Six

di __aris__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Wnem It's All Over ***
Capitolo 2: *** Hold on through Heaven and Hell ***
Capitolo 3: *** Kore ***



Capitolo 1
*** Wnem It's All Over ***






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La battaglia era finita.
I tre figli di Crono osservavano ciò che restava della voragine che aveva appena inghiottito il titano. In piedi, l’uno accanto all’atro, sporchi di sudore, sangue e terra, stringendo ancora le loro armi in mano.
Zeus era il più giovane. Aveva capelli biondi leggermente lunghi che ricadevano scomposti sulla fronte fino a sfiorargli le sopracciglia. Gli occhi erano piccoli e incappucciati, ma avevano lo stesso colore del cielo estivo. Il naso era grande ma praticamente perfetto sul suo volto, la mascella quadrata era ricoperta da una leggerissima barba bionda. Zeus era bello ed Era era stata la prima divinità a desiderare quella bellezza, ma Ade e Poseidone potevano essere certi che non sarebbe stata l’unica ad averla. Nella lotta era stato il più forte: lontano dalle viscere del padre aveva imparato a controllare i propri poteri meglio dei fratelli, ma per quanto fosse stato abile da solo non avrebbe avuto speranza contro Crono.
Alla sua destra stava Poseidone. I suoi capelli erano rossi e ricci, la fronte era alta, gli occhi di un azzurro limpido che ricordava il mare placido, anche lui portava una leggera barba rossiccia sulle guance. Se il fratello minore aveva combattuto per il potere lui e Ade volevano solo liberarsi di Crono una volta per tutte. Gli bastò scambiare un occhiata fugace con Ade per sapere che condividevano lo stesso pensiero: adesso che la lotta era finita, cosa avrebbe impedito che alzassero le spade l’uno contro l’altro? Cos’avrebbe impedito a Zeus di sbarazzarsi di loro adesso che non gli servivano più?
Ade strinse la sua spada: cos’avrebbero fatto se quel viziato di Zeus gli avesse scagliato conto una folgore? Dei tre fratelli era quello dall’aspetto meno temibile: la sua figura era magra e affilata meno massiccia rispetto agli altri due, ma non meno forte. Tutti i Cronidi possedevano qualcosa che ricordava la forza primordiale che li aveva generati, ma se in Zeus e Poseidone bastava guardare i fisici possenti e torniti con Ade non era tanto facile capire dove trovarla. I suoi capelli erano neri come le notti senza luna, il volto allungato e appuntito, senza barba, le labbra sottili. Con i fratelli condivideva gli occhi azzurri: i suoi erano i più chiari, lo sguardo era inflessibile e ricordava i ghiacciai delle montagne più alte che resistevano imperturbabili ai terribili venti invernali.
Abbiamo vinto.” Esordi Zeus scostando i capelli dalla fronte.
Dovremo andare dalle nostre sorelle.” Disse Poseidone e Ade annuì. Per Zeus quel momento aveva un sapore diverso, per lui era l’inizio del suo regno, ma gli altri era la fine di qualcosa che non avrebbero voluto rivivere nemmeno in sogno; e adesso che Crono era stato inghiottito dal Tartaro e la voragine si era richiusa volevano solo andarsene. Per loro non c’era più niente da vedere.
Le vostre sorelle vi aspettano, figli di Crono.” Davanti a loro era comparsa una bambina. Aveva i capelli bianchi mentre gli occhi neri come la notte, indossava un mantello scuro. La voce era la cosa più strana di quella creatura perché sembrava giovane e vecchia allo stesso tempo.
Sull’Olimpo esse sono.” Una seconda figura apparve accanto alla prima: capelli e occhi neri, una veste scura e la stessa voce misteriosa. “Raggiungetele in fretta.”
Perché si compia la profezia predetta.” L’ultima figura che apparve fu una vecchia ingobbita con volto era nascosto da un cappuccio nero. Messe vicino sembravano la stessa persona ma in età diverse.
Ade sentì un brivido percorrergli il corpo appena realizzò chi fossero. Non avrebbe mai detto che un giorno le avrebbe incontrate. “Voi siete le Moire!
Sull’Olimpo dovete andare, e i tre vasi trovare.” Dissero all’unisono “Da quello che ognuno aprirà il suo regno si scoprirà.” Appena fu detta l’ultima parola le Moire scomparvero lasciando i figli di Crono nuovamente soli.
 
 
Come anticipato dalle Moire, le figlie di Crono erano già ascese sull’Olimpo.
La maggiore era Estia. Era calma Estia, lo era sempre stata, anche nelle viscere di Crono non si era mai fatta trasportare dallo sconforto o dalla rabbia. I suoi capelli ricordavano il fuoco ardente, gli occhi erano azzurri, limpidi e fieri, la pelle candida ed il volto aveva lineamenti eleganti. Non aveva il seno prosperoso di Demetra o l’aspetto conturbante di Era, ma rimaneva ugualmente una figlia di Crono e portava in sé parte della stessa scintilla che aveva dato vita all’Universo.
Demetra le teneva la mano, ma forse sarebbe stato più corretto dire il contrario. Aveva capelli dello stesso colore del grano, gli occhi celesti, il volto era rotondo dai tratti dolci ma sembrava sempre crucciato. Non che le fossero mancati i motivi, ma per quanto le angosce di Demetra fossero profonde o giustificate raramente riuscivano a portare qualche giovamento.
In disparte, con gli occhi rivolti alla terra, c’era Era. Alta, bellissima e pericolosa come le tempeste. Sapeva di essere più bella delle sue sorelle, con la sua bocca a cuore, i suoi occhi che sembravano quasi viola e i capelli scuri che le ricoprivano la schiena. Era bella e sapeva di esserlo per questo si muoveva con sensualità: perché alla fine della battaglia il più forte l’avrebbe reclamata come regina al suo fianco.
Avete vinto!” esclamò Estia con voce argentina appena vide i fratelli. Le Moire gli avevano annunciato la vittoria prima di condurle sull’Olimpo ma vederli tutti e tre illesi era una gioia indescrivibile.
Gli occhi di Demetra si riempirono di lacrime di gioia che non riuscirono a fermarsi nemmeno dopo che Poseidone l’ebbe abbracciata. “Avevate dei dubbi?” disse sorridente asciugando le lacrime della sorella con i polpastrelli.
Oh! Non prenderti gioco di me!” protestò Demetra “Ero preoccupata a morte per la vostra sorte.
Anche Ade si avvicinò “Cara sorella tu sei sempre preoccupata per qualcosa.” Disse sorridente, un sorriso pieno che trasformava completamente il volto del dio. Uno di quei sorrisi che erano tanto rari quanto preziosi. “Adesso smetti di piangere.”
Demetra asciugò l’ultima lacrima e inghiottì l’ultimo singhiozzo. “Hai ragione, adesso è tutto finito.
Non c’era motivo di temere. La loro vittoria era stabilità dal Fato.” Disse Era avvicinandosi. Guardava dritto negli occhi di Zeus che sembrava ipnotizzato dalla sua bellezza. “Ma il loro compito non è ancora finito: il Fato ha deciso che a ognuno spetterà un regno e bisogna fare in fretta.”
Dove sono i vasi di cui ci hanno parlato le Parche?” chiese Zeus.
Era gli tese la mano “Vieni fratello.
La dea condusse i fratelli fino a un colonnato circolare. Le colonne erano di alabastro bianco e riflettevano la luce del tramonto. Al centro tre grandi giare appoggiate per terra, nessuna decorazione le ornava, l’una era l’esatta copia delle altre.
Dunque da quella che sceglieremo dipenderà il nostro destino?” domandò Zeus pensieroso. Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo che erano state le sue folgori a rivelarsi decisive in battaglia, non era disposto ad accettare un premio inferiore a quello dei suoi fratelli.
Così pare.” Rispose Poseidone.
Da tempo è deciso il vostro regno.” Le Parche apparvero oltre le giare “Perché uno non sia più potente dei fratelli e non sorgano nuovi duelli, noi siamo qui per assistere a questo segno.”
I fratelli si guardarono l’un con l’altro. Le sorelle sono un passo indietro, le Moire hanno già rivelato i loro compiti: a Estia il focolare, Era presiederà ai matrimoni e Demetra farà crescere cereali e piante per nutrire gli uomini.
Zeus fu il primo ad avvicinarsi ai vasi. Li osservò da vicino sperando di trovare una differenza, qualcosa che gli facesse capire qual era il suo, ma erano tutti identici. Con un sospiro di frustrazione scelse quello davanti a lui in quel momento e lo scoperchiò. Vento e sole invasero l’aria costringendo tutti a coprirsi gli occhi fino a quando il dio non riuscì a richiudere il vaso.
Dalla luce il tuo regno è confinato. Ampia discendenza tu avrai, ma mai umico sovrano sarai.” Disse Cloto.
Governerò assieme ai miei fratelli.” Ribatté Zeus sicuro che la profezia si riferissse a questo, ma le tre figure non risposero e il dubbio si insinuò nella certezza del dio.
Il secondo ad avvicinarsi alle giare fu Poseidone. Sapeva già quale aprire, sprecare tempo a sceglierne una era inutile perché non era lui a scegliere la giara ma il contrario. Con decisione alzò il coperchio liberando un’onda d’acqua che lo travolse.
Vasto e popoloso il tuo regno sarà, sotto al mare il tuo dominio si troverà e tutta la terra abbraccierai.” Profetizzò Lachesi quando anche il secondo vaso fu chiuso.
Poseidone non disse nulla, dopo tutto non gli dispiace il mare. E comunque non gli avrebbero rivelato altro. Ritornò accanto ai fratelli vedendo Demetra impallidire.
Lo perderemo!” sussurrò agitata a Estia, gli occhi congelati sul fratello che doveva ancora sottoporsi a quella prova.
Cosa dici sorella? Crono è morto, non accadrà niente ad Ade.”
Demetra si volse e la custode del focolare poté giurare di non averla mai vista tanto preoccupata “La terra illuminata dal sole spetta a Zeus, i mari a Poseidone. Manca solo un regno, quello della terra non illuminata dal sole.”
Estia vide Ade avvicinarsi all’ultimo vaso. Questa volta Demetra aveva ragione: il regno dei morti non rispondeva alle leggi che conoscevano e avrebbe cambiato Ade in un modo tale che un giorno avrebbero potuto non riconoscerlo più. Se nel bene o nel male, non poteva dirlo nessuno.
Ade indugiò con la mano sul coperchio. Aveva sentito qualcosa di quello che si erano dette le sorelle e sapeva che Demetra aveva ragione. Il sole, il vento, il miracolo della vita da quel momento gli sarebbero stati estrani. Una lacrima gli cadde sulla mano in memoria della vita che aveva sognato per secoli ma che non avrebbe mai vissuto. Poi fu un attimo e il coperchio sollevato lasciò uscire qualcosa che si poteva definire con un'unica parola: Morte.
Il regno più vasto il Fato ti ha assegnato, l’unico sovrano tu sarai fino a quando Vita non ti avrà trovato.” Profetizzò Atropo prima di sparire con le sue sorelle.
Ade avrebbe voluto sapere se quello era un monito di sventura o se esisteva speranza anche per il signore dell’Oltretomba. Ma le Moire erano svanite e per quanto avrebbe potuto pregarle non gli avrebbero detto altro.

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Capitolo 2
*** Hold on through Heaven and Hell ***






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NOTA DELL’AUTRICE: so che forse avrebbe avuto più senso che a discesa negli Inferi attraverso il lago Averno, ma vista la capacità del lago di Pergusa di assumere il colore lilla ho scelto questo luogo per la discesa agli inferi di Ade.
Una nota generale per chi segue questa ed altre mie storie: scrivere la tesi prosciuga ogni mia ispirazione per cui sappiate che non so se, quando e cosa aggiornerò in futuro.
Spero che il capitolo vi piaccia e che mi lasciate un commento.
Buona lettura.
 
 
 
 
 
La vittoria fu celebrata con un banchetto. Le ninfe avevano danzato e i satiri suonato, le fiaccole avevano illuminato la notte a giorno perché tutti sapessero che il Tempo di Crono era finito.
Ade osservava Poseidone bere con Demetra e Era sedurre Zeus con un sorriso amaro. Per quanto gli dispiacesse ammetterlo invidiava i suoi fratelli e la vita che avrebbero vissuto. Loro avrebbero avuto una discendenza. Loro sarebbero stati liberi di camminare sulla Terra mentre lui avrebbe vissuto solo, recluso nel buio dell’Oltretomba, lontano dalla Vita e da ogni speranza.
Alla profezia delle Parche non ci voleva nemmeno pensare!
 
Il regno più vasto il Fato ti ha assegnato,
l’unico sovrano tu sarai
fino a quando Vita non ti avrà trovato.
 
Più quelle parole gli tornavano in mente più si convinceva che fossero presagio di sventura. Quale altro significato potevano avere? La Vita trionfava sempre sulla Morte, così era sempre stato e così sarebbe stato anche per lui: prima o poi qualcuno portatore di Vita avrebbe reclamato il suo regno e lui cos’avrebbe dovuto fare alllora?
Con passo leggero Estia si avvicinò al fratello “Non mi sembri di umore allegro.” Gli disse sedendosi accanto a lui.
Ade guardò il vino denso nel fondo della coppa. “Non sono sicuro di avere qualcosa da festeggiare sorella.” Rispose assorto.
Estia gli prese una mano. Erano sempre calde le mani della dea e la sua stretta quasi materna. “Non basterà la vastità dell’Averno a spezzare il nostro legame.”
Il dio racchiuse la mano della sorella tra le sue. Le mani di Ade erano affusolate ed eleganti, ma ruvide come quelle dei guerrieri. “Sai cosa si dice dell’Averno? Che nulla di quello che proviene dal mondo dei vivi vi possa sopravvivere.”
Non puoi saperlo, Ade. Nessuno è mai tornato da quei luoghi e potrebbe attenderti una realtà molto diversa da quella che ti aspetti. E anche se le lande desolate oltre l’Acheronte e il Tartaro stesso fossero come li immagini noi resteremo sempre fratelli.”
Ade sorrise prima di baciare la mano candida di Estia “L’eternità è lunga sorella adorata, non fare promesse che un giorno potresti infrangere.”
Adesso fu la dea a stringere le mani del fratello nelle sue. I suoi occhi scintillarono seri sotto la luce tremula delle torce “Non infrangerò il mio voto, Signore dell’Oltretomba. Qualunque cosa accada potrai contare sul mio aiuto e la mia amicizia.”
Il dio si sentì mancare sentendo quel titolo. Chiunque altro lo avrebbe pronunciato con timore ma non Estia. Per lei non era cambiato nulla, per lei retava sempre suo fratello indipendentemente dal resto. “Grazie sorella, adesso posso affrontare il viaggio di domani con il cuore sereno.”
 
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L’ingresso per l’Oltretomba si trovava in Sicilia, sulle sponde dell’Etna vicino al lago di Pergusa. Oltre la natura che cresceva rigogliosa, in un piccolo anfratto dove la luce incontrava l’ombra si trovava lo stretto passaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
Quando i Cronidi vi giunsero era pomeriggio inoltrato. Il cielo iniziava a tingersi di arancione e attorno a loro il canto degli uccelli risuonava allegro. Una brezza leggera scuoteva i fiori e le fronde diffondendo i profumi della natura. Tutto sembrava pieno di vita e scorgere il varco era estremamente difficile perfino per gli occhi egli dei. Solo l’innaturale colore viola dell’acqua indicava che in quel luogo Vita e Morte si sfioravano.
Qui c’è la Morte!” esclamò Demetra osservando le onde del lago. Non aveva mai avuto paura della morte fino a quel momento. Lei era una figlia di Crono e nemmeno le viscere del padre erano riuscite a farle del male, per questo si era convinta che nulla avrebbe mai potuto ferirla o ucciderla oltre alla furia del titano. Ma in quel luogo sentiva che la Morte, colei che privava della vita ogni creatura mortale, era il suo esatto opposto: mentre Demetra avrebbe dedicato ogni giorno a coltivare la Vita, la Morte l’avrebbe seguita per distruggere il suo operato.
Circondata da Vita.” Rispose Estia lasciando che una farfalla si poggiasse sulla sua spalla.
Chi sono quelle ragazze?” Zeus non si era curato dei timori della sorella. I suoi occhi erano stati attirati da due giovani che coglievano fiori sull’altra sponda del lago. Sembravano ninfe ma erano in qualche modo diverse da quelle che aveva sempre incontrato: la loro pelle era bianca come l’alabastro, i loro capelli scuri come l’ebano, le vesti pesanti di color granato scuro. Le loro risate erano contenute, mentre tutte le ninfe che aveva conosciuto fino a quel momento piaceva ridere a voce alta, anche troppo in certi momenti.
Sono le ninfe dell’Oltretomba.” Disse Ade. Come Demetra non era riuscito a distogliere lo sguardo dall’acqua. Sentiva una specie di richiamo, come se in qualche modo faceva parte di qualcosa di suo. Chissà se anche i suoi fratelli avrebbero conosciuto un sentimento simile nel momento in cui fossero entrati nel regno che il Fato gli aveva riservato? Zeus probabilmente no, era quasi certo che le donne avrebbero sempre catturato gran parte dell’attenzione di cui il fratello minore disponeva. Poseidone … forse.
Come fai a saperlo fratello?” domandò Enosigeo. “Le hai forse già incontrate.”
No. Ma lo so ugualmente.”
Appena le ninfe videro il gruppo di dei avvicinarono tendo ognuna un piccolo mazzo di fiori tra le mani. Erano talmente simili che sembravano sorelle. “Salve a voi, figli di Crono.
Salve a voi.” Rispose Zeus indugiando con lo sguardo sui loro corpi snelli. Forse il regno scelto per Ade era il più oscuro e temuto, ma sicuramente non gli sarebbe mancata la compagnia femminile se l’avesse cercata.
“Chi di voi è Ade? Siamo state mandate per condurlo nel suo regno.” Disse una.
Io.” Il dio fece un passo avanti “Quali sono i vostri nomi?
Salute a voi, Sovrano.” Dissero in coro prostrandosi a terra. “Io sono Menta e lei è Leuce.” Continuò la ninfa sulla destra.
Reazioni dei fratelli 
Alzatevi.” Comandò Ade prendendo per le spalle Leuce per rimetterla in piedi “Non merito tato onore.”
Il Signore dell’Oltretomba merita ogni onore.” Rispose la ninfa senza guardarlo in viso.
Dobbiamo affrettarci, Signore.” Disse Menta “Il viaggio verso la vostra dimora è lungo.”
Ade si voltò verso i fratelli con un sorriso amaro. “Temo che passerà molto tempo prima del nostro prossimo incontro.
Nulla cambierà fino a quel giorno.” Estia fu la prima a farsi avanti per abbracciare il fratello. Poi vennero Poseidone, Era e Zeus; Demetra rimase l’ultima. Avrebbe voluto trovare parole gentili per Ade come ne avrebbe trovate per Poseidone ma, nonostante ciò che aveva detto Estia per lei qualcosa era già cambiato: lei sarebbe stata la Vita e Ade la Morte, non sarebbero potuti essere più divisi di così. “Addio fratello.” Disse semplicemente con voce tirata, quasi arrabbiata.
Demetra!” intervenne Estia “Non ha scelto lui l’Oltretomba. Credi che sia felice di scendervi?
Ade sospirò. Aveva passato troppo tempo con Demetra per non capire cosa stesse pensando: per lei una volta attraversato il varco l’amato fratello Ade sarebbe morto e al suo posto sarebbe arrivato colui che governa sulla Morte. “Va bene così, Estia. Il Fato ci ha messo su estremi opposti e in un certo modo ha ragione.” Disse alla custode del focolare lei provò a replicare ma il dio le fece capire che andava davvero bene in quel modo. “Addio sorella.” Salutò Demetra con un bacio sulla guancia come aveva fatto con Estia e Era.
Addio Ade.” Ripeté lei mentre una lacrima le rigava la guancia.
Ade asciugò la guancia della dea delle messi con il pollice “Non piangere. Non ancora.”
Demetra osservò il fratello allontanarsi con Menta e Leuce al suo fianco. Tenevano ancora i loro mazzolini di fiori in mano. Quelli che crescevano sulla superficie, sotto i raggi del sole. I suoi fiori. Non poteva impedire che la derubassero di un fratello, ma i fiori le appartenevano. “Lasciate i fiori qui.” Disse facendo un passo avanti.
Non rendere questo momento peggiore di quanto non sia. Non puoi sentirti derubata per pochi fiori!” Sussurrò Poseidone ma la dea fu inamovibile.
I fiori sono miei.”
Zeus e Era rimasero in silenzio, non avevano intenzione di prendere posizione per degli stupidi fiori, mentre Estia guardava Ade temendo che la collera potesse prendere il posto della compostezza.
I tre si fermarono e le ninfe tornarono indietro per ridare i fiori alla dea.
Ferme.” Comandò Ade “Non ci sono fiori nell’Oltretomba?
Tanto belli solo nei Campi Elisi. Ma Hypnos e Thanatos non ci permettono di raccoglierli.” Spiegò Menta.
Il Dio si voltò verso Demetra “Lascia che li portino con sé, Madre Terra. Concedi quest’ultimo dono a tuo fratello.”
Demetra afferrò la gonna con le mani, stringendo fino a strappare la stoffa. Con il volto colmo di rabbia e dolore acconsentì, poi si allontanò senza dire una parola. Aveva ceduto per l’affetto che provava per Ade, ma non avrebbe mai permesso che l’Averno la derubasse ancora e non sarebbe rimasta a vedere il fratello che scendeva nel luogo del non ritorno.
 
Varcato il passaggio verso il regno dei morti, Ade si era fatto guidare per gallerie infinite e oscure. Ben presto le ninfe avevano acceso due fiaccole dalle fiamme blu ma io dio non sentiva nessun calore provenire da quei fuochi. L’unica cosa che poteva sentire era che scendevano nelle viscere della terra attraverso gallerie strette come budella. Dopo molti passi provò a sfiorare la roccia: ad un certo punto aveva smesso di essere striata e fresca diventando nera e liscia come il vetro.
Siamo quasi arrivati alle sponde dell’Acheronte.” Disse una delle ninfe quando si iniziò a vedere del chiarore oltre la fine del cunicolo.
Il paesaggio che apparve a Ade dopo pochi minuti era spettrale: una spianata infinita di sabbia nera si stendeva più lontano di quanto i suoi occhi potessero vedere. L’unica cosa apparentemente capace di delimitarla era un fiume, l’immenso Acheronte. Il colore delle sue acque ricordava quello del lago, solo che queste erano molto più scure. Tutto era sovrastato da un cielo rosso cupo, senza nuvole o di stelle, che illuminava ogni cosa con una luce opalescente. Ormeggiata sulla riva c’era grande una zattera dall’aspetto poco sicuro sulla quale stava un vecchio mingherlino. Indossava un logoro mantello nero annodato su una spalla e teneva un remo tra le mani. I capelli e la barba erano bianchi e ispidi, gli occhi rossi, la sua espressione non era affatto amichevole.
Era ora che tornaste voi due!” disse arcigno puntando il remo verso le ninfe “Ho un compito da adempiere, io! Non posso stare ad aspettarvi per tutto il giorno.”
“Perdonaci Carone, non era nostra intenzione distrarti dalle tue mansioni.” rispose Leuce “Ma il nostro sovrano non era ancora giunto sulle rive del lago.”
Ade rimase in silenzio osservando quella figura. Chi era questo Caronte? Ma, soprattutto, era un amico o no?
“Dunque la Strega aveva ragione.” Mormorò il nocchiero osservando Ade che ne studiava parole e gesti. “Io sono Caronte, il traghettatore di anime. Fatemi l’onore di salire sulla mia zattera, Signore.” Disse a voce più alta con un inchino.
Perché dovrei?” domandò il dio, spostando lo sguardo dal barcaiolo alla zattera nera come la pece.
Perché la vostra reggia è sull’altra riva.” Rispose l’altro
Io non ho ordinato la costruzione di nessuna reggia.”
Erebo aspetta il vostro arrivo da quando tutti noi abbiamo memoria.” Si affettò a dire Menta stringendo il proprio mazzolino di fiori.
Senza aggiungere una parola, Ade salì sull’imbarcazione che cigolò e ondeggiò sotto il suo peso. Menta e Leuce lo seguirono e la zattera oscillò leggermente mentre Caronte, con un vigoroso colpo di remo si allontanava dalla riva. Ade osservò il traghettatore destreggiarsi senza sforzo in quella distesa di acqua scura apparentemente senza fine: remava e cantava, ogni tanto guardava a destra e a sinistra, come se volesse controllare di essere nel posto giusto, annuiva e riprendeva a remare e cantare. Solo quando vide le ninfe accostarsi all’acqua smise di cantare. “Cosa volete fare sciocche? Farvi acchiappare da qualcuno di quegli sciocchi che provano ad attraversare l’Acheronte a nuoto? Guardate che io non vi ripesco se cadete!
Le ninfe tramarono di paura. “Volevamo solo immergere i fiori per conservarne la freschezza.” Disse Leuce tremante “Io e Menta saremo molto contente di darti uno dei nostri fiori se ci permetterai di bagnarli.”
Caronte sbuffò “Ben altro pedaggio chiedo alle anime. Immergete i vostri fiorellini se ci tenete. Ma se cadete in acqua non contate su di me!
Le ninfe sorrisero e ringraziarono Caronte prima di avvicinarsi con cautela al bordo della barca e immergere i fiori.
Che pedaggio chiedi?
Una moneta d’oro, mio signore.”
Cosa te ne fai di tutte le tue monete?
Non ha importanza se me le conservi o le getti nel fiume. Se le anime vogliono raggiungere il loro destino mi devono dare una moneta, altrimenti aspetteranno cento anni. Mia la barca, mie le regole.” Spiegò con un ghigno.
E dove sono le anime che dovresti traghettare?
Loro fanno un’altra strada, signore. Per loro l’imbarco è più a valle.”  Poi Caronte riprese il suo canto e Ade non domandò altro. Sentì la corrente cambiare quando la barca prese un fiume. Le sue acque erano tanto placide da sembrare ferme, il loro colore era diventato azzurro cupo, ma le rive erano ancora due strisce nere in lontananza.
Dove simo?” domandò Ade.
Questo è lo Stige.” Rispose il traghettatore “La vostra dimora non è lontana.” Aggiunse dopo un paio di colpi di remi.
Lentamente, sulla riva destra, apparve Erebo, il palazzo che attendeva Ade da sempre. Le mura esterne erano costruite in onice nera, in cui il dio poteva vedere il suo riflesso. Da vicino non sembrava nemmeno un muro costruito da svariate lastre di pietra incastrate l’una nelle altre, ma un unico blocco immenso e perfetto che nessuno avrebbe mai potuto espugnare. Le mura erano molto lunghe, forse quanto quelle di una città. Ade tese una mano e le sfiorò con i polpastrelli: erano gelide come nulla che avesse incontrato fino a quel momento. Dopo pochi secondi ritrasse la mano sentendo che il freddo si propagava lungo il braccio, fino al torace.
Quasi senza che se ne accorgesse, Caronte fece scivolare la barca in un piccolo passaggio all’interno delle mura che conduceva a una scalinata in quarzo trasparente. Oltre la scalinata un arco che conduceva nel buio attraverso altre scale di alabastro nero.
Ade osservò quelle tenebre a lungo. Sentiva Caronte sbuffare d’impazienza ma non gli interessava. Nessuna fiaccola illuminava la strada, nessun rumore filtrava da Erebo. Ciò che lo attendeva era solo Oscurità.
Lentamente in cima a quella scala nera apparve una luce, tenue e tremolante come la fiamma di una candela. Avanzava piano, accompagnata da passi leggeri, ma tutto ciò che il cronide poteva vedere era una figura femminile vestita di nero.
È arrivata!” esclamò Menta con un piccolo salto di felicità.
Chi?” Ade ruotò la testa quel tanto che gli bastò per vedere la ninfa con la coda dell’occhio.
Ecate.” Spiegò la ninfa.
La megera, vuoi dire.” Ribattè Caronte con voce arcigna.
Ecate, colei che conosceva l’arte degli incanti. Talmente potente che nemmeno Crono aveva osato sfidare. Si diceva che tra i suoi doni ci fosse perfino quello della preveggenza, anche se non paragonabile a quella delle Parche. Mano a mano che l’arco rivelava la dea, Ade vide una donna vestita di nero con la pelle candida come la luna. La fronte era ampia, il naso perfettamente dritto e gli zigomi pronunciati. Piccoli occhi azzurri rilucevano sopra le sopracciglia folte. Le labbra erano rosee e ben definite. Lunghi capelli neri le ricadevano sulla schiena. Camminava in modo elegante, forse addirittura regale, non distogliendo gli occhi da quelli di Ade.
Ben venuto nel tuo regno Ade.” Disse con voce soffice “Io sono Ecate e sono venuta per farti strada attraverso Erebo.”
Grazie Ecate.” Rispose il dio scendendo dalla barca, seguito dalle due ninfe.
Ecate guardò Caronte che tamburellava i polpastrelli sul remo con impazienza “Puoi andare Nocchiero, non ti trattengo ulteriormente dai tuoi doveri.”
Grazie, Portatrice di Luce.” Rispose con finta riverenza prima di allontanarsi dalla riva.
Ecate condusse Ade attraverso le tenebre del suo palazzo, per gallerie oscure con il soffitto a botte che sembravano bisbigliare al suo passaggio. Parole bisbigliate al vento, non gli sembravano altro, ma in qualche modo sapeva che erano indirizzate a lui. “Cosa sono queste voci?
Le anime dei morti che chiedono misericordia. Le voci di coloro che non si sono ancora rassegnati al loro fato.” Rispose lei continuando a camminare “Con il tempo le sentirai in modo più nitido e imparerai a non ascoltarle più.”
Ade continuò a seguirla fino a quando non rivide la luce opalescente del cielo infernale. Al termine dell’ennesima galleria si trovava uno strano giardino, popolato di marmorei alberi bianchi disposti su due semicerchi, perfettamente speculari l’uno di fronte all’altro. I rami secchi e longilinei si protendevano verso il centro di quello strano luogo creano una lucente ragnatela. In mezzo c’era una fontana di marmo con due statue femminili che reggevano un’anfora da cui sgorgava acqua trasparente. Ai lati dei semicerchi, preceduti da lunghi colonnati, stavano due palazzi circondati da imponenti colonnati. Il palazzo alla destra del dio era nero come la notte e preceduto da una grande scalinata. Era un edificio enorme, tanto austero quanto sontuoso. L’altra costruzione era più piccola ma altrettanto elegante, costruito in marmo rosso scuro e adornata da statue di mostri adagiati sul cornicione superiore.
Cosa sono questi edifici?
Alla tua sinistra, Signore dell’Occidente, si trova il Tribunale delle anime. A destra Erebo, il tuo palazzo.” Rispose la Ecate avvicinandosi alla fontana “E queste sono le fonti dell’oblio e della memoria.
Ade osservò le due statue con più attenzione: erano due giovani donne che si davano le spalle, identiche nella posa e nei drappeggi del chitone. Perfino i riccioli delle acconciature erano uguali. Ognuna reggeva un anfora su una spalla usando entrambe le mani. Le anfore erano l’unica cosa che distinguesse le due figure: strette e con il collo lungo, l’una era fatta di qualcosa che ad Ade sembrò metallo, ma nero e opaco come non ne aveva mai visti, l’altra era in oro scintillante.
Senza dire altro Ecate si avvio verso Erebo. Ade sarebbe rimasto ad osservare tutto ciò che lo circondava ancora e ancora per scoprire la solenne bellezza di quei luoghi, ma sentiva Menta e Leuce fremere per la voglia di tornare nel loro palazzo. Nel suo palazzo. Seguì la dea continuando ad osservare i rami marmorei e chiedendosi se Demetra avrebbe potuto farli germogliare. Probabilmente ne avrebbe avuto il potere, ma tanto né lei né qualcun altro dei suoi fratelli gli avrebbe mai fatto visita.
Ecate guidò Ade per le sale di Erebo. I pavimenti erano freddi, di marmo nero, tanto lucido che il dio poteva vedere la sua espressione riflessa. C’erano alte colonne nere con capitelli ricoperti di foglie di acanto cesellate in oro, tra una colonna e l’altra grandi bracieri in piombo illuminavano le sale con la loro luce bluastra. Il soffitto e i muri più che di pietra sembravano fatti di Oscurità. L’Apotropaia si fermò davanti ad un imponente portone d’oro bianco. Su ogni battente erano raffigurate, con gli stessi metalli delle anfore delle fonti, le fasi lunari. Le porte erano sorrette da travi decorate con motivi floreali, due finte colonne e un timpano severo completavano l’entrata.
Perché non entri?” domandò Ade a Ecate.
Solo al Signore dell’Oltretomba è permesso aprire questa porta.” Rispose.
Non dirmi che nessuno non ci ha mai provato.”
Creature più potenti di quanto immagini hanno tentato, ma nonostante la vastità del loro potere hanno fallito.”
Ade appoggiò le mani sui battenti, sentendo per la prima volta l’intera vastità del suo regno. Prima, durante il viaggio con Caronte l’aveva vista con i propri occhi quella vastità impensabile per ogni creatura della superficie, ma adesso la sentiva nel suo corpo. Percepiva ogni cosa, dalle anime che attendevano Caronte, alle urla di Crono intrappolato nel Tartaro. Il primo istinto fu quello di staccare le mani, ma a cosa sarebbe servito? Che gli piacesse o no lui era Ade, sovrano del Regno dei Morti. Questo era il Fato che gli era stato assegnato, per quanto anche lui avesse fame di vita. Scappare, cerare di rimandare in qualche modo o semplicemente sperare era inutile. Lui sarebbe stato il sovrano di questa terra senza luce e speranza fino a quando la profezia delle Parche non si sarebbe compiuta.
Con decisione spinse le porte che si aprirono con un cigolio rivelando la sala del trono. I passi di Ade rimbombarono nel vuoto, sopra le superfici marmoree. Nessuna finestra faceva trapelare la pallida luce infernale e tutto era un contrasto di bianchi e neri: il pavimento e le colone erano di marmo nero, privo di venature, i capitelli e le basi delle colonne invece erano bianchi, sui fusti delle colonne fili d’avorio si rincorrevano in elaborati torciglioni. Sopra i capitelli, appesi apparentemente nel vuoto, sottili archi acuti in marmo costituivano il soffitto della sala. In fondo alla sala, in cima a una scala, era posizionato un trono in ossidiana: squadrato, liscio, senza fronzoli, senza decori. Due grossi lampadari e numerosi bracieri illuminavano il tutto con fiamme blu. Ovunque regnava il silenzio.
Ade salì sul trono sentendo un improvvisa sensazione di freddo attraversare le vesti mentre Ecate e le ninfe percorrevano con passo leggero l’intera lunghezza della sala. Arrivate ai piedi del trono le tre donne si inchinarono con riverenza.
Il vostro compito è finito.” disse la dea “Potete andare.”
Si, signora.” Risposero le due prima di ritirarsi senza voltare le spalle al nuovo sovrano.
Ade scese dal trono intimando a Ecate di non andarsene. “Tu non sei una creatura di questo regno, o sbaglio?
No.”
Allora perché vivi qui? Perché non hai scelto la Superfice?
È un luogo tranquillo dove nessuno verrebbe a curiosare tra i miei incantesimi.”
Ade sorrise divertito. “So che tra i tuoi poteri c’è la preveggenza.”
Solo le Parche conoscono il futuro, le mie arti mi permettono solo di portare un po’ di luce nelle tenebre.”
Non chiedo altro. Ho accettato il mio destino ma vorrei che mi aiutassi a decifrare la profezia che le Parche mi hanno fatto.”
Potrebbe essere oltre le mie capacità, non mi è permesso vedere tutto.”
Ti chiedo solo di provarci. Questa è la profezia: il regno più vasto il Fato ti ha assegnato, l’unico sovrano tu sarai fino a quando Vita non ti avrà trovato.”
Ecate abbassò gli occhi riflessiva osservando la fiamma calda della torcia. Ammesso che fosse riuscita a decifrare il presagio, come poteva essere certa di non rivelare troppo? “Cosa vorresti sapere?” chiese al dio guardandolo negli occhi.
Solo se devo temere le loro parole.”
Sappi che ciò che mi è concesso vedere è diverso da ciò che mi è concesso rivelare.”
Sta bene.”
In silenzio, Ecate allungò una mano e strappò una ciocca di capelli dietro la nuca di Ade poi, mormorando parole incomprensibili, la gettò nella fiaccola. L’Apotropaia fu circondata da fumo denso ed iniziò a vacillare sui suoi piedi fino a perdere quasi l’equilibrio. Appena il fumo si dissolse parlò di nuovo “Lei non sarà una minaccia, gli Inferi saranno tuoi per l’eternità.” Disse serafica.
Questo è ciò che hai visto?” domandò Ade.
Questo è ciò che mi è stato permesso si rivelare.”

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Capitolo 3
*** Kore ***







Kore vieni, non restare dove non posso vederti.” La voce argentina di Demetra risuonò nella valle fiorita. “Devi stare attenta in queste valli.” La dea tese una mano alla figlia con un grande sorriso.
La piccola Kore si guardò attorno, quella mattina si trovavano in Sicilia, ma non avrebbe saputo dire esattamente dove si trovassero. “Per gli umani madre?” Con loro c’erano una decina di ninfe che avevano il compito di aiutare la dea delle messi nell’esercizio dei suoi compiti, ma per quanto la bambina cercasse non vedeva nessuno oltre a loro.
No Kore: i mortali possono vederci solo se noi lo vogliamo.” Spiegò la dea “Ma qui siamo vicine al lago di Pergusa che è una delle entrate agli Inferi.”
Ma solo i morti possono discendere agli inferi.”
Purtroppo no, bambina mia.” Rispose stringendo di più la mano della figlia. Demetra cercava sempre di non ricordare quel giorno: Estia l’aveva rimproverata a lungo per quei maledetti fiori, forse addirittura per secoli, ma non l’aveva mai ascoltata. La verità era che, dopo il dolore per aver perso il fratello più caro, era arrivata la rabbia: una rabbia furiosa e cieca, che nemmeno il ricordo di Crono era capace di risvegliare. Se ne accorse la prima volta che Ade tornò in superficie: i suoi fratelli non lo notarono, o fecero finta di farlo, ma Ade non era lo stesso uomo che li aveva salutati. Non erano le sontuose vesti scure che lo facevano sembrare ancora più pallido e magro, e nemmeno il suo contegno particolarmente taciturno. Era stato l’odore dolciastro della Morte che lo accompagnava a far capire a Demetra che suo fratello le era stato portato via dal Regno dei Morti. Un Fato che non aveva scelto, ma che importanza poteva avere? L’Ade che aveva amato non avrebbe mai fatto ritorno, lo aveva perso sulle rive del lago di Pergusa “Resta vicino a me, non voglio perderti.”  
Va bene.” rispose gioiosamente Kore trotterellando accanto alla madre. Le due dee raggiunsero un piccolo gruppo di ninfe poco distanti.
Le ninfe al servizio di Demetra erano driadri, sempre allegre e chiacchierecce. Se un mortale le avesse viste tutte insieme, gli sarebbero sembrate tutte identiche: erano tutte bionde, con i capelli morbidamente raccolti da nastri, ognuna aveva gli occhi azzurri, la pelle candida e le guance rosee. Ma gli occhi degli dei erano capaci di vedere le piccolissime differenze che le rendevano l’una diversa dall’altre. Il loro compito era preparare i semi da far benedire alla dea per rendere fertile la terra: ognuna di loro aveva portato un sacchetto con un tipo diverso di semi: erba, fiori o alberi da frutto che si sarebbero dispersi per tutta la regione, per tutta la Sicilia se il rito fosse venuto particolarmente bene.
Kore osservava le ninfe muoversi con leggiadria, i loro movimenti erano leggeri come quelli dei fiori accarezzati dal vento. Ognuna di loro aveva posato un piccolo coccio colmo di semi per terra disegnando un cerchio perfetto, al centro del quale stava la dea delle messi con le braccia alzate mentre recitava le formule segrete dei suoi misteri. Appena ebbe finito i semi splendevano di energia divina: la dea e le ninfe presero in mano un lembo del chitone per raccogliere i semi e spargerli nei dintorni.
Kore, vieni ad aiutarmi.” La bambina iniziò a correre prima che Demetra ebbe finito la frase. Appena raggiunta la madre sollevò la tunica come aveva visto fare ed aspettò che fosse riempita di semi con un sorriso che partiva da un orecchio ed arrivava fino all’altro. “Resta dove posso vederti.” Disse ancora una volta Demetra con un sorriso, la bambina annuì e poi trotterellò via. Dopo qualche passo iniziò a inserire i semi nella terra: con la mano libera scavava per qualche centimetro, poi posava delicatamente il seme e lo ricopriva con la terra. Demetra le aveva insegnato a far germogliare le piante appena Kore aveva iniziato a camminare e lei era diventata brava quasi quanto la madre, ma il suo vero talento erano i fiori: che fossero su un fragile stelo o su un alto albero di albicocche, le bastava passarci vicino per farli sbocciare
Kore stava per finire i semi quando non vide una fila di narcisi neri. Una folata di vento gelido portò via gli ultimi semi. Kore li osservò tornare indietro con la consapevolezza di averli persi per sempre. Adesso le restava solo il seme che aveva in mano. Kore cercò con gli occhi la madre, si era allontanata più di quanto aveva immaginato perché la dea era diventata una figurina chiara sotto il sole, per cui decise di raggiungerla prima che Demetra si accorgesse della sua assenza. La bambina non fece in tempo a fare tre passi che una nuova folata di vento gelido le sollevò la gonna, questa volta parve addirittura sussurrarle qualcosa all’orecchio. Una parte più curiosa di lei avrebbe voluto fermarsi per coprire cosa dicesse quel sussurro, ma doveva tornare da sua madre quindi ricominciò a camminare. Ma, di nuovo, dopo tre passi tornarono il vento gelido ed il sussurro incomprensibile, allora la bambina si fermò sbuffando.
Va bene, va bene! Cosa mi volete dire?” esclamò stizzita “Se questo è lo scherzo di un satiro non affatto divertente!
Per qualche minuto tutto fu silenzio, poi il vento si alzò di nuovo e Kore ebbe l’impressine che a parlare erano i fiori. Incurante del vestito si mise a carponi, abbassandosi fin a quando il naso non sfiorò la corolla. Il profumo era così intenso che in un primo momento il naso di Kore si arricciò infastidito, ricordava l’odore dei gelsomini piuttosto che quello dei narcisi. “Cosa volete dirmi?
Dopo aver aspettato inutilmente una risposta Kore si rialzò. Avrebbe tanto voluto tornare da sua madre, ma sentiva che quei fiori parlavano con lei e non poteva semplicemente voltare loro le spalle e tornarsene sull’Olimpo come se niente fosse. Una giorno Atena le aveva detto di non ignorare mai il suo istinto di dea; lei era la dea della saggezza per cui Kore non aveva mai dubitato della bontà di quel consiglio. La giovane dea alzò gli occhi e vide che i narcisi neri erano disposti lungo una fila precisa che si inoltrava in un bosco. Si girò un ultima volta verso la madre che sembrava ancora impegnata con le sue mansioni, se fosse andato tutto bene avrebbe scoperto dove portava il sentiero di fiori senza che Demetra la scoprisse. Così la piccola Kore si avventurò nell’ignoto lasciando una scia di fiori colorati alle sue spalle, ma appena li oltrepassava i narcisi neri scomparivano nel terreno e di loro restava solo quel persistente odore dolciastro.
 
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Quando Demetra iniziò a cercare Kore il sole aveva appena passato mezzogiorno. Di solito non perdeva mai d’occhio la figlia, ma fecondare la terra nei dintorni del lago di Peregusa aveva richiesto molto più impegno del previsto. All’inizio non si era preoccupata, dopo tutto bastava seguire la scia di fiori appena sbocciati che Kore creava con i suoi passi, ma mano a mano che camminava la paura era cresciuta ad ogni passo: dalla radura era arrivata ad un piccolo bosco e da lì alle rive del lago dalle acque viola.
Ancora al limitare del bosco, aveva chiamato la figlia più e più volte, urlando il suo nome con tutta la voce che aveva in corpo, ma di Kore nessuna traccia. Allora aveva iniziato a seguire il sentiero di fiori fino ad una breccia tra il regno dei vivi e quello dei morti. Lì le tracce finivano nel nulla.
Le gambe di Demetra persero ogni forza e la dea si accasciò come un sacco vuoto.
Nessuna lacrima nei suoi occhi, solo una rabbia tale che solo Era avrebbe potuto capire.
Perché l’Oltretomba doveva rubarle ogni cosa?
Ade, tutto ciò che faceva germogliare sulla terra ed adesso anche la sua Kore. 
Ma questa volta non sarebbe stata inerte mentre le strappavano via il cuore. Questa volta anche il Fato si sarebbe dovuto piegare alla volontà della Dea delle Messi.
 
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Kore avrebbe voluto tornare in Superfice. Sapeva che sua madre sarebbe sicuramente stata in pensiero per lei, e già sentiva la ramanzina che le avrebbe fatto appena fosse tornata sull’Olimpo. Sarebbe stata in castigo per i prossimi cento anni, se non mille!
Il problema era che per quante volte provasse a tornare sui suoi passi o a svoltare in quelle gallerie oscure, sentiva che continuava a scendere. Per un po’ aveva sentito la presenza delle piante attraverso le radici, ma ben presto anche quella sensazione famigliare era sparita. La roccia umida era diventata una pietra scura e liscia. L’aria era fredda ma soffocante, e aveva lo stesso odore dolciastro dei narcisi neri che aveva visto in superfice. Piccoli fuochi blu illuminavano i suoi passi, ma non emanavano alcun calore e quando si voltava vedeva che si spegnevano appena li oltrepassava. Così Kore non aveva altra scelta che seguire quelle gallerie strette, strette sperando che la portassero ad un’uscita.
Quando la galleria si aprì davanti a lei affrettò il passo, ma appena vide dove portava fu paralizzata dalla paura.
Davanti a lei una riva infinita di sabbia fine e nera, un fiume viola scuro che sembrava largo quanto un mare ed un celo rosso sangue privo di nuvole e senza luce. Ma quel paesaggio spettrale non era nulla al confronto delle creature che lo popolavano: una serie di innumerevoli figure nere e trasparenti al tempo stesso si accalcavano sulla riva in attesa di qualcosa o di qualcuno. La dea aguzzò i propri sensi ma non percepì nulla di vivo in quelle figure, anzi più le osservava e più si convinceva che fossero le anime dei morti.
Kore decise che tornare indietro, anche al buio, sarebbe stato meglio di cercare di valicare il fiume assieme a quelle … cose. Ma la galleria, e perfino la roccia nera che l’avevano contenuta, erano sparite. Ingoiando la propria saliva e stringendo al petto l’ultimo seme che le aveva dato sua madre iniziò a camminare sulla rena nera.
Le prime anime che incontrò la ignorarono, altre sembravano non vederla nemmeno, alcune la lasciavano avvicinarsi al fiume mormorando nomi. Forse quelli che gli erano appartenuti un tempo o chiamavano coloro era rimasto in vita, non avrebbe davvero saputo dirlo. Solo dopo Kore vide che tutte avevano gli occhi chiusi da monete d’oro, ma il brivido di ribrezzo che le percorse la schiena a questa scoperta non fu nulla in confronto alla paura che l’assalì quando incontrò le prime anime che non avevano sprovviste delle monete.  
Queste le si avvicinarono con le mani in avanti, come se fossero degli assetati e lei l’unica fonte d’acqua che incontravano dopo giorni di deserto, i loro movimenti erano innaturalmente lenti e quasi scoordinati, ma loro voce era unica. “Dacci l’oro!
Kore mostrò i palmi aperti “Non porto oro! Ho solo questo seme con me.” Disse tremante, ma le anime non sembrarono sentirla. Forse non riuscivano a capirla? Continuavano a chiederle l’oro mentre si avvicinavano inesorabili. Kore scappò fino a quando la sabbia scura non lasciò posto al fiume. “Vi ordino di fermarvi!” urlò dopo un ultima occhiata alle acque tetre. “In nome di Demetra e Zeus fermatevi! Io sono Kore, figlia della Dea delle Messi e vi ordino di fermarvi!” Una parte di lei voleva attraversare quel fiume a nuoto, ma sentiva solo Morte, nessuna Vita, venire da quelle acque. Così chiuse gli occhi, aspettando che le ombre la prendessero.
 Rimase immobile, con gli occhi sbarrati e il cuore che batteva talmente forte da sovrastare le voci di quelle anime disperate ma nessuna le si avvicinò. Esitante aprì prima un occhio e poi, quando fu sicura di non essere in pericolo, l’altro. Le anime erano tutte ferme, in cerchio attorno a lei; immobili, paralizzata da qualcosa che non capiva. Fu solo quando si voltò che vide la causa fi quell’inaspettato miracolo. Un vecchio dalla barba ispida e gli occhi rossi che stava impiedi su una zattera dall’aspetto poco sicura.
La Strega aveva ragione anche questa volta!” la voce dell’uomo era arcigna, le labbra piegate in una smorfia a metà tra la sorpresa e il disgusto.
Chi sei?
Il mio nome è Caronte, Despina. Il mio compito è traghettare le anime.”
Sono davvero negli Inferi quindi?” Non era una vera e propria domanda, sentiva che l’unica cosa viva in quel luogo era il seme nelle sue mani, ma il vecchio rispose ugualmente.
Si Despina.” Adesso poteva sentire una forma di rispetto nella sua voce, una certa riverenza. Ma non ci fece troppo caso, dopotutto era la figlia di Demetra e questo doveva pur valere qualcosa anche nell’Oltretomba.
Perché non mi hanno fatto niente?
Perché voi siete Despina e loro non posso farti del male, le leggi degli Inferi lo impediscono.”
La bambina sbatte il piede destro a terra in un gesto di frustrazione. “Smetti di chiamarmi Despina! Io mi chiamo Kore, figlia della dea Demetra!
Eppure siete Despina e Despina sarà come vi chiamerò. Se volete farmi l’onore di salire sulla mia zattera vi porterò da Ecate come mi è stato chiesto.”
Ma io voglio tornare in superficie.” Non di certo restare in quel regno di morte e incontrare altri suoi abitanti. Lei portava la vita, non era quello il suo posto.
Io possono solo attraversare questo fiume, non è mio compito riportarvi in superficie.”
E sarebbe compito di Ecate?
Non lo so Despina, ma se volete tornare indietro vi servirà il permesso del Signore degli Inferi il cui palazzo si trova sull’altra riva.”
Un brivido gelido percorse la schiena di Kore: non aveva mai incontrato il maggiore dei Figli di Crono, di lui sapeva solo quello che le aveva detto sua madre ed era abbastanza perché lei non volesse nemmeno pensare il suo nome. Chissà come stava in pensiero Demetra in superficie! Però la strada che aveva seguito per arrivare lì era sparita, l’orizzonte di sabbia nera era perfettamente liscio ovunque guardasse. Doveva tornare per sua madre, o almeno farle sapere che stava bene, e per farlo doveva salire su quella zattera malconcia e incontrare il Signore dell’Oltretomba. Con riluttanza salì sulla zattera di Caronte interrompendo un suo sbuffo di impazienza.
State lontana dall’acqua, Despina, è popolata da quegli stolti che hanno cercato di attraversare lo Stige senza pagare il pedaggio.”
Servono a questo le monete d’oro?” domandò cercando in vano un posto dove sedersi.
Esattamente.” Con una vigorosa spinta la zattera si allontanò dalla riva
 “Ma io non ho oro da darti. Però posso darti un seme se lo vuoi, è l’unica cosa che ho.”
A voi non chiederei mai di pagare il pedaggio, Despina. E poi non saprei cosa farmene di un seme. Nulla cresce negli Inferi, qui le cose decadono e basta.”
 
 
 
 
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE: ok, non so come scusarmi per aver sospeso questa storia per tanto tempo e so che un capitolo così corto è una magra consolazione. Però la verità è che di tempo e concentrazione per scrivere non ne ho avuto molto.
Adesso, per dimostrare che non mi sono completamente dimenticata di Ade e Persefone in questi anni, mi conviene spiegare da dove nasce il termine despina con cui Caronte si riferisce a Persefone.
Il culto di Demetra e Persefon è generalmente associato ai misteri eleusini, ma ci sono tracce di un culto più antico celebrato in Arcadia durante l’epoca micenea in cui le due dee erano venerate congiuntamente con l’appellativo di le signore. In questo rito non ci sono tracce di Ade (in realtà non ci sono proprio tracce di Ade nella civiltà micenea ma è un discoro). In questo periodo a Persefone è affidato il titolo di despina, la Signora. Più che un nome è un titolo perché solo gli affiliati al culto potevano chiamare la dea con il suo vero nome, come kore è usato per identificare Perdefone nella parte del mito antecedente al rapimento. Perché nominare una divinità dell’oltretomba poteva attirare attenzioni indesiderate e condurre a una brutta fine.
Lezione di storia finita, spero che la storia vi sia piaciuta e che non siate troppo in collera con me. Chiedo scusa per l'impaginazione meno curata ma il mio account di phptpbucket ha smesso di funzionare e devo trasferire tutti i banner e i divisori di testo su un altro sito di hosting. E immagino sia ovvio che ho un piccolo problema di procrastinazione.
Vi ricordo che le recensioni sono sempre gradite e che mi piace sapere cosa pensate.
Grazie per la pazienza e per avermi letto.
A presto
Aris.

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