The Ghost of You

di Margo_Holden
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


C’era del sangue sulle sue mani…
In realtà c’era sangue ovunque.
Sulle sue scarpe di pelle nera, sul vestito di velluto prugna, sulle calze a reti bucherellate su più punti, sul parquet in mogano, anche sul viso, alcuni schizzi avevano macchiato anche il suo viso bianco, pallido più del solito.

Le sembrava di poter svenire da un momento all’atro.
Non ce la faceva più a sopportare la vista di quel colore così vivo, pulsante.
Ma non sopportava più nemmeno il suo odore acre, forte, ferroso.
Sembrava di sentirlo sulla lingua. Non aveva mai avuto problemi di ferro, perché ne aveva in abbondanza nel suo corpo, ma in quel momento, se lo sentivo impresso sul palato.
E gli faceva schifo, schifo e ancora schifo.
 
Una pozza di sangue si era allargata intorno ai suoi piedi e le gambe dell’uomo, il proprietario di tutto quel liquido bordeaux, era disteso a pancia in giù, con gli occhi sbarrati, un braccio sotto di esso e l’altro in una posizione strana, ad angolo retto ma con la mano rigirata. Le gambe leggermente divaricate, fasciate da un pantalone elegante nero come la pece. Il volto cereo, cadaverico, in netto contrasto con le labbra socchiuse e leggermente rosse, dove poco prima, un fiottalo di sangue aveva fatto il suo percorso e si era poi riverso sulla camicia bianca e sul mento.

Poiché non riusciva più a reggere lo sguardo su quel viso bianco, anzi no, perché la verità era che non riusciva a guardare la morte e sapere che faccia avesse, quindi decise di alzarli, incontrando così due pozze di un blu intenso come il più freddo del mare del nord. 
Quegli stessi occhi che l’avevano venerata, fatta sentire donna, amata…
Gli stessi che gli avevano sempre ricordato di che razza di uomo si trovasse di fronte, un uomo letale, arrabbiato con il mondo intero e soprattutto con la sua stessa vita, un uomo che era capace di tutto, anche di uccidere un innocente solo perché si trovava sul suo cammino, sul cammino del suo “lavoro”.
 
Si odiava per non odiarlo.
Si odiava per desiderarlo ogni minuto della sua vita.
Si odiava per amare il suo profumo intenso.
Si odiava per il peccato commesso e per l’amore dato.
Ma più di ogni altra cosa, lo odiava per essere l’uomo che era.

Si guardarono per istanti, lunghi e silenziosi istanti, poi lui ruppe il silenzio e lei fu salvata, ancora una volta dall’uomo che odiava.






*la storia si può trovare anche su wattpad*

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 
Era estate, un giorno come tanti, e mentre stava per entrare e spingere la porta, un uomo la precedette.
Era alto, quasi un metro e novanta, spalle larghe, petto ampio.
Era lui. Ma lei ancora non lo sapeva.
Come sempre aveva salutato John, il proprietario del locale dove lavorava e si era diretta verso gli spogliatoi per cambiarsi ed indossare la divisa (un vestito tra l’azzurro e il turchese, con davanti un grembiule bianco).
Lei non si occupava mai dei tavoli ma ben si, il suo lavoro era stare dietro il bancone, di quelli se ne occupava la sua collega.
Ma quel giorno il destino volle che se ne occupasse proprio lei, poichè Sally, la ragazza che lavorava con lei, si era assentata a causa di un improvvisa influenza.

Mentre passava tra i tavoli a chiedere chi volesse altro caffè, lo rivide.
Rivide l’uomo della porta intento a mandare messaggi dal suo iPhone nero, come tutto il suo vestiario di quella mattina.
-Vuole dell’altro caffè, signore?- chiese con la sua voce dolce, una voce che non gli era mai appartenuta prima di allora, ma sentiva, percepiva l’area negativa che l’uomo emanava e si ritrovò a pensare, che l’unico modo fosse quello di sembrare dolci e pazienti.
Ne aveva conosciuti di uomini così lei.
L’uomo alzò controvoglia gli occhi dallo schermo e li si accorse di che colore fossero.
Blu intenso senza alcuna sfumatura, ma erano freddi e piatti. Capaci di non emanare nessuna piccola emozione.
In quel momento l’uomo seduto con le gambe leggermente divaricate, i gomiti poggiati sul tavolino rosso e le mani intente a scrivere messaggi, gli faceva paura. Era qualcosa che mai prima di allora aveva provato. Lei che era stata arrestata ai tempi del liceo, una volta per aggressione, lei che conosceva solo il pericolo e di tutte quelle volte che si era trovata immischiata in situazioni sinistre, o più grandi di lei, non aveva mai sentito o magari solo percepito, quel senso di impotenza, quel senso di paura, che in quel momento, guardando l’uomo seduto a quel tavolo, su quella poltrona bianca sporca in pelle, stava provando.
-No, grazie- rispose freddo lui con un accento straniero nelle sua voce, tornando immediatamente al cellulare.
Lei passò oltre anche se, un tarlo gli si insinuò nel cervello, una cosa che gli faceva pensare di averlo già conosciuto. La cosa che più la destabilizzava era la sensazione di aver già sentito quella strana e sinistra paura, di averla provata a sue spese sulla pelle bianca, in un tempo che sembrava lontano, per gli altri, non per lei. E poi c’era quell’intenso profumo che aveva percepito quando gli era andata vicino la prima volta alla porta e poco fa, con il caffè. Uno di quei profumi che non si dimenticano facilmente se associati a vecchie ferite.
 
I giorni trascorsero veloci e non ci si soffermava più su quello che era accaduto o su chi si aveva avuto l’onore di conoscere, la sua vita era sempre stata un treno in corsa, poche fermate e se non sapevi cogliere l’occasione, ti lasciava a piedi. Ma di una cosa non si era ceto dimenticata. L’uomo dagli occhi blu. No, di quello no. E ogni volta che tornava nell’angolo dove pochi giorni prima si era seduto l’uomo, lei sentiva sempre dentro di se, quel senso di déjà-vu. Ed era diventato ormai una costante ogni qual volta metteva piede nel locale. Si odiava per la memoria corta che aveva e allora si interrogava: “era forse l’uomo che la sera prima aveva cercato di rimorchiarmi in discoteca?”
Ma poi si ricordava che lei era una vita che non andava in discoteca perchè anche quella faceva parte del suo passato tormentato.
Allora ripartiva con le domande a se stessa, ed ogni santissima volta, non c’era nessuna risposta adeguata.
“chi sei uomo misterioso?”
Questo era diventata ormai la sua domanda retorica che girava vorticosamente nella sua mente. E girava e rigirava, senza mai fermarsi.
 
Con il viso assorto su una rivista, il suo coinquilino-migliore amico, le sedeva di fronte.
I capelli rossi tinti, l’accenno di barba su quel viso giovane di appena 22 anni, i dilatatori neri alle orecchi e il piercing sul sopracciglio destro. Non amava per niente andare in palestra e lo amava per questo. Pensare di passare la vita a voler assomigliare a qualcun altro, è un grande spreco di quello che si è. La vita è una ed è già difficile capire il meccanismo che si cela dietro ad essa, fatta di trabocchetti e scelte, tante scelte. Se si sprecano quelle poche opportunità che essa ci regala, allora perché non accettarle per quello che si è? Perché fingere? Che cosa ci spinge a farlo? È forse mancanza di autostima? O di veri stimoli?
-Smettila di fissarmi, Hazel, sai che lo detesto!-
Beccata!
-Okay e tu lo sai che non me ne frega un cazzo, vero?- rispose lei, con un gran sorriso sulle labbra.
-Sempre molto delicata.-
Poi ci fu silenzio. Il rumore del televisore che trasmetteva un vecchio film in bianco e nero, era l’unica cosa che riempiva l’aria di quel condominio di Brooklyn, quella sera di inizio ottobre.
-Se ti dicessi che c’è un ombra che è tornata dal passato, tu che penseresti?-
All’improvviso quelle parole presero forma e consistenza, pronunciate poi, sembravano ancora più vere. Non lo sapeva nemmeno lei perché lo avesse fatto, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.
Chris alzò di nuovo gli occhi dal giornale e la guardò.
In quel momento la stava studiando. Quel metro e 70 di ragazzo, dallo stile indubbiamente grunge, la stava studiando. Erano pochi quello che potevano permetterselo. Hazel non regalava la sua amicizia a tutti. Ma solo ai giusti e alle menti malate.
Studiava i movimenti delle sue labbra, del corpo ma soprattutto cosa dicessero i suoi occhi grigi.
-Dipende.-
-Da cosa?-
-Dal tipo di ombra. È buona? Cattiva?-
Gli occhi verdi del ragazzo si posizionarono di nuovo sul giornale, ma questo non gli impediva certo di dargli l’attenzione dovuta. Gli stava lasciando il suo spazio.
-Il punto è che non lo so. È tutto così confuso e imprevedibile. Non so cosa fare e tanto meno da dove iniziare a cercare.-
-Cerca dentro di te, Hazel. Lo so che questo ti fa paura, ma devi farlo. Devi affrontare il passato per poterti godere il presente e così il futuro.-
Era facile per lui. Era facile parlare quando non si aveva quel passato in particolare, alle spalle. Anche se Chris aveva vissuto un adolescenza da autolesionista, quello che aveva dovuto sopportare Hazel era un altro tipo di dolore, più profondo e acuto, se vogliamo.
-Lo sai che è difficile e…- lasciò la frase a metà un po’ perché odiava parlare di quello e un po’ perché il magone tornava a galla e gli stritolava le corde e i polmoni e tutto il corpo, da impedirgli perfino di continuare.
Chris fece un cenno di assenso con il capo, quasi avesse capito la sofferenza dell’amica nel ripensare a quel passato tumultuoso e soffocante.
L’unico che sapeva.
Passarono alcuni minuti prima che il ragazzo ricominciasse a parlare.
-Sabato sera andiamo a ballare, tu ci vieni, Haz?-
Se glielo avesse chiesto il giorno precedente o il giorno precedente ancora, gli avrebbe risposto di no, perché doveva restarsene a casa a pensare e ripensare all’ombra e quindi a passare in rassegni i possibili candidati, a farsi male e a logorarsi dentro. Poi aveva paura di quello che la discoteca rappresentava per lei, o che comunque aveva rappresentato. Aveva una paura matta di poter ricadere in quel tunnel e non poterne mai più uscire.
Ma qualcosa la spingeva a dire si, qualcosa che nemmeno lei sapeva descrivere cosa fosse, da dove provenisse. Forse era dovuto al fatto che amava le feste, amava il fatto di potersi ubriacare e non pensare alle conseguenze, di fumare tanto e tornare a casa e puzzare come una ciminiera o una sala stile vecchio western. O era semplicemente per codardia.
-Si, dimmi l’ora e il luogo.-
Chris la guardò stranamente stupito, come se non fosse da lei fare qualcosa del genere.
In verità era così, cioè, era da giorni che rifiutava di andare a festeggiare con gli amici ma Hazel era anche questo, un giorno mare e l’altro tempesta.
La serata finì con Hazel che rimase sdraiata sul divano e Chris che continuò a leggere la sua rivista. Tutto in un placido silenzio accompagnato soltanto dal mormorio sconnesso  del televisore a basso volume, mentre figure di giovani uomini, vestiti di tutto punto, passavano sullo schermo nero.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2




-Amico te lo ripeto una terza volta, perché ti dico…amico…che non ce ne sarà una quarta…quindi, dicci tutto quello che sai o ti infilo questo, su per il culo. Sono stato abbastanza chiaro, amico?!-
L’uomo, che aveva appena parlato, agguantava tra le mani una spranga di ferro, già macchiata dal viscido color rosso della povera vittima che quella sera, si era ritrovato a martoriare.
Vicino a lui, Alexander stava con le braccia conserte e il viso calmo.
Sam, un grande testa di cazzo, un sadico, un pazzo e un perfetto stronzetto dell’alta borghesia americana, ed Alexander, non aveva mai capito cosa ci facesse nel loro gruppo, in un gruppo di spiantati come loro.
Ma era anche quello più bravo nel lavoro di sicario, nel trovare la gente e nel spiarla senza farsi vedere o sentire.
Era oscenamente portato per il male.
C’era una cosa che odiava del collega non che amico, la sua repulsione nei confronti del genere femminile e il suo essere completamente, esasperatamente un melodrammatico di natura.
Ogni volta che doveva uccidere un uomo o una donna, impiegava tutta la teatralità di cui il suo animo più che nero, ne era fornito.
E quindi  minacciava solo per poter vedere la paura emergere dagli occhi delle vittime, poi cominciava a torturarli, per vedere trasformata quella paura in dolore e in sofferenza, poi soddisfatto, li ammazzava. Nei modi più barbari che conosceva magari facendo anche riferimento a qualche libro sui serial killer o su film di impronta horror.
Alexander, Alex, invece, andava dritto al sodo, preferiva farlo con una pistola perché procurava meno dolore e perché non si perdeva tempo.
Non che lui non avesse un anima nera ed oscura, anzi, rispetto al ragazzo che aveva vicino, lui era anche più cinico e se doveva ammazzare un intera famiglia, non si tirava di certo indietro, ma lo faceva con meno sadismo. Quello era tutto. Ma era anche la cosa che più fregava il ragazzo. Perché chi era meno sadico riusciva a ricoprire un posto più alto nella loro organizzazioni di assassini regolarmente  pagati.
-Dal tuo stupido silenzio, deduco che sia un no, e questo vuol dire, che ancora non hai capito con chi hai a che fare. Con che razza di gente hai a che fare. Bene, presto lo capirai perché vedi, gli equivoci non mi piacciono per niente…no, proprio per niente.
E prese a picchiarlo con il bastone non una ma due, tre, quattro, cinque volte.
L’unica cosa che si sentiva in quel garage erano i rumori delle ossa rotte, unite alle grida dell’uomo che stava per morire in una pozza di sangue ed ossa, per mano del ragazzo riccioluto.
Dall’aspetto angelico ma dall’animo di un dannato, di uno che ha venduto per niente l’anima al diavolo. Sam era il diavolo, perché se il diavolo avesse avuto una faccia quella era di Sam, con i suoi ricci biondi e gli occhi neri come le piume di un corvo, cattivi, sadici e pazzi.
Tutto quello sarebbe stato risparmiato se l’uomo, la vittima della serata avesse parlato e li, entrava in azione Alex.
 
Si mosse appena, come un puma, allungò un braccio verso il ragazzo che come scottato si ritrasse e buttò a terra l’arma.
-Sai perché sei qui…George Tone?- l’uomo parlò con calma e freddezza quasi stesse raccontando a qualcuno di quanto bello e interessante fosse il film appena visto.
George, la vittima, si teneva stretto al petto, mentre un osso faceva capolino dalle pelle lacerata che stava buttando giù un fiume di sangue.
Cautamente fece no con la testa, così Alex riprese a parlare.
-Perché sai delle cose che al mio amico e soprattutto a me, interessano.
-Non so niente- piagnucolò l’uomo a terra.
Alex butto fuori un bel po’ d’aria ma non era ancora spazientito, era solo dispiaciuto che la tortura per lui stava per ricominciare.
Guardò Sam e l’amico capendo cosa i suoi occhi gli stessero comunicando, fece un sorrisetto e prese a pestare George.
Cinque colpi ogni qual volta l’uomo non rispondeva o faceva il finto tonto, come poco prima.
-Adesso ti è tornata la memoria George.
Freddo e distaccato. Questo era Alex.
-Guarda che non li reggi altri cinque colpi, tesoro.- a parlare fu Sam che intanto aveva portato la spanna di ferro sulla spalla, quasi stesse aspettando di tirare la palla nel gioco del baseball.
-Avete sbagliato uomo. Vi prego lasciatemi andare, giuro che non dirò niente alla polizia.
Supplichi inutilmente, penso Alex.
Odiava quando le vittime si riducevano a non avere più palle o coraggio. Lui era sempre stato abituato a combattere per l’unica vita che aveva ma anche per ottenere da essa tutto quello che aveva o possedeva, o semplicemente pensava di poter ottenere.
Non era un tipo che si dichiarava vinto anzi, lui non perdeva mai una sfida, figurarsi una guerra.
-Certo che non andari dalla polizia, perché se continui così, l’unica cosa che vedrai sarò io, il mio amico e l’unica cosa che udirai, sarà il rumore delle tue ossa rotte, forse anche del tuo collo. Quindi, prima che mi incazzi, parla porca troia!-
Non era arrabbiato no, per queste cazzate non si arrabbiava mai, lui era solo stanco dell’uomo e della sua omertà.
Sam rise, l’uomo cominciò a piangere e più lui piangeva e più Sam rideva come un pazzo.
Fu quel comportamento dell’amico a portare l’uomo a parlare.
Terrore e paura, non era la violenza che aveva fatto parlare quell’uomo.
Ma la pazzia di Sam. E come dargli torto. Perfino il più perfido dei demoni aveva paura di Sam quando era elettrizzato dal sangue e dalla morte. Lui amava vedere la morte dipinta sulla faccia delle persone ma mai quanto la paura.
 
Come se avesse capito tutto, Alex cominciò con le domande.
-Lavoro li da più di due anni e posso dirvi che Patrick, ha in mente di rovesciare dall’interno una delle organizzazioni criminali, di cui non so il nome.
-Chi è Patrick?
-Il nuovo capo.
-E Jeremy?
-L'hanno fatto fuori.
Poi prese dalla tasca posteriore dei pantaloni una pistola e come soddisfatto da quello che aveva ottenuto, che era poco, ma comunque qualcosa, puntò la pistola nella bocca dell’uomo e fece fuoco.
Il corpo ormai senza vita dell’uomo cadde all’indietro mentre altro sangue si univa a quello causate dalle mazzate.
-Fa sparire il corpo.- ordinò con la stessa compostezza con cui aveva premuto il grilletto poco prima.
Poi mentre si incamminava verso la sua macchina, come ricordandosi di qualcosa, si girò verso l’amico che intanto cospargeva il corpo del tizio con del liquido trasparente che stava facendo alzare un grande nube di fumo bianco e stava corrodendo l’uomo. Acido.
-Dalla prossima volta saremmo in tre, ci hanno affidato un nuovo pivello da lavorare e fortificare, queste sono state le parole di Damon.
Il ragazzo annui e continuò a fare quello che stava facendo.
Alex intanto raggiunse il SUV nero che aveva parcheggiato a 100 metri di distanza dal garage.
Un vento gelido portatore di pioggia,  si stava alzando costringendo l’uomo ad alzare il bavero del cappotto nero che indossava.
Un cappotto di Gucci nuovo di zecca.
Estrasse dalla tasca le chiavi e aprì la macchina con un click. Ci si fiondò dentro un po’ per il freddo e un po’ per la voglia di tornare a casa e farsi una doccia. Poi mangiare ed infine andare a dormire. La ricerca della vittima gli era costata una settimana intera. Era andato più di una volta presso l’ufficio dove l’uomo lavorava e lo aveva spiato da lontano, in verità aveva spiato tutti i movimenti che aveva fatto l’uomo dandosi il cambio di tanto in tanto, con Sam.
Era veramente triste sapere che dei poliziotti fossero d'accordo con i criminali che appartenevano a diversi clan o che comuqnue gli passassero delle informazioni. Se anche la polizia era venduta, di chi ci si poteva fidare allora? Ma senza la loro complicità, senza i loro nomi scritti sui i loro libri paga, non sarebbero mai potuti diventari quelli che erano oggi. Uno dei tanti clan più rispettati di tutta Brooklyn.
Sospirando mise la chiave nel cruscotto e quando stava per accenderla, sentì il suono di un messaggio provenire dal suo cellulare, che gli era costato più di quattrocento dollari.
 
Da: FastHand
Sabato sera festa all’Elephant. Sei dei nostri Ice eyes?
 
Che nel loro gergo voleva dire:
Ha cantato l’uomo, Alexander?
Dovevano usare quei messaggi in codice perché in quel modo non correvano nessun pericolo di essere rintracciati o peggio, scoperti.
 
A:FastHand
Certo, che sono dei vostri!
Ora?
 
Quello invece voleva dire che l’uccellino aveva cantato ma aveva comunque puntualizzato l’ora, perché dovevano incontrarsi e parlare della questione Patrick.
Ripose il cellulare sul sedile vicino al guidatore e accese finalmente il motore.
13 ore di sonno ininterrotto lo attendevano a casa.
 
 
***
 
Andava veloce, lo sapeva bene, ma nonostante tutto, quello sembrava non fermarlo.
Continuava a macinare metri senza rendersene conto, mentre stralci di palazzi o strada grigie o lampioni dalla splendente luce rossa, gli passavano attraverso il finestrino. Lui altrettanto velocemente spingeva il piede sull’acceleratore.
Era una strada deserta, a quell’ora.
Pensò.
In realtà quella era la strada che una giovane ragazza di ventitré anni attraversava per tutta la sua lunghezza quasi ogni mattina, dalla fermata del pullman fino al diner dove lavorava.
Stava correndo, voleva solo tornare a casa, lavare via la stanchezza di una intera settimana e poi dormire per tutta la vita.
Ma dovette frenare a secco la macchina.
Una ragazza era sbucata dal nulla e lui se la stava per ritrovare spiaccicata sul parabrezza della macchina, se il suo lavoro non gli avesse permesso  di vederla in tempo e ucciderla.
La stava studiando perché non le sembrò normale come cosa.
La ragazza non si era nemmeno a corta che stava per morire quella sera, era tranquilla, troppo. La seguì fino a quando non attraversò le strisce per ritrovarsi sull’altra parte del buolevard.
Alzò gli occhi e vide dove nasceva la sua tranquillità.
Uno stupido semaforo che lui non aveva visto per colpa della stanchezza, se non della velocità.
Poi ripartì adottando la stessa andatura di poco prima.
Intanto però ripensava a quella ragazza strana che alle due di notte girava da sola per quelle vie poco illuminate e minacciose, silenziose e sole. Come lei d’altronde.
Poi, come un fulmine colpisce gli oggetti metallici, il suo sguardò si illuminò nel ripensare ai capelli di quella strana ragazza.
Erano capelli colorati.
Ma ci aveva veramente visto bene? Oppure era solo un miraggio dato dall’ora tarda?
Dio no, cavolo se non ci aveva visto bene.
Quella li aveva capelli blu. O forse erano verdi abete?
Ma chi è quella persona che si tinge i capelli con i colori dell’arcobaleno? Si doveva essere estremamente pazzi per fare una cosa del genere!
Finalmente vide il suo “condominio”.
Parcheggiò nel box destinato alle macchine e con tutta fretta salì al piano dove abitava.
Tutto suo. Il piano terzo era tutto dannatissimamente suo.
L’ascensore che faceva da porta di casa si aprì, e lui si precipitò in bagno.
Doveva assolutissimamente recuperare una settimana di sonno.

 


Spazio Autrice
Salve a tutti.
Questa è la prima volta che scrivo lo spazio autrice qui.
Come ho già detto, la storia è stata pubblicata originariemente su Wattpad e infatti lì, sono già arrivata a pubblicare il capitolo 13, però questo non centra assolutamente niente.
Avevo inoltre inserito la storia nella sezione "Storie Originali: Drammatico"  però ho capito, cioè, trovo che la sua categoria sia la sezione "Thriller" quindi ha subito questo cambio di rotta.
Che dire (hai parlato pure troppo) se vi è piaciuto il capitolo, se non vi è piaciuto, insomma ditemi qualcosa, anche solo per dire "la sintassi è sbagliata, la virgola doveva andare lì o di la", ditemi quello che pensate.
Grazie di cuore a tutte quelle persone che si fermerano anche solo per leggere il titolo :)
Alla prossima <£

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3.
 

 
Il ragazzo che il club dei lupi verdi gli aveva affibbiato aveva dalla sua sola l’altezza, per il resto non c’entrava veramente niente con quel lavoro. Ma se il ragazzo era stato affidato ad Alex il russo, il ragazzo dagli occhi di ghiaccio, un motivo c’era.
Era uno dei pochi che sapeva svolgere il proprio lavoro al meglio ma soprattutto uno dei pochi depravati sia pazienti che tolleranti.
Sam non era ancora arrivato ma questo era tipico di lui. Farsi aspettare.
Intanto aveva però scoperto che Jamie aveva 21 anni, proveniva da una famiglia borghese americana del profondo sud dell’Alabama che aveva origini scozzesi. Alto, pelle diafana, sorriso splendente, occhi marroni e capelli color corvino, anzi no, puro petrolio.
Non aveva ancora avuto l’onore di scoprire quali fossero le cicatrici che si portava dietro. Non quelle fisiche che si vedevano con gli occhi, no quelle interne, quelle che lo avevano spinto a fare questo passo.
-Da quanto stai nell’organizzazione?- domandò Alex mentre il ragazzo davanti a lui stava seduto dritto con la schiena attaccata alla poltrona di pelle rossa.
Erano nell’ufficio del vice capo e aspettavano con pazienza, fin troppa anche, Sam.
-Un anno circa. E da un anno mi sto allenando per le missione.-
Fece un cenno con il capo sapendo benissimo che il ragazzo gli dava le spalle.
Un rumore e la porta si aprì sbattendo contro il muro. Sembrava che volesse cavarla quella maledetta porta. Lo aveva già detto che odiava la teatralità del compagno?
-Buongiorno gente! Scusate il ritardo ma ieri sera sono andato a dormire veramente tardi. Comunque dov’è il coglione di cui saremmo i babysitter?-
Se fino a quel momento Alex aveva tenuto gli occhi fissi sulle scarpe nere, a quel punto dovette alzarli. Puro ghiaccio.
-Noi?! Vorrai dire, Alex dovrà fare da babysitter, coglione!-
Il ragazzo biondo non sembrò prendersela minimamente, anzi era più che divertito.
-Oh, il russo che fa il simpatico. Devo fare ritardo più spesso allora.-
Si lanciarono uno sguardo che voleva dire mille e nessuna cosa.
Alex che sicuramente, usciti da li, lo avrebbe picchiato e Sam che avrebbe fatto altrettanto. Poi sarebbero andati a bere e tutto sarebbe tornato come prima.
-Piacere, Duncan il coglione.-
Il biondo si girò nella direzione della voce che aveva appena parlato e guardò con disgusto la mano che l’altro gli poneva, facendo così, scomparire quel sorriso di schermo sulla faccia del ragazzino.
-Piacere, Sam lo psicopatico. Devo dire Duncan, che il primo soprannome è quello che non si scorda mai. E penso che il tuo non lo farò di certo.-
Alex si accorse anche che non c’era solo del divertimento in quelle pozze nere ma qualcos’altro. Sembrava quasi che fosse davvero felice di conoscere Duncan, quasi volesse andare oltre alla conoscenza del nome, ma diceva anche che non voleva la sua mano nella sua, ma la sua mano in un altro posto del suo corpo.
-Sam ti affido Duncan per domani sera, io ho delle questioni da risolvere, ma oggi gli farò vedere come funzionano le cose qui.-
Fu Alex con il suo tono autoritario nella voce a parlare, tagliando con forbici invisibili quella bolla che si era creata tra i due ragazzi poco prima.
-D’accordo, ma so già come funzionano le cose qui.- rispose con un certo orgoglio il ragazzo.
Di male in peggio.
Pensò Alex.
-No, invece. E quando ti dico di fare una cosa tu prendi, stai zitto e cazzo se non la fai.- Le parolacce servivano ad attirare l’attenzione pienamente su di se. In quel modo non c’erano fraintendimenti. E si arrivava con meno difficoltà al punto desiderato.
Annuì.
-Bene, adesso scusaci ma io e Sam dobbiamo parlare in privato. Aspettaci fuori.-
Così feci. Si incammino e uscì dalla stanza, non prima di aver riservato un ultimo sguardo al biondo.
-Smettila di provarci, non pensarci minimamente.-
Il ragazzo perse tutta l’allegrai di poco prima, lasciando spazio ad un viso serioso e dai lineamenti contratti. Era qualcosa che andava a scontrarsi con quel viso gioviale e giovane.
Alex ostentava sempre una fredda indifferenza, in ogni stante. Sam pensava se lo avesse mai visto in vita sua fare una smorfia di dolore, poi ci pensava ed era costretto a dissentire. Mai un emozione che trapelasse da quegli occhi così belli e incantatori, tanto quanto gelidi ed inespressivi.
Non avrebbe tentato minimamente di fare finta di non capire, perché sapeva che non avrebbe funzionato, non con l’uomo che più di ogni altro gli aveva dato una mano quando serviva.
-Perché no, lui ci sta e si vede. Non vedo dove sia il problema.-
Ma ad Alex quella risposta non piacque per niente.
-Invece il problema c’è e come.- rispose guardandolo dritto negli occhi. –è un tuo collega e nel lavoro le storie non debbono esserci.-
Il ragazzo sentì dentro di se nascere un miscuglio di emozioni diverse. Prima fastidio, per l’amico che si impicciava dei fatti propri, poi rabbia perché nessuno gli diceva cosa fare nella vita e nelle situazioni private, ed infine prevalse la consapevolezza della verità in quelle parole. Fece solo un cenno di assenso e il discorso finì li.
Ma non per Sam, a cui venne in mente un idea, per l’amico ovvio.
Uscirono e trovarono il ragazzo a pochi metri di distanza, seduto su una sedia, mentre i due uomini non poterono non scambiarsi una fugace occhiati. Fu alex il primo a muoversi dei due, e fu sempre lui che torreggiava con la sua corporatura e la sua altezza, su i ragazzi.
Scesero nel garage e presero la macchina di Sam, un utilitaria nera, con vetri oscurati.
-Dove stiamo andando?- era lecito che Donovan chiedesse ed era preoccupante se non lo facesse.
-A bere qualcosa, tu non hai sete Alex?- fu Sam a rispondere, mentre Alex si accomodava sul sedile del passeggero, vicino al guidatore.
-Molta, Sam.ma ho scordato il portafogli, paghi tu?-
-No, caro forse può prestarceli Donovan.-
Il ragazzo che era stato ad ascoltarli in silenzio per tutto quel tempo, sbuffo sonoramente e guardò fuori dal finestrino, fregandosene della domanda che gli avevano appena posto.
-Deduco che sia un si!- riprese con fare scherzoso Sam.
-Già.-
Finalmente giunsero ad un bar piuttosto fuori dalla zona di Brooklyn.
All’entrata c’era questa luminosa quanto vecchia , luce al neon, con mancante delle lettere ma che comunque ci si poteva arrivare.
“Benny’s”
Nome pittoresco, pensò Donovan.
-Qui vendono il miglior burbon della città.- fece Sam scendendo dalla macchina.
Il tintinnio della porta avvisò il proprietario dei nuovi clienti, che come di consueto, lo faceva con un sorriso sulla labbra. Ma non quella volta. Il chiacchiericcio che è cosa normale per i luoghi pubblici, sparì quando quelle tre figure, vestite rigorosamente di nero o di altri abiti scuri, fecero il proprio ingresso nel locale.
Loro parvero non accorgersene, forse Donovan, che si stava domanda perché quel silenzio che si riserva solo ai morti, ma poi i conti tornarono. Sapeva dal principio chi erano quei due uomini che ad una prima occhiata potevano sembrare come tutti gli uomini regnanti sulla terra, con una normale famiglia, una casa normale ed un lavoro umile ma normale. Ma non per Sam e Alex. Non per loro due, che di mestiere facevano i killer.
Si sedettero ad un tavolo, distante dalla porta di entrata e immediatamente, come posarono i sederi su quelle poltrone che puzzavano di pelle, arrivò il proprietario, questa volta con il sorriso un po’ tirato, ma stampato su quella faccia rugosa cha si ritrovava.
-Cosa vi porto ragazzi?- chiese teso ma in tono gentile.
-Il solito- rispose Sam, senza nemmeno guardarlo in faccia, mentre era più interessato al paesaggio desolato del grande finestrone a destra.
-Ti starai chiedendo come mai, sembra un cimitero e non un bar.- il silenzio fu spezzato dalla voce cadenzata e con un accento strano, da Alex, che si stava rivolgendo verso Donovan. Il ragazzo moro annui e lo guardò incuriosito.
-Beh, questo è un bar di nostra proprietà, o meglio, di proprietà del clan.-
E così per l’ennesima volta, Alex si ritrovò a spiegare la storia dei bar e del clan.
Il bar all’esterno, di solito vicino la porta, aveva ritrattato una sorta di simbolo, che fungeva da riconoscimento di proprietà. Era normale non farci caso se non si veniva fatto notare, lo sarebbe stato se si fosse notato subito. Il simbolo del loro clan di appartenenza, una sorta di clan mafiosi ovviamente, ma quella parola non veniva mai menzionata, ne in privato e ne tanto meno in pubblico, sembrava spaventarli, dare l’idea agli altri di essere mostri assassini assetati di sangue. Ma loro non erano come i mafiosi italiani, loro erano un’altra specie. Molti di loro, un esempio riguardava sia Sam che Alex, venivano assunti da uomini, di solito in giacca e cravatta, per uccidere e quindi si trasformavano in sicari oppure si occupavano di comprare e poi rivendere la droga, o ancora del traffico di armi, ma mai del smaltimento dei rifiuti, quello voleva dire, essere veri e propri mafiosi. Poi controllavano le zone e con essi, i bar o i negozi, li affittava e  i proprietari pagavano il riscatto.
-Non è il pizzo?- domandò Donovan.
-Se lo fosse non ci sarebbe il riscatto. Vedila come una sorta di affitto di casa o di negozio, alla fine uno che fa? Paga l’affitto per non essere cacciato. La sola differenza è che avvolte chiediamo a questi bar, di scrivere delle cifre, che non hanno guadagnato, ma che devono tenercele per conto nostro, solo per poco tempo.- spiegò Sam, mentre finiva il suo terzo bicchiere di Bourbon.
-Capisco.- rispose il ragazzo ma poi continuò –e oggi siamo qui, perché immagino dobbiate riscuotere.-
-Bravo, sei molto sveglio, questa è una dote fondamentale se vuoi fare questo lavoro.- rispose Alex, mentre beveva l’ultima goccia e andava verso il proprietario, che in quel momento era diventato più bianco del solito.
Alex vestiva sempre di nero, ma se c’era una cosa che odiava era quella giacca di pelle che doveva indossare perché sopra, c’era cucita questa grande toppa rappresentante una faccia di lupo, con zanne affilate che usciva da un cerchio fatto di pistole.
Si sedette sullo sgabello e rivolse il suo sguardo al tavolo dove sedeva poco prima, lanciando di volta in volta, un occhiata anche agli altri tavoli. Riconosceva nella faccia di quegli uomini i clienti abituali, c’era di fatto Lenny che se ne stava a bere birra dalla mattina alla sera, cosa che aveva cominciato a fare da quando era uscito di galera, ovvero più di tre anni addietro, però gli era di grande aiuto per quanto ricordava gli avvertimenti verso i nemici. Al tavolo di fianco a quello di Lenny c’erano Stanis e Alfred che se la litigavano per una partita persa con le carte dove uno accusava l’altro di aver barato. La sua espressione cambiò quando i suoi occhi si posarono su quello che sembrava un nuovo cliente, troppo sulla difensiva per essere uno che se la stava godendo in quel momento, sembrava quasi che dovesse schizzare fuori da un momento all’altro.
-Chi è quell’uomo Frederich?- chiese Alex, distogliendo per un attimo gli occhi dall’uomo vestito di nero.
Frederich capì al volo l’uomo, tant’è che non ebbe nemmeno bisogno di guardare nella direzione dello sconosciuto.
-È entrato questa mattina ed è li da un po’, ma mi dispiace, non so minimamente chi sia.-
Alex fece si con la testa e poi un'altra domanda fece capolino nella sua testa.
-Ha pagato?-
-Si ed in contanti anche.-
Un uomo misterioso, l’unico che indossava un cappotto nero di panno e non una camicia da boscaiolo li dentro, un uomo che non faceva parte del suo clan e che per di più aveva già saldato il suo conto e lo aveva fatto in contanti. Si, doveva per forza essere qualcuno pagato per spiare Alex e Sam. E sapeva anche, ci avrebbe messo la mano sul fuoco, che quell’uomo faceva parte del clan di Patrick, i Dumbster.
-Cambiando discorso, il pacco è pronto?-
Con l’espressione “ il pacco è pronto” ovviamente si intendevano i soldi, la paga, insomma l’affitto, quello per cui Alex e co, erano li, in pieno giorno.
I due si guardarono per pochi istanti e poi il vecchio rassegnato si avvicinò alla cassa, estraendo poi da essa, una busta chiusa color senape.
La diede ad Alex e quest’ultimo la nascose nella tasca interna del giaccone di pelle. Diede un ultimo saluto a l’uomo e poi si avvicinò al resto della sua compagnia. Mentre il barista riprese a pulire con un panno bianco i bicchieri per le pinte.
Intanto Sam era arrivato a bere cinque bicchieri di Bourbon mentre Donovan era assorto nel guardare fuori dalla grande finestra. Alex ancora una volta si chiese cosa ci facesse quel ragazzo li, cosa c’entrasse lui in quella vita, fatta di violenza e sangue. Uno apposto, un ragazzo così per bene. In che casini si era andato a cacciare?
-Andiamo, il vecchio ha saldato il conto e qui dentro c’è compagnia che non mi piace.-
Dicendo quelle parole guardò dritto negli occhi di Sam, che si fecero subito comprensivi. Il biondino si alzò e si rimise il giaccone che aveva poggiato in precedenza sullo schienale della poltroncina mentre diedi un calcio leggero da sotto il tavolo, sul piede di Donovan, per farlo svegliare da quell’intorpidimento di cui era protagonista.
-Andiamo bello, forza su.-
Detto quello lasciarono il locale, non prima di aver regalato un sorriso e un saluto, all’uomo vestito di nero in fondo al locale, che parve improvvisamente sbigottito da quel saluto.
-L’uomo è quel che penso…russo?- chiese Sam mentre si avvicinavano alla macchina, parcheggiata a qualche isolato di distanza.
-Si, che cogline. Pensava forse che non ce ne saremmo accorti?-
Mentre loro due parlavano e inveivano su l’uomo, deridendolo anche, Donovan era in uno stato confusionario e per la millesima ed una volta, si chiese cosa ci facesse tra quei due, ma si chiese soprattutto cosa sarebbe diventato. Un pazzo psicopatico come il biondino dagli occhi catrame oppure un apatico come il russo? In entrambi i casi, quella realtà fatta di intimidazioni, non gli stava poi così tanto simpatica. E pensare che voleva fare l’anarchico lui.
-Sam, dammi le chiavi.-
Sentire la voce di Alex lo fece ancora una volta, tornare a dove si trovava.
-Perché? Ti ricordo che la macchina è la mia.- rispose Sam con il suo solito tono da bambino viziato.
-Sei ubriaco e non possiamo permetterci di farci prendere dalla polizia. Abbiamo un lavoro da svolgere.- rispose Alex con la sua solita compostezza, che faceva ogni volta, mandare in bestia Sam. Soprattutto, come ora, quando la usava insieme alla
-Sam è un ordine. Dammi quelle dannatissime chiavi.- ancora niente rabbia solo e sempre calma.
Si guardarono per un attimo e poi Sam cedette le chiavi e con esso anche la vittoria.
Entrarono e Alex, quando si furono accomodati, accese il motore e partì.
 
-Abbiamo compagnia, amico.-
Certamente l’uomo di poco prima e per capirlo non ci voleva un fottuto genio.
-Dio che coglione. Gliel’ abbiamo pure fatto capire che sapevamo della sua presenza, ma lui è troppo coglione evidentemente, per afferrare questo semplicissimo concetto.- era stato ancora Sam a parlare che aveva portato i sue grandi occhi, verso lo specchietto retrovisore.
Alex sorrise nel sentire i rimproveri dell’amico sapendo anche che lui avrebbe tanto voluto, adottare altri provvedimenti in merito di lasciare messaggi.
Ma sapeva bene che per sbarazzarsi dell’uomo, ci voleva un solo modo, usare la violenza.
-Lo sai cosa si dice dei pazzi, Sam?-
Si guardarono e si sorrisero all’unisono.
Ma non era uno di quei sorrisi di divertimento, era un sorriso gelido senza ironia, almeno la loro di ironia.
-No, Alex cosa si dice dei pazzi?-
-Che debbono essere sempre accontentati.-
Detto questo sterzò a destra entrando in un vicolo che di notte era poco raccomandabile per le ragazze che giravano da sole. Uno di quei vicoli della periferia dove ogni sera, si consumavano ingenti quantità di droga.
Poi verificarono se il tizio dietro di loro li stesse seguendo e a quanto pare, era stato davvero tanto stupido da farlo.
Il piano consisteva di portarlo in uno dei loro garage dove la gente faceva finta che non esistessero.
-Donovan, a quanto pare, assisterai ad un concerto anche prima della data stabilita. Sei contento, ragazzo?- Sam si rivolse al ragazzo che dietro di loro, assisteva allibito ed interessato alla scena. In un certo senso, in cuor suo sapeva cosa sarebbe accaduto a quell’uomo che si era messo di mezzo tra i due ragazzi ma non voleva accettarlo, per lui tutte le vite, erano un dono prezioso ma poi si ricordava per quale motivo si trovasse li e allora tutto cambiava. La morte diventava cosa buona e giusta, e nello stesso tempo la violenza veniva giustificata. Come era quel detto?
Ah già:
 
Il fine giustifica i mezzi.
 
-Contento, Sam. Contento.-
Dal canto suo, il biondino sorrise e i suoi occhi si accesero di una luce sinistra.
Che avesse già in mente il modo più doloroso per mandare all’altro modo, il coglione?

Spazio Autrice
Ecco a voi il terzo capitolo :)
Fatemi sapere se vi piace <3
Alla prossima

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4





-Due caffè al tavolo 4, Sally!-

Era il suo ultimo turno e questo voleva dire che sarebbe tornata a casa tra un ora circa.

Il sabato sera il locale era quasi sempre pieno di gente, che consumava il proprio appuntamento parlando del più e del meno giusto per conoscersi oppure di gente che aspettava l'apertura della discoteca e quindi nel frattempo, entrava nella caffetteria ordinava un caffe, avvolte due, e aspettava trepidante di eccitazione per la conquista della notte. E lo vedevi seduto che scherzava con l'amico fidato su come sarebbe stata la ragazza, sulle forme del corpo di lei, dando poi dei consigli, quasi sempre fasulli, su come accaparrarsela tra tanti sudaticci e insaziabili uomini, che mentre ballavano la circondavano come se avessero paura che scappasse o andasse chi sa dove, quando lei era nata per fare quello e per stare li, ad essere ammirata da quegli uomini malati di un male incurabile: il maschilismo.

In un attimo però si rivide a diciotto anni a fare la stessa identica cosa della ragazza, che come lei, lo faceva sempre e solo per essere ammirata. Per farsi guardare, per voler far credere a quegli uomini che sarebbe stata loro e per un secondo, un dannatissimo di quel fottuto secondo, si sentiva amata e desiderata , ma poi li guardava e non trovava in nessuno dei loro occhi famelici e lussuriosi, qualcosa per cui valesse davvero la pena amare o solo condividere. Erano tutti li per lei ma allo stesso tempo erano lontani da lei, solo vicini al suo corpo. Niente anima, solo corpo. Allora si malediceva e se ne andava. Poi di punto in bianco aveva smesso, aveva mandato a fanculo quella vita insignificante e povera. Quando Chris gli aveva chiesto se volesse venire a quella maledetta serata, lei aveva accettato perché in cuor suo sperava di rivedere l'uomo dagli occhi di ghiaccio, era quello il motivo principale, non ce ne erano degli altri e poi comprare dell'erba e fumarla. Solo erba, non sarebbe mai più cascata nell'obblio della dipendenza. Era un errore che mai e poi mai avrebbe rifatto, in fondo lo aveva promesso a se stessa.

Guardò per un attimo sullo schermo del suo cellulare che ora fossero, quando si accorse di aver ricevuto un messaggio.

Da: Chris
Allora, questa sera sei sempre dei nostri? Non è che hai cambiato idea, vero?!

Dio non si era ricordata che quel sabato sera, era questo sabato sera.

Guardò per un attimo quei ragazzi, quelli della discoteca e urlò loro:
–Ehi, a che ora apre...- cercò di fare appello alla sua memoria per ricordare quale fosse il nome della discoteca e poi apparve finalmente un nome -...l'Elephant?-

Il ragazzo dai capelli biondo cenere prima di rispondergli la guardò, o meglio, studiò la sua formosità. Dal canto suo, Hazel alzò gli occhi al cielo, odiando e detestando quel genere di atteggiamento.
-Allora che c'è? Hai forse perso le parole?-
Il ragazzo sembrò non essere minato minimamente nell'orgoglio da quella affermazione dispregiativa anzi, mise su un sorrisetto strafottente.
-Sei vuoi ti ci accompagniamo noi, è proprio dove dovevamo andare questa sera.-
-Ma Carl, avevi detto che saremmo andati al Los Santos.-
-Sta zitto coglione!-

Ma ad Hazel quel comportamento immaturo non interessava affatto, nemmeno ci badava.
Quindi li riportò sui binari giusti.
-Allora Carl?! A che ora apre quella maledettissima discoteca?-

Carl rosso in viso rispose –A 00:00 come tutte le discoteche, tesoro!- ed ecco tornato il ragazzo strafottente di sempre.
La ragazza però, aveva altri problemi a cui pensare, come per esempio arrivare puntuale all'appuntamento e non far restare male il suo unico e migliore amico.

Così marciò dritta da John che in quel momento si stava occupando di preparare i cornetti per il giorno successivo, mentre Sally, con il vassoio contenente i due caffè, si avvicinava a due ragazzi che parlavano tra di loro fittamente dal minuto in cui avevano messo piede nel Diner.
-Cosa c'è Haz?-
Fu John a precederla, dettato dalla conoscenza dei suoi polli.
-Mi devi un favore...te lo ricordi?-

John ricordava tutto, nonostante l'età che era quel che era, lui ricordava tutto.
E sapeva che la ragazza si riferiva ad un episodio accaduto qualche sera fa, quando l'uomo aveva chiesto ad Hazel di poter chiudere il Diner, "solo per questa volta" aveva detto, aggiungendo poi "in cambio potrai chiedermi qualsiasi cosa", perché sapeva bene che quel favore non era stato remunerato come di dovere, su volere anche della cameriera.
-Cosa ti serve, dolce ragazza?- chiese nuovamente l'uomo.

-Tecnicamente dovrei uscire tra un'ora...però mi sono appena ricordata di un impegno...e quindi mi chiedevo...cioè insomma...se mi fareste uscire prima- lo aveva detto tutto di un fiato e adesso aspettava con ansia, la risposta che avrebbe dato il suo superiore. Certo era, che faceva ridere sentire la sua voce così tremendamente insicura ed usando pure il lei. Dio che razza di figura del cazzo che stava facendo!

Intanto John aveva finito con quei cornetti e stava valutando la situazione. Hazel non chiedeva mai favori e ne rinfacciava qualcosa che sapeva bene essere finita nel dimenticatoio per lei, soprattutto se si trattava di farlo verso amici o persone che conosceva da tanto tempo. Così, se la ragazza aveva chiesto un favore perché non concederglielo?

-Va bene. Tanto c'è Sally che mi aiuterà.- detto questo regalò un sorriso gentile alla giovane e si incamminò verso il bancone, pronto a prendere il suo posto. 

La ragazza invece, andò dritta agli spogliatoio cambiandosi alla velocità della luce, intimorendo persino il super eroe Flash.

-John io vado. Grazie ancora per il permesso!-
E fu subito fuori, mentre uno strano vento invernale si alzava dalla strada buia.
Non era ancora nemmeno arrivato ottobre, e già si prevedeva un inverno rigido!
Non fu di certo un po' di venticello freddo a far fermare la caparbietà di Hazel, anzi, spinta dalla paura (anche se non lo avrebbe mai ammesso a se stessa) di girare per quelle strade solitarie e poco illuminate, cominciò a correre, sperando di vedere all'orizzonte la fermata del pullman, l'ultimo della sera.

Ci arrivò dopo dieci minuti, un record per lei e poi guardò finalmente l'orologio.

22:10

Quindi tecnicamente il pullman doveva arrivare a momenti.

Fu in quel preciso istante che si maledisse, di non aver mai avuto tempo e denaro, per entrare in una qualsiasi autoscuola della regione e prendere quella dannatissima patente. Ormai sarebbe stata a casa già da un pezzo e invece, doveva aspettare sotto un lampione che ricordava solo nitidamente la luce del sole, forse anche più accecante degli stessi raggi, quel maledetto maleodorante e vecchio pullman newyorchese.

Dei fari blu la costrinsero a coprirsi gli occhi con una mano.
Era finalmente arrivato e lei si accinse ad entrare, non prima di aver pagato il biglietto.

Si sedette sul sedile della penultima fila, mentre si accomodò dalla parte del finestrino e poggiò nel sedile di lato la borsa per renderlo libero fino alla sua fermata. Non voleva che nessuno si sedesse di fianco a lei. Era una delle sue tante paranoie, dettate dalla poco mancanza di fiducia nel genere maschile, solo maschile. Lei, da femminista più che convinta, era stata per un bel pezzo di tempo anche gay. Non che tutte le ragazze femministe fossero gay, ma semplicemente perché a lei piace sperimentare sempre cose nuove, sentire quella felicità che ti pervade il corpo e che accade solo quando non si conoscono fino in fondo le cose. Ecco la cosa che più le piaceva fare, perché la parte più bella anche di una storia, è la parte iniziale, quella che ti fa conoscere giorno per giorno una persona, e nell'altrettanto momento, te la fa amare per i suoi difetti, per i suoi pregi ma anche per il suo passato e per quei sogni ad occhi aperti di cui parla incessantemente, con gli occhi che brillano di eccitazione e speranza, e che inevitabilmente diventano anche tuoi.

C'era stato una sola volta, nel suo passato remoto, che aveva provato quelle sensazione. Lei si chiamava Claire, e Claire era bellissima, con quei suoi capelli rossi e le lentiggini disseminate per tutto il suo corpo bianco e smunto. Si erano conosciute ad un concerto rock, eppure ricordava ancora oggi, perfino in quel momento, seduta sul quel sedile giallo pallido, ricordava ogni momento bello o brutto passato insieme a lei e non c'era nostalgia o malinconia nei suoi ricordi, ormai per lei Claire è diventata un tatuaggio scolorito. La loro storia era durata solo sette mesi ma Hazel, che era abituata a stancarsi subito di quelle cose nuove quando ormai le aveva conosciute a fondo, non si era mai stancata di stare con lei, mai, neppure un minuto. Spesso si era interrogata su che cosa fosse realmente l'amore. Eppure era arrivata lei e stava bene. Ma come era arrivata se ne era anche andata, nonostante questo, lei non la odiava, non l'aveva mai fatto.

L'altra eccezione era rappresentata dal suo migliore amico Chris ormai suo inquilino e confidente, l'unico di cui si fidasse come le sue tasche.
Poi non c'era più niente, oltre ai suoi capelli blu.
Si accorse a momenti che stava per passare la sua fermata, che fortunatamente si trovava proprio sotto il palazzo dove abitava.
Chiamò la fermata e l'autista, con i capelli bianchi e le rughe disseminate lungo il viso, grugnì prima di aprire la porta.
Uscì di fretta e altrettanto velocemente percorse le strisce pedonali che dividevano il suo marciapiede da quello della fermata.

La casa, un mono locale composto da cinque stanze compreso di soggiorno, si trovava nella periferia più lontana dal centro di Brooklyn, dove non si dividevano solo le mura ma anche le finestre. La porta di ingresso dava direttamente sul soggiorno e quindi per andare nella sua stanza, doveva attraversarlo.

Il disordine era predominante in quella stanza.
Letto disfatto dalle lenzuola bianco sporco ruvide e armadio ad ante scorrevoli strapieno di vestiti messi alla rinfusa. Solo lei sapeva districarsi e muoversi in mezzo a quel casino.
Si lavò molto velocemente e altrettanto velocemente indosso una gonna nera a tubino in finta pelle che gli fasciava i fianchi e indosso un top molto corto e a dir poco striminzito, che gli lasciava la pancia piatta scoperta. Poi prese il cappotto e le scarpe con il tacco e fu fuori, mentre aspettava l'amico arrivare con la sua utilitaria grigia.
Finalmente arrivò, puntuale come sempre, e i due si incamminarono verso la discoteca.
Quando arrivarono, il ragazzo attento a non graffiare il suo gioiellino, parcheggio vicino ad una macchina rosso fuoco, una cinquecento per la verità.
-Ricorda il posto, perché forse questa sera sarai tu a riportarmi qui. Sarò troppo ubriaco anche per camminare.-
Hazel sorrise al ricordo dell'amico ubriaco che non aveva intenzione di smettere di parlare.
-Già, ma per me e per le mie orecchie, sarebbe meglio che non parlassi.-
-Smettila di rinfacciarmi l'unica volta che mi hai visto ubriaco.-
-Fortunatamente per me.- rispose e uscirono dalla macchina mentre il ragazzo, falsamente offeso da quello che l'amica gli aveva detto, chiuse la macchina.
-Ti offrirei il braccio da bravo gentiluomo quale sono ma se lo facessi, non rimorchierei nessuno.-

Chris era gay dichiarato e a dire la verità, conquistava più cuori lui che un playboy di provincia. Era brillante e simpatico, ma nonostante fosse un tipo, non uno stramaledetto ragazzo che ti facesse mozzare il fiato per la bellezza, lui riusciva lo stesso a farcela. Il problema però, era la mancanza di volontà ad avere una storia solida e duratura. Forse c'entrava il fatto che sua madre lo aveva abbandonato a se stesso da adolescente, quando stava imparando a scoprire lentamente chi fosse il vero Chris oppure che il padre era sempre troppo impegnato con il lavoro, o forse perché semplicemente non aveva ancora incontrato la persona giusta; egli preferiva le botte e via al "e vissero per sempre felici e contenti". Ma anche Hazel, al solo suono di quelle parole, le saliva su un prurito da paura.

Mentre, in fila indiana, attendevano il loro turno per poter entrare nella discoteca al freddo della notte, potevano sentire il rumore di quella che veniva chiamata musica.
Dietro di loro due ragazzine parlottavano allegramente tra di loro, soprattutto di quanto i ragazzi alle loro spalle, fossero carini. Sorrise nel ripensare a quando anche lei aveva la loro stessa età. Non avevano più di 18 anni e nella discoteca ci sarebbero entrate sicuramente con un documento più falso dei soldi del monopoli. Erano così ingenue ma allo stesso tempo dannatamente sfrontate che per un attimo Hazel provò invidia per loro e per la loro giovane età, ovviamente.
La fila si muoveva al ritmo di quella musica rumorosa e assordante.

In lei stava nascendo una strana agitazione. Il riscoprire quella vita la terrorizzava e intimoriva, non ci entrava più da un po', dal giorno in cui era entrata in riabilitazione e poi aveva promesso a se stessa che non sarebbe accaduto mai più. Adesso la cosa che la spaventava non era tanto la droga o l'alcol, ma era quel mondo animale, il vampiro sempre pronto a mietere vittime per i suoi oscuri desideri.
Chris la guardò per un istante, tanto da accorgersi dei sentimenti che trasparivano su quei lineamenti da quindicenne su un corpo da venticinquenne.
-Andrà tutto bene.-
Ma non parve rassicurarsi quindi continuò.
-Ehi facciamo così. Se qualcosa dovesse andare storto o meglio, se non te la senti, basta che me lo dici e ce ne andremo.-
La ragazza fece si con la testa mentre un leggero sorriso le si accese sul viso.

Era tutto come se lo ricordava. Era tutto stampato nella sua mente: il bancone strapieno di gente che beveva, che offriva da bere, che si dimenava sulla pista da ballo mentre con presunzione, si addossava alla ragazza la cui unica sfortuna era stata mettere una gonna e della calze.

Si sentì svenire mentre una forza dentro di lei, forse il super io, le diceva di affrontare quella tormenta e uscirne immune, fortificata.
Fece qualche passo verso il bancone e chiese del whisky.
-Che cosa ci fa una ragazza così bella tutta sola?- ecco il playboy della serata, quello che era entrato li non per ballare, stare con gli amici o ubriacarsi fino ad andare in come etilico, no perché se era li era per rimorchiare e quindi di conseguenza inzuppare il suo biscotto in uno dei tanti caffè presenti in sala. Pensare che un tempo l'avrebbe accettato, che ci sarebbe stata senza ripensamenti. Un tempo lontano, quando tutto gridava odio e disprezzo.
-Beve.- detto questo si allontanò non aveva voglia ne di starlo a sentire e ne di assecondarlo con la sua pazzia.

Decise quindi di trovare un tavolo libero, sedersi e rimanere li per tutta la sera.
Prese il suo bicchiere a andò alla disperata ricerca di quel tavolino.
Dopo una manciata di minuti e dopo aver sopportato con poco pazienza gli sguardi del pater maschile, trovò un tavolino su cui non era seduto nessuno allo scuro e lontano da quel mondo fittizio. 
Trascorse un ora a guardare i protagonisti di quella favola bizzarra e a ridere nel vedere alcuni ballare in un modo tutto loro. Poi si alzò per andare in bagno.

Si districò tra rami fatti di braccia sudaticce, corpi caldi, sguardi frivoli e parole urlate, ma che risultavano silenziose sotto quella musica assordante. Finalmente giunse alla sua meta. Spinse la porta ed entrò.

Il silenzio li la faceva da padrone, accompagnato solo dal ronzio sommesso di quella che doveva essere la ventola del riscaldamento. Non ci badò e raggiunse una delle porte della toilette. 4 porte bianche. Scelse la prima e richiuse la porta, dimenticandosi però, di chiuderla a chiave. Uno dei difetti che si portava dietro era quell'ingenuità che nonostante tutto quello che avesse passato, non si era allontanata da lei.

Sentì il rumore della porta principale aprirsi e delle voci maschili rompere il silenzio.

Inizialmente pensò di aver sbagliato bagno ma poi guardandosi attorno, realizzò che quello non sembrava per niente essere il bagno dei ragazzi, c'era il cestino per gli assorbenti vicino al water.
A sbagliare allora erano stati gli uomini li fuori. Quando stava per aprire la porta, la voce di uno dei tanti uomini (perché le voci parevano essere multiple e di diverso timbro), le ghiacciò il sangue nelle vene.
Si avvicinò alla porta poggiandogli poi un orecchio e stette in silenzio ad aspettare che gli uomini parlassero o meglio, riprendessero a parlare. Non aveva il coraggio nemmeno di respirare. Pensava che se lo avesse fatto avrebbe creato del rumore e l'avrebbe poi così scoperta, e allora chi sa cosa gli avrebbero fatto dopo.

-Abbiamo un altro compito per te.-

Silenzio. Poi un bisbiglio che non arrivò alle sue orecchi e poi di nuovo il silenzio.

Non sapeva cosa le stesse succedendo ma uno strano moto di paura misto a terrore si stava espandendo nelle vene andando a macchiare il sangue.
Non riusciva a capire da cosa provenisse quell'assurda paura, forse lo sapeva e faceva solo finta di non vedere, di pensare il meglio di quegli uomini e di aver capito male le parole dette da uno di quegli uomini.
Nella sua mente apparvero tante intuizioni, tante domande e poche risposte, sempre le stesse "non sta capitando a me, sto solo sognando".


***


Alex aveva incontrato lo scozzese fuori dalla discoteca, di sua appartenenza e di conseguenza, di appartenenza al club.
In quel momento si trovavano nel bagno delle donne, chiuso precedentemente al pubblico e a detta dell'uomo, sicuro e al riparo da occhi indiscreti.
Era a lui che il generale affidava il compito di impartire i vari compiti tra gli uomini del club e ad Alex non rimaneva che obbedire e portare il suo lavoro al meglio, cosa che gli veniva facile quando il suo braccio destro altri non era che un pazzo intelligente come Sam.
-Di che si tratta?-
Non avevano perso tempo, erano fatti così; loro arrivavano diritti al punto e non ci giravano mai intorno.
-Un altro uomo. Crediamo che c'entri con la sparatoria dell'altro giorno al bar qui dietro.-
Il bar di loro proprietà, come tutta la contrada era sotto il loro controllo, sotto il loro potere.
-Okay ci andremo io e Sam.- stavano per andarsene quando l'uomo li fermò.
-E quello nuovo.-
Alex si girò di nuovo verso Clay, ma fu il suo compagno a precederlo.
-Non se ne parla, non è ancora pronto. È con noi da meno di una settimana.-
L'uomo non parve prendersela per il tono aspro usato da Sam e rispose con un alzata di spalle.
-Adesso andiamo, la gente comincerà a pensare male e a cambiare discoteca solo perché non hanno un posto in cui scopare come furetti.-

I tre risero e uscirono da li, seguiti dagli uomini di Clay che si portava come protezione sempre dietro.
-Rimanete ragazzi?-
I due si guardarono e l'uno lesse nei pensieri dell'altro.
-Passiamo per questa sera.- e salutato l'uomo uscirono da quella baraonda e confusione.

Alex odiava quel posto, più di suo padre.
Non seppe perché di quel gesto ma si ritrovò a girare la testa alle sue spalle, alla calca e alla gente appiccicata, addossata l'una su l'altra.

Ma in mezzo a quel trambusto, a quella confusione, vide una ragazza dai capelli blu, la stessa forse che qualche sera addietro si era ritrovata noncurante ad attraversare la strada, che stava per ammazzare.

Appariva trapelata quasi impaurita. Forse pensò, qualcuno aveva provato a baciarla e lei aveva rifiutato perché si vedeva che era una tipa apposto, non una di quelle troiette del cazzo pronte ad appiccartisi addosso al primo istante. No, sembrava che qualcuno avesse provato a possederla con violenza e lei si fosse arrabbiata e avesse combattuto per la sua dignità, uscendone vincitrice.
In quell'istante avrebbe tanto voluto andarle incontro e congratularsi con lei, per la donna coraggiosa e forte che era.
Ma la verità era che quella ragazza dai capelli blu e dalla pelle diafana si chiamava Hazel e aveva ascoltato tutto quello che si erano detti, lui, Clay e Sam.


Spazio Autrice
Ecco a voi anche il quarto capitolo!
Vorrei ringraziare quelle due persone splendide che hanno recensito la storia che sono rispettivamente: Kaname97 e Celtica.
Di nuovo vi ringrazio per aver aggiunto la storia tra le seguite e devo ringraziare a questo proposito anche uadjet.
Poi ringrazio tutti i lettori che non si fanno sentire ma che ci sono.
Vi ringrazio molto!
Alla prossima e già che ci siamo, vi inserisco un pezzetto dell'estratto del prossimo capitolo.

DAl PROSSIMO CAPITOLO...

"-Non te l'ha detto nessuno che è buona educazione rispondere alle domande che gli altri ti pongono?- ancora con quel ghigno stampato su quella faccia da angelo. 
Non sapeva bene dove, forse era nascosto tra le piaghe del suo cervello, ma riuscì a ridestarsi e a trovare quel maledetto coraggio di spiccicare almeno un si o un no.
-Pensavo che...-
Non gli diede il tempo di finire la frase, che intervenne con una sommessa risatina isterica e poi riprese a parlare.
-Tu non devi pensare. Tu fai quello che ti dico io.- il tono era diventato duro.
Le mise le mani sulle spalle e poi la girò di schiena."

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5







Non si pensa mai all'effettiva esistenza di alcune persone fino a quando non ti imbatti in esse.
Vederle alla televisione, sentir parlare di loro ai notiziari è sentirle lontane.
Ma quando le vedi e le senti con i tuoi occhi e le tue orecchie, allora tutto sembra divenire così reale.

Capisci che hai vissuto fin a quel momento in uno stato di fanciullezza, come i bambini che non riconosco chi è il cattivo e chi è veramente il buono.

Ci pensava continuamente, quando andava a dormire, quando entrava in un negozio, quando prendeva il pullman e guardava distratta la strada che assumeva le sembianze di quegli uomini e quando andava a lavoro. Era diventata d'un tratto troppo silenziosa.

La cosa che rodeva dentro di lei non era l'aver incontrato quegli uomini,ben sì, l'omertà di cui si era vestita. Ma non sapeva nemmeno da dove poter cominciare, quelli erano uomini esperti. Quindi cercò in qualche modo di dimenticarli uscendo più spesso, magari il venerdì sera a bere una birra con gli amici. Sembrò funzionare per un po', fino a quando un giorno, mentre stava prendendo l'ordinazione ad un tavolo, lo rivide entrare, con la sua andatura calma e posata, le mani nelle tasche del giaccone grigio scuro e i capelli marroni tirati all'indietro. Con la sua spavalderia a seguirlo come un cagnolino.

Lui sembrò però non riconoscerla, mentre lei si ritrovò a fare i conti con la sua coscienza.

Era il suo uomo.

L'uomo del tavolo e l'uomo del bagno. Lo stesso uomo di cui non sapeva nemmeno il nome o dove abitasse, lo stesso uomo che per giorni aveva invaso e distrutto la sua mente.

-Cerco John.- esordì guardandola dritta negli occhi, come se non avesse paura di niente e di nessuno, con il suo accento straniero. Di nuovo quegli occhi blu, profondi e piatti.
-Te lo vado a chiamare.- mentre rispose il campanello trillo e fece la sua entrata un altro uomo, un ragazzo che non poteva avere più di venti anni, biondo e riccio, occhi neri come la pece, sguardo da psicopatico. Seguito da un altro ragazzo delle stessa età con la sola differenza che superava di almeno due spanne il primo e con occhi dolci color caramello.

Sembravano stare a loro agio in quel locale, come se fossero loro i reali padroni e non quel poveraccio di John...
A proposito di John doveva avvisarlo subito.
Si recò così nella mensa dove trovò l'uomo che puliva una pistola.

Fece un passo indietro impercettibilmente, ma fu qualcosa di cui non poté farne a meno.
Era spaventata e allarmata da quella visione. Non avrebbe mai potuto immaginare neanche lontanamente, che anche John fosse un uomo di quelli che avevano con se pistole o fucili solo per l'apparente sicurezza personale.

Accortasi della presenza della ragazza, si girò nella sua direzione tendendo stretta ancora tra le mani quel pezzo di ferro.

Si scrutarono per vari minuti mentre Hazel si riprendeva da quello stato di intorpidimento, lentamente.

- Ci sono tre uomini che ti stanno cercando. Penso che quella ti servirà.- disse indicando la pistola nelle mani dell'uomo. Quest'ultimo prima guardò l'arma e di seguito la porta.

Uscirono insieme da lì, ovviamente con la pistola nascosta nel retro dei pantaloni di John.
-Mio carissimo amico John!- con un gesto teatrale, allargando le braccia come per ricevere un abbraccio, il biondino si alzò.

-Che cosa vuoi, Alexander?John sembrò però rivolgersi a l'altro uomo, a quello che era entrato per primo, a quello che aveva invaso i suoi pensieri per molti, molti giorni.
L'uomo allora cominciò nella sua testa, a prendere una reale consistenza. Ora sapeva il suo nome, oltre al fatto che fosse un criminale.

Alexander.

-Ci serve un favore.- rispose lui indifferente alla punta di fastidio che trapelava nella voce e nell'atteggiamento di John.
-...-
-John caro lo sai benissimo che è meglio assecondarci, perché altrimenti...- fu il biondino a continuare e ad reinserirsi nel discorso, mentre con quei suoi occhi neri trafiggeva John con un solo sguardo.

Dei brividi di freddo percorsero su tutta la pelle di Hazel e non era stato lo spiffero di aria fredda che si insinua tra le ante della porta, come spesso succedeva quando un cliente non chiudeva bene la porta. 
No, quelli erano brividi di un freddo diverso.

Di nuovo la paura.

Paura provata guardando quegli occhi, così tetri, che risplendevano di luce propria, di una propria luce oscura e di follia.

Deglutì e sperò che nessuno se ne accorgesse, che nessuno badasse al suo cuore che stava impazzendo, che batteva forte tanto da staccarsi nel petto.

-Non mi interessano le tue minacce e non mi interessa nemmeno del favore che devo farvi. Io non vi devo un bel niente!

Non aveva mai visto John così adirato. Aveva urlato quelle parole con disprezzo e con il fuoco negli occhi. Di tutta risposta i due uomini dapprima si guardarono in faccia regalandosi uno sguardo di intesa e poi il biondo si alzò e cominciò a passeggiare di qua e di la per il locale, fino ad arrivare al grande acquario che fungeva da pezzo di arredamento del locale.
Picchietto due tre volte sul vetro per attirare l'attenzione dei pesciolini che ignari di quello che stava per accadere, nuotavano felici anche se in gabbia.

-Che bello questo acquario.-

Poi si interruppe dal picchiettare sul vetro ed estrasse un oggetto che Hazel non riusciva a vedere bene, perché troppo lontana dalla sua posizione.  
Si girò verso John e con sarcasmo continuò –Chi sa quanto ti è costato stupido di un vecchio.- detto questo, con gli occhi e lo sguardo colmi di una profonda pazzia, ruppe il vetro.

L'acqua si riversò tutta sul pavimento inondando le scarpe di camoscio dell'uomo, mentre i pesci dalla pelle colorata, si dimenavano zampillando sul pavimento in cerca del loro di ossigeno e di un po' d'acqua.

Erano appena andati distrutti 2500 dollari e dalla faccia bianca come un lenzuolo di John, si evinceva tutta la sua frustrazione e tutto il suo rammarico.

Si passò una mano sulla fronte sudaticcia e si rivolse poi ad Hazel, che impietrita stava dritta vicino la porta che divideva la mensa dal bancone.

-Fa uscire tutti, non abbiamo bisogno di un altro spettacolo.

La ragazza non riusciva a parlare e quindi si limitò solo a fare un cenno di assenso, mentre svelta muoveva quei suoi piedini e cercava di ritrovare una certa compostezza per poter rassicurare e parlare con i pochi clienti che c'erano quella mattina.

Si avvicinò ai tavoli avendo su di se gli occhi del biondino, che con un ghigno poco umano, la osservava in ogni suo movimento.

Quando tutti se ne andarono e il locale rimase silenzioso, lei si avvicinò alla porta e girò il cartello, quello che avvertiva i visitatori, da aperto a chiuso.

Stava poi per prendere la giacca che sentì qualcuno toccargli il braccio.

Istintivamente ritrasse il braccio e alzò il viso, pronta a sferrare qualche pugno. 
Era il biondo che la guardava stranamente divertito.

Un moto di paura si impossessò del suo corpo, tanto da frenarla, da ghiacciare ogni cellula e particella del suo corpo.

-Dove pensi di andare ragazzina?

In quel momento non risultò il pazzo e sadico ragazzo che aveva fatto uscire pochi secondi prima, ma solo un bulletto di periferia, incazzato con i suoi genitori e con il mondo. Perfino la sua bellezza lo tradiva, lo faceva sembrare gentile e buono.
Era un essere enigmatico, lui, e sapeva bene di esserlo, così mischiava continuamente le carte mandandoti in continua confusione.
Non riuscì a rispondere, era ancora immobilizzata dalla paura, quella maledetta bastarda che in qualche modo ti fa sempre andare avanti, ma non quella volta.

-Non te l'ha detto nessuno che è buona educazione rispondere alle domande che gli altri ti pongono?- ancora con quel ghigno stampato su quella faccia da angelo. 
Non sapeva bene dove, forse era nascosto tra le piaghe del suo cervello, ma riuscì a ridestarsi e a trovare quel maledetto coraggio di spiccicare almeno un si o un no.
-Pensavo che...-
Non gli diede il tempo di finire la frase, che intervenne con una sommessa risatina isterica e poi riprese a parlare.
-Tu non devi pensare. Tu fai quello che ti dico io.
Il tono era diventato duro.
Le mise le mani sulle spalle e poi la girò di schiena.

Mentre nella testa di Hazel stavano passando mille stramaledette immagini di distruzione del suo corpo, compreso di stupro e di violazione di dignità, l'uomo la solo fece sedere su una di quelle poltrone vicino ai tavoli, mentre Sally, la sua collega, faceva lo stesso.

Le due si guardarono.
Su gli occhi dell'una e dell'altra traspariva terrore.
Su quelli di John invece, risentimento e rabbia, ma soprattutto impotenza ed infine rassegnazione.

Hazel avrebbe tanto voluto aiutarlo ma non sapeva bene come, anzi la verità era che non poteva aiutarlo. Quella era gente su cui non si poteva nemmeno fare una battuta fuori posto, perché con loro, si poteva morire con un semplice si e con un semplice no.

-Allora John, adesso ti è tornata la voglia di ascoltarci?-
Era sempre lui che dopo aver distrutto l'acquario, dopo averla spaventata a morte solo con la sua vicinanza ed era sempre lui che in quel momento aveva preso a beffeggiare il pover uomo, che vedendosi messo con le spalle al muro, si rassegnò a quello scherzo che la vita gli stava presentando.

Gli uomini volevano che John tenesse per una settimana, massimo due, delle casse che contenevano del thè molto speciale. Non ci voleva di certo un genio per capire che quello non doveva essere thè, perché uno non fa tutto quel casino, minaccia e distrugge solo per un po' di thè. Doveva essere qualcosa di grosso e di illegale.
Al solo pensiero di poter essere scoperta le fece comprimere ancora di più quello stomaco già chiuso dall'ansia.

Se ne andarono e i tre rimasti nel locale, lei, John e Sally, si guardarono per un lungo istante poi si alzarono e presero a fare quello che facevano normalmente, solo con un fardello bello grande e pesante sulle spalle.

Infine riaprirono il locale e la gente riprese ad entrare.



Note Autrice
Buon pomeriggio ragazza, come va?
Ecco a voi il quinto capitolo della storia. Spero che vi piaccia e magari che me lo diciate in un piccolo commentino, anche se non vi piace, magari scrivendo anche cosa non vi piace (?)
Non ho nient'altro da aggiungere so...alla prossima.
Un bacio! xoxo 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6




Dal giorno in cui quegli uomini erano entrati in quel locale, le cose per Hazel mutarono. No nel senso fisico o caratteriale, certo stava diventando sempre più silenziosa e pensierosa, ma era il suo animo ad essere cambiato. Sentiva che doveva fare qualcosa, sentiva che l'unica via per rimediare a quello che da sola non era riuscita a fare, era provare per la via della giustizia.
Andare dalla polizia però rappresentava un grande rischio. Ma questo sembrava non fermarla.

Così un lunedì mattina, particolarmente ventilato, si ritrovò a guardare la stazione di polizia e a trovare dentro di se il coraggio per aprire quella dannatissima porta, andare da un poliziotto e dire "degli stronzi hanno minacciato il mio datore di lavoro, degli stronzi che complottavano dell'omicidio di un uomo, in un sudicio bagno di una discoteca. Se volete posso dirvi il nome di uno di loro".

Era semplice, rischioso ma giusto.

Eppure qualcosa la frenava, e non si trattava della paura o del terrore di essere perseguitata e poi uccisa. C'entrava qualcos'altro. Qualcosa di cui non ne sapeva l'esistenza.

Il vento le faceva svolazzare i capelli che erano diventati verdi, i suoi occhi grigi scrutavano ma non guardavano veramente quello che aveva di fronte. Quel casermone di cemento. Il  vento gelido le trapassava il parka verde con le maniche in pelle, che aveva deciso di indossare quella mattina, ghiacciando la sua pelle, i muscoli e le ossa.

Cosa vuoi, Alexander?

Alexander.

Quel nome le risuonava in testa, gli rimbalzava come una pallina da ping-pong tra le pareti del cranio, si cicatrizzava sul cervello e non usciva più. Era sempre li, mentre  una macabra voglia di rivederlo, le si vestiva addosso. Non sapeva però, se volesse rivederlo perché aveva una voglia matta di sputargli addosso tutte le parolacce più brutte esistenti sulla faccia della terra, oppure perché voleva di nuovo guardarlo negli occhi, ne era famelicamente attratta, quel blu così intenso. In quei momenti si malediceva e facendo finta di andare in bagno, sbatteva delicatamente la testa sulla porta e si ripeteva che lo odiava, che doveva stargli alla larga, che era l'uomo più imperfetto, l'uomo più sbagliato sulla faccia della terra.
Ma tutte le volte che il suo affascinate viso si insinuava la notte in un sogno, mentre lo rivedeva con gli occhi chiusi e si materializzava li, come un fantasma senza anima accompagnato solo dal quel dolce e forte profumo. 

Non riusciva a darsi una spiegazione plausibile a quello che le stava accadendo, sapeva solo che era legato a quel qualcosa. 
Legato a  quel maledetto ricordo che non tornava alla mente, che la stava facendo impazzire. 
Ormai viveva per quello.

Ma ora eri lì, e di fronte aveva forse, l'unica salvezza verso la perduta sanità mentale.
Di fronte a lei aveva la caserma.
Di fronte a lei aveva la possibilità di aiutare John e mettere a tacere la sua coscienza.
Guardò un ultima volta la caserma e poi decise di entrare.
Mosse le gambe, attraversò la strada, tolse i capelli che gli erano andati sul viso e poggiò la mano sulla porta.
Si fermò improvvisamente.
I piedi le si bloccarono, la mano ferma aspettava ordini e i capelli non si mossero più per via del vento. Tutto parve fermarsi. Tutto parve muoversi al suono del suo cuore. Al suono ritmico e cadenzato del suo cuore che batteva rumoroso.
Si ridestò e ritirò la mano, poi si girò e scese gli scalini correndo. Non sapeva nemmeno lei perché si fosse fermata, ne era convinta ma poi aveva vacillato, e se l'era data a gambe.
Che stupida che era stata.

Credeva che la paura fosse rimasta li, a dormire nel suo cervello, ed invece l'aveva fregata un'altra volta.
Ma non aveva paura per la sua persona, ma per John e sua moglie, quei due erano troppo anziani per avere problemi di alcun tipo, voleva che vivessero i pochi anni che gli restavano in perfetta serenità.
Ma era davvero quella l'unica motivazione?
In fondo, in fondo non ci credeva neppure lei.

La sera aveva raccontato tutto a Chris che si era limitato ad alzare le spalle e a riassicurarla dicendo che lui avrebbe fatto lo stesso, se fosse stata al suo posto.
Andarono così a dormire, lei nella sua stanza e lui nella sua.

Il viso di un uomo.
 La percezione di un profumo intenso di lavanda che si trasforma in una nube bianca trasparente. 
La nube che diventa una macchia. La macchia che comincia a sanguinare. 
La percezione del profumo intenso del sangue. 
Le sue mani sporche di rosso.

Aprì gli occhi, sbatte le palpebre un po' di volte e regolarizzò il respiro. 
Una patina di sudore accecante le ricopriva tutto il corpo, mentre un intensa vampata di calore freddo le risalì dai piedi fino ai capelli sudaticci. Il sudore ormai si era asciugato e penetrato sotto pelle.

Si alzò perché quella stanza in quel momento, le sembrò la tana perfetta per perdersi di nuovo nella paura. Perdersi tra i suoi pensieri. Decise così di andare da Chris.

Quando entrò lo vide dormire a pancia in giù e un sorriso flebile le ricoprì il cipiglio critico della sua faccia. Le si avvicinò facendo il minimo rumore e poi le si sedette accanto. Lo scricchiolio delle molle l'anticipò, mentre poggiava una mano sulla spalla dell'amico per svegliarlo. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno. Ne aveva il disperato bisogno perché altrimenti sarebbe impazzita, non avrebbe retto un altro sogno del genere, un altro incubo e un altra notte.

-Chris.-
Lo chiamò mentre gli picchiettava con la mano sulla spalla.
Niente. L'amico sembrava viaggiare tranquillo nel mondo dei sogni. 
Allora ci riprovò. Questa volta in maniera più drastica.

Il secondo tentativo fu quello giusto, perché il ragazzo lentamente aprì gli occhi.
La guardò. I suoi occhi grigi sembravano impauriti e vagavano nella stanza senza sosta.
Capì che qualcosa nella sua amica non andava.
-Che cosa succede, Haz?- e mentre le chiese ciò, le passò una mano tra i capelli così lisci e morbidi grazie alla crema per capelli.

Sospirò e poi lo guardò dritto negli occhi –Ho fatto un sogno, anzi dovrei dire un incubo...- non riuscì a continuare perché ci pensò Chris, a farlo per lei.
-L'hai sognato ancora, vero?-
E allora spiegò quello che poco tempo prima era apparso in sogno. Quello che gli appariva in sogno da due mesi ormai. Sempre la stessa tortura.

Lo vide concentrarsi e corrugare la fronte. Si stava concentrando nelle parole dell'amica nonostante i suoi sogni, lo stessero richiamando.
Dopo il racconto si alzò e gli diede la mano. La ragazza, che precedentemente si era sdraiata sotto le coperte con l'amico, afferrò la mano ed insieme si avviarono in cucina.

Chris, mentre lei si andava a sedere sul divano nero in pelle rivestito da una pesante coperta multicolor in stile indiano, preparava il tè alla vaniglia per lei, e ai frutti rossi per lui.
-Secondo te cosa vuol dire?- chiese con voce flebile la ragazza mentre soffiava aria sulla sua tazza con ritratto il logo dei Nirvana, così per far raffreddar un po' il tè bollente.
-Non lo so. Purtroppo non sono laureato in psicologia e interpretazione dei sogni, però se fossi in te, farei qualche ricerca sull'uomo. Magari è il tuo amore segreto.- scherzò il ragazzo.

Già, il suo amore che di lavoro minacciava gente o forse faceva anche cose peggiore dell'intimidazioni. Questo però Chris non lo sapeva, un po' perché voleva tenerlo al sicuro da quello che lei conosceva e che rappresentava un grande fardello da portare, e questo lei lo sapeva bene. Ma non aveva nemmeno potuto dirglielo perché John se l'era fatto promettere, aggiungendo che meno persone sapevano, e meglio era non incontrare di nuovo «quel pazzo di un biondo».

Al solo ricordo del ragazzo biondo il terrore le immobilizzava le articolazioni.
Di tutta risposta, la ragazza sorrise.
-Hai ragione.-
-È il tuo amore segreto?- il ragazzo a quell'affermazione sgranò gli occhi stupito.
-Ma che...io dicevo per la ricerca.-
A quel punto il rosso tirò un sospiro di sollievo e le si avvicinò, sedendole vicino.
-Per un attimo ho avuto paura che anche tu, avessi perso la bussola.-
-Sei un idiota, Chris.- e lo spinse leggermente di lato.
Mentre rideva con il suo amico, i suoi occhi incontrarono il quadrante che fungeva da orologio vicino il frigorifero basso giallo.

3:22

-Chris cazzo è tardissimo, andiamo a dormire. Altrimenti domani nemmeno le sirene antiaereo riuscirebbero a svegliarmi.-

Detto questo getto le due tazze da tè nella lavastoviglie e se ne andò a dormire, seguito dall'amico che nel frattempo aveva perduto tutto il sonno a causa della ragazza dai capelli verdi.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***








Capitolo 7




Aveva seguito alla lettera quello che l'amico la sera precedente le aveva suggerito.

Doveva cercarlo, capire chi era. Ma con i tipi come lui non era facile. 
Era andata in giro di qua e di la, a fare domande a chiunque abitasse o risiedesse nella zona circostante la discoteca ma non aveva ottenuto un bel niente, se non sguardi allarmati e cambi di tono nelle persone. Così aveva tentato un altro approccio. Così si era finta una che voleva comprare la droga, con quello si andava sempre sul sicuro.

Proprio mentre aspettava in un vicolo puzzolente l'arrivo del venditore, le si avvicinò una ragazza. Capelli sporchi e di un color mogano ormai smorto, due profonde occhiaie a contornargli gli occhi e sguardo distante.

Rabbrividì.

Anche lei stava per diventare come quella ragazza, se non fosse arrivato Gesù Cristo a tirarla via da quel baratro.

Se la ricordava bene la rota.

Troppo deboli per fare qualcosa ma attivi se si trattava di andare a compre il nettare con cui il dolore sarebbe sparito. E poi ricordava che le ossa le diventavano carta vetrata, gli organi le sembravano esplodere e staccarsi, per non parlare del dolore intenso che si provava quando si respirava soltanto. Era come respirare mille pezzetti rovviti del vetro verde di una bottiglia.
Ricordava soprattutto la miriade di cazzate che rifilava a se stessa e agli altri
"No, Chris io ne uscirò!" oppure "Io mi faccio una volta ogni tanto!" e poi giù nel vicoletto buio ad aspettare trepidante il veleno per il mar rosso. Diventavi senza volerlo, un cadavere ambulante. C'erano poi quelli che provavano pena per te, quelli che invece avrebbero voluto ucciderti e che provavano disgusto, ed infine quelli che avevano paura di te e quindi ti evitavano come la peste bubbonica. In verità ti giudicavano ma nessuno ti aiutava, scappavano e basta.

Si guardavano. Si studiavano. Una vedeva la mossa dell'altra. Una che aspettava la morte e l'altra che aspettava di trovare la verità, dietro tutte quelle bugie. Poi il ragazzo arrivò. Con sua grande sorpresa rivide Clash, il suo personale spacciatore e quello che gli passava l'hashish quando era ancora nel giro. Non conosceva il vero nome di Clash, ma sapeva che lo chiamavano così per il suo amore morboso per la band punk ma soprattutto perché era uno dei pochi punk che ancora risedevano li a Brooklyn.

-Guarda, guarda chi si rivede. Allora eri tu la nuova ragazza!- il ragazzo le si avvicinò e si abbracciarono in nome dei vecchi tempi.
-Clash dammi la roba e poi puoi pure scopartela nel vicolo, non mi interessa.
Entrambi si girarono nella direzione della ragazza, la tossica che poco prima le stava facendo compagnia. Si vedeva che ogni minuto che passava senza la merda, era un pesante macigno da tenere stretto tra le braccia magre e smunte. Aveva ritrattato sulla fronte ampia la parola MORTE.

-Abigail è sempre un piacere fare affari con te. Ma dimmi a quante overdosi stai?
La ragazza rise anche se quella di Clash non era proprio una battuta, lei però lo faceva perché aveva paura che il ragazzo non gli avrebbe venduto niente, e lei sarebbe rimasta a fare i conti con quel dolore che le contorceva le budella, in una morsa di ferro.
Clash fece uscire un pacchettino dalla tasca posteriore dei jeans e gliela passò. La ragazza parve ritrovare la felicità all'istante e con mani tremanti le diede i soldi stropicciati e sudaticci che agguantava in una mano.

Quando avvicinò i soldi, Hazel notò che la mano era disseminata da buchi, alcuni erano neri altri invece andavano via via, guarendo.
Si guardarono di nuovo, gli occhi spenti della ragazza gli fecero pena, ma a lei sembrò non interessare perché si ritrasse e se ne andò nell'angolo più buio di quel posto che puzzava di umidità.
-Abigail, vai in un cazzo di bagno, ma non farti qui! Se la polizia arriva ci piscia a tutti quanti!
-Vaffanculo Clash, io mi faccio dove voglio!- e mentre urlava di rimando al ragazzo, aveva già tirato fuori l'occorrente per cucinare il tutto.

-Senti ho poco tempo. Non sono qui per la cocaina o per l'erba, sono venuta perché ho bisogno di chiederti una cosa.

Il ragazzo gli fece un sorriso e poté notare in quelle pupille un po' arrossate dall'erba, un muto ringraziamento di soddisfazione a Dio.
-Spara!
Hazel spostava il peso da un piede ad un altro, perché non era facile fare quella domanda così a freddo, ma le serviva aiuto e Clash in quel momento, contro ogni previsione, poteva darglielo. Per un attimo guardò quella ragazza che in fondo al vicolo, era distesa inerme sulla strada bagnata e sporca. Nessuna emozione trapelava dal suo giovane viso. Quella era la parte più bella. Non sentivi niente, solo te che stavi in ecstasy, niente dolore, niente compassione, niente di niente. Poi però, quando l'effetto finiva, allora stavi punto a capo. Era un circolo che chiedeva sempre di più, che si stringeva sempre di più, ogni qual volta la tua pelle, le tue vene cozzavano con il freddo dell'ago argento.

-Mi sai dire chi è un certo...Alexander?
Il ragazzo al suono di quel nome si irrigidì all'istante. Aveva capito al volo.
-Hazel tesoro dimmi, che cosa hai fatto di male per conoscere quell'uomo?
Sul viso della ragazza apparve un sorriso beffardo. Il viso del ragazzo invece, era divenuto bianco.-Deduco che tu lo conosca.
-Si che lo conosco, ma non è un fatto positivo.

Il ragazzo sembrava non voler far uscire niente su di lui da quella bocca, quindi doveva trovare un escamotage.

-Devo fare alcuni lavoretti per l'uomo e quindi...-

-Convincimi con altro, Hazel!- il tono derisorio del ragazzo la fece incazzare, ma non perdere la pazienza.
-Ti devo pagare per cavarti una parola, Clash? Mi ricordo che prima non eri così silenzio e riservato.
Lui sorrise e si portò la braccia incrociate al petto.
-Si chiama Alexander Nikolai Krylov, tutto quello che vedi attorno qui, è suo, o meglio del capo per cui lavora. Questo ti basta?

Quello lo sapeva già, il punto era, che voleva sentirselo dire, perché detto verbalmente, era tutta un'altra cosa. Sentì montare dentro di se di nuovo una strana e sinistra paura. Aveva finalmente aperto gli occhi. Per la prima volta si era accorta di che razza di gente aveva a che fare. Gente pazza, cattiva, cinica, gente che non provava pena per niente e per nessuno,gente che dava solo se riceveva in cambio qualcosa, gente che guadagna sulle debolezze e sulla codardia talvolta, degli altri. E lo aveva capito guardando gli occhi impauriti di tutti quegli uomini e di tutte quelle donne, a cui aveva chiesto informazioni. Ma nonostante sapesse, questo sembrava non fermarla minimamente, anzi, più si avvicinava al fuoco e più sentiva scottarsi, ma non cedeva, non indietreggiava.

Si guardarono per istanti. Si sorridevano. Il sorriso di Hazel voleva dire "grazie", quello del ragazzo invece un poco convinto "prego". 
-Se hai bisogno di me, per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi.

E poi se ne andò, uscì da quel vicolo e con le mani nelle tasche raggiunse la sua moto.

Uno strano senso di appagamento la investì in tutto il corpo, quando uscendo da quel vicolo e lasciando che quel sole di fine ottobre la invadesse con i suoi raggi, si rese conto che sapeva come si chiamava. Ora doveva passare a scoprire perché la sua mente, inconsciamente, continuava a dargli segnali su lui.
Anche se, una mezza idea se la stava già facendo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8







-Non lo dico giusto per buttare aria...ma tu hai realmente bisogno di trovarti una.

Quando per l'ennesima volta  Sam aprì bocca per riattaccare con quel discorso, Alex, che pur essendo l'uomo più paziente del mondo, non riuscì a stare zitto e a non trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo. Era stanco ma soprattutto voleva che quel maledetto biondino del cazzo, chiudesse quella bocca di rose che si ritrovava una volta per tutte.
-Mi dispiace dirtelo, ma...stai buttando aria.

Erano minuti ormai che Sam non la smetteva di parlare di cose che per Alex, erano senza senso. Non aveva il tempo per se stesso, figurarsi per stare dietro ad una donna.

-Ma dammi retta, russo. Tu hai bisogno di allontanare un po' tutta questa negatività che ti porti dietro come un ombra da un po'. Sbaglio coglione?- e dicendo questo, si girò a guardare il ragazzo che sedeva dietro.
Donovan risultava spazientito e stufo di sentire la sua voce, tanto quanto Alex. Alzò infatti gli occhi al cielo solo perché sapeva che non poteva essere visto, gli occhiali a specchio lo proteggevano.
-Si, hai ragione Sam.- rispose alla fine solo per accontentarlo. Infatti il biondino ne fu subito felice. Quasi troppo anche.
-Cazzo, un'altra parola e giuro che ti butto fuori dalla macchina a calci in culo!
Il ragazzo rise di gusto, abbandonando anche la matassa di ricci all'indietro.
-D'accordo Alex, ci deve essere un'unica spiegazione a tutto ciò. Ti piace la banana!
Il silenzio che si era venuto a creare precedentemente fu tagliato da quell'espressione che Sam, tutto convinto, si era lasciato sfuggire di bocca. E risero tutti, perfino Alex.
-Di certo non la tua.
Il riccio di tutta risposta, spostò la mano dalla coscia per dirigerla nella direzione della patta dei pantaloni, infine si girò di nuovo verso Donovan.

-Eh tu coglioncello? A te piace la mia banana?
A quella domanda Donovan diventò tutto rosso.
Alex si portò una mano sulla faccia, sospirando di frustrazione.
Aveva raccomandato l'amico di lasciare il lavoro sempre fuori, perché poi sarebbe arrivata la gelosia e con essa le discussioni, spesso costanti e che avrebbero poi mandato tutto all'aria.
Ma Sam niente, cocciuto fino alla fine.
Vedendo la reazione di Donovan, che non era di certo passata inosservata a Sam, i due uomini si girarono ognuno nella direzione del viso dell'altro, un gesto così naturale per loro, perché si capivano al volo e spesso, non avevano nemmeno il bisogno di utilizzare le parole, poiché sarebbero risultate banali.
Dal canto suo Alex, trapassò con quello sguardo gelido l'amico per fargli capire il suo punto di vista. Sam invece con un sorrisetto sghembo sulle labbra, gli faceva il verso rispondendogli che a lui non interessava minimamente il pensiero dell'amico e che se avrebbe voluto, l'avrebbe rifatto altre cinque o sei volte.
Quello che Sam voleva, Sam otteneva.
Fortuna per lui, erano arrivati a destinazione.

Erano arrivati nel locale di John, il vecchio che gli aveva tenuto la cocaina per un po', mentre loro attendevano che il capo contrattasse con gli italiani, circa la vendita e il trasporto dritto nel bel paese.
Quando entrarono trovarono l'uomo e la cameriere dai capelli rossi. Ma non c'era traccia di quella dai capelli verdi. Questa cosa però, fu notata solo da Sam.
Salutarono John e con esso si diressero verso il magazzino, dove l'uomo teneva nascosta la roba.
-Hai avuto problemi di qualsiasi tipo, vecchio?
Alex usava quel dispregiativo non per ferirlo ma in maniera bonaria, quasi affettuosa. Soprattutto non avrebbe mai voluto usarlo in quel modo, non alla sua età, non dopo averne viste tante. E John ne aveva viste di cose. Passaggio di capo in capo, cambiamento della periferia da anno in anno, e la seconda guerra mondiale che gli aveva portato via il padre a solo trent'anni.
Curvo in quelle spalle dolorose, corrose dal tempo ma con quegli occhi verdi ancora animati dalla vita, di chi dentro non sente i suoi sessant'anni se non solo fuori, contornati da rughe di espressioni varie sulla faccia incorniciata da capelli argento, che non lo rindevan brutto.

-No, nessuno problema russo.- ma il tono di John era freddo e distaccato e amareggiato. Li odiava. Lo odiava e a questo in qualche modo era abituato.

Poi John gli fece vedere la porta di emergenza che collegava la stanza del magazzino all'uscita, in modo tale che gli uomini avrebbero potuto trasportare quei pacchi tranquillamente.

Quando ebbero fatto, salutarono John e spediti tornarono alla base.

Il carico sarebbe stato trasportato il giorno successivo, tramite un draghetto che dall'America trasportava magliette e altre cianfrusaglie del genere. Avrebbe poi attraccato a Roma e da li la droga sarebbe dileguata come una macchia di inchiostro nero, su tutta la penisola. Nessuno escluso.

-Possiamo andare a bere, ora?- chiese Sam mentre cercava la canzone perfetta per quel momento alla radio. Il Suv fu percorso dalle note di What I've done dei Linkin Park.

-Mi dispiace amico ma dobbiamo incontrare gli irlandesi per le armi.

Sam sbuffò, Donovan rise ed Alex fece lo stesso.

Amava vedere l'amico insoddisfatto.

-Dai, potrai rifarti questa sera...magari in uno di quei locali sadomaso che ami frequentare.

-Sai Alex, dovresti venirci anche tu...molte di quelle puttane te la darebbero gratis!

Così tanta roba per un coglione come te!

Alex lo guardò con il sorriso beffardo stampato sulle labbra sottili. Anche gli occhi per un attimo furono percorsi dalla sua allegria, ma tutto durò poco, perché poi tornarono ad essere pezzi di ghiaccio impenetrabili. Nemmeno il sole riusciva a scaldarli.

***

Hazel quella mattina aveva ottenuto il giorno libero.

Tutte le ragazze ne avrebbero approfittato per poter andare in giro per negozi a fare shopping, ma non lei.

Richiamò Clash e decisero di incontrarsi per vedersi davanti ad una cioccolata calda.

-Allora tesoro, cosa ti affligge questa volta?

Pioveva fuori. La pioggia scendeva delicata e silenziosa. Alcune goccioline si andavano a scontrare contro il vetro trasparente della finestra. La gente presa alla sprovvista correva da una parte all'altra, cercando un riparo per non essere colpiti da quelle piccole goccioline di h2o.

Girava continuamente il cucchiaino nella tazza, quando ormai lo zucchero si era sciolto da tempo. Quando il ragazzo parlò e gli fece la domanda, fu costretta a prendere di petto la situazione e chiedere quello che voleva sapere dall'amico. In fondo lo aveva chiamato proprio per quello, no?

-Voglio sapere più informazioni possibili su l'uomo.

La bomba era stata sganciata e la sua mente, come il suo corpo, si stavano preparando a ricevere la risposta a quelle domande che le flottavano da un po' nella mente.

Il ragazzo rassegnato sospirò. Ma tanto lo aveva immaginato.

-Ha origine russe, ma questo l'avrai capito dal cognome...- si fermò per un attimo guardandosi intorno, passando in rassegna i volti delle donne e degli uomini che sedevano tranquilli su quelle sedie, a parlare allegramente con compagni o amanti. Continuò soltanto quando constatò di non correre nessun tipo di pericolo. Nel cuore di Hazel, intanto una strana ansia cresceva come una morsa di ghiaccio, andando a stringergli le budella.

-È un criminale, uno che ci sa fare nel suo lavoro.

Che cosa voleva dire con quello? Che sapeva ammazzare così bene la gente come un panettiere fa bene il pane o le brioche?

-Quando ha cominciato a fare carriera come...- non ci riuscì. Non continuò, la spaventava scoprire quelle cose, saperle vere e reali, le facevano venir voglia di vomitare. Ma lui capì lo stesso.

-Credo dieci o quindi anni fa. Adesso però ho io una domanda per te, posso?

La ragazza fece un segno di assenso e lui continuò, guardandola dritta negli occhi.

-Perché ti stai interessando a lui? Che cosa hai fatto?

Inizialmente non rispose, come poteva spiegarli che per una volta che l'aveva visto gli era rimasto tatuato addosso, che si portava continuamente dietro il ricordo del suo odore, un misto tra miele e lavanda, perché se mai fosse esistito un qualcosa che etichettasse Alexander, quello era il profumo di miele unito alla lavanda. Come avrebbe fatto? Era da pazzi attaccarsi così tanto ad una persona fittizia, che non sapeva nemmeno della tua esistenza che ti aveva visto si e no due volte. Ma la sua psiche le stava dicendo qualcosa, le stava rivelando, chiedendo di andare a fondo a quella storia, di scoprire i suoi più oscuri, volutamente dimenticati segreti. Le stava dicendo: Hazel è ora di diventare grandi.

-Non mi crederesti perché non ci credo nemmeno io, ma c'entra qualcosa con il mio passato e tu devi aiutarmi a scoprirlo. Sei l'unico che sa e che può. Sto impazzendo Clash!

La verità era che all'epoca non avrebbe mai immaginato a cosa la sua mente si stesse riferendo. L'oscurità l'aveva inghiottita dieci anni prima, l'aveva resa la ragazza ribelle, la ragazza che odiava tutto e tutti, la ragazza solitaria e triste, la ragazza solitaria che vive in un appartamento che affittava l'estate. La ragazza che aveva passato la sua infanzia a cavalcare cavalli, purosangue neri dalla chioma lucente, nelle grandi praterie del Texas, con quella terra sabbiosa e l'odore di essa attaccata ai vestiti comodi.

Tutto questo in quel caffè, lei non poteva nemmeno immaginarlo.
A quell'epoca credeva ancora che avesse dimenticato e perdonato tutto.
A quell'epoca non sapeva nemmeno che la vedetta avrebbe avuto il sapore rugginoso e ferroso del sangue. Il sapore violento della passione.



Spazio Autrice
Ragazze sono tornata con un nuovo capitolo. Voglio inoltre dire a tutte quelle che come me, hanno avuto in questi giorni la prima e la seconda prova come è andata e dare un grande in bocca al lupo per la terza prova (quella più sanguinolenta) e per gli orali che io avrò il...udite, udite....11 luglio (IEEEEE NIENTE MARE! NIENTE ESTATE!) 
Va beh detto questo, seguendo la scia della ministra, recensite, recensite, recensite e leggete, leggete, leggete!
Un bacione, e alla prossima! 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

 

C'erano tante stelle nel cielo quella notte. 
Luminose e portatrici di desideri più intimi.
Quelle stelle che imperterrite osservavano dall'alto la vita di quegli uomini che di giorno correvano, ma di notte si fermavano a respirare e cominciavano a vivere.

Era il 20 settembre del 2003.

Una ricca famiglia texana di Houston, era appena rientrata dalle vacanze estive passate nella campagna del profondo sud e nella frescura della sera, cercava di dormire e di non pensare a quel caldo afoso che li attanagliava in una profonda morsa nelle ore più calde.

Nello stesso tempo, due uomini dall'animo oscuro come quel cielo puntellato di diamanti argentei, se ne stavano nascosti all'interno di una vecchia macchina blu metallizzata, aspettando di scorgere all'orizzonte l'ultima luce spenta della grande e ricca casa.

Aaron Hall Morris Montgomery era un rispettabilissimo imprenditore e socio di maggioranza in una delle tante società petrolifera e di raffinazione del petrolio, lì in Texas. Sua moglie Carolina invece, era la classica mamma, moglie e donna perfetta, che con la sua educazione rigida mai una volta aveva fatto parlare di se. Il suo primogenito Charles era un brillante ragazzo di vent'anni. Studente dell'università di Harward, quel mese aveva deciso di trascorrere le vacanze con la sua famiglia tra rodei e il caldo afoso. Infine c'era la dolce e silenziosa, ma anche pestifera Hazel. Tredici anni di puri fuochi di artificio. Al pieno del suo sviluppo di giovane-donna.

Purtroppo però Aaron era finito in una situazione più grande di lui, e si era ritrovato a stare in mezzo a persone sbagliate. All'inizio però andava tutto bene, tutto perfetto. Grazie a questi "uomini" si era levato di torno molta concorrenza e sempre grazie a loro, aveva raddoppiato se non triplicato i guadagni della società. Aveva fatto tutto quello per la sua famiglia e soprattutto, per rendere il futuro dei suoi figli ancora più brillante.
Fino a quando loro non avevano cominciato a fare pretese, per lo più assurde.
All'inizio aveva accettato, se pur di malavoglia ma l'aveva fatto. Si era illuso che quelle persone avrebbero smesso di fare pretese, se solo lui li avesse accontentati. Il problema però, era che facendo in  quel modo, li stava solo assecondando a continuare.

Quegli uomini chiedevano e pretendevano. E più lui li accontentava e più loro raddoppiavano la posta in gioco. Fino a quando il signor Morris non aveva detto no. Fino a quando Aaron era stato costretto dalle minacce a parlare di loro e a "cantare" tutto alla polizia. Sapeva fin dall'inizio che la protezione testimoni non esisteva e mai sarebbe esistita, ma ci aveva comunque provato.

Tutto finì quella sera, di quel lontano 20 settembre 2003.

Sdraiato sul letto vicino alla moglie, Aaron pensava a quando sarebbe giunta la fine e come avrebbero fatto poi i suoi figli. Pensava alla piccola Hazel e alla donna che sarebbe diventata. Allora se la immaginava bella, non troppo alta e forte di animo e di personalità. Pensava a Charles, Charlie per quando era piccolo e al giorno della sua laurea, al giorno in cui quella casa troppo grande e silenziosa, tornava a vivere di piccole risate e di mugolii di creaturine candide. Un sorriso triste gli si dipinse su quel viso stanco dalle intimidazioni e dalla paura, che quegli uomini avevano cercato di imporgli.

Intanto i  due uomini uscirono dall'abitacolo quando anche l'ultima luce fu spenta.
Il cappuccio della felpa nera tirata sulla testa, i guanti di pelle che stringevano le glock scintillanti con silenziatore.

Si avvicinarono a quella grande villa bianca, aprirono il cancello senza difficoltà con l'aiuto di un infiltrato  e sempre con il suo aiuto, disattivarono l'allarme.
Una volta dentro,avrebbero dovuto uccidere tutti i membri dell'uccellino. Sapevano molto bene che c'era anche una ragazzina, ma le disposizioni erano state chiare.

Successe tutto in un attimo.
Una prima pallottola sparata che andò ad incontrare un povero cameriere che si era ritrovato a passare lì davanti. 
I due però continuarono a marciare in religioso silenzio, con il viso rigido e gli occhi fissi sull'obiettivo.
Salirono le scale per arrivare poi nella camera di Aaron.
Avevano studiato la piantina della casa per tre giorni e per tre giorni non avevano fatto altro che perlustrare la zona. Erano preparatissimi.

Il più giovane dei due, aveva ventitré anni. Era stato reclutato da poco, da un anno e mezzo e per lui quella missione rappresentava una sorta di iniziazione. Una sorta di battesimo, solo che al posto dell'acqua santa c'era il viscido e vischioso sangue.

Il suo corpo non lo stava tradendo ma nonostante questo, sentiva dentro di se crescere una tale ansia, una paura di non riuscire a fare quello per cui era stato incaricato.
Trasse un profondo respiro per cercare di placare il suo animo in subbuglio e scambiando un occhiata con il compagno, fece scattare la sicura dell'arma.
Il più grosso dei due, diede un calcio alla porta che si apri sbattendo rumorosamente.

Aaron tremava, sua moglie era sveglia ed Aaron continuava a tremare.

Poi li vide.

Due uomini che gli puntavano le armi in faccia.

─ Aaron Morris, delle imprese Morris', la condanniamo alla pena massima.

E poi Aaron Hall Morris Montgomery e sua moglie, non c'erano più.

Avevano chiuso definitivamente gli occhi in quel bagno di sangue e tra quelle lenzuola candide e impregnate di sudore, in quella notte estiva.

Cinque stanze più in la, un cameriere aveva fatto irruzione nella stanza di Charles, spiegandogli che cosa era successo al maggiordomo. Il ragazzo preso alla sprovvista, si rivestì frettolosamente e silenziosamente si recò nella stanza di fronte alla sua.
Vi entrò e avvicinandosi ad Hazel, gli fece capire che doveva rimanere nascosta perché degli uomini muniti di pistola, li stavano cercando.
Hazel, da ragazza sveglia come era, si nascose dentro l'armadio-cabina. Il suo armadio adiacente al letto.

Charles tentò di rientrare nella sua stanza, ma fu scoperto dagli aguzzini che lo freddarono a sangue freddo. Sulla porta bianca della camera della sua sorellina, si erano andate a colorare alcune macchioline di un rosso vermiglio.

Dal posto in cui stava Hazel riusciva solo a vedere poco o niente, perché lo spiraglio che si era creata per respirare era troppo piccolo. Chiuse l'occhio sinistro e si sforzò di guardare con quello destro.

Il più giovane era stato mandato a controllare la stanza femminile in cui avevano visto uscire il biondino.
Il letto ad una piazza in mezzo con le lenzuola pastello era disfatto. Tutte era al proprio posto. Nessuna penna per terra, nessun tentativo di fuggire. Il compagno aveva ragione: doveva essere ancora lì dentro.

Rimanevano due possibilità: la prima era che quel metro e cinquanta si fosse nascosta sotto il letto, la seconda - e anche la più probabile, che si trovasse dentro l'armadio. Guardò sotto il letto per un suo scrupolo e come immaginato, non vi trovò niente, così non rimase che controllare l'armadio.
Lo aprì, ma non vi scorse niente a parte vestiti messa alla rinfusa. Si inoltrò in esso ma ancora una volta non scoprì niente, quindi lo richiuse.

Quando stava per uscire dalla stanza, sentì qualcosa muoversi all'interno di esso, ma non fece dietro-front come invece avrebbe dovuto. Si era soffermato invece, su una piccola fotografia ritraente una piccola bambina dai capelli color del grano e gli occhi color metallo. Qualcosa nel suo animo mutò. Sentiva una strana bolla d'aria formarsi nello stomaco e una vocina nella testa che gli chiedeva clemenza. Strinse i pugni, fino a far diventare le nocche bianche, si girò un ultima volta.

Era tentato di fare il suo dovere, che gli chiedeva di uccidere una ragazzina che ancora non sapeva niente della vita ma nello stesso tempo, guardando quel sorriso candido, non riusciva proprio a farlo. Non riusciva ad ucciderla per una colpa che non aveva commesso. Era stata solo troppo sfortunata nell'avere  Aaron Morris come padre, un padre sciocco ed egoista.

─ Allora dov'è?

Il suo compagno era entrato nella stanza. Scrutava con gli occhi alla ricerca disperata di qualcosa che sapeva essere celato. Doveva solo fare un piccolo sforzo. Le cose bene nascoste erano proprio quelle a portata di mano, era risaputo.

Improvvisamente quegli occhi nocciola arrestarono la propria corsa e si fermarono nelle iridi celeste del più piccolo. Quest'ultimo scosse la testa. Era di poche parole.

 In qualche modo prese una decisione ed era stata dar retta alla sua voce interiore. Con il futuro avrebbe imparato a non avere clemenza con nessuno, avrebbe imparato che giovani o vecchi, uomini o donne, erano tutti dannatamente fatti della stessa pasta e creati con lo stesso materiale.

─ Torneremo domani, adesso non è più sicuro restare qui, avranno sicuramente chiamato la polizia.

Prima di lasciare la casa ritornò nella stanza del vigliacco e sugli occhi lasciò due monete Merk¹ con una croce celtica disegnata sopra.
Poi si lasciarono il sangue e tutta quella violenza alle spalle, dimenticandosi che gli occhi chiari di una ragazzina avevano visto tutto. 
Sapevano entrambi che quella bambina non sarebbe mai più saltata fuori.

¹  la moneta Merk è una vecchia moneta medievale, moneta d'argento coniata sotto , Carlo I e Carlo II, valutata all'inizio 160 penny, esattamente 2/3 di una , o mezzo dollaro scozzese: era pari a circa uno scellino inglese dell'epoca. La prima moneta con questa denominazione fu il mezzo merk o , dal valore di 80 penny; al rovescio era rappresentata una croce con la legenda SALVVM FAC POPVLVM TVVM DNE e l'anno di coniazione. Fu coniata negli anni 1572-77.
Nel 1578 fu introdotto un nuovo merk con il cardo al rovescio e la legenda NEMO ME IMPVNE LACESSET fu coniato nel 1578-80 assieme al doppio merk o mezzo dollar con gli stessi tipi. Nel 1591 fu emesso un nuovo 1/2 merk detto balance half merk. con al rovescio una bilancia, e dietro una spada; intorno la HIS DIFFERT REGE TYRANNVS.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

"Choose future, choose life"

Sam guardava divertito quella scritta sul muro davanti ai suoi occhi.

Scegli il futuro, scegli la vita.

Lui il futuro se l'era scelto e quel futuro aveva in qualche modo compromesso tutta la sua intera esistenza. Nel momento in cui aveva scelto di fare il serial killer, aveva preso coscienza del fatto che doveva agire silenziosamente, doveva farsi rispettare, ma sapeva soprattutto che quella vita lo avrebbe portato continuamente a camminare sul filo che divide la morte dalla vita.

Ma quella linea lo elettrizzava come una potente scarica elettrica.

Gli piaceva sapere che un passo falso lo avrebbe portato a morte certa e spesso l'aveva sfiorata, solo per sentirne il sapore. Gli capitava soprattutto quando correva con la moto o quando si ritrovava in una scazzottata con un uomo che all'esterno poteva sembrare un vichingo, ma Sam era terribilmente intelligente e vinceva, quasi sempre, ma ce la faceva.

E poi gli piaceva avere le mani insanguinate.
Avere il potere di decidere il destino di qualcuno, decidere della sua vita, essere per un istante Dio.

Quella mattina si era recato nel quartiere irlandese di New York perché doveva contrattare con Kent, il capo dell'IRA. Doveva vendergli le armi, una dozzina di Kalashnikov e delle mitragliette.

In quel momento si trovava fuori dall'Irish Pub ad osservare quella scritta nera un po' sbiadita. Le mani nelle tasche del chiodo nero con lana all'interno, i capelli ricci disordinati e gli occhi attenti e furbi.
Poi si mosse.
Con quell'eleganza che apparteneva agli uomini dell'alta classe, mise un piede fasciato dai Dr. Martens, uno davanti l'altro fino a quando non girò l'angolo e si ritrovò davanti al locale.

Prima di spingere la porta ed essere travolto da quella vitalità tutta strisce verdi ed arancioni, ebbe l'accortezza di guardarsi intorno. Aveva la pesante sensazione di avere su di se due occhi che da lontano lo guardavano, lo spiavano invadendo il suo spazio, la sua privacy. Questa sensazione era nata nel momento in cui aveva messo piede fuori di casa ed era salito sulla sua Harley.
Guardò a destra e a sinistra ma non notò niente di strano.
Doveva dare atto al suo stalker, sapeva fare bene il proprio lavoro.

Scrollando le spalle, spinse la porta in legno grezzo ed entrò.
L'odore di birra si andò a mischiare con quella musichetta allegra tipica di quelle regioni, ma nel locale non c'era ancora nessuno. Del resto erano solo le nove di mattina ed il pub non avrebbe aperto tra meno di un ora, quindi aveva tutto il tempo.
─Hey Sam, come ti vanno le cose?

Sam, tenendo sempre le mani in tasca, si accinse ad avvicinarsi verso l'uomo che lo aveva chiamato.
Si sedette su uno sgabello e l'uomo fece lo stesso. Prese ancora qualche minuto strofinando meccanicamente il naso e poi finalmente rispose all'uomo.
─Tutto bene, anche se potrebbe andare meglio.
L'uomo sorrise e invitò il barista a versargli uno sciortino.

Ovviamente non passò inosservato agli occhi di Sam, gli sguardi languidi che quel candido ragazzino dai capelli biondo cenere gli riservava timido.
Quando gli servì il bicchiere munito di sotto bicchiere, Sam gli fece l'occhiolino ma niente più, sentiva ancora addosso l'odore ed il sapore delle labbra di Donovan e proprio non riusciva a pensare ad altri. E questo lo spaventava, lo irrigidiva in tutto il corpo. Nello stesso tempo stava imparando lentamente ad accettare questa cosa che per lui era nuova. All'inizio lo aveva fatto solo per fare un dispetto ad Alex, poi però qualcosa si era mosso nelle sue viscere e spaventato, lo aveva semplicemente abbracciato ogni volta che vedeva i suoi dolci occhi o il suo timido sorriso. Forse era quello che lo faceva impazzire di più di Donovan, questa sua inesperienza e timidezza, che si andava a scontrare con la sua di anima e con quel lavoraccio che si era scelto.

─Il carico è arrivato.─ si rivolse all'uomo che doveva essere Kent e poi proseguì:
─Il capo vuole il solito anticipo prima della consegna.─ detto questo svuotò il bicchiere che immediatamente gli infiammo la gola e lo stomaco e poi rivolse i suoi occhi scuri totalmente a Kent, che intanto sembrava assorto da qualcosa lontano.

Quando Kent sembrava aver ripreso l'uso della parola, i due furono costretti a guardare verso la porta che malamente veniva aperta con un tonfo secco.

Due uomini incappucciati fecero il loro ingresso.
Indossavano scarponi neri e inforcavano due pistole che presero subito a fare fuoco.

Sam non perse tempo. Si buttò per terra e si portò dietro anche che Kent.
Estrasse dalla cintola posteriore la sua beretta M9 e cominciò a fare fuoco, nascondendosi dietro il bancone.

Un rumore assordante superò quello allegro della radio, mentre gli uomini di Kent con due fucili a pompe cominciavano a far cadere sui due uomini una pioggia fredda di proiettili. 
Ma quei due, sembravano avere più esperienza degli irlandesi stessi che invece maneggiavano i fucili, con una certa inesperienza. Li tenevano come si tiene un gatto selvatico: alla larga.

Entrambi non avevano fatto i conti con Sam, perché dopo aver cambiato le munizioni si alzò in piedi e li colpì di sorpresa. Mirò e uno cadde sotto un colpo inferto alla gola e alla testa. Una pozza di sangue si andò subito ad allargare sotto il corpo inanime mentre l'altro interferito continuava a far fuoco. Il gioco durò ancora per pochi istanti, fino a quando il tizio vestito di nero non cadde ferito alla gamba.

Con un gesto secco, Sam gli si avventò addosso senza curarsi minimamente dei proiettili che lo sfioravano. Poi gli irlandesi smisero di fare fuoco e abbassarono le armi.

Lo prese dal bavero per fargli alzare la testa, mentre con un piede andava ad incidere sulla ferita al polpaccio.
La faccia, una maschera di terrificante sdegno.

─Chi cazzo ti ha mandato?!─ la rabbia si era impossessata di lui mentre nella sua mente pensava già alla morte che gli avrebbe inferto.

Premette ancora di più il piede sulla ferita mentre l'uomo urlava di dolore.

Qualcosa si mosse nei suoi pantaloni e sapeva anche a cosa era dovuto.
Ogni volta che sentiva urlare di dolore qualcuno, il suo amichetto prendeva libero arbitrio e gli faceva notare che esisteva. Ma in quel momento non poteva di certo dargli retta.

Sapeva solo che la sensazione di essere guardato era vera. E proprio per questo si maledisse con tutto se stesso. Doveva scrutare meglio, doveva andare a prenderlo di pugno prima che la sparatoria e il caos avvenisse. In quel momento pregava che quell'irlandese del cazzo, non avesse ripensamenti sull'acquisto perché se ne erano cazzi, per il club, che non faceva sconti a nessuno e per lui, soprattutto per la sua persona.

─Cazzo ti ho fatto una domanda!─ urlava e lo dimenava e calcava il piede.

─Fottiti!─ gli urlò quello di rimando mentre un ringhio gutturale uscì perentorio dalla bocca del biondino.

Adesso era iracondo e quando Sam si arrabbiava, non c'era via d'uscita.

Digrignando i denti, lo prese di peso e lo buttò con una forza impressionante sul bancone.
I presenti erano intimoriti tanto quanto l'uomo steso vulnerabile sul bancone.

Puntò la pistola che aveva in mano dritta sulla fronte dell'uomo e con sguardo torvo rivolse la domanda ─Facciamo un gioco ti va?─ ma la sua era una domanda con annessa già la risposta. Si sistemò meglio la giacca e piantò con più forza l'arma sulla testa della vittima. 
Gli occhi pazzi di un nero spettrale.
─Ad ogni risposta sbagliata questo piccolo proiettile andrà a lacerare una parte che a mio piacimento sceglierò, ma se mi darai la risposta giusta beh...vedrò di ricompensarti.

L'uomo era impaurito ma dai suoi occhi non c'era una punta di rassegnazione o di colpa per quello che aveva commesso, comunque stava decidendo nella sua testa, se il biondino avrebbe mai avuto il coraggio di mettere in atto quello che gli aveva premeditato. Molti facevano così, minacciavano e basta, forse qualcuno picchiava ma quasi tutti, lo facevano per traumatizzare la vittima. Decise quindi di tenere la bocca chiusa. 
Non avrebbe mai potuto prevedere che un viso d'angelo come Sam, si sarebbe rilevato un demone, senza anima e assetato di sangue.

─Poiché non ho tempo da perdere, cominciamo subito. Chi.cazzo.ti.ha.mandato!─ e pronunciò quell'ultima parola digrignando i bianchi denti.

L'uomo continuò col suo mutismo e Sam, essendo un uomo di parola rise languidamente e fece scattare la sicura dalla sua pistola.

In un attimo la vittima si rese conto che quel pazzo faceva sul serio e che le parole dette non erano cazzate. Se ne rese conto solo quando gli puntò la pistola sulla sua coscia e senza staccargli gli occhi di ossidiana da dosso, fece fuoco.

Schizzo del sangue che andò ad imbrattare la sua mascella e il suo giubbotto ma tutto quello che sentì fu un nuovo spasmo che arrivava dritto dai pantaloni neri. Si costrinse a pensare al ghiaccio ma non funzionò.

Mentre l'uomo urlava, lui fece scattare di nuovo la pistola sulla fronte.

Stava per aprire bocca per dirgli quale sarebbe stato il prossimo bersaglio che qualcuno lo precedette.

─Non lavoro per nessuno, sono solo un cazzo di mercenario che va dove tira il vento! Per favore smettila!

Alzò gli occhi al cielo, poi sospirò e fece fuco.

Quello che ottenne fu altro sangue sul suo viso e l'erezione pesante nei suoi pantaloni.
Rimise la sicura e si portò la mano dietro i pantaloni.
Improvvisamente parve ricordarsi che al suo teatrino avevano assistito anche degli spettatori.
Con un sorriso tirato si rivolse a Kent.
─Dirò ai miei uomini di venire a prendere i corpi. Ovviamente detrarrò dalla somma prevista le spese per la pulizia e del disturbo.

Kent avrebbe tanto voluto rispondere che non c'era più trattativa che avrebbero comprato dai russi, perché se si era fatto seguire lui allora la loro vita, la sua, erano in pericolo. Ma non lo fece, non dopo aver visto che cosa era capace di fare, non dopo aver assistito con i suoi occhi a quello che aveva fatto e si era reso conto che le chiacchere sul Joker, erano vere. Ma non erano state tanto le minacce ma quegli occhi scuri e letali, capaci di farti gelare il sangue nelle vene.
Si schiarì la voce e poi rispose ─Non devi preoccuparti!

Sam fece un cenno di assenso con la testa e aggirò il bancone per prendere un fazzolettino di carta e pulirsi il viso e le mani.
Il ragazzino dai capelli biondi e gli occhi azzurri parve aver perso tutto l'interesse per lui e Sam avrebbe tanto voluto sbatterselo proprio in quel momento, giusto per dare sollievo al suo amico che la sotto spingeva per uscire.

Prese il fazzoletto con la quale si pulì il viso e le mani, poi estrasse dalla tasca del chiodo il cellulare e compose il numero di Alex. Era lui il suo superiore che doveva mettere al corrente di quanto successo.

─Pronto.

─C'è stata una sparatoria all'Irish pub.

Dopo un momento di silenzio, l'amico rispose.

─Sto arrivando

─Ho risolto tutto. È sicuramente opera di Patrick, ma gli uomini erano due mercenari.─ grugnì per la scottante delusione. Senti Alex sospirare dal cellulare.

─Va bene manderò qualcuno a sistemare i corpi come di dovere. Ora devo riattaccare, devo andare.─ e come sempre non gli diede nemmeno il tempo di salutarlo che riattaccò.

Frustrato per come la mattinata si era sviluppata, si passò energicamente una mano sulla faccia.
Prese la chiavi e mentre stava per mettere in moto, il cellulare squillò.

Sbuffando lo prese e lesse sul display il nome di Clay's Elephant.

E adesso che cazzo voleva pure lui?

─Ehy Clay! Che succede?

Nascose all'uomo dall'altro capo del telefono il tono scocciato, cercando di essere il più disinvolto possibile. Appunto cercando.

─Vieni immediatamente al club. Devi vedere una cosa!

Improvvisamente il suo corpo si irrigidì a sentire l'uso dell'imperativo. Tutti sapevano che era meglio evitare quel verbo nei confronti di Sam e se era stato usato dall'uomo, un motivo valido c'era. Non perse tempo. Riattaccò e sedendosi sulla moto, partì alla volta della discoteca.


Spazio Autrice
Eccomi finalmente tornare dal mondo degli abissi con un nuovo capitolo.
Come avrete potuto vedere, il protagonista indiscusso di questo capitolo è niente che poco di meno che SAM.
Fatemi sapere cosa pensate del capitolo con una piccola recensione e niente...continuate a seguire la storia.
Colgo l'occasione per ricordarvi che ho anche una pagina facebook e una wattpad  dove ho inserito la storia ai Wattys quindi a tutti quelli che hanno anche un profilo wattpad, chiedo sostegno per la storia, poi va beh, non obbligo nessuno.
Detto questo, dopo aver fatto pubblicità a destra e a manca, vi saluto.
Ps. sti sta per avvicinare il momento in cui i nostri protagonisti si incontrano.


 

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11








Non appena mise piede nel locale, fu scortato da un uomo vestito di nero nell’ufficio di Clay.
Quando vi entrò, lo trovò con le mani incrociate e i gomiti poggiati sulla grande scrivania di mogano, tanto imponente da occupare due terzi della stanza.
Affianco alle sua braccia, era stato posizionato un laptop dell’Apple.
Quando si accorse di aver visite, alzò il viso mentre delle rughe di espressione gli solcavano il viso olivastro.
─Vieni pure avanti e accomodati su una delle due sedie.
Non cera la solita gentilezza nella sua voce ma ben si, era pressoché piatta e incolore, come i suoi occhi.
Sam prese posto sulla sedia di sinistra e con viso leggermente scocciato gli chiese cosa doveva fargli vedere.
L’uomo girò il computer e Sam, guardandolo negli occhi, si portò il viso vicino lo schermo.
Quello che gli si presentò davanti gli occhi era la figura di una ragazza minuta con una faccia preoccupata se non terrorizzata.
─Che significa?
L’uomo sospirò e dopo essersi passato una mano sull’attaccatura del naso, come a massaggiarlo, si concentrò sul ragazzo che aveva di fronte.
 
─Circa un mese e mezzo fa, più o meno, siete venuti nel mio locale perché dovevo parlarvi di Patrick e di altre questioni legate al club.─ si fermò cercando il consenso del biondino per andare avanti. Quando l’ottenne, continuò.
─Bene, quella sera vi avevo detto che l’unico posto al sicuro -perché era stato “ripulito” era il bagno e fu proprio lì che parlammo delle nostre questioni. Infatti all’occorrenza andò tutto liscio. Ma pochi giorni fa, ho chiesto ai miei uomini, per ordini ricevuti dall’alto, di controllare i filmati di quella settimana, la settimana che ci siamo visti e beh…è saltato fuori che qualcuno ci ha sentito. ─ concluse indicando lo schermo e il viso della ragazza.
Sam capì. Lo aveva chiamato perché risolvesse la questione.
─Che cosa sapete di lei?
Clay rise, ma quella risata era strana. Fredda e tagliente, come il vero motivo per cui il ragazzo era stato chiamato. Nello stesso tempo gli occhi dell’uomo gli facevano sapere che non aveva sbagliato nel rivolgersi a lui, perché lui, era l’uomo giusto per quella missione.
─Abbiamo chiesto un po’ in giro, ai camerieri del posto ma non ricordano niente.
 
Perfetto. Davvero meraviglioso.
Furono questi i pensieri di Sam, prima di lasciare l’uomo.
E adesso, da dove avrebbe iniziato?
 
***
 
Dopo esser uscito da lì, fece una cosa molto semplice. Tornò a casa.
L’appartamento di Sam si trovava a Manhattan, una casuccia che dava sull’Empire State Building, regalo concessagli da suo padre, che tra i vari e ridondanti giri per l’Europa, non si era mai posto il problema su quale fosse il reale lavoro di suo figlio. Pagava regolarmente gli alimenti alla sue ex moglie non che madre dell’unico maschio e risolveva i problemi di matrice economica, del primogenito, quando ovviamente andava ancora al liceo. Per il resto era un fantasma come d’altronde la loro relazione affettiva.
Sam parcheggiò la moto nel boxe e poi si accinse ad entrare nel grande appartamento.
Salutò Billy il portantino, e poi marciò dritto verso l’ascensore che lo portò dritto al suo attico. Come per Alex, lui non conosceva porte ma solo ascensori.
 
La casa era animata da colori neutri che andavano dal bianco al nero, per giungere all’avorio dei divanetti e dal rosso-arancio del finto caminetto.
Si limitò a poggiare le chiavi sul ripiano in marmo bianco della cucina e a lanciare la giacca su una delle poltrone. Poi si sedette con le gambe aperte su uno dei due divani che davano sul grande finestrone del soggiorno, da cui si poteva ammirare tutta New York, con il suo via vai continuo di gente in corsa, i taxi gialli e i clacson facili. E mentre guardava lo spettacolo della strada, pensava a chi potesse essere la misteriosa ragazza.
Qualcosa però gli diceva che non poteva essere una spia perché altrimenti avrebbe avuto il viso contratto da un’espressione rilassata se non seria ma lei, aveva il viso tramortito da un’espressione di puro terrore e questo non rendeva la situazione normale. Credeva anzi, che avesse avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
 
Frustrato perché non sapeva proprio come fare, abbandonò la testa, che era diventata troppo pesante, all’indietro in attesa di un miracolo che sembrava proprio non arrivare.
Prima di andare via però, si era fatto inviare la foto della ragazza via e-mail, quindi dedusse che il primo passo da fare fosse proprio quello di scaricare la foto.
Con un enorme sforzo fisico si alzò da quel candore, che era rappresentato dal divano e si diresse verso l’ufficio.
Attraversò l’atrio, poi il corridoio ed infine giunse in prossimità di una porta bianca levigata , l’aprì e vi entrò.
Nell’ufficio c’era una grande libreria fatta di legno di ebano vicino alla finestra che si trovava di fronte alla porta, una scrivania dello stesso colore al centro con una sedia munita di piccole rotelle nere e con lo schienale bianco trasparente.
Sam aggirò la scrivania e si sedette su di essa, poi aprì il suo laptop ASUS e lo acese .
Sapeva benissimo che da solo non ce l’avrebbe fatta, non in quel campo, perché un conto era seguire o pedinare persone, un altro era cercare di decriptare un messaggio in rete.
Pensò bene di fare una telefonata a un suo amico, ad uno che aveva molti debiti con lui.
Prese il cellulare dalla tasca anteriore dei suoi pantaloni neri e compose il numero. Poi attese che l’uomo rispondesse.
 
─Pronto?
Rispose una voce squillante, cosa che fece alzare immediatamente gli occhi al cielo di Sam. Proprio non la sopportava.
─Tra dieci minuti ti voglio a casa mia.
Poi, senza aspettare alcuna risposta, chiuse la chiamata.
Tutti sapevano che quando Sam chiedeva, si doveva solo che ubbidire. Dio solo sapeva poi, cosa sarebbe successo ad una risposta negativa.
 
L’uomo infatti non tardò ad arrivare e quindici minuti più tardi, si trovava a smanettare su quel computer che sembrava prendere vita propria ad ogni battito.
─La foto fa davvero schifo però se ingrandisco qui (ed indicò la faccia della ragazza) poi aggiungo questo qui (era una sorta di programma hacker, usato dalla polizia per cercare di rendere le foto pulite) perché una volta che avremmo ottenuto la faccia tonda e chiara della ragazza, poi la passeremo all’interno dell’archivio della polizia.
Sentendo le parole pronunciate con una certa impazienza ed eccitazione, una domanda apparse però nella mente di Sam, che non si ritrasse da non farla.
─Tutto questo grazioso lavoro, non mi metterà nei guai vero?
Una leggera risata si alzò dalla gola dell’uomo, che aveva nome Flint, poi alzando leggermente i suoi occhi dal computer rispose:
─Non preoccuparti, lo ripulirò dopo.
Come se fosse la cosa più ovvio del mondo. Sam volle fidarsi e per una volta, non aggiungere domande o fare considerazioni. Invece stette zitto e seduto, con il tallone poggiato sul ginocchio destro, sulla poltrona bordeaux vicino la libreria.
 
Un’ora più tardi l’uomo aveva ripulito l’immagine e aveva bai-passato il programma della polizia.
Dopo varie ricerche apparve un nome.
A quanto pare la ragazza, che sembrava un angoletto, aveva combinato qualche casino.
─È stata arrestata quando aveva diciotto anni per aver preso parte ad una manifestazione studentesca finita a sangue e botte. È stata in carcere per tre giorni, poi un ragazzo ha pagato la cauzione ed è uscita.─ lesse Flint ad alta voce attirando così l’attenzione di Sam, che nel frattempo si era alzato e gli era andato vicino.
─Più niente? Cioè non dice dov’è il suo domicilio?─ chiese Sam con voce speranzosa. Non gli andava di andare in giro per Brooklyn a domandare se conoscessero la ragazza.
─Sulla 19th Jackson Place, nel quartiere di Park Slope. La ragazza sta parecchio in periferia.─ e concluse con una risatina che sapeva di sarcasmo mal riuscito.
Sam smise di guardare lo schermo e posizionò i suoi occhi verso un punto indefinito della stanza, programmando di già la prossima mossa.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

 

Erano le 21:30 passate quando rientrò a casa.

Il monolocale che divideva con Chris era un tipico palazzo in Brownstones, con quei mattoncini rossi e la piccola scalinata che all'ingresso conduceva ad una porta in legno pitturato di nero, ma che col tempo si era ormai rovinato.

Salì, con le spalle infossate nel cappotto blu le quattro scale e aprì la porta, richiudendola poi, una volta entrata. Salì altre tre rampe di scale, (niente ascensori) e arrivò al terzo piano dove l'attendeva un bagno rilassante e una bella dormita.

Cacciò le chiavi della serratura dalla borsetta vintage bordeaux e la infilò nella toppa, accompagnando il movimento con un sonoro sbadiglio.

Aprì la porta e la richiuse, tolse il cappotto e la borsetta poggiando il tutto sul porta-abiti e si incamminò verso la cucina, con l'intenzione di bere un bicchiere d'acqua.
Passò attraversando il soggiorno per accendere la luce nel soggiorno.
Ma quando girò gli occhi per riportarli sulla stanza si accorse della presenza di un uomo.
Un gridolino stridulo ruppe il silenzio nella stanza.

L'intruso era seduto comodamente sulla poltrona con le braccia poggiate sui braccioli, il viso, una maschera di terrificante ironia.
Capelli biondi ricci e occhi scuri, neri.
L'avrebbe riconosciuto anche si si ritrovava dall'latra parte della barricata di un treno in corsa.

Era il ragazzo che quella mattina aveva rotto l'acquario con prepotenza e senza rispetto.
Il ragazzo dagli occhi letali e pazzi.

Perse un battito quando si ricordò che Chris era fuori per il weekend e che non l'avrebbe mai potuta aiutare. Nella sua mente i pensieri più oscuri si accesero come quella stupida lampadina a risparmio energetico che illuminava la stanza e la tensione in essa.
Si immaginò distesa sul pavimento e con la morte ritratta sul viso, magari sarebbe stata pure seviziata. Deglutì un boccone consistente di aria e cercò di riprendere a respirare normalmente. Le mani le tremavano, le gambe le tremavano e lo stomaco si era fatto pesante, più del solito.

Paura. Orrore. Panico.

Questo era quello che sentiva in quel momento.
Una fottuta paura da far accapponare la pelle.

Riuscì lo stesso a uscire da quello stato di trans, perché se da un lato essa ti bloccava, dall'altro era proprio la paura a farti agire, a combattere, a farti ritrovare il coraggio.
Hazel vagò con lo sguardo su tutta la stanza, voleva scappare nella stanza più vicina , per poi chiudersi dentro e chiamare la polizia. Questo era il piano, almeno nella sua testa sembrava funzionare.
L'unica stanza più vicino sembrava essere proprio la cucina però essa non aveva porte, quindi doveva tentare il tutto per tutto e scappare in camera sua.
Con un respiro profondo e con la consapevolezza nel petto di voler vivere, fece un passo avanti quando una voce, la riportò a quella spietata realtà.
─ Io non lo farei se fossi in te, Hazel.─ pronunciò in modo cantilenante e lentamente il suo nome, rendendolo quasi bello.

Oddio sa anche il mio nome!
Come avrebbe fatto altrimenti a trovare il posto in cui vivi?!

Terrorizzata, con le mani che non cessavano di tremare e gli occhi solo grigi in quel momento, sbarrati, si concentrò sulla voce placida e calma di quell'uomo.
Con uno scatto fulmineo se lo ritrovò a pochi passi dal suo corpo.
Inevitabilmente la sorpresa e il panico le fece fare un passo indietro e poi un altro e un altro ancora, ritrovandosi incastrata con i suoi stessi gesti, al muro.
A quel punto, si era servita su un piatto d'argento all'aguzzino che come si supponesse non essere stupido, le si era lanciato addosso con uno sguardo che sapeva di morte.
─ Fa quello che ti dico e non ti succederà niente, dolcezza.─ gli disse incastrando quelle pozze nere che si ritrovava al posto dei bulbi oculari.

La stava studiando, pronto come un felino ad attaccare ad una sua mossa sbagliata ma nello stesso istante, godeva nel vedere il terrore in quegli occhi così belli e nebbiosi.
Si allontanò da lei e aspettò.
Aspettò la sua mossa, la mossa sbagliata quello che gli avrebbe concesso di essere cattivo, che gli avrebbe dato il pretesto di fargli provare il dolore.
Hazel cadde nella trappola.
Sentendolo meno lontano dal suo corpo, prese coraggio e poggio i palmi delle mani sul torace del ragazzo, spingendolo via.

Sam, si lasciò spingere e rise, con scerno e spavalderia.
Aveva fatto solo tre passi che si sentì tirare dai capelli, in una morsa di ferro.
─ Fate tutti lo stesso errore. È proprio vero che l'uomo è un essere così debole.
E la tirò saldamente per i capelli fino a buttarla a terra, vicino il tavolinetto anzi, ad un centimetro dal tavolinetto posto nel mezzo della stanza.
Si accasciò vicino al suo corpo e mentre Hazel smarrita si massaggiava la cute dolorante, il ragazzo riagganciò i suoi artigli sull'esile braccio della ragazza e la strattonò portandola sulla poltrona rossa, dove si era seduto quando era entrato in casa.
Poi si allontanò, sotto lo sguardo confuso della ragazza per andarsi a sedere di fronte al suo viso, poggiando le chiappe sul tavolinetto.

─ Non voglio farti del male...─ ma non riuscì a completare la frase perché Hazel lo interruppe ─ Ironia della sorta, mi hai già fatto male.─ e sputò quelle parole mentre assottigliava lo sguardo e si massaggiava ancora la cute.

Sam la guardò per un breve istante per poi scoppiare a ridere.
─ Divertente, davvero divertente.
Ma lei non riuscì a capire a cosa fosse dovuta quella stupida ironia.
─ Lo trovi divertente, trasportarmi per la stanza tirandomi per i capelli...─ ma non riuscì a completare la frase perché Sam gli diede uno schiaffo talmente forte da fargli girare il viso dall'altra parte mentre la saliva si andava a mischiare con il sapore ferroso del sangue.
Quel piccolo attimo di coraggio, di ribellione fu interrotto bruscamente da quello schiaffo ricevuto, che però celava mille significati diversi.
─ Tu non lo sai che cos'è il dolore! Ecco perché rido di te. Sei solo una stupida ragazzina che crede di sapere tutto ma che invece non sa proprio un cazzo!─ gli urlò in faccia mentre digrignava i denti.
Poi prese un profondo respiro per potersi calmare e le parlò con tranquillità.
─ Come ho detto prima, non ho intenzione di farti del male ben sì, ho da proporti un affare che non potrai rifiutare, te lo assicuro.

Qualcosa in quella frase le fece accapponare la pelle, come se sapesse già che una risposta negativa l'avrebbe portata dritta, dritta nelle fauci della morte e lei non voleva finire come quei cadaveri che venivano ritrovati sul ciglio di una strada.
Deglutì così forte e con così tanta intensità, che perfino Sam parve accorgersene.
Dentro il suo petto nasceva come un fiore, la consapevolezza di quello che le sarebbe accaduto da lì a pochi istanti, nel momenti in cui, avrebbe accettato e quindi acconsentito a qualsiasi di quelle idee che passavano nella oscura mente di quel mostro.
Sam intanto si inumidì le sottili labbra rosee e la incatenò al suo sguardo cupo, nero.
Vedeva il terrore nelle iridi grigie della ragazza ma anche consapevolezza e sottomissione.
Sapeva che era una ragazza sveglia, l'aveva capito nel momento in cui aveva cercato di scappare dalle sue grinfia e anche se non ci era riuscita, lui era inspiegabilmente orgoglioso di lei.

Per quel giorno la ragazza non sarebbe morta, perché per lei aveva in serbo qualcosa di più grande.

─ Parla...sono tutta orecchi.─ scherzò lei, o almeno ci provò.

Ecco il momento che aspettava, ecco la voce accondiscendente uscire flebile e tremante da quelle morbide labbra screpolate ed ecco tornare in lei, la fiammella della piccola guerriera che aveva visto pochi attimi prima.
Ogni azione della giovane era per lui una duplice conferma di quel quadro che stava dipingendo minuto, dopo minuto mentre scopriva guardingo, i tasselli che formavano il suo carattere.
─ Le cose sono due cerbiattino, vuoi vivere o morire?─ mentre Hazel stava per aprire bocca e rispondere, il ragazzo la fermò mentre allungava un braccio verso di lei e poi continuò ─ Cosa sei disposta a fare per poter continuare a vivere? Saresti disposta anche a venderti? A vendere l'anima, il corpo e il sangue, al diavolo?

Hazel sussultò.
Cosa voleva dire con vendere?
Per caso intendeva dire diventare la propria schiava?

Hazel sudò freddo, quando notò lussuria negli occhi neri dell'aguzzino.
Non voleva crederci, non poteva minimamente credere ad una cosa del genere.
Istintivamente si pizzicò un bracciò, perché desiderava ardentemente svegliarsi da quell'incubo che stava vivendo. Ma quando si accorse che il ragazzo non se ne era andato ma anzi era lì, con quel suo profumo piacevole e carezzevole, voleva sparire sotto cinque metri di sabbia, in una profonda buca come lo era il Death Valley, in California.
Voleva piangere, urlarle ma sapeva che non sarebbe servito a niente.
Riprese invece coraggio e lentamente aprì bocca, mentre quella parola che al solo pensiero le metteva in corpo una sensazione di puro disgusto, prendeva vita.

─ Mi stai chiedendo di diventare la tua puttana?

Il ragazzo rise di gusto mentre allungò il dito per lasciare uno sbuffetto sul piccolo nasino della ragazza. Le sue mani erano calde, il viso di Hazel una lastra di ghiaccio.
─ Non la mia, diciamo che io ho altri gusti. Sarai però la prostituta di un mio amico...lui ne ha un disperato bisogno.
Poi si alzò dal tavolinetto e le venne vicino.
I loro nasi si sfioravano così come i loro caldi respiri.
I suoi occhi erano camaleontici. Non si poteva non rimanere ad osservarli per ore, anche se nascondevano una nube tetra erano allo stesso modo, invitanti e ipnotici.
─ Non vorrai mica deluderlo? Non vorrai mica deludere me, Hazel?

Hazel mosse la testa prima a sinistra e poi a destra, in un muto dissenso mentre immagini distorte comparvero nella sua mente. Ricordi spezzati, dimenticati e sotterrati nel subconscio, ma che la situazione, il biondino, stavano facendo risuscitare.

Si alzò definitivamente e se ne andò alla porta.
Prima di uscire però, le si rivolse un'ultima volta, o almeno così sperava Hazel, la parola:
─ Al mio amico piacciono le bionde.

E finalmente la lasciò sola con i suoi demoni, con le lacrime che copiose cominciarono a scendere da quegli occhi tristi e nebbiosi.

Che cosa ho fatto nella vita per meritare tutto questo?

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Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

 

"La sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, 
il destino, quando d'un tatto, esplode."

(Alessandro Baricco, Oceano Mare)




Il cielo azzurro. Il mare. Il vento salato e le barche in lontananza.
Alex si portò alla bocca una sigaretta che accese subito dopo, mentre il grigio del fumo batté contro il blu di quello del cielo, andandosi ad insinuare in esso muovendosi in una strana danza. 
Gli piaceva molto il mare.
Il suo colore, l'odore che lasciava sulla pelle dopo aver immerso il corpo caldo e l'allegria, la solitudine che esso si portava dietro.
Ma quello che più gli piaceva di quella distesa di acqua salata, erano le tante storie che raccontava, e le si potevano udire quando seduti, attenti si ascoltavano le onde infrangersi sugli scogli.
Andava lì quando aveva bisogna di stare da solo, a fare i conti con quella furia che lo accecava, quando tutto intorno diventava insostenibile e l'anima diventava infuocata e pesante.
Si sedeva sulla panchina sita nella Boardwalk in Coney Island e inebriandosi dell'odore pungente di quella distesa di acqua cristallina, ne osservava le onde andare e venire, l'uomo sui quarant'anni che portava a passeggiare il proprio doberman dello stesso colore della sabbia, coppiette che incuranti degli sguardi maligni dei passanti, si scambiavano dolci carezze o sorrisi frizzanti.
Sembrava uno spettatore delle vite degli altri ed era diventato bravo nel riconoscerne le sfumature e le caratteristiche a colpo d'occhio.
Così aveva fatto anche quel giorno.
Si era seduto, con le mani nella giacca di pelle, i capelli svolazzanti per colpa del vento invernale e anche se stava gelando, continuava a fare quello che stava facendo mentre fumava la sigaretta, che come la vita se ne andava tirata dopo tirata.
Ma il telefono, quel maledetto oggetto inumano, trillò e strappò viva la sua bolla, fino a farlo tornare nella desolante e fredda realtà.

Era indeciso se rispondere o meno, ma alla fine decise che ormai i giochi erano fatti e che sarebbe stato inutile non rispondere.
Lesse il nome e la tentazione tornò predominante.
Sam.
L'amico aveva questo magico potere di chiamarlo nei momenti più indesiderati e solitamente per riferirgli qualche cazzata.
Trascinò la cornetta verde e se lo portò all'orecchio.

─ Spero per te che si importante, Joker.
Dall'altra parte l'amico rise per poi rispondere.

─ Una promessa è una promessa, Russo. Comunque non ti azzardare mai più a chiamarmi con quel nomignolo del cazzo, non si addice ad una persona rispettabile come il sottoscritto.

Ma Alex non riusciva a capire a quale diamine promessa alludesse, fregandosene anche di quello che era stato il continuo della risposta, perché tanto lo sapeva anche lui che era peggio di Joker, perché il clown si poteva capire e compatire, il riccio invece no.

─ Ho paura a chiederti a quale promessa ti riferisci, però devo farlo. Spiegami che promessa mi devi.
Di nuovo una risatina e poi silenzio, per poco più di tre secondi, fino a quando non fu colmato dalla voce visibilmente divertita dell'amico.

─ Ti ricordi quando ti dissi che ti avrei trovato una?

Ma Alex lo fermò immediatamente sapendo già dove qual pazzo di un uomo, stesse andando a parare. Non ci poteva credere. Non poteva credere alle sue orecchie a quanto fosse demente e indecente, ma d'altro canto non poteva accusarlo di nulla, Sam era fatto così e ti conveniva accettarlo e stare in silenzio. Era subdolo e sicuro di se, era un mix esplosivo di luce e ombre, più ombre che luce però, accompagnato dalla caparbietà che ostentava in qualsiasi situazione.

─ Tu stai scherzando, vero?! Mi hai pagato una puttana, per cosa?! Ti avevo esplicitamente detto di non aver tempo per queste e cose e tu...─ fece un profondo respiro mentre la voce risultava alterata e agitata, dai nervi tesi e roventi mentre riprese a parlare.

─ Tra l'altro non mi avevi nemmeno detto niente riguardo al "ti devo trovare una ragazza". Ma poi fu la volta di Sam, che risultava ancora più divertito da tutta quella bizzarra situazione. E certo lui godeva di queste situazioni, ne era irreparabilmente attratto. Se era possibile, un giorno sarebbe diventato il re delle cazzate.

─ Va beh, forse l'ho solo pensato però ormai è fatta.

Ci fu silenzio, ma non uno di quelli pesanti.
Sam aspettava paziente la caduta dell'amico, Alex invece a quale parte di se avrebbe dato ascolto almeno per una volta: quella razionale o quella istintiva.
Riportò gli occhi cristallini sulla distesa che aveva davanti.
Poi sulla solita coppietta che amoreggiava e sull'uomo con il cane.
Negli occhi dei ragazzi giovani c'era allegria, divertimento e qual sentimento che non aveva mai avuto l'onore di sondare: l'amore.
Negli occhi dell'uomo invece, una gelida tristezza e rassegnazione ma anche un altro sentimento che nacque nel momento in cui i suoi occhi si posarono sull'amore e sui giovani, nostalgia.
Poi le parole presero forma nella sua bocca e non riuscì a fermarle, troppo cocenti.
─ Va bene testa di cazzo.
Non poteva credere a quello che stava per fare ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.


***


Non poteva credere a quello che stava per fare.
Si era davvero lasciata convincere così da quell'uomo? Da quello sconosciuto?
Ma poi ricordò dello schiaffo ricevuto e di quelle mani nocive quanto i suoi occhi letali e la sua coscienza fu brutalmente messa a tacere.
Aveva dovuto prendere l'autobus per recarsi dove il ragazzo, che seppe da egli stesso chiamarsi Samuel, gli aveva detto di "incontrare il suo amico".
Il giorno prima si era recata al supermercato per fare la spesa e aveva notato questa tinta bionda. Così ne aveva comprati tre tubetti e aveva cambiato per la milionesima volta, colore. Ora sfoggiava un biondo cenere, che vagamente ricordava il biondo naturale della sua infanzia. Pazienza, si era detta.
Sedeva sul sedile e cercava in tutti i modi, di tenersi al riparo da quegli sguardi che le sembravano giudici implacabili. Si sentiva sporca e in guerra con se stessa. Si stava odiando ed ogni minuto che passava, lo stomaco le si riempiva d'ansia e di aria.

Aveva indosso calza a rete, una gonna nera che arrivava a metà coscia e il parka verde militare con le maniche in pelle.
In fondo non sapeva nemmeno se quell'abbigliamento era adatto, era tutto tetramente nuovo per lei. Al solo pensiero gli veniva da piangere e poi vomitare. E ancora piangere e vomitare, in un circolo senza fine.
Non riusciva a far smettere di tremare il suo cuore e il suo corpo, ridotto ad una lastra di ghiaccio.
Ogni tanto qualche lacrima sfuggiva al suo controllo e le labbra sottili si incastravano tra i denti però poi riusciva a ritrovare il coraggio, perché aveva paura di essere scoperta.
Si sentiva così sbagliata per quella vita che le offriva solo colpi bassi. Era la condizione esistenziale della sua vita, quella di soffrire.

Si alzò quando si accorse di essere arrivata alla fermata e mentre teneva le cuffiette nelle orecchie, ascoltando i Nirvana e il lamento verso la società uscire dalla bocca di Kurt Cobain, si incamminò verso l'hotel che costeggiava nella parte più vicino a Manhattan, sull'85 Smith Street.
L'hotel economico non sembrava niente di che ma utile per chi voleva risparmiare e riuscire comunque ad essere a NY e vivere il sogno della grande mela e della meravigliosa città che con le sue luci, non dorme mai.
Ma era anche utile per fare quello che stava per fare.
Si era detta, in un impeto di rabbia, di preferire la morte piuttosto che stare con un uomo che non sapeva nemmeno che faccia avesse.

Qualcosa nella mente era scatto quando ebbe formulato quella frase. Qualcosa di molto più grande della morte. L'attaccamento alla vita e la voglia di aprire gli occhi e guardare quanto schifo facesse il mondo, per avere la presunzione di aprirli quegli occhi, per avere la presunzione di dire "ho vinto anche ieri contro la morte" e urlarlo e sorridere di se stessa. Era così scontato eppure quando la vita ti faceva lo sgambetto, beh le cose cambiavano e sentivi sopra le spalle il peso della vita e di quel semplice gesto incolore.

Fece due passi e poi prese coraggio e definitivamente vi entrò, spingendo la porta.
Quello che vide, quello che le colpì come un onda sovrasta lo scoglio, fu il bianco delle pareti e il nero dei salottini, messi a disposizione per i clienti.
La purezza del bianco che si stringeva contro il suo corpo e i sensi di colpa, che invadevano il suo spirito.
Si recò verso il bancone della reception che si trovava alla destra dell'entrata e vi trovò un ragazzo con una maglietta bianca e i capelli rossi.
Appena la vide il viso costellato di lentiggini le si illuminò tutto.

─ Salve!
E il ragazzo garbatamente le rispose allo stesso modo.
La voce di Hazel era flebile e stentata anche se cercava in tutti i modi di indurirla.

─ Volevo...volevo sapere se...se è arrivato un uomo e...─ improvvisamente smise di sputare quelle parole quando gli occhi verdi muschio del ragazzo si rabbuiarono di amarezza e delusione. Aveva capito tutto, fortunatamente per lei dato che quel supplizio era durato fin troppo. La spallina della tracolla marrone stava calando, ma prepotentemente la rimise al proprio posto, sulla spalla destra mentre infossava le spalle nel parka.

─ Per favore signorina, può dirmi il suo nome?
Ormai nella voce del ragazzo non c'era più calore, ma solo freddo, mentre lasciava spazio al giudice implacabile che l'essere umano è.

─ Hazel Montgomery.

─ C'è un uomo che la sta aspettando seduto sul divanetto.

Poi detto questo la lasciò e si incammino verso la postazione dove teneva il computer.
Per quanto era concentrata verso il tumulto che aveva nell'anima, non si era nemmeno accorta che un uomo, dalla giacca di pelle, sedeva dandogli le spalle come un re siede un trono.
Lentamente le si avvicinò e delicatamente gli picchietto la spalla.
L'uomo apaticamente si girò nella sua direzione, rivelando due diamanti azzurri grezzi al posto degli occhi. Quegli stessi occhi che l'avevano sviscerata nelle notti dove la luna era oscurata da nubi.
Davanti ai suoi occhi aveva l'uomo che si era insidiato nei suoi pensieri, nei meandri più nascosti del suo cervello. Credeva che quel momento non sarebbe mai potuto arrivare, aveva cercato anche l'aiuto di Clash, ma senza ottenere niente.
Ed ora la vita, il destino, glielo faceva ritrovare davanti ai suoi occhi.
Strano è? Ti prefiggi di disegnare la tua vita, cerchi in tutti i modi che quei disegni si realizzano, che i desideri, le aspettative smettono di essere tali e diventano reali. Ma poi però, la vita decide per se e per te, allora cambia le carte in tavola e vince, vince sempre.
Tu non puoi fare altro che accettare, senza lamentele.

L'uomo si alzò e senza mai smettere di guardarla, le allungò la mano, presentandosi.
─ Sono Alex e tu devi essere...Hazel.
Il modo in cui pronunciò il suo nome, con la voce suadente, roca e velata di una dolce sorpresa, le fece per un attimo, sciogliere l'ansia nello stomaco.
Prontamente la ragazza, allungò la mano in direzione di quella dell'uomo e gliela strinse.
─ Andiamo, ho io le chiavi.

Parlò ma nessun sorriso trapelava dal suo viso, nessuna emozione evidente.
Allora l'ansia tornò e quel nodo che si era formato nel pullman, si strinse ancora di più.
Percorsero il corridoio in religioso silenzio, mentre le pareti bianche, dallo stile asettico, le facevano compagnia.
Alex le stava davanti, con quelle gambe lunghe e muscolose.
Tutto il suo corpo si muoveva sinuoso, arrogante e presuntuoso.
Le mani lungo i fianchi, che portava di tanto in tanto a sistemarsi i capelli che ribelli, avevano vita propria. Svoltò a sinistra per poi fermarsi.
Aspettarono pazientemente l'arrivo dell'ascensore e una volta che le porte si aprirono, vi entrarono.
C'era un grande specchio dentro la cabina.
Rifletteva il corpo atletico e predominante di Alex, che appoggiava scocciato i reni alla parete di metallo. A sinistra, quello esile e spaventato, ghiacciato di Hazel.
Ogni tanto i due si lanciavano sguardi nascosti, così mentre gli occhi acquosi di Hazel saettavano sul viso olivastro di Alex, lui invece la stava studiando.
Guardava la sua postura, che parlava per lei.
Le spalle infossate nel collo. Le mani strette lungo l'attaccatura della borsa marrone. Gli sguardi accusatori dei suoi bellissimi occhi grigi –forse verdi o forse blu.
La porta si aprì, rivelando un altro corridoio dalla moquette nera.
Alex si fece di nuovo a vanti e Hazel, prontamente lo seguì come un cagnolino.
Nel frattempo contava i numeri sulle porte bianche.

12-13-14...

─ È la stanza numero 15.

Alex si fermò, estrasse la chiave dalla tasca della giacca e la inserì nella toppa della porta, infine aprendola.
La stanza non era niente male.
Un letto matrimoniale al centro, molto spaziosa e luminosa. Una finestra ampia con il davanzale in marmo bianco, di quelli poco costosi.
Si intravedeva la porta aperta del bagno a sinistra della finestra e una scrivania con un armadio marrone a due ante, addossati al muro.
Se si faceva attenzione, oltre all'odore del disinfettante, si poteva sentire l'odore della vaniglia.

─ Beh che fai sulla porta, vieni pure avanti.

Improvvisamente, come colta di sorpresa, si accorse della presenza dell'uomo che nel frattempo, era andato vicino alla finestra, per ammirarne il paesaggio.
Hazel fece un passo avanti e si richiuse la porta alle spalle.
Poi rimase in mezzo alla stanza, non sapendo cosa fare.
Nel frattempo, stufo di osservare quel paesaggio monotono di grattaceli e strade grigie, Alex si girò nella direzione della ragazza, chiedendosi cosa avesse fatto di male per essere con lui e per aver conosciuto il suo amico.
Certo non si poteva dire che fosse brutta, anzi, era davvero bella, ma non della bellezza delle modelle di Victoria Secret, la sua era una bellezza dolce e fine, una bellezza che la rendeva elegante solo per avere le labbra sottili.
Però le si leggeva in faccia che stava per scoppiare a piangere. Infatti, due minuti dopo, Hazel inondò i suoi occhi di acqua salata.


Spazio Autrice.
Salve mie cari lettori come state? Passata una bella vacanza?
Io sono stata 9 giorni a Barcellona e devo dirvi che è davvero bella!
Tornando a noi.
Finalmente i due si sono incontrati. Stappiamo lo champagne, Margo ce l'ha fatta finalmente!
Recensite, recensite e recensite! Fa sempre piacere leggere i vostri commenti ;)

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***




 

Hazel


Capitolo 14

 
 

Cominciò a piangere. Non di un pianto pacato, perché in quelle lacrime aveva nascosto tutto il risentimento, tutta la rabbia, che provava per quella vita ingiusta.
I singhiozzi le scuotevano l'anima, distruggendola; la stavano soffocando, lacerando.
Non gli importava nemmeno che quegli occhi così belli la stessero osservando.
E lo stavano facendo, oh si se lo stavano facendo. Erano però lontani e distanti, quasi assenti.

Nel frattempo si sedette perché non ce l'ha faceva più a stare in piedi e a farsi forza, ormai anche quella se ne era andata con le lacrime.
Il viso di Hazel risultava agli occhi di Alex ancora più bello di quanto già non fosse.
Infatti lui, se li era goduti quegli occhi che si erano alzati solo per incontrare i suoi, solo per vedere che cosa dicessero. Per un brevissimo istante, il grigio gli ricordò il cielo plumbeo di Edimburgo, città che lui amava alla follia. Quegli occhi raccontavano di mille storie, di mille segreti ma quelle storie, non celavano rimpianti. Poteva notare anche dolore, odio, risentimento e per un millesimo di secondo, sperò che non fosse per la sua persona, perché in qualche modo, essendo abituato ad essere odiato da tutti, non voleva che la ragazza provasse le stesse sensazioni degli altri. Voleva invece che non guardasse il mostro che preferiva l'ombra, alla luce.
Venne lentamente avanti, con quell'andatura elegante di cui il suo corpo ne era fornito.
Tolse il cappotto che lasciò cadere sulla superficie liscia della scrivania marrone.
Prese la sedia dalla scrivania, la trascinò fino al centro della stanza e con leggiadria vi si sedette sopra.

Hazel intanto aveva cessato i singhiozzi ritrovandosi a placare quel pianto disperato, semplicemente guardando le gesta dell'uomo.
Alex si stava sbottonando con lentezza i bianchi e piccoli bottoni della camicia dello stesso candido colore, lasciando in bella mostra gli avambracci tirando su le maniche della camicia, fino a fermarsi vicino il gomito.

A quel punto mentre la ragazza era intenta ad osservare l'inchiostro nero indelebile ritratto sulla carne abbronzata dell'uomo, Alexander puntò i suoi occhi, che erano impegnati nella camicia, verso gli occhi della ragazza, che accortasi dello sguardo dell'uomo, lo imitò in silenzio, mentre dischiudeva le labbra.

Ora si osservavano in un silenzio sinistro, carico e voglioso di qualcosa che non avrebbero mai ammesso a loro stessi, e mentre Alex era davvero bravo a nascondere quella lussuria, quel desiderio che era fiorito nel suo petto marmoreo nel momento in cui aveva visto il visino della ragazza, così esile, dolce, delicata e impaurita, dal canto suo Hazel, non vedeva l'ora di sentire sulla pelle quelle mani così grandi e rovinate, e di andare via di lì, prima che avrebbe perso la bussola e il controllo di se.
Il cervello inoltre, le stava dicendo che non avrebbe retto ancora per molto quello sguardo di ghiaccio. Portò poi gli occhi sulle sue gambe. Piccoli tatuaggi di simboli si intravedevano tramite le calze, poi andò più su fino a fermarsi ad osservare il top bordeaux chiaro con l'incastro dei laccetti, l'unica cosa più provocante in mezzo ai maglioni e alla maglie di band.
Il suo problema era sempre stato di non dare ascolto al cervello.
Tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva provato, le stupidaggini, i casini combinati, la droga, il sesso da ubriachi; erano fatti accaduti dal suo non pensare mai alle conseguenze. Era impavida e timida, era istintiva e coraggiosa, pronta a fare nuove esperienze e per niente sensibile, perché quando ci si metteva, sapeva fare davvero bene la stronza.
Così come non aveva dato retta al cervello in quelle occasioni, anche in quel momento non fece niente per fermare il suo corpo che bramava quelle mani, quella pelle e il sapore dell'inchiostro.
Si alzò, tolse il park depositandolo dall'altra parte del letto matrimoniale e tremando appena, appena, portò le mani verso il top.
Sciolse il laccetto senza togliere lo sguardo dall'uomo, come in una sorta di sfida.

Che diavolo stai combinando? Ti sei per caso dimenticata che fino a pochi secondi fa stavi piangendo disperata perché volevi andartene da lì! Adesso vuoi veramente farti scopare da lui?! Da un uomo che hai conosciuto solo nei sogni?!

Era quello il problema.
Lei lo sognava in continuazione, il perché ancora non lo sapeva.
E lo aveva desiderato, non ammettendolo mai a se stessa.
A quel punto, quando se lo era ritrovato davanti, oltre alla tristezza il suo corpo era stato scosso dalla consapevolezza; la consapevolezza che non era diverso dagli altri e che se era lì un motivo c'era. Gli avrebbe dato quello che desiderava e poi...poi avrebbe fatto di tutto per tenerselo stretto, un po' perché lo incuriosiva e un po' perché voleva risposte.
Quello era stato il reale motivo per la quale aveva sciolti i lacci e si stava concedendo, servendosi su un piatto d'argento.
Ma chi voleva prendere in giro. Alla sola visione di lui con la camicia, e poi dei tatuaggi, il suo cervello era andato in brodo di giuggiole.
Era da due anni a quella parte che non incontrava un uomo che trasudava sesso da tutti i pori.

I laccetti scivolarono liberi lungo il suo corpo magro, sbattendo sul ventre che metteva in evidenzia le ossa del bacino. Lentamente, come ipnotizzato da quella pelle dello stesso colore della luna, allungò un braccio nella sua direzione, costringendolo ad alzarsi e a sfiorare con il dito ruvido, quella pelle marmorea e piatta, in una sottile carezza, tracciando una linea verticale.
Scese sempre più giù, mentre Hazel chiudeva gli occhi e tremava.
Alex arrivò al bottone centrale di quella gonna di Jeans che trovava lasciare poco all'immaginazione, per quanto gli fasciava i fianchi dritti e spigolosi.
Mise il dito all'interno e semplicemente, la tirò a se. 

Aprì gli occhi solo quando si ritrovò stretta al petto ampio di lui e come per abitudine, come se fosse abituata da anni farlo, alzò gli occhi per incontrare quelli dell'uomo.

Si desideravano, entrambi, nessuno escluso.
Quel desiderio era morboso, animale, primitivo e subdolo. Voleva toccargli la mascella squadrata, quella piccola cicatrice bianca che aveva sul collo, le labbra sottili che non accennavano a sorridere e i capelli che profumavano di miele e di pioggia, di inverno. 
Ma non fece nulla di tutto quello.

Rimasero minuti interi in quella posizione, senza dire una parola. Hazel non si accorse che non aveva sussurrato nemmeno mezza sillaba da quando lo aveva visto. Però qualcosa gli diceva, che neanche a quell'uomo freddo piacesse poi molto parlare.

Fu Alex a spezzare quel magico momento, quando risalì con le mani a toccare i fianchi magri, per dirigerle poi verso il seno, e a riprendere con quelle mani callose per colpa delle armi, i laccetti e a rivestire la ragazza, in un gesto che voleva dirgli che la desiderava ardentemente, e che nonostante fosse così asciutta, a lui era piaciuta subito, fin dal primo momento. Ma non poteva farlo, non con una persona che non lo desiderava, non come lui voleva lei.

Hazel rimase interdetta e stupita di quello che l'uomo aveva appena fatto.
Si sentì montare su la delusione ma anche la felicità. 
Non riuscì a trattenere quello che la mente stava pensando e quindi, per la prima volta parlò, in un sussurro, però lo fece.
─ Che cosa vuol dire?

Alexander intanto si era seduto nuovamente su quella sedia e composto, accavallava le gambe, in una posizione per niente femminile. 
─ Questo. ─ la guardò, ma vedendo l'espressione contraria e sorpresa sul viso della ragazza, continuò 
─ Cioè intendiamoci, sei veramente carina ma le donne, quando stanno con me, è perché lo vogliono. Non obbligo nessuno e so per certo, solo guardandoti, che tu non fai questo per lavorare.

Parlava con sicurezza, soppesando ogni parola che diceva e con uno accento, ormai sbiadito, dei paesi freddi dell'est.
Improvvisamente voleva sapere tutto di lui, soprattutto da dove provenisse quell'accento.
Ma di nuovo, si trattenne.
Al contrario si limitò a fare un cenno di si con la testa e di nuovo il silenzio calò in quella stanza bianca. Non per molto, perché si sentiva in soggezione per colpa di quelle gemme blu che la scrutavano senza ritegno, senza educazione o paura.

─ Allora...di dove sei?
Gliel'aveva fatta davvero quella sciocca domanda?
Come se stessero in un caffè e non in una stanza di un motel.
Dio che stupida che era stata!
Ma ad Alex quell'intervento non dispiacque affatto. 
Si mervaiglió della purezza e dell'innocenza della sua anima, trovandola una squisita creatura così fragile.

─ Vuoi dire da dove proviene questo accento? Beh ho origine russe. ─ e poi cacciando dalla tasca il pacchetto delle sigarette, se ne accese una per continuare, ─ E tu invece, sembri una bellezza tipica della California.
La sigaretta bruciava tra le sue mani, mentre alternava le parole ad uno sbuffo di fumo grigio.

─ Sono Texana di origine.
─ Umm.  ─ fu soltanto in grado di fare quel verso, muovendo la testa appena su e giù.
─ Ce ne staremo quindi qui a parlare? Come due vecchi conoscenti? 
Quella risposta aveva nella voce un astio mal celato, tanto che sorprese Alex che nonostante tutto, si ritrovò a sorridere.
─ Se vuoi, altrimenti ce ne andiamo. 
Non seppe il perché ma il pensiero di poter andare via da quella stanza, e di non rivederlo mai più, le mise una tristezza addosso. Voleva stare lì, a parlare con quell'uomo, con quello sconosciuto, senza provare vergogna o paura. Voleva essere ascoltata, voleva parlare di lei, della sua vita, di quello che le piaceva o non le piaceva fare. Ma non avrebbe detto quelle cose ad un'altra persona, ma solo ed esclusivamente ad Alex. E questa cosa, la destabilizzò e non poco.
Forse erano i suoi modi calmi e fini, o forse era semplicemente la sensazione che provava sulla pelle nel guardarlo, a farla incantare a lui. Fatto sta, che in quel momento si sentiva leggera, davvero in pace con se stessa.  

Così cominciarono a parlare.
Scoprí che Alex era arrivato a NY diciassette anni prima, perché dove viveva lui, non c'erano soldi e un futuro migliore del lavoro del contadino. Sua madre era una prostituta che si era suicidata, forse non sopportando più l'idea di incontrare ogni giorno uomini diversi e di vendersi a loro. Fu proprio Alex che una mattina di ottobre, la trovò stesa sul pavimento, con la faccia dello stesso colore delle mattonelle bianche. Suo padre era un ubriacone che spendeva quei pochi soldi che l'undicenne Alex, quando ancora era basso, magro ed era facile prendersela con lui, guadagnava.
A diciotto anni presa la decisione di andarsene da lì, di lasciare la neve russa per incontrare quella americana. I primi anni non furono facili. Guadagnava da vivere picchiando gente, in uno di quei incontri clandestini. Fu proprio sulla strada che incontró l'organizzazione per cui lavorava. Non gli aveva però detto di che cosa si occupasse. Non gli aveva detto che prima di finire per l'organizzazione stava con la mafia russa, e che quei tatuaggi ne erano la testimonianza. Quelle cose se le tenne per se, chiuse nella cassaforte della sua anima. Vedeva l'interesse che la ragazza aveva avuto per tutto il tempo che aveva parlato. Sembrava ipnotizzata, quando in un gesto meccanico, aveva preso e acceso la sigaretta che gli aveva offerto.

Seppe inoltre che si sarebbero rivisti. Ma non era il solo ad avere quella stramba sensazione, perché anche Hazel lo percepiva, mentre accoglieva il fiume di parole che le si erano riverse addosso.

─ E tuo padre è ancora vivo?
Chiese poi ad un certo punto, mentre l'uomo finiva la sua terza sigaretta.
─ Non lo so.
E invece lo sapeva perché lo stava cercando da due anni, quando gli era arrivata la voce della sua falsa morte. Sapeva che era arrivato anche lui in America, gliel'avevano detto gli amici della mafia russa e loro non sbagliavano mai.
Aveva preparato la morte di quel farabutto da anni. Doveva pagare per quello che aveva dovuto sopportare in quel triste e disdicevole passato sovietico e doveva pagare per aver causato la morte di sua madre, che si era venduta per colpa sua.
Guardò l'orologio accorgendosi che era ormai pomeriggio inoltrato e super in ritardo, per la riunione.

Si alzò, buttò i mozziconi di sigaretta fuori dalla finestra mentre Hazel faceva lo stesso e si rimise la giacca.
─ Vuoi un passaggio? 
Gli chiese, mentre timidamente lei accettava.
Uscirono da lì che erano le 17:30 e dopo aver condotto Hazel a casa, corse alla riunione.

Mentre si recava in ufficio il pensiero vagò verso la ragazza e alla voglia che aveva di rivederla. Era stato bello per un attimo non incontrare il terrore negli occhi di chi gli stava parlando. Lei aveva ascoltato tutto in silenzio, con interesse. Percepiva nei suoi atteggiamenti, forse perché aveva imparato a guardare affondo una persona, che un segreto, un qualcosa che era accaduto nel passato, la frenava, rendendola poco dedita al parlare di se e a fare nuove conoscenze. 
In quel momento Hazel rappresentava per lui, l'incognita tutta da scoprire. 
Guardò per l'ultima volta il bigliettino dove lei aveva scritto il suo numero di telefono, mentre l'accompagnava a casa, ricordando le parole con cui aveva accompagnato quel gesto.

Per qualsiasi cosa, ora sai dove cercarmi.

E come era venuta se ne era andata.
Scese dalla macchina e raggiunse finalmente l'ufficio.

 



 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***








Alexander


Capitolo 15


La donna che le sedeva di fronte, dall'altra parte del tavolo, stava muta e in silenzio, ma lo guardava soltanto.
Gli occhi blu da gatta, resi sottili da un contorno di matita nera. I capelli lunghi, scuri, dello stesso colore delle ali di un corvo.
La vita stretta, il seno grande e le labbra distese in un sorriso malizioso.

Alex tamburellava distratto e annoiato con le dita, su quel grande tavolo di mogano chiaro con su scolpito lo stemma dei "Lupi Verdi".
Damon, pseudonimo di Rob, parlava e parlava, con quel suono tono spietato e con un accento britannico predominante, mentre muoveva quei suoi capelli neri setosi e lucidi di gel. 
─...quindi è per questo che non ci sono altre scelte che cominciare una guerra contro quel finocchio di Patrick.
─Non credo proprio.
La donna aveva aperto finalmente bocca.

Cathlyn Stan, il presidente del club mafioso di cui facevano parte sia Sam il joker che Alexander il russo e Donovan lo straniero. 
Era una donna tanto affascinante quanto pericolosa. Con suo fratello - la sua copia in tutto e per tutto - avevano in mano l'impero del male in buona parte degli stati federali.
Brooklyn però, rappresentava il trampolino di lancio, dove tutto aveva avuto inizio.

Non furono i fratelli a crearlo, ma un certo James Stan detto il secco, che pendeva, fin dall'infanzia, verso il lato oscuro. Ma non era colpa sua, diciamo pure in parte. Quando abitava in Irlanda, aveva avuto la sfortuna di nascere cattolico, e in quegli anni a Belfast per tutti quelli che come lui, si ritrovavano a pregare una fede diverse dal protestantesimo, non gli veniva concesso niente, se non gli scarti di quegli uomini bianchi. Così quando suo padre venne bistrattato malamente, promise a se stesso che niente e nessuno avrebbe mai più considerato gli Stan dei poveracci, nemmeno quegli "sporchi animali bianchi protestanti". 
Un giorno partì alla volta del sogno americano, ma lì le cose non si dimostrarono tanto diverse da Belfast e periferia. I primi due anni furono i peggiori per lui perché mangiava solo se gli veniva dato qualcosa o se riusciva ad accaparrarsi un pezzo di pane in uno dei bidoni.

Era un senza tetto. 
Un senza tetto arrabbiato e disposto a tutto per il potere.

Un giorno, mentre si trovava ad elemosinare, salvò un uomo importante da una pallottola volante, finendo per terra al posto suo. Quello era un "beta" del capo della Mafija, ovvero la più importante organizzazione mafiosa russa, che in quegli anni aveva in pugno tutta Brooklyn.
James non era stupido, anzi, lui sapeva molto bene quello che stava facendo, e sopratutto che quello non era di certo un uomo qualunque. Da quel giorno la sua vita fu tutta in salita, tanto che riuscì a spodestare la potente Mafija con il suo clan.

 

Il fratello le rivolse uno sguardo cattivo. Odiava non essere accontentato.

─ E tu Alexander cosa ne pensi? 
Improvvisamente si ridestò dal mondo dei sogni che avevano il colore giallo del grano e del grigio del cielo nuvoloso.
─ Umm?
Riuscì solo a dire, pentendosene all'istante.
Non gli piaceva mostrarsi debole agli occhi degli altri e tanto meno abbassare la guardia, anche quando non c'era nessun pericolo a rincorrerlo o a fargli da ombra.
La donna aprì quelle labbra carnose colorate di rosso fuoco, in un impavido sorriso che lasciò intravedere la dentiera bianca come il latte.
─ Qualcuno qui è distratto, oggi? 
Sorrise. Non per accontentarla ma per compiacerla.
Lei lo conosceva molto bene, anzi lo conosceva meglio di se stesso.
Ma quello che Alex non sapeva, era l'ossessione che per molto tempo aveva pervaso il corpo della donna e la sua mente più nera del cielo notturno.
Era ossessionata da lui, ma non di un ossessione benevola, era qualcosa che le prendeva e le scuoteva tutto l'interno del corpo. Lo voleva solo per lei. Lo desiderava. Provava una profonda gelosia solo se sfiorava con un gomito un'altra povera donna. Era pazza.
Però era bravissima a nasconderlo. Quel lavoro in quei casi, aiutava molto.
─ Non puoi scatenare una guerra, Damon. Dobbiamo fargli capire chi è che comanda, chi è il più forte. Se cominci una guerra, dimostri solo debolezza. 
Alex aveva parlato e la donna si era illuminata in volto. A quel punto Damon parve convincersi e mosse la testa in un segno di assenso. 
Aveva azzardato a dare una risposta e come sempre era andata a segno.
─ Che cosa proponi, russkiy?

 

***

La neve cominciò a scendere lenta, silenziosa, per andare a schiantarsi contro quel terreno sporco e rovinato.
Quello che Alex aveva suggerito alla riunione era di mandare un messaggio alla gang di Patrick. 
Un ulteriore avvertimento, il quinto da due mesi a quella parte.
A Brooklyn era scoppiata una sorta di guerra fredda, e gli unici combattenti erano i Green Wolf e i Dumbster e Dio solo sapeva come sarebbe andata a finire.

La missione che gli era stata affidata quella sera, consisteva nel pedinare e ammazzare un uomo vicinissimo alla cerchia ristretta di Patrick.
L'uomo si chiamava Valentine, era di origine rumene e aveva trentacinque anni. La sera era solito andare a correre, tranquillo, mentre le sue mani erano più sporche dell'anima del diavolo stesso.
La soffiata era arrivata solo il giorno prima e quasi di istinto Alex si era preso la responsabilità di finire la missione e vendicare la morte di uno degli scozzesi morti assassinati, molto caro al club. 
Era ora di terminare i conti con quei bastardi.

─ Gli correremo dietro. Io però andrò a destra e tu a sinistra. 
Sam, visibilmente carico e febbricitante al pensiero del sangue caldo che prestò avrebbe ricoperto le sue mani, stava in silenzio e lo ascoltava.
Alex spostò la manica della felpa nera che indossava per tenere lontano il freddo e controllò l'orologio. 
22:20
Perfetto, l'uomo sarebbe passato da lì tra una mezz'oretta.
─ Andiamo.
Detto questo, scesero dalla macchina e una volta chiusa, si sistemò il cappello blu di lana da pescatore e si incamminò correndo, presso Central Park.

Il vento freddo di novembre schiaffeggiava selvaggiamente, senza ritegno, le sue gambe scoperte, dove la faccia di uno scheletro si faceva strada sul polpaccio destro, con gli occhi neri infossati.
Ogni volta che correva, la Glock nera sbatteva sul fianco sinistro rendendo insidiosa la corsa.
Quando arrivò in prossimità del lago, posto al centro del parco, lo vide.
Vide un uomo correre, le cuffie bianche nelle orecchie e i pantaloni lucidi blu, che si confondevano con quello del cielo.
Prese il telefono dalla tasca della felpa, e scrisse a Sam.
Cinque minuti dopo vide una matassa riccia bionda sbucare da dietro un albero, mentre corse a posizionare i suoi occhi in quelli dell'amico.
Bastò uno sguardo per far capire a Sam che doveva continuare con la falsa.
Per non dare nell'occhio, Alexander si fermò in prossimità di una panchina.

Il parco di notte era davvero spaventoso.
Gli alberi, che con i loro rami ormai spogli delle foglie per via della stagione, sembravano falangi lunghe e arcigne, che si allungavano a toccare la luna, l'unica fonte naturale di luce, oltre che a lampioni.
Nonostante fosse così tetro e spaventoso, regalava uno spettacolo al quanto mozzafiato. 
Il silenzio veniva smorzato dai polmoni che riprendevano aria e dai passi dell'uomo che correndo, scricchiolavano sulla neve.

Quando l'uomo gli passò accanto, lo degnò di uno sguardo fugace, sorpreso di vedere che qualcun'altro amava come lui correre con il freddo pungente e per di più alle undici di notte. Ma quando Valentine si rese conto del russo, quando lo riconobbe,  era ormai troppo tardi.
Girò il viso nella sua direzione. Quello fu il senale per Alex.
Un ghigno riempì le sue piccole labbra, mentre si protese in avanti ricominciando a correre. 
L'uomo sgranò gli occhi, anche se aveva fatto di tutto pur di non darlo a vedere.
Continuando a guardare dietro, questa volta allungò il passo e la corsa si fece più scattante. Ma non servì a niente. La sua corsa si arrestò quando il corpo andò a sbattere contro quello di Sam, che furbo come una volpe, si era fatto trovare davanti.

─ Spero per te che sia stata una bella corsetta serale, perché sarà l'ultima.

Un pugno arrivò dritto al naso del rumeno, sbattendolo per terra.
Nella mano destra di Sam vi era stato inserito un tira-pugno che aveva lasciato sul viso dell'uomo un profondo solco sanguinante, una cicatrice trasversale che gli apriva la faccia a metà.
L'uomo imprecò in rumeno mentre si portava una mano sul naso cercando di frenare la discesa del liquido, che gli colava sul volto quasi soffocandolo .
Sam guardò Alex, che nel frattempo si era avvicinato, sembrando non essere per niente scalfito da quel freddo che avvolgeva l'aria.
Lo prese da sotto l'ascella e lo rialzò.
L'uomo tentò di tirargli un pugno ma fallì miseramente, provava troppo dolore.
Sam cominciò a ridere e a ridere, ridere e ridere.
Un altro pugno arrivò a colpire lo stomaco, pugno dato da Alex questa volta.
Senza dargli tempo di riprendersi, gliene diede un altro sulla tempia, sulla mascella sinistra e schivando un calcio agli stinchi, diede una ginocchiata alla gamba, toccando il nervo. La botta fu così forte che l'uomo urlò e questa volta la bestemmia fu comprensibilissima.
Uno sguardo, il terzo della serata, e i due all'unisono tirarono fuori le pistole e fecero fuoco.
L'aria improvvisamente prese l'aroma del sangue, del freddo e della morte.
La neve intanto, scendeva a coprire il rosso vermiglio del sangue, mentre il suolo diventava rosa.

─ Che ne facciamo del cadavere?

Il russo portò una mano all'attaccatura del naso, come a voler fare un massaggio mentre un bruciore lo pervadeva sulla nocche arrossatesi dal freddo e dalla lotta.

─ Alla zona industriale.

Alex tornò alla macchina e prese un sacco nero, quello usato per i cadaveri e quando tornò sul posto, Sam lo aiutò a mettere dentro il cadavere.
Dell'esistenza dell'uomo ormai non rimaneva che una pozza di sangue incrostato sulla candida neve, un tempo bianca.
Tanto avrebbe nevicato e avrebbe coperto quella pozza, ma per sicurezza i due pensarono bene di coprirla con la neve che era già caduta.
Lasciarono in silenzio il parco e dopo aver messo il cadavere nel bagagliaio, si incamminarono verso il territorio dei Dumbster, in una delle tante zone industriale dove tenevano i loro affari.

L'aria dell'abitacolo fu pervasa dall'aria calda che fuoriusciva rumorosa dalle bocchette nere del riscaldamento interno.
─ Fa freddo, troppo freddo.
Il viso di Alex si aprì in un sorriso malizioso mentre si accingeva a rispondere.
─ Dai che un goccetto di Bourbon allevia tutti i dolori.

Il silenzioso panorama dell' ormai ex zona industriale si aprì davanti agli occhi dei due uomini.
Alex fermò la macchina e scese, seguito controvoglia dal biondino.
Scaricarono il corpo e lo lasciarono vicino ad una staccionata.
Un gesto semplice che nascondeva mille significati.

L'avvertimento.
La vendetta.
La superiorità.

Ritornarono in macchina e dopo aver scaricato Sam in uno dei suoi bar, Alex tornò a casa o almeno ci provò.
Fare quella strada voleva dire attraversare in parte anche il quartiere di Hazel.
Anche se si erano visti altre due volte e aveva scoperto qualcosa in più dalla ragazza, per esempio dove abitava o dove lavorava, avrebbe riconosciuto anche ad occhi chiusi quella casa dai mattoncini rossi.
Con il SUV nero si fermò dall'altra parte della carreggiata, notando sul cellulare l'ora.
Erano ormai le 23.30 passate e questo voleva dire che la ragazza stava già dormendo da un pezzo.
Stava lottando con se stesso se scendere e entrare o tornarsene direttamente a casa.
Da quando l'aveva conosciuta, da quando i suoi occhi si erano posati su di lei, un senso del dovere si era impossessato di lui.
Se avrebbe potuto, se sarebbe stato un uomo diverso, non uno che campava sulla morte degli altri, allora l'avrebbe chiamata ogni giorno, l'avrebbe invitata a cena fuori, in uno di quei ristoranti vicino il mare, l'avrebbe portata in viaggio in California, tra la sabbia e il gran Canyon, avrebbe fatto tutte quelle cose che vedeva fare agli altri.
Ma lui semplicemente non poteva, così si accontentava di quello che la vita le aveva riservato.
Scese dalla macchina, abbottonandosi meglio quella felpa nera e si incamminò verso il condominio.
Attraversò la strada e dopo una breve occhiata al posto, si incamminò dalla parte delle scale di emergenza.
Con uno slancio, aiutato anche dalle lunghe gambe, si arrampicò su per la scale.
Cercando di fare meno rumore possibile, accompagnato sempre dalla sua fedele Glock, salì i gradini per arrivare al terzo piano.
La corsa terminò quando si ritrovò difronte ad una finestra rettangolare con le tendine bianche e blu. Sperò che appartenesse alla camera di Hazel e non dell'altro coinquilino. 

Di nuovo lasciò vagare lo sguardo al paesaggio notturno e quando non vi scorse nessuno, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una picca, con il legno chiaro ma graffiato in più punti. Nella mafia russa quel semplice oggetto rappresentava molto di più che un coltellino tascabile. La picca, un coltello a scatto con una lama lunga e sottile, per i russi, anzi per i siberiani, era legato a usanze e cerimonie tradizionali proprie della comunità. Non poteva essere comprata ma solo regalata da un anziano (per anziano ovviamente si intendeva un criminale sessantenne).
Ovviamente, non dovevi separartene mai. 
Per Alex quell'oggetto rappresentava il filo invisibile che lo legava al passato, da cui non poteva fuggire, da cui non voleva fuggire.
Fece scattare la lama e cercò di scardinare il chiavistello della finestra. Dopo aver eseguito quel movimento circolare, riuscì a far scattare la sicura e ad alzare lentamente il finestrone.
Appoggiando una mano sul telaio della finestra, mise un piede all'interno, andando a calpestare il marmo del  davanzale interno, per spingere poi il corpo ed infine calarsi piano all'interno della stanza.

La stanza era immersa nel buio, però Alex riuscì lo stesso a capire che quelle quattro mura appartenevano ad Hazel.
Il suo delicato profumo era stato l'elemento rivelatore.
Quel dolce odore di cocco e cioccolato, di deodorante che sapeva di menta e fresco.
Con la luce che filtrava dalla finestra che aveva lasciato aperta, intravedeva il profilo di un letto posto al centro della stanza, vicino la finestra.
Un sorriso inaspettato si allargò sul suo stanco viso, mentre avanzava al ritmo regolare del suo respiro. Raggiunse il letto con due semplici falcate, ma una volta lì non seppe come muoversi.
Non sapeva cosa doveva fare, se svegliarla o stare in piedi e osservarla silenziosamente.
Allungò un dito verso il viso coperto dai capelli.
Ne scostò una ciocca e accarezzò il suo placido viso, così delicato e freddo.
Poi si ritrasse, come se si fosse scottato.
Si sentì improvvisamente sbagliato, un inetto.
Aveva voglia di scappare da lì, di andarsene e di lasciarla andare, di non contaminarla con il suo male, perché lui era la violenza e la morte, il sangue e le ossa marce.
Ma tutto quello che fece fu restare lì, ad osservare la purezza, la chiarezza e la sua salvezza.

Due occhi grigi-verdi lo stavano osservando.
L'odore si fece più vicino.
Lei si fece più vicino.
Si guardarono per interminabili istanti.
Ogni tanto Alex distoglieva lo sguardo per guardare le sue corte gambe scoperte, sulla quale si intravedevano dei tatuaggi piccoli.

─ Scusami ma dovevo vederti.
Tutto lì. Era tutto quello che era riuscito a dirgli, per giustificarsi.
Hazel non sembrava minimamente spaventata, forse solo sorpresa il tutto accompagnato da una strana scintilla negli occhi.
 ─ Vado, ti lascio dormire.
Mentre se ne stava andando, una piccola mano si strinse intorno al suo polso.

Lo stava invitando. Da uomo attento come era, non se lo fece di certo ripetere due volte.
Guardò il polso, poi i suoi occhi ed infine le sue labbra.
Sciolse il contatto con lei per andare ad agganciare le sue labbra con le sue.
La ruvidezza che si andava a scontrare con la morbidezza.
Se la mangiò perché l'aveva desiderata dal primo istante, perché aveva un bisogno viscerale di sentirsela plasmata addosso. 
Quel bacio fu violento.
Aveva il sapore della notte, della neve e della pioggia.
Del sangue rosso, vermiglio che scorre vivo nelle vene.
Aveva lo stesso sapore della passione.
Alex non se ne andò, semplicemente rimase lì con lei.
Dormirono vicino, ma senza mai toccarsi.
Anche se, ogni tanto le mani si sfioravano, dando vita a delle scintille luminose di emozioni.



Spazio Autrice.
Ditelo che non ve l'aspettavate questo aggiornamente così vicino all'altro.
Però io sono una persona gentile e brava, così per augurarvi una buona domenica vi lascio questo nuovo capitolo.
Se volete recensite, e a tutti i miei cari lettori fantastma dico grazie e a presto ;)


 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

 

Quella notte la sua mente aveva immaginato di vivere qualcosa di alquanto fantastico.
Nel suo sogno si era immaginata che un uomo, che sembrava avere i tratti di qualcuno che conosceva molto bene, si era intrufolato a notte fonda nella sua stanza e altrettanto segretamente, si era addormentato vicino a lei. Ed in tutto questo, lei era stata dal primo momento cosciente e consenziente.

Con quelle strana leggerezza nel cuore, decise di alzarsi.

Il sole era ormai sorto da qualche ora, splendente come non mai. Nonostante il calore emanato, faceva ugualmente freddo.
Non appena mise piede fuori dalle coperte in pile e dal piumone grigio, dei brividi percorsero tutto il suo corpo, partendo dai piedi nudi, risalendo poi verso le gambe scoperte per arrivare alle braccia.

Sapeva di essere in ritardo ormai era divenuta sua abitudine.
Corse in bagno, dove fece una doccia veloce e poi con l'asciugamano stretto in vita, i capelli raccolti in uno chignon disordinato, fece rientro in camera.
Sentì un rumore attutito provenire dal soggiorno e lanciandosi verso l'armadio, estrasse le prime cose che aveva trovato per vestirsi ed andare a vedere cosa stava succedendo.

Con il sangue che pompava nelle tempie e il cuore che martellava rumorosamente, si avvicinò al comodino del letto e silenziosamente ne aprì il cassetto per tirare fuori una pistola nera lucente, anche se scarica.
Facendo come gli aveva insegnato il suo maestro di autodifesa, aggrappò entrambi le mani tremanti all'impugnatura della pistola e se la portò di fronte, con le braccia tese in avanti a mantenere il peso di quel pezzo di ferro nero.
Detestava le armi così come la violenza, ma aveva dovuto farlo, era stata costretta dalle conseguenze dell'essere una donna single emancipata.
Cautamente uscì dal rifugio protetto rappresentato dalla sua stanza, per andare incontro al pericolo.
Un passo incerto dopo l'altro e arrivò a destinazione.
Le sembrava di essere ricaduta in un déjà-vu, in una situazione che aveva purtroppo già vissuto e sperimentato sulla sua pelle, solo qualche settimana prima.
Un uomo era seduto sulla poltrona di pelle, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani a sorreggere il viso. Era stanco o forse solo spazientito dall'atteggiamento della sua preda, che non si era ancora accorta della sua presenza. Sperò con tutta se stessa che non fosse il biondino altrimenti non avrebbe saputo come comportarsi.

─ Mi stavo chiedendo quando ci avresti messo.
Quella voce era inconfondibile.
L'avrebbe riconosciuta anche in mezzo al caos, ad una folla urlante e scalpitante di persone.
Lei avrebbe saputo che apparteneva solo a lui.
E lui in quel momento era lì.
E non era un sogno, era la vita reale.
Si alzò e le venne vicino.
Il suo odore le colpì le narici, sprofondando in esse.
Però aveva qualcosa di distorto, quella volta.
Attaccato alla pelle, a quella felpa pesante c'era un altro odore, più sgradevole.
E non era sudore o il puzzo della sigaretta, era qualcos'altro.
Qualcosa di freddo, che sapeva di ferro e di morte. Ma si disse che forse stava viaggiando troppo con la mente.

Una domanda si fece spazio nella mente della giovane e come un eco lonatno, venne ripetuta ad alta voce.
─ Perché sei qui?
Chiese  mantenendo ancora la pistola ben salda davanti al suo viso.
Intanto qualcosa simile alla felicità si fece spazio nella sua pancia.
Alex la superava, in altezza, in fisico, in carattere...in qualsiasi cosa. Per questo fu facile per lui fargli abbassare e prendere l'arma.

─ Ragazzina, sei stata tu ieri sera a chiedermi di restare. ─ biascicò quella parole con compostezza e fermezza, mentre smontava e rimontava il ferro, con aria assente e gesti meccanici, di chi ha l'abitudine di farlo sempre.
Poi riportò l'attenzione su Hazel, che intanto aveva incassato il colpo in religioso silenzio e non aveva replicato.
Nel frattempo ripresasi da quel mutismo, provò a riprendersi la pistola, ma senza successo.
L'uomo divertito da quel improvviso attacco di rabbia da parte della ragazza, alzò con il braccio la pistola portandosela sopra la testa.
Con gli occhi che lanciavano saette, le si buttò addosso alzando le braccia, arrivando a graffiare la pelle dell'uomo, che sembrava non essere minimamente scalfito.

─ Ridammela!

Gli urlò contro, quando ormai si era rassegnata a quel epilogo cercando di mettere da parte l'orgoglio.
Alex aspettò ancora qualche secondo e poi si allontanò per poggiare la pistola sul piccolo tavolino posto al centro tra i due divani. Poi con la coda tra le gambe, ritornò da lei.
Hazel aveva osservato i movimenti dell'uomo sorpresa.
In qualche modo aveva la sensazione che lui non era abituato a perdere.

Un pensiero vagò improvvisamente a quando l'aveva visto entrare quella mattina di due mesi prima, con l'amico biondo, con il diavolo a cui aveva ceduto senza preamboli se stessa, ripensando però, al modo in cui lui aveva varcato quella porta, invadendo senza pudore la vita di John, perché il Diner rappresentava per John tutta la vita. In quelle mura bianche ne potevi leggere il sudore, la perduta spensieratezza di un giovane uomo ormai lontano, quando tutto sapeva di speranza e non si conosceva nemmeno cosa volesse dire delusione, rammarico e tristezza.

Un onda travolgente di rabbia le fece incarnare la spina dorsale, assottigliare gli occhi e stringere le mani in pugni.
Moriva dalla voglia di urlargli contro ma dovette frenare quelle parole tra i denti.
Perché se lui era lì era perché lei doveva capire. Era solo quello il reale motivo.

Si ridestò da quella contrazione improvvisa e cercò di tornare ad essere la Hazel ingenua, quella che piaceva a quell'uomo brutale.
Ma niente servì a frenare la caparbietà di una donna come Hazel.
In un attimo lasciò lo sguardo dagli occhi incantatori di lui, per incontrare il ferro senza anima posto sul tavolo.

Quell'oggetto in qualche modo rappresentava la linea che li separava e nello stesso tempo li univa.
Lei era ferita nell'animo.
Lui invece anche nel corpo.
Erano due pianeti che credevano di essere così distanti, così diversi.
Hazel infatti si credeva migliore dell'uomo che impostato la osservava, anticipando poi i suoi stessi movimenti.
Alex invece credeva di essere il veleno che avrebbe contaminato il mare. Quel mare d'inverno, in continua tempesta.
Con una falcata abbracciò il corpicino della ragazza, alzandola senza alcuno sforzo dal pavimento. Lei scalciava, si dimenava immersa nelle braccia del russo.

─ Lasciami cazzo!

Urlò ma non servì a niente, se non a rendere ancora di più la stretta una morsa.
Sentiva sul suo collo il caldo respiro dell'uomo, talvolta irregolare, segno che anche lui fosse umano. Chiuse gli occhi e non se ne accorse nemmeno. Forse perché era troppo concentrata ad odiarsi o ad odiare lui, la sua forza e il suo corpo.
Quando gli sembrò che la ragazza si fosse quietata, la lasciò andare facendola cozzare contro il pavimento.
La caduta non fu poi così dolorosa, ma provò lo stesso un leggero fastidio all'osso sacro, cosa che si affievolì quando prese a massaggiarlo.
Con gli occhi puntati sul parquet, sentiva su di se quegli occhi furbi che come sempre, la osservavano in ogni suo movimento. Quando faceva in quel modo si sentiva terribilmente in imbarazzo, ma allo stesso tempo si sentiva lusingata, fuori posto, bella, brutta, ingenua, delle volte anche vittima. Vittima di quegli occhi blu zaffiro.

Di nuovo un moto di rabbia, di stizza le percorse lungo la linea della pelle pallida, mentre si alza e si rimetteva apposto il pesante maglione blu che aveva deciso di indossare.

L'aveva fatta sentire ancora una volta un inietta, una debole e questo lei lo detestava. Si era accorta anche, che agli occhi dell'uomo risultava un agnellino che doveva fare attenzione, se non voleva finire tra le fauci di un grande lupo. Questo perché gli era scoppiata a piangere in faccia la prima volta che si erano ritrovati in quella stanza, in quella determinata circostanza non era riuscita a mantenere il sangue freddo e così, aveva lasciato che la parte più fragile di lei venisse fuori sotto forma di calde lacrime e singhiozzi strozzati, che le avevano sconquassato l'anima, riducendola in poltiglia.

Spinta dal voler dimostrare la sua forza, gli si buttò addosso, colpendogli lo stomaco con un forte pugno.

Alex non se lo sarebbe mai aspettato.
Quella ragazza dai capelli color del grano, gli aveva appena dato un pugno. E più lo pensava e più stentava a crederci. Stette per qualche minuto con la faccia sbigottita, piegato su se stesso non perché quel pugno fosse stato così forte, ma perché si era sentito come quando la mamma da piccolo, gli dava uno schiaffo in mezzo ad un gruppo si persone che lo stavano guardando. Era così stupito ma orgoglioso allo stesso tempo. Si era appena reso conto del coraggio della ragazza e dovette rivedere il pensiero che gli era nato quando l'aveva vista la prima volta. Però, quella sensazione finì dopo poco, quando lo stupore divenne profonda furia, perché Alex non conosceva mezzi termine e anche se poteva risultare da uno sguardo esteriore la persona più calma del mondo, delle volte quella sua freddezza nascondeva un leone pronto a sbranare la preda.

In un attimo un ombra coprì il  corpo esile della ragazza. Due braccia si aggrapparono intorno al bacino. I piedi non toccavano più il pavimento ma l'aria. Un urlo si levò nella stanza, mentre Hazel si trovava di nuovo stretta tra quelle braccia a dimenarsi.
L'uomo intanto si era mosso, tenendo stretta tra le braccia quel corpicino così fragile ma così forte, ma di una tenacia inaspettata, una sorpresa sia per lui ma anche per lei.

Arrivò nella stanza della ragazza e invece di buttarla per terra, decise di lasciarla sul letto disfatto.
Poteva vedere la collera ritratta in quegli occhi chiari anche dall'altra parte del palazzo.
Lei intanto accortasi di quello che era appena successo, si ridestò e si sedette sulle ginocchia, con i pugni lungo i fianchi e la schiena rigida.
Lui invece passata la collera, se ne stava divertito con le braccia incrociate davanti al petto, aspettando la prossima mossa della ragazza.

─ Sei uno stronzo! Hai capito Alex, uno stronzo?!

Ormai era un fiume in piena e non si sarebbe di certo fermata a quel piccolo insulto, no. Il suo cervello, unito all'astio e all'orgoglio bistrattato, stavano cucinando un mix aberrante di parole, che avevano lo stesso peso di una lama.
E quella lama stava per essere lanciata verso il cuore, perché doveva tagliare e ferire per bene. Doveva dissanguare quell'uomo che impostato lì davanti a lei, se la rideva.

Ti farò passare la voglia di ridere, stronzo!

─...e mi fai schifo! Perché un uomo normale non va a puttane soprattutto se è un uomo che può! E sai cosa intendo, maledetto figlio di puttana!

─ Uno che può? Che cazzo vuol dire!

Urlò lui fermandola.
Di rimando lei, assottigliò lo sguardo, per riprendere poi a parlare.

─ Non fare il coglione, lo sai benissimo.

Ma l'uomo non rispondeva e dall'espressione ritratta sulla faccia, era evidente che non avesse compreso quello che la biondina stava cercando di dirgli.

─ Intendo che sei un uomo affascinante e i tipi come te, non hanno bisogno di pagare una persona, comprendi?

Alex serrò la mascella e si irrigidì ancora di più.

─ Ma ovviamente un motivo a questo ci deve essere? No, Alex?!

La viscere di Alex furono contratte da un dolore e un fuoco improvviso. Quel calore poi si irradiò per tutto il corpo, andando ad attaccare ogni singola cellula.
Aveva capito.
Aveva capito quello che stava dicendo, dove il discorso se pur detto con ferocia, stesse andando a parare. Aveva un unico binario, quel discorso.

─ E quale sarebbe questo motivo, dolcezza? Illuminami!

Lei lo guardò e improvvisamente un sorriso cattivo si dipinse sul volto, andando a deformare i suoi dolci lineamenti. Quella non era Hazel, quello era un mostro che Hazel covava dentro e che aveva lasciato andare.

─ So chi sei Alex.

Il ragazzo intanto le si era avvicinato, gattonando su quel materasso fino a sfiorargli il respiro. Lui semplicemente la guardava senza far trasparire alcuna emozione sul viso.
Era bravo in quello. Però quel leone era ancora sveglio e stava ruggendo.
Distogliendo per un attimo lo sguardo da quel viso di porcellana, prese una decisione.
La mano scatto a stringergli la mandibola. Aveva deciso che voleva che soffrisse, che sentisse, scoprisse il demone di Alex, quello sanguinario e violento. Quello che ammazzava e non provava rimorso.
Hazel sbarrò gli occhi e tentò di liberarsi muovendo la testa, ma fu tutto inutile, perché quello stupido gesto dettato dalla paura, servì solo a far aumentare la stretta dell'uomo, che faceva davvero male.

─ Sì cerbiattino, sono un killer, un fottutissimo assassino. E vuoi sapere una cosa? La vuoi sapere? Mi eccita vedere il sangue, la morte e gli occhi che non hanno più un anima.

Poi gli lasciò andare il viso e portò una mano ai capelli che erano ricresciuti, per sistemarli.
Quando riportò gli occhi verso di lei, la rabbia che aveva scritto nei suoi occhi quando aveva pronunciato con fervore quelle parole, aveva lasciato spazio alla paura e al disgusto.
Alex sentì come se cento lame gli avessero tagliato le vene.
Preso dalla foga si era lasciato trasportare dal mostro nero che risiedeva in lui e l'aveva disgustata.
Non gli rimaneva che andarsene e sperò con tutto se stesso, che l'avrebbe potuta rivedere, perché ne aveva un disperato bisogno.

─ Io vado.

Disse soltanto e bastò quello a far svegliare Hazel, presa ancora dal turbine di quelle parole vomitate senza rispetto.

─ No! Aspetta ferma...─ urlò la ragazza che lo fermò trattenendolo per il polso.

Non sapeva perché l'avesse fatto, perché avesse fermato l'uomo nonostante quel semplice contatto la nauseasse ma convinta come era dell'andare fino in fondo al suo piano, aveva deciso in quell'istante di passarci sopra, in fondo anche lei aveva dei segreti e forse in quella situazione, si stava comportando anche peggio di lui.
Con la pura che non potesse più vederlo e quindi che lasciasse andare quella verità che tanto stava cercando, gli chiese se poteva accompagnarla a lavoro.
Quella tranquillità non passò di certo in osservata ad Alex, che nel frattempo, aveva accettato perché nel suo petto qualcosa simile alla felicità si mosse.

Una felicità che non provava da molto tempo, pervase l'anima corrotta e mise a tacere il leone.


Spazio Autrice.
Saaaalve miei piccoli fantasmini, come è andata la settimana?
La mia bene, ma la prossima che sta per arrivare penso un po' meno.
Comunque sia, ecco a voi il nuovo capitolo.
Cosa ne pensate? I personaggi vi piacciono o li trovate troppo sottili?
Fatemi sapere se la storia vi sta piacendo o meno.
Alla prossima ;)

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***



Capitolo 17

 

Stava seduto, con le mani a stringere il volante del Suv, mentre aspettava che i minuti passassero velocemente. Con sua grande sorpresa l'aveva richiamato. Si erano dati appuntamento al solito posto, al solito orario.
Le carte ormai erano state scoperte. Lei sapeva chi era, cosa faceva per vivere e lui, dal canto suo, glielo aveva chiarito molto bene.

Durante quell'attesa aveva fumato tre sigarette di seguito.
Era nervosissimo come non lo era stato mai in vita sua e non sapeva il perché.
Forse il solo pensiero degli occhi di lei che lo guardavano e lo giudicavano per l'anima nera, gli procurava un docile dolore al torace, in prossimità della cavità in cui stava il cuore.
Alex non aveva mai avuto tanti momenti felici nella sua vita.
Dalla madre costretta ad una vita infame, il cui artefice altri non era che il padre, all'arrivo improvviso della povertà che aveva reso Dimitri, quell'uomo che chiamava padre, ceco e sordo.
Una cosa però era rimasta immutata nei suoi opprimenti ricordi: la neve.
Nei suoi ricordi c'era sempre stata la neve.
In quel continente così esteso e freddo era normalissimo vederla cadere, scendere giù dalle nuvole così bianche, ma per Alex era sempre stata qualcosa di più, che della semplice acqua ghiacciata.

Era la felicità.

Mai avuta, desiderata e ardentemente cercata. E poi arrivava e cadeva libera, leggera dal cielo. Seguiva una traiettoria senza curarsi di nessuno. Era indolore e placida, come la notte.
Nell'aria pungente di quel delizioso freddo invernale, l'olfatto veniva colmato da un profumo genuino, diverso dal terreno nevoso.

Era il profumo di casa, di tradizioni e di babushka, babà, Anija.

Se la ricordava appena, appena, solo quando chiudeva quelle pozze distanti, che avevano lo stesso colore del mare. E allora risentiva il profumo del borscht¹, mentre sua nonna china sulla vecchia tavola di legno, tagliava con mano svelta sedano, carote, cipolle e altre verdure. Amava quella zuppa, il sapore delle verdure che si mischiavano rilasciando, insieme alla barbabietola e al pomodoro, un colore vivo, di un rosso scarlatto. Nella sua bocca, il sapore delle carote e della carne, si andava poi a mischiare con l'acidità fine, della smetana² e del pane nero.
Vagamente tornava a galla anche il pungente odore di vodka che vestiva ogni uomo russo. In quegli anni scalpitava per poter divenire come quegli uomini della campagna, radicati nella religione della famiglia e dalla mafija.
Arrivava poi il sorriso limpido e muto di sua madre.
Bella come il sole e silenziosa come la luna.
Pelle di porcellana, capelli biondi come il grano e occhi grandi, di un verde prato. Negli anni della fanciullezza Alex non sapeva che dentro il cuore di sua madre un fuoco ardeva e la stava consumando. Avrebbe però conosciuto quel fuoco solo più avanti, quando la violenza si sarebbe sostituita al ricordo della zuppa.

Tornare alla realtà non fu facile, non quando ripensava alla Russia e quello che aveva significato per lui.
Inconsapevolmente i suoi occhi si fermarono sull'inchiostro nero e ancora una volta la mente tornò lontano, ma questa volta ad un passato più vicino.
A quando era arrivato in America e aveva trovato altra fame e altra violenza.
Così in un giorno particolarmente uggioso di quindici anni prima, guardando da lontano, quasi di nascosto un uomo dai tratti visibilmente dell'Est, vestito di nero come le ali di un corvo, si era ritrovato a muovere qualche passo e a voler essere come lui. In quel preciso istante, mentre la pioggia scendeva a bagnargli il cappuccio rosso, aveva capito che l'unico riscatto da quella vita penosa e amara, era non avere riscatti.
Si era lasciato trascinare dal buio, dall'orrore e dalla vigliaccheria.
E quello sarebbe stato solo l'inizio perché l'inferno chiamava e pretendeva. Con il passare del tempo avrebbe imparato a dimenticare i sentimenti, a scordarsi degli amici perché non se ne avevano. L'unica cosa che contava era il richiamo del sangue e dell'onore.
Ma quella sera un altro richiamo più forte anche del sangue, lo aveva invaso da capo a piede. Quella forza si chiamava Hazel, aveva venticinque anni e vive a Brooklyn ed aveva gli stessi occhi dolci di sua madre.

Il bip dell'orologio lo avvertì che erano le 16:00 in punto. Ora non gli restava che aspettarla.
Il nervosismo ben presto si trasformò in ansia, che gli stringeva le budella.
Tamburellando sul cruscotto della macchina che profumava di fragola, la vide.
Il passo cadenzato, le spalle infossate, i capelli mossi un po' per il vento e un po' per la natura di essi.
Seguì la sua figura per intero ma nel momento in cui entrò nell'abitacolo, distolse lo sguardo. In quel momento si sentiva vulnerabile. Lui che uccideva e picchiava e che faceva della vulnerabilità degli altri, la propria forza. Si sentiva come si sentono i cechi, si sentiva come si sentono i sordi. Perché vedeva e sentiva un'altra realtà. Quella ragazza gli era entrata nell'anima, aveva preso il posto di quei segni che aveva disegnato sul corpo e tutto questo in poco tempo. La conosceva da meno di un mese, eppure sentiva di conoscerla da sempre, da una vita. Non era amore quello che provava, era solo che quando guardava i suoi occhi, si sentiva capito.

Hazel non disse nemmeno un misero "Ciao" semplicemente portò lo sguardo al paesaggio che aveva di fronte e stette in silenzio.
Dall'altro canto anche Alex stava in silenzio e guardava la strada davanti a se.
La macchina era ferma dove era stata parcheggiata, così come le loro menti, erano ferme al giorno precedente.
Si azzuffavano, si ricorrevano parole, frasi, toni, urla, significati. La sua mente era un aggrovigliato di sensazioni diverse, mal celate. 
Hazel sentiva che il giorno che tanto aveva desiderato, era finalmente arrivato. Ma questo lei non lo sapeva, poteva soltanto immaginarlo.

L'inverno è freddo e duro. 
La realtà è crudele e avara.

─ Chi sei?─ chiese lei con voce flebile ma dal tono sicuro.

─ Sono il lupo cattivo. Il mostro sotto il letto. L'uomo che ha venduto l'anima al diavolo. L'angelo caduto dal paradiso. L'uomo sbagliato.

Se l'era immaginata quella domanda e come un dovere, aveva dovuto rispondergli e per una volta provare ad uscire dal muro che si era costruito per difendersi.
Si guardarono. Infiniti attimi di silenzio erano sufficiente a parlare per quelle due anime chiuse, barricate in loro.
Alex distolse lo sguardo e guidò fino a raggiungere il motel per poi entrarvi e fare come sempre. Lui che sedeva sulla sedia in legno, lei sul materasso poco usato.

─ Chiedi e io ti darò risposte.

Quello strano invito non fu assolutissimamente rifiutato dalla giovane e così iniziò l'interrogatorio. Hazel chiedeva e Alex, sempre con quella sigaretta stretta tra le labbra, rispondeva.
Clash gli aveva detto, ma glielo aveva confermato anche lui, che aveva iniziato quindici anni prima, quindi la prima domanda che gli rivolse fu: ─ Da quanto tempo...fai quello che... che fai?

Lui, dopo aver succhiato del fumo dalla carta, dopo aver incastrato i suoi occhi nei suoi, rispose.

─ Quindici anni, ma credo di avertelo già detto.─ rispose lui, sorridendogli sornione, con quelle strette labbra all'insù.

─ Non ti sfugge mai niente, vero?─ rispose di getto lei, colorando le labbra con un sorriso di chi la sapeva lunga.

─ Se fai quello che fai, sei costretto a ricordare nomi, codici, parole...persone.

Hazel annuì, mentre il sorriso si spegneva lasciando spazio alla preoccupazione. Era stata tanto impulsiva da non rendersi nemmeno conto, che Alex era davvero quello che diceva di essere e che quell'uomo davanti ai suoi occhi non era di certo un imprenditore o il moderno principe azzurro; piuttosto era il cavaliere oscuro, che cavalcava le fiamme dell'inferno e che era capace di tutto. Infatti, con l'accento dato a quell'ultima e ben precisa parola, glielo aveva fatto capire bene. Era come se gli avesse detto "non fidarti mai di me, nemmeno se giurassi di amarti" e lei gli credeva, eh come se gli credeva.
Ma il suo compito in quel momento era un altro e fosse stata l'ultima cosa che avesse fatto nella sua miserabile vita, beh l'avrebbe portata a termine.

Si e poi? E poi credi sul serio che lui, dopo tutto quello che ti avrà rivelato, ti lascerà libera di andare? Sei una sciocca Hazel, se credi agli unicorni che volano!

─ Quante persone ho ucciso? Ho risparmiato qualcuno? Porti sempre armi con te? Hai mai picchiato qualcuno? So che stai pensando a questo, mia carissima ragazza ma risponderò alle tue domande...─ ma non riuscì a terminare la frase, perché una Hazel incavolata per essere stata trattenuta, ancora prima di parlare, rispose al posto suo.

─ MI hai detto che avresti risposto a tutte le domande che ti avrei posto ma...─ questa volta fu bloccata dal russo, che per niente infastidito dal comportamento impertinente della ragazza, la blocco.

─...se tu risponderai ad una mia, personale e curiosa domanda.

La sua replica non ammetteva risposte e questo Hazel lo aveva imparato molto bene. 
Con un gesto di stizza della mano, lo intimò a continuare.

─ Come sai chi sono io?

Una volta nella sua vita, si era ritrovata a percorrere una strada mal asfaltata e sabbiosa. Ad un certo punto, mentre era in macchina con Chris, dovette fermarsi. Sulla via erano apparse due diverse strade: una che portava a destra e l'altra a sinistra, in quel momento si sentì persa.
Si sentiva in quell'istante come quel lontano giorno di agosto, dove il sole era cocente e l'afa si attorcigliava sulla pelle scoperta come una coltre di nube spessa.
Dire la verità o mentire? Rischiare o non rischiare? Il bivio ora si presentava davanti ai suoi occhi e lei avrebbe dovuto scegliere, non aveva altre possibilità.
Scelse la via della verità a metà, quella che mette a tacere la coscienza solo per poco.

─ Ti ho visto entrare e distruggere. Fare appezzi l'anima di un povero vecchio. Hai minacciato con dimestichezza e semplicità, insieme al tuo amici. Oh il tuo amico...non bastano parole per descriverlo.

Infatti non servivano, perché Sam era quello che era e lui però, non ne era da meno.Era questo che sembrava non aver capito la ragazza. Non si rendeva conto di che razza di bastardo fosse Alex.
Per la prima volta, da dieci anni, sentì una debolezza scuotergli il corpo, come se sarebbe caduto svenuto su quel pavimento, da un momento all'altro.
Che cosa gli stava succedendo?

Che stai facendo?! Stai davvero raccontando tutto a quella puttanella? Alex smettila di pensare con le palle!

─ Ho ucciso e ucciderò fin quando ne avrò le forze. Sono sempre armato, perché vivo con il terrore del "un giorno o l'altro, occhi di ghiaccio, ti faranno secco". Ho picchiato e sono stato pestato e picchierò e continuerò a picchiare. Sono il cattivo delle favole, mia dolce principessa.

Una piccola lacrima solcò il viso liscio e pallido di Hazel.
Si sentiva morire dentro mentre lo guardava e non trovava altro che ghiaccio e risentimento, per quella vita che come lei, lo aveva distrutto.
Non riuscì a giudicarlo, certo giudicava le barbarie commesse, ma lo capiva perché era esattamente quello che era successo a lei, solo che lei una scelta ce l'aveva avuta. O almeno si convinceva con quella bugia.

─ E la vita? Hai mai salvato qualcuno?

Alex stava per rispondere di no, quando si fermò.
Vide una luce strana attraversare il grigio delle iridi di Hazel e si sentì completo perché in realtà una vita lui l'aveva salvata. Però se la ricordava vagamente, come un sogno sfocato, come se una nebbia si fosse impossessata della memoria e allora aveva creato questa patina, grigia e a tratti nera, spessa e voluminosa, che gli permetteva di ricordare solo pochi elementi.

─ Sì, ma non ricordo il suo nome.

Quella risposta fece solo che stuzzicare la curiosità di Hazel.

─ E chi era? Voglio dire...era maschio o femmina?─ poi però non sapendo come continuare stette in silenzio.

Dal canto suo, l'uomo la guardò di sbieco, sempre inespressivo ma leggermente irritato.
Non gli piaceva rievocare l'accaduto, figurarsi parlarne. Però una promessa era una promessa e per un uomo come lui contava molto.

─ Era una ragazzina. Credo che avesse undici o dodici anni. Eravamo entrati in casa sua, era una villa sai...il padre era uno ricco, aveva un impresa di petrolio in Texas ma aveva fatto l'errore di inimicarsi le persone sbagliate e così fummo costretti ad uccidere lui e tutta la sua famiglia. Dopo aver ucciso il figlio maschio, non ci restava altro che occuparci della ragazzina. Mi avevano dato il compito di cercarla e ucciderla ma poi niente. Sapevo che era lì, nascosta nell'armadio e proprio quando stavo tornando da lei, perché stupidamente si era fatta sentire, ho guardato una sua foto e non ce l'ho fatta. Aveva questi occhioni proprio come i tuoi e i capelli biondi, la pelle leggermente abbronzata e una scia di lentiggini evidenziate dal sole. La cosa che più mi colpì però, furono quegli occhi. C'era caparbia, speranza e si vedeva che quella bambina fosse una combattente, non poteva far morire una persona così, una che salva vite solo con tutto quell'ottimismo.

Una notte, mentre tornava a casa ubriaca, si era ritrovata in macchina con tre dei suoi amici. 
C'era Seline, Clarissa e Chirs.
Alla guida c'era Clarissa la quale disgraziatamente l'alcol aveva alterato i sensi e la mancanza di sonno, aveva poi ampliato il tutto.
Andavano forte, troppo forte.
Era notte fonda, non si vedeva bene la strada.
Quello fu letale.
La macchina si ribaltò, cozzò, rotolò sull'asfalto.
Non si sentivano più le risate perché furono interrotte da urli di terrore.
Hazel picchiò la testa prima sul tettuccio, poi schizzi di vetro gli tagliarono le braccia scoperte e una porzione di viso, che scattante aveva cercato di riparare come poteva con le mani, dove anche lì, il vetro aveva inciso piccoli solchi sanguinanti. Quando la macchina era stata buttata al contrario, aveva sentito un vuoto allo stomaco e gli organi sballottare insieme all'abitacolo. Un dolore acuto poi, si irradiava per tutta la testa mentre qualcosa di caldo e viscido le colava giù per la tempia destra.
Nel girare la testa vide Seline, che le sedeva di fianco.
Seline aveva la fronte piena di sangue, che colava sul mento e che andava a macchiare il top bianco. Gli occhi erano spalancati, aperti e deceduti. Chiamò il suo nome nella disperata ricerca del pezzetto della sua anima, ma trovò solo che un triste silenzio. Era ormai morta.

In quel momento si sentiva allo stesso modo.
Si sentiva come strattonata da una parte all'altra.
Tutto in torno a lei si muoveva alla velocità delle parole dette, che gli si buttarono addosso come macigni.
Si sentiva debole e fiacca.
Quella bambina altri non era che Hazel.
Quell'uomo altri non era che suo padre.
I fili si erano ricollegati e allora le risposte a quelle domande nella sua testa furono finalmente date.
E allora ecco doveva aveva sentito per la prima volta quel profumo così intenso. Ecco perché quell'uomo gli sembrava così famigliare.
Negli occhi di Hazel si accese una fiamma. 
Aveva il colore della rabbia, dell'odio e della vendetta.
Fu proprio mentre ripensava al sangue incrostato sulla porta della cameretta, al suo fetore ferroso e al viso pallido, bianco del cadavere di suo fratello, che un'idea dissonante si fece spazio nella mente.
Era la vendetta, la cara sordida e sprezzante vendetta, l'unica vera risposta a quelle domande, alla possibilità di trovare nella vita e nella causa che tanto in quegli anni l'aveva tormentata, l'unica possibilità di riscatto.

Era il sangue che bramava altro sangue.

Una vita per una vita.

 

¹In Russia una delle pietanze portanti per la tradizione sono le zuppe, anche a causa del freddo. Cucinate, create in modi diversi. Alle verdure solitamente si unisce anche la carne (come in questo caso) ma anche il pesce o addirittura possono essere cucinate solo con le verdure. Questa zuppa in particolare, è una delle più famose ed è fatta appunto con brodo, pomodoro, barbabietole e verdure varie. Solitamente accompagnato dal pane (altra particolarità russa, data dal fatto che ancora oggi i cereali con i suoi derivati, sono l'alimento alla base della cucina Russa e alla loro economia).

²una panna acida dal sapor simile allo yogurt, solo con un sapore più delicato e acidulo. Accompagna la colazione e la zuppa borscht.

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18

 

Se ne stava sdraiata sul letto ormai disfatto, mentre quell'odore pungente di detersivo alla fragola le solleticava le narici, in una languida carezza.
Fuori, si udivano macchine sfrecciare ad alta velocità, mentre abbagliavano con la loro corsa le persiane di quella cameretta. Finita la corsa, un cane in lontananza cominciava la sua strana cantilena, forse verso un gatto o forse, verso un malcapitato viandante che passava di lì.
Persa nella sua mente, ripensava a quello che era accaduto.

Visi conosciuti ma inaccessibili, la costrinsero a piangere e a ricordare.
Suo padre, sua madre e suo fratello, in quegli anni, quando ancora lei era la piccola principessa di casa, costituivano il centro della sua intera vita. Quello stesso centro che era stato calpestato con indifferenza da quell'uomo che stava imparando a far entrare nella proprio vita, di vita.

Come è accaduto Hazel? Dio, come? Come hai potuto essere così stupida?

Strinse forte in un pugno le lenzuola panna, mentre in quella stessa stretta, lasciava venir fuori ogni tipo di risentimento, anche se, a predominare fu quel cocente sentimento di odio che la stava destabilizzando.

Si odiava ma più di ogni altra cosa, lo odiava.

Non riusciva nemmeno più a nominarlo ad alta voce e pensare a lui, le faceva bruciare il cuore e il sangue nelle vene.
Improvvisamente quel forte senso di vuoto che le si era formato nello stomaco, divenne acido che velocemente risalì dallo stomaco per arrivare a toccare la bocca. Solo allora, decise di alzarsi e correre in bagno. Le ginocchia toccarono malamente le piastrelle gelate in cotto, mentre il corpo si protraeva verso il water per iniziare a vomitare il nulla. Era tutta bile, che le ricoprì il palato di un intenso sapore amaro. Intanto sulle gote, calde e silenziose lacrime, le scendevano dagli occhi chiari.
Ben presto la stanza si inebriò di quel pesante odore di vomito ma alla ragazza non importava niente, semplicemente preferiva starsene seduta con le gambe nude a toccare il gelo del pavimento, che quella notte aveva la stessa consistenza del baratro.
Passati dieci minuti, ebbe l'accortezza di alzarsi per fare il più grande errore della sua vita.
Si specchiò.
Vide il fantasma della sua persona.
Occhi rossi, acquosi, di un blu spento.
Capelli arruffati, montati su da quella che un tempo era stata una coda.
Pelle pallida più del solito.
Singhiozzò ancora e ancora, fino a quando non riuscì più a reggere lo sguardo verso il proprio riflesso.

In quel momento, in generale quando stava da schifo, aveva tanta voglia di fumare e bere fino a stare male, fino a svenire e perdere i sensi, per non vedere più nessuno e non fare i conti con quel dolore che le investiva il cuore. Ma ormai non lo faceva da tempo e sotto giuramento verso Chris, se la sarebbe fatta passare quella malsana voglia.

Fu lo sguardo però, a tradirla e a farla cedere.

Le gemme, posate sullo sportellino in legno grezzo del lavandino, rivelarono nella sua mente che c'erano alcune gocce di valium e che una sola boccetta di quella sarebbe stata sufficiente a sballarsi.
Si guardò intorno e si sentì sporca, vigliacca, bugiarda e nonostante sapesse cosa significava quel semplice gesto, aprì lo sportellino.

All'interno cerano creme, scatole di medicinali varie, da antidolorifici ad antibiotici, lo sciroppo per la tosse e il contenitore delle vitamine. E poi trovò la scatola. Combattendo ancora contro la sua coscienza, prese la scatolina bianca e ne estrasse la boccetta. La fortuna volle che essa fosse vuota. Ne una goccia era rimasta attaccata. Presa da una fuga di nervi, lanciò la boccetta verso il muro. Il vetro marrone andò a scontrarsi e si ruppe a metà, mentre alcune schegge finirono sul tappeto posto di fianco la grande vasca bianca.
Decisi allora di lasciare il bagno -non prima di aver tirato lo sciacquone- e di tornare in camera.

Chris non era ancora rientrato, aveva il turno al locale per tutta la notte o forse era da un amico e Hazel semplicemente, non se lo ricordava. Era qui da sola, in quel monolocale alle undici meno venti; solo quel maledettissimo cane, con il suo abbaiare le faceva compagnia.
Prese il cellulare e cominciò a girovagare su tumblr, unico social network a cui si era iscritta.
Ma si annoiò dopo solo cinque minuti.
Così, presa dalla noia, si mise a girovagare tra i nomi della rubrica fino a quando il dito non colpì la lettera C, e con essa il profilo di Clash.

Che stupida che sei! Clash, chiama Clash per le pillole!

Presa da un solito attacco di felicità, strisciò con il dito sul nome del ragazzo e se lo portò poi, all'orecchio sinistro.
Dopo quattro squilli, finalmente l'amico rispose.

─Hey Haz, che piacere risentirti! Come mai questa chiamata?

La voce del ragazzo risultava visibilmente allegra, quasi uno sfottò con l'anima in subbuglio di Hazel. Ma era una voce resa alterata dall'alcol o forse da qualche agente chimico.

─ Ho bisogno di sballarmi!

Bastarono queste parole che il ragazzo dieci minuti dopo, arrivò nel monolocale.
Si era portato dietro un bel po' di fumo e qualche pasticca di acido.
Ecstasy, LSD e ovviamente, la polvere.
Quest'ultima fu tenuta alla larga da Hazel, che scelse invece, sotto consiglio di Clash, LSD.

La pillola, che si presentò sotto forma di piccolo quadrato di carta assorbente, iniziò il suo disagiato viaggio verso l'obblio più profondo solo due ore dopo l'assunzione; assunzione fatta con una bottiglia di vodka che aveva già distratto Hazel.
In un secondo le sue pupille si dilatarono mentre una sensazione di forte calore, le investì l'epidermide e le ossa. Cominciò a sudare, ad avere tanto caldo e le immagini non tardarono ad arrivare.

Urlò.
Fu un urlo che gli graffiò rovinoso la gola, così gutturale e crudele come quegli uccellacci che le stavano punzecchiando il corpo, in cerca della carne fresca.
Se li vedeva davanti, quei corvi brutti dagli occhietti di un profondo nero sinistro. In un attimo risuonò distante un verso che aveva la voce di un uomo. Sembrava infatti, che quel mostro di un uccello , cantasse una parola "Nevermore" e lo faceva ripetutamente.
Intanto loro continuavano a volere assaggiare quella carne ancora calda, viva.

Hazel urlava e urlava. Dimenava le braccia in aria, cercando di toglierseli di dosso, ma loro erano più forti e più numerosi di lei. Vide il sangue scorrerle lungo le braccia ossute, lungo le guance e quei becchi arcigni facevano male, ferivano come tanti aghi che entravano e uscivano continuamente dall'epidermide già ferita.
A quel punto, entrò a contato con un profondo senso di terrore e paura.
Per quanto tempo stava urlando e combattendo per la sua vita? Per quanto i suoi occhi avrebbero visto solo il nero e il rosso scarlatto?



***


Seduto al tavolo del poker, Alex si giocava l'affare e la partita.
Immerso tra quei compagni sovietici, si era accorto di non aver mai perso quel perfetto accento dell'est, quando due anni fa l'organizzazione era entrata in affari con loro, e gli aveva chiesto di fare da "diplomatico".
I russi erano proprio come venivano descritti nella quotidianità dai libri o nei film.
Uomini alti, tosti, dei vichinghi del nuovo tempo, grandi bevitori di super alcolici e con la mascella perfettamente squadrata.
Al suo fianco, Maria una ragazza italiana, bassa, dalla linea perfetta: grande seno, vita stretta e gambe per niente scheletriche. 
Tutto il contrario di Hazel.

Dio, doveva togliersela dalla mente. Non era possibile che ogni qualvolta i suoi occhi incontravano il corpo di una donna, scattava il paragone con la biondina.

La mano callosa accarezzava le gambe lisce della ragazza che con un pavido sorriso, gli si rivolgeva contro. Maria aveva inoltre capelli lunghi, castani, che arrivavano fin sul sedere, tondo, tenuto da una gonna rossa pagliettata decisamente troppo corta e troppo stretta.

Maria era la ragazza abituale di Alex in quell'ambiente. Lei si donava a lui - ovviamente lui pagava i suoi servigi ma il legame, se così poteva definirsi, era rilegato in un patto. Alex gli avrebbe riferito di tanto in tanto, come procedesse la vita della figlioletta che aveva dato in adozione quando era rimasta incinta a soli sedici anni. Si chiamava Anna ed era nata da uno stupro. La bambina oggi aveva poco più che sette anni, mentre Maria quasi ventitré. Era una di quelle persona destinate fin dall'infanzia ad un esistenza puerile e povera, con un finale altrettanto triste. Come Alex, d'altronde.

─ Poker d'assi!

La voce del vice boss Bastijan, lo fece tornare alla realtà.
Quell'uomo era stato sfigurato dalla lama di una picca, dieci anni prima mentre metteva a tacere per sempre, la persona che stava cercando di fregarlo.
Gli uomini seduti attorno a quel tavolino rotondo, dalla superficie verde, buttarono abbattuti le carte, scoprendole e scoprendosi, ancora una volta, dei perdenti.

─ Alexander mi dispiace ma contro di me, è difficile vincere! ─ continuò, con quel tono di voce biascicato e inzuppato di alcol.

L'uomo con un sorrisetto sornione sulle labbra, lasciò andare la mano da sotto la gonna di Maria, mentre salutava e lasciava da soli quegli uomini ai loro desideri carnali, rispondendo poi ─ Ne riparleremo la prossima volta!

Maria lo seguì, perché era arrivato finalmente il momento tanto desiderato.Quando lo aveva visto entrare nel locale, una luce aveva invaso il suo cuore. Contenta com'era, di sapere come stava andando la crescita della figlioletta. Mentre aspettava che l'uomo giocasse la sua parte, lei aveva contato i secondi così come i minuti, mentre il tempo trascorreva lento e insostenibile.  

L'unica cosa che si udiva in quel corridoi era il ticchettio dei tacchi sottile dei sandali della ragazza, cresciuta troppo in fretta. Come sempre Alex stava in silenzio ma questa volta il cervello era occupato da una miriade di pensieri, di situazioni e di una persona in particolare. Non l'avrebbe mai ammesso a nessuno tanto meno a se stesso, che il suo cervello era cotto di lei.

Arrivarono nella stanza numero 6277 e vi entrarono.
La stanza si presentò pulita, con mobili marroni lucidi sulla quale superficie non si intravedeva un filo di polvere mentre tutto intorno alleggiava un pesante odore di chiuso, di prodotto scadente di lucido per legno e di pagine vecchie, ingiallite da tempo. Come da abitudine, la ragazza andò ad aprire il vetro di una finestra posto in fondo alla stanza e l'uomo invece, si sedette sul morbido divano in pelle, che dava le spalle ad un letto enorme, dalle lenzuola bianche che sapevano di naftalina.

Tolse la giacca nera, allentò il nodo della cravatta e sbottonò i polsini della camicia inamidata ma sudaticcia, per via della temperatura nel casinò.

Prese una foto dalla tasca interna della giacca costosa e un pacchetto di sigarette, aprendolo subito dopo per portare una sigaretta alle labbra.

Maria nel frattempo, si era fermata vicino alla finestra, respirandone l'aria gelida che vi entrava.

Erano nel Queens e lì era tutto diverso da Broklyn. Situata a nord di Long Island, era la contea più popolata dopo Brooklyn e i russi, anche se toccavano solo il 2 %, erano riusciti a creare un impero mafioso, pari a quello della Siberia.

Voci allegre provennero dalla finestra e curiosa come era, si sporse per controllare chi fossero i proprietari. Dei ragazzi – tre per la precisione – ritornavano brilli dalla partita di campionato degli New York Mets, forse avevano vinto.

─ Ecco come promesso le foto.

La voce piatta dell'uomo, la fece tornare alla situazione in cui si trovava, alla sua vita, fatta di fango e lerciume. Intrappolata lì, cercava con tutte le sue forze di venirne fuori, di non affogare in esse, ma era complicato e qualche volta, aveva perfino pensato di arrendersi.

Si mosse piano, tremando si felicità, una felicità decisamente mal celata.
Prese con mani tremanti la foto e sfiorò quelle di Alex, che nel frattempo aveva acceso la sua sigaretta anche se il cartello posto vicino la porta, lo vietava espressamente.

La guardò e una lacrime sfuggì al suo controllo.
C'era una bambina dai capelli a caschetto, dagli occhi vispi e dalla dentatura a metà. Nonostante la mancanza di un dente, quella bambina sorrideva gaia, ignari di cosa la sua vera mamma facesse per vivere.

Era bellissima.
Alex la guardava rapito.
Tremava tutta e non riusciva a contenere la sua felicità.

Poi il pensiero corse a quando l'aveva conosciuta due anni prima. Una ragazza di ventun anni, in pieno della sua bellezza ma che era stata deturpata dalla sfortuna e dalla violenza che la seguiva ovunque lei decidesse di andare. Si rese poi conto, che non la conosceva neppure un po' e che lei non conosceva lui, neanche un po' però, allo stesso tempo, condividevano molte cose.

Quando pensò di aver gustato a lungo quella foto, decise di alzare gli occhi umidicci verso Alex, che intanto aveva finito di fumare e la guardava fisso, osservando ogni suo movimento. Sorrise per ringraziarlo e perché gli doveva tutto.

─ Grazie!

Poi, posò la foto vicino il comodino sinistro e tornò verso l'uomo che non gli staccava gli occhi di d'osso.
Lentamente, lasciandosi guardare il corpo, si sedette sulle sue gambe e cominciò ad accarezzarlo.

─ Cosa posso fare per te, mio amico russo?

Distolse gli occhi dal suo viso, mentre la ragazza continuava a passare la sua piccola mano, su e giù dal collo, per passare poi sulla mascella ispida e per giungere verso la tempia.

─ Balla per me, Долли (dolli).

Si alzò e cominciò a muoversi suadente, seguendo note astratte e immaginarie.
I suoi capelli lisci seguivano il movimento cadenzato dei fianchi mentre con gli occhi chiusi, portava le mani a intrecciarsi tra di essi.

Gli piaceva un sacco vederla ballare perché ci sapeva fare.
Sapeva come conquistare un uomo, su questo non c'erano dubbi ma la cosa che più l'attraeva di lei, era la convinzione che ci metteva. Sapeva che era un dessert per loro e questo suo saperlo, prima di loro, la rendeva ancora di più donna. Alex ogni volta che vedeva quel fuoco di convinzione bruciare nei suoi occhi marroni, diventava ubriaco e non capiva più niente. Erano queste le donne che più gli facevano girare la testa.

Si alzò di scatto, le si agguanto addosso e la prese per i fianchi, sbattendola con poca grazia, su quel divano che aveva accolto molti corpi prima dei loro.

Lo stupore che era apparso sul viso della giovane scomparì, quando lesse negli occhi blu di Alex lussuria.
Maria lo amava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Gli avrebbe perdonato qualsiasi carezza violenta, i suoi modi bruschi e soprattutto, il fatto che l'uomo la considerasse solo una donna da portare a letto ogni tanto, così, giusto per sfogarsi un po'.
Stava per aprire bocca, quando Alex la ammutolì con un gesto secco della mano.

Aveva il fiatone, lui.

Ad un certo punto della danza, aveva rivisto il corpo scheletrico di Hazel. Gli era balenato il pensiero che lei potesse fare quello che Maria stava facendo con lui, però con qualcun' altro che non fosse lui. Questo pensiero lo aveva mandato in bestia.

Un senso di possessione gli invase le viscere, mentre guardava quella povera ragazza che aspettava febbricitante sotto di lui solo per avere una sua piccola carezza.

Maria si alzò da quel divano avvicinandosi a lui, commettendo uno dei sbagli più grandi della sua vita.
Alex era in preda ad una furia ceca.
In un attimo, scansò la mano dal suo viso per agguantare il braccio della ragazza.

La trasportò per la camera fino a scaraventarla sul letto, mentre il corpo di lei ricadeva ruvido sul materasso, lasciando uscire fuori dalla bocca qualche mugolio di paura e dolore.

─ Adesso stai zitta e muta, mi ascolti soltanto.─ e mentre diceva ciò, si sbottonava frettolosamente la cintura dei pantaloni.

─ No, per favore!─ urlò di rimando lei, terrorizzata da quello che stava osservando.

Gli occhi di Alex avevano perso tutto il distacco e la lussuria, per lasciare spazio alla rabbia. La mascella era contratta e il corpo rigido, di chi è pronto a sfiorare il primo attacco.
Al contrario di altri suoi colleghi, lui le donne non le aveva mia toccate. Le considerava esseri complicati e deliziosi, allo stesso tempo. Questo perché, rivedeva in ogni di quelle donne la propria mamma, che invece aveva conosciuto il maschilismo e quello che un uomo maschilista era in grado di fare.

Ma in quel momento, si riscopriva uguale a quegli uomini.
Stava per violentarla, lo sapeva e nonostante ciò, non riusciva a fermarsi.
Quando la ragazza urlò di terrore, non riuscì a trattenere il mostro che risiedeva in lui, così, gli tirò uno schiaffo in pieno volto, tanto forte da farla girare dall'altra parte e da farla sanguinare.

Maria, come se fosse un gesto abitudinario, si portò la mano fredda sulla guancia in fiamme.
I tremori divennero poi lacrime che copiose scendevano dagli occhi dello stesso colore della terra.

Non avrebbe mai creduto che anche Alex fosse come tutti quegli uomini che pagavano una prostituta solo per il gusto di mostrare la forza e la mascolinità di cui il loro corpo era dotato, per sfogarsi poi su di loro, e non soddisfatti, si prendevano quello per cui avevano pagato, con la violenza. Maria sapeva come tenerli a bada, ma non come tenera a bada l'uomo di cui era profondamente innamorata.

Si disse forse, che stava sbagliando lei, ma resasi conto che non aveva fatto niente, allora tentò di calmarlo per essere ricambiata con un altro schiaffo.
Impaurita, cercò di scappare via da quel letto che stava diventando una prigione, spingendo via quell'uomo che torreggiava su di lei.

Alex però, vedeva solo rosso.
In un attimo la prese dal piede e la ritirò sul letto.

Gli occhi di Maria erano aperti, spalancati, sbigottiti e impauriti, terrorizzati da quello che erano costretti a vedere, per rendersi conto poi, che non ci si poteva fidare proprio di nessuno.

─ Smettila Alex, così mi stai facendo paura!

Urlò in preda a quella cocente e sorda disperazione.
Si, perché la disperazione è sorda, non conosce voce e se ne frega delle urla, delle grida, delle lacrime. È un mostro caduto dal paradiso, con grandi ali nere e gli occhi vispi, tetri. Quello stesso sentimento che porta un uomo, a fare la cose più orribili del mondo.
Un altro schiaffo e un altro grido, questa volta lanciato con voce più alta.

Alex fermati! Alex cazzo, non vedi che le stai facendo male? Alex lo vedi che non sei poi così diverso da tutti quegli uomini che consideri "amici"?

Ma lui andava avanti, se ne fregava della coscienza, delle grida della donna, del carnefice che era diventato. Se gli avessero chiesto perché se la fosse presa così tanto con quella donna, tanto da meritarle tutta quella violenza, lui non avrebbe saputo come rispondere. Aveva rivisto nel suo viso, quello di una Hazel che non l'accettava e tutto era andato a scatafascio. Eppure c'era altro. Quella rabbia, tenuta dentro da troppo tempo, in quel momento stava fuoriuscendo come lava incandescente, che distruggeva tutte le cose che si trovavano sul suo cammino.

In quei gesti sbagliati c'era soprattutto il ricordo di sua madre e di suo padre.
Tutto quello che fece poi, fu solo stare in silenzio mentre la guardava truce e cercava di togliere quelle barriere che lo dividevano dallo scopo che si era prefisso.
In un gesto secco, mentre le dita della ragazza si abbattevano come artigli felini sulla sua pelle, gli aprì le gambe e strappo la gonna.

─ No per favore Alex, non tu, non farlo!

Ma lui continuava. Avrebbe fatto quello che suo padre aveva fatto per tutta la vita con sua madre. In questo modo – e non se ne rendeva conto – stava sputando sulla memoria di quella povera donna, che aveva buttato sangue e sudore per crescerlo su, in un mondo aggressivo.

Alzò gli occhi su quelli marroni di Maria e in un lampo, risentì nella testa la voce lontana di un uomo:

"Non guardarmi così figliolo. Non guardarmi come se stessi facendo la cosa più ignobile sulla faccia della terra. Tu non sei poi così diverso da me e se solo pensi di poter fuggire e di sperare di essere diverso, ricordati che nelle tue vene, scorre lo stesso sangue velenoso"

Il mostro in un attimo tornò a dormire nel suo corpo.
Alex vide finalmente quello che stava succedendo.
La cinta nera dei pantaloni era a terra, la gonna della ragazzina era strappata mostrando le sue giovani grazie, i pantaloni erano abbassati e toccavano terra. 
Sperò con tutto se stesso che non fosse successo quello che immaginava.
Incontrò poi il viso della ragazza.
Era rosso, sia per il pianto che per quelle sberle che gli facevano ancora male, così come facevano male a lui.

Si allontanò da lei e non riuscì a fare altro che dire un misero "scusa", per poi rivestirsi e correre via da quel posto.

L'ammazzare senza ritegno un uomo sotto ordine, era un conto. Violentare una povera ragazza ne era un altro.
Prese la macchina e guidò fino a raggiungere la casa di Sam.
Lui non era come suo padre. Lui era diverso.

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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

 

Sam era stato svegliato dalla chiamata dell'amico e anche se avrebbe preferito tornarsene a letto, non l'avrebbe mai fatto. Innanzitutto perché aveva percepito che qualcosa non andasse e tutto questo solo ascoltando il tono di voce dell'amico, che trapelava una sorta di tristezza e di disagio.

Questo non era da lui.

Ora, mentre seduto su quel divano cremisi si scolava una bottiglia di vodka, ne aveva avuto la conferma.

─ Allora, mi vuoi dire che ti succede?

Alex alzò gli occhi verso l'amico, il cui viso traspirava preoccupazione. Si accorse che forse era davvero messo male.

Deglutendo aria e lanciando uno sguardo verso il tappeto ai suoi piedi, si decise che era arrivato il momento di parlare.

─ Stavo per violentare una donna.

Sam, nel sentire quelle parole, corrugò la fronte e attese che l'amico continuasse ma ciò non avvenne, così fu costretto a riprendere lui il discorso.

─ Che cosa vuoi dire?

Ma Alex sembrava essersi chiuso dietro quel muro che costruiva ogni volta per difendersi dagli altri, quando diventava debole e insicuro.

─ Alex, che cosa cazzo vuoi dire?!

A quel punto, sentendosi messo alle strette decise di aprire bocca.

─ Questo Sam, questo...─ rispose lui allargando le braccia.

Solo allora, sentendosi soddisfatto, il biondino si abbandonò sul divano, lasciando però gli occhi puntati sul russo, che nel frattempo si era portato le mani sulla faccia.

Sam conosceva molto bene Alex ed era proprio per quello, che non riusciva ad afferrare il significato che si celava dietro le sue parole eppure quei gesti, i movimenti sconclusionati parlavano per lui, solo che Sam non riusciva ad accettarlo.

Stettero in silenzio per alcuni istanti.

Entrambi si studiavano.

Sam che lo scrutava con i suoi occhi neri. Alex che lo osservava senza farlo davvero, con quei suoi occhioni azzurri.

─ Come è accaduto? Per favore, parla oppure ti sbatto a calci nel culo fuori di qui e torno da Donovan.

Alex sorrise.

Quando ci si metteva il biondino era davvero terribile e a stronzaggine, così come a delicatezza, non lo batteva nessuno.

─ Ero dai russi per la missione e con me c'era una ragazza che si chiama Maria. Conosco quella ragazza da molto tempo ed è la mia puttana personale, mettiamola così ─ ma non ebbe il tempo di continuare la frase che fu interrotto dall'amico, che intanto sogghignava divertito.

─ Allora lo fai funzionare il tuo amichetto lì sotto?! E dimmi uomo delle caverne, per quasi Maria è pure italiana? ─

Il motivo principale per cui quella sera era andato proprio da Sam, oltre che per bere e sfogarsi, era soprattutto le battutine che riuscivano a far risollevare il morale. Quel ragazzo era così. Angelo e demone nello stesso corpo e chi lo conosceva veramente bene, sapeva di quel suo lato che teneva incatenato nel suo cuore.

─ Sei uno stronzo quando ti ci metti! Comunque, poiché sono un cazzo di uomo e come si sa, la carne è debole, lei è pronta ad accogliere a gambe aperte la mia debolezza, contento?! Adesso andiamo al nocciolo della questione. Ho chiesto a Maria di ballare e ad un certo punto non ho più visto il suo viso tondo, ma quello bianco di Hazel e non ci ho visto più.

Non erano sufficienti altre parole per descrivere la situazione.

Sam aveva capito tutto.
Gli occhi, quella strana tristezza, il continuo tacere dell'amico e il non riuscire a guardarlo negli occhi. La ciliegina sulla torta poi, era arrivata quando aveva nominato il suo nome.
Alex era innamorato di Hazel.
Ma Alex non l'aveva ancora capito.




Un mese dopo.





La vita è un eterna ruota.
Gira piano, poi veloce e poi di nuovo piano.
Il fatto è che essa gira, sempre e comunque.
Come l'amore.
Nasce negli occhi e poi arriva a colpire l'anima.

Ma quando il sentimento più nobile che ci sia al mondo muta, si trasforma in un sentimento più devastante, al quel punto è difficile tonarne indietro.

Per Hazel era stato così.

Aveva fatto entrare nel suo cuore Alex, ma involontariamente l'uomo aveva rotto in mille cocci quello che Hazel aveva costruito.

Apposto di aggiustarli però, lei aveva deciso di accantonarli e cominciare a coltivare un fiore, che aveva lo stesso colore dell'odio. Giorno dopo giorno, pasticca dopo pasticca, era arrivata a far crescere quella rosa nera, con un intenso profumo di vendetta. L'aveva colta e aveva preparato poi il tutto, per concimarne delle altre.

Il suo principale obbiettivo era quello di far innamorare l'uomo per poi ucciderlo, nello stesso identico modo di come dodici anni prima uccise suo fratello, suo padre e suo madre.

─ ...e poi vorrei anche delle uova e del bacon.

La signora sulla cinquantina che era entrata con i tre figli e il marito, aveva dei capelli spessi neri e raccolti in una crocchia alta e oltre ottanta chili tra stomaco e fianchi.

Pazientemente Hazel aveva preso il lungo ordine e l'aveva annotato sul taccuino bianco a righe verticali nere.

Il tintinnio della porta l'avvertì che era entrato un nuovo cliente.

Erano le quattro di un pomeriggio di metà dicembre, natale si avvicinava così come l'inizio di un nuovo anno.

Si allontanò silenziosamente dal tavolo, non prima di aver fatto un cenno con la testa come ringraziamento alla famigliola felice e si recò verso il bancone.

Percepì nell'aria un profumo familiare, ma non ci fece caso anzi passò oltre e si recò in cucina per dare l'ordine.

Girò lo sguardo verso il bancone e morì.

La sua fu una morte lenta e atroce, ma indimenticabile.

Alex gli si stagliava davanti, bello come nessuno degli uomini che aveva conosciuto in vita sua. In un attimo tutti i propositi che si era prefissa di realizzare svanirono come neve al sole. Incatenata a quegli occhi magnetici, vide che la barriera che ergeva per nascondersi dalla crudeltà umana, era stata abbassata.

Alex si mostrava a lei, dopo tutte quelle settimane, dopo tutte quei pomeriggi dimenticati, dopo tutte quelle ore che avevano passato a darsi man forte, ad aiutarsi, a sorreggersi per quel mondo troppo crudele, per due mine vaganti come erano le loro anime.

─ Un caffè doppio, per favore!

Lo guardò ammaliata ancora per qualche istante, poi si riprese e facendo un leggero cenno con la testa di conferma, si girò e si diresse verso la cucina.

Quando fu lontana da quelle pozze ardenti, si lasciò andare e appoggiandosi verso il muro, riprese fiato.

Dopo un mese si rifaceva vivo.

Era davanti ai suoi occhi, l'aguzzino dei suoi genitori e impotente, non poteva fare niente.

Si staccò prepotentemente dal muro su cui si stava sorreggendo e strinse forti i pugni.

La voglia di urlare era tanta, ma per il suo bene, la trattenne dentro di sé.

Passandosi poi una mano sulla fronte e una volta risistemata la coda di cavallo che era costretta a fare, uscì di nuovo, ricordandosi che la macchinetta del caffè era stata posizionata fuori.
In tutto questo, Jon la guardava silenziosamente e la studiava.

Uscì e fu costretta a passare di nuovo di fronte all'uomo che accortasi della presenza della biondina, alzò subito gli occhi sul suo magro corpo.

Hazel quegli occhi se li sentiva addosso. Sapeva che era venuto per lei e sapeva anche che non l'avrebbe infastidita ancora per molto.

Prese una tazza bianca dal ripiano e con mani tremanti, la trascinò vicino la caffettiera per voi versare la bevanda scura. Gliela portò nella sua direzione appoggiandola davanti i suoi occhi, senza mai alzare lo sguardo su di lui, ma puntandolo sempre e solo sulla tazza, da cui una goccia marroncina era strabordata da un lato.

Alex , una volta posta la tazza sotto il mento, fece di tutto per far scontrare le loro mani, in una sorta di carezza delicata.

Il ruvido delle mani di lei andò a contatto con quello di lui.

A quel punto Hazel fu costretta ad alzare lo sguardo.

─ Grazie.
Ma nel momento in cui stava lasciando la mano, Alex la prese con prepotenza e sussurrando gli disse ─ Tra dieci minuti vieni fuori, ho bisogno di parlarti.

Hazel rispose con un flebile accenno con la testa e tornò verso i tavoli a prendere le altre ordinazioni. Ogni tanto si distraeva e lo guardava di nascosto.
Nel frattempo Alex aveva finito il suo caffè e una volta pagato, si accinse ad uscire dal locale. Prima di farlo però, diede un ultimo sguardo a quella ragazzina che lo aveva incatenato ad una sorta di magico e dolce incantesimo.

Dieci minuti dopo, Jon diede la possibilità ad Hazel di uscire.
Si portò una sigaretta alle labbra e con uno scatto l'accese.

Il sapore della nicotina si andò subito a mischiare alla saliva mentre il fumo risaliva graffiando dalla gola.

Lo cercava con lo sguardo ma non riusciva a trovarlo.

Portava lo sguardo prima a destra e poi a sinistra ma niente gli faceva capire che fosse passato di lì. La sigaretta finì e così buttò il mozzicone ai suoi piedi schiacciandolo poi, con il tallone

Il cellulare prese a trillare. Mise la password e si accorse che era un messaggio.

Da: Alex
Attraversa la strada. Sono in macchina.

Posizionando il telefonino in tasca, attraversò la strada e fece esattamente come l'uomo gli aveva detto di fare.

Ecco, di nuovo si sentì una marionetta nelle mani dell'aguzzino.

Ormai quello era Alex per Hazel.

L'aguzzino, l'assassino, il distruttore della sua famiglia.

Strinse le mani in pugno, ricordando a se stessa che non era il momento di rivendicare il sangue, per quello c'era ancora tempo.

Girò la testa verso sinistra e si accorse che parcheggiata vicino ad un muretto con su una scritta volgare, c'era un SUV nero.

Prese un profondo respiro, ricordò a se stessa perché fosse giunta lì e aprì la macchina fiondandocisi dentro.

L'odore della pelle si insinuò immediatamente, mentre quello della lavanda divenne prepotente.

─ Volevi vedermi, allora parla perché non ho molto tempo.

Hazel non era riuscita nemmeno per un istante a guardarlo. Aveva parlato tenendo lo sguardo fisso davanti a se e basta, non era riuscita a fare altro.

Alex la osservava dallo specchietto e anche lui, non aveva avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Le immagini di Clash che usciva dal suo appartamento erano ancora ben dipinte nella sua mente, nei suoi ricordi. Al solo pensiero di lui che sfiorava quella pelle di luna, lo mandava in bestia e avrebbe tanto voluto far scorrere un fiume di sangue. Però non poteva e lo sapeva molto bene perché in fondo Hazel e lui, appartenevano a due pianeti completamente diversi, distanti anni luci.

La realtà specchiandosi però, mostrava un altro volto.
Erano simili, forse uguali.
Hazel credeva di essere l'anima buona, quella che risiedeva nel lato luminoso, quella che non aveva mai fatto del male a nessuno.

In realtà lei proprio come lui, aveva distrutto, ucciso, calpestato la cosa più importante al mondo: se stessa.

Si era lasciata affogare in quel mare di sangue. Si era lasciata trascinare da quei demoni che avevano i tratti della vendetta che è maligna e oscura il cuore. Si era lasciata sopraffare dall'odio verso una vita corrotta e inaspettata. Anche lei quindi, proprio come lui, risiedeva nel lato oscuro.

─ Dovevo vederti al più presto uno perché non ti ho mai pagato e due perché desideravo passare un pomeriggi solo con te.

Il mondo sembrò per un attimo fermarsi.
In una sola frase, Hazel era stata umiliata e lusingata.
Doveva arrabbiarsi, forse.
Doveva rispondergli qualcosa, quello era certo.
Doveva fare tante cosa, ma non fece niente.
Per la prima volta lo guardò. Dopo svariati secondi anche Alex fece lo stesso.

─ Te lo ha mai detto nessuno che sei un grandissimo stronzo?

Percepì nel tono di voce della ragazza una punta di fastidio e sorrise per questo. L'aveva fatto apposta a parlargli del pagamento per ricordargli del giorno in cui si erano conosciuti. Si era preso una piccola rivincita su di essa.

─ Diciamo che non sei la prima. Vai a dire a John che non ti senti bene e che devi andare a casa.

Ora era il turno di Hazel sorridere con ironia e con rancore.
Ma chi credeva di essere?! Non poteva dirgli cosa fare e cosa non fare!

─ No! ─ rispose con quel ghigno di superiorità sul viso.

Alex si era innervosito e stava quasi per spazientirsi.

Il suo piano era farla pagare alla ragazza per quello che stava per fare nei confronti di Maria, quella povera ragazza e soprattutto perché aveva pensato bene, di scoparsi qualcun altro che non fosse lui.

Tamburellò con le dita sul manubrio e portando di nuovo lo sguardo avanti, allungò un braccio verso il collo della ragazza e semplicemente, cominciò a stringere forte. A quel punto, tutti i tentativi e i buoni propositi di starsene calmi non servirono.

─ Ascoltami bene: sei soltanto una puttanella del cazzo, con un bel faccino questo devo dartene atto, ma delle volte anche quelle come te, che reputo forse un po' più intelligenti delle altre puttane con cui sono stato, dimenticano con chi hanno a che fare perciò, esci da questa cazzo di macchina e vai a dire a quel cazzone del tuo capo, che stai male! Oppure ti pianto una pallottola in mezzo alla testa, proprio qui, cerbiattino! ─ concluse indicando con l'altra mano libera il posto centrale della fronte.

Hazel per tutto il tempo aveva boccheggiato in cerca di uno straccio di respiro e non riuscendoci, aveva artigliato le sue unghie sulla mano dell'uomo che a ogni parolaccia pronunciata, aumentava la sua forza. Aveva gli occhi che strabordavano di rabbia, di una malsana voglia di morte. Sì, era quella la frase giusta: voleva far scorrere del sangue, navigare in esso e sentirsi completo, appagato.

Per un attimo, quando aveva fatto quel suo monologo, aveva avuto seriamente paura di lui. In tutte quelle settimane non si era realmente resa conto di chi aveva davanti. Alex con lei, si era sempre comportata benissimo, come un perfetto gentiluomo, ma ora, ora gli aveva dato un ulteriore pretesto per odiarlo, quando si era mostrato per quello che era realmente.

Ecco il demone uscire da lui; esso ha occhi pazzi, azzurri e mente nera.
È il lato oscuro di Alex, l'altra faccia della medaglia. 
Stai attenta Hazel, lui non perdona!

Vedendo la faccia viola della ragazza, decise di lasciare andare la presa su quel collo candido e delicato.
Quel gesto gli costò una fatica immane.
Quando si spezza la catena che tiene legato il mostro, poi è difficile corrergli dietro cercando di fermarlo.

Finalmente i suoi polmoni ripresero a funzionare.
Ispirava ed espirava.
Poi scese dalla macchina e andò di corsa da John, senza mai girarsi nella direzione del mostro.
Attraversò la sala e sotto gli occhi attenti dei presenti, si dileguò nel bagno.
Vi entrò e come una furia bussò alla prima porta rossa che incontrò sulla sinistra. Non sentendo nessuna risposta, l'aprì e la richiuse a chiave subito dopo.
Si sedette sul water e aspettò il fiume trasbordare dai suoi occhi chiari.
Ma non usciva niente.
Non riusciva più a piangere; il demone si era portato via pure quella facoltà sacro santa.
Un urlò rabbioso uscì dalle sottili labbra screpolate dal freddo e dando un pugno verso il muro, decise che era giunto il momento di andare via da quel posto sicuro.
Cercò John e quando lo trovò, gli spiegò di sentire un forte dolo nella parte addominale e che presto, una volta uscita da lì, sarebbe andata dritta dal dottore.

John fece finta di crederci e acconsentì a lasciarla andare.
Poco prima che quel farabutto di un delinquente uscisse, li aveva visti parlare e aveva visto la ragazza impallidire al suo arrivo.
Non poteva permettere che quello schifoso andasse a macchiare l'animo puro di quella ragazzina, che aveva salvato pochi anni prima dalla miseria e dalla morte.

Si, John sapeva tutto di Hazel, di quello che gli era successo ma aveva tenuto sempre all'oscuro di tutto ciò Hazel, che invece credeva di aver chiuso per sempre con il passato che aveva lasciato nel caldo afoso del Texas.

John aveva fatto una promessa tempo prima: salvare Hazel. Ed in quel momento, doveva essere salvata da l'uomo nero che aveva due diamanti al posto degli occhi.

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20


Una volta rientrata in macchina, Alex accese il motore e si allontanò dal Diner.

Non era per niente dispiaciuto per quello che aveva fatto alla ragazza, lui era fatto così e Hazel faceva bene a mettersi l'anima in pace.

Per un attimo pensando a lei, si voltò a guardarla. La vide che tremava silenziosamente, non per il freddo. L'aveva scossa con quel suo gesto. Aveva le mani intrecciate sul grembo e lo sguardo perso verso il finestrino. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter entrare nella sua mente e leggere i suoi pensieri, sentire quello che provava, bearsi del suo spirito ingenuo e coraggioso.
Poi riprese a guardare la strada.

─ Almeno potevi cambiarti! Hai indosso ancora la divisa da lavoro!

Le disse più per fare conversazione che per altro.
Ma non ricevette nessuna risposta, se non un alzata di spalle.

Hazel guardava assorta il panorama sfrecciare fuori dal finestrino, ma senza veramente prestarci attenzione. La testa le scoppiava e le faceva davvero male, così si sporse per prendere la borsa nera in pelle vicino ai suoi piedi. Una volta afferrata, cominciò a rovistarvi dentro cercando di scovare una qualche pasticca antidolorifica, ma niente, aveva lasciato tutto a casa. Frustrata, sbuffò e buttò di nuovo a terra la sua borsa.

Quei gesti non erano passati inosservati agli occhi di Alex, che li aveva seguiti passo dopo passo.

─ Qualcosa non va, cerbiattino?

Odiava quando la chiamava in quel modo, le sembrava uno sfotto.
Questa volta si girò nella direzione dell'uomo e visibilmente scocciata, gli rispose:
─ Ho una forte emicrania e cercavo una pasticca per il mal di testa, ma non sono riuscita a trovare un bel niente.

Alex sorrise impercettibilmente mentre l'occhio gli cadde sulle gambe scoperte della ragazza. A quel punto, rendendosi conto che anche gli altri potevano osservare le sue gambe nude all'interno di quello schifosissimo posto di lavoro, serrò la mascella infastidito.

Ma che diavolo ti sta accadendo, A?! Ti rendi conto che sei geloso?! E di chi si è gelosi A, è di chi?! 

─ Questa gonna non è troppo corta? 
Al suono di quelle parole, Hazel spostò il viso sulle gambe, rialzandolo subito dopo, visibilmente infastidita.
─ No, è una divisa come tutte le altre.
Ingenuamente Hazel aveva risposto a quella stupida domanda, accorgendosi subito dopo della nota di fastidio nella voce dell'uomo. I suoi occhi si accesero di una strana luce. Non era malizia, nemmeno rabbia, c'era altro dietro quel grigio. C'era la consapevolezza che quelle parole suonavano tanto di gelosia e si era gelosi di una persona, solo quando si teneva ad essa. Che la vedesse come una sorella o una sua potenziale amante, non le interessava perché a lei importava solo fargli male, tanto male come lui aveva fatto a lei.

Hazel aveva una cicatrice lungo il cuore che non era mai stata rimarginata, e sanguinava come la prima volta che era stata incisa. C'era dolore, tristezza, rabbia e odio, in quel sangue che colava da dodici lunghi anni. In tutti quegli anni aveva cercato avidamente di andare avanti, di dimenticare, senza mai riuscirci veramente.

Quando però era arrivato lui, allora lei aveva scoperto un modo per ricucirla, quella maledetta ferita. Sarebbe stato proprio il sangue di Alex il russo dagli occhi di ghiaccio, a farla rinascere. Sarebbe stato l'uomo di cui per un attimo, credeva di essersi innamorata, a farla tornare a respirare.
Per quanto era immersa nei suoi pensieri, si accorse quando ormai era troppo tardi, che avevano passato da un pezzo l'hotel abituale, così chiese dove fossero diretti.

─ A casa mia.

Quella fu la risposta che non ammetteva repliche di Alex.

─ Ti fidi così tanto di me? Sei così sicuro che io non corra dalla polizia a raccontare dove sta la casa?

Era una prova, una prova che stava facendo a l'uomo, ma anche se stessa.

─ Non lo faresti mai e lo sai perché? ─ rispose allargando gli angoli della bocca in un dolce e amaro sorriso.

─ Perché?

─ Perché non ce la faresti, arriveresti lì e te ne andresti, ma non perché non sei abbastanza coraggiosa, ma perché è così, punto e basta.

Improvvisamente quelle parole così dannatamente vere, la fecero vacillare. Se voleva fargli del male, anche prima di aver scoperto la verità, glielo avrebbe fatto, ma l'aveva solo rincorso in quella strana corsa contro il destino. Ancora una volta l'uomo aveva ragione.

Poi stettero zitti entrambi, chiusi nel loro mutismo carico di significato.

Due ore dopo e la macchina arrivò nel distretto di Manhattan, più precisamente, a Midtown. Hazel c'era stata lì, una sola volta per vedere una mostra di un amico di Chris. In quell'occasione avevano fatto un salto anche all'Empire State Building, dalla cui terrazza si poteva ammirare quell'immenso fiume di palazzi, di grattacieli che imponenti andavano a scontrarsi contro il cielo o a parlare con Dio, nessuno poteva saperlo con certezza.
Se Orwell fosse stato ancora vivo,  avrebbe sicuramente definito quei lunghi rettangoli di cemento,  l'occhio del grande fratello, che tutto comanda e tutto controlla.

Il quadro, che le si presentava ritratto dietro il finestrino dell'auto, aveva disegnato il grigio di quegli alti palazzi; i colori dei semafori; la gente coperta dai lunghi e pesanti capotti, dai caldi cappelli di lana, dagli stivali invernali a protezione dei tre gradi che aleggiavano nell'aria; il giallo dei taxi; il bianco delle strisce; i colori vivaci delle insegne e quelli delle macchine che sfrecciavano come treni in corsa.
Poi giunsero in prossimità del palazzo in cui abitava Alex.
Frastornata per la sorpresa e il lusso che già si poteva intravedere da fuori, Hazel scese dalla macchina agitata mentre muoveva quei suoi occhi impazientemente sulla figura del grattacielo.

─ Andiamo!

Fu la voce bassa dell'uomo a farla tornare alla realtà, mentre con una mano poggiata sui reni, la intimava a camminare.

Entrano dalla porta in vetro e più che un condominio, ad Hazel diede l'impressione di un Hotel, con la reception che faceva da portierato.

Alex salutò l'uomo dietro il bancone e si diressero verso un ascensore.
Le porte si aprirono e, dopo aver atteso che una coppia uscisse, vi si insediarono.
Una volte che le porte furono chiuse, l'uomo digitò il numero tre.

Sentiva su di sé, ancora una volta, gli occhi glaciali del russo che attento, non si lasciava sfuggire nemmeno un suo movimento. Sentendosi sotto pressione, Hazel cominciò a guardarsi intorno. Era una cabina quadrata, ampia, con la moquette nera e le pareti lastricate in marmo bianco.

Alex spazientito da quel comportamento infantile, le si avvicinò.
Le dita si sfiorarono e a quel contatto, Hazel ebbe un sussulto.
L'uomo si piegò fino ad arrivare all'altezza del suo orecchio.
Scansò i capelli dal lato sinistro e diede un leggero bacio nell'incavo del collo.
La sua pelle calda profumava di cocco e mandorle, sapeva di buono, di dolce, sapeva di Hazel.

─ Voglio fare l'amore con te.

Tremò.

Il suo corpo esile fu scosso da mille tremori, da cento scariche elettriche che dalla testa arrivavano fin sotto le sottili caviglie. Chiuse gli occhi, e nemmeno se ne rese conto, tanto era immersa in quella bolla di erotismo che Alex aveva creato solo con il suono roco e basso della sua seducente voce, e con il suo caldo respiro che sapeva di caffè e menta.

Aprì gli occhi quando le ante elettriche dell'ascensore si aprirono, facendosi annunciare con quel vispo din.

Hazel non aspettò che l'uomo gli dicesse di continuare a camminare, ben sì, trovando quella spavalderia che un tempo l'accompagnava come un ombra, si incamminò e una volta uscita da lì, si girò a guardare l'uomo.

Alex l'aveva lasciata fare. Aveva visto come si era irrigidita e quindi voleva dargli il giusto spazio per come dire, riprendersi. Ma non avrebbe mai immaginato di incontrare sul suo viso quello sguardo da vincente.

Hazel infatti, sfoggiava uno sguardo tutt'altro che innocente e inesperto.

C'era malizia e lussuria nei suoi occhi, ma se li guardavi meglio, c'era anche determinazione.

Hazel buttò a terra la borsa di camoscio nero e sinuosamente, indietreggiò. Lo stava invitando a quel dolce e succoso banchetto, che era il suo corpo.
Alex le si buttò letteralmente addosso, mentre la circondava con le sue imponenti braccia la stretta e magra vita, e le divorava la bocca.

Si erano messi a nudo con un solo bacio.
Avevano lasciato fuori la loro voglia di vendetta e si erano concentrati solo su quel bisogno animale, carnale tipico degli uomini.

L'aveva per come dire, braccata nella sua passione, nella sua violente a brutale passione. Perché Alex quando amava, lo faceva con tutto il suo corpo.

Indietreggiarono fino ad arrivare all'isola in marmo della cucina.
Con enfasi, la presa dai fianchi e l'appoggiò sul ripiano.

Fecero l'amore lì, vestiti perché l'unica cosa che in quel momento desideravano era essersi ritrovati. Ce ne avevano messo di tempo, ma alla fine ce l'avevano fatto.

Hazel strinse le sue gambe corte sui fianchi dell'uomo , lasciandosi scappare di tanto in tanto, qualche mugolio di piacere ed Alex come ipnotizzato, la guardava ammirato e incantato.

In tutto quello, le loro anime danzavano instancabili fuori da quella bolla che si erano creati. Se avrebbero potuto, non avrebbero mai smesso, ma sapevano benissimo che quegli attimi di profonda libidine, sarebbero finiti molto presto e che la vendetta, sarebbe tornata prepotente nei loro cuori, nel cuore ormai annerito di Hazel.

Alex le stringeva con fare morboso le cosce e in una muta richiesta di amore, poggiò la sua fronte sudaticcia su quella di Hazel.

Di nuovo, calò quel mutismo che era solito accompagnarli come un'ombra.

Gli occhi di Alex gridavano perdono, perdono per l'uomo che aveva scelto di essere. Gli occhi di Hazel invece, chiedevano pietà per quell'amore che non avrebbe mai potuto restituire.


***

Per molto tempo, Hazel si era chiesto cosa si provava a vivere in una casa del genere.
Erano passati ormai dodici anni dal giorno in cui aveva perso tutto. Il ricordo dello sfarzo e dell'oro, erano stati ormai sepolti da tempo.
Ora, immersa nell'acqua tiepida di quella vasca bianca in vetro resina appartenete ad un'altra epoca, che si poggiava sul pavimento di cotto panna, grazie a dei piccoli piedini in argento lavorato, piano piano, quei ricordi nascosti dietro la nebbia, stavano riaffiorando.

Aveva voluto fare quel bagno per lasciare andare l'odore del mafioso e del sesso, che appiccicatisi addosso come un maglione in micro-fibra a collo alto, l'aveva destabilizzata e con la quale se ne era poi pentita, perché aveva dimenticato per un istante, l'odio che covava nei suoi confronti. 
Tutto per poter accontentare quel puro istinto viscerale, primitivo che risiedeva in lei, dal primo momento che aveva posato i suoi occhi su di lui.

Alex era entrato, silenzioso, dannoso e fatale.

A passi cadenzati, si era avvicinato a lei, che giaceva rilassata in quel mare di schiuma bianca e profumata di fiori tropicali.
Non si era pentito per niente di quello che era successo solo un'ora prima anzi, era stato proprio lui a volerlo.
Ma ora, ancora una volta, aveva lasciato che il risentimento prevaricasse nel suo cuore sbandato e così, ora era lì, a riscuotere quello che gli era dovuto.

─ Hazel, moya malen'kaya luna, belyy kak sneg i letal'nyy kak lyubov'.
(Hazel, mia piccola luna, candida come la neve e letale come l'amore.)

In quell'esatto momento, la protagonista di quella triste e stridula storiella aprì i suoi occhi. Lo guardò stordita. Immediatamente un leggero velo di rossore calò sulle sue guance, al pensiero dell'uomo che inginocchiato vicino la vasca, la scrutava in tutta la sua sbocciata nudità.

Alex sorrise tirato. Era lontano, non era lì. La sua mente viaggiava verso l'inverno gelido della sua madre patria, verso gli occhi stanchi e arrossati della sua bellissima madre, verso i pugni e il sorriso sadico di quell'uomo indegno che rappresentava per la legge e la natura, suo padre.

Intravide alterate attraverso l'acqua, le gambe nude di Hazel, delicatamente ne prese una e la poggiò sul bordo della vasca e prese a fare su e giù su di essa, con quei suoi polpastrelli ruvidi e gelati.
Era morbida e da vicino la sua pelle bianca, risaltava ancora di più

Tastò uno ad uno, quei piccoli disegni intravedendo prima un orologio da taschino, poi quattro piccoli rondinini, una scritta in latino e altri disegni con un significato ben preciso.
All'altezza della coscia si fermò e la guardò.

Quelle languide carezze le stavano piacendo così, impavidamente riprese lentamente il percorso per arrivare lì, dove vi era stampata in rosso la vergogna di Hazel.

Le sue mani erano esperte, forse troppo esperte.
Fu proprio in quel momento che Hazel si rese conto che l'uomo non solo sapeva maneggiare molto bene le armi, ma sapeva anche far godere e rendere felice una donna.
 Era diventata ancora una volta, una corda di uno strumento, una chitarra forse, che lui maneggiava e faceva cantare a suo piacimento.
Nemmeno si rese conto di aver chiuso gli occhi, di aver aperto la bocca e di essersi aggrappata al freddo bordo della vasca.

 

Le stava facendo provare delle vere emozioni.

In quella masturbazione non c'era niente di spinto, forse era un piacevole gioco erotico, ma alla fine quello che contava veramente, era la passione e la tenerezza che ci metteva nel farlo. 
Ad un tratto quelle carezze come erano venute, svanire nel vento che in quell'istante, era portatore di cose nocive e pericolose.

La prese di nuovo al collo e questa volta,  la forza divenne maggiore.

Hazel strabuzzava gli occhi mentre la testa finì sotto l'acqua, che ormai era diventata fredda. Come fredde erano quelle mani calcolatrici, che come ruspe, portavano solo alla distruzione e alla morte.

Si sentì come se fosse stata tradita, per la seconda volta.

Ci era ricascata, aveva di nuovo abbassato la guardia e il cuore, aveva subito un'altra stilettata da quel pugnale ormai insanguinato e arrugginito.

Il corpo, o forse quel pezzetto di lei che ci teneva alla vita, fecero si che le sue piccole mani, si andassero a scontrare con quelle di lui. E graffiavano, pungevano senza però, ottenere niente.

Alex intanto, cominciò una cantilena che sapeva di devastazione e di morte.
Possibile che ci fosse sempre e solo quella costante nella sua vita?

Lasciò andare la presa, per portarle sulle guance del visino di lei e la riportò in superficie.
Un capello biondo bagnato, si insinuò sul viso, quasi dividendolo a metà.
Hazel lentamente riprese a respirare, dopo aver tirato un primo profondo respiro.
Lo guardava con occhi sgranati e sorpresi, increduli mentre riusciva a leggere rabbia nei suoi.
Indietreggiò con la testa, ma non riuscì ugualmente a sottrarsi dalla sua presa, così poggiò poi le sue mani su quelle di lui.
Fu quel tocco a far rinvenire Alex da quel brutto incubo che lui stesso si era creato.
─Credevi davvero che non lo venisse a scoprire?! Credevi davvero che ti avrei diviso con qualcun'altro?! È Hazel?! Sei mia, hai capito, mia! ─ urlò, in preda alla collera e alla disperazione.

Non riusciva ad afferrare le sue parole. 
Inizialmente aveva pensato che il suo segreto era stato svelato, ma le parole che seguirono poi, oltre a non avere senso, andavano a scontrarsi contro esse, come le onde del mare fanno sugli scogli.

Nel corpo di Alex, nel leggere sul viso di lei confusione e smarrimento, si accese una furia ceca che si tramutò poi, in un gesto dettato da quel furore. Prese la ragazza dalla vita, andando a immergere anche le mani e metà braccio nell'acqua, l'alzò in piedi e lui con lei, e la scaraventò per terra.

Il contatto con le piastrelle fu doloroso ma non freddo, perché l'uomo aveva installato in casa il riscaldamento termico. Le braccia saettarono a coprire le parti più intime del corpo di una donna, ma nonostante ciò, non ebbe nemmeno il tempo necessario per mettersi seduta perché Alex la fece alzare di nuovo.

Questa volta lui la stringeva nelle sue braccia, mentre lo sguardo di lei rimaneva terrorizzato e sorpreso. Sempre plasmandosela addosso, si piegò leggermente verso sinistra, per prendere il grande asciugamano posto sul mobiletto e adagiarlo sul suo corpo tremante.
Poi l'abbracciò in un gesto così inaspettato

Hazel rimase interdetta per alcuni istanti, ma poi ricambiò l'abbracciò, o almeno era quello che credeva l'uomo. Con una mano risalì dalla schiena per arrivare alla nuca, per andare a stringere in pugno i suoi capelli neri. Poi si mise sulle punte e avvicinò la bocca all'incavo del collo e morse, così forte da sentire il sapore rugginoso del sangue mischiarsi con quello della saliva. Infine, si allontanò dall'uomo, sfoggiando un sorriso di meritata vittoria.

 

─ Una volta passa, la seconda no, russo!

Sputò quell'ultima parola con fare derisorio, ma Alex in qualche modo era felicemente sorpreso per quel piccolo attimo di ribellione, certo il collo gli bruciava, ma in quel momento non gli interessava, no, perché in quel momento desiderava ardentemente sentire di nuovo le sue labbra su le sue, la sue mani sul suo corpo e questa volta, voleva assaporare tutto il suo corpo, non solo una parte. Anche il suo amichetto lì sotto, scalciava per poter essere accontentato.
La sfiorò, la guardò per un attimo e poi la sbatte al muro alle loro spalle.

─ Ti scoperò fino al punto che non ricorderai nemmeno più chi è quel finocchio di Frank, o dovrei dire Clash? ─ il tono di voce usato era basso e roco, mentre negli occhi una luce di entusiasmo e fervore, si accese incandescente per andare ad illuminare il buio dentro di essi.

Improvvisamente Hazel comprese il significato dietro quelle parole iraconde e cattive. 
Aveva visto l'amico uscire di casa una delle tante volte in cui si erano visti, si erano sballati e poi erano finiti a fare sesso, con i sensi distorti e la mente annebbiata.
Sorrise strafottente, perché gli occhi furono aperti.
Non era l'uomo a tenere le redini su di lei, ma era lei a tenere le redini su di lui, anche se lui ancora non l'aveva capito, perché c'era l'orgoglio da dominatore a dividerli, a predominare.

Questo voleva dire inoltre, che l'uomo sarebbe caduto nel momento in cui lei l'avrebbe fatto cadere; sarebbe sopravvissuto nel momento esatto in cui lei, l'avrebbe salvato; avrebbe provato dolore e sofferenza sulla sua pelle, nel momento in cui lei avrebbe spinto quel coltello più in profondità, fino a lacerare la pelle e gli organi. 
E il sangue sarebbe scivolato a fiumi giù per le vene e la carne dilaniata, avrebbe macchiato le mani, ma placato la sete di vendetta.

─ Allora devi farlo bene, perché Clash è stato davvero, davvero bravo, forse il migliore con cui sono stata fin ora. ─ e nel dirlo, fece scivolare maliziosamente l'asciugamano ai suoi piedi.

Alex invase con prepotenza la sua bocca, il suo spazio, il suo corpo.
Fremente di libidine, Hazel aprì la camicia bianca dell'uomo con uno scatto animalesco, mentre una pioggia di piccoli bottoni bianchi si schiantarono sul pavimento lucido, che rifletteva in maniera distorta e poco chiare, le figure dei due amanti intenti a unirsi nell'atto più antico, più viscerale e senza epoca, come l'unione di due corpi.

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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***


 

Capitolo 21






Pioveva.
La poggia cadeva dal cielo impetuosa ormai da tre ore.
Erano le undici passate e un po' per la poggia e un po' per l'orario, in strada non c'era nessuno.
Nella cabina telefonica nei pressi di Hell's Kitchen però, si poteva udire ovatta una voce.
Messo il gettone, l'uomo aspettò trepidante che la voce dall'altro capo del telefono, accettasse la chiamata.
Intanto il cielo fu illuminato da un lampo argentato e allora l'uomo nell'attesa del momento, cominciò a contare i secondi che passarono prima di udire l'esplosione del tuono e per misurare quanto vicino esso fosse.
Ne contò sette, ciò voleva dire che il tuono era lontano dalla cabina. Non c'era quindi nessun pericolo.
─ Pronto, chi è che parla?
Finalmente udì la voce dall'altro lato e prendendo un respiro profondo, cominciò con il suo monologo.
─ La texana non è mai morta e il russo non vi ha mai detto la verità... 

Doveva salvare una vita, sacrificandone un'altra.
D'altronde, questa era la dura legge del mercato della vita.

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Finalmente il cielo si era aperto, rivelando un pallido sole sotto un manto celestino.
Nonostante tutto però, faceva ugualmente freddo. 
Chris aveva obbligato Hazel a passare la mattinata con lui, poiché era da molto che non lo facevano. Costretta ad una settimane di ferie arretrate, la ragazza si era finalmente decisa ad uscire con l'amico, anche perché, l'aveva minacciata apertamente.
─ Allora ti decidi a parlare o sono costretto a farlo io? Sai che quando mi ci metto posso essere molto persuasivo.─ e finì la frase sorridendo e sorseggiando il suo caldo caffè nero.
Erano seduti ad un bar, avevano ordinato la colazione e ora ad entrambi, non restava che raccontare tutti gli avvenimenti che si erano persi in quelle lunghe settimane di assenza.
Hazel lo guardò di traverso, dall'alto del suo cappuccino all'italiana o almeno era quello che sarebbe dovuto essere, in realtà era solo caffè lungo con un goccio di latte.

Chris non smetteva un secondo di fissarla, era deciso in quello che stava facendo.
Rassegnatasi, Hazel rilasciò l'aria trattenuta un secondo di più dai polmoni e cominciò a parlare.
─ L'ho trovato. 
Sulla faccia dell'amico si dipinse uno sguardo confuso, ma poi capì a cosa l'amica alludesse. 
Quell'ombra l'aveva tormentata per settimane, diventando quasi un incubo, non solo notturno.

Hazel guardò la faccia di Chris leggendo negli occhi quella giusta curiosità che parafrasava la sua voglia di scoprire di più,  sempre di più. 
Sospirando, riprese il discorso. Gli raccontò della sera in cui si era ritrovato quell'uomo in casa, di come aveva incontrato Alex e soprattutto, chi era Alex. Non menziono però,  quanto c'entrava l'uomo nel suo passato e quello che aveva in serbo per lui. 
 
─ Gesù Haz, mi stai dicendo che un biondino, non che suo amico, si è intrufolato in casa tua e ti ha minacciato. Tu però invece di correre dalla polizia, hai accettato quella sua malsana offerta. Ma tutto ciò, ti ha portato ad incontrare lui, che per sopravvivere fa l'assassino?! ─ urlando per tutto il tempo, Chris aveva appena espresso il suo parere su tutta la questione.
Hazel si guardò intorno, pregando e sperando che nessuno dei presenti l'avesse sentito blaterare ed urlare. Nel farlo vide però, che tutti erano indaffarati a spettegolare e a  parlottare tra di loro. Tutti tranne due uomini che sedevano a tre tavolini più dietro, che con le facce scure se ne stavano seduti, o meglio, sbragati sulle seggiole in ferro battuto nero, con gli occhiali da sole sugli occhi e guanti neri alle mani.
Hazel nel vederli deglutì visibilmente preoccupata.
─ Non urlare buon cielo! Ti rendi conto che sono discorsi che devono rimanere il più segreti possibili?! E poi cosa vuoi che facessi?! Mi ha minacciata di fare del male a John e a te, brutto imbecille. 

Ma l'amico non sembrò minimamente scalfito dal rimprovero bonario della ragazza, anzi tutto tranquillo continuò a sorseggiare il suo caffè.
Per alcuni secondi rimasero in silenzio.
Chris rilassato prese ad inviare messaggi con il cellulare, ma Hazel continuava a guardare con la coda dell'occhio i due tipi misteriosi. 
Ad un certo punto arrivò a formulare l'idea che fosse stato Alex a mandare quei due, ma poi, alla luce dei fatti, non vi trovò nessun buon motivo per cui l'uomo avesse dovuto ricorrere a quegli strani trucchetti solo per poterla tenere sotto controllo. In fondo, il giorno precedente era stato molto chiaro, riguardo a tutto ciò.
 Un sorrisetto nacque temerario sulle labbra screpolate, quando ripensò a lui e a quello che avevano fatto. 
Quando aveva fatto l'amore con lui, tutto era sembrato andare nel verso giusto. Gli aveva trasmesso emozioni vere e contrastanti. Aveva sentito dentro di sé, la malsana voglia di fargli del male e quella di carezzarlo, quella di dovergli tutta la passione di cui il suo corpo era fornito. 
Quella non era stata semplice unione carnale di due amanti, che dopo tanto tempo sfogano i loro istinti, ma un unione di ossa, di carne, di sangue rosso e nero, di vene viola, di occhi, di respiri interrotti e sussurrati e di anime. Si erano concessi, serviti su un piatto d'argento, e tutto questo nella pace del momento che, purtroppo, era durato troppo poco perché poi il risentimento era risalito a galla e quelle anime danzanti, avevano smesso di ballare per ricominciare a graffiarsi, a mordersi, a farsi del male.

─ Chris ascoltami bene, dobbiamo andarcene, ma senza dare troppo nell'occhio nel modo più silenzioso possibile.  ─  sussurrò quelle parole con un mal celato terrore.
Il ragazzo dai capelli rossi annuì.
Si fidava così ciecamente della ragazza, che se avesse dovuto concedergli la propria vita in una mano, l'avrebbe fatto. Perché se Hazel aveva detto ciò, un motivo c'era.
Si alzarono in religioso silenzio e dopo essere entrati nel bar per pagare, altrettanto silenziosamente, vi uscirono.
Indossando un paio di occhiali nero pece, Hazel volse il proprio sguardo celato e nascosto dalle lenti, verso i due senza farsi notare.

La gola divenne secca quando non li vide più.
Erano spariti, si erano alzati, forse dileguati o forse li aspettavano trepidanti nel parcheggio.
Di nuovo la paura la investì.
E se li avessero attaccati? Che cosa avrebbero potuto fare loro due verso quei mostri?
Al solo pensiero gli risaliva dalla gola una bile amara.
 ─ Corriamo in macchina e andiamocene da qui. 
Così prese a camminare svelata davanti l'amico, che intanto la seguiva interdetto e confuso.

Intanto, dall'altra parte delle città, verso il porto dismesso dell'isola di Roosevelt, Alex stava contando i morti sventrati appartenenti al proprio clan.
Ormai era cominciata la guerra.
Loro avevano ucciso un pezzo grosso e questo era il prezzo che avevano dovuto pagare.
Affianco a lui, un Sam attento scrutava i corpi dissanguati mentre tirava le proprie conclusioni e un Donovan al quanto preoccupato.
─ Non c'è dubbio...è un esecuzione che ha lo scopo di lasciare un messaggio ben preciso.

Allora Sam prese a girare intorno ai cadaveri.
Prima a destra per poi ritornare a sinistra.
Si avvicinava e dopo aver osservato un corpo abbastanza a lungo, si allontanava da esso.
Poi indicò con il dito la matassa di corpi raggomitolati gli uni sugli altri.
─ Vedete, oltre ai segni e alle ecchimosi sul volto, perché hanno una mongolfiera apposto della faccia...  ─ detto questo, cominciò a sghignazzare della sua stessa tetra battutina, per poi continuare con l'attenta analisi dei corpi  ─...hanno subito altre torture di vario tipo, per citarne una: l'esportazione del tessuto cutaneo su entrambi i bracci, e sono quasi sicuro di poter affermare che credono che tra di loro ci sia una spia, un uccellino che sente e canta tutto a qualcun'altro che sta al di fuori del loro rispettabilissimo clan.

─ Come fai a dirlo con certezza? 
Lo interruppe Donovan con una faccia disgustata e dal colore pallido.
Alex a quella vista, cercò di tenere per se la nascita di un sorriso derisorio.
Quel ragazzo ne aveva di strada da fare!
Spazientito, Sam sbuffò e riprese, lanciando un'occhiataccia al moro, il monologo.
─  Perché altrimenti non ci sarebbero questi cinque qui, ma Alex, con un buco in fronte.
A quel punto Donovan guardò negli occhi Alex, il quale, quest'ultimo, vi lesse una cocente preoccupazione.
─ Sta tranquillo coglione, finché sarò su questa terra e camminerò per questa vie, nessuno mi farà del male.  ─ gli rispose cercando di tranquillizzarlo.

Almeno per quanto riguarda quello fisico. 
Caro Donovan, non c'è niente di più brutto che il dolore interiore. Quello amico mio, non ti lascia nemmeno la possibilità di respirare.  

Il discorso, se pur fatto da quel sadico di Sam, era chiaro e più che giusto.
A quanto pare la cara Cathlyn non gli aveva detto di avere una spia.

Improvvisamente squillò il cellulare.
Con fastidio lo estrasse dalla tasca e lesse il nome di chi lo stava disturbando sul display.
Di tutti i nomi si sarebbe aspettato, ma non certamente quello di Hazel.
In un baleno accettò la chiamata e rispose.

─ Alex degli uomini ci stanno seguendo.
Nella voce della ragazza si poteva leggere tutta la tensione del mondo.
Strinse la mascella così forte, che per un attimo pensò che si potesse rompere.
Ma fortunatamente ciò non successe.
 Sono fuori casa, ma non ho il coraggio di scendere.

Bastarono quelle parole e la consapevolezza del pericolo, a farlo correre come un dannato tra le strade di Manhattan per arrivare a Brooklyn, in meno di  due ore.
Ma quando arrivò lì, non si sarebbe mai aspettato di trovare la ragazza in lacrime seduta sugli scalini adiacenti all'entrata.

Con il fiatone si guardò intorno, cercando di scovare un indizio, magari una macchina.
Nuvolette di fumo bianco uscirono dalla sua bocca, mentre il respiro lentamente tornava regolare. Non trovando niente che gli fosse utile, ritornò con lo sguardo verso di lei.

Nel vederla in quelle condizioni, una voragine si aprì nel suo stomaco.
Era come se un fuoco si fosse impossessato del suo sangue e le lame affilate delle sue ossa.
Hazel lo vide e non fu mai così felice come prima di allora.
In un impeto di coraggio e disperazione, le si buttò addosso.
Alex ne fu felicemente sorpreso.
La strinse a se. Doveva proteggerla, sentirsela plasmata addosso e fu per questo che chiuse gli occhi, respirando e inebriandosi l'olfatto dei suoi capelli che sapevano di cocco.
Hazel invece, entrando in comunione con il suo calore, con la forza che quel corpo scolpito dagli uragani e dalle tempeste emanava, sentì evaporare tutta la paura e il terrore che le avevano pervaso lo spirito quel giorno.
Non erano mai stati così lontani e così vicini, come in quel momento.

Si staccarono leggermente per far incontrare i loro occhi.
─ Stai bene? 
La ragazza fece solo su e giù con la testa.
Poi un rumore, come di qualcuno che forzatamente si schiariva la voce, li fece tornare alla realtà.
Alex stacco il filo che li univa per primo, seguito poi, con rammarico da Hazel.
─ Si, sto bene anche io, se ve lo stavate chiedendo.

Chris, si era dimenticata che lì non era da sola ma con Chris, che l'aveva supportata per tutto il tempo.
Staccandosi definitivamente dall'uomo, si allontanò da lui, per andare verso l'amico che intanto gli rivolgeva sguardi di approvazione.
Era in quei momenti che si ricordava della vera natura di Chris. Riuaciva ad essere un fuoco d'artificio, anche quando il cielo era azzurro.
  ─ Ah scusami, Alex lui è Chris... ─  si rivolse al russo indicando l'amico per poi fare il contrario, tutto questo con un sorriso stampato sulle labbra sottili ─...Chris, lui è Alex, l'uomo di cui ti parlavo.
Ed ammicó mordendosi il labbro, con gli occhi che brillavano di una strana luce, da renderli quasi acquosi.
Alex sorrise, ma per non farsi accorgere dalla ragazza, girò il viso verso destra mentre portava le mani in tasca.
Ripresosi, salutò come di dovere Chris e il rosso fece lo stesso, strinse la mano callosa che l'uomo gli dava.
Finiti i convenevoli, Chris con una scusa decise che era arrivato il momento di andare, capendo che i due avevano molto di cui parlare da soli, così mentre il ragazzo si allontanava verso la fermata del bus, i due salirono le scale per entrare poi, in casa di Hazel.

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22

 

Con uno scatto secco il chiavistello della porta chiusa si aprì, rivelando un soggiorno ordinato solo a metà. 
Alex ne osservò ossessionato ogni singolo oggetto presente.
Il divano al centro della sala, coperto da una leggere ma larga coperta dai colori caldi, che andavano dal giallo, all'arancione e al rosso, con un grande disegno al centro,  che gli diede l'idea di un tatuaggio maori, rifinito con bordi neri. 
Il piccolo tavolino al centro tra il divano e la poltrona rossa. Quest'ultima presentava  abrasioni e striature date dalla vecchiaia, disseminate lungo tutto il perimetro. Se si osservava bene, quando si scendeva sempre più giù, si poteva intravedere anche il giallo pallido della spugna, messo in risalto dal pavimento in parquet scuro.

Chi sa perché, ma quella poltrona gli ricordò quella di pezza marrone usata da sua nonna. In un baleno, rivide il suo fantasma, seduto a fare la maglia, a fargli un maglione verde o blu, con la fronte corrucciata e solcata da tre grandi sorrisi, mentre le dita lunghe e affusolate saettavano veloci a intrecciare.
La memoria era una meravigliosa ma seccante invenzione, e questo Alexander sembrava saperlo bene. 

Serró la mascella e passò oltre.
Forse era meglio così. Perché pensare al passato faceva male, tanto, troppo male. Era un dolore con cui sapeva, avrebbe dovuto convivere per il resto della sua merdosa esistenza. Anche se vedeva in Hazel - quella silenziosa ragazza che come le onde se ne andava e veniva pacificamente - una possibile salvezza; in cuor suo e nella sua mente, conosceva già il destino rovinoso e putrido a cui era stato destinato. 
Navigava da anni ormai, in un mare di letame che gli toglieva il respiro e la visione della sua vita, se così poteva chiamarla. Forse l'unica prerogativa era la morte.
Ma la morte, forse perché la vedeva ogni giorno, non gli faceva paura. Per lui era solo un baluardo a cui ogni uomo o donna era destinato. L'arrivo indesiderato per gli altri, ma un evasione per il russo. Almeno, sussurrava a se stesso, rincontrerai tua madre.

Un clacson proveniente dalla finestra coperta da una finissima tenda bianca, lo fece tornare a quella stanza. C'era una televisione addossata al muro salmone, dal colore crepato per l'umidità, e un appendiabiti anch'esso vecchio e marrone chiaro, vicino l'entrata.
Basta era tutto lì. La ricchezza di quel monolocale per due, finiva ed iniziava lì. Tutto il contrario dell'artificio di casa sua. Mobili costosi, ogni tipo di elettrodomestico presente al momento e stanze vuote, prive di affetto e di luce. 
Per un attimo la invidiò. 
Invidiò quello stile semplice ma preciso. 
Invidiò quelle mure, quelle stanze e quei mobili che urlavano di gioia e di allegra vecchiaia.

─ Alex posso offrirti un tè? Oppure non so, della cioccolata?
Si girò verso di lei, con quelle stalattiti ancora una volta impassibili ma cristallini.
Vide il sorriso tenero e dolce su quelle labbra. 
Le guardò, forse più del dovuto, le studiò e un fuoco nacque iracondo dentro di sé.
La patta dei pantaloni si gonfiò leggermente e sperò - per il bene di quella creaturina, che passasse inosservato.
In un balzo fu da lei. 
Ancora una volta, si specchiò in quegli occhi vitrei, argentei spalancati.
Gli prese la nuca e l'avvicinò senza preavviso, senza cura o delicatezza per far combaciare in un bacio ardente le sue labbra a quelle di lei.

Hazel dapprima sconvolta e un po' impaurita, al tocco di quelle labbra dimenticò tutto, ancora una fottutissima volta.
Dimenticò di essere stata seguita, di quegli uomini vestiti di nero, di Chris e per l'ennesima volta, della sua sanguinosa discesa verso gli inferi.
Lui si staccò. Lei allora, lo ringraziò mentalmente e lo maledisse allo stesso tempo. 
Come era possibile che ogni volta che quell'uomo, così sbagliato, glaciale e freddo come il vento del nord, secco come l'inverno siberiano, potesse destabilizzarla così profondamente e potesse essere per lei, il coltello e la garza per far sanguinare e curare la ferita?
Le sue labbra, solo le sue labbra bastavano a far dimenticare tutto. 
Che ne era allora di quella storiella che si raccontava?
Forse sarebbe stato lui, a far cadere lei.
O forse, doveva anticipare il momento giusto. Non in quel momento.

 ─ Del tè, grazie.
Sbigottita e con le labbra leggermente dischiuse, ascoltava inerme quella risposta genuina ed inaspettata.
Con un segno di assenso con il capo - mentre i suoi capelli mossi sciolti e ripresi solo sulle tempie da due piccole treccine accompagnavano svolazzando il gesto - se ne andò nella piccola cucina, dal colore bianco e dallo stile shabby chic involontario.

Nel frattempo nel salotto, Alexander si spoglio del suo giaccone nero di Armani, per sfoggiare un elegantissimo maglione bianco con lo scollo ad u, mentre sistemandosi i corti capelli all'indietro, si diresse in cucina dalla ragazza.
La trovò appoggiata al lavandino, con le gambe incrociate, il viso imbronciato e lo sguardo assorto a guardare il nulla verso il pavimento mentre nervosa, o solo annoiata, tamburellava le sue corte unghie con lo smalto nero mangiucchiato, sul ripiano in finto marmo.
Sul fornellino nero, la teira in acciaio con il manico in plastica blu, stava bolledo lentamente l'acqua che sarebbe servita poi per il té.

Da quando l'aveva conosciuta, tralasciando la divisa da lavoro, l'aveva sempre vista portare maglioni grandi, vestiti estivi abbinati a magliette a collo alto e a calze pesanti, che non lasciavano trapelare nemmeno uno scroscio di pelle, il tutto accompagnato da quei suoi stivaletti neri un po' consumati. Oppure jeans larghi, per lo più a vita alta,  di quelli comprati nei mercatini o nei negozi vintage. Insomma,  sembrava quasi che avesse attraversato il tempo, per ritrovarsi agli anni novanta, gli anni del grunge e dello stile delle magliette su magliette e dei famosissimi anfibi Dr.Martens.
Anche lei si era tolta la giacca - quel suo immancabile e fedele amico Parka verde - rivelando un  maglia nera con su scritto in bianco My Chemical Romance e due ragazzi che sporchi di sangue, tentavano di baciarsi. 
Sopra, una camicia a scacchi verde, tipica dei boscaioli.
Scese sempre più giù, dove ad accoglierlo ci fu una gonna che arrivava a sfiorare il ginocchio, ma che non rimaneva stretta, in camoscio e con cinque bottoni usati solitamente per il denim,  sul davanti a fare da architettura alla sua morbidezza.
Le gambe non erano state coperta da calze colorate, ma bensì da quelle color carne, che le restituivano quel colore che di solito non gli apparteneva, e un paio di scarpe nere anch'esse in camoscio, tipiche dei punk.
Dio santo se si vestiva di merda!
Era come se prendeva dall'armadio le prime cose che trovava. Forse lo faceva anche al buio.
Alex inorridí e sorrise allo stesso tempo. 
Era così una bella ragazza, che non riusciva a spiegarsi la sua pressante volontà di coprire quel corpicino snello, anche se smunto e spigoloso. Insomma, quelle magliette larghe la divoravano e la rendevano ancora più magra, quasi scompariva sotto quello strato invalicabile di lana.

Fu la teiera, che fumava e cantava con voce stridula a far svegliare Hazel dal torpore in cui era caduta.
Nell'alzare gli occhi incontrò quelli del russo, che non la stavano soltanto osservando ma erano fissi sulle sue gambe.
Involontariamente si girò di spalle, storcendo di poco la bocca e stringendo gli occhi con fare altezzoso.
Odiava quando qualcuno sostava qualche minuto di troppo sul suo corpo, e odiava soprattutto quando a farlo era proprio Alex. Quell'uomo la destabilizzava talmente tanto, che a volte non riusciva nemmeno a formulare un pensiero, uno che fosse concreto.
In quel momento, mentre spegneva il fornellino e versava l'acqua nei contenitori di porcellana colorata, continuava a sentirsi su di se quei tizzoni blu che aveva al posto degli occhi.

─ In casa abbiamo il tè alla vaniglia, al bergamotto, l'Earl Grey e per finire ai frutti rossi. ─ grugnì, con quella voce alterata da un fastidio volutamente mal celato, mentre trafugava nella dispensa alle ricerca degli infusi.

Sentendo quel suo tono di voce, sul viso di Alex si dipinse un sorriso diabolico.
Aveva forzato la cosa e l'aveva irritata al punto giusto.
L'uomo si prese tutto il tempo di cui necessitava, e solo dopo decise di risponderle.
Infatti, prima si sistemò meglio sulla sedia, trovando la posizione più comoda e consona, poi si allungò verso il tavolino, poggiando sulla sua superficie - coperta da un sottile centrotavola bianco merlettato - i gomiti per unire e intersecare le dite delle mani.

─ Il bergamotto andrà benissimo.

Hazel intanto, prese gli infusi gusti dalle varie scatole di carta gialla, infusi rotondi all'inglese, li fece cadere nelle varie tazze ed infine posizionò il tutto sul cabaret in legno.
A quel punto dovette girarsi, ma fu lesta nel farlo cosa che gli permise di non lanciargli nemmeno un'occhiata data di sfuggita.
Con le mani ferme, tutta tecnica acquisita sul lavoro, si diresse a passo cadenzato verso il tavolino che era stato posizionato alla sinistra dell'arco che divideva la cucina dal soggiorno.
Nel poggiare il cabaret sulla superficie piatta, le tazzine e la zuccheriera tintinnarono, mentre i cucchiaini si mossero fino a scivolare sul fondo.
A quel punto, dopo aver servito il tè ad Alex e dopo essersi seduta, fu costretta ad alzare gli occhi su di lui, che li ritrovò nella stessa posizione di prima.

─ Smettila! ─ sbraitò spazientita, tirando fuori un bel po' di aria dai polmoni, facendo smuovere i capelli corti appena ricresciuti che le solleticavano la fronte in una carezza languida.

─ Di fare cosa? ─ chiese lui, facendo il finto tonto e non riuscendo a frenare il sorriso sulle labbra.

─ 'Fanculo, è un'ora che mi fissi, smettila! Lo detesto! ─ rispose ora arrabbiata.
Ma Alex non sembrò minimamente recepire il messaggio.

Sbuffando, alla ragazza non rimase che prendere il cucchiaino, immergerlo nel bianco dello zucchero, per mischiarlo con il liquido marrone del tè alla vaniglia, il suo preferito.
L'unica cosa che si poteva udire in quella cucina, di quel pomeriggio uggioso di dicembre era il tintinnio del cucchiaino che veniva sbattuto contro le pareti in ceramica della tazza.
Chi sa perché, il miglior compagno di quelle due anime combattenti era sempre e solo il silenzio.
Era qualcosa di cui non potevano farne a meno. 
Restare in silenzio, perdersi nei meandri della mente e riflettere, fino allo sfinimento, fino a stancarsi.
Cominciarono a sorseggiare il tè, questa volta anche Hazel aveva preso coraggio e aveva cominciato a guardarlo.
Questa volta fu a Alex a distogliere lo sguardo, preso come era nel guardarsi intorno.
Da dove era seduto, l'uomo vide uno stereo in legno scuro di ebano e poggiato sopra, vi era un bellissimo giradischi. Era di colore azzurrino, con gli angoli rotondi e qualche graffio bianco, ma si vedeva che era stato tenuto in buone condizioni, in ottime condizione. 
Sembrava quasi che tenesse talmente tanto a quel pezzo di arte - che ad occhio e croce siglava 1970 - da considerarlo parte integrante della sua famiglia, quasi fosse un piccolo animale domestico. 
Si alzò dalla sedia, tirandosela indietro,  per creare il giusto spazio affinché potesse uscire e si diresse verso di esso, posizionato vicino lo stipite del corridoio.

─ Non ti dispiace vero, se metto su un po' di musica.─ chiese rivolgendosi alla ragazza, mentre se ne stava chino sulle ginocchia, nel trovare il giusto vinile di suo gradimento.

Passò in rassegna molte custodie, alcune più rovinate altre più nuove, alcune con gli angoli completamente andati, mangiati dal tempo, usurati, il segno inconfondibile che erano stati ascoltati fino allo sfinimento, fino a prendere quello perfetto per la situazione.

Led Zeppelin IV del 1971, contenente forse, la ballad rock per eccellenza: Stairway to haven. Cosa c'era di più romantico di quella canzone? Dolce, delicata e tosta allo stesso tempo.

Le note pervasero l'ambiente e Hazel, come ipnotizzata dalle note della chitarra di Jimmy Page, si azlò.
Nello stesso momento Alex si girò nella sua direzione e guardandola, allungò verso di lei la mano, come a invitarla.
Hazel si avvicinò e con estrema lentezza gli concesse la mano, facendola congiungere con la sua.
Poi l'uomo l'avvicinò di più a se, andando a posizionare l'altra mano dietro la sua schiena.
Ad Hazel non rimase che appoggiare la testa sul suo petto ampio, respiralo e chiudere gli occhi, per lasciarsi cullare dalla donna che era sicura, che con una scala si potesse raggiungere il paradiso.

I loro corpi si muovevano lenti, stretti gli uni negli altri.
Un passetto a destra e un passetto a sinistra.
Le loro ginocchia si sfioravano, così come i loro cuori che sembravano battere all'unisono.
Quei capelli biondi arruffati, avevano la fragranza del vento e della stagione che come una tela, tesseva la loro storia: l'inverno.
Erano l'inverno, quelle due anime.
Hazel era l'inverno che non aveva bisogno dei guanti o del cappello. Rappresentava – se fosse stata arte – l'inverno secco, quello senza neve, dove si intravede il sole che colora e da speranza.
Alex invece rappresentava l'inverno rigido, con il termostato che segna i meno quaranta gradi e con la neve fin sopra gli stivali pesanti. Il sole si poteva solo immaginare. Era l'inverno delle lande della Siberia, dove le mani sanguino o gli occhi lacrimano involontariamente, perché il vento soffia gelido sul corpo caldo.

Chi sa perché, ma quando tornarono a far incastrare gli occhi, si ritrovarono in una voragine peccaminosa. Alex aveva premuto su di se le labbra di Hazel e per la prima volta era stato lei a spingerlo sul precipizio. Aveva incastrato le sue mani dietro il suo collo e lo aveva attirato a se. A quel punto l'uomo non aveva avuto il tempo di rifiutare, anzi, non aveva desiderato altro.
Fu lei a staccarsi, così come era stata lei a cominciare.
Atterrito Alex, si lasciò trascinare dal momento.
La ragazza l'aveva chiaramente invitato ad andare in camera sua.
Si era lasciato guidare e si era lasciato buttare a peso morto sul letto che sapeva di lei.

Per la foga del momento, il suo cervello non poté studiare la fisionomia della stanza.
Come poteva pensare all'arredamento, quando aveva il corpo di lei, muoversi lento sotto le sue mani?

Hazel riprese a baciarlo, a divorargli le labbra, quasi fosse stata in apnea per tutto il tempo. Insinuò una mano  sotto il caldo maglione bianco, tracciando l'addome piatto.
Si staccò da lui e raddrizzò la schiena.
Ora lo guardava dall'alto. Ne osservava i lineamenti, i capelli burrascosi, le labbra rosse, gli occhi scintillanti di lussuria, come i suoi d'altronde.
Un piccolo sorriso si disegnò sul viso che portava i segni dell'adolescenza, nonostante essa fosse stata passata da tempo.

Si mosse appena, giusto per trovare la posizione a lei più comoda, ma tutto quello che fece, fu infiammare ancora di più la situazione. Infatti, quello che ricevette in risposta dall'uomo, fu un grugnito di esasperazione e il ritrovarsi le sue mani affondare nella sua carne bollente.
Non potevano più aspettare, entrambi sentivano la volontà venir meno per lasciare spazio al desiderio. Così l'accolsero con tutto il fervore immaginabile.

Fu devastante, accattivante, un apnea nel fuoco.

Hazel graffiava la pelle già distrutta di Alex, ne accarezzava con fare quasi materno le cicatrici che nonostante tutto, non andavano a deformare la sua etera bellezza, semplicemente lo rendevano ancora più misterioso.
Alex invece, non poteva fare a meno del suo odore, della pelle pura, bianca come la neve. Era una droga, la sua droga. Potente, elettrizzante, subdola e feroce.

E poi semplicemente si addormentarono stretti in un dolce abbraccio, coperti solo dal piumone champagne.
Prima di chiudere gli occhi però, Alex la osservò dormire rilassata tra le sue braccia, il respiro leggero, regolare, il nasino dritto e piccolo, le sopracciglia bionde aggrottate che insieme alle labbra sottili, la facevano sembrare imbronciata. Sorrise triste e alla fine anche lui si lasciò cullare da Morfeo, traghettare nel mondo dei sogni.
Stettero in quella posizione per ore, fino a quando sazi di sonno si svegliarono, accorgendosi che il sole era già calato da tempo.
Così mentre la padrona di casa andò in bagno a farsi una doccia, l'uomo si rivestì in tempo per rispondere alla chiamata.
Sullo schermo lesse il nome di Sam.
Si passò una mano sugli occhi, quasi a strofinarli e poi decise di acconsentire alla chiamata.

─ Hai due secondi per parlare e convincermi a non riattaccarti in faccia!

Dall'altro lato della cornetta, si udì l'espressione di una leggera risata.

─ Dove sei? Anche se mi sono già fatto una mezza idea...comunque dopo che ci hai piantato in asso questa mattina, quel pazzo di un demone, ci ha obbligato a fare una capatina al The Devil's Night. Santo Dio che cazzo di nome! Imbarazzante.

Alex sbuffò e guardò la porta bianca che veniva varcata da Hazel che metteva in mostra le sua gambe nude, mentre il corpo era stato strizzato da un asciugamano bordeaux ormai sbiadito, colpa delle diverse lavatrici.
Quando gli passò davanti, sgambettando, non riuscì a resisterle e l'acciuffò al volo, cingendole i fianchi e trascinandosela sulle gambe, mentre gli lasciava un piccolo morso sulla pelle scoperta della spalla.

Hazel visibilmente divertita, non riuscì a trattenere un piccolo grido di sorpresa.
Cosa che non passò inosservato alle orecchie malate di quella volpe di Sam.

 Per favore, non scopate adesso, almeno aspettate che io riattacchi! Cazzo, fate più schifo di me!

Alex si inumidì le labbra, in un gesto che poteva risultare nervoso e cominciò a ridire, rendendo fastidioso il suono che veniva riprodotto poi, verso quel pazzo del suo amico.

─ Tra un'ora sono da te, amico. Fatti trovare pronto, altrimenti ti lascio a piedi!

Quando stava per riattaccare, sentì Sam continuare a parlare.

─ Facciamo che passo io da te e che se non sei pronto, te la fai a piedi.

E poi riagganciò, senza lasciargli il tempo di proseguire.

Nel frattempo la ragazza se ne stava ancorata alle sue braccia e lui, giustamente, non aveva la minima intenzione di lasciarla andare.
Tuffò il viso tra i suoi capelli legati in uno chignon distratto, inebriandosi del loro profumo, per poi andare più giù, fino ad arrivare all'incavo del collo, lasciando così, una scia di piccoli e veloci baci. A quel punto soddisfatto, la lasciò andare, facendola alzare e dandogli un'amichevole pacca nel didietro. Poi, guardandola in tutta la sua nudità mentre cercava i vestiti giusti da mettere, si abbandonò tra le morbide lenzuola, supino, con i palmi incastrati dietro la cervicale.

La pace trovata svanì quando il campanello prese a suonare.
Hazel, che nel frattempo aveva finito di vestirsi, si girò nella sua direzione. Lo vide scattare in piedi guardingo, come se fosse stato morso da un fastidioso insetto.
Chi poteva essere?
Improvvisamente si ricordò della telefonata che aveva ricevuto l'uomo, e un sollievo fiorì nel suo petto, allontanando così l'ansia di poter rivedere ancora quegli uomini vestiti di nero.
Stava per tranquillizzare il russo, quando quello la precedette.
Andò in salotto dove aveva lasciato la pistola sotto il giaccone e la impugnò, togliendo la sicura.
Intimando la ragazza di fare silenzio, si avvicinò con la stessa eleganza di un felino verso la porta d'ingresso della piccola casa.
Si appoggiò con le spalle e i reni al muro di sinistra,  per poi sollevare le braccia e protrarre all'altezza del petto, vicinissima al viso, la Glock nera.
Soddisfatto, girò lo sguardo nella direzione di Hazel, che intanto lo aveva seguito con gli occhi e con le gambe in ogni suo gesto.
Vide il killer farle un gesto con la testa, indicando la porta.
Forse gli stava semplicemente dicendo di aprirla.
Avrebbero evitato tutto quel siparietto, se solo l'avesse lasciata parlare.

Non curante del pericolo che sembrava albergare solo nella mente dell'uomo, Hazel con fare spavaldo e sicuro, si avvicinò alla porta, che intanto aveva smesso di suonare ininterrottamente, per aprire e rivelare la faccia scocciata ed annoiata di Sam.
Ma quell'espressione durò davvero poco.
Quando Alex gli puntò la pistola dritta in faccia, Sam non si lasciò intimidire anzi, con un balzo anche la sua Glock era fuori dalla custodia.

Quando si accorsero dell'enorme equivoco, abbassarono i ferri e nello stesso istante, scoppiarono a ridersi in faccia.
─ Stavo per dirtelo moro, ma tu non me l'hai permesso!
Lo rimproverò Hazel che intanto aveva invitato ad entrare Donovan, facendo ovviamente, le dovute presentazioni.
Quando anche il biondino entrò, la ragazza li fece accomodare entrambi nel piccolo cucinino, preparando l'ennesima tazza di tè.
Preso anche il tè, il quartetto subì diversi minuti di silenzio.

C'era Sam che girava e rigirava il cucchiaino, facendolo sbattere rumorosamente sul tavolino, producendo un suono cantilenante, a tratti fastidioso.
Donovan che se ne stava seduto con le mani strette in grembo, mentre osservava la casa in un gesto ripetitivo e imbarazzato.
Alex che fissava il vuoto nella tazzina.
Hazel che sentiva il dovere, da brava padrona di casa, di dire qualcosa, anche la più sciocca.
  ─ Allora Sam...─ e adesso? che cosa si sarebbe inventata? 
Pensa Hazel, digli...qualcosa!
Ottimista tornò all'attacco, accorgendosi di avere i riflettori puntati su di se.
 ─...da quando conosci Alex?

Sam smise di smuovere il cucchiaio, riservandole l'occhiata più stupita che potesse avere.
Era sbigottito, talmente tanto che il sorriso che era nato sul visino della biondina, si spense.
─ Ehm...da molto, ormai non ricordo nemmeno più quanti anni sono.
Poi la stanza piombò di nuovo in uno di quei silenzi al quanto imbarazzanti. 
Ma questa volta non durò a lungo, perché inaspettatamente fu Donovan a tagliarlo.
─  Hazel, scusami, potresti indicarmi il bagno?
I presenti all'udire il suono della sua voce, si girarono sorpresi a guardarlo, specialmente il biondo, che lo conosceva meglio di chiunque altro.
Hazel rimase in silenzio per alcuni secondi, lasciando che le parole le trapassassero la mente, fino a rendersi conto della richiesta che gli era stata fatta. Si alzò e con lei anche il giovane ed insieme, si spostarono verso il bagno.
Nel frattempo in cucina, Alex e Sam ne approfittarono per chiarire alcune cose, come la questione della misteriosa fuga di ALex.

─ Spiegami che ti è preso! Ora ti fai comandare dal cazzo?! ─ gli abbaiò contro il biondo, stizzito da tutta la situazione.
Alex prese un bel respiro e poi si girò nella sua direzione, lanciandogli uno sguardo duro, che nascondeva la necessità di ammonirlo.
─ No, stronzo. Quello fino a prova contraria sei tu!   
─ Allora spiegami! Avanti! ─ e nel dirlo, incrociò le braccia al petto.
Alex sentiva che doveva dirgli tutto. Spiegargli tutto. Primo perché aveva bisogno di capire, ma soprattutto di un aiuto e sapeva che avrebbe potuto contare sempre su Sam. Secondo perché si trattava di Sam, il suo migliore amico, nonostante la vita e il lavoro lo avesse messo sempre in allerta. Trasse un secondo grande respiro e iniziò a parlare.
─ Questa mattina Hazel mi ha chiamato dicendomi che due uomini l'avevano seguita, fin sotto casa sua. Era spaventata e io sono corso da lei, dovevo tranquillizzarla.
─ Perchè due uomini avrebbero dovuto pedinarla? Insomma fa la cameriera e nessuno, a parte me e te, sa di lei. 
Si guardarono per alcuni secondi negli occhi.
Entrambi smarriti o forse solo preoccupati. Cercavano di trovare le risposte celate nei loro occhi, ma al momento nessuno dei due le conosceva. 
Sentirono il pavimento scricchiolare  e di colpo, come risvegliati da un lungo sonno, tornarono con lo sguardo alle pareti della casa.

Hazel aveva accompagnato Donovan in bagno e il ragazzo, per tutto il tempo in cui erano stati insieme, le era sembrato nervoso. Quando le chiuse la porta in faccia, allora decise di tornare in cucina, dagli altri due.
Che strano che era il caso. Si trovava in casa sua, in compagnia di tre uomini pericolosi. Dei killer professionisti, il cui unico debito sembrava risiedere solo nei confronti dell'Altissimo. A quel pensiero, sulla pelle si disegnarono cento brividi di freddo, che la percorsero per tutta la lunghezza dello scheletro. Eppure si sentiva tranquilla. Sapeva che fino a quando ci fosse stato Alex nella sua vita, non le sarebbe accaduto niente, non in casa sua, non con Sam suo braccio destro non che suo migliore amico. Santo Dio che cosa era diventata la sua vita! Se ci avrebbe scommesso l'anno prima, avrebbe perso quel poco che possedeva. 
Quando stava per varcare la soglia che divideva la cucina dal resto della casa, sentì che il suo nome veniva pronunciato proprio dal russo.
Spinta dalla curiosità, decise di ascoltare la conversazione. In fondo stavano parlando di lei e lei non era presente. Nell'avvicinarsi maggiormente alla porta, la parte di parquet che era saltato a causa del tempo, scricchiolò. Si maledisse ma ormai non poteva fare più niente, se non tornare da loro.

Sorrise dolce ad Alex che fece lo stesso.
Ecco che continuava con la sua falsa. Ecco che la collera tornava a galla nel suo subconscio.
Strinse il pugno destro che nascose sotto il tavolo, mentre sentiva gli occhi neri di Sam sulla pelle. Distrattamente si girò nella sua direzione, trovandovi di fronte un ragazzo interessato a leggerle la mente. E certo, la stava studiando, stava capendo perché quegli uomini si fossero improvvisamente interessati a lei, interesse che coincideva con l'entrata in scena nella sua vita di Alex. Sperò che non andasse a dissotterrare la bara del suo passato, altrimenti sarebbe saltato tutto. Quel ragazzo era troppo sveglio. Era questa la cosa che più la preoccupava al momento.

Finalmente Donovan tornò dal bagno, lasciandosi dietro una scia che sapeva di profumato, di buono. Sam alzò gli occhi sulla figura dell'ultimo arrivato, scattando in piedi, cosa che fece poi anche Alex.
Hazel capì che si stavano congedando e non fu mai così felice per questo.
Doveva allontanarsi da loro, da lui. Altrimenti sarebbe impazzita.
Da brava padrona di casa li accompagnò fino alla porta, per poi richiuderla con il chiavistello.
Con una furia inimmaginabile, corse fino alla camera per buttarsi subito dopo a peso morto sul letto.
Schiacciò la faccia sul cuscino, strinse forte gli occhi e cominciò a urlare.
Le soffici piume contenute nella stoffa bianca riuscirono ad attutire le sue grida.
Grida di disperazione, di smarrimento, di stanchezza. 
Gridava per tutto. 
Perfino perché quella camera portava ritratto il suo inconfondibile odore.

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23


Il Devil si trovava nel Bronx. Non nel South Bronx, dove le cose erano cambiate dagli anni settanta, con belle villette familiari e tutte quelle cose che rappresentano la normalità e la tranquillità, e nemmeno nella parte centrale. Il Devil era stato costruito più fuori, in quelle periferie in cui niente era cambiato. Ma come dargli torto. Quello che avevano costruito i fratelli Dumbster non era certo un locale tranquillo.
Tra squillo sia al femminile che al maschile, droga della più variegata e ricercata per arrivare al cuore degli affari. 
D'altronde, tutti i grandi condottieri sapevano che vino e donne avevano il loro peso in una trattativa, e questo Alex lo aveva imparata molto bene, quello che si imparava nel tempo invece, era saper riconoscere un ladro da un assassino.

Il viaggio in macchina trascorse tranquillamente, anche perché si erano dovuti dividere.
Alex stava da solo con il suo SUV e altrettanto avevano fatto Sam e Don con il loro.
Nel frattempo si accese la radio, inserì un vecchio cd dei Pink Floyd, The final cut e tamburellando con le dita sul manubrio, si diresse verso il locale.
Il paesaggio notturno sfrecciò lento vicino a lui. 
Le luci, le strade, i semafori, la gente allegra, i vestiti corti, i cappotti pesanti, le facce scure e quelle divertite. Tutto quello sapeva di città, della sua città. New York era tutto per lui. L'amante, l'amara confidente, la mamma e il papà, il sangue, il cuore e i polmoni. Tra quelle vie continuamente trafficate, tra le crepe di quei bestioni di cemento e lo smog, si intravedeva nitida la sua anima, che contemplava la città in un silenzio placido.

Quella fuga di pensieri si interruppe quando fermo al semaforo, riconobbe un viso familiare.
Dall'altro lato della strada, nel marciapiede di sinistra stava attaccato al muro un ragazzo riccioluto, dallo stile eccentrico fatto di borchie e catene, con il viso allagato nel bavero del cappotto di lana, strapieno di toppe dei Clash, dei Sex Pistols, il simbolo dei Dead Kennedys fino a giungere a Joy Division o agli Operation Ivy.

Continuò a fissarlo, fin tanto che anche il giovane se ne accorse e così girò il viso dalla sua parte.
In quel momento, con gli occhi puntati addosso lui si chiedeva chi fosse il vecchio e che cosa volesse da lui. Il vecchio invece, domandava a se stesso dove avesse visto il giovane.
Poi un lampo e il cielo annebbiato nella mente di Alex, venne illuminato.
Quello era quel coglione di Clash, l'amico di Hazel. Quello per cui aveva perso il lume della tranquillità. Hazel era sua, sua e di nessun altro. Questo dovevano capirlo anche gli altri, soprattutto quelli che la osservavano da lontano producendo pensieri poco puliti sul suo corpo. Cristo, poteva toccarla solo lui. Forse doveva farlo capire anche al ragazzo.

Senza pensarci troppo, abbassò il finestrino del passeggero e si sporse verso di lui, fin tanto che il ragazzo potesse sentirlo.

─ Sei Clash, giusto?

Quello, sentendo pronunciato il proprio nome, fece un segno di assenso con il capo, staccandosi leggermente dal muro giallo sporco, pieno di graffi neri e grigi.
Ancora che si guardavano, ma questa volta la distanza era stata azzerata perché il ragazzo era venuto avanti.
─ Sali.

Una parola, detta in modo freddo e distaccato, quasi duro, ma che celava una forza di volontà e una voglia di trattenersi dal mettergli le mani intorno al collo, che il diretto interessato non poteva nemmeno immaginare.
Ma Clash sapeva chi aveva di fronte perché lo aveva riconosciuto e soprattutto per via della pistola che l'uomo aveva volutamente messo in mostra, quando aveva parlato.

Deglutì, lasciandosi divorare dall'ansia e abbagliare dalla luce verde del semaforo.
Aprì piano lo sportello fiondandosi nell'abitacolo con una delicatezza inaudita.
Alex accelerò e in un baleno fu lontano da quel marciapiede.
Clash però si girò a guardare quel pezzo di asfalto sul quale era sicuro, di aver lasciato la vita.

─ Dove stiamo andando?
Il russo, che fino a quel momento se ne era stato in silenzio, mentre rigido puntava lo sguardo fisso sulla strada, al suono della sua voce, si girò di scatto verso di lui.
─ In un posto. ─ ma osservando la faccia spaventata del ragazzo, sentì il dovere di rassicurarlo, ─ su via, nessuno ti farà del male a meno che...tu non ne faccia a noi!

E poi tornò a fissare la strada.
Nella mente di Clash quel "noi" suonò come un campanello di allarme. Tutti sapevano con chi era solito accompagnarsi Alex. Infatti, due minuti dopo, il suo cellulare cominciò a squillare.
Svogliato il russo, afferrò il cellulare e rispose con poco garbo.
─ Che c'è ora?

─ Che c'è ora?! Mi prendi per il culo?! Improvvisamente non riesci a tenere il piccolo russo a bada?!

Alex rise a quella stupida battuta. Ma la cosa non passò di certo inosservata a Sam che irritato se la prese.

─ Ma che cazzo vai dicendo?! E poi non sono affari tuoi!

A quella risposta, il biondo si infervorò ancora di più.

─ Lo sai che questa sera è la sera buona per lasciare questo schifo di mondo?! E invece tu che fai? Beh semplicemente ti metti a rimorchiare e a portare il rimorchio, nel posto più pericoloso del buco del culo. Che cazzo ti dice la testa Alex? A volte non riesco a comprenderti!

L'uomo trasse un bel respiro e poi rispose, concludendo così quello strano scambio di battute.

─ È tutto apposto amico, stai tranquillo.

E poi senza dargli il tempo di continuare a sbraitare, chiuse la chiamata.

A volte trovava l'amico troppo apprensivo, alla stregua di un fidanzato geloso.

Qualche chilometro più avanti e il suono delle quattro frecce impostate per girare a destra, fecero tornare alla realtà Clash, che aveva preferito non pensare a quella conversazione e al volto dell'emittente.
Sentiva il corpo pervaso da brividi di freddo che andavano e venivano ogni qual volta il suo cervello diventava nero come il cielo quella sera.
Poi il motore fu spento e un ammasso di cemento poteva scorgersi all'orizzonte, davanti agli occhi di quei due uomini, che se ne erano rimasti in silenzio, incastrati nei loro pensieri per tutto il tragitto.
Si poteva assaggiare il freddo già da dentro l'abitacolo. L'inverno newyorkese era davvero pungente.
Alex scrollò le spalle e poi chiuse anche l'ultimo bottone lasciato aperto sul davanti del pesante cappotto nero. 
─ Che ci faccio io qui, Alex?

Il russo scattò nella sua direzione, gli occhi saettarono limpidi in quelli del nemico e una risata bassa si alzò dal petto.
─ Visto che mi conosci, saprai anche che non mi piacciono i giochetti e i giri di parole. Allora chiarisco subito le cose. Abbiamo in comune una conoscenza, per te non significa niente per me,─ e lo trafisse assottigliando gli occhi, che divennero duri come la pietra, ─ significa molto.

Ma il moro continuava a non afferrare il senso di quelle parole. Cha cazzo andava blaterando? Eppure credeva che fosse uno a posto, perché il fuori di testa era Sam.

Non ci stava capendo più niente!

La sua confusione non passò inosservata agli occhi del killer, che massaggiandosi l'osso del naso, cercò di trovare le parole adatte. 
Ma non ebbe il tempo perché due fari gialli lo avvisarono della presenza di Sam, che come una furia spense la macchina e uscì da essa.
Macinava passi pesanti, scavando profonde buche sul terreno secco e alzando grandi polveroni di terra marrone mista ad asfalto vecchio, ridotto a pezzi.
Aggirò la macchina e aprì lo sportello dalla parte del passeggero, facendo scattare dalla paura Clash che spiaccicò la schiena contro il sedile in pelle.
─ Dimmi che non è vero! Dimmi che non l'hai fatto veramente! Dimmelo Alex! Oddio che cazzo hai nel cervello, segatura?! ─ e accompagnò le ultime parole con uno scatto della mano che fece chiudere violentemente il portellone del SUV.
A questo punto Alex si rivolse al ragazzo.

─ Aspettami qui e non muoverti per nessun motivo al mondo.

Quello di tutta risposta mosse la testa su e giù, cercando di tornare in se.

Mentre stava per uscire però, frugò nelle tasche del giaccone dello spacciatore, alla disperata ricerca del cellulare, il mezzo che avrebbe potuto usare contro di lui. Poiché aveva già molti problemi, quasi sempre risolti nel peggiore dei casi, non voleva averne altri. 
Definitivamente chiuse la macchina con quel poveraccio dentro, che si stringeva la testa nervosamente, lasciandosi andare ad un respiro frustrato.

Si avvió verso la direzione di Sam, che se ne stava da solo a qualche metro di distanza dalla macchina, sui cui invece, stava appoggiato con il sedere attaccato allo sportello chiuso, un Donovan silenzioso, con le mani nelle tasche del giubbotto blu.
─ Lascialo stare, gli passerà. Fare una scenata adesso non porta a niente di buono.

Quel ragazzo a volte lo stupiva. Se ne stava per l'ottanta percento delle volte in silenzio, a meditare o a guardarsi in torno. Ma quando apriva bocca, quelle poche volte che lo faceva, ti lasciava sorpreso, spesso con l'amaro in bocca. Era come la coscienza, pronta a dirti cosa era meglio fare in quei casi in cui ti sentivi veramente trafitto dal dubbio.
Alex ancora non riusciva a comprendere chi fosse veramente. Sapeva solo che aveva origini scozzesi, che i genitori erano morti e che l'unica sorella, si era sposata con un inglese e ora vivevano felici con due figli, a Manchester. Per il resto niente. C'erano solo quei suoi grandi occhi d'ambra, espressivi e lucenti.

Fece un cenno di assenso e si accinse a superare l'amico, che nel frattempo si era acceso una canna.

─ Ehi testa di cazzo, dove vai senza giacca e ferro? A raccogliere le more in inverno?

La voce saccente e a tratti derisoria di Sam, gli ricordò improvvisamente delle cazzata che stava per commettere.
Lentamente si girò a guardarlo.
Il busto dritto, di chi ha la sicurezza in tasca ormai dalla nascita. I ricci biondi scuri che gli ricadevano cespugliosi sulla fonte, gli occhi piccoli di un nero intenso, furtivi e furbi. Il corpo magro e le braccia portate incrociate sul petto, dove si poteva notare un leggero rigonfiamento del bicipite.
Alex lo superò, dirigendosi verso il cofano della macchina.
Nell'aprire il portello, sentì immediatamente di aver attirato l'attenzione dell'inquilino mal capitato dell'abitacolo.
Senza dargli peso, afferrò la giacca indossandola, dopo aver tolto il giaccone nero di panno.

─ I ferri lasciali in macchina. ─ alzò la voce per permettere agli altri due di ascoltarlo. Infatti Sam colse al volo le sue parole, che con un sopracciglio alzato si diresse verso di lui.

─ Che diavolo vai dicendo? Ma questa sera di grazia, ti sei per caso bevuto il cervello?
Ma Alex continuò a fare quello che stava facendo - ovvero montare i caricatori alle varie mitragliatrici - senza badare alle sue parole. Poi dopo aver finito di contare i caricatori rimasti, si girò verso la direzione del biondo.

─ Donovan, tu sai perché non dovremmo portare le armi?

Il ragazzo che fino a poco prima era rimasto in disparte, si scoprì felice nel sentir ricevere su di se un po' di attenzione.
Subito gonfiò orgoglioso il petto, mentre Sam lanciava scariche di ira da tutti i pori.

─ Ci fermerebbero all'entrata e ce le sequestrerebbero. In questo modo non riusciremmo mai a entrare.
Alex allargò le braccia con un sorriso sulle labbra, di chi ancora una volta, aveva vinto.

All'esterno quel locale preannunciava il posto giusto per i peccati di letto.
Un casermone alto, con le pareti in vetro che andava dal rosso per poi schiarirsi e approdare al bianco. La porta di ingresso veniva sorvegliata a vista da un buttafuori che avrebbe impallidito anche la montagna del Trono di spade.
I tre si erano posizionati in fila, distanti di qualche metro dall'entrata e dalla messa a fuoco del bodyguard.

─ Questo Damon non l'aveva previsto! ─ se ne uscì Sam, dopo un periodo di impettito silenzio che era caduto nel vedere la porta sorvegliata, mentre buttava con rabbia il mozzicone della canna che si era appena fumato da solo.
─ E' un locale pubblico, devono farci entrare. ─ rispose Donovan, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Gli altri due si girarono a guardarlo. Sbigottiti per la cazzata appena pronunciata. Poi tornarono al buttafuori.
─ Andiamo. Se ci dicono di andarcene, allora passiamo dal retro o ci arrampichiamo, insomma troviamo un fottutissimo modo di entrare in quel locale che già mi sta sul cazzo.
─ Oppure mio caro Alex, compriamo il buttafuori.
Detto questo, decisero di optare per la soluzione migliore che gli si presentava al momento.
Di diressero così, verso l'entrata. La fila era lunga, piena zeppa di tipi strambi, con la faccia losca.
L'aria si stava facendo sempre più rigida e ogni volta che qualcuno parlava, una nuvoletta di condensa usciva dalle labbra, librandosi in aria come fumo bianco.
I tre se ne stavano attenti, guardinghi, stretti nelle loro giacche di pelle, pesanti come il piombo per il loro significato simbolico. 
Sam saltellava su un piede e poi sull'altro, nervoso, anche se non l'avrebbe mai ammesso. 
Donovan se ne accorse prima di Alex. 
Mentre la fila scorreva, prima che Sam potesse muovere soltanto un passo, lui gli cinse con una stretta sicura il braccio. A quel punto il biondo si girò a guardarlo, con quei suoi occhi famelici in cui ci si perdeva, per quanto profondi fossero. Sam gli piaceva davvero tanto e aveva imparato a volergli bene, nonostante la mente immersa nel mare più oscuro. Forse gli piaceva proprio perché rappresentava una caratteristica del suo essere che difficilmente sarebbe venuta fuori. Dall'altro lato, guardando quegli occhi profondamente disturbanti, si sentiva in colpa. Una colpa data da i segreti che custodiva geloso e ingrato dentro di se.
Si guardarono fissi negli occhi. 
Era come se si stessero trasmettendo tutta la forza di cui avevano bisogno. 
Sam aveva imparato ad assorbire un altro tipo di sentimento, diverso dalla rabbia o dalla tristezza. Era qualcosa che lo faceva stare bene, rilassato, quasi in pace con se stesso e tutto questo senza dover torturare qualcuno. Quando si trovava vicino Donovan sentiva dirompente dentro il petto, nascere il dovere di proteggerlo, custodirlo e se capitava, anche curarlo.
C'era una cosa che lo lasciava perplesso più delle altre, il fatto che ogni qualvolta si immergesse nei suoi occhi, si sentiva a casa. Era come stare nel limbo tra gli ubriachi e i lucidi. Ecco come si sentiva, brillo. Brillo del suo profumo, della sua anima e del suo sorriso. Brillo, ubriaco di lui.

Non perse tempo con i convenevoli, gli bastò un attimo e gli afferrò la nuca, stringendo i capelli neri in un pugno e catturando in un bacio rabbioso le sue grandi labbra.
Alex li osservò senza farsi vedere e per un attimo provò invidia per loro. 
Si vedeva lontano un miglio che Sam era perdutamente innamorata di lui, anche se non l'avrebbe mai ammesso a nessuno. Avrebbe mentito a tutti e a se stesso, perfino a se stesso.
Ma la cosa che più gli faceva male nel guardarli, era che Sam aveva trovato quella persona che tutti noi cerchiamo per tutta la vita. Donovan era la sua esatta metà. Era silenzioso, in alcune situazioni timido e sensibile, un animo così differente, così puro rispetto a Sam, rispetto a quel mondo fatto di violenza e sangue. Serrò la mascella, infilando ancora più a fondo le mani nel giaccone anni ottanta di pelle. Inspirò profondamente l'aria gelida, iniettandosela fin dentro lo stomaco, se era possibile. Era stanco, stanco di quella vita, doveva ammetterlo. Perfino guardando quella ragazza dal culo scoperto per il vestito troppo corto, che senza pensieri se la rideva per qualcosa di stupido, senza la pressante e onnisciente preoccupazione di guardarsi intorno, di controllare i gestiti, perché una parola in più avrebbe significato morte certa, pericolo. 
─ Piccioncini mi dispiace disturbarvi ma dobbiamo andare, tocca a noi. 
Solo allora, sentendo la voce atona di Alex, i due si staccarono lentamente, lanciandosi un ultimo sguardo, mentre Donovan gli ribadiva ancora una volta che avrebbe ricevuto sempre il suo appoggio, il braccio su cui sorreggersi.

Entrare non fu semplice, ma questo criminali d'eccezione come loro, lo avevano già previsto.
Quando il buttafuori poggiò una mano con fare severo sulla spalla di Alex, la recita cominciò.
Innanzitutto il buttafuori e Alex si portavano qualche centimetro di differenza e questo rappresentava, a primo avviso, un punto a loro favore. Ma tutto finiva lì.
─ Documenti, prego.
Nel momento in cui gli fecero vedere i documenti, qualcosa mutò.
L'aria si fece spinosa, quasi soffocante, nonostante il vento freddo.
Un altro uomo uscì dalla porta principale, che tutti riconobbero come uno stretto collaboratore di Patrick, dato il fazzoletto rosso usato come bandana, simbolo del clan. Era di media statura, ma aveva tutta l'aria di essere un vero e proprio rozzo di campagna. Indossava degli stivale a punta, da cowboy pitonati, vistosi e alquanto rumorosi. La giacca nera di pelle targata anni novanta, che gli arrivava fino a sfiorare i polpacci. Le mani callose erano tempestate di anelli di ottone, d'argento e quello che aveva stampato il simbolo del clan, un serpente assonagli, era invece d'oro. Faceva paura, ribrezzo. 
Damon gli aveva parlato di lui. 
Si chiamava Raul, era di origine messicane ed era divenuto il nuovo beta di Patrick, dopo che Sam e Alex avevano sbaragliato la concorrenza. 
Il biondo sorrise sornione, riconoscendo l'ampiezza della loro fama.
─ Ho il piacere di parlare con...?─ e lasciò la frase a metà, aspettando che l'altro continuasse, il tutto condito con un forte accento ispanico.
Alex si schiarì la voce e si presentò, cercando di rimanere il più freddo possibile.
─ Alexander Nikolaij e tu devi essere Raul.
Lo stava sfidando, era da pazzi lo sapeva benissimo, ma doveva marcare il territorio, fargli capire che era lui a tenere le redini del cavallo e non viceversa.
Raul sembrò recepire molto bene quel messaggio. La mascella folta, coperta dalla barba nera, fu serrata mentre negli occhi, una scintilla di odio si accese prepotente.
Da dietro Sam, con le braccia incrociate, se la rideva pensando a come sarebbe stata elettrica quella serata.

─ E sentiamo...Alexander Nikolaij del club dei lupi verdi...che cazzo vorresti da me?
Come prevedibile, l'uomo stava già perdendo le staffe.
Raul infatti, con un sorriso sornione sul muso non riusciva lo stesso a mascherare il tono di fastidio nella voce.
─ Io e i miei amici laggiù, ─ e si girò per indicare Sam e Don, mentre il primo cominciò a salutare in palese gesto di derisione verso i messicani, per poi riprendere il discorso, ─ siamo venuti qui per una bevuta colossale e una, forse anche due, sane scopate. E' forse un problema per voi, Raul della Rivera?
Il messicano sembrava un torero pronto alla corsa.
Inspirava e espirava dal naso rumorosamente, cercando di trovare quella calma che non gli apparteneva, essendo lui un tipo impulsivo. 
Tutti si aspettavano di vedere la sua prossima mossa.
Tutti pensavano se sarebbe stato all'altezza del suo predecessore, di Valentine.

Ma quando stava per barcollare verso l'ira, improvvisamente parve riprendersi, montando su, un sorriso di vittoria.
─ Allora non avrete problemi se il mio uomo vi perquisisce, signor Alexander? ─ gli fece il verso lui, cercando di irritare il russo senza alcun risultato. Alex rimaneva fermo al suo posto, dentro felice perché stava andando tutto secondo i piani.

Dio che pezzo di imbecille che sei Raul!

Come annunciato, il buttafuori prese a toccargli ogni parte di corpo, facendogli allargare le gambe e le braccia. Sentiva il forte odore di mentolo di quella montagna di uomo e quello di borotalco dei vestiti puliti, soffiargli sulle narici del naso.
Quando aveva finito e non aveva trovato niente, nemmeno un coltellino svizzero, nemmeno la sua amata picca, Raul fu costretto a farlo entrare, a farli entrare tutti e tre. Quando Sam gli passò davanti, con un sorriso strafottente stampato sul viso, Raul non pote fare altro che aspettare il momento giusto per fargliela pagare. Rincuorato da questo pensiero, si diresse di nuovo dal posto in cui era uscito, con una carica in più, che nemmeno il sesso sembrava dargli.

Intanto i tre - seguita la cameriera dalle gambe lunghe scoperte e il sedere sodo, messo in risalto da uno short striminzito in denim - si sedettero ad uno dei tavoli vicino la pista, mentre al centro alcune ragazze si divincolavano su un cubo, altre invece aiutandosi da un palo, cercando di sembrare desiderabili e facendo scoppiare una passione erotica nei pantaloni di quegli uomini affamati. 
La cameriera prese le ordinazioni - piña colata per Sam, Sex on the beach per Don e vodka per Alex - se ne andò, muovendo sinuosamente i fianchi mentre catalizzava su di sé l'attenzione di molti occhi maschili. 
─ Forse se fossi stato etero, le sarei corso dietro sbavando. Ma per fortuna sono gay. ─ proruppe Sam con quel suo tono da saccente. Alex scosse divertito la testa, spostando l'attenzione sulla cameriera che si faceva largo tra i tavoli. Si, certo aveva un gran bel sedere ma il fatto che lo ostentasse solo per attirare attenzione, lo disgustò e non poco.
Il suo cervello corse alle due donne che abbagliavano il suo presente.
Da un lato c'era Maria, che non aveva bisogno di ostentare la sua bellezza, le sue forme. Apparivano al primo sguardo, così come i suoi setosi capelli lunghi.
Dall'altro lato, c'era Hazel. Lei era tutta un'altra storia. Lei era soffocante, per lui. Certo era una di quelle ragazze che per causa propria passava inosservata, ma se si faceva notare, restavi semplicemente basito e interdetto. Per fortuna che in un mondo come quello, lei sarebbe passata inosservata. Una sorta di ombra, dietro tutte quelle luci.
Quando perse il contato visivo con il corpo della cameriera, i suoi occhi si incrociarono con un uomo. Aveva qualcosa di familiare. Certo alla penombra non riusciva a vederlo bene, ma si accorse della scintilla di malizia nei suoi occhi scuri. Per un attimo si sentì a disagio, però questo non lo destò dallo smettere di guardarlo.
Sam disse qualcosa, ma lui non pote sentirlo, troppo preso a combattere quella battaglia silenziosa fatta di sguardi languidi, veri dell'uomo, falsi da parte del killer. 
─ Come? 
Sam prima guardò distrattamente il tavolo basso del locale, poi si rivolse a lui.
─ Dico che il fratello di Raul, non ti stacca gli occhi di dosso da quando quella troietta ci ha portato al tavolo.
Però non riuscì a comprendere appieno la sfumatura celata dietro quelle parole. Che era interessato a lui, questo il russo lo aveva capito benissimo, quei sguardi non si lanciano di certo ad un amico, ma che ci fosse dell'altro, questo sembrava saperlo solo Sam, che intanto con la coda dell'occhio guardava da lontano il piccolo messicano.
Poi qualcosa si fece più nitido. Alex arrivò alla conclusione che non erano lì soltanto per spiare il nemico, ma per avere da lui qualcosa di concreto.
─ Che ti ha detto Damon a proposito di questa pacifica visitina?
Sam si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo, che era a metà di un sorriso sardonico.
─ Oh russkiyora capisco perché il lord ti ammira così tanto. Sei intelligente, sveglio, hai degli occhi bellissimi e sarai portato anche e letto! 
─ Sam...ti ringrazio, ma la domanda era un'altra. ─ rispose fermandolo, seccato. 
Il biondo sapeva benissimo di averlo infastidito con quei suoi complementi, così facendo schioccare la lingua sul palato, si accomodò sul divano schiacciandovisi contro, quasi scomparendo sotto la morbida spugna. 
─ Dobbiamo far cadere Patrick, colpendo Raul. Dobbiamo far vedere chi comanda chi.
Al suono di quel nome Alex serrò la mascella. Allora avevano ipotizzato bene, quella sera sarebbero usciti dentro un sacco nero.
In un gesto meccanico, aprì il primo bottone della camicia nera, sentendo la pesantezza arrivargli come una valanga sulle spalle.
Per la prima volta nella sua vita, guardando quel ragazzo che tentava invano di flirtare con lui, si sentì in colpa. Sentiva che stava per fare qualcosa di sbagliato. Uccidere così un innocente.
Mentre formulava queste idee nella mente, la tasca del giaccone prese a vibrare.
Mise la mano dentro di essa, accorgendosi subito dopo, che quello era il cellulare di Clash perché il suo stava nella tasca dei jeans neri.
Non doveva farlo, sapeva bene che quello era violazione della privacy, ma se si metteva a guardare a tutte le volte che aveva trasgredito la legge...

Da Hazel:
Ehi, dove cazzo stai? Mi servono le pasticche! Dieci minuti a casa mia. Sono sola.

Leggere quei messaggi fu come ricevere uno straziante K.O. ed essere semi-coscienti sul ring, mentre tutti acclamano il vincitore che purtroppo non sei tu.
Si accorse che ce n'erano diversi di messaggi e anche alcune chiamate perse, ma lui per la troppa confusione, non aveva udito nessuna nota di notifica. 
Strinse i pugni sotto il tavolo, mentre non si lasciava sfuggire nemmeno una sfumatura di emozione sul viso.
Decise di stare al gioco. Di far finta che fosse Clash e vedere fino a che punto si fosse spinta lei.

Da Clash:
Non posso adesso. Tra un'ora sei ancora a casa?

In quel momento si sentiva come una bomba a mano.
Era stata staccata la sicura e aspettava soltanto di essere lanciata, mentre veniva stretta con audacia nella mano dell'onnisciente destino. Il cellulare vibrò di nuovo e prendendo un grande respiro, si accinse a leggere la risposta.

Da Hazel:
Non puoi proprio? Non ce l'ha faccio più, ho la testa che mi scoppia!

Certo, poverina aveva la testa che gli scoppiava. Gliel'avrebbe fatta passare lui il mal di testa. Stava per esplodere, lo sentiva, soprattutto le viscere che avevano preso a bruciare.
Fu strattonato da quei pensieri grazie all'arrivo di quella camaleontica ragazza. Finalmente la cameriera si era ricordata di loro e gli aveva portato le ordinazioni.
La seguì con lo sguardo, mentre fletteva i muscoli delle braccia, spostando i bicchieri dal vassoio in alluminio argentato, fino al tavolo. Per poi cadere sulla scollatura del top bianco, che lasciava intravedere, oltre al solco dei seni, anche una leggere porzione del reggiseno in pizzo nero.
Lei se ne accorse, ma non fece niente se non sorridere come a complimentarsi di se e poi quando si era saziato, sollevò lo sguardo sugli occhi verdi.
─ Potrebbe portarne un altro?
Lei prontamente, dopo aver recuperato il vassoio, gli rispose.
─ L'altro lo paghi però, lo sai vero?
Alex gli sorrise, sfoggiando uno dei suoi indomabili sorrisi maliziosi.
Semplicemente stava al suo gioco. Lei lo stava stuzzicando e lui rispondeva senza esserne da meno. Chi sa perché, ma pensò bene di prendersi una piccola vendetta nei confronti della biondina, che invece, a quanto pare, sapeva fare meglio di lui.
─ Ma certo...─ poi scansò i capelli castani che gli erano ricaduti sul seno, nel chiaro intento di sentire il nome della ragazza, lasciando quindi a metà la frase.
─ Scarlett. ─ disse lei, questa volta girandosi di spalle e incamminandosi, ancheggiando con quelle sue gambe toniche e abbronzate, di chi faceva palestra tutti i giorni.
─ Meglio la biondina, anche se questa ha il suo perché! 
Un'altra fantastica caratteristica del riccio, era questa sua magica caoacità di rovinare i momenti più belli. 
─ E sta zitto per una buona volta!─ gli rispose Donovan, lanciandogli la carta delle sigarette.
Lui invece alzò le spalle e cominciò a sorseggiare il cocktail.
─ Basta cazzeggiare, dobbiamo trovare un possibile modo per rapire Raul.
A questo punto l'atmosfera cambiò. Tutto si fece più grave, austero.
─ Come arrivarci è semplice. Juan de la Rivera è la risposta. ─ detto questo, finì il drink e guardò fisso Alex, con quel suo solito sorriso strafottente sulle labbra.
Dal canto suo, il russo era contrariato. I gay erano apposto, si vivevano la loro vita e per lui potevano fare qualsiasi cosa, pure adottare un intero orfanotrofio. Ma quando quel pianeta, finiva per convergere vicino al suo, beh tutto cambiava.
Si disse che avrebbe dovuto farlo, solo ed esclusivamente per il clan e soprattutto per non rimetterci lui, la vita.
Tutto a un tratto quei sensi di colpa che aveva provato solo pochi minuti prima, sparirono come sabbia al vento.
Si scolò in sorso solo il bicchiere di vodka, come se fosse stata acqua. 
─ Che rimanga tra noi. Una parola e devi cambiare sesso. ─ e nel pronunciare queste parole solenni, puntò il dito contro Sam, che alzò le braccia in un un finto gesto innocente.
Ispirò profondamente dal naso e poi cominciò a percorrere lo spazio della pista che lo divideva da Juan.
Quando gli fu finalmente vicino, fece finta di niente, come se fosse venuto lì solo per un altro bicchiere. Si mise ad osservare distrattamente quello che aveva intorno, nell'attesa che il messicano spiccicasse una parola. Diciamo che aveva deciso che a fare la prima mossa fosse stato compito del ragazzo e non il suo. Aveva paura di sbagliare tutto, dato che non si era mai approcciato ad un uomo, ma solo con donne. Quella era per lui la prima volta e sperava anche, che fosse stata l'ultima.

─ Bella serata, vero?
Ecco qui che quell'allocco era abboccato. A quanto pare, uomini e donne, etero o gay, sotto quel punto di vista eravamo tutti uguali.
Alex si girò finalmente con lo sguardo verso di lui, sfoggiando quel sorriso da marpione che metteva su quando flirtava.
─ Sì, anche se preferirei di gran lunga un bel concerto dal vivo. Sai, chitarre, bassi, ─ poi gli fece l'occhiolino e riprese quel monologo, che alla sue orecchie suonava così singolare, ─ pantaloni di pelle.
Aveva attirato la sua attenzione. Si era mostrato il cattivo ragazzo della situazione, dagli occhi chiari e dai tatuaggi, fingendo anche di provare piacere nell'attività sessuale più estrema.
In un attimo ricordò i discorsi di Sam, sulla frequentazione assidua di quei posti che Alex trovava "la realtà, dietro la finzione". I circoli BDSM, con tecniche al quanto singolari, talmente erotiche da oscurare le menti di chi le praticava. Si chiamava "La tana del lupo". Ironico, però. 
Così presero a parlare di loro stessi. Il russo stava lì, ad ascoltarlo, ogni tanto lanciava occhiate alla cameriera o alle ballerine, valutando che le gonnelline erano davvero troppo corte, mentre gli rifilava una montagna di cazzate.
Poi stanco, disse che doveva andare un attimo in bagno. Così, scansando tutti quegli uomini sudaticci e quelle donne vogliose, trovò il bagno. Vi entrò notando che c'erano diverse porte scure. Di nuovo si guardò intorno, questa volta notando che Juan gli era corso dietro. Deglutí, sapendo già cosa stava per accadere. Quando sentì la serratura della prima porta scattare, rientrò in se, notando in oltre con piacere, che il bagno era stato occupato da Don.
Quando lo vide, cominciò a lampeggiare un aiuto con gli occhi e sperò vivamente che lui avesse capito. E fortunatamente fu così, perché Donovan mosse su e giù la testa, in un gesto impercettibile, anche per lui che gli stava davanti.

Appena il moro ebbe girato l'angolo, si chiuse velocemente in bagno. Non doveva fare niente, voleva solo restare solo per un po'. Sí, ma con quello dietro la porta era difficile, se non impossibile. 
Si passò una mano nei capelli, in un gesto tipico di chi è nervoso, scuotendoli per bene, per poi abbassarle lungo il corpo, come pezzi di carne inanimati. Ed infine abbandonò la nuca sopra la porta liscia della porta nera.
Stesse in quella posizione per svariati minuti, poi si decise ad uscire da quel rifugio di pace che emanava uno sgradevole puzzo di piscio stantio. Per un attimo in quel bagno si era perso ad ascoltare le voci nella sua testa, che gli dicevano che tutti hanno dei segreti, che tutti mentono per un motivo che può essere buono o cattivo, e che se Hazel lo aveva tenuto all'oscuro di quella sua dipendenza da droghe, aveva le sue ragioni. C'era da dire che anche lui aveva le sue rispettabilissime ragioni. Non sarebbero mai giunti ad una conclusione. Tirò lo sciacquone e l'acqua prese a diventare un mulinello, che divenne dello stesso colore bianco sporco della ceramica del water. Fece scattare il chiavistello della porta ed uscì.

Juan era lì che lo aspettava trepidante e quando lo vide uscire, con lo sguardo basso e l'andatura altalenante, di chi ha passato un intera giornata a lavoro, piegato su una macchina, ma nonostante questo ostentava quella sua durezza di spirito, quell'eleganza che lo elargiva a uomo perfetto ai suoi occhi, gli si mosse qualcosa nella viscere. Lo voleva. Voleva che le sue mani si adagiassero feroci su tutta la sua pelle. Voleva sentire il dolore, il piacere. Lo colse di sorpresa, lo mise all'angolo, facendolo sbattere contro il legno duro della porta. 
Alex rimase interdetto e sorpreso. Pregò con tutto il cuore che quello stronzo di Sam arrivasse. Però così non fu. 
Intanto Juan prese a baciarlo sulle labbra, in un bacio voglioso, scendendo poi sul collo. Sentì il dito di lui percorrere in lungo il petto, in una carezza languida, con gli occhi che erano divenuti due pietruzze marroni, offuscate dalla lussuria. Quel dito birichino si fermò poi sulla cintola, insinuandosi tra il bottone coperto dalla cinta di cuoio nero e l'elastico dei boxer.
A quel punto Alex si sentì sotto pressione, con le spalle al muro, nel senso letterale del termine.
Si ritrovò a deglutire e a cercare con gli occhi la figura amica di Donovan e quella di Sam, varcare quella maledetta porta, che divideva il bagno dalla sala. Niente, anzi era stata pure chiusa a chiave. 
Una goccia di sudore cominciò a scendere dalla tempia, fredda come le sue mani e congelata come il suo corpo in quel momento. Ogni muscolo infatti, era in tensione, contratto, tutto un fascio di nervi vestito di nero.
Poi un leggero brusio e la porta che prese a fare rumore. Qualcuno stava bussando.
Si accorse che aveva smesso di respirare, fino a quando Juan si allontanò da lui, visibilmente infastidito dall'estraneo che lo aveva interrotto nel bel mezzo del lavoretto che stava per fare.
Alex fu veloce a riagganciare la cinta e la patta, per poi scansarlo e avvicinarsi verso la porta.
Juan era passato dall'incazzato al perplesso. Non riusciva a capire che cosa avesse sbagliato nei confronti di quell'uomo.

─ È occupato! 
Alex si girò nella direzione di Juan, sotterrandolo con un solo cocente e tombale sguardo.
Il messicano però, essendo abituato a riceverle sempre e solo vinte, ottenendo sempre tutto quello che desiderava, lo guardò con gli occhi dell'uomo più sicuro di se, atteggiandosi a duro.
Era più stupido di quanto Alex pensasse. 
─ Scusate ma il mio amico si sta sentendo male. Non vorrei che vomitasse per tutta la sala.
Sam.
Lo avrebbe riconosciuto anche a distanza di chilometri.
Nella sua mente suoni di campane in festa cominciarono a echeggiare.
Era fatta, ora doveva solo aprire quella cazzo di porta, portare il moro fuori da quel locale e fargli fare una bella nuotata nell' Hudson. 
Senza dargli tempo di rispondere, fece scattare la chiave nella toppa e lasciando che i due fidati collaboratori entrassero.
La cosa che vide per primo Juan fu un ragazzotto dai capelli biondi con occhi spiritati e un sorriso sinistro a deformargli il viso. Poi un altro ragazzo, che sembrava seguirlo come un cagnolino, dagli occhi stanchi e compassionevoli. Deglutì, perdendo un po' del suo orgoglio, messo in mostra pochi secondi prima con il tipo che aveva abbordato.
─ Juan, giusto? 
Fece si con la testa, completamente assorto nei suoi pensieri. Qualcosa gli diceva che non sarebbe andata a finire bene quella storia, perché se il biondo, di cui lui, a differenza sua, non sapeva nemmeno il nome, conosceva il proprio di nome, allora il vento che proveniva freddo dalla porta appena aperta del bagno, sapeva di morte certa. 
Come a volere un segno di approvazione, guardò il viso per niente spaventato e quasi rilassato di Alex. 
Era finita.
─ Mio caro, se non vuoi farti male, ti conviene seguirci, in silenzio. 
E così fece.
Li seguì, lungo quella sala che per la prima volta nella sua vita la sentì troppo affollata, rumorosa, asfissiante. Cercò con lo sguardo suo fratello, ma non lo vide. Rassegnato al suo destino, chinò il capo, cercando di non piangere e di non farsi vedere debole. Poi uscì, solo con il maglioncino a coprirlo dal freddo, che sentiva amplificato sulle ossa.

Sam camminava davanti, ogni tanto si girava a vederlo, poi tornava alla strada. Non era mancato però, prima di uscire dal locale, di lanciare un occhiata divertita a quei buzzurri dei messicani, fidati servi di Raul.
Dentro di se, sperò che avessero capito a cosa alludesse. Quella sera era in vena di festa e divertimenti. 
Alex invece faceva da chiudi fila, non lasciando mai gli occhi dalle spalle di Juan.
Quando arrivarono in prossimità della macchina, il giovane messicano si bloccò, come se i piedi fossero stati cementati lì sul posto.
Allora il russo gli diede una spinta, nel tentativo di farlo proseguire, poggiando il palmo aperto dietro la schiena.
Juan aveva gli occhi lucidi, questa volta non per la lussuria. 
Si incamminarono fino ad arrivare alle loro auto parcheggiate lontano dalla visuale del locale.
Poi improvvisamente Sam si incamminò verso il messicano, fermandosi di fronte e passando le mani sul suo corpo palestrato alla ricerca del telefonino. Quando lo prese dalla tasca posteriore dei jeans Armani, lo buttò per terra e cominciò a calpestarlo. Sul vetro dello schermo cominciò a disegnarsi una crepa a tela di ragno, e più veniva calpestato e più il cellulare si andava via, via, facendo in mille grandi pezzi.

─ Allora, mio caro mangia fagioli, ora io e te, ci faremo un bel viaggetto in macchina.
Il sorriso che mise sul viso fu uno dei più inquietanti e radioso, nello stesso tempo. Quel sorriso che Sam metteva su, quando immaginava cosa avrebbe fatto alla sua vittima.
Juan invece, aveva gli occhi spalancati, su cui vi era tatuata la paura, mentre le labbra chiuse, gli tremavano appena. Stava cercando con tutta la forza di cui era dotato, di non scoppiare a piangergli in faccia. Si sentiva un pesce rosso, in un mare navigato da squali.
A quel punto soddisfatto di se, Sam aprì lo sportello nero del SUV e con il gesto della mano, lo invitò ad entrarvici. 
Si nutriva della sua paura, quel sadico pazzo, e il ragazzo più cercava di nasconderla e più quello sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, quasi mandandole a fuoco.
Mentre il ragazzo entrava in macchina, Donovan lesto, prendeva le pistole "d'ordinanza" passando poi la Glock a Sam, che con un'occhiolino lo ringraziò prendendola.
Stava per fare il giro dell'abitacolo e un colpo lo colpì di striscio sull'orecchio destro, facendo fuoriuscire una goccia di sangue vermiglio.
Si toccò distrattamente con l'indice l'orecchio, costatando che si era macchiato di rosso, cominciando a sentire la rabbia alzarsi dai piedi e arrivare su, fino all'ultimo capello.
Mise la mano con impugnata la pistola davanti il petto e cominciò a far piovere piombo.

Nel frattempo Alex, sentendo i primi spari, cominciò a correre nella direzione del suo abitacolo, proteggendosi la testa, come meglio poteva, con la schiena leggermente abbassata.
Quando arrivò nella sua direzione, si attaccò ansimante sul portellone del cofano, aspettando che le acque si calmassero un po'. 
L'odore della terra e della notte, venne impregnato dall'aspro profumo della polvere da sparo. 
Le orecchie di tutti i presenti, in quel quadro di devastazione, furono percorse da un fischio regolare, tranne a quei uomini a cui avevano donato la propria vita alle armi.
Regolarizzando il respiro, Alex cominciò, sempre stando attaccato alla carrozzeria nera del SUV, a muoversi per arrivare al posto di guida e mentre lo faceva, mise una mano nella tasca della giacca, alla disperata ricerca delle chiavi. Quando le trovò, con altrettanta scaltrezza, premette il pulsante di apertura, rilasciando un amichevole bip, seguito dalle sfavillanti quattro frecce.
Sentì come ovattati gli spari risuonargli intorno, mentre un colpo vigliacco, sfiorò il polpaccio destro. Rapido aprì lo sportello del guidatore e vi si ficcò dentro. Un grido di dolore, compresso nei polmoni, uscì dalle labbra, quando si sentì al sicuro.
Guardò Clash, che nel frattempo si era rannicchiato sotto il sedile che lo osservava terrorizzato e spaventato. 
Prese poi dal porta oggetti la glock nera, che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni ed infine la sua amata picca, che andò a sistemare nella tasca posteriore dei pantaloni.
Fece scattare la sicura della pistola, diede un ultimo sguardo al ragazzo e poi uscì, in quell'inferno di proiettili volanti.

Dall'altra parte invece, la coppietta aveva sgusciato verso la parte posteriore del veicolo per andare a prendere l'artiglieria pesante, non curandosi nemmeno dei colpi.
Quando il portello del cofano venne poi abbassato, Sam senza nemmeno provare a coprirsi, uscì allo scoperto, andando incontro ai messicani, che reclamavano il piccolo Juan.
Il sorriso gli era tornato sul viso, ma questa volta era anche più tetro del precedente.
Sentiva i peli sulle braccia e sulle gambe - che nonostante fossero coperti - alzarsi e il sangue diventare adrenalina pura, come se avesse ingerito della droga pesante.
Quella sensazione gli piaceva parecchio, perché solo in quei momenti capiva cosa volesse dire essere Dio. Nelle sue mani, veniva scritto il destino infernale di quei corpi massicci di quegli uomini, che stavano mano a mano cadendo e questo grazie anche all'aiuto del russo.
In un incrocio di occhi, i due diedero il via alla danze.
Così mentre Sam suonava un valzer lento, Alex se ne andava a scegliere la compagna perfetta per quel momento, impugnando una mitragliatrice tutt'altro che leggera. Donovan infine, teneva sotto stretto controllo quel poveraccio di Juan, che frignando, lo pregava affinché non lo uccidesse.
Quando anche il moro affiancò l'amico in quella sinistra crociata, gli ultimi residui dei conquistatori caddero come mosche stecchite, inzuppando la terra di lurido sangue zampillante. Tutti tranne uno, che finite le munizioni alla pistola, abbassò l'arma, in un chiaro segno di resa.
Ognuno di quegli uomini dal sangue messicano, aveva segnato sul corpo almeno tre buchi. Quasi tutti confluivano al polpaccio e all'addome. Le facce scure invece, erano contratte da smorfie di dolore lampante, che era durato giusto il tempo di farglielo assaporare.
A quel punto, un'altro intenso odore andò ad aggiungersi al campo di battaglia. 
Ormai il dolce odore della terra secca, aveva abbandonato la notte, su quei splendeva una lucente luce bianca.

─ Che c'è Raul, ora non ridi più?
Detto questo, il biondino scoppiò in una sadica risata da mostro per poi placarsi subito dopo.
Raul nel frattempo, per niente intimorito dal biondino, si girò a guardare Alex, sudaticcio e con una faccia come uno sporco lenzuolo bianco.
La ferita gli pulsava e gli lanciava fitte di dolore a intermittenza.
Quando l'adrenalina se ne era ormai andata, quel dolore era riemerso più vorace di prima.
Stava sanguinando, lo sapeva perché sentiva indebolirsi ogni secondo che passava stando in piedi, senza fare niente per fermare la fuoriuscita del liquido. Aveva imparato che prima veniva sempre il dovere e poi tutto il resto, come in una scala gerarchica. In quel momento, strinse i denti e decise di far fare tutto a quel cazzone di Sam, che nel frattempo sembrava entusiasta dell'idea.

─ Puoi fare tutto quello che vuoi su di me, anche torturarmi...ma lascia stare mio fratello. Juan non sa niente di tutto questo.
Nella voce di Raul trasparì una leggera agitazione, resa alterata dal suono cadenzato dell'accento ispanico. Si vedeva che teneva veramente molto a suo fratello. Il modo in cui lo guardava, il modo in cui cercava anche se imponente di proteggerlo. Ma quella tenerezza umana, era pane per i denti marci di Sam. 
Con poche ma grandi falcate, arrivò a Donovan che teneva in custodia il ragazzo. Quest'ultimo nel ritrovarselo di fronte, prese a singhiozzare energicamente, fino a pisciarsi addosso dalla paura.
Sam sentì quel tanfo di piscio e scoppiò a ridere, mentre sulla faccia di Don, si disegnò una smorfia di disgusto e fastidio.
─ Non sono venuto quei per te, mio caro Raul. ─ completò la frase, girandosi di nuovo nella sua direzione. 
Il messicano deglutì, mentre quella troppa vicinanza con il prezioso hermano, non fece altro che aumentare il suo terrore. 
─ E per chi sei venuto, allora?

Un urlo squarciò il silenzio placido di quella notte.
Un urlo disumano, dettato dal più atroce del dolore.
I tre erano venuti lì per mettere in mostra la loro superiorità e con quel gesto si erano fatti intendere molto bene.
Juan giaceva a terra inerme, immerso in un lago di sangue, che si era andato ormai a mischiare con la terra, creando un impasto non definito.
C'erano delle lacrime fresche sulle sue guance; intorno agli occhi invece, delle lacrime secche, vecchie.
Raul era in ginocchio, a piangere. Era come se gli dicesse "voi sapete fare i cattivi meglio di noi". Come se si fosse arreso all'evidenza.
Poi Alex alzò il braccio, puntò l'arma alla sua testa e con tutta la forza che gli rimaneva, premette il grilletto. Quella sera i corpi sarebbero stati lasciati così, sorvegliati dalla luna e dalle stelle. 
In un incertezza di passi, mise supino il corpo che era caduto di faccia di Raul e senza chiudere gli occhi spalancati, posizionò due monete, quelle con la croce celtica disegnata. La loro firma.
A quel punto il russo voleva solo andare a dormire, ma aveva ancora troppe cose in sospeso da mettere a posto. Uno su tutti: il coinquilino dell'abitacolo. 
Salutò con un cenno del capo Sam e Donovan, che nel frattempo stavano spostando il corpo vicino a quello di Raul e si incamminò verso il SUV.

Si sedette sul sedile di pelle lucidato e profumato di frutti di bosco, inserendo la chiave nella toppa del cruscotto e si rivolse poi al ragazzo, mentre abbassava il freno a mano, pronto a partire.
─ Puoi alzarti ora, punk!
Come se fosse stato un ordine che arrivava direttamente dal generale dispotico dell'esercito, si rimise seduto composto sul sedile, allacciandosi pure la cintura di sicurezza.
─ Ora vuoi dirmi che ci faccio qui e che vuoi da me?
─ Calma tesoro, andiamo in un posto e tutto ti sarà spiegato.

Poche ore dopo, Clash si ritrovò a varcare la soglia di Central Park.
Il parco era grande, da dividere uno spaccato di città a metà. E poi era l'unico polmone verde di quell'invasione di cemento e auto.
Si erano seduti su una panchina e di fronte gli alberi gli facevano da rifugio, con quei loro grandi rami lunghi avvizziti per colpa della stagione invernale, che visti al buio, sembravano la tetra tela di un racconto dell'orrore. Non nevicava da un po' e la neve residua si era ormai sciolta, sotto quel pallido calore solare. Il rumore del laghetto alle loro spalle invece, li cullava in una dolce melodia, inebriando i sensi.
─ Sarò chiaro con te, non mentirò.
─ Prima che inizi a parlare, volevo solo avvisarti che la ferita sanguina. 
Come se non lo sapesse anche lui.
Si guadò i pantaloni accorgendosi che in prossimità della ferita, una pozza più scura si era colorata sul tessuto, che nel frattempo era stato anche lacerato in una linea orizzontale.
Allora cacciò dalla tasca interna del giaccone - che nel frattempo aveva cambiato prima di arrivare lì - un fazzoletto bianco.
Lo passò intorno alla ferita, stando bene attento a non sfiorarla e strinse forte, fermando poi il fazzoletto, che si era già andato a colorare di piccoli schizzi bordeaux, in un piccolo ma sostenuto nodo.

─ Devi stare lontano da Hazel.
Eccolo finalmente era arrivato al nocciolo della questione. 
Lei, sempre e solo lei. 
Di giorno, di notte, quando ce l'aveva davanti e quando invece si trovava lontano, anche per poche ore o pochi giorni.
Questo perché erano bastati due occhi grigi-verdi che non l'avevano giudicato, a farla diventare il centro del suo tutto.

Come sei arrivato a questo punto?

─ Senti, posso capire che tu sia geloso e tutto il resto. Ma non sono sotto le tue direttive ed hai capito a cosa alludo.
Alex serrò la mascella.
Cathlyn era al comando del timone ed essendo lei il capitano della nave, era sempre lei che decideva di tutti e su tutti. Ma di lei non si preoccupava più di tanto. Quello che lui chiedeva - se rientrava nei giusti binari - solitamente, lei gli concedeva.
─ A questo non devi pensare.
Clash con le mani infossate nelle calde tasche del giaccone, guardava assorto davanti a se.
Vedendolo così preoccupato, il russo sentì il dovere di rassicurarlo. Tanto aveva vinto anche questa volta.
─ Devi solo non rispondere alle sue chiamate, ai suoi messaggi... 
A quel punto il ragazzo sembrò risvegliarsi da quel sogno che stava vivendo ad occhi aperti.
Spostò i suoi occhi verdi in quelli del killer, quasi sfidandolo. 
─ Va bene. Ora posso riavere indietro il mio telefonino e andare a casa? ─ chiese grattandosi i corti capelli neri e il tatuaggio dello scorpione che aveva ritratto dietro l'orecchio.
Sul labbro, nella parte destra inferiore, brillava un piccolo anello argento e sulle mani invece, sulle dita, spiccava la scritta "Life" in quella sinistra e "Death" in quella destra.
Solo in quel momento, si accorse del fascino di Clash.
Quella sua aria da duro e da artista confusionario perenne.
I tatuaggi che al contrario dei suoi, erano fatti semplicemente per arte e per bellezza.
Gli occhi verdi smeraldo, grandi ed espressivi.
Si accorse che forse era giusto che Hazel si interessasse a qualcuno della sua età, anche se aveva le sue colpe, però sembrava che dietro quegli occhi, si nascondesse un mondo infinito di desideri, che aspettavano di essere realizzati.
Si sentì egoista e anche un po' stupido. Ma il dado era ormai tratto e lui non sarebbe mai riuscito a tornare indietro, non era da lui.

Si lasciarono così, sapendo anche che le minacce non sarebbero servite, perché superflue.
Clash aveva visto con i suoi occhi quello che era in grado di fare Alex, quanto pericoloso egli fosse. E non voleva di certo rischiare la sua vita per una donna con cui si era divertito qualche volta, che invece rappresentava una delle tante. 
Così si erano divisi, e mentre Clash raggiungeva a piedi un pub di sua conoscenza, Alex era rientrato per l'ennesima volta in macchina.
Quando stava per accendere il motore, il cellulare prese a vibrare nella sua tasca.

Da: Bastijan
Indovina chi è venuto a farci visita?

In un gesto involontario, come di qualcuno che si trova davanti al tradimento del proprio compagno, strinse forte il cellulare nella mano destra.
Dimitri.
Dimitri era finalmente stato trovato.

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