A meaningless story: by Levi Ackerman.

di Sebbyno
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A hole in the ceiling ***
Capitolo 2: *** Imagination is all that remains ***
Capitolo 3: *** Forgive me. ***
Capitolo 4: *** The maps of the world. ***
Capitolo 5: *** Do you remember the rain? ***
Capitolo 6: *** The Great Depression. ***
Capitolo 7: *** So God created human beings in his own image ***



Capitolo 1
*** A hole in the ceiling ***


C'è un buco nel soffitto.
Da quel buco entrano l'acqua della pioggia e la luce del giorno come una saetta; d'inverno entra il freddo, e siamo costretti a coprirlo con dei lembi di stracci e lenzuola; d'estate entrano gli insetti più insopportabili, zanzare che ti succhiano da ogni parte del corpo nudo, e mosche che ronzano alle orecchie fino a colpirti da solo la faccia affinché la smettano.
Non si dorme, non si può dormire, e perciò molti svengono al mattino, al pomeriggio, qualcuno sviene prima di conciliare il sonno, e qualche volta questo è l'unico modo per chiudere gli occhi da questa vita.
Non sono mai svenuto, fino ad ora.
Da quel buco, comunque, qualche volta riesco a trovare delle cose belle.
Mi lascia sveglio la notte per molto tempo, e glie ne sono grato.
Qualche volta si può vedere una stella, e se sono fortunato, anche due.
Quando vedo una stella penso che da qualche parte la stia guardando anche tu, o i miei studenti.
I miei ragazzi... chissà se mi pensano, chissà se avranno finalmente considerato Manzoni o se abbiano buttato il libro dalla noia del lungo scrivere.
Mi domando ogni giorno se il loro nuovo insegnante sia all'altezza del mio programma, e se le loro menti siano ora deviate da questa grave malattia sociale.
Allora cosa dovrei aspettarmi da loro? Forse mi hanno facilmente dimenticato, forse non gli importa... forse, ora mi odiano semplicemente, come si può odiare un qualsiasi ebreo che popoli la Germania e il resto del mondo.
Quella stella mi fa pensare che se da qualche parte è rimasto un buon pensiero, una buona parola, o un bel ricordo di me, allora c'è ancora speranza.
E tu, mi hai dimenticato, Erwin?
Il tuo nome il primo giorno di scuola riempiva i corridoi come quello di un Dio.
"Erwin Smith". Così tedesco nel nome, nell'aspetto e nella pronuncia.
Il direttore e i tuoi colleghi ti amavano così tanto che dipinsi la tua figura come quella del Führer.
Erwin di qua, Erwin di là. Era tutto così odioso che ti detestavo ancor prima di vederti, almeno quanto odiavo quel passato di porri della mensa.
Poi mi rivolgesti la parola, e così ti odiai maggiormente.
"Che stupida cravatta"; era verde a righe bianche, abbinata al completo verdognolo che calzava benissimo. Con quelle larghe spalle avresti potuto sorreggere le sofferenze del mondo, ma tu hai scelto le mie soltanto.
La verità è che fossi bello, e non sopportavo che un uomo così bello potesse essere tedesco, ben vestito e anche educato.
Perché tu fosti gentile con me. Mi offristi di mangiare con te e gli altri insegnanti, lo ricordi?
Mai niente di più odioso ai miei occhi. 
Vi disgustavo più di quanto la Terra ci disgusti, vi guardavo sperando ogni giorno che qualcuno si strozzasse con quel pollo magro e indigesto o i crauti crudi e insapori.
Speravo vi si bollisse la lingua, vi bruciaste le mani, vi cadesse del passato bollente sui pantaloni.
Dal profondo del cuore, speravo moriste al più presto e senza amore.
Guardammo le stelle una sera, quella sera.
Tra tutte le cose, spero che tu questa non l'abbia dimenticata.
Vorrei che tenessi bene a mente il giorno in cui più ti odiai, e in cui iniziai a non odiarti.
Avevi una cravatta scura e la camicia bianca. Soffrivi il caldo; le maniche tirate sull'avambraccio e il colletto aperto, la fronte umida e una gran voglia di stare solo.
Ma trovasti me sul muretto di quel cortile, e domandasti se potessi restare in silenzio.
Me ne sarei andato, perché non avrei mai incontrato il ricordo di mia madre con te presente.
... Ma restai. E tu rimanesti: in silenzio, come promesso.
Capii che anche un tedesco incontrasse qualcuno nelle stelle, ma non mi dicesti chi fosse. I tuoi occhi si bagnarono e le labbra accennarono un sorriso mesto.
Poi te ne andasti, e mi ringraziasti per averti lasciato guardare le stelle.
Non t'importava se fossi ebreo o tedesco; tu mi ringraziavi, mi salutavi, mi davi il buongiorno e quando te ne andavi, mi auguravi il meglio.
La tua compagnia mi ha reso quei giorni d'insegnamento privi di paura e imbarazzo nel chiamarmi Levi.
Ho vissuto un tempo che non sembrava ferito dalla guerra, ho creduto in due anni che fosse un'illusione, una realtà esistente solo fuori dalle mura della Horn, e che al suo interno, la gente vivesse davvero.
Si studiava, si rideva, si smetteva di essere ebrei e tedeschi per essere soltanto persone.
Ci si baciava, nei corridoi. Quanti baci che mi hai rubato, quanti anni ti ho lasciato su quelle labbra.
Quanti ricordi che custodiscono quelle pareti, quante gioie che vi ho lasciato, abbandonato... mai più le rivedrò. 
Forse è stato solo un sogno, e tu che mi guardi, solo un'invenzione.
Ma non importa se lo è stato: grazie per avermelo concesso.
È grazie a questo, e a quel buco nel soffitto, che posso ancora pensare come un uomo, ricordare, pensare al tuo viso e a quello dei miei ragazzi.
Non ho modo di scriverti, né di spedirti niente che non sia il mio pensiero. Spero che possa arrivarti, non so come, non so proprio come, ma spero arrivi, perché ho bisogno che tu sappia che sono vivo, e che se lo sono, è perché ci sei tu che esisti in quella scuola coi miei studenti.

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Capitolo 2
*** Imagination is all that remains ***


Oggi sono entrato nella tua classe; ho immaginato il tuo viso voltarsi e chiamarmi per nome con quella tua pronuncia così diversa.
Che buffo. Passo ancora a trovarti, e so che niente di te e dei tuoi effetti è stato lasciato, eppure continuo a farlo: tutti i giorni, da quando te ne sei andato. 
Ciò che è rimasto è un vuoto insensato che non so colmare.
Che mondo stupido è un mondo in cui non posso parlarti. Odio essere tedesco: è la cosa che più odio di tutto questo.
Non credere che sia facile, Levi. Non pensare che sia semplice vivere in questo posto, insegnare ad innalzare la mano in nome del Führer e tenere la destra sul petto in onore di una Germania che non riconosco.
Ogni cosa mi è diventata insopportabile e orrenda alla vista, ad iniziare dai nostri colleghi, che reputavo amici, e invece non sono altro che codardi. Ieri Winston ha venduto una famiglia di zingari per quattro reichsmark, oggi Rausch ha parlato di un certo ebreo nel suo casato. La paura li sta spogliando in vili figure senza spina.
Detesto che abbia condiviso con loro le mie giornate, i pasti, il mio tempo.
Avrei dovuto odiarli quanto tu disgustavi noi altri, e oggi sono certo di ripugnarli altrettanto, se non di più, perché mi erano amici.
Ho smesso di condividere i miei pensieri e le mie parole, tutto ciò che va all'esterno sono le mie lezioni agli studenti... ma non mi soddisfa neppure più quello. Racconto una marea di bugie e molte cose sono forzate per non insegnare il falso.
Ho come la sensazione di essere osservato in ogni dove. Quei maledetti nazisti hanno mani e orecchie e ovunque, talvolta non riesco neppure a pensare, a pensarti, e questa cosa mi fa impazzire, perché non posso non rivolgerti la parola almeno una volta al giorno, almeno nella mia mente, voglio che tu resti.
Da quella nessuno può rubarti; ti hanno portato lontano, e non so dove. Probabilmente non ti rivedrò mai più, e inorridisco al solo pensiero, ma da qui dentro, dove posso ancora immaginarti appoggiato a quella scrivania, nessuno può trascinarti via.
L'immaginazione è tutto ciò che ci resta, ma anche l'amore... anche l'amore.

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Capitolo 3
*** Forgive me. ***


Erwin. Le forze per pensarti non mi mancano, talvolta il tuo nome è l'unica cosa che mi rimetta in piedi e mi faccia resistere fino a sera.
Quando guardo i soldati nel campo, mi chiedo a quale specie somiglino, e non mi capacito di dargliene una, perché nessuna bestia arrecherebbe tanta sofferenza e ingiustizia.
Le belve sono belve, le prede restano prede, ognuno nel suo ecosistema funziona secondo una ragione, ma questa "razza", quale senso e diritto ha di far parte della catena del mondo che ci unisce e divide in questo modo abissale?
Quanto più li guardo, più m'indigno per essere uomo e non una bestia.
Erwin. Se chiamo il tuo nome quando il mio volto colpisce la terra, è perché un giorno ho alzato lo sguardo, e ai piedi di un soldato, ho visto il tuo braccio venirmi incontro.
"Sono salvo", ho pensato, mentre sorridevi e mi davi speranza coi soli tuoi occhi celesti.
Sapevo che fosse illusione l'immagine a cui davo un nome, e che mai avrei potuto vederla concretizzarsi, ma Erwin, quel sorriso che tante volte ha preceduto le tue parole nella scuola, per salutare e salutarmi, ha per un minuto salvato la mia mente, e per quel minuto soltanto, sono stato in pace.
Fittizia, lo so, ma come credi che vada avanti un uomo costretto a vivere senza più nulla se non il suo niente, ogni giorno spogliato e derubato di una parte del suo essere. C'è chi dopo giorni dimentica perfino il proprio nome, alcuni quello dei famigliari, altri ancora, il volto delle persone amate, i luoghi in cui sono nati e cresciuti, o il proprio aspetto.
Non molto tempo fa, durante un ridicolo controllo medico che decide soltanto chi sia ancora nello stato di reggere, e chi, sia definitivamente scaduto da ogni scopo, è stato costretto l'obbligale taglio di capelli a noi tutti.
Josh, un ex panettiere da cui mai potrò acquistare del pane azzimo, e visitarla, quella famosa parrocchia di cui ci parlava tanto, vide il suo viso nello specchio mentre gli veniva portata via la barba dal rasoio, e con occhi sgranati, disse che "quello", non lo conosceva, né lo avrebbe mai riconosciuto.
Aspramente rise, indicando l'immagine, toccandosi il mento, le tempie, le fosse sul volto e ogni sua ruga.
"Non... non sono quello. Vero? Lo... lo vedete? Quello... quello non sono io! 
Visto? Ecco, vedete? Quello non è Josh! Josh sono io! Ho le guance alte e... e la fronte liscia! Questo non sono io... no. È vero... lo sapete anche voi. Ditelo... vi scongiuro, ditelo!"
Fu scortato via mentre nella stanza si continuava ad udire il suo eco, che straziante diceva: "Quell'uomo... non sono io! Ammettetelo, ammettetelo! Qualcuno di voi lo ammetta!". 
Ma nessuno ebbe il coraggio di dirgli che lo specchio avesse ragione, e che Josh, l'uomo dalle mani d'oro per ogni farina, a cui piaceva la crosta croccante, la mollica gialla, e il suono di quelle campane parrocchiali in festa, avesse perso tutte le sue connotazioni.
La verità è che chiunque di noi le ha perse in questa guerra di tutti e di nessuno; non ho visto alcuna immagine riflessa corrispondere all'idea di noi stessi che ci ha accompagnati per tutta l'esistenza.
E io?
Io... ho quasi afferrato il tuo palmo quel giorno, e in quel momento sono stato di nuovo me stesso.
Non importava se nello specchio non riconoscessi quel professore di cui dicevi di essere innamorato, rispondendoti serio di essere matto.
Non ha avuto importanza questo, né che fossi un miraggio, né che forse fossi io quello pazzo, mentre abbracciando gli stivali del colonnello, chiesi perdono per non avertelo detto, che sì, anche io Erwin, profondamente, ti ho tanto amato.
Perdonami, se mai queste parole sono giunte al tuo orecchio attento, e perdonami, se mai potrai sentirle.
Perdonami.

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Capitolo 4
*** The maps of the world. ***


Oggi è il 10 ottobre del 1940, e non smette di piovere fuori dalla finestra di casa mia.
È un giorno triste, più degli altri, sai che la pioggia mi mette di pessimo umore.
Guardo verso il vetro e rivedo la tua sagoma seduta sul davanzale che osserva le lacrime d'acqua scivolare verso il basso.
Tengo i gomiti sulle ginocchia, e lo sguardo puntato su questo tuo fantasma che trovo in ogni dove; alla finestra, sulla soglia, nella coperta in un angolo del divano, tra i banchi di scuola, così attento e mai distratto, tra i corridoi della mensa, solitario e rispettoso del tuo silenzio, sull'erba verde di quel cortile dalle margherite bianche d'estate, dalla brina ghiacciata d'inverno.
Ovunque io guardi, trovo il tuo volto, e per quanto cerchi un'autoconvinzione per ciò che è successo, non riesco a trovarla. 
Più ci penso, più mi sembra assurda questa tua mancanza.
Assurda, assurda.
Se mi avvicino a quel vetro, la tua immagine sparisce dopo che mi hai rivolto i tuoi occhi spenti, disillusi, e che per troppo poco tempo ho potuto tentare di vederli brillare.
Forse ci sono riuscito, una volta soltanto, e quella volta hai anche riso. Nella migliore delle ipotesi, è stato quel giorno che ho deciso che mi sarei preso cura di te. È strano quando ami qualcuno; non è così istantaneo, non è così definito. Passano fiumi e mari prima che quella massa informe di sentimenti prenda un contorno, e possa darle un nome.
Quel giorno non mi sono innamorato di te, ma ho capito che lo fossi da tempo, irrimediabilmente, e senza nessuna voglia di sfuggire dall'evidenza, l'ho semplicemente accolta.
Ho promesso che avrei sempre fatto del mio meglio per darti la luce da illuminare quel sorriso, tutti i miei anni in avanti solo per incantare il tuo sguardo. Non m'importava neanche se poi, quel sorriso lo avresti dato ad un altro, se avresti accettato la coperta di un altro, la casa di un altro, il cuore di un altro.
Non m'importava. Ci credi? Tutt'ora, non m'importa.
Se posso saperti in pace da qualche parte, anche nel luogo più caldo e lontano di questo pianeta, per me va bene, Levi. Se è ciò che vuoi, va bene anche il deserto.
Ma dov'è che sei ora? Solo Dio e il suo contrario sanno dove.
Ho promesso di darti la luce, e ti ho lasciato cadere nel buio. 
Così, inerme. Perché al mondo non sono nato soldato, guerriero, o eroe, ma soltanto insegnante, che prima di vedere te in quella mensa nel tuo muto deserto, non sapevo neppure cosa fosse la vita.
Ed è vero che non merito neppure più il tuo pensiero, perché ti ho lasciato davvero andare via quel gennaio scorso; avrei voluto gridare, fare a pugni, strappare quelle loro divise dal petto e lasciarti dare alla fuga. Mi sarei fatto ammazzare per darti la libertà, se solo ne fossi stato in grado.
Ma quanta probabilità di riuscita avevo? Una? Due? Nessuna, meno di zero.
Se non ti avessero preso quel giorno, allora sarebbe stato quello dopo, o l'altro ancora.
Mi hai sempre detto che fossi un uomo astuto, e l'intelligenza di un uomo sta anche nel comprendere dove fermarsi: mi sono fermato.
Ho stretto i pugni e mi sono artigliato ad una forza di volontà che non conoscevo, e che tuttora non riconosco. Le tue parole combattive, gli insulti sputati e ignorati quanto l'importanza della tua "razza" che riecheggiano ancora nelle mura di quel corridoio, mi sono entrati nella mente per l'orecchio come lo stridio di un treno sui binari, e frenavano, frenavano, frenavano... Ho tenuto i denti stretti per tutto quel tempo, lasciato le tue urla entrarmi dentro, nelle ossa e nella carne come dieci lame feroci e roventi, lasciando che ti spintonassero, che ti arrestassero, che ti chiamassero "sporco ebreo", e che per sempre, ti togliessero ciò che più amavi di questo nostro mestiere.
Non hai mai parlato di figli, ma guardando con quanta bravura stimolassi i tuoi giovani studenti, mi chiedo se non sapessi di averne già molti.
Fiero dovresti portare quel nome d'insegnante, e fiero io porto quello tuo di battesimo.
"Levi" ti diede quella madre con cui tanta dolcezza e rammarico mi parlasti su questa bagnata finestra, e "Levi" per me rimani, "Levi" si scriverà sui miei ricordi più belli, e "Levi" urlerei a questa Terra, se solo da qualche parte tu potessi sentirlo gridare.
È qui, inginocchiato in questa pioggia infinita che crolla sulle mie spalle come a lavare il mondo da tutto il suo orrido, che un gatto dalle tenebre mi è venuto incontro chiedendo aiuto.
Hai mai sentito un gatto pregare il tuo focolare? 
Fra tanti uomini, un gatto è accorso sulla mia strada; tanto bagnato, tanto solo, tanto quanto è l'Erwin che si piega nelle pozzanghere senza più forza alcuna, per unire lacrime alla pioggia che si abbatte in questo freddo ottobre.
Un gatto nero dagli occhi gialli. Mi chiedo se sia scappato, abbandonato, o accorso alla mia porta per un qualche strano segno del destino.
Ma qualunque sia il suo mandato, l'ho accolto tra le braccia, e dato a lui una dimora, un pasto, delle coperte, qualche carezza.
Ora dorme sul mio divano, su quella coperta che scaldava anche te dall'imperituro pallore.
Dopo la notte non so quanto vorrà restare; passato il diluvio, la porta verrà aperta e l'ospite lasciato andare.
Ho come l'impressione che il suo custode non resterà a lungo in questa casa, in quella scuola.
Solo Dio e il suo contrario hanno le cartine del mondo, e se è all'inferno che sei finito, patteggerò col Diavolo per riaverti.
Lo giuro sul mio nome, sull'anima del mio defunto padre, sul tuo nome: lo giuro, Levi.
Mi arruolerò nell'esercito dei demoni, e farò in modo di trovarti fra di essi, fosse anche l'ultima cosa che faccio, mi costasse anche l'anima, anche la vita.

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Capitolo 5
*** Do you remember the rain? ***


Ricordi quanto amassi la pioggia? Il suo odore, il suono contro i vetri di casa tua, la scusante per tutti quei tè caldi sotto le coperte, i nostri fianchi vicini e il tuo braccio avvolto alla mia spalla.
Che tempi lontani. Mi sembra di ricordare un film in bianco e nero senza sonoro, e perciò non riesco a sentire la tua voce che mi racconta.
Erano tanto belle le tue parole, di qualunque cosa tu parlassi, erano belle.
Avresti potuto parlarmi del volo degli insetti, della traiettoria di un aeroplano di carta, dell'aria o del niente: ascoltarti non sarebbe mai stato un duro impegno.
Mi piaceva sentirti; quella pronuncia tedesca tanto tagliente addolcita dalla tua bocca, con cui davi un nome e un senso a tutte le cose, battezzate come Dio ha battezzato il mondo. 
"Casa" divenne la scuola, i corridoi, il prato, la strada, il vicolo o il nessun luogo in cui tu fossi presente; "mare" divenne quel blu chiaro che portavi negli occhi; "arte" fu quel disegno storpio del mio volto chiamato "Brontolo" che mi lasciasti sul frigo, arte è il tuo sorriso che potevo e posso immaginare nel firmarti "tuo Stupido"; "deserto" non è più la distesa di sabbia, ma il vuoto che ho intorno senza te che lo riempi: senza più scuola, senza più i prati, i corridoi, le strade, i vicoli, senza più Casa.
Il valore che le ho dato in questi anni, e che mi è stato tolto in questi mesi, è lo scherzo peggiore che la vita potesse farmi dopo quelli già subiti, e anche la pioggia, adesso, non fa che ridurre questo vuoto in un grigio senza fondo.
Lavorare con questo fango mi fa sentire non solo uno schiavo, ma bestiame in un recinto. 
Dovresti vedermi. Lercio e lurido come lo sterco.
La pioggia è l'unica fonte d'acqua che oggi ho avuto per lavarmi, e sotto al buco del soffitto sono rimasto per mandare via questo fetore che emano da ogni dove.
Che schifo, Erwin. Che schifo.
Non chiedo neppure di mangiare, ma lavarmi... non ci è concesso neppure questo, e perciò puzziamo, l'odore nauseabondo di morte viene dai nostri corpi ancor prima di essere carcasse.
Questa stanza è una tomba, e tutto il campo un cimitero.
Passata una decina di metri dal nostro dormitorio dai letti di paglia e polvere, una montagna di morti si erge senza sepoltura, né copertura alcuna.
I nazisti ne hanno accumulate diverse per tutto il perimetro, senza provare pena o disgusto nel vederle durante il giorno. Lì restano, e lì marciscono, deperiscono facilmente essendo più ossa che carne, e quella che resta diviene cibo per i vermi, gli insetti e i parassiti.
In ogni momento della nostra giornata, sono costretto a vedere occhi vuoti e corpi senza più una forma accatastati l'uno sull'altro come in una discarica. Rifiuti.
Il mio nome sta su un corpo che è un rifiuto, e la mia vita, per questi mostri, non vale meno di un numero.
1230. Prima di me, 1229, e prima ancora, 1228, 1227, 26, 20, 10...
Se dovessi morire qui, non scriveranno "Levi", e neppure questa cifra marchiata sul braccio.
Non avrò nome, non avrò lapide, non avrò fiori, né lacrime sulle ceneri.
Pioverà su di me, nevicherà ed essiccherò al sole.
Evaporerò, come tutti gli altri, e su questa nazione pioverà la morte di milioni, forse migliaia.
Questo paese saprà di morte, e nessuna sua gloria potrà mai ripagare questo assassinio.
Se morirò, e non avrai mai più notizie di me, cercami nella pioggia.
Pioverò su di te, e sul tuo tetto, tu non potrai saperlo, ma io pioverò sul tuo volto, e te lo dirò, Erwin, ti dirò addio in un bacio scivolandoti sulla guancia.

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Capitolo 6
*** The Great Depression. ***


Non ho mai avuto un gatto di compagnia; cani sì, ma gatti mai... a parte te. Eppure, sembra che il gatto abbia scelto di avermi; è rimasto per la notte, e ha deciso di restare anche il mattino seguente.
Per quanto lo abbia spronato ad andare, non ha fatto un solo passo oltre la porta.
Così, ho un gatto. 
Non volermene, ma avendo un pelo così nero, gli ho dato il tuo nome.
Ti somiglia; è silenzioso, pulito, e qualche volta ricerca affetto oltre al cibo nella scodella.
Ho fatto bene a battezzarlo "Levi".
Chiamandolo per casa, qualche volta ho l'impressione di parlarti. È triste, ma almeno adesso non è il silenzio che risponde.
Mi fa sentire meno solo, e con qualcuno di cui occuparmi, dal momento che da domani non avrò neppure più i miei studenti.
Si, mi licenzio. Se è in guerra che devo cercarti, non posso restare nella scuola. 
Non so dirti cosa provo; lascio un luogo che amavo, e che è stato mio, nostro. Ho vissuto le sue pareti come quelle di una casa, e i suoi componenti come membri di famiglia.
Tutto ciò, ora mi è estraneo; le mura sono custodi del ricordo di quel giorno e del tuo fantasma; i miei colleghi sono ora i miei nemici; i miei studenti, restano i miei studenti, ma io non ho più niente da insegnare a loro, se non una menzogna tale e uguale a quella di un mio qualsiasi successore. 
Ciò in cui credevo è andato distrutto in un'ora di quel 5 gennaio; la motivazione che nutro ora non costruirebbe nulla, ma può farlo altrove.
Oggi, per l'ultima volta, vedrò i volti che mi hanno accompagnato in questi anni, e tra loro c'è anche il tuo: come ti ho detto, non mi lascia un istante.
Non so che cosa mi diresti; probabilmente, vorresti che io restassi, e continuassi ciò che tu non puoi. Ma capisci, Levi, niente è più come prima, il mondo ha un altro aspetto; ogni giorno è uguale al suo precedente, ma in un certo senso cambia, ne diventa la brutta copia, e poi quella ancora più brutta, fino al peggiore dei suoi volti.
Non posso essere insegnante di un tempo che non riconosco; temo che la loro nuova maestra sia la storia che si compie nel presente.
L'euforia del post-guerra ha portato con sé una depressione più grande della prima, ed è per questo che è Grande, perché tutti ci siamo convinti che il mondo ora fosse diverso; non da distruggere, ma da vivere, amare, guardare, e vestire.
Tutte queste grandi auto, donne bellissime, accessori e cappelli d'alta moda, il grande virtuosismo del divertimento e il gioco dell'emancipazione femminile... un grande spettacolo, no? Ma la vita non è mai quella di un manifesto pubblicitario; non è una Roll Royce bianca su una spiaggia della Costa Azzurra, né una giovane vestita in nero Chanel che si atteggia come attrice di grandi film.
La vita non è questa; la gente vera, quella delle nostre strade, che vanno a lavoro spaccandosi la schiena per guadagnarsi il pane e comprare giornali che raccontano bellissime bugie per sognare l'impossibile, non è quella degli Anni Ruggenti, ma è, e sempre sarà, quella della Grande Depressione.
Alla fine, neppure questo grande sogno di Altrove, dell'Eden ricco e sfarzoso, è riuscito a vincere la realtà della miseria umana; quella dell'ignoranza, quella della guerra, quella di questa nostra ingiusta e sofferente divisione.
Non ho mai creduto ai sogni, e neppure tu: l'ho capito il primo giorno che ti ho visto, perché il tuo sguardo è sempre stato spento, morto.
Hai visto la realtà, l'hai vissuta, non ti sei accontentato di una bella menzogna su manifesto.
Chi ha aperto gli occhi una volta, non può mai più chiuderli, e perciò i tuoi sono spenti perché sono troppo aperti, spalancati sul mondo delle verità, così come i miei da quando mio padre morì.
Ero un bambino, e perciò, la realtà è stata ancor più indigesta.
E ora questo, ma sono adulto.
Ho la mente e le forze per poterla affrontare, per poter lottare.
Non sono certo di poterla vincere, questa guerra; non sono sicuro che ti troverò davvero, Levi.
Ma stai pur certo, che morirò provandoci.

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Capitolo 7
*** So God created human beings in his own image ***


Fa freddo. È dicembre, e questo mese è sempre stato molto freddo.
Per assurdo, é anche il mese più caldo. Da quando l'elettricità è un bene pubblico, il Natale è tangibile sulle strade non più coi soli canti e fiati nelle pance caprine delle cornamuse; il Natale si fa ora nelle vetrine, con le luci delle insegne e l'odore delle castagne.
Dicono che New York sia uno spettacolo a dicembre, una caleidoscopica, luminosa America, dai palazzi alti, immensi, la prova che l'uomo rubi ora anche al cielo e non più la sola terra.
Un giorno mio padre me lo disse, mostrandomi uno di quei giornali che quanto sai mentano.
"Vedrai, Erwin. L'uomo è dotato di arte e di scienza; ha sfidato, poi sottomesso, la natura e i suoi animali, le piante, i frutti e le risorse.
Non è raro che possieda anche altri uomini, e questo gli dà, in un qual senso, il potere di Dio.
Egli crea e disfa proprio come il Signore fa coi suoi figli: "Egli creò gli uomini a sua immagine e somiglianza", e perciò ci somiglia, nella buona e nella cattiva sorte.
Ma cosa accadrà allora, se l'essere capace di arte e di scienza, caritatevole ma anche maligno, angelo ma anche demone, arido e sensibile, geloso e altruista, uomo e animale, dovesse un giorno superare il suo noto Padre?
Vedrai, Erwin, come a giocare ad essere Dio, tornerà terra. E tutto diverrà niente, il troppo creerà il nulla.
Vedrai."
E dimmi Levi, non è forse questo il giorno?
Per me il mondo si è distrutto quando hai lasciato la cattedra in manette.
La matita che tenevi in mano cadde prima che tu potessi finire l'appello; la mina si ruppe sul pavimento quando il colonnello Shülder chiamò il tuo di nome, con un accento tedesco che lo sporcò del tutto, dal tono sprezzante che useresti per un cane rognoso e non un insegnante, un bravo insegnante.
Le ricordo le tue lettere, tutte quante. Dal primo biglietto con cui mi ringraziasti per il mio aiuto con gli altri colleghi, e aver giudicato male un volto ariano, all'ultimo, con cui dichiarasti il tuo amore insieme ad un libro, che tanto amavi leggere nei tempi vuoti.
Tante mine si spezzarono quel giorno alla marcia pesante dei soldati dentro la scuola, ma più di tutti fu il mio cuore a rompersi quando te ne andasti.
Il gelo che provo è più lungo dell'inverno, un freddo che non posso estirpare, che nessun deserto potrà guarire.
Qui fuori la caserma nevica sulle nostre teste, le nostre bocche alitano fumi bianchi, e i piedi, le braccia, le gambe, le spalle, si stringono ad imitar le foglie secche.
Siamo in tanti, troppi, e il solo pensiero che molti si arruolino come volontari a favore di questa folle guerra, mi fa domandare che cosa sia l'uomo, e che cosa sia capitato alla nostra specie per rendere possibile questo genocidio.
I loro occhi lampeggiano in questo freddo di una pura esaltazione che credo rasenta la pazzia.
Se è davvero questo il presente che viviamo, non so quale futuro presagire, forse perché un futuro in tua assenza non lo avevo neppure considerato.
In questi tempi la Wehrmacht arruola giovani e vecchi, decisa a vincere sul mondo intero una causa che non comprendo; per un corpo in forma come il mio ho un posto assicurato nelle forze armate, ciò che non posso assicurarti, è che io sopravviva a questo perenne inverno.
Nel tempo che trascorro aspettando di essere ricevuto, interrogato e visitato, tengo mentalmente acceso un ricordo, questo personale focolare è l'immagine di un ebreo dai capelli color pece che accende 20 lumi su un davanzale, in memoria di una dolce madre il giorno di Natale. 
Dopo averli accesi tutti, mi guarda e siede accanto a me sul divano; mi abbraccia, non dice nulla, e io, nel suo silenzio lo bacio sulla fronte, tenendoci stretti, nella rara pace di due individui che si amano tacendo.
Nel caso perissi, e non mantenessi la mia promessa, spero che questo unico buon piccolo e caldo pensiero ti raggiunga, tenendoti in vita fino al mio ritorno.
Sempre tuo,
Erwin.

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