Destini in rivolta

di wolfymozart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fame di giustizia, sete di vendetta ***
Capitolo 2: *** L'ultima sera di Carnevale ***
Capitolo 3: *** Una scomoda richiesta ***
Capitolo 4: *** Luci e ombre ***
Capitolo 5: *** Senza scampo ***
Capitolo 6: *** Assedio ***
Capitolo 7: *** Via di fuga ***
Capitolo 8: *** Una tregua ***
Capitolo 9: *** Brusco risveglio ***
Capitolo 10: *** Disobbedienza ***
Capitolo 11: *** Protezione ***
Capitolo 12: *** Notte di festa ***
Capitolo 13: *** Una visita inattesa ***
Capitolo 14: *** Status quo ***
Capitolo 15: *** Inconfessabile ***
Capitolo 16: *** Simpatia ***
Capitolo 17: *** Nostalgia e perfezioni provvisorie ***
Capitolo 18: *** La legge dei potenti ***
Capitolo 19: *** La voce della coscienza ***
Capitolo 20: *** Ubi maior... ***
Capitolo 21: *** Resa dei conti ***
Capitolo 22: *** Colpo di coda ***
Capitolo 23: *** Amara riconoscenza ***
Capitolo 24: *** Promessa ***



Capitolo 1
*** Fame di giustizia, sete di vendetta ***


Trambusto in quel mattino assolato di fine agosto: dicerie, viavai frenetico, notizie che volavano di bocca in bocca, confusione e anche un po’ di curiosità. Si stava infatti diffondendo la notizia di tumulti avvenuti nella capitale qualche giorno prima, una sommossa, si diceva, contro l’imposizione di una nuova gabella sul macinato che andava a gravare nuovamente sui contadini, già provati da un anno non particolarmente felice per il raccolto. Molti erano stati i feriti, erano scappati anche alcuni morti. Le guardie del governatore, senza aspettare il consenso del re, che peraltro non aveva mai manifestato grande autonomia di pensiero, avevano sparato granate sulla folla affamata. Uomini, donne, bambini erano scappati in ogni direzione, accalcandosi, spingendosi e calpestandosi. Insomma, un vero e proprio macello, sotto gli sguardi indifferenti, per non dire compiaciuti della nobiltà cittadina, che aveva imposto alla propria servitù di non aprire per nulla al mondo le porte dei loro palazzi alla gente che, in fuga dalle granate, chiedeva disperatamente aiuto.  

-        Che sia maledetta questa marmaglia insolente!-

-         Per fortuna il governatore è un uomo di polso e li ha puniti come si deve, senza aspettare quell’eterno indeciso del re, che Dio l’abbia in gloria!-

-        Sì, che vengano presi tutti questi facinorosi, che vengano spediti a marcire in galera, è quello il posto che compete a gente del genere.

-        Auguriamoci che venga fatta piazza pulita e che vengano stanati i responsabili che, statene certi, si saranno già rifugiati nelle campagne.

-        A morte questa plebaglia!

Questi commenti, questi auspici, queste minacce serpeggiavano nei salotti dell’alta nobiltà, adirata per la sommossa, ma soprattutto alquanto seccata per il fatto di non poter passeggiare in carrozza per le strade del centro per qualche giornata, costretta alla forzata prigionia nelle stanze dorate dei  propri sfarzosi palazzi cittadini.

 

Anche nella remota  e tranquilla contea di Rivombrosa era giunta a voce delle sommosse e il popolo, come accadeva in tutto il regno,era in subbuglio, incerto tra la volontà di ribellarsi ai propri padroni vendicando i morti della rivolta e la devozione nei confronti dei conti Ristori. I più accesi vennero però isolati e decisero quindi di recarsi nella capitale per aggregarsi ai rivoltosi, non trovando terreno fertile per i loro propositi nella contea. Tuttavia gli animi erano più che mai surriscaldati a Rivombrosa per la cattiva amministrazione del padrone del momento che gestiva la tenuta in assenza del cognato, il marchese Alvise Radicati. In molti, durante una riunione clandestina notturna nelle stalle della tenuta, si erano detti pronti a prendere le armi per spodestarlo e far valere i propri diritti contro i suoi odiosi soprusi, adducendo come pretesto il fatto che la loro devozione era rivolta ai legittimi proprietari, i Ristori, non a quell’arrogante usurpatore. Alla fine però era prevalso il consiglio della saggia Amelia - gli anziani sono spesso ascoltati quando portano con sé l’esperienza e il buon senso – la quale era riuscita a quietare tutti, ricordando come presto il conte Fabrizio si sarebbe congedato dall’esercito e sarebbe ritornato a mettere ordine e a riportare la giustizia.  – Va bene, Amelia, faremo come dici tu - convenne Angelo, sciogliendo la riunione, e congedando tutti, sotto lo sguardo di disappunto di Elisa che avrebbe voluto una risoluzione più drastica della faccenda, senza attendere il ritorno dal fronte del suo amato.

Mentre Elisa e gli altri uscivano silenziosi all’aria fresca di quella notte di fine estate, qualcun altro, ai piani alti del palazzo, non riusciva a prendere sonno. Si trattava della contessa Anna, o meglio, della marchesa Radicati. Chiusa a chiave nella propria stanza, subiva da giorni le angherie del marito, uomo dedito al vizio, violento e spesso ubriaco, che in assenza del cognato spadroneggiava nella tenuta trattando senza ritegno alcuno non soltanto gli umili dipendenti, ma persino la propria moglie e la propria figlia. In realtà non vedeva l’ora di sbarazzarsi di Anna per potersi godere in santa pace la compagnia della sua  giovane e avvenente amante, Betta Maffei, tuttavia la moglie rappresentava per lui una gallina dalle uova d’oro, l’unica possibilità per poter mantenere il controllo sulla tenuta: sarebbe stato sciocco da parte sua sbarazzarsene in quel momento e infatti se la teneva stretta, molto stretta, spesso sotto chiave, per impedirle di parlare con la servitù o cercare l’aiuto esterno di chicchessia.

Anche quella sera la marchesa si trovava chiusa nella sua stanza, dopo aver dovuto assistere insieme alla figlia allo squallido spettacolo del marito e della sua amante che sedevano alla loro stessa tavola. Anna era esasperata: questa era la parola esatta per esprimere lo stato d’animo di una donna privata della propria dignità ed espropriata dei propri beni  da un marito arrogante e vizioso, sola e con poche speranze di veder tornare presto l’adorato fratello, l’unico della sua famiglia che le era rimasto. Anna, stringendo in una mano il cuscino e nell’altra il crocefisso, pregava con voce sommessa e intanto tendeva l’orecchio al minimo rumore, con la paura che il marito facesse da un momento all’altro irruzione nella sua camera per insolentirla o peggio ancora per malmenarla. Un tempo non era così, era un donna forte, risoluta e decisa, ora invece sembrava del tutto spossata da questa lotta immane contro tutti, sembra quasi rassegnata al proprio triste destino, non aveva alcuna ragione di speranza in un futuro migliore, l’unico suo desiderio era quello che la figlia Emilia riuscisse presto a scappare dalle sgrinfie del padre e a costruirsi una vita più felice della sua, nonostante il pensiero della lontananza della ragazzina, suo unico affetto in quella casa, le straziasse letteralmente il cuore. Ogni tanto faceva capolino nei suoi pensieri l’immagine di Antonio, si chiedeva che cosa facesse il medico; si domandava se mai un giorno sarebbe passato da Rivombrosa per una qualsiasi emergenza, se mai lei, Anna, sarebbe riuscita a parlargli, per la prima volta senza rancore, a scusarsi con lui per come l’aveva sempre trattato negli ultimi tempi, ad ascoltare la sua voce risponderle, ad indagare i suoi profondissimi occhi chiari. Ma era solo un attimo. Sapeva bene, la marchesa, che non le era consentito covare troppe speranze a riguardo: la vita, il destino li aveva separati tanti anni prima, nessuno sarebbe più riuscito a ricucire quel che era stato strappato, tanto più che il medico doveva odiarla per il modo indisponente con cui lo accoglieva alla tenuta. Questi erano i pensieri che le affollavano la mente, mentre il sonno tardava a venire e dal cortile provenivano uno strano tramestio e flebili voci. Ma Anna non aveva la forza né la curiosità per alzarsi ed andare alla finestra, rimase piuttosto a fissare la luna quasi piena che era appena sorta e illuminava la stanza con la sua luce argentata.

 

 

- Dottore, dottore! Vi prego, aprite! – gridava con foga un giovane, assestando vigorosi colpi alla porta del medico. – Dottore, si tratta di un fatto grave, vi prego! – insisteva.  Ed ecco apparire un lume tra le inferriate della finestra, ed ecco il cigolio del chiavistello nella toppa.

- Che succede? – il dottor Ceppi, in maniche di camicia e con una candela nella mano che gli illuminava il volto, fissava, con lo sguardo assonnato e insieme allarmato di chi sia stato svegliato di soprassalto nel cuore della notte, il giovane che aveva di fronte, la giacca a brandelli e un occhio pesto.

-E’ da prima del tramonto che siamo per strada, non sapevamo a chi rivolgerci in città. Lì è un inferno! Voi ci aiuterete,non è così? – chiese supplichevole, scrutando gli occhi del medico in cerca di un briciolo di compassione.

- E’ certo che vi aiuterò. Non dubitate nemmeno. Ma di cosa si tratta? Dov’è il ferito? –

- Sono due, dottore. Li ho portati io col carretto, è lì in fondo –  rispose indicando con la mano un sagoma che si distingueva appena in un angolo buio dell’aia.

- Presto, portami da loro. Non c’è tempo da perdere! –

Si avvicinarono con passi rapidi, alla sola luce della luna e della misera candela che il medico reggeva. Non  fu però difficile al dottore capire che si trattava di ferite di arma da fuoco. E che quelli avevano tutta l’aria di essere degli scampati alla sommossa: un ragazzo che poteva aver massimo vent’anni e un uomo corpulento e barbuto, che tra i due sembrava quello messo peggio.

- Fate luce, presto, reggetemi la candela! – ordinò Ceppi. Pur nella concitazione, non perse la calma e riuscì a trovare la ferita da cui originava l’emorragia dei feriti. Riuscì a tamponarle alla bell’e meglio con alcuni stracci: forse era già troppo tardi per uno dei due feriti, erano passate diverse ore.

- Portiamoli in casa, forza! – disse poi, trasportando i due, uno alla volta, aiutato dal giovane.

Li sistemarono su dei giacigli improvvisati nel laboratorio del medico: lì aveva tutti i ferri del mestiere e poteva intervenire in modo più efficace sulle ferite. Preso dall’eccesso di zelo che sempre metteva nel proprio mestiere, non aveva nemmeno chiesto chi fossero e perché fossero giunti proprio da lui.

Il giovane glielo spiegò:  - Dottor Ceppi, avrete capito come si sono procurati quelle ferite, credo. Abbiamo partecipato alla rivolta in città. Si tratta di mio fratello e di  mio zio. Chiedevamo solo giustizia, solo di non essere spremuti da queste nuove tasse. Siamo mezzadri, lavoriamo giorno e notte ma il raccolto quest’anno non è stato buono. La nuova tassa ci rovinerebbe, faremmo la fame. Non siamo dei violenti, noi. Vogliamo solo giustizia, solo giustizia. -  mormorava, scuotendo il capo.

- Ah! – gridava il fratello, mentre il dottore cercava di disinfettargli l’ampia ferita che aveva sulla schiena- Ah! – ripeteva, senza essere in grado di formulare parole di senso compiuto. – Sta’ buono, abbiamo quasi finito- lo rassicurava Antonio, che nel frattempo rispondeva a quanto il giovane aveva detto : - Capisco, vi capisco. E sono dalla vostra parte.

- Lo so, lo sappiamo che lo siete. Quando le guardie ci hanno attaccato, siamo riusciti a fuggire e a portare via alcuni feriti. Non sapevamo però che fare, dove andare, a chi chiedere aiuto. Nessun medico in città si è mosso per soccorrerci. I nobili ci han sbattuto le porte in faccia, e così anche i medici. Mi son detto: qui bisogna tornare a casa, nelle campagne è più difficile farsi trovare. Siamo venuti da voi, tutti i contadini parlano così bene di voi! –

- Troppo buoni, troppo buoni. Faccio soltanto il mio dovere: prestare cure ha chi ha bisogno. – intanto ispezionava la profonda ferita alla testa dell’uomo più anziano, che aveva perso da tempo i sensi. – Accidenti, è più profonda di quanto credessi! Presto, passami quelle garze! – . La sguardo del medico era molto teso. – Devo dirti la verità, non sono sicuro che ce la farà. – si pronunciò mesto.

- Fate il possibile per mio zio, vi prego. Ha dei bambini ancora piccoli. – lo supplicò il ragazzo.  – Stanne certo – rispose Antonio.

L’alba ormai filtrava dalla finestra del laboratorio. Aveva lavorato tutta la notte per salvare i due feriti, non sapeva se ce l’avrebbero fatta, ma era sicuro di aver tentato tutto il possibile, ora solo il tempo avrebbe dato il verdetto finale. Esausto, Antonio prese a lavarsi le mani e le braccia.

- Dottore, non so come ringraziarvi per quello che avete fatto per noi. Dovete sapere una cosa, però. Non osavo dirvelo prima, avevo paura che non ci avreste aiutato. Sapete in cosa potete incorrere? Siamo ricercati dalle guardie del re. Se ci trovano ci sbattono in galera, forse al patibolo. E sbattono in galera pure voi. Così dicevano in città: chi nasconde i rivoltosi avrà la stessa loro pena. Non posso chiedervi di tenere nascosti mio fratello e mio zio, li porterò a casa nostra oggi stesso. Non abbiamo neppure di che pagarvi, non posso e non voglio mettere in pericolo anche voi! – Era decisamente rammaricato per quello che aveva taciuto. E il rammarico si univa adesso alla gratitudine, che poteva esprimere solo a parole. Teneva il capo basso, non osava guardare in faccia il medico.

- Questo è impossibile. Rimarranno qui, fin quando non lo deciderò io, fin quando non saranno fuori pericolo. E non ammetto repliche! - rispose Antonio, asciugandosi le braccia e le mani e guardando schietto con i suoi limpidi occhi chiari il giovane che aveva di fronte.

- Non so davvero come sdebitarmi, grazie, grazie, che Dio vi benedica, dottor Ceppi, che Dio vi benedica! Ma perché fate tutto questo per noi? Voi non siete come noi, voi siete nobile. Perché fate tutto questo? –

- Nobile lo ero, forse, un tempo, ora non più. Ma sei tu che ti sbagli: io sono come voi, sono come tutti, dal momento che siamo tutti uomini, siamo tutti uguali. – Il ragazzo lo guardava incredulo. Riuscì a malapena a balbettare qualche ringraziamento: mai aveva sentito un nobile esprimersi così.  - E ora va’, va’ a casa dai tuoi. A loro ci penso io – .

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Capitolo 2
*** L'ultima sera di Carnevale ***


- Emilia, che cosa ci fai qui in giardino? Torna a studiare, non è ancora l’ora della pausa. –

- Ma, mamma, ho finito di studiare tutti i verbi deponenti e anche gli irregolari per la prossima lezione di latino, ho ripassato gli esercizi di violino, posso stare a giocare un po’ adesso? –

- No, non è ancora il momento, ritorna sui libri! Non è così che si comporta una fanciulla del tuo rango! Ruzzolarsi nel fango! Imparerai mai le buone maniere? -

- Ma io volevo solo…-

- Niente da fare. Ti concedo di stare in giardino, a patto che ti metta sotto il gazebo a leggere un libro fino all’ora di pranzo, intesi? –

- Grazie, mamma, grazie! – esclamò Emilia, baciando la guancia della madre e correndo verso le scale per rientrare a prendere un libro.

La marchesa era potuta finalmente uscire, quella mattina. Il marito si era recato in città per chissà quali affari: per mandare del tutto in rovina le finanze di famiglia, pensava Anna tra sé, impensierita dalle difficoltà economiche in cui versavano, mentre si godeva la brezza fresca di quel limpido mattino di fine estate. Tutto sembrava tranquillo, dopo il trambusto dei giorni precedenti e le strane voci in cortile che avevano impensierito la marchesa durante la precedente notte insonne. Anna passeggiava sola lungo i vialetti del cortile, come spesso le accadeva. Non era una donna mondana, non aveva mai amato la frivola compagnia delle nobildonne torinesi con cui il suo rango le imponeva di intrattenersi, almeno ogni tanto: era certamente diversa da loro, orgogliosa sì del suo titolo, del suo status, e soprattutto della sua famiglia, ma non salottiera né mondana.  

L’aria frizzante e il sole splendente invitavano la marchesa ad attardarsi tra i vialetti dei giardini, persa nei suoi pensieri e nei suoi ricordi. In particolare quel mattino le ricordava un mattino di tanti anni prima, quando aspettava fremente l’arrivo di colui che avrebbe dovuto chiedere la sua mano a suo padre: si trattava di un giovane trasognato, dagli occhi azzurri, limpidi e sinceri, e dai capelli corvini, slanciato ed elegante, dai modi gentili ma non affettati, che al tempo studiava medicina a Torino.

Erano mesi che non si vedevano, ma si scrivevano in continuazione lettere appassionate: Antonio, questo era il nome dell’aspirante medico, sarebbe tornato quell’estate nella contea per chiedere la sua mano al conte Ristori. Le rispettive famiglie avrebbero certamente dato il proprio assenso a quel matrimonio, in quanto entrambi di sangue nobile e di rango elevato: Antonio proveniva infatti da una delle casate più antiche di Piemonte, padrona di vasti terreni nel Canavese e nelle Langhe, a quel tempo ricca e potente. Il conte Ristori non avrebbe mai negato la mano di sua figlia, che ne pareva follemente innamorata, a quel giovane così titolato, anche se così stravagante. Aveva infatti certe strane idee, in merito alla società del tempo ,al rango, al rapporto con i dipendenti: non gliele aveva certo instillate suo padre, arcigno duca tutto preso dall’amministrazione dei suoi terreni, né sua madre, donna intellettuale, raffinata ed affabile ma al contempo troppo distante dalla realtà della gente comune, costretta da una malattia sempre più invalidante alle gambe a chiudersi tra le mura del suo splendido palazzo, in cui si dedicava a moderne letture e alla musica. Antonio era cresciuto divorando i testi degli illuministi francesi che la sua colta madre aveva fatto giungere da Parigi, avida com’era di novità letterarie e filosofiche. La duchessa si era procurata quei testi più per curiosità che per reale interesse, ma il suo unico figlio, ragazzo mite, studioso e schivo, ne aveva fatto la sua religione: per lui, che non amava intrattenersi con i coetanei tra battute di caccia, danze e vita di società, l’unica ragione di vita era quella di aiutare il prossimo, soprattutto se povero, derelitto ed emarginato. Così aveva preso a seguire il padre nelle sue visite alle diverse tenute sparse per il regno, ma, lungi dall’interessarsi a raccolti, rendite e riscossioni di imposte, si intratteneva con i contadini suoi dipendenti, si interessava alle loro condizioni, alla loro salute, ai loro problemi quotidiani. Quando qualcuno dei servitori stava male, di nascosto dal padre cercava una soluzione per aiutarlo, procurandogli il denaro necessario per curarsi. E fu così che decise che avrebbe studiato la medicina, sarebbe diventato medico per prendersi cura lui stesso chi ne aveva bisogno. Inutile dire che la sua decisione non risultò gradita a suo padre, che aveva già previsto per lui l’iscrizione alla regia accademia militare, nonostante il parere contrario della madre che non vedeva in quel ragazzo timido, dolce e solitario un buon militare. Alla fine riuscì a spuntarla su suo padre, si trasferì a Torino e la medicina divenne la sua unica ragione di vita, almeno fino al giorno in cui non mise piede nel palazzo dei conti Ristori, buoni amici di suo padre, in una gelida serata d’inverno…

Il dottor Ceppi fermò il suo calesse davanti all’entrata posteriore del palazzo. Era stata Elisa a mandarlo a chiamare: Angelo si era ferito nel ferrare un cavallo e lei non era riuscita a fermargli l’emorragia, così aveva pensato di rivolgersi al suo amico Antonio, senza avvisare nessuno, tantomeno la contessa Anna, poiché sapeva quanto le fosse sgradita la vista del medico. Antonio smontò dal calesse, afferrò la borsa e si diresse senza indugio verso le stanze della servitù, tuttavia, senza farlo apposta, alzando lo sguardo verso il palazzo dei Ristori, alla sua mente si affacciò per un attimo il ricordo di quel ballo di carnevale di tanti anni prima, in una fredda serata di febbraio.

Non aveva mai potuto dimenticare, ogni dettaglio era rimasto indelebile nella sua memoria. Antonio non aveva mai amato le serate mondane, tantomeno le danze e le conversazioni con le gran dame che volevano a tutti i costi presentargli le figlie; quando poteva si risparmiava queste uscite, adducendo diversi pretesti nonostante i rimproveri dei genitori. Quella sera, però, non aveva potuto esimersi. I conti Ristori, grandi amici della sua famiglia, davano un ballo per l’ultima sera di Carnevale, nella loro tenuta di Rivombrosa: si era dovuto piegare alle insistenze di suo padre, che aveva acconsentito in cambio di accordargli il permesso di far visita al suo posto ai fittavoli della loro tenuta nelle Langhe la settimana successiva. Ed eccolo lì, ben vestito, ben pettinato, elegante nei modi quanto riservato nella conversazione, se ne stava in disparte, senza dar troppa corda alle giovani che civettando con lui, cercavano di intrattenerlo con discorsi frivoli. Quand’ecco arrivare la figlia dei padroni di casa, la contessa Anna. Incedeva con passo signorile, elargendo timidi sorrisi agli invitati, salutando i presenti con rispettosi inchini ma fuggendone per lo più gli sguardi di interesse. Una volta che si fu venuta a trovare vicino a loro, la madre di Antonio le si fece incontro: - Mia carissima Anna! Come siete splendida questa sera! –

-Vi ringrazio, duchessa, vedo che anche voi sfoggiate la vostra forma migliore – rispose Anna con un inchino.

- Oh suvvia, Anna, si fa quel che si può. Ringrazio il Signore che per questa serata le mie gambe mi hanno consentito di camminare e venire qui, è sempre bello intrattenersi con la vostra famiglia, a cui siamo legati da lunga amicizia. Ma ecco, forse non vi siete riconosciuti, eravate ragazzini l’ultima volta che vi siete incontrati: questo è mio figlio Antonio – disse la duchessa, invitando Antonio ad avvicinarsi. Al giovane sembrò che gli mancasse il respiro, di fronte alla bellezza e alla grazia di Anna era restato come incantato. Le prese con delicatezza la mano inguantata e gliela baciò – Incantato – riuscì a dire con voce roca, rosso in volto, fissandola con gli occhi azzurri ancor più scintillanti. Ma subito si riscosse, si disse che doveva essere anche lei come tutte le altre, una creatura leggera, frivola e vanitosa e perciò ritrasse lo sguardo e fissò gli occhi a terra. Eppure, come per una forza magnetica, fu costretto a rialzare la testa e a fissare il suo sguardo in quello di lei, in quegli occhi scuri, tanto intensi e lucenti, che parlavano di una profondità d’animo e di una forza che mai nessuna sofferenza, mai nessun dolore sarebbe riuscito a spezzare: riflettevano il suo orgoglio, il suo rigore morale, la sua assoluta fedeltà ai propri principi, ma anche la timidezza, l’acuta sensibilità e il bisogno d’affetto che la contraddistinguevano. No, non era come nessun’altra. E, da quella serata, Antonio ebbe un’altra ragione di vita, oltre alla medicina.

 

La ferita di Angelo non era poi così grave come Elisa gli aveva prospettato, Antonio riuscì rapidamente a tamponargli l’emorragia e a risolvere la faccenda. Dopo salutato Angelo ed Elisa, afferrò la borsa con i ferri e si diresse svelto verso l’uscita: doveva al più presto tornare a casa per sincerarsi che i due feriti stessero ancora lì e che nessuno si fosse accorto della loro presenza. Uno dei due pareva molto grave e Antonio si faceva poche illusioni sulla sua guarigione, tuttavia era suo dovere morale fare qualsiasi cosa perché l’uomo si salvasse. Fuggendo le ulteriori domande di Elisa e ignorando i suoi tentativi di far conversazione, il medico si apprestava ad uscire dalla porta sul retro della tenuta, quando si imbatté nella marchesa, che rincasava in quel momento dal giardino e, per evitare che qualcuno della servitù riferisse al marito il fatto che era uscita dalla sua stanza, aveva preferito passare dal retro. Quando vide Antonio si irrigidì:

- Che ci fate qui, dottore? Non mi sembra di avervi mandato a chiamare – chiese in tono algido, muovendo nervosamente gli occhi per sfuggire lo sguardo di lui. -

- Buongiorno, Anna, no, sono stato chiamato da Elisa. Angelo si è procurato una ferita, ma non è nulla di grave – rispose Antonio, calmo

- E’ possibile che qui sia sempre l’ultima ad essere informata di quello che avviene? Ancora una volta si prendono il permesso di chiamare qualcuno senza dirmi nulla! –  così dicendo faceva trasparire tutto il suo nervosismo. Non era certo rivolta verso Elisa la sua indignazione, né verso Antonio, ma verso sé stessa, per il fatto di non riuscire neppure a guardarlo serenamente negli occhi, per non riuscire a parlargli, se non per aggredirlo. Anna  si tormentava ora le mani, ora il crocifisso che portava al collo, vagando qua e là con lo sguardo, come un cardellino in gabbia che non trova requie.   

- Scusatemi, so bene che la mia presenza non vi è gradita. Se non vi dispiace, ora tolgo il disturbo. – ribatté il dottore, senza perdere la sua serafica calma, cosa che faceva ancor più imbestialire la contessa. Così dicendo si avviò verso il calesse, si voltò e – Arrivedervi, Anna – salutò mettendosi il cappello, senza lasciare il tempo ad Anna di controbattere alcunché, lasciandola ad osservarlo mentre si allontanava.

 

 

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Capitolo 3
*** Una scomoda richiesta ***


Erano da poco passate le sette di sera quando si udì il nitrito di un cavallo nel cortile che preannunciava il ritorno del marchese dalla capitale. Alvise scese goffamente, a causa della sua mole, dalla carrozza e si diresse con fare arrogante verso la scalinata mentre, scuotendo il bastone riccamente ornato con cui si accompagna, minacciava la servitù per non aver accolto degnamente il proprio padrone. Arrivato nelle stanze superiori, trovando la camera di Anna, di cui lui deteneva le chiavi, vuota, cercò la moglie: - Anna! Anna! – chiamava. – Dov’è quella pazza di mia moglie? Dove si è nascosta? – ringhiava contro la servitù.
 
- Eccomi, Alvise, mi sono recata in biblioteca a prendere un libro, non avevo nessun’ intenzione di scappare, vedete –
- Chi vi ha dato il permesso? Chi?! – ringhiò – Sapete che il mio desiderio è quello che non vi allontaniate dalla vostra stanza, in mia assenza! –
- Adesso esagerate, Alvise, questa è ancora casa mia, fino a prova contraria! Quando mio fratello tornerà… -
- Ora basta! Ne ho abbastanza di queste fandonie, chiamate Emilia. Voglio che siate presenti a cena fra dieci minuti, niente scuse –
 
 
-In città sta succedendo di tutto, di tutto! – esclamò il marchese con la bocca piena, mentre roteava gli occhi porcini infossati e lucidi per il vino ed ogni sorta di altri eccessi a cui si era dedicato durante la permanenza nella capitale. Non si privava certo di alcuna occasione per gozzovigliare con amici nobili e divertirsi con prostitute ed ogni genere di donne di malaffare.
- Non capisco, spiegatemi – chiese la marchesa, seduta compostamente con la schiena dritta, mentre aiutava la figlia a tagliare una fetta di carne.
-Quella plebaglia! Quei pezzenti! Stanno mettendo a ferro a fuoco tutto! Pensate che nemmeno i nostri amici conti e marchesi possono uscire di casa. Non ci si diverte più! Tutti stanno nella paura, non si può permettere una cosa del genere. I marchesi Sorbelloni e i duchi di Alba hanno preso a servizio una scorta personale, che ne dite mogliettina? Sarà il caso che anche noi provvediamo alla difesa di Rivombrosa da questi pezzenti, in attesa di vostro fratello, si intende…- aggiunse sogghignando, con quell’aria strafottente e arrogante che lo contraddistingueva; era palese che non vedeva l’ora che il cognato fosse ucciso al fronte, o imprigionato o qualsiasi altra cosa, purché lui diventasse padrone assoluto della tenuta.
- Non vi seguo, Alvise - obiettò Anna, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. Era impassibile, manteneva tutto il suo contegno davanti alle volgari provocazioni di quel marito ubriaco e infido.
- Assolderò degli uomini di guardia, a miei ordini. Così starete più sicure, voi ed Emilia. E così starò più sicuro anch’io, durante le mie assenze, che non vi perdiate…- e rise sguaiatamente.
Emilia gettò con rabbia il tovagliolo sulla tavola e venne subito rimproverata dalla madre, che però tentò di difenderla dalla reazione smodata del padre:
-E tu, piccola canaglia, quando la imparerai l’educazione, eh? – sbraitò cercando malamente di reggersi in piedi, tra i fumi dell’alcol – Te la insegno io, l’educazione, io! – Anna si mise davanti alla figlia per evitare che venisse colpita. In quel momento giunsero dal corridoio delle voci concitate.
Entrò Elisa e, affannata, cercò di trovare le parole adatte per quel che doveva dire. Il marchese la fissava con quel suo sguardo suino tra il lubrico e l’arrogante; la marchesa, algida come sempre, non lasciava trasparire alcun’emozione. Solo la piccola Emilia sembrava in pensiero – Elisa! – esclamò – che succede? - .
-Taci tu! – la zittì il padre.
- Marchese, marchesa – salutò accennando un inchino – Io dovrei…vorrei…- non sapeva risolversi a parlare, sapeva che difficilmente avrebbe trovato se non aiuto, nemmeno comprensione. Alla fine riuscì a mettere insieme una frase: – Marchesa, dovrei parlarvi in privato. È urgente. – disse guardando Anna negli occhi con aria decisa, ignorando completamente il marchese.
– Che storia è mai questa? In privato? Io sono il marito, nonché il padrone fino a prova contraria, è mio diritto sapere tutto quello che riguarda mia moglie e questa tenuta! – Urlò Alvise, ripiombando fragorosamente sulla sedia tra un accesso di tosse.
– Alvise, non vi reggete nemmeno in piedi a causa dei vostri eccessi! Lasciate che parli con Elisa – disse Anna per tutta risposta e, senza aspettare alcun permesso, uscì nel corridoio con la ragazza.
-Marchesa, io so che non dovrei chiedere aiuto a voi per questo, ma è successa una cosa terribile, terribile! Non so che fare! – Elisa pareva molto concitata.
-Dimmi, Elisa - rispose Anna, fredda ma lasciando trasparire se non coinvolgimento, almeno un po’ di curiosità.
 
Stava cavalcando nel bosco in direzione del lago, qualche ora prima, quel pomeriggio. Si era presa del tempo per una passeggiata tranquilla, non aveva una meta precisa. Ad un tratto udì un trambusto là dove il bosco si infittiva: ne era certa, alcuni uomini a cavallo stavano fuggendo nel folto della boscaglia in tutta fretta, ma scorse solamente il colore rosso della giubba dell’ultimo della fila. Poteva trattarsi di guardie, pensò: in quei giorni di tumulti non era un’ipotesi così remota. Fu presa da una specie di curiosità ardente, e anziché fare dietrofront per evitare incontri spiacevoli, proseguì sul sentiero. Qualche centinaio di metri più avanti s’avvide di un cavallo a terra, ferito a morte, scorse poi un calesse rovesciato, una borsa aperta da cui si erano sparsi degli oggetti. Non c’erano dubbi. Si trattava del calesse e della borsa del suo amico Antonio.
-Antonio, Antonio! – si mise a gridare all’impazzata la ragazza – Dove sei, Antonio? –
Elisa era smontata di sella e si era addentrata nella vegetazione che fiancheggiava il sentiero. Di Antonio nemmeno l’ombra. Temette che quegli uomini l’avessero portato via, ma non si diede per vinta.  Avanzò lungo il sentiero e qualche minuto dopo lo vide, riverso a faccia in giù.
-Oddio! Antonio! Rispondimi! Stai bene? – si inginocchiò presso di lui e lo voltò. Sul suo viso il sangue si mescolava alla polvere del sentiero.
Elisa gli ripulì la faccia, bagnando il fazzoletto con dell’acqua che portava con sé in una borraccia. Antonio non rispondeva. Dal sopracciglio spaccato continuava a sgorgare copioso del sangue, come pure dalla ferita che aveva sulla testa. Non sapeva che fare, come aiutarlo, ma la ragazza non si fece prendere dal panico. Continuò a versargli acqua fredda sul viso, finché ad un certo punto diede segni di vita.
 
- Elisa, sei tu? – chiese con sguardo annebbiato
- Sì, sono io, Antonio. Che ti è successo? Cosa ti hanno fatto? –
- Elisa, devi aiutarmi. Ho dei feriti in casa mia. Promettimi che andrai a vedere come stanno e li farai portare via da lì.
-Dei feriti? – chiese stupita la giovane
- Sì. Devi avvisare il fratello che non è più sicuro da me. – disse prima di perdere nuovamente i sensi.
Elisa non capì molto di quello che Antonio le aveva detto, ma ritenne che la cosa migliore da farsi era portare in salvo l’amico, prima di occuparsi di queste persone ferite. Lasciò a malincuore l’amico svenuto e, più in fretta che poté, si diresse alla tenuta a cercare aiuto in Angelo, che arrivò poco dopo con un calesse. I due giovani vi caricarono Antonio e si diressero verso la casa del medico. Arrivati sul piazzale davanti alla casa, Elisa smontò svelta da cavallo e, prese le chiavi dalla tasca della giubba di Antonio, si diresse verso la porta. Con sorpresa notò che era sfondata, qualcuno aveva fatto saltare i cardini. Entrò e si trovò di fronte uno desolato spettacolo: tutto era sottosopra. L’umile dimora del medico, modesta sì, ma sempre ordinata e dignitosa era irriconoscibile: mobili rovesciati, pezzi di alambicchi sparsi sul pavimento, vetri infranti, fogli stracciati ovunque. Si addentrò nelle stanze fino al laboratorio: vide delle brande rovesciate, delle lenzuola insanguinate, ma i feriti di cui parlava Antonio probabilmente erano stati già portati via. Elisa corse da Angelo.
-Non possiamo portarlo qui. Qualcuno è entrato in casa, è tutto sottosopra. Devono avercela con lui, per qualcosa. Ma per cosa? Una così brava persona che in vita sua non ha fatto altro che bene!-
-Elisa, in questi giorni non si capisce più nulla: sta venendo la rivoluzione! Può essere che se la prendano anche con chi non c’entra nulla -
-E poi quei feriti di cui parlava…ma chi potevano essere? In ogni caso qui non c’è più nessuno. Non possiamo proprio abbandonarlo qui.
- E che si fa quindi?
- A Rivombrosa! – sentenziò Elisa.
Angelo la fissò interdetto. Non si risolveva a spronare il cavallo. – A Rivombrosa? E come pensi che la prenderanno i marchesi? Ma soprattutto, cosa dirà la marchesa Anna?! –
-Non importa. Non possiamo lasciarlo qui! È in pericolo! –
- Ma, Elisa, ragiona! Non possiamo nasconderlo a Rivombrosa. Ci sarà pure un’altra soluzione…-
- No, Angelo, non c’è nessun’altra soluzione. Qualcosa mi inventerò…- E con questo la ragazza chiuse il discorso: Angelo, arreso, partì.
 
Non sapeva nemmeno lei cosa avrebbe fatto, come avrebbe nascosto Antonio. Sarebbe stato impossibile nascondere la sua presenza nella tenuta, anche se l’avessero ospitato negli alloggi della servitù: qualcuno si sarebbe sicuramente lasciato sfuggire qualcosa, e allora la punizione del marchese sarebbe stata esemplare per tutti loro. No, quella via non era percorribile. Se voleva curare Antonio a Rivombrosa, doveva necessariamente agire allo scoperto. Decise, dunque, che si sarebbe giocata l’ultima carta: avrebbe cercato se non la complicità, almeno il permesso della marchesa. Avrebbe usato le sue migliori doti oratorie per convincerla. In fondo, lei lo sapeva, Anna, sotto quell’algida corazza non era una donna insensibile o cinica. Avrebbe fatto leva sul suo senso religioso, sulla sua carità cristiana. In qualche modo le avrebbe strappato il permesso di ospitare Antonio alla tenuta.
 
 
 
-Si tratta del dottor Ceppi…- accennò Elisa, per studiare la reazione della marchesa e prendere tempo.
- Ancora quell’uomo! – sibilò Anna, distogliendo lo sguardo innervosita – Che vuole ancora? Sa che la sua presenza non è gradita. E quando qualcuno sta male, prima di prendere decisioni affrettate, dovreste rivolgervi a me. Fino al rientro di mio fratello, dovete rendere conto a me! – Anna si tormentava le mani, lanciando occhiate torve alla ragazza che cercò di blandirla.
- Marchesa, non stanno così le cose, lasciatemi il tempo di finire…-
- Che significa “non stanno così le cose”? Che altro dovrei sapere? –
- Ecco, vedete, è il dottor Ceppi ad aver bisogno di cure questa volta. È stato aggredito, l’ho trovato io. –
- Che cosa? E chi l’avrebbe aggredito? - la marchesa tradì la sua preoccupazione, ma subito si ricompose e assunse un tono distaccato -Ma io…io cosa posso farci, perché ti rivolgi a me? -
 
Elisa raccontò tutto, di come aveva trovato Antonio, delle condizioni della sua casa e del sospetto che qualcuno si volesse vendicare di lui. Tacque dei feriti e del probabile coinvolgimento del medico nella difesa di alcuni rivoltosi, certa che la marchesa a sentir queste cose avrebbe all’istante negato il suo assenso.
 
-Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo, Elisa? – ribatté Anna alla fine del racconto – Ospitare in casa mia quell’uomo! E per di più con il rischio che qualche malfattore lo stia cercando, mettere in pericolo la tenuta…E poi credi che mio marito Alvise approverebbe? Sta pur certa che no! –
Non sapeva che rispondere in realtà, Anna. Era presa da sentimenti opposti. Da un lato c’era il timore di disintegrare un equilibrio, quello della tenuta, della sua vita familiare, ma, soprattutto il suo equilibrio interiore. Avere Antonio sotto lo stesso tetto: come avrebbe potuto reagire? Come si sarebbe potuta difendere dal suo passato, dai suoi rimpianti, dai suoi sogni infranti? No, sarebbe stata una follia dare il suo permesso. Non avrebbe mai dovuto permettere a quell’uomo di farla soffrire ancora, non avrebbe mai dovuto permettere a una servetta qualunque di metterla in quelle condizioni di difficile scelta. Dall’altro lato però era pervasa da un altro timore, meno sottile, più violento e primordiale: il timore che Antonio potesse essere abbandonato in balia di chissà quali malfattori, che potesse morire, e per colpa unicamente sua. Non sapeva decidere, in entrambi i casi la scelta sarebbe stata dolorosa, molto dolorosa. In ogni caso avrebbe scoperchiato tutto quel dolore nascosto sotto anni e anni di apparente, falsa serenità; avrebbe perso nuovamente, e per sempre, la sua pace. Camminava nervosa lungo il corridoio, con le mani giunte davanti alle labbra, come se pregasse sommessamente. Elisa la seguiva con lo sguardo, non aveva più avuto il coraggio di aggiungere nulla, ma dentro di lei era animata dalla speranza che Anna le dicesse di sì.
-Signore, ditemelo voi, che cosa devo fare, ditemelo, per favore. – sussurrava Anna facendosi un rapido segno di croce. Rimase per qualche istante con gli occhi chiusi, poi si voltò di scatto e sul suo volto balenò la sua decisione, il suo sguardo si accese per un attimo :
- E sia, sia come dici tu. Portatelo qui. –
-Grazie, marchesa! Non sapete quanto vi sono grata! – Elisa esplose in un’esclamazione gioiosa, ma subito Anna la frenò:
- Ad una condizione, Elisa. Lo porterete negli alloggi della servitù. Mio marito non deve sapere... Sono stata chiara? –
- Sì, marchesa, siamo intese –
- Un’altra cosa…nemmeno io non ne voglio sapere nulla. Fate come meglio credete, chiamate un altro medico, vi darò i soldi, ma, per favore, non ditemi più nulla di questa storia. -
- Ma, marchesa, com’è possibile? Siete qui, qualcosa dovrò pure comunicarvi, non volete sapere se Antonio… scusate, il dottor Ceppi, sta meglio, se e quando se ne potrà tornare a casa…- nella sua ingenuità la ragazza credeva che queste notizie potessero essere una sorta di ricompensa riconoscente per l’ospitalità concessa, e non degli strali che straziavano ulteriormente l’animo di Anna.
- Elisa, sono stata fin troppo chiara. Non voglio saperne nulla, e ora è tardi, mi ritiro nelle mie stanze. Buonanotte. – e così dicendo sparì nell’oscurità del lungo corridoio.

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Capitolo 4
*** Luci e ombre ***


-Dove sono, Elisa? - chiese Antonio risvegliandosi, il pomeriggio seguente. Elisa e Angelo l’avevano portato nella stanza del ragazzo, negli alloggi della servitù. Alla bell’e meglio Amelia ed Elisa avevano fasciato la ferita che aveva riportato sulla testa e le altre numerose contusioni ed escoriazioni, monito delle percosse delle guardie. Tuttavia non dava segni di ripresa, tutta la servitù si dimostrava seriamente preoccupata. Elisa l’aveva vegliato tutta la notte e la mattina aveva confidato la sua preoccupazione ad Amelia, che aveva cercato di tranquillizzarla. D’altronde era lui il medico, era sempre stato lui a tranquillizzare loro, ora non avevano nessuno a cui rivolgersi per sentirsi dare dettagliate spiegazioni mediche e placare la propria apprensione.

 Finalmente il pomeriggio successivo si era svegliato e uno dei suoi primi pensieri era andato ai due feriti che aveva nascosto in casa sua.

-A Rivombrosa. Antonio, stai bene? -

- Che cosa? A Rivombrosa? E com’è possibile? E i feriti?-

- Stanno bene, stanno bene- mentì Elisa - ma ora devi pensare a guarire-

- Ma perché qui a Rivombrosa? Dimmi la verità!-

- Non preoccuparti, non preoccuparti. Era la soluzione migliore per tutti. Tutto qui-

- Ma il marchese come ha potuto acconsentire? E Anna? So quanto poco le sia gradita la mia presenza…-

- La marchesa sa tutto-

 

Antonio non volle indagare oltre, chiese solo ad Elisa di risistemare la fasciatura seguendo le sue indicazioni, in quanto quella approntata da loro era abbastanza approssimativa e non avrebbe fermato del tutto l’emorragia. La ragazza fece come le diceva il medico e poi si avviò alla porta, congedandosi. Antonio la ringraziò per quello che aveva fatto per lui e le volle confessare una cosa:

-I due feriti di cui ti parlavo sono dei rivoltosi, son ricercati dalle guardie. Lo so che è pericoloso, ma dovresti accertarti che stiano bene, sono contadini, non sono delinquenti come si vorrebbe far credere-

- Antonio, ti dirò la verità. La tua casa è stata messa sottosopra, molte cose sono state distrutte. I due non c’erano quando sono arrivata io. Non ho idea di che fine abbiano fatto, ma temo che le guardie li abbiano portati via-

-Le guardie…i tutori dell’ordine pubblico- disse ironico - Sono loro che mi hanno ridotto in queste condizioni! Solo per aver aiutato chi aveva bisogno di cure, come ho giurato di fare quando sono diventato medico. Questa è la legge? È questa la giustizia? -

- No, non lo è. Non è giustizia. Credi che continueranno la rivolta? -

- Non lo so, Elisa, non mi sono mai occupato troppo di politica -

- Confessione per confessione, ti dirò che anche qui, a Rivombrosa, c’era chi voleva ribellarsi, ne abbiamo discusso nei giorni scorsi. Non son poi così sicura che li abbiamo convinti. Il marchese spadroneggia in modo indegno, ci tratta come animali, persino la marchesa… -

- Che cosa? - la interruppe concitato, un lampo di rabbia gli attraversò lo sguardo.

- Dicevo, persino la marchesa deve subire le sue angherie…la rinchiude a chiave nella sua stanza, quando è fuori. E poi tutte queste donnicciole sue amanti…Davvero uno spettacolo vergognoso! Se solo Fabrizio tornasse…-

Antonio restò pensieroso, colpito da quanto aveva sentito, non avrebbe mai immaginato che il marchese arrivasse a tanto, che la situazione per Anna fosse così difficile. Si trovò quindi a giustificare in un certo senso i suoi comportamenti scostanti di quando lo vedeva.

- Se dovessero ribellarsi, tu che faresti, Elisa, ti uniresti a loro? O difenderesti Rivombrosa? - chiese infine, studiando con lo sguardo l’espressione di Elisa

-Non lo so, Antonio. Non voglio che questa tenuta venga devastata, che questo palazzo sia saccheggiato, non voglio una cosa simile. Non voglio nemmeno che facciano del male ad Emilia. Ma se si dovrà usare la forza contro il marchese Alvise Radicati, bé, non mi farei certo tanti scrupoli…Sì, mi unirei a loro, credo-

- Non credevo che si fosse arrivati a questo punto, ma ti capisco. Solo temo per…lasciamo stare, lasciamo stare. Buonanotte, Elisa-

 Il medico non completò la frase, ma era chiaro che la persona per cui temeva fosse la stessa che non sopportava la sua presenza.

 

La ragazza uscì e Antonio rimase a pensare, mentre l’oscurità pian piano invadeva la stanza spoglia. Aveva ancora un forte male al capo e dolore in varie parti del corpo, si sentiva debole e intontito ma non aveva certo perso la facoltà di analizzare gli eventi. Nel silenzio della sera ripensò a quello che Elisa gli aveva detto e non gli ci volle molto per capire che presto qualcosa di grosso, una rivolta, una sommossa, sarebbe scoppiata anche a Rivombrosa, tant’era l’odio covato verso il marchese. Si chiedeva poi che fine avessero fatto i due rimasti feriti e con grande desolazione pensò che probabilmente erano stati arrestati o forse anche uccisi. Lui in ogni caso aveva fatto tutto il possibile, e l’avrebbe rifatto anche in seguito, nonostante le percosse e le minacce delle guardie. Per sua natura stava sempre dalla parte degli oppressi. Si addormentò, sfinito da queste riflessioni.

 

Nel cuore della notte la porta della stanza si aprì. Alla fioca luce di una candela, che proiettava sinistre ombre sul muro, qualcuno entrò e si avvicinò al letto. Antonio non si accorse di nulla, stava fermo, immobile. L’intruso avvicinò la candela al volto dell’uomo, la luce illuminò il suo viso sofferente, i suoi tratti regolari, i suoi capelli corvini argentati sulle tempie, la fasciatura della ferita, i lividi sul volto e sulle spalle. Lo sconosciuto si soffermò a lungo per studiarne il respiro: c’era? Era regolare o affannato?

Poi la candela venne posta sul comodino e la luce illuminò stavolta il volto preoccupato di Anna. Sì, si trattava della marchesa. Che aveva dato il permesso ad Elisa e che non aveva voluto saperne più nulla, la sera precedente. Che aveva passato tutta la giornata a pensarlo, a chiedersi come stava, se si sarebbe salvato o meno. Non era riuscita prendere sonno quella sera e così, una volta che la servitù si era ritirata nelle sue stanze, lasciata la musica assordante dei festini del marito nel salone dei ricevimenti, aveva sceso lo scalone e si era diretta nelle stanze della servitù. Invece che placarsi, la sua preoccupazione era cresciuta, vedendo Antonio immobile, sofferente. Temette il peggio, e, in preda all’angoscia, iniziò a pregare convulsamente, stringendo il solito crocifisso che portava al collo. Non sapeva nemmeno lei quello che stava facendo. Da quando aveva lasciato la sua stanza, dove si era ritirata per non dover assistere all’ignobile spettacolo del marito, dei suoi nobili e depravati amici e delle sue amanti discinte che si davano a gozzovigliare nelle stanze di casa sua, senza alcun rispetto per l’onore della famiglia Ristori a cui apparteneva quel palazzo, aveva seguito solo il suo istinto. Si era trovata al cospetto della persona che più aveva odiato nella sua vita ma per la perdita della quale aveva più temuto. Le ritornava alla mente un episodio di molti anni prima, una delle loro passeggiate nei giardini di Rivombrosa. Antonio le stava confidando certe sue idee circa l’uguaglianza di tutti nella malattia e circa la necessità di curare i più poveri senza chiedere nulla in cambio, e lei, perdendo il filo del discorso, si era smarrita negli occhi di lui, così chiari, belli e sinceri, e aveva pensato che mai, per nulla al mondo, avrebbe rinunciato a quello sguardo. Stava così ricordando quando improvvisamente si riscosse. Si era mosso, aveva aperto gli occhi e quell’azzurro l’aveva di nuovo ammaliata.

 

- Che succede? - chiese Antonio, svegliandosi di soprassalto.

- Perdonatemi- fu l’unica cosa che Anna riuscì a rispondergli.

- Anna, che ci fate voi qui? - domandò stupito.

- Mi stavo accertando delle condizioni di chi ospito in casa mia, fino a prova contraria sono io la padrona- presa alla sprovvista, si era messa sulle difensive.

- Toglierò presto il disturbo, non temete. So di arrecarvi fastidio con la mia presenza- Antonio cercava di mettersi a sedere ma gli sfuggì un’esclamazione di dolore.

- State bene? - si preoccupò Anna immediatamente.

- Sì, bene. Non vi preoccupate per me. Come vi dicevo, me ne andrò il prima possibile-

- Lo spero per voi. E anche per me. Ora vi lascio riposare- concluse Anna in tono freddo, cercando di fuggire il suo sguardo, che faticava a sostenere, e avviandosi verso la porta.

- Anna- la richiamò lui dal buio della stanza. Anna si voltò, la candela le illuminava il viso, delicato e pallido, gli occhi, in quel momento lucenti e vivi, i boccoli che le spiovevano sulle spalle, tutta la sua malinconica bellezza. Aspettò che fosse lui a parlare.

- Vi volevo ringraziare, so bene quanto vi costi tutto questo -

- Vi sbagliate: è un dovere, l’ospitalità, che la mia famiglia ha sempre onorato. E poi è Elisa che dovete ringraziare, non me- ed uscì senza lasciare possibilità di replica, portando con sé la luce e lasciando Antonio immerso nuovamente nella totale oscurità della notte.

 

 

Ormai desto, non riuscì tanto presto nell’intento di riaddormentarsi. La visita di Anna, tanto inaspettata quanto desiderata, gli aveva fatto perdere del tutto il sonno e aveva addirittura messo in sordina il dolore lancinante che provava alla testa. Appoggiato al cuscino, lo sguardo fisso al soffitto, Antonio seguiva il filo dei ricordi, un filo amaro che lo riportava a quell’infausto giorno di primavera. Ricordava perfettamente quel gelido sguardo che gli aveva agghiacciato il cuore, che gli aveva sbattuto in faccia tutto il suo senso di colpa. Anna lo stava aspettando, impaziente e gioiosa, glielo aveva promesso lui, qualche tempo prima e non aveva mai più avuto il coraggio di ritirare la promessa. Durante quei pochi mesi però le cose erano cambiate, molto cambiate, durante una visita ai terreni di suo padre nelle Langhe aveva conosciuto Lucia, una giovane serva, da capelli biondi e dall’aria dolce e triste, talmente da sembrare inconsolabile. L’avevano mandato a chiamare i fittavoli perché la ragazza aveva una brutta polmonite e, debole com’era, temevano che non ce l’avrebbe fatta. Antonio l’aveva curata, le era stato accanto per tre giorni e tre notti, finché Lucia si era potuta dire fuori pericolo. Avvinto dalla sua bellezza delicata, da quello sguardo umile e bisognoso di protezione, Antonio si era completamente sciolto per lei, lui che per sua naturale vocazione era portato a proteggere, a curare i più deboli, non aveva potuto sottrarsi al fascino di questa dolce ragazza povera e sola, costretta dalle circostanze della vita ad essere continuamente umiliata nella sua vita da serva. Il giovane medico aveva scorto in lei non solo una donna da amare, ma anche il pretesto per cambiare totalmente la sua vita e darle finalmente quel senso che tanto aveva perseguito fin dalle letture dei testi illuministi: la fuga dalla sua classe sociale, un’esistenza in cui l’essere contasse più dell’avere. In tutto questo fervore idealistico e umanitario si era completamente scordato di Anna. Se ne accorse qualche settimana dopo e ne provò una fitta atroce, dettata dal senso di colpa: come aveva potuto dimenticarsi di lei?  Anche se erano mesi e mesi che non la vedeva, Anna restava sempre il suo primo amore, era stato un ingrato a scordarsene così in fretta, e in più c’era quella proposta di matrimonio che le aveva fatto e che si sarebbe concretizzata quella primavera, quando lui si sarebbe dovuto recare dal conte Ristori a chiedere la sua mano. Antonio non era tipo da sottrarsi alle responsabilità e perciò, con la morte nel cuore e la vergogna dipinta in fronte, andò lo stesso quel giorno di primavera a Rivombrosa, ma non per parlare al conte, per confessare la sua decisione ad Anna, cosa milioni di volte più difficile. Anna lo aspettava nel giardino, un vestito bianco primaverile, l’ombrellino di pizzo e un grazioso cappellino in testa: era raggiante, di una felicità che le aveva visto solo poche volte. Si sentì un verme, volle morire in quell’istante, sprofondare e sparire per sempre dalla faccia della terra. Non avrebbe mai sopportato vedere il dolore sul volto di Anna, vedere quella felicità dileguarsi per colpa sua, sapere che da quel momento lei l’avrebbe odiato con tutte le sue forze e per sempre, senza rimedio. Non poteva darle torto, non poteva in alcun modo sperare di ottenere il suo perdono: da quel momento, era consapevole, l’avrebbe persa per sempre.  Anna gli corse incontro mentre lui smontava da cavallo e subito percepì qualcosa dal suo sguardo triste ed imbarazzato.

-Antonio, che c’è? È successo qualcosa?- chiese preoccupata la giovane. Notando che Antonio non rispondeva ma teneva lo sguardo basso e stritolava con le mani il suo cappello: - Non darti pena per mio padre, acconsentirà sicuramente- aggiunse con un sorriso rassicurante. Il giovane medico non poteva più tacere, non poteva continuare a illuderla in questo modo. Non si sarebbe mai perdonato per quello che stava per dirle, ma parlare era necessario. - Anna, non posso mantenere fede alla promessa- affermò guardandola, con immenso sforzo, negli occhi scuri. - Anna, non ti posso sposare più, amo un’altra-.

Quel ricordo lo struggeva molto più del male della ferita: era come se un ferro acuminato gli trapassasse la pelle. In quella notte, come già in altre notti, sentiva su di sé, sul suo corpo, il dolore di Anna di quel giorno. Lo avvertiva distintamente nella sua mente e nella sua carne ed era sicuro che quell’atroce senso di colpa gli avrebbe fatto compagnia per tutta la vita.  

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Capitolo 5
*** Senza scampo ***


-Mia cara moglie! A cosa dobbiamo l’onore della vostra presenza?- esclamò ridendo sguaiatamente Alvise, visibilmente ubriaco, scostando in malo modo una donnicciola mezza nuda che gli stava seduta sulle ginocchia grassocce. Anna, entrata in quel momento nel salone, lo freddò con uno sguardo. - Suvvia, come siete noiosa, Anna! Non siete capace di divertirvi!- continuò lui tracannando un altro po’ di vino.

 -Alvise, questo scempio deve finire! Fuori da casa mia questa gentaglia! - urlò infuriata la marchesa. I musicisti si fermarono di colpo, tutti gli invitati si girarono stupefatti per osservare la scena: un litigio tra marito e moglie era un intrattenimento ancor migliore dei soliti sollazzi, sapevano poi che la marchesa era una donna molto strana, una pazza, come andava dicendo sempre il marchese Radicati, loro compagno di bevute.

- Che cosa ho sentito?! - Alvise si era alzato dal divano a stento e barcollando si stava avvicinando ad Anna con aria minacciosa. - Casa tua? Questa non è più casa tua, mia cara, ma semmai casa nostra. Fino a prova contraria sono io qui il padrone, in quanto tuo legittimo consorte, fino al rientro di tuo fratello -

- State passando il limite, Alvise, non vi permetterò…- Alvise, malgrado la sua mole e la sua goffaggine, era riuscito con un balzo ad afferrare il braccio di Anna che si stendeva minaccioso verso di lui: glielo strinse tanto forte da farle male. - Lasciatemi! Mi state facendo male! Lasciatemi! - esclamò sempre più alterata la marchesa.

- Suvvia, Alvise, lasciate in pace la vostra splendida moglie- ghignò mellifluo il barone di Monforte, assiduo frequentatore dei bagordi organizzati dall’amico -Lasciatela stare, non roviniamo una così piacevole serata. Che sarebbe ancor più piacevole se la marchesa si unisse a noi- proseguì ammiccando in modo equivoco ad Anna.  - Ma sì, ma sì, il barone non ha tutti i torti, fermatevi insieme a noi, marchesa! - si aggiunse un altro nobile invitato.  - E sia! - convenne Alvise lasciando il braccio della moglie e ridendo sonoramente - miei cari amici, non voglio rovinarvi questa bella festa! Con mia moglie farò i conti in privato! -. Anna fece per andarsene, quando il barone le si avvicinò sussurrandole all’orecchio - Ve ne andate così, mia bella marchesa? - Anna lo guardò disgustata e scappò via, rifugiandosi nella sua stanza. 

Era decisamente stanca di suo marito, dei suoi comportamenti disgustosi, ma soprattutto dei suoi amici debosciati e di tutte quelle donne di malaffare che invadevano il suo palazzo quasi ogni sera ormai. Quelle stanze dove era cresciuta, dove erano custoditi i ricordi della sua famiglia, una famiglia della più antica nobiltà dai costumi morali irreprensibili, fedele alla corona e impeccabile sotto ogni punto di vista. Non poteva sopportare che ora quella residenza, un tempo sobria e pudica, fosse diventata un bordello per nobili depravati, a causa di quel marito così indolente e allo stesso tempo così vizioso. Si stese sul letto, riflettendo sulla sua vita infelice.

Ricordava come fosse ieri il giorno in cui Antonio le aveva detto che non si sarebbero più sposati. Fu una coltellata in pieno petto per lei, alle parole del giovane corse via, nascondendosi nelle più recondite stanze del palazzo, senza nemmeno ribattere nulla. Che cosa avrebbe potuto dire, d’altronde? Accusarlo? Insultarlo? Gridargli addosso tutto il suo dolore e la sua umiliazione? No, non sarebbe servito a nulla, lui non avrebbe mai cambiato idea. Scappò per non doverlo più guardare negli occhi, scappò per non mostrargli il suo dolore, il suo pianto, scappò per conservare il suo onore, l’onore di una giovane della migliore società del tempo, di onesti costumi e di straordinaria bellezza. Avrebbe sicuramente trovato altri mille pretendenti, migliori di lui, si diceva per consolarsi. E allora lui avrebbe capito lo sbaglio, si sarebbe pentito, sarebbe tornato da lei, ma allora lei gli avrebbe chiuso la porta in faccia: -troppo tardi-. Era così scossa che non volle nemmeno ascoltare le sue spiegazioni, non volle sapere nemmeno chi fosse quest’altra che aveva preso il suo posto nel cuore del suo Antonio: certo doveva essere chissà quale principessa, duchessa di nobilissima stirpe, di incredibile fascino e valore. Non avrebbe mai immaginato che la sua rivale fosse un’umile servetta, bella sì ma piuttosto sciupata, scialba, senza alcuna dote particolare se non appunto la sua umiltà e la sua dolcezza. Un essere insignificante, insomma, come, secondo lei, le serve che alla tenuta si prendevano cura della casa, l’aiutavano a vestirsi e a pettinarsi, persone che lei, contessa di sangue nobile, non aveva mai degnato nemmeno di uno sguardo, figuriamoci di una parola di ringraziamento.

Erano passati due mesi da quel terribile giorno di primavera quando venne a sapere tutta la verità circa il nuovo amore di Antonio e le loro imminenti nozze. Venne a sapere anche che lui avrebbe perso tutto: titolo, terre, denaro, l’affetto di suo padre, che non si sarebbe più ripreso da un tal colpo e l’avrebbe diseredato. La duchessa era morta l’anno prima e non aveva dovuto assistere alla rovinosa decisione del figlio, fortunatamente per lei. Anna si disse che Antonio era diventato pazzo, o forse lo era sempre stato, ma lei, accecata dall’amore per lui, non se n’era mai accorta. Ora invece lo capiva bene, capiva che forse per lei era stata una fortuna non sposarlo, che si sarebbe potuta accasare meglio con qualche nobile giovanotto meno idealista e più concreto, che non l’avrebbe certo abbandonata per correre dietro alle sue strampalate idee di giustizia e uguaglianza, ma avrebbe dedicato tutto sé stesso a renderla felice e a garantirle una vita agiata con tutti gli onori. Anna si diceva così, ma non ci credeva troppo nemmeno lei; fingeva di crederci per non mostrarsi sempre in lacrime davanti a suoi genitori, a suo fratello, alla servitù; le lacrime -e quante ne sparse!- le riservava ai momenti di solitudine nella sua stanza, senza che dal di fuori trapelasse nulla del suo intimo struggimento. 

E così un anno dopo, quando ormai lo scandalo dell’amore ancillare di Antonio aveva cessato di essere sulla bocca di tutti, Anna trovò uno sposo, o meglio, ad Anna trovarono uno sposo. Suo padre era ormai molto malato, sapeva che non sarebbe vissuto a lungo e quindi, prima di morire, voleva accasare la figlia maggiore, in quanto l’altro figlio, appena diciassettenne, non avrebbe potuto prendere in mano l’amministrazione della tenuta. Così, nonostante il parere contrario della moglie, decise che Anna avrebbe sposato Alvise Radicati marchese di Magliano, un uomo più anziano di lei, ma di antico casato e ricco possidente terriero. Anna non si oppose a questo matrimonio, anzi, colse l’occasione per vendicarsi di Antonio, volle che la cosa fosse annunciata ai quattro venti e proprio lei, per sua inclinazione così schiva, volle che fosse dato un ricevimento nuziale tanto fastoso che tutta la nobiltà della regione sarebbe accorsa e avrebbe parlato per mesi della festa a palazzo Ristori. Lo sposo, che sulle prime si era dimostrato cortese e galante, poco dopo fece emergere la propria natura di dissoluto, vizioso e scialacquatore di denaro, tuttavia non per questo Anna diede pubblicamente segni di insofferenza, anzi, orgogliosa com’era, ostentava la buona riuscita del suo matrimonio persino davanti agli occhi dubbiosi di sua madre.

 Com’era stata stupida, si diceva quella notte, a fingere così per tutto quel tempo! A che cosa le era servito? A mantenere la sua dignità o piuttosto a perderla, visto che tutti nella capitale e nel contado erano al corrente dei tradimenti, delle gozzoviglie e dei debiti di gioco del marito?  Ma lei non aveva mai mostrato nemmeno un piccolo segnale di cedimento, almeno fino quando non si erano trasferiti a Rivombrosa, in assenza di suo fratello, e Alvise non aveva mostrato il minimo rispetto, non solo nei confronti di sua moglie di sua figlia, ma nemmeno della famiglia dei Ristori, a cui quella residenza era da sempre appartenuta. Anna era terribilmente stanca, ma sapeva anche che non aveva alcuna via d’uscita, aveva ormai legato per sempre il proprio destino a quello di quell’uomo disgustoso.

 

Mentre era assorta in tali angoscianti pensieri, sentì bussare con forza alla porta. Esitò. Bussarono ancora. Un fulmineo pensiero si affacciò alla mente di Anna: e se Antonio fosse morto? Se avesse chiesto di lei? Se stesse male?  A bussare poteva essere Elisa, o qualcun altro della servitù. Ansiosa, si alzò svelta dal letto legandosi in vita la vestaglia e corse alla porta. Non era Elisa, non era qualcuno che veniva a portarle notizie di Antonio. Era suo marito Alvise: gli occhi porcini rossi e stravolti, il fiato che sapeva di alcol, la parrucca scompigliata sul cranio calvo, si appoggiava allo stipite per non cadere.

-Allora, mogliettina, che vi è preso questa sera?- Alvise entrò chiudendo la porta. Anna arretrò spaventata. - Lo sapevo, siete gelosa! - e scoppiò in una delle sue risate cavernose. - Ma non dovete esserlo, mia cara, io desidero solo voi- esclamò cercando di afferrarla per la vita e trascinarla verso di sé. Voleva abusare di lei. -Lasciatemi, Alvise, siete ubriaco, lasciatemi, mio Dio! - gridava Anna cercando di divincolarsi dalla sua stretta. Ma lui le era addosso e l’avrebbe certamente sopraffatta, Anna tentò un ultimo segno di insubordinazione e gli sputò in faccia, mostrando tutto il suo immenso disprezzo, tutta la rabbia accumulata in centinaia di serate come quella.

- Che cosa hai fatto? Lurida puttana che non sei altro! Sputare addosso al proprio marito! - sbraitò il marchese, detergendosi lo sputo dalla faccia con la manica della camicia -Te la farò pagare!- continuò raggiungendo Anna. La gettò sul letto e, schiacciandola con il suo notevole peso, cercava di soffocarla stringendole la gola. - Puttana, puttana che non sei altro! - continuava a gridare, mente Anna, paonazza per la mancanza di ossigeno, non sarebbe riuscita a resistere a lungo.

-Alvise, mio caro, dove siete? Tornate, vi prego, senza di voi non ci si diverte! Dove siete?- la voce cristallina di Betta, l’amante prediletta di Alvise, risuonava nel corridoio. Al che il marchese allentò la presa, si alzò a fatica dal corpo di Anna esclamando: - Betta, Betta, mio tesoro, sto arrivando!  - e si avviò trotterellando verso la porta. - Con te non ho finito! - minacciò Anna, e uscì incontro a Betta. Anna finalmente poté respirare, fece lunghi respiri finché si riprese dal tentato soffocamento. Non appena riuscì ad alzarsi, corse nella stanza di Emilia, vi entrò, prese in braccio la figlia addormentata e la portò nella sua stanza, chiudendo attentamente a chiave e collocando un mobile davanti alla porta. Una volta stesa a letto, trasse un sospiro di sollievo. Il peggio era passato, lei ed Emilia erano al sicuro. Era certa, però, che quella situazione non poteva essere sopportata ancora a lungo.

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Capitolo 6
*** Assedio ***


La luce del mattino svegliò Antonio, addormentatosi da troppo poco tempo. Tuttavia quelle poche ore di riposo, l’avevano ristorato, si sentiva molto meglio, il dolore si era affievolito ed era in grado di alzarsi, finalmente. Elisa, però, non volle sentire ragioni: sarebbe rimasto lì ancora per quella notte, lei e il resto della servitù se ne sarebbero presi amorevolmente cura. Non era un disturbo per loro, ma un onore poterlo aiutare, dopo tutte le volte che lui era accorso solerte alla loro chiamata.

-Insomma, non mi lasci scelta, mia cara Elisa!- concluse sorridendo il medico -Per stavolta passi, ma non appena mi sarò rimesso del tutto, toglierò il disturbo a voi e alla marchesa…-

-Te lo ripeto, Antonio, non è un disturbo la tua presenza per noi, anzi. In quanto alla marchesa…Non so dove sia, oggi ancora non si è vista, ed è ormai passato mezzogiorno. Il marchese, invece, è uno straccio. Anche stanotte han fatto baldoria fino a tardi, con quella gentaglia-

- Che vuoi dire?-

-Organizza feste ogni sera, con vari nobili suoi amici, prostitute e cose di questo genere. Bianca, che è costretta a stare di servizio fino al mattino, ha raccontato di cose indecenti. Che offesa per questa tenuta, per la famiglia Ristori!-

- Ma la marchesa in tutto questo?-

- La marchesa ovviamente non prende mai parte a queste feste, se ne sta nelle sue stanze. Credo che per lei sia difficile da accettare uno scempio simile, conosci il suo senso del pudore. Credo che ne soffra molto. Ma lei non parla con nessuno, è sempre così fredda, distaccata, nessuno riuscirà mai a capire cosa le passi per la mente-

- Eh già, hai ragione, è proprio così- disse Antonio abbassando lo sguardo e rabbuiandosi.

Elisa se ne accorse:

- Antonio, non ti senti bene? Che succede? -

-No, sto benissimo, molto meglio. Pensavo a come sia facile giudicare erroneamente le persone, accusarle quando invece si stanno soltanto difendendo…-

- Che vuol dire? A cosa ti riferisci? -

-Nulla, Elisa, nulla. E sia, resterò qui ancora questa notte. Da domani però me ne torno a casa. Avete fatto già fin troppo per me-.

 

Anna se ne stava nella sua stanza, barricata dalla notte precedente. La luce rossastra del tramonto illuminava l’interno, i fiori sul tavolo, il ritratto della marchesa appeso alla parete, riflettendosi nello specchio in cui Anna si stava studiando. Si sentiva invecchiata, sfiorita, stanca. Aveva gli occhi cerchiati dal pianto e dalle notti insonni, dall’indignazione del presente e dai ricordi del passato, ma soprattutto dall’assenza di una speranza per il futuro. Stava lì, contemplava attonita il suo colorito pallido e i boccoli castani che, sciolti, le ricadevano morbidi sulle spalle. Le sembrava di essere invecchiata di un secolo in pochi anni: i suoi occhi erano spenti ormai, rassegnati a molte cose, ma decisi a lottare fino alla fine. Per la sua casata, per l’onore della sua famiglia, per l’avvenire di Emilia. Nonostante tutto, si diceva, non poteva arrendersi, doveva continuare a lottare fino alla fine dei suoi giorni.

Il sole tramontò e il crepuscolo pian piano avvolse ogni cosa, confondendo le forme e i colori. L’oscurità scese e Anna, senza nemmeno degnarsi di accendere una candela, andò ad accertarsi che la figlia stesse al sicuro nella sua stanza e si coricò, sforzandosi di non ascoltare quella musica scadente ed assordante che le aveva annunciato, anche quella sera, l’arrivo degli ospiti di suo marito per nuovi bagordi.

Il copione lo conosceva ormai alla perfezione: le carrozze che arrivavano sul piazzale del cortile, via vai di servitù con le torce per accogliere gli ospiti, vociare confuso, risate stridule di donnicciole, musica di dubbio gusto. Potevano continuare fino a notte fonda, spesso addirittura fino all’alba. Lei non partecipava mai a questi eventi mondani, se ne guardava bene: non amava i salotti della capitale e i loro frivoli discorsi, non poteva che odiare questi simposi volgari. Anche quella sera tutto andò come previsto: danze, musica, risate sguaiate, brindisi, e via dicendo. Soltanto che Anna, quella sera, non riusciva proprio ad addormentarsi, l’indignazione, l’umiliazione e la rabbia che provava per quello che succedeva nel salone non le facevano prendere sonno, la costringevano alla tortura dell’insonnia. Ad un certo punto, era ormai passata la mezzanotte, decise di alzarsi. Si avvicinò alla finestra e notò degli strani movimenti nel cortile: servi che andavano e venivano in modo concitato, quasi si volessero nascondere dalle strisce di luce che le torce propagavano nel buio del giardino.  Anna restò in attesa.

 

-Forza, venite, è il momento! - -Ora! Ora! Non c’è tempo da perdere!- queste voci, che giungevano dalla finestra della stanza al pianterreno, fecero destare Antonio. -Prendete le armi, qua!- -Ma non bastano per tutti!- -Prendete le torce, allora, daremo fuoco a tutto!- -Sì, diamo fuoco a tutti i padroni-. Erano voci vigorose, decise, di giovani e meno giovani. Dopo le voci, incominciarono ad avvicinarsi dei passi; era una folla di almeno venti, trenta persone. Il medico non perse tempo, si vestì rapidamente e corse a svegliare la servitù:

-Elisa, mi vuoi spiegare cosa sta succedendo qui fuori?!- svegliò con queste parole la ragazza.

-Io…io non ne so nulla!- rispose intontita -Che succede?-

-Che succede? Saranno una trentina, vogliono assaltare il palazzo a quanto sembra-

-Non può essere, non può essere. Eravamo tutti d’accordo-

-E invece no, a quanto pare. Forza, usciamo, cerchiamo di fermarli-

Chiamarono a raccolta gli altri membri della servitù, Antonio cercava di capire da loro cosa stesse succedendo, cercava di convincerli ad intervenire ma notò una certa resistenza.

-Li conosciamo, sono contadini della zona. Non volevamo si arrivasse a questo, ma non prenderemo le armi contro di loro. Il marchese deve pagare!-

-Ma vogliono mettere a ferro e fuoco tutto!-

-Difenderemo quello che riteniamo da difendere, il resto se lo piglino! Finalmente un po’ di giustizia! Quel cialtrone di Alvise Radicati deve essere punito!-

Uscirono tutti alla fine di questo discorso, si accorsero che erano arrivati altri dalle campagne, armati di forconi, falci, torce, qualche fucile scadente. La servitù non mosse un dito, né per cacciarli, né per aiutarli.  Alcuni dal cortile sul retro, facendo il giro attorno all’edificio, si spostarono verso l’ingresso principale. Era piombato uno strano silenzio, come quello che precede lo scoppio di una tempesta. Antonio li seguì nell’ombra, rimase nascosto.

Dall’alto Anna aveva osservato una strana scena di ombre che si spostavano nella semioscurità, sembravano molti. Il tutto le era parso quanto mai sospetto. In preda ad una strana ansia era uscita, con addosso solamente la veste da camera e un mantello sulle spalle, dalla sua stanza, si era precipitata nel corridoio in cerca di qualcuno della servitù a cui chiedere lumi. Non aveva trovato nessuno. Riecheggiava soltanto la musica di quella squallida orchestra. Allarmata, confusa, irritata si precipitò verso lo scalone: aveva visto provenire una luce dal cortile, era certa che si trattasse di uno dei suoi dipendenti. I suoi passi risuonavano sui gradini in un silenzio quasi spettrale, si sentiva la musica sempre più lontana in sottofondo. Arrivò in fondo alla scala, sul piazzale. In quel momento pensò di aver avuto una pessima idea ad uscire, rimpianse di non essere restata nelle sue stanze, pensò di tornare da Emilia, ma mentre stava voltandosi per risalire le scale, vide con la coda dell’occhio un’ombra. Il cuore le si fermò per un istante, poi si mise a battere all’impazzata:

 -Chi è là?- gridò. Poi vide avvicinarsi numerose luci di torce nel buio, avanzavano, silenziose e minacciose. Non sapeva che cosa fare, voleva scappare ma non riusciva a muoversi dalla paura.

Ad un certo punto un grido. Era il segnale convenuto. I rivoltosi balzarono fuori allo scoperto su entrambi i lati dell’edificio. Alcuni assaltavano le stanze della servitù, che non oppose resistenza; gli altri, i più numerosi, accorsero verso lo scalone dell’entrata principale. La marchesa si vide circondata. Prese a correre verso un angolo buio del giardino, sperando di riuscire a nascondersi o quanto meno a ritardare la sua fine. Perché, in quell’istante ne fu certa, l’avrebbero uccisa. Emilia. Il pensiero della figlia le imponeva invece di tornare indietro, di gettarsi sulle scale e rientrare nel palazzo, anche a costo di finire in mezzo a quella minacciosa folla che avanzava travolgente come un fiume in piena. Doveva farlo, avrebbe rischiato la sua vita, ma doveva salvare quella di Emilia ad ogni costo. Stava per tornare sui suoi passi quando qualcuno la abbrancò da dietro, trascinandola verso di sé con forza.

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Capitolo 7
*** Via di fuga ***


- Anna, che cosa diavolo avete in mente di fare?! State indietro!-

-Antonio?!- esclamò sorpresa. -Che sta succedendo?-

-Non è difficile immaginarlo, una sommossa. Vostro marito non si è certo guadagnato la simpatia dei suoi mezzadri. Credo che sia meglio andarcene di qua! - disse trascinandola per la vita verso le scuderie sul retro.

-Ma come vi permettete? Lasciatemi, devo andare da mia figlia! -

Antonio esitò di fronte alla sua resistenza. Che diritto aveva lui di portarla via con la forza? Di impedirle di andare dalla figlia? Non era nessuno per fare questo. Stava quasi per allentare la presa, quando giunsero delle grida dall’interno del palazzo. Si videro avvampare delle fiamme. Tuonarono degli spari. I rivoltosi erano riusciti ad entrare, non avevano trovato alcuna resistenza da parte della servitù, le cui stanze erano state risparmiate. Si erano gettati sui nobili invitati al festino, volevano dar fuoco alle stanze del padrone. A presidio potevano sì e no esserci sei, sette guardie assoldate pochi giorni prima dal marchese, nulla più. No, non poteva lasciarla andare, non l’avrebbero risparmiata. Avrebbe scontato anche lei i soprusi e le angherie vigliacche del marito, che lei stessa subiva. Antonio la strinse ancora più forte. Non voleva lasciarla andare, ma Anna si divincolò, lottò e alla fine riuscì a sfuggirgli.

-Anna, non andate, vi prego! Non andate!- urlava disperato il medico rincorrendola. Riuscì ad afferrarle un braccio, Anna inciampò e si trovarono tutti e due a terra. -Perdonatemi, non volevo. Ma adesso venite con me!- il volto di Antonio le era vicinissimo, poteva distinguere i suoi occhi angosciati nell’oscurità, la sua voce suonava supplichevole. Le successe di nuovo. Come le era successo sedici anni prima. Come si era ripetuto la notte precedente. Come le sarebbe sempre capitato incrociando anche solo per sbaglio i suoi occhi. Si ritrovò del tutto in sua balìa, incapace di reagire, di rivendicare la sua volontà. Il suo sguardo accorato, i suoi gesti premurosi ed ansiosi a un tempo, che lasciavano trapelare tutta la preoccupazione che nutriva per lei, frantumavano ogni sua reazione di protesta. Antonio l’aiutò a rialzarsi e, tenendola per mano, senza che lei opponesse più alcuna resistenza, la condusse sul retro dell’edificio.

-Elisa!- chiamò Antonio, vedendo la ragazza correre trafelata verso di loro.

 -Stanno mettendo tutto a ferro e fuoco, là dentro. A noi non hanno fatto nulla, ce l’hanno con il marchese e quei suoi amici debosciati. Ora le guardie hanno chiamato rinforzi. Non so cosa potrà succedere, non lo so!- esclamò concitata. E aggiunse -Dovete andarvene il prima possibile di qua, marchesa! -

- Emilia! Devo assolutamente andare da lei, non posso lasciarla in mezzo a questo inferno!-  gridava Anna disperata.

- Marchesa, vi ucciderebbero, se solo vi vedessero! Non potete entrare! Sarebbe condannarsi a morte certa! Andrò io da Emilia, la porterò con me negli alloggi della servitù. Sono sicura che Bianca l’ha già portata in salvo lì-

- Giuramelo, Elisa, giuramelo! - la supplicò Anna stringendole le mani, anzi stritolandogliele.

- Ve lo giuro, marchesa, ve la riporterò sana e salva. Fosse l’ultima cosa che faccio. Ma ora andate, marchesa, scappate! - concluse vedendo sopraggiungere alcuni uomini armati di falci e torce dall’altra parte del cortile.

Anna non si risolveva a fuggire, guardava ora Elisa ora la sua residenza in fiamme. Le sembrava di vivere un incubo. Aveva perso il controllo delle sue azioni.  Antonio la strattonò, con quanto garbo poteva, e la condusse, come trasognata, alle scuderie. Montò sul primo cavallo che trovò e, dopo averla aiutata ad issarsi, partì al galoppo nel buio.

I rinforzi chiamati dalle guardie del marchese si stavano avvicinando alla tenuta, si notavano le fiaccole nel buio, e alcuni dei rivoltosi avevano già dato inizio ad una disperata fuga. 

Antonio aveva preso la via che conduceva al bosco, diretto alla sua casa sul lago; teneva con una mano le briglie del cavallo, con l’altra teneva stretta Anna che sedeva di traverso sulla sella davanti a lui. La marchesa non parlava, non accennava al minimo movimento; si reggeva con ambo le mani alla sella del cavallo e con lo sguardo fissava davanti a sé il buio. Nei suoi occhi restavano i riflessi delle fiamme che bruciavano Rivombrosa, nelle sue orecchie gli spari, le minacce, nella sua mente l’immagine della figlia abbandonata in quell’inferno. Il medico non provava nemmeno più a parlarle, cercava soltanto di arrivare al sicuro il più presto possibile. Lui si fidava della parola data da Elisa, era convinto che Emilia, protetta e nascosta dalla servitù, non avrebbe corso alcun pericolo: ce l’avevano con il padrone, non se la sarebbero mai presa con una ragazzina, pensava, fiducioso nel buon animo dei contadini, che erano sempre stati suoi protetti.

Il tempo si stava mettendo al brutto, la luna si nascondeva tra spessi nuvoloni scuri per poi riapparire poco dopo; il vento aveva iniziato a soffiare forte, propagando ancor di più l’incendio del palazzo.  Antonio non ci fece caso, conosceva la strada a memoria per tutte le volte che l’aveva percorsa. Giunti però al limitare del bosco, ecco sopraggiungere alle loro spalle qualcuno.

-Chi è là? Fermo!- urlò una voce dietro di loro -Fermo o sparo!- e all’ordine accompagnò un colpo di fucile. Antonio non sapeva che fare, non sapeva se si trattasse di guardie o di rivoltosi. Nel primo caso lui avrebbe corso il rischio di essere arrestato, se riconosciuto, ma nel secondo caso la vita di Anna sarebbe stata in serio pericolo: non usava portare armi, e in quel momento, nonostante il suo convinto pacifismo, lo rimpianse amaramente perché non avrebbe potuto difenderla in alcun modo. 

Si udì un altro sparo. -Antonio, dove pensate di andare? Fermatevi, per l’amor di Dio!- esclamò Anna, riavendosi da quello stato di torpore. Antonio tirò le briglie al cavallo, che si fermò. Ed eccoli circondati da cinque uomini a cavallo in vesti contadine: non erano guardie.

-E’ la marchesa! Ne sono sicuro! –

-Prendiamo lei, visto che il marchese ci è sfuggito!-

 Si avvicinavano minacciosi. Antonio fu sul punto di spronare il cavallo, ma desistette vedendosi un fucile puntato addosso.

 Anna esclamò: - Chi diavolo siete? Cosa volete da me?-

-Marchesa, venite con noi e saprete!- scoppiò a ridere uno dei giovani.

-Dovete pagare per quello che ci avete fatto, voi e vostro marito il marchese! Ci avete ridotto alla fame!-

-Giusto, bravo, giusto!- urlavano in coro gli altri. Mentre uno teneva il fucile puntato su Antonio, un altro cercava di strattonare la marchesa per trascinarla giù da cavallo.

-Lasciatemi!- gridava Anna resistendo, mentre Antonio cercava di tenerla stretta il più saldamente possibile, finché uno strattone più forte le fece perdere l’equilibrio e la fece cadere da cavallo. -Anna! - esclamò il medico precipitandosi anch’egli giù da cavallo.

-Tu non ti muovi!- lo fermò uno di loro, scambiandolo evidentemente per un servo della marchesa. Lo afferrò per la giacca e lo minacciò con un coltellaccio puntato alla gola. Gli altri nel frattempo avevano già preso Anna e le avevano legato le mani con una corda.

-Zotici che non siete altro, me la pagherete!- inveiva la marchesa.

La luna uscì per un attimo allo scoperto. -Un momento!- si sentì esclamare. -Un momento, fermi. Lo conosco, è un medico. Ha curato mio fratello e mio zio. Lasciatelo andare. Sta dalla nostra parte-. Antonio lo riconobbe e gli mostrò uno sguardo di riconoscenza.

-Sta dalla nostra parte? Intanto per cominciare stava facendo scappare la marchesa- rispose quello che teneva ferma Anna per i capelli. -Son tutti nobili, tutti uguali. Che gliene importa a loro della povera gente come noi? Noi ci spezziamo la schiena per loro, così possono vivere nel lusso!-

- Lasciatelo, vi dico. Ho un debito con lui. Lasciatelo- s’intromise il giovane amico di Antonio, afferrando per un braccio quello che stava minacciando il medico. 

-E sia! Ma porteremo via la marchesa!- concesse quello che tra loro sembrava il capo.

-No!- gridò Antonio liberandosi dalla stretta. -Non ci sto. Prendete me, allora-.  Si avvicinò al presunto capo offrendo i polsi. -Prendete me e lasciate andare la marchesa- ripeté guardando dritto negli occhi l’uomo. Uno sguardo fermo e risoluto, che nascondeva però una grande paura. Paura che questo suo gesto non bastasse.

 

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Capitolo 8
*** Una tregua ***


-Antonio, che fate? Perché? Dovete scappare voi che potete! Andate da Emilia!- gridava intanto Anna. Il giovane che Antonio aveva aiutato si mise in mezzo.

-Basta, si fa come dico io! Il dottore è nostro amico, mi ha nascosto, insieme ai miei parenti. Ha tentato di tutto per salvarli, correndo il rischio di farsi arrestare dalle guardie. Sta con noi, sta con il popolo. Lasciatelo e fate come dice. Lasciate la marchesa. Non è con lei che ce la dobbiamo prendere, ma con quel vigliacco del marchese Alvise Radicati!- 

-Ha ragione, lasciamoli andare - 

-Sì, facciamo come dice lui-

Alla fine anche il capo, quello più irremovibile, cedette. -E va bene, sia pure. Anche se non capisco…il vostro amico è con noi ma…-

-Zitto, si fa come dico io adesso! - lo interruppe il giovane.

 L’altro compagno lasciò andare Anna, le slegò i polsi quasi con rispetto, con deferenza, come se nonostante tutto, non fosse riuscito a scordare le regole di obbedienza ai padroni. Poi i cinque rimontarono a cavallo e fecero per ripartire al galoppo. Antonio fermò il giovane.

- Grazie- disse soltanto.

-Dottore, non è nulla in confronto a quello che voi avete rischiato per noi –

-I tuoi parenti? -

-Non so che fine hanno fatto. Li avranno presi. Sappiamo cos’han fatto a voi le guardie, alla vostra abitazione. Sappiamo tutto. Posso solo esservi grato-

-Mi dispiace, mi dispiace- sospirava Antonio, sinceramente costernato.

-Addio! - esclamò il giovane -Marchesa!- aggiunse poi in segno di saluto e sparì nel buio del bosco.

Antonio si voltò e vide Anna in piedi davanti a lui, i capelli scompigliati, la faccia stravolta, che si massaggiava i polsi. -State bene, Anna?- le corse vicino il medico, premuroso. -Fatemi vedere -. Anna sentì un brivido quando lui le prese la mano e passò le dita sul polso. Ma non durò molto questo contatto: ritrasse la mano e con un gesto scocciato si riassettò il mantello, poi disse: -Andiamo, ora - riavviandosi verso il cavallo e lasciando Antonio a guardarla. -E che questa terribile notte di tregenda finisca presto!- mormorò poi, senza che lui la sentisse.
 

Ripresero il cammino verso casa e poco dopo scoppiò un terribile temporale. Pioveva a dirotto, tanto che facevano fatica ad orientarsi: il cavallo, poi, non conosceva la strada e si imbizzarriva spaventato dai tuoni. Ci volle non poco ad Antonio per tenere quieta la bestia, che nitriva atterrita e non ne voleva sapere di procedere.

-Ci vuole proprio far proseguire a piedi, questo cavallo! - disse stizzita Anna.

-Ci siamo quasi, Anna, pazientate ancora per poco- cercò di blandirla Antonio.

Finalmente giunsero alla casa, che era rimasta sottosopra come l’avevano lasciata le guardie nel loro sopralluogo qualche giorno prima. Antonio guardava con disappunto i vetri rotti, i cocci sparsi, le sedie e i mobili rovesciati.

 -Oh mio Dio! Che hanno fatto? -  esclamò Anna, portandosi le mani al volto nel vedere la devastazione.

-Non vi preoccupate, ora sistemo. Datemi il mantello, è zuppo di acqua. Vi porterò una coperta-.

 Anna lo guardò sottecchi, scorse la desolazione negli occhi di Antonio per via dell’oltraggio alla sua casa ma notò anche la sua premura, la sua volontà di non dar peso a quanto successo per non coinvolgere lei, già abbastanza scossa. La marchesa, pur notando questo, era ancora restia a fidarsi del tutto: gli diede il mantello, fradicio, senza guardarlo in faccia. Si sedette su un divanetto di fronte al camino, era rimasta in veste da camera, poiché era stata sorpresa dal pericolo nel momento in cui stava per coricarsi ed aveva fatto in tempo ad indossare solo il mantello. Tremava, quindi, per il freddo, ma non voleva darlo a vedere. Sedeva impettita, con lo sguardo severo fisso davanti a lei, come per non dar segno di alcun interesse per ciò che Antonio stesse facendo. Il medico ritornò poco dopo.

-Ma voi tremate! Vi potreste prendere un malanno con tutta quella pioggia, permettetemi di…-

-Non c’è alcun bisogno, dottore. Sto bene, solo un po’ di freddo-

-Prendete almeno questa coperta. Ecco - disse e sistemò la coperta sulle spalle della marchesa, che nemmeno lo ringraziò.

Chiuse gli occhi e prese a respirare profondamente. Antonio si accorse di questo strano atteggiamento: -Anna, siete sicura di stare bene? A me non pare!- chiese avvicinando il suo volto a quello della marchesa che si voltò di scatto e rispose secca: -Benissimo. Ora lasciatemi riposare, di grazia!-

Ma il respiro non si placava e aveva inoltre iniziato a muovere convulsamente le mani. L’apprensione di Antonio cresceva: accennò ancora a parlarle ma lei lo freddò con lo sguardo. Con quei suoi intensissimi occhi scuri che avevano il potere di agghiacciarlo più di ogni altra cosa al mondo, ma che allo stesso tempo in un passato ormai troppo remoto avevano saputo esprimergli calore, gioia, riconoscenza, amore. In quel momento però gli rendevano solo un sordo disappunto, un’insofferenza inespressa della sua presenza. Ebbe timore di ciò che lei potesse aggiungere a parole a quello sguardo e pertanto concluse: -E va bene. Come desiderate. Buonanotte.-. E, riavviate le braci spente del camino, si ritirò nel suo studio per riassettarlo e controllare che non mancasse nulla dopo la visita delle guardie. Non aveva sonno. -Buonanotte- rispose la marchesa, senza degnarlo di uno sguardo nemmeno questa volta. Si era ormai nel cuore della notte.

Sul far dell’alba Antonio ebbe terminato di riordinare le proprie cose nello studio – le guardie non si erano portate via nulla – e tornò in salotto da Anna. Stava dormendo su di un fianco, appoggiata appena allo schienale del divano, come se neppure nel sonno fosse in grado di perdere il controllo. I suoi bellissimi lineamenti avevano assunto un’espressione inquieta, le sue mani delicate stringevano convulsamente la coperta come una bambina spaventata da chissà che. Non sembrava in pace con sé stessa: tutto in questa visione di lei esprimeva struggimento, sofferenza, tenerezza, ma l’insieme conservava intatta la sua bellezza. Antonio restò qualche istante in piedi a contemplarla senza riuscire a distogliere lo sguardo, incantato come quella sera di carnevale di sedici anni prima. Ad un tratto, però, si accorse che nel sonno stava tremando ancora, perciò corse a prendere un’altra coperta. Si sedette accanto a lei e la avvolse con la coperta, ma non resistette alla tentazione di stringerla fra le braccia. Poco dopo, accarezzandole i capelli, si addormentò anch’egli.

 Albeggiava quando Anna si svegliò. Provò un’inconsueta sensazione di benessere e calore a cui volle abbandonarsi ancora per qualche istante. Poi però si riscosse, aprì gli occhi e si trovò stretta fra le braccia di Antonio che continuava a dormire beato.

-Come vi siete permesso!- esclamò irritata liberandosi dal suo abbraccio e facendolo svegliare di soprassalto.

-Che succede?- chiese assonnato Antonio cercando di distinguere le figure nella fioca luce dell’alba.

 -Vi sembra conveniente quello che avete fatto?-

-Anna, avevate freddo questa notte e allora…- rispose mettendosi a sedere. Anna, seduta a fianco a lui, teneva ostentatamente lo sguardo rivolto fuori dalla finestra mentre gli parlava.

-Proprio voi, che difendete quella gentaglia che sta distruggendo la mia tenuta, la mia casa…proprio voi parlate, dopo tutto il male che mi avete fatto, avete il coraggio di fingere di preoccuparvi per me!-

- Anna, io volevo solo…-

-Sta’ zitto, almeno! Sta’ zitto. La mia vita è ridotta a un inferno: un marito violento, indecente, che disonora la mia famiglia e la mia casa in continuazione con i suoi amici, le sue amanti, le sue feste disgustose. Mi fa ribrezzo anche se soltanto si avvicina a me, poi quando cerca di mettermi le mani addosso…Dio mio che schifo! E adesso per le sue vigliaccherie, perché è un incapace, questi zotici se la prendono con la residenza dei Ristori, una famiglia che non ha mai mancato di rispettare le leggi e onorare la corona, che ha agito sempre nel giusto. E ora? Mettono a ferro e fuoco tutto, senza sapere, senza fare distinzione. E cosa vuoi pretendere da questa gente…E tu li difendi, tu li difendi pure!-

Si era girata di scatto verso Antonio e urlava, ormai incontenibile. Ad Antonio non era però sfuggito che fosse passata al “tu”, in cuor suo se ne rallegrò, ma non sapeva come placarla. Prese il partito di non dire nulla, di lasciarle sfogare tutto il suo odio e la sua rabbia.

-Ed Emilia, mia figlia? Anche lei dovrà pagare per le colpe di suo padre? Anche lei? E io sono scappata, l’ho abbandonata. Ed è colpa tua, sei tu che mi hai portato via. È tutto colpa tua, Antonio, tutto! La mia vita è distrutta unicamente per colpa tua!- aveva le lacrime agli occhi.

Ormai era un fiume in piena, inarrestabile. La luce che via via entrava dalla finestra permise ad Antonio di notare dei segni sul suo collo, all’altezza della giugulare.

 -Fate vedere. Che cosa sono quei segni, Anna?- chiese dolcemente, non appena lei si era per un attimo placata.

-Non è nulla –

 Antonio non si fece intimorire e si sporse verso Anna sfiorando delicatamente con le dita quei segni. 

-No, stavolta non vi credo. Sembrano segni da pressione, da tentativo di…-

-Basta! Tanto che importa a voi? Che importa delle violenze che devo subire quotidianamente da quel pazzo sciagurato di mio marito? Nulla, mai importato nulla-

 Stava piangendo, sommessamente e, cercando di non farsi vedere da Antonio, aveva girato il viso verso la finestra. Ma Antonio ormai non poteva più tacere, la sofferenza di Anna lo stava distruggendo: se non l’avesse lenita, ne sarebbe morto lui stesso.

-Me ne importa, invece, Anna. Oh, se me ne importa! E sai perché? - chiese con il tono più dolce e più fermo che fosse riuscito a trovare. Anna si voltò, asciugandosi le lacrime, e scosse il capo in segno di diniego. -Perché, hai ragione, è tutta colpa mia. Dannatamente colpa mia. Perché amavo quella ragazza testarda e sentimentale, forse un po’ altezzosa, orgogliosa che conobbi in quella gelida sera di carnevale. Perché l’amavo, e il mio più grande rimpianto è quello di averla lasciata. Perché non riuscirò mai a perdonarmelo, per tutta la vita conserverò questo atroce senso di colpa che mi divora ogni notte pensando a lei. Perché amo te ora, come allora amavo quella ragazza e come ti amerò fino alla fine dei miei giorni, che tu lo voglia o meno-

 Gli occhi di Antonio brillavano distintamente nella luce soffusa, Anna incontrò il suo sguardo limpido, sincero, lo stesso che aveva amato sedici anni prima. Poi chiuse gli occhi e sentì soltanto le labbra di Antonio sulle sue. Sorrise e si abbandonò finalmente a quel bacio tanto atteso da sedici anni, stringendo a sé Antonio e accarezzandogli i capelli, la fronte dov’era ancora bendato, le guance, rispondendo con ritrovata passione ai baci di lui.

-Riuscirai mai a perdonarmi tu, visto che io non ci riesco? - le chiese staccandosi per un attimo dalle sue labbra, sfiorandole delicatamente una guancia.

Ma Anna non voleva rispondere, non in quel momento. Non era quello il tempo di saldare il conto con il passato, di dividere colpe e ragioni. L’unica cosa che voleva era rituffarsi fra le sue braccia, per placare così la mancanza di lui che aveva sopportato per troppo tempo. Così, senza parlare, nascose il viso nel suo abbraccio, asciugando le lacrime sul suo petto. Antonio le sollevò il viso per poterla guardare negli occhi, velati dal pianto e dalla commozione. Quante cose avrebbe voluto dirle! Quante parole per alleviare il suo dolore annegandolo nel proprio, quanti pensieri cullati nelle notti insonni! Ma gli riuscì solo un flebile – Mi dispiace – pronunciato con voce rotta. A lui, che aveva sempre la frase giusta per confortare chiunque, per rincuorare i suoi pazienti anche di fronte alla morte, mancavano le parole per spezzare il silenzio che da anni lo separava dalla donna che amava. Non aggiunse nient’altro, limitandosi a guardarla mentre anche i suoi occhi si velavano di lacrime. Anna non disse nulla, e accarezzandogli le guance gli sfiorò le labbra con un bacio malinconico che aveva il sapore d’altri tempi. Poi i baci, le carezze e i sorrisi non si contarono più, per far perdere il conto a tutti quei “vecchi brontoloni” che per sedici anni avevano continuato indefessi a scagliare il malocchio su di loro.

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Capitolo 9
*** Brusco risveglio ***


Il passato, i rimpianti, i rimorsi, le lacrime, le notti insonni, i veleni. Tutto sembrava lontano in quel momento, relegato in un angolo nascosto delle loro menti, incredibile quasi. Come potevano essersi privati per tanto tempo di quello che stavano vivendo? Entrambi se lo chiedevano e nessuno dei due riusciva a darsi una riposta ragionevole. Poi smisero di farsi domande, trascinati dalla passione. Sedici lunghi anni spazzati via in un soffio, come se tutto ciò che era intercorso si fosse volatilizzato in quell’istante in cui i loro sguardi, che prima si sfioravano, si cercavano per poi fuggirsi, si erano finalmente incontrati e riconosciuti.

La sommossa, le urla, gli spari, l’incendio di Rivombrosa, lo squallore di Alvise e dei suoi invitati, gli sguardi truci dei contadini che li avevano fermati, le minacce, le violenze sembravano annullarsi in un altrove evanescente, in una realtà parallela intangibile. Nel silenzio e nella penombra i contorni delle cose sfumano, si annullano, svaniscono come in un sogno. E, come in un sogno, la veste scivola giù dalle spalle sotto il tocco delle mani tremanti di Antonio che non smette di riempire di baci le labbra, il collo, le spalle, il seno di Anna. Il crocifisso che porta al collo è l’unico testimone di quegli attimi di abbandono. Ma lei non se ne preoccupa, la sua anima è totalmente occupata da Antonio, dai suoi baci a cui corrisponde ora con tenerezza ora con incoercibile desiderio. Gli sfila il panciotto, gli sbottona ad uno ad uno i bottoni della camicia, gli accarezza il petto, i capelli, le guance; non sopporta che si allontani, che si stacchi da lei anche solo per un attimo. Ma lui non ha alcuna intenzione di separarsi da lei, non ora che l’ha ritrovata: se si scosta per un istante dalle sue labbra, dalla sua pelle è solo per sprofondare nei suoi occhi, per leggervi tutto ciò che in quegli anni avevano taciuto. E sorride, rassicurato da quanto vi legge. Tutti gli ideali di ribellione ai privilegi, tutti i compromessi rifiutati in nome della giustizia di classe, tutti sacrifici immolati sull’altare della integrità morale che cosa sono, in questo momento, se non vane parole?  A che cosa gli sono serviti se non a soffrire e a far soffrire l’essere che più ama al mondo?

Ma Anna ora gli sorride, lo stringe forte a sé: non le importa che tutto questo sia contrario alla morale, ai precetti religiosi, ai principi ferrei che si era imposta, alla decisione dettata dall’orgoglio di non aver più nulla a che fare con lui. Non le importa di tutto ciò. Sa solo che lo desidera, che l’ha desiderato per anni. Il resto non ha alcuna importanza.

 

Colpi nervosi battuti sulla porta.

-Che succede? - chiese Antonio, corrugando la fronte e liberandosi dolcemente dalla stretta di Anna. Altri colpi, stavolta alternati a voci e imprecazioni. Per tutta risposta lei lo trattenne gettandogli nuovamente le braccia al collo, tenendolo stretto: -Non andare-. Lui la guardò interrogativo. -Non andare, potrebbe essere pericoloso- lo supplicò di nuovo. I suoi occhi tradivano tutta la sua apprensione, il suo timore irrazionale di essere nuovamente abbandonata, l’angoscia del distacco. Seguirono istanti carichi di tensione. Stettero immobili guardandosi negli occhi, tendendo l’orecchio al minimo rumore. Poteva essere chiunque: un mezzadro che aveva bisogno di aiuto per qualche familiare malato, lo stalliere di Antonio che chiedeva indicazioni sul lavoro da fare, un messo che portava notizie dalla capitale, le guardie che venivano a prendere chi aveva protetto i rivoltosi. Insomma era imprevedibile. Ma certamente la tensione di quei giorni caotici non disponeva a ottimistiche previsioni. Un tonfo sordo. La porta, già sfondata e malferma sui cardini, cedette sotto ai calci. 

-Troppo tardi- sospirò Antonio, alzandosi in piedi e sistemandosi alla meglio la camicia stazzonata. Si udì poi una voce nota, troppo nota ad Anna, che volse ad Antonio uno sguardo sbigottito - Non ti muovere per nessuna ragione. Torno subito - le disse lui, in un tono che non riuscì ad essere rassicurante quanto avrebbe voluto.

-Caro il mio dottore, pensavate di passarla liscia anche stavolta? - Alvise apparve nella stanza di ingresso, con le vesti bruciacchiate in più punti, il bastone in mano, gli occhi spaventati di chi ha appena scampato un gran pericolo ma nello stesso tempo furibondi e assetati di vendetta. Il suo solito ghigno gli si dipinse in viso mentre entrarono con lui i suoi uomini di scorta. Antonio gli si fece incontro.

-Non so proprio di cosa stiate parlando, marchese. Tuttavia conosco le regole della buona educazione e quella di sfondare le porte non è contemplata-

- Vi pare il momento di scherzare? Davanti a questi miei amici?- rise sguaiato il marchese, indicando le sue guardie dallo sguardo torvo. -Voglio che mia moglie e mia figlia vengano immediatamente via con me-. Il suo sguardo da divertito si era nuovamente fatto minaccioso.  -Sono stato chiaro?-

-Non credo proprio di potervi aiutare-

-Come sarebbe a dire? Non scherzare con me, dottorino!- Alvise, fuori di sé, forte della sua stazza, aveva sollevato Antonio per il bavero della camicia e l’aveva sbattuto violentemente contro il muro. -Parla, idiota! Parla!- ringhiava scuotendolo energicamente.

-Non ne so nulla, non dovete cercarle qui- rispondeva il medico con voce strozzata.

-Ah non ne sai nulla? Pensi che io non sia più in grado di farmi dire dai miei servi dove si trovi mia moglie? Mi fai così stupido? Oh eccome se hanno cantato quei pezzenti, sperano di scampare il patibolo ma non sarà così!- . Non accennava a mollare la presa; Antonio non sapeva più che fare, non gli lasciava il tempo di formulare una qualsiasi menzogna per stornarlo da lì. Ma stava zitto, non avrebbe per nulla al mondo messo in pericolo Anna.

-Forza, fatelo parlare voi, che io non ci riesco-.

Due guardie si diedero a colpire il medico con il calcio del fucile, ma non fecero in tempo ad assestargli che un paio di colpi che Anna apparve nell’ingresso.

-Eccomi, Alvise, sono qui- disse rivolgendo al marito uno guardo di sfida. -Verrò con voi, se volete, ma lasciatelo stare-.  -Guarda chi si vede! - esclamò divertito il marchese -Lasciatelo! Fermatevi!- gridò lei. Le guardie si fermarono all’istante, lasciando Antonio a tamponarsi con un fazzoletto il sangue che gli usciva dal labbro spaccato.

-Oh, ma che brava la mia sposa! Pensavi che non avrei scoperto che ti eri rifugiata dal tuo dottorino? -. Anna non rispose, continuò a sostenere lo sguardo del marito con fare altero e sprezzante. -Lo sappiamo bene tutti e due, tu in particolare, quanto abbia a cuore la servitù e soprattutto le belle servette, il tuo dottore…Sempre a tramare con quei disgraziati! E tu non l’hai ancora capita la lezione?-. Rievocare certi ricordi fu un vero colpo basso, ma Anna seppe incassarlo con sangue freddo.

- Dov’è mia figlia? - chiese poi il marchese.

 -Non è qui- rispose Anna.

-Non è qui? E come sarebbe a dire? Me l’hanno giurato, quegli infami!- e si mise a chiamare a gran voce -Emilia! Emilia! Esci fuori e vieni immediatamente da tuo padre o saranno guai! Vi farò pentire tutt’e due!-

-E’ inutile, Alvise, Emilia non è qui- disse calma, quasi prendendosi gioco di lui.

-Non è possibile! Fate saltar fuori mia figlia!- e così dicendo afferrò con forza Anna per un braccio -Allora?- la esortò scrollandola brutalmente.

-Non c’è nessun altro in casa, potete controllare- si intromise a quel punto Antonio.

- Tu stai zitto! Non sono cose che ti riguardano-. Gli uomini di Alvise si sparsero per la casa, distruggendo le ultime cose rimaste in piedi dopo il passaggio delle guardie. Si udirono vetri frantumarsi, mobili venire rovesciati, porte sbattute. Poi ritornarono nell’ingresso: -Nulla, signore-.

-E dove si sarà cacciata?- si chiese a voce alta -Tu vieni con me, ti farò passare io la voglia di andare in giro con certi facinorosi. Fino a prova contraria sono ancora io il padrone. Nonché tuo legittimo marito- aggiunse gettando uno sguardo obliquo al dottore e, così dicendo, strattonò la moglie afferrandola con violenza per un braccio e conducendola verso la porta.

-No, Anna!- la chiamò Antonio avvicinandosi -Non andare, non fidarti!-. Anna si voltò senza parlare, ma nello sguardo si leggeva: -Ho forse altra scelta?-. Il medico cercava in tutti i modi di raggiungerla, ma le guardie gli si pararono davanti sbarrandogli il passo. Lo afferrarono per le braccia e lo costrinsero in ginocchio.

-E voi, date una lezione al caro dottore, così che gli passi la voglia di fare comunella con quei pezzenti dei miei servi!- ordinò ai suoi scagnozzi il marchese, spingendo in malo modo Anna dentro la carrozza e salendo a sua volta goffamente, puntellandosi con il bastone.

 -Me la pagherai, Alvise, questa me la pagherai!- inveì la moglie a denti stretti, mentre assisteva angosciata ai colpi che le guardie assestavano ad Antonio con il calcio del fucile.

 Quanto avrebbe voluto poter correre da lui! Ma sapeva bene che questo avrebbe solo aggravato la loro situazione. così restò al suo posto, a pregare che non gli facessero troppo male e a pronunciare con voce sommessa il suo nome.

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Capitolo 10
*** Disobbedienza ***


 

-Allora? Siete contenta di essere di nuovo a casa? Guardate come l’hanno lasciata i vostri beniamini, gli amici del vostro dottore! Guardate, osservate bene! Se non fosse stato per l’acquazzone di stanotte avreste trovato solo cenere del vostro bel palazzo!-

Alvise con un balzo, che di felino aveva ben poco, era sceso dalla carrozza, seguito dalla moglie a cui ora indicava con ampi gesti lo scempio che i rivoltosi avevano fatto della loro dimora. La luce del primo mattino illuminava il palazzo. In realtà non tutto era danneggiato, solo dalle finestre del salone si intravvedevano gli effetti dell’incendio, le pesanti tende bruciate, i vetri delle finestre rotti.

-Ma, come potete vedere, io ho salvato Rivombrosa dalla distruzione, io, che ne sono a maggior ragione il legittimo proprietario ormai. E voi, mia adorata consorte, non mi avete nemmeno degnato di un ringraziamento! - continuò sogghignando.

-Questa tenuta non sarà mai vostra, Alvise, mio fratello presto tornerà- lo sfidò Anna con uno sguardo sprezzante.

-Lo vedremo! Per ora te ne starai chiusa nella tua stanza, ora controllerò io di persona! - ribatté tronfio il marchese Radicati, sollevato dal fatto di avere di nuovo in mano le redini della tenuta e della vita della moglie.

-Siete un essere spregevole, che Dio vi maledica!-

-Ora basta! - e assestò un manrovescio sul volto di Anna, facendola cadere sulla scalinata.

- Che siate maledetto! Voi e il giorno in cui vi ho sposato! - rispose lei incollerita, massaggiandosi la guancia.

 

 

-Dove siete? Vi voglio qui tutti! Tutti! E subito! Mi sono spiegato?- sbraitò il marchese, ritornando nel salone dopo essersi assicurato di aver messo Anna sotto chiave, così da non darle la possibilità di tramare con la servitù per continuare a nascondere Emilia. La servitù accorse al richiamo del padrone, timorosa di una delle sue tipiche reazioni smodate.

-Dov’è mia figlia? Adesso me la riporterete qui. Immediatamente! Ne ho abbastanza delle bravate di quella piccola canaglia. E soprattutto non ammetto che continui a frequentare gente meschina della vostra specie, anche se questo è un vizio di famiglia, a quanto pare…-

Tutti stettero zitti. Emilia era ben nascosta nei loro alloggi, tanto che le guardie durante una veloce perlustrazione non erano riuscite a scovarla: non l’avrebbero mai riconsegnata alla furia del marchese. Adirato com’era, avrebbe punito duramente anche la ragazzina per essersi nascosta da lui.  Quella notte stessa, sedata la rivolta e catturati alcuni dei fuggiaschi, aveva minacciato di far impiccare lui stesso i rivoltosi sulla pubblica piazza del borgo. Tra di essi era stato preso anche Angelo, che pure aveva in precedenza tentato di sedare gli animi. Ma l’ira funesta del padrone non riusciva a cogliere queste sottigliezze. Non che l’ingegno del buon Alvise avesse manifestato in situazioni pur meno tese tutta questa grande acutezza… Gli ostaggi erano tenuti prigionieri negli scantinati del palazzo, controllati dalle sue guardie personali, che erano state raddoppiate dopo i fatti incresciosi di quella notte.

-Allora? Nessuno parla?- riprese sempre più furioso.

Elisa, impulsiva com’era, dovette fare un grande sforzo per non rispondere a tono al suo odioso padrone, ma c’era in gioco Emilia, non poteva permettersi di tradirsi in alcun modo.

-Se non avete intenzione di parlare, vorrà dire che incomincerò a chiederlo ai vostri compari che abbiamo preso…Così non si annoieranno mentre aspettano di essere giustiziati-

Calò il silenzio nella sala. Che cosa dovevano fare? Consegnare la ragazzina o lasciare che il marchese torturasse i loro compagni, i loro amici, i loro parenti? Eppure al contrario, se avesse avuto tra le mani Emilia, gliele avrebbe suonate di santa ragione, l’avrebbe rinchiusa in camera, le avrebbe riservato lo stesso trattamento disumano che riservava solitamente a sua madre. Nessuno parlò, nessuno tradì il minimo cedimento.

- E va bene, ci penserò io a stanare Emilia. Metterò sottosopra l’intero palazzo finché non salterà fuori! Non la passerà liscia e non la passerete liscia nemmeno voi! E ora forza, tornate a lavorare, razza di scansafatiche che non siete altro!-. Così dicendo sciolse l’assemblea e si diresse, scortato dai suoi scagnozzi, nel luogo dov’erano detenuti i prigionieri.

 

Elisa indugiò qualche minuto nel salone e, quando fu certa che il padrone si era allontanato, accorse guardinga verso la stanza della marchesa. Aveva chiaro il da farsi. Emilia non poteva restare lì ancora a lungo: il marchese l’avrebbe trovata prima o poi e per giunta era certa che la residenza non fosse al sicuro, che in qualche modo i ribelli avrebbero tentato di liberare gli ostaggi.

Emilia sta bene, ma qui non può più stare, è troppo rischioso. Con il vostro permesso, ho intenzione di condurla da un amico fidato. Con lui sarà al sicuro più che in qualsiasi altro luogo. Datemi un segno di assenso e partiremo immediatamente.

Fece passare questo biglietto sotto la porta della stanza della marchesa, accompagnato da un leggero bussare. Anna stava leggendo ad un tavolino nella chiara luce del mezzogiorno. Forse non è corretto dire che stesse leggendo: teneva aperto un libro davanti a sé, ma la sua mente era occupata da troppi pensieri perché potessero prendere vita le parole impresse sulla pagina. Pensava anzitutto ad Emilia. Il pensiero della figlia era un chiodo fisso. Era al sicuro? Di certo lo sarebbe stato di più con Amelia ed Elisa che tra le sgrinfie di suo padre. Tuttavia non ne sapeva nulla dalla notte precedente, poteva esserle successo qualcosa. Le venivano alla mente le immagini del palazzo in fiamme, le urla di quei contadini inferociti, il trambusto degli amici di suo marito in fuga, i colpi sparati dalle guardie. Ma non era solo questo il pensiero che tormentava la marchesa: c’era anche la devastazione del suo amato palazzo a immalinconirla. Quella dimora tanto amata in cui era cresciuta; in cui aveva vissuto i suoi anni spensierati con suo fratello, gli amici; dove erano morti i suoi genitori. Non poteva guardarsi attorno senza provare una stretta al cuore nel vedere i segni dell’incendio che annerivano i muri, le tende, gli stucchi. E poi, infine, c’era Antonio. Non aveva avuto tempo di rimuginare su quei brevi ma significativi istanti di abbandono di quella notte, anzi si era imposta di accantonarli in un remoto angolo della mente. Il suo assillo era unicamente legato all’ultima immagine che aveva di lui, in ginocchio sotto i colpi delle guardie di suo marito.

Quand’ecco un lieve bussare. Subito alzò gli occhi dal libro e li volse alla porta. Il fruscio della lettera sul pavimento la costrinse ad alzarsi e ad avvicinarsi. Raccolse il foglio. E trasse un sospiro di sollievo alla notizia che Emilia stava bene. Capì subito chi fosse l’amico fidato. Non ebbe dubbi. Elisa invece aveva preferito tacerne il nome, non sapendo mai con che animo la marchesa potesse reagire, tanto erano contrastanti le sue reazioni alla vista o al solo udire il nome di quell’uomo. Bruciò immediatamente il foglio nel caminetto per timore che qualcuno potesse intercettarlo e che finisse nelle mani di Alvise. Poi prese carta e penna e scrisse:

Hai il mio permesso, fa’ la cosa che ritieni più giusta. Che Dio ci protegga tutti quanti. Dai un bacio ad Emilia da parte di sua madre.

Elisa dall’altra parte della porta ricevette la risposta. Immediatamente si precipitò nelle stanze della servitù a prendere Emilia.

 

-Emilia, Emilia! Dove sei? – chiamava Elisa a bassa voce non riuscendo a scorgere la ragazzina nel ripostiglio dove l’avevano nascosta qualche ora prima. La stanza era buia, la luce del mezzogiorno entrava solo da una piccola fessura e non valeva a molto.

- Allora, Emilia, vieni fuori! Sono io, sono Elisa. Dobbiamo andarcene di qui, forza – cercò di essere il più convincente possibile, presumendo che Emilia si nascondesse per paura. Decise a quel punto di spalancare del tutto la porta. Entrò un violento fiotto di luce. Niente. Non c’era nessuno in quello stanzino. Emilia non era lì.

- Oh Signore! Dove si sarà cacciata? Che le sarà successo? Chi lo dirà adesso alla marchesa che sua figlia è sparita? - esclamò sconvolta la giovane e corse a cercare aiuto presso la saggia Amelia.

 

-Non parli eh? Sputa il rospo, razza di imbecille. Dove si trova la bambina? –

- Non lo so. E se lo sapessi, non ve lo direi lo stesso! –

- Ah sì? Vediamo se sarai ancora dello stesso parere dopo questo –

Ciò detto, una delle guardie si diede a colpire a scudisciate sulla schiena nuda il giovane che si rifiutava di parlare.

-Ah, Ah! – gridava, stringendo i denti.

- Marchese, dobbiamo procedere? –

Alvise osservava la scena appoggiato mollemente al suo bastone da passeggio, tenendosi con l’altra mano allo stipite della porta dello scantinato del palazzo. Non ci pensava nemmeno ad entrare in quel luogo volgare, plebeo, tra l’odore di chiuso, la muffa, la paglia marcia ammassata negli angoli della stanza, gli arnesi da lavoro ormai vecchi. I bassifondi del suo palazzo non avrebbero mai avuto l’onore di conoscere il passo del padrone, o meglio, di colui che si riteneva tale. Con una smorfia disgustata e grottesca esclamò rivolto alla guardia:

-Non sei nemmeno capace di far parlare un povero pezzente come questo? Incapace! Dimmi tu per che cosa vi pago, allora, e fior di quattrini! –

Appoggiato alla parete ammuffita stava Angelo, lo sguardo fiero, le mani legate strette dalla corda. Guardava sprezzante il suo padrone e impietosito il ragazzo che stavano sferzando e che singhiozzava peggio di un bambino sotto quei colpi. Non aveva mai appoggiato apertamente la rivolta, lui, non poteva permettere che la dimora dei conti Ristori, a cui la sua famiglia era devota da generazioni, fosse oltraggiata. Tuttavia l’odio che covava per il marchese Alvise gli bruciava nelle vene: se ne avesse avuto l’occasione, l’avrebbe ucciso con le sue stesse mani, per il modo in cui trattava lui, Elisa, sua sorella Bianca, Amelia e tutto il resto della servitù, per l’affronto che quotidianamente rivolgeva al conte Fabrizio pavoneggiandosi come assoluto padrone di Rivombrosa. Mentre era assorto nei suoi pensieri di vendetta, si sentì chiamare.

-Ehi tu! Vieni qua, il marchese ti vuole parlare! – gli disse una guardia strattonandolo per il braccio.

- Allora? Emilia dov’è? Dove l’avete nascosta tu e quella sgualdrina di Elisa? –

- Marchese, non vi meritate nemmeno che vi risponda. Avete addirittura schifo ad entrare in questa stanza, tanta è la vostra arroganza. La gente come voi merita soltanto la forca! Padroni infami che campano alle spalle della povera gente onesta! Siete un vigliacco e quando il conte Fabrizio ritornerà, ve la farà pagare! –

Alvise, nel sentire le stesse parole che gli aveva rivolto la moglie quella mattina, nel sentire nuovamente nominare il tanto odiato quanto invidiato cognato, sbottò:

-Fategli vedere chi comanda, a questo disgraziato! Non ve lo meritate il pane che vi do, pezzenti! Dovrei lasciarvi tutti morire di fame! –

Le guardie gli strapparono malamente di dosso la logora camicia che indossava e, dopo averlo sospinto contro il muro e avergli legato i polsi alle sbarre di una piccola finestra, iniziarono ad infierire a turno con la sferza sulla sua schiena.

-Non parlerò, non parlerò mai! – gridava il giovane con coraggio.

 

 

 

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Capitolo 11
*** Protezione ***


 

Gli schizzi di sangue giungevano fino alla parete opposta, imbrattando il muro e la paglia. Emilia, che spiava quella scena da una fessura del muro, si ritrasse inorridita quando uno schizzo arrivò a colpirle un occhio.

-Povero Angelo, povero Angelo! Non è giusto! – mormorava tra sé la ragazzina, con le lacrime agli occhi. Il padre era un vero mostro, pensava, un essere spregevole che lei odiava con tutte le sue forze per quello che stava facendo ad Angelo in quel momento, per gli insulti che rivolgeva sempre alla sua adorata Elisa, per tutte le volte che aveva fatto piangere sua madre. Una bestia, ecco tutto, era una bestia. E lei, a dieci anni soltanto, viveva nel terrore di lui e nella vergogna di esserne la figlia. Si coprì il viso con le mani: non riusciva a sopportare oltre quella scena.

- Emilia! Ma dove diavolo ti sei cacciata? È da tanto che ti sto cercando! –

- Povero Angelo, non se lo merita che gli facciano così male! –  esclamò per tutta risposta alla domanda seccata di Elisa.

- Che cosa stai dicendo? –

- E’ tutta colpa di mio padre. Lo odio. È un mostro! Guarda, guarda anche tu! –

Elisa si avvicinò titubante alla fessura, mentre Emilia si rifugiava tra le braccia di Amelia, che cercava di consolarla – Povera bambina mia, povera bambina mia- ripeteva l’anziana donna, coccolando la bambina in lacrime.

Un rapido sguardo bastò ad Elisa per capire che la situazione stava precipitando. Angelo con la schiena piena di sangue, Alvise che sbraitava infuriato insulti, le guardie che colpivano senza pietà, quasi divertendosi. Doveva portar via Emilia da lì. Doveva escogitare qualcosa per liberare gli ostaggi. Doveva salvare il suo amico Angelo e tutti gli altri.

-Andiamo, Emilia, vieni con me! – esclamò d’un tratto, strappando la bambina dalle braccia di Amelia.

- Ma Elisa, che cosa hai in mente per l’amor del Cielo?! – chiese l’anziana

- Non ti posso spiegare adesso, Amelia. Fidati di me! -  e corse via tenendo Emilia per mano.

 

 

Non gli era mai capitato nella vita di buscarsi tante botte in così poco tempo. Lui, uomo di scienza, pacato, mite, pacifico, sempre lontano dalle risse, incline a mettere pace più che a provocare rabbia, poteva dire di non aver mai ricevuto né dato un pugno in vita sua. Era proprio segno che i tempi stavano cambiando, pensava, mentre si tamponava i nuovi lividi che le legnate delle guardie gli avevano procurato. Stava per succedere qualcosa di grave, di straordinario, seguitava a riflettere, mentre si fasciava una ferita sul braccio sinistro. Ormai non ci si poteva più chiamare fuori. O con i padroni o con il popolo. Non c’era altra scelta, non si poteva nicchiare. E lui da che parte sarebbe stato? Non c’era nemmeno da chiederlo. Aveva sempre scelto di schierarsi contro quello che la sua classe, la sua famiglia, il suo sangue rappresentavano. L’aveva deciso anni prima, sull’altare, rinunciando ai suoi privilegi di nascita e alle sue terre per sposare quella giovane serva. D’un tratto gli si affacciò alla mente il ricordo di quegli intensi attimi vissuti poche ore prima, i baci di Anna, il suo sguardo, le sue mani. Avvertì la sua mancanza come un dolore fisico, diverso da quello che i colpi delle guardie gli avevano procurato, più intenso, più viscerale, inguaribile. Non avrebbe mai pensato di poterla avere ancora tra le sue braccia, di accarezzarla, di baciarla, di fare l’amore con lei e quell’impossibilità l’aveva tenuto al riparo dai suoi fantasmi. Ma l’Anna di quella notte non era un sogno evanescente, era vera, viva e lui l’aveva baciata più e più volte. Il ricordo dei baci di Anna sulle sue labbra, delle sue dita fra i suoi capelli, delle sue braccia intorno al suo collo lo costringeva a fare i conti con il suo passato, con i suoi errori.

-Avevi ragione tu, Lucia. Hai sempre saputo tutto, mi conoscevi meglio di quanto non mi conoscessi io stesso. Ma ti giuro che mai, mai una volta ti ho mentito. Ero sincero quando dicevo di amare te, non ho mai pensato di abbandonarti, nemmeno per un istante. Ma tu lo sapevi, l’avevi capito. E mi hai voluto punire, punire per un pensiero che nemmeno si era affacciato alla mia mente, ma che tu sapevi essere nascosto tra le pieghe del mio inconscio, nel profondo dei miei occhi. Un pensiero che io negavo a me stesso, che mai mi sarei permesso di formulare. Sono stato un ingenuo. E tu me l’hai fatto capire nel modo più crudele, affogando questa inammissibile verità insieme a te in quel lago. Perdonami, se avessi avuto più carattere, se non avessi avuto questa paura di leggermi dentro, tutto questo non sarebbe successo. Ma era troppo bello cullarsi nell’idea di lottare io e te contro tutto e tutti, contro quel mondo corrotto e fatuo a cui mi era toccato in sorte di appartenere e da cui tu mi avevi liberato. Io non ho cambiato idea, lotto ancora, senza di te, per te e per tutti quelli come te. Ma tu, ora, per favore, lasciami andare. Smettila di tormentarmi, di torturami. Lasciami andare, ti prego, lasciami libero di vivere. Ho sacrificato tutto per te, per noi, per i miei ideali. E questo non è bastato. Ho sacrificato anche la cosa più preziosa che avevo, e no, non parlo di ricchezze, di terre, di titoli... Ora, ti prego, lasciami in pace, tu hai fatto la tua scelta distruggendo non solo la tua, ma anche la mia vita, trascinandomi con te nell’abisso di quel lago. Adesso lascia che provi a rimediare a tutti gli errori che ho fatto, ti prego, Lucia! –

 Le lacrime gli rigavano le guance, colando giù mescolate al sangue delle ferite, mentre nascondeva il volto tra le mani.

 

 

-Antonio! – chiamò Elisa preoccupata – Antonio, sei in casa? Sei qui? –

La porta era sfondata, nella casa silenzio, come se fosse vuota. La giovane avanzò cauta tenendo Emilia per mano. Non osava addentrarsi nelle stanze, si fermò nell’ingresso e seguitò a chiamarlo.

-Che succede, Elisa? Il dottor Ceppi non è in casa? Dove andremo? Non ci voglio tornare da mio padre! –

- Elisa, Emilia! Non mi aspettavo di vedervi qui. È successo qualcosa? – le salutò sorpreso Antonio sopraggiungendo dopo qualche minuto nell’ingresso e dando una carezza ad Emilia.

Aveva il viso stravolto, i segni delle percosse ben visibili, i capelli scomposti e gli occhi lucidi. Irriconoscibile. Ma, nonostante tutto, si mostrava preoccupato per loro, non per sé. Elisa però non poté non constatare che gli fosse successo qualcosa.

-Antonio, stai bene? – chiese allarmata, scorgendo i segni dei colpi.

- Sto bene, Elisa. Ma dimmi di voi. Perché siete venute qui? Che sta succedendo? -

- Non mi sembra affatto che tu stia bene. Che cosa ti hanno fatto? Ti hanno picchiato di nuovo? – chiese, o meglio constatò, indicando una ferita sul labbro che prima non aveva.

-Ah, che vuoi che sia. Nulla di grave. Ricordati che sono medico, sono in grado di curarmi - evitò di rispondere, poi proseguì: - Ma, per favore, dimmi che sta succedendo a Rivombrosa! - disse questo con uno sguardo trepido che non riusciva a nascondere.

Elisa continuò a studiarne il volto di sottecchi. Non era affatto vero che stesse bene: aveva notato qualcosa di strano in lui, al di là del dolore per i colpi ricevuti. Aveva notato una strana angoscia, un’inquietudine che non gli aveva mai visto. Aveva forse perso la sua pacatezza in mezzo agli avvenimenti caotici degli ultimi giorni? Aveva smarrito quel suo sguardo bonario e sereno? Che cosa mai gli era successo di così terribile da fargli perdere la pace e da renderlo così inquieto?

Non riusciva a darsi una risposta e non ardiva di chiederne all’amico, che conosceva come tipo piuttosto riservato. Avrebbe dovuto provare un’altra strategia per indagare le cause di quel cambiamento. Rispose, invece, e con dovizia di particolari, a quel che lui le aveva chiesto: riferì di come Alvise stesse mettendo sottosopra Rivombrosa in cerca di Emilia, delle sue continue ribalderie, delle torture riservate ai fuggiaschi catturati, della severa punizione che aveva riservato alla moglie. Concluse il resoconto supplicando Antonio di dar loro un appoggio, di nasconderle in casa sua, finché la situazione non si fosse placata. Sapeva bene che potevano volerci settimane e lo sapeva anche Antonio, che però non poté non accontentarle. Anzi, sembrò quasi sollevato. Per il fatto di poterle avere sotto la sua protezione o, forse, per il fatto di non restare da solo, quella sera, con i suoi tormentosi pensieri.

 

 

-L’ho cercata dappertutto. Niente. Non si trova. Quei maledetti non parlano. Tu ne sai qualcosa, vero, Anna? - 

Dopo aver girato rabbiosamente la chiave ed aver spalancato con altrettanto furore la porta, il marchese Alvise fece una maldestra irruzione nella stanza della moglie, sbraitando invettive contro la servitù e la propria figlia.

Anna stava leggendo allo scrittoio alla luce di una candela e sobbalzò sulla sedia al fragoroso ingresso del marito. Si voltò di malavoglia verso di lui e, senza degnarsi di guardarlo in faccia, rispose sprezzante:

-Sembra che vi interessi di più la disobbedienza dei servi che la salute di vostra figlia. In tutto il giorno non vi ho sentito pronunciare una sola parola di preoccupazione per Emilia. –

-Ah e così mi accusi di non avere a cuore mia figlia?!- ribatté stizzito, barcollando verso la sedia dove Anna era seduta. Visibilmente ubriaco anche quella sera, dovette agguantare lo schienale per non cadere. Anna a quel punto si alzò in piedi, per non essere nemmeno sfiorata dalle sue mani.

- Non è così? Quando mai ve n’è importato di lei le volte in cui stava male? -

- Ah bè, per quello c’è sempre il dottorino pronto ad accorrere…- ghignò grottesco sopraggiungendole alle spalle. Riprese soffiandole sul collo – Volevi farmi credere che eri finita a casa sua per caso? Io sono convinto di no. E sono convinto che Emilia sia ancora lì. Dirò ai miei uomini di ritornare a controllare meglio…- E rise di nuovo passandole l’indice grassoccio sul collo. Anna rabbrividì dal ribrezzo e si scostò bruscamente.

- Che cosa c’è? Ti fa così schifo tuo marito? – sibilò cercando di afferrarla per i fianchi per farla voltare.

-Lasciatemi, Alvise. Ne ho abbastanza di queste insinuazioni. E ora, se non vi dispiace, ho da fare. – disse indicando la porta.

- Col dottorino scommetto che non fai così…- ribatté afferrandola da dietro per le braccia e immobilizzandola con la sua mole. Prese a sbavarle sul collo, sulle spalle. Anna si divincolava disgustata. – Lasciatemi stare, Alvise. Non avete i vostri ospiti da accogliere questa sera? -  chiese sarcastica. Ormai si trovava in balìa del marito e poteva ben poco contro la sua enorme stazza. L’unica sua arma di difesa era il sarcasmo, ma forse era troppo fiduciosa nella scarsa arguzia di Alvise.

- Preferisco la compagnia della mia sposa – rispose infilandole una manaccia nel corpetto

- Alvise, smettetela immediatamente e uscite da questa stanza! – gridò Anna liberandosi da lui.  Lo guardava negli occhi con sommo disprezzo, non scevro di una vena di ripugnanza per un essere tanto abietto oltre che spregevole alla vista.

- Sgualdrina che non sei altro, te la faccio passare io la voglia di spassartela con quel pezzente del Ceppi! Se osa anche solo avvicinarsi a questa casa, se solo quei vigliacchi dei nostri servi si azzardano a chiamarlo…gli faccio rimpiangere di essere nato! Capopopolo dei miei stivali, infame! Lo ammazzerò, giuro! –

A queste parole Anna non seppe trattenersi e gli sferrò un manrovescio in pieno volto. Alvise barcollò tenendosi la guancia su cui era rimasto impresso il segno delle dita, si fermò per un attimo e poi si scagliò come un cinghiale maldestro e inferocito contro Anna scaraventandola con forza sul letto. Colta alla sprovvista, schiacciata dal notevole peso del marito, in quell’occasione non riuscì in alcun modo a liberarsi e dovette assoggettarsi riluttante alle turpi voglie di Alvise, le cui manacce luride esploravano avidamente ogni centimetro della sua pelle.

 

 

-Elisa, c’è qualcosa che non va? Emilia non sta bene? – chiese Antonio voltandosi di soprassalto al sopraggiungere di Elisa nel salotto. Alla luce di un paio di candele, nella semioscurità, si era attardato a contemplare dalla finestra l’avanzare della notte. Non riusciva a darsi pace, ma non sapeva nemmeno definire con esattezza il suo tormento. E no, non si trattava dei dolori lancinanti che i colpi delle guardie gli procuravano.

- Emilia sta benissimo, è molto più serena qui. Ormai a Rivombrosa la tensione è insopportabile. Il marchese ha perso ogni senso del limite. Dopo la notte scorsa è fuori di sé, accecato dalla rabbia, dalla voglia di vendetta. Temevamo una punizione esemplare anche per Emilia, eravamo tutti in ansia. Dopo quello che sta facendo passare alla marchesa…-

- Perché? Che le ha fatto? Che cosa sta succedendo? – la incalzò con fervore

- L’ha rinchiusa di nuovo nella sua stanza, ma questa volta controlla sul serio. Sono riuscita a comunicarle che portavamo via Emilia per puro caso. Ma non è questo il peggio…-

- E qual è il peggio? Che cosa le sta facendo? Che cosa diavolo sta succedendo?! – alzò la voce.

- Antonio, sei troppo sconvolto, calmati. Per ora non è accaduto nulla di troppo grave. Angelo e gli altri sono prigionieri, sì, ma non credo si spingerà fino ad ucciderli. Lo minaccia, questo è vero, ma non può giustiziarli senza il consenso del re. –

Antonio guardava pensieroso dietro le spalle di Elisa, muoveva nervosamente la testa cercando di non incontrarne lo sguardo. La ragazza se ne accorse. Doveva cogliere l’occasione per fargli quella richiesta. O allora o mai più, si era detta.

-Antonio, ma mi stai ascoltando? Devo parlarti di una cosa delicata…-

-Eh? Sì, ti ascolto, Elisa. Solo, sono un po’ stanco. È tardi, non possiamo parlarne domattina? –

- Meglio non rimandare. Si tratta degli ostaggi. Non possiamo permettere che il marchese li torturi a quel modo. Dobbiamo liberarli. –

- Che stai dicendo? Liberarli? E come? –

- Nell’unico modo possibile, Antonio. Con un’azione di forza. Non vedo spirargli di dialogo con un uomo ottuso e prepotente come il marchese Radicati. Fiato sprecato. Bisogna agire con la forza, è l’unica legge che quell’individuo riconosce. E lo faremo, stavolta, non ci limiteremo a qualche tendaggio bruciacchiato o a qualche lampadario rotto. Frusta, tortura, maltratta i nostri compagni, i nostri amici? Ebbene risponderemo a violenza con violenza. Nulla gli sarà risparmiato –

- Non parlare così, non è questa la soluzione. La violenza genera solo altra violenza, altro odio, altra rabbia. E ne vanno di mezzo le persone innocenti. Mi spaventi con questi discorsi. Spero siano solo dettati dalla rabbia del momento, potrei capire…-

- No, non hai capito. Questi discorsi non li faccio soltanto io. Anzi. Questi discorsi stanno per diventare fatti. La corda è stata tirata già fin troppo. E si è spezzata. Da un pezzo. Non staremo lì a guardare mentre torturano o peggio impiccano i nostri compagni. No, non possiamo ammettere una cosa simile. È venuta l’ora di agire. E in fretta. –

- Che vuoi dire, Elisa? Che cosa sai? –

- Per questo ho pensato che fosse la cosa migliore portar via Emilia. Ci stiamo preparando alla rivolta, una vera rivolta, non come l’altra notte. Certe angherie non saranno più tollerate, è da un po’ che lo pensiamo. Qualche settimana, Antonio, forse meno. È già tutto pronto. La miccia sta per essere accesa, serve solo il pretesto…che sarà fornito a breve. Ma ora basta, voglio sapere solo una cosa: sarai con noi? –

- Tu mi stai chiedendo…Elisa, ma che state facendo? Vi rendete conto del rischio che correrete? Prudenza, Elisa, prudenza! Non credo sia…-

- Ci rendiamo conto di tutto. Solo una risposta, Antonio: sarai con noi o no? -

- Ma che vuol dire stare con voi? Fomentare questa sommossa? Appoggiare i vostri propositi violenti? Contribuire, Dio sa come, a mettere a ferro e fuoco Rivombrosa? A incendiare, devastare, distruggere ogni cosa? Ma ti rendi conto che quella è la dimora di Fabrizio? Come puoi pensare di approvare una cosa simile, proprio tu?-

- Qui non si tratta di Fabrizio, se solo lui ci fosse…Ma di quel depravato, dispotico, arrogante individuo del marchese Alvise Radicati. Deve pagare per quello che sta facendo, e quando Fabrizio tornerà, son certa che sarà d’accordo con noi. Nulla di quello che può essere salvato verrà toccato. Te l’assicuro. -

- Ma io come faccio ad acconsentire a una cosa simile? È follia! Non puoi chiedermelo…-

- Così tu saresti dalla parte dei padroni? Ci lasceresti in mezzo alla strada? –

- No, ma che stai dicendo?! No, per l’amor del Cielo. Non sono mai stato dalla parte dei padroni e non ho mai lasciato nessuno in mezzo a una strada quando aveva bisogno delle mie cure, lo sai bene.  Ma qui si tratta di Rivombrosa, è un rischio. Quando si innescano certi meccanismi poi è difficile riprendere il controllo. La situazione potrebbe sfuggirvi di mano, persone innocenti sarebbero in pericolo, così solo per il furore di un momento, senza distinguere, senza pensare che…-

- La ami. Non è così? –

- Di chi stai parlando? –

-  Della marchesa, di Anna. È lei che ti frena, è per lei che hai paura –

Al solo sentir pronunciare quel nome, Antonio ebbe un sussulto: - Ma come…-

-Antonio, ho capito tutto. Il tuo comportamento strano, le tue riserve. Se non fosse per lei, saresti già dalla nostra parte, con una torcia in mano e nell’altra un fucile…-

- Che cosa stai dicendo? Sai benissimo che non è così, non ho mai sostenuto la violenza -

- Oh sì, questo è vero, ma il motivo dei tuoi tentennamenti è un altro. Ammettilo –

- Non c’è nulla da ammettere –

- Sbagli. E dovresti ammetterlo prima di tutto a te stesso –

- Sì, ammetto che temo per la sorte di Anna in mezzo a tutta questa bufera che potrebbe scatenarsi. Lo ammetto, ma ciò non significa che…Io ho solo paura che possa succedere qualcosa di brutto a lei, a Emilia…-

- Dottor Ceppi, non vi preoccupate per me. Io voglio che voi appoggiate Elisa. Io sto con lei, con Amelia, Angelo, con tutti loro. Mio padre deve pagare per quello che sta facendo. Anche per come tratta la mamma, per tutte le brutte cose che le dice e il male che le fa. E anche a me, anche quando non faccio nulla di male. Vi prego, dottore, aiutate Elisa. Vi prego, anche per me, per mia madre! –

La voce di Emilia era giunta dall’oscurità della stanza; ed ecco che la ragazzina avanzava decisa, a piedi nudi e in veste da notte, e appoggiava il capo in grembo a Elisa, subito pronta ad accarezzarle i capelli.

-Me lo promettete, dottore? Me lo promettete che li aiuterete? – lo supplicò di nuovo con la sua vocetta squillante, guardandolo da sotto in su.

Antonio, sorridendo intenerito della richiesta accorata della bambina, rispose:

- Emilia, non so se posso promettertelo. Ma ti assicuro che farò in modo che non succeda nulla di male a te, a Elisa, ad Amelia, Angelo e tutti quanti. E nemmeno a tua madre…-

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Capitolo 12
*** Notte di festa ***


-Che te ne pare, Antonio? Non è forse una bella festa? Gente allegra, canti, balli…Ti sembriamo forse dei delinquenti senza scrupoli? -

Accompagnati da violini, flauti e tamburelli a sonagli, alla luce dei falò che sorgevano qua e là per la campagna, uomini, donne, giovani, vecchi, bambini si davano a ballare e cantare, rischiarando con le loro voci allegre la notte settembrina. 

Elisa si allontanò dalla luce del falò per sedersi accanto ad Antonio sull’erba fresca di rugiada. – Allora, che ti sembra? Emilia si sta divertendo un mondo. – riprese. Antonio stava seduto al buio in disparte, silenzioso. Non prendeva parte al clima di euforia collettiva che aveva invaso gli animi di tutti in quei giorni di vendemmia. Aveva uno sguardo assente, perso in chissà quali pensieri, si limitava a sorvegliare Emilia che cantava e danzava insieme agli altri, sorridendo di tanto in tanto contagiato dal buonumore della bambina.

- Ho forse mai pensato questo di voi? – le rispose laconico, seguitando a giocherellare con un filo d’erba che teneva fra le dita. Riprese poi voltandosi verso di lei: -Elisa, lo so bene per cosa state lottando. Conosco molto bene le leggi ingiuste a cui dovete sottostare. Non c’è bisogno che tu mi convinca di questo. –

- Fra una settimana la vendemmia sarà conclusa. Il marchese manderà i suoi emissari a riscuotere la parte che pretende che gli sia dovuta, quello sbruffone! Ma non consegneranno nulla a lui. E nemmeno le decime al convento. Nulla. Questo sarà il segnale della rivolta. –

- Siete sicuri di quello che state facendo? Siete sicuri della buona riuscita di tutto questo? Una volta innescata la protesta, non sarà facile ritornare indietro. –

- Sicurissimi. Ce la faremo, andremo fino in fondo. E faremo valere i nostri diritti. –

- Nessuno al mondo deve più essere sfruttato, avete ragione. – concluse riportando lo sguardo a terra.

- E allora che cos’è che non ti convince? –

- Ne abbiamo già parlato. –

- No, non ne hai voluto parlare. Del vero motivo. Di Anna –

- Che vuoi che ti dica? Non c’è nulla da dire.  –

- Oh sì, Antonio. Un po’ ti conosco, so che i tuoi pensieri sono tutti per lei in questi giorni. Ti ho osservato. –

- E chi ti fa credere…Oh via, basta così. Non ne parliamo. –  

-Chi me lo fa credere? Bè, ho visto come la guardavi, con che premura la trattavi quella notte in cui siete fuggiti. Non era certo l’atteggiamento che si ha nei confronti di una vecchia conoscenza. Anche se tu non dici niente, è tutto abbastanza chiaro. Solo non capisco perché tu non voglia ammetterlo. –

-  E me lo chiedi anche? Anna è la marchesa Radicati, moglie del marchese Alvise Radicati da Magliano. E infatti se n’è tornata con lui a Rivombrosa, volente o nolente, non ha potuto fare diversamente. Quello che è successo l’altra notte l’avrà catalogato come uno sbaglio, un cedimento. Si sarà già pentita. Mentre io non riesco a dimenticare: non passa istante in cui lei non sia nei miei pensieri. Anche se mi amasse, credi che questa storia potrebbe mai avere un futuro? Credi che sarebbe disposta a lasciare il marito tra lo sdegno di tutta la nobiltà della regione? E per chi? Per me? Ormai è tutto segnato, non si può cambiare il passato. Ho commesso un errore, anni fa, di cui non smetterò mai di pentirmi. –

Elisa sorrise compiaciuta: aveva avuto la giusta intuizione ma, del resto, non ci sarebbe voluto chissà quale grande acume per capire che tra quei due, al di là dell’indifferenza simulata di Antonio e del disprezzo manifesto di Anna, c’era un legame profondo, mai spezzato. Tuttavia non volle indagare su quanto fosse successo quella notte, come accennato da Antonio, e si limitò ad incoraggiare l’amico.

- Antonio! Io proprio non capisco queste tue remore. Ma ti rendi conto che stai parlando del marchese Alvise Radicati, l’uomo più spregevole e ripugnante che io conosca? E tu credi che Anna – scusa, la marchesa – non sarebbe disposta a liberarsi di un marito che la tratta in modo irrispettoso e disonora in continuazione lei e la famiglia Ristori? O credi che non lo farebbe per te, perché non ti può perdonare…? -

- Io stesso non mi posso perdonare. Per molte cose. Per aver causato la morte di mia moglie, per esempio. –

- Questo non è vero. E lo sai. Non puoi fartene una colpa. Hai fatto tutto il possibile per lei. Non è dipeso da te. –

- Forse sì, forse è vero. Ma ora, ora non riesco a esserle fedele. L’ho tradita, capisci? E lei forse già aveva capito che sarei arrivato a questo. –

- Che vuoi dire? –

- Che avevi ragione tu, che aveva ragione lei. Amo Anna. E non riesco a fare a meno di amarla, anche se questo mi fa sentire terribilmente e doppiamente in colpa. Non voglio riaprire vecchie ferite del passato. Non voglio essere la causa della sua disgrazia agli occhi del suo mondo. Non voglio nemmeno che resti coinvolta in questa sommossa, perché lei non ha colpe nella cattiva amministrazione del marito, non c’entra nulla con la sua arroganza. Anzi, è lei stessa una vittima di quel farabutto. Che devo fare, Elisa? -

- Devi andare da lei, dirle tutto e farla fuggire prima che inizi il finimondo. Se ti ama, come ho motivo di credere, ti ascolterà. E devi smetterla con questi sensi di colpa: non ti faranno riavere indietro Lucia, né ti permetteranno di riconquistare Anna. –

- Io non so…non lo so se son degno del suo amore, dopo quello che le ho fatto passare anni fa. Come posso pretendere che mi dia ascolto? –

- Basta con le scuse, Antonio. Tu hai paura, hai una tremenda paura di essere rifiutato, ma non devi. Lei ti ama, ne sono certa perché al solo sentire il tuo nome ha delle reazioni incontrollate, non riesce a dominarsi come suo solito. Hai un grande potere su di lei, che tu ignori. Solo tu puoi convincerla a scappare in tempo dalla rivolta, ma soprattutto dalle rappresaglie del marchese. –

- Ma è impossibile parlarle. Il marchese l’ha segregata nella sua stanza, lo hai detto tu stessa! -

- Bianca. Lei potrebbe introdurti nel palazzo. Alla sera, durante quegli squallidi ricevimenti del marchese. In qualche modo ce la farai, basta che tu lo voglia. -

- Già - asserì, non troppo convinto.

- Promettimi che ci proverai. Anche per Emilia. -

- Ci proverò, Elisa, ci proverò. Se soltanto questo servisse a ridarle la felicità che le ho tolto…-

Antonio sospirò amaramente. Tacquero entrambi. Intorno soltanto i suoni e le voci ovattate in lontananza e il frinire dei grilli nella notte di fine estate.

 

Alvise finalmente se n’era andato. Se n’era andato nello stesso modo in cui era arrivato: barcollando goffamente verso la porta come un maiale satollo, sputando parole oscene e insulti a mezza voce, richiudendo a chiave con altrettanta stizza la porta alle sue spalle. Ma questa volta fu un sollievo per Anna il suono metallico della chiave nella toppa che la separava dal resto della casa, non una condanna. Il disgusto che provava per Alvise cresceva ogni giorno di più, si sentiva sporca, contaminata anche lei da quell’individuo tanto immondo quanto insulso. Si era dovuta concedere a lui, non era riuscita ad opporsi alla sua foia e in quel momento si sentiva in colpa per questo, per non essere riuscita in quell’occasione a difendere la sua dignità. Si alzò dal letto scomposto, aprì la finestra e lasciò che il vento fresco della notte spazzasse via quell’aria viziata perché respirata da quell’uomo sordido che si ritrovava per marito: le faceva ribrezzo anche soltanto l’idea di respirare la sua stessa aria.

La notte profumava dell’odore dolciastro di fine estate, l’odore dei fiori tardivi, dell’uva matura. L’aria era mite, il cielo baluginava di stelle, la luna stava per sorgere a oriente, qua e là nella campagna tralucevano i fuochi del falò, frinivano i grilli, le civette facevano risuonare i loro lugubri richiami. Tutto sembrava perfettamente al proprio posto, in armonia con il resto del creato. Come si discostavano i suoi pensieri da quel paesaggio placido! Quanto avrebbe preferito in quel momento la cupa e sconsolata rassegnazione che l’aveva accompagnata per anni, al tormento che l’aveva presa dopo quella notte, quell’indecifrabile notte passata alla casa di Antonio. Sì, pensava, meglio sarebbe stato se non fosse successo, se quei momenti di dolce abbandono non fossero mai esistiti, se non avesse avuto ancora una volta la conferma dell’effetto che lo sguardo, i baci, le parole di Antonio avevano su di lei. Ora che aveva assaporato, anche solo per qualche fugace istante, la grazia di fondersi anima e corpo con lui, non poteva più fare a meno di quel suo sguardo limpido, puro, della delicatezza delle sue mani, del calore delle sue braccia. Ma questo non era possibile. Se non ad un prezzo che poteva costare molto caro ad entrambi e non solo. Si domandava poi che ne fosse stato di lui in quegli ultimi giorni. Si era imposta di non pensarci, di stornare dalla mente ogni pensiero che lo riguardasse, perché temeva il peggio. Come l’avevano ridotto le guardie di Alvise? L’avevano denunciato per aver appoggiato i sovversivi? Tante ansiose domande a cui non poteva dare una risposta. In tutto questo non poteva non pensare anche ad Emilia, la cui sorte era ormai legata a doppio filo con quella di Elisa e di Antonio stesso che la stava nascondendo. Non aveva saputo più nulla nemmeno di lei e non osava chiedere di nascosto a Bianca, o a chi per lei, se ne avessero notizie: temeva che giungesse qualche sentore alle orecchie di suo marito, in uno dei suoi rari momenti di lucidità. No, si disse, non poteva cercare Antonio, doveva imporsi di non chiedere nulla di lui. Allontanarne l’immagine dalla mente, cancellarne il ricordo dal cuore.  Non poteva rischiare di mettere in pericolo con la sua apprensione la vita delle persone a lei più care, sua figlia e l’uomo che da sempre amava. Ma quanto sarebbe durato questo stato di incertezza? Quanto avrebbe potuto ancora resistere? Ma soprattutto, che cosa sarebbe successo a tutti loro se Alvise avesse scoperto il nascondiglio di Emilia?

La luna era ormai sorta e si stagliava luminosa nel cielo sereno, il vento proseguiva la sua corsa piegando le chiome degli alberi. Un ultimo dubbio le si affacciò alla mente, prima di accingersi a chiudere le imposte: Antonio stava pensando a lei? Ci aveva mai pensato in quei giorni intercorsi? O forse la sua era stata un’illusione, un miraggio nel deserto desolato della sua rassegnata esistenza?

 

Quest’ultimo dubbio, più che mai infondato, era sorto in un’anima provata, stremata dalle difficoltà della vita, resa diffidente nei confronti del più piccolo spiraglio di speranza che cercava di insinuarsi nel buio. In quello stesso momento, infatti, poco distante da lei, abbandonati i canti, la musica, il vociare allegro dei contadini e la conversazione con Elisa, Antonio respirava l’aria della notte, osservando i profili delle colline che si stagliavano, i boschi argentati dalla luce lunare. Acuì lo sguardo scrutando l’oscurità dalla parte opposta alla ricerca di una luce, del brillare di un lume ad una particolare finestra. Sforzò la vista più che poté per distinguere le minuscole luci lontane. E la vide, quella luce nel buio. E fu sicuro che Anna era lì, dietro a quella finestra ad osservare lo stesso paesaggio. In quel momento i suoi pensieri erano quanto mai ingarbugliati, sperava che l’aria fresca della notte lo aiutasse a districarli. Sapeva lui qual era la cosa giusta da fare? No, non lo sapeva. Qualsiasi azione avesse intrapreso sarebbe stata un salto nel buio. L’unica cosa di cui era più che mai sicuro era il fatto che doveva assolutamente rivedere Anna. E al più presto. L’amava, non faceva altro che pensare a lei ad ogni istante. Non poteva più restare in quel limbo, senza sapere che ne fosse stato di lei, nelle mani di quel ribaldo vigliacco di Alvise. Elisa aveva ragione: doveva smetterla di tormentarsi con i pensieri inutili, con i se e con i ma, con i sensi di colpa. Piuttosto avrebbe dovuto agire, prima che fosse troppo tardi, prima che Alvise le facesse del male, prima di perderla un’altra volta.

Non era facile per lui ammettere di essersi sbagliato nella sua scelta di sedici anni prima. Nonostante la sua mitezza, il suo animo dolce e pacifico, non era tipo da accettare compromessi di alcun genere, non era tipo da piegarsi alle convenzioni sociali per rispettabilità o convenienza. La sua era stata una scelta integrale, un cambio radicale di vita, abitudini, condizioni: non poteva rinnegarla senza rinnegare se stesso. Aveva amato Lucia e l’avrebbe amata sempre perché gli aveva donato la libertà, il pretesto per fuggire dal suo mondo, gli aveva dato la vita, una nuova vita come l’aveva sempre desiderata, senza compromessi, senza finzioni. Ma questa illusione si era infranta con quel suo gesto disperato che violentemente l’aveva riportato alla fredda realtà. Nemmeno di fronte a questa tragedia, la più devastante della sua vita, aveva avuto il coraggio di abbandonare i suoi ideali: era andato avanti ostinatamente con la sua vita di escluso, nel ricordo della moglie. Le voleva in questo modo restare fedele e nello stesso tempo restare fedele a se stesso.

Poi ecco Anna. Il suo grande amore mai del tutto scordato. Che rimette tutto in discussione. Che fa riaffiorare i sogni giovanili, sogni non ancora sciupati dalla dura realtà del mondo. Che lo induce a mettere nuovamente in gioco la sua identità. In fondo, chi era lui? Era, indiscutibilmente, per tradizione di sangue, un nobile. Ma non aveva mai voluto esserlo ed era riuscito a lavar via da sé, come una colpa, ogni traccia di privilegi di classe. Era un puro. Ma pur sempre diviso a metà tra le sue origini e la via scelta. E Anna era lì, e lo era sempre stata, per ricordarglielo: per rimarcare ogni volta la scissione mai ricomposta tra quello che era e quello che aveva voluto essere. Amare Anna avrebbe significato ai tempi accettare la sua condizione di nobile, convivere per tutta la vita con la vergogna di privilegi, titoli, possedimenti, con il disagio di guardare dall’alto in basso i propri servi, con l’imbarazzo di essere riveriti da loro come padroni. Amare Anna avrebbe significato in quel momento ammettere a lei, ma soprattutto a se stesso, che si era sbagliato, illuso, che il mondo non si può cambiare nemmeno sacrificando le cose più preziose. Anna aveva sempre messo alla prova la sua identità ed era anche per questo che sedici anni prima l’aveva voluta fuggire.

Ma, guardando quella luce tremula, che rischiava od ogni istante di essere spenta dal vento, capì. Provò una stretta al cuore immaginando quello che doveva passare Anna chiusa in quella stanza, le angherie di Alvise, lo spettacolo pietoso delle sue amanti, di quei sordidi festini. Per un istante si annullò, rinunciò alle riflessioni sulla sua identità, rinunciò a se stesso: perché senza di lei, lui non era nulla, in fondo. L’unica cosa che avrebbe dovuto e voluto fare in quel momento era correre da lei, stringerla di nuovo tra le braccia, confessarle quanto l’avesse sempre amata e, soprattutto, portarla via con sé, prima che fosse troppo tardi.

 

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Capitolo 13
*** Una visita inattesa ***


Un leggero bussare alla porta venne appena percepito da Anna, in mezzo al trambusto degli ospiti e della musica nel salone dei ricevimenti. Alvise aveva ripreso le vecchie abitudini di riunire i suoi squallidi amici e le loro spudorate accompagnatrici quasi tutte le sere. Questi allegri convegni, però, avevano perso la spensieratezza libertina di prima del fattaccio: la paura di una nuova irruzione da parte di quei luridi zotici frenava gli ameni divertimenti di quei blasonati e raffinati signori, che cercavano così di contenere i propri bagordi davanti ai servi della casa.  Meno donnicciole, meno vino, meno clamore, tuttavia non si poteva impedire a tali rispettabili ospiti di divertirsi, la vita doveva pur continuare…
Quel valzer allegrotto che l’orchestra da camera stava eseguendo sovrastò i colpi battuti da Bianca sulla porta, che pertanto non ottenne dall’interno alcuna risposta. Perciò la serva si apprestò ad accompagnare i nuovi colpi con queste parole:
-Signora marchesa, sono Bianca. Con il permesso del marchese vi porto il vassoio con la cena…-
- Bianca? La cena? Ma se me l’hai già portata ore fa? Che storia è mai…-
Anna si arrestò di colpo, dovette richiamare a sé tutte le sue forze per non cadere a terra. Bianca aprì leggermente la porta, poi si scostò e sulla soglia apparve Antonio. La porta gli si richiuse alle spalle con un tonfo. Nessuno dei due si mosse, nessuno dei due fu in grado di aprir bocca. Passarono alcuni istanti di silenzio, carichi di parole che non si osava dire, di gesti che non si osava fare. Solo la musica in sottofondo scandiva lo scorrere dei secondi. Dopo un lasso di tempo indefinibile, che a loro parve eterno, Anna distolse lo sguardo da quello di Antonio, scuotendo il capo sbigottita.
-Tu…? Qui…? Che ci fai tu qui? –  fu la domanda che riuscì a formulare. Gli occhi sbarrati, le labbra dischiuse in un’espressione di stupore e allarme.
- Anna, vedi…- Antonio le si avvicinò cauto e le prese le mani tra le sue. Lei lo fissava senza riuscire a mettere a fuoco quell’assurda situazione, presa in un vortice di emozioni che a stento riusciva a controllare. Le speranze che in quei terribili giorni intercorsi dal loro ultimo incontro non aveva osato cullare e i pensieri che si era imposta di non formulare le si riaffacciarono di colpo tutti insieme alla mente.
- …vedi – riprese lui – in questi giorni ho pensato molto a te, a quello che è successo. Vorrei che tu mi capissi quando dico che…- Non riusciva a trovare le parole adatte per chiederle di fuggir via con lui. La paura di un suo rifiuto lo paralizzava, soprattutto per le conseguenze che ne sarebbero derivate per lei, se fosse rimasta lì, in balìa di Alvise, in balìa dei suoi stessi servi ribelli, nelle giornate infuocate che si preparavano. Faticava a guardarla negli occhi, spaziava con lo sguardo per tutta la stanza. Si sforzava in tutti i modi di trovare le parole giuste, di assemblare un discorso compiuto. Anna, vedendolo in tali ambasce, fece per avvicinargli le labbra al viso, per accarezzargli una guancia, quando tutt’un tratto una risata sguaiata riecheggiò nel corridoio.
…Se osa anche solo avvicinarsi a questa casa, se solo quei vigliacchi dei nostri servi si azzardano a chiamarlo…
 Si scostò bruscamente da lui e gli diede le spalle.
-No, non capisco che cosa tu voglia dire. So solo che ti sei introdotto nella mia stanza in un orario sconveniente, con la complicità di quella sciocca di Bianca. E questo mi basta. –
- Ma, Anna, io l’ho fatto perché dovevo vederti, dovevo parlarti. Anna, ascoltami – cercava di blandirla lui, sollevando le mani senza avere, però, all’ultimo il coraggio di afferrarle le spalle.
- Non c’è nulla da ascoltare. – si ostinava lei, smoccolando con finta noncuranza la candela posta sullo scrittoio.
Un tramestio di passi pesanti e strascicati alternati a passetti leggeri nel corridoio.
-Vattene, Antonio, vattene prima che sia troppo tardi- pensava dentro di sé.
- Tu mi devi ascoltare. Anna, io ti amo –
A queste parole non poté impedirsi di voltarsi. Gli occhi lucidi, le labbra serrate, faticò molto a dominarsi fissando lo sguardo intenso, ansioso e quasi implorante di lui.
…gli faccio rimpiangere di essere nato!
Non fu facile, ma ci riuscì: - Ah! E pensi che sia tutto così semplice? Che qualche ammissione di colpa, qualche parola dolce, qualche bacio possano cancellare tutto? Possano farmi dimenticare il passato? È stato solo un momento di debolezza, quella notte. Ero sconvolta e tu te ne sei approfittato in modo meschino. –  
-Non puoi pensare una cosa del genere. Eravamo entrambi sinceri, non puoi negarlo.- disse Antonio prendendole il viso tra le mani.
…Lo ammazzerò, giuro!
-Non si può cancellare il passato. Hai preferito sposare una serva al mio posto, Antonio! Hai rinunciato al titolo, hai disonorato per lei il buon nome della tua famiglia! E tu hai il coraggio di venirmi a fare simili discorsi? Qui, in casa mia? Vattene! -  
Il vociare nel corridoio si fece più vicino, tanto che si potevano distinguere le parole.
- Alvise mio, state già andando a coricarvi? Non mi dite che siete già stanco di questa spassosissima serata! - trillò la voce della marchesina Betta.
- Oh, ma no, mia cara Betta! Stanco io? Giammai! Volevo solo controllare…non senti anche tu delle voci che vengono dalla stanza di quella squilibrata di mia moglie? –
Intanto nella stanza:
 - Che vuoi dire? – chiese Antonio guardandola interrogativo, la testa reclinata di lato, la fronte corrugata.
-  Non ho alcuna intenzione di continuare questo discorso. – E si voltò nuovamente verso lo scrittoio, dandogli le spalle.
- E così è questo che vuoi? Questo spettacolo indecoroso? Preferisci la continua mancanza di rispetto, la protervia di tuo marito Alvise? Solo per salvaguardare l’apparenza agli occhi di questa nobiltà fatua e viziosa? Solo per la facciata, lo fai? Dimmi che non è così! – 
Il suo sguardo si era animato, la sua voce aveva assunto un’altezza inconsueta per lui, stava quasi gridando. Non era possibile, non ci poteva credere. Non era quella l’Anna che aveva imparato a conoscere, quella si nascondeva dietro le cortine di un’apparente asprezza per difendere la sua vera natura tenera e sognante. Non si capacitava di questo cambiamento, iniziò a temere di essersi sbagliato un’altra volta, di essersi illuso…
- Dio mio, Dio mio, fa’ che Alvise non senta, fa’ che non entri, non in questo momento- pregava Anna dentro di sé.
- Hai perso ogni diritto di intrometterti nella mia vita da quel giorno che tu ben ricordi.- ribatté invece a voce alta.
Dal corridoio intanto:
- Ma va’, lasciatela perdere quella pazza! Avrà iniziato a parlare da sola. – proruppe in una risata argentina Betta
- Hai ragione, mia diletta, torniamo di là. – ghignò cavernoso Alvise.
Se n’erano tornati nel salone. Anna trasse un sospiro di sollievo. Ma non era ancora finita. Non poteva concedersi alcun cedimento.
…Se osa anche solo avvicinarsi a questa casa…gli faccio rimpiangere di essere nato!
-E se anche lo facessi solo per la facciata? Non sono cose che ti riguardano. Ora lasciami in pace, vattene, non ti voglio vedere mai più. Hai capito? Mai più! – esclamò voltandosi verso di lui, caricando quelle severe parole con uno sguardo ancor più duro. Uno sguardo dei suoi, fermo, inflessibile, che sarebbe stato anche molto plausibile, se le lacrime, a tradimento, non le avessero arrossato gli occhi.
Antonio, però, non se ne accorse. Il guizzo di sdegno che lo aveva animato poco prima era del tutto scomparso. Mesto, rassegnato, abbassò il capo, vergognandosi persino del tono accusatorio che aveva assunto nella foga del discorso. Non gli riusciva mai di apparire indifferente quando si trattava dell’ipocrisia di certa nobiltà, che pure lui aveva conosciuto, e non voleva credere che Anna ne condividesse la condotta. No, non era possibile. Non ci avrebbe mai creduto. Anna era sempre stata sì orgogliosa, ma non fatua, non ipocrita. Tuttavia in quel momento non aveva la forza di continuare quella conversazione che lo stava stremando.
-Se è questo quello che vuoi…- constatò a testa china, indietreggiando verso la porta mortificato, umiliato, deluso.
Dopo essersi accertata che si fosse richiuso la porta alle spalle, che i suoi passi furtivi fossero scomparsi nel buio del corridoio, che fosse ormai lontano e al sicuro dalla vista di Alvise, diede libero sfogo ai singhiozzi, prorompendo in un pianto che di fatuo, vanesio o ipocrita non aveva nulla.

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Capitolo 14
*** Status quo ***


Alcuni giorni dopo, in una mite giornata di settembre, verso l’ora di pranzo si udì uno scalpitare di cavalli e uno sferragliare di carrozze nel cortile della residenza dei Ristori. Non si trattava certo di ronzini che trainavano miseri calessi di contadini: sul piazzale apparve la carrozza con lo stemma dell’abate del vicino convento.
-Oh, Padre reverendo, che piacere accogliervi nella mia dimora- esclamò Alvise trotterellando goffamente sulle scale, gettando in malo modo in mano a un servo il proprio bastone intarsiato per mostrare più agilità – sono veramente onorato dalla vostra visita, permettetemi di onorarvi con un modesto pranzo, che vi offro con tutta la mia umile devozione al vostro ordine e alla vostra persona, Padre reverendissimo! – continuò il marchese accogliendo l’abate che scendeva in quel momento dalla carrozza.
- Marchese, vi ringrazio della vostra magnifica ospitalità. Sono obbligato – rispose il canuto abate, porgendogli la sua mano ossuta. Il marchese con aria compiaciuta gli fece strada sulle scale.
La tavola nel salone dei ricevimenti era riccamente imbandita. Vassoi colmi di pietanze, arrosti, selvaggina, cesti straripanti di frutta di stagione, caraffe del miglior vino.
-Ah, al sol pensiero che poteva essere gettato al vento questo bendidio, questa splendida e dolcissima uva… – esclamò Alvise, concedendosi uno strappo all’etichetta col dare un vorace morso ad un grappolo d’uva. L’abate lo fissò esterrefatto per il gesto decisamente poco consono alla situazione e, per rompere l’imbarazzo del momento, arrischiò una domanda, incappando a sua volta in una caduta di stile:
- Vostra moglie forse non è in casa? –
- Oh, Reverendissimo, mia moglie…Soffre di nervi, quella pover’anima, devo pregarla io di mangiare qualcosa ogni tanto: se non fosse per me, credo che sarebbe già tornata al Creatore. Mah, sapete come sono fatte le donne…- A quest’ultima affermazione l’abate lo fissò con tanto d’occhi, inarcando le bianche sopracciglia in un’espressione tra il disappunto e lo sconcerto. – Oh, certo, certo, voi non sapete come sono le donne, chiaro, chiaro, illustrissimo padre…! - si corresse Alvise, prorompendo in una risata nervosa – Ma prendente, prendete del buon vino! – cercò poi di rimediare.
L’abate non riusciva a capacitarsene. Come era stato possibile che quell’uomo così volgare, ma soprattutto così insulso e ottuso avesse ottenuto la mano della contessa Ristori e di conseguenza fosse diventato  l’amministratore della tenuta? Gli era stato infatti riferito che i conti Ristori, in ottimi rapporti con il suo predecessore, erano signori di alto lignaggio, il cui buon nome era pari all’onore, alla rettitudine e alla rispettabilità dei loro costumi; non credeva, perciò, alle sue orecchie nel sentire le stravaganti e inopportune uscite del genero.
-Un vero peccato che la contessa Ristori– ehm ehm- la marchesa Radicati non sieda al tavolo con noi! Sapete, i conti Ristori erano buoni amici del nostro monastero, assidui alle funzioni, molto generosi…- constatò affettato l’abate.
Alvise, che stupido era ma non fino a quel punto, capì l’allusione:
-Se intendete quel che penso, mio caro abate, avrete presto quel che volete. Ma ho bisogno della vostra collaborazione e sono sicuro che voi converrete con me. Per questo vi ho mandato a chiamare – sentenziò in tono grave, che non lasciava ampi spazi di replica.
- Lo immaginavo, marchese, ma, vedete, la questione è assai delicata. Si tratta dell’immunità ecclesiastica, voi sapete bene, non è cosa da potersi risolvere così, su due piedi, davanti ad una tavola imbandita – si giustificò immediatamente il religioso, mostrando i palmi delle mani a mo’ di scusa.
- Comprendo le vostre obiezioni, ma vi ricordo che l’oltraggio è stato anche nei vostri confronti. Questa è gente senza Dio, mio illustre abate, gente che se ne fa un baffo della Santa Romana Chiesa, di monache e frati! – Alvise si stava alterando, le vene sul collo gli si stavano gonfiando e faticava ed essere contenuto dal colletto, rosso in viso, brandiva una forchetta con fare minaccioso.
Anna aveva origliato tutta la conversazione, nascosta dietro la pesante porta socchiusa che collegava la sala alla biblioteca, unico luogo in cui avesse ottenuto libero accesso, se pur soltanto durante la permanenza in casa del marchese. Le notizie degli ultimi avvenimenti le erano giunte durante le fugaci conversazioni con il marito o con la servitù che veniva a portarle i pasti. La tensione ormai si tagliava con il coltello e la sua apprensione cresceva di ora in ora.
-Ne convengo, marchese, ma il diritto canonico non ammette…-
-Oh! Il vostro diritto canonico vi salverà forse da questi ribaldi quando verranno a stanarvi dalle vostre celle? – lo provocò Alvise sempre più infuriato mentre piatti, vassoi e posate tintinnavano rimbalzando sulla tavola a un sonoro pugno del marchese.
All’abate andò di traverso il boccone. Gli ci volle un bel sorso d’acqua per riprendersi: non si sarebbe mai immaginato di trovarsi davanti un uomo del genere e, da religioso schivo e poco avvezzo alle cose del mondo, tentò di uscire nel migliore dei modi da quell’incresciosa situazione. Poi, ancora rosso in volto per lo sforzo, propose con un timido tono di resa:
- Si potrebbe… Si potrebbe trovare un’altra soluzione…una soluzione condivisa con le autorità e con i nostri superiori… –
- Vedete? Una soluzione c’è sempre quando si tratta di tutelare le persone oneste e rispettabili, come voi ed io- sorrise infine visibilmente soddisfatto, battendo fragorosamente le mani e mettendo in mostra i denti anneriti, poi si informò abbassando la voce con fare complice – E dite, quanti sono? –
- Una ventina forse trenta, ecco non so. Ci sono giovanotti, uomini fatti e anche qualche donna –
- Ohibò! Immagino chi possa essere una di loro! La sgualdrinella di mio cognato! – L’abate sgranò nuovamente gli occhi. – Oh suvvia, perdonatemi. Sono questioni familiari che mi danno grande preoccupazione, mi tolgono il sonno. Sapete, per me la rispettabilità della famiglia è tutto: non tollero certi disordini, certe immoralità…ma via, mio cognato non ci interessa ora. E che fanno questi mascalzoni? Sono violenti? -
- No, non sono violenti, stanno barricati nella cappella del convento da ieri l’altro, ma non ci hanno arrecato grandi danni. Cantano, ecco, questo sì. –
- Oh bella! Cantano…fannulloni che non sono altro! – rise di gusto, mescendosi dell’altro vino.
- E poi viene spesso un medico…-
-Un medico?! – si fermò con il bicchiere a mezz’aria.
Anna sussultò nel suo nascondiglio. Il cuore le batteva forte in gola. Non faceva fatica ad immaginare la reazione del marchese.
- Sì, a curare i feriti. Ha chiesto regolarmente il permesso e non gliel’ho certo potuto negare –
- Disgraziato! Infame! Sempre lui! – Alvise iniziò a dare in escandescenze, complice anche l’abbondante vino con cui aveva innaffiato le pietanze.
- Di chi state parlando, di grazia? – chiese con tono ingenuo il religioso.
- Di quel dottorucolo da strapazzo! Quel sovversivo, quel delinquente! Avete idea di chi lasciate andare e venire dal vostro convento? –
- No, signor marchese, non ho idea. Mi sembrava un uomo rispettabile…- si schermì l’abate, mostrandosi sinceramente mortificato.
- Un uomo rispettabile? Quel medicastro? Tanto per cominciare ha infangato il nome della famiglia, ha sposato una serva sovvertendo l’ordine sociale! Che abominio! E poi ne volete sapere un’altra? Ha ordito una sommossa insieme ai miei servi, qui nella mia proprietà! E ho pure motivo di credere che sia in qualche modo coinvolto nel rapimento di mia figlia, che stia coprendo quegli sciagurati dei miei servi con la complicità di quell’insulsa servetta…Un facinoroso, vi dico, un senza Dio, che deve essere al più presto consegnato alla giustizia! – tuonò Alvise, facendo arrestare Bianca che stava entrando con una portata.
- Oh, buon Signore! – esclamò atterrito l’abate, facendosi un plateale segno di croce – Mi avete convinto, marchese, parlerò al più presto con il mio superiore. -
 
Non sarebbe stato un compito facile, si diceva l’abate sobbalzando di quando in quando nella sua carrozza a causa delle buche che si incontravano sovente per strada. Avrebbe dovuto usare tutta la sua diplomazia, la sua astuzia, l’oratoria più convincente. Dopotutto si trattava di consegnare alla giustizia coloro che si erano rifiutati di versare la sacrosanta quota annuale nelle casse del monastero, Domineddio! Erano assolutamente in fallo, nei confronti della giustizia umana, ma anche nei confronti di Dio. Però, però…pensava tra sé l’abate, erano pur sempre dei poveri cristiani che avevano cercato protezione presso la dimora di Nostro Signore, che accoglie tutti nel suo seno, peccatori e uomini giusti. E poi, via, il diritto canonico parlava chiaro, il diritto d’asilo…non si poteva screditare in tal modo l’istituzione... Aveva un bel dire il marchese Radicati! Lui ci aveva solo da guadagnare in questa manovra, ma il monastero? La decima quell’anno poi non era neppure abbondante, mentre invece il buon nome dei monaci sarebbe stato compromesso da quell’atto proditorio di consegnare i rivoltosi. Quel medico, infine, pareva un uomo onesto, di principio, equilibrato, non aveva certo l’aria di essere un facinoroso violento. Della faccenda del matrimonio con una serva e della rinuncia al titolo, l’anziano abate, giunto da poco tempo in quel monastero per concludere in serenità le ultime primavere che il Signore gli avesse concesso, non sapeva nulla di certo, ma la notizia era certamente sconcertante. Così ruminava, tra uno scossone e l’altro, mentre si avviava in città, per cercare la solidarietà dei superiori e il braccio armato delle guardie del governatore e far così sgomberare il monastero. Era sicuro che qualche voce, sul fattaccio accaduto un paio di giorni prima, in città fosse già arrivata…
 
Senza dubbio l’accaduto di due giorni prima sarebbe rimasto nella memoria collettiva dei popolani della contea. Era l’ultimo giorno di vendemmia, una di quelle limpide mattine di settembre in cui il sole bagna con la sua luce radente, privata della forza dirompente del Solleone, i prati roridi di rugiada e i vigneti gravidi di grappoli maturi. Come ogni anno la vendemmia si protraeva per una settimana circa e richiamava operai da tutta la contea; erano giorni di allegria, di festa, al termine dei quali arrivava il momento della consegna delle decime della vendemmia e del raccolto dell’estate al conte e agli emissari del convento. I conti Ristori erano soliti omaggiare i propri lavoratori con una cerimonia all’atto della consegna, mostrando la loro liberalità, vera o apparente che fosse, nei confronti dei mezzadri. Ma il marchese Radicati non aveva certo dato segni di proseguire su questa linea, anzi, da più giorni i suoi emissari sorvegliavano con attenzione il lavoro, redarguendo verbalmente, in modo assai rude, coloro che si attardavano o si mostravano meno solerti degli altri nello sforbiciare i graspi. Il malumore nei confronti del marchese, che già da tempo serpeggiava, era stato ulteriormente esasperato dall’invadenza di queste figure. Tuttavia, come da accordi, nessuno aveva osato fiatare fino al momento stabilito, tutto si svolgeva in un silenzio innaturale, foriero di future tempeste.
L’ultimo giorno, quello in cui sarebbe avvenuta la consegna, non era incominciato in modo differente dai precedenti. Fin dal primo mattino erano ripresi i lavori nei filari e tutto sembrava procedere senza intoppi; ma verso metà mattina, all’arrivo degli inviati del convento, ecco il primo atto di insubordinazione. I coloni si erano rifiutati categoricamente di consegnare alcunché e avevano scacciato in malo modo i poveri monaci che, alquanto intimoriti, avevano fatto ritorno in fretta e furia al monastero. Ma il bello sarebbe arrivato più tardi. A mezzogiorno si erano presentati invece gli emissari del marchese, accompagnati dalla sua scorta di guardie, rimpinguata dopo gli avvenimenti delle settimane precedenti. I mezzadri si erano inizialmente trincerati dietro al silenzio, poi avevano rivolto male parole alle guardie. Nulla sarebbe stato consegnato, il marchese sarebbe rimasto a bocca asciutta, quell’anno: di vino, tanto, ne aveva già trangugiato abbastanza nelle sue smodate feste, loro non avrebbero mai consentito che il prodotto dei loro sforzi fosse dilapidato in quel modo da quell’uomo arrogante e sudicio che non riconoscevano come legittimo signore e che, per giunta, da settimane deteneva alcuni di loro nelle segrete del palazzo. Questo fu all’incirca il discorso del più coraggioso alle richieste incalzanti delle guardie.
– Questi soprusi non saranno più tollerati! Libertà! –
-Ma ci sono leggi ben precise che stabiliscono i vostri doveri nei confronti dei signori di Rivombrosa, esistono vincoli feudali che vigono da secoli su queste terre. Siete dei fuorilegge, se vi ostinate a non consegnare quanto dovete! -
-Non ci importa nulla delle vostre squallide leggi! Andremo al palazzo del marchese e bruceremo tutti i documenti degli archivi! Queste non sono leggi, questa è usura, strozzinaggio! Noi non ci spacchiamo la schiena per consentire al signor marchese di fare i suoi porci comodi a quel modo! Ribellione, libertà! -
 A quelle parole, come convenuto, era stata scatenata la protesta. Dai filari, dai campi, dal bosco circostante erano accorsi in massa, armati di forche, bastoni, mazze, forbici, pugnali e anche di qualche vecchio fucile malandato. Avevano sorpreso le guardie circondandole da ogni lato e avevano dato inizio al parapiglia. Le guardie erano in netta minoranza, ma avevano dalla loro le armi cariche. Lo scontro si protrasse per un bel po’, in un putiferio di urla, colpi di arma da fuoco, sferragliare di lame, grida di rivolta.
 Elisa non aveva preso parte ai tafferugli, come aveva precedentemente annunciato e sostenuto: non era clemenza verso il marchese la sua, né paura degli scontri, la sua imprudente audacia era fin troppo nota, ma rispetto della parola data ad un amico. Antonio, infatti, l’aveva supplicata di restare in casa sua con Emilia per sorvegliare la ragazzina, per non esporla inutilmente ai pericoli. Il medico era sempre più in pensiero per Emilia, aveva paura che sentisse troppo la mancanza della madre, nonostante lei non la nominasse se non di rado, e pertanto non voleva che la seconda persona a cui era più affezionata, ovvero Elisa, si mescolasse ai disordini col rischio di farsi arrestare, o peggio. L’aveva così pregata in tutti i modi perché non uscisse di casa quella mattina, preoccupato anche dall’eventualità che Emilia, di nascosto, la volesse seguire, intrufolandosi nei tumulti. Infatti la ragazzina, se non chiamava quasi mai in causa la madre, aveva spesso parole cariche di rancore verso il padre, che, diceva, non avrebbe voluto rivedere mai più; manifestava perciò simpatia per i contadini, per i servi con i quali era cresciuta, Angelo, Bianca, Amelia e tutti gli altri, e si augurava che riuscissero nell’intento di cacciar via il più lontano possibile quell’odiatissimo padre padrone. E se Antonio ed Elisa, a questi discorsi, tentavano di blandirla, lei rintuzzava ancor più la discussione, rivelando vari episodi di violenze e insulti rivolti contro la madre e severi rimbrotti rivolti contro di lei per il solo fatto che gli fosse capitata a tiro. Ad ogni nuovo racconto Antonio si rabbuiava e giurava tra sé e sé che non l’avrebbe mai fatta ritornare in quell’inferno quotidiano.
Quella mattina di settembre erano quindi rimasti tutti e tre in casa: il medico si era premurato di sprangare la porta e le finestre. Erano rimasti tutti in attesa: Elisa tamburellava nervosamente con le dita sul tavolo di legno della sala da pranzo, innervosita dal fatto di non poter prendere parte ai disordini; Emilia leggiucchiava irrequieta un libro; Antonio spiava tra le fessure della finestra la strada, sempre pronto ad intervenire nel caso ci fosse stato bisogno di un medico. Non aveva infatti abbandonato la causa: le sorti del popolo gli stavano più che mai a cuore e si augurava sinceramente che la rivolta andasse a buon fine, pur essendo conscio che sarebbe stato alquanto improbabile. Nonostante la sua simpatia per la povera gente in cerca di giustizia, capiva, però, chiaramente che il suo dovere in quel momento era quello di mantenere la calma, acquietare Elisa e soprattutto proteggere Emilia, come avrebbe voluto sua madre. Anna. Chissà che ne sarebbe stato di lei, in quei frangenti, chissà come avrebbe affrontato quel momento…Nonostante le dure parole che per l’ennesima volta gli aveva indirizzato, o forse proprio per quello, non riusciva a cancellarne l’immagine dalla mente. Non riusciva a trovare una spiegazione al suo comportamento. E si tormentava, per questo, in continuazione.
Alla fine le cose andarono come Antonio aveva, suo malgrado, previsto: le guardie riuscirono a domare gli insorti, almeno per quel giorno. Lo status quo era stato preservato, il potere dispotico l’aveva avuta vinta un’altra volta. Alcuni rimasero a terra uccisi, altri furono arrestati sul posto; la maggior parte fuggì a rotta di collo, trascinandosi dietro i feriti più gravi per rifugiarsi nella chiesa del vicino monastero, avvalendosi del diritto di asilo. La rivolta, preparata fin nei minimi dettagli, era fallita nel peggiore dei modi. Ogni speranza di cambiamento era stata soffocata nel sangue sul nascere dalle guardie del marchese. Ed ora, oltre allo sconforto e alla rabbia, un nuovo sentimento si fece strada nell’animo dei ribelli: la paura di atroci rappresaglie.
Appena giunta la notizia, Alvise era comprensibilmente andato su tutte le furie. La sua rabbia incontenibile si era rivolta di primo acchito contro l’antica collezione del servizio da tè di porcellana della contessa Ristori, scaraventata senza pietà contro quegli incapaci dei suoi uomini che si erano lasciati sfuggire i facinorosi; poi contro la moglie, incollerita per la fine ingloriosa che avevano fatto quelle preziose tazze e tazzine tanto amate da sua madre, presa a male parole e insulti; e, infine, cosa alquanto insolita, contro la giovane amante Betta, ricacciata quella sera a casa propria, in quanto il marchese non aveva nulla da festeggiare e per quella sera non poteva soffrire l’insulsaggine e le risatine della ragazza. Sbollita la rabbia iniziale, si era messo, altra cosa alquanto insolita, a ragionare. Si era scervellato molto, non essendo abituato al quotidiano esercizio delle facoltà razionali, ma alla fine di tutto questo travaglio mentale era giunto a una decisione soddisfacente: avrebbe convocato l’abate e l’avrebbe convinto, con le buone o con le cattive, a consegnargli quegli sciagurati dei suoi dipendenti.
 
Anna aveva seguito il discorso con maniacale attenzione. Poteva ricordare perfino le parole esatte usate dal marito e dall’abate. Da un certo punto in poi, però, la sua mente si era offuscata, il suo cuore aveva iniziato a battere all’impazzata senza che lei riuscisse a controllarne le pulsazioni. Sì, l’ultima parte della conversazione era andata sfumando in una nebbia di paure e tragici presagi. Aveva soltanto colto la promessa dell’abate di parlare con i suoi superiori e questo fatto era già di per sé la prova che i suoi peggiori presentimenti si erano avverati. Che cosa sarebbe successo? Il governatore avrebbe fatto sgomberare il monastero come richiesto da Alvise?  Che ne sarebbe stato degli insorti? Ma soprattutto quali le conseguenze per chi aveva prestato loro soccorso?

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Capitolo 15
*** Inconfessabile ***


Il pomeriggio volò via in queste angoscianti riflessioni, fin quando Anna non si risolse ad agire. Era giunto il momento, non poteva più temporeggiare, non poteva più subire in silenzio per evitare rischi maggiori: il rischio maggiore si sarebbe infatti concretizzato di lì a poche ore se avesse perseverato nell’inerzia. Per cui, armata di quel coraggio che aveva sempre conservato per i momenti di difficoltà, mandò a chiamare Alvise. Il sole era ormai calato e il marchese, rientrato da un’ispezione dei terreni, ispezioni del tutto inusuali, prima di quei giorni di subbuglio, si era concesso qualche sorso di liquore, in attesa dell’arrivo di Betta, per compensare il fatto che per quella sera non si sarebbe festeggiato. Da qualche sorso era passato alla bottiglia intera e pertanto versava nel suo solito stato di ubriachezza semicosciente, che fluttuava dall’aggressività alla totale incapacità di cogliere quanto avveniva intorno. In quello stato si presentò al cospetto di Anna.

-Ebbene, cara sposa, a cosa devo questa vostra chiamata? –

- Alvise, sentite, avrei una richiesta da farvi…- cercò di sondare il terreno – negli ultimi tempi non vi ho dato alcun motivo di potervi lamentare della mia condotta, ho fatto tutto quello che mi avete chiesto. Avevate ragione, ho commesso degli errori e me ne pento – lo blandì.

- Ah, mi fa piacere che ora lo riconosciate…è anche colpa vostra se Emilia non si trova più, l’avete consegnata voi a quei disgraziati dei nostri servi che la tengono nascosta…-

-No, questo no. Non ne so nulla e sono tanto in pena, tanto quanto voi, mio caro marito…- si avvicinò a lui e gli prese una mano – Il mio animo è tormentato da questi pensieri, dai rimorsi, non so più come fare…-

-Mia cara Anna, non voglio sentirvi così afflitta, suvvia! Questa sera vi terrò compagnia io! – e si mise a ridacchiare sguaiato, piombando sulla sedia colto da un giramento di testa.

-Alvise, sono desolata di non poter accogliere la vostra proposta, ma devo chiedervi un favore-

-E, sentiamo, quale sarebbe? – domandò lui stravaccato sulla sedia, tenendosi con un braccio allo schienale per non cadere, cercando di mettere a fuoco la sagoma della moglie che gli sembrava fluttuare per la stanza.

- Il permesso di potermi confessare, di confessare i miei peccati…Avevate ragione, ho sbagliato, ho sbagliato…- chiese, nascondendo il viso tra le mani per rimarcare il suo pentimento. Alvise la guardò da sotto in su con gli occhi lucidi semiaperti.

-Confessarvi? E posso io negarvi di riconciliarvi con Nostro Signore? Non potrei certo offendermi se preferiste la sua compagnia alla mia… – sghignazzò divertito.

-Lo devo considerare come un sì? –

- Non ve lo nego, non ve lo nego-

- Allora fatemi preparare una carrozza. Non posso più rimandare la mia confessione, non riuscirei a dormire. Andrò stanotte stessa al monastero-

-Stanotte? Al monastero? – Ad Alvise si riaffacciò alla mente annebbiata l’immagine dell’abate. Sarebbe dovuto essere già in viaggio. Bene, si disse, l’affare era avviato nel migliore dei modi. Ma nel suo deliquio alcolico non riuscì a mettere insieme le due cose: la faccenda dell’abate e la richiesta di sua moglie.

- Ma se avete qualcosa in contrario…-finse di concedere Anna.

- Alvise mio! Quanto mi siete mancato! Dove siete? – si sentì cinguettare Betta nel salone.

- Oh mia adorabile, mia deliziosa Betta! Arrivo subito da te! – rispose Alvise, sollevandosi a fatica dalla sedia.

- Alvise, dunque, posso andare con il vostro permesso? – insistette Anna, tesa. Era vicina a strappargli il consenso di partire.

-Fate quel che vi pare, Anna, andate pure dai vostri preti, se questo vi fa fare pace con la vostra coscienza – rispose – ora ho di meglio da fare che ascoltare i vostri soliti piagnistei – tagliò corto per andare a gettarsi fra le braccia di Betta.

 

Non riusciva a credere di essere riuscita a strappare il permesso ad Alvise. Si sentì molto soddisfatta di se stessa. Avrebbe affrontato una cosa alla volta e sarebbe riuscita nel suo intento. Per una volta era fiduciosa. – Coraggio, Anna! – si ripeteva tra uno scossone a l’altro della carrozza. Era partita dopo la mezzanotte, sarebbe arrivata giusto per la fine della recita del mattutino* (si recitava alle due di notte). Si strinse nel mantello per proteggersi dal freddo umido e penetrante e si assopì con in mente un unico pensiero: al convento, dopo aver parlato con l’abate, avrebbe cercato in ogni modo di rivedere Antonio.

I monaci avevano appena terminato di cantare le lodi del signore nella fredda cappella del monastero e stavano per ritirarsi nelle loro celle per trascorrere il resto della notte, quando sulla porta della chiesa si affacciò un’elegante figura incappucciata. Le luci delle candele illuminavano le tonsure dei monaci riuniti in preghiera e creavano strani giochi di luce riflettendosi sulle vetrate colorate. Il canto risuonava fra le mura e riempiva l’ambiente, mentre il freddo della notte si infiltrava sotto le tonache.

-Padre, vorrei poter beneficiare del sacramento della confessione. Ho bisogno di riconciliarmi con Nostro Signore, la mia anima è assetata del suo perdono. – Anna si era avvicinata ad uno dei monaci che si avviavano verso l’uscita. Non era importante chi fosse, bastava uno qualunque, avrebbe dovuto cercare di farsi condurre dall’abate, che non aveva scorto alla preghiera. Iniziò pertanto a temere di essere giunta troppo tardi…

- Ebbene, cosa vi conduce nel cuore della notte a invocare il perdono del Signore? Quali macigni gravano sulla vostra anima, sorella? —

Nel buio del confessionale, Anna stava studiando una strategia per arrivare al suo obiettivo: farsi condurre dall’abate. Non le importava più nulla della sua reputazione, del buon nome dei Ristori, nulla. L’unica cosa che contava era giungere all’abate e dissuaderlo dal compiere quanto il marito gli aveva richiesto. A tale scopo bisognava mettere in campo tutte le proprie risorse. Le sarebbe costato un immane sforzo, non era mai stata abituata a cose di questo genere. Ma non poteva sottrarsi per uno stupido imbarazzo, per degli scrupoli altrettanto stupidi, doveva andare fino in fondo a questa sceneggiata. Si fece un rapido segno di croce e disse fra sé: - Perdonami, Signore, perdonami per quello che dirò! – Poi si apprestò a rispondere:

-Vedete, padre. Ho peccato. Ho commesso adulterio. Ho tradito mio marito – bisbigliò Anna alla grata, il cappuccio sul viso per evitare ogni possibile contatto oculare.

Era stata allevata sin dalla più tenera età nel sacro timore di Dio; aveva avuto un’educazione estremamente rigida, fatta di letture sacre, etichetta e lodi del Signore. Ogni sera, prima di dormire, era sua abitudine inginocchiarsi davanti al crocifisso e chiedere perdono per i peccati commessi durante il giorno; ogni mattina, al risveglio, era solita incominciare la giornata ringraziando Dio con la preghiera. Com’era diversa da suo fratello, che pure aveva ricevuto la stessa educazione! Il carattere impulsivo e passionale di lui l’aveva condotto ad una certa insofferenza per i dettami religiosi e presto se n’era discostato; ma lei, forse perché donna, forse perché di carattere più fragile malgrado le apparenze, non aveva mai potuto lontanamente immaginare un’esistenza priva del conforto della religione o libera dal timore di Dio e dal sacro terrore delle pene infernali. Sorvegliava sempre la sua coscienza, non si concedeva mai un cedimento, e, com’era assai poco indulgente con se stessa, allo stesso modo lo era nei confronti degli altri, in particolare del fratello di cui non tollerava la relazione di concubinaggio con la sua serva. Se pur, com’è umano, in qualche occasione cadeva nel peccato, era tanto il suo intimo rimorso che non trovava pace finché non si riconciliava con Dio nel confessionale. Mai e poi mai avrebbe immaginato di ritrovarsi ad imbastire una simile messinscena di fronte ad un religioso, mai e poi mai! La solita Anna sarebbe inorridita al solo pensiero di mentire durante il sacramento della confessione; ma la solita Anna non si sarebbe nemmeno dimenticata di recitare le sue orazioni della sera, come successo quella notte, distratta dai baci e dalle carezze di Antonio.

- Lo spirito è forte, ma la carne è debole…Il Signore riconoscerà il vostro pentimento e…-

- Il vero peccato non è questo. Il vero peccato è che non ne sono affatto pentita!-

Il padre confessore trasalì: - Sorella, voi perseverate nel peccato! –

-Sì, persevero nel peccato. Amo quest’uomo più della mia vita stessa, forse anche più di Dio, e potrei arrivare ad uccidere mio marito…-

Il povero monaco non sapeva più che dire. Sconvolto da tale confessione, si limitava a balbettare : - Il fuoco dell’inferno, il fuoco dell’inferno, non temete il fuoco dell’inferno? –

-No, non lo temo. Temo soltanto che il Signore voglia separarmi dall’uomo che amo. Non glielo perdonerei! Come non Gli ho perdonato di avermelo portato via in passato - disse tutto d’un fiato. E lo disse tutto d’un fiato per paura, per la paura che la frase sacrilega appena pronunciata contenesse molta più verità di quella che volesse far credere. La finzione si era spinta troppo oltre e affondava ormai le sue radici nelle più inconfessabili verità.

Le sue parole rimasero sospese per qualche istante nella fredda oscurità del confessionale. Si udivano solo i respiri tesi dei due.

- L’adulterio può essere perdonato, ma qui abbiamo perseveranza, propositi omicidi…e, sorella, state bestemmiando Dio, state infrangendo il primo dei comandamenti “Non avrai altro Dio all’infuori di me”; voi amate una creatura più del Creatore e non mostrate un minimo pentimento…-

- E’ proprio per questo che vorrei poter parlare all’abate, sapete è la mia guida spirituale…- buttò lì Anna, i nervi tesissimi – Lo dite voi stesso, la mia anima è in grave pericolo, non potrà negarmi il suo aiuto…-

- L’abate non è qui. È partito ieri per la città. Aveva affari molto urgenti da sbrigare -

-Come? Partito? Di già? - domandò con un tono inaspettatamente allarmato che sorprese l’ignaro monaco.

- Di già? Che cosa intendete, sorella? -

-Nulla, nulla… Posso attenderlo qui? – si schermì lei

- Il Signore accoglie tutti i suoi figli nella sua dimora. Ma temo che dovrete aspettare fino a giorno fatto -

 -Vi ringrazio, padre. Attenderò qui, mediterò, mediterò sulle mie colpe e pregherò il Signore. – concluse Anna, scostandosi dal confessionale per andare ad inginocchiarsi in un banco.

Rimase in raccoglimento per qualche minuto, giusto il tempo per accertarsi che il monaco ritornasse nella propria cella. Poi si alzò e furtivamente, il cappuccio sempre calato sul viso, si avviò nel chiostro.

 

La notte era ancora alta, il cielo scuro, cupo, denso di nubi. Si alzava di tanto in tanto un vento autunnale, freddo, umido foriero di piogge, sibilava tra le colonne del porticato, si insinuava tra le grate delle celle, arrivava di tanto in tanto a spegnere le luci delle fiaccole appese ai muri perimetrali. Nell’oscurità Anna riuscì a scorgere un corridoio che si apriva sul lato opposto a quello dove si trovava. Lo raggiunse e si addentrò nel buio. Alla fioca luce di un braciere che stava appoggiato su di un tripode in fondo al corridoio intravvide una fuga di celle su entrambi i lati. Non senza una sottile inquietudine, si inoltrò in quel luogo tetro e per nulla rassicurante. Il vento sibilava fra le mura, il braciere sembrava sempre sul punto di spegnersi, precipitando così Anna nella totale oscurità. Mentre si avviava incominciarono a apparire ai lati le inferriate delle celle. Diede una rapida occhiata e si accorse che sul pagliericcio steso sul pavimento umido stavano adagiati non monaci ma quelli che avevano tutta l’aria di essere dei ribelli, feriti per lo più. Di quando in quando, passando davanti alle grate, si udiva qualche sommesso lamento, qualche imprecazione. – Non deve essere tanto lontano – pensò fra sé – in fondo è qui per curare i feriti… - . Tuttavia percorse l’intero corridoio senza riuscire a scorgerlo o quantomeno a trovare indizi della sua presenza. In fondo svoltò a sinistra, dove si apriva un’altra serie di celle. La percorse col fiato sospeso, il cuore in gola, le mani tremanti, la veste frusciante sull’impiantito. Nulla. Qui dormivano soltanto monaci. Se l’avessero vista, non avrebbe saputo come giustificarsi. Fu colta dal panico e dallo sconforto: Antonio non c’era, quella notte non era lì. Sarebbe dovuta al più presto uscire e ritornare a Rivombrosa entro mattina, prima che Alvise potesse insospettirsi della sua assenza. Il suo piano si era rivelato un totale fallimento: l’abate era già partito alla volta della capitale e sarebbe tornato di lì a poco con l’ordine di sgomberare il monastero per consentire alle guardie reali di arrestare i ribelli; Antonio non era lì, probabilmente era a casa sua e il giorno dopo, arrivando al monastero, sarebbe stato preso anch’egli. Anna era in preda all’angoscia, scossa dai brividi, alla fine dell’ennesimo corridoio si appoggiò sconsolata al muro umido e freddo. Fu allora che scorse il baluginio di una luce al di là della grata della finestra. Trovò una porta e uscì da quell’intrico di anditi per ritrovarsi in un piccolo chiostro collaterale. Seguì la luce e fece per affacciarsi alla porta che immetteva in uno stanzone. Capì che si trattava dell’infermeria. Quindi entrò decisa, sospinta da un’audacia quasi disperata. E lo vide. Voltato di spalle mentre sterilizzava i ferri sul fuoco crepitante di un braciere. Distinse nella semioscurità soltanto il nitore della sua camicia, ne intravvide la sagoma, ma non ebbe dubbi.

-Antonio! – chiamò a mezza voce dalla porta, togliendosi il cappuccio.

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Capitolo 16
*** Simpatia ***


 

 

 

Quella voce. Tanto rimpianta, tanto temuta, tanto desiderata. Poco importava se gli avesse sussurrato dolci parole d’amore o gli avesse rivolto aspri rimproveri e dure minacce. Quel timbro lo trapassava da parte a parte. Stava forse sognando? La desiderava con tanta forza che i suoi sogni avevano preso sembianze così reali? Proveniva dalla sua mente offuscata quella voce che lo chiamava per nome?

Si fermò. Appoggiò meccanicamente i ferri sul tavolo, chiuse gli occhi e trasse un sospiro. Poi si voltò. Il viso stanco, emaciato, provato dalle fatiche senza tregua di quei giorni, la barba insolitamente ispida. Ma gli occhi, quei suoi occhi celesti, brillavano, nell’oscurità, di una nuova luce, di una luce insperata. La scorse nella penombra. Era lì, in tutta la sua bellezza composta, la sua eleganza signorile, le ciocche di capelli ricci che le ricadevano sulle spalle, gli occhi scuri, profondi e lucenti.

Non fece in tempo a pronunciare – Anna! – che lei gli corse incontro gettandogli le braccia al collo. Antonio rimase immobile per qualche istante. Non riusciva a capire che cosa ci facesse lì in quel momento né perché mai fosse venuta a cercarlo dopo le dure parole che gli aveva rivolto per scacciarlo dalla sua stanza. Tutto gli era incomprensibile, tranne il potere straordinario che Anna irradiava su di lui. Non resistette a lungo: quanto gli era mancata! Ritrovandosi Anna stretta a sé, la testa posata sulla sua spalla, non poté far altro che abbracciarla a sua volta. Lei ricambiò stringendolo ancor più forte, tanto da togliergli il respiro e da fargli involontariamente sfuggire un’esclamazione di dolore: i lividi che i colpi delle guardie gli avevano lasciato non erano stati del tutto ancora riassorbiti. Anna se ne avvide e sciolse la stretta:

-T’ho fatto male? – chiese sollevando gli occhi per fissarli nei suoi, al chiarore crepitante del fuoco accesso. Un brivido corse lungo la schiena di entrambi.

- Non è nulla, non è nulla…- rispose Antonio, scuotendo la testa con un mezzo sorriso che non riuscì a nascondere. Poi tornò ad abbracciarla, accarezzandole la nuca. Il calore delle sue braccia le fece dimenticare il freddo patito nelle ultime ore, l’umidità dei muri spessi di quei corridoi ciechi, l’angoscia di quel buio senza via d’uscita.

- Ho paura – disse Anna sciogliendosi dal suo abbraccio, dopo istanti che sembrarono interminabili, e guardandolo con gli occhi umidi di lacrime, proseguì: – L’abate farà arrestare tutti quanti. È andato in città a chiedere il consenso ai superiori. Tornerà con le guardie del governatore. È finita. I ribelli non avranno scampo, Alvise sarà implacabile. Non oso immaginare quello che accadrà. Ho paura. –

Antonio le offrì uno sguardo dei suoi, rassicurante: - Non devi. Emilia è al sicuro da me. C’è anche Elisa con lei. Nessuno le farà del male, te lo garantisco. È una ragazzina in gamba, molto intelligente. Ed è bella, come è bella sua madre. – concluse sorridendole.

Anna abbassò la testa per nascondere il rossore che le imporporò le guance. Le succedeva sempre ad ogni complimento di Antonio. Seguì qualche istante di silenzio imbarazzato. Lui capì e sorrise teneramente di quella sua inconsueta timidezza, che riservava a lui solo.

-Lo spero con tutto il cuore, non voglio nemmeno pensare il contrario, se Alvise…-

- Non succederà. Non avere paura. – la interruppe lui, con tono sicuro, almeno in apparenza. – Non c’è motivo di stare in pensiero, non le succederà nulla di male. –

- Ma a te? A te che succederà? – ribatté lei incalzante, accarezzandogli le guance ispide, i capelli. Negli occhi lucidi le si leggeva tutta la sua trepidazione.

Antonio le prese le mani, gliele baciò e rispose:

-Non succederà nulla nemmeno a me, sta’ tranquilla. Sono un medico, sto soltanto svolgendo il mio lavoro. Non ho preso parte alla rivolta. Non mi possono accusare di nulla. –

- Dimmi la verità- lo implorò con le labbra tremanti. Il riflesso del fuoco permise ad Antonio di scorgere le lacrime che le inumidivano gli occhi.

- E’ la verità – rispose lui scostandole una ciocca di capelli e baciandola in fronte.

- Ti amo, Antonio. – così dicendo gli impresse un bacio sulle labbra, poi un altro, poi un altro ancora. Antonio le avvolse le spalle continuando a baciarla, stringendola a sé mentre lei gli passava le mani fra i capelli. Fu un bacio lungo, travolgente, tanto atteso e desiderato da entrambi.

- Ti amo anch’io, Anna. Non ho creduto a una sola parola di quella sera. Non mi sbagliavo. -  rispose infine. -Perché l’hai fatto? Perché mi hai cacciato? – chiese accorato, con il suo sguardo più dolce.

Anna lo guardò in tralice, poi abbassò gli occhi.

-Alvise. Ti avrebbe fatto ammazzare. Tu non sai di cosa può diventare capace negli ultimi tempi. -

- Che ti ha fatto? Fino a che punto si è spinto quel vigliacco? – le domandò, prendendole il viso tra le mani. Nei suoi occhi scintillava la rabbia, ma seppe contenersi. Come sempre l’istinto di protezione aveva la meglio su quello di vendetta, in lui.

- Non puoi capire quello che ho dovuto passare: le violenze fisiche e morali, gli insulti, le umiliazioni…Ma non mi importa di questo, io posso sopportare tutto. Conta solo che tu ed Emilia stiate bene, che quel porco non vi abbia fatto nulla, come minaccia sempre. -

- Amore mio – disse soltanto lui, abbracciandola nuovamente. Avvertì distintamente le sofferenze che aveva dovuto patire dietro a quell’atteggiamento stoico e orgoglioso con cui tentava di minimizzare. Le avvertì e gli prese una stretta al cuore al solo pensiero. La strinse a sé ancor di più, come per sottrarla al mondo, a quel mondo meschino e feroce, proteggendola con il suo abbraccio.  Poi le accarezzò le guance, le baciò i capelli, le tempie, le labbra, le sussurrò: - Vieni via con me. Non riesco a sopportare l’idea che tu torni da lui, non posso saperti tra le sgrinfie di quell’uomo. Vieni via con me, ti prego. – la fissò dritto negli occhi, supplice.

 

 

Anna si scostò da lui, volse lo sguardo a terra, tacque. Antonio la fissava perplesso, sbigottito. Passarono diversi istanti di silenzio, interrotti solo dal crepitare delle faville nel braciere.

-Perdonami. Ho sbagliato. Non avrei mai dovuto chiederti questo. Io non posso offrirti gli agi a cui sei avvezza, non sono che un medico di campagna, ormai. Scusami, non avevo alcun diritto di chiederti questo sacrificio, di chiederti di umiliarti in questo modo di fronte al tuo mondo – ruppe il silenzio Antonio, sinceramente costernato, non riuscendo nemmeno a guardarla negli occhi. Fece per voltarsi quando Anna lo trattenne per un braccio con vigore.

- Perdonarti? Vivere con te sarebbe un sacrificio? Sarebbe un sogno, semmai, un sogno tanto irraggiungibile che per anni non ho nemmeno osato cullare, svegliarmi ogni mattina con te accanto non sarebbe altro che l’essenza della felicità –

- E allora perché, Anna? –

- Ho dei doveri, Antonio. Nei confronti della mia famiglia. Non posso lasciare che Alvise spadroneggi in lungo e in largo nella nostra casa, nella nostra tenuta. Se io me ne andassi ora, gli fornirei il pretesto per estromettermi del tutto dai beni della mia famiglia. Non conosco un uomo più spregevole e laido di mio marito, non potrei sopportare che facesse ulteriore scempio del buon nome dei Ristori, che lo cancellasse del tutto sostituendolo con il suo. Non in questo momento, con quello che sta succedendo. Alvise non l’avrà vinta! – rispose con risolutezza, nello sguardo corrucciato le si leggeva lo sdegno ma anche una grande capacità resistenza. Ma presto tornò ad uno sguardo più dolce, non appena ebbe incrociato gli occhi di Antonio.

- Ma questo potrebbe esporti a gravi pericoli, in questo momento di disordini, con tuo marito su tutte le furie con i suoi servi…Non voglio nemmeno pensare…E poi, per quanto potresti resistere? Per quanto ancora durerà tutto questo? Magari mesi, anni...Dove la trovi tutta questa forza? -

- Resisterò fin quando sarà necessario, fino al ritorno di mio fratello. Ho resistito finora, per lunghi anni, alle squallide attenzioni di Alvise, alle sue minacce, ai suoi eccessi di ogni sorta. Non ho intenzione di lasciare il campo a lui e a quella sgualdrina di Betta Maffei. Rivombrosa è casa mia, non posso tollerare questo ennesimo sopruso. – non riusciva a nascondere la rabbia, quando si trattava dell’oltraggio alla sua dimora.

- Tu riuscirai a resistere, non ho dubbi. Ma io? Come potrò vivere per tutto questo tempo sapendoti in balìa di lui? –

- Non ci vorrà molto. Fabrizio sarà presto di ritorno, pochi giorni, qualche settimana al più –

-Come fai ad esserne così certa? -

- Mi scrisse tempo fa: sarebbe tornato per la vendemmia. Siamo a settembre inoltrato. –

- Voglio sperarlo, ma non c’è nulla di certo – Pronunciate queste parole, si allontanò da lei, il capo chino, l’aria pensierosa, gli occhi bassi per non far trasparire il suo tormento. Poi, dandole le spalle, lo sguardo volto al buio della notte al di là delle grate dell’inferriata, aggiunse, quasi vergognandosi di mostrarle l’intensità viscerale del suo coinvolgimento: - Io avverto sulla mia pelle le tue sofferenze, anche se tu non vuoi ammetterle. Soffro terribilmente al solo pensiero che quell’uomo ti faccia del male. Non so spiegartelo in altro modo: il tuo dolore è il mio. E, se tu hai questo grande coraggio, io non credo di averne altrettanto: saperti lontana e in quella situazione, senza poter far nulla per te, mi distrugge. –

-  Antonio, so quel che faccio. Ho imparato con gli anni a lasciarmi scivolare addosso tutte le umiliazioni e le violenze. Ed ero sola, mi facevo forza per Emilia. Ora ho te. E questo mi dà una forza invincibile. Non ho paura di niente, se so che ci sarai tu ad aspettarmi – gli rispose avvicinandosi e passandogli una mano sulla spalla. Rimasero alcuni istanti in silenzio a fissare tra le grate il cortile buio squassato dal vento.

- Emilia ti somiglia. Sente molto la mancanza di sua madre, ma non lo dà a vedere. Si fa forza, non l’ho mai vista piangere o disperarsi, nonostante sia poco più che una bambina. È molto forte. – disse seguitando a fissare il buio.

- Ha dovuto crescere in fretta, ritrovandosi un padre del genere. Anche a me manca molto, non sai quanto. Vorrei tanto riabbracciarla! Ma so che con te è al sicuro, più che in qualsiasi altro posto. –

- Vieni da lei, con me. Ha bisogno di te, Anna, è solo una ragazzina, non puoi imporle questa prova. Ha più bisogno lei della tua presenza che non Rivombrosa. – Antonio si voltò verso di lei.

- Antonio, smettila, non riuscirai a farmi cambiare idea. Non capisci che lo faccio anche per lei, per il suo futuro? Lei è una Ristori, in tutto e per tutto. E devo garantirle un avvenire degno, devo proteggere la nostra dimora, il nostro nome dagli scempi di suo padre. –

- La famiglia, l’onore, il buon nome. Tu hai sempre saputo quello che è giusto. Ma, perdio, Anna, esiste anche altro…–

- E che cosa, Antonio? I tuoi tanto amati principi? L’uguaglianza, la giustizia? Dove ci hanno portato i tuoi principi? –

- Per favore, Anna! –

- Non venirmi dunque a dire che sono migliori dei miei. Sappiamo bene entrambi dove ci hanno condotto i tuoi ideali. –

  - Dottore! Dottor Ceppi! – una voce concitata troncò sul nascere quella discussione. Antonio accorse verso la porta, Anna si ritrasse nell’ombra. Non avrebbe mai voluto farsi trovare lì.

- Che succede? – chiese il medico, allarmato.

- Le sue condizioni sono peggiorate. Delira. Venite subito, fate qualcosa, vi prego! – un uomo in preda al panico, con le maniche della camicia rimboccate sugli avambracci muscolosi, i capelli spettinati, la barba lunga e l’aria di chi non dormiva da parecchie notti, afferrò Antonio per un braccio, supplicandolo. Si trattava certamente di uno dei contadini che avevano preso parte alla rivolta. Ad Anna parve di riconoscerlo, ma fu svelta a scantonare nell’ombra prima che lui la vedesse.

- Arrivo subito – rispose sollecito il medico – Avviati tu intanto, io prendo i ferri – così dicendo congedò l’uomo e si rivolse ad Anna – Devo andare. Ti ritroverò qui? – più che una domanda, sembrava un’implorazione. Lei annuì: l’acrimonia di qualche istante prima era del tutto scomparsa, lasciando il posto all’apprensione.  – Farò presto – le rispose facendole di rimando un cenno di assenso con la testa.

Aveva già oltrepassato il cerchio di luce del braciere quando Anna lo richiamò:

-Antonio, di qualunque cosa si tratti, fa’ attenzione! – si raccomandò. Lui si voltò senza riuscire a reprimere un sorriso e rispose – Non ce ne sarà bisogno, ma te lo prometto. – poi scomparve nel buio.

 

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Capitolo 17
*** Nostalgia e perfezioni provvisorie ***


Passò un’ora, forse di più: aveva perso la cognizione del tempo. Lo sguardo basso, gli occhi spenti, la camicia macchiata di sangue e il viso stravolto: rientrò in queste condizioni nella stanza. Gli ultimi bagliori del fuoco, ormai in procinto di spegnarsi, gli permisero di scorgere la sagoma di Anna, assopita su di un misero pagliericcio addossato alla parete dalla parte opposta della finestra. La stanchezza aveva vinto la ripugnanza per quello squallido giaciglio e così vi si era stesa, stando ben attenta ad evitare di sporcare eccessivamente la sua veste elegante. Aveva lottato a lungo contro il sonno per tenere aperte le palpebre, in attesa di Antonio, ma all’ultimo aveva dovuto cedere. Il medico stette perciò attento a non fare troppo rumore, si diresse in fondo alla stanza in punta di piedi.  Rannicchiata contro la parete umida e fredda, Anna tuttavia si destò dal suo dormiveglia al rumore dello sciacquio provocato dall’acqua nel catino. Antonio, levatosi la camicia sporca, si stava lavando via insieme al sangue i segni di quegli spiacevoli momenti. Lo intravvide mentre a torso nudo si passava l’acqua sul torace, immergeva le braccia fino al gomito e infine tuffava tutta la testa in quell’acqua fredda, quasi a voler scacciar via i pensieri.

-Antonio, che succede? – lo chiamò con voce assonnata.

Lui sollevò il capo, mentre i capelli gli grondavano rivoli d’acqua gelida sul collo e sul petto. Aveva uno sguardo sperso, come di chi abbia guardato in faccia la morte. Non parlò per qualche istante, si limitava a fissare il vuoto. Anna si mise a sedere, si passò una mano sugli occhi assonnati e lo osservò. Non riusciva a comprendere che cosa gli fosse successo, non gli riconosceva quello sguardo avvilito, disperato. – Non ce l’ho fatta – farfugliò poi Antonio, scuotendo la testa– ho fallito.

-Che significa? Che cos’è successo? Spiegami, Antonio, per favore! – lo incalzò Anna sempre più ansiosa. Non gli tolse mai gli occhi di dosso mentre lui si asciugava alla bell’e meglio, prendeva una camicia pulita, la abbottonava. Sempre in silenzio. Sempre fissando terra. Senza mai riuscire a guardarla in faccia.

- Mi stai facendo preoccupare! Parla, Antonio! –

Si avvicinò lentamente, si sedette accanto a lei sul pagliericcio e si prese la testa fra le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia.

-E’ morto. Non sono riuscito a salvarlo. – disse infine d’un fiato, lo sguardo a terra.

Anna lo fissava senza saper cosa dire, attendeva che fosse lui a rivelarle come si erano svolte le cose.

-Era una ferita lieve, due giorni fa. Poi si è infettata. L’ho sottovalutato, è stata colpa mia. E adesso quell’uomo è morto. Per distrazione, per superficialità. – spiegò, scuotendo amaramente il capo.

- Non posso credere che tu abbia agito con superficialità. Da come ti conosco, mi sento di escluderlo. Avrai fatto tutto ciò che in tua coscienza ritenevi si dovesse fare. Non è colpa tua, è stata una fatalità. Non avresti mai potuto prevederlo – cercò di consolarlo Anna. Si rese conto di quanto profonda fosse la sua costernazione e volle in ogni modo alleviare quel suo dolore. Gli si avvicinò, gli passò una mano sulla spalla, sui capelli ancor grondanti di quell’acqua gelida.

- Non è certo la prima volta che mi trovo faccia a faccia con la morte e non sarà nemmeno l’ultima. Ma ogni volta è come se fosse la prima. Quel senso di inutilità, di impotenza, di vanità del tutto…è tutto inutile quel che possiamo fare, la morte l’avrà sempre vinta. –

- Non dire così, Antonio, non dire così – lo rincuorava Anna, continuando ad accarezzargli i capelli, abbracciata a lui, intervallando le parole con leggeri baci alla sua spalla. Non sopportava l’idea di vederlo in quello stato. Non lui così appassionato del proprio lavoro, così solerte, così fiducioso, così generoso. Lui che le dava la forza per andare avanti nonostante tutto.

Il dottore si voltò con un sorriso mesto ma riconoscente. Le afferrò una mano:

-Ricordo come fosse ieri quando mi morì sotto gli occhi il mio primo paziente. Non scorderò mai quello sguardo vacuo e muto che invocava aiuto, quegli occhi sbarrati dal terrore, le labbra livide, le mascelle tremanti. Non potei far nulla, non era in mio potere. Dovetti lasciarlo andare, come lasciai andare mia madre, constatando l’inutilità di tutte quelle notti insonni passate sui libri. Di fronte alla morte non siamo nulla, il nostro sapere non è che polvere al vento. Certe volte mi chiedo se serva a qualcosa quel che faccio…-

- Sei il medico migliore che conosca. La tua perizia è pari alla tua umanità e non c’è nessuno che le possegga entrambe al tuo livello. Non ti importa chi sia a chiederti aiuto, tu sei sempre pronto ad aiutare chiunque abbia bisogno. Non ti tiri mai indietro, dai l’anima per i tuoi pazienti. Nessuno è infallibile, Antonio. Tu non devi rimproverarti nulla. Se c’è una persona seria e scrupolosa nel proprio lavoro, quello sei tu. Non t’ho mai detto quanto sia grande la mia ammirazione per il medico e, forse, nemmeno quanto sia profondo il mio amore per l’uomo –

Il sorriso che Antonio le regalò questa volta fu un sorriso pieno, spontaneo, raggiante, destinato a colei che per un attimo era riuscita a fargli dimenticare i fallimenti, le sconfitte della sua scienza e persino l’ineluttabilità della morte. La marchesa gli rispose sfoggiando a sua volta un bellissimo sorriso, raro e perciò prezioso, uno di quelli che riservava solo a coloro che più amava. Incontrando lo sguardo di Antonio, i suoi occhi scuri brillavano ancor più lucenti del solito nella semioscurità di quel posto spoglio, umido, gelido che in quel momento le sembrava però più splendido di una reggia.

-Che cos’avrò mai fatto di buono nella vita io, un povero medico disgraziato, per meritarmi una donna come te? – le chiese mentre avvicinava il viso al suo per poter studiare meglio quei suoi splendidi occhi luminosi.

- Non farmi domande di cui conosci già la risposta. Ti amo. Ti basti questo. – rispose lei sfiorandogli una guancia.

Antonio la baciò appassionatamente, poi si abbandonò fra le sue braccia, nascondendo il capo fra il collo e la spalla di Anna. Aveva bisogno della sua vicinanza, in quel momento, aveva bisogno di tutto il suo calore.

-Sei freddo! – esclamò ridendo lei al contatto dei capelli fradici con la sua pelle. In effetti Antonio tremava il quel momento, per il freddo, per l’emozione o per entrambe le cose. – Ti prenderai un malanno, dottore. E lo farai prendere anche a me-

Se ne sarebbe dovuta andare già da un bel po’, il mattino si avvicinava. Ancora qualche ora e Alvise si sarebbe accorto della sua assenza, avrebbe smosso mari e monti per cercarla, sarebbe giunto fin lì al monastero, creando ancor più scompiglio. La situazione era già abbastanza tesa: l’indomani con tutta probabilità le guardie del governatore avrebbero fatto sgombrare i ribelli, li avrebbero arrestati, o peggio. Forse se la sarebbero presa anche con Antonio, non era del tutto convinta che le cose stessero come lui le aveva assicurato. Non avrebbe mai dovuto fermarsi lì così a lungo, esponendo Antonio a pericoli ancor maggiori, se suo marito li avesse trovati insieme: aveva ascoltato il discorso pieno di rancore e di squallide insinuazioni con cui Alvise aveva tentato di convincere l’abate di un coinvolgimento del medico nella rivolta per farlo così arrestare. Non avrebbe mai dovuto farsi trovare in quel luogo e aizzare ulteriormente le ire del marchese, ma non se la sentiva di lasciare da solo Antonio. Non in quel momento. Ancora mezz’ora, si concedette.

 

 

 

Antonio intanto si era alzato per prendere una vecchia e ruvida coperta rammendata in più punti che si trovava appoggiata sullo schienale della sedia. Il braciere si spense del tutto, né lui si curò di ravvivarlo. La stanza era piombata nell’oscurità e nel freddo, che gli spifferi dalle grate alle finestre contribuivano a far sentire ancor più. Fuori infuriavano il vento e la pioggia.

-Non c’è nulla di meglio, i monaci abbracciano una vita frugale, a quanto pare. Non si concedono nemmeno una coperta decente…mah, faranno penitenza in questo modo- constatò ironico tornando a sedersi accanto ad Anna e avvolgendo entrambi con quella tela ruvida, a cui la marchesa non era per nulla avvezza, ma che, stranamente, sembrò accettare di buon grado. Seduti su quello scomodo pagliericcio sgualcito che lasciava intravvedere la paglia in più punti, addossati ai mattoni umidi e freddi della parete, nel totale silenzio e oscurità di quell’ora antelucana, cercavano di scaldarsi a vicenda tenendosi stretti. I loro pensieri non andavano al mattino seguente, ai pericoli a cui sarebbero stati esposti, allo stato di incertezza che avvolgeva ogni cosa in quei giorni di disordini e sovvertimenti. Stavano sospesi tra un presente fragile ma felice, poiché, pur nello squallore di quel luogo, per quanto sacro fosse, concedeva loro qualche prezioso quanto fuggevole attimo di serenità, e un passato magnifico, reso ancor più tale dal ricordo inebriante della gioventù. E la loro memoria correva, si astraeva dalle miserie del presente, dalle angosce del futuro e riandava a quei tempi in cui tutto era ancora possibile, in cui nulla era stato ancora sciupato da errori, mancanze, ripicche.

- Ti notai subito, quella sera, quando ti girasti chiamato da tua madre. I tuoi modi gentili, un po’ impacciati. Quant’eri bello, pensai. Non c’era nessuno che ti assomigliasse. Gli altri giovanotti amici di mio fratello erano prestanti, bellocci, e anche galanti, ma erano troppo fanfaroni, non avevano la tua raffinatezza. Mi stupii della tua timidezza, devo ammettere. Non riuscisti nemmeno a guardarmi negli occhi quando ti porsi la mano, diventasti rosso e fissasti per un bel po’ il pavimento -

- Allora te ne ricordi anche tu? Ed io che pensavo di essere l’unico a non poter dimenticare quella sera… E ti eri pure accorta dell’effetto che avevi avuto su di me? Per tutti questi anni ho sperato il contrario! – concluse Antonio sorridendo divertito.

- Come avrei potuto dimenticare? E, certo, me ne accorsi. Mi sembrò di avere a che fare con un tipo po’ insolito nei salotti che frequentavamo io e mio fratello, un tipo molto timido e poco loquace. Ma non mi illusi certo di essere io la causa di questo atteggiamento –

- Oh, qui non ti credo, Anna. Non posso pensare che tu non fossi cosciente del fascino che esercitavi su tutti gli uomini presenti. Tutti si voltarono a fissarti al tuo passaggio quando entrasti nella sala, tutti. Me lo ricordo benissimo. E non sarebbe potuto essere diversamente. Eri bellissima. Unica nel tuo incedere elegante, nei tuoi saluti schivi ma cortesi. E quei tuoi occhi così lucenti, bè, quei tuoi occhi mi vinsero. Eri troppo per me: ero un ragazzo molto timido e pieno di pregiudizi sulle fanciulle dell’alta nobiltà, frivole e altezzose. Capii all’istante che tu non eri così, ed è per questo all’inizio che non ressi il tuo sguardo, ma non riuscii poi a fare a meno di cercare i tuoi occhi. Mi disprezzai, allora, per la mia goffaggine! Chissà che avrai pensato di me! -

- Eri adorabile, invece! Così impacciato facevi tenerezza, devo dire che anche tua madre si imbarazzò un po’ per il tuo atteggiamento poco spigliato! –

- Oh, persino lei…-

  - Tua madre era molto fiera di te, dei tuoi studi. Ti adorava –

- Adorava te. Non faceva altro che elogiare il tuo garbo, la tua eleganza, la tua cultura. Non desiderava nessun’altra al mio fianco. Se fosse stata viva, credo che non me l’avrebbe mai perdonato. Come, del resto, non mi perdonò mai mio padre, ma per altre e ben più prosaiche ragioni: l’onore della famiglia, le terre…il suo unico figlio che rinunciava a tutto, che follia! –

Anna avvertì una nota malinconica dietro al sarcasmo con cui parlava del padre e più ancora dietro alla nostalgia con cui ricordava la madre.

- Quanto sono stato stupido! – riprese dopo qualche attimo di silenzio - Allora avevo in mente solo i miei studi, la medicina, l’uguaglianza delle classi...Non riuscii ad accorgermi fino in fondo quanto tu mi fossi indispensabile. Quando ci si deve arrendere alla sconfitta dei propri ideali, quando la scienza dimostra la sua fallibilità, quando le illusioni di poter cambiare il mondo vengono riconosciute come tali. Ho peccato di tracotanza, pensando di fare a meno di tutti, ma soprattutto di te; e sono stato un egoista ad imporre a persone innocenti le mie scelte di vita fino a spingerle all’autodistruzione –

Anna tacque. Di fronte ad una simile ammissione di colpa non era in grado di formulare una risposta. Non poteva rispondergli: perché, sì, aveva odiato quei suoi astrusi ideali che l’avevano spinto ad abbandonarla, aveva spesso avuto a noia la sua passione per la medicina che a tratti sembrava far passare ogni altro affetto umano in secondo piano. Ma, in realtà, non era forse anche per questo che lo amava? Non erano forse i suoi principi, la sua dedizione totale al prossimo, la sua abnegazione a fare di lui quell’Antonio, quell’uomo al pari del quale chiunque altro le sarebbe sembrato insignificante, meschino?

-Anna, io non sono stato in grado di comprenderti. Non fui capace di fare distinzioni. Interpretai il tuo orgoglio di classe, il senso di appartenenza alla tua famiglia come protervia. Non capii che il tuo apparente cinismo non era che un’arma di difesa nei confronti della cattiveria del mondo, di quel mondo di nobili falsi e meschini. Ti amavo, ma iniziai a far di tutto per convincermi del contrario, per convincermi di non essere io in torto nel non aver tenuto fede alla promessa. Sono stato un ingenuo a pensare di poter fare a meno di te. –

- Non ne parliamo più, Antonio. Non voglio ricordare quei tempi, non furono momenti felici. – disse scostandosi da lui bruscamente come sorpresa da un amaro déjà-vu.

- Forse hai ragione. Ma non riesco a non pensarci. Non mi pento di aver rinunciato al titolo, alle terre, al denaro. Ma a te…- disse cercando di riavvicinarsi a lei

-Basta! Non torturarmi così! Immaginare come sarebbe stata la mia vita se le cose fossero andate diversamente e ritrovarmi qui, invischiata in questo matrimonio distruttivo per me, per la mia casata. – lo interruppe stizzosa, sospirando con un’aria imbronciata, che ad Antonio tanto piaceva. Si levò di dosso la coperta e si mise a sedere distante da lui, poi iniziò a sentenziare seria, guardandolo fisso in viso:

- Non ho mai condiviso le tue idee, le tue scelte di vita. Le classi sono volute da Dio. Noi che siamo nobili abbiamo il dovere di difendere il re, di governare sulle nostre terre; i servi hanno il dovere di lavorare e di obbedire. È così che Dio ha deciso, ha affidato a ciascuno un compito in questa vita terrena. Non ci si può opporre alla Provvidenza, all’ordine che ha stabilito! È blasfemia pensare di sovvertire quest’ordine! la punizione di Dio è implacabile, e tu lo dovresti sapere! Ma adesso queste idee che arrivano dalla Francia…non so dove ci condurranno, ma certamente non prevedo nulla di buono! Come si può pensare che tutti siano uguali quando è palese il contrario? Non è possibile pensare questo, vogliono la nostra fine, la fine dell’aristocrazia…-

Antonio attese qualche istante, pensieroso, poi si apprestò a ribattere:

-Hai ragione, non tutti sono uguali. C’è chi, come per esempio tuo marito, vive di soprusi, di arroganza, di prevaricazione sui più deboli. Un uomo che non sa quanta fatica costi il lavoro e pertanto si permette di scialacquare il denaro tra gioco d’azzardo e prostitute. Un uomo che considera i suoi servi alla stregua di bestie, ma dimostra di essere lui stesso tale nel modo in cui tratta sua moglie e sua figlia. Ma lui è nobile, marchese, titolato, di antica casata…- Anna, a queste parole, non poté che esprimere il suo consenso, con una smorfia di disprezzo rivolta ad Alvise.

Antonio riprese: - E poi c’è tuo fratello Fabrizio, uomo giusto, onesto, amministratore oculato dei propri beni, umano nei confronti dei dipendenti, per quanto molto orgoglioso del suo status. E ci sei tu che, nonostante la severità che sempre dimostri a tuoi servi, nonostante gli atteggiamenti a volte sprezzanti (ne so qualcosa), hai un animo nobile, gentile, profondo: non saresti in grado di schiacciare il prossimo come fa quotidianamente tuo marito. Aristocratici lo siete tutti e tre, ma quanta la differenza! E voi due rappresentate un’eccezione, una minoranza. Prova solo a pensare agli amici di tuo marito, a tutta quella nobiltà viziosa e corrotta che affolla le tue sale. Hai ragione, non tutti sono uguali, ma la differenza non sta nel sangue, ma nell’animo: nessun blasone potrà mai concedere la facoltà di opprimere, calpestare i diritti dei più deboli –

Concluse il suo discorso e stette in attesa di una reazione della marchesa, cercando il suo sguardo, quasi a chiederle una tregua. Lei scosse la testa, poco convinta, mantenendo le distanze:

-Quello che dici è vero. Mai io sono stata educata a determinati principi e, tra questi principi, l’orgoglio del proprio titolo, l’onore della propria famiglia, il dovere nei confronti della classe di cui facciamo parte sono imprescindibili. Non potrei pensare in modo diverso senza tradire quello che mi è stato insegnato –

Negli occhi di Antonio si poté leggere un sottile timore di aver compromesso con le sue parole poco ortodosse la fiducia che Anna sembrava aver ritrovato in lui. Era pronto a precisare, a scusarsi, persino. Ma Anna riprese:

-Sono, però, consapevole anche di un’altra cosa. Del fatto che non mi importerebbe nulla di sapere se tu fossi nobile, non lo fossi più o non lo fossi mai stato. Ti amerei comunque, senza condizioni. Per quello che sei, per i tuoi ostinati principi che non condivido, per la passione che metti nel tuo lavoro, per il tuo sguardo limpido, per il tuo sorriso, per la tua generosità. Il resto non ha poi grande importanza. –

Per la seconda volta in quella notte sul volto di Antonio si dipinse un sorriso radioso, che contagiò immediatamente anche lei. Era bellissima e in quell’istante gli parve ancor più bella. Non accadeva spesso di vederla sorridere, e in quel modo poi, con quella gioia, quell’amore che le illuminava il viso, di solito pallido e malinconico, con quella dolcezza nello sguardo che riservava solo per rari momenti.

-Ti amo, Anna – sussurrò infine, smorzandole ogni altra parola sulle labbra con un bacio, l’ennesimo di quella strana, surreale notte. Ma tutt’a un tratto, tra i baci dolci e sempre più appassionati sul viso, sui capelli, sul collo, Anna si staccò da lui: - Dimmi che non succederà di nuovo, che non succederà una seconda volta –

- Che cosa…? – non riuscì a completare la domanda che la bella, forte, incrollabile marchesa scoppiò in lacrime. Un accesso violento e incontrollabile di un pianto troppo a lungo trattenuto. Piangeva per l’abbandono di tanti anni prima, piangeva per la lontananza di suo fratello, piangeva per la mancanza di sua figlia, piangeva per le violenze subite da Alvise, piangeva per la rovina di Rivombrosa, per l’angoscia per quello che sarebbe potuto accadere il giorno successivo. Ma soprattutto piangeva per se stessa, per tutte quelle volte in cui, anche in quella notte, si era mostrata coraggiosa, padrona di sé e della situazione; per tutte le volte in cui aveva dovuto ingoiare le lacrime e andare avanti per coloro che amava, sottoponendosi ad ogni sorta di abuso fisico e morale; per tutte le volte in cui avrebbe desiderato avere Antonio accanto a sé, ma aveva dovuto convivere con quel vuoto tremendo e farsi forza da sola. Non riusciva a smettere, a dominarsi, era continuamente scossa da sussulti violenti. Ad Antonio apparve per la prima volta in tutta la sua vulnerabilità, fragile, spogliata anche della sua solita difesa, l’acredine con cui lo aggrediva.

- Dimmi che non lascerai che i tuoi ideali ci separino di nuovo – riuscì a dire tra i singhiozzi. – Ho…ho bisogno che tu lo me lo dica, guardandomi negli occhi – e lo fissava, priva di ogni difesa ormai, totalmente in balìa di lui, con uno sguardo che anelava soltanto a rassicurazione.

- Non devi nemmeno pensarle queste cose! Non commetterò gli stessi errori del passato– le rispose Antonio, sempre più turbato da questa sua reazione inaspettata, afferrandola con forza per le spalle.

- Promettimi che non mi lascerai mai – ripeté lei. – Mai, Anna, mai. Te lo prometto, te lo giuro! Ma ora non piangere, non piangere più, mi fa male vederti così! – Non avrebbe mai voluto vederla piangere, in quel modo poi, ma riteneva che potesse essere un bene per lei sfogarsi, dopo tutto quello che aveva dovuto passare. Ed era contento che avesse scelto lui: gli si era abbandonata, aveva messo nelle sue mani la sua vita, la sua felicità e si era mostrata, senza più alcuna maschera, dipendente da lui. Antonio comprese la sua enorme responsabilità: non poteva tradirla. E, visto che le parole sembravano non bastarle, soffocò in un abbraccio quel pianto dirotto. Con quella sua delicatezza, con tutto il calore di cui era capace, cullandola a lungo fra le braccia, ebbe infine la meglio sull’angoscia che la attanagliava.

Passarono così l’ultima parte della notte abbracciati. Si assopirono per qualche tempo sereni: Anna abbandonata tra le braccia di Antonio, la schiena di lui addossata alla parete fredda. Finché la luce livida del mattino autunnale non si fece strada fra le grate della finestra, bagnando con il suo grigiore il pavimento, le pareti della stanza, i corpi addormentati dei due, gli occhi socchiusi di Anna.

-Ora devo proprio andare – sentenziò la marchesa, tornata quella di sempre, svegliando Antonio – abbiamo sottratto già fin troppo tempo al destino che ci attende oggi –

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Capitolo 18
*** La legge dei potenti ***


Una nebbia sottile avvolgeva il piazzale sul retro del monastero, la pioggia aveva smesso di cadere, ma il cielo permaneva grigio, presago dell’autunno ormai alle porte. Uno strano silenzio aleggiava intorno alle massicce mura dell’edificio, giungevano soltanto i richiami degli uccelli dal vicino bosco, accompagnati da folate di un fresco vento mattutino. Intorno non si scorgeva anima viva.
-Allora è giunto il momento di salutarci. – ruppe il silenzio Antonio, come per congedarsi, pur essendo questa l’ultima cosa al mondo che avrebbe voluto fare. Anna si sporse per imprimergli un veloce bacio di saluto sulle labbra. Voleva affrettare quei momenti. Se proprio dovevano separarsi, che avvenisse nel modo più veloce possibile: se avesse indugiato, temeva che non avrebbe più avuto il coraggio di andarsene. Gli prese le mani e gli disse:
- Ti raccomando Emilia. Abbi cura di lei. Dille che sua madre tornerà presto. –
- E’ una promessa? – chiese Antonio, scrutando i suoi occhi: era lui stavolta in cerca di rassicurazione.
- Una promessa che manterrò. Tornerò presto da te. Sono sempre stata una persona seria. – rispose lei con tono fermo.
- Lo so. Ed è anche per questo che ti amo. –
- Arrivederci, Antonio. – concluse in fretta. Si calò il cappuccio sul viso e, evitando di incrociare anche solo per un istante gli occhi di lui, fece per voltarsi. Ma Antonio fu svelto ad afferrarle un braccio.
- Ti ammiro, Anna, per il tuo coraggio. Abbi cura di te. – le disse infine con un sguardo insieme dolce ed angosciato, che la marchesa tentò di fuggire. Poi aggiunse: - E torna presto. Me l’hai promesso. –
Anna fece solo un lieve cenno di assenso con il capo prima di avviarsi a passo svelto e deciso verso la carrozza, senza voltarsi nemmeno una volta per un ultimo saluto ad Antonio, rimasto immobile a fissarla mentre si allontanava.
- Marchesa, vi ho atteso tutta la notte. Avevate detto che si trattava di una questione di un paio d’ore al massimo. Che cos’è successo di…- tentò di domandare il cocchiere mezzo assonnato e intorpidito dal freddo.
- Non fare domande. Tu non sai nulla, non hai visto nulla, intesi? Muoviamoci: mio marito mi starà già aspettando da un pezzo – rispose Anna stizzita, sollevando la gonna per salire in carrozza.
Antonio rimase lì, in piedi, immobile, finché la carrozza non sparì, voltando l’angolo. Voleva imprimersi nella mente ogni possibile immagine di lei, non voleva perdersi nemmeno un secondo. Non sapeva quando l’avrebbe rivista. In quel momento si sentì d’un tratto solo ed esausto. Era consapevole che quella notte non costituiva che una pausa serena strappata al corso ingarbugliato che avevano preso le loro vite. Anna sarebbe tornata ai suoi doveri, alla lotta quotidiana contro le prevaricazioni di suo marito: non avrebbe mai lasciato il campo ad Alvise, non avrebbe mai desistito, neppure per amor suo o della figlia. E Antonio temeva che questa strenua resistenza, questa lotta senza esclusione di colpi avrebbe finito per distruggerla nell’animo o peggio nel corpo. In quel momento poi, con i tumulti e le rivolte in atto, il suo timore era duplice. Anche lui sarebbe dovuto tornare al più presto al suo dovere, quello di soccorrere i feriti e gli ammalati che avevano bisogno di lui, ma il pensiero di Anna l’avrebbe accompagnato per tutto il tempo che avrebbero trascorso separati, ne era profondamente certo.

Mentre stava assorto, immerso disperatamente in queste riflessioni, lo sguardo perso nel vuoto, una voce lo fece sussultare:
-Dottor Ceppi! Siete voi il dottor Ceppi, non è vero? –
Un ragazzino sbucò tutt’un tratto dalla siepe che cingeva il piazzale. Da quanto tempo era lì? Si chiese subito Antonio. Aveva assistito a tutta la scena? Chi lo mandava? Il marchese? Era forse il suo compito quello di controllare Anna? Più che mai ansioso, gli si rivolse con un tono brusco che non gli apparteneva:
- Chi sei? Che vuoi? –
Mentre il ragazzino si avvicinava, ebbe modo di studiarlo meglio. Le vesti logore in più punti, i capelli scompigliati, i piedi nudi e infangati. No, si disse, il marchese non sarebbe mai ricorso ad un ragazzo del genere per le sue losche manovre: aveva ribrezzo della povertà, anche quando si trattava di servirsene.
-Siete dunque voi il dottor Ceppi? – riprese con aria per nulla intimorita.
- Sì, sono io. – annuì Antonio, impaziente.
- Ne ero sicuro! – gioì soddisfatto della sua corretta intuizione. – Ecco, questo è per voi – continuò porgendogli un foglio spiegazzato che estrasse da una tasca.
- Di che cosa si tratta? – chiese il medico togliendogli di mano quel pezzo di carta.
- Non saprei. Io non so leggere. – rispose alzando le spalle.
Antonio spiegò il foglio. Scorse una grafia a lui ben nota e non poté non lasciarsi sfuggire un sorriso.
 
 
Fabrizio è tornato. Tra poco sarà al convento, resistete ancora per qualche ora. Tutti saranno liberati. Il marchese la pagherà cara. Ce l’abbiamo fatta, Antonio.
Elisa 
P.s.: Emilia ti manda un saluto, si augura di vederti presto.


Ripiegò svelto il foglio, congedò il ragazzo offrendogli qualche moneta e ritornò sollevato al suo lavoro.
 
 
-Mi ha ingannato! Questa volta ci sono cascato in pieno: non dovevo darle il permesso. Quella strega di mia moglie! Ne sa una più del diavolo! Ma non la passerà liscia, la scoverò e allora saranno guai! – bofonchiava Alvise mentre la carrozza si avvicinava al monastero.
-Suvvia, mio caro! Si sarà trattenuta più del previsto a cantare le lodi del Signore…E’ una donna così noiosamente pia! Ognuno impiega il tempo come vuole. Certo, se sapesse come l’abbiamo impiegato noi questa notte, sarebbe molto invidiosa…- ribatté Betta melliflua, strusciandosi addosso a lui.
- Mia dolce Betta, come fai ad avere sempre le parole giuste per ogni occasione? Hai proprio ragione, mia moglie è una povera bigotta, ma ho paura che mi nasconda dell’altro. Che cosa ci è stata a fare fino a mattino inoltrato dai suoi preti? Che sia andata da Emilia? Che sia fuggita con quel pezzente? –
- In ogni caso lo scopriremo presto, mio adorato! –
- Quanta verità, quanta verità! – concluse Alvise estasiato dalla notevole acutezza della sua giovane amante, e suggellò la sua ammirazione con un bacio scollacciato, degno della sua smodata libidine.
 
Anna si era assopita durante il tragitto: la nebbia non le permetteva di ammirare il paesaggio e le tutte emozioni di quella notte l’avevano sfinita. Nel dormiveglia non poteva smettere di pensare ad Antonio, a quanto fosse stato difficile staccarsi di nuovo da lui, a quanto avrebbe desiderato essere lì, in quel convento o dovunque egli fosse. Ma tutt’a un tratto i dolci ricordi lasciarono il posto ad un fosco presagio. Alvise. Si era già accorto della sua assenza? Era ormai mattino inoltrato, non poteva che essere così. Lo vide affannarsi nella ricerca di lei, lo vide spalancare con rabbia la porta della sua stanza, minacciare i servitori, trotterellare nelle stalle per sincerarsi che la sua carrozza fosse al solito posto. Ne immaginò la reazione alla vista della sua mancanza. Ne avvertì le urla rabbiose, gli insulti, gli ordini imperiosi con cui chiedeva che gli fosse preparata un’altra carrozza per raggiungerla al monastero. O forse era ancora bellamente arenato fra le coperte, stordito dal vino e dai piaceri, tra le braccia di quella ragazzina sconcia e impertinente? Quanto si augurava che fosse così! Ma qualcosa, un presentimento tanto forte da stringerle lo stomaco, le diceva il contrario. Alvise era a conoscenza del fatto che quella notte non fosse rientrata. Forse era già al convento. Forse aveva già trovato Antonio. Forse aveva cercato di estorcergli dove lei si trovasse. Forse l’aveva fatto di nuovo picchiare. Forse…No, non voleva pensarci. Si riscosse del tutto dal sonno, sudata, angosciata. Si portò una mano sulla fronte: non avrebbe mai dovuto lasciare Antonio, sarebbe dovuta fuggire con lui. Ma in quel momento ecco apparire in lontananza il suo palazzo. Era a casa. Capì che aveva fatto la scelta giusta: lottare fino all’ultimo per difendere quello che era suo e della sua famiglia.
 
Un vento umido spazzava il cortile antistante il monastero, sollevando turbini di polvere e foglie secche, ululando agli angoli delle mura; ma una gradita sorpresa mise di buon umore Alvise, che si dimenticò per un attimo del suo rancore verso Anna. Scese dalla carrozza appoggiando maldestramente il proprio ingente peso al bastone, prese Betta a braccetto e si avviò con passo malfermo verso l’entrata del chiostro. Si fermò d’un tratto quando scorse un drappello di uomini in armi. Avvicinandosi notò il governatore parlare fitto fitto con l’abate. Un ghigno compiaciuto gli comparve sul viso.
- Avete visto, Betta? Mi ha dato ascoltato, alla fine, quel sant’uomo dell’abate! Che Dio l’abbia in gloria! – esclamò compiaciuto e soddisfatto.
-E come ci si potrebbe rifiutare di ascoltarvi, caro Alvise! – gli rispose Betta, civettando come suo solito e stringendosi a lui con fare lascivo.
- Governatore, vedo con estremo piacere che i miei avvertimenti non sono rimasti inascoltati, siete accorso solerte a riportare un po’ di giustizia da queste parti! –
- Marchese Radicati, – s’inchinò il governatore salutandolo – il piacere è mio. Non si dica nel regno che le legittime richieste di un nobile d’antico casato come voi restino inadempiute. Conosco la vostra lealtà nei confronti della corona. Mi sbaglio forse?  -domandò retorico, con un accenno di sarcasmo – La mia carica di governatore non mi consentiva dunque prendere atto dei fatti disdicevoli e criminali che si sono verificati in nella vostra contea senza colpo ferire. Anche le autorità ecclesiastiche, interpellate dal nostro abate, si son indignate per quanto avvenuto e si sono mostrate concordi sulla necessità di porre fine a questa situazione, e assicurare alla giustizia questi ribaldi. –
In piedi, con atteggiamento fiero, il governatore fissava impettito ora il marchese ora i suoi uomini sull’attenti dietro di lui, le mostrine ben in mostra sulla sua casacca. L’anziano abate si torceva le mani, taceva, indeciso sul da farsi.
- Che cosa passa per la mente a questi mentecatti, a questi ominicchi?! Si rifiutano di consegnare la parte di raccolto dovuta e hanno anche la pretesa di incendiare palazzi, bruciare documenti secolari!- si intromise Alvise, manifestando tutta la sua rabbia, il suo disappunto.
- Non andate in collera, marchese. Non temete, ciascuno avrà quanto gli spetta. Faremo rispettare le leggi, i diritti padronali non possono essere violati. Non è facendo un falò coi documenti degli archivi che riusciranno a sovvertire l’ordine costituito! Sua Maestà vi sarà riconoscente, e con lui l’aristocrazia tutta per la fermezza con cui avete gestito questo frangente delicato, senza cedere a certe bieche rivendicazioni. Avete messo il regno al riparo da pericolosi precedenti. –
-Sgomberate la chiesa! – a questo comando le guardie si gettarono contro le porte dell’edificio e le sfondarono.
- Chiaramente tutto con il vostro permesso, abate – precisò a mo’ di scusa il governatore, mentre l’abate annuiva tremante.
In poco tempo tutti i ribelli vennero fatti sloggiare dalla chiesetta in cui si rifugiavano, vennero incatenati e spostati a suon di calci al centro del piazzale. Ci furono alcune urla, qualche tentativo di resistenza ma gli animi vennero ben presto sedati. Tutto sarebbe risultato vano, di fronte ad un folto plotone di guardie armate.
-Ecco a voi, marchese, questo branco di criminali. Che cosa intendiamo farne?- domandò il governatore mentre con un ampio gesto della mano mostrava orgogliosamente la schiera degli arrestati, con l’aria spaesata ma agguerrita e  i vestiti a brandelli.
Alvise li passò uno ad uno in rassegna. Con una smorfia di disgusto rivolta ai dipendenti che avevano avuto l’ardire di sfidare lui e l’ordine costituito, chiese: - Governatore, non ho certo intenzione di sostituirmi alla giustizia di Sua Maestà, ma, se mi sarà concesso da voi e dal Re, vorrei avere l’onore di fare eseguire io stesso la condanna a morte di questi zotici, sulla pubblica piazza. Che sia una punizione esemplare, un monito per tutti gli altri straccioni della loro specie. –
- Si faccia come dite. – permise – Avete piena facoltà di amministrare la giustizia nella vostra contea. A Sua Maestà parlerò della nostra familiarità e della dedizione alla corona che avete sempre manifestato. Vi accorderà senz’altro il suo consenso e il suo apprezzamento. –
- Avete sentito, Betta, mia cara? Capite ora quanto io sia considerato a corte? –bisbigliò con la sua solita boria all’orecchio della marchesina Maffei. Poi, forte delle esternazioni di stima del governatore, tronfio e  sfrontato, gli si rivolse con una particolare, e da lui molto sentita, richiesta: - In nome della nostra consuetudine, della familiarità, o, se preferite, in nome della reciproca stima, vorrei avanzare una richiesta –
- Dite –
- Ecco, governatore, dovete sapere che l’abate proprio ieri mi parlò di altri fuggiaschi nascosti all’interno del monastero, si tratta di feriti …-
Non fece nemmeno in tempo ad ultimare la frase che il governatore ordinò: – Guardie! –
-Sarà mia cura perlustrare l’interno e fare sgomberare tutti. – aggiunse poi.
- Ma la mia richiesta è di altro tipo. Dovrebbe essere nascosto insieme a loro un medico, loro complice! Un medicastro di campagna, nobile decaduto in cerca di riscatto, che ha partecipato alle sommosse! Ha un grande ascendente sui quei popolani ignoranti, è lui la mente pensante che sta dietro a tutti questi disordini, ne sono certo. Vorrei poterlo giustiziare io stesso. Vedete, un elemento del genere non può restare a piede libero. –
-Mi state parlando di un medico? –
- Esattamente-
- Dunque, non di un mezzadro, di un servo, di un dipendente: pertanto non avete alcun diritto di giudicarlo e giustiziarlo, sono spiacente. Non avete alcun potere su di lui, spetta a Sua Maestà assicurarlo al patibolo, nel caso in cui fosse provata la sua colpevolezza. -
- Governatore, ascoltatemi. Mia figlia è scomparsa, non si trova più da settimane. Potete immaginare la mia preoccupazione, la mia angoscia…E, ne son certo, dietro a tutto questo ci stanno i miei servi e questo losco figuro. Non potete non concedermi la facoltà di…-
Il governatore seguitò a negare risolutamente, scuotendo il capo quasi spazientito. Il marchese dal canto suo stava perdendo le staffe:
- Ma insomma! Quest’uomo, con le sue idee balzane da intellettuale da quattro soldi, ha fomentato una sommossa nella mia proprietà, insieme ai miei servi ha messo in pericolo la mia tenuta, la mia famiglia! Sua maestà non può negarmi il permesso di punire come si deve questo arruffapopolo. E poi…la nostra familiarità, governatore! –
- Volete che chiuda un occhio su questa vicenda, insomma…-
- Lungi da me corrompervi! Si tratta soltanto di concedere a un amico di poter servire al meglio la causa dell’aristocrazia e riportare un po’ di giustizia nella sua contea! –
- Abate, confermate quanto dice il marchese riguardo a quest’uomo? – chiese il governatore
- Mi era parso una persona onesta ma…- cercò di rispondere l’abate ma Alvise gli tolse la parola di bocca con la sua solita protervia:
 - Ma quale persona onesta! È un facinoroso, un sovvertitore dell’ordine sociale!- esclamò paonazzo in volto, lanciando un’occhiata minacciosa al povero abate.
- Se siete a conoscenza di reati commessi da quest’individuo di cui mi parlate a danno vostro e della vostra famiglia, vi accordo il permesso. Ve lo consegnerò. Gli farete confessare quel che sa in merito alla scomparsa di vostra figlia. Ma non vi sarà permesso di giustiziarlo, questo spetta, eventualmente, solo al tribunale regio. -
- Non dubitatene, governatore! Vi sarò eternamente riconoscente! - assicurò Alvise raggiante, giungendo le mani in segno di gratitudine.
- E ora, marchese, gli impegni di governo mi reclamano. Il capitano si prenderà l’incarico di traslare i prigionieri, farà sgomberare anche gli ultimi feriti rimasti. – 
Così dicendo, seguito da un ristretto manipolo di guardie, montò a cavallo, alla volta della capitale. Mentre le guardie agli ordini del capitano restavano schierate sul piazzale.
- Molto bene, mia adorata Betta! A noi, dottorino! Ora vedremo chi la spunterà! – si sfregò le mani soddisfatto Alvise.
 – Non c’è ombra di dubbio, mio caro, la spunterete voi! – lo compiacque la giovane in tono civettuolo.
 

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Capitolo 19
*** La voce della coscienza ***


Le guardie, agli ordini del capitano, sollecitato alquanto sgarbatamente dallo stesso Alvise, fecero irruzione nel chiostro del monastero. Fu allora che avvenne un fatto insolito. L’abate, dando prova di grande coraggio, gridò con la voce più forte che poté uscirgli dalla gola: - No! Questo non v’è permesso! Non voglio uomini armati qui dentro! Si tratta di oltraggio ad un luogo sacro! – per lo sforzo e per la tensione il povero abatino aveva preso a tremare da capo a piedi; il capitano, a quell’affermazione tanto perentoria quanto inaspettata, si fermò e richiamò indietro le guardie.
- Che storia è mai questa?! Vi fate forse degli scrupoli, capitano? – domandò contrariato Alvise.
-  Non è consentito violare un luogo sacro. Non senza il consenso di Sua Maestà o del governatore -
- Dannato abate! – sibilò Alvise – Stando così le cose, la farò io la giustizia! La farò io! –
 Quindi si portò al centro del cortile del chiostro e chiamò a gran voce:
 - Dottor Ceppi, so che siete lì dentro. So anche che state nascondendo dei ribelli: la vostra posizione è compromessa. Perciò vi do un consiglio da amico: arrendetevi, consegnatevi alla giustizia!–
La voce tonante di Alvise, nel silenzio generale, dal chiostro principale si propagò fin nelle celle dei monaci dove quel momento si trovavano i feriti.
Antonio era così assorto dalle cure che stava prestando ai suoi pazienti che non si era nemmeno accorto del parapiglia avvenuto nel cortile del monastero, del fatto che il governatore avesse fatto sgomberare la chiesa, dell’arrivo di Alvise, delle urla dell’abate. Quella mattina aveva messo tutto se stesso nel proprio lavoro, non avrebbe per nulla al mondo permesso che si ripetesse quanto era avvenuto la notte precedente: avrebbe lottato fino all’ultimo per strappare i suoi pazienti più gravi alla morte. Udì le urla provenienti dal chiostro e riconobbe la voce di Alvise. Che cosa poteva mai volere da lui? Non era suo mezzadro, non era suo dipendente né uno dei suoi servi. Ogni pretesa su di lui sarebbe stata illegittima: il marchese Radicati non era né il governatore, né Sua Maestà, non poteva arrogarsi diritti che non gli spettavano.
Proseguì quindi nella sua attività senza prestare attenzione a nient’altro. Riandava spesso con la mente, quella mattina, alle parole che Anna gli aveva rivolto la notte precedente: aveva sempre creduto che le interessasse ben poco del suo lavoro. Credeva che quasi disprezzasse il suo impegno a servizio dei popolani più poveri, che lo ritenesse umiliante, indegno. Ma non era così. Si era sbagliato di nuovo su di lei, l’aveva giudicata troppo superficialmente. E lei non era certo una donna superficiale. Anna lo considerava il medico migliore che avesse mai conosciuto e non soltanto per la sua perizia, ma soprattutto per la sua umanità: ciò voleva dire che aveva colto appieno il significato profondo della sua vocazione, della sua missione. E questa scoperta lo rendeva più che mai fiero e traboccante di voglia di fare.
- Vi dimostrate per quello che siete, un vigliacco! I vostri beniamini sono già incatenati, presto saranno giustiziati. E voi? Ve ne state al riparo? Che vergogna, che infamia! – lo rintuzzò Alvise urlando a squarciagola con tutto il disprezzo che aveva in corpo.
– Alvise, calmatevi, di grazia! Ci troviamo pur sempre in un luogo sacro! – finse di rimproveralo Betta.
– E quando mai vi è importato qualcosa di monaci e frati? –  le rinfacciò Alvise, accorgendosi però subito della gaffe:- Oh, certamente non volevo offendere vostra sorella, quella santissima donna! –
 
– Che cosa vogliono da voi, dottore? – un ragazzo gli si fece vicino appoggiandosi ad una gruccia.
– Non ho la minima idea, e non mi importa nulla di saperlo. Non vedo il motivo per cui debba cedere alle provocazioni di quell’uomo…- Antonio si sforzò di apparire noncurante, ma, dentro di sé, incominciava a temere per sé e per i feriti. Concedere a quell’uomo di entrare nel chiostro ad urlare minacce? L’abate li aveva forse traditi? Voleva consegnarli tutti quanti? Anna l’aveva messo in guardia la notte precedente, ma lui non aveva dato peso alle sue parole, non le aveva quasi neppure ascoltate, tanta era la gioia di rivederla. Aveva paura, gli aveva detto, e, forse, ne aveva tutte le ragioni.
-Avete i minuti contati. I miei uomini verranno presto a prendervi, ma per la reputazione di grande medico di cui godete presso i vostri pazienti cenciosi, sarebbe meglio che usciste voi stesso allo scoperto. O volete mostrarvi per l’infame che siete? – tuonò nuovamente.
Antonio aveva compreso il suo gioco e non voleva cadere nella trama che gli stava tessendo intorno, quindi non fece un passo. Alcuni istanti di silenzio: la situazione sembrava essersi placata. Poi uno sparo squarciò l’aria, facendo sobbalzare Ceppi.
-Sentito, dottore? Ascoltate meglio! –e un secondo sparò riecheggiò fra le antiche mura del chiostro – Se non vi consegnerete, i colpi che restano saranno riservati ai vostri beniamini! Tre colpi, uno per ciascuno. Dritti dritti alle loro tempie. –
Uno dei suoi soliti ricatti, una minaccia vile, degna di lui: la vita di tre dei mezzadri arrestati in cambio di lui. Arrogante, subdolo, meschino come suo solito, Alvise aveva trovato la via per metterlo con le spalle al muro. Lo conosceva meglio di quanto desse a vedere ed era sicuro che Antonio avrebbe ceduto pur di salvare la vita dei tre.
Ma la scelta che gli si prospettava non era per nulla facile: se si fosse consegnato nelle mani di Alvise, forse non avrebbe più potuto rivedere Anna, l’avrebbe persa, forse per sempre. Dimmi che non lascerai che i tuoi ideali ci separino di nuovo. Non poteva rischiare, non ora che glielo aveva promesso, doveva restare al sicuro, non per sé, ma per lei.
Senza tregua urla sguaiate, insulti, minacce, mescolati a esclamazioni di dolore giungevano dal chiostro.
-Inizia il conto, dottore! Vi do tempo fino al dieci… –
Ma non c’erano soltanto le ragioni di Anna. Come avrebbe potuto consentire che degli innocenti, colpevoli soltanto di essersi ribellati ai soprusi e alle ingiustizie, fossero ammazzati al posto suo perché lui non aveva il coraggio di consegnarsi? Se avesse assecondato i suoi desideri, se avesse seguito quanto gli diceva il cuore, che razza di uomo sarebbe stato? I rimorsi non gli avrebbero più dato tregua, l’avrebbero perseguitato fin dentro alla tomba. Ma il ricordo di Anna non lo lasciava nemmeno per un istante: - Tornerò presto da te- era stata la sua promessa, prima di scomparire dentro la carrozza. E come avrebbe fatto a tornare da lui, se fosse finito sottoterra o incatenato nelle segrete del palazzo? Il ricordo di quella notte, le promesse, le lacrime, i baci. Tutto questo gli affollava la mente e lo tratteneva ben saldo alla vita, con i piedi inchiodati a terra, incapace di fare un passo in direzione del chiostro.
-Uno! – un grido rimbombò per i porticati.
L’abate sollevò le mani al cielo.
- Due!
- In nome di Dio, fermatevi, marchese! Non lascerò che uccidiate dei cristiani in questo luogo consacrato! -
Ma Alvise non perse il conto- Tre! – poi lo zittì in malo modo: -State zitto, padre! Questa faccenda non vi riguarda! Pensate piuttosto alle vostre orazioni! –
- Oh Alvise, per cortesia! – implorò Betta con le mani alla bocca. Un’espressione seriosa, insolita per lei, aveva scalzato dal suo bel visetto l’aria da oca giuliva.
- Quattro! - Di nuovo quella conta odiosa.
Promettimi che non mi lascerai mai.
- Cinque! –
Mai, Anna, mai, te lo prometto, te lo giuro!
-Sei!-
Abbi cura di Emilia. Un’altra promessa che rischiava di non poter mantenere. Nascose il viso tra le mani, cercando di tapparsi le orecchie ma nella sua testa risuonavano le parole di Alvise: non siete altro che un vigliacco!
- Non vi sentite bene, dottore? – domandò il ragazzo con la gruccia.
E di nuovo dal chiostro la voce di Alvise scandì implacabile:
- Sette!
- Non posso permetterglielo! –  si riscosse tutt’un tratto Antonio.
- Otto! -
- Che significa? – lo interrogò il giovane
Per tutta risposta, Antonio scaraventò a terra con rabbia il panno che teneva tra le mani, fece un largo respiro e si diresse verso il chiostro: avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per non doverlo fare, per poter pensare soltanto a quando avrebbe potuto rivedere Anna. Ma la coscienza gli suggeriva che ciò che l’avrebbe reso felice non era però la cosa giusta da fare.
-Nove! –
-Mi cercavate, marchese?  – domandò guadagnando il chiostro con il passo più sicuro che poté tenere, le maniche della camicia rimboccate, lo sguardo interrogativo, quasi sorpreso.

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Capitolo 20
*** Ubi maior... ***


Tutti si voltarono di scatto. I tre contadini sospirando di sollievo; l’abate sempre più sconcertato, come se stesse assistendo ad un’apocalisse ormai prossima; Betta con un’espressione tra lo spaventato e il divertito,  tipica di chi osserva le scene più cruente come uno spettacolo di intrattenimento; Alvise gonfiando il petto, tronfio e soddisfatto del fatto che le sue minacce avessero avuto l’effetto sperato. Era la conferma del suo potere.

-Eccovi arrivato, finalmente, dottor Ceppi! Dobbiamo giusto fare quattro chiacchiere noi due! – ghignò insolente, squadrando con il suo sguardo da ebete prepotente Antonio, che gli stava di fronte con le braccia abbandonate lungo i fianchi e un’aria di sfida.

- State forse male, marchese? Avete bisogno delle mie cure? – chiese il medico affrontandolo.

Alvise proruppe in una risata fragorosa e insolente: - Sono sano come un pesce, dottore, come potete constatare voi stesso!-

- Me ne rallegro, marchese. Se le cose stanno così, chiedo il permesso di tornare dai miei pazienti, che hanno di certo più bisogno di voi. – Il tono era pacato, ma con una punta di ironia. Girò quindi sui tacchi come per andarsene.

- Dove diavolo pensate di andare? – sbraitò Alvise in modo sgraziato – Acciuffate quel furfante! – Due guardie gli furono subito addosso e lo presero violentemente per le braccia.

- Noi due dobbiamo parlare, non avete sentito? I vostri pazienti possono anche aspettare!-

Con i polsi legati, fu portato davanti al marchese che lo investì con una domanda:

-Quella mattina non mi avete volute rispondere, per cui cercherò ora di essere più convincente. – lo minacciò Alvise – Dove state nascondendo Emilia? -

- La mia risposta è la stessa di quella mattina. Non ne ho la minima idea. Mi dispiace non potervi essere d’aiuto.-

-Bugiardo! – gli urlò contro il marchese, mettendogli le mani addosso. La faccia ingrugnita di Alvise stava a poca distanza dal viso di Antonio: i suoi occhi porcini si conficcarono rabbiosi negli occhi limpidi del medico.  Lo strattonò, afferrandolo per il bavero della camicia: - Adesso mi dici dove si trova Emilia, se non vuoi che finisca male! – latrò.

- Avete appurato voi stesso che Emilia non sta da me. I vostri uomini hanno setacciato ogni angolo di casa mia. Cercatela altrove, dunque! –

- Sei un cane bastardo! Un poveraccio che cerca un po’ di gloria sobillando i servi contro di me! – lo scrollò con veemenza. – E tutto per invidia! Perché ti rode, vero, aver perso tutto? E ora invidi il mio prestigio, le mie terre, il mio denaro! Sei un infame della peggior specie! –

Erano ben altri i motivi per i quali invidiasse Alvise Radicati, ma non poteva certo farglielo notare. Non in quel momento.

Tuttavia Alvise gli lesse come nel pensiero e aggiunse rabbioso, il volto paonazzo:

- E pensi che non abbia capito che ti porti a letto mia moglie? Mi fate proprio così stupido voi due? –

- Non vi permetto di fare certe insinuazioni circa la fedeltà di vostra moglie. Non avete alcun diritto di farne, soprattutto in presenza della marchesina Maffei…- alluse in modo nemmeno troppo celato alla tresca tra i due, con uno sguardo di sfida al marchese. Betta, dal canto suo, gli rivolse una smorfia di disgusto misto a superiorità, quasi compatendolo. Il medico riprese: – Chiedetevi, piuttosto, perché vostra moglie vi disprezzi. Chiedetevi perché vostra figlia vi rifiuti. Le ragioni della forza non sempre funzionano. Potete picchiare, torturare, impiccare i vostri servi; potete uccidere me, se vi pare; potete segregare vostra moglie e vostra figlia. Ma questo non vi consentirà di guadagnarvi la loro devozione, il loro rispetto, il loro affetto. –

Dopo queste parole, che ad Antonio bruciavano da tempo sulla lingua, lo scontro si era spostato ormai in campo aperto. Alvise gli si avvicinò fissandolo minaccioso, stringendo gli occhi. Poi, di scatto, senza aprir bocca, gli rifilò un violento pugno nello stomaco. Il medico si accasciò in ginocchio, ma le guardie che lo tenevano per le braccia lo costrinsero a rialzarsi immediatamente.

- Idiota, taci! Non accetto che un mezzo uomo fallito come te si permetta di dirmi come mi devo o non mi devo comportare. E comunque non hai risposto. Hai passato la notte con mia moglie, non è così? La scusa della confessione…Anna è venuta al monastero per te, quella stupida! E io avrei dovuto capirlo subito! – Antonio, sofferente, non rispondeva: ricevette allora qualche altro calcio da parte delle guardie.

- Ma, suvvia, che mi importa di quella pazza di mia moglie? Una donna che si mette a trescare con un pezzente del genere…Spera forse in questo modo di sentirsi ancora desiderabile? Povera illusa! Per fortuna che ho te, mia cara Betta! Con Anna farò i conti poi, le insegnerò io a rispettare l’onore della famiglia! – esclamò Alvise ringalluzzito, baciando avidamente Betta, che si limitò a ridacchiare compiaciuta: - Alvise, lasciatemi, non è questo il momento! –

Antonio si rifiutò di guardare quell’indecoroso spettacolo che si svolgeva davanti a suoi occhi. Abbassò lo sguardo: l’unico suo pensiero era legato alla sorte di Anna, alla minaccia di nuove punizioni da parte di Alvise. E lui se ne sentiva in qualche modo responsabile. Perché, sì, era con lui che Anna aveva passato quella notte, perché era anche vero che se l’era portata a letto qualche giorno prima. Ma era riduttivo, degradante, offensivo etichettare tutto questo come una tresca: Alvise non avrebbe mai potuto capire quello che c’era fra lui e sua moglie, non avrebbe mai potuto comprenderne il profondo significato. E lui non aveva alcuna intenzione di spiegarglielo: gli sembrava di contaminare, spiegandoli a parole e soprattutto ad un individuo di tale specie, la purezza dei suoi sentimenti per Anna.

 

 

 

 

-Mamma! – un’esclamazione gioiosa risuonò lungo la scalinata del palazzo. Non appena scorse sua madre uscire dalla carrozza, Emilia scese a rotta di collo le scale e le si gettò lieta fra le braccia.

- Emilia! Ma che…che cosa ci fai qui, amor mio? – chiese stupita ma al contempo felice di poter riabbracciare la sua amata figliola dopo lunghe settimane. – Fatti vedere, su! Quanto mi sei mancata! – esclamò con un sorriso, baciandole la fronte.

Passata l’euforia del momento, però, subentrò l’angoscia: Alvise l’aveva dunque scovata? Quali punizioni stava pianificando per loro? Quali oscure trame stava tessendo? La strinse forte a sé. Le sue fosche previsioni vennero interrotte dall’apparire di Elisa, che incedeva tranquilla, per nulla preoccupata di una possibile rappresaglia del marchese.

- Marchesa! – la salutò con un deferente, forse fin troppo, inchino. – Da dove giungete? Sapete che cos’è successo?! –

- Elisa, sei la solita pazza irresponsabile! Se mio marito vi dovesse trovare…- la redarguì Anna a bassa voce, temendo che Alvise la potesse sentire. Si portò una mano alla fronte, esausta per i continui pericoli che doveva affrontare: ci si doveva mettere pure quella servetta incosciente a complicarle la vita?

- Fabrizio – oh scusate, il conte – è ritornato! Entro questa sera sarà qui. - annunciò radiosa - Il marchese vostro marito non ci può far più nulla. Ormai è finito: verrà cacciato, estromesso da ogni affare che riguardi Rivombrosa. E noi non abbiamo più niente da temere! –

- Proprio così, mamma, avete sentito? Lo zio Fabrizio è tornato! Potrò tornare a stare qui a Rivombrosa, insieme a voi e a lui! Non è forse meraviglioso? – L’entusiasmo della ragazzina al pensiero di poter ritornare a casa, senza l’assillo dei rimproveri e delle violente punizioni paterne era incontenibile. Emilia saltava qua e là, ora gettandosi al collo di Elisa, ora stringendo la madre. Anna, tuttavia, non sembrava prendere parte a questi facili entusiasmi, mostrava un fondo di perplessità che alla giovane serva non sfuggì.

- Marchesa, non siete contenta del ritorno di vostro fratello? Che cosa vi preoccupa? – chiese.

- Non sarà così facile come credi, Elisa. Non è ancora detta l’ultima parola: conosco bene mio marito, non si arrenderà così facilmente, non lascerà Rivombrosa senza batter ciglio…- ribatté scura in volto, fissando i giardini della residenza avvolti nella nebbia sottile del mattino.

- Non siate così pessimista! Vedrete, andrà tutto per il meglio. Le cose si sistemeranno, vero, Emilia? –

- Oh sì! E io e la mamma potremo restare qui, con voi, senza quel mostro di mio padre! Elisa, più tardi  possiamo andare a salutare il dottor Ceppi? Vorrei tanto ringraziarlo: è stato così buono con me! – chiese la ragazzina.

- Per ora non andrai da nessuna parte, Emilia! Ed è a me che devi chiedere il permesso, non ad Elisa! – la rimproverò aspramente Anna.

- Ma io volevo solo andare a salutare il dottor…-

- Basta! – la interruppe nervosamente la madre, senza permetterle di pronunciare quel nome che le causava tanti angoscianti pensieri. – Finché non vedrò Fabrizio con i miei occhi, non starò tranquilla. Entriamo in casa. E non vi azzardate ad uscire per nessun motivo, Elisa! Non vorrai mettere in pericolo mia figlia e altre persone soltanto per un capriccio! Quando le acque si saranno calmate, passerete pure a ringraziare il dottore…- sentenziò improntando i gradini dello scalone, seguita da Emilia ed Elisa.

La giovane non poté non accorgersi del tono con cui aveva pronunciato quell’ultima parola, quasi non osasse chiamarlo con il suo nome per una sorta di sacro timore. Quei due si amavano, ora ne era più che certa. Nonostante le aggressioni verbali che gli riservava ogni volta che lo vedeva, nonostante la finta indifferenza con cui le aveva dato il permesso di ospitarlo nel palazzo, nonostante le reazioni isteriche che le procurava la sua vista, il fatto che non osasse pronunciarne il nome, che si preoccupasse di non metterlo in pericolo erano segni evidenti. Spesso i “nonostante” sono dei “perché” non riconosciuti. In cuor suo si rallegrò per l’amico, ma non disse niente. Del resto, avrebbe permesso, la marchesa, che le fosse gettato in faccia il suo più prezioso segreto?

 

 

-Portatelo via, guardie! Lo faremo parlare in un altro momento. Dottore, siete mio prigioniero! – esclamò ridendo divertito: - State dunque attento a non irritarmi con i vostri bei discorsetti forbiti! –

- Marchese, potete fare di me ciò che volete. Ma non cambierà nulla: quel che vi ho detto è la verità e fareste bene a rendervene conto, prima che sia troppo tardi. –

- Sentitelo! Ancora a farmi la morale?  - Antonio lo fissò in tralice, prima di essere trascinato via dalle guardie. – Canterete presto, caro dottore! Vi farò sputare fuori ogni parola a forza di botte! -

- Nessuno si muova o andrà a finire male! – echeggiò una voce imperiosa nel chiostro. L’abate, ormai incapace di ulteriore turbamento, si limitò a farsi un disperato segno di croce, prima di coprirsi il volto con le mani. Alvise si voltò verso l’ingresso del chiostro: gli apparve la figura dell’uomo che mai avrebbe voluto rivedere. Dell’uomo che aveva sperato morisse sul fronte prussiano. Dell’uomo che gli avrebbe potuto togliere con un solo cenno terreni, denaro, potere. Suo cognato.

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Capitolo 21
*** Resa dei conti ***


Il conte si fece avanti a larghe falcate, la divisa rossa e blu dell’esercito francese con tanto di mostrine in bella vista, la spada al fianco, una pistola carica in pugno. Le guardie si misero subito sull’attenti alla comparsa di un ufficiale.
-Per tutti i diavoli…- esclamò con un filo di voce il marchese, asciugandosi con un fazzoletto la fronte.
- Che succederà, Alvise? Che cosa vuole vostro cognato? – gli sussurrò Betta ad un orecchio.
- Taci, oca! Non vedi che siamo nei guai? Sono rovinato…sono finito…- le rispose sottovoce, disperato.
Fabrizio avanzò verso di lui, con passo fermo e aria spavalda. Alto, robusto, atletico, armato fino ai denti, non aveva niente da temere da nessuno. Di carattere impavido, tenace, conosceva fin troppo bene quanto legittime fossero le sue rivendicazioni e non aveva alcun’intenzione di cedere. Non era facile per nessuno tenergli testa, tanto più difficile lo sarebbe stato per quel cognato che il conte non aveva mai amato.
- Marchese, ho avuto notizie di sommosse avvenute nelle mie terre in questi ultimi giorni. Sapete riferirmi qualcosa, visto che le avete amministrate voi durante la mia assenza? – domandò retorico Fabrizio, essendo già perfettamente a conoscenza del comportamento sconsiderato di suo cognato.
- Oh, mio caro Fabrizio! Che piacere rivedervi, sapervi sano e salvo! – cercò maldestramente di blandirlo Alvise.
- Risparmiatemi i preamboli, Alvise. Ho saputo che avete fatto arrestare e torturare i miei dipendenti. Voglio che siano immediatamente liberati. –
- Ma questa gentaglia ha messo in pericolo Rivombrosa! Un assedio, un vero assedio!-
- Non mi importa. Siano rilasciati tutti!-
- E poi…e poi si sono rifiutati di pagare le decime al convento, potete confermarlo anche voi, abate?- Il religioso, tremante e con gli occhi sbarrati, sentendosi tra due fuochi, si limitò ad annuire. – E non hanno voluto consegnare il dovuto nemmeno a me – si corresse-  a voi, caro conte! O meglio a noi, alla nostra famiglia! E allora…-
-La famiglia Ristori non sarà mai la vostra famiglia. Rivombrosa ritornerà al suo legittimo proprietario. Ora ho intenzione di occuparmene personalmente, quindi voi farete i bagagli e ve ne andrete il prima possibile.-
- Non potete fare una cosa del genere, sono pur sempre il marito di vostra sorella! –
- Anna. A proposito, voglio parlare con lei. Da solo. Dove si trova adesso? A Rivombrosa? –
- Dove si trova? – scoppiò in una risata sguaiata il marchese. – Non lo so dove si trova la mia legittima consorte. Chiedetelo a lui. –alluse, indicando Antonio, trattenuto dalle guardie sotto il porticato, dall’altro lato del chiostro. Fabrizio lo fissò interrogativo, riconoscendo nel prigioniero il suo vecchio amico – Antonio Ceppi? – domandò sorpreso.
 – Chiedetelo a quel pezzente! – proseguì sarcastico il marchese – Sarà sicuramente più informato di me su dove si trovi quella puttana di vostra sorella! –
Fabrizio in due salti gli fu addosso: - Non azzardatevi a parlare in questi termini di mia sorella una seconda volta! – lo spintonò violentemente. Alvise barcollò: la sua ingente mole in quel momento gli era solo d’intralcio. – E…e cosa sarebbe una donna che…- farfugliò in propria difesa.
-“che” cosa? Terminate la frase, codardo! – l’aveva afferrato per la giacca. Il grande Alvise, il padrone di tutto e tutti, colui che aveva tante volte ordinato di malmenare i suoi sottoposti, che aveva recluso la moglie in una stanza, che aveva fatto pestare a sangue Antonio dalle sue guardie, che si era imposto con protervia in molte occasioni, balbettava in quel momento di fronte al vigoroso e focoso cognato. Ubi maior, minor cessat: una regola che avrebbe dovuto imparare in fretta.
- Vostra sorella non è altro che una sgualdrina, conte! Proprio così, avete sentito bene! – gli sputò in faccia tutto d’un fiato, in un ultimo lampo di sfrontatezza, cercando di aggrapparsi al bastone.
- Un’altra parola e siete un uomo morto! Se osate anche solo pronunciare il nome di mia sorella, vi uccido con le mie stesse mani, cialtrone! – tuonò Fabrizio, assestandogli una violenta spinta. Goffo e malfermo sulle gambe, Alvise ricadde sonoramente all’indietro. Betta si affrettò a soccorrerlo, tergendogli la fronte con un fazzoletto. – Non è nulla, mia cara! – le rispose.
- Guardie, lasciate andare tutti i prigionieri. È ordine del conte. D’ora in poi si farà come dico io. – ordinò Fabrizio.
I soldati lo guardavano incerti sul da farsi, ma di lì a poco sopraggiunse il capitano, che entrò a passo deciso nel chiostro:- Ho già parlato con il conte Ristori. L’ho messo al corrente di quanto avvenuto prima. Eseguite i suoi ordini, ora le decisioni sui prigionieri spettano a lui, il marchese non ha più voce in capitolo. –
-Che significa, Alvise? Non contate più nulla ora? – chiese con finta ingenuità Betta. – E io che mi ero fidata di voi…Dicevate che Rivombrosa sarebbe stata vostra e allora io sarei potuta diventarne la padrona! Solo chiacchiere! Voglio tornare al più presto da mio padre!-
 – Ma no, ma no, mia cara. Non è come pensi, stanno delirando questi signori! – le rispose a voce alta Alvise, rialzandosi.
- Ed ora, caro cognato, vi accompagnerò io stesso a Rivombrosa a prendere i vostri bagagli. Partirete oggi stesso. Dopodiché non voglio più avervi tra i piedi, è chiaro? –
- Ma questo non è possibile! –
- Non è possibile? È fin troppo chiaro, invece. Sgomberate al più presto il mio palazzo dalle vostre cianfrusaglie, se non volete che le faccia bruciare io stesso, e non fatevi vedere mai più! Forza, la vostra carrozza vi sta aspettando. Prima accompagnate a casa la marchesina, però. Son sicuro che si sarà stancata ormai della vostra compagnia…- concluse sarcastico e beffardo. Detto ciò, uscì dal chiostro, montò in sella e, prima di spronare il cavallo, gridò: - Marchese, vi do tempo giusto qualche ora e poi farò bruciare tutto ciò che è vostro. A Rivombrosa non metterete più piede! –
E sparì, lasciando Alvise a fissare supplice Betta, che ormai lo degnava solo di qualche smorfia disgustata.
 – Non vi preoccupate, Alvise, non c’è bisogno che mi accompagniate. Farò procurare io stessa una carrozza e mi farò portare da mio padre –
-Ma, Betta…-
- Addio! – lo congedò la marchesina Maffei, senza lasciargli possibilità di replica.
 
-Fabrizio! – esclamò Anna con un sospiro di gioia e sollievo nello scorgere dalla finestra del salone il fratello arrivare a cavallo. Lo osservò, immobile, scendere di sella, salutare amichevolmente i servitori, anch’essi entusiasti e sollevati dal ritorno di quello che avevano sempre considerato il loro legittimo padrone, avviarsi a passo festoso e deciso su per le scale. La marchesa Radicati o, come le veniva in quel momento più spontaneo definirsi, la contessa Ristori era al settimo cielo per l’arrivo di Fabrizio: gli sarebbe voluta correre incontro per riabbracciarlo dopo tanto tempo per dirgli quanto gli fosse mancato, per raccontargli tutte le nefandezze compiute da suo marito Alvise, per spronarlo a punire il marchese nel modo più severo possibile e riprendere in mano lui stesso il governo della tenuta. Ma l’amore fraterno e le sacrosante recriminazioni potevano attendere ancora qualche istante. Anna restò a scrutare il cortile antistante al palazzo. Non sapeva nemmeno lei perché non si fosse mossa immediatamente per guadagnare le scale. O meglio, lo sapeva, ma aveva quasi paura ad ammetterlo per timore di rimanere delusa. Sperava infatti che di lì a poco sarebbe comparso anche Antonio, al seguito di suo fratello.
 Ma così non fu.
Quella leggera delusione non guastò, tuttavia, la sua felicità nel ritrovare l’amatissimo fratello. Fabrizio ricevette un’accoglienza calorosa sia da parte di Anna sia, soprattutto, da parte di sua nipote Emilia, che quasi stentò a riconoscere da quanto fosse cresciuta.
-Zio Fabrizio, come sono felice che siate tornato! – esclamò la bambina quando lui la prese in braccio.
- Emilia, sei cresciuta tantissimo! Ancora un po’ e non riuscirò nemmeno più a prenderti in braccio! – scherzò il conte.
Sorseggiando del tè, comodamente seduti su quelle poltrone che per lunghe nottate erano servite da alcova ad Alvise e ai suoi depravati amici, si misero a raccontarsi come avessero passato gli ultimi mesi.
- Sono stati momenti così brutti per tutti noi mentre eravate via…non è vero, mamma? –
- Oh Emilia, non tediare così tuo zio che è appena tornato. Lasciagli il tempo di riposarsi. Piuttosto, Fabrizio, raccontaci della Francia. È vero che si stanno preparando sommosse contro l’aristocrazia? - cercò di cambiare discorso Anna.
- Che è successo di così terribile, Emilia? – chiese invece lui, senza ascoltare la sorella.
-Mio padre…Tutta colpa sua! Non lo voglio più rivedere! –
- Emilia, in effetti, ha ragione. Alvise ha passato il limite. E in più occasioni. Ma non ti sto ora a spiegare come e perché, ne parleremo poi in separata sede. Ti posso dire che il tuo ritorno è stata la salvezza per tutti noi! -
- Emilia, ora che sono di nuovo qui, ti prometto che non ti farà più del male. E, se vorrete, tu e la mamma resterete qui con me a Rivombrosa, senza di lui!- propose rivolgendosi con lo sguardo ad Anna.
- Fabrizio, ti prego, questi discorsi li faremo dopo, con calma. Non è il momento adesso di parlare di Alvise. – lo zittì Anna con un tono perentorio da sorella maggiore.
- Come vuoi, Anna. Ma sappiate che questa è casa vostra, tua e di Emilia, e sarei felicissimo se rimaneste qui con me. Mentre per quanto riguarda Alvise…-
- Si stava forse parlando di me? – tuonò il marchese facendo il suo ben poco trionfale ingresso nella sala. – Oh! Ho anche il piacere di rivedere la mia amatissima figliola! Emilia, dove ti sei cacciata per tutto questo tempo? Vieni subito a salutare tuo padre! – ordinò.

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Capitolo 22
*** Colpo di coda ***


Ma Emilia non si mosse, si limito a biascicare tra le smorfie qualche parola che avrebbe dovuto suonare come: “Buongiorno, signor padre”.
- Alvise, siete rientrato, dunque? Mio fratello è tornato, come potete vedere! – lo salutò beffarda Anna, sentendosi ormai al sicuro dalle sue angherie.
- Mia cara consorte, dovrei essere io a stupirmi del fatto che siate rientrata, visto che avete passato la notte non si sa dove, né con chi…o meglio, io qualche idea ce l’avrei…Ed Emilia è magicamente ricomparsa, non ne sapevate nulla, vero, Anna? - insinuò.
- Sono stata al monastero, a confessarmi, come ogni buon cristiano dovrebbe fare.- mentì lei
- Oh al monastero, certo! Ma so io a fare cosa!-
- Ora basta con questi discorsi, state dando uno spettacolo indegno davanti agli occhi di vostra figlia! -lo interruppe Fabrizio. – Alvise, avete dato ordine di sgomberare tutti i vostri effetti personali da casa mia? – lo interrogò autoritario.
- Certamente, Fabrizio, come potete vedere i vostri servi sono già all’opera. Oggi stesso farò ritorno a palazzo Radicati. Porto con me solo le cose più preziose, il resto dei bagagli verrà spedito in seguito. – ridacchiò allusivo, additando con un gesto plateale il corridoio, da dove si potevano scorgere i servitori che si affannavano trasportare bauli.
Fabrizio e Anna lo fissarono sorpresi, non si aspettavano una tale arrendevolezza da parte sua. Si aspettavano urla, minacce, insulti, recriminazioni, anche aggressioni fisiche, ma non tali parole che avevano il sapore di una resa. I due fratelli si scambiarono uno sguardo, l’uno colse immediatamente gli interrogativi inespressi dell’altra e viceversa. Ma tacquero, in attesa.
-Bene, ho dato ordine di preparare anche i vostri bagagli, Anna. E provvederò a fare lo stesso per quelli di Emilia: non mi aspettavo di vederla qui…-
Alvise aveva trovato il modo di sparigliare le carte. Ci aveva pensato molto nel tragitto in carrozza, solo, senza più quell’oca di Betta Maffei che l’aveva abbandonato dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei. Quell’ingrata! Alvise era pieno di odio nei confronti della giovane amante, del cognato, della moglie, della figlia, di quell’infame dottore. Avrebbe dovuto rinunciare a Rivombrosa, poiché non gli sarebbe stato possibile in alcun modo aver la meglio sul cognato, se non uccidendolo: la tenuta apparteneva ai membri della famiglia Ristori. Ma, si era detto fra sé, sarebbe caduto in piedi, senza lasciare al conte la soddisfazione di vederlo infuriato e, soprattutto, senza lasciarla vinta alla moglie. Si sarebbe trascinato anche Anna nel baratro in cui era precipitato: sarebbe caduta insieme a lui, come era giusto che fosse, essendo la sua legittima consorte. Non le avrebbe mai permesso di godersi Rivombrosa insieme al fratello, senza di lui; non le avrebbe mai permesso di portare avanti quella tresca infamante con quel medicastro alla luce del sole, rendendolo lo zimbello di tutti i suoi nobili amici, mentre Betta gli aveva dato il benservito; non le avrebbe permesso di vivere la sua felicità mentre lui sarebbe caduto in disgrazia. Anna avrebbe dovuto pagare insieme a lui!
-Avete qualcosa da eccepire riguardo alla preparazione dei vostri bagagli? Avete qualche preferenza sui vestiti da portarvi a Torino? – la derise.
Anna si alzò a si avvicinò decisa al marito. Poi, fissandolo negli occhi con tono spavaldo disse: - Alvise, io non verrò con voi. –
-Oh questo non è possibile, mia cara sposa. Voi verrete con me, come vuole la legge. –
- E chi vi dà questa certezza? Io non mi muovo da qui.-
- Volete costringermi ad usare la forza? – domandò alzando il tono.
- Non mi fate paura, Alvise. Siete soltanto un cialtrone fallito! Io resterò a Rivombrosa, non voglio rivedervi mai più! – gli gridò in faccia, riversandogli addosso tutto il suo odio, tutto il suo disprezzo.
- Sta’ zitta, sgualdrina! Tu ora verrai con me, quanto è vero Iddio! – e le afferrò con violenza un polso. Fabrizio si alzò di scatto di piedi e lo minacciò: - Lasciala! Immediatamente! -  Alvise allentò la presa e Anna ne approfittò per scostarsi da lui e riparare dietro al fratello, che riprese: - Avete sentito? Mia sorella non ha alcun’intenzione di seguirvi a Torino. Resterà qui insieme ad Emilia. E ora andatevene. La vostra presenza non è gradita! –
- Mi spiace contraddirvi, mio caro cognato, ma Anna ha il dovere di seguirmi: sono o non sono suo marito? Sono o non sono il padre di Emilia? Verranno con me, tutt’e due, e non ci sono scuse che tengano. La legge parla chiaro. –
- La legge parla chiaro soltanto quando fa comodo a voi, Alvise! Mi ritengo svincolata da ogni obbligo nei vostri confronti, dopo che avete disonorato il nostro matrimonio tra amanti, squallidi festini e amici depravati. Io non mi considero più vostra moglie! – e, così dicendo, gli gettò addosso la fede nuziale, che, dopo essergli rimbalzata sulla pancia, ricadde a terra tintinnante.
- Siete sempre stata melodrammatica, Anna! Ma le vostre sceneggiate non funzionano, non cambiano lo stato dei fatti. –
- Non ve lo ripeto una seconda volta, Alvise. Andatevene da questa stanza! Mia sorella non vuole aver più nulla a che fare con un porco come voi! –
- E sia. Mia moglie non vuole seguirmi? Faccia pure. Ma Emilia verrà con me. Senza altre storie! – giocò la sua ultima carta il marchese.
- No! Io con voi non ci vengo! Neanche morta! – strillò la ragazzina, aggrappandosi forte alla madre, che fu pronta ad abbracciarla.
- Non ci vieni con tuo padre, Emilia? Oh sì che ci verrai. E anche in fretta. –
- Vi odio, mi fate schifo! – urlò la bambina.
 - Alvise, uscite da qui! Uscite dalle nostre vite! – gridò disperatamente Anna: aveva capito il gioco del marito e sapeva perfettamente che la legge era dalla parte di lui. Fabrizio taceva, si rendeva conto anche lui della delicatezza della situazione: aggredire o minacciare il marchese avrebbe aggravato ulteriormente la loro posizione. Emilia, in lacrime, si stringeva forte alla madre, nascondendo il volto nelle pieghe del vestito.
- Me ne andrò, ma Emilia viene con me. È mia figlia e ho il diritto di esercitare la mia patria potestà. E se voi, Anna, non volete seguirci, non la rivedrete più per un bel pezzo! – rise compiaciuto.
- Che cosa?! – fu la domanda, o meglio l’esclamazione disperata di Anna, che cercava di tentare un’estrema difesa.
- Non potete fare questo a vostra figlia! – s’intromise Fabrizio indignato.
- Semmai è vostra sorella che preferisce Rivombrosa alla propria figlia. È lei che non vuole accompagnarci. E quindi ne pagherà tutte le conseguenze. – sentenziò. – Anna, se non venite con me, questa sarà l’ultima volta che vedrete vostra figlia, fino a quando io non deciderò altrimenti. Salutatela per bene, dunque! -
- Io non ci voglio andare! Mamma, zio Fabrizio, fate qualcosa! Io voglio restare qui! – singhiozzava disperata Emilia. – Non voglio andare con mio padre! È cattivo! Non voglio! Tenetemi qui con voi! –
Anna era straziata da quel pianto e da quelle suppliche: le laceravano il cuore. Emilia non meritava di soffrire così! E l’idea che Alvise gliela volesse sottrarre, la volesse portare con sé, esponendola a quella vita violenta e dissoluta che lui conduceva, separandola da sua madre e da tutti gli altri suoi più cari affetti la dilaniava. Strinse a sé la figlia, le diede un bacio fra i capelli e le disse: Emilia, ti va di restare qui, con lo zio Fabrizio? – La bambina, con gli occhi ancora luccicanti di lacrime, annuì. – Allora, sarà così, ti fermerai con lui. – aggiunse poi, rivolta al marito: - Alvise, vi seguirò a Torino. Condividerò in tutto e per tutto la vostra sorte, come ho promesso di fare quando vi ho sposato. Non verrò meno al sacro vincolo, non mi sottrarrò all’impegno che ho contratto davanti a Dio e agli uomini. Ma Emilia resterà qui. Questa è la mia condizione. –
Alvise studiò per qualche istante lo sguardò della moglie: temeva che dietro a questa proposta si nascondesse qualche stratagemma. Ma si convinse ben presto che era la disperazione a parlare per Anna e quindi, con un ghigno, accettò la sua condizione. Non era di Emilia, in fondo, che voleva vendicarsi.
-E sia. La carrozza sarà pronta fra mezz’ora. Vi attendo di sotto. – si congedò soddisfatto, avviandosi alla porta. Poi, prima di varcare la soglia, ricordò: - Ah, Anna, dimenticate questo! – e, dopo averla raccolta, le porse, con un sorriso beffardo, la fede che lei gli aveva scagliato contro poco prima.

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Capitolo 23
*** Amara riconoscenza ***


Una fitta pioggia scrosciava fuori dalle vetrate del palazzo provocando un rumore quasi assordante. L’oscurità stava calando ben prima del tramonto in quel pomeriggio autunnale: in casa stavano già accendendo le candele.
-Che tempo da lupi! – esclamò Fabrizio, alzandosi dallo scrittoio, dove stava sbrigando alcune pratiche, per avviarsi alla finestra. Il cielo era cupo, i suoi pensieri altrettanto. Si sentiva in colpa per aver lasciato partire la sorella, così, senza lottare. Ma sapeva bene che in quel momento non c’erano altre carte da giocare. In seguito si sarebbe potuta intentare un’azione legale, provando la condotta dissoluta di Alvise, si sarebbe potuto intervenire per farlo interdire, per togliergli la patria potestà. Era, però, un discorso complesso, da affrontare con calma, non nella foga del momento. E lui avrebbe fatto di tutto per riportare sua sorella a casa, si sarebbe rivolto ai migliori avvocati. Era consapevole che Anna aveva fatto l’unica cosa possibile: se si fosse rifiutata di partire col marito, avrebbe compromesso ancor più la sua posizione. Eppure non riusciva a darsi pace. Stava così meditando, in piedi davanti all’ampia vetrata del suo studio, mentre l’oscurità inghiottiva inesorabilmente il giardino antistante, quando tutt’un tratto una voce squarciò il flusso intricato dei suoi pensieri.
- Signor conte! Signor conte! – urlava Bianca, fuori di sé, percorrendo il corridoio a perdifiato.
- Fabrizio, ti prego, scendi subito! Subito! – rincarò Elisa, anch’essa allarmata. In preda all’agitazione la giovane serva fece irruzione nello studio senza tanti preamboli, a differenza di Bianca, che non si decideva ad aprire la porta senza aver prima udito il benestare del padrone.
- Che succede, Elisa? Mi stai facendo preoccupare! – domandò ansioso.
- Chiedono di te. È una cosa urgente, dicono, scendi subito! – rispose tutto d’un fiato.
Fabrizio non perse altro tempo, si diresse immediatamente verso il cortile. Stava scendendo gli ultimi gradini quando si materializzò a pochi metri da lui la sagoma di un uomo, che però non riuscì bene a distinguere in mezzo all’oscurità e allo scrosciare fitto fitto della pioggia. Doveva trattarsi di un popolano, lo si intuiva dal cappellaccio a larghe falde che portava e dal pastrano rattoppato alla bell’e meglio con cui si riparava dalla pioggia, ma chi fosse e quali fossero le sue intenzioni non riusciva a capirlo.
-Chi siete? – domandò impavido il conte, scrutandolo nella semioscurità. Il tono era perentorio, padronale, esigeva una risposta.
 
 
Ma l’uomo restò fermo, in piedi immobile sotto la pioggia scrosciante, non disse una parola. In quel momento alle sue spalle sopraggiunse un altro uomo, più esile, più giovane, che teneva fra le braccia una donna, incosciente, forse ferita o addormentata. Fabrizio non poté non riconoscerla, non poté non accorgersi che si trattava di sua sorella.
-Anna, per l’amor del Cielo! Che ti hanno fatto? Che cosa ti è successo? – esclamò disperato nel vederla, cercando di schiaffeggiarla per farla risvegliare. Soltanto allora Fabrizio distolse l’attenzione dalla sorella, esanime fra le braccia di quell’uomo, e si occupò dei due sconosciuti.
- Chi siete voi due? Che cos’avete fatto a mia sorella, luridi bastardi? Perché l’avete ridotta così?- ringhiò inferocito. Ma i due non si scomposero.
- Vi abbiamo riportato vostra sorella, non vi basta? – fece di rimando il primo.
- Ma che le è successo? – domandò Fabrizio, lo sguardo fisso sulla sorella.
- Un agguato. Non abbiamo dimenticato quello che ci ha fatto passare il marchese. Abbiamo assaltato la loro carrozza: dovevano pagare, dovevano pagare tutto. Ho perso due dei miei familiari solo perché hanno osato ribellarsi. Li hanno portati via, forse uccisi. Erano feriti e hanno messo a ferro e fuoco la casa di chi li stava curando pur di catturarli. Queste ingiustizie dovevano pur finire! E infatti il marchese ha avuto quel che si meritava. I miei compagni avrebbero voluto ammazzare anche vostra sorella. -
- Che cosa?! Volevate uccidere mia sorella? – esclamò sbalordito, infuriato, afferrandolo per il bavero della giacca. Gli era stato riferito del malcontento contro Alvise ma non si aspettava che si arrivasse a tanto. E poi Anna che colpa ne aveva? Conosceva sua sorella, forse poteva aver assunto uno dei suoi toni saccenti e altezzosi; magari aveva rimproverato in modo brusco qualche serva o uno degli stallieri; poteva aver fatto pesare la sua posizione di contessa Ristori a qualche abitante del borgo venuto alla tenuta; ma mai avrebbe agito in modo crudele contro i loro dipendenti, quegli stessi che avevano servito con ossequio e rispetto i loro genitori e prima ancora i loro avi da generazioni. No, non era da lei. La crudeltà non le si addiceva, l’orgoglio sì, la superbia forse. Ma la crudeltà no, mai. Aveva un animo sensibile e delicato, nonostante le apparenze. Era suo fratello, la conosceva fin troppo bene. Tutto questo aveva un unico responsabile, suo cognato il marchese Alvise Radicati, quell’essere viscido e spregevole che lui non aveva mai accettato nella propria famiglia.
L’uomo non rispose. Il compagno gli gettò Anna fra le braccia e lui aggiunse soltanto:
- Ringraziate il dottor Ceppi – poi fece per andarsene, ma Fabrizio lo afferrò per il braccio con una stretta vigorosa, squadrandolo minaccioso e inquisitorio. La situazione che gli si era prospettata a poche ore dal suo ritorno a casa era per lui incomprensibile, i nessi di causa ed effetto tra avvenimenti, nomi, persone gli erano del tutti oscuri. Quell’uomo sconosciuto ora se ne veniva fuori con quel nome…
- Che significa? Che c’entra il dottor Ceppi? –
-Chiedetelo a lui. – rispose laconico, poi si dileguò insieme al compagno sotto la pioggia battente, lasciando Fabrizio perplesso e angosciato per le sorti della sorella.
Ben presto tutto il palazzo fu in subbuglio.
-Svelti, muovetevi, non c’è tempo da perdere! – urlava Fabrizio, impartendo concitati ordini alla servitù mentre si precipitava su per le scale con la sorella al collo. –
-Anna, resisti, andrà tutto bene, sei a casa ora! –  aggiunse poi in tono accorato rivolgendosi a lei. Che giaceva inerme fra le sue braccia, gli abiti impregnati di acqua e fango e resi perciò ancor più pesanti, i boccoli scomposti e madidi di pioggia che le si appiccicavano alla fronte, il volto pallido, esanime, gli occhi che non accennavano a schiudersi. Solo dopo aver guadagnato il primo piano, Fabrizio si accorse dei rivoli di sangue che gli imbrattavano la giacca e gridò disperato:
- Angelo! Angelo! corri a chiamare Ceppi, muoviti! – ordinò imperioso. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e, recuperato in fretta e furia un calesse, si affrettò sotto il diluvio verso la casa del medico.
 
Anna? Che cosa le era successo? Come diavolo era possibile che versasse in quelle condizioni? Chi aveva osato farle del male? Al solo sentire Angelo pronunciare quel nome la sua mente si era come oscurata: una cortina di angoscia, paura, dolore gli impediva di esercitare un controllo razionale sulle sue azioni. In un primo momento non si mosse neanche dallo stipite della porta: non riusciva nemmeno a realizzare dove si trovasse. Perché la sua mente era già lì, accanto a lei, nell’unico posto in cui sarebbe dovuto essere. Ma doveva sbrigarsi, doveva fare presto se avesse voluto riuscire a salvarla. Non si sarebbe potuto concedere il minimo dubbio, la minima esitazione. Si riscosse, in preda a una forza che non sapeva nemmeno di avere. Un istinto potente e viscerale che non gli avrebbe mai permesso di abbattersi, di darsi per vinto. Raccattò più alla svelta che poté i ferri del mestiere, riempì alla meglio la borsa e, senza dire una parola, seguì Angelo sotto la pioggia scrosciante.
Il calesse sobbalzava sullo sterrato, il telo con cui cercavano di proteggersi dalla pioggia era continuamente squassato dal vento, le torce che illuminavano fiocamente la strada minacciavano ad ogni passo di spegnersi. Ma Antonio non si accorgeva nemmeno di tutto ciò, non aveva altri pensieri se non quell’unico che gli si era affacciato prepotentemente alla mente assonnata alle parole di Angelo.
– Fa’ più in fretta! Forza! – ingiungeva ogni tanto al ragazzo; ma più che come un ordine suonava come una supplica disperata. – Non c’è tempo da perdere! Sprona questo dannato cavallo! –
-Dottore, avete ragione, ma permettetemi…con questo tempo non si riesce quasi a vedere la strada! Più veloce di così non è possibile! – si giustificava Angelo
- E tu non la conosci a memoria la strada? Non c’è bisogno di vedere, solo di correre! –
- Io sì, ma il cavallo…-
- Il cavallo si adeguerà, forza! Possibile che sia così lento questo ronzino? –
- Ronzino? Ma se è uno dei migliori cavalli che abbiamo? Dottore, voi state esagerando, calmatevi – Angelo aveva assunto un tono quasi sgarbato, di cui immediatamente si vergognò. Ma com’era possibile che il dottore non si rendesse conto della situazione? Del buio, delle intemperie? Le sue pretese gli sembravano fuori luogo.
Calmarsi? Pensava invece Antonio. E come si sarebbe potuto calmare? Non vedeva più nulla davanti a sé. E no, non era colpa del muro di pioggia che stavano attraversando, né dell’oscurità della notte che era scesa ormai prepotente. I suoi occhi si rifiutavano di vedere, nella sua mente appariva una sola immagine, terribile, angosciosa. No, non poteva essere vero, doveva fare di tutto perché questo non avvenisse, doveva fare di tutto per salvarla. Si rimproverava di averla lasciata andare quella mattina, che ormai gli sembrava perdersi lontana anni luce. Avrebbe dovuto insistere, pregarla, minacciarla semmai. No, minacciarla sarebbe stato impossibile: sapeva bene che non ne sarebbe mai stato capace, nemmeno per il suo bene. Eppure, per essere stato in quel frangente debole, esitante, arrendevole di fronte alla ferrea volontà di lei, l’aveva consegnata a quel destino. E un nuovo rimorso gli invase la coscienza.
Una buca più profonda delle altre diede un forte scossone al calesse. Una delle due torce si spense. Antonio si riscosse dai suoi pensieri. Infreddolito, fradicio, dolorante, mentre il vento gli sferzava il viso e gli sputava in faccia la pioggia, riacquistò quel poco di lucidità che gli permise di mettere a fuoco la catena degli eventi di quel giorno. Solo allora riuscì a ricordare il prima, ovvero tutte quelle cose ora insignificanti che erano successe prima di quelle fatidiche parole di Angelo: Dottore, abbiamo bisogno di voi, la marchesa Anna…
 
Altri colpi, altri insulti, altre bastonate. Poi l’avevano finalmente rilasciato. Contrordine del conte Ristori rientrato a casa: il marchese aveva così finito di spadroneggiare in lungo e in largo, di far arrestare, picchiare, torturare chiunque non gli andasse a genio per i più svariati motivi. Le guardie erano restate a lungo incerte sul da farsi, se ascoltare il vecchio o il nuovo ordine; ma alla fine si erano adeguate alla linea del legittimo padrone di Rivombrosa e avevano lasciato liberi tutti gli arrestati. Tra questi anche Antonio.  Alcuni contadini l’avevano riaccompagnato a casa con il loro carro, dolorante, malconcio ed esausto. Non aveva nemmeno avuto modo di realizzare che Fabrizio era ritornato, che finalmente Alvise avrebbe smesso di tiranneggiare in modo indegno, che Anna sarebbe stata finalmente libera di scegliere di stare con lui senza per questo dover rinunciare alla propria tenuta. Non era riuscito a formulare questi pensieri perché una volta a casa era crollato, vinto dalla stanchezza e dai dolori, accasciandosi sul tavolo della sala da pranzo. Un sonno senza sogni, profondo, che da troppo tempo non si concedeva. La pioggia scrosciava violenta fuori dalle finestre. Sembrava un acquazzone estivo, non una pioggerella autunnale, uno di quegli scrosci che paiono ribellioni della natura alla calura opprimente, tuoni e fulmini repressi a lungo che scatenano tutta la loro potenza sulla terra, accompagnati da vento, pioggia, grandine. Una rivolta anch’essa, simile a quelle di quei giorni. Ma Antonio non se ne curava: stravolto, dormiva profondamente, la testa appoggiata alle braccia distese sul tavolo. Si sarebbe detto il sonno dei giusti, il sonno di chi non ha macigni sulla coscienza perché ha messo il bene degli altri sempre prima del proprio, il sonno di chi ha pagato ingiustamente per colpe che non ha mai avuto, di chi ha saputo sacrificarsi per i propri ideali e principi. Ma no, non era così. Antonio non era in pace con se stesso, non era scevra di macigni la sua coscienza. E sì, anche se aveva pagato ingiustamente, anche se aveva subito ogni genere di sopruso indebito, erano molte le cose di cui non si riusciva a perdonare. Ma soprattutto non avrebbe mai avuto pace finché non avesse ritrovato lei. Tuttavia dormiva, e non avrebbe potuto fare diversamente, distrutto com’era dalla fatica. La luce se ne stava ormai pian piano andando quel pomeriggio, ma nessuna candela illuminava la casa, le ombre degli oggetti svanivano, confondendosi nella luce violacea di un crepuscolo forse prematuro per la stagione. Nessun suono, se non lo scrosciare della pioggia e i rintocchi ovattati del pendolo nella sala, cullava il sonno di Antonio. All’improvviso questo silenzio quasi irreale venne squarciato da un colpo sulla porta. Antonio sobbalzò nel sonno, senza tuttavia dar segni di svegliarsi. I colpi proseguivano, ma lui era del tutto incapace di muoversi: fluttuava in uno stato di dormiveglia da cui la sua sola volontà non riusciva a strapparlo. Ecco allora dei nuovi colpi, più vicini stavolta, che fecero tremare i vetri della finestra della sala da pranzo. E una voce nota che chiamava: - Dottore! Dottore! C’è bisogno di voi, la padrona è ferita. –
Come colto da un fulmine, si drizzò in piedi, allarmato. La sedia cadde fragorosamente sul pavimento. Si girò di scatto e inquadrò il viso di Angelo fuori dal vetro. Il giovane colse il suo sguardo esterrefatto, lo sguardo di chi, una volta destatosi, sembra invece essere precipitato in uno degli incubi peggiori.
 Da quel momento non fu più in grado di dominare i propri movimenti, di dare una coerenza logica ai propri pensieri. Corse alla porta d’ingresso, girò il chiavistello con foga, ansioso, spalancò i battenti e venne inondato dalla pioggia prima ancora che Angelo apparisse sulla soglia.
-Mi ha mandato qui il conte Fabrizio. Dottore, abbiamo bisogno di voi, la marchesa Anna è in gravi condizioni. Non si sa che cosa le sia successo, ma, vi prego, fate presto! Il conte è disperato, teme il peggio!-
Come si sarebbe mai potuto conservare lucido, freddo, distaccato di fronte a simili parole? Eppure doveva farlo. Era necessario, essenziale che lo facesse. Un suo minimo cedimento sarebbe potuto essere fatale. Doveva essere forte, come non lo era stato quella stessa mattina; come forse non lo era mai stato in tutta la sua vita. Questa volta non l’avrebbe lasciata andare, non l’avrebbe persa di nuovo, ne era certo. Quanto l’amava e quanto poco era riuscito a dimostrarglielo! Quanto aveva bisogno di lei e quante volte aveva fatto di tutto per negarlo! Quanto avrebbe desiderato averla e quante volte l’aveva lasciata andare! In nome di astratti principi e ideali, in nome dell’orgoglio, in nome di una paura sottile ma costante e incoercibile. Paura di un rifiuto, di non essere all’altezza, di perdere se stesso in lei. E quindi l’aveva fuggita, evitata, allontanata, perché era un pericolo, perché avrebbe messo in discussione i suoi principi, perché l’avrebbe trascinato nel suo mondo dorato, quel mondo da cui lui non voleva essere compromesso. Ma a che cosa gli era servito?  
Tutti gli errori commessi in sedici lunghi anni gli si pararono davanti, proprio nel momento che più di qualsiasi altro sentiva come irreparabile.
Il bosco si stava finalmente diradando, in lontananza già apparivano, sfocate in mezzo alla pioggia torrenziale, le luci della tenuta. Il cuore gli balzò in gola, le mani si aggrapparono nervose al bordo del biroccio.  
 
-Dov’è? – chiese saltando agilmente dal calesse ancora in corsa, senza preambolo alcuno, con una voce stridula, strozzata, irriconoscibile nel timbro e nel tono.
- Dov’è?! – ripeté, stavolta a mo’ di supplica, la voce tremante. Non si curava del diluvio che gli stava completamente inzuppando i vestiti, i capelli. Ottenne una risposta, infine, dopo attimi che dovettero parere eterni.
- Nella sua stanza – Fabrizio era sopraggiunto, composto, nonostante l’angoscia lo divorasse. – Vieni con me, saliamo! – aggiunse senza ombra di irrequietezza nella voce. Sangue freddo, si era detto. Perdere la calma sarebbe stato il peggiore degli errori. E c’era in gioco la vita di sua sorella.
Il conte improntò i gradini con passo svelto, ma fermo, sicuro; Antonio lo seguiva con respiro affannoso, salendo gli scalini a due a due, facendo sobbalzare i ferri contenuti nella borsa. Nessuno dei due osò aprir bocca, finché non si ritrovarono all’interno del palazzo.
 
 

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Capitolo 24
*** Promessa ***


-Che le è successo? – chiese il medico, sforzandosi di dominarsi, come se si stesse informando sulle condizioni di uno qualsiasi dei suoi pazienti. Ma lei non era una paziente qualsiasi, non lo era mai stata, neppure quando lo riceveva a fatica, mandato a chiamare dalla servitù.
- Un agguato da parte di un gruppo di ribelli, così pare. Di più non so. – rispose l’amico, facendogli strada nel corridoio fiocamente illuminato dalla luce delle candele. - Tu ne saprai di certo più di me… - insinuò poi voltandosi e squadrando quello che era stato negli anni della giovinezza un suo caro amico, ma che ora stentava a riconoscere. Era sempre stato un anticonformista, un ribelle, pur nella sua estrema pacatezza e cortesia. Aveva rinunciato al titolo, alle terre, alle ricchezze, ma non lo credeva capace di invischiarsi in una ribellione armata, di essere colluso con gente di tale risma, gente che aveva attentato alla vita di sua sorella. Eppure il suo amico Antonio, il medico dei poveri, il difensore degli oppressi, era in combutta con quei tipi violenti che gli avevano riportato la sorella in fin di vita. E che lo mandavano a ringraziare, per giunta.
- Non capisco a che cosa tu ti riferisca – rispose lui, troppo angosciato per poter cogliere la sfumatura di accusa nelle parole dell’amico. Non gliene importava nulla dei ribelli, in quel momento.
- Antonio, che cos’è successo durante la mia assenza? – domandò Fabrizio mentre ormai stavano guadagnando la soglia della stanza di Anna, avanzando nel corridoio semibuio, illuminato qua e là dalla fioca luce di qualche candela prematuramente accesa.
- Lo dovresti già sapere. – rispose laconico, lo sguardo fisso su quella porta, che tanto temeva di aprire.
- No, non lo so. Quei bastardi mi hanno fatto il tuo nome, ti mandano a ringraziare. In quali guai ti sei cacciato? Sei loro complice? – lo scrutò in volto interrogativo.
- Fammi entrare. – ingiunse il medico all’amico che se ne stava con un braccio appoggiato allo stipite della porta, bloccandogli il passo e posando su di lui uno sguardo inquisitore. – Spostati, la marchesa sta male, non c’è tempo da perdere. – rincarò Antonio.
- La marchesa? Ora la chiami così? Un tempo non ti facevi scrupoli a chiamarla per nome… Mio cognato, quei contadini, troppe insinuazioni…Antonio, dimmi la verità, che cosa è successo tra te e mia sorella? – lo interrogò cupo Fabrizio, senza spostarsi di un centimetro.
- Non lo so dove si trova la mia legittima consorte. Chiedetelo a lui. Chiedetelo a quel pezzente! Sarà sicuramente più informato di me su dove si trovi quella puttana di vostra sorella!
- Ringraziate il dottor Ceppi! –
Tutti questi dettagli si stavano ricomponendo nella mente di Fabrizio in un quadro ben delineato, in cui il vecchio amico ricopriva un ruolo non certo secondario. Anche se non si capacitava di come fosse possibile quello che si immaginava; di come fosse possibile che sua sorella avesse finalmente messo da parte il suo orgoglio dopo tutto il rancore di quegli anni.
-Non è questo il momento! – esclamò per tutta risposta Antonio, scansando l’amico con un’irruenza inusuale per lui, sempre così pacato e controllato, e spalancò con gesto deciso la porta.
 
 
La luce soffusa delle candele e quella più viva del fuoco acceso nel camino alla destra del letto consentirono ad Antonio di scorgere adagiata tra i cuscini quella donna che non avrebbe mai voluto vedere in tali condizioni; quella donna che aveva sperato di rivedere felice, finalmente libera, raggiante; quella donna che aveva perso già una volta per colpa sua e non si sarebbe permesso per nulla al mondo di perdere di nuovo. Il volto pallido, le labbra esangui, i capelli bagnati di pioggia scomposti sul cuscino, le braccia inerti distese lungo i fianchi. Cercò il suo sguardo, anelò a scorgere in quegli occhi tanto profondi una risposta incoraggiante, ma fu inutile, le palpebre non accennavano a sollevarsi: aveva perso conoscenza.
Trattenne il fiato. Intorno il silenzio rotto soltanto dallo scrosciare violento della pioggia sui vetri delle finestre. Poi man mano gli si offrirono anche gli altri dettagli della stanza, quella stanza così accuratamente arredata, in cui si poteva cogliere ad ogni angolo il gusto raffinato della proprietaria, quella stanza sfarzosa ma senza eccedere, elegante ma senza ostentazione, pregiata ma al contempo austera. Un po’ come lei, così impeccabilmente elegante, così fiera ma allo stesso tempo severa e pudica; così rispettosa della forma eppure così profonda; così intransigente con sé e con gli altri eppure così dolce; così forte eppure così fragile. Così complessa, insondabile, imprevedibile. Per tutti, ma non per lui, l’unico a cui avesse consentito di guadare dentro di lei, senza veli o finzioni. Dopo essersi soffermato a constatare quella straordinaria corrispondenza tra l’arredamento e l’inquilina della stanza, si accorse di un’altra presenza umana, l’anziana serva Amelia, in ginocchio accanto alla padrona che aveva allevato sin da bambina, fra le mani un panno che le passava sulla fronte, sul volto, per asciugarle la pioggia e il sudore.
Non c’era altro tempo da perdere. Era lì per fare il suo dovere di medico, non per smarrirsi nei meandri di riflessioni inutilmente nostalgiche. Quella non era Anna, quella era una paziente, una paziente che necessitava di cure. E al più presto. Al resto avrebbe pensato dopo.
-Dottore, come mai non si sveglia? Che l’è successo? Ci dobbiamo preoccupare? – chiese l’anziana con voce ansiosa, ma al contempo riponendo una fiducia incondizionata nel medico.
Antonio non le rispose. Gettò a terra con un movimento brusco il mantello zuppo d’acqua e si precipitò dal lato opposto di Amelia. Un’occhiata veloce. Qualche ferita sul viso, sulle braccia, ma nulla di grave, tale da giustificare quello stato. Che diavolo le era successo? O era lui a non essere obbiettivo, a negare a se stesso la gravità delle sue condizioni?
Era una paziente come tante e lui era lucido: non avrebbe sbagliato la diagnosi, accadeva raramente. Le scostò una ciocca di capelli e finalmente si accorse della profonda ferita sul capo. Trasalì. Una ferita da corpo contundente. Chi diamine aveva osato colpirla in quel modo? Alvise? Iniziò a sudare freddo. Con le mani tremanti le scostò i capelli, quegli splendidi boccoli che avrebbe desiderato accarezzare, non recidere. Amelia si accorse del suo turbamento:
-Dottore, che succede? Vi sentite bene? È così grave? –. Forse che la sua incrollabile fiducia nel dottore stesse iniziando a vacillare?
- No, Amelia, non temere. Portami le forbici. E dell’acqua calda. Presto. – pronunciò in un soffio, senza nemmeno rivolgerle lo sguardo, che teneva fisso sul viso che tanto amava. Ma il suo amore, in quel frangente, non gli era che d’ostacolo.
- Sarà fatto, dottore, al più presto. – rispose Amelia alzandosi di slancio, nonostante l’età. Uscendo lasciò il passaggio a Fabrizio.
Il conte stava lì in piedi, in silenzio, le braccia conserte e lo sguardo corrucciato fisso ora sul medico ora sulla sorella. Prese posto in un angolo nella penombra; non disse una parola, osservava con scrupolosa attenzione le azioni di Antonio. Amelia rientrò con quanto richiesto e si acquattò accanto a Fabrizio, mormorando di quando in quando: - Oh Signore Santo, aiutaci! – e ripetendo all’infinito il segno di croce. Solo quei suoi devoti borbottii si udirono, fin quando la voce stentorea di Fabrizio squarciò il silenzio.
-Che ti prende, Antonio? –
Il medico si girò di scatto. Aveva reciso a malincuore varie ciocche di capelli e stava suturando, con il tocco più delicato che conosceva, quella brutta ferita. Sobbalzò alle parole dell’amico.
-Stai tremando! La tua mano non è ferma! Non te ne accorgi? Che ti prende? –
No, non se n’era accorto. Ma lo poteva benissimo immaginare. Dentro di lui tutto tremava: le speranze, i ricordi dolci ma strazianti di quegli ultimi giorni, il futuro radioso che si prospettava. Era l’intera sua vita a vacillare. Non c’era da stupirsi che anche le sue mani tremassero. Tuttavia non fu in grado di rispondere. Si voltò e riprese in mano i ferri. Ma, come per dar credito alle parole di Fabrizio, gli caddero di mano con un fragore metallico che fece sgranare gli occhi ad Amelia, impegnata nella fervente recita del rosario.
-Perdio! Non te ne accorgi proprio? Non sei in grado di svolgere il tuo lavoro in queste condizioni! – Stavolta il tono era quello di un rimprovero.  – Amelia, di’ ad Angelo di chiamare un altro medico! – ordinò poi.
- No! Non se ne parla! – si riscosse Antonio.
- Ma non ti vedi? Non riesci a reggere in mano i ferri! Tremi, ha gli occhi fuori dalle orbite. Non sei nelle condizioni di occuparti di mia sorella. E se, disgraziatamente, per colpa tua dovesse…non ci voglio pensare! Chiameremo qualcun altro. – concluse visibilmente preoccupato e alterato.
- Non succederà. Non succederà. – Più che convincere Fabrizio, tentava di convincere sé stesso.
- Ti ripeto la domanda: che cosa c’è stato tra te e mia sorella? È colpa tua se si trova in queste condizioni? Rispondimi! – gli ingiunse fissandolo dritto negli occhi.
- Colpa mia? Sì, perché le ho permesso di ritornare da quel lurido bastardo di tuo cognato. È lui ad averla ridotta così, non è vero? –
- Che c’entra mio cognato ora? Quei ribelli…che rapporti hai con quella gente, Antonio? Perché ti mandano a ringraziare e riportano a casa Anna come favore personale per te? –
- Favore personale per me? – chiese sinceramente sorpreso.
- Sì, proprio così. E tu ora mi rispondi: durante la mia assenza tu e Anna siete diventati amanti? Ciò spiegherebbe il motivo per cui non sei in grado di svolgere il tuo lavoro…le battute di mio cognato…-
- Non è il momento, Fabrizio. Non è questo il momento. -tagliò corto e fece per voltarsi e riprendere il lavoro, ma Fabrizio lo agguantò con foga e lo costrinse faccia a faccia con lui, stringendogli con forza il polso.
- Eh no! È questo il momento. Devo capire se sei o meno in grado di curare mia sorella! –
- Lo sono. Lasciami lavorare! – rispose Antonio, cercando di fuggire lo sguardo severo e preoccupato dell’amico.
La discussione si stava accendendo, quando Elisa fece irruzione nella stanza.
-Che diavolo state facendo voi due?-   domandò con voce isterica alla vista che le si parò davanti.
Fabrizio, fuori di sé per le sorti di sua sorella, stringeva con forza il polso dell’amico, costringendolo così di fronte a lui e impedendogli altri movimenti; Antonio, in evidente difficoltà, cercava di divincolarsi dalla stretta e al contempo di evitare gli occhi furenti dell’amico; Amelia, infine, sprofondata su di una sedia, si profondeva in preghiere e lamenti tali da far concorrenza alle prefiche romane– Oh Signore Santo, oh buon Dio, abbi pietà, abbi pietà- Un continuo sottofondo di preghiera che avrebbe garantito anche al peccatore più incallito l’ingresso diretto in paradiso! Ma bisogna scusarla, quest’anziana devota: di medicina capiva ben poco, degli altri discorsi dei due ancor meno, l’unica cosa che sapeva e poteva fare in quel frangente era scomodare il Signore, la Madonna e tutti gli altri santi messi insieme. Nessuno si curava invece di Anna che giaceva immobile nel letto, senza dar segno alcuno di intendere il trambusto che si era creato intorno a lei.
-Vi sembra il caso di mettervi a discutere adesso? Siete forse impazziti tutti e due? – rincarò la giovane serva con parole e modi che in altre circostanze sarebbero parsi quantomeno impertinenti.
- Elisa, non ti intromettere in cose che non ti riguardano! – le gridò di rimando Fabrizio, senza distogliere lo sguardo da quello del medico.
- Hai detto bene, riguardano la marchesa Anna, di cui nessuno di voi due sembra occuparsi! –
- Allora forse non ti è chiaro! Il tuo amico Antonio non è in grado di curarla, non riesce nemmeno a reggere in mano i ferri! E io che cosa dovrei fare? Stare a guardare? Mentre c’è in gioco la vita di mia sorella? – Fabrizio ora si era voltato verso la serva, liberando Antonio dalla stretta.
- Antonio è il medico migliore della contea, dovresti saperlo! –
- Pensavo anch’io che lo fosse, ma mi son dovuto ricredere. Manderò a chiamare un altro medico. –
- No, ti stai sbagliando! Si tratta solo di circostanze particolari, forse è per quello che…-
- Di quali circostanze parli? Che cosa sai tu che non so? Tra quei due è successo qualcosa, vero? – la incalzò.
- Non ne so nulla. E, in ogni caso, che cosa importa ora? Non è qui il problema.-
Mentre i due avevano preso a questionare animatamente, Antonio si era lasciato cadere su di una sedia accanto al letto, la testa tra le mani, lo sguardo basso. Che cos’era giusto fare in quel frangente? Il bene di Anna qual era? Che lui facesse un passo indietro? Forse un altro collega, uno di quei colleghi altolocati che tanto lo detestavano e che lui tanto detestava, un qualsiasi altro medico non coinvolto, razionale, freddo avrebbe curato Anna meglio di lui, che stentava a riconoscersi, incapace com’era di tenere a bada il tremore che lo scuoteva da capo a piedi. Forse Fabrizio aveva ragione: era in ansia per sua sorella, avrebbe desiderato per lei le cure migliori e si era spaventato nel percepire il turbamento nelle mani di colui al quale l’aveva affidata. Un altro medico, un collega, gli avrebbe tolto quel macigno enorme che gli gravava sulla coscienza, quella responsabilità spropositata che lo faceva tremare come una foglia: si sarebbe potuto mettere in disparte ad osservare, si sarebbe potuto abbandonare alla sua angoscia, alle speranze, ai rimorsi, senza dover per forza restare impassibile, razionale, freddo, mentre la donna che amava rischiava la vita. Sarebbe stato tutto più facile, si disse.
- Oh sì che importa! Manda Angelo a cercare il medico più vicino. Subito! – la voce concitata di Fabrizio squarciò il flusso dei suoi pensieri. No, non poteva permettere che un estraneo si avvicinasse ad Anna, non poteva lasciarla nelle mani del primo venuto, foss’anche un esimio collega, titolato e accademico. No. Era fuori discussione questo. Non si fidava di nessuno, non avrebbe rimesso nelle mani di nessun altro la vita della donna che amava. Spettava a lui questo compito, questa responsabilità. A lui solo. E se la sarebbe assunta fino in fondo, non si sarebbe sottratto.
- No! – gridò rialzandosi di scatto dalla sedia, i capelli scomposti, lo sguardo tanto alterato da far spavento. – Andatevene tutti! – aggiunse poi a voce alta. Elisa e Fabrizio lo guardavano sbigottiti, sorpresi da quella sua reazione. – Mi avete sentito? Fuori! – Fabrizio cercò di obiettare qualcosa, ma venne investito da quel suo inconsueto furore. – Lasciatemi solo con lei! Andatevene fuori! Tutti! – aggiunse rivolto alla povera Amelia, che raccattò in fretta il rosario e tra un Pater e un Salve regina per prima sgattaiolò barcollando fuori dalla stanza. Fabrizio non voleva desistere, ma lo sguardo dell’amico non lasciava adito a repliche. Con le mani alzate in segno di resa, si avviò alla porta, non del tutto convinto, chiedendosi ancora in cuor suo se fosse il caso di chiamare davvero un altro medico, un po’ più equilibrato, un po’ meno turbato. Solo Elisa si attardò. Volle, prima di uscire, avvicinarsi ad Antonio. Lei che sapeva tutto, lei che conosceva i reali motivi per cui quell’operazione gli costasse così tanta fatica, lei che era a conoscenza del perché del suo tremore, che aveva chiare le sue ansie, le sue paure.
- Sei proprio sicuro, Antonio, di farcela da solo? – gli sussurrò a voce bassa per non farsi sentire da Fabrizio.
Il medico, ancora scosso per quel suo gesto di stizza di poco prima, non le rispose, ma le diede ad intendere di aver capito i suoi dubbi e con un rapido cenno del capo la rassicurò circa la sua intenzione di andare avanti da solo. La giovane comprese questa muta risposta e, dopo un leggero buffetto di incoraggiamento sulla sua spalla, se ne uscì dalla stanza.
Finalmente solo, Antonio si inginocchiò accanto al letto: - Non ti lascio, Anna. Mi occuperò io di te, non ti lascerò nelle mani di nessun altro. E ti giuro che presto riaprirai gli occhi e di questa faccenda ci dimenticheremo. – le baciò una mano con devozione, poi, calmatosi un po’, riprese il lavoro interrotto. Tamponò, lavò, suturò la ferita, le passò insistentemente un panno bagnato sulla fronte, per alleviare la febbre che l’infezione aveva causato e, infine, distrutto, si abbandonò sulla sedia accanto a lei. Il fuoco del camino alle sue spalle gli asciugava la camicia ed i capelli, mentre fuori la pioggia continuava a scrosciare indefessa.
-E’ colpa mia, non avrei mai dovuto lasciarti andare questa mattina. Perdonami, ho sbagliato anche questa volta. Lo so, sbaglio sempre con te. Ma non puoi farmi questo, non puoi punirmi così! Ti amo, Anna, non mi puoi abbandonare proprio ora che ci siamo ritrovati!  – le parlava con voce rotta, esausto, angosciato, spaventato, per nulla sicuro del potere della sua medicina, in cui tanto aveva creduto. – Non lo farai, ne sono certo: me l’hai promesso. E tu non sei come me, tu le promesse le mantieni. Non è così, amore mio?-  Ma Anna sembrava non sentirlo, restava impassibile, persa in chissà quali angoli remoti.
Si era ormai nel cuore della notte, la candela sul comodino lanciava gli ultimi suoi bagliori prima di spegnersi del tutto, ma il fuoco del camino continuava a riscaldare e rischiarare le speranze di Antonio, la tenace lotta di Anna. Il pendolo a muro scoccò le tre. Da ore più nessuno aveva osato entrare nella stanza o anche soltanto bussare. C’erano solo loro due, nessun altro, nessuna barriera, nessun vincolo, nessun ostacolo sociale o familiare che si interponesse tra loro. Antonio l’accarezzava, le parlava, le confessava tutto quel che mai era riuscito a dirle prima, vuoi per orgoglio, vuoi per paura. Un momento di intimità, di comunicazione immediata e spontanea. Se solo i suoi occhi si fossero aperti…
Antonio era sfinito. Sfinito da quella interminabile giornata, dall’angoscia per Anna, da quell’operazione che gli era sembrata senza fine, dalle botte, dal sonno, dal freddo e dalla pioggia che gli aveva impregnato i vestiti, dall’accesa discussione che aveva ingaggiato con Fabrizio, da tutti i suoi dubbi, i suoi rimorsi e i suoi pensieri. Si assopì, la testa appoggiata al bordo del letto, la mano che nel sonno stringeva saldamente, disperatamente quella di Anna. Nella stanza solo il crepitare del fuoco, il rumore della pioggia battente e i loro respiri. La notte si incamminava verso l’alba.
Un sogno, piacevole, bello, di una giornata di sole nei giardini della tenuta. Di una giornata di primavera di tanti anni prima. I fiori nelle aiuole, le siepi curate, una giovane donna in abito chiaro che attende sul piazzale davanti all’ingresso. Bella, elegante, sembra in attesa di qualcuno o di qualcosa, di qualche notizia. Si guarda attorno, ansiosa ma contenta, fiduciosa. Lui la scorge avvicinandosi a cavallo, la riconosce, un ampio sorriso gli si stampa in viso. Tira le briglie per fermarsi sul piazzale, a pochi metri da lei. Con un agile salto scende di sella, impaziente. Lei gli sorride il sorriso di una giovane innamorata, poi gli corre incontro piena di speranza.
- Antonio! – lo chiama per nome avvicinandosi – Non darti pena per mio padre, acconsentirà sicuramente- aggiunge con un sorriso rassicurante. Gli porge poi la mano affinché lui gliela baci.
- Anche se non dovesse acconsentire, ciò non mi impedirà di tener fede alla promessa. Ti sposerò lo stesso, Anna, perché non potrei mai amare nessun’altra, se non te. – risponde lui fissandola con quei raggianti occhi azzurri. La giovane risponde al sorriso, illuminandosi di gioia e stringendogli la mano che teneva la sua. Ah se le cose fossero andate così! Ma solo nei sogni si può tornare indietro e cambiare il corso degli eventi. O forse no?
Una stretta. Una stretta di mano simile a quella riservatagli dalla giovane in sogno. Una stretta tanto leggera, quasi impercettibile, una stretta che non lo risvegliò del tutto dal suo sogno. Una stretta che però riaccese in lui la speranza. Ma la stanchezza era troppa, il sogno troppo bello per poterlo abbandonare proprio in quel momento: il sonno si riappropriò di lui. Ma qualcosa lo voleva richiamare a tutti i costi alla realtà, lo voleva risvegliare dalle sue fantasticherie. Sentì una mano accarezzargli i capelli. Questo non c’era nel sogno. Che stava succedendo? Si riscosse sotto quelle carezze tanto desiderate. Intrappolò quella mano nelle sue. E quando riaprì gli occhi, la gioia del suo sguardo fu inesprimibile.
-Anna! Ti sei svegliata! – esclamò alzandosi della sedia per inginocchiarsi vicino al viso di lei, per fissare finalmente i suoi occhi, senza mollarle la mano, che continuava a custodire gelosamente nelle proprie. Gli occhi che brillavano, la voce rotta dalla commozione, il sorriso stampato in volto. La stanchezza, la paura, i dolori dei colpi che cos’erano in quel momento? Nulla.
- Come ti senti? – le chiese.
- Sto bene - gli rispose di rimando Anna, con un debole sorriso. Poi aggiunse: - Sto bene perché non avrei voluto vedere altri che te. E tu sei qui. –
- Ma la ferita? Ti fa male? Riesci a ricordare quel che è successo? – emerse la preoccupazione del medico per la salute della sua paziente. Ma Anna non accennava a dare una risposta a quelle domande, si limitava a guardarlo con immutato amore, sorridendo. Questo atteggiamento, che deliziava l’uomo innamorato, non bastava però al medico che restava perplesso, non del tutto sollevato.
- Ma mi riconosci, quindi? Ti ricordi qual è il mio nome? – insistette, apprensivo, per accertarsi che le facoltà della memoria non fossero state danneggiate dal colpo.
- E come potrei mai dimenticarlo, Antonio? – disse, scandendo a voce più alta quel nome che tanti significati portava con sé, quasi infastidita dal fatto che lui la credesse priva di memoria, incapace di intendere. E soprattutto dal fatto che potesse pensare che, anche solo per un attimo, si fosse scordata del suo nome. Poi, liberata la mano dalla stretta di lui, gli accarezzò i capelli, lo strinse a sé e, seppur con grande sforzo, si sollevò sui gomiti per imprimergli un bacio sulle labbra. – Io ti amo, Antonio, non potrei mai dimenticarmi di te. Mai. – chiarì poi, baciandolo di nuovo.  – E poi, hai visto? Ho mantenuto la promessa. –
- Quale promessa? – era lui, in realtà, ad essere in preda a un’amnesia, la guardò smarrito.
- La promessa che ti ho fatto questa mattina.- rispose gettandogli le braccia la collo, lui la strinse sé ricordandosi in quel momento delle parole che gli aveva rivolto congedandosi. Anna proseguì: -  Come vedi, sono tornata da te! –
- Non ne ho mai dubitato, neppure per un istante…- le assicurò lui, la fronte appoggiata alla sua, accarezzandole una guancia e lasciando i suoi occhi perdersi in quelli di lei. Non riusciva più a staccare lo sguardo da quegli splendidi occhi finalmente dischiusi, luminosi e profondi come lo erano sempre stati. Forse appena velati dall’affanno appena passato, dalla commozione di quei momenti, ma comunque stupendi. – Tu non sei come…- tentò di continuare Antonio, ma quelle parole vennero interrotte da un bacio appassionato, quasi folle, come folli d’amore erano forse quei due in quel momento. Staccandosi un istante da lui per riprendere fiato da quel turbinio di emozioni, Anna soggiunse, come a voler suggellare una volta per tutte quella promessa d’eterno amore:
- E, accada quel che accada, non temere, amore mio: da te tornerò sempre –

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