In un bacio saprai tutto quello che ho taciuto di Ayr (/viewuser.php?uid=698095)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I - Monreale, 19 maggio 1860 ***
Capitolo 2: *** II- Milano, 31 agosto 1860 ***
Capitolo 3: *** III- Santa Maria Capua Vetere, 3 ottobre 1860 ***
Capitolo 1 *** I - Monreale, 19 maggio 1860 ***
Monreale, 19 maggio
1860
Mia adorata,
vi chiedo umilmente perdono. Non avete
ricevuto più mie da quando salpammo da Porto Santo Stefano,
e profondamente mi
vergogno per avermi costretto a rimanere in pensiero per me.
Purtroppo, i frenetici e intensi
avvenimenti di questi ultimi giorni hanno prosciugato ogni minuto del
mio
tempo, lasciandomene una briciola miserrima da dedicare interamente a
me
stesso, e a voi. Quest’oggi solamente sono riuscito a
racimolare un poco di
carta e un carboncino, e a scribacchiare qualche riga per voi, per
rincuorarvi
e rassicurarvi sulla mia incolumità.
Il pensiero di voi è stata l’unica
ancora che mi ha permesso di non affogare in questo mare di morte e
disperazione.
Una sanguinosa e terribile battaglia si
è conclusa quattro dì addietro, e mi ha concesso
l’onore spiacevole di sfiorare
l’orrore della guerra, la desolazione e la devastazione che
le sono compagne, e
l’annullamento totale dell’umanità.
Preferirei non dilungarmi su così
tristi e macabri argomenti, ma lo sconvolgimento che ha prodotto in me
un
simile avvenimento, è tale da non poter essere contenuto
troppo a lungo, e ho
la necessità di condividerlo con qualcuno.
Io facevo parte del primo Battaglione
dei Cacciatori delle Alpi, e non presi parte alla battaglia, se non
nelle fasi
finali, rimanendo nel contingente di riserva. Gran parte di quello che
sto per
riferirvi mi venne raccontato, sebbene ebbi la sfortuna di assistere
con i miei
occhi ai più grotteschi episodi, che intimamente scossero il
mio animo.
Breve ma intenso fu lo scontro, e al
primo assalto dei borbonici, inaspettato e violento, respinto con non
poche
difficoltà dai nostri, la speranza di poterlo vincere si era
già dileguata come
una fiamma di candela spenta da un soffio di vento.
Il generale, avendo notato come a
malapena fossimo riusciti a frenare l'attacco di un sesto delle forze
nemiche
schierate, pensando che difficilmente avremmo potuto resistere a
un'azione più
energica, diete l’ordine di prepararsi alla ritirata. Ma il
prode Garibaldi bloccò
tale ordine e intimò con la sua voce imperiosa:
«Nino, qui si fa l'Italia o si
muore!»
Quelle poche parole ebbero l’effetto di
un incantesimo sugli uomini: quel pugno di sbandati trafelato, pesto,
insanguinato, sfinito da tre ore di corsa e di lotta, trovò
nelle maliarde parole
dell’uomo la forza di risollevarsi e tenersi in piedi, e
riprese, come gli era
stato ordinato, la sua salita micidiale, risoluto all'ecatombe. Come
egli aveva
previsto, la fortuna fu nostra: incalzati nuovamente di fronte a quel
branco di
indemoniati che pareva uscissero da sottoterra, sgomenti
dall'improvviso rombo
dei cannoni che Orsini era finalmente riuscito a portare in linea,
turbati dal
clamore crescente delle squadre sui loro fianchi, i borbonici
disperarono di
vincere, e voltate le spalle, abbandonarono il monte e si precipitarono
a
rifugiarsi dentro Calatafimi.
La vittoria, però, è stata resa amara
dal sapore di sangue e dal puzzo di morte che la impregnò:
diciannove dei
nostri caddero, tra cui il giovane Gaspare
Tibelli,
spirato il giorno del suo diciottesimo compleanno, nel primo assalto, accanto al
portaordini
Adolfo Biffi di tre anni più giovane. Mi era stato affidato
l’incarico di
rintracciare i feriti e i moribondi in quel marasma di carne e corpi, e
mentre
vagavo come un dannato sulla desolante distesa di cadaveri,
l’occhio cadde su
quel giovane uomo che rantolava penosamente, il petto dilaniato da una
baionetta. Non si poteva fare molto per lui: la lama aveva perforato un
polmone
e il respiro era rotto e macchiato di sangue. Mi accostai a quel
giovane e feci
tutto quanto fu in mio potere, accompagnando la sua dipartita per il
Regno dei
Cieli. Conosco la famiglia di quel ragazzo, e fu per me straziante
essere lo
spettatore imponente della sua morte. Mi domando che senso abbia avuto
questa
battaglia e a che prezzo siamo riusciti a conquistare la vittoria.
Lo
spettacolo più miserabile, però, apparve a
Partinico, la sera addietro: all'entrata
e per le vie della città, trovammo molti cadaveri di soldati
borbonici, carbonizzati
e straziati in mille modi. Intorno a sette od otto di questi cadaveri,
molto
fanciulle danzavano a cerchio tenendosi per mano e cantando.
Interrogata, da
uno dei nostri, una donna del perché non li
avessero concesso una
sepoltura degna, «Perché non meritano sepoltura;
devono mangiarseli i cani!» ella
rispose e tali parole produssero in noi grande orrore e sgomento. Il
popolo era
stato molto maltrattato dai soldati borbonici, anteriormente alla
battaglia di
Calatafimi, e quando questi tornarono fuggendo e sbandati, la
popolazione aveva
dato loro addosso massacrando quanti potevano, e perseguendo il resto
verso
Palermo.
Ma
erano cadaveri d'Italiani da Italiani sgozzati che, se cresciuti alla
vita dei
liberi cittadini, avrebbero potuto servire efficacemente la causa del
loro
oppresso Paese. Invece, come frutto dell'odio, suscitato dai loro
perversi
padroni, essi, finirono straziati, sbranati dai loro propri fratelli,
con tal
rabbia da far inorridire le jene!
Non
rinnego gli ideali che mi hanno spinto in questa impresa, ma mi chiedo
se questo
sia il metodo più efficace e se le conseguenze di questa
nostra impresa saranno
sempre ugualmente cruente.
All’inizio
non nutrivo alcun dubbio in proposito: la guerra condotta per nobili
scopi è
una guerra giusta, almeno così pensavo…Ma dopo
gli avvenimenti di quest’ultimo
periodo non sono più certo di nulla.
In
questi momenti, arriva in soccorso il ricordo di voi, che mi rammenta
il motivo
che mi spinse ad imbarcarmi in questo progetto ancora abbozzato e
pernicioso:
desidero offrirvi un luogo che possiate finalmente sentire come vostro,
una
Nazione unica, che possiate chiamare “casa” e che
riunisca, oltre a voi, tutti
coloro che si sentono parte di questa famiglia.
Non
sopporto il pensiero che viviate sotto il gioco di una potenza
straniera, che
non comprende i nostri bisogni e la nostra lingua; voi necessitate di
vivere in
una Nazione che sia libera e unita, dovete sentirvi parte di un popolo
in cui
vi riconosciate e vi sentiate protetta, come se fosse
un’estensione della
vostra famiglia.
Ho
avuto modo di parlare con Garibaldi, poco prima della battaglia, e
riferii a
lui queste stesse parole.
Il
generale ha un aspetto da brigante con quella sua capigliatura fulva,
lunga e
selvaggia e i dardeggianti occhi chiari, dallo sguardo fiero e
profondo, ma
dentro di sé nasconde un animo ardimentoso e temerario,
più di tutti noi. È lui
che guida e sprona, che risolleva chi precipita nella polvere.
È lui che
sostiene tutti noi: un sol uomo a reggerne mille!
Ha
un incredibile vigore e la forza dei suoi ideali è tale da
superare qualunque
ostacolo ostruisca il suo cammino. È inarrestabile! Il
fervore con cui sostiene
le sue idee è pari solo a quello con cui i Santi sostenevano
la Fece per la
quale vennero martirizzati- spero di non risultare ai vostri occhi
blasfemo con
codesto azzardo, ma non saprei come altrimenti spiegare
quell’ inestinguibile fiamma
che arde entro di lui e illumina e a scalda noi altri.
Durante
quel breve colloquio, mi domandò per chi stessi combattendo
e rischiando la mia
vita. Non chiese “per cosa”, ma “per
chi”, come se avesse intuito che la mia
motivazione fosse una persona, e non un’ideale o uno scopo
effimero e
inconsistente. Gli parlai di voi e del dono che mi ero prefissato di
farvi.
«Non
dimenticatevi mai della vostra promessa» mi disse,
stringendomi una spalla,
«Sono gli affetti che ci permettono di rimanere
umani.» E quando fissò gli
occhi turchini su di me, sussurrando codeste parole, vidi brillare
nelle sue
iridi la stessa determinazione che accende il mio cuore, mitigata da
un’umanità
profonda e sofferta. Quella stessa umanità l’aveva
spinto a ordinare che i
cadaveri dei borbonici venissero seppelliti. Nei suoi occhi si
specchiava una tristezza
sconfinata, scaturita non solo dalla desolazione e dalle barbarie
causate dalle
battaglie, ma maturata attraverso la sofferenza di vedere la propria
città
natale strappata alla sua legittima proprietaria e diventare terra
straniera.
Quello sguardo era lo specchio dei tormenti del suo cuore.
Mi
narrò del terribile patto, sancito dalla Francia come
pagamento per il soccorso
che stava offrendo alla nostra causa, e mi confessò che
avrebbe liberato la
città, come ora stava facendo con queste terre.
I
Siculi ci hanno accolto benevolmente, come dei salvatori, e molti di
loro si
sono uniti alla nostra causa.
Ho
conosciuto uno di questi prodi connazionali, Saverio
Privitera, uno “scugnizzo” mio coetaneo che ha la
propria dimora e la propria
amata ad Acireale. Trascorriamo le sere rievocando le rispettive
città e
riesumando le loro bellezze, smussandone i difetti che paiono
più
insignificanti agli occhi della memoria e della nostalgia. Egli mi ha aiutato ad
apprezzare questa terra
brulla e inospitale, mostrandomi le sue bellezze nascoste e segrete,
rivelate
solo a coloro che sono capaci di scovarle: le montagne aspre che si
arrampicano
fino al cielo, sfidandone le azzurrità infinite; gli arbusti
che con strenua
testardaggine rimangono abbarbicati alle colline butterate dalle piante
di
fichi, e le rovine, che appaiono improvvisamente, lasciandoti con un
grido di
meraviglia e sorpresa incastrato tra le labbra, ricordi morenti di
civiltà
perdute intrise di storia e segreti, che raccontano nei sussurri del
vento di
antichi fasti e guerre e amori, e racchiudono tra le colonne rovinate
dal tempo
le grandi imprese gloriose come le piccole conquiste quotidiane. Mi
piace
passeggiare tra queste costruzioni decadenti, un senso di pace e
tranquillità
mi invade, concedendomi il lusso di cadere nell’oblio della
contemplazione
dell’arte. Queste mie escursioni solitarie sono il mio
massimo diletto e ogni
attimo libero, diviene per me l’opportunità di
godere del silenzio denso di
significati e misteri di cimiteri di un’altra epoca. E il
mare di quest’isola è
un’altra delle bellezze celate d questa terra: è
di un azzurro intenso e omogeneo,
paragonabile a quello del cielo terso e alla sfumatura del vostro
abito, quello
che indossaste il giorno in cui partii.
Ho raccontato a Saverio di voi, come
egli mi ha narrato della sua Maria Assunta, che lo attende ad Acireale.
Racconta di lei con le lagrime agli occhi, e la pipa sospesa tra le
dita,
dimenticata, totalmente immerso nella contemplazione estatica
dell’immagine di
lei.
Io stesso devo avere un aspetto simile
quando, a mia volta, mi dilungo sulla vostra bellezza e le vostre altre
numerose
qualità; attraverso le mie parole commosse e sentite, la
vostra figura si delinea
come un affresco dalle tinte delicate e morbide: il vostro abito
azzurro, la
vostra folta capigliatura scura in cui affondare le dita come in un
mare di
seta, i vostri occhi supplichevoli e brillanti di lagrime...e le vostre
labbra,
le vostre amatissime e sospirate labbra! Ancor oggi posso rievocarne la
morbidezza fragile e il sapore dolce e lieve, di promesse appena
sussurrate e
di dolceamari addii.
Immerso nei crepuscoli malinconici di
questa terra, riassaporo ogni istante di quel bacio, e ogni volta mi
sembra
assuma un sapore e un significato nuovi eppure conosciuti.
Quel bacio fu per me il più straziante
e il più bello che rubai alla vostra bocca profumata: il suo
calore aleggia
come un’ombra sulla mia, accompagnandomi nei momenti di
sconforto e malinconia.
Esso è per me una fonte da cui ho
attinto la forza per continuare combattere e sopravvivere un giorno in
più: è
quel bacio a infondermi la fermezza che rinfranca e incoraggia
l’anima mia, e
mi permette di affrontare un nuovo dì. E il ricordo della
vostra bocca tremante
e disperata cancella le immagini tetre e meschine di cadaveri e morte;
la
vostra dolcezza e la vostra delicatezza e il solo loro ricordo sono
bastanti
per rendere più sopportabile questo Inferno, portandone una
scheggia di
Paradiso.
Le vostre lacrime ancora bagnano le mie
gote, e le vostre piccole mani candide ancora stringono il mantello,
nel
tentativo ultimo di trattenermi e percepisco ancora il vostro corpo
tremante,
che avvolgeva il mio, cercando un rifugio tra le mie braccia,
pregandomi di non
partire e lasciarvi.
Eppure, mi lasciaste andare, amandomi a
tal punto da permettermi di inseguire il folle progetto di un sognatore
abbigliato di scarlatto. E ve ne sono immensamente grato.
Sappiate che non vi ho abbandonata.
Quello fu un bacio disperato in cui raccogliemmo tutti i nostri
sentimenti, il
nostro affetto e le nostre preoccupazioni, in cui cercammo entrambi un
conforto
e una speranza; ma per me, fu anche il sigillo di una tacita promessa:
tornerò
da voi, mia amata, e vi sposerò!
Quel bacio diventerà il preludio di
tanti altri, scambiati all’ombra di questi alberi di limoni,
quando vi porterò
a visitare la Sicilia e condividerete con me questo sole e questo mare,
scambiando battute con altri italiani e sentendoci parte di
un’unica realtà.
Questo è il mio intimo giuramento per
voi, luce dei miei occhi,.
Vi amo profondamente e disperatamente,
e a ogni nuovo respiro il mio pensiero corre a voi, ringraziando Iddio
di
concedermi una speranza in più di rivedervi. Vorrei poter
tornare presto ad
assaporare le vostre labbra e accarezzare il vostro corpo.
Ho bisogno di voi e del vostro affetto,
le vostre lettere sono un magro conforto, un fantasma sbiadito della
vostra
amabilità, della vostra sensibilità, del vostro
riso e del vostro profumo.
Voglia Iddio che ritorni il più presto
possibile per sigillare il compimento della mia promessa.
Per sempre vostro
Alessandro
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Capitolo 2 *** II- Milano, 31 agosto 1860 ***
Milano, 31 agosto
1860
Mio adorato,
come state?
Sono molto addolorata per il giovane
Gaspare, la notizia è giunta a noi assieme alla sua salma,
poco prima che mi
arrivasse la vostra missiva. Conosco i Tibelli, ed è stato
un onere straziante
e imbarazzante porgere loro le nostre condoglianze. Cosa si
può dire ad una
madre in lacrime per la morte prematura del proprio unico figlio? Come
la si
può risollevare dal dolore e dalla desolazione? Nessuna
parola né gesto saranno
mai abbastanza per riportare in vita quello che le è stato
strappato.
È così penoso conversare con qualcuno
in lutto: ogni parola sembra detta a sproposito, e stonare con il
contesto, ma
anche il silenzio è increscioso e opprimente, simile ad una
coltre pesante che
schiaccia e toglie il respiro.
Mi rammarica confessarlo, ma fu con
sollievo che mi allontanai da quella casa ammantata di nero e tristezza.
Prego Iddio ogni sera perché vegli su
di voi e sulla vostra incolumità e vi ho raccomandato alla
Vergine Santissima
perché vi preservi e vi riporti da me sano e salvo.
È un desiderio egoistico,
ma il solo pensiero che vi possa succedere qualcosa mi stringe il
cuore. Mi
affido a loro, perché possano ricondurvi a me vivo, se come
vincitore o vinto
mi è indifferente.
Le barbarie descritte nella vostra
ultima missiva sono giunte alle nostre orecchie qualche giorno
addietro, e un
sentimento di sgomento e orrore ha avvinto tutti, sottraendoci per un
momento
l’aria dai polmoni e lasciandoci boccheggianti e sconcertati.
Per quanto ne
fossi già a conoscenza, non ho potuto reprimere
l’ondata di sconforto e
tristezza che si è abbattuta su tutti, lacerando i nostri
cuori e sgretolando
un poco la nostra serenità e la nostra speranza.
Mamma stava per avere uno svenimento, e
solo per il tempestivo soccorso della cameriera non è ceduta
alla forza delle
proprie emozioni. Papà ha commentato che, come sempre, non
ha potuto fare a
meno di sfruttare le proprie doti di attrice melodrammatica e attirare
l’attenzione di tutti.
L’atmosfera è molto tesa e le notizie
dal fronte contribuiscono a esacerbarla. Voci poco confortanti giungono
da
Torino: la vostra impresa, per quanto sia stata accolta con entusiasmo,
inizia
ad essere vista con occhio sospettoso e guardingo. Temono che
Garibaldi,
trascinato dal fervore che sempre lo ha caratterizzato, e dal desiderio
bruciante di una patria unita, possa commettere qualche gesto avventato
e
compromettere gli accordi precari che assicurano la pace e rabboniscono
la
Francia. La politica e i meccanismi che regolano questo mondo non sono
mai
stati un’attrazione per me, troppo complessi e aggrovigliati
per la mia mente
istruita con letteratura, musica, danza e cucito- conoscenze ben poco
utili per
comprendere argomenti tanto spinosi…ma anche la mia
istruzione frivola e superficiale
è bastante per comprendere quanto preoccupante e nervosa sia
la situazione.
Sono in pensiero per voi, e spero che
codesti pettegolezzi malevoli siano infondati, e la vostra ardita
impresa non
venga così barbaramente affondata.
Ricordo con piacere le vostre accese
discussioni sull’importanza di una Nazione che raccogliesse
tutti gli abitanti
della Penisola e desse loro un’identità in cui
riconoscersi e rifugiarsi. Il
colore che tingeva le vostre guance quando pronunciavate quasi in
estasi la
parola “Italia”, era paragonabile al rossore che
imporporava le mie gote quando
vi ho scorto le prime volte, fiero e cupo come una statua di granito di
un
condottiero. Mi avevate conquistato con quel vostro contegno riservato
e
schivo, che celava un animo sobrio, umano, leale, prodigo e schietto;
vi siete
rivelato di lingua, e spesso di man, prode, di ratti passi,
pensieri, atti
e accenti. Questo vostro fuoco indomabile mi ha lambito e mi ha
bruciata,
consumandosi nel mio amore per voi.
Spero che riusciate a trovare un poco
di conforto nel mezzo di quell’Inferno, come io lo trovo nel
libro di poesie di
cui mi avete fatto dono prima della partenza.
In ogni componimento rivedo una parte
di voi: ogni verso è il tassello di un mosaico che
costruisce la vostra
immagine, e bacio trepidante le pagine che rievocano le vostre labbra.
Bramo di
rivedervi ancora, e poter assaporare nuovamente le promesse della
vostra bocca,
prego perché quel bacio, rubato sugli scalini del cortile,
non si tramuti in un
bacio d’addio, ma possa essere replicato infinite volte, in
maniera sempre
diversa eppure uguale quando tornerete a Milano.
Indosserò lo stesso abito di quel
giorno, quello dello stesso colore del cielo di Sicilia,
cosicché, quando vi
bacerò, sembrerà che il tempo non sia mai
trascorso ma si sia cristallizzato in
quell’attimo di sublime bellezza. Sarà cambiato
tutto, ma tutto sarà rimasto
immutato. Voi sarete diverso e anche io lo sarò, ma il
nostro amore, quel
sentimento profondo e indissolubile che ci lega nonostante la distanza,
sarà
rimasto invariato.
Vi amo con tutta me stessa. E nei miei
momenti di maggior sconforto, quando la lontananza mi trafigge e mi
lacera il
cuore con i suoi artigli, rievoco quel bacio, e la tempesta che strazia
il mio
animo si placa.
Ricordo con chiarezza ogni attimo: voi
che fremevate per la partenza, ma nel contempo non volevate
abbandonarmi, io
che da un lato cercavo di trattenervi, ma dall’altro vi
spingevo a partire,
perché come il mio, anche il vostro cuore era diviso tra i
doveri verso di me e
quelli verso la patria. Rimembro la dolcezza delle vostre labbra e
quella
lacrima salata che ha reso il bacio più amaro e
più vero.
Ricordo persino i passi della fantesca,
lievi eppure inesorabili come il tempo che corre e non si arresta. Mi
stava
cercando, e voi, all’udirli, capiste che quegli attimi
sarebbero stati gli
ultimi – granelli di sabbia preziosi trafugati, in segreto,
alla clessidra
della vita- e siete diventato più ardente e passionale. Il
vostro bacio si è
fatto più languido ed infuocato e, a volte, ritrovo tra i
recessi più profondi
delle mie labbra, le ceneri assopite di quel fuoco.
E il ricordo è straziante e bellissimo
assieme, come un quadro che non si può toccare ma solo
ammirare.
Con esso, giungono anche le rimembranze
galeotte dei baci sottratti di nascosto negli abbandonati anfratti
gotici di
Villa Lavanda, con i suoi soffitti alti e gli antri grigi e polverosi e
le
gorgoni truci che sorvegliavano i portoni, a una delle quali voi, un
dì,
staccaste per errore il naso e me lo donaste, come spiritoso pegno del
vostro
amore. Riemergono, come compagne di una danza della reminiscenza,
l’’incontro
casuale e l’intreccio accennato delle dita durante le
passeggiate lungo il
Corso, tenuti segreti per non destare scalpore, e resi più
eccitanti per la
loro segretezza, e i tramonti barocchi sui Navigli, e il gelato che
rinfrescava
quell’incendio di luci e nuvole scarlatte, simile ai cieli
dell’Apocalisse
affrescati sulla volta di quella chiesa in campagna, dove ci rifugiammo
quando venimmo
sorpresi dall’acquazzone. Codesti momenti trascorsi assieme
ritornano in
maniera inaspettata e subdola, cogliendomi negli istanti in cui la mia
mente
non è concentrata, e lascio che spazi per i meandri della
mia fantasia.
E dopo un folle volteggio tra queste
memorie care e preziose, evoco sempre quel bacio, l’ultimo,
straziante ricordo
che ho di voi, per questo più squisito e amato degli altri.
Ricordo il desiderio bruciante delle
vostre labbra, la loro ricerca affannosa e il loro abbandonarsi contro
le mie.
Sento ancora sotto le dita la stoffa ruvida del vostro mantello da
viaggio,
gettato in fretta sulle spalle per correre dal vostro comandante.
Papà, scherzando, sostiene che dovrei
preoccuparmi del fatto che preferiate rincorrere un uomo, piuttosto che
rimanere con la vostra promessa. Mamma,
come sempre, inasprisce la questione e la distorce completamente
insinuando che
siate un ribaldo avventato e animato da troppo fervore, sfuggente come
il vento
e non ancora pronto a legarvi a qualcuno.
Ma è proprio questo che mi piace di voi
e che mi ha conquistata: siete sempre così pieno di energie
e di vita, ardente
nelle vostre passioni e saldo nelle vostre convinzioni, disposto a
immergervi
in esse completamente e a sostenerle fino alla morte.
Vi ammiro molto per questa vostra
forza, e per il coraggio con cui affrontate i rischi che continuamente
correte
in quel luogo, lontano da casa, impervio e sconosciuto.
Le meraviglie del paesaggio
dell’assolata Sicilia, che mi avete descritto, paiono sublimi
e accoglienti. Mi
riportano alla memoria le figure smaltate delle scatole di latta dei
confetti
che portava a casa vostro zio, la Domenica. Ancora viene a pranzo da
noi, e
ogni volta mi permette di leggere le lettere che gli inviate,
anch’esse ricche
di spettacoli raccapriccianti ma anche di speranza.
Mi piacerebbe molto vedere di persona
ciò che, al momento, mi è concesso solo
immaginare, e ammirare assieme a voi le
rovine che tanto vi ammaliano.
La vostra lontananza mi è per me la
peggiore delle agonie e un’ambascia continua, e cerco, con
ogni mezzo
possibile, di relegarla in un angolo del mio animo, e di distrarmi e
tenermi
occupata come posso.
Vi sto confezionando un nuovo mantello;
quello con cui partiste era già vecchio e provato, e con le
peripezie che
vivete ogni giorno diverrà logoro, stracciato e
inutilizzabile. È di un caldo
color caffè, come quello che indossaste il giorno in cui
partiste…Mi sembra di
essere una vecchia vedova sola, che reitera e macina i ricordi
continuamente,
tormentandosi con le misere memorie che ancora la sua mente stanca e
afflitta
riesce a trattenere, mai uguali agli originali o a quelli precedenti,
se non
per i sentimenti e l’affezione associati a essi. Lentamente
sto prendendo le
sembianze della Vedova Caccia, quella cara signora che vi
fermò quel dì per
chiedervi di portare per lei le borse della spesa, ché i
suoi figli erano
entrambi lontani e lei non aveva più nessuno se non i loro
ricordi e i loro
ritratti sbiaditi. Allora ebbi occasione di sperimentare anche il
vostro cuore
generoso e il vostro animo gentile, che vi portano a sostenere e
soccorrere i
più bisognosi, come ora è indigente
quest’Italia ancora divisa e spezzata.
Avete udito il suo grido d’aiuto e siete accorso in suo aiuto.
Non vi sto rimproverando per essere
partito, ma mi rammarico solo di non sapere quando vi
rivedrò ancora, e se
sarete lo stesso che baciai quando vi lasciai tre mesi orsono.
Spero che sfiorando di nuovo le vostre
labbra possa ritrovare il sapore familiare e rasserenante del vostro
ardimento,
della passione e della determinazione che le accesero quel
dì, assieme alla
nobiltà d’animo e alla composta riservatezza che
mi fecero innamorare di voi.
Vi amo e vi rispetto come la prima
volta che vi incontrai, in Piazza Duomo, e vostro ci
presentò. Il vostro nome
suonò subito soave alle mie orecchie, sebbene il vostro
sguardo serio mi
intimorì, subito mitigato dal vostro sorriso radioso, che mi
trafisse il cuore.
Lo stesso sorriso me lo riservaste quel
dì, poco prima di fuggire inghiottito dalla tromba delle
scale. Fu la
rassicurazione che avreste mantenuto la promessa di tornare in trionfo,
paladino di un’Italia unita, per congiungere nuovamente
ciò che è destinato a
rimanere unito ed era stata diviso, la Nazione come le nostre anime.
Vi aspetto,
|
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Capitolo 3 *** III- Santa Maria Capua Vetere, 3 ottobre 1860 ***
Santa Maria Capua
Vetere, 3 Ottobre 1860
Gentilissima Signorina Giulia Amati,
sono Saverio Privitera, compagno d'arme
ed amico di Alessandro Lucchini, promesso vostro.
Sono stato incaricato da Alessandro di
scrivervi questa missiva, purtroppo, dal contenuto poco felice.
Mi duole recarvi codesta trista
notizia, ma mi è stato affidato il vostro indirizzo con la
promessa che avrei
compiuto il dolente incarico, e ritenendomi uomo di parola e
d’onore, non ho
potuto che realizzare l’ultimo desiderio di un uomo che assai
ammirai e stimai.
L’ultima battaglia, combattuta sulle
rive del Volturno, è stata rapida ma pregna di sangue, molte
sono state le
perdite, da ambo le parti, e da ambo le parti si è
combattuto con valore e
coraggio.
Alessandro è caduto in battaglia come
solo un eroe merita di perdere la vita: combattendo. Il valoroso faceva
parte
del distaccamento retto dal generale Bixio- uomo prode e coraggioso-
acquartierato presso i Ponti della Valle e sorpreso
dall’esercito borbonico la
mattina di due dì addietro. Di fronte all’impeto
delle truppe borboniche, Bixio
non ha potuto fare altro che retrocedere, con ingenti perdite, tra cui
il
vostro Alessandro.
Le sue ultime parole e i suoi ultimi
pensieri sono stati per voi: mi ha chiesto, poco prima di spirare, di
ricordarvi il suo rispetto, la sua stima e la sua affezione per voi, e
di
scrivere, al suo posto, un’ultima lettera d’addio.
Mi ha dettato qualche frase da
riportare nello scritto, ma temo che non riuscirò a
ripeterle egualmente a come
lui le disse a me allora.
Spero possiate perdonarmi. Non sono un
paroliere, sono solo un umile contadino gretto e analfabeta (questa
stessa
lettera viene dettata da me medesimo ad uno scribacchino che sono
riuscito a
trovare per un caso del tutto fortuito), ma cercherò di
essere quanto più
fedele alle sue parole.
L’amore che Alessandro provò per voi fu
evidente persino ad un bifolco come me: quell’uomo vi
amò con tutto sé stesso,
non fece altro che parlare di voi, e grazie a lui, mi sembra di
conoscervi da
sempre. Vi descriveva in una maniera così poetica ed
ispirata che a momenti
pareva stesse componendo versi, e l’immagine di voi appariva
cristallina e
definita come un quadro dipinto ad olio, di quelli che si vedono enormi
nelle
chiese in cui Santi e i Martiri e la Vergine Santissima e persino il
Bambino
sembrano reali…
Combatteva per voi, per donarvi un
futuro migliore ed una vita più tranquilla e più
sicura, in cui poteste
sentirvi parte di un unico, enorme popolo. Siete stata la sua forza e
il suo coraggio:
nei momenti di difficoltà il pensiero di voi lo rincuorava e
gli rinfrancava
l’animo; eravate per lui un rifugio ed un conforto, una fuga
dalla realtà cruenta
e dolorosa che lo circondava. Il suo sguardo si accendeva quando vi
nominava, e
quando iniziava a parlare del vostro passato o del vostro futuro
insieme le sue
guance si imporporavano e un sorriso luminoso distendeva i tratti del
suo
volto; solo nel viso dei Santi vidi una beatitudine ed una luce simili.
Nelle preghiere eravate sempre ricordata,
nei discorsi sempre nominata, e ha esalato il vostro nome assieme
all’ultimo
respiro.
L’immagine di voi fu sempre sua
compagna, e fu capace di alleviare le sue ferite e rendere
più sopportabile il
supplizio e il dolore.
Lo ricorderò sempre come un ragazzo riservato
e tranquillo, ma acceso da ideali forti e saldi, per i quali dette
tutto sé
stesso e sacrificò la propria vita. Fu per me un compagno
prezioso, leale e
disponibile; il suo coraggio e la sua fedeltà furono, e mi
rimarranno, come
esempio e monito. La sua passione e il suo ardimento mi sono sempre
stati di
grande ausilio: la sua sicurezza e la sua determinazione mi spingevano
nell’avanzata e mi risollevavano ogni volta che mi abbattevo.
Amava l’idea di
un’Italia unita quasi quanto amasse voi, e forse, fu questa
la sua disgrazia
più grande: il pensiero di un unico stato in cui tutti gli
italiani potessero
essere parte di una sola nazione, riempiva le sue serate e i suoi turni
di
veglia, ma il ricordo di voi si infiltrava inevitabilmente e si fondeva
con
esso, perché era per voi che stata costruendo
un’unica Nazione, per darvi la
possibilità di potervi regalare un mondo migliore,
più libero e più aperto.
Lui è stata la mia forza e voi siete
stata la sua. Senza di voi si sarebbe stato perso, come tanti altri, ma
la
vostra presenza costante nel suo cuore lo sostenne e lo
incoraggiò, lo spinse
ad andare lontano dalla sua casa e a ritornarvi come vincitore ed eroe.
Sono profondamente addolorato per la
vostra perdita, ma se vi può risollevare un poco il morale,
sappiate che se n’è
andato sereno, consapevole di aver compiuto la sua missione e di aver
completato il suo incarico, mantenendo la sua promessa, almeno in parte.
Vi porgo le mie più sentite
condoglianze e vi affianco in questo cordoglio straziante: quel giorno
persi un
amico ed un confidente, ma voi perdeste il vostro amato ed il vostro
promesso,
morto in nome di un’ideale e dell’amore che provava
per voi e per la patria.
La salma di Alessandro verrà riportata
nella sua città natale entro pochi giorni,
cosicché voi e i suoi famigliari
possiate recarli l’estremo saluto. Mi assicurerò
che le sue lettere per voi e
le missive che voi inviaste a lui siano inviate assieme al suo corpo,
come fu
sua richiesta esplicita, volendo la vostra compagnia persino
nell’ultimo
viaggio.
Vi lascio in calce il mio indirizzo, di
modo che in caso di bisogno, possiate scrivermi. Per quanto possa
valere la mia
offerta, per qualsiasi cosa vi dovesse abbisognare, non esitate a
domandare.
Non posso sostituirmi al vostro Alessandro e non oso nemmeno, ma sarei
più che
felice di potervi accontentare in qualche vostro desiderio e rendere
meno
tormentosa la notizia. Se sentite il bisogno di sfogarvi con qualcuno o
di
ricordare il vostro amato, non esitate a scrivermi, cercherò
di rispondere
quanto prima.
Le porgo i miei più sentiti omaggi e i
miei rispetti, e spero di avere modo di scriverle ancora, in occasioni
più
liete e meno infauste.
Vostro umile
servitore
Saverio Privitera
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