MOSAIC - Quando il prompt si fa fanart

di Eilanor
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Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Come Partecipare ***
Capitolo 2: *** Photograph ***
Capitolo 3: *** Wanted - Dead or alive ***
Capitolo 4: *** I'll be there for you ***
Capitolo 5: *** Sorry ***
Capitolo 6: *** Oh Darling, what have I done? ***
Capitolo 7: *** People help the people ***
Capitolo 8: *** Poison ***



Capitolo 1
*** Come Partecipare ***



MOSAIC- Quando il prompt si fa fanart



Benvenuti cari lettori e partecipanti,
Vorrei accogliervi spiegandovi come è nata questa idea: se c'è una cosa che io amo dell'entrare in un nuovo fandom sono le fanart. Amo l'arte in modo viscerale e se potessi vivrei per questa, ma per mia sfortuna non sono nata con la Mano d'Artista. Questo non vuol dire che abbia rinunciato, semblicemente ho cambiato obiettivo e mi sono data alla scrittura.
Chi ha già avuto modo di leggere qualcosa di mio sa quanto io adori inserire disegni nelle mie "opere" e chiacchierando con vari disegnatori  in tanti mi hanno detto che una delle loro aspirazioni è che un loro disegno ispiri una storia, perciò eccomi qui.
La mia intenzione è anche dare visibilità a questi artisti, non dimenticate di inserire il link al loro blog se volete partecipare :)


Per partecipare basta inviare una fan art rispettando il regolamento su ciò che volete, che sia una ship, un personaggio o un luogo, e io ci scriverò una one shot sopra in base a quello che l'immagine mi ispira, spaziando in ogni genere e rating.
Non ci sono fanart meno meritevoli di altre di essere mostrate, proponetemele :)
Per inviare una fanart basterà inviarla in privato, possibilmente dopo averla tradotta in codice HTML e accompagnata dal nome/link del blog dell'autore; se partecipate da cellulare basta mettere URL e link nel messaggio.
Se vi è più comodo potete contattarmi anche qui (e inviarmi le immagini)
FB:https://www.facebook.com/eilanor.thebookeater.7
Wattpad:https://www.wattpad.com/user/Eylanor
Tumblr: https://www.tumblr.com/blog/eilanor
Per me è pù comodo se mi fornite voi immagine e link, ma se avete bisogno di aiuto, sono più che disponibile a darvelo :)




REGOLAMENTO
 
 
  1. Si può presentare UNA FAN ART per partecipante. ​
    Se invietrete più fanart, darò la precedenza a chi non ha ancora avuto la sua storia (per correttezza)

     
  2. Non sono ammesse foto o collage, solo fan art.
     
  3. L'immagine va inviata tramite messaggio privato, possibilmente accompagnato dal link del blog dell'artista, con l'oggetto "MOSAIC" 
    Preferirei che inviaste l'immagine dopo averla passata in codice HTML usando la pagina apposita. In caso di difficoltà, potete contattarmi anche su FB, Wattpad e Tumblr.

     
  4. E' PREFERIBILE CHE LA FAN ART NON SIA STATA CREATA PER UN ALTRA FANFICTION.
    Se vi piace da morire, per cortesia aggiungete una breve descrizione della trama della fanfiction o il titolo della storia originale per cui è stata creata, vorrei evitare di fare un plagio senza saperlo

     
  5. LA FAN ART DEVE RACCONTARE UNA STORIA, non basta che ci sia la vostra ship preferita dentro; lo sfondo, i vestiti, qualcosa deve darmi la possibilità di immaginare.( è più facile di quello che credete, voi provate a farmi vedere quella che vi piace)
     
  6. Scriverò di tutti i generi e i ratings, quindi anche erotico e rosso, se l'immagine si presta.
    Genere, Raiting ed eventuale ship verrano segnalati all'inizio del capitolo.

     
  7. Non potete darmi direttive sulla trama: niente " fai che si incontrano così" e niente "fai che facciano la tal cosa". A quello ci penso io, potete chiedere che venga usato un tono particolare o una bad/sad/happy ending o suggerire un titolo (potrei non usare il vostro suggerimento in ogni caso, non offendetevi se non succede)
     
  8. OGNI SHIP E FAN ART E' BEN ACCETTA, PURCHE' RISPETTI IL REGOLAMENTO DI EFP, ovvero:
    - niente incesti
    - niente pedofilia (grande differenza d'età)
    - niente esaltazione della violenza (non chiedetemi una OS su uno stupro che si trasforma in amore, perchè non è credibile)

     
  9. Se parte una shitstorm nelle recensioni o in privato, sia con me che con chi ha proposto la OS, verrete segalati e esclusi dalla partecipazione.
    Tutti abbiamo diritto di sognare e pensare con la nostra testa senza venire offesi. Mi sono innamorata dei fandom perchè erano inclusivi e non c'erano faide, vorrei che lo spirito in questa raccolta rimanesse tale.

     
  10. Se notate qualche violazione del regolamento in questa raccolta, fatemelo sapere: io ci tengo a rispettare il regolamento, ma non ce l'ho sempre sott'occhio, possono sfuggirmi delle cose.



Potere inviare le fanart fino al mio blocco (quando scriverò "richieste chiuse" nella presentazione)


 
Per qualsiasi genere di domanda non esitate a contattarmi, possibilmente in privato. Il regolamento resterà in perenne aggiornamento.
Al momento non ho storie pronte, mi piaceva l'idea di partire da zero.
Grazie per aver letto, spero partecipiate numerosi e spero di non trovarmi a scrivere solo di sterek, sappiate che per TW io sono una shipper compulsiva: tutti possono stare con tutti. Chi trova fanart delle ship più improbabili vince dei biscotti <3

A presto!
Bye!

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Capitolo 2
*** Photograph ***


Personaggi - Scott McCall, Isaac Lahey
Coppia - none
Raiting - verde
Note - Missing moment, brotp, kind of sad
 
Dedicata a Larksunset che mi ha fornito l'ispirazione, in bocca al lupo con la tua storia ;)


Photograph




autore: 

kira kira




Scott era steso sul letto dopo aver fatto una lunga doccia nel vano tentativo di allontanare il dolore che lo torturava.

Era passata appena una settimana dalla morte di Allison e soffriva come il primo istante, quando era spirata tra le sue braccia.

Gli sembrava di sprofondare nelle sabbie mobili o di vivere nelle profondità oceaniche: ogni suo gesto, ogni suo respiro era faticoso come se avesse su di lui la pressione della fossa delle Marianne.

L’unica cosa che alleviava leggermente il senso di soffocamento era consumarsi gli occhi sulle foto della ragazza.

Allungò la mano verso il comodino e prese il telefono; aprì la galleria e prese a scorrere per l’ennesima volta le immagini della cacciatrice che gli aveva spezzato il cuore, prima lasciandolo poi morendo.

“Qui eravamo appena usciti da scuola… qui un’uscita col branco… qui di nascosto durante una delle lezione di Harris…”

Si bloccò trovando una foto di cui non aveva memoria: lui e Isaac che dopo essergli salito in groppa gli dava dei pizzicotti sulla guancia.

Isaac. Isaac che era a migliaia di chilometri di distanza, in Francia con Chris e probabilmente l’unico che poteva capire il suo dolore perché, suo malgrado, anche lui si era innamorato della ragazza e soffriva della sua perdita.

Quando l’avevano scattata?

Poi i ricordi si fecero strada nella sua mente.

---

Aveva appena finito di parlarne con Stiles per capire cosa dire e come dirlo e non ne erano venuti a capo quando l’aveva visto nei corridoi. Non aveva un piano pronto, ma non voleva aspettare oltre, perciò gli era corso dietro chiamandolo per nome.

- Isaac? Isaac! Hai un minuto? – disse quando finalmente il mannaro si fermò.

- ho un ora intera, farei qualsiasi cosa per saltare fisica – rispose con un sorriso sghembo.

- oh, ottimo… ho un’ora libera, vieni con me? –

Il ragazzo annuì e si lasciò condurre fino al cortile secondario, più piccolo e nascosto. Arrivati, Scott si mise comodo sedendosi su un tavolo mentre il biondo rimase in piedi difronte a lui stritolando gli spallacci del suo zaino.

- quindi… hai un piano su come affrontare il branco di alpha? Qualche idea su dove raccogliere informazioni? – chiese nervoso.

- nula di tutto ciò – rispose il bruno stringendo le labbra.

- cos… e allora di che vuoi parlare?! – chiese il ragazzo stupito.

- di te –

Subito Isaac si irrigidì al punto che a malapena respirava e si fece pallido come un lenzuolo, spaventando l’altro ragazzo.

- Isaac, calmati. È esattamente di questo che volevo parlarti: ogni volta che io e mia mamma siamo in casa ti irrigidisci, quasi non parli e a momenti non mangi neppure. Si può sapere qual è il problema? Non voglio sentire perennemente l’odore della tua ansia… mamma è preoccupata per te, ha paura di star facendo qualcosa di sbagliato… -

- no, no, no! Lei non sta facendo nulla di sbagliato, anzi… - lo interruppe il biondo – a volte credo che sia fin troppo buona con me… - mormorò abbassando gli occhi.

- vuoi spiegarmi perché lo fai? –chiese il bruno con un sorriso che voleva essere incoraggiante.

Cercò i suoi occhi ma il biondo si ostinava a tenerli bassi.

- non lo faccio apposta… -

- allora dimmi perché ti succede. Se è per qualcosa che facciamo senza volerlo faremo in modo di cambiare le nostre abitudini. -

Prima di rispondere il ragazzo si prese il tempo di mordicchiarsi le labbra combattendo con l’istinto di tenere tutto per sé e mentire, ma il bisogno di sfogarsi ebbe la meglio

- prometti di non fare commenti? – chiese incerto e subito l’altro ragazzo fece un sospiro e allargò le braccia; non poteva sapere come avrebbe reagito, sapeva solo che avrebbe fatto di tutto pur di capire cosa fare per farlo stare tranquillo.

- sai che mio padre non è stato esattamente un genitore esemplare… a volte quando facevo degli errori o non rispettavo le sue regole mi chiudeva nel freezer… crescendo è poi diventato troppo piccolo per contenermi e mio padre non aveva nemmeno la forza di mettermici dentro, così ha preso a chiudermi fuori di casa indipendentemente dal tempo o dall’ora che era… quando andavo a fare i test non dimenticava mai di dirmi che se lo fallivo potevo fare a meno di tornare a casa… non esattamente la cosa più rassicurante da sentirsi dire dal proprio padre, no? – mormorò strascicando i piedi e continuando a fissare le foglie morte a terra.

Scott lo ascoltava accigliato, non poteva credere che suo padre fosse davvero così crudele.

-… poi papà è morto e Derek mi ha preso con sé e le cose sono migliorate, anche se Derek restava Derek mi sentivo più accolto che a casa… insomma mi aveva scelto lui, mi voleva lì… poi all’improvviso mi ha sbattuto fuori dal loft senza un motivo apparente e mi sono ritrovato da voi… non faccio che chiedermi dove ho sbagliato, cosa l’ha spinto a cacciarmi e vivo col terrore di rifarlo e di essere buttato fuori anche da casa vostra… - concluse quasi inudibile anche alle orecchie di un mannaro.

Scott era incredulo al punto che non sapeva cosa dire lasciando il biondo in sospeso.

-Isaac, no…. No, no, no! Noi non ti butteremmo mai fuori di casa, sei parte della famiglia! Mamma ti vuole bene e anche io, e Stiles, Lydia, Allison… nessuno vorrebbe che tu te ne andassi… -

Non sapeva se a sorprenderlo di più era ciò che aveva passato il ragazzo o il fatto che potesse pensare che lui o sua madre potessero metterlo alla porta.

- ti sei offeso? – chiese il giovane mannaro distogliendolo dal suo pensare.

- beh, un po’ sì ma non ti caccerò di casa per questo! – esclamò ancora incredulo.

- anche se baciassi Allison? –
- fallo e ti do un pugno! Poi ti ci segrego, in casa! – scattò quasi fosse un gatto a cui avevano pestato la coda.

Per Scott l’argomento “Allison” era ancora un tabù e non gli piaceva sapere che qualcuno si interessasse a lei, per quanto avesse notato che il biondo aveva un debole per la ragazza. Aveva perfino fatto brillare gli occhi da mannaro, ma vedendo come Isaac aveva incurvato le spalle aspettandosi di essere colpito, si ricompose subito.

- senti… non c’è bisogno che tu sia sempre così teso, davvero. Noi ti vogliamo a casa e siamo felici che tu sia con noi, vogliamo che tu stia bene e non ti metteremmo mai alla porta. – disse guardandolo dritto negli occhi, serio.

- perciò puoi smettere di trattenere il respiro ogni volta che sei con me o la mamma – concluse Scott aprendosi in un sorriso.

Isaac lo imitò un po’ incerto, ma sembrava già un po’ più sereno; aveva smesso di stritolare gli spallacci del suo zaino.

Si sedette accanto a lui e, passato qualche istante, chiese:

- quindi… cosa facciamo per il resto dell’ora visto che abbiamo già concluso il discorso? –

Il bruno si tolse lo zaino dalle spalle e, apertolo, si mise a frugarci dentro per poi estrarne un pacco di biscotti.

- merenda? Mamma dice che pesi troppo poco per essere così alto. –

---

Le cose erano poi cambiate molto più velocemente di quanto si fosse mai aspettato: a sine lezioni infatti Isaac aveva già smesso di puzzare d’ansia e si era lasciato andare a comportamenti più disinvolti che erano poi culminati in quella foto.

Stiles e Allison stavano cercando di capire come evitare che gli occhi creassero riflesso e proprio nel momento in cui il suo migliore amico scattava l’ennesima, il biondo gli era letteralmente saltato in groppa e aveva preso a pizzicargli la guancia ridendo come un matto.
Scott, superato il primo momento di sconcerto, si era unito a lui, così come la ragazza che era letteralmente caduta in ginocchio e aveva le lacrime agli occhi per il troppo ridere.
L’unico a non farlo era stato Stiles in effetti, un po’ perché geloso del suo migliore amico e un po’ perché lui stava cercando di fare una cosa seria “da cui dipendeva la sua memoria scolastica” per citare il ragazzo.

Avrebbe dovuto arrabbiarsi anche Scott in effetti, ma il biondo era così sereno e allegro che non ci sarebbe riuscito, anche se si era comportato da idiota. Dopo tutte le brutture che aveva visto però Isaac si meritava di essere un’idiota felice.

L’alpha sorrise mesto allo schermo del suo cellulare mentre pensava a quel ragazzo a cui era legato per gioia e dolore; nessuno poteva capire meglio di lui quello che stava passando.

Le sue dita indugiarono per un attimo sulla tastiera per poi cercare il suo numero nella rubrica. Non aveva idea di che ore fossero in Francia, ma aveva bisogno di parlare con lui e forse per l’altro valeva lo stesso.

Portò il telefono all’orecchio e attese che qualcuno accettasse la chiamata.

Dopo vari squilli a vuoto, finalmente un mogio “pronto” rispose dall’altro capo della chiamata.

- ehy Isaac… hai un minuto? -

 

Angolo Autrice
Indovinate chi non riesce a tenere le mani ferme? Io, esatto. Vincete un biscotto <3
Spero sia all’altezza delle vostre aspettative, volevo darvi un assaggio di come vorrei che fosse questa raccolta in segno di buona volontà. Se volete partecipare potete inviarmi anche gli URL o cercarmi su FB, so che EFP rende i messaggi un po’ complicati, cercherò di agevolarvi il più possibile :)
Grazie infinite per aver letto fino a qui e per aver messo tra le seguite/ricordate/preferite e ci vediamo prossimamente :D
Mi ci vorrà un po’ perché l’idea per la prossima fanart è una meraviglia. Vi dico solo che è un’AU *w*

A presto,
bye!
 

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Capitolo 3
*** Wanted - Dead or alive ***






Personaggi - Derek Hale, Stiles Stilinski
Coppia - slash
Raiting - giallo
Genere - azione, drammatico
Note - violenza, sangue, AU
 
Dedicata a Helena21 che ha fornito la fanart che è stata la mia dannazione. Come tutte le altre che mi hai mandato, disgraziata.
 

WANTED - Dead or alive




Note:
I dialoghi in corsivo sono immaginati in pashun, la lingua più parlata in Afghanistan; avrei voluto metterle davvero in pashtun, ma non mi sono fidata di google translate, e l’arabo non è la lingua ufficiale del paese; le frasi in grassetto sono in arabo.



L’aria condizionata nell’ufficio lo fece sospirare di sollievo dopo la calura esterna, ma il compito che l’aspettava era davvero ingrato ed era la seconda volta che gli capitava; per lo meno ora sapeva cosa aspettarsi.
Dal corridoio arrivarono i passi pesanti e cadenzati del suo superiore e lui si preparò all’incontro; raddrizzò le spalle e sistemò le pieghe della divisa, sapeva che il generale teneva molto all’ordine dell’uniforme, magari sarebbe riuscito ad evitare la retrocessione anche stavolta grazie a quegli accorgimenti. Per di più lui era solo l’ambasciatore dell’unità investigativa e di spionaggio, che colpa ne aveva se non riuscivano a localizzare i due fuggiaschi?
La porta si spalancò, permettendo l’ingresso di un uomo non più giovane ma dal corpo solido, muscoloso, forse accentuato dalla divisa inamidata; era alto e aveva i capelli biondi perfettamente pettinati, non un filo di barba e degli occhiali scuri che non permettevano di vedere i suoi occhi. Non era mai stato visto senza e alcuni mormoravano che fosse cieco, ma come poteva essere data la sicurezza con cui si muoveva?

«Generale Deucalinon» lo salutò rispettosamente l’ufficiale mentre l’uomo si sedeva all’imponente scrivania e apriva un fascicolo, da cui estrasse una foto. Ritraeva due giovani soldati in divisa d’assalto: uno, quello più vicino all’obiettivo, aveva un fisico allenato, ma non era muscoloso, non come ci si aspetterebbe da un soldato almeno; aveva la pelle pallida e coperta di nei, mentre i capelli erano castani ed arriffati. Stava facendo una linguaccia e un occhiolino all’obiettivo e probabilmente pure il dito medio, ma in quel punto la foto era un po’ sfocata.
L’altro soldato aveva i capelli neri e la pelle del volto abbronzata, si riusciva a capirlo nonostante l’attrezzatura militare e la barba che gli ricopriva le guance e il mento; aveva il fisico decisamente più muscoloso dell’altro e un’espressione seria, probabilmente era concentrato su quello che stava tenendo sotto tiro con il fucile d’assalto.
Con un sospiro secco, il generale gettò la foto di nuovo nel fascicolo con un gesto stizzito, per poi rivolgersi all’ufficiale che stava rigido davanti a lui.


 
Autore: vedi fanart


«Li avete presi capitano?» chiese squadrando lui e i sui gradi.

L’uomo deglutì e si affrettò a rispondere, cercando di evitare di guardare gli occhiali.

«No signore. Derek Hale e Miye- Micy- e il soldato Stilinski sono ancora liberi e hanno distrutto un’altra nostra base d’appoggio»

«Maledizione!» sbraitò il generale sbattendo il pugno sul tavolo «Possibile che siano così dannatamente bravi?!»

L’ufficiale non rispose e cercò di mantenere la calma: ora avrebbe dovuto riportare i danni che avevano fatto, ma doveva aspettare che fosse il generale a dargli il via, se avesse cominciato a parlare senza essere interpellato avrebbe solo aumentato la sua rabbia. Rimase ad aspettare che il generale smettesse di digrignare i denti e ingoiasse la sua furia sudando freddo.

«Quanti sono i danni stavolta?» chiese in un tono più calmo, ma si vedeva che cercava di trattenere la rabbia.

L’uomo inspirò e si mise a sciorinare il macello che erano riusciti a fare.

«Hanno interrotto la strada che avrebbe portato il convoglio alla base piazzando delle mine a tempo: il convoglio è stato bloccato in sicurezza dagli stessi disertori che hanno fornito tutte le informazioni necessarie perché nessuno rimanesse coinvolto. I nostri uomini hanno rinunciato a sminare la zona e non avevano idea di quanto fosse estesa la zona minata, perciò hanno dovuto attendere che il timer scattasse. Non abbiamo idea di come siano riusciti ad ottenere tale potenza di fuoco.» concluse in tono affranto.

«Hanno l’appoggio di qualcuno che ci sa fare, senza dubbio, e son certo che abbiano rubato dalle nostre scorte. Come è messa la base?» disse tra sé il generale, appoggiando il mento sulle mani.

«Non abbiamo più una base.» gli rispose i soldato con un fil di voce.

Deucalion si girò verso di lui sconvolto, lo si intuiva nonostante gli occhiali.

«Hanno bruciato la grotta dove tenevamo le armi, non si è salvato nulla. Come ha detto lei, probabilmente le bombe e le mine arrivavano dalle nostre scorte» sentì una goccia di sudore freddo scivolargli lungo la tempia, mentre il generale cominciava a realizzare la portata del danno subito.

«MALEDIZIONE!!» sbraitò battendo di nuovo il pugno sul tavolo. «È la terza questo mese! Come cazzo fanno a trovarle in così poco tempo?!» urlò con le vene del collo che pulsavano furiosamente. «Come fate ad essere sicuri che fossero loro!?»

«Di punto in bianco il convoglio, Ennis» si corresse con un tremito della voce «Ha ricevuto una telefonata. Le faccio ascoltare la registrazione» l’uomo mise un dispositivo sulla scrivania del generale e lo avviò.

Si sentì il rumore della presa di chiamata, poi una voce ruvida e profonda, quella di del capo spedizione.
“Pronto?”
Ci fu il rumore di una risata leggera e di qualcosa che veniva trascinato.
“Boom Baby”
Poi la chiamata venne chiusa.

«Ennis spergiura che quello era Stilinski. Abbiamo tentato di rintracciare la chiamata ma arrivava da un telefono usa e getta. Non abbiamo trovato nulla.»

L’uomo fece un grosso sospiro perché sapeva di dover ancora dire la parte peggiore, ma doveva farlo o sarebbe stato molto peggio.

«Siamo convinti che la popolazione li protegga, probabilmente sono riusciti a farsi vedere come dei salvatori» mormorò piano, me l’uomo sembrava avere un udito sopraffino.

«Certo che la popolazione li aiuta, altrimenti li avremmo scovati da un pezzo quei fottuti bastardi!» ringhiò alzandosi in piedi e mettendosi a camminare nervosamente per la stanza con le mani saldamente allacciate dietro la schiena. «Non possiamo nemmeno accusarli, sono capaci di farci danni enormi senza ferire nessuno, né soldati né civili; e si permettono pure di sbeffeggiarci!» disse indicando con un gesto la scrivania, irato.

L’ufficiale sapeva che si riferiva alla foto che aveva osservato poco prima: risaliva a due mesi prima ed era stata scattata in una base in cui tenevano rifornimenti e armi. Le armi erano state distrutte mentre i rifornimenti distribuiti oculatamente alla popolazione. I soldati della zona avevano visto i bambini mangiare barrette energetiche e cioccolato per settimane.

«Non ho finito» disse cupo l’ufficiale.

«Altre brutte notizie? Cosa può esserci di peggio della madre di Hale che riesce a mobilitare l’opinione del tribunale a favore del figlio? Quella donna non ha limiti di decenza quando si tratta dei suoi figli»

«Crediamo che Stilinski sia riuscito a contattare suo padre»

Si scambiarono un occhiata lunga qualche stante e poco dopo il generale Deucalion l’aveva afferrato per il colletto e stava sibilando a poca distanza dal suo volto:

«Mi stai dicendo che oltre a dovermi preoccupare di Talia e Peter Hale, mi devo pure preoccupare di Noah Stilinski? Come sapete che l’ha contattato? Cosa gli ha detto?»

«Non lo sappiamo. Non per certo almeno.» balbettò l’uomo. «Lo sceriffo ha semplicemente smesso di telefonare per chiedere del figlio e ci siamo insospettiti. Quando Ethan e Aiden sono andati a parlare con lui l’hanno trovato sereno e sicuro che suo figlio stesse bene. Abbiamo controllato i tabulati telefonici e il suo computer ma non abbiamo trovato nulla, neanche nella sua navigazione. Però resta sospetta la sua serenità»

«Certo che non avete trovato nulla, Stilinski è un informatico di alto livello, avrà sicuramente trovato un altro modo» grugnì l’uomo lasciando andare il bavero del suo sottoposto.

«L’avete messo sotto osservazione?» chiese cercando di recuperare la calma.

L’ufficiale annuì: se Stilinski aveva un modo di contattare il padre l’avrebbero scoperto.

«Vuole che organizziamo qualche ritorsione per spingerli a consegnarsi?» chiese pensando che potesse essere una soluzione; chi non avrebbe fatto il possibile per salvare i suoi cari?

Il generale tuttavia rise e si versò un bicchiere molto generoso di Bourbon e gli riservò un occhiata carica di sufficienza.

«È a causa di una rappresaglia che ci troviamo in questa situazione di merda. Non rifaremo lo stesso errore» spiegò per poi bere un lungo sorso di liquido ambrato. «Maledetto il giorno che lì ho messi in squadra insieme»

---

“L’obiettivo era nel centro della pizza come da piano e si attardava a parlare con un gruppo di uomini. Aveva sbuffato nervosamente, quella che doveva essere una missione relativamente semplice e veloce, si stava prolungando decisamente troppo: dovevano uccidere il capo di una cellula terroristica che operava nella periferia di Jalabad, l’uomo sotto osservazione che credevano reclutasse giovani da mandare ai campi d’addestramento talebani. Tuttavia non sembrava decisamente una persona capace di una cosa simile, anche il suo modo di comportarsi non corrispondeva alla scheda che avevano fornito loro i capi della base, né alle caratteristiche di un affiliato ai talebani come gli aveva spiegato il suo partner. Certo, poteva star recitando un ruolo, sicuramente stava recitando un ruolo, ma il suo istinto gli aveva detto di andare a controllare.

La missione era semplice: uccidere il terrorista nella sua casa e farla saltare in aria per nascondere le prove. Non erano previsti danni collaterali.
Diede un ultimo sguardo al tetto dove sapeva essere appostato il suo partner, che attendeva il suo via libera per far detonare la bomba, poi tornò a concentrarsi sull’obiettivo: finalmente si stava dirigendo nell’edificio.

Si posizionò in modo da essere comodo e perché il colpo andasse a segno: prese la mira sulla grande finestra che vedeva dal suo tetto; ora si trattava solo di aspettare che l’obiettivo entrasse nella stanza.

«Siamo in posizione signore. Alpha ha l’obiettivo sotto tiro» la voce del suo partner, distorta dal dispositivo, raggiunse le sue orecchie.

«Perfetto, soldato. Attenetevi al piano. Tra poco sarà finita» il sergente Ennis rispose dalla base.
«Obiettivo è ancora nella piazza e la gente gli si raccoglie intorno, è sicuro che possiamo procedere?» disse nel ricevitore mentre continuava ad osservare l’uomo; tutto in lui diceva che c’era qualcosa che non quadrava.
«Proseguite, non ci saranno danni collaterali» rispose con tono sicuro e leggermente scocciato il loro superiore.

Tornarono tutti in silenzio aspettando di poter concludere la missione.
L’uomo finalmente entrò e lui si concentrò sulla finestra, mentre con la coda dell’occhio notava che la gente cominciava a disperdersi. La porta della stanza si spalancò ed entrarono correndo dei bambini che sembravano giocare.

«Ma che caz-» l’obiettivo apparve sulla soglia e i suoi pensieri si fecero confusionari per le implicazioni che tutto ciò poteva avere.
«C’è qualcosa che non va» cominciò a dire nel ricevitore «Nell’edific-»

Alle sue orecchie, dal basso giunse la conversazione di due donne che si credevano protette e libere di parlare nel vicolo senza timore di ripercussioni. Parlavano un pasthun stretto, ma riuscì a cogliere qualche frammento di conversazione, quel tanto che bastava per fare la scelta giusta. Benedetto il giorno in cui il suo partner si era impuntato per faglielo imparare.

«Stiles, chiudi tutto! Disinnesca le bombe! Ci hanno mentito!» gridò al ricevitore prima di levarselo di dosso e distruggerlo, insieme col localizzatore.”
 

Il fumo della sigaretta si disperdeva subito nel vento che tirava sulla città, ma che non portava refrigerio dal sole rovente di mezzogiorno. Fece un ultimo tiro e spense la cicca nel posacenere ormai da svuotare. Un ultimo sbuffo di fumo, subito portato lontano dal terrazzo, e si costrinse a rientrare. Di sotto si osservare l’andirivieni dal bazar poco distante.

«Miecyzlaw, è pronto il pranzo» chiamò scendendo le scale.

Li avevano mandati a far esplodere un orfanotrofio e il presunto terrorista era in realtà l’uomo che si occupava di un centinaio di bambini provenienti da tutta la città e che stava intralciando i traffici d’armi del generale Deucalion. Se non avesse sentito le parole delle due donne nel vicolo, che stavano lodando il buon cuore dell’uomo, avrebbero ucciso degli innocenti e causato una crisi diplomatica se avessero scoperto che era opera degli americani.

«Miecyzlaw!» chiamò di nuovo più forte, ricevendo un mugolio scocciato in risposta.

Dopo aver disertato la missione non erano tornati alla base, ma si erano dati alla macchia per cercare informazioni: il suo partner lo sospettava da un po’ e faceva ricerche da qualche mese, dopo aver sentito i pettegolezzi e le voci nei bazar e nel giro di una settimana avevano scoperto che il Generale Deucalion e i suoi diretti sottoposti, tra cui il comandante della base dove sarebbero dovuti tornare, commerciavano illegalmente armi e fomentavano gli odi estremisti da entrambe le parti con il solo scopo di arricchirsi a spese delle popolazioni afghane. Da lì la scelta era stata semplice: erano soldati dell’esercito americano in missione di pace, non potevano permettere che il Generale continuasse coi suoi traffici.

«MIECYZLAW!» urlò entrando nella stanza del computer, facendo sussultare un ragazzo che non poteva avere più di ventidue anni, con capelli castani scompigliati a causa delle cuffie che portava.

«Derek» mormorò togliendosele «Sai che non mi piace essere chiamato così» continuò voltandosi verso l’uomo che stava appoggiata allo stipite della porta, squadrandolo: era un giovane dalla pelle abbronzata, che si avviava verso la trentina. Aveva capelli e barba neri, più lunghi di quello che ci si aspetterebbe da un soldato, in cui già si vedeva qualche filo bianco, probabilmente messo in risalto dallo sfondo scuro; lo scrutava con occhi verdi e luminosi. Le sopracciglia espressive erano piegate a dargli un’espressione accigliata, ma il lieve sorriso sulle sue labbra l’addolciva, rendendolo quasi inoffensivo, se non fosse per i muscoli che s’intravedevano nonostante il kurta che portava.

«Non capirò mai perché preferisci un nome in codice a quello reale, Stiles» gli rispose marcando l’ultima parola e facendo ridacchiare l’altro.

«Hai paura di dimenticartelo se non lo ripeti ogni tanto?» lo prese bonariamente in giro lui di rimando.

«Mi ci è voluta una settimana per impararlo, non voglio rifare tutta quella fatica» gli rispose con una smorfia.

Il suo partner gli sorrise prima di fargli segno di avvicinarsi. Derek sospirò e lo assecondò concedendosi di osservarlo per qualche secondo: era atletico, ma non muscoloso come i soldati della sua divisione, ma non per questo non era forte. Aveva un fisico nervoso e agile, e ancora più agili erano la mente e i suoi occhi castani, grandi e che coglievano ogni dettaglio. La pelle era pallida e coperta di nei, rendendolo facilmente riconoscibile tra i visi dai tratti orientali del paese.
Si grattò il naso, irrequieto, e stese le labbra in un sorriso fiero, mostrandogli lo schermo  del computer.

«Guarda, sono riuscito a tracciare anche l’ultimo pagamento sul conto di Taiwan» gli disse orgoglioso, indicandogli i dati degli spostamenti monetari.

«Benedetto il giorno che ti ho lasciato da solo con Laura» borbottò, notando che c’era un aumento di soldi, ma le sue conoscenze in materia di conti bancari si fermavano a quello, di solito lasciava tutto in mano a sua sorella, che si era laureata in economia e adorava quelle cose.

«Se è davvero un pagamento di armi, ora dobbiamo solo coglierli sul fatto e registrare le prove, poi potremo tornare a casa» disse sorridendo anche lui. «Come sono messi gli occhiali?»

Il castano accanto a lui battè qualche tasto sul pc e gli mostrò, un paio di occhiali dalla montatura spessa, che si mise sul naso. Dopo pochi istanti sullo schermo apparve il volto del moro e una barra di registrazione.

«Sei un genio» disse ammirato Derek, facendo arrossire Stiles d’orgoglio.

«Merito della manualità di Samir, io non avrei avuto tutta la sua pazienza» mormorò spegnendo tutto ed alzandosi, subito imitato dall’altro.

 Il ragazzo stava per uscire dalla stanza, ma il suo partner lo fermò, facendolo voltare e levandogli gli occhiali dal naso. Il castano sbuffò una risata e si arricciò una ciocca con le dita.

«Ormai sono così abituato a portarli per fare le prove che me li dimentico» borbottò arrossendo, poi osservò la lunghezza dei suoi capelli e sospirò. «Non vedo l’ora di tagliarli» Erano più lunghi anche di quelli di Derek e cominciavano ad arricciarsi verso le punte.

«Ti prego, non quel taglio con la macchinetta che avevi quando ci hanno messo in coppia, era tremendo» lo supplicò l’altro, alzando gli occhi al cielo e uscendo dalla stanza.

«Ma era così comodo!» ribattè lui seguendolo.

Due passi dopo erano in quella che avevano pomposamente ribattezzato “sala da pranzo”: era una stanza dalle pareti spoglie di cemento armato, che si scrostava, con qualche tappeto, dei cuscini e un tavolo basso su cui un giovane dell’età di Derek stava sistemando dei piatti.

«Che si mangia oggi Samir?» gli chiese in inglese Derek

Il giovane alzò i grandi occhi scuri dal tavolo e li fissò su di lui.

«Thè, naan, e verdure» rispose in inglese, ma con il marcato accento pashtun; aveva una voce sottile e calda, come il vento che soffiava in quella città.

«Peccato, speravo nell’agnello» sospirò Stiles «Per fortuna che sei un cuoco eccezionale» aggiunse regalandogli un largo sorriso.

Il ragazzo rispose allo stesso modo e aspettò che si sedessero e cominciassero a servirsi per poi imitarli. Aveva qualche anno in meno di Derek, ma sembrava perfino più giovane di Stiles; aveva la pelle ambrata ed era longilineo e con pochi muscoli, non molto alto, ma a colpire era soprattutto il viso: aveva tratti atipici per il paese, la fronte alta, gli occhi grandi e scuri, con ciglia lunghe; aveva il naso fine e affilato, e la bocca dal taglio largo e labbra ben disegnate. Aveva gli zigomi messi in evidenza e il mento leggermente aguzzo, su cui non cresceva un filo di barba.
Era decisamente insolito come fisionomia e gli aveva creato non pochi problemi: veniva spesso fermato per strada dagli estremisti, per chiedergli la ragione della mancanza della sua barba e ancora prima i suoi famigliari avevano dubitato che fosse figlio loro.

L’avevano incontrato in un vicolo.
Loro si erano dati alla macchia da appena un mese e lui era denutrito e sporco. Stiles avrebbe tirato dritto, abituato a vedere quelle scene di povertà, ma Derek si era impuntato e gli avevano proposto di far loro da tuttofare. Samir aveva accettato con una faccia da funerale e ne avevano capito il motivo solo dopo un mese: era convinto che sarebbe diventato il loro giocattolo sessuale, come gli avevano fatto credere in famiglia. Quando era venuto a raccontarglielo, aveva pianto per la vergogna di aver così mal giudicato le uniche persone che si erano preoccupate per lui.

«Ti prego smettila di magiare la verdura con un’aria così affranta» lo supplicò Derek alzando gli occhi al cielo.

«Ma la carne…» Cominciò a lamentarsi il castano, ma il moro lo interruppe subito.

«Non c’era nulla da festeggiare e dobbiamo risparmiare ogni centesimo, lo sai. Ti giuro che quando torneremo a casa te ne farò mangiare talmente tanta che ne avrai la nausea a vita» sbottò lui alzando gli occhi al cielo, e facendo ridacchiare Samir.

«Ma quando si torna a casa?» sospirò mesto, guardando le verdure.

«Quando riusciremo a trovare le ultime prove e a farle avere ai nostri contatti» rispose cercando di non farsi abbattere dalle sue stesse parole.

«Cosa manca ancora?» chiese Samir in un inglese tentennante.

«Abbiamo informazioni che dicono che dal 2003 vendono armi, creano attentati per insabbiare i loro traffici, uccidendo i civili che tentano di fermarli. Sappiamo che per colpa delle armi che hanno venduto sono morti settantatré soldati, dieci probabilmente per fuoco amico o giustiziati perché, come noi avevano scoperto i traffici di Deucalion, ma se non li prendiamo con le mani nel sacco non ci crederà nessuno e non potremo intavolate il processo e tornare a casa.» concluse tornando a parlare nella lingua più familiare al ragazzo.

«Questo solo se abbiamo prove schiaccianti.» aggiunse il moro alle parole del suo partner «Stiles dobbiamo aspettare che siano condannati in via definitiva o correremo il rischio che, se la facessero franca, ci portino in tribunale con l’accusa di diserzione nel migliore dei casi» concluse cupo.

«Forse posso aiutare» la voce di Samir li fece girare verso di lui, pieni di speranza ma combattevano contro di essa, temendo di restare delusi.
Il ragazzo si mordicchiò un po’ le labbra, nervoso.

«Non avrei mai voluto tornare dalla mia famiglia o farvela conoscere…»

---

Erano sul tetto, per prendere il fresco dopo la calura della giornata, godendosi il vento e le stelle che brillavano luminose sulla loro testa, complice l’ennesimo blackout.
Erano esausti dopo aver messo giù il piano d’azione e nessuno era particolarmente felice di ciò che stavano per fare: avevano intenzione di sfruttare la famiglia di Samir per incastrare Ennis. Tuttavia non erano scontenti di questo, i suoi famigliari erano persone orribili, che avevano reso la vita del ragazzo un vero inferno: prima l’avevano maltrattato credendolo il figlio di un jinn che aveva rapito il loro vero bambino, poi l’avevano schernito e minacciato per il suo amore per le storie e lo studio che non era la sharia ed infine l’avevano buttato fuori di casa quando si era rifiutato di partecipare ai loro folli piani di propaganda estremista. Nessuno soffriva a venderli per ottenere l’agognato ritorno a casa, men che meno Samir.
A rendere il piano così infelice era l’enorme rischio che avrebbero corso.
Forse avrebbero potuto ideare un piano migliore, ma non avevano tempo a sufficienza, così si erano dovuti accontentare di quello che avevano ideato quel pomeriggio.
Ora cercavano di non pensarci e di godersi la pace del momento.

Erano tutti e tre vicini con le foto delle loro famiglie tra le mani, se le erano portati da casa e Samir non si stancava mai di vedere. Le avevano usate per insegnargli rudimenti d’inglese e lui ne prediligeva una in particolare. Era una foto che ritraeva la sorella maggiore di Derek, Laura, nulla di straordinario in realtà; nella foto c’era un primo piano della ragazza sdraiata su un prato coi capelli sciolti, che cercava di riprendere fiato dopo una risata che l’aveva fatta piangere, lasciandole qualche lacrima intrappolate tra le ciglia; aveva gli occhi socchiusi e sul viso rosato si apriva un ampio sorriso.
Sorrideva anche Samir accarezzando piano il bordo della fotografia.

Stiles lo notò quando smise di osservare la costellazione del cigno e diede un colpetto leggero a Derek, che smise di guardare le stelle per guardare il ragazzo e fare un sorriso sghembo.

«Ti piace mia sorella?» chiese diretto facendolo sussultare; per la cultura in cui era cresciuto poteva essere vista come una mancanza di rispetto la sua.

Probabilmente se non vi fosse stato così buio e se la sua pelle fosse stata meno abbronzata, avrebbero visto il rossore delle sue guance.

«È… è molto bella» ammise guardandola ancora alla pallida luce della mezza luna «Le sue… guance sono rose e i suoi occhi sono stelle» continuò indicando ciò che poteva per spiegarsi al meglio.

Derek sorrise: era sicuramente una delle cose più belle che avesse sentito dire su sua sorella, perciò quando Samir gli allungò la foto la rifiutò.

«Tienila tu. Io ne ho molte altre» disse addolcendo lo sguardo, anche se probabilmente lui non poteva vederlo. «Credo che le piacerai quando vi incontrerete»

«Vi incontrerete?» ripetè l’altro, senza capire.

«Certo.» s’inserì anche Stiles «Quando torneremo a casa tu sarai sull’aereo con noi» poi aggiunse con un sospiro mesto «Se torneremo»

L’afghano continuava a guardarli con gli occhi sgranati, tanto che Derek pensò che il suo partner non fosse riuscito a farsi capire. Oppure Samir voleva semplicemente restare.

«Senti, non… non dev-»

«Anche se sono…» il ragazzo s’interruppe e si ritrovarono tutti e tre a fissarsi in silenzio.

I due militari sapevano come avrebbero potuto riempire quel vuoto di parole: “Afghano, mussulmano, mingherlino, poco virile, strano” ed erano solo alcuni delle parole che si era sentito dire il ragazzo. Se le era sentite dire così spesso che aveva finito per crederci: la sua famiglia lo trattava come uno schiavo e non si preoccupava minimamente di lui, non voleva nemmeno vederlo più del dovuto. Ci erano volute settimane prima che si convincesse a mangiare con i “Sahib” e non da solo nel bagno/cucina che avevano in quella casa diroccata.

«Le piacerai anche per questo» mormorò alla fine il moro e lo sentì sospirare di speranza.

«Ma il vostro paese mi accetterà? Siamo due popoli in guerra…» aggiunse mentre la speranza si spegneva ad ogni parola.

«Samir» cominciò a dire il castano toccandogli la spalla per attirare la sua attenzione «tu ci hai aiutato, non sei un nemico. Se ti lasciassimo qui sarebbe la tua condanna a morte, non possiamo permetterlo» gli diede un paio di pacche sulla spalla «La famiglia non finisce col sangue»

«Sarai il benvenuto» aggiunse Derek nel suo pashtun stentato.

Samir non rise della sua pronuncia, ma gli sorrise e strinse un po’ più forte la foto di Laura.

«Avanti, va a dormire» il ragazzo annuì e si diresse verso le scale lasciando soli i due militari.

Derek aspettò qualche secondo prima di ricominciare a parlare, giusto per essere sicuro che il ragazzo non sentisse.

«Sai che vale anche per te, vero?» mormorò voltandosi a guardare i suo partner, che ridacchiò.

«Solo perché ho salvato Cora?» rispose con un sorriso sornione sul volto, ma non riusciva a nascondere l’orgoglio che sentiva al solo ricordo di ciò che era riuscito a fare: la sorella minore di Derek era venuta a trovarlo quando erano stati spostai in una base in uno dei territori più sicuri per gli stranieri e dopo aver fatto il giro della base aveva insistito per essere accompagnata in città. Il moro nervoso, l’aveva accontentata e lui li aveva seguiti, come da ordini di Ennis, ma stando qualche passo indietro, nervoso pure lui: quella mattina aveva provato a parlargli su alcune frasi che aveva sentito al mercato, circa un traffico d’armi, e avevano finito per litigare.

Le cose non erano andate meglio arrivati in città: Cora si era impegnata per rispettare il dress-code del paese, ma aveva scelto colori troppo brillanti per i suoi abiti e in molti si voltavano a guardarla, aumentano il nervosismo di suo fratello. La folla li aveva poi divisi, ma lei, invece di preoccuparsi, si era messa a bighellonare tra chioschi e bancarelle finendo per essere presa di mira da un gruppo di quattro afghani che, senza che se ne accorgesse, si muovevano intorno a lei guardandola torvi.
Stiles, che aveva seguito il foulard arancione che usava per coprirsi il capo, se ne era accorto e aveva capito che doveva intervenire al più presto.
L’aveva raggiunta e, presala sotto braccio, l’aveva costretta a seguirlo, ma gli uomini non demordevano, così si era diretto subito verso la base. Purtroppo erano riusciti a bloccarli in una via deserta e subito il castano si era messo come scudo davanti a Cora, ma per fortuna non era successo nulla di grave: Derek li aveva presi alle spalle e se l’erano cavata solo con un grosso spavento e un livido sullo zigomo sinistro di Stiles.
Da quel giorno, Derek aveva messo da parte ogni dubbio su di lui e si era aperto, concedendogli la sua piena fiducia.

«Ehi…» richiamò la sa attenzione mettendogli un braccio sulle spalle «Apri bene le orecchie perché lo dirò solo una volta» Stiles già cominciava a ridacchiare e pure il moro cercava di restare serio, ma non pochi risultati «Mi piace averti intorno… e sono felice che ci abbiano messo in coppia insieme» Il suo viso fu poi illuminato da un sorriso «Grazie per aver salvato Cora»

«Aaah… finiscila, mi hai già ringraziato a sufficienza» ribattè lui arrossendo.

«Lo so, ma tu adori sentirti dire queste cose» ridacchiò il moro arruffandogli i capelli e fu naturale lasciarsi andare e ridere. Il moro lasciò poi scivolare il braccio, avvolgendolo intorno alle spalle del castano che ancora ridacchiava.

«Non riesco ancora a credere che stiamo per tornare a casa»

«Ma non eri tu a dire che “Finchè non-»

«So cosa ho detto Stiles, ma non riesco a non pensarci… non vedo l’ora di riabbracciare la mia famiglia e rivedere i miei amici… tu no?» gli chiese con un sorriso accennato.

«Cazzo sì! Devo assolutamente vedere papà e Scotty e poi trascinare quello scemo a tagliarsi i capelli, avrà di nuovo un mocio in testa senza di me…» esclamò alzando gli occhi al cielo.

Stavolta fu il turno i Derek di ridacchiare e Stiles si trovò a nascondere uno sbadiglio pochi istanti più tardi.

«Andiamo a letto pure noi?» chiese voltandosi verso il moro dopo aver appoggiato la testa sulla sua spalla.

Il giovane annuì, fregandosi gli occhi e si rialzò aiutandosi con in muro semi distrutto alle sue spalle; poi tirò su il suo partner e si avviarono per la buia tromba delle scale.

---

Samir li precedeva per le vie della città a passo sicuro, con una faccia che sembrava scolpita nella pietra. Non aveva detto una sola parola per tutta la mattina, probabilmente troppo nervoso all’idea di vedere di nuovo quelle spregevoli persone che erano la sua famiglia.
Derek e Stiles lo seguivano in silenzio e già cominciavano a sudare nei loro kurta per il caldo e l’ansia; avevano sul naso gli occhiali che registravano ogni loro e addosso, sotto i sottili e praticamente inutili giubbotti anti proiettile avevano dei registratori.

«Manca poco» li avvisò il ragazzo «Siete sicuri di volerlo fare?» chiese loro mentre si erano fermati, in attesa che una colonna di auto blindo dell’esercito americano finisse la loro sfilata per le strade della città.

I due annuirono conviti: non sapevano quando avrebbero avuto un’altra occasione simile.
Ripresero a pensare a come eseguire il piano in silenzio seguendo la loro guida nell’ultimo tratto che li separava dalle loro speranze di tornare a casa.
Ci vollero altri venti minuti di cammino nel calore cocente del mattino, ma alla fine arrivarono alla casa dove aveva abitato Samir. Era un complesso danneggiato, piuttosto grande, dove i due militari immaginarono vivere parecchie altre persone. Fu istintivo chiedersi quanti danni avrebbero fatto o se fossero da considerare nemici o collaboratori di quegli estremisti.
Il ragazzo si voltò verso di loro, spaventato, poi trattenne il respiro e bussò al portone. Sentirono i colpi riecheggiare nella casa che sembrava vuota, ma un minuto dopo il portone si aprì, mostrando un uomo corpulento e basso, dall’aria truce.

«Chi sei?» chiese spiccio.

Samir ingoiò la paura e gli rispose. «Sono Samir, il figlio di Tariq. Sono venuto a portare due fratelli in cerca della giustizia.»

«Chi vi manda?» chiese rivolgendosi direttamente a loro.

I due rimasero interdetti a guardarsi: dovevano fargli sapere che conoscevano la loro lingua o dovevano fingersi ignoranti? Samir per fortuna li levò da quell’impiccio, traducendo le parole dell’uomo dal pasthun all’arabo.

Stiles sospirò di sollievo e gli rispose in arabo.

«Nessuno. Solo la nostra fede fratello»

«Da dove venite?» indagò ancora, burbero.

Attesero entrambi che il ragazzo accanto a loro traducesse e risposero all’unisono “America”. L’uomo storse il naso, ma li fece entrare.
La prima parte era andata come si aspettavano, era impossibile che non cogliessero l’occasione di poter chiedere un riscatto. L’uomo gli chiuse la porta alle spalle con un tonfo e li studiò di nuovo da capo a piedi, mentre soggiungeva un uomo col viso bruciato dal sole e i capelli radi; si sorreggeva con l’aiuto di una stampella e aveva un moncherino di gamba, che finiva sopra il ginocchio.
Samir, vedendolo, si fece pallido ma non si mosse d’un millimetro.

«Quale altra vergogna hai portato in questa casa?» chiese il mutilato rivolgendosi al ragazzo, che rispose sotto voce e ad occhi bassi.

«Nessuna, solo due fedeli che volevano contribuire alla causa»

«Quindi ora sei pure tu un mujaheddin?» gli chiese in tono di scherno, mentre la loro guida incurvava le spalle e scuoteva la testa.

«Mi hanno offerto dei soldi per portarli da fedeli come loro. La fame fa quello che non possono i buoni propositi» rispose duro ed evitando il suo sguardo, mentre quello annuiva.

«E se fossero soldati? Se fossero del nemico? Non hai pensato a questo, vero?! Questo non ha nemmeno la barba» disse quello alzando il tono e con l’uomo che lo guardava truce.

«Avevo fame…» sussurrò vergognoso.

«E non hai esitato a vendere la tua famiglia per questo!» proseguì avvicinandosi.

«Mi avete ripudiato, mi avete tolto il vostro nome, cosa dovevo fare, morire?» sussurrò Samir con la voce carica di veleno.

«Sarebbe stato più onorevole che venderci!» disse per poi dargli uno schiaffo che gli fece voltare il capo «Butta fuori questa feccia» disse facendo un cenno all’uomo tarchiato che il
osservava a braccia conserte.

Quello non se lo fece ripetere due volte e afferrato il ragazzo per la casacca lo spinse fuori dal portone, sotto gli sguardi preoccupati di Derek e Stiles.

«Fratello, perché fai questo alla nostra guida?» chiese in arabo il castano, cercando di mantenere il sangue freddo.

«Gli ho fatto un favore, se l’avesse visto mio padre l’avrebbe ucciso» disse cercando di ricomporsi alla meglio, per poi fissare gli occhi scuri su di loro; era l’unica somiglianza che notarono con Samir.

Davanti a loro avevano probabilmente suo fratello Khaled.

«Voi chi siete?» chiese in pasthun e l’uomo tarchiato gli si avvicinò, sussurrandogli all’orecchio la situazione. Subito li squadrò e poi rifece la domanda in arabo, cercando di nascondere un sorriso compiaciuto. Evidentemente credeva che fossero facili prede o di poterli manovrare.

«Siamo David Taylor e Tom Reed»

«Come avete trovato la vera fede?» chiese soppesandoli con gli occhi.

«Io, attraverso il computer» rispose Stiles «Poi andando alla mosche ho conosciuto David. Non se la cava molto con la lingua» aggiunse indicando Derek.

«Dov’è la tua barba?» chiese a tradimento «Conosci i testi e la legge se sei stato alla moschea»
Stiles strinse le labbra, amareggiato. «Non cresce più di così» ammise crollando le spalle.

Khaled li squadrò un’ultima volta poi fece cenno loro di seguirlo e li condusse n una stanza più piccola, dove li fece accomodare su cuscini e tappeti stantii.

«Quindi siete americani…» borbottò tra se l’uomo sedendosi e lasciando quello tarchiato a guardia della porta. «Avete il passaporto?»

La domanda li preoccupò perché poteva voler dire che quello che Samir aveva detto loro aveva un fondamento di verità: la sua famiglia voleva fare un attentato in America.
I due annuirono e gli chiese subito se li avessero con loro. «È irresponsabile averli con sé in queste strade» rispose Derek in un arabo scolastico, ma ottenne l’attenzione e l’approvazione dello zoppo.
Fecero entrambi un respiro profondo: il loro interrogatorio per entrare nelle file dei Jihadisti era appena cominciato
 

Ci volle un’ora per conquistare un briciolo della fiducia dell’uomo e anche allora sapevano che la strada era ancora lunga. Lo zoppo stava per fare l’ennesima domanda quando entrò l’uomo tarchiato che sussurrò qualcosa all’orecchio del fratello di Samir. Nessuno dei due riuscì a cogliere cosa gli diceva.

«Pare che avrete la vostra prima occasione di contribuire alla causa» disse arricciando le labbra in un sorriso compiaciuto e viscido.

«In che modo fratello?» chiese Derek, cercando di usare la sua pronuncia migliore.

«Sarete i miei traduttori nello scambio di oggi» si alzò faticosamente in piedi e proseguì «Seguitemi»

Li condusse con il suo passo barcollante nella stanza in cui erano entrati prima poi in una nuova stanza laterale, che non aveva nulla al suo interno, solo una vecchia stuoia, che fu spostata dall’uomo tarchiato.
Sotto c’era una botola.
 

Derek e Stiles si scambiarono un occhiata preoccupata, poi tornarono ad osservare il pannello, aveva una chiusura esterna, ma sembrava facile da forzare e il legno era spesso, ma vecchio e secco, forse con qualche colpo ben assestato avrebbe ceduto.
Il loro accompagnatore silenzioso la spalancò e lo zoppo li precedette lungo una scala che portava in un corridoio rozzo e male illuminato; le pareti non avevano nemmeno uno strato di cemento, sembrava scavato nella terra. La botola fu chiusa alle loro spalle, ma non sentirono il rumore della chiusura e tirarono un sospiro di sollievo: non erano in trappola. Mentre i loro occhi si abituavano alla penombra del luogo, i loro nasi furono colpiti dall’odore di muffa, gas e metallico. Seguirono il rumore della stampella dell’uomo che li precedeva, fino ad arrivare ad uno spazio più ampio che li lasciò a bocca aperta: si trovavano in un vero e proprio arsenale realizzarono guardandosi intorno.

C’erano parecchie casse, alcune chiuse alcune aperte, lasciando vedere il loro contenuto i armi e bombe. Tutte portavano il simbolo dell’esercito degli Stati Uniti. Si guardavano avidamente intoro, soprattutto il castano che riprendeva ogni cosa con gli occhiali. Non potevano credere ai loro occhi e alla oro fortuna, se stavano venendo dei militari a fare uno scambio avrebbero avuto le prove necessarie per incriminare Deucalion.

«Come le avete avute?» Chiese Derek osservando una cassa piena di granate.

«Pagando» ammise senza giri di parole lo storpio «Gli Americani sono un popolo senza Dio e senza valori, disposti a vendere la propria gente per arricchirsi. Noi li sfruttiamo per portare a compimento il volere di Allah» continuò voltandosi ad osservarli; probabilmente stava cercando dei tentennamenti nelle loro idee, ma loro stettero zitti.

«Oggi acquisteremo del esplosivo, voi mi farete da traduttori, non voglio che tentino di fregarmi» spiegò voltandosi verso una delle altre tre aperture che si aprivano in quello scantinato.

Sentirono il rumore di un chiavistello scattare e poi si presentò una donna completamente velata da un burqa; si avvicinò a Khaled che la osservò serio e con velato diprezzo, non avrebbe dovuto presentarsi con due uomini sconosciuti, nonostante fosse velata. Il volto dell’uomo però si aprì in un ghigno ascoltando le parole che gli venivano sussurrate.

«Sembra che sia arrivato il momento di mettervi alla prova» disse raddrizzandosi; il burqa intanto sparì in un altro arco oscuro.

Dalle scale da cui era arrivata la donna cominciò arrivare il rumore di passi pesanti, tipici di chi calzava anfibi militari. Stiles si voltò verso l’apertura, mentre Derek fece un paio di passi indietro portandosi vicino a dei fucili d’assalto appoggiati ad un tavolo. Erano la sua specialità, se le cose si fossero messe male, e si sarebbero messe male, avrebbe potuto dare filo da torcere ai soldati.

Fece un respiro profondo, pregando che nessuno di loro li riconoscesse ma era quasi impossibile, non con la taglia che pendeva sulle loro teste. Le sue speranze s’infransero quando vide Ennis scendere le scale, mentre altri due soldati sconosciuti potavano una cassa. Stiles guardava tutto con un sorriso che si allargava sul volto, mentre nel cuore di Derek esplodeva la paura.

“Stiles, non servirà a nulla aver trovato queste prove se moriremo in questo seminterrato” pensò per poi cogliere l’espressione del capo della base che passava dalla sorpresa alla rabbia riconoscendo il castano.

Prima ancora che l’uomo desse l’ordine di attaccare, il moro era scattato verso i fucili e, afferratone uno, sparò in direzione dei militari costringendoli a mettersi al riparo. Stiles si abbassò e si riparò dietro un mucchio di casse e Derek fece altrettanto, imprecando tra i denti. Si sentì il rumore di pistole estratte e passi di corsa.
Agitato si rese conto di non riuscire a vedere Stiles dalla posizione in cui si trovava, doveva sporgersi con tutti i rischi che comportava. Fece un respiro profondo e si s porse notando che il castano stava bene e stava facendo lo stesso protetto da un gruppo di casse poco lontano.
I due si scambiarono un ultimo sguardo e un cenno d’assenso poi uscirono dai ripari cercando il nemico, ma di loro non c’era traccia e nemmeno di Khaled. Senza pensarci due volte si allontanarono da quell’antro verso le scale da cui erano scesi, coprendosi le spalle a vicenda.

Percorsero il corridoio col cuore che martellava contro la gabbia toracica e pompava l’adrenalina nei loro corpi. Salirono le scale con le gambe che tremavano e il sudore freddo che scendeva lungo le loro schiene per il terrore di cadere in un agguato. Arrivati alla botola, l’aprirono con estrema cautela, ma la stanzetta era vuota, così uscirono senza abbassare le armi, tesi come corde di violino. Sapevano che i soldati erano sulle loro tracce e non si sarebbero lasciati scappare l’opportunità di arrestarli o ucciderli. Stiles chiuse con un colpo del piede il chiavistello, ma sapevano che non avrebbe retto a dei soldati armati, dovevano andarsene subito.

«Stanno chiamando i rinforzi» sussurrò Stiles ritornando ad alzare la pistola.

«Facciamo il percorso a ritroso» concordò lui fremendo per uscire da quella casa; più tempo passava più gli sembrava che si stesse trasformando in una trappola.

Il castano fece un cenno d’assenso e si preparò a procedere con un sorriso di pura gioia sul volto. L’unica cosa che Derek riuscì a pensare fu: “Qua finirà male”; se aveva imparato qualcosa lavorando nell’esercito era che, come si abbassa la guardia si muore, e Stiles pensava solo a suo padre che l’aspettava a casa in quel momento.

«Dove vai?» chiamò, facendolo fermare. Il castano lo guardò interdetto «Levati il kurta e stai concentrato o finirai per inciampare, o peggio» imbracciò meglio i fucile e tenne sotto tiro l’arco davanti a loro; dalla botola non arrivava nessun rumore.

«Quante volte ti ho detto di non muoverti da solo?!» sbottò mentre il suo partner si sfilava la casacca di dosso quasi strappandola.

«Stavo andando in avanscoperta!» ribattè ora libero e rimettendosi in posizione.

Derek si levò svelto anche lui in kurta, ma questo non fermò il loro battibecco.

«Con questa tenda addosso!? Saresti inciampato come minimo!» sbottò riprendendo il fucile.

«Derek non c’è bisogno che tu mi faccia la ramanzina!» disse facendo un passo avanti subito seguito dal moro oltre la soglia «Sono addestrato come te e sta andando tutt-» ci fu un fruscio e uno sparo prima che se ne potessero accorgere.

I riflessi di Derek scattarono e subito sparò nella direzione da cui era arrivato il rumore, ferendo l’uomo tarchiato che li aveva fatti entrare. Un secondo colpo e l’uomo stramazzò al suolo.

L’uomo stava ancora cadendo quando gli occhi di Derek cercarono Stiles, trovandolo a terra, pallido e coi denti stretti per non gridare. Si teneva un a spalla e il sangue macchiava le sue dita.

«Stiles?» chiamò abbassandosi su di lui, spaventato.

«Sto bene» sputò fuori con gli occhi sgranati per il dolore e la sorpresa.

Derek fece un suono molto simile un ringhio, quello che il suo partner aveva imparato a riconoscere come sinonimo di frustrazione.

«…Per uno con una pallottola nella spalla. Controlla se c’è il foro d’uscita…» gli disse cominciando a sudare freddo per la paura.

Il moro si chinò di più su di lui e lo sposto appena, con tutta la delicatezza concessa loro dalla fretta che avevano. Il castano gemette di dolore, ma non si ribellò aspettando il verdetto.

«Non è uscito» lo informò il suo compagno guardandosi intorno agitato.

«Bene, questo mi dà un po’ di tempo» sospirò, ma aveva la voce affannata dalla paura e dal dolore; aveva l’impressione di avere un ferro rovente piantato nella spalla.

«Dobbiamo andare» gli disse il moro per poi sollevarlo ignorando i suoi mugolii di dolore.

Si fece passare il braccio sano sopra le spalle e lo afferrò saldamente per un fianco, aiutandolo a stare in piedi. Il ragazzo non disse nulla, troppo impegnato a non gridare per il dolore; non sembrava fosse stata colpita un arteria ma molto probabilmente aveva diverse ossa rotte. Il moro diede un veloce sguardo alle porte nella stanza e vedendo la via libera cominciò a muoversi verso la porta da cui erano entrati.

«Derek»

«Taci e cammina»

«Derek» lo chiamò di nuovo il ragazzo stretto al suo fianco; il dolore stillava da ogni lettera pronunciata.

Il giovane non lo ascoltò e sfondò la porta con un calcio. Subito il calore della strada li investì, ma non c’erano fucili ad aspettarli, perciò il moro costrinse entrambi a uscire nella calura del vicolo. Avevano appena messo il naso furi quando sentirono un nuovo sparo e si abbassarono per istino, crollando a terra. Stiles gemette di dolore, mentre Derek guardava con orrore il proiettile nel muro. A giudicare dal buco era un fucile d’assalto dell’esercito. Stavano arrivando.

Ignorando i gemiti di dolore del castano si caricò il suo peso su di lui e abbandonò il fucile; non sarebbero mai riusciti a rispondere al fuoco. La loro unica speranza era riuscire a nascondersi.
Ci furono altri spari, che li costrinsero a procedere chinati; sentirono l’ultimo prima di voltare l’angolo, ma Derek per poco non cadde sentendo un dolore bruciante alla coscia: un proiettile l’aveva colpito di striscio. Minacciò di cadere, ma stavolta fu Stiles a reggerlo.

«Non ci provare. Se cadi tu siamo morti entrambi» ringhiò il castano aiutandolo a stare dritto; il giovane si concesse una rapida occhiata al suo viso: era pallidissimo e coperto di sudore freddo.

Ripreso la loro penosa fuga nel vicolo, con le orecchie che già sentivano i passi pesanti dei militari. Grazie a Dio mancava poco ad una svolta, forse avrebbero potuto salvarsi.
Mancavano solo cinque passi.
Alle loro orecchie però giunse un marcato tonfo legnoso.
Solo quattro pasi dalla svolta.
Il rumore si fece più forte.
Tre passi.
Da un arco spuntò il fratello di Samir con un mitra in mano.
Due passi.
L’uomo armeggiò con la sicura per poi prendere la mira su di loro.
Un passo.
Videro che alla loro destra si apriva un arco.
Derek non si fermò nemmeno a pensare, ci si buttò dentro, cadendo malamente, e trascinandosi dietro Stiles, che gemette per il dolore che gli aveva provocato. Quasi nello stesso istante sentirono la raffica cominciare.

Erano soldati, sapevano come dovevano comportarsi in quei casi, tuttavia erano soli, feriti, spaventati, fu naturale accucciarsi abbracciati, pregando che finisse presto. Erano stretti così vicini che le loro teste erano premute l’una contro l’altra e Derek sentiva chiaramente i mugolii di dolore e paura di Stiles nel suo orecchio, nonostante il frastuono.
Durò quasi un minuto, poi sentirono due spari più forti e capirono che se volevano che il mondo sapesse quello che stava succedendo dovevano agire in fretta.
Svelti nascosero gli occhiali e i microfoni sotto un secchio accanto a loro, pregando che non li trovassero, poi Derek si rialzò e alzò Stiles, sempre più pallido e stanco. Il sangue aveva preso a scorrere lungo il braccio, sgocciolando a terra; stavano lasciando una traccia troppo evidente, lo sapevano entrambi.

“Dobbiamo raggiungere l’arco dalla parte opposta del cortile e saremo salvi” cercò di convincersi il moro, avanzando faticosamente; il castano ormai si trascinava. “Quando saremo salvi andremo all’ospedale” si disse, cercando di dare un ordine alle cose fondamentali.

«Derek…» mormorò il ragazzo al suo fianco, ma lui non gli diede retta.

«Derek, lasciami qui» sussurrò di nuovo lasciando la presa sula sua spalla; la risposta del suo partener fu solo di afferrargli il braccio per non farlo cadere, proseguendo il loro penoso percorso.

I passi dei soldati erano più vicini.

«Non ce la farò Derek, lasciami qui» insistette il ragazzo.

«No.» rispose il moro categorico.

«Derek, non fare il coglione. Ti sto solo rallentando»

«No, non ti lascio»

Il giovane strinse di più il braccio e il fiano del castano, temendo che si sarebbe divincolato per restare a morire.

«Derek-»

«NO! Tu non mi lasceresti indietro!»

«Ma io sono stupido

«E io pure, non ti lascio qui a morire!» sbottò concitato cercando di accelerare il passo, ma Stiles incespicò.

I passi dei soldati rimbombavano sulle pareti del vicolo e l’arco era ancora troppo lontano.

«Derek, vattene e prenditi cura di papà e Scott. Il mondo deve sapere cosa stanno facendo qui, è più importante di me.»

«No» ribattè l’altro ostinato.

Alle loro spalle si sentì il rumore di sicure tolte.

«Fermi o spariamo!»

Entrambi emisero un lungo sospiro, erano stati raggiuti.

«Saresti dovuto scappare» mormorò Stiles con la voce rotta, il moro non disse nulla, troppo spaventato per parlare «Derek ascolta, è la tua ultima possibilità…» mormorò pianissimo il suo partner. «Non mi salverò mai Derek. Usami come scudo e corri via. Sbatti in galere quella feccia anche per me» il giovane scosse la testa, rifiutando quell’idea.

«Stiles, ce lo siamo giurato: saremmo tornati a casa insieme o saremmo morti insieme, io non ti lascio» gli disse guardandolo negli occhi.

«Giratevi!» urlò la voce nota del capo pattugli alle loro spalle.

«Stupido Sourwolf» sussurrò con un sorriso amaro, mentre una singola lacrima scendeva lungo il naso. I suoi occhi si fecero vitrei un istante dopo e il corpo smise di sorreggerlo, aveva perso i sensi; l’unica cosa che impedì al corpo del ragazzo di finire nella polvere furono i riflessi di Derek.

«Cristo, no! Stiles! Non mollare ora!» gemette accompagnandolo verso il terreno.

Cercò di svegliarlo dandogli dei pizzicotti, ma sapeva che era perfettamente inutile, poteva salvarlo solo una cosa.

Si voltò verso i soldati trovandosi le canne dei sei fucili d’assalto puntate contro, ma ingoiò la paura, non aveva tempo per quella. La vita del suo partner era appesa ad un filo.

«Dobbiamo andare in ospedale. Subito» gridò rivolgendosi a loro, che tuttavia non si mossero di una virgola.

«L’unico posto in cui andremo sarà la base militare USA» ribatté astioso il capo pattuglia, che lo osservava con quei suoi occhi troppo piccoli per la sua faccia. «Prendetelo e portatelo al Quartier Generale» ordinò ai soldati e subito quattro di loro abbassarono le armi per prenderlo.

«Dobbiamo andare all’ospedale ora o morirà!» gridò guardando il capo dritto nei suoi occhi slavati e apparentemente senz’anima. «Che diranno i tuoi superiori se non gli porti i disertori vivi con le informazioni sul nemico?» urlò ancora tenendo sott’occhio i quattro che si avvicinavano circospetti.

“Grazie a Dio le voci sulla mia forza sono ancora in giro” pensò a quella vista.

«Ne basta uno» rispose quello freddamente.

«Se lui muore…» sibilò minaccioso «… io non parlerò»

«Tutti parlano, con le buone o con le cattive» fece un cenno e due dei soldati si slanciarono avanti per bloccarlo, ma la sua reazione fu istintiva.

Balzò in piedi e diede un pugno dritto in faccia a quello che per primo si avventò su di lui, mandandolo al tappeto.
L’altro gli bloccò un braccio, mentre già un altro soldato scattava verso di lui. Derek non aveva intenzione di cedere però: combatté ferocemente per non farsi sottomettere, divincolandosi e rispondendo colpo su colpo; riuscì pure a prendere un pugnale in dotazione dal soldato che stava cercando da soffocarlo.
Come si si resero conto che aveva una lama, fecero tutti un salto indietro. Il moro ne approfittò per riprendere fiato e valutare i danni: la ferita sulla coscia bruciava dolorosamente, lo zigomo destro e la fronte pulsavano per la testata che aveva rifilato ad un soldato. Le costole dolevano, così come l’addome dove gli era arrivata una ginocchiata. Era messo male e in minoranza, non sarebbe riuscito a saltarci fuori con la forza; Stiles si stava dissanguando per di più. Doveva costringerli a fare quello che voleva.

“Se a loro basta una sola persona la avranno”

Con sgomento di tutti si portò alla coltello alla gola, sfidandoli con lo sguardo ad avvicinarsi.

«O ci postate all’ospedale o mi taglio la gola» disse gelido guardando il capo pattuglia, che tuttavia non si scompose.

«Sta bluffando, non ne avrà mai il coraggio. Prendetelo» incitò piatto i suoi sottoposti, che tuttavia non si mossero.

«Portateci all’ospedale o ci porterete solo lui» ripeté il moro, premendo di più il pugnale contro la pelle.

«Muovetevi, non si farà del-»

Le parole del capo pattuglia vennero sovrastate dai versi di sorpresa ed orrore quando svelto si piantò la lama nella coscia per poi portarsela alla gola. Li fisò di nuovo uno ad uno, mentre spostava il peso sulla gamba sana.

«All’ospedale, con Stiles. Ora» ripeté inflessibile mentre una goccia di sangue scendeva lungo la sua gola.

L’uomo lo guardò allibito, ma si riprese alla svelta e ordinò ai suoi di assecondarlo. I soldati di caricarono del peso di Stiles e Derek li seguì con uno sguardo che avrebbe spaventato il diavolo.

«Godrò più che a scopare quando cominceranno a torturarti, fottuto figlio di puttana» sibilò il capo pattuglia quando gli passò accanto e il moro dovette trattenersi dal ridergli in faccia, soprattutto quando colse un movimento sui tetti.

---

Quando Stiles aprì gli occhi tutto era avvolto da una luce ambrata, sopra di lui non c’era il cielo, ma un soffitto dal colore indefinibile. Lo pervadeva una sensazione di pace, ma durò poco: appena qualche secondo dopo una fitta di dolore s’irradiò dalla sua spalla, facendolo grugnire di dolore. Si rese tuttavia conto che la sensazione era meno forte di quanto ricordava e capì che qualcuno doveva avergli dato un antidolorifico. Ora era solo uno spiacevole fastidio rispetto al ferro rovente che sentiva prima.

“Prima quando?”

Mentre aspettava che la sensazione scemasse si guardò intorno cercando di capire dove fosse e quanto tempo fosse passato. Era supino in un letto, probabilmente in un ospedale, e sembrava pomeriggio inoltrato a giudicare dalla luce. Mosse il braccio sano, sotto le coperte, fino a toccare il fianco: non aveva più i vestiti da combattimento, qualcun si era preso cura di lui, probabilmente l’aveva anche curato.

Ricordò il rumore dei passi dei militari e realizzò che erano stati presi.  Però dov’era Derek? Era vivo? Lo stavano torturando? Perché li avevano divisi?!
Stile gettò via le coperte intenzionato ad alzarsi per andarlo a cercare: doveva aver fatto qualche cazzata o non si sarebbero dati pena per lui, li volevano morti e bastava solo uno di loro vivo per estorcere informazioni.

Puntò gomiti sul materasso, cercando di ignorare le fitte di dolore alla spalla, ma una mano fu premuta sul suo petto facendolo distendere di nuovo. Era già pronto a combattere per rialzarsi, ma come si girò rinunciò istantaneamente: a tenerlo nel letto era Derek.

«Buon pomeriggio» mormorò con un sorriso «Sei stato sotto i ferri per due ore per curare la spalla. Hai qualche osso rotto, ma vene e arterie sono sane.» continuò a spiegare calmo, mentre spostava la mano dal suo petto per spostargli i capelli dalla fronte sudata.

Stiles ascoltava in silenzio, studiando il volto del giovane che gli aveva salvato la vita: aveva un livido sullo zigomo e un cerotto sulla fronte, già macchiato di rosso brunastro; c’erano residui dello stesso colore anche sulla sua barba.

«Che hai fatto alla faccia?»

«Una piccola divergenza coi soldati alle mie spalle» gli rispose lui e subito Stiles sentì l’stinto di sporgersi a guardare, ma Derek glielo vietò «Tanto sono ridotti peggio di me» aggiunse con un sorriso spavaldo.

«Ti dispiace se mi siedo?» gli chiese poi e subito il castano acconsentì, togliendo il braccio da sotto le coperte per fargli spazio. Il moro si mise comodo e l’altro gli posò una mano sulla coscia, senza pensarci, facendogli fare una smorfia di dolore.

Il ragazzo lo guardò accigliato e Derek cercò di evitare i suoi occhi, ma Stiles non voleva fargliela passare liscia.

«Derek?» chiese in un tono che non ammetteva repliche.

Il moro sospirò e si voltò verso di lui e gli raccontò la verità cercando di minimizzare.

«Potrei aver minacciato di uccidermi ed essermi piantato un coltello nella coscia per dare validità alle mie parole» disse grattandosi il collo, nervoso.

Il gesto del moro spinse il ragazzo ad aguzzare la vista e, proprio dove cominciava la barba, notò un piccolo taglietto, come se il dolore alla coscia non fosse sufficiente a convalidare la
sua versione.
Stiles corrugò la fronte e aprì la bocca con tutta l’intenzione di spiegargli nel modo meno educato che conoscesse quanto fosse stato stupido il suo gesto, ma Derek lo anticipò.

«Non provarci, non dopo esserti preso una pallottola per me.» il castano chiuse la bocca, ma non cambiò espressione «Sono io che dovrei darti del coglione. Credevi davvero che non me ne fossi accorto?!» sibilò arrabbiato.

Stiles sospirò, arrendendosi, e prese ad accarezzargli il ginocchio con la mano. Derek abbandonò il suo cipiglio poco dopo, chinandosi verso di lui.

«Samir c’è riuscito» gli sussurrò all’orecchio. «Ha recuperato occhiali e microfono e credo sia riuscito a darli ai reporter, forse ha anche diffuso le informazioni del pc» Derek si allontanò un poco per godersi la faccia meravigliata del suo partner «Si è già sollevato il polverone» sul volto di Stiles si allargò un sorriso inquietante, mentre nei suoi occhi c’era una luce vagamente maligna, dietro l’esaltazione per la riuscita della loro impresa.

«Tutto questo in sole due ore?» chiese poi stupito mentre cercava di far combaciare i tempi.

«Due ore e un giorno» precisò il moro «Dopo l’operazione ti hanno tenuto sedato»

Stiles spalancò gli occhi e si fece un po’ più pallido: come facevano ad essere vivi entrambi se era rimasto sedato per così tanto tempo? Avrebbero come minimo dovuto dividerli e uccidere uno di loro o entrambi, perché erano lì insieme?
Lo chiese a Derek che gli regalò un sorriso stanco prima di rispondere.

«Ci hanno provato» ammise e il cuore di Stiles perse un battito «Non ero d’accordo e… abbiamo litigato.» dalle loro spalle arrivò qualche movimento nervoso ma nessuno dei due se ne curò «Ho avuto di nuovo ragione io. Non ho mai lasciato il tuo fianco, ho sempre controllato che non ti facessero altro male»

«Derek da quanto non dormi?» chiese allarmato il ragazzo, notando le sue occhiaie.

«Circa quarantott’ore» il ragazzo sgranò gli occhi

«Come fai a stare in sveglio?!»

«Principalmente adrenalina e terrore che ti succedesse qualcosa» gli rispose per poi sbadigliare.

«Perché non dormi un po’? ora sono sveglio possiamo darci il cambio» gli propose il castano e vide subito che Derek voleva solo accettare, ma tentennava. «Non essere stupido e riposati» insistette lui.

«Fatti in là, voglio stare dove posso controllarti» disse categorico e intanto, mentre il ragazzo gli faceva spazio nel letto, il moro si chinò e prese qualcosa dallo stivale, che poi porse al suo partner: era un coltello.

Stiles lo accettò annuendo, sapeva cosa gli stava chiedendo di fare il giovane.
Si sorrisero, cercando di confortarsi a vicenda, poi Derek gli si stese accanto, con una gamba sulle sue e un braccio steso attraverso il petto. Stiles gli stese la coperta addosso meglio che poteva mentre lui aggiustava ancora un po’ la posizione.

«Se proprio devi fidarti di qualcuno, scegli il rosso» mormorò il moro prima di crollare nel sonno.

Il ragazzo sospirò e voltò appena la testa in modo da posare la guancia sulla fronte di Derek; lo aspettavano delle ore lunghe e penose, in cui avrebbe dovuto combattere col sonno e il dolore, prendere dei farmaci era fuori discussione. Però per lui l’avrebbe fatto, l’avrebbe fatto per loro.
Si stava giusto facendo l’appunto mentale per trovare un modo per lavarsi, quando sentì dei passi avvicinarsi. Con una mano strinse il coltello mentre con l’altra, quella ferita, si aggrappò debolmente a Derek, con l’intenzione di dare battaglia se avessero voluto dividerli. Avrebbero dovuto sputare sangue per farlo.

Ad avvicinarsi a loro fu tuttavia il soldato coi capelli rossi e mossi, che si presentò come Sergente Lahey; prese a fargli domande sulle informazioni che avevano dato ai giornalisti, registrando ogni risposta che Stiles dava. Il ragazzo parlava senza remore e senza omettere nulla, perfino con un vago sorriso sulle labbra nonostante il dolore: Il Generale Deucalion e tutta la sua cricca sarebbero finiti in galera.

Fu un interrogatorio lungo, ma al castano non diede particolarmente fastidio, lo aiutò a distrarsi dal dolore crescente alla spalla. Quando finalmente finirono erano passate due ore e stavano entrando i medici con degli anti dolorifici che rifiutò sotto lo sguardo comprensivo del sergente. Lo avvisò che sarebbe andato a parlare coi piani alti per capire cosa li aspettava e aggiunse, chinandosi verso di lui, che credeva alla loro storia. Dette quelle parole incoraggianti li salutò con un cenno del capo per poi sparire dalla sua visuale.
Stiles restò così a vegliare su Derek con solo le sue fitte a tenerlo sveglio. Le fitte e il terrore di scoprire che l’avevano portato via.

---

Passarono tre giorni dal primo interrogatorio. Per tutto il tempo Derek e Stiles si diedero il cambio per mangiare e dormire, non smisero di prendersi mai cura l’uno dell’altro. Gli interrogatori proseguivano ma trovavano sempre il modo di isolarsi un po’ e farsi forza a vicenda. Il giorno prima erano perfino riusciti a lavarsi, la notte.

Era stato lungo e penoso per entrambi, ma nessuno dei due poteva resistere oltre: Derek l’aveva aiutato ad alzarsi e si erano infilati nel piccolo bagno nella stanza approfittando del sonno dei soldati e si erano lavati; prima Derek, svelto ma con grande sollievo nonostante la doccia fredda, poi Stiles, dopo che il moro l’aveva aiutato a svestirsi. L’aveva aiutato anche a lavarsi perché i farmaci lo intontivano e la spalla era bloccata. L’aveva lavato con tutta la delicatezza possibile, stando attento a non fargli finire il sapone negli occhi mentre gli lavava i capelli o sui punti mentre risciacquava il suo corpo.
Una volta finito avevano valutato se rimettersi i vestiti sporchi, ma avevano sentito u leggero bussare e quando Derek aveva aperto la porta coltello alla mano avevano solo trovato dei cambi per loro. Li avevano studiati a lungo cercando di capire se potesse esserci qualcosa che potesse nuocere loro, ignorando la pelle d’oca provocata dal freddo. Alla fine li avevano indossati ed erano tornati a letto.

Quella mattina però il Sergente Lahey non era arrivato per farle l’interrogatorio di routine. L’informò sulla situazione del loro paese e di come l’opinione pubblica era insorta in loro favore; in tutto il paese c’erano proteste e marce per richiedere la condanna del generale per cui era stato istituito un processo.
Avevano ricevuto l’ordine di rimandarli in patria come testimoni. Sarebbero partiti nel pomeriggio.
I due si erano scambiati un’occhiata preoccupata, subito notata dal soldato che aveva chiesto spiegazioni. Titubanti, gli avevano raccontato di Samir e che non sarebbero partiti senza di lui, non avevano intenzione di lasciarlo in un posto che l’avrebbe lasciato morire.

Il rosso li osservò pensieroso, dandogli poco dopo una descrizione accurata della loro guida; i loro cuori sprofondarono, aspettandosi di sentirsi dire che era morto e avevano trovato il suo cadavere. Con loro sorpresa il sergente invece gli disse che c’era un ragazzo che girava intorno all’ospedale dalla notte precedente e che chiedeva di loro.
La sorpresa e la gioia sui loro volti fu una conferma sufficiente per il rosso che era il ragazzo che volevano così andò a recuperarlo all’ingresso.
Mezz’ora dopo Samir correva nella loro stanza piangendo per la felicità e parlando in un pashtun stretto a cui Derek non riusciva a stare dietro. Il sergente entrò poco dopo, ma ebbe la delicatezza che tutti e tre si calmassero prima di spronarli a prepararsi per la partenza.
Samir era stato più che efficiente nello sbrigare la lista delle cose da fare in caso di cattura: aveva consegnato le prove ai reporter loro amici, aveva venduto quello che doveva vendere e aveva donato quello che c’era da donare. Le uniche cose che aveva tenuto erano i documenti, le foto e i materiali informatici conservati nella borsa ai suoi piedi, prontamente controllata ma che si era rifiutato di lasciare ai soldati. Con quella borsa e quel ragazzo con loro non avevano più motivi per restare in Afghanistan.

---

Quando finalmente toccarono il suolo americano quasi ventiquattr’ore dopo, nessuno riusciva a contenere né la gioia né l’ansia, soprattutto dopo il terrore che il loro aereo fosse abbattuto durante il volo. Avrebbero presto ricominciato a temere per la loro vita, ma in quel momento l’euforia era tale ce non c’era spazio per altre emozioni: stavano per rivedere le loro famiglie.

Si trovavano in aeroporto di piccole dimensioni e ad aspettarli c’era un drappello di militari. Scesero dal velivolo circospetti, temendo che i soldati davanti a loro gli puntassero di colpo le armi addosso, ma non avvenne e loro si concessero di tirare un nuovo sospiro di sollievo.
Entrarono nella stanza per l’attesa degli arrivi coi loro scarni bagagli in mano e Samir al loro seguito che si guardava intorno stupito di ogni cosa. Derek e Stiles si scambiarono uno sguardo trepidante mentre facevano gli ultimi passi che li avrebbero portati nella sala principale; erano felici di essere a casa ma non sapevano cosa aspettarsi ed erano preoccupati per le loro famiglie. Non ci voleva un genio per capire che Deucalion avrebbe usato ogni messo per raggiungere i suoi scopi e se non poteva toccare loro nulla gli impediva di colpirli nei loro affetti. Probabilmente erano già sotto scorta nascosti sotto falsa identità se il sergente Lahey aveva fatto il suo dovere.

Svoltarono l’angolo sfiorandosi le mani, nel disperato tentativo di trovare un conforto almeno tra loro perché il ritorno era molto diverso da come l’avevano immaginato: faceva paura, faceva più paura che rischiare di essere ammazzati ad ogni missione. Eppure erano lì ad andare incontro a quello che li aspettava, soli se non per la persona che avevano accanto, come agnelli mandati al macello.
Si erano preparati a degli scenari orribili sull’aereo cercando di non farsi sentire da nessuno: si aspettavano un plotone d’esecuzione, sicari, una bomba, frotte di giornalisti nel migliore dei casi, ma non si erano preparati a quello che li aspettava.


Gridarono i loro nomi e corsero addosso a loro placcandoli; tolsero loro il fiato con la forza della loro strette e nessuno dei due ebbe il tempo per reagire, in meno di cinque secondi si ritrovarono il loro balia, sotto gli occhi spalancati di Samir.

«Derek!»
«Stiles!!»

Furono letteralmente travolti dall’abbraccio dei loro famigliari: il cantano fu quasi stritolato dall’abbraccio del suo migliore amico, mentre il moro si trovava a dover evitare di cadere a terra a causa di Cora e Malia che gli erano praticamente saltate in braccio incuranti della sua stanchezza e del loro peso. Vennero ricoperti entrambi di baci e lacrime, ma mentre il bruno poté godersi un po’ di più il suo amico, le ragazze dovette fare spazio a Laura che liberò Derek solo per dargli un pugno sulla spalla.

«Fratello scemo! Come ti è venuto in mente di far scoppiare questo casino senza dirmi nulla?!» sbottò per poi soffocarlo in un abbraccio che gli fece scricchiolare le costole.

Lo lasciò andare solo quando il moro implorò pietà.

«E questo chi è?» chiese notando Samir.

Tutti quanti si voltarono verso di lui, che si ritrovò ad essere scrutato da quattro paia di occhi. Il ragazzo arrossì e abbassò lo sguardo, torturandosi il bordo del maglione che gli avevano dato prima di partire. Derek e Stiles si scambiarono un’occhiata capendo istantaneamente cosa avevano in mente e cosa volevano fare.

«Lui è Samir, la sola ragione per cui siamo riusciti a tornare a casa» iniziò ad elogiarlo il moro, seguito a ruota da Stiles.
«Senza di lui non saremmo mai sopravvissuti, ci ha salvato la vita!»
«Chi ha fatto da guida, ha cucinato per noi»
«Ha trovavo i contatti, ci ha passato le informazioni!»
E continuarono. La lista si allungava e il viso del ragazzo si faceva sempre più rosso, mentre Laura lo guardava coprendosi la bocca con una mano.

«Devo ringraziarti per averci riportato questi due scemi, lascia che ti ringrazi e che ti dia il benvenuto!» trillò aprendo le braccia per stringerlo, ma si bloccò a metà ricordandosi che la sua cultura era diversa e che forse non era il modo adatto di esprimere la sua riconoscenza. Interdetta si voltò verso il fratello e gli chiese come avrebbe dovuto comportarsi.

«Siamo in America» intervenne il ragazzo ancora rosso in viso «Fallo alla maniera americana» disse nel suo inglese tentennante.

La ragazza spalancò gli occhi per la sorpresa, ma non se lo fece ripetere due volte: l’abbracciò stretto ricoprendolo di ringraziamenti. Il ragazzo non poteva essere più rosso ma restituì il gesto.

«Bentornati a casa»

La voce setosa della madre di Derek li fece voltare con il sorriso sulle labbra; Talia Hale stava davanti a loro, affiancata da Peter, suo fratello, e dal padre di Stiles, Noah. Stiles non si trattenne oltre e si buttò nelle braccia del padre nascondendo il viso nell’incavo del collo; tutti e due piangevano di gioia. La donna invece avanzò verso suo figlio che l’attendeva con gli occhi lucidi. Lei gli prese il volto tra le mani e sussurrò, egualmente commossa: «Ti aspettavo, Raggio di sole»

Derek chinò il capo verso la madre che gli diede un bacio in fronte, su cui lasciò una traccia di rossetto.

«Mamma!» la voce di Laura interruppe il loro momento, poi la ragazza le trascinò davanti Samir. «Questo ragazzo gli ha salvato la vita! Non possiamo lasciarlo andare via!» esclamò tenendolo per mano.

Il ragazzo era ancora rosso e si vedeva perfettamente nonostante l’abbronzatura. Talia si chinò su di lui e gli posò un bacio sulla fronte.

«Benvenuto in America, Aizizi»

Al sentirsi chiamare con quel vezzeggiativo il ragazzo si sciolse in lacrime per essere prontamente confortato dalla donna che poi lo guidò verso i taxi, con Laura al seguito che gli accarezzava la schiena. Malia e Cora raccolsero le loro borse e corsero a caricarle nel baule mentre Noah, e Peter andavano a stringere la mano al sergente Lahey e ringraziarlo del lavoro svolto.
Restavano solo Derek e Stiles nella hall deserta di quel minuscolo aeroporto.

Le loro mani si cercarono e si trovarono, intrecciandosi strette. Si guardarono negli occhi mentre un dolce sorriso si allargava sui loro volti.

«Quindi… Siamo finalmente tornati a casa» mormorò Stiles con gli occhi che si facevano lucidi di nuovo.

«Siamo a casa» gli rispose Derek chinando il capo e facendo incontrare le loro fronti.

Le labbra di Stiels tremarono, e le lacrime di gioia cominciarono a scendere dai suoi occhi; Derek diminuì ancora la distanza tra i loro volti e prese a sfregargli il naso col suo, con dolcezza. Anche il moro aveva gli occhi lucidi e la vista era offuscata dal velo di lacrime; non ci sarebbe voluto molto prima che anche le sue cominciassero a bagnargli le guance. Le prime caddero nel momento in cui chiudeva gli occhi per assaporare meglio il bacio e le labbra di Stiles.

Erano finalmente a casa.



Angolo Autrice

Gente questa OS è stato un parto e non sono nemmeno riuscita a vincere la scommessa con Alison. Spero vi piaccia, io vado al cinema intanto.
Grazie mille a chi mi segue e ha creduto in questa mia follia, vi adoro. Benedizioni e Biscotti per chi ha recensito lo scorso capitolo <3
A quando resuscito.
Bye!

Aggiornamento: sono tornata dal cinema, il film è stato una figata e per me si potrebbe tranquillamente candidare agli oscar. Stranamente sembra che il capitolo non sia apparso, periò ritento. Pregate per me(ds)

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Capitolo 4
*** I'll be there for you ***


Personaggi - Derek, Stiles
Coppia - Slash
Rating - giallo
Genere - triste, romantico
Note - ///
Dedicata a NAKIA, che ha fornito la fanart e attende questa storia da mesi.



I'll be there for you

 
 
 

“I’ll be there for you/ When the rain starts to pour/ I'll be there for you/ Like I've been there before”

Sentire quella canzone uscire da un locale mentre un cliente entrava gli fece stirare le labbra in un sorriso amaro.
Era l’intro del suo show preferito e sentirla ora era solo ed emarginato era davvero una presa per il culo, grande almeno quanto veder partire l’ultimo autobus per la stazione; il tutto mentre un tuo compagno di tirocinio si sporgeva dal finestrino sul retro del bus per fargli il dito medio.
Aveva corso fino a sentire i muscoli delle gambe bruciare e i polmoni supplicare per avere più aria, ma era stato inutile. Il bus era partito senza che quello stronzo non facesse nulla per fermare il conducente. Era rimasto a guardarlo andare via a spalle basse, incredulo e tradito. Non avrebbe dovuto sentirsi così, ormai doveva accettare il fatto che non fosse il benvenuto da nessuna parte; non lo era stato alle superiori, non lo era ora allo stage con l’FBI.

“Stupido imbecille, ancora ci speri che ti siano amici? Piantala di fare il coglione e smetti di sperare in qualcosa d’impossibile”

Non era la prima volta che i suoi compagni si comportavano in modo crudele con lui: gli avevano versato la colla nella cartella, gli avevano nascosto il badge, i pranzi e gli appunti sui casi. Non gliene lasciavano passare una, anche a discapito delle persone che dovevano aiutare: giusto quel pomeriggio, quando dovevano lavorare in gruppo su un caso riguardante una morte per sospetto fuoco amico, lui era rimasto con il figlio di uno dei testimoni, che era spaventato da quanto accaduto. Non avevano fatto altro che prenderlo in giro ed escluderlo. Lui non se ne era risentito più di tanto, sapeva come andavano le cose con loro, ma il bimbo era scoppiato a piangere perché “erano stati cattivi come l’uomo che aveva sparato”. Inutile dire che l’indagine aveva fatto un notevole salto in avanti grazie a lui, così come l’odio dei suoi compagni nei suoi confronti.
Quella sera si era fermato a lavorare al caso, coi federali; non lo prendevano in giro come i suoi compagni, ma nemmeno lo ritenevano all’altezza del ruolo che voleva andare ad occupare. Era stato però quasi rilassante lavorare senza che qualcuno lo spintonasse o gli mettesse i bastoni tra le ruote.
Dalle labbra gli sfuggì l’ennesimo sospiro nel vedere l’autobus, l’ultimo, sparire in fondo all’isolato.

---

Era già un ora che camminava e i piedi cominciavano a fargli male.
Certo, avrebbe potuto prendere potuto prendere un taxi, ma poi avrebbe dovuto saltare almeno due pasti e farne uno a base di cracker, ketchup e acqua di rubinetto: non aveva abbastanza soldi, non ne aveva mai; la città era molto più cara di quanto si aspettassero lui e suo padre.
Aveva tagliato tutte le spese il più possibile: si era spostato in un appartamento minuscolo, in cui l’acqua calda non funzionava mai e la connessione internet non arrivava; faceva la spesa in posti sotto marca e la sera non usciva, mangiava solo a casa. Eppure non era sufficiente lo stesso.
Il tirocinio non era retribuito e non voleva chiedere altri soldi a suo padre, ne stava già spendendo troppi per lui.

Così fingeva.

Fingeva coi suoi amici e fingeva con suo papà, una sera sì e una no, quando si chiamavano con Skype, sui soldi, su come viveva e sui suoi compagni di stage. Non provava rimorso nel farlo, non voleva che il suo vecchio si preoccupasse ancora più di quanto già non facesse.
Cosa avrebbe potuto fare poi? Portarlo a casa o andare a parlare coi responsabili del tirocinio? No, grazie, era già abbastanza difficile ottenere il rispetto dei suoi compagni senza che dovesse passare per il lagnoso che ha bisogno di fare la spia alla maestra. L’unica cosa che importava era finire lo stage e finirlo bene, in modo da farsi un buon nome nel dipartimento.
Perciò continuava a mentire. A suo padre, a Scott quando lo chiamava, a se stesso ogni mattina quando si guardava nello specchio sbeccato e opaco del bagno. Si ripeteva sempre che quel giorno sarebbe andato meglio, ma nemmeno lui ci credeva; lo diceva ad alta voce per convincersi, ma la voce nella sua testa gli sussurrava che non sarebbe cambiato nulla, che l’unico cambiamento sarebbe avvenuto quando sarebbe arrivato al punto di non ritorno. Era spaventato a morte da quella voce.
Usciva di casa spaventato e lo restava finché non si immergeva nei casi che venivano sottoposti agli stagisti. Come però doveva tornare a casa o quando qualcuno lo maltrattava la paura tornava e si chiedeva continuamente quando avrebbe raggiunto questo punto di non ritorno e cosa avrebbe fatto in quel momento. Ogni volta che si specchiava e vedeva che i suoi occhi erano sempre meno luminosi o accettava con rassegnazione una nuova cattiveria non poteva che chiedersi quanto tempo gli restava prima di varcare quel confine.
Gli sembrava che gli togliessero la voglia di vivere un poco alla volta. La gioia di essere vivo l’aveva persa anni fa.

“Non vali niente”

Quel pensiero lo colpiva d’improvviso, nei momenti più in aspettati, e per quanto si dicesse che non era vero, che aveva degli amici che gli volevano bene, cominciava a crederci.
Sentì qualcosa sfiorargli il viso, ma non ci fece caso e continuò a camminare; qualsiasi cosa fosse non gli avrebbe fatto più male di quello che gli stava passando. Avrebbe voluto stare meglio di come stava a casa, era fuori dalle superiori, lontano chilometri da tutte le sfighe di Beacon Hills eppure il suo stato d’animo non era cambiato. Sempre cupo, sempre più spento, sembrava che la scuola superiore l’avesse seguito fin dentro l’edificio dell’FBI, con tutte le sue dinamiche e le sue bassezze.
Però non aveva intenzione di tornare a casa: era lì perché se lo meritava, era lì perché voleva diventare un agente FBI. Non poteva farsi fermare da questo. C’erano persone che avevano passato molte cose peggiori, lui non aveva il diritto di rinunciare solo per qualche cattiveria.
Se solo avesse avuto qualcuno con lui però…
Era così difficile resistere a tutte quelle cattiverie da solo, senza nessuno che sapesse, senza che nessuno gli dicesse “Non ascoltarli, tu sei importante. Tu ce la farai”, senza qualcuno che credesse in lui e che raccogliesse i pezzi quando tornava in quel buco d’appartamento in cui dormiva.
Di nuovo qualcosa gli sfiorò il viso e il suo cervello gli disse che arrivava dal cielo, ma nemmeno stavolta guardò in alto: in quella città, che fosse giorno o notte non faceva differenza, il cielo era sempre coperto dai fumi dello smog, conferendole un colore grigiastro in cui era impossibile distinguere pressoché nulla.

Continuò a camminare, coi piedi che si lamentavano ad ogni passo. Mandavano fitte come d’aghi e Stiles sospirò cominciando a procedere un po’ zoppo: aveva le scarpe dell’uniforme, quelle che gli facevano male se le portava tropo a lungo e gli erano sicuramente venute le vesciche. Avrebbe desiderato tornare a casa e trovare qualcuno che gliele sfilasse, gli mettesse i piedi in una bacinella d’acqua per poi medicarglieli, ma non ci sarebbe stato nessuno e a lui restava solo la dolorosa sensazione dello sfregamento della pelle viva conto la scarpa.
La sensazione di essere sfiorato aumentò e si espanse e tutto il corpo; in meno di un minuto si trovò sotto una pioggia scrosciante, ma non si mosse per trovare riparo. Si fermò in mezzo alla strada e fece un grosso sospiro: quella era solo l’ultima delle cose brutte di quella giornata. Una in più o in meno non faceva differenza.
Era già fradicio e, per quanto cercasse di non farci caso, sentiva una morsa stringersi sempre di più intorno alla sua gola mentre il cuore cominciava a battergli furiosamente.

“Non importa, è solo un’altra sfiga. Solo un’altra sfiga. Solo un’al-”

Sapeva che stava per piangere.
Sapeva che stava per piangere e stava facendo il possibile per non farlo, anche se nessuno se ne sarebbe accorto con quella pioggia, anche se non c’era nessuno che potesse notarlo.
Cerco di concentrarsi su altro mentre la pioggia continuava a cadere indifferente, era fermo in mezzo alla strada che si guardava intorno cercando di ricacciare indietro le lacrime.

“I muri degli edifici sono sporchi di smog, ricoperti di graffiti e vecchie pubblicità. Si sta formando un rigagnolo accanto al marciapiede. Non passano auto e le tre serrande alla mia destra sono abbassate, il negozio di elettrodomestici è fallito un mese fa. Più avanti c’è un insegna luminosa, forse di un bar. E-”

La pioggia si fece così fitta che non riusciva a vedere più in là del suo naso. Era di nuovo costretto solo coi suoi pensieri, fradicio ed isolato da quella cortina d pioggia che sembrava essere scesa su di lui e apposta per lui.
Con una fitta al cuore di nuovo tutti i brutti pensieri e le brutte sensazioni esplosero nella sua testa: gli sembrava di aver preso solo scelte sbagliate nella sua vita, si sentiva inutile, superfluo, se non di troppo. Il mondo non aveva bisogno di lui; il mondo non aveva bisogno di un altro incapace.
Perché avrebbe dovuto combattere per sé stesso allora? Nessuno lo voleva, era solo di peso e fonte di preoccupazioni per tutti. Nessuno era mai stato sereno stando al suo fianco. Era colpa sua se Scott era stato morso, aveva trascinato tutti in quella spirale discendente che era il mondo sovrannaturale. Cosa avrebbe combinato se fosse entrato all’FBI? In quali casini avrebbe trascinato le persone che gli stavano accanto?
Lo scosse un tremito di dolore e paura: non voleva cedere a questi pensieri, voleva sentirsi importante, voleva sapere che aveva fatto la scelta giusta e che c’erano persone che avevano bisogno di lui, ma era così difficile senza nessuno a dirglielo. Era così solo che gli sembrava di annegare in quella disperazione.
Aveva bisogno d’aiuto, lo sapeva, ma non riusciva a chiederlo; aveva bisogno d’aiuto come se fosse aria, ma non sapeva a chi chiedere.

«Stiles?»

Il ragazzo sussultò nel sentirsi chiamare per nome; erano mesi che nessuno lo chiama con quel nomignolo affettuoso. Per tutti era “sfigato”, “impedito” o nel migliore dei casi “Stilinski”. Non riconosceva la voce però. La pioggia confondeva i suoni.

«Stiles! Che cazzo ci fai sotto la pioggia?! Vieni qui o ti bagnerai fino all’osso!» ancora quella voce e ancora non riusciva a capire chi fosse o tantomeno da dove provenisse.

Tutto intorno a lui era una cortina di pioggia fitta, che cadeva in goccioloni e lo bagnava come un pulcino.
Poi realizzò cosa stava succedendo. Con un sospiro rilassò i muscoli, tesi e pronti a scattare nel momento in cui avesse capito da che parte arrivava la voce che lo chiamava.
Non c’era nessuna voce, era tutto nella sua testa.

“Sto avendo delle allucinazioni” si chiese con un sorriso amaro “Ho raggiunto il punto di rottura?”

Crollò le spalle esausto, di nuovo deluso dalla vita. Era sfiancate il modo in cui quella puttana si prendeva gioco di lui e delle sue speranze. Si divertiva ad illuderlo solo per poi strappargli via ogni possibilità di felicità.
E lui era stanco di quel gioco crudele, lui era stanco di provare e sperare.

«Stiles! Levati dalla strada!»

Non si mosse.

Che lo investissero pure, tanto non sarebbe passata una sola auto in quel vicolo, se l’avesse fatto sarebbe stata quasi una gradita sorpresa; l’avrebbe apprezzata solo per il gusto di essere di nuovo fregato dalla vita.

«Stiles! Ma che cazzo!»

Ancora quella voce che proveniva da ogni luogo e da nessuno.

Il ragazzo chiuse gli occhi e attese, immobile al centro della strada; attendeva che la voce se ne andasse o attendeva un auto. O solo la fine della pioggia.


Non lo sapeva, l’unica cosa che faceva era aspettare, con le spalle incurvate per il peso delle speranze infrante e gli occhi chiusi rivolti al suolo.


A riscuoterlo fu un rumore.

Passi.

Sentiva dei passi avvicinarsi a lui, in fretta, nonostante il rumore della piaggia.

Subito si fece attento e spalancò gli occhi: era solo e qualcuno si stava avvicinando a lui.
Il suo corpo si mosse più velocemente della sua mente: dopo tutte le volte che si era trovato in pericolo la sua risposta fu automatica.

“Chiedi aiuto. Trova un negozio. Levati dalla strada” procedura standard per evitare di prenderle.

Si guardò intorno, ma la pioggia era così fitta che non riusciva a vedere niente che potesse aiutarlo; assurdamente sentiva i passi avvicinarsi con una chiarezza incomprensibile data la situazione.

Si stava avvicinando e lui era indifeso.

Disperato, si focalizzò sui passi per sapere almeno in che direzione scappare.

Era davanti a lui, verso destra.

Si concentrò in quella direzione, sforzandosi di vedere qualcosa ed effettivamente qualcosa vide: nella cortina di pioggia cominciò a distinguere un’ombra scura che gli si avvicinava, a mezza corsa.

Era impietrito nel guardarla. Sapeva che avrebbe dovuto abbandonare la borsa e scappare o almeno prepararsi a difendersi, ma riusciva solo a stringere la cinghia e ad osservare l’ombra che avanzava.
La curiosità sembrava vincere sul suo buon senso: voleva sapere chi lo stava chiamando.
Mancavano pochi metri ormai.

«Stiles!»

Stavolta non era un grido, era abbastanza vicino per farsi sentire; abbastanza vicino per essere riconosciuto.
Il ragazzo lasciò cadere la borsa a terra e si mise a correre mentre il cuore gli esplodeva nel petto. Il giovane non si fermò, anzi accelerò il passo. Istintivamente aprì le braccia per accoglierlo e Stiles ci si tuffò dentro, senza remore; fu subito avvolto da un abbraccio e subito gli sembrò di poter di nuovo respirare e vivere, ma non bastava, non era abbastanza.

«Stiles, co-»


 

Artista: non reperito



Le labbra del castano furono sulla bocca del giovane prima che entrambi se ne rendessero conto, ma lui non lo respinse; assecondò il bacio, lasciando che il ragazzo si aggrappasse a lui come se fosse la sua unica salvezza.
Come aveva visto il giubbotto di pelle e gli occhi verdi del giovane il suo cervello aveva smesso di pensare. L’unica cosa che riusciva a capire era che non era più solo, c’era una persona amica con lui. C’era una persona amica e voleva starle vicino come mai prima d’ora.
Il fatto che fosse innamorato di lui da oltre un anno era secondario.
Dopo tutte le brutture e le cattiverie subite aveva un bisogno d’amore così disperato che non gli importava nemmeno di rendere palesi i suoi sentimenti; voleva solo stare bene, anche solo per un minuto.
Voleva essere felice e la sua felicità era in quelle labbra.
Erano bagnate, screpolate e la barba gli pungeva la pelle delicata del viso, ma in quel bacio gli sembrava di tornare finalmente a respirare dopo mesi d’apnea. Il suo cuore finalmente batteva al ritmo della sua gioia.
Si separarono pochi istanti dopo, con delicatezza, e il giovane lo guardò corrucciato; la consapevolezza di ciò che aveva fatto colpì Stiles come un pugno allo stomaco. E se stesse per respingerlo? Il cuore gli scese nello stomaco e il terrore gli entrò in corpo, ma la disperazione e il desiderio di essere felici erano più forti.

«Stiles che succede?» chiese il moro confuso.

«Derek, ti prego, baciami e basta» supplicò con la voce già rotta.

Bastò un secondo.
Il secondo più lungo della vita di Stiles.
 

Le labbra del giovane furono di nuovo sulle sue. Una mano scese sulla sua schiena per stringerselo di più contro, mentre l’altra si perdeva nei capelli della nuca. Stiles si aggrappò alle sue spalle con la forza della disperazione e gli si spinse contro alla ricerca del conforto, dell’amore, tanto desiderato.
Non fece domande, Derek. Non fece domande e lo baciò come se da quel bacio dipendesse la sua vita. Delicato, sensuale, innamorato, c’era così tanto che quel bacio diceva di lui.
Diceva “Mi sei mancato”, diceva “Sono preoccupato per te”, diceva “Sono innamorato di te”.
 

Aveva finito un altro giorno di stage, aveva perso l’ultimo bus e aveva camminato per ore; aveva le vesciche ai piedi e la persona di cui era innamorato tra le braccia.
Non importava a nessuno che la pioggia li avesse inzuppati.





Angolo Autrice
Hola, Grazie a tutti per la vostra pazienza, non sono buona a tenere più storie in contemporanea, ma ci sto provando; almeno per queste procedo a forza di OS, così non vi lascio cool dubbio (anche se questa si presterebbe ad un secondo capitolo... ma serve la giusta fanart)
Ancora tre fan art alla riapertura delle richieste. tre e mezzo  e mezzo, va': ho due OS messe scritte e qualcuno potrebbe venire ad aspettarmi sotto casa se non mi sbrigo a pubblicarle. Sono spaciatissima.
Detto ciò, ringrazio tutte voi splendide persone che mi avete seguito, recensito o inserito tra i preferiti; so che la stoprendendo molto lunga con questa raccolta, ma il mio lavoro principale al momento è "Legacy of the Nemeton". Un grazie speciale a Nakia e a tutte le altre persone che aspettano le lero storie, ho i plot pronti, non temete ;)
Con tanto ammmore, ci si vede lì o appena scrivo la nuova oOS.
Grazie a tutti per il vostro sostegno,
Bye ♥

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Capitolo 5
*** Sorry ***




Personaggi - Scott, Stiles
Coppia - ///
Rating - verde
Genere – comico, malinconico, slice of life
Note – Missing moments
Avvertimenti - ///


Dedicata a Zoey Charlotte Baston, che ha fornito la fanart e attende questa storia da eoni.
 
 
Sorry


 
Avevano passato la luna piena da una settimana, destreggiandosi tra Scott fuori controllo, Derek che si comportava come al solito e un Alpha folle che aveva tentato di portare la madre del suo migliore amico fuori a cena.
O a farle del male.
Per fortuna non l’avrebbero mai scoperto.
 
Era passata una settimana da quando Lydia aveva baciato Scott.
Era passata una settimana da quando il ragazzo le aveva permesso di baciarlo.
Stiles sentiva la gelosia e l’invidia pungergli il cuore ogni volta che ci pensava.

“La ragazza che mi piace e il mio migliore amico… sembra la trama di un dramma per adolescenti” pensò mandando il bruno K.O.

«Oh, andiamo!» sbottò il ragazzo gesticolando verso lo schermo della TV «Come mai ad essere ancora più bravo di me?!»

Si erano trovati dopo scuola come al solito, per stare insieme e dimenticare per un po’ tutte quelle assurdità che stavano capitando loro. Non c’era nulla di meglio di un film o di un videogioco per allontanare i brutti pensieri per un po’.
L’aveva appena battuto per la quinta volta di fila a Soul Calibur.

«Sono io quello coi riflessi più sviluppati, questi poteri mannari non servono a nulla!» sbottò irritato da quell’ulteriore sconfitta.

«Per la centesima volta Scott, in questo gioco contano le combinazioni di tasti, non la velocità con cui li premi» ribatté lui.

Il ragazzo accanto a lui sbuffò e si abbandonò contro il divano mentre lui gli regalava il suo miglior sorriso di sufficienza. Il bruno mugolò la sua frustrazione e si lasciò scivolare a terra.
 

Erano passati sette giorni da quando aveva ammanettato il suo migliore amico al termosifone per impedirgli di fare del male a qualcuno.
Erano passati sette giorni da quando l’aveva trattato come un cane solo per sfogare la rabbia che sentiva.
Già mentre versava l’acqua nella ciotola si sentiva una persona meschina e spregevole, ma non si era fermato. Come era uscito dalla porta il senso di colpa gli era piovuto addosso riempiendolo di disgusto per se stesso.
Aveva comprato quella ciotola per farsi due risate con lui, Scott aveva sempre saputo prendersi poco sul serio a differenza sua, e invece aveva finito per usarla per ferirlo.
Le suppliche del ragazzo non avevano fatto poi altro che peggiorare i suoi sensi di colpa.
Non si erano più chiariti: Scott era scappato, poi c’erano stati quegli attacchi e tutto si era fatto frenetico. Avevano dovuto salvarsi la pelle e non avevano trovato il tempo di fare pace.
 
Per la verità, probabilmente Scott l’aveva perdonato, era fatto così. Non lo trattava in modo diverso da prima e non aveva mai accennato né a Lydia né al modo in cui l’aveva trattato, ma Stiles non bastava. Voleva mettere le cose in chiaro e togliersi quel peso dal petto.
Solo che dire “Scusa” e basta gli sembrava troppo poco, così aveva preparato un regalo.
 
«Cambiamo gioco» sbuffò il bruno dal pavimento.

Il castano annuì e si avvicinò alla pila dei suo dischi, cercandone uno con la modalità multigiocatore.

«Sicuro di non volerti togliere quella felpa? C’è un caldo che si muore» borbottò il suo migliore amico da dietro la sua schiena.

«No, sto bene» rispose Stiles sforzandosi di trattenere un sorriso e di non farsi tradire dal suo cuore «Preferisco tenerla»

Scott fece spallucce, lo vide nel riflesso del televisore. Controllò che la zip fosse ben chiusa e sorrise al pensiero del suo piano; quando si voltò verso Scott era calmo e teneva in mano “Gran thief auto”. Il viso del bruno s’aprì in un sorriso.
 

~♦~
 

Era sera e loro avevano cenato con una pizza, ma avevano chiamato per un nuovo ordine: lo stomaco da mannaro di Scott si lamentava e chiedeva altro cibo. Stavano guardando “Megamind” per l’ennesima volta, perfino ridendo alle stesse battute.
Ogni tanto Stiles si voltava ad osservare il bruno, chiedendosi se fosse il momento giusto per chiedere scusa; era tutto il giorno che ci provava e succedeva sempre qualcosa che glielo impediva: il postino bussava, qualcuno chiamava a casa, suonava qualche evangelizzatore (a cui il castano aveva aperto indossando la maglia col pentacolo per abbreviare la visita), poi era stato il turno di Scott di essere chiamato al cellulare e a lui mancava il coraggio. Soprattutto a lui mancava il coraggio.
 
Erano arrivati al momento in cui Megamind fa la sua entrata in scena sulle note di “Welcome to the jungle” quando di nuovo suonarono alla porta.
Scott fece un profondo respiro e si voltò di lui con gli occhi che brillavano di felicità.

«Pizza» spiegò il bruno per poi scattare verso l’ingresso col portafoglio in mano.

“Perfetto, è il tuo momento Stiles. Ora o mai più”

Il castano svelto recuperò un pacchetto nascosto sotto il divano e lo sistemò dove era seduto il suo migliore amico solo due secondi prima: era il regalo di scuse e tornando a sedersi, pregò di riuscire a fare pace.

Il ritorno di Scott fu anticipato dal rumore allegro del suo passo e dal profumo di pizza al salame piccante. Stiles rimase in mobile sul divano come se si fosse appena tramutato in statua.

«Dio benedica la pizza e chi l’ha cr-» Scott si zittì come vide l’involto e si voltò verso di lui, accigliato «E quello cos’è?» chiese accennandoci col capo.

Stiles, muovendo solo gli occhi, smise di guardare lo schermo e mise in pausa il film.

«Dovresti aprirlo e scoprirlo» gli suggerì incrociando il suo sguardo.

Il suo cuore già lo tradiva aumentando il suo battito e la faccia da poker che aveva tentato di tenere era inutile, così come il fingere di non essersi mai mosso. D’altra parte chi avrebbe potuto mettere lì quel regalo se non lui? Il suo comportamento era stupido e infantile.
Scott lo guardò con una smorfia di disappunto sul viso, ma posò la pizza e raccolse il pacchetto sotto lo sguardo nervoso del suo migliore amico.
Il bruno sfilò il biglietto che il suo amico aveva infilato nel nastro e lo lesse. Non aveva scritto altro che “Sorry” con uno smile triste, ma Scott si voltò verso di lui con l’espressione di chi non capiva.

«Scusa per cosa, Stiles?» chiese in uno sospiro «Non hai nulla da farti perdonare… aspetta, è qualcosa che hai fatto e che io ancora non so? Ti prego dimmi che non mi hai iscritto ai corsi che frequenta Allison perché ti giuro che-»

La risata del suo amico interruppe il suo fiume di parole e lo lasciò stupito e spaventato in attesa di una spiegazione.

«No, non l’ho fatto» disse il castano con una risatina; Scott fece un sospiro di sollievo ma tornò subito serio.

«E per cosa allora?»

«Per la ciotola. Per averti legato al termosifone. È successo solo sei giorni fa, dovresti essere ancora furioso con me.» spiegò con un sorriso carico di rimorso. «Sei troppo buono Scott» aggiunse guardandolo negli occhi.

«Io non sono troppo buono!» sbottò il mannaro in tono offeso, ma al suo amico sfuggì un sorrisetto che la diceva lunga.

«Scott, non torceresti un capello a Jackson anche se ora potresti, coi tuoi poteri di mannaro. Nemmeno lo umili in campo! Non lo fai apposta almeno…» di nuovo Stiles ridacchiò «Sei io potessi gli farei ingoiare un bastone da lacrosse di traverso! Sei davvero troppo buono»

Il bruno sospirò e tornò a guardare il pacchetto senza dire nulla.

«Però io mi meritavo le tue cattiverie!» sbottò alla fine tornando a guardare Stiles.

«Cos- No! Scott, tu non saresti mai andato a cercare Lydia apposta per baciarla, credo di avertela fin fatta odiare a forza di parlartene… e lei l’ha fatto solo per ferire Jackson. O per aiutarlo.» borbottò cominciando a parlare tra sé «Magari voleva mandarti nel pallone e farti fare brutta figura, quella ragazza ha un modo davvero strano di ragionare e risolvere le cose…» proseguì con lo sguardo perso.

«Ma-»

«E poi tu non eri in te» lo interruppe il castano «eravamo quasi alla luna piena, è già tanto che tu non abbia sventrato qualche coniglio tornando a casa…» borbottò con una smorfia e sprofondando nel divano.

«Ma non c’era bisogno di farmi un regalo!» protestò il mannaro.

Per tutta risposta Stiles fece spallucce.

«Bastava chiedere scusa, e in ogni caso ti avevo già perdonato il giorno dopo» insistette lui con una smorfia.

«Lo immaginavo, ma non mi sembrava abbastanza» ammise il castano «Perciò vuoi farmi il favore di accettare questo regalo come simbolo delle mie scuse?»

Scott non si mosse di un millimetro, tento che fece sbuffare il suo migliore amico.

«Avanti, di’ qualcosa! Vuoi che te lo chieda in ginocchio?» e già fece per alzarsi, ma il bruno scoppiò a ridere e annuì: accettava le sue scuse e lo perdonava.

Con uno sbuffo divertito prese a scartare l’involto e Stiles si sistemò meglio per godersi la scena.
Quando finalmente la carta fu sul pavimento, Scott osservò il regalo del suo migliore amico: si trattava di una maglietta. Il bruno si fermò a leggere la stampa senza dire una parola.

«Stiles…» sussurrò con un tono che voleva essere irritato ma aveva sotto una risata.

Il castano prese a ridacchiare e si abbassò la zip della felpa, sotto lo sguardo esasperato e arreso del mannaro.

«Non poteva essere una cosa seria» rispose alzandosi in piedi con un sorriso soddisfatto.

Il bruno in tutta risposta alzò gli occhi al cielo con un gemito esasperato, ma sorrideva; fu allora che Stiles scoppiò a ridere e sentì il peso che aveva sul cuore scomparire.


 


Angolo Autrice
Ovviamente, io non riesco a stare lontana da prompt, storie e EFP. Ottimo.
Vorrei innanzitutto ringraziare 
Zoey Charlotte Baston per per partecipato e vi comunico con gioia che LE RICHIESTE SONO APERTE!
Ovviamente chi non ha mai inviato fanart avrà la prcedenza e poi ho in serbo due/tre speciali che posterò quando sono a corto di fanart. (spero in un po' di femslash o het perchè ormai mi sono dimenticata come scriverli. Ma voi fate quello che vi pare, mi raccomando)
Dal prossimo capitolo la storia passerà a rating ROSSO, per motivi ben comprensibili, visto che la prossima mosaic sarà una delle storie speciali. Mi raccomando, leggete le note ad inizio capitolo, quando pubblicherò la prssima OS.
Detto ciò, ringrazio con tutto il cuore chi partecipa o parteciperà a questo progetto, chi legge, chi segue e chi recensisce. É meraviglioso potersi confrontare con voi.
Tortellini, ci si sente presto spero.
Bye!♥

 

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Capitolo 6
*** Oh Darling, what have I done? ***


Angolo Autrice
Questa storia è nata da un sogno e è stata scritta principalmente per un’amica come una follia estemporanea, perciò prendetela come tale.
Detta amica ha poi insistito (minacciandomi) perché la rendessi pubblica. Ringraziate lei pe questa storia.
Si parla di tematiche delicate e ho cercato di affrontarle col dovuto rispetto, tuttavia se qualcuno dovesse ritenere che questa storia violi il regolamento di EFP o sia poco rispettosa delle tematiche trattate o se sono presenti troppi particolari morbosi, è pregato di farmelo notare e provvederò a censurare o eliminare questa storia.
So che tra voi c’è chi non ha compiuto i diciotto anni perciò vi prego di saltare questa storia, non credo sia adatta a voi.
Per chi dovesse decidere di recensire questa storia: vi prego siate brutali. Non fate passare una delle mie mancanze come autrice.

 
 
Personaggi - Derek, Stiles, Void, Nuovo Personaggio
Coppia - sterek
Rating - rosso
Genere – Angst, Drammatico, Erotico
Note – ///
Avvertimenti – Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate, Violenza
 
 
Dedicata a Allison_Kaiser che ha condiviso con me il suo sogno ed è mia fonte d’ispirazione

 
 
Oh Darling, what have I done?
 

 



«Smettila. Fermati» gemette Derek a mezza voce.

«No» gli sussurrò il ragazzo all'orecchio.

«Sto solo realizzando i suoi sogni... E pure i tuoi» aggiunse spingendosi di nuovo dentro di lui, con un movimento deciso del bacino.

Il respiro di Derek si spezzò per il piacere e il mannaro fu costretto a cercare il sostegno del terreno perché gambe e braccia non riuscivano a reggerlo, i suoi sensi erano offuscati dal piacere che provava.

«Fermati. Non voglio te» e avrebbe aggiunto altro, ma un dito gli scivolò sulla lingua.

Era salato, aveva il sapore del suo piacere sopra.

«Tu non mi vuoi, ma non avresti mai il coraggio di chiedere all'altro...» di nuovo affondò dentro di lui facendolo soffrire e godere insieme.

Gli artigli del mannaro segnarono il pavimento su cui era riverso e dalle sue labbra uscì un verso in cui si mischiavano dolore e piacere.

«Oh, se solo potessi vedere la sua faccia!» gli mormorò maliziosamente all'orecchio «Sta godendo come mai prima e sta piangendo, oh se sta piangendo! Gli spezza il cuore sentire i tuoi gemiti di piacere e sapere che sono io a farteli fare...» una risatina malevola e divertita raggiunse le sue orecchie, attraverso la nebbia dei sensi «Non mi sono mai divertito tanto a scopare qualcuno» di nuovo affondò e di nuovo, Derek, gemette.
 
~♦~
 
«Devo fare pipì»

«Ma non potevi farla in palestra?!»

Jessica gemette sconfortata: lei, Julia e Drew stavano tornando da una lezione di jujitsu massacrante; per di più era il suo turno di prendere la macchina e le toccava scarrozzare i due amici.

“Maledetto il giorno che ho preso la patente” pensò cominciando a cercare con gli occhi un posto dove il suo amico potesse andare in bagno. Tuttavia, non aveva potuto evitarlo: tutti loro abitavano in periferia che a momenti non era nemmeno servita dai mezzi pubblici. Figuriamoci poi se esistevano piste ciclabili! No, prendere la patente era stato necessario.

«Cazzo, Je! Fermati! Vado a farla in un vicolo!» gemette ancora il suo amico.

«Non riesci proprio a trattenerla?!» gli chiese esasperata; non voleva affatto fermarsi, voleva scaricare i suoi amici a casa, tornare alla sua, fare una doccia e infilarsi nel letto. Non chiedeva alto.

Quell’imprevidente del suo amico però aveva deciso di allungarle l’attesa. 

«Je, fermati perché questo è capace di fartela qui» sbuffò la sua amica accasciandosi sul sedile.

Jessica non disse nulla, si limitò a svoltare in una laterale e accostare sul ciglio della strada. Non fece nemmeno in tempo a spegnere il motore che Drew era già fuori dall’ abitacolo.

«Ma cazzo! Qua non c’è un bagno!» la lamentela del ragazzo le fece posare la testa sul volante.

“Dannato lui e dannato il suo bisogno di un posto tranquillo per concentrarsi”

«Non puoi farla nei cespugli per una volta?!»

“Grazie Julia, diglielo tu”

Da fuori venne solo un mugolio sofferente e esasperato.

«Senti, scendiamo e cerchiamo un posto dove possa farla così torniamo a casa.» esalò la ragazza alla fine aprendo la portiera.

Julia le andò dietro sbuffando, ma sapeva che quello era sicuramente il modo più veloce per tornare ciascuno al proprio comodo letto. Raggiunsero il ragazzo che aveva le mani aggrappate all’orlo dei pantaloni e si guardava intorno disperato: non c’era nemmeno l’ombra di un negozio a cui chiedere un favore.
Erano nella periferia della periferia, dove la città non è ancora campagna e il paesaggio è costellato di edifici quasi fatiscenti in cui non sai mai se ci viva qualcuno e debbano essere demoliti il giorno dopo. Intorno a loro c’erano costruzioni grigie in cemento armato che si alternavano a graziose casette in rovina, i cui giardini avrebbero fatto invidia alla foresta amazzonica, quelle in ombra almeno; le case orientate a sud avevano la savana africana prima della stagione delle piogge al posto del giardino.
Cominciarono a camminare vegliati da pali della telefono storti e lampioni che funzionavano ad intermittenza. La luce crepuscolare stava svanendo per lasciare il posto al buio notturno, ma nessuno dei tre era spaventato. Vagarono in quell’alternanza di giungle e savane per un po’, cercando d’indovinare se le case che spiavano senza dare nell’occhio fossero abitate o no. Molte avevano porte e infissi inchiodati con assi di legno per impedire a tossici e vagabondi di usarle come rifugio, andando a assottigliare le possibilità di trovare un angolino tranquillo per fare pipì.

«Cazzo non resisto più!» sbottò Drew, scavalcando una bassa staccionata «Rompiamo una finestra e facciamola in questa»

Jessica osservò Julia seguirlo, poi guardò la casa che avevano scelto il suo amico: era piuttosto grande e sembrava avere due piani, ma era molto malmessa, così come il giardino; la facciata, o meglio quello che poteva vederne, aveva macchie di muffa e crepe per nulla rassicuranti e lei sperò che il tetto non crollasse sulla loro testa. Era una delle poche case circondata da altri edifici con il cortile e, complice il giardino-giungla, Jessica aveva l’impressione di trovarsi in campagna.
Diede un ultima occhiata intorno a loro per vedere se qualcuno li stesse osservando, ma intorno a lei non c’era un’anima e le luci delle case intorno erano tutte spente.
Con un sospiro scavalcò anche lei la rete metallica ritrovandosi immersa nell’erba alta fino alla vita. Un altro sospiro e proseguì seguendo la traccia aperta dai suoi amici verso una macchia di alberelli scuri e contorti.
Aveva raggiunto Drew e Julia due minuti dopo, piena si ragnatele e foglie nei capelli; aveva pure avuto la sensazione di salire perciò si disse che la casa doveva essere stata costruita su un riporto di terra. Forse aveva una cantina o una taverna sotto.

I due stavano osservando le finestre sbarrate da pannelli di legno. Quando la ragazza si era voltata verso di lei aveva un sorriso divertito sulla faccia. “È tempo di mettere a frutto le lezioni di jujitsu” aveva detto prima di sferrare un calcio laterale alla tavola macchiata.
Il rumore era rimbalzato sulle pareti della casa vuota e in un primo momento li aveva bloccati sul posto. Poi dato che non arrivava nessuno, erano stati presi tutti dall’euforia di quella novità assurda. Avevano cominciato ad esercitarsi e a vedere chi sarebbe riuscito a spezzare il pannello.
Perfino Drew aveva dato un paio di calci, ma i bisogni fisiologici erano intervenuti e gli avevano impedito di tentare oltre.
Era stata Jessica a rompere il legno alla fine, con un calcio in cui aveva infuso tutta la frustrazione della giornata, dalle noiose lezioni dell’università alla mancanza di un letto sotto la sua schiena. Il rumore era rimbalzato sulle pareti con la stessa forza di un tuono e di nuovo erano tutti saltati indietro.
Davanti a loro si spalancava la finestra aperta sul buio che regnava all’interno dell’edificio. Era così scuro e denso che la ragazza per qualche istante credette di poter allungare la mano e poterne stringere un po’ nel pugno.

«Finalmente!» esclamò il suo amico riscuotendola.

Drew scavalcò svelto il davanzale prima che lei potesse solo formulare un pensiero coerente. Non riuscì nemmeno ad allungare la mano e afferrarlo per i vestiti e dovette vedere l’inquietante scena della felpa verde e dei capelli chiari fagocitati dal buio.

«Ehi…» Julia le si affiancò dandole una lieve spallata «Andiamo a curiosare anche noi?»

«E se invece lo lasciassimo pisciare in pace? Mmh? Così ce ne torniamo a casa a dormire?»

Nel sentire la risposta della sua amica la bionda alzò gli occhi al cielo e prese ad insistere: ormai il danno era fatto, perciò perché non curiosare? Magari avrebbero trovato qualcosa di divertente o di valore. Dopo quelli ci furono altre svariate ottime ragioni per esplorare quella casa e tanto disse e tanto fece Julia che Jessica cedette per esasperazione.
Stavolta fu lei la prima a scavalcare il davanzale.  Quando mise i piedi a terra rimase ferma qualche istante per permettere agli occhi di abituarsi al buio. Sentì Julia entrare dopo di lei, ma non si voltò e cominciò a guardarsi intorno vedendo i primi dettagli emergere dall’ombra: erano in un corridoio senza finestre, che si apriva dritto davanti a loro e con la carta da parati che si staccava dalle pareti. C’era un freddo umido e il pesante odore della muffa, poi più sotto l’odore sgradevole di acido e di qualcosa in putrefazione.

«Secondo me non siamo i primi ad usare questa casa come bagno» la voce di Julia la fece sospirare di sollievo; non le piaceva l’idea di girare per quella casa da sola.

Sempre che di casa si potesse parlare: ora che la vedeva dentro cominciava ad assomigliare ad una sorta di scuola. Sia a destra che a sinistra sembravano proseguire altri due corridoi ugualmente bui per via delle finestre sprangate, ma non aveva idea di quanto proseguissero.

«Dove sarà Drew? Lo andiamo a cercare?» chiese pensando a che strada potevano prendere.

«Ma lascialo pisciare in pace, va bene che hai una cotta per lui, ma hai davvero così bisogno di vedere il suo uccello?»

«Julia, piantala, io non ho una cotta per Drew. Non voglio vedere il suo uccello e se proprio dobbiamo esplorare la casa non cominceremo dal bagno.»

La voce di Jessica era dura e lei era decisamente stufa di quella stupida insinuazione, non sopportava quando Julia insisteva a dire che l’amicizia tra maschi e femmine non potesse esistere. Era solo preoccupata che potesse trovarlo qualche tossico e che gli facesse del male, era una preoccupazione legittima e che estendeva ad ogni persona a cui voleva bene, era irritante come ogni sua gentilezza venisse sempre travisata da Julia. Non aveva nulla da invidiare allo scemo di turno che scambiava una cortesia per una “prova dell’essere innamorata di lui”.

«Senti, andiamo dritto, meno svolte prendiamo meno è facile che ci perdiamo» decise alla fine avviandosi.

Non le servì voltarsi per sapere che la sua amica aveva appena fatto spallucce e ora la seguiva. Fecero qualche passo in silenzio, sentendo il pavimento scricchiolare, ma sembrava ancora robusto abbastanza da non spezzarsi sotto il loro peso. Ancora qualche passo e posando il piede, Jessica sentì il crepitio famigliare di un foglio di carta.

«Cosa è stato?»

«È solo carta…»

Non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, ma cominciava a sentire una certa inquietudine nell’essere in quell’edificio così buio e silenzioso; sembrava un ottimo inizio per un film horror e lei detestava i film horror.

«Aspetta, accendo la torcia del telefono»

“Niente mostri, ti prego niente mostri, ti prego niente mostri o assassini. Ti prego niente morti”

Il fascio luminoso si accese alle sue spalle e illuminò il pavimento rivelando un gran numero di fogli bianchi macchiati dall’umidità. C’erano poi quotidiani, giornali, e quando Julia cominciò a spostare il telefono per guardarsi intorno vide che alcuni sembravano perfino raggruppati per creare un giaciglio. Senza emettere suono Jessica arretrò col braccio teso fino ad incontrare il maglione di morbido cotone della sua amica.

«Sono qui, non preoccuparti» sussurrò Julia, stringendole la mano.

Ora fianco a fianco cominciarono a guardarsi intorno e a procedere. La luce svelava a loro i graffiti sulle pareti, la carta da parati strappata e a terra fogli e giornali di varie epoche. Jessica avrebbe giurato di vedere anche una copia di giornale talmente vecchia da riportare la notizia dell’attacco a Pearl Harbour, ma un rumore proveniente da davanti a loro fece alzare la luce alla sua amica.
Vedevano la fine del corridoio, ma la torcia del cellulare non era abbastanza potente per illuminare con chiarezza cosa c’era oltre l’arco oscuro davanti a loro. Jessica strinse di più la mano dell’amica e si concentrò, ma l’unica cosa che riuscì a cogliere fu forse il riverbero di una luce su un corrimano che portava verso l’alto. Poi sentirono i passi.
Erano alle loro spalle, ancora lontani, ma li sentivano chiaramente, così come le assi che cigolavano sotto il peso di chi li faceva.
Julia le piantò le unghie nella carne del palmo e coprì la torcia con un dito. Di punto in bianco si ritrovarono al buio, cieche e disorientate.

«Cosa facciamo? E se arrivano anche da davanti?» il sussurro spaventato di Julia fa raggelò; era sempre estremamente facile per lei farsi prendere dal panico se c’era già qualcuno agitato.

«Non fare rumore» sussurrò spaventata quanto lei.

Si mossero piano per spostarsi contro il muro alla loro destra cercando di non far scricchiolare i giornali e trattenendo il respiro. I passi intanto continuavano ad avvicinarsi. I loro occhi tornarono ad abituarsi al buio, ma questo non le aiutava: tutto ciò che vedevano sembrava loro un assassino pronte ad ucciderle.
Quando finalmente raggiunsero il muro i passi sembravano ormai essere arrivati all’inizio del corridoio.

«Ho qualcosa contro la schiena»

«Zitta!»

«Mi fa male!»

«Taci! Scorri lungo la parete e allontaniamoci.»

Julia si mosse e Jessica la seguì stupendosi del suo sangue freddo. Eppure era terrorizzata e aveva il cuore in gola, come po-

«Ahia!»

«Visto?!»

Il suo fianco aveva sbattuto contro qualcosa di solido, probabilmente di metallo. Incuriosita nonostante tutto, lasciò la mano della sua amica che con un respiro strozzato si aggrappò alla sua maglia.
Sì, era decisamente una maniglia. Poteva dirlo anche al buio.
Quindi alle loro spalle c’era una porta.
Forse avrebbero potuto nascondersi in quella stanza.

“Però non ho visto porte mentre ci avvicinavamo” pensò la ragazza con un angolo della sua mente; tutto il resto della stessa era impegnato ad abbassare a maniglia senza fare rumore.

«Non puoi fare più in fretta?!» sibilò la bionda accanto a lei.

Jessica si fermò per dirle qualcosa, ma cambiò idea quando sentì i suoni della casa: i passi si erano fermati. Subito voltò la testa per guardare alla finestra e con orrore vide un ombra scura stagliarsi nella luce.
Il resto fu tutto molto veloce.
Il cellulare cadde dalle mani di Julia che tentò invano di afferrarlo, facendo un gran baccano. Come se non bastasse la torcia le illuminò permettendo a chiunque fosse alla finestra di vederle. Perché nel sentire quel rumore, l’ombra si era girata.

In preda al panico lei aveva fatto l’unica cosa che le veniva in mente: aprire la porta e chiudersi dentro. La porta però non si apriva.
Provò varie volte ad abbassare la maniglia cigolante, ma la porta restava dov’era. Poi sentì i passi dell’ombra avvicinarsi in una leggera corsetta.
In quel momento per se completamente la sua lucidità: prese la rincorsa e diede una spallata alla porta proprio mentre Julia gridava per la sorpresa. Il legno gemette, ma non cedette.
Di nuovo prese la rincorsa e si lanciò verso quella che sembrava la loro unica salvezza.
La serratura cedette di schianto, facendola finire a terra. Atterrò sul fianco con un grugnito di dolore. La sua amica si precipitò dentro stringendo il telefono in mano; la aiutò a rialzarsi e poi corsero entrambe verso la porta, intenzionate a chiuderla a forza.
L’ombra però le aveva raggiunte e curvando puntò loro una luce in faccia.
Jessica e Julia strillarono abbracciandosi per lo spavento, ma anche l’ombra strillò e lo fece in una voce piuttosto famigliare.

«Ma che cazzo avete da gridare?!»

Sulla porta, con il cellulare in mano, c’era Drew.

«Ma sei scemo?!»

«Non potevi dirci che eri tu!?»

«Ma cosa ne sapevo che eravate voi?!»

Restarono a guardarsi tutti e tre col fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata.

«Perché siete entrate?» chiese alla fine il ragazzo sbloccando la situazione.

«Avevamo deciso di dare un’occhiata mentre ti aspettavamo» gli rispose la bionda raddrizzandosi.

Jessica non disse nulla e si limitò a togliersi la polvere e lo schifo dalla maglia.

«Beh, allora esploriamo un altro po’, tanto io ho fatto.»

Jessica guardò prima uno poi l’altra, basita: avevano appena preso un accidente e loro volevano continuare ad esplorare invece di tornare a casa? Davvero?

«Dalla tua parte c’era qualcosa d’interessante?» chiese Julia alzando il telefono per vederlo meglio.

«No, ho solo trovato una stanza con un materasso per terra e un tavolo e un bagno in cui-»

«Sorvoliamo!» esclamò Jessica mettendosi le mani nei capelli.

«Niente. Non ho visto niente. Però avevo una certa urgenza da sbrigare, quindi potrei essermi perso qualcosa» si corresse Drew.

«Ok, allora dopo ci torniamo.» decise la loro amica per tutti loro «Cominciamo a cercare in questa camera»

Subito entrambe le luci si mossero, illuminando le quattro pareti e quello che contenevano: sembrava che fossero entrati in uno studio, le cui pareti erano piene di librerie colme di libri impolverati e il pavimento era coperto di fogli bianchi. C’erano due finestre coperte da assi inchiodate e Julia si mosse per vedere se poteva aprile e far entrare un po’ di luce.
I fogli sul pavimento erano alcuni imbevuti d’acqua e altri macchiati, mentre al centro della stanza c’era un tavolo rotondo coperto di altre pagine. A sinistra c’era un divano pieno d’umidità, muffa e probabilmente insetti; forse davanti a quello c’era un camino ma non andarono a controllare. Jessica si avvicinò incuriosita al tavolo, attirata dall’aspetto antico della carta, che sembrava essere lì da più tempo della casa stessa; forse era addirittura pergamena o papiro. La ragazza stese una mano per prenderne uno in mano, ma come lo toccò fece un salto indietro e si portò la mano al petto, spaventata: il foglio bruciava.
Sempre più sorpresa e spaventata si accorse che il tavolo ora era scuro, come se i fogli fossero scomparsi. Intimorita, tornò ad avvicinarsi e con molta cautela stese la mano; sentì la carta sotto le dita, di nuovo calda, ma non così tanto da bruciare.

Raccolse un foglio e so lo portò vicino al viso per vedere cosa era successo. Si aspettò che si sbriciolasse, perché sembrano carbonizzati (forse qualcuno li aveva bruciati? Questo avrebbe spiegato il calore e il colore) ma non successe. Quando riuscì a distinguere qualcosa fu scossa da un brivido: sullo sfondo scuro c’era una croce bianca rovesciata e dietro questa croce, quasi fosse messo in prospettiva, c’era una figura umana sdraiata. Le proporzioni erano così perfette che Jessica si aspettò che si alzasse e si avvicinasse a lei.

«Che graffiti strani»

Il borbottio di Julia le fece alzare gli occhi e subito cercò la luce del suo telefono; era fissa su uno dei pochi spazi non ricoperti da librerie e anche lei notò le scritte sulla parete macchiata di muffa; erano fatti con vernici, carbone, incisi e alcuni erano in un color ruggine che ricordava terribilmente il sangue secco. Per di più a lei non sembravano graffiti, ma simboli e parole.

«Tu che hai trovato?» chiese la sua amica spostando al luce proprio mentre lei cercava di decifrare qualcosa.

Stava per dirle di tornare a illuminare la parete, quando la vide raccogliere un foglio e il suo cuore saltò un battito: Julia aveva la pelle particolarmente delicata, bastava un niente per farle venire le vesciche o dei lividi.
La ragazza però non gridò di dolore, anzi rimase a guardarlo con un sorrisetto sulle labbra.

«Carino questo ragazzo, guard- ah!»

Per un secondo, Jessica di nuovo temette che si fosse fatta male, ma il suo era un verso di sorpresa e persisteva a guardare il foglio con gli occhi sgranati. Svelta, lei la raggiunse e cercò di capire a cosa fosse dovuto il suo comportamento.

«È cambiato di colpo, non me l’aspettavo» balbettò voltandosi verso di lei.

Senza indugiare oltre, spostò gli occhi dal viso della sua amica al foglio. Solo per scoprire che era simile al suo: aveva una croce rovesciata nera su sfondo bianco e sempre in una prospettiva perfetta c’era una figura umana; stavolta era sdraiata con la schiena a terra a con le gambe sollevate come se fossero appoggiate al muro, ad imitazione della lettera L.
Lei e Julia si scambiarono uno sguardo: entrambe sentivano il richiamo maledetto della curiosità.
Presero a toccare ogni foglio. Ogni volta che ne sollevavano uno le due figure si spostavano nel foglio, per Jessica l’Uomo sdraiato, per la sua amica, l’Uomo-elle, ed ogni volta si facevano sempre più vicini alla croce.
Toccarono ogni foglio sul tavolo finchè non ne rimase solo uno. Lo guardarono con un misto di timore e curiosità, senza sapere chi delle due dovesse sollevarlo.
Fu Julia ad allungare la mano e portarselo più vicino al viso, ma non successe nulla, il foglio restava scuro. Dato che non succedeva nulla, lei lo passò alla sua amica, ma nel momento esatto in cui le dita di Jessica afferrarono il foglio, la carta rivelò l’immagine.
Come la videro lasciarono cadere il foglio con un grido e arretrarono entrambe spaventate.
Il foglio era diviso in diagonale con la solita alternanza di bianco e nero e la croce capovolta, ma stavolta l’Uomo era in primo piano e le osservava da dietro la croce con un ghigno raccapricciate.

«Ma che cazzo avete da gridare come oche?»

Drew abbandonò le finestre che non era riuscito a liberare dalle assi e si avvicinò al tavolo. Loro rimasero in silenzio, impietrite dallo spavento. Il ragazzo le ignorò e decise di vedere da solo perché motivo avessero gridato; raccolse il foglio che avevano praticamente lanciato via e lo illuminò col telefono.

«Certo, fa schifo, ma non mi sembra il caso di gridare: sono solo due froci che s’inculano, mica altro»

Jessica e Julia si guardarono stupite poi corsero a vedere i fogli sul tavolo: si erano trasformati di nuovo. Ora al posto della figura inquietante e delle croci c’erano immagini (o foto?) di due ragazzi in atteggiamenti più o meno intimi.

«Che schifo…» borbottò la sua amica unendosi al disgusto di Drew.

Lei invece non disse nulla, sentendo il suo imbarazzo crescere ad ogni foglio che sollevava. A lei non facevano schifo, anzi, ma le sembrava di violare la privacy dei ragazzi sui fogli; qualsiasi cosa fossero, i soggetti erano sempre loro.
Si trattava di un ragazzo castano, con un taglio di capelli che in molti avevano e dalla pelle chiara coperta di nei; era poco più basso dell’altro ragazzo. Lui era moro e dalla carnagione più scura di quella del ragazzino (non poteva avere più di diciotto anni, sembrava così giovane su quei fogli) ed era palesemente più grande, o forse sembrava così a causa della barba che aveva. Non riusciva a vedere il colore degli occhi di nessuno dei due, ma poco importava: erano le posizioni ad attirare la sua attenzione.

In un foglio, il ragazzo più alto stava dietro il castano e gli copriva gli occhi, mentre l’antro aveva le mani giunte in preghiera o in una sua parodia priva di ironia; poi notò i disegni sulla loro pelle, forse dei tatuaggi tribali o altri disegni dal significato a lei sconosciuto, ma era difficile distinguerli senza una luce. Forse era un rito satanico. Jessica rabbrividì al pensiero che forse il moro stava per sgozzarlo, visto come era esposta la gola del ragazzino.
Prese un altro foglio già immaginandosi il più giovane in una pozza di sangue, ma quando mise a fuoco l’immagine dovette trattenere un gridolino di sorpresa: chiunque avesse scattato quella foto o dipinto quell’immagine aveva fermato i due giovani in un momento molto intimo. Svelta mise giù quel foglio e ne raccolse un altro.
Su questo i due erano schiena contro schiena ad occhi chiusi e dal petto del moro usciva qualcosa di luminoso in forma di lupo, mentre dal castano aveva un ombra raccapricciate che usciva dal petto e Jessica non avrebbe saputo dire a che assurdo animale somigliasse. Intimorita, posò il foglio e dopo un istante d’esitazione raccolse il foglio di prima, assicurandosi che Julia non l’avesse notata.
L’immagine era estremamente sensuale, al punto da farle tremare le gambe e farle venire i brividi nella parte bassa della schiena. Era più che palese che i due stessero facendo sesso; il moro era a gattoni, con la schiena inarcata e il sesso turgido su cui sembrava luccicare qualche goccia di liquido, offrendo accesso all’altro. Il castano era sdraiato sulla schiena del giovane con il pene probabilmente affondato tra le sue natiche e un dito che gli scivolava sulla lingua. Jessica non riusciva a staccare lo sguardo e beveva ogni dettaglio con gli occhi; il ragazzo aveva la testa posata sulla spalla del moro ma più la osservava più aveva l’impressione che il ragazzo la stesse osservando.

“Starà guardando chi ha fatto questa… foto?”

Foto.
Non riusciva a pensare a una parola che descrivesse meglio quel foglio tanto era realistica l’immagine. Poi qualcosa attirò la sua attenzione e scrutò la pagina che teneva in mano. Era lì da qualche parte quel dettaglio, ma non riusciva a trovarlo.
Poi il castano voltò la testa verso di lei e le sorrise.
Un sorriso malvagio, vittorioso e gli occhi brillavano di un luccichio crudele.
Jessica sentì il sangue gelarsi nelle sue vene. Il ragazzo mosse la mano spingendo le dita più a fondo nella bocca del moro e mosse le labbra come se stesse parlando, ma lei non sentì nulla. Però il giovane che lui si stava scopando sentì perché spostò gli occhi su di lei.
Erano liquidi di piacere e lui sembrava mezzo appagato, ma c’era qualcosa che stonava. Era innegabile che stesse godendo, ma i suoi muscoli erano tesi, contratti, e lo sguardo aveva una sfumatura dolorosa.
Poi il castano mosse il bacino e diede una spinta secca. Gli occhi del moro si spalancarono per il dolore e il castano allargò il suo ghigno fino a scoprire i denti.
Nella bocca aveva zanne scure.
 
~♦~
 
«Ti piace Derek? So che ti piace, non puoi mentirmi»

«Non mi piace»

«Bugiardo»

«Mi fa schifo»

«No, ti piace.» un sussurro nel suo orecchio e una lingua sulla pelle «E ti piace essere guardato mentre ti scopo»

Il corpo si coprì di pelle d’oca e gli occhi vagarono alla ricerca dello spettatore.
Fu un secondo, ne colse l’immagine per una frazione di secondo, poi il dolore esplose nuovo e fresco nel suo corpo e nella sua mente.

«Ti piace.»

«Non. Mi. Piace. »

Ogni parola che il moro diceva era una spinta dentro di lui che lo spaccava a metà, rinnovando ogni volta il dolore.
Ogni nuovo affondo era il retto che veniva lacerato; gli lasciava il tempo necessario perché il suo corpo rimarginasse la ferita per poi spingersi di nuovo dentro di lui e aprire un nuovo taglio.

«Dillo che ti piace» la voce del ragazzo gli feriva le orecchie, non voleva sentirla, lo faceva sentire sporco e impotente.

Perché lui stava godendo. Sotto il dolore sempre rinnovato c’era un barlume di piacere e si faceva schifo per questo. Al dolore si aggiungevano la nausea e la pelle d’oca che il tocco di quelle mani gli procurava.
E non poteva fare nulla per fermarlo.

«Avanti, Derek. Dillo che ti piace»

Quel sibilo nell’orecchio gli provocò un conato.
 
~♦~
 

Quando vide il castano spingersi dentro il giovane lasciò andare il foglio con un gridolino e le guance in fiamme.

«Che succede?» Drew puntò la luce su di lei e attese una risposta.

«So- solo un ragno» mentì Jessica sentendosi complice dei due ragazzi.

L’avevano vista, ne era certa, eppure non avevano esitato a continuare, forse intrigati ed eccitati da quell’imprevisto. Ed intrigata ed eccitata si sentiva pure lei, anche se lo sguardo del moro non lasciava la sua mente. Era così sbagliato, non era lo sguardo di qualcuno che si sta davvero godendo quello che stava facendo.

“E se…”

L’eccitazione lasciò il posto al disgusto e la schiena si bagnò di sudore freddo.
Drew si era girato verso Julia e si erano rimessi a ridere delle varie immagini e a fare versi di disgusto, senza nemmeno sapere quanto era disgustoso quello che stavano vedendo.

“O magari è così che a loro piace…” cercò di convincersi, perché non voleva credere che ciò che poteva aver visto fosse davvero ciò che pensava.

Doveva vederci chiaro.
Doveva guardare di nuovo quei due che scopavano.
Di nuovo l’assalì un misto d’eccitazione e nausea, che le diede l’orribile sensazione d’essere sporca come fosse anche lei complice di ciò che stava guardando.
Un ultimo sguardo ai suoi amici e s’inginocchiò per ritrovare il foglio; recuperò il cellulare dai jeans e con la luce dello schermo cercò l’immagine di prima, ma non ce n’era traccia.

«Ti prego devi aiutarmi»

Per poco non le cascò il telefono dalle mani quando sentì quella voce nella sua testa.
Le ci vollero circa dieci secondi per recuperare l’autocontrollo sufficiente a proseguire la ricerca. Solo che del foglio non c’era traccia.

«Ti prego, devi aiutarmi»

Abbassò gli occhi incontrando quelli nocciola del ragazzo più giovane. Un brivido le percorse la schiena.
Il castano era su un foglio, solo, e le sue labbra si muovevano sillabando le parole che sentiva nella sua testa. Era appoggiato ai bordi del foglio, come se fosse una porta o una finestra e si sta rivolgendo direttamente a lei, che lo fissava impietrita.
Aveva la guance arrossate, la pelle umida di sudore e gli occhi lucidi. Sembrava una persona totalmente diversa dal ragazzo di pochi secondo fa, avrebbero essere potuto essere due persone distinte tanto erano diversi i loro comportamenti.

«Devi aiutarmi» ripeté per poi gemere e mordersi le labbra.

Una mano corse al cavallo dei pantaloni, stringendo l'erezione più che evidente. Il suo respiro era affannato e corto, si sarebbe aspettata che i suoi occhi fossero liquidi di piacere e desiderio, o maliziosi, ma lasciarono invece scivolare due lacrime sulle guance.

«Fermalo» sussurrò per poi gemere di nuovo, mentre le sue ginocchia cedevano. «Fermalo, gli sta facendo del male» la supplicò mentre un'altra lacrima si aggiungeva alle altre.
 
~♦~


«Cedi» gli sibilò nell'orecchio, sfiorandoglielo con le labbra.

«Godi» mormorò stingendo di più le dita sulla sua gola.

«No. Non ti voglio»

Derek aveva il fiato corto e il membro teso, inerme nella mani del ragazzo.
Le labbra del giovane ora gli torturavano la pelle sul retro del collo, suggendola e lasciando rosse tracce del suo passaggio. Di punto in bianco si fermò, lasciando anche la sua gola dove erano ben evidenti i segni violacei dove le sue dita l'avevano stretta.

«D’accordo; se non vuoi godere tu, godrò io»

Gli bloccò un braccio dietro la schiena facendolo grugnire di dolore e non contendo gli si spinse dentro con forza facendolo gemere di nuovo.

«Oh, Derek... Nemmeno ti immagini quanto stia soffrendo Stiles» sospirò il giovane, facendo più forza sul suo braccio. Si sentì uno scricchiolio sinistro.

Derek, sul pavimento su cui era premuto, strinse i denti, cercando di resistere al dolore che sovrastava il piacere.
Il castano rise dei suoi sforzi, come se fosse una delle cose più appaganti mai viste.
 
~♦~
 
«Devi aiutarmi!» gridò Stiles dal foglio, col volto congestionato dal godimento ma soprattutto dalla sofferenza. Aveva le mani sulla sua erezione, ancora coperta dai pantaloni, e se la stringeva come se volesse impedirsi di provare piacere, piacere che arrivava dalla sofferenza del moro.

«Devi fare qualcosa, gli sta facendo del male!» gridò in ginocchio davanti a lei. «Se serve ammazzami, fregatene di me! Non-» con un gemito il castano si piegò su se stesso con un mugolio, quasi il suo piacere fosse sofferenza.

Jessica non riusciva a staccare gli occhi da ciò che stava vedendo troppo sorpresa e curiosa. Una parte di lei sapeva che la sua era un’attrazione morbosa per qualsiasi cosa stesse accadendo del foglio, ma non riusciva a distogliere lo sguardo.

«Non lasciare che gli faccia altro male» ansimò lui alzando appena il capo; un filo di saliva pendeva dalle sue labbra.

La ragazza lasciava vagare gli occhi sulla figura nel foglio incapace di anche solo comprendere cose dovesse fare per aiutarla. Era cosciente che stesse succedendo qualcosa di brutto al ragazzo ma non sapeva che fare e nemmeno chi fosse o dove fosse.
D'improvviso il suo corpo cominciò a farsi evanescente stupendo entrambi.

“E ora che cazzo succede?!”

Allibita, guardò il castano dritto negli occhi, sperando che potesse spiegarle cosa stava succedendo, ma non sembrava saperne più di lei. Il ragazzo osservò pieno di terrore le sue mani farsi trasparenti, poi la fissò negli occhi, terrorizzato.

«Devi spezzare il suo incantesimo!» le urlò gettandosi verso di lei, ma cade: anche i piedi erano svaniti.

Si rialzò puntellandosi sui gomiti; perdeva sangue dal naso e dal labbro.

«È come un tangram, uno di quegli assurdi rompicapi.» anche i gomiti svanirono e di nuovo la sua faccia sbatté sul pavimento «Devi rompere l'incantesimo, ricomponi la croce!» gridò facendo leva solo sui muscoli dorsali

Il suo volto era una maschera di sangue, lacrime e disperazione.

«Ti prego, salvalo» sussurrò flebilmente prima di svanire.

Di lui sulla pergamena non restava tracia; c'era solo una croce bianca su sfondo nero e Jessica rimase stordita a fissare il foglio in silenzio.
 
~♦~
 
«Sai cosa sarebbe ancora più divertente Derek?» gli chiese tirandogli i capelli per costringerlo a guardarlo in viso «Se lui potesse vederti ora»

L'espressione sul volto di Derek divenne terrore puro.
Il ghigno sul viso del castano si allargò fino a scoprire le zanne.
 
~♦~
 
Quando la sua coscienza riemerse, la prima cosa che sentì fu il gemito di dolore sotto di lui, poi la pelle e i capelli sotto le sue dita. Quando aprì gli occhi, Derek era sotto di lui con gli occhi serrati e i denti digrignati nel vano tentativo di trattenere i gemiti di dolore. Infine il braccio del giovane piegato in una posizione decisamente troppo innaturale per non fare male e a tenerlo fermo una mano.
La sua mano.

«Guarda chi c'è Derek» cantilenò una voce, la sua voce.

Era lui a parlare, ma non era lui.
Derek spalancò di colpo gli occhi, quei bellissimi occhi verdi che tanto amava.

«Stiles?» chiese spaventato cercando i suoi occhi da quella posizione allora premuto sul freddo pavimento di pietra di quella chiesa diroccata.

Cercò di lasciarlo libero, di parlargli, ma non successe nulla.
Una risata isterica spezzò il silenzio che si era creato. La sua risata.

«Sì, ora c'è anche lui con noi»

Il ragazzo sentì le sue guance tendersi in un ghigno malvagio, ma l'unica cosa che lui provava era il terrore per la sorte di moro.

«Andiamo Derek, fagli sentire i tuoi gemiti» la sua voce sibilò dalle sue labbra.

Stiles sentì il suo bacino indietreggiare per poi spingersi con forza contro e dentro il ragazzo che tanto aveva desiderato, strappandogli un grugnito di dolore, mentre lui sentiva una scarica di piacere irradiarsi per tutto il bassoventre.

«Derek» sussurrò divertita la sua voce «Se ti ostini col tuo mutismo mi costringi a passare alle maniere forti»

La sua mano aumentò la pressione sul braccio del mannaro.
Ci fu il rumore di un osso che si spezzava, poi un grido di dolore puro.
Il grido di Derek.
 
 
Avrebbe voluto gridare ma non aveva labbra per farlo. Avrebbe voluto chinarsi per toccarlo e rassicurarlo, ma non aveva mani per farlo.
L'unica cosa che aveva erano occhi per vedere come la persona che amava soffriva e orecchie per raccogliere i suoi gemiti.
 
~♦~
 
Jessica ancora guardava basita il foglio che stringeva in mano. Sentiva le guance calde per tutto ciò che aveva visto; era tutto conturbante e malato, la faceva sentire sporca e sbagliata, ma non riusciva ad allontanare le immagini che aveva visto dalla sua mente.

“Eppure sono appena uscita da palestra. Sono sobria. Non mi drogo…”

Niente. Nulla aveva senso.
Però era tutto reale, anche Julia aveva visto le prime trasformazioni dei fogli. E le immagini dei due amanti. Perfino Drew le aveva viste quelle.

«Ehi, sono sparite. Tutti i fogli sono neri con una croce bianca sopra»

Jessica si rialzò e guardò i suoi amici confusa. Doveva saltarci fuori, doveva almeno trovare una spiegazione per ciò che aveva visto.

«Avete visto qualcosa di… strano?» chiese loro.

Era una domanda stupida e dalla risposta palese, ma voleva capire quanto avessero visto e quanto potessero aiutarla.

«Strano?! Ma li hai visti pure tu i fogli!» sbottò Julia «Prima c’era quel tizio inquietate e poi-»

«Poi sono apparsi i froci» s’intromise Drew.

La ragazza dovette mordersi la lingua per non mangiargli la faccia; non aveva idea del motivo per cui il suo amico avesse queste uscite omofobe che la ripugnavano e spaventavano, e ogni tanto si chiedeva se dovesse allontanarsene.

Con uno sbuffo, Julia riprese a parlare: «sì, i froci e poi di nuovo queste croci che-»

Si bloccò a metà frase osservando il foglio che ancora sventagliava in giro.

«Che roba è questa?» ora era Drew ad essere confuso, ma le altre due non erano da meno.

Jessica svelta osservò e rigirò il foglio, finché non notò un simbolo al centro della pagina. Aguzzando la vista notò qualcosa anche verso il lato lungo del foglio. Era piuttosto rovinato, ma si riusciva a capire che era stato fatto con foglia d’argento. Restava il mistero di che si trattasse.
Si mise a girare il foglio in varie angolature finché non si trovò a convincersi che il disegno al centro della pergamena fosse un occhio. La cosa le diede i brividi perché subito si sentì osservata. Alzò lo sguardo sui suoi amici, ma erano ancora persi a frugare tra i fogli.
Fece un lungo sospiro e si mise a cercare tra quelli che aveva più vicino a lei. Ne voltò un paio e al terzo trovò nuove linee argentate, poi si mise a frugare tra i fogli del tavolo. In meno di un minuto ne aveva altri quattro in mano.

«Ragazzi, ho trovato dei fogli strani, mi aiutate a cercarli?» fece quella richiesta senza aspettarsi nulla: Julia e Drew non erano grandi appassionati di misteri. Non quanto lei almeno.

«Più strani delle foto di prima?»

Jessica annuì; «Ci sono delle linee argentate sopra, ma per ora non dicono nulla. Magari trovandone altri scopriamo qualcosa d’interessante»

«Tipo?» chiese il suo amico incrociando le braccia.

Drew era sempre stato quello più venale e scettico, se non aveva un ritorno da ciò che poteva fare non muoveva un dito.

«Non possiamo saperlo finché non troviamo più pagine. Magari è un disegno antico» inventò per stimolarlo.

Il ragazzo ci pensò qualche secondo, poi si mise a frugare tra le carte sul tavolo. Julia lo stava già facendo da un pezzo.

~♦~
 
«Non farlo guardare» lo supplicò Derek.

Non aveva speranze contro uno spirito potente come il Nogitsune, lo sapeva, lo sapeva da quando si era rivelato dopo aver rubato il corpo del suo amato. L'unica cosa che poteva fare era sperare che finisse presto in un modo o nell'altro. E ora, con un braccio spezzato, su quel freddo pavimento, l'unica cosa che poteva fare era supplicare quell'essere che lasciasse il ragazzo che amava fuori da quell'orrore. Il mostro era di un'altra opinione però.

«E perché? Nemmeno sai quanto mi piace il suo dolore»

Disperato, Derek si rivolse direttamente al suo ragazzo.

«Stiles, ti prego non guardare, non ascoltar-» le sue parole si trasformarono in un urlo. Il Nogitsune gli aveva spostato bruscamente il braccio per godere della sua sofferenza.

«Guarda Stiles» sussurrò chinandosi sul suo volto «Guarda come soffre la persona che ami»

Il moro chiuse gli occhi rifiutando quel contatto, per vergogna o per dolore.

«Derek, guardami negli occhi» gli ordinò freddamente, ma lui stupidamente li serrò.

«Derek» la mano lasciò i suoi capelli e si posò sulla scapola «Ho detto guardami»

Il dolore fu così inaspettato e bruciante che gli mozzò il fiato. Gli sembrava di avere lame di fuoco che gli percorrevano i muscoli della schiena.
La mano tornò a tirargli i capelli e stavolta obbedì, incontrò i suoi occhi. Incontrò gli occhi di Stiles.

«Bravo ragazzo» sussurrò il Nogitsune.

Poi gli si appoggiò sulla frattura.
 

L'urlo di Derek riecheggiò sulle pareti della chiesa, fino a che il mostro non decise di rialzarsi, lasciandolo sfiancato ed inerme, con la gola che bruciava.
Distrutto, si arrese alle sofferenze inflittegli da quella bestia.
Per un istante osò incontrare gli occhi di Stiles e si pentì di averlo fatto: erano davvero i suoi, c'era anche lui in quel corpo. Come erano diversi ed in contrasto col ghigno sulle sue labbra.
Quando lui ricominciò a spingerglisi dentro non oppose resistenza; chiuse gli occhi è pregò che tutto finisse presto.

"Allora Stiles?! Te l'eri immaginato così il suo culo mentre ti segavi?".

Tutti i rumori arrivavano ovattati dietro la cortina del suo dolore sordo.

"Ti piace scoparti Derek Hale?!"

Una goccia, due gocce, gli bagnano la pelle.
Tre gocce, quattro gocce cadono sulla sua pelle.

"Non ti piace Stiles?!"

Una lacrima, due lacrime sfuggono ai suoi occhi verdi.
 
~♦~
 
Le pagine erano ormai una ventina, ma il disegno nel complesso non si capiva. Erano apparse linee, simboli, ideogrammi, ma nulla che potesse aiutarli a capire a cosa servissero.

“Ma io cosa diavolo sto facendo? Perché sono ancora qui a cercare di capire questa cosa? Dovrei chiudere tutto e andarmene a casa a dormire…” però Jessica non fece nessuna delle due cose. Rimase invece china sul tavolo e sui fogli che avevano raccolto, studiandoli.

“Che idiozia! Nemmeno so cosa devo fare! Manco li conosco ‘sti due poi!” eppure non si mosse, concentrata sulle linee argentee.

«Je, tu ci stai capendo qualcosa?»

Nemmeno registro chi dei due le avesse fatto la domanda, si limitò a scotere il capo troppo concentrata per dedicargli più attenzione di così.
Persisteva a dirsi che avrebbe dovuto andarsene e fregarsene di quei tre sconosciuti, che non la riguardava, che qualsiasi cosa stesse succedendo non erano responsabilità sua, e alla fine ci riuscì. Riuscì a raddrizzarsi e a allontanare gli occhi dalle pergamene.

«Diamo a mucchio?» le chiese Drew, più che stufo, e lei annuì.

Con un sospiro la ragazza diede un ultima occhiata al tavolo e già stava girando la testa quando i suoi occhi colsero un particolare che il suo cervello non collegò subito.

“È come un tangram! Ricostruisci la croce”

Le parole del ragazzo riecheggiarono nella sua testa e per un secondo le sembrò di sfiorare le soluzione.

“Tangram, tangram… ma che cazzo è un tangram?!” si domandava aguzzando la vista. “E perché cazzo io ancora insisto a-”

Eccolo.
L’aveva trovato: il particolare che sbloccava la situazione.
Chissà come, chissà perché, c’erano due fogli le cui linee si erano unite e avevano acquistato un senso. Non che lei lo capisse o l’avesse mai visto prima, ma quelle linee formavano un disegno. E certo poteva essere un caso, ma poteva verificarlo piuttosto velocemente. Le sue mani cominciarono a muoversi rapide confrontando linee e scartando fogli, sotto lo sguardo sorpreso dei due ragazzi.

“È un puzzle, nulla di più di un puzzle” si ripeteva assorta in quel lavoro e in poco tempo si ritrovò davanti ad un cerchio fatto di simboli sconosciuti e linee concentriche e parallele.

Sul tavolo restavano pochi fogli, ma nessuno sembrava avere senso nel disegno che si era formato. Sulla pergamena scura c’erano solo linee e forme geometriche, nulla che si potesse inserire.

“È un tangram, è un tangram!!” le parole continuavano a tornare nella sua mente.

Le sue mani ripresero a muoversi incerte spostando i fogli in un vano tentativo di capirci qualcosa. Aveva già sentito parlare di tangram, ma non ricordava di cosa si trattasse né tanto meno di come funzionasse. Però spostando e abbinando quelle forme la punta delle dite la formicolava, come se ci scorresse della magia.
Era assurdo, la magia non esisteva, come poteva scorrere in quelle pergamene e nelle sue dita? La magia era solo una fesseria per chi non conosceva scienza e buona solo per creare pretesti per film horror.
Eppure quando aveva accostato al quadrato due triangoli aveva avuto la chiara impressione di essere osservata. Erano solo forme geometriche, ma aveva la sensazione orribile di avere davanti a sé un viso.
Davanti ai suoi occhi tornarono le immagini del giovane moro sovrastato dal castano con quel suo ghigno orribile, poi il viso disperato e stravolto del ragazzo. Chiuse gli occhi e inghiottì la bile che le era risalita in gola. Quando li riaprì, aveva davanti agli occhi la faccina geometrica e malevola.

«Je, stai bene?»

La voce di uno dei suoi amici le giungeva da un posto lontanissimo e nemmeno sapeva dire a chi appartenesse. Allungò la mano verso le ultime pergamene, tremante ma implacabile; si sentiva investita da una missione di estrema importanza e di cui non afferrava il senso.
Spostò uno dei triangoli più grandi verso quel volto che ai suoi occhi somigliava sempre più ad un muso, intenzionata a formare il corpo di quella creatura. Come fu sistemata venne assalita da una visione orribile: il giovane era bloccato a terra con la bocca semi aperta in un gemito che non sentiva e gli occhi vitrei e bagnati di lacrime; sopra di lui, il castano con un ghigno malvagio a sfigurargli i lineamenti altrimenti belli, che gli affondava dentro.
Davanti a lei tornarono le pergamene insieme ad una nausea forte. Doveva aiutarlo, non conosceva nulla del moro, nemmeno il nome, ma non poteva lasciare che quella tortura continuasse. Spostò un altro foglio e fu assalita da nuove visioni e fu così ad ogni foglio che andava a costruire la creatura, finché non rimase che un parallelogramma che Jessica non riusciva a capire dove inserire.
Lentamente lo avvicinò alle altre forme, intenzionata a fare delle prove, ma la visione che le apparve davanti agli occhi fu strana. Era vicina alle due figure, ma nessuno si muoveva.

«Derek?»

La voce tremula del castano s’insilò nelle sue orecchie come se stesse sussurrando a lei quelle parole.

«Derek?» ripetè sfiorandogli la spalla.

Il moro in tutta risposta s’irrigidì e rimase muto. Il ragazzo si chinò su di lui e prese ad accarezzarlo piano, sussurrandogli parole di conforto.

«Derek, sono io. Sono Stiles.» deglutì e riprese a parlare incerto. «Sto riprendendo il controllo del mio corpo, tra poco ti lascerò stare… ti prego, Derek, guardami. Sono io»

Il giovane, timoroso, accontentò quella supplica e si trovò a guardare negli occhi in ragazzo che ancora era dentro di lui. Non riuscì ad articolare nessun suono per quanto muovesse le labbra, probabilmente chiamandolo per nome.

“Deve essere sotto shock” pensò lei.

«Andrà tutto bene, Derek, ora… ora mi sposto, poi andremo a cercare aiuto e…»

Mentre parlava, il ragazzo si muoveva cercando di sportasi senza fare del male al moro, immobile ma sembrava più calmo. Il castano si era appena raddrizzato e aveva afferrato i fianchi del giovane per spingersi fuori e lui aveva risposto con un gemito teso. L’altro aveva proseguito con una smorfia addolorata e molta delicatezza, e ormai stava per uscire; mancava ormai solo la punta.
Con un movimento deciso il bacino del castano, il ragazzo che aveva detto di chiamarsi Stiles, tornò a spingersi dentro il moro, Derek, che aprì la bocca in un grido che uscì come un rantolo.
Il castano lo guardava terrorizzato e con gli occhi sgranati; sembrava non capire cosa stesse succedendo. Il giovane steso a terra fece per girare il capo, la mano di Stiles gli bloccò il collo e lo costrinse viso a terra. Da dove si trovava Jessica riusciva perfettamente a vedere il terrore negli occhi di Derek.
Di nuovo Stiles uscì e affondò di nuovo nel moro, che emise un gemito soffocato.

«Ti prego no»

Un sussurrò quasi inudibile che non si sapeva a chi era diretto. Il sussurro di Stiles.

«Ti prego non farlo. Basta, basta, smettila! Non ti ha fatto nulla! Prendi me, prendi me al suo posto!»

Lo gridava a pieni polmoni ma il suo corpo continuava a ferire quello di Derek, mentre l’orrore era dipinto sul viso del ragazzo.
Jessica era impietrita, non riusciva a fare nulla se non guardare quelle sevizie. Sentiva la nausea rivoltarle lo stomaco e la bile bruciarle la gola. Con un moto di frustrazione e di schifo mosse la mano per allontanare ciò che vedeva e incredibilmente quella scena svanì.
Incredula si guardò intorno, scoprendo di trovarsi ancora nella casa abbandonata; i suoi amici la guardavano straniti.

«Che ti è preso?» le chiese Julia.

«Solo… solo ragnatele…» balbettò lei chiedendosi cosa avesse fatto o detto mentre vedeva quella scena.

«E quella strana bestia che hai creato?» stavolta era stato Drew a parlare, e aveva accennato col capo alle pergamene.

Jessica confusa abbassò lo sguardo sui fogli, trovando un’accozzaglia di forme che stranamente le ricordava una volpe.

«Sembravi allucinata»

Jessica aprì la bocca per rispondere, ma sulle pergamene scivolarono immagini di catene sinuose come serpenti che si avvolsero intorno alla figura della volpe, facendoli sussultare e saltare indietro.

«Ora le allucinazioni le abbiamo tutti» sussurrò Julia che cominciava ad essere spaventata davvero.

Si mosse un po’ indietro e ruppe qualche vetro calpestandolo; subito si chinò per vedere di che si trattasse e si rialzò con un sorriso sollevato.

«Eh beh, mi sembra normale avere delle allucinazioni se sei sotto l’effetto del crack» e mentre parlava illuminò i cocci di quello che era facile riconoscere come una pipa; dai cocci si alzò perfino un filo di fumo.

Spaventati fecero tutti un salto indietro e Drew si mise a parlare e muoversi nello stesso momento.

«Non intendo passare un secondo di più in questo covo di drogati, usciamo!»

Jessica era ancora imbambolata a guardare le pergamene quando il ragazzo l’afferrò per un braccio e se la trascinò dietro, mentre spingeva Julia in avanti e malediceva la propria vescica. La ragazza blaterava qualcosa sulle possibilità che la casa fosse infestata, ma lei riusciva a pensare solo ad una cosa.

“Davvero è stata solo un’allucinazione da drogati?”
 
~♦~
 
Tutto si era fermato e il silenzio era spezzato solo dal respiro affannato e sofferente di Derek. Con cautela, Stiles mosse una mano, poi un piede. Accertatosi che finalmente riaveva il possesso del suo corpo, uscì dall’amato, che gemette piano, un riflesso automatico dopo tutte quelle sevizie. Il castano osservò il corpo martoriato del giovane sul pavimento: il braccio rotto, i graffi sanguinanti sulla sua schiena e il sangue che colava tra le natiche. Il moro non tentò nemmeno di alzarsi o muoversi.
Era fermo, in attesa di nuovo dolore.



 



A Stiles si strinse il cuore e subito si chinò piano su di lui, ma come gli sfiorò la spalla, Derek s'irrigidì immaginando che fosse ancora il Nogitsune. Con un nodo in gola e il cuore spezzato, l’altro gli accarezzò piano la spalla e chiamò il suo nome con tutta la dolcezza di cui era capace.
Il moro aprì gli occhi e lo guardò intimorito. Faceva pietà: era pallido, col viso coperto di sudore freddo e spaventato.

«Stiles?» chiese con un filo di voce. Probabilmente non avrebbe retto ad un altro inganno come quello di prima, quando il Nogitsune gli aveva sciolto la lingua e concesso si usare le sue labbra. Nessuno dei due avrebbe retto.

«Si, Derek, sono io.» mormorò in risposta, mentre le sue lacrime cominciavano a cadere sulla schiena del moro «È finita, l'incantesimo è stato spezzato» ingoiò il nodo in gola e le lacrime successive «Guarda, ho il controllo del mio corpo» aggiunse mostrandogli una mano.

Ora era sicuro di essere libero aveva sentito quel mostro venir strappato via dal suo essere per tornare ad essere prigioniero della dimensione in cui era sto relegato in precedenza.
Con un sospiro il corpo di Derek si rilassò, ma non c'era pace su suo volto, solo rassegnazione. Il Nogitsune era riuscito a spezzarlo e ora il suo amato restava sdraiato e sconfitto su quel freddo pavimento.

«Ti prego, basta...» lo supplicò chiudendo gli occhi e cominciando a piangere piano. «Ti prego...» singhiozzò stringendo i denti.

"Che ti ho fatto amore mio?" Pensò il castano, sconvolto a quella vista.
 
~♦~
 
Restarono in quella chiesa due settimane, sperando che il moro si riprendesse abbastanza e che guarisse, ma non successe. Sembrava che Derek non riuscisse ad indurre il recupero della salute, probabilmente a causa di quello che aveva subito.
Erano state due settimane lunghe ed estenuanti, fatte di silenzi e di lacrime, di tocchi gentili e di scatti per sottrarsi a quei tocchi; due settimane in cui Stiles si era preso cura di Derek con la morte nel cuore, lavandolo e medicando le sue ferite, cercando di toccarlo il meno possibile perché il moro rabbrividiva e sul suo volto appariva uno sguardo spaventato ogni volta che lui stendeva la mano.
Erano state due settimane in cui Stiles aspettava che Derek dormisse, o fingesse di farlo, per allontanarsi e piangere, per sfogare il dolore di ciò che aveva inferto a colui che amava e lo amava. Due settimane che si erano concluse quando Derek aveva allungato tremante la mano e aveva afferrato la sua.

«Dobbiamo andare» aveva mormorato evitando i suoi occhi.

Il ragazzo era rimasto in silenzio ad osservarlo mordersi le labbra per quasi un minuto, senza osare muoversi, godendo ancora del suo tocco sulla pelle. Derek non l'aveva ancora lasciato andare.
Era stato quando Il moro lo aveva guardato dritto negli occhi che era quasi scoppiato a piangere: era uno sguardo timoroso da animale ferito, ma era per lui, voleva lui. Stiles aveva sentito gli occhi farsi lucidi e in cuore battere all'impazzata nel suo petto. Era impossibile che non lo sentisse anche lui.

«Ho bisogno che mi porti via di qui» aveva sussurrato il moro cercando di mantenere il contatto visivo.

Stiles aveva ingoiato le lacrime e aveva fatto un cenno d’assenso.
Prima gli aveva steccato il braccio rotto, cercando di evitare che le sue dita toccassero la sua pelle. Poi lo aveva aiutato ad alzarsi sulle sue gambe incerte e lentamente s'erano incamminati senza una meta, cercando solo una casa da cui poter chiedere aiuto.
 


Ci vollero due giorni per raggiungere la civiltà, due giorni di silenzi nervosi e occhi sfuggenti.
Quando tornarono a Beacon Hills fu scontato dirigersi al loft, senza dire nulla a nessuno, per leccarsi le ferite, senza che nessuno sapesse di loro.
Si sistemarono nell’appartamento senza dire nulla a nessuno, fu una cosa naturale, non ebbero nemmeno bisogno di parlarsi per deciderlo. Avevano bisogno di tempo per guarire le loro anime, lontano dalla presenza soffocante del branco e dalle loro attenzioni.

Derek si sistemò nella camera che era stata di Cora, mentre Stiles decise di dormire sul divano, vergognandosi troppo per osare chiedere al moro anche solo una coperta o un cuscino dopo quello che gli aveva fatto. Per due notti dormì raggomitolato su se stesso, patendo il freddo e la scomodità della stanza. Poi, la mattina del terzo giorno, si svegliò a pomeriggio inoltrato un panno a coprirlo e un cuscino davanti a lui.

Derek sfuggiva ancora ai suoi occhi e al suo tocco, ma non gli era possibile più di tanto: il suo braccio non guariva e aveva bisogno del ragazzo per ogni cosa. Vestirsi, mangiare, lavarsi: non poteva fare nulla senza il suo aiuto.
Ogni volta che lo toccava, il moro rabbrividiva, con dolore del castano. Lui faceva del suo meglio per non toccare la sua pelle, ma era difficile. Quando mangiavano teneva gli occhi bassi, evitando i suoi, nonostante mangiassero dallo stesso piatto: dopo che il Nogitsune l'aveva drogato, Derek non riusciva più a fidarsi di Stiles e non riusciva a mangiare se non aveva la pallida certezza che il cibo fosse sicuro. Per capirlo ci erano voluti tre giorni di digiuno e un'ustione sull'avambraccio, quando Derek aveva tentato di cucinare per sé mentre lui era fuori.
Quando, tornato a casa, il castano l'aveva visto tenere il braccio sotto l'acqua fredda credeva che non avrebbe potuto sentirsi peggio di così, anche se avrebbe dovuto ricredersi.
Tirando su col naso e asciugandosi rabbiosamente le lacrime si era messo a cucinare sotto gli occhi del moro, poi aveva versato tutto in un solo piatto, mangiandone qualche boccone, per poi offrirne uno a lui, sulla punta della forchetta. Solo in quel momento, passato un istante d'esitazione, Derek aveva ripreso a mangiare.
 
~♦~
 
Il peggio era stato quando i graffi sulla schiena di Derek si erano infettati. Erano settimane che non riuscivano a pulirli a dovere perché nessuno dei due riusciva a gestire le sue emozioni: Derek prendeva a tremare per la paura e a volte Stiles aveva dei flash, in cui si sentiva di nuovo prigioniero nel suo corpo e doveva allontanarsi dal moro.
La prima volta che era successo gli si era rivoltato lo stomaco per lo schifo di sé e a stento era riuscito a raggiungere il bagno. Quella volta però dovette farsi violenza ed ignorare le emozioni di entrambi.
L’aveva trovato verso le tre di notte nel suo letto, in un bagno di sudore, che batteva i denti e gemeva senza nemmeno rendersene conto. La pelle del suo viso era cerea, aveva delle profonde occhiaie e lo sguardo sbarrato.
Stiles si era spaventato e per istinto gli aveva toccato la fronte facendolo trasalire: era bollente. Con un nodo in gola aveva cominciato a levargli le coperte di dosso, avendo un sospetto molto preciso di cosa avesse causato la febbre, gliene serviva solo la conferma.

«Fermati» aveva detto con un gemito il moro rabbrividendo al contatto con l'aria.

«Non posso» gli aveva risposto il castano sentendo un dolore al petto.
Non avrebbe mai voluto costringerlo a fare qualcosa che non voleva, che gli ricordasse quello che gli aveva fatto subire, soprattutto ora, ma se non l'avesse fatto le conseguenze sarebbero state ben peggiori.

«Stiles, fermati» l’aveva supplicato col terrore nella voce quando lui gli aveva alzato la maglia scoprendogli la schiena.

Il ragazzo si era sentito morire dentro sentendo le suppliche del moro, ma aveva ragione: le ferite sulla schiena si erano infettate e andavano pulite, qualsiasi cosa dicesse Derek, non si poteva evitare.

«Stiles, fermati!» l’aveva supplicato un po' più forte.

«Mi dispiace Derek non posso» aveva insistito l’altro con voce tremula.

«Ti prego...» una preghiera con un filo di voce, forse sul punto di rompersi.

«Non posso Derek» gli aveva risposto con voce rotta «Devi alzarti. Dobbiamo pulire le ferite»

Il moro tremando l’aveva assecondato, forse per paura, forse perché riusciva a capire che il suo rifiuto era dettato dalla necessità. Arrivarono fino al bagno dove Stiles aveva deciso che il modo migliore per liberarsi del grosso dell'infezione era lavarla via con l'acqua.
 
Stiles era di fronte al moro e sapeva che avrebbe fatto un sacco di cose che nessuno dei due avrebbe voluto fare o subire, ma non potevano fare altrimenti. Aveva già il senso di colpa che gli creava un nodo in gola, ma cercò di farsi forza e si avvicinò al suo innamorato. Con il respiro tremante, cominciò, tentò di levargli la maglia con gesti concitati, ma Derek cercò di opporre una debole resistenza afferrandone il bordo.


 


«No» gemette spaventato, senza rendersi conto di dove si trovava.

«Der-»

«No» insistette lui a capo chino e coi denti digrignati e un pallido tentativo di zanne.

Anche Stiles strinse i denti e con uno strattone liberò l'orlo e gli levo la maglietta.

«No, non farlo» gemette ancora, più spaventato «Ti prego...»

«Ti prego no» gemette quando il ragazzo afferrò saldamente l'orlo dei pantaloni; il moro mise le mani sulle sue e per un istante Stiles credette che avrebbe dovuto combattere per levarglieli, ma a distrarlo dai suoi ragionamenti arrivò la fronte bollente di Derek premuta contro la sua.

«Ti prego, no» lo supplicò ancora con gli occhi serrati e la mani strette debolmente sulle sue.

Era da quando il Nogitsune li aveva seviziati che i loro visi erano così vicini.
Alla vista del volto del suo amato sofferente e stravolto, Stiles scoppiò in singhiozzi e lasciò l'orlo dei suoi pantaloni. Le sue mani corsero alle sue spalle e lo costrinse ad indietreggiare fino a farlo trovare sotto il soffione.

«Mi dispiace» mormorò tra i singhiozzi, facendo scivolare il volto lungo la guancia, il collo e trovando infine l'incavo della spalla; il moro specchiò i suoi movimenti senza diminuire la tensione dei suoi muscoli, ancora terrorizzato e col braccio rotto stretto al petto.

«Mi dispiace...» ripeté allungando la mano fino ad aprire il rubinetto.

Poco importava se lui era ancora vestito con la sua felpa dismessa e i jeans, mentre Derek portava ancora i pantaloni del pigiama.
Derek grugnì di dolore quando l'acqua toccò le sue ferite, ma Stiles non gli permise di allontanarsi, abbracciandolo più stretto.

«Lo so, lo so, fa male, ma devi resistere» mormorò seguendo la linea del collo e poi della mascella col naso, ritrovandosi vicinissimo alla sua bocca.

«Stiles, fa male…» gemette in tono lamentoso ma stringendoglisi contro.

«Lo so Derek, resisti, resisti che starai meglio» gli mormorò mentre le lacrime si mescolavano all'acqua della doccia che li stava inzuppando.

«Stiles, brucia!» esclamò spalancando i suoi splendidi occhi verdi e guardandolo dritto nei suoi.

Il ragazzo subito allungò una mano per capire se davvero l'acqua era davvero troppo calda ma la sentiva tiepida, anche troppo fredda per i suoi standard.

«Cosa brucia? Cosa ti fa male?» gli chiese tornando in un attimo ai suoi occhi.

Per qualche secondo credette che il moro avesse le allucinazioni e che vedesse la sua casa bruciare a causa degli occhi persi e vuoti.

«La schiena... La schiena mi brucia da morire» gli rispose stringendo i denti.

Non sapendo neppure perché Stiles si lasciò scappare un sospiro di sollievo, per poi tornare a concentrarsi sul moro

«Derek, devo alzare la temperatura e la forza del getto, devi resistere» gli disse cercando di suonare deciso, ma stava soffrendo pure lui per il suo amato; una lama nella carne avrebbe fatto meno male.

«Non resisto» gli disse lui.

«Devi» gli ripeté.

«Non resisto, non senza distrarmi» gemette.

Stiles intanto aveva alzato il rubinetto e Derek grugnì di dolore e morse il tessuto della sua felpa per impedirsi di gridare.

«Derek, resisti» disse facendo vagare le mani su di lui alla ricerca di un punto dove poterlo afferrare senza fargli male, finendo per fermarsi con le mani sulle sue spalle.

«Resisti ancora un minuto» lo supplicò parlandogli all'orecchio e poi premette la sua testa contro la sua, ma Derek decise di muoversi.

Mentre il vapore cominciava a calare su di loro, il moro percorse con le labbra il suo stresso percorso, lungo la spalla la linea del collo, quella della mascella, fino a catturare le sue labbra, aprendogliele e infilandoci la lingua. Fu così inaspettato che Stiles lasciò la presa sulle sue spalle e subito Derek catturò le sue mani, stringendole tra le sue.
Stiles non si ribellò, avrebbe potuto spezzargli un polso che non avrebbe osato lamentarsi, si meritava ben di peggio per quello che il suo corpo gli aveva inferto.
Derek lo fece voltare e lo premette contro il muro, forse mettendoci più forza di quello che avrebbe voluto, ma il castano riuscì nell'impresa di non fare un fiato nonostante avesse sbattuto su qualcosa di metallo.
Ora erano entrambi sotto il getto d'acqua calda, mentre il vapore li avvolgeva e le loro labbra non si erano ancora separate un secondo, baciandosi voracemente, con l'acqua che scorreva sui loro volti e si mischiava alla loro saliva nelle loro bocche, privandole del loro sapore.
Le mani di Derek smisero di tenergli bloccati i polsi e scivolarono sui suoi palmi fino a trovare le dita che intrecciò con le sue.

«Perché?» gemette lui sulla sua bocca.

Le labbra di Derek si erano allontanate quanto bastava per porre quella domanda a cui nessuno dei due sapeva o voleva dare risposta. Gli occhi del giovane erano persi in quelli del ragazzo, febbricitanti. Senza dire una parola tornò a baciarlo togliendogli l’aria.
Non ci fu bisogno d'altro: Stiles si lasciò baciare mentre il mannaro riprendeva con lo stesso doloroso ardore e stringeva di più le sue mani. La sua bocca lasciò le labbra del moro, per seguire una via che conosceva solo lui lungo la mascella, il collo, la gola, depositando baci e morsi delicati lungo il suo cammino.

«Derek» gemette vicino in suo orecchio mentre il mannaro gli baciava la gola e lo spingeva di più contro il muro.

«Derek» gemette ancora.

Il moro lo ignorò e gli morse la pelle del collo troppo forte, facendogli male, ma lui non glielo disse.

«Derek» lo invocò di nuovo, mentre la voce gli si spezzava e si scioglieva in lacrime.

«Derek, ti-» il moro gli tappò la bocca con la sua e si spinse ancora di più contro di lui, facendolo mugolare.

Fu un bacio lungo passionale, ma Stiles non riusciva a levarsi il pensiero che l’avesse fatto solo per zittirlo.

«Derek…» lo chiamò piano, col respiro affannato come se avesse corso una maratona.

Il moro non disse nulla ed evitò i suoi occhi nascondendo il viso nell’incavo del suo collo.

«Derek, perché mi hai zittito?» il moro non aveva detto nulla e non si era mosso.

Le lacrime cominciarono a scendere lente dai suoi occhi: quel silenzio era un’ammissione, un’ammissione dolorosa che lui non l’amav-

«Non ci riesco» Stiles deglutì a vuoto, ascoltando la voce già rotta del suo innamorato. «Non ci riesco. Non riesco a sentirtelo dire e a non pensare che sia il Nogitsune a parlare…. Fa troppo male, non voglio sentirlo. Ti prego, non voglio sentirtelo dire…»

Non era difficile indovinare che Derek stesse piangendo contro la sua felpa fradicia e pesante, ma questo non attenuava il dolore di nessuno dei due.
Stiles era poco meno che annichilito dalle sue parole. E il bacio? Cosa significava quel bacio? Perché l’aveva fatto? Era solo per non dover ascoltare? Cosa significava per lui? Avrebbe voluto fargli queste e altre domande ma il mannaro si allontanò da lui con lentezza inesorabile
Derek lo lasciò andare e barcollando fece un passo indietro; il castano invece scivolò lungo il muro della doccia che ancora la bagnava. La sua mente era vuota riusciva solo vagamente ad afferrare quello che era appena successo.
Lui e il moro si scambiarono uno sguardo sgomento, senza sapere cosa dire o che fare.

«Io torno in camera» mormorò il mannaro muovendosi incerto sulle gambe; il ragazzo rimase fermo sotto il getto d’acqua senza sapere come reagire.

Si rialzò intontito, spense la doccia e osservò quasi in trance la traccia lasciata da Derek. Non poteva certo dormire bagnato e doveva ancora pulire le ferite. Si prese solo il tempro per strizzare i suoi vestiti e per raccogliere degli asciugamani che vide nella stanza e svelto lo seguì con la morte nel cuore. La porta della camera da letto era accostata così Stiles la spinse piano, intenzionato a non spaventare Derek.
Si trovò davanti uno spettacolo pietoso: il mannaro era intento a sfilarsi i pantaloni e l’intimo, ma non ci riusciva, il braccio rotto rendeva tutto più difficoltoso; per di più ora riusciva a vedere bene la schiena del moro. Era coperta di graffi arrossati e gonfi, dall’ aspetto infetto.
Svelto posò gli asciugamani sul letto e s’inginocchiò accanto a Derek, portò le mani sull’orlo dei sui pantaloni, ma come il mannaro sentì il suo tocco si girò di scatto e lo afferrò per i capelli, facendolo gemere. Stiles però non si sottrasse a quel gesto, rimase in attesa di ciò che avrebbe fatto il mannaro, cercando di mostrarsi il più remissivo possibile. Cos’era quella tirata di capelli in confronto a ciò che aveva fatto patire al moro in fondo?

«Ti tolgo i vestiti bagnati e poi ti pulisco le ferite» mormorò piano sentendo la mano del moro che veniva scossa da un tremito leggero.

«Derek non ti farò del male, ti prego, credimi» gli disse anche se sapeva che non era quello il problema, non quello maggiore. Derek non riusciva ad accettare di essere toccato.

Il giovane non diceva nulla, ma non lo allontanava nemmeno, così Stiles decise di ritentare di levarglieli, piano, per non spaventarlo.
Aveva appena abbassato il bordo quando la stretta di Derek sui suoi capelli si fece più forte e il castano dovette bloccarsi di nuovo; alzò gli occhi su di lui trovandolo cereo, ma era impossibile dire se fosse a causa della febbre o della paura. Detestava vederlo così, ogni volta era come ricevere uno schiaffo in faccia e vedersi sbattere davanti agli occhi fino a che punto l’aveva traumatizzato.
Il ragazzo deglutì la saliva e si allungò per prendere un asciugamano e spiegatolo lo porse al moro. Quello lo guardò esitante mentre le sue labbra, notò Stiles, tremavano e assumevano una sfumatura violastra.
Alla fine il mannaro cedette e lo prese portandoselo davanti al sesso.
Stiles stando attento gli levò i pantaloni e l’intimo insieme e con tutta la delicatezza di cui era capace legò l’asciugamano sui fianchi del suo amato. Il giovane però non si stese a letto e rimase ad osservarlo, ben sapendo che non poteva stendersi.

«Per favore, fammi vedere la schiena»

Derek esaudì la richiesta del ragazzo barcollando e con lo sguardo vacuo; sussultò quando la punta delle dita dell’umano sfiorarono la sua pelle ed irrigidì i muscoli per non scappare. Stiles cautamente gli fece sapere che avrebbe dovuto toccarlo cercando di essere il più discreto possibile, ma sentendo la reazione del mannaro sotto le sue dita si trovò costretto ad ingoiare le lacrime.
Erano settimane che era sempre sull’orlo di una crisi di nervi, l’ultima cosa che poteva essere utile al moro per stare meglio, e si detestava per non riuscire ad avere un maggior controllo sulle sue emozioni. Perché era scontato che Derek sapesse, sapesse del disgusto di sé che provava, di tutti i suoi pianti, del suo terrore, della sua angoscia; le sue emozioni appestavano l’aria della casa del giovane e non facevano che rendergli più difficile la guarigione.

“Calmati o peggiorerai la situazione”

Doveva estrarre l’infezione dalle ferite di Derek o non sarebbe mai guarito così si fece forza e, messosi un asciugamano sulle spalle, prese a premere sui gonfiori lungo le ferite.
Era un lavoro penoso e lungo, ogni grugnito del moro era un pugno dello stomaco per lui: aveva giurato di non fagli più del male e ora aveva infranto quel suo giuramento parecchie volte, non importava che fosse necessario, lui non voleva far soffrire Derek mai più.
 


Dopo un’ora abbondante il ragazzo gettò infine l’asciugamano a terra e stabilì che le ferite erano pulite.
Pulite, non disinfettate. L’infezione non era ancora debellata, forse avrebbe dovuto pure dargli un antibiotico e non aveva idea di come avrebbe potuto procurarselo. S’impose di pensare ad una cosa per volta, perciò si diresse di nuovo in bagno e poi in cucina nella speranza di trovare qualcosa per disinfettare le ferite. Speranze che ovviamente s’infransero al confronto con la realtà.
Derek era un mannaro e come tale non aveva nessun genere di medicamento in casa. Stiles aveva sperato che ne avesse comprati quando avevano cominciato a frequentarsi, visto la facilità con cui si faceva male, ma forse non aveva nemmeno fatto in tempo a formulare un pensiero del genere.
Perciò ora si trovava in cucina, aggrappato al bancone, cercando di capire cosa poteva fare. Lo sguardo vagava fino a che non si fermò su un pacchetto di sale rimasto aperto. Gli venne in mente una delle poche lezioni davvero utili della prof di biologia, “Come pulire e disinfettare gli strumenti senza disinfettante”. Bastava solo un po’ di acqua, sale e limone. Avrebbe anche potuto usare l’aceto, ma non ne avrebbe trovato in casa: a Derek faceva schifo.
Preparò l’intruglio pregando di non sbagliare le dosi e ripromettendosi di procurarsi un disinfettante serio quanto prima, poi tornò veloce al capezzale del moro.

«Derek…»

«Abbiamo finito?»

Il mormorio esausto del giovane lo interruppe e lo costrinse a prendersi qualche secondo per calmarsi. Ogni volta che piangeva restava sull’orlo delle lacrime per ore, bastava pochissimo a farlo piangere di nuovo.

«Purtroppo no» gli rispose posando il bicchiere col disinfettante sul comodino «Le ferite sono pulite, ma non abbastanza. Questo è il meglio che sono riuscito a fare… dovresti andare da un medico e farti dare un antibiotico»

Le dita del moro artigliarono il lenzuolo con cui si era mezzo coperto. Stiles lo sapeva che non ci sarebbe andato, non c’era bisogno che lo dicesse ad alta voce.

«Brucia?»

Il mannaro si era voltato verso di lui con la testa e occhieggiava il bicchiere. A quella domanda, il castano sospirò rassegnato.

«Non ne ho idea. Non so nemmeno se funziona. Non ho avuto idee migliori.»

Derek non disse altro, nascose il viso nel cuscino e sopirò in segno di resa. Stiles perciò riprese il suo penoso lavoro.
 


Venti minuti più tardi aveva finito e il mannaro non aveva detto una parola. Il ragazzo non si era nemmeno azzardato a chiedergli se gli facesse male, la vergogna gli cuciva la bocca. Gli diede un ultimo sguardo; sembrava tranquillo: era riverso sul fianco, attento a non appoggiarsi sul braccio che persisteva a restare rotto, e respirava piano. Stiles si convinse che si fosse addormentato dato che aveva gli occhi chiusi, ma quando provò ad alzarsi il moro lo afferrò per un polso facendolo sussultare.

«Resta» mormorò con gli occhi lucidi per la febbre, e al ragazzo non sembrò vero che glielo chiedesse o che lo stesse toccano.

Poi lo stomaco gli si annodò, pensando alle conseguenze che avrebbe potuto avere sul suo amato restare con lui in un momento del genere.

«Non credo sia una buona idea…» provò a dire ma il mannaro scosse la testa e aumentò la forza nella sua stretta.

«Resta» insistette, con gli occhi allucinati «Ho… ho sognato… cose.»

Non c’era bisogno che Derek specificasse cosa avesse sognato, Stiles lo poteva immaginare perfettamente.

«Proprio per questo non dovrei restare» cercò di suonare calmo e ragionevole, ma il moro scosse la testa gli mentre quelle parole uscivano dalla sua bocca.

«Stiles resta» il giovane deglutì la saliva e aprì di nuovo la bocca per parlare ma le parole non vennero fuori.

Dopo qualche secondo, Derek chiuse occhi e bocca e tornò ad appoggiarsi al cuscino. Il castano si aspettò che lasciasse la presa, ma diminuì solo la forza che ci metteva.

«Ho bisogno che tu sia qui. Quando finisce…» di nuovo il moro si bloccò, ma il ragazzo non gli mise fretta. Era una delle frasi più lunghe che avesse pronunciato in quei giorni; si era perfino dimenticato di respirare tanto era concentrato sulle parole del mannaro.

«Quando finisce sono terrorizzato e ho paura anche solo a respirare. Ti prego resta. Forse… forse puoi fare qualcosa…» gli occhi di Derek tornarono ad aprirsi e si fissarono nei suoi.

Sapeva che era un grosso azzardo, che poteva peggiorare la situazione e dargli la sensazione che il suo incubo non fosse finito, ma restare solo coi suoi incubi era peggio. Lo sapevano entrambi. Così Stiles cedette e si sedette a terra accanto al letto. Derek, poco dopo, si addormentò esausto.
Passò forse un’ora o due ad ascoltare il respiro del ragazzo che amava, apparentemente sereno, con la testa e la schiena appoggiate al muro, quando il moro si accigliò e cominciò a gemere nel sonno. Subito, l’umano gli si avvicinò, ma esitò a svegliarlo, sperando che l’incubo finisse o per paura di spaventarlo ancora di più. Alla fine riuscì a superare il disagio del toccarlo e lo scosse lievemente, facendo forza sul fianco esposto.

La risposta di Derek fu rapida e spaventosa: come aprì gli occhi e lo vide, il braccio sano scattò verso di lui. Gli afferrò la gola ancora prima che Stiles potesse capire cosa stesse succedendo e se ne rese conto solo quando sentì gli artigli del mannaro bucargli la pelle.
Era raggelato, ma provava una sorta di calma mentre succedeva; se l’era meritato, aveva fatto del male a Derek e lui giustamente era spaventato e si difendeva. Non gli passò nemmeno per la testa di difendersi o provare a fermarlo, nemmeno a parole.
Incredibilmente non si ritrovò riverso in una pozza di sangue con la gola squarciata, ma a guardare sorpreso e atterrito il viso del ragazzo che amava con gli stessi sentimenti negli occhi. La mano che lo soffocava si spostò sulla nuca, sfiorandogli la guancia e l’espressione sul viso febbricitante di Derek si fece addolorata. Non voleva fargli del male, anche dopo tutto quello che gli aveva inferto lui. Lo stomaco del castano si annodò per il rimorso.
La mano del moro tremava, ma non si allontanava, se lo tirò leggermente più vicino addirittura. Il ragazzo non ne capì il motivo a assecondò il movimento senza fermarsi a farsi domande inutili, finendo per trovarsi vicino al volto del moro, già bagnato di sudore.

«Ti asciugo la fronte» sussurrò piano per non dargli troppo fastidio.

Il moro chiuse gli occhi e fece un lieve cenno d’assenso pima di riaprirli. Il castano stese la mano per prendere sia la bottiglia d’acqua vicino al comodino che uno degli asciugamani abbandonati poco distanti e, inumiditolo, prese a tamponare delicatamente la pelle del mannaro. Lo faceva con estrema delicatezza, senza fretta, come se stesse pulendo l’opera d’arte più fragile e meravigliosa della terra. Cosa non troppo lontana dalla realtà per lui. Derek non si lamentò, né sfuggì ai contatti involontari, rimanendo ad osservare il vuoto con uno sguardo vacuo.
Stiles poi decise che lasciargli l’asciugamano umido sulla fronde gli avrebbe fatto piacere, così lo piegò per bene e dopo averlo inumidito di nuovo, glielo sistemò sul capo, ma con sua sorpresa, il mannaro lo prese in mano e prese a passarglielo sul collo.
Il castano per qualche secondo sentì solo il cuore salirgli in gola e il ventre scaldarsi, per poi darsi della bestia: il collo era un suo punto debole, gli era sempre piaciuto che Derek lo toccasse lì o lo baciasse, ma non poteva provare quel misto d’eccitazione aspettativa ora che il moro era ridotto in quelle condizioni. Per causa sua.
Quelle sensazioni furono sostituite, da un nodo in gola e da un pizzicore agli occhi e al naso, che peggiorò quando realizzò che il mannaro stava ripulendolo dal sangue che gli aveva involontariamente fatto versare. Gli ci volle tutto il suo autocontrollo per non scoppiare in singhiozzi e comunque il giovane si era accorto perfettamente del suo stato d’animo.

«Vieni a letto?»

Fu solo un sussurrò, ma il ragazzo lo sentì forte come se glielo avessero urlato nelle orecchie. E annuì, non si pose il problema che potesse essere spaventoso per il mannaro. Semplicemente gli rimise l’asciugamano sulla fronte e gli si sdraiò accanto, sopra le coperte e lasciandogli spazio per muoversi. Non dissero altro per quella notte.
Stiles dormì poco e male, sdraiato su un fianco e ascoltando il sonno del ragazzo steso alle sue spalle. Nemmeno lui dormì bene: ebbe si sonno agitato per gran parte della notte, tormentato dalla febbre e dagli incubi che spesso lo svegliavano. Più di una volta il ragazzo si sentì afferrare il braccio o la spalla e gli artigli del moro pungergli la pelle, ma non se ne lamentò. Derek non lo ferì mai e lui finse sempre di dormire, anche quando lo sentì sollevarsi per osservarlo.

Verso le sei Derek sembrò addormentarsi profondamente e quando la luce grigia dell’alba cominciava a filtrare dalle finestre chiuse, il castano decise di alzarsi e vedere come stava il giovane. Senza che il moro se ne accorgesse. Spostò la coperta e con suo sollievo vide che i graffi non erano nulla più di striature rosse sulla pelle; Derek stava guarendo.
Tirò un sospiro di sollievo e si alzò dal letto, indeciso sul da farsi. Era stravolto, ma non sapeva se dormire, spostarsi sul divano o farsi del caffè; indeciso, si voltò verso Derek che dormiva e scoprì un’espressione calma sul suo viso. Il cuore prese a battere più veloce: erano settimane che non vedeva la serenità sul viso del ragazzo che amava, né credeva che l’avrebbe vista tanto presto, così scoprirla ora, dopo quella notte d’inferno era un balsamo per lui, ma gli faceva tremare le mani e il cuore. Nemmeno sembrava che avesse passato una notte terribile.
Fu allora che gli venne in mente di controllore che la febbre stesse scendendo. Con il cuore che batteva forte si avvicinò e stese la mano, ma ancora tremava.

“Non posso farlo così, finirò per svegliarlo”

Stiles rimase a guardare il moro con una smorfia sul viso; aveva un piano B, ma se Derek si fosse svegliato sarebbe stato molto peggio. Tuttavia non vedeva altre alternative, così si chinò su di lui e permette le labbra sulla sua fronte.
Era fresco, più fresco delle sue labbra; la febbre era passata o quasi. Il ragazzo si rialzò con un accenno di sorriso sul volto: era la prima cosa che andava bene da quando il Nogitsune aveva ingannato entrambi. Qualcosa poi nel viso del moro lo costrinse prima ad aguzzare la vista, poi a spalancare gli occhi sorpreso: anche Derek sorrideva. Un sorriso lieve e quasi invisibile, ma sorrideva.
Uscì dalla stanza con gli occhi e il naso che pizzicavano a causa delle lacrime che stava per versare. Si diresse in cucina, deciso a ricacciarle indietro: aveva pianto ogni giorno da quando era successo tutto quell’orrore e non voleva farlo ora che intravedeva un minuscolo miglioramento. Senza fare rumore si mise a fare il caffè, con la mente concentrata solo sui movimenti che facevano le mani.
Un quarto d’ora dopo stringeva tra le mani una tazza di caffè nero e bollente, ma non riusciva a portarsela alle labbra. Come in trance, fissava il liquido scuro e immoto, coi muscoli irrigiditi e un oppressione al petto. Alla fine sentì una carezza lenta scendere lungo il naso e pochi istanti dopo la superficie del caffè s’increspò. Aveva cominciato a piangere.

Lo fece senza un rumore, coi denti stretti e irrigidito dal dolore. Il suo sguardo era fisso sulle varie increspature che si formavano nella tazza e si accorse dei passi che si avvicinavano solo grazie al silenzio nel loft.
Quando alzò il capo con le lacrime che gli rigavano le guance Derek era davanti a lui. Non dissero nulla, rimasero a guardarsi in silenzio; Stiles sapeva che la sua espressione doveva essere addolorata, ma il moro aveva il viso come scolpito nella roccia. Il castano non sapeva cosa aspettarsi e lo guardava in attesa che lui facesse qualcosa.
Stava per gridargli addosso? Stava per recriminargli quello che gli aveva fatto? La febbre? Stava per andarsene? Per dirgli che quello che era successo in doccia era da dimenticare ed era tutta colpa della febbre? Stava per dirgli di andarsene?
La mente del ragazzo si dibatteva tra tutte quelle domande e a salvarlo arrivò la mano del mannaro. Fu un gesto fluido, prima ancora che se ne rendesse conto, la mano del moro gli accarezzava la guancia e il pollice gli asciugava le lacrime. Stiles si trovò a trattenere il fiato mentre il cuore gli esplodeva in gioia e dolore.
Un secondo dopo, con lentezza, il moro si avvicinò e si chinò su di lui, fino a posargli un bacio in fronte. Il gesto era rigido ma deciso e il castano lo avvertì distintamente, così s’immobilizzò col terrore di allontanarlo. Nemmeno la sensazione orribile della mancanza d’aria riuscì a farlo muovere.
Le labbra di Derek erano ancora premute sulla sua fronte e lui non riusciva a respirare per la sorpresa, riusciva solo a lasciar scendere le lacrime. Quando la pressione sulla sua fronte diminuì fu assalito da pensieri orribili.

“Sta per lasciarmi. Sta per lasciarmi. Sta per dirmi che non riesce più ad amarmi dopo quello che gli ho fatto. Sta per cacciarmi. Sta per dirmi che-”

Le labbra di Derek si posarono sulla sua guancia, vicino alla radice del naso, poi si spostarono su un neo, sotto l’occhio, sulla linea della mascella, sullo zigomo e poi sull’altra guancia, asciugando con quei baci le lacrime che lui stava piangendo.
Lui lo stava consolando.
Dalle labbra di Stiles sfuggì un singolo singhiozzo e il moro gli sussurrò una sola parola per confortarlo.

«Grazie»
 
~♦~
 
Era passato poco più di un anno e mezzo da quando il Nogitsune aveva rubato il suo corpo e aveva violentato Derek, costringendolo a guardare.
Era passato poco più di un anno da quando, senza dirselo si erano lasciati.

Dal momento in cui Derek era guarito dalla febbre le cose erano sembrate andare meglio, tanto che due giorni dopo, quando Stiles gli aveva chiesto di passargli un bicchiere, il moro senza pensarci aveva usato il braccio che credevano rotto e avevano scoperto che era guarito. Le cose restavano difficili, non avevano parlato nemmeno tra di loro di quello che era successo, ma si sforzavano di far funzionare la loro storia, pur tenendola segreta; i giochini e le battute da parte del branco erano l’ultima cosa di cui avevano bisogno.
Baciarsi era rimasto difficile e lo facevano di rado. Un paio di volte il castano si era sporto verso Derek con l‘intenzione di posare le sue labbra sulle sue, ma quello si era ritratto rigido e pallido; mortificato, Stiles aveva rinunciato, attendendo che fosse il moro a trovare il coraggio di farlo. Era rimasto in attesa anche svariate settimane, con la fermezza e la tenacia di un fedele che prega per un miracolo.
Poi era tornato a Quantico e Derek l’aveva baciato una notte prima che partisse, sotto una pioggia fitta e la luce di un lampione; quando si erano separati, Stiles aveva creduto che gli avessero strappato il cuore dal petto insieme a quel bacio. Aveva il sapore di un addio.
Quando Derek aveva smesso di rispondere ai messaggi e non l’aveva trovato al suo ritorno era stato preso da una dolcezza amara al pensiero che il cuore glielo avesse strappato lui e lo conservasse con cura.

Di lui aveva avuto sporadiche notizie in quell’anno. Ogni tanto quando chiamava Scott o Liam quelli gli parlavano dell’ultima calamità accaduta in quella dannata città e gli dicevano che il moro era apparso per portare loro un qualche artefatto o il suo aiuto quando le cose sembravano senza via d’uscita, ma le informazioni si fermavano lì: Derek come appariva spariva nel momento in cui la minaccia rientrava.
I giorni gli scivolavano addosso, concentrato sui casi e la solitudine. Da Quantico l’avevano trasferito a New York, dopo uno stage condotto brillantemente e la sua vita si era fatta più piena e frenetica, ma sempre arida di sentimenti ed incontri.

E ora si trovava sul marciapiede di una trafficata strada newyorkese a guardare dal lato opposto incredulo e paralizzato dallo stupore.
Dall’altra parte, inconsapevole di lui, stava Derek.

L’aveva visto tre volte quella settimana, sempre convinto d’essersi ingannato; l’aveva visto fermo in una fermata della metro, mentre usciva da una caffetteria e mentre entrava in un taxi. Sempre in situazioni poco chiare e in momenti pieni di fretta, ma ora era impossibile sbagliarsi.

Forse si sentì osservato, forse fu il caso, fatto sta che il mannaro si voltò e i loro occhi s’incrociarono. Stiles si sentì percorrere da un brivido e il suo stomaco era annodato da un miscuglio indistricabile di emozioni: speranza, ansia, gioia e dolore che gli bruciavano l’anima senza pace, ma sopra tutti avvertiva il rimorso per ciò che aveva fatto all’uomo che ancora amava.
Dopo un anno di silenzio lo amava ancora.
Dopo un anno e mezzo ancora non si dava pace per ciò che gli aveva fatto.
Qualcuno lo urtò sull’affollato marciapiede facendogli perdere l’equilibrio. Quando riuscì a tornare in piedi e si voltò a cercare di nuovo Derek scoprì che era scomparso.

“È giusto così. Chi vorrebbe vedere il proprio aguzzino?”

Quel pensiero lo accompagnò durante tutta la giornata e ogni volta che incrociava gli occhi di un colpevole vedeva i suoi.
 


Tornò a casa che era l’ombra di se stesso, anche peggio del solito. La vita gli scorreva davanti come il paesaggio monotono dal finestrino della metro. Non vedeva i volti, non vedeva i luoghi, raggiunse l’ingresso del condominio dove abitava solo perché i suoi piedi conoscevano la strada a memoria. Con la stanchezza che glieli rendeva pesanti come blocchi di cemento, salì le scale dell’androne e raggiunse l’ascensore, trovandolo vuoto. Non che ci fosse molta gente in giro a quell’ora.
Fu quando le porte si aprirono e lui arrivò sul pianerottolo che capì che c’era qualcosa che non andava. D’improvviso la consapevolezza che ci fosse qualcuno con lui gli risvegliò i sensi. Senza dar segno d’essersene accorto si avvicinò alla porta del suo appartamento, un’unica stanza per privare eventuali ladri di posti in cui nascondersi, e come il migliore degli attori finse di cercare le chiavi nelle tasche con il solo scopo di raggiungere la pistola d’ordinanza.
Infilò la chiave nella toppa e la girò per avere una via di fuga. Poteva essere solo un nuovo inquilino o qualcuno che per qualche motivo aveva cambiato i suoi orari, non doveva per forza essere qualcuno che lo voleva morto; era troppo presto per essersi inimicati qualche boss o la mafia cinese.
La mano tuttavia era sul calcio della pistola, già libera dalla fondina e ben nascosta dalla giacca.  Con un movimento studiato si girò estraendo l’arma, mentre l’altra mano spingeva la porta per entrare svelto in casa. Solo che si trovò davanti a qualcosa che non si aspettava.

Prima che il suo cervello potesse davvero capire cosa stesse succedendo, l’inseguitore, un guizzo di capelli scuri, pelle chiare e barba, gli si era infilato tra le braccia prendendogli il viso; era bloccato, non poteva sfuggirgli, gli avrebbe spezzato il collo con un movimento dei polsi. Il cuore gli risalì fino alle labbra e lì fu fermato dalle labbra del giovane.
Tutto si cristallizzò nello stupore del momento.
Lo stava baciando.
Derek lo stava baciando.

Solo ora riconosceva le mani sul suo viso, solo ora aveva riconosciuto il verde degli occhi. Se non ci fossero state le labbra morbide del mannaro avrebbe davvero temuto che il cuore gli sfuggisse dal petto perché l’aveva sulla punta della lingua.
Il bacio era delicato, un semplice premere delle labbra dell’altro, un bacio che un tempo avrebbe subito approfondito cercando con la lingua quella del moro, ma non oggi. Non ora. Troppo stupito per fare alcunché riuscì a tenere in mano la pistola solo perché in un angolo remoto del suo cervello resisteva la consapevolezza che cadendo sarebbe potuto partire un colpo e ferire un innocente.
Tutto il resto erano le labbra di Derek sulle sue.

«Derek»

Un mormorio, la prima parola che disse quando la bocca del moro si allontanò dalla sua. Incredulo, tremulo, il suo nome sembrò l’invocazione ad un dio che si credeva perduto

«Derek?»

L’emozioni gli esplosero nel corpo come se tutto si fosse bloccato nel momento in cui aveva perso il suo innamorato: lo stomaco si scaldò e si annodò, la gola fu chiusa dal bisogno e le gambe si fecero molli come gelatina per lo stupore e la gioia insperata.

«Derek?»

Il moro rimase in silenzio. Si chinò su di lui e lo baciò di nuovo, più forte, con bisogno e Stiles stavolta rispose. Si aggrappò alla sua maglia con la mano libera e si lasciò spingere verso la porta aperta. Ebbe solo la prontezza di appoggiare la pistola al ripiano accanto alla porta e Derek la chiuse con un calcio. La mano corse a fare compagnia alla gemella e fu un bene; quando il mannaro gli schiuse appena le labbra e gli leccò la punta della lingua, quasi cadde a terra per la sorpresa.
Si separò da lui solo quanto bastava per guardarlo negli occhi, così incredulo che stesse succedendo davvero. Derek glielo lasciò fare, non tentò di fuggire, non lo fece nemmeno quando gli sfiorò le labbra col pollice o intrecciò le dita ai suoi capelli.
Sembrava così reale. Erano di nuovo l’uno tra la braccia dell’altro e d’improvviso non gli importò che fosse forse un sogno e che gli avrebbe spezzato il cuore una volta finito. Per quel momento, finché durava, voleva dimenticarsi di tutto, di tutto ciò che non fosse Derek.

Avvicinò la bocca alla sua e già schiudeva le labbra, ma per Derek ci stava mettendo troppo e gli andò incontro; la sua lingua trovò subito la sua, rendendo il loro bacio umido e scaldando i loro corpi. Stiles sentì il bisogno di abbandonarsi, di stendersi, di cedere a Derek anche sul freddo pavimento dell’appartamento, ma lui la pensava in altro modo. Mentre il castano reclinava il capo e continuava a mordergli le labbra con le sue, il mannaro lo faceva indietreggiare verso il letto, abbandonando il suo viso solo quando le loro gambe incontrarono il materasso con le lenzuola ancora gettate di lato.
Le mani di Derek gli accarezzarono il collo facendolo rabbrividire, poi si spostarono sul suo petto, scivolarono sui suoi fianchi e risalirono la sua schiena, mentre lui allacciava le braccia al suo collo. Il suo pensiero aveva i contorni sfumanti, non si preoccupava di cosa stesse per succedere, gli importava solo di Derek e del suo essere con lui.

Non si ribellò quando, spingendolo col suo corpo, il moro lo fece sdraiare nel letto.
Non lo fece quando, senza smettere di baciarlo e mordergli le labbra, cominciò ad armeggiare con la fibbia dei suoi pantaloni.
Lo assecondò quando gli prese una mano e gliela spinse sotto la maglia e lo spronò ad accarezzargli la pelle del ventre.
Lo assecondò quando gli sfilò l’intimo e i pantaloni gettandoli sul pavimento.
Qualsiasi cosa Derek volesse fare non glielo avrebbe impedito.

E poi c’era quello che voleva lui. Lui che voleva che le braccia del moro lo stringessero, voleva le sue labbra sulla bocca, il corpo contro il suo, voleva fare l’amore con il suo amato con tutto il suo essere.
Le mani del mannaro gli accarezzavano la pelle delle cosce e lui sentiva il calore irradiarsi dal bassoventre fino alla punta degli arti; quante volete aveva desiderato che lui lo toccasse ancora così, che l’avesse toccato così prima di ciò che era successo. Aveva desiderato la sua mano avvolta sul suo sesso, le dita che gli carezzavano la spina dorsale e la bocca che gli torturava la pelle del collo e lo desiderava ancora.
Ed era sbagliato.
Lui non meritava quella dolcezza, non meritava di godere, di fare l’amore; lui meritava ben altro.

«Fammi male»

Le parole risalirono le labbra come un respiro.

«Fammi male»

Una supplica con la voce incrinata e le mani del giovane si bloccarono.
Derek lo ascoltò impietrito mentre Stiles nascondeva le lacrime nel cuscino e rinnovava la sua richiesta.

«Fammi male, ti prego»

«No»

Le parole erano uscite in un sussurro, ma il ragazzo le aveva sentite alla perfezione.
Un singhiozzo dopo era a carponi, voltato verso il moro che era inginocchiato davanti a lui coi pantaloni mezzo aperti, serio nonostante tutto.

«PERCHÉ?» gemette l’altro sull’orlo della disperazione «Ti ho fatto del male, perché ti rifiuti di farne a me?!»

Fu allora che Stiles notò che l’espressione seria del mannaro nascondeva del rimorso; la sua rabbia scomparve lasciando il posto ad un dolore sordo e rassegnato. Torno a dargli le spalle e si chinò per raccogliere i pantaloni gettati accanto al letto.

«Non avresti dovuto tornare se ancora ti faccio stare così male. Non ti saresti dovuto forzare a-»

Le parole furono soffocate dal cuscino contro cui Derek l’aveva spinto.

«Non è questo» gli mormorò all’orecchio col sesso caldo che gli premeva tra le natiche.

Stiles inghiottì la saliva e liberata la bocca mormorò: «E allora perché sei pieno di rimorsi?»

Un sibilo velenoso quasi come quello di un serpente gli uscì dalle labbra e con quello il timore di aver esagerato, ma Derek non sembrò raccogliere quella cattiveria. Non si degnò nemmeno di rispondergli e cominciò a slacciargli i bottoni della camicia.
Il ragazzo pur non avvertendo più la voglia di fare l’amore con lui non si ribellò: sul suo cuore pesava ancora lo stupro che il moro aveva subito a causa sua, che gli riservasse lo stesso trattamento, lui non chiedeva altro.

«Perché dovrei farti del male?»

La domanda era un sussurro caldo nel suo orecchio e lo fece rabbrividire, anche di piacere; era tanto che sognava di avere Derek vicino in quel modo, tra un incubo e l’altro.

«Perché me lo merito. Ti ho fatto del male, merito di riceverne» mormorò nel cuscino.

«No»

Una risposta secca e uno strofinare umido tra le sue natiche.

«Sì invece!» gemette lui, pieno di sensi di colpa «ti ho violentato, poteva essere il Nogitsune a controllarlo, ma il corpo era il mio!»

«Stiles, tu non mi hai violentato.» va voce del moro ora era dura e diretta e le sue mani gli accarezzavano la pelle scoperta del petto. «Sei una vittima quanto me»

A quelle parole il castano si divincolò e riuscì a voltarsi per guardarlo negli occhi; non poteva accettare di essere discolpato in quel modo.

«Io non-»

«Stiles.»

Il ragazzo ammutolì: Derek aveva usato un tono che non ammetteva repliche e che lo costrinse ad ascoltarlo.

«Volevi davvero farlo?»

Stiles inghiottì a vuoto e balbettò una risposta.

«Sì… no, io- io- non così» gemette alla fine, scoppiando a piangere «Volevo che fosse bello, volevo che fossimo sereni, volevo andare piano e fartelo godere… non volevo che succedesse nulla di tutto questo!»

Il ragazzo parlava coprendosi il viso con le braccia ed era scosso dai singhiozzi; una persona normale non sarebbe riuscito a capire le parole che uscivano dalle labbra, ma per il mannaro erano limpide e cristalline. Tuttavia non diede segno di rabbia, solo un densa tristezza traspariva dai suoi occhi.

«Volevo portarti nel bosco, o riempire la camera da letto di candele e riempirti di baci… volevo farti una sorpresa, invece di fermarmi come al solito, avrei continuato, ti avrei lasciato carta bianca e… e…»

La voce del ragazzo si trasformò in un lamento che sfuggiva ai denti stretti per tenere tutto dentro. Non ce la faceva, quei desideri gli spezzavano il cuore, perché non avrebbero più potuto, dovuto, realizzarli. Avrebbe dovuto decidersi prima invece di essere spaventato dal dolore, dall’essere scoperto, dal non essere all’altezza, avrebbe dovuto fidarsi di Derek e del suo desiderio di farlo godere. Derek non l’avrebbe mai fatto soffrire come aveva fatto lui.
Aveva sprecato tutte le sue occasioni.

Il dolore che sentiva nel petto si fece così acuto da togliergli il respiro e l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stata gridare tutta la sua esasperazione, ma il grido era bloccato in gola e da lì non si muoveva, facendogli ancora più male.
Arrivarono le mani di Derek a levargli le braccia dal viso per poterlo guardare negli occhi, ma lui strinse i suoi, non si sentiva pronto a quel contatto. Sapeva che gli occhi del moro sarebbero stati dolci e pieni di compassione, lo sapeva da come lo toccava, e lui non meritava nulla di tutto ciò.

«Stiles, guardami per favore.»

La voce era dolce come si era aspettato, ma scosse la testa e cercò di riportare le braccia sul viso, ma il moro non glielo permetteva. Cocciutamente, insistette finchè il giovane non cedette, ma invece che incontrare il suo volto la sue braccia trovarono il collo del mannaro. Trasalì e quando sentì un bacio posarsi sulla sua fronte, spalancò gli occhi per la sorpresa.

«Non farlo più, ti prego» la sua supplica ferì Derek, glielo lesse negli occhi, ma non poteva fare altrimenti. «Non lo fare più, non me lo merito. Non mi merito i baci, le carezze e il tuo perdono. Non mi merito nulla di tutto ciò. Mi fa solo stare più male. Non merito il tuo perdono.»

Il dolore negli occhi del suo innamorato si fece ancora più profondo, ma lui non gli diede retta; si chinò su di lui e gli baciò le labbra con dolcezza. Un bacio rapido, delicato, che non fu difficile allontanare, ma che gli provocò un dolore indicibile nel petto. Perché Derek avrebbe potuto baciarlo solo per farlo soffrire di più, per farlo stare male, per negargli tutto quello che aveva desiderato, ma non era quello il motivo che spingeva il mannaro. Derek lo baciava perché gli voleva bene. Perché gli era mancato. Perché baciarlo gli piaceva ancora.

«Perché Derek? Io non mi merito questo. Non mi merito che tu mi voglia ancora bene-»

«Non sei tu che puoi deciderlo»

Ora le lacrime scendevano lente dai suoi occhi mentre guardava quelli verdissimi del suo amato. Lui, pur addolorato, emanava una sorta di calma irreale che non sapeva spiegarsi da dove arrivasse. Si sarebbe aspettato grida, urla, recriminazioni, perfino delle botte, ma non questo.

«Io non ti capisco… dovresti odiarmi, dovresti farmi del male e farmi pagare tutto quello che ti ho fatto e invece mi baci e cerchi di discolparmi»

Era fermo, col moro tra le sue gambe, così vicino che poteva sentire il calore del suo corpo.

«Te l’ho già detto, sei una vittima quanto me» insistette l’altro asciugandogli una lacrima col pollice, ma il castano scosse la testa.

«No, non posso discolparmi così facilmente, ho fatto una cosa orribile, non posso cavarmela così!» gridò sbattendo i pugni sul materasso.

Le mani di Derek si allontanarono dal suo viso e si raddrizzò dandogli modo di guardarlo in tutta la sua bellezza. I muscoli erano ancora ben definiti e sul suo corpo non c’era traccia del passaggio del Nogitsune, lo si poteva intuire solo dal viso; le guance erano lievemente scavate, gli zigomi più pronunciati, qualche filo bianco in più tra i capelli e nella barba. Gli occhi stanchi avevano un accenno di rughe d’espressione che un anno fa non aveva mai notato.

«E cosa vorresti che facessi? Che ti riservassi lo stesso trattamento che mi ha riservato lui?» Gli occhi del castano si fissarono nei suoi e deglutì la saliva perché non poteva rispondere a quella domanda. «Stiles. Stai davvero chiedendo a me di violentarti?»

Il ragazzo distolse lo sguardo addolorato. Sapeva che quello che avrebbe voluto Derek non poteva farlo, né voleva farlo. Si morse le labbra e chiuse gli occhi: anche nel suo desiderio di soffrire e pareggiare i conti riusciva a ferire Derek.

«Scusa»

La voce uscì in un mormorio, ma dire quella parola lo fece sentire lievemente meglio. Era solo una parola, ma voleva dire molto di più. Voleva dire che gli dispiaceva di averlo fatto star male, di avergli chiesto una cosa orribile, di avergli fatto male, di non essere riuscito ad opporsi a quella creatura malvagia.
Il moro tornò a chinarsi su di lui fino a sdraiarsi sopra il suo corpo, pelle contro pelle, facendo tremare il castano.

«Lo so»

Glielo mormorò vicino il viso, con gli occhi illuminati di dolcezza e una mano che gli sostava i capelli dalla fronte.

«Ti amo ancora»

Le parole sfuggirono alla sua bocca prima che la mente formulasse quel pensiero e trattenne il fiato spaventato dalla possibile reazione del mannaro.

«So anche questo»

Poi si chinò su di lui e gli baciò la bocca, a lungo. Il suo corpo aderiva al suo e le sue dita si perdevano nei suoi capelli. Il ragazzo per un po’ rimase fermo per un po’ temendo di fare qualcosa di sbagliato, ma alla fine il desiderio di stringere di nuovo il suo amato tra le braccia fu troppo forte. Con lentezza fece scivolare le mani sui suoi fianchi per poi risalire fino alle spalle e attirarlo a sé, col timore che potesse di nuovo allontanarsi da lui.

«Sai che non andrò da nessuna parte, vero?» gli domandò forse intuendo le sue paure.

«E perché dovresti restare?» gli chiese il castano che ancora non sapeva darsi una risposta alla sua visita, al suo essere in un letto con lui.

«Perché ti amo ancora»

Quelle parole furono un fulmine a ciel sereno, furono così inaspettate che anche se Stiles aveva aperto bocca per replicare non erano uscite parole. Avrebbe potuto credere di tutto, ma che Derek l’amasse ancora, dopo tutto quello che era successo, mai l’avrebbe pensato.
E di nuovo le labbra del moro furono sulle sue, togliendogli la capacità di pensare a qualsiasi cosa che non fosse la lingua che scivolava sulla sua.

«Ma io non lo merito» furono le prime parole che riuscì a pronunciare quando il moro si allontanò da lui.

«Non credi che questo debba deciderlo io?» ribattè l’altro con dolcezza

«Ma ti ho fatto del male…» insistette il castano che non intendeva accettare il perdono che il giovane insisteva ad offrirgli.

«Ma volevi farmene? Se avessi potuto scegliere, me l’avresti fatto lo stesso?» gli chiese guardandolo dritto negli occhi. Stiles scosse la testa perché no, fargli del male era l’ultima cosa che avrebbe voluto e il moro lo baciò e lo guardò con dolcezza, mandandolo in confusione.

«Sei una vittima anche tu, anche se forse non vuoi ammetterlo con te stesso.» il ragazzo deglutì e attese che continuasse perché anche se non voleva rinunciare al suo senso di colpevolezza, più ascoltava Derek più desiderava essere perdonato. «Se ti avessero puntato una pistola alla tempia e ti avessero minacciato non sarebbe stato molto diverso. Stiles non avevi scelta. Ti hanno costretto a fare qualcosa di crudele e che tu non avresti mai voluto fare. Stiles tu sei innocente» concluse calcando sull’ultima parola.

Di nuovo il castano scosse la testa «Non farla così semplice. Non basta dire che non volevo per cancellare le mie colpe»

«Ma non potevi fare altro! Era più forte di noi, cosa potevamo fare? Nessuno dei due aveva la forza per contrastarlo»

«No, io non ce la faccio a cavarmela con così poco, non può bastare solo che tu dica che non ho colpa e che tu mi perdoni, non può essere così semplice» sussurrò avvilito.

Il moro sospirò e si sdraiò al suo fianco accarezzandogli il viso e i capelli.

«Non posso cavarmela con così poco» sussurrò guardandolo negli occhi.

Il mannaro rimasse in silenzio per un po’, senza mai smettere di accarezzarlo. Piano avvicinò la fronte alla sua trovandosi così vicino al suo viso che, nonostante l’avesse già baciato più volte, a Stiles mancò un battito.

«Ti amo»

«Der-»

A zittirlo arrivò il bacio del moro.

«Ti amo»

«Derek, no»

«Stiles, io ti amo. Non puoi cambiare questo fatto»

Di nuovo il ragazzo aprì la bocca per ribattere, ma il mannaro lo baciò mozzandogli il respiro. Ci volle tutta la forza di volontà di Stiles per divincolarsi e liberarsi di quelle labbra che non voleva lasciare. Voltò la testa e già gli ripeteva che non avrebbe dovuto dire una cosa simile, ma il moro gli leccò il collo facendolo sussultare.
Stiles si coprì di pelle d’oca e s’immobilizzò sentendo il piacere che quel contatto gli provocava. Non fece nemmeno in tempo a dirsi che non se lo meritava che Derek prese a baciargli la pelle della gola, a mordicchiargliela e a leccargliela. Il ventre del ragazzo si scaldava, mentre i muscoli si tendevano preparandosi a qualcosa che non pensava di poter ricevere.
Un ansito sfuggì dalle sue labbra e dopo un secondo sentì le labbra del suo innamorato incurvarsi contro la pelle del collo.

«Derek, Derek» cominciò a mormorare imbarazzato e col fiato corto «Derek dobbiamo fermarci»

Gli posò le mani sulle spalle facendo una lieve pressione, ma l’altro insistette a stuzzicarlo.

«Derek, Derek, sul serio, io-io non credo che-»

Il mannaro lo prese per i fianchi e se lo attirò più vicino facendolo rabbrividire di piacere. Stiles strinse gli occhi e si morse le labbra per non dire più nulla, per non ammettere a se stesso quanto desiderava che il mannaro continuasse. Perché lui lo voleva, voleva che Derek lo toccasse, lo accarezzasse, lo facesse di nuovo sentire amato, ma lui non meritava nulla di tutto ciò. Le sue mani sulle spalle del moro minacciavano di scivolare sulla sua schiena di attirarlo a sé, la sua schiena fremeva per inarcarsi e portare di nuovo i loro corpi vicini, e in tutto questo, Derek non aveva mai smesso di torturargli il collo.

«Derek, per favore, ferm-»

Ecco, era successo l’irreparabile. Se n’erano accorti entrambi.
Derek allontanò il viso quanto bastava per guardarlo negli occhi e forse avrebbe avuto un sorriso di trionfo come le prime volte, quando mentre studiava gli mordicchiava il retro del collo fino a farlo piegare a novanta sulla scrivania con un erezione nei pantaloni, ma non stavolta; forse avvisato dal suo odore c’era solo un sorriso lieve e pieno di dolcezza.

«Stiles. Non piangere.»

Lui sentiva le labbra che tremavano e gli occhi farsi lucidi. Lottava disperatamente per accontentare la richiesta di Derek, ma la vergogna per l’erezione tra le sue gambe gli era insostenibile.

«Non piangere» un ordine dato con dolcezza.

«Ma-»

«Non stai facendo nulla di male» Stiles tremò e lo guardò negli occhi, sentendo le guance calde per la vergogna e le lacrime «Non mi stai facendo del male. Fai un respiro profondo e calmati. Per favore»

Il ragazzo lo accontentò, ma il disagio non diminuiva, anche se riuscì a non far scendere una lacrima.

«Stiles, io ti amo e averti tra le mie braccia è la cosa che più mi fa felice. Non sai quanto mi sei mancato in questi mesi, non ho fatto altro che pensarti e pensare a quanto mi sarebbe piaciuto fare l’amore con te, ma se tu non vuoi io mi fermo e non farò altro.»

Derek ora era serio pur non abbandonando quell’aura di dolcezza che lo circondava. Gli occhi di Stiles tornarono a chiudersi addolorati.

«Non ce la faccio, ti ho fatto una cosa… una cosa orribile, non ce la faccio a fare questo. Non me lo merito, dovresti prendermi a pugni fino a esserti sfogato, non dirmi che mi ami e baciarmi come se fossi la persona più importante della tua vita»

«Tu vuoi fare l’amore con me?»

Dalle labbra del castano uscì un sospiro profondo e doloroso. Avrebbe solo voluto rispondere di sì, ma non poteva.

«Primo, tu sei e sarai sempre la persona più importante della mia vita. Secondo…» sussurrò per poi baciarlo subito dopo «… lo schiaffo morale più grosso a quel mostro e a quello che ci è successo sarebbe fare l’amore. Sarebbe…» Derek gli sfiorò la linea della mascella col naso «… farlo con lentezza, con dolcezza, fino a farci venire le guance rosse, fino a tremare, fino a supplicare noi stessi di godere…»

Le labbra del moro furono di nuovo sulle sue, le sue mani sui suoi fianchi lo attirarono verso di sé e di nuovo Stiles sentì la pressione dell’erezione di Derek tra le sue natiche.

«Lo vuoi?»

Le labbra di Stiles tremarono mentre il gelo gli prendeva il suo corpo. Quello che gli proponeva Derek lo spaventava perché non sapeva se sarebbe stato in grado di fare l’amore con lui. Aveva paura di avere dei flash di quelle ore orribili, di fare qualcosa che facesse ricordare lui.
Tuttavia annuì.

Sulle labbra di Derek apparve un sorriso e mentre il cuore del castano cominciava a battere più veloce, si allungò verso il suo viso con l’intenzione di baciarlo; il moro fu ben felice di andargli incontro e di baciarlo con passione. Poi prese a spingersi contro di lui cercando di entrare.
Stiles cercò di rilassarsi e di facilitarlo, ma non era semplice con tutte le sue paure.

“Sarà solo il dolore di un momento” cercò di convincersi “Non avrà nemmeno il tempo di accorgersi che mi sta facendo male”

Tutti i muscoli dell’addome erano contratti per la tensione e sentiva il bacino rigido, ma sarebbe morto piuttosto che fermare il mannaro.
Derek aumentò la forza nello spingersi dentro di lui e la punta del suo pene superò dolorosamente l’anello di muscoli facendogli fare una smorfia, che il castano cercò subito di nascondere. Non uscì un gemito dalle sue labbra e il dolore poco dopo scomparve con sua sorpresa.

«Stiles» colse al volo le vene del moro colorate di nero «Non mentirmi.»

Pronunciate queste parole Derek uscì da lui, che si ritrovò a boccheggiare per il sollievo; i muscoli irrigiditi si rilassarono e solo in quel momento si accorse di avere la schiena fradicia di sudore. Fece due profondi respiri ad occhi chiusi per calmare il battito frenetico del suo cuore, ma si accorse con orrore del peso che abbandonava il letto.
Con il cuore in gola si voltò per afferrare il moro, la sua mano strinse l’aria. Derek era già lontano da lui.
Rimase un momento bloccato in quella posizione scomoda con il cuore che gli martellava nelle orecchie. Aveva sbagliato. Di nuovo.
Si mise seduto a gambe incrociate, a capo chino e con le mani abbandonate in grembo. Si stava lentamente piegando su se stesso sentendo un dolore insostenibile al cuore; era come se una morsa gli stesse stringendo la gabbia toracica. Poi sentì il rumore di passi che si avvicinavano e un bacio sulla spalla lo sorprese.

«Grazie per non aver ancora alzato gli occhi. Io… non mi sento molto a mio agio a farmi guardare.» il ragazzo sentì chiaramente un sospiro «Non ancora almeno»

Il letto tornò a inclinarsi per il peso del moro e Stiles dovette imporsi di non alzare lo sguardo, per assecondare le necessità di Derek, che tuttavia aveva altre priorità.

«Stiles, ho bisogno che mi guardi negli occhi» mormorò prendendogli il mento tra pollice e indice e facendoglielo alzare. «Io voglio fare l’amore con te, ma solo se lo vuoi anche tu. Se non ti va o non te la senti non faremo nulla, faremmo solo danni. Ma questo devi dirmelo tu e dei essere sincero, con me e con te stesso.»

Stiles prese un respiro profondo per rispondere, inghiottì la saliva e disse le parole che non credeva di riuscire a lasciar uscire.

«Voglio fare l’amore con te.» mormorò guardandolo dritto negli occhi «Non so se ci riesco però» ammettere questo timore gli rese impossibile sostenere lo sguardo del mannaro.

Derek non disse nulla e quando tornò a guardarlo in faccia, il ragazzo scoprì che aveva solo alzato un sopracciglio in attesa di dettagli. Lui era restio a raccontarglieli, preoccupato che il giovane potesse sentirsi in colpa senza motivo, ma si sforzò di parlare; doveva essere sincero con entrambi o le cose non sarebbero migliorate.

«Ho paura di fare qualcosa di sbagliato. Di spaventarti. Di avere dei flash del… dello…» il castano fece un profondo respiro e riprese a parlare; per lui era difficile perfino pronunciare quella parola «…dello stupro. Che ne abbia tu. Di non essere all’altezza. Che faccia male. Che non sia bello come me l’aspetto. Che il Nogitsune non sia davvero imprigionato» continuò a contare sulle dita «di fare qualcosa di stupido o di imbarazzante. Che per te non sia bello come te l’aspettavi…»

Derek era seduto davanti a lui a gambe incrociate che ascoltava attento «È parecchia roba… forse non-»

«Ma voglio provare!» ribatté il ragazzo a mezza voce, sporgendosi verso di lui; il moro rimase interdetto per il tono deciso che aveva usato. «Voglio provare, ma non voglio fare casini…» aggiunse tornando a guardarsi le mani abbandonate in grembo «E non so da dove cominciare…»

«Abbiamo già cominciato» la voce e le parole del moro gli fecero spalancare gli occhi per la sorpresa «Parlami.» aggiunse afferrandolo per i fianchi e tirandoselo più vicino «Dimmi cosa non ti senti di fare. Traccia dei limiti.»

Derek sentendo che il suo battito diventava più veloce si avvicinò al suo viso per baciarlo.

«Io non voglio darlo» un sussurro ad occhi bassi che lo bloccò a pochi centimetri dalle labbra del castano «Non voglio… stare sopra. Voglio che sia più diverso possibile da… da…» il ragazzo sospirò esasperato e alzò gli occhi nei suoi. «Hai capito, no?»

Derek annuì «Altro?»

«Vorrei… voglio guardarti in faccia. Voglio averti vicino. Voglio che ti fermi se qualcosa ti fa stare male.» il moro annuì di nuovo. «E tu?»

«Voglio andare piano. Voglio che ci piaccia. Voglio che tu mi fermi se ti faccio male. Chiaro? Perché non hai detto nulla prima?»

Stiles arrossì e distolse lo sguardo, ma il mannaro voleva una risposta. «Speravo che non te ne accorgessi e che andasse via presto» mormorò in risposta mentre il moro cercava i suoi occhi.

«Stiles, se ti dovessi fare male non me lo perdonerei. Fermami prima»

Il castano fece un cenno d’assenso; capiva il bisogno del mannaro di essere diverso dal Nogitsune, non aveva bisogno di altri sensi di colpa. Il moro fece un sospiro di sollievo e gli diede un rapido bacio a fior di labbra, per poi levargli la camicia e gettarla a terra; poi gli prese le mani e le guidò sui suoi fianchi.

«Toglimeli» gli mormorò sulle labbra.

Col cuore in gola e con lentezza il ragazzo obbedì mentre riprendevano a baciarsi. Intimo e jeans finirono sul pavimento e loro due erano di nuovo abbracciati nudi, in un intreccio di gambe, braccia e lingue. Le mani di Stiles erano sulle scapole del moro, mentre le sue accarezzavano senza sosta i suoi fianchi e percorrevano la spina dorsale del ragazzo. Il moro costrinse entrambi su un fianco e si allungò per recuperare qualcosa dal comodino con un sorriso lieve.

«Mi sembra di essere tornato a due anni fa…» mormorò mostrandogli un tubetto di lubrificante «… quando ci volevano ore per rilassarti»

Un sospiro lievemente divertito uscì dalle labbra del più giovane «Non è che abbia fatto qualcosa in questi mesi… nemmeno da solo…» ammise nascondendo il viso nell’incavo del collo del moro e appoggiandogli una gamba sul fianco per lasciargli spazio per prepararlo.

«Allora andrò molto piano» gli mormorò l’altro all’orecchio per poi baciargli il collo.

Un dito, umido e fresco cominciò ad accarezzare l’anello di muscoli tra le sue natiche.
 


Gli raccontò della psicologa, delle sedute, dei mesi che aveva trascorso lontano da lui. Di come il primo dottore a cui si era rivolto gli aveva riso in faccia, della solitudine che aveva patito.
Quando aggiunse l’indice gli raccontò di quanto lo pensava, di come fosse il primo pensiero alla mattina e l’ultimo alla sera. Della rabbia che aveva provato nel rendersi conto che l’unico modo per stare meglio era allontanarsi da lui e del dolore che gli aveva provocato stargli lontano. Stiles ascoltava ogni parola con le guance sempre più rosse, lacrime intrappolate tra le ciglia, il respiro sempre più corto e fremiti che gli percorrevano il corpo.
Derek aggiunse il terzo dito e gli raccontò dei sogni che faceva, di come gli incubi si trasformassero in sogni stupendi e di come questi su trasformassero in una fonte d’orrore e di ricordi. Gli raccontò di come si svegliava cercandolo nel letto col desiderio di abbracciarlo, di baciarlo, di averlo come in quel momento, e della disperazione nel non trovarlo al suo fianco.

Gli prese una mano su cui versò il lubrificante e gliela avvolse intorno al suo pene mentre il ragazzo boccheggiava e fremeva tra le sue mani. Gli raccontò di come aveva sognato il suo viso arrossato nella jeep quando non erano riusciti ad aspettare di arrivare a casa mentre lo spronava a masturbarlo, del desiderio che l’aveva preso al ricordo dei suoi gemiti e delle sue suppliche, dei baci che si erano scambiati.
Derek aveva tolto le dita da lui e l’aveva spinto con delicatezza con la schiena sul materasso, baciandolo, mentre Stiles ancora gli carezzava l’erezione col palmo della mano. Si separarono con le guance arrossate e gli occhi pieni di desiderio, poi qualcosa nello sguardo del moro cambiò e prese i polsi del ragazzo e li portò sulla sua testa bloccandolo; gli si poteva leggere sul viso il dispiacere di doverlo fare.

«Io… io sono più tr-»

«Derek» sospirò l’altro con un tremito d’attesa nella voce «Non fermarti»

Una mano tenne i polsi del castano, l’altra andò a tenere l’erezione del moro.
C’erano ansiti carichi di desiderio nella stanza.
Una spinta e dalle loro labbra si levarono gemiti di piacere.
 

 

 
 
 
 
 
 


 
Angolo Autrice
Grazie infinite a chi ha letto, seguito o recensito la scorsa os e per tutta la partecipazione che dimostrate. A brave riprenderò in mano pure “Legacy”. Nel frattempo spero che questo deliro non vi abbia fatto accapponare la pelle. Grazie in anticipo a chiunque voglia darmi la sua opinione in merito; siate implacabili.
A presto ♥

 

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Capitolo 7
*** People help the people ***



Personaggi – Liam, Theo
Coppia - ///
Rating - verde
Genere – comico, slice of life
Note – Missing moments
Avvertimenti - ///

Dedicata a Roxy Roy, che ha fornito la fanart e attende questa storia da anni.
 
People help the people


Era la cosa più stupida che avesse mai potuto pensare.
Era un completo imbecille.
Un idiota.
Un coglione.

Stava andando a caciarsi nel guaio più grosso della sua vita e lo sapeva, quindi era pure peggio. Fosse stato un fesso o totalmente inconsapevole delle conseguenze forse avrebbe anche potuto perdonarsi, ma invece era un cretino che andava a cercarsi le peggiori rogne in circolazione.
Avevano appena “sistemato” il guaio con quell’assassina della Monroe (ancora a piede libero e in compagnia di un nutrito gruppo di cacciatori) e lui marciava spedito verso la prossima disgrazia, nella forma di pick-up parcheggiato a meno di cinquanta metri.

Aveva perfino mezzo litigato con Scott per quello che c’era in quella macchina; Stiles, neanche a dirlo, aveva dato ragione all’Alpha e gli aveva dato dello stupido e dell’incosciente. Non che avesse torto, questo glielo riconosceva.
L’unica nota positiva di quella videochat era che si erano coalizzati contro di lui e non si erano messi a battibeccare come al solito. Dopo aver provato a convincerlo per un’ora buona e a spiegargli tutti i motivi per cui la sua era una pessima idea, si erano arresi quando gli aveva dato ragione su tutta la linea, ma aveva concluso dicendo che l’avrebbe fatto lo stesso.
A quel punto si erano arresi e si erano giocati la carta “fa come vuoi, ora ci sei tu a Beacon Hills” e “Stavolta non correremo a salvare il tuo culetto peloso”. Non perché si sarebbero rifiutati, ma perché, anche con tutta a buona volontà, se qualcosa fosse andato storto non sarebbero riusciti a raggiungerlo in tempo.

Dopo aver parlato con loro gli ci erano volute un po’ di notti insonni e era stato vicino a rinunciare, ma non voleva arrendersi così e dare ragione a Scott e Stiles. Specialmente a Stiles.
Così ora si trovava in una notte di luna nuova, in mezzo a una nebbiolina che gli stava infradiciando i pantaloni, in un parcheggio a lato della strada, davanti al dannato pick-up.
Stava per fare una cazzata, una grandissima cazzata.

Avrebbe dovuto fare dietrofront, tornare a casa, farsi una bella doccia, mettersi il pigiama e infilarsi nel letto.
Invece bussò al vetro appannato del fuoristrada.

Da dentro arrivarono dei mugolii e delle imprecazioni a mezza voce man mano che chi c’era dentro usciva dal mondo dei sogni. Liam si guardò intorno sperando che nessuno li avesse sentiti, ma tra l’orario e la nebbia non c’era nessuno nei dintorni.

«Mi dispiace agente, me ne vado subi- Liam?»

Il biondo si riscosse e si voltò verso l’auto: la testa di Theo sbucava dal finestrino con ancora il segno del sedile sulla guancia e il ragazzo lo guardava con gli occhi ancora mezzi assonnati; forse credeva di star sognando. Non avevano tempo per quello però.

«Scendi dall’auto»

«Cosa diavolo-»

«Scendi. Dalla. Cazzo. Di. Auto.»

Il castano però lo guardava ancora imbambolato.

«Ora!» insistette alzando appena la voce.

Theo si riscosse e cominciò a fare quello che gli aveva detto, ma lo fissava confuso. Liam intanto continuava a guardarsi intorno e a mettergli fretta, facendogli lasciare tutto in auto. A malapena gli diede il tempo di chiudere il pick-up prima di trascinarselo dietro per una manica.
A quel punto anche il castano aveva cominciato a guardarsi in giro.

Dopo un centinaio di metri lo fece strisciare sotto una siepe e poi riprese a farsi seguire fino a raggiungere l’auto di sua mamma. Non avevano detto una parola per tutto il tragitto.

«Sali» disse accennando alla vettura e cercando le chiavi nelle tasche.

«Liam cosa-»

«Ho detto sali!» ringhiò con gli occhi che brillavano.

Theo era sempre più confuso e preoccupato, forse pure spaventato da lui, ma lo assecondò e salì dal lato del passeggero appena scattò la serratura. Il biondo mise in moto e si diresse verso casa senza nemmeno azzardarsi ad accendere i fanali per diversi metri, fidandosi solo dei suoi occhi di mannaro.

«Mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?» chiese a bassa voce il castano dopo quasi un quarto d’ora di silenzio.

Il biondo in tutta risposta gli disse di "chiudere quella cazzo di bocca". Era divorato dall’ansia e non aveva intenzione di distrarsi fino a che non si fosse chiuso la porta di casa alle spalle.
Forse il suo tono era stato più duro e freddo di quello che il ragazzo accanto a lui meritasse, ma non era il momento di farsi venire i sensi di colpa. Ci avrebbe pensato dopo, ora doveva concentrarsi sulla strada e su quello che poteva nascondersi nella nebbia.
Oramai mancavano solo cinque minuti per arrivare a casa, poteva ancora cambiare idea e scaricare Theo a bordo strada, al semaforo che stavano per raggiungere.
Quello era rosso come al solito anche se non c’era nessuno che doveva attraversare e aspettando il verde Liam si trovò a stringere il volante fino a far sbiancare le nocche.

«È per la Monroe?» chiese il ragazzo in un sussurro.

Lo sbirciò con la coda dell’occhio: era seduto rigido contro lo schienale, immobile, ma con gli occhi che scrutavano le ombre e il naso pronto a captare gli odori che entravano dal finestrino appena abbassato.

«È sempre colpa della Monroe» masticò lui in risposta e riprendendo a muoversi.

Parcheggiò accanto all’auto di suo padre e si voltò verso il ragazzo che lo guardava senza sapere cosa aspettarsi.

«Vedi la finestra aperta?» sussurrò con il cuore che martellava nel petto «Entraci e non fare nessun rumore, altrimenti sei morto.»

L’odore del castano stava cambiando rapidamente e la confusione si stava trasformando in paura; strano visto che si trattava di Theo. Ad ogni modo, il ragazzo annuì e appena scesero dall’auto fece quanto gli era stato detto.
Liam rimase a guardare per un paio di secondi poi si diede una scrollata e si preparò a recitare la parte che aveva in mente. Chiuse l’auto, si diede una sistemata ai vestiti e andò ad aprire la porta di casa.

«Liam! Dove sei stato a quest’ora?!»

Sua madre era seduta su divano accanto al suo compagno, smettendo di guardare la replica del TG; stavano dando la notizia di un’altra sparatoria.

«Ero da Mason, co siamo confrontati per il test di biologia»

«E non potevi farlo con skype o chiamandolo?!»

«Sì, sì, potevo, ma se vedo in faccia qualcuno imparo di più» sospirò cercando di sgattaiolare in cucina, ma sua mamma non voleva mollarlo.

«Ma è così tardi! Non-»

«Joan, non preoccuparti. Ormai è a casa e ha quasi diciassette anni, ha la patente e se la sa cavare da solo»

La donna fece un gran sospiro e si voltò verso la TV, mentre il suo patrigno gli faceva l’occhiolino.

«Va’ a dormire Liam, se non sei ben riposato studiare con Mason sarà inutile.»

Il biondo non se lo fece ripetere due volte. Rinunciò alla sua visita al frigo e volò su per le scale mentre i suoi genitori discutevano della notizia al TG e degli attacchi di animali nella zona. Se solo avessero saputo cosa c’era dietro a quelle morti…

Svelto raggiunse la porta della sua camera e se la chiuse alle spalle, cercando Theo con lo sguardo, ma di lui non c’era traccia. Eppure il suo odore si stava già spargendo.

«Sono qui»

La voce del ragazzo lo colse di sorpresa e lo fece voltare. Si era nascosto nell’angolo cieco dietro la porta.

«Liam vuoi dirmi che cazzo succede?» mormorò facendo un passo avanti.

«Succede che in città ci sono delle esecuzioni sommarie, la Monroe è il mandante e io ho fatto una delle cazzate più grandi della mia vita»

Il castano si preoccupò ancora di più.

«Scott lo sa?»

«Sì, Scott lo sa e non è d’accordo, ma non potevo fare altrimenti» si passò un mano sul viso per non doverlo guardare negli occhi «non ha intenzione di aiutarmi» aggiunse a mezza voce.

«Così sei venuto a cercare me» il tono di Theo era amareggiato, e ferito per chi sapeva cogliere le sfumature della voce; Liam non era uno di questi «Sono la tua ultima spiaggia insomma… che hai fatto? Hai ammazzato qualcuno? Devo aiutarti a nascondere un cadavere?» chiese via via più rabbioso.

Il biondo sentiva come le emozioni del ragazzo stessero cambiando e non poteva capacitarsi di come potesse essere così stupido.
Stava per rispondere a tono e digliene di tutti i colori quando sentirono i pasi di sua made sulle scale.

«Vai in bagno!» sibilò indicandogli la porta dall’altro lato della stanza.

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e andò dove gli era stato ordinato.

«Liam?» sua mamma era già davanti alla porta della sua camera «Posso entrare?»

“Pensa veloce, svelto! Pensa-pensa-pensa-pensa-pen-”

«Ehm… Uh… Devo…»

“Una scusa. Una qualsiasi scusa. Veloce!”

«Uhmmmno! Sto per entrare in doccia» disse ad alta voce perché lo sentisse anche Theo, poi entrò in bagno; il castano si era appiattito contro l’armadio.

Intanto sua mamma era entrata in camera.

«Prendo solo i vestiti sporchi ed esco»

«Non puoi aspettare?!» ribattè lui occhieggiando il cesto traboccante accanto all’altro ragazzo.

“Nasconditi” sillabò muto e subito Theo aprì l’armadio; peccato fosse a ripiani.

La donna bussò facendo sussultare entrambi.

«Liam avanti, fammi entrare»

«Fammi… fammi almeno entrare in doccia!» esclamò gesticolando a Theo di andare a nascondersi lì. Si trattava solo di una vasca con una tenda, ma poteva essere la loro salvezza.

«Liam! Apri!»

«Un attimo!»

Che cazzo faccio?!Che cazzo faccio?!” gli occhi erano fissi sulla tenda da cui sporgeva alla testa del ragazzo. “Faccio la doccia

Si mise a svestirsi furiosamente e senza togliere il piede che bloccava la porta. Rimasto solo con le mutande addosso, in due passi entrò nella vasca, tirò la tenda e accese l’acqua.

«Sta giù» ordinò a Theo che lo guardava basito «Sta giù cazzo!»

Il castano finalmente si riscosse e si acquattò dal lato opposto al doccino, mentre il biondo mise la testa sotto l’acqua per migliorare la sua bugia.

«Io entro!» disse sua madre dalla camera e subito aprì la porta.

Liam mise la testa gocciolante d’acqua fuori dalla tenda e la fissò ostile.

«Santo cielo, Liam! Quante storie per farmi entrare in bagno» borbottò raccogliendo i vestiti da terra sotto lo sguardo del figlio. «Perché ti comporti così stasera?» indagò prendendo il cesto «Sei nervoso per il test? Ti sei accorto di non essere pronto?»

«Mamma…»

«Perché se è così… se è così puoi stare a casa»

«Mammaaaa!»

«Non è per quello? È per Hayden? Ne vuoi parlare?»

«MAMMA!»

I due rimasero a guardarsi senza dire nulla e il ragazzo si sentiva uno schifo per star trattando così sua madre, ma aveva Theo da nascondere e più tempo stava lì più era facile che lo scoprisse.

«Cosa c’è?»

«Voglio solo fare una doccia e andare a dormire»

«Ma-»

«Esci!»

La donna sospirò e fece una smorfia, per poi uscire offesa. Domani avrebbe dovuto chiederle scusa.

«Quando avrei voglia di parlare sai dove trovarmi. Non sono solo quella che ti lava i vestiti.»

«Mamm-»

Troppo tardi, era già uscita.

Liam chiuse la tenda della doccia con rabbia, furioso con se stesso per non essere riuscito a trovare un modo migliore di gestire la situazione. Spostò gli occhi su Theo, accucciato nulla vasca coi pantaloni ormai bagnati e le ginocchia al petto. Lo guardava in attesa del suo verdetto.
Pensò di tirargli un pugno per sfogarsi e togliergli quell’espressione sorpresa dal viso, ma spinse via quel pensiero; non era colpa sua.
Intanto il ragazzo continuava a fissarlo mettendolo sempre più a disagio: lui era quasi nudo, sotto il getto dell’acqua, l’altro aveva perfino il berretto.

«Non una parola» sibilò stringendo i pugni, una minaccia più che sufficiente visto quanto si spalancarono gli occhi del castano «va’ fuori e lasciami fare la doccia in pace»

Theo ubbidì senza dire una parola e quando richiuse la tenda il biondo si levò finalmente l’indumento fradicio e zittì i pensieri sotto il getto dell’acqua.

Un quarto d’ora dopo si sentì leggermente più rilassato e pulito, poteva affrontare quello che l’aspettava fuori dalla vasca. Solo che non poteva: come scostò la tenda per prendere l’accappatoio si trovò davanti Theo, gocciolante e nascosto nel punto in cui la porta l’avrebbe coperto.
Era teso e confuso, non si azzardava nemmeno ad alzare gli occhi (cosa insolita per uno con il becco di ferro di Theo); sembrava che aspettasse un suo comando per fare qualsiasi cosa.
Liam sbuffò e indossò l’accappatoio per poi avvicinarsi all’omega.

«Puzzi. Lavati e metti i vestiti nell’angolo» disse afferrando la maniglia «Ti presto un cambio» aggiunse uscendo.

Rimase immobile nella sua stanza finchè non sentì il getto del l’acqua e solo allora si azzardò a tirare un sospiro di sollievo. Aprì l’armadio, senza smettere di ascoltare il battito del castano, nemmeno potesse scappare da un momento all’altro. Non ce l’aveva in corpo di fare una cosa simile Theo, glielo aveva letto negli occhi, e in bagno non c’erano finestre, ma lo fece lo stesso.

Indossò il suo pigiama preferito mentre il cuore del castano cominciava a battere più veloce e continuò ad aumentare mentre cercava un cambio per lui. Cominciava a temere che stesse per avere un attacco di panico o che si stesse trasformando per la tensione, ma quello si calmò appena.
Restava la questione di dove farlo dormire. Nel suo letto era fuori discussione e anche qualsiasi posto che fosse in bella vista e, purtroppo per l’omega, comodo. Forse sotto il letto poteva andare bene?

Si chinò a controllare se c’era lo spazio per mettere almeno un materassino vide gatti di polvere che avevano raggiunto le dimensioni di una tigre e decise che non era il posto adatto; con il naso che avevano li avrebbero scoperti per tutti gli starnuti del castano.
Andò quindi a rovistare nella parte bassa dell’armadio, dove teneva tutte le cose smesse; per fortuna avevano la stessa taglia. Una volta che Theo si fosse vestito gli avrebbe potuto dare una mano a trovargli un letto.

Mentre rovistava tra vecchi pantaloni e magliette con l’orlo scucito arrivò l’illuminazione: l’avrebbe fatto dormire nell’armadio.
I tre cassetti alla base erano stati sfondati anni fa e sua madre li aveva trasformati in un cassettone unico che si chiudeva con un pannello, ora fissato con un gancio.

«Liam, dove trovo un asciugamano?»

Il biondo sbuffò nel sentire la porta che si apriva e la voce di Theo, ma svelto afferrò il suo accappatoio e i vestiti che aveva scelto e glieli buttò addosso senza nemmeno guardare.
Tornato all’armadio, cominciò a sostituire i vecchi abiti con coperte e cuscini.

«Che stai facendo?»

Il castano ora era accanto a lui con indosso il suo accappatoio. Liam storse il naso nel vederlo ma non disse nulla; l’avrebbe messo nella roba da lavare e amen.
Quando però lo guardò in faccia sentì lo stomaco annodarsi: ora che lo vedeva pulito e alla luce si notavano le borse sotto gli occhi e le guance più scavate; era normale che le clavicole sporgessero in quel modo?

«Il tuo letto» rispose senza smettere di far vagare gli occhi su di lui «Perché non ti sei vestito?»

«Vorrei un paio di mutande, grazie» rispose quello con una smorfia.

Liam gli lanciò un’occhiataccia e di nuovo fu più che sufficiete a fagli abbassare lo sguardo. Però aveva ragione, si era dimenticato di dargliele. Non era particolarmente felice di dover condividere anche il suoi intimo con lui, ma gliene allungò un paio dicendosi che domani ne avrebbe comprate altre due solo per lui.
Theo le prese e il biondo tornò a preoccuparsi del “letto”, mentre alle sue spalle si sentivano i vestiti essere indossati.

«Quindi vuoi davvero farmi dormire lì dentro?»

«Se non la pianti chiudo anche il pannello» minacciò il biondo, ottenendo di far sospirare l’altro.

«Sai che potevi lasciarmi al mio pick-up se davvero ti sto così tanto sui coglioni? Non c’era bisogno di andare a litigare con Scott se ti pesa così tanto avermi intorno… Potevamo nascondrere il cadavere, mi offrivi una cena extra large al primo fastfood e ognuno per la sua strada...»

Il suo tono era ferito e Liam non poteva biasimarlo, ma non disse nulla e si limitò a fare un cenno verso l’armadio. Il castano entrò e si rannicchiò sulla specie di materasso che aveva creato; non era abbastanza lungo per stendersi, ma gli occhi di Theo cominciarono a sbattere più lentamente quasi subito. Il biondo gli mise addosso l’ultima coperta che aveva tenuto da parte, la sua preferita per guardare i film, quella più morbida, e gliela stese addosso.

«Non devo nascondere nessun cadavere» gli disse per poipassarsi una mano sul viso; cominciava a essere stanco.

«Perché allora stai facendo tutto questo?»

A quella domanda Liam si bloccò sul posto e evitò il suo sguardo. Perché lo stava facendo? Perché ci teneva tanto che Theo fosse al sicuro? Qual era la vera ragione?

«Cosa sta succedendo a Beacon Hills?»

D’improvviso si sentì un cretino. Figurati se Theo poteva pensare che poteva esserci più di un semplice pericolo a fargli fare quella stupidaggine colossale, perfino contro il volere del suo Alpha. Non aveva nemmeno torto d'altra parte, lo stava ospitando per abbassare il rischio che i cacciatori della Monroe gli piantassero una pallottola in testa, ma non avevano nessuna informazione che lo identificasse come target. Era solo uno dei tanti soprannaturali di Beacon Hills, non aveva una taglia sulla testa.

«La Monroe sta riorganizzando le forze» disse a denti stretti «e continua a reclutare nuovi cacciatori. Ora che non può più contare sulla paura causata dall’Anukitè accetta anche persone poco raccomandabili»

«Perché, i cacciatori di prima erano meglio?» chiese con sarcasmo l’altro.

Liam storse il naso «questi sono peggio, sono gente che non dovrebbe avere mai una pistola in mano» sibilò andando a recuperare il cellulare «se non troviamo il modo di fermarla non saranno solo mannari e soprannaturali a rimetterci la pelle. Guarda»

Mise sotto in naso del castano il display dove c’era lo screenshot dell’ultimo tweet di uno delle reclute della Monroe, una delle poche che erano riuscite a identificare. Era un vaneggiamento rivoltante su quale fosse il posto di chi non era bianco.

«Resto più preoccupato per la mia pelle»

La laconica risposta di Theo lo fece incazzare ulteriormente e rimpianse di esserlo andato a prendere. Avrebbe dovuto lasciarlo nel suo pick-up ad arrangiarsi da solo. Andò a buttarsi nel letto masticando amaro e sentendosi tradito: aveva sperato in una sorta di empatia verso chi era nella sua stessa situazione o rischiava di esserlo, ma Theo sembrava essere tornato il vecchio stronzo egocentrico; gli importava solo di se stesso.

«Quindi che succede ora?»

«Succede che spengo la luce e dormo. Se mi svegli ti butto fuori a calci, Monroe o meno.»

Poi premette l’interruttore e nella stanza calarono il buio e il silenzio.
~♦~

Era già passata una settimana da quando Liam l’aveva trascinato a casa sua e non li avevano ancora scoperti.
La cosa aveva dell’incredibile, solo la notte prima avevano rischiato di mandare tutto all’aria almeno tre volte. Tutta colpa del beta che continuava ad alzare la voce quando le sue domande lo innervosivano.

In realtà però non sapeva perché tra tutti e due avessero così paura di essere scoperti, la cosa peggiore che poteva succedere a lui era essere buttato fuori di casa e a Liam di ricevere una lavata di capo. Sarebbe stato facile mentire dicendo di essere entrato dalla finestra solo quella sera.
Nel peggiore dei caso avrebbero potuto chiamare la polizia.

Almeno si era divertito a vedere il ragazzo destreggiarsi tra scuse improbabili e balle colossali, non capiva come i suoi potessero cascarci. Sua madre probabilmente pensava che avesse il verme solitario o che si facesse delle canne visto la quantità di cibo che portava in camera (non che lui si lamentasse, erano settimane che non riusciva a fare un pasto decente o solo sentirsi sazio), mentre il suo patrigno bussava una o due volte al giorno per sapere se andava tutto bene, specie dopo i raid in cucina. Liam diventava pallido come un lenzuolo e si affrettava a rispondere, mentre lui si nascondeva in bagno e stava ben attento a riempirsi la bocca per non avere la minima tentazione di aprirla.

Si era poi accorto che stava zitto per tutta la giornata intera, non sentiva nemmeno il bisogno di parlare. Non lo faceva apposta, ma tra la necessità di non farsi scoprire e la normalità di essere sempre solo si dimenticava di dare voce ai suoi pensieri. Perfino quando era Liam a rivolgergli la parola le prime risposte erano solo versi o un monosillabo. Perfino lui cominciava ad abituarsi al suo mutismo.

Era rilassante stare in stanza con lui ora, si era aspettato che il suo silenzio lo innervosisse ma al contrario sembrava rilassarlo. Poi finiva per imprecare a denti stretti quando si muoveva perché probabilmente era così silenzioso che si dimenticava che il castano fosse lì con lui. 
Forse era anche colpa degli esami ad essere onesti; era surreale vederlo concentrato sui libri. Adesso, per esempio, era steso sul letto a studiare per un test, forse chimica, mentre lui si era seduto a terra e appoggiato con la schiena al letto, godendosi il silenzio.

Artista: sconosciuto


«Liam, dobbiamo parlare»

La madre del ragazzo era sulla soglia a braccia conserte che spostava lo sguardo ora sul figlio ora su Theo; loro due la guardavano impietriti.
Erano fottuti.

Non c’era rumore che le loro orecchie non sentissero, com’era possibile che fosse riuscita a coglierli di sorpresa?

«Mamma. Posso spiegare» ribattè svelto il ragazzo saltando in piedi.

«Sarà meglio» rispose la donna senza muoversi e senza spostare gli occhi dal figlio, che palesemente non aveva idea di cosa spiegare.

«Lui… lui mi dà una mano per chimica.» riuscì a tirare fuori «io non capisco nulla di chimica, lo sai-»

«Oh, Liam non prendermi in giro!» sbottò lei «So che vive qui!»

I due si scambiarono un’occhiata, allibiti. Theo non si era ancora mosso.

«Come-»

«Ti compro e ti lavo i vestiti, li conosco a memoria. Questa» disse facendogli vedere la felpa con cui il castano era arrivato una settimana prima «questa non è tua. Hayden non ti ha mai regalato vestiti. E se non fosse bastato questo, c’è la mole di cibo che ti porti in camera agli orari più improbabili. Quindi ora voglio sapere cosa-»

«È scappato di casa!»

Il grido di Liam la interruppe e tutti si voltarono verso di lui allibiti. Theo non sapeva che fare o cosa dire, non avevano mai concordato una versione, così poteva solo fidarsi del biondo. Il problema era che sapeva che nemmeno lui aveva idea di cosa dire ora.

«È scappato di casa perché i suoi lo picchiavano. Non voleva più stare con loro così è scappato.» aggiunse peggiorando ulteriormente la loro situazione.

«E perché è venuto a casa nostra invece che andare alla polizia?!»

«Perché era spaventato!» improvvisò il ragazzo gesticolando «È andato nell’unico posto in cui si sentiva al sicuro!»  

«Quindi lo conosci?!»

I due si guardarono di nuovo a corto di idee. Erano nella merda, stava andando tutto a puttane.

«Ci… ci siamo conosciuti a scuola» azzardò Theo con gli occhi fissi in quelli di Liam.

«Sì, a scuola…» confermò il ragazzo a mezza voce valutando le possibilità «Ci siamo conosciuti a scuola»

«Ma non è della tua classe, li conosco tutti i tuoi compagni»

«Lui era- lui era-»

«Ero in classe con Stiles e Scott» s’intromise il castano «ci siamo incontrati sul campo di lacrosse»

«Come giocatore?» chiese sospettosa la donna, ma Theo si affrettò a scuotere la testa.

«No, sugli spalti a tifare.» rispose «Quando finivano le partite andavo a parlare con Scott e Stiles e ho incontrato Liam.»

«E perché non ti ho visto alla cerimonia di diploma?»

Theo a quel punto poteva vedere le maledizioni a danno del comitato dei genitori sulla fronte di Liam; probabilmente malediceva il giorno che sua madre aveva deciso di partecipare.

«Si è trasferito» masticò «i suoi si erano accorti che qualcuno aveva notato i lividi e si sono trasferiti prima che qualcuno potesse denunciarli.»

La madre di Liam non disse altro, ma rimase a guardarli a braccia incrociate. Era una donna dai capelli biondi, minuta al punto che non capiva come Liam potesse essere suo figlio, ma faceva molta più paura dei cacciatori della Monroe ora.

«Non buttarlo fuori mamma, ti prego»

Gli occhi della donna si spostarono sul figlio.

«Mamma, ti prego, non buttarlo fuori» insistette lui «Se torna là fuori è spacciato, ha passato due mesi a dormire in un pick-up, i suoi lo stanno cercando, forse anche la polizia, e se ritorna da loro è spacciato! Lo ammazzeranno di botte!»

Non una parola però usciva dalla bocca della madre di Liam.

«Avanti! Vuoi davvero averlo sulla coscienza?! Vuoi davvero mandarlo a morire?!»

Il ragazzo aveva alzato il tono, ma il viso della donna era come scolpito nella pietra. Theo era certo che sarebbe finito in strada e ora che sapeva che ad aspettarlo c’erano i cacciatori della Monroe era l’ultimo posto dove voleva essere. Era terrorizzato da quella possibilità al punto da avere le mani gelate.

«Vuoi davvero buttare in strada l’unica ragione per cui non stato bocciato in chimica e letteratura?!» Liam era passato a elencare i meriti scolastici che non aveva, era alle ultime cartucce e la strada era sempre più vicina. Sua madre continuava a stare zitta.

«Quindi vuoi davvero farlo?» incalzò il ragazzo con le guance rosse e gli occhi accesi; puzzava di paura e l’unica cosa che voleva fare Theo era aprire la finestra per disperdere l’odore, ma invece rimase accanto a lui ad ascoltare il suo cuore martellargli nel petto.

La donna continuava a tacere e scrutarli con i suoi occhi azzurri. Liam si voltò appena verso di lui con lo sguardo di un disperato e gli prese la mano, tremando.

«Vuoi-»

«Va bene, può restare!» sbottò la donna alzando le mani «Mi avevi già convinto dieci minuti fa» sbuffò lanciando la felpa a Theo.

«Avresti potuto avvisarmi subito che c’era un tuo amico a casa» urlò dal corridoio insieme a un’altra serie di cose che nessuno dei due stava ascoltando.

Liam si voltò di nuovo verso di lui con gli occhi enormi e le guance rosso pomodoro.

«Cos’è quella faccia?» chiese con un risolino nervosi il castano, sentendo le sue guance scaldarsi a loro volta «Stavi per giocarti la carta del fidanzato?» scherzò dondolando la mano che ancora stringeva quella del biondo; la sua stretta non si era ancora allentata.

«Ero pronto a baciarti!» sussurrò facendo diventare paonazzi entrambi.







Angolo Autrice
Hello, tortellini ♥
Ogni tanto risorgo e porto con me storie. (Sto mentendo ovviamente, ho pubblicato questa OS perchè era pronta da mesi.) (E perchè sto cercando di ritrovare l'ispirazione per la storia principale, ma è difficile senza interazioni con i lettori...)
Ringrazio infinitamente 
Roxy Roy per aver fornito la fanart e spero che la storia sia valsa l'attesa.
A presto. (spero ^^')

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Capitolo 8
*** Poison ***


Personaggi – Stiles, Derek
Coppia - Sterek
Rating - giallo
Genere – Hurt/comfort, drammatico, slice of life
Note – Missing moments
Avvertimenti - malattia, menzione di vomito
 
Poison
 

Avevano cercato di avvelenarlo.
Nessuno se n'era accorto, nemmeno con il loro olfatto di mannari avevano sentito lo strozzalupo nelle loro bevande. Erano riusciti ad eliminare l'odore e l'unico ad essersene accorto era stato Stiles.

Era riuscito ad impedire tutti di bere, tranne a Derek, con cui aveva litigato solo poche ore prima. Il ragazzo in preda al panico e disperato gli aveva rubato il bicchiere sotto il naso e l'aveva bevuto tutto per evitare che lui potesse provare anche solo berne un sorso.
Nel giro di cinque minuti, l'odore di Stiles era cambiato, cominciando a puzzare di malattia e si era fatto pallido come un fantasma. Derek aveva smesso di urlargli contro e l'aveva afferrato poco prima che crollasse a terra.
Era coperto di sudore freddo e aveva biascicato qualche parola sconnessa e Derek era riuscito ad intuire che stesse per vomitare così l'aveva trascinato in bagno, quasi in braccio perché non riusciva a reggersi in piedi.
Avevano raggiunto il gabinetto appena in tempo: Stiles si era appena aggrappato alla tazza del water che aveva rimesso tutto ciò che aveva nello stomaco, sotto lo sguardo allibito di Derek.

«Ora mi credi quando ti dico che l'avevano...!» un nuovo conato gli impedì di continuare.

Il moro s'inginocchiò accanto a lui e con una mano tremante gli accarezzò la schiena, divorato dal senso di colpa.

«Mi dispiace»

A rispondergli fu solo un nuovo conato del castano.

«Che hanno usato?»

«Aconito» rispose l'altro tossendo.

Nuovi spasimi fecero contrarre i muscoli del ragazzo e riprese a vomitare.

«Stiles?!» la voce di Scott fece girare il moro verso la porta; il castano era troppo impegnato ad affondare la testa nel gabinetto. «Cosa facciamo?»

«Lascia stare, ci penso io» lo blocco Derek «Se l'avessi ascoltato non starebbe vomitando» Scott strinse le labbra ma annui; non era difficile intuire che si sentisse tremendamente in colpa. «Chiudi la porta e va a cercare tua madre» di nuovo il bruno annuì e fece come gli era stato detto.

Derek torno a concentrarsi sull'umano, e riprese ad accarezzargli la schiena. Non sapeva bene come confortarlo o aiutarlo, sapeva solo che voleva fare tutto ciò che poteva per farlo stare meglio. Si concentrò cercando di capire qual era la prima cosa da fare.

"bisogna capire quanto era velenosa la pianta"

«Stiles, ricordi che tipo di aconito era?»

Stiles finì di vomitare i succhi gastrici e alzò la testa; era cereo e con la fronte imperlata di sudore.

«Forse…» uno spasmo dei muscoli dello stomaco lo scosse e subito torno a mettere la testa nella tazza, ma non vomitò. «Aconito viola» sussurrò per poi essere scosso da un nuovo conato; stavolta sputò succhi gastrici.

"buono, non è il tipo più velenoso. Magari si è indebolito ancora quando hanno tolto l'odore"

«Stiles, devi vomitare tutto quello che hai nello stomaco» il ragazzo gli lanciò un occhiata furente, ma Derek, pur sentendosi un idiota, lo ignorò e corse a prendere una bottiglia d'acqua. Tornato da lui gliela porse, ma il castano lo guardò senza capire.

«Devi berla tutta d'un fiato» Stiles, sputo nel water e tornò a guardarlo male. «Avanti!» insistette il moro porgendogliela.

Il ragazzo prese la bottiglia e si mie a bere cercando di non riprendere fiato. A circa metà dovette fermarsi e non sembrava intenzionato a proseguire.

«Avanti, Stiles! Finiscila!» lo spronò il moro, ma quello scosse la testa.

«Perché, a che serve?!» gridò frustrato.

«Devi bere e poi vomitare, dobbiamo impedire che tu assorba altro veleno»

«Ma l'ho appena vomitato!» gli gridò il castano.

«Stiles, cazzo, bevi quell'acqua» gli ringhiò contro categorico.

L'umano con un sospiro esasperato riprese a bere e finì completamente la bottiglia.

«E ora?» esalò gettando la bottiglia.

«Ora devi vomitare» disse avvicinandosi.

«E come faccio?» disse arrabbiato «Non ci riesco a comando!»

Derek fece un grosso sospiro e gli mise una mano sulla nuca.

«Scusa Stiles»

Il ragazzo lo guardò con gli occhi spalancati e lucidi di lacrime per i conati

«Eh?»

Fu tutto molto veloce: Derek gli strinse i capelli alla base della nuca e lo costrinse a reclinare il capo; Stiles fece un’espressione spaventata e tradita, ma il moro non si fece impietosire e gli infilò due dita in gola. La risposta del corpo di il fu automatica: subito tornò a infilare la testa nella tazza e a vomitare tutta l'acqua ingerita.

«Mi dispiace» mormorò il moro inginocchiandosi accanto a lui.

«Vaffanculo Derek» esalò Stiles «vaffanculo» ribadì.

Rialzò la testa e guardò il giovane tradito ed esausto con le guance bagnate di lacrime.

«Mi dispiace» mormorò di nuovo il mannaro.

«Stronzo» gli rispose l'umano per poi chiudere gli occhi e infilarsi due dita in gola con uno sguardo sofferente.

Stiles vomitò di nuovo varie volte, per di rimanere tremante e sudato aggrappato al water, mentre Derek gli asciugava la fronte con un asciugamano. All'arrivo di Melissa fecero un test sull'avvelenamento e stabilirono che non c'erano rischi gravi. La donna rassicurò tutti dicendo che probabilmente avrebbe avuto febbre e nausea per un paio di giorni, ma nulla di più.
Il ragazzo era rimasto a ascoltarla pallido ma aveva tirato un sospiro di sollievo nel sentire il verdetto dell'infermiera. Rassicurato si abbandonò contro la parete esausto.

«Forza, Stiles. Ti porto a casa. Alzati» erano al loft di Derek e Scott era intenzionato a metterlo nel suo letto prima che gli salisse la febbre. Peccato che quando il castano si rimise in piedi ebbe un capogiro e fu solo la prontezza del moro ad impedirgli di cadere a terra.

Ancora lo stringeva tra le braccia quando convinse Scott a lasciarlo con lui a smaltire i postumi dell'avvelenamento. D'altra parte lo sceriffo era impegnato col lavoro e Stiles non avrebbe voluto che la sua salute fosse un motivo d'ansia per il padre.
A dirla tutta, Derek si sentiva tremendamente in colpa per il rischio che aveva fatto correre al ragazzo e solo a causa del suo stupido orgoglio. Aveva bisogno di scusarsi e farsi perdonare. Melissa era d'accordo, meno sballottavano il figlio dello sceriffo meglio era, perciò istruì il moro su cosa avrebbe dovuto aspettarsi e lasciò il loft in compagnia del figlio. Una volta soli, Derek sollevò Stiles tra le braccia mentre quello rabbrividiva per la febbre che già cominciava a salire e accettava passivo quello che aveva intenzione di fare il mannaro.

«Stiles, vuoi cambiarti? Sei fradicio di sudore» gli chiese lui mentre il ragazzo si reggeva a stento a sedere sul letto del giovane.

«E con cosa mi cambio? I tuoi vestiti? E poi mi laverai pure dato che sono sudato? Eh, Derek?» era chiaramente sarcastico e arrabbiato, lui lo sapeva, ma quello che aveva proposto era una buona idea.

«Se ne hai bisogno lo faccio» disse senza battere ciglio. Gli occhi di Stiles si spalancarono per la sorpresa, poi Derek vide apparire una luce maligna negli occhi del castano.

«Allora fallo» disse gelido, con un depressione dura, che contrastava col pallore del volto.

«Ok» accettò il moro.

Per un secondo pensò di chiedergli se riuscisse ad arrivare alla doccia, ma era chiaro che non ce la faceva dato che aveva dovuto portarlo in camera in braccio.

«Dammi tempo di recuperare un po' d'acqua e qualche asciugamano. Tu intanto levati i vestiti sudati»

Gli ci vollero cinque minuti buoni per prendere tutto il necessario, ma quando torno in camera Stiles stava ancora litigando con i bottoni della sua camicia. Il moro posò bacinella e asciugamani per poi mettersi davanti al ragazzo.

«Serve aiuto?» gli chiese sforzandosi di non suonare irritante; a quanto pare ci riuscì visto che Stiles non gli diede una delle sue solite risposte sarcastiche

«Sì per favore»

Derek non se lo fece ripetere e prese a svestirlo con movimenti sicuri sempre attento ad annusare i cambi di umore di Stiles. Il ragazzo rimase tranquillo sia quando gli tolse sia la camicia che la maglietta, ma quando sbottonò il bottone dei jeans il suo odore gli comunicò il suo disagio.

«Vuoi che aspetti un attimo?» chiese cercando di mostrarsi accomodante.

Il castano annuì, così il moro inumidì una salvietta a prese a passargliela sul petto. L'odore di disagio non si allontanò dal ragazzo e quando Derek prese a lavagli il collo addirittura sussultò. Il mannaro si fermò, aspettando che Stiles si spiegasse o gli dicesse di continuare, ma non succedeva nulla.

«Ti ho fatto male?» chiese temendo che fosse quello il motivo, ma il ragazzo scosse la testa.

Schiuse gli occhi che aveva stretto al momento del sussulto e ammise candidamente che "lui gli faceva annodare lo stomaco".

Derek non fece commenti, ma senti le guance scaldarsi e riprese a lavare Stiles. Ogni tanto il ragazzo fremeva sotto il suo tocco ma questo non fermo il mannaro. Arrivato alla fine del busto mise da parte la salvietta e tornò a sbottona i pantaloni. Diede uno sguardo al castano e cercò di capire se poteva levarglieli. L’umano non disse nulla, fece solo un cenno col capo, e assecondò il movimento del moro nel levarglieli.
Derek cominciò a lavagli le gambe senza farsi problemi, anche se Stiles faceva smorfie imbarazzate. Risalì fino all'intimo, si bloccò e alzò gli occhi in quelli del ragazzo.

«Posso farlo da solo questo» affermò il castano «lasciami l'asciugamano e prendimi un cambio»

Il mannaro lo fece cercando di restare tranquillo. Gli diede quello che aveva chiesto poi si voltò verso armadio e cercò di ignorare i rumori che arrivano dal ragazzo e dal letto. Sentì qualche grugnito e qualche imprecazione, ma non si voltò, rispettando la sua privacy. Dopo avergli concesso cinque minuti abbondati, si voltò ad occhi chiusi e gli porse una maglietta e un paio di pantaloni della tuta.

«Niente intimo?» chiese il ragazzo e Derek riuscì ad immaginare la smorfia che doveva essere apparsa sul suo volto.

«Ho dimenticato di fare la lavatrice questa settimana» ammise con un sospiro. 

Gli sembrò di sentir ridacchiare Stiles, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco.
Senti il peso dei vestiti sparire dalla sua mano, e pochi istanti dopo il rumore di un corpo che crollava nel letto. Non ci fu nessun rumore, ma dopo un minuto, il ragazzo gli chiese aiuto con il respiro affannato.

«Tieni chiusi gli occhi» specificò tradendo il suo nervosismo col tono della voce.

Derek non commentò e si avvicinò con le braccia tese davanti a sé, subito intercettate dal castano che guidò le sue mani fino ai pantaloni, arrotolati sotto il ginocchio. Il moro non disse una parola e non un movimento fluido lo rivestì, sentendolo irrigidirsi solo quando gli sfiorò inavvertitamente la linea del bacino; subito dopo apri gli occhi e gli infilò la maglia, senza che il ragazzo protestasse.
Il colorito pallido aveva lasciato posto ad un rosa intenso, almeno sulle guance e sul naso, mentre gli occhi erano liquidi e confusi.

«Avanti, sotto le coperte. Ti sta salendo la febbre» ordinò e incredibilmente Stiles obbedì.

Il moro lo lasciò solo pensando che si sarebbe addormentato subito e raggiunse il pc, cercando un modo per misurare la temperatura corporea senza termometro; lui non si ammalava mai e non ne aveva uno in casa. Si trovò ad arrossire quando si rese conto che l'unico modo che aveva per capirlo era restando pelle contro pelle con Stiles: che fosse la fronte, una mano o le labbra, la pelle sembrava l'unica soluzione. Stava giusto per cercare in una nuova pagina quando il suo udito mannaro gli portò la voce del ragazzo che chiamava il suo nome.
Svelto raggiunse il castano che si era sepolto sotto le coperte.

«Di cosa hai bisogno?»

«Potresti portarmi una bacinella e un po' d'acqua?» gli domandò l'altro con voce roca.

Derek annuì e andò veloce a recuperare quanto gli era stato chiesto. Tornato nella stanza vide il castano che faceva lunghi respiri e aveva gli occhi chiusi; aveva anche una mano sulla fronte.

«Tutto bene?»

Il ragazzo lo guardò di sottecchi senza muoversi e rispose «Tu che dici?» stillando sarcasmo da ogni lettera.

Derek fece una smorfia e si corresse

«Nel senso... Stai peggio?»

Stiles sospirò.

«Credo che mi stia salendo la febbre... Tu che dici?»

«A vedere la tua faccia sembra probabile» Stiles mugolò in risposta, ma il moro non capì che genere di risposta fosse. «Come faccio a capire se hai la febbre e non ho un termometro?» di nuovo il castano mugolò, ma stavolta spostò la mano dalla fronte.

«Mi stampi un bacio in fronte» gli rispose lui senza giri di parole «la bocca è a 37°C perciò se senti la mia fronte più calda delle tue labbra allora ho la febbre» Derek non si mosse, sentendo le guance arrossarsi, né Stiles si sforzò di guardarlo.

Cercò invece di sollevarsi e raggiungere l'acqua, ma non riusciva nemmeno a fare leva sui gomiti. Il mannaro venne in suo soccorso e sorreggendogli la testa gli portò il bicchiere alle labbra. Il ragazzo bevve due sorsi soltanto, cosa che al moro sembrò strana visto quanto si era arrochita la sua voce; in più aveva appena letto che vomitare disidratava. Stiles avrebbe dovuto bere molto di più.
Il ragazzo notò il suo sguardo e gli spiegò che sentiva ancora nausea e voleva vomitare il meno possibile.  Derek annuì e lo riappoggiò sul suo cuscino. Si prese qualche istante per osservarlo: Era cereo non solo in viso, ma su tutto il corpo come vedeva dalla scollatura della sua maglietta. L'unico punto di colore erano le guance e gli occhi arrossati. Erano pallide perfino le labbra. Era in uno stato pietoso e Derek decise di chinarsi e scoprire se avesse o no la febbre.
Senza dire una parola, il moro si portò su di lui e gli posò le labbra sulla fronte. Rimase così qualche secondo cercando di capire quanta febbre avesse Stiles. Il ragazzo emise un sospiro di sollievo, o così sembro al moro, quando le sue labbra toccarono la pelle bollente.

«Hai la febbre» confermò rialzandosi.

Gli fu poi automatico fargli una carezza sulla fronte per spostargli i capelli sudati, un gesto che il castano gradì a giudicare da come si spinse contro la mano.
Quando provò ad allontanarla, il ragazzo mugolò in protesta. Derek allora si sedette sul letto senza dire una parola e riprese ad accarezzargli la fronte per poi passare alla guancia e cominciare a tracciare archi col pollice. Le labbra di Stiles si stirarono in un sorriso soddisfatto; il mannaro ricominciò ad accarezzargli i capelli con l'altra mano e un mugolio di piacere si levò dalla sua gola. Sentendo le mani intorpidite dal movimento ripetuto di fermò qualche istante, ma subito lui gli chiese di continuare.

«Ti piace?»

«Molto» sospirò «puoi continuare ancora un po'?»

Derek non rispose, limitandosi a continuare quello che stavi facendo.

«Mi mancava essere trattato così...» borbottò strofinando la guancia sulla sua mano.

«Da quanto qualcuno non ti tratta così?» chiese il moro carezzandogli piano la nuca e il collo sudati.

Stiles aprì gli occhi e guardò il soffitto, cercando di richiamare un ricordo.

«Non lo ricordo» sussurrò «so solo che qualcuno lo faceva»

Derek allontanò le mani dalla sua pelle e subito il ragazzo fece una smorfia contrariata. Il moro non gli diede retta e invece inumidì una salvietta con acqua fresca e gliela sistemò in modo che gli coprisse la fronte e gli occhi. I muscoli del viso di Stiles si rilassarono.

«Meglio?»

«Molto» gli rispose lui. 

Derek fece un profondo respiro permettendosi di rilassarsi un poco; stese la mano e prese ad accarezzare le guance di Stiles col dorso delle dita, facendolo sorridere. Stupidamente, mimò la sue espressione col cuore che si scaldava.
Il respiro dell'umano si regolarizzò e ascoltando il suo battito rallentare, il moro capì che si era addormentato. Derek allontanò la mano e dopo essersi concesso qualche istante per osservare il suo viso, poi si alzò e tornò al pc per farsi un'idea di cosa fare al suo risveglio. Non tenne conto del tempo che passava, ma ad un certo punto sentì di nuovo Stiles chiamare il suo nome.

Prima quasi non ci fece caso, ma sentendolo quasi gridare angosciato si precipitò da lui spaventato e tenendo chissà quale pericolo, ma lo trovò ancora addormentato nel letto che si muoveva agitato. Si chinò su di lui con l’intenzione di svegliarlo, ma in tutta risposta Stiles l'afferrò per un braccio tanto forte da fargli male e lui rimase interdetto a guardarlo tremare.

«Derek non fare l'idiota, non bere!»

Stava rivivendo quello che era successo qualche ora prima.

«Derek, cazzo, dammi retta per una volta! Non voglio vedere la persona che amo morire solo perché è un cazzo d’orgoglioso!»

Le parole erano biascicate e poco chiare, ma non alle orecchie del mannaro, che si blocco senza sapere come reagire. La presa sul suo braccio si fece più debole, fino a scomparire e Stiles tornò a biascicare parole incomprensibili, lasciando il moro solo cosi suoi pensieri e lo stomaco annodato.

"Perché ora? Perché dovevi dirmi una cosa simile proprio ora?!" Si chiese addolorato. Derek rimase a fissare il ragazzo ed esalò un sospiro sofferente: si era scoperto innamorato di Stiles da un anno e due mesi fa aveva deciso di sopprimere quel sentimento. Aveva pensato a mille modi per parlargli, per dichiararsi, ma lui non aveva mai mostrato di essere interessato al moro. Ogni volta che parlavano finivano per litigare: Stiles perché era Stiles ed era insofferente a lui e al suo carattere, Derek perché era Derek ed era arrabbiato ed orgoglioso.

"La persona che amo"
"Cazzo Stiles... Perché?"

Si sedette al suo fianco facendo respiri profondi; ogni volta che inspirava gli sembrava che la gabbia toracica si chiudesse sui polmoni e il cuore mandava fitte dolorose.

«Stiles, perché non me l'hai mai detto prima?» sussurrò.

Prese ad accarezzargli i capelli piano per poi togliergli la pezzuola dalla fronte e guardarlo bene in viso. Il sonno gli aveva rilassato i tratti, dandogli finalmente un'espressione serena. Derek si ritrovò a mordersi le labbra e ad accarezzare col pollice quelle del castano. Le sue parole biascicate avevano riacceso il suo desiderio e voleva ardentemente baciarlo. Erano bastate solo quelle poche sillabe per spazzare via i suoi propositi di dimenticarlo.
Si chinò su di lui, col desiderio di baciarlo. Avrebbe potuto togliersi quella voglia e tornare a seppellire il suo amore, lasciando che morisse; Stiles e lui avrebbero trovato altre persone di cui innamorarsi, non sarebbe stata una gran sofferenza. Però almeno un bacio lo voleva, voleva conoscere il sapore delle labbra di Stiles. Si abbassò ancora sulla sua bocca e già i loro respiri si mischiavano.
Ancora pochi centimetri e avrebbe scoperto il sapore della bocca del ragazzo. Ancora poco, sentiva il calore della sua pelle sulla sua. Mancava pochissimo.
 


 
Non poteva farlo.

Si fermò e tornò a raddrizzarsi con un’espressione contrita e addolorata sul viso. Non avrebbe avuto un'altra occasione simile, ma non poteva rubare quel bacio a Stiles, non mentre stava male ed era addormentato.

Avrebbe potuto non volere quel bacio, avrebbe potuto odiarlo, avrebbe potuto star tentando di dimenticarlo, ma sopra tutto lui non voleva un bacio rubato, voleva un bacio dato guardandosi negli occhi, cercando la bocca e il corpo dell’altro. Non voleva essere il principe per una bella addormentata, voleva essere scelto.
Con un nodo in gola si alzò e tornò accanto al pc, intenzionato a reprimere di nuovo i suoi sentimenti. Aprì una nuova pagina per capire come aiutare il ragazzo che non riusciva a smettere d'amare.

 
~♦~

Il fracasso di oggetti che finivano a terra lo fece sussultare. Si era addormentato davanti al pc ed erano le tre del mattino. Ancora confuso dal sonno e con le spalle indolenzite corse verso la fonte del rumore; arrivava dal bagno. Aprì la porta socchiusa e trovò Stiles riverso a terra che cecava di rialzarsi poggiandosi sugli avanbracci, ma oscillava.

«Che è successo?!» chiese allarmato, ma l’altro riuscì a rispondergli solo con un gemito a denti stretti.

Derek notò che era di nuovo fradicio di sudore e si chinò su di lui per sollevarlo e riportarlo a letto; il castano cercò debolmente di opporsi, ma il moro non gli diede peso e lo riportò in camera. Aprì la porta spingendola col piede vedendo il motivo per cui Stiles non era a letto: Aveva avuto dei conati e non era riuscito a raggiungere la bacinella.

«Scusa... Volevo pulire» mormorò il castano mentre il moro lo rimetteva a sedere sul letto sfatto.

«Scusa...» mormorò ancora ciondolando su se stesso.

Derek scosse il capo e raccolse l'asciugamano umido per ripulire. Stiles guardava i suoi gesti con occhi vuoti e lacrime intrappolate tra le ciglia. Con la coda dell'occhio, il moro colse al volo spasmo del suo corpo e svelto afferrò la bacinella per metterla sotto il viso dell’umano; il ragazzo aveva le mani premure sulla bocca e il viso rivolto verso l'alto. A giudicare da come si muoveva il suo pomo d'Adamo stava cercando disperatamente di far tornare il vomito da che era venuto.

«Stiles non ti azzardare» sibilò il moro «vomita» ordinò perentorio.

Stiles obbedì con un gemito, quando rialzò il viso stava piangendo.

«Mai più» singhiozzò guardando Derek. «Non berrò mai più nulla per salvarti la vita»

Il moro sentì il suo stomaco contorcersi per il senso di colpa.

«Riesci a tenere la bacinella mentre pulisco?»

«Ci provo» sussurrò l'altro tremando; il mannaro annuì e riprese a pulire.

Bastarono dieci minuti, ma Stiles sembrava ancora più stravolto.

«Derek posso lavarmi? Ti prego» la sua voce era così flebile che quasi l'altro non la sentiva. «L’odore del vomito fa schifo»

«Certo, ti porto in doccia» il mannaro era più che felice di accontentarlo, non gliel'avrebbe mai detto per riguardo al suo stato, ma puzzava di vomito e sudore e la cosa gli urtava il naso.

Portò prima la bacinella a lavare, poi aprì la finestra e infine riportò il ragazzo in bagno.

«Vuoi che ti aiuti?»

«No» scattò subito Stiles e il mannaro annuì.

«Vuoi che esca?»

«No» detto ciò il castano gli diede le spalle e con molti gemiti e grugniti riuscì a levarsi i vestiti per poi entrare in doccia. Derek si trovò a guardare la pelle pallida della schiena di Stiles e ebbe la prontezza di voltarsi giusto prima che il ragazzo si girasse e cominciasse a lavarsi; la vista di quel pallore tremante e cosparso di nei l'aveva stregato.

Dopo venti minuti, il ragazzo annunciò che aveva finito e che aveva bisogno di asciugarsi. Derek sollecito aprì un grande asciugamano con cui avvolgerlo e asciugarlo, e Stiles senza nemmeno preoccuparsi si essere nudo gli si spinse contro, quasi cadendogli addosso. Il moro lo resse e prese a tamponarlo delicatamente. Non era ancora asciutto quando Derek lo prese in braccio, ma nessuno dei due se ne preoccupo.
Stiles si appoggiò col la fronte al collo di Derek mentre quello lo portava in camera tenendolo come una principessa. Lo depositò dal suo lato del letto e fece per andare a prendere dei vestiti, ma il castano lo fermò.

«Lascia stare, tanto finirò per sudare di nuovo, sto così»

«Nudo?»

«Nell’asciugamano»

«Ti ammalerai»

Stiles fece spallucce.

«Stiles, stai rabbrividendo. Fammi prendere dei vestiti»

«Lascia stare. Tanto peggio di così... Se ci tieni tanto a tenermi al caldo svestiti e dormi con me» disse in tono scherzoso e rassegnato. Derek sospirò e recuperò l'ultimo asciugamano; cominciò a frizionare i capelli dell'umano cercando di non guardargli il viso.

Stiles invece gli guarda il viso, in particolare le labbra, e sembrava in trance; Derek le sentiva prudere sotto il suo sguardo, ma i suoi occhi non incrociarono mai quelli del castano.
Era così concentrato su ciò che stava facendo che il tocco di Stiles sulle sue labbra lo fece sobbalzare.

«Sono morbide» mormorò con reverenza; il moro rimase fermo come congelato. «Mi sono sempre chiesto come sarebbe stato baciarle» continuò trasognato accarezzandole col pollice.

Rimasero immobili per un momento poi Stiles si sporse in avanti cercando di baciarlo. Derek rimase fermo affascinato a guardarlo ma all'ultimo istante si sottrasse a quel contato. Il ragazzo lo guardò interdetto e ferito, ma poi abbassò gli occhi e la mano che ancora teneva sul viso del moro.

«Scusa... Avrei dovuto immaginarlo...» disse coprendosi la spalla col telo caduto mentre si sporgeva verso di lui. «Avrei dovuto sapere che non eri innamora-» 

«Stiles, no»

Il ragazzo lo guardò interdetto, mentre un brivido lo scosse da capo a piedi.

«Non è per quello che non voglio baciarti» si spiegò lui abbassando gli occhi «non...non mi piace il sapore del vomito...» ammise con una fitta di senso di colpa.

Stiles arrossì fino alla radice dei capelli, ma annuì; era più che normale. Derek si alzò lasciandolo solo ad asciugarmi i capelli, cosa che l’altro fece pentendosi del suo gesto.

«Tieni» l'umano si trovò sotto il naso uno spazzolino con dentifricio. «È il mio, ma usalo pure. Spero non ti faccia schifo» prosegui il moro quando il ragazzo lo prese in mano; gli portò poi un bicchiere d'acqua.

Derek lo osservò spazzolarsi i denti lentamente e strizzando gli occhi.

«Cosa c'è?» chiese sforzandosi di non sembrare brusco.

Lui si copri la bocca prima di rispondere, parlando a fatica «Mi gira la testa se lo faccio troppo veloce.»

Derek alzò le sopracciglia, ma non disse nulla. Prese invece lo spazzolino e gli fece alzare il viso. «Apri»

Stranito, Stiles obbedì e subito il moro prese a lavargli i denti e la lingua.

Ci mise il suo tempo a farlo: senza fretta gli ripulì per bene la bocca, senza allontanare la mano dalla sua faccia. I suoi gesti divennero così automatici che la sua mente prese a viaggiare e prima che se ne accorgesse si ritrovò ad immaginare Stiles col volto rivolto verso di lui ma ben altro ad entrargli in. Sorprendendosi in quei pensieri decise che era pulita a sufficienza e non si sentiva più nessun cattivo odore. Gli allungò il bicchiere d'acqua per risciacquarsela e gli porse la bacinella per sputarla.

«Come mai hai le guance rosse?» chiese l'umano non appena si liberò la bocca; Derek irrigidì e maledisse la sua fantasia «mi hai immaginato a farti un pompino?» gli chiese con un sorriso sghembo e un brivido; aveva la pelle d’oca.

Derek si morse le labbra e non disse nulla; Stiles rimase interdetto a guardarlo per un paio di secondi poi spalancò gli occhi per la sorpresa

«Sul serio?!» chiese incredulo. Derek chiuse i suoi e fece un grosso sospiro.

«Stiles, ti prego, non farmi sentire ancora più in colpa di così...»

«In col- ma perché dovresti?!» ribatté l'umano quasi offeso «ma che ti dice la testa?!» insistette alzandosi in piedi ed intenzionato a raggiungere Derek che ci era spostato due passi indietro. «Perché dovres-»

Stiles fece un’altro passo avanti, ma Derek ne fece uno indietro. Il ragazzo si fermo arrabbiato e interdetto e lo guardò in viso scoprendo che si mordeva le labbra e aveva gli occhi che guardavano verso il basso; la sue mani stavano torturando l'orlo delle maniche.
Il castano seguì il suo sguardo, scoprendosi nudo, e fu scontato mettere insieme i pezzi. Quando tornò a guardare Derek aveva la sua migliore faccia da schiaffi e proferì con in sorriso sornione: «hai visto qualcosa che ti piace?» allargando le braccia e offrendosi allo sguardo del mannaro.

Derek mormorò un imprecazione tra i denti e scosse la testa ad occhi chiusi.

«Avanti, copriti o ti ammali»

Stiles si sentì offeso da quella reazione: aveva appena avuto la prova che il suo pene era una fonte di distrazione per Derek Hale, non era intenzionato a smettere di stuzzicarlo anche se non sapeva cosa voleva.

«E perché?» chiese cercando di assumere un tono sensuale, ma i brividi rendevano la cosa difficile «tanto sono già ammalatt-»

Aveva fatto per avvicinarsi ma era stato colto da un capogiro e avrebbe finito per sbattere la testa a terra, ma di nuovo Derek ebbe la prontezza di afferrarlo. La fretta di impedirgli di cadere a terra però non gli fece badare a dove metteva le mani, ritrovandosi con una gamba tra quelle di Stiles e una mano sul suo; l'altra mano gli sosteneva la schiena.

«Coglione» gli sibilò all’orecchio il mannaro mentre arrossiva e evitava i suoi occhi.

«Ma ti è piaciuto» insistette il ragazzo, lasciandosi spingere verso il letto.

«Mi è piaciuto e la cosa si ferma qui.» ribatté il moro riavvolgendogli l'asciugamano addosso «Avrai anche il culo più bello e sodo che io abbia mai toccato, ma non ci sarà una seconda volta» aggiunse categorico e rialzandosi in piedi; cercò di darsi un tono serio, ma le guance arrossate prendevano la cosa difficile.

Stiles sentendo quelle parole però reagì ferito e addolorato, prendendo in contropiede Derek

«Ma perché?!» chiese tentando di alzarsi di nuovo, ma le mani di Derek si posarono sulle sue spalle tenendolo a sedere.

«Perché ci ho provato per mesi a farti capire che mi piacevi, non voglio una cosa da una botta e via, sarai bello quanto vuoi, ma mi ha dimostrato che non cerchi una storia con me. Quindi basta. Mi inn-»

«Ma io sono un coglione!» sbottò il ragazzo divincolandosi e tornando in piedi «io non sapevo come reagire, ci ho messo mesi solo per capire che ci stavi provando con me!» gemette. «Figurati se riuscivo a capire come dichiararmi!» aggiunse afferrandogli la maglia; il moro stava per rispondere qualcosa, ma il castano si fece pallido e crollò sul letto, trascinandosi dietro il mannaro.

«Stiles stai bene?» chiese preoccupato il moro sollevandosi per non schiacciarlo.

«Non c'è male, non stessi da schifo e tu fossi nudo sarebbe meglio»

Il moro sbuffò e fece per rialzarsi ma Stiles lo trattenne di nuovo.

«Stiles, piantala e lasciami andare» ringhiò il moro, ma il ragazzo non gli diede retta

«Vigliacco» sibilò «ti ho detto che sono innamorato di te, ho bevuto del veleno per te e tu ancora non vuoi credere che voglia una storia seria con te? Che non voglia provare davvero a creare qualcosa che duri? Se solo un vigliacco, infame schifoso bas-» non finì la frase perché Derek lo zittì con un bacio rabbioso, bloccandogli un polso contro il materasso mente l'altra mano scivolava lungo il fianco e raggiungeva la natica del ragazzo che strinse con forza.

Stiles mugolò contro la sua bocca, mugolio che divenne gemito quando il moro forzò le sue labbra e introdusse la lingua nella sua bocca. C'erano solo i suoi addominali ad impedirgli di crollare su Stiles, mentre il ragazzo inarcava il corpo contro il suo, alla ricerca di un contatto. Desiderava la pelle di Derek contro la sua, non smise un secondo di cercarla per tutta la durata del bacio. Quando finalmente il mannaro si sollevò inginocchiandosi e concedendo ad entrambi di riprendere fiato, il cuore del castano batteva all'impazzata e aveva recuperato la lucidità persa con la febbre.

«Cazzo...» esalò trasognato.

«Quello te lo do quando starai meglio» ribatté il moro levandosi la maglia e lasciando ammirare a Stiles il suo fisico perfetto. «Comunque» riprese a dire mentre si slacciava la cintura e i pantaloni; l’umano sembrava vedere solo le mani del mannaro muoversi. «Sei un idiota: avresti potuto versare il veleno per terra» disse calciando via pantaloni e intimo.

«Non ho mai negato di esserlo» borbottò l'umano mangiando il mannaro con gli occhi.

«Dormiremo svestiti e basta. Così la smetti di rabbrividire» aggiunse il moro trascinandoselo vicino per i fianchi, ma entrambi sussultarono quando i loro bacini vennero in contatto. «Non una parola» sibilò Derek, ma aveva la pelle d'oca; Stiles annuì mordendosi le labbra per non ridere.

Allacciò gambe e braccia al mannaro, che lo sollevò quel tanto che bastava per togliere le coperte e tirarsele addosso una volta sistemati.

«Solo dormire» rimarcò sovrastandolo.

Stiles annuì lentamente e guardandolo dritto negli occhi.

«Certo» aggiunse, ma il suo tono diceva esattamente il contrario.


Angolo Autrice
Chi non muore si rivede. Dopo parecchio tempo causa traslochi, cambi di lavoro e penna e dita pesanti. Ancora non mi arrendo e spero di poter partorire altri capitoli. Grazie a tutti quelli che seguono, recensiscono e inviano immagini, questa raccolta non è possibile senza la vostra partecipazione. Un grazie speciale a 
Helena21 che mi ha fornito l'ispirazione per questa One Shot.
Che altro dire? Stay tuned e abbiate fede! Io non mi arrendo!
Al prossimo capitolo!
Bye!


PS. FORZA AZZURRI!!!!
 

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