatta ci cova» sussurrai, dando di gomito a Shavo.

«Eh?» fece lui, cadendo dalle nuvole.

«Lakyta e Cornia. Osservali e poi dimmi se non ho ragione.»

Shavo mi guardò stralunato e mormorò: «Pensavo le piacesse Alwan».

Risi. «Chi non le piace?»

Intanto, Miriam si era alzata e si era diretta a recuperare un fagotto che aveva abbandonato nei pressi della mia chitarra. «Chi ha fame? Il signor Markus Skye mi ha consegnato personalmente questo cesto pieno di leccornie da condividere con voi.»

«Sul serio?» saltai su, aiutandola a trasportare l'oggetto.

«Non occorre, Daron. Sono una scout veterana, ricordi?» fece lei, distogliendo lo sguardo da me e lanciando un piccolo calcio ai danni di Cornia.

«Spiritosa. Faremo i conti, prima o poi, vedrai...»

«Che paura! La prossima volta stai più attento a ciò che dici, perché finisce sempre che ti si ritorce contro...»

Tutti ridemmo, poi ci sistemammo in cerchio attorno all'enorme cestino. Il fuoco, alle mie spalle, scoppiettava e ardeva tranquillo, rischiarando i volti dei miei amici.

Miriam si sbarazzò del panno che avvolgeva il cestino e lo adagiò a terra, utilizzandolo come tovaglia improvvisata. All'interno del contenitore in vimini erano presenti focacce, panini, tramezzini e stuzzichini di tutti i tipi, oltre ad alcune bottiglie di bevande alcoliche e non.

«Vodka!» strillai, accarezzando la bottiglia come se si trattasse del più prezioso dei tesori.

«Giù le mani, adesso dobbiamo mangiare! Alla sbronza pensiamo dopo» proclamò Alwan, offrendosi per distribuire qualcosa da mangiare a tutti noi.

Mangiammo un sacco e chiacchierammo il doppio, godendoci l'aria fresca della sera in contrasto con il calore prodotto dal falò. Cornia si era sistemato accanto al fuoco e si era presto asciugato quasi del tutto, evitando così di beccarsi una congestione o un raffreddore.

«Se mi ammalo so a chi dare la colpa» borbottò.

«Hai visto, Cornia? Anche i System te la mettono nel culo...» lo punzecchiai, lanciandogli addosso un pezzetto di pane.

«Attenti, potrebbe mettere in giro delle pessime voci su di voi» osservò Lakyta, mangiucchiando un sandwich senza davvero gustarlo.

«Ehi! Ma per chi mi hai preso?» protestò Cornia, fingendosi offeso. «Dovrai farti perdonare, dolcezza.»

«Continua a sognare...»

«Poveretto, tutti ce l'avete con lui» si fece sentire Shavo, che intanto non aveva parlato granché. Ero contento che le risate di poco prima avessero contagiato anche lui, non sopportavo di vederlo abbattuto. Potevo capire che Leah gli mancasse, ma non doveva lasciarsi buttare giù da questa situazione.

«Ecco, Shavo, difendimi!»

«Ma piantala, sei un deficiente!» lo apostrofò Alwan, ingozzandosi con degli spiedini.

«Comunque, ragazzi... noi domani ce ne andiamo. È per questo che ho voluto organizzare questo raduno di pazzi» dissi, facendomi un po' serio. «Non sono un tipo sdolcinato e non so neanche fare discorsi strappalacrime, ma con tutti voi mi sono trovato bene. Tutto qui.» Mi alzai. «Vi suono qualcosa, eh?» proposi, andando a recuperare la mia chitarra classica.

La portai fuori dalla custodia e tornai ad accomodarmi al mio posto.

«Che dolce» disse Lakyta, utilizzando un tono colmo di sincerità e privo di malizia.

«Anche lui ha un cuore» spiegò John con un mezzo sorriso.

Bryah, al suo fianco, assisteva alle nostre conversazioni quasi completamente in silenzio; ogni tanto notavo che lanciava delle occhiate ad Alwan e lui le sorrideva con fare rassicurante. Sembrava abbastanza tranquilla per il momento, ma sicuramente non era più la stessa ragazza spumeggiante e allegra che avevamo conosciuto nei giorni precedenti. Ciò che era successo con quell'energumeno del suo ex compagno l'aveva cambiata, rendendola più taciturna e chiusa. O forse, semplicemente, era ancora troppo presto perché riprendesse a sorridere come sempre.

Mi schiarii la gola. «Allora... chi canta con me?»

«Che canzone vuoi fare?» mi domandò Miriam.

«Siccome quelle dei System sono sconosciute dalla metà dei presenti, mentre l'altra metà le conosce fin troppo bene e potrebbe vomitare nell'udirle ancora, accetto richieste.»

Si diffusero delle risatine generali, poi Alwan propose di suonare qualcosa di Bob Marley.

«Vediamo...» Cominciai a strimpellare e mi trovai a suonare Sun is shining.

«Ma è triste, no! Prova con...» Alwan si bloccò e rifletté per un attimo, poi schioccò le dita. «Ci sono! Conosci Sunshine Reggae dei Laid Back?»

«Daron, quella che fa: Sunshine, sunshine reggae, don't worry, don't hurry, take it easy!» mi suggerì Miriam con entusiasmo.

«Ah, sì! Allora, però, cantatela con me!»

Così, prendemmo a intonare il brano, ma la maggior parte di noi si inventò gran parte del testo e finimmo per fare un minestrone assurdo e, inevitabilmente, a ridere come cretini.

«Qualcosa che conosciamo meglio?» propose Dayanara.

«Non lo so... Mad World?» proposi.

«Ma che palle!» si lamentò Lakyta.

«Allora?»

«Smells like teen spirit!» gridò all'improvviso Shavo.

Tutti scoppiammo a ridere e prendemmo a cantare tutti in coro.


Load up on guns
Bring your friends
It's fun to lose and to pretend
She's overboard, self assured
Oh no I know, a dirty word


Hello, hello, hello, how low

Hello, hello, hello, how low

Hello, hello, hello, how low
Hello, hello, hello...


Poi ci preparammo per il gran ritornello, parve quasi che stessimo prendendo la rincorsa e quindi esplodemmo in un grido all'unisono.


With the lights out, it's less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mulatto, an Albino
A mosquito, my libido, yeah!


Andammo avanti per un po', tra le risate e le grida di tutti.

A una certa ora cominciammo anche a bere e l'atmosfera si riscaldò parecchio.

Notai che Shavo ci stava andando giù pesante, John tentava di evitare che Bryah si prendesse un'altra sbronza, Alwan rideva come una iena mentre Dayanara cercava invano di strappargli la bottiglia dalle mani. Lakyta, invece, era completamente sobria e sorseggiava appena dal suo bicchiere. Miriam aveva bevuto qualcosa, ma non sembrava apprezzare particolarmente quel tipo di alcolici.

Io bevevo e fumavo senza ritegno, continuando però a strimpellare distrattamente la mia chitarra. Stavo bene, mi sentivo tranquillo e mi godevo in pace la serata che stavo condividendo con i miei amici.

Non so che ore fossero quando decisi di avventurarmi su per la scogliera con l'intenzione di portare un po' di avanzi ai gatti di Leah; Shavo cercò di biascicare qualcosa e di seguirmi, ma ordinai a John di trattenerlo e mi incamminai per conto mio.

Poco dopo, mi accorsi che qualcuno mi seguiva e appurai che si trattava di Miriam.

«Non vorrei che ruzzolassi giù dal sentiero» si giustificò, accennando alla stretta stradina che avrei percorso di lì a poco.

«Reggo bene l'alcol, mia cara.»

«Non si sa mai. E poi sono curiosa di vedere questi famosi gatti. Non sapevo della loro esistenza» ammise con un leggero sorriso.

Camminammo in silenzio finché non ci trovammo sull'ormai familiare piattaforma che Leah mi aveva fatto scoprire.

«Dove sono?» mi interrogò Miriam, guardandosi intorno.

«Non usciranno dal loro nascondiglio finché rimarremo qui. Forse solo Night potrebbe uscire a salutarmi, io e lui siamo diventati amici la notte scorsa...» blaterai, chinandomi per sistemare il cibo in un angolo piuttosto riparato.

«Non sapevo andassi in giro di notte per fare amicizia con gli animali» commentò in tono leggermente sorpreso.

«Non è una mia abitudine, però a volte mi capita» scherzai.

«Sei un personaggio singolare.»

Mi voltai a guardarla e le indirizzai un sorriso ammiccante. «Me lo dicono in molti.»

Rimanemmo a fissarci per qualche istante, studiandoci con attenzione e curiosità, poi qualcosa scattò in me e mi costrinse a compiere alcuni passi nella sua direzione.

Senza neanche rendermene conto, la spinsi contro la parete rocciosa alle sue spalle e, dopo averla afferrata per un braccio, premetti il mio corpo contro il suo e la intrappolai in un bacio inaspettato per entrambi.

Assaporai le sue labbra morbide e mi beai del suo delizioso sapore; Miriam parve volermi respingere, ma poi cedette al mio assalto e schiuse appena le labbra per permettermi di approfondire il nostro contatto.

Ci baciammo con foga per un tempo che non fui in grado di calcolare, poi lei portò le sue mani al mio petto e mi allontanò da sé.

Cercai il suo sguardo, mentre sentivo il mio corpo infuocato da quanto era appena successo e il respiro irregolare scuotermi in un miscuglio di emozioni e desiderio bruciante.

«Miriam, scusami, non so che mi è preso...» attaccai, tenendo una mano poggiata accanto alla sua testa, sulla parete rocciosa.

«Hai detto che reggi bene l'alcol, ma a me non sembra» commentò con disappunto, divincolandosi da me e scostandosi di lato.

«Non l'ho fatto perché sono ubriaco!» dissi.

«Ah no?» Fece spallucce. «Allora domani mattina ti aspetto in spiaggia, vediamo se ti comporti allo stesso modo.»

«Non capisco perché fai così. Mi è sembrato che ti piacesse baciarmi...» Feci un passo verso di lei e allungai una mano per cercare di sfiorarle il braccio.

Lei indietreggiò ancora. «Giù le mani. Potrebbe anche essermi piaciuto, ma questo non cambia le cose.» Sorrise. «Torniamo dagli altri e dimentichiamoci di questa faccenda.»

Scossi il capo. «Domani ti dimostrerò che non è stato l'alcol a farmi agire così.»

Miriam si strinse ancora una volta nelle spalle e si incamminò giù dalla scogliera senza voltarsi indietro.




Ciao a tutti, come butta?

Eheheheh... ieri, contagiata dall'Alzheiner aka Sindrome di Soul, mi sono dimenticata che era giovedì e che avrei dovuto aggiornare ^^”

Ma comuuuunque...

Eheheheheh, vi aspettavate quest'ultimo colpo di scena da parte del nostro chitarrista? E il rifiuto di Miriam?

Daron è proprio uno sfigato, ahahahahah XD

Ma bando alle ciance, sono qui per parlarvi delle canzoni che ho nominato nel capitolo.

La prima è Sun is shining di Bob Marley, ora capirete che è un po' malinconica come canzone da falò:

https://www.youtube.com/watch?v=QQQpkll5aoA

Poi ho nominato Sunshine Reggae dei Laid Back, diciamo che qui si comincia a ragionare, voi che dite? Da questo brano ho preso ispirazione per il titolo del capitolo, volevo si respirasse l'atmosfera del take it easy, falla facile, non farne un dramma! Arrivato il messaggio? Anche se Daron, certe volte, tende a farla troppo facile, eh?

Comunque, sentite un po' qui:

https://www.youtube.com/watch?v=bNowU63PF5E

Il terzo brano da me citato è Mad World, canzone famosissima dei Tears For Fears, ma eseguita da un sacco di altre persone; qui dobbiamo dare ragione a Lakyta sul che palle, non è un brano propriamente da falò:

https://www.youtube.com/watch?v=SFsHSHE-iJQ

E infine, la meravigliosa Smells like teen spirit dei Nirvana; sicuramente la conoscete tutti, ma io la linko lo stesso, non si sa mai che qualcuno possa avere un vuoto di memoria o semplicemente voglia ascoltarla mentre scrive la recensione per questo DISASTROSO capitolo:

https://www.youtube.com/watch?v=hTWKbfoikeg

Che poi, non è neanche detto che voi vogliate recensire, ahahahahah XD

Ho fatto capitare diverse cosette piuttosto comiche – almeno per me che le ho scritte e mi sono divertita a torturare un po' Shavo e Cornia – e poi ho volute dare un po' di pepe verso la fine...

Spero vi sia piaciuto, in ogni caso ringrazio tutti voi e vi do appuntamento al prossimo aggiornamento ♥

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Capitolo 44
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[Leah]




Fissavo la rivista che stringevo tra le mani, ma era come se non la vedessi neanche; c'erano immagini colorate, modelle bellissime su pagine patinate, interviste mozzafiato, ma niente riusciva a catturare il mio interesse.

Medison, al mio fianco, sembrava invece essere veramente interessata alla medesima rivista: la sfogliava lentamente e ogni tanto si soffermava a leggere qualche articolo su come mantenere giovane la pelle o su come compiere una prodigiosa manicure senza spendere un patrimonio dall'estetista.

Quando notai una figura familiare che sorrideva sul giornale, lo stomaco mi si rivoltò. Anziché cercare lo stesso articolo sul volume che avevo sulle ginocchia, strappai a Medison la sua copia e scrutai la donna che occupava un'intera pagina con una sua foto a mezzo busto.

«Ehi!» protestò Medison, sporgendosi verso di me per osservare cosa avesse attirato tanto la mia attenzione.

«È proprio una zoccola» bofonchiai, restituendole l'oggetto in maniera piuttosto brusca.

«Jessica Miller è bellissima. Come puoi dire una cosa del genere se non la conosci?» se ne uscì Medison, lanciandomi un'occhiataccia.

«Oh, giusto, dimenticavo che tra colleghe ci si difende...» Mi pentii per un istante di aver pronunciato quelle parole, ma poi mi ricordai che cosa aveva combinato quella donna ai danni di mio padre e mi strinsi nelle spalle.

La verità era che il viaggio in aereo mi stava destabilizzando, stava durando troppo e io non ne potevo più. Inoltre, mi ero ritrovata seduta accanto all'amante del momento di mio padre, mentre lui era stato catapultato chissà dove a bordo del volo verso Las Vegas.

«Cosa ti viene in mente, ragazzina?» squittì Medison, chiudendo di scatto il giornale.

Sorrisi appena. «Siete state addirittura con lo stesso uomo. Sei emozionata?» le feci notare senza mettermi troppi problemi.

«Quel... quel... lui... te l'ha...?» balbettò lei, impallidendo tremendamente.

«L'ho scoperto, Daron non me l'ha detto» sottolineai, sentendomi in dovere di difendere il mio amico.

«Santo cielo!» sibilò, portandosi una mano al petto. «Abbassa la voce, per favore...»

«Mio padre se lo merita, sai?» aggiunsi, stiracchiandomi sul sedile.

Proprio in quel momento una hostess stava percorrendo il corridoio centrale dell'aereo e chiedeva ai passeggeri di approfittare delle leccornie offerte dalla compagnia.

La fermai e le sorrisi. «Posso avere del caffè espresso?» domandai.

«Certo, penso non ci siano problemi... qualcosa da mangiare?»

Mi sporsi dal sedile e afferrai un pacco di patatine a caso. «Prendo queste.»

«Bene. Sono cinque dollari.»

Sussultai interiormente. Mangiare in aereo si rivelava sempre un furto. Porsi i soldi alla hostess e tornai a rilassarmi sul sedile, ignorando completamente Medison.

«Lei, signora? Prende qualcosa?» le si rivolse la hostess.

«No, grazie» bofonchiò l'amante di mio padre.

«Sei a dieta? Su chi devi fare colpo, eh?» la punzecchiai.

«Non essere stupida, Leah» si offese lei, incrociando le braccia al petto.

«Oh, andiamo! Perché vuoi negare la verità?»

Medison sbuffò. «Non sto negando niente. Tu... non dirai niente ad Alan, vero?» mi chiese con cautela.

«Ah, ecco qual era il problema. Be', devo pensarci. A volte è divertente notare quanto la gente ama autodistruggersi» commentai.

«Non essere cattiva!»

«Cattiva? Sono realista.» Sospirai. «Tu sei solo uno degli ennesimi diversivi di Alan Moonshift. Cerca di accettarlo, e approfittane finché puoi. Chissà se lui ha adocchiato la prossima preda in Giamaica...»

Medison mi afferrò per un polso e mi conficcò le unghie nella pelle. «Sta' zitta» sputò tra i denti.

Mi divincolai dalla sua presa e la fulminai con lo sguardo. «Non osare toccarmi.»

«Però quello stecchino senza capelli poteva toccarti, eh? Te la sei spassata peggio di me e hai il coraggio di giudicarmi? Tu non sai niente della vita. Le vere donne, quelle in cui credi tu, non esistono. Esistono soltanto persone furbe come me e ingenue come te.» Annuì come per dare enfasi alle stupidaggini che stava dicendo. «Così gira il mondo, mia cara. E scommetto che ora credi di esserti innamorata di quel tizio, eh?»

Riuscii a mantenere una calma incredibile. Prima che potessi ribattere, la hostess tornò da me e mi consegnò il mio caffè espresso. Non appena se ne fu andata, rivolsi un'occhiata glaciale a Medison.

«Non intendo parlare di Shavo con te, mi hai capito?»

Lei rise e tornò a concentrarsi sull'articolo che declamava le grandi qualità di Jessica Miller e il suo imminente matrimonio con Lars Ulrich.

«Lei sì che è una donna intelligente e intraprendente. Tu hai accalappiato quel musicista squattrinato e non sei stata neanche in grado di puntare più in alto» commentò dopo un po'.

Evitai di rispondere e mi infilai le cuffie alle orecchie. Ne avevo abbastanza di ascoltare le baggianate che quell'essere immondo portava fuori, spacciandole per perle di saggezza che soltanto lei era in grado di cogliere.

Mi ritrovai, senza neanche accorgermene, ad ascoltare ossessivamente alcune canzoni dei System in cui potevo sentire chiaramente la presenza del basso di Shavo. Ero incantata, ma avvertivo anche un profondo vuoto dentro me. Chissà se sarei riuscita a riprendere a vivere come se niente fosse accaduto.

Il tempo si consumò abbastanza lentamente e, quando infine atterrammo a Las Vegas, mi misi in piedi a fatica e feci in modo di allontanarmi da Medison il prima possibile.

Purtroppo, mi ritrovai a rincontrarla nella zona del ritiro bagagli, dove anche mio padre si era recato.

«Com'è andato il viaggio?» ci interrogò Alan Moonshift, senza essere realmente interessato; già era al lavoro con il suo BlackBerry e smanettava come un pazzo, visto che sarebbe tornato in azienda soltanto poche ore dopo.

«Una favola» brontolai, afferrando la mia valigia al volo e sollevandola con forza dal nastro trasportatore.

Medison non aprì bocca e attese che fosse lui a ritirare il suo bagaglio.

Mi facevano decisamente pena.

«Voglio tornare subito all'università» chiarii, mentre ci avviavamo a prendere un taxi.

«Perché tu e Meddie non ve ne andate un po' in giro a fare shopping?» propose distrattamente Alan Moonshift.

«Cosa? Neanche morta! Ho da studiare, non posso perdere tempo. E poi odio fare shopping» tagliai corto.

«Io ho un appuntamento dalla parrucchiera, tesoro» cinguettò Medison, fissandosi le unghie.

«Ah» fu tutto ciò che l'uomo fu in grado di dire.

Non aprimmo bocca per quasi tutto il tragitto in taxi. L'unico a non smettere di parlare fu mio padre, impegnato in milioni di conversazioni telefoniche impossibili da decifrare.

«Sì, Aston, devi prendere in considerazione quelle azioni... no, investi e te ne lavi le mani, poi pensa a tutto Maurice... macché! Cazzo, se te lo dico è perché... ah, sì? Allora prenotami un posto, non posso perdermelo... Nicole hai detto? Interessante! Sì, sì, sta bene... sicuramente sì... aspetta, mi sta chiamando Maurice, a dopo... Maurice? Aston è quasi cotto a puntino, preparati... la partita dei Dodgers? Vediamo...»

Smisi di ascoltarlo e avvistai l'ampio viale che portava alla residenza in cui si trovavano gli appartamenti di gran parte degli studenti del mio corso.

Molti allievi dell'università di Paradise vivevano all'interno del campus, ma io non avevo mai tollerato di avere qualcuno che controllasse la mia stanza o che dettasse legge su ciò che potevo o non potevo fare.

Così, avevo cercato delle compagne di stanza e mi ero trasferita in quel residence, trovandomi molto più a mio agio.

«Prego, mi lasci qui» dissi al tassista, quando fu quasi di fronte al viale d'ingresso.

L'uomo mi aiutò a scaricare i bagagli e mi salutò. Mi avviai senza neanche rivolgere l'attenzione ad Alan Moonshift e la sua amante del momento.

Ero furiosa e, cosa più importante, mi mancava Shavo.


«Sono tornata in patria!»

Il mio grido si diffuse nella stanza, che mi parve essere deserta.

Poi, uno strillo acuto si levò dal bagno, seguito poi da una sonora risata.

Corsi verso il bagno e spalancai la porta, trovandomi di fronte una scena alquanto comica: Samantha se ne stava seduta sul coperchio del water con le gambe completamente divaricate, mentre una trafelata Shelley stava per strappare in maniera alquanto sadica una quantità infinita di peli dal suo inguine.

Samantha scattò in piedi e barcollò pericolosamente. «Leah, non è come credi...» farfugliò.

«Sta' ferma!» gracchiò Shelley, spingendola nuovamente al suo posto. Senza darle tregua, allargò nuovamente le sue cosce e strappò con estrema rapidità la striscia di garza impregnata di cera bollente.

Dalla gola di Samantha si levò un gemito strozzato e la ragazza roteò gli occhi al cielo, mentre si asciugava qualche lacrima che aveva preso a rigarle le guance.

«Che scenetta meravigliosa» esclamai. «Mi eravate mancate più di quanto immaginassi.»


Shelley aveva finito di fare la ceretta a Samantha da almeno mezzora e tutte e tre ci eravamo sedute attorno al tavolo situato accanto al piano cottura della nostra stanza. Mi guardai attorno e respirai a fondo l'atmosfera che casa mia mi conferiva.

«Allora? Com'è andata?» volle sapere Shelley, sistemando una ciocca bionda dietro l'orecchio sinistro.

Sorseggiai un po' d'acqua dal mio bicchiere e sorrisi. «La Giamaica è sempre la Giamaica.»

«Non fare la furba, amica. Quel messaggio che mi hai mandato giorni fa non lasciava spazio a interpretazioni...» insinuò Samantha, la quale sembrava essersi ripresa dalla tortura che aveva subito.

«Quale messaggio?»

Shelley batté una mano sul tavolo. «Sei incredibile!» esclamò, mollandomi un calcio sotto il tavolo.

Osservai le mie compagne di stanza: non potevano essere più diverse da me, ma anche tra loro non avevano granché in comune.

Shelley era bionda e con un fisico perfetto. Oltre allo studio, stava cercando di sfondare nel mondo della moda, in campo stilistico. Spesso le era stato consigliato di mettersi in gioco come fotomodella, ma la ragazza era molto timida e riservata, nonostante tutti la etichettassero come la classica Barbie californiana. Infatti, proveniva dalle coste di San Francisco ed era una surfista eccezionale, nonostante non se ne vantasse e non avesse mai preso la cosa sul serio.

Samantha, invece, era una ragazza corpulenta ed esuberante, una lesbica delle più tenaci, dalla carnagione scura, i capelli corvini e le idee più chiare di un semplice calcolo matematico. Faceva parte di diverse associazioni che combattevano per i diritti e l'uguaglianza degli omosessuali, non aveva nessun problema a mettersi in gioco e a esporsi per dar voce a ciò in cui credeva. Il suo obiettivo nella vita era diventare un chirurgo e stava facendo di tutto per perseguire le sue aspirazioni.

«Parla, donna!» proclamò Samantha, additandomi con finto fare solenne.

Sospirai. «E va bene!»

«Chi è che ti ha fatto impazzire nella patria del reggae?» domandò allora Shelley, scarabocchiando qualcosa su un blocco da disegno.

«Si chiama Shavo» dissi con cautela.

«Proprio Shavo?» mi chiese Samantha perplessa.

«In realtà si chiama Shavarsh, all'anagrafe, ma soltanto io posso chiamarlo così. Se lo fa qualcun altro, si incazza.»

Shelley lasciò andare la matita e batté le mani. «Siamo già a questo punto?! Devo assolutamente disegnare l'abito per il tuo matrimonio, posso?»

Sollevai gli occhi al cielo. «Ehi, vacci piano!»

«Prima devi disegnare il mio» le fece notare Samantha, pizzicandole un braccio.

«Ah, già!» Shelley si batté una mano sulla fronte. «Però... tu e lui state insieme?» indagò ancora, indirizzandomi un sorriso luminoso a trentadue denti.

Mi strinsi nelle spalle. «Suppongo di sì.»

«Ecco un altro motivo per essere lesbica: tra donne è sempre tutto fin troppo chiaro. O si sta insieme o non si sta insieme. Niente da supporre, solo tanto buon sesso da consumare in maniera più o meno romantica.»

La bionda si tappò teatralmente le orecchie. «Questi sono discorsi vietati alle ragazze innocenti come me!»

«Allora, vogliamo smetterla? Non vi racconto niente, se non state zitte» le minacciai.

«È colpa sua, dice un sacco di porcherie!»

«Andiamo, Leah, va' avanti e non badare a questa biondina sprovveduta» tagliò corto Samantha.

«Ehi!» protestò l'altra.

«Silenzio in aula!» Afferrai il mio bicchiere ormai vuoto e lo sbattei sul tavolo a mo' di martelletto da giudice. «Dicevo... sì, stiamo insieme, anche se lui vive a Los Angeles ed è una rockstar.»

Shelley strabuzzò i grandi occhi nocciola. «Cosa?»

«Già, suona il basso in una band piuttosto famosa» raccontai. Quelle parole, pronunciate ad alta voce e all'interno della mia stanza a Paradise, suonavano tanto assurde quanto irreali. Sortirono in me l'effetto di una secchiata d'acqua gelida che mi fece risvegliare da una fase di trance in cui non mi ero resa conto di aver aver vissuto fino a quel momento.

Samantha si esibì in un fischio d'approvazione. «Hai visto la nostra Leah? Parte per una settimana e perde la ragione per un musicista famoso!» commentò.

«Cazzo» imprecai. «Solo ora mi rendo conto che è tutto vero.»

«Sul serio? Ma questo tizio è molto famoso?» chiese Shelley, afferrando nuovamente la matita. Ne osservò la punta ormai consumata e si alzò per andare a temperarla.

«Abbastanza.»

Utilizzando il mio cellulare, entrai su internet e cercai alcune foto di Shavo e dei ragazzi. Spiegai alle mie compagne di stanza che uno dei membri della band non era stato in Giamaica e che avevo stretto amicizia anche con il batterista e il chitarrista. Mostrai loro delle foto prese da Google, poi entrai nella galleria del mio telefono e permisi loro di osservare i pochi scatti che avevo eseguito durante la vacanza. Non amavo particolarmente fotografare qualsiasi cosa, anche se poi mi piaceva conservare le fotografie come dei ricordi importantissimi.

«Leah... sul serio ti sei innamorata proprio di lui?» si indignò Samantha, scrutando con occhio critico il volto di Shavo.

«Cosa c'è che non va?» le domandai.

«Senti, io sono lesbica, non è che me ne intendo, ma è piuttosto bruttino il ragazzo... quanti anni ha?»

«Sam, sei proprio una stronza! Via, Leah, non darle retta, Shavo è carino!» cercò di rimediare Shelley, utilizzando un tono dolce e venato da una traccia di dispiacere.

«Shy, non mi offendo. Sono abituata alle cazzate che dice Sam, non preoccuparti. Ehi, pensa alle tizie che ti porti a letto» rimbeccai Samantha. «Shavo è attraente e sexy, non dire mai più cattiverie sul suo conto. E poi... è il ragazzo più dolce che io abbia mai conosciuto, è veramente tenero e, be', fin troppo romantico per una come me.»

«Vi completate» osservò Shelly con lo sguardo sognante.

«Ma guarda come ti brillano gli occhi... oddio, se anche un'acida come te si è innamorata, questo mondo non ha più alcuna speranza» borbottò la corvina, mangiucchiandosi un'unghia con l'intento di limarla.

«Quanti anni ha?» ripeté Shelley, sempre più curiosa.

Sospirai appena. «Ne ha parecchi in più di me» dissi con calma.

«Avrà al massimo trent'anni...» suppose Shelley.

«Macché! Secondo me ne ha più di quaranta» la contraddisse Samantha.

«Trentanove» buttai lì. Era incredibile quanta differenza ci fosse tra noi, e quanto poco sentissi quell'abisso di quindici anni.

«Oh, cristo! Ti sei messa con un vecchio!» strillò Samantha, alzandosi. «Io ora devo andare, ma giuro che sono veramente basita, Leah Moonshift!» proclamò.

Mi alzai a mia volta e corsi ad abbracciarla. «MI sei mancata anche tu, Sammy!»

«Piantala subito di chiamarmi in quel modo!» Mi spinse via in maniera brusca e si diresse verso la sua stanza, indirizzandomi una linguaccia. «Ho da fare, esco con alcuni colleghi dell'associazione universitaria. Ma con te non ho finito.»

«Comincio a tremare di paura!» la sfottei.

Quando Samantha se ne fu andata, mi battei una mano sulla fronte, ricordandomi che avevo comprato un piccolo souvenir anche per lei e mi ero scordata di consegnarglielo.

Intanto, frugai in borsa e tirai fuori ciò che avevo comprato per Shelley. Le tesi il pacchetto e le sorrisi. «Questo è per te. Aprilo.»

Lei accettò il regalo con aria sorpresa. «Non c'era bisogno, Leah! Sei sempre la solita!» Lo scartò e tirò fuori un album che raccoglieva i migliori lavori stilistici realizzati sull'isola giamaicana.

Osservai la sua faccia diventare rossa, per poi impallidire di botto. Le lacrime velarono subito i suoi occhi e scoppiò a piangere come una bambina. «Oh, Leah! Ma questo è...»

Mi accostai a lei e la abbracciai. «Su, non piangere, Shy. Questo ti dimostra quanto vali, quanto credo in te e quanto sono convinta che prima o poi anche tu apparirai in uno di questi book con le tue stupende creazioni. Leggi la dedica, coraggio.»

Shelley tirò su col naso e io le procurai un fazzoletto. Si asciugò le lacrime e poi si schiarì la gola. «Per la mia stilista preferita, colei che ha una bacchetta magica al posto della matita. Anche tu, prima o poi, proverai l'emozione di essere bloccata nel cielo. Tua, Leah» recitò, poi riprese a singhiozzare in preda a una profonda emozione. «Oddio...»

«Andiamo, così fai commuovere pure me. Sono felice che ti piaccia» le dissi, accarezzandole i capelli. «Su, ora raccontami perché stavi facendo tu la ceretta a Sam.»

Shelley mi guardò perplessa, poi scoppiò a ridere. «Ha un appuntamento galante stasera» mi confidò.

«Ho paura per la povera vittima» scherzai.

«E tu? Mi racconti o no di Shavo?»

Annuii e cominciai a raccontarle della mia avventura in Giamaica, di come inizialmente avessi finto di non aver riconosciuto i ragazzi dei System, di come poi tutto fosse venuto a galla, delle peripezie che ci erano capitate. Le spiegai come io e Shavo ci eravamo avvicinati, di quando avevo scoperto che Daron si era portato a letto l'amante del momento di mio padre, di quanto fosse stato divertente trascorrere il tempo con quei matti e di quanto tutto questo mi mancasse. Le parlai di Bryah e della sua situazione complicata, di Dayanara e Alwan, di Lakyta e di Cornia, fino a ripercorrere gli aneddoti divertenti e gli incontri con i fan esaltati che i ragazzi avevano incontrato sul loro cammino.

Erano successe così tante cose che mi sembrava impossibile averle vissute davvero; mi sembrava trascorsa un'eternità da quando ero partita controvoglia per raggiungere lo Skye Sun Hotel per l'ennesima volta durante la mia breve vita. E ora rimpiangevo di non essere più laggiù, a godermi semplicemente i caldi abbracci di Shavo, le cretinate di Daron, i silenzi rivelatori di John, la fragilità di Bryah, l'incoerenza di Lakyta, la timidezza di Dayanara, l'esuberanza di Alwan... tutto questo mi mancava in maniera viscerale e, mentre lo raccontavo a Shelley, mi si formò un groppo in gola e dovetti far leva su tutta la mia forza interiore per ricacciare le lacrime che minacciavano di inondare i miei occhi.

«Tutto sommato sei felice» disse infine Shelley, dopo avermi soppesato con cura.

Annuii. «Sì» ammisi. «Anche se so che d'ora in poi sarà molto difficile, soprattutto per quanto riguarda la mia relazione con Shavo. Solo ora potremo capire se ne vale la pena.»

«Io credo di sì. Ho notato, dal tuo racconto, che entrambi tenete molto a questa cosa. Insomma, siete abbastanza adulti da poterla gestire.»

«Credi che la differenza d'età che c'è tra noi possa diventare un problema?» le domandai.

Shelley mordicchiò per un po' la matita che ancora teneva in mano, riflettendo su ciò che le avevo chiesto. «No. Avete due vite completamente diverse a prescindere dall'età. Se deve funzionare, funzionerà in ogni caso. Anzi, sai che ti dico? Se lui fosse più giovane, secondo me potresti avere più problemi.»

Aggrottai le sopracciglia. «Cosa intendi dire?»

«Se lui fosse un nostro coetaneo o addirittura più piccolo di te, credo sarebbe più soggetto alle tentazioni di groupies o altre tizie che lo seguono nel suo percorso da musicista. Invece, hai visto che anche in Giamaica non ha dato corda a quelle due pazze?» spiegò la mia amica.

Ci pensai un attimo su e annuii. «Mi fido di lui.»

«Ecco, allora metà del lavoro è già stato fatto» mi rassicurò. «Stai tranquilla. Vivi le cose come vengono e non porti troppi problemi. Sono certa che andrà bene.»

«E poi Las Vegas e Los Angeles non sono così lontane...»

Shelley sorrise. «Esatto!»

Chiacchierammo ancora un po', poi decisi di adoperarmi per disfare i bagagli e fare una lavatrice. Prima di mettermi all'opera, ripresi il cellulare e trovai alcuni messaggi vocali di Shavo. Mi sedetti sul bordo del letto e, dopo aver infilato gli auricolari, li ascoltai.


Leah, va tutto bene? Sei arrivata a Las Vegas? Com'è andato il viaggio? Spero che tuo padre non ti abbia disturbato... mi manchi già, dannazione!


Ieri sera Daron ha organizzato una festa per tutti noi. C'eravamo proprio tutti, comprese Lakyta e Miriam! Ci siamo divertiti, ma ora ho un mal di testa terribile... ho esagerato con l'alcol... non ho fatto che pensare a te...


Sento che qualcosa non va, è come se... come se sia successo qualcosa che non ricordo bene... devo chiedere a John, lui ricorda sempre tutto. Forse è il caso che mi metta a preparare i bagagli, alle sette meno venti di stasera abbiamo l'aereo...


Mentre parlava, non faceva che sbadigliare. Controllai l'orario in cui me li aveva mandati: li avevo ricevuti verso le nove e mezza del mattino, il che significava che in Giamaica erano già le undici e mezza. Sorrisi e ascoltai l'ultimo messaggio.


Appena arrivo a Los Angeles, mi organizzo e corro da te. Mi manchi da impazzire, Leah.


Fu un tuffo al cuore sentire quelle parole. Dovetti inspirare ed espirare un paio di volte per potermi calmare e riprendere fiato, poi risposi anch'io con un messaggio vocale, cercando di non dare a vedere la malinconia che mi aveva pervaso dall'istante esatto in cui ero salita in taxi per lasciare lo Skye Sun Hotel.

Gli raccontai brevemente di Medison e delle sue massime spicce in riferimento a Jessica Miller, poi gli parlai di Samantha e Shelley e lo incitai a darsi una mossa per preparare le valigie.

Infine feci una breve pausa, sospirai e conclusi: «Se non corri tu da me, succederà il contrario, Shavarsh».

Dopo aver inviato, presi a piangere in silenzio e, senza rendermene conto, mi addormentai senza più pensare alle valigie da svuotare e ai panni che avevo da lavare.

Ero sfinita e infinitamente triste.

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Capitolo 45
*** LAX ***


ReggaeFamily

LAX

[Shavo]




John non faceva che sghignazzare, mentre mi raccontava ciò che era accaduto la sera prima. E più lui parlava, più i ricordi si materializzavano nuovamente nella mia mente.

Daron, invece, non si era ancora fatto vivo, così io e il batterista avevamo deciso comunque di andare a pranzo senza aspettarlo.

Stavo per intimare a John di smetterla con quell'ilarità non richiesta, quando About A Girl mi informò che qualcuno mi stava chiamando sul cellulare.

Dubitavo fortemente che si trattasse di Leah, anche se ci speravo parecchio. Come sospettavo, non era lei, bensì Serj.

«Oh, Serj! Dimmi» esordii controvoglia, poggiando il gomito del braccio destro sul tavolo e portandomi lo smartphone all'orecchio.

«Ciao, Shavo. Che succede? Ti sento un po' di malumore...»

«Ma niente. Perché mi chiami?» volli sapere, per niente intenzionato a parlare di quanto Leah mi mancasse.

«Volevo solo sapere se devo venire a prendervi al LAX» mi spiegò il cantante in tono pacato, evitando di insistere sul mio stato d'animo.

Pensai al casino che si agitava in quel dannato aeroporto e mi venne in mente che forse sarebbe stato meglio che io e Daron prendessimo un taxi.

«Sei diventato pazzo? Hai idea del casino che troveresti? Prendiamo un taxi, tranquillo» gli risposi.

John mi lanciò un'occhiata ammonitrice, forse voleva farmi notare che mi stavo rivolgendo a Serj in un modo troppo brusco e sgarbato. Il cantante non mi aveva fatto niente di male, riflettei, dovevo smetterla di trattarlo in quel modo.

«Grazie lo stesso, amico. Hai avuto un pensiero carino» aggiunsi, sentendomi sempre più in colpa per il mio atteggiamento indisponente.

«Me lo passi?» mi chiese John.

Gli porsi il cellulare e, mentre lui discorreva con Serj sul traffico infernale che vorticava attorno all'aeroporto più importante di Los Angeles – comunemente denominato LAX dai cittadini abituali –, io mi immersi nei ricordi legati alla sera precedente e mi sentii inghiottire da una caterva di sensi di colpa.


L'aria si era rinfrescata, ma io morivo di caldo.

Bevevo senza ritegno e avvertivo una leggera nausea scandagliare le mie viscere; nonostante ciò, non mi fermai. Volevo annebbiare il ricordo di Leah, volevo dimenticarmi che lei non c'era.

Tutto intorno a me vorticava e le voci si confondevano in un guazzabuglio di sussurri e strilli acuti, risate e grida isteriche.

Ero buttato sulla sabbia, la sentivo penetrare in ogni anfratto, ne ero completamente ricoperto.

Avevo perso la cognizione del tempo, così come il senso della ragione.

A un tratto mi alzai e barcollai verso la riva, volevo bagnarmi il volto, stavo impazzendo per via del caldo. Era colpa dell'alcol.

Mi trascinai verso il bagnasciuga e mi lasciai cadere in ginocchio, immergendo la faccia nell'acqua. Boccheggiai e tossii come un matto, rimettendomi poi a sedere. Poco dopo, scivolai con la schiena contro la sabbia umida e chiusi gli occhi.

«Portatemi un'altra birra» biascicai.

Poco dopo, qualcuno venne a sedersi accanto a me. Ci misi un po' a capire di chi si trattasse.

Riuscii a socchiudere gli occhi e misi faticosamente a fuoco la figura di Lakyta. La ragazza mi sorrideva con malizia e mi porgeva un bicchiere stracolmo.

«Hai sete, Shavarsh?» mi domandò con dolcezza.

«Ho caldo... e voglio bere...» farfugliai.

«Mettiti seduto, da bravo.»

Riuscii a obbedire dopo qualche tentativo. Poco dopo le strappai il bicchiere di mano e lo tracannai senza neanche rendermi conto di cosa stessi bevendo.

«Era solo acqua, tesoro» mi rassicurò Lakyta. «Se non reintegri un po' di liquidi sani, finirai per disidratarti.»

«Liquidi sani... che cazzo significa?»

Lei sorrise. «Non importa. Perché non ti distrai un po', eh? Ti vedo molto triste...»

«Non mi posso distrarre...»

«E perché no?» Lakyta si sporse verso di me e mi appoggiò una mano sulla coscia. «Posso aiutarti se vuoi, sarà un nostro segreto.» Prese a percorrere lentamente il mio interno coscia con dita esperte, risalendo sempre più su verso luoghi che non avrebbe dovuto esplorare né in quel momento né mai.

Stavo per ribattere, per dirle che doveva smetterla, quando un conato di vomito mi sorprese e mi risalì fino alla gola. Senza poter fare nient'altro, mi ritrovai a riversare il contenuto del mio stomaco su Lakyta.

Un grido acuto e stridulo si levò dalla gola della ragazza, la quale non riuscì a muoversi poiché mi ero chinato in avanti e avevo afferrato con forza il suo braccio.

Dopodiché, mi sentii decisamente meglio.


«Tieni.»

La voce di John mi riscosse dai miei pensieri. Posai lo sguardo su di lui e notai che mi porgeva il mio cellulare.

«Ah, grazie» borbottai, rimettendo a posto l'apparecchio. «Serj che dice?»

«Che è preoccupato per te e che preferirebbe andarti a prendere all'aeroporto. Dice che non si fida molto di Daron» raccontò il batterista.

«Fa bene...» Mi premetti le mani sulle tempie. «Cazzo, sto di merda.»

«Non oso immaginare quanto sarà divertente il tuo viaggio in aereo» commentò John, riprendendo a esaminare il menu che il ristorante dello Skye Sun Hotel offriva.

«Non mi ci fare pensare! E ieri ho combinato un bel casino...»

John sorrise appena. «Macché. Non hai permesso a Lakyta di fare niente. Stai tranquillo.»

«Però mi ha messo le mani addosso...»

John chiuse di scatto il menu, lanciò un'occhiata al suo orologio da polso e si alzò. «Smettila di farti le seghe mentali. Io vado a vedere se Bryah si è svegliata e se ha voglia di venire a pranzo, tu ordina qualcosa anche per me, okay? Non piatti strani, mi raccomando» concluse, per poi avviarsi fuori dalla grande sala.

Sospirai a presi a scandagliare con poco interesse il menu che John aveva abbandonato sul tavolo. Stavo per fare cenno a un cameriere affinché si avvicinasse, quando Daron mi raggiunse.

Sembrava contento e decisamente di buonumore, tanto che mi regalò un abbraccio fraterno e mi batté con forza su una spalla.

«Malakian, per favore... ho mal di testa» borbottai.

«Su con la vita! Ehi, ma cos'è quell'espressione da zombie?» indagò, scrutandomi con più attenzione.

«La tua idea di invitare Lakyta al falò di ieri è stata a dir poco riprovevole» sibilai tra i denti.

«Riprovevole. Shavo, mi stai diventando aulico, dev'essere l'assenza di una certa ragazzina piuttosto rachitica ed esuberante.»

«Chiudi il becco.»

«Che antipatico! Che ha combinato la cameriera più zoccola del pianeta?» mi chiese, rubandomi il menu per dargli un'occhiata.

«Ci ha provato con me. Ha la stoffa per venire a Hollywood, ma non in ambito cinematografico...» gracchiai.

«Guadagnerebbe un patrimonio per le strade più famose della nostra adorata cittadina» ironizzò il chitarrista. «Oggi voglio mangiare del riso! Tu ne vuoi?»

«Fa lo stesso...»

Daron gettò un'occhiata alla sedia vuota accanto alla mia. «Com'è che John è in ritardo?»

«Te lo sei perso per un pelo. Era qui fino a dieci minuti fa, è andato da Bryah...»

Il chitarrista si rabbuiò. «Brutta storia, quella della giornalista» osservò.

«Già.»

«Odadjian, la smetti o no di rispondermi a monosillabi?» mi rimproverò in tono allegro. «Coraggio! Non sei contento di aver risposto alle avances di quella gatta morta con tutto ciò che avevi dentro di te? È stato uno scambio profondo» proseguì con estrema ironia.

«Sì, con tutta la mia anima» convenni, per poi ritrovarmi a sorridere. «In effetti... ben le sta.»

«Appunto! Di che ti preoccupi? Se lo raccontiamo a Leah, scommetto che non smette di ridere per una settimana intera!»

Gli mollai un pugno sul braccio. «Non pensarci neanche. Non devi dirglielo.»

Lui sbuffò. «Che palle, Shavo! Perché vuoi nasconderglielo? Non hai fatto niente di male, okay? Se lei dovesse scoprirlo in seguito, si incazzerebbe come una iena e ti manderebbe al diavolo. Vuoi commettere nuovamente l'errore di mentirle in maniera ingiustificata?»

Ci pensai un po' su e sospirai. «Forse hai ragione, però non vorrei ferirla» ammisi.

«Ferire le persone è all'ordine del giorno. L'importante è essere sinceri e coscienziosi.» Daron mi sorrise con fare ammiccante. «Non la ferirai, tranquillo! Oh, ecco Johnny!» saltò su poi, sbracciandosi come un ossesso per salutare il batterista.

Incontrai lo sguardo di John e mi parve preoccupato. Era da solo, Bryah non era in sua compagnia.

Mi accigliai. «Perché non è scesa?» gli chiesi, non appena il mio amico si sedette a tavola.

«Dice di non sentirsi molto bene. Le gira la testa e non ha fame...»

«Non va bene così, cazzo» sbottò Daron. «John, meno male che rimani con lei, altrimenti non so come potrebbe sopravvivere, poveretta...»

«Già, Daron ha ragione. Sei un eroe» dissi a John con ammirazione.

Il nostro amico negò con un cenno della mano. «Non siate sciocchi, non sono affatto un eroe. Faccio quel che devo, quel che è giusto e che mi sento» minimizzò.

«Be', allora? Ordiniamo qualcosa da mangiare o volete che diventi cannibale e sbrani voi due in un sol boccone?» sbottò Daron, sventolando il menu.

Io e John ci scambiammo un'occhiata e scoppiammo a ridere.


«Mi raccomando, abbiate cura l'uno dell'altro, altrimenti Serj se la prenderà con me» concluse John, mentre io e Daron ci sistemavamo meglio sul sedile posteriore di un taxi che ci avrebbe portato all'aeroporto.

Poco prima di lasciare l'albergo, avevamo salutato Dayanara, Alwan e Miriam. Di Cornia e Lakyta non c'era stata traccia, sospettavo che quei due si fossero appartati da qualche parte per consumare l'evidente attrazione che intercorreva tra i loro corpi giovani e aitanti.

Mi sentivo triste all'idea di abbandonare la Giamaica, ma sicuramente anche sapere che John sarebbe rimasto lì un po' mi inquietava. Lui e Serj erano i due membri della band che riuscivano in qualche modo a tener testa alle cazzate di Daron e al mio modo impulsivo di agire, ma senza uno dei due nei paraggi non sapevo come sarebbero andate le cose.

Daron, inoltre, una volta rientrato a Los Angeles, avrebbe dovuto scoprire il motivo che ci aveva spinto a partire così in fretta e io non osavo immaginare come sarebbero andate le cose. Il chitarrista, spesso, tendeva a chiudersi in se stesso quando c'erano dei grossi problemi da risolvere, e nella maggior parte dei casi soltanto John era in grado di riscuoterlo. Sapeva come prenderlo, sapeva quando parlargli e cosa dirgli. Io, al contrario, ero più propenso a incazzarmi e prenderlo con le maniere forti, mentre Serj pareva troppo buono e condiscendente nei suoi confronti, come se temesse di ferirlo o di indisporlo fino a indurlo a una totale chiusura nel suo abisso di rabbia.

«Johnny, fai il bravo e pensa a riguardarti. Ricordati di fare ginnastica tutti i giorni e di mangiare le verdure» recitò Daron, pizzicando il braccio del batterista.

«Che spiritoso. Non combinare casini in mia assenza, altrimenti prendo il primo volo per Los Angeles e ti gonfio di botte» lo minacciò John in quella che considerai una via di mezzo tra un tono serio e uno divertito.

«Agli ordini!»

Io e John ci scambiammo un'occhiata complice. Ero certo che stessimo pensando alla stessa cosa, ovvero a quanto Daron avrebbe dato di matto quando avrebbe scoperto la faccenda della ragazza che diceva di essere sua figlia. In quel momento desiderai che il batterista salisse su quel fottuto aereo con noi, ma sapevo che non era possibile.

«Saluta tanto Bryah» conclusi.

John annuì e ci rivolse un ultimo cenno di saluto.

«Possiamo andare» comunicai al tassista.

Poco dopo, il veicolo si allontanò dal vialetto d'accesso allo Skye Sun Hotel.


«Me lo dici o no?»

«Daron, ti ho detto che non posso. Ne parliamo a casa.»

«Sei uno stronzo. Prima accenni a qualcosa, poi ritiri tutto e mi lasci sulle spine. Bell'amico di merda.»

«Grazie, ricambio il complimento con la stessa enfasi.»

«Pezzente.»

«Altrettanto.»

Sospirai. Daron, da quando eravamo partiti per Los Angeles, non faceva che parlare a vanvera. Avrei voluto dormire durante il viaggio, invece lui insistette per estorcermi informazioni che, al momento, non potevo dargli.

Avevo commesso il madornale errore di dirgli che, una volta giunti da Serj, avremmo dovuto discutere di una questione piuttosto urgente e importante, e da allora non mi aveva dato tregua.

«Dai, me lo dici?»

Sbuffai sonoramente. «È inutile che insisti, tanto non ti dirò una sola parola. Perché, anziché rompere i coglioni, non mi racconti perché stamattina eri così allegro? Sei arrivato a pranzo con un sorriso da ebete stampato in faccia» cambiai argomento.

«Eh no, dev'essere uno scambio equo, altrimenti non se ne fa nulla.»

Sbuffai ancora. «Fa' come ti pare...»

Rimanemmo in silenzio, ma quell'idillio durò fin troppo poco per i miei gusti.

«Se proprio ci tieni a saperlo...» azzardò il chitarrista, afferrando distrattamente una rivista che il personale dell'aereo aveva incastrato in uno scomparto del sedile di fronte al suo.

Il giornale gli scivolò di mano e si aprì su una pagina a caso, atterrando sul tavolino che il chitarrista aveva precedentemente abbassato per poterci poggiare i gomiti.

Notai che il suo volto impallidiva vistosamente e mi sporsi nella sua direzione per cercare di capire cosa avesse creato una tale reazione in lui. Sulla pagina sinistra della rivista, sorridente e bella come non era mai stata in realtà, la modella Jessica Miller occupava gran parte dello spazio con una foto a mezzo busto. I capelli erano mossi e lunghi, il viso magro e smunto ricoperto da tonnellate di trucco, le labbra dipinte di rosso fuoco e gli occhi contornati di nero erano atteggiati in modo da conferirle un'aria accattivante e superba.

Mi si rivoltò lo stomaco. «Orribile» mi lasciai sfuggire.

Daron richiuse con forza la rivista e la lasciò cadere a terra, calpestandola con i piedi.

Non aprì più bocca, neanche dopo essere tornato dal bagno. Mi resi conto che aveva pianto soltanto quando catturai per un istante il suo sguardo, ma il chitarrista si premurò immediatamente di nasconderlo. Si infilò le cuffie alle orecchie e trascorse il resto del viaggio immerso in se stesso.

Non avevo proprio idea di come avremmo potuto parlargli della sua presunta figlia, non era proprio il momento.

Riuscii a dormire per circa un'ora, il che mi restituì più energie di quante me ne aspettassi.

Quando scesi dall'aereo, ebbi come l'impressione di poter affrontare qualunque avversità si presentasse sul mio cammino.


«Oddio, l'apocalisse!» sbottò Daron, mentre ci immergevamo nella baraonda rappresentata dal LAX e dai suoi innumerevoli passeggeri. Mi sentivo confuso ogni volta che mi ritrovavo in quel luogo, dal momento che il nostro aeroporto internazionale era uno dei più caotici che avessi mai visto.

Mi guardai attorno, spaesato. Avevo viaggiato innumerevoli volte ed ero stato al LAX più di quanto non avessi frequentato casa mia, ma ogni volta era difficile non perdere l'orientamento.

Riuscimmo maldestramente a recarci all'area del ritiro bagagli e ci infilammo tra la folla, beccandoci imprecazioni e insulti da una massa informe di persone.

Una volta recuperate le nostre valigie, eravamo pronti a partire alla ricerca di un taxi, quando qualcosa attirò la nostra attenzione.

Qualcuno, a pochi metri da noi, reggeva in mano un cartello bianco che recava la scritta:


DARON


Ci scambiammo un'occhiata interrogativa, per poi posare nuovamente lo sguardo sulla figura femminile che stava immobile con il foglio rettangolare in mano e si guardava attorno con circospezione.

«Cosa significa?» fece Daron perplesso.

Un bruttissimo presentimento si fece largo in me, ma non riuscii ad aprir bocca, poiché il chitarrista si era già messo in marcia verso la sconosciuta.

Lo seguii con rassegnazione, portandomi dietro i bagagli e una spropositata dose di ansia.

«Scusa, cerchi me?» esordì Daron, piazzandosi proprio di fronte a lei.

La ragazza lasciò scivolare il cartello e sorrise a trentadue denti. I suoi occhi brillavano ed erano sgranati a causa dell'incredulità.

«Sei... sei davvero tu? Daron?» balbettò la tizia, portandosi una mano all'altezza del cuore.

Lui si strinse nelle spalle. «Sì. E tu chi saresti?» le domandò.

Lei fece un passo avanti. «Sono tua figlia.»

Daron impallidì come un cencio.

«Cazzo» imprecai.

La ragazza scoppiò a piangere e si gettò di slancio tra le sue braccia.

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Capitolo 46
*** You I need ***


ReggaeFamily

You I need

[John]




«E adesso?»

Mi voltai verso Bryah e la scrutai, trovando un'espressione leggermente confusa dipinta sul suo bel viso.

«E adesso...» riflettei. Mi portai una mano sul mento e cercai qualcosa di sensato da dire. Daron e Shavo erano partiti da poco e io ero rimasto da solo con Bryah, indeciso sul da farsi.

Il giorno prima eravamo stati al commissariato. Ci era voluto molto impegno per convincere Bryah a parlare; anche una volta raggiunta la stazione di polizia, lei aveva opposto un po' di resistenza, ma poi aveva compreso appieno la situazione drammatica in cui si trovava.

Ripensare a quei momenti mi metteva addosso non poca ansia, ma ero certo che lei avesse fatto la cosa giusta.


«Signorina Philips, mi dica tutto. So che è difficile, il signor Dolmayan mi ha accennato qualcosa, ma ovviamente devo sentire la sua versione dei fatti, che sicuramente sarà più completa. Lei capisce, vero?» esordì il poliziotto corpulento che sedeva dietro la scrivania. Aveva di fronte a sé un taccuino con una penna, e aveva appena acceso un registratore. Voleva essere certo di non perdere nessuna delle informazioni che Bryah gli avrebbe comunicato. Mi aveva spiegato che, per esperienza, sapeva che le vittime di violenza erano restie a parlare più di una volta.

«Certo, capisco... ma per me è molto difficile.»

«Lo so, me ne rendo perfettamente conto. Mi dica, innanzitutto, in che rapporti è con Benton McGregor?» le domandò l'uomo, rivolgendole un'occhiata benevola.

Bryah esitò per un istante. «Prima di... insomma, eravamo fidanzati» rispose poi con un filo di voce.

«Certo. Il signor McGregor aveva mai alzato le mani su di lei prima d'ora?» proseguì il poliziotto.

Bryah tacque per almeno un minuto. Io, seduto al suo fianco su una scomodissima sedia di legno, le posai una mano sul braccio e glielo strinsi leggermente.

Infine lei annuì. «Solo una volta, ma io non ci ho fatto caso.»

«Mi racconti» la incoraggiò l'uomo, afferrando la penna.

«Una volta siamo usciti. Ci siamo recato al Fyah, un locale poco distante da casa nostra. Era il compleanno di un suo amico, ci aveva invitato là a bere qualcosa per festeggiare. Ci siamo divertiti, mi creda. Abbiamo ballato e io non ho bevuto, perché sono... ero astemia. Benton, invece, lui beveva, ma non esagerava. Quel giorno non ha fatto eccezione. Solo che, quando siamo rientrati a casa, mi ha accusato di aver ballato in maniera equivoca con un ragazzo. Ha detto che qualcuno gli aveva riferito questa notizia e così... mentre cercavo di fargli capire che non era assolutamente vero, lui ha dato di matto e mi ha mollato un ceffone. Ma poi si è subito reso conto di aver esagerato e mi ha chiesto scusa, mi ha abbracciato e...» Bryah si interruppe e si portò entrambe le mani sul viso.

«Signorina Philips, lei gli ha creduto. Ha creduto alle sue scuse, non è così?»

Bryah annuì lentamente. «Purtroppo sì. E non avrei dovuto. Non avrei dovuto neanche... concedermi a lui, dopo... oddio...»

Si stava agitando, e anche io sentivo una rabbia indicibile stringermi il petto e ribollirmi nelle vene. Tuttavia, mantenni la calma e, quando lei cercò il mio sguardo, le sorrisi appena e tentai di infonderle più sicurezza possibile. Non volevo rovinare tutto, avrei avuto modo di sfogarmi in un altro momento.

«Vada avanti. Mi racconti cos'è successo due sere fa» la esortò il poliziotto, scribacchiando sul suo taccuino.

«Va bene.» Bryah sospirò, potevo quasi immaginarla mentre prendeva il coraggio tra le mani e lo spingeva verso l'esterno, pronta a combattere quella terribile battaglia. Avrei voluto abbracciarla forte e proteggerla finché ne avessi avuto l'occasione, ma ora dovevo lasciare che parlasse e non si lasciasse influenzare dalla mia presenza.

La giornalista sospirò ancora e poi riprese a parlare: «Sono stata con John. Ho tradito Benton, ma lui non lo sa. Il punto è che... sentivo che le cose con il mio compagno non funzionavano già da tempo. Dopo l'episodio che le ho raccontato prima, be', non mi sono più sentita del tutto al sicuro con Benton. A me stessa raccontavo delle grosse frottole, mi dicevo che un errore del genere poteva capitare, che sicuramente sarebbe stato un caso isolato... ma sicuramente sentivo nel profondo che il nostro rapporto si era spezzato irrimediabilmente. Quando sono rientrata a casa con John e i suoi amici, due sere fa, speravo che Benton non ci fosse. Inizialmente, infatti, la casa era deserta. Dovevo soltanto cercare un cellulare da regalare a uno di loro, visto che il suo è caduto in acqua ed era inutilizzabile. Solo che nel frattempo lui è arrivato e... ho temuto il peggio».

«In che senso?» volle sapere l'agente.

«Conosco bene Benton. Quando ha visto tutta quella gente dentro casa nostra, si è incazzato parecchio. Loro hanno provato a rabbonirlo, ma io sapevo di dover rimanere con lui per dargli delle spiegazioni. Ho finto che andasse tutto bene, ma dentro di me mi sentivo morire perché...» Gli occhi le si velarono di lacrime, ma lei le trattenne. Mi lanciò un'occhiata colma di rabbia verso se stessa e non riuscì a proseguire.

«Capisco, perché sentiva di far soffrire il signor Dolmayan. È corretto?» la aiutò il poliziotto.

Bryah assentì. «Solo che... quando io e Benton siamo rimasti soli, lui ha cominciato a farmi un sacco di domande. Era chiaramente arrabbiato, sospettava qualcosa. Devo aver detto, a un certo punto, una frase che deve avergli dato le conferme che cercava. Così... ha cominciato a picchiarmi, a insultarmi, a...» Si interruppe e strinse i pugni. «Mi ha fatto male, molto male... allora ho capito, mentre cercavo invano di difendermi, che le cose sarebbero andate sempre peggio. Mi sono ricordata della sua gelosia e del suo schiaffo il giorno del compleanno del suo amico. Ho ricollegato tutto, e ho pensato subito che non volevo più stare lì con lui. Ho deciso, quasi senza rendermene conto, che non sarei diventata una delle tante vittime di violenza che non riescono a riemergere da quell'orribile tunnel. E ho sentito di potercela fare perché John era in Giamaica. Forse non mi avrebbe accolto a braccia aperte, dopo ciò che gli avevo fatto, ma ci speravo. Era il mio unico appiglio.»

«Allora cosa ha fatto?»

«Ho lasciato che si sfogasse. Quando ormai non aveva più voglia di prendersela con me, ho aspettato che il dolore passasse, che diminuisse almeno un po'... non ricordo bene cosa ho fatto, so solo che a un certo punto sono uscita di casa. Non avevo con me neanche il cellulare, neanche le chiavi, neanche dei vestiti, niente... ho preso un taxi nei pressi del Fyah, era tarda notte. Non ho idea di che ore fossero, so solo che mi sono accasciata sul sedile posteriore dell'auto e sono riuscita a malapena a dare all'autista il nome dell'albergo.»

«In quale albergo si è fatta accompagnare?» domandò l'agente, pronto ad annotare nuove informazioni sul blocco di fronte a sé.

«Lo Skye Sun Hotel, dove John e i suoi amici hanno alloggiato durante la loro vacanza in Giamaica. Quando sono arrivata, qualcuno mi ha aiutato a raggiungere la stanza di John, ma lui non c'era. Sono rimasta fuori ad aspettarlo, non avevo più la forza di muovermi.»

«Ricorda chi l'ha aiutata?»

Bryah scosse il capo. «No, ma suppongo si trattasse dello stagista che fa il turno di notte all'hotel, anche se non ne sono certa.»

Il poliziotto annuì assorto. «Immagino non sia in grado di descrivermi l'autista che l'ha accompagnata in taxi o di ricordare la targa o il numero dell'auto» commentò con fare retorico.

«No, mi dispiace.»

«Lei è il signor McGregor stavate insieme da molto tempo?» cambiò argomento lui, posando gli occhi scuri su Bryah.

«Circa... due anni e mezzo, mi pare. E lui mi ha tradito molte volte. Io l'ho sempre perdonato, ho sempre creduto alle sue stronzate. Mi perdoni per il termine, ma è vero. Mi ha mentito senza ritegno, e quando ha sospettato che io lo avessi imitato, è impazzito per la troppa gelosia.»

L'agente annuì ancora, poi spostò gli occhi su di me. «Signor Dolmayan, mi racconti come ha trovato la signorina Philips. Perché non si trovava nella sua stanza d'albergo?»

Mi schiarii appena la gola. «Non riuscivo a dormire, così sono stato per un po' sulla terrazza panoramica dell'albergo. Quando sono ridisceso, l'ho trovata rannicchiata di fronte alla porta della mia stanza. In realtà, ho condiviso la camera con il mio collega e amico Shavo Odadjian, ma lui non ha dormito là durante quella notte, ecco perché Bryah non ha trovato nessuno ad accoglierla.»

«Capisco. Si è accorto che qualcosa non andava?» mi chiese ancora il poliziotto.

«Certamente. Bryah era sconvolta. E aveva il viso gonfio, l'espressione smarrita e colma di disperazione. L'ho fatta entrare in camera e le ho chiesto cosa fosse successo. Mi ha detto qualcosa, ma era troppo scossa per parlare con lucidità.»

L'uomo sospirò appena. «Capisco. Bene, signorina Philips, devo chiederle un'ultima cosa: un operatore dovrà scattarle delle foto, non ci vorrà molto. Serviranno come prove per inchiodare quel bastardo. Mi rendo conto che per lei deve essere uno sforzo insopportabile, ma vedrà che questo servirà davvero.»

Bryah annuì, sembrava già più sicura di sé, come se parlare con quel poliziotto le fosse servito per rendersi conto di ciò che le era successo e per capire quanto fosse importante non arrendersi.

«Ora non ho più paura, farò ciò che è necessario» affermò infine, afferrando la mia mano per poi stringerla con forza.


Era stato difficile, per Bryah, struccarsi e spogliarsi, mostrando i lividi e le abrasioni che Benton le aveva inferto. Io ero rimasto fuori, avevo molta paura di scoprire cosa realmente quel bastardo le avesse fatto.

E ora, nel ripensarci, mi sentivo invadere da una rabbia straziante.

«John, a cosa pensi?»

Mi riscossi in fretta e tornai a fissare Bryah. «Penso a tutto questo. E penso che non voglio più pensarci.» La presi per mano. «Andiamo in camera mia.»

Lei concordò con un breve cenno del capo e ci avviammo nuovamente all'interno dell'albergo. Dayanara se ne stava dietro il banco della reception e armeggiava con il computer, sbuffando rumorosamente.

Quando passammo di fronte alla sua postazione, mi fermai un istante. «Che succede?» gli chiesi.

Il receptionist scrollò le spalle. «Quell'incompetente di Markus ha combinato un casino con il computer. Dev'esserci entrato un virus o qualcosa del genere, è lentissimo e non funziona come dovrebbe. Se almeno il tecnico si decidesse ad arrivare!» mi spiegò il ragazzo.

«Lo stagista, intendi? Ho notato che non fa che giocare al pc quando si trova qui» commentai.

«Proprio lui. Che rottura, ci mancava solo questa...» bofonchiò lui, passandosi una mano sul viso stravolto dalla stanchezza.

Proprio in quel momento, qualcuno fece il suo ingresso nella hall e si precipitò accanto al banco. «Ciao a tutti!» strillò Cornia, sorridendoci a trentadue denti. «Ehi, Day, perché hai quella faccia?»

«Problemi con il computer, colpa di Markus» rispose il receptionist in tono piatto.

«Fa' vedere» si offrì subito il barista, aggirando il banco e posizionandosi accanto a Dayanara.

«Sei sicuro? Ho chiamato il tecnico, dovrebbe arrivare a momenti... ci manca solo che tu combini qualche altro disastro!»

Cornia gli lanciò un'occhiataccia e prese a smanettare velocemente sulla tastiera, ignorando completamente la presenza del mouse. «Hai un tecnico qui e ne chiami un altro che ti farà spendere una fortuna? Sei proprio un deficiente» lo accusò, sorridendo con fare malizioso.

Rimanemmo tutti a fissarlo e, cinque minuti dopo, Cornia esclamò: «Et voilà! Mi devi un caffè, genio».

Dayanara fissò attonito lo schermo del computer e ammutolì.

«Telefona al tuo tecnico e digli che non serve più che sprechi il suo tempo e arrivi fin qui» sbuffò ancora il barista, stiracchiandosi.

«Come hai fatto?» protestò Dayanara. «Perché tu ci riesci e io no?»

«Perché io sono più intelligente di te» si pavoneggiò Cornia.

«Ti ricordo che non hai saputo accendere il fuoco ieri sera» intervenni in tono scherzoso.

Cornia mi indirizzò una linguaccia. «Però Lakyta me l'ha data, quindi sono in vantaggio in ogni caso» spiegò con orgoglio.

«Sapessi che vantaggio...» bofonchiò Dayanara, alzando gli occhi al cielo, mentre Bryah ridacchiava e io rimanevo basito da quella rivelazione. Possibile che quella ragazza non avesse uno straccio di dignità?

«Sei geloso, Dayanara?» lo apostrofò il barista.

«Neanche un po'» proferì l'altro con estrema serietà.

Qualche cliente fece il suo ingresso nella hall, così io e Bryah decidemmo di lasciare Dayanara al suo lavoro e ci dirigemmo verso gli ascensori, seguiti da un allegro e soddisfatto Cornia.

«Ora vado a trovarla. Non ne ho avuto abbastanza, sapete?» ci disse il ragazzo, infilandosi nel box con impazienza.

«Interessante» borbottai.

«Ma insomma! Perché in questo posto siete tutti così seri? E fatevi una cazzo di risata, ogni tanto! Il sesso è una cosa normale e bellissima, specialmente quando si tratta di ragazze esperte e avvenenti come Lakyta...» continuò a blaterare.

Io e Bryah ci scambiammo un'occhiata confusa, poi scoppiammo a ridere.

«Oh, ecco! Così va meglio! Quindi, ragazzi miei, dateci dentro, eh? La vita è una sola!» strepitò ancora.

«Piantala!» farfugliai, sentendomi in imbarazzo.

«Che impertinente! Che ti importa di noi?» lo punzecchiò Bryah, e in quel momento riconobbi un'ombra della donna esuberante e allegra che avevo conosciuto e per cui avevo perso la testa.

«Era solo un consiglio!»

«Grazie, ci penseremo su» lo rimbeccò ancora lei, scoccandogli un sorriso malizioso. «Ma in cambio, tieniti per te i dettagli scabrosi delle tue avventure con Lakyta. Ci stai?»

«Che ragazzi pudici che siete! Ah, non esiste più la gioventù di una volta...» Cornia scosse il capo, fingendosi indignato.

Mi ricordava molto Daron quando si comportava così. A quel punto pensai al chitarrista: chissà come sarebbe andato il viaggio, chissà quando avrebbe scoperto dell'esistenza di una sua potenziale figlia, chissà come avrebbe reagito...

E Shavo? Ce l'avrebbe fatta a riprendersi dalla separazione con Leah? Mi sentivo in pensiero per i miei amici, ma soprattutto in colpa nei confronti di Serj che avrebbe dovuto badare a entrambi durante la mia assenza. Fortunatamente aveva accanto a sé quella santa donna di Angela, lei che riusciva sempre a fare da mamma un po' a tutti noi e riusciva quasi sempre a badare a Daron e Shavo senza troppi problemi.

«Ciao Cornia» lo liquidò Bryah quando le doppie porte dell'ascensore si schiusero e noi giungemmo finalmente al terzo piano.

«Sì, ciao ragazzi...» replicò in un borbottio il barista, improvvisamente assorto in chissà quali pensieri.

Mentre procedevo verso la mia stanza, aggrottai la fronte. «Quel ragazzo è strano» riflettei.

«Un po', ma è simpatico. Mi è sembrato di vedere... Daron.»

Mi voltai verso di lei. «Ho pensato la stessa cosa.»

Bryah si strinse nelle spalle. «Ma Daron è insuperabile» concluse con sottile ironia.

«Esatto.» Aprii la porta e le feci cenno di entrare. «Accomodati, questa ora è anche camera tua.»

Lei parve leggermente indecisa, come se all'improvviso si sentisse timida all'idea di occupare quello spazio in cui, fino a quel momento, si era sentita un'ospite.

La afferrai delicatamente per mano e la guidai all'interno, per poi richiudermi la porta alle spalle.

Io e lei ci fissammo per un lungo istante.

«Eccoci.» Bryah sospirò. «John, non so da dove cominciare.»

«In che senso?»

«La mia vita ora è finita. Non so se voglio rimanere in Giamaica, non so se questo luogo mi appartiene ancora» mi spiegò in tono malinconico.

«Non devi lasciare che questa storia di Benton ti rovini tutto. Hai un lavoro che ti piace al Kingston Times e sicuramente hai delle persone a cui vuoi bene, qui. Inoltre, hai conosciuto nuovi amici durante questi ultimi tempi, no? Tu e Alwan avete scoperto di avere qualcosa in comune, e poi...» Non sapevo se continuare, mi resi conto di non sapere molte cose su Bryah. «La tua famiglia ti mancherebbe molto.»

Lei mi rivolse un sorriso dolce e triste. «Su questo hai ragione. I miei genitori adottivi sarebbero l'unica ragione per cui potrei decidere di restare, ma non vorrei mai crear loro dei guai. Non gli ho detto niente di Benton, non devono saperlo.»

«Capisco» farfugliai, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe. Improvvisamente gli anfibi neri che indossavo erano diventati così interessanti...

«John?» mi richiamò lei. «Non ti avevo detto che sono stata adottata, vero?»

Scossi appena il capo.

«Non è un trauma per me. L'ho sempre saputo e sono felice così. Non mi è mai importato conoscere i miei veri genitori. Per me è come se loro non esistessero, perché da mamma e papà ho ricevuto tutto l'amore possibile.» Sospirò. «Spesso i genitori biologici non riescono ad amare i loro figli. Mi ritengo fortunata.»

Quanto ero d'accordo con lei. Il rapporto che avevo con mio padre, da sempre, era stato tormentato e colmo di ben poco affetto. C'erano sempre state incomprensioni tra noi, lui avrebbe voluto qualcosa di diverso da me, era rimasto deluso in più occasioni e non aveva cambiato idea quando si era reso conto che suo figlio era diventato un batterista piuttosto conosciuto.

«Allora non puoi andartene» le dissi, sollevando nuovamente lo sguardo su di lei.

La trovai a pochi centimetri da me, indecisa se toccarmi oppure no. Probabilmente era rimasta impressionata dalla mia reazione.

«Non lo so, John.» Lascio cadere le braccia lungo i fianchi. «Sono decisioni difficili.»

«Non devi per forza prendere adesso una simile decisione. Prenditi un po' di tempo per te, per riflettere...»

Bryah annuì. «Hai ragione.» Mi regalò un sorriso luminoso. «Pensi che un viaggio a Los Angeles potrebbe aiutarmi?»

Spiazzato da quella domanda, rimasi immobile e incapace di rispondere, mentre avvertivo un piccolo sorriso accarezzarmi le labbra.

«Suppongo che quel sorriso valga più di un milione di parole, vero?» mi chiese, accostandosi finalmente a me. Mi abbracciò con forza e nascose il viso sul mio petto.

«Indovinato. Sei sicura di voler venire?» le domandai, ricambiando la sua stretta.

«Sicurissima. Dopodiché, sono certa che saprò decidere cosa fare della mia vita. Mi farà bene cambiare aria, come a voi ragazzi ha fatto bene venire qui. Almeno spero.»

Posai due dita sotto il suo mento e la costrinsi a sollevare il viso. «Per me è stato molto utile» confermai, per poi catturare le sue labbra in un delicato bacio.

La prima volta in cui avevamo fatto l'amore, tutto era stato frenetico e quasi incontrollabile. I nostri gesti si erano rivelati nervosi e impetuosi, tant'era stata la foga con cui avevamo desiderato di spogliarci e unirci l'uno all'altra in quella stretta fatale.

Stavolta, invece, tutto si rivelò più lento e cadenzato, guidato dalla consapevolezza che pian piano era nata e cresciuta tra noi. Evitai di soffermarmi troppo sui lividi che ancora cospargevano il corpo di Bryah, sapevo che non le avrebbe fatto piacere.

A un certo punto, mentre facevo per sfilarle i leggeri pantaloni in cotone verde militare, lei si irrigidì impercettibilmente. Forse sperava che non me ne accorgessi, ma io notai subito quel cambiamento e mi arrestai di colpo.

«Che fai, John?» sospirò, carezzandomi con estrema lentezza il torace.

«Se non te la senti, me lo devi dire» mormorai, cercando il suo sguardo.

«No, ma che dici?»

«Ho notato come hai reagito. Ehi, non mentirmi.»

Bryah sospirò appena e mi attirò a sé, stringendomi con forza. «Non mento. Voglio stare con te, adesso. Capito? È vero ciò che mi hai detto prima, sai?»

La baciai sul collo, lentamente, poi sussurrai: «Cosa?».

«Lui non può rovinarmi la vita, non lascerò che mi rovini tutto questo. John, adesso smetti di pensare e di preoccuparti. Continua a spogliarmi.»

Sorrisi sulla sua pelle calda e bruna, beandomi ancora del suo sapore delizioso e indescrivibile.

Finii di spogliarla in pochi istanti, poi la tenni stretta con fare protettivo, mentre la baciavo sulla fronte e la facevo mia.

Fu bello prendersi cura l'uno dell'altra senza fretta, senza paura, senza ripensamenti. Fu appagante, davvero, ancor più perfetto della prima volta.

In quel caso fui davvero convinto che non avrei più abbandonato l'angolino di cielo in cui Bryah mi aveva spinto. L'avrei aiutata in ogni modo a ricostruire la sua vita, e se lei lo avesse voluto, le sarei stato accanto e l'avrei sostenuta ogni volta che avesse rischiato di cadere.

Sentivo di doverlo e volerlo fare, mi sentivo legato a quella donna, lei che si era affidata a me fin dal primo istante, colei in cui ero riuscito a riporre la mia fiducia fin da subito, colei che mi aveva rubato il cuore ancor prima che me ne rendessi conto.

«Sì, John, verrò a Los Angeles. Magari, mentre penso a cosa fare, potrei cominciare a lavorare sul libro che voglio scrivere sui System. Che ne pensi?» mi propose Bryah, stiracchiandosi tra le mie braccia.

Io, che stavo gradualmente riprendendo a respirare regolarmente, ridacchiai. «Davvero vuoi scrivere quel libro? Non guadagnerai un centesimo. La mia band non è poi così amata...»

Lei sbadigliò e si rannicchiò contro il mio petto. «Non dire sciocchezze. Siete fantastici e avete un sacco di fan in tutto il mondo. Diventerò ricca sfondata e allora mi prenderò gioco di te.»

«Affare fatto» mi arresi, massaggiandomi un occhio. Avevo decisamente bisogno di dormire, ma ancora non avevamo cenato.

«Sei stanco?»

«Abbastanza. Ma ho anche fame.»

«Anch'io. E se ordinassimo qualcosa e la mangiassimo qui?» propose Bryah, quasi mi leggesse nel pensiero.

«Ci sto» affermai.

Proprio mentre mi allungavo verso il comodino per ordinare la nostra cena, il mio cellulare prese a squillare con i soliti tempi dispari di batteria. Sbuffai e mi resi conto che mi sarei dovuto alzare, poiché lo avevo abbandonato nella tasca dei jeans che giacevano a qualche metro dal letto.

«Ordino io la cena, tu rispondi al cellulare. Potrebbe essere importante.»

Mi alzai controvoglia e ripescai il telefono. Proprio quando stavo per rispondere, apprendendo che si trattava di Serj, la chiamata cessò. Imprecai e, dirigendomi in bagno, ricomposi il numero e aspettai che il cantante mi rispondesse.

«John!» esordì lui. Era agitato, insolitamente agitato.

«Cosa succede?» gli chiesi subito.

«Un disastro» sospirò. «Un fottuto disastro.»

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Capitolo 47
*** This Shit ***


ReggaeFamily

This Shit

[Daron]




Occhi scuri, dal taglio vagamente orientale, grandi ed espressivi. Labbra sottili, carnagione pallida e un naso a patata leggermente grande per il suo viso magro. Era carina.

La spinsi via, con noncuranza, e scrollai il capo con indignazione. Mi stava prendendo per il culo, era palese.

Shavo era pallido in viso e stringeva convulsamente l'impugnatura del suo bagaglio. Spostava freneticamente lo sguardo da me alla ragazzina e sembrava molto preoccupato e agitato per quella situazione. In un'altra occasione sarebbe scoppiato a ridere e avrebbe buttato lì qualche battuta a proposito della solita fan esaltata che cercava soltanto un modo per entrare nella mia vita, ma stavolta sembrava non avere nessuna intenzione di scherzare o ironizzare sull'accaduto.

Perché?

«Shavo, che succede?» gli chiesi, lanciandogli un'occhiataccia. «Che ti prende?»

«Perché mi tratti così?» intervenne la ragazza, facendo nuovamente un passo verso di me.

Istintivamente, indietreggiai. «Ti prego di andartene e lasciarci in pace. Non abbiamo tempo per chiacchierare, sarà per un'altra volta» le dissi freddamente.

«Ma io non voglio andarmene! Devi ascoltarmi, io sono tua figlia!» protestò ancora lei.

Stavo seriamente cominciando ad alterarmi. Sbuffai e la fissai con sguardo tagliente. «Si può sapere cos'è questa storia? Con quale coraggio ti presenti in aeroporto e ti inventi di essere mia figlia? Io non ho mai messo incinta nessuno, è chiaro?»

«Be', a quanto pare non è così.»

«Senti, ragazzina, io sono buono e caro, ma non farmi incazzare.»

Shavo si schiarì la gola. «Daron, forse...» cominciò.

Mi voltai verso di lui e lo squadrai con disapprovazione. «Ti ci metti anche tu adesso?! C'è qualcosa che sai e non mi hai detto?»

Il bassista sospirò e abbassò il capo con fare mesto. «Dico solo che dovresti dare ascolto a questa ragazza.»

Stavo seriamente per scagliarmi contro di lui e riempirlo di pugni, quando una voce familiare giunse alle mie orecchie.

Intravidi Serj alle spalle di Shavo che, trafelato, si avvicinava a noi a grandi falcate. «Ragazzi!» ci salutò, tremendamente allarmato.

«Serj! Ti avevamo detto che avremmo preso un taxi, perché sei venuto fin qui?» lo apostrofai, ancora più confuso di quanto già non fossi.

Il cantante posò gli occhi sulla ragazza che diceva di essere mia figlia e si lasciò sfuggire un sospiro. «Ti avevo detto di non farlo. Hai rovinato tutto.»

Questo era troppo.

«Che cazzo significa?! Perché tutti conoscete questa tizia e io non so niente di tutta questa fottuta messinscena? Guardate che se è uno scherzo, non mi fa ridere e non mi sto divertendo. Quindi, per favore, piantatela di sparare cazzate. O avete deciso di farmi girare i coglioni più del solito?» abbaiai infuriato.

«Daron» cercò di tranquillizzarmi Serj. «Non sono cazzate. O meglio, lei sostiene di essere tua figlia e mi ha mostrato un documento che lo attesta. Se se l'è inventato o ne ha fabbricato uno falso, be', noi non possiamo dimostrarlo.» Il cantante sospirò. «Volevamo aspettare che voi rientraste per dirtelo con calma, ma lei ha affrettato le cose.»

Mi stavano decisamente prendendo per il culo, ne ero sempre più convinto. Non tanto perché le loro espressioni tradissero un qualche scherzo in atto, ma perché ritenevo che fosse matematicamente impossibile che quella ragazzina fosse sangue del mio sangue.

Alzai gli occhi al cielo e imprecai ad alta voce. «Andate tutti al diavolo, io me ne vado. Sono stanco di sentire queste fesserie. Vi saluto.»

Senza attendere che mi rispondessero, mi avviai velocemente verso l'uscita del LAX, travolto da un flusso infinito di folla e di pensieri che combattevano per emergere e distruggere le mie certezze.

Quando ero quasi riuscito a oltrepassare le porte che mi avrebbero condotto all'esterno, i miei dubbi ebbero la meglio e cominciai a chiedermi quale delle donne con cui ero stato potesse essere la madre di quella ragazzina. Riflettei sul fatto che non potesse avere più di diciotto anni, e ripensai a ciò che avevo combinato diciotto anni prima. Dovevo avere più o meno vent'anni, quindi i fatti si sarebbero dovuti svolgere nel 1995.

Scossi il capo. Forse ero stato davvero scapestrato all'epoca, nel periodo in cui le prime radici dei System prendevano forma con il nome Soil. Però nessuna donna era mai venuta a rivendicare dei soldi o dei diritti su un figlio con me concepito. Se tutto questo fosse stato vero, perché la madre di quella ragazza non si era fatta avanti prima? Avrebbe potuto ottenere un sacco di soldi da me, visto e considerato che con il tempo ero diventato un chitarrista abbastanza famoso e avevo guadagnato un bel gruzzoletto grazie alla mia musica.

C'era qualcosa che non quadrava.

Mentre una leggera fitta alla tempia preannunciava l'imminente comparsa di una forte emicrania, mi misi in fila per prendere un taxi. Volevo soltanto tornarmene a casa e non pensare più a niente. Doveva trattarsi di uno scherzo di cattivo gusto, sì, decisamente.

«Perché non mi dai una possibilità? Ti racconterò ogni cosa.»

Sobbalzai e mi voltai verso destra. La ragazzina mi aveva raggiunto e mi rivolgeva un debole sorriso.

«Ti ho detto di lasciarmi in pace» tagliai corto.

«So che ti stai ponendo mille dubbi e domande. Si vede dalla tua faccia. Ma se mi ascolti, prometto di chiarire ogni cosa. Davvero.»

La squadrai con diffidenza, ma qualcosa di remoto mi suggeriva che forse avrei potuto almeno darle l'opportunità di parlare e spiegare le sue ragioni. Dopodiché, nessuno mi avrebbe impedito di scacciarla e intimarle di non avvicinarsi mai più a me.

«Sali in taxi. Ho fame e voglio andare a mangiare qualcosa. Vieni con me, mi dici cosa vuoi e poi sparisci. Intesi?» le concessi in tono piatto.

«Okay, affare fatto.»


Avevo evitato di passare a casa a lasciare i miei bagagli, non volevo che quella tizia sapesse dove abitavo. Così, mi ero portato appresso tutti i miei averi e sembravo davvero un venditore ambulante: una grossa valigia piena di vestiti ed effetti personali, la mia chitarra classica chiusa in una custodia nera e imbottita, uno zaino con all'interno il cellulare, i soldi, le carte di credito e tutto ciò di cui potevo necessitare con urgenza, e in più una giacca che mi penzolava dal braccio destro. Ero stato indeciso se metterla in valigia o indossarla, poiché ogni tanto una brezza piuttosto fresca si infiltrava tra i miei vestiti leggeri e mi faceva rabbrividire.

Ero tornato a Los Angeles e avevo riconosciuto subito la mia città e il suo clima.

Avevo indicato al tassista di portarci in un locale rustico e tranquillo situato in una traversa di Sunset Boulevard; non frequentavo spesso quel posto, ma sostanzialmente mi piaceva e faceva sì che la ragazzina non venisse a conoscenza di quali erano i luoghi abituali da me frequentati. Volevo evitare il più possibile che si infiltrasse nella mia vita contro la mia volontà.

«È carino qui» commentò lei, guardandosi attorno. Osservandola meglio, notai che indossava degli abiti semplici ma alla moda. Non era appariscente, però aveva gusto e uno stile tutto suo.

«Non male» borbottai.

«Grazie per avermi dato questa possibilità. Comunque, mi chiamo Layla» proseguì.

«Layla» ripetei lentamente.

«Sì. Daron, ascolta... ti starai chiedendo chi è mia madre e come sono arrivata fino a te.»

Annuii, mentre avvistavo un cameriere che si avvicinava con i nostri panini fumanti posati su un vassoio. Io avevo anche ordinato una birra e Layla un succo di frutta.

«Lei si chiama Dolores» mi spiegò Layla. «Forse non ti dice niente il suo nome. Mi ha raccontato che vi frequentavate in un locale, quasi vent'anni fa. Tu andavi a suonare lì, ci andavi spesso. Era una bettola che dava la possibilità alle band emergenti di farsi conoscere. Mamma mi raccontava che non vi pagavano quasi mai, ma voi non smettevate di frequentare quel posto perché avevate fiducia nel futuro e nel fatto che qualcuno prima o poi vi avrebbe scoperto.» Layla sorrise con leggera amarezza. «Glielo dicevi sempre.»

«Non conosco nessuna Dolores» le feci notare in tono leggermente seccato.

«Si faceva chiamare Dolly. Era una cameriera.»

Qualcosa scattò dentro di me, un ricordo forse, qualcosa di sbiadito ma familiare.

«All'epoca era fidanzata con il gestore del locale, Chuck. Ma poi un giorno ha perso la testa per te e...»

Smisi di ascoltarla, improvvisamente immerso in un mare di ricordi e immagini sfocate. Non avevo ancora toccato né la birra né il panino.


«Lei è Dolly, la mia donna.»

«Ehi Chuckie, tienila d'occhio.»


«Daron... è un bel nome, il tuo.»

«Grazie, Dolly.»


«Vorrei lasciare Chuck, credimi. Ma lui mi dà da lavorare, non navigo nell'oro. Ho bisogno di soldi. Però con te sto meglio.»

«Certo, capisco. Non importa.»


«Fare sesso con te è come fare un viaggio sulla luna.»

«Lo so, me lo dicono in molte.»

«Stronzo. Ti amo.»

«Non dovresti, Dolly.»


«Non verrò più al locale. È meglio che smettiamo di frequentarci, se Chuckie ti scopre, perderai il lavoro.»

«Forse hai ragione tu...»


«Daron?»

Mi riscossi e mi ritrovai a fissare una Dolly leggermente più magra e meno formosa, ma altrettanto bella. I suoi tratti leggermente orientali le conferivano un tocco ancora più affascinante e particolare.

Ma non poteva essere mia figlia.

«Questo non significa che tu sia mia figlia» le feci notare. «Sicuramente è Chuckie tuo padre.»

«Mamma è sicura che sia tu, invece» affermò ancora Layla, addentando il suo panino.

Io guardai il mio. Mi era passata la fame, sinceramente sentivo lo stomaco chiuso e in subbuglio.

«Non può dimostrarlo, e finché non potrà, io me ne lavo le mani.» Mi alzai e cominciai a raccattare le mie cose. Salutai qualcuno che conoscevo con un cenno del capo e mi voltai per l'ultima volta verso Layla. «Pago io ciò che hai ordinato, non preoccuparti. Be', salutami tanto Dolly e dille di prendersi cura di sé.»

Pagai il conto e mi diressi velocemente verso l'uscita, deciso a dimenticare al più presto quella storia assurda.


«Esigo delle spiegazioni» abbaiai, non appena Serj ebbe aperto la porta di casa sua.

Piombai all'interno con furia e mi guardai intorno, per poi dirigermi a passo di marcia verso il salotto. All'interno trovai Shavo e Angela, i quali mi rivolsero occhiate preoccupate e colme d'ansia.

Nell'aria si diffondeva un buonissimo odore di cibo, simbolo che i padroni di casa stavano preparando qualcosa da mangiare. Era molto tardi: me ne resi conto adocchiando un orologio da parete che segnava quasi le due e mezza del mattino.

Il cantante ci raggiunse e rimase sulla soglia, osservandomi. Mi ero piazzato al centro del salotto e fumavo di rabbia.

«Pensavo che fossi andato a casa a dormire» commentò Serj.

«Ho mangiato qualcosa con quella ragazza e ho ascoltato ciò che aveva da dirmi. Ma no, non sono andato a casa a dormire e non ho nemmeno mangiato. Sono incazzato e non ho voglia di scherzare. Adesso voi mi raccontate tutto e la piantate di raccontare balle.»

Il cantante sospirò e andò ad accomodarsi su una poltrona. «Certo. Siediti e ascoltami, allora.»

Rimasi in piedi e lo fissai in attesa che parlasse.

«Mentre eravate in vacanza, quella ragazza mi ha raggiunto al campo da basket. Non chiedermi come abbia fatto a trovarmi, non lo so. Sta di fatto che si è presentata da me dicendomi di essere tua figlia. Io ho reagito in malo modo e le ho intimato di andarsene. Ha continuato a insistere e, quando ho minacciato di chiamare qualcuno che la allontanasse e le impedisse di tornare, lei ha portato fuori una storia assurda. Ha detto di avere un documento che attestava la tua paternità nei suoi confronti. A quel punto sono rimasto confuso e, dopo averla invitata ancora una volta a lasciarmi in pace, lei mi ha dato ascolto e se n'è andata. Speravo che quello rimanesse un fatto isolato, ma ne ho comunque parlato con John e Shavo per chiedere loro consiglio e informarli di quanto stava succedendo qui in città.»

«Quindi John e questo stronzo lo sapevano e non mi hanno detto niente?!» sbottai, additando Shavo.

«Ehi!» protestò lui. «Vedi di moderare i termini. Tutti noi abbiamo agito nel tuo interesse e volevamo evitare di aggravare la tua situazione. Ti sei forse dimenticato il motivo principale per cui siamo partiti in Giamaica?»

«Non cominciate a litigare, per favore» intervenne Angela per la prima volta.

La fissai per qualche istante, poi posai nuovamente lo sguardo su Serj. «E allora? Avete deciso che la cosa non mi riguardava?»

«Abbiamo pensato che fosse meglio dirtelo una volta terminata la vacanza, anche perché a primo impatto la cosa non era poi così grave. Solo che poi lei è tornata.»

«Si chiama Layla» lo informai.

«Ah. Sì, Layla è tornata a trovarmi al campo e si è portata appresso un foglio, il certificato di cui mi aveva parlato durante il nostro primo incontro. A quel punto sono rimasto davvero sbalordito e ho temuto che questa storia potesse crearti dei problemi. Poco dopo, mi ha dato un ultimatum: ha detto che sapeva dov'eri, ma voleva sapere quando saresti tornato. Se non le avessi assicurato una data, ha minacciato che avrebbe messo in mezzo degli avvocati e ti avrebbe trascinato a Los Angeles a qualunque costo e al più presto» mi spiegò Serj con rammarico.

«Cosa?! È questo il motivo per cui avete affrettato così tanto la partenza e per cui John e Shavo hanno prenotato il viaggio di rientro con tanta fretta e senza consultarmi?» chiesi con fare retorico. La risposta era ovvia, ma mi sembrava tutto troppo assurdo per essere reale.

Il bassista annuì e si alzò, per poi avvicinarsi a me e posarmi una mano sulla spalla. «Fratello, mi dispiace, ma è andata così. Volevamo dirtelo con calma una volta rientrati, prendendo il discorso nella dovuta maniera, ma poi la ragazza si è presentata in aeroporto e nessuno di noi poteva prevederlo.»

Mi scansai da lui e lo fissai in cagnesco. «Ma davvero?»

Serj si schiarì la gola e notai che Angela gli stringeva una mano, come se volesse dargli coraggio e sicurezza in un momento per lui difficile.

«In realtà io sapevo che Layla stava andando in aeroporto» confessò il cantante.

«Come sarebbe a dire?» esplosi.

«Che cosa?!» sbottò il bassista confuso.

«Non lo sapevo con certezza, diciamo che l'ho sospettato. Quando è tornata per la terza volta al campo e io le ho comunicato il giorno in cui sareste rientrati, ha detto che non vedeva l'ora e che avrebbe voluto accogliere suo padre nel migliore dei modi. Io lì per lì non ci ho fatto caso, ma ci ho ripensato quando era già troppo tardi e ho capito che probabilmente si sarebbe piazzata in aeroporto ad aspettarti.»

«E non ce l'hai detto?» protestai ancora.

«Ho provato a chiamarvi, ma avevate il cellulare spento per via del volo. Poi ho chiamato John e l'ho detto a lui, e anche lui mi ha detto che in effetti era plausibile la mia idea. E purtroppo si è avverata.» Scosse il capo. «Mi dispiace.»

Mi portai le mani alle tempie e le premetti con forza. Le pulsazioni erano aumentate vertiginosamente e mi sentivo stanco e spossato. «È tutto un fottuto casino» farfugliai.

«Sì, Daron. Cosa pensi di fare adesso?» fece Shavo, tornando a stravaccarsi sul divano.

«Non faccio niente. Layla non mi ha mostrato nessun foglio e secondo me non può dimostrare che sono suo padre.»

Riassunsi ai presenti la storia di Dolly e della sua relazione con Chuck. Shavo e Serj ricordavano quel periodo e anche a loro era vagamente familiare la mia situazione con quella cameriera.

«Oltretutto siamo sempre stati attenti, quindi escludo che lei possa essere rimasta incinta di me» conclusi risoluto.

«Daron, però... e se Layla fosse tua figlia?» azzardò Angela in tono dolce e cauto.

Scambiai un'occhiata con lei e sospirai.

«Non penso lo sia, quindi non prendo neanche in considerazione questa eventualità.»

Il mal di testa stava prendendo il sopravvento e ormai stava finendo di annientare le mie ultime forze. Tornai verso l'ingresso, dove avevo abbandonato i miei bagagli. Frugai nello zaino e portai fuori il materiale per costruirmi una delle mie solite sigarette a base di erba.

Raggiunsi il terrazzo anteriore dell'appartamento di Serj e mi chiusi fuori per fumare in santa pace e prendere aria. La brezza fresca della notte mi aiutò subito a schiarirmi le idee, ma l'emicrania sarebbe stata difficile da combattere. Sapevo che avrei dovuto dormire per almeno dieci ore di fila.

Nonostante tutto, la vacanza era stata stancante, anzi, sfiancante per me. Non avevo dormito granché, mi ero cacciato nei guai e le cose erano andate tendenzialmente male sotto tutti i punti di vista.

E pensare che ero partito per distrarmi e divertirmi.

Un ricordo positivo colpì la mia mente e mi distrasse momentaneamente dai cupi pensieri che sempre più mi avvolgevano.


«Cosa ci fai qui? Sto lavorando, Daron.»

«Ti sei già dimenticata di ciò che è successo ieri sera?»

«No, io no. Tu avevi bevuto un po' troppo, è strano che te lo ricordi.»

«Ti ho detto che reggo bene l'alcol. Mi hai sottovalutato.»

«Non mi hai detto cosa ci fai qui.»

«Devo seriamente rinfrescarti la memoria, Miriam?»

«Su cosa?»

«In poche parole, sono tornato per baciarti di nuovo.»


Sorrisi, malinconico. L'avevo baciata e lei non mi aveva respinto, proprio come la sera prima.

Ma tutto era durato poco. Miriam mi aveva detto che era stato un piacere conoscermi, ci eravamo salutati e io avevo deciso di custodire quei pochi e preziosi attimi come un tesoro.

Ma anche in quel caso, tutto era finito e io ero piombato nuovamente in me stesso e nella mia realtà piena di casini.

Sospirai appena e finii di fumare con calma. Pensai a Leah e alla sua esuberanza. Certo che in quel momento mi avrebbe fatto piacere che lei fosse lì a tirarmi su di morale.

Rientrai in casa e sentii i miei amici chiacchierare sommessamente in salotto, mentre mangiavano qualcosa. Io ancora non avevo fame, tutta quella storia mi aveva scombussolato in maniera esponenziale.

Raggiunse nuovamente il mio zaino e lo aprii in cerca del cellulare. L'iPhone nuovo di zecca che Bryah mi aveva regalato era stipato in una tasca. Lo estrassi e dovetti armeggiarci parecchio prima di riuscire anche solo a rimuovere la schermata di blocco. Quell'aggeggio era ancora un mistero per me, specialmente perché io e la tecnologia eravamo acerrimi nemici.

Riuscii, miracolosamente, a scrivere un SMS e a spedirlo correttamente.


Ehi, come te la passi? Qui è tutto un casino, mi servirebbe proprio un po' di sano divertimento... be', se per caso vuoi raccontarmi qualcosa, puoi chiamarmi. Quando hai tempo. Ciao amica!


Leah probabilmente stava dormendo, ma non importava.

Solo per il fatto di averle scritto mi sentivo meglio.

Shavo si affacciò dalla porta del salotto. «Tutto bene?»

«Sì, certo.»

«Vuoi mangiare qualcosa?»

«No» rifiutai, afferrando i miei bagagli. «Me ne torno a casa.»

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Capitolo 48
*** Special ***


ReggaeFamily

Special

[Serj]




Mi presi la testa tra le mani. La situazione era molto critica, e io non sapevo bene come affrontarla.

«A quanto pare quella ragazza non mentiva» commentò Angela, mostrando un'espressione preoccupata e ansiosa. Lei era fatta così, riusciva sempre a preoccuparsi per tutti come fossero suoi figli.

Sorrisi tra me e me. Mia moglie aveva un nome degno della sua persona, l'avevo sempre pensato.

Da quando i ragazzi erano tornati dalla Giamaica e io ero piombato al LAX tentando di evitare il peggio, erano trascorsi un paio di giorni e non avevo più avuto notizie di Daron. La cosa mi gettava nel panico più totale, non tanto perché fossimo abituati a vederci e sentirci tutti i giorni, ma perché non mi aveva risposto neanche una volta al telefono. Ero indeciso se correre a casa sua, ma conoscendolo, la cosa non sarebbe servita più di tanto.

Mia moglie era stesa sul letto accanto a me e teneva un libro tra le mani, ma aveva smesso di prestarvi attenzione quando l'avevo raggiunta. Avevamo cominciato a esaminare la situazione di Daron e di sua figlia, dopo che avevo provato per l'ennesima volta a telefonargli senza alcun successo.

«Serj, per favore... devi cercare di stare tranquillo» mi suggerì Angela, posandomi una mano sul braccio.

Mi girai su un fianco e studiai nella penombra il suo viso contratto dalla preoccupazione, che tuttavia non perdeva la sua bellezza.

Angela sospirò brevemente. «Anche io sono in ansia per quel ragazzo, ma noi non possiamo fare niente per lui. Dev'essere lui a sbrigarsela, è grande e deve prendere da sé le sue decisioni.»

Aveva ragione da vendere, ma per me Daron era come un fratello e non potevo evitare di sentirmi in pena per lui. Stavolta gli era capitato qualcosa che lui non aveva cercato, si era ritrovato dentro un guaio in cui non si era cacciato da sé, come spesso capitava.

«Lo so» ammisi, allungando una mano per carezzarle piano il viso. «Sai sempre qual è la cosa giusta da fare, Angie.»

«Anche tu, è che certe volte non te ne rendi conto» mi disse, poi posò il libro sul comodino e mi si accoccolò accanto.

La strinsi a me e mi sentii subito meglio. Avere una persona come lei al proprio fianco era un toccasana per chiunque, ma erano in pochi ad avere la mia stessa fortuna. Angela era speciale, era la mia ancora di salvezza in qualsiasi situazione, sempre pronta a ricordarmi che io potevo contare non solo su di lei, ma anche su me stesso, sulla mia mente pensante e sui sentimenti che sapevo provare.

Angela ridacchiò. «È buffo immaginare che Daron possa fare il padre» commentò, posando una mano sul mio petto.

«Hai ragione, è per questo che sono preoccupato» scherzai, baciando lievemente i suoi capelli.

«Siamo cattivi con lui!»

«Se non mette la testa a posto, non possiamo pensarla diversamente» ribattei.

Ci fissammo per un po', occhi negli occhi. Era bello starsene così, ad ascoltare il silenzio che ci avvolgeva, intervallato soltanto dai rumori lontani e ovattati della città.

Angela mi baciò con trasporto e immediatamente capimmo che stavamo condividendo lo stesso desiderio.

«Basta parlare di Daron» mormorai, mentre cominciavo a spogliarla con calma e dedizione.


Il sole filtrava dalla grande vetrata del soggiorno. Ero intento a dipingere, non lo facevo da tempo, troppo per i miei gusti. Studiavo concentrato i colori a mia disposizione; volevo scegliere qualcosa di allegro, volevo creare il dipinto perfetto. Lo avevo promesso ad Angela già da un po', dal momento che lei aveva espresso il desiderio di appendere una mia opera in salotto. La cosa mi lusingava, ma non mi ritenevo tanto meritevole di una tale scelta.

«Potremmo acquistare qualcosa di Clint, sarebbe perfetto» avevo cercato di convincerla, ma lei era scoppiata a ridere e aveva asserito di preferire me a quegli artisti tanto famosi.

«Almeno avremo qualcosa di originale e unica al mondo» mi aveva spiegato con orgoglio.

E io avevo promesso di fare del mio meglio, anche se l'avevo avvertita che avrebbe dovuto attendere che l'ispirazione facesse capolino in me.

Quella mattina, dopo che lei era uscita per delle commissioni, avevo deciso di provarci. I miei occhi, tuttavia, si posavano soltanto su tonalità scure e cupe, cercando l'opposto di ciò che avrei realmente voluto fare.

Il campanello trillò e mi fece sobbalzare mentre mi accingevo a sistemare un vinile di Neil Young sulla piastra del giradischi.

Che Angela fosse già tornata a casa? Ne dubitavo, anche perché era solita aprire con le sue chiavi. Non avrebbe mai suonato il campanello.

Mi avviai al citofono e schiacciai il pulsante che avrebbe attivato il microfono. «Sì?» risposi con diffidenza. Recentemente qualche fan aveva scovato il mio appartamento a Los Angeles e provava ad accamparsi sotto il mio palazzo in cerca di foto e autografi.

«Hai appena visto un fantasma, Tankian?» rispose una voce acuta, espandendosi dal piccolo altoparlante del citofono.

«Daron? Cosa ci fai qui?» sbottai, mentre tiravo un lungo sospiro di sollievo interiore.

«Se mi apri e mi porti una ciotola di croccantini, te lo dico» scherzò senza troppo entusiasmo.

Schiacciai il pulsante di apertura del portone del palazzo e mi affacciai sul pianerottolo in attesa che salisse.

Il chitarrista apparve poco dopo, fuoriuscendo dall'ascensore. Mi rivolse un breve sorriso e si infilò in casa mia, per poi guardarsi attorno in cerca di qualcosa a me ignoto.

«Be'?» fece, lanciandomi un'occhiataccia.

«Che vuoi?»

«Dove sono i miei croccantini?»

Gli mollai una spallata e richiusi la porta. «Vai in soggiorno, stavo per mettere sul piatto Harvest

Daron si addentrò nel mio appartamento, ma si bloccò quando notò che avevo sistemato una tela sul cavalletto. «Ecco perché stavi per ascoltare Neil Young» commentò, per poi stravaccarsi sul divano.

Tornai al giradischi e sistemai la puntina al suo posto, poi la magia ebbe inizio e il fantastico fruscio esplose nell'aria, seguito dalla sottile voce e la magistrale chitarra di Neil Young.

«Adoro tutto questo» sospirò il chitarrista.

«Come stai?» gli chiesi, sedendomi nuovamente di fronte alla tela ancora bianca.

«Me la cavo, amico. Non c'è male.»

«Devo crederti?»

Daron fece spallucce e mi fissò. «Perché non dovresti?» ribatté in tono piatto.

«Perché ti conosco» gli feci notare. Ed era vero, il mio amico stava chiaramente cercando di nascondermi qualcosa, ma se era venuto a casa mia c'era sicuramente un motivo ben preciso.

«Mi offri qualcosa?» cambiò bruscamente argomento lui, frugandosi in tasca. Ne estrasse il suo solito materiale per costruire le sue amate sigarette a base di erba e prese ad armeggiarci con noncuranza.

«Non ho granché a disposizione, Angela è andata a fare la spesa» gli dissi. Mi alzai e mi diressi in cucina; dopo aver aperto il frigorifero, gridai: «Sei fortunato, ho qui una birra».

«Non mi va» rifiutò Daron.

«Allora ti dovrai accontentare del succo d'ananas.»

«Perfetto.»

Portai fuori la bottiglia di plastica dal frigo e la posai sulla penisola. Raccattai due bicchieri e li riempii, per poi tornare in soggiorno. Trovai Daron seduto al mio posto di fronte alla tela e gli lanciai un'occhiata stranita.

«Cosa pensavi di dipingere?» volle sapere, dopo aver sorseggiato dal suo bicchiere.

Io, in piedi accanto a lui, fissavo il contenuto del mio senza neanche vederlo, incantato in me stesso.

«Facciamo che te lo dico solo se tu prima mi racconti perché sei qui» buttai lì, per poi decidermi ad assaggiare il succo d'ananas. Era freddo e dissetante, perfetto per le temperature già tiepide di fine maggio.

«Sei furbo.»

«Tu no, non mi freghi.»

Ci scambiammo un'occhiata e Daron sospirò.

«Ci ho pensato molto, e...» cominciò, per poi arrestarsi di colpo. Probabilmente stava cercando le parole più adatte per spiegarsi. «Ho deciso che potrei anche rivederla.»

«Chi?» chiesi.

«Dolly.»

Sussultai leggermente e posai il bicchiere sul tavolino posto di fronte al divano. «Perché?»

«Perché... non so, forse... non lo so, Serj. Così.»

Fissai il mio amico. Ero basito, non mi sarei mai aspettato una decisione simile da parte sua. Avrei creduto che non volesse più saperne di tutta quella faccenda, ma forse mi ero sbagliato sul suo conto. Per la prima volta mi resi conto che forse Daron aveva riflettuto davvero sulla sua vita e il suo futuro, ed era giunto alla conclusione che avrebbe dovuto prendersi le sue responsabilità con quella che appariva chiaramente come sua figlia.

«Forse è la scelta giusta» concordai cautamente, temendo che potesse di colpo cambiare idea.

«Solo che non so come trovarla. Layla ha seguito alla lettera il mio ordine ed è sparita. Certo, non sa dove abito, ma avrebbe saputo come trovarmi.»

«In effetti è vero» riflettei. «Potresti aspettare.»

«Potrei, ma odio doverlo fare. Che cazzo di casino è mai questo?» sbottò all'improvviso, stringendo con più forza il suo bicchiere.

Stavo per ribattere, quando un trillo scomposto e polifonico perforò l'aria, sovrastando addirittura il povero Neil Young che cantava Old Man.

«Che roba è?» mi lasciai sfuggire, non riconoscendo in quel suono fastidioso la suoneria del mio cellulare.

«È il mio aggeggio infernale» borbottò Daron, portando fuori un enorme iPhone dalla tasca dei jeans neri che indossava. Lo fissò spaesato e lo sfiorò goffamente, temendo di combinare qualche casino.

«Dovrei aver risposto... credo...» farfugliò, fissando lo schermo. Poi se lo portò all'orecchio. «Ho risposto? Leah, mi senti?»

Dovetti trattenermi per non ridergli in faccia, così ne approfittai per recuperare il mio bicchiere e mi spostai. Presi a sghignazzare tra me e me, quel ragazzo era davvero una frana con la tecnologia, specialmente da quando aveva ricevuto in regalo quel cellulare. Per quanto utilizzasse poco e niente apparecchi tecnologici in generale, con il suo vecchio telefono se la cavava abbastanza bene, mentre con l'iPhone le cose non sembravano essere per niente facili per lui.

«Quale messaggio? No, non faccio il finto tono... ah, quello! Mah, niente di che, solo... lo so, lo so, grazie, signorina Moonshift, non sapevo lei fosse diventata la mia psicologa... okay, va bene, la smetto, però adesso sono con Serj, non posso stare al telefono, possiamo sentirci dopo? Sì, te lo giuro, ti chiamo! No, non sparisco, che palle che sei! Ma non ti basta importunare Shavo?!» A questo punto Daron scoppiò a ridere. «Sapevo che te la saresti presa, che permalosa!» Lo vidi arrossire. «Mmh, sì... mi hai fatto ridere, è vero... grazie. Okay, Leah, ti devo lasciare. A più tardi, e giuro che ti richiamo. Sì, vai al diavolo anche tu.»

Attesi che il chitarrista armeggiasse con il cellulare per chiudere la chiamata e riporlo in tasca, prima di parlare. «Vi volete bene, eh?»

«Da morire» fece lui con sarcasmo.

«Anche se fingi, non mi freghi, te l'ho già detto. Tieni a quella ragazza, si nota tantissimo.»

Lui sgranò gli occhi. «Non pensare male!» si affrettò a mettere le mani avanti.

«Macché, non ho pensato a niente. Dico solo che tieni molto a lei, alla sua amicizia. So bene che è impegnata.»

«Devi conoscerla» si arrese, addolcendo improvvisamente il tono della sua voce. «Leah è speciale.»

Io e Daron trascorremmo un po' di tempo a chiacchierare del più e del meno, evitando di tornare sull'argomento Layla.

Quando lui se ne andò, mi rimisi a sedere di fronte alla tela ed ebbi un'improvvisa illuminazione. Volevo creare qualcosa che ricordasse le persone speciali, persone come mia moglie, i miei amici e quella ragazza che aveva rubato il cuore a Shavo e non solo.


Mentre aspettavo che la prima stesura della mia opera asciugasse, ricevetti una telefonata da John.

«Giamaicano, come te la passi?» esordii, portandomi il telefono all'orecchio.

«Ehi! Qui tutto okay, ma a breve non sarò più giamaicano.»

Aggrottai la fronte. «Cosa significa?»

«Ti ho chiamato per questo. Ho appena prenotato il viaggio di ritorno.»

Mi ritrovai a sorridere. «Sul serio?» Poi mi venne in mente la situazione in cui John si trovava e mi rabbuiai. «E lascerai Bryah laggiù?» gli domandai.

«No, lei verrà con me» mi spiegò John con ovvietà, come se quell'informazione fosse scontata.

Stavolta strabuzzai gli occhi. «Come? Davvero avete deciso di... andrete a vivere insieme? Non ti pare avventato?» mi allarmai subito.

«Con calma, Serj, stai tranquillo. Bryah ha qualche soldo da parte, non vuole assolutamente trasferirsi da me. Vuole soltanto andarsene di qui e ricominciare da capo.»

Nel frattempo, Angela rientrò in casa e si affacciò in soggiorno. Trovandomi al telefono, si limitò a farmi un cenno con la mano e si diresse in cucina a posare la spesa.

«Okay, capisco. Vuole cercarsi un lavoro qui?»

John si schiarì la voce, poi rispose: «Più o meno. Per il momento ha la possibilità di mantenersi per un periodo, poi si vedrà.»

Speravo davvero che le cose andassero bene per John e per quella donna. Nonostante si conoscessero da poco, avevano dovuto affrontare una delle situazioni più difficili e dolorose. Il loro legame era divenuto fin da subito molto stretto, ma non sapevo se questo fosse un bene o un male per loro.

«Okay, ho capito.»

«Vorrei fare una sorpresa a Daron e Shavo. Che ne dici se organizzassimo una cena da voi? Ovviamente prenderemo una pizza, non voglio assolutamente che tu e Angie vi mettiate ai fornelli...» mi propose il batterista.

«Si può fare, in questo modo potremo conoscere Bryah» accettai di buon grado.

«Esatto. Il nostro volo sarà dopodomani, dovremo imbarcarci all'alba, ma non importa. Per cena saremo in città.»

Concordammo gli ultimi dettagli e poi ci salutammo.

Quando misi giù, Angela mi raggiunse. «Era Johnny?» chiese.

«Sì.» Le raccontai ciò che il batterista mi aveva riferito e le spiegai della sorpresa per Daron e Shavo.

«Ottima idea, sono curiosa di conoscere la famosa Bryah» esultò mia moglie, poi si accostò a me e osservò la tela dipinta. «Oh» si lasciò sfuggire.

La abbracciai da dietro e la feci sedere sulle mie ginocchia, avvolgendole la vita con entrambe le braccia. «Ti piace? È solo il primo abbozzo, ma...»

«Già me lo immagino appeso sopra il divano... è stupendo.» Angela afferrò una delle mie mani e se la portò alle labbra per baciarla. «Ha già un titolo?»

«Si chiama Special» risposi subito, sicuro della mia scelta.

«E a cosa si ispira?» indagò ancora mia moglie, esaminando l'esplosione di arancioni e rossi che formavano l'astrattismo della mia opera.

«Alle persone speciali. Ci ho pensato e ho capito che ognuno di noi è circondato da persone speciali, deve soltanto avere il coraggio di cercarle e tenerle strette. Per me le persone speciali sono poche, ma davvero preziose. Tu lo sei, Angie. I ragazzi lo sono. E... oggi è venuto Daron a trovarmi.»

«Davvero?»

«Sì. Mi ha detto che ci ha pensato e vuole rivedere Dolly, la madre di sua figlia.»

Angela trattenne il fiato, poi espirò bruscamente. «Wow.»

«Già, non me l'aspettavo, proprio come te. Mentre era qui l'ha chiamato Leah e io mi sono accorto che i due sono molto legati, parlo di amicizia ovviamente. Gliel'ho fatto notare e lui mi ha detto qualcosa che mi ha ispirato per dipingere.»

Angela ridacchiò. «Cioè?»

«Ha detto che dovrei conoscerla perché è speciale» raccontai. «Ha usato un tono così dolce e sincero che mi ha scaldato il cuore.»

Mia moglie si voltò di lato e cercò il mio sguardo, circondandomi il collo con le braccia. «Sei un uomo romantico, signor Tankian, anche se ti costa ammetterlo» mi punzecchiò, chinandosi per baciarmi sulle labbra.

«Solo quando è necessario» sussurrai, per poi approfondire il nostro contatto. La amavo più che mai ed ero sempre più orgoglioso e felice di averla al mio fianco.




Cari lettori, ma ciao! ^^

Probabilmente ieri vi siete chiesti perché non ho aggiornato, ma a tutto c'è un perché; ho deciso, infatti, di aggiornare oggi perché una certa Soul mi ha fatto notare che oggi la mia long sui System compie un anno!!!! Ebbene sì, esattamente un anno fa, mettevo su EFP il primo capitolo di questo folle progetto; ero spaventata, non sapevo cosa ne sarebbe uscito fuori, non sapevo se avrei trovato dei lettori e se la mia storia avrebbe preso la forma che desideravo.

Quindi, quale modo migliore per festeggiare, se non ringraziando tutti voi e regalandovi questo capitolo per il compleanno di Do you ever believe you were stuck in the sky?

Ne approfitto per dedicare questo capitolo a Selene, visto che il pov è stato di Serj, e io so quando lei lo adori :D

È stata un po' una coincidenza avere questo capitolo da pubblicare proprio oggi; lo avevo già scritto, e avevo anche già deciso il titolo, quindi diciamo che il destino ha voluto che per un giorno speciale ci voleva un capitolo speciale, dal pov speciale e dal titolo speciale :3

Sto vaneggiando, scusate :P

Eheheheheh, un pov Serj, dicevo... non ve lo aspettavate, eh? Sì, lo so, lo so... sarebbe dovuto toccare a Leah, ma avevo proprio voglia e bisogno di inserire un punto di vista del nostro amato cantante; era utile per spiegare certe cose della trama, per mettere su ciò che saranno gli avvenimenti dei prossimi capitoli e per creare una certa atmosfera...

Ma non posso spiegarvi altro, per ora. E tranquilli: non ho dimenticato la mitica Leah! Come vedete, anche qui è apparsa, anche se indirettamente. Che ne pensate del suo legame con Daron? A me questi due come amici piacciono troppo, si nota? :D

Allora John tornerà dalla Giamaica con Bryah, e ora anche Serj e Angela lo sanno...

Mentre attendo i vostri commenti, vi spiego un paio di cose sul vinile citato durante il capitolo: si tratta, appunto, di Harvest di Neil Young, datato 1972; il brano Old Man è veramente molto bello e suggestivo, vi lascio qui il link per ascoltarlo e farvi un'idea di che musica ho scelto per Serj che dipinge **:

https://www.youtube.com/watch?v=An2a1_Do_fc

Che ve ne pare? :3

Grazie, come sempre, per il supporto e per essere ancora qui a recensire questa storia folle, siete unici **

Alla prossima ♥

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Capitolo 49
*** On the road again! ***


ReggaeFamily

On the road again!

[Leah]




«Sono sicura, Daron.»

«Non è che...»

«No, ti dico che va bene così. Ho già organizzato tutto. Tu, piuttosto, parlami della questione che ti affligge» cambiai argomento, fissando assorta la valigia aperta posizionata sopra il mio letto.

«Non è che mi affligga, solo... mi sento strano» borbottò il mio amico.

«Insomma, parla! Se ti tieni tutto dentro, non starai meglio» lo rimproverai, avviandomi verso l'armadio.

«Potremmo parlarne quando ci vediamo?»

«Intanto non siamo insieme e quindi puoi accennarmi qual è il problema. Non fare il furbo, Malakian» ribattei in tono secco.

«Che palle, perché siamo diventati amici noi due? Ancora non mi sono chiare le dinamiche...»

Sorrisi. «Perché quei cretini dei tuoi colleghi di band non sanno prendersi cura di te» scherzai, mentre aprivo le ante del mobile di fronte a me.

«Leah, credo di avere una figlia. Ma tu questo lo sai già, vero?»

Ridacchiai. «Me l'hanno accennato, in effetti.»

«Ero l'unico a non sapere un cazzo finché non sono atterrato a Los Angeles, eh?» sbottò con rabbia.

«Non fare lo stupido. Tutti hanno atteso il momento giusto per il tuo bene» cercai di tranquillizzarlo. «Ma questo non c'entra niente adesso! Okay, hai una figlia, cioè... dovresti avere una figlia, e...?»

«La ragazza mi ha raccontato una storia piuttosto verosimile. Si chiama Layla ed è la figlia di una mia vecchia amante, una donna che frequentavo quando ancora non ero conosciuto... si chiama Dolly, Dolores.»

Aggrottai la fronte. «E tu le credi? Chi ti dice che questa Dolores non abbia concepito la marmocchia con qualcun altro in quello stesso periodo?» gli suggerii, piuttosto scettica sulla questione. Tutto questo puzzava terribilmente.

«Non posso saperlo, ma i modi per scoprirlo esistono. Intanto, stavo pensando di...» Daron si interruppe e sospirò. «Di rivedere Dolly, ma non so come rintracciarla. Layla è scomparsa da quando le ho detto di non farsi più vedere.»

«Obbediente, eh? Secondo me tornerà all'attacco, vedrai. Non disperare, ha fatto un casino per arrivare fino a te, e tu ora credi davvero che si fermerà soltanto perché gliel'hai detto? Non essere ingenuo, chitarrista» lo avvertii, immaginando che quella ragazza stesse tramando qualcosa per fregarlo. Forse ero troppo cinica e sospettosa, ma questa faccenda mi piaceva sempre meno.

«Vedremo... non posso fare niente per ora, è Layla ad avermi in pugno» ammise in tono colmo di amarezza e rassegnazione.

«Quando arrivo alla stazione, mi vieni a prendere? Ci sarà un'amica con me, non potremo parlare subito di questa faccenda, ma ti prometto fin da ora che troverò del tempo per te. Voglio cercare di aiutarti, sul serio» gli dissi, prendendo a rovistare nell'armadio.

Erano trascorsi solo pochi giorni da quando ero tornata a casa, ma già avevo deciso di ripartire. Stavolta non avrei dovuto sottostare ai tempi di quella piattola di Alan Moonshift e della sua amante del momento. Avrei preso un treno e fatto una sorpresa a Shavo e a tutti quanti, servendomi dell'aiuto di Daron.

Samantha sarebbe venuta con me, non si era lasciata scappare l'occasione per fare un viaggetto in mia compagnia.

«Daron?» richiamai il mio amico.

«Dimmi.»

«Hai prenotato quel bed & breakfast come mi avevi detto?» indagai.

«Certo, non preoccuparti» mi rassicurò.

«Okay, perfetto. Finisco di fare i bagagli e buttò Sam giù dal letto, ci sentiamo più tardi. Grazie ancora e sappi che puoi chiamarmi e cercarmi quando vuoi, quando hai bisogno di sfogarti... insomma, lo sai» conclusi.

«Certo, certo... ehm, grazie, Leah...» farfugliò.

Non vedevo l'ora di riabbracciarlo.


Io e Samantha eravamo salite da poco su un treno ad alta velocità che ci avrebbe portato dritte a Los Angeles, quando il mio cellulare squillò. Era Shavo.

«Ehi!» esordii.

«Ciao. Che combini?» mi chiese in tono dolce.

Fissai Samantha e lei mi rivolse un occhiolino. «Sono sul bus... sto andando all'università» mentii. «E tu?»

Shavo sospirò. «Volevo andare in studio a provare, anche se John non c'è, ma Daron è irraggiungibile e Serj ha da fare. Pensavo di andarci da solo, ma non so. Rimarrò a casa, posso suonare anche qui.»

Se avesse saputo che in circa due ore sarei stata a Los Angeles, sicuramente sarebbe impazzito. Ma non potevo dirglielo, anche se morivo dalla voglia di farlo.

Era quasi mezzogiorno e il sole filtrava dai finestrini sporchi del treno. Mi sentivo elettrizzata, era come se non vedessi i ragazzi da una vita e la loro mancanza si stava facendo insopportabile.

Samantha tossicchiò, indicando con un gesto un controllore che aveva appena fatto il suo ingresso nel vagone in cui ci trovavamo.

«Shavarsh, devo andare, sono arrivata alla mia fermata» mormorai, rovistando in borsa alla ricerca del mio biglietto.

«Va bene.»

«Ti chiamo più tardi, ragazzaccio. Ciao e suona tanto» lo salutai, per poi interrompere la conversazione.

Poco dopo, il bassista mi inviò un messaggio su WhatsApp.


Volevo solo dirti che stasera Serj ci ha invitato a cena da lui, se non rispondo è per questo motivo. Mi manchi terribilmente, Leah...


Sei sempre il solito sdolcinato, Shavarsh. Anche tu mi manchi, lo sai... ci vedremo presto!


Se avesse saputo la verità...


Il sole pomeridiano picchiava sulla nostra testa quando io e Samantha scendemmo dal treno. La stazione era caotica e impercorribile, fummo costrette ad aspettare che la folla sciamasse via prima di poterci dirigere verso l'uscita.

«Sai che non ero mai stata a Los Angeles?» disse Samantha, trascinandosi dietro il suo trolley.

«Vedi, sono o non sono una vera amica? Ti faccio vivere nuove esperienze ogni giorno!» scherzai, camminando accanto a lei.

«Solo perché stai con quel tizio strano dal nome strano» borbottò lei, fissando spudoratamente il fondoschiena di una bionda alta e formosa.

«Sei disgustosa, smettila di fissare la gente!» ridacchiai, dandole di gomito. «E non dire cazzate, Shavo non è un tipo strano.»

«Se sta con te, lo è di sicuro» mi apostrofò ancora la mia amica, pizzicandomi un braccio.

«Taci, strega! Oh, ma Daron dove si è cacciato?» sbuffai, afferrando il cellulare. Prima che il chitarrista potesse rispondermi, dovetti attendere parecchio e temetti che non riuscisse ad armeggiare con quel dannato iPhone che Bryah gli aveva regalato.

«Ehi! Sono imbottigliato nel traffico, cazzo» strillò lui.

«E io che mi lamento di Vegas... okay, ti aspettiamo proprio di fronte all'ingresso principale.»

«D'accordo, ciao.»

Guardai Samantha. «Secondo me Daron ci proverà con te» buttai lì, giusto per prenderla un po' in giro.

La ragazza storse il naso e sbuffò sonoramente. «Dovrò mettere le cose in chiaro fin da subito» affermò.

«Non essere cattiva con lui, è carino» la punzecchiai.

«Non ha un paio di tette prosperose, quindi non è carino» ribatté con disgusto, socchiudendo appena i suoi occhi scuri. Era davvero bella, molti uomini avevano provato a conquistarla, ed erano rimasti tremendamente delusi nell'apprendere che una ragazza così formosa ed esuberante non avesse alcun interesse per l'universo maschile.

Risi. «Sei sempre la solita.»

Samantha mi si affiancò e appoggiò la schiena al muro in cemento che si stagliava alle nostre spalle. Si accese una sigaretta e osservò l'intenso traffico del pomeriggio losangelino. «Possibile che tu non abbia conosciuto nessuna lesbica in Giamaica? Cazzo, è frustrante!» sbottò.

«No, solo due ragazzi gay. E non sapevo che lo fossero, nonostante li conoscessi già da tempo» riflettei, sentendomi ancora stranita dalla bravura con cui Alwan e Dayanara avevano nascosto la loro relazione anche ai miei attentissimi occhi.

«Che sfiga» bofonchiò Samantha, e proprio in quel momento avvistai Daron. Aveva parcheggiato il suo SUV nero in doppia fila e rischiava di beccarsi una multa per divieto di sosta e intralcio del traffico.

Afferrai la mia amica per un polso e mi affrettai a raggiungerlo. Volevo evitare di procurargli guai fin da subito, anche perché il chitarrista era talmente bravo a cacciarsi nei casini più bizzarri, che non volevo certo declassarlo.

Daron scese dall'auto per aiutarci a caricare i bagagli nel cofano e io volai ad abbracciarlo.

«Amico, come stai?» esordii, stringendolo forte.

Lui ricambiò, anche se inizialmente notai una certa titubanza nel suo atteggiamento. Non si aspettava un tale slancio da parte mia, probabilmente.

«Mi stai strozzando, quindi non credo di stare molto bene...» farfugliò.

Lo lasciai andare e gli presentai velocemente Samantha; come avevo immaginato, lui eseguì una rapida ma accurata radiografia della mia amica e si esibì in un sorrisetto sghembo di cui non doveva essersi reso conto.

Salimmo a bordo della sua auto e Daron si infiltrò nel traffico, cercando di non farsi tamponare da un autobus di passaggio.

«Ehi, vuoi farci morire?!» gridò Samantha, spalmandosi sul sedile posteriore.

«Bellezza, calmati. Non permetterò che ti succeda qualcosa di male» cercò di tranquillizzarla Daron, utilizzando un tono malizioso.

«Mettiamo le cose in chiaro, maschione: a me piacciono le ragazze. Quindi puoi evitare di perdere tempo e di lanciarmi occhiate languide, con me non attacca» tagliò corto Samantha, per poi immergersi in un silenzio che non ammetteva repliche.

Io, seduta accanto a Daron sul sedile del passeggero, lo fissai e notai la sua espressione mutare: i suoi lineamenti si indurirono e un leggero rossore comparve sulle sue guance. Se avesse avuto la barba, probabilmente non me ne sarei accorta, ma la sua pelle era chiaramente visibile. Non potei scorgere il suo sguardo, dal momento che i suoi occhi erano coperti da un paio di occhiali da sole, ma immaginavo che fosse rimasto basito da quella scoperta.

«Sam, sei tremenda» dissi alla mia amica, poi presi ad armeggiare con l'autoradio di Daron. «Che c'è qui dentro?» gli domandai.

«Non ho messo su un disco, se vuoi puoi cercare qualcosa alla radio» spiegò il chitarrista, concentrandosi completamente sulla strada.

Trascorse qualche minuto prima che riuscissi a capire come funzionava quell'aggeggio, ma poi ci riuscii e cominciai a fare zapping in radio.

Trovai Girls just wanna have fun di Cindy Lauper e la lasciai.

«Ottima scelta!» approvò Daron, agitandosi istintivamente sul sedile nel tentativo di ballare.

«Adoro questo pezzo!» strepitò Samantha, affacciandosi tra i due sedili anteriori e posandomi una mano sulla spalla.

«Almeno su questo andiamo d'accordo» commentò il chitarrista.

«A quanto pare... ma non illuderti, pidocchio.»

E così i due presero a battibeccare. Sospettavo che sarebbero andati veramente d'accordo, specialmente perché tra loro le cose erano state chiare, schiette e sincere fin dal principio. C'erano le basi per un bel rapporto.

Mi concentrai sul caos cittadino fuori dal finestrino e mi ritrovai a riflettere sul mio imminente incontro con Shavo. Mi mancava tantissimo, ma non mi ero minimamente preparata a rivederlo e a stare nuovamente con lui. Erano trascorsi davvero pochissimi giorni da quando ci eravamo lasciati, ma a me sembrava essere trascorsa un'eternità. Era buffo rendersi conto di quanto il tempo potesse dilatarsi e sembrare a volte lento e a volte troppo rapido nel suo scorrere incessante.

«Ci accompagni al bed & breakfast?» domandai a Daron.

«No, ti porto dal bassista. Sei qui per questo, no?»

Sgranai gli occhi. «Subito?» chiesi.

«Certo. Che fai, diventi improvvisamente timida?» mi punzecchiò, ridacchiando.

«Stronzo. Non me l'avevi detto!»

Annuì. «L'ho fatto apposta, amica.»

«Lo vedi che sei un pidocchio? Questo è un colpo basso, non si tratta così una donna» borbottò Samantha, picchiettandogli sulla spalla.

«Ma sta' zitta, tu che ne sai di come un uomo deve trattare una donna?» ribatté lui.

«Lo so più di te!»

«Neanche per idea!»

Alzai gli occhi al cielo e intervenni: «Fate silenzio, mando un messaggio vocale a Shavo. Guai a voi se ridete».

Aprii la conversazione con il bassista su WhatsApp e premetti sul comando per registrare. «Shavarsh, sono stanchissima e ho ancora una lezione all'università. A te come va?»

Inviai e poi comunicai ai ragazzi che avevo fatto.

Daron e Samantha scoppiarono a ridere fragorosamente.

«Lo freghi come vuoi» commentò il chitarrista.

«Vedi che ha un nome strano?!» mi fece notare la mia amica.

Scossi il capo. Questi due erano incorreggibili, non mi stavano affatto aiutando a rilassarmi.


Daron fu costretto a spingermi fuori dall'ascensore quando raggiungemmo il piano in cui era situato l'appartamento di Shavo.

Il chitarrista, per far sì che potessi entrare nello stabile senza che il mio ragazzo lo sapesse, aveva suonato a qualche altro campanello finché qualcuno non ci aveva fatto la grazia di aprire.

Sul pianerottolo, trovammo una ragazza piuttosto bizzarra che, piazzata di fronte alla porta di un appartamento, se ne stava inginocchiata a frugare all'interno di una grossa borsa dipinta con tutti i colori dell'arcobaleno.

Lei, non appena si accorse di noi, sollevò il capo e ci squadrò con aria scettica. «Siete voi che avete suonato a tutti i campanelli dello stabile?» gracchiò irritata.

La osservai meglio. I suoi capelli erano tinti di blu elettrico, il viso cosparso di trucco e reso pallido da un'eccessiva dose di fondotinta, gli occhi verdi e taglienti leggermente socchiusi e puntati su di noi.

Samantha, al mio fianco, si irrigidì leggermente.

Mentre Daron si prendeva le sue responsabilità, ammettendo di essere stato lui l'artefice di tutto quel disastro, la mia amica sussurrò al mio orecchio: «Sento profumo di lesbica».

Alzai gli occhi al cielo e avanzai verso la tizia dai capelli blu. «Sono qui per fare una sorpresa a Shavo, non sa che sono qui» spiegai.

«Oh, il pelatone! Giusto, dovrebbe essere rinchiuso in casa come al solito. Anzi, devo chiedergli di darmi una mano. Gli ho fatto una copia delle mie chiavi di casa perché spesso le perdo, sai com'è...» ammiccò quella, sorridendo e parendo un po' più cordiale rispetto al primo istante in cui ci aveva notato.

«Ma pensa te» bofonchiai, per nulla interessata a tutte quelle chiacchiere.

«Bussiamo e facciamola finita» venne in mio soccorso Daron, trascinandomi di fronte alla porta situata alla sinistra dell'ascensore. «Ora te la devi cavare da sola, amica» mi disse, facendosi tremendamente serio.

Sospirai e, tremando leggermente, chiusi la mano a pugno e picchiettai con le nocche sul legno scuro e pesante.

Calò il silenzio attorno a me, e notai che Daron, Samantha e la tizia dai capelli blu si erano ritirati in un angolo per concedermi un po' di privacy. La cosa, anziché tranquillizzarmi, mi agitò ulteriormente. E non riuscivo a capire perché mi sentissi così in ansia; si trattava soltanto di Shavo, cosa mi stava succedendo?

Non feci in tempo a trovare nessuna risposta alle mie infinite domande, poiché la porta si aprì e lui apparve in controluce. Aveva uno sguardo stralunato e malinconico, che mutò non appena mi riconobbe. Divenne colmo di incredulità. Istintivamente si stropicciò gli occhi come se temesse di scacciare un'allucinazione.

Volai tra le sue braccia e lo travolsi letteralmente, sentendo ogni ansia e tensione sciogliersi e abbandonare il mio corpo. Barcollammo pericolosamente, tenendoci stretti l'uno all'altra.

«Cazzo, ma cosa...» farfugliava in continuazione Shavo, percorrendo i miei capelli e il mio viso con le mani.

«Sono qui» sussurrai, poi mi misi in punta di piedi e lo baciai sulle labbra, sentendo subito le sensazioni familiari che mi erano visceralmente mancate. Non riuscivo ancora a capire come avessi potuto trascorrere delle giornate intere senza poterlo toccare.

Qualcuno, alle nostre spalle, si schiarì la gola e noi ci voltammo di scatto, spaventati. Mi ero completamente dimenticata che non eravamo soli.

«Scusate, piccioncini... Shavy, sono rimasta chiusa fuori. Mi dai le chiavi?» Era stata la tizia dai capelli blu a parlare e il bassista impiegò qualche istante per registrare ciò che lei gli aveva appena chiesto.

Dopodiché, senza lasciarmi andare, si allungò dietro la porta e sfilò un mazzo di chiavi da un chiodino piantato sulla parete. Tese il braccio destro verso la sua vicina di casa e sospirò.

«Grazie, Shavy, sei un angelo. Sono contenta che tu abbia trovato un'amichetta con cui spassartela» cinguettò la tizia, strappandogli le chiavi dalle mani.

«Abby, non essere sgradevole come sempre. Sparisci» la scacciò Shavo, evidentemente annoiato dall'atteggiamento di quella stramba ragazza.

Lanciai un'occhiata a Daron e Samantha che ridacchiavano tra loro, ma poi Shavo mi trascinò dentro casa e chiuse la porta senza lasciarmi il tempo di protestare.

«Ma Shavarsh, i ragazzi...»

Lui mi baciò con impeto, spingendomi contro il legno della porta. «Non me ne frega niente» mormorò nel tono più sensuale che gli avessi mai sentito.

I suoi occhi erano infuocati, lucidi, accesi dello stesso desiderio che stava scavando rovente all'interno e all'esterno del mio corpo.

Eravamo nuovamente insieme e io non riuscivo a crederci, mi sembrava tutto surreale.

Non mi guardai attorno, non ebbi il tempo di esaminare l'appartamento in cui mi trovavo, riuscivo soltanto a scorgere il viso di Shavo nella penombra, a sentire le sue mani che mi stringevano e che gettavano via i miei vestiti.

Ci ritrovammo nella sua stanza, non sapevo neanche come ci fossimo arrivati.

Mi fece stendere sul letto e si arrampicò su di me, baciandomi ovunque. Non riuscivo quasi a respirare per l'intensità di ciò che stavo provando, non riuscivo quasi a capire dove terminasse il mio corpo e cominciasse il suo.

Lo sentivo parte di me, parte di ogni mia fibra. Era rovente su di me, dentro di me; e io mi aggrappavo con forza alle sue spalle, rotolai con lui tra le lenzuola e divenni sua come mai lo ero stata da quando ci eravamo conosciuti.

Chi diceva che fare l'amore dopo essere stati lontani per un po' era qualcosa di esplosivo e indescrivibilmente bello, aveva capito tutto della vita.

Dovetti soffocare un gemito strozzato quando raggiunsi l'apice del piacere e mi inarcai contro il suo corpo magro e tonico; in un istante di vaga lucidità avevo quasi paura che i nostri amici potessero sentirci, dal pianerottolo. Non sapevo neanche se fossero ancora là fuori.

Mentre cercavo di riprendere fiato e stringevo con forza Shavo tra le braccia, mi venne in mente che avevo lasciato Samantha in balia di Daron. Certo, lei sapeva cavarsela, sapeva certamente tenergli testa, ma non mi ero comportata nel modo migliore nei confronti della mia amica.

«Leah, ehi.» Shavo mi accarezzavo il viso e mi guardava negli occhi. Dovevo avere un'espressione assorta. «Va tutto bene?» mi chiese con una punta d'ansia nella voce.

«Ma certo che va tutto bene» risposi con sicurezza, posandogli un bacio sulla spalla. «Pensavo soltanto al fatto che ho abbandonato Sam con quel cretino di Daron» gli dissi.

Shavo scoppiò a ridere e mi tenne ancora più stretta. «Ti ho detto che non me ne frega niente» ripeté, poi tornò a baciarmi teneramente sulle labbra. «Io non ti lascio più» aggiunse con estrema dolcezza.

«Ti ricordo che devi andare a cena da Serj» lo punzecchiai, accarezzandogli la schiena.

«Cazzo.» Mi fissò. «Dobbiamo andare a cena da Serj» mi corresse.

«Che cosa? Non posso piombare lì all'improvviso, lui neanche mi conosce» protestai.

«Lo avviso io.» Shavo lanciò un'occhiata alla sveglia posta sul comodino e sbuffò. «Okay, corro a chiamarlo. Se vuoi, puoi usare la doccia.» Mi baciò sulla fronte e scese dal letto, cercando qualcosa da mettersi addosso.

Sapevo di dovermi alzare, di dovermi rivestire e di dover uscire sul pianerottolo a prendere la mia valigia, ma attualmente non ne avevo voglia.

Era così bello stare tra le lenzuola a fissare il soffitto, mentre il profumo penetrante di Shavo mi invadeva le narici e scavava in ogni parte di me.

Adesso stavo bene, adesso sapevo di amarlo.




Ehilà!

Eheheheh, vi aspettavate che Leah corresse a Los Angeles a bordo di un treno per raggiungere nuovamente Shavo e il resto della comitiva?

Io aspetto solo i vostri commenti e non dico nient'altro, sono qui solo per linkarvi la canzone che Leah, Daron e Samantha ascoltano in macchina. Adoro questo pezzo, adoro l'energia e la voce di Cindy Lauper, e voi?

Sentite un po':

https://www.youtube.com/watch?v=PIb6AZdTr-A

Grazie davvero per essere ancora qui a leggere le mie follie, spero che la storia continui a piacervi ^^

Alla prossima ♥

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Capitolo 50
*** Reunion ***


ReggaeFamily

Reunion

[Shavo]




Quando io e Leah uscimmo dal mio appartamento, non trovammo nessuno sul pianerottolo. Sentendo un baccano incredibile provenire da casa di Abby, ci rendemmo conto che la sua porta era spalancata e ci lanciammo un'occhiata interrogativa.

«Che stanno combinando là dentro?» domandò Leah.

Alzai le spalle e la seguii mentre si dirigeva all'interno dell'appartamento di fronte al mio, senza preoccuparsi di bussare o di annunciarsi. Era da un po' che non mettevo piede in quel posto, e notai con disappunto che la mia dirimpettaia aveva nuovamente cambiato la maggior parte dei mobili: aveva il vizio di partecipare a un sacco di aste, durante le quali vendeva e comprava una marea di cose inutili da lei ritenute meravigliose.

«Che succede qui?» strillò Leah, raggiungendo la soglia della cucina. Si bloccò di colpo e io fui costretto ad arrestare i miei passi di conseguenza.

Sbalordito, fissai la scena che si presentava di fronte ai miei occhi: Daron, Abby e l'amica di Leah se ne stavano tutti e tre seduti attorno al tavolo e sorseggiavano tè bollente, ridendo come tre cretini e scherzando tra loro come fossero vecchi amici. Era piuttosto raccapricciante, soprattutto perché le tre personalità dei presenti facevano a pugni tra loro, stipate in quella minuscola stanza.

«Ce l'avete fatta, piccioncini?» cinguettò Abby, lanciandomi un'occhiata colma di malizia.

«Com'è che ti chiami?» la apostrofò Leah.

«Abby.»

«Senti, Abby... evita di fare battutine, okay? Piuttosto, voi che avete combinato?» tagliò corto la mia ragazza, entrando con disinvoltura in cucina e a accostandosi alla sua amica. Poi si voltò nella mia direzione. «Shavarsh, comunque... lei è Samantha, la mia coinquilina nonché amica» mi spiegò, posando una mano sulla spalla della ragazza corpulenta che sedeva scompostamente accanto a Daron.

Lei si alzò e si avvicinò a me. Inclinò la testa di lato e mi studiò per un attimo, mentre mi tendeva una mano. «Io sono Sam, non provare neanche a chiamarmi Samantha, altrimenti ti strappo quell'assurdo pizzetto che ti ritrovi» mi si rivolse con impeto.

«È un piacere anche per me, sono Shavo» risposi con un sorriso.

«Ma sì, non sei poi così male come pensavo» aggiunse poi.

«Daron? Alzati, dai! Serj ci aspetta a cena da lui» stava dicendo intanto Leah, picchiettando sulla spalla del chitarrista.

«Grazie» borbottai, non riuscendo bene a interpretare le parole di quella ragazza.

La padrona di casa mi fissò. «Ehi, Shavy, stai bene? Hai una faccia...»

Sbuffai. «Piantala con quel nomignolo» la rimbeccai.

«E com'è che questa qui può chiamarti come vuole?» protestò Abby, additando sfacciatamente Leah.

«Fatti gli affari tuoi» risposi irritato. Abby sapeva essere veramente antipatica quando ci si metteva, specialmente quando c'era qualcuno di fronte a cui potesse mettermi in ridicolo. Non sapevo perché si comportasse in quel modo, ma non avevo nessuna voglia di starla a sentire. La mia testa era un vero casino in quel momento: da un lato ero ancora scombussolato per l'improvvisa comparsa di Leah a casa mia, ma dall'altro lato non sapevo come comportarmi. Mi era tornato in mente lo spiacevole avvenimento con Lakyta durante l'ultima sera in Giamaica, e ancora non avevo trovato il coraggio di dirlo alla mia ragazza.

«Andiamo» concluse Daron, abbagliando Abby con un sorriso smagliante. «Ciao, ragazza strana» la salutò.

«Com'è che mi sono persa un personaggio come te?» fece lei.

«Non passo spesso da queste parti» spiegò il mio amico, fingendosi disinteressato.

«Ehi, pidocchio! Smettila di provarci anche con i pali» lo rimbeccò allora Samantha, utilizzando un tono stizzito.

«Poverino, lascialo fare» lo difese ironicamente Abby. Non sapevo cosa stesse tramando quella cretina, ma sinceramente dubitavo che avrebbe mai potuto soddisfare il mio amico. Non andava a sbandierare la cosa ai quattro venti, ma io sapevo che era lesbica, nonostante a volte si esibisse in commenti piuttosto volgari nei confronti di esseri di sesso maschile.

Abby ci accompagnò alla porta e, prima che noi potessimo andar via, afferrò Daron per un braccio e lo trattenne, baciandolo sulla guancia con tanto di schiocco. «Ciao, a presto, bel ragazzo» gli disse.

Il chitarrista rimase basito e non aprì bocca finché non ci trovammo in strada.

«Prendo la mia macchina» dissi, afferrando la mano di Leah.

«Ho capito, andate pure. Mi sacrifico e rischio la vita in auto con questo pidocchio» disse Samantha, mollando una possente gomitata a Daron.

«Sei sicura?» si preoccupò Leah.

«Ma certo, so badare a me stessa. Se muoio in un incidente, tanto è colpa sua» affermò la corvina con decisione.

«Se non la smetti di fare la stronza, ti lascio in mezzo all'autostrada e sono cazzi tuoi» sbottò Daron.

I due camminarono fianco a fianco, continuando a battibeccare animatamente; stavano facendo un baccano impossibile, le loro voci rimbombavano tra gli alti palazzi del quartiere e io ero sempre più incredulo.

«Che roba» commentai, conducendo Leah verso il posto auto a me riservato nel garage del palazzo.

«Hai visto? Sono già amici per la pelle» scherzò lei, saltellando accanto a me.

Mentre mi frugavo in tasca alla ricerca delle chiavi, lei mi afferrò per la vita e mi attirò a sé, premendo il suo corpo al mio. Rimasi senza fiato quando mi resi conto che mi stava baciando.

«Ehi» sussurrai, quando si staccò da me.

«Mi sei fottutamente mancato. È incredibile» ammise, tenendomi stretto a sé.

Risi. «E sarei io a essere sdolcinato?»

Mi spinse via. «Vaffanculo!»

Una volta saliti a bordo della mia auto, accesi lo stereo e lasciai scorrere un album che raccoglieva i maggiori successi dei Cypress Hill.

Leah sembrava essere diventata improvvisamente pensierosa; se ne stava abbandonata sul sedile con un'espressione assorta, fissando un punto a me ignoto oltre il parabrezza. Forse era concentrata sulla musica, o forse c'era qualche altro problema che la affliggeva.

Mi sentii subito in ansia. Avrei voluto dirle di Lakyta, ma avevo paura che non fosse il momento opportuno. Forse non stava bene, forse aveva litigato ancora una volta con suo padre o con la sua attuale matrigna. Forse ce l'aveva con me perché non ero corso a Las Vegas come le avevo promesso, forse...

«Leah, va... va tutto bene?» balbettai, avvertendo l'agitazione strozzarmi la gola.

Lei si voltò a guardarmi e sorrise. «Stai tranquillo, sto bene. Stavo solo pensando al fatto che tra poco conoscerò Serj. Mi sento strana, in ansia...»

«Che cosa?» Ero senza parole. Era solo questo?

«Stavi già pensando al peggio, eh? Ti agiti troppo, Shavarsh. E comunque, sì, è così. Non te la prendere, ma sai bene che lui è sempre stato il mio preferito della band. E poi... il modo in cui ho conosciuto voi è stato imprevisto, quest'incontro invece... è diverso, capisci?» mi spiegò, gesticolando furiosamente.

Fissai la strada e il traffico di fronte a me. «Ah» feci soltanto.

«Sei arrabbiato?» mi chiese, posandomi una mano sul braccio.

Non risposi, non sapevo se avessi un motivo valido per prendermela. Leah mi aveva detto che Serj era sempre stato il suo preferito dei System, ma stava parlando soltanto del lato artistico. Dovevo capirlo, nonostante questa consapevolezza mi mettesse piuttosto a disagio.

«Non essere sciocco. Sai di cosa sto parlando.»

Certo che lo sapevo, ma la verità era che stavo cercando il modo per dirle ciò che dovevo. Stavo impazzendo, detestavo nasconderle qualcosa di così stupido. Io non avevo fatto niente di male, aveva ragione Daron.

«Scusa, lo so... devo dirti una cosa.»

Leah si fece mortalmente seria. «Che succede?»

Sospirai. «Mi sento in colpa per una cosa che è successa durante l'ultima sera in Giamaica, quando tu non c'eri più. Ma non credo... Daron dice che non devo sentirmi in colpa, ma...»

Mi strinse forte il braccio. «Calmati e parla chiaramente» mi incitò.

«Okay, Leah. Ero ubriaco, ricordi? Il giorno dopo non ero certo di ciò che fosse accaduto e mi sentivo strano, ma poi ho parlato con John e Daron e loro mi hanno detto che Lakyta ci ha provato con me.»

Leah conficcò le unghie nella mia carne. «Quella puttana» ringhiò, per poi lasciarmi andare di botto e incrociare le braccia al petto. «E allora?»

Avrei voluto frenare, parcheggiare alla meglio e prenderla tra le braccia, tranquillizzarla e dirle che non doveva preoccuparsi. Deglutii a fatica e mi costrinsi a restare concentrato sulla guida.

«Il punto è che... be', le ho vomitato addosso. E basta, questo è tutto» conclusi con un filo di voce.

Calò il silenzio, tutto ciò che si udiva all'interno dell'abitacolo era la voce acuta e ritmata di B-Real mentre si esibiva in una strofa di Insane in the brain.

Leah espirò all'improvviso, poi scoppiò fragorosamente a ridere, spalmandosi scompostamente sul sedile. «Cristo, avrei voluto assistere a questa scena epica! Shavarsh, sei il mio mito!» esclamò concitata, battendo le mani sulle sue cosce mentre sghignazzava.

Le lanciai un'occhiata stranita. «Sul serio non ce l'hai con me?»

Dopo essersi ripresa, si sporse per lasciarmi un rapido bacio sulla guancia. «Sei sempre il solito sciocco.»

«Perché?»

«Perché sì. Mi spieghi come potrei incazzarmi con te? È tutta colpa di quella sgualdrina, ma ha avuto ciò che si meritava.»

Annuii. «Sì, è vero.»

Leah sbuffò. «Sai cosa penso? Secondo me, dopo aver scoperto chi sei e dove vivi, voleva provare a conquistarti per poter volare a Hollywood e coronare il suo sogno da attrice fallita. È e sarà sempre e soltanto un'arrampicatrice sociale. Ogni volta che una star di Hollywood approda allo Skye Sun Hotel, lei cerca di conquistarla e di lavorarsela con la speranza di poter raggiungere i suoi scopi. È disgustosa.»

«Prima o poi ci riuscirà, abbindolerà qualcuno e diventerà un'attrice famosissima. E allora tu sarai invidiosa di lei» scherzai, mentre mi fermavo a un semaforo rosso.

«Come no, e andrò a implorare perdono ai suoi piedi» commentò Leah in tono acido.

«La odi così tanto?»

«Diciamo che mi dà il voltastomaco» spiegò con estrema schiettezza.

Mi sporsi verso di lei e le presi il viso tra le mani, per poi posare le mie labbra sulle sue. Le lasciai un rapido bacio e tornai in fretta a tenere d'occhio la luce rosso acceso del semaforo.

«E questo che vuol dire?» mi chiese.

«Volevo darti coraggio per l'incontro con Serj» risposi con un sorrisetto.

«Cazzo, quasi me ne dimenticavo!» strillò.


Daron e Samantha ci aspettavano di fronte al portone. Sembravano aver instaurato una provvisoria tregua, poiché chiacchieravano tranquillamente. La ragazza fumava una sigaretta con un'eleganza che faceva a pugni col suo temperamento, mentre Daron si costruiva una stecca di erba.

«Eccoci! Amico, ci offri un tiro, vero?» esordì Leah, affiancando subito il chitarrista.

Lui non la guardò, tenendo gli occhi fissi su ciò che stava facendo. «Non dovresti fumare a stomaco vuoto, non sei abituata» le consigliò.

«Quante cazzate dici? Comunque, ne ho bisogno. Tra poco conoscerò Serj, devo rilassarmi. Cazzo, sto tremando come una bambina!» bofonchiò lei in risposta, portandosi le mani di fronte agli occhi per guardarle mentre fremevano senza che potesse controllarle.

La raggiunsi e gliele strinsi forte. «Su, che sarà mai? È soltanto Serj» tentai di tranquillizzarla.

«Non immagini quanta ansia aveva prima di arrivare a casa tua» intervenne Samantha.

«Ehi! Sei una pessima amica, perché mi sputtani così?» si rivoltò Leah.

«Dico il vero, ragazza mia» si giustificò l'altra.

«Confermo» gracchiò Daron.

Leah sbuffò e gli strappò di mano la canna appena preparata. «Dammi un accendino, Malakian, anziché dire stronzate» tagliò corto.

Lui ridacchiò e le porse uno zippo nero lucente. «Prego, signorina.»

Leah fece qualche tiro, poi restituì l'oggetto al chitarrista. «Okay, ora va un pochino meglio» ammise, per poi accoccolarsi al mio fianco e chiudere gli occhi. «Posso farcela» sussurrò.

«Non ti avevo mai visto così agitata» le dissi, tenendola stretta al mio fianco.

«Mi succede raramente» si lasciò sfuggire.

Quando Daron finì di fumare, suonò il campanello corrispondente all'appartamento di Serj e poco dopo il portone si aprì emettendo un secco click.

Prendemmo l'ascensore e Leah si spiaccicò contro la parete metallica, chiudendosi in un silenzio assoluto. Sembrava non stesse quasi respirando.

Quando fuoriuscimmo dall'angusta cabina, Serj era in piedi sulla soglia del suo appartamento e ci sorrideva bonariamente, tenendoci aperta la porta.

«Ciao cantante» esordii. Afferrai Leah per un polso e dovetti trascinarmela dietro. Mi fermai con lei di fronte al padrone di casa e proseguii: «Ti presento una tua grandissima ammiratrice. Lei è Leah. Leah, ehi, respira, coraggio... lui è Serj, è un essere umano come tutti noi, non ti farà del male» tentai di sdrammatizzare, sentendola rigida come un palo accanto a me.

«Oh, okay, ehm... sto bene, certo. Scusa, sì... piacere, io sono Leah, è... un piacere conoscerti» balbettò, sollevando meccanicamente un braccio per stringere la mano che Serj le tendeva.

«Faccio ancora quest'effetto alle donne? Wow» commentò scherzosamente il cantante, e con quelle parole fece scoppiare a ridere la mia ragazza.

«Cosa sentono le mie orecchie?» Angela comparve dietro di lui e sbirciò in direzione di Leah. «Oh, ciao! Tu devi essere la famosa Leah. Mi sembri un po' pallida, ti porto qualcosa da bere?»

«Ora le passa, non preoccuparti» intervenni, guidando Leah dentro l'appartamento del mio amico.

«Finalmente vi siete sradicati dall'ingresso, pensavamo di dover fare la muffa sul pianerottolo» si lamentò Daron, correndo dentro e buttandosi sul divano del salotto. «Divano dolce divano, mi eri mancato.»

«Pidocchio, sei un fottuto maleducato!» sbraitò Samantha, gli occhi fiammeggianti puntati su di lui.

«Pensa per te, non ti sei neanche presentata ai padroni di casa» replicò lui in tono piatto.

Samantha divenne furiosa, ma si trattenne nel rendersi conto che Daron aveva ragione. Si accostò a Serj e Angela e si scusò ripetutamente.

«Leah mi ha parlato molto di lei, Serj. Dice che è un cantante molto bravo e famoso, io... mi sento un po' sciocca, non avevo mai sentito parlare di lei, ma fa lo stesso, non è vero?» blaterava Samantha con le mani sui fianchi larghi.

«Ma certo, cara, non preoccuparti, Serj non si offende» la tranquillizzò Angela. «Hai dei capelli bellissimi, sai?»

«La ringrazio» borbottò l'altra.

«Oh, non darci del lei, avanti» la rimproverò il mio amico, per poi rivolgere un sorriso in direzione di Leah.

«Non startene qui impalata, coraggio» le sussurrai all'orecchio, spingendola leggermente verso di lui.

«Serj, scusami per prima» cominciò lei. Gli spiegò brevemente la sua situazione e il suo disagio, e finalmente riuscì a sciogliersi e a comportarsi come suo solito.

Tirai un sospiro di sollievo. Se anche Leah fosse diventata ansiosa come me, chi avrebbe aiutato chi?

Udimmo suonare il campanello.

«Oh, dev'essere il fattorino che porta le nostre pizze» commentò Angela, avviandosi verso la porta.

Io intanto chiacchieravo con Serj, Samantha e Leah.

«Leah, non hai portato qualcosa da fargli autografare?»

«Sam, non essere sciocca, andiamo! Non era proprio il caso, e poi quando sono partita non avrei mai immaginato di...» Si bloccò e rivolse a Serj un sorriso imbarazzato.

«Allora dobbiamo rimediare» affermò il cantante, guardandosi attorno. «Dovrei avere qualcosa su cui scribacchiare una dedica.»

«Ma non è necessario, davvero!» strepitò la mia ragazza, lanciandomi un'occhiata in cerca di sostegno.

«Lascialo fare, sta' zitta» dissi invece, ricambiando con un sorriso enorme. Ero contento che Leah stesse vivendo un'emozione così forte e un'esperienza per lei unica. Potevo capire come si sentiva, non doveva vergognarsene.

Mentre Serj stava per dire qualcosa, Angela tornò in salotto. Non era sola.

«Ehilà!»

Mi voltai e sgranai gli occhi.

«Che cazzo ci fate voi qui?!» strillò Daron, balzando in piedi dal divano.

John e Bryah ci sorridevano radiosi, uno accanto all'altra. Lei era stretta al suo braccio e pareva un po' imbarazzata nel trovarsi in presenza di persone che non conosceva.

«Sorpresa!» esclamò il batterista.

Leah emise un gridolino e si gettò letteralmente sui nuovi arrivati. «Ragazzi, oddio!» Strinse entrambi in un abbraccio.

John la guardò dritto negli occhi ed esclamò: «Sei anche tu qui! È assurdo!».

«Già» fece lei, mostrandosi estremamente felice per aver ritrovato anche il resto della comitiva.

Ci furono varie presentazioni tra coloro che ancora non si conoscevano, e poi Angela annunciò che presto sarebbe davvero arrivato un fattorino a consegnare le nostre pizze. Nel frattempo, lei e Serj ci offrirono un aperitivo.

«Ragazzi, io...» Leah si guardava attorno incredula. «Oggi mi state uccidendo a furia di scaricarmi addosso vagonate di emozioni» ammise.

Notai che aveva gli occhi lucidi e che faticava a nascondere ciò che stava provando.

«Abbiamo un sacco di cose da raccontarci» osservò John.

«C'è tempo» gli feci notare.

«Per prima cosa, dovete raccontarci tutto ciò che avete fatto in Giamaica» strepitò Angela, seduta sul seggiolino del pianoforte di Serj.

«Oddio, dobbiamo davvero? Io non parlo» bofonchiò Daron, sorseggiando dal suo bicchiere.

«Invece comincerai proprio tu, amico» lo incoraggiò Leah, che intanto si era nettamente rilassata.

«Prima di tutto, ho una questione in sospeso con la mia ospite speciale» intervenne Serj, per poi alzarsi dal divano. Daron gli fece lo sgambetto e sghignazzò, mentre Samantha gli abbaiava contro insulti irripetibili.

Leah sussultò e osservò il cantante con timore. «Che vuoi fare? Ti ho detto che non è necessario!» tentò di fermarlo.

Serj si accostò a uno scaffale su cui erano riposti diversi dischi e libri; afferrò un piccolo volume e lo sfogliò velocemente. «Okay» disse soltanto.

«Che cos'è?» domandò flebilmente Leah.

Lui non rispose e frugò in un cassetto, dal quale poco dopo estrasse una penna. Si inginocchiò di fronte alla ragazza e le sorrise con estrema dolcezza.

Leah afferrò la mia mano e la stritolò.

«Questa è la mia prima raccolta di poesie, ho ancora qualche copia a disposizione. Mi piacerebbe regalartela, ma solo se ti va e se mi prometti di non protestare ancora.»

Leah impallidì e fissò il libro che lui teneva tra le mani. «È uno scherzo, vero?»

«No, affatto. Ora ti scrivo una dedica e siamo a posto.»

Ridacchiai. «Leah, ricordati di respirare» le suggerii.

«Stupido» borbottò, mollando la mia mano.

Serj chiuse il libro e glielo ficcò in mano. «È tuo» concluse.

Leah sembrava aver paura a sfiorare quell'oggetto. «Non so cosa dire, solo... grazie, grazie davvero, è un regalo bellissimo.» Sospettavo che stesse per scoppiare a piangere e sapevo che non avrebbe sopportato che ciò accadesse.

«Dammi un abbraccio, ammiratrice speciale» la incoraggiò il cantante, attirandola a sé in una stretta affettuosa.

Leah ricambiò con slanciò e notai qualche lacrima scivolare giù dai suoi occhi. Avrei voluto trascinarla accanto a me e riempire il suo viso di baci.

Vederla così felice mi scaldò il cuore, mi fece provare un sentimento caldo e rassicurante. Capii che volevo soltanto stare con lei, saperla al sicuro e colma di gioia.

Avrei voluto gridarle che l'amavo, ma non potevo. Non in quel momento. Non ancora.




Rieccomi!

Rompo un attimo con le note solo per lasciarvi il link della canzone dei Cypress Hill che Shavo e Leah ascoltano in macchina, ecco a voi:

https://www.youtube.com/watch?v=RijB8wnJCN0

Poteva Shavo non ascoltare i suoi cari amici B-Real & company? Ahahahahah XD

Per il resto, attendo i vostri commenti su questo capitolo... fatemi sapere se secondo voi si stanno creando dei legami interessanti tra questa banda di matti, sono curiosissima :D

Grazie a tutti, come sempre, per essere ancora qui... siamo arrivati a cinquanta capitoli, vi rendete conto? *___*

Okay, la pianto di vaneggiare, alla prossima ♥

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Capitolo 51
*** Storytellers ***


ReggaeFamily

Storytellers

[John]




«È stato un disastro fin da subito. Shavo ha sofferto il mal d'aereo a causa delle turbolenze. All'andata ho seriamente pensato che avrebbe vomitato addosso a me» bofonchiò Daron, scoccando un'occhiata sprezzante in direzione del bassista.

Quest'ultimo fece spallucce. «Non ci posso fare niente. Ora che mi ci fai pensare, non mi sarei dovuto trattenere» ghignò, per poi addentare una fetta della sua pizza.

«Ci credete se vi dico che non mi siete mancati?» borbottai, appollaiato sullo sgabello del pianoforte di Serj.

«Dolmayan, non intrometterti! Queste sono questioni da uomini!» strillò il chitarrista, assumendo un atteggiamento da gangster fallito. Avrei voluto ribattere, ma mi limitai a sghignazzare.

«Possiamo andare avanti con la narrazione?» si spazientì Leah, mollando un calcio a Daron.

Eravamo sparpagliati nel salotto di Serj con i cartoni delle pizze posati sulle ginocchia o per terra di fronte a noi. Leah sedeva sul tappeto tra Daron e Samantha, mentre Shavo se ne stava stravaccato sul divano alle loro spalle, accanto a Serj. Angela era appollaiata sul bracciolo e si guardava intorno con aria divertita.

«Continua tu, mostriciattolo.» Daron apostrofò Leah in quel modo, e io temetti seriamente che la ragazza potesse saltargli addosso e riempirlo di botte. Magari l'avesse fatto, ci sarebbe stato da divertirsi.

Leah alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. «Quindi, potete immaginare quanto mi sono preoccupata quando ho visto questo ragazzo entrare nella hall dell'albergo: era pallido, sembrava stare parecchio male. Ovviamente l'ho riconosciuto subito, così come ho riconosciuto loro due» raccontò, accennando prima al bassista, poi a me e Daron.

«Sapevi chi erano e non lo hai dato a vedere, dico bene?» intervenne Angela, per poi mordicchiare un pezzo della sua pizza.

«Già. Non volevo essere ignorata o vista come una fan qualsiasi, se capisci cosa intendo. Tu vivi con Serj da tanto tempo e immagino abbiate spesso a che fare con fan psicopatici che vi fermano in giro o si appostano nei luoghi che frequentate.»

L'altra annuì.

«Ho fin da subito intuito che i ragazzi avessero scelto quel luogo tranquillo per poter trascorrere una vacanza in totale relax, senza essere riconosciuti e importunati. Peccato che poi le cose siano andate diversamente.» A quelle parole, Leah sghignazzò e si allungò verso Shavo per tirare la stoffa dei suoi pantaloni. «Vero, Shavarsh?»

Quello si riscosse, doveva essere assorto nell'ascoltare il racconto della ragazza; si protese in avanti e immerse le dita tra i capelli di lei, scompigliandoli. «MI ha ingannato, capite? Mi ha fatto credere che non mi conoscesse. È una cattiva persona, non fidatevi mai di lei!» scherzò.

Leah se lo scrollò di dosso e ridacchiò. «In ogni caso, l'ho soccorso mentre stava per vomitare. Per fortuna si è ripreso, anche se ha trascorso il resto della giornata in camera sua» proseguì.

«Che rammollito» commentai. Avevo già finito di mangiare da un po' e mi limitavo a osservare i miei amici. Bryah, accovacciata ai miei piedi, doveva ancora mangiare metà della sua pizza.

«Senti chi parla» gracchiò il bassista, lanciandomi un'occhiataccia.

«E poi?» domandò Angela, sempre più curiosa di conoscere tutti i dettagli.

Le sorrisi. «Poi io e Leah ci siamo ritrovati a fare colazione insieme la mattina seguente. Mi ha adescato sulla spiaggia e mi ha costretto a mettere in pratica questo rituale» spiegai in tono divertito, ricordando quanto avessi trovato singolare il fatto che quella ragazza fosse andata in spiaggia di notte, soltanto per sfamare dei gatti randagi.

«Ehi! Io stavo accudendo i miei gattini, che vuoi? Sei arrivato a importunarmi, dovevi pagare pegno! Comunque, sì, è andata più o meno così: ho visto quest'uomo tutto triste e solo, pensavo addirittura fosse muto. Volevo conoscerlo meglio, così gli ho proposto di vederci la mattina seguente e tutte le successive. Certo, ci sono stati degli imprevisti, ma per qualche giorno siamo riusciti a fare colazione insieme.»

Daron si agitò sul tappeto. «Ragazzi, quella sera io ho avuto un incontro ravvicinato con una pollastra niente male» si intromise, trangugiando della birra dal suo bicchiere.

«Oh sì, con l'amante di mio padre. Che pollastra meravigliosa, amico. Avresti potuto scegliere qualcosa di meglio, lasciatelo dire» lo rimbeccò Leah, utilizzando un tono sprezzante e colmo di disgusto.

«Senti, Medison era una preda facile e io volevo divertirmi un po'. Shavo stava morendo nel suo letto, John se n'è andato chissà dove, a fare l'archeologo esploratore... cosa avrei dovuto fare?» saltò su il chitarrista, tirandole una ciocca di capelli.

«Ahi, ma sei cretino?! Okay, comunque, questo depravato si è scopato la tipa di mio padre. Quando l'ho scoperto, qualche giorno dopo, ho reagito malissimo. Ma poi mi sono detta che non me ne importava niente, che mio padre se lo merita» tagliò corto Leah, facendo chiaramente intendere di voler cambiare argomento.

«Sappiate che questa ragazza è riuscita a farmi aprire e parlare dopo poco tempo, è incredibile» andai in suo soccorso, lanciandole una breve occhiata.

Lei mi regalò un sorriso colmo di gratitudine e si posò una mano sul petto. «Per me è stato un onore, signor Dolmayan» scherzò. All'improvviso spalancò gli occhi. «Ehi, comunque non è vero che ti ho adescato io in spiaggia! Sei stato tu a propormi di fare colazione con te, ricordi? Ci siamo incontrati quando stavi rientrando dalla tua folle corsa mattutina» blaterò.

«Hai ragione, è vero! Be', volevo far credere a tutti che sei una persona orribile, ma non ci sono riuscito» mormorai, fingendomi sconsolato.

Bryah scoppiò a ridere e mi mollò una gomitata sulla gamba. «Non sei credibile» mi schernì.

«Poi è successo un disastro, il primo tra i tanti» biascicò Shavo, giocherellando con un fazzoletto di carta che teneva tra le mani.

«Oh, arriva la parte interessante allora!» squittì Samantha; aveva appena finito di mangiare e si era messa più comoda sul tappeto, incrociando le gambe e inclinando la testa di lato per poter ascoltare con più attenzione.

«Che cosa è successo?» chiese Serj, scambiando un'occhiata con Shavo.

«Leah si è accorta che c'erano delle nostre fan in spiaggia. Il problema è che l'area privata dell'albergo era piuttosto piccola, non saremmo potuti andare lontano» raccontò il bassista.

«Delle fan?»

«Angie, erano delle aspiranti gruopies! Due pazze fuori di testa, innamorate di lui» spiegai, indicando Shavo. Era una storia assurda, eppure ci era capitata davvero.

«Oddio! E com'è andata a finire?» volle sapere la moglie di Serj.

«Io ho cercato di evitare che Shavo le incontrasse. Le ho sentite parlare in spiaggia, mentre lo aspettavo. Quando ho visto che si stava avvicinando, mi sono alzata di tutta fretta e l'ho trascinato nuovamente verso l'albergo, accampando una scusa. Peccato che le due pazze si siano accorte di lui, perché hanno cominciato a seguirci senza neanche asciugarsi né rivestirsi dopo il bagno. Non lo sapevamo, finché non ce le siamo ritrovate di fronte al piano delle piscine. Com'è che si chiamavano? Katy e...»

Shavo scosse il capo. «Forse Kelly? Ma l'altro nome non me lo ricordo. Sta di fatto che mi hanno trovato e hanno cominciato a strillare, farmi proposte indecenti, toccarmi in maniera eloquente, pretendere foto insieme a me... e lì ho rischiato che Leah scoprisse chi ero. Sì, perché con i ragazzi eravamo d'accordo che non avremmo rivelato la nostra identità a nessuno. Sarebbe stato meglio così, finché qualcuno non ci avesse riconosciuto.»

«Allora me la sono svignata» proseguì Leah, ridacchiando a quel ricordo. «Me ne sono andata in piscina e l'ho lasciato con quelle due pazze.»

«E io ho detto loro che era la mia ragazza» aggiunse il bassista, carezzando distrattamente i capelli di lei; poi un ricordo dovette attraversargli la mente d'improvviso, perché fece una smorfia e aggiunse: «Una delle due mi ha detto che era vergine e pronta solo per me».

Tutti scoppiammo a ridere, mentre Leah fingeva di vomitare sul cartone della sua pizza ormai vuoto.

«Chi ci crede?» bofonchiò Daron. «Erano due puttanelle da quattro soldi.»

«Pidocchio, tu ne sai qualcosa, eh?» lo punzecchiò Samantha, lanciandogli contro il suo tovagliolo di carta.

«Non sono andato a letto con quelle due, erano due bambine. Ammetto di averci pensato, ma poi mi sono detto che sarebbe stato più interessante giocarci un po' e procurarmi qualcosa con cui ricattarle per far sì che tenessero la bocca chiusa. Ha funzionato, e loro non sanno che quel video è andato perso quando mi sono buttato in mare dal pedalò con il cellulare in tasca» raccontò il chitarrista, mostrandosi pienamente soddisfatto di sé.

«Non ricordarmi quel fottuto giorno in pedalò, ho la nausea solo a ripensarci» bofonchiò il bassista.

Scoppiai a ridere al ricordo di Shavo che vomitava in mare, sporgendosi oltre il bordo del pedalò, mentre Daron imprecava in tutte le lingue del mondo per il disastro appena accaduto con il suo cellulare. Si era trattato di un bel casino, non riuscivo ancora a rendermi conto di quante cose epicamente raccapriccianti ci erano capitate durante la nostra vacanza in Giamaica.

«Daron, sei sempre il solito. Possibile che tu debba necessariamente metterti nei guai?» lo rimproverò Serj, nonostante fosse divertito dall'intera situazione.

«Che è successo in pedalò?» chiese Samantha. «Leah non mi ha raccontato tutto!»

«Sei scappata quando stavo per farlo. Shelley lo sa perché è rimasta ad ascoltarmi» la apostrofò la sua amica, indirizzandole una linguaccia.

«Antipatica! Avevo un appuntamento, lo sai!»

«È successo che questi due cretini hanno cominciato a far oscillare il pedalò e il povero Shavo è stato assalito dalla nausea» raccontò Bryah, indicando me e Daron. «Ha rimesso il pranzo e la colazione, e forse anche qualcos'altro» aggiunse in tono disgustato.

«Che stronzi!» esclamò Serj. «Eppure lo sapete che Shavo soffre di certe cose.»

«Era troppo divertente» ghignò Daron.

«Concordo» aggiunsi.

«Piantatela. Stavo davvero male» si lamentò il bassista, portandosi una mano alla fronte. «Che incubo!»

«Non pensarci. Pensa a quanto ci siamo divertiti durante la vacanza. Il Fyah, per esempio, è stato un bel luogo dove trascorrere qualche serata» disse Leah, appoggiando la schiena contro le gambe del bassista. Si strinse le ginocchia al petto e sorrise a Daron. «Tu hai rischiato che tutti scoprissero chi sei, eh Malakian?»

«Avevo una fottuta voglia di suonare e l'ho fatto. Ho cantato qualcosa di Bob Marley, mica sono andato a pescare dalla nostra discografia» si difese il chitarrista, lasciandosi cadere prono sul tappeto.

«Serj, hai visto cosa ci siamo persi?» fece Angela, posando una mano sulla spalla di suo marito.

«La prossima volta andremo in vacanza tutti insieme» proclamò il cantante, annuendo per dare enfasi alle sue parole.

«Ci sto!» esclamò Daron, allungando una mano. Accidentalmente questa andò a finire sulla coscia di Samantha, la quale subito la schiaffeggiò e prese a inveire sottovoce contro il chitarrista.

Ridacchiai e scesi dallo sgabello, accomodandomi accanto a Bryah. Le circondai le spalle con un braccio e la attirai più vicino a me.

«Vi siete dimenticati del concerto di Eek e Barry?» saltò su Shavo, sorridendo nel ripensare a quell'avvenimento.

«Chi sarebbero?» domandò Angela.

Allora Daron cominciò a raccontare di come avevamo scoperto del concerto, del nostro arrivo al locale e di quanto ci fossimo divertiti durante lo show; poi spiegò com'era avvenuto l'incontro con i due artisti giamaicani e come i due, specialmente Eek, fossero onorati dalla nostra presenza. Infine Shavo mostrò a Serj, Angela e Samantha le foto che avevamo fatto con quei due matti.

«Che roba! Ragazzi, certe cose possono capitare solo a voi! Ehi, ma guarda quant'è alto Eek! Shavo, ti supera di gran lunga» commentò Serj, esaminando lo schermo del cellulare che il bassista gli aveva porto.

«Già. È completamente fuori di testa» ridacchiò il bassista. «Molto più di me.»

«Avrei qualche dubbio in merito» lo schernì Leah.

«Anche io» concordò Daron.

«Andate al diavolo!» strepitò Shavo.

Riflettei per un istante, poi intervenni: «Ora che ci penso, non vi abbiamo raccontato come abbiamo conosciuto Bryah».

La diretta interessata parve leggermente imbarazzata all'idea di essere al centro dell'attenzione.

«Giusto! Diteci tutto» ci incoraggiò Angela, restituendo il cellulare a Shavo.

Stavo per aprir bocca, quando il campanello suonò e noi tutti sobbalzammo.

«Chi sarà mai?» si chiese Angela, mentre si alzava dalla sua postazione sul bracciolo del divano. Si avviò verso l'ingresso e rispose al citofono.

Rimanemmo in silenzio, cercando di carpire qualche parola della sua conversazione attraverso il citofono.

«Ah ciao Sako! Ma certo, entrate pure!» la sentimmo esclamare.

«Sako?» strillò Daron, rimettendosi a sedere. «Quel bastardo mi mancava!» esclamò, per poi alzarsi dal tappeto e correre verso l'ingresso.

Bryah si voltò a guardarmi. «Chi arriva?» mi chiese sottovoce.

«Sako è un carissimo amico di tutti noi, nonché mio fedele tecnico della batteria. Ti piacerà» le spiegai, mentre riflettevo sul fatto che fosse una bella coincidenza che il ragazzo fosse arrivato proprio in quel momento. Sarebbe stato contento di trovarci tutti lì riuniti.

«Angie! Ciao, come va? Siamo passati dopo essere stati a cena dai miei, ma... Malakian, mi strozzi! Che cazzo fai? Sei impazzito?»

Quelle parole giunsero forti e chiare alle nostre orecchie, facendoci scoppiare a ridere.

«Karaian, vieni qui!» strillò il chitarrista. Poco dopo Sako entrò in salotto come un fulmine, seguito da un divertito Daron.

«Stai alla larga da me!» sbraitò il nuovo arrivato, correndo a ripararsi dietro il divano su cui sedevano Serj e Shavo.

Solo in quel momento si rese conto che nella stanza erano presenti delle persone che non conosceva, così avvampò d'improvviso e rimase immobile con gli occhi fissi su di me.

Daron, intanto, aveva sospirato e si era buttato nuovamente sul tappeto, borbottando qualcosa a proposito del fatto che Sako fosse noioso e non ricambiasse il suo sincero affetto.

Poco dopo, Angela tornò in salotto in compagnia di una ragazza che riconobbi subito: si trattava di Mayda, la fidanzata di Sako. Era come la ricordavo: esile, pallida, dai lineamenti dolci e i lunghi capelli immancabilmente legati in una coda di cavallo. Era vestita completamente di nero, indossava un giubbotto in pelle e dei jeans strappati, mentre i piedi portava degli anfibi.

Nel rendersi conto che si trovava in compagnia di persone che non conosceva, la sua reazione non fu dissimile da quella del suo ragazzo: sgranò appena gli occhi scuri leggermente truccati e si sistemò imbarazzata gli occhiali sul naso.

«Ehi, Mayda! Come va?» mi rivolsi a lei, alzandomi con l'intenzione di toglierla d'impiccio. La raggiunsi e le regalai un breve abbraccio. Era talmente magra e minuta che temetti di poterle fare del male.

Lei mi sorrise e fece un cenno di saluto anche a Serj e Shavo.

«Vieni, ti presento Bryah» le dissi, avvicinandomi nuovamente al pianoforte. Intanto, la giornalista giamaicana si era messa in piedi e osservava incuriosita la ragazza che aveva di fronte.

«Io sono Bryah, molto piacere. Sono arrivata solo oggi a Los Angeles e non conosco nessuno» spiegò, a sua volta leggermente imbarazzata.

«Mi chiamo Mayda, piacere mio. Voi state insieme?» ci chiese, osservando alternativamente me e Bryah.

Quest'ultima annuì e sorrise. «Ci siamo conosciuti in Giamaica e John mi è stato molto vicino.»

Mayda ricambiò il sorriso, poi si voltò a cercare Sako con lo sguardo. «Ehi, non essere maleducato. Vieni qui» lo apostrofò.

Il mio amico si mosse e abbandonò la sua postazione dietro il divano; intorno a noi tutti continuavano a chiacchierare e scherzare tra loro, ma poco dopo Serj cercò di attirare l'attenzione di tutti per fare le presentazioni.

«Sako, Mayda... lei è Leah, la ragazza di Shavo. Lei invece è Samantha, un'amica di Leah. Infine c'è Bryah, giornalista giamaicana che vorrebbe scrivere un libro sui System e compagna del nostro John. Ragazze, quel cretino è Sako, il nostro amico e tecnico della batteria, mentre lei è Mayda, la sua fidanzata» spiegò il cantante in tono allegro, indicando alternativamente le varie persone che stava citando.

Ci fu un giro di strette di mano e l'atmosfera divenne ancora più allegra. Leah prese subito in simpatia Mayda e la costrinse a sedersi accanto a lei. La cosa non mi sorprese, dal momento che riusciva ad andare d'accordo con tutti e a fare amicizia molto facilmente.

Mayda parve leggermente intimorita dall'esuberanza di Leah, ma presto mi resi conto che la sua tensione svaniva, lasciando il posto a sonore risate, battute e sguardi complici.

Sako si sedette sullo sgabello del pianoforte e prese a importunarmi, blaterando a proposito del fatto che non gli avessi ancora raccontato niente del viaggio in Giamaica.

«Stavamo proprio parlando di questo, sei arrivato tardi» lo schernì, mentre Bryah ridacchiava.

«Che stronzo. Se continui così, mi licenzio e dovrai cercarti un altro servo della gleba disposto a rispondere a tutti i tuoi capricci» mi minacciò lui in tono divertito.

«Me la caverò» dissi, ostentando indifferenza e cercando di non scoppiare a ridere.

Ci fu un momento in cui riassumemmo brevemente ciò di cui avevamo parlato fino a quel momento, rendendo partecipi anche Sako e Mayda delle nostre avventure sull'isola caraibica.

«Leah, come hai fatto a fingere di non conoscerli? Io sarei svenuta nel giro di mezzo secondo!» esclamò la ragazza di Sako, guardando l'altra con ammirazione.

«Non è stato difficile, anche e soprattutto perché loro volevano rimanere nell'ombra, volevano essere visti e trattati come persone comuni.»

«Io non ce l'avrei mai fatta. Quando li ho visti per la prima volta dal vivo, ho creduto di perdere la vita. Poi è successa una cosa assurda: Sako è venuto a salvarmi mentre ero intrappolata tra la folla, mi ha letteralmente trascinato oltre la transenna e mi ha portato con se a lato del palco. Ho perso almeno dieci anni di vita nel trovarmi così vicino a loro, pensa che poi John mi ha regalato le sue bacchette!» sproloquiò Mayda, facendo ridere tutti quanti. Ricordavo ancora quel giorno, durante il quale non avrei mai immaginato che quella ragazza potesse realmente diventare la compagna fissa di Sako.

Serj, nel frattempo, aveva consegnato al mio tecnico e alla sua ragazza una lattina di birra ciascuno, per poi tornare sul divano accanto a Shavo.

«Che storia assurda! Ma voi vi conoscevate già?» chiese Leah curiosa.

«Ci seguivamo sui social, diciamo che gli avevo detto che sarei stata presente a quel concerto» spiegò l'altra, per poi ridacchiare. «Non riuscivo a crederci.»

Leah le spiegò che le era successo di sentirsi in ansia quando, poche ore prima, si era ritrovata di fronte a Serj, il suo mito assoluto fin da quando aveva conosciuto i System.

«Oh, andiamo! Non esagerare» borbottò il cantante, grattandosi il mento.

«Non l'avevo mai vista così agitata prima» confermò Shavo, battendo affettuosamente sulla spalla della ragazza.

«Ehi!» intervenne Angela. «Ancora non ci avete detto com'è avvenuto l'incontro con Bryah!» esclamò.

Ci scambiammo delle occhiate confuse, poi scoppiammo a ridere.

Prima di cominciare a parlare, mi soffermai a osservare per un istante il viso della giornalista che mi aveva rubato il cuore: ero felice che avesse deciso di seguirmi a Los Angeles, ed ero entusiasta all'idea che avesse fatto una buona impressione su tutti i miei amici. Era lontana da casa sua, ma sperai comunque che si sentisse a suo agio e che quell'atmosfera fosse in grado di scaldarle il cuore e l'anima, allontanando dai suoi pensieri le immagini negative e dolorose.

Mi rivolse un caldo e dolce sorriso, e allora compresi che stava bene e che era pronta per riprendere in mano la sua vita.




Ehi, ehi!

Eheheheh, come va?

Vi svelo un segreto: ho scritto questo capitolo solo ieri, perché purtroppo ho finito i capitoli che erano già pronti. Ho dovuto concentrarmi su un altro progetto che non ha a che fare con EFP, ma morivo dalla voglia di scrivere di questi ragazzi e avevo già in mente varie scene, perciò mi sono messa d'impegno e ho buttato giù questo capitolo ;)

Ma ditemi un po'... qualcuno di voi per caso si ricorda di Mayda? Qualcuno di voi ha per caso avuto l'impressione di averla già vista – o forse, meglio dire, letta – da qualche parte?

Io non vi dico niente, vediamo se qualcuno di voi indovina :D

Nel prossimo capitolo vi dirò se avete azzeccato oppure no, o comunque vi spiegherò ogni cosa. Ma ora sono curiosa di scoprire se la vostra memoria vi assiste e se sono riuscita a imprimere questo personaggio nei vostri ricordi :3

Bene, vi ringrazio di cuore per essere qui, per il supporto e per l'affetto che traspare da ogni vostra recensione!

Alla prossima ♥

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Capitolo 52
*** Trust? ***


ReggaeFamily

Trust?

[Daron]




Mi guardai intorno e mi resi conto che io e Samantha eravamo gli unici a non formare una coppia; da quando l'avevo incontrata poche ore prima, avevo desiderato di conoscerla meglio in quel senso, visto quanto era attraente. Tuttavia, mi ero dovuto arrendere fin dal principio: era lesbica e aveva già messo gli occhi addosso alla dirimpettaia di Shavo.

Ero uno sfigato, su questo non c'erano dubbi.

«Bryah mi ha riconosciuto subito» stava dicendo John. La sua voce aveva assunto un'inflessione dolce, era chiaramente innamorato pazzo di quella giornalista.

«Certo, conosco bene la vostra band. In realtà ero andata allo Skye Sun Hotel in cerca di Lady Gaga, un mio informatore mi aveva detto che l'avrei trovata e avrei potuto scrivere un buon articolo!» spiegò Bryah, scatenando le risate dei presenti.

«Lady Gaga non c'era?» saltò su Samantha, la quale sembrava piuttosto interessata alla cosa.

«Macché. Gli unici VIP eravamo noi, bellezza» la punzecchiai, soffermandomi a studiare il suo viso. La carnagione scura e i lineamenti marcati le conferivano un'aria dannatamente attraente, ma la cosa che mi mandava letteralmente fuori di testa erano le sue labbra carnose: sembravano talmente morbide che avrei voluto baciarle in qualsiasi momento. E quegli occhi neri e penetranti, i capelli mossi e corvini, il corpo formoso e sinuoso...

Scossi il capo e notai che lei mi inceneriva con lo sguardo.

«Razza di pervertito, smettila di fissarmi così. Ci manca soltanto che cominci a sbavare» mi apostrofò, incurvando le labbra in una smorfia disgustata.

«Mi dimentico che non ti piacciono i ragazzi» bofonchiai, cambiando posizione. Ero rimasto prono sul tappeto fino a quel momento, così mi misi supino e incrociai le braccia sotto la nuca; in questo modo potei evitare di scandagliare Samantha con lo sguardo e il mio corpo avrebbe smesso di reagire in maniera inopportuna.

Sentii Mayda soffocare una risata. «Il solito temerario, eh?» scherzò.

«È soltanto uno stupido pidocchio» sibilò l'amica di Leah.

«Ragazze, io sono qui e vi sento» feci notare loro, per niente offeso da quelle parole. Mi stavo divertendo un sacco a mettere Samantha in difficoltà.

Tornai a prestare attenzione al racconto di John, curioso di avere maggiori informazioni sul suo incontro con Bryah. Ad attirare nuovamente la mia attenzione fu il sentir pronunciare il mio nome dal batterista.

«Daron è arrivato da noi, era incazzato come una furia. Con Shavo» sghignazzò John.

«Strano, non me l'aspettavo» fece Serj in tono ironico.

Lanciai un'occhiata alla mia sinistra e notai che Shavo si agitava sul divano. «Ehi! È scientificamente provato che quando io e Daron litighiamo, tanto ho ragione io» gracchiò.

«Taci, non sai quello che dici» lo contraddissi, ridacchiando con fare divertito.

«Insomma, ha interrotto il nostro incontro romantico» intervenne Bryah.

«Macché romantico e romantico, Dolmayan ci è rimasto malissimo quando ha scoperto che eri impegnata» buttai lì, socchiudendo gli occhi.

«Pensa per te. Almeno lui ha trovato una brava persona con cui trascorrere il tempo, mentre tu hai combinato soltanto casini e non sei riuscito ad avere a che fare con una ragazza decente» mi disse Shavo, prendendo a sghignazzare insieme e Leah e qualcun altro.

Mi misi a sedere e lo guardai in faccia, poi piegai la testa di lato e appoggiai il mento sul palmo della mano destra. «Io e Miriam ci siamo baciati» confessai all'improvviso.

«Chi è Miriam?» domandò Angela, la quale pareva estremamente curiosa di conoscere ogni dettaglio del nostro viaggio.

Shavo sgranò gli occhi, poi scosse il capo e rise. «Sei prevedibile, l'avevo già capito» fece beffardo.

«Pure io» concordò Leah, allungandosi per mollarmi un pugno sul braccio.

«Ah, la bagnina ha deciso di farsi baciare da te? L'avrai costretta, immagino» commentò John, mentre Bryah se la rideva.

«Ce l'avete con me?» domandai perplesso, guardandomi attorno.

«No, Daron, è che noi tutti ti conosciamo fin troppo bene» mi rassicurò Serj in tono bonario.

«Io lo conosco da questo pomeriggio e ho già capito tutto» bofonchiò Samantha.

Sbuffai, fingendomi offeso. «Allora me ne vado a fumare» tagliai corto, per poi alzarmi dal tappeto e frugarmi in tasca.

Sako mi imitò e si mise in piedi. «Vengo con te! Shavo, tu che fai?»

Il bassista sbadigliò e decise di seguirci sul terrazzo.

Ci dirigemmo all'esterno, chiacchierando del più e del meno. Presi a costruire una stecca di erba e lasciai che quell'operazione mi assorbisse completamente.

«Allora siete contenti di questo viaggio? Non sapete quanto vi invidio!» fece Sako, appoggiandosi con i gomiti sulla balaustra.

Lanciai un'occhiata alla città immersa nella notte, alle luci multicolore che la riempivano e la rendevano affascinante e suggestiva. Forse quelle luci e quell'atmosfera non potevano essere paragonate a quelle di Las Vegas, ma a me non era mai dispiaciuto il luogo in cui ero nato e in cui abitavo.

«Contentissimi. Ah, Karaian, non sai cosa ti sei perso!» Shavo mi batté sulla spalla. «Per esempio, avresti potuto assistere a una scena epica: Daron che si faceva fare un servizietto da una barista che sogna di venire a Hollywood e fare l'attrice» sghignazzò, dandomi di gomito con fare ammiccante.

«Non era necessario dirglielo» grugnii, finendo di chiudere la sigaretta.

Sako scoppiò a ridere e immerse il viso tra le mani. «Questa è bella, avrei voluto esserci!»

Proprio in quel momento, Leah fece irruzione nella piccola terrazza. «Ehi! Volevate fumare senza di me?» ci rimproverò. Poi il suo sguardo si posò su di me. «E tu cos'hai? Perché quella faccia?» mi domandò, per poi raggiungermi e scompigliarmi affettuosamente i capelli.

«Stavo giusto dicendo a Sako che lo abbiamo visto mentre si divertiva con Lakyta» spiegò Shavo, allungandosi verso di me. Fulmineo, mi strappò di mano la stecca d'erba e la accese senza perdere altro tempo.

Leah sghignazzò. «È stato epico e raccapricciante» commentò.

«Che stronzi» borbottai.

«Sei stato tu il primo a vantartene. Ora non puoi tirarti indietro» mi fece notare il bassista, aspirando per la seconda volta dalla sigaretta che avevo preparato.

Sako gliela prese di mano e fece lo stesso, tenendo lo sguardo su di me.

Mi lasciai sfuggire un sorrisetto. «E va bene. Sì, l'ho fatto per una giusta causa, ecco. Quella stronza ha frugato nel mio cellulare e ha copiato il video che ho fatto a quelle due ragazzine. Voleva ricattarmi, ma sono riuscito a scampare il pericolo.» Feci una pausa per afferrare la canna e fare un tiro. «Me la cavo sempre, anche se voi non avete fiducia in me» aggiunsi.

Leah scrollò le spalle. «Già, trovi sempre dei modi originali per cavartela» gracchiò.

«Come fai a cacciarti sempre in casini del genere?» mi chiese Sako, nonostante la domanda fosse chiaramente retorica.

«Ho dimenticato il telefono in terrazza e non avevo impostato un codice di blocco. Si chiama così? Io non me ne intendo di certe cose, lo sai. Insomma, la barista l'ha trovato e ha ben pensato di frugarlo, trovando ciò che non avrebbe dovuto. Alla fine sono riuscito a cancellare tutto ciò che c'era sul suo smartphone, senza eccezioni.»

«E quella strega si è incazzata perché aveva in memoria un sacco di foto con il suo amato Alwan» intervenne Leah, alzando gli occhi al cielo.

«Amica, vuoi fumare?» le chiesi.

Lei annuì e accettò la sigaretta, portandola distrattamente alle labbra.

Sako intanto stava ridacchiando e non riusciva a smettere, avevo l'impressione che nella sua mente si stessero ricreando le scene che gli stavamo raccontando.

«Ma poi, senti questa!» Shavo circondò le spalle del nostro amico con un braccio. «Daron le ha detto qualcosa del tipo fai questo, almeno stai zitta! Io stavo per svenire dalle risate!»

Il tecnico della batteria scoppiò in una fragorosa risata e si lasciò cadere contro la balaustra, facendo un baccano assurdo tra risa stridenti e colpi di tosse. «Sei un grande, Malakian! Ti stimo! Ma ehi, voi due! Come avete fatto ad assistere a questa scena?»

Allora Leah gli spiegò della scogliera, di com'era fatta e del luogo che lei aveva trovato, dei gatti selvatici che albergavano sulla piattaforma e all'interno delle intercapedini, e poi gli spiegò che lei e Shavo erano andati lassù per una notte sotto le stelle, ma che tutto il romanticismo era stato distrutto dalle grida mie e di Lakyta.

«Romanticismo? Tu parli di romanticismo?» la punzecchiai, facendole la linguaccia.

«Lui è romantico» fece la ragazza, indicando Shavo con un cenno del capo.

«Tu no, quindi non puoi dare la colpa a me» ribattei.

«Che fortuna! Ah, aspetta... Shavo, cosa stavi dicendo prima a proposito della festa notturna?» chiese Sako, posando lo sguardo sul bassista.

Alzai gli occhi al cielo. «Ah! Non so come sia possibile che non ci abbiano buttato fuori dall'hotel!» commentai.

«Tutta colpa del tuo capo» prese a raccontare Shavo. «Ha cominciato a piovere, si è scatenato un bel temporale.»

«Giusto, immagino che Johnny se la stesse facendo in mano» disse l'altro.

«Già. Allora ho pensato di chiamare Daron e Leah per cercare di distrarlo, e poi abbiamo tirato giù dal letto anche Bryah. Ci siamo riuniti nella nostra stanza, muniti di cibo spazzatura e alcolici. Abbiamo messo su un piccolo impianto stereo e io ho sacrificato il mio cellulare per poter mandare un po' di musica.» Shavo si interruppe e ridacchiò. «Oddio, dirlo ad alta voce mi fa uno strano effetto. Sul serio lo abbiamo fatto? Un casino come quello non lo abbiamo mai fatto neanche durante gli anni più scatenati della nostra carriera.»

«Sì che lo abbiamo fatto, è che tu eri troppo ubriaco e non te lo ricordi» lo contraddissi, mollandogli un pugno sul braccio.

«Ma che ore erano?» volle sapere Sako, spostando lo sguardo alternativamente su noi due.

«Forse le tre o le quattro. Non ricordo» rispose Leah. «So solo che dormivo, ma all'improvviso mi sono svegliata perché questo stronzo stava bussando così forte alla mia porta e ho avuto paura che la buttasse giù.»

«Mi ha mandato lui a chiamarti!» borbottai, indicando il suo ragazzo.

«Comunque abbiamo messo su la musica, abbiamo ballato, gridato, bevuto, mangiato... una festa improvvisata, ma è stato bellissimo! John si è distratto, dopo un po' non ci pensava più» spiegò la ragazza, ignorando le mie proteste.

«Fottuti geni!» esclamò il tecnico della batteria, incrociando le braccia sul petto. «Vi odio perché avete vissuto queste cose e io non c'ero» si lamentò per l'ennesima volta.

«Peggio per te» lo schernii, accostandomi a lui per importunarlo un po'. Lo strinsi in un abbraccio e rafforzai sempre più la presa.

«Non respiro, ah, dannato coglione! Spostati!» protestò, cercando di divincolarsi dalle mie grinfie.

«Ti voglio bene, mi sei mancato!» feci mellifluo, per poi stampargli un rumoroso e umido bacio sulla guancia.

Sako mi spinse via e si sporse oltre la balaustra, fingendo di vomitare, mentre si strofinava con forza la guancia nell'intento di pulirla. «Fai schifo!» strillò.

Mi appoggiai con la schiena al parapetto e sospirai. «Poi io e Leah abbiamo litigato.»

«Ah, già! Perché io ho messo Bounce, volevo finalmente far capire ai ragazzi che sapevo chi erano. E Daron l'ha presa malissimo, perché nel pomeriggio mi ha sentito parlare con Bryah e ha frainteso le mie parole. Era convinta che io avessi finto di non sapere chi fossero per poter arrivare a Serj, visto che è sempre stato il mio preferito della band. Che ignorante.»

Le rivolsi un'occhiata divertita. «Però mi sono fatto perdonare quando ti ho regalato quel portachiavi» commentai.

«Siete assurdi, certe cose possono capitare solo a voi, sul serio! Sono sempre più triste all'idea di non esserci stato» ammise Sako in tono sconsolato.

Shavo si accostò a Leah e la abbracciò da dietro, appoggiando il mento sulla nuca della ragazza. «Quella sera ci siamo detti tutto ciò che non ci eravamo mai detti e ci siamo baciati per la prima volta» raccontò con aria sognante, gli occhi leggermente socchiusi e l'espressione da ebete.

Lei scoppiò a ridere. «Ecco, vedete quanto è rammollito? Insomma, Shavarsh, non credo che a Sako importi tutto questo!» squittì. Mi accorsi che la cosa l'aveva messa in imbarazzo.

Cercai di venire in suo aiuto. «Ah, è cotto a puntino, eh? Karaian, guarda quanto è sdolcinato!» esclamai, battendo una mano sulla spalla del bassista.

«Piantatela! Io me ne torno dentro» brontolò il bassista lasciando andare Leah, per poi avviarsi all'interno.

Lei rise e lo seguì, senza però smettere di prenderlo in giro. Le loro voci divennero soltanto un brusio confuso che si mischiò a quello già esistente in salotto. Riusciva a sovrastarlo soltanto la risata tonante di Serj, il quale doveva essere divertito per qualche battuta o per qualcosa che qualcuno gli stava raccontando.

Io e Sako ci scambiammo un'occhiata.

«E tu? Non hai trovato la tua Leah?» mi domandò all'improvviso.

«No, come c'era da aspettarsi. Karaian, non sono fatto per certe cose, lo sai.»

Lui sospirò. «Anche io la pensavo così, finché la vita non è stata clemente con me e mi ha portato Mayda. Non si può mai sapere, Daron. L'amore non è una cosa per cui si è portati oppure no, non è come la matematica o la medicina. Non so se mi spiego.»

Lo fissai perplesso. «Sì che lo è. Se io non riesco ad aprirmi e rendermi appetibile per qualcuno, rimarrò solo. È il mio destino.»

Il mio amico scosse il capo con fare deciso. «Cambierai idea, vedrai.» Detto questo, mi sorrise e rientrò in casa, lasciandomi solo sul terrazzo.

Ripensai a tutte le esperienze negative che avevo avuto, mi venne in mente Jessica e i recenti avvenimenti che riguardavano lei e quell'imbecille di Lars Ulrich. Scacciai quei ricordi dalla mente e mi concentrai su un altro problema che mi stava assillando ultimamente: Layla. Non sapevo se fosse o meno mia figlia, ma il mio rapporto con sua madre non potevo negarlo. Eravamo stati insieme e io non riuscivo a ricordare tutti i dettagli. Erano passati tanti anni, avevo quasi rimosso ogni cosa dalla memoria, ma tutto era tornato a galla quando quella ragazza mi aveva accolto all'aeroporto e aveva così sconvolto la mia vita e le mie certezze.

Proprio ora che avrei voluto saperne di più, lei si era dissolta nel nulla e non era più tornata a cercarmi. Mi venne in mente che probabilmente non sapeva come trovarmi, non aveva visto dove abitavo, non glielo avevo permesso. Però Serj aveva ragione: avrebbe potuto tornare al campo da basket e cercare di parlare con lui; se non lo avesse trovato, avrebbe potuto chiedere di lui e in ogni caso il mio amico ne avrebbe saputo qualcosa.

Invece c'era stato soltanto silenzio in quei giorni, il che non faceva che gettarmi nella confusione più totale. Non sapevo cosa fare, come agire, se ci fosse veramente qualcosa che potessi fare, o se ne valesse realmente la pena.

Qualcuno si stagliò sulla soglia della terrazza e io sobbalzai; ero talmente immerso nei miei pensieri che non mi ero accorto dell'arrivo di Samantha.

La ragazza mi raggiunse accanto alla balaustra e si accese una sigaretta, per poi lanciarmi una breve occhiata.

«Non sapevo che tu fumassi» commentai.

«Solo sigarette» rispose distrattamente. «E tu?»

«Solo erba.»

Scrollò le spalle. «L'ho provata ma non mi va. Mi dà troppo alla testa» spiegò.

Annuii. Era come se in quel momento, immersi nell'oscurità della notte, avessimo perso improvvisamente l'entusiasmo nel punzecchiarci e nello scambiarci battute.

Provai a frugare nella mia mente in cerca di qualcosa da dire. «Ah, allora... ti piace Abby, eh?» me ne uscii, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Oh sì! Abbastanza.»

«Già, si nota» commentai.

Rimanemmo in silenzio, improvvisamente incapaci di intrattenere una conversazione. Non sapevo cosa fosse successo, ma immaginai che dipendesse dalla forte attrazione che provavo nei suoi confronti. Evitai accuratamente di osservarla.

«Mi dispiace di non poter ricambiare il tuo interesse» disse Samantha all'improvviso, voltandosi nella mia direzione.

Sollevai lo sguardo e la osservai in silenzio, sentendomi a disagio nell'udire quelle parole.

«A parte gli scherzi, dico davvero. Mi dispiace, ma non posso farci niente.»

Annuii. «Certo.» Riflettei un attimo, poi sorrisi e aggiunsi: «Se ti piacessero i ragazzi, non è detto che ricambieresti il mio interesse.»

«Ma sì, tutte le donne vorrebbero stare con te! Anche se sei un pidocchio, hai il tuo fascino» ammiccò, picchiettandomi sulla spalla.

Risi. «Grazie per il complimento, ma non credo sia così.»

Samantha tornò seria. Finì di fumare, poi frugò nella sua borsa e ne estrasse un portacenere portatile. Schiacciò la cicca contro il coperchio in metallo, poi la ripose insieme alle altre dentro il contenitore. Richiuse l'oggetto con uno scatto e lo gettò nuovamente in borsa.

«Non essere così negativo, andiamo. Lascia soltanto che le persone ti conoscano, solo così potranno davvero apprezzarti. Non sei una persona così malvagia, non lo credo affatto. Leah mi ha parlato bene di te, ti adora.»

«In amicizia tutti mi adorano» le feci notare con amarezza.

«E allora? Anche per me è così, sono single esattamente quanto te. Evidentemente per noi non è ancora arrivata la persona giusta.»

«Sono troppo incasinato per poter trovare l'amore. Ho tante cose da risolvere prima di lasciare che una persona si metta in mezzo alla mia vita» spiegai con fermezza.

«Forse è vero, forse no. Chissà» tagliò corto.

Decidemmo di rientrare in casa, e quando misi nuovamente piede in salotto mi sentivo più leggero.

Non avevo idea del perché sia Sako che Samantha avessero tanta fiducia in me, visto che i fatti concreti non mi avevano dimostrato niente di ciò che loro avevano affermato. Avevo molti dubbi sulla mia vita passata e futura, ma mi sentii meglio all'idea che qualcuno nutrisse delle speranze al posto mio.

Ero confuso e non sapevo come sarebbe andata a finire la faccenda con Layla, ma in quel momento smisi di pensarci e tornai a immergermi completamente nelle risate e nei racconti della mia piccola, grande, meravigliosa famiglia.




Ehilà, buon giovedì a tutti ^^

Sono qui per svelarvi chi è Mayda, la ragazza che è apparsa nello scorso capitolo in compagnia di Sako: si tratta di un personaggio che è apparso nella mia One Shot intitolata Chakatagir, ma se per caso qualcuno di voi non l'ha letta ed è curioso di saperne di più, lascio qui il link alla storia:

https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3704918&i=1

Bene, detto questo, vi saluto e spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento ^^

Attendo come sempre il vostro parere, che per me è importantissimo!

Alla prossima e grazie di tutto ♥

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Capitolo 53
*** Angels ***


ReggaeFamily

Angels

[Leah]




Io e Samantha eravamo a Los Angeles da due giorni e io mi stavo innamorando perdutamente di quella città. Ancor prima che me ne rendessi conto, avevo deciso che quel luogo mi avrebbe accolto una volta conclusi i miei studi, qualsiasi cosa avrei deciso di fare. Questo sarebbe accaduto a prescindere da tutto, a prescindere da come sarebbero andate le cose con Shavo.

Lanciai uno sguardo al bassista. Eravamo sulle scale mobili, in uscita dal cinema. Avevamo convinto Daron e Samantha a venire con noi, Shavo aveva voluto assolutamente guardare Beneath, un film horror dove un gruppo di adolescenti veniva attaccato da una strana creatura marina simile a un pesce gatto. Personalmente l'avevo trovato noioso e molto simile a tanti altri, ma il mio ragazzo era euforico e sembrava avesse scoperto il nuovo capolavoro del secolo.

«Faceva pietà» commentò Daron, sbadigliando per l'ennesima volta. Il chitarrista non aveva fatto che strafogarsi di pop corn, annoiato almeno quanto me.

«No dai, era carino! Io sono stata in ansia per tutto il tempo» intervenne Samantha, stringendosi le braccia attorno al corpo. Si comportava come se ancora si trovasse dentro la sala del cinema e le scene del film si stessero ancora svolgendo di fronte ai suoi occhi.

«Non ha fatto che tremare e mugolare» la punzecchiò Daron. Poi sogghignò e le diede di gomito. «In altre circostanze mi sarei divertito a consolarti, bellezza» aggiunse.

Samantha alzò gli occhi al cielo e saltò a terra, essendo la prima della fila a dover scendere dalle scale mobili.

Afferrai la mano di Shavo e me lo trascinai dietro. «Invece questo qui era tutto preso dal film» sbuffai, lanciando un'occhiata veloce al bassista.

«Mi è piaciuto tantissimo, oh, che bomba!» esclamò lui, per poi stringersi nelle spalle e rivolgermi un sorriso luminoso e ampio.

«Sei senza speranze, faceva proprio schifo. A un certo punto mi sono appisolata» raccontai.

«Tu non capisci l'arte» blaterò Shavo.

«Come no. Io avrei voluto vedere Aftershock, ma tu hai detto che quello è troppo drammatico. Sei una femminuccia, Shavarsh. Almeno si basa su una storia vera» ribattei con convinzione, camminando verso l'uscita della struttura.

Il cinema si trovava all'interno di un grande centro commerciale, un luogo affollato e ampio, con profumava di cibo spazzatura e puzzava di umanità.

«Io invece avrei guardato volentieri quella commedia del centro anziani» borbottò Daron, prendendo sottobraccio Samantha e spingendola verso l'uscita.

«Anche quello dev'essere carino. Si chiama 3 Geezers!» esclamai.

«Ho proposto io di venire al cinema, quindi era logico che avrei scelto io cosa guardare. Fatevene una ragione» gracchiò il bassista in tono solenne.

Scoppiammo tutti a ridere e finalmente ci ritrovammo all'aria aperta. Erano quasi le otto di sera, ma l'aria non si era ancora rinfrescata. Ormai eravamo a fine maggio e il caldo sarebbe andato sempre crescendo. Tuttavia, non mi sentivo soffocare come quando mi trovavo a Las Vegas; il fatto che la mia città natale fosse così vicina al deserto rendeva il clima particolarmente invivibile in molti periodi dell'anno.

Mentre cercavamo l'auto di Daron nell'immenso parcheggio, notai un ragazzo sui vent'anni che ci fissava. Tentai di non badarci troppo, ma sentivo il suo sguardo addosso e la cosa mi infastidiva.

Poco dopo, il giovane prese a camminare verso di noi e ci venne dietro, poi lo sentii chiamare a gran voce: «Shavo? Shavo!».

Il bassista si bloccò all'improvviso e si voltò nella sua direzione senza lasciar andare la mia mano. Anche Daron e Samantha si fermarono e rimasero in piedi qualche metro dietro di noi.

Il ragazzo ci raggiunse, così potei osservarlo meglio: era alto circa un metro e ottanta, portava i capelli rasati ai due lati della testa e nel mezzo sfoggiava una cresta verde fluorescente; contrariamente a quanto mi aspettassi, non mostrava di possedere piercing e tatuaggi, il suo viso appariva sottile e dai lineamenti piuttosto delicati, accentuati dalla totale assenza di barba, baffi e pizzetto.

«Ciao. Cosa posso fare per te?» gli domandò Shavo, regalandogli un sorriso.

«Scusa se ti disturbo, davvero, ma quando ti ho visto... ti ho riconosciuto subito, sai, per il pizzetto» spiegò tutto agitato il tizio, gesticolando e mostrando di essere piuttosto timido e a disagio.

«Ma certo, questo affare mi tradisce sempre! Come ti chiami, amico?» proseguì il bassista.

A quel punto gli lasciai la mano e mi feci leggermente da parte, raggiungendo Daron e Samantha.

«Non mi ha riconosciuto» sibilò il chitarrista, mettendosi di spalle con discrezione, con la scusa di costruirsi una sigaretta.

«Se rimani così, dubito che si renderà conto che ci sei anche tu. Però sembra tranquillo, dai. Sei proprio un orso» lo punzecchiai.

«Pidocchio antipatico» sentenziò Samantha, lanciando un'occhiata dispiaciuta in direzione di Shavo e del suo fan.

«Bene, Steve, certo che facciamo una foto!» sentii dire al mio ragazzo.

Osservai Steve portar fuori il suo cellulare, poi si bloccò e si guardò attorno.

«Cosa c'è che non va, amico?» gli chiese Shavo in tono tranquillo.

«Sono una frana con i selfie... non è che qualcuno...» Il suo sguardo incrociò quello di Samantha. «Signorina, mi scusi, può scattare lei la foto?» la apostrofò timidamente.

Lei si sciolse in un caldo sorriso, nel quale però mi parve di scorgere qualcosa di strano. Le mie supposizioni divennero realtà quando la sentii parlare.

«Certo, ci penso io. Ehi, Daron, perché non ti avvicini anche tu? Magari il ragazzo vuole conoscerti» disse infatti la mia amica a voce alta.

Osservai prima il chitarrista, il quale sbiancò per un istante e fu costretto a lasciar perdere la preparazione della sua stecca di erba; poi lanciai un'occhiata a Steve e mi resi conto che i suoi occhi si erano sgranati per la sorpresa.

Samantha afferrò Daron per un braccio e lo trascinò con sé, continuando a blaterare: «Non ti eri accorto di lui, vero? Sai com'è fatto, a volte è un po' acido. Ma eccolo qui, ti presento Daron, il chitarrista della band».

Ridacchiando, mi accostai anche io agli altri e continuai a godermi la scena.

«Daron, che piacere! Ho riconosciuto Shavo, ma non ti avevo proprio visto! Che fortuna!» esclamò Steve tutto contento.

Mi accorsi solo in quel momento che una mezza dozzina di persone si era radunata poco distante da noi: tutti tenevano gli occhi puntati sui due componenti dei System e stringevano in mano fotocamere e cellulari, attendendo pazientemente di poter chiedere loro una foto.

«Shavarsh, ce ne sono altri» mormorai, accostandomi con discrezione a lui.

Intanto Daron era ammutolito e la sua espressione si era fatta di pietra; non mutò neanche quando Steve si accostò timidamente a lui per fare la foto, né quando Samantha gli intimò di sorridere e di smetterla di essere così burbero e intrattabile.

Sapevo benissimo che la mia amica stava sbagliando; forse io e Daron non ci conoscevamo da una vita, ma avevo imparato a capire quando era il caso di lasciarlo in pace e di non forzare la mano. Quel giorno era stato particolarmente silenzioso e si era annoiato durante il film, inoltre aveva cercato di evitare che Steve lo vedesse, segno che non aveva nessuna voglia di avere a che fare con fan e ammiratori. Invece ora si ritrovava a dover soddisfare non solo uno, ma diversi seguaci che si erano accorti della presenza di due musicisti dei System Of A Down nel parcheggio di quel centro commerciale situato poco distante da Van Nuys, a Los Angeles.

Decisi di intervenire, non potevo sopportare che Daron stesse così male. Lo vedevo terribilmente a disagio e la cosa non mi piaceva per niente.

«Daron, scusa, mi accompagni a comprare qualcosa da mangiare? Credo di avere un calo di zuccheri» feci, poco prima che Samantha scattasse l'ennesima foto a lui, Shavo e Steve.

«Ma Leah, è con i suoi fan! Non puoi aspettare?» saltò su la mia amica.

La incenerii con lo sguardo e afferrai Daron per il gomito, trascinandolo via senza badare alle proteste di Samantha e degli altri ragazzi che avrebbero voluto avere a che fare con lui.

«Mi dispiace tanto per Sam. Dopo le parlo e sistemo le cose» dissi al mio amico, rientrando nel centro commerciale.

Daron si guardò intorno in cerca di una panchina e, dopo averne individuato una libera, si diresse subito in quella direzione con me al seguito.

«Non preoccuparti, posso parlare io con Samantha» rispose in tono piatto.

Ci sedemmo su una scomoda tavola di legno levigato, sorretta da una struttura in ferro e priva di schienale. Mi voltai subito in cerca degli occhi del chitarrista e li trovai cupi, assorti in chissà quali pensieri.

«Daron, mi dispiace. Davvero» ripetei, non sapendo assolutamente cos'altro dire.

«Non importa. Forse ha pure ragione. Sono sempre così acido con i miei fan...»

Scossi il capo. «No! Non è sempre così, non essere sciocco e non dare retta a ciò che ti dice Sam. Lei spesso esagera, la conosco bene e so che è fatta così. È una ragazza orgogliosa, non ammetterà mai di aver sbagliato. Ma credo che si sia già resa conto di aver commesso un errore» lo rassicurai.

Daron si piegò in avanti e appoggiò le braccia sulle ginocchia, lasciando penzolare le mani di fronte a sé. «Leah, perché mi piacciono sempre le persone sbagliate?» mi domandò all'improvviso.

Rimasi spiazzata, ma provai anche un moto di tenerezza nei confronti del mio amico. Allungai una mano e gliela posai sulla spalla.

«Dico sul serio» aggiunse.

«La vita è una bastarda, ecco perché. Credi che a me non sia capitato? Senti questa.»

Lui mi lanciò un'occhiata e annuì. «Racconta.»

Mi sistemai meglio al suo fianco e cominciai a raccontare: «Qualche anno fa ho conosciuto un ragazzo. Frequentava il mio stesso liceo, ma era più piccolo di me di un anno. Si chiamava Morgan ed era veramente intrigante. Lo trovavo divertente, dolce, carino, attraente. Mi ero presa una bella sbandata per lui, non facevo che parlare di lui, pensare a lui, sognare lui... era diventata una vera e propria ossessione. Il fatto che lui frequentasse il mio stesso gruppo di amici non ha facilitato le cose: lo vedevo tutti i giorni, uscivamo insieme e trascorrevamo un sacco di tempo insieme. Parlavamo un sacco, ridevamo, ci divertivamo e avevamo molte cose in comune. Più il tempo passava, più il mio interesse per lui cresceva».

Daron mi osservò con aria perplessa. «Poi cos'è successo? Gli hai chiesto di uscire?» volle sapere.

«Oh, no! Pensi davvero che io fossi così allora? Ti sbagli. Ero una ragazza molto timida e riservata, ho dovuto lavorare molto su me stessa per diventare così espansiva e aperta. Il college mi ha aiutato molto in questo. Sta di fatto che all'epoca ero quasi del tutto incapace di prendere iniziative. Capitò che un giorno dovevamo uscire in quattro, ma due dei nostri amici ebbero un'accesa discussione per telefono e si rifiutarono di incontrarsi. Avevamo già organizzato tutto, così io e Morgan decidemmo di uscire lo stesso, anche se eravamo rimasti soli. Non immagini quanto fossi emozionata, non facevo che pensarci, sperando che succedesse qualcosa tra noi.»

«E allora?»

Sospirai. «Uscimmo. Io avevo appena litigato con mio padre, ero incazzata come una belva ed ero molto triste. Morgan fu dolcissimo, mi consolò e si prese cura di me, abbracciandomi e coccolandomi. E allora mi sentii in dovere di ringraziarlo, trovai il coraggio per fargli capire quanto mi piaceva. Lo baciai.»

Daron a quel punto mi fissò negli occhi, facendosi sempre più curioso. «E...?»

«E lui ricambiò per un istante, poi si bloccò e si scostò con delicatezza. Fu dolce, certo, sono stata fortunata da quel punto di vista. Ma mi disse che era confuso, che stava attraversando una fase difficile della sua vita e non sapeva se fosse interessato alle ragazze.»

«Merda!» esclamò Daron, portandosi una mano alla fronte.

«Già. Ho sofferto tantissimo. Però non potevo farci niente. In seguito ho scoperto che Morgan usciva con una ragazza, ma qualche mese dopo venne fuori che era stata tutta una copertura per nascondere la sua relazione con un universitario che aveva conosciuto su internet. Poi ho perso le sue tracce, non ho idea di che fine abbia fatto. Ma all'epoca soffrii tantissimo e mi domandai anch'io ciò che ti stai domandando tu: perché dovevo sempre perdere la testa per le persone sbagliate?» conclusi.

Daron sospirò. «A te è successo solo una volta» commentò.

«Ah, no!» Presi a raccontargli altre disavventure della mia vita sentimentale: gli parlai di quella volta in cui un ragazzo si mise con me per via di una scommessa, di quando mi ero innamorata di un mio professore universitario e di come lui mi avesse lasciato intendere che la cosa fosse reciproca senza che poi il tutto avesse un seguito; gli parlai di Jordan, il ragazzino di seconda media a cui avevo dato il mio primo bacio e di quanto fossi stata una frana. Raccontai a Daron un sacco di cose, per poi giungere alla relazione più complicata che avevo vissuto.

«Lui era tre anni più grande di me. Ero in prima liceo, lui in terza. Aveva ripetuto la seconda. Si chiamava Michael ed era bellissimo, muscoloso e simpatico. Mi aveva messo gli occhi addosso, ma si comportava da prepotente con me. Solo ora mi rendo conto che somigliava terribilmente a mio padre negli atteggiamenti. Per fartela breve, uscimmo insieme per qualche mese, poi scoprii che mi tradiva con un sacco di altre ragazze. E addirittura si divertiva a fare sesso di gruppo. Era un porco. E io ho perso la verginità con quel porco.» Digrignai i denti e spostai lo sguardo da Daron a un punto indefinito di fronte a me.

Il chitarrista mi si accostò e mi circondò le spalle con un braccio. «Ehi, va tutto bene. Non devi fartene una colpa. Tu tenevi a lui, ti fidavi di lui. È stato lui a comportarsi male con te» tentò di rassicurarmi, facendomi posare la testa sulla sua spalla.

Il vociferare delle persone presenti nel centro commerciale e il loro viavai fu in grado di rendere l'atmosfera stranamente intima; sentivo di potermi sfogare con Daron nonostante non fossimo soli e tutt'intorno a noi si stessero srotolando centinaia di vite diverse.

«Avrei voluto fosse diverso, avrei preferito aspettare. È andata meglio con un altro ragazzo, ma alla fine ci siamo lasciati perché io non ero realmente interessata a lui a livello sentimentale.»

«Pensa al presente» mi suggerì il chitarrista, accarezzandomi distrattamente la spalla.

«Sì, hai ragione. Ma volevo farti capire che non devi preoccuparti, che tutti prima o poi si innamorano della persona sbagliata. Sam è lesbica, non potrebbe mai succedere qualcosa tra voi. Ma sono certa che presto troverai una persona che possa ricambiarti come meriti» affermai, scostandomi da lui per poi abbracciarlo. Gli battei affettuosamente sulla schiena e aggiunsi: «Coraggio, andrà tutto bene. Basta non avere fretta».

«È come dici tu, ma ci sono delle volte in cui mi sento proprio a terra» mormorò il chitarrista sciogliendo l'abbraccio.

«Ti capisco e mi dispiace.»

«Ci sono tante cose che non vanno in me. Ora che ripenso a come mi sono comportato con quei ragazzi là fuori, mi viene il voltastomaco. Sono disgustoso certe volte. Perché non riesco a cambiare questo atteggiamento? Eppure a volte le cose vanno diversamente, a volte...»

Lo interruppi: «Può capitare a tutti di avere una giornata no. E poi ognuno ha il proprio carattere».

Daron scosse il capo e si alzò di scatto. «Dai, torniamo dagli altri» affermò con decisione.

Lo osservai dal basso, leggermente allarmata e preoccupata da quel suo comportamento. «Che vuoi fare?» gli chiesi, per poi rimettermi in piedi a mia volta.

Lui mi rivolse un sorriso luminoso e riconoscente. «Parlare con te mi ha fatto bene, amica» ammise, per poi sporgersi verso di me e lasciarmi un breve bacio sulla guancia.

Poi si voltò e si avviò nuovamente verso l'uscita. Rimasi immobile per un attimo a osservare la sua figura avvolta in un paio di jeans scuri e in una leggera felpa nera e rossa. Non avevo idea di cosa gli passasse per la mente, ma decisi di raggiungerlo e scoprirlo.


Una volta tornati nel parcheggio, diedi un'occhiata allo schermo del mio cellulare e mi resi conto che doveva essere trascorsa quasi un'ora da quando io e Daron ci eravamo dileguati all'interno dell'edificio.

Rimasi molto sorpresa quando scorsi Shavo e Samantha che, appoggiati all'auto di Daron, chiacchieravano e ridevano in compagnia di Steve e di altre due persone. Si trattava di un ragazzo e una ragazza che dovevano aver riconosciuto il bassista dei System e che poi si erano fermati a parlare con lui.

Io e Daron li raggiungemmo velocemente e io notai che il chitarrista si era palesemente rilassato.

«Leah!» Shavo mi venne incontro non appena si accorse di me. Mi prese tra le braccia e mi chiese in tono allarmato se andasse tutto bene.

«Ah Shavarsh, sei sempre il solito sciocco. Certo che va tutto bene» risposi in tono divertito, strizzandogli l'occhio e facendo un cenno in direzione di Daron.

Il bassista sospirò e mi portò con sé accanto all'auto, poi picchiettò sulla spalla di Steve e annunciò: «Come ti dicevo, lei è la mia ragazza».

Mi sentii avvampare violentemente e non riuscii a far altro che sorridere al ragazzo.

Lui ricambiò, poi esclamò: «La famosa Leah! Shavo e Samantha non hanno fatto altro che parlare di te per tutto il tempo!».

«Esagerati» borbottai imbarazzata.

«Ciao, io sono Jennifer. Lui è mio fratello Nathan» intervenne la ragazza mora e piccoletta che si stava intrattenendo con il mio ragazzo e la mia amica.

«Piacere di conoscervi.»

«Ragazzi, scusatemi per prima» disse Daron, dopo aver stretto la mano ai tre giovani. «Non sapevo...»

«È colpa mia se Daron è dovuto scappare, non mi sentivo bene e lui se n'era accorto. Era preoccupato per me, è un amico molto premuroso» lo interruppi, sorridendogli con fare riconoscente.

«Ma figurati, non c'è problema» commentò Nathan; era piccoletto quanto sua sorella ed era piuttosto robusto, aveva un viso simpatico e dei capelli biondi e ricci che gli conferivano un'aria da angioletto del presepe che faceva tenerezza.

«Facciamo un po' di foto? Ora che Leah sta bene, posso finalmente sorridere» scherzò il chitarrista, accostandosi a Steve e ai due fratelli.

Notai che Jennifer e Steve si sistemarono vicini, e subito cominciai a sghignazzare con Samantha, immaginando che tra loro potesse nascere qualcosa di romantico e dolce.

«Guarda che carini!» bisbigliai all'orecchio della mia amica, mentre lei scattava alcune foto ai musicisti dei System e ai loro fan.

Lei ridacchiò e fece fatica a tenere fermo il braccio. «Sì, che meravigliosa coppietta» cinguettò con un filo di voce.

«Ehi, voi due! Che avete da ridere?» ci apostrofò Shavo.

«Shavarsh, taci e mettiti in posa! E sorridi, smettila di fare quella faccia da gangster fallito!» strillai.

I tre giovani scoppiarono a ridere e Samantha cominciò a scattare a raffica, riprendendo sorrisi spontanei e smorfie contrariate da parte del mio ragazzo. Daron si stava divertendo e intanto faceva il cascamorto con Jennifer. Mi accorsi che lo faceva apposta per vedere come avrebbe reagito Nathan, ma anche per capire se Steve fosse interessato a quella ragazza.

«Siete simpatici» disse il chitarrista una volta terminato il momento delle foto.

«Grazie, anche tu!» rispose Jennifer, guardandolo con gli occhi luminosi e colmi di ammirazione.

«Avete già preso i biglietti per il nostro concerto allo stadio dei Dodgers?» volle sapere Shavo.

«Noi sì! Che bella location, ragazzi! Sarete emozionati all'idea di suonare là dentro» replicò Nathan allegro.

«Io non sono riuscito a prendere il biglietto, cazzo» borbottò Steve con fare contrariato.

Mentre Shavo chiacchierava con Nathan a proposito del luogo del loro prossimo spettacolo, Daron si accostò a Steve.

«Come mai?» gli chiese in tono dispiaciuto.

Il ragazzo, imbarazzato, si grattò la nuca e distolse lo sguardo.

«Okay, non importa il motivo. Bisogna fare qualcosa» aggiunse il chitarrista con fare deciso.

Steve alzò di scatto la testa e lo fissò con aria perplessa. «Che cosa dici?»

Spostai lo sguardo dall'uno all'altro, non sapendo cosa aspettarmi dal mio amico. Anche Samantha parve incuriosita dalla cosa e attese di saperne di più.

«Shavo! Ehi, Odadjian!» strillò Daron.

Il bassista sobbalzò e si voltò a lanciargli un'occhiataccia. «Che hai da gridare?» sbottò.

«Steve non ha il biglietto per il concerto» spiegò. «Dobbiamo fare qualcosa.»

Shavo aggrottò la fronte, riflettendo per un attimo sulla questione, poi schioccò le dita e annuì. «Ci sono. Steve, amico, dammi il tuo nominativo. Tu stai tranquillo, quando arrivi all'ingresso dai il tuo nome all'impiegato ed entri. Non ci sarà nessun problema, te lo assicuro. Ci penso io.»

Steve sbiancò, poi avvampò, poi assunse un colorito che era a metà strada tra l'una e l'altra cosa. Si dovette appoggiare con una mano al SUV nero di Daron per non perdere l'equilibrio.

«Stai bene?» gli chiesi. Potevo immaginare come dovesse sentirsi in quel momento, ma forse non ero in grado di comprenderlo fino in fondo.

Jennifer e Nathan ammutolirono e tennero gli occhi fissi su Shavo, palesemente increduli.

«Ehi, ragazzi! Che succede?» fece Daron in tono allegro.

«Siete impazziti?!» squittì all'improvviso Steve, per poi gettarsi letteralmente addosso al bassista e stritolarlo in un abbraccio. «Oh, merda! Merda! Merda!» continuava a ripetere. I suoi occhi si erano riempiti di lacrime e lui non riuscì a controllarle.

«Ehi, che sarà mai!» minimizzò il bassista, ridendo e picchiettando affettuosamente sulla schiena del ragazzo.

Per la gioia che stava provando, Steve lasciò andare Shavo e si precipitò ad abbracciarci tutti, a uno a uno. «Siete degli angeli! Vi amo tutti!» strillò.

Scoppiammo tutti a ridere, poi Shavo ricordò a Steve che doveva dargli il suo nominativo. Samantha portò fuori un bloc notes dalla sua enorme borsa e strappò un foglio, per poi consegnarlo a Shavo insieme a una penna blu.

Il bassista segnò i dati di Steve e pretese di avere anche quelli di Nathan e Jennifer.

«Perché?» chiese la ragazza perplessa.

«Dopo il live passate a salutarci nel backstage» disse semplicemente il mio ragazzo, per poi stringersi nelle spalle e restituire la penna a Samantha. Ripiegò il foglietto e lo ripose con cura nella tasca dei suoi jeans.

«Cosa?!» sbottarono all'unisono i tre ragazzi, sempre più increduli.

Daron regalò un abbraccio a ognuno di loro, poi concluse: «Noi adesso andiamo. Ma ci conto, voglio trovarvi nel backstage».

«Sì, cazzo!» esultò Nathan.

«Ci saremo!» assicurò Jennifer in tono sognante.

«Ragazzi, grazie ancora, davvero... io...»

Shavo mollò una pacca sulla schiena di Steve e gli sussurrò qualcosa all'orecchio. Vidi il ragazzo avvampare, poi scoppiò a ridere e salutò calorosamente il bassista.

Mentre prendevamo posto in macchina, notai che i tre ragazzi non si erano ancora salutati e che sembravano apprezzare particolarmente la compagnia gli uni degli altri.

Seduta sul sedile posteriore in compagnia di Samantha, mi sporsi in avanti e domandai: «Shavarsh, cosa hai sussurrato a Steve?».

Il bassista ridacchiò. «Gli ho detto di darci dentro con Jennifer» rispose.

Risi. «Lo sapevo!»

«Speriamo sia così» esalò Samantha con un sospiro fintamente drammatico. Poi si raddrizzò sul sedile e batté le mani. «Ehi, ragazzi?»

«Che c'è?» fece Daron.

«Posso venire anche io al vostro concerto? Non ho fatto in tempo a prendere il biglietto» chiese la mia amica, ostentando un tono di voce fintamente imbarazzato.

Shavo scoppiò a ridere e si allungò sul sedile. «Scema. Se non ci sei tu, Leah con chi starà?»

Io incrociai le braccia al petto e gli lanciai una linguaccia attraverso lo specchietto. «E chi ti dice che io voglia venire al vostro stupido concerto?» scherzai.

«Vaffanculo!» sbottò Daron, per poi accendere la radio.

Trascorremmo il resto del viaggio tra le risate, cantando tutte le canzoni che capitavano; passammo da Elton John a Rihanna, da Katy Perry ai Creedence Clearwater Revival, trovando perfino un brano di Bruce Springsteen che cercammo di decifrare in quanto, nonostante cantasse in inglese, si mangiava metà delle parole e comprendere i suoi testi risultava sempre molto difficile.

Fu una bellissima serata. Andai a dormire con il sorriso sulle labbra e il cuore leggero; nonostante mi trovassi in un bed & breakfast di poche pretese, mi sentii felice e completa. Ero nel luogo in cui volevo essere e sapevo che il giorno seguente avrei potuto stringere ancora il mio amato bassista tra le braccia e trascorrere del tempo con lui e con il resto della mia nuova famiglia.




Carissimi lettori, sono qui per scusarmi se il capitolo risulta più lungo del solito, ma non mi andava proprio di dividerlo ^^

No, scherzi a parte, scrivo queste brevi note giusto per farvi sapere che i film citati nella prima parte del capitolo sono veramente usciti nel mese di maggio 2013, periodo in cui è ambientata questa storia. Mi sono documentata e mi sono lasciata ispirare delle trame; ho optato per Beneath perché mi sembrava un film molto adatto a Shavo, secondo me lui andrebbe a sprecare i suoi soldi al cinema per vedere certe robe XD

Che ve ne pare? Avete visto cos'hanno combinato i nostri due eroi con quei tre fan? E soprattutto con il povero Steve, che fin da subito mi è stato simpatico e ho voluto fargli vivere un'esperienza speciale :3

Ora la smetto, attendo i vostri commenti e intanto vi do appuntamento al prossimo capitolo e vi ringrazio per tutto l'affettuoso sostegno che costantemente mi date!

A presto ♥

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Capitolo 54
*** Pre-show ***


ReggaeFamily

Pre-show

[Shavo]




Me ne stavo appollaiato sul bracciolo di un divanetto situato nel backstage; questo era stato allestito negli spogliatoi del Dodger Stadium, uno dei più importanti complessi sportivi della città. Noi dei System eravamo eccitatissimi all'idea di suonare in quel luogo, ci eravamo preparati alla grande e avevamo atteso quell'evento con trepidazione.

La vacanza in Giamaica era stata una breve e piacevole distrazione, ma subito dopo avevamo dovuto darci da fare e metterci al lavoro. Non appena anche John era rientrato dall'isola caraibica insieme alla sua nuova compagna, ci eravamo chiusi in sala prove e avevamo avuto ben poco tempo per tutto il resto. Ci eravamo lasciati assorbire completamente dai nostri strumenti e dai nostri brani, lasciando fuori qualsiasi altra cosa.

Avevo temuto che Leah se la prendesse con me, che mi avrebbe accusato di trascurarla per il mio lavoro, ma come al solito mi ero dovuto ricredere e avevo capito che con lei non dovevo temere, perché era conscia di avere una relazione con un musicista e la cosa sembrava non crearle alcun tipo di problema.

In quel momento si aggirava per il backstage con aria eccitata, sgranocchiando qualcosa che aveva pescato da un tavolino imbandito; avevamo organizzato una specie di banchetto, il quale si arricchiva ogni volta che qualcuno metteva piede nella stanza principale. Ognuno portava qualcosa da bere e da mangiare, e il nostro momento prima del live stava diventando una sorta di festa di compleanno mal assortita.

«Quante volte devo dirti che sarebbe meglio non mangiare prima del concerto?» sbottò improvvisamente Serj, apostrofando Daron mentre il chitarrista rovistava sul tavolino e raccattava dolcetti e altre prelibatezze.

«Non rompere» sbuffò l'altro, ficcandosi in bocca una pralina sferica completamente ricoperta di cioccolato. «Buono!» biascicò a bocca piena, senza preoccuparsi di pulirsi il muso.

«Daron! Sei un irresponsabile!» tuonò ancora Serj.

In quel momento John entrò nella stanza e si guardò attorno, poi raggiunse il tavolino e raccattò una pizzetta.

«Perché lui può? Perché non gli rompi i coglioni?» gracchiò il chitarrista, indicando l'ultimo arrivato.

«Lui è un batterista, non deve cantare! Oddio, non vorrai davvero mandare giù quel tortino alle noci? Ti prego!» proseguì il cantante, portandosi le mani alla testa con fare disperato.

Era una scena che avevo vissuto un sacco di volte, ma era sempre come se si trattasse della prima; mi divertivo un sacco e mi godevo quei battibecchi con un sorriso ironico stampato in viso. Tutto ciò mi aiutava a rilassarmi e a scaricare un po' di tensione. Mi sentivo come se io non fossi parte della band e potessi estraniarmi del tutto dalla situazione che mi aspettava, come se stessi assistendo alla scena comica di una soap opera di quart'ordine e sapessi che quella non era la realtà. Forse ero strano, ma la cosa mi confortava e non riuscivo bene a comprendere perché.

«Che importanza ha? Una cosa vale l'altra» minimizzò il chitarrista, addentando famelico il dolcetto che teneva nella mano sinistra.

«No, no! Non è così! Prima di cantare, dovresti evitare gli zuccheri, la frutta secca... ti impasta le corde vocali! E tu che non usi nessuna tecnica per cantare sei ancora più a rischio! Daron, vuoi darmi retta?»

John a quel puntò finì di mangiare la sua pizzetta e fece spallucce. «Ehi Serj, di che ti preoccupi? Daron fa schifo in ogni caso, anche se rimanesse a digiuno e si spremesse un limone in bocca prima di cantare, sai, per idratare bene le sue povere corde vocali...» commentò, ostentando indifferenza e lanciando una breve occhiata al chitarrista.

Quest'ultimo rischiò di strozzarsi e divenne paonazzo per la rabbia, per poi cominciare a tossicchiare ripetutamente. Qualcosa doveva essergli andato di traverso.

A quel punto scoppiai a ridere e sollevai una mano per far capire a John che volevo dargli il cinque, anche se non avevo voglia di alzarmi. Lui fece qualche passo verso di me e mi accontentò, per poi ridacchiare.

«Bastardi!» farfugliò Daron; ormai i suoi occhi lacrimavano copiosamente e il suo colorito non accennava a tornare di una tonalità normale.

A quel punto Leah lo raggiunse e prese a picchiargli con forza sulla schiena. «Dai, respira. Che combini, amico?» gli si rivolse con una vena di preoccupazione nella voce.

Ogni volta che li vedevo così vicini, mi chiedevo come potessi non provare neanche un pizzico di gelosia. Forse non era normale come cosa, ma sentivo di potermi fidare completamente di entrambi e non nutrivo alcun dubbio sul fatto che il loro fosse solo un bellissimo rapporto di amicizia.

«Questi stronzi...» bofonchiò ancora in difficoltà.

Leah lo spinse verso il divanetto e lui si lasciò cadere a poca distanza da me, per poi accettare il bicchiere che Serj gli porgeva.

«Bevi un po' d'acqua, ti farà bene. Hai fatto un casino anche stavolta, lo sai?» lo rimbrottò ancora, per poi sospirare pesantemente.

«Ah, lasciami in pace. Cazzo.»

L'atmosfera era cambiata, me ne resi improvvisamente conto dal tono duro e irritato che Daron aveva appena utilizzato; così lanciai un'occhiata a Serj e gli feci capire che forse era meglio se si fosse allontanato un attimo dalla stanza.

Lui scosse il capo e uscì. Sapevo che era contrariato, ma non era il caso di creare ulteriori tensioni prima del concerto.

Poco dopo qualcuno picchiettò sullo stipite della porta, poi Mayda fece il suo ingresso nel backstage.

«Leah! Quando sei arrivata?» domandò la ragazza di Sako.

L'altra si voltò nella sua direzione e corse ad abbracciarla. «Ehi! Sono arrivata questa mattina, fino a ieri stavo studiando per un test. La prossima settimana mi tocca!» spiegò la mia ragazza in tono allegro.

«Andrà bene, vedrai!» la rassicurò Mayda. «Tu sei in gamba!» Poi si voltò verso di noi e inclinò il capo di lato, notando l'espressione accigliata di Daron. «Che ti prende, Daron? Sako mi ha mandato a cercarti, vieni?» gli si rivolse.

«No» replicò lui seccamente, senza neanche degnarla di uno sguardo.

«Fa' come vuoi, ho capito.» Mayda sollevò le mani in segno di resa, poi si avviò nuovamente verso la porta. Poco prima di uscire, però, si bloccò di scatto e indietreggiò. «E voi chi siete?» sbottò allarmata.

L'attenzione di tutti si concentrò sulla soglia, sulla quale poco dopo comparvero tre figure accaldate e visibilmente spaesate.

Riconobbi subito i tre ragazzi che avevamo conosciuto nel parcheggio del centro commerciale qualche mese prima, non tanto perché mi fossero rimasti impressi i loro volti, ma perché non potevano essere che loro. Inoltre, la cresta verde fluorescente di Steve era inconfondibile.

Mi alzai finalmente dalla mia postazione e mi sciolsi in un sorriso, andando loro incontro e facendogli cenno di accomodarsi.

«Oh, ma siete venuti davvero!» esultò Leah, riconoscendo a sua volta i tre nuovi arrivati.

«Buonasera» esalò Steve, per poi grattarsi una tempia con fare imbarazzato. Spostava freneticamente lo sguardo da un punto all'altro della stanza, come se non sapesse esattamente dove posarlo per non risultare invadente.

Notai che Nathan, il biondo dall'aria simpatica, aveva adocchiato John ed era impallidito come un cencio.

«Nat, che fai? Ehi, stai bene?» si preoccupò sua sorella, afferrandolo per un braccio.

«Ragazzi! Sono contentissimo che siate venuti!» esclamai, cercando di stemperare l'atmosfera.

«E loro chi sono?» chiese John, osservando i tre con curiosità.

«Sono quei tre ragazzi che abbiamo conosciuto fuori dal centro commerciale. Ricordi che te ne ho parlato?» gli spiegai, dandogli di gomito. Forse mi ero dimenticato di dirglielo, ma volevo che fosse gentile con i nostri ospiti e non li trattasse con diffidenza. Non che avessi dubbi sul buon senso e sull'educazione del batterista, ma volevo essere certo che capisse.

«Giusto! Be', ciao, piacere. Io sono John» si fece avanti il mio amico, tendendo la mano a Steve.

Il ragazzo sorrise e notai i suoi occhi inumidirsi leggermente. Forse si stava rendendo conto solo in quel momento di trovarsi nel backstage di una delle sue band preferite, ma a me faceva uno strano effetto pensare che qualcuno si potesse emozionare così tanto all'idea di starci vicino. Eravamo solo delle persone, ma qualcuno una volta mi disse che avevamo avuto la fortuna di riuscire a creare musica in grado di emozionare chi la ascolta e di raggiungere così il cuore del pubblico. Forse era questo a renderci così speciali per i nostri ammiratori, anche se personalmente non mi sentivo superiore a qualcun altro. Ero soltanto Shavo Odadjian.

«Io sono Steve. Lei è Jennifer, lui è Nathan... credo che... Nat, stai male?» balbettò il ragazzo dall'acconciatura punk.

«Colpa di John» sogghignò sua sorella. «È un piacere conoscerti. Mio fratello solitamente è più loquace, molto più loquace, ed è anche meno pallido e sudaticcio, già... solo che, be', ecco...» Si interruppe e indirizzò un sorriso luminoso al batterista. «Tu sei il suo mito, non so se mi spie...»

«Jennifer!» strillò Nathan, conficcando le sue unghie nel braccio della ragazza.

«Ahi, sei scemo? Mi fai male! Dico solo...»

John scosse il capo e ridacchiò. «Siete dolcissimi. Nathan, mi fa piacere sapere che in qualche modo io rappresenti un'ispirazione per te, ma credo proprio ci siano tanti altri batteristi validi nella scena musicale.» Si strinse nelle spalle. «Non faccio niente di speciale, cerco solo di esprimermi attraverso lo strumento che più amo.»

Nathan espirò bruscamente e lanciò al batterista un'occhiata difficile da decifrare, poi sbottò all'improvviso: «Cazzo, ma che dici? Non fai niente di speciale? Fai solo cose mostruosamente belle, sai, tu giochi con quella fottuta batteria e giochi con il mio cuore ogni volta che ti ascolto! Puoi prendermi per pazzo, ma io ti amo fottutamente, John Dolmayan!».

Ebbi paura che John si ritraesse e che fosse stato spaventato dalle parole di quel ragazzo, ma la reazione del mio amico mi sorprese non poco: lo vidi fissare per qualche istante il suo ammiratore, poi scoppiò a ridere e si accostò al ragazzo. Gli circondò le spalle con fare amichevole e gli scompigliò affettuosamente i capelli già tremendamente arruffati.

«Che carini! Dobbiamo immortalare questo momento» affermai, estraendo subito il mio cellulare.

Leah si accostò a me e mi circondò la vita con le braccia, appoggiando il capo sulla mia spalla. «Anziché scattare foto a quei poveretti, perché non ne facciamo una insieme?» mi propose in tono divertito.

«Aspetta.» Scattai qualche foto a John e ai nostri tre ospiti, poi impostai la fotocamera interna e mi misi in posa.

Quando stavo per scattare, Leah mugugnò e sbuffò. «Smettila di fare quella faccia da duro e sii te stesso. Ti riesce tanto difficile?» mi apostrofò.

«Quale faccia?»

Mi solleticò un fianco. «Fai un sorriso, Shavarsh.»

Ridacchiai e presi a scattare un sacco di foto estremamente insensate e buffe.

«Così mi piaci!» rise Leah, allungandosi per baciarmi sulla guancia.

Daron parve riscuotersi dal suo torpore e scattò in piedi, deciso a mangiare qualcos'altro, giusto per dimostrare che non avrebbe permesso a Serj di decidere al posto suo. Solo in quel momento i tre fan si accorsero della sua presenza.

«Daron! Ciao, come va?» lo salutò allegra Jennifer, sollevando una mano e rivolgendogli un cenno.

Lui non mutò espressione e si accostò al tavolino, ignorandola deliberatamente. Stavo per rimbeccarlo, quando lui afferrò un vassoio stracolmo di tortini alle noci e si voltò in direzione dei nostri ospiti. «Ehi, ne volete un po'? Sono deliziosi» domandò con noncuranza.

E la tensione generale si sciolse, dando il via a un momento molto disteso e rilassante, soprattutto per noi musicisti.

«Quanto manca?» domandai, mentre cominciavo ad agitarmi.

Leah mi prese la mano e la strinse forte. «Non cominciare» mi rimproverò, cercando il mio sguardo.

«Quanto manca?» ripetei, guardandomi intorno con l'ansia che pian piano mi attanagliava la bocca dello stomaco.

«Circa quaranta minuti» cinguettò Daron, che ormai sembrava essersi ripreso dal suo momento buio e chiacchierava con Steve a proposito di gruppi indie rock anni Novanta.

«Merda!» brontolai.

«Shavarsh, smettila! Andiamo, che ti prende?» Leah mi si piazzò davanti e mi afferrò le mani, stringendole tra le sue. «Hai suonato così tante volte dal vivo...» mi fece notare.

«Ho bisogno di prendere aria, vieni» decisi, conducendola fuori dal backstage. Riflettei per un attimo su dove potessi andare, poi optai per il retro degli spogliatoi. Ormai tutto il pubblico doveva essere entrato nello stadio e non avrei incontrato fan in cerca di foto e autografi.

Non appena ci ritrovammo in un angolo appartato, presi a costruirmi una stecca di erba ed evitai di guardare la mia ragazza negli occhi.

La sentii ridacchiare. «Senti questo boato? Tutti aspettano voi. Oddio, è fantastico. Io non so come mi sentirei se...»

«Così non mi aiuti» tagliai corto. Le mani mi tremavano e tentai di controllarmi, concentrandomi su ciò che stavo facendo.

«Scusami. Ma che succede? Perché hai tanta ansia? Sei il migliore, di cosa ti preoccupi?» Leah mi si accostò e mi abbracciò. «Coraggio, sono qui» mormorò, accarezzandomi un braccio con dolcezza.

«Già, è proprio questo il problema. Non ho mai suonato per te» ammisi mestamente.

«Oh, non essere sciocco!» esclamò.

Finii di preparare la mia sigaretta, poi la riposi nella tasca dei jeans e mi voltai verso Leah. Le presi il viso tra le mani e cercai i suoi occhi, trovandoli caldi e rassicuranti come sempre.

«Su, andrà bene. Io credo in te» affermò, stringendo tra le dita la stoffa della mia maglia.

«Leah» sussurrai. «Ti ho mai detto che ti amo?» buttai lì.

Lei rimase sorpresa dalle mie parole e sgranò gli occhi, inclinando leggermente la testa di lato. Non aprì bocca e rimase immobile a fissarmi con un'espressione che trovai difficile da decifrare.

«Ti ho spaventato?» aggiunsi, avvertendo una certa agitazione planare sulle mie certezze.

«No» mormorò. «Ma... trovo difficile credere che qualcuno... ah, lascia stare.» Provò a divincolarsi dalla mia stretta e distolse lo sguardo, lasciando che alcune ciocche ricadessero sul suo viso e adombrassero i suoi occhi.

Non le permisi di sfuggirmi e la costrinsi a guardarmi, sollevandole il mento con un dito. «Ora ti stai comportando tu da sciocca.»

Leah sospirò e sorrise imbarazzata. «Il fatto è che... non me l'aspettavo, non ora.»

«Avevo queste parole incastrate nel mio cuore da troppo tempo. Ho capito, no, ho sentito che...» Mi interruppi per trovare i termini giusti da utilizzare. «Ho sentito che dovevo dirtelo prima di suonare. Sto già meglio. È la prima volta che suono di fronte a te, non voglio deluderti. Però, se andrà male, be'... almeno sai che questo ragazzo insicuro e imbranato ti ama, se tu...»

Leah scoppiò a ridere, ma qualche lacrima scivolò sulle sue guance. Mi si gettò addosso e mi baciò con trasporto, lasciando che il suo corpo si adattasse perfettamente al mio e che il sapore di quelle gocce salate si unisse al nostro bacio, rendendolo ancora più intimo e speciale.

«Shavarsh!» esclamò, per poi staccarsi da me. «E io? Te l'ho mai detto?» domandò.

«Be', no...» biascicai.

Fece spallucce. «Sai quanto ho aspettato questo momento? Mi sembrava sempre che non fosse il caso, avevo l'impressione di essere fuori luogo o di sbagliare a esprimermi. Non sono fatta per queste cose, insomma, lo sai.»

Ci fissammo per un attimo, poi scoppiammo a ridere e tornammo a baciarci con dolcezza.

«Siamo due piaghe, te ne rendi conto?» le feci notare.

«Parla per te!» mi rimbeccò, fingendosi offesa.

«Ti amo» ripetei, accarezzandole piano il viso e i capelli.

«Ma sì, anche io ti amo. Ma solo un po'.» Rise e giocherellò con il mio pizzetto, tirandolo leggermente. «Però adesso basta, non diventare sdolcinato. E guai a te se me lo ripeti ogni due minuti, potrei vomitare!»

Ripresi la stecca di erba dalla tasca, ripescai anche l'accendino, e diedi il via alla magia.

«Va bene» aggiunsi, dopo qualche tiro. «Ti amo.»

«Shavo!» strillò lei, mollandomi una gomitata e allontanandosi da me.

«Se mi tratti così, non ti lascio fumare.»

«Tanto non mi va.»

Rimanemmo in silenzio finché non terminai la canna.

«Andiamo, ti aspettano.»

La spinsi verso l'ingresso e continuai a ripeterle quanto l'amavo, scatenando la sua ira e le sue proteste.

«Finalmente, ma dove ti eri cacciato?» tuonò Serj non appena rientrai nella stanza principale del backstage.

«Tra cinque minuti tocca a noi» mi spiegò John con calma.

Notai che nella stanza erano rimasti soltanto i componenti della band, ma poco dopo sopraggiunse Bryah.

«Ehi, siete pronti? Ah, Leah, cercavo proprio te! Vieni con me? Di là ci sono anche Mayda e Angela!» esordì la giornalista.

La mia ragazza annuì e si voltò verso di me. Mi strinse in un ultimo abbraccio e mi mollò una discreta pacca sul sedere, poi sussurrò al mio orecchio: «Mi raccomando, distruggi quel basso. Quando sarai tutto sudato e stanco, voglio spogliarti e fare l'amore con te».

MI scostò subito da me e mi fece una linguaccia, per poi raggiungere Bryah e uscire con lei dalla stanza.

Rimasi imbambolato a fissare il vuoto, tentando di assorbire quelle parole. Di certo non mi avrebbero aiutato.

Mentre lasciavo il backstage in compagnia dei miei compagni di band, notai una certa agitazione in fondo al corridoio e mi fermai per un istante a controllare cosa stesse succedendo.

I ragazzi non parvero far caso a me e proseguirono, spintonandosi e regalandosi spallate e insulti giocosi.

«Stronzi, guai a voi se mi fate ridere! Se vado fuori tempo io, siamo fottuti» sentii dire al batterista.

«No, macché. Rideremo solo quando Daron sembrerà una gallina strozzata mentre canta» commentò Serj.

«O quando il grande Serj Tankian sbaglierà il testo di qualche canzone... qualcosa tipo i-E-A-I-A-I-O» ghignò Daron.

Intanto io scrutavo in fondo al corridoio, dove notai la figura corpulenta e imponente di un roadie. Discuteva animatamente con un suo collega e con qualcun altro; da quella distanza riuscii a udire una voce femminile, ma non fui in grado di vedere in viso la persona a cui appartenesse.

Poi qualcuno spinse con forza il roadie e lo fece indietreggiare di un passo, giusto il tanto che mi permise di avere una fuggevole visione della ragazza che litigava con i due uomini.

Mi voltai verso i miei amici. Per fortuna erano già andati avanti e non si accorsero di nulla, il che mi rassicurò almeno un po'.

Decisi di tenere per me quella scoperta e cercai di non mostrarmi turbato agli occhi dei miei amici. Eppure, dentro mi sentivo inquieto.

Sperai vivamente che quei due roadie riuscissero a mandarla via, altrimenti l'umore generale avrebbe rischiato ancora una volta di precipitare.

Scossi il capo e raggiunsi i miei amici, decidendo di concentrarmi sul concerto e su ciò che Leah avrebbe voluto da me una volta sceso dal palco.

Mi unii ai ragazzi per un abbraccio di gruppo, poi cominciammo a salire sul palco e la dimensione della mia ansia crebbe all'infinito, per poi sciogliersi non appena fui raggiunto dal rassicurante e meraviglioso calore del mio pubblico.

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Capitolo 55
*** Shy Guy ***


ReggaeFamily

Shy Guy

[John]




Fissai Daron mentre, accompagnato solo dalla sua chitarra, cantava l'intro di Soldier Side; ero pronto a dare il via allo show e a cominciare con Prison Song.

Pregustai quella bellissima sensazione di quando battevo il primo colpo su piatti e tamburi, poi tutto intorno a me si faceva silenzioso. L'unico suono che si udiva era solo il boato infernale dei fan che mi incitavano a proseguire.

Daron finì di cantare e io diedi il tempo con due colpi sul charleston socchiuso, poi battei quel primo colpo e la magia ebbe inizio.

Chiusi per un attimo gli occhi e, con le bacchette a mezz'aria, mi godetti il calore del pubblico e le voci quasi disperate che mi pregavano di andare avanti. Mi piaceva lasciarli in sospeso per un po', abituati com'erano alla canzone registrata su disco che aveva un tempo e della pause ben definiti.

Infine mi decisi e proseguii, avvertendo i miei colleghi con quattro colpi sul charleston che precedettero i successivi sul resto dei tamburi, i quali vennero accompagnati anche da chitarra e basso.

Poi Serj sibilò al microfono: «They're trying to build a prison».

Ci fu un'altra pausa e io la prolungai il più possibile, godendo ancora del frastuono degli spettatori e notando quanto i miei amici fossero concentrati.

Notai Sako che ascoltava con attenzione dal lato del palco, cercando di capire se i suoni del mio strumento fossero perfetti come sempre. Era un collaboratore eccezionale, mi fidavo ciecamente di lui e non avevo alcun dubbio che il suo lavoro fosse impeccabile come al solito.

Prima di riprendere a suonare, scorsi Leah, Angela, Bryah e Mayda accanto al tecnico della batteria. Eravamo al completo, ora ne ero certo e potevo partire e caricarmi come una macchina da guerra, catapultandomi finalmente nella mia dimensione naturale.

Altri quattro colpi sul piatto socchiuso per staccare il tempo, e mi immersi completamente nella mia musica.

Per me era diventato automatico giocare con il mio strumento, un po' come guidare l'auto; improvvisavo, regalavo colpi inaspettati ai tamburi e mi burlavo dei pedali di cassa e charleston come se fossero dei giocattoli. Non mi fermavo, andavo avanti concentrato senza che niente potesse distogliermi dalla mia occupazione.

Un po' come Serj faceva con la sua voce. Gli piaceva giocarci, renderla più o meno potente, gorgheggiare, maneggiarla e modellarla come fosse argilla. Lo stimavo parecchio, anche se forse non glielo avevo mai detto, ciò che riusciva a fare era incredibile.

Shavo pareva leggermente teso, ma suonò comunque da dio, senza perdere neanche per un istante la sua concentrazione e precisione; la batteria e il basso erano strumenti che dovevano essere perfettamente sintonizzati, e io mi trovavo davvero bene a lavorare con lui. Insieme riuscivamo a creare un tappeto ritmico e sonoro che riusciva a mantenere in piedi il resto degli strumenti. Non avevamo mai avuto un chitarrista ritmico, quindi Daron aveva sempre dovuto destreggiarsi a ricoprire sia quel ruolo che quello di chitarrista solista.

Non era mai stato un problema, poiché Serj era un polistrumentista pazzesco e riusciva ad adattarsi con destrezza al pianoforte, la chitarra, le percussioni. In questo modo riuscivamo a regalare uno show completo ai nostri fan, senza bisogno di assumere dei turnisti né perdere a livello qualitativo.

Forse era strano, ma mi piaceva riflettere mentre suonavo, mi permetteva di essere ancora più concentrato sul mio lavoro e mi rilassava parecchio.

I brani scorrevano in piena fluidità, io ero completamente a mio agio e suonavo senza tensione né rigidità. Quando mi capitava di riascoltare o rivedere qualche stralcio dei nostri live, mi rendevo conto che il risultato era proprio quello a cui aspiravo: uno spettatore doveva assistere a uno spettacolo mozzafiato, durante il quale io mi sentivo in obbligo di dare il doppio del massimo. Ma chi stava tra il pubblico doveva avere l'impressione che ciò che facevo fosse semplice e rilassante, che ogni brano – per quanto caratterizzato da un ritmo serrato e incalzante – fosse un gioco da ragazzi e che ogni suono scivolasse fluido durante tutta l'esecuzione.

Mi vennero in mente alcuni batteristi che, per quanto provvisti di tecnica e talento, facevano venire l'ansia soltanto a sentirli; era palese quanto fossero rigidi e quanto dovessero riflettere su ciò che facevano, anziché lasciar fluire ogni colpo come se i loro arti fossero di gelatina.

Io volevo essere l'opposto, volevo proprio che i miei arti si svuotassero di ossa e muscoli e trasmettessero morbidezza anche in brani dalle tinte profondamente heavy metal.

All'improvviso, mentre cominciavamo a suonare Lonely Day, mi ricordai della discussione che Daron e Serj avevano avuto nel backstage; ascoltando il chitarrista cantare, mi resi conto che avrebbe realmente dovuto curare maggiormente la sua voce, seguendo perlomeno i consigli del cantante principale.

Tra tutti noi, Daron era sempre il più rilassato, anche questo non sempre era simbolo di precisione e accuratezza durante l'esecuzione; mi dispiaceva rendermene conto, dal momento che sapevo bene quanto il mio amico fosse talentuoso e quali fossero le sue reali potenzialità.

Quando giungemmo a Toxicity, fui cosciente che il concerto stava per volgere al termine. Mi divertii moltissimo a suonare quel brano, succedeva sempre così. Era pazzesco pensare che quella fosse proprio la nostra musica e che non stessi soltanto eseguendo una cover.

Passai senza alcuna difficoltà all'ultima canzone in scaletta, che come da tradizione era Sugar.

Quando Serj nominò Sako all'inizio della seconda strofa, sollevai un attimo lo sguardo e lanciai un'occhiata al mio tecnico; lui rise e si esibì in un piccolo e teatrale inchino, come se volesse dimostrarci quanto fosse onorato di essere finito in uno dei nostri brani più famosi.

Poi tutto si concluse. Raggiunsi Sako e cominciai a raccogliere dalle sue mani i souvenir che avrei lanciato tra il pubblico, ovvero diverse bacchette e qualche pelle dei miei tamburi.

«Sei stato fenomenale, mi tremano le gambe» gridò Leah alle sue spalle, sollevando una mano nella mia direzione.

Prima di dirigermi verso il centro del palco, dal quale i miei colleghi erano già scomparsi, incrociai gli occhi scuri di Bryah e mi resi conti che erano pieni di lacrime. Avrei voluto raggiungerla e stringerla subito tra le braccia, ma mi costrinsi a finire ciò che stavo facendo.

Mi avviai a passo svelto in direzione del pubblico, fermandomi a poca distanza dal bordo della piattaforma. Mi godetti per qualche istante il calore dei presenti che invadeva lo stadio dei Dodgers in ogni sua parte, scandagliando distrattamente la folla con gli occhi.

Era bellissimo, amavo quelle emozioni che solo suonare dal vivo mi faceva provare. Mi sentivo completo, totalmente immerso nel mio elemento. Avrei voluto che quella magia non finisse mai, eppure eravamo giunti al capolinea anche quel giorno e io dovevo ringraziare degnamente i presenti, regalando loro qualcosa di mio.

Cominciai a lanciare tra la folla le bacchette e le pelli che Sako mi aveva dato, accogliendo con immensa gioia l'ovazione dei miei ammiratori. Quell'atmosfera fu capace di scaldarmi il cuore e solo allora mi resi conto che tutto ciò mi era terribilmente mancato.

Dopo aver regalato l'ultimo oggetto al mio pubblico, mi accostai al microfono che Serj aveva abbandonato sull'asta. «Grazie Los Angeles, grazie di cuore. Ci avete riempito di gioia, grazie mille» dissi con un po' d'imbarazzo, ma sentendo che era realmente ciò che il mio cuore mi suggeriva di fare.

Mi allontanai a fatica dal palco, avvolto ancora una volta da quella malinconia dolce e rassicurante che seguiva la fine di ogni nostro spettacolo.


Bryah, senza neanche appoggiare la sua macchina fotografica, mi corse incontro e mi strinse in un abbraccio. Tentai di protestare, facendole intendere che ero sudato, ma lei sembrò non curarsene affatto; premette il suo corpo contro il mio e mi baciò con trasporto, facendo sobbalzare il cuore nel mio petto.

Tenendola stretta per la vita, le sfilai l'oggetto delicato di mano e mi chinai sul tavolino per posarlo con attenzione. Non volevo assolutamente che l'impeto del momento procurasse dei danni all'attrezzatura che usava per lavoro.

Bryah, infatti, aveva cominciato da poco a lavorare in un piccolo giornale della città, niente a che vedere con il Times o altre testate particolarmente importanti; a lei non interessava, voleva soltanto avere qualche soldo per mantenersi e si rifiutava categoricamente di farsi mantenere da me. Era ancora in prova, ma il reportage del nostro concerto e una piccola intervista che le avevo concesso avrebbero fatto capire ai suoi datori di lavoro qual era il suo potenziale. Speravo di poterla aiutare a dimostrare quanto valeva.

«Il giornale prenderà il volo!» affermò, tornando a stringersi a me. «Grazie alla postazione privilegiata che mi avete concesso, sono riuscita a fare delle foto spettacolari.»

Ridacchiai. «Per le foto non sarebbe stato un problema, avrei potuto chiedere a Greg di farti avere qualche scatto» la rassicurai.

Bryah scosse il capo. «È una soddisfazione molto più grande essere riuscita a fare tutto da sola» spiegò con entusiasmo.

Mi chinai sulle sue labbra e le baciai lentamente, sentendole morbide e delicate sotto le mie. Poi mi scostai e sospirai. «Devo assolutamente fare una doccia» mormorai.

«Forse hai ragione. Puzzi un sacco» mi canzonò in tono ilare.

«Stavo per proporti di venire con me, ma ci ho ripensato» finsi di offendermi, lasciandola andare. Mi passai le mani sui capelli zuppi di sudore e mi allungai sul tavolino a prendere una bottiglia d'acqua.

«Vorrà dire che ti seguirò anche se non mi inviti» decise, per poi carezzarmi il fianco destro. Si allontanò per rimettere a posto la macchina fotografica e io trangugiai metà del contenuto della bottiglia.

A quel punto fui raggiunto da Shavo, il quale mi si rivolse tutto agitato, guardandosi intorno con circospezione. «Cazzo, John, è successo un casino» sibilò.

«Che tipo di casino?» gli chiesi.

«Ho visto...» SI passò le mani sul volto e sospirò. «Prima di salire sul palco, ho visto la figlia di Daron. Cioè, insomma, quella ragazza che dice di essere sua figlia. Litigava con un paio di roadie, sicuramente stava cercando di entrare nel backstage. In giro non c'è, ma potrebbe essersi appostata all'esterno.»

Annuii. Questo poteva significare soltanto una cosa: voleva riavvicinarsi a Daron, ma non riuscivo a capire perché avesse deciso di rovinare proprio quella serata. Il concerto era andato bene, eravamo tutti euforici e non vedevamo l'ora di continuare a festeggiare altrove. Un problema come questo non ci voleva proprio.

«Che facciamo?» mi chiese Shavo.

Sospirai. «Senti, io ora faccio una doccia e Bryah viene con me. Tu fai come ti pare, sono stanco di dover risolvere i problemi di tutti. Dillo a Daron, poi sarà lui a sbrigarsela.» Feci spallucce. Mi costò parecchio rispondergli in quel modo, ma non volevo che la mia serata venisse mandata a puttane per un motivo del genere.

Shavo spalancò gli occhi e mi fissò con aria confusa, poi mi mollò una pacca sulla spalla e sorrise. «Dacci dentro» sussurrò ammiccante.

Non risposi e raggiunsi Bryah sulla soglia, dopo aver recuperato la sacca dove custodivo l'occorrente per la doccia e dei vestiti puliti.

Avvolsi la vita della mia compagna con un braccio e mi avviai verso i bagni degli spogliatoi. Non avevo intenzione di fare qualcosa di particolare con Bryah, desideravo soltanto stare solo con lei e godermi un momento di relax dopo il concerto.

«Che cosa voleva Shavo? L'ho visto agitato» mi domandò la giornalista, quando fummo abbastanza lontani dalla stanza principale del backstage.

«Dice di aver visto la presunta figlia di Daron nei paraggi e non sapeva che fare. Io gli ho detto che per stasera non mi importa. Sono stufo di fare da baby sitter a Daron, sul serio. Gli voglio bene, se lui fosse veramente in difficoltà non ci penserei due volte ad aiutarlo, ma queste sono cose che può benissimo gestire per conto suo. Deve imparare ad affrontare le situazioni che la vita gli pone di fronte.» Mi bloccai quando mi resi conto che forse avevo esagerato, che mi ero sfogato con Bryah e stavo inevitabilmente rovinando l'atmosfera.

Lei si fermò sulla soglia del bagno e si voltò a cercare il mio sguardo. «Dovresti sfogarti più spesso, ti fa bene.» Mi lasciò un bacio a fior di labbra. «Adoro quando sei così passionale!» esclamò in tono divertito, per poi fuggire all'interno della stanza.

Rimasi sbalordito per un attimo, poi la seguì all'interno e mi chiusi la porta alle spalle. Abbandonai la sacca sul pavimento e presi a correrle dietro. Come due bambini, giocammo e ci rincorremmo per qualche minuto, poi Bryah mi bloccò all'interno di un box doccia e mi fissò con gli occhi lucidi e le labbra socchiuse. Si reggeva con una mano alla parete piastrellata, mentre teneva l'altra premuta contro il mio torace.

«Adesso sei mio prigioniero» affermò. «E posso fare di te ciò che voglio.» Si accostò a me e mi sfilò con decisione la t-shirt, lasciandomi a torso nudo. Indietreggiò di un passo e mi scrutò con espressione estasiata.

Avrei voluto strapparle di dosso quel leggero vestito azzurro e fare l'amore con lei, ma sapevo che non era possibile. Bryah non aveva portato con sé un cambio, perciò sarebbe stato un disastro ricomporsi in quell'occasione.

«Sai, John, non puzzi poi così tanto.»

Sgranai gli occhi nel notare che si sfilava l'abito che indossava. Lo osservò per un istante, poi fece spallucce e continuò a spogliarsi con noncuranza, finché non rimase completamente nuda, fatta eccezione per i sandali bassi ai suoi piedi.

«Bryah, cosa fai?» I pantaloni mi parvero improvvisamente troppo stretti, mi sentii invadere da un intenso e bruciante calore che si diffuse rapidamente in tutto il corpo. I miei occhi percorsero increduli i seni bruni e abbondanti, i fianchi larghi e morbidi, poi tornarono a concentrarsi sul suo viso.

Mi sorrise maliziosa. «Ricordi? Ho detto che sarei stata qui con te. Credi davvero che sarei stata a guardare? Sei uno sciocco.» Sparì per un attimo dalla mia vista, poi ricomparve dopo aver posato i suoi abiti.

«Vieni qui» le ordinai a bassa voce.

Lei non ci pensò due volte e mi si avvinghiò contro, facendo sì che la mia schiena aderisse contro le piastrelle fredde e i suoi seni si schiantassero sul mio torace.

Non riuscivo più a resistere, così la baciai con forza, tenendola ferma contro di me, mentre l'erezione premeva con disperazione contro il tessuto che la teneva ancora prigioniera.

Bryah inclinò la testa all'indietro e mi offrì il collo, così mi ci avventai mentre le mie mani si serravano sui suoi glutei morbidi.

Ansimando, mi staccai a fatica da lei e la guardai negli occhi. «Non ne posso più, devo togliermi questa roba» biascicai, accennando con il mento ai pantaloni.

«Mi dispiace. Ci penso io» rispose lei con dolcezza, riempiendomi il viso di baci. Le sue mani armeggiarono con la chiusura dei miei pantaloni, per poi tirarli giù con un movimento rapido che già mi fece stare meglio. Poi afferrò l'elastico dei boxer neri e finalmente mi liberò definitivamente da quell'insopportabile prigionia.

Mi lanciò un'occhiata e, dopo avermi dato una pacca sul fianco, si chinò a sussurrarmi all'orecchio: «Prendimi. Adesso».

Da quel momento in poi persi completamente la lucidità e non riuscii a far altro che seguire il mio istinto e i suggerimenti del mio corpo infuocato e destabilizzato dal desiderio.


L'acqua scorreva ristoratrice sul mio corpo, mentre udivo Bryah canticchiare di fronte allo specchio.

«Per fortuna sono riuscita a fare la doccia senza bagnarmi i capelli» commentò a un certo punto.

Sorrisi e ripensai a quanto era appena successo. Io stesso avevo pensato che non avremmo dovuto fare l'amore in quell'occasione, convinto che sarebbe stato difficile per lei ricomporsi. Ma la mia compagna si era rivelata molto più audace di me, il che non mi era affatto dispiaciuto. Mi rimproverava spesso perché faticavo a lasciarmi andare, ma ultimamente mi stavo rendendo conto che mi piaceva rischiare ogni tanto. Con lei sapevo di poterlo fare, non mi sentivo mai sbagliato e non avevo paura di sperimentare o di dire ciò che mi passava per la testa. Era stato così fin da subito, avevamo trovato una sintonia pazzesca fin dal primo istante in cui ci eravamo incontrati nel vialetto dello Skye Sun Hotel; avevamo trascorso momenti difficili, e questi ci erano serviti per rafforzare il nostro legame e per comprendere che c'era qualcosa di speciale tra noi.

Bryah ricominciò a canticchiare, era in fissa con il ritornello di Soldier Side e non faceva che intonarlo a bassa voce. Forse sperava che non la udissi, ma io mi godevo quel momento e riflettevo sul fatto che fosse più brava di Daron a cantare.

Poi mi venne in mente il momento in cui, poco prima, mi aveva confessato i suoi sentimenti. In lacrime tra le mie braccia, aveva premuto il viso sul mio petto e lo aveva riempito di piccoli baci.

Avevamo appena finito di fare l'amore e io cercavo ancora di riprendere fiato, quando lei aveva sollevato il viso e mi aveva guardato negli occhi. Le lacrime rigavano silenziose le sue guance, e io avevo capito che non erano lacrime di dolore o sofferenza, bensì di gioia. Quando eravamo in intimità capitava spesso che Bryah, travolta dall'emozione, scoppiasse a piangere. Mi ero abituato a quel suo modo di fare, anche se un po' mi sentivo a disagio e temevo che quelle lacrime potessero rappresentare qualcos'altro. Le prime volte mi ero spaventato parecchio, avevo temuto di averle fatto male e mi ero sentito sprofondare nella disperazione. Poi lei mi aveva spiegato come stavano le cose, mi aveva rassicurato e mi aveva confessato che anche per lei era una novità. «È che sei così dolce» commentava spesso.

E quel giorno non fece eccezione. Mi aveva fissato con intensità e aveva sussurrato: «John, ti amo da sempre».

Io non avevo saputo come replicare, ma lei l'aveva capito e mi aveva abbracciato con tenerezza, accarezzandomi i capelli e la schiena.

«John?» mi richiamò Bryah, picchiettando sul pannello di plastica che circondava il box doccia per due dei suoi quattro lati.

Mi riscossi e finii di sciacquarmi, poi chiusi l'acqua e aprii leggermente l'anta scorrevole della doccia. «Mi passi il telo?» le chiesi, senza trovare il coraggio di incontrare il suo sguardo.

Lei annuì e mi porse ciò che le avevo chiesto, per poi darmi le spalle e riprendere a sistemarsi il trucco di fronte allo specchio.

Richiusi l'anta della doccia e cominciai ad asciugarmi con cura. Forse se le avessi parlato senza che lei potesse guardarmi, le cose sarebbero andate meglio.

Sospirai. «Ehi, Bryah?»

«Sì?»

«Mi dispiace per prima, insomma. Non ho saputo rispondere a... a quello che mi hai detto» incespicai tra le mie stesse parole, sentendomi avvampare per l'imbarazzo e l'inadeguatezza che stavo provando in quel momento.

«A cosa ti riferisci?» volle sapere. Si era accostata al box doccia, potevo scorgere la sua figura sfocata oltre il pannello satinato.

«Be', a quando mi hai confessato... a quando mi hai detto cosa provi per me» mormorai.

Lei ridacchiò. «Oh, John! Di che ti preoccupi? Io ho capito, non c'è bisogno che ti scusi o che tu risponda. Ho capito.»

Mi irrigidii leggermente. «Che cosa hai capito?»

«Che mi ami» rispose con semplicità, appoggiando una mano sul pannello di plastica.

Espirai bruscamente e continuai a tamponare il mio corpo umido con il telo in spugna. «Già» sussurrai. «Hai capito bene.»

«Allora perché ti scusi?»

Scossi il capo. «Vorrei riuscire... non lo so nemmeno io.»

Bryah sbuffò. «Vorresti dirmelo? Ma è una cosa banale. Io mi sono sentita banale quando l'ho detto, però me lo sentivo e l'ho fatto. Ma tu me lo dimostri.» Socchiuse l'anta del box doccia e fece in modo che i nostri sguardi si incontrassero. «Ti sei preso cura di me fin da subito, non ti sei lasciato spaventare dai miei problemi e mi hai protetto e tenuto al sicuro come nessun altro aveva mai fatto. Se questo non è amore, allora cos'è?»

Avvampai ancora una volta, ma mi costrinsi a non distogliere lo sguardo. Aveva ragione, lo sapevo bene, così annuii e mi accostai a lei. Spinsi completamente il pannello di lato e cercai le labbra della mia compagna, baciandole con delicatezza.

«Sì, è amore» confermò, per poi regalarmi un meraviglioso sorriso e lasciarmi un buffetto sulla guancia. «C'è una canzone che mi fa pensare a te» disse poi, indietreggiando per permettermi di uscire finalmente dal box.

Cominciai a rivestirmi in fretta, poi le lanciai un'occhiata interrogativa. «Ah sì?» feci curioso.

«Sì. Si chiama Shy Guy, è di Diana King» spiegò con un sorrisetto malizioso.

«L'ho già sentita nominare, ma ora non mi viene in mente. Me la canti?» proposi, infilando una felpa nera.

«Cantare? Ma scherzi? Sono stonata e poi...»

«Non sei stonata. Ti ho sentito prima mentre canticchiavi Soldier Side, sei più intonata di Daron» la contraddissi, strizzandole l'occhio.

Bryah sospirò, poi annuì. «E va bene. Ma solo un pezzetto, però sappi che mi vergogno.»

Scossi il capo e rimasi in attesa.


I don't want a fly guy

I just want a shy guy

That's what I want


Si interruppe e rise. Anche io ridacchiai.

«Tutto qui?» la punzecchiai.

«No, aspetta... c'è un'altra parte interessante!»

E riprese a cantare.


But I don't want somebody

Who's loving everybody

I need a shy guy

He's the kinda guy

Who'll only be mine


Si bloccò, ormai rideva apertamente. «Il testo è quasi tutto in patois giamaicano, ma hai capito il senso, no?» buttò lì.

Scoppiai a ridere a mia volta e la attirai in un abbraccio. «Certo che ho capito» soffiai sulle sue labbra. «Spero di essere all'altezza del ragazzo timido che tanto desideri.»

Bryah rise ancora e mi baciò sulla guancia. «Forza, shy guy, raggiungiamo il resto della banda e andiamo a festeggiare questo magnifico concerto!» concluse.

Poi insieme lasciammo il bagno dopo esserci fermati là dentro per un tempo incalcolabile. Qualunque cosa mi aspettasse di ritorno nel backstage, non avrebbe potuto rovinare il mio umore e in ogni caso ero pronto ad affrontarla.




Oooh, cari lettori!

Questo capitolo è un po' lunghetto, vero?

Ma non mi andava di interromperlo sul più bello, volevo che tutte queste idee rientrassero in un solo aggiornamento. Volevo parlare un po' del concerto, ma mi andava anche di dare spazio a un momento intimo tra John e Bryah; questi due ne hanno passato tante, è giusto che si godano anche un po' di relax, non siete d'accordo anche voi? ;)

E volevo anche inserire quest'ultima parte in cui Bryah rivelava a John i suoi sentimenti e gli dedicava questa meravigliosa canzone di Diana King! *-*
Vi devo confessare una cosa: da quando ho conosciuto questo brano, il che è avvenuto dopo che avevo cominciato a scrivere questa storia, ho subito pensato che si sposasse perfettamente con il nostro batterista preferito! Allora ho subito deciso che prima o poi Bryah l'avrebbe portata fuori, e finalmente c'è stata l'occasione :3

Vi lascio qui il link, questa canzone è stupenda e secondo me dovete sentirla assolutamente (soprattutto Carmensita, non so perché ma mi fa pensare a te e secondo me ti piace :D):

https://www.youtube.com/watch?v=szjaHbjhauk

Grazie a tutti per essere ancora qui, aspetto come sempre i vostri commenti e vi sono infinitamente grata per il supporto e l'affetto che mi dimostrate in continuazione!

Alla prossima ♥

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Capitolo 56
*** Ready ***


ReggaeFamily

Ready

[Daron]




«Shavarsh, sei proprio un fallito!»

«Ehi! Perché?»

«Dovresti evitare di cantare, sai?»

«Come ti permetti? Antipatica!»

«No, dico sul serio! O cerchi di migliorare un po' quel growl, oppure secondo me dovresti evitare!»

Buttato su una poltroncina rossa, mi godevo la scena tremendamente comica che si stava svolgendo tra Shavo e Leah.

La ragazza stava in piedi di fronte al bassista, mentre lui se ne stava stravaccato sul divano e la osservava dal basso con espressione accigliata.

Sollevai il pollice in direzione di Leah e ridacchiai. «Brava, amica! Diglielo! Qui tutti se la prendono con me, ma in realtà c'è chi è più fallito del sottoscritto» commentai in tono ironico.

Lei mi scrutò per un attimo, poi inclinò il capo di lato e replicò: «Tra i due non so chi sia il peggiore, credimi».

«Leah, sei cattiva!» intervenne Mayda, mentre Sako al suo fianco se la rideva senza ritegno.

Shavo incrociò le braccia al petto e io feci lo stesso; entrambi fissammo Leah in cagnesco, senza preoccuparci di metterla in soggezione.

Lei non si scompose e si strinse nelle spalle. «Dico solo ciò che penso. Povero Serj.»

Il cantante si ridestò dalla momentanea catarsi in cui era rovinato; sollevò lo sguardo su Leah e la fissò con perplessità. Stava per dire qualcosa, quando un baccano infernale si propagò per il corridoio e invase inevitabilmente la stanza principale del backstage in cui ci trovavamo.

Poco dopo fecero il loro ingresso nella stanza un gruppo di persone; l'amalgamarsi di esemplari completamente diversi tra loro mi fece sorridere.

Notai i ragazzi che io e Shavo avevamo conosciuto fuori dal centro commerciale qualche tempo prima, poi riconobbi il fratello del bassista e la sua compagna, alcuni musicisti che erano amici della nostra band da una vita e altra gente che ci seguiva abitualmente quando gironzolavamo in tour per gli States.

«Siete stati grandi!» strillò Tim Commerford, abbracciandoci a uno a uno. Il bassista degli Audioslave si guardò intorno, poi esclamò: «Dov'è quel pezzo di merda del vostro batterista? Brad, tu sei un incapace in confronto!». Diede di gomito al suo amico e collega.

«Se è per questo, anche Shavo è più bravo di te» lo punzecchiò Brad Wilk.

Tim C rifletté un attimo, poi scoppiò a ridere sguaiatamente ed esclamò: «Allora dobbiamo ritirarci entrambi dalle scene!».

«Per fortuna Morello supera di gran lunga Daron» intervenne la cognata di Shavo, strizzandomi l'occhio.

«Spiritosa» borbottai.

Notai che Leah, Steve, Jennifer e Nathan si erano raggruppati in disparte, come se improvvisamente fossero intimoriti dalla presenza di tante persone famose tutte nello stesso luogo.

Mi alzai dalla poltrona e Tim C ne approfittò subito per rubarmi il posto, sbadigliando rumorosamente.

Mi accostai a Leah e cominciai a tormentarla. «Amica, che succede? Te la stai facendo addosso solo perché ci sono dei VIP in circolazione? Oh, guarda! Conosci Chino Moreno? Te lo presento se vuoi!»

«Chiudi il becco, altrimenti comincerò a chiamarti pidocchio anch'io!» mi apostrofò irritata.

«Daron, ma quello è il fratello di Serj?» sibilò Nathan, dandomi di gomito.

Mi voltai e mi accorsi che anche Sevag aveva fatto il suo ingresso nel backstage. Annuii e sorrisi al biondino.

«Cazzo...» Steve si grattò la nuca.

Seguendo il suo sguardo notai che stava osservando con estrema ammirazione l'imponente figura di Tim C che stazionava sulla poltrona che avevo occupato io poco prima.

Feci spallucce e risi. «State tranquilli, il gigante buono non vi mangia» dissi.

Nella stanza c'era un casino infernale ed era difficile seguire le varie conversazioni che si stavano svolgendo; a un certo punto anche John e Bryah si unirono alla combriccola, così ci furono altri giri di saluti e strette di mano.

«È permesso?» Una voce squillante riuscì a sovrastare per un istante il vociare concitato dei presenti, poi una figura femminile fece il suo ingresso e si fermò di botto al centro della stanza.

Avvertii immediatamente il sangue abbandonare il mio viso e raggelarsi nelle vene. Mi immobilizzai sul posto e mi aggrappai al braccio di Leah.

La mia amica mi scrutò con aria preoccupata, poi spostò gli occhi sulla nuova arrivata e corrugò la fronte. «E quella chi è?» sussurrò.

«Layla» riuscii soltanto a mormorare.

Leah comprese all'istante la portata della mia rivelazione; mi si accostò e cercò di tranquillizzarmi: «Dai, non fare quella faccia. Volevi rivederla, me l'hai detto tu».

«Ma non pensavo che lei... non ero pronto a rivederla proprio oggi» balbettai.

La maggior parte dei presenti ignorò la ragazza, ma notai che John se n'era accorto. Si trovava dal lato opposto della stanza e stazionava accanto a Shavo. Mi lanciò un'occhiata colma di dispiacere, poi diede di gomito al bassista e scosse appena il capo.

La ragazza mi sorrise e si avvicinò subito a me. «Finalmente ti ho trovato!» esclamò. Ebbi l'impressione che volesse abbracciarmi, ma per fortuna si trattenne.

I suoi occhi si posarono su Leah e il suo sguardo si fece indagatore.

«Ehi, ragazzina! Non farti strane idee, non sono la sua fidanzata» esordì bruscamente la mia amica, rivolgendosi a lei in maniera sfrontata e senza porsi alcun tipo di limite.

Layla chinò il capo e mormorò delle scuse appena comprensibili.

«Layla, ciao» la salutai, fulminando la mia amica con una breve occhiata in tralice. «Come sei entrata?» le chiesi, nonostante la cosa non mi importasse più di tanto.

«Be'... possiamo parlare un attimo?»

Annuii appena, deciso a chiarire una volta per tutte la situazione con quella ragazza. Ci avevo riflettuto parecchio durante quei mesi, e ormai avevo capito che desideravo andare fino in fondo. Avrei potuto incontrare Dolly e pretendere delle spiegazioni, fare un test del DNA, fare qualsiasi cosa per capire se ero davvero il genitore di Layla.

La giovane sorrise appena, poi si incamminò verso l'esterno e io la seguii.

Prima di lasciare il backstage lanciai un'occhiata rassicurante a John e Shavo, certo che fossero in apprensione per me. Ma ora sapevo che loro non avrebbero potuto aiutarmi, dovevo affrontare da solo quel problema.



Passammo accanto ad alcuni roadie. Uno di loro, Garreth, mi intercettò e mi posò una mano sul braccio.

«Ho sbagliato a farla passare?» mi chiese con apprensione.

«No, ma la prossima volta vieni a chiamarmi prima di prendere qualsiasi decisione. D'accordo?» replicai in tono piatto.

«Certo, scusami.»

Mollai una pacca sul suo braccio muscoloso e gli regalai un debole sorriso. «Tranquillo, amico.»

Layla si fermò nei pressi dell'uscita che si riversava a lato del palco. Lo stadio si era ormai svuotato e si udiva soltanto uno strano silenzio.

«Dove vuoi andare?» le chiesi.

Lei mi guardò mortificata. «Daron, c'è una persona che vorrebbe vederti» ammise in un sussurro.

Avrei dovuto insultarla e arrabbiarmi, ma non reagii affatto così. Compresi immediatamente che era venuta in compagnia di sua madre, il che stranamente non mi turbò più di tanto. Mi sentivo insolitamente pronto ad affrontare quell'incontro, ci avevo riflettuto così tanto da divenire quasi impaziente all'idea che quel momento giungesse.

«Dolly?» chiesi, tanto per avere conferma dei miei sospetti.

Layla annuì con titubanza. «Non ti arrabbiare, ti prego!» mi supplicò.

Scossi il capo. «Andiamo» affermai.

A lato del gigantesco palco, una figura femminile sedeva sui gradini laterali. Eravamo ancora distanti da lei, così riuscii a scorgere soltanto la sua folta chioma bionda e riccia spiccare nella penombra.

Quando fummo a pochi metri da lei, tuttavia, scorsi perfettamente gli occhi scuri che tanto mi avevano fatto impazzire. La pelle chiara di Dolly era invecchiata e provata dalle esperienze che aveva fatto nel corso degli anni, ma rimaneva sempre luminosa e quasi del tutto priva di rughe. I capelli erano diversi, ma sapevo che aveva sempre amato sperimentare con le tinte. All'epoca in cui la frequentavo, la sua chioma era di un bellissimo castano scuro, proprio come quello di sua figlia. Probabilmente era quello il suo colore naturale.

Non appena si accorse di noi, la donna si mise in piedi e allora notai che indossava un paio di jeans e una maglia bianca con un'enorme stampa sul davanti. Ai piedi portava un paio di sandali dal tacco basso dello stesso colore. Era veramente bellissima, proprio come la ricordavo. Il mio cuore perse un battito e fui improvvisamente catapultato nel passato.

Se Layla non fosse stata con noi, avrei potuto credere di trovarmi ancora una volta nel passato, precisamente durante l'unica sera in cui io e Dolly riuscimmo ad avere un vero e proprio appuntamento.


«È una fortuna che Chuckie sia fuori città.»

«Dovrebbe dispiacerti.»

«Sai che voglio lasciarlo, non essere sciocco.»


«Dove vuoi andare?»

«Non lo so, Daron. Non importa.»

«Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?»

«Perché no? Con Chuck non ci sono mai stata.»


«Il tramonto è un momento sospeso tra fantasia e realtà, non credi?»

«Forse sì, Dolly, forse sì.»

«Continua ad abbracciarmi, ti prego.»


«Vorrei toglierti quella maglia bianca e fare l'amore con te qui e adesso.»

«Ah, Daron. Non è prudente.»

«Ed è proprio per questo che lo desidero.»


«Una serata meravigliosa come questa non la dimenticherò mai.»

«Neanche io, Dolly.»

«Ti amo, Daron.»

«Non dovresti.»


Tornai bruscamente alla realtà quando Dolly mi rivolse la parola. Il timbro della sua voce era cambiato, era più maturo e profondo rispetto a vent'anni prima.

«Ciao Daron, sei proprio tu?» esordì la donna, scrutandomi attentamente con i suoi occhi stretti.

«Dolly» mormorai.

Di slancio mi si gettò addosso e mi strinse in un forte abbraccio, premendo il suo corpo formoso contro il mio.

Fui invaso da altri ricordi, e non potei far altro che ricambiare quel gesto. La nostra relazione non si era conclusa con una brusca rottura, ma avevamo semplicemente deciso che fosse meglio troncarla. Lei aveva bisogno di soldi e non poteva lasciare Chuckie, e così scegliemmo semplicemente di non vederci più, nonostante fossimo palesemente presi l'uno dall'altra.

Neanche in quel momento potei affermare che fossi innamorato di Dolly all'epoca, ma sicuramente a lei mi aveva legato un forte sentimento senza nome. Quando ci eravamo separati avevo sofferto e per un po' non ero stato in grado di perdonarmi per averla lasciata andare. Mi ero detto che avrei potuto offrirle il mio aiuto per cercare un lavoro, ma la verità era che a quei tempi ero un vero egoista e la mia mente era quasi completamente concentrata sui miei progetti con la band.

«Siete così carini insieme» commentò Layla.

Nell'udire quelle parole, entrambi avvampammo e interrompemmo con imbarazzo l'abbraccio.

«Layla, tesoro, non essere sciocca» la rimproverò bonariamente Dolly.

«Perché non mi hai cercato prima?» chiesi alla donna che avevo di fronte, senza riuscire a distogliere gli occhi dai suoi.

«Io... non mi sembrava opportuno. Ho seguito con molto interesse la tua carriera, sai? Vedevo quanto stavi diventando famoso e temevo di incasinarti la vita. Daron, devi sapere che non ho mai smesso di amarti. Mai.»

Distolsi lo sguardo, improvvisamente preda di un profondo imbarazzo. Non trovavo molto adatto affrontare quel tipo di discorso di fronte a sua figlia. Lanciai un'occhiata alla ragazzina e notai che si era allontanata e armeggiava con il suo cellulare.

«Sul serio, Daron. Avrei voluto lasciarti in pace, ma poi Layla mi ha fatto un sacco di domande su di te e ha deciso che voleva conoscerti. Come potevo impedirglielo? Ho provato a dissuaderla, ma non ha funzionato. È molto testarda, proprio come te.»

Affondai le mani nelle tasche dei jeans e fissai le punte delle mie scarpe da ginnastica. «Sei certa che lei sia mia figlia?» chiesi in un sussurro.

«Lo so e basta. Io e Chuck non stavamo insieme da un bel po'» rispose.

«Chi mi assicura che tu non sia andata con qualcun altro?» aggiunsi in tono un po' troppo tagliente. Tuttavia non me ne pentii, non poteva pretendere che le credessi sulla parola e che prendessi tutto ciò che mi stava raccontando per oro colato. Non avevo le prove delle sue parole, perciò era lecito che avessi i miei dubbi.

«Hai una così bassa opinione di me» commentò Dolly. Era palesemente irritata dalla mia insinuazione, probabilmente l'avevo ferita, ma era giusto che le ponessi quelle domande. Dovevo sapere la verità.

Sollevai nuovamente il capo e la fronteggiai con strafottenza. «Magari vuoi approfittare di me e della mia fama. Come posso sapere che non è così? Hai deciso di troncare con me perché ti servivano soldi e ti faceva comodo stare con Chuckie. Io all'epoca ero un buono a nulla, un musicista senza né arte né parte. E adesso guarda dove sono arrivato.»

Dolly indietreggiò di un passo e scosse la testa. «Ma che cazzo dici?»

«Dico quello che penso. Insomma, è trascorsa una vita, io sono cambiato e anche tu. Come posso fidarmi ancora di te?» La afferrai per un braccio e la costrinsi a guardarmi in faccia. «Dolly, si può sapere cosa vuoi da me?»

Lei si divincolò dalla mia presa e frugò in borsa, per poi estrarre un pacchetto di sigarette. Ne prese una e la accese, poi si voltò in direzione di Layla e le mostrò il pacchetto. La ragazza era al telefono a diversi metri da noi; scosse il capo e rifiutò l'offerta di sua madre.

«Daron, voglio solo che mia figlia abbia un padre. Se lo merita. Puoi ignorare me, ma non lei. Per favore. Non voglio stravolgerti la vita, ma...»

«Lo hai già fatto. Lo avete già fatto» la interruppi.

«Lo so, ma è giusto che Layla abbia una figura maschile al suo fianco. Una figura di riferimento. Sai, io e Chuck ci siamo lasciati dopo neanche un anno. Dopo che te ne sei andato e sei sparito dalla mia vita, le cose non hanno fatto che peggiorare. E quando ho scoperto di essere incinta ho deciso di troncare la relazione con lui. Non volevo che interferisse, non era la persona giusta per Layla.»

Non risposi, non avevo proprio idea di cosa dire. Le sue parole erano molto belle e toccanti, ma io non avevo ancora alcuna prova del fatto che quella ragazzina fosse mia figlia.

«Così sono diventata anche io una delle tante, sai. Una ragazza madre come tutte le altre.»

«E non hai pensato di cercarmi? Di rendermi partecipe?»

Dolly mi sorrise con indulgenza. «Oh, andiamo. Eri totalmente assorbito dalla tua carriera come musicista, dai tuoi progetti musicali. Non potevo trascinarti in un casino come questo, non era il tuo momento di avere un figlio.»

Strinsi i pugni. «Questo lo dici tu! Mi avresti dovuto dare la possibilità di scegliere!» protestai.

«Quando si ha un figlio non si può scegliere, Daron. Se ti avessi coinvolto, saresti stato obbligato. Tu non sei una bestia, non avresti mai abbandonato Layla se avessi saputo di lei. Lo so, ti conosco.»

Sapevo che aveva ragione, ma non riuscivo ad accettare ciò che mi stava dicendo.

«Dolly, senti, non posso crederti senza avere delle prove. Facciamo così: proviamo a vedere se le cose stanno davvero così. Se sono suo padre, be', mi prenderò le mie responsabilità. Ma prima di avere la conferma, non chiedermi niente.»

«Io non ti chiedo niente, lo faccio per mia figlia» affermò la donna, per poi finire la sua sigaretta e gettarla a terra.

Allungai un piede e schiacciai la cicca con la suola della mia scarpa da ginnastica. «Certo, capisco.»

«Ma volevo solo che sapessi che ti amo ancora» aggiunse, e quelle parole mi raggiunsero come un fulmine a ciel sereno. Non mi aspettavo che le ripetesse in seguito alla discussione che avevamo appena avuto; mi ero convinto che in precedenza le avesse pronunciate per tentare di riconquistare la mia fiducia e la mia attenzione, ma forse stava dicendo sul serio.

Non aprii bocca, limitandomi a fissarla dritto negli occhi.

«Non importa se per te non è lo stesso, ma non riuscivo più a tenermelo dentro.»

Annuii e spostai lo sguardo su Layla. Lei si accorse che la scrutavo, così salutò rapidamente la persona con cui stava parlando al telefono e ci raggiunse.

«Siete arrivati a un accordo?» domandò, rivolgendomi un dolce sorriso.

«Faremo il test del DNA e poi si vedrà» risposi.

La ragazza allungò una mano e la posò timidamente sul mio braccio. «Grazie per aver deciso di farlo, Daron.»

Scrollai le spalle. «Ora devo andare, si è fatto tardi.»

Dolly annuì e Layla ritrasse la mano, prendendo ad arrotolare una ciocca di capelli scuri attorno alle dita.

«Okay.» La ragazza cercò il mio sguardo. «Andiamo insieme a fare il test?»

«Sì, va bene. La prossima settimana ho qualche giorno libero. Ti va bene mercoledì?»

Layla annuì. «Sì, mercoledì è perfetto.»

«Ci vediamo per pranzo in quel locale dove mi hai portato tempo fa?» proseguì Layla.

«Si può fare» accettai.

«Allora ci incontriamo laggiù per mezzogiorno» concluse lei.

Prima di tornare nel backstage, incrociai gli occhi scuri di Dolly e li trovai velati di lacrime. Aveva assistito alla conversazione tra me e sua figlia con profonda commozione, come se già immaginasse noi tre come una vera famiglia.

Salutai entrambe con un breve e poco intenso abbraccio, poi tornai dentro, superando con noncuranza i roadie che ancora chiacchieravano tra loro e tenevano d'occhio i dintorni.

Solo allora mi resi realmente conto di aver preso un impegno enorme con Layla, e che per la prima volta mi sentivo davvero pronto per affrontare la situazione e prendermi le mie responsabilità.

Quando rientrai nella stanza principale del backstage stavo sorridendo, e così i miei amici si rilassarono immediatamente, comprendendo che era davvero tutto a posto.

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Capitolo 57
*** Love, Music, Sea ***


ReggaeFamily

Love, Music, Sea

[Leah]




A risvegliarmi fu lo squillo insistente del cellulare di Shavo. Aveva nuovamente cambiato suoneria dall'ultima volta che ci eravamo visti; ora aveva impostato una canzone rap che non conoscevo, e questa martellava ritmata dalle casse del suo telefono.

Mi rigirai tra le lenzuola e mi coprii la testa con il cuscino, biascicando qualche imprecazione.

Il bassista ronfava beato e sembrava non essersi accorto di niente. Irritata, mi allungai verso di lui e gli mollai una gomitata sulle costole; lui si ridestò di soprassalto ed espirò bruscamente, spalancando gli occhi in preda al panico.

«Spegni quell'aggeggio infernale!» sibilai.

Lui si mise a sedere e si stropicciò gli occhi, ancora stralunato e inconsapevole di cosa stesse accadendo. Mi guardò allarmato, poi parve tornare alla realtà e si accorse che il suo cellulare aveva ripreso a trillare.

«Chi cazzo è?» sbottò, allungandosi sul comodino per afferrare l'iPhone. Diede un'occhiata al display e finalmente rispose, interrompendo quella tortura. Odiavo tremendamente la sua nuova suoneria.

«John? Sei impazzito? Che cazzo ti prende?» borbottò il bassista, per poi posare una mano davanti alla bocca e sbadigliare rumorosamente. Si grattò distrattamente la spalla destra, poi mi fissò perplesso. «Dice che vuole parlare con te» spiegò, per poi porgermi il telefono.

Senza cambiare posizione, mi portai l'oggetto all'orecchio ed esordì: «Buongiorno batterista».

«Leah, ciao. Ho provato a chiamarti» disse lui in tono divertito.

«Sai com'è, io a differenza di questo deficiente del tuo collega imposto il silenzioso durante la notte.» Mollai un pugno sul braccio di Shavo e lui sussultò.

«Ehi!» protestò, per poi scivolare accanto a me e prendermi tra le braccia. Cominciò a farmi il solletico su una natica e a baciarmi una spalla.

«Ah, Shavo! Smettila! Comunque, cosa volevi dirmi?» chiesi infine a John.

Lui ridacchiò. «Ho interrotto qualcosa, immagino» commentò.

«Macché.» Sbuffai e schiaffeggiai la mano del mio ragazzo che, proprio in quel momento, si stava insinuando con noncuranza tra le mie cosce. «Shavo Odadjian, continua così e sei un uomo morto!» strillai, per poi scostarmi da lui. Mi alzai di scatto dal letto e corsi a rifugiarmi in bagno. «John, ehi! Dimmi tutto, ora posso parlare con più tranquillità» sospirai infine, appoggiandomi con la schiena alla porta chiusa.

Il batterista rise. «Che dolci che siete, piccioncini. In ogni caso, volevo chiederti se hai già comprato il biglietto del treno per Las Vegas.»

Mi accostai allo specchio e guardai distrattamente il mio riflesso. «No, lo farò più tardi. Perché?» volli sapere.

«Devo andare nella tua città a dare un'occhiata a un locale. Ho un progetto in mente da un po'.»

Spalancai gli occhi. «Un progetto? A Las Vegas?»

«Sì, be'... un mio amico abita là e mi ha detto di aver trovato un'occasione imperdibile per la nostra idea. Preferirei rimanere a Los Angeles, ma voglio andare a controllare di cosa si tratta» spiegò John in tono calmo.

«Oh, okay. Vuoi riaccompagnarmi a casa?» chiesi, poi aggiunsi: «Mi dirai di cosa si tratta o è un segreto internazionale?».

«Te lo dirò, non preoccuparti. No, andrò in aereo, farò prima. Volevo chiederti se vuoi venire con me, così prenoto anche per te.»

«In aereo?» strillai. «Non ho abbastanza soldi per un volo, non scherzare!»

Lui sospirò. «Bene, ho capito. Prenoto anche per te.»

«No, John, ehi... ma che dici? Quando...»

«Devo essere al locale domani pomeriggio alle tre. Prenoto per domani mattina. In questo modo avrai un altro po' di tempo da trascorrere con Shavo» decise il batterista, poi mi salutò senza darmi il tempo di ribattere e mi sbatté il telefono in faccia.

Provai a richiamarlo diverse volte ma lui non rispose. Imprecando, mi diedi una sistemata e feci pipì, poi tornai in camera.

Shavo se ne stava sdraiato a letto con le braccia dietro la testa e le gambe intrecciate. Teneva gli occhi fissi sul soffitto e sembrava star riflettendo su qualcosa che non potevo immaginare. Mi fermai un attimo a osservarlo: il suo petto asciutto si alzava e abbassava al ritmo del suo respiro, il viso rilassato era così bello e dolce che mi venne voglia di riempirlo di baci; il pizzetto gli solleticava la pelle del torace, ma sembrava non infastidirlo. Le gambe magre e ricoperte da una leggera peluria se ne stavano abbandonate sul materasso, lasciando che la sua erezione svettasse senza pudore né vergogna.

Quello era davvero l'effetto che gli provocavo? E quel bassista famoso e meraviglioso era davvero il mio uomo?

Lui non si mosse, ma poco dopo sospirò. «Perché mi fissi, Leah? Prima mi ripudi e poi mi desideri. Così non si fa» scherzò lui, per poi ridacchiare sommessamente.

«Quando fai il deficiente, come posso non ripudiarti? Stavo parlando con John e tu hai fatto il maiale» lo rimproverai, distogliendo gli occhi dalla sua nudità. Mi avvicinai alla finestra e scostai appena le tende blu per permettere a un po' di luce di penetrare nella stanza. Il cielo era uggioso e minaccioso, non era proprio la giornata giusta per fare una passeggiata, eppure io volevo andare a Santa Monica e godermi un bel giretto sul lungomare.

«Sei permalosa. Vieni qui, dai» mormorò Shavo.

«Dobbiamo uscire, ricordi?» sbottai, voltandomi nella sua direzione. Anche io ero completamente nuda, così in quel momento sentii lo sguardo bruciante del bassista percorrere il mio corpo nella sua interezza e avvertii un leggero imbarazzo. «Quando mi guardi così, mi fai paura» bofonchiai, cercando di nascondere una nota divertita.

«Usciamo più tardi.»

«Devo prepararmi per ripartire, Shavarsh» ribattei.

«Tanto non devi partire oggi. Vieni qui» mi ordinò in tono deciso, allungando una mano verso di me per invitarmi a raggiungerlo.

«Che palla al piede che sei, e va bene!» Mi accostai al letto e gli porsi il suo cellulare, poi mi bloccai e lo scrutai in viso. «Un attimo. Tu come fai a sapere che non ripartirò oggi?»

Shavo appoggiò nuovamente il suo telefono sul comodino e allungò un braccio. Mi afferrò fulmineo per un polso e mi trascinò sopra di sé, per poi intrappolarmi in un forte abbraccio. I nostri visi si trovarono a pochi centimetri l'uno dall'altro e io avvertii l'improvviso impulso di baciarlo fino a togliergli il fiato.

«Adesso baciami e smettila di fare domande, Leah Moonshift. Sei sempre troppo curiosa» soffiò sulle mie labbra, per poi lasciarmi un breve bacio. Si scostò immediatamente e rise ancora.

Feci leva sul suo petto per potermi allontanare, ma lui non me lo permise e prese ad accarezzarmi con ardore la schiena. Sospirai e mi arresi al desiderio che mi stava letteralmente mangiando viva.


«Ti ho detto che voglio andare a Santa Monica!»

«E io voglio stare qui a coccolarti.»

«Shavarsh, ti ho mai detto che sei una piaga?»

«Più o meno cinque minuti fa. O forse meno.»

Sospirai mentre Shavo mi accarezzava il collo e mi lasciava piccoli baci tra i capelli, tenendomi stretta a sé. Era incredibile come la sua presenza riuscisse a ubriacarmi completamente e a stregarmi irrimediabilmente.

Non avrei mai immaginato di potermi innamorare così tanto di qualcuno, non dopo le disastrose esperienze che avevo vissuto, non dopo aver perso completamente la fiducia nel genere maschile dopo aver vissuto con un essere spregevole e insopportabile come Alan Moonshift.

«Voglio andare a Santa Monica. Non crederai davvero che rimarremo tutto il giorno a letto? Scordatelo» ripetei con fermezza.

Shavo se ne stava con gli occhi chiusi. Mi sollevai sui gomiti e lo baciai sulle palpebre, poi sulla fronte e infine riuscii ad alzarmi dal letto.

«Allora possiamo fare la doccia insieme?» piagnucolò Shavo, stiracchiandosi languidamente sul letto.

«Datti una mossa» bofonchiai, entrando in bagno e aprendo l'acqua della doccia per farla riscaldare.

Shavo mi raggiunse quando ero già entrata da circa un minuto. Insistette per lavarmi con cura, per strofinarmi i capelli con delicatezza e riempire tutto il mio corpo di schiuma. Feci lo stesso con lui, e infine ridemmo come due scemi e trascorremmo almeno venti minuti sotto il getto tiepido e rigenerante della doccia.

Ci vestimmo e preparammo in fretta, poi in tarda mattinata uscimmo di casa e salimmo a bordo della sua auto.

«Santa Monica, stiamo arrivando!» strillai, per poi accendere la radio e cercare qualcosa da ascoltare durante il tragitto.

Ero felice. Durante quei giorni avevo vissuto delle emozioni incredibili che ancora mi sembravano un miraggio; avevo assistito per la prima volta a un concerto dei System e avevo dovuto trattenere le lacrime nell'osservare Shavo che suonava su quel palco. Avevo ammirato con incredulità le prodezze di John con la sua batteria, mi ero accorta di quanto Serj fosse dannatamente bravo a cantare e avevo riso con Bryah e Mayda delle cretinate che Daron combinava mentre suonava la sua chitarra.

Poi avevo festeggiato con i ragazzi e i loro amici, avevo conosciuto un sacco di musicisti che per me erano sempre stati astratti e quasi irreali, mi ero scatenata insieme alla mia nuova famiglia che cresceva sempre più e si faceva via via più bella a calorosa nei miei confronti.

Shavo sospirò, fingendosi esasperato dal mio entusiasmo. «Nel portaoggetti c'è una pennina USB con un sacco di musica» mi informò, immettendosi nell'intenso traffico losangelino.

Frugai nel vano ed estrassi l'oggetto, poi lo collegai all'autoradio e attesi che la prima canzone cominciasse.

Nell'abitacolo esplose un brano metal che non mi parve di riconoscere e io sobbalzai; mi allungai per abbassare un po' il volume e subito vidi Shavo che muoveva la testa a tempo con il ritmo incalzante e confuso della batteria.

«Che roba è?» gli chiesi.

«Sono i Device. Non riconosci la voce?»

Aggrottai la fronte e rimasi in ascolto. In effetti il cantante del gruppo aveva un timbro familiare, ma in quel momento mi sentii immensamente stupida perché non fui in grado di associarlo a qualcuno che conoscevo. «Mi dice qualcosa, ma ora ho un vuoto» ammisi.

Shavo ridacchiò e prese a canticchiare il ritornello con tanto di scream nei punti giusti; mi venne da ridere e non mi trattenni.

«Mi vuoi dire o no chi sta cantando?» sbottai tra le risate. Poi aggiunsi: «Scommetto che la canzone si intitola Vilify».

«Che perspicace! Lo dice mille volte. Comunque, si tratta di David Draiman, il cantante dei Disturbed. È un fottuto genio!» dichiarò il mio ragazzo, per poi riprendere a fare quella sorta di rap melodico che mi vergognai di non aver riconosciuto.

«Oddio, Draiman!» strillai. «Adoro quell'uomo!»

Nel frattempo partì una canzone strumentale che mischiava metal e folk medioevale; mi allungai per cambiarla, avevo voglia di scoprire cos'altro mi riservava la raccolta musicale di Shavo.

Partì You really got me dei Kinks e io sorrisi, annuendo soddisfatta.

Shavo mi lanciò un'occhiata. «Sono geloso» bofonchiò.

«Solo perché ho detto che amo Draiman? Ah, Shavarsh, ma i miei sentimenti per lui sono prettamente artistici e non hanno niente a che vedere con il lato carnale della questione.» Riflettei per un attimo, poi aggiunsi: «Anche se certe volte con quella sua voce mi fa un effetto particolare, sai com'è». Lo stavo deliberatamente prendendo in giro e lui se ne rese conto.

«Ma sentila! Vorrei proprio vedere se avresti il coraggio di essere così sfacciata se te lo ritrovassi di fronte» mi canzonò in tono divertito.

Sospirai. «No, hai ragione. E ora che sto con te, so che potrei conoscere musicisti in ogni occasione, quindi è meglio se sto attenta a quello che dico.»

«Donna saggia!» esclamò il bassista, mentre in sottofondo si udiva un brano dei Cypress Hill.

«Questi non mancano mai, eh?» commentai.

«Sono miei amici, sai?»

Alzai gli occhi al cielo. «Che strano, non me l'aspettavo» dissi ironica.

Continuammo a scherzare, cantare e ridere per tutto il tempo, finché non giungemmo finalmente in un parcheggio nei pressi del lungomare e potemmo finalmente uscire all'aria aperta.

Ci avviammo a piedi verso la nostra meta e io continuai a prenderlo in giro per la musica che aveva in quella dannata pennina.

«Hai certe schifezze... com'è che si chiamano quei tizi che hai conosciuto al Download Festival?»

Lui mi lanciò un'occhiataccia. «I The Killers? Non sono una schifezza!» si rivoltò con indignazione.

«Oh sì che lo sono. Giusto, loro. Non li ho mai sopportati. Il loro cantante è una lagna.»

«Leah, non offendere Brandon!» proseguì a contraddirmi, mentre ci infilavamo nella zona pedonale e venivamo circondati da un mare di folla bagnata dal caldo sole del primo pomeriggio. «Andiamo a mangiare qualcosa, piuttosto» bofonchiò.

«Concordo! Hai qualcosa dei Korpiklaani invece?»

Shavo sgranò gli occhi e scosse il capo. «Chi?»

Risi e gli presi la mano. «Non posso credere che non li conosci. Sei un ignorante!» sbottai.

«Mai sentiti» ammise con espressione confusa.

«Sono finlandesi e fanno folk metal» spiegai, orgogliosa di potergli far conoscere qualcosa di nuovo. Amavo quella band, mi divertiva un sacco la loro musica e adoravo ascoltarla e ballarla quando mi andava di scatenarmi senza pensieri.

«Allora devo sentirli per forza!» affermò tutto contento.

Continuammo a camminare e ci godemmo il sole e la brezza salmastra che ci accarezzava la pelle. Era bellissima l'atmosfera che si respirava, era rigenerante scorgere la diversità tra le persone che ci circondavano ed era incredibile che nessuno dei passanti avesse riconosciuto Shavo.

Mentre ci accostavamo a un locale che lui amava e in cui voleva portarmi a pranzo, però, dovetti ricredermi e pensai di aver attirato io la sfortuna.

«Oddio, Shavo!» sentii strillare alla mia destra. Mi venne voglia di darmela a gambe levate e feci per trascinare via il mio ragazzo, ma mi accorsi subito che lui stava opponendo resistenza. Sospirai e lasciai andare la sua mano, arrendendomi al fatto che lui non riusciva proprio a essere scortese e maleducato con i suoi sostenitori.

Una ragazza bionda e sovrappeso si accostò a noi e sorrise estasiata in direzione del bassista. Doveva essere alta sì e no un metro e sessanta, perciò fu costretta a sollevare completamente il capo per poterlo guardare in viso. Tra le mani stringeva uno smartphone e un taccuino con tanto di penna incastrata tra le pagine.

«Ciao» la salutò dolcemente Shavo, tendendole la mano. «Piacere di conoscerti. Come ti chiami?» volle sapere.

Lo invidiavo tantissimo per la sua infinita pazienza e per la gentilezza che riusciva a riservare alle persone che spesso lo riconoscevano e gli chiedevano foto e autografi, anche in punti del corpo parecchio inopportuni. Io sarei esplosa dopo solo un minuto e avrei mandato tutti al diavolo. Somigliavo molto più a Daron da quel punto di vista; me ne resi conto ancora una volta e sorrisi.

«Mi chiamo Mary Jane. Ti disturbo solo un attimo, vorrei fare una foto con te. Se puoi, vorrei anche un tuo autografo sul mio quaderno di poesie» spiegò la ragazza, senza riuscire minimamente a nascondere la sua eccitazione nel trovarsi di fronte al suo idolo. Poi si rese conto della mia presenza e mi lanciò un sorriso caloroso. «Lei è la tua fidanzata?» domandò poi.

«Nessun problema, facciamo tutto. A quanto pare sì, Mary Jane, non mi ha ancora lasciato» scherzò il bassista, sfilandole gentilmente il taccuino dalle mani. «Dove posso firmare?» le chiese.

Lei rise per la sua battuta e io mi accostai leggermente a loro, senza però intromettermi né aprir bocca.

«Sulla prima pagina, per favore» rispose la ragazza.

Shavo lasciò il suo autografo, poi le restituì carta e penna e si voltò a guardarmi. «Puoi scattare tu la foto?»

Annuii e Mary Jane mi consegnò il suo cellulare. I due si misero in posa e io feci qualche scatto, mentre il mio stomaco brontolava per la fame. Quella ragazza era gentile e non ci stava importunando più di tanto, ma io non avevo più voglia di starle appresso. Volevo mandar giù qualcosa e godermi il tempo che mi rimaneva da trascorrere con il mio ragazzo.

«Ecco fatto» dichiarai, per poi restituire lo smartphone alla sua proprietaria.

«Grazie mille, davvero» disse lei tutta contenta, poi si accostò a Shavo e chiese: «Posso avere un abbraccio?».

Lui sorrise e non cambiò atteggiamento, ma nei suoi occhi scorsi qualcosa di simile all'irritazione, la stessa che stava invadendo anche me. Non vedevo l'ora che quella tizia ci lasciasse in pace.

Lui le diede una rapida stretta, poi le scompigliò i capelli e la salutò con gentilezza. Tornò da me e mi prese per mano, per poi incamminarsi nuovamente verso il locale in cui avremo pranzato.

«Mi stava dando sui nervi» sibilai a denti stretti, guardandomi attorno per assicurarmi che la ragazza non fosse più nei paraggi.

«Non essere gelosa, Leah» mi canzonò lui, chinandosi per baciarmi sulla guancia.

«Non sono gelosa, è che stava esagerando» puntualizzai.

«Sei gelosa» mi contraddisse.

Sospirai. «È così strano?» gli chiesi in tono irritato.

«No, affatto. Adoro sapere che sei gelosa» affermò, per poi stringersi nelle spalle e ridacchiare.

«Spiritoso. Dai, portami a mangiare, sto per svenire» conclusi, spingendolo verso la porta d'ingresso del locale.

Solo allora mi accorsi che si trattava di un ristorante messicano.

«Non amo il cibo piccante, lo sai» borbottai sulla soglia.

«Ci sono un sacco di cose che potrai mangiare. Non tutto è piccante, tranquilla» mi rassicurò il bassista, per poi farmi strada verso il portico esterno alla struttura, il quale si affacciava direttamente sulla spiaggia.

Quella postazione mi ricordò il viaggio in Giamaica e tutte le volte che avevamo mangiato in qualche chiosco sulla spiaggia o quando avevamo fatto colazione o bevuto qualcosa sulla terrazza panoramica dello Skye Sun Hotel.

Cercai lo sguardo di Shavo e mi resi conto che anche a lui erano riaffiorati gli stessi ricordi. Ci fissammo per un po' e rivivemmo insieme, in silenzio, i momenti che ci avevano unito e fatto avvicinare sull'isola caraibica.

«Torneremo in Giamaica insieme?» chiese lui all'improvviso.

Proprio in quel momento giunse accanto a noi un cameriere e io non potei replicare, ma dentro di me sapevo già qual era la risposta che avrei voluto dargli.

Con lui sarei andata anche in capo al mondo.

La cosa mi spaventava un po', eppure mi faceva sentire allo stesso tempo sicura e protetta.

Pranzammo con calma, rimpinzandoci fin quasi a scoppiare, poi decidemmo di andare a sederci in riva al mare e trascorrere un po' di tempo a chiacchierare e rilassarci.

Faceva molto caldo e probabilmente ci saremmo scottati il viso e le braccia, ma in quel momento stavamo talmente bene che non volevamo pensare a qualcosa di negativo che potesse rovinare quell'atmosfera.

Nel frattempo il cielo si era coperto nuovamente e io lo fissai contrariata. «Mi ero quasi dimenticata che stamattina era nuovoloso. Che giornata strana» commentai, mentre me ne stavo inginocchiata dietro a Shavo e gli massaggiavo distrattamente la schiena.

Lui sospirò. «Già» mormorò.

All'improvviso il suo cellulare prese a squillare, sempre con la stessa canzone rap martellante che odiavo terribilmente.

«Shavarsh, cambia suoneria, te ne prego! Odio questa roba» mi lamentai, spazzolando via un po' di sabbia che si era attaccata ai miei jeans.

Lui borbottò qualcosa a proposito del fatto che quella canzone fosse di alcuni suoi amici, poi rispose alla chiamata. «Sì? Ciao, fratello!» esordì con entusiasmo.

Appoggiai il mento sulla sua spalla e accostai l'orecchio al suo per cercare di capire con chi stesse parlando. Non mi parve di riconoscere la voce maschile che udivo a stento, non si trattava sicuramente di qualcuno dei System o del loro staff.

«Sono a Santa Monica con la mia donna, tu?» proseguì Shavo, e io dovetti trattenere una risata per il tono da gangster che aveva assunto. «Dai! Ci raggiungete?»

Scivolai al suo fianco e mi misi a sedere, per poi scoppiare a ridere sommessamente. Nascosi il viso nelle ginocchia e fui incapace di controllare la mia reazione. Era troppo buffo.

«Chiamami quando arrivate. Ciao fratello, a dopo» concluse il bassista, per poi riagganciare. Mi posò una mano sulla spalla e mi scosse. «Che cazzo ridi?»

«Sei un gangster mancato. Tu non sei un bassista metal, mi dispiace» lo canzonai in tono divertito, senza più trattenere le risate.

«Ma piantala! Senti, alcuni amici ci raggiungono tra un po'. Ti piaceranno» annunciò, per poi attirarmi a sé e stringermi al suo fianco.

Appoggiai la testa sulla sua spalla e chiesi: «Come si chiamano?».

«Louis, Justin e Lord» rispose.

Aggrottai la fronte. «Sono anche loro dei musicisti famosi?» volli sapere, non sapendo più cosa aspettarmi dall'immensa collezione di conoscenze che Shavo portava fuori con la sua solita noncuranza.

«No» rispose.

Non gli credetti, nel suo tono di voce c'era qualcosa che non mi convinceva, un che di ironico che mi faceva intuire che non me la stesse raccontando giusta.

«Okay, sono curiosa di conoscerli allora» conclusi.

Decisi di fingere di esserci cascata, anche se dentro stavo cominciando ad agitarmi. Non feci altro che chiedermi quali artisti famosi si nascondessero dietro quei tre nomi, ma non riuscii assolutamente ad associarli a qualcuno che conoscevo.

Mi arresi e decisi semplicemente di aspettare e godermi la sorpresa.

Poco dopo cominciò a diluviare.




Cari lettori, oggi devo assolutamente lasciarvi delle note a fine capitolo ^^

Ho nominato così tante canzoni e band, che è giusto che voi abbiate ben chiaro di chi ho voluto parlare!

Cominciamo da Vilify dei Device; questo è un progetto del magnifico cantante dei Disturbed, David Draiman appunto. Qui di seguito vi lascio il link della canzone in questione:

https://www.youtube.com/watch?v=-K1q1pw04Bs

Sapevate che sempre i Device hanno fatto un brano in collaborazione con Serj? Vi linko anche questo, si intitola Out Of Line:

https://www.youtube.com/watch?v=2CGf35mVJWs

Potete immaginare la mia sorpresa e la mia immensa gioia quando ho scoperto che questi due miti hanno fatto una canzone insieme *-* (come quando ho scoperto che Serj ha fatto un featuring con Mike Patton dei Faith No More, stavo sbavando, credetemi ♥)!

Ma andiamo avanti... anche se potrei continuare a parlare delle collaborazioni di Serj con gente che amo per almeno un'altra ora XD

Poi ho nominato You Really Got Me dei Kinks, un brano piuttosto datato ma fantastico, ecco a voi:

https://www.youtube.com/watch?v=fTTsY-oz6Go

Che ne pensate? Ci tengo a sapere i vostri pareri sulle canzoni che scelgo per questi capitoli per capire se secondo voi ci stanno bene, ma anche per conoscervi un po' meglio e sapere quali sono i vostri gusti musicali ;)

Vi linko anche una canzone random dei Korpiklaani, una delle mie preferite che si chiama Vodka; fanno una musica meravigliosa questi adorabili ubriaconi finlandesi, io ve li consiglio caldamente:

https://www.youtube.com/watch?v=e7kJRGPgvRQ

Come ultima cosa volevo confessarvi che mentre scrivevo la scena della macchina e quindi portavo fuori questa conversazione tra Shavo e Leah riguardanti la musica che lui ha sulla pennina, stavo lasciando scorrere la mia musica sul pc e quindi ho pescato da lì i brani da inserire :D

Spero sia tutto di vostro gradimento, e mi raccomando fatemi sapere che ne pensate e se avete idea di chi possono essere gli amici di Shavo che arriveranno a breve... X'D

Grazie di cuore per tutto e alla prossima ♥

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Capitolo 58
*** #homies ***


ReggaeFamily

#homies

[Shavo]




Rifugiati nuovamente sul portico del ristorante messicano, aspettavamo che i miei amici ci raggiungessero.

Avevo mentito a Leah sulla vera identità dei ragazzi, ma era troppo divertente immaginare la faccia che avrebbe fatto quando avrebbe riconosciuto con chi avremmo trascorso il pomeriggio.

Intanto all'esterno imperversava un terribile temporale e Leah pareva preoccupata dalle condizioni meteorologiche. Mi lanciò un'occhiata in tralice e sorseggiò il suo caffè.

«Che c'è?» le chiesi, allungandomi sul tavolino per stringerle affettuosamente un braccio.

«Domani io e John dobbiamo prendere l'aereo. Spero che questo tempaccio si dia una calmata» borbottò, per poi fare una smorfia in direzione della tazza che stringeva in mano. «Questa roba fa schifo. Rimpiango il Blue Mountain che preparava Al.» Sospirò e mi sorrise.

«A proposito di Alwan, l'hai sentito di recente?» domandai con curiosità. Quel ragazzo era davvero simpatico, ed ero rimasto molto sorpreso quando mi ero reso conto di essere uno dei suoi bassisti preferiti. Aveva dato di matto quando se n'era reso conto, e io mi ero divertito a prenderlo un po' in giro.

«Oh sì, la settimana scorsa mi pare. Mi ha chiamato per sapere come vanno le cose. Mi ha detto che tra lui e Day va tutto alla grande, anche se devono ancora mantenere segreta la loro relazione» raccontò Leah con entusiasmo, spostando la tazza di lato e rifiutandosi di bere ancora.

«Mi dispiace. È un'ingiustizia» commentai, grattandomi distrattamente alla base del collo. Il mio cellulare squillò, così risposi subito per evitare che Leah si lamentasse ancora una volta della mia suoneria. «Compare!» esclamai, dopo essermi portato l'iPhone all'orecchio.

«Ehi! Abbiamo appena parcheggiato. Cazzo, che tempo di merda! Dove siete?» esordì Louis in tono contrariato.

In sottofondo udii le risate di Lord e Justin e sorrisi a mia volta. «Sì, hai visto? Io e Leah ci siamo rifiutati al Dear Mexico, sul lungomare. Ce la fate ad arrivare senza bagnarvi come pulcini?» scherzai.

«Coglione! Justin ha portato l'ombrello. È proprio una femminuccia» sghignazzò Louis.

«Pezzo di merda! Ciò significa che tu non ci vieni sotto il mio fottuto parapioggia» sentii strillare Justin, mentre Lord se la rideva divertito.

«Ragazzi, noi siamo qui, datevi una mossa» conclusi.

«Al Dear Mexico?» ripeté Louis.

«Sì» confermai. «A tra poco, ciao» aggiunsi, poi conclusi la chiamata e appoggiai il cellulare sul tavolo.

«E dicevo» proseguì Leah. «Sai, Al mi ha raccontato che Lakyta sta cercando in tutti i modi di partire per venire a Los Angeles. Dice che è stanca di fare la cameriera.»

«Quella ragazza è un disastro» dissi, incrociando le mani sul tavolo. «Credo che non cambierà mai.»

«Già, hai capito. E continua a provarci con lui» raccontò ancora la mia ragazza, rivolgendomi un sorriso ammiccante.

«Lakyta ci prova anche con i pali» dichiarai, mentre mi tornava in mente la spiacevole esperienza che io stesso avevo avuto con lei.

«Sì, e pensa che esce con Cornia!» esclamò, per poi bloccarsi all'improvviso e fissare qualcosa alle mie spalle. Il suo viso impallidì di botto e i suoi occhi si sgranarono.

«Leah, cosa...» cominciai a dire.

«È appena entrato il bassista dei Tool» rantolò, portandosi una mano al petto. «Insieme ad altri due tizi con l'aspetto da rapper. Si dirigono verso di noi.»

Le sorrisi apertamente. «Ah sì?»

Lei comprese all'improvviso come stavano le cose e imprecò tra i denti. «Lo sapevo! Questa me la paghi!» sibilò.

Risi e mi alzai, per poi voltarmi e trovarmi faccia a faccia con i miei amici.

«Cazzo, quanto tempo è passato dall'ultima volta che ci siamo visti?» strillò Louis, saltandomi letteralmente addosso e stritolandomi in un abbraccio fraterno e avvolgente.

Ricambiai la stretta e risi rumorosamente, battendogli forte sulla schiena. «Ehi, B-Real, come stai vecchio mio?» lo apostrofai, rendendomi conto che era bagnato fradicio.

«Insomma... quel coglione mi ha lasciato sotto la pioggia» si lamentò, rivolgendo il dito medio in direzione di Justin.

Quest'ultimo fece spallucce e scosse il capo, facendo sì che i suoi lunghi capelli castani oscillassero. «Cazzi tuoi, Lou» proferì noncurante.

«Te la sei cercata» intervenne Lord, per poi accostarsi a me e regalarmi una forte stretta di mano. «Ehi Shavo, tutto bene?»

«Certo, tutto a posto» risposi. «E a te come vanno le cose?» volli sapere.

«Alla grande! Sto facendo qualcosa in studio, uno di questi giorni passa a trovarmi e ti faccio sentire!» esclamò con entusiasmo.

«Senz'altro, sono curioso» accettai di buon grado.

Poi sorrisi ai ragazzi e li invitai ad avvicinarsi al tavolino, al quale Leah era rimasta seduta a fissare la scena con aria incredula e profondamente perplessa.

«È lei la donna incriminata?» domandò Lord, posando i suoi occhi scuri su Leah.

«Già» dissi.

«Ma è una bimba!» sghignazzò Louis, facendo alcuni passi avanti.

«Lou, piantala» lo ammonì Justin, mollandogli una gomitata sulle costole. Poi avanzò verso Leah e lei si mise in piedi, ancora sconvolta da ciò che stava succedendo. «Ciao, piacere. Io sono Justin Chancellor» le si rivolse, tendendole la mano con fare amichevole.

«Oh sì, so chi sei» mormorò lei, avvampando violentemente. «Dannazione» aggiunse, senza riuscire a trattenere un sospiro. Poi cercò il mio sguardo e mi pregò di raggiungerla.

Ridacchiai e le andai accanto, circondandole le spalle con un braccio. «Tutto bene?» le chiesi in tono divertito.

«Sei uno stronzo, potevi avvisarmi» borbottò.

«Dovete sapere che non ho detto a Leah che sareste venuti. E a quanto pare è rimasta sconvolta» scherzai in direzione dei ragazzi.

«Che bastardo!» mi accusò Justin, per poi sorridere alla mia ragazza con fare accattivante. «Bambina, come hai fatto a innamorarti di questo rospo?»

«Non lo so neanche io, credimi» commentò lei, divincolandosi dalla mia stretta.

«Ehi, quanti anni hai?» fece Louis, dopo essersi seduto comodamente al tavolino.

«Non si chiedono certe cose a una donna, Freese» gli fece notare Lord, battendogli sulla spalla.

«Non mi offendo. Ne ho quasi venticinque» rispose lei senza scomporsi.

«Allora ho ragione! Sei una bimba, e lui è un nonno in confronto a te. Mi dispiace, dolcezza» dichiarò Louis, facendo spallucce e cercando un cameriere con lo sguardo.

«Non è così male stare con una persona anziana, sai?» stette al gioco Leah, accomodandosi accanto a lui. Mi resi immediatamente conto che l'aveva preso in simpatia e sospirai.

«Ora comincerete a prendervela con me» bofonchiai, per poi sedermi nuovamente al mio posto.

Justin si accomodò alla destra di Leah e Lord accostò una sedia alla mia sinistra, rubandola da un tavolo vuoto poco distante.

«Io però ti ho già visto da qualche parte» sentii dire alla mia ragazza, mentre scrutava con la fronte aggrottata il volto di Louis, ombreggiato appena da uno dei suoi soliti cappellini con la visiera piatta.

«Ah sì?» fece lui in tono divertito. «Giochiamo a Indovina Chi» propose poi, lanciandomi una rapida occhiata complice.

«Falla breve! Perché non me lo dici e basta?» sbottò lei.

«Oggi mi sono divertito anch'io a farle un indovinello» intervenni, per poi raccontare a tutti la faccia che Leah aveva fatto quando aveva scoperto che il leader dei Device era il suo amato David Draiman.

«Be', capisco come ti sei sentita, bambina» commentò Justin. «Quell'uomo canta da dio, niente da dire» affermò.

«Ragazzi, io ho pianto quando l'ho sentito cantare dal vivo The Sound Of Silence» ammise Louis senza affatto vergognarsi. «È pazzesco, ed è una persona d'oro.»

«Appunto. Invece tu sei una persona orribile perché non mi dici chi sei!» gracchiò Leah, sventolando una mano di fronte alla faccia del mio amico.

«Prova a indovinare» disse lui imperterrito, poi finalmente riuscì a intercettare un cameriere.

Tutti ordinammo qualcosa da bere e Justin decise di prendere un gelato.

«La solita femminuccia» scherzò Louis, sorridendogli con un'espressione da pescecane dipinta sul viso rotondetto. Se ne stava stravaccato sulla sedia e parlava a un volume di voce fin troppo alto, ma io ormai ero abituato a quel suo atteggiamento e mi divertivo a vederlo battibeccare con il bassista dei Tool.

I due si punzecchiavano continuamente, anche e soprattutto perché erano molto diversi tra loro; Louis era un rapper fino al midollo e il suo non era soltanto un atteggiamento, bensì uno stile di vita. Era espansivo e giocherellone, amava scherzare ma non riservava mai a nessuno un po' di dolcezza. Era un duro, ma chi lo conosceva bene sapeva che per i suoi amici sarebbe stato disposto a sacrificare la sua stessa vita. A dispetto del suo solito modo di fare, era una persona sensibile e non sopportava assolutamente le ingiustizie.

Justin, invece, era un po' più riservato rispetto a lui; tentava di risultare duro e sfacciato quando si trovava in presenza di qualche nuova conoscenza, ma in realtà finiva sempre per rivelare il suo vero essere: un ragazzo semplice e gentile, ma non per questo serio o poco divertente. Non si lasciava sfuggire l'occasione per fare battute e animare la festa, ma riusciva sempre a capire quando era il momento di tornare serio e di tenere la bocca chiusa per non ferire chi gli stava intorno.

Quando i due si trovavano insieme, però, erano un'accoppiata esplosiva: non facevano che punzecchiarsi e battibeccare, e in particolare Louis faceva leva su certi atteggiamenti di Justin che riteneva infantili e tipici di una ragazza.

Lord in genere cercava sempre di mettere pace tra i due, mentre io mi limitavo a ridermela e godermi le scenette divertenti che Louis e Justin mi regalavano. Trascorrere del tempo con loro era una delizia, mi piaceva molto e riusciva ad alleggerire anche le giornate o i periodi più difficili.

Justin si strinse nelle spalle e mandò al diavolo il suo interlocutore, minacciandolo che avrebbe svelato immediatamente a Leah la sua identità.

«Non provarci, Chancey» gli intimò il rapper, sollevando un pugno nella sua direzione.

«Io vado a guardare i gusti dei gelati, mi sono rotto» dichiarò il bassista, per poi alzarsi.

«Sai che c'è? Mi hai fatto venire voglia di prenderne uno anche io» disse Leah, per poi seguirlo a ruota.

I due si allontanarono e io rimasi da solo con Louis e Lord.

«Fratello, quella ragazza è tosta» commentò il dj dei Public Enemy, regalandomi un sorriso compiaciuto. «Mi hai detto che l'hai conosciuta in Giamaica, non è vero?»

«Sì, hai capito bene. Lei è di Las Vegas, studia a Paradise» spiegai al mio amico, mentre notavo che Louis armeggiava con il suo cellulare. Prese ad ascoltare e inviare messaggi vocali su WhatsApp e ci ignorò completamente, estraniandosi momentaneamente dalla conversazione.

«È molto più giovane di te» commentò ancora Lord con cautela.

Annuii. «Lo so. E so dove vuoi arrivare, ma non devi preoccuparti» lo rassicurai, intuendo che fosse in pensiero per la sostanziale differenza d'età che c'era tra me e Leah.

«Ti trovi bene con lei, questo è palese. Ma vedi, amico mio, a lungo andare questo potrebbe rivelarsi un problema. Adesso è ancora presto per rendersene conto, ma ecco...» Il dj si interruppe in cerca delle parole giuste da utilizzare.

Stavo per dire qualcosa, quando improvvisamente Louis intervenne: «Insomma, vuole dirti che siete di due generazioni molto diverse e che lei potrebbe essere tua figlia».

«Freese, cazzo!» imprecò l'altro, rivolgendogli un'occhiataccia.

«Aswod, non preoccuparti» dissi, fissando Louis negli occhi. Ci guardammo in silenzio per un po', poi sospirai e mi sporsi in avanti nella sua direzione. «Lou, ascolta. Ho capito cosa intendi, ma con Leah le cose non stanno così. È una ragazza matura, forse molto più di me. Lei sa capirmi, sa ascoltarmi e ha bisogno di me.» Mi guardai intorno e sospirai ancora. «Sono innamorato di lei e voglio vivere nel presente. Ragazzi, ehi, non ho voglia di pensare a cosa succederà in futuro. Non so se costruirò una famiglia con lei, non so se sarà per sempre. So solo che voglio stare con lei e che la amo» conclusi.

Louis e Lord mi fissarono con aria sorpresa, ma nessuno dei due rise né sghignazzò. Avevano capito che ero mortalmente serio e che provavo dei sentimenti forti e sinceri per quella ragazza.

«Cazzo, sei proprio cotto a puntino» mormorò Louis, togliendosi per un istante il cappellino dalla testa. Si grattò dietro l'orecchio, poi lo infilò nuovamente e incrociò le braccia sul petto. «Sì, decisamente, sei fottuto. Abbiamo perso anche te, dopo quella femminuccia di Chancey» concluse, scuotendo il capo con finta indignazione.

«Smettila di criticare sempre il povero Justin» lo rimproverò Lord.

«Che ne pensate di lei?» domandai a entrambi, riportando l'attenzione sul discorso che stavamo affrontando poco prima.

«Di Leah? È carina e simpatica, secondo me è una a posto. Ma soprattutto non devi lasciartela scappare, come lei non ce ne sono in giro» rispose Louis con sicurezza, regalandomi un sorriso ammiccante.

«Questo lo so, grazie compare.»

«Concordo. Per una volta sono d'accordo con questo scimmione, non è incredibile?» sbottò Lord, battendo sulla spalla dell'altro.

«Scimmione? Io?»

I due stavano per cominciare ad azzuffarsi come due ragazzini, quando Leah e Justin tornarono al tavolo, leccando fieramente il loro gelato.

«Shavarsh, vuoi assaggiare?» mi si rivolse la ragazza, mostrandomi il suo nuovo tesoro.

«Oddio!» Louis si batté una mano sulla fronte e scoppiò a ridere. «Se le permetti di chiamarti così, be', allora la situazione è davvero grave!» Detto questo, afferrò il suo bicchiere e bevve un sorso di birra, poi si alzò e si diede due leggeri colpetti sulla tasca destra dei jeans larghi. «Esco a fumare, chi mi ama mi segua.»

Noi tutti lo ignorammo, così lui si strinse nelle spalle e se ne andò, non prima di averci amichevolmente mandato a fare in culo.

«Adorabile» ironizzò Justin, che intanto si era completamente sporcato la barba con il gelato.

«Che gusto hai preso?» chiesi a Leah.

Lei ingoiò un boccone, poi rispose: «Nocciola e stracciatella».

«La nocciola non mi piace» dissi.

Lei si spostò sulla sedia accanto alla mia, quella che Louis aveva lasciato momentaneamente vuota, poi allungò il cono verso di me. «Lecca qui, c'è solo stracciatella» mi invitò con un sorriso.

Notai che sull'angolo destro della bocca era sporca di gelato e mi venne voglia di baciarla e ripulirla per bene, ma dovetti trattenermi perché non amavo particolarmente le smancerie in pubblico e sapevo che Leah le detestava molto più di me.

Mi allungai e assaggiai un po' del suo gelato, poi annuii e la ringraziai. «Niente male. Non l'avevo mai assaggiato qui da Dear Mexico.»

Trascorremmo un po' di tempo a chiacchierare e scherzare, divertiti dai continui battibecchi tra Louis e Justin.

«Io mi arrendo! Non lo so chi sei, dimmelo e basta, Louis!» sbottò Leah a un certo punto, incenerendo il rapper con lo sguardo.

«Dai, spara qualche nome» le suggerì lui.

«Allora, vediamo... sei un cantante rap? Uno tipo 50 Cent?» lo interrogò lei.

Lui scoppiò a ridere. «Questa è bella!»

«Ci sono! Sei Lil Wayne?» proseguì la ragazza in tono solenne.

«Merda, dolcezza! Hai mai visto Lil Wayne?» sghignazzò Louis.

«Non che io ricordi, neanche mi piace» buttò lì Leah, per poi fare spallucce. «Ah! Sei uno dei Beastie Boys!» continuò a blaterare.

A quel punto Lord e Justin scoppiarono fragorosamente a ridere, e il dj dei Public Enemy rischiò di strozzarsi con la birra che stava bevendo.

«Leah, guarda che anche Lord è un tizio famoso» intervenni.

«Ah sì? Non l'avevo mai visto prima. Scusa, eh, ma è così. Evidentemente non sei famoso fino a quel punto» scherzò lei, per poi fare l'occhiolino al mio amico.

«Hai ragione, sono solo DJ Lord dei Public Enemy. I miei colleghi sono molto più conosciuti di me, in effetti è vero. Sicuramente hai presente Chuckie D» rispose lui, per niente offeso da ciò che lei gli aveva appena detto.

«Non ascolto rap, mi dispiace. Non so chi sia. Conosco solo i Public Enemy di nome, forse ho sentito qualche canzone» ammise Leah in tono dispiaciuto.

«Sfigato, non ti ha riconosciuto!» lo schernì Justin, contento e soddisfatto di essere stato l'unico a destare fin da subito un qualche interesse nella mia ragazza.

«Allora? Chi sei?» Leah scosse il capo e tornò a osservare Louis. «Fammi pensare ai probabili amici sfigati di Shav...» Si interruppe di colpo e il suo viso si illuminò all'improvviso. «Ci sono, ora ho capito!» strillò.

«Sentiamo» la incoraggiò Louis.

«Sei quello dei Cypress Hill! Shavo ha sempre le vostre canzoni in macchina, tipo quella che fa... aspetta...» Ci pensò un attimo su, poi prese a canticchiare maldestramente il ritornello di Insane In The Brain.

Louis scoppiò a ridere e le arruffò i capelli. «Indovinato! Ora meriti un premio, dolcezza! Scegli cosa vuoi: un bacio da me, che sono il grande e meraviglioso B-Real dei Cypress Hill, oppure una cena romantica con quella femminuccia di Chancey, oppure un autografo sul culetto dal qui presente DJ Lord dei Public Enemy?»

Mi irrigidii sulla sedia e mollai un ceffone sul braccio di Louis, imprecando tra i denti. «Piantala» sibilai.

Leah scoppiò a ridere. «Shavarsh, non essere geloso!» esclamò.

«Il solito deficiente» sospirò Justin.

«Bambina, non starlo a sentire» la rassicurò Lord divertito.

«Non sono geloso, ma lui non deve esagerare» grugnii, distogliendo lo sguardo dalla ragazza.

«Dai, fratello! Scherzavo, non fare quella faccia! Ce l'hai con me, tesoruccio?» mi punzecchiò Louis, accarezzandomi il braccio con ostentata tenerezza.

Me lo scrollai di dosso e gli sorrisi. «Macché. Però non fare il coglione.»

«Signor sì! Prometto che non lo farò mai più» dichiarò in tono solenne, accennando un saluto militare.

Non riuscii più a trattenermi e gli scoppiai a ridere in faccia, per poi circondargli le spalle con un braccio. «Ti voglio bene, compare» dissi.

«Anche io, ragazzo» replicò.


«Sono simpatici i tuoi amici.»

«Dici sempre che ho degli amici sfigati.»

«Mi rimangio ciò che ho detto. Sono forti.»

«Oh, per fortuna.»

Io e Leah eravamo appena rientrati a casa da Santa Monica, e stavamo decidendo cosa fare per cena.

Lei mi guardò con fare dubbioso, poi mi chiese: «Perché non invitiamo qui Daron? Domani riparto e vorrei salutarlo. E poi... la settimana prossima andrà a fare il test del DNA con Layla».

Mi feci improvvisamente serio e annuii. Leah aveva ragione, per Daron si stava avvicinando un momento molto difficile e importante della sua vita, perciò forse era meglio stargli accanto il più possibile. «Okay, chiamalo» acconsentii. «Nel frattempo mi cambio» la avvisai, avviandomi in camera.

Indossai dei vestiti più comodi e mi lasciai cadere sul letto. Controllai il cellulare e impiegai un po' di tempo a scorrere i messaggi e le notifiche che avevo ricevuto nei vari social.

Leah mi raggiunse mentre ero impegnato a pubblicare su facebook una foto che quel pomeriggio avevo fatto insieme a Louis, Lord e Justin.

«Quel selfie è orribile» bofonchiò lei, mentre sbirciava lo schermo del mio cellulare.

«Ma no, dai. Io sono bellissimo» scherzai, mentre riempivo il commento della foto di hashtag di ogni tipo, tra cui #homies e l'immancabile #family.

Leah cominciò a spogliarsi e decise a sua volta di indossare qualcosa di più comodo. Le rivolsi una rapida occhiata e scorsi appena la sua schiena nuda. Mi venne voglia di allungare una mano e sganciarle il reggiseno, ma decisi di darmi una calmata e non comportarmi da maniaco, almeno per il momento.

«Tu sei l'unico a essere uscito male» mi contraddisse.

«Antipatica. Daron che dice?» cambiai argomento.

«Arriva tra un po'. Passa a prendere qualcosa da mangiare e ci raggiunge» spiegò lei, facendo per infilarsi una maglia rossa sbiadita.

Appoggiai rapidamente il cellulare sul comodino e riuscii ad afferrarla per i fianchi prima che potesse compiere quel gesto. La attirai a me e feci aderire la sua schiena nuda contro il mio petto, depositandole piccoli baci sulla pelle del collo e delle spalle.

Lei sospirò per la sorpresa e si immobilizzò, lasciando che la assaporassi e la tenessi forte contro di me. Ero eccitato da morire e avevo una voglia matta di fare l'amore con lei. Non ne avevo mai abbastanza, quella ragazza esile e minuta riusciva a farmi impazzire e perdere il controllo in un modo che non avrei mai creduto possibile.

«Shavarsh...» mormorò, rovesciando la testa all'indietro. Appoggiò la nuca sulla mia spalle e si lasciò baciare, mentre le mie mani le accarezzavano la pancia e risalivano lungo i fianchi stretti.

«Quando mi chiami così, Leah, è difficile per me stare calmo. Lo sai?» ammisi, per poi insinuare le dita sotto la stoffa del suo reggiseno nero.

Lei gemette piano e si inarcò contro la mia mano, poi tentò di scostarsi da me, ma io la tenni ferma.

Sentii che cominciava a fremere sotto il mio tocco e compresi che l'eccitazione si stava impossessando di lei, così la feci sdraiare gentilmente sotto di me e subito mi posizionai sopra di lei, facendo scontrare i nostri occhi.

«Shavarsh, che ti prende?» ansimò, mentre lasciava che le sganciassi finalmente il reggiseno.

Mi tuffai sui suoi seni piccoli e sodi, divorandoli con le labbra e beandomi della dolce accoglienza che la mia donna mi stava offrendo. «Ti voglio» sussurrai.

«Sei così passionale oggi» ridacchiò lei, sollevando il bordo della mia maglia per poi sfilarmela.

«È colpa tua» scherzai, per poi cercare le sue labbra e intrappolarle in un bacio colmo di passione. La tenni ferma e approfondii il nostro contatto fin quasi a perdere il fiato, mentre con una mano le carezzavo il viso e i capelli.

«Se mi vuoi» soffiò sulle mie labbra, quando ci scostammo per riprendere fiato. «Dimostramelo» mi sfidò, e nei suoi occhi luccicò il desiderio, ardente e vivo almeno quanto il mio.

Le presi il viso tra le mani e la fissai per qualche istante, poi mormorai: «Ti amo».

Lei avvampò leggermente e tentò di sfuggirmi, ma io non glielo permisi. Infine sospirò piano e annuì. «Lo so. E anche io ti amo, Shavarsh.»

«Buono a sapersi» scherzai. «Allora ho il permesso di fare l'amore con te?»

Scoppiò a ridere e mi si strinse contro. «Guai a te se non lo fai, idiota!» concluse.

E ci abbandonammo per l'ennesima volta l'uno nell'altra, dimenticandoci di tutto ciò che ci circondava.

Stavamo pian piano riprendendo a respirare regolarmente e giacevamo abbracciati sul letto, quando il campanello di casa mia suonò insistentemente facendoci sobbalzare.

Ci fissammo in preda al panico.

«Daron!» strillammo all'unisono, poi scoppiammo a ridere e ci alzammo in fretta dal letto.




Ehilà!

Be', vi è piaciuto il casino che hanno combinato Shavo e i suoi compari? :D

Vi è piaciuta la comparsa di B-Real, DJ Lord e Justin Chancellor? Mi sono divertita un sacco a descrivere queste scenette raccapriccianti, ve lo giuro! X'D

Ma sono qui per linkarvi una canzone, anzi, no... La Canzone.

Ebbene, la suggestiva, meravigliosa, unica, emozionante, formidabile, strappalacrime The Sound Of Silence eseguita dal vivo da quel favoloso uomo e cantante che è David Draiman, vocalist dei Disturbed e dei Device, come vi ho già detto nelle note al capitolo scorso.

Ecco a voi, e poi ditemi se non ho ragione quando dico che fa venire i brividi e le lacrime agli occhi:

https://www.youtube.com/watch?v=Bk7RVw3I8eg

Non so se lo sapete, ma questa canzone è una cover; infatti è stata portata al successo dal duo Simon & Garfunkel nel 1965. Nel corso degli anni è stata ripresa da molti artisti, ma personalmente la versione del 2015 dei Disturbed è quella che preferisco, anche rispetto all'originale.

Voi che ne pensate?

Grazie per essere stati qui anche stavolta, il vostro supporto è veramente importante per me!

Alla prossima ♥

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Capitolo 59
*** Projects ***


ReggaeFamily

Projects

[John]




Seduto al mio posto, sul sedile 15A, tentavo invano di reprimere l'impulso di oscurare il vetro del finestrino alla mia sinistra. Non avevo il coraggio di guardare all'esterno e mi limitavo a fissare dritto davanti a me, tenendo gli occhi puntati sul poggiatesta del sedile di fronte al mio. Tenevo le braccia incrociate sul petto e non accennavo a muovermi.

Leah, abbandonata al mio fianco, si stava adoperando per spegnere il cellulare. Prima di farlo, ascoltò un messaggio vocale di Shavo e sorrise nell'udire ciò che lui stava sproloquiando.


Leah, fai buon viaggio e chiamami quando atterri. Di' a John di tenerti d'occhio. Ah, comunque poco fa ho sentito B-Real e mi ha detto di salutarti tanto! Oh merda... ha ricominciato a piovere.


Shavo concluse il messaggio tossicchiando, e mi parve di udire il familiare suono di un accendino che scattava. Tuttavia non ci badai e ripresi a concentrarmi su pensieri diversi, pensieri che mi portassero via di lì e mi impedissero di rendermi conto che fuori da quel fottuto aereo imperversava una tempesta epocale che mi stava facendo sudare freddo e rischiava di mandarmi in iperventilazione.

Un lampo improvviso invase la cabina dell'aereo e io strizzai automaticamente gli occhi, poi sentii lo scoppio dell'ennesimo tuono e mi irrigidii sul sedile.

Leah mise via il cellulare e si protese verso di me. «Ehi, va tutto bene?» domandò con la voce venata di preoccupazione.

Non risposi, avevo il timore di aprire bocca. Se lo avessi fatto, avrei sicuramente rivelato il tremore che si stava diffondendo in tutto il mio corpo. Non era proprio il momento di reagire così, ma era più forte di me. Non ero in grado di controllare le mie reazioni quando c'era di mezzo un temporale.

«John, sono preoccupata per te. Sei tremendamente pallido» commentò la mia amica, poggiandomi una mano sul braccio.

Un altro tuono esplose all'esterno, e proprio in quel momento l'aereo si mise in moto. Stava scivolando dolcemente sulla pista e si stava dirigendo al punto da cui avrebbe preso lo slancio per librarsi in volo. Ero terrorizzato come poche volte mi era capitato prima d'allora, e detestavo quella fastidiosa sensazione di impotenza che si insinuava sempre più nelle profondità del mio essere.

Strinsi le mani attorno alla stoffa della mia t-shirt e sentii un rivolo di sudore scorrermi lungo il viso. Avrei tanto voluto potermi alzare e scappare di lì, ma ormai ero a bordo e non potevo affatto tornare indietro. Mi maledissi per aver deciso di andare a Las Vegas in aereo, avrei dovuto immaginare che il tempo non sarebbe stato clemente durante quei giorni. Ero stato uno stupido.

«John, ehi» sussurrò Leah, accarezzandomi dolcemente il braccio. «Mi fai paura. Respira, John, respira. Se non mi prendo cura di te, Bryah mi uccide. Quindi vedi di stare bene, eh?»

Mi voltai a guardarla e le afferrai la mano di slancio, stringendola forte. «Leah» mormorai incerto, mentre un altro tuono scoppiava all'esterno del mezzo.

Ero nel panico più totale, non avevo mai preso l'aereo durante un temporale. Mi sentivo in gabbia all'interno di quel dannato trabiccolo, e il senso di claustrofobia non faceva che amplificare il resto.

«Tranquillo, va tutto bene. Ci sono io con te, io riesco a scongiurare tutte le disgrazie, non devi proprio preoccuparti!» tentò di ironizzare con un mezzo sorriso.

Sei un tesoro, avrei voluto dirle, ma non ci riuscii e mi limitai a tenere strette le sue dita.

Lei poggiò anche la mano destra sulla mia e prese a carezzarne distrattamente il dorso; mi fissava in volto e rimaneva in silenzio, cercando di capire come potermi aiutare.

«Senti questa. Daron ieri è venuto a cena da Shavo. Era un po' agitato, anche se ha cercato in tutti i modi di nasconderlo. Abbiamo mangiato cibo coreano, roba strana. E lui a un certo punto, mentre Shavo era in bagno, mi ha detto di avere una fottuta paura di scoprire la verità. L'ho abbracciato e gli ho detto che non deve pensarci, non deve affatto preoccuparsi.» Si interruppe per un istante e sospirò appena. «Gli ho detto che secondo me non c'è problema, che per me quella ragazzina non è sua figlia.»

«Come fai a saperlo?» mi lasciai sfuggire.

«Be', me lo sento. Secondo me in tutta questa storia c'è qualcosa che non va.» Aggrottò le sopracciglia, poi aggiunse: «Ehi, si decolla!».

Non accennai a lasciar andare le sue mani e mi preparai per lo spostamento d'aria che mi aspettava. Avvertii il familiare senso di vuoto sotto di me quando l'aereo si staccò dalla pista e prese il volo.

Leah sfilò una mano dalla mia e si tappò il naso. La osservai gonfiare le guance e spingere l'aria nelle orecchie, mentre la pressione cresceva ed evidentemente le stava creando qualche problema.

Io avvertii le mie orecchie tapparsi per un attimo, ma mi bastò deglutire per sentirle nuovamente libere come prima. «Compensazione, eh?» chiesi a Leah.

«Sì, in aereo mi succede di doverlo fare diverse volte. È una rottura» ammise.

«E allora? Com'è finita la storia di Daron?» volli sapere.

«In nessun modo. Gli ho detto di chiamarmi quando saprà qualcosa in più su Layla» spiegò, poi si rilassò sul sedile e slacciò la cintura dopo essersi accorta che il segnale luminoso che segnalava di tenerla allacciata si era spento. «Ma cambiando argomento, che devi fare a Vegas?» mi domandò.

«C'è un progetto che ho in mente da una vita. Mi sono sempre detto che lo avrei messo in pratica, ma non ho mai avuto l'occasione. Non avevo neanche i soldi per pensarci» le dissi. «Voglio aprire un negozio di fumetti.»

«Un... negozio di fumetti?!» sbottò la mia amica all'improvviso, sollevando un po' troppo la voce.

Annuii. «Ho già in mente anche il nome.»

Leah ridacchiò. «Un uomo come te ha sempre le idee chiare su tutto. Come fai?»

«Non so. È un sogno che ho da sempre, sarà per questo che ho già tutto ben chiaro in mente» spiegai con semplicità. Sentivo ancora le dita di Leah che stringevano le mie e questo mi faceva sentire più rilassato. «Ho pensato di chiamarlo Torpedo Comics» aggiunsi.

«Wow. John, ma è fantastico!» saltò su lei, in preda a un'euforia disarmante. I suoi occhi scuri si posarono sui miei e io vi lessi eccitazione e gioia, come se si sentisse completamente fiera di me e mi stimasse profondamente per quello che volevo fare.

Stavo per ribattere quando un'hostess si accostò a noi e ci chiese se desiderassimo qualcosa da mettere sotto i denti. Leah scelse di prendere un pacchetto di patatine, mentre io optai per una barretta ai cereali. Dovevo assolutamente mangiare qualcosa, stavo seriamente rischiando di digerirmi da solo.

«Ti senti meglio?» mi chiese Leah mentre apriva la sua confezione di snack.

Improvvisamente mi resi conto che avevo quasi dimenticato il panico che stavo provando fino a poco prima, distratto dalla conversazione con lei e rassicurato dal suo tocco premuroso. Sollevai gli occhi su di lei e sollevai una mano, per poi posarla cautamente sulla sua guancia. «Sì. Grazie a te» sussurrai.

«Non ho fatto niente di speciale, andiamo» si schernì, scuotendo il capo e sottraendosi alle mie dita. Era evidentemente imbarazzata, il che la fece apparire ancora più tenera e dolce ai miei occhi.

Mi lasciai sfuggire un sorriso e scartai la mia barretta, per poi cominciare a sgranocchiarla distrattamente. «A te piacciono i fumetti?» chiesi, cambiando argomento. Capivo perfettamente come la mia amica si sentisse e volevo toglierla d'impiccio.

«Quando ero piccola, mia madre mi regalava spesso dei fumetti. Cose come Dylan Dog o Diabolik. Li divoravo, ma col passare del tempo ho perso di vista questa attività» raccontò la ragazza, spazzolando qualche briciola che si era depositata sui suoi jeans chiari.

«È un peccato» osservai.

«Sì. Be', ehi, quando aprirai Torpedo Comics, sarò la tua prima cliente e vorrò assolutamente che tu mi consigli qualcosa da leggere» scherzò, per poi strizzarmi l'occhio.

«Ci sto» conclusi.

Trascorremmo il viaggio a chiacchierare, e quando scendemmo dall'aereo fu incredibile per me rendermi conto che a Las Vegas splendeva il sole e l'aria era torrida e irrespirabile come al solito.

«Bentornata a Las Vegas, Leah» scherzò la ragazza al mio fianco, mentre si adoperava per legare i capelli in una crocchia disordinata. «Faccio già fatica a respirare» borbottò.

Sorrisi. «Los Angeles è leggermente più vivibile» ammisi.

«Concordo!»

«Vieni con me al locale?» chiesi.

Leah si fermò nei pressi dell'uscita dall'aeroporto e mi scrutò. «Sei sicuro?»

«Certo.» Mi strinsi nelle spalle e annuii.

«Okay» accettò. Poi mi si accostò e, di slancio, mi strinse in un abbraccio.

Rimasi per un attimo sorpreso, poi ricambiai il suo gesto e la strinsi forte a me. Volevo ringraziarla per come si era presa cura di me, per essere semplicemente se stessa e per avermi accettato fin da subito, senza alcun timore né pregiudizio nei confronti della mia timidezza.

La sentii ridere e aggrottai la fronte. «Che c'è?»

«Sono uno scricciolo in confronto a te, attento a non spezzarmi le ossa» scherzò, per poi spingermi via e lasciarmi un buffetto sulla guancia. «Hai un'espressione così tenera, fai morire dal ridere» proseguì, senza più riuscire a trattenere le risate.

Scossi il capo e sospirai. «Andiamo. Piantala di fare la cretina.»

Leah mi prese sottobraccio e mi trascinò fuori, immergendosi con uno sbuffo nell'afa irrespirabile di Las Vegas.


«Abbiamo preso un taxi, tranquilla.»

«C'è molto caldo laggiù?»

«Già. Sia io che Leah abbiamo già nostalgia di Los Angeles» ammisi.

Stavo parlando al telefono con Bryah, mentre io e la mia amica stavamo seduti sui sedili posteriori di un taxi. Ci stavamo dirigendo a Paradise, più precisamente all'appartamento di Leah.

Avevamo da poco finito di dare un'occhiata al locale e io ero euforico. Mi piaceva, era veramente perfetto per ciò che avevo in mente, ma per il momento non volevo ancora affrettare le cose. Quella sera stessa avrei incontrato il mio amico Logan e avrei parlato con lui della faccenda.

L'agente immobiliare che ci aveva accolto era stato molto gentile, aveva ammesso che probabilmente avrei dovuto prendere una decisione molto in fretta, considerando che il locale era stato adocchiato anche da qualcun altro. Notando la mia determinazione e il modo estasiato in cui mi aggiravo per il luogo, aveva compreso che me ne ero innamorato fin da subito, così era stato sincero con me e mi aveva suggerito di pensarci seriamente.

Leah non aveva fatto che annuire, estasiata quanto me, suggerendomi continuamente come avrei potuto allestire il mio negozio o dipingere le pareti. Era evidentemente felice ed euforica per il mio progetto, e a quel punto mi ero reso conto di aver già preso una decisione, ancor prima di rifletterci razionalmente.

«Mi ascolti?» mi richiamò la voce calda di Bryah.

«Ah, ehm... no, scusa, mi sono distratto... dicevi?» bofonchiai, passandomi una mano sulla fronte zuppa di sudore.

«Ti ho chiesto com'è andato il viaggio. Qui piove a dirotto e io ero così in pena per te» ammise la mia compagna, facendomi venire una voglia matta di stringerla tra le braccia e rassicurarla.

Arrossii leggermente, perché mi trovavo in taxi con Leah e non mi andava di esternare troppo le mie emozioni. «Ehi, sto bene. Sai, Leah è riuscita a distrarmi, abbiamo chiacchierato e mangiato qualcosa, il viaggio in fondo era breve» minimizzai, anche se udii chiaramente la mia voce incrinarsi leggermente.

«Oh John...» Bryah sospirò.

«È tutto okay, sul serio. A te come va con l'articolo?» cambiai argomento, notando che Leah teneva discretamente gli occhi fuori dal finestrino.

«Non sono riuscita a scrivere niente stamattina. L'ansia mi stava divorando. Ma adesso che so che stai bene, provo ad andare avanti. Voglio scrivere un pezzo eccezionale, ve lo meritate» rispose, conferendo all'ultima parte della frase una nota entusiastica.

«Grazie, sei troppo buona» borbottai.

«Niente affatto. Mi metto subito al lavoro, ma chiamami più tardi, okay?»

La rassicurai e, dopo averla salutata, riattaccai. Mi tornò in mente il momento in cui Bryah mi aveva fatto una piccola intervista da integrare all'articolo, e quel ricordo mi fece sorridere. Avevo cercato di essere il più obiettivo possibile, ma era strano rispondere a delle domande posta dalla propria compagna. Lei conosceva la maggior parte delle risposte, ma ovviamente io avevo dovuto spiegare per bene ogni cosa e lei aveva registrato diligentemente la conversazione, mentre nel contempo prendeva appunti. L'immagine di lei che stava con le gambe incrociate sul mio letto matrimoniale, la matita tra i denti e i capelli legati disordinatamente in una treccia mi invase di calore in tutto il corpo e mi permise di dimenticare ulteriormente l'ansia che avevo provato quella mattina a causa del temporale.

«Come sta Bryah?» mi chiese Leah, interrompendo i miei pensieri.

«Era preoccupata per me. Non è riuscita ad andare avanti con l'articolo» risposi, fissando distrattamente lo schermo del mio smartphone.

«Logico. Ehi, stiamo per arrivare. Sicuro che non vuoi scendere a visitare la mia casetta? Sam l'hai già conosciuta, e ti assicuro che Shelley è una persona molto più normale.»

Ridacchiai. «Mi piacerebbe, davvero, ma Logan mi aspetta» rifiutai, accorgendomi che erano già le quattro e mezza del pomeriggio. Avevamo perso tempo durante il pranzo e ci eravamo soffermati parecchio a perlustrare il locale, perciò rischiavo di fare tardi al mio appuntamento con Logan, fissato per le cinque.

«Okay, ricevuto. Quando riparti?» volle sapere la mia amica, circondandomi le spalle con un braccio.

Le scompigliai i capelli che sfuggivano alla crocchia e sorrisi, guardandola negli occhi. «Oggi sei affettuosa. Che succede?» la presi in giro, eludendo volutamente la sua domanda. Sapevo quanto la cosa la irritasse, per questo mi divertivo e lo facevo apposta.

«Antipatico!» Leah si ritrasse da me e si appiattì contro lo sportello, evitando accuratamente di toccarmi. «Così impari. E non hai neanche risposto alla mia domanda!»

Risi piano. «Sciocca. Riparto domani mattina, spero vivamente che non ci sia nuovamente una tempesta come quella di oggi» ammisi, rabbuiandomi leggermente.

«Ma no, vedrai che il tempo non farà che migliorare.» Leah fece una pausa e mi rivolse una breve occhiata di fuoco. «Tu non mi vuoi bene» borbottò, mettendo il broncio, nonostante fosse evidente che si stesse sforzando per non ridere.

«Sì, dai. Ma solo un po'» commentai in tono divertito. Mi allungai verso di lei e la intrappolai in un abbraccio affettuoso, battendole appena sulla schiena. «Su, bambina, non fare i capricci, altrimenti non ti faccio la proposta che ho in mente.»

Leah si irrigidì e sgranò gli occhi, dopo essersi scostata da me. I suoi occhi divennero ancora più grandi e colmi di confusione. «Proposta?» biascicò.

Risi ancora e mi battei una mano sulla fronte. «Ma che hai capito?» Avvampai violentemente e distolsi lo sguardo dal suo viso, puntandolo dritto di fronte a me. Intrecciai le dita tra loro e lasciai cadere le mani nel mio grembo. «Sei troppo maliziosa» mormorai.

«E allora di che si tratta? Me lo dici o no?» si agitò la ragazza, mollandomi un pugno sul braccio.

Sospirai appena. «Volevo solo chiederti, ecco, se ti va di darmi una mano con Torpedo Comics» buttai lì, senza trovare il coraggio di guardarla nuovamente in viso.

Leah si agitò accanto a me e si lasciò sfuggire un'imprecazione strozzata. «Che cosa?» sbottò poi, afferrandomi saldamente per il polso. Mi scosse con forza e aggiunse: «Devi essere impazzito. Non è che hai assunto qualche droga a mia insaputa?».

Posai nuovamente lo sguardo su di lei e la osservai con estrema serietà. «Niente affatto. Non scherzo. Ho notato quanto eri entusiasta al locale, ti comportavi come se...» Feci una pausa e frugai nella mia mente in cerca delle parole giuste. «Insomma, ho avuto l'impressione che la cosa ti stesse a cuore. Ho visto una scintilla nel tuo sguardo, mentre insieme guardavamo quelle stanze e quelle mura. Ho capito che il mio progetto appassiona anche te. Ma dimmi, mi sbaglio?»

Leah mi studiò con un'espressione indecifrabile. «Non sbagli. Io credo davvero che tu possa farcela, ma non vedo come potrei aiutarti. Non ne so niente di...»

«Intanto mi aiuterai ad arredare il negozio. Hai portato fuori delle idee pazzesche mentre eravamo là, quindi ora non puoi tirarti indietro» la interruppi, pronunciando ogni parola con fermezza.

La sua stretta sul mio polso si allentò, poi mi lasciò andare e abbandonò le mani sulle sue ginocchia, inclinando leggermente la testa di lato. «Dici sul serio? Ti sono piaciute le mie idee?» chiese incerta.

«Tantissimo» confermai. «Poi dopo vedremo. Mi servirà una mano quando aprirò, per l'inaugurazione e non solo. Sempre se ti va, Leah» proseguii.

La ragazza si fissò le dita che avevano cominciato a giocherellare nervosamente tra loro. «John, mi stai proponendo un lavoro?» sibilò, incapace di credere a quanto le stavo dicendo.

Feci spallucce. «Più o meno. So che, be', stai studiando. Forse non hai tempo da dedicare a questo progetto, già... mi dispiace, è che ho intravisto un certo interesse in te e...»

«Niente mi impedisce di fare entrambe le cose» mi interruppe in maniera precipitosa, come se temesse che potessi ritirare la mia proposta. «Insomma, amo ciò che studio, però sono rimasta molto colpita dalla tua idea. Posso fare entrambe le cose, perché no?»

Avvertii un sorriso allargarsi sul mio viso. «Davvero?»

Leah stava per replicare quando il tassista parcheggiò di fronte allo stabile in cui si trovava il suo appartamento. Lei se ne accorse e cercò la sua borsa.

«Pago io quando arrivo da Logan, non preoccuparti» la fermai. Poi mi rivolsi al tassista: «Aiuto io la ragazza a prendere i bagagli. Ci vorrà solo un minuto».

L'uomo annuì distrattamente e noi scendemmo dall'auto. Mi accostai al portabagagli e lo aprii, per poi afferrare le valigie di Leah ed estrarle velocemente.

«Grazie, che gentiluomo!» scherzò lei, sventolando una mano di fronte al suo viso nel vano tentativo di scacciare l'afa asfissiante che ci circondava.

«Figurati» risposi in tono fintamente solenne.

«Comunque, ehi. Se la proposta è ancora valida, io accetto» disse all'improvviso, mentre spingeva il suo grande trolley in un angolo del marciapiede.

Io afferrai il suo borsone bordeaux e lo sistemai lì accanto. «Avete un ascensore?» domandai assorto.

«Sì, non preoccuparti. Allora?»

Fissai Leah negli occhi, poi le tesi una mano. «Affare fatto?»

Lei la strinse con estrema serietà. «Affare fatto.»

Mollai la presa e allargai leggermente le braccia. «Vieni qui, dammi un abbraccio che devo scappare, altrimenti Logan mi strozza» scherzai.

Lei ridacchiò e mi si gettò addosso. Ci stringemmo in un abbraccio fraterno, mentre io le battevo dolcemente sulla schiena e la ringraziavo mentalmente per tutto ciò che aveva fatto e stava facendo per me.

«A presto, e tieni d'occhio quel cretino del mio fidanzato» sghignazzò la mia amica, poi mi spinse verso il taxi e mi lasciò un rapido bacio sulla guancia.

«Senz'altro. A presto» conclusi, per poi risalire in auto.

Mentre il tassista si immetteva nuovamente nel traffico, mi venne in mente che avrei voluto dire un sacco di cose a Leah, avrei voluto ringraziarla all'infinito e farle capire quanto le volessi bene. Eppure non ci ero riuscito, la mia timidezza mi aveva bloccato e me lo aveva impedito con fermezza.

Tuttavia sperai che lei lo avesse capito, e su questo non avevo alcun dubbio: era una ragazza fortemente empatica e sensibile, altrimenti non avrebbe mai deciso di conoscermi e darmi una possibilità come aveva fatto fin dal primo momento in cui mi aveva incontrato allo Skye Sun Hotel.

Era un'amica preziosa, più trascorreva il tempo e più me ne rendevo conto. Sorrisi tra me e me, per poi immergermi nuovamente nei miei pensieri e progetti per il futuro.

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Capitolo 60
*** Touches ***


ReggaeFamily

Touches

[Daron]




Circondato da un gruppetto di persone, stavo seriamente cominciando a innervosirmi. Avevo fatto di tutto per arrivare puntuale all'appuntamento, ma evidentemente quella ragazzina si era presa gioco di me. Era già passata circa mezzora da mezzogiorno, il sole batteva su Sunset Boulevard come un incendio indomabile, e io morivo di caldo e di fame. La gola mi si stava seccando sempre più e non riuscivo a stare fermo.

Eppure, una massa informe di fan mi si era assiepata attorno, pretendendo foto, autografi e futili chiacchiere con il sottoscritto. Mi sarebbe piaciuto sprofondare o liquefarmi nell'asfalto rovente, ma continuavo a rimanere fermo a subire con un sorriso falso le grida e le sollecitazioni di quei pazzi. A volte erano davvero fastidiosi e inopportuni.

«Daron, Daron! Una foto, per favore!»

«Daron, ehi, ci sono anche io!»

«Oddio, Daron! Daron! Daron!»

«Daron, fratello! Facciamoci un selfie!»

«Daron, mi puoi autografare questo?»

«Prima io, Daron, ho qui il disco degli Scars!»

Se sento ancora pronunciare il mio nome, giuro che vomito, pensai in preda all'esasperazione.

Spingevano, volevano tutti raggiungermi, toccarmi, baciarmi, abbracciarmi. Mani sudaticce, corpi sudaticci, capelli sudaticci.

Trattenni a stento l'impulso di scappare via come un pazzo, non era il comportamento giusto da adottare con degli ammiratori. I miei colleghi me l'avevano sempre detto, ma per me era davvero difficile certe volte.

Ripensai ai ragazzi che avevo conosciuto fuori dal centro commerciale qualche mese prima, e rimpiansi quel momento. Rimpiansi la compagnia di quei tre simpatici ragazzi che erano entrati nel backstage al Dodger Stadium, chiedendomi perché non tutte le persone fossero capaci della stessa discrezione e dello stesso buon senso.

«Ragazzi, scusate, ho fretta» bofonchiai.

«Daron, una foto!»

«Daron? Daron? Ci sono anche io! Mi chiamo Tiffany, puoi farmi una dedica? Ah, anche una per mia sorella Beth e una per mio cognato, lui si chiama Daniel! Daron, mi ascolti?»

«Ci sono prima io, fatti da parte! Daron, oddio, sei bellissimo!»

«Non penso proprio, stupida! Spostati!»

Due tizie cominciarono a battibeccare e spintonarsi a vicenda, intente a decidere chi mi si dovesse spalmare addosso per prima. Come se facesse chissà quale differenza. Quando si comportavano così, per me erano tutti uguali; li vedevo soltanto come una massa informe senza alcuna distinzione.

Le due tizie cominciarono a tirarsi i capelli e insultarsi pesantemente, ma io non mossi un dito. Rimanevo inerme con le mani in tasca e l'esasperazione a stringermi la bocca dello stomaco, mentre un paio di altri ragazzi si facevano avanti per chiedermi qualcosa. Qualcuno ebbe la decenza di separare le due psicopatiche e di trascinarle via, intimando loro di non fare le cretine.

Mi parve surreale ritrovarmi nuovamente solo sul marciapiede, quando tutti furono felici e soddisfatti di avermi importunato. In realtà ero circondato da un sacco di persone, come succedeva sempre in strade come Sunset Boulevard; tuttavia nessuno badava a me, se non per rivolgermi occhiate rapide e stranite.

Sapevo cosa vorticava nella mente dei passanti: mi vedevano come un alieno, abbigliato con una camicia in jeans a maniche lunghe e un cappello nero in testa, nonostante l'estate imperversasse su Los Angeles e il caldo fosse quasi asfissiante. Per questo l'abbigliamento della maggior parte della gente che mi vorticava attorno non era quasi mai al limite della decenza, come se tutte quelle persone non avessero aspettato altro per svestirsi e girare seminude per la città.

Controllai che ore fossero sul mio cellulare e sospirai. Mancavano circa dieci minuti all'una, ma di Layla ancora non c'era traccia. Ero incazzato nero, sia per il suo ritardo che per l'incontro fastidioso con quei fan rompicoglioni.

Alzai gli occhi al cielo e venni accecato dal sole, alto e cocente sopra la mia testa. Per arrivare in orario a quel fottuto appuntamento, avevo dimenticato gli occhiali da sole a casa e adesso ne stavo pagando le conseguenze. Sbuffai e imprecai tra i denti.

Decisi di andarmene, ormai Layla aveva sprecato la sua occasione. Se credeva che io fossi il suo giocattolo, si sbagliava di grosso. Volevo soltanto tornare a casa e buttarmi sotto la doccia per cercare di lavare via la sensazione di disagio che il contatto con tante persone mi aveva procurato.

Mi avviai lungo il marciapiede in direzione del parcheggio in cui avevo abbondonato il SUV e ripensai a quanto fossi stato stupido. Mi ero fidato di Dolly, di sua figlia e delle loro buone intenzioni, ma come spesso accadeva dovevo ricredermi. Probabilmente la mia ex amante aveva qualche interesse a livello economico nei miei confronti, e stava soltanto cercando di usare sua figlia per spillarmi un po' di quattrini. Bella fregatura.

Mentre camminavo, qualcuno alle mie spalle mi si scaraventò addosso e mi trattenne per le braccia, ansimando pesantemente.

Il primo istinto che ebbi fu di scrollarmi di dosso chiunque avesse deciso di importunarmi ancora, tuttavia mi trattenni e mi limitai a irrigidirmi. Mi voltai con l'intenzione di chiarire all'ennesimo fan che non avevo tempo da perdere, ma rimasi in silenzio nel riconoscere il viso di Layla, completamente stravolto e ricoperto di sudore.

«Io... scusa... è successo un disastro, Dar... Daron...» balbettò in preda al panico, stringendo convulsamente il mio braccio destro.

«Sei in ritardo. Io me ne vado» sbottai, ponendo fine al nostro contatto. Arretrai di un passo e feci per voltarmi.

«Aspetta! Non è... non è colpa mia, io...» strillò, tentando nuovamente di afferrarmi.

Sollevai le mani come per proteggermi e la fissai con freddezza. «Non toccarmi» ordinai in tono piatto. Non riuscivo a capire perché la gente non sapesse tenere le mani a posto.

«Ma Daron! Ascoltami, ti prego!» mi implorò Layla, stringendosi le braccia attorno al corpo. Sembrava avere freddo, nonostante l'aria attorno a noi fosse sempre più rovente e quasi irrespirabile.

«No, basta.» Mi voltai e ripresi a camminare, ignorando le sue proteste. Mi bloccai soltanto quando lei riuscì nuovamente ad afferrarmi per un polso.

Seccato, tornai a guardarla e persi definitivamente la pazienza. «Ti ho detto di levarmi le mani di dosso, hai capito? Non mi interessa...»

Layla sgranò gli occhi e indietreggiò leggermente, abbassando il capo. «Scusa, non pensavo ti desse così fastidio. Ascolta... mia madre ha cercato di impedirmi di uscire di casa!» Sollevò nuovamente lo sguardo su di me. «Mi ha chiuso a chiave in camera, e non ti dico cosa ho dovuto fare per uscire! Daron, mi nasconde qualcosa, non vuole che io e te facciamo il test... capisci?»

Sbattei le palpebre più volte e il peso di quelle parole si abbatté su di me, mandandomi ancora più in bestia. «Cosa? Mi prendi in giro?»

Layla scosse vigorosamente il capo. La osservai e notai che era completamente stravolta: il viso dai lineamenti orientali era pallido e sudato, i capelli risultavano scarmigliati e disordinatamente legati in una coda di cavallo, gli occhi neri sgranati e colmi di disperazione. La sua maglia gialla era completamente sgualcita e gli shorts in jeans parevano essere la cosa più ordinata del suo aspetto.

«Daron, ti prego! Andiamo via da qui, lei sa dove dovevamo incontrarci. Non appena si accorgerà che sono scappata, verrà a cercarmi» mi implorò in preda al panico, facendo per allungare ancora una volta una mano nella mia direzione.

Le lanciai un'occhiataccia, poi mi guardai intorno e annuii. «Okay, ma tieni giù le mani. Per favore.»

Lei borbottò delle scuse e mi seguì per qualche altro metro su Sunset Boulevard, finché non svoltai a destra e mi lasciai alle spalle la strada più trafficata e chiassosa, cercando riparo in qualche altro luogo più tranquillo. In realtà avevo deciso di raggiungere il parcheggio e recuperare l'auto, in modo da potermi spostare più in fretta e allontanarmi dal luogo in cui io e Layla ci eravamo dati appuntamento.

Raggiungemmo la nostra meta in silenzio, senza che lei provasse a spiegarmi cosa diamine stesse succedendo e io le ponessi alcuna domanda in merito. Ci sarebbe stato tempo per questo.


«Ormai è fatta, lei non può più impedirci di scoprire la verità» osservai, mentre io e Layla riemergevamo dalla struttura sanitaria in cui ci eravamo recati per lasciare i campioni del nostro DNA da analizzare.

Lei piangeva a dirotto e non riusciva a calmarsi, scossa da profondi singhiozzi e da un'agitazione che riuscivo a stento a comprendere.

Mi afferrò per un polso e io mi bloccai in mezzo al parcheggio sotterraneo, lanciando un'occhiata di fuoco alle sue dita strette sulla stoffa della mia camicia. «Cosa ti ho detto prima?»

«Ho paura. Lei non si era mai comportata così, Daron!» Ignorò le mie proteste e cercò il mio sguardo. «Io e lei abbiamo sempre avuto un rapporto fantastico. Ci siamo sempre confidate tutto, come due amiche... invece adesso...» Scosse il capo e mi lasciò andare, immergendo nuovamente il viso tra le mani.

«Evidentemente ha qualcosa da nascondere» le feci notare, facendo spallucce. Ripresi a camminare verso il mio SUV e, una volta raggiunta la meta, aprii l'auto e mi sedetti al posto di guida. «Salta su, ho una fame terribile» buttai lì, mettendo in moto prima che lei chiudesse lo sportello.

«Dove andiamo?» domandò Layla, sbirciando cautamente nella mia direzione.

Ci pensai su mentre guidavo all'interno dell'enorme parcheggio, dirigendomi alla rampa d'uscita. «Ho un'idea» ammisi.

«Cioè?»

«Sorpresa.»


Da Avetisyan era un piccolo ristorante armeno che si trovava nascosto nell'area di Little Armenia. Ogni tanto ci andavo con alcuni amici che avevano le mie stesse origini, ma a volte qualcun altro si innamorava della cucina del luogo e si convertiva al cibo della mia terra, accompagnandomi volentieri.

Layla era spaesata e stazionava sulla soglia, dietro di me, incerta se entrare o meno nel piccolo locale completamente ricoperto di tappeti persiani. Le lanciai una rapida occhiata e mi resi conto che teneva gli occhi socchiusi e saggiava l'aria con le narici dilatate, sul viso un'espressione indecifrabile.

Quando il misto di profumi si faceva largo in me, era sempre un'emozione grandissima. Avevo bisogno di qualcosa che mi tirasse su di morale, e se Layla fosse stata mia figlia, tanto valeva cominciare a farle conoscere le mie tradizioni e le mie radici.

Avevo già deciso cosa avrei mangiato: un zhingyalov hac ripieno di carne, verdure e salse. Mi piaceva esagerare quando andavo là, amavo mischiare il maggior numero di sapori della mia terra, nonostante fosse un po' dissacrante per quella pietanza aggiungere tanti condimenti tutti insieme. Il zhingyalov hac era un piatto pressochè vegetariano, ma ormai tutti là dentro sapevano che io amavo sperimentare e pasticciare, stavolgendo le ricette tradizionali.

Layla sussurrò: «Mi sento a disagio, vestita così e, insomma, così americana».

Stavo per rassicurarla, quando notai Alina avvicinarsi a me con un enorme sorriso stampato sulle labbra. Mi raggiunse e mi strinse in un forte abbraccio, e tra quelle braccia forti e materne mi sentii subito meglio. Conoscevo Alina da una vita, fin dai tempi in cui i miei genitori avevano cominciato a portarmi in quel posto magico quando ero ancora molto piccolo. Per quanto mi riguardava, Alina aveva sempre fatto parte della mia esistenza, non ricordavo un primo incontro con lei, perché semplicemente c'era sempre stata.

Era una donna possente e dolce, con il cuore grande e tenero, nonostante cercasse sempre di mostrarsi severa nei confronti dei suoi dipendenti e di suo marito Tigran.

«Daron!» sussurrò Alina, mentre mi accarezzava la schiena come fossi suo figlio. Parlò in armeno: «La fanciulla è la tua nuova fidanzata? Mi sembra un po' troppo giovane, figliolo».

«No, Alina, non è la mia fidanzata. È una lunga storia.» Poi mi voltai verso Layla e ripresi a parlare in inglese, notando che ci fissava con espressione confusa. «Alina, lei è Layla, una mia amica. Layla, ti presento Alina, una persona magnifica che per me è come una seconda madre» spiegai.

Le due si scrutarono con attenzione, poi Alina avanzò verso la ragazzina e le accarezzò il mento con fare affettuoso. «Ciao Layla, benvenuta in questa piccola parte di Armenia. La nostra è una terra molto antica, e la nostra cucina è stata tra le prime a nascere nell'area mediterranea e del Medio Oriente. Noi qui cerchiamo, nel nostro piccolo, di tenerla viva, vogliamo evitare che si perdano le nostre radici. Ci siamo molto legati, il nostro popolo ha subito tante angherie nel corso della storia, ma noi non vogliamo arrenderci. Gli armeni sono forti.»

Layla la guardava ipnotizzata, proprio come succedeva a me quando ero piccolo e stavo per un po' di tempo ad ascoltare i racconti di Alina, le sue storie sull'Armenia, sognando di poter un giorno conoscere di persona i luoghi che lei mi aveva sempre descritto con amore e passione. Lei non era come mia madre, che cercava con disperazione di non parlare troppo del passato, perché questo le costava molta fatica. E non era come mio padre, che era ormai abituato alla vita negli Stati Uniti e non badava più di tanto a certi discorsi. Alina era una donna armena e ne andava fiera, ecco perché lei e Tigran mandavano avanti il ristorante senza timore.

«Signora... la ringrazio, io...» Layla balbettò, fissando con imbarazzo i propri abiti sgualciti e zuppi di sudore. «Non credo di essere all'altezza di...»

«Tesoro, non pensare a niente e accomodati pure dove vuoi. Il nostro Daron è venuto qui con elementi ben peggiori di te» minimizzò Alina, rivolgendomi un'occhiata un po' troppo severa. Poi mi parlò in armeno: «Fai il gentiluomo e non far sentire a disagio la ragazza, mi sembra molto spaventata. Ma è carina, dove l'hai conosciuta?».

«Lascia stare, ne parliamo un'altra volta» mormorai, poi sorrisi a Layla e la condussi a un basso tavolo in legno, circondato da enormi cuscini con decorazioni orientali che trovavo meravigliose.

La ragazza si accomodò incerta su uno di essi, quasi temesse di rovinarlo. Si allungò sul tavolino basso di fronte a sé e afferrò un rudimentale menu scarabocchiato su un cartoncino beige. Aggrottò subito le sopracciglia non troppo sottili e mi fissò, rivelando una certa confusione.

«Che c'è?» feci.

«Non capisco queste cose. Ci sono dei geroglifici e poi... anche le parole in caratteri occidentali sono impronunciabili» sussurrò. «Per esempio...» Gettò un'occhiata al menu, poi aggiunse: «Cosa sarebbe un... dolma?».

Ridacchiai. «Hai scelto il piatto con il nome più semplice. Prova a leggera questo.» Allungai un dito e lo posai su un'altra pietanza.

Lei alzò gli occhi al cielo, poi sospiro. «Allora... ar... arfe? Che roba è?!» sbottò.

Risi piano. «Si legge urfa kabob» spiegai con calma.

«Daron, mi dici che roba è? Per me questo è arabo!» si arrese, lasciando cadere il cartoncino sul tavolo.

«Io prenderò un zhingyalov con carne di agnello, verdure e salse a volontà. Sapessi che bontà!» annunciai.

Lei sgranò gli occhi e mi lanciò uno sguardo stranito. «Carne di... agnello?» balbettò.

«Sì, perché?» Mi strinsi nelle spalle.

«Io non mangio carne» affermò in fretta, scuotendo il capo con forza.

Mi portai una mano al mento e riflettei per un attimo, poi mi lasciai sfuggire un sospiro. «Non puoi essere mia figlia allora» dichiarai in tono serio. Poi un'idea mi balenò in mente e scoppiai a ridere.

«E ora che succede?» sibilò Layla.

«Magari sei figlia di Serj. Il cantante della mia band, sai, è vegetariano» sghignazzai.

«Oddio» mormorò.

«Ehi, scherzavo» la rassicurai, evitando di farle notare che la mancanza di senso dell'umorismo in lei non faceva che confermare che non poteva essere sangue del mio sangue.

Alina ci raggiunse al tavolo e si accovacciò accanto a Layla. «Tesoro, cosa vuoi mangiare?» le chiese, accarezzandole piano un braccio.

La ragazzina sospirò e mi rivolse un'occhiata terrorizzata. «Io non so se...»

«È vegetariana» spiegai in tono piatto.

«Vegana» mi corresse. «Sono vegana.»

Mi venne da ridere, ma mi trattenni poiché Alina mi lanciò uno sguardo ammonitore. Finsi di grattarmi il collo e distolsi lo sguardo dalle due.

«Non c'è problema. Posso prepararti un dzhash vegetariano. Preferisci lenticchie o ceci?» propose Alina con dolcezza.

«Uh... non so cosa sia, ma sarebbe fantastico» biascicò Layla sempre più confusa.

«Oh, certo! Daron non ti ha spiegato niente, c'era da aspettarselo.» La donna mi incenerì con lo sguardo, poi spiegò alla ragazzina che il dzhash era un brodo che poteva essere accompagnato da diverse verdure e salse. «Posso fartelo con un legume a tua scelta, poi posso aggiungere fagiolini, piselli... o preferisci le zucchine? Se non ti va la zuppa, posso proporti delle polpette vegetariane con contorno di riso e un po' di pane. Cosa ne pensi? O preferisci pomodori? O patate?»

Layla ci pensò su. «Credo che le polpette vadano bene, sì, grazie» ammise.

«Certo, perfetto. Bene, ti porto anche un antipasto. Si chiama topik ed è una sorta di polpettina vegetariana. Ti piacerà.»

«Se lo dice lei...» borbottò Layla.

«A me un po' di formaggio e di pasta di pane fritta» aggiunsi, pregustando già ciò che avrei mangiato.

Finimmo di ordinare il nostro pranzo e Alina si dileguò, lasciandoci immersi nell'atmosfera orientale del locale e in una leggere musica di sottofondo che non riuscivo a distinguere.

«Mi hai portato all'inferno» brontolò Layla in tono contrariato, guardandosi attentamente intorno.

Stavo per ribattere, quando Tigran fece il suo ingresso nella sala semivuota. C'era qualche altro cliente che stava già finendo di mangiare, visto che noi eravamo arrivati piuttosto tardi e avevamo fatto giusto in tempo ad accomodarci prima che la cucina chiudesse.

Erano già le tre meno un quarto del pomeriggio.

Tigran era un uomo corpulento, in linea di massima un gigante buono dai lineamenti orientali molto marcati e l'atteggiamento autoritario che avrebbe spaventato chi non lo conosceva. Portava i capelli lunghi e grigi legati in una treccia e indossava sempre abiti tradizionali armeni.

Quando Layla si accorse di lui, si appiattì contro la parete che stava dietro di lei e ammutolì, distogliendo lo sguardo da quell'omone che tanto la metteva in soggezione.

Sorridendo, mi alzai e mi accostai a Tigran, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. Contrariamente a quanto si potesse immaginare dal suo modo di vestire e dai suoi tratti, l'uomo non parlava quasi mai in lingua armena e il suo accento era appena percettibile, perciò mi rivolsi a lui in inglese. «Ciao Tigran, sono onorato di essere venuto qui. Come stai?»

«Daron» mi salutò lui con calore, utilizzando la sua voce sottile e pacata, che subito faceva intendere a un estraneo che il timore che stava provando non aveva alcun senso. «Ragazzo, dovresti passare più spesso a trovarmi. Ti offro una Kotayk Gold, ho sempre qualche bottiglia da parte apposta per te» proseguì l'uomo, regalandomi un sorriso appena accennato.

Mi venne da ridere, nel ricordare le bizzarre sfide che io e Shavo organizzavamo tra John e Tigran, in modo da decidere chi dei due riuscisse a mantenersi più serio dopo qualche bicchiere di troppo. Inutile dire che aveva sempre vinto John.

Layla intanto era immobile e ci fissava confusa.

Le rivolsi un'occhiata e poi dissi: «Layla, lui è Tigran, il marito di Alina. Il mio secondo padre. Tigran, Layla, è un'amica» spiegai per la seconda volta.

«Ragazza, spero ti trovi bene nel nostro ristorante. Ora vado a prendere qualcosa da bere, vogliate scusarmi» si congedò infine l'uomo, dirigendosi nuovamente verso la cucina.

Tornai a sedermi accanto a Layla e sorrisi tra me e me. Non sapevo come sarebbe andato a finire quel pranzo, se a Layla sarebbe piaciuta la cucina della mia terra o se avrei scoperto di essere suo padre.

In quel momento volevo soltanto godermi ogni singolo istante, circondato da tappeti persiani e sicuro di essermi finalmente scrollato di dosso il disagio che avevo provato nell'essere toccato da un sacco di estranei.

Era bastato un abbraccio di Alina per annullare ogni cattiva sensazione.

Allungai una mano sul tavolo e afferrai quella di Layla, facendola sobbalzare un poco.

Mi guardò stranita e confusa, poi spostò gli occhi sulle mie dita, e infine ricambiò titubante la stretta.

Ci scambiammo un'occhiata.

Forse non mi dispiacerebbe se tu fossi mia figlia.




Cari lettori, eccomi qui con un capitolo che per me è stato molto impegnativo. Non tanto per le tematiche trattate, ma per tutte le ricerche che ho fatto mentre lo scrivevo.

Direte voi: «Kim, potevi anche non concentrarti su tutte quelle informazioni sulla cucina armena, chi te l'ha fatto fare?». Be', il punto è che non dobbiamo dimenticarci le radici dei nostri amati System: loro sono armeni, e in quanto tali in un certo senso sono legati alle loro tradizioni e alla loro terra, e non solo a livello culturale o storico.

Insomma, ho voluto immaginare un Daron un po' insolito, un po' nostalgico, un Daron con la voglia di sentirsi a casa e di assaporare i gusti e i profumi della sua Armenia, nonostante lui sia l'unico della band a essere nato negli Stati Uniti ^^

Mi scuso fin da ora se ci sono inesattezze per quanto riguarda le pietanze citate, ma ci ho messo davvero tanto impegno e ho dovuto fare un lavoro di traduzione di molti termini perché ho trovato le informazioni solo su Wikipedia in inglese. In quella italiana non c'è praticamente niente -.-”

Se qualcuno di voi è bravo in inglese – riferimenti a una certa StormyPhoenix sono puramente casuali XD – potrebbe prendere in considerazione l'idea di aggiornare la pagina di Wikipedia in italiano sulla cucina armena... toh, io la butto lì, poi ditemi voi se sono pazza :D

Che ne pensate? A voi la parola!

Grazie per essere ancora qui e per leggere tutto ciò che scrivo, perché mi sostenete e mi tenete compagnia da più di un anno in questo folle progetto!!

Alla prossima ♥

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Capitolo 61
*** Insecure ***


ReggaeFamily

Insecure

[Leah]




Fissavo il libro che avevo di fronte senza neanche vederlo. Ero totalmente assorbita da altri pensieri, ormai incapace di reprimerli e ignorarli. Non potevo più mentire a me stessa, la mia mente si rifiutava di concedermelo ancora.

Avevo mentito a John, avevo mentito a me stessa e avevo incolpato Alan Moonshift di avermi praticamente rapito e trascinato in Giamaica, ma in realtà dentro me gli ero stata grata anche se non l'avrei mai ammesso. Grazie a quel viaggio mi aveva distolto dai miei dubbi esistenziali, dai cupi e confusionari pensieri che mi passavano per la testa. Mi aveva portato in un luogo di svago, un luogo dove avevo conosciuto persone magnifiche che mi avevano fatto dimenticare quanto fossi insoddisfatta di me stessa.

Una volta rientrata a casa, con un nuovo carico di energia e di affetti, mi ero rigettata a capofitto nella mia vita, credendo seriamente di potercela fare; mi ero convinta che quella vacanza avesse spazzato via ogni incertezza, che avesse curato ogni mia insicurezza e mi fosse stata utile per liberare la mente prima di ricominciare da dove mi ero interrotta.

Ero riuscita addirittura a studiare e passare un esame, seppur con il minimo del punteggio; ma adesso che mi ritrovavo a dover studiare ancora, fui nuovamente travolta dallo sconforto e dalla consapevolezza che stessi sbagliando tutto. Sapevo perfettamente che lo studio non faceva per me, che avevo cominciato a seguire i corsi solo per poter andare via di casa e non dover convivere con Alan Moonshift e le sue innumerevoli amanti. Lui non mi avrebbe mai mantenuto se avesse saputo che non volevo studiare, ma adesso questa situazione stava diventando insostenibile.

Ero stanca di trascorrere le giornate a non fare niente, desideravo avere la mia indipendenza e volevo avere un lavoro serio che mi permettesse di staccarmi definitivamente da lui e da quella vita che non mi appagava per niente. Non avevo mai preso neanche in considerazione l'idea di cercare mia madre, con lei non c'era niente da dire o da fare. Sapevo che esisteva e perfino dove abitava, ma non mi passò mai per la mente di chiederle aiuto.

E poi ormai avevo quasi venticinque anni. Sospirai e adocchiai il calendario appeso alla parete della cucina: era un cimelio che Samantha si era procurata a una di quelle manifestazioni per i diritti degli omosessuali, l'aveva comprato perché tutti i ricavati sarebbero stati devoluti a un'associazione nascente che si proponeva di fare tante cose che ancora nessuno aveva messo in atto.

Il mio compleanno sarebbe stato il 26 settembre, esattamente tredici giorni dopo. Sospirai. Ancora non avevo deciso cosa fare della mia vita e mi sentivo una fallita, anche e soprattutto perché ero circondata da persone già realizzate, con le idee ben chiare a differenza mia.

Primo tra tutti il mio ragazzo, che era un musicista affermato e aveva sempre perseguito i suoi progetti. Forse il fatto che fosse più grande di me non era roba da poco, non era da sottovalutare come tutti avevamo sempre fatto. Mi sentivo a disagio se confrontavo la sua vita con la mia, e questo mi portava a vergognarmi di me stessa e a non riuscire a parlargli del mio disagio.

Non riuscivo a confidarmi con nessuno, e lo sconforto non faceva che aumentare in me. Era sempre più difficile nasconderlo, tuttavia avevo un blocco interiore che mi impediva di aprir bocca.

Come avrei potuto parlare con Shelley, lei che sapeva fare un sacco di cose e aveva un sacco di alternative nel suo futuro? Lei era sicura di voler fare la stilista, non aveva mai avuto dubbi a riguardo.

Non potevo neanche confidarmi con Samantha, mi vergognavo delle mie insicurezze di fronte a una donna che voleva diventare medico e combatteva per i diritti degli omosessuali con fierezza e sicurezza di sé.

E così non potevo fare con i ragazzi dei System, tutti musicisti affermati con tanti altri progetti da portare avanti, né potevo lamentarmi con una come Bryah che aveva coraggiosamente ripreso in mano la sua vita e si era ricavata un nuovo lavoro in un giornale di Los Angeles, lasciando la sua terra e la sua famiglia adottiva, dedicandosi inoltre alla stesura del libro sui System.

Come potevo scaricare questo peso su Dayanara e Alwan, loro che lottavano continuamente per il loro amore e avevano entrambi un lavoro che li appagava?

Tutti i miei amici erano realizzati, l'unica ad aver intrapreso gli studi in Lettere Moderne senza neanche rifletterci su ero io. Mi sentivo una cretina e non sapevo come venir fuori dal mio stesso pantano.

Sospirai e spostai il libro di lato, appoggiando i gomiti sul tavolo della cucina. Avevo detto a John che ciò che studiavo mi piaceva, eppure non era affatto vero. Avevo scelto quell'indirizzo di studi senza alcun raziocinio, mi ci ero gettata a capofitto con entusiasmo perché convinta che bastasse allontanarmi da casa mia per rendermi felice. Fin da subito mi ero resa conto che non era stato affatto così, eppure avevo provato ad andare avanti.

E ora mi ritrovavo a pagarne le conseguenze.

Il campanello trillò all'improvviso, facendomi sobbalzare. Aggrottai la fronte mentre mi alzavo; generalmente sia Shelley che Samantha entravano in casa utilizzando le chiavi, ma probabilmente una delle due aveva dimenticato le sue.

Mi accostai al citofono e sollevai la rudimentale cornetta, sperando che funzionasse. A volte dava dei problemi e non ci permetteva di comunicare con chi si trovava ai piedi dello stabile, costringendoci ad aprire il portone senza sapere chi fosse arrivato o a scendere al piano di sotto per accertarci di persona di chi si trattasse.

Per fortuna stavolta l'aggeggio infernale fece il suo dovere e una voce stridula a me familiare strillò: «Apri, sono io!».

«Daron?!» sbottai perplessa, mentre schiacciavo il bottone che permetteva al portone di aprirsi con un click.

MI precipitai sul pianerottolo e, affacciandomi dalla ringhiera delle scale, gridai: «Daron, non prendere l'ascensore. Ieri si è bloccato! Fai le scale fino al quinto piano!».

L'eco della mia voce si espanse per l'ampio e alto androne, rimbombando come un tuono. Udii Daron sbuffare e grugnire qualcosa di incomprensibile, poi sentii i suoi passi mentre saliva rapidamente i gradini che ci separavano.

Non riuscivo a capire cosa ci facesse a Las Vegas, a casa mia, così all'improvviso. Non mi aveva avvertito, ma doveva aver estorto il mio indirizzo a John o Shavo. Mentre ci riflettevo, lo avvistai mentre si apprestava a percorrere l'ultima rampa di scale; con un tuffo al cuore per la gioia di vederlo, mi gettai letteralmente giù dalle scale e gli saltai addosso, impedendogli di fare un altro passo.

Il mio amico rischiò di ruzzolare all'indietro e fu costretto a sorreggersi alla ringhiera. Imprecò tra i denti e tentò di divincolarsi dal mio abbraccio.

«Oddio, Daron! Sono così felice di vederti! Che sorpresa, dannazione, non me l'aspettavo!» gridai in preda all'emozione, e rischiai di scoppiare a piangere. Mi ero sentita così sola fino a pochi minuti prima, e ora ringraziavo qualunque forza divina lo avesse spedito a raccogliere i cocci della mia incompiutezza.

«Mi strozzi, razza di cretina! Lasciami andare!» sbraitò il chitarrista, ma infine sorrise e ricambiò la stretta. «Non è che mi hai confuso con Shavo? Ehi, Leah, sono Daron!» scherzò, arruffandomi affettuosamente i capelli.

«Che stronzo!» esclamai, lasciandolo andare di botto.

Lui barcollò per un attimo e tirò un sospiro di sollievo. «Mi hai travolto» mormorò.

Risalii in fretta le scale e mi fiondai dentro il mio appartamento, senza aspettare che lui raggiungesse il pianerottolo.

Proprio in quel momento la porta accanto alla mia si spalancò e Harper Jackson si affacciò con il viso stravolto dal sonno. «Leah, che cazzo stai combinando?» brontolò.

Mi voltai a guardarlo, rimanendo sulla soglia. «Ciao Harper» lo salutai con noncuranza.

Lui spostò gli occhi azzurri su Daron e sbiancò. «Daron Malakian? Oh cazzo, quella roba che mi ha procurato Stephen doveva essere proprio forte, sto avendo le allucinazioni...» biascicò il mio vicino.

«Già, hai ragione. Di che parli? Qui non c'è nessun altro oltre me. Torna a dormire, Harper» lo assecondai, mentre il mio amico faceva il possibile per non scoppiare a ridere.

«Cazzo, sì che ci torno» borbottò infine Harper, per poi sbattere la porta.

Io e Daron ci fissammo e prendemmo a sghignazzare, poi finalmente lo invitai a entrare.

Lui si guardò attorno e notò subito il libro che avevo abbandonato sul tavolo.

«Siediti pure. Siamo soli, le ragazze non ci sono» gli dissi, sentendomi un po' in imbarazzo per l'appartamento spartano in cui abitavo. Questo non aveva niente a che vedere con le abitazioni di Shavo e Serj, e immaginavo che fosse poco simile anche alla sua casa e a quella di John.

«È carina la tua casetta» commentò il chitarrista, prendendo posto su una sedia.

Feci lo stesso e sminuì quel complimento con un gesto della mano. «Macché. Dimmi cosa ci fai qui, sono molto confusa» cambiai argomento.

«Prima dammi qualcosa da bere. Vegas è un inferno e ogni volta che ci vengo mi disidrato» disse.

Solo allora mi accorsi che aveva il viso imperlato di sudore.

Mi alzai e mi accostai al frigorifero. «Cosa ti va?»

«Non lo so... hai della limonata?» volle sapere.

«Certo. Ricordati che casa mia è come un bar, Sam e Shell riforniscono il frigo quotidianamente. Detestano rimanere a corto di bibite» spiegai, portando fuori una bottiglia di plastica da un litro mezzo piena.

Osservai Daron mentre sorseggiava la sua bevanda e notai che era vestito completamente di nero, con una camicia in jeans a maniche lunghe e si era addirittura messo un cappello in testa.

Sgranai gli occhi. «Ecco perché hai caldo. Sei impazzito?» commentai indignata.

«Devo aggirarmi in incognito, sai com'è» scherzò.

«Daron, perché sei qui?»

Lui sospirò e perse gli occhi grandi e scuri dentro il liquido giallognolo che ancora rimaneva nel suo bicchiere. «Ho avuto i risultati del test del DNA» sussurrò.

«E sei venuto fin qui per questo? Avresti potuto telefonarmi...» farfugliai, posando una mano sulla sua.

Scosse il capo. «Non mi piace comunicare con quegli aggeggi. E poi avevo bisogno di staccare, di andarmene per un po' da Los Angeles. Di stare lontano da Layla.»

«Perché? Che cosa è successo?» domandai in preda alla preoccupazione. Se Daron era venuto fino a Las Vegas per parlarmi di quella questione, doveva essere capitato qualcosa di grave.

«Leah» disse, poi fece una pausa e sospirò ancora. «Non è compatibile. Layla non è mia figlia.»

«Lo sapevo!» esclamai, battendo la mano sinistra sul tavolo. Poi notai l'espressione smarrita del mio amico e tentai di darmi un contegno. «Cioè... me lo immaginavo, ma... ehi, perché fai quella faccia? Non sei felice di non doverti prendere quest'onere? Quella mocciosa voleva solo i tuoi soldi, te lo dico io!» blaterai, sempre più confusa dal suo strano atteggiamento.

Daron sollevò lo sguardo e incrociò il mio. Nei suoi occhi lessi delusione e malinconia, così ammutolii e attesi che dicesse qualcosa.

«Lei non c'entra. Il giorno in cui dovevamo andare a fare il test, Layla è arrivata in ritardo di un'ora. Io ero incazzato e me ne stavo già andando, ma poi lei mi ha spiegato che Dolly voleva impedirle di uscire per incontrarmi.»

«Che cosa? Oddio...»

«Sì. Evidentemente Dolly sapeva la verità, ma non voleva farmelo scoprire. Ha mentito a sua figlia, le ha fatto credere che io fossi suo padre. Era lei a volermi incastrare, la ragazza non c'entra» spiegò ancora il chitarrista, per poi distogliere gli occhi dai miei e posarli sul tavolo di fronte a sé.

Mi allungai per poggiare una mano sulla sua spalla. «E tu non sei felice?» chiesi con cautela.

«No, non lo so. Insomma... quel giorno abbiamo fatto il test e poi l'ho portata nella Little Armenia a pranzo in un ristorante di vecchi amici della mia famiglia. Le ho fatto conoscere le mie radici, l'ho fatta entrare nella mia vita. Non so perché l'ho fatto, ma... con lei mi trovavo bene, Leah.» La sua voce era malinconica e rotta da emozioni che non riuscivo a decifrare.

«Avresti voluto che fosse tua figlia?» domandai, ma subito me ne pentii. Forse ero stata tropo diretta, come al solito non ero riuscita a mostrare un po' di tatto.

Poi vidi Daron annuire impercettibilmente e il cuore mi sprofondò nel petto. «Oh, Daron... mi dispiace così tanto, non sai quanto» mormorai.

«Già, anche a me» replicò in tono improvvisamente piatto.

«Ma... tu e lei potete rimanere in contatto, chi ve lo impedisce? Se ti trovi bene con lei, potete costruire una bella amicizia. Ricordati che Layla non ha un padre, potrebbe comunque prenderti come figura di riferimento, non trovi?» tentai di consolarlo.

«Forse sì, forse no... Dolly non lo permetterà, non ora che sua figlia è arrabbiata con lei e la odia per averle mentito e averla illusa» disse il mio amico.

«Però... però... tu puoi essere importante per lei. Sai quante persone vengono amate da famiglie adottive o... insomma...» Frugai nella mente in cerca delle parole giuste. «Prendi Bryah. Lei è stata amata tantissimo dalla sua famiglia adottiva. Perché tu non potresti costruire un bel rapporto con quella ragazza, come fossi una sorta di padre? Se vi siete trovati bene insieme...» suggerii.

Lui sorrise amaramente. «Magari fosse così semplice. Sei una ragazza molto positiva, Leah. Ti ringrazio. Sapevo di poter contare sul tuo sostegno.»

Mi sentii ancora più in colpa. Non avevo fatto niente di concreto per aiutarlo, e inoltre mi aveva definito positiva senza sapere quanto fosse squallida e insoddisfacente la mia intera esistenza.

Vedere Daron Malakian, il grande e famoso chitarrista dei System Of A Down, in quelle condizioni mi fece capire che forse potevo confidargli come mi sentivo. Compresi che, nonostante fosse famoso e conducesse la vita che desiderava in campo professionale, la sua sfera privata era disastrosa almeno quanto la mia.

Io avevo un ragazzo che mi amava e che amavo, eppure mi sentivo una fallita totale in campo professionale. Non riuscivo a concludere niente di utile per me stessa e per gli altri, però ero circondata di persone meravigliose che mi volevano bene e che mi sostenevano nonostante tutto.

Daron, invece, si ritrovava nuovamente a dover fare i conti con la sua solitudine sentimentale; non aveva una compagna e ora aveva scoperto che la sua speranza di poter costruire un legame unico e speciale con Layla era sfumata, rivelandosi soltanto una stupida e inutile illusione.

«Daron, voglio lasciare l'università» buttai lì all'improvviso, avvertendo subito un peso abbandonare il mio cuore.

Lui sobbalzò leggermente e mi fissò perplesso. «Cosa? Perché?»

«Non mi soddisfa. Non mi sento per niente realizzata e so di aver sbagliato. Ho scelto di continuare gli studi, ma l'ho fatto solo per scappare di casa e allontanarmi da mio padre. Solo che sono ancora legata a lui, visto che mi paga gli studi e mi mantiene, convinto che io stia concludendo qualcosa. Ma io non ce la faccio più.»

Il chitarrista abbassò mestamente il capo. «Amica, anche tu sei nei guai. Da quando va avanti?»

«Da sempre. Quando sono partita in Giamaica, credevo che mi sarebbe bastato quel momento di pausa per riprendermi e ridarmi la forza per proseguire. Ma mi sono illusa. io... mi dispiace di avertelo detto, mi vergogno così tanto... ho quasi venticinque anni e non ho concluso niente» spiegai, lottando con le lacrime per impedire che sgorgassero dai miei occhi.

«Ehi, non dire così. Non è mai troppo tardi per cambiare idea» mi rassicurò, accostando la sua sedia alla mia. Con gesti goffi e un po' incerti, mi prese tra le braccia e mi strinse affettuosamente a sé. «Dai, coraggio. Troveremo una soluzione» mormorò.

Sapevo perfettamente che quel gesto gli costava parecchia fatica, perciò lo apprezzai doppiamente e ricambiai la stretta, incapace di trattenere una lacrima solitaria.

«John mi ha detto che ti vuole nel suo staff per Torpedo Comics. Potresti ricominciare da lì e vedere se ti piace come cosa» suggerì ancora il mio amico. «In questo modo potresti lasciare l'università e renderti indipendente da tuo padre. E poi, ehi, noi ti possiamo aiutare in ogni caso. Per questo non c'è problema, okay?»

Mi scostai da lui e incrociai il suo sguardo. «Dici che potrei farlo davvero?»

Avevo pensato alla proposta di John, ma l'avevo considerata soltanto come un diversivo dai miei studi, così come un modo per dare una mano a un amico che aveva un bellissimo progetto in mente. Ma ora che Daron me lo faceva notare, comprendevo che forse quella sarebbe potuta essere la scappatoia che cercavo e aspettavo da anni.

«Ma certo! Pensi che John Dolmayan sia uno sprovveduto che offre un lavoro a chiunque? Ma lo conosci? È talmente riflessivo e razionale che a volte mi dà il voltastomaco!» scherzò il chitarrista, per poi finire di bere la sua limonata. Se ne versò un altro bicchiere, poi aggiunse: «Pensaci bene. E non vergognarti di parlarne con noi. Ogni persona ha le sue insicurezze, anche quelle che apparentemente sembrano realizzate in tutto e per tutto».

Mi ritrovai a dargli mentalmente ragione. Mi ero convinta di essere l'unica a sentirmi a disagio per qualcosa che non andava nella mia vita, ma Daron mi aveva fatto aprire gli occhi. Sapevo che era sincero, non mi avrebbe mai detto qualcosa che non pensava veramente.

«Quindi pensi che io possa farcela?» chiesi ancora.

«Sì che lo penso. Ne sono stra convinto» affermò senza alcuna esitazione.

«Sarà un passo molto importante e difficile per me» gli feci notare.

«La vita è così, amica mia» filosofeggiò, lanciandomi un sorrisetto sghembo. Si frugò in tasca e mi mostrò il suo astuccio per l'erba. «Ce la fumiamo?»

Gli strappai l'oggetto di mano e cominciai ad aprirlo. «Insegnami a costruirne una» gli dissi.

Daron ridacchiò e per i successivi dieci minuti mi spiegò minuziosamente come creare la canna perfetta. Sbagliai diverse volte, ma alla fine il risultato non fu poi così male.

Ci affacciammo alla finestra, fianco a fianco, e fumammo insieme mentre osservavamo il sole del tardo pomeriggio che ancora infuocava i palazzi di Paradise.

«Quanto ti fermi a Vegas?» gli domandai dopo aver fatto un tiro.

«Ho prenotato per due notti in un alberghetto» rispose.

«Allora ci dobbiamo divertire!» esclamai entusiasta.

Daron annuì, poi si voltò a guardarmi. «Shavo sa di questa cosa dell'università?» indagò, facendosi improvvisamente serio.

Scrutai per un attimo il suo viso pallido su cui spiccavano gli occhi grandi e scuri. «No. Mi vergognavo troppo per dirglielo» sussurrai mestamente.

«Parlagliene. Si è accorto sicuramente che c'è qualcosa che non va. E Shavo odia che gli si nascondano le cose, dà di matto» mi consigliò il mio amico, per poi portarsi la stecca di erba alle labbra.

Annuii. «Lo so. Sì, lo farò. Glielo dirò appena saremo nuovamente insieme. Anche perché non posso nascondergli più questa cosa, la settimana prossima viene qui e vedrà finalmente dove abito.»

«Festeggerete insieme il tuo compleanno?»

Assentii con un cenno del capo. «Però sarebbe bello se ci foste anche tutti voi.»

Daron fece spallucce. «Non preoccuparti, avremo altre occasioni per festeggiare. Anzi, sai cosa? Io e te festeggiamo in anticipo, visto che sono qui!» esclamò.

«Okay, ma ti impedisco categoricamente di farmi gli auguri in anticipo, porta sfiga!» scherzai, poi gli mollai una pacca sulla spalla. «E anche tu pensa a ciò che ti ho detto su Layla, d'accordo?»

Lui si rabbuiò leggermente, tuttavia annuì. «Ci proverò. Sai che ho bisogno di tempo per assimilare e capire le cose, non sono perspicace come te, amica.»

«Idiota! Che ne dici se chiamo le mie coinquiline e tutti insieme ce ne andiamo a divertirci da qualche parte?» gli proposi.

Daron ridacchiò. «Ci sto. Non vedo l'ora di conoscere questa Shelley. È sexy?»

Gli mollai un pugno sul braccio e lo mollai alla finestra, andando a recuperare il mio cellulare.

Ero felice che Daron fosse venuto a trovarmi e che si fosse confidato con me sui suoi problemi con Layla. Riponeva una grandissima fiducia in me e io stentavo ancora a crederci, visto il suo carattere riservato e il suo atteggiamento spesso freddo e distaccato.

Mentre riflettevo su quanto fosse strano che io fossi riuscita a conquistare la fiducia di persone come lui e John, raccattai lo smartphone. Prima di scrivere alle mie amiche, decisi di inviare una nota vocale a Shavo.


Shavarsh, c'è Daron qui. Mi ha fatto una sorpresa, ancora non ci credo. Mi ha parlato di Layla, perciò ora chiamo le ragazze e lo portiamo a svagarsi un po'. Non preoccuparti, faremo attenzione e non ci ubriacheremo, promesso! Ma anche tu fai il bravo, eh? Non permettere a quei depravati dei tuoi amici di trascinarti nelle loro solite stronzate... dai, scherzo. Saluta tutti, ci sentiamo domani. Mi manchi tantissimo.


Mentre attendevo che mi rispondesse, inviai un messaggio sul gruppo WhatsApp che avevo creato con le mie coinquiline, avvisandole della presenza di Daron in città e chiedendo loro se fossero disponibili per una serata in giro per locali insieme a noi.

Una volta inviato, trovai la risposta di Shavo.


Ehi... sì, sapevo che quell'idiota stava andando da te, non sono riuscito a fermarlo. Vabbè, ormai è fatta. Tienilo d'occhio, non vorrei che facesse stronzate per affogare i suoi dispiaceri. Che casino, ti ha detto tutto, eh? Okay, vado a farmi una doccia, anche se vorrei che ci fossi anche tu con me... lo so che stai pensando che sono un maiale, ma fa lo stesso. Ci sentiamo domani, divertiti e saluta quel cretino e Sam! Ti amo, lo sai. Ciao Leah.


Sorrisi imbarazzata. Non mi sarei mai abituata al suo modo dolce di confessarmi con semplicità i suoi sentimenti, né sarei mai riuscita a essere spontanea quanto lui.

Mentre tornavo da Daron, scoprii di sentirmi molto meglio e di nutrire una piccola speranza per il mio futuro.

Sapere che almeno qualcuno si fidava di me e credeva che avrei potuto cambiare la mia vita, mi diede una forza incredibile e mi riempì di energia positiva.

Ero pronta ad andare avanti e a vivere finalmente la vita che desideravo.

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Capitolo 62
*** Portrait ***


ReggaeFamily

Portrait

[Shavo]




«Allora? Mi racconti o no?»

«Mmh...»

«Malakian, non ignorarmi!»

«Non ti ignoro...»

«Sì, invece!»

Sedevo sul divano a casa di Daron e cercavo di estorcergli qualche informazione sul suo viaggio a Las Vegas. Mi serviva soprattutto sapere quali erano i locali che Leah frequentava abitualmente, volevo organizzarle una festa a sorpresa per il suo compleanno e non avevo molto tempo per farlo.

Probabilmente lei se lo aspettava, non ero affatto bravo a nascondere le mie intenzioni. Però volevo farlo in ogni caso, anche se sapevo che molti dei nostri amici non ci sarebbero stati per via dei loro impegni e perché avrebbero dovuto viaggiare fino a Las Vegas.

Per fortuna John e Bryah sarebbero stati dei nostri, perché il batterista ne avrebbe approfittato per mostrare il locale in cui avrebbe aperto la sua fumetteria alla sua compagna.

Daron, Serj e Angela non sarebbero partiti con noi, così come non lo avrebbero fatto Mayda e Sako.

Quando aveva saputo che sarei andato a Las Vegas, Louis aveva fatto i salti di gioia e si era praticamente aggregato alla combriccola, asserendo che non faceva un viaggetto da quelle parti da un po' di tempo e aveva voglia di giocare a strip poker in un casinò degno di tale nome. Io l'avevo mandato al diavolo, ma lui aveva deciso di seguirmi e non avevo potuto impedirglielo.

Mollai un pugno sul braccio del mio amico e lui sussultò.

«Daron, parla! Non ho molto tempo!» sbottai.

«Ah, che palle... non mi ricordo i nomi dei locali, mmh... forse qualcosa come Creaminal, scritto così.» Afferrò un taccuino che teneva poggiato sul tavolino basso di fronte al divano e scarabocchiò disordinatamente qualcosa. Poi strappò il foglio e me lo porse.

«Ah, carino» bofonchiai con un mezzo sorriso.

«Credo di sì.»

«Com'è andata? Sei riuscito a stare meglio?» domandai, spostando lo sguardo sul suo volto.

«Un po' sì. La tua donna è forte, ha delle amiche fantastiche e Shelley è proprio sexy. Vedrai.»

Sospirai. «Sono serio. Come stai?»

Lui sbuffò. «Così» borbottò.

«Leah ti ha consigliato di provarci, credi che le dari retta?»

Fece spallucce. «Chi lo sa? Io e Layla non siamo rimasti in contatto. Non ho nessuna intenzione di darle il mio numero o qualcosa del genere.»

«Se vuole cercarti, sa come fare. Potrebbe anche scriverti su qualche social... insomma, non è impossibile.»

«Appunto» confermò, passandosi una mano tra i capelli scompigliati. «Ma forse è meglio se si dimentica di me. Non sono suo padre, punto.»

«Non essere così categorico. Fratello, mi dispiace» gli dissi, circondandogli le spalle con un braccio.

Lui tentò di sottrarsi a quel contatto, ma poi cambiò idea e rimase immobile. «Purtroppo è andata così.»

«Vedrai che troverai presto qualcuno che possa renderti padre, ne sono sicuro. Anche se, ehi, io non ti ci vedo a cambiare pannolini!» tentai di sdrammatizzare.

«Coglione.»

«Okay, io me ne vado. Devo organizzare qualcosa per Leah, e poi devo andare con Bryah a sceglierle qualcosa. Non so cosa regalarle, sono incasinato e parto dopodomani...» blaterai, avviandomi alla porta senza aspettare che mi accompagnasse.

«Ce la farai!» gridò lui.

Lo sperai con tutto me stesso, ma sarebbe stato difficile.


Scesi dal taxi e mi schermai gli occhi con una mano, maledicendomi per non aver portato fuori gli occhiali da sole. A Las Vegas faceva un caldo infernale e io stavo sudando furiosamente.

Avevo lasciato Louis, John e Bryah affinché andassero in albergo, e io mi ero subito precipitato da Leah.

Non vedevo l'ora di abbracciarla e trascorrere del tempo con lei, non ci vedevamo da quando lei era stata da me per il concerto al Dodger Stadium.

Mi mancava sempre troppo per i miei gusti, ma doveva essere normale quando si era innamorati di qualcuno, anche se faceva sempre troppo male stare lontani per tante settimane.

Suonai il campanello e aspettai che qualcuno mi aprisse. Lanciai un'occhiata al condominio, notando che era una struttura piuttosto anonima e dall'aria vissuta. Sapevo che probabilmente quella palazzina aveva più di un secolo, ma evitai momentaneamente di chiedermi in che condizioni fossero gli appartamenti al suo interno.

Il portone di fronte a me si spalancò e un tizio allucinato che doveva avere la testa in un universo parallelo mi venne quasi addosso; si bloccò di botto e mi fissò come se avesse appena visto uno spettro e sbatté ripetutamente le palpebre.

«Ehi, amico. Grazie per avermi aperto» lo apostrofai, facendo per infilarmi dentro l'androne.

«Oh merda! Ultimamente le mie allucinazioni sono sempre più gravi... dovrei andare davvero da uno strizzacervelli...» farfugliò il tizio.

Una voce proveniente dall'interno del palazzo gridò: «Harper, non c'è nessuno lì, ma con chi stai parlando?».

Aprii maggiormente il portone e notai Leah che scendeva gli ultimi gradini di una scala ripida e angusta. Il mio cuore perse un battito e rimasi per un istante a fissarla senza muovere un muscolo.

«Già, ma... mi sembra di vedere il bassista dei System Of A Down sul nostro portone...»

Leah raggiunse il ragazzo e gli picchiettò sulla spalla. «Devi darci un taglio con quella robaccia» lo rimproverò, poi lo spinse fuori e gli disse che doveva proprio muoversi se non voleva arrivare tardi, ovunque stesse andando.

Poi tornò indietro e mi travolse con un abbraccio, per poi trascinarmi all'interno e richiudere l'uscio alle nostre spalle.

«Leah, che cosa...» farfugliai.

«Poi ti spiego, andiamo!» Mi afferrò per un braccio e mi portò con sé verso la scala.

La costrinsi a fermarsi e le rivolsi un'occhiata ammonitrice. «È questo il modo di salutare il tuo uomo?»

Lei gettò un'occhiata prima alla sua destra e poi a sinistra, infine fece spallucce. «Uomo? Io non vedo nessun uomo da queste parti» fece in tono ironico.

«Allora torno a Los Angeles» la minacciai.

«No!» Lei scoppiò a ridere e mi spinse contro la parete che fiancheggiava l'ascensore. Premette il suo corpo contro il mio e si sollevò in punta di piedi per cercare le mie labbra. Le baciò con impeto, stringendomi forte a sé e regalandomi le sensazioni familiari che tanto mi erano mancate.

«Così si ragiona» soffiai sulle sue labbra, quando mi staccai per riprendere fiato. La strinsi tra le braccia e la baciai ancora, carezzandole i capelli sottili e la schiena esile.

«Andiamo dentro, dai» boccheggiò Leah, immergendo per un istante il viso nella mia t-shirt.

«Va bene.» Ma non mi scostai di un millimetro e rimasi a godere del suo calore e dei suoi soffici capelli tra le dita, mentre lei mi lasciava delicati baci sul collo.

Sospirai e chiusi per un attimo gli occhi. «Leah, attenta a quello che fai» la avvertii, mentre un calore incontrollabile si espandeva per tutto il mio corpo e mi faceva desiderare di strapparle i vestiti di dosso e prenderla lì, sulle scale, senza pensarci due volte.

«Adesso ho paura» mormorò al mio orecchio, poi si staccò improvvisamente da me e cominciò a salire i gradini con noncuranza. «Shavarsh, datti una mossa e non stare lì con quell'espressione da pesce lesso» cantilenò, sfottendomi apertamente.

La seguii in silenzio, resistendo fino all'ultimo per non afferrarla da dietro e sbatterla al muro per dimostrarle quanto la desiderassi. Una volta giunti al quinto piano, lei aprii rapidamente la porta situata proprio di fronte alle scale e sgusciò dentro.

Le corsi dietro e la afferrai saldamente per i fianchi, abbracciandola da dietro e avventandomi sul suo collo ancor prima che l'uscio si fosse richiusa.

Leah si abbandonò contro il mio petto e inclinò la testa all'indietro, poggiando la nuca alla mia spalla. «Ehi, c'è Shelley di là...» biascicò, ma la sua voce venne spezzata da un gemito strozzato quando le mie mani si insinuarono sotto la sua maglia leggera. Stavo per risalire lungo i suoi fianchi stretti, quando udii un rumore alla mia destra e decisi di fermarmi.

Non volevo dare spettacolo di fronte alla coinquilina di Leah; se si fosse trattato di Samantha, mi sarei preoccupato molto meno, visto e considerato che la conoscevo e sapevo che non era facile metterla in imbarazzo e scandalizzarla. Ma di Shelley non sapevo niente e non avevo intenzione di darle subito l'impressione di essere un maiale pervertito.

Mi limitai a tenere Leah stretta a me e riportai le mani sulla sua pancia, lasciando piccoli baci sui suoi capelli.

Una ragazza bellissima apparve sulla soglia di una stanza che affacciava sulla piccola cucina e ci fissò sorpresa, per poi incurvare le labbra sottili in un dolce sorriso. Era bionda, doveva essere alta circa un metro e ottanta, i suoi occhi erano azzurri e luminosi e il suo fisico avrebbe fatto invidia a qualsiasi altra creatura di sesso femminile presente sulla faccia della terra. Daron aveva ragione a dire che era sexy, ma certamente non avrebbe mai avuto alcuna possibilità con uno schianto del genere.

Leah mi mollò una gomitata sulle costole e io distolsi immediatamente lo sguardo, imprecando sottovoce per il dolore.

«Razza di imbecille» mi rimbeccò, divincolandosi dalla mia stretta. Raggiunse la sua amica e le sorrise. «Shy, questo qui è rimasto abbagliato da te com'è successo a Daron. Sei troppo bella, io mi sento un essere inferiore» blaterò, battendole affettuosamente sul braccio.

«Oh, Leah! Non sottovalutarti tanto» la rabbonì la sua amica, poi mi si accostò. «Ciao, tu devi essere Shavo. È un piacere conoscerti, sono Shelley.»

Le tesi una mano e mi soffermai per un attimo a scrutare i suoi lineamenti delicati e perfetti. Non era possibile che al mondo esistessero esseri tanto incantevoli.

«Ma lo vedi come ti guarda?» sbraitò Leah, già nei pressi del tavolo della piccola cucina collegata direttamente all'ingresso.

«Io...» farfugliai, distogliendo immediatamente lo sguardo. «Ehi, non incontro tutti i giorni ragazze come lei» mi giustificai, poi mi resi subito conto di aver commesso un madornale errore.

Leah si voltò di scatto nella mia direzione, mentre Shelley rideva imbarazzata e scuoteva il capo per cercare di minimizzare le mie parole.

«Come, scusa?» gracchiò la mia ragazza, gli occhi stravolti dalla rabbia.

«Io... Leah, se tu ti trovassi di fronte a un dio greco, non potresti negare che è più bello di me» tagliai corto, stringendomi nelle spalle.

«Avanti ragazzi, mica sono Miss Mondo!» si schernì Shelley, accostandosi poi a Leah. «Ehi, dai, non fare così.» Si chinò a sussurrarle qualcosa come lui ha occhi solo per te, poi le sorrise dolcemente e si avvicinò al frigorifero.

«Sei un imbecille. Voi maschi siete tutti uguali» mi accusò Leah, incrociando le braccia al petto.

«Stai davvero facendo una scenata di gelosia?» le chiesi, per poi ridacchiare. La trovavo tremendamente buffa e sexy allo stesso tempo, il che non fece che accrescere il mio desiderio nei suoi confronti. Non doveva preoccuparsi, non avrei mai trovato in una Shelley qualunque ciò che lei sapeva darmi, il suo caratterino capace di tenermi a bada e quel corpo esile ma incredibilmente morbido, caldo e accogliente.

«No, affatto. Ti dico solo quello che penso, Shavo Odadjian» replicò seccamente.

«Andiamo!» Il mio sorriso si allargò e, non potendone più di starle lontano, la raggiunsi e cominciai a riempirle il viso di baci rumorosi.

«Levati! Stronzo!»

«Sta' ferma!»

«No!»

«Ragazzi?» ci richiamò Shelley.

Ci voltammo verso di lei, Leah con le mani premute contro il mio petto e i capelli scompigliati sul viso, e io con le braccia attorno alla sua vita e l'espressione divertita.

Sul viso della ragazza era dipinta una dolcezza e una tenerezza difficile da descrivere. Ci fissava quasi estasiata, come se non riuscisse a credere ai suoi occhi.

«Shy, che c'è?» le si rivolse Leah in tono perplesso.

«Siete davvero una coppia stupenda. Credetemi, vedervi così mi ha dato un sacco di ispirazione. Vorrei...» Si schiarì la gola e distolse gli occhi, posandoli in un punto indefinito oltre la finestra spalancata. «Potrei farvi un ritratto?»

«Eh?!» sbottai, mentre Leah si esibiva in un sibilo strozzato colmo della mia stessa sorpresa.

«Sì, be'... emanate una magia unica. Non mi capita spesso di trovare due innamorati come voi. Posso sembrare pazza, ma...» Sospirò. «Oggi stavo cercando di disegnare un nuovo abito da sera, ma proprio non ci riesco. E ora ho capito che ho bisogno di fare qualcosa di diverso.»

«Stai scherzando?» abbaiò Leah.

«Perché no?» feci io in contemporanea.

La mia ragazza mi fissò allibita. «Stai scherzando?» ripeté.

Scossi il capo e mi strinsi nelle spalle. «Sembra una cosa interessante» commentai, mentre una strana eccitazione mi si espandeva nell'animo.

«Voi due siete matti!»

«Dai, Leah, fallo per me!» la pregò Shelley.

L'altra la fissò per un po', infine sospirò e scosse il capo. «Fa' come ti pare.»

«Oh, grazie!» strepitò Shelley.

«Dobbiamo stare fermi in un punto come due statue?» volle sapere Leah con fare scettico.

«Ma no! Cercherò di cogliere i particolari che mi piacciono con delle foto, e poi mi metterò all'opera basandomi su quelle. Se per voi non è un problema.»

«Basta che poi le cancelli» brontolò la mia ragazza.

«Non cancellarle. Io le voglio!» affermai.

Leah alzò gli occhi al cielo. «Originale, Shavarsh. Non me l'aspettavo.»

dopodiché trascorremmo un po' di tempo in cucina con Shelley. Prendemmo a chiacchierare e scherzare, e dopo un po' riuscimmo quasi a ignorare la sua macchina fotografica che molto spesso scattava con un secco click per cercare di coglierci in momenti in cui eravamo distratti o ci stavamo punzecchiando.

L'amica di Leah era molto timida, non poneva mai delle domande e si faceva perlopiù gli affari suoi. Era sicuramente un'attenta e acuta osservatrice, e doveva possedere una sensibilità fuori dal comune.

Arrivammo a parlare di Daron e notai che Shelley arrossiva nel sentirlo nominare, segno che probabilmente lui era riuscito a metterla in imbarazzo com'era solito fare con ogni creatura femminile respirante.

Infine Leah si stancò di farsi fotografare e mi afferrò per un braccio, trascinandomi verso la sua stanza. «Shy, ora noi ce ne stiamo un po' tranquilli, okay? Tu cosa devi fare?»

«Voglio cominciare il ritratto, ma tra un po' devo uscire.»

«Sam torna per cena?» si informò Leah.

«Credo di sì. Ma lei è imprevedibile, lo sai» rispose l'altra, preparandosi a disegnare con un taccuino e diverse matite.

Leah annuì e chiuse la porta della sua stanza.

Mi guardai attorno e notai che si trattava di un ambiente piuttosto piccolo dall'arredamento spartano, molto semplice e senza alcuna pretesa.

Leah sospirò. «Scusa, certo non è come stare da te» mormorò, appoggiandosi con la schiena alla parete che affiancava la porta.

La raggiunsi e, cogliendola di sorpresa, la presi in braccio di slancio. Lei emise un sibilo di sorpresa e si aggrappò goffamente alle mie spalle.

«Fregata!» esclamai.

«Mettimi giù, ehi! Che fai?»

Mi accostai al suo letto e la deposi delicatamente su di esso, per poi stendermi al suo fianco e prenderla tra le braccia. «Voglio solo stare qui con te» sussurrai, lasciandole un bacio sulla fronte.

«Non te lo meriti. Io non sono come Shelley» borbottò, stentando a rilassarsi contro di me.

Sospirai brevemente. «Leah, smettila. Certo che non sei come lei, ma tu sei unica e perfetta così come sei» la rassicurai, accarezzandole i capelli con dolcezza.

«Lo dici solo perché sai che non posso resisterti» si lamentò, tirando leggermente la treccina che mi pendeva dal mento.

Ridacchiai. «Sai quanto mi fa sentire onorato?»

«Cosa?»

Le presi il viso tra le mani e la guardai negli occhi. «Che tu non riesca a resistermi. Perché è lo stesso per me. Non c'è Shelley che tenga, per me tu sei la più bella, la migliore in ogni senso. Non c'è partita.»

Sbuffò e mi colpì il petto con un pugno. «Ma piantala, non ci credi neanche tu!» esclamò.

La fissai. «Sono serio, Leah Moonshift. Ti amo.»

Lei avvampò improvvisamente e fece per sottrarsi al mio sguardo, ma io non glielo permisi e tenni i miei occhi sui suoi. Sentii una dolcezza incredibile invadermi e scaldarmi il petto, perché sapevo che ciò che le avevo confessato era semplice ma tremendamente vero.

«Quando la smetterai di arrossire quando ti confesso i miei sentimenti?» scherzai, trascinandola vicino a me e abbracciandola stretta.

«Credo che non succederà mai» disse lei in tono sconsolato, affondando il viso sul mio petto.

«Non importa» mormorai. «Non importa. È per questo che sei così speciale» conclusi.

Leah sollevò il viso e mi baciò dolcemente sulle labbra, socchiudendo gli occhi e abbandonandosi finalmente tra le mie braccia.


L'immagine non era niente di più di uno schizzo, ma non appena la individuai il cuore rimbalzò nel mio petto e fece una capriola.

Sul lato sinistro si intravedeva la figura di Leah con i capelli arruffati e gli occhi un po' più grandi del normale. Da questi, nonostante si trattasse solo di un disegno, trasparivano emozioni contrastanti: un calore indescrivibile, il fuoco della passione e una nota di dolcezza che si intuiva dal modo in cui gli angoli si incurvavano verso il basso, sorridendo proprio come le sue labbra sottili. Teneva le braccia incrociate al petto e fingeva evidentemente di non badare a me, nonostante tutto il suo essere paresse inspiegabilmente fremere dal desiderio incontrollabile di toccarmi.

Io, sulla parte destra del foglio, tenevo una mano attorno alla sua vita e sembravo intento a trascinarla più vicino a me. Tenevo gli occhi fissi sul suo volto, dai quali traspariva un velo di preoccupazione e un'infinita e inspiegabile tenerezza, venata da una nota di desiderio nei confronti della donna che mi stava accanto.

I dettagli che Shelley era riuscita a cogliere nel suo disegno erano incredibilmente realistici e furono in grado di lasciarmi senza fiato.

Leah fissava quella piccola opera d'arte con il viso paonazzo e gli occhi sgranati, incapace di aprire bocca ed esprimere un qualsiasi parere.

«Vi piace?» chiese Shelley con cautela.

Era tarda mattinata e noi tre stavamo seduti attorno al tavolo della cucina. Era il 26 settembre e Leah aveva compiuto venticinque anni, e la sua amica aveva deciso di regalarle il nostro ritratto all'interno di una cornice a giorno. Un dono semplice, ma capace di colpire dritto nel cuore la mia ragazza e anche me.

O forse io ero rimasto ancora più stregato rispetto a lei, considerato che stavo facendo fatica a trattenere le lacrime di commozione che spingevano per rotolare giù dai miei occhi.

«Io... sono davvero così?» esalò Leah, chinandosi sul suo regalo per poterlo osservare meglio.

«In che senso?»

«Sembro un'arpia» mormorò. «E so benissimo quanto tu sia brava a osservare e cogliere i dettagli di ciò che ti circonda, Shy.»

«No, un'arpia? Ma...» Shelley si portò le mani al viso. «Non volevo darti l'impressione che...»

Mi schiarì la gola. «Leah, non essere sciocca. Hai visto quanto io sembro un idiota?» Sospirai. «Mi chiedo come hai fatto a metterti con me» borbottai.

«Caso mai è il contrario» protestò lei.

Shelley ci fissò e la sua espressione si addolcì, mentre le sue labbra si incurvavano in un luminoso sorriso. «Ho voluto solo disegnare due sciocchi insicuri. Vi rendete conto di quanto vi amate?»

Io e Leah ci scambiammo un'occhiata perplessa.

«Sì, è questo che traspare dal disegno che ho fatto. Io vi guardo e vedo due anime così belle e vicine da far quasi mozzare il respiro a chi le circonda.»

Mi sentii avvampare, e a quel punto Leah scoppiò a piangere e si gettò letteralmente addosso alla sua amica. «Shy, ti adoro! Oh, grazie, è un regalo bellissimo!»

L'altra ricambiò la stretta e le accarezzò la schiena con fare affettuoso. Anche i suoi occhi si erano inumiditi. «Però così fai piangere anche me, su» biascicò.

«Ragazze» sussurrai, asciugandomi gli occhi a mia volta.

Leah cercò il mio sguardo e si staccò dalla sua amica, correndo a gettarsi tra le mie braccia. «Questo è il compleanno migliore di tutta la mia vita!» esclamò.

Qualche lacrima silenziosa mi rigò le guance e cercai di asciugarla con discrezione, anche se sapevo perfettamente che le ragazze se ne erano accorte. Mi venne in mente che Leah non sapeva ancora niente della sua festa a sorpresa, né della presenza di John, Bryah e Louis a Las Vegas. Sorrisi e la tenni stretta.

Shelley stava per dire qualcosa, quando un fracasso infernale proveniente dall'ingresso ci fece sobbalzare. Poco dopo, Samantha fece irruzione nella piccola cucina, con al seguito una ragazzina che non doveva aver ancora compiuto diciotto anni e la seguiva come un cagnolino ammaestrato.

«Buongiorno gente! Ah, Shavo, ciao!» strillò l'amica di Leah. Si accostò a me e mi batté sulla spalla. «Come vanno le cose, compare?»

«Non c'è male» risposi con una risatina nervosa, perfettamente consapevole di avere ancora i segni del recente pianto sul viso.

«Ciao Sam. Lei chi sarebbe?» domandò Shelley, scrutando con sospetto l'accompagnatrice di Samantha.

«Ah, sì... lei è Susan, un'amica speciale» rispose, sottolineando con fare malizioso l'ultima parola.

«Ciao Susan. Prego, accomodati» la invitò la bionda con gentilezza.

Leah si voltò a fissare la ragazzina e sbuffò. «Un'altra vittima» commentò con ironia.

Susan non aprì bocca e si sedette al tavolo della cucina.

Samantha si rivolse a Leah e abbaiò: «Chiudi il becco». Poi si accostò alla sua accompagnatrice e si chinò per sussurrarle qualcosa all'orecchio; non mi sfuggì la mano che lasciò scivolare sul fianco dell'altra e il modo in cui mordicchiò brevemente il lobo del suo orecchio.

Susan arrossì lievemente e annuì, poi rivolse un sorriso timoroso a Leah.

Trattenni una risata e attirai l'attenzione di Samantha. «Sam, non fai gli auguri a Leah?»

«Auguri a...» La mora si batté una mano sulla fronte e imprecò. «Ma cazzo, oggi è il tuo compleanno! È vero!»

Leah fece spallucce. «Non te ne frega niente di me, strega» la accusò.

«Ma vaffanculo! Vieni qui, vecchietta!» Samantha travolse la sua amica con un abbraccio colmo di affetto, poi prese a sbaciucchiarla rumorosamente sulle guance.

Distolsi lo sguardo e mi finsi disgustato, mentre Leah si rivoltava contro Samantha e la insultava in maniera per niente dolce.

«Nessuno apprezza i miei gesti d'affetto» finse di offendersi la ragazza corpulenta, incrociando le braccia sul petto prosperoso.

«Io sì» sussurrò Susan con un filo di voce, allungando una mano con fare titubante per poi accarezzare il braccio della sua amica speciale.

Samantha la fissò, poi le ordinò di alzarsi e prese a marciare verso la sua stanza intimandole di seguirla, perché doveva insegnarle due cose su come ci si comporta.

Io, Leah e Shelley ci fissammo perplessi, poi cominciammo a sghignazzare tra noi, finendo per fare delle battute oscene sulle due ragazze che si erano appena allontanate.

Guardai la mia ragazza. «Sei pronta? Ti porto fuori a pranzo.»

«Sul serio?»

Annuii.

Prima che Leah si avviasse verso la sua stanza per finire di sistemarsi, notai che Shelley le sfiorava il braccio e le rivolgeva uno sguardo strano. Non riuscii a decifrare la sua espressione, ma qualcosa nell'atteggiamento sereno della mia ragazza era cambiato.

E non mi piacque per niente.

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Capitolo 63
*** Happy Birthday! ***


ReggaeFamily

Happy Birthday!

[John]




Lanciai un'occhiataccia a Louis e lui me la restituì senza scomporsi troppo.

«Stai facendo un casino» lo rimproverai, indicando lo striscione che il rapper stringeva tra le mani.

«Dolmayan, non rompere. Altrimenti te lo faccio fare da solo» bofonchiò, facendo per lasciar cadere l'estremità del festone sul pavimento.

«Insomma! Vogliamo smetterla di comportarci come bambini dell'asilo?» intervenne Samantha, portandosi le mani sui fianchi. «Abbiamo a malapena un'ora prima che Leah e Shavo arrivino, dobbiamo darci una mossa!» aggiunse, e la sua voce piena e tonante rimbombò per tutto il locale.

Evitai di rispondere e spostai lo sguardo su Bryah, intenta a gonfiare dei palloncini come una forsennata, aiutata dall'amica di Samantha. Avevo già dimenticato il nome di quella ragazzina bassottina e piuttosto insignificante.

Louis e Samantha, intanto, si stavano letteralmente scannando, abbaiandosi contro come iene imbufalite.

«Senti, bella, non mi faccio comandare da te!»

«Pensi che invece io mi faccia dire da te cosa devo fare? Mettiti al lavoro, gangster dei poveri!»

«Come ti permetti?»

«Ma piantala di fare l'idiota! Appendi quel festone o no?!»

una ragazza bionda e bellissima fece il suo ingresso nella sala, trafelata e con un'espressione colma di panico dipinta in viso.

«Scusate per il ritardo! C'è stato un ingorgo pazzesco sulla Madison, non sapevo come venirne fuori...» farfugliò, poi i suoi occhi si posarono su di me e infine su Louis. «Oh, ciao» aggiunse timidamente.

Le rivolsi un cenno di saluto, rimanendo dov'ero con la mia estremità dello striscione ancora in mano. «Ciao. Tu devi essere Shelley» dissi.

Lei annuì e si avvicinò a me per tendermi la mano. «Esatto. Tu sei John?»

Sorrisi appena. «Come hai fatto a indovinare?»

«Dalle foto che Leah mi ha mostrato.»

Come non detto.

Louis si accorse di Shelley e si immobilizzò per un istante, ignorando completamente gli improperi che Samantha ancora gli rivolgeva. Poi emise un fischio d'approvazione parecchio raccapricciante, facendo sospirare d'esasperazione tutti i presenti.

Shelley scrollò le spalle e gli si accostò come se niente fosse, nonostante le sue guance si fossero leggermente imporporate. «Ciao, piacere. Sono Shelley.»

«Louis Freese, al tuo servizio, mademoiselle» cinguettò il rapper, sbagliando ovviamente la pronuncia della parola in francese.

«Bada a te stessa, Shel, è un ciarlatano pervertito» puntualizzò subito Samantha, scatenando le risate dei presenti e l'ira funesta di Louis, il quale cominciò a rincorrerla per tutta la sala con intenzioni ben poco chiare.

Aveva lasciato cadere la sua estremità dello striscione a terra, il che mi fece sospirare.

La bionda se ne accorse e lo raccolse, offrendosi per aiutarmi a finire di addobbare la stanza.

Non vedevo l'ora che fosse tutto pronto, l'espressione attonita di Leah sarebbe stata impagabile.


«Shavarsh, avevamo detto niente stronzate!»

«Cammina e non blaterare.»

«Ma non vedo niente, levami questa roba dagli occhi!»

«Niente affatto. Dai, manca poco.»

«Ti detesto! Perché mi fai questo?»

«Perché mi piace torturarti.»

Eravamo tutti fermi e zitti, immersi nell'oscurità della grande sala che Shavo aveva affittato al Creaminal per la festa a sorpresa di Leah. L'unico che stava sghignazzando sottovoce era Louis, e io stavo cominciando a perdere la pazienza. Doveva aver vinto qualcosa a strip poker, perché sembrava elettrizzato da quando ci eravamo riuniti per preparare tutto per il party.

Gli mollai una gomitata sulle costole e lui rantolò sommessamente, insultandomi con parole che non riuscii a distinguere.

«Okay, ci siamo quasi» sentii dire a Shavo, poi intravidi nella penombra le figure di lui e Leah che facevano il loro ingresso nella sala.

Il bassista cominciò a slacciare la benda che aveva sistemato sugli occhi della sua ragazza, e lei rimase per un istante immersa nel buio. Prima che i suoi occhi potessero abituarsi alla penombra, le luci si accesero e sfarfallarono allegre tutt'intorno, mostrandole ciò che avevamo preparato per lei.

In quel momento il dj – un tizio allampanato e taciturno che organizzava spesso delle serate nel locale – fece partire Back In Black degli AC/DC e tutti noi gridammo: «Auguri Leah!».

Il tutto fu molto raccapricciante e io ebbi l'impressione che fossimo una banda di idioti e che Leah ci avrebbe probabilmente ritenuto pazzi.

«Oddio!» strillò, schermandosi gli occhi con una mano.

Il suo sguardo si posò sugli striscioni in tema giamaicano – giusto per non farle dimenticare il viaggio che ci aveva unito indissolubilmente – e sui palloncini con su dipinti smile di vario tipo e foglie di marijuana colorate. Poi ispezionò il dj che pompava bassi inopportuni su musica rock e sull'enorme tavolo rettangolare stracolmo di cibo e bevande che stava accostato al bancone del bar.

Infine gli occhi scuri e lucidi della festeggiata si posarono su ognuno dei presenti, e quando raggiunsero i miei si soffermarono per un istante e lasciarono trasparire una commozione che non ricordavo di aver mai scorto in lei, non così apertamente almeno.

Quando cominciò la seconda strofa di Back In Back, Leah corse verso di me e si fiondò tra le mie braccia, stringendomi forte e strillando di gioia. «John! Ci sei anche tu!»

«Non potevo mancare! Tanti auguri, vecchia mia. Come ti senti? Hai raggiunto un quarto di secolo!» le dissi, battendole affettuosamente sulla schiena.

«Ah, piantala! Sono felice di vederti!» bofonchiò con la voce rotta dall'emozione.

La lasciai andare e lei si fiondò a salutare Bryah con lo stesso calore, poi si accostò a Louis e gli rubò il cappellino dalla visiera piatta che lui indossava. «Se non mi consideri, non te lo restituisco» gracchiò la festeggiata.

Louis la degnò appena di un'occhiata e continuò a fissare spudoratamente il fondoschiena di Shelley.

Samantha si scaraventò addosso al rapper e lo spintonò verso Leah.

«Maleducato!» strillò la mora.

Leah rise e mollò una pacca sulla spalla di Louis. «Farò finta che non sia successo niente» proclamò, poi tornò da Shavo e gli regalò un bacio a fior di labbra. «Hai organizzato tutto tu?»

Il bassista annuì. «Daron mi ha consigliato il locale, poi tutti loro l'hanno addobbato prima che arrivassimo.»

Il dj fece partire Piece of my heart di Janis Joplin e Louis si risvegliò improvvisamente dalla sua fase di voyeurismo molesto e trotterellò da Leah, afferrandole la mano con fare cavalleresco e, dopo aver eseguito un lieve inchino, le chiese: «Mi concederesti questo ballo, baby?». Poi le strappò il suo cappellino dall'altra mano e se lo risistemò in testa.

Leah rise e i due cominciarono a zampettare per la stanza, gridando le parole del testo e inventandone la metà. Sembravano due galline strozzate, e a rendere il tutto ancora più penoso ci pensò la pronuncia incomprensibile con cui Louis articolava le parole e le lettere come la s e la f.

Dopodiché le note di un brano degli Smash Mouth si diffusero nell'aria circostante, il che bastò a scatenare la gioia generale.

Mi ritrovai in mezzo a balli improbabili e gente che cantava a squarciagola. Bryah, euforica, chiese al dj di rimettere da capo il brano, com'era usuale con le canzoni reggae che suscitavano particolare interesse e stima da parte del pubblico.

La mia compagna, al centro della sala, fece una piroetta e gridò: «Pull up!».

Il tizio sorrise per la prima volta da quando era giunto sul posto e inserì un effetto come quello che i selecta usavano con i vinili per rimetterli da capo e il brano ricominciò.

Ridacchiai e la raggiunsi, regalandole un breve abbraccio. «Ti piacciono gli Smash Mouth? Non finisci mai di sorprendermi» le dissi.

Lei annuì. «Sono allegri!»

«A volte sì, a volte no» replicai divertito.

«Balla con me, dai!» mi esortò.

Scossi il capo. «Vado a prendere qualcosa da mangiare.» Mi accostai al suo orecchio e sussurrai: «Il regalo è pronto?».

«Certo! Tutto okay, tranquillo.»

Assentii con un cenno del capo e mi allontanai, spostandomi verso il grande tavolo stracolmo di cibo.

Intercettai Shavo che, piazzato di fronte al banchetto, muoveva a tempo la testa su I'm shipping up to Boston dei Dropkick Murphys.

Gli battei vigorosamente sulla spalla, facendolo quasi strozzare con un mucchietto di pop corn che aveva appena messo in bocca.

«Quella mummia di dj ci sa fare» commentai.

Il bassista annuì, mentre tossicchiava. «Sì, mette su la musica giusta» bofonchiò.

«Leah è felicissima» osservai, gettando un'occhiata alla ragazza che si scatenava in pista insieme a Bryah e Louis.

«Già, anche se...» Shavo finì di masticare e mi lanciò un'occhiata venata di preoccupazione. «Questa mattina ho avuto l'impressione che qualcosa non andasse.»

«In che senso?» indagai confuso.

«Be'... non so. Come se mi nascondesse qualcosa» mormorò.

Faticai ad afferrare le sue parole, incapaci di sovrastare il baccano generale che regnava all'interno del grande salone. Mi accostai a lui e cominciai a riempire un bicchiere di plastica con patatine di vario genere.

«Le hai chiesto spiegazioni?»

Shavo scosse il capo. «Non volevo rovinare l'atmosfera, ecco... oggi è il suo compleanno e...»

Fummo interrotti proprio dalla festeggiata, la quale corse da noi e ci abbracciò insieme, eccitata come non mai dalla sorpresa che tutti avevamo organizzato apposta per lei.

«Ragazzi! Sono così felice!»

Il bassista le scompigliò dolcemente i capelli e si chinò per baciarla sulla guancia. «Allora abbiamo fatto la cosa giusta?» domandò.

«Sicuro!» confermò la ragazza.

Mi ricordai all'improvviso di una cosa che dovevo assolutamente fare e afferrai il cellulare, poi guardai in direzione di Leah. «Ehi, c'è qualcuno che vuole parlare con te al telefono» le dissi.

«Con me?» si puntò un dito sul petto, inclinando la testa di lato.

Annuii. «Andiamo un attimo fuori?» le proposi.

Shavo la spinse leggermente verso di me e ridacchiò. «Io intanto mi ingozzo con un altro po' di pop corn caramellati, sono deliziosi!» Poi mi fece l'occhiolino senza farsi vedere dalla ragazza.

Leah mi seguì all'esterno, sul retro del locale che era munito di una piccola sala fumatori, che al momento era completamente vuota.

Mi portai il cellulare all'orecchio e feci partire la chiamata, sotto lo sguardo perplesso della mia amica.

«Pronto?» rispose Daron.

Dovetti trattenermi per non ridere nell'udire la sua voce più nasale del solito, a causa di un brutto raffreddore che l'aveva colpito un paio di giorni prima. «Lei è qui, vuoi parlarle?» domandai in fretta.

Leah dovette notare la mia espressione divertita, poiché mi si accostò e tentò di origliare.

«Okay» gracchiò Daron.

Porsi il cellulare alla mia amica e mi voltai per ridacchiare, incapace di trattenermi oltre. Il chitarrista sembrava ancora di più una cornacchia strozzata con il raffreddore, e risultava piuttosto difficile comprendere cosa diceva.

Leah, a differenza mia, scoppiò a ridere quasi subito. «Ti sei ammalato, Malakian? Cosa? Non ho capito, ripeti.» Prese a camminare avanti e indietro per il pavimento piastrellato che ricopriva la sala fumatori. «Un? Cosa?»

Alzai gli occhi al cielo e mi allontanai un po' da lei per poter sghignazzare liberamente.

«Ah! Un augurio speciale, okay, ora ho capito. Io credevo te ne fossi dimenticato, visto che non mi hai contattato per niente oggi» proseguì la festeggiata.

Mi accostai alla porta che conduceva all'interno del locale e sbirciai con discrezione all'interno, notando che il resto della banda stava finendo di allestire tutto per il momento in cui avremmo dato i regali a Leah.

«Cretino, lo hai fatto apposta!» La ragazza rise. «Grazie, amico. Vorrei tanto che anche tu fossi qui, non sai quanto ci stiamo divertendo. Ho ballato Janis Joplin con Louis, è stato fantastico!» raccontò tutta contenta. Rimase in ascolto per un attimo e, dopo aver chiesto più volte a Daron di ripetere una parola che non riusciva a comprendere, concluse: «Va bene, ci sentiamo domani allora, così finisco di raccontarti tutto. Sì, guarisci presto, mi raccomando!»

Poco dopo mi raggiunse e mi porse lo smartphone.

«Torniamo dentro?» le proposi, certo che ormai tutto fosse pronto.

Lei annuì e insieme ci recammo nuovamente nella grande sala. Le luci erano state abbassate e dalle ponderose casse posizionate in punti strategici della stanza si diffusero le prime note di Purple Rain di Prince.

Shavo avanzò con espressione seria e dolce verso la sua ragazza e le porse una mano. «Mi concedi questo ballo, mia bella?» le domandò, risultando piuttosto teatrale e ridicolo.

Mi schiarii la gola e mi allontanai per evitare di ridere, avvicinandomi poi a Bryah. La abbracciai da dietro e insieme prendemmo a oscillare su quella bellissima canzone che da sempre avevo ritenuto piuttosto romantica e struggente.

Appoggiai il mento sulla spalla della mia compagna e socchiusi gli occhi, mentre osservavo distrattamente Shavo e Leah ballare abbracciati. Non che stessero mettendo in scena chissà quale performance, ma erano talmente carini e stretti l'uno all'altra che il cuore mi si riempì di tenerezza e fui costretto a distogliere lo sguardo per paura di disturbarli.

«Comunque Shavo non è credibile quando fa il romantico» sghignazzò Louis, trotterellando accanto a noi.

«Ma sì. È molto dolce in realtà, è che spesso si atteggia e si mostra duro» lo contraddissi.

«Vero, però sembra un idiota quando si comporta da sdolcinato.» Il rapper mi mollò una piccola gomitata sulle costole.

«Povero Shavo!» intervenne Bryah con un sorriso.

MI staccai da lei e insieme corremmo a recuperare il regalo che io, lei e Daron avevamo fatto a Leah, nascosto dietro il bancone del bar.

Quando Purple Rain si concluse, il dj fece partire un'altra canzone piuttosto tranquilla e dolce, che lasciò nell'aria un'atmosfera rilassata.

«È ora di aprire i regali!» annunciò Bryah, accostandosi alla festeggiata.

Quest'ultima era ancora stralunata dal momento romantico che aveva appena vissuto e faticava a trattenere lacrime di gioia e commozione. «Mi avete pure fatto dei regali? Oh no!» farfugliò.

«Ma certo, tesoro! Questo è da parte mia, di John e di Daron. Speriamo ti piaccia» annunciò la mia compagna, spingendo il voluminoso pacco verso Leah, facendolo strisciare sul pavimento.

La nostra amica sgranò gli occhi e si inginocchiò sul pavimento, cominciando a strappare via la carta blu elettrico disseminata di stelline colorate. Quando individuò la grande valigia che si trovava all'interno della confezione, emise un sibilo strozzato. «Uh! Mi serviva davvero, ragazzi! Siete stati così... oh, è bellissima! Io...» La sua voce tremò e una lacrima scivolò sulla sua guancia sinistra.

«Apri la valigia, non è finita qui» le consigliai, accovacciandomi accanto a lei.

Leah mi fissò. «C'è dell'altro? Oddio, esagerati, ma che avete combinato?» ci rimproverò, per poi seguire il mio suggerimento. All'interno della grande borsa trovò una busta color crema e la estrasse con sospetto. «Devo preoccuparmi?»

«Non è una bomba» la rassicurò Bryah.

«Okay.» La festeggiata estrasse un foglio scritto a mano dal sottoscritto e lo fissò con aria smarrita. «Cos'è?»

«Leggi» dissi soltanto.

Leah annuì. «Okay. Carissima Leah Moonshift, con questa piccola lettera voglio annunciarti con immenso piacere che tra due settimane cominceranno i lavori per la realizzazione di “Torpedo Comics”, progetto a cui tengo tantissimo. Volevo perciò chiederti ufficialmente, non solo a parole, di entrare nel mio staff e di aiutarmi a realizzare questo mio sogno. Ti prego di accettare, per me sarebbe un vero onore. All'interno di una di queste tasche troverai il tuo contratto di lavoro, ti basterà firmarlo e farai ufficialmente parte del mio equipaggio. Con tanto affetto, tanti auguri, John» lesse tutto d'un fiato, poi gettò tutto per aria e mi si scaraventò addosso, stringendomi forte in un abbraccio che significava più di mille parole.

«MI sa che le serve una penna» commentò Shelley, per poi scomparire per andare a cercarne una.

«Questo è un sì?» volli sapere, quando la mia amica si fu scostata da me.

«Sì, sì e ancora sì! Io... sono senza parole!» strepitò, portandosi le mani sul viso.

«Ora tocca a noi!» annunciò Samantha, accostandosi a Leah con un pacchetto rettangolare stretto tra le mani.

Shelley tornò accanto a noi e porse a Leah una penna. «Firma quel contratto, poi apri il nostro regalo!» suggerì.

Leah eseguì e mi porse una copia del contratto con sopra incisa la sua firma. «Se divento famosa, hai un mio autografo e puoi rivenderlo su internet per fare soldi» scherzò, per poi scartare il dono delle sue amiche.

Portò fuori una scatola grigio tortora che all'interno conteneva un completino intimo molto sexy, tutto pizzi e rasi, color rosso fuoco. Lo stesso colore che assunsero le sue guance quando lo vide.

Shavo si affrettò a esaminare il regalo, per poi annuire vigorosamente ed esibire un sorrisetto sghembo e malizioso che non faceva presagire niente di buono.

«Maschiaccio, ormai hai venticinque anni e anche tu devi indossare qualcosa di femminile. Ormai sei una donna impegnata» proferì Samantha senza peli sulla lingua, dando di gomito a Shelley.

La bionda ridacchiò. «Esattamente. Buon compleanno, bomba sexy» aggiunse.

Leah farfugliò qualcosa di incomprensibile e richiuse frettolosamente la scatola, mentre Louis continuava a fare battute sconce che nessuno stava a sentire.

Intanto il dj fece partire una canzone dei Franz Ferdinand, probabilmente si trattava di un vecchio successo della band, ma non riuscivo ad associare un titolo al motivetto familiare.

«Baby, questo è un piccolo regalo da parte mia» strillò Louis, per poi rivolgere un'occhiataccia al dj. «Ehi, giovanotto! Togli questa merda e metti su un po' di rap old school!»

Il dj fece sfumare il brano che aveva da poco fatto cominciare, e poco dopo una canzone di Eminem prese a pompare nelle casse. Louis annuì soddisfatto e porse a Leah il suo regalo.

Lei lo aprì, sorpresa di aver ricevuto qualcosa anche dal rapper che conosceva da poco. «Un CD dei Cypress Hill?» chiese incerta, rigirandosi l'oggetto tra le mani.

«Già. O non ti piace la mia musica?» fece lui.

«Sì, sì! È che Shavo me la fa sentire in continuazione, ormai so tutte le canzoni meglio di voi» scherzò Leah, per poi regalare un breve abbraccio a Louis.

«Ehi! Non è colpa mia se sono forti, sono il loro fan numero uno!» protestò il bassista, per poi prendere a rappare qualche verso che conosceva bene del brano di Eminem.

«Odadjian, perché non mi hai ancora chiesto un autografo?» gridò Louis, travolgendo il suo amico con un abbraccio fraterno.

«Levati e lasciami stare, devo dare il regalo alla mia ragazza!»

Leah sospirò. «Ancora regali? Vi prego, basta! Volete distruggere il mio povero cuoricino indifeso?»

Shavo la attirò accanto a sé e le porse un piccolo sacchetto arancione. «Apri e sta' zitta» le ordinò.

Lei si arrese e scartò il suo ultimo regalo. All'interno della confezione trovò un DVD che in copertina mostrava una foto di loro due insieme. Guardò Shavo con aria interrogativa. «Cos'è?»

Lui ridacchiò. «Ho creato una raccolta dei nostri ricordi del viaggio in Giamaica. Ho recuperato anche qualche video delle jam session che abbiamo messo su durante la vacanza, poi vedrai. Intanto aprilo, c'è un'altra cosa dentro» spiegò lui con dolcezza.

«Oddio...» Leah sollevò lo sportellino di plastica che richiudeva la custodia del DVD ed estrasse una piccola busta rossa incastrata tra le lamelle che servivano a tenere ferma la copertina. «Quanti misteri!»

Shavo le sfilò di mano il DVD per permetterle di esaminare al meglio il resto del suo regalo.

Leah aprì la busta ed emise uno strillo acuto, gettandosi addosso al suo ragazzo. Lui la sollevò da terra e la strinse forte, facendole fare una piroetta.

Mi affrettai a togliergli di mano il DVD, temendo che potesse sfuggirgli e rovinare a terra. L'entusiasmo era troppo per entrambi per essere contenuto.

Noi tutti ovviamente sapevamo cosa Shavo aveva organizzato per Leah, ovvero un viaggio in Giamaica, solo loro due, per festeggiare il prossimo Natale insieme e assistere a un concerto di Protoje, un artista che faceva letteralmente impazzire la ragazza.

«Sto per svenire!» Leah tornò con i piedi per terra e prese a strillare come una matta, e proprio in quel momento il dj mise su la sua canzone preferita di Protoje, intitolata Stylin'.

Così la ragazza proseguì a gridare e si scatenò in pista, trascinando con sé Shavo in una danza scomposta e proprio per questo perfetta.

Per me fu come rivivere quella sera al Fyah, quando i due avevano ballato proprio quel brano insieme per la prima volta; l'ondata piacevole di ricordi mi scaldò il cuore e mi fece commuovere.

Tentai di nasconderlo, ma Bryah se ne accorse e mi sorrise dolcemente, senza dire neanche una parola.

La festa proseguì tra danze, cibo, birra e risate, finché nessuno di noi fu più in grado di capire come avrebbe fatto a rientrare a casa o in albergo.

Ci divertimmo molto e festeggiammo come matti i venticinque anni di Leah.

Tornai in albergo molto tardi, con il cuore e la testa leggeri, Bryah che desiderava fare l'amore con me e un foglio ripiegato in tasca e firmato da una delle mie più care amiche che mi avrebbe aiutato a portare avanti il mio grande progetto.




Cari lettori, eccomi di nuovo ad aggiornare *-*

Be', vi è piaciuta la festa di compleanno di Leah? E i regali che ha ricevuto? A me tantissimo, specialmente il completino sexy che le hanno regalato quelle due sceme di Shelley e Samantha X'D eheheh, chissà quando se lo metterà per stare con Shavo... :P

Bando alle mie solite cretinate... okay, vi faccio ascoltare un po' di musica, così potrete entrare nell'atmosfera che ho voluto conferire alla festa!

Pronti?

Partiamo con Back In Black degli AC/DC, secondo me un must a una qualsiasi festa alternativa; sicuramente tutti la conoscete, ma ve la linko comunque:

https://www.youtube.com/watch?v=pAgnJDJN4VA

Poi, ecco a voi Piece of my Heart di Janis Joplin; povera canzone, immaginatevela strillata da Leah e Louis... ahia XD:

https://www.youtube.com/watch?v=j0f5ZG9LG6k

Questa dei Dropkick Murphys è un po' meno mainstream, se così si può dire... si chiama I'm shipping up to Boston ed è un brano molto carino da ballare, piuttosto folk e travolgente! Ecco a voi:

https://www.youtube.com/watch?v=NsxcZol_FEE

Ebbene, l'intramontabile e super romantica Purple Rain del grande Prince non poteva mancare; una canzone struggente, un classico che tutti dovrebbero ascoltare e amare, almeno secondo me. Sentite un po' su quali romantiche note hanno ballato Leah e Shavo (anche se io non ce li vedo, ahahahah, voi? X'D):

https://www.youtube.com/watch?v=bN5hTkWoCyE

Inoltre ho nominato gli Smash Mouth ed Eminem, ma non ho specificato un brano preciso... se siete curiosi di ascoltare qualcosa di loro, vi basterà cercare su YouTube ;)

E infine c'è anche Stylin' di Protoje, ma se ricordate avevo già inserito il link nel capitolo in cui i ragazzi erano al Fyah ed era partita quella canzone, avevo inserito anche alcune parti di testo ^^

Bene, ho finito con la lista della spesa... XD

Grazie a tutti voi che ancora siete qui, e al prossimo capitolo ♥

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Capitolo 64
*** Bad cold! ***


ReggaeFamily

Bad cold!

[Daron]




Estrassi di corsa un fazzoletto dal pacchetto che stava appoggiato sul tavolino di fronte al divano e mi soffiai il naso. Non ne potevo più di quel dannato raffreddore. Da una settimana mi tormentava e io ero sfinito.

Ripresi a suonare, cercando di utilizzare al meglio la mia chitarra classica. Non la usavo spesso, abituato com'ero a quella elettrica, ma quando avevo bisogno di un po' di relax quello era il modo migliore per ottenerlo.

Mi dispiaceva di non essere potuto partire a Las Vegas per il compleanno di Leah, ma avevo promesso ai miei genitori che avrei trascorso il weekend con loro, visto che non ci vedevamo da secoli e mio padre era tornato in città per qualche giorno. Era impegnato in una rassegna di mostre in America Latina, ma per fortuna aveva ottenuto qualche giorno di tregua per stare con la mamma. Di conseguenza, anch'io avevo insistito per trascorrere qualche giorno in loro compagnia. Ogni tanto ci voleva.

Erano stati due giorni piacevoli, nonostante il raffreddore mi avesse tenuto rinchiuso in una bolla e mi avesse impedito di essere in pieno possesso delle mie solite energie.

Proseguii a suonare e mi ritrovai a eseguire un brano dei Dire Straits. Era sempre così quando prendevo la chitarra classica: mi ritrovavo sempre a strimpellare qualcosa di Mark Knopfler e la sua band. Non sapevo nemmeno io perché, succedeva e basta.


Lady writer on the TV

Talk about the Virgin Mary

Reminded me of you

Expectation left to come up to yeah


A interrompermi fu lo squillo del telefono. Sbuffai e afferrai l'apparecchio, appoggiando la chitarra sul divano accanto a me.

Prima di rispondere, mi soffiai rapidamente il naso.

«Sì?» esordii con voce più nasale del solito.

«Daron! Come stai?»

Era Serj. Non ci sentivamo da un po', esattamente dal giorno del concerto al Dodger Stadium. Era trascorso almeno un mese da allora, ma entrambi eravamo stati piuttosto presi dai rispettivi impegni e non avevamo trovato l'occasione per sentirci o vederci.

«Ho un fottuto raffreddore» biascicai.

«Me ne sono accorto. Per il resto come va?»

Sospirai. Serj non sapeva niente del test del DNA, dei risultati e del fatto che non vedessi Layla dal giorno in cui avevamo scoperto la verità. Non sapeva niente di Dolly e di come avesse tentato di impedire a sua figlia di scoprire la verità.

«Direi che va tutto bene» mentii. Non avevo alcuna voglia di parlarne in quel momento.

«Oh sì, si vede.» Serj rise sarcastico. «Dimmi la verità.»

«Non al telefono.»

«Ci vediamo per pranzo?» propose il mio amico, e dal tono della sua voce compresi che era in pensiero per me.

«D'accordo. Dove?»

Lui ridacchiò. «Che ne dici di andare Da Avetisyan? È da un po' che non passo a salutare Tigran e Alina» propose con entusiasmo.

«No, non mi va» rifiutai. Non volevo rischiare che Alina mi riempisse di domande su Layla, era ancora troppo presto per me. Proposi a Serj di andare nello stesso locale in cui avevo portato Layla la prima volta, il giorno in cui si era presentata al LAX per rivelarmi che era mia figlia.

Ci accordammo per vederci intorno a mezzogiorno e mezza e interrompemmo presto la conversazione.

Guardai l'orologio: le dieci e venti. Avevo ancora un po' di tempo per suonare Lady Writer.


Lady writer on the TV

She had all the brains and the beauty

The pictures does not fit

You'd talk to me when you felt like it

Just the way that her hair fell down around her face...



«Ti sei beccato proprio un bel raffreddore, amico» commentò Serj, senza togliersi gli occhiali da sole nonostante ci trovassimo all'interno del locale.

«Già, è un incubo.» Lo osservai per un attimo. «Non vuoi farti riconoscere? Tranquillo, vengo spesso qui proprio perché nessuno mi disturba» lo rassicurai, per poi dare un'occhiata al menu.

«Se lo dici tu... ma meglio prendere qualche precauzione, sai com'è.»

Annuii. «Ti consiglio questo hot dog vegetariano, è uno spettacolo. Una volta l'ho preso anch'io» gli suggerii.

«Tu che prendi qualcosa che non strabordi carne? Quel giorno dovevi stare proprio male» mi punzecchiò, strappandomi il libretto di mano.

«Ah sì? Allora ne prenderò uno anche oggi» decisi.

«Infatti oggi non stai bene» osservò il cantante, poi si sollevò per un attimo gli occhiali da sole, giusto il tempo di farmi l'occhiolino, e infine li rimise al loro posto e prese a esaminare a sua volta cosa offriva il menu del locale.

«Spiritoso. Sì, prendo uno di quelli, e poi delle crocchette di pollo» aggiunsi.

«Si capisce a malapena come parli, lo sai?»

Scrollai le spalle. «Colpa del raffreddore, non posso farci niente.»

«Okay, vada per quel panino. E poi prendo queste patate al forno, il fritto non mi va» decise.

«Sempre il solito salutista» brontolai.

Serj ridacchiò. Indossava una t-shirt blu notte a maniche corte e se ne stava rilassato sulla sedia, sembrava quasi un ragazzino con quei bizzarri occhiali da sole a specchio e l'espressione serena e rilassata. Il fatto che avesse rimosso completamente la barba gli conferiva un'aria ancora più fanciullesca, rendendolo estremamente più giovane dei suoi quarantasei anni.

«Perché mi fissi così?» mi apostrofò.

«Oggi sembri un adolescente. Nessuno ti riconoscerà» gli feci notare, mentre facevo cenno a una cameriera di raggiungerci.

La ragazza prese le ordinazioni con discrezione, senza soffermarsi troppo a guardarci, e io apprezzai molto quel suo comportamento. Un altro punto a favore di quel locale.

«Allora? Come stai? Ora puoi dirmelo, spero» riprese Serj, quando la ragazza si fu allontanata.

«Sì. La verità è che non lo so, Serj. Ho fatto il test del DNA con Layla. E ho avuto i risultati.»

«E...?»

«Non è mia figlia.»

Il cantante sospirò di sollievo, portandosi le mani sotto il mento. «Per fortuna. Questa è una buona notizia.» Poi mi fissò. «O no?» aggiunse.

«Non lo so. Ci sono rimasto male e non so nemmeno io perché» ammisi, per poi cercare un fazzoletto nella tasca dei jeans. Soffiai il naso e tossii.

«Non stai facendo l'aerosol o qualcosa del genere?» chiese Serj.

«No» risposi. «Comunque, non so se esserne felice o meno. In un certo senso mi dispiace che lei non sia mia figlia. Non te lo so spiegare.»

«Oh, cielo!» Il mio amico batté una mano sul tavolo, con il palmo aperto e rivolto verso il basso. «Non dirmi che tu volevi avere una figlia» mormorò in tono amareggiato.

«Senti, l'ho portata da Tigran e Alina, l'ho... le ho fatto conoscere qualcosa su di me, sulle mie radici... non so perché, non lo so. Sono confuso, Serj.»

«Ora capisco perché non volevi andare da loro a pranzo» commentò il mio amico, e finalmente si sollevò gli occhiali sulla testa e cercò i miei occhi con i suoi. «Istinto paterno, eh?»

«Non so come definirlo, so solo che...» Sospirai.

«Potresti sempre provare a rimanere in contatto con lei. A quanto pare non ha un padre, in ogni caso credo abbia bisogno di una figura maschile di riferimento.»

Annuii. «Lo dice anche Leah» ammisi.

«Quella sì che è una saggia ragazza!» Serj tornò mortalmente serio e rifletté per un attimo prima di proseguire. «Senti, amico mio. So come ti senti, okay? In qualche modo lo so, perché io e Angie ci stiamo provando da un po', ma... capisci...» Si interruppe e io attesi che continuasse senza intervenire. «Capisco il tuo desiderio. Okay, forse sarebbe meglio se...»

Proprio in quel momento, la cameriera tornò con il nostro pranzo su un vassoio e noi attendemmo che si allontanasse prima di immergerci nuovamente nella nostra conversazione.

«Dicevo... forse sì, sarebbe meglio aspettare, trovare una persona con cui costruire una famiglia, ma comprendo perfettamente che tu ci avevi sperato. E Leah ha ragione: cerca di rimanere in contatto con questa ragazza, se ti trovi così bene con lei. Non è un reato.»

«Peccato che Dolly non me lo lascerà fare. Ha cercato di impedire che io e Layla scoprissimo la verità, ora sarà infuriata» spiegai, ficcandomi in bocca una crocchetta di pollo ancora calda. Frugai nel contenitore delle salse e ne presi qualcuna a caso, per poi spremerle sulle crocchette e all'interno del panino.

«Quello è tabasco! Sei impazzito?»

Guardai il tubetto ancora mezzo pieno e sbuffai. «Per fortuna ne ho versato poco. È Shavo l'amante delle cose piccanti, peccato che non sia qui e non possiamo scambiarci il panino» borbottai.

«Cosa vuol dire che Dolly ha cercato di impedirvi di scoprire la verità? È stata lei a parlare di te alla ragazza. Non capisco» rifletté Serj, cominciando a mangiare le sue patatine senza salse.

«Ha tentato di rinchiudere Layla in casa per impedirle di incontrarmi. Lei sapeva che io non ero il padre di Layla, ma ha provato a incastrarmi. Forse si è illusa che io le credessi senza fare il test del DNA» raccontai, infilando in bocca un'altra crocchetta cosparsa di salse.

«Cosa? Oddio, è impazzita?»

«Probabile. Perciò non me lo lascerà fare, non mi lascerà frequentare Layla» conclusi.

«Be', lei non è una bambina. È scappata per venire con te a fare il test, quindi non mi sembra una tipa arrendevole. Non permetterà a sua madre di decidere per lei, immagino» disse il mio amico, per poi addentare il suo panino. Annuì soddisfatto e continuò a mangiare.

Io versai la birra nei nostri bicchieri e ne sorseggiai un po'. «Chissà...»

«Vi siete scambiati il numero?»

Scossi il capo. «Neanche per idea.»

Serj sgranò gli occhi. «Come sarebbe a dire?»

«Sai benissimo che non do il mio numero a chiunque. Non voglio guai. In fondo, non conosco abbastanza Layla per compiere un passo del genere. E poi, sua madre potrebbe trovarlo e allora per me sarebbe la fine. Credo che quella donna voglia incastrarmi, perciò farebbe di tutto pur di incasinare la mia vita.»

Il mio amico alzò gli occhi al cielo. «Che casino.»

Mi bloccai sul posto. «Serj? Cosa stavi dicendo di te e Angie?»

Lui abbassò lo sguardo e depositò il suo panino sul piatto. «Ah. Be', io e lei stiamo provando ad avere un figlio, ma per ora non succede niente.»

Mi pulii le mani su un tovagliolo di carta e ne allungai una verso di lui, stringendogli il polso. «Sul serio? Mi dispiace tantissimo» mormorai.

«Non ci arrendiamo, stai tranquillo. Siamo certi che prima o poi arriverà.» Serj sorrise debolmente e riprese a mangiare. Era chiaro che non avesse voglia di affrontare l'argomento in quel momento.

E io rispettai la sua scelta senza battere ciglio. Capivo perfettamente come si sentiva, anche io ero così il più delle volte.


Mentre raggiungevo la mia auto, dopo aver salutato Serj, il mio cellulare cominciò a squillare. Proprio in quel momento il mio naso stava nuovamente colando, così fui costretto a soffiarlo e non potei rispondere alla chiamata.

Poco dopo afferrai l'aggeggio infernale e con gesti goffi riuscii a sbloccare lo schermo e a scoprire che era stato Shavo a telefonarmi. Stavo per richiamarlo, quando il cellulare squillò di nuovo tra le mie mani. Sobbalzai e per poco non lo lasciai cadere, ma riuscii a evitarlo e risposi.

«Daron! Brutto stronzo, tu lo sapevi, eh? Lo sapevi! Perché cazzo non me l'hai detto? Perché cazzo tutti lo sapevano tranne me?» strillò il bassista nel mio orecchio.

Allontanai leggermente l'apparecchio da me e sospirai. «Shavo, datti una calmata, altrimenti riaggancio. Che succede?» esordii, per poi starnutire rumorosamente.

«Non dirmi che devo calmarmi, non dirmelo anche tu! Mi dici perché la mia ragazza non si fida di me e mi tiene nascoste delle cose importanti? Perché le confida a te e a Shelley, mentre io rimango in disparte ignaro di tutto? Me lo spieghi, dannazione?» sbraitò ancora il mio amico.

Fui costretto a raggiungere di corsa il mio SUV e ad appoggiare il cellulare sul cofano. Estrassi un altro fazzoletto e mi soffiai il naso per almeno un minuto, mentre sentivo Shavo strillare attraverso il piccolo altoparlante dell'iPhone.

«Mi ascolti? Fai lo stronzo anche tu?»

«Shavo! Smettila di fare il coglione! Mi stavo soffiando il naso, ho starnutito. Vuoi darti una calmata? Sì, te la dai, perché altrimenti stavolta riaggancio sul serio.»

Sentii il bassista sospirare diverse volte nel tentativo di calmarsi. In sottofondo, udii che qualcuno bussava a una porta e riconobbi la voce di Leah che diceva qualcosa, ma non riuscii a comprendere le sue parole.

«Non ti apro, è inutile che continui a bussare! Lasciami in pace, Leah Moonshift!» Shavo era incazzato nero, come poche volte lo avevo visto in vita mia.

«Senti un po', cerca di ragionare e smettila di fare il coglione. Lei voleva dirtelo, ma capisci che temeva di deluderti? Credi che per lei fosse semplice?» sbottai, frugandomi in tasca in cerca delle chiavi dell'auto. Non appena le trovai, aprii lo sportello e mi misi a sedere sul sedile del guidatore. Lasciai la portiera aperta in modo che la fresca brezza di fine settembre entrasse nell'abitacolo rovente.

«Ma noi stiamo insieme! Come avrei potuto arrabbiarmi per una cosa del genere? Lei non potrebbe mai deludermi, a meno che non mi menta e mi nasconda qualcosa come in questo caso!» strillò Shavo.

«Okay, capisco che ora tu sia incazzato. Ma calmati e ascoltala. Sai benissimo che Leah non è una cattiva persona.»

«Mi ha mentito già in passato! O vogliamo dimenticarci di ciò che è successo allo Skye Sun Hotel?» sbottò ancora il mio amico.

«Anche tu le hai mentito, non le hai detto chi eri. Il fatto che lei lo sapesse già non conta.» Sospirai. «Senti, non rivangare il passato adesso. Leah ha parlato con me una settimana fa, non ti ha tenuto tutto nascosto per un anno! Non farne una tragedia!» sdrammatizzai, sentendo gli occhi bruciare, segno che un altro starnuto era in arrivo.

«Ma avrebbe dovuto dirmelo subito!»

«Sei testardo. Non so cosa dirti. Continua pure a sbraitare allora, io sto per starnut...» Non feci in tempo a finire di pronunciare la frase, che lo starnuto arrivò impetuoso, seguito da altri due. «Maledizione!» biascicai, cercando in fretta un fazzoletto.

«Okay, okay! Grazie per il supporto, vaffanculo!» strillò Shavo, poi interruppe la telefonata.

Tipico di Shavo. Sempre il solito impulsivo. Presto o tardi mi avrebbe richiamato per scusarsi, o mi avrebbe inviato un messaggio strappalacrime.

Lo conoscevo troppo bene.

Cominciai a soffiarmi nuovamente il naso, stanco della mia condizione. Dovevo decisamente andare dal medico e farmi prescrivere qualcosa, altrimenti sarei impazzito.


Trascorsero tre giorni prima che Shavo si facesse sentire.

Io, intanto, avevo cominciato a fare l'aerosol, inalando un sacco di medicinali atti a riequilibrare le mucose e liberare il naso, cose che non avevo minimamente capito ma che in compenso mi stavano aiutando. Era un incubo.

Quando lessi il messaggio di Shavo, sorrisi tra me e me.


Fratello. Sono tornato ieri sera in città. Mi dispiace per l'altro giorno, sono stato un coglione. Avevi ragione tu. Io e Leah abbiamo risolto, ho capito che stavo sbagliando a prendermela così tanto con lei. Cazzo, è che a volte sono così impulsivo! Scusa se ti ho trattato male. Ci vediamo stasera per bere qualcosa?


Non persi tempo a digitare un messaggio, ci avrei impiegato troppo tempo. Lo chiamai e ci accordammo per vederci quella sera.

«Invito un po' di amici, eh?» propose il bassista in tono allegro.

«Certo! Chiama Louis, mi deve raccontare se se l'è spassata a Las Vegas!» suggerii.

«Sicuro! A più tardi!»

Mentre facevo l'aerosol, accesi il computer. Era da una vita che non entravo a dare un'occhiata alle mie pagine social. Non che la cosa mi interessasse più di tanto, ma ogni tanto sapevo di doverlo fare. Ero comunque un personaggio pubblico e avrei dovuto comunicare molto di più con i miei fan, o quantomeno pubblicare qualcosa su facebook giusto per far capire che ero ancora vivo.

Usare il computer con una mano, mentre con l'altra tenevo la forcella infilata nel naso, era un'impresa non da poco, considerato quanto fossi incapace con la tecnologia.

Quando entrai su facebook, notai che avevo dei messaggi non letti. Erano tantissimi, e la maggior parte erano da parte di fan esaltati che volevano parlare con me al telefono, uscire a cena o vedermi con le scuse più disparate. Mi scrivevano in pubblico e in privato, ed era questo uno dei motivi per cui sopportavo a malapena l'idea di usare i social.

Un nome attirò la mia attenzione, incastrato nell'infinita lista dei messaggi: Layla Riggs. Il messaggio era uno degli ultimi ricevuti e io mi affrettai ad aprirlo.

Era stato inviato il giorno del compleanno di Leah, il 26 settembre 2013.


Ciao Daron, sono Layla. So che non sei mio padre e io dovrei dimenticarti, ma non posso. Mi trovo bene con te, mi è piaciuto andare in quel locale armeno. Mi sono sentita ben accetta, a mio agio. Non mi interessa se mamma è contraria. Io vorrei esserti amica, vorrei che rimanessimo in contatto. Io ti vedo come una specie di padre, anche se so che non lo sei affatto! Oh, sapessi il casino che ha fatto mamma quando ha scoperto che sono riuscita a fare il test! Sono molto arrabbiata con lei, mi ha mentito e voleva farmi credere qualcosa che non era! Okay, scusa per lo sfogo... volevo solo dirti che vorrei incontrarti ancora, se per te va bene. Be', Daron, se ti va ci vediamo mercoledì prossimo, per pranzo. In quel locale vicino a Sunset Boulevard. Se verrai, sarò molto felice. A presto!


Spensi l'aerosol e mi abbandonai con la schiena contro lo schienale della sedia. Probabilmente Layla avrebbe saputo che io avevo letto il suo messaggio, che lo avevo visualizzato.

Rimasi a fissarlo, rendendomi conto che era lunedì. Avevo ancora un po' di tempo per pensarci.

Per il momento volevo solo godermi la serata con i miei amici, spegnere il cervello e smettere di pensare a qualunque cosa.

Volevo soltanto stare in pace, senza problemi, senza preoccupazioni.

Mercoledì non era poi così vicino.




Cari lettori, eccoci qui con un altro capitolo!

Vi annuncio che non manca molto alla fine della storia, ahimè, e questo è molto triste da accettare anche per me.

Ma vi annuncio che sto già lavorando a un'altra idea nella categoria dei System, un'altra long un po' particolare, su cui però non vi do nessuna anticipazione ;)

Aspettate e vedrete, ma state tranquilli: prima concluderò questa, poi mi concentrerò completamente sull'altra ^^

Sono qui principalmente per lasciarvi il link di Lady Writer dei Dire Straits, la canzone che Daron stava suonando all'inizio del capitolo. Ecco a voi:

https://www.youtube.com/watch?v=-QMBELh1zyo

Be', aspetto come sempre il vostro parere su ciò che ho scritto, quindi ci sentiamo nelle recensioni :3

Grazie ancora a tutti voi, e alla prossima ♥

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Capitolo 65
*** Leave me alone ***


ReggaeFamily

Leave me alone

[Leah]




Suonai il campanello e attesi, già spazientita. Avrei voluto evitare di trovarmi in quella situazione, ma purtroppo mi toccava affrontarla.

Ad aprirmi fu una cameriera, una delle tante che non sapevo neanche definire né classificare.

«Signorina Moonshift, suo padre è nel suo studio. Vado a controllare se può riceverla» esordì la giovane donna, facendomi accomodare nel grande salotto della nostra casa.

Odiavo quel posto. Me n'ero andata, ero scappata a gambe levate perché mi stava troppo stretto, anche se paradossalmente era veramente troppo grande per i miei gusti.

Mio padre bazzicava poco e niente in casa, a lui andava bene stare chiuso nel suo studio. Per il resto, lasciava che le sue amanti del momento la arredassero a sue spese; questa, di conseguenza, non aveva mai avuto una sua identità e un suo stile.

Non ricordavo quasi più come fosse arredato quel luogo quando ancora c'era mia madre.

Mentre osservavo distrattamente i mobili moderni e insignificanti, qualcuno entrò nella stanza. Mi voltai, convinta si trattasse della cameriera, ma mi ritrovai faccia a faccia con Medison.

«Ciao Leah. Cosa succede? Perché sei qui?» mi domandò in tono piatto, prendendo posto su uno dei divani in pelle bianca che occupavano l'enorme salotto.

«Ciao» biascicai. «Devo parlare con Alan.»

«Di che si tratta? Sei bene che io e lui non abbiamo segreti» squittì.

«Non sono affari tuoi» tagliai corto.

«Sei così acida perché le cose con lo stecchino pelato non vanno come previsto?» mi schernì in tono tagliente, senza degnarmi di un'occhiata.

Mi trattenni per non saltarle addosso o insultarla pesantemente. Inizialmente Medison era stata semplicemente una tipa insignificante che sembrava saper stare al suo posto, mentre ora stava cominciando a irritarmi e a immischiarsi in faccende che non la riguardavano. Sperai pigramente che Alan Moonshift avesse già messo gli occhi su un'altra giovane preda e che mandasse via al più presto quell'essere immondo che sedeva sul divano di fronte a me.

Poi mi resi conto che questo non sarebbe più stato un mio problema.

La cameriera tornò poco dopo e mi annunciò che potevo raggiungere Alan nello studio.

«Theo, portami un tè!» sentii ordinare da Medison.

Era un essere orribile, la detestavo sempre più.

Quando misi piede nello studio di mio padre, dopo aver attraversato quasi tutta la grande casa, fui invasa da uno strano senso di sollievo nel rendermi conto che lui non aveva modificato l'arredamento e che quel luogo poteva sembrarmi ancora vagamente familiare.

Poi tutto si dissolse e il disagio che avevo sempre percepito nell'entrare in quella stanza si fece largo in me, costringendomi a bloccarmi sulla soglia. Non avevo alcuna intenzione di sedermi e fingere che io e il mio orribile genitore stessimo per intraprendere una normale conversazione.

«Leah! Cosa ti porta da queste parti? Cerca di fare in fretta, tra poco arriva un cliente» esordì con scarso interesse Alan, intrappolato nel suo completo gessato e nella sua aura priva di sentimenti.

«Tranquillo, non ti ruberò tempo prezioso» lo rassicurai, incrociando le braccia al petto.

Lui mi guardò appena. «Bene. Che succede? Ti servono soldi?» domandò.

Il sangue mi ribollì nelle vene, tuttavia cercai di non scompormi troppo. «No, grazie. Sono qui per annunciarti che i tuoi soldi non mi servono più.»

«Il tuo nuovo fidanzato si è deciso a mantenerti?» buttò lì, frugando tra alcune carte che teneva sulla scrivania.

«Lascio l'università e vado a lavorare» affermai. «Ecco perché non mi servono più i tuoi soldi, Alan» aggiunsi in tono sprezzante.

Lui scrollò le spalle e si lasciò sfuggire un sorriso. «Vai a lavorare, eh?»

«Cosa stai cercando di insinuare?» lo aggredii, facendo un passo avanti.

«Niente. E si può sapere perché?»

Sbuffai. «Non ti importa davvero, perciò non perderò tempo a spiegartelo. Del resto, hai fretta.»

«Giusto. Possiamo parlarne un'altra volta, va bene?»

Lo fissai e mi fece veramente tanta pena. Era patetico.

«Non ci sarà un'altra volta. Io e te non abbiamo più niente da dirci» chiarii, per poi dargli le spalle. Ero già stanca di trovarmi là dentro, volevo soltanto tornare al mio appartamento e prepararmi per l'indomani.

«Cosa stai dicendo? Io sono tuo padre, non puoi tagliarmi fuori dalla tua vita» protestò debolmente Alan, evidentemente confuso da ciò che gli avevo appena detto.

Risi sarcastica. «Sei ridicolo! Ti saluto Alan, buona vita» conclusi, per poi uscire da quell'inferno e sbattere la porta.

Tornai velocemente verso l'ingresso, ma mi fermai poco prima di giungere nei pressi del salotto. Udii la voce di Medison che parlava con qualcuno al telefono. Il mio carattere tendenzialmente curioso mi spinse a rimanere per un attimo in ascolto.

«Sì, certo che costringerò Alan a finanziare la serata di beneficenza! Pende dalle mie labbra! Ah sì, almeno ci faremo una buona pubblicità e potremo essere ricordate come donne ricche e potenti, ma che comunque fanno qualcosa per il prossimo... sì, brava, caritatevoli! Oh, ma certo! Ci aggiorniamo più tardi, andrà tutto bene!»

Mi lasciai sfuggire uno sbuffo e ripresi a camminare verso l'uscita, incrociando brevemente la cameriera.

«Arrivederci, signorina. È rimasta per poco, tornerà presto?» mi domandò la giovane, aprendomi la porta.

Mi fermai e la guardai, rendendomi conto di quanto fosse bella, nonostante indossasse abiti sformati e fosse appesantita dalla stanchezza. «Come si chiama?» volli sapere.

«Theodora» ammise.

«Theodora, bene. Io non metterò mai più piede in questo tugurio, e le consiglio caldamente di fare lo stesso. Cerchi un altro lavoro e scappi via, qui sono tutti matti.»

Detto questo, me ne andai e la lasciai lì, sperando che seguisse al più presto il mio suggerimento.


La sveglia trillò e mi fece sobbalzare. Avevo cambiato suoneria da poco e ancora non mi ero abituata a sentire Bring It dei Soulfly che esplodeva dalle casse del mio cellulare.

Interruppi velocemente quella tortura e mi guardai attorno con gli occhi sbarrati. Ci impiegai un attimo a rendermi conto che mi trovavo nella mia stanza, all'interno dell'appartamento di Paradise.

E proprio mentre mi domandavo dove fossero le mie coinquiline, mi ricordai improvvisamente che quello sarebbe stato il mio primo giorno di lavoro.

Afferrai lo smartphone dal comodino. Erano le sette e diciassette del sette ottobre. Tutti quei sette mi misero addosso una strana inquietudine, ma poi decisi di ignorare qualunque sciocchezza e capii che dovevo alzarmi dal letto e darmi una mossa.

John mi avrebbe aspettato al locale per le nove, e io non volevo arrivare in ritardo. L'idea che stavo davvero per cominciare una nuova parte della mia vita mi elettrizzava, anche se mi sentivo ancora atterrita e insicura. Sarei stata all'altezza?

E ancora mi pentivo di non aver parlato subito con Shavo dei miei dubbi. Aveva dato di matto quando gli avevo confessato di voler lasciare l'università, non perché volesse obbligarmi a continuare con gli studi, ma per il semplice fatto che si aspettava che mi sarei confidata con lui. Non aveva avuto tutti i torti, e mi aveva dato della sciocca perché avevo temuto di deluderlo a causa della mia vita e delle mie scelte inconcludenti.

Ora per fortuna era tutto a posto. Avevamo chiarito, e lui si era addirittura scusato per aver reagito così d'impulso. Aveva aggredito anche Daron al telefono, dopo aver scoperto che il chitarrista sapeva già ogni cosa.

Ero riuscita a combinare un disastro insensato, ma tutto si era risolto senza troppi danni e io mi sentivo molto più leggera.

Mentre frugavo nell'armadio, la mia mente si soffermò sui ricordi della sera precedente, e un sospiro fuoriuscì dalle mie labbra.

Mi sentivo molto più leggera da quando avevo detto addio ad Alan Moonshift e alla sua mediocrità, e il fatto che non avesse fatto una piega all'idea di perdermi definitivamente non faceva che rendermi ancora più certa della mia scelta. Ammesso e non concesso che io avessi mai realmente fatto parte della sua vita.

Mi avviai in bagno, decidendo che avrei scelto dopo i vestiti da indossare. La ricerca all'interno dell'armadio era stata piuttosto infruttuosa.

Il cellulare mi avvisò dell'arrivo di un messaggio su WhatsApp, così tornai in camera e lo afferrai, per poi portarmelo dietro.

Era di Shavo.


Leah, ti auguro buona fortuna per oggi! Vedrai che andrà tutto bene, tesoro mio! ♥ Io intanto sto per uscire, il mio aereo parte tra meno di due ore. Devo darmi una mossa. Ti faccio sapere quando arrivo!


Sorrisi e digitai una risposta veloce, poi mi preparai in fretta per andare al lavoro. Mi sembrava ancora assurdo poter affermare di avere un'occupazione che mi avrebbe permesso di mantenermi, e che finalmente mi avrebbe reso indipendente e libera dalle grinfie di una famiglia distrutta e dilaniata.

Quando giunsi in cucina con l'idea di mangiare uno yogurt prima di uscire, trovai un biglietto sul tavolo. Era di Shelley, riconobbi subito la sua grafia ordinata e chiara.


Buona fortuna per oggi! Ci sei per pranzo? Sam non rientra fino a stasera, è uscita molto presto per una manifestazione in città! Chiamami più tardi!


Avrei inviato un messaggio a Shelley una volta seduta sull'autobus.

Mangiai in fretta uno dei miei amati yogurt con i cereali e finii di raccattare ciò che mi serviva per riempire il mio zainetto. Ci infilai dentro anche un blocco per appunti, un pacchetto di caramelle e gli occhiali da sole.

Eravamo a ottobre, ma a Las Vegas faceva un caldo terribile, perciò non mi pentii di aver indossato un paio di pantaloncini e una canottiera leggera. John non mi aveva dato indicazioni sull'abbigliamento da utilizzare, ma in ogni caso stavamo solo iniziando a decidere come disporre e arredare il locale, non c'era bisogno che ci mettessimo in tiro.

Sull'autobus scrissi a Shelley, e mi resi conto che anche qualcun altro mi aveva scritto per farmi gli auguri per il mio nuovo lavoro.

E allora mi accorsi che stava succedendo davvero, e fui invasa da un'euforia indescrivibile, che mi rese allegra e mi fece dimenticare il brutto incontro che avevo avuto la sera prima con Alan Moonshift.


«Pensa che quell'imbecille si lascia usare dalla sua amante del momento. Ieri l'ho sentita architettare qualcosa al telefono, ha detto che avrebbe costretto Alan a finanziare una qualche serata di beneficenza...» stavo raccontando a John, mentre finivamo di pranzare in un piccolo fast food situato poco distante dal suo locale.

«Immaginavo che fossero una coppia del genere, per quanto io li conosca poco» commentò il mio amico, mettendosi in bocca l'ultima manciata di patatine fritte che gli era rimasta.

«Oh, sapessi quanto sono patetici! Ma lui è sempre stato così, con tutte le sue amanti. Mia madre non si faceva mettere i piedi in testa, ma essendo una tipa incostante, alla fine si è stancata di lui e se n'è andata. Senza di me.»

John mi guardò negli occhi e io subito mi sentii rincuorata da quello sguardo amichevole e affettuoso. «Mi dispiace molto.»

«Ormai è andata» minimizzai, addentando il mio sandwich.

«Be'... che te ne pare del nuovo lavoro? Ti trovi bene con me o sono troppo cattivo?» cambiò argomento il batterista.

Sorrisi e cominciai a rispondergli, ma ancora non avevo ingoiato il boccone che stavo masticando e finii per sputacchiare. «Scusa! Oddio, faccio schifo!»

John ridacchiò. «Non così tanto. Ho visto di peggio.»

«Okay! Non sei per niente cattivo. Tutti vorrebbero lavorare per una persona tranquilla e ragionevole come te. Andrà tutto bene, me lo sento!» esclamai. Poi cercai ancora i suoi occhi. «Io non so ancora come ringraziarti per questa opportunità.»

«Sono io a dover ringraziare te. Hai gusto, senso pratico e capisci al volo quali sono i miei capricci. Se riuscirai a sopportarmi, costruiremo insieme un bellissimo regno!»

Risi sonoramente. «Un regno?»

John si grattò la nuca, arrossendo leggermente. «Già. Per me Torpedo è come un reame dove ognuno potrà sentirsi accettato e trovare il suo posto tra le pagine dei fumetti e le avventure dei loro eroi.»

Il cuore mi si riempì di gioia nell'udire quelle parole, pronunciate da lui con una dolcezza e una semplicità che mi fecero venir voglia di abbracciarlo.

Stavo per dire qualcosa, quando il mio cellulare squillò. Trattenni uno sbuffo e lo estrassi dalla tasca anteriore dello zainetto, per poi rendermi conto che Shelley mi stava chiamando.

«Shy, che succede?» esordii.

«Leah...» La mia amica parlò con un tono strano, che non prometteva nulla di buono.

«Non farmi preoccupare!» esclamai, agitandomi sulla sedia di plastica.

John mi rivolse una breve occhiata, poi si alzò e fece cenno verso la cassa. Avrei voluto impedirgli di pagare anche per me, ma in quel momento avevo altro per la testa.

«No, ecco...»

«Shy, stai bene?» squittii.

«Io sì, tranquilla. È solo che... c'è qui tua madre, credo.»

Avvertii il sangue defluire rapidamente dalle mie guance. Sgranai gli occhi e strinsi con più forza il telefono tra le dita. «Come?» sibilai.

«Di là in cucina c'è una tizia che dice di essere tua madre. Un po' ti somiglia, ma sai com'è... io non l'avevo mai vista prima...» farfugliò Shelley.

«Okay, okay, ho capito. Arrivo subito» tagliai corto, evitando di farle notare che avrebbe potuto chiamarmi prima di farla entrare in casa.

Mi alzai controvoglia e afferrai ciò che restava del mio panino, poi misi lo zaino in spalla e raggiunsi John che stava ritirando il resto dalla cassiera.

«Devo andare. È successo un casino, mia madre è a casa mia.»

«A Paradise?» fece il mio amico confuso.

Insieme ci avviammo verso l'uscita del locale.

«Sì. Non so come abbia fatto a scoprire il mio indirizzo, ma ho già un'idea» grugnii, avventandomi nuovamente sul mio sandwich.

«Okay. Vuoi che venga con te?» mi propose il batterista in tono apprensivo.

«No. Ci vediamo più tardi al locale.» Gli diedi un breve abbraccio e mi avviai di corsa alla fermata dell'autobus.

Non riuscivo a capire perché Cecily Vickers si fosse improvvisamente ricordata di avere una figlia di venticinque anni.


Se ne stava seduta al tavolo della cucina del mio appartamento, sorseggiando del tè freddo da un bicchiere che Shelley le aveva offerto.

Aveva i capelli corvini striati di grigio raccolti in una crocchia, il viso scarno e pallido leggermente truccato. I suoi occhi verdi si posarono su di me non appena entrai in casa come una furia. Le sue labbra sottili si incurvarono in un sorriso privo di dolcezza, ma pregno di sarcasmo.

E io ricambiai con la stessa moneta, non riuscendo a provare niente nei confronti di quella perfetta sconosciuta. Forse l'avevo sempre ammirata per il fatto di aver lasciato quell'idiota di Alan, ma con quella decisione aveva scelto di tagliar fuori anche me dalla sua vita.

«Cecily, cosa ci fai qui? Chi ti ha dato il mio indirizzo?» esordii, stringendo i pugni.

Shelley, in piedi accanto al frigorifero, si voltò nella mia direzione e mi rivolse un'occhiata colma di dispiacere. «Ciao Leah, mi dispiace...»

«Shy, non preoccuparti. Hai fatto bene a chiamarmi» la rassicurai.

«Okay, vado in camera a studiare» decise la mia coinquilina.

Annuii e la seguii con lo sguardo finché non si richiuse la porta alle spalle. Poi tornai a fissare la donna seduta al mio tavolo con fare accusatorio, attendendo che mi desse una spiegazione.

Cecily sospirò teatralmente e sollevò gli occhi al cielo. «I convenevoli non ti sono mai piaciuti, vero? Nemmeno a me, però, be'... non ci vediamo da anni, perciò non è poi tanto male se cominciamo con un ciao. Non trovi?» esordì senza scomporsi.

«Sì, ciao. Allora? Che vuoi?» tagliai corto.

«Perché non ti siedi, Leah? Sei cresciuta molto dall'ultima volta che ci siamo viste.»

Avrei voluto ridere, ma mi limitai ad avvicinarmi al tavolo. Mi sedetti il più distante possibile da lei e la fissai in cagnesco. «Sei qui per ricordare i bei vecchi tempi, quelli in cui eravamo una famiglia felice?»

Lei scosse il capo. «No, sono qui perché tuo padre mi ha detto che hai lasciato l'università e che non vuoi più vederlo. Che ti prende?»

Stavolta non fui in grado di trattenere una risata intrisa di ironia. «Ecco qual è il problema. Non appena quell'idiota si rende conto di non potermi più controllare come gli pare, sfodera i suoi assi nella manica. Carino» commentai.

«Noi siamo i tuoi genitori e siamo preoccupati per te.»

Questo era troppo. Mi misi nuovamente in piedi e spinsi indietro la sedia, chinandomi sul tavolo per poter accostare il mio viso al suo e trafiggerla con lo sguardo. «Voi siete tutt'altro che genitori! Hai capito? Non sto qui a ricordarti come ti sei comportata con me, né a descriverti l'atteggiamento di Alan. Tanto sai già tutto. Voi due siete dei mostri e dovete lasciarmi in pace.» Mi ritrassi da lei e mi raddrizzai, poi indicai la porta d'ingresso. «E adesso vattene. Devo tornare al lavoro e sono tornata qui inutilmente. E non farti mai più vedere da queste parti.»

Cecily mi fissò a bocca aperta. «Non credevo tu mi odiassi così tanto, pensavo avessi capito le mie ragioni.»

«Non ti odio, semplicemente mi infastidisci come... una mosca» ammisi, per poi accostarmi alla soglia e spalancare la porta. «Prego, accomodati. Ti saluto. E buona vita anche a te.»

Lei si alzò lentamente e solo in quel momento notai un particolare agghiacciante, che mi fece raggelare sul posto. Notò che il mio sguardo aveva colto il particolare, così annuì.

«Sì, volevo venire qui anche per dirti che avrai una sorellina» ammise con fierezza.

«Tu... aspetti un figlio a... alla tua età?» balbettai, senza riuscire a capacitarmi di aver appena appreso una simile notizia.

«Ho quarantasette anni, Leah, non sono una vecchia decrepita» disse.

«Vattene. Non mi interessa» conclusi, rendendomi conto che non mi importava più niente di lei e di ciò che stava capitando nella sua vita.

Mentre la guardavo arrancare giù per le scale, mi scoprii dispiaciuta per la povera creatura innocente che cresceva nel suo grembo. Se avesse riservato alla sua nuova figlia lo stesso trattamento che avevo ricevuto io, sarebbe stata dura per lei sopravvivere.

Sperai almeno che avesse un carattere forte e che riuscisse a superare il trauma di avere una madre degenere come Cecily Vickers.

Avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle e solo allora mi resi conto che stavo piangendo.

Shelley mi afferrò saldamente per le braccia e mi attirò a sé, cullandomi tra le sue braccia. «Su, tranquilla. Andrà tutto bene, andrà tutto bene» prese a sussurrare.

«Voglio solo essere lasciata in pace» ammisi tra i singhiozzi, aggrappandomi alla mia amica.

«Mi sa che ora tua madre l'ha capito, visto come l'hai cacciata di qui» tentò di rassicurarmi Shelley.

«Lo spero. Ne ho abbastanza di lei e di quel fallito di suo marito. Non ho mai avuto dei veri genitori, non vedo perché dovrei cominciare a desiderarli ora.» Sospirai e lasciai andare la mia amica. «Potrei volerlo, se potessi scegliere qualcun altro che mi faccia da padre o da madre» aggiunsi.

«Ma non si può, purtroppo. Mi dispiace» replicò lei, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Grazie, Shy. Mi lavo la faccia e torno al lavoro. Ormai ho una nuova vita, non lascerò che questa gente me la rovini. Loro l'hanno già fatto abbastanza, ma ora basta» affermai, per poi avviarmi con fare risoluto verso il bagno.

Dopo essermi sciacquata il viso, seppi con certezza che ero riuscita a dare un calcio al passato e a relegarlo in un angolino.

Volevo accogliere il presente e il futuro, senza più preoccuparmi di fare ciò che gli altri si aspettavano da me.

Sarei stata sempre e solo me stessa e non avrei più permesso a delle stupide nubi travestite da genitori falliti di oscurare il mio orizzonte.

Sapevo di potercela fare, avevo accanto molte persone che mi amavano e che amavo, su cui sapevo di poter contare in ogni singolo istante.

Presa da un improvviso istinto, afferrai il cellulare e registrai una nota vocale da inviare a Shavo.


Shavarsh, volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a dirlo. Ti amo. E mi manchi.


Poi, dopo aver salutato Shelley con un abbraccio, mi precipitai giù dalle scale, tornando ad abbracciare la mia nuova vita.




Carissimi lettori, queste note saranno molto brevi ^^

Sono qui giusto per lasciarvi il link per ascoltare la canzone che Leah ha impostato come sveglia, almeno capirete il trauma che questa ragazza vive ogni mattina al suo risveglio XD

Ecco a voi Bring It dei Soulfly:

https://www.youtube.com/watch?v=6MTQKEP706g

Allora? Che ve ne pare dei “genitori” di Leah? Attendo i vostri commenti, curiosa come sempre di capire il vostro parere :)

Alla prossima e grazie ancora a tutti coloro che seguono, leggono e recensiscono questa long ♥

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Capitolo 66
*** Decisions ***


ReggaeFamily

Decisions

[Shavo]




Sospirai. Trovarmi a San Diego mi faceva sempre un effetto particolare, come se quella città fosse in grado di scaricare tutta la tensione che sentivo.

Avrei voluto che Leah fosse con me, ma lei era impegnata nel suo nuovo lavoro ed era giusto che fosse così. John le aveva offerto un'opportunità unica e io ne ero estremamente felice.

Da quando lei mi aveva confessato quali erano i suoi dubbi e io le avevo fatto una scenata incredibile, mi sentivo spesso in colpa nel ripensarci.

Mentre stazionavo su un taxi, ricevetti un messaggio su WhatsApp. L'ennesimo. Sbuffai ed estrassi lo smartphone dalla tasca dei jeans, rendendomi conto che l'ultima notifica proveniva da Leah.

La aprii e rimasi di sasso a leggere ciò che mi aveva scritto.


Shavarsh, volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a dirlo. Ti amo. E mi manchi.


Non me lo aveva mai detto, mai scritto così. Per un istante mi parve di toccare il cielo con un dito, poi però mi resi conto che doveva essere successo qualcosa.

L'ansia mi assalì, così scorsi velocemente le altre notifiche e trovai un paio di messaggi da parte di John. Li aprii senza neanche rifletterci sopra.


Non volevo disturbarti, so che sei a San Diego. E forse non dovrei intromettermi, ma Leah è appena andata via di corsa. A casa sua c'è sua madre, temo possano litigare furiosamente.


Leah sembrava molto scossa. Mi dispiace, dimmi se posso fare qualcosa.


Erano stati inviati l'uno a poca distanza dall'altro, e poi John non mi aveva più scritto né chiamato.

Guardai l'orario sul display: erano appena le quattro del pomeriggio, e quei messaggi risalivano all'incirca a due ore prima.

Il messaggio di Leah era arrivato da pochi minuti, questo poteva significare solo una cosa.

Fui indeciso se chiamare la mia ragazza o il mio amico, sentendomi invadere dal panico più totale e buio. Infine optai per la seconda possibilità: se Leah si fosse trovata ancora in compagnia di sua madre, sicuramente non avrebbe risposto.

Selezionai il nome di John e feci partire la telefonata. Il batterista rispose dopo un po'.

«John! Che diavolo è successo?» sbottai, non appena udii la sua voce all'altro capo della cornetta.

«Ehi. Non so niente, Leah non è ancora tornata in negozio» ammise lui in tono dispiaciuto.

«Cazzo! Mi ha detto che ieri ha litigato con suo padre, oggi torna all'attacco sua madre... dev'essere una gran bella giornata di merda per lei!» brontolai, beccandomi un'occhiataccia dal conducente del taxi. Forse il tipo non apprezzava il mio linguaggio scurrile, ma io non potevo curarmi di lui in quel momento. Ero fuori di me.

«Puoi dirlo forte...» John si interruppe e poi sospirò brevemente. «Prova a chiamarla, forse ha bisogno di te.»

«Okay, amico, grazie per avermi avvisato.»

Il batterista si schiarì appena la gola. «Shavo? Non dirle che l'hai saputo da me, non vorrei si arrabbiasse. Sai com'è fatta Leah...»

Annuii tra me e me. Certo che lo sapevo: era riservata e detestava che qualcuno sbandierasse in giro i fatti suoi senza che lei lo sapesse.

Ringraziai John per l'ennesima volta e fissai lo schermo del cellulare, sul cui sfondo avevo impostato una foto di me e Leah che era venuta particolarmente bene. Lei aveva asserito più volte che quello scatto fosse orribile, ma io non le avevo mai dato retta e l'avevo tenuto, facendole presente che del mio smartphone potevo fare ciò che volevo.

Sorrisi appena, poi mi decisi a chiamarla. Dovevo sapere come stava e cosa fosse successo, anche se ciò avrebbe significato interrompere una sua conversazione con sua madre.

Ascoltai gli squilli a vuoto con un po' di apprensione, fissando dritto davanti a me.

«Shavo!» esordì lei, e subito notai che il suo tono allegro nascondeva qualcos'altro.

Mi ha chiamato Shavo, è un brutto segno, pensai.

«Ehi. Che succede? Perché hai quella voce?» sbottai, senza riuscire a controllare le sensazioni negative che si stavano impossessando di me.

La sentii ridere con sarcasmo. «Mi chiami per chiedermi che succede? Solo perché ti ho scritto quel messaggio?»

Aprii la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiusi. Rimasi semplicemente in silenzio, non sapendo come scoprire qualcosa su sua madre senza farle intendere che sapevo già tutto.

«No» buttai fuori all'improvviso. «Ti ho chiamato perché ho letto il tuo messaggio e volevo risponderti a voce. Ma poi ho sentito il tuo tono e...» aggiunsi, sperando che lei mi credesse.

«Oh... okay. Il punto è che... mia madre si è presentata a casa mia, costringendomi a tornare a Paradise durante la pausa pranzo.»

«Tua... madre?» biascicai.

«Hai capito bene, Cecily Vickers, quella stronza. E sai che c'è? È pure incinta!» sbraitò.

«Per favore, Leah, cerca di calmarti. Dove sei?» le suggerii, avvertendo la preoccupazione amplificarsi ancora nel mio petto.

Sbuffò. «Sono sull'autobus, sto tornando da John. Che situazione di merda! Vuole farmi credere che lei e Alan sono i miei genitori e che sono preoccupati per me! Ma pensa te!» strepitò.

Immaginai che stesse gesticolando come una matta, con gli occhi infiammati per la rabbia e il viso paonazzo. Avrei voluto poterla stringere a me e rassicurarla, ma anche quella volta dovetti arrendermi all'evidenza che chilometri incalcolabili ci separavano.

«Leah, piccola, ti prego... cerca di stare tranquilla. Ascolta, facciamo così: vai da John ora, resta con lui. Io mi vedo con Sonny, sento un po' cosa vuole e poi prendo il primo volo per Las Vegas. Okay?»

Leah rimase in silenzio per un attimo, poi replicò: «No, Shavo, no! Non puoi correre qui ogni volta che faccio i capricci, chiaro? Me la vedrò da sola! io... me la caverò, non è successo niente. L'ho cacciata di casa e le ho ordinato di non farsi mai più vedere! Non devi assolutamente provarci, chiaro? Tu fai ciò che devi fare e basta! Cavoli, non avrei dovuto dirtelo» blaterava.

Io non la stavo più a sentire: avevo già preso la mia decisione.

Anzi, ne avevo preso due.


«Allora, Shavo? Cosa ne pensi? A me farebbe molto piacere organizzare questa serata. Un dj mi serve, non posso affidarmi a qualcun altro» stava dicendo Sonny, mentre ce ne stavamo chiusi nel suo studio di registrazione.

Mi aveva fatto sentire un po' di nuovo materiale che stava componendo con i P.O.D., poi si era prodigato a spiegarmi cosa aveva in mente: voleva organizzare una serata di beneficenza a Los Angeles e aveva pensato di affidarsi a me per selezionare la giusta musica. Aveva intenzione di suonare con la sua band, ma necessitava di qualcuno che ricoprisse il ruolo di dj e sapesse esattamente cosa mettere su in ogni momento.

Avremmo potuto parlarne al telefono, ma io avevo insistito per andarlo a trovare, dal momento che non ci vedevamo da tempo e in quei giorni non avevo particolari impegni. Mi sarei dovuto fermare da lui per una o due notti, ma avevo già deciso di ripartire il prima possibile.

«Dico che si può fare. Senti, se vuoi ti aiuto a trovare delle altre band che vogliano suonare durante la serata. Secondo me potrebbe venir fuori qualcosa di buono, e anche svilupparsi più in grande» gli consigliai, osservando con ammirazione il suo enorme e professionale mixer. Era una bomba, mi piaceva da matti. «Per la serata potrei usare questo gioiellino» insinuai, sfiorando appena alcune manopole colorate.

«Non penso proprio, questo bestione non uscirà mai dal mio studio» scherzò Sonny, battendomi amichevolmente sulla spalla. «Apprezzo molto il tuo aiuto, ma non preoccuparti. Ho già delle band emergenti da far esibire, tutti questi giovani ragazzi sono molto entusiasti di partecipare a questa serata. E tutto sarà perfetto con un selecta come te.»

Ridacchiai. «Sono stato in Giamaica, non mi freghi con queste parole in patois, amico» scherzai.

«Sul serio?» Sonny cercò il mio sguardo. «E quando ci sei andato?»

Sorrisi ancora. «In primavera, a maggio. È stato fantastico. E ora che ci penso: ti devo portare i saluti da una persona» dissi all'improvviso.

Il mio amico inclinò il capo di lato e mi fissò confuso. «Di che parli?»

Lo osservai e sghignazzai. «Sai che i dreadlocks ti stavano proprio bene?» lo canzonai.

«Questo non c'entrava niente, Odadjian! Chi hai incontrato in...» Strabuzzò gli occhi e si bloccò, fissandomi con improvvisa consapevolezza. «Non dirmi che... hai incontrato Eek?» sbottò.

Annuii con vigore e sollevai il pollice. «Indovinato! Lui e Barrington Levy» spiegai fieramente.

«Cazzo! Quel vecchio stronzo di Eek! Non lo sento da una vita, come sta?» volle sapere Sonny, per poi lasciarsi cadere su una sedia imbottita accanto alla mia.

Mi venne voglia di fumare e mi guardai attorno. Volevo uscire da quello studio, starci chiuso troppo a lungo mi dava una sensazione di claustrofobia, forse perché non ero più abituato a trascorrere tante ore all'interno di un ambiente insonorizzato che sembrava quasi una bolla sospesa sul resto del mondo.

«Usciamo a fumare e ti racconto» gli dissi, per poi alzarmi e frugare nelle mie tasche.

«Okay.»

Raggiungemmo in fretta il balcone che si affacciava su un grande parco immerso nel verde, e io mi appoggiai con i gomiti alla balaustra, mentre Sonny costruiva una stecca di erba.

«Dicevo... eravamo in giro per Kingston, abbiamo visto una locandina di un evento e abbiamo deciso di andarci. Sembrava divertente. Bryah, una giornalista musicale che abbiamo conosciuto laggiù, conosceva i due artisti e ci ha voluto accompagnare a tutti i costi» spiegai.

«Oddio! E com'è andata?»

Ridacchiai. «Sono stati loro a riconoscere noi. Eek ha fin da subito preso Daron in simpatia e gli ha fatto un discorso insensato che ci ha fatto morire dal ridere. C'è stato uno scambio assurdo di foto e autografi, e i due poi ci hanno regalato qualche loro disco. È stato incredibile!»

Sonny mi batté sulla spalla. «Hai avuto una fortuna pazzesca.»

Annuii. «Lo so. E poi hanno insistito per rimanere in contatto con noi, così ci siamo scambiati il numero di cellulare.» Mi bloccai d'improvviso e mi voltai completamente verso Sonny. «Ehi! E se li invitassimo alla serata di beneficenza?» proposi.

Il mio amico mi fissò per un attimo. «Sai che ti dico?»

«Cosa?»

«Che sei un fottuto genio!»


Sonny aveva insistito perché mi fermassi a dormire da lui almeno per una notte, facendomi intendere che anche sua moglie e i suoi figli ne sarebbero stati contenti. Lo avevo ringraziato tantissimo, ma avevo rifiutato.

E ora, mentre mi trovavo sul volo notturno diretto a Las Vegas, non mi pentivo della mia decisione. Volevo andare da Leah, avevo qualcosa di importante da dirle e sentivo che lei aveva bisogno di me.

Mi ero accordato con John, mentre correvo in aeroporto, affinché stesse con lei finché non fossi arrivato. Lui aveva accettato senza pensarci due volte e mi aveva assicurato che le sarebbe stato accanto, portandola con sé nel piccolo appartamento che aveva affittato in vista del tempo che avrebbe trascorso a Las Vegas per via di Torpedo Comics.

Mi gettai letteralmente giù dall'aereo, travolgendo numerosi passeggeri che stazionavano per inerzia nel corridoio e cercavano di recuperare i loro bagagli stipati nelle cappelliere.

Mi beccai diverse imprecazioni, ma non mi importava. Dovevo correre da Leah, ed era già l'una meno venti di notte.

Dovetti attendere il mio turno per prendere un taxi, e maledissi tutto l'afflusso di passeggeri che anche a quell'ora sciamava disordinato sul marciapiede illuminato da forti lampioni dalla luce giallastra.

Una volta seduto a bordo, comunicai all'autista l'indirizzo che John mi aveva inviato su WhatsApp e cercai di rilassarmi sul sedile mentre l'auto procedeva fin troppo a rilento per i miei gusti.

Quando giungemmo a destinazione era l'una e dieci. Pagai la corsa con una banconota da cinquanta dollari e dissi all'autista di tenere il resto, poi mi scaraventai giù dall'auto, trascinandomi dietro il mio modesto bagaglio.

Suonai il campanello che John mi aveva indicato e attesi. Un attimo dopo, un click mi avvertì che il portone si era aperto. L'appartamento si trovava al secondo piano, così ignorai la presenza dell'ascensore e salii di corsa le scale, senza preoccuparmi di star facendo un baccano infernale.

Quando giunsi di fronte alla soglia, lei era Leah: indossava una canottiera e un paio di pantaloncini leggeri, sulle spalle teneva un plaid bordeaux e i piedi carezzavano nudi il pavimento di linoleum. I capelli erano legati disordinatamente sulla nuca e qualche ciuffo ricadeva sul viso, adombrandolo un poco. I suoi occhi scuri erano malinconici e parevano volermi rimproverare.

Lasciai andare il mio borsone e di slancio abbracciai Leah, tenendola stretta a me con tutte le forze che avevo. Lei posò la testa sul mio petto e ricambiò il mio gesto, tremando leggermente tra le mie braccia.

«Leah, come stai? Oddio, ero così in ansia...» sussurrai, affondando il viso tra i suoi capelli.

«Shavarsh... sto bene, ma tu...» Mi spinse via e mi guardò negli occhi. «Sei impazzito? Ti avevo detto di non farlo!»

John ci raggiunse sulla soglia e rimase in silenzio, avvolto nei suoi abiti scuri e in un velo di discrezione.

«Amico! Grazie, davvero, grazie! Hai prenotato la stanza che ti avevo chiesto?» domandai al batterista, accostandomi a lui per salutarlo con un breve abbraccio fraterno.

«Certamente» confermò lui con un lieve sorriso. «Lei sta bene, davvero. La tua ragazza è forte, Shavo» sussurrò.

Leah lo affiancò e annuì. «Diglielo! Ha fatto una cazzata!» Poi si rivolse al batterista. «E tu l'hai assecondato! Sei impazzito anche tu?»

John le arruffò affettuosamente i capelli. «Adesso basta protestare. Andate a riposare, domani pomeriggio alle tre ti voglio al lavoro!» esclamò.

«Okay, capo!» Leah si allungò per dargli un bacio sulla guancia, poi corse dentro per rimettersi le scarpe.

«John, grazie. Senti...» Mi guardai attorno e cercai di capire dove si trovasse la mia ragazza. La sentii muoversi in una stanza all'interno dell'appartamento, così proseguii a bassa voce: «È davvero un casino continuare così. Sono molto ansioso, saperla lontana da me mi uccide».

John sospirò. «Shavo, non puoi trasferirti a Las Vegas o correre qui ogni volta che c'è un problema. Leah ha ragione» mi fece notare con calma.

«Ma noi stiamo insieme, io non riesco a...» Scossi il capo, togliendomi il cappellino da baseball e prendendo a farlo roteare tra le dita.

«Shavo. Non essere impulsivo, rifletti.» Il mio amico mi batté sulla schiena. «Su, dormi e non pensarci. Domani tutto ti sembrerà diverso, più semplice. Davvero.»

Ci guardammo negli occhi e io pensai che potesse davvero avere ragione. Del resto, John aveva sempre ragione.

Leah ricomparve nell'ingresso e rivolse un'occhiata al batterista. «Tengo il plaid, te lo riporto domani a Torpedo.»

John ci salutò e si richiuse la porta alle spalle.

Presi Leah per mano e feci qualche passo, ma lei si fermò prima che potessimo scendere le scale.

«Che c'è?» le chiesi con sospetto.

«Ti detesto» sibilò.

«Perché?»

Sospirò. «Perché sei venuto fin qui.»

Mi portai di fronte a lei e le sollevai il mento con due dita, guardandola negli occhi nonostante la penombra. Non dissi neanche una parola, mi limitai a fissarla per un po', poi mi chinai a baciare teneramente le sue labbra. Infine la lasciai andare a presi a scendere le scale.

Poco dopo lei prese a corrermi dietro. «Shavo!» strillò.

E io pensai che in quel momento qualcuno avrebbe chiamato la polizia a causa di tutto il baccano che stavamo facendo.


John aveva prenotato una camera in un alberghetto a poca distanza dal suo nuovo appartamento. Avevo calcolato e organizzato tutto mentre andavo in taxi dallo studio di Sonny all'aeroporto. Sì, ero stato impulsivo anche stavolta, ma non riuscivo a pentirmi di essere corso dalla mia donna. Non ce la facevo.

Mentre giacevamo immobili tra le lenzuola, immersi nel buio e nel silenzio, sentivo che quella notte non avremmo fatto l'amore. Non che io non desiderassi stare in intimità con Leah, ma avevo capito che non era il caso. E avevo bisogno di parlare con lei, di tenerla tra le braccia e coccolarla senza arrivare a nient'altro.

«Ti va di raccontarmi cos'è successo?» sussurrai, rompendo il silenzio.

Lei sospirò e si sottrasse alla mia stretta. Si inginocchiò sul materasso e cominciò a spogliarsi, poi fece lo stesso con me finché entrambi non rimanemmo in biancheria intima. Poi tornò a stendersi accanto a me e mi si rannicchiò contro, intrecciando le gambe alle mie.

Era successo diverse volte che ci spogliassimo senza poi entrare in intimità, limitandoci a parlare o a stare in silenzio uno tra le braccia dell'altra. Era il nostro modo per stare più vicini, per sentire il calore che solo i nostri corpi insieme sapevano sprigionare.

«Sei anni. Shavarsh, sono passati sei anni» cominciò Leah con voce amareggiata. «E adesso lei ha il coraggio di comparire nuovamente nella mia vita? No, non esiste.»

«Aspetta un figlio?» chiesi, ricordando ciò che Leah mi aveva detto al telefono.

«Una sorellina, ha detto. Che stronza. Chissà da chi si è fatta mettere incinta» commentò con disprezzo. «Io non voglio pensarci. L'ho cacciata, così come ieri ho tagliato fuori Alan Moonshift dalla mia vita. Sono esseri spregevoli e io non voglio averci niente a che fare.»

Accarezzai la sua schiena nuda e sospirai. «No, infatti non devi pensarci. Devi seguire il tuo cuore e il tuo istinto, e se questi ora ti suggeriscono di stare alla larga dai tuoi genitori, be'...» Feci una piccola pausa. «Nessuno può dirti se sia giusto o sbagliato. Forse hai bisogno di tempo, forse no. Però per ora cerca di stare tranquilla e di pensare solo a te stessa» le suggerii, sperando che i miei consigli non fossero banali o inutili.

«Hai ragione. Lo so bene. Però mi sono infuriata così tanto!» esclamò, aggrappandosi a me con più forza.

«È normale, Leah. È comprensibile.»

«Tu sei impazzito, comunque» cambiò discorso, mollandomi un piccolo pugno sul petto.

«Senti, Leah...» Mi feci serio e mi scostai appena da lei, in modo da poter cercare il suo sguardo.

«Dimmi. Che c'è? Com'è andata a San Diego?» mi chiese, sollevandosi su un gomito per potermi osservare meglio.

Le accarezzai la guancia con delicatezza. «Dopo te lo racconto, ora ascoltami. Per me è davvero difficile starti lontano. Vengo assalito dall'ansia e dalla preoccupazione se solo penso che... okay, be'...»

«Shavarsh, cosa stai cercando di dirmi?» volle sapere lei, lanciandomi un'occhiata sospettosa.

«Avevo pensato di trasferirmi a Las Vegas e di chiederti se ti andasse di vivere con me...»

«No! Sei impazzito? È uno scherzo? Tu non puoi... hai una vita, una casa... hai...»

Le posai un dito sulle labbra. «Aspetta, lasciami finire. Ci avevo pensato, ti giuro che avevo deciso di proportelo.» Sospirai e mi grattai dietro l'orecchio. «Però poi ci ho pensato bene. A volte prendo delle decisioni avventate, sono impulsivo. Ma ho capito che non posso chiedertelo. Non posso chiederlo né a te né a me stesso. Ho anche pensato che avresti potuto venire a Los Angeles da me, ma tu adesso hai un lavoro qui. E io ho tante cose da fare e da gestire nella mia città.»

Leah annuì con vigore. «Esatto. Non è il momento.»

Ci guardammo negli occhi per un po', poi lei si accostò a me e mi baciò lentamente sulle labbra.

La strinsi a me e ricambiai il gesto, approfondendolo con calma, in modo che quel contatto risultasse fluido e dolce, intenso e colmo di tutto ciò che sentivo per lei.

«Lo vorrei tanto, ma per ora è meglio lasciare che le cose stiano così» sussurrò, accarezzandomi teneramente il viso.

«Lo so anche io, me ne rendo conto perfettamente» ammisi. «E John mi ha invitato a rifletterci.»

«John è fantastico!» affermò Leah, tornando ad accoccolarsi accanto a me. «Allora? Mi racconti di San Diego?» ripeté dopo un po'.

Le raccontai di Sonny, della sua idea per la serata di beneficenza e della mia proposta di invitare anche Eek-A-Mouse e Barrington Levy.

«Hai avuto un'illuminazione fantastica!» esclamò, agitandosi per l'eccitazione. «Io voglio esserci assolutamente!» aggiunse.

«Ma certo! Sarà una serata memorabile, ne sono certo. Sonny non sbaglia mai in queste cose.»

Leah sbadigliò. «Già.» Si stiracchiò sensualmente al mio fianco.

I miei occhi percorsero lentamente il suo corpo magro e pallido, avvertendo il bisogno di accarezzarlo e prendermene cura, ma subito mi resi conto di quanto fossi stanco.

Avevo viaggiato per quasi tutto il giorno, e in quel momento tutto si stava riversando sul mio corpo. Sbadigliai a mia volta e chiusi gli occhi.

Leah mi diede le spalle e io la abbracciai da dietro, facendo aderire il mio petto alla sua schiena.

«Leah?» mormorai.

«Dimmi» biascicò.

«No» risposi. «Niente.»

«Su, dimmelo» mi incoraggiò.

Sospirai, accarezzando distrattamente la sua pancia. «Mi ha fatto piacere ricevere quel messaggio» spiegai con cautela.

La sentii sorridere. «Sei uno sciocco. Tutto qui?»

«Be', sì...»

«Buonanotte, Shavarsh.»

«Sogni d'oro, Leah.»

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Capitolo 67
*** Everything's gonna be alright! ***


ReggaeFamily

Everything's gonna be alright!

[John]




Bryah era seduta sul tappeto con le gambe incrociate, il portatile appoggiato accanto a sé e una miriade di fogli sparsi tutt'intorno.

Ero appena rientrato da Las Vegas per il weekend e mi sentivo molto stanco, ma allo stesso tempo felice e soddisfatto. I lavori a Torpedo Comics procedevano piuttosto bene, Leah era una grande risorsa per me e tutto si stava mettendo per il meglio.

La mia compagna sollevò gli occhi dallo schermo del computer e mi rivolse un sorriso che subito sciolse il mio cuore. Lasciai i bagagli sulla soglia del salotto e la raggiunsi, chinandomi su di lei per baciarla.

Lei mi attirò a sé e ci ritrovammo sdraiati sul tappeto, stretti in un abbraccio. Era bello tornare a casa, poter sentire quel profumo familiare e quel calore intenso, poter stringere tra le braccia quella donna meravigliosa e dimenticare tutto il mondo fuori.

«Ciao» mormorò Bryah, cercando le mie labbra mentre accarezzava sensualmente la mia schiena.

«Ehi» replicai, tenendola stretta a me. Ricambiai il suo bacio e lo approfondii, beandomi di quel sapore che mi era mancato: un mix inebriante di caffè e menta.

«Com'è andata?» mi chiese lei, appoggiando la testa sulla mia spalla.

«Bene, tutto a meraviglia. Sono sfinito, ma va tutto alla grande» raccontai, lasciandomi sfuggire un breve sbadiglio. «E a te? Stavi lavorando?»

Bryah annuì. «Sto finendo di buttare giù un articolo su una band emergente che sono andata a sentire ieri sera. Faranno strada.»

«Se lo dici tu, ci credo!»

Bryah alzò il viso e mi guardò negli occhi. «Ieri mi hanno comunicato che tra qualche settimana dovrò andare a Kingston per un'udienza. Si tratta di Benton.»

Subito mi rabbuiai e rotolai sulla schiena, tenendo lo sguardo fisso sul soffitto che mi sovrastava. Intrecciai le mani sulla pancia e tentai di assimilare al meglio quell'informazione per niente piacevole.

«John?»

«Sì, ho capito» dissi con calma. «Allora dobbiamo prenotare i voli al più presto.»

Bryah si mise a sedere e mi guardò dall'alto in basso. Il suo bel viso mostrava un'espressione indecifrabile, e le sue labbra carnose erano incurvate verso il basso. «Posso andarci anche da sola, so che hai da lavorare in negozio.»

D'istinto allungai una mano e afferrai la sua, stringendola forte. «Non dire sciocchezze, non ti lascerò da sola. Abbiamo affrontato tutto questo insieme, e lo faremo fino alla fine.» Mi misi a sedere a mia volta e scrollai le spalle. «Leah se la caverà in negozio, non preoccuparti. Quando si terrà l'udienza?» volli sapere.

«Il 22 novembre, di venerdì» disse Bryah, dopo aver afferrato uno dei tanti fogli sparsi sul tappeto. «Dovrebbe essere l'ultima» aggiunse con un sospiro.

«Lo spero. Voglio che tu riesca finalmente a stare tranquilla» affermai, per poi sbuffare e passarmi le mani tra i capelli.

«Andrà tutto bene.» Bryah mi abbracciò. «E... John?»

«Dimmi» sussurrai, immergendo il viso tra la sua folta chioma corvina.

«Quando tutto sarà finito, voglio cominciare a lavorare seriamente al vostro libro» annunciò, spingendomi nuovamente all'indietro sul tappeto. Si sistemò a cavalcioni su di me e mi fissò dritto negli occhi. «Sto già preparando le interviste che intendo farvi. Ci sarà un sacco di lavoro da fare, ma ne varrà la pena» proseguì.

«Io non so se sarò all'altezza della situazione» ammisi, accarezzandole una coscia coperta da un paio di pantaloni sportivi e leggeri.

«Ma certo che lo sarai! Sarà divertente!» Bryah sorrise e si stese su di me, baciandomi con ardore sulle labbra.

Ci spogliammo in fretta, avevamo una certa urgenza di stare insieme, di unirci e stare il più vicini possibile.

Facemmo l'amore con urgenza e passione, per poi ricadere abbracciati sul tappeto e riprendere fiato, mentre ci accarezzavamo con tenerezza e delicatezza.

«Stare qui mi fa sentire al sicuro» disse Bryah, quando l'oscurità della sera calò su di noi e ci ritrovammo immersi quasi completamente nel buio.

«Ne sono felice. Per me è importante» dissi, attirandola ancora più vicino a me.

«Ho fame. So che non è il massimo, ma ho qualche avanzo di ciò che ho preparato oggi a pranzo. Credi di poterti accontentare?» chiese lei.

La baciai sulla fronte. «Certo. Non c'è problema, lo sai.»

Ci alzammo e ci rivestimmo, per poi passare in cucina. Mangiammo e chiacchierammo finché non fummo troppo stanchi per farlo, e allora ci gettammo a letto sfiniti e sereni.


L'udienza fu sfiancante, ma non durò troppo.

Per fortuna Benton non presenziò, e Bryah fu molto contenta di non trovarlo nelle vicinanze.

Per lei fu difficile ascoltare ancora una volta tutta la storia, così come risultò doloroso per lei rispondere ad altre domande che parevano non finire mai.

Infine ci fu una pausa, durante la quale il giudice si ritirò per decidere cosa ne sarebbe stato di Benton. A livello penale era già stato processato e aveva ottenuto una condanna per molestie e violenza fisica, ma quel giorno avremmo saputo se Bryah avesse diritto a un risarcimento per i danni civili subiti da quel coglione del suo ex fidanzato.

Bryah sospirò. «Spero che questo incubo finisca in fretta» borbottò, appollaiata su una sedia imbottita che si trovava in un corridoio del tribunale.

«Non preoccuparti» la rassicurai, posandole una mano sulla spalla. Dal canto mio, avevo deciso di stare in piedi, ero troppo irrequieto per pensare di stare ancora seduto e immobile.

Attendemmo per più di un'ora e trascorremmo per lo più il tempo in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.

Avevamo deciso di alloggiare allo Skye Sun Hotel per un paio di notti, poiché Bryah non se l'era sentita di invadere la casa dei suoi genitori adottivi e non disponeva più dell'appartamento che aveva preso in affitto insieme a Benton.

Avevamo raggiunto l'albergo giusto per lasciare i bagagli, ma non avevamo incontrato nessuno dei nostri amici.

Mentre mi chiedevo quando avrei potuto salutare i ragazzi che lavoravano in albergo, l'avvocato di Bryah ci raggiunse e la mia compagna si alzò subito e gli andò incontro.

«Avvocato Cohen, cosa mi dice?» chiese immediatamente.

L'uomo dalla pelle scura e i lineamenti marcati ci rivolse un breve sguardo. «Il giudice ha deliberato.»

Mi accostai a Bryah e le sfiorai la schiena. «Cosa è stato deciso?» mi intromisi.

«Il signor McGregor è stato condannato a un risarcimento di cinquecentomila dollari. Mi dispiace, non abbiamo potuto fare di meglio» spiegò l'avvocato Cohen con calma.

Bryah annuì e sospirò. «Va bene. Ma Benton non ha soldi, questo cosa significa?» chiese poi.

«Gli verranno sequestrati diversi beni, dei quali ora come ora non può disporre in ogni caso. Venga con me, ci sarebbero da firmare alcune carte, poi potrà andare.»

«Ti aspetto qui» sussurrai.

Bryah sorrise lievemente e seguì il suo avvocato.

Mentre attendevo che lei tornasse da me, controllai il cellulare e notai che avevo diverse notifiche, per lo più messaggi su WhatsApp.

Il primo che aprii fu quello da parte di Leah.


Qui tutto bene, capo! E da voi? Fatemi sapere qualcosa appena possibile, okay? Ah: non dimenticarti di dare i miei regali ai ragazzi :)


Digitai in fretta una risposta in cui spiegavo a Leah che la sentenza era stata appena emessa, poi la rassicurai e scorsi velocemente gli altri messaggi. Ce n'erano alcuni dei miei amici, uno di mia madre e uno di Sako.

Bryah mi raggiunse dopo un po'.

La strinsi in un abbraccio. «Andiamo?»

«Sì, torniamo in albergo e cerchiamo di rilassarci. Abbiamo un po' di tempo tutto per noi» rispose lei, poi mi prese per mano e insieme lasciammo il tribunale.


Il taxi si allontanò in fretta e io contai le infinite monetine che il conducente mi aveva restituito. Gli avevo detto che poteva tenere il resto come mancia, ma lui non ne aveva voluto sapere e ora mi ritrovavo con un mucchietto di ferraglia tra le mani.

«Quant'è?» volle sapere Bryah, sbirciando oltre la mia spalla, mentre camminavamo lungo il vialetto.

«Saranno sì e no quattro dollari» bofonchiai, passando attraverso le doppie porte scorrevoli che si erano appena spalancate.

Notai subito Dayanara dietro il banco della reception. Il ragazzo, con il suo solito portamento discreto, ci sorrise e ci venne incontro.

«Day!» lo salutai, battendogli sulla spalla con fare amichevole. «È bello rivederti» aggiunsi.

«John! Oh, Bryah! Che ci fate qui?» esordì il receptionist, salutandoci educatamente e stringendo la mano a entrambi.

«Avevamo un'udienza, sai, per la storia di Benton...» spiegò Bryah.

«Già, cavoli!» esclamò il ragazzo con aria dispiaciuta. «Spero sia andato tutto bene. Quanto vi trattenete qui?»

«Stiamo qui per due notti» risposi, avvicinandomi al banco.

Lui tornò al suo posto e picchiettò velocemente sulla tastiera del computer. «Vi siete già registrati?»

«Sì, siamo arrivati stamattina. Alwan e Cornia sono nei paraggi?»

Dayanara mi guardò negli occhi e sorrise. «Al è di turno, Cornia sarà qui domani.»

Annuii. «Allora andiamo a prendere un caffè e salutare Alwan. Ci vediamo più tardi» conclusi, avviandomi verso l'ascensore.

Dayanara ci salutò brevemente e fu intercettato da qualche cliente che era appena arrivato.

Io e Bryah chiamammo l'ascensore e attendemmo che le doppie porte si aprissero. Quando ciò avvenne, ci trovammo faccia a faccia con un ragazzone alto e biondo, con l'aria di un vichingo. Indossava una maglia verde a maniche corte con la stampa di una qualche band scandinava su un paio di bermuda grigio topo.

Non appena i suoi occhi chiari si posarono su di me, ebbe un lieve sussulto e si immobilizzò. «Cazzo, tu sei il batterista dei System Of A Down!» esclamò con voce strozzata.

Io dovetti trattenere un sospiro e mi limitai ad annuire. «Indovinato» commentai, sperando si facesse da parte e ci lasciasse andare.

«Fratello! Facciamo una foto!» strepitò il vichingo, estraendo rapidamente lo smartphone dalla tasca dei pantaloni.

«Va bene» acconsentii, notando che Bryah si faceva discretamente da parte.

«Grande! Com'è che ti chiami? Voi della band avete dei nomi un po' strani, non sono mai riuscito a memorizzarli» continuò a blaterare il tizio, mentre impostava la fotocamera interna.

«John» dissi in tono piatto, evitando di fargli notare che il mio nome era estremamente semplice e comune.

Lui annuì con vigore e mi circondò le spalle con il braccio destro, mentre con il sinistro sollevava il cellulare di fronte alle nostre facce. Cominciò a controllare che l'inquadratura andasse bene e non scattò finché non fu soddisfatto della luminosità.

Mi ritrovai pigramente a chiedermi se fosse mancino come me, visto che compieva quasi tutte le azioni con il braccio sinistro.

«Grazie, John! E scusa il disturbo, ma quando mai mi sarebbe ricapitata un'occasione simile?» fece infine, battendomi leggermente sul braccio. «Ci vediamo in giro, fratello!» concluse, per poi allontanarsi in direzione della reception.

Finalmente io e Bryah potemmo prendere l'ascensore e dirigerci verso la terrazza panoramica dello Skye Sun Hotel.

La mia compagna ridacchiò. «Non sapeva il tuo nome?»

Feci spallucce. «No, per niente. Non me la sono scampata neanche stavolta» commentai, incrociando le braccia al petto. Persi lo sguardo oltre il vetro trasparente del box, riconoscendo i luoghi che avevano fatto da cornice alla mia vacanza in Giamaica e all'inizio della mia relazione con Bryah.

Quest'ultima mi si accostò e mi costrinse a sciogliere le braccia, poi si premette con il suo corpo contro il mio e mi baciò sulle labbra. «Come ai vecchi tempi» mormorò, dopo essersi staccata.

La abbracciai e sorrisi. «Hai ragione.»

«Non prendertela per quell'ammiratore, su» mi suggerì, accarezzandomi con dolcezza una guancia.

Afferrai la sua mano con la mia e la portai alle labbra, baciando le punte delle sue dita. «Va bene, va bene.»

Le doppie porte metalliche si schiusero e noi scendemmo dal box, ritrovandoci sulla grande terrazza panoramica dello Skye Sun Hotel. Riconobbi il chiosco in legno al centro del grande spiazzo sopraelevato, i tavolini disseminati ovunque e parzialmente coperti da alcuni ombrelloni. Mi soffermai sulla balaustra che ne delimitava quasi interamente il perimetro, poi adocchiai le casse dalle quali si diffondevano le note di un'allegra e tranquilla canzone reggae.

L'atmosfera era sempre la stessa, anche se novembre era ormai giunto al termine.

«Questa è Tanya Stephens!» affermò Bryah, riconoscendo il brano in sottofondo.

«Ha una voce particolare» commentai, ascoltando più attentamente la musica. «Mi pare di conoscerla, o meglio, lo strumentale l'ho già sentito...»

Bryah si strinse nelle spalle. «Sai come funziona nel reggae, no? Vengono create delle basi dai produttori o dai sound system. Poi ogni artista sceglie se cantarci sopra o meno, e ovviamente crea una sua linea vocale, usa il suo stile...» cominciò a spiegarmi, mentre si avviava verso il chiosco.

«Ah, sì, giusto.»

Proprio in quel momento, Alwan emerse da dietro il bancone del bar e sbiancò nel riconoscerci.

«Ehi! È un miraggio o siete proprio John e Bryah?» esordì, battendosi una mano sulla fronte.

Ridacchiai. «Nessun miraggio. Ciao, Al! Come va?»

il barista fece velocemente il giro del bancone e ci si scaraventò addosso, stringendoci in un forte abbraccio. «Ragazzi! Che bello vedervi! Leah non me lo aveva detto, voleva farmi venire un infarto!»

Bryah rise e gli scompigliò i capelli un po' più lunghi di quanto ricordassi. «Ti trovo bene!»

Alwan annuì con convinzione. «Va tutto alla grande! Insomma, il lavoro è sempre lo stesso, però c'è stato un aumento del personale e si respira un po' di più. Non posso lamentarmi! E voi che fate qui?»

«C'è stata un'udienza oggi, stiamo arrivando proprio ora da Kingston» spiegai, appoggiandomi con i gomiti sul bancone in legno.

Alwan tornò al suo posto e guardò Bryah. «Per quel coglione del tuo ex?» domandò con apprensione.

«Già. È andata bene, tranquillo» replicò lei.

Mi parve più serena, come se stesse cominciando a rendersi conto proprio in quel momento di quanto la situazione si fosse messa bene per lei. Forse stava cominciando a comprendere che era finita, che tutto da quel momento in poi sarebbe migliorato e che avrebbe finalmente potuto riprendere definitivamente in mano la sua vita.

«Meglio così! Vi va un Blue Mountain?» ci propose lui in tono allegro.

Accettammo di buon grado e andammo a sederci a un tavolino poco distante dal chiosco, mentre dalle casse si diffondevano le note di un'altra canzone.

«Questo chi è?» domandai a Bryah.

«Anthony B» rispose senza esitazioni, strizzandomi l'occhio.

«Ti ricordi anche tutti i titoli delle canzoni?» la presi in giro con ironia, fissandola insistentemente con l'intento di metterla in soggezione.

«Ma certo! Quella di Tanya Stephens si intitolava It's A Pity, mentre questa è Reggae Gone Pon Top» affermò con insolenza, restituendomi l'occhiata.

Scoppiai a ridere. «Va bene, hai vinto!»

Alwan volò accanto a noi con un vassoio in mano. Appoggiò le nostre tazzine sul tavolo e si guardò attorno. Dopo essersi accertato che non c'erano altri clienti nei paraggi, scostò una sedia e si accomodò insieme a noi.

«Quanto resterete qui? Perché Leah e gli altri non sono venuti con voi?» volle sapere il barista, osservandoci con gli occhi colmi di felicità.

«Hanno tutti da fare. Ho dovuto lasciare Leah a lavorare nel mio negozio» spiegai.

«Ah sì! Il negozio di fumetti, vero? Me l'ha detto! È una cosa fantastica, John, sul serio!» si entusiasmò Alwan.

«Sta andando bene, sì. È magnifico» confermai, sorseggiando il caffè.

«Ottimo! Sapete, io e Day andremo a vivere insieme. Contiamo di trasferirci nel periodo di Natale, abbiamo trovato un appartamento in città che fa al caso nostro» raccontò, con gli occhi che brillavano e la voce rotta dall'emozione.

«Sul serio? Ma è una notizia strepitosa!» esclamò Bryah, posandogli una mano sul braccio. «Sono felice, ve lo meritate» aggiunse, guardandolo negli occhi.

«Grazie! Non vedo l'ora» ammise il barista.

«La prossima volta che verremo in Giamaica, passeremo da casa vostra» dissi in tono scherzoso.

Continuammo a chiacchierare finché Alwan non fu costretto a tornare al lavoro. Decidemmo di vederci il giorno seguente per trascorrere un po' di tempo insieme, dal momento che per lui sarebbe stato il giorno libero.

Io e Bryah andammo a cena e ci ritirammo nella nostra stanza, sfiniti dal viaggio e dal tempo trascorso in tribunale.

Era stata una giornata intensa, ma ne era valsa la pena. Tutto ciò che avevamo fatto avrebbe giovato al nostro futuro, entrambi lo sapevamo bene.


Ripensavo già con nostalgia a quei due giorni trascorsi allo Skye Sun Hotel, mentre io e Bryah viaggiavamo in aereo verso Los Angeles.

Quel luogo era stato magico, ancora una volta era riuscito a penetrarmi nel cuore e a lasciare un segno indelebile nei miei ricordi.

Osservai Bryah che dormiva sul sedile accanto al mio, con la testa che ciondolava da un lato. Feci in modo che poggiasse il capo sulla mia spalla e sorrisi.

Ripercorsi con la mente la jam session che avevamo improvvisato io e Alwan; era notte fonda e ci eravamo riuniti nella spiaggia privata dell'albergo. Io ero finito a suonare uno djambé, Alwan la chitarra classica e Miriam, la bagnina, si era rivelata una discreta cantante. Bryah aveva scattato qualche foto, mentre Dayanara osservava la scena con ammirazione. Cornia sghignazzava, tenendo Lakyta stretta a sé e insinuando le mani sotto la sua canottiera leggera.

Avevamo bevuto e mangiato, ci eravamo divertiti ed era stato come fare un salto indietro nel tempo, come tornare all'ultima notte della nostra vacanza tutti insieme, quando Daron aveva organizzato quella festa improbabile.

Mi tornò in mente un breve scambio di battute che avevo avuto con Miriam e mi ritrovai a rifletterci su.


«Daron... come sta?»

«Se la cava, non c'è male.»

«Era davvero carino.»

«Già, diciamo che quando vuole sa esserlo.»

«Avrei voluto conoscerlo meglio, ma non c'è stato tempo. Non me la sono sentita di intraprendere qualcosa con lui, sai, non abbiamo proprio avuto modo di...»

«Certo, è comprensibile. Non devi giustificarti, Miriam.»

«Be', ehi, portagli i miei saluti.»

«Senz'altro.»


Forse Daron aveva davvero fatto colpo su quella ragazza, ma dubitavo che ormai ci fosse qualcosa da salvare tra loro. Erano troppo distanti e non si conoscevano; probabilmente Daron si era già dimenticato di Miriam, o forse custodiva il suo ricordo come uno dei tanti bei momenti di quella vacanza in Giamaica, niente di più.

Lakyta non mi aveva rivolto la parola ed era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Era come se fosse cambiata radicalmente: si era chiusa parecchio dall'ultima volta che l'avevo vista, da quella notte in cui ci eravamo ritrovati a confidarci sulla terrazza panoramica.

Stava sempre vicino a Cornia, non guardava più in direzione di Alwan, probabilmente aveva capito che lui stava con Dayanara e che per loro due non c'era alcuna speranza. E avevo avuto la vaga impressione che avesse anche compreso che non sarebbe mai riuscita a raggiungere Hollywood come aveva sempre sognato.

Era come se i sogni di quella ragazza si fossero consumati come una vecchia candela, e questo aveva fatto sì che il suo atteggiamento mutasse e la rendesse introversa e taciturna.

Prima di partire, ero riuscito a scambiare due chiacchiere con lei, e sperai vivamente che questo fosse servito a non farle perdere di vista i suoi obiettivi.

Forse era sempre stata una ragazza frivola e superficiale, ma non era cattiva.


«Lakyta, stai bene?»

«Certo. E tu?»

«Vuoi ancora venire a Hollywood?»

«Oh, no. È passata, John, è passata.»

«Non ci credo. Allora ciò che mi hai detto quella notte...»

«Non farci caso. Non conta più. Ora sto bene.»

«Non ti credo. Ti consiglio di non lasciarti abbattere, di non arrenderti.»

«Grazie, ma ormai è tardi.»

«Non dirlo.»

«Be', ti ringrazio per esserti preoccupato, ma adesso sto bene così.»


Di sicuro non avevo potuto costringerla, ma forse Lakyta avrebbe ripensato alle mie parole. Forse si sarebbe riscossa, forse avrebbe capito che non doveva accontentarsi di una relazione con Cornia se non poteva avere Alwan, e che non poteva accontentarsi di un lavoro come cameriera se desiderava fare l'attrice.

Quei pochi giorni, a parte la storia dell'udienza, erano stati ristoratori e mi avevano permesso di ricaricarmi.

Mentre viaggiavo verso casa, sentivo di essere pronto per rigettarmi a capofitto nel progetto Torpedo Comics, per incoraggiare i ragazzi a creare nuova musica insieme, per aiutare Bryah con il suo libro e con tutto ciò che voleva ottenere dalla sua nuova vita.

I pensieri vorticavano nella mia mente, e senza rendermene conto mi addormentai a mia volta sullo scomodo sedile dell'aereo, lasciando cadere la testa contro quella della mia compagna.

Fuori dal finestrino, me ne accorsi appena, aveva cominciato a piovere.




Cari lettori, eccomi qui, come ogni giovedì ^^

La faccio breve, scrivo solo per farvi ascoltare, come di consueto, i brani che ho inserito nel corso del capitolo!

Ecco la prima canzone, It's A Pity di Tanya Stephens:

https://www.youtube.com/watch?v=3p55wXWyc4o

Ed ecco a voi anche il secondo pezzo, Reggae Gone Pon Top di Anthony B:

https://www.youtube.com/watch?v=nEd7CXys2vQ

Mi rendo conto che probabilmente per alcuni di voi questo non è proprio il genere preferito, però ecco, John e Bryah erano in Giamaica e io dovevo dare ancora una volta una certa atmosfera agli avvenimenti, cercate di capirmi ;)

Alla prossima e grazie ancora a tutti voi ♥

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Capitolo 68
*** Psychopath ***


ReggaeFamily

Psychopath

[Daron]




Ci avevo riflettuto, ma non ci avevo riflettuto affatto.

Quando avevo letto il messaggio di Layla, la mia mente aveva immediatamente preso una decisione: sarei andato a quell'appuntamento, avrei provato a parlare con lei e a capire se tra noi fosse possibile creare un qualche rapporto. Certo, non sarei mai stato suo padre, ma se fossi riuscito a diventare quanto di più simile a una figura paterna per lei, mi sarei sentito meglio.

MI capitò di discutere della questione con Sako, la sera prima; eravamo usciti tra amici, e insieme ci eravamo recati fuori dal locale a fumare.

Era tardi perché qualcuno mi facesse cambiare idea, ma il tecnico della batteria non esitò a farmi sapere cosa pensava riguardo alla mia situazione.

«Daron, io non voglio fare il guastafeste. Tutta questa storia è una figata, certo, ma secondo me dovresti darci un taglio. Insomma, non mi pare il caso che tu giochi a fare il genitore con una ragazza che potrebbe benissimo essere la tua amante.»

Gli lanciai un'occhiataccia, sperando di aver capito male. «La mia amante?»

Sako scrollò le spalle. «Sì, hai capito. Quella lì non è più una bambina, l'ho vista. Che ne sai tu? Chissà quali sono le sue reali intenzioni... fratello, te lo dico perché a te ci tengo. Fa' attenzione. Lei ti ha fatto credere che sua madre volesse metterla contro di te, che lei volesse impedirvi di scoprire la verità... ma tu hai parlato con Dolly? Hai sentito la sua versione dei fatti?»

Quelli che Sako mi stava esponendo erano dei dubbi che mi erano venuti in mente miliardi di volte. Però lui non conosceva Dolly, non sapeva quanto lei potesse essere furba e quali fossero sempre stati i suoi interessi.

«Potrebbe essere che hai ragione, ma io non penso proprio che Layla sia così cattiva» replicai, per poi prendere una boccata di fumo.

«Ripeto: sta' attento, okay? Io e i ragazzi vorremmo evitare di raccogliere ancora una volta i tuoi cocci da sotto il divano» concluse, spegnendo la sua sigaretta sul bordo del marciapiede.

«Non sono più un poppante. Possibile che nessuno se ne sia accorto?»

Il mio amico mi guardò negli occhi. «Questo non c'entra niente. Nessuno di noi lo è, ma ciò non significa che non ci serva qualche consiglio ogni tanto» disse, per poi sorridermi appena.

Mentre rientravo nel locale, riflettei su ciò che Sako mi aveva detto: poteva avere ragione, ed era proprio per questo che volevo vedere Layla.

Avevo qualcosa in mente e decisi di metterla in pratica proprio il giorno seguente.


Mercoledì mattina, a mezzogiorno e venti, raggiunsi il nostro punto d'incontro. Ero in ritardo, neanche a dirlo, e avevo fatto una corsa folle per riuscire a raggiungere il Boulevard in tempi non troppo lunghi.

La strada brulicava di persone, gente di tutti i tipi e le etnie, tutti vestiti a caso o seminudi, come sempre succedeva a Los Angeles. Non mi sarei mai abituato a vedere tutti quei colori tutti insieme, a notare la diversità della razza umana racchiusa in pochi metri e schiacciata dal sole del mezzogiorno. Era uno spettacolo affascinante e raccapricciante insieme.

Qualcuno mi picchiettò sulla spalla e io mi voltai di scatto, timoroso che si trattasse di qualche fan rompiscatole.

Era Layla.

«Ah, sei tu! Ciao» esordii, tirando un sospiro di sollievo.

«Scusa, non volevo spaventarti. Allora sei venuto!» rispose, ritraendo in fretta la mano. Forse si era ricordata di quanto, la volta precedente, avessi detestato il suo continuo tocco su di me.

«Già. Ti va se andiamo a pranzo da Tigran e Alina?» le proposi. «Se non ti senti a tuo agio, fa' nulla. Magari ti va di andare in un fast food?» proseguii.

Lei ridacchiò. Solo in quel momento mi resi conto che era ben truccata, indossava un vestito azzurro che metteva in risalto le sue forme non troppo generose, e che ai piedi portava degli stivaletti neri e semplici con il tacco basso. Era carina, ma non l'avevo mai vista così curata. In genere era sempre stata molto semplice e quasi anonima.

«Daron, a me va benissimo se andiamo in quel ristorante armeno. Lo adoro! E oggi ho cercato di essere un po' più presentabile, non vorrei mai che quei bravi signori pensino che sono una stracciona o qualcosa del genere» si giustificò, accennando al suo aspetto.

Mi tornò in mente Sako. Se avesse visto com'era fatta Layla, probabilmente avrebbe capito che lei era ben diversa da sua madre. Dolly era sempre stata un'esibizionista, aveva sempre amato farsi guardare e stare al centro dell'attenzione. E io, ovviamente, ci ero cascato, così come ci era cascato Chuck e chissà quanti altri uomini. Aveva detto che mi amava ancora, e mai come in quel momento la sua confessione mi parve patetica e squallida. Non avrei mai potuto crederle.

«Okay, allora ci andiamo.»


Il pranzo fu tranquillo. Alina fu leggermente sorpresa di rivedermi in compagnia di quella ragazzina, ma fu molto dolce e gentile con lei.

Stavolta Layla riuscì a parlare un po' di più, e fu anche capace di non farsi intimorire dall'atteggiamento apparentemente burbero di Tigran.

Prima di lasciare il locale, feci tappa in bagno, ma fui braccato nel corridoio da Alina. Pareva mi stesse aspettando, e compresi che erano proprio quelle le sue intenzioni, quando parlò senza fare giri di parole.

«Daron, tu sei come un figlio per me, perciò ti parlerò come Zepur farebbe. Che intenzioni hai con quella bambina?» esordì in armeno, afferrandomi saldamente per le spalle.

«Non ho alcuna intenzione con Layla. Non è come credi» mi difesi, tentando di divincolarmi. Anche la sua stretta, così come il suo tono di voce, risultò piuttosto accusatoria e colma di preoccupazione.

«Allora com'è? Dimmelo.»

«Quella ragazza... sua madre l'ha convinta di essere mia figlia. Mi ha cercato mentre ero in Giamaica, ha smosso mari e monti per trovarmi, perché credeva davvero fosse così. Ma abbiamo fatto il test del DNA: Layla non è mia figlia.»

Alina si portò le mani alle tempie e mi lasciò andare. «Zepur lo sa?»

«No! Non lo sa e per ora non deve saperlo» chiarii in inglese.

«Neanche Vartan, immagino» commentò la donna di fronte a me, senza cambiare lingua.

«No, neanche lui» confermai, smettendo del tutto di assecondarla.

Alina sospirò e lasciò che le braccia le ricadessero lungo i fianchi ponderosi. «Be', figliolo, posso solo dirti che devi stare attento. Quella ragazza sembra a posto, ma non combinare guai. Ci siamo intesi, vero?»

Sbuffai e sollevai gli occhi al cielo. «Scusami tanto, ma non ho più otto anni! So come comportarmi, e non ho intenzione di approfittarmi di lei, se è questo che pensi. Pensavo avessi una considerazione più alta di me» sbottai.

«Andiamo, adesso non fare la vittima e ascoltami. La carne è debole, lo sai anche tu. Non vorrei mai che questa strana amicizia tra voi si trasformi in qualcos'altro.»

Inorridii e feci un passo indietro. «Cosa?»

«Lo so che forse ti ferisco, ma devo metterti in guardia. Sai che sono sempre stata sincera con te e con la tua famiglia. È per questo che ci vogliamo bene e ci stimiamo da una vita» chiarì Alina senza scomporsi troppo, addolcendo un poco il tono di voce.

«Io non riesco neanche a immaginare di... oddio, no!» balbettai, per poi darle le spalle e tornare di corsa in sala.

Raggiunsi in fretta e furia il tavolo basso a cui Layla era seduta, lasciai cadere cinquanta dollari sul ripiano e trascinai velocemente la ragazza fuori di lì.

Non potevo davvero credere che qualcuno pensasse certe cose di me. Ero veramente così orribile? Davo seriamente l'impressione di essere un malato di sesso pronto ad accoppiarsi anche con una minorenne?

«Daron, che fai? Che succede?» strillava Layla, mentre la tenevo saldamente per un polso e la portavo verso la mia auto.

«Andiamo, poi ti spiego» grugnii.

«Sembra che tu abbia visto un fantasma! Cazzo, ti vuoi fermare? Dimmi cosa è successo! Adesso!» gridò, riuscendo ad arrestare la mia corsa con determinazione.

Mi voltai a fronteggiarla e la trovai spaesata, impaurita e incazzata, oltre che confusa.

«Sei fuggito come un ladro! Si può sapere il motivo?» proseguì con fermezza Layla, senza muoversi di un millimetro.

«Alina mi ha accusato di essere un pedofilo e di volermi approfittare di te!» abbaiai, riprendendo a marciare verso il parcheggio, senza neanche preoccuparmi di trascinarmela dietro.

«Cosa? Come? Sicuramente hai capito male, lei non mi sembra una persona così meschina! Daron, aspetta!»

Sapevo che aveva ragione, sapevo che Alina non mi aveva propriamente accusato, ma le sue parole mi avevano ferito e sconvolto talmente tanto che non ero più riuscito a stare lì dentro.

«Daron! Dannazione, fermati!»

Raggiunsi la mia auto e mi lanciai letteralmente al posto di guida, sbattendo furiosamente il mio sportello. Ero deluso e incazzato, perché se Alina aveva detto quelle cose, evidentemente ero stato io a fargliele credere. Forse con azioni compiute in passato, però sicuramente mi aveva messo in guardia molte volte da situazioni pericolose in cui mi aveva trovato. Mi conosceva bene e sapeva che amavo spassarmela con le ragazze, su questo non c'erano dubbi.

Ma Layla ancora non aveva compiuto diciotto anni, e poi era diversa. Ero quasi stato convinto che fosse mia figlia, mi disgustava l'idea di fare sesso con lei. Mi sarei sentito sporco, e in ogni caso avevo avuto una relazione con sua madre!

Non ero un porco, non fino a questi livelli. Mi presi la testa tra le mani per evitare di sbatterla contro il volante.

Layla salì a bordo e mi appoggiò cautamente una mano sulla spalla. «Daron, mi fai paura» mormorò.

«Scusa, ma... cazzo, scusa! Ho rovinato tutto.» Mi scrollai la sua mano di dosso e misi in moto. «Ti riporto a casa. Dimmi dove abiti.»

«Ma mia madre potrebbe...»

La inchiodai con lo sguardo. «Me ne fotto. Dimmi dove abiti.»

Layla abbassò il capo e mi comunicò il suo indirizzo.

Capii più o meno dove dirigermi e presi a guidare in silenzio, senza neanche pensare di accendere l'autoradio. Ero furioso e fui grato a Layla perché evitò di aprir bocca, immergendosi semplicemente nei suoi pensieri con lo sguardo fuori dal finestrino.

Giungemmo a destinazione circa tre quarti d'ora più tardi; avevamo trovato un po' di traffico e la Freeway 101 aveva rallentato parecchio il nostro viaggio a causa di un incidente.

Spensi il motore e rimasi immobile a fissare la casa bianca e anonima in cui abitavano Dolly e sua figlia.

«Layla, mi dispiace di aver sbottato così» fu tutto ciò che riuscii a dire, sentendomi un vero e proprio idiota.

«Okay, va bene, non importa» sussurrò.

«A me importa. Ti ho spaventato.» Allungai una mano per afferrare la sua, poi ci ripensai e me la portai dietro l'orecchio destro. «Ti chiedo scusa.»

«Davvero, va tutto bene» ripeté lei, per poi sollevare il capo e sorridermi debolmente.

Stavo per aggiungere qualcosa, quando improvvisamente udii un tonfo secco provenire dall'esterno dell'auto.

Poi cominciarono le urla.


«Mamma?»

«Scendi immediatamente da quella macchina, Layla, immediatamente

«Smettila di strillare, per favore...»

«No, razza di cretina senza cervello! Scendi da questa cazzo di macchina, adesso!»

«Mamma, ma ti sei drogata? No, non mi muovo di qui! E piantala di urlare!»

Assistevo alla scena, pietrificato. Dolly bussava con forza contro il finestrino sigillato della mia auto, inveendo con gli occhi spiritati puntati alternativamente su Layla e su di me. La ragazza la fissava senza darle troppa importanza, cercando di farla smettere di fare la pazza.

«Tu! Sei uno stronzo! Non sei suo padre, ora lo sai, no? Quindi ti vieto categoricamente di importunare mia figlia! Sei un maniaco, Daron Malakian! Prima ti sei approfittato di me, ora vuoi farlo anche con la mia bambina!» continuò a gridare Dolly, battendo i pugni sul finestrino.

Se avesse continuato di questo passo, prima o poi si sarebbe rotto e lei si sarebbe ferita, finendo per fare del male anche a noi due.

«Dolly, cosa stai dicendo?» biascicai confuso.

Dolly si rese conto che non aveva ancora provato ad aprire lo sportello, così pose subito rimedio e lo spalancò con foga, afferrando sua figlia per le braccia. «Scendi subito, hai capito? Andiamo, vai dentro! E se scopro che vedi ancora una volta questo depravato, ti spedisco da tua zia in Florida!»

«Mamma, il mese prossimo compio diciotto anni. Sei ridicola!» replicò Layla, mentre veniva sbalzata fuori dall'auto.

Rabbrividii. Avevo davvero frequentato quella psicopatica in passato? Mi domandai pigramente perché questi casi umani finivano sempre tra le mie braccia e nel mio cuore. Ero un caso perso, non avevo speranze di trovare qualcuno di normale da poter frequentare e amare.

«Per adesso hai ancora diciassette anni, Layla! Vai dentro e non provare a uscire di casa finché questo qui non se ne sarà andato! Chiaro?» sbraitò ancora Dolly, spingendo con malagrazia sua figlia verso l'ingresso.

La sua voce stridula continuò a rimbombare per la strada deserta.

Decisi di squagliarmela, ero stanco di sentire i suoi strilli acuti e insensati. Stavo per ripartire, quando la psicopatica tornò all'attacco. Fece il giro dell'auto e spalancò anche il mio sportello.

«Allora? Che cosa credevi di fare, eh? Con mia figlia!» strepitò, afferrandomi per un polso.

«Dolly, calmati. E lasciami andare, subito» dissi in tono piatto, mentre dentro me montava la rabbia.

«No!» Lei si sedette di slancio sulle mie ginocchia e si premette contro il mio corpo, inchiodandomi sul sedile. «No, tu devi capire che io non permetterò mai a quella sgualdrina di stare con te. Io ti amo e te l'ho già detto, perché non vuoi capirlo? Perché non ti rendi conto che per te è lo stesso?»

Cominciai a vedere tutto rosso e scattai come una molla. Con una forza che non ricordavo di avere, la spintonai fuori dall'auto e lei finì per terra, mentre io saltavo fuori e mi allontanavo da lei di alcuni metri.

«Non. Provarci. Mai. Più.» Avevo scandito ogni singola parola e la fissavo con ira, sentendo le mie mani e tutto il mio corpo tremare incontrollabilmente.

«Daron... non ti riconosco più...» biascicò, con le lacrime agli occhi.

«Nemmeno io. Sei una psicopatica, fatti curare. Io me ne vado, e spero di non rivederti mai più.» Tornai a sedermi in macchina, mentre lei si rialzava a fatica. «Ah, e sai una cosa? Tua figlia farà ciò che si sentirà di fare. Non puoi impedirglielo per sempre. Tra un mese compirà diciotto anni, quindi ti consiglio di fartene una ragione. E di andare da uno psichiatra» conclusi, poi sbattei lo sportello e mi allungai per richiudere anche quello dalla parte del passeggero.

Misi in moto e me ne andai di tutta fretta, lasciando Dolly a leccarsi le ferite e a cercare di riemergere dalle sue sabbie mobili di frustrazione.

Non vedevo l'ora di farmi una doccia e lavare via l'odore disgustoso e nauseabondo che mi aveva messo addosso.


«Daron?»

Me ne stavo così, accucciato, tranquillo. Stavo bene. E non volevo parlare con nessuno.

«Daron? Dove ti sei cacciato?»

La voce di Angela era colma di apprensione, come sempre. Era una brava persona, lei, Serj era stato fottutamente fortunato.

«Daron?!»

Angela si chinò e mi vide. I nostri occhi si incrociarono, i suoi inondati di luce e i miei di oscurità.

«L'hai trovato?» tuonò Serj dalla cucina.

«Sì» mormorò lei. «È sotto il divano.»

«Merda! E adesso come facciamo? Ti risponde?»

«No, non mi risponde» rispose Angela in tono rassegnato.

Non riuscivo a capire perché fossero tanto preoccupati. Io stavo bene, volevo solo rimanermene per i fatti miei, sotto quel divano così buio e accogliente.

«John saprebbe come fare, ma lui è a Las Vegas ora» gracchiò il cantante, entrando di corsa in salotto.

«Non avresti dovuto lasciarlo solo! Era in condizioni pietose quando è arrivato qui» sussurrò Angela.

«Vuoi dire che è colpa mia?» si rivoltò Serj.

«No, ma... oh, andiamo. Okay, non ha senso litigare ora, scusami. Come facciamo?»

Serj tacque.

Io intanto fissavo la luce che inondava la stanza fuori dal mio nascondiglio. Mi rannicchiai meglio contro la parete alle mie spalle. Quella luce faceva paura.

«Daron, per l'amor del cielo! Mi vuoi dire cosa è successo?» domandò Serj in preda all'esasperazione, chinandosi di fronte al divano per potermi guardare.

Non aprii bocca. Non avevo voglia di rispondergli, non riuscivo a farlo.

«Sarà stata una brutta giornata per lui» suppose Angela, cercando di essere ragionevole.

Eccome se lo era stata. Una giornata di merda, di quelle con i fiocchi. Ma non ero in grado di confermare i suoi sospetti, né di raccontarle cosa fosse capitato.

Mi tornò in mente il giorno in cui mi era stato proposto di partire per la Giamaica. Anche quel giorno mi ero nascosto sotto il divano, ma poi era arrivato John e mi aveva convinto a uscire di lì. Non so come avesse fatto, io non mi sarei mosso per niente al mondo.

E allora capii che non mi era servito a niente quel viaggio. Io tornavo sempre punto e a capo, sempre al punto di partenza, senza mai cambiare e risolvere niente.

Ecco perché volevo stare sotto il divano.

Anche io ero uno psicopatico come Dolly.

«Daron, mi senti? Ti prego, esci di lì» mi scongiurò Serj.

Quando ero fuggito da casa di Dolly, non avevo minimamente pensato di tornare a casa mia. Là non avevo un divano come quello, non avevo un rifugio sicuro in cui rintanarmi. Così ero corso da Serj e Angela, sapendo che da loro mi sarei sentito protetto da quell'oscurità.

«Se non esci tu, io e Serj spostiamo il divano» decise Angela.

Qualche lacrima scorse lungo il mio viso. Mi volevano strappare alla mia tana, era ingiusto.

«Giusto!» saltò su Serj. «Ci piacerebbe molto chiamare John e farti venir fuori con le buone, ma stavolta non sarà possibile. Mi dispiace» proseguì il cantante.

Io non riuscii a replicare. Non fui capace di protestare né di muovermi. Ero nel panico più totale, ora ne ero consapevole, così come ero consapevole di non sapere assolutamente come uscirne.

Trascorsero alcuni minuti, durante i quali marito e moglie proseguirono a discutere sotto voce sul da farsi. Neanche li ascoltavo, non capivo le loro parole.

D'improvviso fui invaso da una luce abbagliante che mi ferì gli occhi. Serj e Angela avevano sollevato di peso il divano e lo stavano portando al centro della stanza.

Sbattei le palpebre e cominciai a piangere senza controllo. Mi portai le mani al viso e mi coprii gli occhi, invaso da singhiozzi che mi scuotevano fin nel profondo.

Dopo un po' mi sentii abbracciare e mi lasciai andare contro la spalla di Serj, il quale mi tenne stretto contro il petto, sdraiato sul pavimento accanto a me.

«Andrà tutto bene» continuava a ripetere, mentre Angela si muoveva per la stanza.

«Serj... sono un fallimento totale...» farfugliai, tirando su con il naso.

«Non lo sei. Sei forte, sei una persona fantastica e hai un sacco di persone che ti vogliono bene al tuo fianco. Supererai anche questa, qualunque cosa sia» mi rassicurò il mio amico, accarezzandomi piano la schiena.

«Non so come fare» mormorai.

«Potresti parlare con qualcuno. Dei tuoi problemi, dei tuoi attacchi di panico, di tutto quanto» mi consigliò Serj. «So che non sei tanto amante degli psicologi, ma ti assicuro che se ne trovi uno competente, ti aiuterà. E non ti darà delle medicine, Daron. Non devi andare da uno psichiatra, e se qualcuno ti prescrivesse dei farmaci, sei libero di non prenderli. Puoi reagire con le tue forze, te lo assicuro. Ti conosco e lo so.»

Avevo avuto un crollo e lo sapevo, così come ero certo che Serj avesse ragione. Forse dovevo davvero farmi aiutare, forse mi sarebbe servito per risollevarmi e riprendere del tutto in mano la mia vita.

Annuii piano e mi scostai da lui. «Sì» dissi soltanto.

«Dai, mettiti seduto e bevi un po' d'acqua» mi esortò Angela, porgendomi un bicchiere pieno.

Obbedii e lasciai che Serj mi aiutasse a sollevarmi. Bevvi avidamente tutta l'acqua contenuta nel bicchiere e lo restituii ad Angela con un sorriso riconoscente.

«Te ne porto dell'altra» affermò lei, per poi farmi l'occhiolino.

«Dai, siediti sul divano. Vieni.»

Io e Serj ci accomodammo sui cuscini morbidi e sospirammo all'unisono.

«Ce la farai, e non sei solo, lo sai» ripeté il mio amico con un lieve sorriso sulle labbra.

«Grazie» mormorai.

Ero convinto che avesse ragione. Avrei fatto di tutto per riprendermi. C'erano tanti progetti in ballo, tante cose che avrei voluto fare e che sapevo di dover fare.

Forse solo ora avevo capito che era giunto il momento di risalire, di dare un calcio in culo al passato e vivere il presente.

Non avrei più permesso a una Jessica qualunque di umiliarmi, né a una Dolly qualsiasi di farmi sentire un coglione.

Avrei lottato per il mio rapporto con Layla e per salvare tutto ciò che di bello c'era nella mia vita.

Sorrisi a Serj. «Facciamoci una birra, ti va?» gli proposi.

Lui scoppiò a ridere e mi circondò le spalle con un braccio. «Ti voglio bene, fratello» ammise.

«Anche io» risposi sincero.

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Capitolo 69
*** Interviews ***


ReggaeFamily

Interviews

[Bryah]




«Buongiorno!» esordii, stringendo tra le mani taccuino e registratore portatile.

John sbadigliò sonoramente e mi lanciò un'occhiataccia. «Non puoi aspettare almeno che mi lavi la faccia?» brontolò, stropicciandosi gli occhi.

«No! Ho un libro da scrivere, John Dolmayan! Coraggio, non è da te avere sonno alle nove del mattino! Che ti prende?» scherzai.

«Non lo so, ma...»

«Su, cominciamo!»

John mi lanciò un'altra occhiataccia, sbuffò, poi mi raggiunse sul divano.



Cosa significa per te il progetto System Of A Down?


Per me è vita. Io e i ragazzi siamo una famiglia. Non importa se non creiamo nuova musica, non importa se adesso siamo “fermi”. Noi siamo prima di tutto fratelli, amici, ci vogliamo bene. Io vivo per la mia musica, e vivo per questa roba, per i System.


Hai mai pensato di mollare?


Mai. Anche se io e i ragazzi ora siamo fermi, io insisterò fino alla fine per convincerli a tornare a fare musica insieme. Per fortuna continuiamo a suonare in giro per il mondo, questo è un bene.


Un aneddoto che ti è capitato sul palco?


Oh, uno di quelli che ricordo meglio mi riguarda in prima persona. Una volta eravamo in Europa, in Francia forse. Stavamo suonando, eravamo carichi al massimo, ma eravamo anche stanchissimi dopo un mese di tour. Io non avevo chiuso occhio nelle due notti precedenti, ero sfatto e rischiavo di addormentarmi dietro la batteria. Così mi sono perso per un attimo e ho sbagliato una canzone quasi per intero. Shavo rideva, ha dato le spalle al pubblico per non farsi vedere, peccato che si sia voltato a guardarmi. È stato difficilissimo non scoppiare a ridere, giuro. Daron e Serj hanno continuato a suonare e cantare indisturbati, ma si sa che basso e batteria sono sempre in contatto. Forse gli altri non si sono accorti più di tanto dei miei continui errori, ma Shavo ha subito colto dove stava il problema. Sì, è capitato altre volte, ma quel giorno è stato epico, è stato assurdo! Non era mai successo in maniera così palese.


Qual è la sensazione che provi quando stringi le bacchette in mano?


Non si può descrivere a parole. Entro nel mio elemento, potrei immergermici per sempre senza mai stancarmi. Per me è naturale come guidare l'auto, no di più, come respirare e nutrirmi. Senza mi sento perso. Quando mi capita di non poter suonare per diversi giorni di fila, mi sento vuoto e avverto la mancanza di qualcosa di fondamentale.


Un ricordo della tua infanzia in Libano?


Avevo un amico, si chiamava... ehm... Mikhail, qualcosa del genere. Stavamo spesso insieme, scorrazzavamo tutto il giorno per le strade devastate e ci nascondevamo negli angoli più improbabili per cercare tranquillità. Un giorno mi portò da suo cugino, non ricordo più il nome, e mi fece vedere i suoi tamburi. Era una batteria molto spartana, quel povero ragazzo non aveva neanche i piatti. Usava due bacchette di legno grezzo, una più lunga e una più corta. Erano di diverso spessore e probabilmente anche il legno non era lo stesso per entrambe. Il cugino di Mikhail mi fece provare, e fu un'illuminazione. Per me fu subito magia, anche se fuori da quel buco qualcuno si disperava e in lontananza si udì un'esplosione. Da allora in poi ho cercato in tutti i modi di riprodurre quel suono meraviglioso, quel suono perfetto nella sua imperfezione, accordando i miei tamburi e provando diversi tipi di legno per le bacchette. Non ci sono mai riuscito, ma ancora oggi ricordo quel suono suggestivo.


Di cosa hai paura?


Dei temporali. Mi mettono ansia, mi terrorizzano. I tuoni fanno un suono terribile, un po' come quello delle bombe.



Sollevai lo sguardo e lo posai su John. Il suo viso era teso, e così non fui più certa di ciò che gli stavo chiedendo nell'intervista.

«Tesoro...» mormorai.

Lui scosse appena il capo. «Okay, possiamo andare avanti.»

«Se vuoi, elimino questa domanda» gli proposi, facendo per depennare le parole che riguardavano le paure.

Il batterista allungò un braccio e mi strinse leggermente il ginocchio. «No, davvero, possiamo proseguire.

Annuii. Lavorare a quel libro si stava rivelando difficile, ed ero certa che non sarebbe stato tutto rose e fiori.



«Io vi lascio lavorare» disse Angela, affacciandosi in salotto.

Mentre le sorridevo, mi resi conto che era una donna bellissima: indossava abiti semplici e non appariscenti, ma questo non faceva che contribuire al suo essere particolare. I capelli le ricadevano sciolti sulle spalle e il suo viso dolce era colmo di gentilezza.

«Puoi rimanere, non ci disturbi» le feci notare, alzandomi per salutarla con due baci sulle guance.

«Mi piacerebbe, ma ho delle commissioni da sbrigare e devo riempire il frigorifero» replicò.

Ridacchiai. «Va fatto anche questo!»

Serj prese a suonare distrattamente qualcosa al pianoforte e ci lasciò chiacchierare per un po'.

«Bryah, sono sicura che il libro sarà un successo mondiale. Moltissimi ammiratori dei System non aspettano altro. Sono uscite tante biografie su moltissime band della scena rock, ma mai qualcosa su di loro. E grazie a te questo si sta avverando.»

Annuii mestamente. «Farò del mio meglio, i ragazzi lo meritano» assicurai ad Angela.

Scambiammo qualche altra battuta, poi la donna uscì di casa dopo averci salutato con calore.

Io e Serj rimanemmo soli, e io rimasi per qualche minuto ad ascoltarlo suonare. Era bravo e sapeva emozionare chi lo sentiva, anche quando eseguiva qualcosa in maniera distratta e con poco impegno.

«Scusami, Bryah. Possiamo metterci all'opera. È che quando suono, entro in un universo tutto mio» spiegò il cantante, roteando sullo sgabello di fronte al pianoforte.

Sorrisi e gli feci l'occhiolino. «Sei uguale a John allora» commentai.

«Sì, ci somigliamo molto da questo punto di vista.»

Accesi il registratore portatile e impugnai carta e penna. «Pronto?»

«Pronto.»



Hai mai preso delle lezioni di musica?


Sì. ho studiato canto per qualche anno, e pianoforte fin da bambino. Poi, nel corso degli anni, ho cominciato a suonare un sacco di altre cose, e quasi sempre da autodidatta. Sono curioso per natura, specialmente quando si tratta di arte in tutte le sue forme. La musica è una di queste.


Hai mai pensato di mollare?


Sì, spesso. Ho così tanti progetti in mente, in tanti campi, che a volte mi sento veramente confuso e vorrei soltanto alleggerirmi un po'. Quando con i ragazzi dei System abbiamo preso una pausa, per me è stata una liberazione. Non perché io non tenga a loro o alla nostra band, ma perché avevo bisogno di staccare. Sono molto attivo in un sacco di cose, e devo assolutamente fare tutto. Non potrei mai vivere con un solo rimpianto, finirei per impazzire. Però in certi periodi devo rinunciare a qualcosa, mettere da parte un progetto per concluderne un altro... ma no, non rinuncerei mai ai System.


Un aneddoto della tua infanzia che ricordi con particolare nostalgia?


Io e mio fratello Sevag, quando eravamo da poco arrivati a Los Angeles, ci divertivamo a organizzare dei buffi mercatini nel nostro quartiere. Avevamo portato con noi dal Libano un sacco di cianfrusaglie inutili, e così decidemmo di rivenderle ai bambini o ai vecchietti che passeggiavano per strada. Racimolammo un bel gruzzoletto, facendo credere a quella gente che avessimo con noi dei cimeli rarissimi e costosissimi. Finché poi mio padre scoprì tutto e ci mise in punizione per un mese, impedendoci di uscire di casa e di vedere i nostri amici.


Pensi mai a come sarebbe la tua vita se fossi rimasto in Libano o se fossi nato in Armenia?


A volte ci penso, sì. E credo che sarebbe stato difficile emergere da quel mondo così difficile. Avrei vissuto anni terribili. In Armenia ho perso dei parenti a causa del terremoto che è avvenuto alla fine del secolo scorso. Sono stato fortunato, ed è per questo che ora voglio aiutare il più possibile i miei conterranei e le popolazioni più a rischio del pianeta. Sono certo che da solo non posso cambiare il mondo, ma posso fare qualcosa. Io sto bene, ho una bella vita e non mi sognerei mai di lamentarmene. Però anche io ho sofferto e ho conosciuto dei periodi bui, perciò mi accontento di vivere in tranquillità e di aiutare il più possibile il prossimo. Credo molto in ciò che faccio.


Di cosa hai paura?


Dei rimpianti. I rimpianti uccidono le persone, le uccidono dentro e le distruggono. E soprattutto le rendono infelici.



«Serj, se ti sto mettendo a disagio con queste domande, puoi decidere di non rispondere o di eliminarne qualcuna. Questo è il vostro libro, io sono qui soltanto per scriverlo, non ho voce in capitolo» dissi a un certo punto, scrutando l'espressione indecifrabile sul suo viso.

Quando si arrivava alla domanda sulle paure, mi sentivo sempre in imbarazzo nel porla. Non sapevo se i ragazzi sarebbero stati disposti a rispondere o come avrebbero reagito.

«Non c'è problema, Bryah. Le paure sono umane, e io sono un essere umano» replicò Serj in tono sereno.

Lo ammiravo molto per la calma e la pacatezza con cui affrontava ogni situazione. Lui e John si somigliavano per certi aspetti, me ne resi conto anche in quel momento.

Tornai a posare lo sguardo sul taccuino. «Andiamo avanti?»

«Certo. Spara la prossima domanda!»



«Ci sono ancora tante domande?» brontolò Daron, sbadigliando rumorosamente.

Non era per niente facile lavorare con lui. Ci era voluto un po' per convincerlo a collaborare per il libro, ma i suoi colleghi infine ci erano riusciti. Sapevo che il chitarrista stava andando da uno psicologo e mi sembrava più tranquillo rispetto a quando lo avevo conosciuto; probabilmente quella novità lo stava aiutando in tanti aspetti della sua vita.

«Daron, abbi pazienza. Le domande sono tantissime.» Sorrisi nervosamente, sperando di non farlo chiudere a riccio. Mi venne un'idea e aggiunsi: «Se vuoi, ti rivelo come ho intenzione di creare il libro, ma dovrà rimanere un segreto tra noi due».

Gli occhi grandi e scuri del chitarrista si accesero di curiosità. «Sul serio?»

Annuii. «Sì. Allora, pensavo di fare una sezione per ognuno di voi. Una breve biografia sui fatti salienti della vostra carriera, sai, quelle informazioni che tutti sanno e che sono sparse per la rete... le raggrupperò tutte insieme e questa biografia farà da introduzione. Poi ci saranno delle foto: ne ho fatto alcune al Dodger Stadium che sono bellissime, ma John mi ha messo in contatto con Greg Waterman e lui si è reso disponibile per concedermi tutto il materiale che mi serve. Verrà fuori un gioiellino, te lo assicuro. Ci saranno foto molto rare che non si trovano dappertutto, così come le informazioni che sto cercando di raccogliere grazie alle vostre interviste.»

Daron annuiva in continuazione, sembrava piuttosto soddisfatto di ciò che gli stavo esponendo. «Sembra interessante» commentò.

«Poi ci sarà una sezione interamente dedicata al vostro staff: sto mettendo sotto torchio Sako, Rick, Beno e poi dovrò farlo anche con tanta altra gente...» Feci una pausa e sfogliai in fretta il taccuino. «Poi ci saranno interviste anche ad altri musicisti che hanno collaborato e suonato con voi. Insomma, vorrei dare un quadro il più possibile completo sui System Of A Down. Che te ne pare?»

Il chitarrista ridacchiò. «Ci vuoi sputtanare per bene, eh?» ironizzò.

Io gli strizzai l'occhio. «Qualcosa del genere.»

«Sei una brava giornalista, è solo per questo che ho accettato di partecipare a questa cosa. Dai, riprendiamo. Com'è che si dice? Tolto il dente, tolto il dolore...»

«Giusto» concordai. «Riprendiamo.»



Hai sempre voluto suonare la chitarra?


Macché. Il mio sogno era diventare un batterista, il mio mito era Ian Paice. Ma mio padre non era per niente d'accordo, così mi comprò una chitarra e mi intimò di accontentarmi. Evidentemente era destino, perché alla fine non mi sono mai dedicato seriamente alla batteria, neanche quando ne ho avuto l'opportunità. La suono, ma sono una schiappa. Però è uno strumento bellissimo. Sono il più grande fan di John Dolmayan, senza ombra di dubbio.


Avresti voluto avere un fratello?


Uhm... sì e no. Da un lato sarebbe stato bello condividere tutto con un fratello o una sorella, ma in definitiva mi va bene così. Per come sono fatto, avrei finito per farmi detestare da lui o lei!


In cosa credi?


Credo nella musica e nell'arte, e credo che lassù ci sia qualcuno che si diverte a fare casini in giro per il mondo. Be', se vuoi sapere se credo in Dio, mi definisco agnostico. Non lo so, non ho tempo per pensarci. Faccio meditazione a volte perché mi rilassa, fumo marijuana perché mi rilassa, suono perché mi rilassa, scrivo perché mi rilassa... trovo la spiritualità in ogni cosa, una spiritualità tutta mia, che forse nessuno può comprendere. Ed è meglio così.


Com'è il tuo rapporto con i fan?


Lo definirei particolare. Sono infinitamente grato a chi mi segue e mi supporta, ma certe volte per me è difficile gestire l'ammassarsi di tante persone tutte insieme. Mi sento a disagio e non so come reagire all'ammirazione smodata. È sempre stato un mio difetto, ed è per questo che sono sempre stato definito burbero, snob e in un sacco di altri modi. Non posso negarlo, ma a mia discolpa c'è da dire che alcune volte diventa pesante gestire il comportamenti di alcuni ragazzi.


Di cosa hai paura?


Di molte cose. È una domanda difficile. Sono terrorizzato dalla sofferenza, ho paura di essere controllato e spiato, ho paura dei luoghi troppo affollati... sono pieno di paure. Ma forse la più grande è quella per la solitudine: tendenzialmente mi chiudo in me stesso, per contro ho il terrore di perdere tutte le persone che amo e che mi circondano. E ho paura di commettere sempre gli stessi errori, di non imparare mai a gestire le mie ansie... ehi, ti ho detto che sono pieno di paure, no?



«Daron, mi dispiace. Questa è una delle domande più difficili» mormorai, timorosa di incontrare il suo sguardo.

Eravamo seduti nel suo salotto e per me era la prima volta. Mi sentivo un po' a disagio, avrei preferito ci fosse anche John con me.

«Fa' niente. Però devo fare una pausa, devo fumare un po' d'erba, ho bisogno di...» Si alzò e recuperò l'occorrente per costruirsi una stecca di erba.

«Se vuoi ti lascio solo, potremmo riprendere un altro giorno» gli proposi, facendo per alzarmi a mia volta.

«Non dire sciocchezze. Ormai mi conosci da un po', dovresti sapere che a volte sono un po' strano. Ma non manderò all'aria tutto il tuo lavoro» mi assicurò. «Vuoi fumare con me?»

«Non mi convincerai mai» affermai.

«Okay, okay! Senti, Bryah... io e te non abbiamo più avuto occasione di stare soli, perciò non ho mai potuto scusarmi per quel giorno fuori da casa tua, in Giamaica.»

Sgranai gli occhi e decisi di seguirlo accanto alla finestra. «Di che parli?» gli chiesi, sentendomi confusa e spiazzata dalle sue parole.

«Oh, andiamo! Te ne sei dimenticata? Ti ho accusato di essere stronza e ti ho detto che ti stavi comportando male con John, che lo stavi facendo soffrire. Faccio un sacco di cazzate, Bryah, e non le dimentico mai, anche dopo tanto tempo, anche quando le persone mi perdonano e ci passano sopra.»

Lo fissai sorpresa. «Io non mi ricordavo più di queste cose» ammisi con sincerità. Era trascorso un sacco di tempo e non avevo dato particolarmente peso a quella piccola discussione.

«Ma io no. Ogni tanto ci penso e mi do dello stupido. Mi dispiace, ti prego di perdonarmi. Non sapevo niente di te, di ciò che quello stronzo di Benton ti ha fatto passare. Non sapevo un cazzo e ho fatto il coglione.»

Gli posai una mano sulla spalla e sorrisi ironica. «Daron, mio caro, tanto tu fai il coglione a prescindere, quindi non ti devi preoccupare» commentai, per poi scoppiare a ridere.

Lui mi seguì a ruota. «Cazzo, hai ragione!» si schernì, scuotendo teatralmente il capo.

Continuammo a chiacchierare finché lui non terminò la sua stecca d'erba.

«Te la senti di continuare con l'intervista?» gli domandai cautamente.

«Sicuro. Sono tutto tuo, paparazza



Shavo trotterellava per la stanza in preda all'eccitazione e all'ansia.

«Sono fottutamente eccitato per questo libro! Secondo me sarà fighissimo, me lo sento, i nostri fan impazziranno!» continuava a blaterare.

«Shavo, ti prego, calmati! Se cominci a dare di matto ora, cosa farai quando il tuo bel faccino finirà in tutte le librerie?» lo presi in giro.

Ci trovavamo nella sala prove dei ragazzi, un luogo tranquillo in cui nessuno ci avrebbe disturbato. Era pieno di strumenti musicali, soprattutto bassi e chitarre; c'era anche qualche tastiera, un pianoforte a mezza coda e una batteria Tama coperta da un telo di cotone nero.

«Shavo? Secondo te posso fare una foto qui dentro? Da mettere nel libro» lo interpellai, accostandomi al set di tamburi. Scostai appena il telo e carezzai delicatamente uno dei tamburi montati sulla grancassa.

«Uh, ma certo! Che bella idea! Togliamo il telo e sistemiamo un po' le cose in maniera strategica. Che ne dici se facciamo una composizione che dia l'impressione di una sala prove incasinata? Fa più rock!» si entusiasmò subito il bassista, cominciando immediatamente a spostare strumenti, sgabelli e amplificatori.

Ci divertimmo ad allestire l'ambiente in modo volutamente casuale, e prendemmo a scattare diverse foto con la mia macchina fotografica e con il cellulare di Shavo. Quest'ultimo si offrì per posare per me, fingendo di suonare e di armeggiare con le attrezzature presenti.

«Sono foto in super esclusiva, devi ritenerti fortunata» scherzò il ragazzo, lanciandomi un sorrisetto sghembo.

«Non gongolare, bassista. E adesso mettiamoci all'opera: ho ancora un sacco di domande da farti» tagliai corto, recuperando nuovamente il taccuino e il registratore portatile.



Cosa avresti voluto fare se non fossi diventato un bassista famoso?


Tantissime cose. Da bambino volevo fare il cassiere perché ero convinto che tutti i soldi andassero a finire nelle mie tasche. Quando poi ho lavorato in banca, mi sono ricreduto completamente. Avrei voluto essere uno psicologo, ma poi ho capito che sono troppo emotivo per un mestiere così difficile e delicato. Ho provato diversi lavoretti, ma mi sarebbe piaciuto anche diventare un bravo scultore. Ho sempre avuto le idee piuttosto confuse, ma la musica è sempre stata una certezza per me.


Sei l'unico della band a essere nato in Armenia. Ricordi qualcosa in particolare della tua terra natia?


Ho pochi ricordi legati all'Armenia, e sono anche piuttosto vaghi. Ricordo nettamente un sapore, quello del lavash fatto in casa da mia bisnonna. Non ho mai più assaggiato niente di più buono.


Cos'è per te la famiglia?


La famiglia è un concetto astratto. L'affetto che provo per alcuni amici è fortissimo, li considero veri e propri fratelli. Certo, mi piacerebbe un giorno creare il mio piccolo nucleo famigliare, però non ho fretta. Inoltre, credo che il legame più forte che esista sia quello tra madre e figlio. Non c'è niente che possa eguagliarlo. So perfettamente che se diventassi padre non potrei mai competere con la madre dei miei figli, ma non mi dispiace. L'importante è che si viva in pace e armonia, che si ragioni bene prima di commettere danni irreparabili, e che ci si butti completamente in ogni situazione. In poche parole, per me la famiglia si basa sui sentimenti. Qualunque persona che susciti in me delle forti emozioni fa parte della mia famiglia.


Il tuo modo di vedere le droghe è piuttosto aperto. Cosa pensi?


Non mi sento di condannare nessuno. Io per primo ho sempre fumato marijuana, che ancora oggi viene considerata una sostanza stupefacente illegale in gran parte del mondo. Non ho mai oltrepassato il limite, ma ho perso molti amici a causa di droghe pesanti e uso smodato di alcolici. Sono situazioni difficili da affrontare, certe sostanze danno alla testa, creano una dipendenza difficile da gestire, e in molti casi impossibile da superare. Non condanno i tossicodipendenti, so bene che hanno bisogno di aiuto, e non di essere additati come drogati senza cervello. Molte persone intraprendono una brutta strada per motivi che noi non possiamo neanche immaginare. Non mi piace giudicare il prossimo, mi piace aiutarlo e trattarlo come un fratello, sperando di fare abbastanza. Tutto qui.


Come ti senti quando sali sul palco?


Mi sento cullato e coccolato dal mio pubblico, mi sento a casa, mi sento vivo ed energico. Anche se sono in tour da settimane e dormo pochissimo, anche se rischio di non reggermi in piedi. Condividere la mia musica con il mondo ha un effetto lenitivo su di me: cura tutti i miei dolori e mi rende intoccabile.


Di cosa hai paura?


Di deludere gli altri. Sono impulsivo e spesso reagisco d'istinto, ma subito dopo me ne pento e corro subito ai ripari. Non sono per niente orgoglioso quando mi rendo conto di star perdendo qualcuno o qualcosa di importante. Credo molto nel dialogo: è in grado di curare ogni dissapore e di avvicinare molto le persone. Esorcizzo questa mia paura in tutti i modi possibili, cerco di essere premuroso e finisco spesso per entrare in paranoia. È un circolo vizioso, ma non mi perdonerei mai se deludessi le persone che amo.



«Per oggi abbiamo finito» dichiarai, chiudendo di botto il taccuino.

Shavo mi lanciò un'occhiata sorpresa. «Ma come? Di già? Mi stavo divertendo!» si lamentò.

«Ti piace davvero essere messo sotto torchio da me? Daron ormai mi chiama paparazza» raccontai, fintamente indignata da quell'appellativo.

«Pensa te! Carino come soprannome» commentò il bassista.

«Ma va'! Tranquillo, nei prossimi giorni tornerò alla carica» gli promisi.

«Non vedo l'ora.»



Rileggendo gli appunti e sfogliando le pagine zeppe di scarabocchi mi resi conto che c'era ancora un sacco di lavoro da fare. Avrei dovuto mettermi seriamente d'impegno, ma sapevo che ne sarebbe valsa la pena.

Strinsi il taccuino al petto e fui infinitamente grata a tutti coloro che mi stavano aiutando a riprendere in mano la mia vita e a sentirmi finalmente rispettata e amata.




Cari lettori, eccomi qua!

Forse nessuno di voi si aspettava un POV Bryah, ma voi non avete idea di quanto morissi dalla voglia di scrivere questo capitolo!

Inizialmente il progetto era quello di inserire questo come ultimo capitolo, come una sorta di epilogo, ma poi mi sono detta che non potevo lasciarvi così: voi meritate un finale più carino, perciò vi comunico che il prossimo capitolo sarà quello conclusivo di questa long che più long non si può X'D

Su, su, non strappatevi i capelli e i vestiti così (?): ho già un altro progetto in mente in questa categoria, un'altra long di cui ho già scritto tre capitoli ^^

Se siete curiosi, continuate a seguirmi!

Mi scuso per aver pubblicato in ritardo questa settimana, ma questo capitolo per me è stato molto difficile da buttare giù: ho dovuto elaborare le domande di Bryah e immaginare cosa i ragazzi avrebbero detto in risposta. Ovviamente molte cose le ho inventate, e altre prendono soltanto spunto da fatti reali della vita dei nostri amati System!

Invece, quando ho scritto “Da bambino volevo fare il cassiere perché ero convinto che tutti i soldi andassero a finire nelle mie tasche”, mi riferivo a un aneddoto realmente accaduto che riguarda la mia cara Soul: lei da piccola aveva questo desiderio e questa convinzione, così ho pensato che fosse carino farla diventare di Shavo **

Che ne pensate di questo libro? Secondo me Bryah farà un ottimo lavoro ** vi immaginate se fosse vero? Io correrei subito a comprarlo, senza ombra di dubbio :'3

Okay, be', aspetto come sempre i vostri preziosissimi pareri, ci sentiamo presto con l'ultimo attesissimo capitolo di questa folle storia!

Grazie ancora di tutto a tutti ♥

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Capitolo 70
*** Family ***


ReggaeFamily

Family

[Serj]




Quando ero sceso dal taxi, quasi mi si era mozzato il fiato: poche volte in vita mia mi era capitato di vedere un posto più bello.

Una scogliera meravigliosa e selvaggia che scendeva a picco sul mare, un albergo singolare arrampicato sopra di essa, un mare cristallino e infinito... sembrava di essere in un luogo magico, era difficile pensare che esistesse davvero.

Mi soffermai sulla struttura alberghiera che si stagliava di fronte ai miei occhi e rimasi a osservarla per un po', ammaliato dal suo splendore: lo Skye Sun Hotel si strutturava in quattro palazzotti, dipinti ognuno di un colore diverso, i quali ospitavano le camere degli ospiti, come mi avevano raccontato spesso i ragazzi. Dal loro resoconto, sapevo che la struttura in vetro e cemento che si trovava alla base del complesso alberghiero costituiva la hall, il ristorante e uno dei due bar dell'hotel. In alto c'era la famosa terrazza panoramica che non vedevo l'ora di visitare, così come la spiaggetta privata dell'albergo e il rifugio dei gatti di Leah.

Mi sentii sfiorare il braccio e mi voltai alla mia sinistra, ritrovandomi faccia a faccia con Angela.

«Angie, hai visto che razza di posto è questo?» dissi, notando che sul viso di mia moglie era sorta la stessa espressione estasiata che probabilmente avevo assunto anch'io.

«Sarebbe stato perfetto per il nostro viaggio di nozze, se solo l'avessimo scoperto prima» affermò lei in tono compiaciuto.

«E se prendessimo questa vacanza come una seconda luna di miele?» le proposi, circondandole le spalle con un braccio.

Lei sorrise e annuì. «Ci sto. Anche se poi saremo costretti a tornarci quando Rumi sarà nato.» Detto questo, posò una mano sulla sua pancia e la accarezzò piano.

Ridacchiai. «Ovviamente, a lui piacerà.»

Angela era al suo quinto mese di gravidanza e da poco avevamo scoperto che la nostra creatura era un maschietto; da subito avevamo scelto il nome per il nostro bambino e già ci rivolgevamo a lui come fosse già nato. Finalmente, dopo tanti tentativi, eravamo riusciti a concepire un figlio, e per noi quella consapevolezza era stata incredibilmente rassicurante.

«Ragazzi, vi piace? Che vi avevamo detto?» ci intercettò Leah, trascinandosi dietro alcuni bagagli lungo il vialetto d'accesso alla hall.

«Pazzesco» mormorò Angela.

«Sono così felice che abbiamo organizzato questa vacanza tutti insieme!» esclamò la ragazza di Shavo, per poi precipitarsi dentro.

Uscì nuovamente sul vialetto poco dopo, accompagnata da un ragazzo altissimo, dalla carnagione scura, capelli e occhi neri. Supposi che lavorasse come dipendente dell'albergo, poiché indossava una divisa rossa con una targhetta appuntata sul petto.

«Day!» strillò Shavo, correndo incontro al nuovo arrivato. I due si abbracciarono fraternamente, poi il bassista lo trascinò verso me e Angela.

«Piacere, io sono Serj» esordii, tendendogli la mano.

«Piacere mio, mi chiamo Dayanara e lavoro come receptionist in questo hotel. Benvenuto» mi salutò, stringendomi energicamente la mano.

«Salve Dayanara, io sono Angela, la moglie di Serj.»

I due si strinsero la mano e io ebbi l'impressione che quel ragazzo fosse molto discreto e professionale. Non fece domande su chi fossimo, né lanciò occhiate o frecciatine sul fatto che Angela aspettasse un bambino. Era indubbiamente un buon dipendente, ma del resto i miei amici mi avevano sempre parlato bene di lui.

«Ovviamente siete invitati anche voi da me e Alwan, stasera» aggiunse Dayanara, sorridendoci educatamente.

«Verremo con molto piacere» risposi, poi notai che anche John e Bryah si avvicinavano al receptionist per salutarlo.

«Alwan è in hotel?» chiese il batterista.

«No, oggi si è preso un giorno libero e sta già cucinando per stasera. Ho paura che bruci la nostra casa.»

Bryah ridacchiò. «Andiamo, poveretto, non dire così! Okay, Day, posso chiederti un favore?»

L'altro annuì.

«Io e John vorremmo andare a trovare i miei genitori. Puoi pensare tu ai nostri bagagli? Ci aspettano per pranzo ed è già passato mezzogiorno, non vorrei farli aspettare troppo» spiegò la giornalista, prendendo il suo compagno sottobraccio.

«Ci mancherebbe altro! State tranquilli e andate pure, penso a tutto io e li faccio portare in camera vostra da Dennis» li rassicurò Dayanara, poi si scusò e ci disse che doveva rientrare alla sua postazione.

Io e Angela annuimmo, poi le consigliai di andare a sedersi nella hall mentre noi pensavamo ai bagagli. Non volevo che facesse sforzi e che si affaticasse senza che ce ne fosse motivo.

Mentre trascinavamo le nostre valigie nella zona degli ascensori, mi guardai a malapena attorno, notando che la hall era costituita da dei divanetti dello stesso colore delle quattro palazzine: rosso, arancione, bordeaux e giallo. Tutto là dentro era colorato, moderno e accogliente.

Mi stavo avviando verso Angela per chiederle se le andasse di riposare un po' nella nostra stanza, quando un tizio mi sbarrò la strada e mi fissò con fare estasiato e incredulo: era alto circa un metro e settanta, magro e minuto, portava i capelli legati in un codino e indossava una divisa simile a quella di Dayanara.

«Cazzo!» strillò, poi allungò una mano e me la posò sul braccio, come se stesse verificando la mia reale esistenza di fronte a lui. «Serj Tankian...» farfugliò.

«Ehm, ehi, come va? Sì, sono io, che ne pensi di lasciarmi andare?» lo apostrofai, cercando di divincolarmi dal contatto con lui.

«Oh, scusa, scusa... okay, ehi, io sono Cornia. Mi dispiace, ma... ancora non posso crederci che tu... quando Al me l'ha detto, non gli ho voluto credere...» continuò a blaterare.

«Cornia!» lo richiamò Dayanara con voce calma, ma che in sé nascondeva un'inflessione severa.

Cornia si irrigidì leggermente e, dopo avermi strizzato l'occhio, si voltò verso il bancone della reception con un'espressione fintamente innocente stampata sul viso dai lineamenti affilati. «Sì, capo!» recitò in tono solenne.

«Che ci fai qui? Hai lasciato il tuo posto al bar per importunare i nostri ospiti?»

«No, c'è Lakyta al bar. Credi davvero che io sia così irresponsabile? La prossima volta che hai problemi con il pc, chiama un tecnico! Io non ti aiuto più!» gracchiò Cornia.

«Ma piantala. Su, torna al lavoro» tagliò corto Dayanara.

«Cornia, ehi!» strepitò la voce di Leah alle mie spalle.

«Leah!» gridò lui, poi i due si abbracciarono con trasporto.

La ragazza mi batté sulla spalla. «Questo stronzo ti stava importunando? Perdonalo, in fondo è un bravo ragazzo» mi rassicurò.

«È un tuo amico?» chiesi, addolcendo un po' la mia espressione.

«Sì, è un tipo a posto, anche se non sembra» proseguì Leah, facendo la linguaccia al ragazzo che ancora stazionava di fronte a me.

«Scusami, Serj, non volevo essere invadente. Me ne vado subito» borbottò Cornia, lanciando un'occhiataccia a Leah.

«Non preoccuparti. Lavori al bar della terrazza?»

Lui annuì vigorosamente. «Se passi da me, ti offro qualcosa per farmi perdonare.»

«Non mancherò» conclusi, poi gli strinsi brevemente il braccio e ripresi a camminare verso Angela.

In quel posto si respirava una bellissima atmosfera, ma io ero stanco morto e volevo soltanto andare a mangiare qualcosa e poi riposare un po'.

Daron piombò accanto a me e Angela mentre aspettavamo l'ascensore che ci avrebbe condotto alle camere situate nella palazzina bordeaux.

«Muoio di fame!» esclamò il chitarrista, poi sbadigliò e cercò di radunare tutte le valigie accanto all'ingresso dell'ascensore. Poi si voltò verso Dayanara e gridò: «E comunque, Day, sono ancora incazzato con voi perché non ci aiutate mai a portare i bagagli in camera!».

Poco dopo fummo raggiunti da un ragazzino piuttosto giovane, che ci disse di chiamarsi Dennis e di essere a nostra completa disposizione per qualsiasi cosa.

Sorrisi. Il mio amico non si smentiva mai, riusciva sempre a ottenere ciò che voleva.


La casa in cui abitavano Dayanara e Alwan era modesta, ma sembrava molto accogliente. Dall'esterno sembrava abbastanza anonima e simile a tante altre che avevo visto mentre viaggiavamo in taxi all'interno di Kingston, ma quando vi entrai mi resi conto che quei ragazzi avevano arredato la loro abitazione in modo che fosse accogliente: c'era qualcosa che ricordava i colori dello Skye Sun Hotel e delle sue pittoresche palazzine, mentre il pavimento ero completamente costituito da parquet. I muri erano dipinti di colori caldi, tappezzati da quadri perlopiù astratti e allegri, e i mobili semplici e funzionali completavano il tutto alla perfezione.

«Ragazzi, questa casa è bellissima!» esordì subito Leah, mentre si faceva largo nel piccolo ingresso, pulendosi meticolosamente i piedi su uno zerbino rosso che recava la scritta Welcome To Jamrock.

«Voglio anche io questo tappetino!» commentò Shavo, riconoscendo il titolo di una celebre canzone di Damian Marley.

«Ti pareva» sbuffò Leah, mollandogli una gomitata nelle costole.

«Ahi!»

Poco dopo ci raggiunse un ragazzo con addosso un grembiule rosso, che subito si diresse verso me e Angela con un enorme sorriso stampato sul viso dolce. «Benvenuti a casa nostra. Serj, per me è un onore averti come ospite. Ed è un piacere conoscere te e tua moglie. Angela, giusto?» esordì.

Lei ricambiò il sorriso e gli strinse la mano, poi anche io feci lo stesso.

«Io sono Alwan, spero che abbiate sentito parlare bene di me!» scherzò, per poi osservarci meglio. «Aspettate un bambino, ma è fantastico!» esclamò, soffermandosi a guardare Angela con più attenzione.

«Sì, dovrebbe nascere a ottobre» confermai con orgoglio.

«Dai! Sapete già il sesso del bimbo?» volle sapere Alwan tutto eccitato, afferrando di slancio la mano di mia moglie.

Lei rise. «Che entusiasmo! Sì, sarà un maschietto e si chiamerà Rumi» gli rivelò.

«Ma è fantastico!» squittì Alwan.

Dayanara lo afferrò per un polso e sospirò. «Senti un po', torna in cucina. Il tuo stufato sta per bruciare.»

«Oh, merda! Corro! Voi intanto accomodatevi pure, eh, fate come foste a casa vostra!» blaterò, scomparendo nuovamente all'interno della cucina.

Io e Angela ci scambiammo un'occhiata divertita e seguimmo i nostri amici verso una porta che conduceva sul retro dell'abitazione.

I padroni di casa avevano apparecchiato su un piccolo portico in legno e io fui contento di potermi godere la fresca brezza che caratterizzava quella bella serata di metà maggio.

Io mi ritrovai seduto tra John e Dayanara, mentre Angela era stata trascinata dalle altre ragazze dalla parte opposta del tavolo. Notai che anche Cornia era stato invitato, e accanto a lui vidi una ragazza piuttosto anonima e silenziosa. Non sembrava piuttosto in confidenza con Leah e Bryah, ma non volli chiedere spiegazioni.

John, che pareva sempre essere in grado di leggermi nella mente, mi diede di gomito. «Sai chi è quella?» bisbigliò.

«Me lo stavo giusto domandando» ammisi.

«Lakyta, quella ragazza di cui ti avevo parlato, quella che sognava di volare a Hollywood per fare l'attrice» mormorò il mio amico, mentre versava un po' d'acqua nel suo bicchiere.

«Ora capisco. Sta con Cornia?»

John si strinse nelle spalle. «A quanto pare.»

Dayanara si intromise nella conversazione, sempre discreto e per niente invadente. «Se posso dirvi qualcosa, ecco, loro due stanno insieme ma io ho paura che Lakyta stia attraversando un brutto periodo.»

John si allungò verso di me per potergli parlare meglio. «Cosa intendi?»

«Credo soffra di depressione o qualcosa del genere. È cambiata molto in quest'ultimo anno, soprattutto da quando si è fidanzata con Cornia. Lui è allegro e cerca sempre di fare del suo meglio, ma dubito riesca a capirla e aiutarla veramente. Non dovrei dirlo, lo so, ma so che voi due siete affidabili. Me lo sento. È che ho paura per quella ragazza e non so come comportarmi» ammise il receptionist a bassa voce, poi si lasciò sfuggire un sospiro.

«La verità è che se non vuole essere aiutata, tu non puoi fare niente» dissi.

John annuì. «Serj ha ragione. Non sentirti in colpa.»

«Già» commentò Dayanara poco convinto, poi si scusò e si alzò per andare ad aiutare Alwan a portare il cibo in tavola.

Notai che il batterista si soffermava a osservare Lakyta, poi si passò una mano tra i capelli ed espirò di botto. «Ha ragione a essere preoccupato. Chissà come finirà quella ragazza...»

Stavo per tentare di rassicurarlo, quando Shavo e Daron cominciarono a fare baccano; dovevano aver bevuto già un paio di bicchieri e non tardarono a farsi riconoscere come al solito.

«Sei un coglione, Odadjian! Non permetterti mai più di buttare la tua fottuta mollica di pane nel mio vino!» strillò il chitarrista, allungandosi per afferrare il pizzetto di Shavo con l'intento di tirarglielo.

«Giù le mani, stronzo! Faccio come mi pare, del resto tu hai bevuto dal mio bicchiere!» gracchiò il bassista, balzando in piedi per sfuggire al suo attacco.

«Siete due idioti! Però Shavo ha ragione!» esclamò Cornia a sproposito, sollevando il suo bicchiere.

«No, ha ragione Daron!» gridò Alwan, mentre depositava pentole e vassoi sul tavolo.

Sgranai gli occhi. «Sono sempre così?» chiesi a John.

«Più o meno sì, anche se di Shavo e Daron non dovresti sorprenderti» replicò il batterista in tono divertito.

«Basta! Adesso mangiamo!» decise Leah, spingendo via Shavo che intanto l'aveva raggiunta per cercare rifugio.

Sospirai e sorrisi. Ne avremmo viste delle belle.


La cena era andata bene. Alwan e Dayanara erano stati avvertiti che io ero vegetariano, così si erano premurati di cucinare dei piatti a base di verdure e ortaggi, facendomi assaggiare anche qualche ricetta tipica della Giamaica.

Shavo, Daron e Cornia si erano dati da fare per svuotare più volte i loro bicchieri, e ora vegetavano sulle loro sedie in plastica a sproloquiare.

«Avete una chitarra o qualche altro strumento qui?» volle sapere Daron, mettendosi in piedi e stiracchiandosi. «E poi mi serve un bagno» aggiunse, sghignazzando senza ritegno.

«Il bagno è a sinistra della porta d'ingresso» lo informò Alwan con un sorriso, mentre si metteva in piedi a sua volta. «Vado a prendere gli strumenti che abbiamo a disposizione. Vuoi fare una jam?»

Daron gli strizzò l'occhio e si avviò dentro casa, seguito dall'altro ragazzo.

Udii le ragazze chiacchierare e mi soffermai per un attimo ad ascoltare ciò che si stavano dicendo.

«Io e Serj non abbiamo ancora comprato tutto ciò che servirà per Rumi, dovremo rimediare non appena saremo nuovamente in città.»

«Sai, è bellissimo tutto questo. Io vorrei avere un figlio, ma non so se sarei una brava madre» replicò Leah.

Bryah ridacchiò. «Io non voglio averne.»

«E John che ne pensa? E perché dici così?» le chiese Leah.

«Non mi sento per niente di avere dei figli. Be', io e John non ne abbiamo mai parlato, è un po' troppo presto» spiegò la giornalista.

Nel frattempo Daron e Alwan erano usciti nuovamente sul portico e il padrone di casa stringeva uno djambé tra le braccia, mentre il mio amico teneva una chitarra acustica nella mano destra e un basso nella sinistra. Dalla spalla di Alwan pendeva un sacco di iuta che immaginai contenesse qualcos'altro, forse delle percussioni.

Dayanara fece spazio sul tavolo e prese il sacco, per poi svuotarlo sulla tovaglia. Come avevo immaginato, ne fuoriuscirono diversi shaker, due paia di maracas, delle claves e dei piccoli tamburi.

«C'è anche uno xilofono!» annunciò Alwan, portando fuori lo strumento da un'altra custodia. «E anche un triangolo» proseguì.

«Oh, e noi cosa dovremmo farci?» borbottò Cornia, sollevando uno shaker costituito da un barattolo vuoto di shampoo riempito con delle pietruzze colorate.

«Be', suoniamo, no?» lo apostrofò Daron, imbracciando la chitarra.

«Su, ragazzi! Ognuno di noi prenda qualcosa e facciamo un po' di casino» strillò Shavo, afferrando uno dei tamburelli.

«Shavo, non vuoi il basso?» gli chiesi sorpreso, mentre mi impossessavo dello xilofono.

«No, lo suonerà Al.»

Guardai Alwan in viso, notando che aveva aggrottato le folte sopracciglia nell'udire le parole del mio amico. «Io?»

«Ma certo! Leah, tu cosa suoni?»

«Non sono capace!» disse lei, accostandosi al suo ragazzo per osservare gli strumenti disposti alla rinfusa sul tavolo.

«Non tutti lo siamo, però lo facciamo per divertirci» la rassicurò Dayanara, porgendole il triangolo. «Prendi questo e tieni il tempo, fai una cosa semplice e ti fai due risate» le suggerì.

Lei ridacchiò e accettò volentieri di mettersi in gioco; afferrò qualche altro strumento e lo porse a Bryah e Angela, ignorando deliberatamente il fatto che Lakyta fosse rimasta in disparte.

Notai che John si allungava a prendere lo djambé, mentre Cornia agitava tutto eccitato il suo shaker.

«Laky, tu non suoni? Prendi le maracas, dai!» sentii dire a John.

«No, grazie» rispose lei in tono piatto.

Shavo le si piazzò di fronte. «Allora fai il video, okay? Lo sai usare, sì?» le chiese, porgendole il suo iPhone.

Lei annuì e afferrò il cellulare, preparandosi a filmare la nostra blanda quanto improbabile jam session.

«Che canzone facciamo?» domandò Daron, cercando il mio sguardo.

Mi strinsi nelle spalle. «Non lo so, decidi tu» gli dissi, facendo un breve check dei suoni del mio strumento. Si trattava di uno xilofono per bambini, niente di serio, disponeva soltanto di otto tasti colorati, ma per quella serata sarebbe andato bene.

Daron non si preoccupò di controllare se la chitarra di Alwan fosse accordata, prese a produrre qualche accordo e dopo un po' anche Alwan si unì a lui.

Non stavano eseguendo un brano preciso, si trattava di pura e semplice improvvisazione.

John entrò con un complicato ritmo allo djambé, e a quel punto anch'io mi buttai nella mischia, creando una melodia ripetitiva con piccole variazioni sul tema.

«Cantate qualcosa!» strillò Leah, agitandosi a tempo e pestando a caso sul suo triangolo.

Shavo intanto prese a percuotere il tamburo, riuscendo a incastrarsi in levare rispetto alle ritmiche di John.

Non sapevo neanche io come tutto ciò stesse succedendo e riuscendo anche abbastanza bene, però era pazzesco e mi stavo divertendo un sacco a suonare quel diamine di xilofono.

Mi schiarii la gola e lanciai un'occhiata a Daron, che stava dall'altra parte del tavolo, con un piede sulla sedia e la chitarra appoggiata sulla coscia.

Lui chiuse gli occhi e cominciò a canticchiare, nonostante fosse più che altro un roco rantolare senza capo né coda. Mi aggiunsi subito a lui e presi ad armonizzare le sue linee vocali, finché non formammo una sorta di botta e risposta nel quale a turno davamo l'input per una melodia su cui poi armonizzare e creare improvvisazioni.

Qualcuno rideva, qualcuno improvvisava delle parti in pseudo-rap e qualcun altro strillava cose a caso e completamente senza senso. Quasi tutti ballavano e si muovevano a tempo.

Era una serata bellissima, non avrei mai pensato di trovarmi tanto bene in compagnia delle persone che i miei compagni di band avevano conosciuto un anno prima durante la loro vacanza in Giamaica.

Se pensavo a quante cose fossero cambiate durante quei dodici mesi mi sentivo soddisfatto e felice per me e i miei amici.

Mentre suonavo e cantavo, sollevai lo sguardo dallo xilofono e osservai Leah e Shavo che facevano i cretini: lui tentava invano di muoversi sensualmente di fronte a lei con l'intento di risultare provocante, mentre lei rideva spudoratamente e fingeva di vomitare sulla pelle del tamburello di lui. Poi guardai Angela che agitava uno shaker di metallo con la mano destra, tenendo quella sinistra distrattamente abbandonata sulla sua pancia. Bryah, accanto a lei, batteva tra loro le claves in una pulsazione regolare e perfettamente a tempo, senza mai staccare gli occhi da John. Quest'ultimo era serio e concentrato sul suo djambé e sembrava essersi estraniato completamente dalla realtà. Dayanara stringeva tre le mani due maracas e le muoveva sconnessamente, ridacchiando discretamente. Alwan suonava il basso, inginocchiato sul pavimento, e muoveva le mani con agilità. Daron era nel suo elemento e suonava con estrema naturalezza, un'espressione serena e divertita stampata in viso. Lakyta, in piedi in un angolo, girava il video e un leggero sorriso si era formato sulle sua labbra. Cornia le stava accanto e la stringeva per la vita, blaterando cose senza senso e lasciandole ogni tanto dei leggeri baci sulla guancia.

Ognuno di noi aveva affrontato delle difficoltà e ancora ne avrebbe dovuto superare delle altre, ma quella sera tutto sembrava andare bene ed era come se niente potesse scalfire il nostro buonumore e la nostra voglia di stare tutti insieme.

Mentre osservavo Leah piroettare goffamente di fronte a Shavo, mi tornarono in mente le parole che mi aveva detto qualche mese prima: «Serj, io sono arrivata in quel dannato albergo con l'intenzione di non tornarci mai più, convinta che non volessi trovare l'amore perché scottata dalla mia esperienza familiare. Poi ho conosciuto Shavo».

In quel momento mi ero commosso e l'avevo abbracciata fraternamente, rendendomi conto infine non era riuscita a fuggire dallo Skye Sun Hotel e che ormai lo considerava come una seconda casa.

«Serj? Perché ti sei fermato?» mi sentii apostrofare da Daron.

Mi resi conto che attorno a me era calato il silenzio, così scoppiai a ridere e battei qualche colpo sullo xilofono. «Niente, stavo solo pensando a tutti voi.»

Leah mi lanciò un'occhiata perplessa. «A noi?»

«Sì, scusate. Sono solo felice e onorato di essere qui» ammisi.

Alcuni dei presenti si scambiarono delle occhiate interrogative, poi Shavo strillò: «All'assalto!».

In pochi istanti mi ritrovai travolto da quasi tutti i presenti, i quali rischiarono di farmi cadere dalla sedia. Mi si appesero e appiccicarono ovunque, riempiendomi di abbracci e carezze, baci e pacche su spalle e schiena.

«Ehi, ehi! Aiuto!» gridai.

«Sei il più vecchio, ti tocca!» spiegò Daron.

«Ti vogliamo bene, ci vogliamo tutti bene» aggiunse Leah.

Ed era vero, la nostra era una famiglia e io avvertii che anche Alwan, Dayanara e Cornia ne facevano parte, nonostante li avessi conosciuti quel giorno stesso.

Poi sollevai lo sguardo e intravidi Lakyta: stava in un angolo, teneva ancora il cellulare di Shavo e riprendeva la scena in silenzio.

Non una lacrima abbandonò i suoi occhi, ma questi era talmente tristi e straziati dall'angoscia che mi fecero sentire male per un istante.

Poi fui travolto da altre chiacchiere e abbracci e la persi di vista.

Lei non faceva parte della nostra famiglia, l'avevo capito fin da subito, ma non potevo farci niente.

Era l'unica a non essere riuscita nell'intento di fuggire via da se stessa.




Miei carissimi e affezionatissimi lettori, ebbene sì, questa avventura si è conclusa!

Oddio, non mi pare ancora vero: sono proprio arrivata anche io alla fine della mia prima long sui System; il momento di scrivere quelle parole mi sembrava sempre lontanissimo, e invece è giunto prima che potessi rendermene conto o.o

Noooooooo, non è possibile... ma quanto mi mancheranno questi personaggi? Non tanto i ragazzi dei System, che comunque possono sempre essere presenti nelle mie storie, ma più che altro Leah, Bryah, Alwan, Dayanara, Cornia, Lakyta, Miriam, Dolly, Layla... mi mancheranno anche Tigran e Alina, per quanto siano apparsi poco e niente nella storia, mi mancherà lo Skye Sun Hotel, e mi mancheranno tutti quegli intrecci che si sono creati grazie a loro...

So già che nel prossimo progetto che sto buttando giù non ci saranno le stesse dinamiche, non ci saranno gli stessi personaggi, quindi sentirò davvero la loro mancanza, di tutto e di tutti.

E voi? Come vi sentite ora che tutto è finito?

Prima di lasciarvi, volevo ringraziare tutti voi che mi avete seguito: Stormy che mi ha recensito per prima al primo capitolo e non ha mai smesso di leggere, Soul che è impazzita fin dal principio per questa folle storia, Hanna che si è appassionata ai System per colpa mia e di Soul e ha cominciato ad amare tantissimo questi personaggi, Selene che è stata quasi sempre la prima a recensire e mi avrà odiato per aver fatto apparire poco Serj (XD), Carmensita che con le sue recensioni sincere e divertenti mi ha allietato le giornate, KUBA che è passato per poco ma che ha lasciato un segno indelebile, permettendomi di ispirarmi a una sua bellissima poesia per la creazione del capitolo The Truth, e chiunque altro sia passato anche solo per una recensione o per leggere senza commentare!

Se sono andata avanti è solo GRAZIE a voi e all'ispirazione che mi hanno dato questi personaggi e i vostri commenti, quindi il merito per questo successo e per il record di più di 200 recensioni è vostro!

GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE *____*

E se questo capitolo si chiama Family è anche perché in questa nostra categoria dei System si è formata una sorta di famiglia, la quale si è impegnata per ripopolare la categoria e che ha scelto di mettersi in gioco per creare qualcosa di bello... non trovate anche voi che sia così? :'3


Per finire, posso solo dirvi che, se siete curiosi e vi va, potete stare all'erta perché c'è un altro progetto in cantiere, ma non so ancora quando comincerò a metterlo su EFP ^^

Per ora grazie ancora, spero di ritrovarvi anche nelle mie prossime pazze avventure ♥

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