Briciole di Tempo

di Stray_Ashes
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Serpe in Seno ***
Capitolo 2: *** L'Avidità dei Demoni ***
Capitolo 3: *** Sempre Più Stretti ***
Capitolo 4: *** Nostalgia di Casa ***



Capitolo 1
*** La Serpe in Seno ***



 

 




Jessica Rawstreet aveva l'eleganza delle ali dei falchi e la freddezza dei loro occhi. O almeno, così la descriveva il suo cameriere.

Osservava il mondo scorrere con una compostezza e una distanza che somigliava al modo in cui i felini e i rapaci rimiravano il loro regno – con quell'altezzoso, ma mai distratto, senso di superiorità e controllo, come in attesa di qualcosa.

Seduta a gambe accavallate sulla costosa poltrona bordeaux nel salotto di Villa Chadelle, Jessica Rawstreet si portò la sigaretta alle labbra e tirò, lasciando che il fumo le strisciasse nei polmoni prima di espellerlo, schiudendo le labbra. Osservò la nuvoletta grigia con occhi socchiusi, e poi questa si diradò nell'aria, sparendo senza lasciar traccia visibile di esserci mai stata.

Un po' come le persone, pensò. Di loro resta un ricordo pallido, e poi più nulla.

Gli occhi verde chiaro erano circondati da un elegante linea di trucco scuro, le sopracciglia erano perfettamente arcuate, il naso appuntito ma dritto, gli zigomi marcati e le labbra sottili, rosse, strette in una linea di impazienza. La figura quasi nobile di Jessica Rawstreet sapeva intimidire anche i più ricchi signori della città, e nessuno osava recarle uno sgarbo. Era rinomata per le sue vendette subdole e mirate. Non c'era segreto che lei, se istigata, non era in grado di scoprire.

Jessica, però, non era particolarmente amata dalla propria famiglia, e lei di certo non l'amava a sua volta. Erano tutti pomposi nobili d'alta società che dondolavano per le strade e per le stanze come grossi tacchini, con quel mento cadente e quegli occhi piccoli, indagatori, nonché incredibilmente stupidi.

Jessica non sapeva infatti se la propria astuzia fosse genetica, ma ne dubitava, siccome era figlia del Conte Rawstreet – ormai morto da un paio di anni.

Jessica prese un altro tiro dalla sigaretta e si guardò intorno, incontrando gli occhi fintamente umidi delle persone presenti nella sala: nessuno voleva davvero bene al Conte Bracket, il fratello del Conte Rawstreet: l'anziano era diventato una grossa grassa palla al piede e nessuno era stato poi così sorpreso nell'apprendere che il vecchio cuore dell'uomo era collassato, non dopo tutto quello che si era fumato negli anni.

Jessica riconobbe le proprie cugine, altre vecchie e giovani donne e qualche uomo, vecchi amici di Bracket, o parenti, o semplici accompagnatori delle damigelle. Jessica non lo sapeva. Non le importavano, questi ipocriti affari di famiglia, e non aveva alcun interesse ad unirsi al lutto o a compiangere il perduto 'parente' insieme agli altri pagliacci della commedia.

Si sentiva sguardi truci addosso, forse per via della sigaretta o della sua presenza in generale, ma Jessica non ci fece caso: le avevano chiesto di essere presente alla lettura del testamento, e lei era venuta. In ogni caso, sulla sua pelle scivolava placido ogni sguardo e ogni parola.

Il vecchio notaio si schiarì la voce e maneggiò dei fogli ingialliti, prendendo a leggere qualche formalità che Jessica ignorò. La donna spostò lo sguardo affilato sulle persone sedute intorno al lungo tavolo, ignorando immediatamente quelle con gli occhi arrossati e quelle che suo malgrado già conosceva. Poi notò due uomini, tra i venti e trent'anni, uno biondo e uno moro, che non aveva mai visto prima. La incuriosirono, perché come lei sembravano estranei e disinteressati a tutto questo, ma la sua attenzione fu nuovamente rapita dal notaio, le cui parole cominciavano a diventare interessanti. E Jessica sentì esattamente la frase che voleva sentire.

"...lascio tutti i miei averi, perché possa disporne a suo piacimento, a mia nipote Jessica Rawstreet".

Si alzò un boato.

Jessica vide, ridendo con la sigaretta fra le labbra, la moglie di Bracket alzarsi in piedi e buttare giù la sedia, le sua cugine lanciarle occhiate incredule e generali esclamazioni di sospetto e protesta. Il povero notaio era il più buffo, mentre si sistemava gli occhiali e mostrava il foglio ai presenti, rileggendo il testo un paio di volte.

Immune a tutto questo, Jessica premette la testa della sigaretta contro il posacenere di cristallo poco lontano da lei, estrasse un'altra sigaretta dalla borsa e l'accese. Si alzò in piedi e, senza dare corda a nessuno, se ne uscì nel giardino.

Esattamente quello che aveva voluto sentire. Avrebbe voluto ridere, ma non le sembrava carino. Dopotutto, il vecchio zio Bracket era stato carino con lei, no?

***

"Pensi che l'abbia falsificato...?"

La casa si era ormai praticamente svuotata, ma il pallido sole autunnale che illuminava il selciato del giardino era piacevole sui loro completi neri. David mise le mani nelle tasche e si girò verso di Terence. "Il testamento, intendo".

Terence sollevò lo sguardo sul salice in fondo al giardino, osservando come la luce creasse strane trame tra le fronde. "Non saprei".

David sollevò le sopracciglia: vivevano insieme da sette anni, era raro che Terence non sapesse qualcosa. Specie quando si trattava di questo genere di cose. David non sapeva se l'altro uomo avesse semplicemente letto troppi libri gialli nell'infanzia o se raccogliere indizi e dare riposte fosse un suo semplice talento naturale. Terence sosteneva sempre la seconda, ma a David piaceva punzecchiarlo.

"Però penso che si sia lavorata l'affetto di quell'uomo fin da bambina. E so di per certo che non ha scrupoli, e che ha bisogno di soldi"

"Di soldi?"

Terence annuì. "Ho fatto due chiacchiere con il suo maggiordomo, poco dopo la morte del conte". David aggrottò le sopracciglia, ma non disse nulla. "Ha venduto alcuni dei suoi migliori gioielli, persino un cavallo da corsa. Esce tardi la sera e non fa ritorno per ore. Forse qualcuno la ricatta? O forse, più plausibile, si tratta di un amante, con cui magari vuole scappare, o magari qualche brutto circolo in cui si è incastrata. Persino la morte improvvisa del Conte, proprio in questo suo momento critico, la trovo sospetta"

"Ma il conte è morto d'infarto, no...?"

"La Rawstreet studiava botanica. E anche le piante sono pericolose e subdole, solo che la scienza è ancora troppo indietro per riconoscerne tutti gli effetti. Jessica invece no, temo".

Ci fu un lungo momento di silenzio, in cui David cercò di riordinare logicamente le parole di Terence. "Intendi dirlo a qualcuno?" domandò infine.

Terence sospirò e cominciò a camminare verso la strada, dove carrozze di dimensioni varie sfrecciavano sul cemento. David lo raggiunse immediatamente, passeggiando accanto a lui e attendendo una risposta. Era diventato molto paziente, negli anni.

Terence scosse le spalle. "No, non penso. Perché dovrei? Questa città è già piena di persone viscide, e persino Jessica Rawstreet si merita di scappare da qualche altra parte, lontano da chi la conosce", e poi non aggiunse altro. Prese invece David a braccetto, poiché, ancora una volta, era incurante di quello che potevano o non potevano fare in pubblico. "Ora andiamo, ci sono cose da scoprire in questa città".

David trattenne sia un sospiro che un sorriso. 


 

.........

 

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Capitolo 2
*** L'Avidità dei Demoni ***




2. L'Avidità dei Demoni



"Mi serve un altro prestito".

Vince strinse le mani attorno ai poggioli della sedia su cui era seduto, cercando di ignorare i tremori nei muscoli. Sentiva le tempie pulsare ed avvertiva un rivolo di sangue che dal sopracciglio sinistro gli arrivava fino al lato della bocca, là dove gli uomini di Brooke l'avevano pestato.

Quando sapevano che eri in cerca di un prestito, i gorilla di Brooke ti prendevano e ti picchiavano, così, senza una vera e propria ragione, e solo poi avevi il permesso di incontrare il loro capo. Ribellarsi era ovviamente inutile.

Era come un monito, crudele ma sensato: essere pestato senza non aver ancora fatto nulla ti toglieva dalla mente ogni proposito di fregare il signor Brooke. O le botte sarebbero state molto peggiori.

Vince era stato in questo posto più di una volta a chiedere un prestito, ma non sembrava fare molta differenza: gli uomini di Brooke ripetevano il rito lo stesso, e lo pestavano finché non cadeva in ginocchio. Ogni volta, per ciascuno degli ultimi mesi. Ma Vince... non poteva farne a meno. Aveva dovuto venire ancora una volta.

Il signor Brooke era una scura e imponente figura aldilà della scrivania e fissava Vince con fredda sufficienza, mentre i suoi gorilla se ne stavano contro i muri della stanza, un po' come mobili d'arredamento, o forse come grosse armi appese alle pareti. Brooke sollevò una mano e si lisciò i bassi, per poi grattarsi il mento. "Un altro prestito, Vince? Non hai nemmeno finito di pagarmi l'ultimo debito..." commentò, con quella voce ruvida ma paterna da cui Vince non si lasciava più abbindolare. Anzi. Il battito del suo cuore accelerò e lui deglutì, sentendo sudore freddo scivolargli sulla schiena e sulla tempia, mescolandosi al sangue e facendogli bruciare le ferite.

"L-lo so. Ma pagherò. Ho... ho solo bisogno di un altro prestito. Ne ho bisogno"

Lo sguardo di Brooke si oscurò, e l'uomo barbuto si sporse in avanti. "Ma a me non interessa di cosa hai bisogno, ragazzino. Questi sono affari. E questo mondo è crudele, senza scrupoli."

Vince strinse i denti e chiuse brevemente gli occhi. Un'energia incontrollabile, feroce, arrabbiata si agitava in lui e gli tirava i nervi, impaziente di scatenarsi – e secondo Vince, Brooke era cosciente di questo. Stava giocando con lui. Lo stava testando, istigando. Ma Vince sapeva che se si fosse lasciato andare, gli altri uomini – gli altri lupi – l'avrebbero fatto a pezzi.

Ricordando che era già il venticinque del mese, e che non c'era più tempo, Vince riuscì a calmarsi e tornare in sé.

"Lo so. Ma ho sempre pagato, non è vero? Ti ho sempre restituito tutto. E lo farò anche questa volta, ho – ho solo bisogno di ancora un po' di tempo."

Brooke lo fissò truce qualche istante, poi sospirò e si abbandonò contro lo schienale della poltrona. "E cosa mi assicura che tu tra un mese non sarai di nuovo qui senza i miei soldi, a chiedere un nuovo prestito?"

"Il mio buon senso. So che se tornassi qui a mani vuote... mi uccidereste", mormorò Vince, e piegò il capo, lasciando che ciuffi di capelli neri gli scivolassero davanti agli occhi.

Brooke sorrise, come sorriderebbe un professore allo studente con la risposta corretta. "Bene. Vedo che su questo non hai dubbi. E ricorda che ti uccideremmo anche se scappassi." Brooke fece una pausa, poi si grattò di nuovo la barba e sorrise: Vince vide uno scintillio aguzzo tra le sue labbra. "Sei fortunato che mi stai simpatico, Vince. Così giovane e già incastrato in un inferno come questo. Anche io avevo circa la tua età... perciò, ti concederò il prestito. Ma solo questa volta". Vince sentì l'eccitazione e la gioia pervaderlo, ma rimase fermo e rigido al suo posto quando Brooke sollevò una mano per richiamare i suoi scagnozzi, sentendolo borbottare un "Porta qui la valigia".

E la valigia fu portata. Era grossa, dall'aspetto minaccioso, di consumato cuoio nero con uno spesso marchingegno a combinazione che la teneva chiusa. Vince osservò avidamente le dita di Brooke muoversi per comporre i numeri corretti, e poi la valigia fu aperta: all'interno, posate su un panno di velluto rosso, c'erano varie boccette dal colore argenteo; Brooke non si fermò a pensarci, ne afferrò una con decisione e compì il movimento per porla a Vince.

Per un istante, il ragazzo vide il mondo al rallentatore – e poi, subito dopo, lo vide andare incredibilmente veloce. Successe tutto in un istante: arrivarono le urla, il rumore degli spari, il suono di chi correva. I gorilla di Brooke si staccarono dai muri e misero mano alle armi proprio mentre la porta dello studio si spalancava, rivelando un uomo con un lungo cappotto beige e un a bandana a coprirgli il volto, ma nello stesso istante una pallottola si stava già conficcando con precisione impeccabile nella fronte di Brooke.

La boccetta scivolò dalle mani dell'uomo, rotolando sul tavolo, e Vince, incurante persino dell'assassino che aveva alle spalle, si lanciò per terra e riuscì ad afferrarla al volo, prima che si frantumasse. Se la strinse al petto e cercò di farsi scudo dietro la scrivania del defunto Brooke. Nella stanza, intanto, si era scatenato l'inferno: l'assassino non era venuto da solo, si udivano grida in altri punti dell'edificio, e sangue e schegge di legno volavano ovunque. Nel suo campo visivo vedeva anche del fumo, forse del fuoco.

Vince strinse gli occhi, sentendo il cuore battere come un tamburo nel petto: non voleva morire lì, non adesso e non così. Scattò in piedi e si lanciò alla cieca verso la finestra in fondo alla stanza, ignorando persino il dolore lancinante che una pallottola gli causò sfiorandogli il fianco: fu un momento confuso, guidato dall'istinto, ma Vince non ci pensò due volte quando sfondò di peso il vetro della finestra e precipitò dall'altezza di due piani in un vicolo avvolto dal buio.

Atterrò, e perse coscienza qualche minuto: si risvegliò che aveva male ovunque, i muscoli e le ferite gridavano, il freddo dell'aria gli irrigidiva la pelle e gli congelava le lacrime tra le palpebre.

Eppure, si tirò in piedi e strinse tre le dita il suo elisir, cominciando a muoversi a tentoni nelle strade buie della città: dopotutto, la notte gli apparteneva, e non c'era ostacolo in grado di impedirgli di tornare a casa – ovunque casa si trovasse adesso.

 

......

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Capitolo 3
*** Sempre Più Stretti ***



3. Sempre più Stretti


A Jay il suo vero nome non piaceva. Le sapeva di pomposo, esagerato – la faceva sentire vecchia. E a diciassette anni, non è bello sentirsi vecchi. Jay si sentiva estremamente intelligente, se non saggia, ma mai vecchia... nel tempo aveva sviluppato un certo disprezzo per quegli anziani dallo sguardo giudice e raggrinzito, e per quelle donne dai capelli crespi e pallidi e dalla postura cadente.

Si era ripromessa che non sarebbe mai diventata vecchia e stanca – sarebbe morta prima, piuttosto. Sarebbe morta nel corso di qualche avventura, qualche spericolata spedizione... ma quelle erano solo fantasie avute da ragazzina, e Jay lo sapeva.

Quindi, sarebbe sì morta prima di diventare vecchia, ma probabilmente per un semplice tumore. Pareva che tutti morissero per quello. Lei non voleva affatto morire come tutti, ma ci sono certe cose che si fa fatica a scegliere.

Il vecchio pendolo sul muro eseguì come ogni giorno il rintocco che segnava le cinque, e Jay schizzò in piedi, dirigendosi alla finestra con i muscoli frementi per l'eccitazione. La spalancò e ripeté la stessa procedura degli ultimi giorni: si issò sul davanzale, spostò il baricentro e cominciò a scendere attaccandosi ai rampicanti e al cornicione. Per fortuna, la sua stanza era solo al primo piano... ma quando mancava poco meno di un metro dal suolo, qualcosa le solleticò le caviglie, spaventandola a morte e facendole perdere la presa sul rampicante. Ebbe il tempo di pensare "Ecco, sto per morire," (nonostante si trattasse di a malapena un metro), che ad accoglierla furono due braccia dalla pelle chiara, e non il suolo.

Ci fu un istante di stallo in cui Jay si accorse di essere viva e tra le braccia di qualcuno, e poi Ryan scoppiò a ridere, con quella risata contagiosa eppure rara che aveva solo lui. Jay sentiva il suo petto muoversi contro la schiena, e il vago senso di sollievo fu rimpiazzato da sgomenta collera. Ryan le morse giocosamente una guancia, e Jay riuscì a liberarsi e a colpirlo alla spalla. "Cretino, mi fai prendere un infarto!".

Ryan rise, poi si slanciò in avanti e l'abbracciò, con un naturalezza e un calore molto lontano dal Ryan che Jay aveva conosciuto il primo giorno. Fece finta di essere offesa e rimase rigida qualche istante fra le braccia del ragazzo, poi le sfuggì un sorriso e si sciolse nella stretta. "Mi sei mancata,"

"Ci siamo visti ieri"

"Appunto".

Erano le cinque del pomeriggio e i carcerieri – cioè, i parenti – di Jay erano tutti usciti, le donne a compere e gli uomini a caccia. Jay diceva espressamente alle domestiche di non disturbarla dalle cinque in poi, e questo dava loro circa un ora di libertà.

Ryan e Jay corsero per mano come ogni giorno, lontano dal maniero, giù lungo le vie più storiche della città, là fino ai borghi e infine alle scogliere, dove tra le scanalature si nascondevano passaggi che portavano alla spiaggia e al mare. Jay aveva avuto un paradiso a pochi passi da casa e non l'aveva mai saputo, non finché Ryan non le aveva aperto gli occhi, mostrandole un mondo più bello, più grande.

Ma la cosa aveva funzionato anche viceversa: Ryan aveva sempre avuto un'ombra oscura nel suo sguardo color del cielo, e i segni indelebili del dolore e della paura erano scolpiti indelebilmente nel suo viso dalla pelle pallida. Solo da poco Jay era riuscita a farlo sorridere spesso.

Si erano aiutati l'un l'altro a sentirsi un po' meno persi, un po' meno soli, e nel pensarci Jay strinse gli occhi e spinse il viso nell'incavo del collo di Ryan, tra la clavicola e il mento. Sentì il suo petto sollevarsi in un sospiro, la cassa toracica espandersi e poi restringersi. C'erano momenti in cui desiderava stringesi a lui più di quanto fosse stato possibile, e ogni giorno che passava, le notti da sola alla villa parevano sempre più sole, deserte, sprecate.

Sentì Ryan sorridere e una delle sue braccia l'avvolse attorno alla schiena, stringendola con gentilezza. Erano ancora umidi e coperti di sale per via del bagno, e ora, come ogni sera, erano semi-sdraiati su una roccia sporgente che dall'alto non si notava. Nessuno li avrebbe mai trovati lì. E Jay non si era mai sentita più sicura di così... nonostante sapesse molto poco della vera storia di Ryan.

"Cosa sogni di fare da grande?" mormorò Jay, e quando parlò le sue labbra sfiorarono la pelle del collo di lui. Lasciò lì un bacio, e poi vi soffiò delicatamente sopra, come sperando di mandare quell'affetto a tutto il resto del corpo.

Ryan le baciò la testa, poco sopra la fronte. "Non so. Sogno di viaggiare, ma allo stesso tempo sogno di avere un posto tutto mio, dove sentirmi sicuro, con persone che amo. Vorrei diventare uno scrittore, un giorno".

Jay si tirò un po' su, sorridendo. "Davvero?" domandò sorpresa, e quando Ryan sorrise timidamente lei si spinse in avanti e gli baciò le labbra. "Devi assolutamente farmi leggere qualcosa. E anche a me piacerebbe viaggiare, vedere posti fantastici, lontanissimi. Lontano da questa vita qui, insomma".

"Io è tutta la vita che viaggio con mia madre da una città e una scuola all'altra. Sono abbastanza stanco dell'Inghilterra," ridacchiò, e poi la sua voce si spense, lasciandolo in un silenzio teso. "Ma non possiamo permettere che lui ci trovi".

Nello stesso istante Jay realizzò una cosa e si tirò su del tutto, sfiorandolo solo con una gamba, adesso. "Ma qui... non vi troverà vero? Insomma, non ripartirai per un bel po', giusto?"

Ryan si morse il labbro e chiuse gli occhi. "Io... non lo so. È complicato... ci sono tante cose che non sai Jay"

"E dimmele allora!" soffiò lei, spingendosi in piedi e accorgendosi di star tremando appena. Questo non era un tipo di paura che si era aspettata di provare, non oggi. Troppo presa dalla propria felicità, non aveva considerato l'idea che Ryan potesse ripartire, che potesse lasciarla sola. Era stanca di essere sola. Tra mille altre persone, era sola lo stesso.

Sapeva solo Ryan e sua madre stavano fuggendo da alcuni anni, nel tentativo di non farsi ritrovare dal padre e dalla sua follia omicida. Lei aveva provato a convincerli a chiamare la polizia, ma non c'era stato verso... lei non lo sapeva, ma Ryan aveva ragione. C'erano molte cose che lei non sapeva, e che forse non avrebbe mai scoperto – perché il mondo era un posto crudele, e questo l'aveva capito.

Ryan non era neppure il vero nome del ragazzo di cui era innamorata.

"Non posso, Jay."

Non ci fu altro che lei volle sentire, non quel giorno. Per impulsività gli voltò le spalle e corse via, su per il passaggio tra le rocce e fino in cima alla scogliera: correndo sbatté contro un uomo, ma gli occhi sull'orlo del pianto non le permisero di vedere chi fosse. Non chiese neppure scusa, non ne aveva voglia. Prese la strada verso casa, dove per la prima volta agognava la solitudine della sua stanza.

L'uomo che aveva scontrato, e l'altro uomo accanto a lui, la guardarono scappare, e poi girarono l'attenzione sul ragazzo dai capelli neri e gli occhi arrossati che sbucò sullo spiazzo.

Ryan, risalita la scogliera, vide due uomini con lunghi cappotti e una bandana a pendergli dal collo, e provò una paura immensa che gli congelò il sangue e le membra, poiché sapeva bene chi aveva davanti. Lo sapevano tutti, e probabilmente, dopo aver spezzato il cuore a sé stesso e alla ragazza che amava, sarebbe pure morto.

Ma i due uomini non si mossero, si limitarono a guardarlo in silenzio per alcuni minuti, poi quello biondo si voltò e si allontanò, senza una parola. Quello moro parve tentennare, poi sollevò il mento verso di Ryan e mormorò una frase che Ryan colse solo flebilmente. Subito dopo vide l'uomo raggiungere a passi svelti quello più alto, allontanandosi con lui.

Il giovane uomo dai capelli mori aveva detto, "La rincontrerai, un giorno", e Ryan tornò a casa senza riuscire a levarsi quelle parole dalla testa.

Come aveva già deciso con sua madre, sarebbe partito il giorno dopo, ma non era riuscito a dare a Jay l'addio che avrebbe voluto. Forse, pensò, perché non sarebbe stato un addio, non davvero. 

 

......

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Capitolo 4
*** Nostalgia di Casa ***


4. Nostalgia di Casa



Da lontano una persona avrebbe visto due uomini con lunghi cappotti osservare due lapidi. Avrebbe pensato si trattasse di parenti, o amici dei defunti, ma la realtà era ben diversa.

I due uomini erano degli osservatori, dei viaggiatori, e talvolta, anche dei cacciatori. Nessuno avrebbe creduto alla loro storia, né alla storia che quelle due lapidi racchiudevano.

"Quindi se la son bevuta tutti?" chiese David con un alzata di spalle. Aveva le mani infilate nelle tasche del cappotto, un vizio rubato a Terence, però gli piaceva pensare che la gente li vedesse compiere gli stessi gesti.... che li vedesse come parti di una singola unità, parti uguali ma allo stesso diverse. Ovviamente, non avrebbero capito cosa lui intendeva con questo.

Terence era chiaro là dove David non lo era: aveva i capelli biondi anziché mori e il cappotto beige anziché marrone. I suoi occhi erano azzurri mentre quelli di David erano nocciola. Terence era elegante e posato, David... beh, non tanto, ma per questo gli piaceva imitare la postura e l'accento del compagno, ogni tanto. Lo divertiva.

Terence annuì. "Sì. Jessica Rawstreet muore nel tragico incendio della sua villa. Niente resti. Niente tastamento, grandi ricchezze scomparse. Non molte persone al suo funerale.

Vince Stacker scompare e probabilmente muore da qualche parte. Ancora meno persone a ricordarlo, in ogni caso."

David spinse in avanti le labbra. "Beh, sono stati furbi. Sono riusciti a scappare insieme alla fine..." fece una pausa, mordicchiandosi l'interno della guancia. "Io amo queste storie, ma sei sicuro che sia saggio lasciarla con lui?"

Terence guardò David qualche istante, mentre una linea si formava tra le sue sopracciglia. Contorse la bocca in una smorfia. "Pensi che avremmo dovuto ucciderlo...?" gli domandò, forse cominciando a pentirsi della propria decisione.

David sospirò, guardando la lapide di Vince Stacker. Poi sorrise. "No. Abbiamo fatto bene. Vince sarà anche un lupo mannaro, o quello che è, ma credo che la amasse davvero. Da un bel po' di tempo, anche, o quel salto nella sua adolescenza non ti è bastato?" disse ridacchiando.

Sentendosi sollevato, Terence abbozzò un sorriso a sua volta. "Credo anch'io.", mormorò. "E credo anche che quel diavolo che ci è scappato nel covo di Brooke fosse proprio lui. C'erano una valigia con elisir temporaneo contro la licantropia, e quella roba dipendenza. Vince era lì per quello, ma spero che Jessica lo aiuti... e ora, ti va un po' di the alla corte della regina Elisabetta I?"

David rise, poi scosse la testa. "Non capisco perché tu sia fissato con questa epoca, Terry. Voglio dire, è abbastanza scomoda."

"Ma Dave, lo stile è grandioso! E il the anche," ribatté Terence, punto sul vivo. Cominciarono a ridiscendere la collina, allontanandosi dal cimitero, l'uno accanto all'altro.

Dopo un po' di proteste di Terence, David cedette, ridendo. "Okay, okay. Che Elisabetta I sia, ma non permetterò che quella tenti di tenerti con sé, non di nuovo." Borbottò, e Terry roteò gli occhi, borbottando un "Era solo un incidente".

"Poi torniamo a casa però?" domandò David dopo un po', quasi timidamente.

Terence sollevò le sopracciglia, sorpreso. "A casa? Perché?".

David scrollò le spalle, come se nulla fosse, ma in realtà importava. Molto. "Così. Ho nostalgia. E nel 2037, perlomeno posso tenere mio marito per mano e abitare con lui senza far finta che sia un mio collega – o peggio, mio fratello".

Terry rimase ammutolito qualche secondo, poi scoppiò a ridere, prese la mano a Dave e gli baciò la testa, godendosi il suo rossore. Ignorò l'occhiata contrariata del becchino poiché a lui, come al solito, non importava cosa la gente diceva o pensava: la vita era troppo breve, e lui aveva ancora troppi posti e tempi da esplorare, per poterci dare peso. 

 

 

Fine. 

 

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