Tu Sei La Mia Vita

di Lanonimoscrittore93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Eleonora I ***
Capitolo 2: *** Sam I ***
Capitolo 3: *** Eleonora II ***
Capitolo 4: *** Sam II ***
Capitolo 5: *** Eleonora III ***
Capitolo 6: *** Sam III ***
Capitolo 7: *** Eleonora IV ***
Capitolo 8: *** Sam IV ***
Capitolo 9: *** Eleonora V ***
Capitolo 10: *** Sam V ***
Capitolo 11: *** Eleonora VI ***
Capitolo 12: *** Sam VI ***
Capitolo 13: *** Eleonora VII ***
Capitolo 14: *** Sam VII ***
Capitolo 15: *** Eleonora VIII ***
Capitolo 16: *** Sam VIII ***
Capitolo 17: *** Eleonora IX ***
Capitolo 18: *** Sam IX ***
Capitolo 19: *** Eleonora X ***
Capitolo 20: *** Sam X ***
Capitolo 21: *** Eleonora XI ***
Capitolo 22: *** Sam XI ***
Capitolo 23: *** Eleonora XII ***
Capitolo 24: *** Sam XII ***



Capitolo 1
*** Eleonora I ***


Ero arrabbiata con il mondo intero. Mio padre aveva deciso di risposarsi. Odiavo quella oca! Voleva solo i soldi di mio padre. Lui era un artista famoso. Pensava solo alla sua arte e a divertirsi con la sua giovane e sexy conquista. E io? Non pensava mai a me, ero quasi un peso per lui. Per fortuna c'era mia madre, lei si che ci teneva a me, ma purtroppo era sempre impegnata con il suo lavoro, per questo non vivevo con lei, fino a oggi. Dopo che papà si era sposato con quella oca, non volevo stare un minuto di più in quella casa con loro, così decisi di trasferirmi da mamma. Era entusiasta di avermi in casa con lei, ci vedevamo così poco, lei aveva i suoi impegni e io avevo la scuola. Mi ero appena trasferta nella sua piccola casetta, era un posto pieno di libri e molto triste, e lei non c'era mai purtroppo.
Oltre a strasferirmi da lei, mamma era riuscita a farmi ammettere nella scuola più prestigiosa della città. In quella scuola ci andavano persone ricche. Quando dico ricche, non intendevo persone che guadagnavano dai 5 ai 10 mila al mese, parliamo di persone che possono arrivare a guadagnarne 100 mila all'ora, queste si che erano persone ricche! Mia madre guadagnava bene, ma non così tanto, neanche mio padre, e lui guadagnava tanto!
Come ho fatto ad essere ammessa vi starete chiedendo, semplice! Lei e il preside erano grandi amici d'infanzia. Mi sentivo una raccomandata. Avevo anche discusso con lei al riguardo, ma diceva che non c'era nulla di male e poi il preside le doveva un favore. Che favore?! Andavano a letto insieme per caso? Era irremovibile, non mi voleva dire che favore le doveva il preside. Sapevo che mi nascondeva qualcosa.
Quando riuscì a convincermi? Quando mi descrisse la scuola. Mi ricordava una di quelle scuole che avevo letto sui miei adorati libri. Erano la mia vita e i miei unici amici.
Mi aveva anche raccontato che era una struttura antica ed era una delle tante ville che appartenevano alla famiglia fondatrice, che in seguito avevano convertito in una scuola privata. Be', più che villa sembrava buckingham palace. C'erano una miriade di quadri e armature antiche, speravo che ci fossero dei passaggi segreti, tanto per divertirsi un po'. C'erano un mucchio di materie interessati, anche extra. C'era il meglio del meglio, di lì si usciva più intelligenti che mai. Non vedevo l'ora.
Si doveva indossare una divisa in questa scuola, dove stava la sfortuna? Dovevo indossare una gonna con le pieghe, calzettoni e delle scarpe ridicole da bambola dagli orrori che indossavano solo le bambine piccole, neanche sapevo come si chiamavano. 
Mentre tiravo fuori le mie cose dagli scatoloni, mia madre era dovuta scappare via per andare al lavoro, un emergenza diceva. Diceva sempre così. Poteva stare un giorno intero via senza dare notizie di sé. Per la rabbia lasciai stare le mie cose e uscii, nella speranza di non perdermi. Io e il mio scarso... che dico! Inesistente senso dell'orientamento. Riuscivo a perdermi anche in una strada dritta. 
Raggiunsi un parco. Credo di esserci stata una volta, credo... Mi piaceva tanto il verde, era così bello e pacifico, almeno quando non c'era troppa gente che faceva solo chiasso. Decisi di stendermi sull'erba. Era una bella giornata, il cielo era limpido e senza nuvole e gli uccellini cinguettavano...
Cavolo! 
Senza rendermene conto mi ero addormentata. Tipico. Guardai l'ora ed erano le sette di sera. Se mamma era tornata a casa mi avrebbe ucciso e poi ero anche uscita senza telefono. Un'altra cosa tipica di me. Non potevo essere normale come gli altri? No, eh?! 
Mi alzai e iniziai a correre, sperando che fosse la direzione giusta e di non inciampare nel nulla come al mio solito, quando ad un tratto, vidi qualcuno appoggiato a un albero che stava piangendo. Mi fermai di colpo. Era un ragazzo, e stava piangendo. Perché? Cosa gli era successo? Sperai tanto che non fosse nulla di grave.
Me ne stavo lì imbambolata a fissarlo, era così bello, nonostante le lacrime. Aveva dei bei capelli corvini, credo che fossero tinti. Aveva dei bei lineamenti, erano così raffinati, probabilmente veniva da una famiglia molto ricca. Quelli sono così belli di solito. Non sempre, eh! Per fortuna anche da lì uscivano i mostri. La cosa mi consolava sempre. Tornando a lui. Be', che dire... era vestito completamente di nero. Forse era in lutto. Quei vestiti gli stavano così bene, era da mozzare il fiato. Aveva un fisico snello e atletico, aveva tutto al punto giusto, e poi... era così tenebroso e misterioso.
Come alcuni personaggi dei miei libri! Calma ragazza, tu leggi troppo, mi rimproverai mentalmente.
Cercai di avvicinarmi a lui per chiedergli se andasse tutto bene. Mi fermai un'altra volta di colpo. Si era accorto di me. Mi fissava con i suoi occhi intensi. Erano così belli, di un blu intenso. Poi fece una cosa che non mi sarei mai aspettata. Mi indicò con l'indice della mano destra, per poi fare il gesto di sgozzarsi.
E quello cos'era?! Voleva tagliarmi la gola? Per cosa poi, per averlo visto piangere? Era ufficiale, quel ragazzo non mi piaceva più, anzi, mi stava proprio antipatico.
Arrabbiata me ne andai per la mia strada, lasciando quello sconosciuto maleducato a piangere. Che m'importava! Probabilmente era uno psicopatico. Con la fortuna che avevo poi. E anche se fosse stato normale, una come me non gli sarebbe piaciuta per niente al mondo. Ero scialba, così mi dicevano alle spalle. Mi dicevano di tutto nella mia vecchia scuola, insomma, ero una sfigata! La moda era mia nemica e odiavo farmi vedere, mi vergognavo, così avevo adottato la tattica dei vestiti larghi, cosicché nessuno mi notasse, be', si faceva per dire. Anche quella oca della mia matrigna mi diceva che ero scialba e non avevo un minimo stile. Be', almeno io avevo la decenza di mettermi qualcosa addosso! Quando stava a casa nostra non conosceva la parola indossare vestiti, no la signorina doveva camminare nuda per mostrare il suo nuovo seno che gli aveva regalato papà. Come lo chiamava? Pegno del suo amore. Bleah. Stupida oca spilla soldi. 
Quando miracolosamente tornai a casa, mia madre era lì che mi aspettava. Aveva l'aria rilassata, il ché voleva dire: guai in vista. Mi fece la solita ramanzina; che ero irresponsabile; che non mi portavo mai il telefono dietro; che non avvisavo mai; che non stavo attenta a dove andavo; che mi perdevo sempre e la lista continuava. Cara mamma, esiste una sola parola per definire tutto ciò, anche più nel mio caso. Sbadata! Sì, ero sbadata e goffa. Cadevo senza niente, come se l'aria mi facesse lo sgambetto. Non era mica colpa mia se ero così, dico bene?

Era il fatidico giorno, stavo per iniziare la scuola, nuova vita, e nuovi compagni che mi avrebbero snobbata e derisa, tanto per cambiare. Questa volta era tutto diverso, stavo andando in una delle scuole suole più prestigiose del paese, dove tutti erano abituati al lusso più assoluto, probabilmente venivano tutti in auto che costavano più di casa mia. Ero agitatissima. Come al solito non avrei fatto nessuna amicizia e i ragazzi carini non mi avrebbero guardata minimamente, non in quel senso almeno. 
Neanche quel psicopatico mi avrebbe guardata in quel senso. Cercai di riprendermi dai miei sciocchi pensieri prendendo un bel respiro. 
Questa mattina, visto che era il mio primo giorno mi accompagnò mamma a scuola. Vederla in foto era un conto, ma dal vivo era un altro. Era stupefacente, da lasciarti a bocca aperta e io ci restavo sempre. Ora che ci pensavo... credo di essere rimasta a bocca aperta quando avevo visto quel ragazzo... ma che m'importa!?
Riprenditi Eleonora! 
Mamma non entrò a scuola, per mia fortuna. Rimase fuori dal cancello a fissarmi mentre entravo, neanche fosse il mio primo giorno d'asilo.
Mamma, avevo diciassette anni, no cinque!
Wow, fu l'unica cosa che riuscì a pensare quando entrai nell'edificio. Questa scuola era così sfarzosa. Su ogni pavimento c'era un tappeto rosso -sicuramente costosissimo- c'erano quadri di ogni genere e dimensione dall'aria antica. C'erano anche le armature! No, ero entrata dentro un libro per caso? Se è un sogno non svegliatemi. Be', conoscendomi, più che sogno, poco probabilmente ero inciampata nel nulla e avevo sbattuto la testa finendo in coma. Che pensieri teatrali che ho. 
Camminavo senza una meta, quel posto era pieno di porte, fortuna che conoscendomi mamma mi aveva dato una piantina. Di botto mi fermai. Era lui! Lo psicopatico!

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Capitolo 2
*** Sam I ***


Per l'ennesima volta ero scappato via da tutto e da tutti. Il mio punto di sfogo era questo insulso parco e questo vecchio albero che mi faceva da ombra. Ero patetico. Le lacrime non volevano smetterla di scendere. La mia vita era uno schifo. Mia madre era morta quando avevo solo sei anni, una brutta malattia se l'era portata via. Restavamo solo io e mio padre.
Da sempre avevo avuto il cuore debole. Io ero debole. Con il tempo ero peggiorato. Sei mesi fa il mio medico, la dottoressa Grace, non che amica d d'infanzia di mio padre, mi aveva annunciato che mi restava solamente un anno di vita. Praticamente un pugno nello stomaco. Alla fine era quello che aspettavo, la morte. Non avevo avuto niente di buono dalla vita, forse i soldi, ma quelli non ti davano la cura per la felicità. La felicità era altro, qualcosa che a me era sconosciuta. Mio nonno, il mio unico rifugio, se n'era andato qualche anno fa. Mi restava solo mio padre. Lui però era distrutto dal dolore. Povero uomo, quante perdite doveva subire ancora?
Probabilmente papà e la dottoressa Grace mi stavano cercando, come ogni volta d'altronde. Cosa credevano, che mi suicidassi? Magari, mi risparmierei molto di quel dolore che mi sarebbe aspettato prima della mia imminente morte. La mia esistenza era inutile. Andavo in giro senza una meta. A scuola ero un disastro, nonostante avessi un quoziente d'intelligenza alto. Non studiavo mai, arrivavo in classe quando mi faceva più comodo e non seguivo mai le lezioni, più che altro sonnecchiavo, ero sempre così stanco. Poi quando mi svegliavo, prendevo e me ne andavo via, le lezioni erano sempre così noiose. Tutta la scuola era noiosa. Erano tutti degli snob presuntuosi, che si atteggiavano, solo perché avevano qualche centinaio di soldi in più rispetto agli altri e andavano in una delle scuole più prestigiose. Volevano tutti essere miei amici perché la scuola era di mia proprietà. Come cadeva in basso certa gente, a che scopo poi?! Volevano la mia amicizia per cosa? Un voto più alto? Crediti extra? Cosa!? Mi facevano tutti schifo. Erano solo dei leccapiedi presuntuosi sensa un minimo di personalità. Anche i professori lo erano, mi facevano fare tutto quello che volevo, solo perché ero il figlio del preside. Mio padre invece mi accontentava in tutto, solo perché ero un morto che cammina, che cosa deprimente.
Ero solo, non avevo amici. Da quando era morta mia madre mi ero chiuso in me stesso. Con mio nonno invece potevo essere me stesso, lui mi voleva bene così com'ero, non gli importava se mi sentivo un ragazzo invece di una ragazza, diceva sempre: sii chi vuoi essere. Parole semplici ma concrete. Io e la mia crisi d'identità, ma lui mi voleva bene lo stesso. Quando è morto fu la fine per me, si era portato l'ultima parte che restava della mia anima. Da allora ero perso. Me la prendevo con tutto e tutti, anche per nulla. Mi dimostravo sempre indifferente, che non mi importava di nulla. Ero arrogante e strafottente, ma era solo la mia armatura nera, dentro morivo in realtà. Volevo solo urlare e piangere, per questo mi rifugiavo qui in questo insulso parco, dove nessuno mi poteva vedere, e poi qui era sempre isolato, non ci veniva mai nessuno. 
Sentii un improvviso rumore che mi fece alzare lo sguardo. Era una ragazza e mi stava fissando a bocca aperta. Fanno tutte così quando mi vedevano, non sapendo che in realtà ero un ragazzo transessuale, infatti quando lo venivano a sapere mi guardavano come se fossi uno brutto scherzo della natura. Certo, come se fosse colpa mia, ecco perché avevo deciso di tenere la cosa per me.
Ora che ci pensavo... la ragazza stava vedendo che piangevo. No! Nessuno poteva vedermi piangere!
Con la mano destra la indica per poi fare il gesto di sgozarmi. Mi piaceva tanto spaventare la gente, mi rendeva più facile andare avanti.
La ragazza indignata se ne andò via. Che strano, non si era spaventata, e poi, com'era conciata? Faceva ancora caldo e lei andava in giro con abiti troppo spessi e larghi di almeno due taglie in più. Aveva anche gli occhiali, troppo grandi per il suo delicato. Aveva i capelli acconciati in due lunghe trecce. Era decisamente una di quelle ragazze che si nascondevano, credendosi brutte e scialbe.
Asciugai le lacrime deciso a tornare a casa.
Papà era nel suo studio con la porta aperta, aspettando che passassi di lì per annunciare la mia presenza. Sicuramente come sempre aveva chiamato la dottoressa Grace dopo la mia ennesima fuga, e probabilmente mi avevano cercato per poi rinunciare e aspettare il mio ritorno.
Quando mi vide alzò la cornetta del telefono per chiamare la dottoressa e rassicurarla. Quei due erano innamorati da tempo l'uno dell'altra, ma mio padre era troppo ottuso per fare qualcosa, provavo un po' di pena per quella donna, dopotutto si prendeva cura di me da quando ero piccolo. 
Andai a sdraiarmi nel letto, stranamente mi ritrovai a pensare a quella ragazza misteriosa che avevo incontrato al parco. 

Che seccatura andare a scuola, ci andavo solo per mio padre, lui ci teneva all'istruzione, perciò lo accontentavo. Per me era una perdita di tempo, tanto sarei morto tra qualche mese, lo studio era per chi aveva un futuro, cosa che non avevo io.
Me ne stavo per i fatti miei in divisa della scuola con la giacca tenuta dietro le spalle, tanto per darmi un'aria di superiorità e con in bocca la mia solita sigaretta di cioccolata. Da piccolo mamma me le comprava sempre, facevamo finta di fumare, quanto mi divertivo con lei. Mi mancava così tanto. Pensare a lei mi rattristava sempre.
Voltandomi la vidi, la ragazza del parco che mi aveva visto piangere. Se ne stava lì imbambolata e con la bocca aperta come l'ultima volta. Aveva indossato la divisa scolastica, come sempre con due taglie di troppo, gli occhiali erano sempre quelli e i capelli erano acconciati allo stesso modo. Quella ragazza non poteva passarla liscia. Non potevo permettermi di dimostrarmi debole di fronte agli altri, e poi, non doveva andarlo a dire ai quattro venti che avevo pianto.
Mi avvicinai a lei con il mio solito ghigno da strafottente. "Gente!", richiamai l'attenzione di tutti i presenti, "Abbiamo una nuova alunna!". Mi avvicinai al suo orecchio per sussurrarle che sarei stato il suo peggior incubo, poi mi allontanai.
Aveva un buon odore quella ragazza, sapeva di primavera e di ciliegie, probabilmente era il suo costoso profumo. Che strano però, di solito non notavo certe cose e non mi interessavano. 

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Capitolo 3
*** Eleonora II ***


Oh, no! Era lui, lo psicopatico. Che cosa ci faceva qui? Come sempre la sfortuna mi perseguitava.
Indossava la divisa scolastica, che gli stava davvero bene tra l'altro.
Datti un contegno Eleonora, è uno psicopatico, ricordi? Come sempre mi rimproverai mentalmente.
Teneva la giacca dietro le spalle con aria di superiorità e aveva una sigaretta in bocca, be', almeno era spenta. Comunque sia, non si poteva fumare a scuola, c'era scritto anche sul regolamento.
Si avvicinò a me con un ghigno da strafottente togliendosi la sigaretta di bocca.
Oh no! E adesso che cosa voleva da me?
"Gente!", richiamò l'attenzione di tutti i presenti, "Abbiamo una nuova alunna!", annunciò.
In quel momento volevo diventare invisibile, avevo gli occhi di tutti puntati addosso.
Mi si avvicinò per poi sussurrarmi all'orecchio che sarebbe stato il mio peggior incubo, poi si allontanò, lasciandomi lì imbambolata, come sempre.
Ma che!? Cos'era successo? Che cosa gli avevo fatto di male? Sì, era proprio uno psicopatico. Doveva farsi curare, magari mamma gli avrebbe trovato un buon specialista.
Indignata me ne andai per la mia strada, volevo stare il più lontano possibile da quel soggetto.
Dopo aver sbagliato per ben due volte direzione, finalmente trovai la mia classe, la XX. Perché quella scuola aveva le classi contrassegnate dai numeri romani? Chi lo faceva? Erano più strani di me. Come se la figuraccia di prima non mi fosse bastata, l'insegnante di storia, mi presentò alla classe e mi fece firmare il registro. Perché dovevo firmare per segnare la mia presenza? Professori troppo pigri presumo.
Mi accomodai nell'ultimo banco in fondo alla classe, era l'unico disponibile, insieme a un altro, optai per quello vicino alla finestra così avrei potuto guardare fuori e perdermi nelle mie fantasie. I banchi erano bellissimi, erano delle scrivanie a leggio raffinate, con delle decorazioni in oro, erano stupende, ma soprattutto, costose. Anche la sedia non era da meno, era abbinata alla scrivania ed era imbottita. Comodità assoluta. Quando mi misi comoda tutti mi lanciarono occhiatine e sghignazzavano, anche il professore era strano, si agitava nervosamente sulla sedia, ma non diceva nulla. Che avevano tutti?! Non ci feci molto caso, anche perché ero abituata a certe cose, purtroppo.
Poi il professore si rivolse a me: "Signorina...", spostò lo sguardo sul registro per leggere il mio nome, "Evans, l'è stato affidato il suo tutor?", mi domandò.
Tutor? Che tutor? Mamma non mi aveva detto niente, e ora che facevo!?
Calma Eleonora, sii calma e controllata.
Con nonchalant risposi di no.
"No?", disse il professore. Era sordo per caso?
"No", ripetei, questa volta con tono un po' più alto.
"Capisco...". Mi sa che non aveva capito proprio un bel niente. "L'hanno informata dei tutor?", mi domandò ottusamente. Era ovvio che non ero informata.
"No", ripetei per l'ennesima volta.
"Bene". Bene un tubo! "Nella nostra scuola abbiamo a disposizione degli eccellenti tutor, naturalmente non tutti ne hanno bisogno". Tipo io per esempio. Probabilmente per questo mamma non mi aveva detto niente. "I più bravi alunni", proseguì, "hanno la possibilità di fare da tutor ad altri, ovviamente in cambio ricevono dei crediti extra. Purtroppo per lei, sono tutti occupati, visto che l'anno scolastico è iniziato da un po', ma volendo si può chiamare un esterno. Lo ha richiesto al preside?", mi domandò in fine.
"No". Questo tipo aveva bisogno di un cervello, la cosa era ufficiale.
"Bene, la cosa è piuttosto semplice". Non per il tuo cervello, pensai sarcastica.
Prese una busta da lettera e un cartoncino per poi scriverci qualcosa sopra. Mise il cartoncino dentro la busta e la sigillò con della cera lacca. E ora? "Consegnerò la richiesta al preside, cosicché lui potrà richiedere un tutor esterno per lei". Non poteva direttamente dirglielo, invece di scrivere la lettera e fare tante cerimonie? Speravo solo che gli altri insegnanti non fosserò come lui.
La porta si aprì all'improvviso facendo voltare l'intera classe. Non poteva andare peggio di così. Ad aprire la porta era stato lo psicopatico che alla mia vista mi lanciò uno sguardo che mi fece raggelare il sangue nelle vene. Tutti sghignazzavano lanciando occhiatine allo psicopatico e a me, intanto il professore si agitava nervosamente sulla sedia. Ero per coso finita in una scuola di psicopatici?
"Sam", si rivolse il professore allo psicopatico con voce tremante. Così lo psicopatico si chiamava Sam... ma comunque... da quando in qua un insegnante aveva paura di un suo alunno?
"Professore...", disse con voce pungente lo psicopatico, "perché quella", indicò me come se fossi uno scarafaggio da schiacciare, "è nel mio posto?". Sgranai gli occhi. Adesso capivo cosa avevano tutti. Questo era il posto dello psicopatico. Perché mai il professore non mi aveva detto che era già occupato da un altro, specialmente da uno psicopatico!? Si può essere più dementi di così!?
Il professore iniziò a sudare freddo. "M-mi d-dispiace", ballettò.
Sam gli lanciò uno sguardo da omicida. Poi lo rivolse a me. Aiuto! Con movimento fluido ed elegante si diresse verso di me. Era la fine, me lo sentivo.
Mi tirò la sua giacca addosso. "Mettila dietro la sedia e spostati, quello è il mio posto!", mi ordinò, e io come un ebete gli ubbidii. Lo psicopatico mi faceva paura, lo dovevo ammettere.
Quando si fu accommodato al suo posto si mise a dormire e il professore iniziò la sua lezione come se niente fosse accaduto.
Perché il professore non diceva niente? Eppure lo vedeva che stava dormendo. Probabilmente era solo perché lo temeva. Questa situazione era assurda, la scuola lo era, come tutti da quel che avevo potuto vedere, ed era solo l'inizio.
Osservai dormire lo psicopatico per tutto il tempo come un idiota. Aveva l'aria stanca. Secondo me era uno di quei ragazzi che faceva tardi la sera, che si divertiva con gli amici ad andare in giro e a portarsi a letto le ragazze più carine e alla moda. Era certo che le ragazze non si negassero a lui e che qui a scuola tutte gli andassero dietro, era così affascinante e tenebroso. Chissà quante stragi di cuori. Dovevo ammetterlo, quel ragazzo mi incuriosiva. Aveva dei bei capelli, fui tentata di toccarli per verificare se fossero tinti o meno. Si capiva se erano tinti solamente toccandoli? Chi lo sa. Istintivamente allungai una mano per accarezzarli, erano così morbidi e belli. Tutto di lui mi affascinava, non mi spiegavo il perché ma c'era qualcosa in lui chr mi attirava come una calamita.
Mi stava fissando. Oh no! Si era accorto che gli stavo accarezzando la testa. Ero spacciata. Ero prossima alla morte.
Si alzò di scatto facendomi perdere dieci anni di vita e quasi caddi dalla sedia per lo spavento e la mia fine imminente. Lo psicopatico prese la sua giacca dalla sedia, per poi dirigersi con passo svelto ed elegante alla porta ed uscire. Cos'era appena successo?
Dopo quello che successe con lo psicopatico il resto della giornata passò come sempre. Tutti mi lanciavano occhiatine e ridevano di me per com'ero conciata, tutto nella norma. Per l'ora di pranzo mi rifugiai in libreria per starmene lontana da loro, la cosa bella era che in questa scuola la pausa pranzo durava un'ora, probabilmente era una cosa da ricchi.
Dopo che lo psicopatico se n'era andato in quel modo non lo vidi più, probabilmente troppo disgustato da me. Che pretendevo alla fine, non ero mai stata simpatica a nessuno, ero quella che tutti ignoravano, prendevano in giro e sparlavano alle spalle. E poi lui è uno psicopatico! Ricordai a me stessa. Ero solo una stupida illusa.
Finite le lezioni della giornata tornai a casa in autobus perché mamma era al lavoro e sarebbe tornata stasera, quindi sarei stata tutto il giorno da sola in casa, che tristezza.
Odiavo prendere l'autobus, quando c'era confusione si stava stretti, e poi la gente ti fissava. Mi fissa. Odiavo quando lo facevano. Non mi era mai piaciuto essere guardata perché tutti mi hanno sempre guardato come se fossi uno scarafaggio che andava schiacciato, così iniziai a nascondermi e a detestare di essere guardata. Certa gente non capiva che certi atteggiamenti potevano ferire le persone, fin nel profondo.
Tornata a casa mi preparai il pranzo e dopo iniziai a studiare. Per essere una scuola prestigiosa i compiti non erano tanto difficili, o forse ero io troppo intelligente, non so. Non so il perché ma continuai a pensare a lui, allo psicopatico, era diventata un ossessione per me, non capivo il perché. Da quando l'avevo visto lì al parco mentre piangeva non ero più riuscita a togliermelo dalla testa. Dovevo rivederlo e c'era un unico posto dove potevo trovarlo, almeno speravo.
Dopo essermi persa per almeno tre volte e aver chiesto a qualche passante la strada e aver ricevuto occhiatace da chiunque, finalmente trovai il posto, ed era lì ad aspettarmi.
Come sempre era vestito di nero e teneva una sigaretta spenta tra le labbra. Mi fissava con sguardo serio e intenso, mi fece segno con la mano di avvicinarmi a lui. Non so perché, ma gli ubbidii.
"Ciao", lo salutai con timore.
"Ti stavo aspettando". Continuò a guardarmi con sguardo intenso inchiodami sul posto. "Da adesso sarò il tuo peggior incubo, ricorda. Dovrai subire in silenzio perché sono il capo della scuola. Tutti mi temono e mi riveriscono, compresi gli insegnanti". Ero senza parole. Ero tentata di scappare via da lui ma le mie gambe non ne volevano sapere di collaborare. Si avvicinò a me prendendomi con delicatezza il mento per fissare i suoi occhi nei miei. Il mio cuore perse un battito. "Tu sarai solo mia e subirai ogni cosa che ti farò, ogni tortura o capriccio, intesi?", mi sussurrò con voce vellutata e suadente. Lui era l'incantatore e io il suo serpente, e come un idiota annuì. Ero persa in lui. Questa volta ero veramente spacciata.

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Capitolo 4
*** Sam II ***


Come ogni mattina, andai dallo psicologo della scuola, più che altro era un obbligo di mio padre e della dottoressa Grace, dicevano che mi avrebbe fatto bene parlare con qualcuno, specialmente dopo la morte di mio nonno. All'inizio non ne volli sapere, ora invece appena avevo bisogno andavo da lui.
"Sam!", mi saluto il dottor Clark appena entrai nel suo studio.
Il suo studio era il tipico studio da psicologo. Lui invece non sembrava uno psicologo, più che altro sembrava un modello, con i suoi capelli lunghi e biondi e la tipica faccia da belloccio.
"Clark", salutai a mia volta dopo essermi accommodato sul divano di pelle.
"Tuo padre mi ha detto che ieri sei scappato, un'altra volta...", fece un sospiro. Come sempre parlava troppo mio padre.
"Sì", la mia voce era bassa e colpevole.
"Me ne vuoi parlare?". Riecco la sua solita domanda. Come se non sapesse già il perché lo facessi.
"Volevo nascondermi", risposi facendo spallucce.
"Perché?".
"Perché non volevo essere visto". Strinsi i pugni.
"Da chi?".
"Da mio padre".
"Cerchi di essere forte davanti ai suoi occhi, non è così?", mi chiese centrando il punto come al solito.
"Sì".
"Lo sai che non devi, te l'ho già detto un infinità di volte. Devi parlare con lui, aprirti. Così ti fai solo del male, Sam".
"Lo so", sospirai.
Mi osservò per qualche istante. "Va' in classe Sam".
Mi alzai obbedendo ai suoi ordini.
Quando entrai in classe la vidi, era lei, la ragazza del parco. Era seduta al mio posto. Nessuno doveva sedersi al mio posto. Tutti sghignazzavano lanciando occhiatine a me e alla ragazza nuova. Tutti sapevano che nessuno doveva occupare il mio posto, se non voleva fare una brutta fine, compreso il professore che si agitava sulla sedia, ma lui era un idiota. Papà era troppo buono, assumeva chiunque avesse bisogno di un lavoro.
"Sam", il professore richiamò la mia attenzione, la sua voce era nervosa e agitata, come lui del resto.
"Professore, perché quella", indicai con disprezzo la ragazza che occupava il mio posto, "è nel mio posto?". La ragazza granò gli occhi dallo spavento. Bene.
"M-mi d-dispiace", ballettò il professore di storia. Mi voltai verso di lui guardandolo con astio. Era un idiota. Mi voltai per poi dirigermi verso la ragazza, adesso avrebbe capito chi comandava.
Le tirrai la mia giacca addosso e le dissi: "Mettila dietro la sedia e spostati, quello è il mio posto!". Così fece. Brava bambina, pensai.
Mi sistemai nel mio posto. Ero così stanco. Chiusi gli occhi e mi addormentai immediatamente.
Che strana sensazione, è così bella e rilassante. Non mi ero mai sentito così... così in pace e beato. Vorrei che non finisse mai. Aprii gli occhi. Era quella ragazza e mi stava accarezzando i capelli. Che strano, in genere non amavo essere toccato, ma il suo contatto mi piaceva, mi dava una sensazione di beatitudine. Ma a che cosa andavo a pensare, non potevo! Dovevo andare.
Mi alzai di colpo. Per lo spavento la ragazza quasi cadde dalla sedia. Presi la giacca e corsi via da lì. Da lei.
Cos'era successo?
Ero in preda alla disperazione. Volevo correre per scappare da lì, ma non potevo. Imprecai a bassa voce, presi le mie cose e tornai a casa. Non volevo parlare con nessuno, neanche con il dottor Clark.
Non so quanto tempo passò da quando mi ero buttato nel letto a fissare il soffitto. Non feci altro che pensare a lei, al suo profumo inebriante, al suo tocco delicato che mi accarezzava. Che mi stava succedendo?! Non mi era mai successa una cosa del genere. Ero sempre stato un tipo distaccato, mai avuto amici o relazioni, niente di niente. La cosa non mi era mai pesata e non avevo avuto mai il bisogno di averne, ma ora? Ero così confuso.
Infilai un paio di jeans neri e una felpa col cappuccio dello stesso colore. Sapevo chi mi avrebbe potuto aiutare.
"Sam!". Quando il dottor Clark aprì la porta di casa sua, fu stupito nel vedermi lì. "A che devo questa visita?", mi chiese dopo che fui entrato.
"Ho un problema".
Mi guardò perplesso per qualche istante, poi disse: "Va bene. Vieni, andiamo nel mio studio, così staremo più comodi". Mi condusse nel suo studio. Era uguale a quello della scuola, solo più piccolo.
"Cosa succede?", mi chiese dopo essersi accomodato.
"Non lo so, ho solo una tale confusione in testa". Stavo per impazzire.
"Comincia dal principio".
Dall'inizio? Quando l'ho incontrata al parco. "Come sa sono di nuovo scappato... ecco, lì ho incontrato una ragazza, era un po' strana, ma il punto non è questo. Mi ha visto piangere".
"Come ti sei sentito in quel momento?".
Cercai di ripensare a quel momento. "Ero nel panico, così ho cercato di spaventarla facendole il gesto di sgozzarla, ma...". Mi bloccai.
"Ma cosa?", mi esordì a continuare a parlare.
"Lei non si è spaventata, anzi, era indignata e se n'è andata via furente". Non mi era mai successa una cosa del genere, infatti il fatto mi aveva un po' stranito.
"Non te lo aspettavi, vero?".
"Esatto. Poi oggi l'ho rivista, a scuola".
"E questa volta come ti sei sentito?". Si fece più vicino con il busto facendosi sempre più curioso.
"Le ho fatto capire chi comanda per intimidirla e poi le ho detto all'orecchio che sarei stato il suo peggior incubo. Sul momento si è spaventata, almeno così credevo...".
"Che intendi dire, Sam?".
"Me la sono ritrovata in classe, nel mio posto, tra l'altro. Spaventata si è alzata, ma poi...". Mi bloccai di nuovo. Ripensai a quel magnifico momento. Le sue morbide dita che danzavano tra i miei capelli e alla bellissima sensazione che mi aveva donato, mai provato niente del genere.
"Ma poi?", mi chiese sempre più curioso.
"Mi sono messo a dormire e dopo un po' mi sono accorto che mi stava accarezzando i capelli. Non era spaventata da me, anzi...".
"Come ti sei sentito in quel momento?".
"Non avevo mai provato niente di simile. Ho provato una bellissima sensazione di pace e beatitudine, non volevo che finisse mai quel momento".
"È per questo che sei qui adesso, Sam?", mi chiese facendo centro.
"Sì, non so che fare. Sto impazzendo! Che mi sta succedendo?".
Non mi rispose, se ne stette in silenzio per quella che mi sembrò un eternità.
Cosa aspettava a darmi una risposta!? Mi accontentavo anche di essere fuori di testa, tanto avevo poco da vivere.
"Vedi Sam", finalmente parlò, "devi essere tu a capire cos'è questa cosa". Cosa?!
"Come faccio a capirlo?!", gli urlai.
"A modo tuo".
"A modo mio?". Non riuscivo a capirlo.
"Stalle il più vicino possibile, ma a modo tuo".
"Ho capito".
"Fallo, e cerca di capire cos'è questa cosa che ti confonde, naturalmente io ti aiuterò".
"Ok".
Dovevo capirlo a modo mio. Facile come bere un bicchiere d'acqua, in testa in giù però. Mi alzai e me ne andai senza salutare.
Mentre percorrevo il tragitto dalla casa del dottor Clark alla mia, pensai alle sue parole e a cosa dovevo fare con lei. Dovevo starle vicino, ma a modo mio. Il problema era che non ero mai stato vicino a nessuno, ad eccezione della mia famiglia, da chi mi voleva realmente bene. E lei? Lei di certo non mi voleva bene, chissà cosa pensava di me, che ero un folle presuntuoso e pieno di sé? Probabilmente. Cosa dovevo fare? Magari poteva essere la mia tutor, ma dovevo capire a che livello era, sì, se era brava sarebbe diventata la mia tutor, così le sarei stato il più vicino possibile e avrei capito una volta per tutte cos'era questa cosa che mi attanagliava.
Mio padre era ritornato a casa dal lavoro ed era nel suo studio. Ottimo! pensai mentre mi dirigevo verso di lui.
"Papà!". Dallo spaventa gli cadde la penna dalla mano con cui stava scrivendo su dei fogli.
"C-cosa c'è?", ballettò.
"Ci sono compiti per casa?".
Mi guardò incredulo. "Certo, come sempre".
"Bene, mi dai i miei compiti per casa?", gli chiesi allungando una mano per avere i compiti. Lui era il preside della scuola e aveva tutti i compiti, che erano da programma.
Mi guardò per qualche istante a bocca aperta, poi si mise a frugare tra i fogli in cerca dei miei compiti. "Ecco", mi disse allungandomi un foglio che presi ben volentieri.
"Io esco. Vado a studiare... all'aperto", inventai una scusa sperando che abboccasse.
"Certo". Era basito.
"Ciao", lo salutai e andai via.
Speravo tanto che tornasse qui, nel punto dov'era iniziato tutto. Lo speravo tanto.
Dopo quella che mi sembrò un'eternità, eccola lì, con i suoi soliti vestiti troppo larghi. Dovevo rimediare a quello scempio. Che andavo a pensare! Mi ricomposi e le feci segno di avvicinarsi a me, così fece.
"Ciao", mi salutò con il timore nella voce.
"Ti stavo aspettando", le dissi dopo aver tolto la sigaretta di cioccolata di bocca. Era stupita dalle mie parole. Bene, pensai. "Da adesso sarò il tuo peggior incubo. Ricorda, dovrai subire in silenzio perché sono il capo della scuola. Tutti mi temono e mi riveriscono, compresi gli insegnanti". Era rimasta a bocca aperta.
Mi avvicinai a lei prendendola per il mento e fissai i miei occhi nei suoi, per poi dirle: "Tu sarai solo mia e subirai ogni cosa che ti farò, ogni tortura o capriccio, intesi?", le sussurrai. Ero incantato dai suoi splendidi occhi grigi, ma non potevo distrarmi neanche un attimo, non dovevo essere debole di fronte a lei.
Notai che non era spaventata da me, ma incantata, non so il perché ma la cosa mi piaceva.
Mi staccai da lei per andare a prendere lo zaino che avevo lasciato per terra sotto all'albero. Quando mi voltai mi guardava con aria perplessa.
"Voglio che fai i miei compiti, perciò andremo a casa tua", le spiegai. Continuava a guardami perplessa. Che seccatura.
Mi avvicinai a lei prendendola per mano, in quel momento sentii una scarica elettrica che ignorai. "Andiamo?". Annuì ubbidiente.
Quella ragazza non aveva il benché minimo senso dell'orientamento, ci eravamo persi un infinità di volte. Però la trovavo buffa, dovevo proprio ammetterlo, ma di certo non glielo avrei detto.
La sua casa non era un granché, per certe persone sarebbe stata abbastanza grande, ma io vivevo in una mega villa. Nel soggiorno c'erano molti libri, ma a casa ne avevo molti di più. Quella casa era un po' triste però.
"I tuoi non ci sono?", le chiesi dopo un po'.
"No, mio padre vive con la sua oc... ehm voglio dire, con la sua nuova moglie. Io ora vivo con mia madre, ma lei tornerà stasera", mi spiegò.
Non mi piaceva l'idea che se ne stesse tutto il giorno a casa da sola, e se fosse entrato un ladro? Poteva accaderle qualsiasi cosa, e poi era indifesa. Cos'era questa strana sensazione? Mi era del tutto estranea.
"Quindi stai sempre sola".
"Esatto".
"Non esci con le amiche?".
Alla mia domanda si mise a fissare un punto indistinto in imbarazzo.
"Ecco... io... non ho amiche". Cosa?!
"Neanche una?". Ero perplesso.
"No", mi disse in un bisbiglio. Provavo un'altra strana sensazione in quel momento, che cos'era? Volevo stringerla a me e consolarla. Non mi era mai successa una cosa simile prima di allora, di norma non mi avrebbe toccato minimamente, ma con lei stranamente non era così. Come si poteva lasciare sola una ragazza come lei? La gente sapeva essere crudele.
"Capisco...". Non potevo permettermi di essere sentimentale, non era da me. "Allora, mi fai questi compiti o no?", le dissi con autorità, ma in realtà volevo distrarla da quel pensiero. Perché?
"Sì", mi disse brontolando.
La osservi per tutto il tempo fare i miei compiti. Ogni tanto con l'indice si metteva a posto gli occhiali che le scivolavano. Era adorabile.
Non riuscivo a capire cosa mi stesse accadendo. Quella ragazza mi incantava. Lei era l'incantatrice e io il suo serpente.
Visto che ero stanco, decisi di andarmi a sdraiare sul suo letto. Mi sentii i suoi occhi addosso, quindi cercai di far finta di nulla. Quella ragazza mi innervosiva, non capivo il perché. Avevo la testa che mi scoppiava dalla confusione, chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi.
Sentii qualcosa, o meglio, qualcuno sedersi accanto a me nel letto. Quanto tempo era passato?
Di nuovo quella sensazione di beatitudine. Aprii gli occhi e la vidi che mi stava accarezzando un'altra volta i capelli. Quando si accorse che la stavo fissando sgranò gli occhi dallo stupore, ma non smise di toccare i capelli, stranamente le fui grato.
"Come ti chiami?", le chiesi in un sussurro.
"Eleonora", sussurrò a sua volta.
Che bel nome che aveva. Lei era bellissima. Non so come e nemmeno il perché, ma mi alzai e mi misi in ginocchio spingendola sul letto in modo tale che fosse messa sdraiata, poi mi misi cavalcioni su di lei. La tenni per i polsi, così non poteva scapparmi. Il suo sguardo da prima allarmato adesso mi sfidava. La cosa mi piaceva. Ogni cosa che lei faceva mi piaceva perché mi stupiva sempre. Non avevo mai incontrato nessuno come lei, di solito facevano quello che volevo o avevano paura di me, cadevano ai miei piedi, ma lei era diversa. Lei mi teneva testa quando voleva ed era irritante, adorabilmente irritante.
"Non mi piace quando mi toccano". Non batté ciglio. "Tu non devi farlo, intesi?". Non mi rispose ma si limitò a guardarmi. "Hai capito?", le chiesi irritato.
Lei annui e disse: "E se lo rifaccio, cosa mi farai?".
Non mi aspettavo quella risposta, non sapevo come ribattere, ci pensai per un po'. "Potrei punirti". Adesso vediamo cosa farai mia cara.
Mi fece un sorrisetto. "Tanto lo so che non mi farai niente. Abbai ma non mordi, dico bene?".
"Tu dici?". Sgranò gli occhi allarmata.
Senza darle via di scampo iniziai a farle il solletico.
Aveva una bellissima risata, le sue labbra erano bellissime, desideravo tanto assaggiarle. Che andavo a pensare! Mi fermai di colpo. Lei smise di ridere e mi osservò. Che cosa stavo facendo? Io non ero così. Dovevo andarmene da lì. Da lei. Presi le mie cose e uscii da quella casa, dovevo andare da Clark. 

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Capitolo 5
*** Eleonora III ***


Quella di ieri era stata una giornata assurda e piena di emozioni. Nonostante la prepotenza dello psicopatico, ieri era stato bellissimo passare quel poco tempo con lui. Che mi stava facendo? Ma soprattutto, che mi stava succedendo? Non riuscivo a spiegarmelo, non mi ero mai sentita così.
Ieri, mentre ero con lui, mi batteva all'impazzata il cuore e mi sentivo così... così felice. Alla fine era solo uno psicopatico e non dovevo illudermi, ma specialmente, non dovevo cadere nelle sue grinfie. 
Quando entrai in classe lo trovai lì, seduto al suo posto e mi stava aspettando, aveva il suo solito sorriso da strafottente che mi irritava tanto.
Quando mi accomodai non fece altro che fissarmi.
Ti prego non mi guardare, non lo sopporto. 
"Allora, ti chiami Eleonora, eh?".
"Sì", gli risposi seccata e senza nemmeno guardarlo. 
"Mm... è troppo lungo come nome, da adesso ti chiamerò Elle... sì, mi piace". Era compiaciuto da se stesso ma a me non piaceva proprio quel soprannome.
Era un tipo strano e continuava a guardarmi, lo preferivo quando dormiva, almeno era carino.
Che fantasie stupide che ho.
Uno psicopatico non poteva essere carino. Insomma, un folle non può essere carino o adorabile, ma lui lo era, mi sentivo un idiota. 
"A che pensi?", mi chiese in un sussurrò mentre il professore d'arte spiegava la sua lezione. Cercai di ignorarlo, visto che non ero tipo da parlare durante le lezioni, che poi nessuno mi rivolgeva mai la parola, almeno non amichevolmente. 
"Allora?", mi incalzò. Continuai ad ignorarlo ma mi punzecchiava con la matita. Com'era irritante! 
Continuava a darmi fastidio, lo fece per tutto il tempo, qualcuno rideva alle mie spalle e il professore lo ignorava. Non capivo perché tutti i professori lo ignorassero ed avessero paura di lui. Forse sapevano che era uno psicopatico ed era meglio lasciarlo in pace. Sì, era così, non poteva essere altrimenti o altra spiegazione. Mi chiedevo perché non lo rinchiudessero in qualche clinica apposita per curarlo, di certo se lo poteva permettere o poco probabilmente ai suoi genitori non importava nulla di lui. Poverino, alla fine mi faceva un po' pena, se stavano così le cose. Probabilmente era colpa dei genitori se era diventato così.
Ero così assorta dai miei pensieri che non mi accorsi che si era addormentato. Probabilmente come avevo già pensato, faceva ogni sera tardi e poi a scuola dormiva. Di questo passo ci avrebbe rimesso la salute. Insomma, bisogna prendersi cura di sé, anche se si è giovani, non si deve fare quello che si pare, alla fine siamo dei semplici e comuni esseri umani fragili. Mamma me lo diceva sempre che bisognava prendersi cura di sé, anche perché con l'avanzare dell'età se ne risente, ma io ero un tipo goffo e quindi evitavo gli sport ma in compenso mangiavo sano.
Fui tentata di toccargli i capelli, erano così morbidi e belli, ma non volevo che scappasse da me per l'ennesima volta, così decisi di non farlo. 

Finalmente era giunta l'ora di pranzo e stavo letteralmente morendo di fame, l'unico problema era, che come ieri me ne sarei andata a mangiare in biblioteca, almeno lì non c'era nessuno che mi lanciava occhiate o rideva di me.
Dopo aver riposto le mie cose, mentre mi alzavo per dirigermi verso l'uscita, mi sentii afferrare per un braccio.
Era lo psicopatico, e adesso che altro voleva da me? "Cosa c'è?", gli chiesi seccata.
"Dove vai?".
Alzai gli occhi al cielo. "Vado alla mensa, è ora di pranzo, se non te ne fossi accorto". Nella mia voce c'era una punta acida che mi fece un po' sentire in colpa.
Si mise seduto come si deve e guardò l'ora nel suo costosissimo orologio da polso. "Sì, è ora di pranzo". Staccò gli occhi dall'orologio per poi puntarli nei miei con intensità, quando lo faceva mi sentivo persa in lui. "Pranziamo insieme". 
"Cosa?". Fu l'unica cosa che riuscii a dire, ma con voce da ebete. Io e le mie figuracce.
"Pranziamo insieme, ho fatto preparare qualcosa anche per te, spero che ti piaccia tutto". Fece una pausa per guardare un attimo la mia espressione, probabilmente avevo la bocca aperta, poi proseguì, "Vieni, andiamo in un bel posto". Si alzò dalla sedia dirigendosi verso l'uscita, quando fu arrivato con la sua solita eleganza davanti alla porta, si voltò. "Allora, vieni o no?".
Meglio non farlo arrabbiare, non voglio che mi stacchi la testa.
Lo seguii come un cagnolino per tutto il tragitto, mi fece percorre corridoi immensi e attraversare porte.
Quanto mancava ancora? Ma soprattutto, dove mi stava portando? Ero sia eccitata che spaventata.
Ad un certo punto entrammo in una stanza quadrata, era piccola rispetto alle altre, c'erano due librerie ai lati e una di fronte a noi, lui si diresse in quest'ultima. Rimasi a bocca aperta quando spostò la libreria di lato per rivelare una stanza segreta. 
"Allora ci sono davvero dei passaggi segreti", esclamai ad alta voce per poi pentirmene immediatamente. Io e la mia boccaccia. 
Mi guardò con un sorrisetto. "Vieni". Aveva un espressione che non riuscii a decifrare, ma poco probabilmente mi credeva strana o pazza.
Entrai con lui nella stanza segreta, che stranamente era circolare. All'interno non c'era molto, un gran tappeto, probabilmente costoso e molti cuscini che erano più grandi di me, c'era anche una piccola libreria. I libri nella libreria erano sia nuovi che vecchi, anch'essi avevano l'aria costosa. Sul tappeto c'era della frutta fresca tagliata alla perfezione, dei tramezzini e del succo.
Com'era possibile che avesse preparato tutto questo per me? In fondo non ero nessuno per lui, solo la ragazza che avrebbe tormentato fino alla pazzia, e io come una sciocca ero caduta nella sua trappola. Probabilmente era uno scherzo o qualcosa del genere, magari aveva messo qualcosa nel cibo per farmi stare male, sicuro. Era troppo bello per essere vero, e poi a me non succedevano certe cose belle, solo alle ragazze carine e io non lo ero di certo.
"Cosa c'è?", mi chiese ad un tratto destandomi dai miei pensieri.
"Niente", dissi in un bisbiglio. 
"Siediti", mi disse con voce autoritaria indicandomi un punto dove sedermi.
Ubbidiente mi accomodai dove mi fu ordinato e restai in silenzio, ero intimidita da lui, che aveva in mente? 
Si accomodò su un cuscino di fronte a me e mi scrutò con il suo solito sguardo intenso, mi sentii annegare.
"Mangia", mi ordinò ad un tratto. Che fare?
"Chi mi dice che non ci hai messo qualcosa di strano?".
Sbuffò. "Imboccami, così capirai che non ho messo niente nel cibo. Non ti avveleno, tranquilla, non è nel mio stile".
Decisi di fare come mi fu detto, così presi un pezzo di quella che mi sembrò un ananas, mi avvicinai con timore a lui e lo imboccai. Che cosa imbarazzante. Sperai tanto di non essere diventata tutta rossa in viso.
Masticò con gusto senza staccare gli occhi da me. "Visto, non è avvelenato il cibo".
Ripresi a respirare e presi un tramezzino, era delizioso. Ne prese uno anche lui che divorò in un attimo. Da quanto tempo non mangiava? 
Non faceva altro che fissarmi, ma io cercai di ignorarlo guardando ovunque tranne che lui.
Non capivo perché mi aveva portato qui ed organizzato tutto se non era uno scherzo. Era un tale mistero questo ragazzo, ma in fondo era uno psicopatico e non dovevo illudermi, magari potevo chiederglielo. Speravo che non si arrabbiasse o peggio ancora, mi uccidesse. 
"Allora", cercai d'attirare la sua attenzione e di trovare le parole giuste, "a cosa devo tutto questo?".
"Tu sei mia". Quelle parole fecero perdere un battito al mio cuore. "perciò, ti devo nutrire come si deve e poi, non mi piace condividere le mie cose con gli altri, così ti ho portata qui".
Ero frastornata e confusa dalle sue parole. Niente aveva senso con lui. Come potevo essere sua, ma soprattutto, perché mi considerava tale?
"Io sarei tua?".
"Sì". Il suo sguardo mi sfidava in attesa della mia prossima mossa.
"Perché?".
Gli spuntò un mezzo sorriso, guardò per terra per un istante, per poi diventare serio e lanciarmi uno sguardo tagliente. Mi sentii cadere nel vuoto. 
"Ho sempre ottenuto ciò che voglio e desidero, nessuno me lo ha mai negato". E con questo che c'entro io? "Adesso voglio te".
"Mi confondi", gli dissi boccheggiando.
"È il mio scopo", mi disse con un ghigno. 
Sbattei le palpebre confusa e frastornata. Lui mi frastornava.
"Mangia", mi ordinò. 
"Non ho fame". Il mio stomaco era chiuso in quel momento.
"Non hai quasi toccato cibo però, sei a dieta per caso? Vedi che non ne hai bisogno".
Cosa? Cos'era questo, un complimento per caso? Certo che no, e poi non poteva vedere il mio fisico con questi vestiti larghi. Probabilmente il suo piano diabolico era quello di farmi mangiare fino a farmi scoppiare, dovevo stare attenta.
Sbuffò. "Ok, come non detto, almeno sdraiati e mettiti a dormire".
Lo guardai storto. Credeva veramente che fossi così ebete? Decisi di ignorarlo come prima, così imparava. 
"Sei una seccatura". Si sdraiò e si mise a dormire. 
Aspettai qualche minuti prima di fare qualsiasi movimento, non mi fidavo di lui, con i psicopatici non si era mai fin troppo prudenti.
Quando fui certa che dormisse, mi diressi nella piccola libreria a dare un occhiata. Anche se era piccola era piuttosto ricca e interessante, c'era un po' di tutto, dai classici, come Romeo e Giulietta al fantasy. Lo psicopatico aveva buon gusto.
Lessi alcune pagine di un classico della letteratura inglese, dall'aspetto sembrava parecchio costoso, era meglio stare attenti a non strapparlo.
Mentre leggevo sentii un brivido percorrermi lungo la spina dorsale.
Voltandomi mi accorsi che mi aveva colto in flagrante. Era la mia fine me lo sentivo.
"Ti piace leggere?". Quella domanda mi spiazzò completamente. 
"Sì, la lettura è tutto per me".
Mi indicò di avvicinarmi a lui, con titubanza esegui l'ordine. Mi accomodai su un cuscino morbido facendo attenzione a non sfiorarlo. 
"Perché leggi?".
Che strana domanda. "I libri sono i miei unici amici, quando mi sento sola e triste leggo e tutto passa, è come se facessi parte della storia". Perché gli stavo raccontando questa cosa? Non me ne capacitavo.
Era pensieroso, il suo sguardo non era come al solito, era come se non sapesse se dirmi qualcosa o meno. "Io leggo per scappare dalla mia realtà, dal mio mondo". Il suo sguardo era così triste, era come la prima volta che lo incontrai, c'era sofferenza in lui. Perché mi sentivo così triste, come se mi avessero strappato via il cuore? Cosa mi stava succedendo? 
"Perché scappi?".
"È complicato".
"Spiegami allora".
Sospirò. "Non devi sapere i miei fatti, nessuno li deve sapere". Si mise a sedere e guardò l'ora. "Dovresti andare, l'ora è quasi finita".
Di già era passata quasi un'ora? Come volava il tempo. 
"Sì, andiamo a lezione".
"No, solo tu, io devo fare una cosa". Non capivo, cosa doveva fare? "Ho detto va'", quasi urlò.
Prima che si arrabbiasse con me, andai via da quella stanza segreta.
C'era qualcosa che non andava in lui, qualcosa che lo faceva soffrire, né ero certa e l'avrei scoperto in un modo o nell'altro.


Nota autore:
Spero che la mia nuova storia vi stia piacendo, se vi va lasciate un commento ;)

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Capitolo 6
*** Sam III ***


Quando bussai alla sua porta, il dottor Clark, fu un'altra volta stupito nel vedermi lì, o semplicemente era la mia faccia sconvolta a provocargli quella reazione. 
"Sam, su entra".
Ero sull'orlo della disperazione, mai provato niente del genere, neanche quando la dottoressa Grace mi aveva annunciato la mia imminente morte, o quando il nonno era morto lasciandomi solo. 
"Ti vedo sconvolto, ti va di raccontarmi cos'è successo?".
"Non lo so. Cioè sì, so cos'è successo ma è qualcosa che non mi so spiegare... è complicato".
Si mise più comodo sulla poltrona, era pensieroso. "C'entra quella ragazza?", mi chiese con serietà. 
"Sì". Avevo la disperazione nella voce. 
"Cos'hai fatto?".
"Sono andato nel posto dove ci siamo incontrati la prima volta, nella speranza di rincontrarla...".
"Volevi rivederla?", mi chiese il dottor Clark interrompendomi. "Sì, volevo che mi facesse i compiti, per valutare il suo grado di preparazione, voglio che sia il mio tutor".
"Perché vuoi che sia il tuo tutor?". Mi interruppe per farmi un'altra domanda. 
"Per starle il più vicino possibile, così potrò capire cos'è questa cosa".
"Cos'hai fatto dopo averla incontrata lì?".
"Siamo andati a casa sua". Feci una pausa. "L'ho osservata fare i miei compiti, era adorabile, poi mi è venuto sonno...". Perché ho detto che era adorabile? Ero un idiota. 
"E poi?".
"Sì è seduta accanto a me ed ha iniziato ad accarezzarmi i capelli, come a scuola". Chiusi gli occhi beandomi di quel ricordo. "Lei non ha paura di me, anzi, mi sfida quando vuole ed è seccante". Adorabilmente seccante. 
"Come ti senti quando stai con lei?".
Come mi sento? "Bene. Lei mi fa stare bene e mi fa scordare il resto, ogni cosa". C'è solo lei.
"Ha un effetto positivo su di te, da quel che ho potuto notare", constatò il dottore, che avesse ragione? 
"Che cosa devo fare?".
"Tu cosa vuoi fare?".
Io? Cosa volevo fare? "Stare con lei", dissi in un sussurro. 
"Allora sta con lei".
"Devo stare con lei?". E come?
"Sì, inventati qualcosa".
"Inventarmi qualcosa...". Si potevo farlo.
Mi alzai e andai via da quella casa senza salutare.
Dovevo fare qualcosa per lei, ma cosa?
Durante la notte mi venne una straordinaria idea, così mi alzai molto presto per organizzare il tutto. Chiesi alla mia cuoca personale, che si occupava della mia alimentazione, di preparare della frutta e dei tramezzini. Durante la notte avevo pensato di organizzare una specie di picnic nella mia stanza segreta. Avrebbe gradito? E poi, avrebbe acconsentito?

Prima di entrare in classe, avevo chiesto a qualcuno di portare nella stanza segreta ciò che aveva preparato la mia cuoca, cosicché Elle, avesse trovato tutto pronto.
Da dove mi era spuntato fuori quel soprannome? 
Mi accomodai nel mio posto e l'aspettai con ansia. 
Quando entrò in classe, rimase stupita nel vedermi lì che l'aspettavo. Si diresse nel suo posto impetita. Mi piaceva quando faceva così, era buffa e adorabile.
"Allora, ti chiami Eleonora, eh?", le chiesi.
"Sì". Era seccata da me e non mi guardava. 
"Mm... è troppo lungo come nome, da adesso ti chiamerò Elle... sì, mi piace". Era la prima ragazza alla quale davo un soprannome, che strano.
Continuava ad ignorarmi ed era assorta nei suoi pensieri. Avrei dato di tutto per ascoltarli. 
"A che pensi?", le chiesi in un sussurrò mentre il professore d'arte spiegava la sua lezione. Continuò ad ignorarmi, ma non mi diedi per vinto. "Allora?". Continuando ad ignorarmi, decisi di punzecchiarla con la matita. Era divertente e vedevo che era irritata da me ma faceva finta di niente. 
Continuai per un po' a darle fastidio, ma non mi diede retta, così decisi di fare un pisolino. Ero così stanco. 

Sentii un rumore alla mia destra che mi fece destare dal torpore. Non avevo dormito tanto bene, aspettavo la sua carezza che non era arrivata. Sentivo un vuoto dentro di me, non capivo il perché. 
Quando aprii gli occhi la vidi che riponeva le sue cose. Quanto avevo dormito? 
Stava per andarsene via, prima che mi potesse sfuggire, l'afferrai per un braccio. Un'altra volta sentii quella strana scarica elettrica. 
"Cosa c'è?", mi chiese seccata.
"Dove vai?".
Alzò gli occhi al cielo. "Vado alla mensa, è ora di pranzo, se non te ne fossi accorto". Nella sua voce c'era una punta acida che ignorai.
Mi misi seduto come si deve e guardai l'ora nell'orologio da polso che mi aveva regalato mio nonno. "Sì, è ora di pranzo", constatai. La guardai per un po', cercando il coraggio di invitarla a pranzare con me. "Pranziamo insieme", le dissi con voce decisa e ferma ma in realtà ero nervoso. 
"Cosa?". Era stupita, del resto anch'io lo ero, non era da me fare una cosa del genere.
"Pranziamo insieme, ho fatto preparare qualcosa anche per te, spero che ti piaccia tutto". Feci una pausa aspettandomi una sua brusca reazione che non arrivò, quindi proseguii, "Vieni, andiamo in un bel posto". Mi alzai dalla sedia dirigendomi verso l'uscita, quando fui arrivato davanti alla porta, mi accorsi che era rimasta lì dov'era e come al solito aveva la bocca aperta. "Allora, vieni o no?".
Chiuse la bocca e fece come le fu detto. Ci voleva una gran pazienza con quella ragazza. 
La condussi nel mio posto segreto, dove mi rifugiavo nei momenti di noia o per altro. Entrammo in una piccola stanza con due librerie ai lati e una posta di fronte a noi, mi diressi in quest'ultima. Spostai la libreria di lato per rivelare la mia stanza segreta. 
"Allora ci sono davvero dei passaggi segreti", esclamò ad alta voce.
Cosa?
Mi voltai verso di lei stupito da ciò che aveva appena detto. 
Era buffa come sempre. "Vieni". Ero divertito da lei.
Entrammo nella stanza segreta. Ero nervoso e il mio cuore faceva i capricci, la dottoressa Grace non avrebbe gradito se lo avesse saputo.
La stanza era come sempre, circolare, con il gran tappeto, i miei comodi cuscini, dove facevo i miei soliti pisolini. La mia libreria era dove l'avevo lasciata l'ultima volta, con i miei adorati libri che mi facevano fuggire dal mio mondo che tanto detestavo. La frutta fresca tagliata alla perfezione, i tramezzini e il succo erano stati messi con cura sul tappeto come avevo chiesto, era tutto perfetto, speravo che gradisse tutto, ma soprattutto, il mio gesto.
Quando la guardai, notai che c'era qualcosa che non andava in lei. "Cosa c'è?", le chiesi.
"Niente", mi disse in un bisbiglio. Sapevo che non era così ma decisi di ignorare la cosa, almeno per il momento. "Siediti", le ordinai indicandole di accomodarsi su un cuscino. 
Ubbidiente fece come le fu detto. Mi accomodai di fronte a lei per guardarla. Mi piaceva guardarla.
Restò in silenzio, che fosse intimidita da me? 
"Mangia", le ordinai per l'ennesima volta. 
"Chi mi dice che non ci hai messo qualcosa di strano?".
Era esasperante. "Imboccami, così capirai che non ho messo niente nel cibo. Non ti avveleno, tranquilla, non è nel mio stile".
Titubante prese un pezzo di ananas, si avvicinò con timore a me imboccandomi.
Che cosa imbarazzante. Sperai tanto di non esser diventato tutto rosso. Notai che anche lei era imbarazzata.
"Visto, non è avvelenato il cibo".
Prese un tramezzino che gustò con piacere. Bene. Ne presi uno anch'io che divorai in un attimo, ero affamato e sollevato allo stesso tempo. 
Continuava ad ignorarmi, guardava ovunque tranne che me, era così frustrante. Volevo che mi guardasse, mi piacevano i suoi occhi grigi.
"Allora, a cosa devo tutto questo?", mi chiese all'improvviso. 
"Tu sei mia", le dissi quelle parole come a confermarle sulla pietra, "perciò, ti devo nutrire come si deve e poi, non mi piace condividere le mie cose con gli altri, così ti ho portata qui".
"Io sarei tua?", mi chiese in un sussurro.
"Sì". Ogni parte di me lo voleva, ma lei?
"Perché?".
Mi spuntò un mezzo sorriso, guardai per terra per un istante in cerca delle parole giuste. "Ho sempre ottenuto ciò che voglio e desidero, nessuno me lo ha mai negato". E questo era vero, ma non avevo mai desiderato niente così ardentemente come lei in quel momento. "Adesso voglio te".
"Mi confondi".
"È il mio scopo".
Sbattee le palpebre, era confusa e frastornata o stava svenendo dalla fame?
"Mangia". Non volevo che svenisse. 
"Non ho fame".
Bambina monella. "Non hai quasi toccato cibo però, sei a dieta per caso? Vedi che non ne hai bisogno".
Dalla sua espressione il mio commento non fu gradito, tipico. "Ok, come non detto, almeno sdraiati e mettiti a dormire".
Mi guardò storto per poi ignorarmi per l'ennesima volta. 
"Sei una seccatura". Ero irritato da lei, più che altro dal suo comportamento.
Mi sdraiai mettendomi a dormire su un cuscino. Ero stufo del suo comportamento infantile.
Aspettai con ansia il suo tocco delicato che non arrivò per l'ennesima volta, lo desideravo tanto, che cosa aspettava?
Decisi di aprire gli occhi e vedere cosa stesse facendo. Aveva in mano uno dei miei libri, lo guardava con occhi sognanti.
Quando si accorse che la stavo fissando, le chiesi: "Ti piace leggere?". 
Fu stupita dalla mia domanda. "Sì, la lettura è tutto per me".
Le indicai di avvicinarsi a me, volevo saperne di più, tutto di lei mi incuriosiva. Con titubanza eseguì il mio l'ordine.
"Perché leggi?", le chiesi.
"I libri sono i miei unici amici, quando mi sento sola e triste leggo e tutto passa, è come se facessi parte della storia".
Era come me, che avessimo qualcosa in comune? Il punto era, se dovevo condividere questa cosa con lei.
"Io leggo per scappare dalla mia realtà, dal mio mondo".
"Perché scappi?".
Se sapessi, proveresti solo pietà per me e io non voglio. "È complicato".
"Spiegami allora".
Com'era insistente. "Non devi sapere i miei fatti, nessuno li deve sapere". Irritato mi misi a sedere per guardare l'ora, era tardi. "Dovresti andare, l'ora è quasi finita".
"Sì, andiamo a lezione".
"No, solo tu, io devo fare una cosa". Dovevo raccontare tutto al dottor Clark.
Non si decideva ad andarsene, era seccante quando non mi ubbidiva. "Ho detto va'".
Andò via lasciandomi solo e con un senso di vuoto nel petto. 

Entrai in modo brusco nel studio del dottor Clark andando ad accomodarmi sul divano. "Ho organizzato una specie di picnic nella mia stanza segreta".
"Anche per me è un piacere vederti, Sam".
Lo guardai in cagnesco, quel gesto lo face impallidire. "Cos'è successo in quella stanza?".
Presi un gran respiro e iniziai il mio racconto. "Le ho detto che è mia".
"Ed è questo quello che vuoi, Sam?".
"Sì, dev'essere solo mia".
"Perché?". La domanda mi spiazzo, non avevo pensato a questo. Perché volevo che fosse solo mia?
"Perché la desidero".
"Perché la desideri?". Un'altra domanda spiazzante. 
"Non lo so...". La mia voce era un sussurro. 
"Capisco... che altro è successo in quella stanza che ti ha sconvolto così tanto?".
"Tante cose". Feci una pausa ripensando a quei momenti, poi proseguii, "Ho fatto preparare qualcosa da mangiare, non fidandosi di me mi sono fatto imboccare da lei, è stato... imbarazzante".
"Che altro?".
"Non si fida molto di me, credo che abbia una brutta considerazione di me, probabilmente. Non fa che ignorarmi di proposito, è seccante quando lo fa, ma stranamente mi piace".
"Altro?", mi chiese curioso come al solito. 
"Sì. Mi sono messo a dormire aspettando il suo tocco, oggi non l'ha fatto, lo desideravo così tanto". Sospirai per la frustrazione. 
"Sam?", richiamò la mia attenzione.
"Sì?". Sembrava seccato.
"Perché non chiedi e basta? Di solito quando si vuole qualcosa si fa così e poi, tu ottieni sempre quello che vuoi, dico bene?". Aveva ragione, ma con lei era diverso, tutto lo era.
"Sì, però...".
"Però cosa?".
Lo guardai per qualche attimo in cerca di una risposta. "Con lei è diverso". La mia voce era un'altra volta un sussurro.
"Perché, cos'ha lei di diverso?".
Tutto. Lei non era come gli altri, di certo era migliore. "È speciale".
"Hai paura, Sam?".
Che domanda era!? Io non avevo paura di niente, benché meno della morte o di una qualunque ragazza. No! Lei non era una ragazza qualsiasi, era diversa dalle altre, unica. Che avesse ragione il dottor Clark? 
"Non lo so...". Era frustrante. 
"Sam, va' da lei e chiedi".
"Tutto qui?". Mi guardò annuendo.
Mi alzai per tornare in classe, come al solito non salutai. 
Quando entrai in classe constatai che c'era quell'idiota di insegnante di storia. Che seccatura. Ignorandolo mi diressi verso il mio posto.
Mi bloccai di colpo. Lei non c'era, non era al suo posto. Dov'era!
"Dov'è la nuova alunna?".
"Oggi non c'è a quanto pare".
Mi voltai verso quell'idiota di insegnante di storia e lo guardai in modo truce. Neanche si era accorto che una delle sue alunne era sparita. Uscii dalla classe come una furia.
Poco probabilmente si era persa. Che idiota che ero stato! In fondo sapevo che aveva uno scarso senso dell'orientamento e quest'immensa scuola non le facilitava le cose. La cercai in lungo e in largo, finché non la trovai. Che sollievo. Era rannicchiata per terra con il capo poggiato sulle ginocchia, probabilmente stava piangendo. No! Una strana sensazione sconosciuta mi attanagliò la gola come a soffocarmi.
Corsi da lei. "Hey, ti ho trovata!".
Alzò il capo dalle ginocchia per guardarmi. Non riuscii a decifrare la sua espressione ma era evidente che avesse pianto. Era tutta colpa mia. Avvicinandomi a lei mi inginocchiai e le porsi il mio fazzoletto che estrassi dalla tasca dei pantaloni. 
"Mi ero dimenticato il tuo scarso senso dell'orientamento, non trovandoti in classe sono corso a cercarti". Sono un emerito idiota.
"Tranquillo, tanto ci sono abituata ad essere invisibile", mi disse mentre si asciugava le lacrime con il mio fazzoletto. Non riuscii a capire il senso delle sue parole, decisi di non chiedere.
Mi alzai e le porsi la mano. "Andiamo". Titubante accettò la mia mano e si fece condurre da me verso la nostra aula, anche questa volta quel contatto mi diede una scarica elettrica.
Entrammo in classe come se nulla fosse, in genere facevo sempre così. Era nervosa e la causa di tutto ciò ero io. Mi dava una strana sensazione renderla nervosa, ma ancora dovevo definire questa cosa che sentivo. In genere sapevo tutto ed ero controllato ma questa ragazza mi confondeva, con lei era come camminare al buio.
Quando mi accomodai, il professore continuò la sua spiegazione. Era noioso come al solito, con la sua parlata strascicata e il suo fare da lumaca, mai conosciuto insegnante così, e ne avevo fatti scappare parecchi.
Era giunto il fatidico momento di dire al professore di storia del mio nuovo tutor, era lui che se né occupava. 
"Professore!", richiamai la sua attenzione. Si interruppe dal suo ciarlare e mi guardò, credo con terrore.
"Sì?". Inghiottì un groppo di saliva.
"Voglio...", feci una pausa per intomorirlo ancor di più e ci riuscii, poi proseguii, "un tutor".
Si rilassò visibilmente. "C-certo, scriverò la richiesta per un tutor per lei".
"No, non voglio un esterno, voglio uno studente".
"M-ma certo... ha delle preferenze?". Si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto. 
"Sì, la nuova arrivata". Sentii un mormorio generale, l'insegnante mi guardò basito e lei... come al solito, restò a bocca aperta. Proseguii il mio discorso, "Ho constatato, io stesso, che la nuova arrivata è ben preparata, così, ho deciso che sarà la mia nuova tutor, credo che mio padre ne sarà contento".La carta di mio padre funzionava sempre e quando ne avevo bisogno l'utilizzavo.
Il professore era rimasto a bocca aperta. "Certo, come desidera", disse, ritrovando la parola e il contegno.
"Bene. Adesso...". Il professore sgrano gli occhi e lei trattene il respiro. "voglio che qualcuno venga qui e avvicini il mio banco con quello della mia tutor", ordinai.
Tutti si alzarono per spostare il mio banco. Che leccapiedi, in quel momento mi irritarono come non mai.
Quando i nostri banchi furono vicini, mi appoggiai ad esso e l'osservai. Era nervosa e faceva di tutto per non guardarmi, era carina però. Volevo che mi toccasse ma in quel momento non potevo, gli occhi di tutti erano puntati su di noi, magari più tardi.
Le lezioni proseguirono noiosamente come al solito, soltanto che adesso non ero andato via come al solito, no, dovevo restare e resistere per lei. Non volevo allontanarmi da lei, era qualcosa di nuovo e inspiegabile per me. Quando la guardavo mi sentivo strano, il mio cuore faceva i capricci ma era sottocontrollo, anche il mio stomaco faceva i capricci. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ma soprattutto, che cosa mi stava facendo questa ragazza così misteriosa?
Finalmente le lezioni finirono. Senza degnarmi di uno sguardo, Elle ripose le sue cose ordinatamente per poi alzarsi e andarsene via. Mi alzai e la seguii. Sapevo che si era accorta della mia presenza, la sua camminata era rigida.
"Per quanto tempo continuerai ad ignorarmi?", le chiesi richiamando la sua attenzione, ma continuò ad ignorarmi.
La seguii fino alla fermata degli autobus. Andava a casa in autobus? Nessuno degli studenti lo faceva, erano tutti ricchi e tornavano a casa con i loro autisti nelle loro costosissime auto, anch'io lo facevo. Ora che ci pensavo... la sua casa non era un granché, non era da persona molto ricca, come si poteva permettere la retta scolastica? Che papà le avesse dato una borsa di studio? Era possibile, ma da noi non si dava in genere, magari era una ragazza molto intelligente, probabilmente era così. Comunque sia, non mi piaceva che prendesse l'autobus tutta da sola, era indifesa e poteva incontrare qualcuno di losco che le poteva far del male. Presi il mio telefono per mandare un messaggio al mio autista per dirgli di venire qui, tanto avevo già previsto di accompagnarla a casa.
"Quindi prendi l'autobus tutti i giorni?", le chiesi. Niente, continuava ad ignorarmi, ne avevo abbastanza del suo comportamento infantile. La presi per un braccio per attirarla a me, i nostri corpi erano come fusi insieme, riuscivo a percepire il calore del suo corpo che si scaldava sempre più e i battiti del suo cuore, erano accelerati. Puntai i miei occhi nei suoi, per un attimo mi ci persi, con fatica tentai di ritrovare la mia lucidità. "Ci tieni così tanto a farmi innervosire?". Continuava a non parlarmi. "Tu sei mia, mi appartieni... non devi ignorarmi, hai capito?". La mia voce era un sibilo. Alla mia domanda annuì semplicemente, era come frastornata, che stesse poco bene?
"Stai bene?". Cercai di mantenere un tono pacato ma ero preoccupato per lei, era una novità per me.
"Sì". La sua voce era poco meno che un sussurro. Ora si che ero davvero preoccupato.
Prima che riuscissi ad aprire bocca e dire qualcosa, sentii il clacson che mi annunciava l'arrivo del mio autista. Che tempismo. 
"Ti accompagno a casa", le dissi. Cercò di ribattere ma la fulminai con lo sguardo. 
Il mio autista ci aspettava tenendoci lo sportello dell'auto aperto. La feci entrare per prima e io dopo di lei.
Era nervosa. "Ti accompagno a casa", le ripetei.
"Va bene", mi disse rassegnata.
"Tornerò nel pomeriggio", le annunciai.
Mi guardò allarmata. "Sei il mio nuovo tutor, dobbiamo studiare insieme".
"Già, vero...". C'era qualcosa che non andava in lei.
"Qualcosa non va?". Non mi rispose.
Mi esasperava questa ragazza. "Chiedi pure, non mi arrabbierò, basta che parli con me, non mi piace essere ignorato".
"Perché proprio io?". Che strana domanda, non capivo cosa volesse intendere. "Non capisco".
Sospirò. "Perché ce l'hai con me?".
"È questo quello che pensi, che ce l'ho con te?".
"Non so, dimmelo tu". Era preoccupata, finalmente capivo cos'avesse.
"Non ce l'ho con te". Si rilassò. "Mi serve un tutor, tutto qui, e tu, mi sembri più intelligente della maggior parte degli studenti, sennò di tutti, compresi gli insegnanti".
"È questo quello che pensi di me?".
"Sì", le dissi guardando fuori dal finestrino, eravamo quasi arrivati a casa sua.
Quando ci fermammo mi guardò stupita ma non disse nulla, sapevo cosa volesse chiedermi. Ebbene sì, mi ricordo dove abiti.
"Ci vediamo fra due ore".
Mi guardò per qualche attimo, mi beai di quel sguardo, poi mi disse: "A dopo". Uscì dall'auto e senza voltarsi si diresse verso la sua abitazione. Già mi mancava.

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Capitolo 7
*** Eleonora IV ***


Che giornata assurda! Era successo di tutto. Lo psicopatico, Sam, mi aveva portata in una stanza segreta, nonostante ciò, mi era piaciuto passare quel poco tempo in quel posto con lui, come ieri, e poi aveva preparato tutto quel cibo per me, ma alla fine non dovevo illudermi. Come mi aveva detto, io ero sua, più che altro mi considerava come un oggetto di sua proprietà, e quando si sarebbe stancato di me, mi avrebbe gettata via.
C'era dell'altro in lui però, c'era un motivo se era così e l'avrei scoperto. Non capivo perché mi interessasse così tanto, ma poco probabilmente avevo il cuore troppo tenero.
Adesso si era messo in testa che dovevo fargli da tutor e da un momento all'altro sarebbe venuto qui a casa mia. Già mi immaginavo la scena, lui che sfondava la porta e con una motosega in mano annunciava la mia fine. Sarei diventata uno spezzatino, che bella fine. Nella mia lapide scriveranno: Qui giace, Eleonora lo spezzatino.
Però oggi era stato gentile, quando mi ero persa era venuto a cercarmi.
Eleonora non cadere nella sua trappola! 
A lui non importava un bel niente di me, altro che gentile, aveva una mente perversa e diabolica. Probabilmente aveva in mente un piano malefico. Che mi avrebbe fatto? Già tremavo al solo pensiero. 
Mentre continuavo a fantasticare, suonarono il campanello, quel suono mi fece accelerare il battento cardiaco, mi stava per venire un colpo. 
Velocemente andai ad aprire la porta, sicuramente non gli piaceva aspettare.
Quando aprii la porta restai incantata da lui, come al solito era vestito di nero. Ripensandoci bene, una ragazza normale resterebbe incantata, nel mio caso, probabilmente ero rimasta imbambolata come un ebete e come ciliegina sulla torta, avevo la bocca aperta.
Mi guardava in modo strano, che stesse trattenendo il suo divertimento verso di me? Era possibile che mi trovasse buffa?
Con arroganza entrò dentro casa, destandomi dai miei pensieri poco normali.
Seccata da lui e dal suo comportamento poco educato e incivile, chiusi la porta con la delicatezza di un elefante.
Mi voltai per guardare la sua espressione, ed aveva un sopracciglio alzato. 
"Ehm... colpa del vento", cercai di trovare una scusa sensata.
"Non c'è vento". Volevo sparire dalla vergogna. Non me ne capitava una giusta. "Allora", richiamò la mia attenzione, "studiamo o no?".
"S-sì". Ero agitata.
Ci sedemmo alla scrivania nella mia stanza, si mise a scrutare ogni minimo particolare, solo che adesso la camera era piena delle mie cose. Che imbarazzo. La mia stanza non era un granché, c'era il mio letto, la libreria con i miei inseparabili libri consumati dalle tante letture, e per finire, c'era la mia anonima scrivania.
Mi schiarii la voce per richiamare la sua attenzione. 
"Che c'è?", mi chiese con aria... non sapevo se era seccato o semplicemente volesse farmi esplodere la testa con la sola forza del pensiero. 
"Ehm... iniziamo a studiare".
Brontolò. "Va bene, tutor". La parola tutor la disse con una strana enfasi. 
"Dobbiamo prepararci per i test del mese...".
"Non li faccio mai", mi disse interrompendomi.
Che cosa strana, come faceva ad essere sempre promosso se non faceva praticamente niente? Poco probabilmente la sua famiglia pagava una lauta somma per farlo passare sempre avanti. Queste cose non andavano affatto bene, non avrebbe mai imparato nulla in questa maniera, ma da adesso, grazie a me, avrebbe studiato come si deve.
"Dunque, dobbiamo prepararci per i test di; storia, arte e di economia aziendale". Dalla sua espressione sembrava un tantino seccato ma non obiettò. Proseguii, "Iniziamo con storia...".
"Va bene, tutor". Sembrava ancora seccato e se ne stava con il pugno poggiato sulla guancia, come a reggersi il capo.
"Abbiamo circa 40 pagine da studiare, ce la puoi fare". Cercai di incoraggiarlo.
"Ok, dammi il libro e le pagine che devo studiare". Allungò la mano con entusiasmo, ero basita dal suo comportamento. 
Quando mi ripresi dallo shock, presi il libro di storia e gli indicai le pagine che doveva studiare, così ci mettemmo all'opera. Neanche il tempo di finire di leggere la prima pagina, e io ero velo, lo sentii dire che aveva finito. 
"C-cosa?", balbettai incredula.
"Ho finito". Aveva un'aria divertita, che si stesse prendendo gioco di me? Da uno psicopatico c'era d'aspettarsi di tutto. 
"Com'è possibile che tu abbia finito così in fretta?".
"Mia cara, tutor, devi sapere, che, sono molto intelligente". Se credeva di essere divertente, si sbagliava di grosso. 
"Su avanti, basta scherzare, dobbiamo studiare". Mi stava stufando il suo giochetto, credeva davvero che ero così credulona? 
Fece un sospiro seccato. "Dammi il libro d'arte, tu nel frattempo continua a studiare storia".
Adesso ero seccata più che mai. "Non mi piacciono certi giochetti".
"Ma io non sto giocando".Era divertito da me.
"Se come dici tu, hai già imparato le pagine da studiare, non avrai nessun problema se ti interrogo, dico bene?". Adesso vediamo chi è il più furbo fra noi due, mio caro. 
"Come vuoi".
Non riuscii a credere alla mie orecchie. Sapeva praticamente il libro a memoria, non era assolutamente possibile, sicuramente stava imbrogliando. Chiusi il libro in modo brusco. "Tu stai imbrogliando, probabilmente hai un auricolare e qualcuno ti sta suggerendo".
"Hai una fervida immaginazione, mia cara tutor". Rise di me. Aveva un bel sorriso. 
Riprenditi Eleonora, non è il momento!
"Se è così, fammi controllare".
"Come vuoi". Allargò le braccia per farsi perquisire.
Dovevo toccarlo? Se lo avessi fatto ci sarei rimasta secca e non l'avrebbe fatto lui con le sue diaboliche mani ma con il suo fascino e per l'effetto che mi faceva, già avevo le palpitazioni. 
"N-no, t-ti credo". Sembravo un idiota, più del solito, si intende. 
Aveva un'aria compiaciuta, ma non gliel'avrei data vinta. Gli passai il libro d'arte indicandogli le pagine da studiare. Questa volta l'osservai. Osservava la pagina con concentrazione per qualche secondo per poi passare all'altra. Alzò il capo, mi guardò per qualche istante con il suo solito sguardo intenso che mi faceva perdere, per poi dirmi: "Ho finito, vuoi interrogarmi anche questa volta?".
"Sì".
Come prima sapeva la lezione alla perfezione, iniziavo a credere che fosse davvero molto intelligente.
Passò al libro di economia aziendale che imparò con altrettanta facilità.
Non capivo, se era così intelligente, perché voleva un tutor? Perché proprio me poi? Probabilmente anche questo faceva parte del suo piano diabolico per farmi impazzire. 
"Se sei così intelligente, perché mi hai chiesta come tua tutor?". Come al solito parlavo troppo, speraì tanto che non se la prendesse, ma soprattutto, che non mi uccidesse. 
"Te l'ho detto, tu sei mia".
"E con questo cosa c'entra?". Mi faceva ancora uno strano effetto sentire quelle parole. 'Tu sei mia'. Il mio cuore faceva le capriole quando le pronunciava.
"Probabilmente quell'idiota d'insegnante di storia ti avrebbe assegnato un tutor esterno, senza sapere poi il tuo grado di preparazione e le tue capacità, così, ti ho proposta come mia tutor".
"Sì, in effetti aveva fatto la richiesta per un tutor...". Continuavo a non capire cosa c'entrasse il fatto che ero sua.
"Ti vedo perplessa, vuoi chiedermi qualcosa?". Stranamente era cortese, ma era sempre meglio stare allerta. 
"Cosa c'entra questo con il fatto che sono tua?".
Bruscamente si alzò dalla sedia per avvicinarsi a me, quasi mi venne un colpo dallo spavento. 
Il suo viso era troppo vicino al mio. Troppo vicino. Sentivo il suo respiro su di me, profumava di cioccolata fondente. 
"Credi che ti lascerei ad un altro? No, tu sei solo mia, non devi ne parlare e ne interagire con nessuno, hai capito?". Le sue parole erano un sibilo che mi incantava e frastornava, annuii ubbidiente al suo volere. Avevo voglia di baciarlo, d'assaggiare le sue labbra e sentire quel sapore di cioccolata fondente e perdermi in quel contatto. 
Eleonora, datti un contegno, tanto lui non ti vorrà mai in quel modo! Dopo essermi rimproverata per l'ennesima volta, costai il viso dal suo. 
"Tu studia storia, io nel frattempo mi metto a dormire", mi disse spostandosi da me e andando a sdraiarsi nel mio letto, era davvero seccante. 
"Stai sempre a dormire, non dovresti fare tardi la notte", gli dissi seccata ed irritata allo stesso tempo, per poi pentimi di ciò che avevo appena detto. 
"È questo quello che pensi di me, che faccio tardi la sera?".
Aiuto, adesso mi avrebbe uccisa. Annuii impercettibilmente. 
"Vieni qui", mi ordinò.
Non sapevo se andare da lui o meno, non era sicuro. 
"Vieni", insistette.
Oh no! Meglio non farlo arrabbiare.
Con passo lento e titubante, andai a sedermi in un angolo del letto lontano da lui.
"Più vicina", mi ordinò. 
Smisi di respirare. Voleva uccidermi brutalmente, ne ero certa. Chiusi gli occhi aspettandomi la fine.
"Sei sorda per caso? Ho detto, più vicina".
Lo sentii avvicinarsi a me e tirarmi verso di sé e cadere entrambi sul letto. Era la fine.
Sentivo uno strano calore, era così bello, mi sentivo al sicuro, protetta da tutto. Ero tra le braccia dello psicopatico, avrei dovuto sentirmi in pericolo ma non era così, non riuscivo a capacitarmene. Volevo stare per sempre fra le sue braccia. Così stretta a lui riuscivo a sentire i battiti del suo cuore... che strano però, erano irregolari i suoi battiti. 
Mi staccai da lui per mettermi seduta, quando lo feci lui emise uno strano suono gutturale, era come un lamento.
Ci guardammo per qualche istante e come al solito il suo sguardo mi fece sentire persa.
Distolse lo sguardo per poi mettersi più comodo. "Sdraiati qui con me", mi ordinò e senza pensarci un attimo feci come mi fu detto. 
"Non faccio tardi la sera", mi disse voltandosi verso di me e guardarmi.
"Quindi non esci con gli amici?".
"No, e poi non ho amici, non ne ho mai avuto bisogno". Non capivo, non si sentiva solo? 
"Non ti senti solo?". Mi sentivo così triste per lui.
"Ho i miei libri", mi rispose senza guardarmi.
"Guardami". Questa volta fui io ad ordinare e lui ad eseguire. I suoi occhi erano due pozze blu dove potevo specchiarmi ed annegare.
"Tutti hanno bisogno di qualcuno, anche se affermi di non averne bisogno". Non mi rispose. "Dici di avere i tuoi libri, loro possono aiutare, certo, ma non colmeranno mai quel vuoto che hai dentro, quell'affetto che ti manca, che ti può dare un amico o un amante".
"Amante?".
"Sì, la persona che ami".
Sembrava confuso.
Mi guardò sospirando. "L'amore non m'interessa, è da stupidi".
L'amore è da stupidi! Questa è bella. Da quando in qua era da stupidi? E poi lui era quello che possedeva una vasta collezione di libri con le storie d'amore più belle di tutti i tempi. "L'amore non è da stupidi, è la cosa più bella che si possa avere".
"Sarà...", mi disse per poi voltarsi dall'altra parte annoiato. Volevo picchiarlo ma mi trattenne dal farlo, solo perché sapevo che mi avrebbe uccisa senza alcuna pietà. 
Sbuffai, tanto con lui era tutto inutile. 
Si girò di scatto spostandosi su di me. Non avevo via di scampo dalle sue grinfie. Il suo sguardo non era come al solito, era diverso e indecifrabile. Cosa voleva da me adesso?
"Hai mai amato?". Cosa? Che strana domanda. Amare era una parola grossa, alla fine avevo solo diciassette anni, ma da quel che avevo imparato, l'amore non aveva età e nessuna logica, era imprevedibile. Se avessi amato in passato era certo, e la risposta era no. Questo era prima di aver incontrato lui, ma adesso? "No", la mia voce era quasi impercettibile.
Era pensieroso, che volesse dirmi qualcosa?
"Io... non so cosa significhi amare... ho cercato di capirlo, questo spiega il fatto che possegga tanti libri romantici, ma alla fine, non ho mai capito cosa significhi amare".
Non riuscivo a capire. "Avrai provato qualche sentimento, almeno per qualcuno, insomma, siamo nella fase della crescita e siamo in un periodo che praticamente ci piace chiunque...".
"Non è nel mio caso", mi disse interrompendomi. Si avvicinò pericolosamente al mio viso, sentii di nuovo quel profumo di cioccolata fondente. "Non ho mai provato niente, nessuna emozione, sono vuoto dentro". Non so il perché, ma le sue parole mi facevano male. Non era quel male quando ti dicevano qualcosa di brutto, più che altro, era quando succedeva qualcosa di brutto alla persona che più tieni al mondo.
Institivamente poggiai la mia mano destra sulla sua guancia, quel contatto mi diede una scossa elettrica, lui come risposta al mio contatto chiuse gli occhi e inspirò, più che altro sembrava un sospiro. "E adesso, non senti niente?", gli chiesi.
Aprì i suoi occhi blu. "Non lo so", mi sussurrò richiudendoli.
Fui tentata di baciarlo ma mi trattenni dal farlo, avevo già osato troppo toccandolo.
Si scostò per poi poggiare il capo sul mio petto. "Però mi piace quando mi tocchi i capelli". Cos'era questa, una confessione per caso? 
Titubante gli accarezzai i capelli, erano così morbidi. Era rilassato e non minacciava di uccidermi, non ancora almeno. Chiusi gli occhi per bearmi di quel momento.

Sentivo caldo e un peso che mi opprimevava il petto. Aprii gli occhi e capii cos'era, era lo psicopatico. Mi ero addormentata senza rendermene conto, anche lui dormiva, ma su di me e mi stava schiacciando. Cercai di sgusciare via da sotto di lui ma era troppo pesante ed io troppo debole. Optai per un altro approccio, ma era estremamente pericoloso. Cercai di svegliarlo. Lo scossi un po' ma sembrò non funzionare, così iniziai a toccargli i capelli, l'ultima volta si era svegliato. Dopo poco tempo lo sentii muoversi, si stava svegliando.
"Svegliati", gli sussurra continuando ad accarezzargli i capelli morbidi.
Emise un lamento. "No, ho sonno".
"Devi svegliarti".
"No", si lamentò. Trovai quella scena buffa.
"Su dai, mi stai schiacciando e poi tra un po' torna mia madre". Lo sentii sbuffare.
Si mise seduto stropicciandosi gli occhi, sembrava un bambino piccolo, aveva anche i capelli un po' arruffati.
"Ben svegliato". Mi guardò storto per poi alzarmi il dito medio. Come osava! Per tutta risposta lo spinsi, facendolo cadere dal letto. Era la mia fine.
Si alzò da terra ed aveva un'espressione da folle.
"Ti uccido", sibilò.
Presi un cuscino per farmi da scudo. "Ti prego, non mi uccidere", lo supplicai terrorizzata.
"Solo ad una condizione, magari anche più di una".
Spostai un po' il cuscino per guardarlo ma stavo bene allerta per un suo eventuale attacco. Aveva un ghigno stampato in faccia, cosa aveva in mente? 
"Che condizione?".
"Spogliati, voglio vederti".
Cosa!? Era impazzito per caso!?
Come risposta gli lanciai il cuscino che avevo in mano ma prontamente lo afferrò. Fortunatamente ne avevo un altro a mia disposizione, così iniziò una battaglia di cuscini. Prendersi a cuscinate era divertente e fu inevitabile non ridere, stranamente anche lui si stava divertendo, anche per il fatto che stesse vincendo. Peccato che il gioco durò poco. Il campanello suonò, sicuramente era mamma. Oh no! Si era raccomandata di non portare a casa nessun ragazzo.
Come se qualche ragazzo fosse interessato a me.
"È mia madre!".
"E allora?", disse tra una cuscinata e l'altra. 
Gli tirai il mio cuscino in pieno viso, be', almeno ci provai, visto che lo parò con il suo.
"Mia madre non vuole nessun ragazzo in casa, se ti vedesse qui darebbe di matto". Scesi dal letto per andare da lui e trascinarlo verso la finestra. 
"Cosa stai facendo?".
"Ti faccio uscire dalla finestra", gli risposi mentre lo spingevo a fatica, stava opponendo resistenza. 
"Sei impazzita?".
"Tranquillo, basta arrampicarsi dal tubo di scolo".
"Tubo di scolo!". Era allarmato, non credevo fosse possibile.
"Tu va', io placco mia madre, non ti deve vedere qui".
"E le mie cose?". Più in fretta che potei, presi le sue cose gettandole dalla finestra.
"Va!".
Uscii dalla stanza e trovai mia madre con la cena che aveva comprato in qualche ristorante vegano. 
"Mamma!".
Mi guardò con un sorriso che solo una mamma poteva avere. "Tesoro, ho comprato la cena". Alzò il sacchetto con la cena dentro per mostrarmelo.
"Bene, avevo fame". Sperai tanto che non notasse il mio nervosismo, ma soprattutto, che lo psicopatico fosse uscito dalla mia stanza.

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Capitolo 8
*** Sam IV ***


Qualcuno mi scosse dal torpore ma volevo ancora dormire, si stava così bene. Qualcuno mi stava accarezzando i capelli, che bella sensazione, vorrei che non finisse mai.
"Svegliati", mi sussurrò una voce ma era troppo bello per svegliarsi. 
"No, ho sonno", mi lamentai.
"Devi svegliarti".
"No". Com'era insistente quella voce, ma era bella e dolce, come quella della mia mamma.
"Su dai, mi stai schiacciando e poi tra un po' torna mia madre".
Sbuffai, non volevo alzarmi ma a quanto pareva, mi dovevo alzare.
Mi misi seduto stropicciandomi gli occhi per svegliarmi del tutto, accorgendomi che era stata Elle a svegliarmi.
"Ben svegliato", mi disse sorridendo, ma io ero irritato dal suo comportamento, così, le alzai il dito medio.
Fece una faccia indignata e per tutta risposta al mio gesto, mi spinse facendomi cadere dal letto.
Come osava, adesso era spacciata. "Ti uccido".
Spaventata dalla mia minaccia di morte prese un cuscino per proteggersi da me. "Ti prego, non mi uccidere", mi supplicò terrorizzata.
Potevo usare la cosa a mio favore. "Solo ad una condizione, magari anche più di una".
Spostò il cuscino per guardarmi. 
"Che condizione?", mi chiese titubante.
"Spogliati, voglio vederti". Ero stufo di quei vestiti larghi, volevo vederla. Volevo vedere il suo corpo. 
Indignata mi lanciò il cuscino che aveva in mano, che prontamente afferrai. Prese l'altro che aveva accanto a se ed iniziammo una battaglia di cuscini. Prendersi a cuscinate era divertente e fu inevitabile non ridere e la cosa mi stranii, io non mi divertivo mai. Mai. 
Si sentì il campanello suonare, ma non ci badai, mi stavo divertendo troppo per smettere.
"È mia madre!", disse allarmata smettendo di darmi cuscinate.
"E allora?", chiesi mentre continuavo a darle cuscinate. 
Tirò il cuscino in direzione della mia faccia ma abilmente lo parai con il mio. "Mia madre non vuole nessun ragazzo in casa, se ti vedesse qui darebbe di matto". Allarmata scese dal letto dirigendosi verso di me e trascinandimi verso la finestra. Cosa aveva in mente? "Cosa stai facendo?".
"Ti faccio uscire dalla finestra".
Cosa!? "Sei impazzita?".
"Tranquillo, basta arrampicarsi dal tubo di scolo".
"Tubo di scolo!". Era fuori di testa per caso?
"Tu va', io placco mia madre, non ti deve vedere qui".
"E le mie cose?". Mi lasciò andare per prendere le mie cose, per poi gettarle dalla finestra.
"Va!".
Prima che riuscissi a capire cos'era successo, era già sparita. E adesso cosa facevo? 
Mi affaccia alla finestra, era un po' alto e non mi fidavo del tubo di scolo, mi avrebbe retto?
Feci un gran respiro e agilmente mi arrampicai sulla finestra per poi afferrare il tubo e scendere abilmente. Era stato più facile del previsto. 
Presi le mie cose sparse per il giardino riponendole dentro lo zaino. Mentre me ne andavo via furtivamente da quella casa, mi spuntò un sorriso pensando a lei e al suo bizzarro modo di fare, era troppo buffa.
Tornai a casa fischiettando. Che strano, non era da me, ma c'è sempre una prima volta per tutto.
"Sam, ti vedo allegro", mi disse mio padre mentre mi vide passare davanti al suo studio fischiettando.
"Sì, è una bella giornata", commentai. 
"Mi fa piacere". Era sorridente, buon per lui.
Come un lampo mi venne un idea. "Papà". Entrai nello studio avvicinandomi alla sua scrivania. 
"Sì, Sam?".
"Mi dai le chiavi della scuola, ho dimenticato una cosa là".
Mi guardò perplesso ma frugò nelle tasche in cerca delle chiavi. "Ecco qua". Mi porse le chiavi che presi ben volentieri. 
"Ciao". Lo salutai andandomene via e lasciandolo basito dal mio strano comportamento.
Fortuna voleva, che fossi il figlio del preside e quando volevo, potevo accedere agli archivi e alle informazioni di tutti gli studenti. Il mio piano consisteva nel trovare le informazioni sulla taglia di Elle per farle confezionare e recapitare a casa delle nuove divise della misura giusta. Ero stufo di vederla con quei vestiti troppo larghi, almeno a scuola doveva indossare la divisa della giusta misura, ero un genio.
Quando entrai a scuola, grazie alle chiavi di mio padre, andai nel suo studio a procurarmi le informazioni su di lei.
Mi accomodai alla sua scrivania, accesi il pc ed inserii la password. Cercai la cartella della mia classe, la XX e cercai il suo nome con allegate le sue informazioni. C'era scritto di tutto, ma stranamente rispettai la sua privacy e cercai solo la sua taglia, dopodiché chiamai il sarto della scuola per fare l'ordine e farlo recapitare al seguente indirizzo. Il piano era in atto.

Questa mattina mi svegliai presto, volevo andare da lei per accompagnarla a scuola, non mi piaceva che prendesse l'autobus da sola, le poteva succedere di tutto.
Indossai la divisa e sistemmai a dovere i capelli, dovevo essere impeccabile. Presi lo zaino ed uscii da quella grande e triste villa per andare da lei.
Quando mi vide lì, alla fermata dell'autobus ed appoggiato sulla mia Rolls Royce, rimase come al solito a bocca aperta. Mi divertiva sempre quando restava a bocca aperta. Con galanteria, le aprii lo sportello dell'auto per farla entrare. Con titubanza e con lo sguardo ben attento, entrò in auto senza obiettare. 
Quando entrai in auto mi guardava storto. Adesso cosa c'era che non andava? "Cosa c'è?".
"A cosa devo questa gentilezza".
Gentilezza?! Io non ero un tipo gentile. "Non sono gentile", sottolineai, "mi prendo solo cura delle mie cose e le tengo d'occhio, tutto qua".
"Ah...". C'era rimasta male? Era delusa? Era strana in viso.
"Cosa c'è?". Cercai di mantenere un tono pacato ma in realtà ero allarmato.
"Niente".
Com'era irritante, mi doveva dire tutto. Le presi il viso tra le mani per poterla guardare nei suoi bei occhi grigi. "Mi devi dire sempre tutto, non mi piace che mi tieni le cose nascoste, intensi?". Come una brava bambina annuì. "Allora dimmi, cosa c'è?". Non mi rispose, continuava a guardarmi. Mi allontanai da lei seccato per guardare fuori dal finestrino, era frustrante questa ragazza, mi esasperava.
"Credevo solo che per una volta qualcuno si preoccupasse per me e che...".
Mi voltai verso di lei. Finalmente aveva parlato ma si era fermata a metà frase.
"Continua".
Sospirò per poi voltarsi e guardare fuori dal finestrino, come avevo fatto prima io. Forse era meglio non insistere con lei. Volevo che mi toccasse i capelli, durante la notte mi era mancata, non avevo fatto altro che rigirarmi nel letto e pensare a lei e al suo delicato tocco su di me. Mi poggiai sulla sua spalla. Non si spaventò o mi cacciò via, più che altro sospirò. Volevo che mi accarezzasse i capelli e come mi aveva detto il dottor Clark, dovevo chiedere. 
"Mi accarezzi i capelli?". La mia voce era un bisbiglio supplichevole. 
Senza farselo ripetere, allungò una mano per accarezzarmi e mi beai del suo tocco. Sentii di nuovo quel suo profumo di primavera e ciliegie, era così bello.
"Mi piace il profumo che indossi".
"Non uso profumi, mia madre dice che fanno male".
"Allora è il bagnoschiuma, mi piace".
"Ehm, non so che profumo senti, ma uso un bagnoschiuma neutro".
Cosa? Che sia la sua pelle ad emanare questa bellissima fragranza? "Allora sei tu". Mi spuntò un sorriso indesiderato, sperai tanto che non lo notasse.
Purtroppo l'auto si fermò, annunciando il nostro arrivo. Di malavoglia mi spostai da lei sentendo un vuoto accrescere dentro di me. Cos'era? 
Controllo Sam! 
"Andiamo in classe". Quando la guardai notai che in lei c'era qualcosa che non andava. 
"Qualcosa non va?".
Si morse il labbro inferiore nervosamente, non sapendo se dirmi qualcosa o meno.
Con un gesto della mano le liberai il labbro dalla sua morsa. Era... credo basita, ma non sapevo dirlo con certezza. "Imparerai mai a dirmi le cose?". Le chiesi mentre lasciavo andare il suo labbro.
"Non credo", disse più a se stessa che a me.
"Cattiva bambina". Mi guardò restando come al suo solito a bocca aperta. Divertito da lei, la presi per mano trascinandola via con me fuori dall'auto e sentendo quella oramai familiare scossa elettrica.
"Andiamo in classe, voglio stare solo con te".
"Cosa?". Era basita.
Mi voltai per guardarla, aveva un'espressione buffa.
"Te l'ho detto, ti voglio tutta per me".
Aprii di nuovo la bocca. "Chiudi la bocca o vi entreranno le mosche", la intimai mentre ci dirigevamo verso la nostra classe. 
Giunti in classe la trascina nel mio posto, mi accomodai sulla sedia facendola sedere sulle mie gambe. Era imbarazzata. Era adorabile quando si imbarazzava.
"Ti imbarazzo?", le sussurrai all'orecchio.
Mi guardò storto. "Quello che fai non è normale".
"Cosa, venire a prenderti a casa per accompagnarti a scuola e farti sedere sulle mie gambe?".
"Ehm... sì".
"Cosa c'è di male?".
Ci pensò qualche istante prima di rispondere. "Sono cose da fidanzati".
Cosa? "Cose da fidanzati?". Ero perplesso.
"Sì". Era accigliata. 
Non capivo. Quello che facevo con lei, era da fidanzati?
"Queste cose le fanno i fidanzati?".
"Sì".
Che cosa strana. Non capivo, ero confuso. "Alzati".
Neanche il tempo di alzarsi che scappai via come un lampo. Dovevo andare da Clark per capire. 
Come sempre entrai come una furia nel suo studio per poi accomodarmi pesantemente sul divano.
Mi presi i capelli tra le mani per la frustrazione. "Cosa fanno i fidanzati?", chiesi.
"È sempre un piacere vederti Sam, cosa intendi con, cosa fanno i fidanzati?".
Alzai il capo per guardarlo, probabilmente avevo la faccia sconvolta. "Quando due persone stanno insieme, cosa fanno in genere, cosa li distingue dagli altri?".
Accavallò le gambe per soffermarsi a pensare alle mie parole. "Quando due persone stanno insieme fanno molte cose, anche simili a quelle che fanno dei semplici amici".
"Per esempio?".
"Uscire, andare al cinema, cose così".
"Anche andare a scuola insieme?".
"Sì, certo, anche questo".
Non capivo. "E allora cosa li distingue?".
"Il legame".
"Il legame?".
"Sì, quando due persone stanno insieme è perché provano attrazione l'una per l'altro".
Noi due non provavamo nulla l'uno per l'altro, è allora perché mi aveva detto quelle parole? Non ci stavo capendo più niente. 
"Lei mi ha detto che quello che faccio non è normale, è da fidanzati".
"Cos'hai fatto?".
"Stamattina sono andato a prenderla per accompagnarla a scuola, non voglio che prenda l'autobus tutta sola...".
"E poi? Non tralasciare niente".
"Mi sono appoggiato alla sua spalla e le ho chiesto di accarezzarmi i capelli, poi le ho detto che mi piace il suo profumo".
"E poi cosa avete fatto?".
"Siamo arrivati a scuola e lei era un po' strana, voleva dire qualcosa ma non la diceva e si mordeva anche il labbra...", mi soffermai a pensare alle sue labbra morbide, "mi esaspera quando non mi dice le cose".
"Non dare per scontato che ti dica sempre tutto".
"Già, lei non è come gli altri".
"Non avete fatto altro, prima che tu venissi qui?", mi chiese.
"Sì, l'ho presa per mano trascinandola in classe e quando siamo arrivati mi sono accomodato nel mio posto e l'ho fatta sedere sulle mie gambe".
Fece un sorrisetto che mi lasciò perplesso. "Vedi Sam, in genere, gli amici non si siedono sulle gambe dell'altro o si prendono per mano, certo, adesso i tempi sono cambiati e alcuni lo fanno, ma non credo che lei la pensi così".
"Quindi non devo più farlo?".
Mi guardò per un istante sorridendo. "Tu vuoi smettere?".
Che domanda era? Se volevo smettere? Certo che no, nessuno mi aveva mai impedito di fare qualcosa, ad eccezione di ciò che avrebbe fatto male al mio cuore e smettere di fare quello che stavo facendo con lei non era nella lista. "No".
"E allora non smettere".
"Penserà ancora a quella cosa?".
"Probabilmente sì, ma il punto è, tu vuoi che smetta di pensarla?".
"Lei vuole un fidanzato, cosa che non potrò mai essere per varie ed ovvie ragioni". Stavo per morire, ero vuoto, senza sentimenti e poi non ero veramente un ragazzo, anche se mi sentivo tale, ma lei tutto questo non lo sapeva.
"Ma la vuoi tutta per te", affermò.
"Deve essere solo mia". Questo era ovvio, ma non potevo essere il suo fidanzato, almeno così credevo. "Quindi, cosa devo fare?".
"Fa come sempre, fa quello che vuoi e metti in chiaro le cose, non bisogna etichettare ogni cosa". Aveva ragione. 
Mi alzai dal divano. "Bene, farò così".
Uscii dal suo studio, come al solito senza saluare, per tornare in classe.
Quando entrai in classe, il professore, come tutti gli altri, mi ignorò continuando la sua lezione.
Quando mi accomodai nel mio posto, le dissi: "Non mi piacciono le etichette". Mi ignorò. Non mi piaceva quando faceva così. 
Con poca eleganza mi sdaiai nel suo lato di banco in modo tale da guardarla in viso. "Mi spieghi perché mi ignori sempre?".
Sbuffando e alzando gli occhi al cielo, finalmente si decise a parlare: "Non parlo durante le lezioni". Adesso era tutto più chiaro. Quindi non parlava durante le lezioni, ma io volevo che mi parlasse. 
Poggiai il capo sulla sua spalla. "Ma a me non piace essere ignorato", sbuffai. 
Visto che continuava ad ignorarmi, mi misi ad osservarla, non mi piacevano i suoi occhiali, erano troppo grandi per lei e poi mi risultava difficile vedere i suoi bei occhi grigi attraverso le lenti.
"Hai delle lenti a contatto?". Scosse la testa impercettibilmente. "Puoi portarle?". Aggrottò la fronte non capendo il senso della mia domanda. "Voglio che indossi le lenti a contatto", le spiegai, "dopo scuola andiamo da un ottico, intesi?".
Mi guardò storto. "Se ti dico di sì, la smetti di disturbarmi durante le lezioni?". Era irritata da me.
"Può darsi, dipende tutto da te". Le tolti gli occhiali per indossarli, erano troppo forti per me.
"Mi ridai gli occhiali?", mi chiese irritata dal mio comportamento, mi stavo divertendo troppo per smettere.
"Forse, magari se mi fai un sorriso, potrei ridarteli".
Era accigliata ma io volevo che sorridesse, così feci l'inimmaginabile.
Mi alzai dal mio posto dirigendomi verso il professore di matematica, che alla mia vista impallidì. Indossai gli occhiali sulla punta del naso, così non mi davano fastidio le lenti troppo forti. "Allora ragazzi, sono il vostro insegnante di matematica, avete studiato?". Ci fu una risata generale ma lei era rimasta basita dal mio comportamento. "No? Tutti zero, tranne lei", indicai Elle, che cercò a modo suo di nascondersi dall'imbarazzo, "si merita un bel dieci, complimenti, è promossa". Ci fu un'altra risata generale, anche lei questa volta rise, che bello. 
Mi tolsi gli occhiali, mi voltai verso il professore per fargli l'inchino. "Ho finito". Dopo l'ennesima risata generale mi andai ad accomodare nel mio posto per restituirle gli occhiali.
Mi guardava divertita. "Dimmi, anche questo non è normale per te?", le chiesi.
"Probabilmente per tutti non lo è". Non aveva tutti i torti. 
"Sì, hai ragione". Mi sorrideva, finalmente. "Pranziamo insieme anche oggi?".
"Va bene", accettò il mio invito con un sorriso che mi mozzò il fiato.

All'ora di pranzo, la trascinai nella mia stanza segreta. Come l'ultima volta, avevo fatto preparare da mangiare per entrambi.
Questa volta mangiò di più e con gusto, che si stesse abituando alla mia presenza? Era un tale mistero per me. A volte era timida ed altre mi teneva testa, la trovavo adorabile nel suo modo di fare, anche se certe volte mi irritava. 
"Vorrei mettere in chiaro alcuni punti con te", attirai la sua attenzione, "Punto uno: non so che cosa facciano con esattezza i fidanzati. Punto due: non so che cosa distingue l'essere amici con i fidanzati, non mi è ancora ben chiara la cosa. Punto tre: non mi interessano le relazioni d'alcun tipo".
Si accigliò. "Quindi, noi due cosa saremo per l'esattezza?". Bella domanda, cosa eravamo noi due?
"Non saprei, di certo non siamo né amici e né fidanzati".
"Però dici che sono tua".
"Devi essere solo mia", puntualizai con voce decisa.
"Mi confondi".
Anch'io ero confuso. "Non mi piacciono le etichette, perciò, non diamo un nome a questa cosa".
"Ok".
"Bene. Adesso che ci siamo chiariti, dopo le lezioni pranziamo insieme ed andiamo a comprare le lenti per te".
"Ehm, veramente non posso". Cosa!?
"Perché non puoi?". Perché?! Volevo stare con lei. Ero allarmato e il mio cuore stava iniziando a fare i capricci, dovevo stare calmo, non potevo permettermi di stare male, non qui, non di fronte a lei.
"C'è mia madre a casa, e visto che non la vedo quasi mai per via del suo lavoro, ecco, volevo stare un po' con lei", mi spiegò. Questa non ci voleva.
"Capisco...". Provavo un'altra nuova sensazione che dovevo ancora definire.
"Facciamo domani", si affrettò a dire.
"Ok... ti viene a prendere lei dopo scuola?". Dimmi di no.
"Sì".
"Va bene...".
"Domani mattina, se vuoi, mi puoi venire a prendere". Finalmente una buona notizia. 
"Sì certo, non devi prendere l'autobus". Mi sorrise. "Senti, dammi il tuo numero di telefono".
Il sorriso sparì per dare posto ad un cipiglio. "Perché vuoi il mio numero?".
"Per sapere quando sei sola in casa o quando non posso venire a prenderti o se stai male, per cose così". Magari anche per controllarti.
"Va bene". Con titubanza accettò di scambiarci i numeri di telefono.
Che peccato però, oggi volevo stare con lei. Mi sarei annoiato senza di lei e senza distrazioni avrei pensato alla mia patetica esistenza. 
Dopo pranzo proseguirono le lezioni e visto che lei non voleva parlare, non la distribuì. La cosa strana, fu che seguii le lezioni con attenzione e senza dormire. Una cosa mi era ovvia però, lei esercitava una strana influenza su di me.

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Capitolo 9
*** Eleonora V ***


Lo psicopatico oggi si era comportamento in modo più strano del solito, forse stava peggiorando. Probabile. Quando era suonata la campanella che annunciava la fine delle lezioni, era scappato via senza lasciare traccia di sé, ma forse era meglio così, non volevo che mamma mi vedesse in sua compagnia. Cosa avrebbe pensato, ma soprattutto, cosa avrebbe detto? Lei era un tipo rigido e aveva il suo modo di vedere le cose. Non voleva che avessi un fidanzato, diceva che ero troppo giovane per pensare a certe cose e che dovevo dedicarmi allo studio. Più che altro, non voleva che commettesi il suo stesso errore che avevo fatto con papà. Quando si erano conosciuti erano giovani, andavano ancora all'università. Lui era un aspirante artista e lei sognava di diventare un chirurgo. Lei aveva preso una grossa sbandata per lui e si sposarono troppo in fretta, poco dopo nacqui io. Per papà ero solo un fastidio, a lui importava solo della sua arte e mia madre era divisa tra me e il diventare un chirurgo. Quando avevo due anni divorziarono, papà nel frattempo si era affermato nel mondo dell'arte e mamma faceva il suo tirocinio, così fui affidata a lui, ma di me si occupava la tata. In fondo capivo perché mamma fosse così rigida con me e non potevo biasimarla ma tanto poteva stare tranquilla, io non ero il tipo che interessava ai ragazzi, specialmente allo psicopatico. Però lui mi affascinava, era così tenebroso e bello, anche se era un po' strano. Diceva che ero sua, ma in che modo ancora non mi era ben chiaro, ma forse era solo pazzo. Poi mi aveva detto delle cose così strane: non sa cosa facciano i fidanzati, non sa la differenza tra l'essere amici e l'essere fidanzati, e infine, non gli interessavano le relazioni d'alcun tipo. Non capivo, quindi non sapeva niente delle gioie della vita, e poi, perché non gli interessavano? Mi confondeva questo ragazzo ma volevo capirlo, ero certa, che in fondo, anche se lo nascondeva, in realtà soffrisse. 
Anche se mamma oggi era libera, non trascorremmo del tempo insieme a fare shopping o robe tra madre e figlia, anche se stavamo nella stessa stanza, era come stare soli. Lei passava il tempo sul suo pc facendo ricerche e io leggevo un buon libro, che mi faceva sempre compagnia.
Dopo cena, mi ritirai nella mia stanza e come sempre, mi misi a leggere. Erano le dieci di sera e mamma dormiva, quando stava a casa andava a letto presto e io come al solito avevo l'insonnia, fortuna che leggere mi aiutava ad addormentarmi.
Sentii uno strano rumore ma non ci feci tanto caso, dopo un po', lo risentii, così mi alzai dal letto. Da dove poteva provenire quel strano rumore? Che fosse il mio telefono? Mi era sembrata una vibrazione ma non poteva essere, nessuno mi mandava messaggi... poi realizzai, che fosse lo psicopatico?
Mi precipitai in cerca del mio telefono, dove l'avevo messo!? Come al solito posavo le cose distrattamente e non ricordavo dov'erano. Dopo aver messo a soqquadro la stanza, lo trovai, era nel mio zaino. Controllai i messaggi, ce n'erano due ed erano da parte dello psicopatico.
Aprii il primo, che diceva: Che fai? 
Il seguente diceva: Dormi? Sei una gallina per caso? È presto per dormire. 
Com'era irritante. Decisi di mandargli un messaggio. 
Non sto dormendo! 
Non mancò molto, che arrivò un suo messaggio. 
Cosa stavi facendo? Sai che non mi piace aspettare, e non usare il punto esclamativo con me!
Infuriata più che mai, gli risposi per le rime. 
Punto uno: quello che faccio non sono affari tuoi. Punto due: uso tutti in punti esclamativo che mi piacciono!!!
Così imparava. Non tardò molta a mandare una risposta. 
Tutto quello che fai sono affari miei, TU SEI MIA, ricorda. E non usare i punti esclamativi con me!
Faceva di tutto per irritarmi al massimo, così decisi di non rispondergli, così imparava.
Riposi il telefono sul comodino e ripresi il mio libro. Sfortuna volle che lo psicopatico mi mandò un altro messaggio, ma non gli avrei risposto. Un altro messaggio ancora, com'era insistente.
Dopo un po', sentii dei strani rumori provenire dalla finestra, per lo spavento mi infilai sotto le coperte. Poi sentii bussare, con titubanza e terrore sbirciai da sotto le coperte per vedere cos'era. Vidi una figura nera fuori dalla finestra che mi fece urlare ma poi capii che era lo psicopatico, fortuna che mamma aveva il sonno pesante.
Come una furia andai alla finestra per aprirla e magari farlo cadere di sotto, così imparava a farmi prendere certi spaventi.
Quando aprii la finestra, lo psicopatico mi guardò storto, dicendomi: "Perché hai urlato?". Cosa!? Lui mi faceva morire di paura e poi se la prendeva con me! Era fuori di testa!?
"Mi hai fatto prendere un colpo, ecco perché ho urlato, e adesso vattene!". Ero furiosa.
"Sì, sì, abbiamo capito, che paura e bla bla. Fammi entrare, sto scomodo". Mi spinse di lato per entrare dentro la mia stanza ma lui non poteva stare qui e poi non lo volevo vedere.
"Vattene via", lo intimai ma a quanto pareva non funzionò e poi io non facevo paura a nessuno. 
"Mi spieghi perché mi ignori sempre?", mi chiese irritato. 
Eh no mio caro, quella arrabbiata sono io. "Magari se fossi un tantino più gentile e meno prepotente, magari non ti ignorerei". Forse avevo esagerato, aveva assunto lo sguardo da, ti faccio esplodere la testa con il pensiero. 
"Io non sono gentile, che sia ben chiaro".
"Chiarissimo". Incrociai le braccia al petto per la frustrazione. 
Senza permesso si buttò sul mio letto prendendo il libro che stavo leggendo.
Oh no! Non doveva vedere cosa stavo leggendo! 
Mi avventai su di lui per riprendermi il libro ma prontamente si scansò facendomelo mancare e quasi mi scontrai con la testata del letto.
"Interessante", mormorò mentre cercavo di sottrargli il mio libro dalle mani.
"Ridammelo". Era più forte di me e non riuscii a riprendermi il libro, così rinunciai, tanto aveva già visto cosa stavo leggendo. Che vergogna, avrei voluto scomparire.
"Non sapevo che ti piacessero questi generi di libri".
"Ehm... ecco... io...". 
Scoppiò a ridere vedendo il mio disagio, mi ridiede il libro per tornare sul mio letto. "Non mi importa cosa leggi, basta che non mi ignori e fai quello che ti dico".
Arrabbiata più che mai gli tirai il libro, non aspettandoselo non si scanso, così lo presi in pieno sulla testa. Si portò le mani in testa sul punto dove il libro l'aveva colpito ed era sofferente. Oh no, cosa avevo fatto? 
Mi avvicinai a lui. "Mi dispiace, non volevo farti male", piagnucolai.
All'improvviso fui scaraventata sul letto. Lui era sopra di me e mi teneva i polsi fermi sulla testa, come una stupida ero caduta nella sua trappola e adesso ero nelle sue diaboliche grinfie. 
"Sei una bambina monella", sibilò. Era furioso con me, adesso mi avrebbe uccisa.
Cercai di liberarmi ma vanamente. "Ti prego, non mi uccidere", lo supplicai. 
Assunse un'espressione stranita. "Perché mai ti dovrei uccidere?".
Forse perché sei uno psicopatico!? "Perché ti ho tirato il libro in testa facendoti male".
Rise. "Se ti uccidesi, il mio divertimento finirebbe". Con lentezza, si avvicinò al mio orecchio sinistro. "No, mia cara, c'è qualcosa di meglio dell'uccidere", mi sussurrò diabolicamente. Cosa c'era di peggio!? Ero decisamente nel panico più totale.
Cercai per l'ennesima volta di liberarmi dalla sua morsa. "Ti prego, non farmi del male, farò qualunque cosa". La mia vocina interiore mi guardava indignata vedendo il mio comportamento poco decoroso ma poco m'importava, avrei fatto di tutto per salvarmi la pelle. 
"Bene, adesso si che ci intendiamo". Era compiaciuto.
Mi liberò i polsi per mettersi seduto.
Aprii un occhio per vedere cosa stava facendo. Quando avevo chiuso gli occhi? 
Aveva le braccia conserte e mi guardava con il suo solito sguardo intenso. "Voglio che ti vesti come si deve, con abiti adatti ad una ragazza della tua età, che facciano risaltare la tua femminilità e devono essere della taglia giusta", decretò lasciandomi a bocca aperta. Mi ero umiliata per questo?
Presi il cuscino che era alla mia destra per lancianglielo in pieno volto. Non fece una piega.
"Domani mattina arriveranno le tue nuove divise". Cosa!? 
Fece un ghigno compiaciuto. "Ho le mie fonti". Era uno stalker oltre ad essere uno psicopatico? "È meglio che vada, prima che noti la mia assenza", disse fra sé guardando l'ora nel suo orologio da polso costoso. Mi guardò. "Non fare sogni sconci... a domani". Si alzò dal letto per dirigersi verso la finestra e scomparire nelle tenebre.
Quel ragazzo mi avrebbe fatto impazzire, ne ero certa.

L'indomani mattina, appena suonarono il campanello, mi precipitai alla porta d'ingresso, era il fattorino con le mie nuove divise scolastiche. Allora lo psicopatico non aveva mentito. Come aveva fatto a procurarsi la mia taglia? Qualcosa non mi tornava, che mi spiasse? Era possibile con lui.
Di malavoglia indossai la nuova divisa ed era orribile. Era attillata e la gonna era troppo corta per i miei gusti, mi si vedevano le gambe e le mie forme. Pensandoci bene, preferivo questo, che scatenare la furia omicida dello psicopatico, sarebbe stato capace di torturarmi fino alla pazzia. Meglio non pensarci. 
Quando arrivai alla fermata dell'autobus, lo trovai ad aspettarmi come ieri. Era appoggiato alla sua costosissima auto di lusso, indossava la divisa, che gli stava così bene ed aveva tra le labbra la solita sigaretta spenta.
Con titubanza mi avvicinai a lui che mi guardò in uno strano modo, sembrava stupito. 
"Ciao", mormorai. Mi aprii lo sportello dell'auto per farmi entrare, senza dire una parola salii. Quando entrò in auto, mi allontanai il più possibile da lui, non volevo che mi toccasse. 
"Scappi da me?", mi sussurrò per poi afferarmi e stringermi a sé. Il suo alito sapeva di cioccolata fondente, probabilmente ne mangiava molta. "Non devi scappare, tu sei mia, non lo dimentirare". La sua voce era suadente e mi incantava, ero persa. Chiusi gli occhi beandomi del suo contatto.
"Ti senti bene?". Aprii gli occhi notando che aveva una piccola ruga di preoccupazione tra le sopracciglia, com'era possibile?
"Sì, sto bene", riuscii a biascicare. 
"Respira allora". Cosa? Avevo smesso di respirare per caso?
"Ok...".
"Oggi ti voglio portare in un altro posto segreto, vedrai, ti piacerà". Aveva un sorrisetto compiaciuto.
Giunti a scuola, ero più nervosa di ieri, non solo mi avrebbero visto un'altra volta in compagnia dello psicopatico ma adesso indossavo dei vestiti della mia taglia.
"Ti mordi il labbro", mi fece notare. Quando ero nervosa lo facevo sempre.
Allungò una mano per liberarmi il labbro dalla mia morsa, era la seconda volta che lo faceva e mi lasciava sempre stupita. "Andiamo in quel posto". Mi prese per mano facendomi uscire dall'auto.
Camminammo per un po', finché non raggiungemmo la serra della scuola, non ci vedevo nulla di speciale o di segreto in quel posto. Mi portò in una specie di capanno degli attrezzi. Mi voleva fare a spezzatini, ne ero certa.
Mi fermai di colpo.
Si voltò a guardarmi. "Perché ti sei fermata?".
E adesso che gli dico? Non posso mica dirgli che mi sono fermata perché ho capito il suo piano diabolico. "Ehm... soffro di claustrofobia". Sperai che ci cascasse. 
Alzò un sopracciglio. "Tranquilla, entriamo ed usciamo subito". Non capivo. "Diciamo che è una porta", mi spiegò. Visto che non intendevo muovermi mi trascinò con forza dentro il capanno.
Aiuto! 
Quando entrammo, premette un mattone sul muro che rivelò un'apertura su un lato del capanno. Agilmente si intrufolò dentro l'apertura, incuriosita lo seguii. Eravamo finiti in un stretto e buio corridoio, per la paura mi afferrai alla sua giacca, conoscendomi ero capace di perdermi anche lì. Camminammo per un po', finché non aprì una porta e non fummo investiti da una luce accecante. Quando fummo usciti, ebbi per la prima volta una ragione per restare a bocca aperta. Il posto segreto era un giardino, ma non uno qualunque, era un labirinto con al centro una fontana maestosa dalla quale, zampillava dell'acqua. 
"È bellissimo". Ero incantata da quel posto. Per l'ennesima volta il suo gesto mi confondeva.
"Vieni, andiamoci a sedere su quella panchina". Mi indicò una panchina di marmo bianco, dove andammo a sederci.
Ero nervosa, non sapevo che cosa fare o che dire.
"Ti mordi il labbro". Cosa? Non me n'ero accorta.
"Scusa". Liberai il labbro per poi abbassare lo sguardo. 
"Non devi essere nervosa, mica mordo", mi disse mentre si portava una sigaretta alle labbra. Quel gesto mi diede fastidio e lui lo notò. "Cosa c'è?", mi chiese con la sigaretta in bocca. 
"Il fumo fa male e poi uccide". E lo sapevo fin troppo bene. Mamma, per non farmi mai fumare, mi aveva fatto vedere delle foto orrende, certe volte sospettavo che non stesse molto bene, mi traumatizzava col suo strano modo di fare.
Scoppiò in una fragorosa risata. Notai che aveva una bella risata.
Eleonora, ma cosa vai a pensare, un po' di contegno! Mi rimproverai mentalmente per la milionesima volta.
Continuando a ridere, lo psicopatico iniziò a scartare la sua sigaretta, per poi darle un morso. "È di cioccolata, ne vuoi un po'?". Mi offrì quel che restava della sua sigaretta.
Lo guardai stranita per varie ragioni, la prima: stranamente mi stava offrendo qualcosa. La seconda: perché andava in giro con delle sigarette di cioccolata? Che poi adesso capivo il perché avesse l'alito che profumava di cioccolata. Ultima cosa, ma non poco importante: mi stava offrendo qualcosa che aveva appena morso, era quasi come baciarlo o no? Probabilmente ero solo io che mi facevo fin troppe paranoie e film mentali. Infine, decisi di non ascoltare i miei strambi pensieri ed accettai la cioccolata offertami. Quando presi quel che restava della sigaretta, mi fissò in uno strano modo, era indecifrabile, che credesse che non l'avrei mai accettata? Con lui era tutto possibile. Comunque sia, quando assaggiai la sigaretta di cioccolata, constatai che era fondente, tra l'altro l'adoravo. Ora che ci pensavo... avevo un'altra cosa in comune con lui. Che disagio, che fossi anch'io una psicopatica? Speravo proprio di no.
"A cosa stai pensando?". Il suo guardo era serio mentre mi poneva quella domanda.
"Mi chiedevo il perché andassi in giro con delle sigarette di cioccolata". Perché mai glielo avevo chiesto? Ero pazza!
Guardò un punto indistinto sorridendo. "È l'ultima cosa che mi rimane di mia madre...", fece una pausa per poi continuare, "Quando ero piccolo, giocavo sempre con lei, certe volte facevamo finta di fumare e usavamo queste sigarette di cioccolata". In lui c'era tristezza e dolore, riuscivo a percepirlo. 
"Cosa l'è successo?". Avevo un groppo in gola e un senso di angoscia che mi attanagliava. 
"È morta quando avevo sei anni, una brutta malattia se l'è portata via". Avrei voluto abbracciarlo forte e non lasciarlo più. 
"Ti manca?".
"In ogni istante... anche mio nonno, se è per questo, se n'è andato qualche anno fa, portandosi via l'ultima parte di me". Mentre parlava continuava a guardare un punto indistinto. 
"Guardami".
Si voltò verso di me e vidi che stava soffrendo. Instintinvamente, mi gettai fra le sue braccia, stringendolo forte a me e aspirando il suo dolce profumo. Adesso capivo perché si comportasse così, dentro di sé c'era tanto dolore e sofferenza, lui aveva bisogno di me.

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Capitolo 10
*** Sam V ***


Al suono della campanella, che annunciava la fine delle lezioni, scappai via per andare da Clark. 
Come sempre entrai nel suo studio senza bussare.
"Oggi non può stare con me".
Dalla scrivania il dottore si accomodò verso la sua poltrona di fronte a me, per poi chiedermi: "E questo come ti fa sentire?".
"Non saprei... allarmato?". Non sapevo come definire questa cosa e volevo che mi aiutasse a capirla, o sarei impazzito. 
Riflettee per un istante. "Secondo me ci sei rimasto male". Cosa?
"Ci sono rimasto male?". Non capivo, era una cosa nuova per me.
"È semplice. Per la prima volta qualcuno ti ha detto di no, il ché, è una cosa nuova per te, di conseguenza, ci sei rimasto male, anche per il semplice fatto che si tratti di lei". Adesso mi era tutto un po' più chiaro. 
"E quindi cosa dovrei fare?".
"Accettare il suo no". Non mi era di gran aiuto. 
"Io voglio passare la giornata con lei, avevo anche un piano", obiettai. 
"Che piano avevi in mente?", mi chiese curioso. 
Con imbarazzo gli risposi. "Volevo fare un picnic con lei e poi, magari comprarle delle lenti a contatto".
"Interessante... non dispiacerti Sam, domani avrai la tua occasione". La faceva facile lui, lo sapeva benissimo che non avevo pazienza.
"Va bene, magari le manderò qualche messaggio", dissi rassegnato. 
"Messaggio?".
"Sì, le ho chiesto il numero di telefono".
Mi studiò per qualche istante. "È tutto?", mi chiese con sguardo serio.
Se era tutto? No, ma non sapevo se dirgli quella cosa o meno. "Ho ordinato delle nuove divise per lei, quelle che ha non vanno bene, sono troppo grandi". Inghiottii un groppo di saliva. 
"Bene, se è tutto puoi andare". Tutto qui? Come minimo mi aspettavo una sua sfuriata.
"Sì". Mi alzai ed uscii via da lì. 
Quando tornai a casa mi gettai sul letto a fissare il soffitto per un'eternità, ogni tanto venne mio padre a chiedermi se volessi mangiare qualcosa, ma la mia risposta era sempre un no. Non volevo mangiare, volevo lei e nient'altro. Mi mancava terribilmente. Quando non stavo con lei la pensavo sempre, ed ora che non c'era, che non potevo trascorrere il pomeriggio con Elle, mi sento vuoto e inutile.
Le ore trascorrevano lentamente, troppo per i miei gusti. Stavo morendo di fame ma non mi andava di mangiare, neanche di leggere, se era per questo.
Non facendocela più, decisi di andare a casa sua, mi sarei arrampicato un'altra volta sul tubo di scolo pur di vederla.
Quando arrivai a casa sua, scavalcai agilmente la staccionata dirigendomi sotto la sua finestra.
Estrassi il telefono dalla tasca dei jeans mandandole un messaggio con scritto: Che fai?
Aspettai una sua risposta, ma niente, non arrivava. Possibile che già dormisse? Era un po' presto. Decisi di mandarle un altro messaggio con scritto: Dormi? Sei una gallina per caso? È presto per dormire. 
Dopo un po' il telefono vibrò annunciandomi l'arrivo di una sua risposta. 
Non sto dormendo! 
Cosa? Che risposta era, e poi che modi erano?
Decisi di risponderle per le rime, non si doveva comportare così con me. 
Cosa stavi facendo? Sai che non mi piace aspettare, e non usare il punto esclamativo con me!
Un attimo dopo ecco una sua risposta. 
Punto uno: quello che faccio non sono affari tuoi. Punto due: uso tutti in punti esclamativo che mi piacciono!!!
Le risposi come si deve. 
Tutto quello che fai sono affari miei, TU SEI MIA, ricorda. E non usare i punti esclamativi con me!
Aspettai una sua risposta invano. La signorina aveva deciso di ignorarmi come al solito. 
Le mandai un altro messaggio con scritto: Non mi ignorare!
Continuò ad ignorarmi. Le mandi un altro messaggi dicendole che stavo venendo da lei.
Agilmente mi arrampicai sul tubo di scolo e quando arrivai in cima la vidi nascondersi sotto le coperte. Decisi di bussare, visto che la finestra era chiusa. Uscì dal suo nascondiglio con titubanza e appena mi vide cacciò un urlo. Che aveva da urlare, non vedeva che ero io?
Si alzò dal letto per venirmi ad aprire e sembrava arrabbiata, non capivo il perché. 
"Perché hai urlato?", le chiesi accigliato.
"Mi hai fatto prendere un colpo, ecco perché ho urlato, e adesso vattene". Sembrava indignata ma io la trovavo buffa.
"Sì, sì, abbiamo capito, che paura e bla bla. Fammi entrare, sto scomodo". La scansai per entrare agilmente dentro la sua stanza.
"Vattene via", mi intimò. 
"Mi spieghi perché mi ignori sempre?". Non doveva comportarsi così con me, quante volte glielo dovevo dire!?
"Magari se fossi un tantino più gentile e meno prepotente, magari non ti ignorerei". Adoravo quando mi rispondeva in questo modo. 
"Io non sono gentile, che sia ben chiaro". Forse con lei lo ero, oppure no? Che dilemma.
"Chiarissimo". Incrociò le braccia al petto, era così carina.
Notai che aveva un libro sul letto, così mi ci buttai sopra per vedere cosa stesse leggendo.
Vedendo che avevo preso il suo libro, si avventò su di me. Prontamente mi alzai dal letto per evitare il suo attacco.
Leggendo le prime pagine notai che era un libro rosa, non pensavo che le piacesserò certe cose. "Interessante", mormorai mentre cercava di sottrarmi il libro vanamente.
"Ridammelo". Esclamò poco prima di arrendersi. 
"Non sapevo che ti piacessero questi generi di libri", la stuzzicai.
"Ehm... ecco... io...". Era imbarazzata.
Scoppiai a ridere, era così buffa e adorabile che non mi seppi trattenere.
Le ridiedi il libro per buttarmi di nuovo sul letto. "Non m'importa cosa leggi, basta che non mi ignori e fai quello che ti dico". Sperai che la cosa le fosse chiara.
Arrabbiata mi tirò il libro in testa facendomi un gran male.
La sentii avvicinarsi a me. "Mi dispiace, non volevo farti male", piagnucolò. No! Non volevo che piangesse. 
L'afferrai buttandola sul letto per poi mettermi cavalcioni su di lei. Le tennì i polsi fermi sulla testa, così non poteva sfuggirmi. "Sei una bambina monella". Era così bella, la volevo tutta per me.
Si divincolò cercando di liberarsi dalla mia morsa ma io ero troppo forte. "Ti prego, non mi uccidere", mi supplicò spaventata. 
Non volevo che avesse paura di me, no, lei no. "Perché mai ti dovrei uccidere?".
"Perché ti ho tirato il libro in testa facendoti male".
Risi della sua risposta. "Se ti uccidesi, il mio divertimento finirebbe". Con lentezza, mi avvicinai al suo orecchio per sussurrarle: "No, mia cara, c'è qualcosa di meglio dell'uccidere".
Cercò un'altra volta di liberarsi. "Ti prego, non farmi del male, farò qualunque cosa". La cosa poteva tornarmi a mio favore. 
"Bene, adesso si che ci intendiamo". Le liberai i polsi per mettermi più comodo sul letto e poterla guardare.
"Voglio che ti vesti come si deve, con abiti adatti ad una ragazza della tua età, che facciano risaltare la tua femminilità e devono essere della taglia giusta". Volevo vederla in tutto il suo splendore. 
Prese un cuscino che mi lanciò in faccia. Forse me lo meritavo.
"Domani mattina arriveranno le tue nuove divise". Era rimasta scioccata. Sì, mia cara, so tutto di te. "Ho le mie fonti", le spiegai. Guardai l'ora constatando che era tardi. "È meglio che vada, prima che noti la mia assenza". Papà se non mi avesse trovato a casa si sarebbe preoccupato e sicuramente avrebbe chiamato la dottoressa Grace e avrebbero fatto solo domande, loro non dovevano sapere niente di Elle. La guardai per un istante beandomi del suo splendore. "Non fare sogni sconci... a domani". Mi alzai dal letto per andare alla finestra e arrampicarmi.
Mentre tornavo a casa, mi venne la straordinaria idee di portarla nel mio giardino segreto. Sì, le sarebbe piaciuto, n'ero certo.

Mi svegliai presto e pieno di energie. Ero agitato e nervoso al tempo stesso, annodai la cravatta un infinità di volte per l'agitazione. Dovevo essere impeccabile per lei.
Quando arrivò alla fermata dell'autobus, rimasi di stucco, aveva indossato la divisa che le avevo fatto recapitare ed era bellissima.
"Ciao", mi salutò con timore. Le aprii lo sportello dell'auto per farla entrare. Quando entrai in auto, si allontanò da me. 
Eh no mia cara, non puoi scappare da me, tu sei mia. "Scappi da me?". L'afferrai stringendola a me. Aspirai a pieni polmoni la sua magnifica fragranza beandomene. "Non devi scappare, tu sei mia, non lo dimentirare".
Chiuse gli occhi smettendo di respirare. "Ti senti bene?". Iniziavo a preoccuparmi.
Aprì gli occhi. "Sì, sto bene". La sua voce era un sussurro.
"Respira allora".
"Ok...".
Brava bambina. "Oggi ti voglio portare in un altro posto segreto, vedrai, ti piacerà". Non vedevo l'ora di portarla nel mio giardino segreto.
Giunti a scuola, notai che si mordeva il labbra, quel gesto mi dava un'altra strana sensazione da definire. "Ti mordi il labbro". Allungai una mano per liberarle il labbro dalla sua morsa. "Andiamo in quel posto", le dissi prendendola per mano e sentendo quella familiare scossa elettrica.
Camminammo per un po', finché non raggiungemmo la serra della scuola, era lì che si trovava il giardino. Proprio dentro al capanno degli attrezzi si trovava un ingresso segreto. Poco prima di entrare dentro il capanno degli attrezzi si fermò di colpo.
E adesso cosa c'era? "Perché ti sei fermata?".
"Ehm... soffro di claustrofobia".
Forse pensava che volessi farla a pezzettini. "Tranquilla, entriamo ed usciamo subito". Mi guardò confusa. "Diciamo che è una porta", le spiegai ma non intendeva muoversi, così, la trascinai con forza. 
All'interno del capanno c'era un mattone sul muro che se veniva premuto rivelava un ingresso segreto. Quando l'ingresso fu aperto mi ci intrufolai.
Quando fummo usciti dal tunnel rimase stupita alla vista del giardino. "È bellissimo", esclamò incantata alla vista del mio giardino segreto.
"Vieni, andiamoci a sedere su quella panchina". Le indicai una panchina di marmo bianco, dove andammo a sederci.
Si stava mordendo il labbro, era evidente che fosse nervosa. 
"Ti mordi il labbro", le feci notare.
"Scusa". Era buffa come sempre. 
"Non devi essere nervosa, mica mordo". Mi portai alle labbra una delle mie sigarette di cioccolata.
Notai che mi guardava storto. "Cosa c'è?". 
"Il fumo fa male e poi uccide".
La sua affermazione mi fece scoppiare in una risata fragorosa. Probabilmente era la terza persona estranea che si preoccupava della mia salute, la prima era la dottoressa Grace, ma lei era di parte, il secondo era il dottor Clark, e adesso si aggiungeva anche lei. Comunque sia, si preoccupava per nulla, di certo non sarebbe stato il fumo ad uccidermi, lo sapevo fin troppo bene e poi, le sigarette erano di cioccolata fondente, che fa bene al cuore.
Scartai la sigaretta, per poi darle un morso. "È di cioccolata, ne vuoi un po'?". Allungai una mano per offrirle quel che restava della mia cioccolata.
Mi guardò stranita, forse pensava che fossi fuori di testa ma stranamente accettò il pezzo di cioccolata.
Che cosa strana, si poteva considerare come un bacio? E poi oggi era così bella con la divisa della giusta taglia, aveva un bel fisico e non riuscivo a capire perché cercasse di nasconderlo.
Mentre masticava notai che era pensierosa. "A cosa stai pensando?", le chiesi curioso.
"Mi chiedevo il perché andassi in giro con delle sigarette di cioccolata". Fece una strana faccia. 
Il perché andassi in giro con le mie adorate sigarette di cioccolata era semplice, ma il punto era se dirglielo o meno. "È l'ultima cosa che mi rimane di mia madre...". Mi riusciva difficile parlare di lei, era sempre una tortura per me, ma decisi di proseguire fino in fondo. "Quando ero piccolo, giocavo sempre con lei, certe volte facevamo finta di fumare e usavamo queste sigarette di cioccolata". 
"Cosa l'è successo?". Che strano, qualcun altro al suo posto mi avrebbe detto mi dispiace ma lei no, infatti era diversa da chiunque altro, lei era speciale. 
"È morta quando avevo sei anni, una brutta malattia se l'è portata via".
"Ti manca?", mi chiese in un sussurro, la sua voce era così dolce e bella.
"In ogni istante... anche mio nonno, se è per questo, se n'è andato qualche anno fa, portandosi via l'ultima parte di me". Avevo voglia di scappare via e piangere. 
"Guardami". La sua voce era ferma e decisa.
Eseguendo il suo ordine, mi voltai verso di lei e in quell'istante fece qualcosa di inaspettato, si gettò su di me per abbracciarmi forte. Quel contatto inizialmente mi confuse, nonostante ciò, mi beai di quel contatto ed inspirai la sua bellissima fragranza di primavera e ciliegie. 
"Forse sarà meglio andare, abbiamo lezione". Ed ero certo che non amasse arrivare in ritardo.
Si staccò da me, quel gesto mi diede un senso di fastidio, era come se non volessi mai allontanarmi da lei. "Sì, giusto!". Era buffa anche quando si agitava.
La presi per mano trascinandola via con me da quel giardino incantato per tornare alla triste realtà.
Quando entrammo in classe, notai che Elle era agitata, chissà mai il perché. Forse era dovuto al test di oggi? Oggi avevamo il test di economia aziendale, in genere non mi sarebbe interessato minimamente e avrei lasciato il foglio in bianco come al solito, però questa volta non potevo, adesso avevo una tutor, che era Elle e non potevo permettermi di farle fare una brutta figura o abbassarle la media, quindi, avrei fatto il test.
Il professore ci consegnò i fogli, impugnai la penna ed iniziai a compilare le domande. Il test era una passeggiata, ogni domanda era facile e sapevo tutto alla perfezione. In men che non si dica conpletai il questionario. Quando mi alzai per consegnare il test finito, il professore mi guardò stupito e con un'attenta osservazione, constatai che anche gli altri lo erano, compresa Elle. Per me non c'era niente di assurdo o anormale, in fondo avevo un quoziente intellettivo molto alto.
Come se nulla fosse, andai ad accomodarmi nel mio posto mettendomi ad osservare la mia Elle. Da dove mi era venuto fuori, la mia Elle? Che cosa strana. Cercai di non badarci più di tanto, non volevo scappare dal dottor Clark, non per il momento almeno, lui poteva aspettare, la mia priorità l'aveva un'altra persona in quel momento.
Senza distrarsi per un istante, Elle rispondeva ad una domanda dopo l'altra, non aveva alcuna esitazione, era eccezionale. Non avevo mai incontrato nessuno come lei, sì, di persone intelligenti ne conoscevo ma lei lo era di più. Mi avevano sempre affascinato le persone intelligenti, con loro si sa sempre di che parlare e in genere non erano mai noiose, lei di certo non lo era. Ogni parte o gesto di lei mi affascina.
Nonostante le avessi imposto di indossare la divisa della sua giusta taglia, non aveva eseguito appieno il mio ordine, continuava a portare le sue due inseparabili trecce. Non l'avrebbe passata liscia, era certo. Mentre continuavo ad osservarla e lei era intenta a completare il test, pensavo come sarebbe stata bene con un po' di trucco, anche se senza era comunque splendida, magari l'avrei portata in un salone di lusso. Ora che ci pensavo, aveva bisogno anche di un guardaroba nuovo, una personal shopper mi sarebbe stata d'aiuto. 

Dopo le lezioni la portai a fare un picnic, avevo pensato di andare nel posto dove ci siamo incontrati, si poteva definire una cosa romantica? E poi, volevo essere romantico con lei? La cosa che mi era certa, era che volevo vedere il suo splendido sorriso e stupirla. 

Mentre eravamo in macchina ero nervoso ma cercavo di non darlo a vedere mantenendo un espressione neutra, come facevo sempre d'altronde. Lei era lì, seduta nell'angolo opposto dell'auto a guardare fuori dal finestrino, ogni tanto si muoveva a disagio, presumevo che anche lei fosse nervosa. Ero io a renderla nervosa? 
"Sei nervosa?", le chiesi ad un tratto destandola dai suoi pensieri muti.
Stupita dalla mia domanda si voltò per guardarmi e sospirando mi rispose: "Sì, un po'". Rivolse lo sguardo di fronte a se.
"Guardami". Più che un ordine la mia era una supplica, volevo vedere i suoi splendidi occhi grigi.
Ubbidiente si voltò per fissare i suoi occhi nei miei. "Mi piacciono i tuoi occhi". In quel momento avrei voluto mordermi la lingua per ciò che avevo appena detto.
Rimase un po' stupita ma mi rispose con un: "E a me piacciono i tuoi". A quel punto mi sa che ero io quello più stupito fra i due. Le piacevano i miei occhi e chissà che altro ancora.
Cercai di riprendere il controllo di me e della domanda che le avevo posto prima. "Mi dici perché sei nevosa?".
Spostò di nuovo lo sguardo, così per la frustrazione le presi con delicatezza il viso fra le mani. "Perché", la esortai. 
Mi guardò. "Ecco... io... mi stavo chiedendo se... se questo fosse... una specie di... appunto". Chiuse gli occhi imbarazzata. Sinceramente non ci avevo pensato, ma forse, si poteva definire tale.
"Se tu lo vuoi, allora è così, in caso contrario, no".
"Può essere ciò che voglio?", mi chiuse mentre riapriva gli occhi. 
"Sì". Tirò un sospiro di sollievo. Che ragazza strana e curiosa.
Quando arrivammo nel posto da me scelto per il picnic, lo riconobbe ed era evidente dall'espressione che aveva assunto, cioè restare a bocca aperta.
Andai a stendere la tovaglia sotto all'albero e mi ci stesi sopra, ma lei se ne stava lì dov'era impalata a fissarmi.
"Vieni, così mangiamo". Era seccante quando si comportava così. 
"Va bene". Con titubanza acconsentì e si accomodò lontano da me.
Alzai gli occhi al cielo seccato dal suo comportamento. L'afferrai per attirarla fra le mie braccia. "Vedi, che se ti avvicini, non ti mangio".
"Ok", farfugliò stordita.
Eravamo così vicini, riuscivo a sentire il suo respiro irregolare, su di me. Il suo cuore che batteva sempre più forte, come se volesse uscire dal suo petto per scappare chissà dove, magari in un posto magico. I suoi occhi erano puntati sulle mie labbra. Voleva baciarmi? Ma soprattutto, io volevo baciarla e perdermi in quel magnifico contatto? Sì, lo desideravo ardentemente e non riuscivo a spiegarmi il perché ma lo volevo.
Mi avvicinai alle sue labbra per baciarla ma si scansò. Provai una strana sensazione, sentivo dolore dentro di me ma non era il mio cuore, almeno non credevo, non stavo avendo uno dei miei attacchi. "Perché no?", le chiesi con rammarico. 
Puntò i suoi occhi nei miei ed erano tristi. "Ci tengo al primo bacio, per te può essere un gioco... ma per me non lo è".
"Ma io non sto giocando, tu sei mia e voglio baciarti", le sussurrai. 
"No, per me non funzionano così le cose, non puoi pretendere che ti baci, e poi neanche siamo fidanzati". Mi scansò via da sé, era infuriata con me.
"Tu vuoi un fidanzato?". Potevo darle questo, un fidanzato? 
Sospirò. "Non sono disperata o come le altre, e poi mia madre non vuole che abbia un fidanzato", alzò gli occhi al cielo, "vorrei che qualcuno si interessasse per una volta a me, che mi notasse...".
Voleva essere notata? "Io ti noto...".
"Forse...".
"Se divento il tuo fidanzato mi bacerai?".
Mi guardò accigliata. "Non credere che sia così facile".
"Non capisco". Cosa intendeva?
"Per stare insieme a qualcuno bisogna essere innamorati e dobbiamo desiderare entrambi di stare insieme, è così che funziona".
"Ah sì?".
"Tu non sai proprio niente dell'amore", sorrise della mia ingenuità. 
"No". Mi piaceva quando sorrideva. "Quindi per avere un tuo bacio, prima devo farti innamorare di me e chiederti se vorresti essere la mia fidanzata?".
"Anche tu devi innamorati di me".
Io innamorarmi? "Io non amo nessuno, neanche me stesso". L'espressione che assunse era indecifrabile. Non capivo a cosa pensasse. 
"A cosa pensi?".
"Davvero lo vuoi sapere?". "Vorrò sempre sapere a cosa pensi". Non doveva nascondermi niente, i suoi pensieri mi appartenevano e anche lei.
"Penso che... sei una persona triste e che soffre... soffre tanto". Cos'era questo? Era dispiaciuta per me e per i miei tormenti?
"Non devi preoccupartene, io e i miei demoni interiori oramai andiamo a braccetto".
"Se vuoi parlarmene io sono qua, ti ascolto se vuoi".
Risi per le sue parole, non avevo bisogno di parlare, e poi ci pensava già il dottor Clark. "Tranquilla, ho già uno psicologo che mi segue da tempo".
"Ma lui non è tuo amico". La sua risposta mi spiazzo completamente, da quando in qua noi due eravamo diventati amici? 
"Noi non siamo amici", le risposi bruscamente. 
"Anche se cerchi di negarlo è così". No, non volevo ascoltarla, noi due non eravamo niente.
Mi alzai dalla tovaglia stessa per terra e me ne andai via, non volevo sentire altro.

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Capitolo 11
*** Eleonora VI ***


Eravamo così vicini, riuscivo a sentire il suo respiro su di me. Il suo cuore irregolare. Le sue labbra sembravano così morbide, avrei tanto voluto che mi baciasse ma per lui ero solo un gioco, un passatempo.
Si avvicinò alle mie labbra per baciarmi ma prontamente mi scansai.
"Perché no?", mi chiese, era evidente che fosse infastidito dal mio gesto. 
"Ci tengo al primo bacio, per te può essere un gioco... ma per me non lo è". Volevo che il mio primo bacio fosse speciale, dato magari per amore e non per gioco.
"Ma io non sto giocando, tu sei mia e voglio baciarti", mi sussurrò col suo fare seducente ma questa volta non ci sarei cascata. 
"No, per me non funzionano così le cose, non puoi pretendere che ti baci, e poi neanche siamo fidanzati". Stavolta ero arrabbiata con lui.
"Tu vuoi un fidanzato?".
Questo ragazzo era davvero ottuso. "Non sono disperata o come le altre, e poi mia madre non vuole che abbia un fidanzato, vorrei che qualcuno si interessasse per una volta a me, che mi notasse...". Che imbarazzo dire certe cose.
"Io ti noto...".
Sì, lui mi aveva notata ma non nel modo che volevo. "Forse...".
"Se divento il tuo fidanzato, mi bacerai?".
Eh no mio caro, non sono come le altre, che credi?! "Non credere che sia così facile".
"Non capisco".
"Per stare insieme a qualcuno bisogna essere innamorati e dobbiamo desiderare entrambi di stare insieme, è così che funziona", gli spiegai sperando che questa volta capisse.
"Ah sì?".
"Tu non sai proprio niente dell'amore". Era una causa persa ma a modo suo era adorabile. 
"No", mi sorrise, aveva un bel sorriso. "Quindi per avere un tuo bacio, prima devo farti innamorare di me e chiederti se vorresti essere la mia fidanzata?".
"Anche tu devi innamorati di me", puntualizzai.
Si accigliò. "Io non amo nessuno, neanche me stesso". Cosa? Come si faceva a non amare se stessi? La sua vita era così triste?
"A cosa pensi?", mi chiese.
"Davvero lo vuoi sapere?".
"Vorrò sempre sapere a cosa pensi".
"Penso che... sei una persona triste e che soffre... soffre tanto". Non volevo che soffrisse.
"Non devi preoccupartene, io e i miei demoni interiori oramai andiamo a braccetto".
"Se vuoi parlarmene io sono qua, ti ascolto se vuoi".
Rise. "Tranquilla, ho già uno psicologo che mi segue da tempo".
"Ma lui non è tuo amico". Io si invece, almeno credevo.
Era allarmato. "Noi non siamo amici", mi rispose bruscamente.
"Anche se cerchi di negarlo è così".
Si alzò dalla tovaglia stessa per terra andandosene via e lasciandomi lì da sola.
Sapevo che soffriva tanto e che non voleva affezionarsi a nessuno, oramai l'avevo capito ma sapevo anche che aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto, ma soprattutto, che gli volesse bene. Forse alla fine non era uno psicopatico ma una persona che si sentiva tanto sola e che non conosceva il significato dell'amore. 
Poco dopo venne l'autista di Sam che mi riaccompagnò a casa. Nonostante fosse arrabbiato e sconvolto, si era comunque preoccupato per me e il mio scarso senso dell'orientamento, era stato dolce. Alla fine lui era una persona dolce, il suo lato da prepotente era solo una messa in scena per sembrare forte agli occhi degli altri. Sua madre era morta quand'era piccolo e dopo la scomparsa di suo nonno le cose per lui erano peggiorate, c'era tanto dolore dentro di lui, n'ero certa a questo punto. Lui aveva bisogno di un'amica, di qualcuno di cui si potesse fidare e no di uno psicologo, aveva bisogno d'affetto e magari anche di un po' d'amore.
Per tutto il giorno non ebbi sue notizie, l'indomani in compenso trovai il suo autista che mi aspettava alla fermata dell'autobus per accompagnarmi a scuola dove lui non si presentò quel giorno. Cercai di mandargli qualche messaggio per sapere se stesse bene, ma non mi rispondeva, ero davvero preoccupata, quel ragazzo mi avrebbe fatto impazzire. All'uscita della scuola trovai di nuovo il suo autista ad aspettarmi, sperai che ci fosse anche lui ma non c'era, ci rimasi male e non fece altro che aumentare la mia preoccupazione. 
"Lui sta bene?", chiesi all'autista dopo che partì. 
"Non sarei autorizzato...".
"Capisco...". Ero in ansia.
"Ultimamente è diverso". Finalmente delle notizie!
"Diverso come?". Non capivo. 
"Vede, in genere non si preoccupa mai per nessuno o parla con qualcuno, si potrebbe dire che sia un tipo solitario ma a quanto sembra si è affezionato a lei, il ché è strano".
"Lei trova?".
"Non saprei, ma a quanto pare lei è molto speciale se è riuscita dove altri hanno fallito". Volevo sapere altro su di lui ma ero arrivata a casa, purtroppo. 
"Non dica della nostra conversazione a Sam", lo pregai.
Mi sorrise. "Stia tranquilla signorina, sarà un nostro piccolo segreto". Quell'uomo mi stava davvero simpatico. 
Quando rientrai in casa era deserta, tanto per cambiare. Mangiai qualcosa al volo per poi fare una doccia. Oggi non avevo voglia di fare niente, volevo indossare uno dei miei pigiami morbidi caldi e tanto accoglienti e leggere un buon libro, avevo proprio bisogno di non pensare a lui e perdermi in uno dei mondi fantastici che tanto amavo. 
Dopo qualche ora sentii il telefono vibrare ma lo ignorai e poi non ricordavo in quale meandro della stanza l'avevo gettato. Un'altra vibrazioni. Poi qualcuno che bussava alla mia finestra, e chi non era se non lo psicopatico! Anche se era dura ammetterlo, ero davvero contenta di vederlo... ma ero in pigiama! Che vergogna, ed era uno dei pigiami più imbarazzanti al mondo! Rosa confetto con degli orsi che mangiavano del miele da un vasetto. Volevo sprofondare in un abisso e non riemergere mai più. 
Quando entrò nella mia stanza mi guardò da capo a piedi e avrei giurato che stesse trattenendo una risata.
"Salve". Cosa!? Dopo che era scappato via senza ne farsi vedere e sentire si presentava così, arrampicandosi dalla mia finestra e dicendomi salve come se nulla fosse!
Arrabbiata come non mai andai a prendere un cuscino e iniziai a picchiarlo, non l'avrebbe passata liscia. 
"Ahi... si può... sapere... che ti prende?", mi chiese tra una cuscinata e l'altra.
"Che mi prende!", urlai, "Mi prende che sei scappato via lasciandomi là tutta da sola per non farti più sentire, neanche un messaggio, niente, e ora arrivi qua, in camera mia, come se nulla fosse e mi dici salve. Io ti uccido!". Conclusi il discorso con una cuscinata.
Mi tolse il cuscino dalle mani per gettarlo in un angolo della stanza e fece qualcosa di inaspettato, mi abbracciò stringendomi forte a sé, mi inebriai del suo dolce profumo di cioccolata. "Mi dispiace, sono un idiota... sono scappato via... ho avuto paura...", mi confessò tra un sospiro e l'altro. 
Paura? Aveva avuto paura e io come un idiota mi ero arrabbiata con lui, che stupita che ero.
Lo strinsi a mia volta, lo sentii irrigidirsi ma non mi respinse. "Non devi avere paura".
Sospirò ancora. "Lo so... è solo che... non sono abituato a certe cose... ho bisogno di sapere le cose, che non mi sfuggano di mano...".
Mi staccai da lui per guardarlo negli occhi. "Non ti piacerebbe avere un'amica?".
Ci riflettè per qualche istante. "Non saprei, non ne ho mai avuto bisogno o il desiderio".
"E con me? Se divento tua amica ti darebbe fastidio?".
"No...".
"Posso essere tua amica?", gli chiesi in un sussurro. Forse alla fine non volevo essere sua amica. Avvicinò il suo viso pericolosamente al mio. "Magari potrei volere qualcosa di più". Mi sentivo frastornata, era troppo vicino. Cercai di riprendermi. Dovevo! Lo allontanai da me quanto bastava per guardarlo bene, dovevo essere decisa con lui. "Solo amici", precisai.
"Va bene...". Avevo vinto, non potevo crederci. "Per ora", mi disse con un ghigno. Come non detto. 
"Bene, ti avevo promesso che ti avrei portata dall'oculista".
"Come? Adesso!?".
"Sì, certo", mi sorrise. 
"Ehm... dovrei cambiarmi". Ero nel pallone più totale. 
"Ok". Rimase lì fermo e immobile. Che aspettava ad uscire! 
"Esci".
"Devo proprio?".
"Se non vuoi assaggiare la mia ciabatta, sì".
Mi guardò con perplessità. "Dici sul serio?".
"Quando si tratta di ciabatte sono sempre seria".
"Ok, esco". Si avviò verso la porta, ma prima che uscisse si voltò per dirmi: "A proposito, bel pigiama". Sfortuna volle che si era richiuso la porta alle spalle prima che riuscissi a colpirlo in testa con la mia ciabatta-cane. 
Visto che non gli piacevano i miei vestiti larghi, andai nei meandri del mio armadio alla ricerca di qualcosa di più stretto che mi aveva comprato mia madre senza di me, ma soprattutto il mio consenso. Alla fine erano solo una camicia a quadri e un paio di jeans, probabilmente avevo ereditato da mamma il mio scarso senso della moda. Stranamente oggi lo psicopatico... cioè, Sam, indossava una camicia a quadri sopra una t-shirt bianca e dei jeans, oggi niente stile dark per lui, ma era comunque da mozzar il fiato. Chissà se anche questa volta ero rimasta a bocca aperta nel guardarlo... era meglio non pensarci. 
Dopo essermi vestita e data una sistemata ai capelli, uscii dalla stanza trovandolo nel corridoio ad aspettarmi diligentemente. 
Allungò un braccio per offrirmi la mano. "Andiamo". La sua voce era così dolce. Se volevo andare via con lui? Certo.
Invece di andare dall'oculista in auto ci andammo a piedi. Era bello passeggiare con lui, aveva una bella camminata elegante, probabilmente, visto che proveniva da una famiglia ricca, era stato istruito nel portamento. Quando passava lui tutte le ragazze si voltavano per guardarlo a bocca aperta, almeno non ero l'unica, ma comunque, sentivo una nota di fastidio, cos'era questo sentimento, gelosia per caso? Ero gelosa delle altre?
Come al solito l'aria mi fece lo sgambetto per farmi cadere a terra per baciare il marciapiede... stranamente non accadde questa volta. Sam prontamente mi aveva afferrata prima che cadessi, era il mio salvatore.
"Se guardarsi dove andassi, invece di fissarmi come un ebete, non rischieresti di sfracellarti al suolo", mi rimproverò e non aveva tutti i torti. Aveva il fiato grosso, come se avesse appena corso. 
"Stai bene?".
Fece una strana smorfia, come di fastidio. "Sto benissimo, andiamo piuttosto". Sembrava innervosito dalla mia domanda.
Nessuno dei due proferì parola finché non fummo arrivati a destinazione. Quando entrammo dall'oculista prese il suo portafogli per estrarre la sua carta di credito. Si avvicinò al bancone senza rispettare la fila mettendosi ad impartire ordini. "La mia amica ha bisogno di una visita, immediatamente", si rivolse con sgarbo alla povera signorina che stava dietro al bancone, era come se lei fosse insignificante per lui, un insetto schifoso. 
"Deve aspettare il suo turno", gli rispose la signorina mantenendo un tono gentile e professionale.
"Io non aspetto".
Eh no mio caro, non ci si comporta così. Mi avvicinai a lui per insegnargli un po' di educazione. "Cosa stai facendo!".
Mi guardò come se fossi tonta. "Non lo vedi?".
"Non ci si comporta così", lo rimproverai puntandogli un dito contro. In risposta alzò un sopracciglio. "Devi essere più gentile con le persone ed educato, e si rispettano i turni e le file". Non credevo a ciò che avevo appena detto, ero fiera di me.
Si accigliò. "Io parlo agli altri come mi pare e non rispetto ne turni e ne file, non mi piace aspettare".
Cosa! "Tu adesso ti vai a sedere su una di quelle sedie", indicai dietro di me, "e aspetti il turno come gli altri".
Si mosse a disagio sul posto per poi fare come gli fu detto, sembrava un bambino piccolo dopo che era stato rimproverato dalla madre per aver fatto un capriccio.
Mi andai a sedere accanto a lui che teneva il broncio, era davvero carino.
Mi strinse la mano facendomi sentire quella familiare scossa elettrica. "Sei arrabbiata con me?", mi chiese mentre poggiava il capo sulla mia spalla.
"No, però devi comportarti bene con le persone".
"Va bene". Che cosa strana, stava facendo come gli era stato chiesto e senza protestare. Probabilmente prima ero davvero caduta sfracellandomi al suolo ed ero finita in coma.
Dopo un po' si addormentò con la testa poggiata sulla mia spalla, sperai tanto che non mi sbavasse sulla spalla. Mentre dormiva borbottava parole incomprensibili, di solito non lo faceva ma questa volta sì, chissà mai il perché, forse era irrequieto.
Finalmente era il nostro turno e dovevo svegliarlo. Gli accarezzai i capelli e immediatamente si svegliò. 
"Sì?", chiese mezzo assonnato. 
"È il nostro turno".
Si alzò dalla sedia per dirigersi al bancone, senza di me, almeno poteva aspettarmi.
L'oculista mi visitò dicendo che potevo portare le lenti a contatto. Sam con il suo modo esagerato ne comprò fin troppe e mi obbligò ad indossarne subito un paio. Non mi piaceva che sperperasse i suoi soldi, specialmente per me. 
Dovevo abituarmi alle nuove lenti, mi sentivo più leggera e libera, erano davvero comode.
"Ti andrebbe un gelato?", mi chiese quando passammo di fronte ad una gelateria dall'aria lussuosa.
"Va bene". Adoravo il gelato. 
Da dentro la gelateria sprizzava lusso da tutti i pori, era così luminosa e luccicosa. Prendemmo le nostre ordinazioni per poi accomodarci in un tavolino, anch'esso lussuoso. Sam prese gusto cioccolato fondente e io al caffè. 
"Alla tua età bevi caffè?", mi chiese con una cucchiaiata di gelato in bocca, era un vero bambino. 
"Intanto è gelato, e poi ho diciassette anni, non tre".
"Almeno prendilo decaffeinato". Com'era irritante. 
"No, grazie, va bene così".
"Come vuoi, ci rimetti tu". Prese una generosa cucchiaiata per mangiarla in un sol boccone. Quando si trattava di voracità non lo batteva nessuno. 
Anche in gelateria le ragazze lo fissavano e mi dava fastidio. C'era un gruppo di ragazze che se lo mangiavano con gli occhi e di tanto intanto si mettevano a parlare e a ridere fra di loro. Tanto lo sapevo che parlavano di lui, che oche, mi ricordavano la mia matrigna. Lui nel frattempo si gustava il suo gelato ignaro di ciò che accadeva intorno a lui, anche a scuola lo faceva.
"Perché non mangi il tuo gelato? Vedi che si scioglie".
"Ehm... sì, sì". Che stupida, mi ero incantata a fissare quelle oche. Presi una cucchiaiata di gelato dalla mia lussuosa coppa gustando il mio gelato e facendo finta di niente. 
"Chi stavi fissando?". Mi aveva beccata.
"Niente". Come attrice facevo pena.
Si voltò dalla parte del gruppo di ragazze e le osservò per qualche istante, mentre loro gli facevano gli occhi dolci. Si voltò verso di me per inchiodarmi col il suo sguardo, ero persa. "Ti danno fastidio quelle ragazze?".
Ci misi qualche istante per riprendermi e rispondere. "No".
Si alzò dalla sedia per andare dalle ragazze. Si avvicinò a loro e da quel che vidi disse qualcosa che fece cambiare espressione alle ragazze. Che gli avrà mai detto? Ero perplessa, c'era d'aspettarsi di tutto da lui. Probabilmente le aveva minacciate di morte, era da lui.
Tornò da me come se nulla fosse per finire il suo gelato. 
"Cos'hai detto a quelle ragazze?".
"Nulla di che", mi rispose facendo spallucce. Nulla di che! Era convinto che gli credessi? Se era così, si sbagliava di grosso.
"Posso sapere cos'hai detto a quelle ragazze?", insistetti usando un tono di voce deciso e autoritario.
Soffermò lo sguardo su di me per poi sbuffare seccato. "Nulla di che. Ho detto loro che mi dà fastidio essere fissato mentre mangio". Chissà in che modo glielo avrà detto, non oso immaginare. 
Usciti dalla gelateria mi riportò a casa, a piedi. Era stata una bellissima giornata, a parte gli intoppi, si intende, ma con lui era così e mi piaceva.
Prima di entrare in casa mi fermò inchiodandomi le spalle alla porta d'ingresso, la sua bocca era vicinissima alla mia, sentivo il suo dolce alito su di me. Avevo le palpitazioni a mille e la mia vocina interiore mi gridava di scappare via e che era una sua trappola diabolica ma il mio corpo non voleva sentir ragione. 
"Domani ti porto in un altro posto e non protestare, va bene?". Annuii al suo volere. Si allontanò da me ed io ricominciai a respirare. "Di sopra c'è una sorpresa per te", mi disse ridendo per poi andarsene via.
L'osservai andare via con la sua solita camminata elegante e sparire. Era così bello. L'effetto che esercitava su di me era sempre più forte, n'ero consapevole e tutto ciò mi spaventava. Lui non andava bene per me, ero solo il suo passatempo, nulla di più e ne meno. Ero solo una stupida ragazzina come le altre che cadeva ai suoi piedi. Entrai in casa di corsa e arrabbiata con me stessa. Quando entrai in camera mia, tolsi le lenti a contatto gettandole via, che m'importava! Non m'importava più di niente, volevo solo piangere. 

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Capitolo 12
*** Sam VI ***


Tornai a casa fischiettando, tutti lo notarono, compreso papà ma non m'importava, avevo solo lei in testa e il magnifico pomeriggio passato insieme. Chissà come l'avrebbe presa la mia sorpresa. Senza che se ne accorgesse, mentre si cambiava, le avevo rubato le chiavi di riserva di casa dall'ingresso, dove le tenevano appese alla parete. Avevo chiesto al mio autista di farne fare una copia e rimetterle al suo posto mentre non c'eravamo, fortuna che lei era un tipo distratto e non aveva notato nulla. Questa mattina mi ero incontrato con la personal shopper per procurarmi dei nuovi vestiti per Elle e che si addicevano a lei. Così, mentre era con me fuori, il mio autista aveva messo nel suo armadio i vestiti nuovi, togliendo quelli vecchi. Chissà se si sarebbe arrabbiata... probabilmente parecchio. Non vedevo l'ora!
Visto che domani c'era un altro compito, decisi di studiare, più che altro dare una rapida occhiata al libro di testo, ma dettagli. Mentre tenevo il libro in mano mi arrivò un messaggio. Era Elle. Adesso c'era da divertirsi.

Dove sono finiti i miei vestiti!?! 
Finalmente se n'era accorta.

Non ne ho idea.
Le scrissi, ed era la verità, non sapevo dove il mio autista avesse messo i suoi vestiti.

Mi rispose in un attimo.
Non scherzare!
Sembrava allarmata, la cosa mi divertiva parecchio. 

Le risposi con un: Non sto scherzando.

Ti uccido!

Ma che risposta era! Non si doveva comportare così con me.
Signorina sfrontata e maleducata, la prego di usare un linguaggio più consono con il sottoscritto e tuo padrone.

Non tardò ad arrivare una sua risposta.
Primo: uso il linguaggio che più mi piace. Secondo: tu non sei il mio padrone! Non sono mica un cane!
La sua affermazione mi face ridere di gusto.

Saresti un cane disubbidiente.

E tu un padrone prepotente.
Mi rispose a tono.
Questo gioco iniziava a piacermi.

Se fai la cattiva cagnetta non ti porto a fare la passeggiata.

Poi pulisci tu i bisogni che ti lascerò in giro per casa.
La sua risposta mi fece piangere dalle risate. In vita mia non avevo mai riso così tanto.

Se fai la cattiva cagnetta ti metto il guinzaglio e ti lego ad un albero. 

E io ti mordo.
Il suo sarcasmo era davvero unico e poi mi piaceva quando mi sfidava e non si sottometteva a me, era questo quello che più mi piaceva in lei. Lei mi affascinava.

Non ti piacciono i tuoi nuovi vestiti?
Le chiesi tornando serio. 

Sono bellissimi. Mi rispose. Ma avrei preferito che me lo dicessi. Forse avevo un po' esagerato. 

La prossima volta te lo dirò allora.

No, non voglio che spenda i tuoi soldi per me.

Perché no? Ho tanti soldi, anche troppi, e se voglio comprarti dei vestiti lo faccio. 

Non funziona così.
Cosa intendeva, non capivo.

Non posso farti dei regali?

Sì, ma così è troppo...

Non riuscivo a capire, con lei era sempre così. Decisi di andarla a trovare e chiarire la cosa.
Quando giunsi sotto la sua finestra la luce era accesa, così mi arrampicai sul tubo di scolo, stava diventando un'abitudine questa. Arrivato in cima vidi la sua stanza a soqquadro. Che accidenti aveva combinato!? Bussai alla finestra e appena mi vide assunse un'aria accigliata venendo ad aprirmi. 
"È passato un tornado di nome Elle in questa stanza?", chiesi dopo essere entrato e con il fiatone. Stavo decisamente peggiorando. 
"Spiritoso. Piuttosto, che ci fai qui?". Ce l'aveva ancora con me, era la mia costante disperazione questa ragazza.
"Sono venuto per capire come funziona la faccenda dei regali", le spiegai. 
Sbuffo per poi gettarsi di peso sul letto e i vestiti sparsi, così li avrebbe sgualciti ma mi tratteni dal riprenderla, volevo assolutamente sapere come funzionava questa faccenda.
"Il troppo stroppia", mi rispose. Cosa? Che risposta era!
"Vuoi che ti metta il guinzaglio?".
Si alzò leggermente dal letto per guardarmi scioccata.
Sì, mia cara, hai sentito bene. Adesso vedremo se mi rispondeva a dovere.
Si riprese dallo shock riprendendo lucidità e mettendosi a sedere, sempre sui vestiti. "Vedi... va bene un regalo ogni tanto, ma tu esageri", indicò con un gesto delle mani i vestiti sparsi per la stanza. 
Esasperato mi andai a sedere sul letto, prima però spostai un vestito di lato. "Ho abbastanza soldi da comprarti tutti i vestiti che voglio...". Mi guardò con attenzione ed occhi attenti, aspettando la fine del mio discorso. "Elle, ti ho comprato i vestiti, le lenti e perfino la divisa scolastica solo perché voglio che tu non ti nasconda". Voglio vederti. 
Si mise a guardare il pavimento e iniziò a mordersi il labbro. Quando lo faceva mi distraeva parecchio. 
"Ti stai mordendo il labbro", le feci notare ma lei continuò quella tortura. Sospirai. "Cosa c'è che non va? Sai che devo essere partecipe dei tuoi pensieri".
"Non puoi pretendere di cambiarmi da un giorno all'altro". Finalmente si decise a parlare e a guardarmi e i suoi occhi grigi che tanto adoravo erano tristi e lucidi.
Le presi la mano sinistra baciandole il dorso. Era così morbido.
Fissando i miei occhi nei suoi, le dissi: "Io ti aiuterò. Ti aiuterò a superare i tuoi timori e a conquistare la fiducia in te stessa che ti spetta". Volevo che lei fosse felice ed era una cosa nuova per me, non sapevo cosa mi stesse succedendo ma non m'importava, stavo bene così. "Facciamo una cosa. Perché non provi a mettere uno di questi bei vestiti e vedere come ti sta?".
Si guardò intorno soppensando alla domanda da me posta. "Ci posso provare, ma non credo che mi stiano bene".
"Sciocchezze", esclamai afferrando il primo bel vestito che adocchiai e gettandoglielo in faccia. "Provalo". Uscii dalla stanza aspettando che si cambiasse.
Dovevo dire che ero nervoso. Magari era il caso di prendere la mia medicina, non si sapeva mai, non volevo spaventarla con uno dei miei attacchi e poi lei non doveva sapere niente, non volevo farle pena.
I minuti passarono e lei non si decideva a chiamarmi, così decisi di entrare, vestita o no. Quando entrai era lì, seduta sul suo letto con addosso uno dei miei vestiti e le stava... un incanto. Era davvero bella la mia Elle, la volevo tutta per me. Forse non ero tanto certo di farla uscire vestita così bene, gli altri la potevano guardare. Cos'era questo sentimento che sentivo dentro? Che fosse gelosia? Scacciai via quei sciocchi pensieri e andai da lei. "E allora? Perché non mi hai chiamato?".
Mi guardò con i suoi occhietti da cucciolo. Da dove mi venivano certi pensieri? "Mi vergognavo", piagnucolò. 
Esasperato la trascinai nell'unico specchio che aveva in casa. Sì, ero andato in giro a curiosare. Entrai in uno dei bagni, dove c'era un grande specchio e la piazzai lì di fronte. Non osava aprire gli occhi per vedere la sua figura, ma io volevo che vedesse. Che vedesse quanto in realtà fosse splendida e non solo ai miei occhi, lei era davvero bella e doveva capirlo. 
"Guardati", le sussurra ad un orecchio dopo che mi fui posizionato dietro di lei. "Apri gli occhi e guarda quanto sei bella con questo vestito, ti sta davvero bene".
Il mio incoraggiamento funzionò ed aprì gli occhi. Si osservò con attenzione per qualche istante. "Vedi, sei bellissima".
"Tu mi trovi... bellissima?". L'ultima parola la sussurrò, era incredula a ciò che le avevo appena detto. Quando imparerà a fidarsi di me? 
Risi. "Certamente, signorina". Finalmente le spuntò un sorriso e il mio cuore fece una capriola che mi diede fastidio e mi causò un colpo di tosse. Odiavo quando mi succedeva.
"Ti senti bene?", mi chiese Elle voltandosi verso di me preoccupata.
"Benissimo". Non volevo che si preoccupasse per me, non volevo la compassione di nessuno.
Continuò a guardarmi con quell'aria preoccupata, che mi diede un gran fastidio. "Torniamo in camera tua, devi provare gli altri vestiti".
"Ok...". Il suo tono di voce era preoccupato e la cosa non andava bene, non per me almeno.
"Ti vuoi sdraiare un po' sul letto e dormire?", mi chiese quando entrammo in camera sua.
Eh no! Non mi piaceva essere trattato così! "Sto benissimo, non ho bisogno della tua compassione!", urlai, anche se non dovevo e questo mi provocò un altro colpo di tosse. 
Lei per tutta risposta mi diede uno schiaffo. Non me l'aspettavo. Nessuno aveva mai osato alzare un dito su di me, io che ero abituato a fare quello che volevo. Mi portai una mano sulla guancia appena colpita, era leggermente calda.
"Sei uno stupido!", mi urlò con le lacrime agli occhi, "Io mi sono solamente preoccupata per te e tu mi tratti così!". Si accasciò in ginocchio sul pavimento portandosi le mani al viso e abbandonarsi in un pianto incontrollato. Cosa avevo fatto? Avevo rovinato una bellissima giornata. Aveva ragione, ero uno stupido. Mi inginocchiai di fronte a lei togliendole le mani dal viso. La guardai per qualche istante con attenzione, le lacrime continuavano a scendere rigandole il viso, così decisi di fare una cosa che non mi sarei mai immaginato in vita mia, ma lo feci. Le presi il viso tra le mani e le asciugai le lacrime con i miei baci, provocando in me sensazioni nuove e inaspettate. "Se piangi asciugherò le tue lacrime con i miei baci", le sussurrai. In quel momento avevo voglio di baciarla, eravamo così vicini e lei era bellissima con quel vestito. Mi avvicinai per baciarla ma lei poggiò con delicatezza le dita sulle mie labbra, negandomi quel bacio tanto desiderato.
Mi voltai dall'altro lato. Ero infastidito da quel gesto ma lei mi aveva già detto come la pensava al riguardo, però desideravo tanto assaporare il suo dolce sapere. "Come vuoi...", le dissi mentre mi alzavo dal pavimento, forse troppo in fretta... ebbi un lieve capogiro. Oggi non era la mia giornata.
"Sam!". La sentii chiamare il mio nome con voce preoccupata. Che strano, era la prima volta che mi chiamava per nome, o che mi chiamava. 
"Sto bene". I suoi occhi grigi esprimevano preoccupazione, non erano come quelli di mio padre o della dottoressa Grace, i suoi erano diversi, c'era qualcos'altro, qualcosa in più che non riuscivo a scorgere. "Forse è meglio se vado a casa", biascicai. Ieri notte non avevo dormito affatto, avevo avuto la mente piena di pensieri per farlo.
"Va bene, ti accompagno". Cosa! No, se mio padre l'avesse vista mi avrebbe fatto delle domande e poi lo avrebbe detto alla dottoressa Grace, e poi chi la tratteneva più.
"No, c'è il mio autista fuori che mi aspetta". Era praticamente la mia ombra. Papà e la dottoressa Grace avevano insistito affinché andassi in giro con lui, per non stancarmi o in caso di emergenza e quando non ero con lui sapevano che ero scappato.
"Va bene". Sembrava davvero preoccupata.
Mi avvicinai a lei per posarle un tenero bacio sulla fronte. "A domani, ti vengo a predere come al solito". Mi avviai verso la finestra, prima di arrampicarmi mi voltai un ultima volta verso di lei. "Non ti preoccupare per il compito di domani, oggi ho studiato". Le feci l'occhiolino ed uscii dalla finestra. Avrei giurato di aver visto in lei un'espressione sconvolta, probabilmente era perché avevo studiato da solo.

Ieri sera quando tornai a casa era dovuta venire la dottoressa Grace, non stavo molto bene, ero piuttosto affatico e per questo si era alterata con me, dicendomi che ero un irresponsabile e che mi aveva raccomandato un infinità di volte di non esagerare e non affaticarmi ma non l'ascoltai come al solito. Lei non sapeva niente del periodo che stavo passando, delle nuove sensazioni che stavo provando e cercando di capire, perciò poteva arrabbiarsi quanto voleva, a me importava di una sola cosa, di lei, della mia Elle.
Oggi volevo uscire di nuovo con lei, doveva abituarsi al suo nuovo look, ma soprattutto, ad avere fiducia in sé stessa. Volevo portarla in un bel ristorante vegetariano, ieri avevo fatto una prenotazione e avevo ordinato i piatti che avevo più gradito. Sicuramente la dottoressa Grace ne sarebbe stata contenta se avesse saputo del ristorante.
Stamattina Elle era in ritardo, non era da lei. Preoccupato le mandai un messaggio chiedendole dov'era finita, forse era con sua madre. Dopo qualche minuto mi scrisse che stava arrivando. Perché oggi era in ritardo, che le fosse successo qualcosa? L'ansia mi stava assalendo e non mi era consentito nelle mie condizioni. 
Finalmente arrivò. Quando la vidi mi preoccupò. Aveva delle occhiaie marcate e le sue trecce erano state fatte di fretta e avevano delle ciocche ribelli che avevano cercato di fuggire, i vestiti non erano da meno, anche loro erano in disordine. "Cosa ti è successo?", esclamai.
Mi guardò storto. "Per colpa tua, ieri non ho ripassato per il compito di oggi, me n'ero completamente dimenticata, grazie a te. Di conseguenza, ho dovuto ripassare fino a tarda sera". 
Alzai un sopracciglio incredulo. Ne aveva fatta una tragedia solo per un ripasso, questa ragazza era una vera secchiona e la cosa mi piaceva. "Dai andiamo, ti porto in un posto". Mi guardò strano. E adesso che aveva? "Cosa c'è?", le chiesi. 
"Cosa c'è!? Dobbiamo andare a scuola e tu mi vuoi portare in un posto!".
Alzai gli occhi al cielo. "Rilassati, non ti dicono niente se salti un'ora, non contano le ore in questa scuola, valgono solo i voti".
"Come, scusa?". Probabilmente non mi credeva, si vedeva dalla sua faccia. 
"In questa scuola si pensa che faccia bene saltare una lezione di tanto in tanto, diminuisce lo stress". 
La sua faccia non era tanto convinta, così esasperato la trascinai in auto. 
"Sei sicuro di questa cosa?", mi chiese continuando a non credermi.
"Sì, certo". Mi rivolsi al mio autista: "Andiamo da Lucrezia". Mise in moto e partimmo.
"Chi è Lucrezia?", mi chiese sospettosa. Era impossibile questa ragazza. 
"Quando arriveremo lo vedrai". 
"Cosa vuol dire!".
"Occhio per occhio". Mi divertivo troppo con lei.
"Vuoi assaggiare la mia ciabatta per caso?".
La guardai alzando un sopracciglio divertito da lei. "Anche entrambe ma sfortunatamente le tue belle ciabatte le hai lasciate a casa".
Incrociò le braccia al petto imbronciata, sembrava una bambina piccola, era adorabile. 
Quando fummo arrivati da Lucrezia, capì che era il nome del salone di bellezza e come suo solito, restò a bocca aperta e poi mi guardò in cagnesco. Probabilmente avrei assaggiato veramente le sue ciabatte. La invitai ad entrare nel salone e stranamente era calma, anche troppo, mi ricordava la dottoressa Grace quando si arrabbiava sul serio. Dal sereno esplodeva la tempesta, ecco com'era lei. 
"Aspettami qui", le ordini mentre mi recavo dalla proprietaria.
Come al solito era impeccabile, col suo tailleur costoso, i suoi capelli perfetti e i litri di profumo, anch'esso costoso.
"Posso esserle utile signor, Edwards?". 
Dovevo ricordarmi di essere cordiale. "Sì, la mia amica ha bisogno d'aiuto. Ha studiato tutta la notte e oggi è un disastro, la può aiutare?". Sperai che fosse il metodo giusto o almeno quello che piaceva a Elle.
"Certamente signore, la faccia accomodare".
Mi voltai per far cenno a Elle di venire. Con titubanza e sguardo attento si avvicinò a noi.
"Lei è la proprietaria del salone, si occuperà di te". Mi guardò sconvolta, probabilmente ne aveva abbastanza delle mie sorprese. "Non puoi presentarti così a scuola, farai morire di spavento qualcuno", la punzecchiai. 
Prima mi fulminò con lo sguardo, poi sbuffo arrendendosi al mio volere. "Va bene".
Bene! Mi rivolsi alla proprietaria. "Voglio un trucco naturale, non deve sembrare truccata e magari anche un trattamento di bellezza. Poi, dovrebbe dare una sistemata ai suoi capelli, niente stravolgimenti, mi piacciono lunghi".
"Come desidera, signore". Portò via con sé una Elle poco convinta ma collaborativa nell'altra stanza, io restai nella sala d'attesa.
L'attesa era lunga e noioso e purtroppo non avevo con me un buon libro, c'erano solo delle stupide riviste da donna. Non capivo perché le ragazze ci mettessero tanto a farsi belle. Insomma, era inutile, una lavata, una pettinta e infine un tocco di profumo ed eri perfetto, almeno io così facevo.
Ragazze, valle a capire.
Dopo essermi addormentato per la noia mi sentii chiamare. Chi poteva mai essere che mi disturbarva? Aprii gli occhi ed era la proprietaria del salone. "Cosa c'è?", biascicai mezzo assonnato. 
"Abbiamo finito", mi annunciò. Alla buon ora!
Fu in quel momento che la vidi. Le trecce erano sparite, al loro posto c'erano lunghi capelli ondulati e appena tagliati. Le occhiaie erano spariti e in compenso risaltavano dei splendidi occhi grigi che mi fissavano imbarazzati. Non credevo che potesse diventare più bella di quanto non lo fosse già, ma mi sbagliavo di grosso. 
Mi alzai dalla sedia schiarendomi la voce. "Bene, se avete finito possiamo andare". Girai i tacchi per uscire da quel posto e tornare in auto. Quando mi vide il mio autista uscì dall'auto per venirmi ad aprire lo sportello, quando mi accomodai poco dopo mi raggiunse Elle e partimmo verso scuola.
Ero nervoso, molto nervoso e stavo a debita distanza da lei non sapendo il perché. Non mi era mai successa una cosa del genere ma con lei era sempre un continuo di novità.
Per tutto il giorno rimasi rigido come un bastone, non osavo guardarla per tradirmi, di cosa poi non lo sapevo. Vederla così mi scatenava delle forti emozioni, di che tipo non n'ero certo.
Perché con lei doveva essere così?!
Era davvero frustrante questa situazione. 
Dopo scuola decisi di riaccompagnarla a casa, così si sarebbe potuta cambiare, per poi portarla nel ristorante vegetariano per pranzo, chissà se avrebbe gradito.
"Mi dici cos'hai?", mi chiese quando fummo arrivati di fronte casa sua.
"Niente", mentii. 
Mi guardò accigliata per poi aprire la porta di casa e sbatterla dietro di sé, lasciandomi chiuso fuori. Fortuna che avevo le copie delle chiavi di casa sua con me. Aprii la porta dirigendomi in camera sua.
Era sdraiata sul letto e aveva gli occhi chiusi, i capelli le incorniciavano il viso in modo disordinato ma così perfetto, era bellissima. Mi avvicinai a lei, salendo nel suo letto con delicatezza, non fece nessuna piega, che stesse dormendo? Mi avvicinai ancora di più a lei osservando le sue soffici labbra. Avevo tanta voglia di baciarla ma lei non me lo permetteva. Era l'unica persona che mi negava qualcosa che non facesse male al mio cuore e questo era davvero frustrante.
"Non ci provare", mi disse tenendo gli occhi ancora chiusi.
"Provare cose?", le chiesi facendo il finto tonto.
Aprì un occhio per guardarmi. "A baciarmi".
"Beccato". Mi allontanai da lei alzando le mani in segno di resa.
Si mise seduta sul letto sbuffando per poi guardarmi accigliata. "Mi spieghi come hai fatto ad entrare in casa?". Infila una mano in tasca estraendo la chiave e mostraglierla, in risposta me la tolse di mano, tanto avevo altre copie. "Come hai fatto ad avere la chiave di casa mia?", esclamò.
"Essere me ha i suoi vantaggi", le feci l'occhiolino. 
"Dovrei denunciarti". Anche se cercava di fare la voce minacciosa con lei non funzionava, era troppo carina per sembrare un benché minimo minacciosa o spaventosa.
"Denunciarmi per cosa? Per essere entrato in casa usando le chiavi?", ridacchiai.
Si imbronciò portandosi le braccia al petto e incrociandole. Com'era buffa.
"Dai, cambiati, ti porto a pranzo fuori".
"Io con te non vado da nessuna parte", mi disse imbronciata. 
"Che tu lo voglia o no, ti ci porterò lo stesso, anche con la forza se necessario".
"Non dirai sul serio, vero?". Mi guardò con aria preoccupata, almeno non era più imbronciata.
"Faccio sempre sul serio". Inghiottì più volte un groppo di saliva a vuoto. 
"Vado a casa per cambiarmi, tornerò fra mezz'ora". Mi voltai per uscire dalla sua stanza e da casa sua dalla porta e no dalla finestra, ma prima mi voltai per dirle: "Metti un bel vestito, ti porto in un bel ristorante elegante". Le feci l'occhiolino per poi uscire dalla sua stanza.

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Capitolo 13
*** Eleonora VII ***


Quando lo sentii sbattere la porta di casa mi precipitai verso l'armadio per cercare qualcosa da mettermi. Il problema era: cosa mettere!?
Calma Eleonora, devi solo uscire con lui, che sarà mai.
Be', mi stava portando in un ristorante di lusso, cosa sarà mai mi chiedevo.
Mi uscì una risata nervosa. Ero pazza. Lui mi rendeva pazza. Lui mi sconvolgeva l'esistenza e non stavo facendo niente per impedirlo e anche se avrei voluto negarlo fino alla morte sapevo che quello che lui faceva, Sam lo psicopatico, mi piaceva. Mi piaceva perché mi faceva sentire come non mai. Non più la ragazza che veniva notata per la sua scialbezza, per il suo essere fuori moda o per la sua goffaggine, no, lui mi notava per altro. Lui mi prestava attenzioni, attenzioni che nessuno aveva mai avuto nei miei confronti e questo mi piaceva, mi piaceva in un modo che ancora non sapevo spiegarmi. In realtà non sapevo spiegarmi cosa lui mi facesse, mi provocasse. Lui era il mio ignoto. E adesso ero super agitata e non sapevo come considerare questo pranzo fra noi due. Un appuntamento? No, sapeva troppo di americano. La nostra vera prima uscita? Sì, così suonava bene ma lui non mi voleva, non mi vorrà mai, era inutile che mi facessi delle illusioni. Lui non mi amerà mai. Mi accasciai in ginocchio sul pavimento. Sentivo un peso sul petto, come se mi mancasse l'aria. Non respiravo. Che cosa mi stava succedendo? Avevo solo voglia di piangere e non sapevo neanche il perché ma dovevo riprendermi, lui sarebbe tornato a momenti e se mi avesse trovata ancora in divisa mi avrebbe uccisa. Meglio non farlo arrabbiare. Rabbrividii al solo pensiero.
Mi alzai dal pavimento per prendere un vestito dall'armadio che pensavo gli potesse piacere, almeno credevo.
Con malavoglia andai nel bagno di mia madre per indossarlo. Avevo scelto un vestito blu notte che mi fasciava il corpo mostrando le mie forme e curve, aveva delle spalline larghe -ringraziai ogni divinità esistente per il fatto che la scollatura non fosse troppo eccessiva- nonostante ciò era carino, non su di me però.
Non sistemai né i capelli e nemmeno il trucco, visto che oggi Sam mi aveva portata da una professionista. Era ancora in surreale guardarmi, non sembravo più io anche se sapevo che quella ragazza riflessa nello specchio ero io. Sbuffai ed uscii dal bagno. Non volevo più guardarmi.
Scesi in soggiorno per aspettarlo ma mentre scendevo le scale sentii suonare il campanello. Corsi ad aprire e ciò che vidi mi lasciò senza fiato. Lui era da mozzare il fiato, più del solito, s'intende. Come sempre era vestito di nero, era elegante ma al tempo stesso trasgressivo, con la sua camicia nera con le maniche arrotolate a far intravedere i suoi avambracci perfetti. Come suo solito teneva la giacca dietro le spalle per darsi un aria di superiorità, e questo, anche se odiavo ammetterlo, mi faceva impazzire. Si era anche pettinato in modo diverso, non portava più il ciuffo acconciato in modo ribelle ma perfetto, erano in ordine e tenuti ben fermi all'indietro, gli stavano bene. Anche con degli stracci sarebbe stato bene e bellissimo.
Si schiarì la voce destandomi dai miei pensieri poco seri. "Hai ancora intenzione di guardarmi come un ebete e restare lì impalata o vuoi andare a pranzo? Non so te, ma io ho fame", si lamentò. Come al solito avevo fatto una gran figuraccia e sarei pronta a scommetterci, che in questo momento ero diventata rossa dall'imbarazzo. "Andiamo". Si voltò per dirigersi verso la sua auto, notai che oggi era un'altra, era un'Audi nera con i finestrini oscurati.
Mi chiusi la porta alle spalle per raggiungerlo. Come al solito mi tenne lo sportello aperto con galenteria.
Quando si accomodò acconto a me si avvicinò al mio orecchio per sussurrarmi: "Questo vestito ti sta benissimo, sei da mozzare il fiato, approvo la scelta". Le sue parole e il suo respiro caldo e al dolce aroma di cioccolata mi provocò brividi in tutto il corpo, avevo la pelle d'oca. Che mi stava facendo?
Mi voltai per ringraziarlo... mai fatto errore più grande. Eravamo ad un passo da un bacio, in nostri nasi si sfioravano, i nostri respiri caldi si infrangevano fra loro e i nostri occhi si incontrarono. Credetti di morire in quel momento, non in modo atroce e spaventoso, no, quel contatto con lui aveva fatto perdere dei battiti al mio cuore per poi pompare il sangue nelle vene in modo frenetico, per un attimo credetti anche di svenire. Lui come risposta non staccò lo sguardo dai miei occhi, era così intenso, amavo quando mi guardava così, mi perdevo in lui. Purtroppo chiuse gli occhi e sospirò facendo dissolvere quel strano ma magnifico momento fra noi.
Si voltò rivolgendo lo sguardo fuori dal finestrino. "Ti va bene un ristorante vegetariano?", mi chiese con uno strano tono di voce che non riuscii a decifrare.
"Va benissimo". Quasi mi stupii della mia voce, era uscita in uno strano sussurro un po' roco.
Che mi prende? Ricomponiti Eleonora.
Quando arrivammo, tanto per cambiare, mi sentii fuori luogo, quel posto era fin troppo lussuoso ed elegante per me. Chissà quanto costerà un piatto, sicuramente il piatto sarà più grande della portata e me ne andrò via con più fame di prima. Amavo i piatti stra pieni e mangiare.
Ci accomodammo in un tavolo appartato che Sam aveva prenotato in precedenza e con galenteria mi costò la sedia per farmi accomodare. Oggi era davvero gentile, meglio tenere i sensi ben allerta, uno psicopatico può attaccare quando meno te lo aspetti.
"Ho già ordinato in precedenza cosa mangiare", mi comunicò quando si sedette. Cosa? Come si permetteva ad ordinare per me. E poi, da quando si ordinava prima? "vedrai, ti piacerà". La sua espressione era seria ma sapevo che aspettava una mia contromossa, così non feci niente per dispetto.
"Vieni qui spesso?", gli chiesi per cambiare argomento e non stare al suo subdolo giochetto.
"Qui è dove ho mangiato meglio, certo, la mia cuoca personale cucina meglio ma è meglio non dire questo allo schef". Era una sottospecie di battuta la sua? "Tu sei vegetariana?", mi chiese.
"Mia madre è vegana, e anche se sono carnivora lei mi costringe a mangiare sano e tante verdure". Per un certo momento credetti di vederlo sorridere, forse era colpa delle luci del ristorante che mi giocavano un brutto scherzo. "E tu?", gli chiesi.
"Seguo una dieta particolare, priva di grassi e con molto Omega3". Era per questo che aveva una cuoca personale? E poi perché seguiva questa dieta? Che c'entrasse il suo cuore? Anche se non me lo diceva avevo capito che il suo cuore aveva qualcosa che non andava, dopotutto ero figlia di una cardiologa e avevo letto qualche suo libro di medicina.
"Dunque tua madre è vegana, non vuole che indossi profumi, che porti ragazzi a casa, che altro ancora?", mi chiese curioso mentre il cameriere ci portava i nostri piatti. Sembrava un omogeneizzato verde con qualcosa di aliene messo su. Ne presi una cucchiaiata sperando di non morire sul posto e come ciliegina sulla torta, cadere stecchita con la faccia spiaccicata sul piatto, che bella fine. Presi coraggio e assaggiai. Con mia sorpresa era buono. Mai giudicare qualcosa dall'apparenza. Avrei dovuto farlo anche con lui?
"Allora?". Per un momento credetti di morire di infarto, ero così assorta dai miei pensieri da essermi dimenticata della sua domanda.
"Ehm... lei ha il suo modo di fare e le sue regole", mi mossi a disagio sulla sedia.
"E a te piace?", mi chiese mentre gustava ciò che aveva nel piatto, qualcos'altro di identificabile come il mio.
"Lei è mia madre", risposi non sapendo cosa dire.
"Quindi ti fai sottomettere". Non era una domanda la sua ma un'affermazione.
"Non è così".
"Ah no? Allora spiegami".
Non seppi che rispondere, in fondo sapevo che in un certo senso avesse ragione. Negli anni avevo fatto sempre ciò che gli altri mi dicevano di fare e imponevano, io mi adeguavo e basta. "Dovresti importi, dire la tua e farti valere, la vita è la tua e non la loro, e se sbagli, perché sì, sbaglierai, da quegli errori imparerai qualcosa, solo così potrai crescere e maturare per diventare una donna indipende". Non credevo che quelle parole fossero uscite da lui ma così fu.
"Hai ragione". Sì, aveva perfettamente ragione, però avevo imparato ad adeguarmi e perdere certe abitudini era difficile.
"Come sempre", commentò. Com'era irritante quando faceva così. Mi guardò per qualche istante prima di riposare lo sguardo sul suo piatto. "Qualche volta dovresti dirle di no, che non ti va bene, lo hai mai fatto?". Non l'avevo mai fatto, non che ne avessi avuto l'occasione, visto che avevo vissuto con mio padre.
"No, non che la vedessi molto mia madre prima di trasferirmi da lei", puntualizzai.
"Che tipo è tuo padre?".
Non mi piaceva parlare male degli altri ma con lui c'era solo da parlar male, purtroppo, nonostante fosse mio padre.
"Non c'è molto da dire...". Osservai il mio piatto che oramai era vuoto e avevo ancora più fame di prima.
"Questa risposta dice tutto".
"Tutto cosa?", gli chiesi osservandolo con attenzione.
"Che non hai un bel rapporto con lui", sospirò, "anche lui non è un tipo presente, non è così?". Come faceva? Era come se mi leggesse dentro.
Soghignò. "A quanto pare ho indovinato".
Il cameriere tornò per portar via i nostri piatti vuoti.
"Come fai?".
"Ti leggo nel pensiero". Com'era odioso quando si prendeva gioco di me.
Il cameriere tornò con altri due piatti con delle pietanze più strane e aliene delle precedenti. Presi una forchetta ed assaggiai. Anche questa volta era buono, ma decisamente poco.
"Essere intelligente mi rende molto intuitivo", mi disse destandomi dal mio piatto, "in un certo senso riesco a leggere il linguaggio del corpo, ho letto anche dei libri al riguardo, sai per noia". Solo lui poteva leggere per noia dei libri sul linguaggio del corpo.
"Capisco...".
"Parlami un po' di lui".
"Be', a lui importa solo della sua arte". Sentii gli occhi pizzicare mentre pronunciavo quelle parole. 
"Arte?".
"Sì, lui è un artista famoso".
"Adesso capisco", disse fra sé. Cos'era che aveva capito? "Quindi tu vivevi con lui".
"Sì, dopo il divorzio il giudice mi affidò a lui visto che economicamente se la passava bene e mia madre era ancora una studentessa", gli spiegai non sapendo del perché gli stessi raccontado tutto questo, in genere ero un tipo riservato, anche se nessuno si era mai interessato a me e alla mia vita, lui si però.
"Perché ti sei trasferita da tua madre?". 
Quante domande. "Non mi andava di vivere con lui e la sua oc... nuova moglie".
"Volevi dire oca per caso?".
Volevo sprofondare nel pavimento e scomparire, che imbarazzo. "A quanto pare sì. Deduco che non ti sia troppo simpatica". 
Non mi andava di parlare di lei, soprattutto del comportamento che aveva nei miei confronti.
"Possiamo parlare d'altro e smetterla di parlare di me?", gli dissi irritata.
"Di che ti va di parlare?".
Cogli l'attimo Eleonora. "Di te".
Assunse una strana espressione, sembrava che soffrisse. "Non c'è niente da dire su di me, ti ho già detto tutto quello che c'era da sapere". Sapevo che stava mentendo. 
"Vuoi sempre che ti dica tutto però tu non lo fai con me".
"Che intendi dire?".
"So che hai un problema al cuore".
"Non dire sciocchezze Elle, sta benissimo il mio cuore".
"Smettila di chiamarmi così, non mi piace questo soprannome", sbottai non sapendo neanche il perché.
"A me piace". La sua espressione era neutra.
"Chissà a quante ragazze avrai dato un soprannome...".
"Tu sei l'unica". Puntò i suoi occhi nei miei. "Per me esisti solo tu, in un modo che ancora non mi so spiegare".
Il mio cuore perse un battito. "Sam, dimmi la verità, il tuo cuore non sta bene, non è così?". Mi allungai per poggiare la mia mano sulla sua che era chiusa a pugno che ritrasse. Frustrata mi alzai per andare da lui e sedermi sulle sue gambe.
"Non dicevi che era una cosa da fidanzati?".
"Non diamo un etichetta ad ogni cosa", gli sorrisi. Poggiai il palmo della mia mano destra sulla sua guancia, lui in risposta chiuse gli occhi sospirando.
"Non posso dirtelo", mi disse riferendosi alla domanda che gli avevo posto prima di sedermi sulle sue gambe.
"Perché no?".
"Perché cambierebbe tutto fra noi, il tuo modo di comportarti con me e io non voglio, non lo sopporterei", sospirò, "è così frustrante quando ti guardano con quell'aria preoccupata e ti dicono di non fare questo o quell'altro, come se già non lo sapessi". Aprì gli occhi per guardarmi, le sue pupille erano dilatate e le sue iridi erano di un blu scuro come la notte. "Quando si è piccoli è ancora peggio".
"Perché?", chiesi scioccamente.
"Quando si è piccoli si ha voglia di giocare e correre e nessuno te lo impedisce... io non potevo correre".
"E allora fa un passaggiata". Sorrise alla mia risposta. 
"Con te?".
"Se vuoi perderti, perché no".
"Magari potremmo fare una passeggiata al chiaro di luna", mi disse mentre giocherellava con la spallina del mio vestito.
"A me sta bene".
"Elle?".
"Dimmi".
"Sei mia?". Mi guardò con intensità e fui persa.
"Solo tua", sussurrai.
Sorrise e anch'io con lui.
"Sam?".
"Cosa c'è?".
"Senza che lo chef lo venga a sapere, preferirei che la prossima volta mi portassi in un altro posto, sai, dove fanno piatti abbondanti".
Scoppiò a ridere. "Una tavola calda va bene?".
"Più che bene".
Tornai al mio posto e finimmo il pranzo con tranquillità. 

Quando mi riaccompagnò a casa avevo una gran fame, avrei saccheggiato sicuramente la dispenza. Prima di aprire la porta di casa mi voltai per salutarlo. Ci guardammo negli occhi per qualche istante come facevamo di solito, stava diventando un'abitudine, una nostra cosa.
"Magari stasera ti porto un hamburger, senza che tua madre lo venga a sapere", mi fece l'occhiolino. 
Risi. "Perché no, accetto volentieri".
"Allora a stasera". Mi prese la mano sinistra per portarsela alle labbra e baciarla. "Non vedo l'ora". Mi lasciò la mano lasciando in me un senso di vuoto per dirigersi verso la sua auto e andar via. Già mi mancava.
Quando entrai in casa salii al piano di sopra per andarmi a cambiare, il vestito era scomodo e con queste scarpe mi facevano male i piedi, stranamente Sam non mi aveva procurato scarpe con dei tacchi vertiginosi, evidentemente sapeva che erano un attentato alla mia vita.
Mentre mi cambiavo sentii la porta d'ingresso aprirsi, che fosse Sam con un'altra copia della chiavi di casa?
"Tesoro sono a casa". Mamma?! Che ci faceva a casa a quest'ora?
Mi vestii il più in fretta possibile per andare da lei ansimando. Ero fuori allenamento. 
"Mamma", esclamai, "non dovresti essere al lavoro?".
"Non ti avevo detto che oggi tornavo prima?", mi chiese distrattamente mentre sistemava la spesa.
"No".
"Oh be', adesso lo sai", si voltò per guardarmi e rimase a bocca aperta. Che avessi dimenticato di indossare i pantaloni del pigiama? Mi diedi una rapida occhiata ma era tutto apposto. 
"Che c'è?", le chiesi confusa.
"Sei... sei... wow Eleonora, sei fantastica!". Cosa?
"Cosa?", chiesi ancora più confusa.
"Ma guardati".
Alzai un sopracciglio confusa. "Indosso il pigiama, cosa c'è di strano?".
Alzò gli occhi al cielo. "Sto parlando dei tuoi capelli e del trucco, certo, non approvo che ti trucchi ma questo ti sta bene ed ha un effetto naturale, mi piace".
"Ah...". Mi ero completamente dimenticata del mio cambio di look.
"Hai anche tolto gli occhiali, sei andata dall'oculista?".
"Sì".
"Stai bene, però non ti far avvicinare dai ragazzi", mi raccomandò ignara dell'esistenza di Sam.
"Sta tranquilla mamma".
"Mi aiuti a sistemare la spesa?".
"Ehm... veramente stavo studiando", mentii, in realtà dovevo correre in camera alla ricerca del mio telefono per avvisare Sam.
"Oh certo, lo studio prima di tutto", mi sorrise, "ho comprato delle cose davvero buone, stasera ti cucinerò qualcosa di speciale".
"Non vedo l'ora mamma". In realtà era una pessima cuoca ma non osavo dirglielo, un giorno di questi mi avrebbe avvelenato con uno dei suoi esperimenti culinari, n'ero certa.
Corsi in camera mia alla ricerca del mio telefono, per qualche strana ragione era sotto al letto.
Scrissi in fretta un messaggio a Sam. 
Cambio dei piani. Mia madre si è dimenticata di dirmi che oggi tornava prima.

A che ora va a letto di solito? 
Che risposta era?

Alle dieci.
Invia il messaggio senza capire il perché della sua domanda.

È una gallina? 
La sua domanda mi fece ridere.

No, lavora solo tanto. 

Per mezzanotte sarò lì da te, non ti addormentare.
Era fuori di testa.
Ti porto l'hamburger.

Lo aspetto allora.

Sono geloso dell'hamburger, dichiarati colpevole.
Anche se aveva uno strano senso dell'umorismo mi faceva ridere.

Chiedo venia.

A stasera, conterò i secondi.

Anche se era poco o niente, il suo ultimo messaggio lo trovai dolce. Avrebbe contato i secondi che ci separavano. Non vedevo l'ora che fosse mezzanotte.

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Capitolo 14
*** Sam VII ***


Preparai un borsone con dei cambi, visto che domani era domenica volevo passare la giornata con Elle. Chissà se mi avrebbe permesso di dormire con lei stanotte, lo avrei scoperto ben presto. 
Mandai un messaggio al mio autista.
Devo uscire.

Il mio autista mi aspettava fuori dall'Audi. Era arrivata oggi, era uno dei tanti regali che mi aveva fatto mio padre, mi conosceva bene.
Diedi il borsone al mio autista che ripose nel portabagagli, nel frattempo salii in auto.
"Devo comprare un hamburger", gli dissi quando mise in moto l'auto.
"Signore, sa che non può mangiarlo".
"Non è per me".
"Capisco".
"Devi coprirmi con mio padre, non passerò la notte a casa e starò via tutto il giorno, mi servono anche le chiavi dell'auto".
"Ma signore...", cercò d'obiettare.
"Niente ma, così ho deciso e così dovrà essere".
"Sì, signore". Bene, con lui avevo sistemato la faccenda.
Quando arrivammo al fast food insistetti per andare io a comprare l'hamburger per Elle. Era la prima volta che entravo in un posto del genere, anche se era quasi mezzanotte era abbastanza pieno. Come mi aveva spiegato Elle, dovevo rispettare la fila, così mi misi in fila ad aspettare il mio turno, che seccatura.
Dopo un po' mi sentii tirare per la felpa da dietro. Che altra seccatura, e adesso chi era?
Mi girai ed erano tre ragazze. Probabilmente volevano passare avanti.
"Non vi farò passare avanti, sia bene chiaro", il mio tono di voce era seccato.
"Non vogliamo passare avanti", mi disse una delle tre.
"E allora cosa volete da me, non ho tempo da perdere". Stavo iniziando ad irritarmi.
"La mia amica voleva chiederti il numero di telefono", disse l'altra ragazza indicando quella che stava al centro del gruppo.
"Per quale motivo dovrei darti il mio numero di telefono?", mi rivolsi alla ragazza al centro accigliandomi.
"Ecco... io... io volevo conoscerti", mi spiegò timidamente.
"In realtà la mia amica vorrebbe anche uscire con te", s'intromise la ragazza di prima. Che seccatura. Alzai gli occhi al cielo per la frustrazione. Erano come le ragazze che avevo incontrato in gelateria, facevano tutte così quando mi vedevano. "Dunque ti interesso", mi abbassai alla sua altezza visto che era una spanna più bassa di me, lei e le sue amiche, "mi dispiace deluderti ma non sono quello che sembro".
"Cioè?", mi chiese timidamente.
"Anche se non sembra, biologicamente sono una ragazza". Assunsero tutte e tre una faccia tra lo shock e lo stupore, la stessa che avevano avuto le ragazze in gelateria. "Adesso, toglietevi dai piedi, mi state disturbando". Mi voltai dando loro le spalle.
Finalmente dopo un eternità arrivò il mio turno.
"Salve, desidera?", mi chiese il commesso con un evidente finto sorriso. Che aveva da sorridere?
"Un hamburger".
"Come lo desidera?".
Ci pensai un po' su. "Con del bacon". Visto che aveva detto che era una carnivora le sarebbe piaciuto di certo.
"Bene, con patatine e bibita?".
"Ehm, sì".
"Salse?".
"Sì".
"Da mangiare qui o da portar via?". Quante domande.
"Da portar via".
Amergiò con la cassa per poi consegnarmi lo scontrino che neanche guardai.
"Accettate carte di credito?", chiesi. 
"Sì, certo", mi sorrise. Un altro sorriso e ti tiro un pugno sui denti.
Presi la mia carta di credito e gliela consegnai.
Dopo qualche minuto mi consegnò finalmente il mio ordine. Finalmente potevo andarmene via da quel posto.
Quando entrai in auto dissi al mio autista: "Ricordami di non andare più in un fast food".
"Sì, signore".

Quando arrivammo a casa di Elle, chiesi al mio autista di parcheggiare l'auto un po' lontano, così da non notarsi nei paraggi.
Presi il mio borsone e il sacchetto del fast food con me e andai sotto la finestra di Elle. Prima di salire le mandai un messaggio dicendole che stavo salendo da lei, non volevo che urlasse come l'altro giorno e ci facesse scoprire da sua madre, non volevo essere lanciato dalla finestra.
Mi arrampicai con fatica sul tubo di scolo per via del carico che avevo con me. Lei era lì, di fronte alla finestra ad aspettarmi con un sorriso stampato in faccia. Quando entrai le mostrai il sacchetto e sorrise ancora di più. Mi mozzava il respiro ogni volta che mi sorrideva.
Le diedi il sacchetto e si andò ad accomodare alla scrivania, mi andai a sedere accanto a lei sulla sedia che aveva preso per me e mi misi ad osservarla. Aveva addosso uno dei suoi soliti pigiami morbidosi e caldi, le stavano bene, avevo fatto bene a lasciarglieli. Aveva indossato di nuovo gli occhiali e aveva i capelli raccolti in una coda disordinata, stava bene. Era davvero carina.
"Come fai a sapere che mi piace il bacon?", esclamò destandomi dai miei pensieri.
"Visto che mi hai detto che sei una carnivora ho dedotto che ti piacesse", le spiegai semplicemente.
Mi guardò per un attimo stupita ma non disse niente e addentò il suo panino.
"È buono?". Annuì con il capo.
"Ne vuoi un po'?", mi chiese.
"No, grazie, lei mi ucciderebbe", dissi sovrappensiero.
"Chi?".
Risi al pensiero della dottoressa Grace che si arrabbiava con me. "Il mio medico".
"Ah...". Era pensierosa.
"A cosa stai pensando?".
"Se potevi mangiare almeno una patatina".
Risi della sua risposta. Presi una manciata di patatine che mangiai in un boccone. Meglio non dirlo alla dottoressa Grace questo. Prese anche lei delle patatine che mangiò con gusto e poi mi sorrise. Sentivo che le cose tra noi stavano cambiando, lei si fidava di me e io... forse sentivo qualcosa per lei, ma il punto era cosa.
Mi alzai dalla sedia dirigendomi verso la sua libreria. Era piuttosto vasta ma non era nulla di che al confronto con la mia. Notai che le piacevano le storie d'amore, questo spiegava un po' di cose.
"Sei un inguardabile romanticona, dico bene?".
"Più o meno".
"Cioè?".
"Mi piace l'amore che viene descritto nei libri, nel mondo reale non esiste".
Mi voltai per guardarla con attenzione. "Cosa intendi dire con: non esiste".
"Di questi tempi si mettono tutti insieme per non stare soli, non c'è romanticismo, quell'amore che ti toglie il respiro non c'è".
"Elle che giudica gli altri, chi l'avrebbe mai detto", risi di lei.
"Non sto giudicando, è quello che vedo".
"Non pensi che ci sia qualcuna che la pensi come te riguardo all'amore?".
"Sì, ma oramai siamo poche e quello giusto è più unico che raro".
"Non potrebbe essere anche una lei?".
Mi guardò accigliata. Forse avevo parlato troppo. "Non ci avevo mai pensato".
"A cosa?".
"All'idea che potrebbe essere una lei", mi rispose.
"Non capisco, ti piacciono le ragazze?". Ero confuso. 
"In realtà non ho mai pensato a cosa mi piaccia".
Mi andai a sedere sulla sedia accanto a lei e la osservai per qualche istante prima di parlare: "Perché non mi è mai piaciuto nessuno", mi rispose mentre mangiava delle patatine. Aveva già finito il panino, era proprio affamata. "E poi nessuno si è mai interessato a me", sussurrò rattristandosi.
"Ci mancherebbe". Mi guardò confusa. "Tu sei solo mia", ribadii. Era rimasta a bocca aperta ma poi si riprese alzandosi dalla sedia. "Vado a lavarmi le mani", detto questo uscì dalla stanza lasciandomi solo.
Notai che aveva finito anche le patatine. Presi la bibita che era poggiata sul tavolo, cen'era ancora un po', ne presi un sorso e constatai che era frizzante e dolce.
"Cosa fai?". Quasi mi strozzai dallo spavento.
"Elle! Mi hai fatto prendere un colpo. Vuoi uccidermi per caso?".
"Quello che vuole uccidere qualcuno qui sei tu", mi disse per poi modersi il labbro, probabilmente non voleva dirlo ad alta voce.
"Io non ti voglio uccidere".
"Neanch'io". Si sedette accanto a me togliendomi il bicchiere di mano e bevendo un sorso. Si poteva considerare come un bacio questo?
"Dimmi una cosa", mi destò dai miei strani pensieri. 
"Sì?".
"A te cosa piace?".
Mi accigliai non capendo.
"Come?".
Alzò gli occhi al cielo. "Maschi o femmine".
Oh. "Be', una volta ho fatto un esperimento".
"Esperimento?".
"Sì, per noia. Ho sempre saputo che non m'interessava nessuno, però volevo capire il mio orientamento, almeno se lo avessi o meno".
"Ha funzionato l'esperimento?".
"Più o meno".
"Cioè?".
Risi. "I maschi non mi attirano proprio".
"E le ragazze?", mi chiese curiosa.
"Ho notato che non mi dispiacevano, ma non mi suscitavano nessun interesse".
"Ah...". Si accigliò pensierosa.
"Fai spesso qualcosa per noia?".
"Intendi gli esperimenti e leggere libri che nessun adolescente leggerebbe mai?".
"Sì".
"Sì, sono un tipo che si annoia abbastanza facilmente", confessai.
"Quindi io sono qualcosa che stai facendo per noia?". Dunque era questo il punto. Se stessi con lei per noia? No, lei non era motivo di noia. Lei era qualcosa di nuovo per me.
"No, tu non sei nessun esperimento, puoi stare tranquilla". Si rilassò visibilmente. Mi avvicinai pericolosamente a lei. "Dimmi, io ti attraggo?". Stava trattenendo il respiro, che fosse la mia vicinanza a provocarle questa reazione? "Respira". Le accarezzai la guancia con delicatezza come se fosse fatta di cristallo. "Dimmi cosa ti tormenta".
"Tu mi mandi in confusione, ogni volta e non so che fare".
Mi spuntò un mezzo sorriso. "Allora ci mandiamo in confusione a vicenda". Sospirai, con lei oramai lo facevo spesso. "Non hai ancora risposto alla mia domanda, ti attraggo?".
"Ha importanza?". Se avesse importanza? Volevo che fosse mia in tutto. Doveva guardare solo me, pensare solo a me e magari essere attratta da me ma non come facevano quelle stupide ragazze che mi sbavavano dietro per il mio bel faccino, no, lei doveva essere attratta da me come in uno di quei romanzi che avevo letto.
"Sì".
"Sam...".
"Cosa...?".
"Tu non vorrai mai ciò che voglio io".
"Intendi una storia d'amore con tanto di romanticismo?".
"Sì". Potevo darle questo? Forse, se non stessi per morire almeno, ma stavo morendo, e lei questo non lo sapeva.
Mi alzai dalla sedia per la frustrazione andando a prendere il mio borsone. "Vado in bagno a cambiarmi".
"Cosa?", chiese confusa.
"Dormo qui".
"Cosa?", disse un po' troppo ad alta voce. 
"Shh, vuoi che tua madre ci becchi?", bisbigliai. 
"Tranquillo, tanto ha il sonno pesante".
"Ok. Dimmi una cosa, la mattina viene in camera tua?".
"No, visto che ho il sonno leggere non viene a disturbarmi, e quando va al lavoro mi lascia la colazione con un post-it", mi spiegò. 
"Comunque domani è domenica, cioè oggi, visto che è passata la mezzanotte".
"Lei lavora anche la domenica, non sempre però".
"Che lavoro fa?".
"È un medico".
"Adesso capisco perché stai spesso sola".
"Già".
"Vado a cambiarmi". Uscii dalla stanza avviandomi verso il bagno e chiudendo la porta a chiave. 
Tolsi la felpa per rivelare ciò che nascondevo, una cicatrice al centro del mio petto e la mia inseparabile canotta contenitiva che nascondeva la mia vera natura, per stanotte non l'avrei tolta anche se mi avrebbe dato fastidio. Mi diedi una rapida rinfrescata ed indossai una t-shirt nera e un paio di pantaloni della tuta, ero apposto per dormire. Prima di uscire dal bagno presi la mia medicina.
Rientrato nella sua stanza la trovai ad aspettarmi seduta nel suo letto.
"Ti sono mancato?", le chiesi ironicamente. 
"Neanche un po'". Si alzò dal letto impetita per poi superarmi ed uscire dalla stanza. Era strana, che fosse in quel periodo del mese?
Frustrato mi andai a buttare sul letto per poi infilarmi sotto le coperte. Oramai l'inverno era alle porte e iniziava a fare freddo. Non mi era mai piaciuto l'inverno, neanche l'estate se è per questo, nelle mie condizioni non sopportavo il caldo, però mi piaceva la primavera, era l'ideale per i picnic. Con mamma facevamo sempre un picnic, erano giorni felici quelli, eravamo solo noi tre e nessun problema, solo felicita, felicità che non durò allungo però.
Sentii Elle rientrare e chiudersi la porta alle spalle per poi infilarsi sotto le coperte dietro di me.
Mi voltai per guardarla. Aveva sciolto i capelli e tolto gli occhiali per dormire. "Sei in quel periodo del mese per caso?".
"Ma che domanda è?". Era imbarazzata.
"Visto il tuo balzo d'umore".
Sospirò. "Non è che poi ti arrabbi?".
"Mai".
"Mi ha dato fastidio il fatto che ti sia auto invitato, non puoi fare sempre come ti pare". Era lei quella arrabbiata mi sa.
"Posso dormire con te?".
"No", esclamò per poi voltarsi e darmi le spalle.
L'afferrai da dietro attirardola a me. Sentivo il suo calore scaldarmi e il suo respiro che diventava sempre più rapido. Affondai il viso nell'incavo del suo collo, come sempre aveva un dolce profumo. Le diedi un leggero bacio sul collo e la sentii rabbrividire.
"Hai freddo?", le sussurrai sul collo.
"No", sussurrò a sua volta. Che fosse colpa mia?
Le diedi un altro bacio sul collo, questa volta trattene il respiro. Le diedi un altro bacio e questa volta le scappò un gemito.
"Allora non ti sono così indifferente", le sussurrai all'orecchio, lei come risposta mi diede una gomitata.
"Dormi".
"Ai suoi ordini, principessa". Non mi mossi restando abbracciato a lei.
Si voltò liberandosi dal mio abbraccio per ragomitolarsi tra le mie braccia e poggiare il capo sul mio petto. Questa volta fui io a trattenere il respiro.
"È la prima volta che dormo con qualcuno". Cosa mi stai facendo?
"Lo stesso vale per me".
"Quindi è la nostra prima volta", risi. 
Mi diede un pizzicotto sul braccio. "Non essere sconcio".
"Sei tu quella sconcia che pensa male". Non disse nulla ma mi diede un altro pizzicotto.
La strinsi a me baciandole i capelli. "Adesso dormi".
"Buonanotte, Sam".
"Buonanotte, mia dolce Elle". Anche se non la vedevo sapevo che l'era spuntato un sorriso. Chiusi gli occhi e sprofondai in un sonno tranquillo senza sogni.

Mi vegliai presto, fuori era ancora buio ma sapevo che era quasi giorno, guardai l'ora ed erano le 5:30 del mattino. Oggi volevo farle fare colazione fuori, sicuramente avrebbe gradito. Volevo portarla anche nel posto più romantico che conoscevo, era un posto speciale e pieno di bei ricordi. Il perché stessi facendo tutto questo per lei non mi era ben chiaro, sapevo solo che volevo renderla felice, lasciarle dei bei ricordi che non avrebbe mai dimenticato e che avrebbe custodito nel suo cuore. Volevo che si ricordasse di me anche quando non ci sarei stato più. Forse era questo il motivo dei miei gesti ma forse c'era dell'altro.
Mi concessi qualche istante per osservarla dormire. Era affascinante guardarla mentre dormiva. Se ne stava con i pugni stretti al petto, come se volesse proteggersi, da chi o cosa non lo sapevo, aveva anche la fronte aggrottata, che stesse facendo un brutto sogno? Allungai una mano e passai l'indice sulla sua guancia carezzandola. Mugugnò qualcosa di incomprensibile, così provai a farle il solletico al collo... mai fatto errore più grande in vita mia. In risposta al mio tocco mi diede una manata poco delicata sul naso, poi aprii gli occhi e cacciò un urlo spingendomi dal letto facendomi atterrare di schiene sul pavimento duro, ero k.o.
"Oddio, Sam, eri tu!", disse fra l'allarmato e lo stupore. Chi altro poteva essere!
"Mi vuoi fare fuori per caso? Ci sei quasi riuscita per la cronaca". La sentii scoppiare in una risata fragorosa, la cosa mi fece sentire un po' meglio.
"Mi dispiace, di prima mattina sono pericolosa", mi disse continuando a ridere.
Mi alzai con fatica per sedermi sul letto e guardarla stringendo gli occhi a fessura. "L'ho notato".
Mi fece un sorriso timido. "Mi perdoni?".
Mi avvicinai al suo viso e lei in risposta smise di respirare. "Magari con un bacio potrei perdonarti".
Si accigliò riprendendo a respirare. "Vuoi il resto per caso?". Feci una smorfia ripensando a ciò che era accaduto un attimo fa, meglio non sfidare la sorte.
"No, grazie", le dissi indietreggiando.
"Bene, vado a fare una doccia", sorrise compiaciuta per poi alzarsi dal letto e andare verso l'armadio per prendere dei vestiti. 
"Metti qualcosa di carino e comodo, facciamo colazione fuori".
Si voltò per guardarmi con una strana luce negli occhi. "Non ho mai fatto colazione fuori".
"Cosa vuole mangiare, signorina?".
"Qualcosa di dolce".
"Conosco un posto che fa al caso nostro". In risposta mi regalò uno dei suoi sorrisi che mi mozzavano il fiato per poi uscire dalla stanza con il cambio di vestiti.
Mi sdraiai sul letto per poi chiudere gli occhi e raffigurarmi il suo splendido sorriso nella mente. Oggi sarebbe stata una bella domenica, n'ero certo.

Mezz'ora dopo eravamo sulla mia nuova auto, quando vide che non c'era il mio autista al posto di guida Elle mi guardò confusa.
"Cosa c'è?", ridacchiai. 
"Dov'è il tuo autista?".
"Per oggi ha il giorno libero, dopotutto è domenica", mi strinsi nelle spalle.
Le mostrai le chiavi. "Guido io", le feci l'occhiolino per poi aprirle lo sportello anteriore. Lei con titubanza si accomodò senza fare obiezione. Chiusi lo sportello per poi dirigermi al posto di guida, misi in moto e l'auto inizio a fare le fusa.
La portai in un posto alla moda, dove facevano dei dolci davvero buoni e anche alcuni che la dottoressa Grace avrebbe approvato, cioè privi di grassi.
Quando entrammo nel locale notai che Elle era nervosa e si stava mordendo il labbro, quel gesto mi faceva impazzire. Per rassicurarla le presi la mano facendole un sorriso e io non sorridevo a nessuno, ma con lei stavo infrangendo ogni mia regola.
Ci andammo ad accomodare in un tavolo e subito dopo venne ad accoglierci una cameriera che ci offrì i menù.
"Salve, desiderate?".
"Cosa ti piacerebbe mangiare?", mi rivolsi ad una Elle che era concentrata sul suo menù. Notai che quando si concentrava aggrottava la fronte.
"Prendo la crostata di ciliegie".
"Io prendo la torta al cioccolato fondente senza grassi e una tazza di tè nero senza teina", presi il mio ordine tenendo lo sguardo puntato su di Elle.
"Bene, i vostri ordini arrivano subito". Notai Elle alzare lo sguardo e puntarlo verso la mia sinistra con ostilità. 
"Qualcosa non va?", le chiesi curioso.
Ci mise un po' a rispondermi. "Quella ti stava mangiando con gli occhi>>. Sembrava infastidita.
"Davvero?". Sinceramente neanche l'avevo guardata, quel giusto che serviva per capire che fosse una lei, in genere non mi soffermavo a guardare le persone.
"Sì", sbuffo.
"Non l'avevo notato".
Mi guardò accigliata. "Tu non presti mai attenzione a ciò che ti circonda", mi fece notare.
"È così". Non mi era mai importato degli altri, quindi non vedovo il motivo per prestare loro la mia attenzione e soffermarmi sui loro dettagli, ad eccezione di Elle però.
"È come se vivessi nel tuo mondo e nessuno vi potesse entrare".
"Vorresti far parte del mio mondo?". Prima che potesse rispondermi la cameriera portò i nostri ordini.
Rimase in silenzio a mangiare la sua crostata con gusto.
"Vuoi un po' del mio tè?". Le avvicinai la mia tazza. Con esitazione prese la tazza portandosela alle labbra. Fece una strana faccia dopo aver bevuto un sorso di tè. "Qualcosa non va?".
"È il tè più buono che abbia mai bevuto".
Risi. "Be', è un tè di qualità".
"Immagino anche costoso", constatò. Come sempre era buffa.
"La qualità ha il suo prezzo", dissi mentre mi portavo alla bocca una generosa forchettata di torta.
"Non dovresti sperperare il tuo denaro così". Sembrava arrabbiata.
"Per quale motivo non dovrei?". Sentii il suo sguardo trafiggermi, era proprio arrabbiata.
"C'è gente che muore di fame e tu sperperi e ostenti il tuo denaro per cose futili". La mia Elle, ecco cosa apprezzavo in lei. A lei non importava del denaro ma degli altri, era generosa.
"Mio padre fa tante donazioni".
"Un altro modo per ostentare la vostra ricchezza", puntualizzò.
"Mio padre, ostentare la sua ricchezza...", risi di gusto. Mio padre era la persona più buona e generosa che conoscessi, lui non ostentava la sua ricchezza, lui voleva aiutare gli altri, faceva parte di lui.
"Non ci trovo niente da ridere", si accigliò ancor di più.
"Mio padre è tutto fuorché un ostentare della sua ricchezza, fosse per lui donerebbe tutto il suo patrimonio in beneficenza e farebbe il missionario". Restò a bocca aperta, probabilmente non si aspettava da me una risposta del genere.
"Allora sei solo tu l'ostentatore delle sue ricchezze in famiglia".
Più che ostentatore mi godevo le cose della vita finché potevo. Da sempre ho saputo che ogni giorno sarebbe potuto essere l'ultimo e quando mi era stato dato un anno di vita non ne fui meravigliato, di conseguenza avevo imparato a vivere le giornate come se fossero l'ultimo giorno della mia vita e non mi negavo niente di ciò che potevo avere, ma questo lei non lo sapeva.
"Mi piace trattarmi bene", le risposi facendo spallucce.
Dopo questa conversazione finimmo la colazione in totale silenzio e non bevve più il mio tè.
Usciti dal locale andò impetita in auto aprendo lo sportello per entrare e accomodarsi, era decisamente arrabbiata con me.
Mi accomodai in auto e sbuffando misi in moto e partii diretto in quel posto magico.
Dopo venti minuti si rese conto che non la stavo riportando a casa, il suo scarso senso dell'orientamento era davvero preoccupante.
"Dove stiamo andando?", mi chiese allarmata. 
Visto il comportamento di prima si meritava una bella punizione. "Ti sto portando in un posto sperduto", feci una pausa per poi fare una risate che ritenni abbastanza inquietante, ed aggiunsi, "per poi ucciderti e sotterrare il tuo cadavere dove nessuno lo troverà mai". Mi voltai per un attimo ad osservarla. Aveva la bocca aperta e gli occhi sgranati, forse avevo un tantino esagerato.
"Lo sapevo!". Cosa sapeva?
"Che cosa?".
"Sei uno psicopatico e fin dall'inizio è stato questo il tuo piano e io come una stupida ci sono cascata". Aveva una fervida immaginazione, i libri le avevano dato alla testa.
Risi di gusto. "Quindi pensi che sia uno psicopatico, eh?".
"Be', il nostro primo incontro non è stato dei migliori, volevi sgozzarmi". Era vero ma di certo non intendevo sul serio, volevo solo spaventarla alla fine.
Risi ancora più forte. "Volevo solo spaventarti".
"Be', non ci sei riuscito". Era vero, ricordavo perfettamente che se n'era andata impetita.
"Quindi non sono spaventoso?".
"Neanche un po'"
"Neanche adesso che ti ho detto che sto per ucciderti e nascondere il tuo corpo?".
"Cosa mi dice che sia vero?".
"E cosa ti dice che non lo sia?".
Ci pensò per qualche istante. "Non è che poi ti metti a ridere?".
"Non prometto niente".
Sbuffo seccata. "Qualcosa dentro di me mi dice che non mi farai del male".
"E cosa sarebbe questo qualcosa?", le chiesi curioso.
"Ehm...". Distolsi per un attimo lo sguardo dalla strada notando che era imbarazzata.
"E così imbarazzante?", risi.
"Il mio cuore". Per un attimo smisi di respirare temendo il peggio. Accostai in modo brusco.
"Cos'ha il tuo cuore, ti senti male?". Ero allarmato, mi mancava l'aria.
"Cosa?". Era confusa e io più di lei. "No... Sam, il mio cuore sta bene, ho solo risposto alla tua domanda".
"Accidenti Eleonora, mi hai fatto prendere uno spavento", urlai. 
"Mi dispiace". Abbassò il capo sentendosi in colpa. Mi sentivo un idiota.
Slacciai la cintura per poi slacciare anche la sua. Mi guardava non capendo cosa volessi fare ma era concentrata su di me e i miei movimenti. Senza alcuna difficoltà la tirai su di me. Eravamo faccia a faccia, l'unico rumore che si udiva erano i nostri respiri irregolari e il mio cuore che batteva frenetico ma poco m'importava, lei era la mia priorità in quel momento e stavo bene, per il momento almeno.
"Mi dispiace, non avrei dovuto arrabbiarmi ma... ma appena si accenna a quella parola io non penso più... sono andato nel panico temendo il peggio". Anche se le mie parole erano poco che un sussurro sapevo che mi aveva sentito.
"Ti stavo dicendo che è il mio cuore che mi dice di non aver paura di te". Puntò i suoi occhi grigi nei miei blu facendomi perdere ogni percezione. "Comunque il volante è scomodo", aggiunse facendomi prendere la lucidità perduta. Spostai il sedile più indietro. "Meglio?". Annuì. "Che altro ti dice il tuo cuore?".
"Si chiede cosa sia io per te".
Cos'era lei per me? Molte cose, di questo ne avevo la certezza.
"Che non può fare ameno di te", feci una pausa sospirando, "dimmi che non sono l'unico che ti pensa costantemente, dimmi che lo stesso vale per te".
"Se ti dicessi di no mentirei".
"Sto cercando di capire cos'è tutto questo per me, ci sto lavorando con il mio psicologo, ma lui non mi è di gran aiuto".
"Come, scusa?". Oh, oh.
"Sì, parlo di te al mio psicologo, ma solo perché mi sconvolgi".
"Io ti sconvolgo?". Era incredula.
Le accarezzai una guancia con il dorso della mano. "Non sai quanto". Probabilmente ero arrossito dall'imbarazzo ma poco m'importava.
"Meglio andare", suggerii.
Mi sorrise per poi rimettersi al suo posto e allacciare la cintura, stessa cosa feci io per rimettere in moto e partire.

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Capitolo 15
*** Eleonora VIII ***


Usciti dal locale andai ad accomodarmi in auto, ero arrabbiata con lui. Come faceva a sperperare il denaro senza alcun rimorso per chi moriva di fame? Era un vero egoista. Dopotutto di che mi meravigliavo, alla fine gli importava solo di sé stesso, se ne stava nel suo mondo, mondo di cui non avrei mai fatto parte.
Ero così assorta dai miei pensieri che non mi accorsi di dove stavamo andando, eravamo usciti dalla città.
"Dove stiamo andando?". Dove mi stava portando? E senza il mio permesso per giunta.
"Ti sto portando in un posto sperduto". Mi voltai per guardarlo allarmata. Fece una risate da psicopatico, aggiungendo, "per poi ucciderti e sotterrare il tuo cadavere dove nessuno lo troverà mai".
Era davvero uno psicopatico allora, anche la mia vocina interiore me lo diceva ma stranamente il mio cuore non voleva sentirne ragione. "Lo sapevo!".
"Che cosa?". Era confuso.
"Sei uno psicopatico e fin dall'inizio è stato questo il tuo piano e io come una stupida ci sono cascata". Finalmente ti ho mascherato.
Rise della mia affermazione. "Quindi pensi che sia uno psicopatico, eh?".
"Be', il nostro primo incontro non è stato dei migliori, volevi sgozzarmi". Mi ricordavo perfettamente quella scena, ma ricordavo anche che stava piangendo, per quale ragione ancora non lo sapevo.
Rise ancora più forte. "Volevo solo spaventarti", ammise.
"Be', non ci sei riuscito". Mi aveva solo fatto arrabbiare il suo gesto maleducato. 
"Quindi non sono spaventoso?".
"Neanche un po'". Qualche volta sì. Mi ricordò la mia vicina interiore che cercai d'ignorare. 
"Neanche adesso che ti ho detto che sto per ucciderti e nascondere il tuo corpo?".
"Cosa mi dice che sia vero?".
"E cosa ti dice che non lo sia?".
Come facevo a dirgli che nonostante pensassi che fosse uno psicopatico una parte di me sapeva, sentiva, che era buono e che non mi avrebbe mai fatto del male? "Non è che poi ti metti a ridere?". Già mi aveva riso in faccia fin troppe volte in un solo giorno, ne avevo già abbastanza.
"Non prometto niente".
Sbuffai seccata. "Qualcosa dentro di me mi dice che non mi farai del male", cercai di sviarlo.
"E cosa sarebbe questo qualcosa?". Tentativo fallito, era troppo intelligente per me.
"Ehm...". Che imbarazzo, non ero abituata a dire certe cose.
"È così imbarazzante?", rise per l'ennesima volta di me.
Presi coraggio e glielo dissi. "Il mio cuore". Come risposta accostò bruscamente facendomi prendere uno spavento. E adesso che gli prendeva?
"Cos'ha il tuo cuore, ti senti male?". Era allarmato.
"Cosa?". Stavo benissimo... poi capii. "No... Sam, il mio cuore sta bene, ho solo risposto alla tua domanda". Che cosa avevo fatto? 
"Accidenti Eleonora, mi hai fatto prendere uno spavento", urlò. Non mi aveva mai chiamata per nome, si era arrabbiato e anche parecchio, mi sentii in colpa.
"Mi dispiace", gli dissi colpevole.
Slacciò la cintura per poi slacciare la mia, non capivo cosa volesse fare ma non riuscii a togliere lo sguardo su di lui. Senza preavviso mi tirro a sé. Ero cavalcioni su di lui e ammetto che avevo voglia di baciarlo ma non osavo far il minimo movimento.
"Mi dispiace, non avrei dovuto arrabbiarmi ma... ma appena si accenna a quella parola io non penso più... sono andato nel panico temendo il peggio". Era angosciato ed era colpa mia ma io non volevo, mi sentivo davvero in colpa. Era evidente che la sua condizione lo condizionasse parecchio per reagire in questo modo. Che si fosse preoccupato per me?
"Ti stavo dicendo che è il mio cuore che mi dice di non aver paura di te". Puntai i miei occhi nei suoi e vidi che si rilassò. "Comunque il volante è scomodo", aggiunsi cercando di morzzare la tensione che si era creata, anche se il volante veramente mi stava uccidendo la schiena.
Con galanteria spostò il sedile indietro e la mia schiene gli fu grata. "Meglio?". Annuii. "Che altro ti dice il tuo cuore?". Lui e le sue domande, sapeva sempre come mettermi in difficoltà.
"Si chiede cosa sia io per te". Forse avevo parlato troppo ma non m'importava, dovevo sapere.
"Che non può fare ameno di te", fece una pausa sospirando, "dimmi che non sono l'unico che ti pensa costantemente, dimmi che lo stesso vale per te". Quindi stavano così le cose? Quindi, dopotutto, un po' gli importava di me.
"Se ti dicessi di no mentirei".
"Sto cercando di capire cos'è tutto questo per me, ci sto lavorando con il mio psicologo, ma lui non mi è di gran aiuto".
"Come, scusa?". Quindi andava in giro a dire cosa succedeva fra noi?
"Sì, parlo di te al mio psicologo, ma solo perché mi sconvolgi". Cosa?
"Io ti sconvolgo?".
Mi accarezzò una guancia con il dorso della mano, questo contatto mi mandò a fuoco. "Non sai quanto", mi fece un sorriso sghembo che mi tolse il respiro.
"Meglio andare", suggerì.
Anche se volevo stare in quella posizione per sempre, mi andai a sedere nel mio posto. Dopo che ci fummo ricomposti ripartì.
Dopo un eternità uscì dalla strada per inoltrarsi in una sottospecie di foresta. Forse voleva realmente farmi fuori. Dopo un po' vidi sbucare fra gli alberi una casa fatta di mattoni e ricoperta da rampicanti. Era stupenda, sembrava uscita da una fiaba, c'era anche un lago a pochi metri di distanza. Non riuscivo a credere che esistesse un posto del genere, ma che soprattutto Sam ne conoscesse l'esistenza.
Accostò l'auto nel vialetto e dopo che fu sceso dall'auto mi venne ad aprire lo sportello con galanteria. Dovevo ammettere che mi ci stavo abituando a questi suoi modi di fare.
Notai che aveva un sorriso a trentadue denti, non l'avevo mai visto così.
"Ti piace questo posto?", mi chiese destandomi dalle mie fantasie.
"È... è... meraviglioso". Ero senza parole.
"Sembra o non sembra uscito da un libro questo posto?". Continuava a sorridere e questo mi contagiò.
"Sì". Girai su me stessa per ammirare con meraviglia il posto. "Come hai trovato questo posto?", chiesi incredula voltandomi verso di lui.
"C'è una storia dietro questo posto, una storia d'amore".
"Posso sentirla?", chiesi entusiasta.
Mi prese per le braccia attirandomi a sé. Eravamo troppo vicini. "Come siamo curiose", la sua voce era suadente e mi frastornava, ero nelle sue mani e lui lo sapeva. "Prima andiamo in un posto e poi, magari, se farai la brava, ti racconterò la storia". Sapevo che si stava prendendo gioco di me, lui lo trovava divertente ma io no.
"Antipatico". Mi liberai dalla sua presa per incrociare le braccia al petto imbrociata. Come al solito rise di me. Lo avrei preso a caldi se non mi avesse presa per un braccio e trascinata dentro casa.
Anche da dentro la casa sembrava uscita da un libro, aveva dunché di rustico ma allo stesso tempo era moderno, non sapevo come ben definirlo. Romantico? Le cose che mi piacevano di più erano il camino, che era scolpito in quello che credevo un unico blocco di pietra e poi c'erano le scale con dei gradini di pietra che portavano al piano di sopra.
"Ti piace?".
"Sì", sorrisi, "ma questo non si chiama violazione di domicilio?".
"È casa mia vedi", ridacchiò. 
"Ah...". Che stupida a non averci pensato, dopotutto era ricco e chissà quante altre proprietà possedeva.
"Aspettami qua", mi disse mentre mi fece accomodare sul gran divano di fronte al camino. Era troppo grande il divano, ci sarebbero state comode almeno dieci persone, un altro spreco di soldi, sicuramente non ci venivano mai qui nonostante fosse ben pulito e accogliente.
Dopo qualche minuto ritornò con una coperta sottobraccio.
"Cosa devi farci con quella?".
Alzò gli occhi al cielo. "Secondo te? Non vorrai mica sederti sull'erba, quella punge vedi", mi rispose come se fosse tutto ovvio, per lui forse. Ci voleva una gran pazienza con lui.
Battei il palmo della mano sulla fronte in modo teatrale. "Oh, che sciocca, era ovvio", finsi con altrettanta teatralità.
"Oggi siamo spiritosi, eh?".
"Chi, io? Nah".
"Dai, andiamo, prima che ti butta nel camino". Mi prese per il braccio trascinandomi fuori di casa ma questa volta dalla porta sul retro. Camminò per un po' senza seguire nessun sentiero camminando fra gli alberi e continuando a tenermi per un braccio. Dopo un eternità arrivammo in una piccola radura.
"Era qui che mi volevi portare?".
"Sì, peccato che non è primavera, è il periodo più bello ed è pieno di fiori, comunque sia ha sempre il suo fascino, non trovi?".
"Sì".
Mi lasciò andare per aprire la coperta e stenderla per terra, si accomodò per poi farmi cenno di sedermi accanto a lui. Forse ero pazza ma poco m'importava. Invece di sedermi accanto a lui mi sedetti sulle sue gambe e incrociai le braccia intorno al suo collo. "Allora, non dovevi raccontarmi una storia d'amore?".
Per la prima volta da quando lo conoscevo era rimasto a bocca aperta. Un punto per te Eleonora.
"Sì, ecco... dunque...", si schiarì la voce, "Questa è la storia d'amore dei miei genitori". Poggiai il capo sulla sua spalla per ascoltarlo comoda e perdermi nel suo racconto, lui intanto proseguì. "Anche mia madre amava leggere ed era un inguardabile romanticona, lei viveva nel suo mondo, il suo mondo fantastico, così lo definiva lei. Mentre erano fidanzati, lei è mio padre, ecco, lui le comprò questo posto, voleva che lei avesse il suo posto speciale, il suo mondo fantastico. Fu qui che le chiese di sposarlo e lei senza esitazione accettò, sai il perché?".
"No".
"Mi disse che un uomo così era raro, era più facile trovarlo nei libri che nel mondo reale ma lei lo avevo trovato, quasi per caso... era inevitabile non amarlo, così accettò di sposarlo". 
"Che bella storia", sussurrai.
"Venivamo qui ogni fine settimana, fino a quando non si ammalò e non fu più in grado di venire, amava questo posto. Ci vengo ogni domenica". Mi spostai dalla mia posizione per guardarlo in viso, stava soffrendo.
"Sam...".
"Non dire niente, ti prego...". Una lacrima scese prepotente rigandogli il viso.
Istintivamente mi allungai verso di lui e gli bacia un angolo della bocca, anche se non era un vero e proprio bacio il mio cuore fece una capriola. "Non piangere, adesso ci sono io".
"Fammi una promessa".
"Dimmi".
"Ti prego, non morire anche tu, non mi lasciare".
Mi gettai fra lei sue braccia stringendomi a lui e inspirando il suo dolce profumo. "Mai". Non c'era bisogno di dire altro. Mi strinse forte a sé e restammo così per un tempo indefinito ma a noi andava bene così, stavamo bene e ci beavamo l'uno del contatto dell'altra. Era questo dunque quello che si definiva amore? Se era così volevo scoprirlo.
"Elle?".
"Sì?". Eravamo ancora abbracciati ma nessuno dei due dava segno di staccarsi.
"Ci voglio provare".
"A fare cosa?".
"Ad avere una storia romantica con te. Prima di te non mi era importato di niente, ma come ti ho già detto, tu mi sconvolgi. Con te desidero cose che non ho mai voluto, perciò, vuoi far parte del mio mondo? Anche se sinceramente ne fai già parte". Non riuscivo a credere alle mie orecchie e alle sue parole, ero incredula.
"Ne sarei onorata".
"Bene". Lo sentii sorridere.
Mi staccai da lui fissando i miei occhi nei suoi e perdendomi in lui. Volevo baciarlo, lo desideravo tanto e forse era giunto il momento. Poggiai la mia fronte contro la sua, avevo le palpitazioni e il fiati corto, anche lui lo aveva. Con una mano gli accarezzai i capelli e lo sentii emettere un suono gutturale. Mi avvicinai alle sue labbra per baciarlo ma lui mi fermò poggiando le sue dita sulle mie labbra.
Lo guardai senza capire ma prontamente mi rispose. "Voglio che il nostro primo bacio sia speciale, dato in un momento speciale e super romantico".
"Sbaglio o i ruoli si sono invertiti?", risi.
"Occhio per occhio, mia cara". Scoppiamo a ridere. Dopotutto me lo meritavo ma non glielo avrei mai detto, non gli avrei mai dato questa soddisfazione.
Ci sdraiammo sulla coperta e senza accorgemene, ci addormentammo.

Qualcosa mi solleticava il naso, era davvero fastidioso, così decisi di scacciarlo via ma il solletico non cessava. Infastidita aprii gli occhi e la visione che ebbi mi fece restare senza fiato. Di fronte a me c'era un Sam sorridente e con una foglia in mano. Aspetta! Cosa ci faceva con una foglia in mano davanti alla mia faccia!?
Mi alzai bruscamente e lui rideva sempre più forte. "Sam! Che modi sono di svegliare la gente!". Non cambiava mai.
"Eri così buffa, e poi non ho saputo resistere". Aveva perso ogni minimo di dignità, si era buttato sull'erba ridendo a crepa pelle. Maschi!
"Sei un idiota!". Continuava a ridere, non c'era verso di farlo smettere. "Se non la smetti di ridere di me, prendo e me ne vado".
"Ok, ok". Si riprese mettendosi seduto sull'erba. "Non voglio essere ucciso da tua madre perché ti ho persa nella foresta".
Portai le braccia sui fianchi arrabbiata. "Se non la smetti ti do il resto di stamattina".
Smise di ridere, forse anche di respirare e tornò serio. "Ok, perdona quest'umile ragazzo ingenuo che voleva svegliarti, ma tu non davi segni di vita e non trovavo altro modo, sennò farti il solletico con l'erba, e poi ho portato da mangiare". Cosa? Ero così assorta da lui che non mi ero accorta del cesto da picnic sulla coperta.
"Hai cucinato tu?".
"Più o meno", ammise.
"Mi devo avvelenare per caso?".
Cercò di trattenere una risata ma invano. "Sam!", lo ammonii. 
"Ok, scusa". Alzò le braccia in segno di resa. "Ho trovato tutto già pronto, come ogni domenica, io ho semplicemente messo nella cesta la roba dal frigo".
"Allora sono salva".
"Che vorresti dire?". Fece il finto offeso. 
"Oh, nulla".
"Se non ti comporti bene, il cosiddetto tuo padrone, ti mette il guinzaglio e ti lascia qui legata ad un albero e ci vado da solo al lago a fare un giro in barca". Lago. Giro in barca.
"Vuoi portarmi sul lago a fare un giro in barca?".
Alzò un sopracciglio. "Hai sentito solo le parole lago e giro in barca?".
"Non perdo il mio prezioso tempo ascoltando i tuoi deliri".
Prese il cestino e fece per andarsene via.
"No, no", lo fermai, "chiedo umilmente perdono". Si rimise seduto con una faccia compiaciuta. Come una sciocca c'ero cascata.
Aprii il cestino porgendomi un panino che accettai, la sua cuoca personale cucinava davvero bene. Mi diede anche un bicchiere di succo, avevo proprio sete.
Finito di mangiare andammo su una barca a remi. Per mia fortuna Sam aveva intuito il mio scarso senso dell'equilibrio e con cavalleria mi aiutò a salire sulla barca poco stabile. Si posizionò di fronte a me e iniziò a remare. Era proprio un bel posto, l'acqua era limpida e le anatre nuotavano felici e libere. Da quel che avevo capito ci veniva ogni domenica, mi chiedevo se da solo o se ci avesse mai portato qualcuno.
"Sam?".
"Dimmi".
Vai e diglielo Eleonora. "Ci hai mai portato qualcuno qui prima di me?".
"No, questo è il mio posto speciale". Mi chiedevo perché mi avesse portata qui allora. "Qualcosa non va?", mi chiese cogliendo che c'era qualcosa che non andava in me, chissà che faccia avevo in questo momento.
"Mi chiedevo solo perché mi avessi portata qui, tutto qua", feci spallucce.
"Perché volevo condividere il mio posto speciale con te".
"Perché proprio io?". Come sempre mi confondeva.
"Perché sei speciale", mi disse facendomi l'occhiolino. Con lui non si sapeva mai se facesse sul serio o semplicemente mi stesse prendendo in giro. "Mi racconti qualcosa di te? Tu sai fin troppo di me ma di te non so molto". Non c'era molto da dire su di me, solo che ero patetica.
"Non c'è molto da dire".
"Allora sentiamo questo poco". Perché si interessava così tanto a me, io non ero nessuno dopotutto.
"Non voglio annoiarti". E non voglio parlare di me.
"Sono certo che non mi annoierò", mi sorrise.
Alzai gli occhi al cielo, questo ragazzo era proprio impossibile. "Cosa vuoi sapere?".
Fece un sorrisetto che non mi piacque affatto. "Dunque, parlami di te e la tua matrigna". No, proprio lei no.
"Devo proprio?".
"Fra noi non ci devono essere segreti". In che guaio mi ero cacciata?
Abbassai lo sguardo sulla barca. "Be', il nostro primo incontro non fu dei migliori".
"Perché?", mi chiese confusamente. 
"Praticamente mentre ero scesa in cucina per far colazione me la sono ritrovata di fronte che mangiava dalla mia tazza ed era nuda".
"Come, scusa?". Era perplesso. 
"Era nuda, senza niente addosso". Arricciai il naso a quel ricordo.
"Cosa ci faceva a casa tua nuda?".
È tonto o cosa? "Secondo te?". Alzai lo sguardo per guardarlo.
Agrottò la fronte. "È pazza? Non ama i vestiti? Era per caso sotto effetto di droghe?". Solo lui poteva pensare a certe cose.
"Aveva passato la notte con mio padre".
"E perché faceva colazione senza vestiti? Poteva mettersi qualcosa addosso, no?". Giusto, ma lei era troppo piene di sé per indossare dei vestiti.
"Diciamo che quando è in casa ama stare senza vestiti".
Alzò un sopracciglio. "Che tipo curioso". Risi della sua affermazione. "Come si sono conosciuti?".
"Mio padre il giorno prima era andato nella sua vecchia università, ci ritorna spesso, lei quel giorno faceva da modella per alcuni studenti, ecco... la ritraevano nuda".
"Ora tutto mi è più chiaro".
"Già... lui appena l'ha vista ha perso la testa".
"E con te come si comportava?". Mi irrigidii a quel pensiero e al ricordo di come si comportava con me, era peggio degli altri.
Abbassai di nuovo lo sguardo. "Lei... lei... diciamo che non le facevo molta simpatia, non che abbia mai fatto simpatia a qualcuno ma con lei era peggio".
"Peggio?".
"Non era molto carina con me, era il mio tormento, mi diceva che ero scialba, che non mi avrebbe mai voluta nessuno perché ero brutta ed ero una secchiona che stava sempre incollata a dei stupidi libri...".
"Che altro faceva?". Mi sentivo il suo sguardo addosso che mi trapassava.
"Aveva l'abitudine di farmi degli scherzi".
"Che scherzi?". Alzai lo sguardo per osservarlo, era una mia impressione o sembrava innervosito da qualcosa?
"Tutto ok?".
"Che scherzi ti faceva?", mi chiese alterandosi. Ok, era proprio arrabbiato, per quale motivo poi?
Presi un respiro e proseguii il mio racconto. "A volte, le piaceva chiudermi a chiave in stanza o in bagno per delle ore...", presi un altro respiro, "Altre volte... mi nascondeva i vestiti, amava farlo soprattutto quando facevo la doccia, poi dopo che la supplicavo e mi riempiva di insulti mi ridava i vestiti".
"E tuo padre non diceva o faceva niente?", urlò facendomi sobbalzare dallo spavento, che gli prendeva?
"No...".
"Se osano avvicinarsi a te li rovino", sibilò.
Lo guardai allarmata. "Cosa?".
"Mi hai sentito bene. Se osano avvicinarsi a te o farti del male io li rovino. Devi dirmelo se accade, intesi?".
"Sam...".
Posò i remi per avvicinarsi a me facendo traballare la barca. Mi accarezzò con delicatezza la guancia, a quel contatto chiusi gli occhi. "Nessuno deve osare farti soffrire. Il mio compito da adesso in poi è quello di proteggerti".
Aprii gli occhi per guardarlo. "Perché?". La mia domanda lo spiazzo, era evidente.
Senza preavviso mi attirò a sé facendo traballare ancora di più la barca. "Te l'ho detto, il mio compito è quello di proteggerti... qualcuno lo dovrà pur fare, no?". La sua voce era così dolce, mi sentivo così al sicuro con lui. Mi appoggiai al suo petto ascoltando i battiti del suo cuore e facendomi cullare da lui. "Adesso ci sono io", mi sussurrò baciandomi i capelli.

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Capitolo 16
*** Sam VIII ***


Non mi andava di riaccompagnare Elle a casa ma sua madre sarebbe tornata prima di cena e se non l'avesse trovata a casa l'avrebbe sgridata, e poi doveva studiare. Che peccato, il tempo con lei era sempre poco, non mi bastava mai, volevo passare ogni istante con lei.
Fermai l'auto di fronte casa sua, scesi dall'auto per dirigermi da lei ed aprirle lo sportello, stava diventando una bella abitudine e lei sembrava gradire la cosa o almeno lo si notava dal suo sorriso timido. Era adorabile.
L'accompagnai fino alla porta, prima che entrasse in casa si voltò per darmi un leggero bacio sulla guancia che fece perdere un battito al mio cuore, poi mi sussurrò: "Grazie per la bella giornata".
"Non c'è di che", sussurrai a mia volta perdendomi in quei occhi grigi.
"A domani, Sam".
"A domani, principessa". Le presi una mano con gentilezza per poi baciarle il dorso sentendola sospirare di piacere a quel gesto. La lasciai andare per tornare alla mia auto e tornare a casa.
Quando tornai a casa, la cena era già in tavola. Mangiai con mio padre in silenzio, mi sentivo triste. Volevo stare con lei, con la mia Elle. Oramai mi era ben chiaro che il tempo che passavo con lei non mi bastava mai, ero dipendente da lei. Mi aveva stravolto. In una settimana era riuscita a farmi cambiare, si perchè lei mi stava cambiando. Anche se era dura ammetterlo, lei stava facendo uscire il meglio di me, la parte di me che se n'era andata via insieme a mia madre, la piccola Samantha tenera e buona. Non avevo mai voluto che Samantha tornasse, era la parte di me che non avevo mai voluto ma che non avrei mai potuto scacciare via del tutto, faceva parte di me ma stava ben nascosta e non solo dai vestiti. Quando mamma era morta la parte buona di me se n'era andata via, credevo per sempre, ma lei, Elle, la stava facendo riemergere dall'oscurità. Samantha, almeno la bambina buona, stava riemergendo a poco a poco.
"Tutto bene?", mi chiese mio padre destandomi dai miei pensieri.
"Sì, tutto bene", gli risposi in modo neutro.
"Ti vedo pensieroso". Ero stato beccato.
"Io penso sempre", feci spallucce.
"Pensavi a qualcosa d'interessante?".
Chissà, forse lui poteva chiarirmi un po' di cose. "Com'era quando stavi con mamma, agli inizi intendo". La mia domanda lo lasciò perplesso.
"Be', lei mi colpì subito, era un brutto periodo per me...". Certo, avevi appena scoperto che la dottoressa Grace si era messa con quel tipo che ora è il suo ex marito. "Lei con il suo modo unico di essere mi fece dimenticare ogni tristezza, con lei era inevitabile non essere felici. Lei irradiava tutti...", fece una pausa, "Me ne innamorai subito, da quel nostro primo incontro non riuscì più a togliermela dalla testa, potremmo dire che ebbi un colpo di fulmine", rise di quell'affermazione.
"Quindi credi hai colpi di fulmine?".
"Certo". Possibile mai che stesse accadendo la stessa cosa a me? Che avessi avuto un colpo di fulmine con Elle? No, non era possibile, io non avevo sentimenti, ero vuoto, almeno così credevo.
"Dimmi, il tempo con lei ti bastava mai?".
Mi sorrise. "Per me quando c'era tua madre 24 ore erano decisamente poche".
"Ah...".
"Qualcosa non va?", mi chiese accigliandosi.
"No, continuiamo a mangiare piuttosto".
"Va ben".
Volevo dei chiarimenti da lui e dalla sua esperienza ma la cosa mi aveva mandato in confusione totale. Possibile mai che mi stessi innamorando di Elle? Dopotutto non sapevo com'era essere innamorati, non proprio almeno. Quel poco che sapevo dell'amore l'avevo appreso dai libri ma pensavo che fosse solo fantasia, niente di più, ma forse mi sbagliavo di grosso. Mi chiedevo se mi andava bene questa cosa. Volevo essere innamorato di Elle? Sapevo che finché si trattasse di lei tutto mi andava bene, però... c'erano degli intoppi. Non ero ciò che credeva. Come reagirebbe se sapesse la verità, se sapesse che in realtà non ero un ragazzo? Reagirebbe come le altre ragazze? Proverebbe disgusto nei miei confronti? E se non mi volesse vedere più? Non osavo pensarci, non l'avrei sopportato. Comunque sia stavo morendo, non ci sarebbe mai stato un noi comunque.
Dopo cena decisi di andare a casa di Elle.
Mi arrampicai come al solito dal tubo di scolo, per mia fortuna la finestra era aperta ma di lei nessuna traccia e la stanza era al buio, decisi di aspettarla. Le sarebbe venuto un colpo nel vedermi nella sua stanza? Sicuramente mi sarei fatto una risata nel vedere la sua reazione. Chissà come mai non era ancora salita, che stesse ancora cenando? Forse stava guardando un film insieme a sua madre. Mi chiedevo se era un tipo da film, lei amava i libri dopotutto. Ora che ci pensavo, non sapevo ancora molto di lei, chissà che altro le piaceva oltre alla lettura, potevamo avere qualcos'altro in comune, lo speravo. Comunque sia la sua stanza non parlava molto di lei, era abbastanza anonima, ad eccezione della sua libreria, l'unica cosa che si riferise a lei. Amava molto le storie d'amore ma anche il fantasy, ma anche in questi si potevano trovare storie d'amore. A quanto pare l'amore era inevitabile, fa parte della vita, è come respirare. L'essere umano dipende dall'ossigeno, senza non vive, respirare è inevitabile. Che lei fosse il mio ossigeno?
Sentii la porta aprirsi ed eccola là, in tutto il suo splendore. La mia Elle.
Appena mi vide mi sorrise, sorriso che ricambiai senza alcuno sforzo, si perchè lei era il mio sorriso, il mio sole.
"Cosa ci fai qui?", mi chiese a bassa voce per non farsi sentire dalla madre che stava al piano di sotto, continuando a sorridermi.
Feci spallucce. "Sai com'è, mi stavo annoiando e mi sono chiesto: perché non andare a disturbare Elle".
Si avvicinò a me con passo lento, quando mi fu di fronte, mi prese il viso fra le mani. Per un attimo mi persi in quel contatto ma mi svegliai subito. Mi aveva appena dato due schiaffi. "Questi si chiamano piatti, hai presente gli strumenti?", mi spiegò mentre rideva e si prendeva gioco di me.
"Ringrazia che tua madre è di sotto e che non voglio essere lanciato dalla finestra se mi scoprisse, perché altrimenti me l'avresti pagata".
"Attento che sono armata", mi mostrò la sua ciabatta-cane. 
"Davvero adorabile".
"Hey, non offendere i miei cagnolini", fece la finta offesa per poi gettarsi sul letto di peso.
"Fammi spazio". La spinsi più in là dal letto per farmi spazio e sdraiarmi accanto a lei.
"Fine come sempre, mio caro".
"È uno dei miei tanti nomi", ridacchiai mentre l'avvolgevo in un abbraccio e inspiravo il suo magnifico profumo. "Mi piace il tuo profumo".
"E a me piace il tuo". Sorrisi a quella confessione.
"Di che so?", chiesi curioso.
"Di cioccolata fondete", rise.
"Ne ho mangiata così tanta che trasudo cioccolata", risi e lei con me.
"È la prima battuta decente che fai".
"Che vorresti dire, eh?".
"Oh, nulla". Si come no. "Io di che so?".
"Di primavera e ciliegie".
"Primavera? So d'erba?".
Cercai di trattenermi dal ridere ma invano. "No, hai presente quando in Giappone i ciliegi sono in fiore?".
"Non sono mai stata in Giappone".
"Be', io sì, e il tuo profumo mi ricorda questo, cioè primavera e ciliegie".
"Sei strano".
"Un altro dei miei tanti nomi".
"Un giorno andremo a vedere questi alberi in fiore? Almeno saprò che odore ho".
"Va bene, faremo anche il tipico picnic".
"Mi piacciono i picnic", affermò.
"Anche a me. Vedo che abbiamo un'altra cosa in comune".
"Già, chissà che altro avremo in comune".
"Dimmi qualcosa di te e scopriamolo".
"Mm... oltre a leggere mi piace scrivere, non l'ho mai detto a nessuno ma vorrei diventare una scrittrice".
"È fantastico, dovresti seguire il corse extra di scrittura".
"Non credo". Cosa?
"Perché non credi?".
"Perché non ho mai avuto il coraggio di far leggere qualcosa di mio a qualcuno, e se poi non gli piace o mi ride in faccia?". Come sempre si sottovalutava.
"Be', se ti ridono in faccia gli cambio i connotati, se non piace ciò che scrivi vorrà dire che dovrai rimboccarti le maniche per migliorare e dare il meglio di te ma non devi mollare mai".
"Come sempre sai trovare le parole giuste".
"Merito del mio super cervello".
"Sempre modesto".
"Ovvio. Senti, se vuoi ci iscriviamo insieme, almeno ti faccio compagnia".
"Sarebbe fantastico".
"Magari potremmo scrivere un libro insieme".
"Da due punti di vista?".
"Perché no"..
Si strinse di più a me. "A te cosa piace oltre a leggere?".
"Mi piace disegnare".
"Io sono negata", sbuffo sonoramente.
"Potresti seguire il corso di disegno con me, potrei concederti lo straordinario onore di farti da tutor".
"Magari se facessi meno il presuntuoso, magari, potrei pensarci".
"Ma io non faccio il presuntuoso, lo sono". Mi diede un pizzico per la mia pessima battuta. "Ok, la smetto".
"Bravo".
Mi piaceva stare così, con lei stretta a me. C'eravamo solo noi due e nessun altro. Nessun problema e nessuno che ci giudicava.
"Sai Elle...".
"Cosa?".
"Questa è stata la più bella settimana della mia esistenza". Era vero, non mi ero mai sentito così, neanche con mamma.
"Lo stesso vale per me". La sentii sorridere.
"Elle, posso essere tuo?". Si spostò dalla sua posizione per mettersi seduta e guardarmi. Mentre stava per rispondermi sentii il mio telefono vibrare. Che seccatura, e adesso chi era?
Sbuffai mentre estraevo il telefono dalla tasca dei jeans. Guardai lo schermo ed era mio padre. Doveva sperare che fosse una telefonata urgente.
"Cosa vuoi!?", gli risposi in modo brusco e seccato.
"Sam, dove sei?".
"Non sono affar tuoi".
"Sam...", lo sentii sospirare dall'altra parte del capo del telefono, "È tardi e domani hai scuola ed hai bisogno di riposare". Odiavo quando mi trattava come un bambino piccolo.
"Piantala", gli dissi stringendo i denti. 
"Sam, non far stare in pensiero la dottoressa Grace, sai come la pensa". Frustrato gli chiusi il telefono in faccia.
Infilai il telefono in tasca alzandomi dal letto più arrabbiato che mai.
"Sam, tutto ok?", mi chiese preoccupata.
"No, devo andare". Mi diressi verso la finestra per uscire ma mi bloccai quando mi sentii tirare da dietro per la camicia.
"Cosa vuoi anche tu?". Ero arrabbiato.
"Me ne vuoi parlare?". La sua voce era così dolce ma purtroppo non potevo restare.
"Devo andare, mio padre si è accorto della mia assenza".
"Capisco... mi dai la buonanotte?". Mi scappò un sorriso, solo lei riusciva a rendermi di buon umore in questo triste mondo.
Mi voltai verso di lei per poi attirarla tra le mie braccia e depositarle un bacio sui capelli.
"Sam, così non respiro", si lamentò ridendo. 
"Non è colpa mia se mi arrivi ad altezza spalle, cerca di crescere un po', nana".
"Hey, sono abbastanza alta per essere una ragazza", si lamentò.
"Sì come no". Dopotutto io ero più alto. 
"Antipatico". Mise su quel broncio che tanto mi piaceva e adoravo.
Mi avvicinai a lei per depositarle un bacio sulla fronte. "Buonanotte, principessa".
Mi guardò facendomi il suo sorriso mozzafiato per poi dirmi: "Buonanotte, Sam lo psicopatico". Come sempre era buffa.
"A domani, nana". Mi arrampicai sulla finestra per poi scendere dal tubo di scolo e tornare a casa.

Anche questa mattina Elle era da mozzare il fiato con addosso la divisa scolastica ma era un po' strana, sembrava nervosa. Per tutto il tragitto, dalla fermata dell'autobus fino a scuola, non aveva smesso per un secondo di torturarsi il labbro, mi stava facendo impazzire.
Poggiai la mia mano sulla sua quando l'auto si fermò davanti scuola. "Mi dici cos'hai?".
Liberò la presa dal suo labbro per rispondermi: "Oggi abbiamo educazione fisica". E allora?
"E quindi?".
Roteò gli occhi. "Sono un impedita, cado con il nulla, come se l'aria mi facesse lo sgambetto, secondo te amo fare educazione fisica?". In effetti.
"Lunedì scorso non l'hai fatta?", le domandai.
"No, per mia fortuna. Visto che ero appena arrivata sono stata esonerata", mi spiegò.
"Capisco... be', saltala".
"Cosa!". Era allarmata. E adesso cosa c'e che non va? "Non si saltano le lezioni che non ci vanno bene, e poi non si saltano le lezioni e basta".
"Be', io le salto". Ero più in giro che a lezione.
"Tu sei l'eccezione, mi chiedo ancora perché non ti abbiano cacciato". Essere il figlio del preside aveva i suoi vantaggi ma forse era meglio che questo non lo sapesse, almeno per il momento.
"Vedrai, andrà bene", cercai di rassicurarla ma sapevo che ci avrebbe rimuginato su fino a quando non sarebbe arrivata l'ora di educazione fisica.

Era arrivata l'ora di educazione fisica e Elle era ancora più agitata. Era strana quando si agitava, non solo si mordeva il labbro, si torturava anche le mani, in un certo senso era affascinante osservarla.
L'accompagnai agli spogliatoi e mi guardò storto quando la seguii fino al suo armadietto per prendere la sua tuta.
"Che c'è?".
"Non dovresti stare qui".
"Nessuno si sta spogliando davanti a nessuno, ci sono le cabine per la privacy".
"Si ma questo è uno spogliatoio femminile e tu sei un ragazzo". Quanto ti sbagli, anche se lo vorrei non lo sarò mai.
"Tranquilla, non guardo nessuna, non m'interessano", le sorrisi facendole l'occhiolino.
Quando prese la sua tuta la esaminò come se fosse qualcosa di strano. "E adesso che ti prende?". Che le prendeva?
Mi fulminò con lo sguardo. Certe volte mi metteva paura. "Che mi prende? Mi prende che sei riuscito ad intrufolarti nel mio armadietto e cambiare la mia tuta con questa". Era infuriata con me. Secondo me era vicina a quel periodo del mese.
"Ehm, ecco... non potevo cambiarti solo la divisa, ti pare?", cercai di giustificarmi.
Impetita si avviò verso una cabina per cambiarsi, almeno non mi aveva strozzato con la tuta.
Qualche minuto più tardi sbucò con la tuta addosso e sembrava ancora arrabbiata con me, però la mia attenzione cadde sul suo corpo. Aveva legato i capelli in una coda alta e notai che la tuta le stava aderente e i pantaloncini che indossava erano decisamente corti. Nell'osservarla provai una strana sensazione al basso ventre. Cos'era?
"Tutto bene, Sam?", mi chiese preoccupata.
"Eh? Sì, tutto bene". Cosa mi stava succedendo?
"Hai una faccia, sembri sconvolto". In effetti lo ero un po'. Non riuscivo a capire cosa mi era appena successo. 
"Sam, cosa ti porta da queste parti?". Vidi Elle voltarsi e assumere un espressione di fastidio. Cos'era che la infastidiva? Mi voltai e vidi una ragazza che mi fissava. Chi era e cosa voleva da me? Non vedeva che dava fastidio?
"Allora?". La sua voce era davvero fastidiosa.
Avvolsi il mio braccio destro intorno alla vita di Elle facendola sussultare per quel contatto improvviso, il ché mi compiacque parecchio. "Ci stai disturbando", mi rivolsi alla ragazza sconosciuta per poi prestare la mia attenzione a Elle, "Andiamo". Ci incamminammo verso la palestra.
"Lo hai rifatto".
"Come, scusa?". Rifatto cosa?
Mi inchiodò con i suoi bei occhi grigi. "Trattare gli altri come se fossero degli insetti schifosi".
"Tu dici?".
"Sì", sospirò, "ma tu non te ne rendi conto".
"Suppongo di sì", feci spallucce, dopotutto, alla fine, non m'importava degli altri.
"Dovresti essere più gentile con gli altri".
"Con te lo sono, non ti basta?".
"Dovresti esserlo con tutti", mi rimproverò.
Questa volta la inchiodai io con il mio sguardo. "Tu sei la mia eccezione, in tutto oserei dire", feci una pausa, "Ti avevo detto che sarei stato il tuo peggior incubo, ma non è stato così, sai il perché? Perché tu mi stravolgi. Non puoi pretendere che cambi e che tratti gli altri con gentilezza, non m'importa degli altri, solo di te ed è una novità per me". Come al solito era rimasta a bocca aperta.
"Come sempre mi confondi", mi disse dopo che si fu ripresa.
"Confonderti è il mio scopo", le dissi con voce vellutata, lei in risposta mi sorrise timidamente.
"Su, andiamo che ti aspettano".
"Non me lo ricordare". Era afflitta. "Tu cosa farai nel frattempo?".
In genere non frequentavo la lezione di educazione fisica ma per questa volta avrei fatto un eccezione. "Starò in panchina ad osservarti mentre cadi...", mi diede una gomita ad un fianco facendomi un gran male, "Ehm... magari mi faccio un pisolino".
"Ti conviene". Mi sa che avevo un po' esagerato ma era troppo buffa per non prenderla in giro, mi divertivo troppo con lei.
Mentre lei si dirigeva di malavoglia dagli altri mi andai a sedere su una panchina. Li osservai, più che altro guardavo lei mentre faceva il giro del campo a fatica ed era anche l'ultima della fila. L'esercizio fisico a quanto pare l'era nemico. Dopo che finirono di correre e lei si riprese a fatica, iniziarono a fare dei tiri a canestro. Secondo me era negata anche in questo. Quando arrivò il suo turno notai da subito che aveva sbagliato posizione e l'insegnante neanche l'aveva corretta. Ovviamente come pensavo, sbagliò, mancando il canestro. Anche se non potevo fare sport, avevo letto dei libri al riguardo e visto delle partite, quindi sapevo un po' di cose. Mi alzai dalla panchina deciso ad aiutarla, visto che l'insegnante era un incompetente. La presi per un braccio e protestò in risposta ma la ignorai e sottrassi la palla ad un ragazzo. "Adesso ti faccio vedere come si fa un tiro a canestro. Osserva bene invece di fare la distratta". Mi misi in posizione corretta e lanciai la palla dritta a canestro. "Visto? Adesso prova tu". Le porsi la palla che lei prese con titubanza. Si mise nella posizione che le avevo mostrato prima, per poi lanciare la palla e fare canestro.
Si voltò verso di me incredula e felice allo stesso tempo. "Ho fatto canestro", esultò.
"Grazie a me, mia cara".
Ruotò gli occhi. "Sì, certo, adesso non ti montare troppo però".
"Non mi smontare cara".
Rise. "Le tue battute sono pessime".
"Mi dichiaro offeso", feci il finto offeso per poi ritornarmene verso la panchina.
Decisi di mettermi a dormire, ero certo che se la sarebbe cavata anche senza di me. Almeno speravo.

Era tutto verde e alle mie spalle c'era un grande albero. Ero nel parco. Nel mio rifugio segreto, dove papà e la dottoressa Grace non sapevano che mi rifugiavo per piangere. Cosa ci facevo qui?
C'era vento, vento che carezzava la mia pelle gelido. Mi guardai attentamente ed ero senza vestiti, vesti che mi nascondevano, nascondevano il mio essere, il vero me.
"Come hai potuto!". Mi voltai ed era Elle. Mi guardava con le lacrime agli occhi.
"Ti posso spiegare...".
"No! Come hai potuto mentirmi, nascondermi questo! Non ti voglio più vedere!". Si voltò andandosene via.
Volevo raggiungerla ma non potevo muovermi.
"Elle! Aspetta Elle, posso spiegarti!".

Mi svegliai di soprassalto. Avevo l'angoscia dentro che mi bloccava il respiro ed avevo una strana sensazione. Elle!
Rivolsi lo sguardo verso il campo e vidi che erano tutti raggruppati in un unico punto, dov'era Elle? Non riuscivo a vederla. L'angoscia si fece sentire ancora più prepotente.
Mi alzai di scatto dirigendomi verso di loro. Quando fui abbastanza vicino e aver scansato qualche ragazzo per passare, vidi Elle inginocchiata per terra e con le mani in viso. Cos'era successo!?
"Cos'è successo?", la mia voce era roca e piena di preoccupazione.
"Nulla di che, Sam". Qualcuno aveva parlato ma non feci tanto caso a chi fosse stato, non aveva risposto alla mia domanda.
Presi per il colletto il primo ragazzo che mi capitò a tiro. "Cos'è successo?", gli urlai.
"L'è arrivata una pallonata in faccia", mi rispose spaventato.
"Chi è stato?". Ero furioso, nessuno doveva far del male alla mia Elle. Nessuno!
"Lei", m'indicò una ragazza che stava ridendo sguaiatamente.
Mi avvicinai a lei come una furia dandole una spinta che la fece barcolare e smettere di ridere come un oca giuliva. "Come hai osato! La tua azione avrà delle ripercussioni! Me la pagherai!".
"Sam!". Elle!
Mi voltai per andare da lei. Oh no, perdeva sangue, riuscivo ad intravederlo anche se aveva le mani sul viso. Cercai di restare lucido e cacciar indietro un conato di vomito. Non sopportavo la vista del sangue ma lei aveva bisogno di me e dovevo resistere. Presi il mio fazzoletto e glielo porsi. Lo prese portandoselo sul naso sanguinante. Cercai di trattenere un altro conato e la presi in braccio portandola via da quegli idioti snob e presuntuosi.
"Sam, mettimi giù", cercò di protestare ma io non mollavo la presa anche se sentivo la fatica, non era lei ad essere pesante ma il mio cuore ad essere debole.
"Ti porto in infermeria", le dissi a fatica, era come se tutta l'aria dai polmoni mi fosse stata risucchiata.
"Mettimi giù, non voglio che ti senta male per colpa mia". Non le risposi. "Sam", la sua voce era dolce e vellutata ma anche piena di preoccupazione, "hai il fiato corto e sono sicura che il tuo cuore sta andando a mille. Mettimi giù, posso camminare, non voglio che ti senta male, ti prego...". Mi fermai alle sue suppliche mettendola giù e prendendo un gran respiro. "Non farlo mai più", il suo non era un rimproverò ma una supplica.
Continuando a non risponderle la prensi per mano, quella che non reggeva il fazzoletto e la condussi in infermeria.
Entrai in modo brusco in infermeria spalacando la porta lasciando l'infermiera stupita e trascinando una Elle imbarazzata e sanguinante sul lettino. "Le hanno dato una pallonata in faccia. Sta perdendo sangue dal naso", urlai all'infermiera.
Si alzò dalla sua scrivania ma prima di visitare Elle mi lanciò un occhiata indecifrabile che ignorai. "Fammi dare un occhiata cara".
Constatai che il mio fazzoletto era zuppo e le usciva ancora sangue dal naso. Non riuscii a trattenermi e corsi in bagno a rimettere la colazione. 
"Tutto bene?", mi chiesero Elle e l'infermiera quando fui tornato dal bagno.
"Sì". In realtà mi sentivo uno schifo ma poco m'importava. "Tu come stai?", mi rivolsi ad una Elle con dei tamponi sul naso, cercai di trattenermi dal riderle in faccia solo perché non era carino nei suoi confronti ma era dura perché era davvero buffa.
"Secondo te...?", s'indicò la faccia.
"Chiamo tua madre per dirle di venirti a prendere", ci interruppe l'infermiera dirigendosi verso il telefono.
Approfittai della situazione per avvicinarmi a Elle.
"Quindi non sopporti la vista del sangue, eh?", mi prese in giro.
"Non infierire", alzai gli occhi al cielo. "Mi spieghi cos'è successo?".
"Niente, solo un incidente, cose che succedono". Era una pessima bugiarda.
"Quella che ti ha colpita stava ridendo come un oca giuliva, e quando è così vuol dire che lo ha fatto apposta".
"Tranquillo, tanto sono abituata a certe cose". Come? Che significava tutto questo? Che qualcuno le avesse fatto del male?
"Che vuol dire che ci sei abituata?". Non mi rispose. "Elle, mi devi dire tutto".
Sospirò. "Diciamo che nella mia vecchia scuola venivo presa di mira e a quanto pare qui le cose non sono cambiate". Cosa! Chi osava prendere di mira la mia Elle! Se mi capitava a tiro se ne sarebbe pentito. Stavo ribollendo di rabbia dentro.
"Finché ci sarò io nessuno ti prenderà di mira, qui comando io e tu sei mia, e lo sanno tutti che le mie cose non si toccano", sbottai.
"Cara", era l'infermiera di ritorno, "purtroppo tua madre non può venire ma mi ha detto che chiamerà tuo padre che verrà a prenderti il prima possibile".
"Ve bene". Era evidente che c'era rimasta male, povera la mia Elle.
"Intanto metti del ghiaccio", le porse una busta del ghiaccio che si portò sul viso.
La mia Elle era triste, dovevo fare qualcosa. "Comunque, mi devi due fazzoletti".
"Come, scusa?". Era confusa, evidentemente si era dimenticata del fazzoletto dell'altro giorno.
"Questo sporco di sangue si può buttare", feci una smorfia al quel pensiero, "e poi c'è quello che ti ho dato quando ti sei persa a scuola, ricordi?".
"Hai ragione", constatò, "Chissà dove lo avrò messo", disse a bassa voce, era incorreggibile.
"Elle...", i nostri occhi s'incontrarono, "finché ci sarò io nessuno ti farà del male, ti proteggerò io". Quella tipa non l'avrebbe passata liscia, l'avrei fatta cacciare. In questa scuola non erano ammessi certi comportamenti, la pena era l'espulsione e chi veniva espulso da qui era macchiato e per la nostra società era una cosa grave.
Qualche minuto dopo sentimmo una voce femminile e vidi Elle sbiancare. Che si sentisse male?
"Ti senti bene?", le chiesi preoccupato.
"No". Che cosa aveva?
"Chiamo l'infermiera". Prima che potessi andare mi trattenne per un braccio.
"Eleonora, piccola, cos'è successo?". Sentii Elle stringere ancor più la presa sul mio braccio. Volsi lo sguardo sulla figura che era appena entrata, era una ragazza sulla ventina. E questa chi era? Poi realizzai, era la matrigna.
"E lei chi è?", il mio tono era duro.
La matrigna di Elle mi squadrò da capo a piedi prima di rispondermi: "Sono la madre di Eleonora".
"Matrigna", puntualizzò Elle.
"Dettagli cara. Piuttosto, cosa ti è successo?".
"Un incidente durante l'ora di educazione fisica", spiegò l'infermiera.
"Capisco". Sbaglio o stava trattenendo una risata? E poi come guardava la mia Elle. La sua presenza mi irritava.
"Dov'è mio padre?".
"Sai che è molto impegnato, così ha mandato me". Sembrava seccata. "Vatti a cambiare così ti riporto a casa, sei sporca". Come osava!
"Va bene". La osservai alzarsi dal letto e andare verso la porta, decisi di seguirla, non volevo che svenisse o si perdesse.
"Dove vai giovanotto?". Cosa?
Mi voltai e vidi l'infermiera con le braccia sui fianchi che mi guardava storto.
"L'accompagno".
"Tu non vai da nessuna parte, ci penso io ad accompagnarla".
Cercai di protestare ma fu inutile, se n'era già andata via insieme alla mia Elle lasciandomi da solo con quell'oca di una matrigna. Decisi di uscire fuori dalla stanza ed aspettare in corridoio, sfortuna volle che quella mi seguisse. Che voleva da me, non vedeva che mi irritava?
"Sei un compagno di Eleonora?", mi chiese con un sorrisetto irritante. La ignorai.
Mi irrigidii appena la sentii avvicinarsi a me. "Sei carino". Sentivo il suo sguardo addosso, ero disgustato. "Lascia perdere quella mocciosa verginella, io sono molto meglio, ti potresti divertire con me, sai?".
"Sono minorenne".
Rise. "Non lo verrà a sapere nessuno, e poi non sono così grande".
Le lanciai uno dei miei sguardi intimidatori. "Non sei il mio tipo".
Fece un'altra risata. "Di certo quella mocciosa non lo è, ma l'hai vista?". Come osava, adesso era troppo.
"Eccomi!". Era Elle. L'oca si era salva per un soffio.
Osservai l'espressione dell'oca appena vide Elle. Quanto gongolavo. Era rimasta di stucco appena la vide.
"Cosa ti è successo?", esclamò stupita.
"Ehm, io... ecco...". Era in imbarazzo e non sapeva cosa dire, così decisi di correre in suo aiuto. 
"Non l'è successo niente, a parte l'incidente di prima".
"Ma... ma... prima non era così, insomma, era...".
"Bella?", la interruppi.
"No, si conciava in modo indecente... i capelli e gli occhiali che fine hanno fatto? Non sei più quella di prima".
Prima che Elle potesse rispondere m'intromisi. "Sa com'è, c'è chi nasce bello e chi no. Lei è sempre stata bella, solo che si nascondeva dietro a dei vestiti e degli occhiali troppo grandi. Certo, al contrario di Elle alcuni si devono sforzare per essere un tantino presentabile". Adesso vediamo cos'hai da ridire brutta strega.
"Su, andiamo Eleonora, tuo padre ci aspetta". Si incamminò indignata e Elle non poté che seguirla di malavoglia, ma prima che se ne andasse si voltò mimandomi un grazie e io ricambiai con un: chiamami.

Decisi di andare nell'ufficio di mio padre per dare una lezione a quella che aveva osato far del male alla mia Elle.
"Sam, oggi pranziamo insieme?", mi chiese mio padre quando mi sentii entrare nel suo ufficio.
"Veramente ero venuto per un'altra cosa", gli dissi mentre mi sedevo sulla sedia di fronte la sua scrivania.
Lasciò perdere i suoi fogli su cui stava lavorando per prestarmi maggior attenzione. "Dimmi pure".
"È successa una cosa grave".
"Cos'è successo?", mi chiese perplesso.
"Durante l'ora di educazione fisica una ragazza ha colpito volontariamente un'altra, dev'essere punito quest'atto".
Era pensieroso. "Su questo hai ragione, certi atti non sono tollerati in questa scuola. Se mi dici chi è questa ragazza convocherò i suoi genitori e le darò un provvedimento disciplinare". Cosa? Non aveva intenzione di espellerla? 
"Non verrà espulsa?", chiesi incredulo.
"No, le darò solo un avviso per il momento ma se ricapiterà verrà esplusa".
"Ma...".
"Niente ma Sam, queste sono le mie regole". Almeno era già qualcosa.
"Va bene".
Armeggiò col suo pc per poi passarmelo. Scorrei le varie foto degli studenti della mia classe alla ricerca di quella tipa, prima però notai la foto di Elle. Era indecente, era conciata come il primo giorno di scuola: divisa troppo grande, con le trecce e gli occhiali. Dovevo provvedere anche a questo.
Finalmente trovai la foto incriminante. Non solo era colei che aveva colpito la mia Elle ma era anche quella che aveva osato rivolgermi la parola nello spogliatoio. Me l'avrebbe pagata. Anche se papà voleva solamente punirla io le avrei fatto patire le pene dell'inferno.
"Eccola, è lei". Voltai il pc per mostrare la foto a mio padre.
"Bene, domani mattina parlerò con i suoi genitori".
"Va bene, ovviamente non dire che c'entro qualcosa".
"Come vuoi, Sam". Si mise ad armeggiare col pc.
"Ti spiace se prendo i compiti per casa e dei moduli per le lezioni extra?".
"Vuoi riprendere a disegnare?", mi chiese mentre era concentrato su ciò che stava facendo.
"Perché no".
"Lascia stare allora, ci penso io".
"No, mi servono i fogli".
"Come vuoi". Mi lanciò un'occhiata sospettosa.
Visto che ciò era fatto, dovevo tornare da Elle, le avevo promesso che l'avrei protetta dalla sua matrigna e dal così detto padre. Prima però volevo fare qualcosa di speciale per lei, per tirarla su. Ma cosa le poteva piacere? Lei non voleva che spendessi tanti soldi per lei, ma soprattutto che non esagerassi. Però volevo farle un regalo romantico.
Che papà potesse aiutarmi? "Senti, cosa piace alle ragazze?".
Alzò lo sguardo dal suo pc per lanciarmi un'occhiata perplessa. "A cosa devo questo interesse?".
"Sai, uno dei miei soliti esperimenti", mentii.
"Be', alle ragazze piacciono i trucchi e i bei vestiti". No, lei non era quel tipo di ragazza.
"Intendo come regalo".
"Quello che ho detto". Non mi era di gran aiuto, forse era meglio chiedere al dottor Clark. "A tua madre però piacevano tanto i peluches". Bingo!
"Ah sì?".
"Sì, lei amava queste cose".
"Interessante... Senti, io esco a fare un giro".
"Va bene, non ti affaticare troppo però". Come mi irritata quando mi ricordava le cose, come se non lo sapessi già. 
"Sì, ok". Mi alzai dalla sedia senza discutere con lui perché non mi andava di guastarmi l'umore.
Quando uscii dallo studio mandai un messaggio al mio autista.

Devo andare al centro commerciale. 

Quando arrivai al centro commerciale, andai alla ricerca di un negozio che vendesse peluches. Anche se non ero mai stato in un centro commerciale ero sicuro che li vendessero, dopotutto avevano di tutto in questi posti.
Dopo aver camminato per un po', trovai il negozio che faceva al caso mio. Quando entrai venne ad accogliermi una giovane ragazza. Dovevo assicurarmi di essere gentile e di prestare maggiore attenzione, come voleva Elle.
"Salve, posso esserle utile?", mi chiese cordiale.
"Sì, vorrei regalare alla mia fidanzata un peluche". Mi faceva uno strano effetto dire: mia fidanzata. La cosa più strana era che mi piaceva.
"Ha già in mente qualcosa?".
"Ehm, niente di troppo grande ma abbastanza da poterlo abbracciare e coccolare". Che cosa imbarazzante da dire.
La ragazza trattenne una risata. "Mi segua".
Mi condusse in un reparto dove c'erano dei peluches di media grandezza. Ne guardai un po', finché non mi cadde l'occhio su uno in particolare. Era un orso che mangiava del miele da un vasetto. Mi ricordava uno dei pigiami di Elle. Sì, era perfetto per lei. Lo presi per esaminarlo. Era abbastanza grande e morbidoso, le sarebbe piaciuto sicuramente.
"Prendo questo".
"Bene, vuole anche scrivere un biglietto". Perché no.
"Va bene". Quando andai alla cassa la ragazza mi porse un semplice cartoncino ripiegato. Presi la penna e iniziai a scrivere.

Quando arrivai a casa di Elle non sapevo cosa aspettarmi ma dovevo proteggerla da quelle persone, era mio compito. Scesi dall'auto con lo zaino in spalla dirigendomi verso la porta suonando il campanello.
Dopo qualche minuto venne qualcuno ad aprirmi, e chi non era se non quella strega di una matrigna.
Appena mi vide assunse un espressione che mi disgustò. "Ciao, vedo che ci hai ripensato". Ti piacerebbe.
"No, sono venuto per studiare", le mostrai lo zaino.
"Ah...".
"Con permesso". La spinsi di lato con poca delicatezza.
"Eleonora, c'è il tuo amichetto". Amichetto?
Appena vidi Elle spuntare dalla cucina fui sollevato, stava bene, almeno così mi sembrava.
Le feci l'occhiolino mostrandole lo zaino. "Ho portato i compiti, tutor". Mi fece la faccia da: ho capito il tuo piano diabolico.
"Andiamo di là", mi disse conducendomi in cucina. Mi fece accomodare su uno sgabello posizionandosi accanto a me. Mi voltai per vedere che fine avesse fatto la strega. Era lì, sull'uscio della porta ad osservarci a braccia conserte.
"Quindi Eleonora è la tua tutor?", disse.
"Ovvio, altrimenti non l'avrei chiamata tutor". La sentii ridere. < Si avvicinò posizionandosi di fronte a noi. "Adesso mi è tutto più chiaro".
"Cos'è tutto più chiaro?".
"Che un figo come te si sia avvicinato ad una come lei", la indicò con insufficienza.
Volevo alzarmi per dirgliene quattro ma Elle mi diede un calcio negli stinchi. Mi conosceva troppo bene.
Presi un respiro prima di parlare. "Be', lei è fin troppo per me. Non sono nulla in confronto a lei. Lei è unica e spiacile, così intelligente da confonderti e così bella da stravogerti". Era rimasta basita. Bene, almeno aveva chiuso quella boccaccia. "Adesso, se non ti dispiace, dobbiamo studiare". Mi lanciò un'occhiataccia per poi andarsene via nell'altra stanza lontano da noi.
"Non avresti dovuto farlo", mi rimproverò Elle, anche se il suo ridacchiare la tradiva.
"Cosa, elogiarti?". Assunse un'altra espressione divenendo seria e pensierosa. "Per la cronaca, penso veramente quelle cose", le feci l'occhiolino.
"Sai, quando fai così non so mai se fai sul serio", si lamentò.
"È il mio scopo mandarti in confusione", ridacchiai.
"Ho notato".
"Piuttosto, ti ho portato i moduli per le lezioni extra e i compiti per casa che ti sei persa". Presi i fogli dallo zaino per consegnarglieli.
"Grazie".
"Per cosa, per averti salvata da quella strega".
Rise a quel soprannome. "Sì, sei il mio eroe", mi sorrise.
"Non c'è di che, principessa".
Sentimmo suonare il campanello, che ci fece voltare. Chi poteva essere? Speravo non la madre di Elle, non volevo che finisse nei guai a causa mia.
La strega andò ad aprire la porta ed entrò dentro casa un uomo che presumevo fosse il padre di Elle, erano due gocce d'acqua.
"Chi è lui?", chiese quando mi vide. Probabilmente anche a lui non andava a genio che la figlia avesse un fidanzato.
Mi alzai per andarmi a presentare. "Sono un compagno di sua figlia, mi fa da tutor". Gli allungai di malavoglia la mano per stringere la sua.
"Quindi siete compagni, eh?". Accettò la mia mano che strinse con vigore, se credeva di intimorirmi si sbagliava di grosso.
"Sì, signore. Ero venuto per portarle i compiti che si era persa per via del suo incidente", gli spiegai mentre ricambiavo la stretta di mano con altrettanta forza.
"Posso parlarti in privato?". Oh no. Questo era il tipico comportamento da padre, cioè intimidire il presunto spasimante della figlia. Di certo con me non avrebbe funzionato, ma era sempre meglio recitare la mia parte.
"Va bene".
Mi condusse in salotto per poi inchiodarmi al muro e avvicinandosi fin troppo a me e al mio viso in modo minaccioso. "Sentimi bene, moccioso. Mia figlia non fa per te, è troppo giovane per avere un fidanzato, intesi?".
Gioca la tua carta Sam. "Ma-ma... io sono gay, signore". Cambiò più espressioni in un attimo, da prima era stupito, poi era confuso e infine aveva un sorrisetto compiaciuto stampato in faccia.
"Allora è tutto a posto", mi disse battendomi una mano sulla spalla. Avevo recitato da oscar.
Quando tornammo in cucina feci l'occhiolino a Elle lasciandola confusa, poi le avrei spiegato ciò che avevo combinato col padre.
"Bene, visto che stai bene e sei in buone mani", mi guardò il padre riferendosi a me, "noi andremo".
"Va bene", disse Elle.
Senza salutare, lui e la moglie se ne andarono via.



Nota autore (perché mi va):
Spero che la mia storia vi stia piacendo. Ho notato di sì, anche perché il primo capitolo ha più visualizzazioni qui che su wattpad e lì la storia l'ho iniziata ad agosto... wtf?
Comunque, se volete potete seguirmi su wattpad, lì mi chiamo lanonimoscrittore (mi volevo chiamare anche qui così ma efp non me lo cambia, le mie gioie), se volete lasciate anche un commento. Il mio delirio è finito, perciò ciao.

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Capitolo 17
*** Eleonora IX ***


"Eccomi!", gridai quando vidi da lontano quell'oca fin troppo vicino al mio Sam, sicuramente gli stava facendo delle avance.
Entrambi si voltarono, Sam nel vedermi fece un gran sorriso, invece l'oca era rimasta di stucco.
"Cosa ti è successo?", esclamò stupita nel vedermi.
"Ehm, io... ecco...". Ero nell'imbarazzo più totale.
"Non l'è successo niente", s'intromise Sam venendo in mio aiuto, "a parte l'incidente di prima".
"Ma... ma... prima non era così, insomma, era...", balbettò.
"Bella?", la interruppe.
"No, si conciava in modo indecente... i capelli e gli occhiali che fine hanno fatto? Non sei più quella di prima", mi fece notare.
Be', grazie tante.
Volevo ribattere ma s'intromise un'altra volta Sam, era il mio eroe. "Sa com'è, c'è chi nasce bello e chi no. Lei è sempre stata bella, solo che si nascondeva dietro a dei vestiti e degli occhiali troppo grandi. Certo, al contrario di Elle alcuni si devono sforzare per essere un tantino presentabile". Questa era cattiva ma ben gli stava a quell'oca.
"Su, andiamo Eleonora, tuo padre ci aspetta". Era indignata e mi trascinò via con sé, non potei che seguirla di malavoglia. Prima che me ne andassi mi voltai verso di lui per mimargli un grazie che ricambiò con un: chiamami.
Quando salii in auto iniziò la mia pena.
"È inutile che ti conci così, tanto nessuno vorrà una secchiona sfigata come te". Rieccola all'attacco. "Che illusa". Avrei voluto strozzarla in quel momento ma non volevo provocare un incidente e fare vittime innocenti.
"Dov'è mio padre?", le chiesi cambiando argomento.
"Ha da fare lui, non ha tempo da perdere dietro a un imbranata come te". Cercai di contare fino a dieci per non ucciderla. Come sempre a mio padre importava più del suo lavoro che di me.
Anche a casa non mi lasciò in pace.
"Quel ragazzo, com'è che si chiama?". Eh no, tieni lontano i tuoi artigli dal mio Sam!
"È minorenne".
Rise come un'oca strozzata. "Non sono affari tuoi chi mi faccio o meno e se è minorenne, ma alla fine che ne può sapere una verginella come te". Come la odiavo. Di certo non ero come lei che la dava a tutti.
"Senti, lui è di gran lunga superiore a te", sbottai.
"Ma senti un po' la mocciosa. So che scuola frequenti, mia cara".
"Che vorresti dire?". Dove voleva arrivare?
"La tua è una scuola di super ricchi, ovviamente devi ringraziare la tua adorata mammina se sei stata ammessa".
"Non capisco dove vuoi arrivare".
"Lo so io dove voglio arrivare, ma tu?".
"Io?".
"Scommetto che non solo è da mozzare il fiato il tuo amichetto ma è anche uno tra i più ricchi, dico bene?". Era pazza. Onestamente non sapevo quanto fosse ricco, se più o meno di qualcun'altro, alla fine non mi era mai importato, lui era solo il mio psicopatico.
"Al contrario di te, mia cara, io non penso solo al denaro. Lo so che hai sposato mio padre solo per i suoi soldi".
Rise. "Guarda un po', in quella testolina c'è un po' di sale". Si avvicinò a me ma io indietreggiai. "Con il denaro si ottiene tutto, più ne hai e più in alto andrai". Era disgustosa.
Sentimmo suonare il campanello e per mia fortuna andò ad aprire la porta lasciandomi finalmente in pace.
"Ciao, vedo che ci hai ripensato". Con chi stava parlando? 
"No, sono venuto per studiare". Sam! Il mio Sam era venuto a salvarmi.
"Eleonora, c'è il tuo amichetto". Appena l'oca mi chiamò mi precipitai alla porta.
Appena Sam mi vide mi fece l'occhiolino mostrandomi il suo zaino. "Ho portato i compiti, tutor". Come sempre era astuto ed aveva architettato qualche piano, mi bastava solo stare al suo gioco.
"Andiamo di là". Lo condusi in cucina facendolo accomodare su uno sgabello per poi posizionarmi accanto a lui.
"Quindi Eleonora è la tua tutor?", domandò l'oca.
"Ovvio, altrimenti non l'avrei chiamata tutor". Un punto per te, Sam.
La sentii ridere. "Cosa c'è da ridere?", le chiese infastidito.
L'oca si avvicinò posizionandosi di fronte a noi. "Adesso mi è tutto più chiaro".
"Cos'è tutto più chiaro?".
"Che un figo come te si sia avvicinato ad una come lei", m'indicò con insufficienza come al suo solito.
Accidenti, Sam stava per sbottare, chi lo tratteneva più ora? Meno male che era venuto a salvarmi ma così facendo avrebbe rovinato tutto e me, così gli diedi un calcio negli stinchi che lo fece calmare.
"Be', lei è fin troppo per me. Non sono nulla in confronto a lei. Lei è unica e specile: così intelligente da confonderti e così bella da stravogerti". Lei rimasta basita e anch'io. Pensava veramente questo di me? "Adesso, se non ti dispiace, dobbiamo studiare". Finalmente se n'è andò lasciandoci soli.
"Non avresti dovuto farlo". Cercai di rimproverarlo ma mi veniva troppo da ridere, non l'avevo mai vista così.
"Cosa, elogiarti?". Chissà se era vero o no, glielo dovevo chiedere? "Per la cronaca, penso veramente quelle cose", aggiunse facendomi l'occhiolino.
"Sai, quando fai così non so mai se fai sul serio". Era sempre il solito, ma io lo adoravo per questo.
"È il mio scopo mandarti in confusione", ridacchiò.
"Ho notato". Com'è irritante quando fa così.
"Piuttosto, ti ho portato i moduli per le lezioni extra e i compiti per casa che ti sei persa". Prese i fogli dallo zaino per darmeli. Allora diceva sul serio sul seguire le lezioni extra insieme.
"Grazie".
"Per cosa, per averti salvata da quella strega?". L'aveva appena chiamata strega, era decisamente meglio di oca, le si addiceva.
"Sì, sei il mio eroe". Ed era la verità. 
"Non c'è di che, principessa".
Qualcuno suonò il campanello. Sicuramente era papà, finalmente si era degnato a farsi vivo.
Infatti, come previsto era lui.
"Chi è lui?", chiese quando vide Sam. Oh no.
Prontamente si alzò per andarsi a presentare a mio padre, probabilmente stava continuando la sua messa in scena. "Sono un compagno di sua figlia, mi fa da tutor". Gli spiegò mentre gli allungava la mano.
"Quindi siete compagni, eh?". Mio padre accettò la sua mano lanciandogli uno sguardo tagliente.
"Sì, signore". Sam mantenne un tono pacato e distaccato. "Ero venuto per portarle i compiti che si era persa per via del suo incidente", gli spiegò. Era un attore nato.
"Posso parlarti in privato?". Oh no, adesso lo avrebbe ucciso.
"Va bene".
Papà condusse Sam in salotto e sparirono dalla mia vista e da possibili testimoni.
Che accidenti si staranno dicendo quei due? Ero in ansia.
Finalmente tornarono e Sam appena mi vide mi fece l'occhiolino. Che aveva combinato? C'era d'aspettarsi di tutto da lui.
"Bene, visto che stai bene e sei in buone mani, noi andremo".
"Va bene". Come sempre non si interessava a me.
Quando se ne andarono andai dritta da Sam. "Che gli hai detto?".
"Che sono gay". Come? Era impazzito per caso?
"Cosa?".
Alzò gli occhi al cielo. "Aveva già pensato male di noi, pensa se lo avesse detto a tua madre, saremmo finiti nei guai, così ho pensato di usare la carta dell'amico gay", mi spiegò facendomi in fine l'occhiolino. Anche se era stato un folle mi aveva salvata da mamma.
"Sei pazzo".
"E te ne accorgi solo adesso?". Io lo strozzo.
"Ma guardati". Si avvicinò a me guardandomi con aria preoccupata. "Dovresti mettere del ghiaccio, hai il naso arrossato".
"Ehm, va bene così, sono apposto". Le sue improvvise attenzioni mi mandarono in confusione. Ero imbarazzata.
"Come vuoi... comunque ho pensato io a quella che ti ha fatto questo". L'ha uccisa per caso!?
"Che hai fatto?". Ero nel panico.
Agrottò le sopracciglia. "Quello che andava fatto".
"Sam, sei fuori di testa!?".
"Come, scusa?".
"Non si uccidono le persone!". E adesso che facevo? Calma Eleonora, respira.
"Eh?".
"Hai ucciso quella ragazza!". Scoppiò in una risata fragorosa. Era uscito fuori di testa.
"Tu leggi troppi libri".
"Come?".
"Non ho ucciso nessuno, l'ho solo denunciata al preside e riceverà, ahimè, solo un provvedimento disciplinare". Ah...
"Ah...". Che figuraccia.
"Come sempre sei buffa".
"Sei tu che mi fai pensare male". Non era mica colpa mia, forse...
"Sei tu quella che pensa sempre male". Gli lanciai uno sguardo assassino, almeno sperai che lo fosse.
"Hai mangiato?", mi chiese cambiando argomento.
"No, non ne ho avuto il tempo".
"Meglio così. Andiamo in quella tavola calda che ti avevo promesso".

Era tutto buonissimo in questo posto e i piatti erano abbondanti, e soprattutto non mi sentivo fuori posto. Però lui non mangiò nulla. Doveva rispettare la sua dieta e il suo medico era molto severo al riguardo. Chissà che tipo era. Forse era una signora scorbutica e col pugno di ferro.
Stare in compagnia di Sam mi piaceva, ero diventata dipendente da lui, volevo stare sempre con lui. Che mi stessi innamorando? Il punto era se potevo permettermi tali sentimenti con lui, però mi aveva promesso che ci avrebbe provato ad avere una storia romantica con me. Di che tipo non mi era ben chiaro. Era in grado di innamorarsi di me o poteva solo darmi del romanticismo? Era un tale mistero questo ragazzo. Forse era meglio non innamorarsi di lui, ma in fondo a cuor non si comanda e io non riuscivo a star lontana da lui. Ero disposta a soffrire per lui nel caso mi fossi innamorata e mi avesse lasciata per essersi stufato di me? Dopotutto nella realtà non esisteva il vissero felici e contenti, non sempre almeno. Cosa dovevo fare con lui allora? Scappare finché ero in tempo o lasciare così le cose come stavano?
"A cosa stai pensando?". Sussultai dallo spavento, ero così assorta dai miei dilemmi da essermi quasi dimenticata della sua presenza, ero tornata nel mio mondo.
"Nulla di che", mentii.
Mi guardò con aria pensierosa. "A me sembrava che stessi avendo un conflitto interiore". Ma come faceva? "E adesso dalla tua espressione deduco che abbia indovinato". Era impossibile mantenere dei segreti con lui a questo punto.
Sbuffai irritata. "Sono solo pensieri".
"Pensieri che mi appartengono", mi disse con voce soave e vellutata.
"Sam". Non mi piaceva quando faceva così con me, era consapevole che non riuscivo a resistergli e se ne approfittava.
"Cosa c'è?".
"Smettila".
"Di fare che?", chiese come se non capisse.
"Di incantarmi, sappi che non attacca".
"Beccato", ridacchio. "Allora?".
"Allora cosa?".
"A cosa stavi pensando?". Era impossibile.
"Ci tieni così tanto?".
"Tantissimo".
Sbuffai sonoramente. "Mi chiedevo cosa intendessi con storia romantica, cioè, cosa puoi darmi e cosa no?". Sperai tanto che i miei dilemmi non lo facessero scappare da me.
"Tu cosa vuoi?". La sua domanda mi spiazzo. Sinceramente non ci avevo mai pensato.
"Non saprei. Non sono mai stata quel genere di ragazza che voleva per forza un fidanzato da sfoggiare, certo, sono una ragazza romantica e questo non lo nego".
"Vorresti me come fidanzato?".
"Tu non mi vuoi, Sam".
Si acciglio. "E questo chi lo dice, tu? Non sai quello che sento, che provo".
"E tu lo sai?".
"Ci sto lavorando, però, posso provarci insieme a te, se me lo permetterai". Era già qualcosa, potevamo capirlo insieme.
"Ok".
"Quindi, se per caso ti chiedessi di diventare la mia fidanzata, tu cosa mi risponderesti?".
"Non saprei".
Si passo le mani fra i capelli dalla frustrazione, trovai quel gesto molto... sexy.
Che pensieri sconci che hai Eleonora, un po' di contegno.
"Sappi che non accetterò un no come risposta", mi disse deciso guardandomi dritto negli occhi.
"Potrebbe accadere, ricorda che non sono come gli altri". Non gli avrei detto un sì a un suo schiocco di dita come facevano gli altri.
"Quindi con me ti imponi e con gli altri no", disse più a sé stesso che a me. Si soffermò a guardarmi per un attimo. "Lo so che non sei come gli altri, per questo mi affascini, ma so per certo, che un tuo no non lo sopporterei. Perciò dovrò esserne certo che quando te lo chiederò, tu mi dirai di sì". Quindi lui non si aspettava un no da me. E se non volessi mai diventare la sua fidanzata?
Lo guardai decisa negli occhi. "E se per caso non vorrò mai esserlo?". Era perplesso, come se non avesse pensato a tale eventualità.
"Forse in quel caso sarei perso".
"Perché?".
Si alzò dal suo posto di fronte a me per sedersi accanto a me. "Da quando ti ho conosciuta tutto è cambiato per me, tu mi fai sentire come non mai. Mi fai sentire bene, sei il mio sole. Se mi dirai di no tornerà l'oscurità che mi avvolgeva", fece una pausa sospirando, "Io ho bisogno di te". Come sempre le sue parole mi frastornavano.
"Sam...".
"Mi piace quando mi chiami per nome", mi sorrise.
"Tu cosa vuoi da me?".
"Essere accettato per quello che sono, anche se sono un vero disastro". Il mio Sam, aveva solo bisogno di un po' d'affetto, e questo, senza ombra di dubbio, glielo potevo dare.
Allargai le braccia per stringerlo in un abbraccio che lui ricambiò senza esitazione.
Dopo quella chiacchierata i dubbi su di lui erano diminuiti ma stavo sempre allerta.
Quando mi riaccompagnò a casa mi salutò con un bacio sulla fronte e potrei giurarci che quando se n'è andò aveva stampato in faccia un sorrisetto da tramatore, cos'aveva combinato stavolta?
Salii in camera per cambiarmi e mettermi a studiare in vista del prossimo compito. Quando entrai vidi sul letto un orso di peluche. Mi precipitai sul letto per prendere l'orso e abbracciarlo, era così morbido. Notai che c'era un cartoncino, lo presi e lessi:

Cara Elle,
È abbastanza romantico secondo te?
Visto che sei una ragazza fuori dal comune, e questo mi piace, ho pensato che ti potesse piacere.
Abbraccialo quando ti sentirai sola e triste, e dormi con lui per far sogni dolci.

Il tuo psicopatico.

Andai alla ricerca del mio telefono, che trovai dentro lo zaino, e mi scattai una foto insieme all'orso da mandare a Sam. Insieme alla foto mandai in allegato un messaggio.
Grazie del regalo, sei stato dolce e romantico. Stasera dormirò sicuramente con lui. Ancora grazie. La tua Elle.

Non tardò molto ad arrivare una sua risposta.
Finalmente ho una tua foto, non lo credevo possibile. La custodirò come si deve ;)
Eh? Che cosa aveva in mente di fare con la mia foto?

Non fare le zozzerie con la mia foto.

Come sempre pensa male, signorina.
Com'era irritante.

Allora cosa intendevi prima?

Che non la mostrerò a nessuno, ricorda che SEI SOLO MIA e devo vederti solo io, e poi...
E poi cosa? Me lo faceva apposta o cosa?

E poi cosa?

Quando penserò a te e mi mancherai, guarderò questa foto.
Come sempre a modo suo sapeva essere dolce.

Però non è giusto.

Cosa non è giusto?

Io non ho una tua foto da guardare quando mi manchi.

Vuoi una mia foto per fare le zozzerie?
Ma io lo strozzo sul serio.

Poi chi è che pensa male, eh?
No, sconcio che non sei altro!

Ok, come non detto.
Allora, la vuoi questa foto o no?
Questa volta mi sarei divertita io con lui.

Voglio una tua foto in pigiama, mio caro psicopatico.

Molto spiritosa. Per la cronaca, non uso pigiami. Cambia piano, principessa col pigiama con gli orsi.

Voglio una foto carina però, e devi sorridere mio caro.
Dopo che gli inviai questo messaggio non mi rispose più. Che gli fosse successo qualcosa? No, non dovevo assolutamente pensarci.
Per distrarmi mi misi a studiare.
I minuti passavano e lui non mi rispondeva, non facevo altro che guardare il telefono invece di studiare. Che fine aveva fatto?
Sentii il telefono vibrare e questo mi fece sussultare, sperai tanto che fosse lui.
Aprii il messaggio ed era una foto, per la precisione una sua. Si era cambiato i vestiti e aveva i capelli bagnati, forse aveva fatto una doccia, comunque stava molto bene ed era come sempre da mozzare il fiato. Come sfondo c'era una libreria, era bellissima.

Bella libreria.
Gli risposi.

È la libreria che ho in camera, ovviamente è più grande ma in foto non si vede. Comunque, trovi solo la libreria bella? 
Che fosse geloso? Be', visto che mi aveva fatto aspettare e preoccupare, la gelosia era quello che si meritava.

Sì, è la cosa migliore, a parte l'intruso.

Intruso? Dichiarati colpevole. Che cagnetta ingrata che ho, dopo tutto quello che ho fatto per te.
Come mi divertivo con lui, era un vero spasso.

Magari se fai il bravo ti dico che sei carino.

Questa, mia cara, si chiama ricompensa, e da quel che mi risulta, il cane fra i due sei tu.

Bene, visto il tuo cattivo comportamento, sappi che la libreria è molto più carina.

Sappi che da adesso sono geloso della mia libreria, dichiarati colpevole.

Mai.

Devo andare, mio padre mi cerca.
Che peccato mi stavo divertendo. Posai il telefono e tornai a studiare.
Mentre studiavo sentii la porta di casa aprirsi, sicuramente era mamma. Ora che ci pensavo, non era un po' presto? Che avessi studiato così tanto? Guardai l'ora ed era ancora presto, oggi sarebbe tornata per le sei. E allora chi era, che fosse un ladro? Ma no, un ladro non usava le chiavi di casa. Mentre pensavo a chi potesse essere, sentii la porta di camera mia aprirsi, mi voltai e vidi che era Sam.
Ma quante copie delle chiavi aveva fatto?
"Sappi che ti meriti una punizione", mi annunciò dopo aver chiuso la porta.
"Per quale motivo?".
"Per essere una cattiva cagnetta", incrociò le braccia al petto. Mi voltai per tornare a studiare, ero stufa dei suoi comportamenti infantili.
Lo sentii avvicinarsi a me, ero spacciata. Girò la mia sedia facendomi sussultare per poi ritrovarmi faccia a faccia con lui.
"Cosa vuoi, non vedi che sto studiando?", lo sfidai.
"Non fare l'acida con me, non attacca". Mi guardò per minuti interminabili che mi sembrarono ore o giorni persino. "Mi trovi brutto o poco attraente?", mi chiese con tono serio, mi sembrava anche preoccupato.
"A cosa devo questa domanda?".
"A volte penso che ti sia del tutto indifferente e altre no... mi mandi in totale confusione".
"Non credere che tutte subiamo il tuo fascino".
"Come siamo sfrontate".
"È quel che ti meriti".
Abbassò il capo sospirando. "Touché, dopotutto è quel che mi merito".
"Già". Che avessi esagerato?
Alzò il capo per guardarmi dritto negli occhi. "Non ti piaccio neanche un po'?", mi chiese supplichevole, sembrava un cane bastonato.
"Prima tu, mio caro". Non volevo essere l'unica che ci era cascata e poi dovevo sapere.
Si spostò per andarsi a sedere sul mio letto, sbaglio o era a disagio? "Be', ecco... oggi quando ti ho vista con la tuta, ecco... come posso spiegarti...", chiuse gli occhi e prese un gran respiro, "ho provato una strana sensazione".
"Che sensazione?", chiesi curiosa.
"Non saprei, non l'avevo mai provata, volevo andare dal mio psicologo per capire cos'era ma dopo quello che è successo non ne ho avuto il tempo". Non aveva bisogno di scappare da uno psicologo per ogni cosa, se aveva bisogno di qualcosa o dei chiarimenti c'ero io.
"Perché non chiedi a me?".
"No, voglio chiederlo a lui, sai... è una cosa fra maschio". Non lo seguivo più.
"Come vuoi...". Ero un po' delusa, credevo che a questo punto si fidasse di me, ma a quanto pare mi sbagliavo.
"Comunque ho occhi solo per te, non ti basta questo?".
"No", dissi arrabbiata. Non capiva che volevo di più da lui e che questo di più era la fiducia? A quanto pare no, non lo capiva o semplicemente non gli importava.
"Qualcosa non va?".
"Sei tu che non vai!".
Alzò gli occhi al cielo. "Mi dici che cosa ho fatto, di grazia?". Cosa aveva fatto? Tutto!
Mi alzai dalla sedia per avvicinarmi a lui e prendere un cuscino dal letto.
"Cosa vuoi fare?".
"Oh, nulla di che", sfoderai un finto sorriso per poi colpirlo col cuscino.
"Mi dici che cosa ho fatto!?".
"Tutto mio caro!", gli dissi continuando a prenderlo a cuscinate.
Prendendomi alla sprovvista, mi afferrò per le braccia gettandomi di peso sul letto e facendomi cacciare un urlo poco dignitoso. Ero spacciata. Era sopra di me cavalcioni e mi teneva ferma per le braccia.
"Non ti piaccio neanche un po'?", mi chiese per l'ennesima volta.
"Il punto è se io piaccio a te". Apparve un po' confuso.
"Non mi sei indifferente. Ora tocca a te, mia cara".
"Chi lo sa".
Avvicinò il suo viso al mio. "Dimmelo".
"Altrimenti?", lo sfidai, di certo non l'avrebbe avuta vinta con me.
"Ti faccio il solletico", mi disse con un sorriso beffardo. Adesso si che ero spacciata e sicuramente aveva intuito dalla mia espressione che soffrivo il solletico.
"Non te lo dirò mai". Non sapevo da dove mi venisse tutto questo coraggio ma non volevo dargliela vinta.
"Bene, l'hai voluta tu". Chiusi gli occhi preparandomi al solletico e alla mia tortura.
Sentivo che si avvicinava ancora di più ma di solletico ancora nulla. Il suo corpo caldo era sempre più premuto contro il mio, era sempre di più su di me, poi sentii le sue labbra sul mio collo che mi provocarono un brivido. Poi un altro ancora e ne susseguirono altri, ero nelle sue mani. Non facevo nulla per oppormi, anche se la mia vocina interiore mi diceva di spingerlo via ma il mio corpo non voleva, al contrario, desiderava di più. Senza volerlo mi scappo un gemito. Che vergogna.
"Ti voglio", gli sentii sussurrare appena.
"Eh?".
Si spostò da me per dirmi: "Cosa?".
"Mi hai appena detto una cosa". Ero senza fiato.
"Cosa avrei detto?". Era tonto per caso?
"Ti voglio".
"Non è vero".
"Sì, invece", ribattei.
"No". Mi credeva davvero così stupida?
"Vattene via". Ero stufa dei suoi assurdi comportamenti.
"Perché?".
Roteai gli occhi. "Primo: ti stai comportando male con me. Secondo: oggi mia madre torna presto e non voglio finire nei guai se ti trovasse qui in camera mia".
"Io non mi sto comportando male". Si come no.
"Ho detto: vattene via!".
"Come vuoi...". Si alzò da sopra di me andandosene via dalla porta. Quando lo sentii sbattere la porta d'ingresso capii che se n'era andato via. Forse avevo un po' esagerato con lui ma doveva capire che con me doveva comportarsi in un certo modo. Non poteva più fare come gli pareva, doveva imparare le buone maniere.
 

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Capitolo 18
*** Sam IX ***


Non avevo voglia di ritornarmene a casa, così andai nel parco sotto al mio albero preferito. Avevo voglia di piangere, così mi sfogai. Non sapevo cosa pensare. Mi ero davvero comportato male con Elle? A me non era sembrato, almeno così credevo. Cosa pretendeva alla fine da me, io che mi comportavo male col mondo intero, che m'importava solo di me stesso. Ero l'egoista per eccellenza. Però da quando l'avevo incontrata non era più così, lei mi stava cambiando fin nel profondo. Che mi stessi davvero innamorando di lei? Che la desiderassi? Dovevo assolutamente andare da Clark, ero stufo di tutti questi dubbi.

"Sam", mi salutò il dottor Clark appena mi vide e potrei scommetterci che aveva un espressione esasperata.
Quando ci accomodammo mi guardò come ad aspettarsi da me l'ennesimo crollo, ero così prevedibile? Scacciai via quei pensieri e ignorarli. "Sono successe un sacco di cose nuove".
"Ti hanno turbato queste novità?", mi chiese.
"Sì e no".
"Cosa ti ha turbato?". Cosa mi aveva turbato? Il strano episodio di oggi, chissà che cos'era.
"Oggi ho provato una strana sensazione".
"Che sensazione?", mi chiese accigliandosi.
"Ehm... al basso ventre".
Mi guardò per qualche istante perplesso prima di dire qualcosa. "In che situazione è successo? Stavi facendo qualcosa in particolare?".
"Ecco... stavo guardando Elle".
"Elle?". In viso gli apparve un'espressione confusa.
"Sì, io la chiamo così, anche se in realtà si chiama Eleonora", gli spiegai.
"Capisco... stava facendo qualcosa in particolare?".
"No, però aveva appena indossato la tuta". Ripansai a lei con indosso la tuta e mi bei di quella visione stupenda.
"E ti piaceva?".
"Cosa?".
"Quello che vedevi, ti piaceva?". Se mi piaceva? Mai visto niente di più bello.
"Sì".
"Sam?".
"Sì?".
"A quanto pare non sei assessuato come credevi". Cosa? Non capivo.
"Cosa intende?".
"Che lei ha scatenato in te il tuo appetito sessuale". Come? Quindi era questa la sensazione che si provava?
"Ah...".
"Che altro senti quando stai con lei?".
"Che il tempo con lei non mi basta mai e che voglio sempre di più".
"Interessante... sei arrivato a qualche tua conclusione o ti è ancora tutto ignoto?".
"Ho fatto due chiacchiere con mio padre in realtà".
"Di che avete parlato?".
"Volevo sapere come si sentiva con mia madre, e li sono arrivato ad una specie di conclusione".
"Cioè?".
"Credo di starmi innamorando di lei".
"Questo è un gran passo in avanti per te".
"Lo so".
"Come ti fa sentire tutto questo?". Non lo sapevo, c'erano fin troppe sensazioni ed emozioni dentro di me.
"Non lo so...". Mi passai le mani fra i capelli per la disperazione. "E se lei non mi volesse?".
"Sam, il tempo dirà se lei ti vorrà o meno, nel frattempo, potrai solo provare a conquistare il suo cuore".
"E se questo non bastasse?", lo guardai disperato.
"Non tutti gli amori sono corrisposti e lo sai anche tu".
"Lo so". Anche la mia voce trapelava la mia disperazione. Volevo che lei s'innamorasse di me, che fosse solo mia. "Lei non vuole essere la mia fidanzata".
"E tu lo vuoi?".
"Più di ogni altra cosa, le ho anche detto che avrei provato ad avere una storia romantica con lei".
"E tu sei disposto a dargliela?".
"Gliela sto già dando".
"Allora continua così, non voler tutto subito, falla innamorare di te e fa con calma, non farla scappare".
"Va bene".
"C'è dell'altro che mi devi dire?".
"Mi ha detto che mi sono comportato male con lei, mi ha anche cacciato di casa per questo". Si era proprio arrabbiata. "Sospetto che sia in quel periodo del mese".
"O semplicemente avrai fatto qualcosa che le abbia dato fastidio", mi fece notare.
"E cosa?".
"Se non lo sai tu", fece spallucce.
"Cosa mi suggerisce di fare?".
"Chiedi Sam, chiedi e basta". Certo, era così ovvio e semplice.

Erano le 23:00 ed ero sotto casa sua non sapendo cosa fare o meno. Chiamarla e chiederle del perché si fosse arrabbiata così tanto con me o andarmene via? Non potevo andarmene via, prima o poi l'avrei rivista e sarebbe ancora stata arrabbiata con me. Dovevo risolvere la faccenda prima che fosse troppo tardi.
Decisi di mandarle un messaggio.
Lo so che sei ancora sveglia e che ce l'hai con me, per questa ragione sono qui di fronte a casa tua che ti aspetta. Vestiti, ti porto a fare un giro.

Aspettai minuti interminabili una sua risposta. Ero certo che era ancora sveglia, probabilmente non sapeva se rispondermi o meno, o poco probabilmente si stava preparando.
Sentii il telefono vibrare ed era una sua risposta.

Perché mai dovrei uscire con te?
Era decisamente arrabbiata con me.

Perché sono uno stupido che vuole farsi perdonare nonostante non abbia capito cosa abbia fatto. Ti prego, risolviamo la faccenda.

Quindi stai ammettendo che sono più intelligente di te?
Voleva farmi impazzire o cosa? Era meglio accontentarla.

Sì, sei più intelligente di me.
Non mi rispose ma dopo qualche attimo vidi la porta d'ingresso aprirsi.
"Finalmente hai capito chi è l'intelligente fra noi due", mi disse incrociando le braccia al petto con aria di superiorità, "Dopotutto, di che mi meraviglio". Mi aveva appena dato del tonto per caso? Prima che potessi dire qualcosa, chiuse la porta per poi avvicinarsi a me, sempre con quell'aria di superiorità. "Andiamo o vuoi restare qui con quella faccia da ebete?". Mi rigirava le mie battute o sbaglio?
"Andiamo". Le offrii il mio braccio che accettò.
Passeggiammo per un po' a braccetto fino a raggiungere il parco. Era una bella serata e non faceva tanto freddo. Lei era bellissima come sempre e si stava abituando ad indossare dei vestiti come si devono. Indossava dei semplici jeans chiari e una camicetta bianca con sopra un impermeabile beige, aveva anche lasciato i capelli sciolti, stava davvero bene.
La portai nel viale delle panchine, c'era una bella vista sul laghetto e ci venivano tante coppiette. Era un posto romantico.
Ci accomodammo su una panchina e restammo in silenzio ad osservare il panorama.
"Mi piace questo posto di sera, e poi c'è la luna", contemplò. Il mio piano di farla addolcire aveva funzionato alla fine, ero salvo, almeno così speravo.
"Ti avevo promesso una passeggiata al chiaro di luna", le ramentai.
"È vero", mi disse mentre osservava la luna. "Però non credere che ti perdoni così tanto facilmente, mio caro". Mi guardò con aria accigliata. Il mio piano non aveva funzionato, ero fritto.
"Elle, devi capire che io non sono bravo con le persone e che sono abituato in un certo modo".
"Lo so".
"Ho bisogno che tu mi dica quando sbaglio, così non lo farò più".
"Sei uno stupido".
"Grazie tante".
"Non c'è di che". Com'era irritante e adorabile allo stesso tempo quando faceva così.
"Potresti spiegarmi cosa avrei fatto di così tanto grave per averti fatto arrabbiare così tanto?".
Ruotò gli occhi esasperata. "Davvero non ci arrivi da solo?".
"Ehm, no".
"Sei un vero disastro, Sam", le scappò un mezzo sorriso mentre pronunciava quelle parole.
"Lo so", ridacchiai.
"Mi ha dato fastidio il fatto che tu non ti fidi di me ma di un qualunque psicologo". Dunque era questo il punto: la fiducia.
"Ma il dottor Clark non è un qualunque psicologo", ribattei, ed era la pura verità, lui sapeva ascoltarmi, era il mio confidente.
"Lui non è tuo amico", ribattè accigliandosi.
"Lo so".
"E allora perché non ti confidi con me?".
"Non posso dirti sempre tutto".
"Ah, e io devo dirti per forza tutto?!". Incrociò le braccia al petto furente.
"Certo".
"Se la metti così, ti puoi scordare il mio perdono", mi urlò contro additandomi.
"Oh, andiamo Elle, è troppo imbarazzante questa cosa, non te la posso dire".
"Bene, allora non ti dirò più nulla". No. No. No. E poi no. Lei mi doveva dire tutto.
"Non esiste!".
"E allora dimmi questo segreto imbarazzante che ti tieni da oggi". Ragazze! Erano davvero impossibili.
"Ok, poi non ti venire a lamentare". Ero esasperato.
"Bene, sentiamo cos'hai da dire". Aveva in faccia stampato un sorriso trionfante. L'avrai baciata in quel momento ma mi trattenni dal farlo.
"Quando ti ho vista in tuta...", mi bloccai inghiottendo a vuoto un groppo di saliva per il nervosismo e per lei che mi guardava con sguardo attento, "Ecco... come ha detto Clark, testuali parole: Lei ha scatenato in te il tuo appetito sessuale". Rimase interdetta per qualche istante riflettendo sulle mie parole.
"Allora avevo sentito bene", parlò più a se stessa che a me.
"Cosa avresti sentito?", chiesi curioso.
"Ti voglio". Accidenti!
"Io non ho detto questo", mentii spudoratamente. In realtà le avevo detto quelle parole sulla foga del momento.
"Sei un pessimo bugiardo e anche un depravato", mi accusò.
"Io, depravato? E tu? Non mi venire a dire che non ti piaceva quello che ti stavo facendo, perché non ci crederei". La lasciai senza parole. Un punto per me Elle.
"Colpa tua". Era in imbarazzo così decisi di provocarla.
Senza preavviso l'attirai a me facendo aderire i nostri corpi. I suoi occhi vagarono dai miei alle mie labbra e il suo respiro era irregolare, sapevo di scatenarle un certo effetto.
"Sì, ti voglio e sappi che non ho mai desiderato nessuno, credevo anche di essere assessuato, ma mi sbagliavo".
"Ah sì?", la sua voce le uscì in un sussurro.
"Sì, stavo aspettando te".
"Sam...". Cercò di parlare ma la zittii poggiandole un dito sulle labbra.
"Sento che anche tu mi vuoi, perciò... vuoi essere la mia fidanzata?", le sussurrai.
Mi guardò per minuti interminabili e strazianti per poi annuire col capo.
"Davvero?". Ero incredulo e il mio cuore batteva frenetico. Non mi era mai successa una cosa del genere, cos'era questa sensazione, che fosse felicità? Ero felice che lei avesse acconsentito a diventare la mia fidanzata? Probabilmente sì.
"Sì".
"Oh Elle...". Poggiai il capo sulla sua spalla. Ero felice ma il mio cuore batteva fin troppo forte. Stavo per avere un attacco da un momento all'altro me lo sentivo.
Mi spostai da lei per poggiare la schiena sulla panchina. Sentivo un peso sul petto che mi toglieva il respiro e il mio cuore che batteva frenetico, era come se volesse scappare.
"Sam, ti senti male?". No, non volevo che si spaventasse.
"Non è niente", riuscii a biascicare, "devo solo prendere la mia medicina".
Era allarmata e aveva gli occhi lucidi. "Dove tieni la tua medicina?". Cercava di trattenere le lacrime per non farmi preoccupare o agitare. La mia dolce Elle.
"Nella tasca destra della mia giacca, una può andare". Non era una crisi grave. Prese il flacone con le pillole aprendolo e prendendone una che mi porse. La presi aspettando che agisse.
Aspettai in silenzio che i battiti del mio cuore diventassero regolari e che il peso nel mio petto svanisse a poco a poco. Anche lei aspettava in silenzio. Cercava di trattenere le lacrime ma invano.
Mi avvicinai a lei asciugandole le lacrime. "Non piangere", le sussurrai. Si gettò fra le mie braccia iniziando a singhiozzare. "Va tutto bene", la rassicurai carezzandole la schiena con movimento lento e rilassante della mia mano.

Dopo il mio malore, Elle mi costrinse a tornare a casa e a chiamare il mio medico, così feci. Era meglio non far arrabbiare quella ragazza o si trasforma nella dottoressa Grace 2.0. A volte sapevano essere così simili quelle due.
Quando la dottoressa Grace mi vide mi diede una sfuriata assurda. "Come ti è saltato in mente di uscire a quest'ora della notte!". Non le risposi, mi limitai a guardarla. "Cosa stavi combinando poi?", mi aditò severa. Feci spallucce in risposta. "Sam, non puoi comportarti sempre in questa maniera sconsiderata, pensa alla tua salute per una volta tanto". Salute? Che cosa pretendeva da me, stavo morendo.
"Cosa importa, oggi o domani, tanto fra qualche mese sarò morto", il mio tono di voce era neutro e distaccato.
"Pensa a tuo padre. Pover uomo, non si merita tutti i dispiaceri che gli causi".
"Oh, andiamo. Adesso sarebbe colpa mia se sto morendo?", mi innervosii.
"Sai cosa intendo...". Ci risiamo con quella storia.
"Non ne voglio più parlare di quella faccenda", dissi a denti stretti.
Era esasperata. "Come vuoi, Sam". Mi guardò per qualche istante prima di parlare: "Domani verrò a scuola per visitarti".
"Come vuole", mi rassegnai al suo volere. Per me era solo una perdita di tempo, una visita non avrebbe cambiato la mia situazione attuale.
Mi ritirai nella mia stanza per andare a riposare, prima però feci un bagno caldo e rilassante.
La dottoressa non poteva rovinarmi l'umore, non dopo che la mia Elle aveva acconsentito a diventare la mia fidanzata. La mia fidanzata. Era ancora in surreale. Io che non avevo mai desiderato nulla del genere. In poco tempo una splendida ragazza era riuscita a farmi cambiare, a far riemergere quel umanità che avevo perso da tempo. Chissà cosa ne avrebbe pensato la mia mamma, lei che adorava mettermi dei vestitini pensando che fossi la sua piccola principessina. Penso che non avesse capito il mio vero essere. Con nonno era stato ben diverso, lui l'aveva capito fin dall'inizio. Penso che le sarebbe piaciuta Elle, l'avrebbe approvata. E papà? Certo, lui voleva la mia felicità e mi accontentava in tutto, però... forse mi avrebbe detto che la mia scelta non era giusta perché questa relazione si stava basando su delle menzogne. Lei pensava che fossi un ragazzo, e il sogno di oggi ancora mi tormentava:
Era tutto verde e alle mie spalle c'era un grande albero. Ero nel parco. Nel mio rifugio segreto, dove papà e la dottoressa Grace non sapevano che mi rifugiavo per piangere. Cosa ci facevo qui?
C'era vento, vento che carezzava la mia pelle gelido. Mi guardai attentamente ed ero senza vestiti, vesti che mi nascondevano, nascondevano il mio essere, il vero me.
"Come hai potuto!". Mi voltai ed era Elle. Mi guardava con le lacrime agli occhi.
"Ti posso spiegare...".
"No! Come hai potuto mentirmi, nascondermi questo! Non ti voglio più vedere!". Si voltò andandosene via.
Volevo raggiungerla ma non potevo muovermi.
"Elle! Aspetta Elle, posso spiegarti!".
Non volevo che scappase via da me disgustata e arrabbiata per avergli mentito. No, non sarebbe mai accaduto. Lei non avrebbe mai saputo che in realtà ero una ragazza. Non doveva sapere nemmeno che stavo per morire, mi avrebbe guardato come faceva mio padre, come qualcuno che sarebbe morto da un momento all'altro.
Mi preparai per andare a letto ma prima di mettermi a dormire decisi di mandare un messaggio a Elle per rassicurarla.
Il mio medico ha detto che è tutto a posto, solo che mi ha dato una tirata d'orecchi.

L'importante è che stai bene.
Mi rispose. Sapevo che c'era qualcosa che non andava in lei.

Ti sei pentita di aver accettato di diventare la mia fidanzata?

No.

E allora cosa c'è che non va?

Sam, e se questa relazione facesse male al tuo cuore? Hai visto cos'è successo quando ho accettato di essere la tua fidanzata... non voglio che ti accada qualcosa... non lo sopporterei...
La mia Elle, sempre pronta a preoccuparsi per gli altri.

Mi farebbe più male se tu non fossi mia. Ho bisogno di te.

E io di te.

Allora non ti preoccupare di niente, viviamo questo nostro magnifico momento, va bene?

Va bene, Sam.

Buonanotte mia dolce Elle, fa sogni d'oro, a domani.

Buonanotte mio psicopatico, a domani.

Questa mattina mi svegliai presto per andare in giardino, volevo portare un fiore a Elle. Il giardino aveva una vasta varietà di fiori: il punto era scegliere quello più adatto a lei. Quale scegliere però? Alla fine optai per una semplice rosa bianca.
Oggi faceva davvero freddo, così mi vestii pesante, speravo tanto che nevicasse, mi piaceva la neve.
Come sempre la mia Elle era da mozzare il fiato, la divisa le stava divinamente e le sue gambe erano incredibili.
"Hai intenzione di restare lì imbambolato come un ebete per tutto il giorno o vuoi farme salire in auto per andare a scuola?".
Cercai di darmi un contegno e recuperare la dignità persa. "Io non sono un ebete", protestai.
"Si come no".
"Ti stai prendendo gioco di me per caso?".
"Forse", fece un sorrisetto. Mi stava prendendo in giro.
"Se non la smetti non ti darò una cosa".
"Che cosa?", chiese curiosa ed entusiasta allo stesso tempo. Per tutto il tempo avevo tenuto la rosa nascosta dietro la sciena, così allungai la mano per porgergliela.
"È per me?", chiese timidamente.
Finsi di guardarmi intorno. "Qui non vedo nessun'altra che sia la mia fidanzata".
"Allora è mia", disse mentre prendeva la rosa dalla mia mano e ammirandola con occhi sognanti.
Arrivati a scuola Elle era nervosa. Cercai di osservarla e capire cos'era che non andava in lei. Si guardava in giro e si mordeva il labbro inferiore. Mi soffermai per qualche attimo sulle sue labbra desiderando di essere io a morderle. Sam, contegno!
"Qualcosa non va?", le chiesi.
"Tutti ci guardano".
"Davvero?".
Alzò gli occhi al cielo. "Per una volta, guardati intorno e presta attenzione agli altri".
Feci come mi chiese. Mi guardai intorno e tutti ci fissavano con aria curiosa. Cosa avevano da fissare tanto?
"Perché ci fissano?", le chiesi.
"Forse perché ci stiamo tenendo per mano", mi fece notare. Non mi ero accorto di averla presa per mano.
"Che ci fissino, tutti devono sapere che sei mia", le dissi per poi farle l'occhiolino, lei in risposta fece una faccia esasperata.
Durante le lezioni me ne ritornai nel mio nuovo mondo, chiamato Elle. Ancora non potevo crederci che aveva accettato di diventare la mia fidanzata, per lo più che mi fossi fidanzato. Se lo avessi detto in giro nessuno mi avrebbe creduto, più che altro, avrebbero pensato che fosse uno scherzo. Dovevo ancora andare dal dottor Clark per raccontargli l'avvenimento, dovevo chiedergli anche come mi sarei dovuto comportare d'ora in avanti. Probabilmente avrei dovuto fare qualcosa di più, ma cosa? Avrei dovuto portarla al cinema? Quelli pubblici erano sempre affollati, e forse anche sporchi, e poi non sempre c'erano dei film interessati, ma di certo non potevo portarla in quello che avevo a casa, papà avrebbe potuto vederla. Ora che ci pensavo... avrei dovuto presentarla a papà? Non credo, sarebbe andato a dirlo alla dottoressa Grace e lei non approverebbe la cosa, meglio di no. Cosa potevo fare allora?
"A cosa stai pensando?".
Mi voltai per vedere una Elle che mi scrutava con curiosità. "Mi ruba le battute, signorina?". Alzò gli occhi al cielo. "Comunque, tu non eri quella che non parlava durante le lezioni?".
"Be', ogni tanto ci sta un'eccezione, e poi eri così concentrato". Beccato.
"Pensavo a una cosa con cui discuterò con Clark".
"Ti riferisci al tuo psicologo?", mi chiese sussurrando l'ultima parola.
"Sì".
"Be', se vuoi puoi parlarne con me".
"Senza offesa, ma certe cose preferirei discuterne con lui".
"Come vuoi...". C'era rimasta un po' male, così decisi di rimediare.
"Comunque, credi che sia il caso di mantenere la nostra relazione segreta? Sai, il mio medico è come tua madre, non approva le relazioni alla nostra giovane età". Ridacchiò alle mie parole, era così bella quando rideva.
"Scommetto che andrebbero d'accordo".
"Lo credo anch'io", ridacchiai a mia volta.
"Per il momento sarà meglio tenere questa cosa per noi, ma prima o poi dovranno saperlo".
"Dobbiamo proprio?". La dottoressa Grace a volte sapeva davvero farti paura.
"Sì, Sam, dobbiamo", puntualizzò decisa.
"Ok". Anche Elle a volte faceva paura, era così simile alla dottoressa Grace per certi aspetti, che potevano essere madre e figlia. Ora che ci pensavo... la dottoressa aveva una figlia che viveva con il suo ex marito ma non l'avevo mai vista e non mi ero mai interessato a lei, sapevo solo che avevamo la stessa età.
Poco prima di pranzo avvisai Elle che dovevo andare in infermeria per un controllo di routine con il mio medico, nulla di grave le dissi, non volevo che si preoccupasse ulteriormente, anche se mi osservò uscire dalla stanza con aria preoccupata.
Quando arrivai in infermeria, la dottoressa Grace mi visitò con cura dicendomi che al momento ero stabile ma non dovevo agitarmi e né stressarmi, come se non lo sapessi già.
Poco prima di uscire dall'infermeria suonò la campanella che annunciava la pausa pranzo, così mi affrettai a raggiungere la mia classe per andare a pranzo con Ella nella oramai nostra stanza segreta. Quando quasi raggiunsi la mia classe notai un gruppo fermo davanti all'aula. Cosa stava succedendo?
Mi avvicinai per dare un occhiata.
C'era una ragazza che se la stava prendendo con qualcuno ma non riuscivo a vedere. Non so il perché ma avevo una strana sensazione che non mi faceva oltrepassare la folla per andare in classe e ignorare il tutto. Era come se qualcosa mi trattenesse qui.
Mi avvicinai ancora di più per ascoltare e vedere meglio.
"Sei solo una stupida", inveiva la ragazza di spalle. Evidentemente se la stava prendendo con una ragazza, ma ancora non riuscivo a vederla, c'era troppa gente davanti che mi ostacolava la vista. "Per colpa tua sono finita nei guai e i miei genitori mi hanno severamente punita, ti rendi conto della gravità della situazione?". Mi sentivo così strano, perché? La ragazza fece un passo avanti afferrando l'altra per la giacca e spostandola di lato, fu lì che vidi che colei che era stata presa di mira, la vittima, era ben che meno la mia Elle. Fui invaso da una rabbia mai sentita prima. Dentro stavo ribbollendo. "Credi davvero che se ti dai una sistemata lui si accorga di te, che ti trovi interessante?", rise, "Per lui sei solo un passatempo, un gioco. A lui non importa niente di te, tu sei il nulla e lui è il capo". Adesso era troppo! 
Con passo lento mi avvicinai a loro. Tutti si accorsero finalmente della mia presenza e indietreggiarono spaventati. Elle mi guardò con occhi spaventati e supplichevoli, intanto la ragazza accorgendosi di me si voltò. Appena realizzò chi fossi sgranò gli occhi stupita e lasciò andare Elle.
"Cosa stai facendo?", mi rivolsi alla ragazza con voce bassa e minacciosa, la mia rabbia era quasi incontenibile.
"Insegno alla nuova arrivata come stanno le cose e la scala sociale".
Mi avvicinai a lei in modo minaccioso. "Io sto in cima e tu, stai più in basso di uno scarafaggio". La ragazza tentennò sotto shock non sapendo cosa dire, aprì la bocca più volte senza emettere alcun suono. La scansai di lato per prendere Elle da un fianco e stringerla a me in modo protettivo, per poi rivolgermi a tutti i presenti: "Chiunque altro osa prendersela con lei dovrà vedersela con me, lei è mia, solo mia, e nessuno deve osare prenderserla con lei in alcun modo, chiaro?". Tutti annuirono alle mie minacce. "E adesso, andate!", urlai. "Tu no", dissi alla ragazza che se la stava prendendo prima con Elle. L'avevo riconosciuta, era quella che le aveva dato la pallonata in faccia. Ancora lei!
"Sì?", disse intimorita.
"Provvederò io stesso a renderti la permanenza qui un vero inferno". La ragazza deglutì alle mie minacce prima di scappare via.
"Sam...". Ero arrabbiato con me stesso, non sarei dovuto andare a quella stupida visita e lasciarla da sola in balia di quella. Avevo voglia di urlare e sfogare la mia rabbia ma dovevo trattenermi dal farlo, il mio stupido cuore malato me lo impediva, e poi non volevo far spaventare un'altra volta la mia Elle. "Sam...". Mi voltai per guardarla appena mi chiamò per l'ennesima volta. Mi guardava con sguardo preoccupato.
"Cosa c'è?". La mia voce era bassa.
"Lascia perdere, non ne vale la pena".
Frustrato l'afferrai per le braccia in modo brusco avvicinandola a me. "Per te ne varrà sempre la pena".
"Sam...".
"Sei la mia fidanzata e devo proteggerti e renderti felice, lo capisci?". Annuì poggiando la mano sulla mia guancia sinistra e carezzandomi con il police, chiusi gli occhi beandomi di quella sensazione.
"Non piangere però". Aprii gli occhi non capendo il senso delle sue parole. Stavo piangendo? Non me n'ero reso conto.
Mi asciugai le lacrime ricomponendomi. "Andiamo a pranzo, il mio stomaco reclama e poi ho fatto preparare una crostata di ciliegie".
"È la mia preferita", mi sorrise.
"L'avevo intuito", le feci l'occhiolino.
Alzò gli occhi al cielo. "Con te è impossibile mantenere dei segreti", ridacchiò.
"Hai ragione, sei un libro aperto", risi a mia volta. "Su, andiamo, ho fame".

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Capitolo 19
*** Eleonora X ***


Era passato un mese da quando io e Sam c'eravamo incontrati al parco. Non avrei mai creduto e pensato che in così poco tempo mi potesse capitare qualcosa del genere, ma era accaduta. Facevamo tutto insieme, eravamo l'ombra l'uno dell'altra, seguivamo anche le lezioni extra insieme. A volte, quando mamma aveva dei lunghi turni al lavoro lui si fermava a dormire la sera. Mi piaceva dormire con lui, stare stretta tra le sue braccia e sentire il suo calore confortante e il suo battito del cuore irregolare. Lui non mi faceva più sentire sola e pensavo anche di essermi perdutamente innamorata di lui. Ero persa. Una piccola parte di me credeva, sperava, che anche lui provasse le stesse cose verso di me. A volte lo beccavo a fissarmi, mi gurdava in un modo così unico, mi faceva sentire amata, ma forse era solo frutto della mia fervida immaginazione che mi giocava uno brutto scherzo. Lui era bello e tenebroso e tutte lo volevano ma era mio e lo sapevo, era certo che lo fosse, me lo diceva un infinità di volte, specialmente quando le ragazze lo guardavano con la bava alla bocca. In questo mese erano cambiata tante cose, non solo nella mia vita a causa di Sam, anche lui era cambiato. Di solito si interessava solo a se stesso ma adesso no, non solo faceva ruotare il suo mondo intorno a me ma aveva anche imparato a prestare attenzione agli altri e ad essere gentile. Aveva anche acconsentito a lasciar in pace la ragazza che se l'era presa con me, fortunatamente non era tornata più all'attacco. L'unica cosa che non era cambiata era il fatto che i nostri genitori non sapessero di noi. Volevo tanto parlare alla mamma di Sam ma lei non l'avrebbe approvato, se solo lo avesse conosciuto, ero certa che avrebbe cambiato idea all'istante, lui era così gentile e romantico con me. Ancora non mi aveva dato il nostro primo bacio perché aspettava il momento giusto, qual era lo sapeva solo lui. Però vedevo che per lui era difficile trattenersi dal baciarmi, specialmente quando mi mordevo il labbro, lo faceva impazzire. Non vedevo l'ora di baciarlo e assaporare quelle labbra al sapore di cioccolata fondente.
Oggi il professore di storia era più noioso del solito, così avevo dato il permesso a Sam di dormire, ultimamente era più stanco del solito, mi preoccupava, gliene avevo anche parlato ma lui mi aveva detto che andava tutto bene e che era normale, sapevo che mi mentiva solo per non farmi preoccupare. Cosa mi nascondeva? Lui pretendeva che gli dicessi tutto, e così facevo, però lui no, facendomi solo preoccupare ulteriormente.
Lo sentii agitarsi nel sonno, qualche volta lo faceva, probabilmente aveva degli incubi. Allungai una mano per accarezzargli i capelli, lo faceva calmare quando si agitava nel sonno. Aprì gli occhi biascicando un ciao in mia direzione per poi stiracchiarsi per svegliarsi del tutto.
"Hai dormito per un bel po', tra un po' suonerà l'ultima campanella del giorno".
"Fantastico, ho fame". Mi fece ridere come al solito, lui aveva sempre fame.
"Ma voi maschi avete lo stomaco senza fondo per caso?".
"Anche voi ragazze avete sempre appetito, solo che siete più discrete", mi disse facendomi l'occhiolino.
"Sei il solito". Non riuscivo a smettere di sorridere, ultimamente con lui era sempre così.
"Peccato che non possiamo pranzare insieme, oggi c'è tua madre a casa", disse sospirando, era sempre così quando non potevamo stare insieme. Triste.
"Non ti preoccupare, puoi sempre intrufolarti nella mia stanza mentre lei va a letto".
"Sì, ma mi mancherai...".
"Puoi sempre disturbarmi con i tuoi messaggi".
Si accogliò. "Io non ti disturbo con i miei messaggi", affermò.
"Si come no. L'altra volta mi hai riempito di messaggi, che hanno fatto impazzire il mio povero telefono".
"Solo perché tu non mi rispondevi", si difese.
"Sam, stavo facendo la doccia e te l'avevo anche detto e tu mi davi già per dispersa".
"Non ci vuole mica una vita", si lamentò.
"Scusa tanto se ho i capelli lunghi e ci vuole una vita per asciugarli e renderli così", li indicai mentre protestavo.
Alzò gli occhi al cielo esclamando: "Ragazze".

Come al solito Sam mi lasciò alla fermata dell'autobus, che era a due passi da casa mia, cosicché mamma non vedesse che scendevo da un'auto che costava più di casa nostra.
Entrata a casa, salutai mamma che stava sperimentando in cucina e non mi prestò attenzione, così salii in camera per posare la cartella e cambiarmi.
Quando mi fui cambiata, scesi giù in cucina trovando il pranzo in tavola, be', si faceva per dire, più che altro era una poltiglia informe, chissà cos'era.
"Com'è andata a scuola, tesoro?", intavolò la solita noiosa conversazione mia madre.
"Bene", dissi dopo aver inghiottito a fatica la poltiglia, era orribile.
"Brava, continua così".
"Lo farò". E di solito la nostra conversazione finiva qui.
"Hai molto da studiare?", mi chiese, il che mi stranii.
"No, solo ripasso, perché?". Qui c'era puzza di bruciato.
"Nulla di che, solo...", era nervosa e si agitava sulla sedia, "stasera andremo a cena da quel mio amico, sai, il preside della tua scuola". Cosa? No, non potevo andare da nessuna parte, stasera dovevo stare con il mio Sam, mi aspettava.
"Devo proprio venire?".
"È solo una cena".
Ci pensai su. "Per che ora torneremo a casa?".
"Verso le dieci, perché?", mi chiese sospettosa.
"Perché non voglio fare tardi, e poi domani ho scuola".
"Giusto, fai bene ad andare a letto presto". Aveva abboccato, in realta dovevo avvisare Sam, nel caso avessi fatto tardi e non mi avesse trovata in stanza. Dopo quella discussione nessuna delle due proferi parola.
Dopo aver ingolato a fatica il pranzo, corsi in camera mia per informare Sam della faccenda.

Mia madre vuole farmi conoscere il suo amico di vecchia data, così stasera andremo a cena da lui, ma saremo a casa per le dieci.
Aspettai con impazienza una sua risposta e sperai che non se la prendesse.

Non ti preoccupare, anch'io sono stato costretto ad una cena, mio padre ha invitato il mio medico, come se non lo vedessi già abbastanza.

Almeno tu non sei costretto a cenare con qualcuno che non conosci.

Ehm, veramente...
Cos'era quello, cosa mi stava nascondendo?

Sam, cosa mi devi dire?

Verrà anche la figlia del mio medico, che non ho mai visto, vogliono che la conosca.
Sentii una punta di gelosia mentre leggevo il suo messaggio. Avevo un brutto presentimento, e se stessero combinando un matrimonio? E se lei fosse stupendamente bella?

Vi stanno combinando le nozze per caso?

Certo che no, e poi la dottoressa la pensa come tua madre al riguardo, non farebbe mai una cosa del genere. Secondo una mia deduzione, vogliono che faccia amicizia con lei.
Oh ma lei appena lo vedrà vorrà più che un'amicizia da lui.

Ti salterà al collo quella quando ti vedrà.

Qui qualcuno è geloso per caso?
Ero stata beccata. Sì, lo ero, ma con lui non l'avrei mai ammesso, e poi me lo avrebbe rinfacciato fino alla fine dei miei giorni, lui non dimenticava mai.

No, mio caro, solo che le mie cose non si toccano.

Sei gelosa. Tranquilla, non voglio niente da lei e poi ho te e mi basti, non potrei avere di meglio.
Come al solito era irritante e adorabile allo stesso tempo.

Ti aspetto per le dieci.

Ci sarò ❤
Ultimamente era diventato davvero dolce.

Mi preparai per la famosa cena, optai per un vestito bianco e nero semplice e formale con la gonna apia, a Sam sarebbe piaciuto. Sospirai pensando a lui, mi mancava. Chissà che cosa avrebbe indossato. Così mi venne una brillante idea. Andai alla ricerca del mio telefono per scattarmi una foto e mandargliela.

Vuoi farmi morire?
Mi scrisse qualche minuto dopo.

Perché, non ti piace?

Mi fa impazzire, in senso buono però.
Sorrisi della sua affermazione, gli piaceva il vestito che avevo scelto. Magari avrei potuto tenerlo stasera per lui, chissà...

Tu cosa indosserai per il tuo appuntamento galente?
Lo presi in giro.

Non è il mio appuntamento galante, consideralo più un sequestro di persona.
Leggendo il suo messaggio scoppiai a ridere, era un po' esagerato, ma almeno sapevo che non si sarebbe interessato a lei.

Tranquillo, la serata passerà in fretta, e poi sarai tutto per me.

Come sempre.
Mi mandò la foto di ciò che avrebbe indossato per la cena. Come sempre era vestito di scuro. Indossava dei jeans neri e una camicia nera con le maniche arrotolate, aveva anche una cravatta grigia e un gilet dello stesso colore. Come faceva ad essere sempre cosi bello ed elegante?

Adesso sei tu che vuoi far morire me.

Non sia mai, mia principessa.

Mentre eravamo in macchina mamma era nervosa, non faceva che agitarsi e lanciarmi occhiate fugaci, chissà cos'aveva. Da casa nostra non fu lunga la strada, eravamo entrate nella zona più lussuosa della città, le ville erano immense. Camminammo ancora per un po', lasciandoci alle spalle quelle magnifiche ville, fino a ritrovarci dinanzi ad una reggia. Era la ville più grande che avessi mai visto, con un giardino altrettanto immenso e ben curato e di un verde brillante. Non pensavo che il preside fosse così ricco, ma vista la scuola in cui andavo non c'era da meravigliarsi. Non vedevo l'ora di entrare lì dentro. Con la macchina passammo un gigantesco cancello in ferro battuto che si aprì al nostro passaggio, per poi chiudersi alle nostre spalle quando lo attraversammo. Ad attenderci c'era un uomo ben vestito di mezza età, che fosse il preside?
"Buona sera", ci disse cordiale, "penserò io alla vostra auto, il mio padrone vi sta' attendendo". Mamma gli diede le chiavi della sua adorata auto ecologica, che lui prese. Non l'avevo notato prima, ma portava dei guanti bianchi. Salì in auto per portarla chissà dove.
Prima di entrare nel grande portone di legno riccamente intagliato, mamma mi afferrò per un braccio fermandomi. "Prima che entriamo, devi sapere una cosa". La guardai non capendo. "Non ceneremo solo con il mio amico ma ci sarà anche suo figlio con noi".
"Figlio?".
"Sì, avete la stessa età, pensa". Cos'aveva in mente?
"Mamma, mi vuoi combinare un matrimonio per caso?". Era impazzita per caso?!
"Ma certo che no... solo che lui è un tipo riservato, ma soprattutto è molto solo". Era molto triste quando mi disse questa cosa.
"Vuoi che diventi sua amica?".
"Non ti sto obbligando, ma magari, se ci provassi, te ne sarei grata".
"Mamma, non si può obbligare la gente ad esserti amica", eslamai indignata, e poi se Sam l'avesse scoperto mi avrebbe uccisa con le sue stesse mani.
"Tu provaci, ok?".
"Ok, mamma", acconsentii rassegnata.
"Un ultima cosa". E adesso che altro c'era?
"Cosa?".
"Tu e lui frequentate la stessa classe". Da quando andavo in classe col figlio del preside? Io non ne sapevo niente, o semplicemente ero troppo presa dal mio Sam per essermene resa conto. Aspetta!
"Mamma! Tu è il preside a che gioco state giocando?". Cos'avevano in mente?
"Te l'ho detto, lui è molto solo", mi disse innocentemente. Non potevo avere una madre più normale, no eh?
"Entriamo, prima che cambi idea e giri i tacchi".
Ad aprirci e accoglierci fu un altro uomo vestito altrettanto bene, però lui aveva qualche anno in più rispetto all'altro.
"Buona sera, prego seguitemi, il mio padrone vi sta' attendendo".
L'interno della villa era abbagliante. La sua bellezza e maestosità ti abbagliava. Mi sentivo così piccola, inutile e insignificativa qui dentro. Era tutto più bello e lussuoso rispetto alla scuola, ma soprattutto, più grande.
"Benvenute mie care". A riportarmi alla realtà fu una voce di un uomo, era così calda e accogliente. Quando lo vidi restai di stucco. Era un uomo affascinante e con classe, sicuramente era lui il padrone di casa.
"Finalmente ti conosco Eleonora, tua madre mi ha parlato tanto di te, ha sempre detto che sei una ragazza brillante". In quel momento mi sentii a disagio, non ero abituata a certe cose. Continuava a sorridermi e aspettarsi una risposta da me, che non arrivò. Mi soffermai a guardare i suoi occhi che catturarono la mia attenzione, erano uguali a quelli di Sam, altrettanto blu e intensi.
"Scusala tanto, è un po' timida", si intromisse mamma.
"Oh, nessun problema", si rivolse a lei guardandola con occhi sognanti.
Li osservai gurdarsi l'un l'altro con occhi sognanti. Mi ero persa qualcosa per caso?
Mi schiarii la voce per attirare la loro attenzione, la situazione era diventata piuttosto imbarazzante. Accorgendosi della situazione imbarazzante, staccarono il loro contatto visivo.
"Oh, che maleducato, io sono, Richard Edwards decimo". Cosa?! Decimo! Era così antica la sua famiglia? Sorrise divertito vedendo la mia espressione stupita. "Noto che tua madre non ti abbia raccontato nulla sulle origini della mia famiglia, e tu non ti sia documentata a quanto pare". Mi ero persa qualcosa? È vero, non mi ero documentata, solo perché avevo avuto altro per la testa e questo qualcuno aveva un nome.
"Ehm... no, signore", risposi imbarazzata.
"Te la racconterò io allora. Prima però lascia che ti presenta mio figlio". Probabilmente era Richard Edwards undicesimo.
Si allontanò dirigendosi verso le scale per salire ai piani superiori. Quella scala era stupefacente.
"Mamma", attirai la sua attenzione, "tu e il preside, state insieme per caso?", le chiesi senza giri di parole.
Fece una faccia da chi era appena stata beccata in flagrante. "Ma no, cosa vai pensando, io e lui siamo solo amici". Si come no, a me non la dava di certo a bere.
"Ho visto come vi guardavate".
"Io non lo stavo guardando in nessun modo... aspetta, lui come mi stava guardando?". Prima che le potessi rispondere sentimmo qualcuno scendere le scale, era il preside di ritorno.
"Mia cara, lascia che ti presenti mio figlio, Sam". Indicò in cima le scale e lì credetti di morire. Era Sam. Il mio Sam. Non era possibile, lui non poteva essere il figlio del preside, non mi aveva mai detto niente.
Appena mi vide mi lanciò uno sguardo indecifrabile ma non disse nulla.
"Sam, lei è Eleonora, la figlia di Grace", mi presentò a lui senza sapere che mi conosceva perfettamente. "E lui è Sam, mio figlio", si rivolse a me ignaro di tutto.
Ci fu un attimo di silenzio. Io e Sam ci guardammo dritto negli occhi. Quel momento era in surreale, a che gioco stavano giocando tutti? Era stato tutto pianificato? Volevano che facessi amicizia con Sam, a quale scopo poi? Non stavo più capendo niente, era come se stessi in uno stato di confusione. "Suppongo che forse vi conosciate già, visto che siete compagni di classe, ma conoscendo mio figlio, lui neanche ti avrà degnata di uno sguardo", rise a quell'affermazione. Quanto si sbagliava, lui mi degnava di uno sguardo e anche più, ero sua. "Ritornando a noi, facciamo un giro della casa, in attesa della cena, ho fatto preparare qualcosa di vegano", si rivolse a mia madre guardandola come uno innamorato cotto.
Notai che Sam alzò gli occhi al cielo, probabilmente sapeva qualcosa che io non sapevo.
Ci incamminammo per fare il giro di quella casa immensa, se pensavano di farmi fare l'intero giro della villa si erano rivolti alla persona sbagliata, sarei morta stecchita. Intanto mamma e il preside parlavano fra loro escludendo me e Sam. Quei due erano proprio cotti.
Improvvisamente mi sentii spingere di lato contro una parete e una mano mi tappò la bocca per non farmi gridare. Era Sam. Mi lasciò andare, per poi dirmi: "A che gioco state giocando?". Era furente, non lavevo mai visto così.
"Non sto giocando a nessuna gioco", gli sussurrai. Non sapevo niente di questa storia.
"Non ti credo", mi guardò con odio e io mi sentii morire. "Mi hai mentito...". Mi lasciò andare per tornare dai nostri genitori e far finta di niente, loro nel frattempo non si erano accorti di nulla.
Rimasi lì dov'ero. Sam ce l'aveva con me ma io non avevo fatto nulla, non sapevo niente di niente e adesso lui mi odiava.
Camminammo per un po' ma io non prestai attenzione all'arredamento o alle parole del signor Edwards, ero troppo presa dal mio dolore interiore. Non potevo crederci, mia madre aveva appena distrutto il mio primo amore, aveva fatto si che lui mi odiasse, e io non avevo nessuna colpa.
Dopo un po' ci recammo nell'immensa sala da pranzo per cenare. Mi accomodai accanto a mia madre e Sam si posizionò proprio di fronte a me, lanciandomi sguardi taglienti, volevo sparire.
Ci portarono la cena vegana ed era elegante e ben curata come quella volta che andai in quel ristorante dove mi aveva portata Sam, era un bel ricordo oramai lontano.
"Allora, Eleonora", attirò la mia attenzione il signor Edwards ma io non avevo voglia di parlare e neanche di mangiare, "come ti trovi nella nuova scuola?".
"Bene", dissi inespressiva.
"Mi fa piacere. E dimmi, tu e Sam avete mai parlato?". Quella domanda mi tolse il respiro. Guardai Sam e vidi che aveva un espressione contrita, stava per esplodere da un momento all'altro, me lo sentivo.
"Ecco, io...". Non sapevo cosa dire.
"Immagino che non ci sia mai in classe o dorme come al suo solito", rise, "e poi lui non parla mai con nessuno...", sospirò questa volta.
Un rumore improvviso ci fece sobbalzare tutti. Sam si era alzato dalla sedia facendola cadere a terra e sbattendo le mani sul tavolo con forza, facendo tremare tutto. "A che gioco state giocando tutti voi?", disse a denti stretti, era decisamente furioso.
"A nessuno, Sam", gli disse mia madre a disagio, era una pessima bugiarda.
È l'ora della verità, mamma.
"Oh, ma davvero? Mi credette davvero così stupido?!", urlò.
"Sam, sta' calmo", intervenne suo padre.
"Stare calmo... Stare calmo! Come pretendi che stia calmo!", prese un gran respiro prima di proseguire, "Avete organizzato tutto questo alle mie spalle, io non ho bisogno di un'amica, sto morendo, fatevene una ragione!". Cosa? No, non era vero, lui non stava morendo. Il mio Sam. No. No. Lui non poteva morire. No. "Tu", mi indicò con disprezzo e ansimando, "mi fidavo di te, e cos'hai fatto! Mi hai mentito per tutto questo tempo! Eri d'accordo con loro e sapevi tutto fin dall'inizio. Sapevi che sto per morire e sai anche che in realtà non sono un ragazzo. Mi fidavo di te, eri la mia fidanzata!", mi urlò contro. Respirava a fatica e aveva una mano sul petto.
"Sam...", si alzò mia madre per andare da lui. Stava per avere uno dei suoi attacchi.
Si accasciò a terra in ginocchio. "Non toccarmi", biascicò a fatica.
Lei non lo ascoltò e si avvicinò comunque. "Hai bisogno di me in questo momento, sono il tuo medico che tu lo voglia o no e non posso lasciarti così in queste condizioni".
"Ti odio", le sussurrò.
"Lo so...". Lo aiutò ad alzarsi con fatica, stava per intervenire il signor Edwards ma lei lo bloccò con un occhiata. "Resta qui con mia figlia, io mi occuperò di tuo figlio". La donna innamorata era sparita lasciando il posto al chirurgo che era in lei. Lui senza protestare acconsentì.
Andarono di là lasciandoci soli.
Andai con il signor Edwards in soggiorno aspettando che mamma tornasse per darci delle notizie, sperai tanto che fossero buone.
"E così, siete fidanzati", attirò la mia attenzione il padre di Sam, la sua non era una domanda ma un affermazione.
"A questo punto lo ero", dissi tristemente.
"Adesso tutto mi è più chiaro...". Cos'era più chiaro? Non capivo. Vedendo la mia espressione rispose alla mia confusione. "Nell'ultimo mese si comportava in modo strano, più del solito... era... felice". Era pensieroso. "Adesso capisco... tutte quelle domande, l'interesse allo studio e le volte che sgattaiolava via di casa, eri tu", mi guardò avendo capito il nesso.
"Sì", risposi semplicemente.
"Non ti preoccupare, gli passerà".
"Lui mi odia". Avevo voglia di piangere.
"No, lui non ti odia, è solo arrabbiato ed è tutta colpa mia e ahimè, anche di tua madre, tu non c'entri", sospirò.
"È vero che lui... sta per morire?". Avevo un groppo in gola.
"Sì, gli restano più o meno cinque mesi". Cosa? No, non era possibile.
"Perché non mi ha mai detto niente?", gli chiesi con le lacrime agli occhi non riuscendo più a trattenerle.
"Semplicemente perché non vuole essere guardato o trattato come uno che sta per morire", mi guardò con tristezza.
"Avrebbe dovuto dirmelo". Ci dovevamo dire tutto e non mi aveva detto la cosa più importante, che stava morendo, come aveva potuto?
"Non è facile, specialmente per lui, detesta essere malato".
"Avrebbe dovuto dirmelo comunque". Lo sentii ridere e non capii il perché, era uscito fuori di testa per caso?
"Sei solo arrabbiata perché non ti ha detto che sta per morire?".
"Certo", risposi non capendo cosa volesse dire.
"E del fatto che in realtà sia una ragazza?". Non mi ero soffermata su questo punto, a malapena lo avevo sentito.
"A me non importa, è e resterà comunque il mio Sam", ed era la pura e semplice verità, lui resterà sempre il mio psicopatico qualunque sia il suo sesso.
Mi sorrise. "Sei la degna figlia di tua madre, altrettanto meravigliosa". Arrossii a quel complimento. "E capisco perché Sam abbia perso la testa per te...". Era pensieroso.
"Scusi la domanda", lo distrai dai suoi pensieri, "mi può spiegare questa storia, cosa avete architettato lei e mia madre?".
Sospirò. "Sam è sempre stato un tipo solitario, non ha mai avuto degli amici o giocato con gli altri bambini, e poi ha passato gran parte della sua vita in ospedale", fece una pausa. "Tua madre pensava che potessi fare amicizia con lui, ma come le ho detto, lui non avrebbe accettato la cosa, così pensammo di non dirvi nulla e lasciare che foste stati voi a conoscervi e a fare amicizia".
"E questa cena?".
"Visto che era passato un mese e nessuno dei due aveva detto di aver fatto amicizia, anche se Sam non me lo avrebbe detto comunque", affermò ed era vero, "abbiamo pensato di cambiare i piani e di farvi conoscere ufficialmente".
"Tutta questa storia è assurda".
"Lo so".
"Non siete stati voi a farci conoscere ma il destino", affermai.
"Non capisco", mi guardò con aria confusa.
"Io e Sam ci siamo incontrati prima".
"Prima?".
"Sì, al parco". Nel nostro posto speciale, dov'era iniziato tutto. Nonostante i nostri genitori avessero pianificato il nostro incontro, non avevano messo in conto che il destino li aveva battuti sul tempo.
"Il destino, eh?", sorrise.
"Eccomi". Era mamma ed era da sola.
Io e il signor Edwards ci alzammo dal grande sofà per andare da lei.
"Come sta?", gli chiese il signor Edwards preoccupato.
"Ha bisogno di riposo, gli ho dato delle medicine per farlo tranquillizzare, dormirà per un po'". Anche lei era preoccupata.
"Grazie".
"Ho fatto il mio lavoro". Si guardarono per qualche attimo negli occhi. "Eleonora, è meglio se andiamo a casa", si rivolse a me.
"Lui... ti ha detto niente di me?".
Sospirò. "A casa mi dovrai spiegare un paio di cose, signorina". Cosa, voleva farmi la predica dopo quello che aveva combinato? E no!
"Non ti devo nessuna spiegazione, quella sei tu", l'accusai.
"Non ti devo un bel niente", mi disse portandosi le mani sui fianchi.
"Ah no? Per colpa tua Sam ce l'ha con me, è convinto che gli abbia mentito e tu sai che non è così".
"Tu hai mentito a me. Quando avevi intenzione di dirmi che ti eri fidanzata?".
"E tu quando avevi intenzione di dirmi che Sam era il figlio del tuo amico e che avevate combinato questa cosa?", le urlai contro.
Mamma stava per ribattere ma il signor Edwards si intromise. "È meglio prendere un respiro e calmarsi".
"Hai ragione, Richard". Eh? Il suo cambio di umore fu repentino, da furente a tenero coniglietto. Quell'uomo esercitava un influenza positiva su di lei, meglio per me.
"Guarda il lato positivo, Grace. Sam si è fidanzato, noi neanche speravamo che si trovasse un amico o un'amica".
"Hai ragione su questo punto, ma ci hanno tenuto all'oscuro".
"E noi non l'abbiamo fatto? Siamo altrettanto colpevoli, e poi penso che si siano fidanzati da qualche giorno, forse non ne hanno avuto il tempo".
"Hai ragione".
"Ehm, ecco...", attirai la loro attenzione e mi guardarono con interesse. "Io e Sam siamo fidanzati da quasi un mese". A quella confessione mamma sgranò gli occhi dallo stupore.
"Cosa!", urlò, "Ti credevo più matura, cosa ti è passato per la mente?".
"Mamma, tu non capisci!", le urlai a mia volta.
"Cos'è che non capisco?", chiese esasperata.
"Che mi sono perdutamente innamorata di lui". Le lacrime tornarono a scorrere prepotentemente.
"Sciocchezze, sei troppo giovane, non sai cosa vuoi".
"Mamma! Io voglio lui, che tu lo voglia o no". Mi guardò per qualche attimo con le braccia incrociate e battendo il piede sul pavimento.
"A quanto pare la cosa ci è sfuggita di mano", si intromise il padre di Sam.
"A quanto pare, ma sai com'è Sam, lui ama fare esperimenti", disse lei. Cosa! Come poteva pensare a questo, io non ero uno dei suoi esperimenti.
"Io non sono uno stupido esperimento, mamma!".
"Non puoi saperlo".
"Tu non capisci...". Le lacrime continuarono a scendere, non davano segno di smettere.
"Tu non lo conosci".
"Ti sbagli, lo conosco meglio di voi!". Detto questo, girai i tacchi per andarmene via, non potevo stare un attimo di più in quella casa e con mia madre.
"Dove stai andando?", mi urlò dietro.
"A casa".
"Da sola?".
Mi girai per guardarla. "Vado da papà, per stasera preferisco stare da lui, e non ti scomodare ad accompagnarmi, so a chi chiedere un passaggio". Mi voltai per andarmene via.
Uscii fuori respirando a pieni polmoni l'aria della sera e urlai a pieni polmoni. Ero arrabbiata. Fuoriosa. Come aveva potuto farmi questo, era mia madre! Per questa sera non volevo vederla, ce l'avevo troppo con lei. Pensava davvero che fosse una stupida cotta adolescenziale? Be', si sbagliava di grosso, io non ero lei. Ero veramente innamorata di Sam. Prima di lui non mi ero interessata a nessuno, lui aveva stravolto il mio mondo. Io ero sua.

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Capitolo 20
*** Sam X ***


Era passato un mese da quando io e Eleonora c'eravamo incontrati al parco. Non avrei mai creduto e pensato che in così poco tempo mi potesse capitare qualcosa del genere, ma era accaduta. Facevamo tutto insieme, eravamo l'ombra l'uno dall'altra, seguivamo anche le lezioni extra insieme. A volte, quando sua madre aveva dei lunghi turni al lavoro mi fermavo a dormire da lei. Mi piaceva dormire con lei, tenerla stretta fra le braccia e sentire il suo calore confortante. Lei riempiva le mie giornate cupe, non mi faceva più pensare alla morte e mi ero perdutamente innamorato di lei. Una piccola parte di me credeva, sperava, che anche lei provasse le stesse cose verso di me. Amavo osservarla, specialmente mentre dormiva, era bellissima ed era solo mia, e io ero totalmente suo. In questo mese ero cambiato, non m'interessavo più solo ed esclusivamente a me stesso, non facevo più ruotare il mondo intorno a me ma intorno a lei. Avevo anche imparato a prestare attenzione agli altri e a essere gentile, cosa strana ma vera, ed era solo merito suo. Avevo anche acconsentito a lasciar in pace quella ragazza per lei, se fosse stato per me le avrei reso la vita scolastica un inferno, l'avrei fatta impazzire, fortunatamente, per lei, non era tornata più all'attacco. L'unica cosa che non era cambiata era che i nostri genitori non sapevano di noi e a me stava bene così, mi piaceva che fosse una cosa solo nostra.
Ultimamente ero più stanco del solito, il mio cuore stava peggiorando, era sempre più affaticato, anche Elle si era accorta che dormivo più spesso del solito e la cosa l'aveva preoccupata parecchio, io le avevo semplicemente detto che andava tutto bene e che era normale, anche se non era così, io stavo morendo.

Era tutto verde e alle mie spalle c'era un grande albero. Ero nel parco. Nel mio rifugio segreto, dove papà e la dottoressa Grace non sapevano che mi rifugiavo per piangere. Cosa ci facevo qui?
C'era vento, vento che carezzava la mia pelle gelido. Mi guardai attentamente ed ero senza vestiti, vesti che mi nascondevano, nascondevano il mio essere, il vero me.
"Come hai potuto!". Mi voltai ed era Elle. Mi guardava con le lacrime agli occhi.
"Ti posso spiegare...".
"No! Come hai potuto mentirmi, nascondermi questo! Non ti voglio più vedere!". Si voltò andandosene via.
Volevo raggiungerla ma non potevo muovermi.
"Elle! Aspetta Elle, posso spiegarti!".

Sentii il tocco familiare di Elle che mi fece destare dal mio incubo che mi tormentava da quasi un mese, era sempre lo stesso, ed era tremendo. Aprii gli occhi biascicandole un ciao, per poi stiracchiarmi per svegliarmi del tutto.
"Hai dormito per un bel po', tra un po' suonerà l'ultima campanella del giorno", mi informò.
"Fantastico, ho fame". Rise della mia affermazione.
"Ma voi maschi avete lo stomaco senza fondo per caso?".
"Anche voi ragazze avete sempre appetito, solo che siete più discrete", le faci l'occhiolino.
"Sei il solito".
"Peccato che non possiamo pranzare insieme, oggi c'è tua madre a casa", sospirai a quella triste realtà, mi sarebbe mancata terribilmente.
"Non ti preoccupare, puoi sempre intrufolarti nella mia stanza mentre lei va a letto". Ovviamente lo avrei fatto.
"Sì, ma mi mancherai...". Terribilmente.
"Puoi sempre disturbarmi con i tuoi messaggi". Cosa? Io non disturbavo nessuno con i miei messaggi, benché meno lei.
"Io non ti disturbo con i miei messaggi".
"Si come no. L'altra volta mi hai riempito di messaggi, che hanno fatto impazzire il mio povero telefono".
"Solo perché tu non mi rispondevi", mi difesi.
"Sam, stavo facendo la doccia e te lo avevo anche detto e tu mi davi già per dispersa". Non ci voleva mica più di un'ora per fare una doccia.
"Non ci vuole mica una vita".
"Scusa tanto se ho i capelli lunghi e ci vuole una vita per asciugarli e renderli così", li indicò.
Alzai gli occhi al cielo per la disperazione. "Ragazze", eclamai esasperato.
Come al solito la lasciai alla fermata dell'autobus, che era a due passi da casa sua, cosicché sua madre non vedesse che scendeva da un'auto di uno sconosciuto e le facesse delle domande.
Tornando a casa trovai mio padre. Oggi era tornato prima dal lavoro, chissà il perché. Sperai tanto che non se ne uscisse fuori con una delle sue trovate da padre e figlio.
Mentre pranzavamo era nervoso, si agitava sulla sedia e mi lanciava sguardi fugaci, sicuramente doveva dirmi qualcosa e non mi sarebbe piaciuto.
"Cosa devi dirmi?", incalzai.
"Ehm, è così evidente?", mi chiese in imbarazzo.
"Sei tu ad essere così ovvio".
"Stasera verrà a cena la dottoressa Grace", mi informò. Non c'era nulla di strano, dopotutto la conoscevo da una vita ed era il mio medico.
"Le vuoi fare la proposta per caso?". Finalmente si era deciso a farsi avanti.
"N-no".
"E allora cosa?", chiesi confuso.
"Verrà anche sua figlia".
"Oh... ma non stava col padre?".
"Sì, ma lui si è risposato e sua figlia ha deciso di andare a vivere con lei". Probabilmente non le piaceva la nuova moglie del padre, anche Elle si trovava nella stessa situazione.
"Capisco".
"Abbiamo pensato di fartela conoscere".
"Sai che non m'interesso agli altri". E poi adesso c'era Elle nella mia vita, non potevo interessarmi a lei.
"Lo so, ma non potresti fare un piccolo sforzo ed essere gentile con lei?", mi pregò.
"Va bene", mi arresi.
"Grazie, Sam". E adesso come lo avrei detto a Elle? Mi avrebbe staccato la testa.
Finito di pranzare salii in camera mia prendendo un libro per leggerlo comodamente sdraiato sul letto.
Come avrei detto a Elle che avrei cenato con un estranea invece di andare da lei? Chissà poi per quanto si sarebbero trattenute. Quando si trattava di mio padre la dottoressa non conoscevo arari, perdeva la cognizione del tempo, e adesso la capivo... dopo aver conosciuto Elle era lo stesso per me.
Sentii una vibrazione che mi destò dai miei pensieri. Era il mio telefono, mi era arrivato un messaggio da parte di Elle.

Mia madre vuole farmi conoscere il suo amico di vecchia data, così stasera andremo a cena da lui, ma saremo a casa per le dieci.
Non ci potevo credere, anche lei avrebbe avuto una cena stasera, il destino sapeva essere strano a volte.

Non ti preoccupare, anch'io sono stato costretto ad una cena, mio padre ha invitato il mio medico, come se non lo vedessi già abbastanza.

Almeno tu non sei costretto a cenare con qualcuno che non conosci.
E adesso come le dicevo che dovevo cenare anche con una ragazza che non conoscevo? Che dilemma.

Ehm, veramente...

Sam, cosa mi devi dire?
Era la mia fine, me lo sentivo.

Verrà anche la figlia del mio medico, che non ho mai visto, vogliono che la conosca.
Aspettai con ansia la sua risposta aspettandomi il peggio.

Vi stanno combinando le nozze per caso?
Eh? A cosa andava a pensare?

Certo che no, e poi la dottoressa la pensa come tua madre al riguardo, non farebbe mai una cosa del genere. Secondo una mia deduzione, vogliono che faccia amicizia con lei.
Come se fosse fattibile.

Ti salterà al collo quella quando ti vedrà.
Eh? Non credo proprio, e poi sicuramente sua madre l'avrà messa al corrente della mia situazione, situazione che Elle non sapeva e non dovrà sapere mai, non volevo che il mio incubo si averasse.

Qui qualcuno è geloso per caso?
La punzecchiai come al solito. 

No, mio caro, solo che le mie cose non si toccano.
Beccata!

Sei gelosa. Tranquilla, non voglio niente da lei e poi ho te e mi basti, non potrei avere di meglio.

Ti aspetto per le dieci.

Ci sarò ❤
Ero proprio cotto.

Mi preparai per la famosa cena e l'imminente incontro con la figlia della dottoressa Grace, chissà se somigliava alla madre. La cosa più strana era che in tutti in questi anni non l'avevo mai vista, nemmeno in foto. Forse semplicemente la dottoressa sapeva che non mi sarei interessato a lei. Il punto era: perché proprio adesso volevano che la conoscessi?
Andai nella mia cabina armadio optando per una camicia nera e arrotolai le maniche, abbinando una cravatta grigia e un gilet dello stesso colore, infine indossai dei jeans neri. Ero abbastanza elegante ma non troppo. Pettinai per bene i capelli ed ero pronto per la cena.
Sentii la tasca dei jeans vibrare, era un altro messaggio da parte di Elle, mi aveva mandato una foto. Appena visualizzai la foto che mi aveva inviato, rimasi letteralmente senza fiato. Aveva deciso di indossare un vestito bianco e nero semplice con una gonna apia che lasciava intravedere le sue splendide gambe. Era bellissima.
Vuoi farmi morire?

Perché, non ti piace?
Eccome se mi piaceva, anche troppo oserei dire.

Mi fa impazzire, in senso buono però.

Tu cosa indosserai per il tuo appuntamento galente?
Appuntamento galante?

Non è il mio appuntamento galante, consideralo più un sequestro di persona.

Tranquillo, la serata passerà in fretta, e poi sarai tutto per me.
Conoscendo quei due non sarebbe finita mai, ma sarei scappato con l'aiuto del mio autista.

Come sempre.
Insieme al messaggio le mandai una mia foto.

Adesso sei tu che vuoi far morire me.

Non sia mai, mia principessa.

Me ne ritornai in camera a leggere in attesa dell'arrivo della dottoressa e di sua figlia. Chissà, forse questa sera era l'occasione per dire a papà e alla dottoressa Grace che mi ero fidanzato. L'avrebbero presa bene o male? Decisamente male, ma alla fine era la mia vita, anche se avevo i giorni contati. Volevo vivere gli ultimi giorni che mi rimanevano appieno, con la mia Elle e loro di certo non mi avrebbero rovinato i piani. Però non sapevo se dirle che stavo per morire, forse questo glielo dovevo... Come l'avrebbe presa la notizia? Decisamente male. Molto male.
Sentii bussare alla porta.
"Avanti",dissi.
Era mio padre. "Sei pronto?", mi chiese.
"Sì", gli risposi distrattamente.
"Tra un po' saranno qui".
"Ok". Non dava segno di andarsene via o di parlare.
Posai il libro sul letto per mettermi seduto ed osservare mio padre sull'uscio della porta. "Cosa c'è?".
Chiuse la porta per venire a sedersi accanto a me sul letto, c'era qualcosa che non andava. "Forse la conosci già la figlia di Grace". Non capivo.
"Cosa vuoi dire con: forse la conosci già?".
"Che siete compagni di classe". Cosa? Se era così non me n'ero reso conto.
"E da quando?". Prima che potesse rispondermi qualcuno bussò alla porta. Era il nostro maggiordomo Philip.
"Signore, le nostre ospiti sono arrivate".
"Bene, puoi andare ad accoglierle", lo congedò. Si voltò verso di me per guardarmi con aria preoccupata. Qualcosa non andava, me lo sentivo. "Vado dalle nostre ospiti, ci raggiungi dopo?".
"Ok".
Mi mise una mano sulla spalla con affetto. "Ti vengo a chiamare appena ho finito".
"Va bene". Si alzò per uscire via dalla stanza e lasciarmi da solo. C'era decisamente qualcosa che non andava, cosa mi stava nascondendo?
Mi alzai dal letto per andare verso lo specchio per darmi una sistemata. Ero impeccabile ma avrei tanto voluto fare questa cena con la mia Elle, probabilmente le sarebbe piaciuta casa mia, adorava ville come queste, antiche e misteriose. Se avesse saputo che sono un Conte sarebbe svenuta dall'emozione, già ridevo al solo pensiero.
Papà ci stava decisamente mettendo troppo a dare il benvenuto alle nostre ospiti o semplicemente, più che probabile, si era incantato a guardare la dottoressa Grace. Perché ancora non si decideva a chiederle di sposarlo? Temeva che non approvassi? Per me poteva sposarla, approvavo.
Qualche minuto dopo papà tornò per dirmi che potevo scendere dalle nostre ospiti, era decisamente ora, e poi avevo fame.
Lo seguii ma lui andava di corsa. Che fretta!
"Mia cara, lascia che ti presenti mio figlio, Sam", si rivolse alle nostre ospiti indicandomi.
Puntai lo sguardo verso le nostre ospiti e non potei credere ai miei occhi, non era assolutamente possibile. Era Elle. La figlia della dottoressa Grace, era Elle. Non era possibile. No, non potevo crederci, ma era così. Adesso capivo perché certe volte me la ricordava. Certo, era così ovvio. Com'ero stato stupido a non accorgermene prima. Probabilmente era stato il fatto che assomigliasse tanto al padre.
"Sam, lei è Eleonora, la figlia di Grace", me la presentò. "E lui è Sam, mio figlio". A che gioco stavano giocando tutti? Credevano davvero che fossi così stupido? 
Ci fu un attimo di silenzio. La guardai dritta negli occhi per capire se lei stava al loro gioco o meno ma ero troppo arrabbiato e deluso per capirlo. Come avevano potuto tutti farmi questo? Mentirmi e architettare questa messa in scena. Come!?
"Suppongo che forse vi conosciate già, visto che siete compagni di classe, ma conoscendo mio figlio, lui neanche ti avrà degnata di uno sguardo", interruppe quel silenzio assordante mio padre. Come aveva potuto farmi questo, era mio padre. "Ritornando a noi, facciamo un giro della casa, in attesa della cena, ho fatto preparare qualcosa di vegano", si rivolse alla dottoressa Grace guardandola come al solito, come un pesce lesso.
Su via, prendila e baciala e falla finita.
Ci incamminammo per fare il giro della casa e come sempre quei due esclusero tutti. Era la mia occasione per estorcere la verità a Elle e farmi dire tutto.
La spinsi di lato contro la parete e le tappai la bocca per non farla gridare. Quando mi assicurai che si rendesse conto che ero io la lasciai andare e le dissi: "A che gioco state giocando?".
"Non sto giocando a nessuna gioco". Se credeva che avrei abboccato, si sbagliava di grosso.
"Non ti credo". Non credevo più a nessuno. Avevano organizzato tutto solo perché stavo morendo. Volevano che avessi un'amica nonostante gli avessi detto che preferivo stare solo e non volevo nessuno. "Mi hai mentito...". La lasciai andare per tornare dai nostri genitori e far finta di niente, loro nel frattempo non si erano accorti di nulla. Lei rimasi lì dov'era.
Avevo un groppo in gola, volevo scappare e piangere, piangere fino a consumare l'ultima lacrima che mi restava. Non era possibile, lei aveva sempre saputo. Sapeva che stavo morendo, ma soprattutto, sapeva che non ero un ragazzo. Aveva recitato così bene da ingannarmi per tutto questo tempo e io come uno stupido ero abboccato e mi ero perdutamente innamorato di lei. Come aveva potuto farmi questo, aveva anche acconsentito a diventare la mia ragazza, perché!?
Camminammo per un po', fino a quando non arrivò l'ora di cena. Adesso sarebbe stata l'ora dei conti. Fino a quando avrebbero continuato a recitare?
Mi accomodai di fronte a lei per osservarla come si deve. Era decisamente nervosa e a disagio.
Ci portarono la cena vegana ma io continuai a lanciare occhiate di fronte a me.
"Allora, Eleonora, come ti trovi nella nuova scuola?", intavolò una conversazione il mio cosiddetto padre.
"Bene", disse inespressiva.
"Mi fa piacere. E dimmi, tu e Sam avete mai parlato?". Aveva anche la faccia tosta di fare certe domande. Certo che lo sapeva, erano tutti complici.
"Ecco, io...".
"Immagino che non ci sia mai in classe o dorme come al suo solito", rise, "e poi lui non parla mai con nessuno...", sospirò questa volta. Adesso era troppo!
Con tutta la rabbia che avevo in corpo, mi alzai dalla sedia facendola cadere a terra sbattendo le mani sul tavolo con forza e facendo tremare tutto. "A che gioco state giocando tutti voi?", dissi a denti stretti.
"A nessuno, Sam", come sempre la dottoressa Grace era una pessima bugiarda.
"Oh, ma davvero? Mi credette davvero così stupido?!".
"Sam, sta' calmo", si intromise quell'uomo che doveva essere mio padre ma che mi aveva fatto questo. Mi aveva ferito profondamente.
"Stare calmo... Stare calmo! Come pretendi che stia calmo!". Già mi mancava l'aria ma dovevo continuare. "Avete organizzato tutto questo alle mie spalle, io non ho bisogno di un'amica, sto morendo, fatevene una ragione!". Urlai a pieni polmoni. "Tu", indicai colei che mi aveva ferito di più, colei che credevo fosse la mia fidanzata, "mi fidavo di te, e cos'hai fatto! Mi hai mentito per tutto questo tempo! Eri d'accordo con loro e sapevi tutto fin dall'inizio. Sapevi che sto per morire e sai anche che in realtà non sono un ragazzo. Mi fidavo di te, eri la mia fidanzata!". Stavo per avere un attacco, avevo già i primi sintomi, e non desideravo altro che morire in questo momento. Le persone a cui tenevo, di cui mi fidavo, mi avevano mentito e ferito profondamente.
"Sam...". Sentii la dottoressa Grace dire il mio nome e avvicinarsi a me. Mi sentivo così debole.
"Non toccarmi", riuscii a dire a malapena. Mi mancava il fiato.
"Hai bisogno di me in questo momento, sono il tuo medico che tu lo voglia o no e non posso lasciarti così in queste condizioni".
"Ti odio", riuscii a dire. Come aveva potuto farmi questo.
"Lo so...". La sentii afferrarmi per i fianchi per aiutarmi ad alzarmi.
"Tu no, resta qui con mia figlia, io mi occuperò di tuo figlio". Le sentii dire prima di trascinarmi via con sé.
Camminavo a fatica. Ero così stanco, volevo chiudere gli occhi e far finire tutto questo dolore.
Qualcuno mi mise a letto, o forse era un lettino, non sapevo dirlo con certezza, la debolezza mi annebbiava la vista. Sentii qualcosa pungermi il braccio. Faceva male. Non sentivo più il martello nel mio petto e adesso respiravo come si deve.
"Come ti senti?", mi sentii chiedere.
Mi voltai mettendo a fuoco la persona accanto a me. Era la dottoressa Grace. "Come uno a cui hanno mentito".
"Sam...".
"Mi avete ingannato!", le urlai interrompendola.
"Sta' calmo e lascia che ti spieghi".
"Non posso stare calmo, tu non capisci". Per colpa sua mi ero innamorato. Mi ero innamorato! E lei aveva solo recitato una parte per tutto questo tempo.
"Quando ti sarai calmato tuo padre ti spiegherà tutto, per adesso ti darò qualcosa per dormire". Era inutile che facesse la preziosa con me, non attaccava.
"Di' a tua figlia che non la voglio più vedere", le dissi a denti stretti poco prima che mi facesse un iniezione e sprofondasi in un sonno profondo senza sogni.

Mi svegliai con un terribile mal di testa. Quando aprii gli occhi, notai che non ero in camera mia ma nella stanza medica che era stata allestita per me quando avevo le mie crisi. A quanto pare avevo avuto una crisi. Feci mente locale e ricordai gli eventi della sera. Mio padre, la dottoressa Grace e Elle mi avevano mentito. Erano stati d'accordo sin dall'inizio. Avevano fatto avvicinare Elle a me affinché potesse allietare i miei ultimi giorni, ma non era questo ciò che volevo, non erano queste le mie ultime volontà. Per colpa loro mi ero perdutamente innamorato, e adesso, oltre ad avere il cuore irrimediabilmente malato, era anche spezzato. Destino non poteva essere più funesto. Mi era crollato il mondo addosso.
Cercai di alzarmi con fatica, e con scarsi risultati, ero decisamente debole, quest'ultima crisi mi aveva stremato. Con tutta la forza di volontà che avevo, finalmente riuscii ad alzarmi da quel lettino. Cercai un punto di appoggio per non cadere e mi trascinai fuori da quella stanza. Uscito fuori, trovai uno dei domestici ad attendermi.
"Ben svegliato, signorino", mi salutò.
"Per quanto ho dormito?".
"All'incirca ventidue ore". Cosa! Non era mai successo, il mio massimo era di quindi ore. Stavo decisamente peggiorando.
"Capisco...".
"Suo padre era molto preoccupato...". Che faccia tosta, dopo quello che mi aveva fatto.
"Dov'è adesso?".
"Nel suo studio, vuole che la accompagni da lui?".
"Sì".
Bussai alla porta del suo studio. Appena mi vide entrare si alzò immediatamente dalla sua sedia per venirmi incontro, ma io lo scansai in modo brusco.
"Siediti, io e te dobbiamo parlare".
"Va bene...". La sua espressione era amareggiata ma fece come gli fu chiesto.
In silenzio mi accomodai sulla poltrona di fronte alla sua scrivania.
"Di cosa vuoi parlare?", chiese ansioso.
"Dell'inganno che avete organizzato tu e la dottoressa Grace alle mie spalle".
Sospirò. "Mi dispiace tanto, pensavamo di agire per il tuo bene, ma a quanto pare non abbiamo fatto altro che peggiorare la situazione". Si portò le mani tra i capelli frustrato.
"Non avresti dovuto... sei mio padre!", sbottai.
"Lo so, e mi dispiace". 
"Dispiace più a me...". Mi guardò per qualche attimo senza dire niente, così prosegii. "Più di tutti mi ha deluso Eleonora, mi fidavo di lei e mi ha deluso... come ha potuto farmi questo...".
"Oh, ma lei non c'entra niente con questa faccenda, è una vittima quanto te".
"Non cercare di difenderla, era vostra complice sin dall'inizio e ha sempre saputo tutto su di me". Come poteva ancora mentire, era assurdo.
"È la verità, Sam". Lo guardai attentamente e sembrava sincero.
"Quindi lei non sapeva niente del vostro piano?".
"No, abbiamo pensato che fosse meglio così, e poi secondo Grace, Eleonora non avrebbe mai acconsentito".
"Quindi, lei non ha mai saputo niente di me?".
"Niente di niente", affermò.
"Perciò, io involontariamente le ho confessato tutto".
"A quanto pare". No. No. No. Che idiota che ero. Come avevo potuto. Il mio incubo si era avverato, adesso lei sapeva tutto e non avrebbe più voluto vedermi perché disgustata da me.
"Le ho detto che non sono un ragazzo e lei questo non lo sapeva", dissi disperato.
"Lo so".
"Ho rovinato tutto". Non riuscii a trattenermi e mostrai a mio padre il mio lato più debole, il me che piangeva disperato. Il me che soffriva. In seguito, mi riportarono a letto, e visto che non davo segno di calmarmi, mi sedarono.

Rimasi per ben due settimane in uno stato di apatia, non volli parlare con nessuno, mangiavo a malapena e non facevo avvicinare nessuno, volevo stare da solo nel mio dolore. Avevo perso la cosa più bella che mi fosse mai capitata, l'unica che mi dasse un senso di gioia, la ragazza di cui mi ero innamorato. Era persa, e per sempre. Adesso che sapeva il mio più grande segreto non avrebbe più voluto vedermi perché disgustata. Tutti avevano questa reazione, come se fossi un appestato, anche in famiglia le cose erano così, mi guardavano come se fossi un errore, un fenomeno da baraccone. Perché la vita doveva essere così crudele con me? Perché non potevo essere come tutti gli altri, felice, spensierato e senza preoccupazioni? Perché non potevo essere normale?
Qualcuno bussò più volte alla mia porta ma non volevo parlare con nessuno, era inutile, nessuno sarebbe riuscito a farmi uscire da questa stanza.
Qualcuno aprì bruscamente la porta usando la chiave di riserva. Era la dottoressa Grace. Che altro voleva da me, non gli era bastato quello che mi aveva fatto? Probabilmente voleva darmi il colpo di grazia.
"Cosa vuoi?", mi riferii a lei con tono sgarbato.
"Non usare questo tono con me, non mi incanti", mi additò.
"Allora?", incalzai.
"Qui fuori c'è il dottor Clark ed è venuto per te, che tu lo voglia o no parlerai con lui".
"Andate via!", urlai, "Sicuramente anche lui era d'accordo con voi". Che traditore.
Si portò le mani sui fianchi guardandomi in malo modo. Girò i tacchi andandosene via chiudendo la porta.
Qualche minuto dopo sentii bussare alla porta, era sicuramente il dottor Clark. "Non voglio parlare con nessuno", urlai a chiunque ci fosse dietro la porta. La porta si aprì comunque, rivelando un dottor Clark preoccupato. "Ho detto che non voglio parlare con nessuno", ribadii.
"Lo so, ma hai bisogno di parlare con qualcuno, ecco perché sono qui", mi disse mentre si chiudeva la parta alle spalle e si sedeva sul mio letto. "Sei arrabbiato, non è così?".
"L'esperto è lei, no?".
"Sapevo che l'avresti presa male".
"Mi hanno mentito! Hanno giocato con i miei sentimenti".
"Sentimenti? Non eri tu quello che diceva di non averne, di essere vuoto?".
"A quanto pare non era così", dissi mentre mi portavo le mani sul viso.
"Sam...".
"Io la amo... e adesso l'ho persa".
"Non è persa".
"Sì, invece!". Lo gurdai dritto negli occhi.
"Perché dici questo?".
"Perché adesso lei sa che non sono quello che sembro, che non sono un ragazzo, e gliel'ho detto io".
"E allora?". Era stupido o cosa?
"E allora! Adesso lei sarà disgustata da me, non vorrà più vedermi".
"Tu dici?".
"Ma certo, fanno tutti così!".
"Non mi dicevi sempre che lei non era come gli altri o sbaglio?". Questo era vero, ma se mi fossi sbagliato?
"Questo è vero, ma...".
"Lei ti ha mai fatto credere o pensare che potesse essere disgustata da ciò che sei in realtà?".
"No, però...".
"Però cosa?".
"Da un po' faccio sempre lo stesso sogno".
"Raccontamelo".
Chiusi gli occhi ripensando al mio incubo e iniziai il racconto: "Mi trovo nel parco, esattamente nel punto dove l'ho incontrata la prima volta. Mi accorgo di essere senza vestiti. Ad un tratto sento lei che mi urla contro. Mi dice come ho potuto mentirle e nasconderle questo, poi mi dice che non mi vuole più vedere, tutto questo con le lacrime agli occhi".
"A te sembra disgustata?".
"Non saprei".
"A me sembra arrabbiata".
"È solo un sogno".
"E se rispecchiasse la realtà?".
"Be', se rispecchiasse la realtà non vorrebbe comunque vedermi".
"Perché non provi a riconquistare la sua fiducia?", mi suggerì.
"No". Oramai era troppo tardi, e poi quello era solo un sogno, non volevo vedere la sua faccia disgustata nel vedermi, non l'avrei sopportato.
"Come vuoi, la scelta spetta a te".
"Infatti".
"Però ti suggerisco di uscire da questa stanza, la vita è breve, non sprecarla". Su questo aveva ragione.
"Va bene, seguirò il suo consiglio.
"Bravo ragazzo. Adesso vado".
"Va bene".

Stavo dormendo tranquillamente, quando mi sentii scuotere. Chi poteva essere?
"Chi è? Sto dormendo", biascicai nel sonno.
"Sono papà". Che voleva da me?
"Cosa vuoi?".
"Andiamo a fare un bel picnic".
"Sei pazzo? Fuori si gela".
"E allora? Alzati e vestiti, si va a fare un picnic", mi ordinò mentre mi tirava via le coperte. Che fine aveva fatto mio padre? Probabilmente l'influenza della dottoressa Grace gli aveva dato alla testa, lui non era mai stato autoritario con me.
Eravamo al parco ma io non avevo voglia di fare un picnic con mio padre, così tirai sulla testa il cappuccio della mia felpa e poggiai il capo sulle ginocchia.
"Scusa il ritardo, Richard", sentii dire dopo qualche minuto che eravamo qui da una voce a me familiare, era la dottoressa Grace. Che cosa ci faceva qui? Che fosse un altro dei loro subdoli piani?
"Non c'è problema, siamo arrivati da poco", le disse mio padre.
Se c'era lei c'era anche Elle. Mi era mancata così tanto. Che fosse stata trascinata a forza anche lei, o che volesse semplicemente vedermi? Non ne avevo la minima idea. Avevo il timore che non volesse più vedermi. Era disgustata da me? Arrabbiata per caso? Quanti dilemmi in una sola e breve esistenza. Troppi problemi per un'unica persona.
"Non ce la faccio...", sentii dire da Elle rompendo quel silenzio assordante che si era creato. Sapevo che era scappata via in lacrime.
"Eleonora!", le gridò dietro sua madre.
"Lasciala, ha bisogno di sfogarsi e di stare da sola".
Alzai il capo in loro direzione per guardarli. Ero arrabbiato con i nostri genitori, era tutta colpa loro questa assurda situazione, il mio allontanamento da Elle.
Mi alzai e loro mi guardarono allamati. "È tutta colpa vostra, non dovevate intromettervi tra me e lei, ci aveva già pensato il destino a farci incontrare... mi avete solo deluso", con quest'ultime parole me ne andai via alla ricerca di Elle, sapevo dov'era diretta.
Mentre camminavo iniziò a piovere. Fantastico! Era proprio quello che ci voleva, si sarebbe presa un raffreddore. Dopo un po' la raggiunsi, era lì, appoggiata sul tronco dell'albero a piangere disperatamente.
"Sapevo che ti avrei trovata qui". Nonostante il suo senso dell'orientamento fosse pessimo, lei riusciva sempre a trovare il nostro posto.
Si voltò per guardarmi ed era decisamente arrabbiata. "Vattene", m'intimò mentre continuava a piangere.
"Nonostante tu abbia un inesistente senso dell'orientamento", continuai, "riesci sempre a trovare questo posto".
"Due settimane...". Sapevo a cosa si stava riferendo.
"Lo so...". Non sapevo cosa dire, mi sentivo così in colpa, avevo lasciato che le mie paure prendessero il sopravvento su di me.
"Credevo che ti fidassi di me, io non sapevo niente", mi accusò.
"Mi dispiace...".
Mi spinse di lato per passare e andarsene via lontano da me. Non volevo che se ne andasse via, doveva sapere che ci tenevo a lei. L'afferrai per un polso attirandola a me e la baciai. Non sentii più la pioggia che cadeva sul mio corpo, eravamo solo noi due e il nostro primo bacio. Mi lasciai trasportare dalla passione, passione che provavo per lei e l'amore che sentivo. Io la amavo.
Ci staccammo per riprendere fiato guardandoci negli occhi e mi persi in quel grigio che amavo tanto e che mi era mancato.
Ad interrompere quel momento, fu la dottoressa Grace che stava cercando Elle, probabilmente pensava che si fosse persa. Distolse lo sguardo dal mio lasciandomi un senso di vuoto. Si allontanò da me per raggiungere la madre che scorsi in lontananza.
"Ti riconquistarò Elle, tu sarai di nuovo mia, starne certa", sussurrai sotto la pioggia scrosciante.

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Capitolo 21
*** Eleonora XI ***


Due settimane erano passate e di lui nessuna notizia. Non era più venuto a scuola o entrato di nascosto nella mia stanza dalla finestra. Era come se non fosse mai esistito. Mi mancava. Sapevo che era arrabbiato, ma anch'io lo ero, eccome se lo ero. Mi aveva tenuto nascosto che gli restavano pochi mesi di vita, come aveva potuto? Gli potevo perdonare il fatto di avermi nascosto che in realtà fosse una ragazza, dopotutto non tutti riescono a capire, anche se, credevo che si fidasse di me e che avesse una migliore considerazione di me.
Dopo che ero uscita da quella grande villa, andai alla ricerca dell'autista di Sam, sapevo che lui mi avrebbe dato un passaggio, così fece. A malincuore andai da papà, non volevo stare con mamma, così rimasi con lui per qualche giorno ma la permanenza con quell'oca era fin troppo insopportabile per me, così alla fine tornai a casa. Le volte che mamma era a casa voleva parlare con me ma io non volevo, ce l'avevo troppo con lei, non avrebbe dovuto fare quello che aveva fatto, che ci aveva fatto.
Ancora non potevo credere che Sam fosse il figlio del preside, adesso si spiegavano molte cose; come si fosse procurato la mia taglia per le divise, il perché fosse sempre promosso e del perché i professori gli facessero fare tutto quello che voleva. Tutto aveva un senso adesso, lui era il padrone della scuola.
Queste due settimane erano state strazianti per me, non solo perché mi mancava terribilmente Sam ma anche per la situazione a scuola. Quella ragazza, notando l'assenza di Sam, era tornata all'attacco, lei e la sua combriccola per la precisione. Mi davano il tormento di continuo, mi umiliavano davanti a tutti e nessuno faceva nulla. Nessuno veniva a salvarmi.
Quando tornai a casa in autobus, trovai mamma. Cosa ci faceva a casa, non doveva essere in ospedale? Decisi di ignorarla e salire in camera mia per cambiarmi. Quando scesi la trovai nello stesso punto dove l'avevo lasciata prima, sempre seduta sul divano con le braccia conserte in attesa di qualcosa da me. Cosa voleva?
"Se devi dirmi qualcosa è fatica sprecata, sappilo".
"Usciamo". Cosa? Era convinta che volessi uscire con lei? Era fuori di testa se pensava questo, dopo quello che mi aveva fatto poi.
"No", sbottai.
Si alzò dal divano lanciandomi un'occhiata furente ma sostenni il suo sguardo. "Tu esci invece!".

Fui trascinata a forza nel parco dalla mia cosiddetta madre, per fare cosa, un picnic. Patetico e stupido. Fuori si gelava e il ciele era grigio come il mio umore, non poteva andare peggio di così. La cosa strana era che non si era portata nulla per fare il suo stupidissimo picnic. Arrivati al parco, mi prese per un braccio trascinandomi con sé, nel caso tentassi una fuga, sfortuna voleva che mi sarei dispersa se fossi fuggita a gambe levate. Mentre camminavamo mi accorsi che ci stavamo avvicinando a due persone sedute su una coperta. Da lontano potevo vedere che erano un uomo e l'altro credevo fosse un ragazzo, non sapevo dirlo con certezza perché era con il capo chino sulle ginocchia e il cappuccio tirato sulla testa. Non so il perché ma avevo una strana sensazione. No, non poteva essere... Erano il preside e Sam.
"Mamma... non puoi farmi questo".
"Sì, che posso".
"No, invece". La guardai allarmata.
"Sì, io e Richard dobbiamo rimediare". Aveva uno sguardo serio. Quando ci avvicinamo ai due, il signor Edwards ci salutò con tono gentile, invece Sam non fece una piega. Chissà, forse dormiva.
"Scusa il ritardo, Richard". Che voce civettuola che hai mamma.
"Non c'è problema, siamo arrivati da poco".
Ci accomodammo e calò il silenzio. Stare in sua presenza mi suscitava più emozioni che si contrastavano. Primo: mi era mancato terribilmente e avevo voglia di gettarmi tra le sue braccia. Secondo: ero arrabbiata con lui per avermi nascosto che stava morendo, avevo voglia di picchiarlo. Terzo: avevo voglia di piangere. Non potevo realizzare e accettare che stesse per morire, era così giovane. Mamma era un eccellente cardiochirurgo, non poteva fare niente per lui, era senza speranze? No, non potevo accettarlo, non volevo perderlo. Come avrei fatto a sopravvivere senza di lui? Queste due settimane senza di lui erano state un agonia per me, non osavo pensare ad una vita senza di lui. Le lacrime iniziarono a scendere con insistenza e a rigarmi il viso. Non ce la facevo più a sopportare tutto questo.
Mi alzai dalla tovaglia, dicendo: "Non ce la faccio...", e fuggii via, lontano da loro e da lui, non m'importava se mi fossi persa.
Corsi fino a quando non mi bruciarono i polmoni per lo sforzo, aveva anche incominciato a piovere ma non m'importava. Mi appoggiai al tronco dell'albero vicino a me prendendo fiato. Avevo fatto una bella corsa, non era da me. Continuai a piangere, piangere per lui, perché il destino era stato fin troppo crudele nei suoi confronti. Sua madre era morta quando era piccolo, anche suo nonno era morto. Non aveva mai avuto degli amici ed era solo e si definiva vuoto. Era nato nel corpo sbagliato. E in fine, era malato e stava morendo. Perché il destino sapeva essere così crudele? Perché?!
"Sapevo che ti avrei trovata qui", sentii dire alle mie spalle, e sapevo chi era.
Mi voltai guardandolo dritto nei suoi bei occhi blu che tanto adoravo e che mi erano mancati. "Vattene", lo intimai mentre continuavo a piangere.
"Nonostante tu abbia un inesistente senso dell'orientamento", continuò, "riesci sempre a trovare questo posto".
"Due settimane...".
"Lo so...".
"Credevo che ti fidassi di me, io non sapevo niente". Come aveva potuto.
"Mi dispiace...", fu l'unica cosa che riuscì a dire, ma a me non bastava.
Arrabbiata, presi e me ne andai spingendolo di lato per passare ma mi afferrò per un polso attirandomi a sé. Sentii il suo caldo corpo che mi scaldava dalla pioggia dandomi conforto e le sue labbra sulle mie. Mi stava baciando. Fui frastornata dal suo bacio, non sentivo più la pioggia, nemmeno il suolo sotto i piedi, c'eravamo solo noi due. Mi baciava con passione ma anche con qualcosa di più che non riuscii a decifrare. Sapevo solo che ero persa in lui e in quel magnifico momento che avevo tanto atteso. Ci staccammo per riprendere fiato guardandoci negli occhi come solo noi due sapevamo fare, con intensità. Perché mi aveva baciata, ma soprattutto, perché proprio adesso?
Sentii chiamare il mio nome in lontananza da mia madre che mi fece distogliere lo sguardo da lui. Dovevo riprendere la lucidità perduta, anche se mi aveva baciata ero ancora arrabbiata con lui, non gliela avrei data vinta, poco ma sicuro. Mi allontanai da lui per raggiungere mia madre. Che strano però, non avevo sentito il sapore della cioccolata.

L'indomani mattina, lo trovai ad aspettarmi davanti alla fermata dell'autobus, come sempre era poggiato sulla sua auto costosa. Se sperava di accompagnarmi a scuola aveva sperato male. Deliberatamente lo ignorai ed aspettai l'arrivo dell'autobus, lui semplicemente si mise a guardarmi. Poi si avvicinò a me in silenzio. Era una mia impressione o stava aspettando l'autobus? Gli lanciai un occhiataccia e lui semplicemente mi mostrò un biglietto dell'autobus.
Fantastico.
Arrivò l'autobus e sperai tanto che non salisse, ma non fu così. Mi misi in un angolo affollato il più lontano possibile da lui. Lo osservai di nascosto: cercava di non farsi toccare dagli altri, impresa piuttosto difficile, vista la confusione. Cercava di stare in equilibrio, visto che non voleva reggersi da nessuna parte. Temeva i germi degli altri per caso? Era buffo vederlo in equilibrio precario e a disagio in mezzo alla gente, si notava che non era abituato a certe cose, ci avrei scommesso che in vita sua non aveva mai preso un mezzo pubblico.
Ero così presa da lui da non essermi accorta che mi stava fissando. Mi faceva sentire a disagio, mi guardava in modo intenso, chissà a cosa stesse pensando, o semplicemente mi stava solo fissando. Distolsi lo sguardo da lui non reggendo più quella situazione, e lì mi accorsi che un gruppo di ragazze provenienti da un'altra scuola se lo stavano mangiando con gli occhi e la cosa mi infastidii parecchio. Poi accade qualcosa che non mi sarei mai immaginata e aspettata, Sam si avvicinò alle ragazze in modo amichevole. Cosa stava combinando? Voleva farmi ingelosire per caso? Be', ci stava riuscendo purtroppo per me. Era così odioso quando voleva. Notai che ero arrivata alla mia fermata, così scesi lasciandolo sull'autobus con quelle. Se voleva giocare sporco non ci sarebbe riuscito con me, io avrei giocato più sporco di lui.
Sam arrivò con quindici minuti di ritardo, così imparava a parlare con le altre per farmi ingelosire. Quando entrò nessuno si aspettava il suo arrivo, e da qui in fondo riuscii a vedere l'espressione scocciata della ragazza che mi dava il tormento. Almeno il ritardo di Sam era servito a qualcosa.
Quando si sedette nel banco accanto al mio mi lanciò un occhiata torva. "Perché non mi hai detto che eravamo arrivati?", mi chiese infastidito, io semplicemente lo ignorai. "Sono sceso almeno tre fermate dopo prima che mi accorgessi che eri scesa. Ho dovuto aspettare al freddo l'arrivo del mio autista, fuori si gela". Continuai ad ignorarlo, lui si limitò a sbuffare.
Per le lezioni che seguirono continuai ad ignorarlo e sapevo benissimo che la cosa lo infastidiva parecchio. Purtroppo per me, per l'ora di pranzo mi seguì fino alla biblioteca. Durante le due settimane della sua assenza, per l'ora di pranzo mi rifugiavo qui. Mi rifugiai in un posto lontano e ben nascosto alla vista, lui semplicemente si limitò a sedersi nella sedia accanto alla mia.
"Va' via", lo intimai, mi ero stufata del suo comportamento.
"No".
Sbuffai infastidita. "Va' via!", ripetei.
"No".
"Perché no!".
Mi guardò per qualche attimo prima di parlare: "Ho bisogno di parlare con te".
"Io no invece". Non avevo voglia di ascoltare ciò che aveva da dirmi.
"Bene... posso chiederti una cosa allora?".
"No", sbottai.
Diede un pugno sul tavolo che mi fece sobbalzare. "Accidenti, si può avere una conversazione con te o no!". Era la seconda volta che lo vedevo così arrabbiato, forse avevo un po' esagerato.
"Cosa vuoi?".
"Bene. Devo sapere una cosa".
"Cosa?".
"Ti è piaciuto il bacio che ci siamo dati ieri?". Cosa? Fra tante cose mi doveva chiedere proprio questo?
"Non sono affari tuoi". Non glielo avrei mai detto.
"Ho bisogno di saperlo", mi disse esasperato.
"Perché ci tieni così tanto?".
Guardò un punto del tavolo come se ci fosse qualcosa di interessante. "Perché adesso sai di me".
"Cosa fra le tante cose per l'esattezza? Mi hai nascosto tante di quelle cose...".
"Il fatto che non sono un ragazzo", questa volta mi parlò guardandomi, i suoi occhi erano così tristi.
"È stato il mio primo bacio", dissi semplicemente abbassando lo sguardo.
"Anche il mio... aspettavo la pioggia...".
Lo guardai non capendo. "Aspettavi la pioggia?".
"Per darti il nostro primo bacio. Lo so che qui piove praticamente sempre, ma non mi andava di trascinarti sotto la pioggia per darti un bacio, insomma, doveva accadere per caso, no?". Ma così facendo non mi avrebbe baciata mai, ma chissà il perché lo aveva fatto e per puro caso tra l'altro.
"È assurdo...".
"Lo so...".
"Avevi un piano b spero".
Gli spuntò un sorriso. "Chi lo sa".
"Chissà per quanto mi avresti fatto aspettare".
Inclinò la testa di lato guardandomi. "Non per molto".
"Cioè?".
Tornò a fissare il tavolo. "Avevo qualcosa in mente per il nostro primo mese insieme". Che era già passato.
"Ah sì?".
"Ma oramai è passato...", disse fra se.
"Mi dirai mai cosa avevi in mente?".
Mi guardò dritto negli occhi. "Non saprei".
"Me lo dici", insistetti.
Fece un sorriso sghembo che mi mozzo il fiato. "No".
"Cattivo", piagnucolai e lui sorrise.
Sospirò. "Ti lascio in pace, e poi non hai ancora mangiato niente". Questo perché non avevo niente con me da mangiare. Mamma pensava che mangiassi alla mensa ma per mia sfortuna non mi potevo avvicinare lì per via dei miei persecutori e quindi non mangiavo nulla morendo di fame.
"Ehm... al contrario di te, gli altri mangiano alla mensa".
"E tu non ci vai?".
"No, preferisco restare qui".
"Quindi ti porti qualcosa da casa?".
"No". Mi guardò con espressione confusa.
"Perché no?".
"Perché mia madre è convinta che mangi a scuola, e poi fa un inventario di tutto a casa e si accorgerebbe se mancasse qualcosa e lei non vuole che mangi fuori i pasti", dissi tutto d'un fiato.
"Copisco...". Era pensieroso. "Ti andrebbe di pranzare insieme a me?".
"Solo perché ho fame", acconsentii.
"Vieni con me allora", mi fece l'occhiolino, non prometteva niente di buono.
Mentre lo seguivo mi accorsi che non mi stava portando nel solito posto. Che fosse un nuovo posto?
Dopo un po' che camminavamo, si fermò davanti ad una porta.
Si voltò per guardarmi e sembrava a disagio. "Non ti dispiace se pranziamo con mio padre?". Cosa?
"Come, scusa?".
"Be', ecco, gli avevo promesso che avrei pranzato con lui e sicuramente mi starà aspettando, non ti dispiace, vero?". Che sarà mai, avrei pranzato con il preside che era il padre del ragazzo che mi aveva fatto perdere la testa ed era anche un amico di mia madre e forse aveva anche una relazione segreta con lei o qualcosa del genere, che sarà mai, una passeggiata sui carboni ardenti.
"No, niente affatto", mentii.
"Bene, divideremo il pranzo allora".
"Va bene".
Aprì la porta ed entrò, e io semplicemente lo seguii. Ero un tantino a disagio e in imbarazzo. L'ufficio del preside era grande e sofisticato, ma soprattutto mostrava che era un uomo colto. Dietro alla sua scrivania, appese alla parete, sfoggiava le sue lauree. La stanza era anche piena di libri e in un angolo c'era un camino acceso con un fuoco scoppiettante.
"Sam, vedo che sei in compagnia". Come ben ricordavo, il padre di Sam era un bell'uomo e il figlio aveva preso quegli splendidi occhi da lui. Si alzò dalla sua scrivania per avvicinarsi a noi con una camminata elegante. "È bello rivederti Eleonora, ogni giorno che passa sei sempre più bella", mi disse mentre mi baciava il dorso della mano. Quell'uomo aveva la straordinaria capacità di imbarazzarmi e mettermi a disagio.
"Papà!", lo riproverò Sam.
L'uomo si volse verso al figlio con aria confusa. "Cosa c'è?".
"Tieniti i complimenti per te e le mani a posto". Sbaglio o qualcuno era geloso?
Il signor Edwards rise alzando le braccia. "Chiedo scusa".
"Allora, pranziamo o no?". Qui qualcuno era un tantino infastidito.
Ci accomodammo tutti intorno alla scrivania a mangiare, io divisi il pranzo insieme a Sam, con la sua insistenza, dopo che suo padre aveva proposto di dividere il suo con me.
Il resto della giornata passò tranquillamente, con me che ignorava di proposito Sam e lui che sbuffava sonoramente, la cosa iniziava a divertirmi, e poi mi erano mancati questi momenti con lui, ma soprattutto, mi era mancato lui.
Come aveva fatto stamattina, Sam prese l'autobus con me. Era la mia persecuzione, ma in fondo non mi dispiaceva, forse alla fine potevo perdonarlo, non subito però, prima doveva penare ancora un po'.
Nonostante la confusione, trovò un posto libero dove si sedette. La solita fortuna l'aveva solo lui. Mi guardò con un sorrisetto compiaciuto, così mi voltai per dargli le spalle. Dopo un po' sentii qualcuno che mi picchiettava sulla spalla, mi voltai ed era lui. Che altro voleva?
"Cosa vuoi?", gli chiesi seccata ed irritata allo stesso tempo.
"Siediti con me".
"No". Feci per girarmi ma lui mi prese per un braccio trascinandomi con sé.
Mi trascinò nel posto dov'era seduto prima, che era occupato dal suo zaino per non farlo occupare da qualcun'altro, come sempre era ingegnoso. Tolse lo zaino per sedersi sulla sedia, per poi guardandomi con un sorrisetto. A che gioco stava giocando?
"Secondo te dove dovrei sedermi, per terra?".
"Sulle mie gambe", mi disse questo facendomi l'occhiolino.
"Tu sei pazzo". Mi tirò a sé facendomi cadere sulle sue gambe. "Contento?". Incrociai le braccia per la frustrazione.
"Si può avere di meglio". Lo guardai allarmata, cos'aveva in mente adesso?
"Scordatelo, qualunque cosa sia".
"Come siamo acide".
"È quel che ti meriti".
"Lo so... non avrei dovuto mentirti", sospirò.
"Ecco, appunto".
"Ho solo avuto paura di perderti...". Sembrava sinceramente dispiaciuto.
"Sam...". Mi zittii poggiando due dita sulle mie labbra.
"Sono sempre stato restio a rivelare il mio segreto per come mi guardano gli altri...". Stava soffrendo. "Non volevo essere guardato così da te, non lo sopporterei...".
"È questo quello che temi, che ti ha fatto allontanare da me per ben due settimane?".
"Sì".
Mi avvicinai a lui e poggiai le mie labbra sulle sue in un bacio casto. "A me vai bene così, sei e resterai comunque il mio psicopatico", gli sussurrai quando mi allontanai dalle sue labbra.
"Mi dispiace".
"Però sono ancora arrabbiata con te". Lo guardai dritto negli occhi. "Perché non mi hai detto che stai per morire?". Sentii gli occhi pizzicarmi segno che stavo per piangere da un momento all'altro.
"Non volevo che mi guardassi come un morto che cammina".
"Non lo farei mai...".
"Sei solo arrabbiata per questo?".
"Principalmente per questo, e poi sei sparito per due settimane, e tra l'altro pensavo che ti fidassi di me".
"Ok, ho un po' esagerato, lo ammetto".
"È già qualcosa".
"Quindi, mi perdoni?".
"Chi lo sa". Gli spuntò un sorriso sghembo. Lanciai un occhiata al finestrino e mi resi conto che avevo perso la mia fermata e forse da un bel po'. "Oh no".
Mi guardò con aria confusa. "Oh no, cosa?".
"Ho perso la mia fermata".
"Ah...". Estrasse il suo telefono dalla tasca dei pantaloni.
"Cosa stai facendo?", gli chiesi non capendo.
"Sto mandando un messaggio al mio autista per venirci a prendere", mi spiegò.
Quando mi accompagnò decise di restare a casa mia contro la mia volontà dicendo che voleva stare con me e pranzare insieme. Con malavoglia cucinai per due mentre lui mi spiegava diligentemente cosa poteva mangiare. Dopo pranzo studiamo insieme e gli feci recuperare ciò che si era perso in queste due settimane, dopotutto ero ancora la sua tutor, anche se era più intelligente di me e aveva imparato tutto e svolto gli esercizi persi in sole due ore.

"Sam, dovresti andare, tra un po' tornerà mia madre", gli feci notare mostrandogli l'ora nel mio telefono, non mi andava di essere sgridata da mamma.
"Tranquilla, so come gestirla". Gestirla!
"È di mia madre che stiamo parlando, lei non può essere gestita", esclamai.
Scoppiò a ridere. "A quanto pare non la conosci così bene".
"Cosa intendi dire?". Non capivo.
"Tua madre può essere gestita, eccome se lo può essere".
"Allora sentiamo un po' come può esserlo".
Si avvicinò pericolosamente al mio viso facendo mancare un battito al mio cuore. "Il punto è, da chi", sussurrò.
"Da chi?".
"Da mio padre, ovvio. Non ti sei accorta di niente?".
"Sì, ho notato quei due, ma tuo padre non è qui", gli feci notare. Teneva ancora il viso vicino al mio, potevo sentire il suo alito caldo su di me ma non sapeva di cioccolata.
"Posso sempre farlo venire qui, mi basta una telefonata".
"Quindi, in sostanza, vuoi risparmiarmi un rimprovero?".
"No".
"E allora cosa?".
"Devo dirle una cosa ed ho decisamente bisogno dell'aiuto di mio padre, se voglio fare le cose a modo tuo, ovviamente". Ero confusa.
"Cosa le devi dire? E poi cosa vuol dire: a modo mio?".
"Quante domande. A modo tuo sarebbe in maniera gentile ed educata".
"E cosa le devi dire?", ripetei.
"Lo saprai a tempo debito. Allora, si fa a modo mio o tuo?".
"Decisamente mio".
"Bene". Mi guardò in un modo che non riuscii a decifrare. "Questa volta voglio chiederti il permesso".
"Permesso per cosa?".
"Di baciarti". Diceva sul serio o mi stava prendendo in giro? "Allora?", incalzò.
Decisi di fare io la prima mossa e lo baciai. Mi persi in quel bacio e in lui. Senza smettere di baciarmi, mi tirò a sé sulle sue gambe per farmi mettere comoda ed avere più contatto. Sentivo decisamente caldo. Lui in risposta al mio bacio gemette. Fece vagare una mano sotto la mia maglietta facendola salire in una carezza che mi fece rabbrividire e gemetti a mia volta. Stavo decisamente perdendo il controllo di me.
Sentimmo la porta d'ingresso aprirsi, che annunciò l'arrivo di mia madre. Tempismo perfetto. Di malavoglia ci staccammo riprendendo fiato.
"Tu resta qui e non combinare guai", gli intimai dopo che fui scesa dalle sue gambe.
"Non garantisco nulla", mi disse mentre rideva.
Alzai gli occhi al cielo per l'esasperazione, per poi uscire dalla mia stanza e raggiungere mamma.
"Ti sono mancata?", mi chiese appena mi vide scendere le scale. La guardai in malo modo incrociando le braccia. "Su, non fare quella faccia, Richard mi ha detto che hai fatto pace con Sam, mi fa piacere". Fantastico, quei due si dicevano proprio tutto a quanto pareva.
"Quindi non ti dispiace se adesso è nella mia stanza, vero?". Adesso le avrei tolto quel sorrisetto dalla faccia.
"Cosa?". La sua faccia era sconvolta. "Sai come la penso al riguardo".
"Certo, ma con lui non vale questa regala, dico bene?". Non sapeva cosa dire. Un punto per me. Notai che stava guardando dietro di me, così mi voltai e mi trovai daventi Sam, che aveva un sorrisetto stampato in faccia. Avrei voluto prenderlo a schiaffi, gli avevo detto di restarsene in camera e lui che faceva? Scendeva comunque.
"Salve". Che faccia da schiaffi.
"Sam, cosa ci fai qui?", gli chiede mia madre.
Lo guardai attentamente e in risposta mi lanciò un sorrisetto prima di risponderle. "Stavamo studiando".
"Solo studiando?", gli chiese sospettosa. Ma che domanda era, cosa credeva che stessimo facendo? Ora che ci pensavo... non stavamo decisamente studiando qualche minuto fa. Il solo pensiero mi fece accaldare.
Lui rise. "Mi ha categoricamente proibito di fare quella cosa mesi fa, le rammento". Cosa? La situazione si stava facendo alquanto imbarazzante. "E poi in caso potessi farlo", proseguì, "non corriamo nessun rischio, sa cosa intendo". Ma io lo uccido. Cosa andava dicendo, aveva bevuto per caso?
Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, sentimmo il campanello suonare. Chi poteva mai essere?
"Vado a vedere chi è e poi ne riparliamo giovanotto", lo additò contrariata dal suo comportamento per poi andare ad aprire la porta.
Lanciai a Sam un occhiataccia e lui in cambio mi fece l'occhiolino. "Tu sei un folle".
"Richard!", sentii esclamare mia madre. Oh no, che piano aveva in mente Sam? Nulla di buono, n'ero certa.
Mamma fece accomodare il signor Edwards in soggiorno. Eravamo tutti seduti sul divano in silenzio e io ero in agitazione. Lanciai un occhiata a Sam che aveva ancora quel sorrisetto stampato in faccia.
"Allora, Richard, cosa ti porta da queste parti?", gli chiese mamma nervosamente.
"Sam", disse semplicemente e tutti ci voltammo ad osservarlo.
"Bene, adesso che ho la vostra attenzione posso dirvi la decisione che ho preso".
"Che decisone?", gli chieserò all'unisono suo padre e mamma. Sembravano sperare in qualcosa dalle loro espressioni, ma in cosa non mi era ben chiaro.
"Ho deciso che non voglio più separarmi da Elle", disse per poi guardarmi come non aveva mai fatto prima.
"Cosa intendi dire?", gli chiese mia madre.
Distolse lo guardo da me per posarlo su di lei e risponderle. "Che si trasferirà da me, se vuoi puoi venire anche tu". Era impazzito o cosa?
"Non se ne parla proprio", esclamò alzandosi dal divano. Sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale da un momento all'altro, era solo questione di tempo.
Lui semplicemente si limitò a soghignare. "Papà, tu cosa ne pensi?".
"Ecco...". Tutti lo fissammo in attesa di una sua risposta. "Per me va bene".
"Ne sei certo, Richard?".
"Se è quello che desidera mio figlio, allora per me va bene".
"Ma...".
"Grace, da quando in qua Sam ha mai voluto qualcosa del genere?".
"Mai".
"E poi era quello che volevamo, no? Non possiamo opporci".
"Hai ragione, Richard". Non riuscivo a credere alle mie orecchie, mamma aveva appena acconsentito. 
"Bene, Elle, prepara le tue cose".
"Adesso?".
Mi guardò come se fossi tonta. "Ovvio, adesso".

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Capitolo 22
*** Sam XI ***


Come da programma il mio piano aveva funzionato, finalmente Elle sarebbe stata con me in ogni momento. Dopo due settimane senza di lei non intendevo più starle lontano, oramai era il mio ossigeno, mi era essenziale. Papà era stato d'accordo con me fin dall'inizio, bastava che recitasse la sua parte a dovere, e poi sapevo che non gli dispiaceva avere la dottoressa Grace sotto il suo stesso tetto.
Adesso Elle stava preparando la sua valigia, il resto lo avrebbe preso in un altro momento, per adesso bastava che prendesse l'essenziale.
Me ne stavo con le spalle appoggiate al muro ad osservarla memtre era indaffarata a prendere le sue cose. Nonostante la mia assenza aveva continuato ad indossare i vestiti che le avevo regalato. Chissà, forse adesso aveva più fiducia in sé stessa e aveva capito finalmente che era bellissima e non doveva più nascondersi. Oggi indossava dei jeans davvero stretti e vista da dietro, mentre mi dava le spalle, non era niente male. Da quando avevo capito ciò che provavo per lei, avevo scoperto il mio appetito sessuale, che credevo di non avere. Trattenermi dal non saltarle adesso era una tortura per me, specialmente quando si mordeva il labbro, mi faceva impazzire.
"A cosa stai pensando?".
Uscii dai miei pensieri peccaminosi per farle un sorriso timido, non le avrei mai detto a cosa stessi pensando. "Mi ruba le battute adesso, signorina?".
Mi regalò un sorriso che mi fece mozzare il fiato. "No, quando mai".
"Finito di fare le valigie?", le chiesi.
"Sì, e tu hai finito di guardarmi il sedere?". Ero stato beccato. "Adesso sei tu quello che è rimasto con la bocca aperta", mi fece notare mentre rideva di me.
Chiusi la bocca incapace di dire qualcosa.
Smisse di ridere per poi modersi il labbro inferiore e avvicinarsi a me in modo lento e guardandomi in un modo che non aveva mai fatto prima d'allora. Poggiò le mani sulle mie spalle alzandosi in punta di piedi per arrivare alla mia altezza e avvicinare le sue labba al mio orecchio. "Ti piaceva quello che guardavi?", mi sussurrò con voce vellutata e suadente. Cosa stava succedendo? Che fine aveva fatto la mia dolce e innocente Elle?
"Elle...", boccheggiai.
"Sì?".
"Cosa stai... facendo?". La sentii ridere e portare le sue labbra sul mio collo, che mi fece trattenere il respiro. Ero spacciato. Rilasciò dei baci umidi sul mio collo che mi provocarono un brivido lungo la spina dorsale, e quella oramai familiare sensazione al basso ventre si fece risentire. Oramai non sapevo più se respirassi o meno.
Ad un tratto sentimmo bussare alla porta con insistenza. "Eleonora, sbrigati a preparare la valigia, non ci vuole tutto il tempo del mondo!", esclamò arrabbiata la dottoressa Grace, probabilmente sospettava che stessimo facendo qualcosa di illecito, non aveva tutti i torti in fondo.
Io e Elle ci guardamo per qualche attimo per poi scoppiare a ridere.
Qualche minuto dopo eravamo partiti verso casa mia, con insistenza e l'aiuto di papà, feci salire Elle in macchina con noi. Cominciavo a sospettare che non andassi a genio alla dottoressa Grace visto che ora avevo una presunta relazione con sua figlia.
Arrivati a casa, trascinai via con me Elle per portarla in camera mia, l'ultima volta non l'aveva vista e le ragioni erano più che ovvie.
"Dove mi stai portando?", mi chiese mentre rideva per via di sua madre che ci gridava alle spalle.
"In camera mia".
"Cos'ha di tanto speciale?".
La guardai sorridendo. "Ti ricordi la foto che ti avevo inviato, quella dove dicevi che la mia libreria era più carina di me, ti ricordi?".
"Sì".
"Be', adesso vedrai che la foto non gli ha reso giustizia... però sono più carino io", le feci l'occhiolino.
"Si come no", disse lei alzando gli occhi al cielo.
"Cagnolina cattiva, dovrei legarti ad un albero".
Mi fece un sorrisetto che non prometteva niente di buono. "Se non fai il bravo ti puoi scordare di baciarmi ancora". Cosa? Diceva sul serio o mi stava per caso prendendo in giro?
"Scherzi, vero?".
Mi diede un buffetto sulla guancia. "Mai stata più seria in vita mia".
"Sei crudele", misi su un finto broncio che la fece ridere.
Arrivammo finalmente di fronte alla porta della mia stanza. "Pronta?", le chiesi.
"Sì", disse emozionata.
Aprii la porta invitandola ad entrare. Alla vista della mia stanza si guardò intorno, restando come al suo solito a bocca aperta.
La mia stanza era ampia, con un letto a due piazze, una scivania risalente al rinascimento in un angolo. Di fronte al letto c'era il mio gran sofà e l'immenso cammino riccamente decorato, sopra c'era la tv a maxi schermo. La cosa più bella però, era la libreria, vi si accedeva attraverso una scala posizionata accanto al letto che portava ad un piano superiore che girava intorno alla stanza.
"Allora, ti piace?", le chiesi mentre le cingevo i fianchi da dietro in un abbraccio.
"Sì, molto". Fece una pausa continuando a guardarsi intorno. "Dov'è però il tuo armadio?".
"Oh quello. È in un'altra stanza".
"Hai un'altra stanza da letto?".
"No", risi della sua domanda, "è una stanza il mio armadio".
"Ah...".
"Tranquilla, ci farai l'abitudine".
"Non credo proprio", disse con scetticismo. "Piuttosto, dove dormirò?".
"Qui".
Si voltò per guardarmi. "Come, scusa?". La sua espressione sconcertata era esilarante.
"Dormirai con me, dopotutto non è la prima volta", le feci notare.
"Si ma... le altre volte i nostri genitori non sapevano niente", obiettò.
"Be', adesso lo sapranno".
"Mia madre ci ucciderà".
"Tranquilla, ci penserà mio padre, e poi cosa potremmo mai fare noi due nel letto da soli?", le chiesi infine provocante.
"Sei un gran sconcio". Mi picchiò una spalla per ciò che avevo detto.
Risi di gusto. "Come sempre pensa male, signorina".
"Oh, sta zitto, prima che ti picchi". Come sempre era buffa e questo mi era decisamente mancato.
Feci aderire il suo corpo al mio, i nostri visi erano vicini, riuscivo a percepire il suo respiro irregolare. "Questa volta sarà diverso", le sussurrai.
"Diverso come?". Aveva il fiato corto e sapevo che era per colpa mia e questo mi piaceva.
"Sarai mia come si deve e non ci dovremo più nascondere". La guardai per qualche attimo negli occhi perdendomi in quel meraviglioso grigio. "Tutti devono sapere che sei mia... solo mia".
Mi accarezzò una guancia regalandomi in magnifico brivido. "Sarò sempre tua". Aveva gli occhi lucidi, non volevo che piangesse, che soffrisse. "Anche quando mi lascerai, io sarò tua". Oramai le lacrime le rigavano il viso e sapevo che non se ne sarebbero andate via tanto facilmente. La strinsi ancora di più a me asciugandole le lacrime con dei baci. "Non mi lasciare", mi disse in preda ad un pianto disperato.
"Sono qui...", le sussurrai. Sapevo che non potevo prometterle niente e che non potevo darle ciò che voleva, però potevo darle tutto il mio amore, anche se non potevo dirle che la amavo profondamente. No, non potevo darle questo per poi strapparglilo via con la mia morte, non potevo farle questo. L'avrei solo distrutta.
"Finalmente vi ho trovati!". Accidenti, era dappertutto!
Elle si staccò da me in modo rapido appena si accorse della presenza della madre, asciugandosi in fine le lacrime.
"Mi dispiace, purtroppo la mia porta non si può chiudere a chiave", le spiegai. Stupide regole.
"Come mai?".
"Perché non si sa mai, nel caso di un suo malore non può chiudersi a chiave, si perderebbe del tempo prezioso", le spiegò sua madre.
"E se stai male gli altri come se ne rendono conto?", mi chiese.
"Sono sempre monitorato...".
"Ha un letto speciale che lo monitora quando sta a letto, in caso di un malore scatta un allarme", si intromise per l'ennesima volta la dottoressa Grace. Era una piaga.
"Ho anche una stanza medica apposta per me, si trova qui accanto", le spiegai.
"Capisco...". Sapevo che era preoccupata e che si chiedesse quanto fossi grave, anche se già sapeva la risposta, dopotutto era consapevole della mia imminente morte.
Presi il suo viso tra le mani per farmi guardare da lei negli occhi. "Non ti preoccupare".
"Come faccio a non preoccuparmi per te... è impossibile...". I suoi occhi ritornarono lucidi.
"Vivi attimo dopo attimo, senza preoccuparti di nulla... pensa a noi".
Sospirò senza darmi alcuna risposta.
"Oh eccovi". Sentii la voce di mio padre. In questa casa si poteva avere un benché minimo di privacy o era chiedere troppo?

Per cena papà fece preparare qualcosa di vegano, anche se sapevo che Elle avrebbe preferito una bella bistecca, magari gliela avrei fatta preparare quando non c'era sua madre fra i piedi. Per tutta la durata della cena nessuno proferì parola, c'erano solo sguardi fugaci. Sapevo che la dottoressa Grace non era contenta di questa situazione, del legame che c'era tra me e sua figlia, ma lei non capiva, o semplicemente non voleva accettare. Lei non sapeva quanto amassi sua figlia, probabilmente pensava che fosse solo uno dei miei capricci. Se era così, si sbagliava di grosso. Non osavo immaginare come l'avrebbe presa quando avrebbe scoperto che sua figlia avrebbe dormito con me. Di certo non avremmo fatto quello che temeva, dopotutto non potevamo farlo, sarei potuto morire. Anche se... sarei morto volentieri in quel modo. La desideravo così tanto.
Dopo cena papà propose di guardare un film nel nostro cinema privato. Come al solito Elle rimase stupita, anche se suo padre era ricco non era abituata a certi lussi, lei era semplice e questo mi piaceva. Papà, essendo cotto della dottoressa Grace, gli fece guardare il film che voleva lei, ignorando le proteste mie e di Elle. Era un traditore. Il film era noioso e senza senso, almeno per me, e a quanto pareva anche per Elle, visto che si era addormentata sulla mia spalla. Era buffa e adorabile allo stesso tempo. Aveva la bocca leggermente aperta e un'espressione rilassata. Le diedi un leggero bacio sulla fronte che la fece mugugnare. La mia piccola principessa.
Purtroppo quando il film noioso finì dovetti svegliarla, stando attento a non farmi picchiare da lei, oramai sapevo che quando si svegliava era pericolosa.
"Ho sonno", piagnucolò mezza addormentata.
"Ora andiamo a letto, abbì un po' di pazienza", le sussurrai dolcemente.
"Su Eleonora, adesso Richard ti darà una stanza e potrai dormire", le disse sua madre. Eh no, lei avrebbe dormito con me.
"Lei dormirà con me", puntualizzai.
"Lei dormirà da sola nella sua nuova stanza", assunse un tono severo ed autorio nei miei confronti.
"Lei dorme con me, fine della storia", dicendo questo mi incamminai con una Elle mezza addormentata al mio fianco.
"Tu non dormirai con mia figlia", mi gridò dietro.
Mi voltai guardandola con sguardo furente. "Ho già dormito con lei". Rimase stizzita dalle mie parole. Approfittando del momento me ne andai.
Arrivato in camera disfai il letto ed aiutai Elle a togliere le scarpe. Si infilò sotto le coperte senza cambiarsi e si addormentò immediatamente,
aveva proprio sonno. Era così bella quando dormiva, la volevo tutta per me e sarebbe stata mia. Solo mia. Per sempre.

L'indomani mattina svegliarsi con la mia Elle, prepararsi e fare colazione per poi andare a scuola fu bello, anche se sua madre non fece altro che guardarci contrariata. Non aveva un lavoro al cui andare? Doveva per forza guastarmi l'umore? Papà sembrava contento, forse era merito di una certa persona che ce l'aveva con me.
Finito di fare colazione salimmo in auto per andare a scuola. Approfittai di quel momento per attirare a me Elle e baciarla. Mi piaceva baciarla e il suo sapore era qualcosa di unico e meraviglioso. Quando ci staccammo avevamo il fiatone, io più di lei.
Mi guardò negli occhi per qualche attimo, io avevo voglia di baciarla ancora ma mi fermò. "Cosa c'è?", le chiesi non capendo il suo gesto.
"Sei diverso".
"Diverso?".
"Sì, non dico che non mi piaccia", agrottò la fronte, "cosa ti è successo...?".
"Stavo perdendo la cosa più bella che mi potesse mai capitare". Ero così depresso senza di lei. Era pensierosa. "Qualcosa ti tormenta?".
"Ho così tante domande...".
"Se vuoi risponderò alle tue domande durante l'ora di pranzo ma adesso vorrei solo baciarti finché non arriviamo a scuola". Sorrise scuotendo la testa ma mi accontentò catturando le mie labbra in un bacio intenso.

"Adesso ti ho tutto per me", esclamò Elle mentre si buttò su un cuscino della nostra stanza segreta.
Mi misi seduto accanto a lei. "Sono sempre tutto tuo".
Ridacchiò. "Ovvio che sì". Cosa voleva dire con questo? "però aspettavo questo momento per le mie domande".
"Ovviamente", scossi la testa. "Vada con le domande".
"Bene, come mai quando ti bacio non sai di cioccolato?". Che domanda bizzarra.
"Da quando ho creduto che mi avessi ingannato", fece una smorfia, "anche se ero arrabbiato... pensavo di averti persa per sempre".
"E questo cosa c'entra?".
"Quella cioccolata non solo mi ricorda mia madre ma mi dà un po' di dolcezza in questo mondo amaro, senza di te era inutile cercare quel poco di dolce, mi sono lasciato annegare dal dolore e nell'amarezza".
"Sam". Mi prese il viso tra le mani regalandomi un tenero bacio sulle labbra. "Sei uno sciocco".
"Lo so", sospirai.
"Torna a mangiare la tua cioccolata".
"Ai suoi ordini".
"Bravo", mi sorrise. "Adesso continuiamo con le domande". Si allontanò da me per mettersi più comoda sul cuscino. Chi me lo aveva fatto fare? Povero me.
"Dica pure".
"Cos'hai fatto nelle due settimane che non ci siamo visti?". Questa era facile.
"Mi sono rintanato nella mia stanza, non volevo vedere e parlare con nessuno".
"Ti era mai successo?". Anche se avevo sofferto per la morte di mia madre e di mio nonno, non avevo mai mostrato apertamente il mio dolore, semplicemente mi ero tenuto tutto dentro e fatto finta di nulla.
"No".
"Cos'ho io di diverso?". La domanda che non volevo che mi fosse mai posta. Non potevo dirle che la amavo.
"Non saprei, sei speciale", feci spallucce.
"Solo questo?", mi chiese pensierosa.
"Suppongo di sì".
"Ok". Lessi la delusione nei suoi occhi ma era meglio così per lei.
"Altre domande?".
"Sì. Perché hai voluto che mi trasferissi da te?".
"Due settimane senza di te sono state fin troppe, e poi... voglio passare il resto dei miei giorni insieme a te".
Rimase senza parole per qualche attimo. "Come sempre mi mandi in confusione".
"Mi piace mandarti in confusione".
"Ho notato", sbuffò. Pensò alla prossima domanda da pormi. "Cosa mi dici dei nostri genitori?".
"Oh be', la loro è una storia lunga, che è iniziata ancora prima che nascessimo".
Agrottò la fronte. "Mi stai dicendo che non si sono conosciuti tramite te?".
"Oh no, loro sono cresciuti insieme. Tua madre non ti ha mai detto niente?".
"No".
"Allora te la racconterò io. Devi sapere che i tuoi nonni materni lavoravano per la mia famiglia". 
"Non lo sapevo". Sua madre non le diceva proprio nulla.
"I nostri genitori di conseguenza sono cresciuti insieme", proseguii, "Hanno sempre avuto un forte legame, erano inseparabili ed hanno sempre provato qualcosa più di una semplice amicizia, loro si sono sempre amati ma nessuno dei due si è mai confessato all'altro".
"Mia madre a volte sa proprio essere ottusa", commentò.
"Anche mio padre, però penso che abbiano semplicemente avuto paura di rovinare quel legame che li univa. Poi però il destino li ha allontanati".
"Cos'è successo?".
"Tua madre andò all'università per studiare medicina, anche se mio padre voleva che andasse con lui in una più prestigiosa a spese della mia famiglia, ma lei rifiutò".
"E poi?", chiese curiosa.
"Tua madre conobbe tuo padre, suppongo che conoscerai bene questa storia".
Roteò gli occhi. "Mia madre non fa altro che ripetermela, è per questo che non ha mai voluto che avessi un fidanzato". La solita Grace.
"Mio padre invece conobbe mia madre nel momento più triste e doloroso della sua vita, quando i tuoi si sposarono. Lei lo ha reso felice...".
"Mi dispiace tanto...". Si avvicinò a me poggiando il capo sulla mia spalla.
"È passato tanto tempo ora mai...".
"Ma il dolore non passa mai", concluse la frase per me. Aveva ragione, nonostante provi con tutte le forze ad andare avanti e lasciarti tutto alle spalle, il dolore che ti lacera dentro, non passa mai. "E poi come si sono rincontrati?".
Le misi un braccio intorno alle spalle stringendola a me. "Tua madre era al primo anno di specializzazione all'epoca e io ero malato, così si sono incontrati. Dopo il matrimonio dei tuoi avevano perso i contatti e tua madre non sapeva che mio padre si era sposato e che aveva avuto me, una bambina nata malata".
"Oh...".
"Sono stato io a spingerla a specializzarsi in cardiochirurgia".
"Davvero?".
"Sì. Per quanto vogliano evitarlo, il destino vorrà sempre che stiano insieme".
"Hai ragione". La strinsi ancor di più a me. "Quindi, sei sempre stato malato".
"Sì". Era la storia della mia vita. "Elle".
"Sì?".
"Fammi un favore, prenditi cura di mio padre quando non ci sarò più".
"Te lo prometto". Si liberò dalla mia stretta per puntare i suoi occhi nei miei, stava piangendo.
"Non piangere...". Mi si formò un groppo in gola.
"Non è giusto".
"Cosa non è giusto?".
"Tutto ciò".
"Niente è giusto, bisogna solo accettarlo".
"Non potrò mai accettarlo". Catturò le mie labbra in un bacio pieno di parole non dette. Sapevo che non voleva che morissi, ma le cose dovevano andare così e io l'avevo accettato da tempo. Però qualcosa dentro di me stava cambiando, e se non volessi più morire? Prima non aspettavo altro, ma adesso c'era lei. Non sapevo più cosa pensare, lei stava mettendo in dubbio ogni mia certezza.

Dopo scuola, la portai a mangiare fuori, una bella bistecca per la precisione, che lei gradì molto, io invece mangiai del pesce. Mi era mancato tutto questo, io e lei che ce ne stavamo da soli a mangiare, a chiacchierare e a ridere. Questa volta le cose tra noi sarebbero state diverse, avevo intenzione di chiederle come si deve se voleva essere la mia fidanzata, stavolta doveva essere una cosa ufficiale, e chiamatemi egoista per farle questo, per star con lei, e poi lasciarla dopo la mia morta, ma questo era ciò che volevo, stare con lei... forse anche per sempre.
Avevo pensato di portarla a fare un giro in mongolfiera e darle il mio regalo, anche se pensandoci bene questa era stata una pessima idea, soffrivo terribilmente di vertigini, ma volevo fare qualcosa di romantico e per lei questo e ben altro, volevo vederla felice.
"Dove mi stai portando?", mi chiese quando si accorse che non la stavo riportando a casa. Forse il suo scarso senso dell'orientamento stava migliorando.
"Sorpresa".
"Non mi piacciono le sorprese", si imbronciò.
"Come mai?".
"Perché sono troppo curiosa e non so resistere". La sua confessione mi fece ridere come non mai.
"Sei incredibile", commentai mentre continuavo a ridere.
"Scemo". Mi fece una linguaccia per poi incrociare le braccia imbrociata.
"Sai, sei davvero carina quando fai così".
Arrossì visibilmente. "Non è vero", disse mentre si portava le mani sul viso per coprirsi per l'imbarazzo.
"È la pura verità", le sussurrai all'orecchio per poi morderlo.
"Sam! Cosa fai!?". Era in evidente imbarazzo e la cosa mi divertiva.
"Nulla", continuai a ridere, "comunque, siamo quasi arrivati, non manca molto", l'avvisai.
Si guardò intorno confusa. "Facciamo un picnic?", mi chiese per poi guardarmi con un espressione che non prometteva niente di buono. "Hai intenzione di farmi ingrassare? Abbiamo finito di mangiare da poco".
"Non ti sto portando a fare un picnic", esclamai. Ragazze, valle a capire.
"E allora dove mi stai portando?".
"A fare un giro".
"Tutto qui?".
"Tutto qui". Sapevo che dal suo sguardo non mi credeva e sospettava qualcosa.
Quando l'autista accostò l'auto, fu inevitabile che Elle vedesse la mongolfiera e quando la vide mi lanciò uno sguardo che mi fece rabbrividire. Che anche lei soffrisse di vertigini?
"Cosa c'è?", le chiesi timoroso.
"Non è che hai intenzione di farmi qualche scherzo o qualcosa del genere?". Da dove le venivano fuori certi pensieri?
"N-no".
"Cos'hai in mente?", strinse gli occhi a fessura.
"Non posso farti fare un giro?".
Sospirò rassegnata. "Sì, certo che poi".
"Bene, allora andiamo". La presi per mano conducendola verso la mongolfiera.
"Salve", salutai con un cenno l'uomo che ci avrebbe fatto fare il giro sulla mongolfiera.
"Salve a lei, signor Edwards", ricambiò il saluto per poi rivolgersi alla mia Elle, "e a lei signorina". Come osava sorriderle a quel modo, lei era mia. Gli lanciai uno dei miei sguardi intimidatori che lui recepi perfettamente. "Se siete pronti possiamo andare".
"Certo", gli lanciai un sorriso falso.
Ci aprì la censta e salimmo, fino a qui era tutto a posto, ma quando partimmo non lo fu più, per me. Sapevo che era sicuro ma la parte vigliacca e fifona di me mi diceva che saremmo caduti. Eravamo così in alto e in una cesta fin troppo piccola per i miei gusti, tutto ciò non mi piaceva per niente. Cercai di fare dei respiri profondi per calmarmi ma non funzionò, niente avrebbe funzionato, proprio nulla. O forse sì?



Nota autore:
Per il momento questo sarà l'ultimo capitolo e quindi non pubblicherò più tutti i giorni. Scusate ma sto ancora scrivendo la storia 😣

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Capitolo 23
*** Eleonora XII ***


Erano successe davvero tante cose in così poco tempo. Sam era davvero fuori di testa, stavo iniziando a pensare che lo psicopatico che era in lui si fosse fatto di nuovo vivo. Ancora non riuscivo a crederci che fosse riuscito a convincere mia madre a farci trasferire a casa sua e di suo padre, e per di più, aveva permesso che dormissi insieme a lui nello stesso letto, anche se non ricordavo come ci fossi finita a letto. Mistero.
Le cose tra noi stavano decisamente cambiando, era come se adesso si fidasse di me, si stava aprendo. La parte illusa di me credeva che lui mi amasse, poteva essere possibile? Stava così cambiando? Ma arrivare ad amarmi? No, era meglio che non ci pensassi, non volevo sperare per poi avere una delusione, con conseguenza un cuore spezzato.
Quando uscii dai miei pensieri, mi accorsi che l'autista di Sam, che ora sapevo che si chiamava Jacob, non ci stava portando a casa ma in un posto a me sconosciuto. "Dove mi stai portando?".
"Sorpresa".
"Non mi piacciono le sorprese", mi imbronciai. Non mi piacevano proprio le sorprese.
"Come mai?".
"Perché sono troppo curiosa e non so resistere". Rise di me. Com'era odioso quando rideva di me. Io ero seria e lui che faceva? Rideva. Ma io lo strozzo!
"Sei incredibile".
"Scemo". Gli feci la linguaccia incrociando le braccia imbrociata.
"Sai, sei davvero carina quando fai così". Cosa? Ma erano cose da dire? Solo lui sapeva come mettermi in imbarazzo, compreso suo padre.
"Non è vero", mi portai le mani sul viso.
"È la pura verità", mi sussurrò all'orecchio per poi morderlo. Era impazzito per caso!?
"Sam! Cosa fai!?".
"Nulla", continuò a ridere di me. Io lo strozzo davvero! "comunque, siamo quasi arrivati, non manca molto".
Mi guardai intorno. Perché mi stava portando in un prato? Voleva fare un picnic per caso? Avevamo appena pranzato! "Facciamo un picnic?", lo guardai sospettosa. "Hai intenzione di farmi ingrassare? Abbiamo finito di mangiare da poco".
"Non ti sto portando a fare un picnic", esclamò
"E allora dove mi stai portando?".
"A fare un giro". Un giro? E dove, nel nulla?
"Tutto qui?", chiesi scettica.
"Tutto qui". Sapevo che mi nascondeva qualcosa, si credeva davvero così furbo? Non mi poteva ingannare così facilmente, no signore.
Quando l'autista accostò l'auto, vidi una mongolfiera. Voleva farmi fare un giro su una mongolfiera? Non è che mi voleva buttare di sotto?
"Cosa c'è?", mi chiese dopo che gli lanciai un occhiataccia sospettosa.
"Non è che hai intenzione di farmi qualche scherzo o qualcosa del genere?".
"N-no", balbettò intimorito.
"Cos'hai in mente?", strinsi gli occhi a fessura.
"Non posso farti fare un giro?".
Sospirai rassegnata, dopotutto non aveva tutti i torti. "Sì, certo che puoi".
"Bene, allora andiamo". Mi prese per mano tutto contento trascinandomi verso la mongolfiera. Era gigantesta vista da vicino.
"Salve", salutò Sam con un cenno l'uomo che presumevo ci avrebbe fatto fare il giro sulla mongolfiera. Come al solito Sam non cambiava, era freddo e distaccato con gli altri, come se non gli importasse nulla di loro. Sapeva che volevo che fosse più gentile con le persone.
"Salve a lei, signor Edwards", ricambiò il saluto l'uomo in modo formale, per poi rivolgersi a me con più gentileza e regalandomi un sorriso cordiale, "e a lei signorina". Notai che Sam era infastidito dalle attenzioni che mi aveva prestato l'uomo, se avesse potuto ucciderlo con lo sguardo lo avrebbe fatto. "Se siete pronti possiamo andare", continuò.
"Certo", gli rispose Sam. Era evidente che fosse infastidito da lui e la cosa mi piaceva, mi faceva sentire importante.
Il signore della mongolfiera, che non ci aveva detto il suo nome tra l'altro, ci aprì la cesta facendoci salire. Quando partimmo, notai che Sam era agitato. Dopo un po' strinse gli occhi ed iniziò a fare dei respiri profondi. Decisamente c'era qualcosa che non andava. Gli presi la mano nella mia stringendola cercando di rassicurarlo ma non funzionò. Perché aveva deciso di portarmi su una mongolfiera se soffriva l'altezza? Era così pazzo o tremendamente romantico da non importargli? Ma poi, non era lui quello che si arrampicava dal mio tubo di scolo? Non capivo. Ma in fondo lui era Sam e viveva nel suo mondo fatto delle sue regole.
"Sam?", gli sussurrai mentre gli accarezzavo la guancia, "va tutto bene, ci sono io qui con te".
"No che non andrà bene". Era evidente dal suo tono di voce che era agitato e terrorizzato, non l'avevo mai visto così prima d'ora.
"Perché dici questo?".
"Perché questa cesta non può reggerci, cadremo, me lo sento".
"Ma Sam, questa cesta è stata testata e ci reggerà, sta' tranquillo", gli dissi con voce bassa e rassicurante.
"Lo so ma non ci riesco".
"Sam, guardami negli occhi". Con fatica e riluttanza aprì gli occhi per fissarli nei miei, e il blu e il grigio si ritrovarono come sempre. "Non temere". Mi avvicinai a lui poggiando le mie labbra alle sue in un bacio casto.
"Solo tu riesci a farmi perdere", mi sussurrò, anche se non capivo cosa volesse intendere.
"A farti perdere?".
"Ogni cosa".
"Non capisco".
"È meglio così". Perché diceva questo? Non capivo, a volte sapeva essere così misterioso. "Sai perché ti ho portata qui?", mi chiese ad un tratto.
"Perché volevi essere romantico?", provai ad indovinare.
"Non solo". Cosa voleva intendere? "Ricordi che ti ho detto che stavolta sarà diverso?".
"Sì".
Con mia sorpresa e stupore, dalla tasca interna del suo trench estrasse una piccola scatola. "So che ho pochi mesi di vita e probabilmente non dovrei fare questo, sarei solo un egoista, ma poi in fondo l'uomo in se non è perfetto". Mi guardò per qualche attimo prima di proseguire il suo discorso profondo, "È proprio perché sono un egoista che ti sto chiedendo con questo, di diventare ufficialmente la mia fidanzata e passare questi miei ultimi mesi insieme, accetti?".
Rimasi per un tempo infinitesimale senza proferire parola. Ero sotto shock. Da lui non mi sarei mai immaginata una cosa del genere. Non era da lui, anche se... Da quando l'avevo incontro la prima volta, lì sotto quel albero a piangere, a poco a poco era cambiato sempre in meglio, e questa era la prova tangibile. Il punto adesso era se accettare o meno. Sapevo che lui voleva una risposta sincera e non dettata dal semplice fatto che stesse per morire, non avrebbe mai accettato una cosa del genere. Perciò, io volevo essere ufficialmente la sua fidanzata, era ciò che volevo? Ebbene sì. Non m'importava se ci restava poco tempo da trascorrere insieme, sarei sempre stata sua, anche dopo la morte, e poi lo amavo in un modo che non mi sarei mai immaginata ma che era accaduto.
"Sì", accettai per poi catturare le sue labbra in un bacio pieno d'amore.
"Bene, a questo punto dovrei metterti l'anello al dito", mi disse nervosamente dopo che si fu staccato da me. A volte sapeva essere così impacciato, mi piaceva questo suo lato che mostrava solo a me.

Dopo il pomeriggio stupendo passato col mio Sam, purtroppo siamo dovuti tornare alla realtà. Quando tornammo a casa, per mia sfortuna, c'era mamma. Non aveva più un lavoro per caso? Doveva per forza starci tra i piedi? Quando ci vide ci lanciò la sua famosa occhiata di disapprovazione, forse era dovuto al fatto che io e Sam ci stessimo tenendo per mano, era così imbarazzante. Volevo staccare a malincuore la mia mano dalla sua ma lui non mi mollava, anzi, mi teneva ben salda a sé, come se volesse far capire che ero di sua proprietà. Che situazione. Invece il signor Edwards era spensierato come al solito, se ne stava seduto sul sofà a leggere un libro, fortunatamente era un tipo tranquillo, al contrario di mamma che non le andava mai bene niente.
"Dove siete stati fino a quest'ora? Avete idea di che ore sono? Non avete neanche avvisato. Sapete che domani avete scuola e dovete studiare". Mia madre quando iniziava non la finiva più con le sue domande e rimproveri.
"Sono affari nostri", la liquidò Sam annoiato. Come faceva? Era incredibile. Io al contrario suo ero rimasta paralizzata dal terrore, incapace di formulare una frase di senso compiuto.
"Invece sono affari miei e di tuo padre giovanotto, questo non è mica un albergo". Oh no, Sam la stava guardando col suo sguardo da insetto schifoso che andava schiacciato. Quei due insieme non erano di certo una bella cosa, e ritrovarsi nella stessa stanza con loro non era da meno.
"Ricorda che questa è casa mia e tu sei l'ospite, perciò non mi annoiare e far perdere tempo con i tuoi stupidi ed inutili discorsi". Adesso mamma sarebbe scoppiata.
"Tu, ragazzino impudente, come osi parlarmi a quel modo!", lo additò.
"Mi stai annoiando. Elle, andiamo in camera nostra, qui qualcuno mi sta guastando l'umore", dicendo questo mi trascinò via con sé, anche se...
"Tu non porti mia figlia da nessuna parte. Richard, fa' qualcosa!".
"Ehm... cosa?". Per tutto il tempo il signor Edwards era rimasto seduto a leggere il suo libro, ignorando la discussione in corso.
"Sam ed Eleonora sono stati via fino a tardi chissà dove, non dici nulla al riguardo?".
"Vi siete divertiti?", ci chiese curioso e con un sorriso sulle labbra.
"Richard!", lo riprese mamma.
"Ehm sì. Dove siete stati?".
"A fare un giro su una mongolfiera", interveni prontamente prima che scoppiasse la terza guerra mondiale.
"Che bello!".
"Non è per niente bello, sai che Sam soffre l'altezza, poteva sentirsi male". Adesso capivo perché Sam non aveva voluto dirgli dove eravamo andati. Il mistero era stato svelato.
"Grace, lascia che i ragazzi si divertano, sono giovani dopotutto, lascia che se la godano questa giovinezza finché possono".
"Sam poteva sentirsi male", ribadì.
"Come vedi non è successo, in caso, Sam sa cosa fare, e poi non era da solo, dico bene?", si rivolse in fine a noi.
"Certo, ma qui qualcuno ci crede stupiti", disse Sam lanciando una frecciatina a mia madre. Questa faccenda stava diventando una commedia comica.
"Potevate avvisare però".
"Che bisogno c'è? Non siamo mica dei bambini".
"Ha ragione Grace, i nostri figli sono abbastanza grandi da essere responsabili, sta' tranquilla, non devono dirci sempre tutto, fidati di loro". Il padre di Sam era fantastico, avrei tanto voluto che il mio fosse come lui, ma era chiedere la luna.
"Come vuoi Richard, dopotutto questa è casa tua, quindi regole tue", si rassegnò.
Il Signor Edwards posò il libro alzandosi da dov'era seduto per avvicinarsi a lei. "Questa adesso è anche casa tua e di Eleonora, quindi, se vuoi stabilire delle regole per me non c'è nessun problema".
Mamma lo guardò con occhi sognanti. "Dici sul serio?".
"Ma certo, però lascia un po' liberi i ragazzi". Si voltò verso di noi, "Dico bene?". Io annuii, Sam invece sembrava infastidito ma fece comunque una specie di grugnito d'approvazione, era il solito.
"Adesso possiamo andare?", chiese infine.
"Certo, vi faremo chiamare per la cena".
"Finalmente". Era decisamente irritanto. "A proposito, io ed Elle siamo ufficialmente fidanzati". Ero spacciata. Come poteva dire una cosa del genere in un momento come questo! Lo psicopatico era tornato.
Non si fermò neanche per un attimo, ignorando le grida di mia madre.
"Sam, non credi di aver un tantino esagerato?", gli feci presente.
"Tu dici?".
"Ma certo, e poi sai che non mi piace quando ti comporti così".
Si fermò per voltarsi a guardarmi. "Sai, è divertente guardare tua madre mentre da di matto, ma tu questo non dirglielo", mi fece l'occhiolino, per poi voltarsi e tornare a camminare verso la nostra stanza. Era diabolico, aveva provocato apposta la mia ignara madre solo per divertimento.
"Sei uno psicopatico".
"È per questo che mi adori", rise.
Mi spuntò un sorriso. Sì, aveva ragione. "Chissà...".

Durante la cena, era evidente che mamma fosse furente, a momenti le sarebbe uscito il fumo dalle orecchie, intanto; Sam e suo padre mangiavano come se nulla fosse. Come facevano a essere così tranquilli e rilassati? Io mi sentivo addosso lo sguardo da omicida di mia madre e loro erano belli che tranquilli, che situazione. Intanto, prima di scendere per la cena, mi ero assicurata di girare l'anello che mi aveva regalato Sam, nel vano tentativo di non farlo notare. Secondo voi aveva funzionato? Ebbene no! Da quando mamma lo aveva notato credeti di morire sul colpo, letteralmente. Mi aveva guardato con uno sguardo assassino e aveva stretto il coltello che aveva in mano in modo sospetto, come se volesse accoltellarmi. Fortuna che il mio Sam mi ha salvata, be', a modo suo avviamento. Ero decisamente finita in una gabbia di matti.
"Papà, hai visto l'anello che ho regalo a Elle?", gli chiese un po' troppo ad alta voce, chissà mai il perché, eh. Chissà.
"No, vediamo?". Oh no... mi sentivo lo sguardo di tutti addosso e quello di mia madre sempre più omicida.
Con titubanza lo girai mostrandogli l'anello a forma di fiore con al centro una pietra. Avevo chiesto a Sam che pietra fosse ma lui aveva fatto il vago, sospettavo che fosse un diamante. Lo sospettavo fortemente conoscendolo ma avevo fatto finta di niente e non glielo avevo restituito solo perché era un suo regalo e non volevo che ci restasse male, però era troppo, ma in fondo lui era fatto così. "Davvero stupendo, ottima scelta figliolo, non trovi anche tu, Grace?". Ecco come Sam voleva salvarmi, astuto come sempre.
"Oh sì, davvero stupendo". Ad un tratto la pazza omicida che era in lei era stata sostituita dalla lei civettuola. Era incredibile.
"Non sei contenta per loro?".
"Oh sì".
"Chi avrebbe mai detto che un giorno i nostri figli si sarebbero messi insieme". Era raggiante.
"Eh già". Mamma invece era una pessima attrice.
"Basta parlare di me e di Elle", intervenne ad un tratto Sam, come se fosse infastidito da qualcosa. "Piuttosto, hai pensato dove andremo in viaggio?". Viaggio? Quale viaggio?
"Ancora non abbiamo deciso, qualche proposta?".
"Sai che per me è uguale". Continuavo a non capire.
"Che viaggio?", mi intromissi.
"Il viaggio con la scuola", mi spiegò Sam.
"Penso che i ragazzi ricevano più stimoli quando viaggiano, e poi è un ottimo modo divertente per imparare, infatti durante l'anno facciamo almeno quattro viaggi all'estero".
"Poi conta anche le gite che facciamo durante l'anno", precisò Sam.
"Esatto". Amavo sempre di più questa scuola.
"Quindi dove si va?", chiesi infine.
"Perché non scegli tu?", mi propose Sam. Cosa, io?
"Non saprei, ci sono tanti posti da visitare...".
"Non c'è un posto dove ti piacerebbe andare?".
C'erano tanti posti che volevo visitare. Fin da piccola vedevo mio padre viaggiare per il mondo per via della sua arte e fama, io invece restavo a casa con la Tata, così lui poteva spassarsela con le sue conquiste senza una mocciosa intorno. Pensai a dove volessi andare, poi un pensiero, o meglio, un ricordo riaffiorò dalla mia mente. "Mi piacerebbe andare in Giappone".
"Che bella idea", esclamò il signor Edwards, "solo che è un gran peccato che non sia il periodo dei ciliegi in fiore". Lo sapevo benissimo, solo che per allora Sam non sarebbe stato in grado di partire.
"Non fa niente".
Dopo cena, i e Sam andammo per volontà di mamma a studiare in camera nostra. Anche se amavo studiare e ci tenevo a tenere la mia media alta, oggi non mi andava proprio, avevo altro per la testa.
"Giappone, eh?", esclamò ad un tratto Sam mentre eravamo seduti alla scrivania a studiare.
Lo osservai per qualche attimo, aveva uno sguardo pensieroso. "Non vuoi andarci?".
"Una volta ti avevo detto che ti avrei portata lì durante il periodo dei ciliegi in fiore perché mi ricordavano il tuo profumo".
"Sì, ma per allora...", mi morirono le parole in gola a quel pensiero.
"Sarò morto...", concluse per me.
"Perché il destino è stato così crudele con noi!", esclamai arrabbiata.
Si avvicinò a me. "Non dimenticare che quel destino stesso c'ha fatto incontrare", mi diede un leggero bacio sulle labbra.
"Potevamo incontrarci prima però", sussurrai sulle sue labbra.
"Evidentemente non dovevano andare così le cose", sussurrò a sua volta sulle mie labbra, per poi baciarle. "È meglio se iniziamo a studiare", mi disse divertito. Non era giusto, volevo continuare a perdermi nei suoi baci.
"Va bene", sbuffai rassegnata.
"Cosa c'è, vuoi un altro bacio?", mi chiese divertito.
"Non più". Com'era odioso quando faceva così, si divertiva a prendersi gioco di me.
"Dai, non fare così, scherzavo", mi diede una leggera spinta.
"Non lo trovo affatto divertente, va' a prendere in giro qualcun'altro piuttosto".
"Su Elle".
"No", incrociai le braccia al petto, così imparava a prendersi gioco di me.
Improvvisamente mi afferrò per le braccia attirandomi a lui così che il mio corpo aderisse perfettamente al suo. Quando faceva così mi mandava in confusione. "Respira", mi sussurrò.
"Ok...", biascicai, anche se in quel momento non ricordavo più come si facesse a respirare.
"Sappi che prendo in giro solo te". Oh che bella cosa. Davvero. È così divertente prendermi in giro io dico! "Mi diverto solo con te, e sorrido solo a te, sai il perché?".
"Illuminami".
Alzò un sopracciglio ma non replicò, continuando il suo discorso. "Perché con te ne vale la pena. Tu ne vali la pena".
"Quindi è per questo che mi prendi in giro?".
"Sì". La cosa era un po' contorta ma aveva il suo perché, almeno così credevo.
"Sei il solito", replicai scuotendo la testa è ridendo.
"Ricorda che vivo nel mio mondo con le mie regole, e tu ne fai parte". Questo era vero. "Adesso, se non ti spiace, dobbiamo studiare".
"Va bene".
"Prima che dimentichi, anche se è impossibile ma tu hai la capacità di distrarmi, perciò, domani dobbiamo andare a scuola un po' prima".
"Come mai?".
"Devo andare da Clark", alzò gli occhi al cielo. "Prima mi ha mandato un messaggio dicendomi che è da un po' che non vado a trovarlo". Sembrava seccato, ma dopotutto a lui infastidiva tutto.
"Perciò mi lascerai sola in classe?". Dimmi di no, non voglio restare sola in classe con la possibilità che quella strega torni all'attacco, lei e la sua combriccola.
"Sì, ma non resterò via per molto, dovrò solo aggiornarlo e bla bla bla". Aspetta! Aggiornarlo su cosa?
"Non vorrai mica parlargli di me spero?".
Si accigliò. "Gli parlo sempre di te", mi disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo e io quella tonta che non capiva mai nulla. No. No. No, e poi no. Che vergogna. Gli parlerà del nostro primo bacio? Dei nostri baci? O di quando l'ho provocato in quel modo che neanche io sapevo spiegarmi?
"Non osare", lo additai.
"È perché mai?", mi chiese accigliato mentre mi abbassava la mano.
"Perché no. Che vergogna!".
"Vergogna?", chiese non capendo cosa intendessi. Era un caso disperato.
"Tu non raccontargli aneddoti imbarazzanti su di me, ok?".
"Ad esempio?".
"Quando ti sono praticamente saltata addosso".
Gli spuntò un sorrisetto che non mi piacque affatto. "Quale delle due volte?". Due volte? "Quella dopo aver studiato, oppure quella quando stavi preparando la valigia?". Impallidii, mi ero completamente dimenticata della prima.
"Entrambe".
"Mmh...", si portò la mano sul mento pensieroso, "sinceramente ho preferito la seconda, mi hai lasciato senza parole. Approvo. Però puoi fare di meglio", annuì compiaciuto. Era serio per caso?
"Sam?".
"Sì?", mi osservò curioso.
"Preparati ad assaggiare la mia ciabatta". Improvvisamente impallidì.
Protese le mani in avanti agitandole. "Stavo solo scherzando, abbi pietà di me".
"Ti conviene, e non dire certe cose al tuo psicologo, sono private".
"Ok, come vuoi, basta che non ti arrabbi". A volte sapeva essere proprio impossibile.

Come da programma ci recammo a scuola prima. A quell'ora del mattino la scuola era praticamente deserta, evidentemente i signorini non avevano voglia di alzarsi la mattina presto, e dire che le lezioni iniziano alle 9:30. E poi nessuno di loro prende mezi pubblici, la pigrizia sarà qualcosa da ricchi snob evidentemente. In compenso c'era qualcuno che si aggirava nei corridoi, forse qualcuno che teneva allo studio come me e che non era uno snob presuntuoso che se la tirava tanto. Quando arrivammo in classe, c'erano solo due ragazze che parlavano tra di loro, con la quale non avevano mai scambiato una parola tra l'altro. Non mi avevano mai dato l'impressione di essere delle snob, solo che non avevo mai avuto l'occasione di parlare con loro, e la causa maggiore era un certo psicopatico di nome Sam, con lui era impossibile avvicinare qualcuno, tutti avevano timore di lui, ignorando quanto fosse buono e gentile in realtà. Anche se, pensandoci bene, questo lato di sé lo dimostrava solo a me. Poi con mio orrore, vidi la strega snob che mi dava il tormento ma stranamente era da sola. Chissà, forse i suoi genitori per punirla la facevano andare a scuola in anticipo. Ben le stava. Intanto andai a sedermi al mio posto, sistemando le mie cose per bene.
"Farò in fretta, per quando inizierà la lezione sarò già tornato, ok?", cercò di rassicurarmi sapendo che non volevo restare da sola.
"Ok", sospirai.
Si avvicinò a me dandomi un bacio a stampo sulle labbra. "Mi mancherai...", mi disse per poi voltarsi e andarsene via, non prima di regalarmi un ultimo sorriso e sparire dietro la porta. Mi sarebbe mancato ma doveva andare dal suo psicologo, chissà che tipo era. Probabilmente un tipo serio che vestiva sempre con abiti solo e solamente marroni e con degli occhi vecchio stile sul naso.
Mentre fantasticavo, un forte e improvviso rumore mi fece sobbalzare. Era la strega che aveva sbattuto il palmo della mano sul mio banco con violenza, e adesso che voleva da me? "Cos'è questa storia?", mi urlò in faccia.
Agrottai la fronte non capendo. "Non abbiamo storia a prima ora".
"Mi riferivo a Sam, tonta!". Tonta ci sari tu. "Con quale diritto lo hai baciato?", mi urlò un'altra volta contro.
"In primis; è stato lui a baciarmi, e per secondo; non sono di certo affari tuoi ciò che faccio", le risposi a modo anche se sospettavo che me ne sarei pentita amaramente, a volte non sapevo proprio tenere a freno la lingua.
"Sono affari miei eccome! In questa scuola tu non conti nulla, non sei una di noi". Intendi una snob? Meno male direi. "Non parteci alle nostre feste e non conosci la gente che conta. Sei solo una poveraccia, una morta di fame che va dietro al più ricco. Sei solo una scalatrice sociale da quattro soldi". Mi stava per caso confondendo con quell'oca che ha sposato mio padre o sbaglio?
"Senti". Mi alzai per essere alla sua altezza, anche se era più alta di me ma dettagli. "Tu non sai niente di quello che c'è fra me e Sam o di quello che ci lega, perciò, sparisci e tornatene fra i tuoi simili".
Le spuntò un sorrisetto che non prometteva nulla di buono. "Ma guarda un po' la stracciona com'è audace e sfrontata". Adesso mi stava davvero irritando.
Mi spostai dal mio posto per starle faccia a faccia senza ostacoli davanti. "Sentimi bene", la additai, "ti senti superiore agli altri solo perché hai un conto in banca alto, ma alla fine sono i tuoi genitori ad avere i soldi. Tu nella tua breve vita non hai fatto altro che sperperare denaro ed ostentare la ricchezza dei tuoi genitori, quando là fuori c'è gente che muore di fame o arriva a malapena a fine mese, dovresti solo vergognarti di te stessa".
"Sai quanto me ne importa dei poveracci", rise. Era disgustosa. Mi squadrò da capo a piedi. "So come sono fatte quelle come te, fate innamorare il povero ricco di turno e poi gli spillate i suoi bei quattrini, che sciocca. Sam è troppo intelligente per farsi abbindolare, probabilmente starà facendo uno dei suoi esperimenti per noia, lo fa spesso".
"Cosa c'è, ti dà fastidio che Sam abbia scelto me e non te?", la provocai.
Per un attimo la sua espressione era furente, poi guardò dietro di me e le spuntò un sorriso maligno. Mi voltai e vidi la sua combriccola al completo. All'improvviso mi sentii afferrare da dietro per i capelli. "Adesso ti daremo una bella lezione, così imparerai a stare al tuo posto fra i straccioni come te, con noi non si scherza... e questa volta nessuno verrà a salvarti", mi alitò all'orecchio. Stavolta era davvero la fine.
Tutto il gruppo mi trascinò a forza verso il bagno delle ragazze. I ragazzi presenti, nonostante vedessero che ero in difficoltà, non vennero a darmi una mano, troppo vigliacchi per farlo oppure non gliene importa nulla di me. Mi buttarono con violenza sul pavimento freddo del bagno.
"Credi davvero che Sam voglia una come te?", mi chiese un ragazzo alto e con un taglio alla moda che gli stava davvero male. "Lui non vuole nessuno, ha detto più volte di essere assessuato".
"E lei come una sciocca ha creduto che lui fosse interessato a lei", mi derise la strega snob. Loro non sapevano nulla di Sam. Non gli importava nulla di lui, ma solo dei suoi soldi, era questa la verità.
"Non sapete niente di Sam e dei suoi sentimenti", gridai a tutti loro.
"Sei tu che non sai niente di lui", mi urlò in faccia il ragazzo col pessimo taglio. "Scommetto che non ti ha mai toccata". Se credeva di avere una voce provocante e sexy, aveva sbagliato tono.
Lo guardai dritto negli occhi senza alcun timore. "Non sono affari tuoi e né dei tuoi amichetti snob".
"Che ragazza sfrontata, mi piace". Tentò di accarezzarmi la guancia ma io lo scansai in modo brusco. "Ed è pure aggressiva, mi piace". Tutti ridevano come degli stupidi tranne me ma sapevo che da lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di davvero brutto, e Sam non era qui a salvarmi, non stavolta.
La strega si avvicinò a lui. "Perché non le dimostri come si comporta un vero uomo? Magari è così ingenua da non sapere certe cose, scommetto che non ha nessuna esperienza", rise di me.
Mi sentii lo sguardo di lui addosso e intuii cosa voleva fare, cosa stava per farmi. Sentii chiudere la porta del bagno. Il cuore mi batteva così forte che lo sentivo rimbombare nelle orecchie in modo frenetico. Non volevo che mi toccasse, che nessuno di loro facesse, l'unico e solo che avrebbe potuto farlo e che aveva il mio permesso era Sam. Se avevo paura? Chi non l'avrebbe avuta al mio posto? Dentro di me c'era però una parte coraggiosa, e se volevano toccarmi avrebbero dovuto faticare, perché avrei lottato con le unghie e con i denti pur di non farmi toccare da nessuno di loro.

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Capitolo 24
*** Sam XII ***


Dopo aver lasciato Elle sola in classe, andai da Clark per informarlo degli ultimi avvenimenti accaduti. In così poco tempo erano successe davvero un sacco di cose, chissà come l'avrebbe presa.
Quando entrai nel suo studio; eccolo lì che mi aspettava con una certa impazienza, era peggio di una vecchia zitella pettegola.
"Allora, com'è andata con lei?", mi chiese quando mi fui accomodato sul sofà.
"Da ieri siamo ufficialmente fidanzati".
"Come, scusa?". Era in evidente stato di shock, decisamente non se lo aspettava.
"Le ho regalato un anello e abbiamo ufficializzato il nostro fidanzamento".
"E la dottoressa Grace come l'ha presa?". Come credeva che l'avesse presa? Male, ovvio.
"Male come al solito, ma non m'interessa minimamente di lei o di quello che pensa", feci spallucce.
Si grattò il capo per un attimo. "Quindi non vuoi più morire?".
"Ma io sto per morire", affermai.
"Sam, sappiamo che hai deciso tu di voler morire", mi disse con un espressione contrariata.
"È vero".
"Come mi hai detto, sei innamorato di lei, no?".
"Anche questo è vero, e con ciò?". Cosa voleva ottenere?
"Sam, non vorresti vivere per lei?". Questa era una domanda spinosa.
"Quante probabilità ho di sopravvivere al trapianto? Quante probabilità ho che il mio organismo non rigetti il nuovo cuore? Sempre e solo probabilità".
"Ma almeno ci avrai provato a vivere".
"Provare a vivere dice? Non crede che abbia bisogno di un motivo per farlo?".
"Non hai la tua Elle, lei non è un buon motivo per vivere?", mi chiese in fine.
"No, ho bisogno che lei mi ami".
"E lei non ti ama per caso?". Amare me? E come potrebbe. Nessuno potrebbe mai amare una persona vuota e sbagliata come me.
"Non penso", gli dissi con un filo di voce.
"Ti invito a pensarci su".
"E io la invinto a non dirle niente".
Sospirò rassegnato. "Come vuoi, alla fine è una tua decisione".
"Bene". Non volevo che gli altri si intromettessero nelle mie faccende.
"Piuttosto, perché non la porti qui qualche volta?". Perché voleva parlare con lei? Stava benissimo, non era come me.
"Perché dovrei?".
"Per sapere come si sente, quali sono le sue sensazioni. Credimi Sam, i giovani hanno sempre qualcosa su cui parlare o sfogarsi, come ben sai la vita non è facile, specialmente alla vostra età". Ora che ci pensavo. Elle aveva avuto dei problemi, in specialmodo con il padre e la matrigna.
"Va bene, la prossima volta la porterò con me, basta che non la metta in imbarazzo con le sue sciocche domande".
"Va bene", furono le sue parole prima che qualcuno spalancasse la porta con irruenza. Chi era che disturbava? Erano due ragazze.
"Sam, ti stavamo cercando", dissero all'unisono ansimando per la corsa.
"Cosa volete, non vedete che ho da fare?", dissi loro irritato.
"Victoria e il suo gruppo hanno portato Eleonora nel bagno delle ragazze", esclamò una delle due. Chi era Victoria, ma soprattutto, cosa voleva fare alla mia Elle?
Mi alzai di colpo, per rivolgermi a Clark: "Vada a chiamare mio padre, subito!".
"Sì". Mi guardò allarmato e preoccupato allo stesso tempo.
"Portatemi da lei", mi rivolsi alle ragazze che semplicemente annuirono.
Mentre mi stavo allontanando, Clark mi richiamò: "Sam, non fare sciocchezze", mi raccomandò.
"Non garantisco nulla", furono le mie ultime parole prima di allontanarmi da lì.
Quelle due correvano davvero veloci e il mio cuore sentiva già la fatica della corsa, batteva frenetico come se volesse esplodere, era anche agitato e preoccupato per Elle. Chi erano questa Victoria e il suo gruppo? Questo nome, perché non mi era poi così nuovo? Cercai di ricordare, di dare un volto a questo nome. Ma certo, era quella stupida che aveva tirato una pallonata in faccia alla mia Elle. Non l'era bastata la lazione? Dopo questa l'avrebbe pagata cara, lei e i suoi amici snob, nessuno può o deve osare far qualcosa di brutto alla ragazza che amo, alla mia fidanzata. Ad un tratto mi girò la testa. Mi mancava l'aria. Stupido cuore, lei ha bisogno di noi, perciò collabora!
Ripresi a correre raggiungendo le ragazze.
"Ci siamo quasi", mi disse una delle due, non saprei quale, ero troppo occupato a respirare, e poi non sapevo i loro nomi.
Finalmente arrivammo. Quando mi fermai presi un gran lungo respiro profondo.
"Hanno chiuso la porta". Cosa? Avevano perfino chiuso la porta. Che cosa le stavano facendo quelle fecce!?
Presi dalla giacca il flacone delle mie medicine prendendone due sperando che agissero abbastanza in fretta. Presi un altro lungo respiro ed iniziai a tirar calci alla porta facendola spalancare. La scena che mi si parò davanti mi fece ribollire il sangue nelle vene. La mia Elle era in lacrime e praticamente seminuda, le avevano strappato i vestiti quelle fecce. Posai lo sguardo su di loro, erano un po' in disordine e a uno di loro colava del sangue dal naso, a quanto pare la mia ragazza picchia forte.
Entrai nel bagno con passo lento. Loro mi guardarono con timore e io guardai l'oro dall'alto verso il basso. Ero il padrone.
"Cosa sta succedendo qui?", chiesi con voce controllata e autoritaria.
"Niente, ci stavamo solo divertendo un po'", mi disse con un ghigno quello con il naso sanguinante, che tra l'altro era praticamente sopra la mia Elle.
Cercai di mantenere la calma e mi avvicinai a lui. "E sentiamo, in che modo?".
"In un modo che tu non conosci", si prese gioco di me e quegli altri idioti riserò con lui.
"Volevi per caso abusare di lei?", gli chiesi con calma.
"Hey, hey, mi voglio solo divertire, cosa c'è di male?", disse in sua difesa. "Però questa bambolina è una selvaggia, vedessi come scalcia". Adesso era fin troppo.
"Oh, ma davvero?".
"Oh sì! Ma la domero a dovere e dopo se vuoi, puoi tornare ai tuoi esperimenti con lei, io intanto le farò sperimentare qualcos'altro", ridacchiò. Esperimento? Elle era la mia fidanzata, non uno stupido esperimento!
Con tutta la rabbia che avevo in corpo gli tirai un calcio dritto nello stomaco facendolo piegare in due dal dolore.
"Esperimento, eh!". Mi abbassai prendendolo per i capelli. "Lei è la mia fidanzata, stupido idiota, e l'unico che può toccarla sono io, intesi!?".
"S-sì", piagnucolò.
"Adesso, allontanati da lei". Fece come gli fu detto.
Mi alzai e rivolsi la mia attenzione verso la causa di tutto questo. "Tu! Lo so che c'entri con tutto questo!", le urlai contro.
"Ma certo, deve imparare a stare al suo posto, è solo una poveraccia, non è una di noi, tu meriti il meglio".
"Tipo te?". Nei tuoi sogni!
Si avvicinò a me con fare civettuolo. "Ma certo, io sono la più popolare, ma soprattutto, sono bella e molto ricca". Cercò di toccarmi i capelli ma la scansai in modo brusco schiaffeggiandole la mano.
"Sei disgustosa e non ti trovo tutto questo granché".
"Sciocchezze! Tutti mi vogliono".
"Solo perché hai i soldi presumo".
"Perché ho i soldi, perché sono bella, ma soprattutto, perché sono una bomba a letto", mi fece l'occhiolino. Disgustoso. "Scommetto che dopo una notte con me non dirai più di essere assessuato".
"Non lo sono a quanto pare, ma sai, a farmi scoprire questo lato di me è stata la mia fidanzata Elle, e non tu, brutto scorfano!". Indietreggiò indignata.
"Ma come osi!".
"Oso eccome. E per quanto riguarda ciò che avete fatto alla mia fidanzata, la pagherete molto cara, verrete espulsi".
"Non puoi fare questo!".
"Posso eccome, la scuola è mia". Adesso ero io quello che rideva. "Dovrei anche picchiarvi tutti per aver osato toccare la mia fidanzata, dovete anche sperare di non essere riusciti nel vostro intento, in quel caso, non risponderò di me". Mi sfilai la cravatta e tolsi la giacca gettandoli sul pavimento freddo del bagno, ero pronto a sporcarmi le mani.
"Sam, cosa stai facendo!?". La sua voce mi riportò per un attimo alla realtà.
Rivolsi lo sguardo con dolore su di lei, era conciata davvero male, aveva dei graffi qua e là e i capelli erano in disordine. "Sto per dare loro una bella lezione, così imparano a toccarti".
"No! Non farlo!", mi urlò disperata.
"Perché non dovrei farlo!", mi alterrai.
"Ti prego...". Sapevo il perché, il mio stupido cuore.
Mi inginocchiai di fronte a lei. "Non posso lasciarti sola per qualche minuto che già ti cacci nei guai", sospirai.
"Mi dispiace, sono un vero disastro", iniziò a singhiozzare.
Mi avvicinai a lei baciandola sulle labbra. "Mi dispiace, sono un pessimo fidanzato, non ti lascerò più da sola".
"Sei il miglior fidanzato del mondo invece". Negai con la testa. "Sei venuto a salvarmi, questo fa di te il miglior fidanzato del mondo".
"Se lo dici tu", sorrisi.
"Sam!". Alla buon ora!
"Finalmente sei arrivato, papà!".
"Mi dispiace, ho dovuto avvisare Grace". Non poteva chiamarla dopo?
"Sei un idiota!", gli urlai, "e ora pensa ad espellere queste fecce, prima che li massacra di botte!".
"S-sì".
"Tu", mi rivolsi a Clark. "Prendi Elle, deve andare in infermeria, subito!". Fece come gli fu chiesto.
Prima che me ne rendessi conto, prima che mi alzassi dal pavimento, l'oscurità mi avvolse.

Sentivo delle voci in sottofondo, cercai di aprire gli occhi ma una forte luce mi accecò. Dove mi trovavo? Sentivo un tocco delicato che mi carezzava i capelli. Che bella sensazione, chi era mai? Provai ad aprire di nuovo gli occhi. Vidi una figura sfocata accanto a me.
"Chi sei?", biascicai.
"Sono io, Eleonora". Eleonora? Elle! Cos'era successo?! Cercai di alzarmi mettendo a fuoco la stanza.
"Sta' giù", sentii dire da una voce di donna a me familiare. Era la dottoressa Grace. Fantastico.
"Sto bene", biascicai. Avevo la bocca impastata.
"Giù, hai appena avuto un malore". Mi spinse con forza sul lettino. Era davvero forzuta.
"Brutta megera, tua figlia è stata aggredita e tu pensi al mio stupido malore", le urlai contro.
"Brutta megera a chi?". Mi lanciò uno sguardo omicida.
"Grace, sta' calma, ricorda che ha appena avuto un malore", intervenne prontamente mio padre prima che lei mi staccasse la testa.
"Oh sì, giusto", rinsavì. "Sta' giù", m'intimò. Decisi di fare come mi era stato chiesto, solo per questa volta però.
Mi voltai verso una Elle preoccupata e con gli occhi rossi e gonfi. Aveva pianto, e questo, mi rendeva molto triste. Allungai una mano verso di lei accarezzandole una guancia.
"Non piangere...", le sussurrai.
"Ero così preoccupata per te... ho creduto di perderti...". Altre lacrime le scesero prepotenti.
L'attirai a me. "Shh, non piangere, sono ancora vivo come vedi, e poi, sono solo svenuto. Tu piuttosto, come ti senti?".
"Me la caverò".
"Quegli idioti, se mi capitano davanti...".
"Per favore, basta, ti agiti solamente, non ne vale la pena". Non ne valeva la pena! Sì, invece! Lei ne avrebbe sempre valso la pena.
"Oh, sta' zitta", protestai.
"Dov'è!?", sentii improvvisamente urlare da un uomo.
Mi voltai verso la porta, e chi non era se non il padre di Elle con al seguito quella strega. Fantastico, non poteva andare peggio di così. Alzai gli occhi al cielo per la frustrazione.
"Eleonora!", esclamò per poi guardarmi con un cipiglio. "Sta' alla larga da mia figlia, moccioso!", si avvicinò a me furente. Cosa?
"Non osare avvicinarti a mio figlio". Intervenne prontamente papà. Era un grande, non l'avevo mai visto così.
"Oh, sei tu, Richard", si rivolse a lui per poi guardarmi con disprezzo, o era disgustoso? "Così quello è il deviato di tuo figlio, altro che gay". Cosa? Io deviato?
"Non osare parlare così di mio figlio!", lo ammonì mio padre. Ben detto papà! 
Il padre di Elle si mise faccia a faccia col mio con aria di superiorità. "Tuo figlio è un deviato, lo sapeva anche la tua cara mogliettina. Era così disgustata da lui che ha deciso di farla finita". Cosa? Papà gli assestò un pugno che lo fece cadere a terra.
"Fuori dalla mia scuola!". Non l'avevo mai visto arrabbiato, ma soprattutto, picchiare qualcuno. E poi cos'era questa storia della mamma? Possibile che fosse vero? No, non volevo assolutamente crederci.
Il padre di Elle si alzò dal pavimento e con il labbro spaccato. "E va bene". Si rivolse alla dottoressa Grace. "Ti lascio mia figlia e guarda cosa succede. Si mette con un elemento del genere e viene aggredita. Non finisce qui, mia figlia tornerà a vivere con me, avrai notizie dal mio avvocato", detto questo, uscì furioso con la moglie al seguito.
Calò il silenzio assoluto nella stanza. Cosa era appena successo? Non ci capivo più niente.
"Mamma si è suicidata?", ruppi quel silenzio assordante, dovevo sapere.
Papà assunse un'aria addolorata. "Sam, non ascoltare le parole di quell'uomo".
"Tuo padre ha ragione", si intromise la dottoressa Grace. Ora basta, ero stufo.
"Basta mentire!", urlai. "Non sapete fare altro voi due?".
"Sam...".
"Dimmi la verità, la mamma si è suicidata?".
Si accasciò sul pavimento affranto. "Sì", furono le sue uniche parole che mi fecero crollare il mondo addosso.
Mi alzai dal letto correndo via senza avere una metà precisa. Volevo andare via, lontano da tutti e da tutta questa amarezza e dolore che mi perseguitava.

Come sempre mi ritrovai qui, in questo parco e sotto quest'albero. Davvero mamma si era suicidata per colpa mia? Era così disgustata dal mio essere da togliersi la vita? Avevo sempre pensato di essere uno sbaglio, in famiglia non mormoravano altro alle mie spalle, nella convinzione che io fossi all'oscuro di ciò.  Mi ranicchiai  a terra ed iniziai a piangere. Era tutta colpa mia se lei non c'era più. Ero solo uno sbaglio. Uno stupido sbaglio che nessuno voleva.
"Sapevo di trovarti qui", mi disse la mia dolce Elle con la sua voce gentile e confortante mentre mi accarezzava i capelli con delicatezza. Anche se aveva uno scarso senso dell'orientamento, riusciva sempre a trovare questo posto.
"Sono solo uno sbaglio...", sussurrai. Mi sentii stringere dalle sue dolci e confortevoli braccia.
"Non dire così, tu non sei uno sbaglio".
Alzai il capo per guardarla negli occhi e non m'importava se vedeva le mie lacrime. "Si è uccisa per colpa mia. Per colpa mia!", urlai in preda alla disperazione. Era solo colpa mia.
"Non dire così, non sappiamo come sono andate le cose in realtà, e forse non lo sapremo mai, però, potremmo chiedere a tuo padre".
"No! Con lui non parlerò mai più". Era solo un bugiardo.
"Sam...", sospirò.
Distolsi lo sguardo. "Voglio tornare a casa, sono stanco".
"Come vuoi...".
Ci alzammo dall'erba per tornare a casa. La presi per mano, era un po' fredda. In effetti faceva freddo e lei aveva solo una felpa della scuola addosso.
"Hai freddo?", le chiesi.
"Solo un po', e tu? Hai solo una camicia addosso".
Le sorrisi. "Io non ho mai freddo, se vuoi ti riscaldo", le feci l'occhiolino.
Si accigliò. "Tu non riesci ad essere serio per più di cinque minuti, eh?".
Feci finta di pensarci su. "Mmm... non credo".
Scosse il capo. "Sei una causa persa:.
"Può essere...". Sentii arrivare una goccia d'acqua. Oh no, stava iniziando a piovere. "Che seccatura".
"Oh no, e adesso?".
L'attirai a me. "E adesso ti bacio". Poggiai le mie labbra alle sue in un dolce bacio umido.

"Siete tutti bagnati, dove siete stati!? Andate a fare un bagno caldo, prima che prendiate un malanno!", ci rimproverò la dottoressa Grace quando rincasammo bagnati da capo a piedi.
"Non parlarmi così, non sei il mio capo!".
Mi lanciò un'occhiataccia. "Ragazzino, non parlarmi in questo modo", mi additò.
"Ti parlo come mi pare e piace", le dissi furioso.
"Adesso basta", si frappose fra noi Elle. "Andiamo Sam, dobbiamo metterci dei vestiti asciutti", mi spinse via lontano da sua madre, prima che potesse accadere il peggio.
"Non voglio essere disturbo, e se avrò fame chiamerò la mia cuoca dall'interfono dalla mia camera", urlai alla dottoressa Grace.
"Sam, devi smetterla di litigate con mia madre", mi additò furiosa quando fummo in camera nostra.
La guardai accigliato. "Facciamo così dall'alba dei tempi", le spiegai, per noi era la norma.
"Ah....", abbassò il dito. "Potevate dirmelo!", si imbroncio. Com'era carina.
"Vado a preparare la vasca". Andai nel bagno ed aprii l'acqua calda e fredda, mettendo un po' di doccia schiuma.
"Sam?". Mi sentii chiamare da Elle alle mie spalle.
"Cosa c'è?".
"Se vuoi puoi fare tu il bagno per primo". Sentii una punta di imbrarazzo nella sua voce.
"Perché non fai il bagno insieme a me?", le proposi. Era una buona idea? In fondo eravamo fidanzati, e poi... volevo che lei vedesse il vero me, quello nascosto dai vestiti. Sì, ero pronto per mostrarmi a lei. Ma lei lo era?
"Co- cosa?", balbettò in imbarazzo.
Chiusi l'acqua della vasca, che oramai era abbastanza piena e mi voltai verso di lei per guardarla. "Fa il bagno con me, voglio che tu mi veda:.
Distolse lo sguardo in imbarazzo. "Ma tu vedrai me".
Mi avvicinai a lei prendendola per i fianchi e facendo aderire il suo corpo al mio. "Elle, quando ti metterai in testa che sei bellissima e vai bene così come sei?".
"Io...".
"Non devi ascoltare quello che ti dicono gli altri, sono solo degli imbecilli invidiosi senza cervello".
"Hai ragione, però...".
"Però cosa?".
"Mi vergogno", mi confessò in imbarazzo. Com'era tenera.
"È naturale vergognarsi la prima volta". Le diedi un tenero bacio sulla fronte. "Anch'io sono un po' in imbarazzo ti confesso". Si appoggiò alla mia spalla e la sentii ridere. "Allora, lo facciamo questo bagno o no?".
"Sì, però non guardarmi mentre mi cambio". Si staccò da me e mi fece girarare dall'altra parte con una forza che non credevo che possedesse.
"Ok, come vuoi", ridacchiai. "Ne approfitto per cambiarmi anch'io ed entrare dentro la vasca". Mi cambiai il più velocemente possibile ed entrai nella vasca, il tutto senza voltarmi verso di lei. "Puoi entrare, Elle".
"Non guardarmi".
Sbuffai mettendomi le mani sugli occhi. "Ho gli occhi chiusi, perciò entra senza fare altre storie o ti ci butto di peso dentro questa vasca".
"Ok, ok, non fare il prepotente però". Io non ero prepotente.
La sentii entrare dentro la vasca, così tolsi le mani dagli occhi. Mi dava le spalle, si sentiva così furba? L'attirai a me e questo gesto la fece urlare in un modo poco dignitoso.
"Non urlare o tua madre con quell'udito che si ritrova penserà che qualcuno ti stia aggredendo", le morsi leggermente la spalla che la fece gemere. Questa era una cosa nuova. "Prima mi dai le spalle perché ti vergogni e adesso gemi di piacere?", le sussurrai con voce roca all'orecchio.
"Non... è vero", protestò. Era una pessima bugiarda.
"Ah no?". La presi dai fianchi per farla voltare per essere faccia a faccia con lei, ma questo gesto la fece gridare di nuovo. "Se urli un'altra volta ti sculaccio".
Mi guardò qualche istante negli occhi ma fece come gli fu chiesto e tenne la bocca chiusa. Le presi la mano destra e con titubanza l'avvicinanai al mio petto, precisamente sulla mia cicatrice al centro. "Questa è la cicatrice che mi porto con me da anni". La sfiorò appena con le dita titubante. "È stata aperta e chiusa più volte in questi anni", le spiegai. "E poi be'... come vedi c'è il resto che cerco di nascondere da anni, ciò che mi rende diverso dagli altri ragazzi...". Le lasciai andare la mano però lei non l'abbassò, sfiorando leggermente il mio petto e tracciando con il dito una linea lungo la mia cicatrice. "Questo sono io", le dissi in fine.
Mi guardò negli occhi per qualche attimo, e poi mi baciò. "A me piaci così come sei. Non m'importa se hai una cicatrice sul petto o se sei uguale a me, per me sei e resterai sempre il mio Sam". Ecco perché la amavo, lei era unica e speciale. Per lei non ero uno stupido sbaglio. Per lei ero solo Sam.





Nota autore:
Chiedo scusa se non posto da un po', è stato un periodo un po', come dire: turbolento.

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