Lànciati avanti nel profondo e poi sempre più giù

di DarkYuna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Risveglio ***
Capitolo 2: *** Argus Apocraphex ***
Capitolo 3: *** 100 occhi non bastano ***
Capitolo 4: *** Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius (Andare verso l’oscuro e verso l’ignoto, attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto) ***
Capitolo 5: *** Riprova: Devi vedere, non guardare ***
Capitolo 6: *** A cosa sei disposta a rinunciare, per salvarti? ***
Capitolo 7: *** Se dunque il tuo occhio è singolo, tutto il tuo corpo sarà illuminato ***
Capitolo 8: *** Il percorso è la stessa meta da raggiungere ***



Capitolo 1
*** Il Risveglio ***


*Il Risveglio*









Non essendo l'inconscio solamente
un riflesso reattivo ma un'attività autonoma,
produttiva, il suo campo d'esperienza
è un mondo proprio,
una realtà propria, di cui possiamo dire che agisce
su di noi come noi agiamo su di essa,
come lo diciamo del campo d'esperienza
del mondo esteriore.
Carl Gustav Jung, L'Io e l'inconscio, 1928
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo non è un sogno: è la realtà.
 Abbandonatevi all’istinto.
In un luogo dove la ragione non ha alcuna influenza.
Tutto può avvenire in una sola notte
o per l’eternità.
 
 
 
        



La luce abbacinante inglobò il campo visivo, bruciò insopportabile nella retina sensibile e depennò l’ultima memoria tangibile a cui potevo fare sul serio affidamento.
In lontananza un “bip” molesto, tintinnava frenetico nelle orecchie, come un fischio sordo che stava man mano rallentando, forse destinato a fermarsi irrimediabilmente. Voci frenetiche pronunciavano concitate il mio nome, riempendolo di turbamento preoccupante. Mani invisibili mi strattonavano, comprimevano sul petto dolorante e bolle d’aria si riversavano fastidiose nella gola.
 
 
Poi il silenzio.
 
 
Vi era qualcosa di inspiegabilmente sinistro nella quiete che era conseguita alla tempesta, di sbagliato nella placida tranquillità, di inesatto, una verità al rovescio, un incubo da cui non riuscivo a liberarmi. Un senso di spasmodica attesa.
Ero sola qui, attorniata dalle tenebre del non esistere, il ronzio dell’aria condizionata che serviva a mascherare l’odore di morte, in gocce d’attesa che filtravano via.
Ero sola qui e una luce calda scivolò lesta sul soffitto, più volte. Macchine di passaggio, probabilmente, i cui fari passavano attraverso le piccole finestre del corridoio e non seppi spiegarmi il perché, fossi così sicura dell’esistenza di quegli infissi, dato che non li avevo visti.
Ero sola qui… e anche questa convinzione, venne ben presto messa in discussione.
 
 
Di nuovo un fascio rischiarò la stanza asettica e sulle pareti bianche, un inchiostro nero le macchiò, disegnando dei ghirigori raffinati, gotici, dagli intrecci complicati e che in breve, ricoprirono l’intera camera. Le iridi seguivano passo passo ogni svolazzo, ricciolo e arzigogolo, innamorata persa di quel labirinto di rovi, che abbelliva il nulla.
 
 
Non seppi dire l’istante preciso che, il bussare molesto, non rimase più come un fastidioso rumore di sottofondo, ma crebbe esponenziale ed esplose in mostruosi pugni su una superficie d’acciaio, il cui eco mi risuonò dentro. 
Di sottecchi notai una piccola porta in fondo alla stanza asettica, che fino a poc’anzi non c’era, si aprì cigolante e una figura alta, scheletrica, indubbiamente femminile, strisciò nell’oscurità, verso di me.
 
 
Tentai invano più volte di riprendere il controllo di un corpo ormai estraneo. Dentro scalciavo impazzita, mentre fuori rimanevo immobile nella postura rigida e gelida… urlavo, ma il silenzio era così pesante da soffocarmi.
 
 
La creatura guadagnava terreno, usando solo la parte superiore del busto per muoversi e si portava dietro le gambe, come un peso morto, di cui non poteva disfarsi. Era me che voleva e non sarei potuta fuggire da nessuna parte.
Innegabilmente la realtà non era più quella che conoscevo, ora distorta, malsana e spaventosa.
L’essere salì con gesti bislacchi, assomigliando ad un ragno paralitico, sul letto in cui ero riversa e si fermò su di me. La testa aveva scatti eccentrici, come se fosse affetta da gravi attacchi di epilessia e gli occhi indemoniati erano dritti nei miei. Cercava qualcosa e quando la trovò, la bocca cerea si dischiuse e si accostò al mio orecchio.
 
 
<< Svegliati. >>, sibilò, la voce era tetra ed infantile. << Svegliati! >>, ordinò, premendo poi le labbra sulle mie e tornando da dove era venuta.
 
 
Il buio divenne nuovamente luce e solo dopo essermi protetta dal riverbero abbagliante ed improvviso, mi accorsi che, finalmente, ero in grado di muovermi di nuovo. I gesti erano goffi, fiacchi e dovetti riabituarmi ad essere viva, anche se, il colorito livido della pelle era sconcertante.
A fatica mi sedetti sul duro lettino, dalle lenzuola azzurre. Accanto il braccio era adagiato una vecchia flebo vuota, sul braccio vi erano tre buchi violacei recenti. Uno schermo spento giaceva alla mia destra, sul pavimento un lungo foglio sottile, riportava il monitoraggio cardiaco di una persona chiaramente morta.  
 
 
Non rammentavo che le pareti dell’ospedale fossero di marmo pregiato e che le finestre avessero quella forma ad arco, affrescate a mano, raffiguranti dipinti sacri o mosaici antichi. Il condizionatore, aveva smesso di fischiare e, il luogo, era dotato di un freddo ricamato nelle viscere… lo stesso freddo che rappresentava la sottoscritta.
La camera appariva vuota, come disabitata da anni, l’unica fonte di luce proveniva dal neon al di sopra il mio letto, per il resto l’oscurità più tetra mi circondava. Dalle finestre non vi erano alcuni punti di riferimento per capire dove fossi e il perché ero finita in ospedale.
Da quanto ero qui? Un giorno, una settimana? Una vita? Per quale motivo? E dov’erano tutti?
 
 
Lo scorrere del tempo era mutato impercettibilmente e non riuscivo più ad interpretare quanto durasse un minuto o un’ora intera. Non esisteva più alcun tempo per me. Le leggi e le convinzioni terrestri, non potevano più essere applicate con la sottoscritta, anche se non capivo cosa fosse accaduto e come uscirne.
 
 
Scesi dal lettino, tra le mani un bouquet di rose rosse che  fino a poc’anzi non c’era e fui sorpresa nel non percepire la temperatura del pavimento lucido, pulito e corvino. Strano per un ospedale avere un simile arredamento.
 
 
 
Sforzai la mente a riportare a galla il viaggio che mi aveva portato qui, ma per quanto cercassi di rammentare, una spessa e fitta coltre di bruma impalpabile, si addensava come un muro impenetrabile e su cui andai a scontrarmi.
 
 
Non vi era più alcuna traccia dell’orribile creatura, così come della piccola porta da cui era stata risputata.
Incerta e turbata mi trascinai nel corridoio buio, ci fu un ronzio elettrico e poi, uno dopo l’altro, i neon attaccati al soffitto si accesero in contemporanea. A metà della corsia era stato abbandonato un vecchio carrello metallico, pieno di oggetti sanitari usati ed un paio di cartelline appartenenti a pazienti dell’ospedale.
Avrei potuto trovare informazioni rilevanti che avrebbero spiegato l’astruso frangente, fu principalmente questa la motivazione che mi spinse verso il carrello. Tra le vecchie siringhe utilizzate, boccette rotte, macchie di liquido giallastro su carta assorbente, c’erano sei fascicoli medici. Riportavano date disparate, forse errate, con salti temporali pazzeschi e collegate dal nessun senso logico.
 
 
L’ultimo incartamento era del millenovecentonovantanove e apparteneva a me: Jennifer Thompson. Dichiarata morta dopo un tentato suicidio.
 
 
Battei le palpebre, ed ebbi un dolorosissimo tuffo al centro del cuore palpitante. Le iridi scatenate rintracciavano notizie più precise e fu impossibile che fossi scomparsa all’età di otto anni, poiché era palese che ci fosse un vistoso errore, che non ero deceduta.
C’ero arrivata a ventiquattro anni, ma come?
Mi aggrappai ad ogni spiraglio, a reminiscenze che non esistevano a particolari illusori. Ero viva, benché non ricordassi di esserlo stata. Più tempo passava e più dimenticavo chi ero veramente.
E nel terrore di non riuscire a rievocare nulla che potesse confutare tale teoria, avvertii una sensazione di disagio crescente, come di un pericolo imminente che stava giungendo per uccidermi per davvero e mi voltai atterrita.
 
 
In fondo al corridoio, al confine tra la luce e le tenebre, un uomo nerboruto, alto, il volto rivestito da una maschera in lattex da sadomaso che gli copriva interamente ogni centimetro visibile della faccia, abbigliato con un gessato nero, teneva in mano un grosso martello da lavoro e restava minacciosamente immobile.
Non potevo vedere gli occhi, ma sapevo che mi stava fissando, ed era lì per me.
Sicuramente non era venuto a trovarmi per invitarmi a bere un caffè insieme, le intenzioni era tutt’altro che pacifiche e cordiali.
 
 
Come se avesse avuto un ordine impercettibile, l’uomo procedette minaccioso a passo di carica verso l’unica persona presente al momento.
 
 
<< Cazzo! >>, sbottai e d’istinto andai nell’unica direzione possibile.
Corsi a perdifiato, lo sconosciuto mi stava alle calcagna e, per quanto veloce andassi, lui riusciva ad essere doppiamente rapido.
 
 
Nell’avanzare nei meandri dell’ospedale, riuscivo a scorgere luoghi ed oggetti che fino ad un momento prima non c’erano, era come quando si guidava di notte, con i soli anabbaglianti accesi, che illuminavano a pochi metri dalla macchina, paesaggi che erano celati nel buio, ma che le luci svelavano.
L’uomo mi era sempre più vicino, pochi secondi ancora e mi avrebbe ghermita e nello svoltare in una sala a cerchio, mi accorsi di essere incappata in un vicolo cieco. Era una grande stanza a mezzo cerchio, composta da grossi finestroni chiusi, l’unico aperto era situato al centro di essa e dava su un meraviglioso cielo al caffè, ricamato da stelle e da una piena luna pallida, che donava un’atmosfera spettrale all’edificio.
Decimo piano forse, magari più in alto di così.
 
 
Da qualche parte, dentro di me, un barlume di ragione mi spingeva a fermarmi, pensare ad una soluzione differente, tuttavia una sorgente organica di pulsioni oscure cancellò ogni minima traccia di razionalità e l’unica cosa che feci, fu buttarmi dall’unica via di fuga a mia disposizione. La caduta avrebbe dovuto essere veloce, sfocata, spaventosa, mi aspettavo un vento gelido sferzarmi la pelle, ma accadde tutto con una lentezza esasperante, un po’ come avveniva nei sogni. Il senso di cadere c’era… un’agghiacciante, fiacco ed esasperante senso di caduta nel vuoto e, invece di morire schiantata sull’asfalto, ruotai su me stessa ed atterrai agile come un gatto sulle gambe.
 
 
Non indossavo più il camice bianco: avevo smesso di essere una paziente. Calzavo vestiti che non erano stai mai miei, semplici converse nere, leggins corvini e una t-shirt bordeaux.
 
 
Benché avessi ricorso ad un estremo gesto per salvarmi, la minacciosa figura che mi aveva inseguita nell’ospedale, era a pochi metri da me, neppure mi avesse aspettata.
Ripresi a correre dalla parte opposta, attraverso ad una città fantasma, piena di lampioni accesi, negozi chiusi, nessuna macchina, né in movimento, né parcheggiata, silenzio assordante.
Solo io.
 
 
Stavolta fui più rapida o forse più fortunata, stava di fatto che riuscii a seminarlo. Dopo essermi accertata di essere in salvo, mi nascosi a riprendere fiato in un vicoletto poco illuminato, e a venire a capo della matassa ingarbugliata.
Un lampo improvviso squarciò il cielo, seguito da altri due, poi più niente, il temporale era imminente, però non iniziò mai.  Tra i ciottoli del vicoletto in cui mi ero rifugiata, lessi la scritta sul tombino: Manhattan.
Anche questo era errato, non ero di Manhattan, ma non ero certa di abitare in altro luogo, se non questo.
 
 
Ci impiegai una manciata di secondi ad udire il rumore inconfondibile di una moto in lontananza che si approssimava spedita, certo, poteva essere di nuovo l’uomo mascherato, però dovevo correre il rischio, non avevo altra scelta.
 
 
Furtivamente uscii fuori dal rifugio momentaneo. Il rombo del motore echeggiò nella città deserta, curvò ad una velocità sconsiderata nella mia strada e per paura che non mi vedesse, ubbidii all’istinto convulso e mi portai nel bel mezzo della carreggiata a braccia spalancate.
Dalla corporatura massiccia decretai fosse un uomo, non quello che voleva prendermi a martellate, questo era meno nerboruto e meno grosso di stazza. Indossava una tuta da motociclista bianca, nera e blu, il casco integrale occultava la fisionomia.
I fari mi offuscarono la vista e prima che potessi scansarmi, per non essere investita, il tipo sterzò brusco, perse il controllo del mezzo, poi l’equilibrio e ruzzolò malamente a terra, ruotando più volte sulla schiena, anche la moto, che scivolò per pochi metri fino a me.
Dopo una caduta del genere, sarebbe dovuto morire, così come sarei dovuta morire io, dopo essermi buttata da chissà quale piano dell’ospedale.
 
 
Si alzò a fatica, sorpresa che non si fosse fatto alcunché; il vetro del casco si era appannato. Se lo sfilò e lo lasciò cadere, come se non gliene importasse niente.
Indubbiamente era di aspetto affascinante e, in un paradossale contesto del genere, fu il particolare più scioccante di tutti. I capelli erano di un castano scuro, dal taglio semplice, pochi tocchi di gel. Le iridi di un verde scuro cangiante mi scrutavano magnetiche e sbalordite. Provvisto di un’aria familiare a cui non avevo fatto caso di primo acchito, lì per lì, non riuscii a ricollegai la somiglianza. Ero certa di averlo già incontrato prima di adesso, di averci parlato per giunta, di sapere chi fosse, ma, come per il resto, anche questo restò un’incognita irrisolvibile. 
Il viso era affilato, dai lineamenti maschili, forti e in più, il sottile strato di barba gli donava come a pochi.
Mi guardava come se fossi un fantasma.
 
 
<< Sei reale? >>, chiese l’incerta voce di velluto caldo, che fu una carezza soffice sulla pelle. Ne doveva aver viste di cotte e di crude, per porgere un simile quesito bislacco. Speravo che avesse delle risposte.
Mi sentii un alieno sotto analisi, dal modo strampalato in cui mi squadrava accorto, neppure dovessi sparire da un momento all’altro. 
Se non contavo il fatto che avevo appena scoperto di essermi suicidata all’età di otto anni, ero più che reale… e viva.
 
 
<< E tu? >>, replicai di rimando. Stavamo mettendo in dubbio che la tangibilità attorno a noi fosse veritiera? Che diavolo di gioco era mai questo, se era incerto ciò che i nostri occhi vedevano? E più di questo, ciò che i miei occhi vedevano era attendibile? Questo posto esisteva?
 
 
Inarcò un sopracciglio e lo sguardo divenne affilato, come quello di un predatore.
<< L’ho domandato prima io. >>, perseverò, mantenendo le debite distanze: non si fidava.
Se avessimo proseguito a rivolgerci l’identico quesito e su chi doveva rispondere, avremmo continuato per sempre e non volevo restare a lungo in strada, con uno sconosciuto armato che mi braccava.
 
 
<< C-credo di essere reale. >>, balbettai, incerta di esserlo davvero. Evitai di rivelargli che, probabilmente, ero un cadavere, sembrava già scioccato di suo, meglio non complicare il frangente. 
 
 
 
<< Cosa ti ricordi, prima di esserti svegliata? >>, interrogò, nemmeno gli fosse capitata l’identica cosa. Zero memorie su come fossi giunta qui e perché. Non muoveva un muscolo, restando cauto.
La caligine nel cervello avvolgeva i tre quarti del passato, l’ultimo quarto era iniziato da quando mi ero ritrovata nel lettino dell’ospedale abbandonato.
 
 
<< So solo come mi chiamo, non c’è niente prima del risveglio. Tu sai dove siamo? >>. Non mi sembrava Manhattan questa città.
 
 
Scosse le spalle vigorose, recuperò il casco ed alzò la moto. Non mi teneva più sotto tiro. Constatò se il mezzo funzionasse ancora.
<< Dove siamo? >>, ripeté, schernendomi. Con un colpo secco della gamba, la motocicletta riprese vita. << È una domanda relativa il “dove siamo?”, potremmo essere ovunque e in nessun luogo. >>.
 
 
Aggrottai la fronte, non volevo sapere, ma non potevo fare altrimenti, se volevo capirci qualcosa.
<< Che vuoi dire? >>, esortai a rivelare.
 
 
Si sedette virile a cavalcioni sulla moto, teneva il casco graffiato in grembo: se ne stava andando.
<< Secondo te dove siamo? Lascia perdere i cartelli stradali, non sono attendibili. >>.
Se non potevo basarmi su ciò che c’era scritto sul tombino, allora non ne avevo la più pallida idea. Il mio sgradevole silenzio, fu la risposta e mi mandò nel panico.
 
 
La testa oscillò da una parte all’altra e mi persi nel verde cangiante degli occhi dello sconosciuto.
<< Non lo so. >>, fu il terribile giudizio. << Cosa significa? >>.
 
 
<< Significa che ne so quanto te, che non so più da quanto vado avanti e indietro per trovare un’uscita da una prigione che non ha sbarre. >>.
Prima che potessi aggiungere altro, mi anticipò. << Non si esce da qui, almeno non a piedi o in moto o in auto. >>.
 
 
Portai una mano davanti la bocca, per impedire all’orrore di venirne fuori. Eravamo circondati da alti edifici, strade desolate e silenzio lugubre.
<< Ci siamo solo noi? >>. Se non contavo lo psicopatico con il martello.
 
 
<< No. >>, rivelò cupo. << Ma non credo che gli altri siano reali o umani. Questo posto ha dell’assurdo, non c’è tempo o ricordi. >>.
 
 
<< Come non c’è tempo? >>, sbottai e la voce raggiunse picchi indicibili. Troppe informazioni tutte insieme e la mente faticò ad assorbire le nozioni preoccupanti.
 
 
<< Da quando mi sono risvegliato è sempre stato notte, non ho trovato orologi e non sono riuscito in alcun modo ad orientarmi. Non so se sono trascorse ore, giorni o settimane. So solo che non posso stare per troppo tempo fermo da qualche parte, perché verrei preso. >>.
 
 
Sbiancai di botta.
<< Da chi? >>.
 
 
“L’uomo con il martello!”.
 
 
 
 
Morse il labbro inferiore e malgrado fosse un uomo di una certa corporatura, il panico gli valicò i lineamenti decisi.
<< Non dirmi che non li hai incontrati? Non so chi siano, ma è palese che le intenzioni non sono delle più pacifiche. Più ci si muove e meno sono le possibilità di essere uccisi. >>. Ce n’era più di uno?
 
 
Avevo bisogno di sedermi, di un bicchiere di acqua e zucchero e di riprendermi dal trauma.
<< Dove hai trovato la moto? >>. Di mezzi di trasporto in giro non ne avevo scorto da nessuna parte.
 
 
<< Mi sono risvegliato accanto ad essa. Credo che sia la mia, ma non è certo. >>. Conoscevo perfettamente la sensazione di non essere sicura di qualcosa che mi pareva garantita. << Hai un posto dove nasconderti? >>.
 
 
Lo stomaco gorgogliò dispettoso, preda di una fame incontrollabile e un bisogno di saziarmi all’istante.
 
 
Sorrise di sbieco, l’unico segno di normalità, in mezzo a tanta confusione.
<< Se ti fidi, ho trovato dove poter mette cibo sotto i denti. >>.
Non mi aveva uccisa fino ad adesso, per evitare di investirmi si era schiantato sull’asfalto, dubitavo che d’un tratto cambiasse idea e mi massacrasse.
 
 
Salii al posto dietro al suo, gli cinsi i fianchi ed attesi che partisse.
 
 
Mi passò gentile il casco.
<< Mettilo principessa: andremo forte. Prima ci togliamo dalla strada e meglio è. >>.
 
 
Indossai la protezione sulla testa e mi tenni salda al suo addome. Da sotto la tuta potevo avvertire i muscoli dello stomaco contrarsi e dopo un colpo di gas, ci avviammo ad una velocità folle.
 
 
La città fluiva sfocata ai lati, assomigliava a Los Angeles, poi a New York, senza la Statua della Libertà. Il ponte era simile al Ponte di Brooklyn, ma non era lo stesso. Le acque erano scure, talmente tanto da non percepire la profondità, era come se sotto di noi vi fosse il nulla più totale.
In compagnia di quest’uomo, che non conoscevo, fui meno agitata e più al sicuro, e non badai affatto alla voce interiore che insisteva sulla questione che fosse pericoloso salire in moto con uno sconosciuto. Ma era una voce lontana, un flebile eco, che andava via via spegnendosi, sopraffatta da un’urgenza inarrestabile di soddisfare voglie difformi, che non avevano alcun nesso coerente tra di loro.
 
 
Giungemmo davanti ad una tavola calda, sorprendentemente aperta, accogliente ed illuminata. Fu strano, era l’unico negozio aperto, in un corso dove perfino la strada era chiusa.
 
 
Spense la moto e restò in spasmodica attesa, fissando all’interno della tavola calda.
 
 
Impensierita dall’atteggiamento singolare, sfilai il casco e seguii la direzione imprecisa dello sguardo vitreo.
<< Che succede? >>, sussurrai, poggiandomi sulle spalle possenti.
 
 
<< Occhi aperti, principessa. Niente è sicuro. >>, avvertì lugubre.
 
 
Feci per scendere dalla moto, restando il più vicina possibile a lui.
<< Mi chiamo Jennifer. Jennifer Thompson. >>. Gli passai il casco e lui lo assicurò al manubrio. I nomignoli non facevano per me, li detestavo a priori, specialmente “principessa”, non avevo niente di canonico che potesse ricordare una principessa.
 
 
<< Shannon Leto. >>, si presentò semplicemente. Era vigile, allerta ad ogni movimento fuori posto. Assomigliava ad un guerriero, pronto alla battaglia. 
Strano che, per entrambi, il nome ed il cognome erano gli unici dati anagrafici che rimembravamo.
 
 
All’interno la tavola calda era gradevole e confortevole, le forti luci al neon rischiaravano i tavolini puliti in legno, posti ai lati del grande camerone. In fondo vi erano scaffali di cibo vuoti.
<< C’era da mangiare. >>, rese noto. Un profumo invitante proveniva dal retro. << Sono venuto qui, forse, un paio di ore fa o ieri. Comunque sia, saremo al sicuro per un po’. Dopo ci occuperemo di dove ci sistemeremo per la notte. >>.
 
 
Shannon mi precedeva avveduto, saltò agile dall’altra parte del bancone e mi aiutò a fare ugualmente. Le cucine erano abbandonate da chissà quanto, ma il profumo succulento stava ad indicare che vi erano ancora leccornie fresche, pronte per essere divorate.
 
 
Aprì il frigo, afferrò del pane, marmellata aperta e me li lanciò.
<< Se gradisci dell’altro, basta dirlo. >>. Si avventò su un tubo di Pringles alla paprika, si sedette su un tavolo metallico, gambe a penzoloni, e prese a sgranocchiarle.
 
 
 
Non trovai le stoviglie, così mi adattai a spezzare il pane con le mani e a versare il grumo gelatinoso alla fragola su di esso. Restai in piedi a mangiare, dovevo sbrigarmi.
<< Hai delle ipotesi su dove diavolo siamo? >>, sbiascicai, con la bocca piena e le labbra sporche di marmellata.
 
 
<< Nessuna che abbia un senso. Ci sono cose che non capisco, come… dove sono le persone? Perché non sono riuscito ad andarmene? Che razza di posto è questo? Come ci siamo arrivati? All’inizio ho creduto fosse uno scherzo, poi ho capito che c’è qualcosa di imperfetto, è come se qui fosse tutto fermo, in attesa, come se niente esistesse davvero. Per non parlare del fatto che vogliono ucciderci. >>.
 
 
Masticai piano, non volevo perdermi neanche una parola, poi ingoiai e boccheggiai appena, visto che erano le identiche congetture che avevo supposto io.
 
 
Fu mentre stavo per esprimermi sulla faccenda confusionaria che, un rumore sospetto nella tavola calda, spezzò il discorso. Shannon mollò le patatine, balzò fluido dal tavolino, mi afferrò per un polso e, senza guardarsi indietro trottò spedito verso l’uscita di sicurezza.
Non aveva alcuna intenzione di fermarsi, restare un minuto in più lì e capire se avremmo trovato un altro come noi o un nemico, magari lo psicopatico con il martello. 
 
 
Si portò un dito sulla bocca, come per segnalarmi di non fare un fiato, decise di abbandonare la moto dall’altra parte dell’edificio e ci inoltrammo rapidi nel cuore della notte a piedi.   










Note: 
Beneeeeeeeeeeeeeeeeee, che dire, eccomi tornata di nuovo nel fandom dei Mars dopo parecchi anni. 
Questa storia è largamente ispirata al video musicale Hurricane, video che ho amato tantissimo e che amo ancora. E' da quando l'ho visto per la prima volta che non ho fatto altro che provare a scriverci una storia. Quindi sì, sono quasi sei anni che mi scervello su una trama decente e alla fine è giunta, come per magia dopo un sogno. 

Proverò a spiegare per quanto mi sia possibile il capitolo, cercando di non rivelare troppo dell'intera trama, dico solo che ogni cosa scritta ha sempre un motivo. Frutto di ricerche e un po' del mio sapere di base. E niente sarà come appare, specialmente la verità.  

Allora, premetto che non sono una fan assidua, ma amo molto le loro canzoni, li seguo dal 2005 e, da come si è capito, il mio preferito è Shannon.
La storia è iniziata dal mio insistente cercare l'Argus Apocraphex, cosa che FINALMENTE sono riuscita a trovare, grazie alla stesura di questa ff e le numerosissime ricerche fatte in mitologia, siti e libri di magia vari. 

Ho deciso di mantenere sempre la notte nella storia, dopo aver letto che i Mars hanno fatto un tour che si chiamava "Forever night, Never Day".  

Nella storia verrà trattato l'argomento della ricerca dell'Argus Apocraphex, ma non rivelerò mai cosa sia, per i più attenti, però, ho disseminato indizi specifici e rilevanti. Come diceva Socrate: La verità sta nella ricerca, non nella conclusione.



Stavolta ho preferito non creare una copertina, benché io sia una grande fan delle copertine nelle storie. 


La storia può presentare errori ortografici, dato che preferisco non sottoporre le mie storie a nessuna Beta. 


Non accetto insulti, commenti idioti, critiche gratuite senza un vero motivo logico. Non verranno accettate nemmeno le critiche pesanti, con i "non ti offendere", sperando che io non mi offenda.Verranno segnalate al sito e poi cancellate. Se non vi piace, nessuno vi obbliga a leggere e soprattutto a commentare.


Aggiornerò lentamente, poiché, visto che sono pochi capitoli, preferisco non bruciarmeli tutti insieme. 


Ringrazio già da adesso chi commenterà o chi leggerà solamente. 
 
 
Adesso la smetto, dato che le note stanno diventando più lunghe del capitolo stesso xD Alla prossima.


Un abbraccio.
DarkYuna.  
 


 

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Capitolo 2
*** Argus Apocraphex ***


*Argus Apocraphex*








 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
       
Il freddo innaturale ci aveva colto ad un certo punto della perpetua notte infinita. Era calato inaspettato sulla città, innalzando una nebbia fitta che ci inglobò, costringendoci a ripiegare il più in fretta possibile in un rifugio sicuro. Nell’arco di una manciata di respiri, eravamo passati da una fresca estate ad un inverno secco.  
Non scoprii mai cosa era entrato nella tavola calda, ma fui piuttosto felice di non saperlo.
 
 
Shannon accese un piccolo falò all’interno dell’appartamento al terzo piano, adoperato come nascondiglio, usò i mobili del soggiorno per alimentarlo ed impedirci di morire assiderati. Avevamo sprangato tutte le porte, per evitare brutte sorprese, mentre ci riposavamo.
Dalla finestra, la foschia aveva trangugiato ogni costruzione, la terra ed il cielo. Sembrava meno notte adesso.
 
 
<< Cosa accadrà se non riusciamo ad andarcene? >>. Tenevo le mani tremolanti ferme al petto, per impedirgli di constatare quanto spaventata fossi.
 
 
Con un bastone metallico attizzava il fuoco, sistemando la legna in modo tale da non far propagare le fiamme in ogni dove. Non avevo la più pallida idea di dove avesse preso le pietre per serrare il falò.
 
 
<< Accadrà che continueremo a fuggire, Jennifer. Non abbiamo altra scelta. >>. Ci comportavamo come se fossimo amici da anni, invece che conoscenti di poche ore… sempre se di ore si poteva parlare.  
 
 
Tirò giù la zip della tuta, la tolse disinvolto e la gettò a terra, accanto ai due materassi trascinati nella stanza. Teneva una maglietta sdrucita, larga, senza maniche e dalle quali si potevano vedere perfettamente i fianchi scolpiti. Sotto l’orecchio  sinistro era tatuato una sorta di triangolo con una linea che lo divideva esattamente al centro. Un secondo tatuaggio raffigurava le Americhe nella parte inferiore della nuca. Tre teschi disposti in cerchio sopra la parte superiore del fianco destro. Furono gli altri due tatuaggi che non riuscii ad interpretare in alcun modo. Uno era una raffigurazione astratta e colorata sulla spalla sinistra e che si estendeva fino ad un certo punto del braccio. L’altro era diviso in quattro simboli sconosciuti che sfumavano dal rosso al nero, in un primo momento credetti fosse una scritta in una lingua straniera, poi mi ravvidi e ponderai che avessero un significato diverso.  
 
 
Buffo che notassi quanto seducente ed affascinante fosse, solo ora che si stava svestendo. Il fisico era palestrato, non troppo, il giusto, i muscoli guizzavano veloci sotto la pelle rosata e destavano interessi che non pensavo di possedere. Rappresentava la parte meno nobile e controllata del mio essere e lo spasmodico desiderio di toccarlo, annusare la pelle e sentire che sapore avesse, fu una brama infuocata difficile da reprimere.
 
 
Maggiore era la durata in cui rimanevo incastrata qui e più la razionalità veniva affogata dall’impetuosità della follia, come se questa città fosse il nucleo pulsante dello squilibrio ed infettava i suoi abitanti con l’identico morbo incurabile. Forse era proprio questo che era accaduto ai cittadini di questo incoerente posto, erano impazziti e la pazzia portava solo ad un unico finale: la morte.
Se la mia tesi era esatta, eravamo in un mare di guai e lo psicopatico con il martello era l’ultimo dei nostri problemi.
 
 
Strofinai le mani sulle braccia infreddolite e mi strinsi nella coperta blu, non avevamo trovato altri vestiari, gli armadi di questa casa erano vuoti, così come i pensili in cucina e il frigo, anche se tracce di vissuto erano sparse in varie stanze, tra le foto ricordo e disegni di bambini. Come faceva un’intera famiglia a sparire nel nulla così?
 
 
Shannon si sedette sul materasso, tolse le scarpe ed abbassò finalmente la guardia. Era stanco, sfibrato, nervoso, però la mia presenza pareva rincuorarlo, doveva aver cercato altri essere umani come lui per molto, molto tempo, chissà quante ne aveva passate? Lo facevo sentire meno solo e perduto, stessa cosa provavo io, grazie a lui.
 
 
<< Dormiremo a turni. >>, organizzò zelante, anche se appariva più rilassato, non smetteva di essere responsabile. << Io faccio il primo turno. Cerca di dormire qualche ora, Jennifer. Non appena riprenderemo completamente le forze, inizieremo delle ricerche… non possiamo andare avanti per molto in questo modo. Dobbiamo capire, ci servono risposte. >>.
 
 
Mi allontanai dalla finestra, per accostarmi all’invitante fuoco acceso, restai in piedi per poco, poi sprofondai nel materasso comodo.
<< Hai in mente qualcosa? >>.
 
 
Gettò un altro pezzo di legno, distese le gambe e poi incrociò i piedi nudi sulla moquette crema. Il bagliore delle lingue rossastre gli si rifletteva sul volto affascinante, le iridi divennero smeraldine, la bocca umettata brillò e le pieghe dei muscoli si adombrarono.
<< Niente di attendibile, ma prima di incontrarti stavo provando ad entrare in quello che mi pareva il Partenone di Nashville… >>.
 
 
<< Nashville? >>, interruppi disorientata. <<  La capitale dello stato del Tennessee? >>. Come potevano trovarsi pezzi di altri città, raggruppati in un solo luogo sperduto, da cui non ce se ne poteva andare? Niente era come appariva.  
 
 
<< Proprio quello. Quando stavo per investirti, stavo scappando da uno di loro. >>. Con “loro” intendeva i tizi dalla forma umanoide che ci inseguivano per ucciderci. << Credo che non volesse che entrassi lì, quindi ci deve essere qualcosa di relativamente importante, che non vogliono farci scoprire. >>.
 
 
Sfregai i palmi e mi protesi verso il falò. Il contesto aveva dell’inammissibile e più mi dedicavo alla spiegazione e più questa mi sfuggiva, obliata da particolari superficiali, come se la mia stessa mente mi remasse contro e provasse in tutti i modi possibili a confondere il cervello, mettendo davanti ai miei occhi futilità che non servivano a niente.
Più cercavo e più mi perdevo.
Il problema, fondamentalmente, ero io stessa.
 
 
<< Magari c’è il modo per andarcene. >>, supposi assorta. La mia pelle era ancora pallida come quella di un cadavere. Portai le ginocchia al torace ed abbracciai le gambe, per detenere il calore del corpo.
 
 
<< O magari no. >>. Doveva trovarsi qui da molto più tempo di me, per aver perso così la speranza, ma se cessavamo di cercare, se non proseguivamo in questo viaggio ingannevole, non ne saremmo mai venuti a capo. Non potevamo permetterci di smettere di cercare, era l’unico modo a nostra disposizione per salvarci.
 
 
D’istinto allungai la mano, per prendere la sua ed infondergli un briciolo di coraggio. I polpastrelli erano callosi, duri al tatto, come se avesse fatto un lavoro manuale e questi erano i risultati. Scottava, ma sembrava stare bene, non aveva l’aria di una persona con la febbre.
 
 
<< Non dobbiamo disperare, Shannon, ci deve essere una ragione, un perché, un modo. Mi rifiuto di credere che resteremo qui per sempre! È inconcepibile! >>, confortai, sfortunati complici di un infausto destino. << Ci deve essere qualcosa, qualsiasi cosa! Un segno, un messaggio, un indizio! Forse siamo troppo stanchi, impauriti e confusi per giustificare gli eventi, forse abbiamo bisogno di dormirci sopra e di ragionarci… insieme. Due menti pensano meglio di una sola. >>.
 
 
Annuì poco convinto, non potevo biasimarlo e neppure dargli torto, era legittimo perdere di vista la meta finale, se il viaggio in sé si prospettava difficile, in salita e con elementi contrastanti, ciò nonostante o ci provavamo o non ci saremmo riusciti mai.
<< Dove ti sei risvegliata? >>, aveva bisogno di chiacchierare, svagarsi, di una parvenza di ordine in cotanta irragionevolezza. Gli occhi sfumavano dal verde, al miele, fino ad essere incolore o a possedere in sé tutti i colori del mondo.
 
 
“Perché proprio “risvegliata”? Ciò implica che mi sono addormentata per lungo tempo?”.
 
 
<< In un ospedale. >>. Gli mostrai i tre buchi violacei nell’incavo del braccio sinistro. Inutile chiedersi il perché: non lo ricordavo. << Ma non credo di avere una qualche patologia particolare, insomma sto bene. È lì che ho incontrato lo psicopatico con il martello. >>.
 
 
Inarcò un sopracciglio, stupito.
<< Martello? >>.
<< Sì martello, perché il tuo non aveva un martello? >>. Quindi la mia teoria era esatta: ce n’era più di uno.
 
 
Fece lentamente di no con il capo.
<< La mia era una donna, vestita interamente di lattex nero, con corna di uguale materiale e brandiva un’ascia. >>, raccontò e pareva di essere finiti nella trama di un film horror. Per senso di paura, la sua, batteva di gran lunga lo psicopatico con il martello.
 
 
Basandosi sulla mia cartella clinica, ero morta all’età di otto anni e, a rigor di logica, sarei dovuta morire anche dopo l’incredibile salto dall’ospedale, così come, Shannon, sarebbe dovuto morire, o almeno riportare qualche graffio, a causa dell’incidente in moto. Il punto stava proprio in questo, era strano essere ancora vivi, invece mi sembrava tutto molto naturale e semplice.
Poi, d’un tratto, rammentai la creatura mostruosa che mi aveva ordinato di svegliarmi e balzai in piedi. No, non ero giunta a nessun esito ingegnoso, ero scombussolata di come le stranezze fossero divenute normali e la normalità era irregolare.
 
 
<< Che ti prende? >>, domandò speranzoso, scrutandomi dal basso all’alto. La faccia s’illuminò. << Ti sei ricordata qualcosa? >>.
La fastidiosa impressione di non riuscire a rivelare la decifrazione dell’incognita, come se essa fosse esattamente innanzi ai miei occhi ciechi, ma non riuscissi a percepirla, era alquanto snervante ed inconcludente. Mi aggrappavo disperata al senno e lui mi stava ineluttabilmente guizzando via, come acqua tra le dita che non si poteva afferrare. Stavo smarrendo il controllo.
C’ero vicina… all’orlo della follia e della soluzione.
 
 
Schioccai la lingua al palato, battei spazientita il piede sulla moquette e sbuffai.
<< È come se mancasse qualcosa, come se… non lo so. >>.
 
 
<< Non è facile da capire, non abbiamo niente su cui iniziare. Ci troviamo qui, ma qui dove? Non c’è nessuno con cui parlare a parte te, ma tu ne sai quanto ne so io. Poi ci sono loro, che sembrano umani, ma non lo sono e che cercano di ucciderci… non vedo la luce del sole, da non so quanto, non ci sono orologi, non riesco a calcolare il tempo. Mi chiedo come non siamo ancora impazziti?! >>. Un sorriso amaro gli distese la bocca morbida, non vi era alcuna allegria.
 
 
Morsi il labbro inferiore e presi a camminare su e giù per il soggiorno, che ora assomigliava più ad un accampamento.
<< È… è come se tutto questo, non stesse accadendo veramente, come… non lo so. >>. Ruotai su me stessa. << A te non sembra tutto normale, benché non lo sia? >>.
 
 
<< Come se fosse una nuova realtà in cui, però, abbiamo sempre vissuto e che, al contempo ci appare paradossale, perché proveniamo da una realtà differente che, invece, non ricordiamo e che quindi non possiamo porre a confronto? >>.
 
 
Faticai non poco a seguire la sua teoria, in sintesi aveva ragione.
<< Esattamente! >>, esclamai e, vicina dallo sputare, metaforicamente, fumo dalle orecchie, passai scoraggiata le mani tra i capelli lunghi e tornai a sedermi sconfitta sul materasso. << Forse ho bisogno di dormire, il mio cervello non la regge tutta questa pressione e di cose ne sono già successe. >>.
 
 
<< Non sarà facile andarcene. >>, decretò alla fine e non potei essere più d’accordo con lui. << Dormi, ti guardo le spalle. >>, promise, proprio come se fossimo una coppia di guerrieri che si sarebbero protetti in ogni situazione avversa.
 
 
Con un sospiro rumoroso mi sdraiai, abbarbicandomi in posizione fetale nella coperta. Scrutavo Shannon attraverso le fiamme e, per una frazione di secondo, un battito di ciglia, il viso bellissimo, divenne sfigurato, come se uno sfregio partisse obliquamente dal sopracciglio sinistro, fino ad arrivare al lato destro del mento. Il corpo in pessime condizioni, con ecchimosi, escoriazioni e ferite sanguinanti.
Strofinai le palpebre e il lapsus cessò, così giudicai l’episodio come uno scherzo dell’immaginazione, della stanchezza.
 
 
<< Ci vediamo al tuo risveglio. >>, mormorò dolcemente, ma la frase ebbe una valenza criptica che mi fece rabbrividire: suonò come un addio.
 
 
“Risveglio… di nuovo quella parola.”.
 
 
<< Ci vediamo al mio risveglio. >>, ripetei, per poi voltarmi supina e nell’arco di un respiro scivolai in un sonno profondo, che non ebbe niente di canonico, di riposante e comune. Ebbi la terrificante impressione di cadere nel vuoto, la tipica che si provava nei sogni, però non mi svegliai di soprassalto, cosa che tra l’altro era sempre l’epilogo di un incubo simile. Caddi nel buio per l’eternità o per un solo secondo, non era più la forza di gravità ad imbrigliarmi, ero io stessa, ero la burattinaia e il burattino, la vittima e il carnefice, la preda ed il predatore.
 
 
E poi vidi la luce.
Non la luce che mi aveva trascinata nella realtà ingannatrice.  
Una luce calda, rassicurante, abbacinante, era una luce che conoscevo, composta da tanti raggi splendenti: il sole. Finalmente il sole era sorto, niente più notte eterna, il giorno era tornato a scintillare.
Un “bip” familiare spezzava un silenzio differente, niente più paura, attesa, pericolo, ogni cosa era tornata com’era. Le palpebre restarono socchiuse, a causa della troppa luce che filtrava dalla tapparella alla destra della stanza. Ancora in ospedale, non potevo muovermi, il dolore fisico era così sproporzionato da non riuscire ad essere tollerato dal corpo, un corpo che non sentivo, un corpo ombra ed ero eccessivamente confusa, quasi drogata, per nutrire la giusta preoccupazione. Mi muovevo con la lenta goffaggine che si aveva in un sogno e, come a volte accadeva, capii che stavo sognando.
 
 
Il “bip” divenne continuo, insistente ed agitato, ed attirò l’attenzione della giovane donna seduta, dai capelli d’oro e le iridi color del cielo ai primi bagliori dell’alba, seduta su una poltrona azzurra in fondo alla stanzetta satura di alcool etilico. Alzò le iridi familiari, dal giornale che sfogliava, sino a me, e sbalordita rimase nel constatare che mi stessi svegliando.
Mia madre.
Fui scioccata nel ricordarmi di lei, non era esistita, non rammentavo chi lei fosse, almeno fino ad adesso, mi era bastato vederla, per rievocarla. Mi sforzai a metterla a fuoco e ripensai ad ulteriori reminescenze che mi potessero dare indizi rilevanti su chi fossi davvero e cosa fosse accaduto, ma, nell’insano tentativo di addentrarmi nella foschia che tramava minacciosa nel cervello, una fitta atroce alla testa, sciolse i colori caldi, assorbì la luce del sole, cancellò il volto rassicurante di mia madre. Avvertii distintamente il corpo arcuarsi malamente sulla schiena, trapassato da miliardi di spille, la realtà onirica si sbriciolò come sabbia al vento e prima che potessi aggrapparmi con tutte le mie forze a quel frammento di sogno, spalancai allarmata gli occhi nel buio del soggiorno poco illuminato.
Il fuoco accanto a me era vicino dallo spegnersi, Shannon si era addormentato appoggiato alla parete, nel tentativo di restare sveglio a fare il primo turno di guardia. Aveva un’aria dolce, quasi indifesa, ma era un combattente, glielo si leggeva in faccia, avrebbe picchiato duro se ce ne era bisogno.
 
 
Da quanto non eravamo coscienti?
Spettava a me il secondo turno di guardia.
Scalciai via la coperta e mi sedetti. Ero più esausta di prima, non mi rendevo conto di quanto avessi dormito, in assenza di orologi. Massaggiai le tempie doloranti, i primi segni di un’emicrania con i fiocchi stavano venendo a galla e ben presto avrei faticato anche solo a tenere gli occhi aperti.
Una tessera del puzzle prese posto al centro dell’ignoto: avevo una madre. Dispersa chissà dove, ignara se si ricordasse di me o se mi stesse cercando? Il nome restò un mistero, come le altre cose che la riguardavano.
 
 
La caligine inglobava ancora la città fantasma.
 
 
Mi alzai per sgranchirmi le gambe, provare a cercare qualche indizio all’interno dell’appartamento deserto. Un appartamento senza abitanti, senza orologi… e senza specchi.
Feci solo tre passi, al quarto udii nitidamente una voce cristallina e femminile pronunciare il mio nome, riempendolo di angoscia crescente. La voce echeggiò.
D’istinto guardai Shannon, lui dormiva beatamente, non l’aveva udita, eppure non vi era anima viva qui.
Che fosse solo nella mia testa? Me l’ero immaginata? La pazzia stava cogliendo anche me, dunque?
Spaesata indietreggiai, ispezionando ogni singolo centimetro attorno a me, consapevole che qualcosa stava accadendo, che non ero al sicuro. Stavo per svegliare Shannon, mentre di sottecchi notai un particolare agghiacciante che mi bloccò sul posto e mi trasformò in una statua di sale, tale fu il panico.
 
 
Nella cucina, sulla parete di ovest, a caratteri cubitali, una scritta rosso sangue, gocciolante e fresca troneggiava minacciosa. Nessuno era entrato, le porte erano sbarrate nell’identica maniere di come Shannon le aveva sistemate, nondimeno qualcuno era stato lì ed aveva lasciato un chiaro messaggio per noi che, di chiaro, non aveva praticamente nulla.
Trovate l’Argus Apocraphex.









Note:
Ho cercato di aggiornare il prima possibile, ma niente, troppi impegni che hanno portato via tantissimo tempo. Spero di essere perdonata con il nuovo capitolo e che possa piacere a qualcuno. 

Ringrazio di cuore le anime pie che mi hanno letta e commentata, chi ha aggiunto la mia storia tra le seguite e le preferite. Ringrazio anche i fantasmini che leggono solamente, spero che un giorno lascerete anche un piccolo commento. 


La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna

 

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Capitolo 3
*** 100 occhi non bastano ***


*100 occhi non bastano*








 
Shannon appariva più sgomento di me, sfiorava la dicitura sibillina, la esaminava, leggeva ad alta voce, scrutava e revisionava, neppure sapesse cosa riportassero gli oscuri vocaboli che sporcavano il lindo muro color panna.
Il fatto che la vedesse anche lui era rincuorante: non ero ammattita.
 
 
Cos’era l’Argus Apocraphex?
Un oggetto? Una persona? Una maniera per andarcene? E più di questo, dove iniziare a cercare qualcosa in un posto di cui non ci si  riusciva ad orientare? Era come trovare un ago in un pagliaio.
 
 
Incrociai le braccia, tenendomi a pochi passi dietro di lui.
<< Sai cosa dice? >>, chiesi, angustiata dal fatto che qualcuno fosse acceduto nel nostro rifugio e non ce ne fossimo nemmeno accorti. Chiunque sia stato, non aveva avuto intenzioni ostili, altrimenti non saremmo stati ancora qui, ma saremmo stati così fortunati la prossima volta? Se era stato così facile ingannarci, allora sarebbe stato facile per loro stanarci ed ucciderci. Non volevo trovarmi a meno di diecimila chilometri dallo psicopatico con il martello.
 
 
Boccheggiò appena, assottigliò lo sguardo e fu sul punto di svelare qualcosa di importante. Si fermò, respirò rapido due volte.
<< Giuro che so cos’è… e non lo so. >>, accettò sconfitto, la soluzione gli era sfuggita via. Sapevo esattamente che cosa intendesse e non gliene feci assolutamente una colpa.
 
 
Mi avvicinai adagio, gravandogli delicatamente una mano sul bicipite sodo.
<< Non preoccuparti Shannon, troveremo delle risposte. Hai detto che ti sentivi di entrare nel Partenone di Nashville, giusto? >>.
 
 
Mugugnò un cenno di assenso, gli occhi ardenti incontrarono i miei.
 
 
<< Allora proviamo ad andare, che abbiamo da perdere alla fine? In fondo non potremmo nasconderci ancora per molto. Dista molto da qui? >>.
 
 
<< Due isolati. >>.
 
 
Indicai una parte indefinita alle mie spalle, con il pollice.
<< Come faremo con la nebbia? È praticamente impossibile spostarci e sperare di non fare pessimi incontri. >>.
 
 
Ci pensò su pochi secondi, poi schiacciò affabile l’occhio e il primo vero sorriso si affrescò sulla bocca maliziosa.
<< Passiamo per la metropolitana, se ho visto giusto, dovrebbe condurre proprio davanti al Partenone. >>. Afferrò la tuta da motociclista e la indossò rapido, sbloccò la porta e prima di uscire dall’appartamento mi fece segno di rimanere in silenzio e di lasciare andare lui in avanscoperta. Si comportava come se intendesse farmi da scudo con il suo corpo.
 
 
Quel che trovammo una volta fuori di lì, non fu il pianerottolo, l’abitazione corrispondente al piano, l’ascensore e le nove rampe di scale, bensì un lungo ed interminabile corridoio, che iniziò ad allungarsi a dismisura, in replica di una mostruosa rappresentazione concreta di un film horror.
 
 
Dire che l’infarto era prossimo, sarebbe stato un sottile eufemismo, per spiegare che il cuore batteva così veloce che stava per deflagrare nel petto.
Di getto afferrai la mano di Shannon, l’unico appiglio sicuro, e lui la prese salda di rimando.
Alla fine dell’inferno, in mezzo a tanto buio, sulla destra un’unica porta era spalancata e la luce era un segnale materiale che non eravamo più da soli. Se fosse positivo o negativo, l’avremmo capito solo una volta giunti fin lì e per arrivare al Partenone, non dovevamo far altro che passare davanti a quella porta aperta: facile a dirsi, ma non a farsi.
Il pericolo era in agguato.
 
 
Prima di scoprire cosa avremmo dovuto affrontare, Shannon si volse.
<< Qualsiasi cosa accada, Jennifer, se dovesse succedermi qualcosa, scappa via, non voltarti. Vai al Partenone, trova il modo per andartene e vattene! >>, impose rigido ed imperativo.
 
 
Non lo conoscevo, era l’obiettività, tuttavia non l’avrei abbandonato, la mia anima me lo me impediva, eravamo nella merda in due e in due ne saremmo usciti in qualche modo.
<< Scordatelo! Non durerei dieci secondi, senza il tuo aiuto. >>, ammisi sincera, mi sentivo al sicuro, da sola sarebbe stato agghiacciante e non volevo neanche pensarci, tremavo alla sola idea.
 
 
Il pomo d’Adamo andò su e giù varie volte sotto la pelle della gola. Era indeciso, non si muoveva e varie volte gettò occhiate ad intermittenza tra me e la porta aperta. Piegò il polso, in modo tale da obbligarmi a restargli alle spalle, ci addossammo alla parete e scivolammo a passo felpato.
A metà della traversata, udimmo un botto sordo derivante dall’appartamento dove avevamo alloggiato fino a poc’anzi e di esso non vi erano più tracce. Puff, sparito nel nulla. Se anche avessimo voluto, non potevamo più tornare indietro.  
Vigili e pronti alla fuga ci approssimammo alla luce e dopo un attimo di incertezza, ci affacciamo sull’unica porta aperta, in un corridoio che non aveva porte.
 
 
“Oh mio Dio… abbi pietà delle nostre anime.”.
 
 
Non era un consueto alloggio, l’innovazione non stava in ciò: ce l’aspettavamo.
C’era un mondo oltre la soglia, un mondo oscuro, polveroso, cosparso di tizzoni ardenti, un cielo che non aveva fine composto da fiamme corvine, odore tossico di zolfo che mi faceva tossire, mucchi di teschi che si accumulavano su un sentiero polveroso che portava ad un sinistro e limaccioso fiume bordeaux.
Alla riva, in piedi su una piccola imbarcazione nera, un uomo scheletrico e prominente, tra le mani ossute reggeva un remo, coperto da una palandrana vecchia e lisa, era a guardia del passaggio. Il naso adunco era l’unica fattezza cerea che si poteva distinguere. Sulla terra ferma, decine e decine di persone disperate, si contorcevano spasmodiche, latravano, oltraggiavano e si azzuffavano, alla prostrata brama di un modo per avere pace, in un luogo di dannazione eterna.
Ai lati dell’entrata apparvero sculture in pietra di uomini e donne in miniatura grigia, incastrati tra di loro, presero a muoversi impudichi, replicando atti osceni, assassinii e gesti contro natura.
 
 
Era così che avevo sempre immaginato l’inferno e adesso mi si era spalancato davanti.
 
 
Shannon aveva lo sguardo sbarrato, le vampe cupe del cielo gli si specchiavano sul viso stravolto e pareva che stesse per addentrarsi in quel luogo minaccioso, protagonista di sofferenze atroci ed inimmaginabili. Se non l’avessi tenuto per mano, sarebbe già avvenuto.
 
 
La puzza insoffribile di zolfo e morte, mi fece starnutire due volte di seguito, attirando su di noi la spiacevole attenzione totale del popolo maledetto della dimensione parallela.
<< Oh. Merda. >>, mimai con la bocca, la voce era un caro ricordo e, come se il contesto non fosse già marcio di suo, dalla parte inferiore del viottolo sterrato sbucarono incoercibili lo psicopatico con il martello e una folle con l’ascia.
 
 
Shannon trasalì, ridestandosi dalla trance: lo psicopatico per me, la folle per lui.
 
 
I due esseri dalla forma umanoide, si girarono in un punto dove il mio raggio visivo non giungeva e dalle fauci dell’inferno venne risputato il più impensabile dei mostri, a cui improbabilmente sarebbe stato fattibile sottrarsi.
Il deforme e mastodontico cane a tre teste, era ricoperto da serpenti velenosi, anziché peli, che ad ogni suo latrato si rizzavano, facendo sibilare le proprie orrende lingue. Le bocche di Cerbero erano composte da chiostre di denti acuminati, che non chiedevano di meglio che di affondare in carne viva, strappare ed ingurgitare fino a sazietà.
Shannon ed io rappresentavamo il pasto perfetto.
 
 
Non attesi oltre e prima che lo psicopatico con il martello, la folle con l’ascia e il mostruoso guardiano degli Inferi, intraprendessero il gioco fatale della caccia all’ultimo sangue, spinsi malamente sulla schiena il mio accompagnatore.
<< Andiamo, andiamo, andiamo! >>, strillai, con un’impellente urgenza nelle esclamazioni. Filammo spediti giù per le interminabili rampe di scale. Ci tenevamo ancora per mano, ma lui era più veloce ed agile di me, mi strattonava il braccio, rischiando varie volte di farmi perdere l’equilibrio e cadere. I gradini non finirono mai, ed evitai di constatare se loro erano alle calcagna, mi sarei distratta ed avrei finito per inciampare sui miei stessi piedi.
Il grugnito raccapricciante di Cerbero, bastava ed avanzava per indurmi all’orlo del pianto disperato.
La nebbia si era diradata e tra la leggera foschia ubicata, emerse una città discorde da quella che avevamo lasciato prima di addentrarci nell’edificio.
 
 
Infilai una mano tra i capelli lunghi, guardandomi attorno smarrita: nulla era come prima, la realtà era mutata nuovamente.
<< Dove siamo? >>. Era la completa combinazione tra l’antica Grecia mescolata ad un presente sconosciuto.
 
 
<< Che cazzo è successo? >>, farfugliò disorientato lui. L’entrata sotterranea alla metropolitana non era dove aveva detto, in compenso in fondo alla strada, il Partenone di Nashville emergeva imponente, unica via d’uscita.
 
 
Correre era l’unica decisione. Non avevo idea se andare verso il Partenone era la cosa giusta da fare, però era l’unica che potevamo ghermire.
La sequela di parolacce irripetibili, si accalcavano nella mente.
 
 
Loro arrivarono in strada.
Sempre più veloci, sempre più incontrastati, sempre più vicini, sempre più pericolosi. Dei tre, Cerbero era il più incombente, bieco e pericoloso, nonché quello che si approssimava in maggior misura, avvertivo il respiro bollente e putrido martellarmi sulla schiena, la terra tramare al suo passaggio.
 
 
La gratinata accanto ad un curatissimo prato verde, venne quasi divorata dai nostri piedi svelti.
Il portone dell’edificio era socchiuso e, dato che ogni altra costruzione aveva avuto bisogno di essere scassinata per accedervi, scioccamente credetti che fosse l’agognato segnale che stavo attendendo, forse non tutti ci volevano morti, forse qualcuno ci stava aiutando, forse delle risposte erano dietro l’angolo.
Richiudemmo il pesantissimo ingresso principale, ed indietreggiammo, poiché il cane a tre teste tentò per un paio di volte d’entrare, ma non ci riuscì. Neppure lo psicopatico con il martello e la folle con l’ascia approdarono all’interno: eravamo al sicuro.
Per ora.
 
 
Shannon mi fissò, pallido, provato, respirava a fatica, sudato e bellissimo.  
L’insieme degli episodi ci aveva scombussolati e presi alla sprovvista.
 
 
Faticai a riprendere fiato, i polmoni sforzavano a pompare ossigeno nel corpo sfinito. La stanchezza, però, non era fisica, la stanchezza era mentale, come se fosse il cervello a compiere il lavoro e non il corpo.
<< Non chiedere, è meglio. >>, lo fermai, con un cenno della mano.
 
 
Cosa voleva che fosse? Una scritta insanguinata, ci eravamo ritrovai alla bocca dell’inferno, due pazzi scriteriati e Cerbero ci avevano inseguiti per ucciderci, la città fantasma si era trasformata. Che spiegazione plausibile potevo dare? In quale realtà fondata, accadevano simili casi arcani?
 
 
<< Stai bene? >>, appurò.
 
 
Inspirai profondamente ed espirai, annuendo varie volte.
<< E tu? >>.
 
 
<< A parte lo shock… sì, credo di sì. Dovremmo essere al sicuro qui o almeno spero. >>.
 
 
Il Partenone di Nashville era una replica delle stesse dimensioni del Partenone di Atene in Grecia. L’edificio rettangolare era rischiarato di luce propria, dato che di lampadari non se ne scorgevano.
Se qualche nozione scolastica di storia m’era rimasta impressa, ci sarebbe dovuta essere una statua alta tredici metri di Atena Parthenos, fedele replica della statua scolpita da Fidia che era presente nel Partenone dell'antica Atene. Non sapevo chi fossi, ma sapevo bene altre cose, come se avessi accesso solo a determinate notizie, che mi potevano essere utile per sbrogliare la matassa.
 
 
Comunque, non fu esattamente la statua di Atena Parthenos che trovammo in fondo alla grande sala ellenica. Di statua era una statua, non vi erano dubbi, ma effigiava la scultura straordinaria e maestosa di un fiero angelo guerriero, provvisto di un’armatura dorata, una spada in una mano e uno scudo nell’altra, dell’identica altezza. Due grandi ali piumose si stagliavano dalla schiena.  
La piastra di marmo alla base del solenne monumento, riportava in caratteri eleganti e corsivi la parola “Lux”.
 
 
<< Lux. >>, lessi a bassa voce, accostandomi alla statua. << È latino: luce. >>. La mente si avvitò spedita in riflessioni, congetture ed ipotesi, alcune sensate, altre pazzesche, ma ognuna di loro aveva un fondamento a cui non potevo totalmente voltare le spalle. Il mal di testa esplose del tutto, divenendo più che insopportabile e tollerabile.
 
 
<< Studiosa molto zelante. >>, si complimentò una soffice voce maschile. Un uomo anziano era poggiato ad una delle colonne del Partenone, le iridi azzurre erano velate da un paio di occhialetti rotondi che ciondolavano sul naso grande, due piccole penisole di radi capelli nivei ai lati del cranio. Indossava una veste lunga d’argento e portava con sé un grosso libro dalla rilegatura antica di pelle scamosciata. L’aspetto era inoffensivo e di un nonno molto saggio, ma avrei giurato che non fosse umano.
 
 
D’impulso Shannon si interpose tra me e il nuovo venuto, deciso a dar battaglia, anche se a mani nude.
<< Sta’ indietro! >>, intimò, in posizione d’attacco.
 
 
Il vecchio ridacchiò amabile per l’atto di coraggio inaspettato e non richiesto, nessuno era in pericolo attualmente.
<< Calma ragazzo, non è mia intenzione fare del male a te o alla tua graziosa accompagnatrice. >>. Tese la testa da un lato per analizzarmi meglio attraverso le lenti degli occhialini. << Jennifer, giusto? >>.
 
 
Passai di lato al bicipite gonfio di Shannon, guardando dubbiosa l’anziano uomo che ero certa di aver già visto in passato, così come ero certa di aver già parlato con lui e che ciò fosse già avvenuto in passato. Una sorta di déjà vu di cui non avevo alcuna memoria.
 
 
<< Mi ha chiamato ragazzo? >>, ripeté sconcertato Shannon a me, neanche si sentisse insultato dell’essere stato definito come un giovincello senza esperienza, anziché un uomo che sapeva il fatto suo.
 
 
<< Mi conosci? >>.
 
 
<< Ovviamente, mia cara ragazza. Conosco anche colui che ti affianca… Shannon. Vi aspettavo. Mi presento. >>. Si inchinò elegantemente. << Il mio nome è Ptah, il custode del Cancello. Siete giunti prima di ogni mia previsione, solitamente voi umani ci impiegate molto più tempo, altri non sono così fortunati, gli Obscurum li catturano prima che riescano a vedere. >>.
 
 
<< Vedere cosa? >>, si frappose Shannon, impensierito e allerta: non si fidava. Ci scambiavamo occhiate che dicevano molto, senza usare le parole. Non era detto che, sciogliere i nodi della matassa, avrebbe portato a qualcosa di buono o alla salvezza stessa. A volte era meglio non sapere.   
 
 
<< Oh mio caro ragazzo, cento occhi non bastano per vedere sul serio. Voi avete usato l’unico occhio che bisognerebbe usare e che negli umani è cieco. Non è facile vedere con gli occhi della fantasia, quando non hai fatto altro che usare gli occhi solo per vedere. >>.
 
 
“Solitamente gli occhi a quello servono.”.
 
 
<< Cosa c’è da vedere? >>, riprovò Shannon spazientito. Il mistero e gli enigmi lo infastidivano, ma avevo l’impressione che il tira e molla facesse parte del gioco insalubre.
 
 
<< Più del “cosa” vedere, è più importante il “perché”? >>, disse, inserendo nuovi quesiti a quelli esistenti, come se non fosse già tutto abbastanza macchinoso.  
 
 
<< Il perché? >>, ripetei confusa. O era pazzo lui o eravamo pazzi noi che lo stavamo ad ascoltare.
 
 
<< Sì! >>, sbottò infervorato. Cercava di dirci qualcosa, ma lui ci stava mostrando il percorso, dovevamo essere noi ad attraversarlo. << Il perché dovete vedere. >>.
 
 
Shannon aveva un vistoso punto interrogativo stampato sul volto, ed io non stavo messa meglio. Più che indizi per risolvere il problema, il vecchio ci stava dando indizi per complicarcelo.
 
 
<< Seguitemi. >>, ordinò ad un certo punto, ora era lui che non voleva più indugiare. Fece strada attraverso il Partenone e ci condusse in una vertiginosa libreria, che non aveva nulla di regolare, come niente in questo posto del resto. Era un solo un unico ed immenso scaffale, contenente in sé i libri del mondo, quelli scritti e quelli mai scritti, che piantava le radici nel nulla, come se scendesse dal cielo stesso e terminasse nei meandri della terra. Da un lato una cascata si gettava nel vuoto, il rumore di acqua scrosciante era cadenzato, quasi musicale e calmava i nervi.
Vi si poteva accedere solo grazie a scale mobili chilometriche, che le ruotavano attorno.
 
 
Shannon prese nuovamente la mia mano, nel semplicistico gesto erano racchiusi coraggio, forza e speranza, che ci trasmettevamo tramite la congiunzione dei nostri corpi.   
Passammo adiacenti all’interminabile biblioteca e ci fermammo ad una scrivania, su cui il vecchio saggio vi depose il libro che teneva saldo sotto il braccio. Vezzeggiò la copertina, ed aprì il manoscritto a casaccio.
 
 
<< La risposta ce l’avete sotto gli occhi, ma non usate gli occhi per vederla. >>, esortò ermetico.
 
 
“E cosa dovremmo usare?”.
 
 
Le arcaizzanti pagine di pergamena ingiallite erano piene zeppe di simboli illeggibili, in lingua apparentemente matematica, con caratteri geometriche, cerchi, triangoli, rettangoli, che non avevano alcun nesso logico tra di loro. Anche per Shannon fu impossibile capire.
 
 
Aggrottai la fronte, ed iniziai a sentirmi seriamente presa per i fondelli
<< Cos’è questo libro? >>, chiesi secca.
 
 
<< Il Libro delle Parole Sacre. Contiene in sé, tutte le risposte dell’universo, ma non si può decifrare se prima non si impara ad intendere la lingua e a conoscere i caratteri con il quale è scritto. >>.
 
 
Shannon schioccò la lingua al palato, contrariato.
<< C’ero arrivato anche io a questo, guarda un po’! La domanda è una sola, dove cazzo siamo e come ce ne andiamo? >>.
 
 
Ptah guardò tranquillamente Shannon, in seguito gli occhi colmi di una sapienza impenetrabile, gravarono su di me. Sembrava che facesse molto più affidamento a me che a lui, come se la soluzione di tutto giungesse dalla sottoscritta. Shannon era troppo agitato per capire.  
 
 
<< Che cosa state cercando? >>, rispose con l’ennesimo quesito.
 
 
Il mio compagno roteò gli occhi al cielo e si arrese.
<< Se vabbé, parlaci tu, che mi sembra sordo. >>.
 
 
Affilai lo sguardo, intuendo che, dietro ad ogni termine, anche quello che pareva superfluo ed inutile, in verità, conteneva concetti ben precisi: lui sapeva. Eravamo noi all’oscuro.  
 
 
<< L’Argus Apocraphex. >>, divulgai, e  Ptah sorrise apertamente, con enorme disappunto di Shannon. << È una persona? Un luogo? Una parola? >>.
 
 
<< Può essere tutto e può essere niente. Vi lascerò a disposizione la mia conoscenza, >>, indicò la libreria senza fine, << usufruitene per fare le vostre ricerche. Inizierete congiuntamente, ma tenete ben presente che non sarà un percorso collettivo, ma individuale. Risolverete l’enigma ed uscirete da questo mondo da soli, non sperate di farlo insieme. >>.
 
 
Ciò significava che, purtroppo, uno di noi doveva abbandonare l’altro, alla fine, fino a quando non si arrivava alla verità singolarmente.  
 
 
<< Hai definito questo posto un mondo? >>, fece notare Shannon, più attento di quanto paresse, reinserendosi nella discussione. Poggiò entrambe i palmi delle mani sulla cattedra di noce. << Non siamo sulla terra? >>.
 
 
<< Non nel modo che lo intendi tu. Le risposte che cercate sono già dentro di voi, dovete solo vedere per trovarle. Ciò che posso dirvi è che parte di voi si trova nel Limbus: la quarta dimensione. Un mondo che non ha ubicazioni, canoniche entrate ed uscite, sprovvista di tempo umano. Si trova nel mezzo tra Mortalis il mondo da cui provenite voi, il Caelum e l’Infernum. >>.
 
 
<< Caelum? >>. Shannon domandava, fissandomi sconcertato.
 
 
<< Il paradiso e l’inferno. >>.
 
 
Era vero dunque, era proprio l’inferno ciò che avevamo visto nel corridoio della palazzina, come veniva rappresentato nella mitologia greca. Un solo passo e ne saremmo stati risucchiati.
 
 
<< Nel Caelum si muovono i Lux, forze angeliche che mantengono l’ordine in questo mondo. E poi ci sono gli Obscurum, che avrete di certo incontrato. Per ogni essere umano che giunge nel Limbus, ve ne è uno, a loro spetta il compito di rompere l’equilibrio e di trascinare all’Infernum il maggior numero di umani. Entrambe le forze possono manifestarsi liberamente, mentre in Mortalis sono solo un debole sussurro nel vento, in grado di influire sul libero arbitrio. >>.
 
 
“Una gara. Una gara a chi si aggiudica più umani.”.
 
 
Torturai le dita, atterrita dalla relativa decifrazione, che proiettava ulteriori ombre.
<< Com’è possibile? Non ricordo niente, né come ci sono arrivata qui, né il mio passato. >>. Rammentavo solo mia madre, dopo averla sognata per una frazione di secondo e poi nulla più, ma prima di ciò, lei non era esistita per me. Dopo un po’ avevo preso a dubitare che fosse sul serio mia madre.
 
 
<< Per ogni umano è diverso il modo in cui approdano nel Limbus, così come diversifica la maniera di andarsene. Cercate l’Argus Apocraphex e molte cose vi saranno chiare. >>. Girò su se stesso e fece per andarsene, così come era venuto.
 
 
 
<< Dove vai? >>, interrogai sgomenta. Avevo ancora un milione e mezzo di domande da presentargli, non poteva filarsela come se niente fosse.
 
 
Ci guardò da sopra la spalla, ma non si fermò oltre.
<< Vi ho portato la luce, spetta a voi illuminare le vostre tenebre. Un giorno, forse, ci rivedremo. Buona fortuna. >>.









Note:
Due mesi di ritardo credo che non abbiano scusanti, però ahimé, il tempo e volato e spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo. 

Cerco di spiegare a grandi linee alcune cose del capitolo, provando a non svelare troppo la trama: 

-Ptah nella mitologia Egizia era il Dio del sapere e della conoscenza. Per questo l'ho scelto come personaggio che avrebbe dato degli indizi a Jennifer e Shannon. 

-Il libro delle parole sacre, scritto da Thoth, altra divinità Egizia. Si dice che abbia scritto un libro in cui è contenuta la conoscenza del magico e dell'incanto e li abbia sigillati in una cripta. 

-Ho usato alcune frasi prese dal Libro di Galileo Galilei. 

-Per il libro delle parole sacre, mi sono ispirata anche al filoso Pitagora, che aveva una sorta di libro segretissimo, che conteneva tutti i segreti del mondo. 

-Per fare chiarezza: La Terra è Mortalis. Il Limbus è il luogo di mezzo dove si trovano Jennifer e Shannon. Infernum è l'inferno. Caelum è il Paradiso.
I Lux sono forze angeliche che cercano di mantenere l'equilibrio nei quattro mondi. Gli Obscurum coloro che cercano di rompere l'equilibrio, per ogni essere umano ne esiste uno. 
Non rivelo altro, altrimenti darei troppi indizi. 

-Ho usato concetti di ricerche fatte sull'Argus Apocraphex, che probabilmente tutti conoscono, come Argos Panoptes il mostro a 100 occhi e Apocraphex, apocrifo, cioè tenuto segreto. In un viaggio in cui tutto è segreto e nulla è ciò che gli occhi vedono. 

-Ho lasciato vari indizi disseminati anche in questo capitolo

Bene, detto questo, spero di non aver omesso nulla. Sì lo so, forse ho giocato troppo alla playstation o guardato troppi film, ma la mia testa ci lavora da anni e niente, ho una mente bacata xD



Ringrazio di cuore le anime pie che mi hanno letta e commentata, chi ha aggiunto la mia storia tra le seguite e le preferite. Ringrazio anche i fantasmini che leggono solamente, spero che un giorno lascerete anche un piccolo commento. 

La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna

 

 

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Capitolo 4
*** Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius (Andare verso l’oscuro e verso l’ignoto, attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto) ***


4.
*
Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius
(Andare verso l’oscuro e verso l’ignoto,
attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto)
*







 
Quanti libri avevo visionato?
Dieci?
Cento?
Mille?
 
 
Quanti ne avevo ancora da visionare?
Un’infinità ed oltre. Troppi per controllarli attentamente tutti, senza contare che la biblioteca discendeva dalle nuvole e finiva nei viluppi dell’infinito, a segnalare che la conoscenza non terminava mai. Le miriade di informazioni lette vorticavano frenetiche nel cervello e non riuscivo a mettere ordine nelle radici del caos. C’ero vicina, me lo sentivo, eppure ancora un pezzo mi rifuggiva.
 
 
Shannon si era arreso dopo il trentesimo tomo, si era addormentato sul pavimento, la testa poggiata sulla tuta da motociclista, sommerso da diecine di volumi aperti. Più volte mi ero fermata dal leggere, persa nel nuovo passatempo segreto: osservarlo.
 
 
Ero stata fortunata ad averlo incontrato, non avrei potuto scovare un compagno di viaggio migliore di lui, non solo per la bellezza fisica, anche se palesemente molto più grande di me d’età, ma anche per il senso di protezione che trasmetteva e l’allegria che manteneva, nonostante tutto. Mi piaceva, era innegabile e rappresentava il motivo principale che mi obbligava a smettere di inseguire l’Argus Apocraphex.
Ptah era stato chiaro, il cammino lo avremmo cominciato in due, ma poi ci saremmo dovuti necessariamente dividere, per scoprire la verità. E ce ne saremmo andati via, ognuno per conto proprio.  
 
 
Strofinai gli occhi arrossati e fiacchi, ennesimo libro, ennesimo buco nell’acqua.  
 
 
Inizialmente mi ero concentrata sul termine al completo, come se fossero un tutt’uno, ma dopo aver trovato il significato di Argus, cambiai schema e ricercai i vocaboli singolarmente. Per avere la situazione sistemata e fare bene i vari e numerosissimi collegamenti, avevo preso appunti su un foglio di pergamena man mano.  
 
 
Nella mitologia Greca si trovavano svariati riferimenti ad Argo, non Argus. Ogni indizio, era sicuramente rilevante.
Argo era il nome della nave su cui Giasone e gli Argonauti partirono alla ricerca del Vello d’oro, possedeva il dono della parola e della veggenza, poiché costruito con legno di quercia dell’Oracolo di Dodone.
Argo e il suo equipaggio erano protetti dalla dea Era, un’immagine della quale era a prua della nave.
Era anche il nome di un costellazione: la Nave Argo. Una delle più grandi costellazioni elencate e descritte da Tolomeo. Nel 1750 questa costellazione era sparita dai cieli sotto la sua forma originaria ed era stata divisa in tre costellazioni più piccole: la Carena, la Poppa e le Vele.


 
Era anche possibile che Argus prendesse il nome da Argos Panoptes, figlio di Arestor e di Micenea e guardiano di Io. Argos era un gigante dotato di cento occhi, cinquanta dei quali dormivano a turno, mentre gli altri cinquanta vegliavano. Fu ucciso da Ermes su ordine di Zeus. Ermes andò a trovare Argos e lo fece addormentare raccontandogli una lunga storia accompagnato dalla sua arpa. Non appena Argos si fu addormentato, Ermes gli tagliò la testa. Argos Panoptes, nonostante possedesse cento occhi aperti sull’esterno, morì nell’ignoranza.
In effetti, la sua visione e il suo potere sul mondo non gli davano nessun potere su se stesso.
 
 
Come Argo, anche Apocraphex derivava da un antico termine greco: apòkryphos, cioè apocrifo, che significava "nascosto", "tenuto segreto", o "la cui autenticità non è ancora stabilita".
Il termine veniva utilizzato per indicare i testi non riconosciuti come appartenenti alla Bibbia al momento della traduzione dall’ebraico in greco. Questi libri venivano chiamati 'deuterocanonici'. Alcuni libri inoltre non erano mai stati nemmeno recepiti come deuterocanonici. Non erano riconosciuti da nessuna Chiesa e perciò erano chiamati apocrifi o pseudoepigrafi. Essi venivano oggi definiti Scritti Intertestamentari.
 
 
In sé i due termini non avevano una risposta, un rapporto che potesse farmi intuire alcunché. Tiravo ad indovinare.


 
Associando il termine Argus (Argo) e Apocraphex si deducevano diverse cose:
I due termini associati potevano significare "Trovate la costellazione perduta" (in riferimento a quella di Tolomeo, oggi divisa in altre tre costellazioni). La spiegazione non era attendibile, le stelle qui erano differenti, rispetto al pianeta terra.
Oppure "Trovate la nave per raggiungere lo sconosciuto e il segreto”. Una nave in senso figurato o una vera nave? Magari la nave Argo stessa, forse esisteva anch’essa nel Limbus o forse dovevo ampliare la vista per vedere. Ma vedere cosa di preciso?
 
 
Presi una pausa, frizionai le tempie sofferenti e l’emicrania non si smorzò minimamente.
 Ptah aveva spesso ripetuto il fatto che dovevamo vedere, non con gli occhi, ma con un altro tipo di occhi, un po’ come il mostro Argos Panoptes, che usava i cento occhi per guardare all’esterno, ma non dentro se stesso… e per ispezionare dentro se stessi, era necessario adoperare il terzo occhio, quello nascosto…
 
 
Oh mio caro ragazzo, cento occhi non bastano per vedere sul serio. Voi avete usato l’unico occhio che bisognerebbe usare e che negli umani è cieco. Non è facile vedere con gli occhi della fantasia, quando non hai fatto altro che usare gli occhi solo per vedere.”.
 
 
Il velo mi si squarciò, tra le mille opinioni inconsistenti del cervello, ve ne fu una che uscì di getto dall’oceano dell’accozzaglia e risalì a galla, sovrastando tutte le altre teorie e trascinando un secondo tassello nel disegno finale.
 
 
L’Argus Apocraphex non era un oggetto, una parola, una persona, un passaggio, un’uscita e d’altra parte li conteneva tutti: l’Argus Apocraphex ero io.
Trovando l’Argus Apocraphex avrei ritrovato me stessa. Io stessa, che ero il più grande mistero da risolvere, ciò che l’Argos Panoptes non aveva saputo fare, malgrado la sua visione sul mondo esteriore.
Il mio Argus Apocraphex ero io, così come l’Argus Apocraphex di Shannon era lui stesso.
Solo ritrovando noi stessi, il nostro passato, la maniera di come eravamo giunti nel Limbus, saremmo stati liberi e la soluzione era nella nostra mente. Per questo il viaggio l’avremmo compiuto insieme, ma la riuscita era singola.  
 
 
Dovevamo compiere un viaggio nascosto, in posti nascosti, come gli Argonauti. Il viaggio era nascosto, poiché gli Obscurum volevano deportarci all’inferno, quindi dovevamo agire in segreto, e sarebbe avvenuto in posti nascosti, poiché non conoscevamo nulla del Limbus, ed esso pareva continuare a cambiare secondo un criterio che ancora non avevo capito.
 
 
Perfino Freud con la teoria sull’Es, l’Io e il Super Io, mi aveva dato un notevole spunto. Si doveva cercare l’Io più profondo, al di fuori dai soliti schemi, equilibrando la ragione, le emozioni e le intuizioni, affrontando le ombre che impedivano di veder chiaro. Nel Limbus, non si potevano applicare le consuete legge mortali e per ritrovare qualcosa che era già mio, dovevo agire come non avevo agito mai.
Ma da dove partire per ritrovarmi?
Da dove partire per ricordare, capire e salvarmi?
Da dove?
 
 
Per esempio iniziare con lo svegliare Shannon, per ragguagliarlo delle mie scoperte, non era poi una cattiva idea. Parlarne con lui avrebbe aperto nuove porte, che erano ancora chiuse.
 
 
Mi alzai dalla scrivania in noce, finalmente contenta di aver un incipit su cui basarci. Mi inginocchiai di fianco a lui, stravaccato comodamente sul pavimento di marmo tra libri aperti e fogli scritti svolazzanti e quando fui sul punto di pronunciare il suo nome, ebbe uno strano scatto con la testa, subito dopo anche il corpo si curvò in su, come se stesse cercando di liberarsi da catene invisibili o stesse facendo il più terrificante degli incubi.
Le palpebre sussultarono nemmeno ci fosse una crisi epilettica in corso, le labbra smunte si sfiorarono tra di loro in cerca di ossigeno e il colorito pallido della pelle, solitamente roseo, mi agghiacciarono. Stava divenendo evanescente, trasparente, si stava dissolvendo nel nulla.
 
 
L’adrenalina trionfò sulla calma e solo in seguito capii che la voce atterrita che gridava a squarciagola, era per l'appunto la mia.
<< Shannon! Shannon svegliati, svegliati! Che sta succedendo?! Shannon! Shannon! >>. Le mani lo attraversarono più e più volte, palpando solo una nuvola calda, fumo tra le dita.
 
 
Spalancò d’un tratto gli occhi iridescenti, pareva che non fosse più lui. Riprese colorito velocemente, non aveva più l’aspetto di un malato terminale e il corpo era ora consistente.
 
 
Si puntellò sui gomiti, semiseduto.
<< Ehi principessa, che hai? Pare tu abbia visto un fantasma. >>, scherzò, per tirarmi su di morale. L’indice  ruvido asciugò una lacrima che era guizzata dispettosa sul mio viso. << Ci sono le tre disgrazie dell’inferno? >>. Si guardò attorno e mentre provava a capire cosa mi fosse preso, mi gettai d’istinto sul suo petto accogliente e scoppiai a piangere, tale era stato l’orrore che stesse morendo e restassi da sola. Gli inzuppai la stoffa nera della maglietta con le lacrime ed affondai il viso tra le pieghe dei muscoli. Il profumo vigoroso di uomo era familiare, calmava i nervi e dava pace all’anima.  
 
 
Ricambiò prontamente l’abbraccio, assecondando la reazione imprevista e spropositata.
<< Tranquilla, Jennifer, tranquilla. >>, sussurrò, il respiro lambì i capelli e la bocca diede piccoli baci sparsi sulla fronte. << Dimmi che c’è? >>.
 
 
I singhiozzi grossi mi riempirono la bocca, faticando a formulare una frase completa.  
<< Non lo so, stavi sparendo, eri pallido. Ho avuto paura. >>. La mia era molto più che semplice paura, ero terrorizzata, sia che a lui potesse accadere qualcosa di brutto, sia di restare sola in questo luogo sperduto.
Come si poteva tenere così tanto ad una persona che a malapena si conosceva? Perché mi sentivo così vicina a lui, legata da un filo invisibile, un calore al centro del petto esploso nell’istante stesso in cui ci eravamo stretti?
Cosa rappresentava davvero Shannon Leto per me?
 
 
Era frastornato dalla confessione, bravo a mascherarlo, invece di farsi tirare su di morale per essersi quasi diradato, consolava me.
<< Sono qui, non piangere. >>, disse, la voce velluto caldo, una carezza rovente sul cuore, volto a sedurre o a tranquillizzarmi. Vezzeggiò teneramente le spalle, scendendo verso le braccia, gli avambracci ed infine intrecciò le mani alle mie. << Jen guardami, sono qui. >>. Mi indusse dolcemente a scostarmi di pochi centimetri, così da mostrarmi che non stava svanendo, che era lì, una presenza fisica che non aveva alcuna intenzione di mollarmi nei casini.
 
 
Le iridi verde scuro, erano adornate da pagliuzze di miele, l’apprensione era celata in esse, nondimeno nessuna ombra offuscava l’avvenenza lapalissiana di quegli occhi energici, immensi, di una dolcezza unica e ciglia lunghe. Potevano essere trascorsi dieci minuti da quando ci eravamo incontrati la prima volta in strada, come dieci anni, stava di fatto che non mi ero mai sentita così vicina ad un essere umano, come lo ero con lui. Una recondita forza attrattiva mi spingeva verso Shannon, una potenza scabrosa che non riuscivo e non volevo contrastare.
 
 
Non vi era ragione, il tempo aveva smesso risolutivamente di fluire, sarebbe potuto capovolgersi il mondo, la cascata dietro di noi divenire fuoco ardente, spalancarsi la bocca dell’inferno e risputare Cerbero o qualsiasi altra creatura orripilante, ma in questo eterno attimo infinito, non esisteva altro che Shannon, addirittura l’Argus Apocraphex era divenuto una questione secondaria. L’unica pulsione distruttiva che ero costretta a caldeggiare era la brama lussuriosa che mi spingeva in direzione delle sue labbra umettate ed appetibili, un invito primordiale, che non aveva niente di terreno, regolare o giusto e che non sognai minimamente di contrastare.
 
 
“Devo fermarmi, adesso!”.
 
 
La mente arrivò per ultima a dare un freno inibitorio, poiché mi sentii come un fiume in piena, energia inesauribile, eventi che non si sarebbero più arrestati, nemmeno se ci avessi provato. Non capii in quale pertinente palpito del pensare di voler baciare Shannon, divenne la realtà.
In sé possedeva sapori che le papille gustative avevano già saggiato, ma che dovettero imparare nuovamente a nutrire, una mescolanza di carnalità sfrenata, desiderio violento, fame insaziabile, caffè e sigarette, pane, acqua, vita. Fu come incanalare l’universo nell’anima, divenire un tutt’uno con un altro essere, fondersi, ma non nel corpo, più sul livello spirituale, fu un’esperienza trascendentale. Coinvolgeva il corpo, la mente, il cuore, il mondo, l’inferno, il paradiso, questa dimensione e tutte le dimensioni parallele, come se in un unico bacio vi fosse la galassia intera e molto altro.
 
 
La leggera ricrescita di barba pizzicava sotto i palmi, mi premevo incontrollata su di lui, non riuscivo a saziarmi, come un’assetata nel deserto, ne volevo ancora, sempre di più. Non c’erano blocchi.
Shannon ricambiava, all’inizio incerto, sorpreso quanto me per la trascinante carica intensa e pericolosa che era sbocciata e che ci aveva indotti a volerci, a cercarci a prenderci e a non riuscire a smettere. Aveva un modo delizioso di baciarmi, di farmi sentire anelata, al sicuro. Lasciò andare le mie mani, per afferrarmi in vita e trascinarmi impetuoso sul pavimento gelido, sotto il corpo prestante, energico e atletico. Prometteva vette mai esplorate e che volevo scoprire con lui.
Eccitata, fuori controllo, il corpo in preda a stimoli irrefrenabili, stavo andando alla deriva della frenesia.
Se fosse stato per lui, ci saremmo spinti ben oltre il limite.
 
 
Ciò che mi spaventò, non fu quel che stava accadendo tra di noi, ma il fatto che, per ogni nuovo stimolo dell’inconscio, reagivamo dimenticandoci del resto, cancellando la nostra missione, annullando quel che Ptah ci aveva detto di fare e le informazioni rilevanti scoperte dalla sottoscritta: come fossimo drogati.
E, per la seconda volta, giunsi alla conclusione più ovvia.
Il Limbus era guidato da elementi totalmente opposti a quelli a cui ero abituata sulla terra, un po’ come guardarsi allo specchio, quindi se, da dove venivo io la ragionevolezza controllava il desiderio, qui avveniva l’esatto contrario. La cupidigia imperava.
 
 
<< Aspetta Shannon, aspetta un momento. Dobbiamo fermarci. >>.
 
 
Lui non pareva dello stesso parere, le mani viaggiavano rapide sul mio corpo e, se smettevo di impegnarmi, mi sarei lasciata andare alla voglia devastante.
<< No, non dobbiamo. >>, fremé a stenti, tra un bacio e l’altro. Si interruppe solo per sfilarsi via la canotta slabbrata e ricominciare quella dolce tortura. I pettorali bastavano a deconcentrarmi, l’odore virile faceva il resto. << Abbandonati a me, Jennifer. >>, pronunciò il mio nome come se ci stesse già facendo l’amore. L’erezione prominente calcava tra le mie gambe oscenamente spalancate, in una disperata richiesta di essere liberata ed appagata.   
 
 
A stenti lo spintonai via da me, il cervello fermo su un pensiero metodico per evitare di smarrirmi nuovamente. Scattai in piedi ed ampliai lo spazio che ci distaccava, dovevo respirare e recuperare la padronanza di me stessa.
<< Dio! >>, esplosi, era un’estenuante lotta contro il proprio Io interiore e non era affatto facile contrastarsi.
 
 
<< Cos’ho fatto di sbagliato? >>. Pareva non rendersene conto, inebetito dal piacere più estremo. Era pronto a ricominciare, senza interruzioni stavolta.  
 
 
<< Abbiamo un compito da portare a termine o l’hai dimenticato? Dobbiamo trovare il modo di andarcene. >>.
 
 
Il discernimento fluì pigro sul viso accalorato, la bocca gonfia di baci si tese, batté un paio di volte le palpebre: era tornato in sé. Non vi furono mai cenni di pentimento per ciò che avevamo fatto… l’avrebbe rifatto se avesse potuto, ne ero certa.
<< È questo posto! >>, fu l’unica spiegazione plausibile che riuscì a darsi. Non era sua abitudine non fermarsi ad un “no” di una donna e, di questo, però, era rammaricato. << Non ho fatto altro che volerti sin dal momento che t’ho vista in strada. È un sogno radicato, feroce, brutale, che non mi lascia altra scelta, sento che mi acceca, che mi confonde, che non mi da’ modo di pensare. >>. Gesticolava disperato.
Il Limbus agiva per lui, ampliando i sogni oscuri e non dandogli modo di frenarsi.
 
 
Nonostante fossi scompaginata e parecchio su di giri, non avevo smesso di riflettere un secondo.
<< Aspetta, hai detto “sogno”, giusto? >>.
 
 
Shannon si fermò di spiegare come si sentiva in mia presenza e del desiderio sessuale insaziabile che avevo immesso in lui, come un seme del male che gli germogliava dentro.
<< Sì, un sogno. >>.
E nella consapevolezza di avere ragione, sbiancai, e dovetti ricorrere a tutto il buon senso a mia disposizione per non decretarmi matta da legare.
 
 
“Come ho fatto a non pensarci prima?”.
 
 
<< Oh. Mio. Dio! >>, gonfiai le vocali a dismisura.
 
 
<< Che c’è? >>. Si sedette sui talloni, le grandi mani sulle ginocchia, l’accaduto passò in secondo piano. Il fisico mozzafiato, mica tanto.
 
 
<< Dammi un pizzicotto! >>, esortai, come impazzita: la prova del nove.
 
 
Lui non si mosse di un centimetro, mi guardò come se avessi perso il lume della ragione.  
 
 
<< Dammi un pizzicotto, andiamo! >>.
 
 
Si alzò lentamente, tese la mano, catturò un lembo di pelle dell’avambraccio e la torse delicatamente.
Niente. Non sentivo niente. Niente dolore, niente fastidio, niente di niente.
 
 
<< Allora? >>.
 
 
<< Non capisci, Shannon? Niente ha senso qui, non ricordiamo come ci siamo arrivati, non sappiamo come uscirne, la città cambia, non c’è niente prima del nostro risveglio, vogliono ucciderci senza un perché, mi butto da un palazzo e non muoio, tu cadi dalla moto e non ti fai un graffio… l’Argus Apocraphex siamo noi… agiamo senza pensare, l’istinto ha sempre la meglio, le leggi terrene non funzionano. È perché siamo in un sogno, Shan! Questo è un sogno, non la realtà. >>. 









Nota:
E niente, i capitoli ve li faccio sospirare, spero almeno che per voi ne valga la pena!

Per una che ha studiato Psicologia, non potevo non infilarci Freud. Anche a costo di ripetermi continuamente nelle note, cerco di fare chiarezza nel capitolo. 

Sottolineo solo che le cose non sono quelle che sembrano. 


Esistono 4 dimensioni: 
-La prima dimensione: Mortalis, da dove vengono tutte le persone, il Mondo per capirci. Influenzato dalla Realtà, L'Io, la Razionalità e la Ragione.
-La seconda dimensione: Caelum, il Paradiso. Abitato dai Lux.
-La terza dimensione: Infernum, l'Inferno. Abitato dagli Obscurum.
Solitamente si passa direttamente dalla prima alla seconda o terza dimensione, a seconda degli eventi.  
-La quarta dimensione: Limbus, il Limbo. La dimensione atemporale, dove l'Es, le pulsioni incontrollate, le emozioni violente e l'impulsività regnano. 

Obscurum per obscurius, ignotum per ignotius (Andare verso l’oscuro e verso l’ignoto, attraverso ciò che è ancora più oscuro e ignoto), è un detto alchemico. 

Le informazioni sulla decifrazione dell'Argus Apocraphex sono prese da internet, lì c'è poco e niente di mio. 

Bene, sperando di avervi incasinato il cervello, vorrei ringraziare chi ha commentato (giurin giurello, prima o poi risponderò), grazia a chi ha aggiunto la storia nelle preferite e seguite. 



La storia può presentare errori ortografici.

Un abbraccio.
DarkYuna


 
 









 
 

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Capitolo 5
*** Riprova: Devi vedere, non guardare ***


5.
*Riprova: 
Devi vedere, non guardare*







 
Il Libro delle Parole Sacre era aperto nella medesima pagina centrale, nell’eguale posizione in cui Ptah l’aveva lasciato sulla cattedra di legno prezioso. Accanto perduravano le numerose ricerche svolte dalla sottoscritta.
Il secondo tentativo, di decrittare il codice matematico astruso dei fogli di pergamena stilati a mano, fallì penosamente. La fiducia incrollabile delle molteplici teorie partorite, si sgretolò come un castello di sabbia in preda ad una vorticosa folata.
 
 
<< Sei certa che l’Argus Apocraphex, siamo noi? >>, chiese per l’ennesima volta Shannon, spaparanzato comodamente sulla sedia al di là dello scrittoio. Teneva le caviglie incrociate, le braccia poderose dietro la testa e scrutava il cielo da cui scendeva la fornita libreria. La spiegazione pervenuta non gli quadrava, affermava che mancava un pezzo fondamentale per capire meglio.
Non era riuscito, invece, a contraddire la deduzione del sogno.
 
 
Tenevo il naso nel volume antichissimo, il corpo appetibile di Shannon era un deterrente persuasivo e mi rallentava nelle analisi. Era impossibile non rammentare la dolcezza e la morbidezza delle labbra, che adesso si mordicchiava, assorto.  
Strano che non vi fosse alcuno imbarazzo, dopo esserci praticamente abbandonati all’istinto più animalesco. Interagivamo come due vecchi amici, che si frequentavano da anni.
 
 
<< Non sono certa neanche se ciò che vedono i miei occhi esista davvero, Shan, come faccio ad essere certa che l’Argus Apocraphex siamo sul serio noi? >>. Sfogliai le pagine del Libro delle Parole Sacre, ma non vi era alcun miglioramento. Se fosse stata la soluzione giusta, avrei dovuto saper leggere le forme geometriche e trovare l’uscita dal labirinto? O almeno, l’avevo pensato, ma, più probabilmente, ero ancora ferma al punto di partenza e non mi ero mossa di un centimetro, mentre avevo creduto di essere già a metà strada.
 
 
Con un guizzo improvviso si sedette composto, l’espressione concentrata.  
<< Facciamo il punto della situazione. >>, disse, snervato dal girare in un cerchio chiuso. Eravamo in un vicolo cieco da un bel pezzo e non scorgevo una fine.
 
 
Una risata di scherno mi rotolò fuori dalla bocca.
<< Tanti auguri, se ci riesci. >>, sostenni acida.
 
 
Curvò le spalle all’ingiù.
<< Andiamo principessa, se ti demoralizzi non mi sei d’aiuto. >>.
 
 
“E come faccio a non demoralizzarmi?!”.
 
 
Sbuffai alterata, mi addossai alla cattedra ed incrociai le braccia.
<< Stiamo rinviando l’inevitabile. Per trovare, dobbiamo cercare e per cercare, dobbiamo uscire dall’unico posto in cui siamo al sicuro… e là fuori non sappiamo cosa ci aspetta. La città può essere cambiata di nuovo, magari c’è l’inferno e tutto il fan club degli psicopatici ad attenderci! >>.
Che cosa avrebbe potuto dirmi? La ragione era dalla mia parte e al contempo avere ragione era una bella fregatura.
 
 
<< Cosa proponi di fare? >>, interrogò stressato. I “se” non ci avrebbero condotti da nessuna parte, se non a prolungare la nostra permanenza nel Limbus.
 
 
<< Dobbiamo uscire dal Partenone e… boh. >>. Scrollai le spalle e lo fissai dritto negli occhi espressivi. << Vediamo cosa c’è da fare. Non abbiamo altra scelta, Shan. >>.  
 
 
Tirò la bocca da un lato, ci stava pensando su.
<< Non è un buon piano, lo sai, vero? >>.
 
 
<< Mi sa che nessuno sarà mai un buon piano, se significa dover uscire dal Partenone, d’altronde che altro possiamo fare? >>.
 
 
Si lasciò andare a smorfie buffe, un po’ divertenti, anche pensierose e con gesti spigliati si alzò dalla sedia.
<< E va bene. >>. Passò una mano sullo stomaco. << Sarà meglio iniziare a pensare a cosa mettere sotto i denti anche: ho una fame da lupi. >>.
 
 
Ripercorremmo la via fatta con Ptah, attraverso l’intero Partenone di Nashville e perlomeno l’arredamento era rimasto identico. Mera consolazione. Avrei rimpianto la scelta di andarcene.
 
 
<< Pronta? >>, chiese Shannon, prima di aprire il mastodontico portone ricamato d’oro.
 
 
Inarcai un sopracciglio, lanciandogli uno sguardo eloquente.
<< No. >>, attestai, ed uscimmo dall’edificio, inabili a tollerare quel che il Limbus offriva. E, come era accaduto in precedenza, il riscontro ai nostri interrogativi, furono disorientanti ed imprevisti.
 
 
<< Merda… >>, boccheggiò Shannon, cercando la mia mano, come se fosse la risposta naturale del suo inconscio.
 
 
La città era scomparsa nel nulla, piombata adesso nell’oscurità totale. Il portone del Partenone si richiuse automatico alle nostre spalle e sparì anch’esso assieme al resto. Eravamo fottuti, anzi, più che fottuti, se gli Obscurum fossero giunti adesso, non ci sarebbe stato alcun luogo dove nascondersi. La fine era inevitabile.  
Nelle ombre tetre del nulla, sorse un cancello sconfinato di pietra, su cui vi era scolpita una X e dalla quale si intravedevano i raggi di un sole perduto, bloccati dal muro stesso.
Su di esso una scritta remota e polverosa, riportava la seguente frase: “Ai guerrieri e custodi del cancello, noi aspettiamo”.
 
 
<< Chi sono i guerrieri e i custodi? >>. Shannon era ormai sbigottito e perplesso.  
 
 
A naso all’insù, leggevo e rileggevo le parole contorte e, per quanto mi sforzassi, nessuna delle mie ipotesi fu sufficientemente brillante da essere presa in considerazione.
Fu mentre scrutavo l’edificazione inesplicabile di fronte a noi che nel cielo spuntò una grossa luna piena, come quella che si era presentata al mio risveglio. Era trascorso un mese o forse più?
Ed accanto ad essa fluttuava una gigantesca penisola di terra, che proiettava fulgori nella calotta corvina. Un senso spiacevole di vertigini mi fece girare più volte la testa.
Dal lato est sbarcò una corda robusta che si interpose tra me e Shannon.
 
 
La sua espressione non era affatto felice, non era piacevole non avere alcun margine di scelta. Si tolse la tuta da motociclista e la gettò a terra.
<< Non è contemplata l’opzione, rifiuto l’offerta e vado avanti? >>.
 
 
“Ah quei bicipiti…”.
 
 
Ridacchiai, si presentava l’occasione di salire lì dove non avevo conoscenza, non sapevo i risvolti e il finale di questo lungo viaggio che non perveniva mai al termine. Forse saremmo morti, forse un destino peggiore ci avrebbe colto.
Non dimenticavo che la meta era raggiungibile dalle singole parti e non insieme… l’avrei perso, era prestabilito.  
 
 
<< Siccome questo, per me, è ancora un sogno. Giuro che se va a finire bene, prendo seriamente in considerazione l’idea di averti qui nel Limbus, dato che non ho voluto altro nemmeno io, da quando ci siamo incontrati. >>, confessai spigliata, libera da ogni vergogna, disagio o imbarazzo. Era maledettamente facile dare sfogo alle fantasie più nascoste, senza aver paura delle conseguenze. Chi se ne fregava della differenza d’età, dove ci trovavamo, chi eravamo, annessi e connessi, in un luogo dove le leggi terrestri non servivano ad un fico secco e le passioni avevano la meglio? Perché opporsi? Perché combattere? Se ne avevo bisogno come l’ossigeno?
 
 
Restò piacevolmente compiaciuto, aveva intuito perfettamente a cosa mi riferissi, ma preferì esserne certo per non prendere cantonate. Ruotò la lingua sui denti, con fare provocante.  
<< “Avermi” nel senso di fare l’amore? >>, replicò licenzioso, calcando di proposito “fare l’amore”, con la voce più erotica e carnale che avessi mai udito. Rabbrividii da capo a piede.
Gli occhi erano due fuochi che mi bruciarono nel profondo, accesero un falò che non era indirizzato a spegnersi e che mi avrebbe divorata, se non avessi dato sfogo alla cupidigia lussuriosa.
 
 
<< Esattamente. >>.
 
 
Shannon non chiedeva di meglio, con una mano mi cinse per un fianco, addossandomi eccitato sul corpo di granito e mi baciò, come se da ciò dipendesse la sua vita e la mia, come se tutto iniziasse e finisse con quel bacio, il resto smetteva di esistere, il pericolo si annullava, il Limbus si fermava di macchinare contro di noi. Esercitava un potere che mi affascinava e conquistava, era alchimia fisica e mistica, mi rendevo conto di essere connessa a lui da un filo invisibile che aveva del soprannaturale.
Staccarci era una dolce tortura che avrei rinviato per secoli, comunque pareva che l’inconscio avesse assunto un nuovo giudizio e che fosse in grado di controllare l’impeto smodato in favore del dovere.
 
 
Shannon afferrò la corda, la strattonò per constatare che fosse sicura.
<< Prima le signore. Facciamo in modo che questa storia finisca al più presto e nel migliori dei modi. >>. Se l’era legata al dito come una promessa a cui non avevo intenzione di tirarmi indietro.
 
 
Cavallerescamente mi issò su per la vita, aiutandomi a salire sulla corda e poco dopo, con un’agile salto, mi fu subito dietro, tallonandomi da vicino, per paura che cadessi o mi capitasse qualcosa di spiacevole.
Durante l’arrampicata ero convinta che avrei avuto complicazioni, le classiche vertigini che ledevano le persone sgomentate da posti alti, specialmente il Limbus che non aveva più pareti in senso figurato, terra al di sotto di noi o punti cardinali di riferimento. Invece affrontai la scalata con audacia, Shannon sotto di me, predisposto a soccorrermi, ed ebbi l’assurda consapevolezza di averlo incrociato prima del risveglio e che l’avrei rivisto una volta usciti da tutti gli ostacoli tortuosi. Ero fiduciosa.
Mancava poco e avremmo identificato un nuovo frammento della vicenda.  
 
 
<< Ehi Jen. >>. Fischiò per ottenere la mia attenzione. << Cerca di non farti uccidere… se riusciremo a ricordarci chi siamo, voglio sapere tutto di te. >>, urlò, senza mai guardare giù, concentrandosi solo su di me. Era il suo modo speciale di farmi intendere che ci teneva.
 
 
<< Idem, Shannon, idem! >>. Afferrai i ciuffi d’erba nati tra gli scampoli di terra morbida ed umida della penisola galleggiante, testa alta, portamento fiero, fiduciosa nella riuscita della missione e battagliera più che mai.
 
 
“Vediamo cos’altro accadrà adesso.”.    











Note:
Il viaggio di Jen e Shannon continua, anche se chiedo umilmente scusa di averci messo 4 mesi per aggiornare dallo scorso capitolo, ma ho avuto un periodo un tantino incasinato, che si sta risolvendo, quindi ricomincerò a pubblicare un po' più spesso del normale, per condurvi nel misterioso viaggio dei due protagonisti all'interno del Limbus, per trovare l'Argus Apocraphex e l'uscita da questo incubo. 

Mi dispiace che sia un capitoletto di passaggio, ma dal prossimo sarà un susseguirsi di episodi particolari, di numerose ricerche fatte da me ed idee bacate del mio cervello poco stabile. 

Continuo a sperare che questa storia possa piacere a qualcuno e che mi venga lasciata qualche recensione.


La storia può contenere errori ortografici. 

Un abbraccio.
DarkYuna. 
 
 

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Capitolo 6
*** A cosa sei disposta a rinunciare, per salvarti? ***


6.
*A cosa sei disposta a rinunciare, per salvarti?*








 
 
Il paradiso doveva somigliare proprio al luogo incantevole che ci attendeva in cima alla faticosa scalata, un premio per gli occhi, dopo la salita interminabile.
L’ambientazione ricordava una città sommersa dalle acque, dalle sfumature che partivano dal blu intenso, fino all’azzurro pastello e si mescolavano in tonalità brillanti che, a contatto con la luce lunare, splendevano più del sole. Ai quattro lati dell’isola fluttuante, quattro cascate si stagliavano, ognuna di esse possedeva un colore diverso: rosso, bianco, grigio e verde. Si gettavano nell’oscurità sottostante.
Nel bel mezzo di quell’Eden, un triangolo di roccia, diviso in mezzo da una linea orizzontale, era al centro di una complessa costruzione vetusta che formava tre cerchi attorno ad essa, dal più grande fino a rimpicciolire. Dal triangolo una luce solare, ipnotica e radiosa, emergeva fino al cielo… o a quel che era stato un cielo, perché adesso si muoveva, ondulava, un suono dolce di acqua corrente e le più svariate, ignote e stravaganti forme di vita marina riempirono il paesaggio circostante. Non nuotavano: volavano.
 
 
Tesi una mano a Shannon, per aiutarlo a compiere l’ultimo passo e lo issai di forza. Ad averlo vicino era una tentazione costante ed era un peccato mortale, dovergli resistere così a lungo.
La luce procace che gli attraversò le iridi prodigiose, fu l’eco dei pensieri indecenti che aveva scatenato, ero divenuta come un vulcano che si risvegliava dopo anni e anni d’inattività. Poi un particolare alle mie spalle lo distrasse e la visione d’insieme del paesaggio lo lasciò letteralmente a bocca aperta.
<< Chi ha creato questo posto, ha davvero grande immaginazione. >>.
 
 
Di primo acchito non collegai la chiarissima attinenza con la costruzione che padroneggiava l’isola e il tatuaggio nascosto dietro l’orecchio sinistro di Shannon.
Il modo di relazionarmi a lui, ebbe una brusca frenata.
<< Già. >>. Tenni per me la raccapricciante scoperta, lo straziante dubbio che lui fosse stato mandato da me per confondermi, rallentarmi o peggio, uccidermi. Dissimulai normalità, meglio non destare sospetti e prendere in silenzio le distanze. Non potevo scappare… e dove andavo? Il Limbus era scomparso e non c’era altra via da percorrere, se non questa con lui.  
Nuovamente, vi era un qualcosa che non combaciava, che strideva, non coincideva, una bugia postami davanti gli occhi che serviva ad offuscare la verità. Shannon aveva avuto nutrite opportunità per farmi fuori, al contrario mi aveva protetta, difesa e per poco non si sfracellava in strada per evitare di investirmi con la sua moto. No, la spiegazione doveva per forza essere un’altra, non potevo credere che per tutto il tempo accanto avessi avuto un nemico, non potevo credere di essere attratta da un avversario, non potevo credere di essere stata cieca!
 
 
<< Inizio a chiedermi dove ci porterà questo viaggio, che senso ha tutto questo. Perché proprio noi? >>, parlò più con se stesso che con me, intanto che ci accostavamo all’imponente fabbricazione.
Dovevo avere una prova, una qualsiasi. Potevo fidarmi, oppure no?
 
 
<< Credo di aver iniziato a ricordare un particolare. So di avere una madre, è un ricordo vago, soffuso, non sono certa che sia vero o che io l’abbia vista sul serio. >>, dissi, una caligine indefinibile prillava nei dintorni alla precaria reminescenza di mia madre seduta sul divano, con il sole alle sue spalle.  
 
 
Shannon mi osservò riflessivo.
<< L’hai vista? Qui? >>. Era stupito, non del fatto che avessi visto mia madre, ma per non averglielo rivelato prima. Pareva deluso.  
 
 
Scossi la testa.
<< Non qui. Credo di averla sognata, è stato un sogno breve, molto più reale del Limbus, non so se sia stato frutto della mia immaginazione o cos’altro. >>.
 
 
<< È capitato anche a me. >>, mi fermò di getto, mentre cercavo di spiegare bene il concetto ambiguo di aver sognato nel sogno. << Ho la stessa sensazione, è un sogno incerto, irreale, che non ha basi solide. So che ho un fratello, ma non so il nome o dove sia o come io abbia fatto a ricordarlo e perché non prima. >>.
 
 
Il mio piano mi si ritorse contro, volevo una certezza e mi era arrivato l’ennesimo dilemma.
<< Quando l’hai visto? >>.
 
 
<< Quando hai detto che stavo scomparendo, nel Partenone. Forse, quando Ptah affermava che la risposta è dentro di noi, si riferiva a questo. Forse, se ci ricordassimo chi siamo e del nostro passato, allora riusciremmo a svegliarci. >>. Le sue teorie erano più fondate ed intelligenti delle mie.
 
 
Coprii la bocca, sconvolta.
<< Questo significa che, se non ti avessi svegliato, adesso saresti fuori dal Limbus? >>, supposi, più che colpevole. Non era lui il mio nemico, ero io il suo. Se non fosse stato per me, ora sarebbe libero, invece l’avevo incatenato ad un’agonia che non finiva mai.
 
 
<< O forse sarei morto e tu mi hai salvato. >>. Lambì indulgente le mie spalle, non voleva che mi crucciarsi per un’ipotesi che non aveva certezze. Mi sfiorava carezzevole, come se ci tenesse a me, come se fossi realmente importante, come se nutrisse delle emozioni intense e sincere, e ciò colmò il cuore di una letizia deflagrante, che frantumava le ossa, consumava i polmoni ed allietava l’anima. Dimenticai il dubbio e mi lasciai accecare da ciò che provavo, non serviva altro al mio cervello, non gli importava di poter essere in pericolo, voleva solo stare vicino a Shannon.
Il subconscio predominava sulla coscienza, assomigliavo ad un bambino viziato che non usava il cervello per ragionare, solo i desideri più selvaggi, violenti e primitivi.
 
 
Fu mentre mi perdevo nelle iridi di un verde scuro, cosparso di miele dolce, che rilevai un movimento furtivo e trasalii su me stessa per lo spavento. Una donna dai lunghi e lisci capelli corvini, gli occhi a mandorla, vestita con un kimono bianco e rosso, una chiave ancorata ad un nastrino scarlatto le penzolava dal collo, se ne stava seduta su una roccia a pochi passi da noi due. Tra le mani sottili una rosa dai petali neri, ci scrutava con un sorriso imbambolato, neppure fossimo un film d’amore in diretta.
 
 
<< E vissero tutti felici e contenti! >>, esclamò, con un tono sprezzante, mirato a prendere palesemente in giro, nella voce una palpabile avversione per ciò che riguardava i sentimenti. La battuta di scherno se la risparmiò. << È la prima volta che mi accade una cosa del genere. Mai, da quando sono a guardia del Caelum, sono capitati in due a sottoporsi alle tre Prove della Resurrezione. >>.
 
 
“Caelum? Ciò vuol dire che siamo… in paradiso?”.              
               
 
Non era esattamente così che immaginavo Dio.
Cercai lo sguardo di stucco del mio compagno di disgrazie, non si sarebbe mai abituato alla repentinità con cui transitavamo da una zona all’altra, sforniti di basi solide che contraddistinguevano gli umani.
Anche la donna seguii la direzione dei miei occhi e Shannon si ritrovò sotto la lente di ingrandimento di due esponenti femminili appartenenti a razze diverse: una umana e una soprannaturale.  
 
 
<< Oh sì. >>, riprese quest’ultima. << Comprendo il perché ti attrae così tanto. >>, dichiarò deliziata e pensai che dovesse essere particolarmente palese a terzi, che Shannon mi piacesse.
Si innalzò leggiadra come l’aria dal masso, avvicinò la rosa al viso di lui e lisciò la pelle ruvida con i petali corvini, strofinando le dita tra i peli della barba e sulle labbra dischiuse, dove fino a poc’anzi vi erano state le mie a sugellare una promessa, adesso erano barbaramente violate.
Shannon pareva sotto l’effetto di un incantesimo e la fissava nell’identico modo in cui aveva guardato me: innamorato.
Avvertii il cuore spaccarsi in miliardi di schegge aguzze, che mi fecero a brandelli.  
Scatenò una gelosia sordida, aggressiva ed irruente che stentai a frenare. Bisognosa di rivendicare il mio territorio e qualcosa che m’apparteneva, commisi il grave errore di abbassare la guardia ed attaccare, ritrovandomi con un affilato pugnale che premeva sulla faringe. Un gesto falso ed ero morta.  
 
 
<< Ammetti che ti piace? >>, domandò letale, muovendosi lentamente. Mi rivolse le sue attenzioni, sciogliendo Shannon dall’ oscuro potere. No, lei non era Dio, lei era il Diavolo.
 
 
Alzai gli occhi fino a lui… a lui che era spaventato per le mie sorti, che faceva battere forte il cuore, che aveva acceso un rogo nell’anima, che credevo di conoscere da una vita, che mi era vicino… a lui, a cui non avrei potuto rinunciare per nulla al mondo.
<< Lo ammetto. >>, dichiarai sincera.
 
 
Lei parve soddisfatta dalla veridicità delle mie parole e dal modo che erano state pronunciate. Abbassò lo stiletto.
<< Benvenuti nel Caelum, le terre di Amaterasu, la guardiana della luce e della Prima Prova della Resurrezione. Ptah non vi ha detto che il cammino deve essere individuale e non collettivo? >>.
 
 
Stavo per rispondere, ma lo spavento per essermi ritrovata un coltello alla gola, non fece arrivare la voce e mi ritrovai a boccheggiare solamente.
 
 
<< Quando arriverà il momento e se arriverà, allora ci divideremo. >>, ribatté Shannon imperativo, comportamento da Alfa, prese la mia mano. Si era fatto sopraffare una volta, non sarebbe capitato di nuovo.
 
 
Amaterasu era colpita da tale attaccamento all’altro, da parte di entrambe. Non vi era un perché, era così e basta, ci appartenevamo.
 
 
<< In cosa consistono queste tre prove? >>, chiesi, per cambiare discorso. Non gradivo la maniera in cui lei osservava Shannon.
 
 
<< Avete a disposizioni tre prove, se supererete tutte le prove, riuscirete a trovare la giusta via per ricordarvi chi siete. È tutto qui ciò che vi serve. >>.
 
 
<< L’Argus Apocraphex? >>, suppose Shannon, basandosi alle nostre conversazioni nel Partenone. 
 
 
Si spostò i capelli neri da un lato, lisciandoli di continuo.
<< Non sono io che devo dirvi cosa sia, posso solo dire che per adesso siete alla ricerca del vostro passato, ma che non è l’Argus Apocraphex, dovete cercare meglio. >>.
 
 
<< Perché è così importante ricordarci chi siamo? >>, interrogai.
 
 
<< Il ricordo di se stessi è qualcosa di molto importante. Se uno si ricorda di se stesso, dà origine a forze totalmente differenti da quelle dei suoi simili; forze diverse, che lo fanno diventare un soggetto completamente diverso. >>, illustrò e mi persi appena dopo dieci parole. << Quando uno si ricorda di se stesso, istante per istante, di momento in momento, quando uno non si dimentica mai di se stesso, senza dubbio comincia a ritornare cosciente. Ma, prima di trovare voi stessi, dovete perdervi. >>.
 
 
Shannon batté una sola volta le mani tra di loro.
<< Bene allora, cosa stiamo aspettando? >>.
 
 
La mimica della donna non era per nulla rassicurante.
<< Sarò costretta a rivedere anche le tematiche della Prima Prova della Resurrezione, dato che intendete procedere insieme. >>, indugiò sul proseguire, per lasciarci cuocere a fuoco lento nella curiosità pressante. Si rivolse a me. << Io ho una sola chiave, per uno solo di voi. Per il tuo amico sono fin troppo certa, ma tu… oh tu, tu sei una dilettevole incognita e questo avvenimento sarà un’interessante perla da aggiungere ai miei annali. La chiave la offro a te e sarete liberi di andarvene insieme, proprio come vi affannate a sottolineare. >>. La ripugnava l’idea dell’amore e tramava in segreto qualcosa che puzzava di bruciato.  
 
 
Raddrizzai le spalle e stetti il più attenta possibile alle istruzioni per superare questa benedetta prova e filarcela. La donna metteva i brividi.
<< Perché proprio io? >>.
 
 
Il sorriso raccapricciante mi sconcertò: stava per lanciare la bomba.
<< Perché sarà più divertente. >>.
 
 
“E se ti cavassi gli occhi? Troveresti divertente anche questo?”.
 
  
<< Ti ascolto. >>. Ero pronta ad affrontare qualsiasi creatura, enigma o difficoltà fisica che avrebbe presentato. Non sarebbe stato facile.  
 
 
Un secondo ghigno maligno si affacciò sul viso orientale di Amaterasu: non voleva sentirsi dire altro.  
<< Voglio lui. >>. L’indice indicò crudele Shannon di fianco a me.
 
 
Spalancai le palpebre all’inverosimile, impallidii ed ebbi un feroce capogiro. D’istinto aumentai la presa sulla mano di Shannon, come se ciò bastasse a tutelarlo dalla maniaca scriteriata.
Scoppiai in una folle risata squillante e l’espressione si trasformò in rabbia pura.
 
 
“Col cazzo!”.
 
 
<< Te lo scordi! >>. Voleva proprio farmi imbestialire, allora?
<< Tu sei fuori! >>, rincarò lui, strattonandomi per il braccio, per farmi distanziare da lei. Mostrava chiari segni di squilibrio mentale.
 
 
Scrollò le spalle, come se mi avesse chiesto una cosa da niente, invece che rinunciare per sempre a Shannon.
<< Non sono io che devo compiere il cammino. Non hai altra scelta, a qualcosa devi rinunciare, è la regola: l’equilibrio. Io dono una cosa a te e tu ne doni una a me. È la legge principale che muove l’universo. Devi lasciare qui qualcosa che t’appartiene e, oltre lui, non c’è nient’altro di molto importante per te, da offrire. >>, disse, neppure si stesse riferendo ad un oggetto, anziché ad una persona. Ero stomacata.
 
 
Deglutii rumorosamente, provando a trattare il prezzo da pagare e spuntarla sul campo sistematico.
<< Hai detto che se avessi superato la prova, ce ne saremmo potuti andare insieme… cosa che non è possibile se Shannon resta qui. >>.
 
 
Amaterasu si strinse nelle spalle sottili, non le importava di essere coerente con le sue richieste e non aveva tempo da perdere con ragionamenti logici.
<< Se vuoi superare la prova è quello che voglio. Lui resta. >>.
 
 
A questo punto dovetti ricredermi, Shannon non era il nemico, vi era una diversa ragione che collegava il suo tatuaggio alla struttura triangolare che governava il Caelum. E se era propriamente lui che Amaterasu voleva, c’era un perché che differiva dalla prova.
Non esisteva che per salvarmi, avrei sacrificato Shannon. O tutte e due fuori dal Limbus o entrambe restavamo. Senza contare che era a causa mia che Shannon non era riuscito ad andarsene da questo luogo infernale, come minimo gli ero debitrice.  
 
 
Dovevo ragionarci un attimo e dovevo farlo con estrema calma, per mettere insieme un buon piano. Come per Ptah, forse anche Amaterasu, a suo modo, aveva disseminato indizi rivelatori nel corso del dialogo e se mi fossi agitata di meno, li avrei colti al momento. Bisognava fare una panoramica e riesaminare accuratamente ciò che ci aveva detto.
A parte il palese disprezzo per l’amore, le Tre Prove della Resurrezione e i diversi tentativi di ammaliare Shannon, ci aveva portato su una buona strada per l’Argus Apocraphex. Non eravamo noi e non riguardava il passato, però li comprendeva ed era fondamentale ricordare chi fossimo, se volevamo uscire dal Limbus.   
 
 
“Ma, prima di trovare voi stessi, dovete perdervi.”, riecheggiò la frase nelle orecchie, che mi portò ad una sfolgorante, quanto, sconsiderata, idea.
 
 
<< Hai scelto Shannon, solo perché non ho altro di prezioso da offrirti, giusto? >>.
 
 
Amaterasu alzò un sopracciglio, aveva fatto bene a prediligere me per la prova, se avesse dato modo al mio compagno di decidere, non avrebbe avuto altra risposta che una sola. Ero io l’incognita che l’avrebbe intrattenuta.
Shannon non capì dove volessi andare a parare.
 
 
<< Sì. >>, confermò, cantando quasi. Ci avevo preso, era assodato.
 
 
<< Quindi, se avessi qualcosa di più prezioso, lo accetteresti? >>.
 
 
Strofinò le labbra, morse quello inferiore e sorrise di sbieco.
<< Sì. >>.
 
 
Fondamentalmente, se non mi fossi fatta sopraffare dalla gelosia, avrei visto la soluzione ad ogni enigma molto prima.
<< Per ritrovare me stessa, devo essere disposta a perdermi. È per questo, che, salverò Shannon… >>, lo contemplai mesta, consapevole che era l’ultima volta e non avevo la più pallida idea di cosa mi sarebbe accaduto una volta fatta la mia scelta. <<… e che, la cosa più preziosa che ho da offrirti, sono io stessa. Sono disposta a perdermi, per salvarlo. >>.  Le parole risuonarono nella quiete marina del Caelum, scombussolando Shannon e compiacendo Amaterasu.
 
 
<< Non se ne parla nemmeno! >>, strepitò indignato lui, collocandosi tra me e la donna, come se intendesse tutelarmi da lei o dalla sottoscritta stessa. << O ce ne andiamo insieme o niente! >>.
 
 
Presi le grandi mani calde e strofinai i pollici sulla pelle ruvida, dovevo farlo ragionare.
<< Ascolta Shan, una vita per una vita. In questa dimensione, la cosa più preziosa che ho da offrire, per permetterti di proseguire, sono io. Ed è ciò che voglio. >>.
 
 
Il buonsenso colò via dal volto, il cervello si era spento, era pulsione senza ragione, la brama oscura gli divampò negli occhi cangianti.
<< Non è ciò che voglio io! Non ti lascio con questa sconclusionata, in paradiso. >>.
 
 
<< Sempre meglio che all’inferno. >>, provai a buttarla sul ridere, però lui non aveva alcuna propensione a scherzare.
 
 
<< Se resti tu, resto anche io. >>.
 
 
Amaterasu piombò nella conversazione, a mani alzate e vicina dall’avere un attacco di rigurgito acuto da sdolcinatezza a secchiate.
<< Okay, okay, okay. Okay! Basta così, ne ho sentite abbastanza. Direi che se restate altri cinque minuti nel Caelum, mi verranno le carie da diabete. >>. Si tolse la chiave legata al nastrino rosso e me la porse rude. << La Prima Prova della Resurrezione è stata superata, anche meglio di quanto sperassi e non mi ha divertita per nulla. Eri disposta a perdere te stessa, per far ritrovare lui: il sacrificio. >>.
 
 
Indossai la chiave, per tenerla al sicuro e a portata di mano.
<< A cosa serve? >>. La rigirai tra le dita, era di manifattura pregiata, dorata, con intarsi gotici alla base.  
 
 
<< Lo capirai al momento giusto, adesso seguite il sentiero dietro la Triad e toglietevi dai piedi. >>, concluse scortese, congedandoci con un gesto della mano e tornado al suo passatempo preferito, curare le rose nere. Porle delle domande chiarificatrici era fuori luogo.
 
 
“Ed io che credevo di essere pazza.”.          
   
 
Non ebbi il tempo di riordinare gli eventi, era stato più facile di quanto avessi desiderato, che Shannon mi attrasse a sé, trepidante di avermi al sicuro, tra le sue braccia forti.
<< Avresti davvero rinunciato a te stessa, per me? >>.
 
 
Scostai il volto dal suo petto accogliente, felice che non fosse l’ultima volta che ci guardavamo negli occhi. Annuii raggiante.  
<< Ce ne andremo insieme, Shannon. È una promessa. >>.   










Note:
Okay, forse sette mesi senza un aggiornamento sono un tantino eccessivi anche per un bradipo come me, ma seguo l'ispirazione e,
in questi mesi mi ha portata altrove. Da qualche tempo, mi è tornata la voglia di riprendere questa storia in mano per portarla a termine
di questo lungo e misterioso cammino, che condurrà Jen e Shannon ad affrontare altre due prove difficili e scoprire così la verità.

Amaterasu è una Dea realmente esistente, la grande Dea che splende nei cieli, nella religione shintoista. Secondo quanto
narrato nel Kojiki, le venne affidato il governo delle Alte Pianure Celestiali, per questo l'ho scelta per governare il Caelum.

L'isola descritta e fluttuante è Atlantide, almeno da quello che ho letto in giro.


Spero di non impiegarci altri sette mesi per aggiornare (che premesse rassicuranti xD)

 
Continuo a sperare che questa storia possa piacere a qualcuno e che mi venga lasciata qualche recensione.


La storia può contenere errori ortografici. 

Un abbraccio.
DarkYuna. 
 

 
 

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Capitolo 7
*** Se dunque il tuo occhio è singolo, tutto il tuo corpo sarà illuminato ***


7.
*Se dunque il tuo occhio è singolo,
tutto il tuo corpo sarà illuminato*
 
 
 
 
   
 
 
                    
             
 
Il sentiero in salita a ridosso della grande Triad di pietra conduceva ad un lungo corridoio bianco che era stato praticamente inesistente, almeno fino a quando non ci eravamo messi a camminare sul lembo di strada erbosa. Le luci al neon illustravano l’androne latteo.
 
 
<< Sarebbe magnifico se, alla fine, ci fosse l’uscita. >>, commentò amaramente, mantenendo il mio passo, allerta a movimenti sospetti.
Sarebbe stato magnifico, sì, peccato che dovessimo ancora superare altre due prove e poi, Dio solo sapeva cos’altro. Non sarebbe stato semplice toglierci dagli impacci, il Limbus era come miele che si attaccava alle mani, solo meno dolce.  
 
 
D’un tratto il corridoio si riempii di porte chiuse e, alle nostre spalle, lì da dove eravamo giunti, una porta sbatté d’improvviso: eravamo in trappola.
 
 
<< Se gli Obscurum ci trovano adesso, è la fine. >>, commentò Shannon preoccupato. Scrutava il corridoio in cerca di una via d’uscita, che non esisteva.
 
 
Sfilai la chiave dal collo, se non serviva ad aprire una porta, allora a cos’altro poteva servire?
<< Cerchiamo di proseguire. >>, dissi fiduciosa, mostrandogli una probabile soluzione ad uno dei tanti problemi che ci rincorrevano. Una per una, tentai di infilare la chiave nella toppa, fallii per le prime cinque e, a parte la porta da dove eravamo venuti, l’ultima che restava era quella in fondo al corridoio.
Se questa era la seconda prova, allora non sarebbe stato così facile come supponevo. Introdussi la chiave che, finalmente, entrò, la serratura scattò e Shannon trasse un profondo respiro di sollievo. Non capivo se ero più io che infondevo coraggio a lui o viceversa.
 
 
Spinsi la porta, ora pesantissima, e subitamente le luci al neon si spensero una dopo l’altra, come un corto circuito, lasciandoci al buio più tetro. Poi la luce, dopo la soglia.
Gli occhi ci impiegarono qualche secondo di troppo ad abituarsi al giorno. Era giorno! Finalmente il giorno era sorto, ero scioccata, incredula e da una parte felice: doveva essere a forza un buon segno.
A questo punto mi domandai se eravamo ancora nel Limbus o se qualcosa era mutato, grazie alla prima prova superata.
La vista si abituò ad un sole pallido dietro una coltre spessa di nuvole, i raggi slavati rischiararono un luogo imponente e d’effetto che non avevo mai visto in vita mia e restai sbalordita dalla visuale d’insieme.
 
 
<< Io so dove siamo. >>, palesò Shannon criptico, ad un certo punto. << Nella Città Proibita, in Cina. >>.
 
 
Inarcai un sopracciglio, dovetti impiegare tutte le mie forze per uscire dallo stato di shock.
<< Sei già stato qui? >>.
 
 
Non rispose subito, ci pensò su più e più volte, fallendo.
<< Non ne sono certo… è possibile. >>. Scrutò meglio l’orizzonte e, ai piedi della scalinata bianca che conduceva ad una sontuosa architettura tradizionale cinese, vi era seduto qualcuno. Da lontano poco si riusciva a distinguere chi fosse o cosa fosse.
 
 
<< Credo che sia la seconda prova. >>, commentai con un tono tutt’altro che felice. Ci incamminammo sul percorso principale, all’interno della silenziosa Città Proibita, fino a trovarci al cospetto di un essere dal viso coperto da una maschera completamente bianca e, con in dosso, un mantello nero, con tanto di cappuccio. Occhi come il ghiaccio si potevano scorgere.
Teneva i gomiti puntellati su un tavolino, il viso abbandonato su mani avvolte da guanti lattei; sopra ad essa c’era una scacchiera, adibita per una nuova partita.
 
 
<< Non volevo crederci. >>, esordì appagato. << E invece è vero. In due ad affrontare le Prove della Resurrezione… non c’è altra spiegazione. >>, concluse certo, parlando alla fine più con se stesso che con noi.
 
 
<< Su cosa, non c’è altra spiegazione? >>, domandai, sperando di poter ottenere una nuova informazione su cui lavorare. Per ora militavamo in un mare di nozioni che non ci stavano portando da nessuna parte.
 
 
<< Nel momento in cui siete giunti nel Limbus, eravate insieme, non c’è altra spiegazione, mi pare ovvio! >>.
Era ovvio per tutti, tranne che per noi.
 
 
<< Spiegati meglio. >>, lo sollecitò Shannon. Non si allontanava mai troppo da me, era pronto a difendermi, se ce ne fosse stato bisogno.
 
 
<< Deve essere successo qualcosa nella vostra dimensione. Eravate insieme in Mortalis, nell’esatto momento in cui avete varcato le soglie del Limbus. >>.
 
 
<< È per questo che ci siamo ritrovati insieme qui? >>, continuò Shannon.
 
 
<< Ovvio. >>, sentenziò l’essere mascherato.
In quale modo si poteva varcare una dimensione parallela? Non con il corpo fisico, forse si trattava dell’anima o cos’altro? Nella libreria di Ptah, il custode del cancello, avevo letto qualcosa a riguardo e poi lui aveva detto:
 
Voi avete usato l’unico occhio che bisognerebbe usare e che negli umani è cieco. Non è facile vedere con gli occhi della fantasia, quando non hai fatto altro che usare gli occhi solo per vedere.”.
 
La mente iniziò a ricollegare ad una velocità pazzesca ogni tassello dell’intricato puzzle, più vicina che mai alla soluzione, quando l’essere mascherato, mi indicò.
<< Tu ci sei quasi. >>, svelò, mostrando la capacità di leggermi nella mente. << Ti sarà tutto molto più facile, una volta che avrai capito. Usa ciò che ti ha permesso di arrivare fino a qui, usalo, adesso che l’hai aperto! >>.
 
 
E il velo si squarciò.
 
 
Argos Panoptes morì non perché non si accorse del travestimento di Ermes ma, perché, usò i suoi cento occhi per guardare solo le cose materiali, non possedeva occhi non fisici per vedere al di là di ciò che è tangibile. L’unico occhio che avrebbe potuto usare per accorgersi dell’inganno, era chiuso.
Era questo che cercava di dirci Ptah, lui era il Custode del Cancello, colui che avrebbe mostrato la strada, ma spettava noi varcare la soglia. Non ero riuscita a decifrare le scritte del Libro delle Parole Sacre, perché stavo usando solamente gli occhi fisici.
L’Argus Apocraphex: l’occhio nascosto.
C’ero quasi arrivata all’inizio, l’Argus Apocraphex ero io, era in me, mentre l’Argus Apocraphex di Shannon era lui, era in lui. Per questo eravamo arrivati insieme, ma ce ne saremmo andati divisi.
Dio mio! C’ero arrivata, finalmente.
L’occhio nascosto, secondo uno dei tanti libri letti nel Partenone, non era altro che il terzo occhio, l’occhio usato per vedere al di là di cosa era corporeo, l’occhio della fantasia, che donava grandi poteri, capace di far viaggiare in dimensioni paralleli.
 
“Ciò che posso dirvi è che parte di voi si trova nel Limbus”.
 
Basandomi su ciò che l’essere mascherato aveva detto, una parte di noi si trovava nel Limbus, mentre l’altra era ancora su Mortalis. La parte corporea di noi era in un luogo corporeo, che si poteva vedere con gli occhi corporei, mentre il nostro terzo occhio era qui, la nostra mente era qui, la nostra parte incorporea si trovava in un’altra dimensione. 
In che modo corpo e mente si erano scollegati?
E perché, l’essere mascherato aveva detto che eravamo insieme, quando la nostra mente si era scollegata dal corpo, per raggiungere il Limbus? Ero più vicina che mai alla soluzione, poi ricordai il sogno dove mi risvegliavo in ospedale e vedevo mia madre.
E capii.
Con sommo orrore e tremenda consapevolezza di essere giunta alla realtà finale, capii.
 
 
<< Questo non è un sogno, vero? >>, chiesi con voce tremante. Era molto peggio di quanto ponderassi.  
 
 
L’essere piegò la testa di lato, fu come se la maschera sorridesse, ma non fu così.
<< Un sogno è una realtà più vera, della realtà stessa. Lì l’Argus Apocraphex funziona senza interferenza, nel buio della notte, la luce si accende. >>.
Aveva detto che io e Shannon eravamo insieme quando avevamo attraversato la soglia del Limbus, di nuovo rammentai del sogno e di quando, in un flash, avevo scorto il volto di Shannon sfigurato, attribuendolo ad una svista dettata dalla stanchezza.
 
 
<< Cosa è stato, un incidente? >>, ipotizzai. Dovevo arrivare da sola alle risposte, per poi avere una conferma, non c’era altra via d’uscita. 
 
 
<< Cosa, è stato un incidente? >>, replicò Shannon sconcertato.
 
 
<< Ciò che ci ha condotti qui. >>.
 
 
<< Io ero lì. >>, confermò l’essere mascherato. << Voi dovevate morire, ero lì per questo, invece il tuo terzo occhio si è aperto d’improvviso ed ha protetto anche la mente del tuo amico, strappandolo dalle mie mani. Mai vista una cosa del genere prima d’ora, sono secoli che non vedo più un potere così grande. Non credevo che sarei stato di nuovo testimone di un evento simile. >>. Mi indicò nuovamente. Il mio terzo occhio si era aperto un momento prima della fine, ed aveva impedito a me e a Shannon di morire. Per questo lui non riusciva a risolvere l’intricata matassa, perché, in realtà lui non era pronto ad aprire il terzo occhio, io l’avevo fatto forzatamente per lui. Sarebbe dovuto solo morire, non salvarsi.
 
 
<< Ma tu chi sei? >>, strepitò Shannon esasperato da tanto mistero.
 
 
<< Non ci siete ancora arrivati? >>, replicò con tono di scherno.
 
 
<< La Morte. >>, annunciai tetra io. << Era lì, perché noi saremmo dovuti morire. Che significa allora? Se il Limbus è reale, ma non è un sogno, allora cos’è tutto questo? >>.
 
 
<< La tua mente si è scollegata dal corpo… >>, ribadì ciò che avevo pensato, guidandomi nuovamente alla verità.
 
 
Boccheggiai incredula, non poteva essere davvero...
<< Questo è… siamo in coma? >>.
 
 
Annuì compiaciuto.
<< Ovviamente. >>. Doveva amare parecchio quella parola, visto che l’aveva ripetuta un miliardo di volte. << Non esistono leggi fisiche o pagliacciate che usate su Mortalis. Qui il terzo occhio domina, tutto ciò che ha a che fare con l’inconscio, qui è legge. Le vostre regole qui non funzionano e viceversa. >>.    
 
 
<< Hai detto che hai già assistito ad un evento simile, quando? >>, interrogò Shannon, adesso che avevamo trovato qualcuno che voleva risponderci, bisognava cogliere la palla al balzo.
 
 
L’essere mascherato scosse le spalle.
<< Gesù, Ecate, Shiva, Horus, Zeus… tutti gli Dei venerati sulla vostra stolta dimensione, non sono altro che essere umani che hanno aperto totalmente l’occhio. Nient’altro che umani. Gli Dei non esistono, così come le vostre religioni sono improntate sul dominio del terzo occhio. Solo regole per tenervi avvinti. >>.
E chi poteva dettare regole sulla terra, se non il governo e la religione stessa?
 
 
<< Questo significa che ci sono altre persone che sono riuscite ad aprire l’occhio e… >>, ripresi a congetturare, quando la Morte mi interruppe per completare la frase. 
 
 
<< Ci tengono a tenere chiuso quello della popolazione? Sì. È qualcosa che va al di là di ogni immaginazione, ha radice impiantate nella vostra storia ed è interesse delle grande potenze che dominano Mortalis, lasciare la popolazione nell’ignoranza. Anzi, fanno di tutto per avvelenare il vostro terzo occhio: sostanze chimiche nell’aria, nell’acqua, nel cibo e nelle vostre tecnologie moderne. Quando vi risveglierete, perché sarà così, non fidatevi di nessuno a parte l’uno dell’altra. >>.
 
 
Scambiai un’occhiata complice con Shannon, se mi ero fidata di lui qui, avrei fatto ugualmente al ritorno.
<< Perché ci stai aiutando? >>. Fino ad ora né Ptah, né Amaterasu ci avevano dato così tante spiegazioni.
 
 
<< Perché io non appartengo a questa dimensione o a nessuna dimensione esistente, ma posso spostarmi attraverso loro. Ho regole tutte mie, che non sono come quelle che muovono Mortalis o il Limbus. Posso saziare la vostra sete di curiosità, senza intaccare il vostro percorso però, altrimenti resterete rilegati in questi luoghi per l’eternità. Comunque sia, dovete ancora trovare voi stessi, prima di sperare di andarvene di qui. >>.
 
 
<< In che senso? >>, lo incalzai.
 
 
<< Siete giunti alla prima parte della verità, ma ancora non vi ricordate chi siete, da dove venite e il vostro passato. Solo a quel punto, potrete andarvene. >>.  
 
 
<< È la seconda prova? >>, congetturò Shannon, indicando la scacchiera.
 
 
<< Vedo che anche tu inizi ad usare il dono che ti ha gentilmente concesso la tua accompagnatrice. >>, si deliziò la Morte. << Come per Amaterasu, anche io dovrò cambiare le tematiche della seconda prova. Per i visitatori prima di voi, il premio in palio era la loro stessa vita, in caso di vittoria, potevano proseguire il viaggio. Ma qui, siete in due? Sarà più avvincente se giocherete una partita a scacchi con la Morte, per salvare la vita dell’altro. >>.
 
 
Doveva essere una caratteristica comune, essere sfacciatamente sadici nel rielaborare le prove ed adattarle a noi.
Scossi la testa, atterrita.
<< Io non so come si gioca. >>, sbottai, sicura di non aver mai giocato a scacchi prima d’ora.
 
 
<< Non è difficile. >>, riprese la Morte, con tono di scherno. << Tu vinci, il tuo accompagnatore vive. Tu perdi, lui muore. Stesso principio vale per lui. Lui vince, tu vivi, lui perde, tu muori. >>.
 
 
Shannon mi afferrò per le spalle, cercando di infondere un coraggio che stavolta non avevo.
<< Non è difficile. >>.
 
 
<< Sai come si gioca? >>. Non temevo per la mia vita, ma per la sua.
 
 
<< I-io credo di sì. Credo di averlo già fatto. Per prima cosa mantieni la calma, devi restare concentrata, sei stata bravissima fino ad ora e continuerai ad esserlo. Mi fido di te. >>.
 
 
<< Spiegami un corso accelerato. >>, tagliai corto. Se mi fermavo a pensare la posta in palio, era la fine.
 
 
<< I pezzi degli scacchi sono 16 di un colore -generalmente bianco- e 16 di colore contrario -generalmente nero-. Per ciascuno dei due colori si distinguono un Re, una Regina, due Torri, due Cavalli, due Alfieri e otto pedoni. Puoi spostarti di una sola casella per volta in una qualsiasi delle otto direzioni consentite sulla scacchiera per andare ad occupare una casella libera o occupata da un pezzo avversario sostituendosi ad esso. Non può occupare caselle libere che sono immediatamente adiacenti al Re avversario, né caselle che sono sotto il dominio di pezzi avversari. >>.
 
 
Le orecchie presero a fischiare e nonostante quanto intelligente fossi, il cervello si estraniò dalla situazione, rifiutandosi di ascoltare altre nozioni sul gioco degli scacchi, ma soffermandosi su una frase pronunciata da Shannon.
 
I pezzi degli scacchi sono 16 di un colore -generalmente bianco- e 16 di colore contrario -generalmente nero-. Per ciascuno dei due colori si distinguono un Re, una Regina, due Torri, due Cavalli, due Alfieri e otto pedoni.”.
 
Ad essa si aggiunsero le parole della Morte.
 
Siete giunti alla prima parte della verità, ma ancora non vi ricordate chi siete, da dove venite e il vostro passato. Solo a quel punto, potrete andarvene.” .
 
Se, come per Amaterasu, la prova non era quella che appariva ad un primo sguardo, forse anche qui era diverso, forse la soluzione non era veramente giocare a scacchi, ma comunicare un messaggio nascosto, che avrebbe portato all’avanzamento del percorso. Niente era come appariva e continuava a non esserlo.
L’interpretazione era negli scacchi, però non come si presentava.
 
 
Shannon stava ancora parlando, quando il mio sguardo si perse nel vuoto ed afferrai il vero argomento su cui si basava la seconda prova.
<< Non è negli scacchi. >>, blaterai ad un certo punto, zittendo il mio compagno di sventura. Poi mi rivolsi alla Morte. << Non è negli scacchi giusto? Hai detto che dobbiamo trovare noi stessi per andarcene? Il bianco e il nero nella scacchiera. Il Re e la Regina, le due torri ed otto pedoni. Otto, multiplo del due. Sono tutti dei doppi, il due, la dualità. Non era una frase fatta, il cercare noi stessi, noi dobbiamo cercare davvero noi stessi… Dio, mio! Questo significa che c’è un’altra me nel Limbus? Devo trovare l’altra parte di me stessa per andarmene? Per ristabilire l’equilibrio e trovare l’uscita? >>.
 
 
Uno strano suono provenne da dietro la maschera, come di una lingua che schioccava al palato. La porta del palazzo cinese sopra la scalinata, si aprì leggermente e il rumore echeggiò nel silenzio della Città Proibita.  
<< Amaterasu l’aveva detto che non c’era gusto a giocare con te. Buddha era quello che ci aveva impiegato meno tempo di tutti, invece tu l’hai battuto. >>. Poi si voltò a Shannon. << Ci avresti messo un’eternità come tutti gli altri ad arrivare alla soluzione, se non ci fosse stata lei. Questa è fortuna sfacciata. La Seconda Prova della Resurrezione, è stata superata, potete riprendere il vostro viaggio. >>.
 
 
Shannon mi rivolse uno sguardo misto a sbalordimento ed adorazione, mentre imboccavamo le scale che portavano al sontuoso palazzo.
<< Sarei ancora per le strade di Manhattan con la mia moto, a cercare l’uscita, se non fosse stato per te, la Morte ha ragione. >>. Non era pronto ad aprire il terzo occhio, per questo faceva così fatica ad affidarsi alla vista interiore, mettendo il secondo piano la vista materiale.
 
 
Doveva essere così che era avvenuto allora? Il nostro ingresso nel Limbus. Una replica dell’incidente avvenuto su Mortalis? Lui in moto ed io per strada, solo che nella realtà lui non mi aveva schivata, ma presa in pieno?
Ancora troppe domande e ancora troppe poche risposte.
 
 
Il viaggio doveva continuare.     









Note:
Stavolta ho aggiornato in tempi accettabili, niente mesi e mesi di silenzio, vi metto qui questo capitoletto intrigato, dove finalmente si inizia a capire cosa è davvero accaduto a Jennifer e Shannon e cosa sia l'Argus Apocraphex. 

Mi ci è voluto molto per escogitare una seconda prova ad effetto e spero di esserci riuscita. 

Continuo a basarmi su scritti storici, tracce lasciate qui e là su internet e nozioni personali. 

Lo scenario di questo capitolo l'ho preso dal video "From Yesterday". 

Il capitolo l'ho finito di scrivere ieri notte, quindi credo che, nonostante l'abbia letto duemila volte, ci siano grosse sviste, che correggerò nel rileggerlo nuovamente. 


Continuo a sperare che questa storia possa piacere a qualcuno e che mi venga lasciata qualche recensione.

La storia può contenere errori ortografici. 

Un abbraccio.
DarkYuna. 

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Capitolo 8
*** Il percorso è la stessa meta da raggiungere ***


8.
*Il percorso è la stessa meta da raggiungere*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
  
      
L'interno del palazzo cinese era un luogo in penombra, freddo, antico ed inospitale, che si concentrava in un'unica grande sala reale triangolare priva di ulteriori uscite, con tanto di pomposo trono in cima ad una gradinata, di fronte l'entrata.
Su di esso vi era seduta una figura imponente, scura, difficile da distinguere nella luce fioca dell'atrio, era per metà umano, ma la testa era strana, aveva una forma irregolare, allungata, come di un uccello. Tra le mani aveva un grosso libro vetusto, che si apprestava a sfogliare annoiato.
 
 
<< Benvenuti nell'umile dimora di Thoth. >>, disse cordiale con voce roca, quasi gracchiante, che manteneva trame umane, seppur non lo fosse. Batté le mani tre volte e un migliaio di candele bianche si accesero dal nulla, fluttuanti a mezz'aria. Non eravamo più nell'antico palazzo cinese, ma dentro una piramide egizia, mutando nuovamente la realtà circostante.
 
 
Shannon trattenne il respiro, mi afferrò per un polso così da farmi indietreggiare e tirarmi dietro di lui.
 
 
Potevamo vederla bene adesso, la possente creatura alta almeno due metri e più, dal corpo di un nerboruto uomo dalla pelle d'ebano e la testa di ibis. Aveva occhi come la pece che ci squadravano guardinghi.
Richiuse il libro, alzandosi in piedi e divenendo, se possibile, più alto e minaccioso. Nessuno dei due avrebbe potuto nulla contro una fisicità simile, eravamo spacciati in partenza. 
Si era definito come "Thoth" e il suo nome era spesso saltato fuori durante la ricerca nella libreria all'interno del Partenone e poi notai il libro che portava con sé: dalla rilegatura antica di pelle scamosciata. L'avevo già visto in precedenza, lo possedeva Ptah, ce l'aveva mostrato ed io non ero riuscita a codificare il testo sconosciuto.
 
 
Boccheggiante indicai la creatura, spostandomi da dietro Shannon.
<< I-Io so chi sei. >>. Avanzai di pochi passi, tenendomi comunque distante, le intenzioni erano ignote. << Sei il dio della luna, della sapienza, della scrittura e della magia, nell'antico Egitto. >>.
 
 
<< E il dio dell'equilibrio, nonché il precursore della vostra Terza Prova della Resurrezione. >>, continuò, scendendo fluido i gradini, però lentamente. << Una studiosa zelante. >>, si complimentò.
 
 
Shannon increspò le sopracciglia, confuso.
<< Che vuoi dire con "precursore"? >>. Purtroppo restava un passo indietro rispetto alla sottoscritta e sapevo che era colpa mia, che avevo aperto il suo Terzo Occhio con la forza e non in maniera naturale, come era giusto che fosse. Annaspava nell'oceano dei misteri.
 
 
<< Dopo di me, affronterete l'ultimo tassello, da cui dipenderà la vostra salvezza o la prigionia eterna nel Limbus. >>. Percorse l'intera scalinata, fermandosi sovrastante dinanzi a noi due. << Dopo di me troverete le risposte alle vostre domande esistenziali ritenute "perse" nell'infinità dell'universo. E in un certo senso, le risposte potrebbero riparare le radici del disordine e farvi uscire da qui. >>.
 
 
<< Cosa c'è scritto in quel libro? >>, domandai. La prima volta avevo letto solo figure geometriche e nulla di più, però adesso ero provvista di una conoscenza che in precedenza non possedevo e mi sentivo in grado di riuscire, lì dove avevo fallito.
 
 
<< Sei certa di poter accettare la verità? >>. Non si riferiva alla canonica "verità" intesa come la verità che tutti conoscevano, Thoth intendeva la verità nascosta, quella che nessuno sapeva e che era stata occultata per dare luce ad una verità che faceva comodo. Una maschera per nascondere ciò che c'era sotto.
 
 
Annuii vigorosamente.
 
 
La testa di uccello fece un cenno verso Shannon, pur parlando con me.
<< E lui? La sua vista è ancora offuscata, dubbiosa, fa difficoltà ad accettare tutto ciò. C'è troppa razionalità, i muri non sono stati completamente abbattuti. La mente umana nel progredire degli anni, trova arduo accettare una verità diversa da quella che conosce, la rifiuta e la nega. Sei tu che illumini la sua vista, senza di te, sarebbe nuovamente cieco. >>.
 
 
Guardai il mio compagno di sventure, non capivo fin dove lui si potesse spingere e quanto ne sarebbe rimasto sconvolto. E se, una volta usciti da qui, la sua mente avesse riportato irreparabili danni, a causa della mia insistente curiosità per la verità?
Non me lo sarei mai perdonata.
<< Shannon... >>, iniziai a dire, poi lui mi interruppe.
 
 
<< Andiamo avanti! Ci siamo dentro fino al collo, non voglio tirarmi indietro proprio ad un passo dalla meta. >>. Il volto temprato, proprio come un vero guerriero che scendeva nell'arena per affrontare i peggiori nemici.
 
 
<< Il percorso è la stessa meta da raggiungere. >>, si frappose Thoth. Quindi per andare avanti, era necessario sapere cosa contenesse il libro.
 
 
<< Ne sei certo? >>, ritentai timorosa.
 
 
<< Cosa può esserci di peggio? >>, domandò retorico, consapevole che sì, ci poteva essere di peggio, molto peggio.
 
 
Thoth si genufletté su un sono ginocchio, prese il libro con entrambe le mani e lo aprì.
<<  Se la luce è in voi, la luce che è incisa in questo libro vi risponderà. >>.
Il libro, dalle pagine ingiallite, adesso non era più scritto in un linguaggio che non capivo, ora ero perfettamente in grado di leggere e ciò che trovai scritto mi sconvolse.
 
 
<< Non riesco a comprendere. >>, rivelò Shannon sconcertato e, nel mentre mi voltavo a guardarlo stupita, ogni cosa attorno a me si dissolse nel nulla, come una nuvola impalpabile che non era mai esistita. L'oscurità calò, intanto che Thoth teneva spalancato il Libro delle Parole Sacre, sotto l'unica vista che importava usare.
 
 
<< Che succede? >>, strepitai terrorizzata. << Dov'è Shannon? >>.
 
 
Il Dio mi guardò bonario.
<< Lui non è pronto, altrimenti sarebbe qui con te. Il suo Terzo Occhio ha scelto per lui. >>.
 
 
<< Non siamo più nel Limbus? >>.
 
 
Thoth scosse la testa.
<< Siamo nel flusso spazio-temporale, dove ogni cosa ha avuto inizio. Ti mostrerò esattamente ciò che è scritto nel libro. >>. Richiuse il volume arcaico e si alzò in piedi e, per ogni parola pronunciata, lo scenario prendeva vita. << Lontano nel tempo passato, i Figli della Luce vennero sul vostro mondo, per creare una nuova forma di vita mortale. >>.
 
 
Stavo assistendo al momento esatto in cui, Thoth, accompagnato da altre trentadue creature come lui, crearono l'essere umano a loro immagine e somiglianza ed aprirono loro il Terzo Occhio. Accecati da tale dono, lo usarono per scopi malefici, distruggendo, anziché procreare.
Thoth e le altre trentadue creature, cancellarono ogni cosa: il Diluvio Universale. Ce ne era stato più di uno.
Nell'ultimo tentativo, non gli concessero il dono del Terzo Occhio aperto, ma gli diedero tutti gli strumenti per poterlo aprire da soli, in tal modo l'essere umano avrebbe usato quel potere in maniera diversa. Con i secoli, si era creato un sistema singolare, dove, chi apriva il Terzo Occhio, faceva di tutto per impedire alla popolazione di avere l'eguale privilegio. Come aveva detto la Morte, usavano forme di comunicazioni, bugie, scie chimiche, social network, gli O.G.M. nel cibo, la musica e i film, al fine di occultare la vista suprema e far primeggiare l'oblio. Se eri impegnato con le superficialità, non avevi tempo per vedere davvero.
Le religioni erano altre forme di controllo, create dall'uomo per portare ulteriore caos.
Non vi erano Dei, se non semplici esseri umani che erano stati in grado di aprire il Terzo Occhio ed usato per fare il bene, anziché il male.
 
 
<< Siamo... un esperimento? >>. Non ero stupita, come sarei dovuta essere. Era come se ne fossi già a conoscenza. << Ci sarà un nuovo Diluvio Universale? >>.
 
 
Thoth annuì.
<< Sì. >>, confermò funereo. << Fino a quando non elimineremo la corruzione nel cuore degli uomini... ti aspetterò al sicuro ad Atlantide, il luogo che accoglie tutti gli umani che hanno aperto il Terzo Occhio e che non l'hanno usato per scopi malvagi. Una volta lì, insegnerai ai nuovi esseri umani ad aprire il Terzo Occhio. >>.
 
 
Battei più volte le palpebre e il Dio mi scrutò di rimando.
<< Esiste davvero? Perché nessuno l'ha mai trovata? >>.
 
 
<< Atlantide esiste solo per coloro che vedono davvero e non guardano solamente. Non può essere trovato da chi ha l'Occhio addormentato... ricordati, una volta che tornerai su Mortalis, e che reputerai tutto questo solo come un sogno, ricordati Jennifer, che tutto questo è più reale della realtà stessa. Non dimenticare di cercarmi e cercare Atlantide, il tuo posto non è nel mondo, ma con i tuoi simili, dove, per la prima volta nella tua breve vita, ti sentirai compresa ed amata davvero. >>.
 
 
<< E Shannon? >>.
 
 
<< Il tuo potere è stato abbastanza grande da salvarlo, porta anche lui nel tuo viaggio. >>. Poggiò la grande mano sulla mia spalla. << Adesso, per far sì che tu riesca a completare il tuo percorso, devi rinvenire l'equilibrio per viaggiare attraverso le dimensioni e trovare l'uscita dal Limbus. >>. Non aggiunse altro, la mano scivolò sullo sterno e con una violenza inaudita mi spinse nel nulla.
 
 
Caddi, fu come cadere dall'universo intero, attraverso lo spazio ed il tempo, non seppi dire se per pochi istanti o un'eternità intera. Il mio atterraggio non fu il migliore sperato, ero finita all'Infernum: l'inferno.
L'ultima tappa.
L'odore di zolfo era insopportabile, il fuoco rendeva l'ambiente bollente, dal caldo si moriva e respiravo a fatica.
"Mai una cosa normale, diamine!".
 
 
<< Shannon! >>, iniziai a chiamare, ritornando lentamente in piedi. Non ero ferita, neppure un graffio, Thoth era sparito, ma le sue parole erano impresse come un marchio indelebile nella mente. Ero pronta ad affrontare l'ultima Prova della Resurrezione e trovare Shannon per andarci dal Limbus.
 
 
Mi trovavo su un alto strapiombo polveroso, senza varchi o passaggi, che si affacciava sulle tenebre, illuminate da un fuoco continuo.
Caronte era l'unico essere a presenziare, se ne stava adunco su un'imbarcazione, attraccata al precipizio, sospesa nel vuoto. Adocchiai il nulla sotto di essa, che si formava come un cono allungato e composto da gironi infernali.
Come avrei trovato Shannon qui dentro? Era qui, oppure era rimasto con Thoth? E se fosse disperso da qualche altra parte nel Limbus, mentre io ero all'inferno?
Nel guardare le profondità dell'Infernum, capii che non sarebbe stato affatto facile, ben che meno comprendere in cosa consisteva l'ultima prova. Le prime due erano state relativamente facili.
Si udivano urla disperate, suoni di sferzate di frusta e un rumore incessante come di pioggia infinta.
 
 
<< Lui dov'è? >>, domandai fredda a Caronte. Non aveva detto una parola, osservava silenzioso come uno spettatore passivo di un film che lo annoiava. Non vi era bisogno di specificare a chi mi riferissi, tutti erano al corrente della presenza di due viandanti nel Limbus, in cerca dell'uscita.
 
 
<< Nono cerchio, quarta zona: Giudecca. >>, rese noto. << Lucifero sta tenendo lui compagnia, in attesa del tuo ritorno. >>.  
 
 
<< Cosa? >>, sbottai esterrefatta, inarcando le sopracciglia. << Sono già stata qui? >>.
 
 
Caronte si limitò ad esternare un sorrisino insinuante, non avrebbe risposto a nessun'altra domanda, non spettava a lui.
 
 
<< Andiamo. >>, ordinai perentoria. Shannon in compagnia di Lucifero, non mi andava a genio proprio per nulla.
 
 
<< Nessuna anima viva è mai stata trasportata... con le sole eccezioni della dea Persefone, Enea, Teseo, Piritoo e Ercole, Odisseo, del vate Orfeo e della sibilla cumana Deifobe. >>.
 
 
<< Aggiungi anche il mio nome alla tua lista di eccezioni. >>. Balzai in fretta sull'imbarcazione, sorprendentemente più stabile di quanto potessi presupporre, il traghettatore non protestò, ma anzi iniziò a spostare il remo nel vuoto e scendemmo attraverso i nove gironi dell'Inferno.
 
 
Peccatori, tormentati, straziati, torturati e brutalizzati, erano i condannati in questo posto senza speranza. Qui si trovavano coloro che in Mortalis non avevano condotto una vita esemplare.
Il Caelum era vuoto, qui pullulava di anime dannate.
Più ci addentravamo nei meandri dell'Inferno e più la temperatura si abbassava, le fiamme lasciarono il posto al ghiaccio e al freddo più pungente. Le tenebre erano calate per sempre.
Anche se avessi voluto, sarebbe stato a dir poco impossibile, non vedere Lucifero. Un gigante giunonico, immerso fino in vita dal ghiaccio, dalla cui schiena si spiegavano due immense ali da pipistrello nere.
Shannon era lì, al suo cospetto, seduto a gambe incrociate, in attesa.
Non aspettati neppure che l'imbarcazione toccasse la spessa lastra di ghiaccio, che scattai frenetica e a fatica, corsi sul lastrone scivoloso.
 
 
<< Shannon! >>, gridai, felice che fosse sano e salvo e che non gli era stato fatto del male.
 
 
Gli occhi al miele del mio compagno di sventura, si poggiarono su di me e si illuminarono come un arcobaleno di mezzanotte. Si alzò spedito e venne ad abbracciarmi.
 
 
<< Ho avuto paura di non vederti mai più. >>, mormorai, stampandogli un bacio sulle labbra fredde.
 
 
<< Anche io. >>, replicò, tenendomi più forte che potesse.
 
 
<< Prometto di arredare il girone dei lussuriosi, in vista del vostro futuro arrivo. >>, si intromise Lucifero annoiato, con un'insopportabile voce gutturale e rintronante. Fui vicina dal tapparmi le orecchie. Avrebbe potuto schiacciarci con un dito o divorarci, senza che avessimo potuto impedirlo. << Ciao Jennifer. >>, salutò come se fossimo vecchi amici.
 
 
Sciolsi l'abbraccio con Shannon, la mia mano restava salda nella sua.
<< Caronte ha detto che aspettavi il mio ritorno. >>. Non era una domanda, anche se era implicito che lo fosse. << Sono stata già qui? >>.
 
 
Lucifero puntellò il gomito sulla lastra di ghiaccio ed affondò il mento appuntito nel palmo della mano. Le unghie erano affilate e nere.
<< La volta precedente eri un insignificante e piccolo essere umano, abbiamo trascorso molto tempo insieme, prima di andartene. >>.
 
 
Socchiusi gli occhi, provando a ricordare e poi rammentai d'improvviso che, all'inizio di questo assurdo viaggio, avevo letto nella cartella clinica che ero morta all'età di otto anni.
Era accaduto davvero.
 
 
<< Ufficialmente sei morta per un minuto e trenta secondi. Un'eternità qui. >>.
Boccheggiai sconvolta, non avevo memoria di un simile episodio.
<< Ho già affrontato tutto questo? >>.
 
 
Scosse la testa gigante.
<< No. La volta precedente non ne hai avuto bisogno, perché già sapevi, non avevi bisogno di sapere. >>.
 
 
Shannon pareva più sottosopra della sottoscritta.
<< Questo significa che aveva già il Terzo Occhio aperto? >>.
 
 
<< Lei sì. Nata con l'incredibile capacità di vedere davvero, è il vostro stesso mondo che glielo ha chiuso. >>, poi si rivolse a me. << Thoth ti ha già detto il come e il perché. Quando sei venuta qui, non c'era alcuna necessità di superare le prove, poiché già possedevi ciò che hai perduto, mentre adesso hai smarrito la strada. Sei rimasta qui con me, perché era quello che desideravi. >>.
 
 
Ero senza parole, così anche Shannon, che adesso mi fissava turbato.
 
 
<< Puoi restare di nuovo qui con me, se vuoi. >>, propose avvincente. << Sei troppo potente per mischiarti con la feccia su Mortalis, qui sarai eterna, non correrai alcun pericolo... non immagini cosa ti attende su Mortalis. >>. Fissava severo la mano di Shannon che teneva la mia, non approvava tale vicinanza tra noi due.
 
 
<< Cosa mi attende su Mortalis? >>.
 
 
<< Cosa è accaduto al Cristo e a quegli esseri umani che hanno forgiato la storia della vostra dimensione, quando le potenze politiche e religiose hanno scoperto il loro potere? >>.
 
 
<< Sono stati uccisi. >>, concluse drammatico Shannon.
 
 
Ci pensai per una manciata di secondi, valutando i pro e i contri di una decisione così importante.
<< Ho una famiglia che mi attende. >>. Non ne ero molto certa, ma avevo una madre e di questo ero sicura. << E dove va Shannon, vado anche io. >>. Se avessi deciso di restare, Shannon non era compreso nell'accordo.
 
 
Lucifero scoppiò in una risata assordante, che fece tremare le stalattiti appese su di noi e la lastra di ghiaccio su cui eravamo.
<< I tuoi buoni sentimenti ti condurranno alla morte. >>. Schioccò le dita uncinate e da dietro di lui vennero fuori lo psicopatico con il martello e la folle con l’ascia. << Benvenuti alla vostra Terza Prova della Resurrezione. >>.
 
 
Shannon ed io indietreggiammo atterriti, dinanzi alle nostre nemesi che ci avevano reso impossibile il compito sin dall'inizio. Scrutai di volata il posto circostante, non vi erano possibilità concrete di fuga, Caronte era sparito e con lui ogni speranza di salvezza.
 
"Siamo fottuti!".
 
<< Paura? >>, ci schernì derisorio Lucifero. << Hai ancora possibilità di scelta: resta con me, sacrifica lui, ed annullerò la Terza Prova. >>.  
 
 
<< Mai! >>, gridai terrorizzata, intanto che lo psicopatico con il martello si avvicinava inesorabile a me e la folle con l'ascia a Shannon.
 
 
Doveva esserci qualcosa anche stavolta, non poteva finire così, mi rifiutavo di morire in questo modo. Ripensai in fretta al discorso avuto con la Morte, sul fatto che vi fosse un'altra me e che avrei dovuto trovarla per andarmene dal Limbus, dopodiché una cascata di parole fluii violenta nel cervello.  
 
"Forse, se ci ricordassimo chi siamo e del nostro passato, allora riusciremmo a svegliarci.".
 
"Avete a disposizioni tre prove, se supererete tutte le prove, riuscirete a trovare la giusta via per ricordarvi chi siete. È tutto qui ciò che vi serve.".
 
"Il ricordo di se stessi è qualcosa di molto importante. Se uno si ricorda di se stesso, dà origine a forze totalmente differenti da quelle dei suoi simili; forze diverse, che lo fanno diventare un soggetto completamente diverso. Quando uno si ricorda di se stesso, istante per istante, di momento in momento, quando uno non si dimentica mai di se stesso, senza dubbio comincia a ritornare cosciente. Ma, prima di trovare voi stessi, dovete perdervi.".
 
I pezzi degli scacchi sono 16 di un colore -generalmente bianco- e 16 di colore contrario -generalmente nero-. Per ciascuno dei due colori si distinguono un Re, una Regina, due Torri, due Cavalli, due Alfieri e otto pedoni.”.
 
"Il bianco e il nero nella scacchiera. Il Re e la Regina, le due torri ed otto pedoni. Otto, multiplo del due. Sono tutti dei doppi, il due, la dualità. Non era una frase fatta, il cercare noi stessi, noi dobbiamo cercare davvero noi stessi… Dio, mio! Questo significa che c’è un’altra me nel Limbus? Devo trovare l’altra parte di me stessa per andarmene? Per ristabilire l’equilibrio e trovare l’uscita?".
 
Ciò che meditai fu un vero e proprio suicidio, fondato su base illogiche e che, molto probabilmente, avrebbe portato ad una lenta morte dolorosa.
Nessuna delle prove precedenti era come si presentava e neppure questa. Di primo acchito, la cosa più saggia da fare era fuggire, così come avevamo fatto sin dall'inizio, ma se non era questa la risposta, se fosse altro ciò che dovevamo fare?
La Morte aveva detto che esisteva un'altra me e che avrei dovuto trovarla per sperare di andarmene. Non aveva accennato che fosse uguale anche di fisico, solo che c'era un'altra me. E se l'altra parte di me stessa, fosse lo psicopatico con il martello che tanto mi affannavo a rifuggire... ciò voleva significare che stavo scappando da me stessa, dalla parte oscura, dalle mie paure, dal ripristinare l'equilibrio.
 
 
Solo ora capivo perché tutti si erano affannati a dire, sin dall'inizio, che io e Shannon eravamo giunti insieme, ma ce ne saremmo andati divisi.
 
 
Dovevo provare, era folle: non avevo altra scelta.
 
 
Strattonai via la mano dal mio compagno di sventura, lui non fece in tempo a capire le intenzioni, che stavo già correndo verso lo psicopatico con il martello. Riuscii a schivare per un pelo un colpo mortale, mi gettai su di lui con tutta la forza che possedevo.
Rotolammo malamente a terra e, prima che lui avesse la meglio, afferrai la maschera in lattex da sadomaso che gli copriva interamente la faccia e la sfilai via.
 
"Oh mio Dio!".
 
Sotto la maschera c'ero io, non più un nerboruto uomo minaccioso che cercava di uccidermi. Ero io, sin dall'inizio, ero fuggita da me stessa, così come avevo supposto. Vedevo il mio viso per la prima volta, da quando ero qui e, nel riconoscermi in quelle fattezze familiari, la diga nella mente si ruppe e il passato tornò come un'ondata anomala che mi travolse. L'altra me stessa sorrise diabolica, accostò la bocca alla mia e mi baciò, venendo assorbita.
Una luce abbagliante rischiarò le tenebre, ripristinando finalmente il tanto agognato equilibrio.
Ero libera.     











Note: 
Finalmente Jennifer è uscita dal Limbus. 
Insomma per partorire questre tre prove, mi ci è voluta una vita intera xD

Ho sempre amato la Divina Commedia e una bella riletta per usarla in questo capitolo è stato un piacere, spero di averla descritta in maniera esaustiva. 

Ce l'ha fatta anche Shannon ad uscire dal Limbus? Si incontrerà con Jennifer su Mortalis? Cosa accadrà una volta risvegliatosi dal coma? Jennifer andrà ad Atlantide, cercherà Thoth? Oppure catalogherà tutto ciò come un mero frutto della sua immaginazione? 
Lo scoprirete nel prossimo capitolo. 

Thoth è un Dio Egizio realmente esistente. Si dice che fosse abitante di Atlantide e avesse scritto le "Tavole Smeraldine" contenete le verità sull'universo. Potete trovare delle tracce di esse, se le cercate.

Ciò che è scritto in questo capitolo, le "verità" sono frutto della mia immaginazione, deviata da miliardi di ricerche in questo campo. Mi sono fatta una paradossale mia idea sulla creazione umana e molte altre cose.  

Rendetevi conto che sono le 3.30 del mattino e sto pubblicando ad un orario indecente e SICURAMENTE ci saranno ORRORI di ortografia. Chiedo perdono! 


Un abbraccio.
DarkYuna. 

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