Incidenti e dintorni.

di _Agrifoglio_
(/viewuser.php?uid=1024798)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La diagnosi dell'Archiatra ***
Capitolo 2: *** La collera del Re ***
Capitolo 3: *** Il verdetto ***
Capitolo 4: *** Non avrai altro Dio all'infuori di Me ***



Capitolo 1
*** La diagnosi dell'Archiatra ***


La diagnosi dell'Archiatra

 
La sala antistante gli appartamenti privati della Principessa era invasa da frotte di cortigiani in ambasce per la di lei salute o, più semplicemente, curiosi di conoscere gli sviluppi della vicenda.
Un via vai incessante di cameriere, valletti ed assistenti del Dottor Lassonne, l’Archiatra di Corte, contribuiva ad accrescere l’agitazione dei presenti ed a dare risalto, in modo ora quasi tragico, ora involontariamente comico, all’evento del giorno, la cui gravità o irrilevanza sarebbe stata svelata, come tutti speravano, di lì a poco.
– Signori, non vi accalcate – disse la Contessa de Noailles, col massimo del tono di voce che l’etichetta le consentiva – non fate rumore e, soprattutto, non ostacolate il passaggio dei servitori di Corte e degli assistenti dell’Archiatra.
Gli uomini cercavano di reperire nuove informazioni ed altrettanto facevano le dame mentre si sventolavano freneticamente coi ventagli, malgrado non fosse che l’inizio della primavera.
– Se la Principessa Maria Antonietta morisse – pensava il Duca d’Orléans – il Delfino, già poco incline all’arte di Venere, rimarrebbe vedovo ed io avrei più tempo per pensare a qualcosa. Certo, resterebbero i Conti di Provenza e di Artois, ma devo affrontare un problema alla volta. Si sa, tutto può succedere.
La copiosa presenza dei cortigiani aveva reso l’aria viziata ed irrespirabile ed il rumore stava raggiungendo un livello ai limiti della sopportabilità, tanto che Madame de Noailles era in procinto di smarrire il suo proverbiale sangue freddo.
– Quella minus habens ha perso un’altra occasione per non creare scompiglio – pensava il Duca di Germain – e sono sicuro che nemmeno ci libereremo del Capitano pederasta. L’ho vista sanguinare, ma nessuno è mai morto per una ferita al braccio.
L’attesa si stava, ormai, prolungando oltre i limiti consentiti dal bon ton, tanto che alcuni iniziarono a pensare che l’augusta malata fosse assai scortese a procrastinare così a lungo il gran finale dell’odierna avventura.
– Quella giovincella insensata ha precipitato, un’altra volta, la Corte nel caos – riflettevano le tre figlie del Re, ormai abituate a pensare, oltre che a parlare, all’unisono ed oltremodo seccate per il nervosismo che l’accaduto aveva suscitato nel loro regale padre oltre che per la presenza, in sala, della Contessa du Barry.
Se l’Archiatra non si fosse deciso a sciogliere le riserve ed a rendere pubblica la diagnosi in tempi ragionevoli, la Rivoluzione Francese sarebbe scoppiata con quindici anni di anticipo, tanto più che anche la Contessa di Noailles aveva raggiunto il culmine della sopportazione a lei consentito.
– Ecco, come al solito, non vengo mai ascoltata – quasi piagnucolava la sventurata – L’avevo detto che quest’ennesimo capriccio della Delfina sarebbe dovuto rimanere inesaudito, ma, quando parlo io, è come se soffiasse il vento – e si abbandonò, quasi compiaciuta, alla sua autocommiserazione da Cassandra.
Quando l’agitazione aveva raggiunto, ormai, il parossismo, il Dottor Lassonne varcò, finalmente, la soglia della porta che separava la sala dagli appartamenti principeschi e, con la stessa solennità della Sibilla Cumana, elargì il suo responso agli astanti:
– Sua Altezza Reale la Delfina è fuori pericolo – scandì bene le parole l’Archiatra – Anzi, non è mai stata in pericolo. Il tempestivo intervento di Madamigella Oscar è stato decisivo e risolutore. Le ossa sono tutte integre e non si profila il rischio di emorragie interne. Con l’eccezione di qualche ecchimosi agli arti, la nostra Principessa è del tutto illesa e, dopo qualche ora di riposo, potrà tornare alle sue abituali occupazioni.
– Cioè al nulla – pensò più d’uno.
– Avete udito, Nobili Signori, la diagnosi dell’Archiatra di Corte? – disse, visibilmente sollevata, la Contessa de Noailles – Adesso, Vi prego di fare ritorno ai Vostri alloggi, così da concedere a Sua Altezza la giusta tranquillità e da consentire alla servitù di occuparsi della sua persona con la dovuta sollecitudine.
Il silenzio, da poco ristabilito, fu bruscamente interrotto da una delle note e rumorose risate della Contessa du Barry.
– L’austriaca vuole imitarmi in tutto – disse, spavalda, la favorita – ma non sarà mai in grado di cavalcare come me!
I presenti rimasero in silenzio, astenendosi dal proferire qualsivoglia commento, perché, conoscendo la volgarità della Contessa, erano più che certi che quella frase celasse un doppio senso neanche troppo implicito.
La Contessa de Noailles trattenne, a stento, una smorfia di disappunto e di disgusto ed altrettanto fecero le tre Mesdames.
Gli astanti defluirono dalla sala con compostezza e silenzio, ormai paghi per la conclusione dell’ultimo, anche se soltanto in ordine cronologico, dei melodrammi che la Corte di Versailles era solita offrire loro. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La collera del Re ***


La collera del Re

– Portate immediatamente al mio cospetto l’attendente di Madamigella Oscar! – tuonò il Re con voce stentorea ed adirata – Ha messo in pericolo la vita della Principessa Maria Antonietta ed io gli infliggerò una punizione esemplare!
– Maestà, con il dovuto rispetto, sarebbe, forse, preferibile non farsi trascinare dalla collera e raccogliere ulteriori informazioni sugli eventi occorsi questa mattina o, addirittura, soprassedere – disse con tono pacato, ma fermo, il Conte di Mercy-Argenteau – In fin dei conti, la Delfina è uscita incolume dall’incidente e, a parte un grande spavento e qualche livido, non ha riportato la benché minima conseguenza dall’accaduto. Il costosissimo purosangue è stato recuperato illeso e nessuna spesa aggiuntiva sarà affrontata dalla Casa Reale. L’attendente Grandier ha sempre svolto un servizio impeccabile ed è rinomato, a Corte, per l’onestà, l’educazione ed il contegno rispettoso. La Famiglia Jarjayes è, da tempo immemorabile, fedele e devota alla Corona e non merita di essere colpita e macchiata da una durissima condanna, inflitta ad uno degli uomini al suo servizio.
– La misura è colma! Non si può mettere in pericolo la vita di un membro della Famiglia Reale ed uscirne indenni come se nulla fosse! Troppe idee strane stanno animando questo secolo bizzarro e ribelle! Adesso, un qualsiasi attendente, un Grondet quisque de populo, può fare imbizzarrire il cavallo della sua futura Sovrana e farla franca?! Magari pure con una pacca sulla spalla?!
Mentre il Re parlava, le vene del suo collo si erano gonfiate a dismisura ed una, in particolare, sembrava prossima al collasso.
– Maestà, Vi imploro di ascoltarmi, proprio perché i tempi in cui ci è dato vivere sono quelli che Voi avete sinteticamente, ma brillantemente descritto, non dovreste essere affrettato nel prendere decisioni di dubbia opportunità che potrebbero essere strumentalizzate da uno dei Vostri nemici e ritorcersi contro di Voi. Il mondo non è più quello di Carlo Magno o di Ugo Capeto, in cui la vita di un uomo del popolo valeva quanto quella di un insetto. Nuove idee stanno prendendo forma in Europa, si stanno diffondendo in tutti gli strati della popolazione, persino fra gli stessi nobili e la Maestà Vostra non può fare a meno di tenerne conto. Se permettete, mi farò carico io stesso di eseguire le opportune indagini e di raccogliere testimonianze sul comportamento dell’attendente del Capitano delle Guardie Reali.
– Conte di Mercy-Argenteau, non mi contraddite ulteriormente altrimenti sarò costretto a congedarVi in modo definitivo. La decisione è presa. Io ho intuito in abbondanza e capisco subito quando una persona è a posto e quando non lo è e quel Grondet non mi è mai andato a genio. 
La vena del Sovrano era sempre più gonfia.
Il Conte di Mercy-Argenteau comprese che ogni ulteriore tentativo di perorare la causa di André Grandier – nonché della ragionevolezza stessa – sarebbe stato inutile e rischioso per la stessa tenuta dei rapporti diplomatici (oltre che della vena giugulare di Sua Maestà), perché il Re, a quanto pareva, ne aveva fatto una questione personale e, quando le cose si mettevano così, non c’era molto da fare. Si inchinò rispettosamente ed uscì dagli appartamenti di Luigi XV.
Il Re, ormai, tratteneva a stento la collera.
La situazione economica del Regno non faceva che peggiorare ed ogni tentativo di farvi fronte aveva avuto un successo scarso, per non dire inesistente, perché suscettibile di scontentare questa o quella parte sociale.
Lo scenario non era più tranquillo dal punto di vista religioso, perché i Gesuiti odiavano i Giansenisti e questi, di rimando, detestavano quelli di tutto cuore.
A Corte, poi, nessuno era mai contento del suo vicino e tutti avevano da dire su tutti. Le sue figlie criticavano la giovane Delfina e la favorita e quest’ultima non faceva che protestare, perché la Principessa, dopo essere stata costretta a rivolgerle la parola, aveva ripreso ad ignorarla del tutto ed a sbeffeggiarla pubblicamente e, considerata l’abituale loquacità della giovane Asburgo, l’afasia di cui era destinataria la sola Contessa du Barry ben difficilmente poteva essere imputata a raucedine.
Come sempre accadeva quando era sotto pressione, gli tornarono alla mente l’attentato subito nel 1757, ad opera di quell’alienato, mentecatto Robert François Damiens, la conseguente pena di morte per squartamento inflitta all’uomo e tutto il clamore che ne era conseguito.
Indulgendo in questi pensieri, la paranoia si impossessava di lui e lo rendeva irascibile.
Oltre a ciò, effettivamente, quell’André Grondet non gli era mai andato a genio.
Il Re amava mostrarsi ai cortigiani nelle pose di uomo scherzoso ed istrioneggiava volentieri, spesso atteggiandosi a vecchio svampito mentre, in realtà, si accorgeva di tutto e pochi erano i particolari che non erano da lui percepiti.
André era sicuramente diverso da tutti gli altri attendenti e servitori e tutto sembrava tranne che un uomo del popolo. La signorile dignità e la serafica compostezza che mostrava nel reagire alle villanie o agli atteggiamenti di degnazione ai quali, a volte, il suo basso rango lo esponeva, erano interpretate dal Re, uomo più gioviale e scanzonato di lui, come sintomi di un enorme sentimento di sé. Quel capo fiero si inchinava, ma non si umiliava. Fosse stato soltanto questo il problema, il Re avrebbe catalogato André fra i tanti palloni gonfiati che popolavano la sua Corte e tutto sarebbe finito nel nulla. Una cosa, però, non riusciva assolutamente a perdonargliela: la sfumatura di controllata, ma evidente disapprovazione che gli coglieva nello sguardo, quando egli, il Re, indugiava con gli occhi sulle acerbe e delicate forme della sposa di suo nipote. La deplorazione di quell’impudente ed oscuro attendente diventava, poi, collera fredda, sebbene abilissimamente dissimulata, quando i regali sguardi erano indirizzati, non alla Delfina o a qualsiasi altra giovinetta, ma al Capitano delle Guardie Reali.
Luigi XV voleva essere considerato un bonaccione e lasciava spesso correre per diplomazia e quieto vivere, ma non tollerava – e l’affaire che aveva coinvolto Maria Antonietta e la favorita lo aveva ampiamente dimostrato – che le sue azioni o le sue scelte fossero contestate. Non sarebbe stato l’ultimo dei popolani a bacchettare, con la sua superbia e con la sua riprovazione, il comportamento di un Re di Francia.
Un suddito, per giunta plebeo, che portava così poco rispetto al suo Sovrano poteva essere capace di qualsiasi scelleratezza, figurarsi di una balordaggine o di un’imperizia. Chi, se non lui, era da biasimare per l’imbizzarrimento del cavallo?
Non ci sarebbe stato un secondo squartamento a funestare il suo Regno, ma la forca, a quel Grondet, non gliel’avrebbe tolta nessuno.






Ringrazio, per l’accoglienza riservata a questo mio lavoro, tutti coloro che lo hanno commentato.
Iniziando dalla vena ironica, ho deciso di utilizzarla perché il primo capitolo vi si prestava perfettamente. L’invadenza dei cortigiani che accompagnava i membri della famiglia reale in ogni momento della loro vita, da quando si svegliavano, a quando si coricavano, mangiavano, partorivano o, come in questo caso, si infortunavano, se guardata sotto una certa angolazione, ha del ridicolo. Facendo muovere, in questo scenario, dei personaggi così esagerati da sfiorare il grottesco, il capitolo ironico e divertente si scrive quasi da solo.
Un’altra ragione che mi ha indotta ad utilizzare questa tecnica è il peccato originale dell’intera puntata che è stato ben colto ed evidenziato da Tixit: quel “tagliategli la testa” (che, nella mia versione, si rivela essere un’impiccagione, ma poco importa) non è adatto alla Corte di Versailles, ma risente fortemente della provenienza della storia dalla società nipponica, quella sì, rigidamente feudale fino ai primi decenni del ventesimo secolo. Nella Francia del XVIII secolo, non bastava essere plebei e puzzolenti per essere presi per le orecchie e trascinati davanti al Re e, da lì, seduta stante impiccati. Anche i popolani erano sottoposti a giudizio e, dei casi più gravi, si occupava il Parlamento di Parigi che processò, fra gli altri, Jeanne de Valois con i suoi complici e Robert François Damiens, l’attentatore di Luigi XV. Se André fosse stato accusato di avere attentato, dolosamente o colposamente, all’incolumità della Delfina, sarebbe stato il Parlamento di Parigi ad occuparsi di lui. Anche lo stare inginocchiati, in mezzo alla sala del trono, davanti al Re, è adatto più ad un samurai che ad un frequentatore della Corte di Versailles.
Come scrive Pamina, però, i racconti ironici sono difficili da gestire e, soprattutto, molto dipende dallo svolgersi della trama. C’è dell’ironia, sebbene ad intervalli, anche in questo secondo capitolo. Ce ne sarà un poco di più nel terzo mentre, nel quarto ed ultimo, i passaggi ironici diminuiranno e ciò per due motivi: prevarrà l’introspezione ed il protagonista assoluto sarà André, personaggio che all’ironia si presta pochissimo, perché è costantemente misurato e, quando esagera, lo fa esclusivamente nella direzione della tragedia.
Alle probabili ragioni dell’imbizzarrimento del cavallo saranno dedicati dei fugaci passaggi nel terzo capitolo mentre proprio non so cosa ci facesse André nelle stalle. Si sarà addormentato lì mentre si gingillava a chiedersi perché Oscar non gli fosse più amica? In ogni caso, si trattava delle stalle di Palazzo Jarjayes e non di quelle della Reggia e, quindi, ciò non ebbe nulla a che fare col nervosismo del cavallo. Non fu il bel destriero offerto in dono da Luigi Augusto a Maria Antonietta a sorbirsi, per tutta la notte, le lamentazioni del giovane attendente.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il verdetto ***


Il verdetto

La sala del trono era gremita di cortigiani.
A quanto pareva, l’incidente equestre occorso alla Delfina ed il siparietto svoltosi nella sala adiacente le di lei stanze, conclusosi circa un’ora prima, non sarebbero stati gli ultimi eventi della giornata, ma sarebbero stati seguiti, a breve, da un altro accadimento che si prospettava, anch’esso, di grande interesse.
Il Re stava dritto, in piedi, davanti al trono, avvolto dal suo mantello, impettito ed accigliato come soltanto ad un uomo del suo rango si confaceva.
André era inginocchiato davanti a lui, a capo chino, sotto la scalinata. La sua dignitosa e mite compostezza era interpretata, dal Sovrano, alla stregua di un’ennesima manifestazione di alterigia mentre, nell’animo del giovane, prendeva corpo la consapevolezza di un destino ormai segnato. Si affliggeva per il dolore che si sarebbe abbattuto, come un maglio, sul capo di sua nonna e disperava di riuscire a vedere, un’ultima volta, Oscar.
– Ma, forse, è meglio che lei non assista alla mia esecuzione – pensava André – Sarebbe troppo penoso e, poi, i tempi della nostra amicizia sono ormai finiti. Non sono altro che il suo attendente mentre lei è il Capitano delle Guardie Reali, intenta solamente a fare fronte agli innumerevoli capricci della Principessa.
I nobili presenti guardavano l’accusato standosene in silenzio, alcuni passi dietro di lui, tutti compresi in un’attesa che, a seconda della sensibilità di ciascuno, assumeva le sfumature dell’apprensione, della sincera pietà per le sorti dell’infelice giovane, della pruriginosa curiosità o del desiderio di sconfiggere la noia con l’assistere ad un simulacro di processo che sarebbe stato tanto più interessante, quanto più fosse stato coronato da un finale spettacolare.
– André Grondet.... Eh? – il Re si voltò impercettibilmente verso il paggio che stava in piedi, di lato, qualche passo dietro di lui – André Grandier, con la vostra condotta irresponsabile, avete messo a repentaglio la vita della Principessa Maria Antonietta.
Il Re si guardò intorno per vedere l’effetto procurato sugli astanti dalle sue parole, ma essi se ne stavano muti ed immobili, aspettando che continuasse a parlare. Qualcuno, per la verità, aveva abbozzato una piccola reazione, domandando a se stesso o al proprio vicino se non sarebbe stato intellettualmente più onesto, per la Casa Reale, ammettere di avere clamorosamente sbagliato nel puntare sull’estetica, piuttosto che sulla docilità, del cavallo da assegnare ad un’adolescente neofita anziché accusare di non si sa cosa il primo scemo in circolazione. Fortunatamente per gli autori dei commenti e per quel residuo di tranquillità di cui godeva il Sovrano, tali osservazioni rimasero inascoltate ed il Re dovette rassegnarsi a non avere suscitato, nell’uditorio, particolari emozioni. Tornò, quindi, a concentrarsi sulla sua superba ed antipatica preda.
– Ancora fermo ed impassibile quel piccolo presuntuoso – pensò, irritato, il Sovrano – vediamo, adesso, come reagirà.
– Pertanto, vi condanno a morte. Guardie, portatelo in prigione.
André continuò a tenere il capo abbassato, mantenendo inalterate la sua compostezza e la sua serena rassegnazione anche quando le guardie gli afferrarono le braccia per sollevarlo.
– Neppure un pianto, una supplica o una richiesta di grazia – pensò, pieno di collera, Luigi XV – Vediamo se la superbia lo abbandonerà quando il boia gli avrà infilato la testa nel cappio o se, invece, lo accompagnerà fino all’inferno.
– Chi può negare che sia nell’ordine naturale che la Delfina saltelli di gioia sulla schiena di un equino, neanche fosse un cavalluccio a dondolo, disattendendo, una ad una, le istruzioni a lei impartite e che un pezzente scalci appeso ad una corda? – pensavano, intanto, alcuni servitori di Palazzo.
Proprio in quel momento, d’improvviso, le porte della sala del trono si spalancarono e fece il suo ingresso, con altera solennità, il Capitano delle Guardie Reali, visibilmente pallida e con la manica sinistra della divisa inzuppata di sangue, all’altezza del braccio. Non aveva esordito col noto incipit: “Sono Oscar François de Jarjayes”, perché tutti, a Corte, la conoscevano benissimo, ma le parole da lei pronunciate furono, ugualmente, altisonanti e degne del personaggio.
– Fermi, aspettate! – ingiunse il fiero Capitano – Maestà, Vi prego! Vi chiedo di ascoltarmi. Forse, André è in parte responsabile dell’incidente, ma non merita la pena di morte. Se, Voi, Maestà, volete ugualmente che egli muoia, allora, io ho il dovere di difenderlo. Chiedo, Maestà, che venga sottoposto ad un regolare processo e, se questa mia richiesta non sarà accolta, prenderò io il posto di André sul patibolo. E’ il mio attendente e la responsabilità di ciò che ha fatto ricade su di me.
L’accorato appello provocò una straordinaria reazione emotiva nell’uditorio – più o meno quella che avrebbe voluto ottenere il Re con le sue esternazioni – malgrado la Corte fosse, da anni, abituata ai toni da tragedia greca dell’eroica pulzella.
Così dirette al cuore andarono quelle ispirate parole che ne scaturì, immediatamente, un effetto emulativo, tanto da indurre il bel Conte svedese ad abbandonare la sua baltica algidità.
– Maestà, Vi prego umilmente di ascoltarmi – arringò l’onesto gentiluomo – Sono il Conte Hans Axel di Fersen e Vi supplico di accogliere quanto Vi chiedo. Maestà, se volete davvero la morte di André, io Vi sarei grato se potessi essere giustiziato insieme a lui.
Malgrado gli sforzi congiunti del Capitano delle Guardie Reali e del Conte nordico, la situazione dell’infelice attendente era rimasta disperata, quando fece il suo ingresso, nella sala, la Principessa in persona che, venuta a conoscenza del pericolo in cui era precipitato il servitore della sua più cara amica, aveva abbandonato il suo letto di dolore per lanciarsi al salvataggio del malcapitato. Con la grazia e l’eleganza che mai l’abbandonavano, si inginocchiò ai piedi del Re, gli afferrò il mantello e, sgranati i begli occhi, si mise a supplicarlo con tutta la contrizione di cui può essere capace un’adolescente sinceramente dispiaciuta, abituata ad averla sempre vinta con blandizie e preghiere e costantemente animata dal vivo desiderio di fare tutto a modo suo.
– Aspettate Maestà, Ve ne supplico, non dovete condannare a morte il povero André! Vi prego, c’è una sola colpevole di ciò che è successo e quella sono io, Maestà! André e anche Voi Oscar! Conte di Fersen! Non abbiate timore, il Re sa essere molto magnanimo. Io non voglio che qualcuno muoia per colpa mia. Nessuno deve salire sul patibolo. Io spero che Sua Maestà vi possa perdonare.
Terminato anche quest’ultimo monologo, il Re fu costretto a tornare sulle sue posizioni per evitare di fare la figura del tiranno senza cuore, ma con l’intima consolazione che non sarebbe, di certo, mancata una seconda occasione per dare una bella lezione a quel detestabile omuncolo.
– Se questo può far felice la Principessa Maria Antonietta – furono le conclusioni del Sovrano – nessuno sarà punito per quanto è successo.
Detto questo, si ritirò ed una sensazione di sollievo e di rilassamento si diffuse rapidamente nella sala.
André fu afferrato da un vortice di sensazioni, a partire dal rimorso per l’antipatia, da lui sempre nutrita, per pura gelosia, nei confronti della Delfina, fino ad arrivare al motore immobile di ogni suo stato d’animo e pensiero. Si pentì amaramente per avere dubitato della profondità e della costanza dell’amicizia di Oscar e, mentre era intento in questi atti di contrizione, la più importante delle due destinatarie di essi si accasciò al suolo, stremata dalla fatica ed indebolita per la ferita al braccio.
Il giovane, ormai assolto e libero di andare, prese in braccio Oscar, priva di sensi ed esangue e, con tutta la determinazione e la velocità di cui era capace, quasi posseduto dallo stesso Mercurio, varcò la soglia della sala del trono e si diresse verso le scuderie, dove era ricoverata la carrozza, seguito a ruota dal Conte di Fersen e da alcuni famigli di Casa Jarjayes.
La Principessa Maria Antonietta avrebbe voluto dare disposizioni affinché la sua amica fosse alloggiata in una delle stanze dei suoi appartamenti privati, in modo che le fosse prestata una più rapida e completa assistenza, ma un capogiro, ultimo strascico della disavventura mattutina, la fece vacillare. Le dame di compagnia la sorressero prontamente, portandola fuori della sala del trono e l’ordine rimase non impartito. Alla giovane Delfina non rimase che fare ritorno nelle proprie stanze, con la matematica e spiacevole certezza che, al massimo entro un paio di settimane, sarebbe arrivata, da Vienna, una reprimenda coi fiocchi per quanto era accaduto.
– Che disdetta! – sbottò il Duca di Germain – Una piacevole passeggiata primaverile è stata interrotta da una damina che non sa andare a cavallo e, adesso, ci siamo sorbiti anche la sceneggiata del Capitano delle Guardie Reali e del Conte svedese, con tanto di svenimento finale! Neppure potremo assistere all’esecuzione di quel servo! Dubito che sarebbe stato condannato allo squartamento o alla ruota, come sarebbe avvenuto nei bei tempi passati, ma, in mancanza d’altro, anche una buona impiccagione sarebbe andata bene!
I nobili che si trovavano vicini al Duca si allontanarono repentinamente da lui, per evitare di essere coinvolti e, magari, da altri sorpresi, in una discussione spiacevolissima, del tutto irriguardosa nei confronti della Delfina, del Capitano de Jarjayes e del Conte von Fersen e piena di volgare e disdicevole crudeltà verso un sottoposto.
– E’ molto agitato il Duca di Germain – osservò, ridendo, uno di loro – Eppure non fa ancora così caldo!
– Mio caro Conte, di cosa Vi stupite? E’ la sua condizione abituale! – fece eco un Barone.
– Sarà sifilide? – ridacchiò un Marchese.
– Ma la sifilide, secondo Lor Signori, è un morbo degno di contagiare un nobile tanto ricco e di così antico lignaggio che siede a tavola col Re e che è custode dei boni mores della società? – incalzò, con allegra malizia, una Principessa.
I quattro si guardarono divertiti, chiudendo la conversazione con un’allegra risata.






Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno voluto lasciare un commento.
Questo terzo capitolo è il più fedele all'originale e spero che, per questa ragione, non risulti noioso. 
Grazie dell'attenzione e dei giudizi positivi.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Non avrai altro Dio all'infuori di Me ***


Non avrai altro Dio all'infuori di Me

– Dimmi, André, anche tu ti sei preoccupato per me, non è vero? – gli aveva domandato Oscar, ridendo, non appena si era destata – Tu sì che sei stato fortunato, hai scampato la morte nonostante tu abbia messo a repentaglio la vita della Principessa!
– Non prenderti gioco di me, Oscar! – aveva pensato lui, di rimando, ma senza osare aprir bocca – Giuro che, un giorno, se sarà necessario, darò la mia vita per te, come tu sei stata capace di fare per me, ieri. E’ un impegno solenne quello che prendo con te, Oscar. Un giorno, se il destino lo vorrà, sacrificherò la mia vita per te. Te lo giuro, Oscar!
André ripensava a queste frasi ed a quanto si era svolto, durante le ultime ore, nelle loro esistenze, interrogandosi sull’effettiva portata di quell’impegnativo e solenne giuramento che gli era uscito spontaneo dal cuore, ma che non aveva avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non era mai stato così vicino alla morte e l’intuito gli suggeriva che quella non sarebbe stata l’ultima volta.
Ripensava anche al modo in cui Oscar aveva guardato il Conte di Fersen, quando erano tutti e tre inginocchiati davanti al Re, e, più ci rifletteva, meno la cosa gli piaceva.
Seduto sul suo letto, con la testa fra le mani, stava facendo i conti con un principio di cefalea, naturale corollario di una giornata che definire intensa sarebbe stato riduttivo oltre che del calo di tensione seguito al ridestarsi di Oscar.
Sua nonna era stata affaccendata per l’intero giorno, finché non si era assopita accanto alla malata. Il Generale de Jarjayes si era trovato, tutto il tempo, in bilico fra l’orgoglio per la condotta della figlia e l’apprensione per la di lei salute mentre Madame de Jarjayes aveva brillato per la sua assenza.
Ma quello che aveva dato da fare più di tutti, a parte la malata, era stato il Conte di Fersen, alle prese con i postumi della rivelazione della femminilità di Oscar. Il poveretto non se ne voleva capacitare, malgrado fossero passati diversi mesi dal primo incontro in occasione di quel ballo a Parigi e la loro frequentazione alla reggia fosse stata pressoché quotidiana. Poteva affermarsi, oltre ogni ragionevole dubbio, che il Conte di Fersen padre non aveva fatto un grande investimento mandando suo figlio a studiare in giro per l’Europa.
Era cominciato tutto con il rifiuto del giovane gentiluomo di abbandonare la camera di Oscar, quando il Dottor Lassonne aveva iniziato a visitarla.
– Siamo fra uomini, suvvia! Non c’è bisogno che ce ne andiamo, procedete!
Il suo diniego era stato così insistente che persino la vecchia Marie si era spazientita e dire che ce ne voleva di impegno per indurla a perdere le staffe con un nobile!
La prima rivelazione non era stata sufficiente, perché quello non demordeva.
– Ma come, una donna che è stata allevata come un uomo e che, adesso, è un uomo e che tale rimarrà per sempre, ammesso che viva? No, André, mi sto perdendo, ma è donna o uomo?
Ed André, munito di santa pazienza, aveva spiegato e rispiegato al Conte gli effetti dell’eccentricità del Generale e della stessa Oscar, ma la lectio magistralis non doveva essere stata del tutto chiarificatrice, perché lo svedese pareva avere ancora un punto interrogativo al posto del volto.
– Eh sì, non sarà un grande rivale, dopo tutto…. Un grande rivale? Ma cosa sto dicendo?!
André si strinse ancora di più la testa fra le mani, quando vide, buttati in un angolo, i suoi vestiti, ridotti in brandelli, che si era tolto qualche ora prima, per farsi medicare da sua nonna. Rivide anche la nonna intenta a lavargli ed a disinfettargli le molteplici escoriazioni, conseguenza dell’essere stato trascinato, per metri e metri, dal cavallo imbizzarrito.
– Sei un grande mascalzone – gli aveva detto, con voce querula ed irata, la quasi ottuagenaria – hai messo in pericolo le vite della Principessa e di Madamigella Oscar! Devi solo reputarti fortunato di conservare ancora tutti i denti in bocca, di avere un Re ed una Principessa tanto magnanimi e, soprattutto, che io abbia lasciato il mestolo giù in cucina! – e, mentre diceva questo, la povera vecchina tratteneva a stento i singhiozzi.
Si rivide trascinato dal cavallo, dolorante ed inerme, malgrado Oscar lo avesse esortato, più e più volte, a lasciare andare le briglie e, d’un tratto, ebbe la fulminea rivelazione che sarebbe stata la sua immensa testardaggine a condurlo alla rovina.
Una voce, dal profondo dell’anima, d’improvviso, gli urlò:
– Salvati, André, sei ancora in tempo!
– In tempo per cosa? Non capisco!
– Non fingere di non capire! C’è sempre un punto prima del quale ci si può fermare ed invertire la rotta. E’ a forza di rimuginare che un’idea diventa chiodo fisso, che un’inclinazione sfocia nel sentimento e che un’affezione si tramuta in passione. Sei ancora in tempo per tornare indietro!
– Tornare indietro? E dove? Io non ho una casa, una famiglia, un nido cui fare ritorno. Lei è la mia casa, la mia famiglia, il mio mondo. Senza di lei, non c’è vita.
– Non fare lo sciocco, André! Si vive di realtà e non di fantasia.
– E di quale realtà dovrei vivere? Di quella in cui sono morti i miei genitori? Di quella che potrebbe disarcionarmi in qualsiasi momento, come un cavallo imbizzarrito, gettandomi a terra con le ossa rotte? Mille volte meglio un sogno irrealizzabile di cui lei sia la protagonista.
– Il Generale ti è affezionato, André, chiedigli di farti proseguire gli studi, non te lo negherà!
– Bene, dovrei andare alla Sorbona e diventare Avvocato o Medico, come il Dottor Lassonne oppure Architetto o Ingegnere? Anzi, potrei entrare in seminario e divenire un panciuto e rubicondo Parroco di campagna oppure rinchiudermi in un convento, tanto la povertà, l’obbedienza e la castità già le pratico! La verità è che, se anche massimo fosse il mio impegno, qualsiasi posizione dovessi raggiungere non sarebbe mai abbastanza per essere degno di lei e chiedere la sua mano!
– Lei è nobile e ricca e, per quanto strana, troverà sempre soddisfazione in una vita che le piace e protezione in una posizione sociale inattaccabile. Tu, invece, devi difenderti da solo e, se non lo farai, lei ti fagociterà e finirai alla deriva.
– Lei ha bisogno di me, lei non può stare senza di me!
– Sei tu che hai bisogno di lei, come un ubriaco del vino ed un ferito del laudano. Lei non ha bisogno di te e vedrai che, presto o tardi, se la caverà egregiamente da sola.
– Tu menti!
– Vuole vivere come un uomo.
– A me piace per quello che è.
– Ha già iniziato a guardare un altro.
– Lui non la vuole, la farà soffrire e, quando ciò accadrà, io ci sarò.
– Se, per assurdo, riuscissi ad averla, quanto durereste voi due? Diradate le coltri del sogno, accetteresti la sua realtà nuda e cruda? Le sue virtù sovrastano le tue ed i suoi difetti sono insopportabili: è prepotente, altera, dominante, incline alla furia e sentimentalmente egoista. Come marito, ti divorerebbe in un sol boccone.
– Lei è perfetta così com’è ed io sono l’uomo adatto a lei.
– E tu, invece, riusciresti a farla felice? Cosa le daresti in cambio dei castelli, delle terre, del rango, della carriera militare che dovrebbe abbandonare per te? Come faresti a provvedere a lei? Pensi che una creatura così impetuosa, brillante, vulcanica, geniale troverebbe nella tua normalità e nella tua docilità pane per i suoi denti?
– Io trasformerei l’intera sua vita in una festa!
– E come, in concreto?
– Qualcosa mi inventerei e, poi, non sono affari tuoi!
– Sei un giovane intelligente, istruito ed in buona salute ed hai fatto fronte in maniera più che decorosa alla tua condizione di orfano, privo di mezzi di fortuna. Non pensi che, anziché appiattirti su sogni inconsistenti, invece di desiderare troppo che è come non desiderare affatto, dovresti impegnarti in modo fattivo e realistico per mettere a frutto queste tue doti anche per rispetto verso chi è malato, povero, solo o, più semplicemente, afflitto da problemi ben più gravi dei tuoi?
– La vita, l’intelligenza, la salute, l’istruzione sono mie e ne faccio l’uso che ritengo più opportuno. Voglio metterle a servizio della persona migliore della Terra. Che male c’è?
– Oggi, ti è stata donata la tua vita una seconda volta e ti assicuro che ciò non avviene tutti i giorni. Non fare getto di questo dono che potrebbe non ripresentarsi, ma festeggialo, cambiando atteggiamento e mentalità!
– Chi ha detto che il mio atteggiamento e la mia mentalità siano sbagliati? Chi può prevedere, all’inizio di un viaggio, se esso sarà proficuo o fallimentare?
– Ti rovinerai con le tue mani, André! Perderai la salute, la vita, finanche l’anima, dietro ad una chimera o, peggio, ad un’ossessione! Hai già cominciato adesso, prendendo in antipatia la Principessa, con la scusa che è immatura e lontana dalla povera gente. La verità è che tu non sopporti che lei si dedichi a qualunque altro essere umano diverso da te. A tuo giudizio, dovreste esserci soltanto voi due, come quando eravate piccoli!
– Meglio anelare a lei ed impazzire che fare a meno di lei e rinsavire!
– Fai come vuoi, André. Il mio compito è soltanto quello di metterti in guardia e termina qui. Salvarti o perderti spetta alla tua volontà che, purtroppo, da quel che vedo, è influenzata da un animo alquanto esaltato ed autolesionista. Peccato, saresti stato un brav’uomo.
La voce tacque e, nella mente del giovane, tornò il silenzio.
Continuava, nel frattempo, a stringersi la testa fra le mani, tormentando, con le dita, le ciocche dei capelli. Cosa voleva saperne quella voce? Lei e soltanto lei era la salute, la vita, l’anima, il mondo. Lei era …. Si arrestò di colpo, agghiacciato dalla blasfemia che stava per pensare e, d’un tratto, ebbe assolutamente chiaro un concetto: era stato sempre ben lieto di santificare le feste e di onorare la memoria dei suoi genitori; non rubava, non mentiva, non fornicava, neanche gli insetti uccideva, perché gli facevano pena, ma aveva passato l’intera vita, sin dai tempi del suo arrivo a Palazzo Jarjayes, ad infrangere il primo comandamento. L’acquisita consapevolezza di ciò lo fece sentire perso e, allo stesso tempo, inebriato. Convenne che avrebbe perduto la salute, la ragione, la vita, la stessa anima, dietro a questa follia. Comprese con assoluta certezza che la via di non ritorno che aveva appena imbroccato sarebbe stata fonte di sicura dannazione eppure non era in grado di sottrarvisi. La voce della sua coscienza aveva pienamente ragione e, malgrado ciò, egli aveva deciso di oltrepassare ugualmente il punto di non ritorno.
Mentre era così tormentato e confuso, gli tornò in mente l’ultima parte di quel carme latino che avevano studiato da ragazzi:
 
Otium, Catulle, tibi molestum est:
otio exsultas nimiumque gestis:
otium et reges prius et beatas
perdidit urbes.
 
Sì, era decisamente il tempo di finirla di oziare.
Stabilì di mettere da parte il suo mal di testa, le sue esigenze, i suoi desideri, in poche parole, se stesso e di recarsi da lei, nella stanza di lei, perché avrebbe potuto avere bisogno di lui.
Si augurò soltanto che, in questa sua discesa all’inferno, il mestolo di sua nonna sarebbe rimasto, il più a lungo possibile, giù in cucina.
– Sì, devo andare, Oscar potrebbe avere bisogno di me, così come il Conte di Fersen. Dopo tutto, non ha ancora capito bene! Dovrò proseguire con le spiegazioni.
Fuori, albeggiava.
 




Ringrazio ancora una volta tutti coloro che hanno voluto commentare i capitoli precedenti.
Questo quarto ed ultimo capitolo è quello più triste ed introspettivo, avendo come protagonista assoluto André, personaggio votato alla tragedia. L’ironia è relegata in alcuni passaggi e, non me ne vogliano il povero Conte di Fersen ed il mestolo della nonna, ma mi sono serviti per stemperare la tensione e ricondurre la narrazione su binari meno drammatici. Premetto che il Conte di Fersen è un personaggio che io reputo positivo, con un’intelligenza spiccata, sebbene rivolta ad elaborare soltanto quello che gli si presenta davanti e poco incline alle dietrologie. In questo capitolo, però, mi serviva un personaggio da immolare ed egli ne ha fatto le spese.
Con questo capitolo, quindi, “Incidenti e dintorni” termina e vi saluta.
Questa storia, nata per caso, pensata e scritta quasi di getto, è piaciuta oltre ogni più rosea aspettativa. Ancora grazie! 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3683343