Nakovrar — Vermiglio

di Ormhaxan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Prologo ***
Capitolo 2: *** 02. ***
Capitolo 3: *** 03. ***
Capitolo 4: *** 04. ***
Capitolo 5: *** 05. ***
Capitolo 6: *** 06. ***
Capitolo 7: *** 07. ***
Capitolo 8: *** 08. ***
Capitolo 9: *** 09. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***



Capitolo 1
*** 01. Prologo ***




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Yvjór, regno a Sud di Vøkandar — 312 della Seconda Era



 


Il lungo vestito di seta azzurra svolazzò nell’aria tiepida del tramonto.
Gabrielle scese lentamente dalla carrozza trainata da quattro cavalli dal bruno manto e osservò fugacemente il palazzo di Yvjóstafir, l’Eterna Primavera, risplendere davanti ai suoi occhi color dell’ambra.
La prima volta che aveva visitato il palazzo, quasi dieci anni prima, suo padre era stato al suo fianco e aveva sorriso nel vedere i suoi occhi sgranati riempirsi dei colori vivaci e dalla bellezza senza eguali della dimora dei sovrani del Sud; mai, prima di quel momento, la giovane aveva ammirato delle colonne color smeraldo rese talmente brillanti alla luce del sole o il luccicante oro intarsiato sui capitelli e sulle foglie di acanto e vite che risplendeva come fuoco ardente, quasi a dare vita all’intera architettura.
Vedendola, suo padre le aveva confessato che anche lui, molti e molti anni prima, era rimasto incantato esattamente come lei la prima volta che aveva visitato il palazzo senza tempo, le cui origini affondavano nella notte dei tempi, alla prima era in cui la magia scorreva ovunque in quelle terre e i signori di Yviór vivevano in pace con i regnanti delle terre vicine.
Ora, però, al suo fianco non vi era più il suo adorato padre e ogni piccolo dettaglio di quella città aveva perso per sempre il suo fascino.


«Non essere nervosa, Gabrielle. — le disse sua madre mentre salivano la scalinata che conduceva all’ingresso del palazzo — Questo è un momento importante per te: oggi compi diciotto anni, diventi a tutti gli effetti una orgogliosa cittadina di Yvjór e sarà la regina stessa a dichiarare il tuo ingresso ufficiale in società.»
Gabrielle rispose con un sorriso, continuando a camminare a passo lento, bene attenta a non inciampare in quel vestito troppo lungo per la sua altezza: sua madre aveva aspettato quel momento per anni, come sua unica figlia si aspettava grandi cosa da lei, cose straordinarie degne del nome che portava.
La sua famiglia era nota nella capitale, tutti conoscevano il nome Nakovrar e ciò che questo significava: prestigio, ammirazione, un posto speciale nella società, al servizio del sovrano.
Come sua nonna e suo padre prima di lei, anche Gabrielle si sarebbe unita alla Bræthanir, la Fratellanza, una fazione di soldati le cui regole erano avvolte nel mistero e il cui unico scopo era quello di servire il sovrano e compiere ogni suo desiderio.
Sin dalla tenera età aveva imparato che chi entrava nella Fratellanza lasciava la sua casa d’origine, per almeno cinque anni non aveva contatti con nessuno della famiglia; ogni suo componente era libero di tornare tra la propria gente solo per trovare moglie o marito, generare figli per portare avanti la stirpe, ma mai sposarsi con qualcuno non appartenente a un’altra casata legata alla fazione o alla nobiltà più alta.
Ogni componente della Fratellanza, in ogni caso, non viveva mai a lungo per vedere la propria progenie crescere e prendere il proprio posto; il padre e la nonna di Gabrielle non facevano eccezione alcuna.  


Due dei molti lacchè vestiti di tutto punto con la divisa color smeraldo e oro, colori della casata degli Yvjórstin, accolsero Gabrielle e sua madre non appena misero piede oltre nell’imponente ingresso del palazzo; senza dire nulla, raccolsero le loro pellicce e indicarono con gesti cortesi le scale a doppia rampa di marmo e cristallo che conducevano alla sala dei Fiori, la sala in cui si tenevano le celebrazioni più importati, al piano superiore.
I gradini e il corrimano, notò estasiata Gabrielle, era fatto di marmo rosa, una rarità in quelle zone, mentre i candelabri che si diramavano alle due estremità e al centro della scalinata come dei rami di uno Semprinfiore, erano fatti di marmo e cristallo purissimo, che faceva risplendere in tutta la sala le timide fiammelle che si andavano ad unire in un bacio invisibile alla luce esterna che filtrava obliquamente dal soffitto a cupola.
«È passato troppo tempo. — sussurrò flebilmente sua madre, aggiustandosi uno dei ricci color cioccolato che, dispettoso, era sfuggito dalla sua perfetta acconciatura — Finalmente, dopo la morte e il lutto, ci riprenderemo il posto che ci spetta in società.»
Gabrielle si morse la lingua: a lei quella vita non interessava, non le era mai interessata; lei era felice nella sua casa circondata dalla campagna, dai sempreverde e dagli alberi da frutto sempre in fiore, con i suoi animali e la servitù che le voleva bene e alla quale era affezionata. Non le era mai interessata la vita a corte, lo sfarzo, i vestiti pomposi e tutte quelle difficili regole da memorizzare.
Sapeva, però, che quello era il mondo di sua madre, lei che era nata e cresciuta non lontano da quel palazzo, che era una cugina di terzo grado della regina Lorhanna e che era stata abbastanza fortunata da essere scelta come sposa per l’erede dei Nakovrar, Christoph, e portare in grembo la nuova generazione di spietati sicari della corona.
«Sono certa che la regina Lorhanna sarà più che felice di rivederci.» disse infine, ben sapendo di compiacere sua madre con quelle parole prive di trasporto.

La sala dei Fiori era ancor più sfarzosa della facciata e dell’ingesso: candelabri di cristallo ricadevano dal soffitto a vetri attraverso il quale si poteva ammirare il tramonto e le prime stelle in cielo; volute e capitelli pensili ornavano gli angoli e le alte arcate che conducevano ad ampie terrazze semicircolari che si affacciavano sulla città e sul mare poco distante; decorazioni e intrecci di ogni tipo decoravano le pareti con i loro giochi di luci e ombre, tanto che focalizzarsi su di un singolo particolare era praticamente impossibile.

Quella, si disse Gabrielle, era quella la pura rappresentazione della potenza e del potere che la stirpe degli Yvjórstin aveva sul gran parte dell’isola e su tutti loro.


 
 


**
 


Era la prima volta che Gabrielle assaporava un vino speziato così buono.
Nota era la passione della regina per queste particolarità, ma le voci che ne decantavano la raffinatezza e il buon gusto non erano neanche lontanamente vicine al tripudio di sapori che in quel momento si stava sprigionando nel suo palato.

«Lasciatemi indovinare: prima volta che assaporate il vino speziato delle isole di Hafmàrr?»

Gabrielle si girò di scatto, trovandosi quasi faccia a faccia con un ragazzo molto più alto di lei, dalle spalle larghe e il fisico robusto. I suoi occhi non avevano il tipico colore dell’ametista o dello smeraldo che caratterizzava gli abitanti della Capitale, erano di un marrone così scuro da ricordare il tronco di un albero; i lunghi capelli erano neri come il carbone e il suo viso squadrato era contornato da una barba corta e molto curata.

«Perdonatemi, non volevo spaventarvi. — le disse, accorgendosi di averla leggermente turbata — Il mio nome è Bjørn Tsvorag, ma da queste parti mi chiamano Vor.»
«Io sono…»
«So perfettamente chi siete. – la interruppe bruscamente, maledicendosi per la seconda volta in pochi istanti per il suo essere così troppo schietto — Perdonatemi, ancora, è solo che la vostra famiglia è una leggenda e, lo ammetto, sapere che presto saremo fratelli mi rende piuttosto nervoso.»
«Duole rovinare il vostro sogno, ma a momento sono una diciottenne come tante. Non so quasi nulla della Fratellanza, nulla di più di un qualsiasi abitante della capitale e ai miei occhi il nome che porto è più un ostacolo che un privilegio.»
«Sono sicuro che, tra qualche anno, non sarete dello stesso avviso. – Bjørn le sorrise ammiccante — Io sono il primo della mia famiglia ad entrare nella Fratellanza: quando la nostra gloriosa sovrana mi ha fatto l’onore di questa posizione non potevo credere alle mie orecchie, pensavo di esser diventato pazzo, perché tutti sanno che la Fratellanza è una questione di sangue più di quanto la gente voglia ammettere, così…»


Uno squillo di trombe riecheggiò in ogni angolo della sala e un silenzio solenne lo seguì.
Le porte a Ovest si spalancarono e, in tutto il suo algido splendore, la regina Lorhanna fece il suo ingresso scortata da due Cappe di Giada, le guardie personali dei monarchi, e due uomini apparentemente vestiti come tutti gli altri appartenenti alla Bræthanir.
Camminava a testa alta tra le famiglie fondatrici o appartenenti alla Fratellanza accorse a palazzo in quella sera speciale, con passo talmente leggero che sembrava sfiorasse il marmoreo pavimento; indosso aveva un vestito dai colori della primavera, ricamato minuziosamente sulle spalle e sulla gonna rivestita di tulle color cipria con riproduzioni di fiori in boccio dai variopinti colori e piccole foglioline d’oro. I capelli scuri erano acconciati in trecce raccolte ai lati della testa in modo da ricordare una ghirlanda e sul capo portava una tiara di perle e diamanti, simbolo della sua regalità.
Tutti gli occhi erano per lei, ma i propri erano lontani, persi in chissà quali pensieri, tanto che pareva che fosse sola nella grande sala gremita di gente — solo lei, la Seconda Regina, come la chiamavano i suoi detrattori.
Lentamente prese posto sul grande scranno placcato d’oro e rivestito di velluto, le braccia delicatamente poggiate sui braccioli e le mani appena strette alle estremità decorate con le sembianze dello Heryan, il fiore raro che, si diceva, avesse grandi poteri magici, simbolo e stemma della casata degli Yvjórstin — lo stesso che era ricamato più e più volte sulla gonna di Lorhanna.

«Miei nobili sudditi di Yvjór, sono lieta di accogliervi in questo giorno così importante per noi tutti e per il nostro futuro. — Lorhanna accennò un sorriso, la sua voce era sottile ma dal tono sicuro e autorevole — Oggi, come ogni anno, accogliamo i giovani figli delle famiglie che da sempre si battono per la giustizia e per mantenere l’ordine nel nostro amato regno rischiando la loro vita in ogni momento; oggi, come ogni anno, mettiamo il nostro futuro nelle mani di chi è il futuro, di giovani uomini e donne che ci proteggeranno da coloro che, codardi, si muovono nell’ombra e cercano di rovesciare tutto ciò che i nostri padri hanno conquistato e costruito con il sangue.»

Un mormorio di assenso si levò tra i presenti, ognuno di loro ben consapevole di chi fossero le ombre di cui Lorhanna stava parlando: non era segreto ciò che stava accadendo nel regno di Ynjór, il regno della Neve e dell’Inverno del Nord; non era segreto che, ogni giorno di più, un esercito composto da mutaforma e da dominatori degli elementi stava cercando di rovesciare la monarchia, la regina, per portare il caos e la violenza nell’intera isola di Vøkandar.
Da tempo, oramai, la magia era stata bandita dal regno, estirpata come erba cattiva e anche se voci circolavano sul potere del monarchi di controllare l’elemento della Terra, di essere degli Ælothin, dei dominatori della terra, gli ultimi rimasti a Vøkandar, nessuno aveva mai osato prendere suddetti pettegolezzi seriamente.
Certo, ai tempi della prima era ogni sovrano di Yvjór era stato un Ælothin, un dominatore potente e temibile, ma con il passare del tempo quella magia si era spenta del tutto e i nuovi monarchi avevano dimenticato come parlare alla terra, agli animali, alla Natura.

«Miei cari ospiti, — stava continuando Lorhanna, la pelle di porcellana e gli occhi di ametista caratteristici della sua stirpe — prego non indugiate ancora e deliziatevi con i prelibati cibi che i cuochi reali hanno preparato con la maestria che li contraddistingue per voi tutti. Danzate, divertitevi, godetevi ogni secondo di questa serata. Presto, la cerimonia di iniziazione avrà inizio e potremo brindare alla salute dei nostri figli.»

Lo sguardo austero di Lorhanna si posò per la prima volta su Gabrielle: un sorriso compiaciuto si dipinse, solo per un istante, sul viso della sovrana e Gabrielle percepì immediatamente la sua gola farsi secca e un brivido freddo correrle su tutta la schiena.
In quel momento, in quel preciso istante congelato nel flusso del tempo, Gabrielle Nakovrar realizzò che la sua vita non sarebbe mai stata più la stessa.



 

*

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Capitolo 2
*** 02. ***


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Yvjóstafir , capitale di Yvjór, regno a Sud di Vøkandar — Due anni dopo




 


La sbiadita cicatrice in rilievo sul polso destro pulsò per l’ennesima volta dall’inizio di quella giornata.
Inizialmente non ci aveva dato molto peso, oramai abituata a quel dolore simile ad un ago nella pelle che si ripresentava puntale da due anni, ma quando si ritrovò sui tetti della capitale, intenta ad adempiere il suo primo, vero compito da quando era entrata a far parte della Fratellanza due anni prima, Gabrielle non riuscì a trattenere un’imprecazione:  nuvole sempre più scure stavano riempiendo con il loro grigiore la tavolozza azzurra che, fino a poche ore prima, era stato il cielo e presto la pioggia avrebbe bagnato le strade e i palazzi, rendendo ancor più difficile quella delicata missione.
Osservò accigliata la pallida ferita, ricordando la sensazione della lama che apriva lentamente la sua carne e intagliava il marchio a mezzaluna della Fratellanza, il rosso del suo sangue che, mai prima di allora, era scorso così copiosamente; ricordò l’orgoglio presente negli occhi velati di sua madre, un sentimento che raramente le aveva dimostrato prima, nel vederla in ginocchio davanti alla regina mentre proclamava il suo voto di assoluta fedeltà e giurava di consacrare la sua vita alla casa degli Yvjórstin, alla Fratellanza e a tutto ciò che questa comportava.
Nello sguardo di Lorhanna, Gabrielle aveva scorto compiacimento, un moto di trionfo personale che solo chi sa di avere un potere forte tra le mani riesce a mostrare; nel vederla in ginocchio, Lorhanna aveva gioito per la prima volta dopo tanto tempo, poiché sapeva quanto preziosa e allo stesso tempo pericolosa potesse essere la famiglia Nakovrar — suo padre era stato un fedele sicario, certo, ma sua nonna Ariadne era stata eccezionale, un’assassina spietata senza eguali, un’arma preziosa per la famiglia reale fino al suo ultimo giorno, quando era perita combattendo un abominio e per tentare di salvare invano la vita dell’infante erede al trono.

Buffo, pensò Gabrielle un attimo prima di saltare da una balconata all’altra, come sua nonna fosse morta per difendere un infante in un ultimo, esasperato atto di amore e devozione. Un atto di amore e fedeltà assolto verso quella regina che aveva adorato più del suo stesso figlio e che aveva visto morire dissanguata sotto i suoi stessi occhi; buffo come ad ucciderla fossero stati i Sýrin, i mutaforma del Nord che lei stessa aveva sempre difeso dai detrattori che desideravano solo vederli penzolare da una forca.
È stato un demone bianco — avevano detto a suo padre il mattino dopo, dopo il brutale assassinio e tutto il resto — Un demone sotto forma di lupo, che l’ha azzannato la gola e le ha sfigurato il viso, imbrattando di sangue ogni angolo della stanza.
Il lupo, l’uomo con il potere di mutare pelle chiamato Mikka, amante della defunta regina e padre di suo figlio, lo stesso figlio che aveva ucciso in un atto di bestiale follia, era stato successivamente ucciso dalla Fratellanza, la quale aveva portato la sua testa alla presenza di Lorhanna, unica erede al trono ancora in vita dopo quella funesta circostanza.

Sfiorò con le dita i pugnali nascosti sotto la lunga redingote nera dai ricami color dell’oro che le arrivava, nella parte inferiore dov’era più lunga, poco sotto le ginocchia; come una mamma chioccia con i suoi pulcini, Gabrielle li contò uno dopo l’altro, accertandosi che ognuno fosse al proprio posto, ritornando alla realtà e scacciando prepotente quei pensieri.
Quella sera, nulla doveva andare storto. Il passato era passato, morto e sepolto, mentre il presente era vivo e andava vissuto in ogni piccolo attimo.
Il verso di un cuculo riecheggiò nel silenzio della notte e, ammantato dall’oscurità, Gabrielle scorse su di un tetto spiovente che si affacciava sulla Namstrmark, la Piazza del mercato di Yvjór, la figura di Bjorn.
Lorhanna aveva incluso anche lui in quella missione, lui che era l’arciere migliore della Capitale, che possedeva una mira infallibile anche nelle ore più scure della notte; sarebbe stato lui a supervisionare la situazione dall’alto, mentre Gabrielle si sarebbe occupata delle guardie personali del traditore, Lord Lucas Dvjorst, quarto in linea di successione in quanto figlio primogenito di una delle sorelle del defunto re Mikæl, padre di Lorhanna, il che lo rendeva a tutti gli effetti cugino di primo grado della regina. 
Lettere anonime erano giunte alla Fratellanza circa incontri clandestini tra il reale cugino e i ribelli del regno di Ynjór, che da anni stavano tentando di prendere il potere sul Sud; voci dicevano che tra i Narman, così venivano chiamati i ribelli della Neve, c’erano anche dei mutatori di pelle, umani che sapevano trasformarsi in civette, gufi, gatti, esseri che potevano entrare e uscire dalle cinte murarie di Yvjór senza essere visti.
Il perimetro della Namstr era stato controllato attentamente, in ogni locanda c’erano almeno due componenti della fratellanza, ma Gabrielle e Bjorn erano convinti che l’incontro si sarebbe tenuto fuori, nell’ombra dei porticati del chiostro che circondava la piazza su tutti e quattro i lati. 
Un movimento d’aria la fece voltare di scatto: c’era qualcuno nella balconata superiore, ben nascosto ma non abbastanza per degli occhi ben allenati come i suoi, probabilmente era un fedele di Lord Lucas oppure…
Che fosse uno dei Narman, uno dei mutaforma chiamati Sýrin? Qualsiasi fosse stata la risposta, Gabrielle lo avrebbe affrontato e ucciso senza esitare un momento.
Passo felpato, la giovane dai capelli color del fuoco si mise in piedi sul cornicione del balcone semicircolare e, con un balzo felino, si aggrappò ad una grondaia di scolo dell’acqua piovana che dal tetto arrivava al terreno; dondolandosi leggermente e testando la parete di mattoni color argilla, Gabrielle iniziò la sua salita, stando ben attenta a mettere mani e piedi nei punti giusti, a non fare il minimo rumore.

Puoi farcela! — si disse un attimo prima di saltare, un istante prima della tempesta — La Fratellanza ti ha istruita bene, Lucien ti ha istruita bene e adesso che hai questa possibilità non puoi tentennare. Ricorda chi sei: sei una Nakovrar e i Nakovrar non sono mai deboli.

Si ritrovò a saltare oltre la ringhiera di pietra in un istante, faccia a faccia con un uomo sulla trentina che la guardò con occhi di chi ha visto uno spirito dei boschi. Gabrielle non gli diede tempo di urlare, di emettere un solo sussurro: repentina, sfoderò una delle sue lame affilate e, coperta la bocca screpolata con la mano libera, aprì da parte a parte la gola del malcapitato dopo aver danzato alle sue spalle con passi fluenti. Il corpo dell’uomo, una guardia, cadde a terra privo di vita con un tonfo sordo e ogni cosa terminò ancor prima di iniziare.
Non lo guardò, non diede neanche un veloce sguardo al cadavere mentre si puliva con una manica delle gocce di sangue schizzate sul suo viso pallido: se lo avesse fatto si sarebbe sentita un mostro, disumana e lei non poteva permettersi di provare rimorso o alcun tipo di sentimento per ciò che aveva fatto.
Nella Fratellanza non c’era posto per i sentimenti. Gli ordini erano ordini, il volere del sovrano veniva prima di ogni cosa, anche prima della propria coscienza e della propria vita.

Nello stesso momento, altre due figure — il lord e quella che sembrava una ragazza come tante — si incontrarono nel centro di uno dei porticati laterali e, guardinghi, iniziarono a parlare tra di loro nella speranza che nessuno udisse la loro conversazione.
«È saggio parlare qui? Siete sicuro di non essere stato seguito?»
«Saggezza e sicurezza non sono due parole adatte per questa serata nuvolosa, Milady. — rispose sarcastico l’altro, che aveva più o meno la stessa età della giovane — Nonostante questo, mi fido dei miei uomini e so che mi saranno fedeli fino alla fine.»
«Quindi avete deciso? Cederete le vostre spade alla causa e ai Narman?»
«Cinquecento spade, sì. — rispose — Non sono molte, certo, ma spero siano abbastanza. Dopo tutto, se ciò che mi avete detto è vero e la Narmana è davvero chi sostiene di essere, questa causa è tanto vostra quanto mia.»
Un movimento balzò all’occhio della giovane, un insignificante fruscio d’aria proveniente dalle balconate sopra di loro che solo un occhio attento — un occhio felino come il suo — avrebbe potuto cogliere.
Qualcosa era appena accaduto e questo significava una cosa e una soltanto.

«È una trappola! Ci hanno scoperti!»
Gabrielle sussultò lievemente quando la voce della ribelle ruppe il silenzio della sera. Qualcuno si era accorto di loro, costatò imprecando a denti stretti; qualcuno probabilmente aveva avvisato i Narman e gli uomini del lord della loro presenza e ora la Namstr stava per diventare lo sfondo di una lotta all’ultimo sangue.
Una freccia vibrò nell’aria, andandosi a conficcare nel petto di un uomo uscito dall’ombra, seguita da un’altra che sfiorò la gamba sinistra della ragazza incappucciata poco prima che si trasformasse in una bestia dalle sembianze feline.
Gabrielle fu nella piazza in un baleno, scattante saltò da un balcone all’altro, fino ad atterrare tra la polverosa terra rossiccia; la Fratellanza si stava riunendo in quello che agli occhi della rossa sembrò un piccolo esercito, ma anche i nemici erano numerosi e avevano l’aria di chi era addestrato per combattere fino all’ultimo respiro.
Un uomo la attaccò da dietro, ma non alla sprovvista; le bastò un movimento laterale, piedi ben piantati per terra e mani ferme per assestargli un colpo all’altezza del ginocchio, facendogli così perdere l’equilibrio, e conficcargli una lama nella giugulare.
Bjorn le fu accanto l’istante dopo, arco teso e frecce pronte ad essere scoccate. Prima della battaglia, le aveva promesso che sarebbe sempre stato al suo fianco, coprendole le spalle e difendendola e Gabrielle, che in quei due anni aveva trovato in lui un ottimo amico nonostante la disapprovazione di Lucien e di altri capi della Fratellanza, che da sempre erano contro alle relazioni troppo strette tra i confratelli, aveva promesso la stessa cosa.
«Ti stai divertendo, ragazzina? — le chiese il moro prima di scoccare una freccia, chiamandola con quell’appellativo che, lo sapeva bene, a Gabrielle dava ai nervi — Sono mesi che sogni l’azione e ora eccotela servita: eccitante, non trovi?»
«Tremendamente eccitante!» esclamò, prima di lanciare uno dei suoi coltelli più piccoli che, quasi invisibile, si andò a conficcare tra gli occhi di un ribelle del Nord, mettendo così fine alle sue urla di guerra e alla sua folle corsa nella loro direzione.

«Portate lontano Lord Lucas, presto!» una voce stava gridando e immediatamente una cerchia di persone si affrettò a portare lontano dalla piazza in subbuglio il traditore.
«Dobbiamo fermarli, adesso.» ordinò Bjorn un momento prima di iniziare una folle corsa verso il gruppo e Gabrielle non poté fare altro che seguirlo.
Pugnali Sai dal manico ricurvo arrotondato alla mano, i suoi preferiti che le permettevano una lotta corpo a corpo più prolungata, iniziò ad affrontare un nemico dopo l’altro, cercando di schivare più colpi possibili e procurare ferite profonde capace di rendere innocuo l’avversario.
«Portalo al sicuro, — ruggì nuovamente la voce che adesso Gabrielle poteva chiaramente associare a quella di un ragazzo poco più grande di lei, la statura possente e l’altezza che sovrastava di alcuni centimetri persino Bjorn, quest’ultimo pronto ad affrontarlo — Sei uno sciocco se credi di potermi uccidere con un paio di frecce.»
Il ragazzo dal nome sconosciuto si rivolse a Bjorn eppure il suo sguardo era puntato su Gabrielle; ghignò, mostrando i canini leggermente affilate e, improvvisamente, qualcosa nei suoi lineamenti iniziò a mutare.
Un ringhiò salì dalla sua gola, un suono animale e primordiale e i suoi capelli biondi iniziarono a diventare bianchi, come bianca diventò ogni parte del suo corpo; le sue mani divennero zampe con lunghi artigli affilati, la sua schiena ampia e possente si incurvo e tutto in lui si trasformò, assumendo le sembianze di un orso bianco dagli occhi rossi.
«Fæk!» imprecò Bjorn, che raramente si lasciava intimorire o usava tale linguaggio.
Nessuno dei due, prima, aveva visto un , un mutatore di pelle; in effetti, per quasi tutta la loro vita entrambi avevano ritenuto le leggende a loro legate come ciò che quasi tutti nella Capitale credevano fossero: leggende.
Una freccia si conficcò nella pelliccia dell’orso, all’altezza della schiena, ma l’animale che era stato un ragazzo non sembrò neanche notarla: azzannò un loro confratello, chiudendo le fauci attorno al suo bacino che si frantumò in mille pezzi, provocando un suono così tetro da far rabbrividire gli altri attorno.
«Cosa facciamo? — chiese Gabrielle, fianco a fianco con il suo migliore amico — È forte, troppo forte e non sarà solo ancora per molto.»
«Non possiamo fare altro che attaccare e attendere: presto Lord Lucien sarà qua con i rinforzi e questa marmaglia di traditori verrà sconfitta.»

Eppure Lucien non sembrava giungere: giovani confratelli continuavano a cadere nello scontro, così come a perire erano i Narman; la piazza del mercato era oramai un lago di sangue e polvere, urla di combattenti e feriti, di spade che cozzavano tra di loro e ruggiti di un orso che sembrava invincibile.
«Dobbiamo ripiegare!» urlò una ragazza dai ricci capelli, pulendosi un rivolo di sangue dalla bocca.
«Non ripieghiamo! — fu Bjorn a controbattere, Bjorn che era uno dei più anziani là dentro, che era stato nominato luogotenente per quella missione — Respingeremo questi esseri demoniaci e li sconfiggeremo.»
Ancora una volta una freccia, la penultima nella sua faretra, si conficcò nell’ala di un rapace albino che, dal cielo notturno, scese in picchiata, pronto ad artigliare qualcuno di loro. L’animale emise un verso acuto, puro dolore, prima di planare al suolo e riprendere le fattezze di una donna — una donna dai capelli bianchi come la neve, la pelle talmente pallida che sembrava traslucida, il fianco macchiato di rosso a causa della freccia che l’aveva colpita.
Un nitrito di cavalli si udì in lontananza, seguito da urla di guerra e per un momento tutto divenne immobile: i rinforzi della Fratellanza erano oramai vicini, la vittoria assicurata.
«Ripiegare! — qualcuno urlò dai tetti in penombra, una figura incappucciata, vestita di nero e con in pugno quella che sembrava una lunga spada ricurva che Gabrielle non aveva mai visto; la lama che stringeva tra le lunghe dita affusolate splendeva grazie ai raggi della timida luna che, da qualche minuto, stavano filtrando attraverso le basse nubi grigie, e suoi occhi glaciali erano fissi su di lei. — La battaglia è pesa, salvate le vostre vite e abbandonate quelle di chi non può seguirci.»
Nessuno della Fratellanza capì subito ciò che l’uomo aveva detto, poiché egli aveva parlato in una lingua spigolosa a loro ignota, una lingua che solo nel cuore di Ynjór parlavano ancora. Quando, poi, i ribelli iniziarono ad indietreggiare sempre di più a tutti fu chiaro cosa stava accadendo: gli avversari avevano ammesso la loro sconfitta e stavano fuggendo con la coda tra le gambe, come i codardi che erano.

Lucien e i suoi uomini fecero il loro ingresso a cavallo dal portale Est a battaglia finita: il Bræstven, capo della Fratellanze e fratellastro della regina Lorhanna, osservò impassibile lo scenario di morte davanti a lui, respirò a pieni polmoni l’odore ferroso del sangue e nonostante le perdite fossero state numerose si compiacque nel vedere che i membri più forti erano ancora tutti in vita.
Con un cenno del capo diede ordine ai suoi arcieri di incoccare una singola freccia e scoccare il colpo, che centrò in pieno ogni singolo il quale, a causa della sostanza magica in cui erano state immerse le punte delle frecce, riprese il suo stato antropomorfo. Tra questi, c’era anche l’orso che tanto aveva dato da fare a Gabrielle e Bjorn, entrambi lievemente feriti ma in buone condizioni.

«Ben fatto. — disse Lucien a tutti e allo stesso tempo a nessuno dopo essere smontato dal suo stallone da guerra — Mettete in catene i feriti, uccidete quelli moribondi e, per una prossima volta, assicuratevi di avere delle frecce più efficaci di quelle innocue punte di metallo.»
Fece per tornare alla sua sella, ma poi si fermò e, guardando Gabrielle, aggiunse: «Non avete deluso le aspettative, Nako. Sappiate che sia io che Sua Maestà ci aspettiamo grandi cose da te e dall’illustre nome che porti.»
«Non vi deluderò, Bræstven.»
«Lo spero bene. La regina Lorhanna non perdona chi la delude e nemmeno io; questo, Nako, farete bene a tenerlo sempre a mente.»


 


*



Glossario
 



Vøkandar: isola in cui si svolgono le vicende. Nella mia mente, è simile all'Islanda, solo più grande e solo in parte dominata dai ghiacci.
Yvjór: il Regno della Primavera. Il suo territorio si estende a Sud dell'isola ed è governato da un monarca.
Yvjóstafir: l'Eterna Primavera. Capitale del regno di Yvjór che si trova a Sud-Est dell'isola e si affaccia sul mare.
Ynjór: il Regno dell' Inverno e della Neve. E' il regno che si estende a Nord di Vøkandar, il solo a non essere stato conquistato dai monarchi della Primavera.
Sýrin, i mutaforma del Nord: un tempo erano presenti in tutta l'isola, ma adesso sono decimati e sono presenti solo a Nord. Il singolo componente di questa "razza" viene chiamato Sý e solitamente ha il manto albino.
Narman: sono i ribelli del Nord, tra i quali ci sono sia i Sýrin che persone comuni. Il loro comandante si fa chiamare Narmanna.
Bræstven: E' il capo della Fratellanza. Il suo significato è "Onorevole fratello".

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Capitolo 3
*** 03. ***



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Lorhanna Yvjórst aveva sempre odiato il bianco.
Il bianco era il colore della propria coscienza, l’assenza di un suono, il luogo dell’invisibile; il bianco era il colore della neve, il colore del freddo, il colore del Nord; il bianco era il colore del tradimento, della sconfitta, della perdita. Il bianco era tutto ciò che odiava.
Sua sorella Norhanna, quella sciocca illusa, aveva amato quel candore con tutto il suo cuore, lo aveva fatto entrare nel suo letto ed era morta partorendo un essere albino dalle fattezze di neonato, una creatura che aveva disgustato l'allora giovane principessa dal primo momento in cui aveva posato i suoi occhi color dell’ambra su di lui.
Il bambino, a cui era stato dato il nome di Mikhal, non aveva nulla della stirpe degli Yvjórstin: non il colore della pelle, che era pallida e traslucida; non gli occhi color ambra, rimpiazzati dal gelido ghiaccio; non i capelli corvini, che invece erano bianchi come una nuvola.
Ogni cosa in lui rivelava la sua natura di Sý e con il passare del tempo sarebbe persino divenuto un dominatore della Terra o, ancor peggio, dell’Acqua — l’esempio vivente di tutto ciò che il padre di Lorhanna e i suoi avi prima di lui avevano cercato di annientare con tutte le loro forze.
Norhanna era morta da quasi diciotto anni, il suo bambino l’aveva seguita quasi tre anni dopo eppure le minacce al suo trono non erano ancora cessate: continui erano i tentativi di mettere in discussione il suo ruolo, voci circolavano tra il popolo secondo cui il bambino non era morto davvero; altri parlavano di un gemello segreto, di una gemella, del fantasma di Norhanna visto aggirarsi per le strade della Capitale. Voci, voci, stupide voci che si aggiungevano al tentativo di calunnia di quello stupido di suo cugino Lucas e al suo imperdonabile tradimento.

Avrò la sua testa e quella di coloro che lo hanno spalleggiato. Avrò vendetta e il loro sangue sarà un esempio per tutta la popolazione.


«Non allarmatevi, mia dolce Regina, vedrete che tutto andrà per il meglio.»
La soave voce di Damien e il suo lieve tocco tra i capelli corvini la strapparono dal flusso di pensieri fatto di preoccupazioni e amari ricordi che aveva avvolto la sua mente.
Trovato il suo sguardo, il giovane uomo dalla costituzione minuta le sorrise nel modo in cui solo lui sapeva sorridere, facendola sentire compresa e amata, e per un attimo Lorhanna credette ciecamente nelle sue parole: dopo tutto, Damien era, insieme a suo fratello Lucien, l’unica persona fidata che le restava in quel mondo scintillante che, ai suoi occhi ambrati, diveniva ogni giorno più buio e triste; era l’unico in grado di capirla e farla sorridere anche quando non c’era alcun motivo di farlo.
«Narmana e i suoi traditori sono sempre più potenti. — sussurrò a denti stretti, chiudendo a pugno le sottili mani fino a farsi sbiancare le nocche — Le terre a Ovest sono irrequiete, nonostante siano passati trecento anni dalla loro sottomissione non hanno mai accettato il loro essere inferiori, di prostrarsi passivamente davanti alla forza della Primavera. Voci dicono che i mutatori di pelle sono stati nuovamente avvistati vicino Dvér, la città dell’Autunno, e nonostante la Fratellanza…»
«La Fratellanza è nata per salvaguardare la monarchia, il suo futuro ed è quello che continuerà a fare per molti e molti anni. — la voce di Damien era fredda e calda al tempo stesso; il suo volto androgino, contornato da neri capelli tagliati all’altezza del mento, era imperturbabile — Dopo tutto, nessuno di loro sospetta nulla. Vero?»
«No, nessuno e non dovranno mai sospettare. — Lorhanna giocò distrattamente con una perla nera del suo vestito scarlatto, come sempre faceva quando qualcosa la preoccupava — Se i dissidenti del Nord dovessero… se la Fratellanza dovesse…»
«Tutto andrà bene! — Damien le incorniciò il viso tra le mani morbide e, ben consapevole di essere da solo con lei, avvicinò il proprio viso al suo e la baciò a fior di labbra — Il nostro amato Lucien non permetterà a nessuno di farvi del male o arrecarvi disonore. Ucciderebbe anche l’ultimo neonato della Capitale pur di salvaguardare il vostro trono, le vostre tradizioni, la Storia di questo regno che è tanto vostra quanto sua.»

 
 


**
 



Quando Lucien raggiunse le stanze reali la trovò assorta nei suoi pensieri.
Lorhanna era in piedi davanti alla finestra, lo sguardo fisso oltre il vetro permeato dai raggi del sole: dall’ala Est del palazzo poteva vedere l’ingresso maestoso e ogni punto dell’immensa struttura costruita secoli prima dalla sua famiglia e questo le riportava alla mente nebulosi ricordi.
Era stato suo padre che, per primo, aveva raccontato a lei e a sua sorella Norhanna, all'epoca entrambe bambine, la storia un tempo narrata in antichi testi oramai perduti circa la fondazione del palazzo di Yvjóstafir.
La leggenda sosteneva che erano stati gli ultimi discendenti della stirpe dei Dvérin, signori dell’Ovest capaci di dominare l’aria e di parlare la lingua della foresta, a contribuire alla realizzazione della dimora in occasione del matrimonio dell’erede al trono della Primavera con Aranel, principessa di Dvér, la stella più preziosa del suo popolo e loro più grande orgoglio.
Come il palazzo, anche la triste storia di Aranel era divenuta leggenda: la sfortunata principessa era dipartita due anni dopo il matrimonio dando alla luce un bambino nato morto e suo marito, distrutto dalla perdita, era impazzito e si era gettato dalla torre più alta di quello stesso palazzo che era stato al tempo stesso la dimora e la tomba della sua amata.
Da quel giorno in avanti, tutto era cambiato e niente era stato più uguale…

«Ebbene?» Lorhanna non lo guardò, non distolse lo sguardo dalla città che stava ammirando oltre le mura del palazzo.
«Il nostro adorato cugino è fuggito, ma siamo sulle sue tracce e fiduciosi che lo raggiungeremo prima che oltrepassi il fiume Marén. — Lucien non mostrò alcuna vergogna nel rivelare una, seppur parziale, sconfitta, la sua voce era sicura e tranquilla — Inoltre, abbiamo catturato alcuni degli abomini del Nord e, con l’aiuto giusto, riusciremo a far rivelare informazioni preziosi sui Narman e la loro misteriosa condottiera Narmana.»
«Bene, ma stai attento a non far avvicinare i più giovani o chi reputi debole a nessuno di loro: sai bene che il sigillo è ancora troppo debole e se si dovesse…»
«Nessuno scoprirà nulla, mia adorata. — Lucien si avvicinò alla sorella e le cinse la sottile vita con le braccia possenti — La Fratellanza è forte, come sono forti e saldi i lucchetti che chiudono i nostri segreti. Con un po’ di fortuna, presto anche Ynjór cadrà ai tuoi piedi e tu sarai la regina di tutta Vøkandar.»
«E tu sarai al mio fianco come sempre. Vero, fratello?»
Lucien sorrise e, sebbene molti avrebbero rabbrividito nel vedere quell’espressione più simile ad un ghigno folle che a un sentimento di affetto, il cuore di Lorhanna si allietò: «Sempre, mia dolce sorella. Sempre.»
 

 

**





Lucien ricordava bene com’era iniziata la conquista dei regni dell’isola di Vøkandar.
Tutto aveva avuto inizio con la morte del compianto e nobile sposo di Aranel, al quale era succeduto al trono suo fratello minore, Kol, uomo ambizioso e crudele, il quale aveva dato inizio ad una guerra sanguinosa contro la stirpe dei Dvérin, signori nelle terre a Ovest dell'Æntall, il Sempre Verde bosco che per centinaia e centinaia di anni aveva diviso i regni dell'Autunno e della Primavera; quella stessa guerra che si era protratta per cento anni e conclusa con l’estinzione della casata nemica e l’annessione del regno a quello della Primavera.
Da quel preciso momento, da quella importante conquista, era iniziata una seconda era, un’era gloriosa per il popolo di Yvjór e per la stirpe il cui sangue, seppur in parte, scorreva nelle sue vene.
Suo padre, il suo nobile padre, aveva amato sua madre, la sua sciocca madre non abbastanza nobile per sposare un figlio di Yvjór, abbastanza da essere la sua amante e generare un figlio degno della corte ma non del trono.
A modo suo, suo padre lo aveva amato, si era preso cura di lui quando la febbre si era portato via sua madre e lo aveva reso ciò che era: uno stratega, un combattente, un uomo spietato, un Bræstvenin, il cinquantesimo dalla fondazione della Fratellanza.
Era stato il terzo bastardo reale a coprire quel ruolo e, come i suoi due predecessori, anche Lucien era intenzionato a rimanere nella Storia — quello e molto di più.
Da tempo, oramai, aveva la fiducia di Lorhanna — Lorhanna che era avida di potere e gloria, aveva una mente malleabile ben diversa da quella di Norhanna che, sin dal primo giorno del suo regno, si era dimostrata cocciuta e irremovibile nelle sue decisioni.

— Lorhanna ha pianto quando lei è morta, nonostante tutte le loro differenze e i loro dissidi ha pianto sua sorella maggiore, mentre io ho gioito e fatto anche di peggio… —

Arrivò alle celle del palazzo in tutta fretta, scendendo una scala a chioccia dopo l’altra e dovette fare affidamento su tutta la sua forza di volontà per non sembrare disgustato a causa del tanfo di ferite putride e sangue rancido che saturava l’aria.
La prima volta che aveva messo piede là sotto era stato un bambino e al suo fianco c’era suo padre; poco era cambiato da allora tra quelle quattro mura: non le pareti di mattoni rossi, non la luce giallastra delle torce, non il soffitto pieno di muffa o il pavimento appiccicoso e sporco.

«Bræstven.» l’anziano carceriere a capo delle prigioni lo accolse con un inchino reverenziale. Tutti in quelle quattro mura lo rispettavano e temevano allo stesso tempo, eseguivano alla perfezione i suoi ordini, terrorizzati al sol pensiero del suo temperamento e della sua implacabile ira che, negli anni, gli avevano fatto guadagnare il soprannome di Zhérion, Ferro.
«I traditori sono stati incatenati e incarcerati come chiesto?»
«Sì, Milord, anche se uno degli abomini è perito durante il trasporto. Le sue ferite erano troppo profonde e gravi, non c’è stato nulla da fare.»
«Meglio così, — si ritrovò a dire Lucien, quasi divertito al pensiero di una di quelle belve dalla pelle umana che si dissanguava fino alla morte — una bocca in meno da sfamare e un nemico in meno da combattere. Ditemi, dov’è si trova il Sý dalle sembianze di orso?»
«Da questa parte, seguitemi.»

Lucien seguì l’uomo dai radi capelli bianchi verso un lungo corridoio ancor più buio e fetido del precedente e si fermò solo quando davanti a lui, oltre le sbarre rinforzate e imbevute di una sostanza orticante e velenosa, si parò la figura incatenata e ferita di un uomo dalla pelle bianca come il latte e la statura possente.
In un primo momento, chiunque lo avrebbe scambiato per un ragazzo, ma Lucien conosceva perfettamente i poteri derivanti dalla natura di Sý, la lunga vita che ogni mutatore di pelle aveva in dono, anni e anni passati con le sembianze di giovani bellissimi e spaventosi allo stesso tempo che sembravano non invecchiare mai, non conoscere mai la vecchiaia e la morte.
I suoi precettori erano stati i primi ad insegnarli tutto ciò che uno nella sua posizione, un bastardo reale destinato alla grandezza, doveva conoscere; era stato uno dei suoi maestri a concedergli, all’età di undici anni, l’occasione di mettere le mani su uno dei libri proibiti, uno dei tanti che popolavano le biblioteche del palazzo reale e che solo i discendenti della Primavera potevano consultare per apprendere le antiche storie risalenti alla notte dei tempi, studiare quelli che da molti anni erano divenuti il nemico.

« Yvjórsekk!» esclamò il prigioniero dall’altra parte della cella, alzando il suo sguardo e incontrando quello impassibile di Lucien.
Il comandante della Fratellanza aveva perso il conto del numero di Sýrin che aveva incontrato e ucciso, dimenticato i loro volti, eppure quella volta fu diverso: quella volta, Lucien ricordò perfettamente l’uomo al suo cospetto, un uomo che aveva conosciuto tanti anni prima, quando sua sorella Norhanna sedeva sul trono e, per la prima volta dopo cento anni, una delegazione composta da Sýrin e ribelli del Nord era giunta nella capitale.
«Serghej. — sussurrò compiaciuto, ghignando al pensiero di aver finalmente incatenato quel borioso mostro che per settimane lo aveva guardato con sufficienza, disprezzato e deriso persino — Le nostre strade si incrociano nuovamente.»
«Avrei preferito incrociare la mia strada con la vostra solo per ridere sul vostro cadavere, per sputare sul vostro corpo privo di vita e gridare vendetta per colui che è stato mio amico e fratello.»
«Colui che si è macchiato le mani con il sangue del suo sangue ed è morto come il cane che è sempre stato, intendete. — corresse Lucien — Mikka era un folle, un pazzo che ha sedotto la mia ingenua sorella, macchiandola per sempre e uccidendola con un abominio nato dalla magia oscura e discendente da una razza che dovrebbe essere estinta.»
Serghej buttò la testa all’indietro e rise, mostrando i suoi canini affilati: «Ben presto scoprirete, Lucien, che la mia razza è ben lontana dall’estinzione.»
«Siete molto fiducioso per essere dietro delle sbarre, incatenato e prossimo alla morte. — anche quella volta, Lucien non si scompose — Prima, però, ci assicureremo di cavare informazioni preziose da quella vostra bocca fetida, notizie sui vostri amici ribelli e questa Narmana che si atteggia a sovrana del Nord.»
«Nessuna informazione uscirà dalle mie labbra e voi lo sapete bene. — Serghej sputò verso le sbarre, non abbastanza lontano per raggiungere il viso spigoloso di Lucien — I miei segreti, come i miei giuramenti, li porterò con me nella tomba.»
«Lo vedremo. — concluse prima di rivolgersi alle guardie — Portatelo al più presto nella Stanza Rossa e siate molto persuasivi quando cercherete di farlo confessare: la regina, come io stesso, si aspetta delle preziose informazioni e, in caso contrario, sarebbe molto delusa nel non riceverne.»


 


*




Glossario & Albero genealogico dei sovrani di Yvjòr:



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Vøkandar: isola in cui si svolgono le vicende. Nella mia mente, è simile all'Islanda, solo più grande e solo in parte dominata dai ghiacci.
Yvjór: il Regno della Primavera. Il suo territorio si estende a Sud dell'isola ed è governato da un monarca.
Yvjóstafir: l'Eterna Primavera. Capitale del regno di Yvjór che si trova a Sud-Est dell'isola e si affaccia sul mare.
Ynjór: il Regno dell' Inverno e della Neve. E' il regno che si estende a Nord del Marén, il fiume Azzurro. E' il solo regno a non essere stato conquistato dai monarchi della Primavera.
Sýrin, i mutaforma del Nord: un tempo erano presenti in tutta l'isola, ma adesso sono decimati e sono presenti solo a Nord. Il singolo componente di questa "razza" viene chiamato Sý e solitamente ha il manto albino.
Narman: sono i ribelli del Nord, tra i quali ci sono sia i Sýrin che persone comuni. Il loro comandante si fa chiamare Narmana.

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Capitolo 4
*** 04. ***




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Bjorn digrignò i denti e ricacciò in gola l’imprecazione che era quasi sfuggita dalle sue labbra mentre uno dei Grigi, giunto a tarda notte insieme ai suoi confratelli per medicare i feriti, cercava di curargli le lesioni riportate durante lo scontro.
Il moro non aveva mai apprezzato le Tuniche Grigie, ordine tanto antico quanto importante fatto di vecchi rinsecchiti che rivestivano un ruolo cruciale non solo per la nobiltà, ma anche per il popolino e per quegli sfortunati che vivevano nelle terre dell'Ovest sotto il giogo della Primavera.
Le mani rugose ispezionarono nuovamente la ferita prima di cauterizzarla con un ferro rovente, provocando nel giovane guerriero un rantolo simile ad un urlo sommesso: Bjorn si concentrò sui ricami blu della tunica, piccoli disegni intrecciati che distinguevano quell'uomo senza nome dagli altri del suo stesso ordine, e iniziò ad elencare mentalmente i colori di ogni branca per sfuggire al dolore lancinante. Sin da piccolo aveva studiato, chino su polverosi tomi conservati nella biblioteca della sua casa, che il blu corrispondeve alla cura dei malati, mentre il rosso era dedicato a coloro che si occupavano anche di astrologia; il verde era il colore della botanica e, si diceva, un tempo una parte di loro aveva indossato tuniche dai ricami bianchi come la neve, colore che rievocare la pura magia da tempo perduta.

«Ora chi è la ragazzina?»
Gabrielle, seduta su di uno sgabello accanto a lui, lo provocò intenzionalmente: anche lei era appena stata ricucita in più punti, avendo riportato una brutta ferita al braccio sinistro e un taglio profondo all’altezza della tempia; come Bjorn, anche lei aveva imprecato mentalmente quando il Grigio, lo stesso vecchio rinsecchito e calvo che stava curando il suo amico, le aveva versato sulla pelle contusa un unguento appiccicoso e dall’odore acre preso da una delle tante fiale senza etichetta contenenti sostanze ricavate da chissà cosa.
«Taci, Nako! — esclamò nervoso Bjorn, subito prima di gemere per il dolore — Per poco non sono stato sventrato da un dannato Sýrin, il tutto per proteggere te e il tuo cervello bacato che proprio non sa quando indietreggiare.»
Gabrielle abbassò lo sguardo e sospirò. Era vero, Bjorn era quasi stato sventrato a causa di una sua mossa incauta, dalla sua inesperienza nonostante i due anni passati ad allenarsi per diventare una combattente degna del suo nome; si era sentita quasi morire quando, mentre tornavano alla fortezza, aveva notato il sangue che, copioso, aveva macchiato la tunica di cuoio bollito del suo amico. Bjorn aveva minimizzato, come sempre, ma a Gabrielle non erano sfuggite le sue smorfie di dolore e il timore che, per un attimo, aveva adombrato lo sguardo del moro.
«Mi dispiace, Vor… — colpevole, allungò una mano la posò su quella più grande del ragazzo — Prometto che d’ora in avanti starò più attenta e non ti deluderò.»
«Delusione? — Bjorn aggrottò leggermente la fronte — Suvvia, Nako, non mi hai deluso. È stato uno scontro piuttosto selvaggio, nessuno di noi avrebbe potuto immaginare il numero di perdite e feriti, ma ti sei comportata bene e hai combattuto come una vera guerriera.»
I due amici si scambiarono un sorriso, poi Bjorn proseguì: «Da domani, però, mi occuperò personalmente del tuo braccio sinistro. La difesa è ancora troppo bassa, non credere che non me ne sia accorto e non voglio rischiare che una prossima volta un coltello o una freccia si conficchi in mezzo ai tuoi occhi ammaliatori.»

«Eccovi, finalmente! — una zazzera di capelli color della cenere e una voce preoccupata accompagnarono l’ingresso di Nikolas Dvjorst, fratello del traditore e, come lui, cugino della regina Lorhanna da parte di madre; a differenza di Lucas, però, Nikolas da qualche anno era entrato a far parte, come quasi tutti i figli minori della famiglia reale, della Fratellanza — Vi ho cercato ovunque: dov’eravate finiti?»
«Impegnati a farci ricucire, Vjor. — rispose leggermente infastidito Bjorn, indicando il Grigio ancora chino sulla ferita all’addome — Lo scontro è stato più duro del previsto.»
«Ho saputo e avrei voluto essere là con voi nonostante tutto…»
Era stato Lucien ad impedire a Nikolas di unirsi agli altri, di prendere parte a quel delicato scontro per paura di eventuali mosse false: benché la fedeltà del figlio minore della principessa Lydia, zia della sovrana, non fosse stata messa in discussione, il traditore che avevano cercato di catturare rimaneva pur sempre suo fratello. Nikolas, inoltre, era spesso avventato e nessuno della Fratellanza era stato disposto a correre dei rischi evitabili.
«Nessuno tra noi dubita di te e della tua lealtà alla corona, Brætan, ma credo sia stato meglio così: nessuno dovrebbe combattere il sangue del proprio sangue, un traditore non solo della corona ma della famiglia e, credimi, per quanto difficile sia da accettarlo tuo fratello ha tradito e dovrà pagare per tale affronto.»
Nikolas annuì lievemente. Lucas era sempre stato il suo modello, il suo eroe; fino alla fine aveva rifiutato di credere nel suo tradimento, alle parole scritte su pergamena che lo stesso Lucien gli aveva fatto leggere settimane prima, ma dopo quella giornata una sua condanna a morte era divenuta inevitabile, così come inevitabile era giunta l’accettazione.

«Ho visto i mostri del Nord, i mutatori di pelle rinchiusi nelle celle. — confessò Niko, cambiando argomento — Sembrano persone come noi, non sembrano… certo, ci sono gli occhi di ghiaccio e alcuni sono albini, ma per il resto…»
«Parli così perché non li hai visti mentre si trasformavano. — disse Bjorn — Uno spettacolo tremendo, credimi: il loro corpo si deforma, sembra come se le loro ossa si spezzino una ad una per poi ricomporsi e dar forma allo scheletro di un animale. I loro occhi, poi, sono gli occhi di una belva, privi di qualsiasi emozione umana.»
«Non faccio fatica a crederlo. Sapete, prima ho sentito alcuni dei nostri fratelli anziani parlare di uno dei prigionieri, un certo Serghej che, a quanto capito, è uno dei Sýrin più feroci e importanti, una sottospecie di generale delle truppe o una cosa del genere. Da quanto capito, alcuni di loro già lo conoscevano in qualche modo…»
«Magari faceva parte della delegazione del nord giunta a corte quando Norhanna era ancora regina… — azzardò Gabrielle, senza sapere di aver detto il giusto — Mio padre, insieme a mia nonna, era stato presente al loro arrivo a Yvjóstafir e quando ero piccola mi raccontava di questi uomini con i capelli color delle nuvole e gli occhi del cielo più freddo. All’epoca lui era appena entrato nella Fratellanza, ma come figlio della Bræstvenna gli era stato concesso l’onore di assistere al loro arrivo a palazzo e al primo incontro privato tra la delegazione e la regina.»
«In ogni caso non credo che vivrà ancora per molto. — Nikolas si accomodò sullo sgabello lasciato vuoto dal Grigio che, nel frattempo, aveva finito di fasciare la ferita di Bjorn e aveva lasciato la stanza in silenzio — Lucien avrà sicuramente ordinato ai Torturatori di fare il loro dovere e, con o senza informazioni, ben presto lui e i suoi amici traditori penzoleranno da una forca o perderanno la testa.»

 


**




Quella che stava per concludersi era stata, per Gabrielle, una delle giornate più difficili della sua vita.
Erano passati tre giorni dallo scontro nella piazza del mercato, le sue ferite stavano iniziando a rimarginarsi e, dopo una mattina passata ad allenarsi senza troppo successo e nonostante il doloroso fastidio al braccio ferito che la perseguitava in ogni momento, i suoi superiori le avevano ordinato, per la prima volta da quando era entrata a far parte della Fratellenza, di assistere ad una inquisizione — o, meglio ancora, ad una vera e propria tortura.
Come il resto delle prigioni, anche quella cella destinata alle torture sapeva di muffa ed era illuminata dall'opaca luce giallastra delle torce; anche là, come in ogni altro luogo presente là sotto, l'aria era irrespirabile e pesante, quasi stomachevole per una persona non abituata a quell'ambiente.
Uno spazio angusto, ecco come lo avrebbe definito la rossa: non appena ci mise piede notò subito la prigioniera seduta su di una sgangherata sedia, le mani e i piedi legati, circondata tre uomini e una donna appartenenti alla Fratellenza molto più grandi di lei e di cui conosceva appena il nome.
La sciagurata — no, non sciagurata, si corresse Gabrielle, ma una ribelle — era una ragazza dai corti capelli biondi e gli occhi verdi; a differenza di altri, lei non era una Sýrin, ma una semplice giovane come lei.
Per ore prima e dopo il suo arrivo — un’eternità — avevano continuato a farle domande, ordinare con maniere spesso violente di parlare e rivelare i suoi segreti, così da ottenere una morte veloce e indolore invece che una lunga e lenta agonia; per ore, la ragazza senza nome aveva scosso la testa e si era rifiutata di rispondere, restando impassibile ad ogni tipo di tortura, persino davanti al ferro incandescente che era cozzato prima contro la pelle pallida del suo braccio e poi nel suo internocoscia.
La sua volontà era forte, molto più forte di quella di Gabrielle e dei suoi amici e per questo la rossa l’aveva ammirata segretamente.
L’aveva segretamente ammirata quando, senza emettere neanche un suono, l’avevano marchiata a fuoco come una bestia destinata al macello; l’aveva ammirata quando, seppur urlando disperatamente per il dolore, aveva preferito perdere un orecchio che rivelare i segreti del suo popolo.

«Quali sono i piani dei ribelli? Dove si trova il vostro accampamento? Chi si cela dietro il nome della combattente Narmana?»
Era stata Gabrielle, sotto richiesta dei fratelli più anziani, a porgere quelle domande per la prima volta da quando aveva raggiunto la buie e sporche stanze della tortura. Domande che, anche in quell’occasione, non trovarono risposte.
«Parla! — esclamò la rossa in quello che uscì più come un consiglio che una minaccia — Non vuoi che questo incubo finisca, non desideri una morte veloce e misericordiosa? Parla e tutto finirà all'istante.»
«Non dovresti essere qui. — sussurrò in risposta la ragazza con un fil di voce, osservandola intensamente e per la prima volta con il solo occhio che ancora riusciva a tenere aperto — Non è questo il tuo poso, il tuo destino; tutti voi siete stati ingannati…»
«Basta così, siamo stanchi delle tue menzogne e bugie!»
Un pugno ben assestato seguì la voce rauca appartenente a uno degli altri confratelli e colpì la ribelle in pieno viso, facendole inclinare all’indietro la testa e perdere i sensi: Gabrielle sussultò, presa anche lei alla sprovvista da un gesto tanto inaspettato quanto impulsivo, e quando le fu ordinato di lasciare la cella e tornare ai suoi alloggi si affrettò ad andarsene.


I sotterranei in cui si trovavano le celle erano pregni di un odore ancor più acre e nauseabondo del solito — odore di sangue fresco e morte.
Gabrielle anelava l’aria fresca del tardo pomeriggio, la brezza serale e contava i passi che la dividevano dalle scale a chiocciola che l’avrebbero condotta lontano da quel posto; ci era vicina, mancavano ancora poche falcate, quando il suo sguardo pensieroso fu attratto da un corridoio laterale appena illuminato, uno dei tanti che formavano quel labirinto sotterraneo che erano le prigioni reali.
Non seppe dire esattamente cosa l’avesse attratta, probabilmente un lieve movimento d’aria o forse la fioca luce che proveniva dalla cella più lontana: senza neanche accorgersene si ritrovò a percorrere il buio corridoio con passo felpato e una curiosità crescente al centro del petto.
Si guardò attorno, notando che non c’era nessuno di guardia e questo le permise di avvicinarsi ancor di più, fino a sfiorare con l’esile corpo le solide sbarre di ferro: all’interno della gabbia, immobilizzato da numerose catene, c’era il ragazzo – orso che, tre sere prima, aveva cercato di uccidere lei e i suoi confratelli.
Gabrielle, impassibile, l’osservò con attenzione, notando come quello che in un primo momento aveva scambiato per un ragazzo della sua età adesso sembrava avere lineamenti simili a quello di un uomo più vicino ai quaranta che ai trenta; una figura possente, dall’aria nobile nonostante il viso quasi del tutto sfigurato a causa delle percosse e il corpo ricoperti di lividi e ferite più o meno profonde.

«Ariadne?»
L’uomo dalla pallida chioma la osservò con occhi velati, pronunciò quel singolo nome — il nome di sua nonna — con un filo di voce, sbiascicando, come se ogni lettera gli costasse uno sforzo immane.
Gabrielle sgranò lo sguardo per la sorpresa, domandandosi come quell’essere conoscesse sua nonna, in quali rapporti era stato con lei e, soprattutto, chi fosse realmente.
 «No, non Ariadne… — si corresse quando il suo sguardo riuscì a visualizzare al meglio le fattezze della ragazza dalla rossa chioma dall’altra parte delle sbarre — Una Nakovrar, però, di questo ne sono certo. Sai, hai i suoi stessi occhi…»
«Come?» riuscì a dire Gabrielle, non trovando parole adatte per esprimere i suoi pensieri.
Che fosse, si domandò, quel Serghej di cui Nikolas le aveva parlato? Impossibile: l’uomo dall’altra parte delle sbarre era giovane, troppo giovane per aver preso parte alla delegazione proveniente dal Ynjór quasi venticinque anni prima, per essere stato un guerriero fatto e finito ai tempi in cui persino Lorhanna era ancora una giovane fanciulla.
«Non dovresti essere qui, non tu tra tutti. Lucien non lo avrebbe mai permesso, troppe cose sono in ballo ed egli conosce perfettamente il tuo valore… — l’uomo albino deglutì e tossì, sputando sangue che andò ad imporporare le sue labbra sottili — Sei solo uno strumento, lo sai? Tutto ciò in cui credi è una menzogna, la stessa Fratellanza è costruita su bugie secolari e sigilli quasi impossibili da spezzare.»
«Come osate? Siete solo uno sporco bugiardo, un folle che vuole vedere in ginocchio il nostro regno e la nostra amata regina! — esclamò Gabrielle, improvvisamente furiosa — Le vostre parole sono veleno.»
«Forse o forse ho ragione e voi tutti siete solo dei burattini, pedine sacrificabili in una scacchiera in cui le mosse sono imprevedibili e pericolose.»
«Siete pazzo!»

Gabrielle fece un passo indietro, poi un altro e senza mai voltarsi indietro camminò a passo svelto verso la fine di quel maledetto corridoio, per la scale, attraverso il cortile ricoperto di terra rossa e, infine, tra le stanze dei dormitori che conducevano alla sua stanze.
Arrivata davanti al suo letto con il fiato corto e il cuore che batteva come impazzito nel petto, la giovane guerriera si sfilò gli alti stivali di pelle marrone e, a peso morto e ancora vestita, si lasciò cadere tra i soffici cuscini.
Rimase a osservare il soffitto per un tempo lunghissimo, pensando e ripensando non tanto alle parole menzoniere e attentamente ponderate dell’uomo — orso, quanto al modo in cui l’aveva guardata con i suoi occhi di ghiaccio, riconosciuto nel suo sguardo lo stesso di sua nonna.
Sua nonna...
Non pensava a lei da molto, molto tempo oramai. Ariadne Nakovrar, la leggendaria stratega e assassina letale, era morta da tantissimo tempo e Gabrielle aveva solo nebbiosi ricordi di lei, della donna che aveva conosciuto sotto le vesti di nonna attenta e amorevole.
Non l'aveva mai davvero pianta, non ne aveva mai avuto il tempo data la sua tenera età che le aveva concesso pochi ricordi e poco tempo per instaurare un vero e proprio legame fatto di complicità e affetto sincero, ma da sempre avrebbe voluto poterla conoscere e ascoltare dalle sue labbra i leggendari racconti che la gente - suo padre, i suoi servi e alcuni tra i più anziani membri della Fratellanza - le avevano raccontato nel corso degli anni.
Che anche quell'uomo, quel ribelle, avesse conosciuto Ariadne meglio di lei e avesse delle storie segrete circa la donna da raccontarle?

Chi è davvero quell’uomo e come conosce tutte quelle informazioni sulla mia famiglia?

Pensierosa, si sfiorò con la punta dell’indice i contorni della cicatrice sul polso sinistro, ancora e ancora, cercando inutilmente di trovare risposte.
La Fratellanza era tutto ciò in cui la sua famiglia aveva sempre creduto, in cui lei aveva sempre creduto e, si disse, non avrebbe permesso a nessuno, tantomeno ad un subdolo Sý, di intaccare in alcun modo quella certezza più simile ad una fede. Aveva fatto un giuramento due anni prima, un giuramento che solo la morte avrebbe sciolto, e lo avrebbe onorato fino al suo ultimo respiro — proprio come suo padre; proprio come sua nonna.
Quando, poco più tardi, altre ragazze appartenenti alla Fratellanza entrarono in quella stessa stanza che Gabrielle condivideva con loro, la rossa si girò su di un fianco e, chiusi gli occhi e sperando che le pesanti tende che scendevano dal baldacchino in legno bastassero a celare il suo volto costernato, scacciò dalla mente quelle sciocche preoccupazioni e fece finta di dormire profondamente.




 

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Glossario  & Albero genealogico dei sovrani di Yvjòr
 
 



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Vøkandar: isola in cui si svolgono le vicende. Nella mia mente è simile all'Islanda, solo più grande e solo in parte dominata dai ghiacci.
Yvjór: il Regno della Primavera. Il suo territorio si estende a Sud dell'isola ed è governato da un monarca.
Yvjóstafir: l'Eterna Primavera. Capitale del regno di Yvjór che si trova a Sud-Est dell'isola e si affaccia sul mare.
Ynjór: il Regno dell' Inverno e della Neve. E' il regno che si estende a Nord di Vøkandar, il solo a non essere stato conquistato dai monarchi della Primavera.

Ydvén: il regno dell’Autunno ad Ovest di Vøkandar. Durante la prima era è stato dovernato dalla stirpe dei Dverin, poi sconfitta dai sovrani della Primavera ed estinta.
Æntall: Bosco che divide le terre a Sud-Est con quelle a Ovest. Il suo significato è "Sempreverde".
Sýrin, i mutaforma del Nord: un tempo erano presenti in tutta l'isola, ma adesso sono decimati e sono presenti solo a Nord. Il singolo componente di questa "razza" viene chiamato Sý e solitamente ha il manto albino.
Narman: sono i ribelli del Nord, tra i quali ci sono sia i Sýrin che persone comuni. Il loro comandante si fa chiamare Narmanna.
Bræstven: E' il capo della Fratellanza. Il suo significato è "Onorevole fratello". Il suo corrispettivo femminile è Bræstvenna e significa "Onorevole Sorella".

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Capitolo 5
*** 05. ***



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Lucien raggiunse le stanze private quando era già l’alba.
Quella trascorsa, così come le precedenti, era stata una notte lunga e difficile, fatta di domande senza risposte ripetute ancora e ancora come una filastrocca perversa e torture che, molto spesso, non avevano provocato neanche un urlo di dolore o protesta, una singola richiesta di misericordia.
Lucien, in ogni caso, non ne avrebbe riservata alcuna.
Non era la prima volta che il bræstven interrogava dei Sýrin, negli anni successivi all’ascesa al trono di Lorhanna c’erano state numerose battaglie tenutesi al confine con il Nord, nella sponda sud del fiume Marén, il fiume Azzurro che divideva i due regni e, come in ogni battaglia, molti erano stati i progionieri da entrambe le parti. Prigionieri che non avevano più rivisto la propria terra natia.
Nota, oramai, era per lui la caparbietà dei ribelli, la loro forza molto simile alla stoltezza nel non piegarsi, nel rimanere fedeli alla causa fino al loro ultimo respiro; nota era la loro volontà di affrontare la morte senza paura, senza incertezze, senza mai spezzarsi.
Eppure, lui continuava a provarci. Prima o poi, ne era sicuro, li avrebbe piegati tutti e avrebbe posto fine a quella razza innaturale e abominevole.

Aprì la pesante porta che dava sulla stanza da letto, desideroso di dormire per qualche ora e bearsi del calore della persona con cui, da molti anni ormai, divideva il suo letto, fermandosi bruscamente quando notò con disappunto che il suo lato del suddetto letto era già stato occupato.
Una parte di lui avrebbe voluto urlare nel vedere quella disgustosa scena promiscua, sguainare la spada che ancora pendeva dalla cintola legata alla sua vita sottile, ma fu il suo lato più freddo e composto ad avere come sempre la meglio.
Impassibile e silenzioso come un felino camminò con passo felpato fino alla finestra nascosta da pesanti tende di velluto e broccato scuro, scostandole con un movimento secco del braccio per far entrare la luce del sole che, prepotente, si andò a schiantare con un raggio obliquo contro i corpi degli amanti profondamente addormentati.

«Ma cosa?» sentì borbottare da sotto le candide coperte, dalle quali fece capolino una zazzera di capelli neri arruffati e un volto pallido che Lucien conosceva da sempre.
«Lucien? — continuò nervosamente la figura, mettendo a fuoco la sagoma dell’altro che, in penombra, troneggiava accanto alla finestra — Non ti aspettavo…»
«Sì, lo vedo. — concordò il biondo con voce atona, inclinando leggermente la testa in direzione del giovane ragazzo dai capelli color del carbone e la pelle olivastra ancora addormentato — Fai uscire quella feccia da qui entro due minuti oppure ci penserò io a trascinarlo fuori.»
«Svegliati! — sentendosi scuotere per una spalla il ragazzo aprì gli occhi, guardandosi attorno leggermente perplesso, cercando di capire il motivo di quel brusco risveglio — Devi andartene, ora!»
«Credevo… — le parole del giovane ragazzo morirono sul nascere quando, un momento dopo, si girò e notò l’imponente figura ancora immobile nella penombra dietro di loro — Yvjórsekk
«Sei sordo, ragazzo? Fuori di qui se non vuoi che chiami i miei uomini e ti faccia trascinare nelle prigioni, rinchiudere insieme a uomini che, lo giuro, godrebbero in svariati della tua presenza.»
Gli occhi scuri del ragazzo si riempirono di terrore e, sgusciato dal letto e raccolti frettolosamente i vestiti sparsi sul pavimento, abbandonò la stanza da letto senza aggiungere una parola.

«Sei in collera con me?» l’esile figura scivolò giù dal letto con la sensualità di un gatto, dimentico e affatto timido della sua nudità, avvicinandosi con passo lento al biondo.
Lucien osservò i suoi tratti, i lineamenti di quel volto che conosceva a memoria; erano così diversi dai suoi, spigolosi e severi, così armoniosi ed eleganti, alle volte persino regali.
«No. — rispose Lucien, impassibile, rinchiudendosi come sempre faceva dietro la sua maschera granitica — Sono solo molto stanco e seccato.»
«Ti ho aspettato per tre notti e non sei mai venuto; ero annoiato, infastidito, così ho deciso…»
«So perfettamente cosa hai deciso: almeno ne è valsa la pena?»
I due si guardarono per un lungo momento, occhi verdi negli occhi ambrati, gelosia contro rimorso, desiderio contro orgoglio.
«Non lo so. Prima del tuo arrivo ho creduto di sì, ma adesso…»
«Sai bene che non mi devi niente, come io non ti devo nulla. — ricordò Lucien, ben sapendo di aprire una piaga che non si sarebbe mai del tutto chiusa, di dire una verità che nessuno voleva ascoltare — Siamo quello che siamo e in ogni caso dubito che ci potrebbe mai essere più di questo.»
«Questo non è abbastanza? — un sospiro e una risata amara — Lascia perdere, non importa. Mi sei mancato, Lucien.»
Lucien strinse la mano poggiata sul suo petto con la propria, avvicinando pericolosamente il viso all’altro, fronte contro fronte. Chiuse gli occhi per un momento, respirò profondamente il profumo dei capelli scuri che si andarono ad accostare ai propri e, senza dire nulla, unì famelico le sue labbra sottili a quelle carnose dell’altro.
«Mi sei mancato anche tu, Damien. — sussurrò sulle labbra del suo amico e amante — Mi sei mancato, ma a momento puzzi come una puttana di un bordello e non sopporto la tua vicinanza.»
Damien si allontanò dal biondo come fosse stato scottato dal fuoco vivo di un camino: «Lucien…»
«Chiedi ai servi di portare una tinozza e dell’acqua calda, lavati da capo a piedi e solo dopo torna da me. Solo dopo, quando non avrai più l’odore di un altro uomo addosso, prenderò in considerazione di dividere nuovamente il letto.»



Dopo, rimasero entrambi distesi sull’ampio letto al centro della stanza dal soffitto affrescato, cercando un sonno che non riusciva ad arrivare.
La mente di Lucien era turbata, neanche la vicinanza di Damien, del suo caldo corpo nudo accanto al proprio, era riuscito completamente a scacciare i pensieri che l’affollavano e sapeva che il moro ne era consapevole: il giovane uomo conosceva Lucien da quando era un bambino pelle e ossa, negli anni aveva imparato a capirlo e leggere ogni sua piccola mossa o almeno così gli piaceva pensare.
Il capo della Fratellanza era consapevole di essere un mistero per tutti, alle volte lo era persino per il suo amante e per Lorhanna, mostrava solo quello che voleva mostrare e solo a chi voleva mostrarlo.
«Cosa ti turba? — chiese pacatamente Damien — Sono i Sýrin, Serghej e la sua feccia?»
Lucien aggrottò la fronte: «Come fai a sapere di Serghej?»
«Credi di essere l’unico ad avere delle fonti nel castello? — canzonò il moro mentre continuava a picchiettare giocosamente il petto nudo del biondo con la punta delle dita — Buffo, non trovi? L’ultima volta che è stato qui lo hanno accolto con ogni onore, quasi fosse un eroe, mentre adesso…»
«Ha avuto l’accoglienza che si meritava. — concluse Lucien — Sai, non sembra essere invecchiato di un giorno.»
«Cosa ti aspettavi? Un uomo con le prime rughe e i capelli grigi? — chiese piccato Damien, portandosi a sedere e cercando lo sguardo ambrato dell'altro — È un dannato Sýrin e, come entrambi ben sappiamo, il loro tempo non è il tempo di un qualsiasi uomo. Se dipendesse da loro, vivrebbero duecento anni, tormentando così non solo noi, ma anche i nostri figli e i nostri nipoti.»
«Per quanto mi riguarda, intendo vivere per più tempo possibile, tanto quanto loro. — sussurrò Lucien, utilizzando un tono così basso che solo Damien riuscì appena ad udirlo — E tu, mio caro, vivrai al mio fianco.»
Damien sorrise e, chiuandosi su di lui, lo baciò con trasporto. Tutto quello che desiderava, che aveva sempre desiderato, era una vita con Lucien, l’uomo che amava da tutta una vita, per cui aveva messo in gioco se stesso, andando contro ogni buon senso.
Sebbene la loro relazione fosse ufficialmente un segreto, a Yvjóstafir moltissimi conoscevano l’identità di colui che riscaldava il freddo letto del fratello della sovrana da più di un decennio; nessuno, in tutti quegli anni, aveva contestato quella relazione, troppo impauriti dalla reazione di Lucien, dal suo potere e dalla sua inclinazione a non perdonare — o dimenticare — le offese.
Dopo tutto, il Bræstven non era il primo e di certo non sarebbe stato l’ultimo membro della famiglia reale a prendere come amante una persona del suo stesso sesso; come lui, anche molti nobili in tutta la città si dilettavano con ragazzi o ragazze, molti dei quali erano dei semplici servi, ma a differenza di Lucien questi ultimi non ne facevano segreto, forti di una società tollerante e fin troppo propensa a chiudere un occhio sul dubbio consenso da entrambe le parti.
La lingua del biondo carezzò l'altra per un ultima volta, scostandosi piano mentre con una mano scostava una ciocca di capelli ondulati. Piano, lo fece accoccolare nuovamente sul suo petto e, tenendolo stretto, Lucien riprese ad osservare distrattamente il baldacchino sopra di loro.
«Sýrin o meno, Serghej morirà allo scoccare della tredicesima campana, quando il sole raggiungerà il suo massimo in cielo. — riprese Lucien dopo un lungo momento di silenzio — È già tutto organizzato, Lorhanna ha concordato che la sua morte sarà un monito e un esempio per ogni ribelle: domani, l’uomo — orso sarà solo un ricordo, un nemico in meno, un corpo senza vita proprio come colui che ha servito e amato come un fratello; come il bastardo a cui quella sciocca di mia sorella ha concesso non solo la sua fiducia, ma anche il suo cuore.»
«E i suoi segreti… — aggiunse Damien, pur sapendo che quella era una verità che Lucien non voleva ascoltare — Loro sanno, tutti loro conoscono ciò che molti a Ovest sospettano soltanto e se…»
«Basta! — Lucien zittì l’altro coprendogli la bocca con una mano callosa — Non una parola di più, Damien o giuro che uscirò da questa stanza senza voltarmi mai indietro.»
«Non lo faresti mai!» esclamò Damien, arrossendo vistosamente, sentendosi improvvisamente sciocco come un ragazzino, pauroso come un ragazzino.
«No? Allora evita di mettermi alla prova. — con un dito tracciò il profilo del moro, scostandogli nuovamente una ciocca di capelli dispettosa e portandola dietro un orecchio in un gesto affettuoso — Basta parlare adesso. Baciami.»
 



**



Rimasto da solo, Damien si preparò ad affrontare la restante parte della giornata.
Era rimasto a letto insieme a Lucien fino alla scoccare della decima ora, dopo la quale il biondo amante aveva abbandonato le morbide coperte, si era rivestito senza dire una parola e aveva lasciato la stanza.
Sapeva che lo avrebbe rivisto molto presto, anche se in veste di capo della Fratellanza e non di suo amante; sapeva che, seppur vicino, Lucien sarebbe stato dolorosamente lontano da lui e nessuna parola sarebbe stata scambiata.
In silenzio, permise ai suoi servi di attenderlo e vestirlo di tutto punto con dei pantaloni al ginocchio attillati, una tunica dalle maniche a sbuffo e un gilet di raffinate sete e broccati color dell’oro abbinato ad una elegante inquartata nera.
Sin da piccolo, sin da quando aveva memoria, aveva amato i bei vestiti, i balli in maschera, il lusso della corte di Yvjór; sin da piccolo, aveva imparato come comportarsi, come approcciarsi alle situazioni, cosa dire o cosa non dire in determinati momenti.
Aveva studiato al fianco di Norhanna e Lorhanna, le sue sorelle non di sangue, che lo avevano trattato sempre con gentilezza nonostante tutto, nonostante fosse figlio di un lord minore caduto con il resto della sua famiglia per difendere l’estremo Nord del regno.
E poi, prepotente, alla vigilia del suo decimo compleanno era arrivato a corte Lucien e tutto era cambiato…
 
Ricordava ancora il loro primo incontro, ogni volta che ripensava a quel giorno il suo cuore batteva forte nel suo petto e le sue gote si imporporavano: Lucien era giunto nella Capitale per entrare a far parte della Fratellanza, aveva lasciato la sua dimora in campagna per prendere il posto a lui designato in quanto figlio bastardo del sovrano; Damien era arrivato a corte da soli due anni, conosceva solo di nome il diciottenne Lucien che, ai suoi occhi, era immediatamente divenuto il giovane più elegante e bello che avesse mai visto.
Lucien aveva i colori di sua madre, una lady che tutti avevano sempre definito come bellissima e amabile, eppure nei suoi tratti spigolosi si poteva intravedere chiaramente il lignaggio reale, la somiglianza con re Mikæl.
Si erano baciati per la prima volta a un mese dal suo diciottesimo compleanno, sei mesi dopo la morte del sovrano e a poche settimane dall’ascesa al trono di Norhanna; si erano baciati nell’oscurità della sera, assaporato senza fretta e per la prima volta l'uno la bocca dell'altro tra le siepi sempreverdi, lontano da occhi indiscreti. Per anni il moro aveva represso i suoi sentimenti, nascosto il suo amore che molti in città e nel regno ritenevano disonorevole per due nobili come loro, ma quando quella sera il biondo comandante lo aveva preso per mano e lo aveva condotto tra le ombre danzanti della notte ogni cosa era profondamente cambiata. Da quel momento, forse ancor prima di quel momento, Damien aveva amato incondizionatamente solo e soltanto Lucien — aveva continuato ad amarlo nonostante tutto.

«Milord, — una delle sue serve lo destò dai suoi pensieri, dal suo passato — tutto è pronto. La regina Lorhanna chiede di voi.»
Damien chiuse gli occhi, scacciando suo malgrado quei dolci ricordi impressi nella sua mente, e annuì: «Arrivo.»



 

*






Angolo Autrice: Hola, gente! Prima che qualcuno possa dire qualcosa su quello che, forse, potrebbe essere considerato un finale infodump, vi dico solo che narrare il passato tra Damien e Lucien non è inutile, anzi ha una sua finalità e serve per capire meglio un personaggio complesso come sarà Damien.
Detto ciò, spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi abbia sorpreso seppur di passaggio. Ringrazio, infine, tutti coloro che fino a questo momento hanno letto la storia e hanno deciso di seguirla e/o recensirla.

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Capitolo 6
*** 06. ***


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Polvere dalle tinte rossastre si levò nell’aria secca del tardo pomeriggio.
Gabrielle si mosse veloce, roteando il longilineo corpo al ritmo di una melodia che solo lei riusciva ad udire, schivando il fendente che le sfiorò il braccio sinistro.
Bjorn piantò saldamente i piedi per terra, imprimendo le proprie orme nella terra rossa che ricopriva l’intero perimetro del campo di addestramento della fortezza della Fratellanza; respirò a pieni polmoni, riempiendo il petto ampio che si alzava e abbassava velocemente a causa della fatica provocata da quell’allenamento che andava avanti da quasi due ore.
I due compagni d’armi si guardarono dritto negli occhi, consapevoli che, sebbene quello fosse un allenamento, nessuno dei due avrebbe mai ceduto terreno all’altro o perso l’occasione per mostrare, fino alla fine, le tecniche migliori.
«Tieni ancora la difesa troppo bassa, ragazzina!» esclamò con il fiato corto Bjorn, che per primo aveva proposto quell’esercitazione per migliorare la tecnica dell’amica.
«Eppure da quel che mi risulta fino ad adesso non ho mai ceduto terreno o, peggio, mi sono ritrovata la tua lama a pochi centimetri dal collo.»
«Questo perché ci sono andato molto piano.»
«Allora smettila di andarci piano, di trattarmi come una principiante e dai il meglio di te: attaccami, pensa a me come un ribelle e non ti fermare prima di avermi messo in ginocchio e sconfitto.»

Bjorn ghignò e Gabrielle seppe che quella era la risposta che stava aspettando: il moro scattò in avanti, dando inizio a una nuova serie di affondi e parate, di metallo cozzato contro altro metallo, all’ennesimo tempo di quella musica che solo loro sapevano ballare.
I colpi del ragazzo si fecero più forti, più studiati ed esperti, tanto che per Gabrielle fu difficile pararne alcuni; Bjorn era uno dei migliori componenti nella Fratellanza, il suo talento naturale era stato chiaro fin da subito, tanto che lo stesso Lucien lo aveva più volte riconosciuto pubblicamente.
Forse, si era sempre chiesta Gabrielle, la sua propensione al combattimento era insita in lui, risiedeva nelle sue radici, nella sua misteriosa stirpe proveniente dalle terre ad Ovest dell’Æntall, il bosco Sempreverde; la sua forza era innata, i suoi colpi eleganti seppur decisi e la sua indole sapeva essere allo stesso tempo intransigente ma mai spietata.
La spada mulinò ancora una volta sopra di lei, la lama satura dell’ultima luce del giorno morente e Gabrielle si ritrovò ad indietreggiare ancora una volta, sollevare l’avambraccio coperto con il sottile metallo dalle venature scure forgiato dai maestri fabbri al servizio della corona, gli unici in grado di creare un metallo tanto leggero quanto indistruttibile.
Digrignò i denti quando la lama cozzò contro il metallo tenuto fermo con solido cuoio, cercò di resistere al suo peso e alla forza che Bjorn stava mettendo in quel colpo che, lo sapeva, sarebbe stato l’ultimo di quell’allenamento; il piede sinistro cedette a causa di tale peso, facendole mancare la terra sotto i piedi e in un fulmineo istante Gabrielle si ritrovò distesa supina, la punta della spada di Bjorn a pochi centimetri dalla giugulare.
Tutto tacque: Nako e Vor, come venivano oramai chiamati da anni, si guardarono per un momento che parve lunghissimo, occhi color dell’ambra riflessi in quelli neri come la notte, mentre il fiato caldo di lui sfiorava come una morbida carezza il viso ovale e dalle gote rosee dell’altra; da quell’angolazione, la pelle del giovane uomo sembrava ancor più baciata dal sole del solito e i lunghi capelli del colore delle ali di corvo, un tempo racchiusi in una crocchia morbida, adesso ricadevano sciolti sul suo viso, resi umidi dal sudore provocato dalla fatica proprio come quelli vermigli di lei che, come un soffice cuscino, erano sparsi a ventaglio sulla nuda terra.

«Fine dell’allenamento, ragazzina! — annunciò Bjorn, spezzando il silenzio e tendendole una mano — Ti sei battuta egregiamente, ma non ancora abbastanza per battermi.»
«Presto riuscirò nell’impresa e quando accadrà saprai che sono divenuta più forte di te.»
«Vedremo. — Bjorn sorrise sornione mentre, in lontananza, un campanile annunciava lo scoccare dell’ottava ora — Tempo di andare: domani ci sarà l’esecuzione e Lucien mi ha ordinato di sovrintendere gli ultimi preparativi affinché tutto sia come ordinato.»


Il pensiero di ciò che stava attendendo entrambi provocò in Gabrielle un brivido lungo tutta la schiena.
Non che quella dell’indomani sarebbe stata la prima condanna a morte a cui assisteva o, ancora, la prima uccisione a sangue freddo a cui prendeva parte, ma qualcosa le diceva che insieme a Serghej sarebbe morta anche la sua opportunità di scoprire qualcosa di più sul passato e sui suoi tanti segreti. Con Serghej, sarebbe morta nuovamente sua nonna e i misteri che si era portata nella tomba.
Sarebbe stato diverso? L’indomani, quando l’ascia si sarebbe fatta strada tra la carne del traditore, prendendosi la sua vita oltre che la sua testa, avrebbe provato sensazioni contrastanti? Sperava con tutto il cuore di no.
La verità era che non era riuscita a raccontare a nessuno del suo incontro con Serghej, avvenuto due giorni prima nelle prigioni dei sotterranei della fortezza della Fratellanza; neanche con Bjorn, con il suo migliore amico con cui aveva sempre parlato di tutto, era riuscita a parlare dei dubbi che erano nati a causa di quelle parole menzognere che l’uomo – orso le aveva rivolto con una tale sicurezza da farle spavento.
E poi c’era stato quel nome, il nome di sua nonna e il modo in cui lui l’aveva guardata, come se Ariadne non fosse stata un fantasma o uno scherzo della sua mente, ma una persona in carne e ossa, ancora viva.

«Va tutto bene, Nako?» le chiese Bjorn, vedendola assorta e pensierosa.
«Tutto bene, sì. — rispose frettolosamente l’altra — Pensavo a ciò che accadrà domani, alle ripercussioni che la morte del traditore potrebbe avere e altre sciocche preoccupazioni. Corri, adesso, vai prima che qualcuno noti il tuo ritardo e non preoccuparti per la ragazzina che è stata appena sconfitta miseramente dal suo superiore.»
Bjorn le riservò un ultimo sguardo indagatore, non del tutto convinto della risposta dell’amica e, ancora pensieroso, le diede le spalle e si allontanò da lei con passo svelto.


Si rividero quella stessa sera, nelle prime ore della notte e si sedettero attorno ad un lungo tavolo ligneo a sorseggiare birra.
Gabrielle aveva continuato a rimuginare su Serghej, su sua nonna, sulle possibili relazioni tra i due, ma nessuna risposta era arrivata alle sue domande.
Chiedere a sua madre sarebbe stato impossibile, non solo perché a momento non le era permesso avere contatto con lei, ma anche per motivi che andavano oltre questo: sua madre si era sempre tenuta lontana da quella vita, suo padre non aveva mai parlato con lei della Fratellanza, di sua madre o della sua morte inaspettata.
Risposte non le avrebbe avute da Lucien, il quale avrebbe preferito ucciderla piuttosto che rivelare i massimi segreti della casa reale, del suo stesso sangue; risposte non sarebbero giunte da i suoi fratelli o da chiunque altro e questo non lasciava a Gabrielle altre soluzioni se non quella di lasciar perdere e rinunciare.
«Tutto è pronto! — aveva esclamato Bjorn mentre si accomodava sulla panca, porgendole una delle due pinte di birra annacquata — A quanto sembra tutti sono in fermento, non vedono l’ora di ammirare la testa del traditore rotolare ai piedi della nostra amata regina che, sono certo, sarà la più compiaciuta di tutti.»
«Puoi biasimarla? — si ritrovò a chiedere Gabrielle — I Sýrin, insieme ai ribelli, hanno portato, seppur involontariamente, alla morte di sua sorella. Lo stesso erede al trono ha trovato la morte per mano di uno di loro e prima ancora…»
Gabrielle sospirò, non potendo neanche lontanamente immaginare il dolore provato dalla regina, la perdita della persona amata: «Nelle vie della Capitale sussurrano che il suo cuore sia di pietra, ma sappiamo benissimo entrambi che non è stato sempre così, che sono stati quelli del Nord a tramutarlo per sempre.»
«Ho sentito, tanto tempo fa, prima che fosse bandita, una ballata dedicata a lei e al Comandante: mi ha quasi spezzato il cuore udirla e se è triste anche solo un briciolo quanto la tristezza provata da Lorhanna allora giuro, lo giuro, che non vorrò mai innamorarmi. — Bjorn prese un lungo sorso di birra — No, non posso biasimarla per il suo desiderio di vendetta, dubito che qualcuno potrebbe.»
 
 


**




Una lacrima solitaria solcò il suo viso pallido quando, quella mattina, Lorhanna aprì gli occhi.
Inspirò profondamente, cercando di calmare il cuore che pareva sul punto di esploderle nel petto e di dimenticare, suo malgrado, il sogno appena concluso — un sogno che sogno poi non era, un sogno che era un ricordo, un sogno che era un futuro mai arrivato.
Si alzò dal letto, scostando le coperte e, a piedi nudi, si mosse silenziosa verso una bacinella di porcellana decorata con fiori colorati che riempì di acqua fresca; si sciacquò più volte il viso, indugiando con i palmi delle mani sulle sua guance e quando incontrò il suo riflesso nello specchio della toeletta davanti a sé non riuscì a trattenere un triste e profondo sospiro.
Una parte di lei, una piccola parte di lei, poteva ancora udire la musica riempire la sala delle feste illuminata dalla brillante luce dei candelabri di cristallo, il calore della sua mano sul suo fianco, il suo sorriso luminoso e, più di altra cosa, il melodioso suono della sua voce — la sua voce che le ripeteva che l’amava.

Ritornò sui suoi passi, sedendosi sul bordo del letto a baldacchino e osservò in silenzio la singola rosa dai petali blu che se ne stava in un piccolo vaso sul suo comodino; era un bocciolo, un tenero bocciolo in procinto di fiorire ancora una volta, per l’ennesima volta, senza mai appassire — l’eterno simbolo del suo eterno amore.
La rosa era un pegno d’amore, l’ultimo dono del solo uomo che Lorhanna avesse mai amato e che, quindici anni prima, era spirato tra le sue braccia: François Lynsir, figlio di una delle famiglie più antiche della Primavera, Comandante dell’Esercito reale morto per difendere la regina Norhanna e il suo seguito da un attacco di ribelli del Nord.
François, il suo amante, il suo promesso sposo.


«Vyanth! — esclamò in un sussurro deciso, portando la mano destra a mezz’aria e tracciando un cerchio invisibile attorno alla corolla del fiore — Vyanth. Sboccia.»
In un attimo, il bocciolo si schiuse, mostrando i suoi petali nel loro massimo splendore e sul viso di Lorhanna comparve un fugace sorriso.
«Il mio amore non appassirà mai, così come non appassirà il nostro fiore. — sussurrò a se stessa, al suo cuore divenuto pietra, incapace di amare ancora — Vendetta sarà fatta. Avrò la testa di tutti loro, iniziando da quel sudicio Serghej, lo spergiuro che si professò tuo amico.»


Quando le sue dame di compagnia entrarono nelle sue stanze un’ora dopo, a Lorhanna non sfuggirono le parole sussurrate e i sorrisi timidi che due di queste si scambiarono.
Entrambe erano giovani, in età da marito e non fu una sorpresa per la sovrana scoprire che una delle due, la fanciulla dai lunghi capelli color nocciola e il viso rubicondo, era appena stata ufficialmente promessa in sposa all’uomo che, a suo dire, amava con tutto il cuore.
Il giovane, disse la ragazza, era capitano della guardie personali di una famiglia della nobiltà minore; quando, poi, la stessa fanciulla le chiese la sua benedizione, Lorhanna non esitò e le disse che sì, anche la corona benediva quella unione.
Una unione che era così simile alla sua e che, Lorhanna sperò, avrebbe avuto un finale diverso. Un finale felice.

Quando tornerò da Ynjór ci sposeremo. — le aveva detto lui prima di partire, stringendo le piccole mani di lei nelle proprie — Diventerete mia moglie e io vostro marito; avremo dei figli, tanti figli e saremo felici. Lo prometto.  


L’aveva baciata un ultima volta, un’ultima meravigliosa volta prima di andare e lei era stata certa che quella promessa sarebbe presto divenuta realtà.
Due mesi dopo, François era tornato da lei in punto di morte, con ferite talmente profonde che neanche i Grigi erano riusciti a curarlo; due mesi dopo, Lorhanna aveva seppellito il suo promesso sposo nel Tempio in cui riposavano i suoi antenati e da allora si era ripromessa di non provare mai più un sentimento anche solo lontanamente simile al puro amore.
Nulla era stato uguale dopo: non il suo rapporto con Norhanna, che si ostinava a sognare una pace con i ribelli del Nord; non il suo amore per quella sorella un tempo adorata che, con l’andare del tempo, era sempre più una sconosciuta; non il modo in cui era vista dalla corte e dai nobili che, al posto di rispettarla, provavano compassione per lei.
Tutto ciò che importava, che era esistito da quel giorno in avanti per Lorhanna era la vendetta: vendetta per sua sorella, la cui mente era stata avvelenata; vendetta per suo nipote che, seppur abominio, era stato sangue del suo sangue; soprattutto, vendetta per François, per il suo amore perduto.

«Vostra Maestà, tutto è pronto.»
Lorhanna riservò un ultimo sguardo algido al suo riflesso e rispose: «Eccellente.»


*

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Capitolo 7
*** 07. ***


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Era risaputo che, nei momenti antecedenti e successivi alla morte, le persone perdessero il controllo dei propri orifizi.
Nelle piazze, poco prima di una condanna a morte, l’aria era sempre satura di sudore, sangue rappreso e, quando l’ascia del boia fendeva l’aria e veniva calata sul pallido corpo del prigioniero, a questi si aggiungeva il nauseabondo odore di escrementi e morte.
Gabrielle si domandò se anche quel giorno sarebbe stato uno come tanti, se anche quella morte, seppur di rilievo e pregna di vendetta, sarebbe stata una come tante; dopo tutto, Sý o meno Serghej era pur sempre un uomo, un essere mortale come tutti loro.
La sentenza di morte sarebbe stata passata nella sala del trono, davanti agli occhi algidi di Lorhanna, della famiglia reale e dei nobili più fidati; era stata la stessa sovrana a prendere quella decisione, una scelta che andava ben oltre il suo senso di vendetta e che avrebbe reso ogni possibile tentativo da parte dei ribelli di salvare uno dei loro più validi comandanti difficile se non impossibile — il palazzo non era mai stato espugnato, era sorvegliato a vista da centinaia di uomini e, i più superstiziosi dicevano, era protetto dall’antica magia che scorreva profonda nella terra.
Gabrielle, insieme a una dozzina di suoi confratelli, aveva avuto il compito di sorvegliare il perimetro dell’immensa sala del trono, tenere d’occhio tutti i presenti affinché nulla accadesse alla regina; il suo sguardo attento continuava a vagare senza sosta in ogni angolo della lunga e maestosa sala dalle volte a botte dalle quali scendevano eleganti, attraverso lucernai siti sul soffitto a cassettoni, fasci di calda luce.
Ogni cosa sembrava essere in ordine: i nobili presenti chiacchieravano sommessamente tra loro, ogni guardia era armata e al suo posto e persino Lucien, che se ne stava in piedi accanto allo scranno riservato alla sorella, non sembrava preoccupato.

Lorhanna fece il suo ingresso poco dopo, seguita da cinque delle sue guardie personali e due delle sue dame di compagnia; indossava un abito blu scuro ricamato d’argento e i capelli erano stati raccolti elegantemente, abbelliti con fermagli anch’essi argentati.
Il suo viso di porcellana era privo di qualsiasi emozione, pareva quello di una statua marmorea e il suo passo era leggero e sicuro allo stesso tempo.
In un fruscio di sete e fogge, la sovrana della Primavera si accomodò sullo scranno che occupava oramai da quasi quindici anni e concesse un cenno del capo alla nobiltà che l’aveva salutata con profondi inchini e riverenze.

«Tutto è pronto, Maestà.» disse Lucien, incontrando lo sguardo gemello della sovrana.
«Eccellente. Fate entrare il ribelle condannato a morte, il mostro che ha ucciso tanti di noi e che oggi, finalmente, conoscerà la sua fine.»


Un cenno del capo da parte di Lucien e, come per incanto, le pesanti porte dall’altra parte della sala del trono si spalancarono: Serghej era in catene, veniva trascinato tra spintoni e strattoni da tre soldati e due confratelli della Fratellanza; era stato meticolosamente lavato e i suoi abiti logori erano stati cambiati con una tunica di lino bianco — la stessa che veniva concessa a ogni condannato a morte.
Il suo viso era, se possibile, ancora più pallido e profonde occhiaie violacee contornavano gli occhi fissi sul pavimento dalle venature ombrate. La sua mente sembrava lontana, persa in chissà quale ricordo o probabilmente già sconfitta davanti alla morte che, poco lontana, l’attendeva sotto forma di boia reale.
Gabrielle, dietro la sua maschera di cartapesta, la stessa indossata da ogni membro della Fratellenza durante le occasioni pubbliche per non essere riconosciuti, continuava a far saettare il suo sguardo color dell’ametista dal uomo-orso alla regina, pronta a scattare in qualsiasi momento e utilizzare i coltelli che, ben nascosti sotto la redingote dai colori vermigli, aveva fatto affilare quella mattina.

«Ultime parole?» chiese Lucien, troneggiando sul Sý messo in ginocchio a pochi passi dallo scranno reale dal quale lo guardava come un felino con la sua preda agonizzante.
Serghej ghignò, sfigurando il suo volto squadrato in una smorfia carica ripugnanza, guardandolo con un disprezzo e un odio così profondo che Gabrielle rabbrividì.
Se quello sguardo avesse potuto uccidere, tutti loro sarebbero stati già morti, Lucien per primo; nessuno, mai, aveva guardato un altro uomo con così tanta cattiveria, con un così grande senso di vendetta, di morte, di rabbia.
«Alla fine, tutto verrà svelato, le colpe espiate e i crimini vendicati. — ruggì Serghej, spostando la sua attenzione da Lucien a Lorhanna — Le menzogne, alla fine, diverranno verità e allora saprete, Principessa, che tutto ciò che siete è solo un’illusione.»
Lo sguardo dell’uomo si spostò nuovamente, correndo da Lorhanna a Gabrielle: quest’ultima sussultò appena quando, per un fugace istante, Serghej le sorrise quasi affettuosamente e nuovamente la sua mente tornò alla conversazione avuta con lui nelle celle, al modo in cui l’aveva chiamata Ariadne, alla disperazione contenuta in quel nome.

Un calcio tanto inaspettato quanto ben assestato all’altezza dei reni fece piegare l’uomo-orso in avanti, verso il ceppo pronto a ricevere la sua testa; uno dei Grigi, fattosi avanti dalla penombra, gli offrì misericordioso una benda scura per gli occhi ma l’albino la rifiutò senza pensarci un secondo. Avrebbe affrontato il suo destino da uomo, avrebbe guardato in faccia la morte e l’avrebbe accolta come una vecchia amica.
Gabrielle deglutì nervosamente, ben conscia di star per perdere nuovamente il suo passato, la possibilità di conoscere davvero quella famiglia — sua nonna, suo padre — che le aveva dato il nome e poco altro: sua nonna, la sua Nana, era morta quando lei aveva quattro anni e suo padre, per quanto fosse stato amorevole, era sempre stato un’ombra sfuggente durante i quindici anni che avevano trascorso insieme.
Nessuno di loro le aveva mai dato risposte, tantomeno lo aveva fatto sua madre, e ora che quell’uomo stava per essere ucciso…
«Lunga vita alla Regina!» urlò Serghej, squarciando il silenzio con la sua foce rauca ma potente un attimo prima che la lama affilata calasse su di lui, prima della fine.

Fu un taglio netto, preciso, che recise la pallida testa in un solo colpo.
Sangue sgorgò copioso dal collo, andando ad imbrattare il pavimento, mentre il corpo senza vita si contorceva negli ultimi spasmi vitali prima di diventare un ammasso di muscoli flosci e pietrificarsi per sempre.
Il boia, un uomo alto e possente dagli occhi neri come la notte, prese per i capelli la testa che aveva raggiunto i gradini che separavano la navata dal trono e l’alzò in aria affinché tutti potessero ammirarla: gli occhi di Serghej erano chiusi, i suoi capelli tirati lasciavano in bella mostra i lineamenti del suo viso, un viso che in quel momento sembrava uno tra tanti.
Lorhanna sorrise, compiaciuta e soddisfatta, gioendo al pensiero che l’uomo in parte responsabile per la prematura morte del suo amato era anch’esso morto violentemente: la sua vendetta era solo all’inizio, pensò mentre i nobili iniziavano a farfugliare parole di compiacimento e approvazione; il suo piano era ancora ben lontano dall’essere concluso, molti ancora aspettavano una giusta sentenza di morte e tra questi ci sarebbe stato anche l’ultimo tra i traditori, il suo subdolo cugino Lucas.

«Giustizia è stata fatta! — esclamò trionfante, alzandosi dal trono e guardando i suoi sudditi, suo fratello Lucien e il suo fidato amico Damien, rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra — Il Nord sanguinerà ancora e presto, i ribelli saranno schiacciati una volta per tutte e il nostro prospero regno presto sarà il solo dominio su questa nostra bella e fertile isola.»
Applausi si levarono da ogni angolo della sala e Lorhanna si concesse un sorriso prima di continuare: «Domani sera, per festeggiare la morte di questo sporco traditore, darò un ballo in maschera degno della corte della Primavera ed esigo che tutti voi vi partecipiate.»

Quando, poco dopo, il corpo mozzato dell’uomo chiamato Serghej fu portato via per essere bruciato in un luogo segreto e la sala pulita dal sangue che nei minuti successivi alla morte si era raggrumato sul pavimento di marmo, la sovrana della Primavera si alzò dallo scranno dei suoi avi e, seguita da Damien e dal resto del suo seguito, abbandonò la sala silenziosa com’era entrata quasi un’ora prima.

 


**


 
Il porto era differente da qualsiasi altro rione di Yvjóstafir. L’aria, in quel luogo, era un connubio di spezie, cibi di strada, voci dagli accenti marcati, brezza marina e molto altro.
Gli edifici, dei palazzi senza fondamenta che, per struttura, ricordavano dei giunchi al vento, erano di colore sgargiante, con tetti a punta e comignoli zigzaganti da cui uscivano i fumi delle cucine o delle sale comuni.
Strutturati a schiera in modo da sembrare quasi un unico blocco orizzontale, si estendevano a perdita d’occhio lungo tutto il bacino naturale in cui, placide, erano state ormeggiati vascelli e barche dalle forme e vele più disparate; ogni edificio, inoltre, attirava in modo differente turisti e marinai appena sbarcati in cerca di riposo, una pinta di birra al malto o una donna con cui riscaldare una branda.
Molti, tra la nobiltà e non solo, sceglievano di visitare questa zona della città in incognito, spesso vestendosi con abiti poveri o, ancora, coprendo i loro visi con maschere che celassero la loro identità, il tutto per un momento di libertà, per poter dimenticare le loro origini e fingere di essere qualcuno che non erano e non sarebbero mai stati.

Gabrielle si grattò per l’ennesima volta il braccio, contenendo una smorfia a causa del prurito provocato del tessuto grezzo di quel vestito che era stata costretta ad indossare, mentre con passo svelto si muoveva tra i viottoli e i pontili del Vanéch, come veniva chiamata nella lingua comune quella zona, al fianco di Bjorn e Lysette.
Ancora una volta, Lucien aveva conferito loro una delicata missione, un compito da svolgere nel massimo silenzio e senza dare nell’occhio: per questo e solo per questo motivo si erano addentrati, vestiti come dei venditori qualsiasi e ben attenti a nascondere la loro natura di soldati — non soldati qualsiasi, ma confratelli della Bræthanir — a chiunque incrociasse anche solo per sbaglio il loro cammino.


Il Martagon era, come al solito, gremito di gente e su ogni panca erano sedute almeno quattro persone: quasi tutti erano intenti a sorseggiare della birra, mentre solo alcuni si stavano intrattenendo con ragazze provenienti dal bordello poco vicino e quasi nessuno dava ascolto ai due violinisti che, nell’angolo opposto all’entrata, stavano suonando una canzone dai toni allegri e dal ritmo piuttosto veloce.

«Buona sera, giovani ragazzi! — fu la voce del locandiere, un tipo tracagnotto, con lunghi baffi e quasi del tutto pelato ad accoglierli non appena varcarono la soglia — Come posso aiutarvi? Se siete forestieri sappiate che ho a disposizione le ultime due camere per questa sera, mentre se siete in cerca di svago posso offrirvi un’ottima birra dal doppio malto e lo stufato migliore di tutta la Capitale.»
«Tre birre doppio malto e un tavolo appartato andranno più che bene, grazie.»
L’uomo annuì, solo in parte soddisfatto dalla risposta data da Bjorn e, allungata una mano, indicò un tavolino rotondo sito in un angolo in penombra vicino ad una finestra che dava su di un vicolo laterale piuttosto fatiscente.
«Una delle mie ragazze vi porterà subito le vostre birre.»


«Sei sicuro che arriverà?» chiese Lysette, scostandosi una ciocca di capelli castani dagli occhi di giada.  
Non avevano certezze che il loro informatore sarebbe giunto, che fosse arrivato sano e salvo in porto, tantomeno erano stati informati delle notizie in suo possesso.
Cinque giorni prima, insieme al traditore Lucas Dvjorst si erano dileguate la nave di cui era da sempre capitano, l’Ortensia, e altre cinque navi che componevano la Flotta Ambrata al suo comando — tra queste, due erano comandate da temibili Roshkar, dei corsari al servizio della corona provenienti rispettivamente da Yvést, il continente dell’Ovest, e Nés, l’arcipelago delle isole dell’Est.
«Lucien ha detto di aspettarlo alla locanda, di attendere l’alba se necessario e di tenere gli occhi e le orecchie ben aperti: non si sa mai chi potrebbe essere seduto al tuo tavolo vicino e origliare le tue conversazioni.»

L’informatore arrivò due ore dopo, zuppo a causa della pioggia battente che aveva iniziato a cadere e ingrossare i canali della città, e per Gabrielle e gli altri non fu difficile riconoscerlo: aveva una cicatrice piuttosto profonda sul mento, occhi freddi come il ghiaccio e capelli arruffati come quelli di un cane randagio.
Anche lui riconobbe immediatamente gli altri tre e, senza dare troppo nell’occhio, si accomodò al loro tavolo, proprio accanto a Nako.
«Sei in ritardo!» lo rimproverò Bjorn, che non era mai stato bravo nelle attese.
«Credi sia facile attraccare in un porto come questo senza essere visto e accertarsi di non essere seguito? — chiese retoricamente — No, non lo è affatto.»
«Bræstven ci ha detto che hai delle informazioni importanti: è così?»
«È stato lo stesso Zhérion ad ingaggiami affinché tenessi d’occhio quel traditore di suo cugino, la puttana che si porta dietro e quei bastardi della sua ciurma. — l’uomo dal nome sconosciuto si passò la lingua sui denti gialli e mezzi marci, resi ancor più gialli e disgustosi dal tabacco che stava masticando da quando era entrato nella locanda — Alcuni dei miei uomini hanno seguito la loro rotta, tenendo le navi a debita distanza fino a quando è stato necessario, allontanandosi solo quando il loro porto finale è stato chiaro a tutti.»
«Allora avanti, dicci quello che sai e facciamola finita.»
L’uomo sputò in un pentolino di stagno ai suoi piedi, liberandosi degli ultimi residui di tabacco e con calma rispose: «Hnmar, la città più a Est del regno di Ynjór, tra i freddi fiordi e le insenature nascoste dove, dicono, i ribelli stanno costruendo una flotta.»
«Nulla di nuovo, lo avevamo sospettato da tempo. — rispose asciutto Bjorn — Che altro hai per noi? Perché, lo ammetto, queste informazioni valgono ben poco l’oro della nostra amata sovrana.»
«Abbiamo una spia tra di loro, una figura di cui non sospetteranno nulla e che, a tempo debito, ci darà tutte le informazioni da noi richieste.»
«Come sappiamo che questa spia ci dirà il vero e che non sia una contromossa del nemico?» chiese Gabrielle, prendendo la parola per la prima volta.
«Perché abbiamo la sua mulatta, una bastarda senza valore che, per la nostra spia, è il più prezioso dei tesori. Se mai dovrà venir meno al nostro patto o mentirci sgozzeremo la sua ragazzina senza pensarci due volte.»
«Presumo, dunque, che tu non sia riuscito a mettere le mani sul bastardo della puttana Roshkar e del suo nobile amante.»
«La troia è più scaltra di quanto si pensi, ha fatto perdere le tracce del moccioso ancor prima che i piani fossero svelati e da quel che ne sappiamo potrebbe essere ovunque.»
«Un vero peccato. — sussurrò Lysette, tirando fuori un sacchetto contenente delle monete — Quaranta pezzi d’argento, giusto?»
L’uomo annuì, impaziente di avere la sua ricompensa e andare a riscaldarsi in qualche luogo lontano da quel porcile, magari in uno dei bordelli dei quartieri più benestanti.
«Te ne daremo venti per il momento. — annunciò Bjorn, mettendo subito a tacere qualsiasi tentativo di protesta dell’altro — Non sappiamo se quello che hai detto sia vero, il nostro Bræstven non si fida di voi e neanche noi ci fidiamo, quindi ti daremo il resto quando la tua spia inizierà ad inviare le informazioni che ci servono.»
L’uomo digrignò i denti, per nulla contento di quel cambio di accordi dell’ultimo minuto, ma non cercò di protestare o patteggiare: non era così sciocco da rischiare di mettersi contro il bastardo di Primavera o i suoi più fidati sicari — se avesse fatto anche un solo errore, lo sapeva, sarebbe finito sgozzato in un vicolo chissà dove.
«Sta bene: venti adesso e venti quando avrò altre notizie. — allungò una mano, facendo del suo meglio per celare il suo disappunto — Datemi i miei soldi, adesso e chiudiamola qua.»
Bjorn fece un cenno di assenso in direzione di Lysette la quale, senza attendere oltre, porse il sacchetto di velluto all’altro che, senza dire una parola, si alzò dal suo posto e si incamminò verso l’uscita della locanda.

«Ti fidi di lui?» chiese Gabrielle, lo sguardo fisso sulla porta dalla quale il tipo era sparito.
«Neanche un po’, ma è la nostra unica scelta e fino a quando Lucien lo riterrà valido allora anche io tenterò di credere, almeno in parte, alle parole che escono dalla sua fetida bocca.»
«Lysette, prendi quattro uomini fidati e mettili giorno e notte alle calcagna di quel tizio. — ordinò Bjorn alla mora —Dì loro di venire da me nel caso di sospetti e di non abbassare mai la guardia: i tempi sono quanto mai oscuri e nessuno è degno di una fiducia incondizionata.»
 
 

**
 


Il sole era caldo e splendente quella mattina, si rifletteva sulla superficie limpida e calma che era l’azzurro mare come fosse uno specchio e le uniche nuvole presenti erano quelle grigiastre che si sprigionavano dal sigarillo avvolto in un cilindro di foglie di tabacco scuro che pendeva dalle sue labbra carnose.
Scrutava l’orizzonte, le affusolate mani ben salde sulla base lignea della polena intagliata con maestria sulla prua della Acanto, la nave che da oramai cinque anni era diventata la sua casa.
Avevano preso il largo da quasi una settimana, stando ben attenti ad evitare la costa, ogni anfratto o isolotto in cui avrebbero potuto riconoscerli e dare l’allarme e ora che erano quasi giunti a destinazione le preoccupazioni avevano iniziato ad aumentare — erano così vicini, così vicini alla realizzazione dei loro piani, a rivedere i loro amici.
Nessuno, fino a pochi mesi fa, si era aspettato un tale risvolto degli eventi o di ritrovarsi in quella situazione, di ritornare ad essere ciò che, nel profondo, erano sempre stati: pirati e fuorilegge.
Pirati, certo, ma sempre leali fino alla fine verso colui al quale dovevano tutto: la loro fortuna, la loro vita, la loro felicità.

Morgan Idelle era rinata per merito del suo commodoro, dell’uomo che l’aveva riscattata e, notate immediatamente le sue enormi potenzialità, le aveva donato una ciurma e un perdono reale che l’aveva trasformata in una Roshkar, un corsaro, e permesso di girare in lungo e in largo i quattro mari senza timore di nulla, sebbene la sua razza la chiamasse traditrice e voltafaccia.
Lei, Deya, tutti loro dovevano la propria vita a Lucas Dvjorst, al capitano dell’Ortensia che, in quel momento, stava aspettando impaziente di ricongiungersi con la sua Flotta Ambrata.
Lasciare la capitale era stato arduo compito, depistare e seminare i cani che la regina Lorhanna aveva sguinzagliato al loro inseguimento era stato ancora più arduo, ma adesso le coste di Hnmar erano praticamente a poche leghe quella fatica sembrava un ricordo lontano.

«Terra! Terra in vista a Est-Nord-Est!»
Morgan alzò lo sguardo verso la giovane vedetta appollaiata sull’albero di trinchetto, seguendo con attenzione il punto in cui indicava il suo braccio proteso in avanti: ancora non riusciva a vedere il lembo di terra ma, lo sapeva, nel giro di pochi minuti tutto l’equipaggio sarebbe stato in grado di vederlo.
«Isabella, passami il cannocchiale! — ordinò al suo quartiermastro, una donna di due anni più grande di lei dalla pelle scura e folti ricci tenuti legati con un fermaglio colorato — Eccola, ci siamo!»
Morgan sorrise trionfante mentre scrutava i fiordi, quel panorama così affascinante e al tempo stesso temibile capace di farle battere il cuore all’impazzata, quel regno misterioso di cui aveva tanto sentito parlare e di cui aveva sempre sognato: Ynjór, il regno dell’Inverno, era a portata di mano e un nuovo capitolo della loro avventura stava iniziando.



 

*

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Capitolo 8
*** 08. ***



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Hnmar era diversa da qualsiasi altro luogo che Lucas avesse visitato.
Sparsa tra i fiordi e le alte scogliere, la città — se di città si poteva parlare — era formata da modeste case di mattoni e palafitte in legno che si estendevano da un’insenatura all’altra; il porto, un insenatura naturale circondata dalla natura e pieno di piccoli pescherecci e barche a remi, era incredibilmente silenzioso e privo degli odori pungenti o dei fumi che contraddistinguevano quello della capitale della Primavera.
Persino le persone erano taciturne, preferivano restarsene in casa piuttosto che affollare le strette e ripide strade con banchetti di pesce o altri alimenti, tanto che in alcuni momenti il capitano aveva avuto l’impressione di camminare in un luogo deserto.  
Unica roccaforte là presente era una struttura in pietra, costruita sull’estremità di una scogliera a strapiombo, composta da una torre perfettamente circolare sovrastata su quattro lati da piccoli cuspidi e collegata attraverso una terrazza a un perimetro quadrangolare più basso; da qui Lucas e altri suoi uomini, insieme ai ribelli del Nord, era in attesa delle navi — a detta dei messaggi ricevuti quattro navi da guerra e tre sloop — e dei capitani rimasti fedeli.

«Non ditemi che avete già raggiunto il vostro limite di tolleranza al freddo, Capitano.»
Lucas, in piedi a pochi passi dal parapetto esterno della torre, lanciò uno sguardo obliquo al giovane uomo al suo fianco: se il primo era coperto da capo a piedi con abiti pesanti e nascondeva le mani guantate sotto il pesante mantello di pelliccia, il secondo indossava degli abiti dal tessuto apparentemente leggero e un lungo mantello scuro rivestito di pelliccia solo internamente.
La prima volta che lo aveva visto, Lucas Dvjòr era stato quasi intimorito da quel ragazzo dal viso spigoloso, i capelli lunghi e bianchi come la neve più pura e gli occhi così azzurri da sembrare quasi innaturali; era stato diffidente nei suoi riguardi quando, durante il combattimento avvenuto nella piazza del mercato di Yvjóstafir più di una settimana prima, lo aveva visto impartire ordini con voce incolore, pronto a sacrificare fino all’ultimo dei suoi uomini senza mai vacillare o voltarsi indietro — come se non gli importasse, come se quelli morti sotto i loro occhi fossero stati dei completi estranei, carne e ossa senza volto o nome.
Insieme al Sý, che aveva scoperto chiamarsi Volk, Lucas aveva cavalcato fianco a fianco verso la via del Nord, trascorso notti sveglio a controllare i perimetri delle strade secondarie intraprese e discusso di piani di attacco ipotetici o futuri; sempre da lui era stato scortato alla presenza della donna chiamata Narmana, sotto il suo sguardo attento e indagatore aveva parlato con lei fino al calare del sole e più passavano i giorni e più, incredibilmente, il timore riverenziale provato nei confronti del ragazzo – lupo stava andando pian piano scemando.
Non che potesse anche solo lontanamente considerarlo un amico, certo, ma almeno adesso aveva smesso di vivere con il costante timore di esprimere i propri pensieri o di essere svegliato nel cuore della notte dal freddo metallo di una daga contro la sua gola.
«Temo di non essere abituato al freddo perenne come lo siete voi, Comandante. — rispose piccato — Nei miei lunghi viaggi lontano da casa mi sono imbattuto nei più disparati climi e ambienti, ma mi duole dire che nulla è paragonabile a questo. Inoltre, dubito fortemente che dentro di me ci sia un animale dalla folta e calda pelliccia pronto in ogni momento a riscaldarmi e proteggere dalle intemperie.»
«Solo perché i vostri reali antenati hanno dimenticato come parlare alla Natura ed entrare in contatto con gli spiriti animali non vuol dire che sia così per tutti. — asserì Volk, guardandolo con una tale intensità da metterlo, per la prima volta da giorni, in soggezione — Conosco ciò che dicono al Sud, so che queste storie sono diventate leggende, fiabe raccontate ai bambini, ma i nostri antichi libri non mentono: nella prima era anche voi, monarchi e nobili della primavera, eravate dei mutatori di pelle, uomini e donne che riuscivano a trasformarsi in lupi dal manto marrone, orsi dalla pelliccia scura o volpi dal fulgido pelo.»
«Credete dunque che dentro di me ci sia una qualche bestia addormentata?» chiese con una punta di divertimento Lucas, volutamente provocatorio.
«Non lo credo, lo so.»

Un corno risuonò poco lontano prima che Lucas potesse aggiungere altro, catturando non solo i loro sguardi, ma anche la loro attenzione.
«Vele! — esclamò la vedetta sopra di loro — Vele a Nord-Est: quattro navi da guerra e tre sloop esattamente come ci è stato detto. Si avvicinano spediti, con il vento a loro favore, saranno qui al massimo tra un’ora.»
Il capitano dell’Ortensia si precipitò verso la ripida scala a chiocciola che scese in tutta fretta e, a passo spedito e seguito dal sempre silenzioso Volk, percorse le strade scoscese e i viottoli che conducevano al porto.
Le navi più piccole stavano attraccando alle banchine, mentre le più grandi erano rimaste a poche miglia dalla costa e stavano inviando uomini a terra attraverso scialuppe quando Lucas arrivò a destinazione, giusto in tempo per osservare Morgan e Daya mettere per la prima volta piede in territorio da sempre definito nemico.

«Siete arrivati, finalmente!» esclamò Lucas, cercando di non far trasparire palesemente il suo sollievo nel vedere il suo amico e la donna che amava sani e salvi.
«Hanno tentato in tutti i modi di rallentarci, farci perdere la rotta e il vento, ma alla fine ce ne siamo liberati.»
Morgan sorrise sorniona e anche Lucas le sorrise sghembo: entrambi avrebbero voluto poter concedersi di più — un abbraccio, una carezza, un bacio — ma conoscevano perfettamente il loro ruolo e sapevano che quello non era il tempo e il luogo giusto.
«Liberati, ne sei sicura?»
Una terza voce, appartenente a un giovane uomo dagli zigomi prominenti, il volto allungato contornato da una barba curata e lunghi capelli neri, si intromise tra di loro.
Daya Kùzen era il capitano della Vèsthur, il Vento della Sera, nonché amico di Lucas e uno dei suoi uomini più fidati: era anche un abile e letale soldato, uno dei migliori quando si trattava di velocità e scaltrezza, e sapeva parlare uno svariato numero di lingue e dialetti — alcuni sostenevano addirittura che sapesse parlare la lingua degli spiriti.
«Gli uomini al servizio di Lorhanna, o per meglio dire di Lucien, non sono così sciocchi come pensiamo: certo, di sicuro avevano il vento dalla nostra, ma dubito che ci abbiano lasciati andare di proposito. Inoltre, sono più che sicuro che quelli erano mercenari, uomini assoldati con chissà quale scopo e con molta probabilità hanno intuito la nostra ultima destinazione.»
«Credete che presto ci attaccheranno?»
Morgan e Daya si scambiarono un’occhiata fugace, ma fu Volk, fino a quel momento restato in disparte, a parlare per primo: «Il loro attacco è già stato previsto da tempo, probabilmente Lucien ha già inviato i suoi migliori soldati sulle nostre tracce; potrebbero addirittura aver superato l’Azzurro mentre parliamo, essere entrati non visti nei nostri confini, ma non per questo ci coglieranno di sorpresa.»
«Siete un Sýrin! — esclamò Daya, per nulla sorpreso di trovarsene uno a pochi passi — Ne ho visti molti nella mia vita, uomini e donne capaci di mutare pelle, ma è la prima volta che ne incontro uno albino, uno del Nord.»
«Il piacere è reciproco, Ælésir. — disse a sua volta Volk, lasciando tutti di stucco, persino lo stesso Daya — I dominatori dell’aria sono rari di questi tempi, ma so che sono molto comuni ad Est, nell’arcipelago di Ynéstnar. È da lì che provenite, vero?»
«Impressionante, davvero impressionante. — Daya increspò le labbra sottili in una parvenza di sorriso — È raro che qualcuno mi sorprenda, lasciandomi senza parola, ma in questo caso devo ammettere di essere piacevolmente stupito.»
«Sin da piccolo sono stato addestrato a percepire la magia intrinseca in ognuno di noi, riconoscerla e imparare ad affrontarla. — l’albino gli porse una mano — Sono Volk.»
«Daya Kùzen.» si presentò l’altro, stringendo la pallida mano con la propria guantata.

Il ragazzo albino era sorprendente, pensò Daya, ma allo stesso tempo c’era qualcosa in lui che lo rendeva temibile: una sottile e quasi impercettibile sfumatura nel suo tono di voce, nelle sue parole, aveva reso quella conversazione appena terminata un monito, un avviso, una minaccia persino.
Qualcosa in lui, qualcosa di misterioso e potente, gli conferiva il dono di poter leggere nell’animo di chi gli stava intorno, mentre lui…
In pochi istanti Volk aveva svelato tutti i suoi segreti, mentre Daya non sapeva assolutamente niente dell’albino — era probabile, anzi ne era sicuro, che Volk non fosse neppure il suo vero nome.
Nella sua mente scattò un campanello d’allarme, un sesto senso che diceva di non abbassare mai la guardia: decise che quella sera, chiuso nei suoi alloggi situati nella stiva della sua nave, avrebbe consultato le carte e cercato risposte sul passato di quel ragazzo dai capelli color della neve.

 


**



C’era un piacevole profumo di fiori e sali da bagno nell’aria quando, quella mattina, Lucien raggiunse di buon’ora le stanze private della regina.
Lorhanna era immersa nell’acqua calda che riempiva quasi fino al bordo la vasca da bagno di ceramica dai piedi ricurvi di ottone, gli occhi chiusi e la testa inclinata all’indietro, il volto rilassato e la mente sgombra da pensieri come da tempo non accadeva.
Per un attimo le ricordò la ragazzina spensierata che era stata, la bambina sempre sorridente che giocava insieme a Norhanna e Damien nei cortili interni del castello; per un attimo, ai suoi occhi fu nuovamente la giovane donna sedicenne innamorata di un uomo dai capelli corvini che le aveva promesso un futuro felice insieme e giurato amore eterno.

«Cara sorella, — esordì rompendo la tranquillità e il silenzio del momento — spero di non disturbarvi, ma avrei bisogno di conferire in privato con voi.»
Lorhanna aprì lentamente gli occhi di ametista, mettendo a fuoco la figura del fratello fermo sullo stipite della porta aperta; era ancora prima mattina, il sole non era sorto da molte ore, eppure Lucien sembrava sveglio da molto più tempo.
«Deduco che questa conversazione non possa aspettare.»
Lucien non rispose, lasciando parlare il silenzio e il suo sguardo al loro posto, e Lorhanna non poté far altro che sospirare pesantemente e fare cenno a una delle sue dame di portarle un lungo telo color crema che l’avvolgesse interamente e con cui asciugarsi.

Si rividero nella stanza antecedente ai bagni, dove Lorhanna si accomodò, vestita con una tunica di un rosa pallido e un’ampia veste dalle maniche ad ala lasciata aperta, su di una sedia e iniziò a sbocconcellare della frutta fresca.
Lucien, come sempre, rimaneva in piedi e fissava un punto indefinito della stanza: molte, troppe volte la sovrana si era domandata cosa passasse per la mente del suo fratellastro, quali pensieri nebulosi e quali piani mai condivisi.
«Di cosa volevi parlarmi, fratello?»
«Del futuro, dei nostri piani dopo il ballo, un ballo che, ammetto, avrei preferito evitare in tutto questo trambusto.»
Lorhanna aveva annunciato quel ballo cogliendo tutti di sorpresa, persino lo stesso Lucien; spesso la sorella minore era solita prendere iniziative di sua spontanea volontà, fare annunci di cui poi si sarebbe dovuto occupare il biondo con la massima fretta e quel ballo imminente sarebbe stato uno di quelli — non un semplice ballo, ma un ballo in maschera.
«Temete che qualcuno possa infiltrarsi tra gli invitati, che possa attentare alla mia vita?»
«Sarei uno stolto a non farlo, amata sorella. — rispose prontamente — Solo ieri abbiamo messo a morte uno degli esponenti più pericolosi dei ribelli, un capo molto amato e rispettato a nord e di sicuro i suoi uomini non rimarranno con le mani in mano.»
«Come neanche noi, d’altronde. — fece notare la sovrana — Ho intenzione di mandare in avanscoperta i migliori componenti della Fratellanza e del nostro esercito, muovere un attacco con il nostro esercito ed eliminare quanti più nemici possibili. Inoltre, ho bisogno di sapere quanto prima il volto del nostro nemico, chi sia questa maledetta Narmana!»
«Perdonami, cara sorella, ma un attacco a sorpresa non credo sia la risposta ai nostri problemi. — contraddisse l’altro senza timore — Potremmo, però, inviare una dozzina di soldati ben addestrati nei territori nemici e cercare di avvicinarci il più possibile al loro palazzo e ai loro piani.»
«Un piano pericoloso per così pochi uomini.»
«Vero, ma il sacrificio è qualcosa che in questi tempi va contemplato. — Lucien si avvicinò a passo lento al tavolo e, sportosi in avanti, posò entrambe le mani sul bordo del tavolo — Inoltre, mi basta che ne torni anche solo uno loro per riferire ciò che hanno visto; il resto è sacrificabile.»
«Hai già in mente qualcuno?»
«Qualche membro anziano, sì e anche qualche giovane che si è distinto per le proprie qualità. — rispose prontamente — Bjorn Tsvorag, per esempio: è un soldato fedele, uno degli arcieri migliori che abbia mai conosciuto, oltre che una pedina sacrificabile.»
Nella mente della sovrana si dipinse il viso del ragazzo: alto, spalle larghe, lunghi capelli neri e occhi del colore della notte più buia; ogni cosa in lui mostrava la sua provenienza, il suo essere un figlio dell’Ovest e dell’Autunno e questo lo rendeva unico a corte.
«Mio padre avrebbe dovuto ucciderlo insieme alla sua famiglia, invece si è fatto intenerire da un moccioso di pochi anni e ha permesso al seme di continuare a vivere. — Lorhanna sorrise amara — È stato un ottimo stratega, nostro padre, ma come ben sappiamo ha sempre avuto un cuore tenero quando c’erano di mezzo dei bambini.»

I due fratelli si guardarono per un lungo istante, entrambi ben consapevoli che quell’ultima frase costudiva più di quanto detto: quando il loro padre aveva deciso di prendersi cura del suo figlio bastardo, di crescerlo nello sfarzo, di dargli un posto di prestigio in società, la regina Cyhanna si era opposta con tutte le sue forze, fallendo.
Entrambi, seppur non ne avessero mai parlato apertamente, sapevano che il defunto sovrano aveva trattato Lucien in modo diverso, guardandolo in un modo in cui non aveva mai guardato le sue due figlie legittime, con quell’orgoglio con cui solo un padre guarda un figlio maschio — l’unico figlio maschio che il sovrano aveva avuto.

«C’è un’altra cosa di cui vorrei parlarti, fratello. — confessò Lorhanna, rompendo quell’imbarazzante silenzio e cambiando argomento — Come ben sapete tra due mesi compirò trentadue anni e questo mi ricorda un’annosa questione da troppo tempo rimandata: la mia successione.»
«Avete deciso di prendere marito, dunque?»
«Per quanto incredibile possa essere, il pensiero di lasciare a Lucas il trono dopo la mia morte non mi ha mai preoccupato; nostro cugino è sempre stato portato al comando, alla grandezza, ma poi ha deciso di tradirci e questo ha cambiato tutto.»
Lorhanna si alzò e, dando le spalle al fratello, si avvicinò alla finestra che dava sui giardini in fiore, posando una mano sul freddo vetro: «Sì, prenderò marito e lo farò quanto prima.»
«Chi sarà dunque il fortunato? Spero nessuno di quei pomposi nobili delle isole di Hafmàrr o uno di quegli austeri sovrani dell’arcipelago di Ynéstnar.»
La sovrana voltò lentamente il capo, incontrando lo sguardo del fratello e scosse la testa: «Nessuno di loro, no. Per il mio consorte ho in mente qualcun altro, qualcuno di molto più vicino a noi, che potrò controllare e mi darà dei figli di sangue puro.»
«Sorella, non parlerai mica…»
«Ti fidi di me, fratello? — chiese a bruciapelo la minore e, seppur titubante, Lucien annuì — Fidati di me, Lucien e ti prometto che ogni cosa andrà bene.»
 



*




Glossario:


 

Vøkandar: isola in cui si svolgono le vicende. Nella mia mente, è simile all'Islanda, solo più grande e solo in parte dominata dai ghiacci.
Yvjór: il Regno della Primavera. Il suo territorio si estende a Sud dell'isola ed è governato da un monarca.
Yvjóstafir: l'Eterna Primavera. Capitale del regno di Yvjór che si trova a Sud-Est dell'isola e si affaccia sul mare.
Ynjór: il Regno dell' Inverno e della Neve. E' il regno che si estende a Nord di Vøkandar, il solo a non essere stato conquistato dai monarchi della Primavera.
Sýrin, i mutaforma del Nord: un tempo erano presenti in tutta l'isola, ma adesso sono decimati e sono presenti solo a Nord. Il singolo componente di questa "razza" viene chiamato Sý e solitamente ha il manto albino.
Narman: sono i ribelli del Nord, tra i quali ci sono sia i Sýrin che persone comuni. Il loro comandante si fa chiamare Narmanna.
Bræstven: E' il capo della Fratellanza. Il suo significato è "Onorevole fratello".
Ælésir: sono i dominatori dell'aria. Il loro dono è divenuto raro nell'isola di Vøkandar, mentre è più comune a Est, nell'Arcipelago di
Ynéstnar.

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Capitolo 9
*** 09. ***



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Gabrielle si sentì mancare il fiato quando, nelle prime ore di quella calda serata, il soffocante corsetto venne chiuso con forza attorno al suo magro torace.
Le stecche di vimini si conficcarono nelle costole, facendole chiudere per un momento gli occhi per il fastidio; i suoi piccoli seni vennero spinti verso l’alto e la sua schiena si inarcò  facendole assumere, nella parte superiore del corpo, una postura irregolare e rendendo quasi impossibile respirare o muoversi in modo repentino.
Durante gli ultimi due anni e mezzo si era dimenticata le orribili sensazioni che quei vestiti pomposi, così come i pruriginosi merletti e tutti quegli accessori degni di una camera di tortura, provocavano al suo corpo e si domandò più volte come avrebbe potuto proteggere la sua regina indossando un abito che la faceva sembrare – e sentire – un animale costretto in una gabbia, impossibilitata a fare ogni più piccolo movimento: nonostante ciò, Gabrielle avrebbe eseguito gli ordini della corona, ordini che le impedivano di vestirsi con abiti più da uomo che da donna, con i suoi vestiti di tutti i giorni, e ordinavano di indossare un abito da gran cerimonia per il ballo in maschera di quella sera — un abito che, le avevano spiegato, non avrebbe destato sospetti o svelato la sua identità a dei possibili sicari provenienti dal nord.

Un lungo fischio alle sue spalle la destò dai suoi pensieri – e dalle sue mentali imprecazioni – facendola girare di scatto verso lo stipite della porta spalancata: immobile, con una spalla poggiata ai cardini della porta spalancata e il viso leggermente inclinato, Bjorn la osservava incuriosito e compiaciuto.
«Bisogna ammetterlo, Gabrielle, il color indaco ti dona.»
Di rimando la rossa si specchiò per l’ennesima volta, osservando l’abito drappeggiato sul modesto verdugale di vimini che accentuava la vita stretta nella parte superiore del corpo, i merletti candidi che spiccavano sullo scollo quadrato del vestito e dalle strette maniche che la coprivano come una seconda pelle: il colore, inoltre, faceva risaltare i suoi fiammeggianti capelli e la sua pelle di porcellana come pochi altri abiti avevano mai fatto.
«Non dovresti essere qui, Vor. — disse di rimando lei, piccata — In effetti, non potresti neanche entrare in questa parte del palazzo!»
«Se temi che sia qui per correre dietro a qualche gonnella o, ancor peggio, per alzarne qualcuna ti sbagli. — puntualizzò a tono il ragazzo — Sono qui perché ho bisogno di parlarti… da soli.»

Un istante dopo le due dame che avevano aiutato Gabrielle a vestirsi uscirono di tutta fretta dalla stanza, lasciando i due amici da soli come Bjorn aveva richiesto.  
Irritata e allo stesso tempo grata per quella intrusione, la ragazza incrociò le braccia al petto e, cercando di sembrare a suo agio in quel vestito e con quell’altrettanto infernale acconciatura che le racchiudeva i capelli in ricci perfettamente ordinati e le tirava il cuoio capelluto fin quasi a farle provare una sensazione simile ad una bruciatura, rivolse all’amico uno sguardo che lo invitava a parlare.
«Ci sarà un annuncio questa sera. — iniziò Bjorn, rivelando la prima delle due notizie di cui si era fatto messaggero — Non so quale sia la sua entità, ma Lorhanna è decisa a stupire la sua corte con chissà quale folle idea.»
«Qualsiasi essa sia immagino farà scalpore non solo nella capitale, ma anche in tutto il regno, nelle regioni a Ovest e tra i ribelli del Nord.»
«È molto probabile, sì. — convenne il moro — Ed è per questo che Lucien mi ha detto che, molto presto, ci sarà una spedizione a Nord.»
«Intendi dire che l’esercito…»
«No, non l’esercito. — la corresse prontamente l’amico — Lorhanna non è tanto sciocca da dichiarare apertamente una guerra, tantomeno lo sarebbe Lucien se consigliasse sua sorella di proseguire verso quella strada; no, nessun esercito verrà schierato per il momento, ma Lucien mi ha detto di scegliere degli uomini di cui mi fido ciecamente per una missione delicata e segreta che, parole sue, inizierà molto presto.»
«Mi stai chiedendo di unirmi alla tua missione tanto segreta quanto suicida, Vor?»
«Ovviamente. — rispose il moro, ricambiando il sorriso obliquo che un istante prima l’amica gli aveva rivolto — Sei la persona di cui mi fido di più, Gab; a te affiderei la mia spada, la mia vita, ogni decisione. Sei la mia famiglia, la sorella che non ho mai avuto e…»
«Anche tu sei la persona più preziosa a questo mondo, Bjorn ed è per questo che ti seguirei in capo al mondo; è per questo che verrò con te ovunque questa missione ci manderà e, se il nostro destino sarà la morte, morirò con orgoglio combattendo al tuo fianco.»
«Spero non si arrivi a tanto… — Bjorn si avvicinò con passo felpato a Gabrielle, annullando quasi del tutto la distanza tra di loro e in un gesto di puro affetto le sfiorò la guancia con il dorso della mano — Impazzirei se ti accadesse qualcosa, se dovessi…»
Abbassò lo sguardo, cercando di ingoiare il groppo che si era improvvisamente formato in gola, e proseguì: «Devi promettermi che, se mai dovesse arrivare il giorno in cui dovrai scegliere tra la mia vita e la tua, tu sceglierai di salvare te stessa.»
«Bjorn…»
«No! — esclamò in un ringhio basso, prendendole il viso pallido tra le mani olivastre — Devi prometterlo, Gabrielle, promettimelo: qualsiasi cosa dovesse accadermi, tu farai di tutto per metterti in salvo, per…»
I loro sguardi si incastrarono, ametista che si rispecchiava nell’ambra, e i loro caldi respiri si fusero in uno solo: non erano mai stati così vicini in quei quasi tre anni trascorsi insieme; non erano mai stati così intimi nonostante i combattimenti, nonostante l’amicizia e la complicità; nessuno di loro aveva mai provato prima quel brivido e quella strana sensazione che, come un liquido bollente, scorreva al centro del loro petto.
«Sei la persona che più amo al mondo, Gabrielle.»
«Così come tu sei la mia.»
Non seppero mai chi dei due si era mosso prima, chi per primo aveva posato la fronte contro quella dell’altro o chi aveva dato inizio a quell’abbraccio stretto e colmo di disperazione. Rimasero abbracciati per momenti lunghi ore, braccia aggrovigliate tra altre braccia, visi seppelliti nell’incavo di lunghi e delicati colli, tra soffici capelli che profumavano di muschio e lavanda.
Si scambiarono un ultimo, lungo sguardo, tenendo le dita dai polpastrelli callosi intrecciate tra loro e, silenzioso com’era giunto, Bjorn lasciò la stanza.
 


**
 


Gabrielle osservò distrattamente una delle tante decorazioni a stucco presenti sulla volta e oscillò lievemente le fogge del suo vestito a ritmo della soave musica sprigionata dagli strumenti a corde e percussione che, con maestria, una dozzina di esperti musicisti stavano suonando in un angolo dalla grande sala da ballo.
Tutta la nobiltà, della quale facevano parte anche le famiglie che componevano la Fratellanza, era giunta a corte, rispondendo all’invito della loro amata sovrana; tutto era tranquillo, sebbene il volto mascherato di ogni singola persona rendeva la rossa e i suoi fratelli d’arme nervosi e guardinghi — nessuno di loro riteneva i ribelli del nord tanto sciocchi da infiltrarsi al ballo, ma era pur sempre vero che i nemici erano imprevedibili, folli e le loro mosse avevano più volte preso alla sprovvista il regno della Primavera nel corso dei secoli.

«Mi concedete l’onore di questo ballo, Milady?»
Una voce profonda, baritonale le fece riportare il suo sguardo davanti a sé, portare l’attenzione su di un giovane uomo vestito con delle fogge rosso scarlatto che mettevano in risalto la pelle scura — non olivastra come quella di Bjorn, ma molto più scura, quasi nera.
L’uomo aveva il volto coperto con una maschera da tigre, una animale rarissimo, quasi leggendario ed estinto in tutte le terre, fatta eccezione per i pochissimi esemplari che ancora popolavano le isole orientali tra quelle che, insieme, formavano la catena sotto il dominio dell’oligarchia di Hafmàrr.
«Volentieri, — rispose la rossa, prendendo la mano che l’uomo mascherato le stava porgendo — ma prima vorrei sapere il nome del gentiluomo con il quale mi appresto a danzare.»
«Calibano. — rispose con un sorriso sghembo e con un accento straniero che, già dalla prima parola che le era stata rivolta, non era sfuggito all’orecchio della ragazza — Il vostro, dolce fanciulla?»
«Gabrielle.» rispose con sincerità, ben sapendo che nessuno dentro o fuori dalla corte conosceva il suo vero nome, così come nessuno conosceva i nomi degli altri membri della Fratellanza.

Danzare con Calibano si dimostrò più piacevole del previsto: il giovane uomo danzava con leggiadria nonostante la sua possanza fisica, le sue mani la stringevano con sicurezza attorno alla sua vita sottile, accarezzandola senza mai spingerla completamente contro il suo ampio petto; il suo sorriso, inoltre, era luminoso e accogliente, ricordava una casa piena di amore.
Non parlarono molto durante tutti quei meticolosi passi, limitandosi a scambiarsi giusto qualche vaga parola tra i numerosi volteggi e i momenti in cui la musica richiedeva che l’uomo sollevasse a mezz’aria la donna in un tripudio di stoffe che turbinavano con elegante leggiadria. Più di una volta sentì lo sguardo attento di Bjorn su di se e non mancò di origliare alcuni discorsi che i nobili intenti a ballare accanto a loro stavano facendo a voce piuttosto alta, sicuri di non essere uditi grazie alla musica.
Lorhanna, probabilmente attraverso la servitù o le sue dame di compagnia, aveva fatto spargere la voce di un importante annuncio sotto forma di pettegolezzi e chiacchiericci da palazzo, un annuncio che ben presto sarebbe stato svelato e di cui tutti parlavano: alcuni sostenevano la teoria di un annuncio militare, moltissimi di un imminente matrimonio, mentre i più arditi ritenevano fermamente che la sovrana della primavera portava in grembo un figlio.
Qualsiasi fosse la verità, fino a quel momento Lorhanna era rimasta tranquilla sul suo trono, compiaciuta nel ricevere i suoi ospiti e sorridendo algida nel vederli ballare e divertirsi.

«Ho qualche speranza di ballare nuovamente con voi più tardi? — chiese Calibano quando la musica lasciò il posto agli inchini e a un applauso — Sperare di vedere il vostro viso sotto quella maschera da volpe?»
«Vedremo.» rispose asciutta Gabrielle che, terminato il ballo, aveva tutte le intenzioni di sparire nell’ombra e accertarsi che Lorhanna fosse scortata sana e salva nei suoi appartamenti reali.
«Non rimarrò molto nella Capitale, presto la mia visita sarà conclusa e le mie navi faranno rotta verso sud, ma prima di allora vorrei rivedervi.»
«Temo che questo sia impossibile, Milord, e poi tecnicamente non ci siamo ancora visti. — Gabrielle lo guardò con occhi furbi, conscia della provocazione — Inoltre, qualsiasi idea vi siate fatta devo confessarvi che sono già stata promessa.»
«Questa confessione mi spezza il cuore. — Calibano si porto entrambe le mani al petto, all’altezza del cuore e Gabrielle sorrise scuotendo la testa — Chiunque esso sia, spero sappia di essere un uomo fortunato ad avere al suo fianco una giovane dal fascino così folgorante e misterioso. Fossi al suo posto, io lo sarei.»

Gabrielle abbassò lo sguardo e, senza dire altro, fece una profonda riverenza e si allontanò dallo straniero con passo lento ma cadenzato: in un’altra vita, pensò, in una vita più giusta e migliore, avrebbe danzato ancora con Calibano e gli avrebbe permesso di condurla nei giardini, sotto un secolare albero in fiore; in un’altra vita, avrebbe permesso alla sua calda  e profonda voce di farsi strada nel suo animo, alla sua carnosa bocca di posarsi su propria.
In un’altra vita, in una vita che neanche si permetteva di immaginare, avrebbe sposato Calibano e gli avrebbe dato dei figli. Insieme, in un’altra vita, sarebbero stati felici.
 


**



Lorhanna attese molte ore prima di fare il suo annuncio. Per tutto il tempo era rimasta seduta sul suo trono, impassibile come una statua di marmo, gli occhi che vagavano per la sala e sui volti mascherati dei nobili unico segno di vita.
Gabrielle, come il resto dei suoi fratelli, stava diventando sempre più impaziente e fu quasi un sollievo per lei quando la musica scemò e la sovrana della primavera si alzò lentamente dal suo scranno marmoreo — al suo fianco, come sempre, c’erano Luciene e Damien.
Sentì una presenza far capolino alla sua destra, ma non fu affatto sorpresa nel vedere Bjorn al suo fianco, il suo braccio rivestito in una foggia scura dai ricami color dell’oro che sfiorava il proprio scoperto: per tutta la serata aveva sentito lo sguardo del suo migliore amico su di lei, in alcuni momenti e in particolar modo durante il ballo con Calibano si era persino sentita scottare la pelle tanto era stata la profondità di quegli occhi violacei talmente scuri da essere spesso confusi con il nero più profondo.
«Credi sia il momento?» le disse con voce incolore, parole appena sussurrate e riservate esclusivamente al suo orecchio.
«I nobili stanno diventando impazienti, quindi sì, credo sia il momento.»
Bjorn annuì e, per un breve istante, Gabrielle giurò di sentire il dorso della mano dell’amico sfiorare deliberatamente il dorso della propria: per un momento fu tentata di ricambiare la carezza, poiché una parte di lei bramava nuovamente il contatto con la pelle calda del moro, ma durò solo un attimo. I sentimenti dovevano esser messi a tacere, qualsiasi impulso frenato, specialmente in quel momento così incerto.

«Miei cari sudditi, è giunto il momento tanto atteso. — la voce squillante di Lorhanna richiamò tutti all’attenzione — Come ben tutti sapete, non manca molto al mio trentaduesimo compleanno. Molte cose sono successe durante il corso della mia vita, alcune di queste le ricordo con piacere, mentre altre sono state fonti di grandi dolori per me e le persone che più mi stanno a cuore.»
Tutti annuirono, ben conoscendo gli eventi funesti di cui la sovrana stava parlando: la morte del suo giovane promesso sposo, della sua amata sorella.
«Trentadue anni non sono pochi, io stessa me ne rendo conto, ed è mio dovere dare al mio popolo un erede che possa succedermi dopo la mia morte. — la sovrana fece una breve pausa e si scambiò uno sguardo d’intesa con suo fratello maggiore — Per anni il Consiglio mi ha spinta a prendere in marito un principe straniero, qualcuno che potesse essere un solido aiuto nei tempi di guerra, uno stratega e un combattente; per anni sono stata sorda alle loro suppliche, alle loro esortazioni, ma non più. Oggi sono qui davanti a voi, i miei più leali sudditi, per dirvi che ho scelto il mio promesso sposo e che lui ha scelto me come sua consorte e regina.»

Lorhanna spostò il suo sguardo verso un angolo in penombra alla sua destra, verso il punto in cui si fece avanti una figura che tutti conoscevano bene, che per molto tempo era stata messa in disparte per far luce ad un fratello maggiore più ingombrante e carismatico.
Quando il promesso sposo prese posto al fianco di Lorhanna e, tra la folla, i suoi occhi chiari incontrarono tra gli altri quelli di Gabrielle e Bjorn, entrambi non riuscirono a nascondere il proprio sgomento: mai prima avrebbero pensato ad una cosa del genere, a quel ragazzo taciturno e guardingo come il loro futuro sovrano e fu immediatamente chiaro a entrambi che quello sarebbe stato l’inizio di una fine annunciata, di una storia in cui il giovane uomo accanto alla regina sarebbe stato solo un burattino, un mezzo per un fine più alto, pedina sacrificabile in ogni momento e per qualsiasi costo.



 


*




Angolo Autrice: Hello, folks! Ebbene sì, sono tornata dopo mesi di assoluto silenzio e blocco dello scrittore. Spero che questo capitolo, seppur di passaggio, vi sia piaciuto e vi domando: chi sarà il prescelto per sedere accanto Lorhanna? Calibano sarà solo un personaggio di passaggio o lo rivedermo più avanti e, soprattutto, cosa provano davvero Gabrielle e Bjorn? Domande, domande, tante domande.
Grazie a chi è arrivato fin qua, a chi continua a seguire e a coloro che vorranno lasciarmi una recensione.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 10
*** 10. ***



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Lo mandò a chiamare non appena Lucien lasciò le sue stanze. Poco distante, ai piedi dell’imponente letto, la veste dalle maniche ad ala riccamente decorata che fino a poco prima l’aveva coperta come un mantello giaceva ben piegata; indosso aveva solo una tunica rosa pallido, attraverso la quale chiunque avrebbe potuto ammirare ogni gentile curva del suo corpo, mentre i lunghi capelli scuri ricadevano in morbide onde sulle spalle e sulla schiena perfettamente dritta.
Lorhanna prese un profondo respiro sentendo la porta della sua stanza da letto aprirsi, ben conscia di chi stava per fare il suo ingresso e con estrema lentezza si alzò dal tavolo da toeletta e, mani posate elegantemente sul ventre piatto, accolse il suo giovane ospite con un sorriso gentile.

«Maestà.» il giovane uomo la salutò con un profondo inchino, facendo ricadere qualche ciocca di capelli color della cenere sugli occhi color dell’ambra che da sempre contraddistinguevano la loro famiglia.
«Mio caro Nikolas, ti ringrazio per essere giunto così celermente. — sul viso di Lorhanna comparve l’ombra di un sorriso mentre invitava il giovane ad alzarsi — So quanto la Fratellanza ti tenga impegnato, quanto il tuo compito sia importante per te e di come il nostro regno ti stia a cuore.»
«Servire il mio regno, la mia adorata regina è tutto ciò che ho sempre desiderato.»

Nikolas Dvjòrst si era unito alla Fratellanza otto anni prima, all’età di diciotto anni, e nel corso del tempo si era dimostrato un soldato valoroso e coraggioso, un prodigio nell’arte della spada; aveva carisma, proprio come suo fratello maggiore, il traditore Lucas, e da qualche mese voci sostenevano che un giorno sarebbe stato lui il successore di Lord Lucien, il nuovo Bræstven della Fratellanza.
Nonostante questo, però, continuava a respingere le proposte di matrimonio giunte dalle nobili famiglie della Fratellanza, desiderose di unire il proprio sangue con quello del aitante giovane terzo in linea di successione.
Lorhanna non aveva mai saputo il motivo di tale riluttanza, non se n’era mai interessata, ma con il senno di poi si era trovata grata al suo intrepido e prestante cugino per non aver mai ceduto alla tentazione della vita matrimoniale.

«Il regno è ciò che di più caro possa esistere per un cittadino della Primavera, servirlo è un dovere al quale neanche io posso sottrarmi. — proseguì Lorhanna, notando come lo sguardo del cugino fosse sfuggente, l’espressione sul suo volto e la sua postura tipiche di chi si trova a disagio — Come me, anche tu faresti di tutto per il regno, vero?»
«Qualsiasi cosa, Maestà!»
«Lorhanna! — lo corresse, mostrando un tono di voce pacato, quasi dolce — Siamo soli in questa stanza, Nikolas e considerando tutto credo che in queste occasioni si possa fare uno strappo alla regola e mettere da parte i nomi altisonanti.»
Nikolas annuì nervosamente, continuando ad evitare lo sguardo della sovrana — quella sovrana, un tempo principessa e cugina, da cui era sempre stato affascinato.
«Ti metto forse a disagio, caro cugino?» chiese lascivamente.
«No, certo che no, è solo che… — deglutì, lasciando correre per la prima volta il suo sguardo verso il basso, verso le labbra sottili e i seni alti e sodi che poteva vedere chiaramente attraverso la tunica trasparente — Mi domando solo se tutto questo sia consono.»
Lorhanna gli rivolse un’occhiata obliqua e Nikolas si sentì in dovere di proseguire e chiarirsi: «Noi due, da soli nelle vostre stanze e… il vostro vestiario, Maestà.»
«Lorhanna. — lo corresse ancora, sorridendo sorniona — Non ti piace la mia tunica, pensi forse che non mi doni o non sia appropriata a una regina?»
«N-no, certo che no, io…»
«Forse non mi trovi bella, cugino?»
«NO! — esclamò con foga – Mae… Lorhanna! Voi siete la donna più bella che io conosca, qualsiasi uomo sarebbe fortunato anche solo a posare il suo sguardo su di voi, figurarsi a potervi sfiorare o prendervi in moglie.»
Nikolas strinse entrambe le mani a pugno e, incredibilmente, il suo viso si dipinse di una sfumatura rosea carica di imbarazzo. Lorhanna era sempre stata la donna più bella di tutti i regni ai suoi occhi, bella come neanche Norhanna era mai stata e, in un modo che lui aveva sempre definito infantile ed idealistico, ne era da sempre innamorato.
«Mio caro, sei sempre stato troppo buono con me, dolce e comprensivo fin da quando eravamo entrambi dei bambini. — la donna sfiorò con il dorso della mano la guancia dell’altro che, in risposta, trattenne il fiato — Non sei come tuo fratello, non potresti mai tradirmi, e io ti sono profondamente grata per questa tua lealtà. In verità, confesso che sono da sempre molto legata a te: ti penso sempre con molto affetto e da qualche tempo ho capito che, se mai dovessi prendere marito, vorrei te al mio fianco sul trono.»
Il volto di Nikolas divenne improvvisamente teso, il suo occhi si sgranarono e per un momento credette di essere stato ingannato dalle sue stesse orecchie: Lorhanna, la sua regina, voleva lui come suo sposo? No, sicuramente c’era un malinteso, una spiegazione molto più logica a quelle parole.
«So che questa mia confessione potrebbe sembrare folle, ma ho ponderato per molto tempo sulla mia scelta e tu, Nikolas, sei l’unico a cui riesco a pensare come mio sposo. — così dicendo si avvicinò a lui a prese la sua mano destra tra le proprie, stringendola appena — Per anni il Consiglio, quelle vecchie cornacchie, ha tentato di persuadermi a sposare un uomo dell’Est, un qualche figlio di Ynéstnar con il potere di dominare l’aria; persino Lucien ha cercato di persuadermi, questa volta non con un matrimonio con un Ælésir, ma con uno dei suoi amici appartenenti all’oligarchia delle Isole di Hafmàrr. Tutti pretendenti dai nomi altisonanti, con eserciti al loro servizio, eppure il solo pensiero di unirmi a loro mi ha sempre fatto rabbrividire.»
«Credete sia una decisione saggia? Non ho nulla da offrirvi, nessun esercito, tantomeno riesco a dominare l’elemento della terra come riuscirebbe un qualsiasi nobile dell’Est. Inoltre, c’è da considerare la nostra parentela e…»
«Sciocchezze! — esclamò piccata, interrompendolo — Nella prima era i nostri antenati si sposavano tra fratelli per mantenere puro il sangue e far nascere figli capaci di dominare la Terra, parlare con la Natura e addirittura mutare pelle. Per decenni i nostri padri sono stati forti, imbattibili e io voglio che i miei figli siano forti tanto quanto loro, lascino il loro nome alla Storia e all’immortalità.»
«Dunque è per questo che mi volete, per il mio sangue?»
«Tra le altre cose, sì. – rispose sinceramente – Non sono mia sorella, non potrei mai accettare un figlio che ai miei occhi sarebbe un abominio, con pelle scura o chissà cos’altro. No, io voglio che i miei figli abbiano i nostri colori, che siano degli Ælothin proprio come i loro avi, come la loro madre e il loro padre.»
«Invece l’affetto, l’amore?»
Lorhanna sorrise, ma il suo sorriso non arrivò gli occhi, che si fecero tristi: «Sai bene che ho rinunciato all’amore tanti anni fa, quando la persona che amavo mi è stata portata via nel fiore degli anni. — rispose ancora una volta con sincerità — Non posso darvi il mio cuore, se è questo che mi stai chiedendo, ma posso darti la mia lealtà e il potere che meriti. Basta vivere nell’ombra, basta essere sempre secondo, sentirsi inferiori del proprio fratello maggiore: io stessa lo sono stata per troppi anni, ma adesso noi figli minori possiamo far sentire la nostra voce, mostrarci imbattibili e regnare su tutta Vøkandar.»
Aggrottò la fronte e pensò alle parole che gli erano appena state rivolte: da tempo il giovane uomo si era rassegnato ad una vita senza amore, ad una unione senza alcun tipo di affetto; da tempo aveva immaginato un suo futuro legame con una donna di cui non conosceva nulla, finalizzato solamente alla nascita di eredi che avrebbero fatto parte, come i loro genitori, della Fratellanza. Lorhanna non lo avrebbe mai illuso del contrario, era stata sincera con lui, da lei non si sarebbe aspettato altro, ma magari un giorno…
Inoltre, quella sarebbe stata l’occasione perfetta per dimostrare il proprio valore agli occhi della sua famiglia, che da sempre avevano preferito Lucas a lui; attraverso il matrimonio con la sovrana, Nikolas sarebbe diventato potente, l’uomo più potente e temuto di tutto il continente.
«Saremo potenti più di qualsiasi altro sovrano della Primavera. – sussurrò Nikolas, dando voce ai suoi pensieri e Lorhanna annuì – Io vi ho sempre amata in segreto, Lorhanna; vi ho osservata da lontano, ben sapendo che i miei sentimenti erano sbagliati, fantasie di un ragazzino, ma adesso…»
Si inginocchiò e portò entrambe le piccole mani della donna alle labbra: «Spero solo che il mio amore per voi sia abbastanza per entrambi e di essere il sovrano che meritate; spero di riuscire a darvi i figli che desiderate ed essere per voi un aiuto prezioso nei momenti difficili che ci aspetteranno.»

 


**




Damien aveva sentito chiaramente il fiato di tutti i presenti venir trattenuto nello stesso identico momento; lui stesso era rimasto sbalordito quando, dalla penombra, il giovane Nikolas Dvjòrst aveva fatto il suo ingresso vestito di tutto punto e aveva preso posto accanto alla loro regina, alla donna che era sua cugina di sangue e ben presto sarebbe diventata sua moglie.
Nessuno avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare una simile unione, lui stesso era rimasto senza parole quando la sua più cara amica aveva fatto quell’annuncio; persino nello sguardo sempre impassibile di Lucien, il suo amante, il moro aveva intravisto per un breve istante lo sconcerto, emozione questa che si era prontamente mutata in disappunto.
Tutti, a corte e non solo, erano a conoscenza dei piani del fratello bastardo della regina, piani andati in fumo che prevedevano un matrimonio con l’oligarchia delle isole del Sud, con un nobile dalla pelle baciata dal sole forgiato da molte battaglie e con un esercito a sostenerlo — un esercito che sarebbe stato di vitale importanza in una possibile guerra aperta con il Nord.

«Ci sposeremo tra due lune, alla presenza di un sacerdote e le celebrazioni dureranno per una settimana intera!»
Così Lorhanna aveva annunciato il suo matrimonio, un matrimonio che si prevedeva sfarzoso e che non sarebbe stato ben accolto dal popolo o dalla gente dell’Ovest, che da anni oramai stava patendo la fame ed era costretta ai lavori più umili e faticosi.
Nonostante questo, tutti avevano applaudito e brindato alla salute della sovrana e del suo promesso sposo, augurato ad entrambi una lunga vita e molti figli sani e forti.
Damien, dal canto suo, si era limitato a sorseggiare il vino frizzante offerto da uno dei molti valletti, conscio che dietro quella decisione c’era molto di più, motivi oscuri che nessuno degli invitati sospettava minimamente: Nikolas era solo un mezzo, un tramite per avere dei figli di sangue puro, degli eredi capaci di dominare l’elemento della Terra e sarebbe stato messo da parte con le buone o con le cattive non appena l’occasione giusta si sarebbe presentata.

Lucien era livido di rabbia quando rimasero soli poco più tardi e Damien ebbe la certezza che anche lui, come il resto dei nobili quella sera, era stato colto alla sprovvista dall’annuncio della loro sovrana.
Sbattendo la porta dai cardini color dell’oro alle sue spalle, il biondo percorse con nervose e lunghe falcate l’ampia stanza da letto del moro, dirigendosi verso un basso mobile dov’erano stati posti dei bicchieri di cristallo e del forte liquido ambrato: in silenzio ne riempì uno, bevendo tutto d’un fiato e sentendo un istante dopo la sua gola bruciare.
Chiuse gli occhi, stringendo tra le dita il suddetto bicchiere fino a fasi sbiancare le nocche, lanciandolo un istante dopo contro la parete alla sua sinistra e facendolo andare in mille pezzi: Damien sussultò al suono dei vetri che si rompevano, deglutendo nervoso al pensiero di ciò che avrebbe potuto fare il suo amante, all’ira che ne sarebbe scaturita.

«Stupida stolta! — ruggì il biondo — Mi ha chiesto fiducia questa mattina, fiducia che non avrei mai dovuto accordarle ed ecco dove ci ha portato: ad un matrimonio da tutti mal visto, che porterà al regno altri grattacapi, l’inimicizia di preziosi alleati che per anni ho cercato di portare dalla nostra parte con pazienza e umilianti riverenze!»
«Lucien…»
«Era tutto pronto, lo sapevi? — chiese retoricamente, ignorando l’altro — Uno dei più potenti principi dell’oligarchia era pronto a sposarla, invaghito della sua algida bellezza e mia sorella non solo ha insultato me, facendomi apparire agli occhi di Hafmàrr come uno spergiuro e una nullità, ma si è anche inimicata persone potenti, che adesso potrebbero volgere il loro sguardo altrove.»
«Non so cosa sia passato per la testa della nostra nobile sovrana, ma sicuramente ci sarà una spiegazione più che logica per una tale decisone.»
Lucien sorrise sghembo e scosse la testa: «Lorhanna vuole da sempre un burattino e un burattino ha avuto: Nikolas non è un uomo fatto è finito, non ha il carisma di suo fratello, sebbene sia un portento nella spada. Non ha, come Lucas, degli uomini dietro che lo sostengono e si farebbero ammazzare pur di proteggerlo.»
«Lorhanna vuole dei figli di sangue puro, me lo ha confessato anni fa e nel tempo questo suo desiderio non è cambiato. — Damien si avvicinò di qualche passo al biondo, mostrandosi calmo davanti alla sua ira — Concedile almeno questo, il tempo di dare alla luce un figlio, un erede e poi… poi sbarazzatevi del ragazzino e mettete al suo fianco un uomo degno della corona. Un uomo come te.»

Lucien lo guardò con la coda dell’occhio, curioso e piacevolmente sorpreso da quelle parole: Damien era da sempre molto taciturno, parlava solo se interpellato, ma osservava attento ogni cosa e la sua mente era più acuta di quanto molti pensassero — una caratteristica, questa, che lo aveva fatto innamorare di lui e lo rendeva un compagno perfetto. Insieme, i due uomini si completavano alla perfezione.
Sorrise, un fugace sorriso per lui inconsueto e con il dorso della mano sfiorò la guancia ancora incipriata del moro, provocando in quest’ultimo un brivido di anticipato piacere.
«Non finisci mai di stupirmi. — confessò con un tono di voce basso e caldo — Anche in questi momenti riesci sempre a calmarmi, a farmi vedere le cose in una prospettiva diversa.»
«Farei qualsiasi cosa per te, Lucien.»
«Lo so bene ed è anche per questo che ti amo. — avvicinò il viso a quello del moro, annullando le distanze e baciandolo con prepotenza — Adesso, però, ho bisogno che da bravo tu ti spogli e ti stenda sul letto; ho bisogno che tu ti conceda a me per tutta la notte e sappia che non sarò affatto gentile.»

Damien trattenne il fiato solo per un attimo, i suoi occhi si riempirono di bruciante passione e le sue guance si fecero rosse come due mele mature. Senza dire nulla, iniziò a slacciare il farsetto, facendo poi la stessa cosa con le braghe che ricaddero in un fruscio di stoffe sul pavimento marmoreo; sotto lo sguardo ardente dell’amante si stese nudo sul letto e, tesa una mano, invitò Lucien a raggiungerlo.


 

*
 


Glossario dei vari regni:




Vøkandar: Continente in cui si svolgono le vicende principali. E' divisa in tre regni: Yvjór, il regno della Primavera che si trova a sud-est; Ynjór, il regno del Nord e infine quelle che un tempo era conosciuta come Ydvér, la Terra dell'Ovest, adesso sotto il dominio della Primavera.
Isole di Hafmàrr: sono le isole del Sud e sono un'oligarchia. Per fare un paragone, si potrebbero paragonare ad una Sparta.
Ynéstnar, l'Arcipelago dell'Est: ogni isola ha una suo governatore, chiamato principe, che fa capo ad un imperatore. Ogni governatore/principe ha poteri molto vasti, ha un esercito di cui è il generale ed è, come tutti i componenti della famiglia, un dominatore dell'Aria (Ælésir). Daya, che abbiamo conosciuto qualche capitolo fa, appartiene ad una di queste famiglie. Volendo fare un paragone, si potrebbe associare questo regno al Giappone dell'epoca Edo o degli Shōgun.
Yvéstheim, la Repubblica dell'Ovest: come detto, è un continente in cui vige una repubblica autonoma. Non ha rapporti, se non strettamente commerciali, con gli altri governi ed è da sempre neutrale. Diciamo che è una specie di Svizzera con modello i primissimi USA.

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Capitolo 11
*** 11. ***



Copertina_N
 







La civetta delle nevi fendette il candido manto di nubi e, silenziosa, si lanciò in picchiata verso l’alta torre del castello, atterrando con un balzello sul cornicione della finestra ogivale che dava sulle stanze del vecchio scriba.
L’anziano uomo era chino sui suoi antichi manoscritti, intento a leggere un vecchio libro di pozioni e incantesimi risalenti alla prima era e si accorse della presenza del silenzioso animale, adesso intento a curare il folto e morbido piumaggio del petto, solo dopo alcuni minuti.

«Sei tornato, finalmente! — esclamò, rivolgendosi al rapace come ad un vecchio amico e con passo lento si avvicinò alla finestra da cui si potevano ammirare le cime imbiancate dei monti circostanti — Mi chiedevo che fine avessi fatto, mio caro amico, ma sono contento di vederti sano e salvo e con notizie dal Sud.»
Con calma sfilò la piccola pergamena legata alla zampa della civetta, il messaggio di cui l’animale era stato l’ultimo portatore — prima c’erano stati altri messaggeri alati, gufi o corvi, a seconda del luogo da cui proveniva il messaggio. Tornato a sedersi sulla lignea sedia, lo scriba srotolò il messaggio e ne lesse il contenuto scritto frettolosamente con inchiostro nero e una calligrafia che lasciava trasparire apprensione e una grave urgenza.
«Dannazione!» si lasciò scappare l’uomo dai folti capelli bianchi, un’esclamazione così inconsueta per un tipo pacato e taciturno come lui e, per quanto le sue malandate e doloranti gambe glielo consentissero, si affrettò verso le scale a chiocciola e poi verso il salone dove avrebbe trovato la sua signora.


Lady Narmana stava discutendo con alcuni dei suoi uomini più fidati quando Egil entrò di tutta fretta nell’ampia sala del Consiglio: tunica nera stretta in una mano ossuta e rachitica e pergamena nell’altra, si fermò a pochi passi da lei e, con il fiatone e lo sguardo di chi aveva appena assistito a qualcosa di sconvolgente, fece un profondo inchino e chiese il permesso di parlare.
«Parla pure, Egil. — rispose con voce atona, notando sin da subito il messaggio ancora tra le mano dell’uomo — Quali notizie ci porti?»

Egil si guardò attorno con aria guardinga, domandandosi se fosse il caso di fare quell’annuncio davanti a quella mezza dozzina di uomini che, a differenza della sua signora, lo stavano osservando impazienti e curiosi; tra loro ne conosceva bene solo tre o quattro, ma si fidava ciecamente solo di uno, l’unico tra tutti che lo guardava impassibile con i suoi occhi del colore del cielo più terso — quegli occhi che conosceva da tutta una vita.
«Parla liberamente, amico mio, non indugiare.» disse ancora la donna, leggendogli nella mente come solo lei sapeva fare.
Egil si avvicinò ancora di qualche passo e, allungata la mano, porse alla donna dalla pelle di porcellana il messaggio.
«Notizie da Yvjór, — disse semplicemente, nonostante tutti sapessero bene da dove provenisse quel messaggio — Notizie riguardo Lorhanna e la sua famiglia.»

Narmana annuì lievemente: notizie giungevano regolarmente alla loro corte, messaggi inviati grazie alle loro spie, insediate sia nel castello sia tra i vicoli e le locande della capitale del sud, che scrivevano informazioni circa mormorii sussurrati davanti una pinta di birra o tra i corridoi segreti di un castello.
L’ultimo messaggio era giunto due giorni prima, una lettera che raccontava di un ballo in maschera imprevisto, un grande evento annunciato dalla sovrana stessa dopo la morte del loro nobile amico Serghej; un ballo che, stando alla lettera che in quel momento Narmana stava leggendo, era stato occasione per un inaspettato quanto sconcertante annuncio.
«Uscite tutti.» disse in quello che quasi fu un sussurro, guardando fugacemente uno dopo l’altro i suoi comandanti e alleati che, con un inchino, si apprestarono a lasciare la sala senza controbattere. 
«Non tu, Volk! — esclamò, fermando i passi di quello che era il suo consigliere più fidato, il più saggio tra i suoi amici e il più letale tra i suoi generali — Ho bisogno che tu rimanga.»
Poi, rivolgendosi nuovamente all’anziano Egil, comandò: «Mandate qualcuno nelle stanze del Capitano, che ci raggiunga immediatamente: questa notizia coinvolge noi tanto quanto coinvolge lui.»

«Non sarà facile per lui accettarlo. — una volta rimasti soli Volk prese la parola, dando voce a quel pensiero che era balenato nella mente del vecchio scriba prima e poi di Narmana — È della sua famiglia che stiamo parlando, del suo unico fratello. Per lui sarà un duro colpo e non sappiamo come potrebbe reagire: forse, sarebbe meglio aspettare e…»
«No! — il volto di porcellana della donna si fece improvvisamente duro — È un nostro alleato adesso, un alleato prezioso e non rischierò di intaccare la fiducia che ha riposto in noi: abbiamo lavorato fin troppo per ottenerla, per convincerlo che le nostre parole erano vere e non rischierò di perdere ogni cosa per causa di Lorhanna. Lucas saprà la verità e la saprà oggi stesso. Io stessa sarò il messaggero e tu, amico mio, ne sarai testimone.»
«La ragazza, invece? Non ha anche lei il diritto di sapere?»
Il viso della donna divenne severo: certo che lei aveva il diritto di sapere, ma non ancora, non prima di avere sotto controllo le sue emozioni, il lupo che viveva sotto la sua pelle.
«Lasciamo che finisca il suo addestramento, che impari a contenere le emozioni, la rabbia che in questo periodo sembra consumarla; lasciamo che Hecate pensi a lei e quando sarà pronta le daremo la notizia. Fino a quel momento ho bisogno che tutti voi teniate le parole, i messaggi e i segreti rivelati in questa stanza solo ed esclusivamente per voi.»
Volk scosse la testa, contrario a quella decisione, ma la donna non si diede per vinta: «Puoi farlo, Volk? Puoi tenere questi segreti nel tuo animo ancora per qualche tempo? Se non per me fallo per lei, per la memoria di tuo fratello…»
«Ancora per poco. — rispose severo — Il giorno non è lontano e quando arriverà non sarò più obbligato a prendere ordini da te.»
«Non lo sei mai stato. — ricordò Narmana — Avresti potuto essere al mio posto, ma hai deciso di non farlo; tu hai deciso chi essere, cosa essere, nessuno ha mai scelto per te.»
«La vita, così come la morte, hanno scelto. Certo, avrei potuto essere al tuo posto, ma sappiamo benissimo entrambi cosa sarebbe successo: morte, distruzione, sangue. Il sangue del mio popolo, dei miei amici, versato per sete di vendetta.»
«Tu non sei tuo padre o tuo fratello; non sei la bestia che alberga sotto la tua pelle, non…»
«Basta! — Volk ruggì e tenere a bada il suo lupo fu per lui un grande sforzo — Ci sono cose più importanti della mia stirpe di cui parlare, piani da preparare: la guerra non è lontana e quando arriverà dovrà trovarci pronti ad attenderla.»


 


**


La mano callosa accarezzò pigramente la pallida schiena nuda della donna dai lunghi capelli neri, strappandole un mugugno e un brivido di piacere.
Alto nel cielo, il sole penetrava obliquamente dalla finestra, illuminando i corpi intrecciati e le bianche lenzuola che ne coprivano le estremità inferiori: Lucas e Morgan si stavano godendo la beatitudine del silenzio che era seguita alla loro unione, dimentichi di tutti i problemi fuori dalla camera da letto, dei tradimenti e delle bugie, delle prove e delle battaglie che li attendevano da qualche parte nel loro immediato futuro.
La roshkar disegnava con i polpastrelli figure immaginarie sul petto leggermente villoso dell’uomo che amava, del suo compagno di vita e avventure, del padre di suo figlio, pensando a come quei giorni insieme fossero trascorsi velocemente: ricordò lo sguardo di Lucas, come si era illuminato di gioia quando l’aveva rivista sana e salva; la sua felicità era stata lampante quando tutti e tre – loro due e loro figlio, Theo – si erano ricongiunti in quel regno un tempo ritenuto il nemico e avevano passato del tempo insieme dopo mesi trascorsi separati l’uno dagli alti.
Quella sera, dopo il suo arrivo Hnmar, Lucas l’aveva condotta nelle sue stanze e le aveva chiesto di suonare il violino come la prima volta che si erano conosciuti — all’epoca, sette anni prima, lui era stato un giovane capitano sprovveduto e temerario, impaziente di dimostrare il suo valore e lei era stata una schiava, una delle giovanissime ragazze che riempivano la casa di un generale di Yvéstheim con il compito di allietare le feste, intrattenere gli ospiti e, se richiesto, tagliar loro la gola.
Nelle ore più buie della notte della piccola città cinta di fiordi, accanto ad un camino dal quale si sprigionavano tremolanti fiammelle rosse e gialle, Morgan aveva acconsentito alla richiesta di Lucas e, occhi socchiusi, aveva iniziato a suonare una dolce e malinconica melodia.
Molte lune erano trascorse dalla prima volta che Lucas aveva udito quella canzone — quella volta lei non aveva suonato quella melodia solo per le sue orecchie e questo, ricordò l’uomo, aveva fatto nascere in lui una innata gelosia.
Come la prima volta, però, il capitano l’aveva ascoltata in silenzio, guardata con occhi colmi di passione e ammirazione; come quella prima volta, anche quella notte l’aveva condotta fino al suo letto e, dolcemente, l’aveva spogliata e aveva fatto l’amore con lei.

«Credo che dovremmo alzarci e vestirci. — esordì suo malgrado la donna, rompendo il silenzio — Narmana ha indetto una riunione questo pomeriggio e sono certa che la nostra assenza è stata notata.»
«Non credo che ai generali sia dispiaciuto: vedo come mi guardano, la diffidenza nei loro occhi di ghiaccio e anche se una parte di me non riesce a biasimarli, l’altra odia profondamente la loro mancanza di fiducia. — Lucas sospirò e lasciò un bacio umido sulla spalla di Morgan — Dopo tutto, non combattiamo per la stessa causa? Non vogliamo tutti la stessa giustizia e lo stesso futuro per il trono della Primavera?»
«Capisco quello che dici, ma credo che la loro fiducia sia stata tradita fin troppe volte in questi ultimi decenni. — Morgan si portò a sedere — Troppe persone che si sono professate amiche o alleate hanno tradito, inoltre tu sei il primo in linea di successione dopo Lorhanna e il timore che le tue azioni portino ad un tornaconto personale sono comprensibili.»
«Nonostante questo non hanno esitato a fidarsi di lei, a eleggerla loro signora e comandante indiscusso, riporre nelle sue mani i futuro delle loro famiglie e del loro regno.»
Morgan sospirò e, protratta una mano, accarezzò dolcemente la guancia dell’amante: «Questo perché il loro signore si fidava di lei. Mikka ha riposto in lei non solo il futuro della sua gente, ma anche quello del sangue del suo sangue, della sua famiglia. — Morgan accennò un timido sorriso — Se c’è ancora una speranza per tutti noi è solo merito di quella donna e tu lo sai bene tanto quanto me.»


In quel preciso istante bussarono alla pesante e spessa porta di legno. I due amanti si scambiarono uno sguardo complice e, dopo che Morgan ebbe afferrato e indossato la tunica di lino e infilato i pantaloni di pelle, Lucas diede il permesso di entrare.
Egil rimase fermo sull’uscio della porta, il viso scavato e il corpo magro e con un frettoloso inchino chiese il permesso di avvicinarsi e conferire in privato con l’uomo.
«Non ci sono segreti tra me e la mia compagna, niente è proibito alle sue orecchie. — rispose piccato — Parlate senza timore alcuno, scriba.»
«Una lettera è giunta meno di un’ora fa dal Sud, notizie riguardanti la donna che siede sul trono. — annunciò con voce algida — Narmana vi aspetta nella sala del consiglio, ha espresso di conferire con voi, da soli.»
Lucas e Morgan si scambiarono un fugace sguardo complice e, seppur irritato all’idea della forzata separazione, annuì e disse: «Sarò da lei entro pochi minuti. Grazie, Egil, potete andare.»
Un ultimo, sbrigativo inchino e l’anziano uomo uscì dalla stanza silenzioso com’era entrato.

«Cosa pensi sia accaduto?» domandò Morgan, nella voce un sentore di preoccupazione.
«Non saprei, ma se Lohanna è coinvolta nulla di buono potrà venirne fuori.»



 


**




Volk non alzò lo sguardo dalle carte che, insieme alla donna, stava studiando da qualche minuto.
Il suo istinto gli diceva chiaramente chi era appena entrato, il passo pesante tradiva la sua natura di uomo del Sud e la sua voce trapelava un nervosismo che probabilmente neanche lui stesso si era ancora reso conto di provare.
Una parte di lui, quella che ancora poteva dirsi umana e capace di provare empatia verso il prossimo, provò un sincero dispiacere per Lucas, per quell’uomo dall’animo sincero e dal coraggio ammirevole che in quei pochi giorni aveva iniziato a tollerare e ritenere degno della sua fiducia: dopo tutto, anche lui aveva avuto un fratello, anche lui aveva provato la perdita e la rabbia, il tradimento scaturito da alcune sue scelte sprovvedute e, infine, la solitudine scaturita dalla dipartita.
Certo, Mikka e il giovane fratello di Lucas, Nikolas, sarebbero sempre state due persone agli antipodi, ma entrambi i fratelli avevano preso decisioni poco sagge, deciso di prendere in sposa due donne — due sorelle — che erano e sarebbero state la loro fine.

«Mi avete mandato a chiamare, Milady?» chiese retoricamente Lucas, piegando il capo in un veloce inchino.
«Presumo che Egil vi abbia informato dell’arrivo di un messaggio dal Sud. — rispose e l’uomo confermò con un cenno del capo — Lorhanna ha tenuto un ballo in maschera ieri sera, uno sfarzoso evento in cui, sorprendendo tutta la sua corte, ha fatto un annuncio che, parola mia, ha lasciato tutti sconcertati e sbalorditi.»
«La mia cara cugina ha sempre amato la teatralità. — si ritrovò a dire l’uomo, ricordando per un istante i balli e le grandi feste di palazzo — Presumo abbia annunciato un’imminente guerra o, meglio ancora, una grande alleanza con Hafmàrr.»
«Alcuni signori dell’oligarchia di Hafmàrr erano presenti al gran ballo in maschera, ma no, nessuna alleanza con loro.»
«Peccato, un vero peccato. — la voce di Lucas era piena di sarcasmo e una sorriso divertito si dipinse sul suo viso — Immagino che Lucien non ne sia affatto contento: per anni ha manovrato fili invisibili affinché la sorella sposasse uno dei figli legati agli anziani oligarchi, un primogenito persino, ma Lorhanna è testarda e tende ad essere sorda a questi giochi di potere.»
«Eppure un marito ha deciso di prenderlo. — fu Volk a parlare quella volta, distogliendo lo sguardo del capitano dalla donna e portandolo sulla sua figura — Una scelta alquanto azzardata, imprevista, piuttosto sciocca visti i tempi che corrono: Hafmàrr e i suoi oligarchi non saranno contenti e potrebbero persino volar loro le spalle e vedere noi come possibili alleati nella guerra che verrà.»
«Un matrimonio, dunque? È questo il tanto sconcertante annuncio fatto da mia cugina?»
«Questo e il nome del suo promesso sposo. — rispose Volk, scambiandosi un’occhiata con Narmana prima di proseguire: quando la donna annuì lievemente, il ragazzo albino ebbe il consenso che stava aspettando — Nikolas Dvjórst, vostro fratello minore, sarà colui che siederà al suo fianco come consorte e sovrano della Primavera.»

Per un momento, Lucas credette di aver udito male, che Volk non avesse appena pronunciato il nome di suo fratello — il sangue del suo sangue, il ragazzo che era stato il bambino che lo aveva seguito ovunque, che da sempre lo idolatrava, la persona alla quale era più legato e che aveva giurato di proteggere da tutto e tutti.
Quando, poi, incontrò gli occhi solo apparentemente privi di emozioni dell’albino realizzò che ogni parola appena pronunciata era vera e che suo fratello aveva davvero accettato di sposare la propria cugina e diventare la pedina di un gioco più grande di lui.
Nikolas era sempre stato un ragazzo ingenuo, malleabile, che vedeva il buono anche nelle persone più oscure: tutte questi suoi aspetti erano sempre stati apprezzati dal maggiore, ma adesso tutto ciò che Lucas desiderava era una situazione diversa, un fratello meno incline a compiacere il prossimo, più caparbio e furbo.
Lorhanna lo avrebbe schiacciato con facilità, trasformato in un consorte burattino, approfittato di lui e delle sue abilità innate sul campo di battaglia per metterlo in prima fila e disfarsi di lui quando l’occasione giusta si sarebbe presentata.

«Sarà una tragedia… — sussurrò con un filo di voce quello che era stato il commodoro della flotta ambrata della Primavera, parole rivolte più a se stesso che ai presenti — Il mio sciocco, stolto fratellino.»
«Dubitiamo che ci sia la mano di Lucien dietro, anche se c’è sicuramente lui dietro l’attacco a sorpresa che ci stanno preparando. — rivelò Volk, riprendendo la parola — Nessuno nella cerchia della regina approva questa unione eppure nessuno la ostacolerà.»
«Nikolas non avrà un esercito alle sua spalle, ma il popolo lo adora, è sempre stato il loro beniamino durante i tornei e nelle occasioni pubbliche di festa. — Lucas sorrise malinconicamente, ricordando come il popolo amasse suo fratello, com’era solito osannarlo ogni volta che l’occasione si presentava. Nikolas era sempre dalla loro parte, lui e la loro madre spesso visitavano le zone più povere della capitavano e portavano viveri e conforto ai più sfortunati — Lorhanna sa che nessuno le metterà i bastoni tra le ruote: nessuno, neanche Lucien cercherà di dissuaderla, rischiare così una rivolta popolare.»
«Per quello che vale sono profondamente rammaricata. — Narmana si avvicinò al capitano e, con fare materno, poggiò una mano sulla sua spalla — Sai bene che avrei preferito avere il giovane Nikolas come nostro alleato, ma adesso che i pezzi sono stati schierati sulla scacchiera non c’è nulla che io, o tu, possiamo fare.»
«Abbiamo fatto entrambi le nostre scelte, preso strade che ci hanno irrimediabilmente condotto su due sentieri lontani, impossibili da ricongiungere. — prese un respiro profondo e si fece coraggio: aveva perso suo fratello, ma aveva ancora la donna che amava, un figlio da proteggere e nonostante tutto, nonostante il dolore al centro del suo petto, sapeva che era a loro che doveva pensare — Tutto questo non cambia le mie scelte, le promesse fatte e le mie intenzioni: combatterò al vostro fianco, morirò per la causa in cui credo se necessario e farò di tutto affinché l’ordine naturale della cose venga ripristinato.»


 



*



Angolo Autrice: Hello, folks! Siamo tornati al nord e, per la prima volta, abbiamo conosciuto personaggi chiave come Narmana. Ora, so bene che alcune cose non sono chiare, che c'è molto di detto e non detto, ma presto - si spera - ogni cosa verrà svelata.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, al solito, ringrazio chi segue e vi invito a lasciarmi una recensione.

Alla prossima,
V.

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Capitolo 12
*** 12. ***



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Fu il vento a tradirla e svelare la sua presenza.
Una leggera folata, nulla di più, così lieve da muovere appena le foglie degli alberi sempreverdi, abbastanza per Daya e i suoi sensi perennemente in allerta per percepire la presenza di un’altra persona poco lontano, il potere latente che il corpo dello sconosciuto emanava come una fiammella tremante.
L’aria era più calda del solito quella mattina, benché la neve ricoprisse con il suo manto candito la terra bruna il cielo era terso, privo di nuvole all’orizzonte.
Per questo motivo, oltre che per la necessità di allontanarsi per qualche ora dal palazzo e dalle voci che parlavano di tradimenti, di matrimoni tra consanguinei e imminenti guerre, aveva deciso di intraprendere una lunga e tranquilla passeggiata tra i boschi.
Era sempre stato un tipo solitario Daya, poco incline a stringere rapporti con gli sconosciuti, a fidarsi di coloro che non erano il suo equipaggio, i capitani delle navi con cui aveva solcato i mari in lungo e in largo; persino con loro il roshkar manteneva un atteggiamento distaccato, parlava poco e solo se strettamente necessario, preferendo dimostrare la propria fedeltà con i fatti piuttosto che con le parole — troppo spesso, nel corso della sua vita, quest’ultime si erano rivelate menzognere, un veleno nascosto da un suono dolce e affabile.
Come se tutto questo non fosse stato abbastanza, a Ynjór si era spesso sentito vulnerabile, un libro aperto per coloro che erano nati e vissuti in quel regno, che sapevano dominare le creature che giacevano sotto la loro pelle e, grazie a qualche antica magia, percepire la magia negli altri come poche altre persone al mondo.
Nell’Arcipelago di Ynéstnar, nella sua terra natia, solo i pochi eletti conoscevano e possedevano il dono di dominare gli elementi, padroneggiare una forza costudita dietro le mura di sacri templi che mai, se non per una causa giusta e al di sopra delle leggi degli uomini, andava utilizzata.
Questa e solo questa era stata la sua vita sin dalla tenera età di sette anni, sin da quando il suo nobile padre e signore lo aveva mandato, in quanto terzogenito, nel tempio situato sulla cima più alta della montagna più remota del suo regno: qui Daya aveva conosciuto la disciplina, il silenzio, la fame e la sete; qui aveva conosciuto le sue debolezze, ma anche le proprie forze, il suo coraggio e il potere situato nella parte più profonda e nascosta del suo animo.

Fu il calore percepito sulla sua pelle come una carezza e che saturò l’aria circostante, quella stessa aria che faceva parte di lui in quanto Ælésir, a svelare la sua presenza e condurla sulla sua strada.
All’inizio quasi non ci fece caso, ma poi i suoi passi lo condussero lontano dalla strada maestra, all’interno della foresta, verso un ruscello di limpida acqua sorgiva composto da un susseguirsi di piccole cascate: fu là che la vide per la prima volta, immersa al centro del ruscello, i lunghi capelli neri sparsi sul filo dell’acqua azzurra come un ventaglio, la pelle così diversa da quella di coloro che abitavano quelle terre — non pallida e fredda come la neve, ma dorata e calda come il deserto.
Senza fare rumore si fermò a pochi passi da lei, cercando di capire chi fosse, se la sua presenza fosse una minaccia per se stesso o per gli altri; la fanciulla se ne stava immobile, gli occhi chiusi e il viso privo di qualsiasi emozione, la mente persa in chissà quale pensiero, dominata da chissà quale magia.
Nonostante il freddo, nonostante la neve, nonostante l’acqua che si infrangeva sulla sua slanciata figura, il calore presente nel corpo della giovane era ancora vivo, potente come un fuoco che bruciava in un imponente camino, in un ampio braciere situato nella sala di un trono; all’inizio Daya non capì, ma poi tutto fu chiaro, come un’improvvisa rivelazione: quella poco distante non era una comune ragazza, non era una dei tanti Sýrin del Nord o una Ævàlin, una dominatrice dell’acqua — o perlomeno non era solo quello.

«Ævin.» si ritrovò a sussurrare senza accorgersene, rivelando così la sua presenza.
La sconosciuta aprì gli occhi, ritornando bruscamente alla realtà e, voltato di scatto il viso, incontrò per la prima volta il suo sguardo.
La terra sembrò tremare per un breve istante, muoversi sotto i piedi del moro e nel breve tempo di un battito di ciglia si ritrovò con le spalle contro un possente tronco d’albero, le radici tozze e possenti strette attorno al suo corpo come la morsa di un serpente.
Il respirò gli si mozzò, anche solo il minimo movimento era praticamente impossibile: Daya si sentì in trappola per la prima volta da tanto tempo e senza poter far nulla osservò la sconosciuta uscire dall’acqua e avvicinarsi a lui lentamente.
«Lavori per la regina del Sud?» chiese in un sibilo accusatorio «Sei una spia venuto per uccidermi?»
«Sono dalla vostra parte!» esclamò per quanto possibile Daya, chiudendo gli occhi quando una delle radici diventò se possibile ancor più stretta attorno al suo petto e al suo collo.
«Come faccio a fidarmi? Potresti essere chiunque…»
«Sono al servizio di Noranna, del vostro popolo e…» una smorfia di dolore comparve sul suo viso, costringendolo a fermarsi «Sono un roshkar dell’Est, giunto qui insieme a Lord Lucas Dviòr e il resto della sua flotta rimastagli fedele. Non sono un nemico, Ævin, ma un prezioso alleato. Se non vi fidate di me allora chiedete pure a Volk.»
La ragazza lo guardò con un cipiglio diffidente, ancora incerta se fidarsi di quelle parole che, per quanto ne sapeva, avrebbero potuto essere delle menzogne. Da tempo oramai non frequentava il palazzo, erano passati quasi due anni da quando aveva parlato per l’ultima volta faccia a faccia con Noranna, ma aveva sentito parlare dell’arrivo di Lord Lucas e dei suoi uomini.
«Sono una ragazza, ma non sono una sciocca,» avvertì mentre le radici dell’albero tornavano nelle profondità della terra e lo sconosciuto veniva rilasciato «Ogni albero in questa foresta ascolta la mia voce ed esegue i miei comandi, quindi badate bene prima di fare qualsiasi mossa.»
«Credevo che quelli della vostra razza fossero estinti, che la caduta dell’Ovest avesse segnato la vostra fine.»
«La mia gente è stata massacrata come una mandria di animali, ma non per questo estinta. Hanno cercato in ogni modo di spezzarci, ma le radici sono ancora forti sotto la terra bruciata.» titubante si avvicinò di qualche passo allo sconosciuto e, brandendo in una sottile mano una lama recuperata tra la pila del suo vestiti, decise di rivelare il suo nome «Sono Cassia.»
«Daya Kùzen, roshkar e capitano della Vèsthur.»  
«Questo lo vedremo. Ho intenzione di condurvi personalmente da dove dite di esser venuto e verificare le vostre parole.» con un cenno del capo intimò al giovane uomo di iniziare a camminare «Muovetevi, camminate!»
«Non dovreste rivestirvi?» chiese tranquillo gettando un occhio alla tunica e agli altri capi lasciati poco lontano dalla riva del ruscello.
«Ho imparato a sopportare il freddo sin da piccola e di certo non sarà una passeggiata tra questi boschi a piegare il mio corpo alle gelide temperature.» ancora una volta la sua risposta fu pronta e non lasciò spazio a ulteriori indugi «Camminate, Sir Roshkar!»


Arrivarono a palazzo un’ora dopo e vennero scortati immediatamente nella sala dove Narmana era impegnata con alcuni dei suoi uomini più fidati.
Erano passati più di due anni da quando Cassia aveva messo piede là dentro, ma nulla sembrava essere cambiato: le pareti vetrate filtravano sempre la stessa luce obliqua dai toni freddi e le varie stanze erano collegate tra loro da archi semicircolari attorno ai quali svettavano intricate decorazioni a stucco.
Se nella sua infanzia c’erano ricordi fatti di verde, rosso e giallo, nella sua giovinezza spiccavano memorie asettiche, un bianco talmente pallido e algido da sembrare senza vita.
Nei suoi ricordi di bambina c’erano risate, sorrisi, un ragazzino dai capelli neri, mentre adesso c’erano solo silenzi, volti corrucciati e un giovane uomo dagli occhi di ghiaccio — lo stesso giovane che adesso la stava guardando come si guarderebbe un fantasma.

«Cassia, quale sorpresa!» esclamò Narmana, la voce sinceramente sorpresa «Cosa ci fai qui a palazzo e con il nostro nuovo ospite per giunta.»
«Il vostro ospite stava vagando da solo nei boschi e dovevo accertarmi che fosse realmente chi sostiene di essere.»
«Il nostro capitano qui è nostro alleato, di questo posso garantire io stessa.» confermò ancora una volta con sicurezza «Non che io ti biasimi per la tua scelta, Cassia: ogni giorno il nemico tenta nuovi stratagemmi e non si è mai troppo sicuri.»
Narmana le sorrise lievemente e proseguì: «Perché adesso non ti concedi un bagno caldo e dei vestiti puliti. Non so dove siano finiti i tuoi, ma di certo non ti farò tornare al castello con solo una tunica mezza bagnata.»
«Due anni di assenza e siete già impazienti di sbarazzarvi di me.» un sorriso amaro si dipinse sul volto della giovane dalla pelle scura «Accetterò una pelliccia e nulla di più. Non voglio approfittare oltre della vostra ospitalità.»
«Sai bene che non sei un’ospite, che questa è casa tua oramai.» fu Volk a parlare, mostrando per la prima volta una velata emozione nel suo tono sempre distaccato.
«Davvero? Stupida me che pensavo di essere solo una balia e un’arma preziosa per la vostra guerra contro la Primavera.»
«Non sei mai stata una nostra prigioniera, Cassia. Sai meglio di me che volendo potresti andartene, anche se dubito che ci sia un luogo sicuro fuori dai nostri confini.»
Cassia strinse la mani a pugno e inspirò profondamente per non urlare: «Non sono un’ingrata, se è questo che pensate di me, ma di certo non vi ringrazierò per avermi…»
In quel momento la presenza di Daya poco distante divenne più che mai notata e la giovane fu costretta a mordersi la lingua per non continuare: non sapeva quanto dei loro segreti fossero stati confessati, quando la presenza di persone come lei nel regno fosse stata svelata, quanto Narmana si fidasse dei suoi nuovi alleati.
«È tempo per me di andare. Che tutti voi possiate essere sempre in salute e le nostre strade incrociarsi presto.» Cassia fece una frettolosa riverenza e guardò per un’ultima volta Daya «Le vostre parole si sono rivelate veritiere, ma non mi scuserò per aver fatto quello che ho fatto nel bosco.»
«Nessuna scusa necessaria, Lady Cassia. Un buon soldato non deve mai scusarsi per le sue azioni, non quando queste sono per il bene del proprio popolo e del proprio regno.»

Daya la osservò attentamente lasciare la grande sala circolare, domandandosi se l’avrebbe mai più rivista. Era una strana creatura quella giovane e, per la prima volta dopo tanti anni, aveva risvegliato la sua curiosità: dietro quella facciata fatta di ostilità e indifferenza si celava ben altro, emozioni molto più profonde come la rabbia e la vendetta. Le aveva viste, Daya, anche se solo per un attimo aveva visto il fuoco bruciare sotto la sua pelle e si era chiesto quali innominabili segreti custodisse quella ragazza dagli occhi di onice.
Forse, si disse, avrebbe fatto bene a parlare con Lucas di questo suo incontro, mentre un’altra parte di lui gli diceva saggiamente di conservare il segreto e di aspettare. Presto, in un modo o nell’altro, tutti i segreti sarebbero stati rivelati e il loro destino compiuto.


 


**





«Aspetta!»
La sua maledetta voce. Era quasi riuscita a scappare da quel palazzo dopo essersi vestita in tutta fretta con un vestito sgualcito e una pelliccia trovata in un vecchio armadio quando quella maledetta voce priva di emozioni l’aveva costretta a fermarsi nel cortile antistante l’entrata del castello.
«Volk, cosa posso fare per te?»
Cassia si girò lentamente e sorrise beffarda: quegli occhi le avevano sempre dato i brividi, ma era il suo viso spigoloso e impassibile e farla stare sempre in guardia.
All’inizio si era detta che quella sensazione sarebbe sparita, che era la sua età di bambina a farla intimorire, ma ora che era una donna fatta e finita quel timore non era scamato.
Per un istante ricordò la prima volta che lo aveva visto, spada insanguinata in mano e occhi dal colore pallido come le nebbie mentre si faceva strada tra i corpi senza vita di amici e nemici, di ciò che rimaneva della sua stirpe; ricordò il modo in cui l’aveva guardata, come se non fosse una bambina impaurita e tremante, ma un essere senza troppa importanza.
Quel giorno, Volk era stata la sua unica salvezza, ma da lui non aveva mai ricevuto alcuna parola gentile, nessun conforto per le sue perdite — solo Narmana aveva asciugato le sue lacrime, mostrato una qualche umanità così rara in quella terra.
«Voglio sapere se va tutto bene, se lei sta bene.»
«Il vostro prezioso tesoro è al sicuro, Hecate se ne prende cura personalmente e anche io non manco di starle vicina e non farla sentire sola.»
Volk annuì pensieroso e Cassia si domandò quali pensieri potessero mai riempire una mente tanto intricata quanto quella dell’albino. Volk sembrava incapace di provare qualsiasi sentimento, nessuna empatia, tantomeno affetto o amore verso il prossimo.
Il suo volto, quello stesso volto che non era invecchiato di un giorno in quei quasi diciotto anni che Cassia aveva trascorso là, era una maschera di cera dagli occhi di ghiaccio.
«Non dovresti vagare per i boschi in quel modo, non è saggio. Daya è un nostro alleato, ma il nemico è scaltro e avrebbe potuto…»
«Da quando ti preoccupi di me, Volk?»
L’albino sembrò infastidito da quell’affermazione, provare sincera vergogna: «Ho fatto una promessa a tuo padre, Cassia e nonostante quello che pensi ho fatto del mio meglio per tenerti al sicuro e darti la vita migliore a cui potessi aspirare.»
«Eppure non lo hai salvato, così come non hai salvato mia madre dalla follia o…» Cassia chiuse gli occhi, respirando lentamente quando una stretta al cuore e la memoria delle risate di due bambini si fecero strada dentro di lei «Non mi hai mai detto una parola gentile, Volk, non mi hai mai fatta sentire in salvo e per questo io non devo ringraziarti per avermi salvata da quella mattanza.»
«Per quel che vale, non sei la sola ad aver visto la tua intera famiglia massacrata…»
Cassia trattenne il fiato: era la prima volta che Volk parlava della sua famiglia, che accennava solo lontanamente a quello che era successo, al modo in cui avevano ucciso tutti coloro che gli erano più cari.
«Non tutta la tua famiglia è stata massacrata!» esclamò piccata, decisa a non cedere alla compassione.
«No, infatti ed è proprio per questo che voglio starne il più lontano possibile.» Volk abbassò lo sguardo e strinse a pugno la mano destra fino a farsi sbiancare le nocche «Cose tremende accadono a chi mi sta vicino ed è per questo che sarà meglio per tutti che nessuno venga immischiato con quello che sta accadendo in questo castello, con ciò che dovrò fare affinché giustizia sia fatta e lo stato delle cose ritorni com’era un tempo.»
Cassia annuì senza aggiungere altro; in cuor suo sapeva che Volk non era cattivo, non era una persona malvagia, ma questo non era abbastanza per placare la rabbia e il risentimento.
«Per quello che vale porterò i tuoi saluti e dirò che tutti voi state facendo del vostro meglio affinché questa guerra finisca al più presto; anche se non te lo meriti, dirò che nel tuo cuore c’è posto anche per l’affetto e che i tuoi pensieri sono rivolti anche a lei.»
«Ti ringrazio, Cassia.»
«Non ringraziarmi. Lo faccio per lei, perché è l’unica cosa simile ad una famiglia che mi rimane, l’unica che considero una sorella e per cui riesco ancora a provare puro amore.»

Senza dire altro, senza aspettare ancora, Cassia riprese il suo cammino verso Nord, tra i boschi e la neve fresca, impaziente di buttarsi alle spalle quella stramba avventura, dimenticare quella conversazione, quella giornata e tutto il dolore e i ricordi che questi avvenimenti avevano riportato a galla dopo tanto tempo.


 


*


Angolo Autrice: Hello, folks! Squillino le trombe, sono tornata. E' un periodo strano, questo e non ho molte scuse per questo ritardo se non quella che negli ultimi mesi io e la scrittura non stiamo proprio sulla stessa lunghezza d'onda. Ho lavorato a questo capitoli per mesi, l'ho tipo iniziato durante le vacanze di Natale per finirlo solo poco fa. Insomma, shame on me! ç.ç
Spero, in ogni caso, che vi sia piaciuto e che ci sia ancora qualcuno che legge questa mia storia. Se qualcuno vorrà anche lasciare due righe (magari con impressioni su Cassia e su tutta la questione Inverno con i suoi segreti segretissimi) mi farà molto contenta!

Alla prossima,
V.

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Capitolo 13
*** 13. ***



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Fuoco.
Tutto ciò che Gabrielle riusciva a percepire e vedere era fuoco: alte lingue rosse e arancioni si sprigionavano dal bruno terreno e si protraevano minacciose fin quasi a sfiorare il cielo privo di stelle, circondandola da ogni parte. 
Ogni cosa bruciava, non solo gli alberi dai tronchi massicci e dai forti rami, ma anche la dimora che si ergeva maestosa sul paesaggio fatto di colline e fiumiciattoli; il suo stesso corpo sembrava andare in fiamme eppure non c’era segno di ustione sulla sua pelle sempre candida o sul suo viso spaesato e terrorizzato.   
«Padre! Padre!»
La sua voce era rauca, disperata mentre chiamava il genitore perito da otto anni affinché venisse a salvarla: ovunque i suoi occhi si posavano il fuoco la circondava, rendendole impossibile anche solo fare un passo, cercare di salvare se stessa e coloro che probabilmente si trovavano ancora nella dimora di campagna che per diciotto anni era stata il suo nido sicuro, il solo luogo in cui aveva trovato un po’ di pace ed era stata per quanto possibile felice.
«Padre!» chiamò ancora mentre provava senza successo a oltrepassare il cerchio di fiamme senza origine o fine «Padre, vi prego! Nana!»
Nana. Da quanto tempo non pronunciava quel nome? L’ultima volta era stata una bambina di sei anni e aveva avuto un incubo molto simile a quello. Ricordava che la sua casa stava bruciando, che il suo letto era in fiamme e in quell’occasione era stata sua nonna Ariadne a svegliarla, prenderla tra le braccia e sussurrarle amorevolmente che tutto sarebbe andato bene. Il fuoco, le aveva detto mentre le scostava i capelli dalla fronte madida di sudore, era una parte di lei e per questo non doveva averne paura.
Ariadne, la spietata e imbattibile Bræstven a capo della Fratellanza, era morta una settimana dopo e del suo corpo era rimasto solo la cenere.

«Abbraccia il fuoco, non combatterlo.» una voce dall’ombra si fece strada, una voce calma e gentile che subito riuscì a calmare il suo animo «Il fuoco è parte di te, scorre nel sangue della nostra famiglia dall’alba dei tempi. Non combatterlo, ma abbraccialo e permettigli di entrare, di trovare spazio nel tuo cuore.»
«Chi sei?» urlò mettendosi una mano sugli occhi per riuscire a vedere oltre tutta quella luce accecante «Mostra il tuo volto!»
Un’ombra oltrepassò il fuoco con passo lento ed elegante, prendendo forma pian piano fino a rivelare lunghi capelli talmente rossi che parevano bruciare e occhi color del sangue circondanti da un viso grazioso e pallido, un viso che Gabrielle conosceva fin troppo bene: il proprio.
«Salve, Ævin. È da tanto ormai che cerco di parlarti, ma sfortunatamente in molti ce lo hanno proibito.»
«Chi sei?» sussurrò assumendo una postura difensiva, pronta ad attaccare in ogni momento «Quale demone si cela dietro la tua maschera?»
La ragazza dagli occhi rossi sorrise e senza scomporsi rispose: «Non sono un demone, ma una parte di te. Noi siamo la stessa persona e allo stesso tempo siamo diverse: tu sei nata per diventare me e io sono nata per diventare una parte di te. Insieme, se riuscirai ad accettare il tuo essere, saremo forti e invincibili.»
«Io… non capisco.»
«Tu sei una Ævin, Gabrielle,» annunciò l’altra come se quella rivelazione fosse del tutto normale e ovvia «Sei una dominatrice del fuoco come i tuoi antenati prima di te. Devi solo decidere se vorrai accettare questo fardello o dimenticare per sempre.»
«È impossibile!» esclamò incredula, scuotendo con forza la testa «La magia è stata sconfitta in queste terre, esiste solo nelle profondità della terra, ma non è concessa a noi mortali.»
«Non sconfitta, mai sconfitta.» la figura che era lei stessa le tese una mano «Prendi la mia mano, diventa colei che sei sempre stata destinata ad essere e ti dimostrerò che c’è un mondo oltre quello che vedono i tuoi occhi da scoprire.»
Osservò la mano, la propria mano, per secondi che parvero ore: tutto quello non aveva senso, se lei era davvero una dominatrice del fuoco questo significava che anche suo padre e sua nonna lo erano stati e se questa era la verità allora…
«Fidati. Tutto avrà un senso a tempo debito, ma ora devi fidarti e accettare la tua vera natura.» il suo riflesso le sorrise «Se non ti fidi di me, di queste mie parole, allora fidati del tuo istinto.»
Il suo istinto: il suo istinto non l’aveva mai ingannata in tutti quegli anni, sin da quando era bambina sua nonna e suo padre le avevano detto di seguirlo se mai in dubbio. Il suo istinto l’aveva fatta diventare una combattente migliore, l’aveva fatta fidare delle persone giuste, diventare più sicura di se stessa e delle proprie capacità. Il suo istinto non aveva mai fallito.
«Mi fido!» esclamò un istante prima di stringere la mano, un istante prima che le fiamme l’avvolgessero completamente, incendiando ogni fibra del suo corpo.

Gabrielle urlò nel silenzio della notte più buia. Le sue grida rimbombarono nella stanza che divideva con altre ragazze divenute sue sorelle non di sangue, risvegliandole dal sonno profondo e facendole accorrere al capezzale del suo letto.
Si portò a sedere, sgranando gli occhi come una donna in preda alla follia mentre la sua pelle bruciava così come le sue viscere, il suo cuore, il suo animo. Nessuna fiamma la avvolgeva, tantomeno raggrinziva la pelle fino a farla sciogliere, ma il dolore che percepiva era lo stesso: mille spine sottili sembravano penetrare ogni poro, persino la cute dei suoi capelli sciolti sulle spalle ricurve, dando vita ad un dolore insopportabile, mai provato prima nei suoi quasi ventuno anni.

«Nako! Nako, cosa succede?»
Una voce che non seppe riconoscere chiamò preoccupata il suo nome. Gabrielle si portò una mano al collo, cercando di respirare profondamente, di sopraffare il dolore che in quel momento la stava sopraffacendo.
Non era la prima volta che faceva quel sogno, spesso nelle settimane passate aveva sognato alte fiamme che divoravano ogni cosa, sussurri appena udibili nell’oscurità della notte illuminata a giorno dalle tinte rosse, gialle e arancioni, ma era la prima volta che l’ombra dalle sue stesse sembianze si palesava, che l’afferrava stringendola come un predatore tra le sua fauci e facendola svegliare in preda al panico: solitamente nel sogno ricorrente chiamava suo padre, cercava disperatamente di entrare nella dimora d’infanzia inghiottita dalle lingue di fuoco per salvare le persone a lei care da un destino che sembrava segnato, fallendo ogni volta e risvegliandosi madida di sudore e con il fiato corto.   
«Non respiro… non…»
Coperte furono scostate bruscamente e a piedi nudi Gabrielle scese di tutta fretta dal letto e si precipitò fuori dalla stanza condivisa, giù verso le scale a chiocciola che percorrevano sinuose come un serpente tutta la torre, fino ad arrivare al cortile interno dove si fermò all’ombra di un antico albero che ne celò la presenza ad occhi indiscreti.
Con occhi lucidi osservò il cielo privo di luna identico a quello del suo sogno e non riuscì a fare a meno di chiedersi quanto quel sogno fosse tale e non un universo parallelo di qualche sorta — non che lei credesse a quelle sciocchezze, ovviamente.
Eppure…
Ævin. Così l’aveva chiamata più volte la giovane donna del sogno, usando quella parola letta solo nei libri polverosi contenuti nella biblioteca della sua dimora di famiglia, nelle storie divenute leggenda che narravano di aitanti condottieri dai capelli del tramonto capaci di dominare il fuoco ed evocarlo con il solo potere della mente.
Il solo potere della mente…

Allungando una mano verso l’alto toccò un ramoscello dell’albero e lo spezzò senza difficoltà; pensierosa, lo osservò attentamente e, chiusi gli occhi, ripensò a quei racconti quasi dimenticati e li riportò alla mente.
Ricordava che i prescelti sussurravano appena quelle parole, spesso le rievocavano solo nella propria mente; sua nonna prima e suo padre dopo le avevano raccontato fino allo sfinimento quelle storie, fatto di tutto affinché le ricordasse e le custodisse gelosamente — dopo tutto quei racconti facevano parte di lei, del suo retaggio, dei suoi antenati.
O, forse, c’era qualcosa di più? Qualcosa di segreto di cui era proibito parlare? Magari…

Da giorni, da quando quegli strani sogni avevano avuto inizio, avvicendandosi notte dopo notte, una singola parola aveva continuato a danzare leggiadra nella sua mente, sulla sue labbra, ma mai Gabrielle aveva osato pronunciarla ad alta voce.
Quella parola, quella lingua magica era proibita in quelle terre da trecento anni, ma dopo quello che era accaduto non poteva più ricacciarla in gola, reprimerla nell’angolo più buio del suo essere.
«Ruthvin!» sussurrò seppur con voce incerta, scettica, tirando quasi un sospiro di sollievo nel constatare che nulla era accaduto. «Stupida sciocca! Questo che stai facendo non ha senso, niente di tutto questo ha senso. Sono solo stupidaggini, vecchie dicerie e…»
Sospirò, continuando ad osservare il ramoscello stretto saldamente nella sua mano sinistra: doveva riprovarci? Doveva lasciar perdere e dimenticare quel sogno? Dopo tutto dimenticare sarebbe stato facile, un gioco da ragazzi, ma lei non era mai stata una di quelle persone a cui piaceva percorrere la strada più facile.
Abbraccia il fuoco, non combatterlo.
Abbracciare il fuoco: quello le era stato detto nel sogno. Abbracciare il fuoco, non combatterlo. Abbracciarlo come un vecchio amico, come un padre, come una nonna.
Brucia, iniziò a ripetersi come un mantra nella sua mente. Brucia. Brucia, brucia, brucia.
«Ruthvin!»  

Un forte calore si sprigionò dalla sua mano, diramandosi tra le sue dita, fino a scoppiettare come una fiammella in un camino e…
Gabrielle riaprì gli occhi e dovette reprimere un urlo sorpreso e allo stesso tempo terrorizzato quando osservò il ramoscello bruciare fino a carbonizzarsi e divenire un mucchietto di cenere nella sua stessa mano.
Tutto era accaduto così velocemente eppure era accaduto. Boccheggiando lasciò cadere lentamente la cenere che si andò a sparpagliare sul terreno polveroso ai suoi piedi e studiando attentamente la propria mano notò che il calore, così come il fuoco, si era dissolto lasciando il palmo liscio e tiepido.
— Sono un mostro? Sono come uno di quegli abbomini che popolano le terre di Ynjór? Se mai si scoprisse, se mai qualcuno dovesse saperlo… —

In quel momento realizzò che non ne avrebbe mai potuto parlare con nessuno. Non con Lucien, che certamente l’avrebbe rinchiusa in una cella delle segrete e chissà che altro, e neanche con Bjorn, il suo migliore amico, la persona a lei più cara con la quale aveva diviso ogni segreto e preoccupazione negli ultimi due anni e mezzo passati insieme.
Dirglielo avrebbe messo in pericolo anche lui, avrebbe cambiato per sempre la loro vita, la loro amicizia e lei non poteva permetterlo.
Inoltre, in due giorni si sarebbe svolto il matrimonio di Lorhanna con suo cugino Nikolas e dopo sarebbero partiti alla volta dei territori ribelli: la sua mente doveva essere lucida, i suoi sensi pronti, il suo animo privo di qualsiasi preoccupazioni.
Gabrielle decise che avrebbe taciuto, che avrebbe tentato di dimenticare, di lasciarsi alle spalle quello che era accaduto quella notte e andare avanti con la sua vita come se niente fosse mai successo.
 



*




Angolo autrice: Buonsalve, gente! Capitolo piuttosto importante questo, in cui l'essere e il futuro di Gabrielle vengono messi alla prova e in pericolo. Si è trovata improvvisamente capace di esercitare un potere leggendario, che credeva estinto, e chissà se riuscirà davvero a tenere il segreto o se qualcosa avverrà prima della missione che la porterà al nord.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e, al solito, ringrazio chi legge, segue e recensisce questa mia storia.
Alla prossima,
V.

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Capitolo 14
*** 14. ***



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Le campane del tempio suonavano a festa da molte ore. Il primo rintocco aveva riempito il silenzio della piazza antistante al sorgere del sole, seguito da tanti altri che avevano chiamato a raccolta il popolo e ricordato loro cosa sarebbe accaduto in quel giorno destinato a rimanere per sempre nella storia del regno.
Dalla finestra delle sue stanze, Lorhanna ammirava le imponenti torri che si innalzavano come giganti addormentati al di sopra della città, riflettendo i raggi obliqui del sole grazie alle vetrate colorate che ne accentuavano l’intensità.
Avrebbe continuato a osservare il cielo e la città ancora per molte ore, persa nei suoi pensieri, se non fosse stato per ciò che sarebbe successo nel giro di poco, per il dovere a cui era stata chiamata e a cui avrebbe adempiuto: diventare la sposa di un uomo più giovane di lei, amato dal popolo, nella speranza di rafforzare la presa sul suo vasto regno e sui suoi sudditi e procreare ben presto un erede che avrebbe portato avanti il nome di una dinastia antica di secoli.
Era tempo di dimenticare il passato, di seppellire i ricordi e i rimpianti per ciò che non sarebbe mai stato e affrontare la realtà; era tempo di lasciare andare, di staccarsi da ogni cosa e questo significava anche distruggere l’ultimo simbolo che ancora la legava a quell’uomo – l’unico uomo – che aveva amato e che le era stato portato via prematuramente.
Strette la mani attorno alla vita, come quasi a volersi proteggersi da una minaccia invisibile, la regina della Primavera si avvicinò cauta all’ampio letto a baldacchino accanto al quale c’era un piccolo mobile in legno decorato in oro e, sopra questo, una rosa che non era mai appassita.
— Adesso è tempo di lasciarla svanire, di lasciare andare —
Con mani tremanti l’estrasse dal piccolo vaso bianco e blu, stringendola al petto come il più prezioso dei doni: era stato l’ultimo pegno di François, la sua promessa di amore e fedeltà, di giorni felici che non erano mai arrivati.
Per tutto quel tempo l’aveva custodita gelosamente, facendola sbocciare e ritrasformare in bocciolo grazie alla magia della terra che scorreva nelle sue vene, ma adesso…
« Vyanth.» sussurrò con voce malferma e il bocciolo si schiuse davanti ai suoi occhi d’ambra. La regina sorrise malinconica, accarezzando i petali come una ragazza innamorata accarezza la guancia dell’amato in procinto di partire per la guerra; non avrebbe più pronunciato quella parola, quello momento era un addio per sempre.
«È tempo di lasciarti andare.» confessò a voce bassa, come se quel fiore avesse potuto capirla, come se davanti a lei ci fosse stato lo stesso François «Ti amerò per sempre, ma è tempo per me di andare avanti. So che capisci, so che perdonarai.»
Una lacrima solitaria rigò la sua guancia di porcellana e un attimo dopo, decisa e senza alcuna emozione, Lorhanna esclamò: «Vyanlith
Pronunciate quelle parole, i petali che fino a un attimo prima erano stati di un vibrante colore azzurro iniziarono a scurirsi fino a sfumare nelle tonalità del marrone, diventare marci e polverizzarsi tra le sottili mani della regina.



**
 


Lorhanna si portò una mano sul piatto ventre e prese un lungo respiro. Il vestito di broccato color smeraldo decorato con preziosi fili color rame era più pesante e ingombrante del previsto; persino respirare era difficile, stretta com’era nel corsetto dalle stecche di morbido legno lavorato che premevano sulla sua pelle pallida.
Circondata dalle sue dame nell’anticamera che collegava la sua stanza da letto con il lungo corridoio che l’avrebbe portata fuori dal palazzo, Lorhanna cercò di isolarsi dal brusio delle voci femminili e dal rintocco incessante delle campane del grande tempio poco lontano: mancava meno di un’ora all’inizio della cerimonia, probabilmente il suo sposo la stava già aspettando impaziente davanti alle imponenti statue del Dio Padre e della Dea Madre, e presto la sua vita avrebbe preso una nuova svolta.
Presto, si disse, i suoi piani si sarebbero compiuti e sarebbe iniziata un nuovo capitolo della sua vita; presto, con un po’ di fortuna, avrebbe stretto tra le sue braccia un infante sano e forte, dato al suo regno l’erede al trono che da anni il consiglio e la nobiltà attendevano impazienti.

«Maestà?» una voce che non riconobbe immediatamente la destò dal suo flusso di pensieri.
Ferma sullo stipite della porta, a pochi metri da lei, la giovane Gabrielle Nakovrar attendeva impassibile di scortarla fino al tempio com’era stato stabilito.
Vestita di tutto punto, sebbene sotto l’ampia gonna nascondesse lame affilate e chissà che altro, la giovane erede di una delle famiglie più antiche e potenti della Primavera manteneva un’aria severa, quasi minacciosa, ben lontana da quel senso di smarrimento che aveva lasciato trapelare la sera di quasi tre anni prima quando, insieme a quello che ancora restava della sua sfortunata famiglia, era giunta a palazzo per entrare nella Fratellanza.
«È tutto pronto, deduco.» disse pacata la regina, ricevendo un cenno di assenso come risposta. «Molto bene, dunque. Non lasciamo che i nostri ospiti attendano ulteriormente.»
Lorhanna diede disposizioni alla processione di gente che l’avrebbe seguita fino al luogo della cerimonia di mettersi in marcia — era consuetudine che la sposa percorresse a piedi e con il capo velato la strada che collegava in linea retta il palazzo reale con il Tempio — e non senza fatica lasciò la stanza.
«Siete cresciuta dall’ultima volta che ci siamo viste, Lady Gabrielle.»
«Nako, Maestà.» la corresse umilmente la rossa «Da quando faccio parte della Fratellanza tutti mi chiamano Nako.»
«Ovviamente.» Lorhanna accennò un sorriso, concedendosi per un breve attimo di tornare con la mente a  molti anni prima, quando c’era un’altra regina sul trono e una donna a capo della Fratellanza che si faceva chiamare con lo stesso nome. «Lucien sembra averti addestrato bene: mi parla spesso di voi come una guerriera che non mostra paure e ha spende parole di encomio nei vostri confronti.»
«Il nostro Bræstven mi onora, così come le parole di Vostra Maestà.» ringraziò la giovane con il capo chino, continuando a camminare fianco a fianco della regina così come le era stato ordinato il giorno prima dallo stesso Lucien.
«Ora più che mai ho bisogno di persone leali, soldati addestrati a servire il proprio paese e il proprio sovrano fino alla morte se necessario.» Lorhanna guardò con la coda dell’occhio Gabrielle, cercando una qualche reazione «Inoltre, molto presto mio fratello dovrà scegliere un protetto da addestrare personalmente che gli succederà quando il momento opportuno arriverà e bisogna che ognuno di voi metta a frutto le proprie qualità. Sai cosa intendo dire, vero?»
Gabrielle annuì, ma non disse nulla. Molti anni prima sua nonna aveva scelto Lucien come suo protetto, se liberamente o sotto l’influsso del precedente sovrano questo non era dato sapersi, e ora che il suo momento stava per giungere anche lui avrebbe dovuto scegliere un protetto. Un protetto che, Gabrielle pensò, con un po’ di fortuna e una buona parola della regina avrebbe potuto essere lei.

Una volata di vento carezzò i loro visi e mosse lievemente le loro vesti quando la processione raggiunse l’esterno, la piazza semicircolare antistante al palazzo, portando con se profumi e odori provenienti da tutta la città.
Fu proprio in quel momento, grazie a quel vento dispettoso, che Lorhanna percepì un odore che non percepiva da quasi sedici anni: non era proprio un odore vero e proprio, poiché non tutti erano in grado di percepirlo, ma la sovrana della primavera era certa che quello che percepiva era una strana sensazione di calore, una fragranza fatta di polvere di quercia bruciata, carbone, tabacco… fuoco.
Che la giovane Nakovrar avesse? No, era impossibile… no, non impossibile, piuttosto improbabile. Dopo tutto, suo padre non aveva mai mostrato alcuni segni particolari, ma era pur vero che Ariadne...
Che fosse anche lei, proprio come sua nonna, un Ævin, una dei prescelti in grado di evocare il potere della dea del fuoco e utilizzarlo a proprio piacimento? Se fosse stato così, Lorhanna avrebbe avuto tra le mani un’arma rara e preziosa, poiché quasi nessuno nel suo regno era ancora in grado di avere quel potere e piegarlo alla propria volontà.
Doveva parlare quanto prima con Lucien, non appena il matrimonio fosse finito e poi…
Poi cosa? Lucien odiava la magia, odiava ogni persona in grado di evocare un elemento naturale; non le erano mai sfuggite, negli anni, gli sguardi riservati a quei pochi membri anziani della Fratellanza ancora in grado di evocare il potere della terra, il modo in cui l’aveva guardata quelle rare volte in cui l’aveva sorpresa a far sbocciare i fiori nei giardini reali, cercare di parlare agli alberi sempreverdi che si ergevano possenti, quasi fossero in grado di sfiorare l'immenso cielo.

Lui è come nostro padre, come nostro nonno. Lui non capisce, non sa che se equilibrata da mani esperti la magia…


Trombe squillarono nella tiepida mattina, risplendendo nei raggi del sole. Lorhanna sobbalzò lievemente, osservando attraverso il velo che le ricopriva interamene il volto le scale di pregiato marmo che salivano fin al maestoso portone in bronzo del Tempio.
Le sue dame si portarono dietro di lei, prendendo ognuna un lembo del pesante strascico e alzandolo lievemente; una figura vestita di nero e rosso che riconobbe immediatamente come Lucien le si avvicinò alla propria destra — l’uomo avrebbe fatto in quel giorno di letizia le veci di suo padre, l’avrebbe condotta all’altare e affidata al giovane sposo.
«Mia cara sorella.» Lucien sorrise lievemente, stringendo la piccola mano nella propria.
«Amato fratello.» salutò a sua volta la sovrana prima di iniziare a salire una dopo l’altra le ampie scale.
Il suo ingresso nel tempio fu accolto dalla gentile melodia degli archi, dalla soave voce del coro e da un lieve brusio di sottofondo che, se ascoltato attentamente, raccontava i pareri di ogni singolo nobile là presente circa la propria sovrana.
L’aria era satura di incenso e candele bruciate, risultando quasi malsana, e la luce entrava affievolita attraverso l’oculo posto al centro della cupola marmorea e dalle vetrate colorate riccamente decorate e rappresentanti i sovrani della Primavera.
Il Feirad, l’Alto Sacerdote del tempio, l’attendeva vestito con i sacri ornamenti davanti alle maestose statue in marmo e bronzo del Dio Padre e della Dea Madre; poco prima, invece, vestito di tutto punto con l’alta uniforme destinata ai membri della famiglia reale, vi era il sorridente e nervoso Nikolas.

«Chi conduce alla presenza del Dio Padre e della Dea Madre questa sposa?» chiese come da tradizione il Feirad, la voce bassa e minacciosa.
«Lucien Yviórsekk, fratello di questa donna.» rispose con voce altrettanto solenne il biondo, scostando il pesante velo del viso di Lorhanna e porgendo il braccio di quest’ultima a Nikolas «Alla presenza degli déi e della loro stirpe, della nobiltà e del popolo di Yvjór concedo a te, Nikolas Dvjost, la mano di questa sposa. Possa il vostro matrimonio essere benedetto.»
Lucien fece un passo indietro e poi un altro, fino a divenire un ombra tra le file poco distanti. I due sposi, finalmente, erano l’uno accanto all’altro e, sebbene per motivi diversi, su entrambi i loro volti l’emozione era palese.
Negli istanti successivi il Feirad iniziò il suo discorso solenne, ricordando la loro comune stirpe, le origini degli déi e del mondo, di come tutto fosse accaduto per poter arrivare in quel momento. Altro incenso fu sparso tra le mura circolari del Tempio gremito di gente, candele vennero accese e preghiere furono innalzate in onore degli déi; frutti della terra vennero innalzati sui loro altari e, come da consuetudine, un animale da pascolo venne sacrificato sul tempio della madre, così da poter cospargere la fronte della sposa con poche gocce di quel sangue innocente simbolo e augurio di fertilità.
Un singolo anello di oro e rame nel cui centro era incastonata una pietra di preziosa giada venne posto al dito medio di Lorhanna, simbolo di appartenenza a quel giovane uomo che lei stessa aveva deciso di prendere come marito.
Nel giro di quello che parve un attimo tutto ebbe fine e Lorhanna tornò ad ammirare il cielo terso al di fuori del Tempio, conscia che la giovane donna che vi era entrata poco prima non sarebbe mai stata la stessa che vi era uscita: una nuova pagina della sua vita stava per essere scritto, conseguenze ci sarebbero state a quel matrimonio, un nuovo gioco stava per iniziare e sarebbe spettato a lei e a lei soltanto decidere se rimanere la regina inespugnabile che era sempre stata o un indifeso pedone pronto per essere sacrificato.  



 

*


 
Angolo Autrice: Per la serie "chi non muore si rivede" eccomi qua, di ritorno? Qualcuno ha sentito la mia mancanza? Spero di sì, cacchio.
Perdonatemi, so bene che non sono più attiva come un tempo e che ho storie in pausa da praticamente un anno, ma la mia vena creativa non gode di splendida salute in questo periodo e sto cercando di fare del mio meglio...
Spero, comunque, che questo capitolo vi sia piaciuto - sempre se c'è ancora qualcuno che continua a leggere 'sta storia. Se vi va, lasciate una recensione che, al solito, sarà sempre molto apprezzata.
Alla prossima,
V.

 

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