Il Destino di un Boia

di Amatus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il destino di un boia

 

La bella che guarda il mare
tralala tralala tralalala
Aspetta il suo cavaliere
Tralala tralala tralalala
La bella che è prigioniera
tralala tralala tralalala
Ha un nome che fa paura
Libertà libertà libertà

 

Capitolo I

 

C'è stato un tempo in cui le rivoluzioni sembravano lontane e i cuori battevano lenti, per adattarsi al ritmo delle stagioni che si avvicendavano pazienti in un susseguirsi rassicurante e infinito. La vita di mio padre sembrerebbe ad un uomo dei nostri giorni lunga un secolo e anche più.
Le giornate erano lunghe e trascorrevano serene, soprattutto per ragazzi liberi dall'incombenza del futuro. Per il figlio cadetto di un uomo la cui ricchezza sta tutta nella terra che lavora come fittavolo, il futuro non esiste. Esiste solo un lungo oggi che si rovescerà sereno ed immutato nel domani, fino ad un matrimonio di fortuna o all'ingresso in seminario.
Per gli agricoltori imparare la pazienza è naturale come imparare a camminare, la pazienza è virtù sacra che si esperisce nel quotidiano non come la carità o la fede, concetti lontani ed astratti che non portano il pane in tavola e di certo non fanno crescere forti gli uomini. La pazienza, al contrario, è compagna fedele di colui che pianta il seme sperando che diventi un giorno spiga dorata o ortaggio succoso, aiuta a sopportare sia la fatica del lavoro sia le lunghe e vuote giornate di attesa. Durante il grigiore dell'inverno la pazienza è più forte della fede, quando la speranza vacilla e il mondo intero sembra gridare che il sole non tornerà più, la pazienza seda gli animi e tiene lontana la disperazione.
Ma non è certo la virtù più facile da apprendere per un bambino abituato ad avere tempo e spazio sempre per sé.
Io Giovanni Battista Bugatti nacqui quando quei tempi volgevano al termine, nell'anno del signore 1779 tra la gente semplice della campagna di Senigallia, in una comarca lontana dal fervore delle grandi città. Nacqui ultimo di molti fratelli e poche sorelle e la mia prima infanzia fu libera e spensierata come quella di un selvaggio. Pochi erano i miei compiti e vi attendevo con solerzia, bramando la libertà che sapevo sarebbe giunta in contraccambio.
Altri nomi sarebbero venuti in seguito reclamando il proprio tributo, ma al tempo ero solo Vanni e la vita mi bruciava in petto come la giovinezza e, per quanto mio padre tentasse di insegnarla a suon di busse, la pazienza era per me virtù difficile da apprendere e impossibile da praticare, solo oggi ormai vecchio, mi guardo indietro e scopro come questa virtù infingarda si sia insediata nella mia vita poco a poco diventando anche per me compagna fedele.
A quel tempo amavo trovare nuovi modi per poter sfuggire alla sorveglianza e allontanarmi dai campi, sebbene potessi dare per certa la punizione che ne sarebbe seguita.
La cascina e i terreni della famiglia Bugatti sorgevano ben fuori della città e imparai presto che tutto ciò che contava accadeva lontano, verso la città, vicino al mare.
Finché il padre di mio padre era stato in vita, mi era stato concesso o forse imposto di recarmi in città piuttosto spesso.
Ben due giorni a settimana abbandonavo i miei doveri nei campi e, in cambio di piccoli servizi, il curato mi insegnava a leggere, scrivere e far di conto, mentre la domenica dopo la messa insegnava, a me come a tutti i bambini della città, i precetti del catechismo.
Il padre di mio padre, che ricordo di aver sempre chiamato Signor Nonno, era convinto che leggere e scrivere facesse la differenza tra un contadino libero e uno asservito, egli fu l'unico in grado di far piegare la testa a mio padre e quindi finché fu in vita io e i miei fratelli godemmo di un'insolita fortuna che ci permise di sfuggire l'analfabetismo.
Non passò una settimana dalla morte del Signor Nonno, che vidi le visite al curato sostituite da nuove incombenze in fattoria e l'unica gita in città che mi era consentita divenne la messa della domenica e ovviamente le lezioni del catechismo. Mio padre, non si sarebbe certo assunto la responsabilità per le nostre anime, dovevamo apprendere il bene e il male così da essere gli unici responsabili per le nostre azioni.
Dopo la morte del Signor Nonno fu inevitabile quindi che le scappatelle proibite si moltiplicassero esacerbando allo stesso tempo la mia impudenza e il rigore di mio padre.
Di certo non avevo molti amici con cui condividere i miei infantili moti di ribellione, la maggior parte dei ragazzini della mia età iniziava ad avere vere responsabilità e a non rinunciarvi a cuor leggero. Non tutte le famiglie avevano la fortuna di avere tanti figli maschi, forti e in salute come erano i miei fratelli e laddove i miei compiti erano pochi e per lo più strettamente simbolici, i miei coetanei seppero ben prima di me che la ribellione è un lusso da privilegiati e che, volendo avere la fortuna di ricevere almeno un pasto caldo al giorno, dovevano rimboccarsi le maniche e lavorare sodo.
Due ragazzini facevano eccezione: Tessa e Raniero, giovani rampolli Targhini, una famiglia di mercanti tra le più ricche di Senigallia. Tessa, una ragazzina vivace e irrefrenabile, seguiva suo fratello maggiore come un'ombra e testarda e viziata com'era, era stata l'unica ragazzina ammessa a frequentare il catechismo con i maschi del paese. Li conobbi durante le lunghe e noiose lezioni del curato e ben presto divennero i compagni delle mie scorribande.
Raniero, figlio privilegiato, studiò fino in età avanzata godendo di una libertà sconosciuta ai suoi coetanei. Aveva già 17 anni quando iniziò a disertare le nostre avventure per seguire suo padre, pronto finalmente ad apprendere i segreti di quel mestiere che un giorno avrebbe ereditato.
Tessa aveva invece la mia stessa età e godette con me di qualche anno in più di spensieratezza sebbene la lontananza del fratello rendesse anche i nostri incontri più difficili. Non ero solo io infatti a dover sfuggire al controllo dei miei sorveglianti per potermi recare in città, anche lei doveva riuscire ad eludere una fitta rete di tutori e governanti, per potersi incontrare con me.
Non era facile comprendere come mai finché Raniero aveva condiviso le nostre scappatelle nessuno avesse mai cercato di fermare Tessa come accadde invece in seguito, ma il padre della ragazza era un uomo docile e nessuna punizione fu mai davvero tanto dura da convincere la ragazza a rimanere in casa.
Ogni giorno ci portava un'avventura nuova e come due cuccioli di lupo godevamo innocenti della reciproca compagnia, ignorando completamente quanto ad occhi maliziosi potesse apparire deprecabile quella comunanza. Ignoravo allora, ma forse non lo ignorava Tessa, che la terra su cui ero nato e cresciuto non apparteneva a mio padre e neanche al Signor Nonno, bensì ai Targhini.
A quel tempo, ignorante e sognatore com'ero, ero certo che fosse la mia famiglia tanto ricca da poter mantenere anche quella di Tessa. Sapevo che il padre di Tessa e Raniero non aveva un vero lavoro, infatti mio padre ripeteva sempre come il vero lavoro fosse solo quello capace di bagnare la fronte, il resto non poteva che essere roba da donne, e io non avevo mai visto quell'uomo sudare, dubitavo persino che fosse in grado di farlo.
Il Targhini, così tutti in città chiamavano il padre di Tessa come se l'articolo fosse parte del nome, era un omino pallido dall'aria debole e malaticcia, era quasi del tutto calvo e la sua apparenza delicata ricordava più quella di una donna che quella di un signore. Di contro mio padre era grosso e vigoroso come un orso, aveva occhi duri scuri che sembravano sempre pronti a pietrificare il mondo, portava la sua folta chioma corvina con la fierezza di un eroe greco. Come se non bastasse tutto questo per sollecitare la mente malleabile di un bambino, il Targhini si recava ogni mese alla cascina, arrivava con un carro vuoto guidato da un aiutante -il povero uomo non aveva neanche la forza di guidare da sé un carro?- e ripartiva con un carico di frutta, ortaggi, vino e formaggi.
Spesso prima di ripartire si aggirava per i campi con sguardo sognante e io sapevo che in quei momenti non poteva che ammirare con invidia i nostri averi. Era evidente che i Targhini dipendessero da noi per la loro sopravvivenza, noi avremmo avuto il pane anche senza di loro, ma non era vero il contrario.
Eppure molti dubbi mi afferravano ogni volta che lasciavo i miei pensieri percorrere questi sentieri. Come mai la loro casa era grande e bella e i loro vestiti più caldi e meglio rifiniti dei miei? Ma soprattutto, avevo appreso sulla mia stessa pelle quanto mio padre fosse sordo al richiamo della benevolenza, cosa lo spingeva quindi a dividere i suoi sforzi con quella famiglia? Di certo non mia madre, succube silenziosa, non era in grado di chiedere per sé una seconda porzione di fagioli, figurarsi se sarebbe stata capace di convincerlo a dividere con altri il raccolto. E allora perché?
Immaginai a lungo un debito di sangue, magari risalente ad avi lontani. Solo durante l'estate dei miei 13 anni iniziai a trovare risposte che avessero radici nella realtà e non nelle fantasie dell'infanzia. In uno strano giorno fui costretto a riconoscere che tutto è destinato a cambiare e non in un eterno ciclo come le stagioni, il mutamento che scoprivo allora per la prima volta era incontrovertibile e non portava con sé come l'inverno l'implicita speranza della primavera. Nella vita ciò che cambia lo fa per sempre, senza tornare mai indietro.
Nel giorno del compleanno di Tessa c'era sempre un carro che arrivava alla cascina per portare via il prezioso carico e il giorno in cui compì 13 anni non fece eccezione. Come ogni volta anche lei era sul carro ma non era allegra come sempre, fuggimmo presto dalla vista dei grandi ma qualcosa era diverso. Erano diversi i suoi vestiti che le impedivano di arrampicarsi sugli alberi, era diverso il suo umore, troppo fosco e malinconico per rassomigliare alla solare e allegra Tessa che conoscevo. Mi presi un poco gioco di lei, imitando scherzi che lei spesso aveva guidato con leggerezza e a cui aveva in passato risposto con allegria. Quel giorno invece il suo sguardo era adombrato e le sue parole cariche di rabbia. Ascoltai dalla sua voce parole come pudore e convenienza, il cui significato rimaneva per me misterioso ma che sua madre aveva usato contro di lei. Non comprendevo il suo dispiacere, aveva spesso discusso con sua madre in passato, ma non ne era mai rimasta così scioccata. Parlò a lungo e presto ridemmo insieme delle assurde pretese di sua madre, che l'avrebbe voluta signorina in un salotto.
Ricordo il suo sorriso come lo avessi ancora davanti agli occhi, il sorriso che oggi so essere quello di una donna, un sorriso che mascherava un dolore conosciuto appena ma che Tessa aveva già imparato a nascondere. Con l'istinto del fanciullo, sentivo, più che comprendere, che non tutto era tornato in ordine, sentivo un infantile senso di colpa per essermi preso gioco di lei e con un altrettanto infantile voglia di fare ammenda raccolsi una pesca. Gliela donai per lenire quel dolore che non riuscivo ad afferrare e che per la prima volta mi faceva sentire inadeguato davanti a lei.
La pesca era il suo frutto preferito, la faceva ridere ritrovarsi inzaccherata di quel succo tanto dolce che inevitabilmente le colava dal mento e dalle mani fin sul vestito. Fu con un gesto di rivincita che quel giorno si ripulì le mani sulla stoffa leggera della gonna, il suo sorriso per un attimo tornò vero e trionfante e mi sentii felice, per la prima volta come un uomo non più come un bambino.
Quando Tessa e suo padre se ne furono andati si scatenò all'improvviso una tempesta di cui non avevo avuto sentore.
Mio padre mi aveva visto cogliere un frutto per donarlo alla figlia del mezzadro e quel gesto tanto innocuo mi fece conoscere davvero la rabbia di mio padre.
Egli mi aveva infatti punito spesso in passato ma sempre con la stessa abnegazione che metteva in ogni suo compito. Seminare i campi o colpire suo figlio per l'insolenza dimostrata erano per lui identici compiti di cui avrebbe un giorno risposto al signore e da portare quindi a termine nel migliore dei modi, anche quando ciò gli era faticoso. La rabbia con cui mi colpì invece quel giorno aveva il sapore di rivalsa, sapore della vendetta dell'uomo sulle sue sfortune.
Io non conoscevo ancora quel tipo di ribellione che alberga nei cuori più quieti e che è pronto ad esplodere improvviso e letale come il terremoto, ma è stato proprio questo particolare moto dell'animo a contribuire maggiormente al mio sostentamento per molti anni e la vita mi ha reso tanto accostumato a questa declinazione della disperazione da riconoscerne l'odore come un pescatore riconosce l'odore della tempesta con giorni di anticipo.
Allora, invece, subii attonito la rabbia di mio padre che per una volta non aveva niente di sacro e giusto, cercai supporto in mia madre che pregava e sfuggiva il mio sguardo. Temetti davvero di essere cancellato dal mondo da tanta rabbia, invece infine mio padre, con la fronte sudata, si fermò, rientrò in casa e chiuse con il ferro la porta, lasciandomi fuori e a digiuno per tutta la notte.
Io trascorsi la notte nei campi a guardare le stelle, sentivo i lividi e i tagli dolere, mi convinsi di poterli sentire rimarginarsi e per la prima volta nella vita anziché la voglia di ribellione, sperimentai la pazienza.
Da quel giorno e per lungo tempo mio padre non mi rivolse un solo sguardo, le mie incombenze nei campi aumentarono e io resistetti a lungo all'istinto di fuggire verso la città. Per un intero anno tenni fede ai miei obblighi e fui il figlio perfetto, mi recai in paese solo la domenica e ogni volta ero di ritorno poco dopo la messa, vedevo Tessa solo in quelle occasioni o quando veniva con il padre a reclamare la parte di raccolto che era loro per diritto. Nulla cambiò nell'atteggiamento di mio padre, ogni volta che alzava lo sguardo su di me era disgusto quello che leggevo nei suoi occhi. Il mio cuore di bambino piangeva incapace di comprendere la propria colpa ma certo di aver commesso un crimine terribile, il ragazzo che cresceva fiero invece era pronto a ricusare ogni accusa e a stagliarsi spavaldo contro il biasimo del padre.
Un'estate giovane si affacciò di nuovo sulla nostra terra portando con sé lunghe giornate e nuovi frutti succosi, una domenica dopo la messa Tessa mi ricordò che la Fiera era alle porte e che Raniero sarebbe tornato in città in quei giorni.
La Fiera della Maddalena era per gli abitanti dei piccoli centri della marca di Ancona un evento meraviglioso e per me, fermamente tenuto lontano dalle cose del mondo, acquisiva addirittura sfumature di favola risvegliando al contempo la propensione alla disobbedienza.
A sentire i vecchi, la fiera non era più quella di una volta infatti in giorni passati, che noi ragazzi avevamo a lungo sentito raccontare, la fiera richiamava persone a migliaia da ogni angolo del mondo conosciuto. Si raccontava di principi persiani accompagnati da bestie al limite del mitologico, di vegliardi cinesi ciechi ma saggi come Salomone e di selvaggi danzanti capaci di far dimenticare gli affanni di un'intera vita nel turbine di una piroetta.
Ma se il passato assume sfumature diverse nelle menti di vecchi nostalgici e di bambini affamati di storie e meraviglie, ancor diverso è lo spirito con cui un ragazzo alle soglie della propria giovinezza guarda alle storie dei padri. Il passato rimane lontano, impossibile da afferrare anche se continuamente sbandierato davanti ai suoi occhi e per questo diventa presto detestabile. Con la testardaggine dei giovani avevamo quindi iniziato a pensare che i racconti dei vecchi non fossero altro che senile nostalgia dei tempi andati, che il progresso ci offriva invece meraviglie che i nostri padri non avrebbero sognato i sospiri della rivoluzione d'oltralpe ci riempiva di speranze verso il futuro ciò che era vecchio si trasformò in stantio e il futuro riempiva la testa di utopie grandiose. Così anche la fiera franca del 1793 prometteva a noi giovani pionieri di un mondo in divenire di essere la più bella di sempre.
Io e Tessa avevamo fantasticato sulla fiera per tutto l'anno, immaginando il mare di colori odori e confusione che ci avrebbe finalmente visto protagonisti. Da bambini eravamo stati sovrastati dai tanti stimoli, ma quest'anno eravamo ormai pronti a cogliere ogni novità e ogni stranezza con la consapevolezza di essere finalmente grandi.
Quando Tessa mi ricordò l'evento, l'irrefrenabile eccitazione trascinò con sé anche il gusto amaro del cambiamento. Sapevo per istinto che non avrei mai più avuto il permesso di recarmi alla fiera, sapevo che non avrei più ricevuto clemenza per le mie scappatelle, sapevo soprattutto che non sarebbe più stata tollerata la mia preferenza per i figli del padrone.
Nessuno della mia famiglia lasciava la cascina per tutta la durata della fiera, mio padre tuonava spesso contro la perdizione e il malcostume che quella marmaglia di furfanti portava con sé, la Santa Maddalena a cui quella fiera era intitolata si sarebbe strappata il cuore dal petto davanti a tanto lordume. Molti dei contadini della nostra zona portavano sulle rive del canale e tra le strade del paese i loro averi così da poter ricavare qualche soldo in più, noi invece non avevamo mai venduto niente, il commercio era per mio padre un ufficio ripugnante, non c'è denaro che possa ripagare l'uomo del proprio sforzo, solo le meretrici possono ottenere in questo modo uno scambio vantaggioso. Io ero grande ormai e quel divieto, che in passato aveva rappresentato per me una rete dalle maglie molto larghe, sarebbe questa volta ricaduto severo anche su di me.
Questo bando ai miei occhi, faceva guadagnare alla fiera un fascino tutto nuovo e un desiderio di partecipare che risultava implacabile.
Dissi a Tessa che non sarei mancato per nulla al mondo e mi allontanai in fretta.
Durante i primi due giorni di fiera, mantenni saldo il proposito di essere il perfetto figlio assennato e obbediente, la terza sera approfittai dell'indifferenza che tutti avevano iniziato a dimostrare nei miei confronti da quando mio padre mi aveva bandito dalle sue grazie e uscii di casa. Passeggiai a lungo nei campi, vidi mia madre alla finestra mandata senza dubbio a controllarmi, la lunga giornata stentava a morire ed erano passate ormai ore dalla cena quando finalmente il crepuscolo decise di farsi mio complice.
Il profilo indefinito di un mucchio di fieno si sarebbe in quell'ora facilmente confuso con il mio, almeno quel tanto che bastava per permettermi di allontanarmi, al ritorno avrei pensato alle conseguenze.
Corsi veloce, come se da quella corsa dipendesse tutta la mia vita, corsi fino a sentire i polmoni bruciare ma non mi fermai finché le luci e i suoni della fiera non mi investirono. Girovagai tra banchi colmi di merci che non avevo mai visto. Anche lo zingaro, stagnino del posto, che tutti conoscevano e salutavano come uno di famiglia acquisiva illuminato da luci nuove un fascino esotico, sua moglie si era messa addirittura a predire la fortuna e una lunga fila di gente aspettava eccitata il proprio turno.
Mi aggirai a lungo tra la folla, ero ormai ubriaco di confusione quando mi imbattei in Raniero. Era diventato un uomo ormai, vestiva come suo padre e ne aveva lo stesso sguardo gentile. Mi salutò con calore pur riservando la distanza adatta a due uomini. Non lo vedevo da un anno e i cambiamenti che vedevo in lui mi davano d'improvviso una misura della mia staticità.
Dopo un momento mi prese sottobraccio e per un attimo il mio cuore tornò bambino. Mi ricordai di quando quel giovane signore trascorreva le sue giornate a raccontare storie a me e sua sorella, di come ci avesse insegnato a pescare e a nuotare. Mi ricordai di come con pazienza ed impegno insegnò a noi bambini un alfabeto nuovo che usammo poi per comunicare quando giocavamo ad essere briganti. Quel ragazzino era ancora presente nei modi affettuosi e negli occhi allegri del giovane signore. Mi lasciai condurre fino ad un banco che metteva in vendita strani ninnoli di vetro. Questi giocavano con la luce delle lanterne e dei tanti fuochi accesi in strada rifrangendone il bagliore in un'infinità di piccoli baleni e dando l'idea di essere circondati da un esercito di fate. Davanti a quel banco tra mille luci e suoni fatati dissi addio definitivamente al mio cuore di bambino.
Tessa era davanti a me con lo sguardo pieno di meraviglia e per la prima volta, al contrario di quanto accaduto con Raniero, non riuscii a riconoscere in lei la mia amica di sempre. Tessa con i capelli raccolti e un vestito leggero. Tessa con gli occhi allegri e un sorriso felice. Tessa al mio braccio. Tessa, per la prima volta Tessa.
Solo per un istante i timori di mio padre mi furono comprensibili ma li scacciai lontani.
Ci tuffammo tra la folla come tra le onde sicure del mare placido, con la stessa gioia e lo stesso entusiasmo. Parlammo con mercanti persiani e indiani, bevemmo vini e liquori dolci come il sole cretese o secchi come le sabbie del deserto. Infine raggiungemmo un banco diverso dagli altri, non aveva molta merce in mostra, e la mercantessa sonnecchiava in strada seduta su una bassa sedia pieghevole, come dimentica del proprio lavoro. Quando ci avvicinammo salutò debolmente senza muoversi. Tessa inebriata dai vini e dall'emozione chiese alla mercantessa cosa vendesse e quella invece di rispondere si alzò in piedi e si fece verso di lei. Mi accorsi solo allora della strana bellezza della donna. La sua pelle scura aveva, alla luce delle candele, i riflessi del bronzo appena lucidato, indossava una camicia leggera e un giacca corta che ricordavano quelle di un uomo, ma morbidezze difficili da nascondere davano all'insieme della sua figura una sensualità intossicante.
La voce poi sembrava una musica lenta, parlava un linguaggio sconosciuto ma qualunque fosse il significato delle sue parole, in un attimo tutti e tre pendemmo dalle sue labbra. Vidi Tessa arrossire, man mano che la donna le si faceva vicina e solo per un attimo la malia che la mercantessa aveva gettato su di noi, fu spezzato. La donna sussurrò qualcosa all'orecchio di Tessa e io vidi chiaramente le sue labbra delicate tremare per un istante.
Sentii Raniero irrigidirsi accanto a me. “Cosa vendete?” Chiese duro dopo un attimo.
La donna rispose senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Tessa: “Merce preziosa, da Madeira.” Lo strano accento con cui pronunciò finalmente parole comprensibili rendeva la nostra stessa lingua una musica nuova.
“Provate il vino, non troverete mai nulla di simile. Madeira è il paradiso, potete assaggiarne un po' anche qui sulla terra.”
Si allontanò con il passo sinuoso di una pantera e fu di ritorno dopo un attimo con un piccolo vassoio e quattro bicchieri finemente intagliati. Non avevo mai visto bicchieri tanto belli. Io e Tessa ci avventammo sul vino come assetati nel deserto, Raniero rimase immobile e ci guardò severo. Ci lasciò bere ma ci trascinò in fretta lontano dalla donna. Se interrogato in quel momento avrei giurato di aver incontrato una strega, il suo filtro magico mi bruciava in gola e il dolce sapore che si spargeva nella bocca mi rendeva avvinto e prono al suo volere, avrebbe potuto ordinarmi qualunque cosa, sarei stato felice di essere suo schiavo. Mi accorsi dal suo viso che anche Tessa era vittima di quella stessa malia.
“Perché ci hai portato via?” Chiese seccata. “Avrei voluto comprare del vino, avresti dovuto assaggiarne è più buono di qualunque cosa abbia mai bevuto. Nostro padre ne sarebbe stato entusiasta.”
Raniero cercò di eludere la domanda, ma non conoscevo nessuno più testardo di Tessa e non c'era modo di distoglierla da ciò che voleva ottenere e in quel momento esigeva una risposta.
Raniero rispose infine irritato: “Quella donna non vendeva vino di Madeira, ma una merce diversa, nostro padre non desidererebbe certo sapere che ti ho lasciata fare affari con questo tipo di persone.”
Il viso di Tessa era una maschera di confusione e la mia mente rifletteva la sua espressione, una vaga risposta ronzava tra i miei pensieri ma era troppo assurda perché potessi convincermi a prenderla davvero in considerazione.
“Quell'affascinante signora era una donna di malaffare. Ora per favore, allontaniamoci e non parliamone più. Anzi è ora di tornare a casa.” Raniero imbarazzato e frustrato dal fatto che i suoi accompagnatori avessero reso necessaria una spiegazione tanto volgare sembrava deciso ad allontanarsi il più presto possibile così i due fratelli mi salutarono sbrigativamente e se ne andarono. Loro tornavano nel loro bel mondo fatto di sete e di pane ottenuto senza sudore e io rimanevo in strada con la sola prospettiva di dover affrontare una punizione terribile e immeritata.
Rimasi in strada ancora a lungo, si diceva che Senigallia non dormisse mai durante la Fiera della Maddalena, ma quella notte scoprii che non era vero. A lungo andare le luci si affievolirono, la confusione diradò e la folla scemò pian piano lasciando solo pochi ubriachi tra le strade come relitti abbandonati da una piena che si ritira. Il mio cuore ardeva ancora per l'eccitazione della festa e la paura alimentava forse ancor di più quella fiamma.
Se fu la curiosità o l'ardore a guidare i miei passi quella notte non saprei dirlo, ma mi ritrovai a sbirciare di nascosto e da lontano la bella mercantessa di Madeira, la scoperta che lei stessa fosse la merce in vendita acuì la curiosità anziché lo sdegno e rimasi a lungo ad osservarla sonnecchiare seduta sulla sua bassa sedia. I capelli erano una cascata di seta scura lungo le spalle, la camicia generosamente sbottonata lasciava sognare il ragazzo fin troppo ignorante che ero stato fino a quel momento. Avevo sentito i miei fratelli parlare a mezza bocca delle meraviglie delle donne, ma era un discorso segreto e che non mi aveva mai affascinato, ora invece all'improvviso desideri sconosciuti accendevano la mia curiosità e suggerivano domande che il mio imbarazzo censurava sul nascere. Rimasi ad osservare testardo ignorando il dolore e il turgore che si faceva strada dal basso ventre, non avrei mai immaginato di assistere allo spettacolo che mi si parò davanti. Una figura incappucciata si presentò d'un tratto davanti alla bottega improvvisata, la larga casacca di stoffa grezza infilata dentro un paio di pantaloni dalla foggia orientale e il corto mantello con cappuccio, non potevano ingannarmi. Quelli erano gli abiti che Tessa aveva indossato durante le nostre scampagnate, finché sua madre non le aveva vietato di farlo. Quando abbassò il cappuccio il profilo noto mi diede ogni conferma. Per un istante pensai di fuggire, invece mi accomodai meglio dietro al mio riparo, un carro abbandonato lì da qualche avventore ubriaco, e rimasi a guardare. Le voci mi giungevano indistinte come un'unica melodia suadente, la donna accarezzò il viso di Tessa che per un attimo si ritrasse. Richiamai alla mente il potere ammaliante della donna e seppi che Tessa era spacciata, con un unico passo la donna annullò la distanza tra i loro corpi. Vidi le due donne baciarsi e istintivamente chiusi gli occhi. Era assurdo, sbagliato, immorale. Era peccato. Eppure avevo saputo dal primo istante che sarebbe stato inevitabile, naturale come il succedersi delle stagioni. Lo avevo compreso nel rossore del viso di Tessa, nel tremore delle sue labbra, nel desiderio del suo sguardo. Come poteva essere possibile? Nella mia mente doveva esserci qualcosa di profondamente contorto, mio padre aveva ragione, come poteva l'immaginazione di uomo puro guidare i pensieri in direzioni tanto perverse? Fuggii senza curarmi di non fare rumore, percorsi la strada all'indietro con la stessa foga con cui l'avevo percorsa all'andata, con la stessa paura ed eccitazione, con la stessa sensazione di angoscia e lo stesso desiderio di libertà.
La porta era sbarrata come avevo immaginato, ma il caldo spingeva a lasciare le finestre aperte e riuscii a sgattaiolare in casa senza fare rumore. L'alba mi sorprese ancora vigile con il cuore in subbuglio e i pensieri impazziti.
La mia scappatella non ebbe ripercussioni e trascorsi l'intera giornata progettandone un'altra.
La sera mi coricai con gli altri, e attesi col fiato sospeso che tutti si fossero addormentati. Attesi a lungo contando i respiri dei miei fratelli e quando fui certo che che nessuno fosse rimasto vigile nell'intera casa, mi sollevai e, attento e silenzioso come un gatto, uscii dalla finestra. A spingere i miei passi quella notte era il timore di aver atteso troppo, temevo che la notte fosse troppo inoltrata e che non avrei trovato nessuno ad attendermi. In realtà il mio intero progetto mi riempiva di timore ma mi dava anche una forza che non credevo di possedere.
Quando raggiunsi il banco della mercantessa i suoni della fiera si andavano appena affievolendo, lei mi vide e sorrise lasciando la sedia come fosse un trono e muovendosi verso di me, suadente e letale. Quando mi fu vicina sorrise e io vidi che i suoi occhi erano di un verde inumano che spiccava sul bronzo della sua pelle come i primi ciuffi di grano sulla terra scura dei campi. Il suo profumo aveva le stesse note del vino dolce che ci aveva offerto la sera precedente e sentii di nuovo la gola bruciare. A ripensarci oggi non riesco ancora a provare vergogna per il mio peccato, sarà forse quello a trascinare la mia anima all'inferno ma non riesco a pentirmi per essere stato schiavo di quel desiderio. Quella meretrice mi offrì il suo corpo in cambio di una manciata di uova fresche che ero riuscito a fatica a rubare, non avevo altro da offrire ma lei le accettò sorridendo.
Fu la prima donna che conobbi e non mi vergogno a dire che fu anche l'unica. Assaggiai la sua pelle di bronzo immaginando quella chiara di Tessa. La mia mente sostituiva il bel viso e le belle labbra della mia amica a tratti a quelle della mercantessa e a tratti al mio stesso viso. Baciare le labbra baciate da Tessa era una strana forma di tradimento, più la tradivo più le ero vicino.
Dopo quella notte non tornai più in città per molti giorni. La domenica successiva non andai alla messa fingendomi malato e rividi Tessa solo qualche settimana successiva quando venne con il carro a reclamare ciò che era suo e quando ero ormai riuscito ad ingannarmi dicendo che la fiera non era niente più che un ricordo lontano.
Mi apparve diversa e in lei io debbo aver suscitato lo stesso sentore, perché sembrò timorosa nell'incontrare il mio sguardo. Ci incamminammo lenti e in silenzio con la scusa di recuperare delle uova nel pollaio. La vista delle uova tra le sue mani richiamò alla mente le mani della mercantessa e un profondo imbarazzo mi bloccò in gola tutte le parole. Fu lei a parlare per prima. Raccontò della partenza di Raniero e mi portò i suoi saluti, raccontò degli ultimi giorni della fiera. Poi lanciò fuori una confessione come il colpo di una cerbottana: “Mi sono innamorata.”
Quelle parole mi colpirono il viso e lo incendiarono, sentii il fuoco salire fino alle orecchie. Inconsapevole piccola Tessa, già allora avevi scambiato il desiderio per amore, l'avventura per affetto, il desiderio di libertà per dedizione. Riuscii a rantolare un: “Di chi?” preparandomi a ridere della sua risposta, ma quella non venne. Tessa parlò solo di una persona, negli occhi le brillava il fuoco del primo amore, effimero e bellissimo come solo l'amore di una ragazza innocente può essere. Seppi di non essere in errore eppure sapevo anche che non poteva essere innocente quella ragazza, sapevo ciò che avevo visto.
Quel giorno non dicemmo altro, ma nei lunghi e grigi giorni d'inverno il discorso fu ripreso ancora, di tanto in tanto, finché un giorno più triste di altri Tessa mi confessò attonita i suoi peccati. Mi raccontò di quel bacio di cui io ero stato testimone, non dissi mai quanto meno innocente fossero i miei peccati e di come quello che chiamava il suo raggio di sole, il suo angolo di paradiso, fosse stato molto più mio che suo.
“Vado a messa ogni domenica e insulto Dio con la mia viltà e con il mio cuore malato e perverso. Ora anche tu mi disprezzerai come io mi disprezzo. Non mi rimane nulla.”
La voce atona lo sguardo perso, non una sola lacrima a rigare il bel volto, vidi nella sua consapevolezza la donna che era diventata, arresa all'inevitabile colpa, prona davanti alla punizione.
Le presi una mano e fu come toccarla per la prima volta. La sua pelle morbida non aveva niente a che fare con con quella della mercantessa eppure la richiamò subito alla mente.
Non l'avrei disprezzata, non avrei potuto, in quel momento compresi invece come in sogno cosa sarebbe stato l'amore nella mia vita. Amore e attesa silente, pazienza e rassegnazione sarebbero sempre stati sinonimi per me, ma in quel giorno non potevo guardare così lontano. Mi limitai a tenerle la mano e a sorridere, godendo del sorriso sincero che ricevetti in ritorno.
La passione innaturale crebbe con Tessa e con la sua bellezza, la madre iniziava a cercare i migliori partiti per quella figlia indocile sperando che il matrimonio attenuasse la sua natura bizzarra, ma il buon cuore del padre le tenne lontano per anni corteggiatori poco apprezzati. Sapevo che prima o poi il suo animo di donna si sarebbe piegato alla natura e avrebbe cercato un compagno, avrebbe avuto dei figli, ma eravamo ragazzi allora e le nostre diverse fortune ci permisero di rimanerlo un po' più a lungo rispetto ad altri. Io sognavo il mio amore impossibile per la bella figlia del padrone, mentre lei cercava una spiegazione per la sua insana passione per un corpo troppo simile al suo.
Eravamo due giovani sognatori, ma la realtà presto o tardi trova tutti e più i sogni sono arditi più forte sarà lo schianto che li vedrà infrangersi.
Fu solo dopo due anni da quella fiera che segnò se non il nostro ingresso nell'età adulta almeno il nostro addio alla fanciullezza, che la vita reclamò il suo dazio.
Le due estati successive accrebbero la nostra ossessione per la grande fiera. Scoprimmo che la mercantessa tornava ogni estate da molti anni a Senigallia e l'attesa del suo arrivo divenne un rito lungo e doloroso come una quaresima pagana così come i giorni della fiera furono la nostra settimana Santa. Scoprimmo che il nome della donna era Iara, un nome che lasciava la bocca delicato come un sospiro, e sospirai spesso quel nome durante notti simili alla mia prima. Di giorno Iara trascorreva le ore in compagnia di Tessa a parlare di quella terra lontana che lei chiamava il paradiso, di notte invece non c'erano parole tra noi, io continuavo a cercarla sperando di rubare da lei un poco dell'amore di Tessa. Nessuno lo seppe mai, anche se forse Tessa lo intuì, come altro giustificare il mio insano entusiasmo riguardo quell'evento sempre simile a se stesso? Io comunque non lo confessai e la bella mercantessa non mi tradì, non saprei dire se per una sorta di codice legato alla professione o per un affetto leggero che aveva iniziato a nutrire per me o più probabilmente per Tessa.
La fiera non durava mai più di venti giorni ma quei venti giorni furono per due anni il centro delle nostre vite, dei nostri desideri delle nostre speranze.
Una notte le cose cambiarono però all'improvviso. Nel recarmi presso la bottega di Iara trovai per la prima volta qualcuno che mi aveva preceduto. A ripensarci oggi, conoscendo altre donne che praticano la stessa professione, era ben strano che io fossi al tempo il suo unico cliente. Forse i giorni erano diversi, forse i precetti cristiani raggiungono meglio i cuori tanto più ci si allontana dallo scranno di Pietro, ma la fila che vedo di notte davanti alle case di malaffare qui a Roma, farebbero la fortuna della bella Iara che si accontentava invece di poche monete o di ortaggi freschi come pagamento per le sue preziose prestazioni.
Quella notte sbirciai dalla finestra della casupola che per gli altri mercanti sarebbe stata un magazzino e che per la particolarità della merce in vendita presso quello specifico banco, era invece arredata come una piccola stanzetta.
All'interno vi erano le mie donne, Tessa doveva aver preso coraggio venendo a visitare la sua bella in piena notte. Ero pronto ad andare, avevo visto abbastanza in passato e non avrei voluto vedere o sapere nient'altro ma allontanandomi mi imbattei in Raniero. Era ormai un uomo d'affari, aveva appena stretto un vantaggiosissimo fidanzamento con la bella figlia di un mercante di tabacco, la signorina non era particolarmente brillante a sentir Tessa, ma certo compensava in grazia e bellezza le mancanze dell'intelletto.
Del perfetto signore che ambiva a diventare riconobbi quella notte in Raniero il rigore morale e l'inflessibilità. Seppi che sua sorella sarebbe stata persa se scoperta da lui e cercai nella mia mente una scappatoia.
Raniero fu più veloce del mio pensiero mi oltrepassò come fossi un fantasma senza guardarmi in volto, entrò nella casupola gridando e riuscì con la rabbia di un forsennato.

“Porterò i birri, non getterai discredito su di me. Sarai condannata da me prima che le tue azioni mi condannino!” Grida rabbiose e di terrore si mescolarono, non appena Raniero fu lontano mi gettai nella casupola. Iara cercava di consolare la povera Tessa, terrorizzata e sconsolata. Non aveva mai ceduto al proprio amore prima di quella sera e negli occhi aveva il dolore unico di un cuore infranto un passo prima di trovare la felicità.

“Devi andare via. I birri troveranno me con Iara, tuo fratello preferirà tacere che essere d'imbarazzo a se stesso.”

Iara dette indicazioni riguardo una nave pronta a salpare l'indomani e su cui anche lei avrebbe viaggiato, le diede una coppia di orecchini in grado, assicurò, di comprare un passaggio per entrambe.

Fu come il turbine di un saltarello, Tessa mi abbracciò, il suo calore mi diede le vertigini e poi scomparve uscendo dalla mia vita con la stessa semplicità con cui lasciava la casa della prostituta.

Un istante dopo Iara mi stava spogliando, le candele furono spente il calore e la morbidezza della donna mi sembrarono soffocanti. Ringraziai l'arrivo dei birri che mi trascinarono fuori da quella prigione di carne e umori, lo sguardo irato di Raniero mi riportò bruscamente alla realtà. Cosa avevo fatto? Raniero tacque, non nominò sua sorella. Tessa era salva certo, ma io?

I birri presero in custodia la donna che era con me e mi lasciarono andare, Raniero mi trascinò invece da mio padre, non ricordo di aver opposto resistenza, la città di Senigallia e i gendarmi potevano anche non ritenermi colpevole ma sapevo che nessuna forza di giustizia mi avrebbe salvato dalla condanna di mio padre. Come Tessa qualche anno prima mi arresi al verdetto della mia colpevolezza e in fondo sapevo di meritarlo.

Raniero bussò alla porta della cascina e tutta la casa si risvegliò angosciata, mio padre fece un passo oltre la soglia e si richiuse la porta alle spalle. Il mio carceriere raccontò in due parole le mie malefatte, quelle in grado di preservare l'onore della sua famiglia quanto meno. Mio padre non mi degnò di una sguardo, sputò a terra nella mia direzione poi rientrò in casa e sbarrò la porta.

Lo sguardo di Raniero tornò tenero per un momento.

La rabbia del giovane signore era scomparsa e solo per un istante era tornato il ragazzino che si prendeva cura di me quando ero un bambino, riconobbi il suo dispiacere e la sua gratitudine. Mi mise in mano qualche moneta e se ne andò.

Tra le mani avevo più soldi di quanti ne avessi mai visti in tutta la mia vita, la porta sbarrata della mia casa più che un simbolo era l'invito a prendere una direzione nuova. Mi incamminai tra i campi nella notte e quando il sole spuntò alle mie spalle, il mare era ormai lontano e tra i monti che mi sbarravano la strada intravedevo le guglie del bel paese del pittore Gentile.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Dormii per un giorno e una notte nella stalla di una famiglia che in cambio di pochi denari mi ospitò e mi diede latte fresco e focacce. Scoprii troppo tardi nella mia vita la fortuna che ebbi a crescere tra gente gentile e ospitale, una fortuna che rimpiango ogni giorno che apro gli occhi sulle brutture della città eterna.
Una volta riposato potei riflettere con calma sul futuro che mi si apriva davanti. A dispetto della mia costante voglia di libertà, non avevo mai pensato di dover abbandonare la mia terra, amavo i prati verdi che digradavano fino a lasciar spazio all'azzurro del mare, amavo vedere il sole sorgere su quello specchio sconfinato e tingere dei colori del fuoco quella distesa d'acqua serena.
Amavo le mareggiate che riscaldavano il sangue e facevano sentire il mio spirito affine a quella potenza, la rabbia della spuma bianca come la mia rabbia. I campi coltivati che pongono ordine e danno certezze, le chiese piccole e confortevoli, le parole conosciute, tutto mi sarebbe mancato di quei luoghi. Ma non potevo tornare. La mia casa era chiusa per me, il mio esilio era stato decretato da colui che sempre nella vita era stato per me padrone e giudice, mio padre non aveva mai usato clemenza e sapevo che non avrebbe fatto eccezione.
La prima necessità era quella di trovare un lavoro, pagarmi una stanza e guadagnare tempo per ragionare sul da farsi. La città di Fabriano era vicina, la conoscevo come un centro fiorente e molto attivo, mi sembrò la scelta migliore e lì mi diressi. Mi stupì il fermento che trovai nelle belle strade della città e mi lasciai inebriare da tanta vita dimenticando per un po' le mie sciagure.
Se i colori dominanti nella mia città natale non potevano che essere il bianco dei palazzi e l'azzurro del mare, Fabriano mi accolse in un abbraccio di colori caldi, il rosso mattone delle sue vie il sole più cupo che rischiarava le strade. La piazza centrale si spalancò davanti a me in un tumulto di merci e persone sconosciute, una lingua gentile, simile ma diversa da quella che conoscevo mi diede il benvenuto e mi fece sentire a casa.
Raggiunsi la bella fontana e mi sedetti attirando gli sguardi seccati delle ragazzine e dei mercanti che aspettavano il proprio turno per riempire le ghirbe e a cui ero evidentemente d'intralcio. Non mi mossi e attesi, vidi il giorno trascorrere su quella piazza. Vidi le strade svuotarsi a mezzodì quando il sole caldo bruciava i mattoni e fui costretto a trovare riparo sotto gli alti portici. La vita che aveva avvolto quelle strade sembrò svanita per sempre, una città fantasma mi apparve davanti per molte ore, solo a pomeriggio inoltrato le strade tornarono a popolarsi. Donne e uomini di tutte le età si riversarono per le vie e mi chiesi se non ci fosse un significato preciso per quel via vai, le strade di Senigallia si popolavano così solo durante la grande fiera, quello invece sembrava essere un giorno come tanti. Giovani della mia età si radunavano in crocchi e godevano della frescura della sera. Gli anziani popolavano invece le vie laterali, molti avevano portato fuori delle sedie e stavano sull'uscio di casa chiacchierando in piccoli gruppi. Non c'era niente dell'animo duro dei contadini del mio paese in quelle strade calde e piene di sorrisi amichevoli.
Arrivato tra le montagne di Ancona avevo trovato la mia piccola Parigi, un miracolo inatteso e denso di promesse.
Così preso da quella promessa seducente di vita e amicizia dimenticai di cercare una locanda e quando fui costretto dalla notte a trovare riparo, le uniche porte che mi si aprirono furono quelle di una povera bettola malfamata. Sdraiato su un lettino sudicio venni assalito dal pensiero degli eventi che mi ero appena lasciato alle spalle. Il viso spaurito di Tessa era vivido nella mente come se lo avessi avuto ancora davanti agli occhi. Lei doveva esser per mare in quel momento, magari tra le braccia della bella Iara, e il mio cuore lungi dall'esserne inorridito lasciava spazio a sentimenti diversi, gelosia ed eccitazione si rincorrevano. Ma il pensiero di mio padre mise a tacere idee inappropriate. Ero morto per lui molto tempo addietro, ero in tutto dissimile a lui, non mi avrebbe riconosciuto come suo figlio se non fossi nato in casa sua e cresciuto tra i suoi figli e per questo mi aveva allontanato, vedeva in me tutto ciò che trovava ripugnante: l'attrazione per le cose del mondo, il disdegno delle regole, l'indifferenza verso il lavoro. Non c'era niente che avrebbe potuto trovare ammirevole in me, per questo non avevo visto alcuno stupore nei suoi occhi la notte in cui mi aveva sbattuto la porta sul grugno per l'ultima volta. Non era sorpreso né addolorato, non ero suo figlio.
Un sonno inquieto mi accompagnò fino al mattino e mi lasciò molto più stanco di quando alla sera mi ero coricato. Il sole delicato del primo mattino ridestò però in me tutte le speranze e l'entusiasmo per la nuova vita che mi si apriva davanti. Prima di lasciare il tugurio in cui avevo passato la notte chiesi al locandiere cosa avesse da offrire la città ad un giovane volenteroso e forte in cerca di lavoro, l'uomo grugnì poche parole e mi parlò delle cartiere.
Dovetti chiedere molte volte informazioni riguardo alle cartiere di cui il locandiere mi aveva parlato, evidentemente la gente del posto non era così aperta nel condividere informazioni come lo era nel lanciare sorrisi. Appena fuori dal centro non fu più necessario chiedere informazioni, una scia ordinata di persone sembrava percorrere la mia stessa strada, lasciata di poco indietro la città ci si parò davanti un complesso piuttosto grande, quasi un piccolo borgo con alle spalle colline verdi e incolte. Un cartello dalla scritta elegante pendeva sul cancello d'ingresso al piccolo borgo:

Fabbriche della ditta Pietro Milani – Manifatture cartarie di tutte specie.

Uomini e donne oltrepassavano il cancello ciarlando, rimasi a guardarli prendere ciascuno la propria direzione con lo stesso automatismo con cui si rientra in casa stanchi dopo una giornata di lavoro, lo spettacolo era insolito ai miei occhi e presto non rimase più nessuno a cui chiedere indicazioni.
Mi addentrai nel grande cortile ormai deserto e cercai di avvicinarmi a uno dei caseggiati. Un omone vestito di nero e con la faccia da birro mi si fece incontro sbarrandomi la strada e dicendo: “Cosa cercate?”
La voce dura e nient'affatto amichevole mi spiazzò, cosa cercavo? Solo dell'onesto lavoro con cui pagarmi da vivere lontano dalla mia terra. L'omone mi fissò di traverso.
“A nessuno piacciono gli accattoni. Se dovessimo raccogliere tutti i disperati che capitano qui le cartiere traboccherebbero di lavoratori e noi Favrianesi1 torneremmo a fare la fame. Sparisci e torna da dove sei venuto.”
La rabbia dell'uomo mi lasciò di sasso e a pensarci ora, ancora mi sgomenta. Ero un ragazzino di 16 anni pieno di fiducia e di buone intenzioni e quell'uomo non ebbe alcun riguardo né per la mia giovane età né tanto meno per la mia fiducia nel prossimo. Fu forse il primo dopo mio padre a cercare di insegnarmi una lezione che avrei appreso solo più tardi: l'uomo è lupo per i suoi simili. Rimasi a fissarlo a bocca aperta e pugni stretti finché non compresi che l'uomo era pronto a passare a maniere ancor meno accomodanti, doveva probabilmente essere il suo mestiere quello di tenere lontano dalle cartiere chiunque non fosse di quelle terre.
Mi allontanai affranto, non potevo credere che un solo uomo arrogante si frapponesse tra me e la vita piacevole che immaginavo celarsi appena oltre quei portoni chiusi.
Nei giorni successivi tornai sperando di trovare alla porta persone meno attente o meno rancorose, tentai addirittura di confondermi tra la folla pronta ad erompere all'interno della fabbrica, ma non è facile confondersi tra persone che fanno di tutto per sottolineare la tua estraneità al loro mondo.
Per quanto cercassi di nascondermi tra i gruppi in movimento quelli mi respingevano come fossi una goccia d'olio caduta inavvertitamente in un bacile di acqua, additando con la loro indifferenza la mia presenza indesiderata.
I giorni intanto passavano i miei soldi diminuivano e fui costretto a tornare alla bettola in cui avevo trascorso la prima notte a Fabriano. La testardaggine della mia giovinezza non si diede per vinta facilmente, ma più i giorni passavano più il mio aspetto si faceva sciatto accordandosi alla brutta bettola che era divenuta la mia dimora, quando poi i soldi furono esauriti del tutto mi trovai a vivere per le strade.
Scoprii quanto dura può essere la vita del mendicante, ma col volgere dell'autunno compresi anche che non sarebbe potuta durare troppo a lungo. Il sole gentile dell'estate aveva infatti lasciato posto ad un vento impietoso che si insinuava ovunque, anche nelle stalle abbandonate che erano divenuti rifugio negli ultimi mesi. Nessuno mi rivolgeva la parola da tanto tempo, nessuno avrebbe visto in me il ragazzo allegro e orgoglioso che ero stato. Non ero altro che un mucchio di stracci, maleodorante e pigro che passava le sue giornate sul sagrato di una chiesa o sotto i portici della piazza, sperando di vivere del lavoro di altri. Cosa avrebbe pensato mio padre vedendomi così?
Un giovane chierico si fermò un giorno per darmi un tozzo di pane e prestarmi orecchio e dei due atti di carità fu senza dubbio il secondo che mi fu prezioso. Mi chiese di raccontargli la mia storia e narrandogliela ricordai chi ero.
Lui mi raccontò le vicende di Fabriano cercando così di giustificare le angherie di coloro che temevano che condividere la propria ricchezza avrebbe messo fine alla loro fortuna. Mi raccontò di come 10 anni prima la città fosse stata sull'orlo della catastrofe, le cartiere erano in fallimento, le famiglie avevano iniziato a fare la fame e la rovina non sembrava poter vedere la fine. Molti furono costretti ad abbandonare la città, fuggendo verso Urbino o Ancona oppure a tornare alla vita nei campi. Poi un giorno un operaio intraprendente aveva deciso di liberare le fabbriche dal giogo di nobili e cardinali, si era fatto titolare di quelle fabbriche che erano ormai in tracollo e aveva impegnato tutto se stesso affinché Fabriano potesse tornare ad essere il grande centro che era stato in passato. Pietro Milani, l'operaio, aveva avuto successo e ora le fabbriche erano tornate fiorenti, dando lavoro a tutta la comunità e prendendo il controllo anche di alcune altre cartiere dello Stato Pontificio. Ma anche ora che Fabriano aveva riguadagnato sicurezza non poteva dimenticare l'odore e la paura della fame, per questo lo spettacolo dei tanti attirati in città dalla prospettiva di un lavoro facile si trasformava spesso da timore in aperta ostilità.
Io ascoltai le parole del Chierico comprendendo perfettamente il ragionamento ma non potendo frenare l'indignazione: “Di cosa dovrebbe vivere allora un povero disgraziato? Di elemosina o di furti?”
Ma c'era un'ovvia alternativa che in tanti mesi non avevo considerato e cioè la vita nei campi. Il chierico gentile mi offrì un posto dove passare la notte, un pasto caldo e dell'acqua calda. Mi fece lavare i vestiti e il giorno dopo mi presentò ad una famiglia di contadini felici di avere due braccia in più per preparare la fattoria all'inverno che era ormai alle porte e che in quelle zone potevo immaginare particolarmente freddo. Lavorai con lena e dedizione senza ricevere dalla famiglia niente più che la paga concordata, non una parola gentile, non un sorriso. La fatica aveva indurito quella gente come la terra arsa. Il bue di cui mi occupai e con cui spesso mi ritrovai a condividere la stalla si affezionò a me più di quanto fece la famiglia con cui spesi gran parte delle mie giornate per lunghissimi mesi. L'unico volto amico rimase, per tutta la mia permanenza tra quelle montagne, il chierico gentile, un sant'uomo che presto prese i voti e fu trasferito altrove.
La mia vita prese a scorrere identica un giorno dopo l'altro, essendo inverno mi occupavo delle bestie, di spaccar la legna, di rinsaldare le staccionate e di spalar la neve cosicché il carretto dei padroni potesse lasciare la casa e recarsi in città. Non so quando presi a pensare ai miei ospiti come ai padroni, non erano superiori a me in niente, la loro casa era molto simile a quella che avevo lasciato, dividevamo lo stesso pasto, lo stesso lavoro, la mia istruzione era senza dubbio migliore della loro eppure ad un tratto mi accorsi di considerarli un gradino più in alto di me. La considerazione mi sconvolse. Il bisogno può rendere l'uomo tanto disperato da farlo rinunciare alla propria dignità? E che uomo è quello allora?
Da mendicante avevo lasciato indietro la mia umanità proprio come facevo allora chiamando padroni i miei simili e allora perché continuare a lavorare? Mio padre avrebbe ritenuto degno il mio lavoro, mi bagnava la fronte come è giusto che sia, ma il mio servilismo? Cosa avrebbe pensato di quello? Il suo spirito orgoglioso non si piegava al signore che possedeva la terra che lui lavorava, come poteva accettare che io piegassi la testa davanti a persone in nulla migliori di me?
L'inverno lasciava il posto all'annuncio timido di una primavera ormai prossima quando decisi di lasciare quella terra che mi aveva spogliato di tutto. Ero fuggito da casa mia con il disonore cucito addosso ma trattenendo nel cuore la consapevolezza di aver salvato un animo bello da una condanna crudele, ora invece lasciavo le montagne con il cuore grigio, l'animo atrofizzato nonostante il riconoscimento di aver svolto il mio lavoro con responsabilità.
Mi rimisi in cammino, quindi, con i pochi risparmi che avevo da parte e continuai a inerpicarmi per le montagne. La mano benevola che la religione mi aveva mostrato mi spingeva ad incamminarmi verso la terra del santo Francesco. Avevo sentito tante storie su quel giovane ricco che aveva dato scandalo in paese, aveva gettato la vergogna su suo padre ma si era rivelato santo tra i santi. Non potevo che sentirmi legato a quel giovane e mi dicevo che calcando le vie su cui lui aveva posato i piedi avrei forse riscoperto la forza del mio animo e l'orgoglio della giustizia. Il mio cuore giaceva sotto una spessa coltre di cenere ma da qualche parte covavano ancora le braci dell'antico ardore, dovevo solo avere pazienza e alimentare quel fuoco con caute speranze per non rischiare di soffocarlo del tutto con altri progetti falliti.

Seguii per molti giorni un sentiero tra le montagne, fermandomi di tanto in tanto per offrire i miei servizi come bracciante in cambio di un pasto o un tetto.
Era un viaggio breve che avrei potuto portare a termine in due giorni di cammino forzato ma non avevo alcuna fretta di arrivare e dopo dieci giorni ero ancora per strada. Mi fermai più spesso di quanto non fosse necessario e smarrii più volte la strada. Mi ritrovai ad allungare il mio percorso senza un apparente motivo e oggi posso dire che fu Dio o il destino a guidare i miei passi.
Ridiscesi dalle montagne qualche giorno prima dell'equinozio di primavera e mi ritrovai nei pressi di Foligno.
Nonostante le molte cascine che incontrai per strada i miei passi mi condussero quella volta alle porte di un monastero. Altre volte avevo trovato ospitalità tra i frati e quella notte avevo voglia di sentirmi vicino al Signore dopo un lungo giorno di pensieri cupi. Venni accolto sbrigativamente da un frate evidentemente preso da preoccupazioni impellenti, mi fece sistemare in un cantuccio lontano dalle celle dei frati, come era costume nell'accoglienza dei pellegrini, e mi lasciò presto solo. Quando nei giorni addietro mi ero imbattuto in qualche suo confratello avevo ricevuto un'accoglienza serena e calorosa, mi erano state rivolte molte domande e con quella speranza mi ero allora rivolto di nuovo alla loro ospitalità. Quella speranza delusa era troppo da sopportare per il mio animo provato e sentii crescere dentro di me una frustrazione rabbiosa. Nemmeno gli uomini di Dio avevano a cuore le sorti della mia anima, doveva allora davvero valere ben poco.
Non vennero ad invitarmi nemmeno alle preghiere della sera e mi coricai affamato e intristito, pronto a partire presto l'indomani per non dare modo a quei frati di deludermi ancora.
La mattina successiva venni invece svegliato da un vociare confuso, molti e molti frati si erano dati convegno nel cortile davanti alla stanzetta che mi era stata assegnata. Aperto l'uscio uno strano spettacolo mi si parò davanti. Un crocchio di frati si stringeva rabbioso attorno a un poveraccio, che faccia a terra piangeva e implorava pietà.
Una scena del genere avrebbe mosso a compassione il più duro di cuore e quei frati invece inveivano imperterriti contro lo sventurato. Cedetti alla frustrazione accumulata e mi gettai nel mezzo della folla cercando di fare scudo all'uomo disperato, non che qualcuno stesse usandogli violenza, ma tutti sembravano sull'orlo di farlo.
Mi precipitai tra quegli uomini santi gridando e loro perplessi mi guardarono a bocca aperta, dovevano essersi completamente dimenticati di me.
“Chi siete e cosa fate qui?” Michiesero indispettiti forse per essere stati interrotti. Mi sembrava così assurdo far conversazione davanti al poveretto coperto di polvere e di lacrime. Gridai loro di dimostrare pietà e che sarei dopo volentieri passato alle presentazioni.
A quel punto un frate più anziano parlò e mi accorsi che aveva il volto rigato di lacrime: “Quest'uomo che tu prontamente difendi è un assassino, ha sgozzato a sangue freddo due dei nostri fratelli e il sacerdote che per molti anni è stato pastore delle nostre anime. La loro colpa fu quella di amministrare la giustizia del Santo Padre secondo le sue regole, privarono questo manigoldo di una fetta di eredità che lui era certo di meritare, per questo pose fine alle loro vite come fossero agnelli sacrificali. Dimostri buon cuore volendo prendere le sue difese, ma non giudicare la rabbia di chi piange i propri fratelli.”
A quelle parole lasciai che le braccia mi ricadessero lungo i fianchi abbandonando la postura difensiva che avevo involontariamente assunto. Mi voltai a guardare l'uomo a terra e quando incrociai il suo sguardo vidi gli occhi di un codardo.
Mi ero lasciato accecare dai miei preconcetti, dall'idea che la mancata accoglienza e il calore che quei frati mi avevano negato fosse specchio delle loro anime brute, invece non potevo conoscere il loro dolore, non potevo presumere di riconoscere l'animo umano.
Chiesi perdono e sperai di poter fare ammenda. Il frate anziano che aveva parlato prima, mi chiese di prendere in custodia l'uomo, prima che la tentazione e la rabbia si impadronissero dei convenuti, mi chiese di vegliare su di lui finché non fossero giunte notizie da Perugia riguardo alla sentenza del criminale.
Lo portai con me nella mia celletta e lo lasciai sedersi a terra mentre io seduto sul letto lo studiavo. Implorò pietà più volte pregando che lo lasciassi fuggire, ma ogni parola me lo rendeva più detestabile e gli ingiunsi di tacere. Quello scarto d'uomo era davanti ai miei occhi uno specchio della mia vita. Un uomo che commette atti orribili e poi supplica il destino di avere pietà di lui, un uomo che reclama la propria parte di fortuna, voltando le spalle alla giustizia di Dio. In cosa ero diverso da lui? Avevo rifiutato la mano della giustizia e poi quella della provvidenza ed ero pronto ad accusare il destino infame delle mie sciagure, proprio come quell'uomo accusava il suo carceriere di essere causa del suo tormento.
Fui felice di abbandonare a se stesso l'uomo quando uno dei frati mi venne a chiamare. Fecero posto per me alla loro mensa e io ebbi l'occasione di chiedere scusa, mi fu permesso di rimanere fuori dalla cella e anzi me ne assegnarono una attigua in modo che potessi tenere d'occhio il prigioniero senza però dover dividere con lui lo spazio angusto. Mi occupai di lui per qualche giorno portandogli i pasti e condividendo i miei con i frati che di giorno in giorno si dimostravano più lieti della mia presenza. Durante la cena del quarto giorno, giunse una missiva da Perugia: il prigioniero Nicola Gentilucci era condannato a morte per impiccagione e squartamento.
Un sommesso brusio accompagnò la notizia spezzando il silenzio solenne che solitamente accompagnava i pasti.
Sgomento e desiderio di vendetta si alternavano nelle parole dei frati, ma ben presto una questione molto più pratica e urgente si fece strada: ci sarebbe stata necessità di un boia e a Foligno non se ne contava alcuno.
Fui io a riportare la notizia al prigioniero che l'accolse senza un briciolo di dignità riprendendo anzi a singhiozzare come un bambinetto.
I tre giorni che seguirono l'arrivo della notizia furono stranamente destabilizzanti per la piccola comunità che mi aveva accolto. Il prigioniero aveva iniziato a rifiutare il cibo e non aveva smesso di pregare neanche per un istante da quando lo avevo messo al corrente di quale sarebbe stato il suo destino. I frati allertati dalla decisione dell'uomo di lasciarsi morire e incuriositi dalla sua improvvisa redenzione iniziarono a riunirsi in capannelli e a bisbigliare riguardo l'opportunità di metterlo a morte.
Alcuni dei meno timorosi si recarono nella celletta del prigioniero pregando assieme a lui per molte ore.
La sera del terzo giorno una discussione molto accesa ebbe luogo appena fuori della piccola cappellina in cui i frati si erano radunati per recitare i vespri.
“Non hai forse ascoltato il salmo fratello Leone? Non hai inteso le parole ispirate che abbiamo appena pronunciato?
Il tuo trono, Dio, dura per sempre; 
è scettro giusto lo scettro del tuo regno.
Ami la giustizia e l'empietà detesti.
Come puoi continuare a richiedere la grazia per un iniquo? Questa è la giustizia di Dio che speri di servire?”
Un secondo frate ribatté con veemenza: “Se fosse stato venerdì2 avremmo ascoltato parole diverse:
Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge gli umili:
ero misero ed egli mi ha salvato.
Vuoi forse dire che le parole di oggi sono più vere di quelle che leggeremo tra qualche giorno?”
"Fratelli di cosa parliamo, uno dei più fidati legati del santo padre ha emesso questa sentenza, non credete che sia parte dei nostri voti compiere semplicemente la volontà stabilita al di sopra di noi?” Un terzo frate si era intromesso e presto altre opinioni iniziarono ad affastellarsi caotiche.
“Ma il legato del santo padre non è qui e non può conoscere le pene del cuore del poveruomo, non vede la sua contrizione.”
“Questa è superbia fratelli! I vostri cuori sono tentati dal demonio che vi fa credere migliori di coloro che hanno potere di decidere. E chi ha dato loro quel potere se non il signore nella sua infinita sapienza?”
Misericordia, giustizia, ira e umiltà, parole dense si rincorrevano sulle bocche di quegli uomini scossi dagli eventi, nessuno di loro aveva affrontato la questione a cuor leggero cercando nella fede le radici della parola giustizia e io mi lasciai prendere da quei dubbi e afferrare da altrettante certezze. Mai come in quei pochi giorni i miei valori morali furono messi alla prova, scardinati e ricostruiti, ma non potevo sapere che la prova più importate doveva ancora presentarmisi.
Il rumoroso assembramento fu sciolto dal frate più anziano, avevo a quel tempo ormai imparato che il suo nome era frate Nicola, priore della piccola congregazione. Alle sue parole tutti tornarono silenziosi e come formiche ordinate raggiunsero il refettorio, consumarono la cena e officiarono la compieta. Lo stesso silenzio forzato accompagnò ogni gesto e un risentimento mal celato filtrò nelle risposte di molti durante la preghiera. Quando tutti furono pronti a tornare nelle proprie celle, frate Nicola mi si fece incontro e mi chiese di seguirlo nella piccola stanzetta che di giorno usava per i suoi uffici di priore.
La stanza era angusta quasi soffocante una candela, o quel che ne restava, illuminava fiocamente il tavolo, la sedia e il crocifisso che erano gli unici arredi lì dentro. Si sedette e a me non rimase che restare in piedi al di là del tavolo, in attesa. Sembrava stremato, più piccolo che mai davanti all'ombra curiosamente troppo grande che la sua figura minuta proiettava, un povero vecchio costretto a portare un peso troppo grande.
Un pensiero mi colse: un giorno anche mio padre sarebbe finito così? No, era solo il senso di colpa a parlare, in realtà i miei tanti fratelli avrebbero alleggerito quel peso e mio padre avrebbe probabilmente dimenticato il figlio ribelle che lo aveva abbandonato.
Il frate si schiarì la voce e iniziò a parlare: “Figliolo sono tristi giorni quelli che ti vedono dividere la nostra casa. Mi sarebbe piaciuto poterti incontrare in tempi migliori, ma la provvidenza conosce le nostre strade meglio di noi, e forse c'è un motivo per cui sei giunto qui in questo momento. In altri tempi forse saresti passato come un'ombra incapace di ricambiare in alcun modo la nostra ospitalità.” Le parole del frate erano ferme e sicure e un senso d'inquietudine m'invase, cosa stava cercando di dire?
“I miei fratelli sono agitati, non sono abituati alle cose del mondo, noi viviamo della bontà e della carità degli uomini, facciamo opere di bene e il signore e le genti ci ricompensano per questo. Abbiamo avuto il privilegio di vedere solo la faccia buona del mondo e per molti questa è una dura prova. La fede stessa dei miei fratelli è messa alla prova da ciò che stanno vivendo e temo che molti potrebbero soccombere. Ma tu figlio mio sei la nostra speranza, io credo che il signore ti abbia portato nella nostra casa a questo scopo preciso. Tu puoi liberarci tutti dalla tentazione.”
In un attimo fu buio davanti ai miei occhi e nella mia mente. Mentre il frate si adoperava per trovare e accendere un'altra candela e sistemarla al posto di quella consumata io ebbi il tempo per riflettere sulle sue parole. Ebbi improvvisamente una vaga percezione di ciò che mi avrebbe chiesto e incredibilmente l'inquietudine svanì.
Tornata la luce nella stanzina incrociai di nuovo lo sguardo del frate, era più cupo che in precedenza e anche la voce si fece cupa quando mi prospettò l'ipotesi di divenire io stesso boia di quel prigioniero che per tanti giorni avevo accudito.
“Ma, padre, i dubbi dei fratelli mi sembrano validi, non credete che il giudizio sia stato affrettato e che alla luce del cambiamento forse la sentenza potrebbe essere commutata?”
Gli occhi del frate si fecero sottili e mi studiarono, quando tornò a parlare la sua voce non era più calma e profonda sembrava anzi sul punto di incendiarsi.
“Ragazzo credi che decretare la morte per un individuo corrotto sia una punizione? E allora a che scopo lasciare che confessi i propri peccati e che si comunichi con il signore prima di eseguire la sentenza? Credi che questo sia il primo uomo a pentirsi davanti al patibolo? Io spero che tutti i criminali giustiziati muoiano in grazia di Dio perché Egli con la sua misericordia possa salvarli. Ma noi qui abbiamo il dovere di portare la giustizia di Dio ai derelitti, la sua morte sarà di monito a molti, più di quanto potrebbe mai esserlo la sua vita. Se vivesse porterebbe solo altra rovina a se stesso e agli altri. Solo con la morte può avere salva l'anima e guidarne altre verso il sacro timore della giustizia di Dio.”
Le sue parole mi scaldarono il cuore, ma la mente del ragazzo si ribellava ad una dottrina tanto semplice, era inevitabile allora cercare il granello di sabbia che avrebbe incastrato l'ingranaggio, nella mia mente non vi era chiarezza e non potevo ammettere che nel mondo esistesse qualcosa di tanto semplice e incontrovertibile.
“Ma padre, quell'uomo non potrebbe cambiare? Saul uccise molti cristiani prima di divenire San Paolo, gli uomini sono in grado di cambiare, i popoli possono cambiare, perché una sentenza non può cambiare?”
Vidi una luce nuova illuminarlo e le parole che mi rivolsero furono allora di vero fuoco e spirito e anche ora non posso dimenticarle, le sento ancora divampare dentro di me.
“Non si tratta di una sentenza, ragazzo, qui stiamo parlando dell'ordine, della giustizia e della santa chiesa di Dio. Se ciascuno iniziasse a mettere in dubbio i comandamenti della chiesa, non rimarrebbe che il caos, se si disquisisse delle parole e dell'operato del Santo Pontefice quali certezze ci rimarrebbero? Sono tempi difficili questi mio caro, notizie terrificanti arrivano d'oltralpe e noi dobbiamo essere saldi ora più che mai. I miei confratelli con i loro dubbi non stanno sfidando un giudizio ma l'intera tradizione che tiene salde le nostre vite e quando una tradizione raccoglie abbastanza forza per andare avanti per secoli, non può essere cancellata in un giorno solo dal capriccio di pochi uomini. Il nostro dovere è aderire alla tradizione e far in modo che si perpetui l'ordine di cui è portatrice. Ora resta solo da capire, da quale parte vuoi trovarti quando il tuo giorno arriverà, vuoi essere portatore di caos o di pace? Oggi sei chiamato a fare la tua scelta.”
Ora so che la passione di quel frate aveva in quel momento mire molto più pratiche che trascendenti, ma il ragazzo che ero allora si lasciò infiammare dal fuoco sacro delle sue parole e abbracciai il mio destino con la fede di un santo e il trasporto di un eroe.
Il giorno successivo una forca fu allestita subito fuori le mura del monastero, poco più di una manciata di pali legati l'uno all'altro e saldamente piantati a terra. Non vi era un basamento o una botola da aprire come per le moderne forche, ma la costruzione si dimostrò solida e la corda buona. Ironicamente scoprii qualche tempo più tardi che proprio da Foligno viene la canapa con cui a Roma vengono fatte le corde da forca, pare sia la più pregiata, ma quel giorno non potevo sapere con quale strumento pregevole la mia carriera di boia stava avendo inizio.
Fortunatamente ero piuttosto bravo con corde e nodi, alla cascina era compito mio attaccare i buoi all'aratro ed ero diventato bravo con cappi, tiranti e finiture. Fare un buon cappio mi impiegò poco tempo ma per fissare la corda alla forca improvvisata ebbi bisogno dell'aiuto di un frate.
Fu tutto pronto all'ora di pranzo ma l'esecuzione ebbe luogo all'ora nona3, un'ora insolita per un'esecuzione, come imparai in seguito.
Un curato venne dal paese insieme ad una piccola folla, ancora oggi non so se il priore avesse fissato in precedenza la data confidando nell'arrivo del boia o se avesse dato per scontato la mia disponibilità a quel gravoso ufficio. Il condannato poté confessare i propri peccati e comunicarsi, io ebbi la stessa opportunità ma la rifiutai, non ero io nel torto e non stavo per morire, il mio animo era lindo e innocente come forse non era mai stato, neanche per un momento mi tornò in mente l'impudicizia che mi aveva portato a giacere con una donna di piacere o a non scandalizzarmi davanti alla perversione della mia più cara amica. Ero nella grazia di Dio il mio compito in nome della sua gloria mi aspettava ed io ero pronto.
Aiutai il condannato a salire in piedi sulla sedia sistemata sotto la corda, feci passare il cappio attorno al collo sudato e attesi un cenno d'assenso da parte del priore. Tutti i convenuti erano silenziosi, i più mormoravano preghiere silenziose tra le labbra. Non mi sarebbe mai più capitato un pubblico tanto rispettoso della morte altrui, ma è pur vero, che la maggior parte di essi erano frati e mi è capitato raramente di sentire dei frati divenire rumorosi, lontano da Roma ovviamente.
Al cenno di frate Nicola tolsi la sedia su cui il condannato poggiava a mala pena le punte dei piedi, il corpo scese morbido come se fosse sempre stato sospeso, solo dopo qualche istante l'uomo iniziò a dimenarsi come un coniglio preso in trappola. Un uomo impiega un tempo sempre sorprendentemente lungo per morire, che sia una testa mozzata che muove ancora gli occhi o un mazzolato che si rifiuta di lasciare andare la vita, ma in quel caso la mia inesperienza aveva giocato una buona parte nel processo. La corda era corta, e non c'era stato nessuno strattone alla caduta del corpo, il collo era rimasto illeso e questo aveva prolungato l'agonia del povero malcapitato. Lo guardammo rantolare e ingrigire pian piano per diversi minuti. Sembrava rimanere appeso all'ultimo respiro con un'ostinazione degna di un guerriero e questo mi diede tempo per riflettere.
Avrei potuto fare di quel sacro dovere una professione? Sarei stato al soldo del Papa e sarebbe stata una cosa non da poco, sarei stato la mano della giustizia di Dio. Mia madre e mio fratello Vincenzo che aveva preso i voti qualche anno prima sarebbero stati orgogliosi di me. Mio padre? Lui no, credevo che il mio lavoro fosse finito e la mia fronte era rimasta perfettamente asciutta, come poteva approvare un lavoro di tal risma?
Il corpo smise infine di lottare e si arrese tra le braccia della morte, il viso grigio, le membra rigide e le labbra viola. L'anziano mi si avvicinò con sguardo cupo, stringeva in mano un grosso arnese avvolto in un panno di cui si riusciva a vedere solo il manico.
Mi sussurrò poche parole e mi sentii gelare. Non aveva prodotto alcun effetto su di me quella morte, era stata una cosa piuttosto meccanica, io avevo rimosso una sedia e alcuni minuti dopo un uomo era morto. Il mio lavoro era stata materia di costruzione e di nodi, un architetto più che un boia, ora però ciò che il mio ruolo mi prospettava era raccapricciante.
Il mio compito infatti non era finito, la sentenza stabiliva la morte per impiccagione e squartamento, la prima pratica era sbrigata mancava la seconda. Permettere che ciò che avevo costruito togliesse la vita ad un uomo era stato per me assolutamente naturale, l'idea invece di incidere un corpo inerte mi sconvolgeva.
Gli occhi dei presenti erano tutti puntati su di me, tutti sapevano cosa aspettarsi, anche i paesani giunti fin lì per l'esecuzione, evidentemente la notizia era stata trasmessa in paese con estrema precisione.
Tolsi con cura il panno che avvolgeva l'arnese, era una mannaia enorme e mi chiesi subito, come mai dei frati custodissero uno strumento del genere. L'ammirai e ne saggiai la lama con un dito, era un bell'arnese anche quello come la corda, solo materiale di prima scelta per il mio primo incarico. Non avevo idea di come procedere, avevo assistito ad una condanna per squartamento da piccolo, era forse uno dei pochi ricordi in cui potevo raffigurarmi mio padre lontano dalla fattoria, ma in quel caso l'uomo era stato legato mani e piedi a quattro cavalli e questi erano poi stati lanciati al galoppo, facendo in questo modo gran parte del lavoro. In quel caso non avevo altro che una robusta mannaia, le mie forze e la mia ingegnosità. Conoscevo il principio di base dello squartamento, il corpo doveva appunto essere diviso in quattro quarti, ma da dove cominciare?
Il corpo era stato nel frattempo sistemato su un tavolaccio trascinato lì fuori chissà quando e chissà da chi, non lo avevo notato affatto finché non ci fu adagiato sopra il corpo. La folla che era rimasta ai piedi della forca si sistemò ora più lontana, ma non abbastanza da poter perdere lo spettacolo.
Mi afferrai alla mannaia come se quella potesse impedirmi di rovinare a terra, strinsi il manico fino a sentire le mani dolere e sferrai il primo colpo. La lama cadde con un rumore molle e tra il collo e la spalla, fu solo nel risollevare l'arma che sentii qualcosa scricchiolare in modo raccapricciante, al secondo colpo il rumore delle ossa infrante si fece più forte. Non furono i suoni o il sangue che zampillava a riempirmi di disgusto ma l'insopportabile fetore che si alzava da quel corpo, quel corpo che fino a pochi minuti prima era stato una persona, era possibile che anche io puzzassi così tanto esattamente in quel momento? Non è la morte a renderci uguali quindi, ma il boia che fa spettacolo delle brutture che ci accomunano. Quel pensiero scatenò una febbre implacabile, i colpi iniziarono a susseguirsi sempre più precisi e sempre più veloci, ignorai il sangue e gli altri fluidi che avevano iniziato schizzarmi sul viso, dopo poco tempo il lavoro era concluso ed io ero ansimante e sudato. Riconobbi di aver valutato in modo frettoloso poco prima, quello sarebbe stato un lavoro di cui anche mio padre sarebbe andato fiero.
I frati si occuparono delle spoglie dell'uomo, mentre io fui guidato dall'anziano verso il pozzo, attinse acqua per me e io me ne gettai addosso un secchio dopo l'altro finché sul mio viso e tra i miei capelli non rimase neanche la più piccola traccia di quel corpo trucidato.
Poi il frate mi disse di spogliarmi, avrebbero lavato i miei vestiti e mi avrebbe fatto portare un tino nella mia cella, avrei potuto lavarmi ancora e con maggior cura.
Lo feci e indossai vestiti puliti prima di andare a cena. Quando entrai nel refettorio tutti gli occhi si posarono su di me come era accaduto quello stesso pomeriggio, gli sguardi però erano diversi, non c'era più la gentilezza e il calore dei giorni precedenti, non un solo frate mi rivolse un sorriso, imparai solo molto più tardi che quello era lo sguardo rivolto al boia. Io quella sera non mi sentivo diverso, ero confuso, nauseato e spaventato, avrei avuto bisogno di conforto non di disprezzo, ma non si può dare spettacolo della mortalità dell'uomo e aspettarsi che questo non cambi gli animi di chi assiste.
Il ragazzo caparbio che ero, nascose la tristezza e il senso di smarrimento dietro un sorriso sbruffone, non rivolsi più la parola a nessun e nessuno rivolse la parola a me. Il giorno dopo recuperai il mio fagotto di vestiti puliti e lasciai il monastero con qualche moneta d'oro che il priore mi fece trovare direttamente nella mia stanza. Sulla strada verso Foligno vidi il curato venirmi incontro, mi disse di essersi messo in strada per cercarmi e mi propose di accompagnarlo a Roma, le strade erano poco sicure e viaggiare da solo per un sacerdote in quei giorni poteva essere letale. In cambio, disse, mi avrebbe presentato come boia capace e mi avrebbe fatto ammettere al servizio del Santo Padre.
La notte appena trascorsa aveva portato con sé pensieri confusi, ero furioso nei confronti di quei frati che mi avevano prima accolto con calore, poi sfruttato per il loro tornaconto e infine giudicato per delle azioni che loro stessi avevano ritenuto giuste e necessarie. Avevo concluso che non fosse l'ufficio ad essere sbagliato ma l'ipocrisia, e l'offerta del curato arrivava in quel momento come un messaggio divino, una dimostrazione di quanto fossi nel giusto. Accettai di buon grado e mi lascia condurre dal curato nella sua canonica in cui spesi i giorni in attesa della partenza.

Ero emozionato all'idea di vedere Roma e solo in quel momento il volto di Tessa mi tornò alla memoria, lei aveva sempre desiderato vedere la città eterna, chissà se in quel momento stava visitando città lontane? Avrei dato qualunque cosa per avere sue notizie, per sapere se era viva, al sicuro, felice. Sapevo che quei pensieri erano una tentazione un peccato, ma avevo deciso che avrei votato la mia vita al servizio della giustizia del Signore e quindi avrei avuto modo per rimediare in futuro, nel frattempo cullai sul cuore l'immagine della mia preziosa amica, sentivo per la prima volta terribilmente la sua mancanza. Non avrebbe più saputo nulla di me, sarei pian piano diventato uno sconosciuto per lei come lei per me, non avrebbe saputo nulla della mia vita, dei miei pensieri dei cambiamenti che avrei affrontato. Roma sarebbe divenuta la mia città e non avrei mai potuto visitarla con lei. Quei pensieri divennero un delirio febbrile e mi riempirono cuore di tristezza. Mi addormentai stringendo il suo nome tra le labbra.


 


 

1: Ho evitato di usare i vari dialetti per scelta, come se tutto fosse “tradotto” in italiano, questo però è un piccolo vezzo che ho voluto mantenere in onore di una città che amo molto, nonostante tutto.

2: la liturgia delle ore riporta per ogni giorno diversi salmi che si ripetono identici in base al periodo liturgico.

3: L'ora nona corrisponde alle 15.00 secondo la divisione temporale medievale. Nelle comunità monastiche questo tipo di scansione temporale viene utilizzata ben oltre il medioevo poiché i momenti di preghiera che scandiscono la giornata ricalcano l'antica divisione.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Il Viaggio verso Roma fu lungo e piacevole, lungo la strada il curato riuscì a farmi affidare due nuovi incarichi e iniziai a carpire i primi trucchi della mia professione. Il curato, padre Girolamo, si dimostrò un compagno piacevole, lasciai che dividesse con me i miei compensi e lui fu generoso nell'offrirmi da bere durante le lunghe notti di viaggio. Aveva un passato da contadino proprio come me, ma lui non era nato nello Stato Pontificio bensì nel Granducato di Toscana, i suoi vivevano lontani dal mare e lui dichiarava di non averlo mai visto neanche una volta. Io gli promisi che una volta a Roma saremmo andati insieme sulla costa e gli avrei insegnato a nuotare.
Giungemmo a Roma nel pieno dell'estate e la città mi accolse con il suo lato peggiore, non che in futuro si sarebbe dimostrata clemente con me, ma quei primi giorni furono di gran lunga i peggiori. Il suo puzzo e il caldo spietato, la lingua greve e il clamore dei suoi abitanti tutto contribuì a farmi odiare la città a prima vista. Quando riuscimmo ad ottenere una stanza ero così distrutto e disorientato da sentire il bisogno impellente di avere un contatto con casa. Scrissi una lunga lettera e la indirizzai a una delle mie sorelle, sapevo che Clara sarebbe stata l'unica a leggerla prima di bruciarla.
Scrissi per l'intera notte soffocato dal caldo e dall'umidità, raccontai il mio anno lontano da casa, mi resi conto scrivendo che il mio compleanno era arrivato e passato senza che me ne fossi accorto, non che ci fossero stati in passato festeggiamenti particolari, ma in quel giorno il carro dei Targhini arrivava puntuale alla cascina per reclamare il suo carico e io potevo di solito trascorrere la giornata con Tessa.
Non mi sdraiai nel lettino che mi era stato assegnato, la sola idea mi faceva attaccare addosso i vestiti per il sudore, il piccolo scrittoio era invece accostato alla finestra e sebbene la brezza leggera portasse con sé il puzzo della città, era fresca e piacevole sul viso sudato.
L'indomani consegnai la lettera affinché fosse spedita, fu un cedimento sciocco, l'ultima traccia del bambino che allora ancora mi portavo dentro, ma avevo bisogno di sentirmi vicino a casa dopo aver fronteggiato le brutture di una città allo stesso tempo troppo grande e troppo contadina.
Padre Girolamo insistette per mostrarmi i lati migliori di quella che sarebbe stata la mia città da quel momento in avanti. Se me lo avessero chiesto in quei giorni avrei giurato di non poter vivere lì più di una settimana, sono invece ormai 60 anni che questo tugurio è la mia casa e trovo un'ironia feroce nel riconoscere che non vorrei morire in alcun altro posto, neanche potendo.
Restai stupefatto davanti alla maestosità dei Fori e indignato nel vedere quanta poca attenzione gli abitanti riservassero a una tale bellezza, i più, quando si trovavano a passare lì nei pressi, camminavano svelti e a testa bassa tutti concentrati su loro stessi e sulle loro grette vite, i ragazzi invece si aggiravano tra le rovine maestose come se si trovassero in un fortino costruito da loro con canne e bastoni, lasciando ovunque graffiti che attestassero il segno del loro passaggio. Ma i frequentatori abituali dei fori dell'antica Roma erano ormai pastori e pecore, il che contribuiva a effondere un olezzo intollerabile anche lì in uno spazio tanto aperto e verde.
Tornai bambino perdendomi nei tanti mercati che costellano la città, sebbene i mercanti abbiano tutti una propensione al chiasso fuori dal comune e la loro lingua risulti ruvida e sgradevole alle mie orecchie ancora oggi.
Dopo qualche giorno trascorso nel chiasso e nel fetore della città decisi di mantenere la mia promessa verso padre Girolamo, mi accordai con un vetturino e ci feci condurre a Ostia, luogo che nella mia memoria rimarrà per sempre come l'emblema di tutti i cambiamenti che la vita mi ha riservato. Quel posto pieno di contraddizioni mi mostrò nel giorno in cui arrivammo il suo volto più bello.
Trovammo ospitalità presso un amico del mio compagno, aspettammo che le ore più calde del giorno scemassero e ci recammo sulla riva a passeggiare. La spiaggia era affollata, molti come noi approfittavano della brezza che saliva dal mare per passeggiare, molti altri invece seguivano la moda del tempo abbandonandosi a bagni di sole e di mare che fecero imporporare per l'imbarazzo le guance del mio accompagnatore.
Ma i suoi occhi brillavano come le onde, uno spettacolo degno della magnificenza di Dio, disse. Non aveva mai posato gli occhi sul mare, sebbene in questa stretta penisola sia un'impresa assai difficile, e quel giorno per la prima volta lasciò lo sguardo perdersi lontano e rincorrere le onde fino a forzare la vista oltre l'orizzonte. Il suo stupore e la sua gioia autentica si riflessero anche su di me e mi sentii leggero per la prima volta, dopo tanto tempo. Quando poi il sole iniziò a scendere rosso e enorme su quella distesa, anch'io ne rimasi stupito e mi lasciai guidare nella preghiera dal mio amico.
Sedemmo sulla sabbia e pregammo insieme il vespro, davanti a tanta bellezza le parole dei salmi prendevano vita e divenivano dolorosamente concrete. In quel momento mi sentii in armonia con il creato, ciò che ero o ero stato era semplice e giusto perché parte di quel tutto tanto splendido. Quando mi coricai lo feci davvero in grazia di Dio.
Ma il caldo mi risvegliò presto quella notte e dalla finestra scorsi l'altra faccia di quella stessa medaglia. Non si può assistere a un tramonto sul mare senza sacrificare la vista del sole sorgere dalle acque. Una malinconia prepotente mi colse. Quella costa era sbagliata e quell'alba al contrario me ne diede la misura, sarei dovuto tornare a casa per vedere di nuovo il sole sorgere dal mare e non mi sembrava una prospettiva plausibile. Allontanandomi dalla costa adriatica avevo sacrificato la bellezza della speranza racchiusa nell'alba per il fascino ineluttabile della morte narrato dal rosso di un tramonto.
Il mattino portò con sé per la prima volta la rassegnazione e aprì per me una fase tutta nuova della mia vita. Ora so che un ragazzo di 17 anni rassegnato è un abominio agli occhi di Dio, ma non ero io abominevole bensì i fatti che concorsero a rendermi tale. Facemmo ritorno a Roma, nelle nostre stanze prese a pigione nei pressi di campo de' Fiori e aspettammo pigramente per qualche giorno di essere ricevuti.
Il lunedì successivo al nostro arrivo a Roma, fummo finalmente convocati presso la Signatura di Giustizia e lì fummo ricevuti dal referendario che ascoltò attentamente le parole di Padre Girolamo e diede il suo assenso affinché il mio incarico fosse ufficialmente riconosciuto. Ci fece aspettare a lungo in un ampio corridoio illuminato da finestre enormi, non avevo mai visto un palazzo tanto imponente in tutta la mia vita e mi sentii un campagnolo per la prima volta, non sapevo cosa significasse di preciso, ma quel misto di inadeguatezza e ignoranza mi si attaccò alla pelle e anche oggi, all'età di 80 anni e dopo una vita spesa nella capitale, sento ogni tanto vibrare la reverenza del contadino difronte a una realtà che non rivelerà mai per intero la propria natura a chi è forestiero.
Il funzionario uscì dopo molto tempo con un documento scritto in bella grafia e finemente rifinito, con quello, mi disse, ero nominato ufficialmente boia di sua Santità il Pontefice. Avrei ricevuto al recapito dichiarato notizia delle sentenze da eseguire e il compenso corrispettivo. Quella sera fui io ad offrire da bere al mio anfitrione, avevo ufficialmente un lavoro degno che mi avrebbe permesso di provvedere a me stesso.
Mi accorsi ben presto però che la giustizia terrena è faccenda lenta e incostante, quando padre Girolamo mi lasciò per fare ritorno alla sua diocesi iniziai a conoscere il sapore della noia. Lunghe giornate si offrivano a me vuote e sterminate, riempirle con la semplice esplorazione della città impiegò poche settimane, mentre la misericordia del Papa mi privava di impegni seppure saltuari.
A rompere la monotonia e la noia della fine dell'estate giunse una lettera che in un attimo cancellò il torpore dei miei giorni. Non conoscevo la scrittura, non mi era mai capitato di vederla prima ma di certo non l'avrei mai più dimenticata. Erano diversi fogli scritti fittamente e li voltai senza leggerli fino a giungere alla firma. Quelle cinque lettere balzarono dagli occhi al cuore in un istante, non credevo avrei mai più avuto sue notizie, invece ecco lì un lungo racconto.
Raccolsi tutti i fogli e li ripiegai ordinatamente, li strinsi in pugno e uscii di casa. Camminai a lungo assaporando le aspettative, l'ansia di conoscere e la paura di ciò che avrei scoperto. Dipinsi infiniti scenari durante la camminata convulsa e raggiunsi infine i Fori. Mi arrampicai su un sentiero lungo il fianco del colle che si affaccia su questi e mi sedetti all'ombra di un albero, ma solo quando fui giunto abbastanza in alto da non essere disturbato dai ragazzini che giocavano tra le rovine. Mi sedetti e lessi.
uelle parole colarono sul mio cuore come un liquore dolce ma fortissimo, mi diedero il capogiro e per un attimo lo spettacolo che si stendeva davanti ai miei occhi si fece nero. Tessa raccontava di come il mio agire avesse fatto tornare Raniero sui propri passi, di come fosse corso al porto prima dell'alba riportandola a casa. Iara era partita e Tessa era invece tornata tra le mura paterne. Nessuno scandalo era scoppiato e anche su di me erano circolate solo poche chiacchiere confuse, non è poi una gran malefatta per un giovane uomo cercare il piacere finché gli obblighi della vita adulta non sopraggiungono. Per mio padre era stato diverso, non aveva perdonato o compreso, mi aveva anzi bandito definitivamente dalla famiglia impedendo a chiunque di prendere contatti con me.
Ma nulla contò quando arrivai a leggere la fine della lettera. Tessa doveva aver trattenuto la propria tristezza nello sforzo di darmi un dettagliato resoconto di ciò che era accaduto dal momento della mia partenza. Potevo figurarmela china su uno scrittoio che non avevo mai visto, trattenere sospiri e dolore, lo stesso dolore incomprensibile che le vidi negli occhi di bambina in un giorno lontano ma che mai più l'aveva abbandonata. Potevo rivederle in volto la stessa espressione, la stessa inquietudine che trasformava la sua casa in una prigione, la vidi infine fallire nel tentativo di nascondere tutto, di celare il dolore e il desiderio. La immaginai scrivere in fretta le ultime righe e chiudere la lettera d'impulso in una disperata richiesta d'aiuto che se ragionata sarebbe stata soppressa. Lessi quelle ultime righe talmente tante volte da averle ancora impresse vividamente nella memoria.

"Ora le mie giornate sono normali, eccezion fatta per l'assiduo controllo della governante evidentemente istruita ad arte da mio fratello. Trascorro le ore studiando o suonando, mi affaccio alla finestra della mia stanza e guardo il mare sforzandomi di non pensare a quella nave salpata senza di me. Guardandomi indietro dovrei esser grata a mio fratello per avermi impedito di commettere un terribile errore, ma non posso invece non sentire l'eco di una speranza frustrata e di un'occasione sprecata. I muri di questa casa sembrano chiudersi su di me imprigionandomi e non c'è più neanche il mio buon Vanni a tenermi compagnia, a regalarmi avventure e a farmi dimenticare il mio ruolo, il mio nome e il mio destino. Scusami, il mio è il lamento di una ragazzina viziata, tu hai rinunciato alla tua vita qui per tenere nascosto un mio capriccio e io indugio invece nella mia tristezza. Vieni a trovarmi, fammi vedere di nuovo il tuo viso, anche una sola volta, fammi sapere che non sei adirato con me e io ti prometto che sarò felice, non sentirai mai un solo sospiro triste lasciare la mia bocca, ma vieni da me, te ne prego. E perdonami.
Tessa"

La prima cosa che feci il giorno successivo fu di recarmi nuovamente alla Signatura e chiedere un incarico che mi avvicinasse a casa, anche solo temporaneo, anche senza ricevere pagamento. Avevo bisogno di tornare a casa e avevo bisogno di farlo in veste ufficiale, non potevo certo sperare di essere accolto in casa mia, inoltre le disavventure del viaggio che mi aveva condotto a Roma erano ancora piuttosto vivide nella memoria e non volevo dovermi trovare ad affrontarne di nuove. La fortuna mi assistette, o in quel momento credevo fosse così, il funzionario mi parlò di un incarico presso Jesi, lo accettai all'istante e fui di nuovo fatto accomodare nel grande corridoio. Di nuovo la lunga attesa, di nuovo il senso di inadeguatezza, di nuovo il documento scritto in bella grafia. Cercai e trovai un cavallo giovane e irrequieto come me e il giorno successivo ero già in viaggio verso casa.
Fu un viaggio veloce, nervoso, dormii pochissimo e più il cavallo si avvicinava alla costa familiare più un senso di inquietudine mi afferrava. Arrivai in anticipo rispetto al giorno in cui l'esecuzione era programmata e non mi fermai a Jesi proseguendo fremente, come il cavallo che mi portava, dritto verso la mia bella Senigallia.
Profumi e colori amati mi accolsero e mi ritrovai il volto rigate di lacrime prima che me ne rendessi conto. Non credevo di amare tanto la mia terra, non credevo di averne sentito la mancanza tanto profondamente. Mi recai dal prefetto, mostrai il documento attestante il mio stato e il mio incarico ed egli mi fece assegnare una stanza in centro, riservata solitamente ai messi papali. Mi sistemai nella stanza pulita e respirai la brezza fresca che spirava dal mare. Il tramonto era ormai vicino e il sole calava già tra i picchi più alti delle montagne che vegliano su Senigallia da lontano. Le strade silenziose, la frescura tipica del giorno che muore, il profumo del mare, tutto testimoniava la mia lontananza da Roma.
Quando lasciai la stanza per passeggiare tra le strade familiari m'imbattei nella padrona di casa, i convenevoli che ci scambiammo, la sua cortesia e la suo linguaggio lieve mi spinsero di nuovo sull'orlo del pianto ma questa volta, pronto, riuscii a resistere.
Le strade erano ampie, pulite e fresche, mi aggirai come smarrito tra quelle strade simili a come le ricordavo ma terribilmente diverse per me che, mancando da un tempo che sembrava lunghissimo, speravo di immergermi nei giorni passati dell'infanzia. Particolari a mille e mille stonavano con l'immagine della mia memoria, un muro ridipinto, un volto invecchiato, nuovi fiori a sostituire i colori che ricordavo. Tutto sembrava voler additare la mia lunga lontananza, la mia estraneità alla vita consueta del luogo.
I miei passi mi guidarono involontariamente verso una casa nota, mi fermai ad un angolo della strada e osservai le luci che iniziavano ad illuminare le stanze.
Sapevo che Tessa era lì e d'un tratto mi accorsi della follia del mio agire. Ora che ero giunto lì, cosa mi aspettavo? Cosa avrei potuto fare? Eravamo grandi ormai, tanto grandi da riconoscere ruoli e convenzioni, non avrei potuto bussare alla sua porta e aspettare di essere ricevuto.
Tornai in camera e scrissi un breve biglietto, lo affidai al figlio della mia ospite in cambio di una moneta e attesi.
Il crepuscolo inghiottiva il mare confondendolo alla mia vista con il cielo sereno. Ben presto le stelle iniziarono a comparire a frotte, ricordando ai miei occhi una bellezza a Roma quasi invisibile.
Un tocco leggero mi fece sobbalzare, la padrona di casa portava una cena leggera e mi invitava a gustare di nuovo sapori conosciuti, la ringraziai e consumai felice il pasto mentre la signora ciarlava allegra raccontando, pressata dalle mie domande, degli ultimi avvenimenti in città.
Quando la signora mi lasciò solo portando via con sé gli avanzi della cena mi accorsi di essere infinitamente stanco. Stanco come solo tornare a casa dopo un viaggio lunghissimo può farti sentire. Finalmente libero di essere stanco.
Mi affacciai alla finestra per respirare l'aria fresca della sera prima di gettarmi sul letto esausto, ma la strada mi offrì uno spettacolo che spazzò via di nuovo la stanchezza. Tessa era lì, sotto la mia finestra e il sangue nelle mie vene prese a scorrere impazzito non appena gli occhi si posarono su di lei. Scesi così come mi trovavo, con la camicia sgualcita allentata sul collo e quasi completamente fuori dai pantaloni.
Non sembrò notarlo. Uno sguardo lunghissimo e pieno di rimorso sostituì ogni parola, solo dopo quella che mi sembrò un'eternità si mosse e mi si fece vicina, mi abbracciò e io sentii per la prima volte con cocente consapevolezza il suo corpo di donna aderire al mio. La strinsi senza pensare, ma per quanto lungo sembrò lungo lo sguardo che ci scambiammo prima, quell'abbraccio fu lo scintillio di un momento, troppo veloce, troppo effimero eppure tanto concreto da sentirne ancora la sensazione oggi, sul mio corpo di vecchio. Fece poche domande su di me, sul tempo trascorso, ma le risposte non sembravano contare.
Una domanda tornava a intervalli regolari, seguita dalla stessa risposta : “Stai bene? Mi sembra che tu stia benissimo.”
Era il senso di colpa a farti parlare? Allora mia cara Tessa, sapevi già ciò che io non avevo ancora compreso, sapevi che avresti sempre ottenuto da me ciò di cui avevi bisogno, sapevi che non sarebbe servita che una sola parola e io ti avrei dato tutto ciò che era in mio potere e anche di più, ma questo allora creava ancora qualche rimorso in te. Allora la tua insicurezza di ragazza non ti rendeva tronfia, certa della tua moralità superiore, al tempo ti sentivi in difetto davanti a me, in quel momento eravamo esattamente uguali, come quando eravamo bambini, anzi tu eri la bambina capricciosa, io il bravo ragazzo che ti aveva donato una pesca matura.
Se avessi potuto sapere cosa sarebbe accaduto subito dopo, avrei cristallizzato quel momento per sempre, se avessi potuto evitare di vedere lo sguardo di disprezzo nei tuoi occhi avrei deciso di non andare oltre, di finire in quell'istante la mia vita, in un attimo di pura e perfetta felicità.
Invece la mia impazienza mi fu letale, avevo fretta di sapere tutto di te, Tessa, ero affamato di dettagli e particolari, bruciai in poco tempo tutte le domande e tu parlasti a lungo finché non ti rimase più nulla da dire. Mi raccontasti per ultima la fine della tua storia con Iara, aveva preso il mare e non era più tornata, non una riga, non una parola, non aveva mai più rimesso piede a Senigallia. Per un istante provai compassione per Iara, aveva forse avuto significato anche per lei la strana avventura che avevamo vissuto? O aveva semplicemente fatto fortuna e lasciato la professione? Era forse morta per mare in un naufragio? Quell'idea mi gelò, se fosse rimasta su quella nave forse anche Tessa sarebbe morta con lei. Ma la mia fretta aveva lasciato Tessa a corto di parole e iniziò a porre domande che richiedessero vere risposte. Le raccontai della mia fuga e della vita a Fabriano, le raccontai delle peregrinazioni e di come infine ero giunto al servizio del Papa. A quel punto incontrai quello sguardo, lo sguardo riservato al boia. Forse fu a causa di quello sguardo che fu così difficile abituarmi negli anni agli sguardi disgustati della folla. Nel disprezzo di ogni ipocrita cittadino romano, rivedevo il tuo disprezzo e grazie a questo anche un miserabile sconosciuto era in grado di ferirmi.
Avevamo passeggiato fino ad arrivare al mare, la luce tremolante dei lampioni le illuminava il viso e rendeva più viva la mia vergogna. Cercai di spiegare a Tessa il mio ufficio e la sua sacralità, la sua importanza, ma nulla sembrava far breccia nel suo improvviso spregio nei miei confronti, l'orgoglio guidò quindi le mie parole. Non mi pentii, forse, di quelle parole, ma certo non le ho mai dimenticate.
“Come puoi sentirti in diritto di disprezzare ciò che faccio? Tu sei un abominio agli occhi di Dio e non ho mai pronunciato una sola parola contro di te, io servo invece la sua giustizia e tu osi giudicarmi?”
La rabbia accese anche le tue parole come aveva acceso le mie: “La giustizia di cui parli è sbagliata, non può venire da Dio una giustizia che condanna me per aver amato e grazia te che togli la vita per denaro. Ciò che davvero è orribile è che tu sia convinto di essere nel giusto, non condannerei qualcun altro per fare il tuo mestiere, ma non posso assolvere te, perché so che nel tuo cuore c'è bontà e amore. Ora che sei tornato speravo che saremmo partiti all'avventura insieme, speravo che fossi venuto a liberarmi dalla mia prigione, invece scopro che sei in una prigione più buia della mia una prigione che ti ha fatto dimenticare chi sei. Il ragazzino che conoscevo, non dava peso al fatto che fossi una femmina, o che fossi la figlia del padrone, come tutti gli altri ragazzini facevano. Il ragazzino che conoscevo, era pronto a sfidare suo padre per rincorrere l'avventura, non mi giudicava per ciò che sono usando l'autorità di Dio per dare forza ai propri insulti. Il ragazzino che conoscevo era libero e forte, non era il servo di nessuno.”
Quelle parole mi bruciavano dentro come acido, sentivo lacrime di rabbia incendiare gli occhi e lo sforzo di trattenerle mi bloccava la gola. Riuscii a sputare fuori a fatica poche parole, parole non mie, le uniche che in quel momento sembravano avere senso.
“Quando una tradizione raccoglie abbastanza forza per andare avanti per secoli, non può essere cancellata in un giorno solo e dal capriccio di una sola persona. La tradizione è più forte di te, degli sciocchi capricci di una ragazzina viziata o dell'illusione del figlio di un contadino. Ci siamo illusi, ma non siamo più bambini. Dobbiamo imparare a capire come va il mondo. E il mondo va in questo modo.”
Tessa mi guardò ancora, c'era rabbia sul suo volto, ora e questo mi diede stranamente speranza. Se ne andò senza aggiungere una parola e lasciandomi lì da solo a guardare il sole sorgere sul mare.

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 

Tornai a Roma dopo aver portato a termine il lavoro e dopo aver giurato di non mettere mai più piede nel territorio di Ancona. I tempi stavano cambiando velocemente e tra venti di rivolta e restaurazioni il mio lavoro divenne sempre più richiesto, non erano certo diversi i miei servigi se a finire al patibolo era un nemico del popolo o un carbonaro e la mia opinione in merito non fu mai richiesta.
A Roma lcome in molti altri posti le esecuzioni sono uno spettacolo pubblico, ma c'è da dire che solo in questa città ho trovato la morbosa abitudine di portare i bambini ad assistere alle esecuzioni pubbliche, quando il condannato passa oltre, i bambini vengono colpiti da uno scapaccione sgraziato e questo è ciò che i genitori della città santa ritengono il punto più alto dell'educazione impartita, nessuno stupore quindi che questa città pulluli di disgraziati, malfattori e preti. Essendo un momento di grande partecipazione popolare, più i miei servizi venivano richiesti, più sguardi attiravo su di me e ben presto il mio operato mi rese famoso.
La curia fu costretta ad emettere un'ordinanza che mi proibiva di entrare in città, se non per lavoro. Fui confinato al di là del fiume come i carcerati e proprio accanto a Castel Sant'Angelo mi costrinsero a vivere. Non pagavo pigione per la mia stanza ed era piuttosto confortevole, era fuori dal centro in una zona che puzzava certo meno rispetto a campo de' Fiori, ma i suoni che a volte raggiungevano le mie finestre erano terribili e spesso mi tenevano sveglio. Sentivo i pianti di neonati abbandonati al Santo Spirito e le grida di carcerati torturati dai gendarmi, quando riuscivo a prendere sonno quei lamenti mi tormentavano nei sogni. Negli incubi peggiori ero in ginocchio sul patibolo e una moltitudine di uomini sanguinolenti si accalcava per essere testimone dell'ultimo respiro del boia.
Ma anche gli incubi non ebbero la forza di fermarmi, serrai in profondità dubbi e timori, e mi trincerai dietro la certezza di essere nella grazia di Dio.
Con l'arrivo del cardinale Consalvi poi, dopo l'arrivo dei francesi, tutto divenne ben ordinato, pulito e funzionante, la giustizia divenne una macchina pressoché perfetta e persino il mio lavoro acquistò un'aria pulita e ordinata. Fecero arrivare dalla Francia uno di quegli strumenti con cui a Parigi avevano fatto la rivoluzione, la decapitazione non fu mai di moda come in quel momento. Una folla sempre maggiore si radunava attorno al patibolo per vedere quel pregiato pezzo di modernità. La lama cadeva dall'alto, la testa finiva in un cesto e non fosse stato per il sangue spruzzato fuori dal collo mozzato, il patibolo sarebbe stato ben più lindo del resto della piazza.
Fu in quel periodo che mi guadagnai il nome che mi accompagnerà, suppongo, fin nella fossa. Quando lasciai Senigallia la prima volta smisi di essere Vanni e divenni Bugatti come mio padre, a Roma guadagnai l'articolo come il padre di Tessa e divenni Il Bugatti o mastro Bugatti, ma i romani non dimostrano rispetto per niente e nessuno, soprattutto per ciò che temono e c'è da dire che temono tutto. Presto il loro timore divenne scherno e io divenni per tutti Mastro Titta, con quel modo tipico degli abitanti di Roma di troncare e storpiare parole note per trasformarle in parole nuove che solo chi è romano può interpretare. Non ho mai compreso questo modo di fare, conobbi dei veneziani a Senigallia ed ebbi difficoltà a comprenderli, non perché facessero un vezzo del parlar male, ma perché la lingua è diversa come poteva esserlo la bella lingua melodiosa di Iara. Ma i romani no, i romani non hanno un loro linguaggio e forse orgogliosi come sono invidiano ad altri questa peculiarità. Io credo che l'appropriarsi del toscano storpiandolo dia ai poveracci l'idea di essere colti e ai signori l'illusione di appartenere ad un' élite e non ad una popolazione meticcia e imbastardita nei secoli dai processi della storia.
Il timore e l'orgoglio ferito di questa gente che pretende di essere ancora caput mundi, mi segnò per sempre, non fui più semplicemente Vanni per nessuno, per tutti fui solo Mastro Titta, il boia di Roma. E allora giocai con loro, mostrai loro un personaggio che potessero riconoscere e disprezzare, forse sperando di difendere il vero Vanni dal loro scherno. Iniziai a vestirmi come un signore ogni volta che passavo ponte4 e a coprire i miei abiti buoni, che nascondevano le origini contadine, con una lunga e pesante cappa rossa. Il rosso scarlatto che mi ammantava indicava a tutti che Mastro Titta veniva in città per compiere il suo dovere, frotte di ragazzini mi seguivano come in processione lungo le strette vie del centro ma anziché salmodie sacre canticchiavano filastrocche oltraggiose esorcizzando in questo modo la paura. Nessun bambino si avvicinava mai troppo, sebbene seppi in seguito che molti vantavano, mentendo di avermi tirato il mantello.
Divenni il mostro sotto il letto per tanti ragazzini, genitori impazienti usavano spesso il mio nome come minaccia e a quel nome anche i bambini più indisciplinati immagino cedessero: “Se non smetti di piangere chiamo Mastro Titta!”

Nei lunghi giorni in cui invece non mi era consentito passare il ponte, vestivo di scuro in modo ordinario sperando di passare inosservato il più a lungo possibile, ma concedendomi sempre il vezzo di portare con me un oggetto o un capo raffinato, un orologio da taschino o una camicia di seta, quel tanto che bastava per ricordare a me stesso la strada percorsa, quel tanto necessario per dimostrare di essere uscito dal fango ed essere infine divenuto migliore di mio padre.
Fu difficile trovare un orecchio amico e per lungo tempo l'unico a prestarmi ascolto fu il mio confessore, ma la mia vita era vuota e monotona quali peccati avrei mai avuto occasione di commettere? Fui tentato a volte dalle case di piacere ma fermo sull'uscio non fui mai capace di convincermi ad entrare. Sulla soglia il puzzo vizioso di quei posti mi dava la nausea, ricordavo il profumo speziato della pelle di Iara e un senso di malessere s'impossessava di me trascinandomi ogni volta verso casa, sempre più solo.
Conobbi dopo qualche anno un uomo di Napoli, anche lui costretto a Roma per lavoro. L'uomo si chiamava Francesco e io lo conobbi perché teneva una botteguccia di ombrellaio proprio difronte al palazzo in cui vivevo.
Passai molti pomeriggi alla finestra a osservare il suo lavoro minuzioso e paziente, mi sedevo con un libro aperto davanti e lo sguardo concentrato sulle dita agili dell'artigiano. L'uomo cortese iniziò a salutarmi ogni volta che mi vedeva alla finestra o in strada e un giorno mi invitò a bere un bicchiere di vino. E' così che scoprii che non era il riparare ombrelli il suo ufficio principale, bensì quello di seppellir cadaveri. Mi raccontò dei suoi primi anni a Roma, e mi ritrovai nelle sue parole come stesse raccontando la mai storia.
“La solitudine mi avrebbe fatto impazzire, avevo bisogno di ricordare a me stesso di essere un essere umano e non solo il becchino, volevo tornare ad essere qualcuno con cui parlare non solo quello da guardare con compassione e non prima di aver fatto un qualunque gesto scaramantico. Quindi aprii la bottega, quando la gente ha bisogno di riparare un ombrello fa finta di dimenticare che sono un becchino, viene da me ed è cortese perché spera di strappare un prezzo migliore.”
Mi offrii come aiutante per la bottega e lui accettò di buon grado, scherzammo spesso sulla nostra strana associazione, un boia e un beccamorto che riparano ombrelli per poter vivere. Ma non era denaro che cercavamo, il nostro poter vivere era legato ad altre necessità e riuscimmo a sostenerci vicendevolmente per lunghissimo tempo.
La mia routine si fece più piacevole, iniziai a inventare piccoli rituali che mi rendessero agli occhi del popolo più gradevole, iniziai a riservare ai condannati dei piccoli gesti gentili, offrire una presa di tabacco o un bicchiere di vino divenne la mia firma, ma mi piaceva sorprendere, lasciai a volte il condannato parlare con i cari per un'ultima volta, altre volte ascoltai un ultimo desiderio o concessi loro di dire qualche parola. Scoppiò qualche tafferuglio a volte poiché i condannati sono spesso pieni di rabbia e non accettano la gentilezza di buon grado, ma questo mi lasciava indifferente, avevo un'idea di me ben precisa e a quella volevo tenere fede, non importava davvero la risposta degli altri. Infondo se avessi temuto il giudizio del popolo avrei indossato un cappuccio in testa, come erano soliti fare i miei predecessori in giorni lontani, non certo uno sgargiante mantello scarlatto. Io non avevo nulla di cui vergognarmi.
Mi tornavano alla mente ogni tanto le parole di Tessa e pensieri inaciditi mettevano allora in subbuglio lo stomaco, ma tutto intorno a me concorreva nel farmi tornare presto sereno e rassicurato.
Divenni un vorace lettore del Don Pirlone, un giornale satirico che i miei superiori non avrebbero visto di buon occhio ma che io amavo irrazionalmente. Mi piaceva la franchezza e il coraggio di quei giornalisti, ridevo dell'irriverenza dei disegnatori e amavo poterne parlare con Francesco che condivideva la mia inclinazione. La cosa che più amavo del giornale era la propensione nel dipingere il diavolo come un giustiziere, la logica del contrappasso faceva del demonio un giudice imparziale che condannava ciascuno in modo appropriato, che fosse cardinale o re, imperatore o Papa. Mi piaceva immaginarmi un po' come il demonio dipinto dal Don Pirlone, quand'anche il mio operato non risultasse giusto agli occhi degli uomini, come Tessa sosteneva, sarei comunque stato strumento per una giustizia più alta che agli uomini non era dato di comprendere.
Nonostante fossi certo che non l'avrei mai più rivista Tessa giunse di nuovo a sconvolgere la mia vita. La trovai un giorno ai piedi del patibolo con il volto sbiancato dopo aver assistito all'esecuzione e con uno sguardo insondabile. L'emozione mi tolse la voce e come qualche anno prima a Senigallia ci guardammo a lungo senza dire una parola. Non ci furono abbracci però questa volta solo poche parole pronunciate a bassa voce.
Era giunta a Roma da una settimana e immaginava di rimanervi ancora per il mese successivo, mi chiese di vederci l'indomani, voleva cancellare dagli occhi la scena appena vista prima di potermi parlare. Le spiegai che non mi era consentito entrare in città e nel suo sguardo lessi compassione e tenerezza, non so se fu speranza o orgoglio quello che mi scaldò il cuore, in ogni caso le diedi il mio indirizzo e me ne andai lasciandola lì, come lei aveva fatto con me in passato.
Il giorno dopo mi svegliai ben prima dell'alba e mi preparai con cura, non aveva senso tutta quell'emozione non ero più un bambino, erano passati poco più di 10 anni dall'ultima volta che l'avevo vista. Il mio cuore era ormai indurito e sordo all'amore, o così credevo, eppure il palpitare e la speranza dell'attesa mi fecero dimenticare presto le rughe sul viso e i primi capelli bianchi. Tornai ragazzo, tornai alle notti della Fiera come sempre, tornai a desideri carnali che credevo non mi appartenessero più. Attesi a lungo con ansia crescente, scesi in bottega e rimasi sulla soglia incapace di lavorare e incapace di distogliere lo sguardo dalla via, tanto che Francesco iniziò ad insospettirsi e predisse facilmente il coinvolgimento di una donna in quel mio strano atteggiarmi.
Quando la vidi avanzare tra quelle case ormai familiari per me, tutto assunse un'aria incantata. Lei non apparteneva a quelle strade acciottolate, a quelle vie strette, a quelle case alte, doveva essere un sogno. Eppure si diresse verso di me. Mi salutò senza sorridere e mi seguì in casa dopo aver salutato gentilmente Francesco.
Sapevo che se ci fosse stato qualcuno interessato alla nostra moralità, quel nostro nasconderci dietro porte chiuse sarebbe stato condannato senza appello, ma nessuno conosceva Tessa e nessuno avrebbe avuto il coraggio di obiettare sulla mia condotta, salii quindi le scale a cuor leggero, almeno questo riguardo.
Una volta entrati in casa Tessa iniziò a guardarsi attorno stupita, la casa era grande, pulita e ordinata, sapevo che potesse non sembrare la casa di un uomo solo.
Si affacciò ad una delle finestre e ammirò con gli occhi sgranati la maestosità di Castel Sant'Angelo. Fui grato al chiasso di Roma che copriva i suoni angoscianti che raggiungevano invece la casa con il silenzio della notte, io ero ormai accostumato a tale orrore ma la presenza di Tessa mi rendeva di nuovo tristemente consapevole delle brutture che mi circondavano, sperai che lei riuscisse invece ad ignorarle.
La feci accomodare e le offrii da bere. Il suo silenzio mi rendeva nervoso e iniziai a porre le solite domande i soliti convenevoli, che stonavano tanto tra noi due da darmi il mal di testa.
Ad un tratto chiese: “Come stai?” E fu una domanda vera, una domanda che pretendeva una risposta. Fui sincero, non nascosi niente, mio padre avrebbe riso della mia debolezza ne sarebbe rimasto disgustato. Un uomo non deve essere fragile e se lo è deve nasconderlo, altrimenti che razza di uomo può mai essere? Ma mio padre era ormai lontano, stava morendo, mia sorella Clara me ne aveva scritto tempo addietro e io ero in ogni caso divenuto migliore di lui, finalmente libero di essere ciò che volevo.
Mentre parlavo Tessa si era fatta più vicina fino ad arrivare ad essere in ginocchio davanti alla poltrona in cui ero sprofondato. Alzò una mano e mi accarezzò il viso dicendo: “Non sei più un bambino.”
Tremavo, e sapevo che anche lei poteva sentirlo ma non c'era niente che potessi fare per impedirlo,quindi dissi solo con voce altrettanto tremante: “Neanche tu lo sei. Sei sempre più bella.”
La vidi irrigidirsi e farsi indietro, tornò a sedersi sulla poltrona davanti alla mia e iniziò finalmente a parlare.
Mi disse che suo padre era morto e che Raniero aveva preso il suo posto, il controllo del fratello era divenuto opprimente così aveva preso denaro e gioielli ed era fuggita. Sperava di raggiungere Venezia e d'imbarcarsi per una terra lontana, non lo disse ma io sapevo che Madeira, il paradiso, era senza dubbio la sua meta segreta. Invece a Ferrara si era imbattuta in una allegra comitiva di Inglesi giunti in Italia per il Grand Tour, si era unita a loro ed era giunta a Roma, con una donna di nome Isabelle, aggiunse e fui io ad irrigidirmi allora. Mi alzai dalla poltrona sbraitando.
“E hai pensato bene di venire a Roma! Nella città del Papa! Credevo fossi cresciuta, credevo avessi messo un poco di giudizio, invece niente è cambiato, viziata e irriverente come sempre.”
Anche Tessa si alzò di scatto pronta a lasciare la casa ma non volevo vederla andare via di nuovo, sarebbe stato per sempre quella volta, ne ero certo. Le afferrai un braccio e ripresi a parlare con tono conciliante. “E' pericoloso, rischiate la tortura e chissà cos'altro. Non troppo tempo fa un uomo è stato condannato per sodomia, non oso immaginare cosa farebbero ad una donna.”
Tessa sembrava essersi calmata, si era voltata verso di me e nei suoi occhi potei leggere un'infinita tristezza. “Devi proteggerti, la strada che hai intrapreso è pericolosa, se questo è ciò che vuoi devi essere molto attenta.”
A quel punto appoggiò la testa contro la mia spalla e sospirò: “Non credo di avere scelta, ho sperato di averne, ma non è così. Sono un abominio, lo hai detto anche tu, ma non posso essere niente di diverso.”
Sentii la vergogna strapparmi la pelle dal viso, come avevo potuto essere tanto meschino?
Cedetti alla tenerezza e l'abbracciai, le accarezzai la testa e la schiena, la seta dei capelli e del vestito si confondeva tra le mie dita risvegliando la sensazione di essere immerso in un sogno. All'improvviso seppi cosa fare.
“Sposami.” Dissi all'improvviso e il suo viso, ad un tempo scioccato e divertito, divenne tanto simile a quello della bambina che conoscevo da fare male.
“Dico davvero, se mi sposassi saresti al sicuro dalle malelingue, sarei io il guardiano della tua condotta morale e sai che non ti farei mai del male.”
Tessa soppesò le mie parole senza allontanarsi da me, stringerla tra le braccia tanto a lungo è quanto di più eccitante sia accaduto negli ultimi 60 anni della mia vita.
“Ma tu verresti eventualmente coinvolto in uno scandalo.” L'obiezione esitante mi disse che la proposta aveva qualcosa di accettabile e sentii il corpo attraversato da una scossa.
“Finché rimarrò Mastro Titta, nessuno oserà procedere contro di me.”
Si allontanò a quel punto lasciando le mie braccia cingere l'aria deluse. Temetti di nuovo la sua condanna ma non fu disgusto quello che lessi quella volta nei suoi occhi bensì pietà e mi ferì altrettanto.
“Non posso farlo, tu mi ami.” Quella spiegazione era tanto semplice che colpì anche me. Non avevo mai parlato dei miei sentimenti ma non era stato necessario, lei aveva sempre saputo e allora perché non essere ancora una volta una delusione per mio padre ed essere completamente onesto?
“Certo, ma ti amerei comunque, preferisco non essere corrisposto e saperti al sicuro che non esserlo e temere per la tua vita.”
Un sorriso esplose sul tuo viso illuminando l'intera stanza. “Ne parlerò con Isabelle. La incontrerai? Ti piacerà, è una donna colta e intelligente.”
Rividi nelle sue parole l'entusiasmo delle nostre avventure estive e sentii il dolore depositarsi lento sul cuore, come un masso che affonda nell'acqua.
Prima di lasciarmi mi abbracciò ancora e mi posò un leggero bacio sulle labbra. Per lei fu un gesto leggero dettato dall'euforia di una nuova speranza, ma io sentii il cuore pronto ad uscire dalle labbra appena dischiuse.
L'intero incontro durò forse poco meno di un'ora ma come nei sogni il tempo era trascorso in modo bizzarro e aveva lasciato la sensazione di qualcosa di bello ma indefinito. Nel voler dare sostanza alla sensazione rischiavo di distruggere tutto e vederla svanire, ma non sapevo come mettere a tacere la speranza di vedere di nuovo Tessa far parte della mia vita, la speranza di allontanare per sempre la solitudine e nel modo migliore possibile.
Le incontrai qualche giorno dopo in una casa sul Gianicolo, una villa di gran lusso immersa nel verde e piena di ospiti provenienti da ognidove.
Nonostante i molti ospiti la casa era immersa nella quiete. Non seppi mai chi fossero i padroni di casa, nessuno mi accolse se non Tessa, inquieta e impaziente quanto me. La donna che rispondeva al nome di Isabelle, parlava una lingua rotonda e indecifrabile e quand'anche le parole usate erano a me note il suo modo di pronunciarle ne rendeva difficile la comprensione. Tessa sembrava abituata a quel modo di parlare insolito e sembrava aver appreso anche la lingua dell'isola di Albione, non dimostrava quindi le mie stesse difficoltà nel dialogare con la nostra ospite.
Anche i suoi modi sostenuti erano una barriera per me, non ero abituato ad una cortesia tanto artefatta e mi sentii presto a disagio e inadeguato. L'incontro fu fortunatamente breve e quando Tessa mi riaccompagnò al cancello sentii le mie speranze prendere corpo nelle speranze di lei.
Ricevetti alcuni biglietti da lei nei giorni successivi, il matrimonio sembrava sempre più una prospettiva reale, il pensiero era sopraffacente per me. Non solo il cuore traboccava di aspettative nonostante la natura poco romantica dell'accordo, ma da qualche parte il contadino che era in me esultava per essere riuscito a ribaltare le convenzioni e il proprio stato accingendosi a sposare la figlia del padrone.
Tutto in me concorreva a far crescere una felicità pura e perfetta sorda ai richiami della ragione e del buon senso, per non dire ai precetti di Dio. Tacqui a Francesco i miei propositi e questo fu l'unico gesto assennato che feci in quei giorni folli, lui attribuì comunque la mia allegria alla visita della bella signora ma non fece domande e gliene fui grato. Non era passato un mese quando giunse un altro biglietto da parte di Tessa, fu forse per la grafia insolitamente spezzata con cui il mio nome e indirizzo erano vergati che aprii la lettera con timore. Il presagio si dimostrò corretto, nella lettera vi era solo il ritaglio di un gazzettino e poche parole.
Il gazzettino riportava l'illustrazione di un'esecuzione che avevo portato a termine qualche giorno prima, nel disegno c'ero io e tenevo per i capelli e mostravo alla folla la testa mozzata di una donna.
Sul bigliettino vi era scritto solo: Non posso, mi dispiace.

Non ebbi mai più altre notizie da Tessa finché visse.
Ripresi la mia routine con più meticolosità che in precedenza, abbandonai ogni stravaganza nello svolgimento del mio ufficio, eccezion fatta per il mantello rosso con il quale continuai a sfilare per le strade di Roma. Divenni metodico e ordinato, quando dopo qualche anno il cardinale Consalvi tornò in carica fu orgoglioso di me e, come scoprii qualche anno più avanti, mi destinò una pensione che avrebbe dovuto sostenermi negli anni della vecchiaia o in ogni caso quando il lavoro sarebbe diventato troppo duro per me.
Accettai tutti gli incarichi che mi venivano proposti richiedendone anzi sempre di nuovi, viaggiai molto e portai a termine numerose esecuzioni, sono stato il più prolifico boia dello stato pontificio, dicono di me in questi giorni e non so ancora se l'intento sia celebrare o additare. Fui bravo nel mio lavoro come pochi, anzi, come nessuno.
Trascorsi la mia vita tra la forca, la mia stanza e la bottega dell'ombrellaio. Quando Francesco lasciò Roma per far ritorno a Napoli non provai nulla, ero già assuefatto a tutto, ma presi un aiutante perché il lavoro iniziava a farsi pesante e le giornate troppo lunghe. Nello scrivere queste memorie c'è forse un solo altro fatto da annotare, l'unica cosa che risalti in una vita sempre identica a se stessa, ma c'è da dire che in pianura un covone di fieno sembra una collina.
Circa dopo 15 anni dall'ultimo fatto narrato ricevetti una lettera da Senigallia, non era di Clara, sebbene dalla morte di nostro padre fosse diventata una corrispondente piuttosto costante, ma di Raniero. Dopo la notte in cui mi aveva consegnato a mio padre infiniti anni prima non avevo più avuto sue notizie, leggere il suo nome mi sorprese quindi e con ogni ragione.
Scorsi velocemente la lettera e scoprii che Tessa era tornata a casa 15 anni prima, aveva chiesto scusa e aveva finalmente acconsentito a sposarsi. La ricca dote le procurò presto diversi pretendenti, nonostante l'età avanzata e la vita non irreprensibile. Sposò un mercante, ricco ma non propriamente signorile e si trasferì a Camerino. Raniero scriveva perché quel lestofante aveva ucciso Tessa ed era in attesa di essere giustiziato.
La lettera non lo diceva ma io potei intuire che il delitto aveva preso le mosse dalla particolare inclinazione di Tessa di cui il marito doveva essere venuto a conoscenza, forse nel modo peggiore. Ciò che non capivo era perché Raniero avesse deciso di farmi avere la notizia. Pensare Tessa morta mi lasciò indifferente come era stato per la partenza di Francesco, unico amico della mia lunga vita a Roma. Leggendo la lettera e comprendendone il significato iniziai a credere che il mio cuore fosse già morto, ma anche questo pensiero mi lasciò indifferente.
Richiesi l'incarico e mi recai a Camerino. Il viaggio era ormai parte della routine della mia vita, ma questa volta non chiesi a Vincenzo, il mio giovane aiutante, di accompagnarmi.
Raggiunsi Camerino il giorno stesso dell'esecuzione, come era divenuta mia abitudine. Il patibolo era allestito ed era stata preparata una ghigliottina piuttosto rudimentale rispetto a quella che ero solito usare a Roma. Chiesi di poter usare l'ascia anziché quell'attrezzo mal funzionante e ovviamente venni accontentato. Avevo ormai ben più di cinquanta anni allora e avevo già giustiziato più di duecento persone, sapevo perfettamente come rendere un'esecuzione rapida e indolore. O come non farlo.
Sollevai l'ascia sopra la testa e vibrai un colpo potente, appena prima di affondare nel collo il braccio si fermò come se agisse di volontà propria, sentii le ossa spezzarsi e l'uomo gridare. Il sangue iniziò a zampillare allegro come una fontana in un giardino d'estate. Eppure il colpo non era stato decisivo, la testa era ancora attaccata al collo e l'uomo era ancora vivo, dai suoni che produceva sembrava stesse annegando nel suo stesso sangue. Occorsero altri due colpi come quello per staccare la testa dell'uxoricida dal suo stesso collo. Poi presi la testa e la mostrai alla folla tra il raccapriccio generale. Vidi Raniero ai piedi del patibolo lo sguardo limpido, non sembrava disgustato ma soddisfatto, avevo portato a termine la sua vendetta. Scesi dal patibolo e mi diressi verso di lui, non dissi una parola posai solo una mano sulla sua bella camicia bianca, imbrattandola con il sangue dell'assassino di sua sorella, poi mi allontanai senza dire una sola parola.
Tornai a Roma e ripresi la mia vita. Officiai ai miei doveri fino ai miei ottant'anni quando mi ritirai nella mia casetta e lasciai anche la bottega di ombrellaio. Lasciai tutto al mio aiutante. Vincenzo è un giovane semplice, non sa leggere e non si fa molte domande, vivrà probabilmente una vita felice, ho sentito che chiamano anche lui Mastro Titta, deve essere l'abitudine oramai dopo tanti anni, forse così anche il suo nome sarà salvo.
Passa da me ogni giorno, è un bravo figliolo, mi porta notizie dalle strade e il cibo che la governante dello stabile cucina per me da sempre. Non esco più di casa volentieri, preferisco rimanere alla finestra e aspettare. Non so cosa aspetto ma mentre lo faccio scrivo, nessuno leggerà mai volentieri le memorie di un boia, qualcuno magari le inventerà per dare di me un'immagine accettabile, l'immagine del boia senza cuore in cui mi hanno trasformato.
Non chiedo niente di diverso, se anzi potessi uscire dalla memoria di tutti sarei felice, scrivo queste pagine per me, perché la durezza del mio cuore di vecchio possa sciogliersi un po' ripensando a quando questa pietra che ho in petto era carne e sangue e palpitava e fremeva e voleva. Ripenso alla mia vita passata, alle occasioni sprecate e quelle colte al volo, ripenso a Tessa, a Iara e alla rigida Isabelle, ma soprattutto ripenso a mio padre.
C'è stato un tempo anni fa, in cui guardandomi di sfuggita allo specchio mi è sembrato di vedere lui, sono tornato indietro di scatto come se invece di essere allo specchio fossi in finestra e potessi, parlando in fretta, fermarlo ed invitarlo ad entrare. Quel misero fatto mi torna in mente spesso ora. Non somiglio più a mio padre, sono ben più vecchio del ricordo che ho di lui, ma ho l'impressione di condividerne il cuore di pietra. Ho iniziato a pensare che forse il disprezzo che mi ha riservato non fosse frutto della distanza che vedeva tra noi, ma della somiglianza. Ho iniziato a credere che mi abbia allontanato perché in me vedeva se stesso, la miseria che lo aveva consumato. Ciò che mio padre non poteva sapere è che agendo così mi avrebbe reso sempre più simile a lui, condannandomi ad un identica miseria.
E' notte ormai, i miei occhi sono ancora buoni ma alla luce mobile della candela fatico a distinguere le lettere su questo foglio. Lascio asciugare l'inchiostro e impilo i fogli che ho riempito oggi. Sullo scrittoio cerco altri fogli, piccoli vecchi e ingialliti. Li stringo in mano senza guardarli lascio invece lo sguardo vagare fuori dalla finestra, verso il cielo. So che ci sono delle stelle in alto ma non posso vederle da qui, Roma è un fiume di luci oramai e nascondono il cielo. Mi piacerebbe tornare a Senigallia e affogare nella luce di miriadi di stelle, mi piacerebbe sentire l'odore del mare impregnare la notte, desidero ardentemente una vita da contadino o almeno vorrei poter morire come tale. Ma questa è la mia casa ora, avrei dovuto fare scelte diverse, vivere una vita diversa per poter sognare una morte diversa. Abbasso gli occhi sulle mani che stringono due foglietti, una miniatura sgualcita e un foglio ingiallito con caratteri sbiaditi scritti sopra.
Non posso, mi dispiace.

 

 

E..caro Mastro Titta, dopo la Rivoluzione francese e l'Impero de Napoleone, che fecero i sovrani tornati a Vienna.?

Dissero: Giovanotti dalla Bastiglia a oggi non è successo niente, se ritorna a Luigi XI. E se rimisero le parucche.

Per cui annullarono tutto, la scienza, le scoperte, le invenzioni, tutto… meno che na cosa: la ghigliottina.

E' l'unica cosa al mondo oggi che non puzza de vecchio, de decrepito, è la ghigliottina.

Voi siete l'omo più moderno de Roma. A mastro Ti, l'avvenire è vostro
Bonanotte popolo.



4: boia nun passa ponte è un modo di dire romano che sta a significare che ciascuno deve rimanere al posto che gli è consono e prende le mosse dall'ordinanza che proibì per primo a Mastro Titta di attraversare il ponte e recarsi in centro città. Di contro “Mastro Titta passa ponte” è divenuto un modo di dire che indica che qualcosa di brutto sta per accadere.


Le citazioni che aprono e chiudono questa storia sono tratte dai dialoghi del film "Nell'anno del Signore"



E' sempre bello pubblicare la fine di una storia e in questo caso sono particolarmente soddisfatta. Questo raccontino è ben lungi dall'essere perfetto, ma scriverlo mi ha divertito ed appassionato e posso dire di apprezzare il risultato, per quanto senza dubbio migliorabile.

Grazie a Dollarbaby, per il contest che mi ha dato modo di dare sostanza a un'idea che mi tormenta da un tempo indefinito. Grazie soprattutto a quanti hanno letto fin qui.

A.

 

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