Virgole

di trottola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'è ancora buio ***
Capitolo 2: *** Due amici fidati ***



Capitolo 1
*** C'è ancora buio ***


Entra in casa dopo aver frugato nella tracolla di cuoio il tempo necessario per ritrovare le chiavi nel marasma di biro, lucidalabbra, salvaslip, accendini e quel libro cacciato lì alla rinfusa, nella speranza di andare avanti almeno di una pagina o due accovacciata nello spazio d’aria che le concede la metro all’orario di punta. In quella città anche le cinque del mattino è orario di punta. Poi finisce sempre per gingillare con il cellulare come un’adolescente o, peggio, abbioccarsi di netto, così, all’improvviso, con il corpo in un equilibrio improbabile sul sedile. Forse addirittura con un goccia all’angolo della bocca, ma chessenefrega, nelle grandi città almeno possiamo goderci il mantello dell’anonimato. Non aveva mai sperimentato i colpi di sonno finora; non aveva mai pensato che si potesse arrivare, sì, propria distrutta, a fine giornata. O meglio, a inizio. Butta per terra la borsa ed è un attimo che si ritrova in mutandine e reggiseno, accende il bollitore, recupera la camicia da notte abbandonata come uno straccio su una sedia della cucina, sul tavolo ancora gli avanzi di una cena, un pranzo. Ha lasciato la vita sparpagliata su mobili e pavimento, diciotto ore prima, e già le sembra che un fiume di esperienze l’abbiano attraversata e che la casa sia un relitto scampato per miracolo alle sue ripetute dimenticanze. Venti telefonate di lavoro, un turno da 8 ore, una lezione da quattro, una video chiamata, un brainstorming, un pacchetto di sigarette. Fare tutto a ritmi accelerati le permette di allontanare da sé pensieri, preoccupazioni, persone con una facilità che le dà le vertigini. É come essere perennemente in una nuvola di euforia, panico, adrenalina e ansia. E spossatezza. É il mio obiettivo, dice al telefono alla voce che le arriva dall’altra parte del mondo. Per giustificare le chiamate perse, le disattenzioni, le sigarette, l’alimentazione sballata. Il borbottare del bollitore la riporta, almeno per un momento, alle antiche abitudini che si è lasciata alle spalle per inseguire quel sogno. Riempe l’ultima tazza pulita con l’infuso di foglie di menta. All’ultimo ricorda le ciabatte e di infilarsi una felpa addosso, è il due di febbraio, anche se la fronte le sembra sempre che sia rovente dopo una giornata con il respiro in gola. Esce sul balcone di quel suo appartamento-casa-scatola ed è ancora buio, qualcosa in lontananza potrebbe abbozzarsi di luce dell’alba, ma siamo a Tokyo, e ci sono solo palazzi a perdifiato. Ritrova le sue spalle, la vestaglia spessa con motivo tartan, avanza verso di lei l’aroma del caffè che tiene fra le mani, fino alle sue narici.
-Buon giorno.
Ed anche lei si posiziona con i gomiti sulla ringhiera gelida.
-Buon giorno.
-Sei mattiniero oggi?
Si rivolge a lui sempre con esagerata allegria, sono le cinque del mattino giù di lì, viene da un turno massacrante, non ci sono motivi di essere così pimpante, ma è come se fossero gli ultimi botti di Capodanno, la candelina rimasta accesa sulla torta di compleanno che ti sforzi di spegnere con un faticoso soffio di respiro. É la sua riserva di energia prima di chiudersi nelle sue sei ore a malapena di sonno.
-Incontro con gli americani, devo rivedere dei progetti.
Per lui invece è tutt’altra faccenda. La giornata inizia lì, su quel balcone disadorno di una condominio dormitorio in mezzo all’asfalto; con la sua tazza di caffè nero bollente, lei immagina che un tipo come lui il caffè lo beva amaro. Come una punizione.
-Parli come un agente del Kgb.
Si sta accendendo una sigaretta. La prima e ultima della sua giornata. Insieme al caffè. Forse amaro. Quella non gliela toglie nessuno. Sorride, e forse è il suo modo di ridere.
-Magari..mi aspetterebbe una giornata molto più interessante.
Lo smalto sulle unghie dei piedi sembra ormai un brutto voto cancellato male. Stringe le dita con vergogna e nello stesso istante si chiede vergognarsi poi di cosa?
Socchiude gli occhi, sarà stata la nuvoletta di fumo che gli è arrivata in faccia e non si capisce se il fumo lo sazia o lo consuma. Ha l’aspetto di uno che è andato a letto mezz’ora fa. O probabilmente le occhiaie sono solchi perenni a prescindere da quanto riesca a dormire serenamente. Tossisce, si strofina gli occhi, cercando di togliersi chissà quale fatica fossilizzata sulle palpebre.
-Coraggio che siamo già a martedì.
Lui sorride di nuovo. É una coincidenza, un fortuito accavallarsi di orari della metro e turni di lavoro, però, dai, infondo ammettilo, che iniziare la mattina con me ti fa piacere. Lo pensa ed immediatamente se ne vergogna, peggio dell’imbarazzo per lo smalto delle unghie dei piedi dimenticato lì come un telo da mare bagnato nello zaino.
-Adoro la menta.
Nonostante la sigaretta e il caffè e la distanza dei corpi, il profumo di quella bevanda calda gli arriva come un invito alla festa del compagno più ambito.
-Mi piace bere qualcosa di caldo prima di andare a letto, mi rilassa.
-Farei volentieri a cambio.
-Oggi vedo che siamo carichi.- dice lei sempre ironica, sempre su di giri, poi aggiunge -Se vuoi facciamo a cambio davvero, sono così distrutta che riuscirei dormire dopo il caffè, anche se mi sniffassi tutta la coca della Colombia.
-Non si direbbe che sei distrutta.
Cambia posizione, lentamente, appoggia la schiena alla ringhiera, braccia incrociate a trattenere quel poco calore che gli ha lasciato il caffè nelle viscere. Nonostante la vestaglia, la sciarpona di lana rossa che gli cola giù dalle spalle, i guanti tagliati, i calzettoni e le ciabatte da nonno, sembra che il respiro gli si possa congelare in gola da un momento all’altro.
-é il due febbraio, sono le cinque del mattino…
Esita, giusto il tempo di un battito di ali di mosca, ma per lui è già abbastanza da provare fastidio. Gli hanno sempre insegnato che si può essere indulgenti con i cani, i bambini e i vecchi, ma mai con sé stessi, sarebbe altrimenti una forma di narcisistica mollezza di spirito.
-... te ne stai lì….. con le infradito... secondo me qualcosa hai tirato per forza.
Le infradito, le unghie dei piedi con i rimasugli rosa fluo, ecco, l’ha notato, adesso penserà che sono una sciatta. Butta lo sguardo sul profilo dei palazzoni dello skyline e gli vorrebbe dire a mo’ di ripresa, come se dovesse pagare un riscatto, che una che ha vissuto per tutta l’infanzia in una casa con le porte di carta di riso è abbastanza temprata da non temere il freddo di nessun inverno. Gli vorrebbe dire che è forse l’unico uomo sulla faccia delle Terra che riesce ad essere elegante, anche appena sveglio, con gli occhi pesti e con dei calzettoni che nemmeno sua nonna. Che sua nonna l’aveva abituata fin da piccola ad alzarsi prestissimo i giorni di festa per andare a cercare le vongole sulla spiaggia. Si toglievano le scarpe e potevano arrivare con l’acqua fino alle ginocchia, anche se era novembre, dicembre, gennaio. Se c’era il sole, si pranzava fuori, in pieno inverno, a casa sua. Era la prima a fare il bagno in primavera e l’ultima a salire su dal mare in autunno. Gli vorrebbe vomitare addosso tutte queste confidenze, ma deve prepararsi per dormire sonni tranquilli, è meglio evitare, magari un’altra volta.
-Sono giovane e piena di forze, tu sei conciato da ricovero.
Tira un impercettibile sospiro di sollievo quando la sente rispondere, ancora una volta, con ironia, capisce che non ha percepito, un istante prima, la sua esitazione fra le parole, il suo bloccarsi, riprendere, incespicare. É il due febbraio, sono le cinque del mattino e te ne stai con quelle gambe nude appoggiata a quella ringhiera gelida. Ma lei avrebbe sicuramente frainteso, avrebbe pensato che lui a quella carne nuda non ha tolto gli occhi di dosso, mentre invece lui è solo colpito dal fatto che una ragazza riesca a sopportare così tanto il freddo, ma non sono tutte freddolose le donne in Giappone? Pensava che la tempra tedesca facesse eccezione nell'universo femmineo. Per fortuna è riuscito a deviare il discorso e spostarlo più in basso, dalle cosce, fino ai piedi, sì fino ai piedi, come se anche la caviglie potessero nascondere qualcosa di scandaloso.
-Gli uomini di altri tempi hanno molto da insegnare in fatto di stile a voi giovani.
-Noi giovani? Parli come se fossi molto più vecchio di me.
É vero, si sente molto più vecchio di lei, eppure potrebbero essere coetanei. Quanti anni ha lei?
-Comunque se vuoi la prossima volta preparo dell’infuso di foglie di menta anche per te.
Lui si stacca dal ferro della ringhiera, quasi pronto a rientrare, a cominciare la sua giornata. Non c’è ancora uno spiraglio di luce nella mattina di Tokyo, eppure c’è una tabella di marcia irragionevole e disumana da seguire. Lei si morde le labbra, serra le dita dei piedi. La prossima volta. Non sono due che si danno appuntamento, come le è venuta l’avventatezza di osare di imporre un rituale a quelle loro colazioni notturne? Si sente stupida, come se avesse smascherato una sorpresa.
-No, meglio il caffè, altrimenti non mi sveglio.
-Sì, certo.
-Però potrei cominciare pure io a bere l’infuso di menta a letto.
Lui la guarda, adesso è lui quello ironico e le sorride, e lei capisce che l’ironia è tutta un’altra cosa, non sono le sue frasette pungenti buttate lì, quelle le potrebbe osare anche una bambina. L’ironia è quella sua cascata gelata e rovente insieme che la sentire all’improvviso desiderata e repellente allo stesso tempo. Si sente avvampare dalla pancia, fino a risalire all’incontrario il tragitto dell’infuso di menta, fino alle labbra. Ma cosa ha detto poi di male? Nulla. É lei che è oscena. Cosa va a pensare? No, no è lui che è osceno, perché mica tutti gli uomini ti sorridono così. Lei ne ha conosciuti di maschi, amici, compagni, amanti, ci ha sempre giocato, scherzato insieme, non si è mai tirato indietro, eppure non si è mai sentita così turbata. Non capisce se l’abbia appena umiliata o se invece le abbia fatto un complimento. É dire che lui è in pantofole, ha gli occhi cerchiati di sonno arretrato, non si sta nemmeno sforzando, lui, di metterla in imbarazzo.
-..ma alla fine credo che arriverò a chiudere gli occhi con un bicchiere di votka fra le mani.
-Come una vera spia russa.
Si riprende in fretta lei, non si lascia mica chiudere all’angolo senza nemmeno avere l’ultima parola.
Lui sorride.
-Da.
La guarda di nuovo, ancora con lo stesso sguardo. Forse lui è semplicemente così ed è lei a cercare significati criptati. Inchioda così tutte e non potrebbe fare diversamente. Lui neanche se ne rende conto: presta attenzione ai gesti, alle parole, a come modula le frasi e seleziona gli aggettivi, ma poi non sa che basta un suo sguardo ed è fregato. Attacca, colpisce e mostra il fianco allo stesso tempo. E nemmeno lo sa.
-Dasvidania Tovarish.
Non le lascia il tempo di replicare, di chiudere. Del resto per lui la giornata inizia, è lui quello che deve correre ora. Mentre lei se la può prendere calma, ma calma non è per niente. Sarà la stanchezza, si dice. O forse quel modo di fare di lui che non ha ancora capito se le piace. Rientra in casa. Nel buio cerca con nervosismo il cellulare nella tracolla di cuoio. Si accuccia esausta sul materasso, dentro al sacco a pelo. Sembro proprio una disgraziata. Nonostante il sapore della menta le invada tutto il palato vorrebbe piangere. É stanca e alla fine quello di cui avrebbe veramente bisogno è una carezza. Il messaggio è stato inviato ore prime, ma lei se l’è lasciato lì a decantare, aspettando quel momento, già sapendo la malinconia che l’avrebbe asserragliata prima di addormentarsi.
Buona notte Maki.
Le è arrivato il suo abbraccio, il suo pensiero, ha percorso oceani di distanza e fusi orari per giungere fin dentro al suo sacco a pelo. Le è arrivata la sua virgola d’amore. E adesso può dormire tranquilla.

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Capitolo 2
*** Due amici fidati ***


   Si presentava come una grossa opportunità, una di quelle occasioni che non ci si può far scappare. Prendere o lasciare, e ovviamente il tempo a disposizione per elaborare una decisione è esiguo, bisogna dare una risposta subito, compilare documenti, fornire carte, recuperare vecchi attestati e pregare di non imbattersi nei mille cavilli della burocrazia. Avrebbe voluto potersi attaccare ad un motivo per rifiutare. Un’onesta e valida scusa. Ma non ne aveva trovata una.
Solo da un mese si era lasciata alle spalle l’università. Laurea in architettura. Quattro anni da studentessa lavoratrice, con tutto ciò che questo comporta: stare incollata al telefono prima di un appello per sedare un po’ la propria ansia o quella di una compagna, nottate passate sui libri, scadenze dell’ultimo momento che si palesano come una spada di Damocle, recuperare dispense e appunti, restare in pari con gli esami per poter aspirare alla borsa di studio; e i pomeriggi infiniti in biblioteca, quei disgustosi caffè della macchinetta presi uno dopo l’altro perché la sera prima si è tirato fino all’alba ad una qualche festa. Poi i turni da cameriera nel week-end, i clienti insopportabilmente esigenti mentre i tuoi amici sono fuori a divertirsi, la misera paga settimanale. Ma anche le bevute delle due del mattino, quando ormai le sedie sono state sistemate sui tavoli per dare una passata al pavimento, il locale è chiuso, rimangono solo i fedelissimi, si dicono due stronzate e intanto insieme si fuma qualcosa. Dio..gli anni dell’università..come si era divertita..

   È dell’estate precedente la fotografia che la ritrae raggiante il giorno della proclamazione, eppure le sembra trascorso un secolo, è convinta che il vestito - comprato all’ultimo momento per la grande occasione - già non le vada più bene. Come se fossero sufficienti un manciata di mesi per cambiare, oltre che la prospettiva, anche le proporzioni. Dopo la laurea aveva avuto appena il tempo per regalarsi un vacanza (se poco più di un fine settimana poteva considerarsi vacanza) con il suo ragazzo, poi ecco piombare dal cielo quella che poteva essere l’occasione della vita. Congratulazioni. Siamo tutti molto felici per te. Del resto sei sempre stata una studentessa brillante. È quello che ti meriti. Un tirocinio (non retribuito) in un affermato studio di Tokyo. Cosa vuoi di più? Non capitano tutti i giorni queste opportunità!
Si era sempre ripetuta che appena terminati gli studi si sarebbe concessa ben altro che un paio di giorni alle terme; nei pomeriggi trascorsi a preparare l’ultimo, faticosissimo esame di urbanistica le piaceva immaginare cosa avrebbe fatto una volta laureata. C’era tutto un elenco di appuntamenti mancati, libri mai letti, ore di sonno da recuperare che si accumulavano nel cassetto. Si divertiva a progettare i plannings di una sfilza di ipotetici viaggi con la precisione di un origami: per prima cosa avrebbe subito acquistato un biglietto per l’Italia. Voleva avere la possibilità di trascorrere finalmente del tempo insieme al suo ragazzo perché quella dannata relazione a distanza oramai cominciava a pesarle addosso. Aveva voglia di godersi - per un mese magari - la quotidianità con lui, le mattine pigre tra le coperte, gli sbadigli, una serie tv, giocare a carte per un’intera serata.

Kojiro quali giochi di carte conosce? Non glielo ha mai chiesto. In che posizione dorme? Alla mattina, mentre lei si lava i denti, lui potrebbe sgattaiolare in bagno a fare la pipì o è tipo da vergognarsi? Adora anche lui i film dei fratelli Coen quanto li adora lei?
Ha il quadro di insieme del suo ragazzo e della loro relazione, ma le sfuggono ancora tutti quei particolari preziosi, le reciproche sbavature, i piccoli imbarazzi che si svelano solamente vivendo fianco a fianco. La grana dello zucchero.

   Sveglia alle 12.30. Doccia. Colazione o pranzo, a seconda dell’umore e della voglia del momento. Prepara la ventiquattrore, il regalo di laurea dei suoi orgogliosissimi genitori. Si infila in un abito e giacca formale che si è comprata poco dopo essere arrivata a Tokyo. In un grande magazzino. Ma fa la sua figura. I primi giorni si era presentata al lavoro in pantaloni neri, t-shirt bianca e giacca nera sopra. A lei sembrava di essere elegante così, certo sobria, il trucco acqua e sapone non le aggiungeva niente ai lineamenti, ma per una come lei, abituata a passare dalla divisa da softball a jeans e sandali, le pareva già di aver fatto un grande salto in avanti sul fronte moda e stile. Era sempre stata una maschiaccia, poco avvezza ad allunga ciglia, maquillage e pochette. La sua linea slanciata, da atleta, da una che di km di corsa ne ha sempre macinati, l’aveva negli anni aiutata a fare la sua figura, anche con i vestiti smessi del cugino maggiore. In ogni caso le era bastato sbirciare i centimetri di tacco esibiti dalla receptionist all’ingresso dello studio, la piega perfetta della sua senpai, l’impeccabile grigio Armani dell’altro tirocinante, per giungere alla conclusione che sarebbe stato necessario rivalutare le sue teorie sul buon gusto e seccare uno stipendio per aggiornare il guardaroba.

-Non c’entro niente io qui.
Dopo le prime settimane a Tokyo Maki si era lasciata andare, con un sospiro, al suo primo sfogo. Neanche ad un passo dalla laurea si era sentita così svuotata di energie. Dall’altro capo del telefono Maki aveva creduto di percepire un attimo di silenzio, di esitazione. O forse il suo ragazzo stava solo cercando le parole giuste da articolare visto che non era mai stato capace di esprimersi con grandi discorsi. Ma stringerla a sé per confortarla, o anche solo incoraggiarla, in quel momento proprio non poteva, per cui Kojiro si era ritrovato a dover vagliare fra le argomentazioni più appropriate, a selezionare la sua inflessione più dolce. Per non apparire anche a lei, la sua compagna, come il ragazzo granitico, graffiante e intransigente che tutti conoscevano.

Chissà se a Kojiro piacciono le ragazze che si lamentano, si era chiesta. L’aveva sempre vista tenace, determinata, combattiva. Si era sempre voluta far vedere così. Ma erano i suoi primi giorni a Tokyo ed aveva solo voglia di tornare a casa. O di salire sopra il primo aereo e volare da lui. Di certo a Kojiro non piacciono le ragazze che si lamentano. Un conto è piangere per una sconfitta. Un altro è volersi ritirare a metà partita.

-Sono solo i primi giorni...datti il tempo per ambientarti. Anche per me qua non è stato facile all’inizio.

-Mi sento un eschimese all’equatore…

-Sì. È stato così anche per me.

Maki in quel momento si era sforzata di immaginare un Kojiro titubante, che osserva le figure dei suoi compagni e si sente a disagio e fuori luogo come si era sentita lei la prima volta che era andata a pranzo fuori con i colleghi e, a fine pasto, aveva poi scoperto che il conto da pagare era assolutamente al di sopra delle sue possibilità. Chissà se anche Kojiro si è mai sentito così? Nella sua testa le sembrava impossibile che uno come lui potesse vacillare e coltivare dentro di sé un senso di inferiorità.

-Fatti forza, andrà sempre meglio. Tutti questi sacrifici verranno ripagati. È una grande opportunità.-

Sì, lo sa. Lo sanno tutti. Non fanno altro che ripeterglielo. Dopo un tirocinio in questo studio ti si apriranno tutte le porte. Ma Maki avrebbe solo voglia di salire su un maledetto aereo e giocare a carte con Kojiro. Mentre lei sorseggia un birra ghiacciata e lui la sua solita coca cola.

-Sì, lo so. Sono fortunata. - si era limitata a rispondere, sintetica, non aveva voluto sfigurare agli occhi del suo ragazzo.

-Comunque..se dovessi aver bisogno a Tokyo abitano due miei amici fidati. Per qualsiasi cosa chiedi a loro.

Kojiro le aveva poi fornito due numeri di telefono. Ci aveva tenuto a sottolineare che per i suoi amici non sarebbe stato assolutamente un incomodo. Maki aveva ringraziato, ma avrebbe voluto dire a Kojiro che quando vieni cresciuta in una famiglia che non fa altro che ripeterti che puoi contare solo su te stessa, questa cosa ti condiziona nella vita cazzo. Maki si era intestardita, non aveva chiamato. Voleva dimostrare a Kojiro di riuscire a farcela tranquillamente da sola, senza l’appoggio di scudieri di qualsiasi sorta. Si era poi ritrovata a riflettere sul fatto che Kojiro era sottoposto a pressioni ben più onerose della sua, lei stava facendo un tirocinio non pagato, se anche avesse fatto una cazzata e fosse stata lasciata a casa, fottosega, non era mica, il suo, il lavoro di una vita. Lui, invece, doveva centellinare ogni incertezza, non poteva permettersi cedimenti e c’era inoltre da considerare che stava affrontando tutto questo da solo, in un Paese straniero, addirittura in un altro continente. Quando pensava a lui non c’era parte del suo corpo che non vibrasse. Pulsava la testa, il petto, la pancia. Con di fianco un ragazzo del genere, a Maki non rimaneva che procedere come un toro, come aveva sempre fatto in fondo, a capo chino: dare il meglio di sé, ingoiare merda e tirare avanti senza troppo frignare. Del resto quando sei la maggiore di quattro sorelle impari presto che per quanto tu possa piangere non verranno mai a prendere in braccio te.

   I mesi passano, arriva Marzo, è vero, ha preso su i ritmi. I completi formali nell’armadio sono diventati cinque. Sta tenendo botta. Le sigarette da quelle tre-quattro che si concedeva durante la giornata dopo i pasti, sono diventate due pacchetti al giorno. Si nutre di insalata, tisane, zuppe, frutta, perché è sempre stata una sportiva, ma i nervi risentono del fatto che non riesca più a farsi i suoi tre chilometri di corsa verso il tramonto. Ha scambiato il giorno con la notte, ma quello era da mettere in preventivo. Sveglia alle 12.30. Dalle 15.00 alle 20.00 in studio. Dalle 20.00 alle 20.30 pausa cena. Dalle 20.30 alle 21.00 spostamento in metro verso l’azienda. Dalle 21.00 alle 4.00 turno notturno. Per guadagnarsi il necessario per vivere a Tokyo. È la prima di quattro sorelle. Le serve lavorare per porre freno ai suoi congeniti sensi di colpa, al suo orgoglioso anelito d’indipendenza. Ma arriva a fine giornata (che è in verità è l’inizio per tutti gli altri) sfinita. L’orgoglio non è un pugnale che ti colpisce a tradimento da dietro le spalle. Ma è un veleno che noi stessi, goccia a goccia, ci infiliamo sotto la lingua.

-Non hai mai preso contatti con i miei amici.

-Non ne ho mai avuto bisogno.

Silenzio. C’è la notte da una parte e una giornata di sole dall’altra. Un martedì azzurro intenso che fa male agli occhi.

-Maki...mi farebbe piacere. So che ce la puoi fare benissimo da sola. Ma mi sentirei più tranquillo io.

Maki è seduta sul pavimento di casa. È in mutande e reggiseno. Quando dorme poco la notte le si accende come un inferno dentro, suda molto, ed allora si toglie tutti i vestiti e si corica sul pavimento sperando di trovare un po’ di sollievo nel freddo delle piastrelle. Non è molto normale. Come non è molto normale dormire in un sacco a pelo per mesi e vivere in una casa senza frigo. Ma non c’è nessuno a Tokyo che le possa ricordare queste cose.

-Va bene Kojiro, ai tuoi ordini. Ridammi i loro contatti che li ho persi. Ma dici di vedere tutti e due insieme o separatamente?

-Come preferisci.

-Chi mi starà più simpatico?

-Chi ti dice che i miei amici siano simpatici?

-È vero...stiamo sempre parlando di te in fondo….

Kojiro sorride e Maki sente che sorride, anche se si trova dall’altra parte del mondo; anche se non hanno mai trascorso insieme una mattinata pigra fra le coperte calde. Anche se lui non ha mai visto un film dei fratelli Coen e lei li adora.

 

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