Le rose dei secoli

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Maria Antonietta ***
Capitolo 2: *** Elisabetta di Baviera ***
Capitolo 3: *** Mafalda di Savoia ***
Capitolo 4: *** Erzsébet Bàthory ***
Capitolo 5: *** Anna Bolena ***
Capitolo 6: *** Giuseppina Beauharnais ***
Capitolo 7: *** Vittoria Hannover ***
Capitolo 8: *** Alessandra Fedorovna Romanov ***
Capitolo 9: *** Olga Romanov ***
Capitolo 10: *** Tatiana Romanov ***
Capitolo 11: *** Maria Romanov ***
Capitolo 12: *** Anastasia Romanov ***
Capitolo 13: *** Carolina Matilde di Danimarca ***
Capitolo 14: *** Anna Neville ***



Capitolo 1
*** Maria Antonietta ***


Maria Antonietta
 
La bella addormentata
 
“Appena li ebbe toccati, si addormentarono tutti, per risvegliarsi solo quando si sarebbe ridestata la loro principessa, onde trovarsi pronti a servirla in tutto e per tutto. Gli stessi spiedi, che giravano sul fuoco, pieni di pernici e fagiani, si addormentarono; e si addormentò anche il fuoco”.
 























Gioca, la regina di Francia. Gioca come una bambina, come solo la piccola Antoine avrebbe saputo fare, con la stessa fantasia e gli stessi sogni che solo una principessa d’Austria – non francese, no, le mesdamoiselles di Versailles sono così serieuses – era in grado di giocare, mentre con la mente danzava su nuvole fatte di zucchero, fingendo di prestare ancora attenzione al continuo e inutile cicaleccio della contessa Brandeiss.
Gioca, Maria Antonietta d’Asburgo, la dauphine de France. E si sente proprio come un delfino, in mezzo a quel mare solcato da onde di nastri e perline, facendo roteare la sua preziosa robe à la polonaise, ridendo in mezzo a quel tripudio di pizzo e mussola. Quello è il suo regno, quegli abiti sono i suoi giochi, le scarpine rosa pastello con fiocchi di raso le sue calzature per il ballo.
Ride e si diverte, e non le importa se il popolo oltre le mura di Versailles n’a pas du pain…Cosa dovrebbe importare a lei, se loro non possono gustare le brioche? Non vuole pensarci, Maria Antonietta, mentre gioca con le fragole e la crema dei dolciumi. Non ha molta fame, a dire il vero, ma il solo pensiero di possedere quei sapori e quei colori, la consapevolezza che quelle leccornie e quello sfarzo esistono solo e soltanto per lei, le infonde un senso di euforia.
Lei è la reine, e il mondo è ai suoi piedi. Il mondo, qualunque esso sia: se là fuori sta cambiando qualcosa, poco ha a che fare con lei. Maria Antonietta sarà sempre la degna discendente della casata austriaca degli Asburgo e l’incontrastata sovrana di Francia, come mama le ripete sempre nelle sue lettere dall’inchiostro profumato. Lettere che la piccola Antoine negli ultimi tempi non ha più cuore di leggere fino in fondo. Le fa male, Maria Teresa, quando la rimprovera e la insulta solo perché il suo troppo orgoglio le impedisce di rivolgere la parola a Madame Dubarry, o perché il suo regale marito ancora prova troppo disgusto per sfiorarla, ancora dopo quasi sette anni. Le fa male, ma non ci vuole pensare, Antoine: vuole solo chiudere gli occhi e continuare a giocare.
Vuole dormire, forse anche sognare.
Lì, sola, fra tutto quello sfarzo, finalmente libera dalla presenza rapace delle Mesdames Tantes e da tutte le dame di compagnia, può finalmente volteggiare con la sua acconciatura ormai rovinata, mentre le piume e le broche di diamanti e perle le pendono dai riccioli. Né sua madre né le cortigiane di Versailles e nemmeno la plebaglia là fuori possono sfiorarla: lei è la regina di Francia. Il suo titolo le scorre giù lungo la gola con la stessa dolcezza dello sciroppo e del miele, le fa girare la testa, l’inebria insieme a tutto ciò che la circonda.
Non vuole sentire, Maria Antonietta. Non vuole vedere, né ascoltare, e neppure pensare. Non vuole dare ascolto alle voci sibilanti e maligne contro di lei, non vuole chiedersi come mai suo marito abbia troppo ribrezzo di lei da non volerle neppure dormire accanto, non vuole convivere con la consapevolezza che là fuori, per tutti quanti lei è e sarà per sempre solo e soltanto l’Austriaca, un’intrusa in quel castello dorato e senza vita che è Versailles, abitato solo da bambole e automi senz’anima.
E lei, Maria Antonietta, Antoine, ce l’ha, un’anima? Non lo sa né lo vuole sapere, ma di certo non ce l’hanno tutti quegli individui senza nome che formano un agglomerato sudicio e rozzo nelle strade di Parigi e delle città della Francia. Loro non esistono. Non esiste nulla al di fuori di Versailles e di quella stanza, la sua stanza dei giochi, dove può finalmente spiccare il volo, danzare, ridere e divertirsi. Tutto il resto è superfluo, inesistente, e lei non vuole pensarci.
E, se per caso il pensiero dovesse sfiorarle la mente, Maria Antonietta sa che le basterà solo chiudere gli occhi e dormire, anche se fosse costretta a sognare per cent’anni. O per l’eternità.

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Capitolo 2
*** Elisabetta di Baviera ***


Elisabetta di Baviera
 
Cenerentola
 
“La fata non fece altro che toccarla colla sua bacchetta, e i suoi poveri panni si cambiarono in vestiti di broccato, d’oro e d’argento e tutti tempestati di pietre preziose: quindi le diede un paio di scarpine di vetro, che erano una meraviglia. Quand’ella ebbe finito di accomodarsi montò in carrozza: ma la fata le raccomandò sopra ogni altra cosa di non fare più tardi della mezzanotte”.

 
E’ il terzo rintocco della mezzanotte nel gran salone da ballo del palazzo imperiale, ma Elisabetta è l’unica che se ne avvede. Tutti gli altri invitati continuano a danzare, volteggiando in pompose e leggiadre piroette che fanno sollevare gli abiti delle dame come sbuffi di nuvole. E’ la mezzanotte, eppure anche lei continua a danzare, anche se non saprebbe nominare il suo cavaliere, né riconoscerne il volto in mezzo a una folla. Non è suo marito, certamente no; è passato il tempo in cui Francesco Giuseppe danzava con lei, come aveva fatto quella prima sera durante il cotillon.
Scoppierebbe a ridere, Elisabetta, se non fosse che quel ricordo le susciterebbe una risata amara che degenererebbe presto in pianto – e un’Imperatrice non può versare lacrime in pubblico, tutti ne sarebbero sconcertati e l’arciduchessa Sofia oltremodo contrariata –, eppure, mentre il quinto rintocco batte la mezzanotte, la piccola Sissi non può fare a meno di ritornare con la memoria a quel primo ballo.
Com’era stata ingenua, allora: lei, una quindicenne paffutella e sgraziata, poco o nulla avvezza alla vita di corte, si era resa conto di ciò che stava capitando solo quando la mamma l’aveva presa in disparte e le aveva spiegato apertamente com’era la situazione. Lei, lei che era ancora la piccola e ingenua Sissi, non si era accorta di nulla, né dello sguardo di gelosia di Elena quando gli occhi ammaliati di Francesco Giuseppe si erano posati sulla sua bellezza acerba, invece che su quella dolce e aggraziata di sua sorella; né del posto d’onore accanto al futuro erede al trono riservato solo a lei; né del fatto che fosse stata lei la prescelta per aprire le danze, quella prima sera. Non capiva nulla, Sissi, vedeva in Francesco Giuseppe solo un cugino e un signore molto gentile, forse un buon amico negli anni a venire, e quando la realtà le era stata posta sotto gli occhi non aveva avuto la forza di reagire.
Continua a danzare, Elisabetta, e mentre le scarpette le fanno sanguinare i piedi e la musica le fa girare la testa, ora come non mai si rende conto di non essere più Sissi, che quella Sissi dolce e un po’ ingenua che tutti conoscevano, la Sissi che era stata un tempo, era morta il giorno in cui aveva acconsentito a sposare Francesco Giuseppe.
Suo marito ha un’amante. Lei non sa chi sia, ma ne parla tutta la corte; chiunque quando la guarda pensa che il cuore dell’Imperatore ora appartiene a un’altra, ed Elisabetta può quasi scorgere il luccichio di malizia e pietà nei volti di chi l’osserva. La compatiscono, ma non ha alcun diritto di arrabbiarsi con loro. La colpa è sua, e lo sa bene: avrebbe dovuto prevedere che le dolci parole che Francesco Giuseppe le sussurrava con amore i primi tempi sarebbero rimaste sempre e solo parole, bisbigli che si perdevano nel vorticoso roteare di abiti da ballo e musiche d’altri tempi, in un turbinio di luci che non erano neppure in grado di scaldare un cuore. Il matrimonio era così: tanta passione i primi tempi, e poi? Quante volte aveva visto la mamma piangere quando per strada incrociava uno di quei bambini – quei bastardi – che erano figli solo di suo padre e non suoi?
Il matrimonio era così, prima o poi gli uomini si stufano della noiosa moglie e si trovano un’amante. Anche Sissi, pur nella sua ingenuità, lo sapeva…e allora, perché aveva acconsentito a sposarsi?
E ancora, mentre volteggia fra le braccia del suo cavaliere senza nome e il settimo rintocco della mezzanotte risuona non udito nel salone, quel ricordo la fa ridere, ridere a crepapelle come mai le è accaduto in vita sua. E, improvvisamente, si accorge di aver quasi dimenticato il giorno del suo matrimonio.
Quasi non se n’era accorta, proprio come durante quel corteggiamento, e in un attimo si era trovata con una fede al dito, schiacciata fra le lenzuola di un letto che non conosceva, e Imperatrice d’Austria e di Ungheria. E la piccola Sissi era morta, in silenzio, senza più neppure una di quelle risate che avevano caratterizzato la sua gioventù. Da quel momento era stato inutile: tutti i ripensamenti, tutti i pianti, le lacrime, le suppliche…niente era servito a farla scappare da quella gabbia dorata. L’arciduchessa Sofia e la mamma la rimproveravano, chiamandola ingrata: qualunque donna, nobile o popolana, avrebbe siglato un patto con il diavolo in persona, pur di essere al suo posto.
Il nono rintocco riecheggia nel salone, ma nessuno se ne cura. Tranne lei, Elisabetta, e intanto non riesce più a trattenere le risate, risate amare e spente che hanno il sapore delle lacrime.
Quello era il suo sogno, la sua favola, ciò che ogni ragazza avrebbe desiderato. Ma finché si sogna, non si corre il rischio di cadere e farsi male, di scontrarsi con quella realtà che fa piangere e sanguinare più di qualunque spada, che uccide più di ogni guerra e di ogni veleno.
Lei è Elisabetta Amalia Eugenia von Wittelsbach di Baviera, moglie dell’Imperatore Francesco Giuseppe, Imperatrice d’Austria e d’Ungheria. Un nome tanto lungo quanto poetico. Ecco cos’era lei: tanta poesia in superficie, ma in fondo solo un nome senza significato. Era a questo che tutti quanti, anche i suoi genitori, avevano aspirato, spingendola fra le braccia di Francesco Giuseppe e negandole l’amore di Richard S., quell’amore che, non molto tempo dopo, la morte stessa le avrebbe portato via per sempre. Forse, con il suo primo amore accanto a lei, senza l’egoismo di chi fingeva di curarsi della sua vita, le cose sarebbero potute andare in maniera diversa, ma ora è tardi per scoprirlo.
Sì, certo, la piccola Sissi aveva avuto la sua favola, ma quante vittime erano cadute per questo? Tutto ciò valeva davvero il risentimento di sua sorella Elena, l’addio eterno a Possenhofen, alla sua amata terra, all’allegria e alle risate? Quella favola poteva definirsi tale, con la sua piccola Sofia non più al suo fianco, Gisella indifferente al suo affetto, Rodolfo perennemente malato, e l’amante di Francesco Giuseppe fra lei e suo marito? La piccola Maria Valeria bastava davvero a compensare tutto ciò?
Tutti fingevano di preoccuparsi per lei, per la sua malattia che ora rende il suo corpo simile a un fuscello scheletrico, ma ciò che i medici non sanno è che, se sta accadendo tutto questo, è solo perché la piccola Sissi se n’è andata tempo fa.
Lei aveva avuto la sua favola, le ripetevano tutti: ma quella musica e quel bel vestito valevano davvero la morte di Sissi?
E’ il dodicesimo rintocco, ed Elisabetta non sa rispondersi. Come una magia, la musica cessa, la danza si frena, il tempo sembra fermarsi, ma lei sa che, sebbene la mezzanotte ormai sia passata, non potrà scappare via da quel castello dorato. Non potrà mai più ritornare quella di un tempo.
E’ mezzanotte, ma la magia non scompare. La piccola Sissi non esiste più.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Innanzitutto, ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno aggiunto questa raccolta alle seguite/ricordate/preferite e Autumn Wind, Euridice100, SognatriceAocchiAperti, Princess Vanilla, scrittriceaspirante e LadyAndromeda (a proposito, cara, grazie per avermi risollevato il morale con la notizia che non sono l’unica a questo mondo a conoscere Erzsébet Bàthory ;) per aver recensito. Ultimamente ho poco tempo per scrivere, quindi i capitoli dei miei lavori più “impegnativi” sono un po’ in ritardo, cosa per la quale mi scuso; riguardo al suddetto capitolo, invece, non è uscito fuori esattamente come avevo sperato, forse è un po’ troppo pesante, ma spero comunque che vi sia piaciuto. Altra cosa, spero di non aver distrutto il mito di Elisabetta di Baviera: rimarco, lei è una delle mie preferite, ma chi conosce la sua storia sa che non è esattamente come viene descritta nel cartone animato e nei film con Romy Schneider. Diciamo che Sissi è una Cenerentola con un lieto fine incompleto, per come la vedo io. Non credo che, con tutto quello che le è capitato, Sissi fosse veramente felice, nella sua nuova vita.
Comunque, a voi il giudizio ultimo.
Ciao, a presto!
Beauty.

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Capitolo 3
*** Mafalda di Savoia ***


Mafalda di Savoia
 
Cappuccetto Rosso
 
“«O nonna mia, che denti grandi che avete!». «E’ per mangiarti meglio». E nel dir così, quel malanno di Lupo si gettò sulla povera Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone”.
 

C’è del fumo nero, a Buchenwald. Del fumo nero come la notte, una notte buia in cui è facile perdersi nel fitto di una foresta di spine, fumo nero che esce da dei comignoli storti che nulla hanno a che vedere con il ricordo caldo e dolce di un caminetto acceso.
Ci sono delle grida, a Buchenwald. Grida di rabbia e di dolore, grida di aiuto proprio come quelle di una bambina spaventata, smarrita in un bosco di occhi gialli di gufi rapaci e di artigli di alberi raggrinziti capaci di scarnificarti il volto.
Ci sono degli spari, a Buchenwald. Spari secchi e furiosi, non più quelli esultanti dell’esercito in parata che salutavano il Duce o il re, suo padre. Spari violenti, spari cattivi, spari che udirai una sola volta, perché di certo là fuori, oltre la porta della baracca n. 15, non c’è nessun cacciatore che verrà a salvarti.
C’è dolore e sofferenza, a Buchenwald. Ci sono pianti e lacrime, lacrime amare e rabbiose, lacrime disperate di una bambina sola che si è smarrita nel bosco, che ancora non si arrendono di fronte alle fauci insanguinate del lupo.
Oh, sì, i lupi. Ci sono tanti lupi, a Buchenwald, lupi neri e cattivi, lupi affamati, lupi che attendono solo di potersi sfamare con la tua carne, che ti mordono e ti strappano via tutto, bocca, occhi, orecchie, per poi arrivare fino al suo cuore.
Tutto questo, Mafalda sa che i lupi se lo sono già preso. E lei glielo ha concesso, ha offerto ai due capobranco la propria testa su un piatto d’argento, nella speranza che avrebbero risparmiato lei e la sua famiglia. Ma il Duce è un vigliacco, buono solo a comportarsi da eroe di fronte a un re ancora più codardo, e il Führer in fondo disprezza gli italiani, brava gente, popolo di conigli e pecore – e i conigli e le pecore, si sa, sono un piatto prelibato per un lupo affamato.
Guardala, la cittadina tedesca, la langravia d’Assia-Kassel, la principessa straniera giunta in quella terra di boschi e lupi avvolta nel suo bell’abito nuziale. Dov’è finito quel bel vestito, ora? Adesso c’è solo una casacca sporca e maleodorante, troppo larga per poterle stare addosso, ma in fondo a Mafalda non dispiace che la sua carne magra e ossuta venga messa in mostra – oh, ma non la salverà: i lupi sono famelici, si prenderanno anche le sue ossa.
Ci sono delle lacrime, a Buchenwald, ma Mafalda non ha più la forza neppure per piangere. Il suo principe è là fuori, chissà dove, e i suoi piccoli a Roma. Almeno, pensa, loro sono salvi. Almeno è riuscita a non far diventare loro preda dei lupi. Almeno è riuscita a portare a termine ciò che una madre deve fare. Proprio così: una madre soffre, si sacrifica, muore per i suoi cuccioli.
A Mafalda basta questo: i suoi quattro piccoli sono al sicuro, e non le importa di dover piangere, soffrire, morire in quella foresta di disperazione, con addosso solo una misera casacca per proteggersi.
Vorrebbe avere qualcos’altro da indossare, in quel momento. Qualcosa di caldo e morbido, che la ripari da quell’improvviso gelo che si è impossessato del suo corpo, come una tempesta invernale. Le si insinua nelle ossa, nella carne, fra i capelli e sulla fronte.
Vorrebbe avere qualcosa di caldo per proteggersi. Magari di rosso, un bel mantello rosso con un cappuccio per la pioggia, da indossare mentre cerca la via, mentre percorre il sentiero costellato di sassi e sterpi che la riporterà a casa, lontano dal bosco, fuori da quella buia foresta.
Ma l’unico rosso che vede è quello liquido e bollente che non cessa di spillarle dal braccio maciullato.
E già in lontananza sente gli ululati dei lupi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ecco qui la flashfic su Mafalda di Savoia, paragonata alla fiaba di Cappuccetto Rosso. I riferimenti e le allusioni dovrebbero essere abbastanza chiari, ma faccio qui un riassunto per sicurezza: la notte e la foresta sono il periodo della guerra e il campo di concentramento, mentre i riferimenti alla bambina smarrita sono un parallelismo fra le due protagoniste. Quando si parla degli spari, preciso che la versione di Cappuccetto Rosso scelta è quella di Perrault, in cui la bambina viene divorata dal lupo insieme alla nonna, e il cacciatore non è presente – dunque, niente lieto fine. I lupi sono i nazisti (fra cui i capobranco, Mussolini e Hitler). Giusto per essere chiari.
I Savoia non mi hanno mai fatta impazzire come famiglia reale, ma Mafalda nello specifico, forse per la sua vicenda, mi ha sempre ispirato una certa pietà.
Dunque, la prossima sarà Erzsébet Bàthory. Non so se qualcun altro di voi conosce la sua vicenda, casomai farò un accenno nel capitolo dedicato a lei. In ogni caso, per qualsiasi cosa, chiedete.
Ringrazio chi legge e chi ha aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite, e Autumn Wind, Euridice100, scrittriceaspirante, Princess Vanilla e LadyAndromeda per aver recensito.
Ciao, al prossimo capitolo!
Beauty

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Capitolo 4
*** Erzsébet Bàthory ***


Erzsébet Bàthory
 
Biancaneve
 
“Un anno dopo, il Re riprese moglie; sposò una bella donna, ma altrettanto arrogante e orgogliosa, la quale non poteva sopportare che un’altra donna la superasse in bellezza. Ella aveva uno specchio magico, e ogni mattina vi si specchiava, e diceva: «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?». E lo specchio rispondeva: «Del tuo regno, regina, la più bella sei tu». E ciò la soddisfaceva, perché sapeva che lo specchio non mentiva”.

 
Nevica, fuori dal maniero. Ma la neve che ricopre quei tetti sotto cui hanno vissuto i vampiri della Romania non è bianca quanto la sua pelle.
E’ notte, al di là di quelle mura di pietra. Ma anche il buio più intenso non potrà mai offuscare l’ebano di cui sono fatti i suoi capelli.
Fa freddo, abbastanza per poter uccidere un servo – lascialo nudo sotto la neve invernale, e versagli acqua gelida addosso, così le ha insegnato suo marito –, e il gelo s’insinua senza pietà anche in quella dimora secolare, mortale e spietato come il Signore Inverno.
Ma Erzsébet non ha freddo. Perché il sangue con cui sta lavando la sua carne bianca come la neve, lo stesso che le gocciola dai capelli neri come l’ala dei corvi, ma che non sarà mai abbastanza rosso per poter offuscare le sue labbra, è un bagno dal sapore dolce e amaro. Ed è in grado di riscaldarla.
Prendi una gallina nera, e colpiscila con un bastone bianco, fino alla morte. Raccogli il sangue e cerca di imbrattare con esso un abito del tuo nemico…
E’ caldo e grumoso, ed Erzsébet gode quando lo sente scivolare lungo la sua gola, mentre il rosso del sangue si mischia a quello delle sue labbra – perfette, come lo è tutto in lei. E’ sola, nella sua stanza da bagno, ma all’esterno ode chiaramente delle urla che colmano il silenzio del maniero – grida di dolore miste a gemiti di piacere, un’orgia di sesso e sangue. Sorride, la contessa: Ferencz sarebbe orgoglioso di lei. Lui e la sua amata balia Ilona Joo sono stati i primi a iniziarla a quel piacere, il piacere che solo la stregoneria può darti – perché la magia ti permette tutto, anche di rendere sincere le lusinghe alla sua bellezza che lei ha imposto a chiunque la incontri.
La sua pergamena di amnio è ancora lì, accanto a lei. Un’eresia costruita dal sangue e dall’innocenza.
E il dio Isten punirà e truciderà i nemici del suo fedele seguace, scatenando contro di lui un esercito di novantanove gatti…
La stanza è piena di specchi: le serve sanno bene che la signora contessa non se ne separa mai. Ma quel riflesso perfetto della sua figura non è altro che un dono del suo dio protettore. Erzsébet sa che è così: ha quarantaquattro anni, ormai, suo marito Nàdasdy è morto da tre – ha sparso il sangue dalla gamba mutilata su lenzuola bianche, in una notte buia –, ma lei è ancora bella.
Capelli neri come la notte, pelle bianca come la neve, e labbra rosse – rosse come una mela intrisa di veleno, il frutto del peccato, rosse come la verginità degli stupri di suo fratello, come il sangue divenuto vino dei vampiri, quello stesso sangue delle puttane che lei adesca con la sua carrozza.
Non una ruga sul suo volto, non un’imperfezione: il sangue delle vergini e dei bambini è il prezzo della magia, il prezzo che le ha imposto il dio Isten.
E quel castello freddo è divenuto il suo altare, le donne e i fanciulli le sue vittime sacrificali. Urla, pianti, suppliche, torture e orge. Sangue di vergine per la sua bellezza.
Capelli neri come la notte, pelle bianca come la neve, e labbra rosse come il sangue.
Le grida cessano, ed Erzsébet sorride: la donna che ha osato essere bella quanto lei ora è morta, e presto lei si laverà nel suo sangue. Solleva lo specchio di fronte al suo volto: le labbra rosse e carnose sono sporche di liquido caldo e bollente.
Ma lei sarà sempre la più bella di tutti i reami.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Sì, allora…Ho scoperto che molti di voi aspettavano con ansia questo capitolo dedicato alla Contessa Sanguinaria – e, a questo proposito, praticamente tutti avete indovinato la favola che le sarebbe stata accostata ;) –, e spero davvero di non aver deluso le vostre aspettative. Vi assicuro che ho fatto del mio meglio, ma resta comunque il fatto che Erzsébet Bàthory è uno dei personaggi più complessi della storia e della criminologia, e non solo perché era una serial killer. L’intera sua famiglia era minata da gravi tare ereditarie e manifeste inclinazioni alla follia, nonché colma di membri che o erano stati accusati di stregoneria o erano adoratori del demonio o erano sadici o maniaci sessuali. Diciamo che lei era un insieme di autentica follia mista a credenze dell’epoca, influenze familiari e sociali e invasamento nella magia nera – praticamente un casino da mettere su carta, pensate che venerdì scorso il mio professore di criminologia ci ha detto chiaro e tondo: se volete provare ad analizzare gli omicidi della Bàthory fate pure, ma sappiate che si farebbe prima a buttarsi in un burrone. Più esplicativo di così :P.
Comunque, come vi ho detto, io ho cercato di centrare il più possibile i tratti centrali della sua personalità – ovvero un po’ squilibrata. I riferimenti alla favola di Biancaneve dovrebbero essere abbastanza chiari anche se, a onor del vero, più che Biancaneve Erzsébet Bàthory è la regina Grimilde. Ringrazio Autumn Wind, scrittriceaspirante, SognatriceAocchiAperti, Euridice100, Roxylilly, Princess Vanilla, Araba Stark, _Van_Ess_Koala_Tay_WoW, Jessica21, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito :).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo con Anna Bolena (…che favola sarà? :P)
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 5
*** Anna Bolena ***


Anna Bolena
 
La bella e la bestia
 
“La Bella, per tre mesi, menò in questo palazzo una vita abbastanza tranquilla. Tutte le sere la Bestia andava a farle visita, e durante la cena si tratteneva con lei, facendo mostra di molto buon senso, ma giammai di ciò che si chiama spirito fra le persone del mondo galante. Ogni giorno che passava, la Bella scopriva nuovi pregi nel mostro. A furia di vederlo, aveva fatto l’occhio alle sue bruttezze, e invece di temere il momento della sua visita, ella guardava spesso l’orologio per vedere quanto mancava alle nove, perché la Bestia a quell’ora era sempre precisa”.
 
 
 
Quel crocifisso d’oro che stringe fra le dita affusolate è uno dei tanti doni di suo marito. Anna non riesce a impedirsi di ricordare questo dettaglio – un dettaglio al sapore di veleno, ma non abbastanza da indurla a gettarlo via con malagrazia. E’ l’unica via di salvezza che le rimane. E poi, sino al momento in cui la sua testa non rotolerà sul legno del patibolo, lei è ancora una regina, e come tale morirà – dignitosamente, senza pianti isterici, lasciando uscire dalle proprie labbra solo il flebile sussurro di parole latine che, anche se non potranno salvare la sua vita, avranno forse pietà della sua anima.
A Gesù Cristo raccomando la mia anima; Signore Gesù, ricevi la mia anima…
Viene fatta inginocchiare, il suo copricapo scivola via guidato dalle mani rapide ed esperte delle sue dame di compagnia. Una benda nera le viene calata sugli occhi, e subito tutto diventa buio.
E’ così, la morte? Un abisso di oscurità, eterno e soffocante, da cui non si può essere liberati?
Anna credeva di averlo già vissuto, quell’abisso, quando anni prima suo padre l’aveva venduta al re. Le pare strano, inappropriato pensare a lui proprio ora che sta per morire, ricordare l’uomo che è stato la causa di tutto questo – perché Anna lo sa, ciò che sta accadendo non è colpa sua –, ma quel che più la ferisce è che al suo pensiero avverte ancora un battito al cuore che scalda il corpo, un battito che negli anni ha imparato a riconoscere e a non temere più.
Era stata arrabbiata, quando Thomas Bolena aveva intessuto le sue trame fitte come la tela di ragno, dapprima a causa dell’indignazione per il disonore subito da Maria, e in seguito, per la vergogna d’essere stata essa stessa data in pasto agli istinti del sovrano. I suoi genitori non avevano pensato ad altro, grazie al corpo di una figlia vergine tutti loro avrebbero tratto dei benefici, e poco importava se, quando il re si fosse stancato di lei, nessuno avrebbe più voluto sposare quella ragazza spezzata che era stata la sua concubina. Ad Anna pare quasi di rivivere quella prima volta in cui lo incontrò nelle sue camere, lui e lei soli – un uomo che sarà pur stato un re, ma brutto, appesantito, un poco rozzo.
Eppure, sebbene lui la toccasse con poco rispetto e nessuna cura, sebbene ciò che desiderasse da lei non fosse altro che un bel corpo giovane in grado di procreare, Anna aveva iniziato a chiudere gli occhi di fronte alla sua bruttezza, a volgere lo sguardo altrove per non incontrare i suoi difetti, a fingere che la sua rozzezza non esistesse, a guardare con amore quella che in fondo era solo bestialità.
Aveva gioito quando lui le aveva detto di amarla, goduto quando, scacciata Caterina, era salita all’altare al suo fianco, trepidato in quegli anni in cui non aveva fatto altro che cercare di compiacerlo, e illudersi che, nonostante la delusione di Elisabetta e del suo corpo non adatto a concepire un erede, lui ancora l’amasse.
Come muore una regina?, si domanda. Una regina muore con dignità, orgoglio, perdonando in cuor suo chi l’ha offesa e oltraggiata, ma conservando per lui un ricordo intriso di rancore mal sopito. Invece, per quanto lo desideri con tutta se stessa, non riesce a odiare il caro ricordo di suo marito.
Non sono venuta qua per accusare alcuno, né per dire niente a riguardo delle accuse e della condanna a morte, ma per pregare Dio affinché salvi il re e gli consenta di regnare a lungo su di voi, perché mai vi fu principe più dolce e misericordioso di lui: e con me egli è sempre stato un sovrano buono e gentile.
Ama un mostro, e sta per morire per mano sua. Abbandonata dal padre, rinnegata dalla madre, tradita dalla sorella, uccisa da un essere che lei aveva creduto, nonostante tutto, di poter amare. Ma, ora che sente il sibilo della lama abbattersi su di lei, un istante prima di morire, comprende la verità.
La bella non potrà mai sciogliere il cuore gelido di una bestia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




 
 
Angolo Autrice: Prima di passare a commentare questo capitolo, mi devo scusare in quanto mi sono resa conto di aver compiuto un errore storico nel precedente. Ho scritto che la contessa Bàthory ha quarantaquattro anni e che ne sono trascorsi tre dalla morte di suo marito. Svista mia. Ferencz Nàdasdy muore quando la Bàthory ha già compiuto quarantaquattro anni. Non so se qualcuno di voi ha notato questo errore ed è stato troppo gentile da non farmelo notare, ma…in ogni caso, chiarito lo sbaglio.
Passiamo ora ad Anna Bolena. I primi due paragrafi in corsivo sono frasi che, secondo le fonti storiche, sono state veramente dette dalla Bolena sul patibolo – la prima era uno stralcio di preghiera; la seconda, una parte del suo ultimo discorso al popolo inglese –, mentre la terza…è stata un po’ una sofferenza scriverla, e per un attimo ho anche accarezzato l’idea di riportare la frase in inglese, dato che sarebbe stata a maggior effetto, a mio parere – Beauty cannot tame the Beast –, ma poi mi sono arrangiata.
Che altro dire…beh, faccio i complimenti a Princess Vanilla e a VanEss13 per aver indovinato la fiaba che sarebbe stata accostata ad Anna Bolena ;). Due paroline: in questo periodo ho ispirazione altalenante e spesso e volentieri quello che scrivo non mi piace, quindi vi chiederei 2 favori: se avete critiche, SFOGATEVI!; e, per chi segue una long che ho cominciato in questa sezione Anastasia – L’ultima dei Romanov, vi assicuro che non la voglio abbandonare, abbiate pazienza ;).
Ringrazio Araba Stark, Jessica21, scrittriceaspirante, Roxylilly, SognatriceAocchiAperti, Autumn Wind, VanEss13, Princess Vanilla e Sylphs per aver recensito.
Il prossimo capitolo vedrà Giuseppina Beauharnais…ancora, quale favola sarà ;)?
Alla prossima,
Beauty

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Capitolo 6
*** Giuseppina Beauharnais ***


Giuseppina Beauharnais
 
La sirenetta
 
“Sapeva che quella era l’ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva immaginare”.

 
Il mare non bagna Parigi. Ed è una vera pena, per lei, perché Giuseppina ama il mare.
E le manca, le è mancato per tutta la sua vita, sin dal giorno del suo primo matrimonio, quando se l’era lasciato alle spalle durante l’ultimo viaggio con suo padre – e la figlia di un tenente della marina come può non amare il mare? –, dicendogli addio mentre pronunciava i voti nuziali nella fredda Noisy-le-Grand. Di tanto in tanto le pare quasi di sentirlo, quel profumo intenso e penetrante del sale e della spuma bianca, accompagnato dai versi dei gabbiani e dal fruscio delle onde che s’infrangono contro gli scogli e le rocce della riva. E’ un bel sogno, un sogno dal sapore di sale e di acqua fresca sulla pelle – ma un sogno breve, effimero, e ancora più crudele quando riapre gli occhi e si accorge di essere ancora in quella cupa dimora, imprigionata  nel castello di Malmaison.
La sua casa di campagna è grande e spaziosa, quasi quanto un palazzo persiano. Ed è dalla Persia che ha ordinato di far giungere quelle duecento varietà di rose che ora fioriscono tutto l’anno nei suoi giardini che somigliano a un harem d’Oriente, in cui si respira aria esotica e selvaggia come lo erano le terre in cui i suoi genitori coltivavano lo zucchero. Le manca, la sua terra, le care Les Trois-Îlets, il profumo del mare e la sabbia calda e bianca, e le piante esotiche che fiorivano nel suo giardino.
Ha cercato un poco di rimediarvi, e si consola, nel vedere le rare Rosa tea e la Ibrida perenne. Rose. Rose, come si faceva chiamare lei prima che le venisse dato il nome di Giuseppina. Un nome italiano che di esotico non le aveva ricordato assolutamente nulla, ma che ancora oggi non ha il coraggio di abbandonare, poiché lo sente come l’ultima catena che la lega a lui.
Giuseppina sospira, sfiorando appena uno di quei boccioli in fiore. Avrebbe potuto fare ritorno a Martinica, dopo la vedovanza; aveva due figli meravigliosi, una reputazione rispettabile, e il suo primo matrimonio era stato così infelice che avrebbe dovuto dissuaderla da risposarsi nuovamente.
E invece, non lo aveva fatto: aveva rinunciato alla sua vita da creola, a rivedere il suo amato oceano e la sua casa, per amore di un imperatore che ai suoi occhi era sempre stato semplicemente un uomo. L’aveva respinto, certo, inizialmente il suo affetto per lui era assai debole, e il suo temperamento da sempre poco romantico l’aveva indotta più volte a non rispondere alle sue appassionate lettere d’amore. Ma anche se la fedeltà nel loro rapporto non era mai esistita, Giuseppina aveva sempre saputo che, nonostante tutto, lei sarebbe sempre rimasta ad attenderlo di ritorno da una delle tante battaglie, che per quante amanti lui potesse avere, lei sarebbe stata la sola che lo amasse veramente.
E cos’era l’amore, se non questo?
Abnegazione, rinuncia, sacrificio. Giuseppina aveva sacrificato tutto, per l’uomo che amava, sempre, e l’aveva fatto sino all’ultimo. Aveva detto addio per sempre alla sua casa, all’oceano che non avrebbe mai più rivisto, alla propria libertà e, infine, anche a lui.
Lui non l’avrebbe lasciata, e lei non avrebbe sopportato di separarsi dall’amato marito, se la propria sterilità non si fosse frapposta fra loro. Perché non era stata Maria Luisa, oh no, il loro amore era troppo puro per poter essere infranto da una principessa sconosciuta.
Ma anche se per lei era solo l’uomo che amava, per il popolo francese lui restava pur sempre l’imperatore; e un imperatore deve poter lasciare il proprio impero a un figlio, l’unica cosa che lui desiderava e l’unica che Giuseppina non era stata in grado di dargli.
Sacrificio.
E ancora una volta, si era sacrificata, e aveva lasciato che un’altra donna prendesse il suo posto a fianco di colui che aveva amato e ancora amava, una donna che, pur potendogli dare tutto, in realtà non gli avrebbe mai donato nulla quanto lei.
E adesso, sola, abbandonata e tradita, senza più poter ritornare alla sua casa e neppure la consolazione di trasformarsi in una creatura dell’aria, Giuseppina sa cosa significa veramente amare.
Sacrificio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Okay, gente, sono appena tornata dal cinema dopo aver visto Frozen – Il regno di ghiaccio, che mi è piaciuto talmente tanto che temevo di non riuscire a rendere la tristezza che richiede questa flash. Ho fatto del mio meglio – e ancora complimenti a VanEss13 per aver indovinato la favola ;). In risposta a una domanda di LadyAndromeda riguardo alla frase Beauty cannot tame the Beast: allora, è una versione volta in negativo dell’originale Beauty can tame the Beast, la quale è stata più volte citata in alcuni commenti e recensioni di sceneggiatori, produttori e spettatori del film Disney La Bella e la Bestia – questa frase si trova in continuazione nel fandom inglese di fan fiction dedicate al film, se può intreressare :).
Ringrazio Roxylilly, Araba Stark, scrittriceaspirante, Autumn Wind, VanEss13, Nero Inchiostro e LadyAndromeda per aver recensito. La prossima protagonista sarà Vittoria Hannover…ancora un’altra sfida a indovinare la favola (sì, lo so, quando mi ci metto so essere davvero petulante :P).
Spero abbiate trascorso un buon Natale ;). Un bacio,
Beauty

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Capitolo 7
*** Vittoria Hannover ***


Vittoria Hannover
 
La Regina delle Nevi
 
“L’allegria non arrivava mai, mai c’era stato un ballo di orsacchiotti dove la tempesta potesse intonare la musica, e gli orsi camminare sulle zampe posteriori e comportarsi in modo distinto, mai c’erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari; mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve”.
 
 
 
Freddo.
E’ fredda quella stanza nel Palazzo di Windsor, sono fredde le lenzuola, fredde le tende, fredde le pietre che hanno accompagnato i sovrani secolari della gloriosa e fredda Inghilterra; freddo il suo respiro, freddo il nero delle stoffe degli abiti, freddo è anche il flebile fuoco che arde nel camino. Freddo. Tutto è avvolto da un penetrante freddo, un freddo insidioso e mortale, freddo come sono fredde ora le membra senza vita dell’uomo che ama.
Vittoria è una vedova. Non si sente altro, in questo momento. Non la regina della grande e gelida Inghilterra, non una madre severa e fredda ma amorevole con i suoi figli, non una sposa che troppo pochi anni prima è salita all’altare avvolta in un abito bianco – bianco candido come i fiocchi di neve fredda che ricoprono le strade di Londra. Vittoria è solo una vedova, ora, e quella parola le scorre sulle labbra in un sussurro di maligno gelo, un gelo che l’avvolge con tutte le sue spire, insinuandosi nelle sue membra fino a stringerle il cuore in una morsa tanto ghiacciata quanto solo la solitudine può esserlo.
Gelo.
E’ il 14 dicembre. Presto sarà Natale. Ma non per Vittoria. Non sarà mai più Natale, per lei, non esisterà più alcuna festa, non un solo momento di allegria. Non esisteranno colori, solo il nero. Non ci saranno sentimenti, solo freddezza. Non ci sarà più la vecchia Vittoria.
Perché Vittoria ora è accanto a suo marito, mentre vaga insieme a lui in quella gelida landa desolata che è la morte.
Piange, la regina vedova, ma non si stupisce di quanto le sue lacrime siano gelide come tante perle di ghiaccio, quando le rigano le guance pallide e bianche come fredda porcellana. Perché, nello stesso momento in cui la malattia le ha portato via il suo Alberto, è come se tante stalattiti di ghiaccio l’avessero perforata, forte, a fondo, facendole sanguinare la carne e squarciandole le membra, conficcandosi nella profondità del suo animo.
Ghiaccio.
Ora Vittoria ha ghiaccio gelido negli occhi, perché mai più questi sorrideranno a chicchessia, mai più la regina vedova guarderà con tenerezza figli e nipoti, mai più quel suo sguardo freddo vedrà scorgerà la gioia e la felicità.
Vittoria ha un pugnale di ghiaccio affilato piantato nel cuore. Perché mai più lascerà che questo pianga, che sanguini di dolore come ora, ora che suo marito sarà sepolto sotto un cumulo di terra nuda mista a neve gelida. Mai più lascerà che un altro spiraglio di felicità come quella vissuta in quel matrimonio rischi di farla morire, morire di sofferenza.
Quella che ora si china sul volto senza vita del principe consorte non è più Vittoria. E’ una creatura sconosciuta, fredda e senz’anima che cammina su questa terra di ghiaccio e dolore senza che nulla la scalfisca.
Addio.
E’ un gesto d’addio quello che sta per compiere, un doloroso commiato non solo al suo sposo, ma anche alla donna felice e spensierata che era stata un tempo.
Vittoria sfiora piano le labbra senza vita di Alberto, regalandogli l’estremo e ultimo bacio.
Un bacio che è dolorosamente freddo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Mi aspetto un bordello di critiche per questo capitolo. Come era accaduto per quello dedicato a Elisabetta di Baviera, non ne sono molto soddisfatta. Certo, visto il ritardo avrei potuto fare meglio, ma…beh. C’est la vie.
Dunque, il paragone con la Regina delle Nevi deriva essenzialmente dal carattere di Vittoria Hannover. In particolare, si dice che la sua personalità sia cambiata completamente dopo la morte del marito – che è spirato a poco più di quarant’anni. Il loro matrimonio era stato inizialmente combinato. O meglio, Vittoria era innamorata follemente di Alberto quando si sposarono (fu lei a fare la proposta di matrimonio a lui, in quanto monarca), mentre lui…beh, si dice che all’inizio l’avesse sposata essenzialmente perché allettato dall’idea di essere il principe consorte, ma che alla fine si sia veramente innamorato di lei. In ogni caso, le cronache riportano che il loro fu un matrimonio molto felice, e che alla morte di Alberto, Vittoria abbia completamente smesso di avere un carattere vivace e spensierato – tanto che negli anni sarà molto dura e severa di fronte a ogni cosa e ogni persona, sempre rigida anche di fronte agli scandali della famiglia.
Questo solo per precisazione. Ringrazio SognatriceAocchiAperti, Nero inchiostro, Araba Stark, scrittriceaspirante, Autumn Wind, LadyAndromeda e Sylphs per aver recensito.
Ora, un’ultima cosa prima di salutarvi. Dal prossimo capitolo in poi darò avvio a una sorta di macro sezione dedicata alle donne dell’ultima famiglia Romanov. A questo proposito, ho fatto un giretto nel fandom, e ho notato che, più o meno, i temi trattati riguardo a queste ultime sono sempre molto circoscritti. Non è una critica, anzi, una constatazione, dal momento che è inevitabile che donne della stessa famiglia come Alexandra e le sue figlie abbiano vissuto vicende simili – in particolare le quattro granduchesse, dal momento che erano sorelle e che hanno vissuto molto poco. A questo proposito ho deciso che, per non rischiare di annoiare chi legge, cercherò di trattare un momento differente della vita di ognuna, con paragonata la rispettiva favola. In particolare, per Alexandra Fedorovna avremo una fiaba a cui sia io sia altre recensitrici (?) siamo molto affezionate ;).
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 8
*** Alessandra Fedorovna Romanov ***


Alessandra Fedorovna Romanov
 
Tremotino
 
“Passò un anno e la regina partorì un bel bambino; ormai non pensava più al nano, ma, improvvisamente, quello apparve nella stanza e disse: «Adesso, regina, dammi ciò che mi hai promesso». Terrorizzata, la poveretta cominciò a offrirgli tutte le ricchezze del regno purché non le portasse via il bambino, ma il nano non volle sentire ragioni e rispose: «No, la tua creatura vale per me più di tutto l’oro del mondo».
 
 
 
Ma i guaritori hanno le mani del demonio?
Questo si chiede Alessandra, e uno strano sentimento – un miscuglio di sconcerto, disgusto, paura – l’assale ogni volta che pensa a quelle mani ruvide come quelle di un contadino, ma rugose, scheletriche, con dita affusolate dalle unghie affilate che tracciano il profilo del suoi figli.
E lei guarda, non fa altro che rimanere a guardare, e trattiene il respiro ogni volta che vede quelle mani ossute muoversi con gesti rapidi ma spaventosamente esitanti mentre accarezzano il capo di Alessio, aiutano Olga a sbottonarsi la camicia da notte, pettinano i capelli di Tatiana o rimboccano le coperte a Maria e Anastasia.
Lo ha notato da tempo, e trema sempre di più ogni volta che deve lasciare solo il suo protetto con i figli. I bambini non lo temono, ma Alessandra non è cieca né sorda: ha udito le chiacchiere secondo cui Rasputin celebra i matrimoni in cambio dello ius primae noctis, le dicerie sulle sue avventure libidinose, le amanti, la vita dissoluta, la promiscuità…Gli sciamani come lui sono davvero così?
Rasputin è entrato in casa sua, si è insinuato nella sua famiglia come una serpe velenosa che presto ucciderà tutti con le gocce del suo veleno, stritolando ognuno di loro fra le sue spire. Lei ce lo ha fatto entrare, lei gli ha aperto la porta del Palazzo Imperiale, è stata lei che lo ha invocato fra le lacrime affinché salvasse il suo bambino, quella piccola creatura fragile che sembrava ogni giorno più vicina a essere strappata da questa terra.
Fino a dove può spingersi una madre per il proprio figlio?
E Rasputin è giunto a salvare Alessio, ha usato la sua magia e le sue arti per lui, roteando gli occhi e ululando frasi sconnesse come una creatura degli Inferi. E lei non l’ha più lasciato andare. Alessandra ha consegnato la vita dei suoi figli in mano a quel folletto, quell’essere insidioso dalla barba nera e gli occhi malefici, dal ghigno storto e marcio, dalle mani gelide e forti in grado di stritolare la bianca gola di un bimbo, se l’avessero voluto.
Non importa quanto Nicola desideri cacciarlo, non importa quanto lei stessa, nonostante lo difenda strenuamente, non riesca più a tollerare la sua presenza: Rasputin è e sarà sempre lì, appostato dietro l’angolo buio di una porta, un essere maligno, l’Uomo Nero di San Pietroburgo, la falce e la clessidra dei Romanov.
Che cosa vuole quest’essere?
E, anche se ormai la sua presenza è odiata e disgustosa ai suoi occhi, Alessandra ha invocato Rasputin e non se ne andrà fino a che egli non avrà riscosso il pagamento che lei gli deve.
Olga, Tatiana, Maria, Anastasia e Alessio. Cinque anime fragili e innocenti, cinque bambini addormentati nei loro letti mentre, là nel buio, mani demoniache e affusolate strisciano verso di loro nell’ombra e nel silenzio, pronte ad afferrare, a stringere, a uccidere.
Qual è il prezzo che dovrò pagare?
Non ha più importanza chiederselo. Ormai è troppo tardi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Allora…Lasciatemi dire due paroline per spiegarmi.
Dunque: la mia intenzione non era assolutamente quella di far passare Rasputin per un pedofilo o un assassino, ma questa flash deriva da una serie di constatazioni di carattere storico che ora vi descrivo, in breve. La personalità di Rasputin era parecchio contorta, ma di certo su di lui giravano parecchie dicerie: prima fra tutte, quella della sua condotta sessuale non esattamente monogamica, del suo libertinaggio (la faccenda dello ius primae noctis non me la sono inventata, a quanto pare era davvero così), così come era ambiguo il suo rapporto con la zarina. Personalmente non credo che i due avessero una relazione (anche in virtù del fatto che dopo tutti i salti mortali fatti da Alessandra per sposare l’uomo che amava sarebbe stato stupido da parte sua buttare tutto all’aria andando con lo sciamano!), ma certo era che grazie a lei Rasputin godeva di gran considerazione a corte. Era stato chiamato affinché guarisse Alessio da un’emorragia, e stando ai resoconti storici si aggirava allegramente nelle stanze delle quattro granduchesse, aiutandole a spogliarsi e rimboccando loro le coperte.
Quanto ad Alessandra…beh, anche se lei lo ha difeso strenuamente, mi pare impossibile che non le sia mai sorto quantomeno il dubbio che forse Rasputin non fosse quel grand’uomo che diceva di essere, tant’è vero che, a seguito di una denuncia da parte di un’istitutrice riguardo al modo equivoco in cui lui guardava e accarezzava le bambine, okay che la suddetta poveraccia è stata licenziata in tronco, ma Nicola non ha perso un attimo e lo ha allontanato immediatamente da corte.
Bene, con il prossimo capitolo avremo Olga.
Colgo l’occasione per fare due precisazioni rivolte a tutti coloro che seguono le mie altre storie: ultimamente mi sto concentrando su Titanic, A Fairytale for a Lifetime e Grimm – No more happily ever after, quindi scusate se gli altri aggiornamenti non arrivano come dovrebbero.
Ciao a tutti, al prossimo capitolo!
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 9
*** Olga Romanov ***


Olga Romanov
 
Il Principe Felice
 
“I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere”.
 
 

Il mondo sta piangendo.
Olga non riesce a pensare ad altro se non a quello, a tutte le lacrime e i singhiozzi che ora stanno bagnando la terra russa. A tutte le gocce amare e salate che fuggono dalle ciglia dei soldati mutilati, delle vedove di guerra e dei bambini rimasti senza più nulla, senza più nessuno che li consoli, che li stringa in un abbraccio talmente caldo da arginare il gelo della steppa trasformatasi in cimitero.
Gocce dolorose e arrabbiate che cadono sul sangue e sulla neve, e sulle lenzuola sporche dell’infermeria che, per quanto potranno essere lavate e cambiate, recheranno sempre il sentore della sofferenza. Olga sente che presto crollerà anche lei, presto cadrà a terra svenuta se non per la fatica a causa di tutto quel male, ma non si ferma; non accetta la sedia che sua madre le offre per riposarsi, non ascolta le chiacchiere con cui Anastasia cerca di distrarre un soldato, e continua a distribuire tutto l’aiuto che può a quella povera gente, scivolando veloce in mezzo a tutte le brandine di quell’infermeria che un tempo era stata una stanza del Palazzo Imperiale.
Sua madre l’ha creata allo scoppio della Rivoluzione, Maria e Anastasia ne sono le patrone, lei e Tatiana le infermiere. E Olga sente questo suo compito come un dovere, una missione importante in quella sua vita in cui non ha fatto altro se non cullarsi nella propria favola. Hanno sempre vissuto in una fiaba, lei e le sue sorelle – perché, per quanto l’educazione rigida impartita dalla madre le abbia fortificate, loro restano pur sempre le figlie dello zar, quattro principessine, quattro bamboline che per anni hanno riso e giocato nel loro castello dorato, circondate da rubini e diamanti, incuranti della fame e della rabbia che aleggiavano oltre quella teca di piombo.
Piombo, come i loro cuori.
Olga lo sa. Sa cosa pensano in realtà quegli uomini che hanno perduto la loro umanità già da tempo, quei soldati sofferenti e gementi abbandonati sui letti dell’infermeria che la osservano affannarsi intorno a loro nel tentativo di alleviare le loro sofferenze, stanca e spossata, ma pur sempre bella e aggraziata come una rondine. Sa che, mentre la ringraziano per un bicchiere d’acqua o per una benda pulita, non pensano niente se non che tutto ciò che sta accadendo là fuori è colpa sua, di suo padre e di tutti coloro che, come lei, hanno il cuore di piombo.
Ma Olga non può fare nulla. Non può dimostrare loro che, se potesse, venderebbe i suoi gioielli, si strapperebbe gli occhi pur di dare pace e serenità a chiunque intorno a lei stia soffrendo.
Ma non può, e lei resta lì, bella e stanca come una rondine d’inverno, con occhi bellissimi che vedono le miserie del mondo. E che piangono insieme a lui.
 
 
 
 
 
 
 
 



 
Angolo Autrice: L’attimo di vita che ho scelto per Olga è quello che la vede come infermiera nell’ospedale allestito all’interno del Palazzo Imperiale, dove lavorava insieme alla madre e alle sorelle. Il parallelismo con la suddetta favola nasce dal fatto che, nella mia mente, Olga in fondo soffrisse per quello che vedeva e si sentisse – e la facessero sentire! – in qualche modo responsabile. La maggiore delle granduchesse in questo caso è sia il Principe Felice sia la rondine.
Comunicazione di servizio: ho aggiunto altre tre protagoniste a questa raccolta, che conterà quindi 15 capitoli.
A questo punto, prima del contest finale, vorrei sapere, per ora, quali sono le favole che vi sono piaciute di più di questa raccolta.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito :).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 10
*** Tatiana Romanov ***


Tatiana Romanov
 
Raperonzolo
 
“Raperonzolo aveva capelli lunghi e bellissimi, sottili come oro filato. Quando udiva la voce della maga, si slegava le trecce, le annodava a un cardine della finestra, ed esse ricadevano per una lunghezza di venti braccia”.
 
 

Un colpo di spazzola per sciogliere i nodi dei pensieri.
Tatiana ricorda che la mamma leggeva sempre una favola a lei e alle sue sorelle quando erano piccole. E in ogni fiaba c’era sempre una bella principessa tenuta prigioniera da un drago o da delle sorellastre cattive, fino a che un principe valoroso non giungeva a salvarla.
E tutti vivevano per sempre felici e contenti.
Due colpi di spazzola per lavare via il dolore.
Tatiana è una principessa. Lo ha sempre saputo, sin da bambina e, anche se i formalismi e le frasi di ossequio l’hanno sempre imbarazzata tanto ne era poco avvezza, non può cancellare quello che è. Tatiana è la figlia dello zar Nicola II, e da pochi mesi a quella parte è una prigioniera.
E i suoi aguzzini sono peggio di qualunque drago.
Tre colpi di spazzola per sperare ancora.
Guarda la sua immagine riflessa nello specchio, mentre si pettina i capelli prima di coricarsi per la notte. Ha trascorso l’intero pomeriggio insieme alla mamma, leggendo i passi della Bibbia. Ormai la fede è l’unica armatura che la protegge dalle fauci infuocate dei bolscevichi, quei mostri e quegli stregoni che l’hanno rinchiusa in una torre che dorata non è mai stata.
Guarda il suo riflesso, Tatiana, e quasi le verrebbe voglia di piangere – spargere lacrime come perle come ogni principessa prigioniera – quando vede come si è ridotta, ma non ci può fare nulla: i commenti rozzi e volgari delle guardie e i loro scherzi villani la fiaccano e la prostrano. Vorrebbe essere come Anastasia, che risponde a un insulto con una boccaccia o con una frase assai poco regale, ma lei non è sua sorella: lei è solo la principessa Tatiana, dolce e delicata tanto che anche il suo corpo già magro sfiorisce di fronte a tutta quella cattiveria.
Quattro colpi di spazzola per fingere che andrà tutto bene.
Continua a pettinarsi i capelli – lunghi, lisci e bellissimi come quelli di una principessa delle fiabe – e ignora i segni che quelle angherie le hanno procurato. Ogni giorno cerca d’imporsi di essere forte, di continuare a lottare, di non smettere di credere che, presto, lei e tutta la sua famiglia saranno liberi, e lei potrà finalmente sposare un uomo che la ami e avere tanti bambini.
Oh, sì, lei adora i bambini.
Cinque colpi di spazzola per vivere una favola.
Casa Ipatiev è un tugurio brutto e sporco. Nessuno si cura di loro, né della sciatica della mamma e nemmeno del piccolo Alessio che è sempre tanto malato – nessuno, a parte il comandante Jurovskij, ma a Tatiana lui è sempre sembrato solo uno stregone cattivo pronto a imprigionarti con la sua magia.
Non si sente una principessa, no; solo una prigioniera. E come una giovane principessa prigioniera Tatiana non può fare altro che aspettare, aspettare in attesa che all’orizzonte compaia la sagoma di un cavaliere che la porterà in salvo sul suo cavallo bianco.
Sei colpi di spazzola per avere un lieto fine.
Sa che questi pensieri sono sciocchi, e un po’ se ne vergogna: una giovane granduchessa ventunenne non dovrebbe perdere tempo in simili fantasticherie come una bambina. Eppure, in fondo al cuore Tatiana spera ancora che lei e tutta la sua famiglia presto saranno liberati, che anche i pochi che credono ancora nello zar suo padre si ribellino e li traggano in salvo.
Così, anche loro potranno avere un lieto fine.
Sette colpi di spazzola per continuare a sognare.
Posa la spazzola, e si osserva un’ultima volta riflessa nello specchio: è bella, alta, slanciata, con i capelli scuri e ramati e i tratti quasi orientali. Bella come una vera principessa, non può fare a meno di pensare. E come una principessa, deve sopportare la sua prigionia con dignità, senza lasciarsi abbattere…perché a volte, sognare non è inutile.
E’ tardi, ormai. Tatiana abbandona lo specchio infranto della sua stanza e si corica accanto ad Olga, ma il suo sonno dura poco. Quando le guardie di Casa Ipatiev bussano alla porta della camera e intimano loro di svegliarsi, che è il momento di partire, Tatiana ubbidisce senza profferire parola, ma sa, sente che c’è qualcosa che non va.
E non appena la porta della cantina si spalanca, comprende che quello sarà il suo ultimo viaggio.
Nessun lieto fine per un’anima disperata.
 
 
 
 
 




 
Angolo Autrice: Sono consapevole del fatto che Tatiana Romanov aveva i capelli scuri e che Raperonzolo viene sempre rappresentata come bionda, ma qui quello che ho voluto sottolineare è la sensazione di prigionia, un parallelo fra due principesse tenute rinchiuse e il fatto che non sempre la vita è come nelle fiabe – in pratica, mi sono mantenuta sulla linea di questa raccolta.
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito :).
Al prossimo capitolo…Maria Romanov, e anche qui vi invito a indovinare che favola le sarà accostata :).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 11
*** Maria Romanov ***


Maria Romanov

 

Il brutto anatroccolo

 

Una sera, l’anatroccolo vide alcuni bellissimi uccelli bianchi dal lungo collo che volavano verso i paesi caldi. Li guardò a lungo girando come una trottola nell’acqua per vederli meglio: erano cigni! Come li invidiava!”
 


 

Bella.

Maria non riesce a pensare ad altro mentre osserva la propria immagine riflessa nello specchio e, quando fa il suo ingresso nella sala da ballo al braccio di Papa – finalmente anche lei può farlo, e quasi gode dell'invidia di Olga e Tatiana, e della gelosia di Anastasia che invece dovrà aspettare ancora due anni –, sa che è ciò che pensano tutti quanti.

E' il suo debutto in società, quella sera, e lei è bellissima. Maman e Anna Demidova le hanno dedicato tutto il pomeriggio, un intero pomeriggio solo per lei, ma Maria pensa, con una punta di superbia, che lei sarebbe stata meravigliosa anche con addosso uno straccio, o trasandata come Anastasia.

Lei è bellissima, lo pensano tutti...ma, nonostante ciò, non vedono nient'altro se non il suo dolce viso.

Bella.

Ha sempre desiderato essere bella, sempre, con tutto il cuore, ma non ha mai sperato di esserlo. Si rivede adesso, la bambina piccola e cicciottella che trotterellava per i corridoi del Palazzo d'Inverno, alla ricerca di un'attenzione che non le veniva concessa mai, di un affetto perennemente mascherato dietro bonario scherno. Sorellastra, la chiamavano Olga e Tatiana, e Anastasia le faceva le boccacce dicendo che era uguale alle brutte sorelle delle fiabe; lo zar e sua moglie scuotevano il capo, dicevano di volerle bene, ma non sapevano come avrebbe resistito quel visetto paffutello e bruttino in una corte che, seppur semplice, in quanto tale era ricca di sussurri maligni e lingue pronte a ferire.

Bella.

Maria non ha mai detto nulla, si è sempre rannicchiata nel suo piccolo nido di solitudine, allontanata e beccata da tutti, sperando in cuor suo di essere un giorno come la Vassilissa delle fiabe russe, tanto splendida da sconfiggere la Baba-Yaga e sposare il principe.

Non ci aveva mai sperato, e invece stasera, è lei la più bella del reame.

Bella.

Si sente ipocrita, cattiva. Non ha desiderato altro, e ora lo vuole gettare via?

Lo vede, Maria, lo percepisce in tutti i sorrisi finti e gli sguardi falsi, così pieni di ammirazione quanto privi di luce: lei è bella, ora, la più bella della Russia, forse, ma nient'altro.

Se mai ci sarà un principe, se mai qualcuno la vorrà sposare, sarà solo per via della sua bellezza e – molto più probabilmente – di quel titolo nobiliare che le è sempre stato così scomodo. Chi le sarà amico, lo sarà solo per il suo bel visetto e il modo di manipolarlo a proprio piacimento che escogiterà.

Nessuno, forse nemmeno la sua famiglia, sapranno mai la verità, nessuno rivedrà mai quella bambina che, seppur brutta e grassa, aveva tutto da dare, aveva un sorriso da donare alla vita e un cuore grande che non desiderava altro che amore.

Non ha pensato bene a ciò che desiderava, e ora che l'ha ottenuto, vorrebbe solo tornare indietro. Indietro al tempo delle canzonature delle sue sorelle, indietro al tempo delle risate e dei biscotti rubati alle cameriere, indietro ai momenti dei giochi e delle corse spensierate, il tempo in cui, seppur non bella com'è ora, restava pur sempre Maria, e non aveva bisogno di altro se non di coloro che più di tutti l'amavano per ciò che era – il brutto anatroccolo di casa Romanov.

Bella.

Ma ora c'è un bel cigno, un cigno bianco che tutti ameranno per la sua bellezza eterea e il suo bel collo lungo e aggraziato...un bel cigno che ha ucciso per sempre un anatroccolo che non desiderava altro se non essere amato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Lo so. E' passato davvero tanto, tanto tempo dall'ultima volta che ho aggiornato, ma la stesura del mio libro – peraltro non ancora completata –, più gli impegni con il lavoro e l'università mi hanno assorbito del tutto. Mi dispiace di avervi fatto aspettare così tanto, ma sappiate che non ho mai avuto intenzione di abbandonare questa raccolta né ce l'ho tutt'ora, quindi cercherò di aggiornare con più regolarità in futuro. Ringrazio tutti coloro che hanno continuato a seguire queste micro storie e ancora vorranno seguirle.

Dunque, due paroline sul capitolo. Tutto ciò che ho scritto riguardo a Maria Romanov – ovvero il fatto che da bambina fosse cicciottella e non bellissima e che a causa di questo Olga, Tatiana e Anastasia le avessero affibbiato il nomignolo di sorellastra (cattive! :p) – è documentato storicamente. Da questo anche la scelta di accostarle la fiaba del brutto anatroccolo, quanto al risvolto preso...passo a spiegare.

Ora, la fiaba del brutto anatroccolo è a lieto fine, no? Bene. Ma – sono una rompiscatole colossale, lo so – da brava studentessa di psicologia e – si spera! – futura psicologa e psicoterapeuta, ho imparato a vedere il doppio volto delle cose, fiabe comprese.

Dunque, le linee generali della favola le sappiamo tutti. Il brutto anatroccolo respinto da tutti perché brutto, appunto, viene finalmente accettato quando si trasforma in un bel cigno, e vissero tutti felici e contenti. Siamo sicuri? Perché, in questo caso, la morale è che, se vuoi avere un posto nel mondo, devi essere come tutti gli altri. E' solo il cigno che viene accettato, ma se il brutto anatroccolo fosse rimasto tale, allora avrebbe continuato a essere solo. Se le cose stanno così, chi ce lo assicura che l'affetto che si prova per il cigno sia sincero, dato che è un attimo a voltare la faccia?

Questo è quello che ho creduto pensasse il brutto anatroccolo e, di conseguenza, anche Maria. Se prima veniva presa in giro perché bruttarella e “diversa” rispetto alle sorelle, adesso viene accettata perché bellissima...ma se fosse rimasta cicciottella come da bambina? Quanto può contare su chi adesso dice di volerle bene, solo per il suo aspetto esteriore?

Ovviamente questo è solo un personale punto di vista, siete liberi di condividerlo o meno...l'ho riportato solo per spiegare la scelta che ho fatto ;). Ancora, chiedo scusa per avervi fatto aspettare così tanto e ringrazio chi vorrà continuare a seguire questa raccolta, promettendo che mi spiccerò ad aggiornare.

Nella prossima avremo Anastasia e, ve lo anticipo, con lei mi discosterò un poco dalla realtà storica ufficialmente riconosciuta, sperando che non infastidisca nessuno.

Grazie a tutti e a presto (prometto!).

Un bacio,

Beauty

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Capitolo 12
*** Anastasia Romanov ***


Anastasia Romanov

I sei cigni

Quando la condussero al rogo, ella si mise le camicie sul braccio e di lassù, mentre stavano per accendere il fuoco, si guardò attorno: ed ecco che vide sei cigni giungere in volo per l’aria. Ella vide che la loro liberazione era prossima e il cuore le balzò nel petto dalla gioia. Con un rumor d’ali, i cigni si posarono accanto a lei, sicché, ella poté gettare loro addosso le camicie: come ne furono sfiorati, le pelli di cigno caddero ed essi le stettero innanzi vivi e sani; solo il più giovane, invece del braccio sinistro aveva un’ala di cigno attaccata alla schiena”.

E' una ninna nanna spezzata dai singhiozzi, l'ultima canzone che ha cantato a suo figlio. Sergej, sua suocera e sua cognata glielo hanno strappato dalle braccia solo la sera prima, e ad Anastasia – Anna – ora non resta altro se non una copertina sdrucita da abbracciare.

Instabile, ha sentito sussurrare sua cognata, ma non lo è così tanto da non capire che intendeva dire pazza. Instabile, pazza, non è in grado di occuparsi di un bambino. Credono di farle del bene, loro tre, ora Sergej parla anche di condurla a Berlino...a che scopo?

Lei non ha più niente, niente per cui vivere. Non vuole stare meglio.

Ciò che desidera è tornare a essere Anastasia, la monella figlia minore dello zar che faceva ardere d'imbarazzo la madre e le sorelle. E' stanca di questa vita, stanca di essere sola, stanca di dover convivere con questa Anna, questa sconosciuta che ha preso il suo posto e che lei odia con tutta se stessa. Chi è, Anna?

Shvibzik, la chiamavano suo padre e sua madre. Uno un grande cigno imperioso, dalle ali imponenti e forti per proteggerti, e l'altra un uccellino dal collo aggraziato che si chinava amorevole su di te. Malenkaya, le gridavano le sue sorelle e suo fratello, quella piccola, la monella che faceva boccacce alle spalle degli ospiti e le cui risate echeggiavano contro le mura del Palazzo d'Inverno.

Anastasia, Shvibzik, Malenkaya. Tutti i suoi nomi, tutte identità diverse che lei ha sempre indossato con fierezza, anche quando a Ekaterinburg la guardia bolscevica ha condotto lei e la sua famiglia a morire.

Ma lei, Anastasia, non è morta come tutti gli altri, eppure l'anima le è stata strappata via, sostituita con quella di questa sconosciuta, questa Anna di cui non vuole sapere né conoscere nulla.

C'era stato un breve tempo, quando l'uomo che l'ha poi salvata dalla morte l'ha chiesta in moglie, e dopo i dolori del parto aveva potuto abbracciare suo figlio, in cui Anna era diventata qualcuno, una donna forse non felice, ma serena per una felicità che poteva essere rimessa insieme.

Ma il destino le ha strappato via anche quello. Il suo Alessandro è stato ucciso, e ora anche il suo bambino le viene tolto per sempre. Non lo rivedrà mai più, questo lo sa, mentre si avvolge lo scialle intorno alle spalle e segue Sergej fuori casa. E' Berlino che l'attende, ma non le importa.

Anastasia è morta quella notte, in quella cantina. Ora al suo posto c'è solo Anna, una donna a cui non appartiene neppure il nome che porta, una povera infelice senza più affetti, senza passato né presente.

Senza futuro.

 

 

 

 

Angolo Autrice: Eccomi di nuovo qui. Ho deciso che aggiornerò un capitolo a settimana, in maniera tale da finire presto questa raccolta. Come potete vedere, per Anastasia ho scelto di discostarmi un poco dalla realtà storica ufficialmente riconosciuta, assumendo che lei sia veramente sopravvissuta al massacro della famiglia Romanov e abbia assunto l'identità di Anna Anderson. Preciso che io non credo che fosse veramente lei, ma se così fosse stato, di certo le implicazioni sarebbero state quantomeno interessanti. La scelta della fiaba è dovuta al suo finale: tutti e cinque i cigni ritornano a essere principi, mentre l'ultimo resta umano con un'ala di cigno, quindi diviso fra due realtà – privo di un'identità, dunque. E questo è quello che ho pensato per Anastasia: ora non è più lei, ma Anna, una donna divisa fra presente, passato e futuro senza possibilità di uscita.

La faccenda del marito ucciso e del figlio sottrattole fanno parte del background che la stessa Anna Anderson fornì per raccontare la sua storia.

Ciao, un bacio,

Beauty 

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Capitolo 13
*** Carolina Matilde di Danimarca ***


Carolina Matilde di Danimarca
 
La piccola fiammiferaia
 
“Ora la bambina camminava scalza, e i suoi piedini nudi viola per il freddo; in un vecchio grembiule aveva
una gran quantità di fiammiferi e ne teneva un mazzetto in mano”


Risultati immagini per carolina matilde di danimarca

La prima fiammella si spegne, e un frammento di vita vola via.
La scarlattina brucia, le piaghe sul suo corpo si stanno prendendo a poco a poco ogni granello di vita che le resta, ma quando la fiamma della prima candela muore, Carolina Matilde vuole tenere vivo ciò che resta di lei.
Il fuoco del camino è caldo, ma mai caldo quanto il raro sole inglese che lottava contro le nubi per regalare a lei e ai suoi fratelli un pomeriggio di gioia nel fresco luglio dell’Inghilterra. Il cielo è limpido, ma mai limpido come il celeste del suo abito estivo preferito, perso in un turbinio di seta mentre lei e Luisa compivano un girotondo nel verde e fiorito prato di Leicester House.
I giorni di gioia e spensieratezza, quando il sogno del matrimonio era una prospettiva vaga e speranzosa, un futuro luminoso che non sarebbe stato intaccato dalle nubi – dal gelo e dalla neve della Danimarca, dal ghiaccio della follia – le paiono più vicini ora di quando ha compiuto il suo primo grande viaggio, dalla corte di Hannover fino al Palazzo di Christiansborg.
La seconda fiammella si spegne, e il sogno muore.
Fa freddo, constata Carolina Matilde, nonostante la malattia la stia bruciando da dentro. Eppure, dovrebbe essere abituata al gelo, perché la neve della Danimarca non è mai stata nulla in confronto al ghiaccio di un matrimonio senza amore ma colmo di follia.
Quando anche il sogno si era infranto, l’unica cosa che era stata in grado di provare nei confronti di Cristiano era stato un sordo e implacabile disprezzo; ora, suo marito le ispira solo un’infinita pena. Non può fare a meno di rimproverarsi di essere stata sciocca e immatura; forse, se avesse compreso prima che Cristiano era solo malato, e non malvagio…no, non sarebbe cambiato nulla.
Illudersi è inutile. Anche la più viva fiamma di speranza è destinata a spegnersi.
A sciogliere la neve del suo cuore era stato suo figlio, prima.
Il calore dell’amore di una madre è in grado di abbattere qualsiasi muraglia di ghiaccio.
E la passione di un amore puro e sincero fa liquefare ogni gelo.
La terza fiammella muore, e il destino ha fatto il suo corso.
Non si dovrebbe morire a ventitré anni. Non si dovrebbe morire giovani, lontano dalla propria casa, dalla propria famiglia, e dai figli a cui non è stato più concesso nemmeno di parlare. L’unico rimpianto di Carolina Matilde è forse non poter riabbracciare un’ultima volta Federico e Luisa Augusta.
Ma, in fondo, non le dispiace di morire.
Ritiene di aver sofferto abbastanza, in cuor suo.
Ed è stata lei stessa ad invocare la morte, quando le è stato comunicato dell’avvenuta esecuzione di Johann Friedrich Struensee. Ha pianto e gridato e pregato Dio di lasciare che si ricongiungesse con il suo amore.
Il Signore forse l’ha ascoltata.
Ed è con il cuore caldo d’amore che Carolina Matilde chiude gli occhi, e si lascia avvolgere dal gelo.

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Capitolo 14
*** Anna Neville ***


Anna Neville
 
Biancarosa e Rosella
 
Le aveva chiamate Biancarosa e Rosella, perché erano simili ai boccioli rossi e bianchi che crescevano davanti a casa sua: esse erano buone, pie, laboriose e gentili. Biancarosa era più tranquilla e remissiva, Rosella più spensierata e vivace”
 
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Si può odiare tanto la propria sorella?
Anna crede di sì, mentre strofina con forza e furia il pavimento sudicio su cui è inginocchiata. Sì, si può odiare lo stesso frutto del grembo della propria madre, e Anna in questo momento odia Isabella anche più di quanto odi il duca di Clarence.
Nostro padre ha compiuto una scelta oculata: gli sciacalli si accoppiano bene con gli altri sciacalli.
La proprietaria della taverna è una donna grassa e rozza, che le sbraita ordini come se lei fosse la più miserabile e incompetente delle sguattere. Forse, si dice, il duca di Clarence non si è neanche preso il disturbo di farle presente la reale identità della serva che le ha inviato. Anna non se ne stupisce: mani avide come le sue stanno bene con un cuore di pietra e una mente indifferente.
Ma Anna non ce l'ha con lui, non più di quanto non ce l'abbia con Isabella. Sua sorella maggiore non ha neanche cercato di opporsi alle mire del consorte. Essere entrambe coeredi delle proprietà del Kingmaker non ha giocato a favore di nessuna di loro, poiché Isabella è succube del marito che la muove come una bambola di stoffa e segatura.
Una bambola senza cuore e senza anima.
Isabella non ha fatto niente per aiutarla. Isabella non ha neanche tentato di opporsi quando il duca di Clarence ha quasi alzato le mani su suo fratello per impedire che sposasse la figlia più giovane – già vedova all'età di quindici anni, come se non fosse abbastanza – del Creatore di Re, timoroso che Riccardo potesse appropriarsi di metà del suo patrimonio. Non si è offerta di ospitarla, Isabella. Se l'è solo trovata inaspettatamente fra capo e collo dopo la battaglia di Tewkesbury, e non ci ha pensato due volte ad assecondare il marito nella scelta di nasconderla in quella locanda di quart'ordine.
Il tutto pur di separarla da Riccardo.
Anna si sente salire le lacrime agli occhi, e più la rabbia cresce più lei strofina, strofina così forte da farsi sanguinare le unghie. Perché Isabella sapeva. Sapeva che Anna sarebbe stata disposta a rinunciare all'intero patrimonio, ritrovandosi solo con gli abiti che aveva addosso, pur di sposare Riccardo.
Pur di stare con l'uomo che amava fin da bambina. Pur di essere felice.
Isabella sapeva. E ha fatto di tutto per renderla ancora più miserabile di quel che già non fosse.
Anna non glielo perdonerà.
E' un giuramento che fa a se stessa: non glielo perdonerà.
E non viene meno alla parola data neanche quando la porta della taverna si apre, e sulla soglia si presenta una sagoma un po' ricurva, ma che riesce a dissolvere le lacrime di Anna come polvere nel vento.

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