Broken Souls di michaelgosling (/viewuser.php?uid=182536)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Henrich Bauer ***
Capitolo 2: *** Preston Walker ***
Capitolo 3: *** Giovanna Marconi ***
Capitolo 4: *** Colton Harrington ***
Capitolo 5: *** Kira Radenich ***
Capitolo 6: *** Pierre Dumont ***
Capitolo 7: *** James Bowman ***
Capitolo 8: *** Sogni Spezzati ***
Capitolo 1 *** Henrich Bauer ***
CAPITOLO
1. HENRICH BAUER
“Dopo
giorni e notti di un lavoro e di una fatica incredibili, riuscii a
scoprire la causa della generazione e della vita; anzi, di
più
ancora, divenni io stesso capace di dare animazione alla materia
morta.”
Mary
Shelley, Frankenstein
Il senso di
colpa ha uno strano effetto sulle persone. Può far
riavvicinare chi
a causa dell'orgoglio si è allontanato da chi amava,
può far fare
cose che nessuno, tanto meno tu, ti saresti aspettato di compiere o
dire. Può logorarti, distruggerti. Può essere la
tua ancora di
salvezza dopo una vita passata a fare errori su errori. Oppure puoi
esserne del tutto privo. Puoi non sentirlo, non percepirlo nemmeno.
Persone che hanno il lusso di non doversene preoccupare e di poter
vivere serenamente senza mai concepire nemmeno per un istante cosa
significhi averlo, persone che la polizia a volte classifica come
sociopatici, apatici, incapaci di provare rimorso, non tutte
naturalmente, gli attori migliori sono in grado di simularle portando
delle maschere, maschere che con il tempo che passa sono sempre
più
integrate con il resto del corpo, diventando un tutt'uno. Persone che
finiscono con il non vivere davvero, che nei film vengono definite
“cattive” da tutti, ma che se le incontri per
strada le trovi
amichevoli e gentili, o peggio, finisci col diventare come
loro.
Henrich lo sapeva bene, ne aveva conosciute tante, e col
tempo, alcune era anche riuscito a riconoscerle. E le riteneva
fortunate. Fortunate perché non dovevano preoccuparsi
dell'enorme
peso del senso di colpa, e lui lo sapeva bene, quel peso lo portava
da tutta una vita, e il passare degli anni non l'aveva aiutato a
rendere il tutto più sopportabile e meno pesante.
Quel peso
che era come un'ombra, che non lo lasciava mai da solo, che gli
ricordava sempre che era lì per lui, per
quello che aveva fatto,
e per
non farglielo dimenticare mai.
E lui non avrebbe mai dimenticato. Non fino a quando avrebbe avuto un
cuore che batteva, anche se vecchio e dolorante come lo era lui, del
resto.
Si
grattò la fronte incerto sul dà farsi, ma poi
sospirò e si alzò. Era tardi, aveva dormito anche
troppo, già era
deprimente alla sua età rimuginare sugli sbagli del passato,
ma
passare i pochi anni che gli rimanevano in un pulcioso letto era
fuori discussione.
Prima di lasciare la camera da letto, si
guardò nello specchio che teneva vicino alla porta. I suoi
settantacinque anni li dimostrava tutti, forse anche un paio di
più.
Era piuttosto alto e snello come lo era giovane, il viso magro come
il resto del corpo, e due occhi azzurri scavati sul viso che
apparivano stanchi, ma ancora vivi di qualcosa, come se in mezzo alla
stanchezza ci fosse anche una piccola e flebile fiammella dentro lui,
anche se Henrich non sapeva come mai fosse ancora accesa. I capelli
bianchi, un tempo biondi, corti e leggermente mossi, erano gli stessi
della sera prima. Ma aveva davvero dormito quella notte? Non lo
sapeva, anche perché se l'aveva fatto, erano stati sogni
tormentati.
Si cambiò, sostituendo un vecchio pigiama a tinta
unita con una polo blu, una maglia a cappuccio grigia, dei jeans e
due scarpe da ginnastica color marrone scuro. Poi, finalmente,
lasciò
la stanza per raggiungere Frank, la ragione principale per cui si era
cambiato. Non voleva che si preoccupasse per lui, cosa che avrebbe
fatto se lo avesse visto in pigiama.
Lo trovò inerte sulla
sua poltrona come se fossero una sola cosa, e i cavi elettrici e i
circuiti che collegavano l'impianto lì accanto alla
poltrona, e a
Frank, non facevano che confermare quest'idea.
Henrich buttò
una rapida occhiata al monitor, e fece un piccolo sorriso.
“Tre
minuti.”
Ne
approfittò per dargli una rapida occhiata con il computer.
Sistemi
vitali ottimali. Resistenza accettabile. Energia in caricamento.
Tutto sembrava normale.
Quando sentì i circuiti e i cavi
elettrici staccarsi dalla poltrona, e da Frank, constatò che
i tre
minuti dovevano essere passati.
Frank si alzò con la rigidità
di un militare, ed Henrich non si aspettava niente di
diverso.
“Buongiorno, Henrich. Sei già sveglio.”
fece
Frank con voce meccanica.
“Beh direi. Sono le undici di
mattina. Ho dormito anche troppo.”
“Le
undici? Confermo. Sono le undici e nove minuti e trentadue virgola
ottantacinque secondi.” continuò Frank, iniziando
a camminare a
tratti.
“Preciso come sempre.”
“Sto
solo adempiendo ai miei compiti, signore.”
Henrich
sbuffò.
“Frank, ne abbiamo già parlato. Niente signore.
Henrich.”
“Lei
mi ha programmato. Mi ha creato. Sono frutto del suo lavoro e delle
sue ricerche. Non esisterei senza di lei. La mia esistenza è
legata
a lei. Ogni cosa che sono, e che sono in grado di fare, è
merito
suo, perché lei mi ha dato le informazioni necessarie per
poter
adempiere ai miei compiti. Io sono stato creato per servirla. Dunque
la sua intenzione di rendermi informale nei suoi confronti è
illogica. Frank non capisce.”
“Io
ti ho creato perché necessitavo di un assistente, qualcuno
che
potesse aiutarmi in quello che sto facendo, ma ciò non
significa che
sei il mio domestico o il mio servitore. Tu non sei il mio schiavo.
Sei un abile collaboratore.. e un amico.”
“Se è questo
che desidera, potrebbe apportare le dovute modifiche al mio
programma. Posso suggerirle..”
“Non
importa, Frank. La verità è che non sono
così sveglio e
intelligente come una volta, e temo che se apportassi delle modifiche
al tuo programma, beh, ho paura di fare più male che bene.
Non
voglio danneggiarti. Sei perfetto così, come lo sei stato
negli
ultimi quarantacinque anni.”
“Perfetto? La perfezione è
illogica. Inoltre vorrei ricordarle che anche lei..”
“Frank,
era solo un modo di dire. Intendevo che.. vai bene così. Che
apprezzo ciò che sei.”
“Secondo
i miei dati, quello che ha detto era un complimento. Il mio database
dice che quando si riceve un complimento si ringrazia. Frank
ringrazia.”
Henrich
rise divertito e si diresse verso una terza stanza nell'angolo della
casa, ma qualcosa gli impedì di proseguire.
Un dolore
lancinante, insopportabile a dire poco, partì dal suo cuore
e si
diffuse per tutto il suo corpo, come un virus, come un veleno che si
era attivato dentro di sé, intenzionato a danneggiargli
tutti gli
organi interni. Si strinse con le braccia, come se volesse
abbracciarsi da solo, nel folle ed inutile tentativo di porre fine a
quel dolore, che aveva raggiunto anche il cervello.
Frank lo
aveva chiamato. Oppure no? Era tutto così confuso, anche la
vista
era annebbiata. Lottava per resistere, per restare in piedi, ma il
dolore era troppo, e si rese conto che a poco a poco le ginocchia si
erano piegate, fino a quando non si stese sul pavimento,
contorcendosi dal dolore.
Sentì la voce meccanica del suo
assistente, questa volta ne era certo. Si sforzò di aguzzare
la
vista e lo vide accanto a lui. Non capii ogni cosa che diceva, solo
qualche parola. Parlò di infarto. Ictus. Ospedali. Voleva
portarlo
all'ospedale. Facendo appello alla forza che gli restava, Henrich
scosse la testa.
Nessun infarto. Nessun ictus. Nessun
ospedale. Non ce n'era bisogno. Sapeva benissimo cos'era. Cosa stava
avendo. E perché.
E
il saperlo rendeva tutto più difficile. Perché
sapeva cosa
significava. Cosa avrebbe dovuto fare. Sperava che quel giorno non
sarebbe mai arrivato. Gli ritornò alla mente l'ultima volta
che
aveva avuto quell'attacco. Come dimenticarlo? Aveva cambiato la sua
vita.
A poco a poco il dolore scomparve, e con il passare dei
minuti, Henrich prese consapevolezza della situazione. La sua testa
era nel caos, tanti pensieri, troppi. Pensieri su di lui, su cosa
avrebbe fatto non appena si fosse alzato dal pavimento, pensieri su
cosa stava accadendo là fuori, pensieri su cosa sarebbe
successo
negli anni a venire, pensieri sulle sei persone che lo avrebbero
aiutato a portare quel peso enorme, quelle sei persone che ancora non
avevano né volto né nome, persone che presto
avrebbero visto la
loro vita sconvolta, da
lui.
“Frank.”
mormorò, con un filo di voce, ancora stordito da quanto era
successo.
“Frank è qui.”
Henrich lo guardò. Frank
se ne stava chino su di lui, come solo un robot poteva fare, ma non
era un robot. Non era neanche umano. Frank era.. un essere
cibernetico. Metà macchina e metà umano. La sua
pelle era bianca
quanto un pezzo di carta, le labbra viola, e per la metà del
corpo
era circondato da circuiti cibernetici, macchine, cavi, che gli
permettevano di muoversi, parlare, comprendere. Henrich avrebbe
voluto dilungarsi di più a pensare a Frank, al suo passato e
a come
era nato, ma non era quello il momento.
“Aiutami ad
alzarmi.”
L'androide
obbedì, e quando Henrich fu in piedi, entrambi si diressero
verso il
computer, non tanto distante dal luogo in cui Frank si
rigenerava.
“Frank, ho bisogno del tuo aiuto. Dobbiamo fare
quella
cosa.”
“Signore,
lei aveva detto che l'avremmo dovuta fare solo in caso..”
“Lo
so. Ricordo cosa ho detto. Ma questo è il caso. Quel
caso.”
“Ai
suoi ordini. Sono pronto a procedere.”
“Forza, allora. Dobbiamo
procedere con la selezione,
prima che lo faccia il sistema. Abbiamo un'ora, no, quarantacinque
minuti. Non possiamo permetterci errori. Schema DTDPDA 82 integrato
con il BHHP 176.”
“Eseguito. Ci vorranno dieci
minuti per il registro
dati.”
“Forse possiamo accelerare il
processo con un altro
schema. Aggiungi 945 P. E BHH 136.”
“Sei minuti.”
Henrich
iniziò a sudare freddo. Non riusciva a credere a quello che
stava
facendo. Stava condannando
sei
persone che neanche
conosceva ad una vita pericolosa, movimentata, che forse, anzi
sicuramente,
li avrebbe uccisi.
“Frank ha il permesso di parlare?”
L'uomo anziano annuì, continuando a tenere le mani sul
viso.
“Non aveva altra scelta.”
“Ah, sì?”
“Se non avesse fatto nulla,
sarebbe stato il computer
a scegliere, in modo del tutto casuale. Sei persone sarebbero state
scelte comunque.”
“E che succede se ho scelto le
persone sbagliate? E
non le ho scelte. Abbiamo solo applicato dei parametri per diminuire
la possibilità di scelta, la scelta, quella definitiva,
è stata
fatta dal computer. Di nuovo.”
“Lei è stato scelto dal
computer."
"E ho fallito. E ora, per colpa
mia, per colpa della mia ingenuità, della mia
gioventù e della mia incapacità di adempiere a
ciò per cui sono stato scelto, sei persone dovranno riparare
i miei errori, rischiando la vita."
"Hai dato loro capacità che non avrebbero mai avuto in altre
circostanze."
"Già. Ma a che prezzo?"
NOTE:
Ehm.. *entra in punta di piedi* salve!
Sono nuova in questo fandom, non mai letto romanzi di questo genere
(né libri né racconti pubblicati qui), quindi si
può dire che sono una novellina!
Questa storia mi è entrata in testa da tipo due anni
(già, due anni), e sebbene avessi già in mente la
trama, i personaggi, lo sviluppo etc., non avevo mai scritto un solo
capitolo prima d'ora, perché ero spaventata da non riuscire
a gestire una storia complessa, di fantascienza tra l'altro. Ma ho
deciso di provarci.
Quindi spero che questo inizio vi piaccia (è stato un parto
decidere come iniziare), che vi incuriosisca ad andare avanti e
soprattutto spero di non perdermi lungo il percorso, cercando in ogni
capitolo di tenere alto il livello della storia, per quanto mi
sarà possibile. Spero di non rovinarlo. Lo spero davvero.
So che è presto trattandosi di un solo capitolo, ma fatemi
sapere che ne pensate, se vi ispira, se non vi ispira, se vi
incuriosisce, o se vi sembra una schifezza! Ogni commento
sarà apprezzato e gradito, parola mia!
Cercherò di aggiornare il prima possibile, I promise!
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Capitolo 2 *** Preston Walker ***
CAPITOLO 2. PRESTON
WALKER
“Ah, sa, abbiamo vissuto qui per ben
trent'anni. Siamo arrivati qui dall'est. La terra non era mai stata
colonizzata. Per 10 anni abbiamo combattuto gli indiani. Gente dura.
Poi sono arrivati i fuorilegge, la siccità, abbiamo sofferto
il vaiolo, sopportato inverni terribili, il colera. Ho seppellito
più bambini di quanti ne ho cresciuti. Ho visto uomini forti
appassire e morire, sotto quel sole spietato. Intere mandrie di
bestiame ammalarsi e crepare. Ma nemmeno una volta ho messo in dubbio
la mia vita qui.”
Red Dead Redemption
“E fu
così che lo uccisi. Un solo proiettile. Centrai il
bersaglio.”
“Cuore.”
“Ma quale cuore. Quella è roba da gente di
città, tutti quei pagliacci che credono di essere migliori
di noi solo perché vestiti come degli idioti. Parola mia,
loro non sanno niente su cosa significhi essere uno di noi. Non sei un
uomo se non hai un'arma e se non la sai usare. La testa, Terrence. E'
quello il bersaglio per uccidere un uomo. Rod, un altro giro!”
Il proprietario del
saloon si avvicinò al tavolo camminando al ritmo a cui era
abituato, e sentire i scricchiolii del pavimento ogni volta che
avanzava di un passo, gli dava un senso di pace, una tale pace a cui
era abituato da anni, e a cui era difficile rinunciare.
Arrivato al tavolo, porse agli uomini i boccali fumanti di alcool, per
poi riporre lo sguardo su l'unico dei quattro che non aveva ancora
parlato.
“Walker,
non mi aspettavo di vederti oggi.”
Preston Walker
alzò lo sguardo verso di lui, lentamente, quasi a
rallentatore.
“Ah, sì?” si limitò a dire,
la voce era impastata, un po' per l'alcool, un po' per il sigaro che
teneva in bocca, ma d'altra parte era un uomo di poche parole, il
genere d'uomo che preferiva far parlare i fatti, ma quando parlava lo
faceva in modo chiaro e lento, quindi riusciva a farsi capire comunque.
Da chiunque.
“Non dopo quello che è successo ieri.”
“Perché cosa è successo?”
intervenì Terrence, sinceramente curioso.
“Nulla che ti riguardi.” rispose prontamente
Walker, sempre lentamente, come se gli costasse fatica pronunciare ogni
singola lettera e cercasse quindi di parlare il meno possibile.
“E' caduto. Svenuto, per la precisione.” fece il
barista.
“Giura!”
“Sua
figlia è passata di qui. Sono sorpreso che ti abbia permesso
di uscire.”
Preston fece un piccolo sospiro, cercando di mascherare tutta
l'irritazione che si sentiva addosso.
“Johanna dovrebbe smettere di raccontare i cazzi miei in
giro.”
“Si preoccupa per te.”
“Mm.. certo.” concluse Walker, mettendosi il
cappello e uscendo dal saloon, per poi montare sul suo cavallo,
affrettandosi a lasciare la zona.
Cosa gli stava
succedendo? Fino a un paio di giorni prima, nonostante i suoi
cinquantacinque anni, era pieno di energia, come lo era sempre stato
per tutta la sua vita. Nel giro di una giornata visitava diversi
luoghi, incontrava diverse persone, faceva cose su cose. Era sempre
stato lento nei movimenti così come nel parlare, tranne
quando si trattava di sparare o difendersi da un pericolo imminente,
quindi faceva le cose al suo ritmo, ma le faceva, e ne era sinceramente
soddisfatto.
Ma poi? Poi era svenuto. Svenuto. Lui. Lui che aveva affrontato
sparatorie, banditi, che gestiva un ranch. E perché poi? Non
lo sapeva nemmeno lui. Il caldo? La stanchezza? Il clima era sempre
stato quello e la stanchezza era fuori discussione, non aveva fatto
praticamente nulla per stancarsi quel giorno. Ricordò il
viso preoccupato di sua figlia e quello del medico, che concluse di non
avere idea del perché fosse svenuto, azzardò solo
ipotesi. Ipotesi inaccettabili per Preston.
Si era alzato dopo
ore. Stordito. Con il mal di testa. Non era estraneo a queste
sensazioni, d'altronde beveva spesso e questi erano tutti effetti di
una sbornia colossale, e di quelle lui ne aveva avute tante. Ma non
aveva bevuto. Né fumato, nonostante lo facesse molto spesso.
Così era andato al saloon alla ricerca di distrazioni, di
qualcosa da fare, qualcos'altro a cui pensare, ma le chiacchiere dei
suoi vecchi amici erano sembrate così lontane, e il dolore
alla testa, che non se n'era mai andato e che non aveva fatto altro che
aumentare, diventava sempre più forte, così forte
che gli era impossibile pensare ad altro.
Iniziò a grattarsi la fronte, sentì sempre
più caldo, così tanto che gli sembrava di avere
dietro di sé il Sole che gli dava la caccia, alla sua
destra, una zona d'ombra. Bene. Mosse le redini per cambiare strada al
cavallo, ma ciò che vide lo spaventò ancora di
più.
Vide sé stesso. Il suo volto. Vide i suoi tratti duri, i
suoi piccoli occhi blu, i suoi baffi che si stavano ingrigendo poco a
poco, i suoi capelli scuri e corti, che si nascondevano sotto il
cappello. Com'era possibile? Non c'era un fiume, uno specchio, o
qualcosa che giustificasse una cosa del genere. In più, il
suo cavallo non si vedeva nell'immagine, che si faceva sempre
più sfuocata. Un' allucinazione? Forse.
“Arh. Devo aver bevuto più del previsto.”
Si mise una mano
sulla testa, di nuovo, voleva solo che il dolore si fermasse. Chiuse
gli occhi. Li riaprì. Ripeté questo processo una
decina di volte, e dopo l'ennesima volta in cui aprì gli
occhi, vide di nuovo la sua immagine, ma non solo. Intorno ad essa,
vide delle ombre, ombre di altre persone, altre cinque persone. Era
impossibile capire chi fossero, dato che si vedevano solo i contorni.
Li conosceva? Non li conosceva? A primo impatto gli sembrava di non
averle mai viste, eppure sentiva che erano vicino a lui, una parte di
lui, parte del suo corpo.
Poi si sentì ancora più stordito. La vista
iniziò a calare, lo percepì dal fatto che vide, o
gli sembrò di vedere, quelle ombre unirsi al riflesso del
suo viso.
Ricordò un rumore, era il suo cavallo che nitriva, e lui lo
vedeva dal basso. Era caduto? Probabile. Poi, l'oblio.
. . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quando Walker capì di essere cosciente,
ne fu molto sorpreso. Conosceva persone che erano morte per molto meno
di uno svenimento e un po' di dolore alla testa, e quando era svenuto
per la seconda volta in due giorni, cadendo dal suo cavallo e nel mezzo
del nulla lontano sia dal paese che aveva lasciato sia da quello verso
cui era diretto, pensò seriamente che la sua fine fosse
giunta.
Però sentiva i suoi arti perfettamente funzionanti e il
dolore alla testa svanito, come se fosse stato solo un lontano ricordo.
Effettivamente, si sentiva addosso un'energia tutta nuova. Non si
sentiva così bene, fisicamente almeno, da anni.
L'unica cosa che lo preoccupava era la certezza di non trovarsi
più nel punto in cui era svenuto. Non era nemmeno
all'aperto. Non sentiva il caldo dell'aria, né il rumore di
animali selvatici e cavalli. Niente uccelli. Niente piante che si
muovevano aiutate dal vento del tardo pomeriggio. Niente. Tutto quello
che sentiva era un assoluto silenzio, un silenzio quasi inquietante, e
sotto di sé, una superficie. Un pavimento probabilmente, ma
di certo non era legno. Doveva essere fatto di un materiale che non
conosceva. Continuando a tenere gli occhi chiusi, continuò a
tastarlo con le mani, fino a quando un'altra voce lo fece sussultare.
“E' marmo.”
Una voce
maschile, apatica, ma calma e apparentemente serena. Sembrava la voce
di un insegnante mentre spiega qualcosa ai giovani studenti con
pazienza.
Walker si decise ad aprire gli occhi, e dovette inspirare un paio di
volte per focalizzare il luogo in cui si trovava. Era effettivamente a
terra, su un pavimento bianco e liscio, le pareti della stanza bianche,
anche il soffitto bianco. Se non fosse stato per il senso del tatto che
aveva usato per toccare il pavimento, avrebbe pensato ad un sogno, ma
per quanto sembrasse reale, c'era ancora qualcosa di strano, di
ambiguo, non solo in quella stanza ma in quell'uomo, ed era presto per
scartare l'ipotesi di non essere vivo. Poteva essere morto. Poteva
trovarsi al.. Purgatorio? Paradiso? Inferno? Quella situazione non gli
piaceva per niente. Avrebbe preferito essere ancora incosciente. Voleva
risposte.
Guardò di nuovo l'uomo che in quel momento gli dava la
schiena, e ne approfittò. Cercò la fondina con
qualche riluttanza, ma quando constatò di averla ancora,
sospirò sollevato ed estrasse la sua pistola, per puntarla
verso l'uomo, il quale non si era nemmeno accorto che si fosse alzato.
“Hai dieci secondi per dirmi chi cazzo sei e che posto
è questo, altrimenti, giuro su Dio, ti faccio saltare il
cervello.”
L'uomo
voltò leggermente la testa, e scoppiò a ridere,
una risata lontana e spontanea, come se volesse prenderlo in giro.
Walker si infastidì ancora di più.
“Guarda che non scherzo! Non è mia abitudine
uccidere un uomo disarmato, ma lo farò se non mi dai le
risposte che cerco. E guardami quando ti parlo, cazzo!”
L'uomo si
voltò, smise di ridere, ma era ancora compiaciuto. Fece un
piccolo passo verso Walker, tenendo le mani alzate.
“D'accordo. Spara.”
“Come?”
“Non è quello che volevi fare? Sparami. Ricorda,
il cuore sta qui, quindi.. ah non aspetta.. volevi spararmi al
cervello, vero? Spara dove vuoi, non ho nulla da nascondere.”
Walker non
sapeva davvero cosa pensare, mai si sarebbe aspettato una simile
reazione, quasi senza accorgersene abbassò la pistola, ma
quando vide l'uomo avvicinarsi nuovamente a lui, gli sparò
d'istinto. Cuore.
Ma quell'uomo se ne stava ancora in piedi. I suoi occhi scuri erano
ancora aperti e divertiti, i suoi abiti, bianchi ed insoliti, che
Walker non aveva mai visto, erano puliti e asciutti, non c'era neanche
una goccia di sangue. E l'uomo, naturalmente, era ancora in piedi.
Era come se avesse sparato al vuoto.
“Tu non sei reale.”
L'uomo, o
qualunque cosa fosse, si avvicinò nuovamente a Walker fino
ad arrivargli vicino, e così poté vederlo meglio.
Aveva chiaramente l'aspetto di un uomo normale di massimo trent'anni,
capelli scuri, occhi scuri, la pelle bianca quasi quanto le pareti e
gli abiti. Eppure, qualcosa in lui non quadrava. Tutta quella
situazione era poco chiara.
“Sì e no. Lo sono stato un tempo, e si
può dire che lo sono ancora in un certo senso, ma ora,
ciò che vedi davanti a te, non è un uomo. Ma non
devi avere paura di me.”
“Chi ha detto che ho paura?”
Quell'essere sorrise, quasi divertito.
“Non volevo dire questo.”
“E allora che cosa sei? Basta parlare per enigmi! Voglio la
verità!”
“Mi
sarebbe impossibile spiegarti cosa sono senza usare enigmi. Ma non
è di me che ti devi curare. Io sono solo uno strumento. Uno
strumento per aiutarti in questo tuo viaggio. E la verità..
la verità è che quello che ti aspetta, non
è facile.”
“Ti ho detto di smetterla di fare discorsi inutili. Vuoi
aiutarmi? Inizia con il parlare chiaramente, come i veri uomini fanno.
Se sei mai stato un uomo una volta, dovresti saperlo.”
“Immagino sia inutile tergiversare. Prima o poi dovrai
conoscere la verità. Ogni volta cerco di raggiungere la
verità passo dopo passo pensando che sia meglio, ma forse
dovrei smetterla e arrivare subito al nocciolo della
questione.”
“Lieto di constatare che parliamo la stessa lingua. Ora,
sputa il rospo.”
“Il tuo nome è Preston Clayton Walker. Sei nato il
12 febbraio 1852 a Dallas, Texas. Hai passato i primi anni della tua
vita in orfanotrofio, e all'età di sei anni sei stato
adottato da Theodore e Annelyse Walker di Austin, che gestivano un
ranch, ranch che è diventato tuo alla loro morte, nel 1873,
quando avevi ventuno anni. L'anno seguente hai sposato Bernice
Hopewell. Avete avuto sette figli, e quattro di loro sono morti di
malattie prima di diventare adulti. Dei tre restanti uno è
morto in un duello, un altro si è trasferito, e l'ultima
rimasta gestisce il ranch che hai ereditato insieme al marito e ai
figli. Tua moglie Bernice Hopewell è morta nel 1900 a causa
di una tempesta nel centro di Austin.”
Walker non
si era mai sentito così nudo in vita sua. Come faceva quel
tizio a sapere tutte quelle cose? Nessuno sapeva che era stato
adottato. Neanche sua moglie, e nemmeno la figlia Johanna, e tanto meno
i suoi compagni di avventure. Quello sarebbe stato un buon momento per
puntargli la pistola contro, ma si ricordò subito che non
sarebbe servito a nulla.
“Ti stai chiedendo come faccio a sapere tutte queste cose,
vero?” disse, come se gli avesse letto nella mente.
“Mi hai spiato. Non so come, ma l'hai fatto. Non
c'è altra spiegazione.”
“In
effetti una spiegazione ci sarebbe.” fece, indicando un
oggetto, sempre se era un oggetto, che Walker non aveva mai visto.
Era color grigio, stava su un tavolo, e l'uomo non poteva fare altro
che fissarlo cercando di capire cosa fosse, ma non somigliava neanche
lontanamente a qualcosa che avesse già visto. Era una specie
di grande cubo, con un contorno chiaro, mentre all'interno era nero.
Davanti a lui, sempre sul tavolo, un oggetto dalla forma rettangolare
con sopra numeri, lettere e simboli che Walker non conosceva. I due
oggetti, erano collegati da dei fili color grigio scuro, come lo era un
terzo oggetto alla loro destra, più piccolo e nero, anche
lui collegato ad un filo.
“Che razza di diavoleria è mai questa.”
“Si
chiama computer. E l'unico motivo per cui non lo conosci è
che non è ancora stato inventato.”
Questa
volta fu Walker a soffocare una risata.
“Stai dicendo che quel coso viene dal futuro? Che TU vieni
dal futuro?!? Non me la bevo.”
“Sarebbe
stato strano il contrario. Vieni. Ti dimostro che ciò che
dico è vero.” fece l'uomo.
Walker era ancora parecchio scettico, e soprattutto era riluttante ad
avvicinarsi a quello strano aggeggio che non gli piaceva per niente
quindi se ne stava a debita distanza, ma al tempo stesso era curioso
così cercava di allungare il viso per vedere cosa stava
succedendo.
Vide l'uomo, o essere, o qualunque cosa fosse, inchinarsi su di esso
quando sentì all'improvviso un rumore. Spaventato,
tirò fuori la pistola puntandola contro quel aggeggio, dal
quale, guarda caso, era arrivato il suono.
“Non è niente! Si sta solo accedendo!”
“Accedendo
cosa? Dei proiettili?!? Se ti aspetti che me ne stia qui aspettando di
essere ucciso da una macchina, ti sbagli di grosso.”
“Ecco,
vieni. Guarda tu stesso. Leggi. Sai.. sai leggere, vero?”
Walker
ignorò la domanda, e si avvicinò con la dovuta
cautela. La parte centrale del cubo non era più nera, anzi,
aveva una luce accecante, il colore bianco, e.. c'era qualcosa scritto.
Ci mise un po' a capire di cosa si trattasse dato che non leggeva da
quando era bambino, ma non gli ci volle molto per capire che si
trattava di lui. Era un documento su di lui. C'era tutto. Data di
nascita, la sua vita, i nomi dei suoi amici, dei membri della sua
famiglia, cosa aveva fatto in un determinato giorno. C'era persino una
sua immagine. Il suo volto. Lo stesso volto che aveva visto vicino alle
altre cinque ombre prima di cadere da cavallo e svenire.
“Il mal di testa.. lo svenimento.. sei stato tu! Tu me l'hai
causato!”
“Mi dispiace, ma era inevitabile.”
“Che
cosa cazzo mi hai fatto?!?”
“Sei
stato scelto.”
“PER COSA?!?”
“Questo
mondo è infettato da delle.. cose. Esseri geneticamente
modificati. La loro origine è incerta, non si sa cosa siano
esattamente e da dove arrivino. Le prime notizie che ho rintracciato su
di loro è che sono stati trovati da degli scienziati, e
usati per degli esperimenti in alcuni laboratori del Governo. A causa
di questi esperimenti devono aver assunto capacità che gli
hanno permesso di distruggere i laboratori e fuggire. Possono assumere
qualsiasi aspetto, l'aspetto di un uomo, un animale, una pianta,
possono assumere anche l'aspetto di qualcosa di astratto, come un
sentimento, una paura, una sensazione, uno stato d'animo. E possono
viaggiare nel tempo. Se non vengono fermati, possono alterare la storia
dell'umanità, in modo irreparabile. Sono anche molto
intelligenti, potrebbero benissimo creare un virus e generare
un'epidemia senza precedenti.”
“Bella storia. Dovresti scriverla. Verrebbe fuori un libro
molto venduto.”
“E'
la verità, Walker. E' per questo che sei qui. Tu devi
fermarli.”
Preston
scoppiò a ridere, come non rideva da tempo.
“Io? E cosa dovrei fare? Cosa pensi che possa fare?
Scienziati? Esseri che che cambiano aspetto? Viaggi nel tempo? Io ho
solo un cavallo, una pistola e un ranch. Hai sbagliato uomo. Ora vedi
di riportarmi a casa.”
“Non
sei solo.”
“No,
certo che no! Ci sei tu e quel dannato aggeggio!”
esclamò Walker quasi divertito, indicando il computer.
“Cinque.”
“Cinque?
Cinque cosa?”
“Non
sei solo in tutto questo. Cinque persone ti aiuteranno. Cinque persone
che sono state scelte come te. Che in questo momento stanno vivendo
quello che stai vivendo tu. Io non sono reale, Walker. Sono
un'immagine. Un'immagine creata nella tua testa che
scomparirà tra poco. In questo momento, mentre stiamo
parlando, una persona reale sta muovendo i fili che mi permettono di
stare qui con te. In questo momento io sto dicendo le stesse cose,
anche alle altre cinque persone.”
“Ma cosa cazzo stai dicendo?!? Chi sono queste cinque
persone? E i fili di cosa? Dove sono io? Che mi stai facendo?”
“Ti
stiamo dando ciò che ti serve per combattere quegli esseri.
A te e agli altri cinque. Sì, hai visto le loro ombre prima
di cadere da cavallo. Le vedrai sempre. Ormai loro sono parte di te, e
tu sei parte di loro. Siete legati da qualcosa che nulla
potrà mai spezzare. Il vostro futuro, il vostro destino,
è legato l'uno all'altro. Loro vengono da luoghi ed epoche
lontani e diversi, e sarà questa la vostra più
grande forza. Tu hai cercato di spararmi quando mi hai visto, una
reazione normale suppongo. Anche uno di loro l'ha fatto, sai? Due
volte. Sono sicuro che andrete molto d'accordo.” la voce
dell'essere era sempre più lontana, più bassa,
più difficile da comprendere, come se stesse scomparendo
poco a poco.
“Non capisco una sola parola di quello che stai dicendo. Cosa
ci stai dando?”
“Non
mi aspetto che tu capisca. Come potresti? Ci vuole tempo per queste
cose. Ti sto solo informando. Sarai tu a constatare la
veridicità di questi fatti, una volta sveglio. Il nostro
tempo è quasi scaduto. Presto avrai le risposte che stai
cercando.” sussurrò quasi, e la sua immagine
iniziò a scomparire.
“Aspetta! Perché? Perché noi?”
“Perché
siete anime spezzate.”
NOTE:
SALVE DI NUOVO, CON IL SECONDO CAPITOLO! IL PRIMO HA AVUTO TANTE VISITE
QUINDI GRAZIE GRAZIE GRAZIE!
E GRAZIE A CHIUNQUE LEGGERA' ANCHE QUESTO CAPITOLO E A CHI LASCERA' UN
COMMENTO, CHE SONO SEMPRE GRADITISSIMI!
SPERO VI SIA PIACIUTO E.. ALLA PROSSIMA!
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Capitolo 3 *** Giovanna Marconi ***
CAPITOLO 3.
GIOVANNA MARCONI
“Le
donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto
portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la
colonna vertebrale della società.”
Rita Levi –
Montalcini
Il cielo si
oscurava sempre di più come in attesa di una tormenta, le
nuvole si
univano e arrivarono i tuoni, tanto terrificanti da aver spaventato
almeno una volta ogni bambino, e tanto rumorosi da riuscire ad
interrompere sogni beati riportando gli addormentati alla
realtà,
quasi bruscamente.
Non era il caso di Giovanna Marconi, i cui
sogni erano ben lontani dall'essere beati e anzi, erano tormentati e
agitati, e quando i suoi occhi azzurri si aprirono nel mezzo della
notte al ritmo dei fulmini, fu quasi grata al temporale di averla
scossa abbastanza da dargli la forza che gli serviva per
svegliarsi.
Iniziò a respirare affannosamente sia con il naso
che con la bocca, come se fosse rimasta a lungo senza la
capacità di
respirare, mentre i suoi occhi non la smettevano di roteare in ogni
direzione. Non si muoveva, sia il viso sia gli arti erano fermi,
inerti, come pietrificati dalla paura come lo era lei, e per quanto
sforzasse il suo udito, gli unici rumori che sentiva provenire dal
suo corpo erano i suoi sospiri e i suoi lunghi capelli biondi, le cui
ciocche si muovevano delicatamente sulle sue spalle, mossi dal
vento.
Non poteva assolutamente farsi prendere dal panico,
soprattutto se voleva restare viva. Aveva già affrontato
situazioni
pericolose, più di quante una donna di ventisette anni come
lei
avrebbe mai dovuto avere a che fare, ma se c'era una cosa che aveva
imparato nel corso della sua vita era che se voleva sopravvivere,
doveva mantenersi lucida, o sarebbe stata la sua stessa paura a
distruggerla.
Inizierò a muovere molto lentamente il suo
corpo, aspettandosi di trovare braccia e gambe legate al letto, ma
erano libere come l'aria. Nessun laccio, nessuna catena. Nulla la
teneva legata al letto, e per quanto ne fosse da una parte sollevata,
dall'altra ne fu confusa.
Sollevò le mani verso l'alto: le
sue dita affusolate erano sporche di terra, la sua terra.
Sì,
ricordava. Ricordava di aver lavorato nella terra di suo marito.
Giacomo era un contadino, ma era anche cagionevole di salute, e come
a volte capitava, era stato male e non era in condizione di lavorare,
così era andata lei al posto suo, come faceva ogni volta che
lui non
riusciva.
Ma a quando risaliva questo ricordo? Per quanto si
sforzasse, non riusciva a trovare risposta. Era un ricordo recente,
accaduto poco tempo fa, ma quando di preciso non lo sapeva. Due ore
prima? Il giorno prima? Una settimana prima? Il mese prima?
Ricordò
il sole accecante che in passato non l'aveva mai fermata ma quel
giorno era stato insopportabile, il mal di testa. Le sagome. Le
sagome di sei persone come dipinte sul terreno arido in cui coltivava
le verdure. E poi, lo svenimento.
E poi c'era stato quello
strano sogno. Quel Frank. E tutte quelle strane cose di cui parlava.
Cose a cui Giovanna non credeva, cose di cui era terrorizzata, cose
che un po' la incuriosivano.
Ora si ritrovava in quella
stanza. Una stanza accogliente, più grande e sicuramente
più curata
della camera da letto sua e di Giacomo. Il pavimento era in legno,
c'era qualche armadio, uno scaffale, un piccolo tavolo all'angolo e
una sedia. Non era legata. Non aveva ferite, e il mal di testa era
completamente sparito. Non era nemmeno nuda, perché si
tastò il
corpo con le mani e sentì la vecchia stoffa del suo abito.
Era come
se qualcuno l'avesse trovata e salvata. Eppure non era tranquilla.
Per niente.
Pensò alla sua famiglia. A suo marito Giacomo. Ai
loro figli, che voleva assolutamente riabbracciare. No, doveva
tornare subito da loro. Sarebbe sopravvissuta per loro.
Ma quando si alzò dal letto,
capì che forse non stava
bene come inizialmente aveva pensato. Sentì qualcosa sulla
sua
testa. Non era una ferita perché non sentiva dolore, era
come se ci
fosse qualcosa di nuovo, qualcosa che premeva. Infilò le
dita tra i
capelli cercando di capire con il tatto di cosa si trattasse, e
quando arrivò al punto dal quale proveniva il fastidio
sentì come
un puntino. Un neo. Eppure, non aveva mai avuto niente di
simile.
Nel preciso momento in cui allontanò le dita dalla
testa perché arrivata alla conclusione che toccandolo
più a lungo
non avrebbe comunque capito di cosa si trattasse, vide la porta
aprirsi. Si alzò frettolosamente allontanandosi il
più possibile,
maledicendosi per non essere uscita quando poteva farlo.
Sulla
soglia apparve un uomo anziano, ma con addosso degli abiti che
Giovanna non aveva mai visto, eppure aveva uno sguardo rassicurante.
Aveva i capelli bianchi e corti, era molto magro, e due occhi azzurri
chiari come i suoi. In mano aveva un vassoio, con del latte su un
piatto grigio. Sul viso, i segni indelebili di un trauma, una ferita,
un dolore passato ancora presente dentro di lui.
“Va tutto bene, non devi avere
paura. Ecco..” disse,
mettendo il vassoio sul tavolo e aggiunse “..avrai
fame.”
La ragazza iniziò a muovere gli
occhi sempre più
velocemente. Prima erano sul vecchio e poi sul vassoio, poi di nuovo
sul vecchio poi ancora il vassoio.
L'uomo tirò fuori un cucchiaio
che teneva in quegli
strambi abiti, lo infilò nel piatto e prese un sorso di
latte che
bevve davanti alla ragazza, per dimostrarle che non era avvelenato e
che poteva fidarsi.
“Vedi? E' buono.”
Giovanna sospirò. Non si sentiva
ancora al sicuro, ma
l'uomo era gentile e l'unica cosa sensata che potesse fare era
rispondere con la stessa gentilezza, ma senza abbassare la
guardia.
“Non posso accettare.”
“Perché?”
“Non ho monete, o niente di
valore da darle in
cambio.”
“Non voglio niente. E' gratuito.”
Giovanna lo guardò sorpresa.
“Non capisco.”
L'uomo prese il piatto e lo porse alla
ragazza.
“Se
volessi qualcosa in cambio, non te lo offrirei gratuitamente. So che
non mi conosci, che non hai motivo di fidarti di me e che sei
spaventata, ma non hai nulla da temere.”
La ragazza lo fissò
per un minuto abbondante, ma poi prese il piatto e iniziò a
bere il
latte, prima lentamente, poi tutto d'un fiato.
“Perché non
vieni con me nel soggiorno? Scommetto che avrai molte domande.
Cercherò di rispondere.”
Giovanna lo seguì continuando a
guardarlo sospettosa
come se si aspettasse da parte sua un gesto inaspettato, mentre
continuava a tenere il piatto ormai vuoto.
Quando raggiunsero l'enorme stanza,
Giovanna si
pietrificò. Era davvero grande, quella sola stanza era il
triplo più
grande della sua intera casa, inoltre gli oggetti al suo interno
erano pochi se paragonati alle dimensioni del soggiorno, il che dava
l'idea che la stanza fosse anche più grande di quanto fosse
in
realtà. C'era un vecchio e polveroso tappeto, e nell'angolo
c'erano
una serie di grandi oggetti, alcuni mobili, altri erano oggetti che
Giovanna non aveva mai visto. Uno in particolare attirò la
sua
attenzione: era alto ma stretto, e completamente bianco. Sul davanti
c'era una specie di maniglia, simile a quelle che trovi sulle porte.
Ma fu ciò che era lungo la parete alla sua destra che la
lasciò di sasso. Un lungo tavolo e un paio di sedie. Il
tavolo
sembrava bianco, ma era difficile esserne sicuri perché non
era
facile vederlo dato che sopra c'erano talmente tanti oggetti da
coprirlo quasi del tutto. Gli oggetti in questione erano qualcosa che
Giovanna non avrebbe mai pensato di vedere, non sapeva neanche come
classificarli, come descriverli. C'erano tre grossi cubi, al centro
erano neri ma nei bordi bianchi. Davanti a loro, un oggetto dalla
forma rettangolare con dei simboli disegnati sopra, e il tutto era
unito da dei grossi fili neri. A rendere il tutto ancora più
inquietante agli occhi della donna ci pensava una grande poltrona
accanto al tavolo, vuota.
L'uomo accorse subito in suo aiuto.
“Non ti spaventare. E' un oggetto
che da dove vieni tu
non esiste ancora, è per questo che non lo conosci. Vieni,
sediamoci.” disse, prendendola gentilmente per un braccio e
accompagnandola verso alcuni divani al centro della stanza, che
Giovanna non aveva neppure visto.
“Da dove vengo io?”
“Ti
ricordi di una certa chiacchierata con.. Frank?”
La ragazza sgranò gli occhi e si
alzò immediatamente,
facendo cadere il piatto che andò in mille pezzi.
“E'.. è
stata opera sua?”
“Si può dire
così, sì.”
Giovanna iniziò ad agitarsi.
Tutta la calma che aveva
fino a quel momento se ne andò all'istante e rimase solo la
paura.
Non le piaceva quella situazione. Affatto.
“Ti prego,
lasciami andare. Riportami a casa. Riportami dalla mia
famiglia.”
fece in tono supplichevole, sperando nella bontà dell'uomo.
Voglio
mio marito.
Voglio i miei figli.
Voglio la mia vita.
Gli
occhi dell'anziano si fecero lucidi, forse l'aveva commosso. Forse
l'avrebbe aiutata. Forse l'avrebbe portata a casa.
“Sei
libera di andare, potrai farlo non appena sarai pronta.”
“Non capisco.”
L'uomo andò verso un grande
portone, probabilmente
l'ingresso della casa. Per un momento, Giovanna pensò che
l'avrebbe
chiusa per impedirle di scappare, ma non lo fece. Fece l'unica cosa
che non si aspettava. La aprì.
“Non sei una mia
prigioniera, e questa non è la tua cella. Vuoi andare via da
qui?
Vai. Ma uscendo da questa porta, non riuscirai mai a tornare a casa.
E se ti ricordi di Frank, credo che una parte di te sappia
già il
perché.”
Frank.
Creature da combattere.
Viaggi nel
tempo.
Sei persone.
Anime spezzate.
Da quando era
cominciata quella storia assurda, per la prima volta, Giovanna
iniziò
seriamente a considerare che fosse tutto reale. Che ciò di
cui aveva
parlato Frank era vero. Non era mai stata una persona particolarmente
credulona, ma quella era l'unica spiegazione possibile. E se davvero
aveva viaggiato nel tempo, quell'uomo aveva ragione. Non era varcando
quella porta che sarebbe tornata la casa. E l'ultima cosa che voleva
era perdersi in un luogo e tempo lontano da quello che conosceva.
Si
sentiva inconsciamente stupida a pensare davvero una cosa del genere,
ma quella situazione era troppo assurda e poteva avere solo una
spiegazione altrettanto assurda.
“Dove siamo?”
“Dusseldorf,
Germania. Sai dov'è la Germania?”
La donna scosse la testa.
“E' sopra l'Italia. A
Nord.”
“E dov'è l'Italia?”
Questa volta era il turno dell'uomo ad
essere sorpreso,
ma poi rifletté un momento e si colpì la fronte
con la mano destra.
Cazzo Henrich, questi sono errori da principianti!
Non
fai altro che confonderla!
Come ho fatto a dimenticarmi che nel
1817 non c'era nessuna Italia?
E' lei viene dal 1817!
E'
naturale che non capisca!
Stupido stupido stupido!
Pensa
Henrich, pensa!
Com'è la sua Italia?
Eppure avevo cercato
informazioni al riguardo mentre li aspettavo!
Ah, già! Il
Congresso di Vienna!
Lei viene dalla zona Nord, Piemonte se non
sbaglio, quindi era nel..
“Regno di Sardegna?”
Giovanna
annuì con la testa.
“Devi perdonarmi. Il fatto è che, un
giorno, il Regno di Sardegna e altri territori vicini si uniranno e
diventeranno l'Italia. Mi sono confuso per questo.”
“E finiranno tutte le
guerre?”
Ehm..
No.
Ne inizieranno di peggiori.
Che faccio?
Non voglio
illuderla, ma non voglio neanche farla stare male per un futuro che
non vivrà nemmeno.
“Non divaghiamo.. comunque sì,
questa è la Germania. Anno 2086.”
La donna dovette sedersi.
“Due..
duemilaottantasei?”
“Ora sai perché ci
sono così tanti oggetti che non
conosci. Possiamo fare una pausa, se non te la senti..”
“No. Voglio sapere. Come sono
arrivata qui? Ho.. ho
viaggiato nel tempo?”
“Ti ho portato io qui. Per
salvarti. Ricordi.. ricordi
un forte mal di testa? E un successivo svenimento? E' successo
perché
nel tuo corpo è stato inserito un fluido che altera le tue
cellule,
e che ti dà questa capacità. La
capacità di viaggiare nel tempo.
Essendo una cosa che comporta grossi cambiamenti e che va ad influire
sul mondo passato, presente e futuro, il tuo sistema immunitario non
ha retto lo sforzo, ecco perché il mal di testa e lo
svenimento.”
La donna ascoltava l'uomo con attenzione,
mentre muoveva
ovunque le braccia per il nervosismo.
“Una volta svenuta,
avresti dormito per tre giorni, e durante questo tempo il tuo sistema
immunitario si sarebbe adattato al fluido. Una volta sveglia, avresti
già potuto viaggiare nel tempo, ma non sapevi come, ed era
un
rischio troppo grande. E' come mettere un bambino che non sa nuotare
in una piscina. Finirà con l'annegare. Avresti potuto finire
per
caso in un epoca e in un luogo che non conoscevi, magari pericoloso.
Avesti potuto essere arrestata perché senza documenti.
Rinchiusa in
un manicomio per i tuoi abiti che rispecchiano la tua epoca e non
quella in cui ti ritrovi. Per questo sei qui. Io aiuterò te
e gli
altri cinque. Vi insegnerò come viaggiare nel tempo e vi
spiegherò
cosa dovete evitare per non alterare l'umanità.”
Tutto
iniziava ad avere un senso, e Giovanna ammise a sé stessa
che ciò
che diceva l'uomo era sensato, per quanto potesse essere
sensato
viaggiare nel tempo, e che sembrava davvero che volesse
aiutarla,
ma c'erano ancora tanti vuoti, e la donna voleva riempirli.
Stava
per fare un'altra domanda, ma si sentì un suono provenire
dal tavolo
con sopra tutti quegli aggeggi strani. Giovanna sobbalzò, ma
l'uomo
la rassicurò immediatamente.
“Stai tranquilla, non è
niente! Questo suono significa che un altro dei tuoi compagni si sta
per svegliare. Meglio che vada ad accoglierlo come ho fatto con te,
vorrei evitare che si spaventi e scappi dalla finestra. A breve si
sveglieranno tutti uno dopo l'altro, quindi non spaventarti se senti
ancora questo rumore.” fece l'uomo, andando verso i mobili e
aprendo quell'oggetto bianco con la maniglia e prendendo dal suo
interno quello che sembrava del cibo, per poi metterlo sul vassoio e
dirigersi verso una stanza, ma la donna gli andò
incontro.
“Aspettate! Io ho altre domande!”
“Quando saranno tutti svegli,
risponderò ad ogni
vostra domanda, così non dovrò ripetermi per
certe cose. Farò con
ciascuno di loro quello che ho fatto con te, e quando sarete tutti
insieme, riprenderemo il discorso.”
“E io cosa
faccio?”
“Quello che vuoi. Aspetta qui nel divano, oppure
se hai ancora fame vai in cucina. Presente quel grosso oggetto bianco
con la maniglia da cui ho preso il cibo? Si chiama frigorifero. Se lo
apri, ogni cosa che troverai dentro è cibo. Serviti pure.
Magari
evita di avvicinarti al tavolo dal quale provengono i rumori, ed
evita anche di uscire di casa. Una donna vestita come te non
passerebbe inosservata.”
La donna annuì, e si sedette
nuovamente nel
divano.
“Comunque il mio nome è Henrich. Henrich
Bauer.”
“Giovanna Marconi.”
“Lo so.” fece Henrich
con un mezzo sorriso,
salutandola con il capo e dirigendosi verso uno dei compagni della
ragazza.
Ok,
tanto per cominciare mi scuso per l'enorme ritardo con cui aggiorno.
Avrei voluto farlo prima ma sono stata impegnatissima, e inoltre questi
primi capitoli sono piuttosto difficili da scrivere perché
sono quasi un "prologo" alla storia vera e propria, quindi confido che
i prossimi aggiornamenti saranno più rapidi.
Ci tengo a ringraziare tantissimo chi ha letto i primi due capitoli (e
chi leggerà anche questo) e un grazie speciale a sissyaot01
per la recensione, spero apprezzerai anche questo capitolo!
E niente, ci risentiamo al prossimo capitolo (che spero non
tarderà ad arrivare) e ricordate, ogni recensione
sarà molto gradita! A presto.
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Capitolo 4 *** Colton Harrington ***
CAPITOLO 4.
COLTON
HARRINGTON
“Nei marine
c'è una gerarchia da
rispettare. Anche lì si commettono errori, ma si possono
gestire.
Sai per cosa combatti e tutti fanno parte della stessa squadra.
Lottare contro la corruzione, invece, è come inseguire le
ombre. Non
sai mai chi è sul libro paga dei cattivi, magari
è il tuo partner,
oppure il comandante di turno.”
(L.A. Noire)
Non gli piaceva quel posto.
Non gli piaceva
quella situazione.
Non gli piaceva quel Bauer.
Era
troppo misterioso, sapeva parlare solo per enigmi, parlava e parlava
senza mai rispondere a nulla, senza mai dire qualcosa di concreto. E
se c'era una cosa che aveva imparato da quando era entrato in polizia
era che non c'era mai da fidarsi delle persone che non rispondevano
direttamente ad una domanda.
Aveva una vita perfetta.
Prestava servizio nel Dipartimento di Polizia di Los Angeles come
agente anche se ancora per poco dato che era ad un passo dalla
promozione a Detective e come ciliegina sulla torta, aveva da qualche
mese una relazione sentimentale con una ragazza che riteneva essere
quella giusta, viste le loro molteplici affinità e tutte le
cose che
avevano in comune.
Insomma, la sua vita non poteva andar
meglio.
E ora questo. Un incubo dal quale desiderava
svegliarsi ad ogni costo. Viaggi nel tempo? Ma chi li ha mai
voluti?!? Lui stava benissimo nel suo mondo, nella sua
città, nel
suo ambiente, non era minimamente interessato a viaggiare nel tempo e
nello spazio. Per combattere delle creature disgustose poi? Ma
perché? Chi glielo faceva fare? Assolutamente no.
E se
questo vecchio pensa seriamente di convincermi con il senso di colpa
che solo io posso e stronzate varie sull'essere scelti, si sbaglia di
grosso. Io rischio la vita tutti i giorni inseguendo ladri,
delinquenti e assassini per servire e proteggere la popolazione di
Los Angeles, e poi non sono sopravvissuto alla guerra e tornato nel
mio paese per finire in una farsa assurda. Con questi tizi poi?
Sembrano usciti da un circo!
“Bene, ci siamo tutti. Io
ehm, ecco,.. scusate ma è tutto nuovo anche per me, ma
cercherò di
essere il più chiaro possibile..”
Tu chiaro? La vedo
dura.
“.. immagino che siate tutti un po'
imbarazzati..”
Puoi giurarci.
“.. è normale
all'inizio, ma penso che le cose cambieranno..”
Tu vivi
nel mondo dei sogni.
“.. ma cercate di andare d'accordo.
E' questa la parte più difficile. So che non sarà
semplice per
nessuno di voi. Siete diversi per mentalità, epoca,
nazionalità. Ma
sono certo che con il tempo, e con un po' di tolleranza, riuscirete a
trovare un punto in comune. Il mio consiglio è di allargare
i vostri
orizzonti, di cercare di capire l'altro prima di giudicare..”
Quello
che capisco io è che questi li voglio ben lontani da me.
“Ci
tengo subito a spiegarvi che le diverse lingue che parlate non
saranno un ostacolo, non per la vostra comunicazione, almeno. Vi ho
messo un microchip nel corpo che..”
TU COSA? Che hai
fatto?!? Che mi hai messo dentro? E dove? Come hai osato? In un
ospedale psichiatrico devono metterti, brutto bastardo.
“..
non agitatevi, vi prego. E' minuscolo, ed è talmente piccolo
che è
del tutto innocuo per il vostro corpo. E' come un piccolo neo. Ne ho
uno anch'io, sapete? Non vi accorgerete neanche di averlo. Quel
microchip vi permettere di comprendere, e farvi comprendere, in ogni
lingua del mondo. Io sono tedesco..”
Tedesco? Hitler?
Perfetto. Davvero magnifico.
“.. e sto parlando nella
mia lingua, eppure voi riuscite a comprendermi benissimo. Grazie a
quel microchip, ogni volta che qualcuno vi parlerà in
qualunque
lingua voi capirete, perché qualunque cosa dica, voi la
sentirete
nella vostra lingua. E quando sarete voi a parlare con qualcuno di
un'altra nazionalità, avviene la stessa cosa. La persona che
avrete
davanti sentirà cosa direte nella sua lingua. A questo serve
il
microchip. E' una specie di traduttore personale.”
Quindi
non ho scusanti. Devo per forza socializzare con questi plebei.
“Torno subito, devo controllare una cosa. Voi
intanto
fate due chiacchiere.. parlate.. cercate di fare amicizia..”
Cos'è una battuta? Hai
sul serio detto “fare
amicizia”? Scherzi, vero?
Henrich lasciò il soggiorno
per andare in un'altra stanza, e per la prima volta dopo tanto tempo,
Colton si sentì veramente a disagio.
Aveva ucciso, vissuto
per una ragionevole quantità di tempo con la
possibilità di morire
da un momento all'altro, aveva visto cadaveri in ogni stato, cadaveri
di suoi compagni in guerra, cadaveri di americani uccisi da un
assassino che lui avrebbe dovuto trovare in patria, eppure nulla,
assolutamente nulla di quello che aveva passato, poteva essere
equiparato all'imbarazzo che provava in questo momento, almeno a
quanto ricordasse.
Colton Harrington aveva molti difetti: era
serio, sarcastico, superficiale come pochi, e sempre pronto a puntare
il dito contro chi non rispecchiava i suoi altissimi standard, ma era
sempre sicuro di sé. Sicuro su cosa fare, cosa dire, in ogni
situazione. Eppure ora, era disorientato. Iniziò a guardarsi
i
piedi, le gambe, le dita delle mani, l'uniforme da agente che ancora
indossava. Ogni cosa gli sembrava più interessante.
Il tempo scorreva lentamente, quasi a
rallentatore,
cinque di loro iniziarono a guardarsi intorno, ansiosi di rivedere
Henrich per porre fine a quella situazione imbarazzante, ma lui non
arrivava e il disagio ormai aveva raggiunto livelli
impressionanti.
Solo uno di loro era rimasto come..
indifferente? Colton pensò fosse una motivazione valida per
vederci
chiaro, così alzò lo sguardo e guardò
il diretto interessato.
Si
trattava di un uomo alto e magro di massimo trent'anni, il viso era
come sciupato, segnato da qualcosa di indelebile che lo avrebbe
accompagnato per il resto della vita. Aveva un accenno di barba
appena visibile color oro, esattamente come i capelli corti,
rigorosamente pettinati, quasi come una madre pettina i capelli del
figlio ancora piccolo prima che esca per andare a scuola. Indossava
una camicia a righe chiusa fino all'ultimo bottone a mezze maniche,
dei comunissimi jeans accompagnati da una comunissima cintura, delle
scarpe ormai troppo vecchie e un orologio al polso sinistro.
Era
indubbiamente un uomo attraente, forse il più bello dei
quattro
riuniti in quella stanza, e dai vestiti che indossava, Colton
ipotizzò che doveva provenire da un'epoca simile alla sua,
ma
comunque non si sentì affatto rincuorato.
C'era qualcosa in
quell'uomo.. qualcosa di strano. Qualcosa di inquietante. Era come se
gli mancasse una parte. Il suo sguardo era come perso nel vuoto, come
se nulla gli stesse accadendo, come se non valesse la pena prestare
attenzione alla sua situazione. Gli occhi chiari erano come smarriti,
stanchi, sul punto di chiudersi, ma la cosa più inquietante
in
assoluto era la sua espressione. Vuota. Smarrita, come gli occhi e il
suo sguardo. Come se non avesse un anima. Come se fosse una macchina.
Come se non avesse niente dentro. Niente sentimenti, emozioni. Un
guscio vuoto.
Non mi piace affatto questo tizio, istinto di
poliziotto. Altro che farci amicizia, questo è da tenere
d'occhio.
Vicino a lui, c'era una donna. Una giovane donna
bionda e con gli occhi chiari, molto magra. E bella. Proprio il tipo
di donna che piaceva a Colton. Bionda. Occhi chiari. Magra. Era
proprio il suo tipo di donna. Ma l'idillio non durò a lungo
per il
poliziotto: non appena si rese conto di quanto fosse sporco e
rovinato il vestito che indossava, così come le dita,
l'interesse
romantico che nutriva per lei sparì in un colpo solo.
Ma
quando è stata l'ultima volta che si è fatta un
bagno? Deve essere
proprio una poveraccia. Peccato, era così attraente.
Vicino
a lei c'era un uomo che sembrava uscito da uno di quei film Western
che a volte Colton aveva visto al cinema con la sua ragazza. Un uomo
che sprizzava Far West da ogni parte, dai baffi scuri ai piccoli
occhi azzurri, dal cappello nero rovinato alle mani segnate dal
lavoro. L'unica differenza era che i protagonisti dei film erano
giovani e belli, mentre l'uomo che aveva davanti sembrava
più
l'ubriacone che veniva ucciso subito.
Di bene in meglio.
Riconfermo ciò che pensai prima. Un circo. E della peggior
specie.
Accanto al cowboy c'era un uomo sulla quarantina
piuttosto pallido, alto e magro, dall'aspetto regale e con indosso
quella che doveva essere un uniforme di qualche tipo, anche quella
all'apparenza regale, lasciando intendere che avesse un ruolo
importante. Forse un ammiraglio? Un capitano? Un commodoro? Gli occhi
erano piccoli e color verde scuro, e il colore dei capelli era
ignoto, dato che indossava un parrucca bianca, che sembrava quasi
reale, ma quell'uomo era troppo giovane per avere i capelli
così
bianchi, quindi era impossibile.
Da qualsiasi paese venisse,
doveva vivere in un palazzo, un castello, un ambiente nobile a cui
doveva essere abituato dalla nascita, a giudicare dalle mani bianche
e lisce come se non avesse mai fatto un lavoro manuale in vita sua, e
un ulteriore conferma arrivò quando Colton vide come
guardava la
bella donna bionda. Con disprezzo, forse per essere seduto vicino a
lei, perché la riteneva inferiore, quasi una subordinata,
perché se
aveva avuto a che fare con persone così, dovevano per forza
essere
sue subordinate che gli dovevano rispetto, e che al minimo errore
sarebbero state buttate fuori.
Ecco, con questo forse
potrei andare d'accordo. E' un nobile di sicuro. Composto, pulito, e
forse ha un minimo di cervello.
Spostò lo sguardo per
osservare l'ultimo, ma quando lo fece, non riuscì a
trattenere un
espressione disgustata. Davanti a lui c'era un ragazzo.. o una
ragazza? Non riusciva a capirlo. Non sapeva nemmeno se fosse umano. O
umana. Certo ne aveva la sembianze, ma tutto il resto era sbagliato,
tutto il resto era fuori posto, e Colton si sentì come
sull'orlo di
una crisi.
I suoi capelli scuri che arrivavano fino alle
spalle erano un autentico disastro. Sporchi, spettinati, pieni di
nodi. Orribili. Aveva due enormi occhi scuri, dello stesso colore dei
capelli, nascosti dietro un paio di vecchi e grandi occhiali,
così
come le sopracciglia a gabbiano, per niente curate e non abbastanza
sottili.
Così come la zona tra il naso e la bocca, piena di
peli orribili e assolutamente inguardabili, lì da
chissà quanto
tempo. Il viso, seppur molto angelico e dai lineamenti dolci, era
rovinato un po' per quei peli che avrebbero dovuto essere rimossi e
un po' anche per qualche brufolo, sparso qua e là, e la
totale
mancanza di trucco non aiutava certamente le cose.
Le labbra
erano screpolate e..
Oddio! Cos'è quello? Un taglio? Ma è
enorme. Questa c'ha un enorme taglio su entrambe le labbra. Che
schifo. Orrore!
Cercò di guardare altrove,
freneticamente, quando ritornò sui suoi occhi, che
sembravano così
profondi da rendere la presenza degli occhiali del tutto irrilevante.
Occhi pieni di rabbia, freddi, gelidi. Pieni di rancore represso che
non voleva più essere tale, una furia che stava per
esplodere da un
momento all'altro. Ed erano puntati su di lui.
Ma che ha da guardare questa? Sono
io che dovrei
guardarla male, non lei a me. Ma ha visto come è conciata?
E
lo fece. Continuò a guardarla. Male. Con giudizio. Con
disgusto.
Persino i suoi abiti erano fuori luogo. Una maglietta nera con una
specie di logo, che non riusciva a leggere. Dei jeans e delle scarpe.
Era chiaramente una donna, ma non ne aveva affatto l'aspetto. Non era
femminile, non era bella, non era curata, e invece che nascondere i
suoi difetti come ogni donna rispettabile, lei li mostrava quasi con
orgoglio. Quale donna sana di mente si comporterebbe così?
Lei
fece altrettanto. Lo aveva guardato male dal momento in cui si era
seduto per ragioni a lui ignote, ma in parte il poliziotto ne era
soddisfatto. Soddisfatto che la loro antipatia fosse reciproca,
così
non si sarebbe trattenuto nei loro litigi futuri, e il primo era
dietro l'angolo, quasi conclamato, ma qualcuno parlò,
impedendolo.
“Dovrebbe essere più
femminile, signorina. Non troverà mai marito se persiste nel
mantenere un aspetto tanto lascivo.”
Era stato il nobile a
parlare, il primo dei sei a parlare. La sua voce era seria e fredda,
ma non c'era cattiveria in essa. Guardò la ragazza con gli
occhiali,
aspettandosi una risposta. Lei lo guardava, cercando di trattenersi
dal fare un piccolo sorriso. Nessuno riusciva a capire se fosse
arrabbiata o divertita.
“Fortuna che me l'hai detto, è
proprio lo scopo della mia vita trovare marito.”
Il
nobile annuì
leggermente con la testa.
“Lieto di essere stato d'aiuto.”
La
ragazza si mise una
mano davanti alla bocca forse per nascondere un sorriso, mentre il
biondo che appariva assente per la prima volta si voltò
verso il
gruppo, come se fosse finalmente interessato a cosa stesse
succedendo.
“Da dove vieni tu non esiste il sarcasmo,
bigodino?” bofonchiò il cowboy, lanciando uno
sguardo d'intesa e
ammirazione alla ragazza.
“Non desiderate
trovare marito?”
La ragazza fece finta di pensarci, e dopo
qualche secondo rispose con un secco “No”.
“Ma se rimarrete
nubile, diverrete un peso per la vostra famiglia.”
continuò il
nobile, non riuscendo a concepire come una donna potesse avere un
altro scopo di vita se non essere moglie e madre.
“Non ti
preoccupare di questo. Lo sono già. E posso assicurarti che
la cosa
non cambierà.”
“Lascia perdere..”
mormorò Colton, rivolgendosi al nobile, per poi voltare lo
sguardo
di nuovo verso la ragazza “.. anche se volesse un marito, non
lo
troverebbe. I capelli potrebbero anche essere aggiustati, ma
quell'orrore sulla labbra? Per non parlare di quei disgustosi peli
intorno alla bocca. Una scimmia che si veste d'oro, rimane comunque
una scimmia.”
Quell'atmosfera
colloquiale e rilassata che poco a poco si stava creando,
sparì di
colpo. La ragazza guardava Colton con occhi nuovamente gelidi,
furiosi, mentre il poliziotto neanche la considerava più.
Gli altri
quattro puntarono gli occhi su loro due, sbigottiti, guardando prima
l'uno e poi l'altra, un po' dispiaciuti per la ragazza, e un po'
curiosi di vedere la sua reazione.
“Mi vuoi baciare?”
chiese tranquillamente la ragazza, con un tono sereno e dolce, tanto
da fare quasi paura.
Tutti
si gelarono e la
guardarono sconvolti. Nessuno si sarebbe aspettato quella risposta.
Colton la fissava con occhi che sembravano essersi fatti più
grandi
da quanto era rimasto sorpreso. E disgustato.
“Cos.. come..
che.. che schifo, no! Neanche se fossi l'ultima donna sulla faccia
della Terra!”
“E allora cosa cazzo
te ne frega di cosa ho sulla bocca?!?” urlò lei,
trionfante e
soddisfatta, e anche compiaciuta di urlare contro quel
poliziotto.
Colton la guardò sorpreso. Incredulo. Non
riusciva a credere a quello che stava succedendo. Sentì
qualcuno
ridere, probabilmente il cowboy dato che aveva preso in simpatia
quella maledetta ragazzina.
“Cazzo? Questa parola mi è
sconosciuta. Qual'è il suo significato?” chiese il
nobile, ansioso
di avere una risposta e sentendosi un po' stupido per non averne
capito il senso.
“E' un rafforzativo.” mormorò il cowboy,
senza però smettere di guardare la ragazza e il poliziotto.
“Come
osi parlarmi in questo modo, ragazzina? I tuoi genitori non ti hanno
insegnato a portare rispetto agli adulti? Io faccio parte del
Dipartimento di Polizia di Los Angeles, sai? Anzi, a dirla tutta, sto
per diventare Detective, quindi vedi di chiudere la b..”
“Cosa?
Detective? Non sei un po' troppo giovane?” chiese il cowboy,
mantenendo la sua solita espressione imbronciata.
“Non se
sei corrotto..” bofonchiò la ragazza.
Sei finita,
ragazzina.
“Scusa
che
cosa hai detto?!?”
“Hai capito.”
Colton
strinse i pugni
con rabbia, tanto che sentì le unghie delle dita premere
contro la
sua pelle. Respirò a fondo, cercando di mantenere la calma.
“Anche
se non ne hai l'aspetto, a quanto pare e per ragioni a me
sconosciute, sei una donna. E io quando sono entrato in polizia mi
sono promesso che non avrei mai picchiato una donna, quindi
considerati fortunata. Ma sappi questo, non finisce qui.”
mormorò
Colton stringendo i denti, con un tono che non lasciava spazio a
dubbi.
Lei lo guardò con aria di sfida, ma non rispose. E di
nuovo, un silenzio glaciale, rotto poi dalla ragazza bionda, che si
rivolse alla bruna.
“Se posso chiedere.. come è successo?”
chiese, riferendosi al taglio sulle labbra.
La ragazza fece un
timido sorriso dovuto alla gentilezza della contadina, ma poi
tornò
nuovamente seria, per poi voltarsi nuovamente verso Colton.
“E'
stato uno sbirro.”
Colton alzò lo sguardo su di lei, e
fece un piccolo sorriso, un po' compiaciuto e un po' divertito.
“Si
vede che te lo sei meritato.”
La
ragazza si
pietrificò. Era impossibile dire se ne era rimasta ferita o
se era
la rabbia che cresceva di nuovo, ma di qualunque cosa si trattasse,
doveva essere qualcosa di grosso, perché la sua espressione
era
fredda. Tutti gli occhi erano puntati su di lei, tranne quelli di
Colton, che preferiva guardare nella direzione opposta.
Dopo
qualche secondo,
la giovane si alzò, ma non fece in tempo a fare qualche
passo che
subito Colton parlò di nuovo.
“Ecco brava. Vattene via che
è meglio.”
Poi
tutto successe in
un attimo, e alla velocità si aggiunse la sorpresa. Colton
si voltò
alla sua destra, e neanche il tempo di rendersi conto di quello che
stava succedendo che si ritrovò un pugno sulla faccia che
gli colpì
forte il naso, tanto da farlo sanguinare. Un colpo non
particolarmente forte, ma preciso e veloce, e talmente inaspettato
che neanche un poliziotto come lui riuscì a fermarlo.
Note.
Dopo davvero tanto, troppo tempo, eccomi con un nuovo capitolo e un
nuovo personaggio. Il suo nome, Colton, vuole essere un tributo a Cole
Phelps, poliziotto anche lui e protagonista del gioco L.A. Noire, da
cui proviene la citazione. Probabilmente non interessa a nessuno, ma ci
tenevo a dirlo.
Ho voluto impostare questo capitolo in maniera diversa. Nei precedenti
c'era più descrizione, e in questo ho voluto inserire
più dialoghi e pensieri, anche perché il luogo in
cui si trova Colton è lo stesso già descritto nel
primo e nel terzo capitolo, e non volevo diventare ripetitiva. In
compenso ho voluto farvi un regalino di Natale anticipato. Una
descrizione rapida dei tre prescelti rimasti. Ovviamente ancora non
sappiamo i loro nomi e da quali paesi ed epoche arrivano, ma ci
tenevo a darvi un piccolo assaggio di loro, quel che basta per
presentarveli, starà a voi decidere l'impressione che vi
hanno fatto.
Ah un'altra cosa. Come avrete notato, il capitolo è tutto
impostato dal punto di vista di Colton. Per questo non ho inserito i
nomi di Preston e Giovanna, ma li ho sostituiti con cowboy e contadina.
Voi sapete i loro nomi, ma Colton no. E dato che il capitolo
è raccontato dal suo punto di vista, mi è
sembrato corretto raccontarlo in questo modo.
Un grazie speciale a koan_abyss e alessandroago_94 per le bellissime
recensioni che mi hanno lasciato per il capitolo precedente. Spero che
apprezzerete anche questo, e sono curiosa di sapere cosa ne pensate!
Un bacio a chiunque leggerà questo capitolo, a chi segue la
storia, e soprattutto a chi mi lascerà una recensione! Alla
prossima!
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Capitolo 5 *** Kira Radenich ***
CAPITOLO
5. KIRA RADENICH
“A volte sono le
persone che nessuno immaginava che possano fare certe cose, quelle
che fanno cose che nessuno può immaginare.”
(The
Imitation Game)
Non
aveva mai fatto a pugni in vita sua.
Non aveva mai iniziato
una rissa, né aveva usato la forza per difendere
sé stessa o gli
altri, e bastava conoscerla un minimo per saperlo. Lei si arrabbiava,
urlava internamente, si sfogava, ma non faceva a pugni, mai.
Aveva
sempre risposto ad un'aggressione fisica o verbale con delle parole,
ma nella maggior parte dei casi si limitava a ricorrere al silenzio
non per codardia o per paura, ma perché si ritrovava quasi
sempre ad
arrivare alla conclusione che chi aveva davanti non meritasse
nient'altro.
Eppure.. eppure quella volta fu diverso.
Le
era già capitato parecchie volte che qualcuno la ferisse, la
insultasse, le facesse venire voglia di reagire, ma aveva sempre
taciuto e represso i suoi istinti con la stessa forza che usavano i
Vulcaniani(1) per reprimere le emozioni.
Era stata zitta
quando i professori a scuola le avevano dato della stupida basandosi
esclusivamente sul suo rendimento scolastico, era stata zitta quando
le coetanee, tra le quali anche delle amiche, l'avevano umiliata
pubblicamente, era stata zitta quando anche la sua famiglia sembrava
vergognarsi di lei.
Ma tutti avevano un limite, e il suo era
stato oltrepassato da anni ormai, eppure non era mai arrivata alle
mani. Non con qualcuno più grande di lei, un uomo
soprattutto, un
poliziotto, che ad un simile gesto avrebbe potuto benissimo
risponderle con maggiore cattiveria, o arrestarla. Non era nemmeno
certa di esserne capace. Di poter fare una cosa del genere. E la
parte più incredibile era che.. non ne era affatto pentita.
Neanche
un po'. Anzi. Altre emozioni sentiva dentro di sé. Emozioni
tutt'altro che spiacevoli. Soddisfazione.
Gratificazione.
Vittoria. L'unica
cosa di cui
era pentita era di non avergliene dati altri, di pugni.
E poi
perché mai avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Gli stava bene.
Quel
tizio era la personificazione umana di tutto ciò che
disprezza in
una persona. Quel tizio rappresentava ogni individuo che aveva
incontrato nel corso della sua vita e l'aveva fatta arrabbiare per
qualche ragione. Ad un tratto arrivò a chiedersi come avesse
fatto a
resistere tanto a lungo. Come avesse fatto a restare per
così tanto
tempo civile con una persona del genere.
Avrebbe gongolato
ancora per un po', se non avesse sentito un leggero fastidio al naso.
Si guardò intorno, e tutti erano messi come lei. Tutti
avevano le
mani al naso cercando di capire a cosa quel fastidio fosse dovuto,
tranne il poliziotto, che aveva tirato fuori un fazzoletto per
pulirsi il sangue, mentre si rialzava.
Nello suo sguardo, Kira
riuscì a leggere tutta l'ira che stava provando, ma invece
che
spaventarsi, era quasi divertita.
Pensa di farmi
paura questo stronzo facendo l'espressione alla DeNiro? Ha una tale
faccia da pirla. Non riuscirebbe a spaventare neanche un cucciolo.
Il poliziotto stava per
dire qualcosa, ma venne interrotto da un'altra voce, che si
avvicinava al gruppo.
“Ma che è successo? Sono stato via
cinque minuti!” esclamò Henrich, allargando le
braccia.
“Questa psicopatica
mi ha dato un pugno! A me! Un agente del Dip..”
Il cowboy
sbuffò esasperato.
“Ti prego, taci! Abbiamo capito sei uno
sbirro, ma anche se nessuno te lo sta dicendo, sappi che ci siamo
tutti rotti il cazzo di sentirtelo dire. Ogni volta che hai aperto
bocca, hai detto stronzate. E se proprio vogliamo dirla tutta, la
ragazzina ha fatto più che bene. Posso assicurarti che io
non ci
sarei andato così leggero.”
Colton si arrabbiò
ulteriormente, ma non proferì parola. Si sedette e volse lo
sguardo
altrove.
“Avete finito?” chiese Henrich a braccia
incrociate, come se avesse a che fare con dei bambini.
Nessuno
parlò, mentre qualcuno annuì.
“So che è difficile andare
d'accordo all'inizio, sarebbe stato strano il contrario. Ma come
potete vedere..” e indicò tutti e sei che si
tenevano le mani sul
naso “se uno di voi si fa male, si ripercuote su tutti gli
altri.”
“Nel senso..”
“Nel
senso che voi tutti siete legati l'uno all'altro. Magari adesso vi
odiate, vi disprezzate, non vi comprendete, ma non potete cambiare
questo fatto. D'ora in avanti, se uno di voi si fa del male fisico,
di qualsiasi tipo, tutti gli altri sentiranno parte di quel dolore.
Mi spiego meglio. Se uno di voi si rompe una gamba, gli altri
sentiranno un sesto del dolore dell'infortunato. Potranno camminare,
muovere la gamba che l'altro si è rotto, ma sentiranno il
dolore.
Quindi se siete abbastanza furbi, e sono certo che lo siete, non
proverete mai più ferirvi. Sarebbe come ferire voi
stessi.”
“Ma è una cazzo di
condanna.” borbottò Walker.
“C'è il risvolto della
medaglia. Se uno di voi è debole, mentre gli altri forti e
riposati,
possono ricaricare il primo dividendo la loro energia. Può
essere
una condanna o un aiuto. Dipende dalla situazione.”
“Tu non avrai un solo
grammo della mia energia, sappilo.” sibilò a denti
stretti Colton
a Kira.
“E chi la vuole la tua cazzo di energia? Io no di
certo.” rispose lei, ricambiando lo sguardo d'odio.
Henrich li ignorò,
come il resto del gruppo.
“E se uno di noi morisse?
Morirebbero anche gli altri?” chiese Giovanna.
In quel
momento lo sguardo di Henrich si incupì. L'Henrich che
avevano
conosciuto, quello gentile e solare, sparì, e rimase solo un
Henrich
quasi depresso, triste, come se sopra di sé avesse una
nuvola nera
che non lo abbandonava mai. Tutti si preoccuparono per lui, persino
Colton e Kira smisero di bisticciare per guardarlo.
“No. Se
uno di voi morisse, gli altri sopravviverebbero. Ma a che
prezzo..”
sospirò come per trovare la voce, per poi deglutire
“vivrete, ma
con un enorme peso dentro di voi. Come se qualcuno vi avesse
strappato un pezzo della vostra anima. La vostra vita non
sarà mai
più la stessa. Mai.” concluse con voce grave.
Ora sembrava
che il nuvolone avesse avvolto tutti. Un senso di angoscia
riempì la
stanza. E poi disagio. Tristezza. Ansia.
Henrich se ne accorse
poco dopo, e dopo un finto colpo di tosse, tornò ad essere
l'uomo
che avevano conosciuto, con sorrisi e gentilezze, per rasserenare gli
animi.
“Ma io sono sicuro che sarete pronti. Domani
inizieremo a lavorare sulle vostre nuove capacità. Per oggi
credo
che sia sufficiente.”
“Abbiamo dormito per giorni. Pensi
davvero che siamo stanchi?”
“Forse non lo siete, ma dovete
assimilare molte informazioni e soprattutto, dovete conoscervi
meglio. Anche se foste preparatissimi nelle esercitazioni, se non
siete uniti come gruppo, non andrete da nessuna parte. Il legame che
si è instaurato tra di voi vi danneggerà se non
sarete uniti. Se lo
sarete, vi salverà. Anche perché non è
ancora completo.”
“Cosa significa che
non è completo?”
“Funziona già nel
piano fisico. Come vi ho già spiegato, se uno di voi si
ferisce
fisicamente, gli altri lo sentono sula propria pelle. Ma solo sul
piano fisico. Manca quello mentale.”
“Aspetta aspetta..”
fece Kira in tono nervoso “mi stai dicendo che sapranno
quello che
penso? Tipo professor X(2)?”
“Io non ho la minima
idea di chi sia questo professor X, ma puoi stare tranquilla. Nessuno
saprà quello che pensi. E' più generica la cosa.
Se uno di voi
soffre dentro, anche gli altri soffrono, in maniera minore.
Può
essere un cuore spezzato dovuto ad una delusione romantica,
può
essere il tradimento di un amico che vi ha ferito, un lutto,
qualsiasi dolore non fisico, mentre se uno di voi è
particolarmente
felice per un fatto, gli altri proveranno parte di questa
felicità.
Ma è un tipo di legame che ancora non esiste. Esiste solo il
legame
fisico, perché non è dipeso da voi. E' dovuto al
vostro corpo, che
è entrato in connessione con quello degli altri, e voi non
potete
fare niente al riguardo. Questo legame sarà diverso. Questo
legame
dipende esclusivamente da voi. E' il legame delle vostre anime, e non
nascerà se non sarete uniti.”
Henrich scandì bene le
parole per essere certo che tutti capissero l'importanza di quello
che stava dicendo, per poi andarsene in camera sua per lasciarli
soli.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Da quando Henrich aveva
abbandonato la stanza lasciandoli nuovamente soli, i sei viaggiatori
del tempo avevano ricominciato ad interagire tra loro, e con il luogo
che li circondava.
Mentre Giovanna e Walker ispezionavano ogni
oggetto facendo espressioni sempre più sorprese, Colton e
quella
specie di nobile se ne stavano sul divano a parlare delle loro
esperienze in guerra.
Il taciturno se ne stava sulla poltrona
completamente perso nei suoi pensieri, quasi a suo agio con
sé
stesso. Kira provò a sorridergli timidamente quando vide i
suoi
occhi su di lei. Lui non ricambiò, ma lei lesse nel suo
sguardo una
sorta di.. Ammirazione?
Stanca di quel ridicolo siparietto che
durava da troppo per i suoi gusti, Kira si alzò per andare
verso
l'unica persona lì dentro che le interessava davvero
conoscere più
a fondo.
Bussò delicatamente un paio di volte sulla porta
della stanza in cui era andato Henrich, e non appena sentì
avanti,
entrò con sospetto.
“Vieni pure.” fece
Henrich, alzandosi per chiudere
la porta dietro di lei.
Kira si ritrovò in una stanza spoglia. Un
vecchio letto, una finestra impolverata, un armadio, un tappetto, una
scrivania, una sedia e una piccola lampadina, che avrebbe dovuto dare
luce all'intera stanza ma in realtà ne illuminava solo una
piccola
parte. Non c'era altro.
“Non avete fatto di nuovo a pugni,
vero?”
“Non ancora. Ma non posso
garantire nulla in futuro.”
Henrich sorrise, poi dopo un sospiro
“c'è qualcosa
che volevi sapere?”
“Ci sono tante cose che vorrei
sapere.”
“Lo so. Lo capisco, ma penso che
per oggi sia
abbastanza. E poi non sarebbe giusto dire certe cose a te, e tenere
all'oscuro gli altri. Domani vi parlerò più
dettagliatamente delle
vostre cap..”
Smise di parlare quando vide Kira scuotere
la
testa.
“Non mi riferivo a questo. Parlavo di te.”
Henrich la guardò sorpreso.
“Di me?”
“Sai
più di quanto vuoi farci credere. Tutte le cose che hai
detto e
fatto. Il legame. Il microchip che traduce istantaneamente quello che
diciamo. Non puoi conoscere tutte queste cose, se non ci sei
passato.”
Henrich continuò a guardarla,
non sapendo cosa
dire.
“Non siamo i primi. Ci sono stati altri sei, vero?
Altri sei di altri tempi e luoghi, con gli stessi poteri acquisiti,
gli stessi obbiettivi, gli stessi problemi iniziali di
comunicazione.”
“Cosa te lo fa credere?”
Kira fece un piccolo sorriso, come se
dentro di sé non
aspettasse altro di poter rispondere a quella domanda.
“Il
fatto che tu sei uno di loro. Uno dei primi sei.”
Henrich si mise una mano davanti alla bocca
come
indeciso su come reagire a quella situazione, ma poi prese la sedia e
si avvicinò a Kira, che era seduta sul letto.
“Al diavolo,
sono troppo vecchio per mentire su queste cose.”
Kira sgranò gli occhi.
“Allora.. allora è
vero? Cioè ovvio che è vero, io lo
sapevo.” balbettò la
ragazza.
Henrich sghignazzò, ma poi tornò serio.
“Quando l'hai capito?”
“Dei sospetti li ho avuti fin
dall'inizio, ma la
conferma l'ho avuta quando hai risposto alla domanda sul legame in
caso di morte di uno di noi. In ogni parola che hai detto si leggeva
il dolore che provavi. Un dolore del genere poteva significare solo
una cosa. E cioè che tu ci sei passato.. quindi significa
che
qualcuno del tuo gruppo..”
Henrich annuì pesantemente con
la testa.
“Mi.. mi dispiace.”
Questa volta fu l'uomo a scuotere la testa.
“No.
E' a me che dispiace. Noi.. noi sei avremmo dovuto essere gli unici.
Dovevano essere noi a distruggerli definitivamente, ma abbiamo
fallito. Abbiamo fallito perché siamo stati stupidi e
perché li
abbiamo sottovalutati e ora, a causa nostra, a causa mia, sta a voi
rimediare ai nostri errori.” fece Henrich a fatica, con gli
occhi
lucidi.
Kira mise una mano sulla sua spalla con l'intento di
consolarlo, anche se nel farlo appariva chiaramente a disagio, come
se non fosse da lei consolare gli altri o toccarli.
La ragazza
era seriamente tentata di chiedergli cosa ne era stato degli altri,
ma pensò che non fosse il momento, che Henrich non era
pronto e lei
non voleva ferirlo ulteriormente.
“E quindi.. tu di che
luogo e tempo sei?”
“Berlino, Germania. Ma non ero là
quando è successo.” spiegò brevemente
Henrich, alzando la manica
sinistra della maglia mostrando alla ragazza dei numeri neri
marchiati sulla pelle.
“Mi stai dicendo che quando sei
svenuto e hai ottenuto le capacità di viaggiare nel
tempo..”
“Ero ad Auschwitz. In fila per la
camera a gas. Non mi
avevano ritenuto idoneo. Sarei morto quel giorno se non fossi stato
scelto. A volte mi chiedo se sarebbe stato meglio.”
“Aspetta.. sei svenuto e nessuno
se ne è accorto? Chi
è venuto a prenderti se tu sei venuto a prendere noi? E una
volta
che te ne sei andato i nazisti non si sono accorti di nulla? E
po..”
Henrich si alzò e mise le
braccia davanti a Kira,
facendole segno di fermarsi.
“Calma, ragazza! Direi che per
oggi hai saputo anche troppo. Domani, prima delle esercitazioni
dirò
tutto a te e agli altri, è giusto che sia onesto anche con
loro. Ora
dovresti occuparti di altro, tipo interagire con gli altri. Dopotutto
siete voi i sei ora, ed è tutto quello che conta.”
“D'accordo..” fece la
ragazza dirigendosi verso la
porta “..ma con lo sbirro non voglio avere niente a che
fare.”
“Troverete una connessione, basta
sapere dove
cercare.”
Kira fece una smorfia e subito dopo
aprì la porta, ma
poi si voltò di nuovo verso Henrich.
“Un'ultima cosa.”
“Sì?”
“Perché vuoi a tutti i
costi che iniziano domani? Non
è per il legame, vero? E neanche perché pensi che
non riusciamo a
reggere altre informazioni.”
Henrich sorrise.
“Può darsi.”
“E allora..
perché?”
“Non posso fare questa cosa da
solo. Ho bisogno
dell'aiuto di qualcun altro per istruirvi. Qualcuno che ora non
può
esserci.”
“Chi?”
“Frank.”
Note dal
testo:
1) I Vulcaniani sono una specie aliena della serie Star Trek. Reprimono
le emozioni con la logica e la ragione per mantenere il controllo e
impedire che le emozioni guidino le loro azioni.
2) Il Professor X è Charles Xavier della saga X-Men, mutante
con capacità mentali tra le quali leggere nella mente delle
altre persone-
PS: il nome del personaggio, Kira, vuole essere un tributo a
Kira Nerys, personaggio femminile forte ed indipendente di Deep Space
Nine che personalmente adoro.
Note dell'autrice:
Dopo tantissimo tempo, eccomi di ritorno. Mi scuso nuovamente con voi.
Che dire di questo capitolo? Avrete notato che di Kira non ho messo la
nazionalità, ma potete arrivarci da soli, soprattutto per
via del cognome, non è difficile.
Di questo personaggio ho intenzionalmente detto molto poco, proprio
perché come tutti gli altri personaggi, voglio renderli come
le cipolle. Uno strato alla volta. Di lei sappiamo solo che
è una Nerd, ecco il perché delle citazioni a Star
Trek e a X-Men, entrambe saghe tipicamente nerd.
Ma da voi voglio sapere cosa ne pensate della rivelazione di Henrich.
Lo avevate capito? O è stata una sorpresa? Susu ditemi, sono
curiosa. E' forse uno dei personaggi più misteriosi, e
c'è ancora molto da scoprire su di lui.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, e come al solito ci tengo a
ringraziare chiunque leggerà e commenterà!
Alla prossima!
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Capitolo 6 *** Pierre Dumont ***
CAPITOLO
6. PIERRE DUMONT
“Noi serial killer
siamo i vostri figli, i vostri mariti, siamo ovunque.”
Ted
Bundy
Bianco.
Il bianco è l'inizio. L'inizio della vita, l'inizio
dell'universo,
l'inizio del tutto. Il bianco deve stare al centro. E' quello il suo
posto. I colori scuri? Lontani, lontani. Blu, nero, marrone. Lontani.
Lontani dal bianco. Non possono stare vicino al bianco. Vicino al
bianco i colori chiari. Il giallo. Il giallo va bene vicino al
bianco. Ma quale giallo? Solo se è chiaro. Il giallo scuro
lontano,
lontano dal bianco. E' l'ordine delle cose. Devo mantenere il
controllo. L'ordine delle cose. Dipende da me. L'ordine. Bianco. Il
bianco con il chiaro, il nero è scuro. E' l'ordine delle
cose. Il
bianco ora è vicino ai colori chiari. Il nero ai colori
scuri.
Ottimo. Ordine delle co--
“Ti
abbiamo chiamato, ma non hai sentito. Potresti venire?”
Pierre
non si voltò neanche, tanto la voce di Henrich era
inconfondibile.
Preferiva ammirare il suo lavoro.
Ho
sentito. Ho sentito. Sento tutto. Ogni cosa. Gli alimenti della tua
cucina erano nel caos. Io non- non posso vivere nel caos. Ordine.
Vide
Henrich guardare il risultato del suo disturbo ossessivo –
compulsivo, ma contrariamente a quanto si aspettava, l'uomo era
tutt'altro che sorpreso. Doveva sapere. Ma certo che sapeva. In fondo
lui era lì a causa sua. A causa dei parametri che lui aveva
inserito
nel computer. Deve averli studiati tutti al microscopio.
“Ti
senti meglio?”
...Sì.
Molto.
“DOC*?
Lieve o grave?” domandò Henrich, mentre mi
indicò con una mano
dove sarei dovuto andare.
“E' tutta una questione di punti
di vista.”
Henrich
annuì. Si fece bastare quella risposta. Tanto meglio,
perché Pierre
non avrebbe aggiunto altro sull'argomento, almeno per il momento.
Arrivarono nel salone principale della casa dove gli altri li
stavano aspettando. Tutti stavano guardando Pierre. Curiosi? Forse.
Forse si chiedevano perché si era messo a riordinare gli
alimenti in
cucina mentre loro lo stavano aspettando.
Pierre li
invidiava. Nel profondo. Si struggeva dentro di sé. Avrebbe
dato
qualsiasi cosa per essere come loro. Un arto. Un pezzo delle sue
memorie. Sarebbe stato disposto a vendere anche la sua stessa anima,
se solo ne avesse avuta una. Tutto per avere ciò che gli
mancava e
che mai avrebbe avuto nel corso della sua vita. Qualcosa che loro
avevano. Qualcosa che magari ritenevano scontato e banale, ma che per
lui era il mondo. L'obbiettivo di una vita. Un obbiettivo
irraggiungibile. Qualcosa che gli consentiva di avere una vita
normale e dignitosa. E lui quella, non l'aveva mai avuta. No, lui
aveva ricevuto delle brutte carte dal destino con cui avrebbe dovuto
convivere fino al giorno della sua morte.
Notò
il poliziotto che lo guardava in modo strano, diverso dagli altri. Lo
guardava con sospetto, e una piccola dose di rabbia, come se Pierre
fosse un sospettato da interrogare. Come se lo conoscesse nel
profondo.
Come se conoscesse
ogni
atto disumano che ho compiuto.
“Ok.
Vi ho convocati qui perché prima di iniziare
l'addestramento, devo
presentarvi una.. ehm.. persona. Il suo aspetto potrà
spaventarvi, e
magari a qualcuno di voi non sembrerà nemmeno umano, ma
dovete
ricordare e tenere a mente che è qui per aiutarci, e non
è sua
intenzione farvi del male..” borbottò Henrich,
anche se nella sua
voce si leggeva una sorta di ansia.
Il poliziotto continuava a
guardarlo. Ancora più sospettoso. Pierre ricambiò
lo sguardo con la
sua solita espressione spenta e disinteressata, cosa che fece
insospettire ancora di più il detective.
“Vieni pure.”
mormorò Henrich ad una porta aperta alla sua destra dalla
quale
uscì..
Pierre non riuscì a vederlo. Era il più lontano,
e i
cinque davanti a lui si alzarono di colpo, forse sorpresi,
bloccandogli la visuale.
Mise
le mani sul tavolo facendo forza sulle braccia per alzarsi, e si
avvicinò per vedere cosa potesse sconvolgerli tanto. Mentre
si
avvicinava, tutto quello che riusciva a sentire era il rumore delle
sue scarpe che facevano scricchiolare il pavimento legnoso. In tutta
la casa non volava una mosca.
Appena prima di raggiungere gli
altri, vide qualcuno di loro cadere all'indietro, svenuto. Lui era
appena dietro e dato che i suoi riflessi, contrariamente a quanto si
potesse pensare, erano ottimi, riuscì ad afferrarlo prima
che
cadesse a terra.
O meglio.. afferrarla. Era una donna. La
contadina. Pierre non fece in tempo a chiedersi cosa fare che subito
Henrich gli andò incontro, prendendo la donna con
delicatezza. Gli
altri quattro erano ancora pietrificati, immobili, come statue di
certa.
Deve esserci qualcosa di grosso là dietro se non si
sono nemmeno accorti dello svenimento di Giovanna. Oppure molto
più
semplicemente sono più stupidi di quanto pensassi.
“Penso
io a lei. Tu vai.”
Pierre
non se lo fece dire due volte. Si avvicinò, cercando di
passare tra
il cowboy e lo sbirro, e.. si trovò davanti...
.. la cosa
migliore che avesse visto in tutta la sua vita.
Sentì i suoi
occhi accendersi di interesse, una cosa che capitava alquanto
raramente a causa della grave forma di apatia che lo affliggeva dalla
nascita, perciò Pierre sapeva che doveva godersi quel
momento fino a
quando fosse durato, per tutto il tempo che gli era concesso, e
l'avrebbe fatto.
Era come se il resto del mondo fosse
scomparso. Nessun mobile, nessun'altra persona nella stanza. Solo
lui.. e la perfezione.
Un cadavere umano vivente in tutto e
per tutto, grazie agli elementi cibernetici che avvolgevano
metà del
suo corpo. Cavi elettrici, circuiti, tutti collegati e perfettamente
funzionanti per rendere possibile l'impossibile. Ridare la vita alla
morte. Neanche nei suoi sogni e desideri più profondi,
Pierre
avrebbe pensato ad una cosa del genere. Immaginato ad una cosa del
genere. Che fosse possibile. Che funzionasse.
Cosa è
esattamente quel mostro?!?
Che stia lontano da me!
Non
sono sopravvissuto tanto a lungo per assistere a questo!
Oltretutto
cos'è questo odore?
Orrore!
Tante voci, una dopo
l'altra, che nascondevano preoccupazione e paura, e che Pierre
sentiva come fossero dei sussurri in lontananza, come se lui fosse
lontano.
Il suo nome è Frank. E' qui per
aiutarci.
Henrich. La sua voce invece era calma e dolce,
come quella di un nonno che assiste dolcemente il nipote o almeno,
così sembrava. Non che a Pierre fosse mai capitato di
sentire
qualcuno parlargli così dolcemente. E poi..
Frank?
Frank
non era il nome di quell'uomo che gli era apparso in sogno? Quel
sogno surreale che faceva da ponte tra la sua vita passata e
ciò che
stava vivendo ora?
Pierre lo guardò con attenzione, e non
gli ci volle molto per rispondersi, anche se una parte di lui non ne
aveva bisogno.
Era
Frank. Era lo stesso Frank apparso in sogno. A lui e a tutti gli
altri. Certo, quello apparso in sogno aveva un aspetto diverso,
più
umano, più standard, più comune, una scelta fatta
per non
spaventarli, probabilmente, ma era lui. I tratti del visto, gli
occhi, persino l'altezza corrispondeva al Frank del sogno che Pierre
rammentava.
Straordinario. Assolutamente straordinario.
Henrich deve avere i dati dell'uomo che un tempo abitava questo corpo
nel computer, e con essi deve aver creato una proiezione olografica
da trasmettere nei nostri sogni. Come avrà fatto a
trasmetterla? Ci
ha collegati ad una macchina? Ha i nostri dati nel computer, che
avesse fatto tutto lì? Oppure delle onde sonore? O un altro
oggetto
usato per compiere l'opera? Ma soprattutto.. chi era quest'uomo? Come
ci è finito il suo cadavere in quel modo? Perché
era qui?
Ancora
quelle voci. Sentiva gli altri parlare. Sentì qualcuno
nominare
Frank. Evidentemente devono aver capito anche loro che era lo stesso
uomo del sogno. Oppure è stato Henrich a dirglielo. O Pierre
stesso
preso dall'euforia e l'interesse per la creatura che gli stava
davanti lo aveva detto ad alta voce senza accorgersene.
Una
volta sparita la paura, il gruppo si avvicinò con cautela, mentre
Giovanna era ancora svenuta, sdraiata sul divano lì vicino.
“Sembra
un Borg*!”
“Ma
è pelle umana? Oppure è un altro materiale? Se
è così, è
incredibilmente realistico.”
Pierre
sospirò, appena prima di dire l'ovvio.
“E' pelle umana. E'
un cadavere che vive grazie ai circuiti cibernetici intorno al suo
corpo.” dichiarò, non riuscendo a reprimere del
tutto l'interesse
che stava provando in quel momento.
Interesse che qualcuno non
vide di buon occhio.
“.. e tu come fai a saperlo?”
borbottò Colton, a denti stretti.
Nella stanza si sentì come
un vento gelido. Il resto del gruppo si fece da parte, permettendo a
Pierre e Colton di stare uno davanti all'altro, a qualche metro di
distanza. Se fossero stati all'aperto, tutto avrebbe fatto pensare ad
un duello in pieno stile Far West.
“Non ho capito la
domanda.”
.. e invece
l'avevo capita anche troppo bene, ma non volevo rispondere. Potevo
immaginare cosa sarebbe successo se avessi risposto. Avrei potuto
mentire, ma non ne ero capace. Non ero mai stato in grado di farlo.
Sono un autentico genio, ho un quoziente intellettivo superiore alla
media, ma mentire? No.
“Ma
davvero? Allora proviamo con questa. Come mai tutto questo
entusiasmo? E' un cadavere. E' disgustoso. E' la cosa più
malata che
abbia mai visto. E tu sembri qua..”
Più malata
che tu abbia mai visto? Aspetta di conoscere me. I miei impulsi. Le
mie azioni. Gli atti di cui mi sono macchiato. Il mio mondo. Non hai.
Ancora. Visto. Niente.
A
quel punto intervenne Henrich.
“Forse dovremmo prenderci una
pausa, non credo che questo sia il mom..”
Pierre
lo bloccò con un gesto.
No. Non intervenire. Rimandare
questa conversazione? A quando? E perché? Attendere
peggiorerebbe
solo le cose. No. Ho una possibilità. La
possibilità di vedere come
reagiscono le persone normali a me. A noi. Pochissimi nel mio mondo
hanno avuto questa occasione. Io ce l'ho.
“So che è un
cadavere. Lo so perché.. perché mi è
già capitato di trovarmi
vicino ad uno di essi.”
Silenzio.
“Sei
un becchino?” chiese qualcuno del gruppo, ma Pierre non
riuscì a
capire chi fosse.
Sentiva il sangue al cervello
pulsare.
Henrich si decise ad intervenire di nuovo, e questa
volta non fu fermato.
“Colton,
la questione è molto più complicata di quanto
sembra. Pierre..
Pierre viene da un mondo molto diverso dal vostro. Tutti voi, anzi
noi, proveniamo da luoghi ed epoche diverse quindi può
sembrare che
tutti veniamo da mondi diversi, ma il suo, il suo è di
tutt'altro
tipo. Qualcosa che nessuno di voi non può neanche
lontanamente
immaginare. Lui viene.. dal 3207.”
Tutti iniziarono a farsi
più interessati, e Colton divenne più curioso che
arrabbiato. Anche
Giovanna, che si era appena risvegliata, sembrava molto attenta.
“Ma
è impossibile! Indossa degli abiti stile 1950! Come fa a
vivere in
un futuro tanto remoto, indossando degli abiti così
antichi?”
chiese Kira.
Pierre non rispose. Avrebbe voluto spiegare la
sua situazione, ma gli era difficile. Come faceva a spiegare una cosa
del genere? E anche se avesse tentato, non sarebbe stato abbastanza
soddisfacente, perché lui poteva raccontare solo una parte
della
storia. La parte che aveva vissuto. Il suo punto di vista. Non aveva
altro modo di esporla, e mai si era posto il problema su come fare in
una situazione del genere semplicemente perché non pensava
si
sarebbe mai trovato in una situazione del genere.
“Questo..
questo perché Pierre non vive nel mondo libero. Lui vive nel
reclusorio francese. Giusto?”
Pierre annuì.
“Reclusorio?
E' sinonimo di prigione. Sei in prigione?”
“Non
la prigione che conoscete voi. Dal 2754 verrà abolita in
tutto il
mondo la pena di morte, e al suo posto, il governo di ogni paese ha
creato e costruito i reclusori. In pratica, quando viene commesso un
reato violento, come un'aggressione o un omicidio, oppure viene
diagnosticato a qualcuno una malattia mentale potenzialmente
pericolosa, questa persona viene trasportata, tramite dei tubi, in
una grande zona all'interno del paese in cui si trova, in cui
è
condannato a stare per il resto della vita. Si tratta di zone molto
grandi ed estese in cui un tempo sorgevano molte città
libere, con
alberi, animali, insomma, una parte del territorio normale, dal quale
però, è impossibile uscire. I tubi con i quali il
prigioniero ci
arriva, quando non devono funzionare, si ritirano in un box fatto di
un materiale impossibile da scalfire. In pratica, chi finisce
lì può
comprarsi una casa, sposarsi, avere figli, fare gran parte delle cose
che poteva fare anche nel mondo libero, ma si corrono grandi rischi.
Queste zone sono interamente abitate da malati mentali e assassini.
Non c'è una sola persona sana di mente o non pericolosa che
viva lì.
Sono molto pochi quelli che ci arrivano dai tubi, la maggior parte
nascono lì da genitori che ci vivevano già da
tempo, e ci passano
la vita senza avere idea di come sia il mondo esterno. Pierre
è uno
di questi. Lui ci è nato, senza aver mai visto il mondo
esterno.”
Un
grande silenzio calò nella stanza. Pierre si guardava i
piedi.
Henrich continuò.
“Per questo indossano abiti stile 1950.
Sono molto indietro rispetto al loro tempo perché devono
costruirsi
tutto da soli, dall'inizio. Quando i reclusori sono nati, non c'era
nulla. Solo foresta, e vecchi materiali usati. Si sono costruiti
case, scuole, edifici. Sembra a tutti gli effetti una città
normale
un po' datata. Sono le persone che ci abitano il problema.”
“E
se.. se un bambino nato in questo posto poi non diventa
pericoloso?”
chiese ingenuamente Giovanna.
Questa volta fu Pierre a
rispondere.
“Non succede. Non è mai successo e non
succederà mai. Quasi tutti ereditano le malattie mentali dai
genitori alla nascita, altri le sviluppano con traumi nel corso
dell'infanzia, cosa che capita molto spesso considerando la
popolazione, ma la maggior parte dei bambini muoiono prima di
impazzire del tutto o capire cosa sta succedendo.”
Le
parole di Pierre erano fredde e distaccate, come se descrivesse
qualcosa che non lo riguardava, come se descrivesse qualcosa di cui
non gli importava nulla. Come uno scienziato parlerebbe del dolore
che i suoi esperimenti causano alle cavie.
“E tu che
problema hai?” chiese Kira.
“Disturbo ossessivo –
compulsivo in forma lieve, apatia in forma grave, necrofilia e
cannibalismo.” fece Pierre, con la sua solita voce
distaccata.
Vide il gelo e il terrore sugli occhi dei suoi
compagni. Ma come biasimarli?
La
maggior parte di loro erano combattuti, combattuti tra la tristezza e
la compassione che provavano per lui e per quello che aveva passato e
l'orrore che provavano nell'immaginare che lui avesse fatto delle
cose tanto orribili.
In verità il cannibalismo è stata
più una necessità che un problema vero e proprio.
Ci ricorro solo
se sono affamato e non ho altro cibo o se devo sbarazzarmi di un
cadavere per via della puzza. Sono le prime tre il problema. Tuttavia
ho commesso cannibalismo, quindi era meglio dirlo fin da subito
piuttosto che nasconderlo. La carne umana non è
così terribile,
somiglia al manzo e al pollo, ma c'è di meglio da mangiare.
Si
sentì un forte rumore.
Era Colton.
Fece qualche passo
verso Pierre pieno di rabbia, anche se quest'ultimo non sapeva se la
rabbia era dovuta al poliziotto o all'uomo.
Sembrava
volesse colpirlo, ma poi ci ripensò. Deve aver ricordato
ciò che
era successo quando Kira lo aveva ferito e quello che Henrich aveva detto,
quindi preferì uscire di scena. Ritornò in una
delle camere in cui
avevano dormito, e sbatté violentemente la porta dietro di
sé.
“Andrà meglio.” fece Henrich, mettendo
una mano
sulla spalla sinistra di Pierre, come un padre amorevole fa con il
figlio.
“Come facevi a conoscere così
dettagliatamente..”
cominciò Pierre.
Henrich deglutì, come se rispondere gli
costasse più fatica di quanto volesse ammettere.
“Uno dei
cinque del mio gruppo.. proveniva dal tuo stesso mondo. Reclusorio
polacco, anno 3012. Lui era.. il miglior amico che abbia mai
avuto.”
Note
(*):
1) DOC = diminutivo di Disturbo Ossessivo - Compulsivo
2) Borg = esseri cibernetici incapaci di pensare autonomamente e
singolarmente della saga Star Trek
Eccomi
tornata! Questo capitolo ha richiesto più del previsto,
anche perché mi sono documentata un minimo sul DOC prima di
iniziare a scriverlo. Anzi, se qualcuno di voi, che magari studia
psicologia e ne sa più di me, nota delle inesattezze in
questo ambito, che me lo dica pure.
Per quanto riguarda il Background di Pierre, l'idea proveniva da un
vecchio mio racconto ambientato proprio in queste prigioni del futuro
abitate da malati mentali e serial killer. Avevo scritto solo qualche
capitolo e poi ho lasciato perdere, pensando di usare l'idea per
un'altra storia. Una storia come questa.
Come al solito ringrazio ogni anima pia che leggerà il
capitolo fino alla fine e ancora di più che si
prenderà del tempo per lasciarmi una piccola recensione.
Vi è piaciuto? Non vi è piaciuto? Che ne pensate
di Pierre? Fatemi sapere, e noi ci vediamo con il prossimo capitolo! A
presto!
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Capitolo 7 *** James Bowman ***
CAPITOLO
7 JAMES BOWMAN
“Se
un piatto o un
bicchiere cadono a terra senti un rumore fragoroso. Lo stesso succede
se una finestra sbatte, se si rompe la gamba di un tavolo o se un
quadro si stacca dalla parete. Ma il cuore, quando si spezza, lo fa
in assoluto silenzio.”
Cecelia
Ahern
“Non mi direte che
state
ancora dormendo, Ammiraglio Bowman. Siete sempre il solito.”
mormorò una voce famigliare, così dolce da
sembrare una dolce
melodia.
James sorrise d'istinto, mentre imperterrito
persisteva nel tenere gli occhi chiusi, come se volesse convincere
quella voce che stesse effettivamente dormendo. Non ci stava
riuscendo molto bene, lo sapeva lui per primo, ma non
importava.
Sentì delle labbra posarsi sulla sua guancia, poi
sul collo. Baci dolci e profondi, piccoli ma anche grandi, corti ma
anche lunghi.
“Un povero uomo non può mai riposare in pace.
Nemmeno dopo essere stato promosso.” borbottò
James, allungando la
mano verso la sua uniforme da Ammiraglio senza riuscirci, dato che
stava dall'altra parte della grande stanza, e solo se si fosse alzato
l'avrebbe raggiunta.
“Soprattutto dopo essere stato
promosso.”
Un altro bacio, sulla fronte questa volta, più
lungo degli altri.
“Tuttavia, avete ragione. E' il vostro
giorno. La vostra promozione. La vostra festa. Se desiderate riposare
in totale solitudine rimuginando sul vostro nuovo ruolo, posso
togliere il disturbo..”
James
bloccò quella voce
con un bacio sulle labbra, breve ma disperato.
“Non è
quello che ho detto.” mormorò, non appena si
staccò.
Attese
come se si aspettasse qualcosa, ma quando quel qualcosa non avvenne,
parlò di nuovo.
“E non ho nemmeno detto di smetterla di
baciarmi.”
Sentì
un viso affondare
nel suo collo.
“Lo supponevo..”
“Avete
smesso per
torturarmi, vero? Siete senza cuore.”
Un
altro bacio sul
petto.
“James..”
“James?
James mi senti?”
L'uomo
si svegliò come da
uno stato di trance, trovandosi davanti Henrich.
“Oh mi
dispiace, preferite essere chiamato Ammiraglio Bowman? Nel vostro
ambiente si danno tutti del voi quindi posso..”
Qui
non siamo nel mio
ambiente.
“Non
occorre.
James va bene.”
“Mi
sembravi un po' sovrappensiero.. va tutto bene?”
“Sì.
Io.. io stavo ricordando un momento del mio passato e temo di essermi
lasciato trasportare..”
“Perché non vai a riposare
e a liberare la mente? I tuoi compagni sono già nelle loro
stanze.”
Riposare?
Come? Perché?
Ma non avremmo dovuto iniziare oggi? Qui passano le giornate e non
succede nulla. In tutta la mia vita non mi era mai successo di
sprecare le giornate in questo modo.
Nemmeno ai miei figli
permetto di sprecare così il loro tempo. Quando erano
piccoli,
almeno. Ora sono grandi e non posso più occuparmi delle loro
vite
come prima, ma penso di avergli insegnato che il tempo è
prezioso e
non lo si può sprecare a dormire.
“Lo
so che avevo detto che avremmo iniziato oggi, ma la presentazione di
Frank e il segreto svelato di Pierre credo siano abbastanza per un
giorno.” mormorò Henrich, come se gli avesse letto
nel pensiero,
poi aggiunse “e io ho bisogno che siate al massimo delle
forze e
della concentrazione per il prossimo passo.”
James
scrutò Henrich a lungo, come se volesse capirne di
più solo
guardandolo.
“E
qual'è il prossimo passo?”
“I
viaggi nel tempo.”
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
Un
altro bacio, l'ennesimo di quella giornata, sulla guancia.
“Non
riuscite proprio a smettere. Non che mi dispiaccia..”
“E'
colpa vostra, Ammiraglio. Non riesco a tenere le mani a posto quando
ci siete voi.”
Si
scambiarono un lungo sguardo particolarmente intenso. Entrambi
sapevano che quello sguardo significava il tornare seri dopo aver
giocato e scherzato per tutta la giornata come facevano da bambini.
Entrambi sapevano che quello sguardo significava un altro addio,
sempre più doloroso del precedente. Un addio che nessuno dei
due
avrebbe mai voluto fare, ma che era necessario. Per tornare alle loro
vite, alle loro famiglie, ai loro figli, quella parte della loro vita
che non avrebbe mai dovuto venire a conoscenza di quegli incontri,
sempre nello stesso capanno, sempre con le stesse modalità,
incontri
troppo brevi e troppo rari, ma a cui non riuscivano proprio a
rinunciare.
“Promettimi..
promettimi che ci vedremo ancora prima della tua partenza.”
James
annuì tristemente.
“Non sarei mai partito senza darti un
adeguato saluto. Lo sai.”
Si
tennero stretti per un tempo che parve infinito, questa volta con
addosso i loro vestiti. Poi, un bacio sulle labbra. Dolce e
passionale al tempo stesso.
“Ti amo, James.”
Erano
ventitré anni che era incastrato in quella relazione
extraconiugale
che non riusciva ad interrompere, che gli causava dolore, rabbia,
frustrazione, malinconia e tensione, eppure, ogni volta che sentiva
quel “ti amo” da quella voce, tutto appariva di
poca importanza,
tutto spariva in un lampo, tutto gli faceva capire che.. ne valeva la
pena.
“Ti amo anch'io.”
-
- - - - - - -
- - - - - - - - - - - - - - - - - - -
“Domani..
domani viaggeremo nel tempo?”
“Non proprio.. Domani
acquisirete ciò che serve per viaggiare nel
tempo.” fece Henrich,
accomodandosi sul divano.
Ma perché non può mai parlare
chiaramente? Perché sempre questi misteri? Non abbiamo il
diritto di
sapere? Si aspetta davvero che io riposi tranquillo e sereno dopo
quanto mi ha detto? Calma, James, calma. Ricorda che sei un nobile.
Un Ammiraglio. Non puoi permetterti di perdere il tuo portamento. Sii
superiore. Sii diplomatico. Come sei sempre stato.
“Signor
Henrich, una maggiore chiarezza sarebbe altamente
apprezzata.”
Henrich guardò l'Ammiraglio e scoppiò
a ridere. James non ne fu molto contento.
Come potete
mancarmi di rispetto in codesto modo? Ma lo sapete chi sono io?
“Sei
sicuro di stare bene? Mi sembri molto.. rigido.”
..
rigido?
“Non che il poliziotto tuo amico non lo sia, ma
almeno lui, come posso dire, lo è per carattere. Tu invece..
sembra
quasi ti senta costretto ad essere così rigido. E'
perché sei
nobile e i tuoi genitori ti hanno educato così,
immagino.”
Se
state cercando di farmi arrabbiare, ci state riuscendo.
“I
miei genitori mi hanno dato i migliori insegnamenti
possibili.”
borbottò James facendo di tutto per essere diplomatico,
fallendo
miseramente dato che la sua rabbia sarebbe stata visibile a
chiunque.
“Ecco, vedi? E' questo quello di cui sto parlando.
Un altro avrebbe risposto con altrettanta insolenza, avrebbe lasciato
parlare la rabbia, ma tu no. Tu ti sforzi di essere gentile e
composto anche quando sei palesemente arrabbiato.”
James
guardò l'uomo più confuso di prima.
“Se vuoi un mio
consiglio, e so per certo che non lo vuoi ma te lo darò lo
stesso,
dovresti lasciarti andare. Qui puoi farlo. Ti sentirai meglio. Fallo
quando ti sentirai pronto.”
Henrich
si alzò, per poi dirigersi nella sua stanza. James avrebbe
voluto
fermarlo per sapere a cosa si riferisse, sia su quel discorso del
lasciarsi andare sia per quanto riguardava i viaggi nel tempo, ma
tutta quella discussione lo aveva lasciato.. senza parole? Si
ritrovava incapace di dire o pensare a qualsiasi cosa.
“Comunque
se ci tieni tanto a saperlo, per viaggiare nel tempo occorre
conoscere ogni luogo e ogni tempo, altrimenti non potrete
focalizzarvi su di essi e non potrete viaggiare nel tempo e nello
spazio. Questo faremo domani. Vedrete migliaia e migliaia di immagini
che voi non ricorderete se vorrete descriverle, ma verranno
immagazzinate nel vostro cervello così da permettervi di
viaggiare
dove vorrete. Buona serata.” concluse l'uomo, chiudendo la
porta
della sua camera una volta entrato.
- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -
“Bentornato,
Ammiraglio Bowman. Vostra moglie desidera parlarvi. Vi attende in
soggiorno.” fece il maggiordomo, poi continuò
“sistemo il vostro
cavallo nella scuderia, signore?”
James annuì
brevemente, e mentre il maggiordomo usciva per adempiere ai suoi
doveri, Bowman andò verso il soggiorno. Al suo interno vi
trovò sua
moglie Mary, suo figlio Jonathan, sua figlia Helen e suo genero
Henry.
L'Ammiraglio ci rimase di sasso. Doveva essere successo
qualcosa di importante, se la sua intera famiglia era riunita per
parlargli. E perché George gli aveva detto che solo Mary lo
aspettava? Probabilmente era stata sua moglie a ordinarglielo.
Prima
che potesse reagire e dire qualcosa, Mary si alzò, gli prese
la mano
e lo avvicinò, per chiedergli dolcemente di sedersi.
“Lo
abbiamo appena saputo. Mi dispiace tanto, caro.”
James guardò
la moglie ancora più confuso.
“Mi dispiace che vi dispiace.
Ma di cosa vi dispiace?”
Aveva
intenzionalmente fatto un gioco di parole per vedere le reazioni
della sua famiglia, ma il silenzio era glaciale. Non era uno scherzo.
Doveva essere successo qualcosa di molto brutto.
“Ma come
padre.. non l'avete saputo?” chiese Helen.
“Saputo cosa?
Io sono appena tornato da una missione navale. Non mi sono fermato a
Londra per aggiornarmi su quanto è successo in mia assenza,
pensavo
solo a tornare il prima possibile senza dover utilizzare una
carrozza. Ditemelo voi cosa è successo, deve trattarsi di
qualcosa
di importante.”
“Thomas
Butler.. il vostro amico d'infanzia, che incontravate ogni tanto per
cacciare insieme.. è morto. Quattro giorni fa. Polmonite. Mi
dispiace caro, era un vostro amico da tanto tempo.”
Niente.
Non sentiva assolutamente niente. L'unico che l'avesse mai conosciuto
davvero, l'unico che avesse mai amato e da cui era realmente amato,
l'unico che lo capiva davvero, che aveva sempre creduto in lui quando
neanche lui credeva in sé stesso, era morto. Niente
più baci sul
collo, niente più incontri segreti nel capanno quando alle
mogli
avevano detto che sarebbero andati a caccia, niente più
carezze. Non
avrebbe più rivisto i suoi occhi dolci e i suoi capelli
ricci e
dorati come il sole. Tutto era finito. In un attimo.
Quando
veniva ferito in battaglia sentiva un dolore fisico, che a poco a
poco scompariva come la cicatrice che si faceva più piccola,
ma
ora.. il vuoto. Tutto quello che riusciva a percepire era il cuore,
che prima batteva, rotto in un angolo inerme. La sua anima, spezzata.
E quella luce negli occhi che aveva e che rispendeva quando era con
lui, sparì senza tornare mai più, lasciando
spazio solo ad una
tristezza che non l'avrebbe mai abbandonato.
James sospirò,
preparandosi a dire l'ultima grande bugia per nascondere un amore che
era riuscito a spezzarlo.
“Sì, lui era... era un buon
amico.”
Note:
Eccomi di nuovo, dopo più di due mesi! Mi dispiace per il
ritardo, ma purtroppo ho avuto dei seri problemi di connessione
Internet che hanno ritardato tutte le mie attività, tra cui
questo racconto. E' un miracolo che sia riuscita a scriverlo entro
dicembre, ma ci tenevo a pubblicarlo prima dell'anno nuovo dato che
questo era l'ultimo personaggio da "analizzare" mentre dal prossimo
capitolo inizia la vera storia, quindi mi sembrava carino concludere la
presentazione dei personaggi nel 2017 e iniziare il 2018 con la storia.
Quando ho pensato al racconto, volevo mettere assolutamente un
personaggio LGBT, e mentre tracciavo il carattere dei personaggi, ho
pensato che il più adatto fosse proprio il nobile del 1700.
E come regalino di Natale (e anche per farmi perdonare del ritardo) ho
voluto incentrare il capitolo sul perché James è
"un'anima spezzata". Ad inizio storia, Henrich ha ribadito
più volte che il computer ha scelto loro perché
erano "anime spezzate". Degli altri ancora non sappiamo
perché sono "anime spezzate" (o meglio voi non lo sapete
mentre io sì LOL), ma James sì. Tranquilli, anche
per gli altri si scoprirà perché sono tormentati,
prima o poi..
Come al solito ringrazio chiunque leggerà il capitolo e
grazie a tutti quelli che prenderanno 5 minuti per lasciarmi un
commentino! Alla prossima e Buon Natale!
|
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Capitolo 8 *** Sogni Spezzati ***
CAPITOLO
8. SOGNI SPEZZATI
“L'ignoranza
conduce alla paura, la paura conduce all'odio, l'odio conduce alla
violenza.”
Averroè
“Splendide,
splendide notizie!” esclamò Henrich tutto
gongolante,
avvicinandosi al gruppo che se ne stava ad un tavolo intento a fare
colazione.
“Possiamo finalmente lasciare questa topaia e
andarcene?” fece con sufficienza Preston, accendendosi un
sigaro.
“Meglio! Siete pronti per un primo ufficiale viaggio
nel tempo. Da soli.”
“Ma
l'abbiamo già fatto.” disse timidamente Giovanna.
“Non
proprio. Quello che avete fatto è stato teletrasportavi da
soli in
un altro luogo e tempo per poi ritornare qui nello stesso modo un
istante dopo. Questa volta lo farete insieme. Andrete nello stesso
luogo e tempo, e non tornerete subito indietro. Resterete lì
per
almeno un'ora. Il vostro corpo deve abituarsi alla vostra presenza
nel passato o nel futuro e non può farlo se continuate con
una
toccata e fuga.”
“E' tutto molto interessante, ma non
potevamo farlo oggi pomeriggio? Io ho sonno.”
borbottò Kira,
mangiando un biscotto mal volentieri.
“Io
non vedo l'ora. Insomma, lo so che siamo tutti stanchi e che vogliamo
tornare alle nostre vite e al tempo a cui apparteniamo, ma possiamo
esplorare un luogo e un tempo diverso dal nostro grazie ad una
capacità che abbiamo solo noi. E' come scoprire qualcosa di
inesplorato. Non è fantastico?” esclamò
Giovanna, beccandosi
un'occhiataccia da James.
“Sì, è davvero fantastico.
Lasciamo un posto di merda per visitare un altro posto di merda per
poi ritornare alle nostre vite di merda.” fece Kira in tono
annoiato.
“Ma non sai neanche dove e quando andrete.”
disse Henrich, confuso.
“Beh ho uno spoiler per te, caro
professore. Ogni luogo e ogni tempo è una merda.”
insistette
Kira.
James si avvicinò a Colton.
“Mi sono perso. Perché
usare gli escrementi come aggettivo? Qual'è il suo
significato?”
Colton
sghignazzò, ma gli rispose comunque.
“Schifo. Soggetto più
la parola merda usato come aggettivo significa che il suddetto
soggetto fa schifo.”
“Schifo?”
“Sì,
schifo. Orribile. Disgustoso. Il contrario di bello. Un po' come lei,
del resto.”
Il
poliziotto si aspettava di vedere uno sguardo ferito sula ragazza, ma
non trovò altro che irritazione.
“Non mi sembri proprio
nella posizione di giudicare l'aspetto fisico degli altri,
Harrington. Soprattutto considerando la faccia di merda che ti
ritrovi. Dio, persino Frank è più attraente di te
ed è composto da
pezzi di cadavere.”
Tutti si voltarono verso Frank che se ne
stava in un angolo del grande salone quasi in stand by, e il quale ci
mise un po' per capire cosa si stessero dicendo.
“Grazie,
Kira. Apprezzo molto i tuoi complimenti, sono assai graditi.”
fece
Frank in tono metallico, facendo un piccolo inchino alla
ragazza.
Calò un imbarazzante silenzio, fino a quando James
non si sporse verso Kira.
“Vi piace davvero molto usare
questo aggettivo. Interessante.”
“Vuoi
sapere cosa non è affatto interessante, sottospecie di
ammiraglio o
qualunque grado tu abbia? Questa sensazione di disagio che mi viene
ogni volta che mi dai del voi. Dacci un taglio.”
“Un
taglio a che cosa?” chiese James, sempre più
confuso.
“Avete
finito di mangiare? Bene, perché nel frattempo ho deciso
dove
andrete. Madrid, 1970. Vi teletrasporterete nella Puerta del Sol. E'
una delle più importanti, vedrete vi piacerà.
Potrete passarvi
l'ora come volete, passeggiando o stando in un bar a mangiare
qualcos'altro se la colazione non vi è bastata. Nelle vostre
stanze
troverete un po' di soldi e un abito da indossare adatto all'epoca.
Ricordate, l'importante è passare inosservati.”
fece Henrich,
tutto soddisfatto.
Tutti
si alzarono per fare quello che aveva chiesto, ma Kira non si
mosse.
“Andiamo, io ho ventiquattro anni, sono nata negli
anni novanta, che è solo vent'anni dopo. Gli abiti che
indosso vanno
più che bene, direi.”
Henrich
la squadrò dall'alto in basso.
“Di certo non passeresti per
pazza, ma neanche inosservata. Meglio andare sul sicuro.”
fece
Henrich, facendole pat pat sulle spalle.
Sbuffando, Kira
ritornò in camera sua, dove trovò un abito intero
color azzurro. Un
abito molto più femminile di quelli che era abituata a
portare.
“Ma
che cazzo?!? Una gonna?? Questa sarà l'ora più
lunga della mia
vita.”
Esasperata,
si accinse ad indossare quell'abito, che oltretutto stringeva pure ai
fianchi.
“Che vita di merda.”
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“La vita è
meravigliosa.” sorrise una più giovane Kira,
tenendo un peluche di
Pikachu tra le braccia con orgoglio.
“Tutto per un peluche?”
scherzò un ragazzo accanto a lei, un giovanotto alto e con
la pelle
più scura, incrociando le braccia.
“Sei solo invidioso
perché avresti voluto vincerlo tu, ma ho vinto io e ora lui
viene a
casa con me. Lo chiamerò Nobby e io e lui passeremo tante
belle
serate insieme. E ci faremo delle maratone infinite di
Friends.”
“Ma.. ma
Friends è una cosa nostra!” fece il ragazzo,
fingendosi
geloso.
“Non temere, se farai il bravo io e Nobby ti
permetteremo di essere presente, ma solo se farai il bravo.”
I due
scoppiarono a ridere, e poi il ragazzo mise una maso sulla testa del
peluche, come per accarezzarlo.
“Sembra che non abbia
scelta, non è vero Nobby?”
In quel
momento arrivò una pimpante e allegra ragazza dai capelli
rossi e
lentiggini, che stava bevendo un succo alla frutta.
“Oddio
ragazzi, Kamal sta per esibirsi. E questa bibita è fuori dal
mondo!
E... e tu hai un peluche di Pikachu? Com'è possibile?!?
Dimmi dove
l'hai preso!”
“Chiedilo
al tuo ragazzo. L'ho stracciato e grazie alla mia eccezionale
bravura, ora sarà mio per sempre.”
La rossa guardò il
ragazzo con finta delusione.
“Jozef!”
“L'ho
fatta vincere.” fece spallucce lui.
Kira lo colpì
amichevolmente ad un braccio.
“Ok, non avevo chances.”
“Sul serio
Jozef, da quando il tuo quartiere è diventato
così figo? Io non
voglio più andare a casa!” fece Kira.
“Ehy, è sempre
stato figo! Solo che non ve ne siete mai rese conto! Devo spiegarvi
sempre tutto io?!? Ah, le donne.”
“Stronzate.
Siamo amici da quando avevamo sei anni. Ti assicuro che me lo
ricorderei se fosse stato sempre così.”
continuò
Kira.
“Confermo.” aggiunse la rossa.
Lei e Jozef si
avviarono nella piazza principale per assistere alla musica di Kamal,
un albanese vicino di casa di Jozef che suonava magicamente la
chitarra. Kira però non si mosse, così i due
amici si voltarono
verso di lei.
“Non vieni?”
“Non.. non
volete stare da soli?”
Kira amava passare del tempo con
Jozef e Valeriya, erano i suoi migliori amici, li conosceva da
sempre, erano le due persone più importanti della sua vita,
ma ora
loro erano una coppia. Kira era felice per loro, aveva fatto anche da
cupido per aiutarli a mettersi insieme quando avevano iniziato a
capire di provare qualcosa di più dell'amicizia l'uno per
l'altra,
ma a volte quando uscivano tutti insieme si sentiva come un terzo
incomodo. Loro non l'avevano mai fatta sentire così, ma lei
sotto
sotto pensava che avrebbero voluto avere più privacy. E
all'ennesimo
tentativo da parte sua di dargliela, loro reagirono come tutte le
altre volte.
“E ora chi è a dire stronzate?” fece
Jozef,
mentre Valerija le andò incontro, per trascinarla nella
folla
insieme a loro.
Camminarono una decina di minuti, e arrivarono
in una piccola piazzetta dove Kamal aveva già iniziato a
deliziare
le persone con la sua musica allegra e spensierata.
Jozef
prese Valeriya per una mano e si buttò con lei nella folla a
ballare, ma non prima di sussurrare a Kira di non muoversi
perché il
prossimo ballo l'avrebbe fatto con lei.
Kira sorrise e guardò
i suoi migliori amici ballare. Quando la musica si fece più
lenta e
romantica, smise di guardarli per dargli quella benedetta privacy che
meritavano, e iniziò a guardarsi intorno, incuriosita.
C'erano
davvero tante persone quella sera, giovani, anziani, famiglie,
bambini. Russi come lei e Valeriya e immigrati o comunque persone
appartenenti ad altre entie, come Jozef. Poi vide due poliziotti che
pattugliavano la zona. Se ne stavano negli angoli, e avevano gli
occhi fissi sulla folla come se li stessero studiando. Ogni tanto
guardavano l'orologio, e tenevano il manganello dietro la schiena.
Entrambi erano pallidissimi, e biondi. Perché c'erano ben
due
poliziotti ad una normale festicciola in un piccolo quartiere di
immigrati? Kira pensò che fossero lì per
controllare che nessuno si
facesse male, considerando quanta gente era presente, e smise di
pensarci per tornare alla musica.
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“Tutti
pronti?” fece Henrich, non appena vide il gruppo in piedi e
vicino
pronti per il teletrasporto.
Tutti
gettarono un'occhiata di disappunto a James.
“Cos'è
quello?” chiese Henrich, indicando il parrucchino che James
portava
ancora in testa.
“E'.. è la mia parrucca.” fece
l'ammiraglio, come se dovesse dire l'ovvio.
“E perché è
sulla tua testa?”
“E'
sempre sulla mia testa.”
“Se ti fai vedere con quella
specie di gelato in testa nella Spagna degli anni settanta, ti
sbattono in manicomio prima che tu possa dire parrucca.” fece
Kira.
“Quindi.. quindi devo rimuoverlo?”
“Direi
di sì.” fece Henrich.
James
lo fece, ma molto mal volentieri.
“Credo.. credo tu abbia
anche la camicia al contrario.” fece Giovanna allungando la
mano,
ma James si allontanò da lei disgustato.
“Ho capito, ma non
toccarmi.”
Giovanna
non ci rimase benissimo, ma non aggiunse altro. James andò
un
momento in camera sua, poi ritornò subito con il gruppo,
senza
parrucchino e con la camicia a posto.
“Sembri più giovane
senza quell'orribile parrucca.” fece Colton, indicando i
capelli
corti e scuri dell'ammiraglio, poi si rivolse a Kira “tu
invece
sembreresti quasi una donna con quell'abito, se solo non avessi quei
disgustosi peli nelle gambe.”
Kira
guardò il poliziotto con sufficienza come se quel commento
non le
facesse nessun effetto, ma non rispose.
“Ah e se ne
approfittaste per socializzare e legare sarebbe fantastico, visto che
dovete creare tra voi un legame emotivo oltre che fisico.”
puntualizzò Henrich, beccandosi un paio di occhiatacce.
Si
misero tutti in posizione, uno fianco all'altro, mentalmente
focalizzarono la loro meta. Spagna. Madrid. Puerta del Sol, 1970.
Spagna. Madrid. Puerta del Sol, 1970. Spag-
Kira iniziò a
sentire il suo corpo come sovraccaricarsi di energia ed ebbe come la
sensazione di muoversi, nonostante fosse ferma. Chiuse gli occhi.
Percepì le stelle, lo spazio, la galassia. E poi
percepì con i
piedi la pietra. Aprì gli occhi, e si ritrovò
nella maestosa Puerta
del Sol, con il resto del gruppo.
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“Allora?”
esclamò Valeriya, buttandosi a pesce su Kira per
abbracciarla da
dietro.
“Allora cosa?” sorrise Kira, ricambiando
l'abbraccio. Jozef camminava vicino a loro, e guardava le amiche
sorridendo.
“Come cosa? Tra un mese è il tuo compleanno! Si
compiono diciassette anni una volta sola. Hai già pensato a
cosa
fare?”
“Penso che
mi butterò su Star Trek. Non sarebbe male passare il giorno
del mio
compleanno con Spock.”
“Sai che
Spock e Star Trek è la Bibbia anche per noi, ma è
il tuo
compleanno! Dovresti organizzare anche una grande festa! Magari
invitare i tuoi compagni di classe!”
“Non mi
piacciono. E io non piaccio a loro. Rimango con Spock.”
“A te e a
Spock dispiacerebbe avere un po' di compagnia?” fece Valeriya.
“E
qualcuno deve pur badare a Nobby! Tu sarai troppo concentrata su Star
Trek e lui si sentirebbe offeso. Non va bene.” aggiunse
Jozef.
Kira sorrise dolcemente.
“Volete davvero
venire? A me farebbe piacere, ma in questo momento casa mia
è un
casino.”
“Non ci
interessa di casa tua. Ci interessa di te. E ti sbagli se pensi che
ti permetteremo di passare il giorno del tuo compleanno da
sola.”
fece la rossa, abbracciandola di nuovo.
Kira
abbracciò i due amici forte, stringendoli a sé.
Loro ricambiarono.
“Che
carina che sei Kira, la nostra principessa Disney.” fece
Valeriya.
“Cosa? Principessa Disney?”
“Oh
andiamo, sotto sotto sai anche tu di esserlo. Sei sempre troppo
buona. Troppo gentile. Vedi sempre del buono negli altri. Noi ti
invidiamo un po' sai, vorremmo avere la tua fiducia
nell'umanità.”
continuò la rossa.
“Onestamente non credo di es..”
Ma Kira non
riuscì a terminare la frase. Si sentì una grande
botta, un rumore
assordante, provenire da dietro di loro, più precisamente
dalla
piazzetta in cui si era esibito Kamal.
I tre si
voltarono di scatto spaventati.
“Cos'era? Un petardo?”
ipotizzò Kira.
“I petardi
non fanno quel rumore.” fece l'amica.
“Allora cos'era?”
fece Jozef, che forse era il più preoccupato del trio.
Sentirono
qualcuno parlare in lontananza in modo fiero. Era tedesco, non
capirono quasi nulla. A Kira parse di sentir nominare Hitler. Poi
qualcuno, anche se non sapeva se si trattava dello stesso che aveva
parlato in tedesco, urlò “A Morte!”.
Si sentì
un'altra botta. Più forte della precedente. La folla
iniziò ad
andare nel panico, e a correre avanti e indietro, in ogni direzione.
Si sentirono grida, urla di terrore, disperazione e paura provenienti
da persone di ogni età, come se ogni grido rappresentasse
ogni
persona che si trovava lì.
Kira cercò con lo sguardo uno
dei due poliziotti che aveva visto prima. Erano poliziotti. Erano
lì
per proteggerli. Loro avrebbero saputo cosa fare. Riuscì a
riconoscerne uno, il primo dei due che aveva visto, ma sentì
il
cuore fermarsi e il sangue nelle vene gelarsi quando vide che nelle
mani teneva un grosso fucile. Un fucile che di certo non danno alla
polizia. Un fucile con cui iniziò a sparare sulla folla
terrorizzata.
La musica
che si era sentita per tutta la serata tacque, per fare spazio
all'unica colonna sonora di quel momento, le urla della folla, sempre
più disperate, spaventate. E l'unico rumore che si sentiva
diverso
da quelle urla erano altri botti, altri spari. Che sapevano di morte.
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Nessuno
aveva voglia di fare una passeggiata, così si ritrovarono in
una
tavola calda, e ordinarono qualcosa. Se ne stettero lì,
seduti ad un
tavolo, intorno a loro un silenzio imbarazzante, rotto solo dalle
persone intorno a loro.
“Ancora mezzora.” fece Preston,
dando un'occhiata all'orologio della tavola calda.
“E' molto
accogliente questo posto. E Madrid. E' così maestosa. Non
avevo mai
visto una città così grande.” fece
Giovanna, l'unica entusiasta a
quanto pare.
“Lieto che tu ti diverta tanto, bellezza.”
commentò Preston.
Colton
accavallò le gambe, e facendolo fece cadere la sua pistola
d'ordinanza. La raccolse prontamente e la tenne sotto il tavolo per
nasconderla, intento su dove metterla con quei pantaloni blu strani e
attillati che doveva portare, ma James se ne accorse.
“Henrich
vi ha restituito la pistola?” chiese.
“Anche a te.” fece
Colton, notando che sotto la giacca l'ammiraglio teneva una bella
pistola d'epoca, ricca di particolari e molto maestosa “Posso
vederla?”
James
la prese per mostrargliela meglio, ma continuò a tenerla.
Non si
fidava abbastanza da dargliela, e Colton lo capì, lui
avrebbe fatto
lo stesso.
Kira
gli gettò un'occhiata, e quando vide entrambe le pistole, i
suoi
occhi si infuocarono dalla rabbia. Pierre se ne accorse, e la
guardò
preoccupato.
“Cosa cazzo state facendo?” sbottò, con
un
tono talmente alto che alcuni dei presenti si voltarono verso il loro
tavolo.
Il
gruppo la guardò con gli occhi fuori dalle orbite, tutti
tranne
Pierre.
“Abbassa la voce.” fece Colton digrignando i
detti, cercando inutilmente di reprimere la rabbia.
“Sono
delle pistole quelle?!?”
“Fai
silenzio o ci scambieranno per dei pregiudicati!”
“E per
fare in modo che non accada, voi avete avuto la brillante idea di
tirare fuori le vostre cazzo di pistole in un luogo pubblico!”
James
mise la sua dentro la giacca immediatamente, spaventato sia dalla
reazione della ragazza sia dagli sguardi sbigottiti degli spagnoli
intorno a loro che stavano ascoltando tutto.
Colton invece era
tutt'altro che spaventato. Era furioso. Con Kira. Più del
solito.
“Ma si può sapere che razza di problema mentale
hai?!?”
“Metti
subito via quella cazzo di pistola o giuro su Dio, te la infilo su
per il culo.” sbottò Kira, ignorando totalmente il
commento del
poliziotto.
Per
Colton fu la goccia che fece traboccare il vaso.
“Ti farò
pentire amaramente di quel-”
La
frase di Colton venne interrotta da un forte rumore provenire dalla
strada, che agli altri clienti della tavola calda risultò
indifferente. Doveva trattarsi di qualcosa a cui erano abituati.
Una
botta? Un tonfo? Un rumore assordante ed insistente.
Kira
iniziò ad agitarsi più di prima.
Iniziò a tremare quasi
involontariamente, le sue gambe si fecero rigide e le sue mani
premettero sulle sue orecchie, tutto per interrompere quel rumore.
Iniziò a dondolarsi nella sedia, facendo qualche verso con
la bocca,
un misto tra pianto e paura, ma il rumore non cessava e i suoi occhi
erano ancora puntati su quella maledetta pistola, e gli sguardi
allibiti del gruppo che la guardavano sconvolti.
“Rilassati,
è solo l'orologio.” fece Preston, mantenendo il
suo solito tono
annoiato.
Orologio?
Pistola d'ordinanza? Orologio? No, botta. Pistola d'ordinanza? No,
arma. Botta e arma. Arma e botta. Spari e botte. Botte e spari.
Percepì quasi un urlo in lontananza, ma nel suo inconscio
sapeva che
non era reale. Che se lo stava immaginando lei.
E poi il tempo
intorno a loro si fermò. L'orologio non suonava
più, il resto delle
persone ferme come statue di cera, tutto era come bloccato tranne
loro. In pausa.
“Che diavolo succede adesso?” fece
Preston.
“Sono stato io.” fece Pierre riferendosi
chiaramente al tempo che si era fermato. Si incamminò verso
Kira
dandole una rapida occhiata “Andiamo via. Adesso.”
Ogni
membro del gruppo annuì e, uno ad uno, sparì
dalla tavola calda,
teletrasportandosi altrove. Rimasero solo Kira e Pierre.
“Ehy..
va tutto bene.” fece Pierre cercando di sembrare il
più empatico
possibile, fallendo miseramente “adesso ce ne andiamo da
qui”
aggiunse.
Si
preparò per il teletrasporto, e all'ultimo momento mise
delicatamente una mano sul braccio sinistro della ragazza, per
teletrasportare anche lei con lui. Date le sue condizioni,
optò che
non era il caso che si teletrasportasse da sola, sempre se ci fosse
riuscita, e non poteva neanche afferrarla con forza, perché
qualunque trauma del suo passato stesse affrontando, doveva avere a
che fare con la violenza, così la toccò il
più delicatamente
possibile, quanto bastava per portarla via con lui. Lontana da quel
luogo, e da qualunque incubo o demone del suo passato stesse
affrontando.
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E'
più difficile di quanto si creda descrivere a parole una
situazione
in cui sai di poter morire da un momento all'altro, soprattutto
quando è inaspettato. Soprattutto quando esci per
divertirti, per
passare una serata spensierata con amici per dimenticare i problemi
di tutti i giorni, problemi che ad un tratto diventano così
piccoli,
così insignificanti. E poi arriva quel momento, quell'esatto
momento
in cui realizzi che sono più alte le possibilità
che tu muoia, quel
momento in cui la tua sopravvivenza è legata esclusivamente
alla
fortuna e mentre cerchi disperatamente un modo per salvarti, ti
ritrovi circondato da persone come te, persone che urlano, dalla
paura e dal terrore, tutte con la stessa consapevolezza, tutte con
quegli sguardi disperati consapevoli di essere finiti nel posto
sbagliato al momento sbagliato, consapevoli che la maggior parte di
loro non avranno la possibilità di tornare nelle loro case
ad
abbracciare le loro famiglie, consapevoli che molti di loro quel
luogo e quelle urla di dolore e disperazione, saranno le ultime cose
che vedranno e sentiranno, e che le stesse strade in cui avevano
ballato felicemente quella sera si sporcheranno del loro sangue.
Gli
spari erano iniziati, il terrore si stava diffondendo e le prime
vittime caddero inermi per terra prive di vita e grondanti di sangue,
ed erano passati solo pochi secondi dai primi spari, eppure a Kira
sembrava essere passata un'eternità.
Faceva
ancora fatica a credere a quello che stava succedendo, al fatto che
fosse reale, l'unica cosa di cui era consapevole era che non voleva
morire, e che aveva paura. Sentiva una fitta allo stomaco e il suo
sangue pulsare sotto la pelle. Lei, Jozef e Valeriya iniziarono a
correre, ma quando sentirono degli spari anche nella direzione in cui
stavano andando, si bloccarono e si guardarono disperatamente intorno
alla ricerca di un nascondiglio, ma trovarono solo cadaveri.
“Sono
morti. Oddio, sono morti! Sono morti davvero!”
iniziò ad urlare
Valeriya, da sempre la più emotiva.
Kira
scosse l'amica per farla riprendere. Avrebbe voluto dire qualcosa ad
esempio “noi non siamo ancora morti” e
“mi servi tu se vogliamo
sopravvivere”, ma si limitò a scuoterla. Non
riuscì ad aggiungere
altro, perché nonostante cercasse di negarlo, Kira stava
urlando
esattamente come Valeriya, ma internamente. Urla di terrore.
Jozef
afferrò le due ragazze per le braccia e le spinse in un
vicolo lì
vicino, per poi prepararsi a correre nella stessa direzione in cui
stavano correndo prima, ma questa volta fu Kira ad afferrarlo per un
braccio.
“Dove
diavolo vai?!? Sei impazzito?!?”
Jozef
indicò con la testa un edificio lì vicino,
dall'altra parte della
strada.
“C'è mio fratello lì dentro.. Ha solo
sette anni..
Io non-” fece una pausa, poi aggiunse “devo andare
da lui.”
“Jozef,
no! E' un centro sportivo quello! Un edificio pubblico. Uno di loro
potrebbe entrare e..” balbettò Kira.
Jozef scoppiò in
lacrime, nonostante facesse di tutto per cercare di impedirlo.
“Lo
so.” ammise, lasciando che le lacrime gli attraversassero le
guance
“ma non lascerò che muoia da solo.”
“Jozef..”
lo chiamò Valeriya, singhiozzando “se mi ami
davvero, ti prego, ti
scongiuro, non andare.” disse, cercando di trascinarlo nel
vicolo.
Jozef
si chinò sulla ragazza e la baciò rapidamente,
sapendo che con ogni
probabilità quello sarebbe stato l'ultimo bacio che sarebbe
stato in
grado di darle “ti amo.” le sussurrò non
appena si staccò, poi
pianse di nuovo “ma devo farlo”aggiunse,
staccandosi
definitivamente da entrambe le ragazze e correndo verso l'edificio
per poi entrarci.
Valeriya fece per inseguirlo, ma Kira la
bloccò e la spinse nel vicolo.
“Lasciami! Lasciami io
devo..” fece Valeriya, divincolandosi, per poi calmarsi poco
a
poco.
Quando si calmò definitivamente, Valeriya si
accasciò
al muro, senza smettere di guardare l'edificio. Kira le prese la
mano.
Poi, la cosa peggiore che potesse capitare, è
successa.
BOOOOOM
L'edificio andò in mille pezzi, a
causa di una bomba all'interno probabilmente causata da un kamikaze
che si era fatto esplodere per distruggere la struttura e far saltare
in aria tutte le persone nell'edificio, incluso Jozef.
Non
c'era la minima possibilità che si fosse salvato, ed
entrambe le
ragazze lo sapevano.
Kira urlò internamente, così forte che
se lo avesse fatto con la bocca avrebbe perso la voce, probabilmente.
Delle lacrime silenziose iniziarono a bagnarle il viso, viso che
rimase impassibile, serio, rendendole impossibile manifestare
l'immenso dolore che si sentiva dentro.
Valeriya invece il suo
dolore lo fece uscire come un vulcano che erutta. Iniziò a
correre
verso l'edificio lasciando il nascondiglio, e giunta esattamente a
metà strada, dove alcuni pezzi dell'edificio erano arrivati
a causa
dell'esplosione si inginocchiò quasi cadendo e
urlò disperata. Urlò
forte, così forte che quell'urlo sembrava sentirlo tutto il
pianeta.
Urlò il suo nome, e un lungo e doloroso
“NO” che raccontava
tutto quello che provava per lui.
Kira
corse verso l'amica, ricorrendo a tutte le sue energie per alzarla e
riportarla nel nascondiglio, per toglierla dalla strada. L'amica si
ribellò, ma Kira non volle sentire ragioni. Aveva appena
perso il
suo migliore amico, non avrebbe perso anche la sua migliore amica.
Giunte
quasi al marciapiede, Valeriya si buttò sull'amica,
l'abbracciò
forte, un po' per supporto e un po' per ringraziarla di essere uscita
dal nascondiglio per andarla a riprendere, consapevole che lei da
sola non ce l'avrebbe fatta.
Socchiuse gli occhi, e vide
dall'altra parte della strada, vicino all'edificio ormai distrutto,
uno degli attentatori. Ripeté di nuovo qualcosa in tedesco,
e iniziò
a sparare a delle persone lì vicino. Senza neanche pensarci
due
volte, Valeriya strinse forte l'amica, forzando entrambe a spostarsi
di centottanta gradi. Così facendo, Valeriya si
ritrovò tra l'amica
e il terrorista, facendole da scudo. Quando Kira se ne accorse, era
troppo tardi.
Quattro,
cinque, sei proiettili raggiunsero il corpo di Valeriya. L'ultimo,
quello fatale, alla testa, facendo schizzare il sangue sugli occhiali
di Kira, che vide l'amica morire tra le sue braccia per
salvarla.
Questa volta urlare solo internamente non era
neanche lontanamente sufficiente. Kira urlò, tanto da avere
male
alla gola, mentre poggiava delicatamente il corpo sanguinante e senza
vita della persona che era morta per lei.
Anche
se al solo pensiero di abbandonarla lì per strada come
spazzatura le
provocava disgusto, Kira lo fece. Lo fece perché la sua Val
era
morta per salvarla, e non avrebbe reso vano quel sacrificio. Sarebbe
sopravvissuta. Per lei. E per Jozef.
Iniziò a correre alla
cieca, non sapendo bene dove andare. Sentiva ancora degli spari, e
tutto quello che vedeva era il sangue della sua amica, che era
rimasto sui suoi occhiali e le copriva totalmente la vista, e senza
occhiali non avrebbe visto niente comunque. E non aveva tempo di fare
altro. Poteva solo correre.
Inciampò un paio di volte, e con
le mani capì che si trattava di cadaveri. Con la poca
energia che le
rimase, si rialzò ogni volta e continuò a correre.
Aiutandosi
con il tatto, e con un enorme fortuna che non credeva di avere
soprattutto dopo quanto era successo, riuscì ad infilarsi in
un
vicolo, diverso da quello in cui le aveva trascinate Jozef.
Sempre
con le mani, riuscì a percepire quello che sembrava essere
un bidone
della spazzatura pubblico. Senza neanche pensarci, lo aprì e
ci si
buttò dentro a pesce, e fu un grosso errore.
Insieme a
qualche sacchetto della spazzatura, sul lato destro poggiato
verticalmente su un lato, c'era un coltello affilato rivolto verso
l'alto. Quando Kira entrò nel bidone, il suo viso
finì proprio dove
stava quel coltello, che le provocò, oltre ad un notevole
dolore
fisico, un enorme e permanente taglio sulle labbra, che iniziarono a
sanguinare.
Nonostante il dolore, Kira non emise un suono. Non
poteva. Non ci riusciva. Se ne stette lì, immobile, con
ancora quel
coltello conficcato nelle labbra, rannicchiata come un bambino
piccolo, senza muoversi tenendo le mani sulle orecchie per cercare di
coprire quanto poteva i rumori, mentre fuori udiva ancora le urla,
gli spari e la morte che avevano alimentato quella sera e trasformato
un bel momento nel peggiore degli incubi.
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Quando
Kira e Pierre tornarono nel loro consueto salotto con il
teletrasporto, il resto del gruppo se ne stava lì, seduto
nei
divani, ad aspettarli. Alcuni di loro avevano lo sguardo fisso su
Kira, uno sguardo colmo di rabbia, di irritazione, altri evitavano lo
sguardo della ragazza, un po' delusi e un po' timorosi di averla
intorno.
Kira, per la prima volta davanti al gruppo, si mostrò
imbarazzata.. e dispiaciuta, per quanto era successo.
Gli
animi erano davvero troppo tesi, così intervenne Pierre.
“Poteva..
poteva andar peggio.”
Colton
scoppiò in una finta risata.
“No. Non poteva andare peggio.
Non poteva proprio.”
“Siamo
qui. Siamo tornati. E nessuno di noi ha avuto ripercussioni per
quanto è successo.” insistette Pierre.
“Sì, ma ci
mancava davvero poco.” fece Preston.
Colton si alzò e si
avvicinò a Kira. La guardò dritto negli occhi.
“Vattene.”
“Cosa?”
“Ho
detto. Vattene. Sei fuori.” disse in tono risoluto Colton.
“Non
sei tu a decidere chi se ne va e chi resta.” fece Pierre.
“Vuoi
che facciamo a votazioni, pazzoide? Ottimo.” fece Colton,
avvicinandosi al resto del gruppo “Quanti di voi vogliono che
la
svitata dalle labbra storpie continui a venire in missione con noi
rischiando di mandare a puttane non solo la missione, ma anche le
nostre vite?”
Nessuno
parlò. Preston, Giovanna e James guardarono ovunque tranne
Kira,
dando chiaramente una risposta. Provavano pena per lei, per qualunque
problema mentale avesse, dato che ormai erano tutti convinti che
fosse mentalmente instabile, ma non la volevano intorno. Nessuno la
voleva. Tranne Pierre, che la difendeva a spada tratta.
“Tutto
questo perché ha avuto un attacco di ansia?” fece
Pierre, quasi
sbigottito da quelle reazioni.
“Quella non era ansia! Quello
è essere mentalmente pazzi e avere chiari squilibri alterati
nel
cervello. Dio, ho arrestato assassini con meno problemi
mentali.”
continuò Colton.
“E se ricapitasse? Magari durante una
missione pericolosa? Se per un suo errore ci rimettiamo
tutti?”
aggiunse Preston, poi guardò Kira “mi dispiace per
te tesoro, mi
dispiace davvero, ma non posso rischiare di morire per farti da
babysitter”.
“La verità è che qui tutti abbiamo
un'utilità, qualcosa con cui riuscire a vincere. Io so
sparare e ho
buon intuito dato che sono un detective, James e Preston sanno
combattere. Giovanna ha un ottimo senso dell'orientamento”
fece
Colton “e persino il nostro mostro personale ha dimostrato di
avere qualche utilità grazie al suo quoziente intellettivo
alto.”
aggiunse, indicando Pierre.
Poi si mise davanti a Kira.
“Tu,
invece, sei solo un enorme palla al piede. Gli unici ad accorgersi di
una tua eventuale morte saremmo noi a causa di questo cazzo di
legame. Scommetto che non mancheresti a nessun altro.”
Kira
continuò a guardare Colton, ferita, distrutta per la prima
volta da
qualcosa che lui le aveva detto. Sentì le guance bagnarsi di
lacrime.
Pierre stava per ribattere, e anche James sembrò
voler dire qualcosa per farla sentire meglio dopo le parole di
Colton, ma lei non lo permise a nessuno di loro.
Si focalizzò
su qualcosa. E poi sparì, teletrasportandosi
chissà dove, e
quando.
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Kira
non ebbe idea di quanto tempo passò in quel bidone. Il tempo
era una
di quelle cose difficili da calcolare, dopo quanto successo, e quando
sentì qualcuno aprirlo, sussultò dalla paura e
dal terrore, ancora
vividi nella sua mente e nei suoi ricordi.
“Ehy, ehy
tranquilla. Va tutto bene, siamo qui per aiutarti. E' tutto
finito.”
Due soccorritori entrarono nel bidone per
assicurarsi che stesse bene. Uno di loro le tolse delicatamente quel
coltello che ancora premeva sulle sue labbra, mentre l'altro la prese
in braccio.
“Sei stata molto fortunata. Se quel coltello
fosse stato pochi centimetri più a destra, ti avrebbe
trapassato un
occhio.”
Già..
Fortunata. E' proprio ciò che sono.
Quando uscì dal bidone,
sempre tra le braccia di uno dei soccorritori, sentì la
sirena
dell'ambulanza e dei vigili del fuoco. Quello che le aveva tolto il
coltello le coprì gli occhi, per impedirle di vedere alcuni
dei
cadaveri che erano ancora a terra.
Come se facesse la
differenza, dopo quello che è successo.
La portarono dentro
un'ambulanza, e la visitarono brevemente, considerando i tanti feriti
presenti. Dopo un po' di tempo, vide in lontananza arrivare i suoi
genitori. Avevano gli occhi rossi da quanto piangevano, e corsero
verso di lei abbracciandola forte. Le dissero qualcosa.
“Grazie
al Cielo stai bene.”
“La
mia bambina.”
“Sei
stata così coraggiosa.”
Kira
non disse niente. Si limitò a lasciarsi abbracciare, il suo
sguardo
perso nel vuoto, come se la sua anima non ci fosse più. Come
se
fosse morta quel giorno, insieme ai suoi sogni.
Arrivarono i
primi giornalisti, prontamente cacciati dai vigili del fuoco.
Iniziarono ad elencare il numero dei morti e dei feriti, come se non
fossero altro che numeri.
Poi, vide arrivare la madre di
Valeriya. Vide che parlava con un vigile del fuoco. Poi la donna
scoppiò in lacrime urlando il nome della figlia, mentre
l'uomo
cercava di darle un sostegno morale aiutandola ad alzarsi.
Tutto
apparve sfuocato, lontano, come un sogno antico, come i giorni che
Kira passò in ospedale per alcuni accertamenti.
Quando tornò
a casa, vide sul suo comodino una foto. Una foto che teneva
lì da
sempre, e che quando la vedeva il mattino quando si alzava e la sera
quando andava a letto la faceva sorridere. Una foto di lei, Jozef e
Valeriya da bambini, che giocavano e ridevano, ma questa volta,
quando la guardò, non rise.
La
prese, la guardò un'ultima volta con quello sguardo perso e
vuoto
che non l'avrebbe mai lasciata, e la strappò, buttando
ciò che ne
restava nella spazzatura.
“I
terroristi, i kamikaze, non ci ammazzano soltanto per il gusto di
ammazzarci. Ci ammazzano per piegarci. Per intimidirci, stancarci,
ricattarci. Il loro scopo non è riempire i cimiteri. Non
è
distruggere i nostri grattacieli, le nostri Torri di Pisa, le nostre
Tour Eiffel, le nostre cattedrali. I nostri David di Michelangelo. E'
distruggere la nostra anima, le nostri idee, i nostri sentimenti, i
nostri sogni.”
Oriana
Fallaci
Note:
Ciao! Sì, non sono morta -.-' Lo so, il mio ritardo per
questo capitolo è vergognoso, ma ho avuto problemi di tempo
e anche al Computer. Inoltre, questo capitolo è stato
modificato tantissime volte. All'inizio doveva essere ambientato a
Parigi e doveva essere molto comico e ironico, giusto per darvi un'idea
di quante modifiche ha ricevuto. Una ventina, minimo.
Anche perchè questo capitolo è strettamente
legato a ciò che avverrà d'ora in avanti fino
alla fine del primo e quindi dovevo pensare bene anche ai capitoli
successivi prima di scriverlo. E per scusarmi dell'eccessivo ritardo,
è anche più lungo del solito.
Spero che vi sia piaciuto, nonostante sia tutto tranne allegro. Per
prepararmi a scriverlo, mi sono ascoltata alla nausea "Non mi avete
fatto niente", ma vi prego, siate clementi, non so molto di attentati
terroristici ed è la prima volta che ne scrivo uno in un
racconto. Ho fatto del mio meglio e spero che sia venuto decente.
PS: i personaggi di Jozef e Valeriya sono ispirati a due miei amici,
che fortunatamente stanno benissimo e godono di ottima salute :)
Grazie a tutti quelli che leggeranno il
capitolo e soprattutto
per quelli che lasceranno una recensione, nonostante l'enorme ritardo.
Spero che il prossimo capitolo arrivi prima! Un bacio.
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