Momento

di Erede
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cronofobico ***
Capitolo 2: *** Maschere rosse ***
Capitolo 3: *** Senza parole ***



Capitolo 1
*** Cronofobico ***


Ticchettava.
Sempre. Ticchettava e ticchettava sempre. Non smetteva di ticchettare. Lo sentivo. Ogni momento, in continuazione, ogni secondo, ogni ora, ogni notte, ticchettava.
I rintocchi rimbombavano nella mia testa, non li sopportavo, erano come tuoni assordanti.

Quando il pendolo del primo orologio aveva iniziato ad infastidirmi, avevo pensato che fosse giusto perché c’era silenzio nella stanza ed io avevo bisogno di concentrarmi sul mio lavoro e sulle mie ricerche. Ho iniziato a bloccare l’orologio quando dovevo lavorare, ma ben presto decisi di bloccarlo definitivamente.
 Ero nervoso quel giorno, anzi ero nervoso tutti i giorni. Presi la pistola dal cassetto, il tamburo già pieno di pallottole, e sparai. Un colpo. Un altro. Tre colpi. Quattro. Svuotai l’intero caricatore sull’orologio, ma anziché essere rilassato ero ancora più furioso. Tremavo. Quegli spari così forti, così insopportabili mi fecero perdere il senno. Lascai cadere la pistola sul pavimento di legno. Nei giorni seguenti provai a dimenticare, ma non riuscii ad ingannare la memoria.
Distrussi tutti gli altri orologi della casa sparandoli con la pistola, colpendoli con un’ascia o con qualsiasi cosa avessi in mano. Avevo smesso di mangiare e l’unica cosa che bevevo era l’alcol. Per giorni non cambiai  i vestiti che indossavo, rimasi con il mio camice da dottore, non più bianco come un tempo. Da quando ero tornato non avevo più pazienti da molto tempo, nessuno del villaggio veniva più nel mio studio, neanche per un semplice consiglio. Ero solo. Da solo contro quel rumore insopportabile.

Era sempre più forte. L’ultimo giorno, passai gli ultimi minuti dell’ultima ora a cercarlo. Girai in lungo e in largo, misi la casa a soqquadro, ma non trovai niente. Controllai nella tasca del mio panciotto, ma il mio orologio da taschino era fuori uso, eppure il ticchettio continuava, sempre più forte, sempre più veloce, sempre più vicino.
Infine lo trovai. Vidi lo stetoscopio sul tavolo, fra gli altri strumenti del mio mestiere e mi resi conto di quale fosse l’ultimo ticchettio da spegnere. I rintocchi aumentarono, velocissimi.
Mi puntai la pistola al petto e premetti il grilletto.
 

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Capitolo 2
*** Maschere rosse ***


Avevo cavalcato per miglia e miglia verso orizzonti misteriosi, senza mai voltarmi a guardare indietro.

Il cavallo resistette per giorni anche quando l’acqua terminò, ma l’ultima volta che provai a salire sulla sella, cadde e non riuscì più a rialzarsi. Dovetti abbatterlo con gli ultimi colpi della mia pistola, stando attento a conservare una pallottola per me. Pensai di usarla subito e farla finita, ma la fame prevalse.
Macchiandomi le mani, il viso e i vestiti consumai il mio pasto. Chino sulla carcassa, masticavo la carne cruda e gommosa mentre il sangue gocciolava dal mio mento. La cottura avrebbe fatto evaporare i liquidi. Tutto ciò che c’era di umano in me era stato espulso insieme al sudore della mia pelle.
Caddi all’indietro sull’erba e rimasi steso in posizione supina per un tempo che la mia mente non riuscì a misurare. Avevo la nausea. L’idea di utilizzare l’ultimo proiettile mi stava passando per la testa quando sentii un galoppo lontano.

La tribù era in marcia e io dovevo stare al passo. Non so, forse mi avevano aiutato perché gli ero sembrato selvaggio come loro, ma sono sicuro che se avessero saputo quanto li odiavo mi avrebbero lasciato lì a morire.
Di indiani ne avevo visti (ed uccisi) tanti, ma come quelli non ne avevo mai incontrati.
Le mie conversazioni con loro erano brevi, essenziali e fatte di gesti. Tutto il tempo che trascorrevo da solo, lo impiegavo per osservarli e studiarli.
Indossavano tutti delle maschere colorate, alcune di pelle e piume, altre di legno e una sera avevo addirittura intravisto qualcuno che indossava il teschio di un bisonte. Io ero l’unico che stava a volto scoperto. Un altro dettaglio che mi sorprese fu che ognuno di loro possedeva un orologio da taschino, rubato da qualche carovana nelle praterie, eppure scoprii che nessuno di loro sapeva leggere l’ora. Alcune lancette, addirittura, mancavano o erano spezzate. L’unica che loro ritenevano indispensabile era quella dei secondi.

Solo quando decisero di accamparsi vicino un fiumiciattolo ebbi l’occasione di progettare la mia fuga. Da quel che ero riuscito a capire, il gruppo doveva ricongiungersi con altre tribù e poi ripartire verso “Mato Tipila”. Non potevo restare. Preferivo morire che vivere con gli indiani.

Sopra le colline calava la notte quando mi allontanai di corsa dal campo e risalii il fianco di un’altura ricoperta di alberi. Man mano che l’oscurità aumentava, le forme si distorcevano e le mie tracce sparivano. Un rivoltante fetore aleggiava per il bosco ma non me ne preoccupai finché non scoprii la sua natura: legati ai tronchi di alcuni alberi, seduti o in piedi, c’erano corpi in decomposizione. Per un attimo pensai di essermi suggestionato, che le ombre mi stessero giocando brutti scherzi, ma non era così. Mi chinai accanto ad un cadavere per esaminarlo e notai che indossava un abito da donna, ma quando mi rialzai di scatto, disgustato, vidi tutti loro: decine e decine di figure alte la metà di me che indossavano teschi rossi di bisonte.
Ero terrorizzato. Non era la morte a spaventarmi, ma le maschere, tutti quegli occhi vuoti che mi scrutavano in silenzio e si muovevano nell’oscurità e, in fondo al bosco, una figura alta con una grande gobba e due grosse corna avanzava impietosa verso di me. Distinguerla era impossibile.
I portatori delle maschere si scansavano in silenzio al suo passaggio. Scivolai contro un albero, il mio corpo si rifiutava di muoversi. Tremai e piansi e mi coprii il viso con le mani finché non sentii il suo respiro pesante e decine di piccole mani che mi trascinavano nell'oscurità.

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Capitolo 3
*** Senza parole ***


La razza umana era sul piede di guerra. Si stava per combattere la più grande battaglia di sempre contro il nemico più terribile che la specie avesse mai dovuto affrontare. La minaccia era sempre stata lì, nascosta in bella vista, sotto la luce del sole, ma nessuno ci aveva mai fatto caso.
La guerra non avrebbe risparmiato nessuno e sarebbe durata in eterno. Nessun individuo e nessun luogo sarebbe stato al sicuro. La minaccia era ovunque. L’unico modo per sopravvivere sarebbe stato combattere.
Ma qualcosa sventò la guerra. Qualcosa tramutò il nemico in un prezioso alleato. Quella che era una terribile minaccia divenne un prezioso tesoro.
Fu in quel tempo lontano che gli umani si trovarono di fronte ad una scelta: combattere gli uni con gli altri o coalizzarsi. Grazie al potere della parola, ogni essere umano scoprì l’importanza di collaborare con i propri simili. Fu allora che ognuno si accorse che gli altri erano una risorsa e non un pericolo.
Da allora l’umanità ha conosciuto solo progresso. Abbiamo anche combattuto fra di noi, sì, ma ciò non ha fermato il nostro avanzamento. E’ così che oggi godiamo di grandi invenzioni come il treno, il telegrafo, o addirittura la macchina fotografica. Tuttavia, la parola resta l’invenzione più potente di sempre.

Parole. E’ di questo che mi occupo.
Più devastanti di un colpo di cannone, delicate come i petali di un fiore, taglienti come una lama, pesanti, profonde, solenni, sagge o sciocche, ve ne sono di ogni tipo. Possono confortare e guarire o anche ferire e addirittura uccidere.
Chi governa le parole governa il mondo intorno a sé.
E’ governando le parole che sono riuscito a convincere lo sceriffo di uno sperduto villaggio di frontiera a concedermi la migliore abitazione del luogo. Pare che appartenesse ad un vecchio dottore, morto per la pazzia e per un colpo sparatosi al cuore. Ho fatto leva sulla superstizione dei cittadini e sul fatto che nessun altro avrebbe mai comprato una casa il cui proprietario abbia subìto un destino così tragico.
Io avrei potuto convivere con la maledizione di quella casa. Per tutta la mia vita non mi sono mai trovato bene con i vivi e lo spirito di un morto non mi spaventava.
I miei capelli erano diventati grigi da molto tempo, ormai. Tutto ciò che desideravo era godermi un po’ di pace e conforto nella scrittura in un territorio selvaggio come la frontiera, finché le mie gambe avessero retto la mia esistenza amara.

Tuttavia, io morì.
Due giorni dopo il mio arrivo, ero morto. Non sono mai stato spaventato dalla morte, piuttosto dalla modalità. Il destino volle che mi sparassi al petto, come il dottore dei racconti. Non fu doloroso. Non fu triste. Fu solo “plateale”. Accadde nella piazza del villaggio, sotto gli occhi di tutti.

Le urla ed il caos raggiunsero la mia abitazione ed io scesi di corsa a vedere cose stesse accadendo. Pioveva, quel giorno, il cielo era grigio e tirava un forte vento. Mentre la folla accerchiava il mio corpo fradicio di pioggia e sangue, io correvo verso il punto in cui ero morto. Lo stetson stretto sul capo grondava d’acqua ed io mi stringevo il fazzoletto intorno al volto per proteggermi dal freddo. Il mio volto si deformò in un’espressione di orrore alla vista del mio cadavere. Nessuno fece caso a me. Al me in piedi, intendo. Tutti fissavano il corpo per terra. Solo quando lo sceriffo arrivò ed iniziò ad allontanare i curiosi, io ebbi la possibilità di esaminare da vicino il mio corpo.
I baffi, gli occhi incavati, il viso magro e stanco, i vestiti che indossava, tutto era uguale. Sembrava il mio fratello gemello. Nella mano sinistra teneva un orologio da taschino. Mi chinai e lo aprì. Era guasto. L’unica lancetta presente si era fermata.
Mi rialzai, confuso, spaventato ed infreddolito e lanciai un’ultima occhiata al mio corpo.

Il mio tempo era finito? 

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