Amore

di xX__Eli_Sev__Xx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'accordo ***
Capitolo 2: *** Solo per Sherlock ***
Capitolo 3: *** Sospetto ***
Capitolo 4: *** Punto di rottura ***
Capitolo 5: *** Crollo ***
Capitolo 6: *** Frammenti ***
Capitolo 7: *** Scelte e conseguenze ***
Capitolo 8: *** Per Sherlock e John ***
Capitolo 9: *** Spirale di violenze ***
Capitolo 10: *** Appledore ***
Capitolo 11: *** Infranto ***
Capitolo 12: *** Valzer per Sherlock e John ***



Capitolo 1
*** L'accordo ***


Amore
 
Bitterness is a paralytic.
Love is a much more vicious motivator.
Sherlock Holmes – A Study in Pink
 
 
Capitolo I
L’accordo
 
 Mycroft era chiuso nel suo ufficio da ore.
 Poco prima aveva ricevuto un messaggio di John che lo informava del fatto che qualcuno avesse sparato a Sherlock mentre erano nell’ufficio di Magnussen per delle indagini.
 Inizialmente il politico aveva creduto che fosse uno scherzo. Solo il giorno prima aveva raccomandato a suo fratello di stare fuori dalla faccenda di Magnussen, sapendo quanto quel gioco sarebbe stato pericoloso e quanto gli sarebbe costato, eppure Sherlock aveva deciso di fare di testa sua. E non solo non gli aveva dato ascolto, ma aveva anche violato il domicilio di uno degli uomini più potenti del Regno Unito.
 Holmes si portò le mani al viso, massaggiandosi gli occhi.
 Come aveva potuto credere di poter fare affidamento sul buon senso di suo fratello? Sapeva che Sherlock era troppo curioso e spericolato, e che si sarebbe fatto coinvolgere facilmente da un caso così spinoso. Non avrebbe dovuto limitarsi a un semplice avvertimento. Avrebbe dovuto impedirgli di indagare, fermarlo, tentando di mettergli i bastoni fra le ruote, fare tutto ciò che era in suo potere per proteggerlo e impedire che si mettesse nei guai, rischiando la sua carriera, la sua libertà e la sua vita. Ma non l’aveva fatto. E un proiettile nel petto era stata la conseguenza del suo sottovalutare una persona imprevedibile come Sherlock Holmes.
 La porta del suo ufficio si spalancò di colpo.
 Mycroft sollevò il capo, pronto a cacciare chiunque fosse entrato, ma quando vide la figura alta e allampanata ferma sulla soglia, si bloccò. La osservò per qualche secondo e si impose di rimanere impassibile.
 «Signor Magnussen» disse infine, a mo’ di saluto.
 Magnussen non si disturbò a ricambiare il saluto. Varcò la soglia e si richiuse la porta alle spalle; poi avanzò e prese posto sulla sedia di fronte alla scrivania, osservando Mycroft con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.
 Mycroft rimasi impassibile. In attesa. Sapeva che Magnussen era lì perché era presente quando Sherlock era entrato nel suo ufficio e sapeva che la sua presenza nel suo ufficio, non poteva che significare guai.
 Magnussen sospirò e accavallò le gambe. «La scorsa notte suo fratello si è introdotto nel mio ufficio con l’intento di sottrarmi dei documenti appartenenti a Lady Elizabeth Smallwood.» esordì. «Ma penso che lei questo lo sappia già.»
 Il politico deglutì a vuoto. «Sono desolato per quello che è successo, signor Magnussen-»
 L’uomo sollevò una mano. «Tuttavia, se non fosse stato per lui, la persona che ha sparato a Sherlock Holmes, che era lì per uccidermi, sarebbe riuscita nel suo intento.» fece notare con un sorriso beffardo a increspargli le labbra.
 Mycroft non poté fare a meno di notare quanto vuoti e freddi sembrassero i suoi occhi in quel momento. Peggiori di quelli di Moriarty, che per lo meno, in alcuni momenti, sembravano trasmettere odio, o rabbia.
 Ma Magnussen non era come James Moriarty.
 Oh, no.
 Magnussen era molto peggio.
 Più pericoloso.
 Più agguerrito.
 Più subdolo.
 «Capisce però, che nonostante questo, non posso ignorare il fatto che suo fratello abbia violato il mio domicilio. Soprattutto considerando che l’ha fatto con l’intento di derubarmi e incastrarmi con la polizia.» proseguì Magnussen, in tono freddo e pacato, quasi distaccato.
 «Per questo è qui?» domandò Mycroft a quel punto. «Perché si aspetta che consegni mio fratello alla polizia?»
 «Oh, no.» replicò l’altro. «So che non lo farebbe mai, signor Holmes. So quanto lei tenga a suo fratello, anche se tenta così ferventemente di non darlo a vedere.» abbassò lo sguardo sulle mani di Mycroft e sollevò l’angolo delle labbra. Poi tornò a incrociare lo sguardo del maggiore degli Holmes. «Sono qui per proporle un accordo.»
 Un brivido serpeggiò lungo la spina dorsale di Mycroft.
 «Può lasciare che io prenda suo fratello e faccia di lui ciò che preferisco, o può consegnarsi lei al suo posto.» dichiarò Magnussen.
 Il politico sentì una stretta al cuore. Ciò che più temeva si era appena realizzato sotto i suoi occhi. Chiuse gli occhi ed esalò un lungo respiro, abbassando lo sguardo.
 «Non è costretto a consegnarsi, signor Holmes.» aggiunse l’altro, notando la sua esitazione. «In ogni caso, preferisco i ragazzi più giovani.» concluse con un sorriso carico di malizia.
 Lo stava mettendo alla prova, pensò Mycroft. Stava testando i suoi limiti, per capire quanto fosse disposto a perdere – e a dare – per la salvezza di Sherlock.
 Un moto di nausea lo invase al pensiero di ciò che Magnussen avrebbe potuto fare se solo avesse avuto suo fratello nelle sue mani.
 «Non osi toccare mio fratello.» ringhiò.
 Magnussen sollevò un sopracciglio. «Quindi accetta di consegnarsi a me.»
 Il politico rimase impassibile.
 Avrebbe tanto voluto trovare un altro modo. Un modo per uscire illesi da quella situazione, senza dover sacrificare ogni cosa per la loro salvezza. Ma non c’era.
 Magnussen avrebbe avuto uno di loro in ogni caso.
 E Mycroft non poteva permettere che fosse Sherlock. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere suo fratello. Qualsiasi. Anche se gli fosse costata la libertà e la dignità.
 Perché Sherlock era più importante di qualsiasi cosa.
 «Credo che lei sappia che non sono propenso a gesti di bontà, signor Holmes.» proseguì Magnussen. «Quindi se vuole che io stia il più lontano possibile da suo fratello, dovrà consegnarsi a me. Alle mie condizioni.» concluse. «Se non lo farà, andrò a cercare Sherlock. E pregusto già il momento in cui l’avrò fra le mie mani, alla mia mercé.»
 Mycroft strinse i pugni. «Avrà me.» disse.
 Magnussen sorrise. «Molto bene.» concluse, poi si mise in piedi. «La aspetto a casa mia domani sera.» aggiunse, abbottonandosi la giacca. «Confido che rispetterà l’accordo. Per il bene di suo fratello.» e detto questo uscì.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! :)
Rieccomi qui con un’altra storia molto molto angst. ^.^” Che novità, direte voi.
Lo so, sto ancora finendo di pubblicare For darkness shows the stars, ma avevo questa storia in cantiere da parecchio tempo e adesso che è pronta, ho deciso di buttarmi e cominciare a pubblicarla, prima di dimenticare di averla scritta! xD
Quello che dovete sapere prima di andare avanti con la lettura è che nonostante il rating sia arancione, le tematiche di cui tratta questa storia sono molto delicate. Le scene non verranno descritte nei particolari, perché essendo appunto scene e tematiche delicate, non mi sono azzardata a descriverle, dato che non credo che ne sarei in grado. Credo che serva una particolare sensibilità e capacità per farlo e non volevo risultare superficiale facendolo, magari mancando di rispetto a qualcuno con la mia storia.
Poiché non ci sono scene esplicite, non ho pensato di inserirlo negli avvertimenti, ma se qualcuno leggendo dovesse accorgersi che è il caso che io lo faccia, si senta pure libero di farmelo sapere in ogni momento ;) gliene sarei davvero grata.
Questa è solo una brevissima introduzione, perciò pubbicherò il seguito già lunedì. :)

Bene, non mi dilungherò oltre, dato che sono già stata abbastanza logorroica così xD
A lunedì con il prossimo capitolo… ;)
Eli♥    

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Capitolo 2
*** Solo per Sherlock ***


Amore
 

Capitolo II
Solo per Sherlock

 
 
 La sera seguente, come promesso, Mycroft si fece accompagnare dal suo autista fino ad Appledore. Gli ordinò di tornare a casa e gli fece sapere che lo avrebbe chiamato se ne avesse avuto bisogno. Poi scese dall’auto e si richiuse la portiera alle spalle.
 L’aria primaverile gli rinfrescò il viso, bollente per la paura e l’angoscia per ciò che di lì a poco sarebbe capitato.
 Sapeva che se fosse andato da Magnussen avrebbe subito cose terribili, ma sapeva anche che se non lo avesse fatto, Magnussen sarebbe andato a cercare Sherlock e lo avrebbe torturato e costretto a fare cose ancora peggiori.
 Perciò non aveva altra scelta.
 Attraversò il vialetto camminando lentamente, le gambe sempre più pesanti, come se il sangue si fosse tramutato in piombo e stesse tentando di trattenerlo dal proseguire oltre. Il suo cuore accelerò così tanto che prese a rimbombargli nelle orecchie con tanta forza da rendere tutto ciò che aveva intorno indefinito e nebuloso.
 Mycroft fece un respiro profondo e si impose di resistere.
 Per Sherlock, continuava a ripetersi. Per Sherlock.
 Quando bussò alla porta della villa, sperò di trovarsi in un incubo. Forse era tutto un brutto sogno e ben presto si sarebbe svegliato. Forse niente era reale e sarebbe tornato alla realtà, tornando alla sua vita e alle sue abitudini.
 Poi la porta si spalancò di colpo, riportandolo bruscamente alla realtà.
 Un uomo comparve sulla soglia. Non gli diede il tempo di parlare. «La sta aspettando in salotto.» sbottò con voce roca. Poi si scostò per lasciarlo entrare.
 Mycroft mosse un passo all’interno e quando l’uomo ebbe richiuso la porta, lo seguì verso l’enorme salone, le cui immense vetrate si affacciavano sull’esterno della casa.
 La stanza era spoglia. C’era un divano al centro, un tavolino da caffè di fronte ad esso, un camino e alcune piante verdi, l’unico tocco di colore in quell’immensa macchia bianca.
 Magnussen lo stava attendendo in piedi accanto alla finestra, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo puntato verso l’esterno. Quando sentì i loro passi alle sue spalle, si voltò.
 «Signor Holmes.» disse quando lo vide. «Benvenuto.»
 Mycroft rimase impassibile, immobile sulla soglia.
 «Può andare, Malcolm. Ha la serata libera.» disse Magnussen, muovendo qualche passo verso il politico e volgendosi verso l’uomo in smoking.
 «Sì, signore.» replicò lui e si congedò.
 Magnussen sorrise e quando sentì la porta d’ingresso sbattere, tornò ad osservare il maggiore degli Holmes, rivolgendogli un sorriso accennato e carico di malizia, gli occhi vuoti e spenti come sempre, esattamente come quelli di un predatore pronto ad attaccare la sua preda.
 «Avanti, si sieda.» lo incalzò, indicando il divano, senza mai interrompere il contatto visivo.
 Mycroft non si mosse. Si limitò ad osservarlo, lo stomaco in subbuglio, la mente che lavorava freneticamente per riuscire a prevedere le sue mosse. Col tempo aveva imparato che tutto ciò che Magnussen faceva era stato attentamente calcolato. Ogni sua mossa era una strategia messa in atto per raggiungere i suoi scopi, e, anche il quel caso, Mycroft sapeva di non essere altro che una pedina nelle sua mani. Una pedina che sarebbe stata gettata via una volta che il gioco fosse finito.
 «Non può rimanere in piedi.» aggiunse Magnussen, riportandolo alla realtà. Poi, vedendo che il politico non accennava a rispondergli, riprese. «Avanti, non faccia così.»
 «Risparmi i convenevoli.» sibilò Mycroft, parlando duramente, avendo ritrovato la fermezza nella sua voce. «Vada al dunque e mi dica che cosa vuole.»
 Magnussen sorrise e avanzò ancora, fermandosi a pochi passi dal politico. «Voglio lei.»
 Mycroft sentì un brivido serpeggiare lungo la sua schiena dorsale.
 Sapeva che sarebbe andata così. Sapeva che Magnussen avrebbe tentato di distruggerlo pezzo per pezzo. Perché era il suo modus operandi… Sfruttare, distruggere e gettare via.
 Magnussen sollevò una mano e tentò di sfiorare il viso di Mycroft, che si scostò.
 «Devo ricordarle il nostro patto?» chiese l’uomo. «Forse dovrei informarla del fatto che in questo momento tre dei miei uomini si trovano di fronte a Baker Street in attesa di un mio ordine. Basterà una sola parola e faranno irruzione per occuparsi del suo caro fratellino. E mi creda, signor Holmes, non sarebbero gentili quanto io lo sarei con lei.»
 Holmes, a quelle parole, si voltò di scatto e incontrò i suoi occhi.
 Quello non era un bluff. Magnussen non bluffava mai. Lui aveva i mezzi e le possibilità per mettere chiunque con le spalle al muro. Anche Mycroft Holmes. E per farlo aveva scelto di utilizzare Sherlock. L’unico punto debole che lui avesse mai avuto.
 «Stia lontano da Sherlock.» disse soltanto, quando ebbe ritrovato la forza di parlare. «Farò quello che vorrà, ma stia lontano da mio fratello.»
 Magnussen non rispose. Si limitò ad osservarlo.
 Mycroft intuì cosa l’uomo stesse aspettando. «La prego.» mormorò. «La imploro. Lasci in pace Sherlock.»
 L’altro sorrise. «Lo farò.» affermò. «Se lei starà alle mie condizioni.»
 Il politico esitò, poi abbassò lo sguardo. Alla fine annuì, sapendo che non avrebbe potuto fare altrimenti.
 «Molto bene.» sussurrò Magnussen, con voce roca e profonda. Si avvicinò ancora a Holmes e studiò il suo viso, percorrendone ogni centimetro con gli occhi. Poi avvicinò il suo volto a quello di lui e sfiorò le sue labbra con le proprie.
 Mycroft, nonostante avesse tentato di trattenersi, gemette. Tuttavia non si scostò. Non poteva. Non sapendo quanto Sherlock avrebbe rischiato.
 La mano di Magnussen salì fino alla sua nuca, bloccandolo in modo che non potesse allontanarsi. Quando allontanò la bocca da quella dell’altro, sorrise.
 «Si ricordi il nostro patto, signor Holmes.» soffiò sulle sue labbra, sfiorandole con la lingua. «Lo sta facendo per suo fratello.»
 Il politico si impose di resistere, allontanando la sua mente da tutto ciò che stava accadendo. Era solo trasporto. Solo sentimenti. Doveva solo rimanere distaccato e tutto sarebbe finito.
 E in fondo Magnussen aveva ragione: lo stava facendo per Sherlock, per risparmiargli un’umiliazione del genere e la violenza di quell’uomo disgustoso, che gli sarebbero costate la dignità e la libertà.
 Per Sherlock.
 Solo per Sherlock.
 Le mani di Magnussen lo riportarono alla realtà.
 L’uomo le mosse sul suo petto, sfilandogli la giacca e lasciandola cadere a terra. Poi lo spinse verso il divano. Lo fece sdraiare e si posizionò sopra di lui; sollevò le braccia di Holmes sopra il suo capo e le bloccò sul divano, stringendo le dita intorno ai suoi polsi e facendo pressione, in modo che Mycroft non potesse muoversi.
 Quando si allontanò, i loro sguardi si incontrarono.
 «Il grande e potente Mycroft Holmes nelle mie mani…» disse, sbeffeggiandolo. «Se suo fratello potesse vederla adesso… chissà se la guarderebbe ancora con gli stessi occhi.» gli sfiorò le labbra con le dita. «Sa, nonostante non voglia darlo a vedere, Sherlock prova una profonda stima nei suoi confronti. Tiene davvero molto a lei. Ma dopo questo…» si leccò le labbra, famelico. «Forse è meglio che nessuno lo venga a sapere. Non crede, signor Holmes?» si chinò in avanti e soffiò quelle parole sulla sua bocca, scendendo a baciargli il collo, mordendo e succhiando la sua pelle.
 Il corpo di Mycroft tremò sotto quello di Magnussen, nonostante il politico si stesse imponendo di rimanere distaccato. Eppure la sua mente continuava a tornare lì, nonostante i molteplici tentativi di allontanarla…
 Perché non riusciva a chiudersi fuori da tutto ciò che stava accadendo?
 «Oh, no…» lo canzonò Magnussen. «Non vorrà dirmi che ha paura?» chiese, tornando a guadarlo negli occhi.
 Mycroft non rispose. Volse lo sguardo, imponendosi di mantenere calma e contegno. Non poteva permettersi di cedere. Non di fronte a Magnussen.
 Magnussen rise e lo fece voltare verso di sé, stringendo il suo volto con due dita. «Non si preoccupi, signor Holmes.» mormorò sulle sue labbra, stuzzicandole con la lingua e con i denti. «Si lasci andare.» concluse, e prese a sbottonargli la camicia.
 
 Due ore dopo, Mycroft uscì da Appledore.
 L’aria fresca e pungente della notte lo colpì in pieno viso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Rabbrividì e si strinse maggiormente nella giacca, scendendo velocemente le scale.
 Nonostante il dolore agli arti e al petto si impose di resistere e continuare a camminare. Doveva uscire di lì e andarsene da quella maledetta casa. Perciò attraversò il vialetto camminando velocemente e raggiunse il cancello.
 Il suo autista – che aveva chiamato qualche minuto prima – aveva già accostato accanto al marciapiede, pronto a scortarlo fino a casa. Mycroft aprì la portiera e salì, prendendo posto sui sedili posteriori. Chiuse la porta e affondò la schiena nel sedile, sospirando di sollievo.
 Finalmente era finita. Era al sicuro, lontano da quell’uomo disgustoso.
 L’autista si voltò. «Va tutto bene, signore?» chiese, cordiale.
 «Sì.» rispose Mycroft, sbrigativo. «Mi porti a casa.»
 L’uomo annuì e si voltò. «Certo, signore.» disse e partì.
 
 Non appena ebbe varcato la soglia di casa, Mycroft raggiunse velocemente il bagno al piano di sopra, senza nemmeno sfilarsi il cappotto o le scarpe.
 Una volta dentro, si chiuse la porta alle spalle, girando la chiave, e si tolse velocemente i vestiti, gettandoli a terra, infischiandosene del fatto che avrebbe potuto rovinarli. In ogni caso, dopo quella notte, li avrebbe buttati. Non voleva indossare nulla che Magnussen avesse anche solo sfiorato o toccato con lo sguardo.
 Sollevò gli occhi e incontrò il proprio sguardo nello specchio.
 Lo abbassò immediatamente, prendendosi un momento per osservarsi.
 Magnussen aveva prestato attenzione a non marchiarlo in modo visibile, in modo da non destare sospetti. Tuttavia la sua pelle, prima pallida e perfetta, era adesso coperta di lividi violacei e neri, sulle braccia, sulle gambe e sul petto. E accanto a quei lividi, c’erano abrasioni e ferite rosso cremisi di ogni tipo, lasciate dalle unghie di Magnussen e dal coltello che aveva utilizzato per rendere il tutto più divertente, a detta sua.
 Tutti segni che probabilmente sarebbe stati indelebili. 
 Mycroft chiuse gli occhi.
 Non voleva ripensare a ciò che era successo. Non poteva.
 Perciò entrò nella doccia. Aprì l’acqua e il getto bollente lo colpì con violenza sulla schiena – ferita anch’essa – facendolo ansimare e togliendogli il fiato per qualche secondo quando entrò in contatto con le ferite ancora aperte.
 Inspirò profondamente, stringendo i denti, e prese una spugna.
 Cominciò a strofinare braccia, petto e gambe, tentando di lavare via il sangue che li macchiava e sperando di ripulire ogni angolo di pelle che Magnussen aveva sfiorato. Ogni centimetro che era stato toccato dalle labbra e dalle mani di quell’uomo spregevole e disgustoso.
 Strofinò, strofinò e strofinò ancora, con violenza e rabbia, e nonostante ciò, la sensazione di essere sporco non sembrava volerlo abbandonare. Perché in fondo si sentiva sporco dentro, nel profondo. E niente avrebbe potuto cancellare quella sensazione.
 Lasciò cadere la spugna e si strinse nelle spalle, sfregando le braccia con le mani, affondando le unghie nella pelle – sentendo il sangue fluire dalle ferite vecchie e nuove, colando lungo le braccia – sperando di scacciare quella disgustosa sensazione che si portava addosso da quando aveva lasciato Appledore.
 Le immagini di ciò che era successo quella notte esplosero nella sua mente con violenza, scorrendo in frammenti sconnessi e privi di senso.
 Mycroft poggiò le mani contro la parete e chiuse gli occhi, tentando di controllare i suoi respiri, che si erano fatti sempre più affannosi e rotti.
 Le labbra di Magnussen che lo baciavano.
 Le sue mani che percorrevano il suo corpo.
 Il suo corpo sopra il proprio.
 Mycroft gemette e si accasciò a terra; le sue ginocchia cozzarono contro il piatto della doccia con violenza, producendo un rumore secco, surclassato soltanto da quello dell’acqua che continuava a scorrere colpendolo sulle spalle e sulla schiena.
 La sua mente era sovraccaricata da un groviglio di ricordi e frammenti di immagini sconnesse che si confondevano fra loro rendendo tutto indefinito e nebuloso, facendola tremare sotto il peso di ciò che stava provando.
 Ogni emozione sembrava amplificata.
 Paura.
 Dolore.
 Rabbia.
 Disgusto.
 Perché faceva così male?
 Mycroft si portò le mani alle orecchie, rannicchiandosi su sé stesso.
 Le lacrime gli rigarono le guance e lui prese a singhiozzare convulsamente. Ansiti e singhiozzi si mescolarono, rimbombando tra le pareti del bagno, mentre il corpo del politico tremava sotto il peso di tutta quella sofferenza.
 Mycroft circondò le ginocchia con le braccia e vi poggiò sopra il capo, continuando a singhiozzare a lungo, fino a che non ebbe più lacrime da versare.
 
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Rieccomi qui, come promesso, con il secondo capitolo della mia ff :)
La storia si sta sviluppando e, come vi avevo anticipando, le cose si stanno facendo molto più complicate e decisamente più delicate e dure.
Spero che nonostante il tema la storia vi piaccia e che continuerete a leggere e magari a lasciare qualche commento ;)
A mercoledì con il prossimo :)
Bacioni, Eli♥
 

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Capitolo 3
*** Sospetto ***


Amore
 

Capitolo III
Sospetto

 
 
 Il grande e potente Mycroft Holmes nelle mie mani.
 Se suo fratello potesse vederla adesso…
 Chissà se la guarderebbe ancora con gli stessi occhi.
 Sherlock prova una profonda stima nei suoi confronti.
 Tiene davvero molto a lei.
 Ma dopo questo…
 
 «Signor Holmes?»
 La voce calma e pacata di Anthea lo riportò alla realtà.
 Mycroft sollevò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia, il respiro accelerato, il cuore che batteva a mille.
 Capì immediatamente di trovarsi nel suo ufficio, seduto alla sua scrivania, ma…
 Come ci era arrivato? E perché era lì?
 Abbassò lo sguardo, poggiando la schiena alla sedia, tentando di riordinare le idee.
 Lavoro, si disse immediatamente.
 Doveva lavorare. E lavorare era l’unico modo per non pensare a ciò che era successo.
 Sentiva la testa dolere per le troppe lacrime che aveva versato la notte precedente e sentiva dolore ovunque. Alle braccia, al petto, alle gambe, alla testa… ovunque. Ma poco importava. Non poteva lasciar trapelare nulla.
 Perciò inspirò profondamente, poi riportò lo sguardo su Anthea, ancora in piedi di fronte alla scrivania.
 «Sì?» chiese, incrociando il suo sguardo.
 La donna gli porse un plico di cartelline gialle. «Sono arrivate questa mattina.» spiegò. «L’MI6 ha pensato che potessero interessarle. Gli ultimi casi che sono stati posti alla loro attenzione.»
 Mycroft annuì e le prese, poggiandole di fronte a sé. «Grazie.» mormorò, abbassando nuovamente lo sguardo, riordinando distrattamente dei fogli poggiati di fronte a sé e infilandoli in una cartellina verde, che poi ripose in un cassetto alla sua destra.
 «Va tutto bene, capo?» domandò la donna.
 Il politico annuì, senza incontrare il suo sguardo.
 «Com’è andato l’incontro con Magnussen?»
 Nel momento stesso in cui Anthea pronunciò il suo nome, Mycroft provò una stretta al cuore e percepì lo stomaco contorcersi dentro di lui. Un brivido serpeggiò lungo la sua spina dorsale al pensiero di ciò che aveva dovuto subire soltanto la notte precedente, il ricordo ancora vivido nella sua mente.
 «Bene.» rispose sbrigativo, tentando di nascondere il tremore nella voce e allontanando quelle immagini dai suoi pensieri.
 Anthea annuì. «Ha bisogno di qualcosa?»
 «No.» rispose lui, aprendo uno dei fascicoli, per non dover incrociare il suo sguardo. Poi, con un gesto della mano, la congedò. «Puoi andare.»
 Lei annuì e uscì, richiudendosi la porta alle spalle.
 Non appena rimase solo, Mycroft si prese il viso fra le mani e chiuse gli occhi. Un ansito lasciò le sue labbra e il suo corpo venne scosso da un brivido; una fitta di dolore gli attraversò le braccia e il petto, espandendosi lungo tutto il suo corpo.
 Quella notte non era riuscito a chiudere occhio. Era rimasto chiuso nella sua stanza, rannicchiato sul materasso in preda al dolore e alle lacrime, tormentato dalle immagini, ormai impresse a fuoco nella sua mente, di ciò che Magnussen gli aveva fatto.
 Perché non riusciva a distaccarsi dal dolore?
 Perché non riusciva più a controllare le sue emozioni?
 Non poteva permettersi di crollare.
 Non doveva crollare.
 E per farlo doveva allontanare quei pensieri dalla sua mente.
 Doveva rimanere distaccato dai sentimenti e da tutto ciò che lo circondava.
 Doveva tornare ad essere l’Uomo di Ghiaccio. 
 
 L’SMS di Magnussen arrivò qualche ora dopo, proprio mentre Mycroft stava uscendo dal lavoro, diretto verso casa dopo una lunga e infruttuosa giornata di lavoro.
 Non appena vide comparire il numero sullo schermo, un moto di nausea lo invase. Il messaggio recitava due semplici parole.
 
 La aspetto.
 
 Due semplici parole che gli fecero rivoltare lo stomaco, mandando in black-out totale la sua mente.
 Come aveva potuto credere che una volta sarebbe bastata?
 Come aveva potuto credere che Magnussen avrebbe lasciato in pace lui e Sherlock?
 Lui non si sarebbe accontentato di così poco.
 No… Magnussen avrebbe giocato con lui fino a distruggerlo, per poi aggiungerlo alla fila dei suoi trofei e gettarlo via come un giocattolo rotto.
 Ma almeno non avrebbe toccato Sherlock, si disse, tentando di convincersi che quella, in fondo, sarebbe stata la scelta migliore per proteggere suo fratello.
 Per Sherlock.
 Mycroft sospirò e ripose il cellulare in tasca, poi salì sulla sua auto.
 «La porto a casa, signore?» chiese l’autista, cercando il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
 «No.» replicò Mycroft, affondando la schiena nel sedile. «Appledore.»
 
 Dopo quella notte, Magnussen costrinse Mycroft ad andare da lui molto più spesso.
 Lo chiamava al lavoro e ad ogni ora del giorno e della notte, insistendo fino a che il politico non lo raggiungeva ad Appledore.
 E ogni volta, il gioco di faceva più violento.
 Oltre alle violenze fisiche e psicologiche, si erano aggiunte anche le torture vere e proprie. Magnussen utilizzava coltelli e sigarette, manette e altri attrezzi per poter procurare più dolore possibile a Mycroft, che doveva sottoporsi a quei giochi senza lamentarsi, sapendo che se l’avesse fatto, a pagarne le conseguenze sarebbe stato Sherlock.
 
 Dopo due mesi di soprusi ininterrotti, Mycroft riusciva a malapena a reggersi in piedi.
 Gli incubi lo tormentavano ogni notte impedendogli di chiudere occhio per riposare, alternandosi ad allucinazione uditive e visive di ogni genere, e a saltuari attacchi di panico.
 Il suo corpo era così provato da tutto ciò che aveva dovuto subire, che Mycroft provava dolore ad ogni movimento. Anche i movimenti più semplici come parlare o respirare erano diventati complicati. Inoltre rimanere accanto alle altre persone era diventato sempre più difficile, tanto che un qualsiasi contatto, anche il più semplice, scatenava in lui reazioni sempre peggiori. Dagli attacchi di panico alle crisi di pianto, da malori a svenimenti…
 Ciò che quell’uomo gli stava facendo, aveva sortito l’effetto desiderato: farlo crollare e sottometterlo completamente a lui, in modo che non si ribellasse e desistesse da ogni tentativo di fermarlo.
 E lui, stupidamente, aveva creduto di poter resistere. Di essere più forte dalla violenza e della pressione psicologica, di poter controllare il dolore e la paura, distaccandosi da esse, continuando pacificamente con la sua esistenza… Ma così non era stato. E Mycroft sarebbe crollato pezzo per pezzo, fino a che di lui non fosse rimasto più niente. 
 
 Quella notte Magnussen aveva esagerato.
 Era stato più violento e spietato delle altre volte. Aveva voluto fargli ancora più male, umiliandolo e togliendogli quel briciolo di dignità e forza che gli erano rimaste, e aveva voluto assicurarsi che ne portasse i segni.
 Ma Mycroft non poteva permettersi di portarsi addosso le prove di ciò aveva subito. Di ciò che aveva permesso a Magnussen di fare. Anche se sapeva che sarebbe stato quasi impossibile nasconderli.
 Quando salì in macchina, quella notte, ad attenderlo aveva trovato Anthea, che lo stava aspettando seduta sul sedile del passeggero.
 Mycroft tentò di non dare a vedere quanto dolore stesse provando, sperando che l’oscurità nascondesse lividi e ferite, e prese posto accanto a lei, rimanendo nel più completo silenzio, voltandosi per osservare il paesaggio fuori dal finestrino.
 Come ogni notte, il suo autista partì senza fare domande, diretto verso casa.
 «Ha bisogno di un medico.» affermò Anthea, in tono piatto e distaccato.
 Era un’affermazione, non una domanda, segno che anche lei aveva notato il suo strano comportamento nell’ultimo periodo e che probabilmente – dopo aver saputo dall’autista che Mycroft si receva ad Appledore quasi tutte le notti – sapeva cosa stava succedendo.
 Mycroft chiuse gli occhi e strinse i pugni. «No.» replicò con voce straordinariamente ferma, nonostante le lacrime che stavano minacciando di rigargli le guance.
 Ma perché non riusciva più a controllarsi?
 «Potrebbe denunciarlo, se solo volesse.» aggiunse la donna.
 «Ma non voglio.» disse il politico, senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
 Anthea rimase in silenzio per qualche secondo. Poi sospirò. «Perché lo sta facendo?»
 «Perché non ho altra scelta.»
 «Se ne parlasse con suo fratello, forse potreste-»
 Mycroft la interruppe. «Ti stai prendendo troppe libertà.»
 «Sto svolgendo il mio lavoro.»
 «Non sei pagata per farmi da balia, ma per farmi da segretaria.» le ricordò Mycroft, voltandosi verso di lei, infischiandosene del fatto che avrebbe notato le ferite sul suo volto, che nemmeno lo strato di barba rossiccia riusciva più a nascondere. «Quindi vedi di stare al tuo posto.» l’auto si fermò e Mycroft aprì la portiera, pronto a scendere. Si voltò «E sappi che se dovessi scoprire che qualcuno è venuto a sapere qualcosa riguardo questa storia, ti ritroveresti senza lavoro.» e detto questo, scese dalla macchina.
 
 Il giorno dopo, nel pomeriggio, Mycroft raggiunse Baker Street per parlare con suo fratello riguardo Magnussen e costringerlo una volta per tutte a stargli lontano, considerato che dopo la sparatoria di due mesi prima nel suo ufficio, Sherlock aveva continuato ad indagare su di lui.
 E ovviamente questo a Magnussen non era sfuggito, tanto che i loro incontri si erano fatti sempre più violenti e difficili da sopportare per lui. Perciò era arrivato il momento di mettere un freno alle indagini di Sherlock, che non avrebbero fatto altro che peggiorare ancora di più la situazione.
 Sherlock era in salotto e stava componendo, in piedi di fronte alla finestra, e non appena Mycroft ebbe varcato la soglia, si bloccò, smettendo di suonare improvvisamente.
 «John?» chiese.
 Ed ecco il primo passo falso.
 A dimostrazione del fatto che i segni che Magnussen aveva lasciato sul suo corpo fossero sempre più visibili, c’era il fatto che Sherlock avesse scambiato il suo passo trascinato e leggermente zoppicante per quello di John, cosa mai accaduta prima di allora.
 Mycroft si impose di mantenere la calma.
 Non doveva far trapelare nulla. Non doveva dare l’impressione che qualcosa non andasse, altrimenti suo fratello avrebbe immediatamente capito di cosa si trattasse.
 Doveva rimanere calmo. I segni su braccia, gambe e petto erano nascosti dagli abiti e quelli suo volto parzialmente nascosti dalla barba. Perciò se avesse prestato attenzione, suo fratello non si sarebbe reso conto di nulla. 
 «No, sono io.» disse con voce calma e pacata.
 Sherlock si voltò e incrociò il suo sguardo. Aggrottò le sopracciglia, stupito di vederlo lì e ancora di più di essersi sbagliato.
 «Stai zoppicando.» affermò, deducendolo con poche occhiate.
 Il politico rimase impassibile, sapendo che suo fratello avrebbe dedotto anche la più piccola espressione facciale o movimento sospetto.
 «Le tue abilità deduttive mi affascinano, fratellino.» lo stuzzicò infine, sperando di nascondere la sua stanchezza e il dolore che stava provando, dietro quelle parole apparentemente disinteressate. «Migliori ogni giorno.»
 «Perché zoppichi?» chiese Sherlock, ignorando la sua affermazione.
 Mycroft si prese qualche secondo per elaborare una scusa quantomeno plausibile. «Mi fanno male le gambe.» disse infine, pentendosi immediatamente per la stupidità di quell’affermazione.
 Sherlock sollevò le sopracciglia. «Ti fanno male le gambe.» ripeté, scettico. «A te, che non muovi un passo se non per andare dalla scrivania alla poltrona.»
 «È forse vietato essere stanchi?» chiese il maggiore, fingendosi spazientito.
 «Tu non sei mai stanco.» chiese Sherlock, con sospetto. Poi assottigliò lo sguardo. «Da quanto non dormi?»
 Sherlock aveva notato le occhiaie. Mycroft represse un brivido, imponendosi di rimanere impassibile. «Da quando ti importa?» lo sfidò, pregando di essere convincete.
 Il consulente investigativo assottigliò lo sguardo, inclinando il capo. «Quello è un livido?» domandò ancore, indicando il suo volto, pallido e segnato dalla stanchezza.
 Mycroft rabbrividì. Aveva tentato di nasconderli e ripulirli in modo che non fossero visibili, e ci era riuscito con il taglio sul labbro e con il livido sulla fronte, ma ovviamente, con quello sullo zigomo era stato più complicato e nonostante la barba, Sherlock lo aveva notato immediatamente.
 Il maggiore sbuffò. «Questa conversazione è priva di qualsiasi senso logico.» disse, alzando gli occhi al cielo. «Ti prego, finiamola qui prima che mi venga mal di testa.»
 Sherlock fece spallucce e annuì. «Desumo che ci sia un motivo per cui sei venuto qui.» affermò, tornando a scrivere qualche nota sul suo spartito, dando le spalle al fratello. «E credo che la ragione sia, come da due mesi a questa parte, Magnussen.»
 «Esattamente.» confermò il politico.
 «Ebbene?» domandò il consulente investigativo, tornando a voltarsi verso di lui e sollevando le sopracciglia, in attesa che il maggiore si spiegasse.
 I loro sguardi si agganciarono.
 «Stai lontano da lui, Sherlock. Non lo ripeterò ancora.» disse Mycroft, parlando duramente e con voce ferma, senza giri di parole. «Magnussen è un uomo pericoloso. Stai giocando con il fuoco e ben presto potresti bruciarti.»
 «Mi piace giocare.» disse Sherlock con un sorriso malizioso a inclinargli l’angolo delle labbra. «E Magnussen non è diverso da tanti altri casi che ho affrontato. Non è poi così diverso da Moriarty. E se ben ricordi, con Jim è finita piuttosto bene.» fece spallucce. «Se non consideriamo i due anni in cui ho dovuto fingere la mia morte.»
 Mycroft avanzò. «Tu non hai idea della persona contro cui ti stai mettendo. Magnussen è l’uomo più potente del Regno Unito e tu stai commettendo l’errore di sottovalutarlo.» sibilò. «Lui ti porterà via ogni cosa prima che tu possa accorgertene. Renderà la tua vita un inferno e non potrai fare nulla per impedirlo o per opporti.» disse, tutto d’un fiato, rendendosi conto troppo tardi di essersi lasciato trasportare dai sentimenti che stava provando in quel momento. «E quando te ne accorgerai sarà già troppo tardi.»
 «Qualcuno deve fermarlo.» affermò il consulente investigativo.
 Mycroft sospirò. «Sì, ma quella persona non devi essere tu.» replicò. Poi scosse il capo. «Ti sto implorando, fratellino. Sta’ lontano da lui. Lo sto dicendo per il tuo bene.»
 Il minore, a quelle parole, inclinò il capo per studiare suo fratello. Aggrottò le sopracciglia e assottigliò lo sguardo. «Cosa mi stai nascondendo?» domandò in un sussurro, bloccandosi con violino e archetto fra le mani.
 Mycroft si rese conto di aver commesso l’ennesimo errore.
 Era stato troppo esplicito. Troppo insistente. E adesso Sherlock avrebbe capito. L’avrebbe torchiato fino a che non l’avesse fatto confessare e tutto sarebbe venuto a galla.
 «Cosa dovrei nasconderti?» domandò, quindi, tentando di sembrare distaccato come sempre, e riparare al danno che aveva fatto.
 Sherlock puntò i suoi occhi in quelli del fratello e per un momento a Mycroft sembrò che potessero scrutare nella sua anima, fino nel suo angolo più recondito e nascosto.
 «Perché la questione di Magnussen ti turba così tanto?» chiese il minore. «Perché ti spaventa così tanto che io possa affrontarlo?»
 «Perché non hai idea del pericolo che stai correndo.» replicò il politico. «Perderai, Sherlock. Perderai, e una volta che quell’uomo ti avrà in pugno, non potrai più tornare indietro.»
 «Lo batterò.»
 «No, invece.»
 «Perché no?»
 «Perché lui…» Mycroft esitò.
 Cosa avrebbe potuto dirgli?
 Che l’aveva già sconfitto senza che nemmeno se ne fosse accorto?
 Che se non fosse stato per lui, Magnussen l’avrebbe già distrutto?
 Sospirò. «Lui ha già vinto.» disse infine, non riuscendo a trattenersi.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Cosa significa?»
 «Nulla.» rispose il politico, voltandosi e stringendosi nelle spalle al pensiero di ciò che aveva dovuto subire a causa di Magnussen, nell’ultimo periodo. «Non significa nulla.» si schiarì la voce. «Voglio solo che tu gli stia lontano. Promettimi che non ti avvicinerai più a lui e che smetterai di indagare sul tuo conto.»
 «Perché?»
 «Per l’amor del cielo!» esplose Mycroft, voltandosi nuovamente verso suo fratello, lo sguardo carico di rabbia ed esasperazione. «Perché per una maledetta volta non puoi fare quello che ti dico? Perché non puoi mai darmi ascolto?»
 «Perché voglio una spiegazione.» rispose Sherlock. «Voglio che mi spieghi perché diavolo ti stai comportando così.»
 «Così come, Sherlock?» ringhiò il maggiore. «Vuoi che ti spieghi perché mi sto preoccupando per te?»
 «No di certo.» dichiarò il minore. «Voglio capire perché lo stai facendo in questo modo. In maniera così esplicita e insolita. Qualcosa è cambiato, Mycroft, non negarlo. E voglio che mi spieghi il perché.»
 Mycroft abbassò lo sguardo. Era stato un folle a credere che Sherlock non se ne sarebbe accorto. «Non essere ridicolo. Non è cambiato nulla.»
 «Balle.»
 «Ora basta, Sherlock.» sibilò il maggiore. «Basta.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sopracciglia. «Basta? Di fare cosa?»
 «Smettila di insistere.» affermò, stringendo i pugni e chiudendo gli occhi, imponendosi di non cedere.
 «Non sto insistendo.»
 «Sì, invece, e voglio che la smetti.» ansimò Mycroft, scuotendo il capo e portandosi una mano al viso per massaggiarsi gli occhi. «Smettila di comportarti così e comincia a usare la testa.»
 Sherlock lo osservò per qualche secondo, poi poggiò violino e archetto sul tavolo e si avvicinò.
 Mycroft, captando il suo movimento, d’istinto, indietreggiò, il cuore che batteva a mille, il respiro accelerato a causa di quella vicinanza improvvisa e inaspettata.
 Il minore se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. «Cosa succede?»
 I loro sguardi si incontrarono.
 «Cosa dovrebbe succedere?» domandò il politico, con voce tremante e incerta.
 Il minore si mosse ancora e l’altro indietreggiò nuovamente, non potendo farne a meno. Era più forte di lui. Non riusciva a sopportare quella vicinanza, nonostante fosse consapevole che Sherlock non gli avrebbe mai fatto del male.
 «Dio, Mycroft, cosa ti prende?» quasi ringhiò Sherlock. «Non tolleri più la mia presenza?»
 «Non dire sciocchezze.»
 «Ti prego.» disse Sherlock, con sarcasmo. «Chi vuoi prendere in giro?»
 Mycroft sbuffò.
 Doveva andarsene di lì.
 Doveva andare via prima che quella conversazione prendesse pieghe poco piacevoli.
 «Pensa a quello che ti ho detto.» concluse, sbrigativo. «Adesso devo tornare al lavoro.» concluse e si voltò per uscire.
 Tuttavia, prima che potesse andarsene, Sherlock lo raggiunse e chiuse la porta con una spinta. «Tu non vai da nessuna parte se prima non mi dai una spiegazione.» disse, tenendo una mano poggiata sulla porta e il braccio disteso a bloccare il passaggio al maggiore.
 «Lasciami uscire, Sherlock.» ordinò Mycroft, senza incrociare il suo sguardo.
 «No.» ringhiò il minore. «Prima spiegami.»
 «Ora basta.» ringhiò il politico, in risposta. «Stai davvero cominciando a stancarmi, Sherlock. La mia pazienza ha un limite e lo stai decisamente superando.» concluse e poggiò una mano sulla maniglia per aprire la porta.
 Prima che potesse farlo, Sherlock lo prese per i lembi della giacca e lo spinse contro la parete, bloccandolo in modo che non potesse muoversi.
 «Non ti lascerò uscire fino a che non mi avrei spiegato cosa diavolo ti prede.» ringhiò, poggiando una mano sul suo petto per tenerlo fermo. «Perciò vedi di sbrigarti, prima che perda le staffe.»
 Mycroft, non appena sentì le mani di suo fratello entrare in contatto con il suo petto, rabbrividì. Ansimò e tentò di liberarsi dalla sua presa. «Lasciami…» disse con voce tremante, senza fiato, tentando di allontanarsi.
 «Non finché non mi avrei spiegato cosa ti sta succedendo.»
 «Smettila, Sherlock.» replicò lui. «E lasciami andare.»
 «Allora spiegami.»
 Mycroft ansimò e scosse il capo, sollevando le braccia per spingere Sherlock lontano da lui. «Sherlock, per favore.» ansimò. Tentò di allontanarsi, ma le mani di suo fratello si chiusero intorno ai suoi polsi. Un gemito lasciò le sue labbra prima che riuscisse a fermarlo. «Ti prego… ti prego, lasciami…»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia, sentendo il corpo di Mycroft tremare violentemente. «Mycroft, cosa ti prede?» chiese, scuotendo il capo.
 Mycroft ansimò, sentendo le lacrime pronte a rigargli le guance. «Io… lasciami andare…» lo implorò. «Per favore… Ti prego, lasciami andare. Non… non toccarmi…»
 E poi le gambe non lo ressero più.
 Mycroft scivolò a terra e le ginocchia cozzarono contro il legno del pavimento con un rumore secco che rimbombò per tutta la stanza. Un fitta potente gli attraversò le gambe, risalendo dalle cosce fino al petto, amplificando il dolore che stava provando ormai da settimane.
 Perché era andato lì? In fondo sapeva come sarebbe finita… perché aveva comunque voluto andare da Sherlock? Sarebbe dovuto rimanergli il più lontano possibile e invece aveva deciso di rovinare tutto. E adesso suo fratello avrebbe capito. Avrebbe visto. E lo avrebbe odiato.
 «Mycroft» lo chiamò suo fratello, inginocchiatosi al suo fianco. «Mycroft, guardami.»
 Il maggiore scosse il capo, tenendo lo sguardo basso per nascondere le lacrime.
 Non voleva che suo fratello lo vedesse così. Non voleva che capisse, perché avrebbe fatto ancora più male. Non avrebbe sopportato di essere giudicato da Sherlock per le sue azioni.
 Era già abbastanza difficile guardarsi ogni giorno allo specchio. 
 «Sì. Guardami.» insistette Sherlock e gli sollevò il viso con una mano. «Dimmi cosa sta succedendo.»
 Mycroft scosse il capo, rabbrividendo sotto il tocco del fratello. Si scostò.
 «Cos’è quello?» sbottò ad un tratto il minore, sfiorandogli la base del collo con le dita.
 Il cuore di Mycroft si fermò. Era sicuro che la camicia sarebbe riuscito a coprire tutti i lividi, nascondendoli alla vista quanto bastava perché nessuno lo notasse… ma ovviamente non aveva fatto i conti con suo fratello.
 «Oh, Dio…» sfuggì a Sherlock. Poi tentò di slacciargli la cravatta.
 Mycroft ansimò, e per un momento gli sembrò di vedere il volto di Magnussen a pochi centimetri dal suo. «No…» singhiozzò, tentando di ribellarsi e respirando affannosamente. «No, non farlo…» pianse e il suo corpo riprese a tremare violentemente sotto il tocco del fratello. «Ti prego, no…» abbassò lo sguardo, chinando il capo.
 Non è Magnussen.
 Non è Magnussen.
 Non è Magnussen, continuò a ripetersi.
 Ma il solo fatto che suo fratello fosse così vicino, riusciva a togliergli il fiato. La paura lo aveva immobilizzato, impedendogli di pensare con lucidità o di fare qualcosa per fermare Sherlock.
 «Non voglio farti del male, Mycroft.» assicurò Sherlock. «Voglio solo…» si bloccò. Sospirò. «Voglio capire come te lo sei fatto.» disse cautamente.
 Mycroft non rispose.
 Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto ammettere che era stato Magnussen a fargli del male e avrebbe, di conseguenza, dovuto spiegare a Sherlock ciò che stava succedendo.
 E non poteva permetterselo.
 Non se voleva tenerlo al sicuro da quell’uomo.
 «Mycroft, rispondi alla mia domanda.» disse il minore, in tono fermo e perentorio. «Come te lo sei fatto?» sillabò.
 Mycroft tremò, sentendo quanto duro fosse il tono di suo fratello. Lo stesso tono che aveva utilizzato Magnussen tante volte, durante le notti passate alla sua mercé.
 «Sono caduto.» rispose, con voce rotta.
 «Ti prego, non insultare la mia intelligenza. Questi non sono lividi da caduta.» affermò Sherlock. Poi, improvvisamente, il suo tono si addolcì. «Dimmi chi è stato.»
 Il maggiore scosse il capo e si portò le mani al viso, premendole sulle orecchie. «Basta…» singhiozzò. «Smettila… ti prego… non posso…»
 «Perché non puoi?» chiese il consulente investigativo, circondandogli i polsi con le dita e allontanando le mani dal suo volto con delicatezza. «Ti hanno minacciato?»
 «Ti prego… non… non posso…» ansimò, tentando di liberarsi dalla sua presa e allontanarsi. «Se parlerò verrà a cercare te… ti farà del male… non posso…»
 «Non devi preoccuparti per me.» replicò il minore. «Dimmi chi è stato.»
 Mycroft scosse il capo. «No…»
 Sherlock sospirò. «Posso proteggerti, Mycroft.» affermò. «Non gli permetterei mai di farti del male. Dimmi la verità.»
 «No.» insistette Mycroft. «Non posso. Non chiedermelo.»
 Il minore scosse il capo. «Puoi almeno dirmi quanto si è spinto oltre?»
 Per un momento non accadde nulla, poi le lacrime ripresero a rigare le guance di Mycroft, che scosse il capo e gemette, tentando di liberarsi dalla presa del fratello, che aveva ancora le dita chiuse intorno ai suoi polsi. 
 «Mycroft, voglio aiutarti, ma tu devi permettermelo.» disse il minore, aumentando la presa intorno alle braccia del politico e cercando il suo sguardo. «Dimmelo.»
 Il maggiore continuò a scuotere il capo, il dolore che aumentava ad ogni secondo che passava. «Ti prego, Sherlock…» lo implorò, le lacrime che gli rigavano le guance, il volto sempre più pallido. «Mi fai male… ti prego, smettila…»
 Sherlock abbassò lo sguardo sui polsi del fratello, dove le sue mani si erano chiuse per impedirgli di coprirsi il volto. Aggrottò le sopracciglia, poi, prima che il maggiore potesse ribellarsi, scostò uno dei polsini della camicia, scoprendo la pelle del suo braccio.
 I suoi occhi si spalancarono.
 Mycroft lo captò. Con uno strattone si liberò e coprì le ferite con le maniche della giacca. I segni che le manette avevano lasciato sui suoi polsi erano gli unici a non essersi ancora rimarginati; la sua pelle pallida e nivea era segnata da profonde cicatrici color cremisi, circondate da altri lividi e dalle bruciature provocate delle sigarette fumate da Magnussen e utilizzate come strumenti di tortura. Ovviamente, essendo ancora in via di guarigione, Mycroft non aveva potuto nasconderle coprendole con cerotti o garze, quindi era impossibile che Sherlock non le notasse.
 Mycroft chiuse gli occhi.
 Le immagini della notte precedente emersero nella sua mente.
 Il coltello.
 Le sigarette.
 Le manette.
 La lotta per liberarsi.
 Le ferite.
 La violenza.
 La paura.
 Il dolore.
 «Questi sono segni di manette.» disse Sherlock, riportandolo alla realtà. «Mycroft, cosa diavolo sta succedendo?»
 «Niente.» rispose il politico.
 «Niente?» chiese Sherlock, aggrottando le sopracciglia. «Sei coperto di lividi e ferite di ogni genere, ti hanno ammanettato fino a lacerarti i polsi e hanno usato delle sigarette per marchiarti…» affermò. «Questo secondo te è niente?»
 Mycroft asciugò le lacrime che gli avevano rigato le guance con un rapido gesto della mano, poi abbassò lo sguardo e scosse il capo.
 Sherlock sospirò e gli poggiò una mano sulla spalla. «Adesso ascoltami, Mycroft.» esordì, chinando il capo per cercare lo sguardo di suo fratello. «Qualsiasi cosa stia accadendo non è colpa tua. Ti stanno facendo del male e il responsabile non sei tu.» fece una pausa, poi poggiò una mano sul viso di Mycroft, sollevandolo e accarezzandogli una guancia. Un gesto carico di dolcezza e comprensione. «Non ti giudicherò, né me la prenderò con te. Ma devi dirmi cosa sta succedendo, in modo che io possa aiutarti.»
 Il politico scosse il capo.
 «Perché?»
 «Non voglio parlarne.»
 «Ma dovrai farlo.» replicò Sherlock. «Questa è aggressione. Devi denunciare i responsabili alla polizia.»
 Mycroft scosse il capo e, a fatica, si mise in piedi. «Non denuncerò nessuno.»
 «Cosa?» esclamò Sherlock, alzandosi a sua volta. «Non vorrai permettere che tutto questo continui? Non puoi lasciare che continuino a farti del male.»
 «Non sono affari tuoi.» sentenziò Mycroft. «Adesso spostati e lasciami uscire.» sibilò, avendo ritrovato la fermezza nella voce.
 Il minore lo osservò per qualche istante, poi sospirò e, lentamente, si scostò.
 Il politico si mosse e aprì la porta. Poco prima che potesse uscire, però, la voce di suo fratello lo bloccò.
 «Io sono qui.» disse Sherlock, con dolcezza. «Sono qui, esattamente come tu ci sei stato per me in tutti questi anni.» affermò. «Per qualsiasi cosa… ti prego, vieni da me.»
 Mycroft rimase immobile per qualche secondo, poi, stringendo i pungi, uscì, lasciandosi Baker Street e suo fratello alle spalle.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Rieccomi qui, come promesso, con il terzo capitolo della mia storia :)
Prima di proseguire e di dimenticarmi, devo precisare una cosa che non ho detto all’inizio: in questa storia, come avrete capito, ci troviamo a metà di His Last Vow, poco dopo il momento in cui Mary ha sparato a Sherlock. Il nostro consulente investigativo l’ha già smascherata, quindi in questa ff John è già tornato a vivere a Baker Street con lui per una pausa di riflessione, com’era accaduto nella serie. ;) Quindi, in conclusione, a parte il ricatto di Magnussen, tutto è rimasto esattamente uguale. Ci tenevo a precisarlo prima di proseguire, a scanso di equivoci e incomprensioni :)
A parte questa luuuunga digressione, pubblicherò il prossimo capitolo venerdì.
Spero che questo terzo capitolo vi sia piaciuto. ;D
A presto, Eli♥
 

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Capitolo 4
*** Punto di rottura ***


ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Eccomi qui con il quarto capitolo e questa volta, come potete vedere, le note sono all’inizio.
Questo perché in questo capitolo troverete descrizioni e scene più crude rispetto ai capitoli precedenti. Non saranno esplicite ma potrebbero comunque turbarvi, perciò ho pensato di avvertirvi prima che leggiate, in modo che siate preparati. :)
Ne approfitto anche per ringraziare tutti coloro che hanno inserito la storia fra le preferite/ricordate/seguite e soprattutto coloro che hanno speso un momento del loro tempo per recensirla: Creepydoll e MartixHedgehog.
Grazie di cuore a tutti!♥
A lunedì con il prossimo capitolo ;)
Un bacione, Eli♥
 
 
 
Amore

 
Capitolo IV
Punto di rottura


 
 
 La sera seguente, Mycroft si presentò ad Appledore, proprio come Magnussen aveva chiesto. Come sempre, la porta era aperta, perciò il politico varcò la soglia e si diresse verso il salotto, dove sapeva che Magnussen lo stava aspettando.
 Non appena entrò, capì che qualcosa non andava.               
 Magnussen era seduto sul divano, in attesa, lo sguardo perso nel vuoto.
 Mycroft si bloccò.
 «La credevo più intelligente, signor Holmes.» sbottò Magnussen, dopo qualche secondo di completo silenzio, volgendosi verso Holmes e incontrando il suo sguardo.
 Mycroft aggrottò le sopracciglia.
 «Non la credevo così stupido da recarsi a Baker Street per parlare con suo fratello.» spiegò l’altro, mettendosi in piedi e abbottonandosi la giacca. «Non con segni così evidenti dopo la nostra notte insieme.»
 Il maggiore degli Holmes si schiarì la voce. «Volevo convincerlo a desistere dal continuare ad indagare su di lei.» spiegò. «Non ho-»
 «Non ha detto nulla.» concluse per lui, avvicinandosi. «Ma non ce n’è stato bisogno. Perché Sherlock ha capito, dato che, ovviamente, non ha dovuto fare altro che osservare.» sospirò. «Le avevo esplicitamente detto che nessuno avrebbe dovuto sapere nulla. E lei ha deliberatamente ignorato il mio avvertimento. Perciò mi vedo costretto a prendere dei provvedimenti.» si fermò accanto a lui e puntò gli occhi nei suoi. «Mi segua.» concluse freddamente.
 E insieme si avviarono verso il piano superiore, verso la camera da letto.
 
 Mycroft lasciò Appledore qualche ora più tardi.
 Uscì dalla stanza da letto di Magnussen – senza nemmeno premurarsi di prendere la giacca – e percorse velocemente il corridoio, tentando di ignorare il dolore alle gambe e alle braccia, il sangue che scorreva sulla sua pelle, i lividi che dolevano e gli abiti che sfregavano sulle ferite ancora aperte, aumentando la sensazione di dolore.
 Le lacrime gli rigarono le guance e, prima che potesse rendersene conto, i singhiozzi presero a scuoterlo violentemente, togliendogli il fiato.
 Attraversò il vialetto di corsa, in preda al dolore e alle lacrime, non volendo altro che lasciarsi quella casa alle spalle. Spalancò il cancello e si bloccò sul marciapiede, realizzando soltanto in quel momento di non aver nemmeno chiamato l’autista.
 Portò le mani alle tasche e tremando, tentò di estrarre il cellulare, ma un rumore alla sua destra catturò la sua attenzione.
 Mycroft si voltò di scatto e solo in quel momento si accorse che accanto al marciapiede era ferma un’automobile nera. E da quell’auto era appena scesa una persona, che adesso stava camminando verso di lui con passo spedito.
 Il politico indietreggiò, pronto a rientrare all’interno del cortile della villa per non essere visto, ma quando la figura entrò sotto il fascio di luce del lampione, si bloccò.
 «Sherlock» gemette.
 Suo fratello era in piedi di fronte a lui, immobile, gli occhi spalancati, il volto pallido e tirato. La compostezza che di solito lo contraddistingueva sembrava essere un lontano ricordo: ogni cosa in lui lasciava trasparire quanto fosse preoccupato e sconvolto nel vederlo così.
 Il politico non sapeva perché suo fratello si trovasse lì – probabilmente l’aveva seguito per assicurarsi che stesse bene, considerato che il giorno precedente non aveva voluto dargli spiegazioni riguardo la sua condizione – ma in quel momento poco importava.
 Mycroft avanzò zoppicando.
 Il consulente investigativo allargò le braccia e accolse il fratello nella sua stretta, stringendolo forte a sé.
 Quando i loro corpi si scontrarono, Mycroft riprese a singhiozzare convulsamente, aggrappandosi alle spalle di Sherlock e tremando contro di lui.
 «Va tutto bene.» sussurrò Sherlock, accarezzandogli i capelli e la schiena. «Sono qui. È finita.» lo cullò fra le braccia. «Va tutto bene. Non ti toccherà più, te lo prometto.»
 Mycroft affondò il viso nella sua spalla, gemendo. «Mi dispiace…» singhiozzò. «Mi dispiace tanto…»
 «Non devi scusarti. Non è colpa tua, Myc.» affermò Sherlock. Poi sospirò e lo allontanò da sé. Si tolse il cappotto e lo adagiò sulle sue spalle. «Vieni. Hai bisogno di un medico.»
 Mycroft sentì una stretta al cuore. «No…» ansimò, indietreggiando. «Niente ospedali. Non voglio… non voglio che mi tocchino…»
 «D’accordo.» disse il minore, sollevando le mani di fronte a sé. «Se preferisci può pensarci John. Ci sta aspettando in macchina.»
 Mycroft esitò. Non poteva ignorare che quella notte Magnussen si fosse spinto così oltre da procurargli ferite più gravi del solito, perciò avrebbe avuto bisogno di aiuto. E sarebbe stato meglio avere quello di John, piuttosto che quello di un’equipe di medici che non avrebbero fatto altro che fare domande.
 Annuì.
 «Ok.» affermò Sherlock, poi gli poggiò delicatamente una mano sulla schiena e indicò l’auto. «Andiamo.» concluse, aiutandolo a raggiungere l’automobile.
 Mycroft si strinse nelle spalle e tirò i lembi della giacca per ripararsi dal freddo che gli stava attraversando le ossa e il corpo, e seguì suo fratello.
 
 Sherlock aprì la portiera dell’auto e aiutò suo fratello a salire sui sedili posteriori, poi prese posto accanto a lui, richiudendola.
 Non appena si furono seduti, John – seduto al posto di guida – si voltò verso di loro. Quando i suoi occhi si posarono sul volto di Mycroft si spalancarono. Impallidì e immediatamente il suo sguardo saettò sul volto di Sherlock.
 Il consulente investigativo gli rivolse uno sguardo eloquente. «Andiamo a casa di Mycroft.» disse.
 John annuì e mise in moto. Poi partì e imboccò la strada principale, diretto verso Londra.
 Sherlock, intanto, con la coda dell’occhio, controllava suo fratello. Non aveva idea da quanto quella storia stesse andando avanti, ma suo fratello era cambiato così tanto da essere diventato quasi irriconoscibile. Era dimagrito di parecchi chili, le guance erano scavate, i polsi sottili e le costole visibili sotto la camicia leggera che indossava, e il leggero strato di barba rossiccia che gli incorniciava il volto contribuiva ad aumentare il pallore del suo volto; i suoi occhi erano colmi di paura e, per la prima volta nella sua vita, di lacrime. Qualcosa che Sherlock non aveva mai visto accadere prima di allora.
 Mycroft si strinse maggiormente nel cappotto, poi si sdraiò sul sedile, poggiando il capo sulle gambe di suo fratello, rannicchiandosi su un fianco. Le lacrime ripresero a rigargli le guance e il suo corpo tremò violentemente, in preda al dolore e alla paura.
 Sherlock si stupì di fronte a quel gesto, ma senza esitazioni, prese ad accarezzare dolcemente il capo di suo fratello, sentendo che aveva ripreso a singhiozzare, mentre con l’altra mano tenne stretta la sua fino a che non furono arrivati a destinazione.
 
 Una volta raggiunta la villa di Mycroft, Sherlock aiutò il fratello a scendere dall’auto e, aiutato da John, lo guidò all’interno della casa. Raggiunsero il salotto e il consulente investigativo fece sedere il fratello sul divano, inginocchiandosi poi di fronte a lui e cercando il suo sguardo.
 «Sicuro di non voler andare in ospedale?» domandò il consulente investigativo.
 Mycroft annuì, stringendosi nuovamente nelle spalle, tenendo lo sguardo basso.
 «Per questo non hai voluto dirmi niente?» chiese ancora, dopo aver rivolto a John uno sguardo fugace. «Perché era Magnussen a farti del male?»
 Le lacrime rigarono le guance del politico.
 E quella, per Sherlock, fu una risposta suggestiva.
 «Da quanto tempo va avanti?»
 «Due mesi.» rispose Mycroft flebilmente.
 Sherlock chiuse gli occhi, inspirando profondamente. «Quanto oltre si è spinto?»
 Il silenzio del politico e le lacrime che gli rigarono le guance furono ancora una volta eloquenti.
 «Ti ha violentato?» domandò a quel punto il minore.
 Mycroft singhiozzò e il suo corpo tremò violentemente. «Non… non ho potuto impedirglielo… io… io non…» si affrettò a dire.
 «Mycroft, non è colpa tua.» intervenne John. «Nulla di ciò che è successo è colpa tua.»
 Il maggiore degli Holmes scosse il capo, singhiozzando.
 Sherlock poggiò una mano sul ginocchio del fratello e cercò il suo sguardo. «Myc» lo chiamò. Poi, vedendo che continuava a tenere lo sguardo basso, poggiò una mano sul suo viso e lo sollevò.
 I loro sguardi si agganciarono.
 Sherlock gli accarezzò la guancia con il pollice. «È tutto finito.» affermò. «Lui non si avvicinerà a te mai più. Non gli permetteremo di farti ancora del male. Ok?»
 Mycroft annuì.
 «Adesso hai bisogno di una visita per capire quali siano i danni.» aggiunse il minore, senza allontanare la mano dal viso del maggiore. «Permetterai a John di visitarti? O preferisci che sia uno dei tuoi medici a farlo?»
 Il politico scosse il capo. «John va bene.» disse in un sussurro.
 «Ok.» dichiarò Sherlock. «Andiamo nella tua stanza, così puoi sdraiarti.» e detto questo lo aiutò a mettersi in piedi e a raggiungere il piano superiore.
 
 La visita durò più di un’ora.
 John controllò il corpo di Mycroft con perizia e professionalità, prestando attenzione a non fargli del male e a non avere con lui un contatto prolungato, considerato ciò che aveva passato.
 Riscontrò svariati traumi dovuti alla violenza sessuale e a quella fisica, che si erano ripetute senza tregua in quelle settimane, lasciando il corpo di Mycroft provato e marchiato, e somministrò immediatamente degli antidolorifici al politico, che li ingerì senza protestare.
 Poi passò alle ferite.
 I polsi erano stati lacerati a causa dell’uso prolungato di manette. Le braccia erano state martoriate con sigarette e coltelli dalla lama seghettata. Il petto era coperto di segni di unghie e denti. E le gambe erano coperte da lividi estesi e abrasioni di ogni genere, alcuni in via di guarigione, altri freschi, probabilmente risalenti ai giorni precedenti.
 John ripulì e disinfettò le ferite, poi cosparse i lividi con una pomata anti-contusioni, sperando di lenire almeno in parte il dolore che avrebbero causato nei giorni a venire.
 Durante il controllo, Mycroft continuò a piangere silenziosamente, ma senza mai emettere un suono a lamentarsi. Di tanto in tanto sobbalzava, spaventato dall’improvviso contatto delle mani di John sul proprio corpo, ma immediatamente veniva rassicurato da Sherlock, che aveva preso posto accanto a lui sul materasso e non aveva mai lasciato la sua mano, accarezzandogli i capelli quando notava che si stava agitando.
 Una volta finito, John chiuse la cassetta del pronto soccorso.
 «Ho finito.» annunciò. «Potrebbero servirti degli antidolorifici per un po’ di tempo, ma tutti i traumi e le ferite guariranno in poco tempo. Basterà pulirle e disinfettarle di tanto in tanto.»
 Mycroft annuì e, aiutato da Sherlock, si mise seduto sul materasso. Non appena lo fece, chiuse gli occhi e si portò una mano alla fronte, respirando affannosamente.
 «Che succede?» chiese Sherlock, accarezzandogli la schiena.
 «Ha la pressione bassa.» rispose per lui il medico. «Da quanto non mangi?» domandò poi, rivolto al maggiore degli Holmes.
 «Un po’.» rispose Mycroft, flebilmente. Riaprì gli occhi, avendo recuperato la lucidità, ed esalò un lungo respiro.
 John annuì. «Allora dovresti mangiare qualcosa.» spiegò. «E magari cercare di dormire, considerato che non lo fai da un po’.»
 Il politico si schiarì la voce. «Vorrei… vorrei fare una doccia, prima.» disse, parlando sommessamente. «Voglio…» indicò il suo corpo, ma non riuscì a concludere la frase, sentendo le lacrime pronte a rigargli nuovamente le guance.
 John annuì. «Certo.»
 Sherlock scese dal materasso e, insieme a John, aiutò Mycroft a mettersi in piedi, reggendolo per le braccia per assicurarsi che potesse stare in piedi da solo.
 «Ce la fai?» domandò.
 Mycroft annuì. «Sto bene.»
 Sherlock e John si scambiarono uno sguardo, poi lo osservarono uscire dalla stanza e dirigersi verso il bagno.
 
 Mycroft entrò in bagno e si chiuse la porta alle spalle, poggiando la schiena alla parete e inspirando profondamente un paio di volte, tenendo gli occhi serrati.
 Nonostante John si fosse premurato di somministrargli degli antidolorifici per farlo sentire meglio, Mycroft continuava a sentire dolore. Ogni singolo osso del suo corpo doleva terribilmente e ad ogni movimento i muscoli erano attraversati da potenti scosse elettriche, sempre più dolorose ad ogni secondo che passava.
 Per non parlare del vuoto che sentiva dentro di sé da due mesi a quella parte. Sembrava che una voragine si fosse aperta nel suo cuore, espandendosi per avvolgere tutto il resto, compresa la sua mente, ormai completamente vuota e inutile.
 Aprì gli occhi e si avvicinò allo specchio. Osservò la sua immagine riflessa nella liscia e scintillante superficie, ma non riuscì a riconoscersi.
 Da settimane in lui non c’era più alcuna traccia di Mycroft Holmes.
 Quel corpo non era nient’altro che un involucro vuoto.
 Magnussen lo aveva danneggiato, e niente e nessuno avrebbe potuto rimetterlo insieme. 
 Ormai era privo di ogni utilità.
 Debole.
 Fragile.
 Sul punto di rottura.
 Che senso aveva continuare a fingere che non fosse così?
 Le lacrime rigarono nuovamente le guance di Mycroft e il dolore esplose nel suo petto con una violenza inaudita, togliendogli il fiato.
 Il politico strinse i pugni, poi, colto da un moto di rabbia, sferrò un violento pugno allo specchio, mandandolo in frantumi.
 
 Sherlock era immobile di fronte alla finestra della cucina, lo sguardo puntato verso l’esterno, la mente distante.
 Ciò che era successo a suo fratello lo tormentava. I segni sul suo corpo, le ferite, le lacrime che gli avevano rigato il volto quando aveva raccontato ciò che era successo…
 Come aveva potuto permettere che accadesse una cosa del genere a Mycroft? Come aveva fatto a non notare che c’era qualcosa di strano nel suo comportamento? Era evidente che qualcosa fosse cambiato, eppure non aveva fatto niente, perché, come sempre, aveva dato per scontato che Mycroft non avesse bisogno di aiuto. E quelli erano i risultati.
 Avrebbe dovuto immaginare che le sue indagini su Magnussen non avrebbero portato a nulla di buono… ma perché non aveva dato ascolto a suo fratello fin dall’inizio?
 «Quello che hai fatto per Mycroft è stato molto bello.»
 La voce di John irruppe improvvisamente nella stanza, costringendo il consulente investigativo a tornare alla realtà.
 Sherlock si voltò e incontrò lo sguardo dell’amico, fermo a pochi passi da lui. Sospirò e poggiò la schiena alla parete, incrociando le braccia al petto, poi abbassò lo sguardo, evitando di incrociare quello dell’amico.
 «Non ho fatto niente.» affermò.
 «Hai fatto moltissimo, invece.» lo corresse il medico. «L’hai fatto sentire al sicuro. Protetto. E in situazioni del genere è importante.» spiegò. «Ti sei preso cura di lui e gli sei rimasto accanto tutto il tempo. Sei stato magnifico.»
 Holmes scosse il capo. «Tu ti sei preso cura di lui.» lo corresse. «Ma se io fossi stato più attento, avrei potuto prevenire tutto questo. Se mi fossi reso conto di ciò che stava succedendo, probabilmente Magnussen non gli avrebbe mai fatto del male e tutto questo non sarebbe mai stato necessario.»
 John aggrottò le sopracciglia. «Ciò che è successo non è stata colpa tua.»
 «E di chi è?» esclamò il consulente investigativo, risollevando lo sguardo, agganciando quello di Watson. «Chi ha indagato su Magnussen, ignorando i rischi che avrebbe comportato? Chi ha violato il suo domicilio per delle stupide lettere senza alcuna importanza?» una risata sarcastica gli sfuggì dalle labbra. «Se non fosse stato per me, Magnussen non avrebbe mai potuto ricattare Mycroft.»
 «Ricattarlo?» domandò John.
 «Altrimenti perché mio fratello si sarebbe sottoposto a una cosa del genere?» chiese Sherlock di rimando. Sospirò. «Magnussen deve aver detto a Mycroft che avrebbe dovuto sottomettersi a lui, o se la sarebbe presa con me.»
 «Denunciandoti alla polizia?»
 «Sfruttandomi esattamente come ha fatto con lui.» lo corresse.
 Gli occhi di Watson si spalancarono. «Quindi…» e poi realizzò. Sospirò mestamente, passandosi una mano sul viso. «Mycroft non aveva scelta. Si è dovuto sottoporre a questo per proteggerti.»
 Sherlock annuì. «All’inizio nessuno si è accorto di nulla perché Magnussen si era premurato di non lasciare segni visibili… infatti, se hai notato, quelli più vecchi erano tutti su petto, braccia e gambe, in luoghi poco visibili.» sospirò. «Ma io ho continuato ad indagare. Per questo Magnussen è diventato più violento. Ed è arrivato a questo.» scosse il capo, passandosi una mano sul viso. «Mycroft mi aveva chiesto più volte di rinunciare alle mie indagini su di lui, e questo perché sapeva che se avessi proseguito, le torture sarebbero peggiorate. Ma ovviamente io non gli ho dato ascolto.»
 «Forse Magnussen gli avrebbe fatto questo comunque, Sherlock, anche se tu avessi interrotto le indagini.» fece notare il dottore. «Non possiamo saperlo. Tu non potevi saperlo. Hai detto tu stesso che nonostante avessi notato quelle ferite, Mycroft non aveva voluto dirti nulla. Come potevi sapere cosa stava succedendo?»
 «Avrei potuto dedurlo!» esclamò, il volto pallido, gli occhi colmi di un dolore malcelato. «Dio… è mio fratello, e ho permesso che accadesse questo. Lui non ha mai smesso di proteggermi. Ha fatto questo per salvarmi da Magnussen e io non ho fatto nulla per impedire che gli facessero del male. E per colpa mia, mio fratello è stato torturato, pestato e stuprato da quel bastardo.» ringhiò Sherlock, il cuore che galoppava nel petto. «E tutto perché io non ho voluto dargli ascolto.» chiuse gli occhi, abbassando lo sguardo. «E adesso a pagarne le conseguenze sarà Mycroft.»
 John lo osservò per un lungo istante, poi sospirò e avanzò verso di lui. «Adesso è al sicuro. Non permetteremo a Magnussen di avvicinarsi ancora a lui.»
 «Il danno maggiore è già stato fatto.»
 «Non pensare a questo.» replicò il dottore, poggiandogli una mano sulla spalla e cercando il suo sguardo. «Pensa soltanto al fatto che tuo fratello ha bisogno di te e che dovrai essere lì per lui. Se rimarrai al suo fianco, lo supererà. Lui è forte, Sherlock, proprio come te.»
 Il consulente investigativo sollevò lo sguardo e incontrò gli occhi del medico, colmi di comprensione e affetto, perdendovisi per un lungo istante. Le dita del medico erano strette intorno alla sua spalla, salde e rassicuranti, proprio come John.
 «E sappi che io ti aiuterò.» aggiunse Watson, accennando un sorriso. «Non abbandonerò né te, né lui. Te lo prometto.»  
 Holmes esalò un lungo respiro, poi annuì.
 «Andrà tutto bene.» assicurò John, dandogli una leggera pacca sulla spalla.
 I loro sguardi rimasero agganciati per un lungo istante. Gli occhi persi gli uni negli altri, ad avvolgerli solo il silenzio e la quiete.
 Poi Sherlock interruppe il contatto visivo, abbassando lo sguardo. «Grazie.» mormorò.
 «Per cosa?» domandò Watson, aggrottando le sopracciglia.
 Holmes risollevò lo sguardo, incontrando nuovamente quello dell’amico. «Per tutto ciò che hai fatto.» rispose. «Per esserti preso cura di Mycroft.»
 John sorrise dolcemente. «L’ho fatto volentieri.» affermò. «Lui è tuo fratello.»
 Il consulente investigativo annuì, poi si voltò verso l’orologio appeso in cucina e si schiarì la voce. «È in bagno di più di mezz’ora.» disse, aggrottando le sopracciglia. «Forse è meglio che vada a controllare se ha bisogno di una mano.»
 Watson annuì. «Io preparo un tè. Almeno Mycroft mangerà qualcosa prima di mettersi a letto.» concluse, avvicinandosi ai fornelli per mettere l’acqua nel bollitore.
 Holmes annuì e uscì dalla cucina, diretto verso il piano superiore.
 
 Sherlock salì le scale e imboccò il corridoio, raggiungendo la porta accanto a quella della stanza da letto di suo fratello. Dall’esterno del bagno poté udire lo scrosciare dell’acqua, ovattato dalle pareti della doccia, e percepire il calore emanato dall’acqua calda che si era lentamente tramutata in vapore.
 Possibile che Mycroft fosse ancora sotto la doccia dopo mezz’ora?
 «Mycroft?» lo chiamò, bussando alla porta. «Va tutto bene?»
 Attese qualche secondo nel più completo silenzio, ma non ottenne alcuna risposta.
 Aggrottò le sopracciglia.
 Non voleva entrare senza il suo permesso, considerato ciò che aveva passato: aveva opposto resistenza alla visita medica, e forse se lui fosse entrato non avrebbe fatto altro che metterlo a disagio. Ma era strano che dopo trenta minuti non fosse ancora uscito dal bagno. Dopotutto doveva soltanto fare una doccia.
 «Mycroft» lo chiamò ancora.
 Ancora nulla.
 C’era decisamente qualcosa di strano.
 Sherlock, a quel punto, infischiandosene della privacy del fratello, aprì la porta.
 Quando l’aria fresca del corridoio entrò in contatto con quella soffocante all’interno del bagno, il vapore si dipanò.
 E il consulente investigativo lo vide.
 Mycroft era seduto a terra, la schiena poggiata contro il mobiletto del bagno, il capo inclinato verso destra e gli occhi chiusi.
 Accanto a lui, due enormi pozze di sangue si stavano allargando sul pavimento.
 Il cuore di Sherlock mancò un battito. Sui polsi del fratello correvano due profondi tagli orizzontali che stavano sanguinando copiosamente.
 «No…» ansimò, il cuore fermo nel petto. «No, Mycroft!»
 Corse accanto a lui, inginocchiandosi a terra, prendendogli il volto fra le mani e dandogli leggeri colpi sulle guance, sperando di fargli riprendere i sensi.
 «Mycroft…» disse, scuotendolo. «Mycroft, apri gli occhi!»
 Vedendo che non accennava a svegliarsi, Sherlock fece l’unica cosa sensata che gli venne in mente: lo tirò verso di sé, in modo che il suo corpo fosse poggiato contro il suo petto, poi premette le mani sulle ferite. Chiuse con forza le dita intorno ai polsi del fratello, sperando di arrestare l’emorragia, già fin troppo estesa, considerato quanto sangue c’era sul pavimento.
 «John!» gridò poi, non sapendo cos’altro fare. «John!»
 Abbassò lo sguardo e inorridì di fronte all’enorme quantità di sangue che si stava allargando accanto a loro. E solo allora notò i frammenti dello specchio, intuendo che Mycroft dovesse aver utilizzato uno di quelli per tagliarsi i polsi.
 «No… no, Mycroft…» mormorò, gli occhi colmi di lacrime. «Perché l’hai fatto?»
 In quel momento, John comparve sulla soglia e i suoi occhi si spalancarono per l’orrore. «Oh, mio Dio…» gli sfuggì, vedendo il sangue e Mycroft privo di sensi.
 «Ti prego, chiama un’ambulanza…» disse Sherlock, con voce rotta, sollevando lo sguardo sul suo volto. «Sta morendo…»
 John, senza esitazioni, prese il cellulare e compose il 999. Dopo aver spiegato la situazione ai paramedici e averli implorati di fare presto, rientrò in bagno, inginocchiandosi accanto a Sherlock e Mycroft.
 «Dobbiamo bloccare l’emorragia.» disse con urgenza e aprì tutte le ante del mobiletto.
 Quando trovò gli asciugamani, ne prese uno e lo strappò. Prese una delle metà e quando Sherlock scostò la mano dal polso di suo fratello, la legò intorno alla ferita, stingendo il nodo in modo da bloccare almeno in parte la fuoriuscita di sangue. Poi fece lo stesso con l’altro. Alla fine sollevò lo sguardo sul volto del consulente investigativo, incrociando i suoi occhi.
 «Fa troppo caldo qui.» affermò. «Il calore aumenta la perdita di sangue. Dobbiamo portarlo fuori dal bagno.» concluse. Si mise in piedi e indicò Mycroft. «Prendilo per le spalle, io lo prendo per le gambe.»
 Holmes annuì e, sollevando il politico, lo trascinarono fuori dal bagno, facendolo sedere sul pavimento del corridoio.
 Il minore si posizionò accanto a lui, tenendolo stretto fra le braccia, e gli accarezzò il capo.
 «Mycroft, resisti…» disse, con voce tremante, il cuore a pezzi. «Ti prego… ti prego, resisti…» lo implorò e le lacrime gli rigarono le guance. «Non puoi morire… non puoi…» singhiozzò e prese a cullarlo fra le braccia, poggiando la fronte contro la sua. «Non puoi farmi questo… ho bisogno di te… non puoi lasciarmi, Myc…»
 Com’era possibile che suo fratello avesse deciso di uccidersi?
 Il dolore era davvero così insopportabile da averlo spinto a fare una cosa del genere?
 
 Poco dopo il rumore di passi invase l’ambiente, e i paramedici comparvero nel corridoio. Si avvicinarono di corsa, poggiando a terra la barella e inginocchiandosi sul pavimento per studiare la situazione.
 Dopo qualche rapida occhiata e uno scambio di sguardi, il più anziano parlò.
 «Dobbiamo portarlo subito in ospedale.» affermò. «Ha perso troppo sangue. Servono trasfusioni.»
 John raggiunse Sherlock e gli poggiò le mani sulle spalle. «Sherlock, lascialo andare.» disse. «Adesso se ne occupano i paramedici. Lascialo.» lo prese per le spalle e lo tirò verso di sé, inginocchiandosi al suo fianco.
 Sherlock lasciò andare il fratello, adagiando il suo corpo tra le braccia degli infermieri.
 I paramedici spostarono Mycroft sulla barella e, dopo avergli posto una mascherina per l’ossigeno sul volto e averlo assicurato con le cinghie, la sollevarono e si allontanarono lungo il corridoio e giù per le scale, partendo poi a sirene spiegate alla volta dell’ospedale.
 Sherlock li osservò andarsene, il viso rigato dalle lacrime, il respiro accelerato e rotto; abbassò lo sguardo sulle sue mani macchiate del sangue di suo fratello e un singhiozzo eruppe violentemente sulle sue labbra, facendo tremare il suo corpo.
 «Oh, mio…» balbettò e scosse il capo, tremando violentemente. «Mycroft… lui morirà, John…» singhiozzò, sentendo il suo cuore andare in frantumi. Ansimò, sconvolto, sentendo la sua mente tremare sotto il peso di tutto il dolore che stava provando.
 «No.» disse John, scuotendo il capo e sollevandogli il viso in modo da guardarlo negli occhi. «Non è vero.»
 Holmes gemette. «Sì, invece…»
 «Andrà tutto bene.» assicurò John, poi lo tirò a sé, stringendolo tra le braccia e lasciando che poggiasse il capo sul suo petto. «Andrà tutto bene, Sherlock.»
 «Ha perso troppo sangue…» ansimò il consulente investigativo, il respiro sempre più rotto e convulso. «Non riusciranno a salvarlo…»
 «No.» replicò John e gli accarezzò il viso e i capelli, cullandolo fra le braccia. «Non accadrà, Sherlock. I medici lo salveranno e Mycroft starà bene di nuovo, te lo assicuro.»
 Sherlock scosse il capo, singhiozzando. «Voleva uccidersi…» pianse. «Lui… voleva uccidersi… voleva morire…» scosse il capo. «Prima non l’avrebbe mai fatto, ma adesso, dopo tutto quello che è successo… Magnussen l’ha distrutto… non è più lo stesso…»
 Watson lo strinse maggiormente a sé. «Shh… tutto si sistemerà. Mycroft starà bene di nuovo. Ha solo bisogno di tempo.» assicurò. «Adesso calmati. Respira.»
 Holmes gemette e affondò il viso nel petto dell’amico, aggrappandosi alla sua giacca e singhiozzando convulsamente. «John…» ansimò.
 «Shh… sono qui.» sussurrò John, accarezzandogli teneramente il capo. «Sono qui, Sherlock.»
 
 Poco dopo, Sherlock si calmò. I singhiozzi lasciarono posto ad ansiti sommessi e il suo respiro rallentò fino a tornare regolare e lento.
 John lo allontanò da sé e gli accarezzò il viso con le dita, spazzando via le ultime lacrime che stavano bagnando la sua pelle. Poi sospirò, vedendo che i suoi occhi si erano fatti vuoti e spenti.
 Sfiorò le sue guance con le dita, accorgendosi di quanto fredda fosse la sua pelle in quel momento. A giudicare dalla sua temperatura e dal suo colorito pallido, era decisamente sotto shock.
 Non l’aveva mai visto tanto spaventato e sconvolto.
 Trovare Mycroft in un lago di sangue l’aveva spaventato a tal punto da abbassare tutte le sue difese, mandandolo in pezzi. E anche il grande Sherlock Holmes era crollato sotto la morsa della paura di perdere una persona casa.
 John doveva ammettere che vedere così il suo migliore amico, gli aveva fatto provare una stretta al cuore e un dolore nuovo e profondo, qualcosa che non aveva mai provato prima di allora. Un sentimento così doloroso da impedirgli di pensare con lucidità. Un misto tra dolore per ciò che i fratelli Holmes stavano passando e rabbia per ciò a cui Magnussen li aveva condannati.
 Si riscosse, abbandonando quei pensieri e tornando alla realtà. Doveva rimanere ancorato alla realtà e pensare con lucidità per poter aiutare Sherlock a superare quel momento: il suo amico aveva bisogno di lui e John non poteva certo permettersi di crollare a sua volta.
 «Vieni, Sherlock» disse. «Ti aiuto a lavare via il sangue e poi cerchiamo dei vestiti puliti.» concluse, considerando che l’amico aveva mani, viso e abiti imbrattati di sangue.
 Si mise in piedi, gli circondò i fianchi con un braccio e lo aiutò a mettersi in piedi, sorreggendolo, dato che stava ancora tremando in preda allo shock.
 Sherlock, malfermo sulle gambe, si lasciò aiutare senza opporre resistenza. 
 «Andiamo in cucina.» affermò il dottore. Non ottenendo risposta, prese la mano di Sherlock, fredda e tremante, e la strinse delicatamente. «Vieni.»
 Lo guidò fino al piano inferiore e, una volta in cucina, raggiunse il lavandino.
 Watson aprì l’acqua e prendendo le mani di Sherlock fra le proprie, le accompagnò sotto il getto caldo, prendendo a sfregarle delicatamente, ripulendole dal sangue che le aveva macchiate, rivolgendo, di tanto in tanto, occhiate in tralice all’amico, per controllare che stesse bene.
 Una volta finito con le mani, prese un asciugamano, lo inumidì e, poggiando una mano sul viso di Sherlock per tenerlo fermo, lo accarezzò con la stoffa bagnata, eliminando le ultime macchie di sangue.
 Sherlock non aprì bocca, né si lamentò: rimase immobile e impassibile per tutto il tempo, lasciando che John si prendesse cura di lui.
 Poi, improvvisamente, le lacrime ripresero a rigargli le guance.
 John provò nuovamente quella stretta al cuore.
 Perciò poggiò l’asciugamano accanto al lavello, e fece l’unica cosa che gli venne in mente. Sollevò una mano, accarezzò il viso di Sherlock con dolcezza, poi lo tirò verso di sé e lo abbracciò.
 Dopo un iniziale momento di immobilità, Sherlock circondò il petto di John con le braccia e ricambiò la stretta, affondando il viso nell’incavo del suo collo, lasciandosi andare a quella stretta rassicurante e dolce.
 John intrecciò le dita nei suoi capelli e gli accarezzò la schiena, cullandolo fra le sue braccia, sperando di alleviare, almeno per un momento, il tormento e il dolore che affliggevano il suo migliore amico.
 
 Rimasero stretti l’uno all’altro per lungo tempo, immersi nel silenzio, beandosi di quella vicinanza intima e dolce, e abbandonandosi alle braccia dell’altro, sapendo che era l’unica cosa di cui entrambi avevano bisogno in quel momento.
 Il primo a rompere il silenzio fu Sherlock.
 «Scusa» mormorò contro il collo di John, le labbra che accarezzavano la sua pelle.
 «Per cosa?» domandò John, percorrendo la schiena di Holmes con le mani, regalandogli delicate carezze, senza preoccuparsi del fatto che potesse essere sconveniente o sbagliato.
 «Per questo.» replicò l’altro. «Io… io ho…» si bloccò, incerto sulle parole da utilizzare.
 «Va tutto bene.» assicurò Watson. «Non c’è nulla per cui tu debba scusarti, Sherlock.» spiegò, poi si allontanò da lui e puntò gli occhi nei suoi. «È normale avere paura. Ma tutto si sistemerà.» concluse con un mezzo sorriso. Allungò una mano arrivando a toccare quella dell’amico, e intrecciò le loro dita. «Adesso andiamo a cercare dei vestiti puliti, ok?»
 Holmes annuì e si lasciò guidare al piano superiore.
 Insieme raggiunsero la camera di Mycroft, dove John sperava di trovare qualcosa che Sherlock potesse indossare per togliersi di dosso gli abiti imbrattati del sangue di suo fratello.
 Il medico si avvicinò all’armadio e lo aprì, passando in rassegna i capi che vi erano all’interno. Tutto era perfettamente organizzato e in ordine, perciò riuscì a individuare immediatamente ciò che stava cercando. Prese una camicia bianca, una giacca e dei pantaloni neri, poi si avvicinò a Sherlock, che stava attendendo seduto sul materasso, con lo sguardo puntato sul pavimento.
 «Tieni.» disse John, porgendogli gli indumenti puliti.
 Sherlock sollevò il capo e allungò le braccia, prendendo gli abiti fra le mani.
 Per un momento le loro dita si sfiorarono e i loro sguardi si agganciarono.
 Dopo un momento di completa immobilità, il consulente investigativo lo distolse, voltandosi per poggiare gli abiti sul materasso.
 «Ti aspetto qui fuori.» disse John e poi lasciò la stanza per lasciare all’amico la sua privacy. 
 Una volta fuori poggiò la schiena e il capo alla parete, chiudendo gli occhi.
 Ciò che era successo quel giorno l’aveva sconvolto, e non poco. Non avrebbe mai creduto possibile che Mycroft sarebbe potuto arrivare a tanto, nonostante la disperazione che stava provando in quel momento.
 E ciò che più gli aveva fatto male era stato vedere Sherlock col cuore spezzato e così spaventato da perdere il controllo. Era stato terribile e doloroso vedere il suo migliore amico crollare sotto la morsa del dolore e il senso di colpa che stava provando per ciò che era accaduto a suo fratello.
 Avrebbe tanto voluto portagli via quel dolore. Farsene carico e allontanarlo da lui per vederlo tornare quello di sempre. Il sorridente e bizzarro Sherlock Holmes.
 John venne riportato alla realtà da Sherlock, che comparve sulla porta con indosso gli abiti puliti e quelli sporchi di sangue tra le mani.
 Watson si riscosse e si voltò verso di lui. «Dalli a me.» disse, prendendoli fra le mani.
 «Potresti…» Sherlock esitò. «Potresti buttarli? Non voglio vedere…»
 «Certo.» disse John, senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
 Non voleva vedere il sangue. Non voleva ricordare cos’era successo quel giorno. 
 Sherlock lo osservò per qualche istante, poi annuì in segno di ringraziamento. Abbassò lo sguardo, poi lo risollevò. «Puoi portarmi da lui?» mormorò con voce tremante.
 John annuì. «Sì.» disse. «Andiamo.»
 E, dopo aver gettato via gli abiti sporchi, insieme salirono sull’auto di John e si avviarono verso l’ospedale.
 
 

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Capitolo 5
*** Crollo ***


Amore
 

Capitolo V
Crollo
 
 
 Dopo un’operazione durata quasi due ore, i medici informarono Sherlock che suo fratello era fuori pericolo. Erano servite due trasfusioni, ma alla fine Mycroft ce l’aveva fatta e in poco tempo, e rimanendo a riposo, si sarebbe ripreso.
 Sherlock e John, a quella notizia, si erano scambiati uno sguardo sollevato e Watson aveva accarezzato la schiena dell’amico con dolcezza, sorridendogli rassicurante, felice di sapere che Mycroft si sarebbe rimesso.
 Il medico diede loro il permesso di raggiungerlo nella stanza in cui era stato trasferito, dato che ben presto si sarebbe svegliato dall’anestesia, e, dopo aver consigliato a Sherlock di ricorrere ad un aiuto psicologico per aiutare Mycroft a superare qualsiasi cosa lo stesse tormentando, si congedò, facendo sapere loro che per qualsiasi cosa sarebbe bastato chiamarlo.
 
 Non appena varcarono la soglia della stanza, Sherlock si avvicinò al materasso.
 Mycroft era sdraiato sul letto, una mascherina per l’ossigeno poggiata sul volto, l’ago di una flebo collegato al braccio sinistro, entrambi i polsi fasciati e il petto coperto da elettrodi; il suo volto era pallido e segnato dalla stanchezza e dai lividi lasciati da Magnussen, e il suo corpo magro e deperito dopo mesi di digiuni continui e autoimposti.
 Sherlock poggiò la mano su quella del fratello e la strinse, quasi per assicurarsi che fosse realmente lì, sano e salvo. Un sospiro tremante lasciò le sue labbra, al pensiero di quanto suo fratello stesse soffrendo in quel momento, e subito gli occhi si colmarono di lacrime.
 John gli poggiò una mano sulla spalla e il consulente investigativo si voltò verso di lui, incrociando i suoi occhi, a pochi centimetri dai propri.
 «Vuoi che aspetti fuori?» chiese il medico, a bassa voce.
 Sherlock scosse il capo. «Rimani qui.» sussurrò. «Ho bisogno di te, John. Resta con me.»
 John annuì e fece scivolare la mano nella sua.
 
 Mycroft riprese conoscenza lentamente.
 Aprì gli occhi e dovette sbattere più volte le palpebre per capire dove si trovasse.
 Pareti di un azzurro pallido e smunto. Lenzuola bianche. Odore di disinfettante.
 Un ospedale.
 Ma come ci era arrivato in un ospedale?
 Il suo cuore accelerò.
 Si mosse sul materasso, sentendo le gambe e le braccia indolenzite. Sentendosi disorientato, essendosi mosso troppo velocemente, inspirò profondamente, tentando di recuperare la lucidità necessaria a capire come fosse finito lì e perché.
 Scostò la mascherina d’ossigeno che aveva poggiata sul viso e inclinò il capo a destra e a sinistra.
 E solo allora si accorse della presenza di Sherlock e John.
 Entrambi erano profondamente addormentati, il capo poggiato sulle braccia, incrociate sul materasso. Sherlock aveva una mano chiusa intorno a quella di John e l’altra poggiata sulla sua.
 E Mycroft ricordò.
 Sherlock e John fuori da Appledore.
 Il ritorno alla sua villa.
 La visita.
 Lo specchio in frantumi.
 Il sangue.
 Il buio.
 Il politico chiuse gli occhi.
 Come si erano accorti in tempo di ciò che aveva fatto?
 Come avevano fatto a salvarlo prima che morisse dissanguato?
 Perché l’avevano salvato?
 Perché era ancora vivo?
 Mycroft strinse i pugni e una fitta di dolore gli attraversò le braccia, partendo dai polsi e propagandosi fino alla spalle.
 Un gemito di dolore gli sfuggì dalle labbra e il suo respiro accelerò di colpo.
 Nello stesso instante, l’ECG prese a gracchiare rumorosamente, svegliando Sherlock e John; i due sollevarono il capo di scatto, aprendo gli occhi e voltandosi verso di lui.
 Sherlock ci mise qualche secondo per realizzare, ma quando vide che suo fratello era sveglio, la stanchezza scomparve immediatamente dal suo volto, lasciando spazio soltanto al sollievo.
 «Myc» disse, accarezzandogli un braccio. «Come ti senti?»
 Mycroft volse lo sguardo verso il soffitto, sentendo gli occhi inumidirsi.
 Non voleva vedere Sherlock. Non voleva vedere la delusione nei suoi occhi dopo ciò che aveva fatto. Non voleva vedere quanto fosse deluso e disgustato dalle sue azioni.
 Era già abbastanza convivere con se stesso e il proprio senso di colpa… non avrebbe sopportato di vedere suo fratello distrutto a causa delle sue scelte.
 
 Il minore, captando la razione di suo fratello, si voltò verso John.
 «Puoi lasciarci soli un momento, John?»
 Watson annuì e dopo aver preso la giacca poggiata sullo schienale della sedia, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
 Sherlock, una volta rimasti soli, sollevò una mano e accarezzò il capo di suo fratello. «Mi hai fatto preoccupare.» affermò, parlando con estrema dolcezza. «Credevo di averti perso.» un sospiro tremante lasciò le sue labbra. Poi sospirò. «Perché l’hai fatto, Myc?» domandò. «Perché?»
 Le lacrime rigarono le guance del politico, che tuttavia non rispose.
 «È davvero questo che vuoi?» proseguì il minore. «Farla finita e permettere a Magnussen di vincere?» chiese, poi poggiò una mano su quella di lui, sperando di attirare la sua attenzione. «Non permettergli di farti questo, Mycroft. Devi essere forte e reagire.»
 «Non posso.» gemette il politico, fra le lacrime.
 «Sì, invece.»
 «No, Sherlock. Non posso.» replicò, voltandosi verso di lui e incrociando il suo sguardo. «Guardami. Guarda cosa mi ha fatto…» singhiozzò. «Mi ha portato via tutto. E io non posso più vivere così. Non riesco nemmeno più a guardarmi allo specchio. Ogni volta in cui penso a quello che mi ha fatto, io…»
 Sherlock scosse il capo. «Devi darti del tempo.» affermò. «Tutto tornerà alla normalità se ti concederai del tempo per superarlo.»
 «Non è vero, Sherlock. E lo sai anche tu.» replicò Mycroft.
 Sherlock ripensò al suo ritorno dalla missione per distruggere la rete di Moriarty. Nei due anni passati lontano da Londra aveva sofferto così tanto che una volta tornato, nulla sembrava più lo stesso.
 Londra era diversa.
 La sua vita era diversa.
 Lui era diverso. Era cambiato in quei due anni passati lontani dall’Inghilterra e da John, e nulla, nemmeno il tornare alla sua vita e ai casi, o il calore e l’affetto dei suoi amici erano riusciti a fare tornare tutto come prima.
 «Io non sarò mai più lo stesso. Sono distrutto.» proseguì Mycroft. «Magnussen ha ragione… non sono nient’altro che un giocattolo rotto.»
 «Quindi cosa pensi di fare?» sbottò il consulente investigativo, colpito in pieno da quelle parole. «Uscire di qui e buttarti dal tetto del Bart’s? Tagliarti le vene ancora una volta?» chiese, più duramente di quanto avrebbe voluto. «Non capisci che in questo modo stai facendo il suo gioco?»
 «Non mi importa!» esplose Mycroft, il volto rigato dalle lacrime, il corpo scosso dai singhiozzi. «Non voglio continuare vivere! Non se dovrò farlo così.» gemette. «Non voglio vivere sapendo di essere inutile e di essere un peso per chiunque mi stia accanto. Non voglio vivere sapendo che dovrò convivere fino alla fine dei miei giorni con ciò che Magnussen mi ha fatto! Voglio solo che tutto questo dolore finisca.» concluse. «Voglio finirla qui.»
 «Non te lo lascerò fare.» dichiarò Sherlock. «Non permetterò che tu ti uccida.»
 «Non puoi impedirmelo. È una mia scelta, Sherlock. Non tua.» replicò il politico. Il suo volto si contrasse in una smorfia di dolore. «Avresti dovuto lasciarmi morire in quel bagno. Avresti dovuto lasciarmi morire…»
 A quelle parole, le lacrime rigarono le guance del minore. «Smettila.»
 «Perché mi hai salvato, Sherlock? Io non lo volevo…» singhiozzò l’altro. «Avresti dovuto lasciarmi morire. Volevo uccidermi… volevo morire… perché mi hai salvato?»
 Sherlock indietreggiò, colpito da quelle parole, che furono come un pugno nello stomaco. Ansimò, sentendo il suo cuore andare definitivamente in pezzi nel vedere suo fratello così e nel sentirlo pronunciare quelle parole così cariche di dolore e sofferenza.
 E per la prima volta nella sua vita comprese ciò che Mycroft, la sua famiglia e i suoi amici avevano provato quando lo avevano trovato in overdose in qualche covo di drogati o sudicio vicolo.
 Dolore.
 Paura.
 Senso di colpa.
 Con la mente sovraccaricata da tutte quelle emozioni, Sherlock lasciò la stanza.
 Uscì e imboccò il corridoio, percorrendolo di corsa mentre le lacrime gli rigavano le guance con violenza, togliendogli il fiato e quel briciolo di speranza che gli era rimasta.
 Lui era stato la rovina di suo fratello.
 Lui era stato la causa del suo dolore.
 Lui era l’unico responsabile di ciò che era accaduto.
 
 John stava percorrendo i corridoi dell’ospedale in cerca di Sherlock.
 Era stato da Mycroft per sapere come stesse, ma quando era arrivato, non aveva trovato il suo amico. Il politico gli aveva detto, senza tradire alcuna emozione, che suo fratello se n’era andato quasi mezz’ora prima e che non sapeva dove si fosse diretto.
 Il medico aveva immaginato che fosse accaduto qualcosa fra loro, perciò si era messo immediatamente alla ricerca del consulente investigativo, perlustrando tutti i corridoi dell’ospedale.
 Dopo aver vagato per quasi un’ora nei corridoio di ogni reparto del Bart’s, senza risultati, decise di raggiungere il laboratorio, l’unico posto che non avesse ancora controllato.
 Una volta arrivato all’ultimo piano interrato, percorse il corridoio camminando velocemente. Se non avesse trovato Sherlock lì, considerato che nemmeno rispondeva al cellulare, non avrebbe davvero saputo dove continuare a cercare. Perciò avrebbe dovuto contattare Scotland Yard e Lestrade, sperando che lui potesse rintracciarlo in qualche modo.
 Nel tragitto verso il laboratorio, John quasi si scontrò con Molly, diretta in obitorio con una pila di documenti fra le mani.
 «John» esclamò lei, bloccandosi per non andargli addosso.
 «Ciao, Molly.» replicò lui. «Hai visto Sherlock?»
 Lei annuì. «È in laboratorio.» rispose, indicando le porte alle sue spalle.
 John sospirò di sollievo. Finalmente l’aveva trovato.
 «Grazie al cielo…» si lasciò sfuggire.
 «Cosa sta succedendo?» domandò la donna, aggrottò le sopracciglia. «Prima stava piangendo, ma non ha voluto dirmi cos’era successo. Sembrava sconvolto.»
 Watson esitò. «Ehm…» esordì, incerto su cosa poter rivelare e cosa tenere segreto. «Lui… questa notte suo fratello si è sentito male, e Sherlock si è spaventato.» spiegò, sperando di suonare convincente. Poi sorrise rassicurante. «Ma adesso Mycroft sta bene. Si è svegliato e sono venuto a cercarlo per farglielo sapere.»
 Molly annuì. «Sono contenta che stia bene.» concluse con un sorriso accennato. «Digli che può rimanere tutto il tempo che vuole, comunque.»
 John sorrise. «Grazie, Mol.»
 Lei sorrise di rimando, poi indicò la porta dell’obitorio. «Devo tornare al lavoro.»
 «Certo.» disse il medico. «Grazie.» la salutò con un cenno della mano, poi si avviò verso la porta del laboratorio e la spalancò con una spinta.
 
 All’interno le luci erano accese, ma quando John entrò, era completamente vuoto.
 Aggrottò le sopracciglia, confuso. Poi udì un ansito leggero, seguito da un singhiozzo. Perciò chiuse le porte e oltrepassò i banconi da lavoro. E lo vide.
 Sherlock era seduto a terra, la schiena poggiata al bancone, il capo poggiato sulle ginocchia, che teneva strette al petto. Il suo corpo era scosso da potenti tremori e i suoi singhiozzi stavano rimbombando all’interno della stanza, perdendosi nel vuoto.
 Il cuore del medico si spezzò.
 Cosa poteva essere successo per scatenare in lui una reazione del genere?
 Prima sembrava così sollevato nel vedere che suo fratello stava bene… eppure adesso era in lacrime, nascosto nel laboratorio, lontano da tutti.
 John si inginocchiò accanto a lui e gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla.
 Holmes a quel contatto sobbalzò e sollevò lo sguardo di scatto.
 I loro sguardi si incrociarono, gli occhi di Holmes colmi di lacrime e quelli di Watson di apprensione. Poi Sherlock si accasciò contro l’amico, poggiando la testa contro il suo petto, e John lo strinse a sé, accarezzandogli il capo e cullandolo dolcemente fra le sue braccia, sperando in quel modo di alleviare almeno un po’ il dolore che lo stava affliggendo.
 
 Sherlock e John erano seduti uno accanto all’altro, immersi nel più completo silenzio. Il consulente investigativo aveva il capo poggiato sulla spalla dell’amico e il medico gli stava tenendo la mano, accarezzandone il dorso con il pollice.
 Quando Holmes aveva smesso di singhiozzare aveva raccontato a Watson tutto ciò che Mycroft gli aveva detto poco prima.
 Il medico aveva ascoltato senza interromperlo e alla fine gli aveva preso la mano, lasciando che poggiasse il capo sulla sua spalla, sapendo quanto in quel momento avesse bisogno di quella vicinanza più che di parole di conforto.
 Ed erano rimasti avvolti in quel silenzio per lungo tempo.
 
 «Grazie.» sbottò Sherlock ad un tratto.
 «Per cosa?» domandò John.
 Il consulente investigativo sollevò il capo e si voltò per incontrare il suo sguardo.
 «Tutto.» rispose. 
 Watson aggrottò le sopracciglia, confuso.
 «Per essere qui quando ho bisogno di te. E per essere il mio migliore amico, anche se non lo meriterei.» proseguì Sherlock, abbassando lo sguardo.
 Il medico si prese qualche secondo per osservarlo, poi sollevò una mano e la poggiò sul suo viso, sollevandolo, in modo da poterlo guardare negli occhi. Quando i loro sguardi si agganciarono, John riprese.
 «Perché non dovresti meritarlo?» chiese.
 Sherlock sospirò. «Ti ho fatto soffrire così tante volte da averne perso il conto.» spiegò, incrociando il suo sguardo. «Quando mi sono buttato dal tetto del Bart’s, quando ho ricominciato a drogarmi, e milioni di altre volte… E solo adesso… solo adesso ho capito quanto ciò che ti ho fatto sia stato terribile e quanto io ti abbia fatto male.» le lacrime gli rigarono le guance e lui abbassò nuovamente il capo per tentare di nasconderle. «E ho capito di non meritare la tua amicizia. Non dopo tutto ciò che ti ho fatto passare…»
 Il medico sentì il cuore mancare un battito.
 Dopo ciò che era successo, Watson aveva tentato più volte di far capire al suo amico quanto ciò che aveva fatto lo avesse ferito e fatto preoccupare, ma per il consulente investigativo sembrava impossibile da comprendere. Però, con il tentativo di suicidio di Mycroft e tutto ciò che gli aveva detto poco prima, sembrava che Sherlock avesse capito quanto l’avesse fatto soffrire nei due anni in cui aveva finto la sua morte e dopo aver ricominciato a fare uso di droghe.
 Tuttavia, il dottore si ritrovò a pensare, sarebbe stato meglio che non lo avesse scoperto così, a spese di suo fratello e sue.
 «Non è vero che non lo meriti, Sherlock.» affermò John, scuotendo il capo.
 Sherlock singhiozzò. «Non ho fatto altro che ferirti da quando ci siamo conosciuti. Non è questo che un amico dovrebbe fare.»
 «Non è vero. E comunque, anche se mi avessi ferito, di certo non avrei smesso di tenere a te.» fece notare Watson. «Dopo tutto ciò che è successo, hai forse smesso di tenere a Mycroft?»
 Holmes sollevò lo sguardo di scatto. «No. Certo che no.» rispose con ovvietà. «Perché avrei dovuto?»
 Il medico annuì. «Infatti.» confermò. «E la stessa cosa vale per me.» disse, accarezzandogli le guance per asciugare le lacrime che gli stavano rigando il volto. «Non smetterò di essere tuo amico per qualcosa del genere. Sì, è vero, ho sofferto, ma quello che importa è che tu adesso stia bene e sia qui. Nient’altro ha importanza.» accennò un sorriso. «Per quanto potrai farmi soffrire, non riuscirai ad allontanarmi da te, Sherlock.»
 Altre lacrime traboccarono dagli occhi del consulente investigativo, che le asciugò con un rapido gesto della mano.
 John esalò un lungo respiro, poi tirò l’amico verso di sé, in modo che avesse il capo poggiato sulla sua spalla. Gli accarezzò i capelli e la gamba, tenendolo stretto a sé, lasciando che si sfogasse e versasse le sue lacrime per liberarsi dal peso che gli opprimeva il cuore.
 
 Mycroft aprì gli occhi sentendo una mano premere sulla propria.
 Non pensava che Sherlock potesse tornare dopo ciò che gli aveva detto poco prima, eppure eccolo lì, nuovamente pronto a convincerlo a cambiare idea su ciò che era successo.
 Ma lui non avrebbe cambiato idea. Nemmeno se fosse stato suo fratello a chiederglielo.
 Tuttavia, quando inclinò il capo non furono gli occhi di Sherlock quelli che incontrò, ma quelli freddi e vuoti di Magnussen.
 Il suo cuore si fermò, ma prima che potesse muoversi o chiamare aiuto, Magnussen aveva già premuto la sua mano sulla sua bocca, intimandogli di fare silenzio, il volto fermo a pochi centimetri dal suo.
 Mycroft prese a respirare affannosamente.
 Come aveva scoperto che si trovava lì?
 Come aveva fatto a trovarlo?
 E soprattutto: cosa gli avrebbe fatto?
 Era solo e nessuno avrebbe potuto aiutarlo, né avrebbe potuto fuggire o difendersi.
 Il politico gemette contro la mano dell’uomo, mentre il suo petto prendeva ad alzarsi e abbassarsi convulsamente man mano che il suo respiro aumentava, insieme all’insistente gracchiare dell’ECG accanto al suo orecchio.
 «A quanto pare suo fratello e il dottor Watson hanno scoperto ogni cosa.» esordì Magnussen. Accennò un sorriso freddo e privo di ogni traccia di gioia. «Sbaglio o le avevo detto che nessuno avrebbe dovuto sapere nulla e che questo sarebbe dovuto essere il nostro piccolo segreto?» chiese, premendo maggiormente la mano sulla sua bocca.
 Le lacrime sgorgarono dagli occhi di Mycroft, infrangendosi sulle dita di Magnussen, che le ignorò, continuando a tenere gli occhi, minacciosi e freddi, puntati in quelli di Holmes.
 «Quante volte dovrò ancora punirla prima che arrivi a capire che nessuno deve sapere di noi?» ringhiò.
 E per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, Mycroft riuscì a scorgere nei suoi occhi una scintilla di pura rabbia.
 «Fin dove dovrò spingermi per costringerla a obbedirmi?» sibilò, poggiando le labbra sull’orecchio di Holmes. Affondò le dita nelle sue guance.
 Mycroft gemette dal dolore, sentendo il suo corpo tremare involontariamente sotto il tocco di Magnussen.
 Un singhiozzo lasciò le sue labbra e rimbombò nella stanza.
 A quel suono, Magnussen aumentò la presa sul suo viso e le sue unghie penetrarono nella sua carne. Alcune gocce di sangue gli percorsero le guance, perdendosi nella sua barba e scivolando lungo la sua pelle.
 In quell’istante, la porta della stanza si aprì con uno sbuffo.
 Magnussen si voltò e quando si scostò, Mycroft vide Sherlock e John in piedi sulla soglia.
 «Si allontani immediatamente da mio fratello.» ringhiò Sherlock, avanzando, sul volto l’ombra della rabbia crescente.
 Magnussen si voltò completamente, lasciando andare il politico.
 Mycroft annaspò, come se fino a quel momento avesse trattenuto il respiro.
 «Altrimenti, signor Holmes?» lo sfidò Magnussen. «Si ricordi che lei e il dottor Watson avete commesso un reato violando il mio domicilio e proteggendo la donna che aveva tentato di uccidermi. Mi basterebbe una parola, e voi verreste arrestati.»
 «Si allontani da lui.» ripeté John, affiancando l’amico, gli occhi fiammeggianti per la rabbia. «Non ce lo faccia ripetere, o potrebbe pentirsene.»
 «Oppure?» chiese l’uomo. «Mi denuncerete per violenza sessuale, distruggendo la dignità di Mycroft Holmes?» chiese, ridendo. Poi rivolse un’occhiata al politico, ancora sconvolto e sotto shock. «Sempre che gliene sia rimasta…»
 Sherlock serrò i pugni e un ringhio gutturale gli sfuggì dalle labbra. «Se ne vada, o la uccido con le mie mani.»
 «È una minaccia?» chiese Magnussen, avvicinandosi a lui.
 I loro volti si fermarono a pochi centimetri l’uno dall’altro e i loro sguardi si agganciarono. Gli occhi di Magnussen glaciali e imperturbabili e quelli di Sherlock fiammeggianti per la rabbia.
 «È una promessa.» sibilò Sherlock.
 Magnussen sollevò un sopracciglio, poi sorrise, divertito. «D’accordo.» concesse, poi tornò a voltarsi verso Mycroft e dopo aver stretto una mano intorno ai suoi capelli, si chinò su di lui. «Tornerò, signor Holmes.» disse. «E farò in modo di farla pentire per ciò che ha fatto.»
 Il politico gemette.
 Magnussen si allontanò da lui, rivolse uno sguardo a Sherlock e John, poi li oltrepassò e lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
 Mycroft annaspò, sentendo l’aria bloccarsi nella sua gola prima di riuscire ad arrivare ai polmoni, e impedendogli di respirare. Un singhiozzo lasciò le sue labbra e il suo respiro accelerò sempre di più, divenendo singhiozzante e rotto.
 Sherlock si avvicinò e gli accarezzò il capo. «Va tutto bene, Myc.» assicurò. «Va tutto bene, sei al sicuro adesso.» poi si voltò e prese la mascherina dell’ossigeno, attivando la bombola.
 John aiutò Mycroft a mettersi seduto e quando Sherlock si fu posizionato alle sue spalle, il medico lo aiutò a poggiare la schiena al suo petto, in modo da poter rimanere seduto.
 Il consulente investigativo gli poggiò la mascherina sul volto. «Respira, Myc.» disse, accarezzandogli il petto. «Respira.» poggiò il capo contro il suo, muovendo la tempia contro quella di lui per accarezzarla.
 Mycroft gemette, tentando di fare respiri profondi e regolari, mentre le lacrime gli rigavano le guance. Chiuse una mano intorno al polso del fratello, quasi quel contatto gli servisse per rimanere ancorato alla realtà.
 John gli accarezzò dolcemente il braccio per tentare di tranquillizzarlo, poi sollevò lo sguardo sull’amico. «Vado a cercare un dottore, così può dargli un calmante.»
 Sherlock annuì, osservando Watson lasciare la stanza, e continuò ad accarezzare il petto di suo fratello, tenendo la mascherina dell’ossigeno premuta sul suo volto.
 E lentamente Mycroft tornò a respirare normalmente. I respiri si calmarono, divenendo nuovamente regolari e lenti, ma le lacrime continuarono a rigargli le guance senza sosta, mentre i singhiozzi lo scuotevano, facendo tremare il suo corpo, ancora a contatto con quello di suo fratello.
 Mycroft ansimò. «Non lasciare che mi faccia del male…» singhiozzò, la voce ovattata dalla mascherina. «Per favore, Sherlock… ti prego… non lasciare che lo faccia ancora…»
 Sherlock gli circondò il petto con un braccio e lo strinse maggiormente a sé. «Non glielo permetterò, Mycroft.» assicurò. «Lui non ti toccherà più. Te lo prometto.»
 Il politico singhiozzò e il suo corpo tremò violentemente.
 Perché Magnussen non poteva semplicemente lasciarlo in pace? Perché doveva continuare a tormentarlo in quel modo? Non era già abbastanza tutto ciò che gli aveva fatto passare?
 Il minore mosse la tempia contro quella di lui, accarezzandola. «Shh…» sussurrò per tranquillizzarlo. «Va tutto bene. Sono qui, andrà tutto bene.»
 
 Quando John tornò insieme al medico, l’uomo somministrò un calmante a Mycroft in modo da abbassare il suo battito cardiaco ed evitare eventuali crisi respiratorie, date le sue momentanee condizioni precarie.
 Tuttavia, quando si avvicinò per curare le ferite lasciate da Magnussen sul volto del politico, Mycroft si agitò e le lacrime gli rigarono nuovamente le guance. Implorò il medico di non toccarlo e nonostante le rassicurazioni di Sherlock, non volle farsi aiutare da lui.
 A quel punto intervenne John, che si offrì di occuparsi delle ferite del politico personalmente, dato che durante la prima visita il maggiore degli Holmes gli era sembrato tranquillo e ben disposto a farsi avvicinare da lui.
 Vedendo Holmes decisamente più tranquillo, il dottore accettò; gli fece avere l’occorrete da uno degli infermieri, poi lasciò la stanza, informandoli che se avessero avuto bisogno di qualcosa, avrebbero potuto chiamarlo in qualsiasi momento.
 Sherlock a quel punto si avvicinò a John e gli disse che sarebbe uscito per chiamare Anthea per fare in modo che mettesse degli uomini a guardia dell’ospedale, in modo che Magnussen non potesse più arrivare a suo fratello.
 John annuì, assicurando che si sarebbe preso cura di suo fratello e il consulente investigativo uscì.
 Quando John e Mycroft rimasero soli, il medico si avvicinò al carrello con l’occorrente per le medicazioni; indossò i guanti, poi prese un batuffolo di cotone, lo imbevve di disinfettante e si voltò verso il maggiore degli Holmes.
 «Potrebbe bruciare un po’.» lo avvertì. «Ma prometto di fare attenzione.»
 Mycroft annuì, gli occhi ancora lucidi di lacrime.
 A quel punto John si sedette accanto a lui sul materasso, gli poggiò una mano sul viso e con l’altra cominciò a pulire le ferite lasciate dalle unghie di Magnussen.
 Il politico ansimò un paio di volte ma non si lamentò, nonostante le lacrime gli stessero rigando le guance.
 Watson si prese cura di lui con perizia e delicatezza, asciugandogli le lacrime di tanto in tanto e rivolgendogli sguardi rassicuranti, in modo da metterlo a suo agio. Poi quando ebbe finito, accennò un sorriso.
 «Guariranno presto.» assicurò. «A parte questo ti ha fatto del male?»
 Mycroft scosse il capo, abbassando lo sguardo.
 «Ok.» concesse John. «Adesso ti aiuto a sdraiarti, così puoi riposare.» si tolse i guanti e li gettò nell’immondizia.
 Si avvicinò nuovamente a Mycroft e dopo avergli posto una mano dietro il capo e una sul petto, lo aiutò a sdraiarsi sulla schiena.
 «Cerca di dormire un po’. Quando ti sveglierai ti sentirai molto meglio.» assicurò.
 Mycroft annuì.
 John si voltò, prese il carrello e si avviò verso la porta, pronto a riportarlo agli infermieri, ma la voce di Mycroft lo richiamò prima che potesse lasciare la stanza.
 «John?»
 Il dottore si voltò. «Che succede?»
 «Puoi rimanere?» sussurrò il politico con voce tremante. «Almeno fino a che Sherlock non torna.» ansimò, il viso nuovamente rigato dalle lacrime. «Non voglio rimanere solo…»
 «Ma certo.» rispose Watson, dolcemente, accennando un sorriso e annuendo. «Certo che rimango.»
 Tornò accanto a lui e vedendo che aveva ripreso a respirare affannosamente, aprì la bombola d’ossigeno e sostituì la mascherina con gli occhialini, poi glieli sistemò sul viso, accarezzandogli delicatamente le guance.
 «Respira profondamente.» disse, prendendo posto sulla seggiola accanto al materasso e poggiando una mano sul braccio di Mycroft per accarezzarlo. «Sei al sicuro. Nessuno di noi permetterà che ti accada nulla di male.»
 «Grazie.» sussurrò il politico.
 John gli sorrise, poi lo osservò scivolare in un sonno profondo.
 
 Quando Sherlock rientrò nella stanza, vide che John era seduto sulla seggiola accanto al materasso e che stava tenendo la mano di Mycroft. Suo fratello era profondamente addormentato, gli occhialini dell’ossigeno ad aiutarlo a respirare e delle leggere cicatrici a segnargli il volto, nei punti in cui Magnussen l’aveva ferito.
 John, accortosi della sua presenza, si voltò.
 «Tutto ok?» chiese, incontrando i suoi occhi. 
 Lui, in risposta, annuì.
 Il medico si mise in piedi, lasciando la mano di Mycroft – che ormai era profondamente addormentato – e si avvicinò al consulente investigativo, in modo da non disturbare il politico.
 «Anthea manderà degli uomini entro breve.» spiegò Sherlock, parlando sottovoce. «Non lasceranno mio fratello nemmeno un secondo, e Magnussen non potrà più avvicinarsi a lui.»
 «Credi che riuscirai a convincere Mycroft a denunciarlo?» chiese Watson.
 Sherlock si voltò verso di lui e i loro sguardi si incrociarono. Sospirò e scosse il capo. «Non accetterà mai di farlo.» affermò. «Non vuole perdere il rispetto che si è guadagnato in tanti anni passati al governo. E se denunciasse Magnussen, tutti verrebbero a sapere la verità.»
 «Ma non può lasciare che la passi liscia.» replicò John. «Ha subito cose terribili e Magnussen va punito per ciò che gli ha fatto passare.»
 «Non possiamo nemmeno costringerlo a denunciarlo.»
 Il dottore sospirò. «Allora dobbiamo fermarlo. Dobbiamo trovare il modo di fermarlo e impedirgli di fare ancora una cosa del genere.» dichiarò. «Non possiamo permettere che la faccia franca anche questa volta. Qualcuno deve fargliela pagare per ciò che ha fatto a tuo fratello.»
 Sherlock annuì, voltandosi verso Mycroft. «Lo fermeremo.» assicurò.
 In ogni caso non avrebbe mai permesso a Magnussen di avvicinarsi ancora a Mycroft. E se per fermarlo avesse dovuto ucciderlo con le proprie mani come gli aveva promesso, lo avrebbe fatto. Gliel’avrebbe fatta pagare per tutto ciò che aveva fatto passare a suo fratello, non gli importavano le conseguenze che il suo gesto avrebbe comportato.
 Il corso dei suoi pensieri venne interrotto dalla mano di John, che scivolò nella sua e la strinse delicatamente.
 Sherlock abbassò lo sguardo sulle loro mani a contatto, poi lo sollevò sul volto dell’amico; i loro sguardi si agganciarono e i loro occhi si persero gli uni negli altri, blu nei blu, per un lungo momento. Nessuno dei due ebbe il coraggio di distogliere lo sguardo o interrompere quel contatto così intimo e speciale.
 Le loro dita si intrecciarono, sfiorandosi con dolcezza.
 «Dovresti andare a riposare.» mormorò Sherlock. «Rimango io con Mycroft.»
 Il medico scosse il capo. «Non me ne vado.»
 «Sei distrutto, John.» ribatté il moro. «Hai bisogno di dormire.»
 «Anche tu.» fece notare Watson.
 «Sì, ma non posso lasciare mio fratello, lo sai.»
 «E io non voglio lasciare te.»
 Holmes sospirò, avendo capito che qualsiasi argomento avesse proposto, il suo migliore amico non si sarebbe mosso da lì e non gli avrebbe dato ascolto.
 John fece spallucce, accennando un sorriso. «Non riuscirai a convincermi.»
 Sherlock sorrise. «Lo so.» concluse, poi esalò un lungo respiro e si voltò verso suo fratello, osservandolo per un lungo istante, gli occhi carichi di un dolore troppo grande per essere celato.
 John aumentò la pressione intorno alla sua mano e cercò il suo sguardo. «Ehi…» mormorò. «Andrà tutto bene.»
 Holmes si voltò verso di lui. «Come lo sai?»
 «Ha te.» rispose il medico.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia, perplesso di fronte a quell’affermazione.
 John sorrise. «Sei riuscito a eliminare il mio disturbo psicosomatico in poche ore e a farmi sentire a casa in una città che non avevo mai sentito mia, facendomi dimenticare la guerra e tutti gli orrori che avevo vissuto.» spiegò. «Se gli rimarrai accanto come hai fatto con me, in poco tempo tutto tornerà alla normalità anche per lui.»
 «Riponi una grande fiducia in me.» replicò Sherlock. «Non so se lo merito. »
 «Non tentare di spacciarti per qualcuno che non sei, Sherlock Holmes. Non con me.» disse John, accennando un sorriso. «Io ti ho visto. Ti ho visto davvero. So come sei veramente e so che sei capace di cose straordinarie.»
 A Sherlock sfuggì una leggera risata. Abbassò lo sguardo.
 In quel momento Mycroft gemette.
 «Sherlock?» mormorò il politico, ansimando e agitandosi sul materasso.
 Il consulente investigativo lasciò la mano del medico e si voltò, avvicinandosi al letto per entrare nel campo visivo del fratello.
 «Sono qui.» disse, sorridendogli rassicurante. «Stai tranquillo.»
 Mycroft gemette, annaspando per cercare aria, nonostante l’ossigeno lo stesse aiutando a respirare. «Credevo…» sussurrò. «Credevo che te ne fossi andato…»
 Sherlock scosse il capo e gli prese la mano. «Non me ne andrò.» assicurò, sedendosi sul materasso. «Non ti lascerò solo mai più, te lo prometto.»
 Il maggiore annuì.
 E Sherlock gli sorrise, accarezzandogli il capo.
 
 Quella sera, Anthea si presentò in ospedale e si offrì di rimanere insieme a Mycroft durante la notte, per permettere a Sherlock e John di tornare a casa e riposare. Il consulente investigativo non sembrava tranquillo nel lasciare Mycroft solo con la sua segretaria – che in ogni caso avrebbe potuto fare poco nell’eventualità in cui Magnussen si fosse ripresentato in ospedale – ma grazie all’insistenza di John e dopo l’arrivo degli uomini che si sarebbero occupati della sicurezza di suo fratello, si convinse a tornare a Baker Street per dormire per qualche ora.
 Si raccomandò con Anthea di non lasciare mai solo suo fratello, di mettere almeno due uomini a guardia della stanza e di chiamarlo se si fosse presentato qualche problema, e la donna assicurò che lo avrebbe fatto.
 A quel punto Sherlock tornò all’interno della stanza, si avvicinò al materasso e prese la mano di suo fratello. Si chinò su di lui per parlargli all’orecchio e poggiò la tempia contro la sua, muovendola per accarezzarla.
 «Ci sono i tuoi uomini qui fuori dalla porta e all’esterno dell’ospedale, e Anthea rimarrà con te, questa notte.» disse. «Lui non si avvicinerà più a te. Nessuno glielo permetterà. Ok?»
 «Ok.» replicò il maggiore, con voce incerta.
 Sherlock si allontanò da lui e incontrò i suoi occhi. «Andrà tutto bene.» assicurò, poggiandogli una mano sul viso e accarezzandolo. «Finirà tutto molto presto, te lo prometto.»
 Mycroft, captando i suoi pensieri, gli circondò il polso con una mano. «Non metterti contro di lui, Sherlock.» mormorò. «Non voglio che ti faccia del male.»
 «Non lo farà.» replicò il minore.
 «Ti prego… stai firmando la tua condanna…» lo implorò, gli occhi colmi di lacrime e paura. «Lui ti distruggerà… non vale la pena fare tutto questo solo per…»
 Il consulente investigativo non lo lasciò concludere. «Per te?» chiese. «Sì, invece. Ne vale la pena. Perché sei mio fratello, e Magnussen la pagherà per tutto il dolore che ti ha causato. Non la passerà liscia, puoi contarci.»
 «Sherlock…»
 «Lascia fare a me.» disse, prendendogli la mano. «Ti prego, per una volta, lascia che sia io a proteggere te, Myc. È il mio turno di prendermi cura di te, adesso.»
 Il maggiore lo osservò per un lungo istante, poi annuì flebilmente. «Sii prudente.»
 Sherlock accennò un sorriso e annuì. Poi prese il volto di suo fratello fra le mani e gli baciò la fronte. «Riposa.» sussurrò sulla sua pelle.
 «Tornerai?»
 «Presto.» assicurò Sherlock. «Te lo prometto.» disse allontanandosi da lui e rivolgendogli un sorriso accennato. Poi indossò la sua sciarpa e lasciò la stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Con un cenno fece capire ad Anthea che avrebbe potuto entrare, poi affiancò John.
 «Andiamo?» chiese il medico.
 Lui annuì e insieme si avviarono fuori dall’ospedale.
 
 
 ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti! ;) Innanzitutto chiedo scusa per il ritardo nella pubblicazione, ma ieri non ho proprio trovato il tempo per rivedere e pubblicare il capitolo, perciò ho preferito prendermi il tempo di farlo oggi e per rivederlo meglio.
È un capitolo molto molto angst, perché se non lo aveste ancora capito amo l’angst. xD
Spero che nonostante ciò vi sia piaciuto! :)
Pubblicherò il prossimo giovedì. ;)
A presto, Eli♥
 

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Capitolo 6
*** Frammenti ***


Amore
 

Capitolo VI
Frammenti

 
 
 
 Una volta arrivati a casa, dopo aver fatto una doccia e aver cenato con gli avanzi trovati in frigo, John annunciò che sarebbe andato a letto per riposare. Lui e Sherlock erano rimasti in piedi due giorni per poter rimanere accanto a Mycroft e il medico stava cominciando a risentire di quella veglia che si era ormai prolungata anche troppo.
 Sherlock, che era seduto sulla sua poltrona da quando avevano finito di cenare, annuì senza incrociare lo sguardo dell’amico. Aveva gli occhi puntati sulle fiamme che stavano scoppiettando nel camino, le braccia rigidamente stese sui braccioli e il volto contratto in un’espressione severa.
 «Sicuro di non aver bisogno di nulla?» chiese ancora John, avvicinandosi. «Posso prepararti un tè, se vuoi. O tenerti compagnia.»
 Sherlock scosse il capo. «Sto bene. Vai a dormire.»
 Il medico sospirò. «Anche tu dovresti riposare.»
 Holmes non tradì alcuna emozione. «Non ho sonno.»
 «Posso darti dei tranquillanti se non riesci a dormire.» replicò Watson. «So che dopo ciò che è successo sei turbato, ma non gioverà a nessuno rimanere sveglio per giorni e giorni. Hai bisogno di qualche ora di sonno.»
 «Sto bene.»
 «Continui a ripeterlo, ma è evidente che non è così.»
 Sherlock a quel punto si voltò verso John. «D’accordo, mi metterò a letto se ti farà sentire più tranquillo.» promise. «Rimango ancora un momento qui a scaldarmi, poi vado a dormire. Ok?»
 John annuì. «Ok.»
 «Buonanotte, John.» disse Sherlock, per convincerlo.
 «Buonanotte, Sherlock.» ricambiò il medico e lasciò la stanza.
 
 John venne svegliato da un incubo.
 Aprì gli occhi di scatto, ansimando pesantemente, il viso madido di sudore e il corpo che tremava, percorso dalla paura. Le immagini dell’incubo erano ancora scolpite nella sua mente, impresse a fuoco, indelebili e così reali da fargli provare un brivido di terrore.
 Si mise a sedere sul materasso e si portò una mano alla fronte, tentando di controllare i propri respiri. Inspirò ed espirò svariate volte, poi deglutì, imponendosi di allontanare le immagini dell’incubo dalla sua mente.
 Com’era possibile che non appena chiudeva gli occhi, si materializzassero per tormentarlo?
 Sospirò. Sarebbe mai riuscito a trovare un po’ di pace?
 Stava per rimettersi a letto, rassegnatosi al fatto che probabilmente quella notte non avrebbe più chiuso occhio, quando notò la luce che proveniva dal piano inferiore.
 Aggrottò le sopracciglia, confuso, poi intuì che dovesse trattarsi di Sherlock.
 Si voltò verso la sveglia e notò che era l’una del mattino.
 Cosa diavolo ci faceva Sherlock ancora in piedi?
 Sospirò e scostò le coperte, poggiando i piedi sul freddo pavimento in legno. Si avviò lungo il corridoio e giù per le scale, pronto a fare una ramanzina a Sherlock, che come sempre non gli aveva dato ascolto, ma, quando arrivò sulla soglia del salotto, si bloccò.
 Sherlock era in piedi di fronte al camino ancora acceso. Aveva le mani chiuse intorno alla mensola in legno, lo sguardo basso a fissare le fiamme e i muscoli delle spalle contratti sotto la camicia leggera che stava indossando.
 Il medico sospirò. Aveva sospettato che nonostante l’amico gli avesse detto che si sentiva bene e che sarebbe andato a letto per riposare, in realtà non ci sarebbe riuscito. Ciò che era successo a Mycroft continuava a tormentarlo e John non poteva biasimarlo. Poteva solo immaginare quanto Sherlock si sentisse responsabile per ciò che era accaduto a suo fratello, e quanto gli facesse male vederlo così.
 Gli era capitata la stessa cosa con Harry, durante la loro giovinezza. Vederla autodistruggersi, rifugiandosi nell’alcool, e non poter fare nulla per aiutarla era stato terribile. Ma ancor peggio era stato che nessuno fosse stato lì per lui, per aiutarlo a superare quel momento, che oltre ad essere stato terribile per sua sorella, era stato tremendo anche per lui.
 John sospirò, poi avanzò e quando fu alle spalle dell’amico, fece scorrere le mani sulla sua schiena, risalendo fino alle spalle e scendendo sul petto. Lo accarezzò, poi lo circondò con le braccia, poggiando la fronte contro il collo di Sherlock.
 Sherlock esalò un lungo respiro, rilassandosi sotto il tocco dolce e rassicurante del medico; poi abbassò le mani e le poggiò su quelle di John, accarezzandole delicatamente. E quando Watson allentò la presa sul suo corpo, Holmes si voltò verso di lui, in modo da poterlo guardare negli occhi.
 John accarezzò la schiena dell’amico risalendo fino alle spalle e scendendo lungo le braccia. Quando raggiunse le sue mani, poggiò i palmi contro quelli dell’amico e intrecciò le loro dita.
 Sherlock abbassò lo sguardo sulle loro mani, poi lo risollevò sul viso del dottore, percorrendone ogni centimetro con gli occhi.
 John sentì un brivido percorrergli la schiena. Gli occhi di Sherlock erano così profondi da riuscire a scrutare nel profondo della sua anima, mettendo a nudo ogni parte di lui, anche la più nascosta. Bastava un singolo sguardo e quell’uomo riusciva a distruggere ogni sua difesa e ogni sua convinzione, mettendo in discussione tutto.
 Sherlock prese il suo volto fra le mani e lo accarezzò con dolcezza. Sospirò, poi chiuse gli occhi e poggiò la fronte contro quella del dottore, esalando un lungo respiro.
 John chiuse gli occhi e accarezzò la base della sua schiena, tirandolo maggiormente verso di sé per avvicinare i loro corpi e approfondire quel contatto; poi le sue mani risalirono lungo le braccia dell’amico e si chiusero intorno ai suoi polsi.
 Sherlock accarezzò il naso di John con il proprio e le loro labbra si sfiorarono.
 Fu un contatto delicato e rapido. Silenzioso e dolce. Una carezza fra labbra così semplice e casta da togliere il fiato entrambi.
 John sentì il cuore accelerare bruscamente e un ansito leggero lasciò involontariamente le sue labbra e Sherlock, spaventato da quella reazione, arretrò, allontanando le mani dal corpo dell’amico, gli occhi spalancati.
 Il medico, non appena il contatto fra i loro corpi si interruppe, sentì un improvviso freddo penetrargli nelle ossa, facendosi strada fino al suo cuore.
 Non sapeva perché, ma il suo migliore amico era stato l’unico in tutta la sua vita a riuscire a trasmettergli quella sensazione di calore e sicurezza. La dolcezza che Sherlock sapeva mostrare nei momenti in cui erano soli lo faceva sentire a casa come nient’altro al mondo era mai riuscito a fare. Nemmeno Mary.
 Perciò prima che Sherlock potesse allontanarsi ancora, John gli prese la mano e lo bloccò. Incrociò il suo sguardo, implorandolo di non allontanarsi, di non lasciarlo solo di nuovo.
 Ma gli occhi del suo migliore amico erano colmi di paura e gli stavano dicendo – gridando che quello era uno sbaglio.
 John, in risposta, aumentò la presa sulla sua mano e si avvicinò nuovamente a lui. Con l’altra mano gli accarezzò il viso, avvicinandolo nuovamente al proprio, rimanendo però abbastanza distante da permettergli di tirarsi indietro, se lo avesse voluto.
 Ma Sherlock non lo fece. Sollevò una mano e la poggiò sul volto dell’amico e gli sfiorò lo zigomo con il pollice, sospirando. «Cosa ci sta succedendo, John?» sussurrò, abbassando lo sguardo sulle sue labbra sottili e incorniciate da un leggero strato di barba.
 Il dottore scosse il capo. «Non lo so.» rispose, il cuore che batteva a mille rimbombando in ogni fibra del suo corpo. «Ma possiamo smettere. Non dobbiamo continuare se non lo vuoi.»
 Sherlock sollevò lo sguardo, incontrando i suoi occhi. «Tu che cosa vuoi?» soffiò sulla sua bocca, continuando ad accarezzargli il viso.
 «Te.» mormorò John in risposta, senza esitazioni o ripensamenti. «Voglio te.» le sue mani salirono fino al volto di Sherlock, sfiorandolo con dolcezza. «E tu cosa vuoi, Sherlock?»
 Il consulente investigativo rimase immobile per qualche secondo, poi circondò il petto di John con le braccia e poggiò il capo sulla sua spalla, affondandolo il viso nell’incavo del suo collo.
 «Voglio che resti con me.» rispose Holmes, sussurrando quelle parole sulla pelle dell’amico.
 E John lo strinse a sé.
 
 Quando Mycroft tornò a casa, lo fece insieme a Sherlock e John.
 I due si offrirono di ospitarlo a Baker Street in modo che non rimanesse solo e che Magnussen non potesse tornare a cercarlo; Anthea mise sei uomini a guardia dell’isolato e promise al suo capo che nessuno sarebbe riuscito ad avvicinarsi a lui senza che loro potessero accorgersene e che, perciò, avrebbe potuto stare tranquillo.
 Mycroft, inizialmente restio a rimanere a Baker Street, alla fine si ritrovò ad accettare la proposta del fratello, dato che l’ultima cosa che avrebbe voluto sarebbe stata alla solitudine di casa sua, che ormai si era fatta troppo opprimente e soffocante per lui.
 Perciò quando il consulente investigativo era andato a prenderlo insieme al dottor Watson, Mycroft li aveva seguiti a Baker Street, dove parte della sua roba lo stava già aspettando.
 
 Mycroft si svegliò gridando.
 L’ultima cosa che ricordava dell’incubo era Magnussen. Il suo volto privo di espressione, i suoi occhi spenti e freddi, le sue mani, il suo corpo premuto contro il suo.
 Non appena aprì gli occhi, capì che si era trattato di un incubo.
 Non si trovava ad Appledore e Magnussen non era lì con lui.
 Era stato solo un incubo. Un orribile, tremendo incubo.
 Non sapeva per quanto avesse gridato, ma a giudicare da quanto doleva la sua gola, doveva averlo fatto a lungo.
 Si mise a sedere, poi sollevò una mano e la passò sul viso, sentendo che era bagnato dalle lacrime. Lacrime con cui ormai aveva dovuto imparare a convivere. Lacrime che sfuggivano al suo controllo, proprio come le emozioni che provava.
 La porta si spalancò di scatto e Sherlock varcò la soglia della sua stanza, che ormai, da qualche giorno condividevano, dato che non c’erano altri letti utilizzabili al 221B.
 Sherlock non ebbe bisogno di fare domande per capire che la causa di quelle grida era stato l’ennesimo incubo. Ormai erano giorni che le grida e i singhiozzi di Mycroft svegliavano Sherlock e John nel bel mezzo della notte.
 Non c’era nemmeno stato bisogno di spiegazioni.
 I due coinquilini avevano capito senza chiedere, e non si erano aspettati spiegazioni o scuse da parte sua, sapendo quanto per lui fosse difficile quel momento.
 Sherlock, dopo un momento di assoluta immobilità, si richiuse la porta alle spalle e si avvicinò al materasso. Vi si inginocchiò e raggiunse suo fratello, poi lo strinse tra le braccia, prendendo a cullarlo dolcemente.
 Solo in quel momento, quando le braccia di suo fratello circondarono il suo corpo, Mycroft si rese conto che stava tremando e singhiozzando.
 Si aggrappò alle spalle del fratello, affondando il viso nella sua spalla, lasciandosi andare alle lacrime, e lasciando che il dolore che aveva provato e che stava provando esplodesse.
  
 Il mattino seguente, quando Sherlock si svegliò e raggiunse la cucina, vide che John era già in piedi ed era intento a preparare il caffè.
 Non appena udì il rumore dei suoi passi alle sue spalle, il medico si voltò.
 «Ehi» salutò, mettendo la caffettiera sul fuoco.
 Sherlock, il volto pallido e tirato a causa della stanchezza, accennò un sorriso e prese posto al tavolo, poggiandovi sopra i gomiti e prendendosi il capo tra le mani.
 «Un altro incubo?» domandò il medico, notando quanto l’amico fosse distrutto.
 Sherlock annuì.
 «Sei rimasto con lui?» fece notare John, prendendo posto al suo fianco.
 Il consulente investigativo poggiò la schiena alla sedia e si voltò verso l’amico. Annuì ancora. «Ma non è bastato.» replicò mestamente. «Ha pianto tutta la notte. Si è addormentato mezz’ora fa. Era distrutto.» concluse con un sospiro.
 «Anche tu lo sei.» fece notare il medico, poggiando una mano su quelle di lui. «Perché non ti metti a letto e non provi a dormire un po’?»
 Sherlock abbassò lo sguardo e scosse il capo. «Sto bene.» affermò, poi si mise in piedi, pronto a raggiungere il salotto per trovare qualcosa – qualsiasi cosa da fare.
 Non voleva dormire.
 Non voleva fermarsi.
 Perché dormire avrebbe significato incubi.
 E fermarsi avrebbe significato pensare. E quindi soffrire.
 E lui non poteva permettersi di soffrire. Non in quel momento, quando suo fratello aveva più bisogno di lui e del suo sostegno.
 John scattò in piedi e lo prese per un braccio prima che potesse allontanarsi, facendolo voltare verso di sé.
 Il consulente investigativo si voltò, abbassando lo sguardo sulla mano dell’amico, stretta intorno al suo braccio. Quando risollevò lo sguardo sul volto del medico e i loro occhi si incontrarono, intuì che John avesse capito. Sapeva che ciò che era successo a Mycroft lo stava tormentando a tal punto da impedirgli di chiudere occhio e riposare. E da settimane ormai.
 John, come sempre, era riuscito a leggerlo perfettamente.
 «Incubi?» domandò infatti.
 Lui, dopo un momento di esitazione, annuì.
 Il medico sospirò. «Da quanto non dormi?»
 «Un po’.» ammise Holmes flebilmente, abbassando lo sguardo.
 «Hai bisogno di riposare.» fece notare John. «Non puoi continuare così. Ne va della tua salute. Devi dormire almeno per qualche ora.»
 Sherlock scosse il capo. «Non ci riuscirei. Gli incubi…» spiegò, scuotendo il capo. «Appena chiudo gli occhi vedo-»
 «Se rimanessi con te accetteresti di riposarti per qualche ora?» sussurrò il dottore, interrompendolo prima che potesse continuare.
 Sherlock sollevò lo sguardo di scatto, sorpreso. I suoi occhi incontrarono quelli del medico e si incatenarono ad essi per un lungo istante, valutando le sue parole e la sua proposta, indeciso sul da farsi.
 Forse non era una buona idea. Non sapendo come stavano andando le cose fra loro e con la questione di Mary ancora in sospeso. Ma era anche vero che Sherlock aveva davvero bisogno di riposare e che l’unico modo per allontanare i demoni che lo tormentavano, sarebbe stato rimanere accanto a John. L’unico che era sempre stato in grado di allontanarli da lui, alleviando il suo dolore.
 «Non ti lascerò solo. Te lo prometto.» assicurò John, vedendolo esitare. «Rimarrò con te per tutto il tempo, se ti farà sentire più tranquillo.»
 E Sherlock annuì.
 A quel punto Watson – dopo aver spento il gas e la luce in cucina – gli prese la mano e lo condusse fino alla sua stanza.
 Una volta dentro si diressero verso il materasso e scostarono le coperte, senza preoccuparsi dell’oscurità che li avvolgeva. Quando Sherlock si fu sdraiato, John prese posto al suo fianco, coprendoli entrambi con le lenzuola e allargò le braccia in un tacito invito. Il consulente investigativo, scivolando sul materasso, si rifugiò tra le braccia dell’amico, affondando il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi alle sue spalle, inspirando il suo profumo forte e intenso. Le loro gambe si intrecciarono sotto le coperte e i due si strinsero maggiormente l’uno all’altro, scivolando lentamente nel sonno.
 
 «Che succede?»
 La voce di John scosse le pareti del palazzo mentale di Sherlock, riportandolo bruscamente alla realtà. Il consulente investigativo aprì gli occhi e vide John in piedi accanto al divano, intento ad osservarlo con sguardo preoccupato.
 Holmes aggrottò le sopracciglia. «Cosa vuoi dire?» domandò di rimando, mettendosi seduto e sollevando lo sguardo sul volto dell’amico.
 «Sai bene cosa voglio dire.» fece notare John, rivolgendogli uno sguardo eloquente.
 «No.» replicò il moro, sperando di suonare convincente. «Altrimenti non ti avrei chiesto spiegazioni.»
 Watson sospirò. «Sono giorni che non parli e che ti rintani nel tuo palazzo mentale appena ne hai l’occasione.» spiegò. «Stai chiaramente evitando tuo fratello e me. E voglio sapere il perché.»
 Sherlock sospirò e abbassò lo sguardo.
 Chiuse gli occhi, sentendo lo stomaco contorcersi dentro di lui.
 Percepì il divano abbassarsi sotto il peso di John, che aveva preso posto al suo fianco, e dovette resistere all’impulso di sollevare lo sguardo sul volto del medico, a cui sarebbe bastato un solo sguardo per comprendere.
 «Parlami.» lo incalzò il medico, cercando il suo sguardo.
 Il consulente investigativo si voltò verso di lui, incrociando finalmente il suo sguardo. Per un istante ponderò la possibilità di mentire a John riguardo a ciò che lo turbava da giorni. Ma non poteva farlo. Non con lui. Non dopo ciò che avevano passato insieme.
 «Mi sento perso.» ammise alla fine, in un sussurro.
 John aggrottò le sopracciglia. «Cosa?» domandò.
 Sherlock scosse il capo, abbassando nuovamente lo sguardo. «Non so cosa fare.» spiegò. «Avevo promesso a Mycroft che avrei impedito a Magnussen di fargli ancora del male e che l’avrei fermato, ma non… non so come.» sospirò mestamente. «E a tutto questo si aggiunge che Mycroft sta vivendo un inferno. Non mangia, non dorme senza essere svegliato dagli incubi, è tormentato da flashback e attacchi di panico… e io non so cosa fare.» affermò. «Non so cosa fare, John. Per la prima volta nella mia vita, non riesco a… non so come aiutare mio fratello.»
 John rimase in silenzio.
 «Lui ha rinunciato alla sua vita per me.» proseguì Holmes. «Ha rinunciato a tutto per proteggermi. E io lo sto ricambiando così.» poi si portò le mani al viso e lo coprì, sentendo gli occhi pizzicare pericolosamente. «Sono un pessimo fratello. Lo sono sempre stato e questa ne è la conferma.»
 Quasi sobbalzò, sentendo la mano di John poggiarsi sulla sua spalla. Si voltò e incontrò i suoi occhi, perdendovisi per alcuni istanti.
 «Sentirsi perso non significa essere un pessimo fratello.» assicurò il medico. «Ascolta, so che per te questa è una sensazione nuova, ma considera quello che è successo.» fece notare. «Tuo fratello ha vissuto cose terribili, e, anche se ti costa ammetterlo, questo ha distrutto anche te.»
 Sherlock volse lo sguardo.
 «È normale essere spaventati e disorientati.» proseguì John, ponendo due dita sotto il mento di Sherlock per farlo voltare verso di sé. Quando i loro occhi si incrociarono, il dottore accennò un sorriso. «Questo non ti rende una cattiva persona o un cattivo fratello, Sherlock. Ti rende umano.»
 «Sì, ma come posso aiutarlo? Come posso salvarlo da Magnussen e da se stesso?» domandò, la voce tremante, gli occhi colmi di lacrime. Vedendo quanto quell’affermazione avesse confuso John, riprese. «Tutto questo non durerà. Lui non sopravvivrà. Non così.»
 «Sì, se tu continuerai a stargli accanto.» replicò John.
 «No, John. Questo non basta. Non potrà mai bastare.» disse, scattando in piedi. «Credi davvero che solo perché ha accettato di rimanere con noi e ha promesso di non fare nulla di stupido, non proverà nuovamente a uccidersi?»
 John lo osservò senza parlare.
 «Ciò che è successo lo tormenta ogni giorno e ben presto esploderà ancora. E nessuno potrà salvarlo.» spiegò, le lacrime che gli rigavano le guance. «Ma io non sono pronto ad assistere alla sua morte. Non posso, John, capisci? Non posso perdere anche mio fratello. Lui è tutto ciò che mi resta…» un singhiozzo eruppe improvvisamente dalle sue labbra e scosse violentemente il suo corpo. Sherlock scosse il capo, portandosi le mani alle tempie. «Non posso, John… non posso guardarlo morire… ma non so cosa fare… non…»
 John a quel punto si mise in piedi e lo raggiunse, circondandogli i polsi con le dita. «Ehi… Sherlock, guardami.» disse, cercando il suo sguardo. Poi, vedendo che aveva preso ad ansimare pesantemente, aumentò la presa intorno ai suoi polsi e aggiunse: «Respira.»
 Sherlock singhiozzò e scosse il capo, barcollando pericolosamente sulle gambe e, nonostante Watson avesse tentato di sorreggerlo, si accasciò a terra. «Non so cosa fare…» singhiozzò. «Rovinerò tutto, proprio come ho rovinato la vita di Mycroft in tutti questi anni… Non riuscirò a salvarlo e a proteggerlo… non ne sono capace…»
 Il medico scivolò al suo fianco, inginocchiandosi a terra a sua volta, e gli accarezzò la schiena. «Non è vero, Sherlock. Non hai rovinato nulla, né tantomeno lo farai adesso.» disse. «Andrà tutto bene.»
 Holmes scosse il capo, portandosi le mani al petto e stringendole intorno alla camicia, sentendo un dolore pungente all’altezza del cuore. Gemette, mentre le lacrime gli rigavano le guance con violenza, togliendogli il fiato.
 «Sì, Sherlock, tutto si sistemerà.» concluse il medico, poi lo tirò a sé e lo strinse fra le braccia, lasciando che poggiasse il capo sul suo petto. «Affronteremo questa cosa insieme e tutto tornerà alla normalità. Te lo prometto.»
 
 Mycroft, aldilà della porta, udendo le parole pronunciate dal fratello e sentendo quanto stesse soffrendo, sentì una fitta potente trafiggergli il cuore.
 Chiuse gli occhi, poggiando la schiena alla parete accanto alla porta e lasciò cadere la testa indietro, contro il muro. Le lacrime gli rigarono le guance, perdendosi nella sua barba rossiccia, tracciando solchi profondi sulla sua pelle.
 Era tutta colpa sua. Tutta quella sofferenza e quel dolore erano colpa sua e della sua stupidità. Si era fatto ingannare da Magnussen, si era fatto scoprire da Sherlock e non era nemmeno riuscito ad uccidersi per evitare a suo fratello di soffrire per le scelte che aveva scelto di compiere.
 Provava così tanto odio per se stesso, che si chiese come fosse possibile che suo fratello avesse deciso di aiutarlo. Come poteva non odiarlo a sua volta, dopo tutto ciò che gli aveva fatto passare? Come poteva non disprezzarlo per ciò a cui aveva scelto di sottoporsi? Come poteva volerlo aiutare nonostante tutta la sofferenza che gli stava procurando?
 Si portò una mano alla bocca, bloccando un singhiozzo prima che potesse lasciare le sue labbra rivelando la sua presenza all’interno dell’appartamento, dato che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi al Diogene’s Club per questioni di lavoro.
 La verità era che non era riuscito nemmeno a varcare la soglia del Club. La vergogna e la paura che Magnussen potesse arrivare nuovamente a lui e fargli del male erano così forti da impedirgli persino di riprendere con le sue normali attività.
 Com’era possibile che dopo settimane passate lontano da quell’uomo, non riuscisse a dimenticare tutto ciò che aveva subito? Perché incubi e flashback continuavano a tormentarlo notte e giorno senza tregua?
 Avrebbe soltanto voluto un po’ di pace…
 Le gambe cedettero improvvisamente sotto il suo peso, trascinandolo a terra.
 Mycroft scivolò lungo la parete, ritrovandosi seduto a terra; si portò le ginocchia la petto, prendendosi il capo fra le mani, singhiozzando sommessamente sotto il peso di tutto quel dolore, così potente e soffocante. Tutto intorno a lui scomparve, cadendo nell’oblio. L’unica cosa che riusciva a percepire era la sofferenza, così amplificata e profonda da impedirgli quasi di respirare.
 Un lieve rumore accanto a lui lo fece trasalire. Sollevò il capo e si voltò.
 La porta della cucina si era aperta con un leggero cigolo e John era comparso sulla soglia. 
 Il politico abbassò lo sguardo, non volendo incrociare quello del dottore. Non voleva che John lo vedesse così. Distrutto, vulnerabile. Era già successo troppe volte e non poteva permettere che accedesse ancora.
 Tuttavia, come impedirlo?
 Watson avanzò e si chiuse la porta alle spalle; poi sospirò e si inginocchiò accanto a lui, poggiandogli delicatamente una mano sulla spalla.
 A quel contatto, Mycroft esplose in singhiozzi convulsi e incontrollati, non riuscendo a trattenersi oltre. Tutto il dolore che stava provando e la sofferenza che sentiva si riversarono fuori dalla sua mente e dal suo corpo con violenza, ormai inarrestabili.
 John lo tirò verso di sé, lasciando che Mycroft poggiasse il capo contro il suo petto e piangesse. Poggiò il mento sul suo capo, accarezzandogli il volto e cullandolo fra le sue braccia.
 E Mycroft si lasciò stringere, sentendo che John, in quel momento, era l’unica cosa in grado di impedirgli di cadere a pezzi per l’ennesima volta. 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao! ;)
Rieccomi qui con il sesto capitolo della mia long. Capitolo interamente dedicato ai nostri Sherlock, John e Mycroft e alle conseguenze di tutto ciò che è accaduto nei capitoli precedenti. Anche qui, come avete potuto leggere, l’angst regna sovrano. Come sempre xD D’altronde non posso certo smentirmi!
A sabato con il prossimo capitolo ;)
Un bacio, e un enorme grazie a tutti coloro che leggono e soprattutto recensiscono! ♥
Eli♥
 

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Capitolo 7
*** Scelte e conseguenze ***


Amore
  
Capitolo VII
Scelte e conseguenze
 
 
 Finalmente, dopo due settimane passate a Baker Street, per riprendersi completamente e guarire, Mycroft riuscì a tornare al lavoro.
 Non appena rimise piede nel suo ufficio, al contrario di quanto aveva pensato, sentì il cuore alleggerirsi. Aveva agognato tanto quel momento, e anche se era stato complicato tornare, alla fine ci era riuscito e tutto era tornato alla normalità in meno di qualche minuto, soprattutto con la consapevolezza che il lavoro sarebbe riuscito a distrarlo da tutto ciò che era successo.
 Inoltre, il politico sapeva che lì, all’interno del palazzo sarebbe stato completamente al sicuro: i suoi uomini lo stavano presidiando e non avrebbero permesso a Magnussen di varcare la porta d’ingresso, perciò quell’uomo non avrebbe più potuto avvicinarsi a lui senza essere intercettato e fermato.
 Anthea lo aggiornò su tutto ciò che era successo nel periodo che aveva trascorso in ospedale e al 221B, e subito Mycroft si mise al lavoro analizzando documenti e firmando permessi per missioni in tutte le parti del mondo per i suoi agenti più fidati, tornando ad essere, finalmente, il Mycroft che ricordava.
 Per un momento, immerso nel suo lavoro, dimenticò tutto ciò che era successo nei passati mesi, allontanando i ricordi e i pensieri terribili che ormai da settimane lo tormentavano giorno e notte.
 
 Tuttavia, la quiete durò poco.
 Tre giorni dopo il suo ritorno, nonostante l’alto livello di sorveglianza intorno a Buckingham Palace, Magnussen varcò la soglia del suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
 Mycroft, intento ad analizzare dei documenti riguardanti una missione nel sud dell’Inghilterra, sollevò lo sguardo, stupito che chiunque fosse entrato non avesse bussato prima di farlo.
 Non appena lo vide, fermo di fronte alla scrivania – il volto privo di espressione, gli occhi freddi e inespressivi – sentì il cuore fermarsi nel petto.
 I suoi occhi si spalancarono e la mascella si contrasse. Chi diavolo lo aveva fatto entrare?
 Magnussen sorrise freddamente. «È un piacere rivederla, signor Holmes.» esordì, avanzando e andando a sedersi sulla sedia di fronte alla scrivania, senza attendere un invito. «Vedo che si è ripreso completamente.»
 Mycroft non rispose. Tenne semplicemente lo sguardo fisso sul suo volto, le mani intrecciate in grembo, le dita contratte in una stretta d’acciaio sotto la scrivania, nascoste alla vista dell’uomo che nelle passate settimane lo aveva torturato in tutti i modi possibili.
 «E, mi dica: come sta il suo fratellino?» domandò l’uomo, sporgendosi in avanti, rivolgendogli uno sguardo malizioso. «Si è ripreso dopo il duro colpo inferto dalla verità?»
 Mycroft si impose di rimanere impassibile di fronte a quella provocazione.
 «Oh, su via, non faccia così.» proseguì l’altro. «Credevo che ormai l’avesse superato… non è lei ad avere un cuore di ghiaccio? O forse questa volta il suo cervello non riesce a primeggiare sui suoi sentimenti?»
 «Se ne vada.» sibilò il politico.
 Magnussen sollevò un sopracciglio. «Andarmene? È perché dovrei? È stato lei ad invitarmi qui.»
 A Holmes sfuggì una risata priva di ogni traccia di divertimento. «Tutto questo è ridicolo.» ringhiò e scattò in piedi, dirigendosi verso la porta, pronto a chiamare la sicurezza per avvertirli della presenza di Magnussen all’interno dell’edificio.
 Tuttavia le parole dell’uomo lo bloccarono prima che potesse aprire la porta. Il politico rimase immobile con la mano poggiata sulla maniglia, i muscoli delle spalle contratti, lo stomaco stretto in una morsa.
 «Ci pensi bene, Mycroft.» lo avvertì. «Sappia che qualsiasi cosa sceglierà di fare e qualsiasi scelta prenderà da adesso in poi avrà conseguenze che si ripercuoteranno sulle persone che più le stanno a cuore.»
 Mycroft sentì il suo cuore accelerare. Le immagini di suo fratello e di John gli balenarono immediatamente nella mente, soppiantando ogni altra.
 Come se gli avesse letto nel pensiero, Magnussen si mise in piedi e si avvicinò, fermandosi a meno di un metro da lui. Sorrise freddamente e riprese a parlare. «Pensi a Sherlock e a John.» sussurrò. «Ho notato che ha sviluppato un particolare attaccamento anche nei suoi confronti, ultimamente.»
 Il politico rimase immobile, deciso a non tradire alcuna emozione.
 Magnussen rise. Una risata priva di calore e divertimento. «E così, dopotutto, l’uomo di ghiaccio ha un cuore.» lo derise. «È quasi commovente, devo dire.» concluse, sfiorandogli una guancia con il dorso della mano.
 Mycroft, a quel gesto, trasalì. Si scostò, indietreggiando per allontanarsi da Magnussen. «Se ne vada.» ripeté, ma questa volta più che un ordine era suonata come una preghiera. Gli angoli dei suoi occhi presero a pizzicare pericolosamente. «Ha ottenuto ciò che voleva. Ha vinto. Mi ha sconfitto… perché non può lasciarmi in pace?»
 L’uomo sorrise. «Io non ho neanche lontanamente ottenuto ciò che volevo, signor Holmes. Per questo sono qui.» replicò. Fece una pausa in cui osservò per lunghi istanti il politico. Poi riprese. «Da stasera riprenderemo i nostri incontri. E le regole saranno sempre le stesse.» concluse, poi aprì la porta per andarsene.
 «E se io rifiutassi?» chiese Mycroft.
 Magnussen rimase immobile per qualche secondo, dandogli le spalle, poi si voltò nuovamente verso di lui, rivolgendogli un mezzo sorriso. «Come le ho già detto: non sarà lei a dover convivere con le conseguenze delle sue scelte.» replicò, poi, senza aggiungere altro, lasciò l’ufficio richiudendosi la porta alle spalle.
 
 Quella sera, Mycroft, non si mosse dal suo ufficio.
 Se Anthea o i suoi uomini avessero permesso a Magnussen di entrare a Buckingham Palace e di arrivare fino al suo ufficio non ne fecero parola, e il politico li congedò senza fare domande o chiedere spiegazioni, volendo evitare domande scomode, soprattutto da parte della sua segretaria.
 Quando tutti i suoi colleghi ebbero lasciato i loro uffici, e Mycroft fu certo di essere rimasto solo, si chiuse a chiave all’interno del proprio ufficio, deciso a rimanere lì tutta la notte, se necessario.
 Sapeva che probabilmente Sherlock e John lo stavano aspettando a Baker Street per la cena, ma non era la prima volta che tornava tardi dal lavoro e probabilmente non si sarebbero fatti troppe domande nemmeno quella sera.
 Dopo l’incontro con Magnussen non aveva la forza di affrontarli entrambi. Non poteva affrontare lo sguardo indagatore del fratello, né le sue deduzioni, sapendo che avrebbe capito che qualcosa era andato storto, né tantomeno la preoccupazione e lo sguardo dolce di John, che alla fine lo avrebbero fatto confessare, spingendolo a chiede aiuto alla polizia dopo l’ennesima minaccia ricevuta da Magnussen.
 L’unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento era rimanere solo, lontano da tutti, nel silenzio e nell’oscurità del suo ufficio che da sempre lo avevano aiutato a riflettere e a calmarsi quando nient’altro sembrava permetterglielo. Perciò poggiò le braccia sulla scrivania, affondando il viso negli avambracci e chiudendo gli occhi per riposare la sua mente, in subbuglio da quel pomeriggio.
 
 Mycroft venne svegliato dall’insistente squillare del suo cellulare.
 Sollevò il capo di scatto, impiegando qualche secondo per capire che si trovava ancora nel suo ufficio, dove si era addormentato quasi un’ora prima.
 L’orologio, appeso alla parete di fronte a lui, segnava le 21.30, ticchettando lo scorrere dei secondi con insistenza, quasi volesse spingerlo a rispondere a quella chiamata più velocemente.
 Mycroft inspirò profondamente, sbattendo più volte le palpebre per mettere a fuoco la scrivania e tentando di ricomporsi. Prese il cellulare, poggiato accanto alla tastiera del computer, osservando lo schermo per capire chi lo stesse chiamando a quell’ora della sera, sul suo numero privato.
 Quando sullo schermo vide il nome di John, non esitò nemmeno un secondo a rispondere.
 «John» disse, ogni traccia di sonno scomparsa sia dal suo viso che dalla voce.
 «Mycroft?» chiese il medico, dall’altro capo, con urgenza. «Dove sei?»
 «In ufficio. Avevo del lavoro da sbrigare e mi sono trattenuto più a lungo.» rispose lui, sentendo un brivido corrergli lungo la schiena. Aveva una bruttissima sensazione. C’era qualcosa di strano nella voce di Watson, di solito sempre calda e ferma, qualcosa che non lasciava presagire nulla di buono. «Cosa succede, John? È tutto ok? Stai bene?» domandò, mettendosi in piedi.
 «Sì, io sto bene.» assicurò lui. Esitò per qualche secondo, poi riprese. «Sono al pronto soccorso. Sherlock ha avuto un incidente-»
 «Oh, mio Dio…» ansimò Mycroft, interrompendolo, e il suo cuore mancò un battito, mozzandogli il respiro. Le gambe traballarono sotto il suo peso e lui ansimò.
 «No, ehi, ehi, Mycroft, rimani con me.» disse il medico, probabilmente avendo capito quanto fosse sconvolto da quella notizia. «Non è niente di grave. Ha solo qualche graffio. Sta bene. Lo terranno in osservazione per una notte.» fece una pausa. «Vuoi che venga a prenderti, così puoi venire qui? Siamo al Bart’s.»
 «No.» rispose lui, muovendosi verso la porta. «Chiamo il mio autista. Tu rimani con Sherlock.»
 «D’accordo.» concluse John.
 «Sarò lì fra poco.»
 «Va bene.» replicò l’altro. Poi aggiunse, più dolcemente. «Ehi?»
 Mycroft si bloccò. «Sì?»
 «Stai tranquillo.» disse. «Va tutto bene, ok?»
 «Ok.» rispose, poi chiuse la chiamata.
 
 L’autista rispose immediatamente alla chiamata e quando Mycroft uscì da Buckingham Palace trovò la famigliare auto nera ad attenderlo accanto al marciapiede. Aprì la portiera e salì velocemente sul sedile posteriore, posizionandosi, come al solito, a sinistra, dietro al sedile del guidatore.
 «Dove posso scortarla, signore?» chiese l’altro cordialmente, porgendosi per incrociare il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
 «Al Bart’s.» rispose Mycroft. «E faccia in fretta.»
 «Certo.» rispose l’uomo, annuendo, poi mise in moto e partì.
 In meno di dieci minuti giunsero a destinazione.
 L’autista lo scortò fino all’entrata del pronto soccorso, dove Mycroft scese, dicendogli che avrebbe potuto tornare a casa senza attendere il suo ritorno, poi si avviò verso l’interno dell’ospedale.
 Una volta dentro il pronto soccorso non ci mise molto ad individuare John: era seduto sulle seggiole in sala d’aspetto, il capo poggiato alla parete, il volto pallido e segnato dalla stanchezza, gli occhi serrati.
 Mycroft si avvicinò camminando velocemente. «John» lo chiamò.
 Il medico si voltò e quando lo individuò, si mise in piedi e lo raggiunse. 
 «Sherlock?» chiese Holmes.
 «È in ambulatorio.» rispose lui. «Lo stavano ricucendo.»
 Il politico annuì, ma quando vide che Watson aveva abiti e mani imbrattati di sangue, esitò. «Stai bene?» chiese, sentendo il cuore accelerare. Al telefono aveva detto di stare bene, eppure era coperto di sangue. Forse era ferito anche lui.
 John abbassò lo sguardo. «Sì. Il sangue non è mio.» assicurò. «È che Sherlock ha sbattuto la testa e…» si bloccò, scuotendo il capo, come se avesse le idee confuse e non riuscisse ad estrarre pensieri chiari dalla propria mente.
 «Com’è successo?» chiese quindi Mycroft.
 «Non lo so… È successo tutto molto in fretta…» ammise John. «Stavamo camminando lungo il marciapiede per tornare a Baker Street e un’auto è uscita improvvisamente di strada. Sherlock mi ha spinto via, ed è stato investito al posto mio. È rotolato sul cofano e poi a terra. E quando l’ho raggiunto era privo di sensi.» sospirò, scuotendo il capo con vigore, abbassando sulle mani ancora macchiate del sangue dell’amico. «Mi dispiace, l’auto si è allontanata prima che potessi prenderle la targa. Spero che Greg riesca a ricavare qualcosa dai video della sorveglianza del quartiere.»
 Mycroft sentì un’improvvisa stratta al cuore man mano che i pezzi del puzzle andavano al loro posto, incastrandosi fra loro, dando forma ad un’immagine nitida e chiara nella sua mente.
 Sollevò lo sguardo sull’orologio appeso alla parete al fondo del corridoio, che adesso segnava le 21.40.
 Mesi addietro era solito incontrare Magnussen alla sua villa alle 20.30, poco dopo aver lasciato il lavoro. Non poteva essere una coincidenza che quella sera, dopo aver rifiutato la proposta di Magnussen – che aveva minacciato non soltanto lui, ma anche Sherlock e John – suo fratello fosse stato accidentalmente investito sulla via di casa.
 Dio, come aveva potuto sottovalutare Magnussen e le sue minacce?
 Abbassò lo sguardo, chiudendo gli occhi.
 «Mycroft?» lo chiamò John. «Ci sei?»
 «Sì, scusa.» disse, tornando bruscamente alla realtà. Risollevò lo sguardo, incrociando lo sguardo. «Sei sicuro di star bene?»
 «Sì, è solo…» abbassò lo sguardo e sospirò. «Quando ho raggiunto Sherlock, steso a terra sul marciapiede, con una ferita alla testa, e ho visto tutto quel sangue, mi ha ricordato-» si interruppe, premendosi i palmi delle mani sugli occhi.
 Mycroft capì senza bisogno di udire altro: gli aveva ricordato il giorno in cui suo fratello si era gettato dal tetto del Bart’s, tre anni prima. Sospirò e poggiandogli una mano sulla spalla, indicò la fine del corridoio.
 «Andiamo in bagno.» disse. «Così puoi darti una ripulita.»
 John annuì, senza protestare, seguendolo fino al bagno degli uomini.
 
 John lavò via il sangue dalle mani, poi si tolse il maglione – ormai inutilizzabile dato che era completamente impregnato di sangue – e lo gettò nell’immondizia rimanendo con indosso soltanto la camicia.
 Una volta finito tornò in corridoio, dove Mycroft lo stava aspettando, la schiena poggiata alla parete, lo sguardo fisso sul pavimento, la giacca del medico stretta fra le mani.
 Quando il politico lo vide, sollevò il capo. «Ti senti meglio?» chiese immediatamente.
 John annuì. «Sì, molto meglio, grazie.» rispose, stringendosi nelle spalle, sentendo un’improvvisa sensazione di freddo pervadergli le ossa.
 Mycroft gli porse la sua giacca, e John la indossò poi affiancandolo si avviarono nuovamente verso la sala d’aspetto, dove presero posto sulle seggiole in attesa che gli infermieri permettessero loro di vedere Sherlock.
 
 «Dottor Watson?»
 John sollevò il capo, richiamato dalla voce di un infermiere. L’uomo, che indossava ancora il camice che aveva utilizzato in ambulatorio e portava ancora la mascherina appesa al collo, insieme allo stetoscopio, e che non doveva avere più di quarant’anni, si era avvicinato a loro dopo quasi un’ora passata in sala d’aspetto ad attendere notizie.
 «Sì.» rispose prontamente John, mettendosi in piedi. Poi, quando Mycroft lo ebbe affiancato, si voltò e lo indicò, presentandolo al collega. «Lui è Mycroft Holmes, il fratello di Sherlock.»
 «Ah, bene. È riuscito a rintracciarlo.» disse l’infermiere con un sorriso amichevole. Poi si tolse i guanti e li gettò nel cestino dell’immondizia lì accanto. «Sherlock sta bene.» aggiunse, prima che i due potessero fare domande. «Ha una leggera distorsione al polso destro, ma l’abbiamo fasciato in modo da limitarne i movimenti per un po’, in modo che possa ristabilirsi. Per fermare il sanguinamento alla testa abbiamo dovuto dare alcuni punti. Tre alla fronte e sette alla testa.» spiegò, indicando la parte posteriore del capo. «La botta in testa è stata notevole, quindi abbiamo deciso di tenerlo sotto osservazione per una notte, ma domattina potrà tornare a casa.»
 Mycroft e John annuirono.
 «Grazie.» disse Watson.
 «Potete andare da lui, se volete.» disse, indicando il corridoio. «Terza stanza a sinistra.»
 I due annuirono, lo ringraziarono nuovamente e si avviarono verso la stanza. Una volta arrivati di fronte alla porta, si fermarono e John si volse verso il politico.
 «Entra prima tu.» disse.
 Mycroft esitò. «No, dovresti entrare tu.»
 «Mycroft, è tuo fratello, forse dovresti-»
 «Sì, ma tu eri con lui quando è successo.» lo interruppe. «Vorrà sicuramente sapere se stai bene.» fece notare Holmes. «Posso aspettare qui fuori. Vai.»
 John esitò, ma alla fine annuì. «Non ci metterò molto.»
 «Prendetevi il tempo che vi serve.» replicò Mycroft. «Io intanto faccio qualche telefonata per vedere se riesco a scoprire qualcosa su quei video della sorveglianza.» concluse, estraendo il cellulare dalla tasca della giacca e allontanandosi lungo il corridoio.
 John lo osservò ancora per qualche istante, poi entrò. Quando varcò la soglia della stanza e si richiuse la porta alle spalle ci mise qualche secondo ad abituarsi alla semioscurità, ma dopo aver sbattuto più volte le palpebre, ci mise meno di un secondo a individuare il suo migliore amico, seduto sul letto al centro della stanza.
 Non appena aveva udito la porta aprirsi, il consulente investigativo si era voltato verso di lui, incrociando il suo sguardo. Il suo viso, pallido e ferito, si era aperto in un leggero sorriso, esattamente come ogni volta che i suoi occhi si posavano su di lui.
 «John» disse flebilmente e con voce tremante.
 «Sherlock» mormorò John e non appena pronunciò il suo nome, le lacrime gli rigarono le guance. Il suo cuore sembrò divenire più leggero al pensiero che il suo migliore amico stava bene e che si sarebbe ripreso.
 Sherlock allungò un braccio verso di lui e il medico lo raggiunse. Si sedette sul materasso, al suo fianco e si abbracciarono, abbandonandosi per un lungo istante uno alle braccia dell’altro e a quella stretta così famigliare.    
 «Stai bene?» chiese Sherlock, accarezzandogli i capelli.
 «Sì, ed è solo grazie a te.» rispose lui, sussurrando quelle parole sul suo collo. Poi si allontano da lui per incrociare i suoi occhi. «Saresti potuto morire, Sherlock. Come ti è saltato in mente di-?»
 «Quell’auto avrebbe potuto ucciderti.» lo interruppe Holmes.
 «Sì, e ha quasi ucciso te.» replicò John, prendendo il suo volto fra le mani e accarezzandogli gli zigomi. «Se penso che avrei potuto perderti ancora…» scosse il capo e altre lacrime gli solcarono le guance. «Quando ti ho visto sull’asfalto, privo di sensi e ferito, non ho potuto fare a meno di pensare…» abbassò lo sguardo.
 Sherlock, avendo intuito a cosa l’amico stesse pensando, poggiò le mani sopra quelle di lui, ancora poggiate sul proprio viso e sorrise, cercando il suo sguardo. «Ma è andato tutto per il meglio.» assicurò «Me la sono cavata con qualche graffio. E ciò che più importa è che anche tu stia bene. Ok?»
 John sollevò il capo e i suoi occhi agganciarono quelli di Sherlock. «Ok.» rispose.
 Le dita del consulente investigativo accarezzarono quelle del dottore. «Hai le mani gelate, John.» affermò, stringendole leggermente. «Hai freddo? Dov’è il tuo maglione?» domandò poi, avendo notato che indossava solamente la sua camicia e la giacca.
 «Era sporco di sangue.» spiegò. «Ho dovuto buttarlo via. Era davvero irrecuperabile.»
 «Prendi il mio cappotto.» disse quindi Sherlock, indicando l’appendiabiti accanto alla porta, dopo aver accarezzato le guance dell’amico e aver spazzato via le lacrime che le avevano rigate. «Devi riscaldarti.»
 «Sto bene.» assicurò il medico con un mezzo sorriso.
 «John, prendi il mio cappotto.» ripeté Holmes, con tono che non ammetteva repliche.
 John rise sommessamente. «D’accordo.» cedette e si mise in piedi. Raggiunse l’attaccapanni, prese il cappotto e lo indossò, poi tornò a voltarsi verso Sherlock.
 Il consulente investigativo gli sorrise dolcemente. «Ti sta bene.»
 «Smettila.» lo rimbeccò il medico. Tirò i lembi, stringendosi nelle spalle. Poi ebbe un lampo, ricordandosi che Mycroft stava ancora attendendo fuori dalla stanza. «Tuo fratello è qui fuori. Vuoi che lo faccia entrare?»
 Il consulente investigativo annuì, non mostrandosi stupito nel saperlo lì.
 John accennò un sorriso, poi aprì la porta e si sporse nel corridoio, cercando Mycroft con lo sguardo per invitarlo ad entrare. Avrebbe concesso ai due fratello un po’ di privacy, magari andando a prendersi un caffè in previsione della nottata che avrebbe dovuto passare accanto a Sherlock.
 Tuttavia, una volta fuori dalla stanza, vide, con grande stupore, che il corridoio era completamente vuoto. Aggrottò le sopracciglia e dopo qualche secondo rientrò nella stanza, voltandosi verso Sherlock.
 «Se n’è andato.» affermò, chiudendosi la porta alle spalle. «Eppure aveva detto che avrebbe aspettato qui fuori.»
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Forse è tornato a Baker Street.» ipotizzò.
 «Provo a chiamarlo.» disse John, prendendo il cellulare dalla tasca del pantaloni. Fece scorrere i numeri in rubrica fino a quello del fratello di Sherlock e premette il tasto di chiamata, portandosi poi il telefono all’orecchio.
 Dopo un paio di squilli, però, partì la segreteria.
 John scosse il capo. «C’è la segreteria.» disse. Chiuse la chiamata. «Non capisco. Dove può essere andato? Aveva detto che sarebbe rimasto e che avrebbe voluto vederti. Perché andarsene senza avvertire?»
 «Sicuramente è andato a riposare.» asserì il consulente investigativo. «Dove altro potrebbe essere andato se non a Baker Street?» chiese poi. «Non preoccuparti, John. Sono sicuro che sta bene.»
 John sospirò e alla fine annuì, lasciandosi convincere dalla sicurezza nella voce di Sherlock, riponendo il cellulare in tasca.
 «Dai, vieni qui.» lo esortò Sherlock, allungando una mano verso di lui.
 Watson non poté nascondere un sorriso; si avvicinò all’amico e prese nuovamente posto sul materasso di fronte a lui. Sherlock sollevò una mano e John poggiò la propria contro quella di lui, intrecciando le loro dita, e accarezzando dolcemente quelle dell’amico, osservandone i movimenti lenti e dolci.
 «Resti con me stanotte?» mormorò Holmes.
 John spostò lo sguardo sul viso dell’amico, agganciando i suoi occhi. «Certo che resto.» rispose, accarezzandogli una gamba. «Dove altro potrei andare? Tu sei qui, Sherlock. E io resto con te. Sempre.»
 Sherlock sfiorò la mano che John teneva poggiata sulla sua gamba con la propria. Poi sorrise. «Dove sono io sei tu?» sussurrò teneramente.
 E John la strinse delicatamente ricambiando il sorriso. «Dove sono io sei tu.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao ;) come state? Immagino che con questo caldo, proprio come me, vi stiate sciogliendo, perciò ho deciso di allietare la vostra giornata con un po’ di angst e fluff!
No, non ringraziatemi! xD
Non credo ci sia molto da dire su questo capitolo, se non che è di passaggio e che il nostro caro e dolce Charles Augustus Magnussen è tornato alla carica dopo svariati capitoli di assenza… che gioia immensa! ^.^”
Grazie a chi continua a seguire la mia storia, a chi l’ha inserita fra le preferite/seguite/ricordate e a chi trova sempre il tempo di lasciarmi una recensione… non avete idea di quanto sia importante e di quanto mi facciano piacere ♥.♥
Grazie di cuore! ♥ Siete fantastici :)
A lunedì con il prossimo capitolo ;)
Un abbraccio :) Eli♥
 

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Capitolo 8
*** Per Sherlock e John ***


Amore
 
 
Capitolo VIII
Per Sherlock e John

 
 
 Mycroft raggiunse la villa di Magnussen che era ormai quasi mezzanotte. Tuttavia sapeva che lo avrebbe trovato sveglio ad attenderlo.
 Infatti, non appena ebbe pagato il tassista ed ebbe chiuso la portiera dell’auto, il cancello automatico della villa si aprì, senza nemmeno bisogno di suonare il campanello.
 L’uomo prese un bel respiro ed entrò, percorrendo il vialetto con passo spedito.
 Una volta raggiunta la porta d’ingresso, questa si spalancò e uno degli uomini di Magnussen lo invitò ad entrare con un poco amichevole cenno del capo.
 Il politico varcò la soglia e senza nemmeno attendere le indicazioni dell’uomo, si avviò verso il salotto, dove sapeva avrebbe trovato Magnussen ad attenderlo.
 L’uomo era in piedi di fronte alla finestra, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo puntato verso l’esterno della villa, e non appena Mycroft varcò la soglia, sul suo viso si dipinse un sorriso, che si rifletté sul vetro della finestra.
 «Sapevo che sarebbe arrivato, signor Holmes.» esordì.
 Holmes strinse i pugni. «È stato lei.» disse. «Non è stato un incidente.»
 Magnussen si voltò e incrociò il suo sguardo. «Cosa glielo fa pensare?» domandò con un sorriso malizioso e aria di sfida.
 «Sarebbero potuti morire.» ringhiò Mycroft, muovendo un passo verso di lui, sentendo la rabbia divampare in lui. «Avrebbe potuto ucciderli entrambi!»
 L’altro assottigliò lo sguardo. «Ed eccolo qui il suo cuore che si mostra in tutta la sua pienezza.» replicò, poi si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lui, puntando gli occhi in quelli del politico. «In ogni caso, vorrei ricordarle che se lei fosse venuto da me come avevamo stabilito, tutto questo non sarebbe mai accaduto.»
 Mycroft serrò la mascella.
 «Ma considerato che adesso è qui, devo presumere che abbia cambiato idea?»
 Holmes abbassò lo sguardo. Chiuse gli occhi.
 Per Sherlock, si disse. Per Sherlock e John.
 «Molto bene.» aggiunse Magnussen. «Mi segua.» e si avviò fuori dalla stanza, seguito da Mycroft.
 
 Il giorno seguente, Mycroft tornò a Baker Street per l’ora del tè.
 Trovò Sherlock e John in salotto, seduti sul divano, intenti a bere un tè e a parlottare fra loro. Erano seduti uno di fronte all’altro, così vicini da toccarsi, le gambe riparate da una coperta pesante, incrociate sul divano, le braccia distese sulla spalliera, dove le loro mani si stavano accarezzando e le loro dita si intrecciavano e giocherellavano distrattamente.
 Non appena John lo vide entrare, si bloccò, zittendosi e puntando lo sguardo sul suo viso.
 Mycroft pregò che nessuno dei lividi lasciati da Magnussen fosse visibile. Era riuscito a nasconderli tutti sotto gli abiti, ma sarebbe bastato un singolo movimento per rivelarli. E di certo non poteva permetterselo un’altra volta.
 Sherlock, che stava dando le spalle alla porta, accortosi della reazione improvvisa di John, si voltò. I suoi occhi si spalancarono per la sorpresa e Mycroft vi lesse allo stesso tempo sollievo nel saperlo lì. Probabilmente, la sera prima, quando aveva lasciato l’ospedale senza avvertirli lo aveva fatto preoccupare. E non poco.
 Osservandolo non poté fare a meno di notare i punti sul sopracciglio, le ferite sul volto e la fasciatura alla mano. E non riuscì a non pensare al fatto che tutto ciò fosse stato causato da Charles Augustus Magnussen. E dal suo rifiuto di tornare da lui. 
 «Mycroft» disse il minore, vedendolo fermo sulla porta. Scostò la coperta e si mise in piedi, forse troppo velocemente, dato che barcollò leggermente sulle gambe, portandosi una mano alla fronte e chiudendo gli occhi, improvvisamente pallido.
 John gli fu accanto in un attimo. «Ehi, piano.» disse, poggiandogli una mano sulla schiena e reggendolo per un braccio, cercando il suo sguardo. «Hai subito un trauma cranico, devi prestare più attenzione.»
 Il consulente investigativo fece un paio di respiri profondi, poi annuì, riaprendo gli occhi e incrociando per qualche secondo lo sguardo del suo migliore amico.
 «Sto bene.» assicurò.
 «John, ha ragione, mettiti seduto e riposati.» aggiunse Mycroft. Non aveva voglia di parlare o di essere sottoposto a un interrogatorio da parte del fratello, com’era successo quella mattina da parte della segretaria. Anthea era riuscito a gestirla sotto la minaccia di un licenziamento, ma con suo fratello non sarebbe stato altrettanto semplice.
 I due coinquilini si voltarono verso di lui.
 «Dove sei stato?» chiese Sherlock.
 «Al lavoro.» rispose il politico con ovvietà, sapendo tuttavia che suo fratello si stava riferendo alla sera precedente e non a quel giorno.
 Il fratello gli rivolse uno sguardo di rimprovero. «Intendo ieri sera.» replicò. «Sei sparito dall’ospedale e non hai risposto alle chiamate di John. Eravamo preoccupati.»
 Mycroft scosse il capo. «Ero stanco e sono tornato qui per riposare.» spiegò, tentando di suonare convincente. «Si era fatto tardi e ho pensato che volessi riposare anche tu dopo ciò che era successo. E in ogni caso c’era John a prendersi cura di te. E lui sa farlo in maniera egregia. Molto meglio di quanto farei io.»
 «Avrei voluto vederti comunque.» disse Sherlock, con grande sorpresa del fratello maggiore.
 «Sono qui, ora.» rispose Mycroft. Doveva andarsene di lì prima che trapelasse qualcosa o che suo fratello avesse il tempo di dedurre, e poi allontanarsi con una scusa per raggiungere Magnussen prima che avesse il tempo di mettere in atto qualche altro piano per fare del male a Sherlock o a John. «Adesso scusate, ma ho davvero bisogno di farmi una doccia. Mi aspettano per una cena di lavoro.» concluse e detto questo si voltò per avviarsi verso il bagno.
 «Myc?» lo chiamò il consulente investigativo. «C’è qualcosa che non va?»
 Il politico si bloccò. Dio, suo fratello non usava quel nomignolo da anni.
 «Dovrebbe esserci?» chiese di rimando, senza voltarsi.
 «Non lo so.» rispose il minore. «Ti comporti in modo strano. Sei sicuro che vada tutto bene?» chiese ancora. «Perché se non fosse così, potresti prenderti un periodo di ferie e potremmo, non lo so… lasciare Londra per un po’.» propose, esitante.
 Mycroft strinse i pugni.
 «Forse allontanarti da tutto questo potrebbe aiutare.» proseguì il consulente investigativo, avanzando verso di lui, parlando con calma, quasi avesse paura che quelle parole potessero spaventarlo. «Con gli incubi e tutto il resto.»
 Holmes si voltò di scatto. «Aiutare chi?» sbottò duramente, tornando sui suoi passi per fronteggiare sul fratello. «Me? O voi?» chiese. «Perché è questo il problema, vero? Che sto rendendo la vostra vita un inferno e che sono un peso.»
 «Non ho detto questo.»
 «Non l’avrai detto ma è proprio questo che intendi.» sibilò. «Altrimenti perché farmi questa strana richiesta proprio adesso?»
 Il volto di Sherlock venne attraversato dal dolore e dalla confusione. «Mycroft, io non volevo dire-»
 Il maggiore scosse il capo e sollevò una mano per bloccarlo prima che potesse aggiungere altro. «Non c’è bisogno che tu dica altro, fratellino.» aggiunse, una nota di disprezzo nella voce. «Posso fare le valigie stasera stessa. Torno a casa: in questo modo non dovrete più occuparvi di me come se fossi un animale ferito.»
 «Mycroft, noi non ti stiamo cacciando.» disse John, affiancando uno Sherlock senza parole. «E nessuno di noi ha mai pensato che fossi un peso. Altrimenti non ti avremmo mai chiesto di venire a stare da noi, non credi?»
 «Risparmia il fiato, John.» lo zittì Mycroft, rivolgendogli un’occhiataccia. «Le tue parole non significano nulla. Sherlock ha già espresso perfettamente il concetto. E in ogni caso ormai ho deciso: non resterò qui un secondo di più.» e detto questo si voltò e si avviò verso la stanza che condivideva con Sherlock da quasi un mese.
 «Perché ti comporti così?» esplose Sherlock.
 Quelle parole inchiodarono Mycroft a metà del corridoio.
 «Cosa ti abbiamo mai fatto, a parte prenderci cura di te e darti una mano quando ne hai avuto bisogno? Quale torto ti abbiamo fatto?» aggiunse, alzando la voce. «Come puoi dire una cosa del genere sapendo che sono tutte bugie, e che sia io che John teniamo a te?»
 «Sherlock, calmati» sussurrò John.
 «Avete davvero un bel modo di dimostrarlo.» replicò Mycroft con una risatina, imponendosi di mantenere un tono freddo e distaccato, volgendosi verso il fratello per rivolgergli un’occhiata priva di qualsiasi emozione.
 «Come puoi dire una cosa del genere, ingrato che non sei altro?!» ringhiò Sherlock, gli occhi lucidi e il volto sempre più pallido. Barcollò leggermente sulle gambe, ansimando, portandosi una mano alla fronte.
 John lo trattenne per un braccio. «Sherlock, basta. Tranquillizzati.» lo pregò. «Non ti fa bene agitarti in questo modo. Siediti, ti prego.»
 Sherlock risollevò il capo, puntando lo sguardo sul viso del maggiore e Mycroft capì che era deciso a non arrendersi.
 «Capisco quanto tu stia soffrendo, Mycroft.» aggiunse, liberandosi dalla presa del medico e avanzando, ignorando il tremore alle gambe. «Ma non lasciare che Magnussen distrugga quella parte di te che ti rende umano.»
 Mycroft lo raggiunse, fermandosi a pochi passi da lui. «L’idea che Moriarty potesse aver ragione non ti ha mai sfiorato?» chiese. «Forse io non ho una parte umana. Forse sono davvero l’uomo di ghiaccio che tutti credono io sia.»
 «No, non è vero.» replicò Sherlock. «Sei mio fratello, ti conosco. So come sei veramente. So che hai un cuore e so che Magnussen l’ha spezzato. E noi siamo qui per te. Per aiutarti a rimetterlo insieme.»
 Mycroft rise, senza tuttavia mostrare segni di divertimento. «Sono tutte idiozie, Sherlock, e lo sai.» sibilò. «Soltanto perché qualche sentimento diverso dall’adrenalina che provavi durante la caccia ai criminali ti ha scaldato il cuore, questo non significa che debba capitare a tutti.»
 Sherlock strinse i pugni, trattenendo a stento la rabbia. «Sei incredibile.» sbottò. «Solo qualche sera fa eri distrutto e in lacrime dopo l’ennesimo incubo riguardo ciò che Magnussen ti aveva fatto passare, e adesso vuoi negare che sia così?»
 «Non sto negando che sia così.» ringhiò Mycroft, sperando che almeno quelle parole potessero convincere il fratello a desistere dal perseguire in quella futile discussione. «Ma farsi consumare dai sentimenti è inutile. Per tutta la vita non ho fatto altro che ripeterti che i sentimenti sono il difetto chimico della parte che perde. E questa ne è la prova.» concluse. «Guardami. Tutto questo è il risultato di tutti i sentimenti che ho deciso di provare… se li avessi accantonati, niente di tutto questo sarebbe successo. Avrei potuto tranquillamente continuare con la mia vita, senza problemi, anche con Magnussen fra i piedi.»
 I due coinquilini vennero colpiti da quell’affermazione come da un pugno in pieno viso.
 «Mycroft, quello che è successo non è stata colpa tua o dei tuoi sentimenti.» disse John, incredulo. «È di Magnussen la colpa. Chiunque avrebbe reagito come hai fatto tu. È perfettamente normale.»
 «Forse per persone come te.» replicò il politico, freddamente. «Non per persone come me o Sherlock, il cui cervello dovrebbe guidare il proprio cuore e non vice versa.»
 Sherlock scosse il capo. «Smettila.»
 Mycroft tornò a voltarsi verso di lui. «Perché? La verità fa troppo male, forse, fratellino?» chiese. «Perché tu sai di essere come me, non è vero?» disse. «Soltanto perché il dottor Watson ti ha scaldato il cuore non significa che potrai essere una persona diversa da quella che sei sempre stata e che sempre sarai… un freddo calcolatore senza sentimenti.»
 Fu in quell’istante, dopo aver pronunciato quelle parole, che Mycroft poté udire perfettamente il cuore di suo fratello andare in frantumi.
 Gli occhi di Sherlock si colmarono di lacrime, che gli rigarono le guance tracciando solchi profondi sulla sua pelle pallida e martoriata da ferite. Il consulente investigativo indietreggiò, trattenendo a stento un singhiozzo strozzato, il corpo che tremava in preda allo shock.
 «Sherlock…» tentò di dire John, poggiandogli una mano sulla spalla.
 «Vattene» gemette. «Vai via, Mycroft. Vattene.»    
 Mycroft, non se lo fece ripetere due volte: si voltò e raggiunse la stanza di Sherlock, chiudendosi la porta alle spalle. Raccolse rapidamente la sua roba e, dopo averla infilata in un borsone, si avviò fuori dalla stanza, attraversando velocemente il corridoio.
 Non si fermò, né esitò prima di avviarsi giù per le scale, ma prima di lasciare l’appartamento ebbe il tempo di vedere che John aveva nuovamente preso posto accanto a Sherlock, sul divano, e che gli stava accarezzando la schiena per rassicurarlo, mentre suo fratello singhiozzava convulsamente, scosso dalle lacrime.
 Mycroft si impose di voltarsi e continuare a camminare. Scese velocemente le scale e uscì dalla palazzina, lasciandosi alle spalle Baker Street, suo fratello e il dottor Watson.
 L’autista, come d’accordo, lo stava aspettando di fronte a casa, dove aveva accostato poco prima per farlo scendere dall’automobile.
 Il politico salì in auto e si chiuse la portiera alle spalle, chiedendogli di portarlo alla sua villa, poi, senza aggiungere altro, chiuse il finestrino che univa i sedili posteriori a quelli anteriori e affondò la schiena nei sedili, chiudendo gli occhi ed esalando un lungo respiro.
 Fu in quel momento che le lacrime gli rigarono le guance.
 Al solo pensiero di aver spezzato il cuore di suo fratello e quello di John con ciò che aveva appena detto provò una fitta così potente al cuore che trattenne a stento un gemito di dolore.
 Inizialmente aveva pensato di comunicare ai due coinquilini che sarebbe semplicemente tornato a casa sua per restituire ad entrambi la loro privacy, dato che si sentiva meglio e avrebbe potuto cavarsela da solo, mettendo la casa sotto stretta sorveglianza.
 Poi quel pomeriggio aveva capito che non avrebbe mai convinto né Sherlock né John a lasciarlo andare. L’unico modo sarebbe stato fargli credere di volersene andare perché entrambi, con il loro comportamento e le loro parole, l’avevano ferito facendolo sentire inutile e che invece di aiutarlo non avevano fatto altro che peggiorare la situazione.
 Eppure, quando aveva visto le loro espressioni ferite e aveva sentito suo fratello singhiozzare dopo ciò che aveva detto, aveva sentito il suo cuore spezzarsi per l’ennesima volta in quelle settimane.
 Era stato crudele. Un vero mostro. Ma era stato necessario. L’aveva fatto per proteggere Sherlock e John dalla furia cieca di Magnussen.
 Doveva impedire che questa volta suo fratello si immischiasse fra lui e quel mostro. E se spezzargli il cuore fosse stato l’unico modo per impedire che suo fratello avesse a che fare con lui e si facesse del male, allora avrebbe dovuto accettarlo.
 Perché proteggere Sherlock e John era la sua priorità.
 
 John era seduto sul divano accanto a Sherlock e stava osservando l’amico, immobile accanto a lui, lo sguardo fisso sulle fiamme, le gambe strette al petto e il viso una maschera priva di emozioni.
 Il consulente investigativo era fermo in quella posizione da più di un’ora, ormai, da quando Mycroft aveva lasciato l’appartamento, probabilmente per non farvi più ritorno. Non aveva proferito parola per tutto il tempo, nemmeno dopo aver smesso di singhiozzare. Si era chiuso nel più completo silenzio e nell’immobilità, come se le parole di Mycroft lo avessero bloccato all’interno della sua mente.
 Non era strano che i due fratelli discutessero, certo, ma questa volta era stato diverso, anche John lo aveva percepito. Qualcosa fra loro si era spezzato, ed era accaduto quando Mycroft aveva rifiutato l’aiuto di Sherlock, accusandolo di essere un freddo calcolatore senza sentimenti, incapace di provare emozioni. 
 «Ehi, ragazzi, posso entrare?» la voce di Lestrade irruppe nell’appartamento all’improvviso, ridestando il medico dai suoi pensieri e riportandolo alla realtà.
 John sollevò il capo, volgendo lo sguardo verso la porta. Incontrò lo sguardo dell’Ispettore, fermo sulla soglia, in attesa.
 «Ciao, Greg.» disse. «Vieni, entra.»
 «Che succede?» domandò Greg, accorgendosi di quanto Sherlock fosse pallido e del fatto che non sembrasse essersi accorto della sua presenza. Varcò la soglia e si fermò al suo fianco, cercando il suo sguardo. «Sta male?»
 Watson si mise in piedi, cercando rapidamente una spiegazione credibile a quel comportamento. Non avevano raccontato la verità riguardo Mycroft e ciò che era accaduto con Magnussen, perciò non poteva certo dire a Lestrade tutta la verità riguardo ciò che era successo quel giorno.
 «Ehm…» esitò, tirando Greg da parte, verso la cucina. «Mycroft ha deciso di tornare a casa sua, e hanno litigato. Sherlock credeva che non fosse il caso dopo essere stato così male, ma Mycroft non ha voluto sentire ragioni.» spiegò, gettando uno sguardo alle spalle, verso il consulente investigativo. Avevano raccontato a tutti che Mycroft aveva avuto un malore e che i medici avevano consigliato di tenerlo sotto controllo almeno per le prime settimane dopo essere stato dimesso dall’ospedale. «E forse era ancora sotto shock dopo ciò che è successo ieri.» aggiunse, sperando che potesse essere una spiegazione abbastanza plausibile. Tornò a voltarsi verso il poliziotto, incrociando i suoi occhi color cioccolato.
 «Fortunatamente è andato tutto bene.» concluse Greg, poggiandogli una mano sulla spalla con fare rassicurante, dandogli una gentile pacca sulla nuca. «Tu sei sicuro di star bene, John?»
 John annuì. «Ed è solo grazie a Sherlock.» fece notare. «Se non fosse stato per lui-»
 Un gemito improvviso lo interruppe, facendolo voltare verso il salotto.
 Sherlock aveva poggiato i piedi sul pavimento e aveva il corpo chino il avanti, una mano poggiata sulla tempia e gli occhi serrati.
 «John…» singhiozzò con voce rotta.
 Il medico lo raggiunse in un attimo. «Che succede?» chiese inginocchiandosi di fronte a lui e poggiandogli le mani sui fianchi, accarezzandoli. «Senti dolore?»
 «La testa…» si lamentò e le lacrime gli rigarono le guance. Gemette dal dolore, stringendo i denti, singhiozzando convulsamente.
 «Dove ti fa male?» chiese John, accarezzandogli il viso. «Fammi vedere dove.»
 Sherlock si portò una mano alla fronte e alla nuca. Il suo viso venne attraversato da una smorfia di dolore. Gemette, sempre più pallido, chinandosi in avanti.
 «Fa male…» si lamentò con voce rotta.
 «So che fa male, Sherlock.» disse il medico, accarezzandogli la schiena. «È il trauma cranico. Hai sbattuto la testa molto forte. È normale. Il medico aveva detto che sarebbe potuto capitare.» spiegò, asciugandogli le guance con le dita. «Adesso ti prendo degli antidolorifici.»
 Prima che John potesse mettersi in piedi, Sherlock prese a respirare affannosamente, reggendosi lo stomaco e ansimando.
 «Cosa c’è?» domandò John.
 «Ho la nausea…» mormorò Holmes con voce impastata.
 «D’accordo, andiamo in bagno.» disse il dottore, poi si voltò verso Lestrade, ancora in piedi accanto a loro. «Greg, puoi darmi una mano?»
 «Certo.» rispose lui e si avvicinò, aiutando John a mettere Sherlock in piedi, reggendolo per i fianchi.
 I due lo guidarono fino in bagno, camminando lentamente per non fargli perdere l’equilibrio. Una volta dentro, lo aiutarono a inginocchiarsi sul pavimento accanto alla tazza. Greg si scostò, lasciando spazio a John, che si avvicinò all’amico, inginocchiandosi al suo fianco.
 Nello stesso istante, Sherlock si chinò sulla tazza e vomitò. Tossì convulsamente e a lungo, tremando, in preda alle lacrime e ai singhiozzi che avevano ripreso a scuoterlo.
 John rimase seduto accanto a lui, accarezzandogli la schiena e i capelli per lungo tempo, attendendo che i conati smettessero di scuoterlo violentemente, e quando cessarono gli porse un bicchiere d’acqua per sciacquarsi la bocca.
 Sherlock sputò e tirò lo sciacquone, poi prese posto sul pavimento, poggiando il capo contro la parete, esausto.
 John prese un asciugamano dall’armadietto sotto il lavandino e gli asciugò il viso, madido di sudore e lacrime. «Va meglio?» domandò, sedendosi accanto a lui e prendendogli la mano.
 Sherlock annuì, nonostante le lacrime che gli stavano rigando le guance e i leggeri tremori che stavano scuotendo il suo corpo.
 «Vuoi andare nella tua stanza?» chiese Watson. «Puoi metterti a letto se sei stanco.»
 Holmes scosse il capo, poi si lasciò scivolare in grembo all’amico, rannicchiandosi contro di lui per cercare calore, chiudendo gli occhi.
 Il dottore circondò il suo corpo con le braccia e lo strinse a sé, poi sollevò lo sguardo su Lestrade, sospirando. «Non sei costretto a rimanere, Greg.» sussurrò. 
 «Sei sicuro?» chiese lui, accovacciandosi di fronte a loro e accarezzando i capelli del consulente investigativo. «Se ti fa sentire più tranquillo posso dormire sul divano.»
 John scosse il capo, accarezzando il petto dell’amico. «Va tutto bene.» assicurò. «Non ce n’è bisogno. Ti chiamo se abbiamo bisogno di qualcosa.» concluse con un mezzo sorriso. «Grazie comunque. Sei molto gentile.»
 «D’accordo.» concesse Greg, mettendosi in piedi. «Fammi sapere.»
 Watson annuì. «Buonanotte, Greg.»
 Lestrade sorrise e uscì.
 
 Per lunghi minuti, John e Sherlock rimasero immersi nel più completo silenzio, rotto soltanto dal rumore dei loro respiri e dagli ansiti leggeri del consulente investigativo, ancora stretto fra le braccia del medico, che gli stava accarezzando i capelli e il petto, con il capo poggiato alla parete dietro di sé.
 A romperlo fu proprio Sherlock, che in lacrime, rivolse una domanda al dottore.
 «Credi che io sia un freddo calcolatore?» sbottò, rompendo la quiete calata sulla stanza.
 John sentì il cuore fermarsi nel petto. «Come?» chiese, spiazzato, chinandosi in avanti.
 «Credi che io non sappia provare sentimenti?» aggiunse Sherlock, tremando leggermente contro di lui, mentre le lacrime si facevano strada lungo le sue guance, infrangendosi sul pavimento. «Che non sia in grado di provare nulla?»
 «No, Sherlock, non lo penso.» rispose John, scuotendo il capo, aumentando inconsapevolmente la stretta di quell’abbraccio. Com’era possibile che le parole di Mycroft fossero riuscite ad attecchire nella mente di Sherlock? Erano talmente assurde… non credeva che l’amico potesse averci creduto davvero. Eppure… «Tu lo pensi? Credi di non essere in grado di provare sentimenti?» chiese, volendo capire il perché di quella domanda.
 «Io…» Sherlock esitò.
 John gli accarezzò il petto. «Sherlock…» disse. «Non crederai sul serio a ciò che ha detto Mycroft?» chiese. «Sai anche tu che non è così. Sai bene di essere umano anche tu.»
 Holmes non rispose.
 «Sherlock, guardami.» disse John, liberandolo dalla sua presa e aiutandolo a mettersi nuovamente seduto sul pavimento. Sollevò il suo volto con due dita, in modo da poterlo guardare negli occhi e quando i loro sguardi si incrociarono, John spostò la mano sulla sua guancia, sfiorandogli lo zigomo con il pollice, spazzando via le lacrime che gli avevano rigato il viso. Si mosse in avanti, avvicinandosi a lui, in modo che i loro corpi e i loro visi fossero a poca distanza l’uno dall’altro. «Cosa provi quando siamo insieme e quando siamo vicini?»
 Sherlock circondò il polso di John con le dita accarezzando la sua pelle, facendo saettare lo sguardo dai suoi occhi alle sue labbra per un lungo istante. «Io… non lo so. È difficile da spiegare.» esordì, agganciando i suoi occhi. Scosse il capo, abbassando lo sguardo. «Tu mi fai stare bene…» l’angolo delle sue labbra si sollevò, increspandole in un sorriso, come se un ricordo felice si fosse materializzato nella sua mente. «E quando ti vedo…»
 Il medico sorrise dolcemente, toccato da quelle parole. 
 «Quando ti vedo riesco a dimenticarmi per un momento di essere Sherlock Holmes, l’uomo che tutti disprezzano e divento... solo Sherlock. Lo Sherlock che vedi tu.» spiegò, incrociando nuovamente il suo sguardo. «Tu mi fai sentire l’uomo che ho sempre voluto essere.»
 John sentì il cuore accelerare.
 Sherlock sollevò una mano, sfiorando il viso dell’amico, percorrendolo con gli occhi, tracciandone ogni particolare con le dita e con lo sguardo. «Tu mi rendi felice.» sussurrò. «Mi fai battere il cuore come nessun altro era mai riuscito a fare. Cuore che neanche pensavo di non avere fino a poco tempo fa.» precisò ridendo sommessamente, scatenando la risata di John. «Mi fai sorridere soltanto guardandomi. Mi capisci senza bisogno di parole. E soprattutto mi ascolti. Mi ascolti davvero. Perché ti importa realmente di me e di ciò che penso.» 
 Il medico rimase in silenzio per qualche secondo, osservando il volto del suo migliore amico e i suoi occhi colmi di dolcezza e di sincerità. Alla fine sorrise teneramente, sfiorandogli il viso con una mano.
 «E questo secondo te sarebbe essere un freddo calcolatore?» chiese. «Credi veramente che qualcuno incapace di provare sentimenti sarebbe in grado di sentire tutto questo?»
 Holmes abbassò lo sguardo.
 John gli pose due dita sotto il mento e sollevò il suo viso in modo che i loro sguardi potessero incrociarsi. «Io non credo.» rispose per lui. «Per questo so per certo che Mycroft si sbaglia.» concluse. Poi gli sorrise dolcemente e lo tirò verso di sé, stringendolo fra le braccia e cullandolo.
 Sherlock si aggrappò alle sue spalle, affondando il viso nell’incavo del suo collo.
 Rimasero stretti a lungo in quell’abbraccio, beandosi della vicinanza fra i loro corpi e del silenzio che era tornato ad avvolgerli. Poi, senza bisogno di parole o spiegazioni, raggiunsero la stanza del consulente investigativo e si misero a letto, stretti uno fra le braccia dell’altro.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti :)
Rieccomi qui con l’ottavo capitolo, come vi avevo promesso! ;)
Non credo ci sia molto da dire, perciò non mi dilungherò oltre…
A mercoledì con il prossimo. ;)
Un bacio ;D
Eli♥
 

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Capitolo 9
*** Spirale di violenze ***


Amore
 
 
Capitolo IX
Spirale di violenze
 
 
 Mycroft non ebbe il tempo di varcare la soglia di casa propria, che le gambe cedettero sotto il suo peso, trascinandolo a terra. L’uomo cadde in ginocchio sul pavimento, ansimando per il contraccolpo ricevuto alle anche doloranti; si resse sulle braccia, ancora sanguinanti a causa dei tagli e delle ferite che Magnussen gli aveva inflitto, stringendo i denti per resistere al dolore.
 Il suo corpo era arrivato, dopo altre due settimane di torture ininterrotte, al punto di rottura. Aveva ferite e lividi ovunque, su ogni parte del corpo, dalle braccia alle gambe, dal petto al viso… e niente sembrava riuscire ad alleviare il dolore che provava ogni volta che lasciava quella maledetta villa.
 Il dolore non lo lasciava dormire la notte – unito al senso di colpa per la sofferenza causata a Sherlock e John, dei quali non aveva più notizie da settimane – troppo, ormai, per essere sopportato.
 Gemette, portandosi una mano al petto, dove una fitta lo aveva colpito togliendogli il fiato per qualche secondo, costringendolo a chinarsi in avanti. Doveva avere qualche costola incrinata a giudicare dalle fitte che quei movimenti gli provocavano, ma non poteva permettersi di andare in ospedale. Non sapendo di essere strettamente controllato da Magnussen e dai suoi uomini, che lo seguivano ovunque, ormai. Al lavoro, a casa, in ogni suo spostamento.
 «Capo?»
 La voce di Anthea irruppe nell’ingresso.
 Maledizione, pensò Mycroft. Credeva che la segretaria se ne fosse andata da qualche ora.
 Perché era ancora lì? Perché diavolo l’aveva aspettato, invece di tornarsene a casa?
 La donna uscì dalla cucina, entrando nell’ingresso, e quando sollevò lo sguardo dal cellulare e vide che il politico si era accasciato sul pavimento, lo raggiunse, gli occhi spalancati per la prima volta per il terrore.
 «Capo, si sente bene?» chiese, chinandosi accanto a lui, senza però toccarlo o avvicinarsi troppo. Per un momento sembrò disorientata, non sapendo come comportarsi. «Devo chiamare un medico?»
 Mycroft scosse il capo. «No.» rispose con voce spezzata, tentando di mettersi in piedi, facendo leva sulle braccia. «Puoi tornare a casa, il tuo turno è finito.»
 «Ma signore-» protestò lei.
 «Ho detto che puoi andare, Anthea. Sono stato chiaro?» ringhiò Mycroft, ma un attacco di tosse lo scosse improvvisamente, interrompendolo. Si portò una mano alla bocca, tossendo convulsamente, sentendo il petto dolere terribilmente agli spasmi che quell’attacco di tosse stava causando.
 Quando allontanò la mano dal viso e abbassò lo sguardo sulla mano, sentì il cuore fermarsi nel petto. Le dita erano macchiate di sangue scuro e denso, che lentamente stava colando sul palmo e sul polsino della camicia.
 Le lacrime rigarono le guance di Mycroft. Cosa gli aveva fatto quel mostro?
 «Signore, dobbiamo andare in ospedale.» disse Anthea con più urgenza, prendendo il cellulare, probabilmente per chiamare l’autista.
 «No…» insistette Mycroft, con voce rotta.
 «Deve farsi visitare.» replicò lei. «La prego. Sia ragionevole.»
 Il politico scosse il capo. «Lui mi controlla…» ansimò. «Non posso…»
 «Potrebbe avere una lesione polmonare o un’emorragia interna. Deve farsi visitare.» aggiunse la donna in tono perentorio. «Possiamo andare in un ospedale fuori Londra.» propose.
 Dopo un istante di silenzio e immobilità, Mycroft annuì. «D’accordo.» concesse, con voce roca. «D’accordo…»
 La donna annuì a sua volta, decisamente più sollevata.
 «Ma tu non vieni.» aggiunse Holmes.
 Anthea si bloccò. «Perché non dovrei?» domandò, aiutandolo a mettersi in piedi, circondandogli il petto con un braccio.
 «Magnussen ci controlla tutti da vicino…» spiegò lui, il respiro accelerato, tenendo una mano poggiata sul petto. «Non posso coinvolgerti in tutto questo. Se lo facessi non farei altro che mettere in pericolo anche te. Quindi tu tornerai a casa. Andrò in ospedale da solo…»
 «È fuori discussione.» protestò lei. «Non la lascerò andare da solo.»
 Mycroft si liberò dalla sua presa il più gentilmente possibile. «Non metterò in pericolo anche te, Anthea.» disse, tentando di ignorare le lacrime che gli avevano rigato le guance quando si era messo in piedi e il dolore alle gambe era tornato. «Lui potrebbe farti del male se scoprisse che conosci la verità riguardo ciò che sta succedendo.»
 «Correrò il rischio.»
 «Anthea-»
 «Se non mi permetterà di venire, domani mattina rassegnerò le mie dimissioni.» sbottò la donna, interrompendolo e puntando gli occhi marroni e brillanti di indignazione nei suoi.
 Mycroft rimase interdetto. «Non lo faresti.»
 «Davvero? Cosa glielo fa pensare?» chiese. «Potrei trovare lavoro senza problemi. Ovunque. E se lei non mi permetterà di aiutarla e di venire con lei in ospedale, entro domani mattina me ne sarò andata e dovrà cercarsi una nuova segretaria, signor Holmes.» proseguì. «E non credo che sarà così fortunato.»
 Mycroft abbassò lo sguardo e sospirò, scuotendo il capo. Poi sollevò il capo. «Da questo momento in poi non potrò proteggerti, lo capisci?» disse flebilmente, incrociando gli occhi della donna, a pochi centimetri dai propri.
 Lei lo prese per un braccio, aiutandolo a raggiungere la soglia, avendolo preso come un assenso. «Non ho bisogno di protezione, capo.» affermò, aprendo la porta. «So difendermi perfettamente.» concluse.
 Uscirono di casa, chiudendosi la porta alle spalle, poi salirono sull’auto, che li stava aspettando di fronte all’ingresso.
 Anthea diede indicazioni all’autista, spiegandogli che avrebbe dovuto raggiungere l’ingresso sul retro dell’ospedale fuori Londra più vicino, tentando di essere più discreto possibile, poi lo zittì quando tentò di fare domande.
 L’uomo partì e Anthea e Mycroft si chiusero nel silenzio.
 
 Anthea raggiunse Baker Street il pomeriggio seguente.
 
 Era una giornata uggiosa, fredda e scura, che aveva portato solamente pioggia e vento su tutta Londra. Sherlock e John erano rimasti rintanati in casa tutto il giorno: il consulente investigativo aveva svariati casi da analizzare per conto di Lestrade e John aveva approfittato del suo unico giorno di ferie per dargli una mano. Dopo aver passato il pomeriggio a lavorare, si erano poi concessi un momento di riposo e Sherlock aveva deciso di cominciare a suonare per John – sapendo che le sue melodie lo avevano sempre rilassato nelle giornate più stressanti – mentre il medico si destreggiava ai fornelli per preparare il tè delle cinque.
 A metà della melodia, Sherlock si accorse dell’arrivo di Anthea.
 Percepì i suoi passi spediti su per le scale, il rumore inconfondibile dei tacchi – troppo sottili e alti per essere quelli della signora Hudson – che cozzavano sul legno dei gradini, e il leggero tintinnio dell’anello che portava alla mano destra sulla ringhiera.
 Per questo quando comparve sulla soglia non ebbe bisogno di parlare o di annunciarsi: Sherlock smise di muovere l’archetto, interrompendo la melodia all’istante, percependo la sua presenza alle sue spalle.
 Tuttavia, non si voltò. Rimase in attesa per qualche secondo, poi raddrizzò le spalle.
 «Ti manda Mycroft?» chiese con voce atona e piatta.
 I rumori provenienti dalla cucina si interruppero, segno che anche John si era accorto dell’arrivo di un visitatore. Però rimase immobile, in attesa della prossima mossa di Sherlock, sapendo che se si trattava di Anthea e di Mycroft, sarebbe stato lui a dover trattare con loro prima di intromettersi.
 E il consulente investigativo lo apprezzò.
 «No, signore.» rispose lei.
 Voce flebile, esitante. Quasi impaurita.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia.
 Anthea non era mai impaurita, non si poteva avere paura se si lavorava per il Governo Inglese ventiquattro ore al giorno. Da quando l’aveva conosciuta, non si era accorto di una singola volta in cui la segretaria di suo fratello avesse mostrato una singola emozione o un’esitazione. Mai una crepa nel suo comportamento posato e fermo. Mai un sentimento diverso dall’indifferenza o dalla malizia nella sua maschera di ghiaccio, così simile a quella del fratello, quasi fossero stati plasmati per lavorare insieme.  
 «Allora non capisco cosa ci fai qui.» aggiunse il consulente investigativo, voltandosi per riporre il violino nella custodia insieme all’archetto. Chiuse la custodia, poggiandola sul pavimento accanto al leggio, poi si voltò.
 Quando sollevò lo sguardo, studiò il volto della donna.
 E ciò che vide lo sconvolse.
 Il volto, il collo e le braccia di Anthea erano coperti di lividi violacei, lividi recenti che qualcuno le aveva inferto di proposito, afferrandola e strattonandola, tentando di farle del male, e forse riuscendoci a giudicare dall’occhio nero e dal labbro spaccato. I suoi abiti erano sporchi e laceri in più punti, le calze strappate e le gambe ferite, come se avessero tentato di trascinarla sull’asfalto.
 «Chi è stato?» chiese, avvicinandosi. Solo in quel momento notò il segno lasciato dal coltello che dovevano averle puntato alla gola e il rivolo di sangue che le aveva macchiato il collo e il colletto della camicetta.
 La donna abbassò lo sguardo e indietreggiò impercettibilmente. Alcune ciocche di capelli le ricaddero sul viso, nascondendo lo zigomo livido. Scosse il capo, chiudendo gli occhi, quasi quel ricordo facesse ancora male.
 Doveva essere successo da poco.
 Ma perché andare Baker Street subito dopo?
 Perché era il luogo più vicino, si disse immediatamente Sherlock. Ma allora doveva trovarsi nelle vicinanze anche prima di essere aggredita.
 E cosa ci faceva lì Anthea?
 Se era arrivata fino a lì, sicuramente era per parlare con loro.
 In quel momento John comparve sulla soglia della cucina. Quando vide Anthea, ferita e impaurita, i suoi occhi si spalancarono, saettando immediatamente sul viso dell’amico.
 Sherlock gli rivolse uno sguardo fugace, poi sospirò e si avvicinò nuovamente e lei. Cautamente allungò una mano verso il suo viso e delicatamente lo sollevò con due dita, in modo che i loro occhi potessero incontrarsi.
 Un gesto gentile e inaspettato, che stupì la donna, ma non John, che osservò quella scena intenerito, sorridendo debolmente.
 «Deve esserci un motivo per cui sei qui, Anthea.» fece notare Holmes, parlando con calma. «Dimmi chi ti ha fatto questo.» insistette, spostandole la ciocca di cappelli dietro l’orecchio, sfiorandole uno zigomo con il pollice. «Ti prometto che non permetterò che accada mai più.»
 La donna rimase immobile, lo sguardo fisso negli occhi di Sherlock, indecisa sul da farsi. Indecisa se fidarsi dell’uomo che aveva di fronte.
 Sherlock abbassò la mano e si voltò verso John. «John, potresti portarle una tazza di tè?» chiese. «Io vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. John può dare un’occhiata a quelle ferite e disinfettarle. Per te va bene?»
 Lei lanciò uno sguardo a Watson, poi annuì.
 «Siediti.» disse il dottore, indicando il divano. «Il tè è quasi pronto.»
 Anthea annuì ed eseguì meccanicamente senza dire una parola. Prese posto sul divano, tirando la gonna per coprirsi le gambe ferite e stringendosi nelle spalle, visibilmente a disagio.
 
 Sherlock, dopo aver preso la cassetta del pronto soccorso dal bagno, rientrò in cucina, affiancando John, che dopo aver versato il tè nelle tazze si voltò verso di lui, cercando il suo sguardo e una spiegazione a quella situazione.
 «Credi che l’abbiano violentata?» domandò sommessamente, dando voce al pensiero che a entrambi ronzava in testa da troppo tempo, ormai.
 Holmes scosse il capo. «No, non credo.» rispose, poggiando la zuccheriera sul vassoio, accanto alle tazze. «Penso che fosse solo un avvertimento.»
 John aggrottò le sopracciglia, confuso. «Ma perché è venuta qui?» chiese. «Non sarebbe stato più semplice andare da Mycroft? Lui avrebbe potuto insabbiare tutto molto più facilmente, facendo in modo che nessuno si accorgesse di nulla.»
 «Perché credo che stesse venendo qui quando l’hanno aggredita.» replicò Holmes.
 Watson poggiò una mano sul tavolo, voltandosi verso l’amico. «Non capisco.» disse, scuotendo la testa, incontrando i suoi occhi. «Anthea stava venendo a Baker Street? Perché avrebbe dovuto farlo? Non viene mai qui, nemmeno con Mycroft.»
 Sherlock agganciò gli occhi di John. «Lo so, ma ho ragione di pensare che Anthea volesse parlare con noi e nel tragitto sia stata aggredita.» spiegò, poi sospirò. «La domanda è: da chi?»
 «Forse dovremmo chiederglielo dopo il tè.» affermò John. «È ancora sotto shock. Diamole il tempo di riprendersi.» concluse, poggiandogli una mano sul braccio, poi prese il vassoio e seguito da Sherlock rientrò in salotto.
 
 Dopo una tazza di tè, e quando John ebbe controllato tutte le sue ferite, disinfettandole e assicurandosi che non ci fosse nessun trauma più grave a parte il labbro spaccato, Sherlock, decise di riprendere con le domande.
 «Perché stavi venendo qui?» domandò, rompendo il silenzio.
 Anthea si voltò verso di lui e lo osservò per un lungo istante, ponderando la risposta, poi abbassò lo sguardo. «Volevo parlarle di suo fratello.» rispose flebilmente.
 Lo sguardo di John saettò immediatamente al volto dell’amico. Per un momento, i suoi occhi vennero attraversati dal panico, esattamente come la mente di Sherlock, che prese a lavorare freneticamente: cosa poteva essere successo a Mycroft?
 Quel muto scambio di sguardi ad Anthea non sfuggì. «Non è stato lui a farmi questo, se ve lo state chiedendo.» aggiunse. «Non lo farebbe mai.»
 «Non stavamo pensando questo.» disse Sherlock, riportando lo sguardo sul volto di lei. «So che mio fratello non è una persona violenta e che non ti sfiorerebbe nemmeno con un dito.»
 «Siamo solo preoccupati per lui.» aggiunse Watson. «Sta bene?»
 Anthea si strinse nelle spalle, accarezzandosi le braccia. «No.» rispose duramente, scuotendo il capo. «No, non sta bene. Lui…» esitò, chiudendo gli occhi. «Lui ha ripreso gli incontri con Magnussen.»
 Gli occhi del consulente investigativo si spalancarono. «Quando?» domandò, sporgendosi verso di lei.
 «Due settimane fa. Quando è tornato a casa.»
 «Oh, Dio…» sfuggì a John, che si portò una mano al viso.
 Sherlock impiegò meno di cinque secondi a mettere insieme i pezzi. «Sono stati gli uomini di Magnussen ad aggredirti.» disse soltanto, sapendo che Anthea avrebbe dato spiegazioni senza bisogno di insistere oltre.
 Infatti la donna annuì. «Ieri sera, quando è tornato a casa, non si sentiva bene.» spiegò. «Era coperto di lividi e ferite, e… vomitava sangue. Ha accettato di andare in un ospedale fuori Londra per una visita sperando di non dare nell’occhio, ma Magnussen l’ha scoperto comunque.» sospirò, abbassando lo sguardo. «Questa notte lo hanno ricoverato e l’hanno sedato per diminuire il dolore. Aveva una lesione polmonare e due costole incrinate, oltre a tutte le ferite e le lesioni che Magnussen gli ha provocato in queste settimane. Fortunatamente i medici non hanno fatto domande.» strinse i pugni. Poi si schiarì la voce. «Questo pomeriggio, dopo essermi assicurata che fosse sorvegliato, ho lasciato l’ospedale per venire qui e parlare con voi riguardo ciò che era successo, ma Magnussen mi ha fatta seguire e quegli uomini hanno-» si interruppe, mordendosi il labbro inferiore.
 John e Sherlock si scambiarono uno sguardo.
 «Mycroft sa che sei qui?» chiese il consulente investigativo.
 «No, non sapeva che sarei venuta.» rispose lei. «Era ancora sotto sedativi quando me ne sono andata. E ho chiesto espressamente che nessuno dei medici lo dimettesse prima del vostro arrivo.»
 Sherlock annuì, abbassando lo sguardo per riflettere. Dopo un lungo momento di silenzio, risollevò il capo. «Quindi dobbiamo presumere che Magnussen ci stia tenendo d’occhio tutti.» concluse. «Ovviamente sa che sei venuta qui comunque, nonostante l’aggressione, perciò presto verrà da noi o ci farà avere un messaggio per farci sapere che ha Mycroft in pugno, nonostante i nostri tentativi di proteggerlo.» si mise in piedi, giungendo le mani sotto il mento e assottigliando lo sguardo, camminando avanti e indietro di fronte al divano. «Sa dove si trova Mycroft, sa come arrivare a lui e sa come arrivare a noi. Quindi, sopra ogni cosa, dobbiamo tentare di limitare i danni collaterali.» concluse, voltandosi verso la donna. «Torna a casa tua e chiedi agli uomini di mio fratello di aumentare la sorveglianza intorno al tuo appartamento e di non lasciarti sola neanche un istante. Non allontanarti da lì per nessuno motivo. È il luogo più sicuro per adesso.» spiegò porgendole la mano per aiutarla a mettersi in piedi.
 Anthea la prese e si alzò dal divano «E suo fratello?» domandò. «Non posso lasciare il lavoro senza un motivo. Sono la sua segretaria.»
 «Il motivo c’è, Anthea, ed è più che valido.» fece notare il medico, mettendosi in piedi a una volta. «Ti hanno aggredita e avrebbero potuto ucciderti, se solo Magnussen glielo avesse ordinato.»
 «John ha ragione.» confermò Sherlock.
 Anthea si voltò verso di lui, incrociando il suo sguardo.
 «Hai già rischiato molto venendo qui oggi.» aggiunse il consulente investigativo. «Da adesso in poi lascia fare a noi.»
 «Ma-»
 «A Mycroft pensiamo io e John.» disse Sherlock, interrompendola e voltandosi verso l’amico, che annuì in conferma. «Andremo da lui e lo porteremo qui. Gli impediremo di proseguire con questi incontri e denunceremo Magnussen. Porteremo le prove alla polizia e con la testimonianza di Mycroft, non potranno ignorare ciò che quel mostro ha fatto. Lo fermeremo una volta per tutte.»
 La donna annuì, e dopo aver dato loro l’indirizzo dell’ospedale dove poter trovare il suo capo, se ne andò, lasciandoli nuovamente soli.
 «Sapevo che dietro quell’improvviso cambio di comportamento c’era qualcosa di strano.» esclamò Sherlock, quando Anthea ebbe lasciato l’appartamento. «Sapevo che Mycroft non avrebbe mai detto qualcosa del genere senza motivo.» prese il cappotto e la sciarpa e li indossò, poi passò a John il suo. «Ci ha allontanati di proposito.»
 John lo ringraziò con un cenno del capo. «Come può averlo convinto? Perché lo sta facendo ancora?» domandò, seguendo Sherlock giù per le scale. «Avrebbe potuto denunciarlo soltanto utilizzando le minacce.»
 Holmes sospirò. «Potrei sbagliarmi, ma credo che ciò che è successo due settimane fa, non fosse un incidente.» spiegò, riferendosi all’incidente che li aveva coinvolti sulla via di casa. Uscì di casa e sollevò un braccio per chiamare un taxi.
 «Credi che Magnussen abbia organizzato tutto?» chiese John, sconvolto.
 Sherlock esitò. «Anthea ha detto che gli incontri sono ripresi quando ha lasciato Baker Street.» ragionò ad alta voce, aprendo la porta del taxi in modo che John potesse salire, seguendolo a bordo. Diede l’indirizzo al tassista, poi chiuse la portiera, mettendosi la cintura e voltasi nuovamente verso John, riprese. «Quella sera, in ospedale, ci siamo chiesti dove fosse finito. Era irraggiungibile e lui ha detto di essere tornato qui, ma nessuno lo aveva veramente visto.»
 «Quindi credi che potesse essere andato da Magnussen.» concluse Watson. «Il che spiegherebbe perché non aveva risposto al telefono e il perché avrebbe ripreso con questi incontri… Per proteggere te.»
 «Per proteggere noi.» lo corresse.
 John aggrottò le sopracciglia, agganciando i suoi occhi.
 «L’auto avrebbe colpito entrambi se non ti avessi spostato in tempo.» spiegò. «Eravamo entrambi gli obiettivi, anche se ero io ad essere più esposto perché camminavo sul lato del marciapiede più esterno.»
 «Ma perché colpire me?»
 «Perché è evidente che Mycroft tiene a te.»
 Il medico si stupì. «Ma io…» esitò «Non capisco. Non ho fatto nulla.»
 «Ti sbagli. Hai fatto molto.» replicò. «E Magnussen ha capito che per Mycroft sei diventato importante. Sapeva che colpendo noi avrebbe ottenuto ciò che voleva da mio fratello.»
 «Ma perché non ci ha chiesto aiuto invece di tornare da Magnussen?» domandò ancora John. «Avrebbe potuto dircelo. Avremmo affrontato tutto questo insieme.»
 «Non voleva coinvolgerci più di quanto non lo fossimo già. E non voleva che ci accadesse nulla di male.» spiegò il moro. «Perché al contrario di quanto tenta di affermare con tanto ardore, anche lui ha un cuore.» sospirò. «Perciò, John, sei ancora tempo per tirarti indietro, se vuoi. Non voglio costringerti a-»
 «No.» sbottò John, interrompendolo. «Voglio aiutarti. E voglio aiutare lui.»
 «È pericoloso.»
 «Non importa.» affermò con sicurezza. «Se sono con te non ho paura.»
 Sherlock non poté fare a meno di accennare un sorriso. Allungò una mano e sfiorò con le dita quelle del medico, poggiate sul sedile accanto alle proprie.
 Watson abbassò lo sguardo e sorrise a sua volta. Dopo un momento sollevò nuovamente il capo, incontrando gli occhi dell’amico. «Come procediamo?» chiese. 
 «Andiamo in ospedale, prendiamo Mycroft e lo portiamo a Baker Street. Poi chiamiamo Lestrade e procediamo con la denuncia.» spiegò. «In questo modo Scotland Yard potrà procedere con l’arresto immediato. Se quello che Anthea ha detto è vero, allora stavolta le prove sul corpo di Mycroft saranno così evidenti che saranno impossibili da ignorare persino per loro.»
 «E sei certo che Mycroft accetterà di denunciarlo?»
 «Non lo so.» ammise con un mesto sospiro. «Ma stai pur certo che non permetterò a Magnussen di continuare con tutto questo. Non gli permetterò di toccare mio fratello mai più. Costi quel che costi.»
 
 Una volta arrivati in ospedale, Sherlock e John chiesero all’infermiera alla reception dove potessero trovare Mycroft Holmes.
 La donna disse loro che era stato ricoverato la notte precedente e di raggiungere il quinto piano, indicando il numero della stanza dove avrebbero potuto trovarlo.
 I due raggiunsero l’ascensore più vicino, volendo evitare il traffico dei corridoio e delle scale. Arrivati al quinto piano e alla stanza di Mycroft, Sherlock poggiò la mano sulla maniglia pronto ad entrare, chiedendosi dove fossero finiti gli uomini che Anthea aveva messo a guardia della stanza.
 Tuttavia, proprio mentre stava per aprire la porta notò che John si era bloccato alle sue spalle, indietreggiando di qualche passo, esitante.
 «Che succede?» chiese, voltandosi e avvicinandosi.
 «È meglio che io aspetti qui fuori.» disse John.
 Il consulente investigativo aggrottò le sopracciglia. «Credevo che ormai fosse chiaro.»
 Il medico sembrò confuso.
 «Dove sono io sei tu, John.» aggiunse Sherlock, agganciando i loro sguardi. Poi gli prese la mano, intrecciando le loro dita e tirandolo delicatamente verso di sé.
 John accennò un sorriso, poggiandogli una mano sul petto, all’altezza del cuore. «Dove sono io sei tu.» ripeté dopo un momento.
 Holmes annuì.
 E insieme varcarono le soglia.
 Quando entrarono, rimasero senza fiato.
 Il letto era sfatto, le coperte riverse a toccare il pavimento, le flebo gettate sul materasso insieme agli elettrodi insieme al pigiama che le infermiere gli avevano fatto indossare, ma di Mycroft non c’era traccia.
 «Ma cosa…?» sfuggì a Sherlock.
 «Dove può essere andato?» chiese John.
 Il cellulare di Holmes squillò in quel momento, facendoli trasalire entrambi.
 Il consulente investigativo infilò una mano nella tasca della giacca, prendendo fra le mani l’apparecchio e osservandone lo schermo. Era un numero sconosciuto, non salvato in rubrica. Aggrottò le sopracciglia.
 Premette il tasto di risposta.
 «Pronto?»
 «Credo che a quest’ora si sarà già accorto della scomparsa di suo fratello, signor Holmes.» tuonò la voce di Magnussen dall’altro capo. «E sì, nel caso se lo stia domandando, gli uomini che stavano sorvegliando la stanza erano al mio servizio e non appena la segretaria di suo fratello ha lasciato l’ospedale hanno provveduto a riportarmi ciò che era di mia proprietà.»
 «Dov’è mio fratello?» ringhiò Sherlock, stringendo il telefono con tanta forza da far sbiancare le nocche.
 Magnussen rise. «Domanda stupida di cui credo conosca la risposta senza bisogno che sia io a dargliela.»
 «Se gli ha fatto del male, io-»
 «Risparmi il fiato, Sherlock.» lo bloccò, prima che potesse proseguire. «La aspetto alla mia villa quando più la aggrada. E mi aspetto che venga anche il dottor Watson.» concluse. «Ah, le consiglio di non tardare, o potrebbe non ritrovare suo fratello tutto intero. Consideri questo come un amichevole avvertimento.» poi riagganciò, senza dire nient’altro.
 Sherlock allontanò il cellulare dall’orecchio, voltandosi verso John, il volto pallido come un cencio, gli occhi colmi di terrore all’idea che quel mostro avrebbe potuto uccidere suo fratello con un semplice schiocco delle dita se solo lo avesse voluto.
 Non servirono parole.
 «Andiamo.» disse soltanto il medico.
 Holmes annuì e lo seguì fuori dalla stanza.
 
 ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao ;) Rieccomi qui con il nono capitolo! Mamma mia come scorre veloce questa storia! Non mi sembra vero di essere già al nono capitolo xD
Non c’è molto da dire, perché come avrete capitolo, questo capitolo è solo il preludio di ciò che accadrà poi. Nel decimo capitolo. Che pubblicherò venerdì ;) ♥
A presto.
Un abbraccio :)
Eli♥
 

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Capitolo 10
*** Appledore ***


Amore
 
 
Capitolo X
Appledore
 
 
 Sherlock e John raggiunsero la villa in meno di un’ora di auto. Trovarono il cancello aperto, segno che Magnussen li stava attendendo. Attraversarono il vialetto in auto e parcheggiarono di fronte alla scalinata d’ingresso della mastodontica villa che avevano di fronte.
 Scesero dall’auto e John affiancò Sherlock. Si scambiarono uno sguardo fugace, poi salirono le scale, raggiungendo la porta, dove uno degli uomini di Magnussen li stava attendendo. Quando i due si avvicinarono, questo li invitò ad entrare con un cenno della mano.
 Holmes e Watson varcarono la soglia e videro che Magnussen era in piedi al centro dell’ingresso, in attesa, le mani giunte dietro la schiena, lo sguardo freddo fisso su di loro.
 «Benarrivati, signori.» esordì con un sorriso freddo, ma carico di malizia. «Immagino che sia nell’interesse di entrambe le parti saltare i convenevoli per venire subito al dunque.» affermò, senza dar loro la possibilità di replicare. «Seguitemi.» concluse e si mosse verso la porta alla loro sinistra.
 Con una spinta la spalancò aprendola completamente. Di fronte a loro si aprì un salotto poco arredato, completamente dipinto e arredato di bianco. L’unico tocco di colore erano le piante da appartamento verdi e brillanti poste al fondo della stanza. 
 Accanto ad esse, inginocchiato a terra, le braccia incatenate alla parete di fondo del salotto, a mezzo metro da terra, c’era Mycroft.
 Il suo volto era coperto di ferite, e il sangue e le lacrime stavano percorrendo la sua palle, sporcandogli il leggero strato di barba che gli accarezzava le guance, e colando sulla camicia bianca che indossava.
 Sherlock e John rimasero senza fiato.
 «Mycroft» ansimò Sherlock, tentando di avanzare.
 Tuttavia venne immediatamente intercettato da uno degli uomini di Magnussen, di guardia accanto alle finestre alla sua sinistra, che lo bloccò tenendolo per un braccio prima che potesse avvicinarsi.
 Il politico li udì e sollevò il capo. Non appena li vide e realizzò che erano realmente lì, i suoi occhi si spalancarono.
 «Lo lasci andare.» ringhiò John, voltandosi verso Magnussen.
 L’uomo aggrottò le sopracciglia. «Perché dovrei?» chiese. «Il signor Holmes è venuto qui di sua spontanea volontà.»
 Sherlock si voltò verso il maggiore. «Myc…» ansimò. «Perché?»
 Mycroft gemette, sollevando il capo verso di lui. «Mi dispiace…» singhiozzò. «Aveva minacciato di fare del male a te e John… non potevo permettere che… mi dispiace tanto…»
 «Lo lasci.» ringhiò il consulente investigativo, voltandosi verso Magnussen. «Lo lasci e prenda me.» aggiunse, senza riflettere.
 La bocca di Magnussen si incurvò in un sorriso malizioso. «Che proposta allettante…» mormorò, leccandosi le labbra.
 «No» ansimò Mycroft, le lacrime che gli rigavano il viso. «Avevamo un accordo… Ha me… deve lasciare in pace Sherlock e John.» disse con voce tremante. «Li lasci andare.»
 Magnussen rise. «Perché dovrei?» chiese, rivolto al politico. «Sherlock Holmes è un così bel ragazzo.» aggiunse, avvicinandosi al consulente investigativo, percorrendo il suo corpo con gli occhi. «La pelle marmorea, i capelli neri come il carbone e due occhi splendidi…»
 Prima che potesse avvicinarsi ulteriormente, John si frappose fra lui e l’amico. «Non provi a toccarlo.» ringhiò.
 «Ma come, dottore? Non vorrà tenere Sherlock tutto per lei?» chiese l’uomo, in tono beffardo. «Una tale bellezza deve essere condivisa. Soprattutto considerato che se così non sarà, Mycroft Holmes potrebbe perdere molto più della sua dignità e del suo occhio, stasera…»
 Gli occhi di Sherlock e John si spalancarono.
 Il moro si voltò verso il fratello e solo in quel momento si accorse che un lungo taglio percorreva verticalmente il suo volto dal sopracciglio destro alla guancia, nascosto dal sangue che continuava a mescolarsi alle lacrime percorrendo la sua pelle.
 Nello stesso istante, la guardia alle loro spalle, gettò qualcosa di fronte a lui e John, che rotolò sul pavimento fino ai piedi Magnussen.
 Sherlock e John inorridirono e indietreggiarono.
 «Oh, mio Dio» sfuggì al medico. Sollevò lo sguardo sul volto di Magnussen, disgustato e furioso, avanzando di un passo. «Bastardo…» ringhiò. «Come ha potuto?» 
 «Questo è ciò che succede quando le persone tentano di ribellarsi a me.» replicò Magnussen, dando un calcio all’occhio, che rotolò di lato sul pavimento. «Mycroft adora ribellarsi…» disse con un mezzo sorriso. «E questo è stato il prezzo che ha dovuto pagare.»
 John strinse i pugni, pronto a ribattere e scattare, ma il consulente investigativo lo bloccò.
 «John» sussurrò. «No.»
 Watson scosse il capo, voltandosi verso di lui. «Non vorrai permettergli di proseguire con tutto questo?» sibilò. «Guarda cosa gli ha fatto!»
 «Lo so.» confermò Holmes, avanzando. «Per questo siamo qui. Per porre fine a tutto questo.» disse, volgendosi nuovamente verso Magnussen. «Come le ho già detto: prenda me. Lasci andare Mycroft e John, e prenda me.»
 «No!» esclamò il dottore, prendendolo per un braccio per trattenerlo. «Non ti permetterò di fare questo. E non gli permetterò di farti del male.» disse, poi si volse verso Magnussen. «Prenda me.»
 «No.» sbottò Sherlock, rivolto verso John, il cuore che batteva a mille, la paura che scorreva nelle vene come veleno. «Non è compito tuo salvare Mycroft. Non ti permetto di farlo.»
 John si voltò nuovamente verso di lui, incrociando i suoi occhi. «E io non ti permetterò di venderti a lui.» replicò. «Non posso lasciare che tu lo faccia. Né tantomeno lascerò che questo mostro si avvicini a te. Non permetterò che ti sfiori neanche con un dito.» concluse e poi si mosse verso Magnussen. «Avrà me e lascerà andare Mycroft e Sherlock. Questo è l’unico accordo che le proporremo, quindi ci rifletta bene.»
 L’uomo sorrise e alla fine annuì. «Perché no?» chiese. «Non ho mai avuto un militare.»
 John avanzò, ma prima che potesse raggiungere Magnussen, Sherlock lo prese per un braccio e lo tirò verso di sé per trattenerlo.
 I loro corpi si scontrarono e i loro volti si fermarono a pochi centimetri gli uni dagli altri.
 «Non te lo lascerò fare.» soffiò Sherlock sulla bocca dell’amico, pericolosamente vicina alla sua. «Non ti permetto di buttare via la tua vita in questo modo.»
 John poggiò una mano sul petto di Holmes per non perdere l’equilibrio. «E io non lascerò che lo faccia tu.» replicò. Esitò, abbassando per un momento lo sguardo sulle labbra dell’amico, per poi riportarlo sui suoi occhi. «Ti prego, lascia che sia io a proteggerti questa volta.» concluse, e gli poggiò una mano sulla guancia.
 «No. Non posso lasciare che ti faccia del male.» disse Holmes, sollevando una mano e poggiandola a sua volta sul viso del dottore. Un sospiro tremante lasciò le sue labbra. Poi chiuse gli occhi, accarezzando il naso di John con il proprio, il cuore che batteva a mille, rimbombando in ogni cellula del suo corpo. La sua voce tremò. «Sei tutto quello che ho. Non posso perderti.»
 «Che scena patetica.» sbottò Magnussen, un malizioso sorriso a deformargli il volto. «Non c’è che dire, sapevo che i sentimenti che vi legavano erano profondi, ma non avrei mai immaginato potessero esserlo in questo modo.»
 Sherlock serrò maggiormente gli occhi, poggiando poi la guancia contro la tempia del dottore; le mani di John si chiusero intorno al suo cappotto, sulla sua schiena, quasi stesse tentando di tenerlo stretto a sé per non concedersi a quell’uomo disgustoso.
 Dopo un momento i due si allontanarono, scambiandosi uno sguardo fugace, poi si voltarono verso Magnussen, ancora in piedi a qualche passo da Mycroft, che intanto si era fatto sempre più pallido.
 «Ma, ahimè, temo che questa discussione sia superflua.» affermò Magnussen, avanzando. «In ogni caso sarò io a decidere quale sarà la prossima mossa da compiere. Credevo che ormai aveste capito di essere completamente nelle mie mani. Ho io il coltello dalla parte del manico, miei cari signori.» concluse. «E voglio lei, Sherlock.»
 «No» gemette Mycroft.
 John scattò in avanti. «Non osi avvicinarsi a lui.» ringhiò.
 Una delle guardie dell’uomo lo bloccò, tenendolo per le braccia e facendolo indietreggiare, allontanandolo dal consulente investigativo.
 «D’accordo.» disse Sherlock, con urgenza, vedendo che lo scimmione aveva puntato la pistola alla tempia di John, caricando il cane, pronto a fare fuoco se si fosse mosso. «Avrà me, ma dovrà lasciarli andare entrambi. Non dovrà più avvicinarsi a loro. Mai più.»
 Magnussen sorrise. «D’accordo. Li lascerò andare e li lascerò in pace, se è quello che vuole.» concesse. «Ma anche io ho delle condizioni, signor Holmes. Condizioni che se non rispettate, faranno ricadere terribili conseguenze sul dottor Watson e sul suo amato fratello.»
 Sherlock sentì un groppo chiudergli la gola e le lacrime salirgli agli occhi.
 «Lei non si ribellerà.» aggiunse Magnussen, avvicinandosi a lui. «Sarà completamente mio, a mia completa disposizione per qualsiasi cosa, ed esaudirà ogni mia richiesta. Non le sarà permesso lasciare Appledore. Non senza di me. Non avrà più contatti con nessuno a parte me. Non rivedrà John Watson mai più.» concluse. «Accetta?»
 Sherlock sentì il suo cuore andare in frantumi. Chiuse gli occhi, sentendo la debolezza impadronirsi del suo corpo e la nausea invaderlo.
 Sottomettersi a Magnussen.
 Fare tutto ciò che gli avrebbe ordinato.
 Non vedere John mai più.
 Come avrebbe potuto accettare?
 Prese un profondo respiro, poi riaprì gli occhi, puntandoli in quelli di Magnussen, che lo stavano osservando, vuoti e freddi come quelli di un predatore pronto a colpire la sua preda.
 Poi si voltò verso John, incontrando i suoi occhi, sentendo una fitta di dolore trafiggerlo dritta al cuore. L’idea di perderlo, di separarsi da lui e non poterlo vedere mai più, rinunciando alla sua presenza, al suo sorriso, alla sua vicinanza, era tremenda.
 Il solo pensiero lo uccideva.
 Tuttavia, anche se faceva male, ed era spaventoso pensare a cosa sarebbe successo se avesse accettato quelle condizioni, Sherlock sapeva bene che quello era l’unico modo che aveva per salvare sia Mycroft che John.
 E dopotutto, si ritrovò a pensare, John aveva Mary. Era ancora sua moglie, e anche dopo tutto ciò che era successo fra loro, alla fine sarebbe tornato da lei. Non avrebbe più potuto vederlo, ma in ogni caso, John Watson non era mai stato suo e mai lo sarebbe stato. Era inutile continuare ad illudersi.
 «Mi dispiace.» sussurrò, poi si voltò verso Magnussen. «Accetto.» sbottò con voce flebile e il cuore spezzato, firmando definitivamente la sua condanna.
 «No, Sherlock, non farlo!» intervenne John, tentando di liberarsi dalla presa dello scimmione, nonostante la pistola puntata alla testa.
 Il consulente investigativo si voltò verso di lui, gli occhi traboccanti di dolore e scintillanti a causa delle lacrime. «Mi dispiace tanto.» disse con voce tremante. «Ti prego, perdonami.»
 «No…» ansimò il medico. «Ti prego, no…»
 «Tuttavia, poiché non sono un mostro, le concederò qualche minuto per salutare il dottor Watson, dato che questa sarà l’ultima volta che lo vedrà.» aggiunse Magnussen. «Renda questi minuti significativi, signor Holmes.» rivolse un cenno alla sua guardia del corpo che immediatamente lasciò andare il medico.
 John raggiunse Sherlock e i loro corpi entrarono in contatto. «Non devi farlo.» disse con voce rotta, poggiandogli le mani sul petto. «Non devi fare questo per me. Non voglio che tu lo faccia.»
 Il consulente investigativo poggiò le mani su quelle dell’amico, abbassando lo sguardo per nascondere le lacrime che avevano preso a scintillare nei suoi occhi.
 «Ti prego, John, abbiamo poco tempo.» fece notare, con amarezza. «Non sprechiamolo così.» non voleva sprecare quegli ultimi istanti con il suo migliore amico in quel modo. Erano tante le cose che avrebbe voluto dire… non avrebbe visto John mai più, quindi non aveva nulla da perdere. Ma sapeva che se avesse detto la verità al suo migliore amico, lo avrebbe legato a lui per sempre. E non poteva permetterlo. Non sapendo che da quel momento in poi non avrebbero più potuto contare l’uno sull’altro.
 «Non puoi lasciarmi indietro.» replicò il medico, la voce ridotta ad un sussurro spezzato dalle lacrime, interrompendo il corso dei suoi pensieri. «Ho bisogno di te. Sai che ho bisogno di te… Sherlock, io non posso farcela senza di te…»
 «Sei forte e ce la farai. E hai Mary. Lei saprà renderti felice e si prenderà cura di te, ne sono certo.» Sherlock si impose di non crollare. Di regalare a John quell’ultima speranza, sapendo che tornare con Mary sarebbe stata l’unica speranza, per lui. Gli accarezzò una guancia per fermare le lacrime che la stavano rigando. Si impose di sorridere. «Andrà tutto bene.»
 «Ma come puoi non capire?» sbottò John, accarezzandogli il collo. «Dove sono io sei tu… È senza di te che non posso vivere. Non c’è mai stato nessun altro.»
 «Puoi farlo, invece.» replicò. «L’hai già fatto una volta e puoi farlo ancora. Ne sono certo.»
 Watson scosse il capo.
 Il consulente investigativo si voltò verso Mycroft, il cui capo era caduto in avanti, segno che era quasi completamente privo di sensi. «Prendi Mycroft.» mormorò, incrociando nuovamente lo sguardo del dottore. «Salvalo e prenditi cura di lui… Promettimi che lo farai.» sussurrò. Non poteva continuare ad indugiare o non sarebbe riuscito a lasciarlo andare.
 John chiuse gli occhi, lasciando che altre lacrime gli rigassero le guance. «Sherlock…» protestò.
 «Prometti» insistette.
 «Te lo prometto.» sussurrò con voce spezzata.
 Sherlock annuì a sua volta, sorridendogli dolcemente.
 «Sherlock, io…» riprese John. «Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata e io…»
 Le sue lacrime si infransero sulle dita di Sherlock.
 «Io…» John esitò ancora.
 Questa volta Sherlock lo bloccò, accarezzandogli una guancia. Sapeva cosa stava per dire, perché anche lui avrebbe voluto farlo. Da troppo tempo. Ma sapeva anche che quelle parole avrebbero reso tutto più difficile. Non poteva permettergli di pronunciarle ad alta voce.
 «Non devi dire niente.» affermò, sorridendogli dolcemente, come solo lui sapeva fare. Il suo cuore si appesantì. «Va bene così.»
 John scosse il capo. «Non è vero.» disse. «Non è vero, non va bene così.»
 «Sì, invece.» assicurò il consulente investigativo. Poi si fece serio. Gli accarezzò il viso con delicatezza. «Avrei voluto passare il resto dei miei giorni insieme a te…»
 Prima che John potesse ribattere, tuttavia, uno degli scimmioni di Magnussen prese Sherlock per un braccio, allontanandolo bruscamente da lui.
 «Tempo scaduto.» disse Magnussen, rivolgendo uno sguardo privo di emozioni al dottore. «Dottor Watson, prenda il signor Holmes e andatevene, prima che cambi idea.»
 L’uomo alle spalle del medico lo spinse accanto a Mycroft, gettando a terra la chiave delle catene che lo tenevano legato alla parete. 
 Sherlock osservò John mentre si muoveva per afferrare la chiave e si avvicinava a suo fratello per liberarlo.
 Il dottore sfilò le manette dal polsi del politico, prestando attenzione a non fargli del male, poi poggiò una mano sulla guancia del maggiore degli Holmes, sfiorandola delicatamente, e parlò, cercando il suo sguardo.
 «Vieni, Mycroft.» disse. «Andiamo via.»
 «Sherlock» bofonchiò Mycroft, privo di forze, trovando a malapena la forza di sollevare il capo per incrociare lo sguardo di Watson.
 John si alzò e, circondando i fianchi del politico con un braccio, lo aiutò a mettersi in piedi. Poi si mosse, dirigendosi verso l’uscita della sala, rivolgendo un ultimo sguardo carico di dolore e rimorso a Sherlock, che lo ricambiò.
 Mycroft, ansimando per lo sforzo che quei movimenti gli costavano, tentò di opporre resistenza.
 «Lasciami…» ansimò.
 «Mycroft, ti prego…» lo implorò John, cercando di trattenerlo.
 Tuttavia, il politico riuscì a liberarsi dalla presa del dottore. Raggiunse il fratello, prendendolo per le braccia. «Sherlock, ti prego…» disse. «Lui ti distruggerà… guarda cos’ha fatto a me…»
 Sherlock lo sorresse, tenendolo per le spalle, tentando di nascondere dietro ad una maschera di indifferenza e freddezza il dolore che lo stava uccidendo lentamente.
 «Devi andartene, Mycroft.» disse, incrociando il suo sguardo. La sua voce tremò, tradendolo. Non voleva lasciare suo fratello e John, né tantomeno rimanere lì. Ma non c’era altra scelta. «Vattene, ti prego.» lo implorò.
 «No… tu devi andare via. Devi andartene insieme a John…» replicò il maggiore, abbassando lo sguardo e chiudendo gli occhi.
 Sherlock si accorse di quanto fosse debole, sentendo il suo corpo tremare sotto il suo tocco. Era ferito, aveva perso troppo sangue. Per questo avrebbe dovuto andarsene il prima possibile e raggiungere un ospedale per ricevere cure mediche. Chissà cosa poteva avergli fatto nuovamente passare Magnussen… non poteva pensarci.
 Mycroft inspirò profondamente, poi riprese. «Di me ormai non resta più niente… non può farmi più male di così.» affermò, col fiato corto. «Rimango io con lui. Ma tu devi-»
 «No.» rispose Sherlock, perentorio, interrompendolo. «Vai via.»
 «Sto perdendo la pazienza.» sbottò Magnussen, che aveva preso posto sul divano, godendosi quella scena, senza mai smettere di sorridere, divertito. «Le consiglio di andarsene, Mycroft, prima che io cambi idea.»
 «Hai sentito? Vattene, Mycroft.» sibilò il consulente investigativo, tentando di spingerlo lontano da sé. Se suo fratello e John non se ne fossero andati immediatamente, Magnussen li avrebbe trattenuti lì tutti quanti, torturandoli in chissà quale modo.
 «Non senza di te.» insistette Mycroft, senza staccare gli occhi da quelli di suo fratello. «Non ti lascio qui. Non gli permetterò di farti del male. Morirò piuttosto.»
 «Per favore, Mycroft» lo implorò il minore con voce rotta, sentendo un leggere capogiro coglierlo. Come poteva, Mycroft, non capire che Magnussen l’avrebbe fatta pagare a tutti? Non si sarebbe limitato a lui, ma anche a Mycroft e John. «Vattene.»
 «Non posso lasciarti.» replicò il politico, stringendo le mani intorno alle maniche del cappotto del fratello, le lacrime che gli rigavano le guance pallide e scavate, mescolandosi al sangue. «Devo proteggerti… Sei mio fratello, non posso lasciare che-»
 «Hai già fatto abbastanza e-»
 «Ora basta.» ringhiò Magnussen, interrompendoli.
 Sherlock spostò lo sguardo sul volto di John. «Portalo via, John.» disse con urgenza, tentando di spingere nuovamente suo fratello lontano da sé. Le lacrime gli rigarono il volto. «Ti prego, portalo via.»
 «Non farlo, Sherlock…» gemette il politico. «Ti imploro. Vattene e lasciami qui.»
 John afferrò Mycroft per i fianchi e lo trascinò lontano da suo fratello, ignorando i suoi tentativi di opporre resistenza. «Mycroft, vieni via, ti prego.» lo implorò. «Sherlock lo sta facendo per noi.»
 Mycroft si voltò verso di lui. «Come puoi permetterglielo?» chiese. «Come puoi permettergli di fare questo? Credevo tenessi a lui!»
 John si bloccò, sconvolto da quelle parole. Aprì bocca per parlare, ma Magnussen lo fece per primo.
 «Rufus, Marcus, prendete il signor Holmes e il dottor Watson.» ordinò, rivolgendosi ai due uomini fermi di fronte alle finestre, senza scomporsi o alzarsi dal divano.
 I due avanzarono e afferrarono John e Mycroft per le braccia, separandoli e facendoli arretrare di qualche passo.
 «No!» esclamò Sherlock, tentando di avanzare per impedire che facessero loro del male. «Abbiamo un accordo! Non può farlo!» gridò, dimenandosi per liberarsi della guardia che lo aveva trattenuto per le braccia prima che potesse avvicinarsi.
 «Invece sì. Ho dato a suo fratello e al dottor Watson la possibilità di andarsene e non l’hanno sfruttata… Quindi posso farlo eccome.» lo contraddisse Magnussen, rivolgendogli uno sguardo carico di malizia. Poi tornò a voltarsi verso i suoi uomini, che intanto avevano fatto inginocchiare sul pavimento John e Mycroft. «Marcus, si sbarazzi del signor Holmes. È soltanto d’intralcio.» concluse con un cenno della mano.
 «Non osi toccarlo!» gridò Sherlock, dimenandosi. «Li lasci andare entrambi.»
 «No, non credo che lo farò.» replicò l’uomo. Poi il suo volto si illuminò e sollevò una mano per fermare Marcus, che intanto aveva caricato la pistola. «A meno che lei non mi implori di farlo, Sherlock.» sorrise maliziosamente, tornando a voltarsi verso di lui. Si soffermò per un momento sul suo viso pallido e poi riprese. «Avanti, mi preghi di risparmiarli.»
 Sherlock deglutì a vuoto, sapendo che non avrebbe avuto altra scelta.
 «La prego.» disse, senza esitazioni.
 Magnussen scosse il capo, facendo schioccare la lingua in segno di disapprovazione. Si chinò in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Così non va bene.» affermò. «Per implorare pietà dovrebbe mettersi in ginocchio.»
 Holmes esitò, confuso.
 «In ginocchio.» sillabò l’altro, rivolse un cenno del capo al suo uomo.
 Aaron, l’uomo alle spalle di Sherlock, lo spinse a terra.
 Sherlock gemette quando le sue ginocchia cozzarono con il pavimento e dovette reggersi sulle braccia per non cadere a terra e sbattere la testa.
 Magnussen si mise in piedi e lo raggiunse. Lo prese per i capelli e gli fece sollevare lo sguardo su di lui. Si chinò in avanti, in modo da avere il volto a pochi centimetri dal suo e parlò.
 «Mi implori, avanti.» soffiò sulle sue labbra, a pochi centimetri dalle sue. «Le sue preghiere sono musica per le mie orecchie.»
 Sherlock, respirando affannosamente, si impose di tenere sotto controllo il dolore alla testa. «La imploro.» mormorò. «La prego, li lasci andare entrambi. Potrà fare di me ciò che vorrà, ma li lasci andare…»
 Magnussen aggrottò le sopracciglia. «E perché dovrei lasciarli andare, invece di ucciderli?» chiese, stringendo maggiormente le dita intorno ai capelli del consulente investigativo e strattonandoli con violenza. «Perché vuole che io li lasci andare?»
 L’uomo gemette dal dolore. «Perché io tengo a loro. Sono la mia famiglia.»
 Magnussen rise. «Dovrà fare meglio di così, signor Holmes.» disse. «Posso capire che voglia vedere suo fratello libero considerato ciò che ha fatto per lei nei passati mesi, ma John Watson… cos’ha di speciale quell’uomo?» domandò, voltandosi per rivolgere un’occhiata al medico, che aveva una pistola puntata alla testa. «È così… normale e privo di importanza.»
 «Non è così.» ringhiò Sherlock, immediatamente.
 «Davvero?» lo sfidò Magnussen, un sorriso malizioso ad arricciargli le labbra. «Lei mi dia un buon motivo per cui dovrei risparmiarlo, e io lo farò. Altrimenti sia lui che suo fratello moriranno.»
 Il consulente investigativo sentì il cuore fermarsi nel petto.
 Non poteva. Non poteva farlo. Non così, sotto minaccia di quell’uomo disgustoso.
 «Avanti, non dovrebbe essere così difficile. Se davvero crede che il dottor Watson sia degno di essere salvato, basterà fornirmi una ragione e lo risparmierò.» lo incalzò l’uomo. «Sono certo che riuscirà a stupirmi.»
 «La smetta e li lasci andare.» sibilò Sherlock. «Ha ottenuto quello che voleva. Ha me, perché continuare con questo gioco? A cosa serve?»
 «Lei mi dia una ragione per cui dovrei salvare John Watson, e questo stupido gioco, come lo chiama lei, finirà.» lo strattonò nuovamente per i capelli, costringendolo a mantenere lo sguardo fisso sul suo viso. «O devo forse arrivare a cavarle le parole di bocca?» chiese. «Avanti, non mi costringa a diventare cattivo.»
 Holmes sollevò una mano, chiudendola intorno a quella di Magnussen, stringendo i denti per sopportare il dolore. Ansimò, sentendo un groppo in gola.
 Non poteva fare una cosa del genere a John. Non era giusto… non poteva permettere che portasse un peso del genere. Ma se non avesse parlato, Magnussen avrebbe ucciso il suo migliore amico…
 «D’accordo.» Magnussen sospirò, poi si volse verso le sue guardie. «Rufus, spari al dottor Watson.» ordinò. «Ma faccia attenzione al tappeto, l’ho appena ritirato dalla lavanderia.»
 La guardia annuì e caricò il cane, spingendo la pistola contro la nuca di John.
 Il dottore chiuse gli occhi, abbassando il capo.
 «No!» esclamò Sherlock. «Si fermi!»
 «Mi dispiace, signor Holmes, ma se non trova alcun buon motivo per cui dovrei risparmiare John Watson, allora non vedo perché dovremmo indugiare oltre.» si voltò verso Rufus, rivolgendogli un rapido cenno del capo. «Proceda.»
 «No, la prego, non lo faccia!» esclamò Sherlock, gli occhi colmi di terrore. «Io lo amo!»
 Magnussen sollevò una mano, bloccando Rufus prima che potesse sparare. Sorrise, voltandosi verso Sherlock e rivolgendogli una sguardo malizioso.
 Gli occhi di tutti i presenti si spostarono sul volto di Sherlock.
 «Ha visto?» lo schernì Magnussen. «Non è stato poi così difficile.»
 John e Sherlock si voltarono nello stesso istante. I loro sguardi si incrociarono e dagli occhi di entrambi traboccarono lacrime bollenti e dolorose, cariche di parole non dette e di tutti quei sentimenti che per lungo tempo erano stati taciuti.
 Perdonami, imploravano gli occhi di Sherlock, colmi di dolore per aver confessato qualcosa di così importante sotto minaccia e di fronte a quell’uomo disgustoso. Non era così che aveva immaginato di rivelare i propri sentimenti a John.
 Provo lo stesso, gridavano gli occhi di John, colmi di lacrime per aver dovuto assistere alla tortura a cui il suo migliore amico era stato sottoposto.
 «Non si sente meglio, adesso, dopo averlo detto ad alta voce?» chiese Magnussen, continuando a strattonare il capo del consulente investigativo. Gli fece riportare lo sguardo sul suo volto, poi, senza preavviso, gli sferrò uno schiaffo in pieno viso.
 Sherlock gemette, reggendosi sulle braccia per non cadere a terra. Si portò una mano al labbro, spaccato dal colpo potentissimo sferrato da Magnussen e chiuse gli occhi per recuperare la lucidità, disorientato dalla botta ricevuta.
 Il sangue colò lungo il suo mento, gocciolando sul pavimento lucido e riflettente, e quando riaprì gli occhi, vide le lacrime mescolarsi alle gocce di sangue che erano cadute sulle piastrelle.
 Cosa aveva fatto?
 Come aveva potuto confessare di amare John a Magnussen?
 Non era così che sarebbe dovuta andare.
 «Ma forse dovrei ucciderli comunque.» aggiunse Magnussen, all’improvviso.
 Il consulente investigativo risollevò il capo di scatto, scosso da un brivido di terrore che gli percorse la spina dorsale.
 «Liberatevi di loro.» concluse, rivolgendosi ai suoi uomini con un disinteressato gesto della mano, voltandosi e allontanandosi da loro.
 «No!» esclamò Sherlock, reggendosi sulle braccia per sollevarsi da terra. «Non può farlo! Avevamo un accordo!»
 «Mi dispiace, signor Holmes, ma sappiamo entrambi che se io lasciassi andare John Watson, lei non esiterebbe a tornare da lui non appena se ne presentasse l’occasione. E io non posso permetterlo.» replicò. «Perciò sia lui che suo fratello moriranno.»
 Gli uomini alle spalle di John e Mycroft caricarono le armi, pronti a fare fuoco.
 «Uccida me!» sbottò Sherlock e le lacrime gli rigarono le guance con violenza. Doveva trovare un modo. Doveva impedire che facessero del male a John e Mycroft. «Uccida me, la imploro! Non faccia loro del male!»
 L’uomo alle sue spalle lo colpì alla nuca con il calcio della pistola, rispedendolo a terra.
 Sherlock gemette dal dolore, portandosi le mani alla testa, la vista appannata, i pensieri confusi, consapevole di non poter fare più nulla per salvare i suoi amici.
 
 «Sherlock!» ansimò John, vedendolo cadere a terra e tentando di mettersi in piedi.
 La guardia lo trattenne, ridendo e premendo maggiormente la pistola contro la sua nuca.
 Fu in quel momento che John ne approfittò. Sferrò una gomitata al basso ventre Rufus, che ansimò e si piegò in due, colto alla sprovvista; a quel punto il medico gli prese la pistola e lo atterrò con un colpo al viso con il calcio dell’arma. Poi si voltò e sparò alla gamba di Marcus, che cadde a terra, ringhiando dal dolore.
 John sollevò la pistola e la puntò verso Aaron, anche fermo accanto a Sherlock, che fece lo stesso, pronto a colpire per fermare il medico.
 «Abbassi la pistola, dottor Watson.» intimò Magnussen, con calma quasi si fosse aspettato quella reazione da parte sua. «Altrimenti, non uscirà vivo di qui.»
 «Chiuda la bocca, o sarà lei a non uscire vivo di qui.» ringhiò il medico, caricando il cane, senza allontanare gli occhi da Aaron, studiando ogni suo movimento. «Lei ci lascerà andare e non si avvicinerà a noi mai più.»
 «Metti giù quella dannata pistola!» gridò Aaron.
 Watson rimase impassibile. «Ci lascerà in pace, o giuro su ciò che ho di più caro, la ucciderò.» promise, continuando a rivolgersi a Magnussen, senza però allontanare gli occhi dalla guardia.
 «E perché dovrei farlo?» domandò Magnussen. «Lei crede davvero che se volesse uccidermi ci riuscirebbe? Forse potrebbe provarci, ma, come le dicevo, non credo che ne uscirebbe vivo.»
 «Sarei disposto a morire per levarle quel ghigno dalla faccia e impedire che faccia ancora del male a Sherlock e Mycroft.» replicò John. «E stia pur certo che non sbaglierei il colpo.»
 «Non farmelo ripetere.» ringhiò Aaron. «Abbassa la pistola o giuro che ti pianto una pallottola in fronte, dottore.» ringhiò, caricando il cane, pronto a fare fuoco.
 «Sentito?» chiese Magnussen. «Non riuscirebbe ad uccidermi prima che Aaron abbia ucciso lei.» sorrise. «E una volta che lei sarà morto e mi sarò sbarazzato di Mycroft, Sherlock sarà completamente mio.»
 John aumentò la presa intorno alla pistola, sentendo una rabbia incontrollata crescere dentro di lui. Rivolse uno sguardo fugace a Sherlock, che intanto si era rialzato, reggendosi sulle braccia, per poi tornare a studiare Aaron.
 «Immagino già la sensazione che mi darà la sua pelle marmorea…» mormorò Magnussen, affondando le dita nelle guance del consulente investigativo. «E le sue labbra, i suoi capelli e il suo corpo… La farò mia, Sherlock, esattamente come ho fatto con Mycroft.»
 E John sparò.
 Il proiettile colpì Magnussen al collo.
 L’uomo indietreggiò e cadde a terra.
 Nello stesso istante Aaron fece fuoco, colpendo John alla spalla destra.
 Un dolore penetrante gli attraversò la spalla e Watson gemette. Indietreggiò, abbassando lo sguardo sulla macchia di sangue che si stava allargando sulla sua camicia. Le gambe cedettero sotto il suo peso e lui cadde a terra, sulla schiena.
 Un terzo colpo vibrò nell’aria e anche Aaron cadde a terra, colpito dal proiettile sparato da Mycroft con la pistola di Marcus, ormai a terra, privo di sensi a causa della perdita di sangue.
 
 Un grido lasciò le labbra di Sherlock lacerando l’aria.
 «John!»
 Il consulente investigativo, non appena vide l’amico cadere a terra, scattò in piedi e lo raggiunse, avendo a malapena registrato che suo fratello aveva appena sparato ad Aaron, neutralizzandolo.
 Non seppe dove trovò la forza di rialzarsi e di raggiungerlo, ma in un attimo gli fu accanto, e si inginocchiò accanto a lui, studiando la ferita, da cui il sangue stava uscendo in un flusso copioso. Premette la mano su di essa, per arrestare la perdita di sangue, tentando di controllare i propri respiri e convincersi che sarebbe andato tutto bene.
 «John» lo chiamò, cercando il suo sguardo e poggiandogli l’altra mano sulla guancia per richiamare la sua attenzione. «John, guardami, resta con me…»
 John ansimò. «Sher…lock…» le sue palpebre traballarono, mentre con i suoi occhi cercava quelli dall’amico.
 «Non chiudere gli occhi.» si raccomandò Holmes. «Resta sveglio e andrà tutto bene.»
 Un’enorme macchia di sangue si stava allargando sul pavimento, sotto il corpo del medico, il cui viso si era fatto sempre più pallido.
 Watson annuì flebilmente. Poi un attacco di tosse lo scosse. L’uomo chiuse gli occhi a causa del dolore, serrando le dita intorno alla spalla ferita. Gemette dal dolore, annaspando per cercare aria.
 Sherlock sentì una stretta al cuore, vedendo quanto sangue stesse perdendo. Premette maggiormente le mani sulla ferita, ma non sembrò riuscire ad arrestare l’emorragia.  
 «Forza, John» disse e fu quasi una preghiera.
 Perché non riusciva a fermare il sangue?
 Non poteva lasciarlo morire, ma la ferita continuava a sanguinare e…
 Altre due mani si posarono sulle sue, facendo pressione sulla ferita, facendo gemere John per il dolore.
 Sherlock sollevò lo sguardo e incontrò il viso di suo fratello a poca distanza dal proprio.
 «Ho chiamato l’ambulanza.» mormorò Mycroft, il respiro corto e il viso contratto dal dolore che le ferite gli stavano causando. Poi abbassò lo sguardo sul viso di John, incrociando i suoi occhi. Gli accarezzò delicatamente il capo. «Resisti, John. Andrà tutto bene, vedrai.»
 John annuì, poi volse il capo verso Sherlock, sollevando una mano nella sua direzione.
 Sherlock, senza allentare la pressione sulla ferita, si chinò e poggiò la fronte contro quella dell’amico, chiudendo gli occhi.
 «Tieni duro.» mormorò. «Tieni duro, ti prego. Non lasciarmi.»
 La mano del medico scivolò sul volto dell’amico, accarezzandolo dolcemente. Un dolce sorriso fece capolino sulle sue labbra, poi i suoi occhi si chiusero e la mano scivolò sul pavimento.
 Sherlock si allontanò da lui e i suoi occhi si spalancarono. «No» ansimò. «No, John. Ti prego, no! Non puoi lasciarmi…» lo implorò. «John…» le lacrime gli rigarono le guance.
 Qualche secondo dopo, la polizia fece irruzione nella villa, le armi sollevate, pronti a fare fuoco. Tuttavia, quando videro che gli unici a non essere a terra erano Sherlock e Mycroft, abbassarono le armi, avvicinandosi lentamente e con cautela.
 «Abbiamo bisogno dei paramedici!» disse Mycroft, volgendosi verso di loro senza allentare la presa sul corpo di John. «Il dottor Watson è ferito. Ha bisogno di cure immediate!»
 Uno degli agenti corse immediatamente all’esterno e poco dopo tornò insieme ai paramedici, che dopo aver caricato John su una barella – e avergli poggiato una mascherina per l’ossigeno sul viso – la sollevarono e si diressero verso l’elicottero, spiegando che l’avrebbero scortato all’ospedale più vicino per operarlo d’urgenza.
 Sherlock e Mycroft seguirono i loro movimento con lo sguardo, senza protestare o chiedere loro di seguirli, sapendo che non glielo avrebbero permesso, dato che le condizioni di John erano troppo gravi e i paramedici avrebbero avuto bisogno di lavorare in completa libertà, osservando l’elicottero sollevarsi in volo e allontanarsi.
 
 Sherlock dopo un momento di completa immobilità dovuta allo shock, tornò in sé. Si riscosse e si voltò verso suo fratello, ancora inginocchiato accanto a lui sul pavimento.
 I loro sguardi si incrociarono e Sherlock lo strinse a sé, aggrappandosi a lui come se gli servisse per rimanere a galla dopo tutto ciò che era successo quel giorno.
 Aveva quasi perso suo fratello due volte e adesso avrebbe rischiato di perdere John. E in quel momento l’unica cosa di cui aveva bisogno era accertarsi che Mycroft fosse lì, che fosse reale e che fosse ancora vivo dopo tutto ciò che aveva subito e passato a causa di Magnussen e della sua follia.
 Gli accarezzò il capo e la schiena, chiudendo gli occhi, beandosi della sensazione dei loro corpi a contatto, sapendo che finalmente entrambi erano al sicuro.
 Mycroft affondò il capo nella sua spalla. «Sei qui…» mormorò contro il suo collo, il corpo che tremava impercettibilmente contro il suo. «Sei venuto per me… sei venuto a prendermi…»
 «Certo che sono venuto, Myc.» replicò Sherlock. «Non ti avrei mai lasciato nelle sue mani. Sei mio fratello, non ti avrei mai abbandonato. E nemmeno John lo avrebbe fatto.» concluse, sentendo una lacrima rigargli il viso al pensiero di John steso in una pozza di sangue, privo di sensi e forse, se non fossero riusciti a salvarlo, privo di vita.
 «Credevo che dopo ciò che vi avevo detto…» esordì il politico, tremando contro il fratello, scosso dai singhiozzi. «Vi ho feriti entrambi, e credevo che non avreste più voluto vedermi…»
 Sherlock scosse il capo. «Anthea è venuta da noi e ci ha spiegato ciò che stava succedendo. E io e John abbiamo capito che l’avevi fatto per proteggerci.» spiegò il consulente investigativo. Poi lo allontanò da sé, per studiare il suo viso. «Ma perché non sei venuto da noi? Perché non ci hai chiesto aiuto? L’avremmo fermato insieme, Myc. Gli avremmo impedito di farti questo di nuovo…»
 Le lacrime rigarono il volto di Mycroft. «Aveva minacciato di ucciderti.» singhiozzò. «Io non… non gli avevo creduto all’inizio. Poi c’è stato quell’incidente con l’auto e tu e John siete quasi morti e ho capito che-» si interruppe all’improvviso, gemendo dal dolore, portandosi una mano al viso, premendola sulla parte destra del volto.
 Sherlock portò una mano al viso del fratello, accarezzandolo, notando che la ferita che lo attraversava aveva ripreso a sanguinare copiosamente.
 «Dobbiamo andare in ospedale subito.» disse, accarezzandogli nuovamente il volto, tendando di non toccare la ferita. Poi infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto, porgendoglielo. «Tieni, premilo sulla ferita. Dobbiamo fermare l’emorragia.»
 Mycroft lo prese e lo premette sulla ferita con l’aiuto di suo fratello, reprimendo a stento un gemito di dolore quando le loro mani incontrarono la palpebra priva dell’occhio.
 Sherlock lo aiutò a mettersi in piedi e gli circondò i fianchi con un braccio, sorreggendolo, sentendo che per lui era diventato sempre più complicato rimanere in piedi, man mano che il tempo passava.
 «Ancora un piccolo sforzo.» disse, guidandolo verso l’esterno della casa, dove un’altra ambulanza aveva appena accostato. «I paramedici!» gridò con urgenza.
 I paramedici si voltarono di scatto e si avvicinarono velocemente con una barella.
 Il consulente investigativo aiutò suo fratello a sdraiarsi, poi gli accarezzò il capo e accennò un sorriso rassicurante. «Andrà tutto bene, Myc.» assicurò e gli prese la mano, stringendola dolcemente.
 Mycroft ricambiò la stretta. «Resta con me.» mormorò fra le lacrime.
 «Sempre.» assicurò Sherlock, chinandosi su di lui e baciandogli la fronte.
 E insieme salirono nel retro dell’ambulanza, partendo alla volta dell’ospedale.
 
 Sherlock era seduto accanto al letto di John da ore, la mano chiusa intorno alla sua, gli occhi puntati sul suo volto pallido e immerso nel sonno.
 I medici erano riuscito a fermare l’emorragia prima che fosse troppo tardi, limitando i danni che il proiettile aveva causato perforando la spalla e il muscolo, andando quasi a colpire il cuore, ma da quando Watson aveva lasciato la sala operatoria non aveva ancora dato ancora alcun segno di miglioramento. Non aveva aperto gli occhi, né si era mosso, e nonostante la fiducia dei medici nel suo risveglio, con il passare delle ore Sherlock aveva sentito il cuore sprofondare sempre di più nel petto.
 L’idea di perdere suo fratello era terribile e lo aveva tormentato per settimane, ma il solo pensiero di poter perdere il suo migliore amico e uomo che amava lo distruggeva, trafiggendogli il cuore come una coltellata.
 Non riusciva a concepire una vita senza John al suo fianco. Non riusciva a immaginare di poter vivere in un mondo in cui John Watson non fosse presente. John gli dava la forza di respirare e di andare avanti in un mondo che da sempre non aveva fatto altro che rifiutarlo e respingerlo.
 John era la sua ragione di vita.
 Il suo migliore amico.
 Il suo unico amore.
 La parte migliore di lui.
 E Magnussen aveva deciso di portarglielo via per puro divertimento.
 Sherlock aumentò la presa sulla mano dell’amico. Abbassò lo sguardo e le lacrime gli rigarono le guance, percorrendo il suo viso, infrangendosi poi sulle lenzuola bianche che coprivano il corpo di John da quasi due giorni.
 «John…» mormorò, la voce rotta dal dolore.
 Si portò la sua mano alle labbra e ne baciò il dorso, poi sollevò nuovamente lo sguardo sul viso dell’amico, e gli accarezzò delicatamente i capelli biondi. Mosse le labbra sulla pelle dell’amico, accarezzando la sua pelle con la bocca.
 Dio, era tutta colpa sua… avrebbe dovuto proteggerlo. Avrebbe dovuto impedirgli di seguirlo, di andare con lui da Magnussen, sapendo che avrebbe potuto fargli del male… come aveva potuto permettere che accadesse?
 «È tutta colpa mia… soltanto mia…» sussurrò. «Mi dispiace così tanto…»
 Scosse il capo, chiudendo gli occhi, maledicendo la sua ingenuità, che alla fine era costata la vita all’uomo che amava. All’unico uomo che avesse mai amato e che avrebbe mai potuto amare.
 Riaprì gli occhi, lasciando che altre lacrime percorressero il suo volto.
 «Ti prego, torna da me.» implorò. «So che non potrò mai darti ciò che desideri davvero e che non ti meriterò mai… ma ho bisogno di te.» pianse. «Ti prego… Ti prego, mi hai fatto una promessa. Mi hai promesso che dove saresti andato tu sarei venuto anch’io… ce lo siamo promessi a vicenda, John.» scosse il capo, poggiando il capo sul suo braccio. «Non andare dove non posso seguirti…»
 Il rumore regolare e cadenzato dell’ECG sembrava assordante in quel terribile silenzio.
 I medici avevano ponderato l’ipotesi del coma, subito dopo l’operazione. E non appena Sherlock aveva capito che ci sarebbe stata quella possibilità, aveva sentito il suo cuore fermarsi nel petto.
 Se John fosse rimasto in coma, lui come avrebbe potuto sopravvivere ad un dolore simile?
 Non voleva che John morisse, ma se fosse accaduto, Sherlock avrebbe comunque potuto seguirlo. Era già morto per lui, avrebbe potuto farlo ancora.
 Perché sapeva di essere disposto a seguirlo ovunque. Anche nella morte.
 Ma se fosse rimasto in coma, lo avrebbe perso per sempre. E non avrebbe potuto rimanere al suo fianco, si ritrovò a pensare egoisticamente, perdendolo per sempre.
 Il dolore al petto aumentò.
 Un singhiozzò improvviso scosse violentemente il suo corpo.
 «Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.» proseguì, stringendo maggiormente la mano dell’amico, muovendo la fronte sul suo braccio. «Sei ciò che mi tiene in vita. Sei la mia vita, John.» concluse. Non gli aveva mai detto nulla di tutto ciò e in quel momento se ne stava pentendo, perché forse, se lo avesse fatto, non avrebbe avuto tutti quei rimpianti in quel momento. «Ti prego, ti prego, non puoi lasciarmi solo… non posso farcela senza di te. Ho bisogno di vedere il tuo sorriso ogni giorno, di sentire la tua voce, di sentirti ridere e di saperti al mio fianco…»
 Il silenzio piombò nuovamente sulla stanza, rotto soltanto dai leggeri singhiozzi di Sherlock, che si persero nella quiete ovattata della stanza rimbombando fra le pareti.
 «Ho una pessima influenza su di te…»
 Holmes si bloccò.
 Il cuore si fermò nel suo petto nel momento stesso in cui udì quelle parole, pronunciate da quella voce così famigliare e calda, la voce dell’uomo che più amava al mondo e che credeva che non avrebbe più rivisto.
 Sollevò il capo di scatto e vide che John aveva aperto leggermente gli occhi. Le sue iridi azzurre erano brillanti come sempre e lo stavano osservando con tutta la dolcezza di cui erano capaci.
 John sollevò una mano e gli accarezzò il viso. «Ciao, amore mio.» sussurrò teneramente.
 «John» singhiozzò Sherlock, poi si sporse verso di lui, gli poggiò il capo sul petto, percependo il flebile battito del suo cuore, e si aggrappò a lui, lasciando che John, finalmente, lo stringesse a sé, sapendo che non lo avrebbe lasciato andare mai più.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) ecco qui, tutto per voi il decimo capitolo!
Finalmente siamo arrivati allo scontro finale fra Sherlock, John, Mycroft e Magnussen, che in questo capitolo ha decisamente avuto quello che meritava dopo tutto ciò che ha fatto passare al nostro Mycroft.
Ovviamente non è finita qui ;) A lunedì con il prossimo capitolo! :)
Un abbraccio, Eli♥
 
 

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Capitolo 11
*** Infranto ***


Amore
 
 
Capitolo XI
Infranto
 
 
 «È l’ora dei regali, ragazzi!» esclamò la signora Holmes, alzandosi da tavola e indicando il salotto. «Avanti, andate in salotto mentre metto sul fuoco la cioccolata calda. I regali sono sotto l’albero.»
 Il marito si mise in piedi, alzando gli occhi al cielo. «Aspetta questo momento da settimane.» affermò. «Vado a prendere della legna nel capanno sul retro.» annunciò avviandosi verso la porta che dava sul giardinetto sul retro.
 «Non metterci troppo, Tim. Fra poco la cioccolata sarà pronta.» fece notare la signora Holmes, rovistando nella credenza, in cerca delle polvere di cacao.
 «Farò in fretta, cara.» promise il marito e uscì, chiudendosi la porta alle spalle, prima che il freddo invernale potesse penetrare all’interno della casa.
 «Hai bisogno di una mano, Violet?» domandò John, avvicinandosi alla donna, mentre questa estraeva una confezione di latte dal frigorifero.
 «Oh, sei molto gentile, caro. Ma sei l’ospite.» replicò lei, accarezzandogli il viso. «I miei figli dovrebbero darmi una mano, piuttosto.» concluse, gettando a Sherlock e Mycroft un’eloquente occhiata di rimprovero.
 «Non hai detto che avremmo dovuto andare in salotto?» chiese Sherlock, sollevando le sopracciglia, in finto tono perplesso. «Sono confuso. E non posso fare a meno di notare quanto tu sia in contraddizione con te stessa, mamma.»
 «Perché non pensi a dare una mano a tuo fratello ad andare in salotto, Sherlock?» lo redarguì la donna, fulminandolo con lo sguardo, tornando a voltarsi verso i fornelli.
 Il consulente investigativo gettò uno sguardo fratello, che stava camminando dietro di lui e aggrottò le sopracciglia. «È perfettamente in grado di farcela da solo.» affermò. «Non è cieco. Ha soltanto perso un occhio.»
 La madre gli rivolse uno sguardo di rimprovero. «Sherlock!» esclamò, sconvolta di fronte a ciò che aveva appena sentito.
 «Cosa c’è?» chiese il minore. «Credevo se ne fosse accorto.»
 «Quando imparerai ad essere gentile con lui?» ribatté la donna. «Lui per te lo farebbe.»
 «Hai ragione.» confermò Sherlock, fermandosi sulla porta e voltandosi nuovamente verso la madre, un mezzo sorriso a increspargli le labbra. «Ha sempre avuto un occhio di riguardo per me.»
 «William Sherlock Scott Holmes!» strillò la madre, furiosa.
 Sherlock, sorridendo, uscì dalla cucina, prima che la madre potesse continuare con quella sfuriata – che in ogni caso non avrebbe giovato a nessuno – e raggiunse il salotto.
 
 Suo padre non era ancora rientrato, perciò il consulente investigativo si ritrovò solo nel salotto in cui aveva speso tanti pomeriggi a leggere e dedurre quando era un bambino.
 Non sapeva perché avesse accettato l’invito dei suoi genitori a passare il Natale con loro – forse l’aveva fatto per permettere loro di conoscere John, o per prendersi una pausa dopo ciò che era successo con Magnussen e dopo il divorzio fra John e Mary, avvenuto qualche settimana dopo le dimissioni dall’ospedale di Watson – ma in quel momento se ne stava pentendo amaramente.
 A parte tutte le domande che lui e John avevano ricevuto riguardo la loro relazione – su cui il consulente investigativo aveva sorvolato, lasciando che fosse John a rispondere, avendo capito che si sentiva infinitamente più a suo agio di lui a parlarne – aveva sentito una voragine aprirsi nel petto quando sua madre aveva cominciato con una raffica di domande rivolte a Mycroft riguardo tutto ciò che era successo con Magnussen.
 In quel momento, vedendo l’espressione di suo fratello mutare improvvisamente, aveva sentito un dolore al petto così forte da togliergli il fiato. Per la prima volta nella sua vita si era sentito in imbarazzo in presenza dei suoi genitori e aveva percepito il disagio di John di fronte a quella situazione.
 Ovviamente, Mycroft aveva mantenuto il contegno che da sempre lo caratterizzava rispondendo ad ogni domanda senza scendere nei particolari, limitandosi a spiegare che Magnussen non si era spinto oltre a semplici ricatti politici ed economici, che solo alla fine erano sfociati in quella violenza fisica che era quasi costata la vita a lui, Sherlock e John. Tuttavia, quella conversazione aveva turbato profondamente suo fratello, che dopo quell’interrogatorio da parte della madre non aveva più toccato cibo per tutta la durata della cena, né aveva più aperto bocca, limitandosi ad annuire e scuotere il capo soltanto per rispondere alle domande che gli erano state rivolte dai genitori.
 Per questo, percependo quanto quella situazione stesse turbando Mycroft, Sherlock aveva interrotto la conversazione rivolgendosi a suo padre e domandandogli come stesse procedendo il suo progetto di installare una serra alle spalle della casa per poter piantare diversi tipi di piante. E Timothy, cogliendo il motivo di quel cambio di argomento, aveva risposto di buon grado alle domande del figlio e di John, che si erano mostrati entrambi interessati al progetto, chiedendo anche di visionare il libro su cui il signor Holmes si era appuntato le varie specie di piante che avrebbe voluto acquistare.
 Sherlock non sapeva come suo fratello avesse potuto resistere alle insistenze da parte della madre, perciò dopo quella conversazione lo aveva controllato con occhiate furtive per tutta la durata della cena, tentando di capire se avesse bisogno di aiuto o semplicemente di prendere un po’ d’aria per schiarirsi le idee, ma Mycroft non aveva dato segni di cedimento. Era rimasto impassibile, in silenzio, una maschera di impassibilità.
 «Grazie.»
 La voce di Mycroft, alle sue spalle, richiamò la sua attenzione, riportandolo improvvisamente alla realtà.
 Sherlock si voltò e vide che suo fratello era fermo di fronte a lui, immobile.
 Sul volto portava ancora i segni di ciò che Magnussen gli aveva fatto: a parte l’occhio mancante, una lunga cicatrice gli percorreva verticalmente la parte destra del viso, deturpando la sua pelle pallida, resa di qualche tonalità più chiara dalla barba rossiccia che aveva lasciato crescere negli ultimi mesi. Il suo corpo si era quasi completamente ristabilito: grazie alle sedute dalla psicoterapeuta che gli erano state caldamente consigliate, aveva ripreso a mangiare e dormire normalmente, e incubi e flashback erano diminuiti, permettendogli di tornare a una vita normale e serena. Ovviamente erano state necessarie alcune settimane per abituarsi alla mancanza dell’occhio destro e abituare la vista a quella mancanza.
 E non era stato facile. Ma alla fine ce l’aveva fatta.
 «Per cosa?» domandò il minore.
 «Per prima. Per quello che hai fatto con nostra madre. L’ho apprezzato.» rispose Mycroft con un mezzo sorriso. Abbassò lo sguardo e deglutì, visibilmente a disagio. «Lei non capisce. Non capisce quanto sia umiliante essere trattato come un invalido quando in realtà non c’è assolutamente nulla che non va.»
 Sherlock ricambiò il sorriso. «Quindi hai capito.»
 Mycroft sollevò un sopracciglio. «Battute davvero di classe.» ammise, risollevando lo sguardo sul viso del fratello minore.
 Il consulente investigativo rise sommessamente. «Non ne esistono molte sugli occhi mancanti.» fece notare. «Ho dovuto improvvisare. Tenta di essere comprensivo.»
 Il maggiore annuì, sorridendo. Poi tornò serio. «Tu e John siete gli unici a trattarmi come facevate una volta. Come se niente fosse diverso.» affermò, incontrando gli occhi color ghiaccio del fratello. «So di essere cambiato. Lo so, credimi. Quindi lo apprezzo. Davvero.»
 «Quando ti guardo non vedo nulla di diverso in te.» replicò Sherlock.
 «Forse non mi avevi mai guardato bene, se non riesci a vedere quanto io sia diverso adesso.» affermò il politico. «I nostri genitori se ne sono accorti. E anche i miei colleghi. Praticamente tutti se ne sono resi conto. E non parlo solo del fatto che abbia perso un occhio.»
 «Loro non ti conoscono come ti conosco io.» affermò il minore. «Non sanno come sei veramente.»
 Mycroft scosse il capo. «Questo non significa niente.»
 «Sei sicuro?» domandò il consulente investigativo, muovendo un passo verso di lui.
 «Mi hai guardato, Sherlock? Mi hai guardato davvero?» chiese. Poi scosse il capo. «Non credo.»
 «O forse Sherlock ti aveva guardato così attentamente da vedere oltre la superficie.» affermò John, facendo il suo ingresso in salotto, avanzando e affiancando Sherlock. Rivolse un dolce sorriso a Mycroft, agganciando il suo sguardo. «Esattamente come fa con tutte le persone che incontra.»
 Il politico aggrottò le sopracciglia.
 «A volte le persone non si guardano da fuori, Mycroft. Né tantomeno si amano per come sono esteriormente, ma per come sono dentro.» spiegò il medico. «È questo che tuo fratello sta cercando di dirti… lui non vede le cicatrici perché tu non sei questo… Mycroft Holmes non sono le cicatrici che si porta addosso.» affermò. «Sei ben più delle ferite che ti porti dentro e addosso.»
 Mycroft osservò il dottore per qualche secondo, poi gli sorrise debolmente in segno di ringraziamento.
 E John ricambiò.
 
 Quando i signori Holmes raggiunsero il salotto e presero posto sulle loro poltrone, tutti i presenti poterono cominciare a scambiarsi i regali, e Sherlock poté finalmente maledirsi per aver accettato di viaggiare fino a lì per partecipare a quella cena di Natale con la sua famiglia.
 I signori Holmes consegnarono i propri regali ai figli e a John, scambiandosi poi i propri, lasciando che per ultimi fossero Mycroft, Sherlock e John a scartare i regali che avevano portato con loro dall’Inghilterra.
 John consegnò a Mycroft un piccolo pacco foderato da lucida carta bianca, decorato con un fiocco dorato, poi avvolse la vita di Sherlock, seduto accanto a lui sul divano, con un braccio.
 «È da parte mia è di Sherlock.» spiegò il medico. «Più mia che di Sherlock, considerato che non ha affatto partecipato all’acquisto.» aggiunse, rivolgendo un’occhiata eloquente al compagno.
 «Non avevo dubbi.» replicò Mycroft, nascondendo un sorriso.
 «Io avrei voluto comprarti una classica ed elegante benda per l’occhio, ma John si è rifiutato.» aggiunse Sherlock. «Immagina quanto saresti stato elegante al lavoro. Un vero tocco di classe.»
 Proprio mentre la madre stava per ribattere a quella battuta, rimproverando il figlio per aver passato il limite per l’ennesima volta, Mycroft esplose in una risata, seguito a ruota da John e Sherlock.
 «In effetti sarebbe stato molto più appropriato come regalo.» confermò il politico.
 Sherlock e John risero, scambiandosi uno sguardo.
 Mycroft aprì il pacchetto e dentro la scatola trovò un orologio da taschino nuovo di zecca. Sorrise. «Grazie. È molto bello.» mormorò, accarezzandolo con le dita, sollevando poi lo sguardo per incontrare quello del fratello e dell’amico. «Siete stati davvero gentili.»
 I due sorrisero.
 A quel punto il politico si voltò e prese fra le mani la busta che aveva poggiato poco prima sul tavolino da caffè di fronte al divano. «E questo è da parte mia.» disse, porgendola al medico. «Buon Natale a entrambi.»
 John la presa e sorrise. «Grazie, Mycroft.» replicò. Quando la aprì aggrottò le sopracciglia, voltandosi verso Sherlock e poi nuovamente verso Mycroft. «Due biglietti per la Francia?» disse sorridendo, non potendo tuttavia nascondere la sorpresa di fronte a quel regalo inaspettato. «Grazie, Mycroft… Non avresti dovuto. È davvero troppo.»
 Il maggiore scosse il capo. «No, non lo è. È il regalo adatto.» affermò, spostando lo sguardo sul viso del fratello.
 
 Sherlock, alle spalle di John, assottigliò lo sguardo, incrociando quello del fratello, realizzando che aveva capito ciò che aveva in mente, e che probabilmente aveva organizzato tutto da tempo.
 Mycroft sollevò un sopracciglio, quasi volesse spingerlo ad agire.
 Sherlock si schiarì la voce, il cuore che batteva a mille, raccogliendo tutto il coraggio che sapeva – e sperava – di possedere.
 «Adesso è arrivato il momento del mio regalo.» annunciò e si mise in piedi, per poi inginocchiarsi nuovamente di fronte a John, in modo da avere gli occhi alla stessa altezza dei suoi.
 John aggrottò le sopracciglia, confuso, voltandosi verso di lui. «Credevo che avessimo deciso di non farci regali, quest’anno.» fece notare.
 Ed era vero: con il suo ritorno a Baker Street, dopo il divorzio fra lui e Mary, avevano concordato che, in fondo, avevano già ottenuto tutto ciò che desideravano. Si erano ritrovati, erano tornati ad essere Sherlock e John, insieme contro il resto del mondo, e non c’era bisogno di nient’altro…  
 «Questo non è un vero e proprio regalo.» spiegò il moro, accarezzandogli le cosce con le mani. «In realtà è qualcosa che tu regalerai a me, se lo vorrai.»
 Watson era sempre più confuso.
 Sherlock prese un bel respiro. «Sai bene che io non sono una persona romantica.» esordì. «Anzi, sono l’esatto opposto. Sono razionale e poco incline ai sentimentalismi… e credo che tu te ne sia accorto in questi anni. Per questo quando abbiamo cominciato con la nostra relazione ti avevo detto che credevo che non fosse importante avere qualcosa che la sugellasse, come un anello, una data o qualche futile gesto come il tenersi la mano ad un appuntamento o tutte le cose che le coppie normali fanno di solito.»
 «E io ti avevo detto che ero d’accordo.» confermò il dottore.
 Holmes sorrise. «Sì.» confermò. «E ricordo anche che avevi detto che non servivano parole. Che tutto ciò che c’era fra noi, anche se taciuto, era lì. Che entrambi potevamo sentirlo ogni giorno. Avevi detto… è qui, nell’aria. Lo percepisco ogni giorno, lo vedo in quello che fai e lo sento in quello che dici.» ripeté a memoria.
 Il medico sorrise. «Sì, è quello che ho detto.»
 Sherlock annuì. «Per questo non mi dilungherò oltre. Perché in fondo non servono parole.» affermò, prendendo le mani di John fra le proprie. «John, io non sono stato il tuo passato. Ma sono il tuo presente. E, se me lo permetterai, vorrei diventare anche il tuo futuro.» concluse, rivolgendogli un dolce sorriso. «Sposami, amore mio.»
 La signora Holmes si portò una mano alla bocca.
 Gli occhi di John scintillarono. Il dottore, dopo un iniziale momento di sorpresa, si sporse verso di lui e poggiò le mani sulle sue spalle, accarezzandogli la base del collo.
 «Non voglio soltanto che diventi il mio futuro, Sherlock Holmes.» disse, la voce tremante per l’emozione. «Voglio che diventi il mio per sempre.»
 Sherlock sorrise e il suo volto e i suoi occhi si illuminarono. «Quindi è un sì?»
 John rise, accarezzandogli la linea del viso, imponendosi di ricacciare indietro le lacrime. «Certo che è un sì.» confermò annuendo. «Dove sei tu sono io, Sherlock.»
 «Dove sei tu sono io.» ripeté Sherlock.
 Watson abbassò lo sguardo sulla sua bocca. «Non credi che questo sia il momento giusto per baciarmi?»
 Il consulente investigativo sorrise, poi poggiò le mani sui fianchi del compagno, lo tirò verso di sé e poggiò le labbra sulle sue, chiudendo gli occhi e baciandolo dolcemente. Accarezzò le sue labbra con le proprie, assaggiando per la prima volta la loro consistenza e il loro sapore.
 
 Quello fu il loro primo bacio.
 Un primo bacio tanto atteso e sognato, che tuttavia nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di scambiarsi, per paura che non fosse il momento adatto o che non fosse abbastanza.
 Un primo bacio che sugellò la promessa di un amore, di un futuro insieme e di un qualcosa che in fondo fra loro c’era sempre stato.
 
 Quando si separarono, rimasero con le fronti a contatto, le labbra così vicine da sfiorarsi ad ogni respiro. Dopo qualche istante si allontanarono, sorridendosi dolcemente e John affondò le dita nei capelli dell’amico.
 Sospirò, accarezzandogli teneramente il volto. Poi si volse verso Mycroft.
 «Come facevi a saperlo?» domandò, indicando i biglietti per la Francia.
 Il maggiore sorrise. «Ho immaginato che te lo avrebbe chiesto a breve.» rispose. «E ho immaginato che dopo il lieto evento avreste avuto bisogno di un posto per la vostra luna di miele. E quale luogo migliore della Francia per un viaggio di nozze?»
 «Grazie, fratellone.» disse Sherlock, rivolgendogli uno sguardo carico di gratitudine.
 Mycroft sorrise. «Solo il meglio per il mio fratellino e il suo futuro marito.» concluse rivolgendo un’occhiata d’intesa anche a John. «Congratulazioni.» aggiunse dolcemente.
 John sorrise. «Grazie, Mycroft.»
 «Congratulazioni, ragazzi!» esclamò la signora Holmes, mettendosi in piedi. Baciò il capo di Sherlock, poi le guance di John, sorridendo estasiata, gli occhi lucidi di lacrime. «Oh, il nostro Sherlock si sposa…» disse, commossa.
 «Mamma, non cominciare…» la rimproverò Sherlock, alzandosi e tornando a sedersi fra John e Mycroft, cingendo i fianchi del compagno con un braccio.
 La donna si voltò verso il marito. «Caro, non sei felice?» chiese.
 Tim sorrise. «Certo.» confermò. «Non potrei essere più felice di sapere che Sherlock ha trovato qualcuno che lo rende felice.» sorrise a suo figlio e John. «Le mie congratulazioni, ragazzi. Sono molto felice per voi.»
 «Grazie, papà.» disse Sherlock.
 «Grazie, Timothy.» aggiunse John, sorridendogli.
 «Be’, dobbiamo festeggiare.» sbottò Violet. «Tim, vai a prendere una bottiglia di vino mentre verso la cioccolata. Dovrebbe esserci qualcosa sullo scaffale in cantina.» concluse, avviandosi poi verso la cucina per occuparsi della cioccolata calda, canticchiando fra sé e sé, al colmo della gioia.
 Tim sorrise ai ragazzi, poi si alzò dalla poltrona e lasciò il salotto per raggiungere la cantina e prendere la bottiglia di vino per il brindisi.
 Sherlock sospirò. «Mi sono appena pentito di averti fatto la proposta qui di fronte ai miei genitori.» disse, l’ombra di un sorriso a increspargli le labbra.
 Watson si voltò verso di lui. «Perché? Il giorno di Natale, in famiglia… non poteva esserci nulla di più perfetto, Sherlock.» disse, poggiandogli la mano sulla gamba.
 «Si stanno allargando un po’ troppo.»
 «Almeno loro ne sono felici.» fece notare John. «I miei genitori non approverebbero, e nemmeno si presenteranno al matrimonio. Non dopo Harry.» fece spallucce, accennando un mesto sorriso. «Non che sia importante che siano presenti o meno… Ma loro ti vogliono bene e sono felici per te. E questo è il più bel regalo che un genitore possa farti.»
 Sherlock lo osservò per qualche istante, riflettendo su quelle parole e sul dolore che aveva visto riflesso negli occhi dell’amico quando le aveva pronunciate. Poi sospirò e tirò John verso di sé, baciandogli una tempia. «John Watson…» mormorò contro la sua pelle, poggiando poi il capo contro il suo. «Il mio migliore amico, il mio unico amore, il mio futuro marito e il mio cuore.»
 
 Quando ebbero brindato e bevuto la cioccolata calda, i due fratelli e John si misero in piedi per aiutare Violet a ripulire il salotto dalle carte da pacco e dalle stoviglie sporche. Trasportarono tutto in cucina e riordinarono il salotto, dove il signor Holmes si era addormentato, seduto sulla sua poltrona, cullato dal suono del violino di Sherlock e dalla dolcezza e dal torpore trasmesso della cioccolata calda.
 Sherlock raccolse le cartacce e i pacchi vuoti, gettandoli nell’immondizia, John prese il vassoio con i bicchieri e Mycroft le tazze sporche di cioccolata, e poggiarono tutto accanto al lavello, dove la madre stava lavando i piatti utilizzati durante il pranzo. 
 Mycroft, dopo aver poggiato le tazze sul piano cucina, si spostò accanto al tavolo reggendovisi con una mano e chiudendo gli occhi. Si portò l’altra mano alla fronte, sentendo una potente pulsazione alle tempie.
 Il medico gli aveva spiegando che avendo perso un occhio e dovendo sforzare la vista con l’altro avrebbe potuto cominciare a soffrire di emicrania, perciò non c’era nulla di strano. Ovviamente nell’ultimo periodo, essendo tornato al lavoro, gli attacchi di emicrania si erano fatti più insistenti e fastidiosi.
 Quel pomeriggio in particolare, soprattutto in seguito alla conversazione avuta con la madre durante il pranzo, sentiva la testa pronta a scoppiare.
 «Perché non vai a riposarti un po’, Mycroft?» propose la madre, gettandogli un’occhiata oltre la spalla.
 Mycroft risollevò il capo, volgendosi verso di lei, riportato alla realtà dalla sua voce.
 «Sembri molto stanco.» aggiunse la donna.
 «È soltanto un’emicrania.» spiegò lui, raddrizzando la schiena. «Sto bene.»
 Violet chiuse il rubinetto, si asciugò le mani e poggiò la schiena al piano cucina. «Forse dovresti riposare.» disse. «Dopo ciò che è successo, hai bisogno di tempo per riprenderti.»
 «Ho avuto tutto il tempo che mi serviva.» replicò lui. «Sono passati tre mesi.»
 «Tesoro, ascolta…» esordì lei, avvicinandosi cautamente, quasi avesse paura di spaventarlo con la sua vicinanza. Prese le mani di lui fra le proprie e le accarezzò. «So che odi ammettere di aver bisogno di aiuto e di avere bisogno di tempo, ma ciò che è accaduto ti ha segnato. E quello che hai subìto cambierà per sempre la tua vita. Hai bisogno di tempo per abituarti al cambiamento…»
 «Mamma, smettila.» la avvertì lui, scostandosi, quasi quel tocco lo avesse scottato. Non si era ancora riabituato ad essere toccato da persone che non fossero Sherlock, John o i pochi medici a cui aveva dato il permesso di avvicinarsi in quei mesi. Con la riabilitazione stava facendo progressi, ma era complicato.
 Aveva sempre odiava il contatto fisico, soprattutto quando si trattava di sconosciuti. Ma anche in quel caso, anche se era stata sua madre a toccarlo, aveva sentito un brivido di terrore percorrergli la schiena. Ormai scostarsi era quasi divenuto una reazione automatica a qualsiasi contatto fisico non fosse quello con suo fratello o John. Le uniche persone di cui riuscisse a fidarsi.
 «Ti prego, ascoltami. Lo sto dicendo per il tuo bene.» lo implorò, accarezzandogli il viso. «Sei diverso, me ne sono accorta. So che con quell’uomo è successo più di quanto tu non voglia ammettere. Me ne sono accorta da come Sherlock ha tentato di deviare il discorso durante la cena. E se tu mai volessi parlarne-»
 Il politico la interruppe, indietreggiando di un passo. «Non voglio parlarne.»
 «Ma ti farebbe bene.» fece notare Violet, visibilmente preoccupata. «Guardati, non vuoi nemmeno essere toccato… cosa ti ha fatto quell’uomo?»
 Sherlock e John, entrambi fermi accanto al lavello, si scambiarono uno sguardo fugace, irrigidendosi, sapendo dove quella conversazione sarebbe andata a parare e avendo capito quanto Mycroft si sentisse a disagio in quel momento.
 «Mamma, forse non dovresti-» tentò di dire Sherlock, avanzando.
 «No, Sherlock.» lo bloccò lei, sollevando una mano e rivolgendogli un’occhiata carica di rimprovero. «Questa volta questa discussione è tra me e tuo fratello. Stanne fuori.» ordinò, poi tornò a voltarsi verso il maggiore. Sospirò e il suo sguardo tornò ad addolcirsi. «Cos’è successo con Magnussen? Fino dove si è spinto, tesoro? A me puoi dirlo.»
 Gli occhi si Mycroft si colmarono di lacrime. Scosse il capo. «Basta, mamma.» sbottò, indietreggiando e portandosi una mano all’occhio ferito, sentendo un’improvvisa fitta trafiggergli il volto. Boccheggiò, sentendo le pulsazioni alla testa aumentare ad ogni secondo che passava. «Smettila, ti prego.»
 «Sono tua madre, voglio soltanto capire.» asserì. «Voglio aiutarti a stare meglio. A tornare quello di prima… a guarire
 «Guarire?» esclamò Mycroft, risollevando lo sguardo di scatto, quasi quelle parole lo avessero scottato. «Non c’è nulla che non vada in me. Non sono un giocattolo rotto da riparare.»
 «Non è quello che intendevo, Myc.» replicò la donna. «Voglio solo…» esitò. «Lui ti ha fatto del male e voglio capire cosa può averti fatto di tanto grave per ridurti così.»
 Le lacrime rigarono le guance di Mycroft, che scosse il capo, sconvolto da quelle parole. «Hai davvero bisogno di una spiegazione? Di una giustificazione?» chiese. «Questo» disse, indicando la cicatrice che gli attraversava il viso. «Non ti basta?»
 «Mamma, adesso basta.» ringhiò Sherlock, visibilmente furioso. «Devi smetterla.»
 La donna sospirò, ma non fece caso alla parole di Sherlock. «Sto tentando di capire.»
 «Ma come sempre non capisci nulla.» sibilò il maggiore. «Sai perché non mi importa che Sherlock mi prenda in giro con le sue battute sul mio occhio, o perché non gli venga naturale darmi una mano nemmeno quando ce ne sarebbe bisogno?» chiese. «Perché lui non mi fa pesare il fatto di essere diverso, come tu candidamente mi hai definito.» sputò fuori. «Sherlock e John hanno capito quanto ciò che è successo mi avesse ferito, e hanno accettato che io non volessi parlarne. Mi hanno concesso i miei spazi fino a che io non ho scelto di parlarne. Tu e papà non avete il minimo rispetto per me e non fate altro che ricordarmi che non potrò mai più essere ciò che ero prima. Per questo non ne parlerò mai con voi.» affermò. Poi sospirò. «Sai cosa apprezzo di Sherlock e John?» chiese. «Che non mi trattano come se fossi un invalido incapace di fare anche le cose più semplici solo perché ho perso un occhio. Per loro sono sempre lo stesso.» poi scosse il capo. «Ma ovviamente per te deve essere diverso. Per te è sempre diverso.»
 Violet si bloccò, senza parole. «Io non credo che tu sia un invalido, Myc.»
 «Eppure mi tratti come tale. Mi fai sentire così soltanto guardandomi!»
 «Io volevo solo-»
 «Cosa?» singhiozzò il politico. «Aiutarmi? Perché non lo stai facendo, mamma. Stai facendo l’esatto opposto. Proprio come hai sempre fatto.» concluse in un sussurro.
 Poi, di colpo, gemette dal dolore, sentendo una fitta percorrergli il volto. Si portò una mano al viso, scosso da un’improvvisa nausea, sentendo l’emicrania diventare sempre più insistente.
 Il dolore alle tempie era aumentato, facendosi insopportabile, rendendo tutto indistinto e sconnesso. La realtà si era fatta distante e nebulosa, i pensieri confusi e aggrovigliati… e poi l’ennesima fitta esplose.
 
 «Sherlock…» gemette Mycroft.
 Sherlock e John gli furono accanto in un attimo, sorreggendolo per le braccia, avendo notato che aveva barcollato sulle gambe.
 «Sono qui.» disse il minore, accarezzandogli la schiena e cercando il suo sguardo. «Va tutto bene.» assicurò, prendendogli la mano e stringendola per fargli sentire la sua presenza al suo fianco. Lanciò un rapido sguardo a John, poi prese una delle sedie accanto al tavolo e aiutò suo fratello a sedersi.
 Watson si accovacciò di fronte al politico e gli poggiò una mano sulla gamba.
 «Mycroft?» lo chiamò e a quel contatto, l’uomo non si irrigidì, né si sottrasse come aveva fatto con la madre.
 Sherlock sentì lo sguardo della donna su di sé, ma non si voltò verso di lei, sapendo che non avrebbe resistito all’impulso di sbatterle in faccia tutto ciò che pensava in quel momento.
 Aveva causato lei quella reazione in Mycroft. Quello avrebbe dovuto essere un giorno di festa e non trasformarsi in un incubo, soprattutto per Mycroft, che aveva vissuto un inferno negli ultimi mesi a causa di Magnussen e delle conseguenze di ciò che quel mostro gli aveva fatto passare.
 Mycroft premette maggiormente la mano sull’occhio, gemendo dal dolore e respirando affannosamente. Le lacrime gli rigarono le guance, infrangendosi sul tessuto dei suoi pantaloni e sulla sua camicia.
 «Mycroft, guardami, dove senti dolore?» chiese il dottore, cercando il suo sguardo e accarezzandogli le gambe. «Fammi vedere dove ti fa male.»
 Il maggiore degli Holmes scosse il capo.
 A quel punto intervenne Sherlock, che si inginocchiò accanto a loro, accarezzando il braccio di Mycroft per richiamare la sua attenzione. «Myc, so che fa male. Lo capisco, credimi.» disse, accarezzandogli il capo. «Ma devi dire a John dove senti dolore, altrimenti non può aiutarti.»
 Il politico sollevò il capo, aprendo l’occhio e incontrando quelli blu del dottore. Si sfiorò l’occhio ferito e la testa, mentre i singhiozzi lo scuotevano così violentemente da rendergli impossibile parlare.
 «D’accordo.» concesse il medico. «Per l’emicrania basterà del paracetamolo. Per l’occhio possiamo provare con gli antidolorifici che ti ha prescritto il medico, poi possiamo metterci qualcosa di fresco per alleviare il dolore.» concluse. Poi si voltò verso Sherlock. «Sherlock, puoi prendere le pillole di Mycroft e una compressa di paracetamolo? Devo averne qualcuna nella valigia.»
 Sherlock annuì, si mise in piedi e uscì dalla cucina, diretto verso il piano superiore, oltrepassando il padre, che intanto si era svegliato e li aveva raggiunti, ridestato dal rumore dei singhiozzi del figlio e probabilmente della discussione avvenuta tra lui e la moglie poco prima.
 «Che succede?» domandò, aggrottando le sopracciglia, vedendo che il figlio maggiore stava singhiozzando e John era inginocchiato a terra di fronte a lui.
 «Mycroft non si sente bene. Ma non è niente di grave, Tim, stai tranquillo.» assicurò John, volgendosi verso il signor Holmes e regalandogli un sorriso accennato, continuando ad accarezzare le gambe di Mycroft. «Basterà del paracetamolo e un po’ di riposo e si sentirà subito meglio.»
 Tim annuì, affiancando la moglie, ancora immobile e sconvolta di fronte a ciò che aveva appena visto. Le poggiò una mano sulla spalla e le sorrise rassicurante, poi entrambi tornarono ad osservare il figlio e il futuro genero.
 Mycroft gemette nuovamente, piegando in avanti il capo e chiudendo gli occhi.
 John gli accarezzò il capo e gli strinse una mano, poi si voltò verso la signora Holmes. «Violet, potresti prendere un po’ di ghiaccio?» chiese. «Potrebbe servire per alleviare il dolore.»
 «Certo.» disse lei. Aprì il freezer e dopo aver estratto dei cubetti di ghiaccio e averli chiusi in un sacchetto, li avvolse in uno straccio e lo passò a John. «Tieni.»
 «Grazie.» disse il dottore, sorridendole. Poi tornò a voltarsi verso Mycroft e dopo aver allontanato la sua mano dal volto, poggiò il ghiaccio sul suo viso, facendo scorrere un mano sulla suo capo. «Va meglio?» chiese dopo un momento.
 Mycroft esalò un lungo respiro. Circondò il polso di John con una mano e incontrò i suoi occhi. Annuì flebilmente.
 Il consulente investigativo rientrò in cucina con le pillole fra le mani, e dopo aver preso un bicchiere e averlo riempito d’acqua, lo porse a John. «Ecco qui.»
 «Tieni, Mycroft.» disse Watson, scostando il sacchetto col ghiaccio e porgendo il bicchiere al cognato insieme alle pillole. «Prendile entrambe, ti faranno sentire meglio.»
 Il politico le ingoiò bevendo qualche sorso d’acqua sotto lo sguardo attento di Sherlock e John, poi lo porse nuovamente al dottore, che lo poggiò sul tavolo.
 «Vieni, ti accompagno nella tua stanza. Hai bisogno di dormire.» disse poi, mettendosi in piedi. Circondò la vita di Mycroft con un braccio e lo aiutò ad alzarsi, tenendolo per un braccio. «Ce la fai?»
 Mycroft annuì.
 «Aspettate, vi aiuto.» disse Violet, avanzando.
 «No. Tu rimani qui. E anche papà.» sbottò Sherlock, bloccandola. «Dobbiamo parlare.»
 John si voltò verso il compagno, sapendo dove quella conversazione avrebbe portato lui e i suoi genitori, e come probabilmente sarebbe andata a finire.
 «Sherlock» disse, rivolgendogli un’occhiata eloquente. «Ti prego.»
 «Resta con Mycroft.» mormorò Sherlock, agganciando il suo sguardo. «Io arrivo subito.»
 John sospirò e, dopo un momento di immobilità, annuì. Poi, insieme a Mycroft, continuando a parlare con lui per rassicurarlo, lasciò la cucina, avviandosi verso il piano superiore.
 
 Quando Sherlock e i suoi genitori furono rimasti soli, il silenzio calò sulla cucina, avvolgendoli completamente.
 Il consulente investigativo fece saettare lo sguardo dal padre alla madre svariate volte prima di parlare. Nessuno dei due sembrava voler affrontare quella conversazione, né sembrava sapere come farlo. Ma dovevano. Sherlock doveva farlo per Mycroft, per impedire che episodi come quello di quel giorno si ripetessero ancora.
 «Se non hai nulla da dire, io vado a vedere come sta Mycroft» disse Violet, rompendo il silenzio per prima e muovendosi verso la porta.
 Sherlock le sbarrò la strada. «Tu non ti muovi di qui.»
 «Perché?» chiese lei, rivolgendogli uno sguardo minaccioso.
 «Perché devi smetterla.» sibilò il figlio. «Devi smetterla di tormentarlo, mamma.»
 «Tormentarlo?» replicò lei.
 «Tu non hai idea di quello che ha passato.» replicò. «Non hai la minima idea di quello che ha dovuto subire in questi mesi, perché altrimenti non ti saresti comportata così, oggi. E soprattutto non continueresti a dargli il tormento in questo modo.» 
 La donna sembrò ferita. «Sto solo tentando di capire, Sherlock.»
 «Che cosa c’è da capire?» esclamò, furioso. «Ti ha chiesto di concedergli tempo e tu continui ad insistere quando è chiaro che ha solo bisogno che voi gli concediate spazio. Non vedi quanto per lui sia complicato anche solo aprire bocca per sostenere una conversazione? Non vedi quanto gli risulti difficile stare vicino a qualcuno?» domandò, sillabando ogni parola. «Come puoi non vedere
 «Con te e John non sembra fare fatica.» rispose Tim, senza cattiveria o malizia. Era una semplice constatazione. «Si sente a suo agio insieme a voi. La vostra vicinanza o le vostre domande non sembrano metterlo a disagio come le nostre.»
 Sherlock si voltò verso di lui e sospirò, sapendo che i genitori lo avrebbero notato. «È diverso.» rispose mestamente. «Noi ci siamo stati fin dall’inizio.»
 «Dall’inizio di cosa?» domandò la donna.
 Il consulente investigativo scosse il capo. «Non sarò io a parlarvene.» affermò, tornando a voltarsi verso di lei. «Quando lui vorrà farlo lo farà. Vi basti sapere che dovete smetterla di fare domande, perché ciò che è successo oggi è stato causato dalla vostra curiosità e dalla vostra insistenza. E io non permetterò che accada più.» concluse. «Quindi se non volete che io, John e Mycroft partiamo domani stesso per tornare a casa, cercate di comportarvi come si deve.» e detto questo, si voltò per andarsene.
 «L’ha violentato, vero?»
 La domanda della madre fu come ricevere un pugno nello stomaco. Lo colpì così forte da togliergli il fiato, inchiodandolo sulla soglia della cucina.
 Sherlock chiuse gli occhi, senza fiato, senza parole.
 «Riconosco i segni.» affermò la donna, vedendo che il figlio non accennava a parlare. «Ti comportavi allo stesso modo quando sei tornato dopo i due anni passati in missione in Europa dell’Est… quando ti sei nascosto qui per quel breve periodo prima di tornare in Inghilterra.» spiegò con un sospiro. «Per questo difendi Mycroft così ardentemente. Perché sai bene cosa sta passando e non vuoi che soffra com’è accaduto a te. O mi sbaglio?»
 A quelle parole, il cuore di Sherlock si frantumò pezzo per pezzo. L’uomo lo sentì sgretolarsi nel petto come sabbia; le lacrime gli salirono agli occhi, annebbiandogli la vista.
 Non aveva idea di come sua madre lo avesse scoperto, dato che nemmeno Mycroft ne era a conoscenza, eppure lo sapeva. Sapeva ciò che era successo durante la missione, quindi probabilmente sapeva anche delle cicatrici e delle torture che aveva subito. 
 «Come l’hai scoperto?» sussurrò, sperando che la sua stessa voce non lo tradisse.
 «Sono tua madre. E anche se credi che io non sia abbastanza intelligente per accorgermi di certe cose, io le vedo.» rispose lei. «Ho notato come ti comportavi. Il fatto che fossi diventato silenzioso e schivo, che non mangiassi o parlassi… E ti ho sentito gridare e piangere durante le notti passate qui.» fece una pausa. «Ti abbiamo sentito entrambi.» aggiunse, riferendosi al marito.
 Sherlock sentì una stretta al cuore.
 Ma certo. Come aveva potuto pensare di nascondere una cosa del genere ai propri genitori? In fondo anche loro erano abbastanza intelligenti da poter notare un così radicale cambiamento sia in lui che in su fratello.
 Non potendo più nascondere ciò che ormai era diventato lampante, si voltò incrociando lo sguardo dei propri genitori, fermi uno accanto all’altro.
 Non appena lo fece, il dolore esplose. Le lacrime gli rigarono le guance ed lui scoppiò in singhiozzi convulsi, abbassando il capo e portandosi una mano alla bocca, sperando di riuscire ad attutirli.
 Violet e Tim non esitarono neanche un secondo prima di avanzare e stringerlo fra le braccia, accarezzandogli i capelli e la schiena, cullandolo dolcemente per rassicurarlo almeno in quel momento.
 Tre anni in ritardo.
 
 Sherlock singhiozzò a lungo, stretto fra le braccia dei propri genitori, lasciando che finalmente qualcuno lo rassicurasse per ciò che era accaduto tre anni prima e per cui nessuno lo aveva rassicurato o aiutato quando era il momento e quando ne avrebbe avuto realmente bisogno.
 Quando i singhiozzi si calmarono, lasciando spazio soltanto alle lacrime, il consulente investigativo si separò da loro.
 La madre gli accarezzò il viso, spazzando via le ultime lacrime che ancora bagnavano la sua pelle, cercando il suo sguardo. I suoi occhi erano colmi di dolcezza e comprensione, privi di rimprovero o pietà, al contrario di quanto Sherlock si era aspettato.
 «Mi dispiace. Davvero.» mormorò. «So di avervi delusi e di avervi mentito, ma non volevo che pensaste...» si bloccò, scuotendo il capo. «Non volevo che pensaste che avevo permesso a quelle persone di-»
 «Oh, Sherlock.» disse Violet, accarezzandogli il volto. «Tu non ci hai delusi. Noi non potremmo essere più orgogliosi di te e di tutto ciò che hai fatto in questi anni.»
 «Né tantomeno pensare una cosa del genere di te.» aggiunse il padre, poggiandogli una mano sulla spalla. «Ciò che è successo non è stata colpa tua. Stavi proteggendo le persone che ami, e non c’è nulla di più puro e nobile di questo, figliolo. Siamo e saremo sempre orgogliosi di te.»
 La madre prese le mani di lui fra le proprie. «Adesso ascoltami bene, Sherlock.» esordì.
 Sherlock si voltò verso di lei e incontrò i suoi occhi.
 «Qualsiasi cosa accada, devi rimanere accanto a Mycroft. Non lasciarlo solo.» disse. «Lui ha bisogno di te. E di John.» accennò un sorriso. «Siete gli unici in grado di aiutarlo. E se davvero servirà io e tuo padre ci faremo da parte. Ma tu e John non fatelo… siete l’unica cosa rimasta a Mycroft… Promettimelo.»
 Sherlock la osservò per un lungo istante, poi annuì. «Te lo prometto, mamma.»
 Violet sorrise. Prese il volto del figlio fra le mani e gli baciò la fronte. «Ti voglio bene, tesoro mio.» mormorò sorridendo dolcemente, accarezzandogli gli zigomi con i pollici. «Oh, il mio dolce e coraggioso Sherlock…» sospirò. «Vai da lui, adesso. Ha bisogno di te.»
 Il consulente investigativo annuì. Rivolse un ultimo sguardo ai genitori, poi si voltò e si avviò verso il piano superiore.
 
 Sherlock aprì la porta della stanza di Mycroft e varcò la soglia tentando di fare meno rumore possibile.
 La stanza era immersa nella semioscurità, ma non ci mise molto ad abituarsi.
 Suo fratello era sdraiato sul materasso, sotto le coperte, e John era seduto accanto a lui. Gli stava tenendo la mano, accarezzandone il dorso, mentre con l’altra continuava a premere l’impacco con il ghiaccio sul suo viso, sperando di alleviare il dolore che la ferita alla testa gli stava dando. Gli stava parlando sottovoce, sommessamente, probabilmente sperando di tranquillizzarlo e aiutarlo ad addormentarsi.
 Non appena il consulente investigativo avanzò verso di loro, John si voltò e gli sorrise.
 «Ehi» mormorò.
 «Ehi» disse lui.
 Il medico studiò il suo viso e aggrottò le sopracciglia. «Stai bene?» chiese.
 Sherlock intuì immediatamente che dovesse aver notato i segni lasciati dalle lacrime che aveva versato poco prima. Tuttavia annuì.
 «Sì, va tutto bene.» assicurò, fermandosi alle spalle del medico e poggiandogli una mano sulla spalla. Poi, notando che Mycroft era ancora sveglio, si chinò su di lui. «Myc… Perché non provi a dormire? Sei distrutto.» concluse, accarezzandogli il capo, notando le profonde occhiaie che segnavano il suo viso.
 Mycroft sollevò una mano nella sua direzione, in una muta richiesta.
 Sherlock la prese e la strinse con la sua.
 «Il dolore all’occhio non lo lascia riposare.» spiegò John, scostando il ghiaccio per controllare la ferita. «Vado a prendergli dei tranquillanti. Magari lo aiuteranno a dormire un po’.» concluse e si mise in piedi, porgendo il ghiaccio al compagno.
 Sherlock prese l’impacco e prese il posto di John, vicino a Mycroft, tornando a poggiare il ghiaccio sul suo viso, continuando a tenere stretta la sua mano.
 John, prima di lasciare la stanza, si voltò un’ultima volta verso Mycroft, gli accarezzò il capo e gli sorrise. «Vuoi che ti porti una tazza di tè, Mycroft?» domandò. «O qualcosa di caldo?»
Il politico scosse il capo.
«D’accordo.» concluse John. «Torno subito.» si chinò su Sherlock e gli baciò la fronte. Quando i loro sguardi si incontrarono, gli sorrise dolcemente.
Il consulente investigativo ricambiò il sorriso.
E il medico uscì, lasciandoli soli.
 
 Il silenzio calò sulla stanza, avvolgendo i due fratelli per lunghi istanti, rotto soltanto dai respiri affannosi di Mycroft, intervallati da leggeri ansiti causati dalle fitte di dolore che ancora stava provando a causa della ferita al volto.
 Sherlock non lasciò la sua mano, continuando a tenere l’impacco premuto sul suo viso, osservandolo senza tuttavia parlare. Non c’era bisogno di parole, in fondo. Al consulente investigativo bastava essere lì, insieme a suo fratello, sapendolo al sicuro, insieme a lui e John. Alla sua famiglia.
 «Tu mi odi?»
 La domanda di Mycroft, improvvisa e inaspettata, lo riportò bruscamente alla realtà.
 Sherlock aggrottò le sopracciglia. «Come?» chiese di rimando, scostando l’impacco e poggiandolo sul comodino, per poi incontrare il suo sguardo.
 Le lacrime rigarono le guance del politico. «Mi odi?» domandò nuovamente con voce rotta e impastata dal pianto.
 Il cuore di Sherlock si fermò. «Perché dovrei odiarti?»
 «Per quello che ho fatto.» rispose l’altro. «Per aver accettato che Magnussen mi facesse questo, perché ho provato ad uccidermi invece di combattere, e per aver coinvolto te e John, lasciando che lui vi facesse del male…»
 Il minore scosse il capo. «È assurdo, Myc.» disse. «Nulla di ciò che è accaduto è stata colpa tua.»
 «Sono disgustoso.» replicò Mycroft, le lacrime che gli percorrevano il viso. «Gli ho permesso di farmi questo e non ho-» scosse il capo, ansimando a causa del dolore al viso. Si portò una mano alla guancia, gemendo.
 «Smettila, adesso.» replicò Sherlock, prendendogli la mano e scostandola dal suo viso in modo che non toccasse la ferita. «Sai che non è vero. Non essere assurdo.»
 Il politico scosse il capo. «Sono stato io a permetterlo… non mi sono difeso e lui mi ha… mi ha distrutto…» pianse. «Sono stato io a volerlo… se mi fossi opposto…»
 Il minore sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Sei stato tu a volerlo?» ripeté. «Tu hai voluto che ti facesse questo? Ne sei certo?»
 Mycroft singhiozzò. «Io…»
 «Mycroft, perché dici questo?»
 «Perché…» esitò. «Perché non riesco a capire… non riesco a capire perché non l’ho fermato. Perché non gli ho impedito di farmi questo… Non capisco…»
 Sherlock gli strinse la mano. «Ti spiego io perché, Myc.» replicò, intrecciando le loro dita. «Perché a volte capitano cose che non possiamo controllare. Perché abbiamo paura e non possiamo e non riusciamo ad opporci. E non perché non siamo abbastanza forti, ma perché sono cose più grandi di noi. Non siamo onnipotenti. Non possiamo controllare ogni cosa. Possiamo cedere, ogni tanto.»
 «Sì, ma-»
 «Non c’è nessun ma.» lo interruppe. «E non ci sarà mai.»
 «Mi dispiace…» singhiozzò Mycroft «Mi dispiace così tanto…» 
 «Non devi… Perché non c’è nulla per cui tu debba dispiacerti.» replicò Sherlock, accarezzandogli il viso. «L’hai fatto per proteggere noi… Me. E non c’è nulla di sbagliato nel voler proteggere le persone che ami, fratellone. Anche io l’ho fatto a mio tempo, ricordi?»
 «Era diverso.» ribatté il maggiore. «Tu hai combattuto contro Moriarty e contro i suoi uomini. Hai fatto il possibile per sopravvivere e per tornare da noi… Io non ho fatto nulla. Mi sono lasciato andare. Gli ho permesso di farmi questo perché sono troppo debole per…» si bloccò, scuotendo il capo.
 Sherlock sospirò.
 Forse era arrivato il momento di raccontargli la verità. Dopotutto, se fosse servito a far capire a suo fratello che tutto ciò che era accaduto con Magnussen non era colpa sua, alla avrebbe potuto fare quel sacrificio.
 Sarebbe stato complicato, certo. E avrebbe fatto male. Molto.
 Ma lo avrebbe fatto per Mycroft. E considerato tutto ciò che suo fratello era stato disposto a fare per lui, era il minimo che Sherlock potesse fare per ricambiare il favore.
 «Ascolta, Myc» esordì, stringendogli la mano e accarezzandone il dorso. Abbassò lo sguardo, sospirando mestamente. «Adesso ti dirò qualcosa che non ho mai raccontato a nessuno. E voglio che tu lo sappia perché possa capire che ciò che ti è accaduto non è colpa tua.» fece una pausa. Risollevò lo sguardo sul viso del fratello. «Durante la missione, tre anni fa, mentre mi trovavo in Croazia, poco prima che tu mi ritrovassi in Serbia, è successa una cosa.»
 Mycroft aggrottò le sopracciglia, improvvisamente pallido. «Sherlock, di cosa stai parlando?» chiese, mettendosi seduto, nessuna traccia delle lacrime, la voce nuovamente ferma.
 Il minore deglutì a vuoto, la gola secca. Abbassò gli occhi e sospirò. «Quando sono arrivato sul posto – in quel paesino del sud in cui avevate localizzato la penultima cellula di Moriarty – sono stato catturato quasi immediatamente.» raccontò. «Mi hanno tenuto prigioniero per un’intera settimana in una cella, immerso nell’oscurità, venendo da me solo una per portarmi cibo e acqua a sufficienza per sopravvivere per qualche giorno al massimo. Sapevano bene chi fossi, anche se non si sarebbero di certo aspettati di vedermi lì, vivo e vegeto. Esattamente com’era accaduto agli altri prima di loro.» fece una pausa. «Tuttavia, Moriarty doveva aver lasciato loro precise istruzioni riguardo al cosa fare a tutti coloro che avessero tentato di mettersi contro di lui e la sua organizzazione. Quindi dopo una settimana di solitudine, il capo è venuto da me. All’inizio voleva sapere per conto di chi stessi lavorando e per quale motivo fossi lì. Poi avendo capito che non avrei mai rivelato nulla di ciò che sapevo, ha deciso di provare a spingermi a parlare in un altro modo.»
 Gli occhi di Mycroft si spalancarono non appena realizzarono ciò che suo fratello stava tentando di dirgli. Tuttavia non lo interruppe.
 «Dopo una settimana senza cibo né acqua non riuscivo nemmeno a reggermi in piedi, e nel buio della cella non riuscivo a vedere in faccia quell’uomo disgustoso. Potevo soltanto sentirlo.» proseguì Sherlock. «Non riuscivo a muovermi, né a gridare o a difendermi. Per questo quando ha cominciato non ho potuto fare altro che subire.»
 Nonostante si fosse imposto di resistere, le lacrime gli rigarono le guance al ricordo di ciò che era accaduto in quella sudicia cella, in quel maledetto paesino della Croazia, in quella missione che gli era costata così tanto.
 «Non so quanto sia durato, ma mi sono sembrate ore.» concluse, la voce straordinariamente ferma nonostante le lacrime. «Ricordo che dopo aver lasciato Londra e John, non avevo più provato nulla. Come se trovarmi lontano da lui mi avesse svuotato completamente, privandomi di quella parte di me stesso che avevo imparato ad accettare dopo averlo incontrato. Standogli lontano avevano rinunciato a sentire anche le più piccole cose.» affermò. «Tuttavia, in quella cella, quella notte, ho scoperto nuovamente cosa significasse avere paura. E ho sentito-» la voce si spezzò improvvisamente. Chiuse gli occhi, abbassando il capo. «Ho sentito così tanto dolore – non solo fisico ma anche mentale – di fronte all’impotenza che stavo provando, che per un momento ho desiderato di poter morire lì, su quel pavimento.»
 Il volto di Mycroft venne attraversato dal dolore. Le lacrime tornarono a percorrergli le guance, perdendosi nella sua barba rossiccia.
 «Poi se n’è andato. Così com’era venuto, se n’è andato, lasciandomi lì, riverso su quel pavimento in una pozza di sangue, con solo le mie lacrime e il rumore dei miei singhiozzi a tenermi compagnia in quel silenzio e quell’oscurità opprimenti.» raccontò. Sospirò, tornando ad osservare suo fratello. «Ed è stato in quel momento che ho deciso che avrei dovuto combattere ancora. Che non avrei mai dovuto arrendermi e rinunciare a combattere per tornare a Londra. Perché mai avrei voluto provare nuovamente una cosa del genere. E l’unico modo per impedire che accadesse ancora era tornare a casa. Da John. Dall’unica persona che fosse riuscita a farmi provare sensazioni che non avevo mai sentito prima per nessun altro. Emozioni vere. Emozioni che mi avevano fatto sentire vivo. Non impotente e insignificante.» accennò un sorriso. «Ciò che sto tentando di farti capire, Mycroft, è che quello che ti hanno fatto – che ci hanno fatto non è stata colpa nostra. Non abbiamo chiesto che accadesse, né lo abbiamo voluto. È successo, e non abbiamo potuto impedirlo. Ma possiamo scegliere di combattere per superarlo. Questo fa la differenza.»
 Il maggiore abbassò lo sguardo. «Perché non me lo hai detto?» chiese. «Perché quando sei tornato non mi hai raccontato la verità?»
 Sherlock scosse il capo. «Non volevo caricarti di un peso simile.» rispose, asciugandosi le lacrime che gli avevano bagnato il viso. «Esattamente come non hai voluto farlo tu.»
 Mycroft annuì, chinando il capo. «Mi dispiace.» disse alla fine.
 «Non devi dispiacerti. È acqua passata.» concluse il consulente investigativo, poi accennò un sorriso e sospirò. «Dia, vieni qui.» gli circondò il petto con le braccia e lo strinse a sé.
 Il fratello ricambiò la stretta, affondando il viso nell’incavo del suo collo e aggrappandosi alle sue spalle.
 «Anche se non sono in grado di dimostrartelo come vorrei, io ti amo tantissimo, Myc.» sussurrò Sherlock, accarezzandogli il capo. «E ti prometto che sarò sempre qui per te. Qualunque cosa accada.»
 Il maggiore annuì contro la sua spalla. «Anche io ti amo tantissimo, Sherlock.»
 
 Quando John rientrò nella stanza con il tranquillante e un bicchiere d’acqua, Sherlock lasciò andare Mycroft e il politico assunse la compressa, rimettendosi poi a letto.
 Sherlock e John rimasero al suo fianco fino a che non si addormentò, controllando che il tranquillante facesse effetto e che il politico scivolasse completamente nel sonno. Poi, insieme lasciarono la stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
 «Avresti dovuto dirmelo.» sbottò John, rompendo il silenzio.
 Sherlock si voltò verso di lui, sentendo il sangue gelarsi nelle vene.
 Non gli servirono che pochi istanti per capire di cosa John stesse parlando. Non ebbe bisogno di spiegazioni o di fare domande per sapere che il compagno aveva udito la conversazione che poco prima aveva avuto con il fratello e che, quindi, aveva scoperto la verità riguardo la sua missione.
 Ecco spiegato perché ci aveva impiegato così tanto tempo a tornare con il tranquillante.
 Il consulente investigativo incontrò gli occhi di John con i propri ma non rispose.
 «Perché me lo hai nascosto?» chiese il medico. «Perché quando sei tornato non mi hai detto la verità riguardo ciò che ti era capitato durante la missione?»
 Sherlock esitò per qualche secondo, poi sussurrò: «Non potevo.»
 «Perché?» chiese John, alzando leggermente la voce. «Perché il grande Sherlock Holmes non può permettersi di essere debole agli occhi di nessuno? Perché ti vergognavi così tanto da ammettere di fronte al tuo migliore amico, e uomo che affermi di amare da sempre, che eri stati torturato e violentato dagli uomini di Moriarty?»
 A quelle parole, Sherlock abbassò lo sguardo e trasalì, chiudendo gli occhi, quasi John lo avesse colpito in pieno volto con un pugno.
 Con suo fratello aveva affermato che era acqua passata, ma la verità era che pensarci – e ancor più parlarne – gli procurava un dolore indescrivibile. Poteva ancora sentire le mani di quell’uomo su di lui, la pressione del suo corpo sul proprio, il suo respiro sul suo collo, l’odore acre del proprio sangue, la durezza del pavimento contro il proprio corpo… quelle sensazioni erano impresse a fuoco nella sua mente e, era certo, non lo avrebbero abbandonato mai più fino alla fine dei suoi giorni.   
 John sospirò. «Ti sarei stato vicino.» il suo tono si addolcì, essendosi reso conto di aver esagerato. «Nel modo giusto, come un vero amico avrebbe dovuto fare… Perché non me lo hai permesso?»
 Per l’ennesima volta quel giorno, contro la propria volontà, nonostante avesse tentato di bloccarle, le lacrime sgorgarono dagli occhi di Sherlock, rigandogli gli zigomi e le guance. Tutto ciò che avrebbe voluto dire, tutte le spiegazioni che avrebbe voluto dare, gli morirono in gola, insieme alla consapevolezza che se anche John avesse provato qualcosa per lui, da quel momento in poi non sarebbe più stato così.
 «Sherlock, parlami.» insistette il medico, cercando il suo sguardo. «Perché non mi hai detto nulla? Perché?»
 «Scusa.» fu l’unica parola che lasciò le labbra di Sherlock, mentre le lacrime le accarezzavano la sua bocca, scivolando lungo la linea del su viso e infrangendosi poi sulla stoffa della sua camicia, frenando la loro corsa.
 John lo osservò, perplesso.
 Il consulente investigativo indietreggiò di qualche passo, visibilmente più pallido. «Mi dispiace.» aggiunse. Poi sollevò il capo, incontrando il viso dell’amico. «Se hai cambiato idea riguardo a noi e riguardo al matrimonio-» esitò, la voce tremante a causa delle lacrime, il cuore spezzato all’idea di ciò che stava per dire. «Non devi sposarmi se non mi vuoi più. Non sei costretto a farlo.» e detto questo si voltò e raggiunse la sua stanza a grandi passi, richiudendosi la porta alle spalle.
 Non appena lo fece, esplose in singhiozzi sommessi, distrutto dal dolore che ormai si era fatto troppo per essere sopportato. Dopo anni passati a portarselo dentro, lasciandosi consumare dal senso di colpa e dal peso di tutta quella sofferenza, scoppiò all’improvviso, togliendogli il fiato.
 Quasi lo sorprese.
 Aveva resistito per tre anni, a parte qualche raro episodio isolato. Eppure in quel momento, con la consapevolezza che sia i suoi genitori, sia Mycroft, sia John – l’ultima persona che sarebbe dovuto venire a sapere di tutto ciò che gli era accaduto – erano a conoscenza di ciò che era successo, ogni cosa era crollata.
 Anche il suo palazzo mentale sembrava in procinto di sgretolarsi dentro la sua mente. Le pareti stavano collassando, implodendo insieme alle stanze, sopraffatte da sentimenti ed emozioni, che mai, mai, prima di allora erano riuscite a raggiungere la sua mente tanto in fretta. Sherlock era sempre riuscito a fermarle prima che lo facessero, a impedire che contaminassero il suo cervello – il suo hard drive.
 Sherlock poggiò la schiena alla parete accanto alla porta e si lasciò scivolare a terra, prendendosi il capo fra le mani e portandosi le ginocchia al petto, gemendo dal dolore, sentendo le tempie pulsare dolorosamente.
 I singhiozzi presero a scuoterlo violentemente, mentre le lacrime percorrevano il suo volto, bollenti e dolorose come mai prima di allora, ricordandogli quando fosse stato stupido e ingenuo a credere che la sua famiglia potesse capire – perdonare – ciò che era accaduto in quella missione.
 Il consulente investigativo chiuse gli occhi, tentando di allontanare dalla mente le terribili immagini di quel giorno, che ormai si erano impossessate della sua mente. Ansimò, stringendosi nelle spalle, muovendo il capo quasi sperasse di scrollarsele di dosso come se fossero state polvere, vecchia e leggera, in grado di volare via al minimo movimento.
 Poi il leggero cigolare della porta lo fece tornare alla realtà.
 «Sherlock?»
 La voce di John, leggera e dolce, irruppe nel silenzio e nell’oscurità della stanza, facendosi strada fra i ricordi e le immagini che affollavano la mente di Sherlock, soffocando ogni suo pensiero.
 Il medico lo raggiunse e si accovacciò di fronte a lui, poggiandogli una mano su un ginocchio. «Sherlock» sussurrò ancora, la voce carica di apprensione, nel vederlo in lacrime, tremante e spaventato.
 «Mi dispiace» singhiozzò lui, scuotendo il capo. «Mi dispiace così tanto…»
 John aggrottò le sopracciglia. «Di cosa stai parlando?» domandò. «Ti dispiace per cosa?»
 Gli occhi di Sherlock si spalancarono, incontrando quelli dell’amico attraverso l’oscurità della stanza, così simile a quella della cella in cui era stato intrappolato.
 «Per averti mentito.» rispose, la voce rotta dai singhiozzi. «Per averti nascosto quello che mi è successo. Io…» abbassò lo sguardo e scosse il capo. «Non volevo che fossi costretto a stare con me anche dopo ciò che mi avevano fatto, ma ero innamorato di te e non ho potuto fare a meno di-» le lacrime gli rigarono il viso, ma Sherlock le spazzò via con un rapido gesto della mano. «Se ti disgusto e se non volessi più stare con me, io lo capirei.» aggiunse. «Non voglio che tu sia costretto a stare con qualcuno come me.»
 John ascoltava senza parole.
 «Qualcuno come te?» chiese, perplesso.
 «Sporco e macchiato da un’azione disgustosa.»  
 «Mio dio, smettila.» disse il dottore, sconvolto da quelle parole, rimasto senza fiato di fronte a tanto dolore. «Tutto questo è assurdo, lo sai, vero?»
 Sherlock scosse il capo. «È la verità.» affermò. «Sono sporco. Danneggiato
 «Per la miseria, Sherlock, non sei un maledetto giocattolo che può rovinarsi o essere utilizzato a piacimento per poi essere gettato via.»
 «Ma è quello che hanno fatto!» singhiozzò il moro, risollevando il capo e puntando gli occhi – nuovamente colmi di lacrime – in quelli di Watson. «Mi hanno usato a loro piacimento e poi mi hanno lasciato a marcire in quella cella… come lo definiresti, questo?»
 «Violenza.» rispose prontamente Watson. «Sopruso. Ingiustizia. Malvagità. Abuso.» proseguì, poi sospirò, accarezzandogli le gambe. «Perché è stato così semplice accettare ciò che è accaduto a Mycroft, ma ti è così difficile accettare e superare ciò che è successo a te? In entrambi i casi, non è stata colpa vostra.»
 Le labbra di Sherlock tremarono e altre lacrime traboccarono dai suoi occhi multicolore.
 «Perché nessuno mi aveva mai toccato, prima.» ammise Holmes, con voce rotta. «Tu avresti dovuto essere il primo. L’unico
 Gli occhi di John si spalancarono. 
 «Nessun altro avrebbe dovuto farlo.» disse Sherlock. «Volevo che fossi tu. Soltanto tu. Il mio primo e unico amore.»
 Il medico sentì il suo cuore andare in frantumi. «Oh, Sherlock…» mormorò, gli occhi colmi di dolcezza e amore. «Amore mio…» disse e lo tirò verso di sé, stringendolo forte contro il suo petto. Gli accarezzò i capelli e la schiena, cullandolo fra le sue braccia. «Io sarò il primo e l’unico. Sempre. Perché ti amo.» concluse. «Questo fa la differenza.»
 Sherlock si aggrappò alle sue spalle. «Mi ami ancora?»
 «Ma certo che ti amo.»
 «Anche sapendo quello che mi hanno fatto?» domandò Sherlock, con voce tremante.
 «Ma certo… Credi davvero che io tenga a te così poco che ciò che ti hanno fatto possa fare qualche differenza?» rispose John, con ovvietà, allontanandolo da sé per guardarlo negli occhi. «Ti amo sempre di più ogni giorno che passa. Non credevo che fosse possibile amare qualcun così tanto, eppure è così.» affermò con un sorriso carico di tenerezza. «Perché tu sei la mia vita, Sherlock Holmes. E non credo che potrei mai smettere di amarti. Nemmeno per un secondo. Non credo di esserne capace.» gli accarezzò il viso, spazzando via le ultime lacrime che gli avevano rigato gli zigomi. «E, sì, voglio sposarti. Perché voglio amarti, onorarti e prendermi cura di te tutti i giorni della mia vita. Non c’è niente che desideri più di questo. Più di te.»
 Sherlock si ritrovò a sorridere. «Avevamo concordato che non avremmo avuto bisogno di parole.» ricordò, tentando di smorzare la tensione che si era creata, circondando i polsi del medico con le dita.
 «Questa volta sì.» replicò Watson, accarezzandogli i capelli. «Questa volta ne avevamo bisogno entrambi.»
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao a tutti ;) Come state?
Come promesso, eccovi l’undicesimo capitolo della mia long :) ovviamente, per non smentirmi mai, angst anche questo. Eh eh. ;D Ma anche per i nostri eroi arriveranno giorni più felici ve lo prometto.
Siamo quasi giunti al termine. Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e, tempo permettendo, lo pubblicherò mercoledì. ;)
A presto…
Un bacione, Eli♥
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Valzer per Sherlock e John ***


Amore

 

Capitolo XII
Valzer per Sherlock e John

 
 
 Mycroft stava muovendo le dita sui tasti bianchi e delicati del pianoforte, suonando a memoria il valzer che aveva composto appositamente per Sherlock e John.
 Li stava osservando danzare al centro della pista, insieme agli invitati, ai lati della sala, che li stavano guardando commossi e inteneriti da quel momento così intimo fra gli sposi, accompagnato da quella musica dolce e melodiosa.
 Il politico sorrise. Non aveva mai visto suo fratello più felice che in quel momento, stretto fra le braccia dell’uomo che amava, danzare sulle note di quella melodia, al centro della pista da ballo completamente vuota, dove non c’erano altri che lui e il dottor Watson.
 Mycroft abbassò lo sguardo sulle proprie mani, che si stavano muovendo sui tasti con scioltezza e naturalezza, come se non fossero passati anni dell’ultima volta. In realtà non suonava il pianoforte da anni. Da quando, dopo essersi trasferito a Londra, aveva trovato suo fratello in overdose la prima volta in un sudicio vicolo dei bassifondi della città. Quella notte, con suo fratello in fin di vita stretto fra le braccia, si era ripromesso che mai più avrebbe toccato un pianoforte e mai più avrebbe composto o prodotto una nota, non se prima non fosse riuscito a salvare Sherlock da se stesso.
 E poi era arrivato John, che con la sua dolcezza e la sua testardaggine era riuscito nell’impresa in cui Mycroft aveva fallito. Aveva salvato Sherlock e non solo. Era riuscito a salvare anche lui, da Magnussen e da se stesso.
 E insieme a Sherlock era riuscito a farlo tornare a vivere, e forse anche a renderlo migliore.
 E quel valzer era per loro.
 Un ringraziamento per tutto ciò che avevano fatto in quei mesi e in quegli anni l’uno per l’altro e per lui. E non sarebbe mai stato abbastanza, ma in quel momento avrebbe espresso ciò che Mycroft sentiva, meglio di quanto lui avrebbe potuto fare a parole.    
 Per questo quando sua fratello gli aveva chiesto se avesse voluto suonare per il suo primo ballo con John, aveva accettato immediatamente, riprendendo a esercitarsi ogni giorno, e studiando e rivedendo la melodia fino a renderla perfetta.
 Tutto avrebbe dovuto essere perfetto, dal primo all’ultimo dettaglio.
 La cerimonia non era durata a lungo e nulla era andato storto.
 Sherlock e John avevano fatto il loro ingresso nella sala comunale fianco a fianco, mano nella mano, le dita intrecciate, gli sguardi incatenati e due dolci sorrisi a increspare le loro labbra. Per tutto il tempo non avevano avuto occhi che l’uno per l’altro.
 Si erano avvicinati alla scrivania, dove l’Ufficiale di Stato Civile li stava attendendo insieme ai due testimoni, Mycroft e Greg, ai quali i due futuri sposi avevano rivolto due smaglianti sorrisi.
 Dopo essersi scambiati le rispettive promesse – cariche d’amore e dolcezza, senza tuttavia rinunciare a quel tocco di ironia che da sempre aveva caratterizzato il loro rapporto – e le fedi, gli invitati erano esplosi in un applauso e Sherlock e John avevano poggiato le fronti una contro l’altra per qualche secondo, senza scambiarsi neanche un singolo bacio. Poi si erano allontanati scambiandosi un sorriso e avevano lasciato la sala seguiti dagli invitati.
 Il pranzo era stato più lungo e alla fine Greg e Mycroft erano intervenuti con i discorsi che avevano preparato, in quanto testimoni. Gli invitati avevano ascoltato in rigoroso silenzio e poi erano esplosi in un applauso, commossi dalle belle parole di entrambi.
 Mycroft avrebbe di gran lunga preferito non dover tenere quel discorso di fronte a tutti, e Sherlock gli aveva detto che non sarebbe stato costretto a farlo. Ma per rendere felice suo fratello, sarebbe stato disposto a tutto, anche a coprirsi di ridicolo con un discorso privo di spessore e significato.
 Per Sherlock e John avrebbe fatto qualsiasi cosa.
 
 Quando il valzer finì, Sherlock e John si fecero largo fra gli invitati che erano scesi in pista e raggiunsero Mycroft, ancora seduto al pianoforte, intento a infilare gli spartiti in una busta, proprio come tempo addietro Sherlock aveva fatto per il valzer appositamente composto per John e Mary.
 Il politico, quando li vide fermarsi al suo fianco, si mise in piedi, rivolgendo loro un sorriso accennato. «È stato uno splendido primo ballo.» disse dolcemente.
 John sorrise. «Il tuo valzer era splendido, Mycroft.» replicò. «Hai suonato meravigliosamente. Sei stato magnifico.»
 «Ti ringrazio, John.» rispose il maggiore degli Holmes, abbassando lo sguardo sulla busta che teneva ancora stretta fra le mani. «Ma questo valzer non è mio.» concluse e porse la busta a John. «L’ho scritto per voi. Quindi è vostro, adesso.»
 Il medico la prese, accarezzandola con le dita, e Sherlock vide che recava, al centro, nella calligrafia elegante ed elaborata di suo fratello, i loro due nomi, insieme alla parola “Grazie. Con amore, Mycroft”.
 «Grazie?» domandò John, incontrando lo sguardo del politico. «Saremmo noi a dover ringraziare te, non credi?»
 Mycroft scosse il capo. «No, John. Sono io a dover ringraziare voi.» affermò. «Per tutto ciò che avete fatto e fate per me, per essermi stati vicino, per non avermi lasciato solo contro Magnussen e dopo. E nemmeno adesso.» fece una pausa, abbassando lo sguardo. «Quello che ho cercato di dirvi con questo valzer è che siete la mia famiglia, e che come voi ci siete stati per me, io ci sarò sempre per voi. Da qui all’eternità.» concluse, spostando lo sguardo dal fratello al cognato.
 Sherlock sorrise. «L’abbiamo sentito, Myc. In quel valzer c’era ogni cosa.» affermò, rivolgendogli uno sguardo carico di dolcezza. «Grazie.»
 Mycroft incontrò i suoi occhi e dopo un momento gli sorrise.  
 John sorrise a sua volta, poi si avvicinò, poggiando una mano sulla spalla del cognato, stringendola leggermente. I loro sguardi si incrociarono e i due si sorrisero, poi il politico poggiò la mano su quella del medico, stringendola a sua volta.
 Quando John lo lasciò andare, si voltò verso il marito, avvicinandosi e accarezzandogli il viso. «Ho promesso un ballo alla signora Hudson.» disse, con un mezzo sorriso. «E uno a vostra madre. Ma quello dopo è tuo.» concluse facendogli l’occhiolino.
 Sherlock gli rivolse un sorriso sghembo. «Non farti attendere troppo da tuo marito, dottor Watson. Lo sai che è un uomo impaziente.»
 John rise. «Sarò da te molto presto, marito.» concluse e dopo avergli dato un buffetto su un fianco, si allontanò, dirigendosi verso la pista da ballo per cerca la signora Hudson.
 
 Sherlock e Mycroft rimasero soli.
 Per un momento si osservarono, senza parlare o muoversi, poi nessuno stesso istante si mossero uno verso l’altro e si abbracciarono. Si strinsero fra le braccia come mai avevano mai fatto prima di allora, lasciandosi veramente andare a quel momento, abbandonandosi uno fra le braccia dell’altro, dolcemente, teneramente.
 Sherlock poggiò il capo contro quello di Mycroft, chiudendo gli occhi per qualche istante, beandosi di quella vicinanza, lasciandosi avvolgere dalle braccia, dal profumo e dal calore di suo fratello.
 
 Quando si separarono, Mycroft rimase per un momento con una mano poggiata sul viso di suo fratello, osservando i tratti del suo volto, i suoi capelli, i suoi occhi. Mosse il pollice, sfiorando il suo zigomo con il polpastrello.
 «Sono orgoglioso di te, Sherlock.» mormorò. «E ti amo tantissimo.»
 «Ti amo anche io, Myc.» replicò il consulente investigativo, chiudendo le dita intorno al polso del fratello, leggermente accelerato sotto i suoi polpastrelli.
 Il silenzio piombò nuovamente su di loro, avvolgendoli completamente e cancellando ogni cosa intorno a loro. La musica, il rumore, la folla…
 Nulla era rimasto a parte loro due.
 Sherlock e Mycroft.
 Due fratelli.
 Una famiglia.
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Ciao ;) Ecco che con un giorno di ritardo, finalmente, pubblico l’ultimo capitolo. Riesco ad essere in ritardo anche per l’epilogo. Complimenti a me. xD
Be’, che dire? Rimanere con voi per questi dodici capitoli è stato bellissimo come sempre. Ogni storia è un’avventura, breve o lunga che sia… :) e ogni volta che si conclude non vedo l’ora che ne cominci una nuova! ;)
Ringrazio tutti coloro che mi hanno inserita fra le preferite/seguite/ricordate, i lettori silenziosi e soprattutto coloro che hanno recensito: CreepyDoll, MartixHedgehog, e sere221.
Grazie di cuore a tutti! ♥
Un abbraccio forte a tutti e a presto con un’altra storia :)
Eli♥
 
 

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