The Suburbs

di Fauna96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giugno ***
Capitolo 2: *** Luglio I ***
Capitolo 3: *** Luglio II ***



Capitolo 1
*** Giugno ***


The Suburbs
 

Giugno
 
La prima sigaretta dell’estate aveva sempre un sapore diverso rispetto a quelle durante l’anno, forse perché era fumata per semplice piacere e non per scaricare lo stress. Non che fosse più buona, insomma, uno mica fuma per il sapore. Era speciale, tutto qui.
Quell’estate non fu così. Tanto per cominciare, non ricevetti il solito predicozzo da Doppia D su quanto fumare fosse dannoso per la mia salute, quella degli altri eccetera, ma solo un’occhiataccia obliqua che mi sentii in diritto di ignorare. E comunque, al momento l’elefante nella stanza non era decisamente ‘Eddy che fuma’, proprio no. Quell’estate era quella in cui arrivarono i carri armati.
 
La mattina non c’erano e il pomeriggio sì, scuri e solidi contro il sole che picchiava, proprio all’imboccatura del cul – de – sac. Qualche anno prima, avere dei carri armati – carri armati! – praticamente sulla porta di casa avrebbe riempito i ragazzini che eravamo di ammirazione ed eccitazione, soprattutto Ed: si sarebbe precipitato dai militari a fare mille domande e probabilmente avrebbe persino chiesto come si guidavano, e se poteva provarci. Ma non eravamo più ragazzini, e Ed in quel momento si limitava a osservare gli uomini in divisa con occhi opachi e un braccio sulle spalle di Sarah. La quale non aveva fatto la rompiballe come al solito, ma aveva tenuto la bocca ben chiusa, stretta per la preoccupazione.
Ce ne stavamo seduti o in piedi a guardare da lontano, a cercare di capire cosa sarebbe cambiato nelle nostre vite. La risposta ovviamente era ‘tutto’, ma se avessimo chiesto a loro, sarebbe stata ‘niente’.
Notai che Nazz aveva gli occhi lucidi: senza dubbio stava pensando a Rolf, che non vedevamo da un anno e che in quel preciso momento avrebbe potuto sia esplodere per una granata sia giocare a carte con i suoi commilitoni. Di recente mi sembrava di riuscire a pensare solo per contrasti.
All’inizio, quand’eravamo tornati da scuola ancora euforici per i festeggiamenti dell’ultimo giorno, e avevamo visto quelle masse bloccarci il passo, era serpeggiata un’irrazionale speranza di rivederlo, perché forse era tornato e quei dannati carri armati non significavano nulla... Ma Doppia D aveva mantenuto un’espressione esitante e il cappello basso sulla fronte e io avevo imparato da tempo a fidarmi della sua cautela. Infatti, gli animi più esuberanti erano stati freddati dalla richiesta di nomi e documenti e da occhi non cattivi, ma semplicemente gelidi e indifferenti.
Gettai via il mozzicone con stizza: la prima sigaretta d’estate non era mai così breve, ma d’altra parte io il primo giorno d’estate non ero mai così... così... arrabbiato? Sì, cazzo, ero arrabbiato con me stesso perché non sapevo dove fosse finita la maledetta faccia tosta che mi era costata punizioni e risse a non finire; ed ero arrabbiato con tutti gli altri, che facevano presto a parlare quando si trattava di linciare verbalmente il sottoscritto e che ora si erano ingoiati la lingua. Perfino quel cazzone di Kevin: dov’era finita la sua voce grossa, eh?
Chissà se anche gli altri provavano la stessa rabbia per quell’impotenza che ci teneva bloccati su uno stupido marciapiede, o riuscivano solo ad essere spaventati. Se conoscevo bene Doppia D (e lo conoscevo) anche lui era incazzato nero: anni spesi a cercare di istruire noi zucconi con parolone come libertà di pensiero e distopia, discorsi preparati con cura per quegli stupidi dibattiti scolastici a cui partecipavano sì e no tre persone e, improvvisamente, eccolo lì che non riusciva, anzi, non poteva tenere testa a qualche idiota in uniforme. Non che avrebbe fatto qualcosa prima di aver capito meglio la situazione: Doppia D prima si informava, poi agiva e, di solito,distruggeva. Questa volta, però, avrebbe potuto studiarsi a memoria la Costituzione e non gli sarebbe servito a nulla: restavamo un branco di ragazzi rinchiusi in un cul – de – sac.
In automatico mi accesi un’altra sigaretta, quasi bruciandomi le dita con l’accendino orrendo a pois lilla che avevo preso senza permesso a Lee. Piuttosto inaspettato e sgradevole affiorò il pensiero che avrebbero potuto tagliare completamente i contatti con chiunque abitasse fuori dal centro abitato, ma lo scacciai. Non eravamo in un lager tedesco, non avrebbero appiccicato un’etichetta su di loro solo perché vivevamo in una roulotte scalcinata. Però... era strano che quantomeno May non fosse qui a tubare con Ed: da quando si erano messi insieme (anni prima, mi duole dirlo) erano diventati un duo appiccicoso e irritante, a cui ero stato costretto a dare la mia benedizione. Cosa non si fa per amicizia.
Gli altri ragazzi si stavano lentamente disperdendo, silenziosi e cupi, e guardandoli fui preso dalla voglia di scuoterli uno per uno perché non era possibile, perché...
- Eddy – senza accorgermene, ero balzato in piedi, senza per altro fare qualcosa di più che stringere i pugni; Doppia D e Ed mi fissavano, ancora accovacciati per terra: eravamo rimasti solo noi tre, come sempre. Sentendomi un idiota, tornai a sedermi in mezzo a loro.
- Ho paura – disse Ed con naturalezza. E in quel momento sentii una bolla di gratitudine e affetto per quello scemo, perché aveva detto le parole che mi bruciavano in gola ma che mai avrei potuto pronunciare.
- Anche io, Ed – mormorò dolcemente Doppia D – E anche Eddy - mi lanciò un sorrisino che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere canzonatorio, ma che venne fuori stiracchiato. Gli risposi con una smorfia poco convinta.
Per la prima volta dopo anni, mi domandai cosa avrebbe fatto mio fratello.
 
Sapevamo bene che la situazione nel mondo non era rosea: i giornali arrivavano anche a Peach Creek e noi non eravamo così menefreghisti. Sapevamo delle rivolte per strada e delle conseguenti stragi, sapevamo del governo vacillante e dei pestaggi di manifestanti pacifici, sapevamo tutto (o almeno, tutto quello che al pubblico era dato sapere)... ma bisognava considerare che eravamo nati e cresciuti a Peach Creek, il cui liceo non aveva neppure il metal detector e il cui più grande scandalo era considerata ancora la nostra scappata di casa anni prima. Per cui le notizie ci scivolavano pigramente addosso e sì, certo, ti dispiaceva per quel povero bastardo a cui avevano sparato per strada, ma era successo lontano, capite: non faceva parte delle nostre vite.
Poi a Rolf era venuta la brillante idea di unirsi all’esercito e all’improvviso ci eravamo resi conto di essere stati degli idioti ciechi. O meglio, Doppia D se ne era reso conto e ce lo aveva fatto presente... ma di nuovo, ottenne il nulla quasi. E allora? D’accordo, Rolf se ne andava, ma non l’avrebbero certo mandato in Iraq o in Siria, non sarebbe successo niente...
Forse non avrei dovuto essere troppo duro con me stesso e gli altri: in fin dei conti, noi, come la maggior parte della gente, non avevamo il potere di fare nulla; e se fossimo stati pazzi abbastanza da andare in città e combinare qualcosa, la polizia ci avrebbe spaccato la testa a randellate. Potere al popolo un paio di palle.
L’anno successivo alla partenza di Rolf era stato normale, tutto sommato: mio padre iniziava a concedermi la sua macchina, mi ero messo e lasciato un paio di volte con una tipetta carina della mia classe di scienze, io e gli altri avevamo combinato le solite stronzate. Era stato un anno... bello, a ripensarci ora, col fumo dei carri armati sul collo, ma noi (ok, io soprattutto) ci eravamo lamentati della noia, dei nostri genitori, dei mocciosi... Chissà, magari la prossima volta mi sarei lamentato del cratere fumante che aveva inghiottito casa mia. O non mi sarei lamentato affatto.
- Non serve a niente rimuginare, Eddy – commentò pacato Edd da sotto il cappello. Aveva parlato così poco, quel pomeriggio.
- C’è altro che posso fare? Anzi, che possiamo fare? – replicai, acido. – Avevi ragione, va bene? Quando ci dicevi di leggere i giornali e queste cagate qua. Se fossimo stati più informati... –
- Non avremmo potuto fare nulla – Doppia D alzò lo sguardo – Saremmo comunque andati avanti con le nostre vite, com’è giusto che sia –
Stavo per fargli notare che si contraddiceva da solo e di smetterla di confondermi facendo così, quando Ed ci interruppe: - Mi accompagnate da May? Sono preoccupato –
Era la cosa migliore da fare, dopotutto: se fossimo rimasti ancora lì, avrei finito per picchiare Doppia D, che con la sua pacatezza mi faceva salire ancora di più il nervoso, per poi sentirmi terribilmente in colpa cinque secondi dopo, come sempre.
Dai tempi in cui le sorelle Panzer ci inseguivano brandendo lucidalabbra era passata un bel po’ di acqua sotto i ponti. Se all’inizio del liceo eravamo ormai sotto una tregua stabile, anche se piuttosto gelida, da quando a Ed erano esplosi gli ormoni, ci eravamo trovati invischiati con loro. Non potevamo certo abbandonare il nostro povero, ingenuo amico nelle grinfie di quelle arpie, perciò a mali estremi... Solo che, con mia incredulità (e recalcitranza) era accaduto l’impensabile: avevamo trovato le Panzer... simpatiche. Insomma, Doppia D era un caso a parte perché avrebbe fatto il gentile pure con un maniaco armato di bazooka, ma io... nessuno mi avrebbe mai costretto a fare il gentile con chicchessia, specialmente quelle pazze, e nessuno mi avrebbe trovato in loro compagnia di buon grado... questo per qualche tempo. Poi ero stato costretto a capitolare perché... perché senza la minaccia di abbracci e sbaciucchiamenti (che, stranamente, a quindici anni apparivano molto meno spaventosi che a dodici) era divertente passare del tempo con loro, uscirci la sera, insomma, essere amici.
A dispetto delle mie ridicole paure, nessuno arrivò a sbarrarci la strada verso il campo delle roulotte, né tantomeno trovammo sbarramenti di filo spinato o sciocchezze della serie V per Vendetta: era tutto schifosamente come sempre.
Le delicate fanciulle non si mostrarono troppo turbate dalle notizie: erano donne di mondo, loro, non come noi marmocchi di zucchero, e non sarebbe stata la prima volta che avevano problemi per via della roulotte.
- Qui non si tratta di un poliziotto arrogante – spiegò paziente Doppia D, ignorando con notevole sangue freddo la scollatura che Marie gli sbatteva in faccia. – E temo che il problema non si limiterà a qualche autorizzazione o meno. Tutto il cul – de - sac sarà chiuso, senza eccezioni, ma probabilmente voi sarete trattate peggio – stava per aggiungere altro, ma Lee sbatté un pugno sul tavolo e sbraitò un ‘Ci provino!’, subito incoraggiata dalle sorelle. Tant’è: con le Panzer era sempre difficile avere una conversazione seria e sensata, ora come allora.




NdA: Salve! Questa storia vuole essere una sorta di esperimento a cui sto lavorando da un po'. Sono stata molto ispirata dalle canzoni e dai video dell'album The Suburbs degli Arcade Fire, ma essenzialmente, siamo in un'America a pezzi dopo l'11/09/2001, con guerra all'interno e fuori il Paese; la storia è ambientata nel 2005 circa, calcolando che gli Ed avevano undici o dodici anni nel 1999.

Edit del 7/03/2017: quando ho pubblicato ero abbastanza di fretta e mi sono dimenticata di mettervi il link all'album degli Arcade Fire: https://www.youtube.com/watchv=9oI27uSzxNQ&index=2&list=PLLYRSl-pvlzCY4TcMoNBG8SD8LYWNud7M
 Questo invece è per il corto diretto da Spike Jonze Scenes from the suburbs che si basa direttamente sull'album (e a cui mi baso io ^^): https://vimeo.com/36170225

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Capitolo 2
*** Luglio I ***


Luglio I
 

Le torce puntateci dritte negli occhi ci facevano lacrimare, mentre venivamo costretti con le braccia dietro la schiena. Non era più doloroso di qualunque cosa mi avesse mai fatto mio fratello, dovevo ammetterlo, e anche la paura e il rumore sordo nelle orecchie mi ricordavano quegli anni lontani che avevo seppellito con cura in un angolino buio della mente. Dopo la nostra grande avventura, ne avevo parlato soltanto due volte: con Ed e Doppia D, qualche tempo dopo, durate una delle nostre serate, perché loro avevano il diritto di sapere dopo avermi assecondato in quella follia; e poi, più recentemente, la sera del Ballo d’Inverno, che aveva compreso quantità massicce di alcol bevute di nascosto, una brutta litigata con la mia ragazza di allora e Lee Panzer. Ma questa è un’altra storia.
Durante giugno non era successo granché, con nostra sorpresa e sollievo: sembrava quasi una normalissima e noiosissima estate, coi carri armati che divennero ben presto parte del paesaggio e da cui ogni tanto spuntavano militari che ci chiedevano i documenti senza un’apparente ragione. Non ci avevano infastidito più di tanto, nemmeno le ragazze; sembravano automi programmati.
Quella sera, eravamo usciti solo noi tre, a piedi per il quartiere: cazzeggio puro e semplice, da quei dodicenni troppo cresciuti che eravamo. Ed aveva persino le tasche piene di caramelle, figuratevi.
Obiettivo della serata era estorcere a Doppia D se avesse concluso o meno con Marie: era ormai un anno e passa che si giravano attorno come un gatto indemoniato e un topolino indifeso; ovviamente, era piuttosto chiaro chi fosse cosa, ciononostante, il corteggiamento non aveva procurato crisi di panico o altro che non fosse un tutto sommato contenuto imbarazzo. Non ero esattamente d’accordo nel vedere i miei amici catturati all’amo da quelle pazzoidi, ma Doppia D alle prese coi propri istinti maschili era sempre stato un bello spettacolo. Per fortuna, uno degli Ed si manteneva libero e sano.
Forse ci eravamo avvicinati troppo al confine del cul – de – sac, distratti dal buio e dalle nostre scempiaggini, e ci eravamo scordati del coprifuoco, dei permessi per uscire, del fatto che fossimo praticamente un avamposto militare...
Ricordo solo che un momento prima Ed e io cantilenavamo come due bambini strapazzando Doppia D, un momento dopo venivamo strappati gli uni dagli altri, le facce premute contro la rete e gli occhi lacrimanti.
Qualcuno mi gridò nelle orecchie qualcosa che, inebetito com’ero, non capii, ricevetti uno scrollone per non aver risposto e sentii Doppia D accanto a me farfugliare il mio e il suo nome. Avevo la faccia voltata, perciò non riuscivo a vedere né lui né Ed, solo le maglie metalliche arrugginite.
- Non abbiamo i documenti – balbettò Doppia D, la voce soffocata. – Siamo usciti solo... solo per... – capii che stava andando nel panico e che io non potevo aiutarlo: mantenere il sangue freddo, purtroppo, non è mai stato uno dei miei pregi, per quanto mi fossi sforzato negli anni.
Saremmo probabilmente rimasti lì come due idioti per tutta la notte se non ci fosse stato Ed. La sua voce era ferma nonostante fosse anche lui schiacciato da probabilmente quattro uomini, considerata la sua mole. – Stavamo solo facendo un giro – disse – Non ci siamo accorti di essere arrivati fin qua –
Calò il silenzio, rotto solo dai nostri respiri affannati e dal tamburo del mio cuore nelle orecchie. Sentivo in bocca il sapore del sangue: dovevo essermi morso la lingua.
La morsa che mi stringeva le braccia si allentò quel tanto da permettermi di respirare e venni voltato dalla parte opposta: un gruppetto di militari ci scrutava, i visi in ombra dietro i fasci delle torce. Ci portarono loro a casa.
 
Mi rendo conto di non essere un granché come narratore, ma l’intellettuale del gruppo è sempre stato Doppia D; sono bravo a indorare la pillola e a chiacchierare e raggirare, ma raccontare richiede una certa organizzazione mentale che evidentemente io non possiedo. Questo per dire che forse avrei dovuto iniziare dal vero inizio, cioè dall’11 settembre 2001.
Siccome immagino non abbiate passato gli ultimi anni in Antartide, saprete cos’è successo quel giorno, ma saprete quel genere di cose che scrivono i giornali: misure altissime di sicurezza prese in tutti gli Stati, provvedimenti vari eccetera; potrete solo immaginare come questo abbia influito sulla vita di un americano medio e, nel nostro caso, su quella di ragazzini che non sapevano neanche il significato di “kamikaze” (con una notevole eccezione). Non ho voglia di elencare tutti i minimi cambiamenti: vi basti sapere che la nostra prima adolescenza era passata sotto una cappa di paura e sospetto, dove ogni faccia nuova era accuratamente studiata, specie se non appartenente alla razza caucasica.
Fin qui, prevedibile; non bello, non giusto, ma prevedibile e, soprattutto, poco rilevante a Peach Creek, dove, ripeto, non avevamo nemmeno un metal detector a scuola perché, sinceramente, non si capiva quale terrorista avrebbe mai potuto prendere di mira uno squallido liceo di periferia. Le cose avevano iniziato a prendere una brutta piega con le proteste in città (proteste giustificate, a mio avviso), proteste che fecero presto a diventare pestaggi e guerriglia urbana. A noi ragazzi fu proibito uscire dai nostri confini di periferia e le notizie si fecero molto più vaghe: era come ricevere bollettini di guerra da un remoto stato africano, mentre in realtà avremmo potuto tuffarci nella mischia con venti minuti di macchina.
Ora, non saprei proprio dire se questa nostra lontananza dal pericolo ci abbia fatto bene o male. Non so nemmeno dire se, ci fossimo noi trovati in mezzo alla guerriglia, saremmo sopravvissuti, cosa saremmo diventati. Non mi ero nemmeno formato un’opinione quando Rolf ci annunciò che si sarebbe unito all’esercito, e la cosa mi aveva mandato seriamente in confusione. Ricordo bene le parole di Ed: - Non credo che vorrei mai diventare un soldato, anche se mio padre vorrebbe. Rolf sbaglia - . Non era un mistero che il padre di Ed pensasse che una sana scuola militare avrebbe trasformato suo figlio in un vero uomo; io pensavo che invece ne avrebbe tratto più beneficio Sarah, ma quella era solo la mia umile opinione. Comunque, Ed non aveva mai espresso una totale condanna sulla carriera militare, fino a quel momento. – Non voglio fare del male alle persone, specie se hanno ragione – aveva detto, guardandoci con i suoi occhi blu da bambino.
E in quel momento, mi sentii veramente, veramente una merda a confronto di Ed, che poteva essere tonto e tutto quello che volete, ma aveva dei principi in quella sua testa di lampadina, sapeva cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Doppia D, ovviamente, avrebbe potuto tenermi un seminario di etica ed era comunque una brava persona, una volta eliminata la pedanteria.
E io? Io non lo sapevo, se ero una brava persona. Probabilmente sì, nonostante il fatto che mi piacesse mentire e imbrogliare; per la cronaca, erano anni che avevo lasciato perdere le truffe ai danni dei ragazzini del quartiere ed ero anche migliorato parecchio a livello personale. Ma c’erano cose che... non so. Forse ero troppo simile a mio fratello per essere una brava persona.
Una cosa, però, mi era chiara: noi non eravamo dei terroristi, non meritavamo di essere immobilizzati e minacciati. Lo feci presente, in modo più volgare, la mattina dopo ai miei amici, quando la paura si era ormai scolorita nel sole e mi sentivo incazzato abbastanza da andare a prendere a calci in culo quei manichini in uniforme.
- Eddy, non gridare – mi sibilava Doppia D, supplicante. – Potremmo scrivere una denuncia formale –
- Denuncia?! – berciai, mentre Ed lanciava a Doppia D uno sguardo di compatimento; almeno qualcun altro era consapevole del fatto che le formalità ormai esistevano solo per sentito dire. Non che fossero mai servite a qualcosa comunque.
- Doppia D, quelli non sanno nemmeno leggere, te lo dico io! –
I nostri discorsi sull’argomento si erano ridotti a un cane che si morde la coda, dato che, oggettivamente, non potevamo fare nulla al riguardo e quindi ce la prendevamo l’uno con l’altro.
Una o due volte mi era balenata l’idea di prendere e andare in città: a fare cosa non lo sapevo con certezza, ma qualunque cosa, la violenza, il sangue, sarebbe stato meglio della cappa afosa che gravava sopra le nostre case, che sarebbe esplosa senza preavviso; almeno in città quello era uno stato costante, non so se mi spiego. Probabilmente no, e infatti non ero riuscito nemmeno ad articolare la mia idea ai miei amici.
 
La notte prima, quando i soldati ci avevano riportato ciascuna a casa propria, ero filato in camera mia col cuore che batteva contro le costole e i palmi sudati e brividi gelidi lungo la spina dorsale. Era sempre così: il contraccolpo arrivava dopo, per me, come se durante il momento esatto dello shock non riuscissi a catalogare con precisione le mie emozioni. Oppure era un residuo di quando ingoiavo le lacrime per ore, a volte, non so: non sono mai andato da uno psicologo, escludendo Doppia D che si basava giusto su qualche trattato del dottor Freud.
Il fatto che ci avessero divisi peggiorava solo la situazione; vidi Ed fare un mezzo gesto nei miei confronti come se avesse voluto avvicinarsi, ma lo stavano già spingendo verso casa sua e io non volevo certo aggrapparmi a lui come un moccioso in lacrime, per quanto ne sentissi il bisogno. Avevo letto su internet che le persone nella “mia situazione” evitano il contatto fisico; io invece lo cercavo, anche se solo di alcune persone e in modo discreto. La presenza di Ed e Doppia D era sempre confortante e sentirli fisicamente accanto a me durante certi periodi... mi aiutava, ecco.
Per fortuna, non dovetti stare troppo da solo, almeno non virtualmente. Qualche anno prima, Doppia D era riuscito in qualche modo a modificare le nostre linee telefoniche per permetterci di parlare tutti e tre contemporaneamente, e per fortuna io avevo il mio telefono personale in camera: ero riuscito a stento a sfuggire alle grinfie dei miei.
- Tutto bene, Eddy? –
- Sì – risposi, stupendomi per primo della fermezza della mia voce. – Voi? –
- Qualche ammaccatura – ammise Doppia D, mentre Ed gli parlava sopra, creando un’interferenza che probabilmente riuscivano a sentire per tutto il quartiere. Alzai gli occhi al cielo e sorrisi, grato del buio che mi avvolgeva: persino nella mia stanza, mi sentivo sempre più al sicuro nell’oscurità, con i contorni delle cose smussati, illuminati appena dalla mia vecchia lava-lamp.
Una delle cose che mi è sempre piaciuto fare sono le chiacchierate senza né arte né parte che saltavano fuori con gli altri: potevano avvenire di pomeriggio o a tarda notte, ma avvenivano sempre quando ne avevo bisogno. Non penso di aver mai detto a quei due quanto avessi bisogno di loro, ma penso anche che lo sapessero meglio di me.
 
 




Ahem, in questo capitolo credo di aver trattato degli argomenti pesantucci, soprattutto il trauma (?) di Eddy. Ammetto di non essere un’esperta, quindi mi sono mantenuta sul vago, però è chiaro che crescere terrorizzati dal proprio fratello maggiore non è granché come esperienza.
All’inizio, avevo pensato di dividere la storia in tre capitoli (giugno, luglio, agosto) ma ho dovuto dividere questo per forza a metà, visto che c’è ancora parecchio di cui parlare; e probabilmente dividerò in due anche agosto.
Grazie mille a Elis_06 e karma neutral che si sono presi la briga di recensire! E a chiunque abbia letto :) A presto!

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Capitolo 3
*** Luglio II ***


Luglio II

Avevo iniziato a fumare a quindici anni, più o meno; avevo sempre pochi soldi, per cui cercavo di limitare il numero di sigarette o scroccarle ad altri. Fu Lee Panzer a insegnarmi a rollare le sigarette (e qualche volta anche altro) un pomeriggio in cui sotterrammo l’ascia di guerra.
Come mi pare di avere già detto, non ero stato affatto felice della coppietta May – Ed e nulla, credevo, avrebbe mai potuto farmi cedere: avere un rapporto semi-civile con le Panzer? Fattibile, se si fossero comportate bene. Amicizia? Relazioni più intime? Nemmeno per un intero negozio di caramelle.
Nonostante il mio fermo disgusto, però, ricordo di aver provato uno strano rimescolamento alle viscere tutte le volte che vedevo Lee circondata da altri ragazzi in corridoio. La prima volta eravamo all’inizio del liceo, gli inseguimenti erano finiti da qualche tempo e quindi non mi sarebbe dovuto fregare niente di lei... Non sapevo perché all’improvviso mi trovassi infastidito da una situazione che non mi riguardava affatto.
Quell’offerta di pace un annetto più tardi mi scombussolò altrettanto. Perché mi offriva il suo prezioso tabacco? E perché io accettavo e tentavo addirittura di intavolare una conversazione civile con lei?
In verità, avevo sempre saputo quanto io e Lee fossimo simili nel carattere, nell’essere i capi del nostro gruppetto e nel volerlo proteggere a tutti i costi perché rappresentava la nostra unica famiglia (letteralmente per lei). Lee però era più coraggiosa di me e più sfacciata. Picchiava anche più forte di me, ovviamente.
Senza la sua offerta, dubito che avrei mai mosso un passo nella sua direzione, più per orgoglio infantile che per altro. O forse anche per residui del vecchio imbarazzo che negli ultimi tempi aveva contrassegnato i nostri, ehm, incontri.
Ora credo ci potessimo considerare amici, confidenti, soprattutto dopo che le avevo raccontato molte cose su di me e mio fratello. Vero, quella sera ero un po’ ubriaco, ma non abbastanza da non rendermi conto di quel che dicevo e a chi lo dicevo: avevo voluto aprirmi con Lee, che lei sapesse, perché non mi avrebbe mai giudicato. Era una brava persona, tutto sommato, anche se metteva sempre troppo rossetto e imprecava così tanto che un carrettiere sarebbe arrossito. Quando l’aveva conosciuta, mia madre era inorridita, anche perché Lee aveva il terribile vizio di presentarsi a casa della gente per ragioni insulse e senza preavviso. Non ti saccheggiava il frigo come Ed, ma era comunque una presenza destabilizzante. Ovviamente, passato l’iniziale shock, lei e mia madre erano diventate grandi amiche, legando in modo particolare su come mettermi in imbarazzo un paio di volte al minuto.
Insomma, Lee esisteva prepotentemente nella mia vita, ma in modo ben diverso che a dodici anni; per cui non persi troppo tempo a farmi pippe mentali e, il giorno dopo la nostra disavventura, la chiamai. Sentivo di aver bisogno del suo caratteraccio per insultare a modo la situazione di merda in cui eravamo.
Mentre eravamo appollaiati su una staccionata, non mi presi neanche la briga di dissimulare il fatto che le fissassi le gambe nude: tanto per cominciare, a Lee faceva sempre piacere ricevere complimenti anche impliciti, e poi ormai eravamo oltre queste formalità. Per di più, ero single, lei pure, quindi chi se ne fregava? Lee era una bella ragazza; credo fosse sempre stata carina, ma all’epoca certe cose non le guardavo (più o meno). Ma, anche se a diciassette anni certe cose le guardavo eccome, mi era difficile descrivere ciò che Lee mi procurava. Era divertente e facile passare del tempo con lei, certo, ma... le sue sorelle la chiamavano “tensione sessuale irrisolta”; i miei amici non si esprimevano perché erano decisamente troppo buoni.
Comunque, sfogarmi con Lee mi fece bene: io mi infervoravo, lei si infervorava con me e alla fine la scazzatura sbolliva a forza di urla, sue e mie. Non penso fosse un metodo proprio salutare, ma era efficace.
Alla fine della tirata, mi rilassai e mi lascia scivolare sul marciapiede, fissando Lee in attesa: solitamente a questo punto estraeva la sua inesauribile scorta di tabacco e io ne approfittavo. Il cielo era ancora chiaro ma l’afa del giorno iniziava appena a rinfrescarsi.
- Se magari mi restituisci l’accendino potrei fare qualcosa – abbaiò Lee all’improvviso, quando ormai avevo abbandonato le speranze verso la sua generosità.
Merda. Se n’era accorta, allora; fortunatamente (per me) avevo infilato a forza l’accendino nel portafoglio e lì era rimasto. Glielo lanciai e lei mi sibilò un ‘Prego eh’ che poteva apparire velenoso.
- Nessuno ti ha detto nulla – le feci notare sogghignando, e con quel commento mi giocai la sigaretta. Rimasi a bocca asciutta a fissare i riccioli di fumo che volteggiavano sopra la testa di Lee.
- Ci verresti in città con me? – mi chiese quando era ormai a metà della sigaretta.
La fissai con espressione vuota. – In città? – ripetei – A fare? –
Scrollò le spalle. – Che cazzo ne so. Ma dappertutto è meglio di qua. Non verrai a dirmi che bell’atmosfera c’è, dopo mezz’ora di insulti.
Sospirai. – Ci ho pensato anch’io in realtà – confessai. – Pensavo di andarci, pur con tutto il casino che c’è... meglio di aspettare qua seduti. E’ snervante: non so neanche cosa stiamo aspettando –
- Stronzate. Stiamo aspettando che ci scarichino addosso un mitra, Eddy –
Da ragazzina, gli occhi di Lee erano costantemente coperti dai boccoli rossi; col tempo aveva imparato a raccogliere i capelli, tirarli indietro, star meglio insomma. In quel momento, però, aveva i riccioli scompigliati sulla fronte esattamente come tanto tempo fa, e non riuscivo a capire con esattezza la sua espressione.
Non sapevo neanche che espressione avessi io, a dire il vero; Lee mi diede un buffetto sulla guancia. – Pensavi davvero fossero qua per distribuire caramelle, ometto? –
Le lanciai un’occhiataccia. – Non siamo in un film, Lee. Altrimenti tu saresti già chiusa in un campo di lavoro –
Mi diede uno spintone che mi mandò gambe all’aria. La delicatezza fatta a persona, non c’è che dire. Cercai di ricambiare, ma Lee è sempre stata molto più manesca del sottoscritto; unica mia soddisfazione degli ultimi anni era averla finalmente superata in altezza di qualche magro centimetro.
Quando ritrovai l’equilibrio, cercai qualcosa di sarcastico con cui ribattere, ma lei non me ne diede il tempo: - Stasera passi  a prendermi per le nove e mezza – Non era una domanda.
- Uh – risposi, molto brillantemente.
 
Non è che io e Lee non fossimo mai usciti insieme solo io e lei, anzi; forse proprio per questo mi ero accorto subito che quell’ordine (perché di ordine si trattava) supponeva una sera diversa dalle altre. Certe cose, le ragazze te le fanno capire, c’è poco da fare; e tu, in quei casi, puoi solo stare lì ad annuire come un idiota.
Da un certo punto di vista, era strano che io e Lee non avessimo già fatto... qualcosa. Non metterci insieme, questo no, ci saremmo scannati nel giro di due giorni... Quindi, era strano che mi avesse richiesto un appuntamento a tutti gli effetti. Perché era un appuntamento, vero? Io seguivo un rituale scaramantico per le mie uscite galanti: dovevo seguirlo anche in questo caso? Azzardare addirittura un paio di mutande decenti?
Siccome un po’ di fortuna con Lee non faceva mai male, finii per eseguirlo alla perfezione. No, chiaramente non posso dirvi in che consiste, se no perderebbe tutta la sua efficacia.
Non riuscii però a dire nulla ai miei amici: cosa avrei dovuto annunciare, esco con Lee Panzer come ho oggettivamente fatto negli ultimi anni? O, peggio, penso che sia un appuntamento e lei potrebbe piacermi sul serio come ragazza? No, non era nemmeno da prendere in considerazione, e poi non so se avrebbero capito la situazione. Nel senso, loro non avevano visto la sua faccia quando mi aveva ordinato di passarla a prendere.
Siccome era sempre meglio non farla aspettare, mi presentai spaccando il secondo al parcheggio delle roulotte, come avevo fatto innumerevoli volte. Senza i palmi sudati, però.
Quando Lee si avvicinò, vidi che indossava una gonna. Oh cazzo.
Mi fissò (fortunatamente, non dall’altro in basso: mi aveva risparmiato i sandali con la zeppa) e io cercai di sorriderle nel modo più strafottente e affascinante che mi riuscì. Giusto per la cronaca, credo di aver fallito miseramente.
Non ricordo dettagli particolari della prima parte della serata, quindi immagino non ci fossimo comportati in modo troppo diverso da come eravamo soliti.
Questa volta feci in modo di stare ben attento a non allontanarmi troppo dai confini non dichiarati del nostro piccolo campo militare e che, per fortuna, comprendevano il campo roulotte.
- Oh, ma prima o poi li restringeranno e noi saremo fuori – commentò in tono leggero Lee – Credo di averti già detto che sono dei grandissimi figli di puttana. Ma io non ho intenzione di star lì ad aspettare –
Feci un verso poco educato. – E dove pensi di andare? –
- Te l’ho detto, in città –
Mi fermai, e vidi che non stava scherzando né parlando di quella come una remota possibilità: Lee aveva davvero intenzione di andarsene e ciò voleva dire che tutte e tre le nostre psicopatiche preferite sarebbero scomparse dalla circolazione: Lee si sarebbe fatta staccare una gamba piuttosto che lasciare indietro May e Marie.
- Ci vieni con me, sì o no? – Aveva gli occhi verde chiaro, da gatto, con qualche venatura azzurra. – Tu e gli altri due, ovviamente. La famiglia è famiglia –
Cercai di sogghignare, ma era inaspettatamente difficile in quel momento: avevo un nodo in gola.
- Siamo una famiglia? Da quando? –
Com’è ovvio, non era affatto la prima volta che mi baciava; era la prima volta che lo faceva essendo entrambi cresciuti e decisamente consenzienti. Il lucidalabbra era appiccicoso e mi lasciò un sapore amarognolo e un profumo di ciliegia.
Continuai a baciarla finché non glielo tolsi tutto.
 
Quando l’avevo rivista dopo la Grande Fuga (e la conseguente Grande Punizione) era stato un incontro casuale. Non l’avevo notata all’inizio, ed era poi troppo tardi per fuggire; per una volta, però, il mio terrore era più dovuto all’imbarazzo per la scena patetica a cui aveva assistito, che per altro.
Avevo le orecchie in fiamme già da qualche secondo quando Lee mi afferrò per la spalla. – Stai bene, tu? – Nessuna moina, niente abbracci appiccicosi: solo quella domanda, sinceramente preoccupata, e una stretta solida.
Annuii. – Voi? – gracchiai, con qualche secondo di ritardo – Mio fratello è... può essere... –
- Una merda – tagliò corto Lee e io, che all’epoca mi astenevo ancora da parolacce e affini, provai un moto di ammirazione. – Non ti preoccupare. Sappiamo come trattare quelli come lui –
Avrei scoperto solo molto, molto più tardi che il padre di Lee era uno che alzava le mani, e lei aveva imparato presto a non avere paura di lui né degli altri uomini che sua madre aveva portato in casa negli anni, uomini che si somigliavano tristemente tutti.
Ma a tredici anni non ancora compiuti, non sapevo quanto Lee capisse e conoscesse la mia vergogna e umiliazione, così quel giorno mi limitai a un impacciato cenno di saluto e a filarmela.
Per fortuna, tra noi due, lei ha sempre avuto quel pizzico di pazienza e cervello in più.






Sono i ritardo. Moltissimo. Lo so e vi chiedo davvero scusa, soprattutto a quelle care persone che hanno recensito di karma neutral Hippiespirit che hanno recensito; ma ogni tanto la vita, tra esami e altro, ci mette lo zampino. Spero di scrivere un po' di più ora che sono libera per un mesetto e che questo capitolo sia di vostro gradimento :3

 

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