What a prophecy cannot predict di _Pulse_ (/viewuser.php?uid=71330)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. The knight of the lake ***
Capitolo 2: *** 2. The sins of the father ***
Capitolo 3: *** 3. The once and future king ***
Capitolo 4: *** 4. Queen of hearts (and her hair straightener) ***
Capitolo 5: *** 5. The moment of truth ***
Capitolo 6: *** 6. The beginning of the end ***
Capitolo 7: *** 7. The ashes of the past… ***
Capitolo 8: *** 8. …And the fires of the present ***
Capitolo 9: *** 9. A remedy to cure all ills – Part I ***
Capitolo 10: *** 10. A remedy to cure all ills – Part II ***
Capitolo 11: *** 11. The tears of the Pendragons – Part I ***
Capitolo 12: *** 12. The tears of the Pendragons – Part II ***
Capitolo 13: *** 13. With all my heart ***
Capitolo 14: *** 14. The witch’s quickening ***
Capitolo 15: *** 15. The Destiny’s Call ***
Capitolo 16: *** 16. A lesson in vegeance – Part I ***
Capitolo 17: *** 17. A lesson in vegeance – Part II ***
Capitolo 18: *** 18. Sorcerers’ hearts ***
Capitolo 19: *** 19. Sweet dreams ***
Capitolo 20: *** 20. The labyrinth of chances ***
Capitolo 21: *** 21. Love in the time of insecurities ***
Capitolo 22: *** 22. Excalibur (and other stuff) ***
Capitolo 23: *** 23. The mark of Abigail ***
Capitolo 24: *** 24. The secret sharer – Part I ***
Capitolo 25: *** 25. The secret sharer - Part II ***
Capitolo 26: *** 26. The nightmare begins ***
Capitolo 27: *** 27. The sword in the stone ***
Capitolo 28: *** 28. The darkest hour ***
Capitolo 29: *** The coming of Alex ***
Capitolo 30: *** The gates of Avalon ***
Capitolo 31: *** Diamond of the day ***
Capitolo 32: *** 32. Epilogue ***
Capitolo 1 *** 1. The knight of the lake ***
Buongiorno
a tutti!
No,
non state sognando: sono proprio io, sono tornata. Molti di voi mi
avranno data per dispersa (lo avrei fatto anche io) e non mi
dilungherò troppo
nello spiegarvi il perché della mia prolungata assenza;
sappiate soltanto che
non ho mai smesso di scrivere, cercando di ritagliare una fetta del mio
- poco
- tempo libero per dedicarlo all'attività che amo di
più al mondo.
Sono
tornata con una nuova avventura, una sfida che mi mette i brividi di
eccitazione e di paura.
Non
ricordo esattamente come ho scoperto il telefilm Merlin, ma so per certo che è entrato nel mio
cuore con una prepotenza che
non ritenevo possibile. Non scherzo, dicendovi che è
diventato il mio preferito
e che non smetterei mai di guardarlo. Per questo scrivere una long in
questo
fandom (comincio subito alla grande) mi rende felice e spaventata allo
stesso
tempo. Sarò mai all'altezza? Sarò in grado di non
andare OOC? Questo non posso
saperlo, ma di una cosa sono certa: in ogni capitolo, in ogni
paragrafo, in
ogni riga, c'è un pezzetto del mio cuore. Spero che lo si
capisca.
Questa
storia non è ancora conclusa ma, contrariamente al mio modus
operandi,
ho deciso di iniziare a pubblicarla ugualmente come
incentivo a me stessa: è un progetto che voglio portare a
termine nel migliore
dei modi e visto che mi sento un po' bloccata al momento, magari il
vostro
sostegno e i vostri consigli saranno in grado di darmi una scrollata.
Sempre se
vi piacerà...
Ora,
visto che ho già farneticato abbastanza, un paio di piccole
precisazioni prima che iniziate a leggere - finalmente - il primo
capitolo:
1) fino a cinque minuti fa, questa storia non aveva un titolo: non
è per
giustificarmi, ma almeno sapete il perché faccia
così pena;
2) la storia è ambientata nel futuro, ai giorni nostri, con
Merlino alle
prese con la vita e i problemi che ognuno di noi potrebbe avere;
3) i personaggi di questa storia non mi appartengono (ho pregato e
pregato
al mio altare della BBC, ma è stato inutile, sob)
e le loro azioni e i loro pensieri sono del tutto inventati da me
medesima, secondo il mio particolarissimo punto di vista e la mia
fantasia
sfrenata (ogni commento in proposito è ben accetto). Tutto
è scritto senza
alcuno scopo di lucro, anche ogni riferimento a persone e a fatti reali.
Ora
vi lascio davvero e spero che sia di vostro gradimento. Grazie per aver
letto fino a qui, se ci siete arrivati.
Un
abbraccio enorme.
_Pulse_
____________________________________________________________
1.
The
knight of the lake
Una
mano leggera, delicata come una piuma, si posò
sulla sua spalla sinistra.
«Merlino», lo chiamò piano Alex, china
di fianco al
suo orecchio, su cui sentiva il suo respiro caldo ed aromatizzato al
caffè.
«Merlino, svegliati».
Il ragazzo trattenne abilmente un sorriso. Abilmente
perché ormai mentire era diventato il suo più
grande talento, visto il tempo che
aveva avuto per fare pratica.
Non aveva dormito quella notte, ma non era un problema
per lui. Non più. Lo faceva ancora e il suo corpo richiedeva
qualche ora di
sonno quando tirava troppo la corda, ma un essere immortale come lui
non era
per forza costretto a vivere secondo i bisogni fisici dei mortali.
Finse quindi di svegliarsi all’improvviso, rendendosi conto
pian piano di dove
si fosse addormentato, e quando voltò il capo verso Alex
accennò un sorriso,
stropicciandosi gli occhi con i pugni.
«L’ho fatto di nuovo?»,
domandò, schiarendosi un poco la voce.
«A quanto pare», rispose lei, offrendogli un
bicchierino di caffè.
Merlino la ringraziò con una semplice occhiata e la
guardò mentre si dirigeva
verso le finestre per scostare le tende e lasciar entrare la luce del
sole
appena sorto.
«Al meteo davano pioggia per oggi, ma credo proprio che si
siano sbagliati».
«Lo spero», commentò Merlino.
«Ho l’auto dal meccanico e non la riavrò
prima di
giovedì».
«Ecco perché sei venuto in bicicletta,
ieri». Alex sorrise birichina e si fermò
al suo fianco, gli occhi posati su Steve e Gabriel, i bambini che
dormivano
profondamente nei loro lettini con le sbarre rialzate, le coperte
accuratamente
rimboccate fin sotto il mento.
«E io che pensavo volessi tenerti un po’ in
forma…».
Merlino sollevò gli occhi, improvvisamente venati di
tristezza.
Non smetteva mai di pensare ad Artù – il re del
passato e del futuro, il suo
migliore amico, il destino che aveva compiuto solo a metà
– ma c’erano momenti
in cui i ricordi lo travolgevano come un’onda anomala,
lasciando il suo cuore
ad annaspare in un mare di nostalgia e dolore.
Quella battuta era stata lo scossone che aveva agitato le acque di
solito
quiete nel suo animo, riportando a galla spezzoni della sua ormai
lontanissima
vita a Camelot.
Ciononostante ripeté le stesse parole che si era sentito
dire troppo tempo
prima, improvvisando persino un tono di voce vagamente offeso:
«Stai dicendo
che sono grasso?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una grassa
risata. «Tu, grasso? Sei
magro come un chiodo! Dovresti fare seriamente un po’ di
palestra, ecco cosa».
Merlino inarcò un sopracciglio, sogghignando. «Ti
sorprenderesti, se vedessi
che cosa c’è sotto questi vestiti».
Riuscì a farla boccheggiare, rossa d’imbarazzo
fino alla punta dei capelli, e
quando se ne accorse il mago ridacchiò e le
pizzicò più volte il fianco,
facendola scostare con una risata stretta tra le labbra e il viso
rivolto verso
il pavimento.
Quindi finì il caffè bevendolo tutto
d’un fiato e si stiracchiò sulla
poltroncina che aveva portato accanto al letto la sera prima. Solo in
quel
momento si rese conto del plaid arancione che aveva sulle gambe.
Era sempre la stessa coperta, e compariva solo quando Alex faceva il
turno di
notte e lo trovava addormentato in una delle tante stanze del reparto
di
oncologia infantile, con il suo libro di favole ancora tra le mani o
semplicemente rannicchiato con la testa abbandonata su una spalla.
La guardò di sottecchi e la ringraziò
mentalmente, conscio che l’avrebbe messa
ancora una volta in imbarazzo se l’avesse fatto ad alta voce.
Un tempo avrebbe
reagito allo stesso modo. Un tempo.
Piegò con cura la coperta e si alzò per gettare
il bicchierino di plastica
vuoto nel cestino e recuperare il libro di favole che aveva lasciato
sul
comodino.
«Merlino».
Il ragazzo si voltò verso Alex e gli bastò
un’occhiata per capire che avrebbe
fatto l’ennesimo tentativo e lui avrebbe dovuto rifiutare
ancora, facendo sì
che un’altra piccola crepa si aprisse sul suo cuore.
«Che ne diresti di una colazione vera e propria? Il
caffè della macchinetta è
pessimo».
Merlino annuì, dirigendosi verso la porta.
«Sì, lo è».
Era già nel corridoio ancora deserto ed immerso nella quiete
della mattina
presto, quando la voce di Alex lo costrinse a fermarsi sul posto.
«Non hai risposto alla mia domanda».
Merlino chiuse gli occhi e respirò profondamente. Quanto
avrebbe voluto dire di
sì, quanto avrebbe voluto poter stare con lei come entrambi
desideravano. Ma ci
aveva già provato e sapeva come sarebbe andata a finire: il
suo cuore sarebbe
andato in pezzi e ci sarebbe voluto troppo tempo, troppa fatica, troppe
lacrime, prima che riuscisse a rimetterlo insieme alla bell’e
meglio.
Si voltò di tre quarti, guardando distrattamente
l’orologio che aveva al polso.
«Credo di non riuscire a fare in tempo»,
esclamò, stiracchiando un mezzo
sorriso. «Ho proprio bisogno di una doccia e conosci la
signora Begum: durante
l’orario di lavoro non si fanno i propri comodi».
Alex si sforzò di sorridere a sua volta, ma i suoi occhi,
verdi come l’erba
nuova in primavera, erano incapaci di mentire, e Merlino li conosceva
troppo
bene ormai per non accorgersi della delusione che aveva tolto loro la
solita
luminosità.
«Sarà per la prossima volta, allora».
Merlino annuì con un breve cenno del capo e
sollevò una mano in segno di
saluto, poi si allontanò a passo svelto lungo il corridoio.
Inforcata la bicicletta, aveva pedalato a più non posso,
così forte da farsi
venire il fiato grosso, e nonostante non ne avesse il tempo aveva
deciso di
fare il giro largo per tornare a casa, quello che, seguendo la pista
ciclabile
senza tagliare in stradine secondarie, l’avrebbe portato a
passare davanti al
lago.
Il sole appena sorto oltre le colline tingeva il cielo di rosso, rosa
ed
arancione, e la nebbia che si sollevava sopra le acque tranquille di
Avalon era
così fitta da nascondere l’isola posta proprio al
centro di esso.
Merlino rimase per diversi minuti fermo sulla strada, ancora in sella
alla
propria bici e stretto nel giubbotto blu, ad osservare quel paesaggio
che
nonostante il passare dei secoli non era mai cambiato, intoccato.
Per quanto ne sapeva, era uno degli ultimi posti in cui la forza della
Religione Antica non era ancora svanita del tutto, uno degli ultimi
posti in
cui poteva sentirsi un tutt’uno con la terra, il cielo e
l’acqua e la magia
scorreva irrefrenabile dentro le sue vene, cercando uno sbocco
qualunque e
trovando solo resistenza.
Non era più lo stesso Merlino di una volta: i sensi di
colpa, la nostalgia, la
sofferenza e il tempo – in modo particolare il tempo
– l’avevano cambiato,
inevitabilmente; soprattutto, gli avevano tolto la speranza.
Lui che una volta riusciva a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e
che
lottava fino a che ne aveva le energie, senza arrendersi di fronte alle
difficoltà, ora non aveva niente per cui combattere, nulla
per cui essere
ottimista.
Si limitava ad occupare il tempo, aspettando un qualcosa che
probabilmente non
sarebbe mai accaduto, nonostante il grande drago Kilgharrah avesse
predetto il
contrario. Ma come poteva fidarsi ancora delle sue parole, dopo aver
realizzato
che tutto ciò che aveva fatto per aiutare Artù a
costruire Albione era stato
vano, dato che il suo re se n’era andato senza avere il tempo
di godere dei
frutti dei loro sforzi?
Il rumoroso passaggio di un camion alle sue spalle lo riscosse dai
propri
pensieri.
Tirò fuori le mani dalle tasche del piumino e rendendosi
amaramente conto che
certe cose, invece, sarebbero sempre state delle costanti nella sua
vita
immortale – come per esempio il suo arrivare continuamente in
ritardo e le
lavate di capo che per questo riceveva dai propri superiori –
riprese a
pedalare.
***
Alex
lanciò con ben poca delicatezza la borsa sul
divano e si sciolse la coda di cavallo.
Si sentiva una stupida, una perfetta idiota, e quello che le faceva
più rabbia
era che non poteva comportarsi diversamente quando c’era
Merlino nei paraggi:
era più forte di lei.
Frustrata più che mai, salutò a malapena
Artù, il piccolo gattino randagio che
aveva trovato una mattina, di ritorno dall’ospedale, e che
non aveva più avuto
la forza di lasciare.
Quel piccolo batuffolo di pelo nero su cui risaltavano due magnetici
occhi
azzurri aveva ben poco in comune col valoroso re di Camelot, ma quando
aveva
dovuto decidere come chiamarlo le era sembrato inopportuno dargli lo
stesso
nome del ragazzo di cui non aveva proprio potuto fare a meno di
innamorarsi.
Sarebbe stato quantomeno imbarazzante se un giorno – anche se
non riusciva
nemmeno ad immaginare un motivo per cui sarebbe mai potuto accadere
– avesse
dovuto presentarglielo: «Merlino, questo è
Merlino. L’ho chiamato come te
perché i suoi occhi mi ricordano terribilmente i
tuoi».
L’unico altro nome che le era venuto in mente era stato per
forza di cose Artù,
il protagonista delle favole che Merlino non si stancava mai di
raccontare ai
bambini dell’ospedale, così ricche di dettagli,
colpi di scena mozzafiato e
passione da far pensare che avesse vissuto quelle avventure in prima
persona.
Seguendo la borsa, si gettò a peso morto sopra il piccolo
divano in salotto e
sbuffò rassegnata: non avrebbe mai trovato il coraggio di
dire a Merlino ciò
che provava ogni volta che lo vedeva o gli stava vicino e tantomeno
l’avrebbe
trovato per dirgli che se lui non ricambiava i suoi sentimenti avrebbe
fatto
meglio a metterlo in chiaro fin da subito. Probabilmente Alex non
sarebbe più
riuscita ad essergli amica se le avesse spezzato il cuore in quel modo,
perciò
era contenta, più o meno, che Merlino trovasse sempre
qualche scusa per non
trovarsi da solo con lei fuori dall’ospedale – in
quello che le sarebbe
sembrato un appuntamento, illudendola – anziché
schiaffarle in faccia che non
era interessato.
Merlino non si sarebbe mai comportato così. A volte aveva la
netta impressione
di conoscerlo come le sue tasche, altre che venisse da un altro mondo e
che
nascondesse mille e più segreti dietro quei suoi limpidi
occhi azzurri e i suoi
mezzi sorrisi spesso e volentieri intrisi di tristezza.
Quello di cui era convinta, era che Merlino avesse l’animo di
un cavaliere e
che mai, mai l’avrebbe fatta soffrire intenzionalmente. Per
questo forse era
arrivato il momento di comportarsi da adulta e di smetterla di
illudersi, sognando
notte e giorno quell’amore evidentemente unilaterale. Doveva
sforzarsi di
reprimere qualsiasi sentimento provasse per Merlino, per il bene della
loro
amicizia e soprattutto del suo cuore.
Artù si accoccolò sul suo addome e Alex sorrise
teneramente, accarezzandogli il
soffice pelo nero e tirandogli le piccole orecchie.
«Troverò anch’io il mio cavaliere un
giorno, vero Artù?».
Il micio iniziò a fare le fusa e prima che se ne rendesse
conto Alex si
addormentò.
Solo la sveglia che fortunatamente si era dimenticata di disattivare il
pomeriggio precedente fu in grado di destarla dai propri sogni.
Raccattò la borsa che vibrava sotto i suoi piedi e una volta
trovato il
cellulare la spense, massaggiandosi poi il viso gonfio di stanchezza.
Si sentiva distrutta, ogni osso ed ogni muscolo le dolevano, tanto che
pensò
che sarebbe stato meglio se non avesse dormito affatto.
Con uno sforzo sovraumano si alzò e si trascinò
in bagno, dove si sciacquò la
faccia e si rese conto di essere più che assetata. Si
attaccò direttamente al
rubinetto e fu un vero piacere sentire l’acqua gelata
scorrere nella sua gola
arida. Quando ne ebbe abbastanza, si guardò allo specchio e
si sistemò sulla
fronte la frangetta un po’ bagnata.
Controllò l’ora ancora una volta e capì
che solo una cosa le avrebbe ridato
l’energia giusta per affrontare l’ennesima nottata
in ospedale: correre.
Faceva freddo, dannatamente freddo, ma Alex non poteva davvero farne a
meno.
Adorava sentire il cuore batterle più forte nel petto, col
sangue che le riscaldava
i muscoli e le arrossava le guance; adorava correre immersa nel verde,
vedere
il paesaggio non cambiare mai e cambiare in continuazione, riempirsi i
polmoni
del profumo della natura, anche gelata com’era ai primi di
marzo, svuotare la
mente da qualsiasi preoccupazione ed ascoltare le sue canzoni preferite
con le
cuffiette calcate nelle orecchie, sotto il cappellino di lana.
Il loro era un piccolo paesino, in confronto la vicina Caerleon
sembrava una
metropoli ben più interessante, perciò non si
sorprese di non incrociare anima
viva dopo le cinque del pomeriggio, orario di chiusura dei piccoli
negozi del
centro. Ma se anche ci fosse stato in giro qualcuno di sicuro non le
avrebbe
fatto compagnia: era lei l’unica matta in grado di fare
jogging a qualsiasi
ora, giorno e stagione dell’anno.
Era quasi a tre quarti del suo percorso abituale, nelle vicinanze del
lago –
avvolto dalla nebbia e tetro più che mai, – quando
si rese conto del vento che
alzandosi aveva portato con sé delle minacciose nuvole
scure, probabilmente
cariche di pioggia. Doveva affrettarsi, prima di ritrovarsi a dover
correre per
non prendersi una bella lavata anziché per il piacere di
farlo. Anzi, forse
avrebbe fatto meglio a prendere l’autobus per tornare a casa,
giusto per non
rischiare. Decise che quella era la soluzione migliore e che, se non
ricordava
male, aveva ancora dieci minuti buoni prima che il mezzo raggiungesse
la
fermata una ventina di metri più avanti.
Si appoggiò al muretto in pietra che delimitava il giardino
di una villetta a
due piani e respirando profondamente fece un po’ di
stretching, piegando le
gambe al petto, stirando i polpacci e roteando le spalle.
All’improvviso un fulmine dalla potenza dirompente, in grado
di illuminare a
giorno l’intera superficie del lago e di far tremare la
terra, la fece
trasalire.
Si strappò le cuffie dalle orecchie e dimentica dello
stretching si appoggiò al
muretto, una mano stretta sul cuore che le batteva furiosamente nel
petto.
Aveva i brividi, brividi che non c’entravano nulla col
freddo, ma piuttosto con
lo spavento che si era presa.
Provò a calmarsi, dicendosi che nonostante fosse caduto
davvero vicino a lei –
forse proprio sull’isola al centro del lago – era
ancora tutta intera e non
c’era davvero nulla di cui aver paura. Ci provò,
ancora e ancora, invano.
Avvertiva una sgradevolissima sensazione alla bocca dello stomaco, come
se il
peggio dovesse ancora venire, ed infatti una manciata di secondi dopo
l’acqua
scura e fredda sotto lo spesso strato di nebbia iniziò a
ribollire, in un modo
tutt’altro che naturale, come dopotutto lo era stato quel
terribile fulmine.
In quel momento avrebbe tanto voluto fuggire, correre via sotto la
debole
pioggerellina che aveva iniziato a cadere, ma le sue gambe sembravano
come
paralizzate, i suoi piedi ben radicati al suolo.
Ad un tratto, proprio nel bel mezzo di quel furioso ribollire, emerse
una
figura annaspante e senza fiato, con i capelli biondi incollati al viso
e puro
e semplice terrore negli occhi blu.
Per quanto fosse incredula e spaventata, non dovette nemmeno pensarci
prima di
lasciar cadere il lettore mp3 sull’erba e correre verso il
lago, spogliandosi
del giubbotto e del cappellino e lasciando che la pioggia, ora
più forte e
scrosciante, la bagnasse da capo a piedi.
Si tuffò nell’acqua gelata e nuotò
più in fretta che poté verso il ragazzo che
non faceva altro che agitarsi, guardandosi intorno e respirando
affannosamente.
Probabilmente stava avendo un attacco di panico.
«Sto arrivando! Calmati!», urlò per
farsi sentire sopra il rumore del
temporale.
Il ragazzo biondo si voltò verso di lei e Alex
rischiò quasi di annegare,
stordita dalla bellezza di quegli occhi blu come il mare. Si costrinse
a fare
ancora qualche bracciata, sentendo i muscoli intirizzirsi ora che
l’adrenalina
stava abbandonando il suo corpo. Sapeva di non potersi fermare, o
sarebbero
arrivati i crampi e sarebbe stato davvero il colmo se quel ragazzo
fosse stato
costretto a doverla salvare, quando lei si era gettata apposta per
salvare lui.
«Sai nuotare, vero? Ti prego, dimmi di
sì!».
Il ragazzo annuì con un cenno del capo e Alex
sospirò di sollievo,
allungandogli una mano. Il biondo la fissò per qualche
secondo, intimorito o
forse solo in stato confusionale, fino a quando Alex non
gridò ancora, gettando
un’occhiata preoccupata verso il cielo, terrorizzata dalla
possibilità che un
fulmine colpisse l’acqua: «Non è la
giornata migliore per una nuotata, magari
il prossimo week-end!».
Quelle parole, o forse il tono scherzoso con cui aveva cercato di
pronunciarle,
riuscirono a far breccia nell’animo del ragazzo, il quale
decise di fidarsi ed
afferrò la sua mano, iniziando a nuotare insieme a lei verso
la riva.
Erano all’incirca a metà strada dal loro agognato
traguardo, quando Alex sentì
avverarsi il suo peggior incubo: i crampi. La corsa e quella folle
nuotata
avevano sfiancato i muscoli dei suoi polpacci, che ora le dolevano
facendole
vedere letteralmente le stelle.
Si voltò sulla schiena, provando a respirare profondamente
per stare a galla e
a nuotare solo con le braccia, ma la stanchezza era troppa. Per un
attimo finì
sott’acqua, gli occhi increduli ancora aperti. Fu solo un
attimo però, perché
il ragazzo la recuperò e stringendosela al petto con un
braccio riuscì a
raggiungere la riva.
Entrambi senza fiato e allo stremo delle forze rimasero sdraiati
nell’acqua
bassa, tra le canne e la ghiaia che pungolava loro la pelle ricoperta
di
brividi, fino a quando Alex non sentì i denti batterle
così forte nella bocca
da farla tornare alla realtà. Guardò il ragazzo
che avrebbe dovuto salvare e
che invece aveva salvato lei e solo in quel momento si rese conto del
suo
stranissimo abbigliamento: sembrava una specie di uniforme da
cavaliere, molto
realistica, con tanto di armatura, maglia di ferro e un lungo mantello
rosso,
ma era logorata dal tempo e chiazzata qua e là di verde,
come se vi fossero
cresciute sopra delle alghe.
Mille e più domande le affollarono la mente, ma le
scacciò via tutte quante,
rimandandole a più tardi, quando si accorse che anche lui
stava andando in
ipotermia.
Lo sforzo che aveva fatto quando poche ore prima si era alzata dal
divano dopo
il pisolino le era sembrato “sovraumano”, ma allora
non aveva la minima idea di
quanto potesse essere spossante tuffarsi in un lago gelato per cercare
di
tirarci fuori qualcuno.
Con immensa fatica si alzò a quattro zampe e poi in piedi,
nonostante il
cerchio alla testa e i crampi. Il ragazzo sollevò le
palpebre sentendola
muoversi e la guardò quasi incredulo, con le labbra blu che
tremavano, prima di
perdere del tutto conoscenza.
Alex raggiunse il giubbotto che aveva lasciato cadere qualche metro
più in là,
vicino al ciglio della strada, e cercò freneticamente il
cellulare.
Avrebbe dovuto chiamare un’ambulanza, sarebbe stata la cosa
migliore da fare
viste le loro condizioni, ma gettando un’occhiata a quel
ragazzo emerso
all’improvviso dal lago, con indosso quegli strani indumenti,
decise di non
farlo. Selezionò invece il primo numero memorizzato nella
sua rubrica,
nonostante non l’avesse mai chiamato negli ultimi sei anni.
Ma quella era una
vera e propria emergenza, e aveva bisogno del suo aiuto.
|
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Capitolo 2 *** 2. The sins of the father ***
Buongiorno!
:)
Volevo rapidamente ringraziare chi ha letto il primo capitolo e
stritolare in
un abbraccio virtuale chi ha messo questa storia tra le ricordate, le
seguite e
le preferite. Troppo buoni, veramente!
E poi volevo spiegare una cosuccia che l’altra volta mi sono
dimenticata di
dirvi… Forse qualcuno l’avrà
già notato, ma per chi se lo fosse perso voglio
precisare che i titoli dei capitoli saranno più o meno
ispirati ai titoli degli
episodi della serie TV, non in ordine cronologico ovviamente e adattati
in base
agli argomenti trattati nei vari capitoli.
Credo sia tutto! Vi auguro buona lettura e mi raccomando, aspetto i
vostri
pareri! ;)
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________
2. The sins of
the father
Il
suo corpo tremò violentemente, come se fosse appena
stato attraversato da una potente scossa elettrica, e la vista gli si
oscurò
del tutto prima di mostrargli chiaramente il lago di Avalon, la pioggia
battente che si schiantava sulla sua superficie increspata e da cui
saliva una
nebbia quasi impenetrabile, e la figura che vi si agitava, muovendo
freneticamente le braccia alla ricerca di un appiglio qualunque.
Avrebbe riconosciuto
quella figura in qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca: Artù.
«Merlino!», urlò una voce iraconda ad un
soffio dal suo orecchio, riuscendo a
riportarlo al presente.
Il ragazzo abbassò gli occhi e si rese conto che a causa di
quella visione
aveva combinato un vero e proprio disastro: tutti i piatti, le tazze e
i
bicchieri che poco prima aveva raccolto su un vassoio ora erano
frantumati a
terra – non si era salvato nulla. Ci sarebbe voluta
un’eternità per pulire, ma
in quel momento non aveva nemmeno un secondo a disposizione.
«Mi dispiace, giuro che ripagherò
tutto», esclamò, togliendosi frettolosamente
il grembiule e lasciandolo tra le mani della padrona della caffetteria,
pasciuta ed irascibile esattamente come la cuoca reale di Camelot.
La donna lo fissò sbigottita per un paio di secondi,
abbastanza perché Merlino
saltasse i cocci di ceramica e i pezzi di vetro sparsi a terra e
corresse verso
la porta.
Quando la rabbia le fece ritrovare la voglia di gridare improperi
contro quel
ragazzo combina guai che aveva avuto la sfortuna di assumere, Merlino
stava già
pedalando a più non posso sotto la pioggia fredda.
Saltò giù dalla bicicletta e, stremato ed
infreddolito, con le tempie che gli
pulsavano dolorosamente, corse verso la sponda del lago.
Era quella la prospettiva che aveva avuto nella sua visione, eppure non
c’era
niente oltre la pioggia e la nebbia. Che con il tempo avesse
dimenticato come
distinguere le visioni del presente da quelle del futuro?
Col cuore che batteva a mille per la corsa in bici e il nervosismo, si
scostò i
capelli bagnati dalla fronte, camminando avanti e indietro nel vano
tentativo
di capire cosa stesse succedendo.
Aveva visto Artù emergere dalle acque di Avalon, risorgere
come era stato
predetto da Kilgharrah, e sentiva che era davvero accaduto, ne era
certo
com’era certo di aver vissuto mille e passa anni in attesa
del suo ritorno,
avvertendo uno straziante vuoto all’interno della propria
anima, quello che
solo la sua presenza era in grado di riempire e che ora pulsava in modo
doloroso,
ma vivo. Ciononostante, di lui non c’era
traccia.
Merlino provò ad immaginare diversi scenari in cui
Artù riusciva ad uscire
dall’acqua e si allontanava dal lago, magari alla ricerca di
un posto asciutto
in cui ripararsi e chiedere aiuto. In ogni caso, non sarebbe stato
difficile
trovarlo: non sapeva come fosse uscito dalle acque di Avalon, ma un
giovane
uomo rimasto agli usi e costumi del Medioevo avrebbe attirato
l’attenzione di
chiunque.
Deciso a fare il giro dell’isolato, nella speranza che non si
fosse allontanato
troppo e che soprattutto non si fosse cacciato in qualche guaio,
tornò dalla
bici che aveva malamente abbandonato sul ciglio della strada.
Non fece in tempo a mettere entrambi i piedi sui pedali però
che un oggetto,
lasciato sull’erba tagliata di recente accanto ad un muretto
in pietra, attirò
la sua attenzione. Solo avvicinandosi riuscì a capire di che
cosa si trattava:
un mp3 di un bel rosso vivo e con l’adesivo di una
ranocchietta incollato sul
retro. Lo riconobbe subito. Se lo infilò nella tasca del
giubbotto e senza
pensarci su due volte tornò da dov’era venuto,
pedalando con una nuova energia
che gli scorreva nelle vene.
***
Sentiva
gli occhi di suo padre bruciarle addosso, ancora.
Lo avevano fatto quando aveva fermato l’auto sul ciglio della
strada ed era
corso ad aiutarla per tirare fuori dall’acqua del lago il
misterioso ragazzo;
quando Alex si era seduta sui sedili posteriori per tenere la testa
dello
sconosciuto sulle proprie gambe e controllargli costantemente il polso;
quando
insieme l’avevano trasportato dentro casa ed entrambi, pur
non volendolo,
avevano esclamato che tutta la ferraglia che aveva addosso era davvero
pesante,
oltre che ingombrante.
Ora, inginocchiata sul letto e china sul corpo privo di conoscenza del
ragazzo,
sapeva che suo padre la stava osservando con quei suoi occhi tristi ed
apprensivi. Se solo avesse saputo quanto l’avrebbe messa a
disagio vederlo in
quello stato avrebbe davvero chiamato l’ambulanza: al diavolo
quell’assurda
situazione in cui si era trovata coinvolta, quell’assurda
armatura e anche quel
ragazzo! Non era affar suo, dopotutto, e non era lei che doveva
preoccuparsi,
bensì…
«Merlino».
Alex strabuzzò gli occhi, osservando le labbra appena
dischiuse del ragazzo.
Non poteva essere stato lui, non nelle sue condizioni. E se anche fosse
stato
lui non avrebbe potuto invocare il suo Merlino.
Oddio, era sicura che
pochissimi genitori sani di mente avrebbero dato il nome di un mago
leggendario
al proprio bambino, ma era impossibile che il Merlino che conosceva lei
conoscesse il ragazzo emerso dal lago. Come avrebbe potuto?
«Dovremmo…», provò a dire suo
padre, a bassa voce, ma Alex lo interruppe
immediatamente, brusca: «Sono una dannata infermiera, so che
cosa devo fare!».
Doveva togliergli i vestiti bagnati e tenerlo al caldo, ma con gli
occhi di suo
padre addosso non riusciva a concentrarsi: le tremavano le mani e le si
appannava la vista. O forse suo padre non c’entrava niente ed
era solo la
stanchezza che la stava per sopraffare.
Stava per dirgli di andarle a prendere delle coperte,
cosicché si allontanasse
e lei potesse pensare ad una cosa per volta, quando qualcuno
iniziò a giocare
con il pulsante del suo campanello, facendolo suonare così a
lungo e in modo
così insistente che Alex temette per un momento che la sua
testa sarebbe
esplosa.
«Chi diavolo è a quest’ora?»,
chiese, respirando nervosamente a causa di quella
maledetta armatura che non aveva alcuna intenzione di slacciarsi dalla
spalla
del ragazzo.
Suo padre andò alla porta e con un orecchio teso Alex
giurò di sentire la voce
di Merlino al piano di sotto. Si voltò di scatto verso le
scale e vide proprio
lui, bagnato come un pulcino e col fiato grosso, gli occhi sgranati che
si
posarono sul ragazzo steso sul letto e non lo abbandonarono
più.
Alex strabuzzò gli occhi e cercò quelli di suo
padre, il quale si morse
l’interno della guancia e, mortificato, chiese:
«Non dovevo aprirgli?».
La ragazza lo ignorò per concentrarsi su Merlino.
Aprì la bocca per chiedergli
perché fosse lì, se conoscesse quel misterioso
ragazzo che – ora era evidente –
aveva chiamato proprio il suo nome, e mille altre cose che le
frullavano nella
testa da quando quel maledetto fulmine si era schiantato
sull’isola al centro
del lago, ma non un suono uscì dalla sua gola.
Merlino infatti le passò accanto, senza prenderla
minimamente in
considerazione, per cadere in ginocchio al capezzale del ragazzo, con
le mani
che gli scostavano i capelli bagnati dal viso e la fronte quasi contro
la sua,
e mormorare frasi che lei non riuscì ad afferrare, tanto era
lo shock e il
freddo che ora sentiva fin dentro le ossa. Una sola parola le giunse
chiara e
nitida alle orecchie, un nome: Artù.
***
Merlino
non poteva crederci. Artù era davvero risorto,
ed era a casa di Alex.
L’aveva a malapena guardata, preoccupato com’era
per la salute del suo re, e
non era stato affatto gentile con lei, facendo irruzione in casa sua
senza
darle alcun tipo di spiegazione ed aggredendola come aveva fatto quando
si era
reso conto delle condizioni in cui riversava Artù, tremante
e con addosso i
vestiti ancora fradici, ordinandole di portargli degli asciugamani e
delle
coperte anziché starsene lì ferma impalata.
Sotto i suoi occhi sempre più increduli aveva spogliato il
re di Camelot,
ricordando ancora perfettamente, come se non avesse fatto altro per
più di mille
anni d’attesa, dove mettere le mani per sfilargli
l’armatura.
Ora che Artù era più che sufficientemente al
caldo, anche se nudo sotto le
coperte perché nessuno aveva pensato a procurargli dei
vestiti di ricambio,
Merlino, ancora seduto al suo capezzale, ripensava a tutto questo e si
sentiva
più che in colpa per come si era comportato con Alex,
specialmente da quando
aveva realizzato che era stata lei a tirare fuori Artù dalle
acque di Avalon.
Non riusciva nemmeno ad immaginare che cosa sarebbe successo se lei non
si
fosse trovata nel posto giusto al momento giusto: il minimo che si
meritava
erano delle scuse e dei ringraziamenti.
Si alzò dalla sedia che aveva portato accanto al letto,
sentendo le membra
irrigidite per il freddo che dopotutto aveva preso anche lui, pedalando
sotto
la pioggia fino al lago e poi fino a casa di Alex. Esitò
ancora un attimo,
accarezzando con gli occhi il viso di Artù, poi si diresse
verso la porta.
«Merlino…».
Il mago si pietrificò sul posto, con una mano stretta
intorno alla maniglia.
Quella voce… Pensava che non l’avrebbe mai
più sentita e che un giorno ne
avrebbe dimenticato anche il ricordo.
Si girò lentamente, sentendo le lacrime affluire agli occhi,
dietro i quali si
celava più tempo di quello che si sarebbe mai potuto
immaginare, e vedendo
quelli di Artù semiaperti, fissi su di lui, il suo cuore
perse un battito.
«Merlino, che cos’è successo? Dove mi
trovo?», domandò con voce impastata,
ancora debole, sforzandosi di tirarsi su.
Lo stregone lo raggiunse con due rapide falcate e gli posò
delicatamente le
mani sulle spalle, costringendolo a tornare sdraiato.
«Dovete riposare, Sire. Domani mattina vi
spiegherò tutto ciò che mi sarà
possibile, ve lo prometto».
Artù lo guardò negli occhi intensamente e alla
fine cedette alla stanchezza,
abbandonando di nuovo il capo tra i cuscini.
«Non allontanarti», biascicò,
già in dormiveglia.
Merlino accennò un sorriso mentre una lacrima di gioia gli
rigava la guancia,
quindi gli rimboccò le coperte fin sotto al mento.
«Lo sapete che senza di me
non durereste un giorno».
Inaspettatamente, anche Artù sorrise, e Merlino
provò l’ennesima fitta al cuore
gonfio di felicità.
Rimase in silenzio per un po’, aspettando che il re si
addormentasse
profondamente, poi spense la luce dell’abat-jour sul comodino.
«Bentornato, Sire», sussurrò ancora,
prima di chiudersi delicatamente la porta
alle spalle.
***
Alex
osservò la tazza di camomilla che suo padre le aveva
preparato e si
passò stancamente le mani sul viso, gettando
un’occhiata all’orologio appeso al
muro.
Dopo essersi tolta i vestiti fradici per indossarne altri puliti ed
essersi
asciugata alla bell’e meglio i capelli si era seduta al
tavolo della piccola
cucina, a gambe incrociate sulla sedia ed avvolta in una pesante
coperta di
lana. Quindi aveva chiamato una sua collega dell’ospedale,
spiegandole che
aveva avuto un imprevisto e aveva bisogno che le coprisse il turno,
promettendole che le avrebbe restituito il favore appena possibile.
Suo padre, seduto accanto a lei, era rimasto in silenzio per tutto il
tempo,
fino a quando non aveva trovato il coraggio di chiederle:
«Perché l’hai portato
qui? Non lo conosci nemmeno».
Alex aveva sollevato appena gli occhi, girando il dito sul bordo in
ceramica
della tazza. Aveva scrollato le spalle, rispondendo con
sincerità: «Pensavo
fosse la cosa giusta da fare».
«E l’altro ragazzo, Merlino…
è un tuo amico?».
Alex aveva incurvato ironicamente un angolo della bocca. «Non
ci vediamo da sei
anni e il tuo primo pensiero è che tipo di ragazzi mi porto
a casa?».
«Sei pur sempre la mia bambina, ho il dovere
di…».
«Proteggermi?», aveva concluso per lui la frase,
ridacchiando apertamente.
«Detto da te, è il colmo».
L’uomo aveva chinato il capo, fissandosi le mani unite sul
tavolo. «Non avrei
mai voluto farti soffrire. Né te né tua madre lo
meritavate».
«Già. Dovevi pensarci prima, temo».
Suo padre aveva sospirato, sistemandosi gli occhiali sul naso, e senza
troppi
convenevoli si era alzato e si era diretto verso la porta. Alex sapeva
di non
essere come lui, perciò l’aveva raggiunto,
tenendosi la coperta sulle spalle
come un mantello, e lo aveva trattenuto.
«Mi hai davvero delusa, papà. Non so se
riuscirò mai a… Ma un grazie per ciò
che hai fatto oggi te lo devo».
Suo padre aveva accennato un sorriso e aveva allungato una mano per
accarezzarle i capelli biondi ancora un po’ umidi, per poi
ritrarla all’ultimo
momento, con gli occhi di nuovo cupi di dolore.
«Non mi devi niente», aveva sussurrato, andandosene
senza più guardarsi
indietro.
Da quel momento, Alex non era riuscita a pensare ad altro, stretta
nella sua
coperta e con quella tazza di camomilla che non aveva ancora toccato
tra le
mani. E avrebbe dovuto pensare a Merlino, a come appena qualche ora
prima aveva
pensato che mai e poi mai ci sarebbe stato un motivo abbastanza valido
che lo
avrebbe spinto ad entrare in casa sua ed ora sapeva che
c’era, ed era un
ragazzo che da quello che aveva capito si chiamava Artù ed
era emerso dal lago
del loro tranquillo paesino con indosso l’armatura di un
cavaliere medievale.
Questo avrebbe dovuto interessarla più di ogni altra cosa,
ma forse era tutto
troppo assurdo perché la sua mente si arrendesse
all’evidenza e la smettesse di
credere che prima o poi si sarebbe svegliata sul suo divano e quello
strano
sogno sarebbe finito.
Sentì un lieve rumore di passi e si voltò sulla
sedia, scorgendo Merlino
emergere dalla scalinata buia. Sembrava imbarazzato e un po’
dispiaciuto, ma le
regalò comunque un sorriso carico di tenerezza, prendendo
posto al suo fianco.
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel
silenzio che l’avrebbe fatta
diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi
di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi
luminosi, anche se velati di
lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con
quell’interrogatorio o se
fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle
di lui. Dopotutto
l’aveva soccorso – se non salvato – e
l’aveva ospitato a casa sua: qualche
informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio
quella che Merlino
le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e
stringendola forte tra le
sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Alex non riuscì ad articolare una risposta di senso
compiuto, mentre sentiva le
guance arrossarsi come sarebbe successo ad una dodicenne alla prima
cotta. Si
limitò ad annuire con un cenno del capo.
«Sei stata coraggiosa, Alex, più di quanto avresti
dovuto. Se ti fosse successo
qualcosa…».
«Ho fatto ciò che ritenevo giusto»,
disse bruscamente, interrompendolo.
Merlino le rivolse un altro di quei suoi caldi sorrisi e si
alzò, invitandola a
fare lo stesso tenendo le dita delle loro mani ancora intrecciate.
«Mi dispiace per come ti ho trattata, prima. Sono stato un
vero maleducato».
«Eri preoccupato, non c’è nulla di cui
essere dispiaciuti».
«Come ti senti?».
«Ahm…». Alex deviò il suo
sguardo, sentendo il cuore batterle forte in gola, e
pensò che se si fosse avvicinato ancora un po’
sarebbe crollata tra le sue
braccia, provata dagli sforzi fisici ed emotivi che aveva patito quel
giorno.
In ogni caso, sapeva che Merlino non l’avrebbe lasciata
cadere.
«Bene, sto bene».
«No, invece. Dovresti riposare anche tu, sei
distrutta».
«Sì, ma… Artù si
è preso il mio letto».
Merlino ridacchiò, alzando gli occhi al cielo.
«Sì, è una cosa che fa ogni
tanto. Scusalo».
Alex gettò un’occhiata alle sue spalle e Merlino
la imitò, guardando il divano
arancione addossato contro la parete.
«È un divano-letto».
«Non credo che dormirò», rispose il
ragazzo con una scrollata di spalle,
scostandosi per esaminare il divano e capire come aprirlo.
Alex avrebbe voluto dirgli che con quell’affermazione non
aveva voluto
sottintendere nulla – non era di certo sua intenzione
invitarlo a dormire con
lei! – ma lasciò perdere ogni tentativo: aveva
già raccolto la sua bella dose
di figuracce per quel giorno.
Lo aiutò ad aprire il divano-letto e gli augurò
la buonanotte, dicendogli che
nel caso avesse voluto cenare poteva servirsi da solo, come se fosse
stato a
casa sua.
«Il cibo è proprio il mio ultimo
pensiero», le rispose. «Buonanotte, Alex. E
grazie».
«Ma figurati», mugugnò, abbracciando il
cuscino sotto la testa. «Artù e
Merlino, eh? Come nelle tue favole…».
«È solo una coincidenza».
«Certo che lo è. Che cos’altro potrebbe
mai essere?».
Alex ridacchiò e l’ultima cosa che vide prima di
abbassare le palpebre pesanti
e cadere in un sonno profondo e senza sogni fu Merlino rivolgerle un
piccolo
sorriso e poi voltarsi per tornare da Artù.
|
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Capitolo 3 *** 3. The once and future king ***
Ciao
a tutti!
Allora, questo è il terzo capitolo ed entriamo un
po’ più nel vivo della storia. Come se la
caverà Artù nel mondo moderno?
Beh, come si suol dire… Non vi resta che leggere! :D
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo, spero che anche
questo vi piaccia!
Un abbraccio.
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________
3.
The once and future king
Un
fruscio aveva attirato la sua attenzione, svegliandolo dal torpore in
cui era piombato di continuo, durante la notte, ogni volta che provava
ad alzarsi per rendersi conto di quello che stava accadendo intorno a
lui. Aveva infatti la sensazione di essere nel posto sbagliato al
momento sbagliato e voleva capire perché.
Girò il viso verso la sua sinistra e vide la ragazza che lo
aveva soccorso china su un mobile di legno chiaro, che frugava in uno
dei cassetti.
Era vestita in un modo che a lui risultava strano, in quanto i
pantaloni, così particolarmente aderenti poi, e le camicie
non erano indumenti consoni ad una ragazza. I capelli biondi e mossi
erano legati in una coda alta sulla testa, arrotolati in un morbido
chignon, e sul naso portava un paio di grandi occhiali da vista dalla
montatura nera.
Artù si schiarì la gola e la ragazza si
voltò di scatto, regalandogli un sorriso dolce e al contempo
sbarazzino. Dedusse che non poteva avere più di
trent’anni, anche se i tratti del suo viso e i suoi occhi
luminosi la facevano sembrare molto più giovane.
«Ehi», esclamò tenendo un tono di voce
basso, sedendosi sul letto accanto a lui. «Scusami, non
volevo svegliarti. Come ti senti?».
«Bene, credo».
Si puntellò sui gomiti e guardandosi intorno per la prima
volta capì di essere nella camera della ragazza. Il fatto
che l’avesse costretta a rinunciare al suo letto era
l’ultimo punto di una lunga lista di motivi per cui avrebbe
dovuto ringraziarla. Quella ragazza infatti, pur non conoscendolo, si
era tuffata nell’acqua gelata del lago per aiutarlo,
l’aveva portato a casa sua e si era presa cura di lui.
Accodandosi a quei pensieri, le parole sgorgarono dalle sue labbra
senza che potesse fermarle: «Non so nemmeno il tuo
nome».
«Già, ieri non abbiamo proprio avuto tempo per i
convenevoli, eh?». Gli porse una mano, sorridendo:
«Alexandra Greenwood».
Artù gliela strinse delicatamente e la fissò per
il tempo necessario ad intuire che una mano morbida e curata come la
sua non era abituata ai lavori manuali e che, quindi, Alexandra doveva
avere per forza sangue nobile nelle vene. Se la portò alle
labbra, chinando un poco la testa.
«Il mio nome è Artù Pendragon, re di
Camelot, e vi sarò eternamente debitore per tutto quello che
avete fatto per me, Lady Alexandra».
Alex, con gli occhi sbarrati per l’incredulità, ci
impiegò qualche secondo per ritrovare la propria espressione
gioviale ed affabile. Ridacchiò e si alzò in
piedi per sollevarsi i lembi della camicetta e rivolgergli un mezzo
inchino: «My lord,
offrirmi un bel boccale di birra basterà a
sdebitarvi».
Artù corrugò la fronte, preso in contropiede e
vagamente insospettito dal tono scherzoso con cui si era rivolta a lui.
Avrebbe sicuramente chiesto spiegazioni se Lady Alexandra non si fosse
nuovamente girata verso il cassettone, riprendendo la propria ricerca
da dove l’aveva interrotta.
Solo in quel momento, udendo gli uccellini cinguettare fuori dalla
finestra, si rese conto del silenzio che regnava nella casa della
ragazza. Sbuffò, sentendosi tanto infastidito quanto
allarmato, e le chiese: «Sai dov’è
Merlino?».
«È andato a recuperarti dei vestiti puliti,
dovrebbe tornare a momenti».
«E vi ha lasciata qui da sola, con un perfetto
sconosciuto?».
La ragazza lanciò un urletto di trionfo ed agitò
tra le mani uno strano oggetto che brillò alla luce del
sole, tanto che Artù credette per un attimo che si trattasse
di un pugnale, rimpiangendo di non avere il proprio a portata di mano
per difendersi. Guardandolo meglio, capì che aveva ben poco
in comune con qualsiasi arma che lui avesse mai visto, ma questo non lo
tranquillizzò, anzi, lo mise in allerta.
Lady Alexandra posò gli occhi verdi luminosi su di lui,
portandosi le mani sui fianchi. «Smettila di essere
così formale e dammi del tu, per favore. Puoi anche
chiamarmi semplicemente Alex, lo fanno tutti. Comunque conosco Merlino
e mi fido di lui: non mi avrebbe mai lasciata da sola con uno
sconosciuto qualunque».
«Che cosa intendete dire, con questo?», le chiese,
accigliato e, al contrario di lei, per nulla abituato a dare del tu a
qualcuno che aveva appena conosciuto.
«Intendo dire che non ho mai visto Merlino così
preoccupato. Tiene davvero molto a te, è palese,
perciò non puoi che essere un suo carissimo amico, uno senza
il quale non riuscirebbe a stare nemmeno per un giorno».
A disagio a causa del terreno su cui quella conversazione li aveva
portati, Artù rimase in silenzio e spaziò ancora
con lo sguardo, soffermandosi sui particolari oggetti che ornavano le
pareti e i mobili della stanza: una collezione di piccole sfere di
cristallo in cui erano stati riprodotti paesaggi imbiancati dalla neve;
stranissime boccette con dentro liquidi densi e dai colori
più sgargianti, altre di ogni forma e dimensione che
sembravano contenere acqua; un insignificante dipinto, completamente
nero, sorretto da un cavalletto così sottile da sfidare le
leggi della fisica; degli animali impagliati, tra cui un cagnolino
davvero minuscolo e un altrettanto piccolo cucciolo d’orso,
che da sopra l’armadio lo fissavano immob–
«Ah!», urlò all’improvviso,
facendo spaventare la ragazza che aveva iniziato a pettinarsi i capelli
di fronte allo specchio.
«Che c’è?», chiese, gli occhi
leggermente sgranati.
«C’è qualcosa che si muove
lassù! Lo vedete?».
Lady Alexandra si alzò sulle punte e scoppiò a
ridere prima di prendere una sedia e di accostarla
all’armadio.
«Non vi preoccupate, my lord,
è solo Artù!», esclamò
divertita, allungando le mani per afferrare un piccolo gattino nero e
portarselo al petto teneramente. «Ieri sera deve essersi
spaventato a causa di tutto il trambusto che abbiamo fatto e deve
essersi rifugiato quassù, senza più sapere come
fare a scendere. È ancora piccolo, sai».
Artù, col naso arricciato e la fronte aggrottata,
evitò di chiedere perché tenesse in casa un
animale che non aveva alcuna utilità in assenza di topi da
stanare, pensando che magari sarebbe stato offensivo, e
preferì concentrarsi su un’altra questione, ben
più strana: «Perché il vostro gatto si
chiama come me?».
La ragazza smise di accarezzare il pelo del micio e di sussurrargli
dolci parole nelle orecchie per poter fissare lui, mentre il viso le
diventava sempre più rosso.
«È un nome come un altro»,
tagliò corto, chinandosi per lasciare che
l’animale zampettasse agilmente fuori dalla stanza.
Artù tornò a fare ciò che stava
facendo prima che quel tenero micino lo spaventasse; tornò a
guardarsi intorno, sempre più stranito.
Sullo scrittoio addossato alla parete, vicino alla porta,
c’era uno strano oggetto allungato, con una base
d’appoggio e una mezza sfera rivolta verso il ripiano
ricoperto di libri ed altri oggetti che non riuscì a
riconoscere, tra cui una specie di sottile vassoio nero opaco e senza
manici.
Tutto in quella stanza, fatta eccezione per il letto, i mobili e i
libri ordinati sugli scaffali, gli sembrava strano e senza uno scopo
ben preciso, ma non si azzardava ad ammetterlo ad alta voce, dicendosi
che probabilmente erano accessori con cui non aveva
familiarità perché quella ragazza doveva
appartenere ad una famiglia nobile straniera, i cui usi e costumi si
differenziavano da quelli a cui era abituato a Camelot.
Non poté più stare in silenzio, però,
quando i suoi occhi si posarono sulla parete accanto allo scrittoio, su
cui era appesa una cornice con all’interno tanti piccoli
ritratti che non potevano essere altro che opera di stregoneria: tante
persone, tra cui molti bambini senza capelli, sorridenti oppure colte
di sorpresa, erano intrappolate in quei ritratti, bloccate
nell’attimo in cui la magia li aveva colpiti,
chissà quanto tempo prima e per quale scopo malvagio.
«Ehi, qualcosa non va?», gli chiese
all’improvviso Lady Alexandra, guardandolo col naso
arricciato in un modo che avrebbe trovato grazioso se non avesse appena
realizzato di trovarsi nel covo di una strega.
Era evidente ora perché tutto ciò che lo
circondava non avesse senso: erano tutti strumenti magici, a lui
sconosciuti. Anche l’oggetto che teneva tra le mani, quella
specie di pinza gigante con l’esterno color della pece e
l’interno argentato, doveva essere un’arma magica e
potente, dato l’affanno con cui l’aveva cercata.
Forse l’aveva riconosciuto, in mezzo all’acqua del
lago, e l’aveva salvato nella speranza di ottenere la sua
fiducia e quella di Merlino, per poi...
Merlino,
pensò atterrito. Lady Alexandra gli aveva detto che era
andato a prendergli dei vestiti puliti, ma come scusa non valeva un
granché: la sera prima il suo servo gli aveva promesso che
non si sarebbe allontanato e poi perché mai avrebbe dovuto
aver bisogno di vestiti puliti? Bastava aspettare che la sua tunica e i
suoi pantaloni si asciugassero e poi sarebbero tornati a Camelot.
In qualche modo Lady Alexandra doveva averlo messo fuori combattimento
per stare da sola con lui e portare a termine il suo piano. Ma
Artù non gliel’avrebbe permesso, no, e avrebbe
ritrovato Merlino, ad ogni costo.
«Artù?», lo chiamò ancora,
preoccupata, e il re di Camelot le rivolse un pallido sorriso.
«Scusatemi, ma avrei proprio bisogno di mettere qualcosa
sotto i denti: sto morendo di fame».
La ragazza sorrise imbarazzata. «Scusami, avrei dovuto
pensarci prima. Ti porto subito qualcosa».
Quando uscì dalla stanza, lasciando la propria arma sul
mobile, Artù si alzò in piedi, nonostante il
giramento di testa dovuto dal protratto digiuno, ed iniziò a
cercare la propria armatura, sperando che quella strega non fosse stata
tanto astuta da nasconderla da qualche parte.
Sogghignò vittorioso quando trovò tutti i suoi
pochi averi abbandonati sul pavimento in fondo al letto. I vestiti
erano ancora umidi – quello stolto di Merlino non li aveva
stesi ad asciugare – ma li indossò comunque:
sempre meglio che affrontare una strega nudo. Non aveva tempo per
l’armatura e detto in tutta onestà non
l’avrebbe di certo protetto dalla magia, perciò si
accontentò della sola cotta di maglia sopra la casacca
imbottita, dei pantaloni e degli stivali. Quindi estrasse il pugnale
dalla cintura e si appiattì contro la parete per sbirciare
giù dalle scale.
Stava per avanzare, cauto, quando si ricordò
dell’arma che Lady Alexandra aveva lasciato sul cassettone.
La osservò da lontano per qualche istante, poi la
toccò con la punta del pugnale e quando intuì che
era innocua nelle mani di persone non dotate di poteri magici si
azzardò ad impugnarla e a spezzarla usando una gamba come
appoggio.
Soddisfatto, lanciò sul letto i due pezzi della pinza magica
e si preparò a combattere quella strega che se non altro
aveva avuto il buon cuore di offrirgli l’ultima colazione
della sua vita.
***
Sentì
un forte schiocco, simile a quello che avrebbe fatto una tavoletta di
cioccolato se rotta a metà, e con la testa rivolta verso la
scalinata rimase in ascolto. Non sentendo più nulla
d’insolito, tornò a concentrarsi sulla colazione
di Artù, canticchiando e ripensando a quella mattina.
Il cielo fuori dalla finestra si era appena tinto
di rosa e Alex, stropicciandosi gli occhi, capì che
nonostante la stanchezza non sarebbe riuscita a dormire ancora, non con
tutte le domande che, da lei abbandonate prima di addormentarsi, erano
tornate a frullarle nella mente.
Le sue narici vennero subito stuzzicate dal profumo del
caffè appena fatto, un aroma che fu in grado di farla alzare
in quattro e quattr’otto e di guidarla fino in cucina, dove
trovò Merlino intento a spalmare un po’ di
marmellata su una fetta biscottata già ricoperta di burro.
«Ben svegliata», la salutò,
sorridendole. «Fame?».
«Moltissima».
Merlino annuì, per nulla sorpreso. Si voltò verso
il ripiano della cucina e le mise di fronte al naso un piatto di
pancakes ancora caldi, con un aspetto ed un profumo da far venire
l’acquolina in bocca.
«Avanti, dillo», la incalzò, sorridendo
con uno scintillio di furbizia negli occhi.
Alex lo guardò e preoccupata si chiese se fosse
così evidente il suo crescente stato di adorazione nei
confronti di Merlino. Non solo era un ragazzo dolce, con la testa sulle
spalle e di buon cuore, ma sapeva anche cucinare! Era decisamente
l’uomo della sua vita.
«So che cosa stai pensando».
«Davvero?», squittì, strozzandosi con la
sua stessa saliva.
«Sì, che sono pieno di talenti nascosti. Beh,
è così». Le fece l’occhiolino
e prima di voltarsi verso la caffettiera le disse:
«Assaggiali e dammi la tua onesta opinione. Sono secoli che
non cucino per il re e…».
Alex corrugò la fronte, con la forchetta sollevata a
mezz’aria. «Per il re?»,
ripeté, scandendo bene le parole.
Merlino, con le spalle rigide e gli occhi fissi
sui fornelli, impiegò qualche secondo a rispondere,
sorridendo nervosamente.
«Scusa, forza dell’abitudine. Artù non
fa altro che parlare di Cavalieri della Tavola Rotonda, duelli
all’ultimo sangue, missioni e
quant’altro… Ha una specie di disturbo della
personalità e spesso è convinto di essere il re
di Camelot. E io lo assecondo, per farlo contento. Mi considera il suo
valletto».
Alex abbandonò la forchetta nel piatto, senza curarsi dei
brontolii di protesta che si innalzarono dal suo stomaco, e si strinse
le braccia al petto, in un inconscio meccanismo di difesa.
«Ma tranquilla, non farebbe male ad una mosca!», si
affrettò a dire il ragazzo, cercando di rendere meno tragica
la situazione in cui si trovava Artù. Alex però
non prestò attenzione ai suoi sforzi, troppo concentrata a
mettere al loro posto i vari pezzi del puzzle.
Le nebbie si stavano lentamente diradando, ma era sicura che Merlino le
stesse dicendo solo lo stretto necessario, e avrebbe voluto almeno
saperne il motivo.
«È per questo che ieri si trovava nel
lago?», gli chiese, gettandogli un’occhiata
penetrante. «Pensava di dover abbattere un mostro marino, di
recuperare il Graal o chissà
cos’altro?».
Lo sguardo di Merlino si fece improvvisamente cupo e con voce atona
rispose: «Una cosa del genere, sì».
«Sembra un tipo piuttosto incasinato».
Accennò un sorriso, quasi divertito, annuendo prima di
tornare a darle le spalle.
L’immagine di Artù che emergeva dalle acque del
lago si ripeteva in loop nella sua mente, ormai sempre più
sfocata e distorta da ciò che le suggeriva la logica. Non
poteva essere davvero emerso
e basta, come se fosse sempre stato sul fondo del lago, in attesa di
chissà che cosa. Ma qualcosa – qualcosa di
potente, anche – le diceva che doveva credere a
ciò che i suoi occhi avevano visto.
Per questo si prese il volto tra le mani e,
puntando lo sguardo su Merlino per non perdersi nemmeno un dettaglio
della sua reazione, esclamò: «Non ti ho mai
sentito parlare di lui. Sembra quasi sbucato fuori dal nulla,
all’improvviso».
Il ragazzo si irrigidì ancora una volta ed iniziò
a balbettare: «Oh no, lui… fino a poco tempo
fa…». Si passò anche una mano sul viso,
come per cercare di frenare l’emozione, e Alex
sobbalzò sulla sedia, colpita all’improvviso da
un’idea che le fece portare entrambe le mani sulla bocca,
tremendamente dispiaciuta.
«È stato in un ospedale psichiatrico, non
è così? Perdonami Merlino, non avrei
dovuto… Sono stata indelicata».
«Non c’è problema», rispose il
ragazzo, accennando un sorriso mesto e quasi sollevato.
Alex decise di non fargli più domande: ne aveva poste fin
troppe e tirando le somme tutto ciò che aveva fatto era
stato riaprire vecchie ferite sul cuore di Merlino.
Finalmente il ragazzo la raggiunse al tavolo, sedendosi al suo fianco
dopo averle consegnato la sua tazza di caffè fumante, e le
rivolse un lieve sorriso.
Mangiarono in silenzio, sentendo entrambi il peso della tensione sulle
loro spalle, e dopo quella che le era sembrata
un’eternità fu Merlino ad aprire bocca, tirando
fuori dalla tasca davanti della felpa il suo mp3 e posandolo di fronte
a lei.
«L’ho trovato sulla strada davanti al lago. Se non
l’avessi perso, non avrei mai capito che Artù si
trovava con te».
In effetti Alex si era più volte chiesta come avesse fatto
Merlino a rintracciare l’amico così in fretta. Il
suo mp3, che aveva lasciato cadere a terra quando aveva deciso di
tuffarsi, era stato un indizio chiave, ma i conti non le tornavano
ancora.
«E come sapevi che Artù si sarebbe cacciato nei
guai al lago?».
«Io… Mi ha lasciato un biglietto, voleva che lo
raggiungessi per una delle sue avventure».
«Carino da parte sua».
«Molto».
I loro sguardi si incrociarono ed entrambi scoppiarono in una leggera
risata, mentre il caffè e i pancakes si raffreddavano
davanti a loro.
Prima di uscire le aveva raccomandato di tenerlo d’occhio e
di dargli corda nel caso avesse iniziato a blaterare a proposito del
suo regno, di sua moglie la regina oppure dei suoi cavalieri, e lei
l’aveva rassicurato, rispondendogli che se la sarebbe cavata
fino al suo ritorno. Poi era successo l’imprevedibile:
Merlino le aveva preso il volto tra le mani e l’aveva
attirata a sé per posarle un bacio sulla fronte,
sussurrandole l’ennesimo «Grazie».
Alex non aveva risposto, si era limitata a guardarlo andare via e
successivamente a fissare la porta, in trance. Quando era riuscita a
metabolizzare il fatto che Merlino l’avesse baciata
– non importava dove, né come: l’aveva
fatto! – era corsa in bagno per darsi una sistemata prima che
tornasse, vergognandosi profondamente di come si era lasciata vedere da
lui: i capelli gonfi e spettinati sulla testa, gli occhi piccoli dietro
gli occhiali e la maglietta sformata che metteva ben poco in risalto i
suoi punti forti.
Così si era cambiata, mettendo una camicetta carina e un
paio di jeans attillati, e si era intrufolata nella sua stanza, in
punta di piedi, per recuperare la piastra per capelli. Era stato allora
che aveva fatto l’ufficiale conoscenza di Artù, il
ragazzo del lago che si era dimostrato tanto incasinato come aveva
immaginato.
Come previsto si era presentato come il re di Camelot, poi aveva
utilizzato i termini e le formalità che avrebbero
contraddistinto un vero e proprio cavaliere del Medioevo, dandole del
voi e appellandola persino Lady Alexandra.
Lei aveva seguito il consiglio di Merlino e gli aveva retto il gioco,
scoprendo che Artù, mettendo da parte quel suo piccolo
disturbo di personalità, non era niente male come tipo.
Ovviamente era un bel ragazzo, con quei capelli color del grano, quegli
occhi blu come il mare e quelle spalle possenti, ma era una bellezza
del tutto diversa da quella di Merlino, anche se sospettava che avesse
anche lui le sue buone qualità.
Forse era solo davvero una questione di abitudine e presto anche lei,
come Merlino, non ci avrebbe più fatto caso, permettendole
di apprezzarlo appieno e chissà, forse diventargli anche
amica.
Pensava a tutto questo, mentre preparava un vassoio con la colazione
del re e non vedeva l’ora che Merlino
tornasse per raccontargli quant’era stato facile e
sorprendentemente divertente chiacchierare con Artù.
Alex avvertì all’improvviso una sgradevole
sensazione, come se qualcuno alle sue spalle la stesse osservando, e
smise di canticchiare. Cercò di tranquillizzarsi, dicendosi
che probabilmente era solo Artù che aveva deciso di
sgranchirsi un po’ le gambe e aveva dimenticato di
annunciarsi.
Accennò un sorriso e fece per girarsi, ma un braccio
muscoloso e con una stretta d’acciaio si strinse intorno al
suo addome e un corpo altrettanto ben piazzato, premuto contro la sua
schiena, la immobilizzò contro il lavello della cucina,
togliendole per un attimo il fiato.
Smise del tutto di respirare – e di sua spontanea
volontà – quando sentì la lama fredda
di un coltello ad un soffio dalla pelle del suo collo e il respiro
caldo di Artù sull’orecchio destro.
«Dimmi che cosa ne hai fatto di Merlino, strega, e forse ti
risparmierò la vita».
Alex sentì la paura crescere dentro di lei, ma in qualche
modo riuscì a metterla da parte e, appellandosi a tutto il
coraggio che aveva in corpo, disse con voce rassicurante:
«Artù, va tutto bene. Merlino sta per
tornare».
«Non ti conviene mentirmi, Alexandra».
«Te lo giuro, non ti sto mentendo. È andato a
prenderti dei vestiti nuovi, sarà già di ritorno
a quest’ora…».
La lama si avvicinò pericolosamente al suo collo e Alex si
concesse un respiro profondo, chiudendo gli occhi.
«Non hai scampo», disse ancora Artù, in
modo quasi dolce, caritatevole. «Non è mia
intenzione farti del male, nonostante tu sia una strega,
perciò non costrin–».
«Io sarei una strega? D’accordo,
ma tu sei proprio un imbecille!»,
urlò, ora davvero incazzata.
Se doveva morire okay, sarebbe morta, ma non senza prima aver provato a
combattere. Non dandogli il tempo di prevedere le sue mosse
gettò la testa all’indietro, colpendolo tanto
forte sul naso da fargli mollare la presa, con gli occhi sbarrati per
la sorpresa.
Alex non sprecò un attimo del proprio vantaggio ed
afferrò per il manico la padella con cui Merlin aveva cotto
i pancakes, poi gli corse incontro e gliela sbatté in testa,
mandandolo al tappeto.
La ragazza lo osservò, riverso in maniera scomposta sul
pavimento, senza realizzare appieno ciò che aveva fatto e
come si sarebbe dovuta comportare quando si sarebbe svegliato. Se
si sarebbe svegliato.
Per scrupolo e deformazione professionale si chinò
cautamente su di lui, tenendo ancora ben stretta la padella, per
sentirgli il battito con due dita premute sul suo collo. In quel
momento la porta di casa si aprì di colpo, mostrando un
Merlino affannato e con gli occhi fuori dalle orbite, e Alex
trasalì per lo spavento.
«Ho sentito urlare, cosa…?»,
iniziò a dire, ma la voce gli morì in gola quando
il suo sguardo, attraversato da un lampo di terrore, si posò
sul corpo immobile di Artù e sul pugnale che teneva ancora
stretto nella mano destra.
Merlino lasciò cadere a terra lo zaino che portava sulle
spalle e lo raggiunse di corsa, inginocchiandosi sul pavimento e
tastandogli furiosamente il polso e la carotide, con
l’orecchio ad un soffio dalle sue labbra.
«È solo svenuto», spiegò
Alex.
Merlino alzò di scatto gli occhi su di lei e la
guardò in attesa di altre spiegazioni, fino a quando non si
accorse della padella che impugnava.
«Non l’avrai colpito con quella, spero»,
esclamò, più che sconvolto.
Alex si mordicchiò le labbra, gli occhi fissi in quelli
azzurrissimi di Merlino, capaci di farla sentire terribilmente in
colpa. Ma le bastò scorgere di nuovo il pugnale con cui
Artù le aveva quasi tagliato la gola perché la
tensione e la rabbia tornassero a circolarle nelle vene,
così dirompenti che ebbe voglia sia di piangere che di
urlare.
All’ultimo momento la rabbia prevalse sulla paura che aveva
provato e lanciandogli un’occhiata truce urlò:
«Non ho avuto scelta! Il tuo amico qui non è
semplicemente incasinato, è un fottuto
psicopatico! Credeva fossi una strega e stava per sgozzarmi, che
cos’altro avrei potuto fare?!».
Il ragazzo boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
guardando lei e poi Artù, incapace di formulare una frase di
senso compiuto.
Ad un tratto Alex si stufò di star lì ad
aspettare che dicesse qualcosa e si sbatté le mani sulle
gambe, sospirando con rassegnazione: «Cambialo, lo portiamo
in ospedale per accertamenti. L’ho colpito forte, potrebbe
avere un trauma cranico».
Merlino si limitò ad annuire e la seguì con lo
sguardo mentre si avviava verso il piano superiore.
***
Sapeva
che Artù avrebbe potuto dare di matto non appena fosse
entrato in contatto con il mondo moderno, non poteva essere
diversamente, ma mai avrebbe potuto immaginare uno scenario peggiore di
quello.
Mentre si dirigevano verso l’ospedale, Alex, al volante della
sua piccola utilitaria, gli spiegò nei minimi dettagli tutto
quello che era successo nel breve lasso di tempo che aveva impiegato ad
andare a casa per prendere un po’ di vestiti per
Artù e tornare indietro.
Alla fine del suo racconto, Merlino si sentì malissimo: non
solo perché non si sarebbe mai perdonato se fosse successo
qualcosa ad Alex a causa di una sua imprudenza, ma anche e soprattutto
perché realizzò che era stata tutta fatica
sprecata.
Aveva speso un’eternità attendendo il ritorno di
Artù, pianificando ogni cosa per il grande giorno: il modo
in cui gli avrebbe spiegato la situazione, come l’avrebbe
introdotto alle novità dell’epoca in cui sarebbe
risorto, alla storia che gli avrebbe fatto imparare per mantenere
nascosta la propria identità e mille altri particolari.
Ciononostante, in quei due giorni niente era
andato come si aspettava, partendo dal fatto che era stata Alex a
ripescare il re del passato e del presente dal lago di Avalon e non
lui.
Da quando il suo cammino aveva incrociato di nuovo quello di
Artù non aveva fatto altro che improvvisare e
così avrebbe continuato a fare, visto che ogni suo programma
era stato stravolto, lasciandolo impreparato e senza la più
pallida idea di come comportarsi.
Quando finalmente raggiunsero il pronto soccorso, davanti al quale le
infermiere e i dottori in pausa bevevano il caffè e fumavano
godendosi il sole e un’ambulanza a sirene spente marciava
lentamente verso il parcheggio, Merlino iniziò a temere che
quella fosse stata l’ennesima cattiva idea.
Che cosa sarebbe successo se Artù si fosse svegliato
accerchiato da uomini e donne con strani camici bianchi e azzurri, con
in mano strani strumenti e ai comandi di attrezzature il cui scopo ed
utilizzo sarebbe sempre rimasto un mistero inspiegabile ai suoi occhi
abituati ad un passato così… passato?
Sarebbe stato un miracolo se fosse andato in panico, ma conosceva bene
Artù e rimanere paralizzato dalla paura non era nel suo
stile: avrebbe combattuto, come faceva sempre, e nel caso in cui non
fosse riuscito a fronteggiare tutti i suoi avversari sarebbe fuggito,
pensando sicuramente ad un complotto per uccidere il re di Camelot.
«Merlino, per l’amor del cielo, esci
dall’auto».
Alex lo fissava piuttosto irritata, con le mani sui fianchi e gli occhi
stretti dietro gli occhiali. Lui stiracchiò un sorriso,
stringendosi nelle spalle.
«Sono sicuro che non l’hai colpito così
forte. Insomma, come avresti potuto?».
«Stai dicendo che sono una pappamolle?».
Merlino aprì la bocca per replicare, frettolosamente, che
non era assolutamente quello che voleva dire, ma Alex gli
puntò minacciosamente un dito contro.
«Stai zitto, Merlino. Altrimenti il prossimo ad essere messo
K.O. con una padella, appena ne avrò una in mano, sarai
tu».
Il mago annuì mestamente, abbassando gli occhi sul viso
inespressivo di Artù, rannicchiato sui sedili posteriori e
con la testa sulle sue gambe.
Non poteva permettere che Artù reagisse ancora in modo
sconsiderato, rischiando di fare del male a persone innocenti.
Non sapeva come avrebbe fatto né come lui
l’avrebbe presa, ma meritava di conoscere la
verità, o almeno di sapere quel tanto che bastava a non
farlo apparire un vero e proprio psicopatico agli occhi di tutti.
«Scusami, hai perfettamente ragione: dev’essere
visitato», disse, facendo sospirare Alex di sollievo.
«Finalmente hai rimesso in moto il cervello».
Merlino ignorò il suo ultimo commento ed indicò
con un cenno del capo un paio dei suoi colleghi, appena usciti dalle
porte scorrevoli per prendere un po’ d’aria.
«Perché non vai a chiedere una barella? Non
possiamo trasportarlo ancora».
«Giusto, rischieremmo di fare altri danni. E poi sta
diventando una specie di abitudine, trasportarlo di qua e di
là mentre è privo di conoscenza»,
esclamò, rivolgendogli il sorriso sincero e sbarazzino che
di solito le incurvava le labbra, il primo dopo lo spiacevole e quasi
tragico episodio di quella mattina. Per Merlino fu un vero sollievo
vederlo di nuovo, perché stava a significare che aveva
qualche speranza di poter essere perdonato, col tempo.
Alex si allontanò e lo stregone aspettò qualche
secondo, poi balzò fuori dall’auto e si avvolse un
braccio di Artù intorno al collo per far uscire anche lui
dall’abitacolo. Il re mugugnò lamentosamente e
Merlino lo insultò, incitandolo a svegliarsi: non sarebbe
mai riuscito a trascinarlo a peso morto e di certo non poteva farlo
volteggiare al suo fianco, non con tutti quegli occhi addosso.
«Merlino…».
«Artù, dovete camminare. Vi guido io».
Il sovrano si fece forza ed iniziò a muovere le gambe
lentamente, lasciando che Merlino lo portasse via, ma non
alzò mai la testa, ciondolante sul petto, per vedere dove
stessero andando.
Merlino lo condusse nel parchetto di fronte al pronto soccorso e non
appena vide la grossa quercia che offriva ombra e quiete a
volontà, lontana dagli scivoli e dalle altalene,
pensò che avrebbe concesso loro un po’ di tempo.
Forse non tutto quello che avrebbe voluto, ma quello necessario a
convincere il suo re che doveva fidarsi di lui ancora una volta.
Appoggiò Artù contro l’imponente tronco
della quercia e lo fece sedere con delicatezza, per poi inginocchiarsi
al suo fianco e prendergli il volto tra le mani.
«Artù. Artù, dovete ascoltarmi
attentamente».
«È un ordine, Merlino?», gli chiese
debolmente, faticando a tenere gli occhi aperti.
«Sì, Sire, è un ordine».
«Tu non puoi…».
«Ascoltatemi e basta, testa di legno».
Artù racimolò tutte le proprie energie e
riuscì a tenere gli occhi blu aperti, fissi in quelli del
suo servitore. Merlino deglutì, rendendosi conto che
Artù l’aveva guardato in modo così
sincero ed aperto solo nei momenti più cruciali, tra cui
proprio ad un passo dalla morte. Quel ricordo straziante
tornò a bruciargli nella mente e nel cuore, ma si fece
coraggio con un respiro profondo ed iniziò a raccontare.
«Voi siete stato ferito mortalmente da Mordred durante la
battaglia di Camlann, nell’anno 537 del VI secolo.
Anch’io ho combattuto, utilizzando la magia, ma non sono
riuscito a proteggervi. Ho fatto del mio meglio per salvarvi: ho
cercato di portarvi ad Avalon, il lago in cui dimoravano i Sidhe, gli
unici in grado di poter contrastare la magia nera di cui era impregnata
la spada di Mordred, ma siamo arrivati troppo tardi».
«Perché mi dici queste cose, Merlino?».
Il re tremava contro la quercia, gli occhi sbarrati e il cuore che gli
batteva dolorosamente nel petto, iniziando a rendersi conto che quel
pulsare non era naturale.
Merlino continuò, imperterrito: «Ricordate il
drago che vostro padre aveva imprigionato e che è riuscito a
liberarsi dalle catene? Si chiamava Kilgharrah ed è stato
lui a rivelarmi che il mio destino era ed è
tutt’ora quello di affiancarvi e proteggervi, a qualsiasi
costo. È stato un prezioso consigliere in molte occasioni,
solo ora me ne rendo conto, e forse non l’ho mai ringraziato
abbastanza per tutto quello che ha fatto per me, per noi, per Albione.
Voi non l’avete mai sconfitto, Sire. A dire la
verità è stato proprio Kilgharrah ad
accompagnarci ad Avalon, e prima che i nostri cammini si separassero
per sempre mi ha lasciato un’ultima profezia: “Nel
momento in cui Albione avrà più bisogno,
Artù rinascerà.”».
Artù sbatté le palpebre e due lacrime perfette,
due gocce simili a diamanti, rotolarono sulle sue guance, ma non fece
nulla per nasconderle.
«Siamo nell’anno 2014, questo è il XXI
secolo, e voi, solo ed unico re, il più grande che abbia mai
messo piede su questa terra, siete finalmente risorto. Vi ho aspettato
per più di millequattrocento anni,
Artù».
Merlino fece un respiro profondo, al contempo esausto e sollevato, e
cacciò indietro le lacrime intrise dei rimpianti del passato
e della gioia del presente, gettando uno sguardo oltre la quercia: Alex
si era accorta da un pezzo della loro fuga e aveva mandato un paio di
infermieri a cercarli proprio lì, nel parco, mentre lei era
corsa verso l’incrocio.
«Non abbiamo molto tempo», esclamò.
«Il mondo è molto cambiato nel corso dei secoli e
non sarà facile abituarsi, lo so, ma dovete sforzarvi e
fingervi un uomo di quest’epoca. Io sarò sempre al
vostro fianco, non dovete preocc–».
Merlino sgranò gli occhi, ritrovandosi stretto tra le
braccia di Artù. Ancora una volta non aveva previsto
abbastanza bene il futuro: aveva immaginato che Artù sarebbe
stato sconvolto, arrabbiato, disperato, ma non che lo sarebbe stato a
tal punto da aver bisogno di un suo abbraccio.
Il ricordo degli ultimi minuti di vita di Artù lo
colpì nuovamente, facendogli male con la stessa
intensità di sempre e se possibile ancor di più.
Ricordava che cosa gli aveva chiesto con la voce spezzata dal dolore,
il frammento della magica spada ormai già penetrato nel suo
cuore: «Solo… Stringimi e basta. Per
favore».
Lui non l’aveva fatto, col tempo si era reso conto di non
averlo fatto: lo aveva sorretto, aveva continuato a pensare ad un modo
per potergli salvare la vita, ma non gli aveva donato
l’ultimo contatto umano di cui il suo re aveva bisogno,
spaventato dalla morte come ogni uomo. Era stato uno dei suoi
più grandi rimpianti, uno dei motivi per cui aveva versato
le lacrime più amare. Non avrebbe fatto lo stesso errore,
non esaudendo quella richiesta per la seconda volta.
Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e lo strinse forte,
accarezzandogli anche i capelli biondi, dimentico dell’anno e
del luogo in cui si trovavano, di Alex e degli uomini e le donne che li
cercavano, di tutto ciò che non c’entrasse con
Artù, l’altro lato della medaglia, la
metà che lo rendeva completo.
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Capitolo 4 *** 4. Queen of hearts (and her hair straightener) ***
Buongiorno!
Come al solito, due paroline di ringraziamento per chi ha
recensito lo scorso capitolo, chi ha messo questa storia nelle
preferite, nelle
seguite e nelle ricordate. Mi rendete una donna felice :)
Buona lettura!
_Pulse_
____________________________________________________________
4.
Queen of hearts (and her hair straightener)
«Mi hanno detto che ieri hai avuto un
imprevisto. Di che
tipo?».
Alex sbatté più volte le palpebre, riemergendo
dai propri
pensieri, e si voltò verso la collega con il carrello della
biancheria pulita
che si era fermata accanto a lei.
Accennò un sorriso, sistemandosi dietro l’orecchio
una
ciocca di capelli che era sfuggita allo chignon. «Se te lo
raccontassi, non ci
crederesti».
La donna scrollò le spalle, ridacchiando, e si
allontanò
senza indagare oltre.
Alex respirò profondamente e tornò a fissare il
distributore
automatico davanti al quale era stata imbambolata per più di
cinque minuti,
senza comprare nulla. Alla fine infilò un paio di monetine
nella fessura e
selezionò il numero corrispondente alle barrette di
cioccolato. Ne aveva un
estremo bisogno.
Quindi si incamminò di nuovo lungo il corridoio e, girato
l’angolo, trovò Merlino nella stessa posizione in
cui l’aveva lasciato – il
labbro inferiore stretto tra i denti, le braccia incrociate sul petto e
i piedi
uniti – davanti al vetro attraverso il quale poteva vedere
l’interno della
stanza in cui il dottor Ellis e un’infermiera stavano
visitando Artù.
«Non hanno ancora finito?», chiese, scartando la
propria
barretta ed offrendola a Merlino, il quale la rifiutò con un
cenno del capo.
«No. L’infermiera mi ha chiesto che cosa gli
è successo».
Alex sobbalzò impercettibilmente, smettendo di masticare
quando avvertì gli occhi del ragazzo bruciarle sul profilo
del viso.
«Le ho detto che è stato aggredito, ma non da chi».
«Ti ho già detto che non ho avuto scelta,
è stata legittima
difesa. Per quanto tempo hai intenzione di…?», si
interruppe, sentendo il
braccio di Merlino avvolgerle delicatamente le spalle. Alzò
gli occhi verso i
suoi e li trovò sorridenti.
«Hai fatto bene. Se l’è
cercata».
Sollevata che non fosse arrabbiato con lei, si sciolse in un
piccolo sorriso. Poi tornò ad osservare il medico che
controllava i riflessi di
Artù illuminandogli le pupille con una torcetta elettrica.
Iniziava a farle pena ora che si trovava seduto su quel
letto d’ospedale, con le spalle curve in avanti, il volto
privo d’espressione,
gli occhi tristi fissi su un punto morto e il naso su cui si era
già disegnato
un grande livido violaceo. Ciononostante non poté fare a
meno di ammettere che
non avrebbe mai pensato che si sarebbe fatto visitare così
tranquillamente. Lo
disse a Merlino, finendo la propria barretta di cioccolato ed
allontanandosi
per buttarne la carta. Il ragazzo le rispose, ma così a
bassa voce che non
riuscì a distinguere le sue parole. Tornando da lui, gli
chiese di ripetere.
«Ho detto che credo abbia capito di non essere il re di
Camelot», sospirò con gli occhi improvvisamente
privi della loro solita luce e
colmi solo di dispiacere.
«Quindi la mia padellata è stata
d’aiuto, dopotutto», provò
a scherzarci su Alex, ma quando si accorse che Merlino non
l’aveva nemmeno
ascoltata si schiarì la gola, imbarazzata, ed
abbassò gli occhi.
Senza riuscire a controllarsi, si ritrovò a pensare ancora
una volta a come li avevano trovati nel parco: abbracciati dietro una
grande
quercia.
Sapeva che non avrebbe dovuto trarre conclusioni affrettate,
ma non poteva proprio evitare di pensare che se non altro quella
sarebbe stata
la spiegazione più logica ai continui rifiuti di Merlino e
al suo non essere
chiaro con lei. Magari il suo era un amore segreto, proprio come quello
che
custodiva lei nel profondo del suo cuore, oppure era spaventato dalla
reazione
che il personale dell’ospedale e lei avrebbero avuto se si
fosse venuto a
sapere; o ancora, più semplicemente, non voleva che fosse di
dominio pubblico e
basta.
Ci avrebbe impiegato un po’ ad accettarlo e a mettersi
l’anima in pace, ma sapeva che la simpatia e
l’affetto che provava per Merlino
non sarebbero mai cambiati, qualsiasi fossero state le sue preferenze
sessuali.
E voleva che anche Merlino lo sapesse.
Per questo cercò di raccogliere il coraggio e, con le dita
intrecciate sullo stomaco, esordì: «Merlino, noi
siamo amici, vero?».
Lui la guardò sorpreso. «Certo che lo siamo.
Perché me lo
chiedi?».
«Perché voglio essere davvero
tua amica. Voglio che tu sappia che puoi sempre contare su di me e che
puoi
fidarti, ecco».
«Grazie, Alex. Per me è lo stesso».
«Bene», sorrise, nonostante il nervosismo.
«Perciò se vuoi
dirmi qualcosa… sentiti pure libero di farlo».
Alex accennò ad Artù con un
lieve movimento del capo, ma Merlino non colse il significato del suo
gesto, o forse non lo notò nemmeno, e la superò,
piombando subito addosso al medico che
aveva terminato di visitare Artù e che era appena uscito
dalla stanza.
«Come sta? Si tratta solo di una botta, non è
così? Non ha
subìto danni permanenti, giusto?»,
iniziò a subissarlo di domande e avrebbe
continuato per chissà quanto se Alex non l’avesse
preso per le spalle e tirato
indietro, rivolgendo al dottor Ellis un’occhiata di scuse.
«La pressione sanguigna, le pulsazioni e i riflessi sono
nella norma, ma sarei più tranquillo se gli facessimo una
TAC e lo tenessimo
sotto osservazione per questa notte».
«Perché?», chiese la ragazza, corrugando
la fronte. «Hai
detto che è tutto nella norma…».
«Ciò che mi preoccupa è che non ha
reagito a nessun altro
tipo di stimolo. Abbiamo provato a fargli delle domande, cose semplici,
come il
suo nome, quello dei suoi familiari e degli amici, ma non ha aperto
bocca.
Sembra sotto shock».
«E lo è!», urlò Merlino, con
un po’ troppa foga. Sia Alex
che il medico lo fissarono, quest’ultimo vagamente
indispettito.
«Insomma… è stato aggredito, lo sarebbe
chiunque», aggiunse,
passandosi una mano sulla nuca. «Sono certo che non
c’è bisogno della TAC».
«Forse. Ma è meglio esserne certi, non credi? Non
c’è nulla
di cui aver paura, come esame è del tutto
innocuo», lo rassicurò il dottor
Ellis, togliendosi lo stetoscopio dal collo ed iniziando ad avviarsi
lungo il
corridoio. «La mia collega ti spiegherà tutto, ma
in questo caso specifico ci
serve la firma di un familiare o di un tutore per procedere».
«Non ha né familiari né un tutore. Io
sono l’unica persona
che ha al mondo».
Quelle ultime parole le aveva pronunciate con la voce rotta
dalla commozione e Alex provò una fitta al cuore, sentendosi
così vicina al suo
dolore e allo stesso tempo così inutile. Le uniche cose che
riuscì a fare
furono percorrergli il braccio con una mano fino ad intrecciare forte
le dita
alle sue e fare un passo avanti, verso il dottor Ellis, per esclamare:
«Il
paziente torna a casa e me ne prendo io la responsabilità.
Lo sorveglierò
personalmente e se noterò delle anomalie lo
riporterò subito qui».
«Non posso di certo costringervi a farlo rimanere
qui», fu
la risposta del medico, il quale le rivolse un breve sorriso prima di
dare loro
le spalle definitivamente.
Alex respirò profondamente e fece per portarsi le mani al
viso, quando si rese conto che Merlino non aveva alcuna intenzione di
mollare
la presa. Si girò per lanciargli un’occhiata
interrogativa e lui, nonostante
gli occhi lucidi, le sorrise.
«Sei incredibile. Artù ti ha dato della strega, ti
ha
minacciata con un pugnale e tu… tu continui ad
aiutarlo».
Alex si sciolse in un sorriso e dimentica persino
dell’imbarazzo confessò: «Non sto
aiutando lui, ma te».
Quindi gli colpì il braccio con un pugno leggero e si
allontanò, senza aspettare una sua risposta.
***
«Possiamo andare?», chiese
Alex, sorridente.
Merlino annuì e gettò un’occhiata ad
Artù, al suo fianco.
L’infermiera aprì l’auto con il piccolo
telecomando e si
sedette davanti al volante. Solo allora Artù parve tornare
alla realtà ed
afferrò saldamente il braccio del mago, tenendo gli occhi
sempre fissi su
quella scatola di metallo e vetro dentro la quale si era infilata la
ragazza
che aveva scambiato per una strega.
«Questa devi proprio spiegarmela», disse.
Merlino seguì il suo sguardo e non poté
trattenere una breve
risata. «È un mezzo di trasporto, si chiama
“automobile”. È molto comune,
persino io ne ho una».
Artù lo guardò strabuzzando gli occhi.
«Tu possiedi una di
queste… cose? E sei in
grado di
condurla?».
«Non è stato facile imparare, lo ammetto, ma
sì».
Alex tirò giù il finestrino del lato passeggero e
si sporse
verso di loro. «Qualcosa non va?», chiese con
cipiglio perplesso.
«No», rispose Merlino.
«Arriviamo».
Aprì la portiera dei sedili posteriori e con un cenno del
capo invitò Artù a salire, poi si
infilò al suo fianco e si allungò su di lui
per allacciargli la cintura di sicurezza. Quando ebbe finito
trovò gli occhi di
Alex che lo fissavano attraverso lo specchietto retrovisore.
«Siamo pronti», esclamò.
Alex inserì la prima marcia e partì lentamente,
uscendo dal
parcheggio dell’ospedale ed immettendosi nella strada
praticamente sgombra.
Ciononostante Merlino sentì Artù irrigidirsi al
suo fianco e guardare tra lo spaventato
e l’incredulo fuori dal finestrino.
«Come diavolo fa a muoversi senza cavalli?»,
chiese,
bisognoso di soddisfare la propria curiosità e forse di
essere anche
rassicurato sulla sicurezza di quel mezzo. Peccato però che
non l’avesse fatto
a bassa voce. Alex, infatti, roteò gli occhi al cielo e
sbuffò miseramente.
«Fantastico, è tornato il re
di Camelot. La prossima volta vedrò di colpirlo
più forte».
«Non ci sarà alcuna prossima volta», si
affrettò a dire
Merlino, per poi voltarsi verso Artù. «A questo
proposito, credo che dobbiate
delle scuse ad Alex».
«Come? Di cosa stai parlando, Merlino?».
«Non vi ricordate? Pensavate che Alex fosse una strega e che
mi avesse fatto del male. Le avreste tagliato la gola se lei non fosse
riuscita
a mettervi al tappeto, colpendovi in testa con una padella».
«Giusto per essere chiari», si intromise Alex,
fissandoli
entrambi attraverso lo specchietto retrovisore. «Io non ho
alcuna intenzione di
scusarmi per questo».
Artù corrugò la fronte e per un paio di secondi
rimase in
silenzio, a bocca aperta, poi si colpì le cosce con le mani,
arrendevole.
«Mi dispiace di avervi dato della strega e di aver tentato
di uccidervi, Lady Alexandra. Spero possiate perdonarmi».
Alex si strinse nelle spalle, mordendosi un sorriso. «Okay.
Ma con questa sono due i boccali di birra che mi devi
offrire».
Merlino inarcò un sopracciglio, ma non chiese spiegazioni.
Per tutto il resto del viaggio nell’abitacolo
regnò il
silenzio e lo stregone ne fu felice, perché sapeva fin
troppo bene che una
volta solo con Artù avrebbe dovuto rispondere a mille e
più domande sulle
“stranezze” del mondo del Ventunesimo secolo.
Nessuno parlò nemmeno quando Alex parcheggiò
l’auto di
fronte a casa sua: una tra le tante piccole villette a schiera a due
piani, con
un bovindo rettangolare sulla facciata a punta triangolare e un
semplice
steccato in legno come cancello d’entrata al piccolo
giardino, la cui privacy
era assicurata da folti cespugli di bellissime rose rosa e gialle e
spontanei
fiori di lillà.
Solo quando si trovarono tutti in salotto, Alex si voltò per
chiedere: «E adesso che si fa?».
Merlino ricambiò il suo sguardo, poi disse ad
Artù di andare
a prendere ciò che aveva lasciato nella camera da letto. Il
re non ne fu
entusiasta e Merlino avrebbe giurato che gli avrebbe ricordato, di
fronte ad
Alex, che come suo servitore quello era un suo
compito, ma sorprendentemente serrò le labbra e si
avviò su per le scale,
lasciandoli soli.
«È ovvio che non può più
stare qui», aggiunse Alex,
assumendo un’espressione severa. «So di aver detto
che l’avrei sorvegliato
personalmente, ma ho un lavoro, una vita, e dopo quello che
è successo
stamattina non mi sentirei proprio tranquilla a…».
«Non te l’avrei mai chiesto, Alex».
La ragazza sollevò gli occhi nei suoi, sorpresa, ed
imitò il
sorriso che gli aleggiava sulle labbra, molto più tranquilla.
«Hai fatto fin troppo per Artù e non
potrò mai ringraziarti
abbastanza».
Lei mosse una mano, come a voler scacciare una mosca, e poi se la
passò sui capelli raccolti nello chignon.
«L’avrebbe fatto chiunque».
«Non ne sono affatto convinto», rispose Merlino,
avvicinandosi d’un passo.
Alex alzò gli occhi per immergerli nei suoi e il mago
sentì
quella usuale fitta allo stomaco, quel desiderio impellente di
chinarsi,
stringerla tra le braccia e…
Artù si schiarì la gola alle loro spalle,
facendoli
sobbalzare entrambi. Si scostarono velocemente l’uno
dall’altra, imbarazzati, e
Merlino stiracchiò un sorriso, chiedendogli:
«Avete preso tutto?».
«Non trovo i pantaloni, la maglia di ferro
e…».
«Oh, quelli sono in cucina. Li ho lasciati lì,
quando vi ho
messo i vestiti che state indossando».
Artù parve accorgersi solo in quel momento del suo
abbigliamento: una maglietta a maniche corte che gli fasciava il petto
muscoloso, una felpa con la zip slacciata e un paio di jeans.
Aprì la bocca per
chiedergli qualcosa, ma Merlino lo fulminò con lo sguardo e
la richiuse,
rimandando anche la questione abbigliamento a più tardi.
«Che cosa nascondi dietro la schiena?», gli chiese
all’improvviso Alex, attirando la loro attenzione.
Il re si irrigidì, dondolandosi nervosamente sui talloni.
«Ecco,
io…».
«Artù?», lo esortò a sputare
il rospo lo stregone,
aggrottando la fronte.
«Temo di dovervi delle altre scuse, Lady
Alexandra»,
mormorò, mostrando loro ciò che aveva tenuto
dietro la schiena.
Alex sgranò gli occhi, iniziando a respirare affannosamente,
e lo raggiunse a piccoli passi. Prese tra le mani la sua piastra per
capelli,
irreparabilmente spezzata in due, e la fissò incredula fino
a quando la rabbia
non le fece alzare gli occhi su Artù, il quale dovette
richiamare a sé tutto il
proprio coraggio per non arretrare.
«Artù… Perché?»,
chiese sinteticamente Merlino, sconvolto.
«Pensavo fosse una specie di arma magica! Mi
dispiace!».
Alex sbuffò forte dal naso, come avrebbe fatto un toro
inferocito, e gli rivolse un’occhiata astiosa.
«Avrei dovuto lasciarti
annegare, ecco cosa!».
Artù parve punto nel vivo e serrando forte la mascella
esclamò: «Sarei riuscito a cavarmela benissimo
anche da solo! Anzi, non siete
stata voi a salvarmi, dato che senza di me non sareste riuscita a
tornare
indietro!».
Alex strinse i denti, con i pezzi della piastra per capelli
ancora in mano, e Merlino temette che sarebbe potuta diventare una vera
strega
proprio in quel momento, se non fosse intervenuto lui.
Fece per mettersi tra i due, ma la ragazza gli puntò contro
l’ormai inutilizzabile piastra per capelli – anche
se come arma contundente non
sarebbe stata affatto innocua – e lo costrinse a fermarsi sul
posto.
«È vero, senza il tuo aiuto probabilmente non
sarei riuscita
a tornare a riva, ma già che siamo qui lascia che ti dica
una cosa».
Assottigliò gli occhi, avvicinando il viso ad un soffio dal
suo, e gli puntò un
dito sul petto. «Il vero
re di
Camelot non si sarebbe mai fatto stendere da una ragazza e dalla sua
padella».
Merlino si passò una mano sulla faccia, preparandosi a fare
da scudo umano a uno dei due nel caso la situazione fosse diventata
tanto
critica.
Nonostante la rabbia cocente che doveva provare in quel
momento, Artù non rispose a quella terribile provocazione e
si voltò,
impassibile, verso il suo servitore.
«Andiamo via, Merlino», disse in tono piatto, ma
comunque
ben lungi da accettare rimostranze.
Gli passò accanto, diretto verso la porta, e gli
mollò tra
le braccia il mantello e l’armatura, con così poca
delicatezza che per un
attimo Merlino pensò che gli sarebbe caduto tutto quanto.
Quindi uscì
sbattendosi la porta alle spalle.
Il mago sospirò e cercò gli occhi di Alex per
scusarsi al
posto di Artù, ma la ragazza gli indicò la porta
con un cenno del capo,
dicendo: «Dovresti andargli dietro, per evitare che si cacci
in qualche altro
guaio».
Merlino annuì mestamente e si girò, quando Alex
lo chiamò di
nuovo. La guardò con un luccichio di speranza negli occhi,
ma gli ricordò
soltanto di prendere anche lo zaino, lasciato lì
nell’ingresso.
«Sì, grazie. Ehm…».
«Che c’è, Merlino?».
«Non posso andare in giro con tutta questa roba tra le
braccia, pesa un accidenti».
Alex parve comprendere e sparì in cucina, da dove
tornò con un
grande sacchetto di carta, con la firma di un negozio
d’abbigliamento femminile
stampata sopra. Lo aiutò ad infilarci dentro tutti i vestiti
e l’armatura di
Artù, poi gli aprì la porta di casa.
Merlino le passò accanto a testa china e una volta sotto il
piccolo porticato disse: «Mi dispiace Alex, sul
serio».
«Era una vecchia piastra per capelli, ne avrei comprata una
nuova a breve».
«Te la ripagherò comunque. Ma non mi riferivo solo
alla
piastra. Di solito Artù non si comporta così,
lui… sono stati due giorni
difficili».
«Non devi darmi spiegazioni. E non ce l’ho con te,
né con
lui… Sono stati due giorni difficili anche per me e sono
scoppiata».
Merlino imitò il suo lieve sorriso e si strinse il collo tra
le spalle. «Allora non è che potresti darci un
passaggio fino a casa?».
Il sorriso di Alex crebbe in larghezza come in malignità.
«Sai,
ad essere sincera quella piastra ce l’avevo da un mese
soltanto e sono
incazzata nera con Artù. Perciò no, non vi
darò un passaggio fino a casa. Ci
vediamo, Merlino». Detto questo gli sbatté la
porta in faccia, lasciandolo
stordito sul vialetto di pietre grezze.
«Magnifico», mormorò, iniziando a
percorrerlo per
raggiungere il cancello in legno, socchiuso.
Trovò Artù appoggiato al cofano
dell’auto grigia di Alex. Osservava
quella via tranquilla, con le case tutte in fila l’una
all’altra, i giardini
curati, i vialetti con le auto parcheggiate sotto il sole e un campo di
pallido
fieno a renderla una via senza sbocchi.
«Sei sempre stato pessimo a sceglierti gli amici»,
esclamò,
senza nemmeno guardarlo.
Merlino gli rivolse un’occhiata eloquente.
«Sì, me ne sono
accorto molto tempo fa».
Artù colse la frecciatina ma non rispose: non era
dell’umore
per accettarle e riderci su. Si alzò dall’auto e
si stirò le spalle, spingendosi
i gomiti verso la gola con le mani.
«Allora, dov’è il tuo carro di
metallo?», gli chiese,
impaziente.
«A riparare», rispose semplicemente Merlino.
«Grazie a voi
ci siamo assicurati una bella camminata».
Artù sbuffò, passandosi una mano tra i capelli
biondi, e lo
seguì lungo il marciapiede. Si era scusato troppe volte quel
giorno, il suo
orgoglio non era disposto a tollerarne delle altre, perciò
esclamò: «Meglio così,
un po’ di moto ti farà bene».
«A voi, forse, che siete rimasto fermo sul fondo del lago
per più di millequattrocento anni».
Merlino si rese conto troppo tardi di essere stato indelicato,
ma viste le circostanze decise di ignorare la delicatezza: la prossima
volta ci
avrebbe pensato su due volte prima di rompere la piastra per capelli di
Alex.
***
La collega a cui Alex aveva dato il cambio le aveva
assicurato che i bambini erano già tutti a letto, quindi
rimase a bocca aperta
quando, durante la “ronda” – come la
chiamavano gli infermieri notturni –
scoprì che alcuni dei loro piccoli pazienti, tutti riuniti
nella camerata più
grande, erano più che svegli.
«Dovreste essere a letto», esclamò a
bassa voce, guardando
severamente i più grandi del gruppo e chiudendosi la porta
alle spalle.
«Stiamo aspettando Merlino. Ieri non c’era,
quindi…».
Alex sospirò e si avvicinò al primo dei lettini
per infilare
le braccia di Steve, un bambino di sei anni appena e con una grave
forma
tumorale ai polmoni, sotto le coperte.
«E che cosa vi fa pensare che questa sera invece
verrà?»,
chiese, odiando ancora di più Artù per
ciò che la stava costringendo a fare:
dire a quei poveri bambini che non ci sarebbero state favole della
buonanotte
nemmeno quella sera.
«Perché ci avrebbe avvisato, almeno»,
ribatté con
convinzione Mark, tredici anni, uno degli ultimi arrivati, a cui era
stato
diagnosticato il linfoma di Hodgkin e aveva da poco iniziato la
chemioterapia.
Alex continuò a rimboccare coperte, pensando a come avrebbe
potuto rispondere a questo. Non era affatto da Merlino comportarsi in
quel
modo, lui che si era sempre fatto in quattro per poter stare almeno un
po’ ogni
sera con i bambini, ma da quando era comparso Artù era come
se non ci fosse
nulla di più importante, come se tutto il resto fosse
addirittura scomparso.
Non era obbligata a difenderlo, probabilmente non se lo
meritava, ma fu più forte di lei.
«E va bene», esclamò, guardando i
bambini che la stavano
fissando trepidanti. Avrebbe comunque spezzato loro il cuore, ma almeno
Merlino
sarebbe stato salvo.
«La verità è che ieri mattina Merlino
mi ha detto che in
questi giorni non sarebbe riuscito a passare perché sarebbe
arrivato un suo
amico da molto lontano. Mi ha chiesto di avvisarvi, perché
lui non avrebbe
fatto in tempo, ma… mi sono dimenticata. Mi dispiace,
bambini… Non so dove ho
la testa!».
I piccoli pazienti si guardarono in silenzio l’un
l’altro,
giù di morale, fino a quando Mark non esclamò,
sorridendo sghembo: «Non è che
sei innamorata, Alex?».
Sobbalzò e proprio non riuscì a non arrossire; lo
fece tanto
vistosamente che Mark ridacchiò, gettando
un’occhiata complice ad Abigail, sua
coetanea ma molto più abituata alla vita in ospedale, dato
che da più di due
anni, cioè da quando le era stata diagnosticata una forma
acuta di leucemia
linfoblastica, alternava visite frequenti a lunghi periodi di ricovero.
«Ehi, voi due, smettetela! Piccoli impiccioni che non siete
altro!», li rimproverò, trattenendosi dal battere
i piedi per terra.
«E va bene, va bene», disse Mark, alzando le mani
in segno
di resa. «Per questa volta siamo disposti a
perdonarti…».
«Grazie mille, non sarei proprio riuscita a dormire sonni
tranquilli sapendo che eravate arrabbiati con me», rispose
con una vena di
sarcasmo.
«Ma ad una condizione!».
Alex assottigliò gli occhi e si posò le mani sui
fianchi.
Quella sera erano proprio dei piccoli diavoli!
«Sentiamo questa condizione».
«Io e Abby abbiamo promesso una favola ai più
piccoli e,
costi quel che costi, avranno una favola».
«Oh, vi prego, lo sapete che non sono brava ad inventare le
favole».
«Non dovrai inventarle: Merlino lascia sempre qui il suo
libro».
«Non sono brava nemmeno a leggerle, sapete?».
«Una promessa è una promessa, Alex».
«Non l’ho fatta io, quindi…».
«Se ti rifiuterai, dirò a tutti di chi sei
innamorata».
Alex sentì la mandibola cederle, mentre quel terribile
scenario prendeva vita nella sua testa. Quando tornò alla
realtà, Mark la
guardava con gli occhi svegli sicuri della vittoria.
«Non puoi saperlo sul serio», rispose cercando di
dimostrare
anche un solo briciolo di sicurezza, che non aveva.
«Vuoi mettermi alla prova?».
Alex ci pensò su e no, non ne aveva alcuna intenzione. Ci
avrebbe pensato in un altro momento a come potersi liberare di quel
ricatto –
se davvero si trattava di un ricatto e non di un semplice bluff. Ora
doveva
pensare ad accontentare quei bambini, ai quali, per quanto a volte
potessero
dimostrarsi diabolici, voleva davvero un mondo di bene.
«Vado e torno», esclamò alla fine,
sorridendo quando i volti
dei bambini tornarono a splendere di gioia. «Ma voi fate
silenzio: se qualcun
altro vi dovesse trovare svegli mi licenziano».
Mark si portò l’indice davanti alla bocca,
invitando tutti
quanti a non aprire più bocca, e le fece
l’occhiolino.
Alex si guardò intorno e quando fu sicura che il corridoio
fosse deserto corse verso gli spogliatoi degli infermieri, dove Merlino
con il
passare del tempo si era guadagnato un armadietto tutto per
sé.
Aprì la porta quel tanto che bastava per sbirciare
all’interno, poi entrò e cercò la
targhetta con su scritto il nome del
cantastorie dell’ospedale, trovandola quasi subito.
L’armadietto non era chiuso
a chiave, perciò le bastò tirare l’anta
di metallo grigio chiaro per accedere
ad un pezzetto di Merlino. Veramente dentro non c’era nulla
di significativo:
un paio di cambi di vestiti, un pettine, un piccolo set
d’emergenza per lavarsi
i denti e un paio di libri, tra cui quello per cui si trovava
lì. Lo afferrò e
fece per chiudere l’armadietto, quando non riuscì
a resistere ed afferrò uno
dei fazzoletti che ogni tanto il moro portava legati intorno al collo.
Si portò
il morbido tessuto rosso al naso e respirò avidamente il suo
profumo,
appoggiandosi agli altri armadietti con gli occhi chiusi.
Un rumore le fece scattare la testa di lato all’improvviso.
Iniziò a boccheggiare, scioccata e colta in flagrante nel
bel mezzo di qualcosa
che non avrebbe mai dovuto fare.
«Keith», squittì, dandosi subito della
stupida.
«Alexandra», la salutò il dottor Ellis,
sorridendole come se
non si sentisse affatto a disagio nel mostrarsi a lei con solo un
asciugamano
avvolto intorno alla vita. Ma, Alex avrebbe dovuto ricordarselo, lui
non si sentiva
mai a disagio nel mostrare il proprio corpo perfetto e dai muscoli
scolpiti, di
fronte al quale persino il David di Michelangelo sarebbe impallidito.
«Che ci fai nello spogliatoio degli infermieri con,
uhm… è
la sciarpa di Merlino, quella?».
Alex si accorse di essersela portata al petto e sorrise
imbarazzata, gettandola di nuovo dentro l’armadietto.
«Sì, era caduta».
«Mi sembrava che ci stessi facendo altro, ma
sorvolerò».
«Ottima idea. E tu che ci fai ancora qui a
quest’ora?».
«C’è stata un’emergenza al
pronto soccorso e mi sono
trattenuto. Un uomo stava tagliando la legna nel giardino dietro casa
quando
l’accetta gli è scappata di mano e…
beh, puoi immaginare».
«Dev’essere stato proprio un bello
spettacolo», commentò,
stirando un sorriso nervoso.
«Così bello da togliermi
l’appetito».
Alex aspettò qualche secondo e poi si avviò
silenziosamente
verso la porta, sperando che Keith la lasciasse andare senza dire
altro. Le sue
preghiere però, come sempre, non vennero ascoltate.
«Come sta il tuo amico?», le chiese, prendendo un
altro
asciugamano dalla panchina per passarselo sui capelli corti e sulle
spalle.
«Quale amico?».
«Quello che ho visitato stamattina».
«Io e lui non siamo affatto amici», disse con una
certa
irritazione, ripensando alla fine che quell’imbecille aveva
fatto fare alla sua
piastra nuova.
«Scusami, non volevo ficcare il naso, ma ho
pensato…».
«Hai pensato male», tagliò corto, per
poi dirigersi in modo
più spedito verso la porta. «Ci vediamo,
Keith».
«Alexandra?».
L’infermiera sospirò pazientemente, socchiudendo
gli occhi,
ed infilò nuovamente la testa all’interno dello
spogliatoio.
«Non ci eravamo più parlati,
dopo…».
«Vero».
«Sei ancora arrabbiata con me?».
Alex ci pensò un po’ su, poi scosse il capo,
facendo
sbocciare un sorriso sul volto del dottor Ellis.
«Ci vediamo allora».
«Ciao», lo salutò Alex, sentendosi
all’improvviso più
intrappolata di prima, quando non riusciva ad uscire dallo spogliatoio
e il
corpo di Keith era lì in bella vista di fronte ai suoi occhi.
Cercò di scacciare via quell’immagine dalla testa
e respirò
profondamente, stringendosi al petto il libro di favole di Merlino.
«Cominciavamo a pensare che il fantasma
dell’ospedale ti
avesse rapito», esclamò Mark.
«Non c’è nessun fantasma
dell’ospedale», rispose bruscamente Alex,
afferrando una sedia e sistemandola
tra il secondo e il terzo letto della camerata, in mezzo a tutti i
bambini. «E
ora facciamola finita. Quale favola volete che vi legga?».
«Quella del grifone!».
«No, quella del goblin è più
divertente!».
«L’unicorno, l’unicorno!».
Mark si alzò in piedi dalla propria sedia a rotelle e fece
segno di fare silenzio. Quando tutti gli occhi furono puntati su di
lui, disse
con voce pacata: «Facciamo a votazione. Alzi la mano chi
vuole la storia del
grifone».
Una piccola manina, quella di Steve, si alzò.
Alex, in attesa che finissero le votazioni, iniziò a
sfogliare alcune pagine del libro, scoprendo che quello non era un
libro di
favole qualunque: era completamente scritto a mano, con una grafia
bella e
dall’aspetto antico, e le parole erano accompagnate da tanti
bellissimi
disegni, colorati oppure semplicemente in bianco e nero, ma
così
particolareggiati e realistici da toglierle il respiro.
Non fu solo una metafora – il respiro le mancò
veramente –
quando i suoi occhi si posarono su quello che doveva essere un ritratto
di re
Artù nel giorno della sua incoronazione.
Due particolari attirarono la sua
attenzione: uno meno evidente, ossia lo stemma col drago dorato cucito
sul
mantello rosso vivo e lungo fino ai piedi; il secondo, il suo viso
serio e
concentrato, fiero di portare quella splendida corona d’oro e
allo stesso tempo
un po’ spaventato, consapevole che da quel giorno in poi
avrebbe avuto un regno
e la vita di tutti i suoi abitanti tra le mani.
Lo stemma sarebbe potuto essere benissimo il vero simbolo
araldico della casata della famiglia Pendragon, ma quel
volto… Perché mai
Merlino avrebbe dovuto disegnare re Artù con le stesse
identiche sembianze di
Artù l’imbecille che le aveva rotto la piastra?
«Alex? Alex, sei tra noi?».
La ragazza scosse il capo, trovando il viso di Mark ad un
soffio dal proprio, e sbuffò allontanandolo spingendo due
dita sulla sua
fronte.
«Avete deciso?», chiese annoiata.
«Da un pezzo! Ma tu eri troppo impegnata ad immaginarti con
il tuo innamorato…».
«Ti ho già detto di piantarla. Alla terza,
farò in modo che
il fantasma dell’ospedale diventi realtà e che ti
tormenti tutte le notti».
Mark prese quella minaccia come la barzelletta più
divertente che avesse mai sentito e scoppiò a ridere,
tornando alla propria
sedia a rotelle. Alex aspettò che finisse, prima di chiedere
ad Abigail, la
voce della saggezza e dell’intelligenza: «Quale
storia, quindi?».
«Quella dell’unicorno è andata per la
maggiore. Nell’indice
è intitolata “Il
labirinto di Gedref”».
«Molte grazie, Abby».
Cercò la pagina corrispondente ed iniziò a
leggere,
trovandosi ben presto tanto coinvolta quanto i bambini.
Quando la storia finì, i bambini più piccoli si
erano già
addormentati nei loro lettini, ma non solo loro: lo stesso Mark,
appoggiato al
materasso con le braccia incrociate e una guancia su di esse, ronfava
da un
pezzo.
Alex incrociò gli occhi scuri di Abigail, l’unica
rimasta
sveglia, e le sorrise, stropicciandosi gli occhi.
«È proprio ora di andare a dormire, adesso. Lo
svegli tu Mark?».
Abigail annuì e gli posò una mano sulla spalla
per scuoterlo
leggermente. Il ragazzino aprì gli occhi e si
guardò intorno, spaesato. Non
appena realizzò cosa doveva essere accaduto si
precipitò a difendere il proprio
orgoglio, esclamando a bassa voce: «Non ero stanco,
è Alex che non è capace a
raccontare».
«Sicuro», rispose l’infermiera,
ridacchiando.
I due ragazzini uscirono dalla camerata mentre Alex finiva
di rimboccare le coperte dei bambini; poi, non appena ebbe spento tutte
le luci
sui comodini, li raggiunse.
«Filate nelle vostre camere, teppistelli. E senza farvi
beccare, mi raccomando».
«Non mi hanno mai beccato e mai ci riusciranno»,
disse Mark,
strizzandole l’occhio.
Alex lo guardò andare via con le mani sui fianchi e poi
posò
gli occhi su Abigail, ancora ferma al suo fianco.
«Vuoi che ti accompagni?», le chiese Alex.
«No, volevo solo dirti una cosa».
«Ti ascolto».
Abigail le fece segno di chinarsi e Alex
l’accontentò,
porgendole l’orecchio.
«Mark crede che tu sia innamorata del dottor Ellis».
Alex trattenne a stento una risata, più che sollevata. Fece
per alzarsi e dirle che allora non aveva più nulla da
temere, ma la ragazzina
la prese un polso, trattenendola.
«Io però lo so di chi sei innamorata
veramente», le sussurrò
ancora, dolcemente, posando l’altra mano sulla copertina
consumata del libro
che l’infermiera teneva stretto al petto.
«Custodirò gelosamente questo
segreto, te lo prometto».
Alex cercò i suoi occhi e le sorrise, accarezzandole i corti
capelli castani. Quindi le posò un bacio sulla fronte,
mormorando: «Grazie,
Abby».
Abigail ricambiò il sorriso e spinse in avanti le ruote
della carrozzina, guardandosi indietro una sola volta per augurarle la
buonanotte e dirle: «Penso che lui ricambi i tuoi
sentimenti».
Alex non rispose, colta all’improvviso da quelle parole, e
strinse ancora un po’ di più il libro di favole
tra le braccia, chiedendosi se
sarebbe mai riuscita a scoprire almeno una parte, anche una
piccolissima, dei
segreti di Merlino.
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Capitolo 5 *** 5. The moment of truth ***
Buongiorno!
:)
Allora, la settimana scorsa ci siamo lasciati con un po’ di
domande sparse qua e là: quanti e quali sono i segreti di
Merlino? Cosa si è perso Artù in ben quindici
secoli di storia? Come farà ora Alex con la
piastra per capelli rotta? Diciamo che queste
sono quelle fondamentali, soprattutto la terza xD
Quella che però voglio mettere in risalto
quest’oggi, prima di lasciarvi al capitolo (che in parte
risponderà alle domande sopra citate), è: Merlino
è lo stesso stregone che ricordiamo? Perché
sì, qualcuno di voi ha portato a galla la questione magia,
la quale - per chi non l’avesse notato - ancora non si
è vista. E la risposta meno spoilerosa che riesco a darvi
è che il tempo secondo me può cambiare le
persone, può renderle migliori o peggiori a seconda dei
casi. Ho cercato davvero di immedesimarmi in Merlino, di immaginare
tutto quello che può essere successo dopo la –
ugh… mi è difficile dirlo, scusate –
dopo la morte di Artù… E quello che leggerete ne
è il risultato. Ho viaggiato di fantasia e se
riuscirò a far viaggiare anche voi… beh, dire che
ne sarò felice è poco. Quindi bando alle ciance,
vi lascio al capitolo.
Un grazie a tutti i lettori attenti (e anche a quelli un po’
meno attenti, sì!), a chi ha recensito e a chi ha messo
questa storia tra le preferite, le seguite e le ricordate. Love
u all!
Vostra,
_Pulse_
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5.
The moment of truth
Artù
trattenne un grido frustrato e si girò ancora una volta nel
letto, col cuscino premuto sull’orecchio.
Non aveva chiuso occhio per tutta la notte, con la mente affollata da
troppi pensieri, e ora che finalmente sentiva le palpebre pesanti e la
testa svuotata quegli odiosi gabbiani non facevano altro che strillare,
impedendogli di addormentarsi.
Si mise seduto sul letto, appoggiato con le spalle alla testata, e si
guardò intorno ancora una volta.
Merlino aveva preparato una stanza per lui, spiegandogli che
l’aveva fatto in qualsiasi casa si fosse trovato ad abitare,
e aveva cercato di renderla il più simile possibile a quella
che aveva a Camelot, in modo che potesse sentirsi più a suo
agio, quasi a casa.
Artù aveva apprezzato, gli aveva anche detto che aveva fatto
un ottimo lavoro, ma sapeva benissimo che non si sarebbe mai
più sentito a casa ora che era venuto a conoscenza che casa
sua non esisteva più da secoli.
Tutto ciò che aveva costruito e per cui aveva combattuto
fino alla fine, tutte le persone che amava… non era rimasto
più niente, spazzato via dal tempo. Persino lui non era
più nessuno: non essendoci più Camelot, era il re
di niente.
Dalla finestra socchiusa entrava un’arietta frizzante ed
impregnata dell’odore del fiumiciattolo che scorreva dietro
la casa e che andava ad immettersi nel lago di Avalon, il suo luogo di
sepoltura e di rinascita.
Si tastò il petto, ripensando al dolore che aveva provato in
punto di morte, quando quel pezzo di spada gli aveva trafitto il cuore,
e rabbrividendo si chiese se fosse ancora dentro di lui, in attesa che
compisse il proprio destino prima di riportarlo nuovamente ad Avalon.
Quella notte aveva pensato molto alle parole di Merlino, alla profezia
che il drago gli aveva lasciato prima di dirgli addio, e non riusciva
proprio a venirne a capo: che cosa avrebbe potuto mai fare lui, un re
senza regno e del tutto ignorante riguardo alle novità e
alle scoperte fatte in più di quindici secoli di storia?
Sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito, molto, molto lentamente,
anche solo ad ambientarsi; chiedergli di salvare il mondo moderno era
veramente una pazzia.
Si alzò in piedi e aprì del tutto la finestra per
affacciarsi sul piccolo giardino anteriore, dove scorse Merlino seduto
sull’erba umida di rugiada, intento a fissare
l’alba all’orizzonte.
Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era felice di
averlo ancora al suo fianco. Fra tutti, anche se avesse potuto
scegliere tra i suoi valorosi cavalieri, non avrebbe esitato un attimo
a puntare il dito verso il suo servo, il più fedele e
coraggioso degli uomini, quello che più di una volta si era
dimostrato un amico eccezionale, pronto a sacrificare la propria vita
per lui e salvandogliela di continuo.
Ora sapeva che Merlino era anche qualcos’altro, qualcosa che
non avrebbe mai nemmeno immaginato, ma non aveva alcuna intenzione di
affrontare l’argomento. Non l’avrebbe ignorato se
fosse venuto fuori, ma ormai non aveva senso rivangare nel passato in
quel modo, cercando spiegazioni di cui, alla fine, non aveva bisogno.
Merlino era uno stregone e aveva usato la magia per proteggere lui e
Camelot: tutto questo gli bastava.
Decise di non disturbarlo e si diresse verso il paravento, dietro il
quale trovò dei vestiti puliti, simili a quelli che aveva
indossato il giorno prima. Se li infilò, non senza qualche
difficoltà, poi lasciò la camera da letto per
dirigersi nella stanza che Merlino gli aveva spiegato essere adibita e
specializzata nella cura del corpo.
Era rimasto senza parole quando gli aveva mostrato come utilizzare il
rubinetto, un manico da cui sgorgava acqua calda o fredda alzando
semplicemente una leva, e il gabinetto, un oggetto ancora
più sorprendente ma molto funzionale. L’avrebbe
sempre ricordato come la prima cosa che gli aveva fatto apprezzare la
modernità a volte disarmante ed incomprensibile
dell’era in cui era stato catapultato.
Dopo essersi sciacquato il viso ed essersi dato una sistemata ai
capelli, imbronciandosi di fronte al brutto livido che Alexandra gli
aveva lasciato sul naso, scese le scale per trovarsi
nell’ampio salotto che, in confronto alla sua camera, era
dieci volte più moderno: c’erano divani in pelle
bianca lunghi quanto una persona, due poltrone della stessa manifattura
e il pavimento in legno era ricoperto in vari punti da tappeti
orientaleggianti.
Ai lati dell’ampio camino c’erano due alte librerie
piene zeppe di libri ed oggetti che sembravano provenire da regni
lontani, e in mezzo ad una di esse era stato messo un quadro quasi
identico a quello che aveva visto nella camera da letto di Lady
Alexandra, forse un po’ più grande. Non aveva
avuto ancora il tempo di chiedere a Merlino se fosse una specie di moda
moderna, ma aveva la sensazione che l’avrebbe scoperto presto.
Il suo olfatto non fu in grado di riconoscere il profumo che gli
stuzzicava le narici, ma era quasi sicuro di averlo già
sentito a casa di Lady Alexandra. Spinto dalla curiosità,
entrò in cucina, rimanendo un attimo disorientato di fronte
a tutti gli oggetti sconosciuti su cui si posarono i suoi occhi. Si
promise di non toccare nulla, per evitare di fare altri danni
– la storia della piastra per capelli gli aveva insegnato
un’importante lezione – e cercò la
possibile provenienza di quell’odore forte ma piacevole.
Si avvicinò al tavolo dove Merlino doveva aver
già consumato la propria colazione ed afferrò lo
strano bicchiere, giallo e con il manico, dentro il quale era rimasto
un po’ di liquido nero. Se lo avvicinò al naso per
annusarlo e sorrise, soddisfatto di aver trovato ciò che
cercava. Si portò alle labbra il bicchiere e lo
assaggiò, risputandolo fuori quasi subito, disgustato da
quel sapore intenso ed amaro.
«Ma che accidenti beve, quell’idiota?»,
si chiese passandosi una mano sulla bocca, quando un rumore improvviso,
una specie di cinguettio forte e prolungato, lo fece trasalire. Il
bicchiere gli scivolò dalle mani, infrangendosi sul
pavimento, ma Artù non se ne curò ed
afferrò la prima arma che gli capitò sotto tiro:
un coltello non molto affilato e sporco di gelatina rossa. Sempre
meglio di niente.
Il verso acuto si ripeté e Artù ne
individuò la provenienza grazie ad un luccichio arancione.
Si trattava di un oggetto allungato, infilato in una base e con tanti
piccoli bottoncini di gomma su cui erano segnati dei numeri. Prima di
decidere se fosse pericoloso o meno, Merlino arrivò di corsa
e sobbalzò quando si accorse della sua presenza.
«Niente paura, è solo il telefono», gli
spiegò, ma subito si rese conto che quella spiegazione gli
sarebbe servita a ben poco. Il mago gli fece segno di lasciare
giù il coltello e di aspettare, quindi tirò su
l’oggetto allungato, che si azzittì, e se lo
portò all’orecchio.
«Pronto? Oh, buongiorno signora Begum».
Artù sgranò gli occhi, più che
confuso. Perché stava parlando con quell’oggetto,
chiamandolo oltretutto “signora”?
«Sì, sto meglio, ma ho ancora qualche linea di
febbre. No, non sono ancora andato dal dottore, ho preso
l’appuntamento per oggi. Lo so, non sarei dovuto andare in
bici sotto la pioggia, ma era un’emergenza. Pensavo
lunedì, ma se il dottore dirà che…
Davvero? Beh, la ringrazio infinitamente signora Begum. Ah, i microbi
nei piatti, certo. Sì, grazie per aver chiamato.
Arrivederci».
Merlino pigiò uno di quei bottoni di gomma, poi
lanciò un’occhiata ad Artù. La sua
espressione sconvolta lo fece sorridere e alla fine anche ridacchiare,
tanto che il re si riscosse e lo fulminò con lo sguardo.
«Non è divertente, Merlino».
«Oh sì che lo è, credetemi».
Sospirò, recuperando il controllo di sé, e gli si
avvicinò. Si sedette sul bordo del tavolo e gli mise in mano
l’oggetto allungato, iniziando a spiegargli: «Si
chiama “telefono”, serve per comunicare a distanza
con le persone che ne possiedono uno. Ogni telefono ha un numero
specifico, perciò basta solo conoscere il numero
dell’altra persona, digitarlo sui tasti e far partire la
chiamata».
Artù non aveva capito esattamente tutto, ma finse di
sì e gli chiese: «Chi è la signora con
cui hai parlato?».
«La signora Begum. È la proprietaria
della… taverna dove lavoro».
Artù gli rivolse un’occhiata di rimprovero, con le
sopracciglia inarcate e un angolo della bocca sollevato in un
sogghigno. «Non hai ancora perso il vizio, eh?».
Merlino roteò gli occhi al cielo, ma alla fine rise anche
lui. Poi si accorse del disastro sul pavimento.
«Che cos’è successo qui?», gli
chiese, indicando i cocci e il liquido ora marrone sulle mattonelle
bianche. «Vi siete spaventato sentendo il
telefono?».
Artù allungò una mano per tirargli uno
scappellotto, ma Merlino lo deviò con estrema
facilità e gli disse di spostarsi, così da poter
dare una pulita.
Il re si sedette al tavolo e guardò Merlino armarsi di
straccio per asciugare e raccogliere i pezzi di ceramica più
grossi. Gli stava per chiedere perché non utilizzasse
semplicemente la magia, ma poi ci ripensò e
cambiò del tutto argomento.
«Perché hai detto alla signora Begum che hai la
febbre?».
«Perché non posso andare al lavoro e lasciarvi
solo».
«Posso badare a me stesso».
«Disse colui che stava per attaccare il telefono con un
coltello sporco di marmellata».
Artù sospirò ed incrociò le braccia
sul ripiano del tavolo. I suoi occhi si posarono sul cesto di frutta
posato proprio di fronte a lui e fu felice di scorgere qualcosa che
conosceva anche lui: una mela.
Possibile che anche un qualcosa di così semplice gli facesse
provare nostalgia? Mordendola infatti gli era venuto in mente Gwaine e
quella volta in cui, nel silenzio più assoluto, aveva fatto
sobbalzare lui e gli altri cavalieri addentando con gusto proprio una
mela.
«Perché proprio io?».
Merlino alzò di scatto la testa e lo guardò,
aggrottando la fronte. «Che cosa?».
«Ero il re, va bene, ma questa non è
più l’Albione che conoscevo. Come hai detto che si
chiama?».
«Gran Bretagna».
«Quello che voglio dire è che ci saranno stati
uomini ben più grandi di me, in questi secoli, quindi
perché sono stato scelto proprio io?».
Merlino smise di pulire e si alzò in piedi per appoggiarsi
al tavolo, con le braccia incrociate al petto. «Ho detto Gran
Bretagna, ma si chiama anche Regno Unito. E siete stato voi ad unire
per primo queste terre, Sire. Voi non siete stato un semplice re: siete
e sarete sempre il solo ed unico re, il re del passato e del
futuro».
«No, Merlino; sono solo una figura del passato, una
leggenda».
«Una figura ed una leggenda così importante da
essere studiata ancora oggi, a cui si ispirano libri, film, opere
d’arte…».
Artù lo fissò intensamente per qualche secondo,
cercando di trattenere la frustrazione, invano. Sbatté le
mani sul tavolo, facendo sobbalzare il mago, ed urlò:
«Sono stanco di dover vivere solo per portare a compimento un
destino che non ho scelto!».
Merlino rimase in silenzio, turbato da quelle parole, poi
chinò il capo. Artù attese una sua risposta per
quella che gli sembrò un’eternità, e
quando fu sul punto di alzarsi e scuoterlo per le spalle,
notò che il suo servitore stava sorridendo, nonostante i
suoi occhi si fossero inumiditi.
«Se solo fosse così semplice scappare dal
proprio destino…», mormorò,
iniziando a ridacchiare. «È questo che mi ha detto
Kilgharrah quando sono andato a chiedergli come fosse possibile che il
mio destino fosse quello di proteggere e servire qualcuno che mi
odiava».
«Non ti ho mai odiato», disse Artù,
lasciando parlare il cuore anziché la mente, solo per quella
volta.
«L’ho capito, poi. E mi sono reso conto che anche
se non avessi conosciuto il mio destino non mi sarei comportato
diversamente, mai. Il mio destino si è unito alla mia
volontà: stare al vostro fianco… era
l’unica cosa per cui valesse la pena di rimanere a
Camelot».
Artù deglutì e deglutì ancora
più forte quando Merlino posò gli occhi nei suoi,
rivolgendogli un sorriso emozionato.
«Non conosco cosa vi riservi il destino, Sire, ma io so che
il vostro ritorno ha già fatto moltissimo».
«Cioè?».
Merlino sospirò tristemente, ma il sorriso che gli incurvava
le labbra non scomparve. «Stavo per perdere la speranza. E
sapete che cos’è un uomo senza speranza? Un uomo
morto».
Artù avrebbe tanto voluto dire qualcosa, anche un semplice
«Grazie» sarebbe andato bene, ma dalla sua bocca
dal sapore amaro – non solo per quella bevanda che aveva
assaggiato – non uscì un suono.
Merlino però non sembrava in attesa di un suo commento, anzi
fu proprio lui a tirarlo fuori dalla pozza di disagio in cui era
lentamente affondato, come nelle sabbie mobili, chiedendo divertito:
«Che cosa stavate facendo con la mia tazza di
caffè in mano?».
«Tazza di… cosa?».
«Caffè», ripeté Merlino,
indicando il liquido che presto si sarebbe asciugato sul pavimento,
lasciando una brutta macchia. «Lo bevono praticamente tutti
in quest’epoca, a qualsiasi ora e più volte al
giorno. In effetti può diventare una specie di droga, se non
ci si sta attenti».
Artù si passò la lingua tra i denti, ricordandone
il sapore, ed arricciò il naso. «L’ho
assaggiato, ma non mi è piaciuto. È
troppo… amaro».
«Questo perché io lo prendo
così. Provatelo con lo zucchero».
Merlino gli versò una tazza di caffè fumante e
gli versò dentro due cucchiaini di zucchero,
mescolò per qualche secondo e poi gliela porse, sorridendo
incoraggiante.
Artù si fidò del proprio servitore e con gli
occhi semichiusi si portò la tazza alle labbra, assaggiando
la bevanda. Li aprì, trovandola molto più
bevibile, e guardò Merlino meravigliato.
«Meglio?».
«Assolutamente!».
«Bene. Ma ci sono moltissimi altri modi in cui il
caffè si può bere. C’è il
caffè espresso, quello macchiato, il cappuccino, il
caffelatte, il marocchino…».
«Deve piacerti davvero molto questa bevanda»,
esclamò Artù, divertito.
«Prima vi ho detto che può diventare una specie di
droga. Beh, io sono un caso irrecuperabile ormai».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi scoppiarono a ridere, non
riuscendo più a trattenersi.
***
Molte
spiegazioni dopo, tra cui quella sul forno a microonde, sui fornelli,
sul tostapane e sulla televisione, Merlino si sentiva esausto, come
prosciugato, e si era rifugiato nel giardino sul retro, sotto
l’ombra del salice piangente che aveva piantato circa dodici
anni prima, quando aveva comprato quella casa con l’aspetto
di un vecchio, aspetto che aveva dovuto mantenere per otto lunghi anni
prima di fargli tirare le cuoia e subentrare come il suo giovane
nipote, unico erede e senza un preciso scopo nella vita.
Di solito si trasferiva solo quando i vicini iniziavano a domandarsi
quanti anni avesse quel vecchio scorbutico che se ne stava sempre in
disparte a farsi gli affari suoi – era stato il suo modus
operandi per tutta l’eternità,
spostandosi di villaggio in villaggio senza mai allontanarsi troppo da
Avalon, – ma dodici anni prima era stato diverso: durante uno
dei suoi pellegrinaggi al lago aveva cambiato strada e si era imbattuto
in quella villetta simile ad un piccolo castello, con quelle specie di
torrette a punta ai lati, isolata da tutte le altre e circondata da un
piccolo bosco, vari ettari di campi e prati in cui la natura si era
sviluppata incontrollata e persino un fiumiciattolo, e se
n’era perdutamente innamorato.
Era in evidente stato d’abbandono e chiedendo in giro aveva
scoperto che non apparteneva a nessuno da più di
vent’anni e che nemmeno il comune sapeva con esattezza che
cosa farci, anche se si vociferava che l’avrebbero abbattuta
all’inizio dell’anno nuovo. Merlino aveva colto la
palla al balzo e l’aveva acquistata ad un prezzo nemmeno
troppo alto, nonostante tutti quanti avessero pensato almeno una volta
che aveva letteralmente buttato al vento tutti i risparmi di una vita.
Si erano dovuti ricredere però, quando avevano visto il
risultato del duro lavoro di ristrutturazione in cui Merlino aveva
messo anima e corpo.
Era davvero magnifica e più la guardava, più il
suo petto si gonfiava d’orgoglio. Aveva passato dei brutti
momenti quando si era soffermato a pensare a quando avrebbe dovuto
lasciarla per trasferirsi in un altro villaggio, ma ora che
Artù era tornato sapeva che quella sarebbe stata la sua
ultima casa, quella in cui avrebbe trascorso la sua ultima vecchiaia
prima di morire. Ne era certo, lo sentiva in quelle ossa vecchie e
spesso e volentieri doloranti. Ora che Artù era risorto, non
c’era più bisogno che vivesse una vita immortale:
probabilmente aveva iniziato ad invecchiare nello stesso momento in cui
Artù era uscito dall’acqua.
Morire in sé non lo spaventava, era il quando: doveva
aiutare Artù a portare a termine il proprio destino e per
questo doveva rimanere vivo; poi, qualsiasi cosa aspettasse il suo re,
se anche fosse stata la morte, lui l’avrebbe seguito. In ogni
caso vederlo morire una seconda volta sarebbe stato un dolore troppo
grande da sopportare e sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto se
fosse accaduto.
Accarezzato dal vento freddo, dal rilassante fruscio delle foglie
verde-argentate e dal gorgoglio dell’acqua, si
abbandonò ad un sonno leggero, dal quale fu bruscamente
svegliato dalla voce di Artù che chiamava il suo nome.
«Che c’è?»,
mugugnò, affondando ancora di più il mento nella
sciarpa blu che portava al collo.
Il re di Camelot spostò un paio di lunghi rami e raggiunse
il mago per sedersi al suo fianco, sulle radici del salice.
«Avete bisogno di qualcosa?», chiese Merlino,
guardandolo con la coda dell’occhio.
«Voglio che mi parli di Camelot, di ciò che
è successo dopo la mia morte».
Merlino si tirò su lentamente, appoggiando le spalle alla
corteccia dell’albero, e lo guardò con gli occhi
colmi di dolore: «Non volete saperlo veramente».
«Invece sì, Merlino. È un
ordine».
Pensare a Camelot, a tutte le persone a cui aveva voluto bene e che
aveva visto morire l’una dopo l’altra era
un’enorme sofferenza ogni volta, ma riusciva a capire come si
sentisse Artù. Conoscere la verità, o almeno una
parte, era un diritto che non poteva negargli.
«Dopo la vostra morte Ginevra è salita al trono e
ha regnato saggiamente per tre anni, mantenendo la pace nel vostro
regno, fino a quando gli altri re, aggrappandosi al fatto che non
avesse alcun diritto di essere regina, viste le sue origini popolane,
hanno stracciato i trattati stipulati con voi, si sono alleati e
Camelot… è caduta».
Artù sgranò gli occhi, stordito dal dolore.
«Come… caduta? Non avevamo
alleati, nemmeno uno?».
«Solo la regina Mithian di Nemeth», rispose
Merlino, accennando un sorriso ricordando il volto di quella
principessa che, al loro primo incontro, l’aveva trattato
prima di tutto come un essere umano, nonostante fosse il servitore del
re.
«Ho sempre pensato avessi un debole per lei e quel tuo
sorrisino me lo conferma», biascicò
Artù, scuotendo il capo. «Merlino! Smettila di
sognare ad occhi aperti e continua!».
«Avremmo avuto anche il sostegno della regina Annis, se fosse
sopravvissuta ad un altro inverno. Il suo successore, un cugino sbucato
dal nulla, non aveva alcun motivo per imbarcarsi in quella missione
suicida. E, come avevo predetto, è stato un
massacro».
«Come avevi predetto? Che vuol
dire?».
«Beh… Gwen è venuta a conoscenza dei
miei poteri, credo anche grazie a Gaius, e mi ha eletto consigliere di
corte. Prima della battaglia di Camlann i miei poteri sono aumentati
notevolmente e con lo studio e la pratica ancor di più,
tanto che ho iniziato a sviluppare il dono della Vista, riuscendo a
vedere il futuro senza l’utilizzo dei cristalli. Avevo visto
la battaglia che si sarebbe svolta, avevo visto le mura crollare e il
castello sotto assedio, ma Gwen fu irremovibile».
«No. No, no…», mormorò
Artù, con le lacrime agli occhi, ma Merlino evitò
di guardarlo e finì il proprio straziante racconto.
«Lei e i cavalieri si sono rifiutati di fuggire e hanno
lottato fino alla fine, con coraggio. Sono periti tutti nella sala del
trono, anche Gaius».
«E tu… tu e tutta la tua magia… non hai
fatto nulla?!», gridò, alzandosi in piedi di
scatto, così in collera da prendere a calci il tronco del
salice.
«Ho lottato fino allo stremo delle forze e ho protetto la
regina fino a quando ho potuto, fino a quando non sono morto
anch’io».
Artù si fermò improvvisamente, con i pugni
stretti sulla corteccia, e lo guardò incredulo. Merlino si
alzò in piedi a sua volta ed iniziò a spogliarsi,
togliendosi il giubbotto, la sciarpa, la felpa e infine la maglietta.
Il freddo gli entrò fin nelle ossa e tremò, ma
sul suo petto martoriato, pieno di cicatrici, ne indicò una
lunga almeno cinque centimetri, poco sotto il cuore.
«Ancora non sapevo di essere immortale, ma non avrebbe fatto
alcuna differenza: il mio cuore si è fermato, quando la
spada che avrebbe dovuto infilzare Gwen ha trapassato me. Sono morto
tra le sue braccia, Artù, e mi sono risvegliato solo un paio
d’ore dopo, quando ormai era troppo tardi per tutti.
È stato in quel momento che mi sono reso conto di essere
diventato immortale».
Artù si appoggiò al tronco del salice e si
lasciò scivolare a terra, con le gambe tirate verso il petto
e il viso nascosto tra le braccia.
Merlino, tremante come una foglia, si rivestì in fretta,
stringendosi nel giubbotto quando tornò a sedersi al suo
fianco.
«Non si è mai risposata?»,
domandò ad un tratto Artù, con voce debole.
«No, non avrebbe mai amato nessuno tanto quanto amava
voi».
Il re sollevò il viso per rivolgergli un breve sorriso di
gratitudine. «E tu? Una volta caduta Camelot… che
cos’hai fatto?».
«Mi sono nascosto. Tutti mi credevano morto nel tentativo di
difendere la regina, ho finto di esserlo veramente. Era la soluzione
migliore. Poi ho viaggiato per il mondo, aspettando il momento
opportuno per poter tornare ad Albione ad attendere il vostro ritorno
senza che nessuno mi riconoscesse».
«E non ti sei mai innamorato? Non hai mai avuto una
famiglia?».
«Mi sarebbe piaciuto, ma no».
«Non ci credo».
Merlino fissò gli occhi nei suoi ed aprì la bocca
per spiattellargli addosso tutta la verità su quanto fosse
stato difficile vivere da solo per più di millequattrocento
anni e su quanto lo sarebbe stato ancora di più sposarsi,
avere dei figli e dei nipoti e poi vederli morire uno dietro
l’altro senza poter fare nulla per impedirlo.
Era quasi accaduto una volta: si era arreso all'amore, rifiutando la
logorante solitudine che si era imposto. Alla fine però il
buonsenso gli era tornato prima che fosse troppo tardi. Aveva spezzato
il cuore alla sua amata, come lei aveva spezzato il suo, ma
era stato un male necessario. Si era evitato la pazzia.
«Sta per venire a piovere», esclamò,
alzandosi in piedi in fretta e furia ed uscendo dal nascondiglio che il
salice aveva offerto loro fino a quel momento.
Artù alzò gli occhi al cielo e scorgendo il sole
tra le fronde del salice sbuffò, urlando nella sua
direzione: «Cos’è, hai visto il
futuro?».
«No, sono vecchio, ricordate? Le ossa hanno iniziato a
dolermi!».
Merlino si fermò sotto il porticato, con le braccia strette
al petto, ed attese che Artù lo raggiungesse.
«Vi faccio assaggiare una cosa che sicuramente adorerete: si
chiama cioccolata. È una bevanda calda e dolce, perfetta per
quando…».
«Merlino», lo interruppe il re, fissando gli occhi
nei suoi. «Non volevo essere invadente, ero solo curioso. Mi
dispiace se ti ho riportato alla mente ricordi dolorosi».
Lo stregone abbozzò un sorriso, scrollando le spalle.
«Mi è già passata».
Artù ricambiò e a sorpresa gli avvolse saldamente
un braccio intorno al collo, sfregandogli la testa con le nocche della
mano.
«Mi sorprende che tu non l’abbia ancora detto,
sai?».
«Che cosa?», chiese Merlino con un fil di voce,
faticando persino a respirare.
«Che devo guardare il lato positivo, che ho ancora te al mio
fianco e che questo dovrebbe tirarmi su di
morale…».
«Per poi cosa, lasciare che mi diate del completo
idiota?».
«Esatto! È proprio questa la parte che mi tira su
di morale!».
Merlino rise e si lasciò strapazzare ancora un
po’. Perché sì, anche essere
maltrattato da lui gli era mancato da morire.
***
Sentì
a malapena il lieve bussare alla porta della sua stanza, immerso
com’era nella lettura, ma con la coda dell’occhio
scorse Merlino sporgersi all’interno.
«Hai intenzione di venire a controllarmi ancora per
molto?», gli chiese annoiato, con una mano a sorreggere il
viso e lo sguardo ancora incollato alle pagine del libro.
«Sembri una mamma apprensiva».
«E voi siete proprio un bambino dispettoso e
cocciuto».
Artù alzò il capo e lo fissò
severamente, ma Merlino non si lasciò intimidire e lo
raggiunse di fronte al camino scoppiettante. Prese la sedia sistemata
accanto all’armadio e si sedette dall’altro lato
dello scrittoio, sporgendosi in avanti per scoprire a che punto fosse
arrivato del grosso volume, scritto di suo pugno, che raccontava
praticamente tutta la storia della Gran Bretagna, della sparizione,
della nascita o dell’espansione dei vari regni e dei sovrani
che si erano succeduti l’uno dopo l’altro.
«Vi fonderete il cervello, se andate avanti
così».
Artù si portò le mani di fronte alla bocca, su
cui si era disegnato un sorrisino maligno. «Dimmi, Merlino,
vuoi che nel mio destino ci sia anche la reintroduzione della
gogna?».
«No».
«Bene, allora fai silenzio. E prendi dall’armadio
del freddo un’altra dose di questa bibita moderna: la
adoro».
Merlino sospirò. «Frigorifero, lattina e
Coca-Cola».
«Mi hai capito, no?».
«Io sì, ma…
è proprio di questo che volevo parlarvi». Si
massaggiò la fronte, abbandonandosi allo schienale della
sedia, e si girò la lattina ancora fredda tra le mani.
«Dovete sforzarvi di sembrare un uomo di
quest’epoca, il che comporta il saper parlare un linguaggio
più moderno – l’uso del voi è
da eliminare, – conoscere almeno i nomi degli oggetti che per
voi sono nuovissimi ma che qui sono di uso comune da anni, dimenticare
il codice dei cavalieri…».
«Non posso rinnegare la mia natura, Merlino!»,
urlò, scioccato da ciò che le sue povere orecchie
avevano dovuto sentire. Dimenticare il codice dei cavalieri, che
assurdità! Gli scorreva nelle vene, non poteva dimenticarlo!
«Non è quello che vi ho chiesto, ma…
Insomma, non possiamo di certo sbandierare ai quattro venti che voi
siete il leggendario re Artù!».
«Perché no?».
«Perché? Ah». Merlino
ridacchiò e sollevò una mano per contare sulle
dita: «Uno, non ci crederebbe nessuno; due, ci
rinchiuderebbero in un ospedale psichiatrico – una struttura
dove si cercano di curare i malati di mente; terzo, se mai qualcuno
dovesse crederci sarebbe un disastro! Vi prenderebbero, vi
rinchiuderebbero in un laboratorio e vi farebbero ogni sorta di analisi
per capire come siete risorto e… Non si può fare,
assolutamente no. Abbiamo bisogno di rimanere nel più totale
anonimato, come ho fatto io per tutti questi secoli, e capire il motivo
per cui siete qui».
Artù strinse i denti, accecato di nuovo dall’ira.
«E poi? Una volta compiuto il mio destino, se mai ci
riuscirò, che cosa accadrà? Di nuovo nel lago, in
attesa che il mondo abbia bisogno di nuovo di un eroe?
Morirò definitivamente, ad uno schiocco di dita, come un
pupazzetto comandato da chissà chi?».
«So come vi sentite, mi faccio le stesse identiche domande da
millequattrocento anni, ma urlare non risolverà la
situazione!».
I loro occhi si incatenarono e nessuno dei due si mostrò
intenzionato a perdere quella battaglia, perciò rimasero in
silenzio per un minuto e mezzo o forse di più, pensando a
come procedere in quell’assurda discussione.
Fu Merlino a parlare per primo, con voce di nuovo pacata:
«Dovete ambientarvi in fretta ed imparare a cavarvela da
solo, perché non potrò starvi accanto
ventiquattr’ore su ventiquattro: ho una facciata da tenere in
piedi, non posso mollare tutto solo perché uno sconosciuto
è arrivato nel villaggio. Lo capite, vero? La gente
inizierebbe ad insospettirsi se di punto in bianco lasciassi il lavoro,
se non facessi più tutto ciò che ho fatto fino ad
adesso».
Artù annuì lentamente, anche se avrebbe giurato
che ci fosse anche un’altra ragione per cui Merlino non
voleva abbandonare quella vita. In fondo l’aveva fatto
moltissime volte. Ci doveva essere qualcosa che non voleva perdere e
giurò sul suo nome che presto o tardi avrebbe scoperto di
che cosa si trattava.
«Farò del mio meglio», promise.
«Grandioso», esalò Merlino, soddisfatto.
«Ora devo confessarvi una cosa».
Artù sospirò, cercando di buttare fuori tutta
l’irritazione. «Oh, lo sapevo che c’era
sotto qualcosa».
«Ecco, Alex vi ha visto emergere dal lago con indosso la
vostra armatura e ovviamente ha iniziato a far domande,
perciò… ho dovuto inventarmi una scusa
plausibile».
Il re si prese la testa tra le mani, poi si massaggiò il
viso e si preparò al peggio. «Sentiamo».
«Le ho detto che avete un disturbo della
personalità e che è per questo vi credete il re
di Camelot, che quella sera eravate al lago per una specie di missione
e che fino a poco tempo fa eravate in un ospedale
psichiatrico».
«Quindi, fammi capire bene, le hai detto che sono…
pazzo?».
«Esatto. L’ospedale psichiatrico però
l’ha suggerito lei».
«Merlino, giuro che ti…».
«Se ci pensate bene è una storia di copertura
perfetta! Se a volte il vostro “spirito
cavalleresco” dovesse prevalere posso sempre ripiegare su
questo… disturbo».
Artù lo avrebbe volentieri utilizzato come manichino per gli
allenamenti, ma provò a calmare la propria rabbia pensando
che il suo intento in fondo era quello di proteggerlo. Stava facendo
del suo meglio, nonostante a lui sembrasse solo stupido.
«Quando le hai detto tutto questo?», gli chiese,
colpito improvvisamente dal sospetto.
«Poco prima che voi tentaste di tagliarle la gola,
perché?».
«Lo sapevo! Le hai anche detto di assecondarmi nella mia
pazzia, non è così? Mi ha preso in giro tutto il
tempo, facendosi delle grasse risate alle mie spalle!».
«Non era sicuramente sua intenzione darvi
quest’impressione, ve l’assicuro», disse
frettolosamente Merlino, seguendolo con occhi preoccupati mentre si
alzava e si dirigeva verso il camino, alla cui mensola si
appoggiò con un braccio. «Artù? Non
siate arrabbiato con Alex, vi prego. Lei è l’unica
vera amica che sono riuscito ad avere dopo…».
Artù si girò, in attesa della conclusione di
quella frase, ma dallo sguardo cupo di Merlino, lo stesso che aveva
visto quel pomeriggio sotto il salice, capì che sarebbe
stato meglio cambiare argomento.
«Non sono arrabbiato con lei. È che ancora non
riesco a capire se è degna della mia fiducia».
«Vi ha salvato il fondoschiena e vi ha aiutato almeno altre
due volte, come può non essere degna della vostra
fiducia?».
«Non capisco quale sia il suo fine».
Merlino chinò improvvisamente il capo, come a volersi
nascondere, e Artù aprì la bocca per chiedergli
che cosa non gli stesse dicendo, ma lo stregone lo batté sul
tempo, tornando a sorridere esclamando: «Alex è di
buon cuore, aiuta chiunque sia in difficoltà».
Il re si strinse le braccia al petto, insoddisfatto, e tornò
a guardare le fiamme ora un po’ meno vive. Con la coda
dell’occhio vide Merlino alzarsi dalla sedia e rimetterla al
suo posto, per poi dirigersi verso la porta.
«In ogni caso, lo scoprirete presto».
A quelle parole sobbalzò e gli impedì di andare
via, ordinando in tono imperioso: «Fermo
lì».
Lo stregone si fermò con un piede già fuori dalla
porta e si girò lentamente, come se temesse di ricevere
qualche oggetto contundente in testa.
«Che cosa intendi dire?», gli chiese
minacciosamente, con gli occhi stretti in due fessure.
«Beh…». Merlino sospirò,
voltandosi del tutto, e confessò apertamente:
«Abbiamo bisogno di lei, Sire. Non credo di riuscire, da
solo, ad insegnarvi tutto ciò che c’è
da sapere sul mondo moderno».
«Hai parlato fino ad adesso di anonimato e ora suggerisci di
rivelarle la verità sul nostro conto?».
«Che cosa? Neanche per sogno! Ho solo pensato che passare un
po’ di tempo con qualcuno che è nato e cresciuto
in quest’epoca potrebbe essere più
istruttivo».
«Ma perché proprio Lady Alexandra!?»,
esclamò lagnosamente, per nulla felice di dover passare del
tempo con quell’isterica. Ma forse non era sempre
così. La mattina precedente aveva avuto le sue buone ragioni
per esserlo e Artù non poteva biasimarla. Doveva darle
almeno una possibilità.
Respirò profondamente ed incrociando gli occhi pieni di
speranza di Merlino annuì.
«D’accordo».
Il mago sorrise a trentadue denti, il migliore dei ringraziamenti, e
Artù gli lanciò la lattina vuota di Coca-Cola che
aveva lasciato sul suo scrittoio.
«Non portarmene un’altra, vado a dormire».
Merlino si morsicò le labbra e gli gettò
un’occhiata prudente. Artù conosceva bene
quell’espressione e un po’ spazientito lo
esortò a sputare il rospo.
«Posso iniziare a darvi del tu già da adesso, per
abituarvi?».
«Scordatelo, Merlino. In privato continuerai a darmi del voi,
a chiamarmi Sire e ad eseguire i miei ordini».
Lo stregone rimase deluso dalle sue parole, ma per un tempo record.
Qualche secondo dopo, infatti, sogghignò e dandogli le
spalle esclamò: «È proprio bello
riavervi intorno di nuovo!».
Artù cercò di imitare Merlino nel venare di
sarcasmo la propria voce e rispose: «Anche per me
è lo stesso!».
Lo sentì ridere in fondo alle scale e sorrise. Solo in quel
momento riuscì a capire appieno ciò che aveva
cercato di dirgli quella mattina, in cucina, e realizzò che
se fosse stato al suo posto nemmeno lui sarebbe riuscito a sorridere, a
ridere, sostanzialmente a vivere veramente,
così perennemente schiacciato dalla solitudine e dalla
nostalgia.
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Capitolo 6 *** 6. The beginning of the end ***
Buon pomeriggio!
Spero stiate tutti bene, perché io ho avuto una giornatina
niente male al lavoro. E mi sono detta che per tirarmi su di morale ci
voleva proprio una cosa: entrare nel mondo di Merlino e
Artù! :)
In questo capitolo finalmente verrà spiegato il motivo
dell'assenza della magia e spero vivamente sia una spiegazione
plausibile (io fossi stata in Merlino avrei fatto lo stesso).
Alex l'ho un po' trascurata ultimamente, lo so, ma nel prossimo
capitolo tornerà più in forma che mai! ;)
Ah, prima di augurarvi buona lettura volevo solo informare che chi
fosse curioso (o si trovi con molto tempo da perdere) questa
è la mia pagina facebook, dove potete trovare
tante foto riguardanti questa storia: locations, prestavolto... cose
così. u_u
Bene, ora vado. Buona lettura e alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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6. The beginning of the end
«Artù!
Non ci posso credere, siete ancora a letto?! Alzatevi,
pigrone!».
Il re respirò profondamente, cercando di trattenere la
rabbia.
Si era abituato ai gabbiani che seguivano il corso del fiumiciattolo
per arrivare al lago, ma non si sarebbe mai abituato ai risvegli
bruschi di cui Merlino era sempre stato un professionista.
«Avanti, devo farvi vedere una cosa!».
Artù si alzò controvoglia e con un diavolo per
capello, ma non appena fu alla finestra vide Merlino appoggiato al
cofano di una di quelle automobili, con gli occhi luminosi e fieri. Era
diversa rispetto a quella che aveva Lady Alexandra: era più
lunga, più bassa, senza il tetto e color blu notte.
«Allora, che ne dite?», gli chiese, aprendo le
braccia. «Sono andato a ritirarla mentre voi dormivate e ora
fila che è una meraviglia!».
«Sorprendente, Merlino. Non ci salirò
mai».
Lo stregone aprì la bocca, scioccato, ma Artù non
gli diede il tempo di dire nulla, chiudendosi la finestra alle spalle.
«Perché non dovreste salirci?», gli
chiese attraverso la porta del bagno.
Artù finse di non averlo sentito e si versò un
po’ di shampoo sulla mano, per poi inschiumarsi i capelli.
Due giorni prima aveva scoperto la doccia –
un’altra invenzione del XXI secolo che avrebbe voluto avere a
Camelot – e da allora non ne aveva più fatto a
meno.
«Artù, non avrete per caso paura?».
«Smettila di dire fesserie e lasciami in pace!»,
urlò.
«Avete nostalgia del vostro destriero? Lo capisco, ma
è da secoli che non si usano più i cavalli per
andare in giro! Se può rassicurarvi, i cavalli ci
sono, dentro le auto!».
«Merlino…», cercò di
azzittirlo pronunciando solo il suo nome, tra i denti.
«Sentite, dobbiamo percorrere diverse miglia e
l’auto è il mezzo più comodo e veloce,
perciò dovrete fare uno sforzo».
«E dove dovremmo andare? Non mi sembra di aver organizzato
alcuna spedizione. Hai di nuovo dimenticato che sono io che
do’ gli ordini?».
«Come volete. Dobbiamo andare a Newport, una città
ad un quarto d’ora da qui in auto, per
fare rifornimenti e comprare un regalo».
Artù spense l’acqua della doccia e tirò
di lato il vetro zigrinato per afferrare l’asciugamano bianco
che si legò intorno alla vita.
«Ho finito, puoi entrare», disse pacatamente.
Merlino entrò in bagno sospirando, ma si fermò
subito, non appena si rese conto che Artù era uscito dalla
doccia a piedi nudi e stava praticamente allagando il pavimento.
«Cosa vi ho detto? Dovete usare il tappetino!».
Artù gli fece il verso e prese un altro asciugamano per
passarselo sui capelli fradici e sul petto, mentre osservava la propria
immagine riflessa nello specchio.
«Un regalo per chi?», chiese ad un tratto, per
ordinargli subito dopo: «Prendi l’oggetto col vento
caldo».
Il mago roteò gli occhi al cielo e gli passò alle
spalle. «Phon. Si chiama phon. O
asciugacapelli, se vi è più facile da
ricordare».
«Asciugacapelli sia. Allora, per chi è questo
regalo?».
«Per Alex. Le ho promesso che le avrei ripagato la piastra
per capelli che le avete rotto e sarete voi a dargliela,
così che vi possa perdonare».
«E dobbiamo per forza andare a…».
«Newport».
«… per comprarle una nuova piastra per
capelli?».
Merlino annuì e gli rivolse un sorriso attraverso lo
specchio prima di accendere il phon ed iniziare ad asciugargli o,
meglio, arruffargli i capelli color del grano.
«Questo è un paesino piccolo, non
c’è molto», spiegò, alzando
la voce perché Artù potesse sentirlo sopra il
rumore dell’asciugacapelli. «Newport vi
sembrerà gigantesca e avrete
l’opportunità di vedere uno scorcio del mondo
moderno. Sono sicuro che vi piacerà».
Artù strinse le labbra guardandosi allo specchio e
respirò profondamente, pensando che prima che potesse
piacergli avrebbe dovuto accettarlo, e non sarebbe stato facile.
Si sbagliava: era stato facile.
Il viaggio sull’auto di Merlino era stato piacevole, grazie
al vento che gli scompigliava i capelli e che gli aveva dato la
sensazione di essere su un cavallo velocissimo, in grado di percorrere
miglia e miglia senza mai sentire la stanchezza o la sete.
E non appena il suo servitore gli aveva detto che si stavano
avvicinando a Newport Artù ne era rimasto affascinato. I
suoi occhi meravigliati avevano afferrato tutto ciò che
potevano, senza alcuna restrizione, e non aveva nemmeno avuto il tempo
di pensare a quanto tutto fosse diverso rispetto a Camelot e a tutti i
regni che aveva visto in lungo e in largo.
Già da lontano aveva capito che si stavano avvicinando ad un
fiume, quello che Merlino aveva chiamato Usk, e che presto avrebbero
dovuto attraversarlo per entrare nei confini di Newport, ma mai avrebbe
immaginato ad un ponte come quello che avevano attraversato.
Era enorme, come non ne aveva mai visti in vita sua, con addirittura
quattro corsie per il passaggio delle auto e di altri mezzi sempre a
motore a cui Merlino aveva dato dei nomi che lui non aveva nemmeno
ascoltato, troppo impegnato a seguire con lo sguardo la struttura di
fili metallici e bianche travi di sostegno che svettavano contro il
cielo azzurro ai lati del ponte.
Una volta attraversato il ponte era stato tutto un continuo susseguirsi
di abitazioni, edifici a volte imponenti in grado di riflettere la
luce, cartelli, semafori, viali alberati e auto, tantissime auto.
Poi si erano immessi in alcune strade più piccole e meno
trafficate e per un po’ costeggiarono un ampio parco
circondato da mura in mattoni, fino a quando non tornarono a prevalere
le abitazioni: file e file di casette tutte uguali, ma piacevoli alla
vista.
Passarono davanti a quella che Merlino chiamò
“cattedrale”, un luogo di culto,
anch’essa circondata da una cinta muraria alta circa un metro
e mezzo, e dopo altri dieci minuti raggiunsero il centro della
città, dove la maggior parte delle vie che interessavano a
loro erano chiuse alle automobili.
Merlino aveva parcheggiato sottoterra e prima di entrare nel Kingsway
Shopping Centre, la loro meta originale, avevano fatto una camminata
lungo le vie intorno a John Frost Square, fermandosi davanti alle
vetrine dei negozi ogni volta che Artù ne sentiva il
bisogno.
Non riusciva a credere a come il commercio fosse cambiato, nel corso
del tempo, e soprattutto quanto l’offerta fosse aumentata: si
poteva comprare di tutto!
Erano passati anche di fianco ad un Caffè Nero e Merlino
aveva dovuto cedere, accompagnandolo all’interno e
comprandogli un caffè al cioccolato che aveva adorato. Poi,
alla fine, si erano apprestati ad entrare nel grande centro
commerciale. Quello fu l’inizio della fine.
***
Per
prima cosa entrarono nel negozio d’elettronica ed
elettrodomestici per cercare la piastra per capelli nuova da regalare
ad Alex.
Merlino non si perse nemmeno un battito di ciglia di tutte le varie
espressioni che passarono sul volto di Artù: stupore,
incredulità, shock, eccitazione, smarrimento… Era
uno spettacolo così divertente che scoppiò a
ridere, anche se non avrebbe dovuto farlo per non attirare
l’attenzione dei commessi e degli altri clienti.
«Venite, forza», lo esortò, invitandolo
a seguirlo.
Molti degli elettrodomestici accanto ai quali passarono Artù
già li conosceva, ma gli faceva comunque un certo effetto
vedere quanti tipi ne esistessero, di quanti colori e con quante
caratteristiche specifiche.
«Questo che cos’è?», chiese ad
un tratto, tirando Merlino per il gomito.
Merlino ridacchiò e batté leggermente la mano sul
manico dell’elettrodomestico. «Si chiama
aspirapolvere. Ne ho uno anche io, a casa, ma non l’avete
ancora visto in azione. Come si può intuire dal nome
è una scopa elettrica che risucchia lo sporco. Una specie di
phon con il “vento” al contrario».
«Questo ti sarebbe proprio servito per pulire le mie stanze a
Camelot», esclamò Artù, sogghignando.
Merlino scosse lievemente il capo e non appena vide un ragazzo con la
divisa del negozio lo avvicinò per chiedergli dove avrebbe
potuto trovare le piastre per i capelli.
«In fondo al corridoio sulla sinistra», gli
spiegò brevemente e Merlino prese Artù per il
braccio, evitando di fargli notare che qualunque tasto avesse pigiato
sull’aspirapolvere questo non si sarebbe acceso, non senza la
spina infilata in una presa elettrica.
Raggiunsero il reparto per la cura dei capelli e vi rimasero circa
mezz’ora, discutendo su quale piastra avrebbe preferito Alex.
Ce n’erano di tutti i tipi – grandi, piccole, in
ceramica, a vapore – e di tutti i colori, ovviamente.
Artù volle imporre la propria autorità, come
sempre, ma Merlino riuscì a farlo ragionare, dicendogli che
conosceva Alex da molto più tempo di lui, che conosceva i
suoi gusti e che per questo era sicuro che la fantasia zebrata non le
sarebbe piaciuta.
«Da quanto la conosci, esattamente?», gli chiese ad
un tratto, guardandolo dall’altro lato del bancone espositivo.
Merlino sollevò gli occhi dalla piastra rossa che stava
esaminando. «Chi?».
«Lady Alexandra, idiota!».
Lo stregone aveva capito a chi si riferiva, ma il suo tono vagamente
malizioso non gli era piaciuto affatto. Non sapeva dove sarebbe andato
a parare, ma aveva qualche sospetto e iniziò a sudare freddo.
«Tre o quattro anni, non ricordo di preciso»,
rispose con tono distratto, schiarendosi la gola. Ovviamente era una
bugia: ricordava perfettamente quando i loro occhi si erano incrociati
per la prima e la seconda volta, come il suo cuore avesse perso un
battito in entrambe le occasioni e come lei gli avesse sorriso,
incantandolo non una ma ben due volte. Non avrebbe mai potuto
dimenticare.
«E dove vi siete conosciuti?».
«All’ospedale in cui siete stato anche
voi».
Artù trattenne il respiro per un attimo, Merlino lo
notò con la coda dell’occhio, per poi chiedergli a
bassa voce, contenendo il fastidio per il fatto che non
gliel’avesse detto prima: «Sei stato ferito in
battaglia? Le altre cicatrici che avevi addosso…».
«Sì, le altre cicatrici sono ferite di…
guerra. Ma questa è un’altra
storia. Alex ci lavora, all’ospedale: fa
l’infermiera. Io ero lì per un altro
motivo».
«E quale, di grazia?».
Merlino sospirò e si disse che tanto, prima o poi,
l’avrebbe scoperto comunque. «Quando posso mi piace
trascorrere del tempo con i bambini malati. L’ospedale ha un
reparto specializzato in tumori pediatrici, il migliore del Galles. I
bambini ricoverati spesso vengono anche da molto lontano e i loro
genitori riescono ad andarli a trovare solo nel week-end, quando non
lavorano, perciò io… tengo loro compagnia, faccio
quello che posso per non farli sentire soli».
Artù rimase in silenzio per un tempo infinitamente lungo e
Merlino alzò lo sguardo per sbirciare la sua espressione:
stava sorridendo, quasi dolcemente, mentre continuava a guardare le
piastre per capelli. Il mago sentì il cuore riscaldarsi
piacevolmente, come lenito da un balsamo, e sorrise a sua volta.
«Mi ci dovrai portare, un giorno»,
esclamò ad un tratto, facendo sobbalzare il mago. Diceva sul
serio?
Non fece in tempo a chiederglielo, perché Artù
afferrò una piastra dorata e la brandì come
avrebbe fatto con la sua amata Excalibur, urlando: «Questa
è perfetta!».
«Non credo proprio», rispose categorico, tornando
di nuovo di fronte alla piastra laccata rossa che aveva adocchiato e
che sembrava chiamarlo. «Questa
è perfetta. Il rosso è il colore preferito di
Alex».
Artù lo raggiunse ed esaminò la piastra, piegando
la testa a destra e a sinistra. Alla fine annuì, dando al
servitore la propria approvazione.
«Potremmo anche dipingerci sopra lo stemma dei Pendragon, per
ricordarle che è stata un nostro…».
«Regalo».
Il re fissò Merlino con la fronte aggrottata.
«Avresti dovuto contraddirmi».
«Avanti, anche a voi a volte – raramente
– vengono delle buone idee».
Artù l’avrebbe picchiato volentieri, ma proprio in
quel momento un commesso del negozio li avvicinò per
chiedere loro se avessero bisogno d’aiuto e Merlino sorrise
raggiante, esclamando che avevano deciso di comprare quel modello.
Per raggiungere le casse dovettero passare di fronte al reparto
telefonia mobile. Non l’avessero mai fatto.
Artù si fermò bruscamente e Merlino gli
finì addosso, colto di sorpresa.
«Quelli sono i telefoni portatili… Come hai detto
che si chiamano?».
«Cellulari».
«Cellulari, cellulari», ripeté a bassa
voce, per ricordarselo. «In ogni caso, ne voglio uno anche
io».
Merlino rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva.
«Che cosa? Come potrebbe tornarvi utile un
cellulare?».
Artù si voltò a guardarlo e ancor prima che
aprisse bocca Merlino capì che l’avrebbe preso a
male parole. «Sei proprio stupido a volte, sai? Mi hai detto
che non potrai stare al mio fianco ventiquattr’ore su
ventiquattro e, detto sinceramente, io non ho alcuna intenzione di
averti tra i piedi tutto il tempo. Se io avessi un cellulare potremmo
comunicare a distanza in qualsiasi momento e nel caso si verificasse
un’emergenza lo sapremmo e potremmo intervenire, non
trovi?».
Lo stregone ci pensò un po’ su e alla fine fu
costretto ad ammettere che Artù non aveva del tutto torto.
Anzi, quella era la sua seconda buona idea della
giornata. Non smetteva mai di sorprenderlo.
«Avete ragione».
«Ovviamente», rispose Artù, scoccando un
sorriso vittorioso ed iniziando a dirigersi verso gli espositori.
Merlino però lo prese per un braccio e, guardandolo
seriamente, lo avvertì: «Non sarà
facile imparare ad usarlo».
«Per chi mi hai preso, Merlino? Io sono Artù
Pendra–».
Il mago gli tappò la bocca con una mano e si
gettò un’occhiata intorno. Quando fu sicuro che
nessuno avesse prestato attenzione alle parole del biondo, disse tra i
denti: «So benissimo chi siete, microcefalo, non è
necessario urlarlo ai quattro venti. Vi siete già
dimenticato? Anonimato, riservatezza…».
«Tutti questi anni e continui ad insultarmi come se nulla
fosse», fece notare Artù, dopo essersi tolto
bruscamente la mano di Merlino dalla bocca. «Non sei cambiato
di una virgola».
«Me l’avete chiesto voi, no?», rispose,
ma a capo chino, conscio che quando la verità sarebbe venuta
a galla Artù non ne sarebbe stato contento. Non tanto per la
sua scelta, ma per il fatto che spesso e volentieri continuava a
mentirgli, nonostante non ce ne fosse più alcun bisogno.
Artù sorrise, ma si voltò subito, esclamando:
«Chissà che mi passava per la
testa…», poi si avvicinò ai vari
modelli di telefoni cellulari.
Ovviamente Artù non si era accontentato di un cellulare con
le funzioni base: aveva scelto uno degli ultimissimi modelli in
circolazione, con lo schermo interamente touch-screen, fotocamera
potenziata, memoria esterna da chissà quanti giga e mille
altre applicazioni di cui dubitava fortemente ne avrebbe anche solo
notata l’esistenza.
Merlino però aveva ceduto, pur di vedere il proprio re
felice come un bambino. Forse accontentare ogni suo capriccio non
sarebbe stata la soluzione migliore per il suo portafoglio, ma i soldi
erano l’ultimo dei suoi problemi. E a questo proposito
Artù scoprì un’altra novità
del mondo moderno: la carta di credito.
Dopo che la cassiera ebbe finito di battere ciò che avevano
acquistato, Merlino tirò fuori il portafoglio e sotto gli
occhi confusi di Artù le passò la carta.
«Come speri di pagare con quella?», gli chiese un
po’ troppo ad alta voce, facendo voltare la commessa, la
quale lo fissò insospettita.
«Non lo stia a sentire, proceda pure», disse
nervosamente Merlino, per poi fulminare con lo sguardo il re di Camelot.
La transazione avvenne senza problemi e dopo aver firmato lo scontrino
Merlino mise a posto la carta e si avviò verso
l’uscita, con Artù alle calcagna, desideroso di
chiarimenti.
«È troppo complicato, come faccio a
spiegarvelo?».
«Mi stai dando ancora dello
stupido?».
Merlino ridacchiò. «Non mi permetterei
mai!».
«Non riuscirò mai a sembrare in tutto e per tutto
un uomo di quest’epoca se tu ti rifiuti di spiegarmi cose
come queste!».
«Okay, avete ragione».
Il mago si fermò di fronte ad una gioielleria e si
voltò verso di lui, estraendo nuovamente il portafoglio
dalla tasca interna del giubbino per fargli vedere la sottile scheda
con il microchip.
«Si chiama “carta di credito” ed
è uno strumento che serve per pagare quando non si hanno o
non si vogliono avere soldi contanti appresso».
«E i soldi contanti dove sono? Come…?».
«Sono depositati in una banca, una specie di…
forziere gigante. Quasi tutti in quest’epoca possiedono un
conto corrente, cioè un forziere un po’
più piccolo nel forziere gigante, dove vengono messi i soldi
che si guadagnano. Viene fatto tutto via computer».
«L’affare simile alla televisione, quello con la
tastiera».
«Esatto. Se hai bisogno di soldi contanti, si va in banca o
in uno sportello automatico e si prelevano usando una di queste. La
carta è direttamente collegata al conto che hai in banca e
la cassiera, quando gliel’ho data, ha preso direttamente da
lì i soldi».
«Chiaro. Più o meno».
«Bene. Possiamo andare a fare la spesa, ora?».
«Io ho fame».
Merlino roteò gli occhi al cielo, respirando profondamente,
ed indicò un punto in fondo al corridoio. Fu così
che Artù scoprì McDonald’s.
***
Alex
aprì gli occhi, infastidita dalla forte luce che entrava
dalle finestre. Quando era tornata dal turno all’ospedale,
quella mattina, era ancora buio e si era dimenticata di chiudere le
imposte.
Rotolò verso la sponda del letto ed allungò una
mano verso il comodino per afferrare il cellulare e guardare che ore
fossero: era da poco passata l’ora di pranzo e si suo stomaco
reagì subito borbottando.
Alex sospirò e si portò le braccia dietro la
testa, rimanendo ad osservare il soffitto per un po’,
pensando a Merlino e a quanto gli mancasse.
Erano ormai due giorni che non lo vedeva e la cosa che le faceva
più rabbia in assoluto non era il fatto che non si facesse
sentire con lei, bensì con i bambini
dell’ospedale, con i quali ormai non sapeva più
che scusa inventarsi. Avevano iniziato a chiedere chi fosse
l’amico venuto da lontano che non permetteva a Merlino di
andarli a trovare e lei si era limitata a dire che non lo sapeva. La
verità, dopotutto.
Più ci pensava, più Artù le sembrava
un mistero, così come la sua storia. Merlino era sempre
stato un tipo riservato, ma le risultava difficile credere che avesse
tenuto nascosto un qualcosa di così grosso e doloroso, senza
mai sentire il bisogno di parlarne con qualcuno. O forse ciò
che le risultava davvero difficile era accettare che lei non godesse
ancora della sua fiducia. Ma in fondo come biasimarlo? Nemmeno lei era
pronta a rivelare a Merlino i suoi scheletri, non ancora.
Ad ogni modo, aveva bisogno di vederlo e di assicurarsi che stesse
bene. Il pensiero che Artù, in un raptus dei suoi, lo avesse
accoltellato nel sonno l’aveva sfiorata più di una
volta, facendola rabbrividire. E poi gli avrebbe fatto una lavata di
capo coi fiocchi per il suo comportamento menefreghista:
l’aveva lasciata da sola con quei piccoli demoni per tre sere
consecutive!
Era stata una settimana abbastanza impegnativa, con tutti i turni di
notte che aveva dovuto fare per sostituire uno dei loro colleghi in
malattia, ma quel giorno e il giorno successivo era di riposo e aveva
proprio bisogno di rilassarsi e staccare un po’ la spina,
pensando prima di tutto a se stessa.
Per questo si alzò, si preparò un brunch leggero
e si preparò per uscire, intenzionata a scaricare un
po’ di tensione e ad affrontare Merlino a
quattr’occhi.
Non era mai stata a casa di Merlino, ma sapeva dove abitava.
L’aveva scoperto una sera, quando la sua auto alla Supernatural
l’aveva lasciato ancora una volta a piedi e lei si era
offerta di accompagnarlo a casa, visto anche il tipo di tempesta che si
stava scatenando. Lui dopo un paio di rifiuti si era lasciato
convincere e aveva guidato Alex fino in aperta campagna. Quando le
aveva indicato la grande villa a due piani che, nel buio e sotto la
pioggia, aveva l’aspetto vero e proprio di un castello in
miniatura, Alex era rimasta a bocca aperta, sconvolta. Si era chiesta
come Merlino, lavorando come cameriere nella caffetteria del paese,
potesse permettersi di mantenere una casa del genere, ma lui stesso le
aveva rivelato che l’aveva ereditata da suo nonno e che la
maggior parte delle stanze al piano superiore erano del tutto
inutilizzate.
Dovette allungare di molto il proprio percorso abituale per
raggiungerla, ma sotto quel cielo incerto, ricoperto di nuvole, non
aveva sudato poi molto.
Si tolse gli auricolari dalle orecchie, mettendo in stand-by il proprio
mp3, e percorse il vialetto fino a raggiungere il porticato in mattoni.
Suonò il campanello ed attese per qualche minuto, poi si
disse che non doveva essere in casa e sospirò, chiedendosi
dove diavolo potesse essere andato.
Entrò nella caffetteria della signora Begum e
trovò proprio lei dietro il bancone, lei che solitamente se
ne stava rintanata in cucina a preparare i dolci da esporre in vetrina.
«Alexandra! Che piacere, tesoro», le disse,
rivolgendole un sorriso ed indicandole di sedersi su uno degli sgabelli
alti. «Ti preparo un bel milk-shake dissetante? Sembra che tu
abbia corso la maratona di New York!».
Alex rise, slacciandosi la felpa. «Quasi. Contavo di trovare
Merlino, ma a quanto vedo…».
«Ah, pensavo lo sapessi! È in malattia,
tornerà lunedì. Si è preso un brutto
raffreddore. Sei già passata a casa sua? Sicuramente
sarà lì, al caldo sotto le coperte!».
Alex stiracchiò un sorriso, ripromettendosi che quelle
orecchie a sventola gliele avrebbe staccate dalla testa a morsi.
«No, non sono andata a casa sua. Magari più tardi,
per vedere se ha bisogno di qualcosa».
«Sei sempre così gentile con lui, Alex.
È proprio fortunato ad averti».
La signora Begum le fece l’occhiolino e Alex, rossa come un
peperone, cercò di spiegarle che erano solo amici e che non
sarebbero mai stati nulla di più, ma la proprietaria della
caffetteria la ignorò e sparì in cucina,
ridacchiando.
Alex sbuffò, facendo una pernacchia con le labbra, e
ringraziò il cielo che la caffetteria fosse vuota.
***
Dopo
l’iniziale fase di stupore, incredulità e una
quantità esagerata di domande su praticamente tutto quello
che gli balzava agli occhi, Artù aveva iniziato ad
annoiarsi, seguendolo tra le corsie del grande supermercato.
Proprio come un bambino aveva iniziato a chiedergli quanto tempo ancora
ci avrebbe messo, quando sarebbero tornati a casa e via discorrendo.
Merlino aveva iniziato a non sopportarlo più e per un paio
di volte si era persino domandando che cosa sarebbe successo se
l’avesse abbandonato nel parcheggio sotterraneo del centro
commerciale. Probabilmente un disastro di proporzioni epiche, ma meglio
quello che avercelo intorno quando era impostato sulla
modalità “irritante”.
Quando finalmente gli aveva detto che sì, potevano tornare a
casa, Artù gli aveva chiesto di poter guidare. Merlino
l’aveva guardato sconcertato, cercando di capire se stesse
scherzando. Ma no, il re di Camelot non scherzava su questioni del
genere.
Aveva cercato di spiegargli che non poteva imparare a guidare
un’auto in cinque minuti e che per farlo legalmente avrebbe
avuto dovuto prima ricevere la patente dalla motorizzazione, ma non
c’era stato verso di convincere quell’asino reale a
lasciar perdere. Anche Merlino però fu irremovibile e gli
aveva detto chiaro e tondo che non gli avrebbe mai fatto toccare il
volante della sua Fiat 1500 Cabriolet Pininfarina del 1964: molto
spesso lo lasciava a piedi, ma era un modello più unico che
raro ormai e ci era affezionatissimo.
Artù gli aveva tenuto il muso per tutto il viaggio e Merlino
non aveva nemmeno provato ad avviare una conversazione: sarebbe stato
inutile con quella testa di legno. Il tempo di sbollire e tutto sarebbe
tornato alla normalità.
Merlino parcheggiò l’auto nel vecchio fienile che
aveva messo a nuovo quando aveva comprato la villa, trasformandolo in
una specie di garage, ed aprì il bagagliaio.
«Mi date una mano?», chiese ad Artù,
fermo ad esaminare la sua vecchia ma fedele bicicletta.
«Non ci penso proprio. Non vedo nemmeno perché tu
abbia ritenuto necessario comprare tutta quella roba».
«Se mangiate come un bue non è colpa
mia», bofonchiò, guadagnandosi
un’occhiata truce.
«Sono stanco, vado nelle mie stanze».
Merlino socchiuse gli occhi, sentendolo uscire dal fienile, poi si
voltò chiamando il suo nome. Il re lo fissò ed
afferrò al volo le chiavi che gli aveva lanciato.
«Ricordatemi di darvi le vostre, più
tardi».
Artù annuì, accennando un sorriso, e si
incamminò nuovamente verso l’ingresso sul retro.
Lo stregone guardò le tre borse che aveva incastrato
faticosamente nel bagagliaio e sospirò, tirandosi su le
maniche.
Merlino bussò piano alla porta e dall’interno
sentì Artù dargli il permesso di entrare. Lo
trovò sdraiato sul letto, con una mano sul petto e il
respiro leggermente affannoso, gli occhi fissi sul soffitto.
«Artù», esclamò e corse
subito al suo fianco, preoccupato. «Che cos’avete?
State male?».
«Io… non lo so. È come
se…», strinse gli occhi e con essi anche la mano
che teneva sul cuore, scosso da un tremito di dolore.
Merlino gliela levò delicatamente e la sostituì
con la propria. Senza alcuno sforzo di memoria, istintivo
com’era sempre stato nei casi di pericolo, un incantesimo gli
uscì dalle labbra e i suoi occhi si tinsero d’oro.
Gli effetti della sua magia furono immediati: Artù si
rilassò, sospirando di sollievo, e i suoi occhi blu
tornarono a guardare quelli di Merlino, ancora chino su di lui.
«Grazie», disse a bassa voce, tirandosi lentamente
su a sedere. «È stato… terribile. Come
se quella spada mi avesse trafitto ancora. Ne ho sempre avuto il
presentimento, ma questa ne è la prova definitiva: quel
frammento è ancora lì, pronto a riportarmi nel
mondo degli spiriti una volta adempiuto il mio compito. Merlino?
Merlino, mi stai ascoltando?».
Il mago si stava guardando le mani tremanti, con gli occhi colmi di
lacrime. Aveva sentito tutto ciò che Artù aveva
detto ed era preoccupato quanto lui, ma sapeva che avrebbe trovato un
modo per impedire che Artù morisse una seconda volta.
Ciò che in quel momento lo destabilizzava davvero era un
dolore molto più profondo, radicato saldamente nella sua
anima: erano secoli che non utilizzava più la magia, secoli
che non lasciava che quel flusso potente e pieno di vita gli bruciasse
nelle vene. Non era preparato ad affrontarlo di nuovo, a sentirsi
invaso da quel potere che, nonostante il suo rifiuto, non aveva mai
smesso di aumentare dentro di lui. Era bastato vedere Artù
soffrire perché ogni sua barriera crollasse, dandogli libero
sfogo, e ora non riusciva più a rimandarlo indietro, ad
imprigionarlo nuovamente in quell’angolo remoto della sua
mente.
Sentiva le pupille tremargli e la temperatura del suo corpo aumentare
inesorabilmente, potenziato da quell’energia troppo a lungo
tenuta a freno. La vista gli si annebbiò e la
razionalità iniziava ad abbandonarlo, ma con
l’ultimo frammento di lucidità corse fuori dalla
stanza di Artù e una volta in bagno si gettò
sotto il getto freddo della doccia, ancora con i vestiti addosso.
«Merlino!».
La voce di Artù fu una manna dal cielo, ciò che
gli diede le forze necessarie a stringere le catene intorno alla magia
che lo invadeva da capo a piedi.
Completamente svuotato e con le spalle contro le piastrelle bianche si
lasciò scivolare a terra, dove rimase seduto a testa china e
le braccia abbandonate accanto alle gambe.
Artù si affrettò a spegnere il getto freddo della
doccia e lo sollevò di peso per portarlo nella camera
adiacente alla sua. La stanza di Merlino era decisamente diversa dalla
sua, molto più moderna, ma non vi prestò molta
attenzione. Posò delicatamente il mago sul letto e lo
guardò, senza sapere che cosa fare.
«Merlino?».
«Sto bene», rispose con un rantolo.
«Lasciatemi solo, per favore».
«Davvero credi che potrei lasciarti da solo in un momento del
genere? Che diavolo ti è successo?».
«Non lo so», mentì. «Ora
andate via, vi prego».
Artù sospirò, trattenendo a stento la rabbia, e
se ne andò chiudendosi la porta alle spalle, delicatamente.
Merlino cercò di respirare profondamente, per calmarsi, ma
le lacrime gli inumidirono gli occhi.
Come poteva sperare di proteggere Artù se ogni volta che
utilizzava la magia rischiava di venirne sopraffatto, sparendo sotto la
sua influenza? Era troppo anziano, nonostante il suo aspetto, e il
potere che possedeva troppo grande. E non poteva chiedere aiuto a
nessuno.
Infilati dei vestiti puliti ed asciugati alla bell’e meglio i
ricci capelli neri scese in salotto, dove trovò
Artù seduto sul divano, a fare zapping, una cosa in cui si
era rivelato essere molto bravo.
«Grazie per avermi tirato fuori dalla doccia»,
esclamò, fermo alle sue spalle.
Il re si voltò ed accennò un sorriso.
«Siamo pari. Mi spieghi che cosa ti è
successo?».
Merlino andò a sedersi al suo fianco, con una gamba sotto
l’altra, e confessò: «Quando Camelot
è caduta ho deciso che non avrei più utilizzato
la magia in vita mia. L’ho rinnegata».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Tu che
cosa? Ti avevo detto che non saresti dovuto cambiare, mai».
«Voi non potete capire», mormorò,
scuotendo il capo.
«Ci risiamo».
«È davvero così, Sire. Ho sempre usato
la magia per Camelot, per aiutare voi e per proteggervi, ma nel momento
in cui mi serviva di più è stata inutile! La
magia non è riuscita a salvare voi, come non è
riuscita a salvare Camelot, e questo è stato il peggiore dei
tradimenti, per me. La mia fede nella magia è andata
distrutta, in quel momento».
«Ma è stata la magia a renderti immortale,
è stata la magia a far sì che io potessi tornare
oggi!».
Merlino gli rivolse un sorriso, un sorriso colmo di amarezza.
«Sì, ma come avete detto voi, per un destino che
non abbiamo scelto. E anche io sono stanco di vivere così,
controllato da qualcosa più grande di noi, in grado di
buttarci via non appena raggiungerà il suo scopo».
«Non è una buona ragione per arrendersi e
rinnegare se stessi».
«Forse», disse stringendosi il collo tra le spalle.
«Comunque è passato troppo tempo e avete visto voi
stesso: riesco a controllarla a malapena».
«Ti servirà dell’allenamento. Anzi, a
tutti e due servirà».
Merlino colse nel suo sguardo una punta di malizia e capì
subito dove voleva andare a parare. «Non vorrete usarmi
ancora come manichino vivente, vero?».
«Chi può dirlo».
«Vi odio».
«È reciproco, allora!».
I loro sguardi si incontrarono ed entrambi sorrisero, felici almeno di
aversi l’un l’altro.
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Capitolo 7 *** 7. The ashes of the past… ***
Buonasera!
Finalmente la nostra Alex torna alla carica più forte che
mai! Spero troviate il suo un ritorno in grande stile ;)
Si scoprirà anche qualcosa di più sul suo passato
e sul suo rapporto col padre, argomento che verrà ancora
più approfondito nel prossimo capitolo (in effetti i
capitoli 7 e 8 all'inizio ne formavano uno solo, che ho diviso per
evidenti motivi di lunghezza). Quindi bando alle ciance, vi
lascio alla lettura.
Un rapido ma caloroso ringraziamento a chi ha commentato e letto lo
scorso capitolo e a tutti quelli che hanno messo questa storia tra i
preferiti, le seguite e le ricordate! Vi adoro tutti! *o*
Un bacione, a settimana prossima!
Vostra,
_Pulse_
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7. The ashes of the past…
«Il
mio cellulare non è ancora pronto?».
Merlino si girò verso Artù, appoggiato al piano
di lavoro della cucina, di fronte alla finestra, che fissava lo schermo
nero del suo telefono.
«Deve restare in carica ventiquattr’ore. Ancora un
po’ di pazienza: domani mattina potrete iniziare
usarlo».
«Uhm… A che punto sei con lo stemma?».
«Finito. Come vi sembra?».
Il re si avvicinò al mago, seduto al tavolo, ed
osservò il simbolo della casata dei Pendragon che
quest’ultimo aveva prima abbozzato su un foglio e poi
ricopiato sulla parte superiore della piastra per capelli rossa con un
pennarello indelebile dorato.
Sorrise, appoggiando la mano sulla spalla di Merlino. «Un
altro dei tuoi talenti nascosti, eh?».
Lo stregone scrollò le spalle, modesto. «Mi piace
disegnare. Passatemi quel rotolo di carta, facciamo un
pacchetto».
«Possiamo andare a portargliela subito».
«Adesso?». Merlino guardò fuori dalle
porte finestre che davano sull’ampio giardino sul retro,
illuminato solo dal chiarore della luna che ogni tanto emergeva dal
banco di nuvole che aveva reso il tempo incerto per tutta la giornata. «Non
sarebbe meglio rimandare a domani? Rischieremmo di
disturb–». Venne interrotto dal trillo del
campanello, il quale li colse entrambi di sorpresa.
«Non ho idea di chi possa essere», rispose Merlino
all’occhiata interrogativa di Artù; quindi lo
superò, dicendogli di rimanere lì, e si diresse
verso la porta.
Sbirciò dallo spioncino e rimase a bocca aperta, incredulo.
Si voltò verso il re di Camelot e sottovoce disse:
«È Alex! Ricordate: dovete comportarvi
normalmente! E datele del tu!».
Artù annuì, sollevando i pollici, e Merlino
respirò profondamente prima di aprire la porta con un
sorriso.
***
Fu
Merlino in persona ad aprire la porta e quasi immediatamente, come se
si fosse preparato prima la battuta, esclamò:
«Alex, che sorpresa! Che ci fai qui a
quest’ora?».
L’infermiera sorrise, incrociando le braccia al petto ed
inarcando un sopracciglio. «Oh, nulla, volevo solo chiederti
se avessi bisogno di qualcosa, visto il brutto raffreddore che ti sei
preso».
Merlino impallidì, ma prontamente rispose: «Mi
sono imbottito di farmaci e sto molto, molto meglio adesso. Ho dormito
per tutto il giorno».
«Non mentire con me, Merlino. Non funziona».
Il ragazzo sospirò, sciogliendo i muscoli contratti delle
spalle. «E va bene. Il fatto è che non potevo
lasciare da solo Artù, sai…».
«Ora va meglio», disse dolcemente. «Posso
entrare?».
«Certo, accomodati. Artù! C’è
Alex!».
Il re di Camelot uscì dalla cucina e le sorrise incrociando
il suo sguardo, ma in un modo che prese Alex del tutto alla sprovvista:
sembrava consapevole e soprattutto amichevole, due caratteristiche che
non aveva mai visto nell’Artù con cui aveva avuto
a che fare, se non soltanto di sfuggita.
«Ciao», la salutò sollevando una mano.
«Come stai?».
Alex boccheggiò, senza sapere bene come rispondere, e
cercò aiuto in Merlino, alle sue spalle. Anche lui
sembrò sorpreso dal comportamento estremamente cordiale e
rilassato di Artù, ma bastò un attimo
perché gli sorridesse orgoglioso.
«Bene», rispose alla fine, cercando di sembrare
convincente. «Sono passata anche stamattina, ma non eravate
in casa».
«Sì, eravamo fuori» esclamò
Merlino, per poi gettare uno sguardo ad Artù, dicendo:
«Glielo racconti tu dove siamo stati, mentre io finisco
di… pulire di là?».
Il biondo corrugò la fronte, poi sorrise ed
annuì, facendo un passo avanti verso di lei ed invitandola a
sedersi su uno dei divani. Alex, intimorita, guardò Merlino
allontanarsi; poi posò gli occhi su Artù,
così diverso e normale da come se lo ricordava, e si disse
che probabilmente in quel momento non era preda di una delle sue
allucinazioni che lo facevano diventare il leggendario re di Camelot.
Si sedette vicino al camino acceso e Artù
l’affiancò, restando comunque a debita distanza,
una cosa che Alex apprezzò molto.
«Siamo stati a Newport oggi», esordì
guardando le fiamme sibilanti, il cui riflesso rendeva i suoi occhi di
un blu più scuro, ancora più intenso e bello.
«Oh, non ci eri mai stato?».
«No, io… non sono di queste parti, in
realtà».
Vedendolo già in difficoltà, decise di non
indagare. Non quella sera.
«E ti è piaciuta?».
«Sì, molto. È diversa da qualsiasi
città io abbia mai visto, ma in senso positivo. Siamo stati
in un grosso centro commerciale per fare rifornimenti e abbiamo anche
mangiato in un posto fantastico! Come si chiamava?
Sull’insegna c’era una M colorata di
giallo…».
«McDonald’s?», chiese Alex, con entrambe
le sopracciglia inarcate.
«Esatto! Proprio quello! Non avevo mai assaggiato nulla di
simile!».
I suoi occhi erano così luminosi, eccitati come quelli di un
bambino, che Alex non poté far altro che ridere,
rilassandosi.
«Non ci credo! I tuoi genitori non ti ci hanno mai portato da
bambino?».
Anche Artù rise, tornando a fissare il fuoco. «Ah,
non credo che mio padre l’avrebbe mai permesso».
«E tua madre?».
«Non l’ho mai conosciuta, è morta
dandomi alla luce».
La tranquillità con cui lo disse la disarmò e la
fece sentire estremamente in colpa, tanto che abbassò gli
occhi e mormorò: «Mi dispiace, non
volevo…».
«È passato tanto tempo ormai».
Accennò un sorriso e cambiò rapidamente
argomento: «Merlino mi ha detto che lavori
all’ospedale».
«Sì, da quasi sei anni ormai. Prima lavoravo a
Cardiff, quando ancora… è una lunga storia, non
voglio annoiarti. Mi trovo bene qui, è tranquillo e di
solito non succede nulla di eclatante, e i bambini… Ti ha
detto anche che lavoro a stretto contatto con i bambini malati di
cancro?».
«Mi ha accennato qualcosa, sì».
«Si impara molto da questi bambini che lottano ogni giorno
per sopravvivere… E alla fine finisci per affezionarti. Non
cambierei questo posto per nessun altro».
Il modo in cui le sorrideva la metteva a disagio e in imbarazzo,
soprattutto perché non aveva la più pallida idea
di che cosa avrebbe potuto dire. Per sua fortuna a salvarla
arrivò Merlino, il quale uscì dalla cucina e
chiamò Artù, chiedendogli di raggiungerlo.
L’infermiera osservò il biondo sparire in cucina e
tornare subito dopo con entrambe le mani nascoste dietro la schiena.
Gettò un’occhiata storta a Merlino, cercando di
chiedergli col pensiero che cosa diavolo avevano architettato, ma a
parte il suo sorriso fiero e i suoi occhi emozionati non
riuscì ad ottenere altro.
Artù si avvicinò di nuovo a lei e si mise quasi
in ginocchio, offrendole un pacco di medie dimensioni ed incartato alla
perfezione. Alex, sbigottita, guardò prima lui e poi ancora
Merlino, senza sapere cosa fare. Fu Artù alla fine a
metterle il pacco tra le mani, dicendo con tono solenne:
«Nella speranza che un giorno potremo essere amici, ti chiedo
di accettare questo regalo e di perdonarmi, Lady…
Alex».
La ragazza ridacchiò, gettando uno sguardo a Merlino, e
nonostante il rossore che sentiva infiammarle le guance, disse:
«Lady Alex suona proprio bene, potresti chiamarmi anche tu
così».
Quella frase fece sorridere Artù, un altro di quei sorrisi
incredibilmente contagiosi e tanto sinceri da sciogliere il cuore.
«Lo devo aprire qui, adesso?», chiese, iniziando
già a strappare la carta argentata. Rimase davvero di
stucco, scorgendo l’immagine sulla scatola: una piastra per
capelli! E rossa fiammante, per di più!
«Oh mio Dio», balbettò, sbattendo
più volte le palpebre. Si gettò la carta alle
spalle, facendo ridacchiare il biondo, e si girò la scatola
tra le mani fino a quando non si rese conto che era già
stata aperta. Allora si immobilizzò e con lentezza
l’allontanò da sé, sollevando gli occhi
sui due ragazzi.
«In questa scatola c’è un rospo,
vero?».
«Perché dovrebbe esserci un rospo?»,
chiese Merlino, con le sopracciglia aggrottate.
«Perché quand’ero piccola mio cugino mi
ha fatto lo stesso scherzo. E poi ti ho pescato da un lago,
insomma…».
Artù non riuscì ad impedire alla propria mascella
di crollare, voltandosi verso Merlino prima di esclamare, oltraggiato:
«Non mi starai paragonando ad un rospo, vero?».
«Beh, vedi il lato positivo: i rospi si trasformano in
bellissimi principi».
«Quindi ora sarei… un bellissimo
principe?».
Alex avrebbe voluto schiaffeggiarsi. Non provò nemmeno ad
uscire da quell’intricato labirinto di fraintendimenti
imbarazzanti e si fiondò sulla scatola, decidendo che
avrebbe preferito di gran lunga affrontare qualsiasi ripugnante
creatura vi fosse nascosta all’interno. Quello che ci
trovò però fu solo la sua nuovissima piastra, di
un rosso magnifico e con una sorpresa che le fece trattenere il
respiro: sulla parte superiore della piastra era stato disegnato a mano
lo stemma con il drago che aveva già visto dipinto sul libro
di favole di Merlino e cucito sul mantello che indossava
Artù al loro primo incontro.
«È… è bellissima. Non so
cosa dire. Grazie mille».
Artù si limitò a sorridere e si
rialzò, dirigendosi verso Merlino per battergli una mano
sulla spalla.
«Vado in camera mia», disse.
«È stata una giornata impegnativa e sono un
po’ stanco. Spero che tu non ti offenda, Alex».
«Come? No, no, vai pure. Buonanotte, Artù. Grazie
ancora».
«Non c’è di che».
Era già a metà scalinata quando Alex,
mordicchiandosi il labbro inferiore, decise di dire ad alta voce
ciò che il suo cuore le stava suggerendo: «Sono
sicura che saremo ottimi amici».
Artù annuì ed accennò un piccolo
sorriso – forse imbarazzato? – prima di sparire
definitivamente al piano superiore, lasciando lei e Merlino soli
nell’ampio salotto.
«È
stata una tua idea?».
Merlino si lasciò cadere al suo fianco, con le braccia stese
sullo schienale del divano. «Che cosa?».
«La piastra nuova», rispose Alex, sollevando le
sopracciglia.
«Beh… gli ho dato un aiutino. Ma l’idea
dello stemma è stata sua».
«È molto bello. È quello vero? Nel
senso…».
«Oh sì, è il vero simbolo araldico
della famiglia Pendragon».
«Così mi ricorderò sempre che re
Artù ha cercato di uccidermi»,
esclamò ridendo, coinvolgendo anche Merlino, il cui viso,
illuminato dalle lingue di fuoco, sembrava molto più vissuto
e saggio, oltre che fragile.
«Che cosa succederà adesso?», gli chiese
con delicatezza, nella speranza di non farlo richiudere subito in se
stesso come capitava sempre più di frequente. «Hai
detto che Artù non ha nessun altro al mondo a parte te, ma
prima ha citato suo padre…».
«È morto anche lui, molto tempo fa»,
disse senza guardarla negli occhi, bensì immergendo lo
sguardo nel fuoco scoppiettante. «So cosa stai per dire,
Alex; che non posso abbandonare tutto per occuparmi di lui. Ma stai
tranquilla, non accadrà. Ha solo bisogno di un po’
di tempo per ambientarsi, tutto qui».
«Merlino…». Aveva così tante
domande sulla punta della lingua, così tanti punti oscuri
che avevano bisogno di un po’ di chiarezza, ma per paura di
essere troppo invadente e di sembrare addirittura gelosa
dell’affetto che sembrava nutrire per Artù, non
riusciva a parlare liberamente.
Deglutì, cercando di racimolare il coraggio, e disse:
«Se c’è qualcosa che posso fare per
aiutarti, qualsiasi cosa… puoi contare su di me».
Le rivolse un sorriso intriso di dolcezza e quella volta la
guardò negli occhi, facendo sì che il suo cuore
saltasse un battito.
«Lo so», rispose a bassa voce, sollevando la mano
per sistemarle una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio
sinistro. «E l’unica cosa di cui ho davvero bisogno
è proprio continuare ad averti al mio fianco».
Alex sentiva le orecchie in fiamme e sospettava che anche sul suo viso
il rossore fosse ormai troppo evidente per essere nascosto. Avrebbe
voluto che Merlino la smettesse di guardarla in quel modo, di
accarezzarle i capelli e di starle così vicino, ma se solo
fosse stata la solita Alex coraggiosa e senza peli sulla lingua, se
solo non avesse continuato a pensare che lui provasse qualcosa per
Artù, si sarebbe fiondata tra le sue braccia senza un attimo
di esitazione.
Ad un tratto Merlino si risvegliò dalla specie di trance in
cui era caduto e si allontanò di scatto. «Scusami,
sono stato un pessimo padrone di casa. Hai già cenato? Vuoi
qualcosa da bere?».
Alex sorrise, alzando le mani. «Sono a posto così,
grazie».
«Sicura? Non vuoi nemmeno un po’ di
té?».
«Beh, se lo bevi anche tu…».
Si trovarono così seduti in cucina, davanti ad una tazza di
tè fumante. Quello che era successo sul divano –
qualsiasi cosa fosse stata – l’aveva messa
parecchio a disagio, perciò fu Merlino a dover avviare di
nuovo la conversazione, chiedendole dei bambini all’ospedale.
«Ammetto di averti odiato, a volte»,
confessò Alex, con la tazza ad un soffio dalle labbra.
«Non sono brava come te, con quelle pesti».
«Non dire così».
«Ma è la verità! Non facevano altro che
chiedermi: “Quando torna Merlino? Perché il suo
amico è più importante di noi?”. Ti
giuro che non sapevo più dove sbattere la testa».
Il moro abbassò gli occhi e girò lentamente il
cucchiaino nella sua tazza, quindi disse: «Artù
è il mio migliore amico, è la persona a cui
voglio più bene al mondo… darei persino la mia
vita per lui».
Accennò un sorriso incrociando lo sguardo di una Alex
sorpresa e sempre più colpita dal legame che li univa,
qualcosa che andava ben oltre l’amore stesso: erano quelle
che sua madre avrebbe chiamato due anime affini, inseparabili
l’una dall’altra, destinate a cercarsi e a trovarsi
in ogni tempo ed ogni luogo.
«Gli ho parlato dei bambini, sai. Mi ha detto che un giorno
dovrei portarlo all’ospedale, ma non so se stesse dicendo sul
serio o scherzasse».
«Io la trovo una splendida idea», rispose,
lasciando la tazza sul tavolo per concentrarsi meglio sul viso di
Merlino. «I bambini rimarrebbero di stucco se si trovassero
di fronte al vero re di Camelot, in carne ed ossa».
Merlino aprì la bocca, ma, scioccato, non riuscì
a dire una parola, non prima che Alex aggiungesse: «Ho dovuto
leggere alcune delle tue favole e ho visto i
disegni…».
«Oh. I disegni, ma certo…».
Il ragazzo ridacchiò nervosamente e Alex si
accigliò, senza capire in che modo avrebbe potuto
fraintendere le sue parole.
Di nuovo ebbe la sensazione che Merlino le stesse nascondendo la
verità, una verità così ingombrante da
poterne percepire i confini precisi, pungenti come solo le
verità scomode potevano esserlo. E di nuovo Alex
capì che quella notte avrebbe fatto fatica ad addormentarsi,
scervellandosi su Artù, sulla sua apparizione improvvisa e
su come tutte le coincidenze puntassero verso un’unica
direzione, per quanto folle fosse.
Guardò Merlino, chiedendosi perché mai si fosse
innamorata di un ragazzo con così tanti segreti, e
all’improvviso capì che non poteva più
stare nella sua cucina, a prendere il tè delle…
nove e un quarto, come se fosse del tutto normale. Perché di
normale non c’era più niente, soprattutto nella
sua testa, da quando Artù era emerso da quel fottuto lago.
«Si è fatto tardi», disse, alzandosi
così bruscamente da far strisciare rumorosamente i piedini
della sedia sulle mattonelle chiare.
Merlino la guardò confuso e si ritrovò a seguirla
fino all’ingresso, incapace di formulare una domanda sensata.
Alex gli avrebbe dato del patetico se non avesse avuto un buco nero al
posto del cuore, tanto doloroso da farle mancare il respiro.
«Qualsiasi cosa abbia fatto, Alex, mi dispiace»,
disse alla fine, fermo sotto al porticato illuminato da
un’applique in stile primi del ‘900.
L’infermiera ci rinunciò, schiacciata dalla
tristezza, e si voltò per guardarlo in faccia.
«Non hai nulla di cui scusarti. In fondo sono affari tuoi, io
non merito spiegazioni che evidentemente non vuoi darmi e di certo non
posso obbligarti a fidarti di me».
«Dove vuoi arrivare? Lo sai benissimo che mi fido di te, sei
l’unica persona a cui…».
«Cazzate. Ma va bene così, sono solo mie stupide
paranoie, lasciami perdere».
«No, aspetta. Alex…».
L’infermiera provò a tirare dritto, verso la sua
auto, ma Merlino glielo impedì, raggiungendola di corsa in
mezzo al giardino ed afferrandole un braccio per farla voltare.
«Alex, dannazione, spiegami che cosa c’è
che non va!», urlò, gli occhi azzurri sgranati ed
inquieti, come se tutto il suo mondo gli stesse crollando addosso
all’improvviso.
«Non farebbe alcuna differenza!», rispose alzando
la voce per sovrastare la sua nel silenzio assoluto della campagna.
«Mi credi davvero così stupida, Merlino? So che
cosa ho visto quella sera al lago! E che tu ci creda o no riesco a
capirlo, quando menti! Tutte le volte».
Sentì le lacrime salirle agli occhi e fece del suo meglio
per ricacciarle indietro e continuare a fronteggiare i suoi.
«Per me è okay se non vuoi dirmi la
verità; posso capirlo. Ma almeno non mentirmi, ti prego. Se
è vero che tieni alla mia amicizia… non mentirmi,
o temo che non riuscirò più a starti
vicino».
Nonostante tutti i suoi sforzi, una lacrima le scivolò sulla
guancia. Se l’asciugò rapidamente con la manica
del giubbotto, per poi stiracchiare un debole sorriso e mormorare:
«Siamo d’accordo, Dumbo?».
Merlino rise piano, avvolgendole le braccia intorno alla schiena e
stringendola forte a sé. Era la prima volta che lo faceva e
Alex sentì il proprio cuore triplicare i battiti non appena
sentì il calore del suo corpo contro il proprio, il suo
profumo invaderle i polmoni e le sue mani che le massaggiavano la
schiena come a volerla scaldare. Era mille volte meglio rispetto a come
l’avesse mai immaginato.
«Artù voleva
comprarti una piastra zebrata».
Alex sollevò il capo per guardarlo negli occhi e non
poté impedire ad un sorriso divertito di incurvarle le
labbra. «E questo che cosa c’entra?».
«È la verità. Un giorno saprai tutto
Alex, te lo prometto».
«Non ho bisogno di sapere tutto, solo… permettimi
di starti vicino».
Merlino annuì e sciolse lentamente l’abbraccio.
Alex provò freddo, un freddo intenso non del tutto dovuto
alla temperatura che con l’arrivo della notte si era
abbassata notevolmente.
Si avviò comunque verso l’auto, parcheggiata sul
ciglio della stretta strada sterrata, ma prima che potesse aprirla col
piccolo telecomando Merlino disse: «Hai dimenticato la
piastra dentro».
Alex sorrise e si voltò, trovando un sorriso anche sulle sue
labbra. Le fece cenno di raggiungerlo e lei corse per potersi
incamminare di nuovo verso quel piccolo castello al suo fianco,
sentendo il cuore batterle impazzito nel petto quando la mano del moro
strinse forte la sua. Lei gli picchiò l’altro
pugno contro la spalla prima di posarvi sopra la tempia, felice, senza
notare come la porta si fosse richiusa dietro di loro nonostante
nessuno dei due l’avesse sfiorata.
Alex aprì gli occhi lentamente, ma capì subito di
non essere in camera sua, bensì nel salotto di Merlino, e
che ciò che aveva sotto la testa non era esattamente un
cuscino, ma il petto del moro, il quale le aveva anche avvolto un
braccio intorno al collo. Alex si sentiva una specie di ostaggio, un
ostaggio che avrebbe chiesto più che volentieri al proprio
rapitore di aumentare la stretta e di non liberarla mai più,
e sorrise a quel pensiero.
Si sistemò la coperta sui piedi infreddoliti e si
rannicchiò meglio sul tappeto, dando le spalle alle braci
ormai spente nel camino. Diede una sistemata anche alla coperta che
avvolgeva il corpo di Merlino, tirandogliela su fino allo stomaco, e
poi chiuse di nuovo gli occhi, decisa a godersi quel momento fino a
quando sarebbe durato.
Non le importava di essersi addormentata a casa sua, addirittura al suo
fianco. Non provava nemmeno imbarazzo. Quella serata non poteva avere
un epilogo diverso, semplicemente.
Davanti al fuoco del camino avevano finito le loro tazze di
tè e poi si erano messi a parlare del futuro, interrogandosi
su che cosa avrebbe riservato loro il domani, ora che Artù
era entrato non solo nella vita di Merlino ma anche, a sorpresa, in
quella di Alex, in cui, beh, non era stato proprio invitato. Ma Alex,
pugnali, padelle e piastre per capelli a parte, gli aveva assicurato
che non si pentiva di nulla: si sarebbe gettata in quel lago ancora e
ancora per aiutarlo.
Il moro, molto apertamente, le aveva rivelato che non aveva la minima
idea di cosa fare: poteva solo vivere giorno dopo giorno, senza farsi
troppi programmi, e cercare di trovargli un posto nel mondo.
E Alex, nella speranza che un giorno avrebbe conosciuto almeno una
parte dei suoi segreti, gli aveva parlato della sua famiglia: un tasto
davvero dolente, un argomento che non aveva mai affrontato, con nessuno,
da quando sei anni prima si era trasferita in quel piccolo paesino
abbandonato persino da Dio.
Gli aveva raccontato dei sacrifici che sua madre e suo padre avevano
fatto per vederla diventare un’amazzone di fama nazionale,
anche se era sempre stato solo il sogno di suo padre, fantino in
pensione diventato allenatore di giovani promesse, mentre sua madre
l’aveva sempre spinta a seguire e a non abbandonare i suoi,
di sogni.
Gli aveva raccontato di come si fosse impegnata per far felice suo
padre, allenandosi per partecipare a tutte le gare
d’equitazione organizzate nel Galles e non solo, e
contemporaneamente per realizzare il suo sogno, diventare infermiera,
studiando sodo, anche notti intere, per riuscire a passare ogni esame
col massimo dei voti e prendere la laurea.
Gli aveva raccontato della delusione, della rabbia e del dolore che
aveva provato quando aveva trovato il coraggio di dire a suo padre che
non poteva andare avanti così, che doveva scegliere tra
l’equitazione e il lavoro in ospedale, e lui le aveva
confessato che aveva scommesso tutto ciò che avevano su di
lei e perciò non poteva rifiutarsi di gareggiare.
Suo padre, l’uomo che le aveva fatto amare quello sport che
aveva sempre definito come uno dei più nobili al mondo,
l’aveva usata per tutto il tempo, cedendo di nuovo al vizio a
causa del quale aveva più e più volte rischiato
di finire sul lastrico e che l’aveva portato ad un finale di
carriera disonorevole.
Gli aveva raccontato di come avesse vissuto la sua ultima gara, non con
la gioia e l’orgoglio con cui di solito portava la divisa, ma
con la consapevolezza che se non avesse vinto avrebbero perso tutto: la
casa, la scuola d’equitazione, i risparmi di una vita. Ma
proprio nel bel mezzo della gara aveva anche realizzato che, vittoria o
meno, aveva già perso tutto ciò che contava
davvero: la fiducia in suo padre.
Il pensiero di sbagliare di proposito, facendo cadere un ostacolo o
forse più di uno, l’aveva sfiorata, ma era stato
solo un attimo: per quanto avesse voluto fargliela pagare, sapeva di
non essere come lui, di non poter barare a sua volta, sporcando quello
che lei ancora riteneva il più nobile degli sport.
Ci aveva pensato il destino, poi, a non lasciargliela passare liscia.
Nonostante Alex si fosse impegnata al massimo, un’altra
amazzone aveva gareggiato meglio, guadagnandosi il primo posto.
Gli aveva raccontato di come suo padre fosse stato costretto a vendere
la scuola, a vendere persino il suo fidato destriero, e dello scandalo
che ciò aveva suscitato non appena la verità era
venuta a galla; di come lei e sua madre avessero dovuto lasciare la
loro casa, messa all’asta per fronteggiare i debiti, per poi
trasferirsi in quel piccolo villaggio dove con fatica avevano dovuto
ricostruirsi una vita.
Alex aveva parlato fino a quando le fiamme nel camino avevano fornito
loro luce e calore, mangiando un intero pacchetto di marshmallows e
trasformando il tappeto in salotto in un grande letto improvvisato, con
i cuscini del divano sparsi intorno a loro e due coperte di pile
avvolte intorno al corpo come mantelli.
Raccontare della sua famiglia, della sua incasinata ma felice vita a
Cardiff, era stata la cosa più difficile che avesse mai
fatto, ma ci era riuscita perché ad ascoltarla
c’era Merlino, l’unica persona per cui valesse
davvero la pena riportare a galla il passato, e alla fine si era
sentita bene: era stato come levarsi dalle spalle un peso che aveva
sostenuto troppo a lungo, spendendo troppe delle sue energie. Si era
sentita di nuovo leggera, libera, e ora, per il
bene di Merlino – non più per soddisfare la
propria curiosità e il proprio egoismo – pregava
perché anche lui trovasse la forza e il coraggio di lasciare
andare, almeno in parte, il passato e il dolore.
Rannicchiata al suo fianco, con la testa sul suo petto e un braccio
stretto intorno al suo addome, ricordò con chiarezza sua
madre, alla quale, giusto qualche settimana prima che un aneurisma
celebrale gliela portasse via all’improvviso, aveva chiesto
perché non avesse mai chiesto il divorzio. Lei le aveva
sorriso, accarezzandole i capelli, e con semplicità le aveva
risposto: «Non sono stata io a mandare via tuo padre,
bocciolo mio. È stata una sua decisione. Diceva di non
ritenersi più degno di meritarci».
«A me sembra solo un uomo che preferisce scappare dai
problemi, piuttosto che affrontarli».
Sua madre aveva riso, facendole appoggiare il viso contro il suo ventre
per poi chinarsi a baciarle la testa. «Forse. Ma lo amo e
nessun errore potrà farmi cambiare ciò che provo
per lui. A te potrà pure sembrare una specie di maledizione,
in questo momento, ma un giorno, se sarai tanto fortunata da incontrare
la tua anima gemella, capirai ciò che voglio dire».
Alex voltò il capo verso quello di Merlino, posato
direttamente sul tappeto e dai lineamenti del viso rilassati, e sorrise
pensando che sua madre lo avrebbe adorato quasi quanto lei.
***
Artù
si svegliò nel più totale silenzio, rotto
soltanto dal cinguettio di qualche passerotto ritardatario.
Doveva essere già giorno fatto, visto quanto in alto fosse
il sole fuori dalla finestra, e si chiese come mai Merlino non lo
avesse svegliato. Poi ricordò quello che era successo la
sera prima – complice la finestra aperta e il sonno che aveva
tardato ad arrivare – e pensò che forse aveva
fatto tardi.
Gli faceva strano pensarlo alle prese con una ragazza, impacciato
com’era, ma sarebbe stato ancora più strano se in
tutti quegli anni non avesse mai ceduto alle gioie dell’amore.
Forse era proprio di questo che si trattava: di amore. Forse era questo
il motivo che lui si era ripromesso di scoprire, il motivo per cui
Merlino sembrava così restio ad abbandonare la sua vita, o
almeno a farlo il più tardi possibile, quando non avrebbero
davvero potuto fare altrimenti per portare a termine il loro destino.
Merlino, nonostante tentasse di nasconderlo – a farlo persino
con se stesso, – era innamorato.
Si alzò dal letto e aprì l’armadio, da
cui scelse e tirò fuori una maglietta rossa a maniche corte,
un maglioncino nero e un paio di jeans – un particolare tipo
di pantaloni che, da quello che aveva potuto vedere a Newport, in
quell’epoca andavano molto di moda.
Una volta vestito andò in bagno e poi dovette passare di
fronte alla porta della camera di Merlino per raggiungere le scale. Non
riuscì a resistere e sbirciò
all’interno, ma per suo enorme disappunto tutto
ciò che vide fu il letto vuoto, ancora perfettamente
intatto.
Entrò nella stanza e oltre ad assicurarsi che non fosse
già sveglio, nascosto in qualche cantuccio a fare le cose
che gli stregoni abitualmente fanno, si affacciò dal balcone
– il maledetto si era preso la stanza col balcone!
– per essere certo che l’auto di Lady Alexandra
fosse ancora parcheggiata sul ciglio della strada.
Quindi scese al piano inferiore e circa a metà scalinata,
quando poteva già avere una perfetta visuale del salotto, si
fermò di colpo, aggrappato al corrimano: Merlino e Lady Alex
erano addormentati sul tappeto, lei stesa con la testa sul petto del
mago e lui con un braccio intorno al suo collo. Era un qualcosa di
veramente innocente, ma Artù trovò che fosse un
momento comunque molto intimo, uno di quei momenti che avrebbero
proprio avuto bisogno di un cartello con su scritto “Non
disturbare”. (A meno che non li avessero già
inventati, avrebbe dovuto farlo lui).
Attraversò quella parte di salotto che lo separava dalla
cucina senza fare il più piccolo rumore, eppure Lady Alex si
svegliò ugualmente e gli sorrise, salutandolo con una mano.
Artù ricambiò il gesto, anche se incerto, e
sussurrò: «Fai colazione?».
«Sì, arrivo. Dov’è il
bagno?».
«Salendo le scale, a sinistra, è la prima porta
sulla destra».
Alex si grattò il capo e gli rivolse un altro sorriso.
«Okay, grazie».
Artù la guardò salire le scale e poi si
fiondò in cucina, cercando di ricordare dove fossero tutte
le cose che di solito Merlino metteva sul tavolo la mattina, comprese
quelle che chiamava “tovagliette” –
piccoli riquadri di plastica che dovevano servire a proteggere il
tavolo dalle macchie e via dicendo. Non avendo più a
disposizione la servitù, gli uomini e le donne del
Ventunesimo secolo si inventavano di tutto pur di non far fatica.
Voleva fare buona impressione a Lady Alex, soprattutto dopo il loro
primo disastroso approccio, ma aveva come l’impressione che
qualsiasi cosa avesse fatto non sarebbe mai stato abbastanza per farle
credere che lui fosse un uomo di quell’epoca.
Negli armadietti accanto alla finestra aveva trovato i cereali, la
scatola dei biscotti, le fette biscottate, il miele e la Nutella
– una crema di cioccolato e nocciole grazie alla quale
Merlino non aveva perso l’occasione di prendersi gioco di
lui, dicendogli di non mangiarne troppa per evitare di aver bisogno
dell’ennesimo buco alla cintura.
Nel frigorifero, invece, aveva trovato la marmellata, il burro e il
latte. Poi aveva apparecchiato, tirando fuori i piatti, alcune posate e
delle tazze, e con orrore si era reso conto di non saper ancora fare il
caffè.
«Non c’era bisogno che tirassi fuori tutte queste
cose».
Artù si voltò di scatto, preso alla sprovvista, e
guardò Lady Alex allungare una mano verso la scatola di
biscotti per portarsene uno alla bocca. Si era legata i lunghi capelli
biondi sulla nuca e nonostante si fosse sciacquata il viso aveva ancora
un po’ di trucco nero sbavato sotto agli occhi, oltre ai
segni rossi che le cuciture della felpa di Merlino le avevano lasciato
sulla guancia destra. Ciononostante, Artù dovette ammettere
di trovarla bella.
«Perché mi guardi in quel modo?», gli
chiese ad un tratto, guardandolo negli occhi con le sopracciglia
aggrottate.
«In che modo?», chiese Artù, scuotendo
leggermente il capo.
«Come se non avessi mai visto una ragazza in vita
tua».
«Oh, ne ho viste, eccome se ne ho viste! Ma mai come
te».
Lady Alex si accigliò ancora di più e solo allora
Artù si rese conto di quanto la sua affermazione fosse
fraintendibile. Sospirò e si girò di nuovo verso
la macchinetta del caffè, irato con se stesso e con Merlino
per non aver ancora imparato ad usarla.
«Che cosa c’è?»,
domandò ancora la ragazza.
«Niente».
«Non è vero. Dai, fammi vedere». Si
avvicinò e si sollevò sulle punte per sbirciare
oltre la sua spalla ciò che stava nascondendo col proprio
corpo: la macchinetta del caffè ancora spenta e miseramente
vuota.
«Non sai usarla, vero?».
Artù deglutì ogni briciolo del proprio orgoglio,
trovandolo tanto acido da corrodergli lo stomaco, e negò con
un breve cenno del capo.
«Tranquillo, ti faccio vedere io».
Il re la fissò, incredulo. Si era come minimo aspettato una
battuta, se non una presa in giro vera e propria, e invece si era offerta
di spiegargli come accendere quell’affare e i vari
procedimenti per far uscire il caffè come se fosse la cosa
più normale del mondo, rivolgendogli persino un sorriso.
Quella ragazza era e sarebbe sempre stata un mistero ai suoi occhi.
«Io e Merlino siamo stati in piedi fino a tardi, a parlare;
poi ci siamo addormentati», gli spiegò, come se si
fosse sentita obbligata a chiarire la situazione, mentre attendeva che
la caffettiera facesse il suo dovere, ronzando. «Non ti
abbiamo disturbato, vero?».
«No, affatto».
«Bene».
Rimasero in silenzio fino a quando il caffè non fu pronto e
si ritrovarono seduti l’uno di fronte all’altra,
imbarazzati e senza sapere che cos’altro dirsi. Ad un tratto
Lady Alex sospirò e dopo aver bevuto un sorso di
caffèlatte esclamò: «So di aver detto
che non l’avrei fatto, ma è più forte
di me: mi dispiace di averti colpito con la padella, ho reagito
d’istinto».
Artù si ritrovò a sorridere.
«È stato un ottimo colpo, ad essere sinceri. E la
testata sul naso… mi hai preso davvero alla sprovvista. Non
accade spesso, sai».
Alex allungò una mano per passargli delicatamente il pollice
sul livido ancora ben visibile sul suo setto nasale.
«Già, il re di Camelot…», si
interruppe nel bel mezzo della frase e anche il suo sorriso
svanì, lasciando posto ad un’espressione incerta.
Artù stava per dirle che non c’era bisogno che
stesse così attenta a cosa dire e cosa no, ma la ragazza
aggiunse, lasciandolo ancora una volta senza parole: «Mi
dispiace anche per quello che ti ho detto sul fatto che il vero re di
Camelot non si sarebbe fatto mettere al tappeto da una ragazza. Se
c’è una persona che potrebbe essere il vero re di
Camelot quella sei proprio tu».
Artù non le chiese come facesse ad esserne così
sicura, né si lasciò sopraffare dalla malinconia
pensando che Camelot non avrebbe più avuto bisogno di un re;
si limitò a sorriderle, grato.
***
Merlino
aprì gli occhi e si girò su un fianco, cercando
di ricordare quand’era stata l’ultima volta che
aveva dormito così bene.
Nonostante si fosse addormentato sul tappeto, di fronte al camino
spento, la vicinanza di Alex era stata una benedizione. Avere il suo
corpo caldo accanto, sentire il suo respiro calmo, gli aveva assicurato
una notte tranquilla, priva degli incubi che spesso, anche da sveglio,
si trovava ad affrontare.
Sollevò il capo, chiedendosi proprio dove fosse finita,
quando sentì la sua voce e quella di Artù in
cucina. A quattro zampe raggiunse la poltrona sistemata proprio davanti
alla porta e sbirciando oltre lo schienale li vide seduti vicini al
tavolo, sorridenti, che confrontavano i loro cellulari: Artù
le faceva mille domande, chiedendole a cosa servisse questo e
quell’altro, e Alex, pazientemente e senza scoppiargli a
ridere in faccia ogni due per tre, faceva del suo meglio per spiegargli
tutto.
Ad un certo punto Merlino fu scoperto, colto in flagrante proprio da
Alex, ma questa gli rivolse un sorriso e un rapido occhiolino per poi
tornare a concentrarsi su Artù, entusiasta come un bambino
alla scoperta di poter anche mandare messaggi scritti in tempo reale.
Il mago sorrise e sospirò, leggero e felice come non si
sentiva da tanto, troppo tempo.
|
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Capitolo 8 *** 8. …And the fires of the present ***
Buonasera a tutti! :)
Ecco qui la seconda parte del lungo capitolo iniziato la settimana
scorsa. Spero vi piaccia e che il passato di Alex sia ancora credibile,
come alcune di voi mi hanno gentilmente scritto (thank you soooo much).
Non sono di molte parole questa sera - ho un mal di testa lancinante e
del sonno arretrato (il che mi ricorda che dovrei fare gli auguri a
tutte le donne qui presenti. Auguriiiii! ^-^) - perciò vi
lascio direttamente alla lettura.
Un grazie infinito a chi ha messo la storia tra le preferite, le
seguite e le ricordate, a chi ha recensito e a chi legge
soltanto.
Ricordo inoltre che sulla mia
pagina Facebook potete trovare tante belle foto trovate qua e
là con i personaggi, le ambientazioni e soprattutto le
citazioni originali della serie a cui mi sono ispirata per diverse
battute. Enjoy ;)
Alla
prossima settimana, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________________________________
8. …And the fires of the present
Merlino
sarebbe dovuto tornare al lavoro lunedì, secondo il
certificato di malattia che il “suo medico” gli
aveva firmato, ma Artù aveva fatto fuoco e fiamme
perché tornasse quello stesso sabato, dicendogli che se la
sarebbe cavata egregiamente anche da solo. Il mago non ne era
così convinto, ma aveva dovuto cedere di fronte alla sua regale
insistenza e quella mattina si era presentato alla caffetteria della
signora Begum, sorprendendola non poco. Le aveva detto che a furia di
aspirine il raffreddore era del tutto scemato e che si era sentito
abbastanza in forma da tornare, aggiungendo anche che il lavoro gli era
sinceramente mancato. La signora Begum aveva bellamente fatto finta di
crederci e senza troppi giri di parole l’aveva spedito a
mettersi il grembiule.
Non avrebbe mai nemmeno osato immaginare un migliore
“bentornato”.
La signora Begum, infatti, si era dimostrata subito pronta –
anche più del solito – a sgridarlo per qualsiasi
sua mancanza e a cacciarlo in cucina a lavare i piatti ogni volta che
lo sorprendeva con le mani in mano dietro il bancone. Ma Merlino era
stato raramente con le mani in mano, in realtà: ogni cinque
secondi aveva controllato il cellulare, chiedendosi per mezzo di quale
innovazione del Ventunesimo secolo il solo ed unico re sarebbe perito
per la seconda volta, e fino a quel momento aveva già
immaginato tredici, no, quattordici tragici scenari tra cui il peggiore
in assoluto, nonché il più splatter, aveva
implicato il minipimer.
Verso mezzogiorno aveva implorato la signora Begum perché
gli concedesse un quarto d’ora di pausa e questa non aveva
trovato un motivo abbastanza valido per non dargli il proprio consenso,
visto che di clienti non se ne vedeva nemmeno l’ombra e si
prospettava il solito pomeriggio tranquillo. Merlino per ringraziarla
l’avrebbe persino baciata – se solo ne avesse avuto
il coraggio – e ormai ad un passo da un crollo nervoso era
corso sul retro della caffetteria a chiamare Artù.
«Perché diavolo non rispondi, asino!»,
gridò a mezza voce, picchiando un piede a terra. Quindi,
inoltrando una nuova chiamata, iniziò a sussurrare fra
sé: «Quando Albione avrà
più bisogno, Artù risorgerà…
per morire miseramente a causa dell’uso improprio di un
elettrodomestico da cucina».
«Che hai detto?».
Merlino sgranò gli occhi sentendo la voce del re
dall’altro capo del telefono. «Artù!
Artù, grazie a Dio siete vivo!».
«Certo che lo sono! E non urlare, non sono sordo!».
«Ah!». Rise sornione, mentre sentiva la rabbia
iniziare a bollirgli nelle vene. «La fate facile voi!
Dopotutto non siete voi che avete appena rischiato un infarto! Devo per
caso ricordarvi che ho più anni di quelli che dimostro?!
Perché non avete risposto subito?».
«Devo aver attivato il silenziatore per sbaglio e non ho idea
di come si tolga».
Merlino si prese il setto nasale tra le dita, cercando di mantenere la
calma concentrandosi sul perché l’avesse aspettato
per più di millequattrocento anni. «Le istruzioni.
Dove le avete messe le istruzioni? Lì
c’è sicuramente scritto
come…».
«Intendi quel libretto scritto in tante lingue?».
«Esatto, proprio
quello».
«L’ho buttato via ieri».
«Che cosa?! Per quale motivo?».
«Perché perdere tempo a leggere se posso chiedere
a te o a Lady Alex?».
Il mago iniziava seriamente a pensare che avrebbero dovuto farlo santo
per aver sopportato e aver creduto in quella testa di legno non solo
per una vita, ma addirittura per due.
«A proposito di Lady Alex, hai cambiato idea o
sarò costretto a fartela cambiare con la forza?».
«No. Non le riveleremo il nostro segreto, è fuori
discussione».
«Ma perché no?!», domandò
lagnosamente il re, per poi sbuffare irritato. «Hai detto che
ti fidi di lei, che è l’unica a cui affideresti il
nostro segreto… perché non glielo riveli subito e
la facciamo finita?».
«Perché non ce n’è
bisogno».
«No, fino a quando non ti urlerà contro come
l’altra sera, stanca delle tue bugie. E lo sono anche io,
Merlino. Non hai fatto altro che mentirmi, da quando ti conosco, e
proprio perché so come ci si sente non mentirò
ancora a Lady Alex. Se non glielo dirai tu, glielo dirò
io».
«No, voi non capite! Non potete –!».
La porta sul retro si aprì di colpo, mostrando una signora
Begum con gli occhi fuori dalle orbite e i capelli così
scompigliati da far pensare che avesse appena messo due dita nella
presa della corrente. Con voce lontana, quasi spiritata, disse:
«Il pullman di una scolaresca diretta a Caerleon ha avuto un
guasto, la tua pausa è finita».
Merlino sospirò massaggiandosi la fronte con una mano e
rivolto ad Artù disse: «Devo tornare al lavoro. Ne
riparliamo a casa con calma, d’accordo? A più
tardi».
Terminò la chiamata senza nemmeno aspettare di sentire la
risposta del re di Camelot, sperando ardentemente che quella giornata
finisse presto.
«Tira fuori anche i piatti nuovi, ne avremo
bisogno», disse ancora la signora Begum, indicando una
scatola di cartone vicino alla piccola lavastoviglie.
Merlino prese il taglierino ed iniziò ad aprire la scatola,
quando corrugò la fronte esclamando: «Avete sempre
detto che non potevamo permetterci delle nuove stoviglie, come
–?». Si interruppe, indovinando la risposta
semplicemente dall’espressione eloquente della signora Begum;
quindi sospirò mestamente: «Mi scalerà
dallo stipendio il costo dei piatti che ho rotto l’ultima
volta, chiaro».
Quella giornata non sarebbe affatto finita presto, poco ma sicuro.
***
«Ehi».
Alex sollevò gli occhi dalle tazze che stava sistemando nel
lavello e sorrise quando incrociò quelli azzurri di Merlino,
appoggiato allo stipite della porta della cucina.
«Ehi, ciao. Siamo crollati ieri notte, eh?».
Merlino annuì, avvicinandosi a lei per prendere una tazza
pulita dalla credenza. Si chinò sul suo orecchio e a bassa
voce, indicando con un cenno del capo Artù, seduto sulla
veranda che dava sul giardino sul retro, disse: «Grazie
per…».
«Ma figurati», lo interruppe sorridendo.
«Caffè?».
«Sì, grazie. Un momento… l’ha
fatto Artù?».
Alex arricciò le labbra, trattenendo una risata.
«No, l’ho fatto io. È il classico tipo
che non ammetterebbe mai di essere in difficoltà, non
è così?».
«Oh sì, Artù è proprio
così: orgoglioso, testardo, presuntuoso… ma ti
posso assicurare che si
getterebbe nel fuoco pur di salvare le persone a cui tiene, senza
pensarci su due volte. Vi assomigliate molto, lo sai?».
«Non so se prenderlo come un complimento
o un’offesa».
Merlino rise e lasciò che Alex gli versasse un po’
di caffè nella tazza, poi se la portò alle labbra.
«Che cos’avete in programma per oggi?»,
gli chiese, appoggiandosi con la schiena al ripiano della cucina, al
suo fianco.
Il moro si strinse il collo tra le spalle, scuotendo il capo.
«Non ne ho idea. Tu, invece?».
«Devo fare i mestieri e ho una caterva di roba da
stirare… Farò la serva»,
borbottò e con la coda dell’occhio
scoprì Merlino intento a mordersi un sorriso divertito.
«Vuoi fare cambio? Sto io qui a badare ad Artù, se
preferisci».
«Ah, peggioreresti soltanto la tua situazione, credimi.
Piuttosto…».
Alex lo guardò, in attesa che finisse la frase.
«Cosa?», lo incalzò, iniziando a
sentirsi sulle spine.
«Penso che dovresti parlare con tuo padre…
perdonarlo». Merlino fissò gli occhi nei suoi,
increduli e leggermente intimoriti, e le posò una mano sulla
spalla. «Sono passati sei anni, Alex. Sei anni in cui non
avrà fatto altro che pentirsi del suo errore e sentire la
tua mancanza».
«È più complicato di
così…», mormorò sfuggendo al
suo sguardo, ma il moro le prese il mento tra le dita per recuperare il
contatto visivo. Sorrideva, ma era il sorriso più
malinconico che Alex gli avesse mai visto dipinto sulle labbra.
«No, invece. Tu non sei più una ragazzina, saresti
in grado di stargli accanto questa volta, di aiutarlo, e lui
è pur sempre tuo padre, ti vuole bene».
«Se mi avesse voluto bene non mi avrebbe usata in quel
modo».
Merlino sospirò e socchiuse gli occhi, come a voler spazzare
via ricordi troppo lontani e troppo dolorosi. Quando li
riaprì sembravano di ghiaccio, freddi e taglienti.
«Qualsiasi errore abbia commesso, qualsiasi sofferenza ti
abbia causato… devi trovare la forza nel tuo cuore di
perdonarlo, altrimenti te ne pentirai per tutta la vita. Io avrei dato
di tutto, darei ancora di tutto, per avere un giorno in più,
uno solo, da poter spendere con mio padre. Tu invece hai già
buttato via sei anni».
Alex aprì la bocca per ribattere, anche se non aveva la
minima idea di che cosa dire di fronte a quegli occhi intrisi di antica
rabbia e dolore, ma Artù fece scorrere la porta finestra
alle loro spalle, interrompendoli. Quando si accorse di avere gli occhi
di entrambi puntati addosso si scusò e fece per tornare in
giardino, ma Merlino gli sorrise, dicendogli che non c’era
problema. Il biondo allora attraversò la cucina e
salì le scale di corsa, lasciandoli di nuovo soli.
«Mi dispiace per tuo padre», disse Alex ad un
tratto, realizzando che, forse senza nemmeno rendersene conto, le aveva
parlato per la prima volta della sua famiglia.
«È morto ancor prima che potessi
conoscerlo», le rivelò ancora, sorprendendola.
«Ho vissuto tutta la mia vita senza sapere chi fosse e quando
finalmente sono riuscito a trovarlo… mi è stato
portato via».
«Mi dispiace davvero tanto».
Merlino le rivolse un piccolo sorriso e le massaggiò le
braccia. «Promettimi che ci penserai».
Alex annuì e lo abbracciò stretto, col viso
immerso nella sua felpa. Lo sentì irrigidirsi, ma solo per
un momento.
«Alex?».
L’infermiera si voltò verso Abigail, stesa nel suo
letto, più pallida e debole del solito.
«È quasi finito, tranquilla», la
rassicurò, controllando il liquido trasparente contenuto
nella sacca della flebo.
«No, volevo sapere… a cosa stavi pensando. Eri
così assorta…».
Alex accennò un sorriso, sedendosi al suo fianco per
stringerle una mano fredda tra le sue. «A mio padre. Ha fatto
una cosa brutta, sei anni fa, e da allora non ho più voluto
vederlo. Mi stavo chiedendo se fosse arrivato il momento di
perdonarlo».
«Sei anni sono tanti», mormorò Abigail,
con un mezzo sorriso. «Tutti facciamo delle cose brutte,
anche se a volte non ce ne rendiamo conto».
«Dici che dovrei metterci una pietra sopra?».
«Non lo so, devi deciderlo tu. Io prima di andarmene vorrei
chiudere tutti i miei conti in sospeso».
Alex sorrise e le accarezzò i capelli. «Stai
tranquilla, non te ne andrai tanto presto, te
l’assicuro».
Anche Abigail sorrise, poi chiuse gli occhi, vinta dalla stanchezza.
Alex rimase seduta al suo fianco ancora per un po’, fino a
quando non prese la sua decisione.
***
Quando
Alex se n’era andata, la mattina precedente, Artù
gli aveva detto chiaro e tondo che aveva sentito quello che lei gli
aveva urlato contro in giardino e che lui non si sarebbe opposto se
avesse deciso di rivelarle il loro segreto; anzi, lo aveva addirittura
invogliato a farlo, facendogli capire che aveva quantomeno intuito la
natura del legame che c’era tra loro.
Merlino però era stato irremovibile, anche se non era sceso
troppo nei dettagli quando aveva dovuto motivare la sua scelta. Per
quanto ne fosse impaurito, forse era arrivato il momento di essere
chiaro e dirgli come stavano le cose veramente.
Spinto anche dalla rabbia, accesa all’improvviso dalle parole
che gli aveva detto per telefono, quando entrò in casa
affrontò subito l’argomento, urlando:
«Se dovete levarvi qualche peso dallo stomaco, questo
è il momento opportuno!».
Artù, spaparanzato tranquillamente sul divano con una
lattina di Coca-Cola in una mano e un pacchetto di patatine al
formaggio sulle gambe, lo fissò confuso prima di capire a
che cosa si riferisse. Quindi sospirò, stringendo le labbra
tra loro. «No, Merlino».
«Strano, ho proprio avuto l’impressione che fosse
così!».
«Non avrei dovuto dirti quelle cose, non intendevo riaprire
l’argomento».
«Ma l’avete fatto! Significa che avete qualcosa da
dire, no?».
Artù lascò giù la Coca-Cola e il
sacchetto di patatine per potersi sbattere le mani sulle ginocchia, gli
occhi leggermente sgranati. «Vuoi la verità? La
verità è che non riesco ancora a capire il motivo
per cui tu non mi abbia rivelato prima di essere uno stregone! Pensavo
di essermi guadagnato la tua fiducia, come tu ti sei ampliamente
guadagnato la mia!».
«Ed è così! Non ho mai smesso di
credere in voi, di avere fiducia in voi!».
«E allora…?!».
Merlino gettò la borsa a tracolla accanto al divano,
trattenendo a stento un verso frustrato. «Non ci arrivate,
vero? Ciò che mi ha impedito di rivelarvi la mia vera natura
è stata la paura di non essere più lo stesso
Merlino ai vostri occhi; la paura di non essere più
accettato da voi, di essere addirittura cacciato. Non volevo che tutto
ciò che avevamo costruito andasse perduto. Non avrei mai
sopportato di perdere…».
L’ultima parola della frase gli rimase incastrata in gola, a
metà strada tra il cuore e l’aria, quando il
campanello trillò. Voltò le spalle ad
Artù, immobile come una statua, e con due rapide falcate fu
di nuovo di fronte alla porta; l’aprì senza
nemmeno chiedere chi fosse e boccheggiò incrociando gli
occhi verdissimi di Alex, la quale, dondolandosi sui talloni e
stringendo la fibbia della borsa a tracolla che aveva sulla spalla,
sembrava un po’ nervosa.
Merlino respirò profondamente e si girò verso il
re di Camelot, furioso. «Non spettava a te decidere, non
questa volta. Ma ovviamente non hai saputo resistere, dico
bene?». Artù aprì la bocca per
ribattere, ma il mago non gliene diede la possibilità,
concentrandosi di nuovo sulla ragazza di fronte a lui, ora confusa
oltre che nervosa. «Mi dispiace, Artù ha
esagerato. Qualsiasi cosa ti abbia detto, io non devo
dirti…».
Alex agitò frettolosamente le mani di fronte al petto,
costringendolo a tacere. «Artù non mi ha detto
niente, sono venuta qui per conto mio. Ho bisogno di
parlarti».
«Ah». Merlino gettò
un’occhiata alle sue spalle e vide Artù con le
braccia incrociate al petto e le sopracciglia inarcate, in quel modo
che ai vecchi tempi preannunciava sempre una bella punizione.
«Scusa, pensavo…».
«Pensi troppo, Merlino. Finirai col farti male»,
rispose, accennando un sorriso obliquo. Lo stregone riconobbe quella
frase come un proprio cavallo di battaglia, ma per quella volta gliela
concesse volentieri.
Artù salutò Alex con un cenno del capo e disse
ancora: «Se avete bisogno di me, mi trovate in camera
mia».
«Assicurati di chiudere la finestra, questa
volta!», gli gridò dietro Merlino, sotto lo
sguardo sempre più disorientato di Alex, alla quale sorrise,
invitandola ad entrare.
«Di che si tratta?», le chiese quando fu seduta sul
divano, con la borsa stretta tra le braccia.
Alex si mordicchiò il labbro inferiore, deviando il suo
sguardo fino a quando Merlino non riuscì a catturarlo
prendendole il mento tra due dita.
«Alex, che cosa succede?».
«Ci ho pensato», disse con tono di voce pacato,
cercando di controllare il ritmo dei battiti del suo cuore.
«Ho deciso di parlare con mio padre».
«Questa è… è la notizia
migliore della giornata!», esclamò, davvero
contento e anche un po’ soddisfatto del proprio operato.
Arricciò il naso, accorgendosi della sua espressione ancora
incerta. «Perché non mi sembri
contenta?».
«Non so come sto. L’unica cosa che so è
che non voglio andare da lui da sola. Ti sto chiedendo molto e forse
non dovrei, ma sei l’unica persona che potrebbe…
Insomma, mi accompagneresti?».
Merlino sorrise, accarezzandole una ciocca di capelli. «Se ti
farà stare più tranquilla, ti
accompagnerò volentieri».
Alex alzò di scatto gli occhi nei suoi e il suo volto si
illuminò alla comparsa di un piccolo sorriso, carico di
commozione. Gli strinse le braccia intorno al collo, ringraziandolo
sottovoce, e solo in quel momento il mago si rese conto che Alex non
avrebbe avuto solo lui a tenerle compagnia.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero l’infermiera gli
chiese: «Tu e Artù avete altri programmi per il
pomeriggio?».
«No, non credo. Ma se preferisci posso lasciare qui
Artù…».
Era un’ipotesi che lo terrorizzava – come lo aveva
terrorizzato per tutto il giorno – perciò fu
felice quando Alex, dopo essersi gettata un’occhiata intorno,
rispose ridacchiando: «E lasciare che diventi esattamente
come ogni ragazzo disoccupato del Paese? Non se ne parla».
Merlino lasciò correre lo sguardo sul tappeto sporco di
briciole di patatine, sulle lattine vuote di Coca-Cola lasciate sul
tavolino accanto al divano, sulla televisione ancora accesa su una
partita di calcio, e per un attimo – un attimo soltanto
– fu orgoglioso del modo in cui Artù si stava
ambientando.
«Adesso mi sente», borbottò, nonostante
sapesse perfettamente che alla fin della fiera avrebbe dovuto pulire e
sistemare lui tutto quanto: era il suo destino, servire in ogni
aspetto, anche quello più umile, quell’imbecille
reale.
Alex sorrise e per dimostrare il proprio sostegno gli
massaggiò la schiena. Quindi si alzò e si diresse
verso la cucina per preparare un po’ di te.
«Merlino?», lo chiamò dalla soglia,
leggermente preoccupata.
«Uhm?».
«Puoi venire qui un attimo?».
Il mago la raggiunse e rimase senza fiato di fronte alla sua povera
cucina ridotta come quella della signora Begum dopo ore ed ore di
lavoro ininterrotto.
«Troppo tardi», mormorò Alex,
grattandosi la testa.
«Non lo è per rigettarlo nel lago e guardarlo
mentre affoga», rispose Merlino prima di correre verso le
scale per salirne i gradini due a due.
«Un goblin! È come se un goblin fosse stato
liberato nella mia cucina! Come diavolo –?».
Merlino, entrato come una scheggia nella stanza del re di Camelot, si
interruppe bruscamente nel bel mezzo della propria sfuriata quando vide
Artù di fronte alla finestra, con la fronte solcata da rughe
di apprensione e una mano sopra il cuore.
«State male? Sta succedendo di nuovo?».
Il biondo si voltò e dopo un attimo di esitazione
espirò ed accennò un sorriso, scrollando il capo.
«È passato».
«Siete sicuro? Artù…».
Il re non gli permise di terminare la frase, parlandogli sopra:
«Cosa stavi dicendo a proposito di quel goblin?».
«La mia cucina è un completo disastro!»,
esclamò quando si fu calmato, sospirando esasperato.
«Come ci siete riuscito?».
«Non volevo mangiare gli avanzi di ieri sera. Non
sarò più il re, ma resto comunque di sangue
reale!».
«E così avete provato a cucinare, fallendo
miseramente».
«Sono sempre stato negato. Ginevra…». I
suoi occhi si velarono all’improvviso della malinconia legata
ai ricordi e Merlino pensò a qualcosa da dire per tirarlo su
di morale, ma non gli venne in mente nulla di appropriato. In fondo
sapeva bene quanto il passato facesse male e quanto fosse difficile
porre rimedio alle sue ferite.
Allora lo distrasse, dicendo: «Alex mi ha chiesto di
accompagnarla da suo padre. Venite anche voi».
Più che una domanda era stata posta come
un’affermazione, perciò Artù si
voltò con un sopracciglio inarcato e chiese: «E se
non ne avessi voglia?».
Merlino sogghignò sotto lo sguardo ora indagatore del re di
Camelot. «Vedrete, vi piacerà».
***
Alex
aveva cercato di pensare ad altro mentre guidava verso
l’agriturismo in cui lavorava e viveva suo padre, nel bel
mezzo del nulla a metà strada tra il loro minuscolo paesino
e Caerleon.
Aveva seguito pezzi della conversazione tra Artù e Merlino,
la quale ben presto si era trasformata in una discussione vera e
propria: il moro aveva provato a spiegare al biondo che al
più presto avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, ma
quest’ultimo si era fermamente opposto sin
dall’inizio, affermando semplicemente che non era
lì per costruirsi una vita.
Alex non aveva colto il senso di quella frase e aveva guardato Merlino
con la coda dell’occhio, trovandolo pallido e con il labbro
inferiore stretto tra i denti, mentre i suoi occhi venivano
attraversati da un bagliore di rabbia. In ogni caso la sua mente non le
aveva permesso di rimuginarci sopra a lungo, costringendola invece ad
immaginarsi i mille e più scenari che avrebbero potuto
verificarsi una volta di fronte a suo padre.
Più attraversavano la campagna gallese, sotto quel cielo
ricoperto di nuvole grigiastre dietro le quali il sole era solamente
una sfera di pallida luce bianca, più il nervosismo le
attanagliava lo stomaco, facendole maledire il momento in cui aveva
preso quella folle decisione.
Le parole di Merlino avevano di certo sortito il loro effetto, tanto da
convincerla che parlare con suo padre era la cosa migliore da fare, ma
forse non ci aveva ragionato su abbastanza: il padre di Merlino era
sicuramente una persona migliore rispetto al suo – o forse
no, visto che da quello che le aveva raccontato non aveva avuto
l’opportunità di conoscerlo a fondo – e
lei non poteva rompere quel silenzio che durava da ormai sei anni solo
perché lui non aveva avuto abbastanza tempo da spendere con
il suo genitore. A dire il vero Alex in quel momento avrebbe fatto
carte false per trovarsi al suo posto: avrebbe preferito essere orfana
di padre, piuttosto che trovarsi in quella situazione.
Forse Merlino però ci aveva preso giusto, quando aveva detto
che lei e Artù si assomigliavano: il suo orgoglio le
impediva di fare inversione ad U e tornare indietro, ammettendo
pubblicamente di non avere il coraggio di affrontare suo padre.
«Manca ancora molto?», domandò ad un
tratto Artù, rompendo il silenzio.
«No, l’agriturismo è
laggiù», rispose Alex, indicando, ad ormai pochi
chilometri di distanza, un grande edificio di mattoni a vista,
circondato da campi coltivati e vigneti.
Merlino si voltò verso i sedili posteriori e anche Alex
gettò uno sguardo al biondo attraverso lo specchietto
retrovisore: sembrava avere la luna storta, come la maggior parte del
tempo, ma il pallore del suo viso e la sofferenza nei suoi occhi
raccontavano anche qualcos’altro.
Alex aprì un po’ il finestrino e non appena
l’aria fresca ed impregnata dell’odore della
campagna lo colpì, arruffandogli i capelli sulla fronte,
Artù parve rianimarsi, ricambiando il suo sguardo e
rimanendo impassibile nonostante avesse notato il leggero sorriso che
le aleggiava sulle labbra.
Dieci minuti dopo avevano già lasciato l’auto nel
parcheggio – se così si poteva chiamare quello
spiazzo quadrangolare pieno di buche da cui, a causa del forte vento
che si era alzato nelle ultime ore, si sollevava così tanta
polvere che le loro scarpe ne assunsero ben presto il colore chiaro
– e si dirigevano verso l’entrata
dell’agriturismo.
Avevano quasi raggiunto le scale in pietra che portavano alla piccola
veranda riparata da un tetto spiovente, massicce travi di legno e tre
spigolosi pilastri in mattoni, quando Artù
l’affiancò e senza farsi sentire da Merlino,
qualche passo davanti a loro, le disse: «Perché
non hai detto niente? Avresti potuto…».
«Prenderti in giro perché soffri il mal
d’auto?». Alex si strinse le braccia al petto,
arricciando le labbra in un sorriso divertito. «Il tuo
orgoglio ne avrebbe sicuramente risentito, ma so come ci si sente
– anche io da piccola stavo male durante i lunghi tragitti
– perciò non ho infierito».
«Beh… me ne ricorderò».
L’infermiera osservò quegli occhi blu seri e pieni
di rispetto, come se avessero appena colto qualcosa di importante e di
onorevole in lei, e si sentì sia lusingata che imbarazzata.
Gli diede una pacca sul braccio per stemperare la tensione e sempre a
bassa voce, poco prima che Merlino si voltasse per chiedere loro di che
cosa stessero confabulando, disse: «Al ritorno
farò in modo che tu sieda davanti».
Quindi sorrise e con una corsetta raggiunse Merlino sotto la veranda
per entrare per prima nella piccola e semplicissima, ma accogliente,
reception: un angolo con un alto bancone di legno scuro su cui
spiccavano due stupendi vasi di fiori freschi e diverse brochure, un
appendiabiti, un portaombrelli e alle pareti diverse fotografie
d’epoca che immortalavano la campagna, degli animali da
fattoria, soprattutto cavalli, e dei contadini. Alla sinistra del
bancone iniziava la scalinata che portava al piano superiore, quello
delle camere e dei bagni; seguendo il corridoio, invece, si arrivava
all’area comune che altro non era che un ampio salotto ben
arredato in stile rustico, con un grande camino dalle fiamme
già scoppiettanti, diverse poltrone posizionate intorno ai
tavolini bassi, una televisione e una biblioteca ben fornita che
occupava praticamente tutta la parete est.
«Buonasera, posso esservi utile?».
Alex sorrise alla giovane ragazza dietro il bancone e non senza un
po’ di nervosismo si presentò: «Mi
chiamo Alexandra Greenwood, sono la figlia di Edwin».
La ragazza, dagli occhi scuri e i capelli castani, non fece in tempo ad
aprire bocca che la voce roca di un uomo li raggiunse ancor prima della
sua figura, nascosta alla loro vista grazie all’alto
schienale della poltrona posta proprio davanti al camino: «Lo
sapevo che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato».
Alex, Merlino e Artù fecero un passo verso il salotto e
l’uomo si alzò, lasciando il quotidiano
spiegazzato sulla poltrona e sistemandosi gli occhiali sul naso. Sulla
cinquantina, con corti capelli brizzolati e un accenno di barba sulle
guance, Alex era sicura di non averlo mai visto in vita sua.
«Ci conosciamo?», gli chiese.
L’uomo sorrise bonario, porgendole la mano. «Il mio
nome è Abraham Morris, sono il proprietario di questo
agriturismo. Avete già conosciuto mia figlia,
Rebecca», indicò la ragazza dietro il bancone
della reception e lei accennò un timido sorriso, molto
diverso da quello del padre, anche se di suo aveva preso sicuramente il
colore degli occhi.
«Io e tuo padre siamo amici di vecchia data, abbiamo
frequentato persino lo stesso college da giovani. Ora come ora, penso
di essere l’unico amico che gli è
rimasto».
«Quindi lei sa perché sono qui», disse
atona, lo sguardo fisso sul suo viso rubicondo.
Il signor Morris nascose il collo tra le spalle, scrollando un poco il
capo. «Edwin dice di essersi messo il cuore in pace, ma io lo
so che l’unica cosa che lo fa andare avanti è il
pensiero che un giorno riuscirai a perdonarlo. Se non sei venuta qui
per questo, allora faresti meglio a tornare a casa».
Alex, presa in contropiede da quel suggerimento e
dall’espressione ora tutt’altro che amichevole sul
volto di Abraham, non riuscì a trovare le parole adatte con
cui rispondere. Fu Merlino a correre in suo aiuto, anticipando solo di
qualche istante Artù, il quale si era messo un passo davanti
a lei come a volerla proteggere.
«Alex è qui per vedere suo padre, non
può negarglielo, né minacciarla come ha appena
fatto», esclamò il moro, coi pugni stretti lungo i
fianchi e gli occhi che lanciavano saette.
L’uomo scoppiò in una grassa risata, per poi
rispondere: «La mia non era una minaccia, solo un
consiglio». Quindi tornò a fissare gli occhi in
quelli di Alex, così severi che le fu impossibile non
rimanerne impressionata, e aggiunse: «Penso solo che una
figlia che rinnega il proprio padre per sei anni e che poi chiede il
suo aiuto, solo perché non ha nessun altro, sia una bella
ipocrita».
L’infermiera sentì il sangue andarle al cervello e
ancor prima di poter realizzare le conseguenze delle proprie azioni lo
schiaffeggiò.
«Lei non sa niente!», gridò, fuori di
sé. «Non può parlare, non
può giudicarmi!».
Abraham la guardò sbalordito mentre Merlino, piazzato di
fronte a lei, tentava di farla smettere di urlare. Ad un tratto, scesa
dal piano di sopra a causa del baccano che stavano facendo, anche la
signora Morris si unì alla mischia. Gridò ai tre
ragazzi di andarsene, senza voler sentire ragione alcuna, e a quel
punto fu Artù a prendere in mano la situazione: si
caricò semplicemente Alex sulla spalla, convergendo su di
sé tutti gli improperi che altrimenti avrebbe gettato
addosso al proprietario dell’agriturismo, e nonostante si
divincolasse con tutte le sue forze riuscì a portarla fuori.
La lasciò andare solo quando furono di nuovo nel parcheggio
e la prima cosa che fece quando i suoi piedi toccarono di nuovo terra
fu tempestarlo di pugni sul petto, o almeno ci provò,
trovandosi nuovamente bloccata nella sua stretta d’acciaio,
il viso ad un palmo dal suo.
«Toglimi le mani di dosso, imbecille», gli
sibilò in faccia, trucidandolo con lo sguardo.
«Solo quando avrai finito di dare spettacolo e ti comporterai
come una persona matura».
«Senti da che pulpito arriva la predica!».
Sconvolta dalla rabbia e dal grande dolore che sentiva bucarle il petto
come una voragine, Alex avrebbe sicuramente detto qualcosa di cui poi
sarebbe pentita, perciò fu grata della presenza di Merlino,
il quale costrinse Artù a lasciarla andare e la prese per le
spalle per guardarla dritta negli occhi.
«Alex, respira. Respira».
Fece come le aveva chiesto e non appena l’aria
entrò nei suoi polmoni un singhiozzo le uscì
incontrollato dalla gola, tanto forte che fu impossibile nasconderlo,
come i suoi occhi che si erano velocemente riempiti di lacrime ardenti.
«Va tutto bene», le sussurrò ed
alzò una mano per accarezzarle i capelli, ma Alex si
scostò bruscamente, stringendosi le braccia al petto e
dandogli le spalle.
«Non sarei mai dovuta venire».
«Ti sbagli».
«No, tu ti sbagli!»,
urlò, girandosi di scatto per puntargli un dito contro.
Le era perfettamente chiaro ora: tutto il rancore che aveva covato per
suo padre in quegli anni… era sempre stato rivolto a se
stessa, in modo così deleterio da renderla cieca di fronte
all’evidenza.
«Come posso tornare da mio padre dopo sei anni e fare finta
che non sia successo nulla? Il signor Morris ci ha visto giusto: sono
un’ipocrita. Lui avrà anche sbagliato,
più e più volte, ma sono io quella che ha
commesso l’errore più grande, rifiutandomi di
perdonarlo; il mio orgoglio me l’ha impedito».
Tirò su col naso ed accennò un sorriso,
ricordando la storia che aveva letto qualche tempo prima ai bambini
dell’ospedale. «Non sono pura di cuore come credi
tu, Merlino. Nessun unicorno si mostrerebbe ai miei occhi».
Merlino abbassò lo sguardo con le labbra strette in una
linea sottile, Artù invece boccheggiò
vistosamente, come se avesse appena detto qualcosa di cui non avrebbe
dovuto essere a conoscenza. Ancora una volta non poté
chiedere spiegazioni, distratta dalla signora Morris.
«Ragazzi!», li chiamò, correndo
giù dalle scale in pietra con così tanta foga che
l’infermiera temette per un attimo di doverla accompagnare al
pronto soccorso. Quando fu sana e salva sul sentiero che portava al
parcheggio Alex se ne dimenticò completamente e
gettò la borsa a terra, sollevando una nuvola di polvere,
per accovacciarcisi sopra e cercare le chiavi dell’auto,
borbottando ad alta voce: «Sì, sì, ce
ne stiamo andando!».
«No, non dovete!», esclamò, chinandosi
davanti ad Alex per prenderle delicatamente le mani ed invitarla ad
alzarsi. «Mia figlia mi ha raccontato quello che è
successo e mi dispiace davvero tanto. Abraham a volte esagera,
specialmente quando si parla di Edwin: è il suo migliore
amico e si è angosciato molto quando ha saputo che vi siete
visti».
Alex sentì un brivido correrle lungo la schiena. «Angosciato?
E per quale motivo?».
La donna sospirò e gettando uno sguardo anche a Merlino e ad
Artù disse pacatamente: «Venite, vi offro una
tazza di tè».
«All’epoca tuo padre abitava già nella
piccola dependance dietro le stalle, pranzava e cenava con noi, proprio
come uno di famiglia, perciò abbiamo potuto constatare di
persona quanto fosse stato distrutto dalla morte di tua madre. Ricordo
come se fosse ieri che quella sera, dopo il funerale, tornò
a casa ubriaco, piangendo e ripetendo il tuo nome e quello della tua
povera mamma».
La signora Morris si fece un rapido segno della croce, guardando il
soffitto, ma Alex continuò a fissare il tavolo, immersa nei
ricordi: anche lei quella sera si era data all’alcool, ma al
contrario di suo padre aveva trovato delle braccia pronte a sostenerla,
quelle di Keith, il quale si era preso cura di lei come se davvero gli
fosse importato qualcosa, sussurrandole parole di conforto e
sostenendole la fronte quando si era ritrovata in ginocchio di fronte
al water, con le collant nere strappate e il trucco che le colava sulle
guance a causa delle lacrime.
«Abraham ed io abbiamo fatto tutto quello che potevamo per
lui, cercando di non fargli mancare nulla e dimostrandogli ogni giorno
il nostro sostegno, il nostro affetto. Quando sembrava che si stesse
riprendendo – era tornato a lavorare, sorrideva ai bambini
come aveva sempre fatto – fu allora che crollò
definitivamente. Fu Abraham a trovarlo, insospettito dal fatto che
quella mattina non avesse iniziato presto a prendersi cura dei cavalli.
Aveva ingerito una dose massiccia di sonniferi, ma fortunatamente i
soccorsi sono arrivati in tempo e i medici sono riusciti a salvarlo.
Aveva anche lasciato un biglietto, ma Abraham non mi ha mai voluto dire
che cosa ci fosse scritto: l’ha bruciato proprio
là, nel camino».
Solo allora Alex alzò il capo, rivolgendolo verso la porta
aperta da cui si intravedeva uno scorcio del salotto. E solo allora si
rese conto di essere rimasta sola con la signora Morris nella grande
cucina che faceva da sala colazione per gli ospiti
dell’agriturismo, con una tazza di tè ormai
tiepido, intoccato, e un piatto di biscotti fatti in casa davanti al
naso.
«Dove sono Merlino e Artù?», chiese con
voce lontana, così spiritata che stentò a
riconoscerla come la propria.
La signora Morris le posò le mani solcate di rughe sulle
sue, accarezzandole delicatamente con il pollice, e le rivolse uno
sguardo carico di apprensione. «Li hai mandati via circa
dieci minuti fa, tesoro».
Alex annuì con un breve cenno del capo, fingendo di
ricordarselo.
Per quanto disperato fosse il bisogno di stringere forte la mano di
Merlino, di trovare conforto e tranquillità nei suoi dolci
occhi azzurri, pensò che nello sconvolgimento avesse fatto
qualcosa di positivo: non avrebbe mai sopportato di vedersi
così debole e fragile riflessa nel suo sguardo,
né avrebbe mai voluto lasciargli capire che in fondo aveva e
aveva sempre avuto bisogno di protezione e di qualcuno a cui
aggrapparsi.
***
«Non
dovremmo allontanarci troppo, Alex potrebbe…».
Artù si voltò e senza smettere di camminare,
diretto verso le stalle, gli rivolse un’occhiata obliqua.
«Alex è più forte di quello che sembra,
sa cavarsela da sola. E poi credo che abbia bisogno di un po’
di tempo per poter perdonare se stessa».
«Perdonare… se stessa?». Merlino si
fermò qualche passo dietro di lui, profondamente colpito da
quanto a volte le loro menti fossero in sintonia.
Da quando Alex si era concessa quello sfogo il mago non aveva fatto
altro che pensare a quanto le loro situazioni fossero simili, per
quanto diverse. Tutto quello che aveva detto ad Artù quella
mattina, sul fatto che non fosse riuscito a confessargli prima di
possedere la magia perché aveva paura di non essere
più visto lo stesso Merlino di sempre e di perdere la sua
amicizia era vero, ma c’era anche un altro motivo, qualcosa
di così profondo che il solo pensiero gli faceva tremare le
ginocchia ma che lo avrebbe dilaniato, se avesse continuato a tenerselo
dentro.
«Ma come faceva a sapere
dell’unicorno?», chiese Artù ad
un tratto, fermandosi nel bel mezzo del sentiero.
Merlino sbatté più volte le palpebre e quando
capì a che cosa si riferiva si portò una mano
sulla nuca, imbarazzato. «Io, ecco… Nel corso
degli anni ho fatto di tutto per non dimenticare e una cosa che mi ha
aiutato molto è stato scrivere».
«Tu hai scritto… di me? Di noi?».
La sua espressione innervosita, perfetta per celare
l’imbarazzo, gli fece abbassare lo sguardo e calciare un paio
di sassolini con le sue All Star rosse ora sporche di polvere.
«Di voi, dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di
Gaius… Ho scritto tutto quanto. È stata
l’unica cosa che ha saputo darmi un po’
d’ossigeno quando pensavo di soffocare».
«E Alex sa…?».
«No! Ho adattato alcune nostre avventure per poterle
raccontare come favole ai bambini dell’ospedale e lei pensa
che siano solo questo, favole; non sa che sono
vere. Almeno credo».
Artù lo scrutò e, sapendo fin troppo bene che si
era già tuffato in quel mare di dubbi ed ipotesi,
lasciò perdere e non gli chiese altro.
Entrarono insieme nella grande scuderia e rimasero senza parole quando
si trovarono nel bel mezzo del largo corridoio da cui sia a destra che
a sinistra si aprivano i box di cinque bellissimi esemplari di cavalli
adulti e di un paio di pony. Lo stregone non poté evitare di
sciogliersi in un sorriso scorgendo gli occhi luminosi e allo stesso
tempo malinconici del suo re di fronte ad una parte, seppur piccola,
del mondo che conosceva.
Si avvicinò ad uno stallone dal lucido manto brunito e gli
accarezzò il muso, provando le stesse identiche emozioni di
Artù. E fu quella vicinanza, quell’atmosfera
intrisa di ricordi, che lo invogliò a parlare.
«Alex non è la sola ad aver bisogno di
perdono».
«Uhm?». Artù posò gli occhi
nei suoi e il cavallo a cui aveva prestato tutta la propria attenzione
fino a quel momento non ne fu felice e per dimostrarlo
sollevò fieramente il capo nitrendo. Il re lo
calmò con poche parole, sorridendo, e disse ancora:
«Che cos’hai detto?».
Merlino abbassò gli occhi, appoggiandosi
all’entrata del box con una mano. «È uno
dei motivi, se non il motivo principale, per cui non sono mai riuscito
a dirvi la verità».
«Cos’è, ora che il tuo amico drago non
c’è più hai deciso di prendere il suo
posto? Parla chiaro, per favore!».
«Io non sono mai riuscito a perdonare me stesso,
Artù. Ho commesso tanti e tanti errori usando la magia,
complicando le cose anziché migliorarle, costringendovi a
correre mille e più pericoli inutili. Se solo voi vi
rendeste conto di tutto il dolore che vi ho
causato…».
«Ti riferisci a Morgana? A mio padre?».
Merlino trattenne il respiro e si azzardò ad alzare lo
sguardo, trovando quegli occhi blu come il mare calmi, sereni, come se
la tempesta fosse finita ormai da un pezzo e quasi dimenticata.
Il re di Camelot scrollò le spalle.
«Millequattrocento anni sul fondo di un lago hanno avuto la
loro utilità, dopotutto. Sono consapevole di tutto
ciò che hai fatto e ti posso assicurare che i tuoi errori
non sono nemmeno paragonabili a tutto l’aiuto che hai saputo
darmi. Mi hai salvato la vita così tante volte che mi
è impossibile tenere il conto, Merlino».
«Sì, ma…».
Gli posò entrambe le mani sulle spalle, immergendo gli occhi
nei suoi. «Mio padre non è morto per colpa tua; tu
hai fatto tutto quello che hai potuto per salvarlo, lo so. Era destino
che perisse. E per quanto riguarda Morgana…».
Sospirò, socchiudendo gli occhi. «Non so quanto
avresti potuto aiutarla, ha scelto da sé quale uso fare dei
suoi poteri».
Il mago aprì la bocca per ribattere, ma Artù lo
fermò con un gesto imperioso della mano.
«Davvero, Merlino, non hai nulla di cui essere perdonato. E
non osare farmi ripetere che ti sono grato per tutto ciò che
hai fatto per me a mia insaputa».
Merlino sollevò un angolo della bocca.
«Così è come se l’aveste
fatto».
Artù ricambiò il sorriso e provò a
stringergli il collo in una morsa d’acciaio per sfregargli le
nocche tra i capelli, ma non ci riuscì, preso alla
sprovvista da una voce maschile che chiese loro: «Vi siete
persi?».
I due si allontanarono in fretta l’uno dall’altro e
guardarono spaesati l’uomo sbucato dal nulla, magro nei suoi
consumati abiti da lavoro e negli stivali alti fino al ginocchio, con
un cappellino da baseball blu impallidito dal sole che gli ombreggiava
il volto scarno.
Merlino lo guardò meglio, assottigliando gli occhi, ma solo
quando avanzò di qualche passo e si espose alla luce al neon
della scuderia riuscì a riconoscerlo, nonostante la barba di
due o tre giorni, ispida ed argentata. I suoi occhi, spenti e velati di
un’antica tristezza dietro gli occhiali da vista, non
potevano mentire.
«Lei è il padre di Alex, vero?».
L’uomo lasciò a terra il secchio che teneva in una
mano e si fece ancora più vicino, guardandoli attentamente.
Il suo sguardo finì inevitabilmente su Artù e si
tolse il cappellino, rivelando una specie di caschetto spettinato di
capelli argentati, prima di esclamare: «Tu sei quel ragazzo
che Alex ha soccorso al lago, quello con tutta quella ferraglia
addosso».
Il re strinse le labbra ed annuì, sollevando le mani come in
segno di resa.
«Il suo nome è Artù», disse
il mago. «Io invece mi chiamo Merlino».
Edwin li guardò e nonostante ci avesse provato il sorriso
divertito che gli piegò le labbra non fu altro che una
smorfia. «Mi prendete in giro?».
«No», sospirò Merlino, ricordando il
momento in cui Alex gli aveva detto, ridendo, che quella era proprio
una bella coincidenza. «Signor Greenwood, siamo venuti qui
con sua figlia e prima che possa…».
«Alex è qui?», gli chiese
interrompendolo, iniziando a sudare nonostante il suo viso si fosse
fatto all’improvviso più pallido.
Lo stregone annuì solennemente, senza interrompere il
contatto visivo. «Quando l’abbiamo lasciata, era
ancora con la signora Morris».
A quelle parole l’uomo sobbalzò e
lasciò cadere il cappellino da baseball a terra. Sia
Artù che Merlino si chinarono a raccoglierlo e quando si
risollevarono scoprirono che Edwin era corso fuori dalla scuderia. Non
poterono far altro che seguirlo.
***
Una
famiglia formata da mamma, papà e due bambini, ospite
dell’agriturismo, si era trovata costretta a passare per il
salotto già due volte e in entrambe le occasioni i genitori
avevano rimproverato i figlioletti quando li avevano sorpresi ad
osservare troppo a lungo Alex, rannicchiata sulla poltrona proprio di
fronte al fuoco scoppiettante del camino e con gli occhi colmi di
lacrime che stava tentando in ogni modo di sopprimere.
Continuava a guardare le fiamme, come se le parole che suo padre aveva
scritto prima di tentare di togliersi la vita potessero apparire tra le
scintille. Non sarebbe successo, no, ma Alex aveva la sensazione di
conoscerle, di averle lette più e più volte nei
suoi occhi stanchi e tristi, e facevano così male da
toglierle il fiato.
Come poteva essere stata tanto crudele, tanto egoista? Come aveva
potuto ignorare la sua sofferenza per così tanto tempo?
«Wanda!».
Alex sobbalzò e sentì le gambe cederle quando si
alzò dalla poltrona, dando le spalle al fuoco.
La signora Morris uscì dalla cucina e dopo averle gettato
una rapida occhiata si diresse velocemente verso l’ingresso
sul retro, dove si imbatté in Edwin, seguito dagli ansimanti
Merlino e Artù.
«Dov’è mia figlia? Perché non
mi hai mandato subito a chiamare?», ruggì ancora,
come un animale ferito.
La donna indicò il salotto con un braccio e
sospirò stancamente, facendogli capire che era arrivato
troppo tardi. «Aveva il diritto di saperlo».
«Non così! Lei…».
«Non è più una bambina», lo
interruppe docilmente, posandogli una mano sul braccio.
Dalla sua posizione Alex poteva vederli, ma loro non potevano vedere
lei. Poteva vedere la disperazione e lo smarrimento sul volto di suo
padre, la confusione e il timore in quegli occhi che sua madre aveva
amato tanto e che lei era sempre andata fiera di aver ereditato.
«Papà», lo chiamò, cercando
inutilmente di mandare giù il magone che le faceva tremare
la voce.
Edwin si girò verso di lei e lentamente la raggiunse, non
riuscendo però a sostenere il suo sguardo, umido di lacrime
e ciononostante bellissimo, la luce della sua vita, ancora
più ardente del fuoco scoppiettante nel camino;
l’unica ragione che inconsapevolmente gli aveva impedito di
scegliere una morte più sicura ed istantanea.
«Non saresti dovuta venire qui»,
mormorò, ancora a capo chino sui suoi stivali sporchi di
fango.
«Hai ragione», rispose Alex, accennando un sorriso
mesto. «Perché non avrei mai dovuto
lasciarti».
Suo padre alzò di scatto gli occhi e rimase senza parole
quando Alex gli gettò le braccia al collo e lo strinse
forte, passandosi una mano sotto gli occhi per cancellare i segni di
quelle lacrime che alla fine l’avevano avuta vinta.
«Mi dispiace tanto, io…»,
singhiozzò, facendo i pugni sulla sua schiena e tra i suoi
capelli.
«Shhh. Va tutto bene, amore mio. Va tutto bene».
Alex capì che per la prima volta da anni era davvero
così e che c’era una sola persona che doveva
ringraziare per averla spinta a dare quell’enorme calcio al
sedere del suo orgoglio.
Incrociò lo sguardo di Merlino e gli rivolse un sorriso
intriso di gratitudine, al quale lui rispose un tantino imbarazzato,
guardandola solo di sottecchi. Al contrario Artù, al suo
fianco, si appoggiò allo stipite della porta con una spalla
e sorrise soddisfatto, come se il merito di quel lieto fine fosse suo.
Alex soffocò una lieve risata contro la spalla di suo padre
e, circondata dalle sue braccia e dal suo infinito amore, chiuse gli
occhi pregando perché quel momento non finisse mai.
***
«Siete
sicuri di non voler restare per la notte? O almeno per cena?».
Alex sorrise gentilmente e chinò un po’ il capo, a
mo’ di ringraziamento. «Abbiamo creato fin troppo
scompiglio oggi. Sarà per la prossima volta, signora
Morris». Quindi si voltò verso suo padre e il suo
sorriso si ampliò quando stese le braccia verso di lui per
poterlo abbracciare ancora. «Ti chiamo domani,
promesso».
Edwin sospirò rilassato, massaggiandole la schiena, poi
sollevò una mano per salutare anche Merlino ed
Artù, quei due ragazzi strani senza i quali non avrebbe mai
riavuto indietro la sua bambina.
Stavano per lasciarsi l’agriturismo alle spalle, quando il
signor Morris si schiarì la gola dietro sua moglie e il
padre di Alex, facendoli voltare sorpresi.
«Volevo scusarmi per… lo sapete, per come mi sono
comportato. Non avrei dovuto dirti quelle cose, Alexandra».
Merlino avrebbe potuto indovinare i pensieri che aleggiavano nella
mente della ragazza e seppe che avrebbe avuto ragione quando la vide
offrirgli una mano in segno di pace ed esclamare: «Mi chiami
pure Alex».
Abraham ricambiò il sorriso e le diede una stretta vigorosa,
facendole promettere di tornare presto.
«Ci conti!», esclamò Artù al
posto suo, con così tanto entusiasmo che sia Alex che
Merlino si scambiarono uno sguardo accigliato.
Una volta nel parcheggio, il mago affiancò il re di Camelot
e gli chiese che cosa avesse voluto dire con quella risposta.
«Niente, solo che ci torneremo!».
«Ah, ti conosco troppo bene ormai: dimmi che cosa ti
frulla nella testa».
«Beh… Stavo pensando che se è davvero
necessario che io mi trovi un lavoro, mi piacerebbe fare ciò
che fa il padre di Lady Alex».
Alex si bloccò con una mano sulla maniglia della portiera e
dopo un attimo di esitazione scoppiò a ridere accorgendosi
dell’espressione sconvolta di Merlino.
«Mi stai prendendo in giro, vero?», gli chiese
quest’ultimo, quando fu in grado di articolare una frase di
senso compiuto, mentre Artù si era già
impadronito del sedile accanto a quello del guidatore.
«No, perché dovrei?».
«Perché non puoi dire sul serio, è
fuori da ogni logica!».
Alex sbuffò trattenendo una risata ed esclamò:
«Falla finita e salta in macchina, è un lavoro
come un altro».
«No che non lo è!», rispose, con gli
occhi sgranati.
Il re di Camelot che si abbassava a prendersi cura dei cavalli, a
tenere puliti i loro box e in generale la scuderia? Non sarebbe mai
successo, nemmeno in un universo alternativo.
Alex posò le braccia sul tettuccio dell’auto e gli
rivolse un’occhiata esasperata. «Preferisci tornare
a piedi?».
Merlino scosse il capo e sospirò, dicendosi che una volta da
soli, a casa, avrebbe riaperto la questione. Entrò in auto e
solo in quel momento si rese conto di essere seduto sui sedili
posteriori.
«Perché hai lasciato che Artù sedesse
davanti?», chiese ad Alex, insospettito. E lo fu ancora di
più quando l’infermiera e Artù si
scambiarono un sorrisino prima che lei rispondesse:
«Perché no? Non c’è mica
scritto il tuo nome su quel sedile».
Artù si allacciò la cintura e mentre Alex faceva
manovra per girarsi ed uscire dal parcheggio si voltò verso
di lui con un sogghigno per nulla rassicurante stampato sul viso.
Infatti, con un luccichio perverso negli occhi, esclamò:
«Hai qualcosa in contrario, forse? Non dirmi che sei geloso,
Merlino!».
Il mago sobbalzò e sentì le orecchie andargli a
fuoco, ma non fu l’unico a soffrire dei sintomi
dell’imbarazzo: anche Alex, alle parole di Artù,
aveva stretto più forte le mani sul volante, mordendosi
nervosamente il labbro inferiore. E fu lei a sopprimerli per prima,
rispondendo con l’ironia con cui era solita difendersi nelle
situazioni critiche.
«E di chi dovrebbe essere geloso, di te?
Mi dispiace dare questo colpo al tuo ego, Artù, ma ho visto
ragazzi di gran lunga più belli di te».
Merlino si passò una mano sulla fronte, consapevole che se
c’era un tasto che non doveva essere assolutamente toccato
con Artù era proprio il suo aspetto fisico.
D’altronde ne aveva più volte subito le
conseguenze…
«Ah sì? Lasciami dire che invece io me ne intendo
di bellezza femminile e sai, tu non sei nemmeno lontanamente
paragonabile a nessuna donna abbia avuto l’onore
di…».
Sospirò abbattuto e lasciò cadere indietro la
testa.
Si prospettava un lungo, lunghissimo viaggio.
«Perché non ti fermi a cena?».
Merlino, il quale si era finto addormentato per la maggior parte del
viaggio per non dover scegliere da che parte stare durante i loro
continui battibecchi, rischiò di mandare a monte la sua
favolosa copertura udendo la voce di Artù pronunciare quelle
parole.
Si schiarì un po’ la gola e deglutì per
poi schioccare le labbra come faceva durante il sonno – un
motivo per cui veniva sempre picchiato da Artù nel caso gli
capitasse di sentirlo. Il re di Camelot si voltò, appena
infastidito, ma ben presto la sua attenzione fu di nuovo tutta su Alex,
la quale sospirò e rispose: «Ti ringrazio per
l’invito, ma è meglio di no».
«Non ti preoccupare, quando mi stuferò di starti a
sentire mi porterò la cena in camera».
«Ah-ah, molto divertente», borbottò,
lasciandosi andare ad una breve risata. Quindi il suo tono di voce
tornò serioso, quasi dispiaciuto: «Vi ho
già rubato fin troppo tempo oggi. A proposito, volevo
scusarmi di avervi lasciati a voi stessi per tutto quel
tempo…».
«Non devi scusarti. Avevi bisogno di stare da sola con tuo
padre, per chiarirvi».
«Grazie, Artù. Ma la mia risposta è
sempre no».
«Scommetto che c’è un altro motivo per
cui non vuoi fermarti. Ho ragione?».
«Può darsi», biascicò.
Il biondo smorzò una risata per esclamare:
«È così difficile ammettere che ho
ragione? E sentiamo, quale sarebbe questo motivo?».
«Perché dovrei dirtelo?».
«Perché non
dovresti?».
«Lo sai che sei proprio una seccatura? Non avrei dovuto
coprire il tuo mal d’auto: a quest’ora saresti
stato uno straccetto verdognolo sul sedile e avrei avuto un
po’ di silenzio!».
Merlino dovette sforzarsi per non scoppiare a ridere e il suo
silenzio venne ricompensato, perché vedere Artù così
imbarazzato era un’occasione più unica che rara.
«Prometto che se mi dici qual è questo misterioso
motivo starò in silenzio».
Alex sospirò e dopo qualche istante di esitazione
confessò: «A volte mi sento di troppo, tra voi
due. Sembrate così completi insieme e
poi Merlino ti guarda in un modo…».
«Aspetta, aspetta, stai cercando di dire che
sembriamo… Che io e lui…?»,
continuò a balbettare, sconclusionato, fino a quando Alex
non lo interruppe dicendo: «Non c’è
nulla di male, davvero. Siamo nel 2014, non nel Medioevo! E per quanto
mi riguarda, se c’è
l’amore…».
«Basta così! Non voglio più sentire una
parola! Queste sono tutte assurdità! Tra me e Merlino non
c’è quello che credi tu e mai niente del genere ci
sarà, hai capito?».
Alex ridacchiò. «Ah già,
dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra
per l’eternità».
Merlino riuscì quasi a sentire il dolore sordo che
scavò una voragine nel petto del re di Camelot, come se il
suo corpo e il proprio fossero collegati da un filo invisibile, e si
sentì ancora peggio quando capì che non avrebbe
potuto fare niente per alleviarlo.
Il silenzio calò nell’abitacolo, così
pesante e carico di tensione da poterlo tagliare a fette, e il mago
decise di svegliarsi. Aprì gli occhi e vide Alex che si
mordeva nervosamente il labbro inferiore, il suo sguardo mortificato
che si posava alternativamente sulla strada e su Artù,
girato quasi di spalle e con la testa contro il finestrino.
«Era solo uno scherzo… uno scherzo stupido.
Scusami, Artù».
Il re di Camelot non rispose e Alex incrociò quasi per caso
gli occhi di Merlino attraverso lo specchietto retrovisore.
Lanciò delle scuse silenziose anche a lui, il quale rispose
con l’accenno di un sorriso incoraggiante e una scrollata di
capo.
Alex aveva appena parcheggiato sul ciglio della strada sterrata di
fronte alla casa di Merlino quando Artù si voltò
con una mano stesa verso lo stregone. Quest’ultimo lo
guardò spaesato e solo allora il biondo si decise a parlare,
in tono brusco: «Le chiavi».
«Che senso ha avertene data una copia, se poi non te le porti
dietro?», gli chiese, sollevandosi per infilare una mano
nella tasca dei jeans.
Il re di Camelot non rispose e una volta ottenute le chiavi scese
dall’auto rivolgendo uno scarno saluto ad Alex.
L’infermiera scese dall’auto contemporaneamente a
Merlino, quando Artù era ormai sotto al porticato, e
sospirando si appoggiò al cofano caldo.
«Gli passerà presto», la
rassicurò il mago, mettendosi al suo fianco.
«Non è solo lui… È stata una
giornata impegnativa», mormorò, passandosi
stancamente le mani sul viso.
«Ma ne è valsa la pena, no?».
Riuscì a strapparle un sorriso. «Eccome. Grazie,
Merlino».
«E di che cosa? Non ho fatto niente».
Alex scosse il capo e gli tirò un pugnetto sulla spalla.
«Hai fatto tanto, invece. Mi hai fatto capire che non potevo
più andare avanti così, che dovevo recuperare il
rapporto con mio padre, cercare di capire, e poi mi sei stato
accanto… Non ce l’avrei mai fatta, senza il tuo
aiuto».
«Mi piace pensare che tu avresti fatto lo stesso per
me».
«Pensi bene».
Merlino si perse nei suoi occhi verdi e una folata di vento gli
riempì i polmoni del suo profumo, mentre una ciocca di
capelli le scivolava sulla fronte. Sorrise quando la vide in
difficoltà nel sistemarsela dietro l’orecchio e
senza nemmeno rifletterci fu lui ad afferrarla tra due dita e a
metterla a posto, sfiorandole la guancia, così calda per
l’imbarazzo che si sentì bruciare a sua volta e
ritrasse la mano di scatto, abbassando lo sguardo.
«Scusa, non volevo…».
«Non stavi dormendo prima, vero?».
Il mago inchiodò di nuovo gli occhi nei suoi e, preso in
contropiede, boccheggiò per qualche istante, dando il tempo
ad Alex di rispondersi alla prima domanda e di porne una seconda.
«Tu provi qualcosa per lui?».
Merlino la guardò intensamente, poi sogghignò.
«Sì, provo per lui un affetto incommensurabile e
una fede cieca. È solo il mio migliore amico, Alex, credimi.
Ma non sei la prima a pensare che ci sia di più. Ho sentito
dire molte volte che io e lui siamo due lati della stessa medaglia, ma
questo non vuol dire che ci debba essere un coinvolgimento
amoroso».
L’infermiera ricambiò il suo sguardo e nonostante
avesse tentato di nascondere tutto ciò che quelle parole le
avevano scatenato dentro, Merlino la vide rilassare le spalle, come
sollevata, ed accennare un sorriso mentre alzava il viso verso il cielo
punteggiato di stelle.
«Sarà meglio che vada».
Lo stregone annuì, allontanandosi dall’auto.
Quando si accorse dell’espressione offesa di Alex
corrugò la fronte, chiedendole silenziosamente di esprimersi.
«Non mi chiedi di restare?».
«Come? Beh, se vuoi…».
Alex sollevò un angolo della bocca in un sorrisino perfido e
facendo il giro dell’auto per sedersi al volante
esclamò: «E poi non dovrei pensare che tra di voi
ci sia – come l’hai chiamato? – del coinvolgimento
amoroso!».
Merlino lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e
sbuffò, facendo ridere ancora di più Alex, la
quale mise in moto ed illuminò con i fari la strada che
già dopo pochi metri veniva nuovamente inghiottita dal buio.
Il mago restò a fissare le luci posteriori, due occhi color
del sangue, fino a quando non sparirono, poi si infilò le
mani nelle tasche dei jeans ed entrò in casa.
Con Alex non si era reso conto del freddo che era sceso con
l’arrivo della notte, ma ora si sentiva intirizzito e la
prima cosa che fece fu accendere il camino in salotto. O almeno
l’avrebbe fatto, se non avesse sentito un clangore metallico
e poi un tonfo provenire dal piano superiore.
Artù fu il suo primo pensiero e senza perdere tempo corse su
per le scale. Si diresse verso il fracasso che stava aumentando
d’intensità e con sgomento intuì che il
re di Camelot era entrato nel suo studio, quello che lui chiamava la
Stanza dei Ricordi.
Lentamente entrò nel riquadro della porta e scorse
Artù inginocchiato a terra, accanto al manichino riverso su
cui aveva sistemato la sua armatura, pulita e lucidata a dovere, rotoli
e rotoli di pergamena e pile di libri spazzati via dal loro posto sulle
mensole e ad un grosso baule chiuso con un lucchetto che
Artù stava cercando di forzare con una delle spade che aveva
trovato appese al muro, insieme a diverse altre armi che Merlino aveva
recuperato e gelosamente custodito nel tempo.
«Sono qui, non è vero?», gli chiese con
impazienza e una luce folle di dolore negli occhi. «Dimmi
dove sono i libri che hai scritto, Merlino!».
«Siete sconvolto abbastanza, Artù, è
inutile farvi altro male aggrappandovi ai ricordi».
«Io non voglio dimenticare!», ruggì e le
lacrime iniziarono ad inumidirgli lo sguardo. «Da quando sono
uscito dal lago, tutte le volte che ci ho provato è stato
come ricordare un’eco, una proiezione distorta di quello che
è realmente stato. Quei ricordi sono tutto quello che ho,
non posso permettermi di –!», la sua voce graffiata
dalla sofferenza si trasformò in un rantolo e fu costretto
ad accasciarsi tra i libri, una mano stretta a pugno sul cuore.
Merlino corse al suo capezzale e gli tenne sollevata la testa, posando
la mano sulla sua. Artù respirava a fatica, come se stesse
per affogare, e lo guardava negli occhi con espressione implorante.
«Per favore, Merlino».
Ma il mago negò con la testa, socchiudendo gli occhi per
richiamare la magia e concentrandosi al massimo per riuscire poi a
contenerla e a rinchiuderla di nuovo.
I suoi occhi diventarono d’oro liquido e fu uno shock
tremendo sentire quella terribile potenza scorrergli nel sangue,
vibrargli nelle ossa e friggere nel suo cervello, ma in qualche modo
riuscì a ricacciarla indietro quando vide il volto di
Artù distendersi e sentì il suo respiro farsi
più regolare. Le conseguenze però furono peggiori
anche della prima volta: scosso dalle convulsioni crollò
accanto ad Artù e non vomitò solo
perché era da quella mattina che non metteva nulla nello
stomaco, quindi svenne.
Dormì fino alla mattina successiva, ma al suo risveglio
avrebbe ricordato chiaramente di aver ripreso conoscenza almeno una
volta, quando Artù, nonostante la debolezza, lo aveva
portato nella sua camera da letto e gli aveva rimboccato le coperte.
Avrebbe ricordato di avergli preso il polso, di averlo stretto
più forte che poteva e di aver sussurrato: «Avete
anche me. Sempre».
Avrebbe ricordato di aver visto l’ombra di un sorriso sul
volto del solo ed unico re e di averlo sentito rispondere:
«Temo proprio che tu abbia ragione».
|
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Capitolo 9 *** 9. A remedy to cure all ills – Part I ***
Buonasera!
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma la "real life" ha
chiamato e ho dovuto rispondere... sapete com'è -.-'
Piccole anticipazioni sul capitolo (chi non vuole rovinarsi la lettura
salti questa parte):
E' giunto finalmente il momento di mettere Alex e Artù a
confronto e fargli trascorrere un po' di tempo da soli è
l'occasione perfetta, non trovate? Spero che queste scene siano venute
bene :)
E poi ci saranno delle novità anche in campo magico,
perché Artù si avvicinerà di nuovo al
lago in cui ha dormito per millequattrocento anni e chissà
che cosa succederà...
Ritorneremo anche in ospedale, nel reparto oncologico, e ci ritorneremo
ancora di più nel prossimo capitolo, in cui verranno
introdotti persino dei nuovi personaggi. Insomma, stay tuned!
Ringrazio di cuore chi ha letto e commentato lo scorso capitolo. Un
bacione!
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________
9. A remedy to cure all ills – Part I
Alex
riprese un po’ il fiato e si schiarì la gola
più volte, poi, chiedendosi nuovamente se fosse la cosa
migliore da fare, suonò il campanello. Attese, ma invano.
Suonò ancora e poi bussò alla porta, chiamando
forte il nome di Artù. Il suo sesto senso le fece trovare
strano quel silenzio, se non addirittura preoccupante. Merlino era al
lavoro e a meno che non se lo fosse portato dietro –
eventualità di cui dubitava fortemente – non
riusciva nemmeno ad immaginare dove Artù potesse essere
andato, da solo.
Posò l’orecchio contro la porta e, non udendo
alcun rumore, si decise ad entrare cautamente.
«Artù? Artù, sei in casa?».
Si guardò intorno nell’ampio salotto e a parte
quel poco di confusione obbligatoria in una casa abitata da due ragazzi
non trovò nulla di insolito. Sembrava davvero che il biondo
fosse uscito, ma continuava ad avere il presentimento che non fosse
così: Artù poteva anche essere un imbecille, ma
avrebbe almeno chiuso la porta d’ingresso.
Diede un’occhiata sulla veranda sul retro e poi in cucina
dove, già che c’era, si servì un
bicchiere di succo d’arancia. Quindi salì le scale
e la sua attenzione venne subito attirata dalla porta aperta in fondo
al corridoio, da cui riusciva ad intravedere quello che sembrava
proprio uno scrittoio d’epoca.
«Artù?», lo chiamò
un’ultima volta, prima di sbirciare all’interno
della stanza e di rimanere senza parole.
Si trattava di un’enorme camera da letto, divisa in due
ambienti distinti: una zona giorno arredata in modo quasi principesco,
con mobili antichi, arazzi e vecchie armi appese al muro; e la zona
notte in cui saltava subito all’occhio il massiccio letto a
baldacchino, veramente degno di un re.
Artù era seduto a gambe incrociate proprio sul materasso,
tra le lenzuola stropicciate e ancora seminudo, con il PC di fronte
agli occhi sbarrati. Indossava anche un paio di grosse cuffie, a causa
delle quali non aveva sentito né il campanello né
la sua voce, e farfugliava tra sé: «Non
è possibile. Ma come diavolo…?».
Alex si avvicinò al letto e Artù si accorse di
avere qualcuno alle spalle troppo tardi, quando ormai
l’infermiera aveva già avuto modo di capire la
causa di tutta la sua incredulità.
In una frazione di secondo si ritrovò seduto sul letto, con
in mano il pugnale che teneva nascosto sotto uno dei cuscini, ora
pericolosamente vicino al suo occhi sinistro. Nella fretta il mini-jack
delle cuffie si era staccato dalla piccola entrata, lasciando che forti
gemiti femminili spezzassero il silenzio. Artù si
lanciò sopra il PC di Merlino per chiuderlo e poi,
terrorizzato, urlò: «Tu! Si può sapere
chi ti ha dato il permesso di entrare nelle mie stanze?!».
Alex, passata la paura di essersi trovata per la seconda volta di
fronte alla lama ben affilata di un pugnale, si godette appieno la sua
espressione, conscia che non si sarebbe più fatto cogliere
così di sorpresa, e senza riuscire a levarsi quel sogghigno
dalla faccia disse: «Evidentemente eri troppo concentrato per
darmi il permesso».
«Che cosa vuoi?».
«Nulla, passavo di qui…».
«Beh, Merlino non c’è», disse
Artù un po’ stizzito, togliendosi le cuffie ormai
inutili per gettarle sul letto.
«Cosa ti fa credere che sia venuta per vedere
Merlino?», gli chiese, posandosi le mani sui fianchi ed
assottigliando gli occhi.
Fu il biondo a sogghignare quella volta. «Sei per caso venuta
qui per me?».
Alex boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
ricostruendo pezzo dopo pezzo il ragionamento che doveva aver fatto.
Nonostante il rossore che le stava infiammando il volto, con tono
deciso ed orgoglioso ribatté: «Certo che
no!». Ma nemmeno quella risposta le sembrò ottima,
perché si rese conto che aveva solamente confermato la
teoria originale di Artù, a proposito della sua cotta per
Merlino.
«Cioè sì!», si corresse
frettolosamente, per poi aggiungere subito, prima che il biondo avesse
il tempo di aprire bocca: «Ma non per il motivo che credi
tu!».
«Ossia?».
Quanto avrebbe voluto cancellargli quel sorrisino da sbruffone dalla
faccia!
Alex mise a freno la rabbia, trovandosi costretta a dover confessare:
«Merlino è mio amico e visto che lui sembra tanto
affezionato a te, ho pensato che magari sarebbe stato contento
se… sì, insomma, se avessimo legato un
po’».
«Quindi vorresti passare del tempo con me per… far
contento Merlino?».
Alex gli rivolse un’occhiata truce e tra i denti disse:
«Azzardati a dirgli anche solo una parola di tutto
ciò e giuro che la tua passione per i porno non
rimarrà più un segreto».
Artù divenne paonazzo e senza pensarci su due volte
esclamò: «Hai la mia parola».
«Perfetto!», rispose Alex, sorridendo raggiante.
«Che ne dici di unirti a me per un po’ di
jogging?».
Artù la guardò spaesato per una manciata di
secondi, per poi rispondere, ridacchiando: «Certo! Jogging…
Io adoro fare jogging!».
Alex ebbe come l’impressione che non le stesse dicendo la
verità, ma lasciò correre. «Sbrigati a
cambiarti, ti aspetto di sotto».
Il biondo annuì e lei si diresse verso la porta, nonostante
fremesse per chiedergli come mai la sua stanza avesse un aspetto
così… antico.
«Oh, ahm… Lady Alex?».
Sorrise appena udendo quel soprannome a cui si stava abituando sempre
più e si voltò di nuovo verso Artù.
«Che c’è?».
«Ecco…», esitò, passandosi
una mano tra i capelli arruffati. «Che cosa mi consigli di
indossare?».
Alex sentì la mandibola cederle poco a poco, ma
incredibilmente riuscì a controllarsi e tornò al
suo fianco per aiutarlo a tirar fuori dall’armadio degli
abiti adatti.
***
Dire
che non aveva la minima idea di che cosa significasse la parola
“jogging” non era sufficiente a quantificare la
gravità del trauma che aveva subìto quando aveva
scoperto che era semplicemente il sinonimo di “corsa
all’aperto”.
Era sempre stato un tipo atletico e di fronte alla fatica non si era
mai tirato indietro, soprattutto se quella fatica poi veniva
ricompensata – e con il jogging non era quello il caso
– ma dopo millequattrocento anni in fondo ad un lago aveva
dovuto ammettere a se stesso che era leggermente fuori allenamento;
perciò si era morso la lingua ogni volta che Alex lo
incitava ad accelerare perché non ne poteva più
di “correre al passo di una lumaca”.
Anche se in realtà c’era un altro motivo, ben
più grave, per cui non dava il massimo e preferiva essere
preso in giro in silenzio: aveva paura che il suo cuore non reggesse lo
sforzo e che lo colpisse un altro attacco, un attacco che, senza
Merlino, avrebbe potuto costargli la vita.
«Vuoi che ci prendiamo una pausa?», gli
gridò Alex, una decina di metri più avanti e con
il suo aggeggio per ascoltare la musica in mano.
«Ottima idea», sospirò Artù
chinandosi sulle ginocchia, distrutto e senza più fiato.
«Non puoi fermarti così di colpo! Cammina facendo
dei respiri profondi, forza!».
«È da quando siamo usciti che non fai altro che
dirmi che cosa devo fare!», sbottò, irato.
«Chi ti credi di essere?».
«E tu, invece?», borbottò Alex tra
sé, ma abbastanza ad alta voce perché
Artù la sentisse, mentre si dirigeva verso di lui con
sguardo determinato. Lo afferrò per un braccio e lo
costrinse a mettersi dritto e a camminare.
«Avresti dovuto dirmi subito che non avevi mai fatto jogging
in vita tua, invece di fare il pallone gonfiato come al
solito».
«Io, un pallone gonfiato?!».
Alex sbuffò e roteò gli occhi al cielo,
lasciandogli finalmente il braccio da cui lo aveva sorretto fino ad
allora. «Smettila di sprecare fiato per rispondere a tutto
ciò che ti dico e concentrati a respirare, o starai
male».
Artù la guardò incredulo, chiedendosi se si
sarebbe comportata allo stesso modo se avesse saputo di avere a che
fare con Artù Pendragon, il vero re di Camelot.
Probabilmente sì, visto che non esisteva più
nessuna Camelot e lui non era più nessuno in quel mondo
moderno, ma soprattutto perché quella ragazza somigliava
molto anche a Merlino, con la stessa sfacciataggine, una dose massiccia
di folle coraggio – quello che l’aveva spinta a
gettarsi nel lago per lui, uno sconosciuto – e il sorriso
contagioso.
Camminarono per un po’, fianco a fianco, respirando
profondamente, ruotando le braccia in un modo che ad Artù
sembrava ridicolo e fermandosi di tanto in tanto per fare quello che
Alex aveva chiamato stretching.
Pur di rompere quell’irritante silenzio Artù disse
la prima cosa che gli venne in mente, vedendo Alex sciogliersi la coda
di cavallo per rifarla più stretta ed ordinata.
«Hai usato la piastra che ti abbiamo regalato io e
Merlino?».
L’infermiera lo guardò stranita, con le
sopracciglia aggrottate, e quando si tolse l’elastico dalle
labbra rispose: «Sì, perché?».
«Perché ti stanno bene i capelli lisci. Non che
ondulati non ti stessero bene, solo… Ah, ci
rinuncio».
Artù avrebbe voluto schiaffeggiarsi perché con
Alex non faceva altro che la figura del cretino, per questo rimase
sorpreso di sentire la sua risata. La fissò, non riuscendo
ad impedirsi di arricciare le labbra in un sorriso, e le chiese che
cosa ci fosse di così divertente.
«Tu che provi a farmi un complimento», rispose,
dandogli un pugnetto sulla spalla. «Grazie, è
gentile da parte tua. Non pensavo fossi il tipo da notare queste
cose».
«È evidente che non mi conosci bene».
«No, infatti. Ma è quello che voglio
fare».
Il suo tono di voce intriso di determinazione attirò la sua
attenzione e Artù non fece fatica a cogliere lo stesso
sentimento fiammeggiare nei suoi occhi verdi. Ne rimase anche un
po’ suggestionato, tanto che dovette imporsi di guardare da
un’altra parte. Fu allora che il suo sguardo cadde sulla
superficie del lago che si intravedeva oltre la curva del sentiero:
Avalon.
Immediatamente ne fu attratto, come se ci fosse una forza misteriosa
che lo chiamava con prepotenza, e a cui non riuscì a
resistere. Si sentiva parte di quel lago, un figlio protetto e rinato
dalle sue acque, e quel lago era una parte di lui, del suo passato.
«Artù? È tutto okay?», gli
chiese Alex, vagamente preoccupata, guardandolo senza sapere se
seguirlo o meno verso la sponda del lago. «Guarda che se hai
intenzione di farti un tuffo io non ti tirerò fuori questa
volta!».
Artù si voltò solo per farle il verso e poi si
chinò tanto da vedere la propria immagine riflessa
sull’acqua. Si guardò attentamente, come se Avalon
potesse dargli un aspetto diverso rispetto a quello che vedeva ogni
mattina nello specchio del bagno, e ad un tratto gli sembrò
di vedere l’acqua incresparsi lievemente, facendo tremolare
la sua espressione confusa, ma tutto tornò nella norma
quando comparve al suo fianco la figura di Alex, in piedi e con le mani
posate sui fianchi.
«Ehi Narciso, mi vuoi dire che ti prende?».
«Come mi hai chiamato?».
Alex sospirò, gettando un’occhiata affranta al
cielo. «Lasciamo perdere. A che cosa stai
pensando?».
Artù corrugò la fronte, rendendosi conto che in
effetti c’era una cosa su cui aveva riflettuto molto in quei
giorni.
Alzò il capo verso il suo e senza nemmeno domandarsi se
fosse opportuno le chiese: «Se davvero non vedevi tuo padre
da sei anni allora perché hai chiamato lui il giorno in cui
mi tirasti fuori da qui?».
L’infermiera boccheggiò per qualche istante, ma
Artù non colse il suo disagio ed aggiunse:
«Abraham, all’agriturismo, ha detto che non hai
nessun altro, ma in realtà hai moltissimi amici su
Facebook».
Quella volta Alex rimase a bocca aperta per lo shock,
anziché per il disagio o i sensi di colpa. «Tu hai
un profilo su Facebook?».
Artù scrollò le spalle. «Merlino non
voleva, perciò…».
«Perciò hai fatto esattamente il contrario,
chiaro».
La ragazza sospirò e si sedette sull’erba a mezzo
metro dalla riva del lago, lasciando che il biondo la raggiungesse per
sistemarsi al suo fianco, con le braccia posate sulle ginocchia.
«Non tutti gli amici su Facebook sono veri amici. Anzi, nella
stragrande maggioranza dei casi non è così: molte
persone si conoscono solo di vista, o non si conoscono affatto. Nella
realtà l’unico amico vero che ho è
Merlino, l’unico con cui sono riuscita a parlare della mia
famiglia e a cui affiderei la mia vita».
Artù non avrebbe mai pensato di sentire quella confessione,
né che Alex si sarebbe aperta in quel modo con lui, con
naturalezza e spontaneità. Per questo non ci
pensò su un attimo prima di chiederle: «Allora
perché non hai chiamato subito lui?».
«Non lo so, io… ci ho pensato, è stata
la prima persona a cui ho pensato, ma poi qualcosa… Non lo
so, forse la fatica, o tutta la ferraglia da cavaliere medievale che
avevi addosso, mi ha fatto pensare che la cosa migliore da fare era
quella di chiamare qualcuno che non avrebbe posto domande».
Si strinse nelle spalle, gli occhi fissi sull’isola al centro
del lago, quella mattina non troppo nascosta dalla nebbia.
«È successo qualcosa, quella sera. Non ho idea di
che cosa, ma la sensazione che ho provato quando quel fulmine si
è abbattuto sull’isola e poi ti ho visto sbucare
fuori dall’acqua…».
Artù notò come il suo sguardo si fosse fatto
ansioso e come avesse iniziato a strofinarsi le mani sulle braccia,
come a voler cacciare dei brividi di freddo. Si morse il labbro,
apprensivo, e qualche secondo dopo le colpì il braccio con
un pugnetto leggero, molto più leggero in confronto a quelli
che ogni tanto rifilava a Merlino.
«Lo so io che cosa è successo».
Alex lo guardò corrucciata, massaggiandosi con nonchalance
il punto colpito, decisa più che mai a non fargli capire
che, nonostante la sua premura, le aveva fatto male.
«Quello che hai provato si chiama “amore a prima
vista”», concluse con un occhiolino che dapprima le
fece arricciare le labbra in un sorriso divertito e poi la fece
scoppiare in una risata argentina, il cui suono scacciò via
ogni traccia di preoccupazione dal suo sguardo. E Artù non
poté fare a meno di sentirsi sollevato per questo. Volente o
nolente, le si stava affezionando.
«Sei proprio un idiota quando ti ci metti, lo sai?».
«Ehi, attenta a come parli! Vuoi per caso che ti metta alla
gogna?».
Ci provò a lanciarle un’occhiata minacciosa, ma
era fin troppo consapevole del sorriso che gli aleggiava sulle labbra.
«Oh no, vi supplico Sire, mostrate clemenza!»,
stette al gioco lei.
«E sia. Solo per questa volta, però!».
«Me ne ricorderò». Gli rivolse un
sorriso e per alzarsi appoggiò una mano alla sua spalla, a
cui poi diede un colpetto leggero, esortandolo a fare lo
stesso.
«Ci siamo riposati abbastanza, no?».
«Che cosa? Hai intenzione di riprendere a
correre?», esclamò con gli occhi sgranati,
increduli.
Alex ridacchiò, facendo qualche saltello sul posto come
riscaldamento. «Forza, sfaticato! Non vorrai che quel tuo bel
fisico si guasti!».
A quelle parole un ghigno di soddisfazione si dipinse sul volto del re
di Camelot, pronto a sfruttare l’occasione che gli aveva
offerto su un piatto d’argento, ma l’infermiera gli
puntò un dito contro e lo zittì, iniziando a
correre subito dopo.
«Ehi, aspettami!», le urlò dietro, ma
Alex era già lontana e se gli rispose Artù non la
sentì.
Sbuffò e ruotò le spalle, quando un bagliore
sulla superficie del lago attirò la sua attenzione. Rimase
per qualche secondo ad osservare il punto in cui aveva scorto quello
strano luccichio dorato e alla fine si disse che doveva essersi
trattato della semplice luce del sole.
Aveva appena iniziato a correre lungo il sentiero, quando la voce di
una donna chiamò il suo nome. Artù si
fermò di scatto e si guardò intorno, senza
però scorgere nessuno.
«Chi va là?», domandò,
sentendosi esposto ed inerme, completamente sprovvisto di armi e in
quegli abiti che non l’avrebbero per nulla protetto da un
attacco.
«Pendragon, da questa parte».
«Non è possibile», mormorò,
avvicinandosi nuovamente alla superficie del lago.
Il bagliore che aveva visto solo di sfuggita si era fatto
più intenso, ad una ventina di metri dalla riva, e qualcosa
di viscerale gli diceva che quella voce proveniva proprio da Avalon,
era una certezza.
«Chi sei? Che cosa vuoi da me?».
«Non si tratta di quello che voglio io, ma di quello
di cui questo mondo ha bisogno».
«Fantastico, sono tutt’orecchi».
«Non è questo il momento adatto. Tornate
questa notte, solo ed unico re, ed assicuratevi che Merlino non vi segua».
«E per quale ragione mi dovrei fidare di te? Potrebbe
trattarsi benissimo di un’imboscata!».
«Vi ho protetto nelle profondità delle
mie acque per più di millequattrocento anni, mentre il mondo
intorno a noi cambiava. Questo non è abbastanza?».
«Vuoi la verità? No. E non aspettarti
ringraziamenti. Fino a quando non saprò qual è il
tuo fine, non –».
«Artù, giuro che ti lascio qui!»,
gridò Alex, la quale comparve dietro la curva del sentiero,
accanto ad un cespuglio di rovi. «Che cosa diavolo stai
aspettando?».
Il re le rivolse un rapido cenno d’assenso e quando si
voltò nuovamente verso Avalon il bagliore dorato era
sparito.
«Ehi, posso chiederti una cosa?».
Artù, seduto accanto ad Alex sulla panchina su cui
l’aveva pregata di lasciarlo riposare, col volto paonazzo e i
capelli umidi di sudore sulla fronte, la guardò con
espressione disperata.
«Va bene, dillo! Sono completamente fuori allenamento, ma la
prossima volta andrà meglio!», sbottò,
passandosi una mano tra i capelli sulla nuca.
«Su questo non c’è alcun
dubbio», mormorò Alex, senza farsi sentire dal
biondo. «Veramente volevo farti una domanda su
Merlino».
«Ah, ovviamente».
Alex gli schiaffeggiò la spalla senza nemmeno rivolgergli
uno sguardo, facendolo sorridere.
«Quando sabato sono venuta a casa vostra per chiedere a
Merlino se volesse accompagnarmi da mio padre credeva che mi avessi
chiamato tu, vero? Perché? Che cosa dovrebbe dirmi, secondo
te?».
«Ecco, io…».
«Se non c’entrassi in prima persona ti direi che
spetta a Merlino decidere e non dovresti affatto intrometterti,
ma… non faccio altro che pensarci da quel giorno».
Il biondo esitò ancora, deviando il suo sguardo.
«Io davvero non so se…».
«Artù, ti prego», sussurrò,
guardandolo negli occhi implorante.
Il re di Camelot si massaggiò il viso con le mani e le
rivolse un breve sorriso. «Okay, come vuoi».
***
«Posso
sapere dove stiamo andando?», chiese Artù
lagnosamente, camminando molto lentamente dietro di lei. «Ho
sete, tanta sete…».
Alex aveva ben altro per la testa al momento, ma non ne poteva davvero
più delle sue lamentele, perciò rispose in tono
piatto: «Stiamo andando alla caffetteria della signora
Begum».
«Un momento… Merlino lavora
lì!».
«Ottimo spirito di osservazione, Sherlock»,
ridacchiò, sicura al cento per cento che non avrebbe colto
il riferimento al famosissimo consulting detective.
Forse fu così, forse non l’aveva semplicemente
ascoltata, ma le prese il polso e la fece voltare bruscamente, tanto da
trovarselo a pochissimi centimetri di distanza, occhi negli occhi.
Erano già stati così vicini –
Artù se l’era addirittura caricata in spalla
– ma in quel momento Alex venne paralizzata
dall’imbarazzo e boccheggiò, senza riuscire a
trovare la forza di dirgli di lasciarla andare. Artù non
sembrava nella sua stessa situazione, affatto, e come se nulla fosse si
avvicinò ancora di più, assumendo
un’espressione colma di rimostranza.
«Non so come reagirà Merlino quando
verrà a sapere quello che ti ho detto,
forse…», esclamò, guardando sopra la
sua testa.
Prima che potesse dire che forse era stato un errore Alex si
schiarì la voce e fece un passo indietro. Sollevando il
mento come avrebbe fatto una regina fiera della propria posizione
disse: «In realtà c’è un
altro motivo per cui sono passata a trovarti».
Artù inarcò le sopracciglia.
«Davvero?».
«Spero che tu non ti sia già rimangiato quello che
hai detto, perché ne ho parlato con mio padre e a lui
farebbe comodo l’aiuto di un ragazzo giovane, in grado di
svolgere i compiti più faticosi. Sai, ha una certa
età ormai…».
«Stai dicendo che potrei stare con i cavalli?».
«No, sto dicendo che lavorerai per Abraham e mio padre:
spetterà a loro decidere che cosa farti fare. Sempre se
accetterai».
«Certo che accetterò! Andiamo a dare la notizia a
Merlino, che aspettiamo?!».
L’afferrò di nuovo per il polso, ma questa volta
per trascinarsela dietro, improvvisamente euforico e pieno di
energie.
Alex scrollò il capo e ridendo ricambiò la sua
stretta, anche se il cuore aveva iniziato a batterle forte in gola al
solo pensiero che di lì a pochi minuti avrebbe visto Merlino
e sarebbe stato davvero difficile – per non dire impossibile
– fare finta che Artù non le avesse detto nulla.
Respirò profondamente e seguì Artù, il
quale da vero cavaliere le aveva tenuto aperta la porta,
all’interno della caffetteria.
«Artù! Alex! Che… che ci fate
qui?», balbettò Merlino, guardando prima
l’uno e poi l’altra in un ping-pong alquanto
imbarazzante.
Artù era impaziente di dargli la lieta novella e stava
proprio per annunciarla, incurante dei pochi disinteressati clienti
all’interno del locale, ma Alex gli pestò un piede
e mostrò un sorriso smagliante esclamando: «Siamo
assetati ed affamati, ma soprattutto assetati. Che cosa ci
porti?».
Udendo la sua voce, la signora Begum uscì dalla cucina e
sollevò le grosse braccia con gioia.
«Cara, che bello vederti! E chi è quel bel fusto
al tuo fianco? Non sapevo fossi fidanzata!».
Le strizzò l’occhio e l’infermiera
rischiò di strozzarsi con la sua stessa saliva, mentre
Merlino, troppo occupato a cercare di distogliere
l’attenzione dalle sue gambe affusolate sotto un paio di
pantaloncini aderenti che le arrivavano fino alle ginocchia o dalla
canottiera scollata che, da sotto la felpa slacciata, lasciava
intravedere l’incavo tra i suoi seni, non riusciva a trovare
la forza di aprire bocca e fare un po’ di chiarezza. Quanto
avrebbe voluto che lo facesse, finalmente! Avrebbe dato qualsiasi cosa
per sentirlo gridare: «Quell’imbecille non
è il suo fidanzato! Lei è mia!»,
ma sapeva che non sarebbe mai successo.
«Le piacerebbe!», rispose invece il biondo,
sogghignando. «Il mio nome è Artù,
lieto di conoscerla».
«Un Artù e un Merlino nella mia caffetteria, che
strana coincidenza!», esclamò la signora Begum,
per poi pulirsi le mani sul grembiule e fare il giro del bancone per
tirare a Merlino un bonario scappellotto. «Che cosa ci fai
ancora qui? Hanno detto che sono assetati: porta loro due milkshake,
tanto per cominciare!».
«Io preferirei un boccale di idromele, veramente».
Alex lo fissò sconcertata. «Che cosa?».
Artù scrollò le spalle e prima che potesse
ripetere Merlino disse frettolosamente: «Succo di mele, ha
detto succo di mele».
«No, ha detto idromele, tonto»,
lo rimbeccò la signora Begum, per poi concentrarsi su Alex.
«Mia cara, non sai che cos’è
l’idromele?».
«No, non è quello che… So che
cos’è! Ma è una bevanda…
insolita, per un ragazzo della sua età, no?». Si
torturò le dita nervosamente, scorgendo con la coda
dell’occhio Merlino lanciare uno sguardo esasperato ad
Artù, il quale si era messo completamente a suo agio sulla
panchina ricoperta di pelle verde intorno al tavolino subito accanto
alla porta.
«I gusti sono gusti, Alexandra», rispose noncurante
la signora Begum, tornando dietro il bancone. «Merlino,
smettila di stare lì imbambolato e vai a controllare in
magazzino se abbiamo delle bottiglie di idromele. Ci siamo
capiti?».
«Certo», mugugnò allontanandosi, non
prima di aver rivolto l’ennesima occhiata ad Artù,
gongolante dietro il menù plastificato che aveva preso tra
le mani nell’attesa.
Alex sentì il sangue andarle al cervello e sedendosi sulla
panchina di fronte sbottò: «Perché ti
comporti così?».
«Così come?», chiese innocentemente,
sollevando gli occhi su di lei.
«Come se godessi nel vederlo in difficoltà! Hai
visto come la signora Begum l’ha maltrattato per colpa tua e
non hai fatto niente! Te ne sei stato lì, a ridacchiare come
un… Tu sei uno stronzo, Artù».
Con estrema calma il biondo posò il menù sul
tavolino di legno ed immerse gli occhi nei suoi, con una freddezza tale
che Alex sentì un brivido percorrerle la spina
dorsale.
«Esigo delle scuse. Immediatamente».
«Te le puoi scordare», digrignò,
stringendo i pugni sul tavolo.
«Molto bene». Artù incrociò
le braccia al petto e si appoggiò allo schienale,
guardandola dall’alto in basso. «Siamo
più simili di quanto pensi allora, perché nemmeno
tu l’hai difeso».
Alex si sporse verso di lui per poter parlare ancora a più
bassa voce, certa che se avesse dato libero sfogo a tutta la sua rabbia
anche quei pochi clienti se ne sarebbero andati e la signora Begum non
ne sarebbe stata molto contenta.
«È vero, ma almeno io non ci ho provato gusto! La
sai un’altra cosa? Oltre che uno stronzo sei anche un
ingrato, perché Merlino non ti ha lasciato solo un momento
da quando sei arrivato, ha fatto di tutto per aiutarti, e io non so
nemmeno per quale motivo lo stia facendo: non è il servo di
nessuno, tantomeno il tuo!».
Artù sbatté entrambi i pugni sul tavolo, facendo
trasalire lei come gli altri clienti e la stessa signora Begum, la
quale provò a chiedere se andasse tutto bene per essere
semplicemente ignorata.
Alex non l’aveva mai visto così infuriato e
determinato e ferito allo stesso tempo, nemmeno quando aveva creduto
che lei fosse la strega che aveva rapito Merlino per i suoi scopi
malvagi. C’era così tanta malinconia nei suoi
occhi, e così tanto dolore... che sentì il cuore
stretto in una morsa.
«Fa’ silenzio, Alexandra. Tu credi di conoscere me
e Merlino, ma la verità è che non hai la minima
idea di chi siamo veramente, di tutto quello che abbiamo passato
insieme, di tutte le volte in cui io… Tu non sai niente».
Alex riuscì faticosamente a spezzare il contatto visivo,
sentendo gli occhi bruciarle a causa delle lacrime, e
ascoltò il silenzio che era piombato nella caffetteria,
rotto soltanto dai battiti furiosi del suo cuore.
«Ecco qua il tuo milkshake, cara. Ti ho portato anche una
fetta della tua torta preferita, offre la casa». La signora
Begum lasciò l’ordinazione di Alex sul tavolino ed
osservò prima lei e poi Artù prima di posarle
teneramente una mano sulla spalla. «Cara, ti senti
bene?».
«È un po’ impolverata, ma credo sia
ancora buona!», esordì entusiasta Merlino,
sbucando dalla cucina con una bottiglia di idromele in mano e
paralizzandosi sul posto non appena si rese conto
dell’atmosfera carica di tensione. Incrociò per
una frazione di secondo gli occhi umidi di Alex, proprio prima che si
alzasse e gli passasse accanto a testa bassa per andare a chiudersi in
bagno.
***
«Che
cosa diavolo è successo?», chiese Merlino
lasciandosi cadere sulla panchina su cui fino a qualche minuto prima
era stata seduta Alex.
La signora Begum, la quale aveva assistito a tutta la scena, aveva
deciso di concedergli una piccola pausa e ora li stava osservando da
dietro il bancone, apprensiva come una mamma nei confronti dei propri
bambini.
«Non ne voglio parlare», bofonchiò
Artù, versandosi un generoso bicchiere di idromele e
bevendolo tutto d’un fiato, strizzando gli occhi.
«Uh, non me lo ricordavo così forte!».
«Credo che i metodi di preparazione siano leggermente
cambiati negli ultimi quindici secoli. Ma possiamo ritornare al motivo
per cui Alex…?».
«Mi ha dato dello “stronzo”. Non so bene
che cosa significhi, ma sono sicuro che non si tratti di un
complimento».
Merlino sospirò, massaggiandosi il setto nasale con due
dita. «No, decisamente no. E sentiamo, che avete
combinato?».
«Niente».
«Alex non può avervi insultato senza un motivo
più che valido, non è da lei!».
«Se l’è presa perché ti ho
messo in difficoltà con la signora Begum e ho ridacchiato
quando ti ha dato del tonto, ecco».
Si versò un altro bicchiere colmo fino all’orlo,
ma Merlino gli bloccò la mano con cui stava per portarselo
alle labbra, guardandolo seriamente. C’era
dell’altro, ne era sicuro, e non avrebbe mollato la presa
fino a quando Artù non avesse confessato.
Il re di Camelot roteò gli occhi al cielo ed aggiunse:
«Mi ha detto anche che non mi ha mai sentito ringraziarti per
tutto ciò che fai per me e che non sei il mio
servo».
Merlino accennò un sorriso, stringendosi il collo nelle
spalle. «Beh…».
«No, Merlino, non lo sei. Non più. È
inutile continuare ad illuderci».
«Io sono nato per questo, per servire voi,
Sir–».
«Non lo dire», lo interruppe bruscamente, chiudendo
gli occhi e portandosi il pugno sinistro alla bocca.
Lo stregone capì al volo ciò a cui stava pensando
ed allontanò la mano dalla sua, non riuscendo
però a non provare lo stesso dolore che stava dilaniando il
cuore di Artù.
«Sulla carta non sarete più il re di Camelot, ma
per me sarete sempre il re a cui essere leali»,
affermò con voce pacata, tanto dolcemente che il biondo
riaprì gli occhi blu per fissarli nei suoi.
«Le ho detto anche che non sa niente di noi, che non ci
conosce affatto e non sa quello che abbiamo passato insieme. Mi
dispiace, so che non avrei dovuto; la rabbia ha preso il
sopravvento».
Merlino si posò entrambe le mani sul viso e se lo
strofinò, cercando di trovare in fretta una soluzione
all’ennesimo piccolo enorme malinteso. Alla fine rivolse un
sorriso ad Artù, un sorriso di fronte al quale il biondo non
seppe come reagire, e gli mise sotto al naso la fetta di torta al
limone e semi di papavero che la signora Begum aveva portato per
l’infermiera.
«Vado a recuperare Alex, potrebbe volerci un
po’».
Si era appena alzato, quando Artù si schiarì la
voce per attirare nuovamente la sua attenzione. Il biondo
però esitò, aprendo e richiudendo la bocca un
paio di volte, come se fosse indeciso sul parlare o meno.
«Artù?», lo incalzò Merlino,
già pronto al peggio.
«Oh, niente, solo… Fai le mie scuse a Lady Alex,
so di aver esagerato un po’».
Annuì, anche se con la fronte corrugata e non del tutto
certo che fosse quello che Artù avrebbe dovuto dirgli in
realtà. Decise di lasciar correre e si diresse verso i
bagni, dove trovò Alex intenta a sciacquarsi il viso
struccato.
«È tutto okay?», le chiese, sforzandosi
di dimostrarsi serio e di non far scivolare lo sguardo sul suo corpo
atletico.
L’aveva sempre trovata attraente, ma era estremamente
più facile – come bere un bicchier
d’acqua – controllarsi quando indossava abiti
normali o la ben poco provocante uniforme azzurra da infermiera. In
versione jogging era una bomba, una vera bomba che gli esplodeva nel
petto ogni volta che si distraeva abbastanza.
«Certo, perché non dovrebbe?», rispose
in tono piatto, strappando con rabbia due, tre fazzoletti di carta
ruvida con cui tamponarsi il viso bagnato.
Merlino, appoggiato contro la porta d’entrata, la
guardò attraverso lo specchio ed accennò un
sorrisetto. «Non devi starlo a sentire, Artù
è un idiota».
«Sì, lo è, ma a volte dice cose molto
sensate».
Si voltò verso di lui ed incatenò lo sguardo al
suo, in un modo che gli fece venire ben presto la pelle
d’oca. C’era determinazione, ma anche una certa
dose di timore nei suoi occhi verdi, e non faceva altro che tormentarsi
il labbro inferiore con i denti. Alex si avvicinò
lentamente, un passo dopo l’altro, fino a quando i loro visi
non furono a pochi centimetri di distanza.
«Artù ha ragione: io non so niente di voi, non so
niente di te… Sono ormai quattro anni che ci vediamo quasi
tutti i giorni, e a volte mi sembra di conoscerti come le mie tasche,
altre in cui mi rendo conto che invece sei come un estraneo».
Merlino rimase a bocca aperta e non poté proprio
controllarsi, stufo di quella storia. «Solo perché
non conosci il mio passato, non puoi dire di non conoscere me.
Mi hai chiesto di non mentirti, giusto? Allora non ti
mentirò: io sono stanco, Alex, sono davvero stanco di tutto
questo. Fino a qualche settimana fa nemmeno io sapevo niente sulla tua
famiglia, ma non mi pare di averti mai fatto pressioni, di averti
apprezzata di meno o di aver messo in dubbio la tua amicizia.
Perciò non capisco, davvero non capisco perché
tutto d’un tratto sei così ossessionata da
–».
«Perché sto impazzendo, Merlino! Io sto
letteralmente impazzendo!», urlò con gli occhi
sgranati. «Io so che cos’ho visto quella sera! Non
è stata un’allucinazione, non ero né
ubriaca né drogata: Artù è emerso da
quel fottuto lago, emerso dal nulla, e da quel
giorno tu metti da parte tutti e tutto per lui, uno psicopatico
schizofrenico che guarda caso si crede il re di Camelot. Mettiti nei
miei panni, dannazione!».
«Non ce n’è bisogno, posso capire come
ti senti, ma…».
«No, no che non puoi!».
«Smettila di urlare, o la signora
Begum…».
«Che si fotta la signora Begum, che si fottano tutti quanti!
Io urlo quanto mi pare e piace e non puoi imped–!».
Merlino se ne sarebbe pentito presto, ne era più che sicuro,
ma al momento evitò di pensarci e si beò del
silenzio che calò in quel claustrofobico bagno non appena le
sue labbra e quelle di Alex si scontrarono bruscamente. Si
aggrappò disperatamente al pensiero che quello era solo il
metodo più efficace che aveva trovato per azzittirla, ma fu
tutto inutile: gli piaceva, gli piaceva da morire sentire il suo corpo
caldo contro il proprio, percepire sottopelle il suo cuore che le
batteva furiosamente nel petto, lasciarsi stordire dal suo profumo e
avere a disposizione le sue labbra, che tante e tante volte aveva
immaginato. Poteva finalmente scoprire se erano davvero morbide,
vellutate e dolci come il miele, ma con un mugolio di disappunto
riuscì a scostarsi, tenendo gli occhi chiusi e con la fronte
solcata da rughe di preoccupazione.
La maniglia della porta a cui Merlino era ancora appoggiato si
agitò, facendoli sobbalzare entrambi.
«Ehi, ragazzi, siete lì dentro? La torta
l’ho finita da un pezzo».
Merlino sospirò sollevato – ogni tanto era
Artù a tirarlo fuori dai guai – ed evitando
attentamente gli occhi di Alex aprì la porta.
«Eccovi qua, finalmente. È tutto
risolto?».
«Assolutamente», rispose meccanicamente Merlino.
Non poteva di certo dire che aveva elevato al cubo tutti i loro
problemi, non sarebbe stato d’aiuto.
Artù dovette però fiutare la sua bugia ed infatti
posò sospettosamente gli occhi su Alex, la quale alle spalle
dello stregone si schiarì la gola ed accennò un
sorriso, aggiungendo: «Tutto a posto, sicuro».
«Perciò… le hai già fatto le
mie scuse, Merlino?».
«In verità ho pensato che sarebbe stato meglio se
gliele avessi fatte tu di persona», stiracchiò un
sorriso, dandogli una pacca sulla spalla. «Io penso proprio
di dover tornare al lavoro».
Artù lo guardò sbalordito e quando
posò gli occhi su Alex fu ancora peggio, perché
l’infermiera esclamò in fretta: «Non ce
n’è bisogno, avevamo torto entrambi. Pace
fatta».
«Ma dove stai andando?», le chiese sempre
più confuso, quando ormai era già arrivata alla
porta.
«A casa. Tra meno di due ore inizio il turno in ospedale e
devo prepararmi. Ci vediamo!».
Artù, rimasto solo nel locale perché Merlino si
era rifugiato in cucina a lavare i piatti e Alex era praticamente
scappata via, non fece fatica ad intuire che doveva essersi perso
qualcosa, ma mai avrebbe immaginato di essersi perso un qualcosa di
così grosso.
***
Odiava
occuparsi delle cartelle cliniche, ma toccava a tutti, ogni tanto, e
quel pomeriggio era spettato a lei. Quella
“fortuna” non poteva capitarle in un giorno
peggiore, dato che non faceva altro che distrarsi ripensando a tutto
ciò che era successo solo quella mattina con Artù
e poi con Merlino.
Si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli
biondi che era riuscita a scappare dalla presa del mollettone ed
espirò profondamente, cercando di concentrarsi sui dati che
doveva inserire a computer.
«Conosco quell’espressione».
Alex alzò di scatto la testa ed incrociò un paio
di occhi grigio-azzurri che ben conosceva, bellissimi e messi ancora
più in risalto dalla carnagione mulatta del viso in cui
erano incastonati come gemme.
«Keith», lo salutò senza entusiasmo
né sforzandosi troppo di sorridere.
Il medico del pronto soccorso si appoggiò al bancone del
ricevimento con le braccia incrociate tra loro e le chiese:
«Vuoi parlare di ciò che ti preoccupa?».
«Veramente no. Ma grazie per l’offerta».
«Saresti più disposta a farlo davanti ad un bel
boccale di birra, come ai vecchi tempi?».
A quelle parole Alex sollevò gli occhi e lo fissò
intensamente, nonostante la gola le si fosse seccata
all’improvviso. «Mi stai davvero chiedendo di
uscire? Ho capito bene?».
Il dottor Ellis si strinse il collo nelle spalle, riservandole uno
sguardo malizioso in grado di farle stringere involontariamente le
cosce sulla poltrona girevole. Ricordava molte, moltissime serate
iniziate con un boccale di birra e finite in un letto, e ad essere
sinceri il sesso era stata l’unica parte della loro relazione
che non era mai riuscita a dimenticare.
«È solo che mi sei mancata, Alex», disse
con naturalezza, un misto di sincerità e disarmante
spavalderia. «Mi piacerebbe dimostrartelo».
Pensieri ben poco pudichi le attraversarono la mente, ma ben presto si
rese conto che il ritorno dell’ex era proprio
l’ultima cosa che mancava per concludere in bellezza quella
giornata.
«Sono parecchio impegnata in questo periodo»,
glissò, tornando a fissare lo schermo del computer ed in
particolare il cursore intermittente sulla cartella clinica che stava
finendo di compilare.
Keith sollevò le mani in segno di resa e con un sorriso
mesto in volto si allontanò di un passo dal bancone.
«Okay, ho capito. Promettimi solo che mi farai sapere se
cambierai idea. Il mio numero di cellulare è sempre lo
stesso».
L’infermiera sollevò un angolo della bocca in un
minuscolo sorriso ed annuì con un cenno del capo. Dopotutto
non le costava niente, soprattutto tenendo conto che mai
avrebbe cambiato idea in proposito.
***
«Davvero,
io non ti capisco. Prima dici che devo trovarmi un lavoro, poi quando
finalmente mi convinco a fare questa pazzia tu non sei
d’accordo? So di che cosa si occupa il padre di Alexandra, ne
sono consapevole, ma voglio farlo! E vorrei che tu venissi con me. Non
perché tu possa svolgere i lavori più umilianti
– beh, solo ogni tanto – ma perché
vorrei davvero che… che lavorassimo fianco a fianco, come
abbiamo sempre fatto, ecco».
Artù alzò lo sguardo e trovò Merlino
intento a fissare con occhi vacui il suo piatto di pasta ancora pieno.
Sospirò lievemente e dopo aver bevuto un sorso di birra si
portò entrambe le mani sotto al mento per esclamare con tono
infinitamente serio: «Sai, penso che il regno di questa
Elisabetta II sia durato fin troppo. Forse è arrivato il
momento di farla fuori e di prendere il suo posto sul trono, svelando
la verità al mondo intero. Gran Bretagna non mi dispiace,
sul serio, ma questa nazione tornerà a chiamarsi Albione.
Sarà la prima cosa che farò, insieme alla
reintroduzione della gogna pubblica. Sei d’accordo con
me?».
Gli occhi dello stregone non si mossero di un millimetro, segno
inequivocabile che neanche una parola di tutto ciò che
Artù aveva detto per attirare la sua attenzione si era
fermata nella sua scatola cranica tanto a lungo da essere capita e
catalogata come “assurdità”.
«Merlino!», urlò allora spazientito,
picchiando forte il pugno sul tavolo, tanto che il moro
trasalì e con una mano fece rovesciare sulla tovaglia il suo
bicchiere d’acqua.
Artù provò quasi una fitta al cuore quando lo
vide affannarsi per asciugare il tavolo con una manciata di fazzoletti
di carta e per un attimo pensò di doversi scusare con lui.
Era certo che un tempo non ci avrebbe pensato due volte prima di usare
la magia per impedire il disastro o per rimediarvi con la
velocità di un battito di palpebre; dopotutto sapeva che
Merlino l’aveva sempre praticata, anche sotto i suoi occhi
ciechi, e sempre a fin di bene, ma sapeva anche che quei tempi erano
ormai un lontano ricordo, quando ancora il cuore del suo migliore amico
era pieno di speranza e voglia di vivere.
Il re di Camelot allungò le mani e le strinse forte intorno
ai suoi polsi sottili, costringendolo a fermarsi e a prestargli la
tanto agognata attenzione. I loro occhi finalmente si incrociarono e
Artù vi lesse un tormento che gli fece allentare la presa,
ma la sua voce rimase decisa e con una sfumatura irritata.
«È tutto il giorno che pensi ad altro, che non ti
rendi conto delle cose che fai e guarda, non hai ancora toccato cibo.
Tutto questo porta ad un’unica spiegazione, sai? Si tratta di
Lady Alex. È successo qualcosa, tra voi due, quando sei
andato a cercarla in bagno, non è così?
Dovresti…».
«Cosa? Cosa dovrei fare?», chiese Merlino con
aggressività, nella voce come negli occhi. «Voi
non potete capire come sia stare nei miei panni, non lo potete nemmeno
lontanamente immaginare, perciò non provate a dirmi come
dovrei comportarmi».
Artù lottò contro il quasi irrefrenabile istinto
di infilzargli il coltello sul dorso della mano e per farlo si
aiutò con un respiro profondo. Quindi replicò,
pacato: «Tu mi sottovaluti troppo spesso, Merlino. Credi
davvero che non sappia che cos’è che ti
spaventa?».
Ci aveva pensato tanto, c’erano stati dei momenti in cui si
era sforzato tanto da sentire del fumo uscirgli dalle orecchie, ma alla
fine ci era arrivato. «Tu hai paura che quando lei
scoprirà la verità – sempre se questo
accadrà – ti darà del mostro,
sarà spaventata da te e ti allontanerà. Forse
sarà così, ma non puoi saperlo con
certezza».
«Voi l’avete fatto», mormorò,
con gli occhi bassi e pugni stretti ai lati del piatto.
«Hai ragione, ma sei tu ora a doverti mettere nei miei panni.
Come pensavi che avrei reagito?».
«Non ci ho mai pensato. Voi non dovevate saperlo».
«Io non…». Il re di Camelot
strabuzzò gli occhi, boccheggiando incredulo come un pesce
fuor d’acqua. «Stai dicendo che se non fossi stato
in punto di morte avresti continuato a mentirmi?».
Merlino si strinse nelle spalle, evitando il suo sguardo.
«Che importanza avrebbe avuto? Voi non avreste cambiato le
leggi di vostro padre per me, non avreste cambiato idea sulla magia e
ora, a mente fredda, sono grato che le cose non siano mai cambiate: la
magia, come ho detto, non porta a nulla di buono. Corrompe le persone,
le cambia in peggio, fino a distruggerle. Riportarla nel mondo sarebbe
stato di certo un errore».
Artù aprì nuovamente la bocca per ribattere, ma
non trovò nulla di adatto da dire. Non poteva affermare che
conoscere la verità su Merlino avrebbe cambiato qualcosa,
era troppo tardi ormai; gli avrebbe dato altresì una
speranza, la speranza che non tutta la magia era sinonimo di
malvagità. Come aveva detto il suo ex servitore,
però, erano così pochi i casi in cui
l’aveva vista utilizzata a fin di bene… Solo
Merlino, infatti, aveva sempre lottato perché portasse
felicità, e nemmeno lui, così potente e di buon
cuore, ci era sempre riuscito.
Guardò Merlino alzarsi col suo piatto ancora pieno, aprire
la spazzatura e gettarvi dentro la sua cena. Addirittura
sobbalzò, perché non se lo aspettava, quando il
mago lanciò con stizza il piatto di ceramica nel lavello e
vi si appoggiò con entrambe le mani, il capo chino e le
spalle contratte.
«Non è questo che mi spaventa, comunque. Dopotutto
Alex si abituerebbe in fretta, come avete fatto voi».
«E allora cosa…?». Il re
corrugò la fronte e rifletté per qualche secondo.
Non si era nemmeno posto il problema di trovare altri ostacoli ad una
loro possibile storia. Era proprio vero: poteva essere il migliore
stratega militare sul pianeta e il peggiore interprete dei sentimenti,
una vera frana nelle questioni amorose.
«Io e Alex apparteniamo a due mondi, due epoche diverse. Come
credete che si sentirebbe se scoprisse che ho più di
millequattrocento anni? Sapere che prova qualcosa per un…
vecchio decrepito… Sarebbe orribile, credetemi».
«L’hai già detto a
qualcun’altra, prima?», chiese e si rese conto
troppo tardi di non averlo fatto con la giusta delicatezza. Merlino si
voltò con espressione cupa, gli occhi velati di lacrime, ma
non gli rispose.
«Non posso farlo, Artù. Io non… non
posso rischiare di essere felice, sapendo che prima o poi, in un modo o
nell’altro, soffrirò terribilmente o peggio,
farò soffrire lei».
«Che cosa intendi?».
Merlino scosse il capo e si coprì gli occhi umidi con un
braccio. Quando lo tolse, ogni traccia di lacrima era svanita e il suo
volto era tornato inespressivo, una maschera priva di qualsiasi
emozione umana. Ad Artù vennero i brividi, guardandolo, e
finalmente capì – o almeno immaginò
– quanto avesse veramente patito, sacrificato e perso durante
gli anni che aveva trascorso in attesa del suo ritorno.
«Vado in camera mia», esclamò atono lo
stregone, iniziando a dirigersi verso le scale. «Lasciate
pure così, sistemerò domani».
«Merlino, aspetta».
Artù sospirò, guardando quegli occhi azzurri
dietro cui si celava un dolore immenso che aveva cambiato profondamente
il suo unico e vero amico. Avrebbe tanto voluto aiutarlo, fare qualcosa
perché potesse sentirsi meglio, ma per colpa del suo destino
era costretto ad ingannarlo.
«Non so che cosa sia successo e non te lo chiederò
di nuovo, ma se vuoi la mia opinione credo che dovresti andare da Lady
Alex».
Merlino alzò gli occhi al cielo e lasciò sbattere
le mani ai lati delle cosce. «E per quale motivo?».
«Potrei aver combinato un guaio, questa mattina».
Un lampo di preoccupazione attraversò gli occhi del mago, il
quale improvvisamente ebbe bisogno di appoggiarsi allo schienale della
sedia accanto a quella di Artù. «Un guaio?
Che tipo di guaio?».
Il re stirò un sorriso. «Perché prima
non ti siedi?».
***
«Voi
che cosa?!».
Aveva un nido di vespe nella testa, ronzanti e tanto velenose che non
riusciva più a ragionare con lucidità. Non
riusciva nemmeno a stare fermo, come scosso dalle convulsioni, e
avrebbe ben presto scavato un fossato intorno al tavolo da pranzo se
non avesse smesso di camminare.
Artù aveva detto ad Alex che lui ricambiava i suoi
sentimenti ma che era troppo spaventato per ammetterlo, spaventato di
rovinare la loro amicizia nel caso in cui come amanti non avesse
funzionato. Giustissimo, una scusa estremamente valida nel caso in cui
Merlino non vedesse altri e più grandi problemi di fronte ad
una loro possibile relazione.
«Come avete potuto farmi questo?!», urlò
ancora, sull’orlo di un crollo nervoso.
Artù sbuffò con tanto di pernacchia e lo
guardò con sufficienza, rispondendo: «Avresti
preferito che le dicessi la verità su noi due?
Perché stavo per farlo, Merlino. Solo all’ultimo
momento ho cambiato idea».
Il pensiero che avrebbe potuto svelarle tutto quanto era ancora
più terrificante di ciò che in realtà
le aveva detto – forse – ma non
poté impedirsi di chiedergli: «E per quale motivo
avete cambiato idea?».
«Ho pensato: siamo qui insieme, sulla stessa barca, tanto
vale affrontare tutto questo insieme. E poi tu sei qui da
più tempo, sai come è meglio
comportarsi».
Merlino si fermò, finalmente, ed incatenò lo
sguardo al suo, sorpreso ed infinitamente lusingato. «State
dicendo… che ho la vostra fiducia?».
«L’hai sempre avuta», replicò
il re di Camelot, scrollando le spalle con noncuranza ma badando bene
ad interrompere il contatto visivo.
Il mago provò una piacevole stretta al cuore, calda e
rassicurante, e se Artù l’avesse guardato
l’avrebbe visto sorridere dolcemente anche con gli occhi. Ma
sarebbe stato molto imbarazzante e di sicuro il suo re non
gliel’avrebbe mai perdonato, perciò
cercò un modo per portare la conversazione su un terreno in
cui lui si sentiva completamente a suo agio, un terreno in cui era
imbattibile.
«Farete davvero tutto quello che vi dico senza
lamentarvi?», chiese, concentrandosi al massimo per non
dimostrarsi divertito e già compiaciuto.
Artù infatti reagì come aveva previsto:
lanciandogli un’occhiataccia e ribattendo aspramente, con un
dito puntato verso di lui. «Non ti allargare, Merlino.
Prenderò in considerazione le tue opinioni, ma
continuerò io a condurre la barca».
Lo stregone immaginò Artù conciato alla Jack
Sparrow e soffocò a stento una risatina, annuendo
solennemente inchinando un po’ il capo.
Il biondo giocherellò con il bicchiere di birra ormai vuoto,
in silenzio, fino a quando non si accorse con la coda
dell’occhio che Merlino era ancora fermo accanto al tavolo,
con le mani unite davanti al ventre e gli occhi puntati su di lui, come
in attesa di un suo ordine.
In realtà Merlino stava aspettando che gli desse la
spintarella finale, quella che gli avrebbe dato un capro espiatorio per
quando si sarebbe trovato faccia a faccia con Alex, così
imbarazzato che avrebbe preferito trovarsi incatenato sul fondo del
lago di Avalon.
«Allora, che cosa stai aspettando?», gli
domandò ad un tratto, inarcando un sopracciglio.
«Vai da lei e dille qualsiasi cosa tu voglia dirle, non fa
differenza. Mi basta riaverti con la testa sulle spalle e non tra le
nuvole».
Merlino colse il vero significato nascosto dietro le sue parole ed
accennò un sorriso intriso di tenerezza: Artù
poteva fare il duro e lo sbruffone, l’altezzosità
reale dall’ego smisurato che tanto gli riusciva bene, ma in
realtà si preoccupava per lui e aveva bisogno di lui nel
pieno delle sue facoltà, perché da solo non
poteva affrontare quel mondo strano e complicato.
«Non starò via molto», promise.
Artù sventolò una mano come a scacciare un
insetto fastidioso. «Posso cavarmela benissimo da solo,
quante volte te lo devo dire?».
Quindi si alzò per aprire il frigorifero e tirarvi fuori
un’altra bottiglia di birra. Quando si risollevò,
Merlino era già corso in camera sua per darsi una sistemata.
***
«Qualcuno
dovrebbe stare con lui».
Mark posò gli occhi su Abigail e per un attimo non seppe
come rispondere, incantato dalla linea sottile del suo collo candido e
dalla sua mano che accarezzava con delicatezza infinita la fronte umida
di Steve, il quale si era da poco addormentato con una smorfia dipinta
sul suo visetto più pallido del solito. La gelosia lo
travolse per un attimo, tanto da voler stare male come lui per ricevere
le stesse amorevoli attenzioni, ma si rese subito conto della follia di
quel pensiero e lo scacciò via sfregandosi gli occhi con le
mani.
«Mark, mi hai sentito?».
«Sì», biascicò, sforzandosi
per trattenere uno sbadiglio. «Sì, ti ho sentito.
Starò io con lui».
Abigail posò gli occhi su di lui, due occhi neri e profondi,
tanto incredibili da fargli saltare il cuore in gola, e con tono non
privo di disapprovazione chiarì: «Intendevo un
adulto, un’infermiera».
«Oh. Sì, certo, vado a cercare qualcuno».
Sulla propria sedia a rotelle si avvicinò alla porta e prima
di uscire voltò di nuovo il capo verso di lei: stava per
dirle che per Steve sarebbe stato sveglio anche tutta la notte, ma ci
ripensò, preferendo non distrarla dalle cure che con
l’affetto e l’apprensione simili a quelli di una
madre stava offrendo a Steve. Abigail era sempre stata la loro Wendy,
essendo la più grande, la più responsabile e la
più bella del loro piccolo gruppo, e per quanto ci avesse
provato Mark non era mai riuscito a vederla come una sorella maggiore;
lui sarebbe sempre stato il Peter Pan a cui lei non avrebbe mai
concesso il suo amore e finché avevano del tempo da passare
insieme doveva farselo bastare, senza capricci né rimpianti.
Spinse la carrozzina lungo il corridoio stranamente deserto. Possibile
che tutte volte che si trovava nella situazione di dover sgattaiolare
da qualche parte ci fosse un’infermiera ad ogni angolo e ora
che aveva bisogno di una di loro si erano tutte volatilizzate?
Si diresse verso l’accettazione, certo che almeno
lì avrebbe trovato qualcuno, ma non fece in tempo ad
arrivarci che la sua sedia a rotelle sbatté contro un
ragazzo alto e magro, il quale non cadde a terra per pura fortuna ed
imprecò a mezza voce, tenendosi la tibia colpita tra le
mani.
«Sto sognando?», si chiese Mark ad alta voce, per
poi strofinarsi gli occhi.
«Non dire stupidaggini, Mark. Se questo fosse un sogno non
soffrirei così tanto!».
«Merlino!», esclamò allora, entusiasta,
sporgendosi per potergli avvolgere le braccia intorno alla vita.
Durò solo una manciata di secondi, il tempo necessario a
rendersi conto che non era affatto da lui abbracciare qualcuno che non
fosse il suo cane, ma era davvero contento di vederlo. E molto
arrabbiato.
«Dove diavolo sei stato?! Avevamo bisogno di te!»,
gli urlò contro, cercando di colpirlo con la propria
carrozzina.
Merlino si spostò agilmente e mise tra loro la giusta
distanza di sicurezza, quindi rispose: «Lo so, mi dispiace,
ma c’era qualcun altro che aveva ancora più
bisogno di me».
Mark fece una smorfia, sbuffando. «Oh sì, il tuo
famoso amico. E ora dove l’hai lasciato?».
«A casa. E dato che non mi piace affatto lasciarlo da solo,
possiamo rimandare le spiegazioni ad un altro momento? Sto cercando
Alex, l’hai vista?».
«Anche io la sto cercando», rispose, mettendo da
parte la rabbia che provava nei confronti di Merlino; al momento aveva
altro a cui pensare. «Steve continua a stare male».
«Come? Aspetta un momento», si fermò di
fronte a lui e lo guardò fisso negli occhi. «In
che senso Steve sta male? Che cos’ha?».
«Ti sembro per caso un’infermiera?! Spostati,
stiamo solo sprecando tempo».
Merlino odiava ammetterlo, ma Mark aveva dannatamente ragione. Dovevano
trovare Alex, o qualcun altro, in fretta. E ovviamente il vero motivo
per cui era andato all’ospedale avrebbe aspettato.
***
Alex
sollevò ancora una volta gli occhi verso
l’orologio a muro appeso sopra la porta: erano passati solo
due minuti e quindici secondi. Mancavano più di due ore alla
fine del suo turno ed era così stanca – e con la
testa così tra le nuvole – che nemmeno la tazza di
caffè che aveva tra le mani l’avrebbe aiutata.
Sentì una scossa percorrerle la spina dorsale, in grado di
spazzare via ogni sintomo di stanchezza, quando vide Merlino arrivare
di corsa e sbirciare tra le fessure della veneziana che
dall’interno copriva la finestra della stanza relax degli
infermieri. Che ci faceva lì? E perché sembrava
così preoccupato? Il suo cuore saltò un battito e
lasciò istintivamente la tazza di caffè sul
ripiano della piccola cucina per andargli incontro.
Merlino aprì la porta con furia, ma si fermò
sulla soglia, come paralizzato dall’imbarazzo. Alex lo sapeva
riconoscere, perché era lo stesso che aveva bloccato anche
lei a pochi passi dalla maniglia.
«Ciao», mormorò, lottando contro se
stessa per non abbassare gli occhi, occhi che, solo ora se ne rendeva
conto, dovevano essere lucidi ed arrossati a causa
dell’infinito lavoro di archiviazione delle cartelle cliniche.
«Va tutto bene?», le chiese infatti, indicando il
suo viso.
«Sì, ho solo passato le ultime quattro ore al
computer. Tu, invece? È successo qualcosa ad
Artù?».
Merlino corrugò la fronte. «No, lui…
lui sta bene. Si tratta di Steve. Mark ha avvisato altre due
infermiere, ma dovresti venire anche tu».
Alex si sentì morire dentro e senza dire una parola lo
seguì, correndo disperatamente al suo fianco lungo i
corridoi silenziosi e pregando con ogni fibra del suo corpo che non
fosse nulla di grave.
Quando raggiunsero la stanza di Steve però si resero conto
che il suo lettino non c’era più e che Mark ed
Abigail si erano stretti intorno al compagno di stanza di Steve,
Gabriel, di un solo anno più grande di lui e con lo stesso
problema ai polmoni, anche se in maniera meno critica.
«Che cos’è successo?»,
domandò subito Merlino, avvicinandosi ad Abby.
«È successo tutto così in
fretta…», mormorò la ragazzina, con gli
occhi spenti e vacui fissi sul pavimento. Ma in un attimo si
schiarì la voce ed alzò il viso, facendosi forza
con un bel respiro. Abigail era davvero la più forte, la
roccia che teneva in piedi i delicati equilibri e le speranze di tutti
i bambini che erano ricoverati nel reparto oncologico.
«Prima sembrava solo agitarsi nel sonno, sudava e il suo
respiro non era proprio regolare, poi tutto è precipitato:
sembrava stesse annegando… Le infermiere hanno detto che ha
avuto una specie di collasso».
Alex si passò una mano sul viso e le ci volle tutto il
proprio autocontrollo per non scoppiare a piangere e perdere la calma.
Se non le fosse stato assegnato quello stupido lavoro di scartoffie e
avesse potuto stare accanto ai bambini come aveva sempre
fatto…
Sentì la mano di Merlino stringere forte la sua e
aprì di scatto gli occhi umidi di lacrime, sentendo la
rabbia bollirle nelle vene. Se anche lui, invece di preoccuparsi tanto
di Artù, avesse trovato il tempo per stare con loro tutto
questo non sarebbe successo, o almeno avrebbero potuto intervenire in
modo ancora più tempestivo.
«Steve è forte, si riprenderà di
sicuro», cercò di rassicurarli il moro, ma Alex si
liberò della sua stretta con un gesto brusco e dandogli le
spalle si limitò a dire freddamente: «Vado a
vedere se qualcuno ha già avvisato i suoi
genitori».
Non si voltò mai indietro mentre percorreva il corridoio e
non si preoccupò nemmeno della lacrima che le
scivolò sulla guancia. L’unica cosa che fece fu
continuare a pregare perché davvero Steve fosse forte
abbastanza da superare quell’ennesima difficoltà.
|
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Capitolo 10 *** 10. A remedy to cure all ills – Part II ***
Buonasera!
A voi la seconda parte del mega-capitolo iniziato la settimana scorsa.
Come vi renderete presto conto, nonostante io l'abbia diviso, il
capitolo che leggerete è molto più lungo rispetto
a quelli che vi ho proposto fin'ora. E devo avvisarvi che
saranno più o meno tutti di questa lunghezza, d'ora in
avanti. Perciò potrà anche darsi che la cadenza
con cui posterò sarà diversa, magari vi
darò più tempo, per permettervi così
di leggere in tutta tranquillità questi papironi. Spero in
ogni caso che non sia un problema e che vi piacciano comunque :)
Come vi ho anticipato la scorsa volta, in questo capitolo verranno
introdotti ben tre nuovi personaggi originali - di cui vado onestamente
molto fiera - e ne ritornerà uno dal passato di Merlino e
Artù. Qualcuno forse avrà già capito
di chi si tratta... ad ogni modo, ciò che porterà
con sè sarà a tratti scioccante e straziante. Mi
auguro con tutto il cuore di riuscire a raggiungere i vostri e che il
tutto sia credibile.
Detto ciò, non voglio spoilerare altro e vi lascio alla
lettura.
Un grazie a chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e a chi ha
messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate! Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
________________________________________
10. A remedy to cure all ills – Part
II
Alex
non si voltò quando sentì la porta della stanza
aprirsi e poi richiudersi delicatamente; si limitò ad
abbassare le ginocchia che si era stretta al petto fino a quel momento
e a passarsi le dita sotto gli occhi stanchi.
Merlino l’affiancò, lo sguardo apprensivo posato
sul piccolo Steve, ora nuovamente stabile ma molto, molto debole.
«Hai bisogno di fare due passi?», le chiese a bassa
voce.
«No, sto bene, grazie».
Si schiarì la voce, passandosi una mano sulla nuca.
«I suo genitori hanno chiamato ancora, hanno detto che sono
quasi a Newport».
«Bene».
«Vuoi che ti porti una tazza di caffè?».
Alex sospirò stancamente e alzò il viso verso il
suo, guardandolo con una punta di irritazione. «A meno che tu
non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula magica, non
voglio proprio niente da te».
Merlino non rispose e l’infermiera si beò del
silenzio ottenuto fino a quando non si rese conto di averlo fatto
ancora: aveva riversato su di lui – quella volta ad alta
voce, per giunta – tutta la frustrazione, il senso di
inutilità e la paura che provava, nonostante non se lo
meritasse affatto.
Era tutto un controsenso, a rappresentazione di quanto si sentisse in
conflitto con se stessa: avrebbe voluto dirgli di restare,
perché aveva bisogno di averlo al suo fianco, e invece gli
aveva risposto in quel modo, alzando un muro invalicabile tra loro,
perché quello che era successo alla caffetteria la
spaventava più di quanto spaventava lui.
Aprì la bocca per scusarsi, ma quando girò il
capo per incrociare i suoi occhi realizzò, con un doloroso
nodo alla gola, che Merlino l’aveva lasciata sola, in quel
silenzio angosciante.
***
Odiava
non avere con sé il suo cavallo, odiava quel malridotto
quanto ridicolo mezzo di trasporto a due ruote che aveva trovato nel
vecchio fienile utilizzato da Merlino come garage per la propria auto e
dal quale era caduto quattro volte prima di prenderci la mano. Avrebbe
potuto raggiungere Avalon a piedi, certo, ma ci avrebbe messo davvero
troppo tempo, rischiando di farsi scoprire dallo stregone.
Perciò non si era arreso e al quinto tentativo era riuscito
a stare in equilibrio tanto a lungo da capire che era tutta una
questione di coordinazione.
Sotto una luna stranamente non velata dalle nubi, con la sua maglia di
ferro infilata sopra la felpa e il cappuccio sulla testa, una balestra
simile a quella che usava di solito durante le battute di caccia
(sgraffignata dalla stanza in cui Merlino aveva accumulato molti
ricordi del passato) appesa sulla schiena, il suo pugnale stretto alla
cintura e il cellulare nella tasca dei jeans, aveva pedalato
velocemente attraverso la campagna, tra le stradine secondarie che
aveva percorso quella mattina con Alex e infine lungo il sentiero che
costeggiava il fiume emissario del lago.
Aveva lasciato il suo destriero di ferro a qualche metro dalla sponda
di Avalon e aveva atteso che quella voce di donna gli parlasse. Aveva
atteso per quella che gli era sembrata
un’infinità, camminando avanti e indietro e
controllando quasi ossessivamente i minuti che passavano sullo schermo
del suo smartphone. Alla fine si era voltato verso la superficie piatta
del lago e aveva urlato a squarciagola tutta la sua impazienza, cosa
che se qualcuno lo avesse visto o sentito l’avrebbe
sicuramente fatto rinchiudere per davvero in uno di quegli ospedali
psichiatrici.
Artù sospirò, svuotato e stanco, e si
lasciò cadere sull’erba umida di fronte alla riva
del lago, proprio dove si era seduto a parlare con Alex quella mattina.
Quella ragazza iniziava a piacergli, per quanto strana e alle volte
irritante; gli piacevano la sua spavalderia e la sua determinazione,
gli piaceva il fatto che dicesse tutto quello che le passava per la
testa. Forse si sentiva così in sintonia con lei
perché di carattere era molto simile a lui, come aveva detto
Merlino, e proprio per questo sapeva che non sarebbe stato facile
risolvere pacificamente tutte le questioni aperte con lo stregone.
Poteva quasi veder scorrere di fronte ai suoi occhi il corso degli
eventi, cosa sarebbe successo e cosa no, e sapeva per certo che, in un
modo o nell’altro, tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Perché se davvero lui e Alex si assomigliavano
così tanto, allora anche lei avrebbe accettato Merlino per
ciò che era, legata a lui da un sentimento ben
più forte di qualsiasi pregiudizio.
Un’improvvisa vibrazione all’interno della tasca
della sua felpa lo fece sobbalzare. Tirò fuori il cellulare
e lesse a mezza voce il messaggio che Merlino gli aveva appena inviato:
«Ci vorrà più tempo del previsto, non
aspettatemi alzato».
Artù scosse il capo con delusione e iniziò a
rispondergli, lentamente e ancora un po’ impacciato con
l’uso della tastiera touch: «Non…
sei… la… mia… balia.
Smet–». Uno splash improvviso,
come se qualcuno avesse appena lanciato in acqua un sasso, gli fece
alzare di scatto gli occhi, stretti per scorgere il più
piccolo movimento. E lo vide, perfettamente in diagonale rispetto a
lui: una piccola barca, con la vernice blu scrostata e i remi ricoperti
di alghe, si dondolava pigramente sulla superficie del lago, creando
onde semicircolari che increspavano l’acqua limpida.
Era quasi certo che quella barca non ci fosse, quando era arrivato, ma
ingoiò il rospo e in risposta a quell’esplicito
invito optò per un più semplice
«Okay» prima di alzarsi.
Sperando che non fosse così malridotta come sembrava,
salì sull’imbarcazione e remò fino al
centro del lago.
«Ehi, sono qui!», esclamò, guardandosi
intorno un po’ spaesato.
Quell’intera situazione era surreale. Come aveva fatto
Merlino a stare così in contatto con la magia e a non
perdere il senno? Pensò tristemente che sarebbe stato meglio
diventare pazzo, piuttosto che vedere tutte le persone a lui
più care morire a causa della magia o per aver avuto troppa
fiducia in essa.
«Non pensavo sareste venuto davvero, Pendragon».
Alla buon’ora,
pensò prima di rispondere in tono sarcastico:
«Conosci altre persone in grado di darmi qualche spiegazione
riguardo al motivo del mio ritorno?». Artù
continuò a guardarsi intorno, ma non aveva la più
pallida idea da dove arrivasse la voce di quella donna.
«Potresti farti vedere? È irritante parlare al
vento».
«Allora abbassate lo sguardo».
Artù si protese verso l’acqua e sbuffò
vedendo soltanto la propria immagine riflessa, ma non fece in tempo a
lamentarsene ad alta voce che una mano cancellò il suo viso
come se fosse stato disegnato su un vetro appannato. Lentamente
iniziò a scorgere dei lineamenti femminili, due occhi scuri
e una folta chioma di capelli neri. Si trattava di
un’immagine non perfettamente nitida e spesso e volentieri
diventava una semplice ombra a pelo dell’acqua, come se non
possedesse l’energia necessaria a mostrarsi chiaramente, ma
Artù la riconobbe subito e trasalì con
così tanto trasporto che la barca si agitò con
furia, rendendo ancora più sfocato il viso della giovane
donna.
«E così vi ricordate di me? Questo sì
che è davvero sorprendente».
Artù deglutì faticosamente e ritrovando il
proprio regale contegno disse: «Tu sei la
ragazza-pantera».
Un pallido sorriso comparve sulle labbra cianotiche della ragazza.
«Il mio nome è Freya, e grazie a Merlino sono
diventata la custode di Avalon».
***
Alex
uscì dalle porte scorrevoli dell’ospedale e
l’aria fredda della sera le fece venire la pelle
d’oca sotto la leggera divisa azzurra. Quello però
non era uno dei problemi in cima alla lista – a dire il vero
non lo riteneva nemmeno un problema – perciò
cercò subito Merlino con lo sguardo e lo trovò,
seduto su una panchina in ferro dall’altro lato della strada,
vicino ad un lampione che dava una strana sfumatura arancione ai suoi
capelli e alle fronde degli alberi alle sue spalle.
Si fece coraggio con un bel respiro, ma sapeva che non sarebbe affatto
bastato per il tipo di conversazione che avrebbero avuto, quindi si
diresse verso un gruppetto di paramedici in pausa vicino ad
un’ambulanza.
«Ehi ragazzi, come procede il turno?», chiese
stirando un sorriso e gettandosi dietro le spalle i capelli ormai
ribellatesi completamente alla presa del mollettone.
«Meglio del tuo. Ho sentito di Steve», rispose
l’unica ragazza del trio, con dei vivaci occhi nocciola, i
capelli rosso sangue raccolti in un compostissimo chignon –
in contrasto col suo aspetto un po’ gotico – e il
viso pallido tempestato di efelidi.
Alex annuì, chinando il capo quasi con vergogna.
«Avrei voluto solo…».
«L’importante è che ora si sia
stabilizzato e che i suoi genitori siano qui», la interruppe
il paramedico, tirando fuori da una delle ampie tasche dei pantaloni
dell’uniforme blu un pacchetto di sigarette con
l’intenzione di offrirgliene una.
Alex le rivolse un debole sorriso, contenta di aver comunque raggiunto
il suo scopo, e se la infilò tra le labbra.
«Cathleen, giusto?», le chiese mentre
gliel’accendeva tenendo una mano intorno alla fiamma per
proteggerla dal vento.
Il paramedico mostrò una fila di denti bianchissimi e
bastò per farle capire che ci aveva preso giusto, oltre al
fatto che l’aveva piacevolmente sorpresa.
«Finalmente posso dire di conoscere di persona la dottoressa
Alexandra Greenwood», le sussurrò, ancora ad un
palmo dal suo viso.
Alex arrossì violentemente. Poche, pochissime persone
– tra cui Merlino – sapevano che il suo sogno nel
cassetto era quello di diventare dottoressa specializzata in oncologia
infantile. Come faceva perciò Cathleen, con cui non aveva
mai parlato prima d’allora, ad esserne a conoscenza?
Come se le avesse letto nella mente disse: «Ho le mie fonti.
Ma se vuoi che rimanga un segreto non hai di che temere con
me».
L’infermiera annuì, riconoscente, ed
arretrò di un passo, rendendosi improvvisamente conto che la
distanza che c’era tra loro era troppo poca, tanto da
metterla a disagio. Tirò avidamente la sigaretta ed
accennò un sorriso soffiando fuori il muro, esclamando:
«Grazie mille, ne avevo proprio bisogno. Ci
vediamo».
«Ci conto», rispose Cathleen, strizzandole
l’occhio.
Alex si voltò, più che altro confusa dal suo
comportamento, e aveva fatto solo qualche passo verso Merlino quando
sentì alle sue spalle il paramedico esortare in modo
piuttosto colorito i suoi colleghi sghignazzanti a fare silenzio.
L’infermiera comunque si impose di non voltarsi e cercando di
godersi appieno la sua prima sigaretta dopo quasi otto mesi –
quando aveva deciso di togliersi quel vizio che le aveva passato Keith
– si sedette accanto a Merlino sulla panchina vicino al
sentiero che attraversava il parco.
«Lo sai che sei incoerente?», fu la prima cosa che
le disse in tono pacato, massaggiandosi il viso per poi guardarla
obliquamente, con i gomiti sulle ginocchia. «Che senso ha
tutto quel tenersi in forma col jogging se poi ti vizi in questo
modo?».
Alex ricambiò l’occhiata e dopo qualche istante di
silenzio gli porse la sigaretta tenendola tra indice e medio.
«Smezziamo?».
Il moro si concesse un sospiro di estremo sollievo dicendo:
«Pensavo non me l’avresti mai chiesto»,
prima di afferrarla delicatamente tra le dita e portarsela alle labbra.
Aspirò a lungo, tanto da incavarsi le guance e mettere
ancora più in risalto i suoi zigomi affilati, e quando
espirò il fumo verso l’alto chiuse gli occhi,
libero e in pace con il mondo.
«Promettimi che non lo dirai ad Artù»,
le disse, ripassandole la sigaretta.
«Come vuoi».
«Grazie».
Alex scrollò le spalle, picchiettando il filtro tra le dita
per far cadere la cenere oltre la panchina. «Non devi
ringraziarmi, ma perdonarmi».
«Per che cosa?».
«Ero preoccupata per Steve e me la sono presa con te, e non
te lo meritavi. Non ti meritavi nemmeno la scenata che ho fatto questa
mattina, davvero. È che a volte non riesco a non…
Non so come spiegartelo, Merlino».
«Ti capisco benissimo».
Alex si voltò verso di lui e lo guardò
intensamente, con un sorriso mesto sulle labbra. Il moro aveva gli
occhi puntati nel vuoto di fronte a sé e la fronte solcata
di rughe, sintomo che si era perso nei propri pensieri, di quelli seri
e difficili da sbrogliare.
«Ricordi com’eri impaurita quando per la prima
volta mi raccontasti della tua famiglia?», le chiese ad un
tratto.
«Non ero… impaurita»,
cercò di sdrammatizzare, ma non ci riuscì: la
verità era che era stato come lanciarsi nel vuoto e la sua
non era stata semplice paura, bensì terrore.
«Per me è la stessa cosa, elevata alla potenza. Il
mio passato… ciò che sono stato… non
piace a me, come potrebbe piacere a te?».
Alex sentì una grande tristezza pesarle sulle spalle, come
una coperta umida che fino a quel momento Merlino aveva sostenuto con
le sue sole forze e che ora stava condividendo con lei. In uno slancio
di empatia si avvicinò a lui ancora un po’,
infilò il braccio sotto al suo e posò la testa
sulla sua spalla. Sentì Merlino irrigidirsi, ma si
beò del suo calore e della scossa elettrostatica che le
corse sottopelle, la stessa che aveva sentito quando l’aveva
baciata in quel bagno.
Gli mise la sigaretta vicina alle labbra, dicendo: «Come hai
detto tu, che io conosca o meno il tuo passato non cambierò
idea su di te: rimarrai sempre il mio Merlino».
Il ragazzo afferrò ciò che rimaneva della
sigaretta tra le labbra e se solo Alex l’avesse guardato
avrebbe trovato un sorrisino intriso di malinconia dipinto sul suo
viso, un sorrisino che la diceva lunga su ciò che pensava a
proposito di quella sua ultima frase.
Merlino finì la sigaretta e la spense sul retro del ferro
della panchina, ma la tenne in mano: probabilmente perché
non voleva gettarla a terra e non voleva essere lui a dirle di
spostarsi, ma ad Alex piacque pensare che stava bene lì
dov’era, sotto quel lampione dalla luce arancione, con il
vento che gli scompigliava i capelli e la sua testa sulla spalla. In
realtà, il motivo per cui era rimasto fermo su quella
panchina era un altro.
«So quello che Artù ti ha detto questa
mattina».
Stava solo prendendo tempo per trovare il modo migliore per aprire
l’argomento.
Alex si schiarì la gola e sollevò la testa per
poterlo guardare negli occhi, sfuggenti come mai.
«Non dobbiamo parlarne per forza, se non vuoi»,
disse, consapevole che lei era la prima a non voler affrontare quella
conversazione, o almeno non in quel momento.
«Io penso che dovremmo, invece. Anche di quello che
è successo questa mattina».
Di bene in meglio,
pensò l’infermiera passandosi stancamente una mano
tra i capelli scompigliati dal vento.
Respirò profondamente e si batté le mani sulle
ginocchia, raddrizzando la schiena con determinazione, pronta ad
accettare qualsiasi cosa Merlino le avrebbe detto, ma non fece in tempo
ad aprire bocca che dalle porte scorrevoli uscì la
capo-infermiera, la quale si diresse subito verso il gruppetto di
Cathleen.
«Oh-oh, credo proprio che stia cercando me. Devo
andare», esclamò Alex saltando giù
dalla panchina proprio mentre uno dei paramedici la indicava
dall’altra parte della strada.
«Ci vediamo dopo», la salutò Merlino con
un tono che non ammetteva repliche e l’infermiera
annuì con un sorriso tranquillo, palesemente falso.
***
Alle
sue innumerevoli ed insistenti domande, Freya aveva risposto tendendo
una mano pallida verso di lui e, afferrandolo con forza per la nuca,
costringendolo ad immergere il viso nell’acqua gelata del
lago.
Artù aveva pensato che si fosse stancata di lui e volesse
ucciderlo o, ancora peggio, volesse imprigionarlo di nuovo sul fondo di
Avalon, perciò si era dimenato con tutte le sue forze,
rischiando più e più volte di cadere
dall’instabile barchetta, fino a quando la stessa Freya non
gli aveva sussurrato con voce suadente di calmarsi e di aprire gli
occhi. Artù, come sotto l’effetto di un
incantesimo, aveva fatto come gli era stato chiesto e con suo enorme
stupore si era ritrovato a Camelot.
Rivisse quei giorni con gli occhi di Freya, scoprendo che era stato
Merlino a liberarla dalla prigionia con l’uso della magia, a
tenerla nascosta nei sotterranei del castello, a portarle acqua e cibo
– il suo cibo! – e persino uno
dei vestiti di Morgana.
Ora il comportamento del mago aveva tutto un altro significato e
Artù iniziò a sentirsi male, come se
l’acqua in cui era immerso fino al collo fosse riuscita a
raggiungere il suo cuore per imprigionarlo in una morsa di ghiaccio,
quando capì che Merlino si era innamorato di lei ed era
pronto ad andarsene per costruirsi una vita diversa, lontana da Camelot
e da tutti quelli che conosceva, e poter essere finalmente se stesso.
Freya però, nonostante lo amasse anche più di
quanto la amasse lui, non aveva voluto che Merlino rinunciasse alla sua
intera vita per lei e aveva provato a fuggire da Camelot, trovandosi
circondata dai cavalieri e dallo stesso Artù.
La dama del lago non mostrò alcuna pietà per il
re di Camelot e gli mostrò tutto nei minimi dettagli:
quando, una volta trasformata in pantera alata, era stata messa
all’angolo e circondata, quando Artù era riuscito
a ferirla e all’improvviso un gargoyle era caduto tra lei e i
cavalieri per evitare che la uccidessero. Era stato Merlino a crepare
la pietra, a permetterle di fuggire, ma ciononostante non era riuscito
a salvarla: era morta tra le sue braccia, proprio sulla sponda di
quello stesso lago, e lo stregone aveva pianto, allora come quando
aveva guardato il suo corpo bruciare sulla barca funeraria che con la
magia aveva fatto scivolare lontano da sé.
«Basta! Basta!», urlò con tutte le sue
forze, sentendo l’acqua dolce nella bocca. In quel momento
Freya allentò la presa e Artù poté
sollevarsi e riempirsi nuovamente i polmoni d’aria. Per
quanto tempo era rimasto sott’acqua?
Crollò esausto sul fondo della barca, ansante, infreddolito
e con gli occhi che gli bruciavano, forse per il freddo o
più probabilmente per le lacrime che stava cercando di
trattenere.
Era stato lui ad infliggere alla ragazza-pantera il colpo che
l’aveva uccisa, lui aveva ucciso il primo amore di Merlino e
non solo il mago non gliel’aveva mai confessato,
comportandosi come se si fosse trattato soltanto di un brutto sogno, ma
quando il giorno dopo l’aveva visto giù di morale
gli aveva soltanto strofinato le nocche contro la testa, credendo che
quello ed un sorriso avrebbero sistemato tutto. Quanto era stato
sciocco.
«Ora che ho risposto a tutte le vostre domande, possiamo
tornare al motivo per cui vi ho fatto venire qui? Mostrarmi a voi
richiede molte energie e non posso davvero permettermi di
sprecarle».
Artù si fece forza e aggrappandosi ai lati
dell’imbarcazione si mise seduto, gettando
un’occhiata timorosa al viso di Freya nuovamente riflesso
sull’acqua ed illuminato dai raggi lunari.
«Sto morendo, Pendragon. La magia sta morendo».
Il re di Camelot sgranò gli occhi, scostandosi dalla fronte
ciocche di capelli bagnati, e domandò nervosamente:
«Che vuoi dire? Tutta la
magia?».
Freya annuì, mortificata. «Anche Merlino,
sì».
Artù strinse forte i bordi della barca, fino a farsi
diventare bianche le nocche, e gettò uno sguardo al cielo,
come a voler chiedere il perché di tutta quella sofferenza,
perché dovessero essere loro i
possessori di un destino così infelice.
«Non doveva andare a finire così», disse
pacatamente Freya.
«E come sarebbe dovuta andare, esattamente?»,
chiese Artù, un sorriso ironico sul volto. In ogni caso non
avrebbero vissuto felici e contenti, poco ma sicuro.
«Merlino avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mordred la prima volta
in cui ne ha avuto l’occasione, per esempio».
«Era solo un bambino, perdio!».
«Ma era scritto che quel bambino avrebbe causato la vostra
morte! Merlino lo sapeva, l’ha sempre saputo; ciononostante,
si è lasciato guidare dal suo buon cuore, dalla sua fede. Se
Merlino avesse compiuto il suo dovere, sarebbe di certo riuscito a
convincervi a riportare la magia ad Albione e successivamente in tutto
il mondo conosciuto».
Artù aprì la bocca per fare quella che si rese
conto essere la domanda più stupida del mondo.
Sogghignò, commentando con rabbia più che con
rammarico: «Io sono sempre stato un mezzo per il vostro fine,
certo. Se non fossi stato figlio del re io e Merlino non ci saremmo mai
incontrati, dico bene?».
«Può darsi, Pendragon. Voi eravate il piano A, al
quale è succeduto il piano B quando siete morto. Ma anche
questo è fallito miseramente, come avevo
predetto». Freya scosse mestamente il capo, concedendosi un
lieve sospiro che fece increspare l’acqua del lago.
«Merlino vi è sempre stato così
leale…».
Quelle parole non solo paralizzarono il re di Camelot, ma gli fecero
persino correre un brivido di freddo lungo la schiena. Tutto quello che
la custode di Avalon gli stava raccontando non lo stava portando ad
essere un fan sfegatato della magia.
«Quale era il piano B?», domandò a bassa
voce, come se volesse essere palesemente ignorato: una parte di lui
l’avrebbe davvero voluto – il dolore sarebbe stato
troppo – ma l’altra invece stava bruciando dalla
voglia di sapere fino a che punto si erano spinti.
«Che importanza ha ora?».
«È importante per me!»,
tuonò, lo sguardo fisso di fronte a sé e le mani
che avevano stretto nuovamente i bordi dell’instabile
barchetta.
Freya roteò gli occhi al cielo. «Suppongo che
Merlino vi abbia raccontato a grandi linee quello che è
successo immediatamente dopo la vostra morte».
Artù si limitò ad annuire, sentendo delle schegge
di legno penetrargli nei palmi delle mani, sempre più in
profondità.
«Vostra moglie, la regina, non avrebbe voluto rendere Merlino
solo consigliere di corte, ma addirittura re. Una mossa azzardata,
probabilmente le mura di Camelot sarebbero cadute ancora più
in fretta con due popolani come sovrani, ma almeno Merlino sarebbe
potuto venire allo scoperto, abolire la pena di morte per chiunque
praticasse la magia… sarebbe stato un inizio».
«Voi avete… avete usato la magia perché
Ginevra si innamorasse di Merlino?», ripeté a
denti stretti, furioso e con il cuore a pezzi – non tanto
perché Merlino avrebbe potuto sposare Ginevra, anzi se
avesse avuto più tempo prima di morire gli avrebbe detto lui
stesso di prendersi cura di lei, ma perché solo
l’idea che i pensieri e i sentimenti della sua Gwen fossero
stati controllati ancora una volta dalla magia lo
mandava in bestia.
«Non è stato difficile, dato che Ginevra ha sempre
provato qualcosa per lui, sin dalla prima volta in cui l’ha
visto affrontarvi a viso aperto e finire alla gogna. Ciò che
abbiamo fatto è stato risvegliare quei sentimenti assopiti e
convincerla che vedere Merlino sul trono sarebbe stato ciò
che avreste voluto voi».
Artù cadde in un silenzio tombale, immerso nei ricordi e
nella frustrazione, ma Freya non provò a confortarlo in
alcun modo: continuò imperterrita nel suo racconto, senza
curarsi del fatto che Artù non avrebbe fatto in tempo a
riprendersi da quel duro colpo che avrebbe dovuto subirne un altro
ancora più straziante.
«Merlino ha reso vano ogni nostro sforzo, rifiutando
l’offerta di Ginevra ed imputandola al dolore del momento. Ha
deciso però di starle ancora più vicino, pronto a
sostenerla e ad aiutarla nelle decisioni più difficili.
«Con la vostra morte credeva di non avere più un
destino da portare a compimento, ma che il suo destino, in poche parole
voi, sareste venuto da lui quando sarebbe stato il
momento. Non potevamo permetterlo, ma abbiamo atteso pazientemente e
quando l’opportunità è giunta non
abbiamo fatto altro che coglierla».
«La guerra. L’allenza degli altri regni contro
Camelot», fu la risposta automatica di Artù, il
quale si rese conto di aver parlato solo dopo una dozzina di secondi,
scosso dall’orribile immagine che gli aveva infilzato il
cervello non appena aveva realizzato che persino la morte di Ginevra e
dei cavalieri aveva avuto uno scopo preciso nel folle piano delle forze
superiori, chiunque esse fossero, che volevano che la magia tornasse a
regnare ovunque.
«Il nostro piano C», esclamò Freya quasi
con orgoglio. «Pensavamo che se Camelot fosse caduta e tutti
coloro che Merlino amava fossero morti lui si sarebbe dedicato
completamente alla causa, ma… ancora una volta abbiamo fatto
male i conti. Merlino ha perso tutto e non è riuscito a
salvare vostra moglie, ma invece di provare rancore e cercare vendetta,
occupandosi di tutti coloro che temevano e odiavano la magia,
l’ha rinnegata completamente, promettendo a se stesso che non
l’avrebbe utilizzata mai più. E ha mantenuto la
sua promessa, eccome se l’ha fatto. Abbiamo dovuto
improvvisare parecchio, a quel punto, e puntare un po’
più in basso».
Non ci fu nemmeno bisogno che Artù parlasse
perché Freya gli sciorinasse quello che, se non aveva perso
il conto delle lettere, doveva essere stato il piano D.
«Una volta lasciatosi le spalle Camelot, Merlino ha viaggiato
in lungo e in largo, senza fermarsi mai per più di un paio
di giorni nello stesso posto. Questo non ci ha facilitato le cose,
affatto. Ma per fortuna ad un certo punto, quando ha iniziato a sentire
la stanchezza, la mancanza di un luogo da poter chiamare
“casa”, Merlino ha dato il via a ciò che
ha fatto fino ad oggi: vivere sotto mentite spoglie, con una storia ed
un passato sempre diversi, fino ad inscenare la propria morte per
crearsi una nuova vita, con una nuova identità, altrove.
Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con
lui».
Artù alzò di scatto il capo, con impressa di
fronte agli occhi l’immagine di Alexandra. Era già
inorridito per ciò che stava per sentire, così
tanto che sperò con tutto il suo essere che quel piano non
avesse portato risultati e fosse stato abbandonato come tutti gli
altri, evitando così ad Alex di correre pericoli.
«Ci saremmo accontentati di maghi di serie B, eredi del
grande potere di Merlino ma estremamente più facili da
influenzare. Ne sarebbero serviti molti, e sparsi in ogni angolo del
mondo, ma in un modo o nell’altro saremmo riusciti a
diffondere la magia. Peccato che Merlino non abbia mai avuto figli in
più di millequattrocento anni, né relazioni
durature, eccetto quella del secolo scorso. Sì, ricordo che
quella Louise ci aveva fatto davvero ben sperare… Beh, ormai
non ha più importanza. Grazie alla previdenza di Kilgharrah
abbiamo sempre avuto un piano di emergenza, un asso nella manica:
voi».
Il re di Camelot posò finalmente gli occhi sulla figura
sotto la superficie del lago. «Me? Sul serio,
me?!», urlò, così sconvolto, incredulo,
arrabbiato e sofferente che avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa,
qualsiasi cosa, pur di buttare fuori tutto ciò che lo stava
uccidendo dall’interno.
«“Nel momento in cui Albione
avrà più bisogno, Artù
rinascerà”!», gridò
a sua volta la custode del lago, come se fosse la cosa più
ovvia del mondo. «Il destino di Merlino non girava intorno a
voi, è sempre stato il contrario! E ora abbiamo bisogno di
voi perché finalmente venga portato a termine!
«Il mondo ha bisogno della magia! Ora non
starebbe collassando se Merlino avesse pensato al bene comune! Cosa
credete che siano i terremoti, gli uragani, le eruzioni vulcaniche,
l’inquinamento, il buco dell’ozono? Sono tutti
sintomi! È la Terra che, prosciugata della magia che la
rendeva sana, forte, piena di energia positiva, sta annunciando la sua
lenta ed inesorabile morte».
Artù aveva aspettato pazientemente che Freya finisse di
sfogarsi e preoccuparsi per le sorti del pianeta, anche quando il suo
cellulare aveva iniziato a vibrargli insistentemente contro
l’addome: l’aveva tirato fuori dalla tasca della
felpa e aveva lasciato che il display su cui lampeggiava il nome di
Merlino gli illuminasse il viso, poi lo aveva rimesso al suo posto. Non
era proprio un bel momento.
«Finito? Bene, è il mio turno»,
esclamò, prendendo i remi e gettandoli in acqua.
«A voi esseri magici piace proprio essere criptici, non
è vero? Oltre che codardi, ovviamente. Credete di sapere
cosa sia meglio per tutti perché conoscete a memoria il
nostro destino, ma non avete il coraggio di informarci a riguardo,
preferendo manipolarci come se fossimo solo delle stupide pedine senza
coscienza dentro i vostri gloriosi quanto fallimentari piani. Beh, io
non sono affatto come voi, perciò Freya – o come
tu ti faccia chiamare ora – ti dirò una cosa: per
quanto mi riguarda potete andare tutti all’inferno. Che la
Terra si trasformi pure in un inferno: non mi interessa, io
sono già morto!».
Aveva appena iniziato a remare con la forza del rancore verso la riva,
quando una corrente innaturale gli oppose resistenza, bloccandogli i
remi in una posizione alquanto scomoda.
Sbuffò rumorosamente, come un toro infuriato.
«Vuoi incatenarmi di nuovo nelle profondità di
questo lago? Fantastico. Ma non osare tirarmi fuori di nuovo: non ti
aiuterò ora, non ti aiuterò in futuro».
«Davvero lascereste questo mondo bruciare a causa
del vostro orgoglio ferito?», gli chiese la dama di
Avalon, facendo ribollire l’acqua intorno alla barca. La sua
immagine era sparita e la sua voce gli rimbombava nella testa, tanto
forte da fargli portare istintivamente le mani sulle orecchie.
«Non stiamo parlando del mio orgoglio qui!»,
urlò Artù in risposta, cercando disperatamente di
tirare fuori dall’acqua i remi. «Avete distrutto la
nostra casa e avete condannato a morte tutte le persone che
amavamo!». Gli ritornarono alla mente le parole che lo
stregone gli aveva detto giusto quella sera a proposito
dell’enorme errore che sarebbe stato riportare la magia a
Camelot, e lottando contro il feroce mal di testa che Freya gli stava
provocando disse: «So per certo che anche Merlino non
vorrà avere nulla a che fare con voi. E ne sarà
ancora più convinto quando gli racconterò tutta
la verità».
«Ne siete proprio sicuro, Pendragon? Merlino ha
degli amici qui, persone che non vorrebbe vedere bruciare tra le fiamme
dell’inferno. E poi c’è la ragazza».
Abbandonò ogni tentativo di raggiungere la riva, paralizzato
dal timore che si riferisse proprio ad Alex. In quel preciso istante,
per la prima volta, capì veramente quanto
si era affezionato a quella ragazza impertinente e dalla testa
più dura della sua. Nonostante tutte le incomprensioni,
nonostante a volte lo facesse davvero uscire fuori dai
gangheri… non avrebbe permesso a niente e a nessuno di farle
del male.
«Quale ragazza?», chiese, deglutendo faticosamente
il groppo che gli aveva ostruito all’improvviso le vie
respiratorie.
«Sapete benissimo a chi mi riferisco. Alexandra
Greenwood, la ragazza che si è gettata tra le mie acque
quando siete ritornato nel mondo dei vivi. Non è stato un
caso che vi abbia trovato lei, sapete? E non è nemmeno un
caso che voi vi sentiate così legato a lei,
così… protettivo nei suoi confronti».
«Smettila, fai silenzio!».
Ad Artù sembrò di sentirla ridacchiare, una
risata sardonica o forse proprio maligna. «Lei
è la vostra ultima erede, l’unica al mondo con
ancora una piccolissima traccia di sangue Pendragon nelle vene».
«Erede?», balbettò, scioccato.
«Io non… Non è possibile, io e
Ginevra…».
«Capisco… Merlino non vi ha detto nemmeno
questo. Avrei dovuto immaginarlo. Che sbadata che sono. Temo proprio
che a questo punto vorrete un po’ di tempo per riflettere.
Tornate non appena avrete deciso che cosa fare».
Freya se ne andò col solito ribollio e Artù
sentì la barca scricchiolare come se fosse sul punto di
affondare, ma fu solo un momento.
Venne ben presto avvolto da un silenzio totale, rotto soltanto da il
bubulare di un gufo, da una ranocchia intenta a gracidare, dalle fronde
degli alberi agitate dal vento freddo della notte e da un lieve
singhiozzare. Solo quando si portò una mano sul viso si rese
conto di essere lui l’autore di quell’ultimo suono.
Solo, nel bel mezzo di Avalon, si rannicchiò sotto quella
luna tanto grande e luminosa da sembrare finta e pianse senza la paura
di doversi vergognare un giorno delle proprie lacrime.
***
Merlino
sentiva ancora in bocca l’odore di fumo quando si era fatto
offrire una tazza di caffè da un infermiere che aveva
incontrato nella stanza relax. Non ché gli desse fastidio,
ma gli sembrava ipocrita parlare a dei bambini malati di tumore con
l’alito che puzzava di un qualcosa che era guarda caso una
causa di tumore.
Con la sua tazza di ceramica gialla tra le mani attraversò
il corridoio per raggiungere la stanza di Abigail, trovandosi costretto
a passare di fronte a quella in cui avevano sistemato provvisoriamente
Steve, da solo, in modo che potesse riposare tranquillamente.
Si fermò di fronte alla finestra attraverso la quale vide
sua madre, una giovane donna con i capelli biondi seduta al suo
capezzale e con le mani strette intorno alla sua piccola e pallida, e
suo padre, anche lui giovane, con i capelli scuri e gli stessi occhi di
Steve, in piedi dietro di lei, che le massaggiava le spalle per
infonderle coraggio nonostante anche lui stesse trattenendo a stento le
lacrime.
Steve era stato stabilizzato e parte del liquido che gli si era
riversato nei polmoni aspirato, ma era solo una questione di tempo
ormai: il loro piccolo Capitan America – come lo chiamava
spesso e volentieri Alex – se ne sarebbe andato, lasciando un
vuoto incolmabile e un dolore non quantificabile in ognuno di loro.
Merlino venne ancora una volta investito dalle parole di Alex, parole
dette per una semplice associazione ma per lui pungenti come poche: «A
meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una
formula magica, non voglio proprio niente da te».
La verità era che lui avrebbe potuto guarirlo, se solo lo
avesse voluto. E lo voleva, lo voleva più di ogni altra cosa
al mondo, ma la paura era troppa. Nulla gli permetteva anche solo di
sperare che quella volta la magia sarebbe stata dalla sua parte e
l’ultima cosa che desiderava era far gridare al miracolo e
dare un’illusione ai medici, alle infermiere, agli altri
bambini, a se stesso, per poi scoprire che la guarigione era solo
temporanea. Inoltre c’era un altro aspetto di cui tenere
conto: la resistenza. Cosa sarebbe successo nel caso in cui non fosse
riuscito a tenere a freno la magia, a controllarla una volta liberata
dalla sua prigione? Non gli importava molto della propria vita, ma
quelle di tutte le persone intorno a lui sì, eccome, e non
voleva che nessuno si facesse del male per colpa del suo dono
trasformatosi in maledizione.
Si guardò per un attimo le mani, cercando di venirne a capo,
invano. Sospirò, ricordando com’era semplice
quando bastava entrare nello studio di Gaius per ricevere un consiglio
saggio che quasi sicuramente avrebbe ignorato. Ora c’era
un’unica persona a cui avrebbe potuto porre i propri dubbi e
per quanto gli sembrasse strano, quasi paradossale, sentiva che doveva
almeno tentare.
Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e raggiunse
una delle varie uscite di sicurezza per chiamare Artù.
L’apparecchio suonò a vuoto per una dozzina di
secondi, dopodiché Merlino ci rinunciò,
sospirando con due dita sulle palpebre pesanti.
Ripassò di fronte alla camera di Steve ma quella volta
tirò dritto, gli occhi fissi sulle sue scarpe da ginnastica.
Bussò lievemente contro il legno della porta e quando
ottenne il permesso di entrare si sforzò di sorridere ad
Abigail, seduta sul suo letto, sotto le coperte e con un libro aperto
sulle gambe, e a Mark, al suo fianco sulla propria sedia a rotelle, il
viso cupo e gli occhi intrisi di rabbia.
«Ah, eccoti qui. Pensavo fossi sparito di nuovo»,
esclamò il ragazzino subito sulla difensiva, incrociando le
braccia al petto ed evitando lo sguardo di rimprovero di Abigail, la
quale invece sorrise dolcemente a Merlino, stendendo le braccia verso
di lui.
Il mago si avvicinò e ricambiò
l’abbraccio, posandole anche un bacio sui capelli corti.
«Sono così felice di vederti», gli
sussurrò all’orecchio poco prima di sciogliere la
stretta. «Come stai?».
«Non c’è male», rispose
avvicinando al letto una sedia, su cui si sedette con un sospiro
stanco. «Voi? Mi sono perso qualcosa di
interessante?».
«A parte Alex che legge in modo pessimo le tue
storie e Steve che combatte per la vita dici? No, proprio
niente».
«Mark…», lo riprese ancora Abigail, ma
il ragazzino le rivolse uno sguardo truce prima di aggiungere:
«C’era bisogno che uno di noi rischiasse la pelle
per farti tornare?».
«Adesso basta, Mark!», urlò Abigail,
facendo sobbalzare sia il coetaneo che lo stesso Merlino. Nessuno dei
due l’aveva mai vista esternare i suoi sentimenti in quel
modo: era furiosa, i suoi occhi scuri erano pozzi d’oblio e
la mascella contratta le dava l’aspetto di una leonessa
pronta a tutto per i propri cuccioli.
«Siamo tutti preoccupati per Steve, ma non devi prendertela
con Merlino», spiegò pacatamente quando riprese il
controllo.
Mark la fissò per quella che sembrò
un’eternità, per nulla incurante delle lacrime che
gli avevano inumidito gli occhi. Quindi con rabbia girò la
propria sedia a rotelle ed uscì dalla camera sbattendosi la
porta alle spalle.
Abigail sospirò chiudendo gli occhi, poi accennò
un sorriso nella direzione di Merlino: «Alex non è
brava quanto te a leggere le storie, questo è
vero».
Merlino si lasciò andare ad un mezzo sorriso e si
scompigliò i capelli, abbandonandosi contro lo schienale
della sedia.
«Mark ha ragione ad essere arrabbiato. Non mi aspettavo una
reazione differente».
«Secondo me non hai fatto nulla di sbagliato»,
esclamò Abigail. «Hai una vita, al contrario di
noi qui dentro, ed è giusto che tu la viva».
Merlino la guardò quasi con vergogna, pensando che lui aveva
vissuto ben più di una vita ed era stanco, davvero stanco
ormai, e che avrebbe dato qualsiasi cosa per poter dare un
po’ di tutti gli anni che gli rimanevano ad ognuno dei
bambini ricoverati.
«Avrei dovuto almeno avvisarvi», disse schiarendosi
la gola.
La ragazzina scrollò le spalle, per poi sorridere
più ampiamente: «Parlami di questo tuo amico
così importante. È carino?».
Merlino ridacchiò e le strofinò affettuosamente
una mano tra i capelli. «Giudicherai da te quando ve lo
farò conoscere».
«Davvero ce lo farai conoscere? È una
promessa?».
Dal suo punto di vista era sempre stato pessimo nel mantenere le
promesse, ma per quella volta decise che non avrebbe deluso nessuno,
qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare. «È una
promessa».
Abigail annuì con un cenno del capo ed abbassò
gli occhi sul libro che stava leggendo prima che Mark si fiondasse come
un razzo nella sua camera. Aveva cercato di rassicurarlo, gli aveva
detto di tutto, ma sapeva di avergli mentito sin dall’inizio.
«A che cosa stai pensando?», le chiese Merlino,
distraendola.
La ragazzina scosse tristemente il capo. «Steve non ce la
farà, vero?».
Il moro aveva appena aperto la bocca per risponderle e darle altre
false speranze, ma gli occhi di Abigail fissarono i suoi con
un’intensità tale da ammutolirlo.
«Non ho bisogno delle bugie, Merlino. Quanto tempo gli
resta?».
«A quanto pare…», si schiarì
la gola per alleviare il magone che l’aveva
all’improvviso bloccata. «A quanto pare
sarà già tanto se supererà la
notte».
Abigail si strinse forte le braccia intorno al corpo ed
abbassò il viso, col mento contro lo sterno, per non
mostrargli le lacrime che avevano iniziato a scorrerle sulle guance.
«Non è giusto, lui è…
è solo un bambino».
Merlino serrò le labbra e si alzò per sedersi
accanto a lei sul letto; le avvolse le braccia intorno al corpo e la
invitò a trovare conforto contro il proprio.
«Che cosa credi che avrebbe fatto il Merlino delle mie
storie?», le domandò ad un tratto, a bassa voce.
«Se avesse avuto la possibilità anche solo di
dargli un altro po’ di tempo… credi che avrebbe
usato la magia?».
La ragazzina sollevò il capo per guardarlo negli occhi e
dopo un istante di profondissimo silenzio, durante il quale Merlino si
sentì completamente messo a nudo, Abigail rispose:
«Il tempo qui è ciò che più
di prezioso abbiamo, perciò… sì, senza
pensarci su due volte».
Detto questo tornò a rannicchiarsi contro di lui, col viso
nell’incavo della sua spalla, e Merlino prese finalmente la
sua decisione.
***
Alexandra,
esortata dalla capo-infermiera, aveva fatto il giro di tutte le camere
per mettere a letto i bambini e rassicurarli sulle condizioni al
momento stabili di Steve, omettendo semplicemente che quella volta una
bella nottata di sonno non l’avrebbe fatto stare meglio. Il
solo pensiero le spezzava il cuore e più di una volta aveva
dovuto tirare fuori lo stoicismo di sua madre per trattenere le lacrime
mentre rimboccava le coperte, augurava la buonanotte e spegneva le luci.
Quando era arrivato il turno di Abigail, forse l’unica a cui
non avrebbe dovuto dire di fare silenzio e provare a dormire, il nodo
che aveva in gola si era stretto un po’ di più:
Merlino era seduto al suo fianco e la stringeva delicatamente tra le
braccia, accarezzandole di tanto in tanto i capelli con le labbra,
dicendole quelle che Alex presuppose fossero parole di conforto.
In quel momento non poté fare a meno di pensare che avrebbe
voluto essere al posto di Abigail e questo la fece sorridere, prima di
proseguire verso la stanza di Mark e Danilo.
Già da fuori capì che c’era qualcosa di
insolito: la stanza era buia e silenziosa in modo preoccupante, visto
che da quando Mark era stato ricoverato non era mai successo che fosse
andato a dormire prima delle dieci.
Aprì la porta facendo più piano possibile e nella
semioscurità scorse Danilo già addormentato,
sfinito dal ciclo di chemio, e il letto vuoto, nemmeno sfatto, di Mark.
«Dannazione», disse tra i denti, sopprimendo la
tentazione di prendere a pugni la porta.
Respirò profondamente per calmarsi ed iniziò a
pensare a dove potesse essere andato. Solitamente il binomio Abby-Mark
era una sicurezza: trovavi uno e trovavi l’altro; raramente
si imbarcavano in fughe e simili senza il sostegno reciproco,
perciò le risultava chiaro come il sole che il suo intento
era stato sin dall’inizio quello di isolarsi da tutto e da
tutti.
All’improvviso capì che forse si era posta la
domanda sbagliata. Pensò a come si sentiva lei
in quel momento, a ciò che provava a causa delle condizioni
di Steve, e si domandò dove sarebbe andata per trovare un
po’ di solitudine. Le venne in mente un solo posto.
Si
avvicinò all’entrata sul retro e
sospirò vedendo una transenna con tanto di cartello
“Vietato l’accesso ai non addetti ai
lavori”, spostata quel tanto che bastava ad un ragazzino
– ma anche ad una ragazza magra e atletica come lei
– per sgusciare all’interno del cantiere.
Lì accanto, abbandonata, la carrozzina di Mark. Lui, invece,
proseguendo sulle sue gambe, era entrato nell’ampio spazio
semicircolare e si era seduto a bordo piscina con le gambe penzoloni e
i pantaloni della tuta tirati su fino al ginocchio come se ci fosse
stata davvero dell’acqua nella vasca dalle mattonelle
azzurre. Aveva il viso rivolto verso l’alto, dove la cupola
di vetro faceva intravedere le rotondità della luna in cielo.
«È un peccato che non abbiano mai finito i lavori
di ristrutturazione, eh?», esclamò Alex, facendolo
sobbalzare leggermente.
«Come hai fatto a trovarmi?», le chiese stizzito,
stringendo i pugni sulle ginocchia.
«Sono intelligente, che domande».
Si sedette al suo fianco e sospirò, appoggiandosi contro una
gamba piegata e guardando il suo profilo. «Non dovresti
essere qui, Mark. Ci sono calcinacci e impalcature ovunque,
è pericoloso».
Mark scrollò le spalle, incurante. «Morire qui,
morire a causa di un tumore… non c’è
differenza».
Alex sollevò una mano per accarezzargli i capelli ricci, ma
non riuscì nemmeno a sfiorarlo. Il ragazzino le rivolse
un’occhiata torva, gli occhi di solito pieni di vita
arrossati a causa delle lacrime ed intrisi di un dolore talmente grande
da trasformarsi in rabbia cocente.
«Senti, se sei venuta qui per portarmi di nuovo là
dentro va bene, andiamo, ma risparmiati le belle parole: fanno
schifo».
«Sì, hai ragione, fanno schifo».
L’infermiera annuì con un cenno del capo e si
alzò. «Steve probabilmente non supererà
la notte, la sua famiglia e tutti i suoi amici piangeranno fino a non
avere più lacrime, il cancro non è ancora
curabile come vorremmo e causerà dolore ad ancora molte
persone, ma non azzardarti – non azzardarti mai
più a dire che un modo di morire vale
l’altro».
Mark sollevò il viso, sul quale era scivolata una lacrima
solitaria, ma Alex non riuscì ad intenerirsi e ancora
più infervorata aggiunse: «Steve ha sempre
lottato, sta lottando anche in questo momento, mentre tu te ne stai sul
bordo di una piscina vuota e dici stronzate, dimostrando che ti sei
già arreso. Sono molto delusa, Mark, e se Steve ti vedesse
in questo momento sono certa che lo sarebbe anche lui».
Il ragazzino scoppiò a singhiozzare e si aggrappò
alla gamba di Alex, nascondendo il volto nei suoi ruvidi pantaloni
azzurri.
Era stata dura, forse più di quanto intendeva esserlo, ma
sperava che in quel modo Mark riuscisse a capire il valore della vita,
non solo di quella degli altri ma anche della propria.
«Mi dispiace», farfugliò, tirando su col
naso.
L’infermiera gli posò le mani sulle spalle per
invitarlo a lasciarle andare la gamba, dopodiché si
inginocchiò di fronte a lui. Gli accarezzò le
guance arrossate a causa delle lacrime versate e scosse lievemente il
capo: avrebbe voluto dirgli che non doveva chiedere scusa a lei, ma a
se stesso, per non essersi dato nemmeno una chance, ma Mark le
gettò le braccia intorno al collo e la strinse tanto forte
da toglierle per un attimo il respiro.
«Ho paura, Alex. Ho tanta paura»,
mormorò, tremando come una foglia.
Alex gli passò le dita tra i capelli, massaggiandogli la
schiena ancora squassata dai singhiozzi, e disse la verità:
«Anche io».
***
Fermo
sulla porta, rimase completamente di stucco quando la madre di Steve si
ricompose, asciugandosi le lacrime, per sorridergli e salutarlo.
«Merlino, giusto? Il ragazzo delle favole».
Si erano incontrati solo una volta, eppure quella donna tanto
addolorata e tanto forte si ricordava di lui.
«In persona», mormorò, porgendole la
mano. Anche il padre di Steve gliela strinse, per poi tornare subito
dopo a massaggiare teneramente le spalle delle moglie.
«Quello che fai per loro è…
è bellissimo. Un semplice grazie non può
bastare», aggiunse lei, tirando su col naso.
Merlino si strinse nelle spalle, con le mani nelle tasche dei jeans.
«Basta e avanza, mi creda».
Si avvicinò ai piedi del letto di Steve, collegato ad una
macchina per l’ossigeno e con una mezza dozzina di altri fili
che dal petto gli uscivano dalla camicia da notte
dell’ospedale; cercò di guardarlo senza mostrarsi
in pena per lui, ma la sofferenza era davvero troppa e non
c’era spazio per le finzioni.
«Ci sono novità?», domandò
quindi, schiarendosi la gola.
«Stavamo per andare a cercare qualcuno»,
spiegò l’uomo, scostando una ciocca di capelli
biondi dal viso pallido e stanco del figlioletto. «Le
dispiace…? Ci vorrà solo un attimo».
Merlino annuì sicuro e si spostò di lato per
lasciarli passare, ma la madre di Steve si abbandonò contro
di lui per un abbraccio della durata di un secondo e mezzo circa, ma
intenso come pochi.
«Grazie», gli sussurrò giusto prima di
socchiudersi la porta alle spalle e Merlino annuì di nuovo,
convincendosi ancora di più di star facendo la cosa giusta.
Non poteva tenersi in disparte, lasciarlo semplicemente andare: doveva
almeno provare a dargli un altro po’ di tempo.
Lui di sicuro ne aveva pochissimo prima che i suoi genitori tornassero,
perciò si sedette sulla sedia fino a poco tempo prima
occupata da sua madre e tenendo una mano sulla fronte di Steve lo
chiamò dolcemente: «Ehi piccolo, riesci a
sentirmi?».
Era imbottito di antidolorifici e ancora esausto a causa
dell’operazione appena subita, ma incredibilmente Steve
riuscì ad aprire gli occhi e gli regalò persino
un minuscolo sorriso, stirando appena le labbra bluastre e screpolate.
Le aprì per parlare ma dalla sua gola uscì a
malapena un rantolo soffocato che gli fece accartocciare il viso in una
smorfia.
«Shhh, non ti sforzare», sussurrò
Merlino con gli occhi colmi di lacrime. «Sono felicissimo
anche io di vederti».
Steve lo ignorò e provò a parlare nuovamente,
questa volta riscuotendo più successo. «Stanno
venendo a prendermi, li sento».
Merlino sgranò gli occhi, terrorizzato. «Chi? Chi
ti sta venendo a prendere? Steve?».
«I Dorocha», soffiò, richiudendo gli
occhi. «Ho tanto freddo…».
«No… No, Steve, i Dorocha non ti
prenderanno».
«Ma la tua magia non funziona con
loro…».
Il bambino stava delirando, a causa delle droghe oppure del poco tempo
che gli rimaneva, e Merlino si odiò per aver raccontato a
lui e agli altri bambini storie che, nonostante gli abbellimenti, erano
ancora in grado di far venire gli incubi, a lui per primo.
Non badò alla lacrima che gli rotolò lungo la
guancia, troppo occupato ad assicurarsi che non ci fosse nessuno nei
paraggi e a concentrarsi per raccogliere la magia necessaria a dargli
un po’ di sollievo.
«Facciamo un tentativo, okay? Sarà il nostro
segreto», sussurrò e con infinita delicatezza gli
posò entrambe le mani sul petto. «E se non
funziona mi metterò tra te e i Dorocha. Non ti faranno alcun
male, te lo giuro».
Steve riaprì gli occhi velati di stanchezza ed
incurvò appena le labbra. «Come ha fatto
Artù per te?».
«Esattamente», rispose annuendo e sorridendogli
incoraggiante.
Si guardò un’ultima volta alle spalle e poi
respirò profondamente, gli occhi chiusi per trovare tutta la
concentrazione possibile. Quando li riaprì, un brivido gli
corse lungo la spina dorsale trovandosi di fronte ad un paio di iridi
color dell’oro, riflesse sullo schermo stranamente spento di
uno dei macchinari a cui Steve era attaccato.
Giusto prima di realizzare che se non fosse andato via subito sarebbe
svenuto lì, dove i genitori di Steve lo avrebbero trovato,
notò che tutti gli schermi intorno a lui
erano diventati neri. Con le poche forze che gli rimanevano
tirò la cordicella d’emergenza e si
affrettò ad uscire dalla stanza, aggrappandosi a qualsiasi
cosa per aiutarsi a reggersi in piedi.
Era già fuori, diretto verso una delle uscite
d’emergenza, quando i macchinari si riaccesero tutti insieme,
mostrando segni vitali nuovamente stabili, addirittura quasi nella
norma.
***
La
sua amicizia con Merlino, tutto ciò che avevano vissuto
insieme… Possibile che fosse stato orchestrato tutto quanto
dalle forze magiche? C’era mai stato di qualcosa di vero,
qualcosa di non già scritto, negli anni trascorsi come
compagni di battaglia, di sofferenza, di gioia… di vita?
Merlino era stata l’unica persona in cui aveva sempre riposto
tutta la sua fiducia, l’unico che credeva non
l’avrebbe mai tradito, eppure già una volta
l’aveva deluso, tenendogli segreti i suoi poteri. Non poteva
davvero credere che l’avesse fatto nuovamente, dimenticandosi
di raccontargli una cosa così importante: la nascita di un
Pendragon, suo figlio.
Di nuovo in sella, diretto verso casa, continuava a pensare a tutto
ciò che Freya gli aveva detto, strofinandosi il viso
inumidito dalle lacrime con la manica della felpa.
Venne distratto da un suono breve ed acuto e da alcuni flash di luce
blu alle sue spalle. Si voltò con il capo e vide la donna
alla guida fargli cenno di fermarsi. Artù
acconsentì, più per curiosità che per
senso del dovere – dopotutto non aveva idea di che tipo di
istituzione avesse di fronte – e vide la donna parcheggiare
l’auto sul ciglio della strada e scendere, zoppicando
leggermente, lasciando i lampeggianti blu accesi sopra il tettuccio.
Era davvero una bella donna, con la pelle ambrata, i capelli neri
raccolti sotto uno strano cappello rigido, arrotondato e con uno stemma
argentato sopra la visiera, e due splendidi occhi grigio-verdi.
Probabilmente aveva anche delle forme perfette, ma il suo abbigliamento
più che insolito non le metteva di certo in risalto:
indossava una camicia bianca con al collo una cravatta a quadretti
bianchi e neri, dei pantaloni larghi e pieni di tasche e una felpa nera
sopra la quale portava una giacchetta color giallo brillante con delle
strisce argentate in grado di brillare in modo impressionante se
colpite dalla luce dei fanali dell’auto.
«Spero abbia un’autorizzazione valida per
quella», esclamò indicando la balestra che portava
sulla schiena. «Anche se non riesco proprio ad immaginare
come potrebbe usarla, visto che questa non è zona di
caccia».
Artù corrugò la fronte e si tolse la balestra
dalla schiena. «Questa, dite?», chiese,
portandosela contro la spalla per esaminarne il teniere.
La donna però non vide di buon occhio quel gesto ed estrasse
rapidamente la pistola dalla fondina, puntandogliela contro.
«La metta giù. Lentamente».
Il re di Camelot la guardò a bocca aperta, incredulo.
«Quella è una… una pistola?».
«Certo, che cos’altro potrebbe essere?»,
gli chiese innervosita, impugnandola saldamente con entrambe le mani.
«Beh, sa, è la prima volta che ne vedo una dal
vivo. Voi siete una di quelle attrici…», sorrise
malizioso, inarcando le sopracciglia. «Mi ha capito,
no?».
Lei lo fissò allibita. «Farò finta di
no, sul serio. Ora abbassi la balestra, per favore».
«Sì, certo. Perdonatemi, non volevo puntarvela
contro. Non è mia abitudine minacciare una donna indifesa,
ovviamente».
«Ovviamente. E chi minaccia
solitamente?», gli chiese ancora, allungando una mano dietro
la schiena per estrarre un paio di manette.
«Nessuno, assolutamente nessuno», rispose
d’istinto Artù, mostrandosi ancora più
sospetto di quanto non sembrasse già. «A che cosa
vi servono quelle?».
«Una piccola precauzione mentre la porto in
Centrale».
«Oh, sono lusingato, davvero, quello è uno dei
miei video preferiti, ma… non posso, davvero non
posso», rispose, avvampando ed iniziando a farsi prendere dal
panico.
Non sapeva come comportarsi, né perché quella
donna fosse così spaventata dalla balestra che teneva ancora
tra le mani, ma una cosa la sapeva per certo: se Merlino fosse tornato
a casa e non l’avesse trovato gli avrebbe fatto un milione e
mezzo di domande, fino a quando non avrebbe ceduto, e Artù
non aveva alcuna intenzione di cedere, non al momento almeno. Aveva
bisogno di tempo per pensare, per capire perché il suo unico
amico si fosse comportato in quel modo e, soprattutto, per scoprire se
Alex fosse davvero una sua lontana, ormai unica, discendente.
«Glielo ripeto un’ultima volta: metta
giù l’arma!», gridò la donna,
tornando a puntargli contro la propria.
«Mi dispiace, devo proprio andare!», rispose
frettolosamente Artù, dandole le spalle per saltare in sella
al suo destriero a pedali. Non l’aveva ancora sollevato da
terra quando un forte colpo alla nuca lo fece cadere svenuto
sull’erba umida.
***
Alex
spinse la sedia a rotelle di Mark fuori dall’ascensore ed
entrambi strabuzzarono gli occhi quando videro un capannello di gente
di fronte alla stanza in cui era stato sistemato il lettino di Steve.
Un’infermiera del pronto soccorso che conosceva solo di vista
le passò accanto di corsa e Alex non poté
trattenersi dall’esclamare, sconvolta: «Ma che
diavolo sta succedendo?».
«Un miracolo, per quanto ne so».
Alex sobbalzò sentendo quella risposta e voltandosi di
centottanta gradi vide Cathleen appoggiata allo stipite di metallo
dell’ascensore con una spalla, una mela verde morsicata in
mano e gli occhi che le stavano facendo un esame più
dettagliato di quello che avrebbe fatto una TAC. Quando finalmente
raggiunsero la giusta altezza, incrociando quelli di
un’imbarazzata quanto confusa Alex, le rivolse un sorriso
ammiccante che non fece altro che peggiorare la situazione, addentando
sonoramente la propria mela.
«Andate in un motel, vi prego», borbottò
Mark, abbastanza ad alta voce perché le due lo sentissero e
reagissero in due modi completamente differenti, opposti: Cathleen
ridacchiò, rivolgendogli uno sguardo eloquente, mentre Alex
gli diede uno scappellotto, cercando parole di rimprovero che per un
motivo o per un altro non le vennero mai in mente.
«Potresti spiegarti meglio?», le chiese anche con
un pizzico di arroganza quando finalmente riuscì a
riprendere il controllo di sé.
«Sembra che Steve non sia più in pericolo di vita,
almeno per il momento. I suoi parametri vitali sono migliorati
così, all’improvviso. Credo che, da quando
è qui, non sia mai stato così bene».
Alex non credeva nei miracoli, non ci aveva mai creduto,
perciò come Tommaso l’apostolo lasciò
Mark accanto a Cathleen e si fece largo tra la piccola folla che si era
creata per vedere con i propri occhi ciò che reputava fisicamente
impossibile.
Appiccicata al vetro da cui si poteva vedere l’interno della
stanza, sentì il cuore saltarle un battito di fronte
all’immagine di un sorridente anche se assonnato Steve, con
le guance e le labbra di nuovo colorite e gli occhi brillanti, che si
lasciava accarezzare i capelli dalla sua mamma e dal suo
papà, con le lacrime di felicità agli occhi,
mentre la dottoressa gli prelevava di persona un campione di sangue da
sottoporre alle analisi. Mettendo da parte tutta la gioia portata da
questo miglioramento, c’era un gran bisogno di risposte
scientifiche.
Alex si allontanò non appena capì di aver visto
abbastanza e con gli occhi sbarrati fissi sul pavimento
tornò verso Mark e Cathleen, ancora fermi dove li aveva
lasciati.
«Allora?», le chiese il paramedico, rivolgendole un
sorriso obliquo.
«Beh…», mormorò, senza alzare
lo sguardo. «Steve sta… sta meglio,
credo».
«Credi?», domandò
Mark, inarcando le sopracciglia. «E vieni pure pagata per
questo?».
«Quello che sta cercando di dire Alexandra è che
ci vorrà del tempo per capire come sia potuto
succedere», intervenne Cathleen, guardandolo severamente. Si
chinò di fronte al suo viso, tanto vicino da farlo addossare
contro lo schienale, e aggiunse: «Se ti sento ancora mancare
di rispetto a lei o a qualcun altro te la vedrai con me. Mi hai capito,
moccioso?».
Mark assunse la sua aria da ragazzino ribelle, trucidandola col
pensiero, ma annuì. Il paramedico sorrise mostrando la sua
perfetta dentatura e dopo essersi sollevata posò una mano
sulla spalla di Alex, facendo del proprio meglio per confortarla.
L’infermiera però non la calcolò
nemmeno e si scostò per tornare ad impugnare i manici della
sedia a rotelle di Mark.
«È tardissimo, ti riporto in camera»,
disse atona, per poi aggiungere: «Sei fortunato che tutti
siano concentrati su Steve».
Cathleen le guardò la schiena mentre andava via proprio come
se non esistesse e ad un tratto sollevò una mano in segno di
saluto, dicendo tra sé e sé: «Anche per
me è stato un piacere rivederti, buonanotte».
Alex aveva controllato nuovamente che tutti i bambini, Mark e Abigail
compresi, si fossero addormentati prima di rendersi conto che il suo
turno era finito ormai da un quarto d’ora.
Era stata una serata piena, di quelle sfibranti per il carico di
emozioni, e aveva come la sensazione – un vero e proprio
brutto presentimento in realtà – che non fosse
ancora finita.
In ogni caso non sarebbe andata via senza aver parlato prima con la
dottoressa di Steve: doveva capire che cosa era accaduto e come,
soprattutto, nel breve lasso di tempo che aveva trascorso nella piscina
in via d’abbandono con Mark.
Si era preparata un altro caffè, dato che non aveva avuto il
tempo di finirlo quando era arrivato Merlino, e poi aveva passeggiato
avanti e indietro davanti al bancone dell’accoglienza,
nervosa come il parente di uno dei pazienti del pronto soccorso.
A dimostrazione di tutta la spossatezza che le pesava sulle spalle le
era passata per la testa l’idea di scendere proprio al pronto
soccorso con l’intenzione di trovare Keith e sfogarsi con lui
– o almeno di chiedergli se conoscesse Cathleen –
ma la sua coscienza, forse nell’ultimo sprazzo di
lucidità, le aveva impedito di commettere
quell’errore madornale.
Quindi aveva aspettato pazientemente che la sua collega del turno di
notte le comunicasse che poteva trovare la dottoressa in una certa
camera o in uno dei vari laboratori al terzo piano. Aveva aspettato e
aspettato, desiderando ardentemente un intero pacchetto di sigarette,
fino a quando non aveva visto la madre di Steve uscire dalla sua stanza
per dirigersi verso la macchinetta. Fu in quel momento che decise di
tentare il tutto per tutto.
Senza attirare troppa attenzione si allontanò dal bancone e
si incamminò verso la macchinetta, quindi fece finta di
averla vista solo in quel momento e a bassa voce, con tutto il tatto di
cui era capace, disse: «Paige, ciao. Ti ricordi di
me?».
La donna, col viso struccato e sfatto più del suo, la
guardò e dopo un attimo di esitazione accennò un
sorriso. «Certo, tu sei Alexandra. Steve mi parla in
continuazione di te, dice che sei la sua infermiera
preferita».
Quelle parole le scaldarono improvvisamente il cuore, facendola sentire
profondamente in colpa per il subdolo motivo per cui l’aveva
avvicinata: cercare di carpire da lei qualsiasi informazione avrebbe
potuto aiutarla a circoscrivere quell’incredibile
miglioramento, quel… miracolo.
«Oh, il mio piccolo Cap», sussurrò
sentendo le lacrime riempirle gli occhi. «Sono
così felice che stia meglio, davvero, ma continuo a
chiedermi…».
«Come sia potuto accadere?», le rubò le
parole di bocca Paige, sorridendo mestamente. «Me lo chiedo
anche io. La dottoressa ci aveva già detto che la sua
situazione era critica e che non avrebbe fatto altro che peggiorare,
perciò… mi pongo anche io la stessa identica
domanda».
Si voltò per prendere il bicchiere di caffè che
intanto la macchinetta aveva preparato e si sedette su una delle
poltroncine a muro lì accanto.
«Tu sei credente, Alexandra?», le chiese,
mescolando ad occhi bassi il contenuto del bicchierino.
«Se credo in Dio, intendi? No, direi di no».
«Nemmeno io. Fino ad un’ora fa».
Alzò finalmente il capo e ridacchiò amaramente.
«Lo so, è il peggio dell’ipocrisia,
ma… che altro può essere? In cinque minuti
– il tempo di andare a chiedere della dottoressa –
mio figlio ha vinto la sua battaglia quotidiana contro la morte
nonostante non avesse alcuna speranza di farcela. L’unico che
potrebbe saperne qualcosa è Merlino, ma nessuno
l’ha più visto».
Venire a sapere che Merlino era coinvolto, e in modo così
improvviso, fu come ricevere una botta in testa.
Alex sbatté più volte le palpebre, scioccata.
«Hai davvero detto… Merlino? Lui che
c’entra?».
«Beh, non volevamo che Steve restasse da solo, quindi abbiamo
chiesto a Merlino se poteva… Alexandra? Alexandra,
c’è qualcosa che non va?».
L’infermiera abbassò gli occhi in quelli di Paige,
rendendosi conto della sua espressione preoccupata. Si passò
entrambe le mani tremanti tra i capelli per appiattirli ai lati della
testa e cacciarli dietro le spalle, un gesto che faceva sempre quando i
livelli di tensione raggiungevano picchi estremi: toccarsi i capelli, o
ancora meglio avere qualcuno che li toccasse per lei, era un ottimo
metodo per tranquillizzarla.
«No, è tutto okay», mentì,
sentendo del sudore freddo sulla schiena. «Scusami,
è che sono davvero stanca e mi sono distratta.
Dicevi?».
La madre di Steve non sembrava molto convinta, ma probabilmente anche
lei era troppo stanca per distinguere le bugie dalla verità,
perciò riprese da dove si era interrotta.
«Abbiamo chiesto a Merlino se poteva stare con lui nel
frattempo. Erano passati cinque minuti, forse
di meno, quando abbiamo notato un paio di infermiere che correvano
proprio verso la stanza di Steve: qualcuno aveva tirato il cordoncino
delle emergenze, ma i parametri vitali sui monitor erano perfetti,
tanto da far pensare al personale che ci fosse stato uno strano
blackout e che i valori fossero impazziti. È stata chiamata
la dottoressa e… il resto è già storia
ormai», si strinse il collo tra le spalle, bevendo un sorso
di caffè. «Il miracolo di Steve».
«E… e Merlino? Che fine ha fatto, intendo? Hai
detto che nessuno l’ha più visto, ma è
impossibile!», esclamò, afferrandosi una ciocca di
capelli biondi e rigirandosela freneticamente tra le dita.
«Non è la prima cosa impossibile che vedo accadere
questa sera», mormorò tra sé, piegando
un angolo della bocca. Poi aggiunse ad alta voce: «Ho chiesto
a chiunque fosse nei paraggi: nessuno ha la più pallida idea
di dove sia andato».
L’infermiera si guardò intorno come spaesata,
senza sapere cosa fare. Alla fine si inginocchiò di fronte a
Paige e le chiese di darle il suo cellulare. La donna non chiese
perché, semplicemente glielo consegnò e la
osservò mentre salvava rapidamente il proprio numero in
rubrica sotto il nome di “Alex”.
«Chiamami, anche nel cuore della notte, se dovessero esserci
novità. Ci proverai?».
La mamma di Steve annuì con un debole cenno e si
lasciò stringere le mani con il cellulare ancora tra loro.
«Sono davvero, davvero felice che Steve
stia meglio».
«Ti credo, Alex. Ora vai, vai a cercare Merlino».
«Come?», balbettò la ragazza, ma si rese
presto conto che fingere ancora era inutile, una gran perdita di tempo.
Annuì con maggior dignità possibile e si
allontanò quasi di corsa, improvvisamente di nuovo piena di
energie. Che fosse a causa dell’adrenalina,
dell’ansia, della “forza
dell’amore” o della magia vera e propria non aveva
alcuna importanza in quel momento.
***
«Questo
è tutto matto, te lo dico io», le disse il collega
del turno di notte, l’agente Darrell Fisher, non appena lei
uscì dalla piccola sala interrogatori.
«Cioè, guardalo! Indossa una maglia di ferro,
aveva con sé una balestra e un pugnale piuttosto autentici e
dice di chiamarsi Artù Pendragon. O è matto
oppure è un cosplayer che ci è andato
giù pesante con la birra». Corrugò la
fronte, pensieroso, e aggiunse: «O con qualsiasi bevanda
alcolica i Cavalieri della Tavola Rotonda bevessero nel
Medioevo».
«Non è ubriaco: gli ho fatto il test»,
gli rispose mentre si dirigeva a passo svelto verso la propria
scrivania, dove aveva lasciato gli oggetti personali del ragazzo.
«È matto, lo sapevo»,
borbottò Darrell prima di finire tutto d’un fiato
il suo caffè e di lanciarne il bicchiere di carta nel
cestino.
«Come ci comportiamo, Myra?».
La donna alzò gli occhi sul collega e scrollò le
spalle. «Non ha con sé documenti, solo il
cellulare. Possiamo partire da qui, che ne dici?».
Darrell si fece consegnare lo smartphone e con la fronte aggrottata,
ben poco entusiasta, esclamò: «Adoro chiamare
tutti i numeri nelle rubriche dei matti, dovresti saperlo
ormai».
Myra gli rivolse un sorriso e dopo avergli dato una pacca sul braccio
si diresse nuovamente verso la stanza interrogatori nel tentativo di
ottenere qualche altre informazione dal loro ospite.
L’agente Fisher si lasciò cadere sulla propria
sedia girevole ed incrociò i piedi sull’angolo
della scrivania, quindi si concentrò sul cellulare e senza
alcuna difficoltà accedette alla rubrica. A bocca aperta,
fissò lo schermo su cui comparivano due unici contatti
– tra cui un “Merlino”, ovviamente
– poi si voltò
verso la porta chiusa della sala interrogatori. Qualcosa gli diceva che
non ci avrebbe messo molto.
***
Alex
aveva cercato Merlino dappertutto, senza cavare un ragno dal buco,
quando aveva ricevuto quella chiamata da Artù. O meglio, dal
suo cellulare. A cercarla infatti era stato l’agente Darrell
Fisher, della polizia locale, il quale le aveva spiegato che avevano in
custodia il signor Artù Pendragon – «Mi
perdoni, questo è il nome che ci ha fornito».
– ufficialmente per detenzione di armi e oltraggio a pubblico
ufficiale, meno ufficialmente per atteggiamento sospetto.
«Non capisco, perché avete chiamato
me?», aveva chiesto, esasperata, massaggiandosi la fronte.
«Perché è il primo dei due contatti
sulla rubrica del cellulare del signor Pendragon. Da quando
è stato portato in centrale non ha detto
nient’altro che il suo nome e, in tutta onestà, io
e la mia collega siamo un po’ in
difficoltà».
Così aveva accettato di recarsi subito in Centrale, non
prima di aver consigliato all’agente Fisher di non
disturbarsi a telefonare al secondo contatto: sapeva che non
l’avrebbe trovato, dato che lei per prima aveva provato a
chiamarlo, a vuoto, almeno un centinaio di volte.
Si era cambiata e senza accorgersi minimamente dell’auto di
Merlino ancora parcheggiata poco lontana dalla sua era sfrecciata via.
La Centrale di polizia del loro minuscolo paesino era, beh…
minuscola. Le persone che ci lavoravano si potevano contare sulle dita
di una mano e a dimostrazione di quanto fosse pressoché
nullo il tasso di criminalità non vi era assegnato nemmeno
un detective. In caso di necessità – e non era mai
accaduto da quando lei si era trasferita lì – un
ispettore delle cittadine vicine, o addirittura di Newport, veniva
assegnato al caso e rispedito a casa una volta risolto, lasciando ai
poveri impiegati la sola pila di scartoffie.
Da quanto aveva capito parlando con l’agente Fisher, seduta
di fronte a lui nel piccolo ufficio con due scrivanie, quattro sedie,
un mobile ad ante e una piccola libreria, l’incontro con
Artù era stato ciò che di più
emozionante, nonché strano, avesse visto da quando era
arrivato – circa sei mesi prima.
«Non è proprio Gotham City, eh?», aveva
commentato Alex, stirando un sorriso imbarazzato prima di abbassare gli
occhi sul bicchiere d’acqua che le era stato offerto.
«Né Camelot, a quanto mi risulta», le
aveva risposto con un sorriso compassionevole, le sopracciglia
inarcate. «Lei sa dove si è procurato
quelli?».
Alex aveva seguito il dito puntato verso l’altra scrivania e
aveva avuto seriamente paura che la mascella le cadesse a terra per
l’incredulità.
Un pugnale e una… una fottuta balestra!
«Agente Fisher, io non… non penso siano
suoi», si azzardò a rispondere una dozzina di
secondi dopo, senza riuscire però a scostare lo sguardo da
quelle armi piuttosto medievali.
«Nel senso che li ha rubati o…?».
«Rubati? No, no, no! Credo facciano parte
della collezione di Merlino».
Darrell strabuzzò gli occhi e dopo un momento di imbarazzo
disse, cercando di sembrare il più serio possibile:
«Merlino… Il Merlino della rubrica? Si chiama
davvero così?».
«Così ha sempre detto di chiamarsi. Posso vedere
Artù, ora?».
«Veramente è sotto interrogatorio, al momento, e
io avrei ancora qualche domanda».
Alex si passò stancamente una mano tra i capelli e sul viso
e guardandolo implorante disse: «Senta, agente, le assicuro
che io ne so tanto quanto lei. È stata una serata piuttosto
pesante e se c’è una cauzione da pagare
è okay, lo capisco, ma l’unica cosa che voglio
è andare a dormire il prima possibile».
L’agente Fisher la fissò per quella che le
sembrò un’eternità, poi le fece segno
di aspettare e si alzò per andare a bussare alla porta della
sala interrogatori. Alex riconobbe la sua collega non appena questa si
affacciò sullo stretto corridoio e automaticamente
balzò in piedi, esclamando: «Myra!».
La donna la guardò in silenzio per qualche secondo, con
un’espressione che oscillava tra lo stupito e
l’entusiasta. «Alexandra, ciao», la
salutò infine, andandole incontro con entrambe le braccia
tese verso di lei.
Alex l’abbracciò e si sforzò di
sorriderle, non potendo fare a meno di notare che la sua bellezza era
ancora più abbagliante di quanto si ricordava.
La sua famiglia, originaria di Mumbai, si era trasferita in Galles da
ormai tre generazioni, ma nonostante tutte le influenze, nonostante sua
madre stessa fosse gallese, Myra era nata indiana per il novantanove
percento, prendendo da lei solo gli occhi grigio-verdi, da togliere il
fiato sulla sua pelle ambrata.
Quindi, dopo un attimo di esitazione, abbassò lo sguardo
verso la sua gamba destra. «Come va?».
La poliziotta scrollò le spalle, arricciando le labbra
piene. «A parte qualche dolorino ogni tanto, direi bene. Tu,
invece?».
«Sono distrutta. Come dicevo all’agente Fisher,
è stata una serata piuttosto movimentata in ospedale e
vorrei che questo disguido si risolvesse il più in fretta
possibile».
«Tu conosci quel ragazzo?», le chiese, le
sopracciglia inarcate.
Alex si sistemò ancora una volta i capelli dietro le spalle,
nervosamente, mentre annuiva con un cenno del capo.
Myra, ora impassibile, si spostò verso il distributore
d’acqua posto in un angolo dell’ufficio e se ne
versò un bicchiere. Alex osservò le bolle
d’aria salire verso la parte vuota del boccione, accompagnate
da una specie di piccola esplosione, poi le tornò alla mente
ciò che Darrell le aveva detto e si schiarì la
gola, imbarazzata.
«Mi dispiace per quello che ti ha detto, lui… non
è tanto a posto con la testa, ecco».
«Oh, ho sentito di peggio, credimi», le rispose
dopo aver bevuto la propria acqua. «Come mai lo
conosci?».
«È un amico di Merlino».
Myra posò di scatto gli occhi, stretti in due fessure,
sull’agente Fisher, il quale raddrizzò la schiena
e ricambiò lo sguardo quasi con timore.
«Tu lo sapevi? Sapevi che Merlino era coinvolto in questa
storia? Perché diamine non mi hai avvisato
subito?», gli chiese severamente.
«Io credevo… credevo che fosse un nome di
fantasia! Artù, Merlino… eh». Si
strinse il collo tra le spalle, sollevando le mani in segno di resa.
Quindi sospirò e davvero mortificato aggiunse: «Mi
dispiace».
«Lui dov’è?», chiese Myra ad
Alex, una volta ritrovata la calma.
«Non ne ho la più pallida idea. È tutta
la sera che lo chiamo, ma non risponde al cellulare».
«Strano, non trovi?».
L’infermiera annuì, anche se avrebbe voluto
rispondere che di cose strane nell’ultima settimana e mezza
– da quando era arrivato Artù, appunto –
ne aveva viste fin troppe.
La poliziotta si strinse la coda di cavallo sulla nuca, un gesto
automatico quanto il battito delle ciglia, riflettendo sul da farsi.
Alla fine indicò la porta della sala interrogatori e
puntò tutta la propria attenzione su Alex.
«Mi assicuri che non è pericoloso?», le
domandò, fissandola col suo miglior sguardo indagatore.
Alex non poté fare a meno di ricordare la mattina in cui le
aveva puntato un pugnale alla gola dandole della strega, ma scosse il
capo con violenza e cercando di essere il più convincente
possibile esclamò: «Non farebbe del male ad una
mosca».
«Va bene allora», disse Myra, sospirando.
«Viste le sue condizioni, mi sembra inutile fargli passare la
notte in cella. Portalo a casa e assicurati che non ottenga altre armi
del genere». Si avvicinò al tavolo su cui erano
stati appoggiati i pochi effetti personali di Artù e dopo
averle consegnato lo smartphone e un mazzo di chiavi indicò
la balestra e il pugnale con un dito: «Questi è
meglio se li teniamo noi».
«Ma sì, certo. Grazie Myra, davvero non so
come…».
«Una cosa ci sarebbe: se riesci a rintracciare Merlino,
portamelo qui».
L’aveva detto con un tono imperioso, quello che usava
solitamente quando indossava l’uniforme, come se vedere
Merlino fosse solo una questione di lavoro, ma Alex sapeva bene che
c’era dell’altro. Non a caso Myra non
l’aveva nemmeno guardata in faccia, consapevole che i suoi
occhi avrebbero mostrato ciò che realmente provava al solo
pensiero di vederlo di nuovo.
«’kay», mormorò
l’infermiera, sorridendole nonostante tutto.
«Darrell, te ne occupi tu?», aggiunse Myra,
sedendosi alla propria scrivania per compilare alcune pratiche.
«Sicuro», rispose prontamente l’agente
Fisher, per poi voltarsi verso Alex e farle strada.
Alex rimase sulla porta mentre Darrell si avvicinava ad Artù
per liberarlo dalle manette che gli legavano una mano al tavolo. Lo
fissò in silenzio, così stanca da non riuscire
nemmeno a commentare mentalmente la maglia di ferro che si era infilato
sopra la felpa col cappuccio. E così fece anche il biondo
non appena alzò lo sguardo e la vide: a bocca aperta, come
se la sua presenza lì e in quel momento fosse inconcepibile
tanto quanto quella di una cabina della polizia blu nel salotto di casa
sua.
L’agente Fisher lo aiutò ad alzarsi ed esclamando:
«Vedi di rigare dritto», gli diede una leggera
spintarella verso di lei. Artù la guardò negli
occhi con espressione quasi terrorizzata e Alex pensò che
era l’espressione appropriata – prima o poi
gliel’avrebbe fatta pagare, pagare cara – ma le
fece comunque uno strano effetto vederlo ridotto in quelle condizioni.
Per questo gli prese una mano e dopo aver ringraziato
l’agente Fisher lo trascinò fuori.
In silenzio e tenendolo ancora per mano proprio come avrebbe fatto una
mamma con un figlio che ha appena combinato una marachella punibile con
una settimana senza videogiochi, raggiunsero l’auto
parcheggiata proprio dall’altro lato della strada. Solo
allora lo lasciò andare e, una volta trovate le chiavi nella
sua disordinatissima borsa, gli aprì la portiera del
passeggero lanciandogli un’occhiata truce.
«Idiota», grugnì, incapace di
trattenersi, ma fu l’unica cosa che gli disse. Anche volendo
non avrebbe avuto modo di aggiungere altro, visto che
l’agente Fisher era uscito dalla Centrale e, chiamandola per
nome, l’aveva raggiunta di corsa.
«Che altro c’è, agente?»,
domandò esasperata, sbattendo con violenza la portiera
dell’auto. (Se Artù non fosse stato pronto di
riflessi gli avrebbe spaccato la caviglia, come minimo).
«Chiamami pure Darrell», disse, guardandosi alle
spalle come se non volesse essere sorpreso a parlare con lei.
«Posso chiederti una cosa un po’
sconveniente?», le chiese, sottovoce e col viso
pericolosamente vicino a quello dell’infermiera.
«Suppongo che lo farai ugualmente».
Il ragazzo si passò una mano tra i biondi capelli ricci,
umettandosi le labbra. «Volevo sapere se Myra e quel
Merlino…».
«Se Myra e Merlino cosa?»,
domandò Alex, irritata più che mai dal suo tono e
soprattutto dal sorrisino malizioso che aveva stampato in faccia.
«Insomma, se hanno avuto modo di studiare insieme quel
libricino famosissimo, pilastro della cultura indiana…
Capito a cosa mi riferisco?».
Certo che aveva capito. Forse era lui che non aveva
capito, dato che si era azzardato a farle l’occhiolino
nonostante lei fosse un’infermiera perfettamente in grado di
estrarre un occhio dall’orbita senza sporcarsi i vestiti.
«Perché non lo chiedi direttamente a Myra, Darrell?»,
gli chiese rivolgendogli un sorriso tutt’altro che
amichevole. «Mi raccomando però, quando lo fai
avvisami: potrebbe servire il mio aiuto e probabilmente quello di
qualche altro mio collega dell’ospedale quando
avrà finito di risponderti».
L’agente Fisher fece un passo indietro e leggermente
intimorito dal suo sguardo carico di ostilità si
voltò e tornò verso la Centrale per salire due a
due i pochi gradini che conducevano alle porte a spinta.
Alex si appoggiò con un gomito al tettuccio
dell’auto e si ravvivò i capelli sulla nuca,
borbottando verso la luna: «Io odio i
lunedì».
***
Trovarsi
davanti Alex così all’improvviso,
inaspettatamente, l’aveva scioccato nel vero senso del
termine: muscoli paralizzati, voce sparita del tutto e sangue
– il suo stesso sangue, secondo Freya
– ghiacciato nelle vene.
Mentre l’agente Chandra non faceva altro che porgergli una
valanga di domande, mentalmente si era dipinto diversi scenari, in cui
però c’era sempre una costante: la furia di
Merlino. (Motivo per cui aveva optato per il più religioso
dei silenzi: non voleva finire in guai più grandi di quello
in cui era già). Poteva però dire che in nessun
caso, nessuno, aveva immaginato che in suo soccorso
sarebbe arrivata proprio Alex.
Dopo averlo insultato non gli aveva più rivolto la parola
– quasi sicuramente non l’avrebbe fatto per il
resto del viaggio verso casa – e nonostante da un lato ne
fosse sollevato, dall’altro era terribilmente preoccupato che
la sua rabbia potesse sfociare davanti a Merlino, peggiorando una
situazione che vedeva già complicatissima.
Ogni tanto la guardava di sfuggita, con la coda dell’occhio,
ma la sua espressione concentrata non gli permetteva di capire se fosse
arrabbiata, pensierosa o semplicemente stanca. Un mix di tutto, forse?
Alexandra parcheggiò l’auto sulla strada sterrata
di fronte a casa e senza dire una parola spense il motore e scese,
aspettando che lui facesse lo stesso per poi chiudere le portiere col
piccolo telecomando.
Artù la guardò confuso, vagamente preoccupato,
fino a quando non si trovò costretta a rompere il silenzio
per dirgli bruscamente: «Se pensi che dopo la cazzata che hai
fatto ti lasci da solo sei proprio pazzo».
«Hai intenzione di dormire qui?», riuscì
a chiederle finalmente, seguendola verso l’entrata ma
rimanendo sempre qualche passo indietro.
Alex gli gettò un’occhiata e tirando fuori dalla
tasca dei jeans le chiavi di casa che l’agente Chandra gli
aveva sequestrato insieme al cellulare e alle armi, esclamò:
«Ci puoi scommettere il tuo regale didietro».
Il re di Camelot fu preso talmente in contropiede che anche se ci
avesse provato non avrebbe trovato nulla di adatto con cui rispondere,
perciò restò ancora una volta in silenzio.
Aspettò che aprisse la porta, quindi la seguì
all’interno e la guardò mentre accendeva le luci e
si privava di scarpe, cappotto e borsa, lasciando tutto in giro, come
se quella fosse casa sua.
Gli ci vollero un paio di minuti per capire che cosa c’era
che non andava e quando finalmente capì il suo cuore
saltò un battito. «Dov’è
Merlino?».
«Questa è una domanda da un
milione di dollari», rispose Alex con tono incurante, per poi
voltarsi di scatto verso di lui e gridare: «Credi davvero che
sarei qui a quest’ora se sapessi dove diavolo è
andato a cacciarsi quello stupido?!».
Artù iniziò a collegare i puntini: alla Centrale
si era presentata Alex perché Merlino non sapeva che era
stato messo sotto custodia; e se Merlino non lo sapeva aveva del tempo
extra per inventare una scusa convincente da rifilargli quando gli
avrebbe chiesto per quale motivo era uscito con una balestra sulla
schiena. Restava però da scoprire dove fosse finito e
perché, e gli era chiaro ormai che Alex non voleva restare
lì a dormire perché voleva tenerlo
d’occhio ma perché voleva aspettare che lui
tornasse a casa.
Un pensiero agghiacciante gli attraversò
all’improvviso la mente. E se gli fosse successo qualcosa, se
non potesse fisicamente tornare a casa e nemmeno mettersi in contatto
con loro per chiedere aiuto? Dopotutto non era da Merlino sparire
così, senza dare alcuna spiegazione – non ora che
sapeva dei suoi poteri, almeno – e dopo tutto quello che gli
aveva rivelato la custode di Avalon non pensare al peggio gli risultava
molto, molto difficile.
«Dobbiamo andare a cercarlo», disse con
determinazione.
«No, invece», rispose Alex, dirigendosi verso la
cucina.
«Non possiamo starcene qui con le mani in mano! Merlino
può essere in pericolo!».
Artù sentì il cigolio dell’anta della
credenza che veniva aperta e richiusa, poi quello del fornello a gas
che veniva acceso.
«Pericolo? Di che cosa stai parlando,
Artù? Merlino è grande e vaccinato,
può cavarsela benissimo da solo».
«No invece, tu non… non capisci».
Camminò per qualche secondo avanti e indietro, indeciso se
rivelarle o meno ogni cosa una volta per tutte, ma la stessa Alex
interruppe il filo dei suoi pensieri, comparendo nel vano della porta
con delle bustine di tè in mano.
«Al cellulare non risponde, all’ospedale nessuno
l’ha visto e io stessa l’ho cercato dappertutto. La
cosa migliore da fare è aspettarlo qui, credimi».
«Ma…».
«Shh-shh», lo azzittì sollevando
l’indice a mezz’aria. «Senza di me
saresti ancora sotto custodia, perciò sei in debito con me.
Quello che ti chiedo è di fare semplicemente come ti dico,
senza obiettare né porre domande. Sai quante domande ho io,
domande che giorno dopo giorno cerco di dimenticare? Troppe. Sii
solidale con me, solo per questa volta, e prometto che non
dirò a Merlino che la tua passione per i porno ti ha quasi
portato ad una notte al fresco con l’accusa di oltraggio a
pubblico ufficiale».
Il suo tono di voce determinato e la punta di severità nel
suo sguardo costrinsero Artù a fermarsi di colpo e a
guardarla con gli occhi sbarrati.
Aveva avuto come la sensazione di guardarsi allo specchio, cogliendo in
lei aspetti del suo carattere che conosceva a menadito. Poteva anche
essere solo un’impressione, la prova che le parole della
custode di Avalon lo stessero condizionando a tal punto da fargli
credere davvero che Alex fosse la sua ultima
discendente, ma non poteva comunque impedire al proprio cuore di
battere impazzito nella gabbia toracica.
«Va bene», mormorò alla fine, cercando
di mandare giù il nodo alla gola.
«Ottimo», replicò lei, rivolgendogli un
debole sorriso. «Vuoi una tazza di tè?».
Artù scosse il capo. «No, vado a letto».
«Okay. Buonanotte».
Il re di Camelot non rispose, troppo occupato a tenere a distanza di
sicurezza i pensieri dolorosi che, prima o poi, gli avrebbero fatto
visita durante la notte. Mentre era sulle scale però
sentì Alex borbottare: «Che ho fatto di male per
meritarmi tutto questo?» e pensò che avrebbe
potuto chiederselo fino alla fine dei suoi giorni, proprio come lui,
senza mai ottenere una risposta.
|
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Capitolo 11 *** 11. The tears of the Pendragons – Part I ***
Buonasera!
Il titolo di questo capitolo (ancora una volta talmente lungo da
necessitare una divisione in due parti) è abbastanza
chiaro... si annegherà nei feels! T_T
Spero soltanto che il passato che andrete a leggere sia tutto
abbastanza realistico e plausibile. Perchè sì,
è vero, adoro scrivere dell'era moderna, ma non potevo non
cimentarmi nello scrivere qualcosa ai tempi di Camelot. Quindi aspetto
con ansia i vostri commenti, anche solo per dirmi che ho scritto una
marea di cavolate xD
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo e ovviamente chi
ha inserito questa storia tra le preferite/seguite/ricordate. Thank u
so much! :)
Un bacio, alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
_____________________________________________________________
11. The tears of the Pendragons –
Part I
Non
aveva ancora recuperato appieno le forze, ma stava meglio –
poteva guidare, camminare, pensare – e sapeva che
Artù si sarebbe tremendamente preoccupato se non
l’avesse trovato al suo risveglio.
Il cuore gli saltò in gola quando vide l’auto di
Alex parcheggiata sul ciglio della strada sterrata. Si
affrettò quindi a lasciare la sua Pininfarina di fronte al
vecchio fienile ed entrò in casa passando dalla veranda da
cui si accedeva direttamente alla cucina.
A passi felpati raggiunse il salotto e vide Alex rannicchiata sul
divano, con una coperta avvolta intorno al busto e una tazza di
tè vuota abbandonata sul tavolino.
Deglutendo in maniera più silenziosa possibile si
avviò verso le scale e salendo due gradini per volta corse
verso la stanza di Artù, trovandolo sì
addormentato, ma ancora vestito e soprattutto con il cellulare stretto
nella mano destra, pronto a rispondere anche nel cuore della notte.
Si avvicinò e non appena gli toccò la spalla per
svegliarlo Artù balzò seduto sul letto, brandendo
lo smartphone come se fosse una spada. Quando si rese conto di chi
aveva davanti sul suo volto apparve un’espressione sollevata.
«Merlino!», esclamò ancora con la voce
impastata, avvolgendogli un braccio intorno al collo. Subito dopo
però gli tirò uno scappellotto, fulminandolo con
lo sguardo. «Dove diavolo sei stato?!».
«Se mi aveste risposto quando vi ho chiamato, a
quest’ora sapreste benissimo dov’ero!»,
ribatté lo stregone con lo stesso tono irato. «Che
cosa ci fa Alex qui?».
Artù si passò la lingua sulle labbra, esitante.
«È una lunga storia».
«Beh, fatemi un riassunto».
Artù parve rifletterci su, rifletterci su seriamente, ma
alla fine aggrottò di nuovo le sopracciglia e disse:
«Non usare quel tono minaccioso con me, Merlino. Ti ho
chiesto dove diavolo sei stato, pretendo una risposta».
Erano quei momenti che gli facevano venir voglia di dirgli chiaro e
tondo che non era più il re e non aveva alcun diritto di
trattarlo in quel modo, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo
davvero. Quindi sospirò e sedendosi al suo fianco sul letto
iniziò a raccontare quello che era successo: Mark e Abigail
che, ognuno a modo suo, gli avevano messo davanti agli occhi tutta la
loro sofferenza; i genitori di Steve distrutti dal dolore; la paura del
bambino di essere preso da un Dorocha e Alex, Alex che con delle parole
dettate semplicemente dalla frustrazione aveva involontariamente dato
il via a tutto quanto.
Merlino pensava di aver concesso a Steve ameno qualche giorno in
più, usando la magia, ma lo sforzo era stato immenso, tanto
che il contraccolpo sul suo fisico era stato quasi insostenibile; tanto
che c’erano stati dei momenti in cui, a causa del dolore
atroce, aveva pregato perché la morte lo prendesse una volta
per tutte, velocemente. Era rimasto nascosto nel parco di fronte
all’ospedale per ore, per tutta la notte a dire il vero, e il
freddo che l’aveva avvolto era stato provvidenziale nella sua
lotta contro il fuoco magico che gli bruciava nelle vene. Poi
all’alba si era svegliato, privo di energie ed intirizzito, e
il suo primo pensiero era stato Artù, abbandonato a se
stesso per l’intera notte.
«Come vedi, sto bene», bofonchiò il re,
nonostante l’imbarazzo gli avesse colorito le guance.
«State bene, sì, ma in compenso
c’è Alex addormentata sul divano. Avete per caso
organizzato un pigiama party senza invitarmi?».
«Un che cosa?».
Merlino lesse della reale confusione sul suo viso e mormorò:
«Non importa», per poi chiedere ancora:
«Perché Alex è qui?».
«Ecco…». Artù si strinse una
gamba al petto, il mento sopra il ginocchio. «Ieri sera mi
annoiavo e sono andato a caccia».
«A… a caccia?», ripeté
incredulo, strabuzzando gli occhi. «Qui è
proibito, le aree verdi sono tutte protette».
«Già, l’agente Chandra mi ha messo al
corrente».
Merlino non avrebbe voluto comportarsi da pappagallo, ma non
poté trattenersi e ancora una volta ripeté le sue
parole, come se farlo potesse rendere migliore il loro significato o,
ancora meglio, ciò permettesse ad Artù di
correggerlo, dandogli del sordo. «L’agente Chandra.
L’agente Chandra vi ha…».
«Credo sia stata colpa della balestra. Non me l’ha
restituita, tra l’altro».
Merlino si passò le mani sul viso e si alzò per
iniziare a camminare nervosamente davanti al letto a baldacchino. Ad un
tratto si fermò e fissò gli occhi nei suoi.
«Quindi l’agente Chandra vi ha portato in Centrale
per farvi qualche domanda e suppongo che, dato che io ero
irraggiungibile, abbiano chiamato Alex».
Artù annuì con un cenno del capo e Merlino
concluse: «Lei è arrivata, ha parlato con Myra ed
è riuscita a riportarvi a casa, grazie al cielo.
C’è altro che dovrei sapere?».
Ancora una volta Merlino notò un’ombra velare gli
occhi blu del re di Camelot, mentre scuoteva il capo e scendeva dal
letto. Gli passò accanto per andare a prendere dei vestiti
puliti dall’armadio e Merlino aprì la bocca per
chiedergli se stesse bene, certo che qualcosa lo turbasse, qualcosa che
probabilmente gli stava nascondendo, ma Artù non glielo
permise dicendo in tono piatto: «Vado a farmi la
doccia». Quindi si diresse verso la porta e quella volta
Merlino lo chiamò, ma fu come parlare al vento: il biondo
non si girò e lo lasciò solo nella camera.
Merlino scese in salotto, nonostante non si sentisse affatto pronto ad
affrontare Alex. La trovò ancora addormentata sul divano e
pensò che inventarsi una maniera non diretta per svegliarla
sarebbe stata la mossa giusta da fare.
Si diresse in cucina e preparò del caffè mentre
accendeva la radio e girava di proposito la manopola del volume al
massimo. La voce di Adam Levine, cantante dei Maroon 5, fece sobbalzare
lo stesso Merlino, il quale si affrettò ad abbassare un
poco. Era una canzone di qualche anno prima e nonostante
l’avesse aiutato a raggiungere il suo scopo – Alex
si era tirata su di scatto, i capelli arruffati e un angolo della
coperta che toccava il pavimento – lo stregone la
trovò davvero inappropriata.
«Wake you up in the middle of the night to
say… I will never walk away again… I’m
never gonna leave this bed».
Perciò spense la radio con un gesto stizzito e si
concentrò totalmente sulla macchinetta del caffè,
nascosto alla vista dell’infermiera, la quale
chiamò lamentosamente:
«Artù?».
Merlino ascoltò i suoi passi e riuscì a sentire
persino il suo respiro mozzarsi non appena si affacciò alla
cucina e lo vide di spalle. Contò i secondi che le ci
vollero per tornare ad immagazzinare aria nei polmoni e poi si
voltò, fingendosi sorpreso di vederla.
«Ehi, sei sveglia. Sto preparando del caffè, ne
vuoi?».
Alex scosse debolmente il capo e cercò di appiattirsi i
capelli ai lati della testa, rossa per l’imbarazzo.
« Vado un attimo in bagno».
Merlino la guardò mentre faceva i primi passi verso le scale
e la raggiunse solo quando ormai era già a metà
rampa: «Il bagno di sopra è occupato:
Artù si sta facendo la doccia».
L’infermiera lo guardò spaesata per un momento,
poi scese i gradini fino a ritrovarsi più alta di lui di
almeno due spanne e fissò gli occhi verdi, ancora un
po’ gonfi di sonno, nei suoi: «Suppongo che ti
abbia già raccontato perché sono qui
allora».
Merlino annuì con un cenno del capo. «Mi dispiace,
sono davvero…».
«Dove diavolo eri finito, si può sapere?! Ti ho
cercato ovunque, dopo che Steve…».
«Steve!», esclamò lo stregone con gli
occhi sgranati, interrompendola.
Dopo che aveva recitato quell’incantesimo guaritore si era
allontanato senza sapere se avesse funzionato o meno e quando aveva
recuperato le forze aveva pensato solo a tornare a casa, a tornare da
Artù, senza domandarsi come stesse il piccolo Steve.
«Come sta?», domandò quindi, senza
rendersi conto che l’ostilità che Alex provava nei
suoi confronti cresceva di minuto in minuto.
«Quando l’ho lasciato stava una favola!»,
gridò, stringendo i pugni lungo i fianchi. «E
guarda caso tu, l’ultima persona ad
averlo visto prima del "miracolo"», le dita a mimare le
virgolette, «sei sparito senza dire niente a
nessuno».
Merlino la guardò per tanto, tantissimo tempo;
un’infinità. Ora riusciva a vederla, nei suoi
occhi leggeva l’ostilità, ma anche il rancore, la
frustrazione, il dolore, tutto ciò che aveva già
visto secoli prima negli occhi di Artù quando gli aveva
detto la verità. Ciononostante, Merlino si sentì
morire dentro per l’ennesima volta di fronte a tutte quelle
emozioni insostenibili.
Si passò una mano sul mento e salì il primo
gradino della scalinata, così che i suoi occhi e quelli di
Alex fossero allo stesso livello. Scorse un guizzo di sorpresa nel suo
sguardo, la tentazione di ritrarsi, ma la voglia di ottenere finalmente
delle risposte fu più forte di tutto il resto: non solo le
permise di rimanere lì dov’era, ma le fece persino
raddrizzare la schiena.
Per Merlino sarebbe stato un vero sollievo, a quel punto, dirle tutto
quanto, liberarsi del peso di ogni segreto, ma non poteva, non voleva,
consegnare a lei una tale responsabilità: era un suo
fardello e proprio come Prometeo si sarebbe fatto mangiare il fegato
tutti i giorni, attirando tutta l’ira degli dèi su
di sé, pur di proteggere le persone che amava.
«Stai per caso insinuando che io abbia magicamente
curato Steve?», le domandò, con un sorriso di
scherno dipinto sul volto.
Alex socchiuse le labbra per balbettare qualcosa in risposta, ma
Merlino non gliene diede il tempo ed aggiunse: «Sei fortunata
che di fronte a te ci sia qualcuno che ha a che fare con un pazzo tutti
i giorni e che sa riconoscere i veri sintomi della pazzia».
Le strinse brevemente le spalle e quella volta le rivolse un sorriso
compassionevole, per poi darle le spalle e dirigersi di nuovo verso la
cucina, da dove disse ancora: «La magia come quella che viene
descritta nelle favole non esiste, Alex. Sarebbe bello se fosse
diversamente, questo lo riconosco, ma…».
Merlino non terminò mai la frase, interrotto dal tonfo della
porta d’ingresso. Uscì di corsa dalla cucina e si
affacciò ad una delle finestre del salotto, inginocchiato
sulla panchina del bovindo: Alex era saltata sulla sua auto, il cui
motore ruggiva mentre le ruote slittavano sulla strada sterrata,
lasciandosi alle spalle il sole appena sorto e una nuvola di polvere.
***
Merlino
bussò per l’ennesima volta e Artù
avrebbe tanto voluto aprirgli la porta solo per tirargli un pugno sul
naso. Era davvero arrabbiato con lui,
non solo perché pensava che non sarebbe stato in grado di
utilizzare da solo il phon, ma soprattutto perché dopo tutto
quello che aveva appreso grazie a Freya anche solo l’idea che
Merlino avesse usato la magia, rischiando la vita, lo mandava fuori di
testa.
«È successo qualcosa di cui io non sono al
corrente?», ebbe la sfacciataggine di chiedere ad un tratto e
la rabbia che già gli faceva bollire il sangue nelle vene
esplose in una risposta che aprì l'argomento
che avrebbe preferito affrontare con calma, a mente lucida, seduto
magari davanti ad un barattolo di Nutella da un chilo.
«Questo dovrei dirlo io! Io che sono
stato sul fondo di un lago per millequattrocento anni! Io
che ho perso tutte le persone che amavo! Io che
sono stato riportato in vita per il volere e i bisogni di qualcun
altro!».
Il silenzio dall'altra parte della porta lo fece sentire sia
soddisfatto che mortificato: Merlino aveva sbagliato a non dirgli tutta
la verità – sempre se quella che Freya gli aveva
detto fosse la verità – ma
aveva iniziato a comprendere perché l’aveva fatto:
sarebbe stato troppo, semplicemente troppo; avrebbe sofferto, eccome, e
Merlino probabilmente non era ancora pronto a sorreggerlo per
l’ennesima volta.
In conflitto persino con se stesso, si strinse l’asciugamano
intorno alla vita e respirando profondamente aprì la porta.
Rimase parecchio di stucco quando non vide il mago dall’altra
parte, ma gli bastò abbassare lo sguardo per trovarlo:
appoggiato con le spalle al muro e la testa inclinata verso la porta,
lo guardava con gli occhi lucidi d’emozione e al contempo
serissimi.
«Come l’avete capito?».
Fu in quel momento che Artù realizzò che se non
avesse prestato attenzione si sarebbe di certo rovinato con le sue
stesse mani.
«Che cosa?», domandò, fingendosi confuso.
«Che non vi ho detto tutto».
Artù deglutì, guardando un punto della parete
sopra la testa di Merlino, e quando tornò a fissare gli
occhi nei suoi improvvisò un’espressione sconvolta
e balbettò: «Tu non mi hai... veramente non mi hai
detto tutto?».
Merlino rimase a bocca aperta. Era lui, ora, quello che si era rovinato
con le proprie mani, e Artù non poté che essere
fiero delle sue doti recitative. (Se solo avesse saputo che esisteva un
premio del genere, avrebbe preteso un Oscar). Ma come negli ultimi
dieci minuti, subito dopo si sentì malissimo per lui,
vergognandosi del suo comportamento meschino ed approfittatore.
Lo stregone si strinse più forte le ginocchia contro il
petto, posandovi in mezzo il mento, e rispose con la voce spezzata:
«Non vi ho detto tutto perché pensavo che certe
cose non avreste voluto sentirle. Volevo proteggervi, risparmiarvi
altro dolore».
Il re di Camelot rimase in silenzio per una dozzina di secondi, senza
sapere come ringraziarlo per tutto ciò che faceva per lui,
pensando al suo benessere ancor prima del proprio. Alla fine si
chinò per dargli una pacca sulla spalla ed
accennò un sorriso, dicendo: «Perché
non vai a prepararmi la colazione? Sto morendo di fame».
Merlino parve confuso; di sicuro non si aspettava che cambiasse
argomento così in fretta, ma bastò
un’altra pacca per convincerlo ad alzarsi e a dirigersi verso
le scale.
Rimasto solo in bagno, Artù si guardò allo
specchio sospirando e poi cercò di ricordarsi come fare per
accendere quel maledetto phon.
Ci provò e riprovò, schiacciando tutti i tasti
sull’impugnatura, ma nemmeno una lieve brezza uscì
da quell’aggeggio. Fu costretto a cedere: «Merlino
come –?!».
«Avete attaccato la spina?!», urlò di
rimando lo stregone, senza nemmeno lasciargli il tempo di finire la
frase. Non aspettava altro.
Artù percorse con lo sguardo il filo che
dall’impugnatura dell’asciugacapelli toccava il
pavimento, inerte. La raccolse e nel momento stesso in cui la
infilò nella presa un getto d’aria caldissima gli
scompigliò i capelli.
«Non c’è di che!»,
urlò ancora Merlino.
Nonostante solitamente odiasse dargli ragione, quella volta non
riuscì a trattenere un sorriso.
Una volta vestito e con i capelli quasi asciutti, Artù scese
in cucina e trovò Merlino seduto al tavolo con un grosso
libro tra le mani e una tazza di caffè abbandonata accanto
al braccio sinistro. Quando si accorse della sua presenza chiuse il
libro di scatto, alzandosi per servirgli la colazione.
Aveva detto a Merlino che non era più obbligato ad essere il
suo servo, ma forse ad Artù piaceva essere trattato da re
tanto quanto al mago piaceva occuparsi di lui, perciò non
disse una parola e si accomodò.
Mentre era girato per prendere una bottiglia di latte dal frigorifero
Artù allungò il collo per cercare di leggere
ciò che era stato inciso sulla copertina di pelle del libro,
ma non fu abbastanza svelto e come se nulla fosse accennò un
sorriso a Merlino, domandando: «Non mi hai detto per quale
motivo mi hai chiamato, ieri sera».
Lo stregone serrò le labbra e finì di mettere sul
tavolo tutto ciò che gli occorreva, poi tornò a
sedersi di fronte a lui, le braccia incrociate sull’antico
volume, e finalmente rispose: «Volevo chiedervi un consiglio.
Non sapevo che cosa fare, sono stato uno stupido…».
Artù corrugò la fronte e nonostante avesse la
bocca piena esclamò, vagamente offeso: «Ehi, i
miei consigli valgono oro!».
Il mago gli rivolse un’occhiata divertita e gli
spiegò che non intendeva dire che era stato stupido cercare
un suo consiglio, bensì avere dei dubbi.
«So che non sarà per sempre, e che è
stato molto rischioso, ma aiutare Steve era la cosa giusta da
fare». Abbassò gli occhi traboccanti di tristezza
sul libro e ne accarezzò la copertina con una mano.
«Ho fin troppi rimpianti, Artù; non posso
permettermene altri».
Il re di Camelot deglutì a fatica e nemmeno il
caffè caldo riuscì a sciogliere il nodo alla gola
provocatogli dalle parole, dai gesti e dallo sguardo di Merlino.
Improvvisamente si rese conto che nei suoi panni avrebbe fatto
esattamente lo stesso: non si sarebbe mai fatto da parte, non avrebbe
mai guardato un bambino innocente morire sapendo di potergli dare
ancora un po’ di tempo.
Quindi si passò una mano sulle labbra, pulendosi dalle
briciole di fetta biscottata, e dopo un attimo di esitazione disse:
«Sì, hai fatto la cosa giusta. Questa
volta».
Merlino alzò di scatto lo sguardo, confuso. «In
che senso, questa volta?».
«Dico solo che… che è rischioso,
qualcuno potrebbe insospettirsi e ricordi?, dobbiamo restare sotto
coperta».
«Sotto copertura», lo corresse,
ma distrattamente, concentrato su ben altro: «Da quando siete
così prudente? Solo ieri sera siete uscito con una balestra
sulla schiena!».
«Va bene, la verità è che non voglio
che usi la magia!», sbottò, guardandolo ad occhi
sgranati e con le braccia aperte. «È
così strano? Anche tu, fino all’altro giorno,
dicevi che la magia ha sempre portato più male che bene e
che sarebbe stato un errore tremendo diffonderla.
Perciò… vacci piano, intesi?».
«Questa era un’emergenza»,
mormorò a capo chino.
Artù annuì, abbandonandosi allo schienale della
sedia. Finì di bere il proprio caffè,
mangiò un’altra fetta biscottata con la Nutella e
poi tamburellò le dita sul ripiano del tavolo, guardando il
libro che Merlino teneva ancora sotto le braccia. La
curiosità era cocente, ma la paura di conoscere
ciò da cui Merlino aveva pensato di doverlo proteggere lo
era altrettanto. Alla fine scosse il capo e si ritrovò a
dover urlare per sovrastare il caos di tutti i suoi pensieri:
«Dov’è andata Lady Alex?».
Merlino gli rivolse un’occhiata circospetta, insospettito dal
suo strano comportamento, poi si strinse nelle spalle e rispose:
«A casa, credo».
«Ma avete parlato?».
«Mmm… non proprio».
«L’ennesima lite, fantastico».
Artù sospirò e si sfregò i capelli
sulla nuca, pronto a dire che loro due, nonostante si piacessero a
vicenda, non facevano altro che bisticciare, ma ci ripensò
quando si rese conto che la frequenza con cui Alex discuteva con
Merlino era la stessa dei loro primi anni insieme come principe e
valletto. Se il mago aveva davvero la straordinaria capacità
di far saltare i nervi a tutti i Pendragon, allora quella era
l’inequivocabile prova che Alex faceva parte della famiglia.
Merlino si morse il labbro inferiore, pensieroso, poi si
alzò e iniziò a rassettare la cucina.
Vedendolo di nuovo di spalle, intento a sciacquare le tazze nel
lavandino per poi metterle nella lavastoviglie, Artù si
ritrovò a fissare ancora una volta il libro che aveva
lasciato sul tavolo. Allungò una mano per toccarne la
copertina, ma la ritrasse ancora prima di sfiorarla, come se avesse
percepito un pericolo. Si alzò di scatto dalla sedia e si
diresse verso il salotto, dove si lasciò cadere sul divano
ed accese la televisione.
***
Alex
era stanca, non solo fisicamente ma anche psicologicamente. Stanca di
provare sentimenti così forti e dolorosi per Merlino, stanca
di fare un lavoro così duro e da cui raramente riusciva ad
allontanarsi.
Si sentiva a pezzi, letteralmente, e l’unica valvola di sfogo
che aveva trovato era stata una doccia bollente, sotto cui aveva
versato silenziosamente tutte le lacrime che non si sarebbe mai
permessa di versare di fronte a qualcuno.
Quando quella mattina aveva trovato Merlino in cucina si era sentita
sollevata, addirittura felice che stesse bene, ma non era stata in
grado di dimostrarlo, un po’ per la sorpresa e un
po’ per la rabbia che subito le aveva fatto andare il sangue
al cervello.
Si rendeva perfettamente conto che pensare che fosse stato Merlino a
guarire Steve era da malati mentali – lei stessa pensava di
essere sull’orlo della pazzia, – ma sentirselo dire
era stato comunque peggio di una pugnalata. In un attimo
l’immagine di Merlino come nobile cavaliere le si era
frantumata di fronte agli occhi, con la stessa delusione che avrebbe
provato un bambino scoprendo che Babbo Natale non esiste, e aveva
capito che lui non era altro che un essere umano, proprio come lei, in
grado di pensare egoisticamente a se stesso e di ferirla.
Ciononostante, non riusciva a togliersi dalla testa la folle idea che doveva
essere stato lui, che non c’erano altre spiegazioni
plausibili. Ad avvalorare la sua teoria c’era ciò
che gli aveva detto giusto qualche ora prima del miracolo: «A
meno che tu non sia in grado di guarire Steve sussurrando una formula
magica, non voglio proprio niente da te». Il fatto
che poi fosse accaduto sul serio, che Steve si fosse effettivamente
ripreso, non le sembrava proprio una coincidenza.
Lo amava, lo amava davvero, ma odiava i suoi segreti e quel suo passato
che rinnegava così tanto. E questo odio, a volte, la portava
persino a rinnegare l’amore che provava per lui.
Uscì dalla doccia con gli occhi arrossati e, ancora avvolta
nell’accappatoio, con i capelli biondi appena pettinati che
le si arricciavano all’altezza del seno, si lasciò
cadere seduta sul letto, di fronte alla scrivania sopra la quale aveva
appeso una grande lavagna di sughero interamente ricoperta di
fotografie con i bambini dell’ospedale. Le venne di nuovo
voglia di piangere quando i suoi occhi incrociarono quelli azzurri e
spensierati di Steve, aggrappato al suo collo.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa e provò
l’ennesima fitta di delusione quando realizzò che
Merlino non l’aveva né chiamata né le
aveva scritto un SMS per scusarsi. Ma, dopotutto, se fosse stata al suo
posto nemmeno lei l’avrebbe fatto.
Decise perciò di concentrarsi su ciò che in quel
momento riteneva prioritario e scrisse velocemente un messaggio a
Paige, la mamma di Steve, chiedendole eventuali aggiornamenti.
Mentre le concedeva del tempo per rispondere, Alex si alzò
dal letto, ignorando Artù il micio che aveva tentato di
accoccolarsi sul suo grembo per ricevere un po’ di carezze, e
aprì l’armadio per prendere dei vestiti da
indossare. Poi si fece una rapida coda di cavallo, ma non appena si
guardò allo specchio, nonostante i suoi capelli fossero
più lunghi, le venne in mente Myra con la sua cascata di
seducenti onde corvine. Ripensò alla promessa che le aveva
fatto la sera prima, quella di portarle Merlino non appena lo avesse
visto, ma senza alcun rimpianto – d’altronde si
erano allontanate molto da quando aveva avuto l’incidente
– la mandò al diavolo, strappandosi bruscamente
l’elastico dai capelli umidi che le ricaddero sciolti sulla
schiena. (In effetti ci mancava solo la gelosia a fomentare il fuoco
che le bruciava il cuore).
Prese nuovamente il cellulare tra le mani e impaziente cercò
in rubrica il numero di Abigail, su cui sapeva di poter sempre contare.
La ragazzina rispose dopo un paio di squilli, con la voce ancora un
po’ assonnata. «Ehi, Alex. Buongiorno».
«Uhm, lo spero per te. Ti ho svegliata?».
«No, non ho dormito molto questa notte. Ero in pensiero per
Steve. Anche tu, non è così? È per
questo che mi hai chiamata».
«Ci sono novità?».
«L’infermiera che è venuta a portarmi la
colazione mi ha detto che le sue condizioni sono stabili, ma che dalle
ultime analisi che gli hanno fatto risulta che i valori stanno
lentamente tornando nella “norma della malattia”.
Le ho chiesto se hanno scoperto come mai c’è stato
quel picco di miglioramento, ma non ha saputo rispondermi. Mi ha solo
raccontato che sua nonna, malata di Alzheimer, la sera prima di morire
diceva di sentirsi benissimo e di ricordarsi i nomi di tutti i suoi
nipoti. “Come se avesse raccolto tutte le sue forze
per un ultimo saluto”, ha detto».
«Stronzate», biascicò, ma abbastanza
forte perché Abigail la sentisse.
«Sono d’accordo. È successo
qualcos’altro, ne sono sicura».
Alex sentì il cuore balzarle in gola a quelle parole e si
afferrò una ciocca di capelli per rigirarsela tra le dita.
«Che cosa?».
La ragazzina rise, dall’altro capo del telefono.
«Se te lo dicessi mi daresti della pazza».
«Oh, non puoi evitarlo. Siamo tutti matti qui. Io
sono matta. Tu sei matta», esclamò,
citando a memoria lo Stregatto di Alice nel Paese delle
Meraviglie, un libro che aveva letto e riletto fino alla
nausea all’età di dodici anni. Tutto quel parlare
di matti le fece tornare alla mente Merlino, ma le bastò un
battito di ciglia per cacciare via il suo pensiero.
«Sputa il rospo».
«Beh… Ieri sera, poco prima del miracolo,
Merlino è venuto nella mia stanza. Aveva gli occhi spenti,
tristi, rassegnati, e anche il suo sorriso era forzato. Gli ho chiesto
di dirmi la verità a proposito di Steve e io... lo ammetto,
ho pianto».
«E non devi vergognartene», la interruppe Alex, ma
con tono di voce distratto, dato che stava pensando al momento in cui
era passata di fronte alla sua stanza e aveva visto Merlino tenerla tra
le braccia.
«In quel momento mi ha fatto una domanda che ho trovato un
po’ strana. Mi ha chiesto che cosa avrebbe fatto il Merlino
delle sue storie, se avrebbe usato la magia per concedere un
po’ di tempo a Steve».
Il cuore di Alex fece una capriola. Si costrinse comunque a rimanere
calma, mentre un tornado di pensieri le faceva girare la testa e
alimentava la convinzione che nulla di tutto ciò che aveva
vissuto negli ultimi dieci giorni era una coincidenza: ogni cosa stava
assumendo un senso diverso, più giusto nel proprio contesto;
ogni cosa tranne il bacio che Merlino le aveva dato nel bagno della
caffetteria della signora Begum.
«Alex? Alex, sei ancora lì?».
L’infermiera ritornò alla realtà e
scosse il capo, decidendo su due piedi che la tecnica di Merlino poteva
rivelarsi a suo modo efficace. «Quindi pensi che Merlino sia
veramente un mago, che le sue storie non siano del tutto inventate?
Lasciatelo dire, Abby: questo sì che è da
pazzi».
La ragazzina rise, esclamando arrendevole: «Te
l’avevo detto».
«Ma, per curiosità, tu che cosa gli hai
risposto?».
«Gli ho detto che il tempo è ciò che di
più prezioso abbiamo e che secondo me l’avrebbe
fatto, avrebbe usato la magia, senza pensarci su due volte».
Alex annuì, traducendo all’istante le parole di
Abigail in fatti ed immaginando il percorso di Merlino: combattuto,
aveva chiesto alla ragazzina un consiglio, celandosi dietro il suo
libro di favole, e una volta sicuro che fosse la cosa giusta da fare,
aveva fatto in modo di rimanere da solo con Steve il tempo necessario
a… a fare quello che di solito i maghi fanno per curare le
persone. Poi si era dileguato, per non farsi scoprire o forse
perché ciò che aveva fatto richiedeva
così tante energie da aver bisogno di riposo.
All’improvviso realizzò che doveva essere stato
così, vista la sua non rintracciabilità e il modo
in cui Artù si era preoccupato quando non l’aveva
trovato a casa. Le aveva urlato contro che non potevano stare con le
mani in mano mentre Merlino poteva essere in pericolo e che lei non
capiva. Solo ora si rendeva conto che quel non capire
voleva dire in realtà non sapere. Aveva
letto ed ascoltato fin troppe favole in cui Merlino si cacciava nei
guai per e a causa della magia, troppe in cui Artù gli
salvava la pelle, perciò, se davvero c’era della
verità in quelle parole, la preoccupazione del biondo era
più che comprensibile.
«Alex c’è qualcos’altro, vero?
Sei così distratta…», disse Abigail,
riportandola ancora una volta alla realtà. «Si
tratta di lui?».
«Eh?». L’infermiera rischiò di
strozzarsi semplicemente con l’aria diretta ai polmoni e
tossicchiò, diventando rossa dalla punta dei capelli alla
punta dei piedi. «No, non c’è
nient’altro. Come te, non ho dormito molto e sono stanca. Ci
vediamo oggi pomeriggio».
«E va bene», rispose Abigail, evitando di
insistere. «A più tardi».
Alex terminò la chiamata e si strinse il cellulare tra le
mani, mordicchiandosi il labbro inferiore. Abbassò gli occhi
e fu solo per caso che notò sullo schermo nero il riflesso
del sorrisino che le aleggiava sul volto, ora più sereno.
Si alzò dandosi la spinta con entrambe le mani e passandosi
le dita tra i capelli si guardò intorno nella stanza,
disordinata come tutto il resto della casa. Accese il PC posato sulla
scrivania, accanto ai libri ancora aperti e gli appunti scritti a mano,
e dopo aver selezionato una playlist in grado di caricarla
iniziò a riordinare.
Quella mattina Alex sentì di essere tornata alla
normalità, facendo le faccende di casa, occupandosi del suo
micio e preparandosi persino un pranzo completo, seduta al tavolo con
tanto di tovaglia.
Ora non aveva più alcun dubbio e, pazzia o meno, questo la
faceva sentire semplicemente bene.
***
Ormai
gli era perfettamente chiaro l’intento di Merlino: lasciando
quel libro sul tavolo della cucina, l’aveva esplicitamente
invitato ad aprirlo quando si sarebbe sentito pronto, senza dover
essere lui a fare la prima mossa ma piuttosto concedendogli del tempo e
dello spazio per metabolizzare tutto ciò che quelle pagine
conservavano.
Artù lasciò la televisione accesa in salotto, si
alzò dal divano e si diresse in cucina. Dalle porte vetrate
che davano sulla veranda vide Merlino nel bel mezzo del giardino sul
retro, con i piedi nascosti da centinaia di fiori di campo bianchi,
intento a stendere il bucato su dei lunghi fili con delle mollette
colorate.
Si voltò e respirò profondamente prima di sedersi
di fronte al volume con la copertina di pelle su cui, ora lo poteva
leggere chiaramente, erano incisi dei numeri: 537-540.
Cinquecentotrentasette… l’anno della sua morte.
Per un attimo si chiese se Merlino tenesse un libro come quello per
tutti gli anni trascorsi nell’attesa del suo ritorno e se
sì dove, ma fu solo un attimo.
Col cuore che gli batteva a mille nel petto sollevò la
copertina e dovette girare una sola pagina bianca prima di trovarsi di
fronte alla grafia di Merlino, precisa ed ordinata. I suoi occhi
scorsero riga dopo riga, affamati di verità, incuranti delle
lacrime che li appannavano sempre più di frequente.
Leggere di una Camelot in lutto, dei suoi cari che l’avevano
pianto per mesi e mesi, dello stesso Merlino che non si era mai
concesso un giorno di pace da quando aveva spinto la sua barca
funeraria lungo la superficie di Avalon, fu più doloroso
della morte.
Dopo una decina di pagine intrise di dolore e spesso con
l’inchiostro sbavato – forse a causa del tempo,
forse a causa di altre lacrime, versate molto prima delle sue
– finalmente lesse una notizia che aveva portato la gioia
negli animi di tutti gli abitanti del regno: la regina portava in
grembo il figlio del compianto Artù Pendragon.
La gravidanza, scriveva Merlino, era già avanzata, ma
nessuno eccetto Gaius ne era a conoscenza: Ginevra, infatti, aveva
mantenuto il segreto finché aveva potuto, temendo per la
vita stessa del bambino, un erede al trono inaspettato la cui nascita
non avrebbe fatto altro che infiammare ancor di più gli
animi già contrariati e già allora bramosi di
potere degli altri sovrani. Vani erano stati i tentativi di tenere la
notizia all’interno delle mura e una volta trapelata, nessuno
era stato più in grado di fermarla: la gente, dai cavalieri
ai più poveri contadini, non parlava d’altro e si
sentiva di nuovo piena di speranza: presto sarebbe stato re il figlio
del grande Artù, un re altrettanto buono, giusto ed amato
quanto lui, se non addirittura di più.
Merlino aveva scritto di un colloquio privato avuto con Ginevra, uno
tra i tanti che avevano intrattenuto da quando Artù non
c’era più, nel quale aveva compreso perfettamente
i timori della regina e aveva promesso di aiutarla a proteggere il
bambino, ad ogni costo. Di comune accordo avevano organizzato un piano
e ne avevano messo a conoscenza poche, pochissime persone, tra cui
alcuni Cavalieri scelti – Sir Leon e Sir Percival in primis
– e Gaius. Tutti erano convinti che la sicurezza del bambino
fosse la priorità e col benestare di Ginevra era stato fatto
circolare il pettegolezzo che quello che portava in grembo non era il
figlio di Artù, bensì di uno dei servitori,
procreato in una sola ed unica notte di desiderio.
Per i pochi che ci avevano creduto, i sospetti erano caduti
immediatamente su Merlino, ma la stragrande maggioranza della
popolazione aveva rifiutato il pettegolezzo, definendolo addirittura
una forma di tradimento alla corona. Da quel momento in poi
però nessuno aveva più avuto la certezza di
conoscere la verità e questo per il momento era abbastanza:
fino al giorno della nascita, insinuare il dubbio era la loro miglior
difesa contro i regni vicini, già pronti ad attaccare.
I mesi precedenti alla nascita dell’erede furono un
susseguirsi continuo di consigli segreti intorno alla Tavola Rotonda in
cui l’argomento principale erano le misure di sicurezza da
adottare per difendere il figlio di Artù e la regina. Poche
settimane prima del parto fu presa finalmente una decisione, per quanto
sofferta: il bambino non avrebbe mai lasciato le mura del castello e
nessuno – nessuno eccetto sua madre,
Gaius e Merlino, sarebbe mai entrato in contatto con lui. Sarebbe stato
detto al popolo che il bambino era morto per motivi imprevedibili ancor
prima di venire al mondo e se il flusso di informazioni avesse fatto il
suo corso – sospettavano
da tempo che ci fossero delle spie all’interno della
città – i sovrani nemici avrebbero aspettato
ancora un po’ ad attaccare.
Probabilmente non era il piano migliore e presto o tardi il bambino si
sarebbe chiesto perché non poteva mai lasciare la sua
stanza, ma era tutto ciò che avevano.
Graalmir Pendragon – semplicemente Graal per Merlino
– era nato in una notte silenziosa, tranquilla sotto la luna
piena che illuminava quasi a giorno i corridoi del castello. Merlino
aveva scritto di aver corso a perdifiato dietro il mantello di Sir Leon
per raggiungere il più in fretta possibile le stanze di
Ginevra, la quale, come concordato, durante il parto aveva voluto solo
Gaius e lo stesso Merlino ad assisterla.
Il piano era stato seguito alla lettera: il bambino, bellissimo e in
ottima salute, era stato subito avvolto in una coperta e portato via
proprio da Merlino, la cui conoscenza di ogni angolo e passaggio
segreto del castello era stata una vera benedizione. Mentre Gaius e
Ginevra recitavano la loro parte, il primo occupandosi personalmente
del fagotto di coperte sporche di sangue e la prima disperandosi con le
ancelle pronte a sostenerla, Merlino si era rifugiato in una grotta
poco fuori dalle mura, nascosta nel folto del bosco, che aveva
trasformato nella sua seconda casa e che aveva già
attrezzato con tutto il necessario per ospitare il figlio di
Artù e Ginevra. Non era bella quanto la grotta di cristalli,
ma con il tempo era diventata accogliente e soprattutto sicura,
protetta da ogni tipo di attacco, magico e non.
Merlino e il piccolo Pendragon vi avevano trascorso tre giorni, il
tempo necessario a Ginevra di mostrarsi addolorata, inconsolabile, e
per convincere tutti quanti che il bambino davvero non era
sopravvissuto.
Il mago aveva scritto pagine e pagine in quei giorni, probabilmente
aveva occupato tutto il proprio tempo libero in quel modo. Aveva
descritto Graalmir, ripetendo più
di una volta quanto somigliasse ad Artù con quei suoi occhi
brillanti e curiosi, quel suo sorrisino sdentato ma già
beffardo e i capelli sottili come fili di seta nera. Aveva
raccontato delle tre volte al giorno in cui Ginevra, scortata a turno
da Sir Leon e Sir Percival, li raggiungeva per dar da mangiare al
piccolo e del sorriso che le illuminava il viso ogni volta che lo
teneva tra le braccia. (Dopo la morte di Artù, Graalmir era
stato l’unico in grado di farla sorridere di nuovo). E,
ancora, delle notti in cui era stato svegliato di soprassalto dal
pianto del neonato ed era stato costretto a cullarlo per ore,
cantandogli l’unica ninna nanna che conosceva –
quella che gli cantava la sua stessa madre – e facendo
danzare per lui tutte le fiammelle delle candele.
Quando la situazione a Camelot fu sotto controllo, Merlino e Graalmir
furono introdotti nuovamente nel castello, passando per i sotterranei,
e come avevano pianificato avevano trovato l’ala del castello
in cui si trovavano le stanze di Ginevra completamente deserta: dopo il
parto la regina vi aveva vietato l’accesso, fatta eccezione
per il guaritore di corte e Merlino, il suo consigliere. Tutti avevano
eseguito gli ordini senza porsi troppe domande, pensando che la regina
fosse in lutto o addirittura soffrisse di vera e propria depressione,
tanto da volersi isolare da tutto per il tempo necessario a guarire.
Il piano, una volta tanto, aveva funzionato alla perfezione.
Passarono due anni, due anni felici tra le mura che celavano
l’erede al trono e di lutto e menzogne di fronte al popolo.
Ginevra aveva trascorso un paio di mesi senza mai uscire dalle sue
stanze, poi aveva iniziato a riapparire in pubblico, rassicurando i
cittadini di Camelot e riprendendo, pian piano, ad occuparsi degli
affari del regno.
Le misure di sicurezza erano state sempre altissime e lo stesso Merlino
si era impegnato a stare più tempo possibile col bambino,
diventando la sua balia, il suo compagno di giochi, ciò che
più vicino ad un padre potesse avere. Lo aveva lavato,
pettinato, vestito, curato; aveva mangiato con lui, dormito con lui,
giocato con lui; gli aveva fatto sgranare gli occhi e l’aveva
fatto ridere con la magia – adorava quando faceva apparire
paesaggi mozzafiato sulle pareti della sua cameretta – e gli
aveva raccontato di suo padre, del coraggioso, giusto e leale
Artù Pendragon, il re del passato e del futuro,
l’uomo migliore che avesse mai conosciuto, l’amico
migliore che avesse mai avuto.
Poi erano iniziate le visioni. Confuse, spesso incomplete, ma con un
significato ben preciso: presto l’esistenza di Graalmir
Pendragon non sarebbe più stata un segreto.
Merlino aveva visto Gaius steso sul suo letto, con la testa fasciata e
il volto pallido, gli occhi vitrei, che farfugliava continuamente che
era stata colpa sua; un uomo con un lungo mantello nero e il cappuccio
calato sul viso, nascosto sotto un porticato; infine, pezzi di una
lettera gettata tra le fiamme di un camino, su cui faceva sempre in
tempo a leggere la frase: “Ho finalmente la prova che il
figlio di Artù è vivo”.
Merlino convocò subito un consiglio speciale, in cui
raccontò a tutti le proprie visioni, e si decise che la cosa
migliore da fare era proteggere Gaius da eventuali attacchi, tenendolo
il più possibile all’interno del castello. Il
guaritore di corte era molto anziano e non fu un problema dire a
chiunque si chiedesse dove fosse che si era ammalato e sarebbe rimasto
a letto per un paio di settimane, e che Merlino l’avrebbe
sostituito nelle visite dei suoi pazienti. Gaius era stato segregato
nell’ala del castello riservata alla regina e a suo figlio e
Merlino si era sentito più tranquillo, rasserenato anche dal
fatto che le visioni avevano smesso di svegliarlo nel cuore della notte
o – ma questo capitava più raramente
– di estraniarlo dalla realtà anche nel bel mezzo
delle faccende più semplici.
Tutti erano così convinti che Gaius aveva rischiato di
essere rapito e torturato da una o più spie per farsi dire
tutto ciò che sapeva sulla regina e sui motivi del suo
isolamento, che nessuno sul momento realizzò che la profezia
si stava avverando sotto i loro occhi.
Quella mattina Merlino stava facendo il giro dei pazienti di Gaius, con
la sua borsa dei medicamenti sotto il braccio, quando una fitta alla
testa lo aveva avvertito che stava per vedere uno squarcio di futuro.
Si era accasciato sotto l’ombra di una bancarella di vestiti,
destando l’attenzione di tutti, e nonostante avesse gli occhi
aperti sulle persone che l’avevano accerchiato per accertarsi
che stesse bene, tutto ciò che riusciva a vedere era
l’interno della camera di Graalmir.
Il bambino, di ormai due anni e mezzo, stava giocando con uno dei
pupazzi che gli aveva regalato Merlino e Gaius, seduto poco distante,
lo teneva d’occhio mentre leggeva uno dei suoi libri di
anatomia. Graalmir era un bambino tranquillo, molto silenzioso e sulle
sue (proprio come suo padre quando non si trovava in mezzo ai suoi
cavalieri o di fronte al suo popolo), ma aveva anche lui i suoi momenti
no. Le cuciture di un braccio del coniglietto si erano col tempo
allentate e quella fatidica mattina si smollarono del tutto, facendo
uscire la sabbia con cui Merlino l’aveva riempito. Il
principe rimase in silenzio per una manciata di secondi, sbigottito,
poi scoppiò a piangere disperato. Gaius sobbalzò
sulla sedia e non appena si rese conto di ciò che era
successo andò da lui per cercare di consolarlo, ma Graalmir,
sempre più agitato, fece cadere un barattolo di palline di
legno su cui Gaius, alzatosi in piedi per andare a chiamare sua madre,
scivolò. Per evitare di cadere si aggrappò alle
tende che oscuravano le finestre, ma queste si staccarono e il
guaritore di corte picchiò forte la testa sul pavimento,
iniziando subito a sanguinare. Il piccolo Pendragon smise di colpo di
piangere, spaventato, ma la sua attenzione venne ben presto catturata
da un paio di tortore in volo proprio di fronte alla finestra ora priva
di tende oscuranti. Si alzò, asciugandosi le guance con le
manine, e a piccoli passi raggiunse la sedia su cui Gaius era stato
seduto a leggere. Vi salì e, incantato, guardò i
due uccelli esibirsi in un duo di danza aerea nel cielo azzurro, sopra
la piazza della cittadella illuminata dal sole e in cui,
all’ombra di un porticato, si celava un uomo con un lungo
mantello nero e il cappuccio che gli celava il viso.
Non appena era rinvenuto, scriveva ancora Merlino, aveva subito capito
che avevano interpretato male le sue visioni, le quali ora avevano
tutto un altro senso.
Nonostante il mal di testa lancinante e la folla da cui si era trovato
attorniato, era corso al castello con Sir Percival, incontrato lungo la
strada. I due cavalieri che quella mattina avevano il turno di guardia
all’inizio dell’ala proibita non avevano sentito
nulla – ovviamente, dato che il mago aveva insonorizzato con
la magia la cameretta di Graalmir così che
dall’esterno non si potessero sentire eventuali pianti e
risate – e Merlino aveva sperato fino all’ultimo
che Gaius non fosse ancora caduto, ma non appena aveva aperto la porta
della camera l’aveva visto steso a terra in una pozza di
sangue, mentre Graalmir era in punta di piedi sulla sedia, con le
manine e il naso appiccicati sul vetro della finestra. Era arrivato
troppo tardi.
Merlino aveva chiamato in suo aiuto Sir Percival, rimasto con gli altri
cavalieri con il divieto d’accesso, e mentre lui, dopo un
attimo di esitazione, si occupava di un Gaius incosciente e con una
bruttissima ferita alla testa, lo stregone pensò al bambino,
tirandolo subito giù dalla sedia e stringendoselo al petto,
con una mano sul suo capo, per poi affacciarsi lui stesso alla ricerca
dell’uomo misterioso – sicuramente una spia
– che aveva visto nelle sue visioni. I loro sguardi per un
breve attimo si incrociarono, giusto prima che straniero sparisse,
inghiottito dall’ombra.
La caccia all’uomo era iniziata immediatamente e la regina
stessa aveva annunciato pubblicamente che chiunque l’avesse
aiutato, non solo a fuggire ma anche a mettersi in contatto con i suoi
complici, sarebbe stato punito severamente. Era stato Merlino a guidare
nelle ricerche un gruppo di Cavalieri scelti, tra cui lo stesso Sir
Percival, il quale mentre attraversavano i boschi gli si era affiancato
per scusarsi di quell’attimo di esitazione che aveva avuto
non appena era entrato nella stanza del piccolo principe. Il mago aveva
scritto che quella era stata la seconda volta in cui il cavaliere
vedeva Graalmir – la prima era stata di sfuggita, due anni e
mezzo prima, quando aveva aiutato Merlino a reintrodursi nel castello
– e che era rimasto paralizzato di fronte alla sua
somiglianza con Artù. Effettivamente, sia lui che Ginevra si
erano resi conto che crescendo era diventato sempre più
simile al solo ed unico re, con gli stessi occhi color del mare e lo
stesso sorriso, mentre caratterialmente – per quanto avevano
avuto modo di vedere – aveva preso le migliori
qualità di entrambi.
La spedizione era durata un giorno e mezzo, grazie ai poteri di
Merlino, con cui avevano rintracciato e successivamente messo in
trappola la spia. Lo stregone non aveva scritto molto in proposito,
solo che il prigioniero era stato interrogato per scoprire se aveva
già inviato la lettera a chi l’aveva assoldato
– cosa che aveva fatto – e che poi era morto.
Da quel giorno in poi, però, il dubbio riguardante alla
presenza o meno di un Pendragon era tornato ad essere al centro dei
pettegolezzi dentro e fuori Camelot. Forse la spia non era stata
l’unica persona ad averlo visto affacciato alla finestra
dell’ala proibita, forse la notizia che aveva raggiunto uno
dei regni ostili si era già diffusa; l’unica
certezza di Merlino, spesso e volentieri a contatto con la gente
durante le settimane di convalescenza di Gaius, era che tutti avevano
iniziato di nuovo a sperare.
Un tempo anche lui avrebbe fatto parte di quella schiera di persone che
non volevano altro che un nuovo Pendragon salisse sul trono, che
gioivano al pensiero che lo spirito del loro tanto amato
Artù vivesse attraverso un suo discendente, ma
all’epoca tutto ciò a cui riusciva a pensare era
come proteggere quel bambino che, se le terribili profezie che gli
toglievano il sonno si fossero avverate, non sarebbe nemmeno riuscito a
vedere il mondo fuori dalla sua stanza.
***
Merlino
rientrò in casa, col cesto del bucato vuoto sottobraccio, e
si concesse un respiro profondo quando si accorse che la sua tecnica
alla fine aveva funzionato: il libro non c’era più
e con esso era sparito pure Artù.
Spense la televisione in salotto, poi salì lentamente le
scale e dopo aver lasciato il cesto in bagno si diresse verso la stanza
del re di Camelot. Si fermò sulla soglia, con una spalla
contro lo stipite della porta, e con espressione colpevole
fissò Artù seduto allo scrittoio, col libro
aperto di fronte al viso e i palmi delle mani posati sugli occhi molto
probabilmente umidi di lacrime.
Raccogliendo il coraggio, si avvicinò fino a portarsi quasi
dietro di lui e gli posò una mano sulla spalla.
«Era davvero straordinario. Sareste stato fiero di
lui».
Artù sobbalzò leggermente, lasciandosi sfuggire
un singhiozzo dalle labbra, poi domandò: «Che ne
è stato di lui?».
«Mi piace pensare che abbia vissuto una vita piena e felice,
lontano da Camelot ma con la consapevolezza di essere un
Pendragon».
«Ti piace pensare?»,
ripeté il biondo, con una scintilla d’ira negli
occhi. «Merlino…».
Lo stregone scrollò il capo, prese il libro tra le mani e si
sedette di fronte a lui. Sfogliò alcune pagine, spesse ed
ingiallite, ed iniziò a raccontare da dove Artù
si era fermato: «La spia è riuscita a portare a
termine la propria missione e non ci disse mai chi era il re a cui
aveva inviato quella lettera. Non sarebbe servito a molto saperlo,
vista la rapidità con cui la notizia ha raggiunto tutti i
regni, e contrattare non sarebbe servito a nulla con i re che non
aspettavano altro che un pretesto per dichiarare guerra a Camelot.
«Impiegarono pochi mesi per formare gli eserciti e mettersi
d’accordo per la spartizione delle conquiste. Come vi ho
già detto, molto prima che accadesse io ho predetto la
caduta di Camelot e Ginevra ha deciso di rimanere comunque
all’interno delle mura del castello, anche se questo
significava morte certa. Non l’ha fatto perché si
sentiva braccata, né perché non voleva
più vivere senza di voi, come si è spesso
detto… Aveva ben altro in mente. Non appena era venuta a
conoscenza delle mie visioni aveva iniziato a pianificare un piano di
fuga per me e Graalmir».
Merlino fu spettatore del susseguirsi di espressioni sul viso di
Artù: prima confusa, poi incredula e alla fine tristemente
consapevole che lui avrebbe pensato esattamente la stessa cosa.
Ginevra, d’altronde, non era mai stata una servetta qualunque.
Con un debole sorriso, il mago riprese: «Gwen era convinta
che rimanere a Camelot il più a lungo possibile ci avrebbe
permesso di allontanarci abbastanza da renderci irrintracciabili.
Nessuno infatti avrebbe pensato che la regina avrebbe abbandonato
così facilmente quel figlio che aveva protetto sin dalla
nascita, tenendolo nascosto agli occhi di tutti. Io mi sono subito
opposto al piano, con tutte le mie forze, sostenendo che se qualcuno
doveva scappare con il principe quella era proprio lei. È
stato tutto inutile, ovviamente. Ricordo ancora le parole che mi disse,
come se fosse ieri… Mi disse che io ero l’unico in
grado di proteggerlo, l’unico a cui voi stesso avreste
affidato la vita di Graalmir».
«Che cos’è accaduto?», chiese
Artù con voce fioca, fissando con occhi vacui la superficie
in legno dello scrittoio.
«Vi ho deluso, per l’ennesima
volta».
Merlino sentì gli occhi di Artù bruciargli
addosso, ma fu il suo turno nel tenere lo sguardo basso su quelle
pagine scritte alla rinfusa, con mani tremanti, l’inchiostro
mischiato a sangue e lacrime.
«Tre giorni prima della battaglia ho insistito
perché Percival partisse con me e Graalmir. Ho detto a
Ginevra che l’avevo visto all’interno delle mie
ultime visioni e che ci sarebbe stato d’aiuto durante la fuga
verso la salvezza. In realtà la Vista non mi aveva mostrato
nuove profezie, quello che volevo era solo riuscire a salvare tutti.
Quant’ero presuntuoso, pieno di me e… patetico.
Credevo di essere speciale, di poter portare del bene, quando in
realtà…».
Sentiva il cuore dolergli ad ogni battito, come se ogni pulsazione
fosse un errore, uno scherzo della natura, mentre le vie respiratorie
erano ostruite da un grumo di disperazione e rimpianti.
«Merlino, tu non…». Artù
esitò per quella che sembrò
un’infinità – e lui conosceva abbastanza
bene il concetto, – poi balbettò: «Tu
hai fatto del tuo meglio».
«Esattamente. Mi sono sempre illuso di poter fare di
più e questa è stata la mia rovina».
Quella volta Artù non rispose e Merlino decretò
che segretamente gli dava ragione.
«Ad ogni modo», riprese col proprio racconto,
«Percival, Graalmir ed io siamo partiti alle prime luci
dell’alba, travestiti e portando con noi lo stretto
necessario, e abbiamo cavalcato quasi ininterrottamente per due giorni
verso il regno di Nemeth, dove ero sicuro che Mithian ci avrebbe
offerto il suo aiuto per proteggere Graalmir senza svelare la sua vera
identità.
«Eravamo ancora ad un paio di giorni di viaggio, quando
svelai a Percival il mio piano: lui sarebbe andato avanti con Graalmir,
mentre io sarei tornato a Camelot per partecipare alla battaglia stando
al fianco di Ginevra. Ovviamente non ha reagito bene, ma quando gli ho
spiegato che la mia presenza avrebbe aumentato le
possibilità che lui e Graalmir arrivassero sani e salvi da
Mithian e che questo era tutto ciò di cui mi importava, ha
accettato. Quella è stata l’ultima volta che ho
visto Graalmir.
«Quando sono arrivato a Camelot la battaglia era
già in pieno svolgimento, ma il castello non era ancora
stato penetrato. Sono riuscito a raggiungere la sala del trono, dove
Ginevra, i Cavalieri della Tavola Rotonda rimasti e Gaius si erano
barricati in attesa della fine. Non dimenticherò mai il
terrore che ho letto negli occhi di Gwen quando mi ha visto spalancare
le porte senza Graalmir. Pensava che l’avessero catturato ed
ucciso. L’ho rassicurata e poi mi ha schiaffeggiato e mi ha
abbracciato, arrabbiata perché l’avessi tenuta
all’oscuro di tutto e felice che fossi al suo fianco anche in
quell’occasione. Il resto… lo sapete
già».
Artù annuì lentamente e si alzò,
raggiunse il camino e si appoggiò alla solida mensola con
entrambe le mani, gli occhi fissi su fiamme invisibili.
«Graalmir e Percival sono riusciti a raggiungere
Nemeth?», domandò ad un tratto, così a
bassa voce che Merlino faticò a distinguere le parole.
Lo stregone socchiuse gli occhi per il dolore che rivivere quei momenti
gli provocava, ma si costrinse a parlare con voce ferma.
«Quando mi sono rianimato, quello è stato il mio
primo pensiero. Ho rubato il cavallo di un cavaliere nemico,
disarcionandolo dalla sella con un mini tornado simile a quello che
avete visto quando…». Artù gli
gettò un’occhiata fulminante e Merlino
deglutì, ritornando a concentrarsi sulla storia.
«Ho raggiunto Nemeth il più velocemente possibile
e ho voluto vedere subito Mithian. Non le avevamo scritto una lettera
di preavviso né avevamo mandato un nostro messaggero
– c’era il rischio che venissero intercettati e che
il nostro piano andasse in fumo – perciò quando le
ho chiesto di Graalmir e Percival e lei non sapeva di che cosa stessi
parlando ho capito che non ce l’avevano fatta. Ho cercato di
non disperarmi, di dirmi che forse si erano fermati più
volte del previsto o avevano dovuto prendere una strada più
lunga per qualche motivo. Mi sono fatto ospitare dalla regina e dopo
qualche ora di riposo sono tornato nel punto in cui li avevo lasciati,
deciso a cercare qualche loro traccia. E anche se non ce
l’avessero fatta… volevo indietro almeno i loro
corpi.
«Ho perlustrato l’intera foresta, foglia dopo
foglia, arbusto dopo arbusto, usando anche la vista che quella volta ci
ha permesso di raggiungere la Torre Oscura, e quando stavo per
arrendermi, ad ormai poche miglia da Nemeth, ho trovato la spada di
Percival. Era stata infilzata nel terreno, accanto ad un albero con
delle tracce di sangue, e seguendole sono arrivato vicino alla sponda
di un fiumiciattolo. Prima di trovare Percival mi sono imbattuto nel
corpicino di un bambino con indosso il mantello di Graalmir. Pensavo
davvero fosse lui e sono crollato in ginocchio, urlando, ma non appena
l’ho preso tra le braccia e gli ho scostato il cappuccio dal
viso ho tirato un sospiro di sollievo. È orribile da dire,
perché quel bambino era morto, ma il fatto che non fosse
Graalmir… mi ha ridato la speranza.
«Ho trovato Percival vicino al fiume, addossato contro un
albero, con una brutta ferita sul fianco. Si era medicato alla
bell’e meglio, stringendosi una benda tutt’intorno
al torace, e in quel modo è riuscito a non dissanguarsi.
Ciononostante era molto debole e ci sono voluti due giorni di completo
riposo prima che potesse raccontarmi ciò che era successo.
«La mattina dopo la mia
partenza hanno incontrato sulla loro strada una carovana di contadini,
con mogli e bambini al seguito, e visto che anche loro erano diretti
verso il regno di Nemeth, Percival ha pensato di accompagnarli sia per
difenderli sia per mescolarsi a loro in caso di necessità.
Nessuno di loro aveva accennato però al fatto che venissero
da Camelot. Percival mi ha raccontato che una delle donne
l’aveva riconosciuto subito, ma non ne ha fatto parola con
nessuno perché, vedendolo solo con un bambino, aveva capito
tutto. Percival l’ha scoperto solo quella sera, quando quella
stessa donna, Hanna, gli ha servito la cena e si è seduta al
suo fianco. Gli ha giurato che non aveva alcuna intenzione di venderli
ai soldati nemici di Camelot e che avrebbe mantenuto il segreto con
tutto il resto della carovana».
«È stato fortunato», disse
Artù, interrompendolo per la prima vera volta. Merlino
annuì con un cenno del capo, sfogliando ancora qualche
pagina.
«Hanna viaggiava sola col proprio bambino, più o
meno della stessa età di Graalmir, il quale si era preso una
brutta polmonite poco dopo la partenza. Non potendo tornare a Camelot,
la madre aveva provato a somministrargli dei rimedi casalinghi, del
tutto inefficaci. Percival, come segno di ringraziamento, le promise
che una volta arrivati a Nemeth avrebbe parlato con Mithian per farlo
visitare dal guaritore di corte in persona».
«Ma questo non è mai successo»,
esclamò il re, già un passo avanti.
«È morto quella stessa notte, qualche ora prima
che venissero attaccati da un gruppo di banditi che sapevano che un
cavaliere di Camelot viaggiava col principe. Non abbiamo mai scoperto
come sia potuto accadere, ma Percival aveva il presentimento che Hanna
non fosse stata l’unica a riconoscerlo. Mi ha raccontato che
quando si sono fermati per la notte, gli uomini sono andati a cercare
della legna da ardere e uno di loro era tornato pallido come un
lenzuolo, spaventato a morte. L’ha trovato sospetto e ha
provato a farlo parlare, ma l’uomo sosteneva di essersi
spaventato a causa di un serpente sbucato all’improvviso
fuori da un cespuglio. Probabilmente quei banditi erano accampati poco
lontano da dov’erano loro e hanno catturato l’uomo,
forse per derubarlo, scoprendo però che aveva ben poco con
sé. Hanno minacciato di ucciderlo, forse di uccidere sua
moglie e i suoi bambini, e lui per salvare la sua famiglia deve aver
detto loro che potevano avere molto di più: il principe di
Camelot.
«Era quasi l’alba, quando hanno attaccato. Percival
e Hanna erano rimasti svegli, scossi per la morte del bambino,
perciò sono stati i primi a reagire. Mentre Percival lottava
con i banditi, Hanna ha avuto l’idea geniale che ha salvato
Graalmir: gli ha levato il mantello e l’ha sistemato sul
corpo di suo figlio, poi ha recuperato un cavallo e ha fatto segno a
Percival di muoversi. Lui ha capito subito ciò che aveva in
mente e dopo aver gettato uno sguardo a Graalmir, promettendo a se
stesso che l’avrebbe ritrovato, e aver ringraziato Hanna,
certo che non li avrebbe mai traditi, è salito a cavallo col
corpo del bambino e ha attirato su di sé tutti i banditi
rimasti, i quali ormai volevano solo il principe.
«Presto è stato accerchiato e durante il
combattimento è stato disarcionato da cavallo con tanta
violenza che nella caduta ha battuto la testa ed è svenuto.
Quando ha ripreso conoscenza i banditi non c’erano
più, di sicuro si erano accorti del trucco, e quando
Percival ha raggiunto a piedi il punto in cui si erano accampati la
carovana era in fiamme e non c’erano sopravvissuti. Ha
camminato tra i cadaveri di uomini, donne e bambini innocenti, ma non
ha trovato quelli di Hanna e Graalmir. Col cadavere del bambino che
aveva fatto da esca tra le braccia si è incamminato verso
Nemeth, ma la ferita al fianco era più grave di quello che
pensava ed è stato costretto a fermarsi sulle sponde del
fiumiciattolo dove è rimasto semi-svenuto fino a quando non
l’ho trovato».
Merlino si fermò e il silenzio che piombò loro
addosso fu così profondo e prolungato che ad un tratto
Artù si voltò e lo guardò con entrambe
le sopracciglia inarcate. Conosceva bene quell’espressione,
era quella che di solito accompagnava la frase: “Sei davvero
così stupido, Merlino?”.
«E poi?», gli domandò infine,
innervosito.
«E poi niente, la storia finisce qui», rispose
amareggiato, chiudendo il libro così di colpo che una
nuvoletta di polvere lo fece tossire.
«In che senso la storia finisce qui? Non
può finire qui!».
Lo stregone scosse il capo. Quante volte aveva desiderato che non
finisse in quel modo, quante aveva sperato di poter scrivere, un
giorno, della vita che Graalmir aveva vissuto, di quanto era cresciuto
ed era diventato simile a suo padre, di quanto lo aveva reso orgoglioso
e felice? E invece si era dovuto accontentare
dell’immaginazione, della speranza e dell’orribile
poema del giovane – ed ubriacone –
Chrétien de Troyes, conosciuto in una squallida bettola in
cui dopo qualche boccale di troppo si era sentito così
stanco da doversi sfogare con qualcuno. Ricordava ancora
l’incredulità e il ribrezzo che aveva provato
quando si era trovato di fronte ad una copia de “Le
Roman de Perceval ou le conte du Graal”. Quello
stupido e confusionario libricino, pieno di strafalcioni e in cui
Graalmir si era assurdamente trasformato in un calice, aveva avuto
così tanto successo che era diventato una leggenda vera e
propria, su cui erano stati creati altri miti dalle mille e
più versioni ed interpretazioni. L’unica cosa
giusta scritta da Chrétien – probabilmente
l’unica cosa che aveva chiaramente in testa quando si era
ripreso dalla sbornia – era che Percival aveva cercato Graal
in lungo e in largo.
«Merlino, mi stai ascoltando?!», urlò
Artù, di nuovo allo scrittoio, con le mani posate sul
ripiano di legno e gli occhi furenti fissi sul volto dello stregone.
«Dimmi cos’è successo a mio
figlio!».
«Se solo lo sapessi…»,
mormorò, sospirando. «Quando Percival si
è ripreso siamo andati subito alla ricerca di Hanna e
Graalmir, nella speranza che si fossero rifugiati da qualche parte a
Nemeth. Abbiamo chiesto a chiunque e finalmente un venditore di frutta
ci ha detto che era passata una donna con un bambino che corrispondeva
alla nostra descrizione e che gli aveva dato un messaggio per un certo
Percival. Hanna e Graalmir stavano bene e si sarebbero diretti verso
sud, dove avrebbero cercato un villaggio tranquillo e si sarebbero
fatti una nuova vita. Io e Percival siamo partiti subito, nonostante
lui non fosse ancora in piena forma – credo si fosse
innamorato di Hanna – e ci siamo fermati in ogni villaggio
che incontravamo. Ci fermavamo per un paio di giorni al massimo,
parlavamo con ogni abitante e poi partivamo di nuovo. Abbiamo vissuto
così per quasi cinque mesi. Dopo l’ennesimo buco
nell’acqua, io mi sono arreso. Continuavo a pensare che fosse
tutta colpa mia, che non sarei mai dovuto ritornare a Camelot, e una
notte, disperato, ho lasciato Percival addormentato nel bosco e sono
scappato. È stato allora che decisi di vivere da solo, come
un vagabondo, per paura che chiunque si avvicinasse troppo a me
morisse, e che giurai che non avrei mai più usato la
magia».
Artù rimase in silenzio, la fronte aggrottata, e dopo quella
che sembrò un’infinità fece il giro
dello scrittoio e gli diede una pacca sulla spalla.
«Non è colpa tua», disse, ma Merlino
ebbe la netta sensazione che non lo pensasse davvero. Non poteva
biasimarlo, davvero non poteva; aveva tutto il diritto di essere
arrabbiato con lui per tutte le sciocchezze che aveva fatto e sapeva
che delle semplici scuse, dopo più di millequattrocento
anni, non sarebbero state sufficienti, ma non poté frenarsi.
«Mi dispiace tanto. Per tutto».
Artù, di nuovo appoggiato alla mensola del camino ma quella
volta solo con una mano, levò su di lui gli occhi color del
mare inghiottito dalla tempesta, cupi, intrisi di tristezza e rabbia,
ed annuì. «Lo so».
«Io stesso non mi sono mai perdonato, perciò lo
capirei se…».
«Oh, fai silenzio, Merlino».
Lo stregone chinò il capo, mordendosi il sorriso appena
accennato che gli aveva incurvato le labbra senza che avesse il tempo
per ricacciarlo indietro.
«Mi chiedevo se è per questo che ti occupi dei
bambini, per… diciamo così, espiare le tue
colpe».
Merlino non ci aveva mai riflettuto seriamente, ma doveva riconoscere
che quello era sicuramente uno dei motivi.
«Credo di sì», rispose, stringendosi
nelle spalle. «Graalmir… adoravo stare con lui,
raccontargli le vostre imprese eroiche… All’inizio
è stato doloroso fare lo stesso con i bambini
dell’ospedale, ma poi, vedendo i loro sorrisi, i loro occhi
illuminarsi… è stato come riaverlo con me. Io non
ero suo padre, ma perderlo è stato comunque atroce, quindi
capisco come vi sentite».
Artù scrollò un poco il capo, per poi chinarlo
verso il basso. «Non l’ho nemmeno mai
visto».
Merlino esitò, chiedendosi se non fosse meglio
così. Ma Artù aveva il diritto di poter
scegliere, non sarebbe stato corretto da parte sua decidere ancora una
volta al posto suo, temendo che potesse soffrirne.
Si schiarì la gola, passandosi una mano sulla nuca.
«Artù, voi vorreste…?». Il re
si voltò, gettandogli un’occhiata tesa, e il mago
respirò profondamente prima di concludere la frase:
«Vorreste vederlo?».
«E come…?». Si interruppe bruscamente,
arricciando il naso come se fosse appena stato colpito da una zaffata
di cattivo odore. «Vuoi usare la magia?».
«Non proprio. Rispondete alla domanda».
Artù ci pensò su un poco, una manciata di
secondi, prima di annuire con un semplice cenno del capo.
Merlino lo condusse nella soffitta buia ed impolverata, ambiente ideale
per i ragni che avevano tessuto le loro tele nella punta delle due
torri che viste da fuori davano un aspetto così particolare
alla casa.
Erano anni che non vi saliva e il disordine era impressionante, tanto
che sentì Artù imprecare sottovoce, ma il mago si
diresse con sicurezza verso il fondo, sotto il lucernario sporco che
faceva filtrare quel minimo di luce grazie al quale riuscivano a
camminare senza pestarsi i piedi a vicenda.
Prese con entrambe le mani un lenzuolo ingrigito e lo gettò
a terra, sollevando un’onda di polvere; sotto di esso, una
cassapanca di mogano pregiato con lo stemma dei Pendragon che aveva
inciso lui stesso. Lo accarezzò con la punta delle dita,
ricordando le notti che aveva trascorso al lume di candela nella
falegnameria in cui aveva lavorato per qualche mese, con la paura di
essere scoperto dal padrone, e della soddisfazione che aveva provato
quando aveva finito il lavoro.
«Qui dentro c’è tutto ciò che
di più prezioso io abbia»,
spiegò.
Quindi sollevò il coperchio e sentì subito le
lacrime affluirgli agli occhi. Dentro quel baule – una
costante in tutti i suoi trasferimenti – c’erano
tutti i momenti salienti della sua vita, i ricordi che custodiva
più gelosamente, quelli che facevano più male di
tutti.
«Questa credo sia vostra», esclamò
schiarendosi la gola, prendendo tra le mani un oggetto avvolto in
più strati di pregiato velluto color porpora.
Artù prese l’incarto tra le mani e con un tuffo al
cuore sollevò la corona da re che indossava durante
cerimonie ed eventi ufficiali.
«Come l’hai…?».
«Dopo che Camelot è caduta molte delle ricchezze
reali saccheggiate sono andate disperse. La maggior parte le ho
recuperate, in tutti gli angoli del mondo, e le ho donate ai musei, ma
alcune le ho conservate. Sono tutte qui, da qualche parte».
Indicò gli scatoloni e gli scaffali di metallo intorno a
loro, coperti da lenzuoli o semplicemente accatastati gli uni sugli
altri, poi indicò la corona che Artù teneva
ancora tra le mani. «Quella è
stata una vera impresa. Faceva parte della collezione privata di uno
spregevole vecchietto fanatico della storia che nonostante le mie
generose offerte non aveva alcuna intenzione di vendermela. Alla fine
gliel’ho rubata».
Il re di Camelot strabuzzò gli occhi, incredulo.
«Tu che cosa? Merlino!».
«Cosa? Quell’uomo non se la meritava. Lo rifarei
seduta stante».
Artù si rigirò la corona tra le dita, poi
l’avvolse nuovamente nel velluto e gliela porse. Merlino
avrebbe voluto spazzare via le nubi di malinconia che avevano
ombreggiato ancora una volta gli occhi dell’amico, magari con
una battuta sul fatto che era sicuro che gli sarebbe andata larga dopo
tutti quegli anni passati sott’acqua, ma fu contagiato
dall’amarezza e rimase in silenzio. Ripose la corona dove
l’aveva trovata e cercò ciò per cui
erano andati fin lassù.
Trovò il libro, più sottile rispetto a quelli che
aveva utilizzato per i propri diari, e non appena lo afferrò
sentì una scossa percorrergli il braccio, così
forte che fu costretto a mollare la presa e a stringerselo al petto.
«Merlino, stai bene?», chiese Artù
apprensivo, inginocchiandosi al suo fianco. Il mago non poté
evitare di pensare che si sarebbe sporcato i jeans, ma
sorvolò e gli rivolse un sorriso tirato.
«Sì, nulla di grave».
«Che cos’è stato?».
«Quel quaderno. È così intriso di magia
che mi è sembrato di avere le dita infilate nella presa di
corrente».
Artù non capì fino in fondo il paragone, Merlino
glielo lesse negli occhi, ma parve comprendere che era una cosa seria e
allungò una mano per prenderlo al suo posto. Il mago
aprì la bocca per dirgli di non farlo, ma non successe
niente quando le dita del re sfiorarono il bordo del libro.
«Strano, io non sento niente», esclamò,
con le sopracciglia inarcate.
«Reagisce solo con chi possiede la magia, allora».
Merlino si sedette a gambe incrociate sulle assi del pavimento
impolverato, dimenticandosi per un attimo della sua ossessione da
casalinga, ed esortò Artù ad aprire il quaderno.
«Se lo tenete voi non c’è
pericolo».
Artù deglutì e dopo un attimo di indecisione
aprì il libro, rimanendo senza fiato di fronte alle immagini
disegnate a carboncino, semplicemente a matita e a volte dipinte ad
acquarello. Erano disegni stupendi, realistici e fedeli in maniera
quasi impossibile, ma ciò che li rendeva davvero incredibili
era qualcos’altro: le persone ritratte sulla carta si
muovevano, sorridevano e sbattevano le ciglia in modo naturale, proprio
come in un video moderno.
Merlino allungò il collo e scorse anche lui ciò
che aveva disegnato secoli e secoli prima, quando ancora viveva a
Camelot e gli sembrava di aver ritrovato una parte di
felicità.
Artù avvicinò le dita al viso sorridente di
Ginevra, la quale teneva tra le braccia un bambino di forse qualche
settimana, avvolto in una coperta. Per paura di interromperne i
movimenti non sfiorò la carta e con voce strozzata chiese:
«Quel bambino è…?».
«Graalmir Pendragon, sì. Vostro figlio».
«È bellissimo».
Merlino accennò un sorriso. «Già.
Girate pagina».
Artù fece come gli era stato detto e gli scappò
un versetto che poteva essere un singhiozzo come una mezza risata.
Incrociò lo sguardo di Merlino e quest’ultimo
capì che forse stava provando entrambi i sentimenti,
tristezza e gioia, contemporaneamente.
Nell’immagine Graalmir era steso nella sua culla, che
sorrideva sdentato e allungava le manine verso una giostrina da cui
pendevano piccole spade, scudi, cavalli e draghi di legno.
«Sarebbe diventato un ottimo cavaliere, come suo
padre».
«E io avrei potuto insegnargli alcuni incantesimi. Il primo
cavaliere-stregone di Camelot, invincibile».
Artù arricciò il naso come se non approvasse del
tutto la sua uscita, ma non protestò ad alta voce e Merlino
lo apprezzò davvero.
Rimasero
in quella soffitta per tutta la mattina, sfogliando le pagine di quel
quaderno come se fosse un album di fotografie, vedendo crescere
Graalmir ritratto dopo ritratto, commentando, ridendo e bisticciando,
fino a quando non giunsero alla prima pagina bianca, in grado di
riportarli bruscamente alla realtà.
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Capitolo 12 *** 12. The tears of the Pendragons – Part II ***
Buonasera! :)
A voi la seconda parte di questo capitolo ricco di feels. In questo
incontreremo improbabili spasimanti, tanti fraintendimenti e
un'investitura. Ma non solo. Essendo un altro capitolo ricco di
avvenimenti vi lascio subito alla lettura, sperando che vi piaccia.
Grazie a tutti, come al solito, per il supporto. Vi lovvo tanto.
Alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________________
12. The tears of the Pendragons –
Part II
Artù
sentiva la testa scoppiargli. Aveva ricevuto troppe informazioni tutte
insieme, senza avere il tempo di metabolizzarle singolarmente, e ora
tutto il dolore, la gioia e la malinconia l’avevano
prosciugato, lasciandolo con una voragine al posto del petto.
Aveva conosciuto suo figlio, aveva fatto in tempo ad amarlo e a
sorridere di fronte al suo viso luminoso e pieno di vita e poi gli era
stato strappato via, proprio come lui era stato strappato via dalla sua
città, dalla sua vita, per doversene costruire una nuova con
una perfetta sconosciuta.
Merlino aveva detto di sperare che Graalmir fosse venuto a conoscenza
delle proprie nobili origini, che fosse andato orgoglioso del suo
cognome, ma Artù pensava piuttosto che, data la tenera
età, fossero bastati pochi anni per cancellare del tutto il
ricordo di Camelot, di sua madre e di tutti coloro che gli avevano
voluto bene. E probabilmente era stata la sua salvezza ricominciare da
zero, senza sapere nulla del proprio passato. Lui, al contrario di
Merlino, ne era sicuro, perché se davvero Alex era la sua
ultima lontana discendente, allora non poteva essere diversamente:
Graalmir aveva vissuto abbastanza da sposarsi ed avere dei figli, con
un cognome diverso ma con sangue Pendragon nelle vene.
Mentre Merlino raccontava ciò che aveva dovuto passare, le
sofferenze che aveva dovuto patire, Artù aveva
più volte avuto la tentazione di rivelargli tutto, di dirgli
che era vero che lui non c’entrava nulla, che tutte le morti
a cui aveva dovuto assistere erano state orchestrate dai custodi della
magia per costringerlo a reagire, ma non ne aveva trovato la forza. Non
sapeva come Merlino l’avrebbe presa e lui, distrutto
com’era da tutto ciò che aveva appreso, non
sarebbe stato una buona spalla su cui piangere, la roccia in grado di
sostenerlo. Doveva trovare il momento e il modo giusto con cui dirgli
tutto quello che Freya gli aveva a sua volta detto e anche che la
stessa Freya custodiva ancora Avalon. Poi avrebbero cercato di trovare
una soluzione ragionevole per il problema “destino da
compiere” che avevano per le mani.
Era tutto così grande e confuso e fuori dal tempo che non
riusciva nemmeno a pensarci. L’unica cosa che poteva fare era
affrontare un problema per volta, giorno dopo giorno, facendo del suo
meglio per non aggravare la situazione.
«Artù, siete pronto?».
Il re di Camelot sobbalzò di fronte allo specchio quando,
pettinandosi i capelli biondi, calcò troppo con la spazzola
sul punto in cui l’agente Chandra gli aveva lasciato in
ricordo un bel bernoccolo. Non poté fare a meno di
realizzare – non senza vergogna – che nel giro di
dieci giorni si era già fatto stendere due volte e da due
donne, per di più. Aveva davvero bisogno di un po’
di allenamento, o persino Merlino, senza l’aiuto della magia,
sarebbe stato in grado di metterlo K.O..
«ARTU’!».
Il re sospirò e si guardò un’ultima
volta allo specchio, sistemandosi una ciocca di capelli biondi sulla
fronte, prima di gridare che sì, stava scendendo.
Trovò Merlino già al volante della propria auto
d’epoca, sulla strada sterrata di fronte casa, e
Artù dovette chiudere a chiave la porta prima di
raggiungerlo.
Il mago gli aveva proposto di accompagnarlo all’ospedale per
una promessa che aveva fatto e per accontentare anche lui, che una
volta aveva espresso il desiderio di voler conoscere i bambini.
Artù aveva accettato, sperando di riuscire a distrarsi quel
tanto che bastava ad alleviare quel maledetto mal di testa.
Il cielo era nuvoloso e il freddo non era eccessivo, permettendo loro
di viaggiare anche a tetto scoperto. Trascorsero la maggior parte del
tragitto in silenzio, Merlino guardando la strada di fronte a
sé e Artù appoggiato con le braccia incrociate
sulla portiera, la testa quasi fuori dall’abitacolo.
Ad un tratto l’odore salmastro del lago gli colpì
il viso e il re, ripensando alla sera precedente, si ricordò
del destriero metallico che l’agente di polizia gli aveva
fatto lasciare per strada.
«Devo andare a recuperarlo, iniziava a piacermi».
«Che cosa?», domandò Merlino, facendogli
capire che l’aveva detto ad alta voce.
«Il mezzo a pedali che ho usato per andare a caccia, quello
che c’era nel fienile».
Il mago aggrottò la fronte, riflettendo.
All’improvviso, l’illuminazione. «La
bicicletta!», esclamò ridacchiando. «In
che punto l’avete lasciata?».
«Non ricordo di preciso, era molto buio»,
mentì. Ricordava perfettamente dove la volante della polizia
l’aveva costretto a fermarsi – una stradina
secondaria poco lontana da Avalon – ma non voleva dirlo a
Merlino perché temeva che potesse insospettirsi.
«Andremo a riprenderla più tardi»,
decise Merlino. «Mi pare di aver capito che Myra vi ha
sequestrato anche il pugnale e la balestra. Cercherò di
farmi ridare tutto nei prossimi giorni».
Artù si voltò a guardarlo, colpito dal fatto che
avesse chiamato per nome l’agente Chandra. Era successo anche
quella mattina, ma allora non ci aveva fatto troppo caso. Era piuttosto
sicuro di non averla mai chiamata per nome e, come se non bastasse, il
modo in cui Merlino lo pronunciava, con un misto di tenerezza e
rimpianto, lo convinceva sempre di più che tra quei due ci
fosse stato qualcosa.
«La conosci?», chiese a bruciapelo e il mago
reagì come aveva previsto, irrigidendosi sul sedile ed
evitando di guardarlo negli occhi.
«Chi, l’agente Chandra? Questa è una
piccola cittadina, ci conosciamo tutti tra noi».
Artù arricciò al naso, per nulla convinto ed
infastidito dal suo continuo glissare, come se non volesse raccontargli
fasi della sua vita perché non avrebbe capito, ma non
protestò, ricordandosi che anche lui gli stava celando un
segreto ben più grande di una storia d’amore.
Dopo altri dieci minuti di viaggio Merlino parcheggiò
l’auto nella piazzola di fronte all’ospedale e
tirò su il tettuccio. Afferrò Artù per
un braccio ancor prima che si muovesse per aprire la portiera e lo
guardò intensamente negli occhi. Sapeva già cosa
stava per dirgli: «Comportatevi come un uomo del Ventunesimo
secolo, evitate di dare del voi e non fate nulla di strano»,
ed era già pronto a tappargli la bocca con un:
«Stai zitto, Merlino», ma lo stregone lo sorprese
ancora una volta, dicendo: «Siate voi stesso, solo per questa
volta».
Artù sbatté più volte le palpebre,
confuso. «Come hai detto, scusa?».
«L’effetto della mia magia svanirà
presto, forse ha già iniziato a scomparire,
perciò l’atmosfera sarà piuttosto
pesante. I bambini hanno visto i miei disegni, vi riconosceranno
subito: accontentateli, se potete. Distraeteli, fateli
sorridere».
Il re di Camelot non riusciva a credere alle proprie orecchie. Davvero
Merlino gli aveva appena chiesto di recitare il ruolo del principe, del
re, ciò che era stato e che non era più? Non
aveva un’idea precisa riguardo al significato
dell’espressione “fenomeno da baraccone”,
ma si sentiva comunque così, sfruttato e messo in mostra
contro la sua volontà.
Avrebbe voluto rispondergli: «Scordatelo!», ma la
tristezza che lesse nel profondo dei suoi occhi glielo
impedì. Trattenendo la frustrazione, grugnì:
«Va bene».
Fu piacevole, come scorgere il primo raggio di sole dopo una violenta
tempesta, vedere il volto di Merlino illuminarsi di gioia e
gratitudine.
Artù non poté trattenere un sorriso mentre
scendeva dall’auto e lo seguiva all’interno,
perdendo presto il conto di quante persone lo salutassero
affettuosamente, sorridendogli.
Ovunque andasse, Merlino riusciva sempre a catturare la simpatia di
chiunque lo incontrasse e Artù ne era tremendamente geloso,
visto che per lui era sempre stato difficile affermare la propria
identità in un ambiente che non era in grado di vedere
nient’altro che il suo titolo regale. Merlino era stato il
primo a farlo, seguito poi da Ginevra, e insieme avevano scalfito la
dura corazza che aveva costruito intorno al cuore, facendogli capire il
senso dell’umiltà, dell’essere se stessi
e di fare ciò che riteneva giusto, imparando anche a
ribellarsi e a lottare per i propri ideali. Gli ci erano voluti anni
per rendersi conto di quanto Merlino contasse per lui, per ammetterlo
apertamente, e nonostante sapesse quanto aveva fatto per lui sentiva
che non sarebbe mai riuscito a ripagarlo del tutto.
Era ancora soprappensiero, quando rischiò di finire contro
una ragazza con indosso una tuta blu piena di tasche. Aveva un bel
viso, dalla pelle diafana punteggiata di efelidi, i capelli rosso
sangue raccolti in una lunga treccia posata sulla spalla, una sfilza di
orecchini – soprattutto cerchietti d’argento
– e un brillantino sul naso.
«Ehi, sarai anche bello come un dio ma noi comuni mortali non
siamo invisibili», lo rimbeccò con un pizzico di
malizia negli occhi castani.
Artù non riuscì a reagire prontamente, colpito
dal suo aspetto e dall’audacia che dimostrò
passandosi la lingua sui denti mentre lo squadrava da capo a piedi,
come se lo stesse valutando. Quindi gli sorrise, mostrando una fila di
denti bianchissimi, ma prima che potesse dire qualcos’altro
Merlino lo affiancò e lo prese per un braccio, stirando un
sorriso alla ragazza.
«Ciao Cathleen, avremmo un po’ di fretta».
Lei arricciò le labbra, incrociando le braccia al petto.
«Diavolo, in questo periodo non me ne va bene una. Posso
almeno sapere il nome del tuo amico?».
«Artù», rispose schietto, già
pronto a trascinarselo dietro. Il re non capiva perché
Merlino risultasse così nervoso e schivo nei suoi confronti,
ma nonostante la curiosità non glielo chiese: farlo di
fronte a lei sarebbe stato alquanto sconveniente e avrebbe provocato
l’ennesimo guaio.
«Artù e Merlino, fantastico!»,
esclamò esaltata, raggiungendoli con una corsetta e
piazzandosi di fronte a Merlino, in modo da bloccargli la strada. Si
era fatta improvvisamente seria, fissando gli occhi in quelli del mago.
«Dimmi la verità, ricambierai mai i sentimenti di
Alex?».
Merlino diventò rosso come un peperone ed iniziò
a boccheggiare, in uno spettacolo tanto penoso che Artù si
sentì in dovere di intervenire in suo soccorso:
«Non sono affari che ti riguardano».
Cathleen si voltò rapidamente verso di lui, raggiante.
«Quindi parli pure! Diventi più sexy ogni secondo
che passa». Gli fece l’occhiolino, per poi
concentrarsi di nuovo su Merlino, pregandolo: «Dimmi almeno
se io ho qualche possibilità con
lei!».
A quella domanda – alla quale Artù
reagì domandandosi se si fosse sturato bene le orecchie
quella mattina – Merlino rispose prontamente: «Non
credo tu sia il suo tipo. Che le donne in generale lo siano,
intendo».
«Oh. Che peccato». Era davvero delusa, glielo si
leggeva in faccia, ma le passò presto.
Merlino l’aveva già trascinato oltre, quando la
vide girarsi di scatto col sorriso di nuovo ad incurvarle le labbra
rosse e quello sguardo malizioso che puntava proprio lui.
Artù capì che prima o poi sarebbe tornata
all’attacco e il pensiero lo agitò un
po’, soprattutto perché quella ragazza era
così diversa dagli standard a cui era abituato a Camelot che
si sentiva un po’ disorientato ed intimorito.
Il mago lo portò di fronte a delle porte metalliche e
premette un pulsante incassato nel muro, che si illuminò.
Artù nell’attesa si schiarì la gola e
chiese: «Chi era quella ragazza?».
«Cathleen», gli rispose sospirando, passandosi una
mano sul volto. «Un paramedico eccezionale, una delle
migliori a guidare le ambulanze, ma ha il piccolo difetto: è
sempre in cerca di attenzioni».
«È lesbica?».
Le porte di metallo si aprirono con un ding, ma
Merlino non parve accorgersene, con gli occhi fissi su di lui,
scioccati ed indagatori. Artù capì di aver fatto
una gaffe, usando un termine moderno che teoricamente non avrebbe
dovuto conoscere, e ancor prima che Merlino potesse chiedergli dove
l’avesse sentito si giustificò dicendo:
«Passo un sacco di tempo davanti alla televisione».
«Già», mormorò il mago,
entrando nell’ascensore ed invitando Artù a fare
lo stesso.
Il re provò subito una sgradevole sensazione, che quando si
chiusero le porte aumentò a dismisura, facendogli rizzare i
capelli sulla nuca. Merlino aveva appena schiacciato un altro pulsante,
il numero quattro, e il pavimento e le pareti e il soffitto che li
circondavano, rinchiudendoli in un rettangolo abbastanza ampio ma
comunque senza via d’uscita, iniziarono a salire verso
l’alto.
«Merlino», lo chiamò con voce piatta,
calmissima.
«Uhm?», rispose distrattamente, guardando i numeri
sopra le porte metalliche.
«Fammi uscire da qui».
«Che cosa? Non mi dite che avete paura
di…». Si interruppe e ogni traccia di scherno
svanì dal suo volto, accartocciato in una smorfia di puro
terrore. «Oh no, non può essere».
«Merlino…», ripeté, sentendo
di star per perdere la calma: ancora pochi secondi e avrebbe iniziato a
colpire le porte metalliche con qualsiasi cosa, persino con la propria
testa, pur di uscire. Gli mancava l’aria.
«Artù, guardatemi. Guardatemi negli
occhi». Merlino lo prese per le spalle ed incatenò
i loro sguardi. «È solo un ascensore,
un’invenzione moderna che sostituisce le scale. So che
può fare un po’ paura, soprattutto se si fermasse
tra un piano e l’altro e venisse a mancare la
luce…».
«Questo dovrebbe aiutarmi?!», gridò,
sentendo il panico crescere incontrollabile dentro di lui, tanto che si
aggrappò alle braccia del mago con entrambe le mani,
stringendo forte.
«No, certo che no. Sono uno sciocco, lo sapete che straparlo
sempre nei momenti meno opportuni. Stavo dicendo… Molte
persone soffrono di claustrofobia, ma io mi rifiuto di credere che voi
siate una di queste: avete affrontato eserciti immortali, streghe,
mostri di ogni genere, persino un drago!, senza mai tremare. Ero io
quello fifone, ricordate? Spesso dicevo di sentire dei rumori ed erano
solo le mie ginocchia…».
Riuscì a strappargli un sorriso e lo stava guardando con
gratitudine, quando le porte metalliche si aprirono e mostrarono loro
un ampio corridoio simile a quello da cui erano venuti e Alex, ferma
proprio di fronte a loro, con una pila di cartelle tra le mani e gli
occhiali da vista tra i capelli.
Li guardò piegando la testa di lato, senza sapere se ridere,
provare compassione o ribrezzo, e alla fine scosse il capo, decidendo
di non commentare. Si spostò di lato per permettere loro di
uscire e per Artù fu un vero sollievo uscire da quella
trappola per persone pigre, mentre Merlino tentava, senza successo, di
spiegare che “non era come sembrava”. Solo in quel
momento, riacquistato un minimo di lucidità, Artù
realizzò che la loro posizione poteva risultare vagamente
fraintendibile: più vicini del necessario, occhi negli occhi
e aggrappati uno al corpo dell’altro…
L’immaginazione di chiunque sarebbe stata stimolata.
«Ci vediamo più tardi?»,
domandò Merlino alla fine, quando ormai le porte si stavano
chiudendo.
Videro Alex annuire giusto un secondo prima che sparisse dietro il
metallo e poi si voltarono, incrociando subito lo sguardo di una donna
appena uscita da una delle porte lungo il corridoio. Aveva i capelli
disordinati e il volto privo di trucco era visibilmente stanco, gli
occhi arrossati a causa delle lacrime e cerchiati per le poche ore di
sonno. Quasi si mise a correre per raggiungerli e Merlino fece un passo
avanti, poi gli gettò un’occhiata rassicurante e
gli disse: «L’ultima porta sulla sinistra, chiedete
di Abigail. Vi raggiungo tra poco».
Artù annuì con un cenno del capo e si
allontanò, iniziando a percorrere il corridoio verso la
stanza che il mago gli aveva indicato. Camminando, sbirciò
dentro le camerette e vide moltissimi bambini, di tutte le
età, molti dei quali li aveva già visti nelle
foto appese in camera di Alex.
Stesi nei loro letti, addormentati o intenti a chiacchierare tra loro,
a disegnare o a giocare con i telefonini e altri aggeggi elettronici,
sembravano tutti quanti bambini normali, se non si faceva caso ai
capelli radi o del tutto assenti, ai tubicini trasparenti che avevano
infilati nelle braccia e all’immobilità a cui
molti di loro erano costretti.
Da quello che sapeva, suo figlio Graalmir aveva sempre goduto di ottima
salute, ma era sicuro che nel caso si fosse ammalato –
febbre, raffreddore o un semplicissimo mal di pancia – si
sarebbe preoccupato a morte, rimanendo al suo fianco giorno e notte
fino a quando non l’avrebbe visto correre di nuovo in giro
per il castello. Per questo non riusciva nemmeno ad immaginare lo
strazio che dovevano provare i genitori di quelle povere creature,
afflitte da malattie che presto o tardi gliele avrebbero portate via,
inevitabilmente.
Giunse all’ultima porta sulla sinistra ed esitò un
attimo sulla soglia prima di sporgere la testa all’interno.
Incrociò subito lo sguardo di una ragazzina sui tredici
anni, con i capelli castani tagliati alla maschietto e gli occhi scuri
vigili e attenti. Vide una scintilla attraversarli e poi le sue labbra
schiudersi dalla sorpresa, dei dettagli che gli fecero intuire di
essere già stato riconosciuto.
«Ciao», la salutò stirando sorriso.
C’era solo lei nella stanza, ma non poté fare a
meno di chiedere: «Sei tu Abigail, vero?».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, schiarendosi la
gola e ricambiando il sorriso a sua volta. «E tu sei
l’amico di Merlino, ho indovinato? Non vedevo l’ora
di conoscerti».
Artù si avvicinò e le prese delicatamente una
mano, piccola e pallida, per sfiorarne le nocche con le labbra,
inchinandosi.
«Lusingato. Il mio nome è
Artù».
Abigail sorrise entusiasta ed imbarazzata allo stesso tempo, con le
guance infiammate. Solo dopo una dozzina di secondi, con
Artù in piedi accanto al suo letto, si rese conto
dell’assenza di Merlino.
«Lui dov’è?», gli chiese,
aggrottando le sopracciglia.
«Si è fermato a parlare con una donna. Minuta,
capelli biondi…».
«La mamma di Steve, senza dubbio», dedusse
sospirando tristemente. Si portò le dita alla bocca, per
mangiucchiarsi le unghie già cortissime, e Artù,
a disagio, si sedette accanto alla porta.
«Spero che tu faccia in tempo a conoscerlo», disse
Abigail ad un tratto, rivolgendogli un sorriso dolce.
«Sono qui apposta», rispose, iniziando a capire che
cosa Merlino aveva voluto dirgli in auto. Forse gli aveva chiesto di
accompagnarlo anche per quello, per regalare a Steve un ultimo momento
di gioia. E chi era lui per negarglielo?
Stava ancora riflettendo su quella possibilità, quando lo
stregone bussò ed entrò nella camera senza
attendere la risposta di Abigail. Sembrava invecchiato di colpo di
almeno un altro paio d’anni, ma incredibilmente
riuscì a sorridere salutando la ragazzina.
«Non c’è Mark?», le chiese.
«Credo stia ancora dormendo. Ho sentito dire che la chemio
questa mattina è stata piuttosto dura».
«Capisco. Passeremo da lui più tardi. Abby, ti va
di accompagnare Artù a fare un giro? Presentagli gli altri.
Io cercherò Alex: voglio chiederle se possiamo far visita a
Steve».
«Con piacere», disse gentilmente Abigail, scendendo
dal letto per sedersi sulla sua sedia a rotelle, col trespolo della
flebo stretto in una mano.
«Andate a spingerla», gli mormorò
Merlino all’orecchio e Artù balzò in
piedi, dandosi dello stupido perché non ci era arrivato da
solo.
Afferrò i manici della sedia a rotelle e la spinse
facilmente fuori dalla porta, ma Abigail strinse quasi subito il
braccio del mago e lo invitò a porgerle l’orecchio
per sussurrargli qualcosa.
Merlino ridacchiò, gettandogli un’occhiata, poi li
salutò per dirigersi nella direzione opposta.
«Che cosa gli hai detto?», le chiese un
Artù divorato dalla curiosità, quando rimasero
soli.
La ragazzina sorrise furbetta. «È un segreto. Gira
a destra».
Artù capì che in ogni caso non avrebbe ottenuto
nulla e lasciò perdere, concentrandosi sulle indicazioni di
Abigail e pregando perché Merlino e Alex si
riappacificassero.
***
Alex
aveva delle cartelle cliniche tra le mani quando l’aveva
vista nei pressi dell’ascensore, perciò
c’erano solo due posti in cui poteva essere andata:
all’archivio o da una delle dottoresse che voleva vederle
nuovamente per confrontare i dati con gli esiti degli ultimi esami.
Tentò la sorte e scelse la seconda.
Per raggiungere le scale – dopo l’ultima esperienza
non aveva molta voglia di usare l’ascensore – fu
costretto a passare di nuovo di fronte alla stanza di Steve. Rivedere
l’apprensione e il dolore negli occhi dei suoi genitori non
fu piacevole, e non lo era stato affrontarli direttamente quando Paige,
poco prima, gli era corsa incontro. Gli aveva chiesto che fine avesse
fatto la sera precedente e perché avesse lasciato Steve da
solo, e Merlino aveva risposto semplicemente che non era riuscito a
reggere di fronte a quell’ingiustizia, alla
crudeltà del destino, e che si era sentito male. La madre
del bambino gli aveva creduto, ovviamente, e l’aveva
abbracciato con delicatezza, dandogli leggere pacche sulla schiena.
Il mago non aveva mentito – aveva solo omesso alcuni dettagli
– ma si era sentito comunque in colpa, oltre che inutile:
avrebbe voluto fare di più, molto di più, ma
sapeva che era impossibile. Aveva imparato a sue spese, nel
più atroce dei modi, che la magia non dava mai nulla senza
ricevere qualcos’altro in cambio. Come piaceva dire a Nimueh:
“Una vita in cambio di un’altra vita, per
ristabilire l’equilibrio nell’universo”.
Scese al terzo piano, dove si trovavano i laboratori, e per una volta
ebbe fortuna. Vide Alex venirgli incontro a mani vuote, gli occhi
attenti e fin troppo inquisitori per i suoi gusti.
«Che ci fai qui?», gli chiese subito, storcendo un
po’ il naso e guardandolo da sopra le lenti degli occhiali.
«Ti cercavo. Ci sono novità su Steve?».
Alex sospirò – forse per la tristezza, forse
semplicemente per la noia che ripeterlo per l’ennesima volta
le provocava – ed iniziò a salire le scale con
Merlino alle calcagna. «Le sue condizioni stanno lentamente
ed inesorabilmente tornando quelle pre-miracolo».
Merlino l’aveva sempre saputo che la sua magia non sarebbe
durata a lungo, ma la delusione fu comunque tanta e fece male come un
pugno dritto nello stomaco.
«Io e Artù volevamo fargli visita, è
possibile?».
«Dovrei chiedere il permesso alla dottoressa. Solo i suoi
genitori sono autorizzati a stare con lui, al momento. A proposito,
dove l’hai lasciato Artù?».
«Con Abby. Gli sta facendo fare un giro. Mi ha detto di
tornare presto, prima che si innamori totalmente di lui».
«Oh Gesù», sussurrò e quello
che vide di sfuggita sul suo volto fu il suo primo sorriso.
Sapeva che i motivi per sorridere non erano molti, soprattutto in quel
momento, ma aveva comunque la sgradevole sensazione che stesse tenendo
le distanze, che volesse allontanarsi da lui ad ogni parola. Ancora una
volta Merlino si sentì impotente, come se lei fosse stata
sabbia tra le sue dita e il vento gliela stesse portando via senza che
lui potesse opporsi.
«Hai cinque minuti?», le chiese, cercando di starle
dietro il più possibile.
«Veramente no. E se li avessi, non credo che questo sia il
momento adatto per parlare».
«Sei arrabbiata con me, non è vero?».
Alex si fermò così all’improvviso che
Merlino rischiò di finirle addosso. Era riuscito ad
evitarlo, bloccandosi ad un soffio dal suo viso, e dovette arretrare di
fronte all’occhiata tagliente che gli rivolse.
«Mi dispiace deluderti, ma non sei sempre al centro dei miei
pensieri. E per cosa dovrei essere arrabbiata, comunque?».
«Per quello che ti ho detto questa mattina, suppongo. Non
avrei dovuto, mi dispiace».
Alex sembrò soppesare le sue parole, gli occhi fissi sul suo
viso come se dubitasse della sua sincerità, poi
abbozzò un sorriso. «Non ce
n’è bisogno, non mi sono offesa: so di avere
qualche rotella fuori posto. Altrimenti non si spiegherebbe
perché sono tua amica, eh».
«Giusto». Merlino tirò un sospiro di
sollievo, percependo l’ostilità e la tensione
scivolare via poco a poco.
«Sono davvero impegnata, però», gli
disse, controllando il cercapersone appeso alla cintura che aveva
appena iniziato a trillare. «Possiamo rimandare la
chiacchierata?».
«Certo, io non vado da nessuna parte».
A quelle parole l’infermiera aggrottò la fronte,
guardandolo di traverso. «Non hai il turno in
caffetteria?».
Merlino scosse lievemente il capo. «Mi sono
licenziato».
«Come? Quando?», quasi urlò, con gli
occhi sgranati per la sorpresa.
«Un paio d’ore fa. Ho deciso di seguire
Artù all’agriturismo, sempre se tuo padre e
Abraham vogliano prendere anche me. Ma non gliel’ho ancora
detto».
Il cercapersone di Alex trillò di nuovo e la sua insistenza
fu l’unica cosa in grado di riscuoterla. Mentre si avviava,
gettò a Merlino un’occhiata eloquente, traducibile
in: “Ne parliamo dopo”.
Aveva quasi girato l’angolo, quando Merlino le
urlò dietro: «Per quanto riguarda
Steve?».
Alex si fermò e tirò fuori il cellulare da una
delle tasche dell’uniforme azzurra, indicandoglielo. Merlino
capì al volo che quello stava a significare: “Ti
faccio sapere”. Le rivolse il pollice alzato e lei
sparì.
Prima di tornare da Artù e Abigail, Merlino passò
a prendere il suo libro di favole. L’armadietto che gli
avevano concesso era nello spogliatoio maschile al piano terra, quello
del pronto soccorso, perciò dovette fare un po’ di
scale e nel frattempo sperò di non incontrare nuovamente
Cathleen: quella volta non avrebbe ceduto fino a quando non avrebbe
ottenuto il numero di cellulare di Artù.
Rabbrividendo solo al pensiero di quella stranissima coppia,
entrò nello spogliatoio e si diresse direttamente verso il
suo armadietto grigio, senza rendersi conto del ragazzo in piedi
davanti alla fila opposta, al di là di un paio di panchine
di legno.
«Ciao Merlino».
Il mago sobbalzò e si voltò, incrociando lo
sguardo di Keith Ellis, un dottore del pronto soccorso che non gli era
mai andato particolarmente a genio, forse perché era stato
il ragazzo di Alex e l’aveva fatta soffrire come un cane
tradendola più e più volte.
Si limitò ad accennare un sorriso, pescando il suo libro da
tutto quello che col tempo aveva accumulato nell’armadietto.
«Come sta il tuo amico?», gli chiese ancora Keith.
Probabilmente non aveva capito che con lui non voleva avere nulla a che
fare.
«Quale amico?».
«Quello che è stato aggredito e che ho visitato,
più di una settimana fa».
Solo allora Merlino realizzò che era stato proprio Keith a
visitare Artù quando Alex l’aveva steso con una
padellata, dopo che lui le aveva dato della strega e le aveva puntato
un pugnale alla gola. Preoccupato com’era per le condizioni
di salute del suo re, non solo fisiche ma anche psicologiche
– gli aveva appena rivelato che Camelot non esisteva
più, che tutte le persone a lui care erano morte e che
quello era il Ventunesimo secolo – non si era minimamente
reso conto che si era trovato di fronte all’uomo per cui Alex
aveva versato così tante lacrime.
«Bene, grazie per l’interessamento»,
rispose freddamente.
«Interesse professionale».
Merlino chiuse l’armadietto con fin troppa forza, facendo
vibrare persino il metallo, ma Keith non si arrese e tornò
alla carica con la domanda meno appropriata che potesse fare. Lo faceva
apposta o era semplicemente scemo?
«Ho sentito dire che Alex ha una cotta per te. È
vero?».
«Anche se fosse, non ti riguarda».
«Ah no? Devo per caso ricordarti che volevo chiederle di
sposarmi?».
«No, affatto», rispose astiosamente Merlino,
guardandolo per la prima volta negli occhi.
Sentiva la rabbia scorrergli nel sangue e insieme ad essa iniziava ad
avvertire una sgradevole sensazione, come se tutto quell’odio
stesse facendo cedere una delle tante barriere che aveva innalzato
contro la magia, per tenerla congelata ed inoffensiva.
«E non l’hai fatto perché Alex ha
scoperto che la tradivi», aggiunse, cercando di calmarsi.
«Me lo ricordo bene».
«Sai, mi sono sempre chiesto come abbia fatto»,
disse, lanciandogli un’occhiata inquisitoria.
«Avevo chiuso con Bess da due settimane ormai e fino al
giorno prima della cena in cui le avrei fatto la proposta sono sicuro
che non avesse mai avuto il minimo sospetto».
«Tutti commettono degli errori», rispose
tranquillamente Merlino, con un sorrisino compiaciuto. Quindi, tornando
serio, aggiunse: «Non ne commetterei altri, se fossi in
te».
Keith assottigliò gli occhi, cercando di dimostrarsi il
più calmo possibile nonostante l’ira lo stesse
facendo sbuffare come un toro pronto alla carica.
«Cos’è, una minaccia?».
Merlino sorrise nuovamente, dirigendosi verso la porta col libro
sottobraccio. Prima di chiudersela alle spalle, esclamò:
«Un semplice consiglio!».
Raggiunse Artù e Abigail nella sala comune, un grande
ambiente rettangolare sulle cui pareti erano raffigurati i personaggi
dei classici Disney.
Oltre ad un paio di grandi cesti trasparenti stracolmi di mattoncini
lego, ad una pila di giochi di società e a diverse scatole
piene di pennarelli, matite colorate e risme di fogli di carta bianchi,
ad arredare quel grande spazio c’erano un paio di librerie
stracolme di libri – dai romanzi ai libricini per i bambini
più piccoli, – due piccoli flipper, un televisore
circondato da un paio di poltrone e un divanetto e persino un modello
non troppo vecchio di computer in un angolo.
Molto di quello che si vedeva in quella sala era stato donato dagli
abitanti della cittadina, dai genitori dei bambini e ancora da donatori
anonimi, tra cui spesso e volentieri Merlino. Quando si era trattato di
qualche libro non c’erano stati problemi, ma quando aveva
fatto portare il computer, i flipper e le poltrone reclinabili, allora
sì che si era nascosto dietro l’anonimato. Era
più sicuro così.
Artù e Abigail erano seduti intorno ad uno dei tanti
tavolini bassi, il biondo con la schiena curva e le ginocchia
incastrate a malapena sotto al ripiano, e stavano simulando una partita
a scacchi. Con la pazienza infinita che solo lei possedeva, Abby
cercava di spiegargli le regole base e le mosse di ogni pezzo e
Artù annuiva attento, senza mai spostare gli occhi dalla
scacchiera bianca e nera. Merlino lo aveva visto così
concentrato solo ai consigli di guerra, di fronte ad una mappa. Si
appuntò mentalmente di fargli provare Risiko:
l’avrebbe adorato.
Il mago avvicinò uno sgabello colorato al tavolino e si
sedette tra loro mentre Abigail spiegava: «Bisogna provare a
prevedere le mosse dell’avversario ed usarle a proprio
vantaggio, come ho fatto io in questo caso: io ho mosso un pedone e tu,
mangiandolo col tuo, hai liberato la strada al mio alfiere che ora
mangia la tua torre».
«Quindi tu hai… hai sacrificato un pedone per
conquistare la mia torre».
«Esatto!», esclamò Abigail, felice che
avesse capito il concetto, ma la sua espressione mutò
radicalmente quando Artù la guardò in cagnesco.
«Come hai potuto? Sono sicuro che se avessi aspettato, se
avessi pensato un po’ di più, avresti trovato
un’altra soluzione! E invece l’hai mandato a morire
per…».
Merlino gli tappò la bocca con la mano e rivolse un sorriso
ai genitori con i loro bambini malati, alle infermiere e al tecnico del
distributore automatico, mormorando tra i denti: «Okay,
abbiamo capito il concetto. Ora calmati, stai spaventando
tutti».
«Mi dispiace, non volevo…»,
provò a scusarsi Abigail, sulla difensiva, ma lo stregone le
posò una mano sul braccio, teneramente.
«Non hai fatto nulla di sbagliato, è lui che
è un po’… esuberante».
Voltandosi verso Artù, gli scoccò
un’occhiata di rimprovero e disse: «È
solo un gioco, prendetelo così
com’è».
«Questo gioco non mi piace», bofonchiò,
facendo cadere il proprio re bianco. Di sicuro non sapeva che quella
mossa era equivalente alla resa, altrimenti non l’avrebbe mai
fatto.
Merlino non osò spiegarglielo e chiese:
«Com’è andato il vostro giro?».
«Tranquillo», rispose Abigail. «Mark
dormiva ancora, come pensavo, ma gli ho fatto conoscere Gabriel, Danilo
e Jessica. Dovevi vedere le loro facce!». Li
imitò, aprendo la bocca il più possibile e
sgranando gli occhi in un’espressione esterrefatta. Quindi
rise, spazzando via persino il broncio di Artù.
«È così simile al re Artù
dei tuoi disegni che i più piccoli l’hanno
scambiato per quello vero. Poi però ho spiegato loro che
l’hai solo usato come modello, ho fatto bene?».
Merlino si chiese perché non ci avesse pensato lui e
sorrise, annuendo. «Benissimo. Grazie».
«Tu hai trovato Alex?», domandò
Artù, mascherando non troppo il fatto che si preoccupasse
dell’andamento della loro amicizia. Lo stregone lo
trovò carino, ma strano.
«Sì», rispose giusto un momento prima
che Artù, spazientito, gli ripetesse la domanda.
«Ha detto che avrebbe chiesto alla dottoressa di Steve se
potevamo fargli visita e che mi avrebbe mandato un SMS».
Artù inarcò le sopracciglia e sporse il viso
verso il suo, in un silenzioso: «E poi?».
«Non ci siamo detti altro, aveva da fare».
«Scusa se mi faccio gli affari tuoi, ma che
cos’altro avrebbe dovuto dirti?», chiese Abigail
per la gioia di Artù, il quale rispose prontamente:
«Hanno litigato, questa mattina. Ancora».
«Oh, lo sapevo che c’era
qualcos’altro…».
«Qualcos’altro? Che vuoi
dire?».
Abigail si morse il labbro nervosamente: non avrebbe dovuto dirlo ad
alta voce.
«Abby?», la incalzò Merlino, gettandole
un’occhiata penetrante.
«E va bene. Ma io non ti ho detto niente, okay? Questa
mattina Alex mi ha chiamata per sapere come stava Steve, ma era
giù di morale e distratta. Le ho chiesto se fossi tu la
causa, ma mi ha liquidata in fretta».
«Perché devo essere sempre io la causa di tutto
quello che le capita?», mormorò Merlino,
passandosi stancamente una mano sulla fronte.
«Perché è innamorata di te, sciocco, e
qualsiasi cosa tu faccia si ripercuote su di lei. Posso chiederti una
cosa? È da molto che ho questa domanda, ma mi è
sempre sembrato… inopportuno, ecco».
Il mago la guardò e cercò di farle capire che con
Artù davanti, che non si perdeva una sola parola, sarebbe
stato molto più che inopportuno, ma Abigail non colse i suoi
segnali ed annuì mestamente, prendendosi le ginocchia tra le
mani.
«Perché non vi mettete insieme? Siete fatti
apposta l’uno per l’altra!».
Eccola, la domanda cruciale. Quante volte ci aveva riflettuto,
rigirandosi tra le coperte in attesa di un sonno che non sarebbe mai
arrivato? Quante volte aveva dovuto ripetere a se stesso che sarebbe
stato un enorme sbaglio? Con lui Alex non sarebbe mai stata felice, mai.
Le mani di Abigail, estremamente piccole e pallide, strinsero forte la
sua, riportandolo alla realtà. Incrociò i suoi
occhi scuri, affascinanti quanto un pozzo senza fondo custode di mille
e più desideri, e si sentì immediatamente avvolto
da una sensazione di calore.
«Se non fai qualcosa, prima o poi cercherà qualcun
altro per dimenticarti. Ma questo non la farà stare meglio,
anzi».
Merlino, con le orecchie ben tese, aveva colto, nella sua voce
preoccupata e nelle sue parole, diversi campanelli d’allarme.
«Qualcun altro chi, per
esempio?».
«Beh… Mark dice di aver visto il dottor Ellis
gironzolare parecchio da queste parti, ultimamente. Non vorrei che stia
provando a…».
Le orecchie gli erano diventate così rosse per la rabbia che
Merlino ebbe per un attimo paura che gli schizzassero via dalla testa
come razzi. Riuscì a calmarsi solo ripensando alla
soddisfazione che aveva provato quando, poco prima, Keith gli aveva
fatto capire che aveva intuito che era stato merito suo se la loro cena
era saltata e non aveva potuto chiedere ad Alex di sposarlo. Grazie al
suo intervento Alex non aveva commesso l’errore
più grande della sua vita, e se Keith non avesse seguito il
suo consiglio l’avrebbe fatto ancora e ancora. Alex non
avrebbe mai più sofferto per colpa sua, poco ma sicuro.
«Merlino, ti senti bene?», gli chiese Abigail,
chinandosi verso di lui.
«Benissimo. Abby, me lo faresti un favore? Tu e Mark dovrete
tenere gli occhi aperti, d’ora in poi, e dovrete avvisarmi
subito, se il dottor Ellis gironzola ancora da queste parti».
Abigail sorrise. «Certo, non c’è
problema. Non mi è mai stato simpatico, quel tipo. La mia
domanda però…».
«È troppo complicato da spiegare, Abby, sul
serio».
La ragazzina si imbronciò e Artù, di fronte a
lei, incrociò le braccia al petto, intervenendo stranamente
in suo soccorso: «Merlino ha ragione, è
complicato. E Alexandra non è una ragazza qualunque, merita
il meglio».
Quell’ultima frase fece aggrottare la fronte sia ad Abigail
che a Merlino. Quest’ultimo aprì la bocca per
ribattere, ma la ragazzina fu più veloce: «Stai
dicendo che Merlino non è abbastanza per lei?».
Artù parve accorgersi solo in quel momento
dell’errore commesso e tentò di rimediare,
balbettando: «No, non è questo che intendevo.
È solo che… voglio che sia felice, tutto
qui».
«E lo sarà, con Merlino. Dico bene?».
Abigail posò gli occhi sullo stregone, ma lui
continuò a fissare Artù, cercando di capire che
cosa gli passasse per la testa, fino a quando la ragazzina non gli
colpì il braccio con un manrovescio, ripetendo perentoria:
«Dico bene?».
«Ehm… sì, farò tutto il
possibile».
C’era qualcosa che Artù gli stava nascondendo, ne
era più che sicuro, e l’idea che stava prendendo
forma nella sua mente non gli piaceva per niente. Riuscì a
distrarsi solo grazie a Mark.
Con una bandana da motociclista rossa sulla testa, entrò
nella sala comune quasi con irruenza, spingendo le porte con entrambe
le mani e dando vigorose spinte alle ruote della propria carrozzina.
Ogni volta che si riprendeva da una seduta di chemioterapia si
dimostrava irascibile, scontroso e pieno di pungente sarcasmo, come se
al posto di medicine assumesse veleno, e l’unica in grado di
tenergli testa in quei momenti era Alex, la quale non se lo faceva
ripetere due volte e gli rispondeva per le rime, facendolo sorridere.
«Ho scommesso con Danilo che non rimarrò a bocca
aperta di fronte a questo Artù e non vedo l’ora di
avere tutti i suoi dessert del mese per abbuffarmi come un
–». Mark si interruppe, incapace di muovere di un
solo millimetro la mandibola che gli era quasi arrivata alle ginocchia.
Merlino ed Abigail si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a
ridere.
***
Alex
si sentiva già esausta, con tutto quel correre su e
giù, e non vedeva l’ora di sedersi accanto a Steve
come aveva fatto fino a quando la dottoressa non le aveva detto con ben
poca grazia di “alzare il culo” e fare il suo
lavoro.
Le sue condizioni erano peggiorate, e in fretta. Tanto in fretta che si
stava già preparando a dirgli addio per la seconda volta,
certa che non ci sarebbe stato un altro miracolo. Merlino avrebbe
potuto usare di nuovo la magia, ma sapeva che non l’avrebbe
fatto. Lo sapeva punto e basta.
Trovando l’ascensore vuoto e con le porte già
aperte si infilò dentro, quindi tirò fuori il
cellulare e scrisse a Merlino il famoso SMS. Aveva dovuto sudare meno
del previsto per aver l’autorizzazione da parte della
dottoressa e nonostante avrebbe preferito non saperlo, quella volta
conosceva anche il perché: non c’era
più nulla di concreto che potessero fare, a parte rendergli
più facile il trapasso in ogni modo possibile, incluse le
favole che tanto amava. Steve aveva purtroppo raggiunto la linea dei
desideri, oltre la quale tutto ciò che voleva diventava
realtà.
Quando arrivò di fronte alla stanza del bambino, di nuovo
pallido e solo semi-cosciente a causa del forte quantitativo di
antidolorifici, Merlino e Artù non c’erano ancora.
Mentre li aspettava guardò Paige e suo marito accarezzargli
a turno le mani, le braccia, le guance, i capelli, il mento, con
estrema delicatezza e allo stesso tempo la voglia straziante di
stringerlo forte, di aggrapparsi al suo esile corpicino in modo che
nessuno potesse portarglielo via.
Alex si ritrovò a pensare alla forza dei genitori, al
coraggio che ci voleva per decidere di diventarlo consapevolmente. Dopo
aver visto il loro dolore e quello di altre mamme e di altri
papà, non era così sicura di poter essere
altrettanto all’altezza delle aspettative: avrebbe
continuamente temuto di sopravvivere anche lei ai propri figli e questo
pensiero col tempo l’avrebbe logorata.
La verità era che bisognava essere delle fottute rocce per
lasciarli andare per la loro strada, per lasciarli vivere.
«Ehi!».
Alex si voltò verso la voce di Merlino, che spingeva la
carrozzina di Mark mentre Artù, al suo fianco, spingeva
quella di Abigail. Si sentì stranamente sollevata quando
incrociò i suoi occhi azzurri, limpidi come il cielo, e il
suo sorriso; finalmente libera dal senso di oppressione che quei
pensieri le avevano lasciato addosso.
«Ehi», rispose ricambiando il sorriso.
«Ma tu lo sapevi che questo tipo è identico a re
Artù?!», urlò Mark, piuttosto scosso,
indicando con il pollice l’Artù che lei aveva
ripescato dal lago.
«Io direi piuttosto che il re Artù disegnato da
Merlino è identico a lui», rispose, inarcando un
sopracciglio. «Di regale e cavalleresco questo qui non ha
proprio niente, te l’assicuro».
Artù venne scosso da un fremito di irritazione e
aprì la bocca per difendere il proprio orgoglio, ma
l’infermiera gli tirò un pugnetto sulla spalla,
facendogli l’occhiolino, mentre Abigail sospirava sognante e
mormorava, abbastanza ad alta voce perché tutti la
sentissero: «Niente a parte l’aspetto».
Mark strinse i pugni sui braccioli della sedia e pestò i
piedi, ora furente più che mai. «Avresti dovuto
dirmelo!», strepitò con la voce che per lo sforzo
gli era salita di parecchie ottave. «Ora dovrò
dare a Danilo, per un mese – un mese! –
tutti i miei dessert!».
Alex lo guardò per una dozzina di secondi, mostrandosi
infinitamente dispiaciuta. Quindi gli posò una mano sulla
spalla e con tono sofferto disse: «Mi dispiace molto per la
tua perdita».
Tornata in posizione eretta, indicò con un cenno del capo
l’interno della stanza e spiegò:
«Potrete entrare solo con il consenso dei genitori, ma non
avete un limite di tempo. Qualsiasi cosa abbiate in mente…
fatelo sorridere, mi raccomando».
«Sarà fatto», le promise Merlino,
annuendo solennemente.
Aprì la porta ed entrò per primo, da solo, per
chiedere a Paige e a suo marito il permesso di entrare. La donna
annuì abbozzando un sorriso, asciugandosi rapidamente le
lacrime con i palmi delle mani, e si voltò per indicare a
tutti di entrare.
«Abbiamo proprio bisogno di un po’ di
compagnia», disse cercando di apparire entusiasta dietro il
dolore e la stanchezza.
Alex sorrise incrociando gli occhi di Paige, ma si ritrasse e si
apprestò a chiudere la porta quando anche Artù e
Abigail furono nella piccola stanza. Merlino la bloccò
appena in tempo e si sporse verso di lei in modo così
fulmineo che non riuscì a reagire in alcun modo: le
posò un bacio sulla guancia, vicinissimo
all’angolo delle labbra, e le sussurrò
all’orecchio: «Grazie», per poi guardarla
negli occhi e sistemarle una ciocca di capelli biondi dietro
l’orecchio sinistro.
Ferma immobile come una statua lo guardò scostarsi
sorridendo e rientrare nella stanza, chiudendosi poi delicatamente la
porta alle spalle.
***
Non
appena si sedette di fianco a Steve – con gli occhi chiusi e
il respiro irregolare nonostante i tubicini che gli iniettavano
ossigeno direttamente nel naso – e gli prese una manina tra
le sue, fu in grado di stabilire precisamente quanto tempo aveva prima
che l’effetto della sua magia svanisse del tutto: pochissimo,
molto meno di quello che si aspettava. Era quasi impazzito a causa del
dolore e per cosa? Un solo giorno in più?
Fu come ricevere un colpo in testa, tanto forte da lasciarlo stordito e
senza parole per una dozzina di secondi, e fu solo grazie ad
Artù, il quale gli posò una mano sulla spalla,
che si riprese.
Cercò di sorridere, accarezzando il dorso della mano di
Steve con il pollice. «Ciao, piccolo».
Steve aprì gli occhi lentamente, a fatica, e Merlino
sentì il cuore stretto in una morsa rendendosi conto di
quanto già fossero opachi e lontani. Ciononostante
incurvò le labbra in un sorriso, chiamandolo con un fil di
voce.
«C’è qui una persona che vorrebbe
conoscerti», disse ancora, prendendo Artù per un
braccio ed avvicinandolo a sé, nel campo visivo del bambino.
Tutti, Paige per prima, si lasciarono scappare una risata di gioia in
grado di soffocare le lacrime quando Steve lo riconobbe e il suo volto
si illuminò, eccitato ed incredulo, di nuovo vivo.
«Re Artù», esclamò.
«È un vero onore per me fare la tua
conoscenza», disse Artù, chinandosi per posargli
una mano sul capo e sorridergli teneramente.
Forse era stata solo una sua impressione, ma Merlino avrebbe giurato di
aver visto un luccichio nei suoi occhi, come se fossero velati di
lacrime.
«Che cosa ci fai qui?», gli chiese ancora il
bambino, incantato.
«Sono venuto per te. Non ti lasceremo solo,
giovanotto».
Steve sorrise beato, ma era chiaro come il sole che anche solo tenere
gli occhi aperti gli costava un’enorme fatica.
Così Merlino decise di andare subito al sodo, aprendo sulle
ginocchia il suo libro di favole.
«Che ne dici di una favola, Steve? Quale vuoi
sentire?».
Il bambino socchiuse gli occhi e soffiò: «Una
nuova».
Merlino, che aveva già iniziato
a sfogliare le pagine alla ricerca della sua storia preferita, rimase
parecchio colpito dalle sue parole e per un attimo non seppe cosa
rispondere. Se c’era un bambino meritevole di una storia
nuova, quello era proprio Steve. Ma quale? Tutte le favole che aveva
scelto e opportunamente riscritto, riadattandole per il suo giovane
pubblico, avevano una morale e soprattutto il lieto fine. Era difficile
trovarne un’altra con le stesse caratteristiche, in quel
momento.
Poi, alzando gli occhi verso Abigail e Mark e scorgendo sui loro volti
la speranza e l’emozione, ricordò quando anche lui
aveva avuto la loro stessa identica espressione. Grazie a loro, la
storia si delineò perfettamente nella sua mente.
Chiuse il libro di scatto e si voltò verso Steve,
sorridendo. «Vi ho mai raccontato della nascita di
Aithusa?».
Artù, ancora al suo fianco, corrugò la fronte.
«Chi è Aithusa?».
Merlino si morsicò la guancia, pregando perché
quella fosse l’ultima volta che Artù apriva bocca,
ed incrociò lo sguardo di Abigail mentre rispondeva con voce
chiara e precisa, da prima della classe: «Il drago albino di
Morgana».
E poi quello di Mark, con gli occhi sgranati per la sorpresa.
«Io pensavo che fosse come Kilgharrah: un drago sempre
esistito».
Lo stregone ridacchiò. «Kilgharrah era
già vecchio quando ha incontrato Merlino per la prima volta,
ma suppongo che anche lui sia nato e sia stato un cucciolo, solo che
non se ne conoscono i dettagli. Per quanto riguarda Aithusa,
invece…».
Come aveva sperato, Artù non l’aveva
più interrotto. Era stato attento quanto Abigail, Mark, Alex
– che li aveva raggiunti quasi a metà –
e i genitori di Steve, e Merlino aveva più volte sentito il
suo sguardo bruciargli tra le scapole.
Aveva raccontato quasi tutto ciò che era successo davvero:
di come Julius Borden, anche grazie all’ingenuità
del giovane Merlino, aveva riunito le tre parti del Triskelion,
l’antica reliquia necessaria per aprire la tomba di Ashkanar
in cui era custodito l’uovo di drago; del lungo tragitto che
Artù, i Cavalieri e Merlino avevano dovuto percorrere prima
di trovarsi di fronte all’imponente torre contenente il
mausoleo, affrontando zuppe troppo salate o avvelenate ed ingannevoli
tracce di cervi; dell’incontro di Merlino con i druidi, i
quali lo avevano avvisato dei pericoli della tomba, e di come
Artù avesse salvato lui e l’uovo, mettendo fuori
gioco Julius e portando fuori il suo servitore prima che la torre si
sgretolasse su di loro.
Come d’abitudine aveva modificato il finale, dipingendo
Artù come il re buono e compassionevole che in quel caso non
era riuscito a distruggere l’uovo di quella creatura ancora
innocente e che aveva deciso di affidarlo a Merlino perché
lo tenesse al sicuro, e il giovane stregone come il solito imbranato e
disubbidiente che, ricordando la promessa fatta al Grande Drago
Kilgharrah, aveva fatto nascere di nascosto il cucciolo di drago bianco
– segno di prosperità per Albione.
Tutto sommato poteva affermare che era riuscito a trovare il giusto
lieto fine per la favola di Steve.
Merlino era certo che il re gli avrebbe posto mille domande una volta
fuori da quella stanza, ma per una volta non ne era preoccupato:
ciò che aveva fatto per quel piccolo drago lo avrebbe
rifatto ancora e ancora, senza pentirsene mai. E mai si sarebbe
perdonato per averlo perso di vista, permettendogli così di
avvicinarsi a Morgana e di subire le atrocità che
l’avevano reso triste e malato.
Steve si era addormentato, sfinito, ma gli angoli delle sue labbra
erano sollevati come se avesse sentito tutta la storia, sognandola
magari. Merlino gli accarezzò dolcemente la fronte e
scambiando uno sguardo con Alex si alzò, dirigendosi subito
verso Abigail e Mark.
«Sarà meglio lasciarlo un po’ solo
adesso, torneremo più tardi».
Quindi gettò un’occhiata anche ai suoi genitori, i
quali gli chiesero di rimanere. Non appena Artù e i due
ragazzini furono fuori dalla stanza, Paige si aggrappò
ancora una volta alle sue spalle, riprendendo a piangere.
«Una storia bellissima, grazie».
«È stato un piacere», mormorò
in risposta, riuscendo a percepire il suo dolore nelle dita che
stringevano forte la sua felpa, nella sua schiena che tremava sotto le
proprie mani.
In corridoio, incontrò subito lo sguardo serio e penetrante
di Artù, ereditato senza ombra di dubbio da suo padre Uther.
Accanto a lui, Mark e Abigail fecero a gara per raggiungerlo per primi,
sommergendolo di domande.
Mark: «Perché Merlino l’ha lasciato
libero? Avrebbe potuto crescerlo e addestrarlo per i combattimenti
aerei!».
Abigail: «Kilgharrah pensava di essere l’ultimo
drago rimasto, possibile che nonostante tutte le sue
capacità non sia mai riuscito a recuperarlo?».
Mark: «Mi spieghi come mai Merlino ha scelto un nome
così strano? Nessy non andava
bene?».
Abigail: «Ma come ha fatto Aithusa a diventare compagna di
Morgana? Che cos’è successo?».
Ad un tratto Merlino posò gli indici sulle loro labbra,
azzittendoli, e sospirò sollevato. Poi abbozzò un
sorriso, dicendo: «Risponderò a tutte le vostre
domande, prometto, ma non oggi. Ora andate».
I due ragazzini, visibilmente delusi, fecero dietro-front e si
allontanarono lungo il corridoio, scambiandosi ancora dubbi ed opinioni
ed eccitandosi al pensiero di essere stati gli unici del loro gruppo,
insieme a Steve, ad aver ascoltato una nuova storia di Merlino.
«Perché non l’hai mai raccontata
prima?», gli domandò Alex, attirando la sua
attenzione.
Merlino scrollò le spalle. «Non pensavo avrebbe
avuto tanto successo».
«Beh, per quanto mi riguarda, è la mia preferita.
Dopo quella in cui Artù si è ritrovato con le
orecchie d’asino, ovviamente».
Lo stregone e Alex si scambiarono un’occhiata complice,
mentre Artù incrociava le braccia al petto, oltraggiato.
«Sono solo storie», bofonchiò.
«Giusto», concordò
l’infermiera, guardando Merlino intensamente negli occhi.
«Immagino le risate di tutti, se fosse successo
veramente!».
Il mago si sentì percorso da un brivido di freddo
– la sensazione che ormai Alex sapesse – tanto
paralizzante che non riuscì ad interrompere il contatto
visivo. Solo quando gli passò accanto per superarlo si
sentì libero da quella stretta micidiale.
«Vado a vedere se la dottoressa ha di nuovo bisogno di me, ci
vediamo dopo».
«Ciao Alex», la salutò Artù,
per poi afferrarlo per il braccio e trascinarlo nel bagno lì
accanto, dove lo trucidò nuovamente con lo sguardo alla
Uther Pendragon.
«Siete arrabbiato perché ho schiuso
l’uovo di drago e vi ho mentito e l’ho fatto
moltissime volte, lo so. So anche che volete sapere cosa significhi
esattamente “moltissime”, ma non credo che ora
ques–».
«No», lo interruppe Artù, sollevando una
mano.
Lo stregone corrugò la fronte e deglutì.
«No?».
«No, Merlino. Voglio sapere se hai modificato tutte le tue
storie a mio favore, facendomi fare sempre la parte del giusto,
rendendomi meglio di ciò che sono, e
perché».
Si scambiarono uno sguardo intenso, lungo svariati secondi, e alla fine
Merlino sospirò e sorridendo mesto rispose:
«Sì, ho cambiato tutte le mie storie».
«Perché?».
«Perché non volevo dare un’idea
sbagliata ai bambini. Io non sono un eroe, non lo sono mai
stato».
Artù chinò il capo, rimasto
all’improvviso a corto di parole, e quando finalmente le
trovò le pronunciò a bassa voce: «Hai
cambiato tutte le tue storie eccetto quella delle orecchie
d’asino».
«Quella fa ridere sempre tutti», si
giustificò Merlino, prima che Artù provasse a
tirargli un calcio nel sedere.
***
Alex
non era pronta, se doveva essere totalmente sincera con se stessa, ma
continuare a rimandare era inutile. Inoltre, odiava avere questioni in
sospeso.
Seduta al piccolo tavolino nella stanza relax degli infermieri,
tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse
un breve SMS a Merlino perché la raggiungesse. Trascorse
quasi cinque minuti cercando di non pensare a niente, senza prepararsi
alcun discorso, e dicendosi che qualsiasi cosa Merlino avesse detto
avrebbe reagito da adulta, uscendo da quella stanza tutta intera o
almeno come vi era entrata.
Quando sentì due veloci colpi alla porta,
sobbalzò leggermente e levò di scatto lo sguardo
per incrociare il suo.
«Artù ti ha concesso cinque minuti?»,
gli chiese, sogghignando.
«Sì, ha detto che sarebbe andato alla sala comune.
Tu sei in pausa?».
Alex sospirò, passandosi una mano tra i capelli sciolti.
«Una cosa del genere. Vieni, siediti».
Merlino la raggiunse al tavolo e si sedette accanto a lei, facendola
sentire in imbarazzo come nessun’altro ne era in grado.
Per rompere il ghiaccio e al contempo cercare di andare subito al
sodo –
prima che la chiamassero e dovessero rimandare
per l’ennesima volta – disse: «Volevi
parlarmi?».
«Sì, io…». Merlino
esitò, mordendosi il labbro inferiore con fare
così incurante da non rendersi nemmeno conto di quanto in
realtà fosse sexy. «Ho incontrato Cathleen,
prima».
Alex aggrottò la fronte. Questo proprio non se
l’aspettava. «La conosci?».
«Non c’è nessuno che non la conosca,
visto che, beh, non c’è nessuno con cui non ci
abbia provato almeno una volta. Mi ha chiesto se avesse qualche
possibilità con te».
«Con me nel senso… Oh,
capperi».
Merlino rise, per poi rassicurarla: «Le ho risposto che non
è il tuo tipo, perciò dovresti essere a
posto».
«Oddio, ci mancava solo lei», esclamò,
sorridendo nervosamente e lasciando gli occhiali sul tavolo per
iniziare a girarsi una ciocca di capelli tra le dita.
«Perché, hai qualche altro pretendente?».
Alex sentì all’improvviso la gola arsa, ripensando
alle avances di Keith, e pensò che magari Merlino aveva
sentito qualche rumor in proposito. In quel caso, se davvero era
intenzionato a capire se il suo ex fosse tornato alla carica,
c’era solo un perché. Poteva essere solo curioso,
o preoccupato per lei, ma il suo cuore batteva forte sperando che in
realtà fosse geloso.
Quindi si fece coraggio e sorridendo rispose:
«Già, con tutto quello che è successo
mi è passato di mente. Keith mi ha chiesto di bere una cosa
con lui, ma non accadrà mai».
«Ah, lo spero proprio! Dopo quello che ti ha fatto, ha avuto
proprio una bella faccia tosta. Piuttosto che vederti di nuovo con lui,
ti darei la mia benedizione persino con Artù».
«Artù?!», urlò, gli occhi
sgranati per l’incredulità. «Ma come ti
è venuto in mente? Finiremmo per ucciderci a
vicenda!».
«Questo è vero. Comunque meglio morta che con
Keith».
Alex accennò un sorriso, venato d’amarezza
perché Merlino non si era nemmeno azzardato a proporsi come
suo pretendente. Forse doveva accettare il fatto che la considerasse
solo un’amica, la sua migliore amica, e volesse soltanto il
suo bene, ma ogni volta che ci provava le tornava alla mente il bacio
che le aveva dato nel bagno della caffetteria della signora Begum.
A proposito della signora Begum…
«Okay, basta parlare di ex e assurdi spasimanti. Spiegami
perché ti sei licenziato così, di punto in
bianco».
«Non è stata una decisione presa a cuor
leggero», ammise Merlino, guardandosi le mani unite sopra la
superficie del tavolino. «Nonostante il caratteraccio della
signora Begum, mi piaceva la caffetteria. E anche lei mi è
sembrata dispiaciuta, in fondo in fondo. Molto in fondo. Ma non potevo
lasciare Artù da solo, non dopo essere stati separati per
così tanto tempo. Così le ho telefonato e le ho
spiegato la situazione. Nei prossimi giorni andrò alla
caffetteria per ufficializzare la cosa».
Ancora una volta, Alex fu colpita dall’affetto che Merlino
nutriva per Artù. Aveva come la sensazione che si sarebbe
gettato nelle fiamme per lui, e che avrebbe volontariamente sacrificato
la propria vita in cambio della sua.
«Ho capito. Ne parlerò con mio padre, ma penso che
non ci saranno problemi».
«Grazie, Alex. Per lui è importante rendersi
utile, mettersi al servizio dei più deboli ed
indifesi…».
«Ah, i bambini con cui avrà a che fare non sono
né deboli né indifesi, questo te lo posso
garantire. È probabile che dopo un paio di settimane
avrà già perso tutto
l’entusiasmo».
«Estremamente probabile, ma
finché sarà felice lo sarò
anch’io».
Si scambiarono un’occhiata, sorridendo, ma quando il silenzio
divenne troppo pesante entrambi guardarono la superficie del tavolino,
luogo di lunghissime e tesissime partite a carte durante le notti
più tranquille.
Ad un tratto Alex ne ebbe abbastanza e ripescando il suo coraggio
disse: «Tutto qui? Mi sembrava che mi dovessi dire qualcosa
di più importante, prima».
«In realtà…». Merlino
sospirò ed abbandonò la schiena contro lo
schienale, come se il peso di tutte le parole non dette tra loro fosse
diventato alla fine troppo gravoso per poterlo sorreggere.
«Non abbiamo più avuto modo di parlare di quello
che ha detto Artù e di quello che è successo alla
caffetteria».
«Sì, hai ragione. Credo sia tempo».
Alex respirò piano, ma profondamente, e ad occhi socchiusi
si preparò ad aprire come a chiudere completamente il
proprio cuore.
«Credo che Artù abbia frainteso i miei sentimenti
nei tuoi confronti, Alex. Gli ho parlato molto di te, ma non ho mai
specificato che il mio amore per te è come quello che prova
un fratello per la propria sorella. Sei la mia migliore amica, al pari
di Artù sei ciò che di più importante
e bello ci sia nella mia vita, e non voglio perderti per nessun motivo.
E lo so che ti faccio soffrire e che a volte mi comporto come uno
stupido, mi dispiace davvero tanto».
«Se tutto quello che hai detto è vero»,
balbettò Alex, sentendo le lacrime affluirle agli occhi
inarrestabili, a dispetto della reazione da adulta che si era
ripromessa di avere. «Se è vero, allora che
significato ha quel bacio?».
«Suppongo volessi… provare. Mi sei sempre
piaciuta, Alex, ma fino ad allora non sapevo con chiarezza in che modo.
Ora lo so, ora mi rendo conto che diamo il nostro meglio come
amici».
«Quindi il problema sono io? Cos’è,
bacio male per caso?».
Iniziava a sentire la rabbia bruciarle nelle vene, una rabbia insensata
eppure dolorosa quanto la delusione e la tristezza che quelle parole le
avevano piantato nel cuore.
«No, certo che no», rispose Merlino, tranquillo
come non l’aveva mai visto e con gli occhi azzurri
così dolci e saggi da farle venire i
brividi. «Al contrario, il problema sono proprio io. Tu
meriti il meglio, Alex, e io non sono abbastanza per te».
Alex non ne poteva più delle sue frasi fatte, delle sue
bugie e delle sue stronzate. Stava per urlargli contro, furiosa e
dilaniata, quando si ricordò – appena in tempo
– che aveva un’ultima occasione per dimostrarsi
matura. Si alzò in modo composto e dall’alto
incrociò il suo sguardo, cercando di dimostrarsi fiera e per
nulla ferita, aprendo completamente il cuore anziché
chiuderlo come la spingeva a fare la sua ragione resa cieca dal dolore.
«Sì, forse è vero che tu non sei
abbastanza: non sei abbastanza bello, non sei abbastanza bravo negli
sport, non credi abbastanza in te stesso, ma non puoi dire che non sei
abbastanza per me perché non sei
abbastanza onnisciente per farlo. A volte mi chiedo perché
mi sia affezionata in questo modo a te, mi chiedo perché il
colpo di fulmine non mi sia capitato con qualcun altro, uno qualsiasi,
e vorrei far finta che tu non sia così importante, ma la
verità è che è tutto
inutile». Tirò su col naso, rumorosamente. Le
lacrime alla fine abbatterono ogni sua barriera, scorrendole lungo le
guance, e si sentì così piccola e stupida che
pensò che non avrebbe mai potuto dimostrarsi adulta e matura
perché dopotutto non lo era: ragionava col cuore,
più che con la testa, e non è così che
avrebbero dovuto comportarsi gli adulti. Merlino era un adulto,
nonostante la faccia da ragazzino, così impassibile di
fronte alla sua dichiarazione d’amore. O forse no.
Immobile, senza più le forze per scappare o reagire in
qualsiasi modo, lo guardò alzarsi e andarle incontro. Le
posò le mani sulle guance e le passò i pollici
sotto gli occhi, spazzando via lacrime e mascara nero, poi la strinse
forte a sé, puntando il mento sopra la sua testa.
«Non andrà a finire bene»,
sussurrò e Alex rischiò di non sentirlo, col viso
premuto contro il suo petto magro e il cuore che le rimbombava nelle
orecchie. «Prendi il libro più triste che tu abbia
mai letto, uniscilo al film più triste che tu abbia mai
visto e eleva tutto alla seconda».
Dato che i libri e i film tristi erano il suo pane quotidiano, non fu
affatto difficile per Alex capire quanto quella situazione agli occhi
di Merlino sembrasse tragica.
«È così tanto sbagliato volerti
bene?», gli chiese, ormai senza più vergogna.
«Fallo, più forte che puoi, ma fallo lontano da
me».
Il cuore le si fermò, letteralmente, per diversi secondi.
Poi Alex scostò il viso quanto bastava per incrociare i suoi
occhi, ora specchio della sua anima spezzata.
«Tutti quelli che amavo sono morti»,
confessò Merlino, guardando il soffitto forse per non
piangere. «Non voglio aggiungere il tuo nome alla
lista».
«Fottiti, Merlino. Sono troppo giovane e simpatica per
morire».
Il moro abbassò finalmente gli occhi, spalancati per la sua
risposta. Troppo audace e sfrontata? Troppo ironica in un momento
così carico di sentimentalismo? Se c’era una cosa
di cui Alex non aveva paura era proprio la morte, perciò
sì, che si fottesse pure l’angelo con la falce.
«Che c’è?», gli chiese,
stirando persino un sorriso.
«È per caso una delle tue citazioni che io non
colgo?».
Solo in quel momento Alex pensò a Dean Winchester alle prese
con la Morte, e dovette ammettere che probabilmente gli sceneggiatori
di Supernatural l’avevano un
po’ traviata.
«Sono piuttosto sicura non abbiano usato le stesse parole, ma
in ogni caso non è stato volontario».
Merlino sorrise a sua volta, tenendola ancora tra le braccia.
«Il mondo senza di te sarebbe un posto freddo e meno nerd».
La rabbia e il dolore erano improvvisamente scomparsi e Alex aveva come
il sospetto che fosse perché Merlino si era mostrato
finalmente per ciò che era: un ragazzo spaventato,
spaventato dai suoi stessi segreti, dai fantasmi del suo passato. E a
questo punto non le importava più come, tutto ciò
che voleva era stargli vicino. Come fidanzata sarebbe stato meglio,
ma…
«Cosa proponi di fare?», gli chiese, percorrendo
con le mani le sue braccia e percependo il brivido che scosse il mago
come se fosse proprio. Lo guardò in viso leggendovi
desiderio e vergogna legato ad esso e lei stessa, per aiutarlo a
tornare in sé, si scostò sciogliendo
l’abbraccio.
Merlino tornò a respirare regolarmente e guardò
altrove, forse troppo imbarazzato e preoccupato che potesse penetrare
di nuovo nei suoi illeciti pensieri.
«Vorrei che non ne parlassimo più, che ci
comportassimo come se non fosse mai successo niente in quel
bagno».
Alex avrebbe conservato gelosamente quel ricordo, non
l’avrebbe mai abbandonato, ma per farlo contento
annuì. «Va bene».
«Va bene?», ripeté,
sospettoso.
«Vuoi che firmi un accordo col sangue?».
Merlino negò col capo, mordendosi un sorriso.
«Grazie, Alex».
L’infermiera sbuffò. «Okay, siamo stati
fin troppo melensi, finiamola qui».
«Peccato, iniziava a piacermi l’Alex Piagnucolona
Bisognosa d’Affetto».
Stava per tirargli un pugno sul braccio, senza trattenersi quella
volta, quando Paige, accompagnata da una delle colleghe di Alex,
bussò alla porta e sorrise incrociando lo sguardo di Merlino.
«Eccoti qui, finalmente. Posso rubartelo per un
attimo?».
«Tutto tuo», esclamò Alex sorridendo,
lasciandoli soli.
Merlino aveva detto che Artù sarebbe andato alla sala comune
e decise di raggiungerlo. Mentre camminava lungo i corridoi, facendo
del proprio meglio per celare i segni delle lacrime e mandando via il
timore di essersi messa a nudo un po’ troppo, dimostrandosi
così vulnerabile, ripensò a quello che Merlino le
aveva detto.
Ci aveva provato, aveva fatto un ultimo tentativo prima di cedere,
dicendo che ciò che provava per lei era solo amore fraterno.
Era l’ennesima balla, ne era sicura, ma non era
più arrabbiata con lui: c’era un motivo se
continuava a comportarsi in quel modo, a non voler legami affettivi
troppo forti, ed iniziava ad intuire quale fosse. Aveva detto che tutte
le persone che amava erano morte e nonostante Merlino pensasse
chiaramente che la colpa fosse sua, Alex non gli avrebbe mai permesso
di credere che anche lei avrebbe fatto quella fine. Non ora che
finalmente si stava avvicinando alla verità, sempre
più chiara di fronte ai suoi occhi.
Trovò Artù proprio nella sala comune. Aveva
portato una seggiola per bambini di fronte ad una delle pareti e
fissava il muro con aria assente, la mente lontanissima nel tempo e
nello spazio. Assorto com’era nei suoi ricordi, non si
accorse nemmeno di Alex alle sue spalle, anche lei con gli occhi fissi
su quei due famosissimi personaggi Disney.
Guardando l’immagine di quel Merlino vecchio, con la barba
bianca lunghissima, il vestito blu e il cappello a punta, si chiese se
al vero Merlino piacesse quella versione di sé o se si fosse
mai sentito offeso. Si domandò inoltre cosa ci fosse di vero
nei miti e nelle leggende riguardanti Camelot, Re Artù e i
Cavalieri della Tavola Rotonda, rabbrividendo al solo pensiero che
forse, un giorno, avrebbe potuto parlarne apertamente con i diretti
interessati, coloro che avevano vissuto quell’epoca e
chissà come e chissà perché
erano tornati nel Ventunesimo secolo.
«A che pensi?», gli domandò
finalmente.
Artù trasalì e si voltò di scatto,
guardandola con un pizzico di irritazione nello sguardo.
«Da quanto tempo sei qui?».
«Un po’. Allora, c’è qualcosa
che vuoi chiedermi?».
La fronte di Artù si increspò di rughe di
sospetto e Alex trattenne un sorriso compiaciuto. Chissà
per quanto tempo avrebbero continuato a mentirle per
tenere nascosto il loro segreto, chissà le loro facce quando
si sarebbero resi conto che aveva già capito tutto quanto!
«Hai mai visto questo cartone animato?», gli
chiese, inginocchiandosi al suo fianco ed indicando col capo le figure
dipinte sulla parete. Artù si limitò negare,
mordendosi le labbra.
«Te lo farò vedere, allora. Ci dovrebbe essere la
cassetta, qui da qualche parte. Ma li hai riconosciuti, no? Sono
famosissimi!».
«Ho riconosciuto quella», disse, indicando la spada
conficcata nella roccia.
«La magica Excalibur, uh?».
Artù aprì la bocca, ma i suoi occhi si velarono
ancora una volta, lasciando in sospeso qualsiasi cosa avesse voluto
dire.
Alex gli circondò le spalle con un braccio e gli sorrise,
posando una tempia contro la sua. «Questo cartone
l’ho guardato un sacco di volte, quand’ero piccola.
Penso fosse uno dei miei preferiti, dopo Hercules e
Anastasia. Era bello poter credere che anche un
ragazzino orfano e mingherlino, senza particolari doti né
sangue blu, potesse diventare tanto importante».
Artù la guardò negli occhi per quella che
sembrò un’infinità, poi si
voltò di nuovo verso la parete e mormorò:
«Non è andata così».
«Probabilmente, ma tutti hanno bisogno di sperare in
qualcosa».
«E tu che in che cosa speri?».
Alex scrollò le spalle, facendo una pernacchia sospirando.
«In una cura per il cancro? Non lo so. Io so solo di essere
fortunata: sto bene, ho un lavoro che mi piace, un tetto sulla testa,
mio padre e dei buoni amici. Un po’ strani, sì, ma
buoni». Sorrise, scorgendo con la coda dell’occhio
l’espressione stupita, quasi imbarazzata, di Artù.
Aveva capito che stava parlando di lui e Merlino. «Spero che
tutto questo non cambi mai, ecco. Tu, c’è qualcosa
in particolare in cui speri?».
Artù chinò il capo fino a prenderselo tra le
mani, le spalle scosse da un lieve tremore che fece sobbalzare Alex.
Artù era stato travolto dall’emozione e se lo
conosceva bene – e sentiva che era così
– sapeva che non avrebbe voluto la sua compassione
né pacche sulle spalle, ma solo solitudine. Ciononostante
non riuscì a lasciarlo lì, seduto su quella sedia
troppo piccola e con il suo piccolo sosia dipinto sul muro.
«Vuoi sapere davvero che cosa spero?», le chiese
con un fil di voce, in cui c’era sia risentimento che dolore.
Alex deglutì e lasciò che le ginocchia toccassero
il pavimento, così che potesse strisciarle fino a trovarsi
di fronte a lui. Gli posò le mani tra i capelli biondi,
rendendosi conto in una frazione di secondo che erano biondi tali e
quali ai suoi, e li accarezzò piano, incerta.
«Prometto che questa volta non ti prenderò in
giro», disse, nel vano tentativo di stemperare la tensione.
Artù sollevò la testa e i suoi occhi, blu come il
mare e lucidi di lacrime, fissarono i suoi con tanta
intensità che Alex ebbe voglia di piangere ancora, solo per
tenergli compagnia e dirgli: «Vedi, non sei solo».
Si sentiva così vicina a lui certe volte, così
complice e simile a lui, e davvero non se ne
capacitava. Era un sentimento che la lasciava stordita, ammutolita.
Come poteva essersi affezionata a quell’imbecille in
così poco tempo, sentendosi così responsabile per
lui e allo stesso tempo così inadeguata al suo fianco, come
se non fosse alla sua altezza?
«Ogni mattina spero di svegliarmi e di essere a casa, con la
mia famiglia. Spero che tutto questo sia solo un brutto
sogno».
Alex non l’aveva mai visto così fragile, pronto a
rompersi in mille pezzi davanti a lei, e ricordò che giusto
poco prima aveva visto la stessa fragilità negli occhi di
Merlino. Che quella fosse anche la speranza di Merlino? Quanto avevano
dovuto perdere e soffrire prima di ritrovarsi, cambiati dalla
sofferenza e dal mondo che, nonostante tutto, aveva continuato a girare
incurante?
All’improvviso ricordò la battuta che aveva fatto
qualche giorno prima, di ritorno dall’agriturismo della
famiglia Morris: «Ah già,
dimenticavo… Il tuo cuore apparterrà a Ginevra
per l’eternità». Solo ora si
rendeva perfettamente conto di aver aperto una ferita con quella
stupida presa in giro.
Alex non ci pensò su troppo, sicura che se
l’avesse fatto non ne avrebbe più avuto il
coraggio, e gli gettò le braccia al collo. Lo
sentì irrigidirsi e poi, lentamente, rilassare le spalle e
abbandonarsi contro di lei, la fronte contro la sua spalla sinistra. Le
sue braccia forti la circondarono con delicatezza, come per paura di
farle male oppure perché erano secoli che non abbracciava
qualcuno, e Alex sentì un piacevole calore lambirle il
cuore, facendola sentire al posto giusto, sicura e protetta come si
sentiva da piccola tra le braccia di suo padre.
«Quando mia madre è morta, anche io speravo sempre
di svegliarmi e di trovarla in cucina, intenta a prepararmi la
colazione. Ad un certo punto però mi sono ricordata che
quando facevo un incubo e andavo a rannicchiarmi al suo fianco, da
bambina, mi diceva che spetta a noi trasformare gli incubi in bei
sogni. Mi diceva di chiudere gli occhi, di rientrare
nell’incubo e di affrontare qualsiasi cosa mi facesse paura,
in modo che non tornasse più a disturbarmi. Avevo paura di
non farcela senza di lei, di essere un totale fallimento,
così mi sono impegnata al massimo per raggiungere i miei
obiettivi e lo sto tutt’ora facendo, giorno dopo giorno. Sto
cercando di trasformare l’incubo in un bel sogno e spero che
sia fiera di me, ovunque lei sia. Credo che dovresti farlo anche
tu».
Artù la guardò negli occhi e ancora una volta
Alex provò quella sensazione di familiarità che
le risultava così strana. Le sembrava di conoscerlo da una
vita, di amarlo e di odiarlo da un’eternità, tanto
da chiedersi se la pazzia non la stesse soggiogando del tutto.
«Alexandra Greenwood», pronunciò il suo
nome in tono quasi solenne, facendola sussultare. «Merlino
aveva ragione: sei davvero una ragazza di buon cuore».
«Ah sì? Lo sai che si dice delle persone di buon
cuore?».
Artù si accigliò. «No. Che
cosa?».
«Che pur di rendere felici gli altri sacrificano tutto e
ottengono ben poco in cambio. E che sono bersagli facili per chi il
cuore non ce l’ha e raramente c’è un
lieto fine ad attenderli».
«Sono d’accordo», mormorò
Artù, guardando l’immagine di quel Merlino vecchio
e un po’ pazzo dipinta sul muro.
«Artù!», gridò il loro
Merlino, venendo subito fulminato dalle infermiere che erano di turno
in sala comune.
Lui ed Alex si scambiarono un’occhiata, sorridendo sghembi, e
guardarono il moro raggiungerli di corsa, chiedendo silenziosamente
scusa con le mani unite a mo’ di preghiera.
«Che cos’è successo?»,
domandò Artù, alzandosi in piedi.
«Si tratta di Steve», spiegò, col fiato
corto.
Anche Alex allora si sollevò, preoccupata.
«È ancora stabile, vero?».
«Sì, ma sua madre… Paige mi ha chiesto
un favore e solo Artù può farlo».
«Fare che cosa? Merlino, spiegati!».
Il moro prese un respiro profondo e tutto d’un fiato disse:
«Steve ha chiesto di diventare un Cavaliere della Tavola
Rotonda».
Artù sgranò gli occhi e Alex rimase a bocca
aperta.
***
«Lo
so che è assurdo, ma da quello che ho potuto capire Steve ha
sempre preso molto sul serio le tue storie. Crede persino che il tuo
amico sia davvero Re Artù… Incredibile, vero? La
dottoressa però ci ha appena detto che queste potrebbero
essere le sue ultime ore di veglia, poi il dolore sarà
così intenso che dovranno somministrargli un quantitativo di
farmaci che gli impediranno di restare sveglio
e…».
A quel punto la madre di Steve era scoppiata in lacrime,
sorretta dal corpo di suo marito, e Merlino le aveva preso le mani tra
le sue, promettendole che in un modo o nell’altro avrebbero
esaudito l’ultimo desiderio di Steve: l’avrebbero
reso un Cavaliere di Camelot.
Mentre raccontava tutto questo ai due amici, non riusciva a togliersi
dalla testa ciò che aveva visto non appena si era affacciato
alla sala comune: Alex inginocchiata davanti ad Artù, i loro
visi più vicini del necessario e i loro sguardi incatenati,
come se avessero appena condiviso qualcosa di unico ed irripetibile, in
grado di legarli con un filo invisibile ed indistruttibile.
Quando aveva parlato con Alex e aveva fatto quell’uscita su
Artù aveva capito che almeno da parte sua non
c’era alcun interesse verso di lui, ma la gelosia di fronte a
quella scena l’aveva colpito come una freccia avvelenata,
facendogli pensare che se Artù era davvero interessato a lei
avrebbe fatto di tutto per averla e ce l’avrebbe fatta, come
era successo con Ginevra. Poi la ragione era tornata a prevalere nel
suo cervello, facendogli realizzare che Artù non si sarebbe
mai permesso di mettersi tra lei e Merlino, non sapendo quanto in
realtà il mago fosse affezionato a lei. Più di
una volta l’aveva spronato ad avvicinarsi ad Alex, ma
nell’ultimo periodo, specialmente poco tempo prima, di fronte
ad Abigail, gli aveva dato modo di pensare che fosse particolarmente
attento a tutto ciò che la riguardava. Un
po’ troppo per i suoi gusti, iniziando a risultare
persino sospetto ai suoi occhi.
Il re lo prese per il braccio e bruscamente lo allontanò da
Alex, parlandogli piano e allo stesso tempo in tono concitato
all’orecchio: «Ti rendi conto che
un’investitura è una cosa seria,
Merlino?».
«E l’ultimo desiderio di un bambino non lo
è?», rispose, fulminandolo con lo sguardo.
Artù boccheggiò per un istante, poi
respirò profondamente facendo sibilare l’aria tra
i denti. «Anche se fossi disposto a farlo, non ho gli abiti
adatti né tantomeno la mia spada!».
«Di questo me ne occuperò io»,
esclamò con un sorriso a trentadue denti. «Allora,
lo farete?».
Il re fu costretto a cedere, dondolando il capo su e giù
senza molta convinzione. Merlino provò ad abbracciarlo,
senza ovviamente riuscirci, quindi lo spinse fuori dalla sala comune:
«Voi ed Alex iniziate ad andare, io vi raggiungo tra poco con
tutto il necessario».
Si voltò e rischiò di sbattere proprio contro
l’infermiera. Le sorrise imbarazzato, sentendosi non proprio
a suo agio dopo le loro confessioni, ma fu sollevato nel notare che lei
si sentiva proprio come lui. Non a caso abbassò gli occhi e
si spostò senza dire nulla, seguendo Artù lungo
il corridoio.
***
Artù
non avrebbe mai immaginato che Alex potesse essere così di
conforto, soprattutto tenendo conto che erano lontani parenti e lui non
era mai stato bravo in questo. Poteva incitare milioni di soldati a
lottare per Camelot, convincerli che morire sarebbe stato un grande
onore, ma dopo, a battaglia finita, vinta o persa, non era mai riuscito
a guardare le famiglie di quei soldati che per lui,
per il suo regno, avevano dato la vita. Non avrebbe
retto di fronte al loro dolore, così come pensava che non
avrebbe retto di fronte ai genitori di Steve se si fosse prestato a
fare quella pazzia.
Un tempo l’investitura era una delle cerimonie più
sacre e lui stesso, quando aveva nominato Cavalieri diversi uomini che
non avevano tutti i requisiti necessari ad esserlo – la
nobiltà, in particolare – si era sentito vagamente
in colpa. Col tempo aveva capito di aver fatto la scelta giusta,
perché quegli stessi uomini si erano mostrati i
più valorosi, coraggiosi e – caratteristica
più importante – nobili di cuore che Camelot
avesse mai avuto.
Ora, davanti a quel bambino che presto li avrebbe lasciati e che in
qualche modo chiedeva di sentirsi importante, Artù pensava
che non ce l’avrebbe fatta. Mentire di fronte al dolore era
una specialità di Merlino, ma era consapevole che quella
responsabilità toccava a lui e che non poteva tirarsi
indietro: se suo figlio, in punto di morte, avesse avuto lo stesso
desiderio, non l’avrebbe forse accontentato?
«Andrà bene, vedrai», disse Alex come se
avesse seguito per filo e per segno tutti i suoi pensieri. Sorrideva
incoraggiante e gli dava lieve pacche sull’avambraccio.
«Merlino è un vulcano di idee, quando si mette
d’impegno».
Artù avrebbe voluto ridere, perché per un attimo
aveva pensato che Alex pensasse che lui fosse
all’altezza della situazione, ma ovviamente non
era…
«E poi tu hai proprio l’aspetto e il portamento di
un re, sarai credibilissimo».
Costretto a rimangiarsi tutto in tempo record, le sorrise gentilmente.
«Grazie, Lady Alex».
«Lo vedi? Ti viene naturale!».
Artù chinò il capo, fissandosi le scarpe da
ginnastica – quanto gli avrebbero fatto comodo a Camelot!
– fino a quando non trovò il coraggio di dire, a
bassa voce: «Vale anche per prima. Non eri costretta a starmi
a sentire, io… Non sono molto in me, credo».
«Strano», mormorò Alex, stringendosi le
braccia al petto con un’espressione corrucciata sul volto.
«Perché non mi sei mai sembrato tanto
sincero».
«Può darsi che lo fossi, ma tu non eri obbligata
a… Mi dispiace molto per tua madre». Finalmente
era riuscito a dirlo. Alex si era confidata con lui dopo nemmeno dieci
giorni, senza neanche sapere chi fosse veramente, e gli faceva specie
pensare che con Merlino le ci erano voluti ben quattro anni. Che il
loro legame fosse così forte, come aveva
detto Freya?
«E sono sicuro che se fosse qui, sarebbe orgogliosa di te.
Sei tutt’altro che un fallimento, credimi».
Quella volta fu Alex a sfuggire al suo sguardo e fu aiutata anche da
Merlino, il quale girò l’angolo e corse verso di
loro con quella sua andatura un po’ sbilenca, come se ad ogni
passo rischiasse di cadere. Con la coda dell’occhio
notò Artù sorridere sghembo guardandolo e si
chiese se era sempre stato così: il principe bravo con le
armi, viziato e sbruffone e il servitore impacciato e pronto a correre
di qua e di là per lui, causando un guaio dopo
l’altro. Riusciva ad immaginarseli così bene che
non si accorse nemmeno che Merlino li aveva ormai raggiunti e le stava
parlando.
Solo quando le schioccò le dita ad un palmo dal naso
tornò alla realtà. «Che
cosa?».
«Bentornata», la salutò con un sorriso
divertito. «Pensi di poter recuperare un cuscino?».
Alex corrugò la fronte, non capendo a che cosa mai potesse
servirgli un cuscino. Merlino non le diede il tempo di parlare e
sventolando una mano aggiunse: «Ti aspettiamo qui».
L’infermiera annuì sistemandosi gli occhiali sul
setto nasale e corse allo ripostiglio più vicino, dove
trovò una collega intenta a rifornire il proprio carrello
con lenzuola e federe pulite. Le rivolse un rapido sorriso ed
afferrò un cuscino, poi tornò di corsa da Merlino
ed Artù, trepidante ed emozionata come quando al liceo tutto
il gruppo di teatro, unanime, aveva votato perché lei avesse
la parte da protagonista nella recita di fine anno. Solo che quella
volta c’era ben altro in ballo e molto probabilmente nulla di
quello che avrebbe visto sarebbe stato pura finzione. A partire dai
costumi.
«Fate attenzione, l’ho appena ritirato dalla
lavanderia», esclamò Merlino più che
preoccupato, mentre Artù finiva di allacciarsi il lungo
mantello rosso con il grande drago dorato cucito su un lato.
«Non l’hai lavato tu? Ecco perché
è più profumato e morbido del solito».
«Molto divertente», rispose Merlino con una smorfia
sul volto. In quel momento si accorse di Alex a qualche metro da loro e
il suo volto si illuminò quando vide il cuscino che teneva
tra le mani.
«Quello andrà benissimo, grazie!»,
esclamò, ma Alex non fu in grado né di rispondere
né di smettere di guardare Artù,
tutt’altra persona – o meglio, veramente se stesso
– avvolto in quelle onde di fuoco liquido. Provò
ad aggiungergli con la mente l’armatura che gli aveva visto
addosso quando l’aveva tirato fuori dal lago e la corona e
sentì il proprio cuore saltare un battito.
«Ehm…». Merlino tossicchiò e
Alex abbassò gli occhi sul cuscino che teneva ancora stretto
tra le mani, tanto forte che il moro non era riuscito a strapparglielo
via.
Mollò di scatto la presa e Merlino barcollò
all’indietro, ma non cadde.
«Scusa», esclamò Alex portandosi una
mano alla bocca, rossa come quel dannato mantello. «Non
volevo, io… Quello è lo stesso mantello che
indossava quando… sì, beh, al lago. Non
è così?».
«Sì, è proprio quello»,
rispose Merlino con un tono leggermente diffidente, guardando Alex e
Artù come se stesse assistendo ad una partita di ping-pong
truccata, cercando di intuire chi dei due stesse imbrogliando e
perché.
«Stavo pensando che la lavanderia ha fatto proprio un ottimo
lavoro», disse, facendo del suo meglio per risultare
convincente. «Dove hai detto che sei andato?».
Merlino scosse il capo con convinzione e Alex capì di
essersi salvata in corner quando esclamò: «Non
è questo il momento», per poi dirigersi verso le
poltroncine a muro su cui aveva lasciato una spada giocattolo e una
corona gonfiabile, sicuramente sgraffignate di nascosto dalla sala
comune.
«Io quella non la metto», affermò con
decisione Artù, indicando la corona di plastica.
«Quanto sei difficile», borbottò
Merlino, roteando gli occhi.
Quindi posò la spada sul cuscino con fare quasi solenne e lo
sollevò, pronto ad entrare nella camera di Steve.
Artù però lo fermò stendendo il
braccio di fronte al suo petto magro, su cui sbatté senza
troppi complimenti, togliendogli per un attimo il fiato. Prese la spada
con una mano e la esaminò per diversi, lunghissimi secondi.
«Mi stai prendendo in giro?», gli chiese poi,
guardando Merlino quasi con ira. Alex non poteva dargli torto, visto
che quella era chiaramente la versione giocattolo di una katana, una
spada per samurai giapponesi: a lama curva, sottile e con taglio
singolo. Ben diversa da Excalibur o da qualsiasi arma i Cavalieri della
Tavola Rotonda avessero mai visto.
«Questa era l’unica che c’era e ce la
faremo bastare!», decretò Merlino con tono da non
ammettere repliche, guardando Artù negli occhi con
così tanta determinazione che questo ebbe la forte
tentazione di infilzargli la finta katana in un occhio.
«Andrà alla grande!», urlò
Alex saltando all’improvviso in mezzo a loro, con entrambi i
pollici alzati e un sorriso teso sulle labbra.
***
Il
tempo si fermò e il silenzio inghiottì ogni suono
quando Merlino porse ad Artù il cuscino con sopra la spada.
Il re l’afferrò ed incrociò gli occhi
azzurri di Steve, seduto sul letto grazie al sostegno di Alex e sua
madre.
«Con i poteri a me conferiti da mio padre, io,
Artù Pendragon, tuo re, ti nomino Sir Steve, Cavaliere di
Camelot», disse con il tono di voce solenne e serio consono
alla cerimonia, mentre con lentezza calcolata posava il piatto della
spada sulle spalle del piccolo Steve.
Dopo averla restituita a Merlino, si sedette al suo fianco e gli
sollevò il mento con delicatezza perché i loro
sguardi si fondessero nuovamente. E con una mano posata sul suo capo,
tra i suoi capelli biondi, concluse: «Quando combatterai,
dovrai farlo con orgoglio, sapendo che ora appartieni al più
nobile esercito che il mondo abbia mai conosciuto. E di fronte alla
morte non dovrai temere, perché il tuo animo
continuerà a vivere nel cuore dei tuoi compagni. Ci
darà forza quando non ne avremo abbastanza per rialzarci, ci
darà speranza quando tutto sembrerà perduto e
sarà la luce che rischiarerà l’ora
più buia».
Quindi fece segno ad Alex e a Paige che potevano farlo sdraiare
nuovamente. Artù però non si
allontanò, anzi: quando finirono di rimboccargli le coperte
si slacciò il lungo mantello rosso con lo stemma dei
Pendragon e glielo adagiò sopra, posandogli un bacio sulla
fronte prima di risollevarsi e rimanere lì al suo fianco ad
osservare il sorriso che per l’ultima volta avrebbe
illuminato il suo viso dolce ed innocente.
Merlino chinò il capo in segno di rispetto e quando lo
rialzò, quasi un minuto dopo, notò che ancora una
volta il tempo si era fermato, pietrificando tutte le persone presenti
nella stanza: Alex e il padre di Steve, ai lati di una Paige devastata;
Artù accanto al lettino del bimbo; la dottoressa in camice
bianco che, in un angolo, aveva insistito per vedere il compimento
dell’ultimo desiderio di Steve.
Fu solo per caso che Merlino si voltò e vide, oltre il vetro
trasparente, Mark, Abigail, Danilo, Jessica, Gabriel, gran parte degli
infermieri del reparto e persino Cathleen con un paio di suoi colleghi
paramedici. Tutti con le lacrime agli occhi, tutti in lutto, ma anche
loro immobili come statue.
Merlino si girò nuovamente verso Steve e il suo stesso
sguardo gli sfuggì per posarsi su Alex, la quale lo stava
guardando sgomenta, facendogli capire che se solo ne avesse avute le
forze si sarebbe allontanata da Paige e si sarebbe gettata tra le sue
braccia per scoppiare a piangere come una bambina. Merlino
annuì debolmente, segno che aveva capito tutto e che era
come se fosse lì, stretto a lei. Alex provò a
rivolgergli un minuscolo sorriso, ma non ci riuscì e una
lacrima solitaria, lucente come un diamante, le cadde sulla guancia
destra.
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Capitolo 13 *** 13. With all my heart ***
Buonasera!
Okay, inizio ad anticiparvelo già ora, così
almeno avete del tempo per metabolizzare e far sì che
nessuno mi insegua coi forconi e le torce.
Un paio di capitoli ancora e poi la storia andrà in pausa
(sì, tipo come quelle che ogni tanto si prendono le serie
TV) per permettermi di scrivere i prossimi capitoli e sistemare il
tutto nel migliore dei modi. Lo faccio per voi, su! *sorride
nervosamente pregando di non venir linciata pubblicamente*
No, seriamente, dato che il tempo che ho per scrivere è poco
e il mio modus operandi
è quello di pubblicare soltanto una volta certa del
risultato – non mi perdonerei mai se dovessi scrivere
qualcosa, cambiare idea e non poter modificare – questa
è l’unica soluzione che ho trovato.
Riprenderò a pubblicare il prima possibile, ve lo prometto.
Ma, come dicevo, abbiamo ancora tempo prima che questo accada: almeno
altri due capitoli (escludendo questo qui sotto).
E con questa notizia bomba, mi dileguo lasciandovi alla lettura. Spero
di non averla rovinata!
Un grazie enorme a chi mi supporta, leggendo, commentando e mettendo la
storia tra le preferite/seguite/ricordate e a chi continuerà
a farlo :)
Un bacione!
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________________________
13.
With all my heart
Era
stata Alex a chiedere di potersi occupare personalmente della stanza di
Steve. La dottoressa aveva acconsentito semplicemente con un cenno del
capo, gettandole uno sguardo così apprensivo e
compassionevole che Alex era riuscita a capire all’istante
che cosa si stava domandando: “Perché vuole farsi
del male?”. Anche Alex si era fatta la stessa domanda,
più e più volte, senza venirne mai a capo.
Era entrata nella grande camerata da quattro posti letto e le era
sembrata davvero enorme, ora che ad occuparla c’era solo un
bambino, Gabriel, che le diede il benvenuto con gli occhi arrossati, i
capelli spettinati sulla testa e il viso sciupato.
Da quando era circolata la voce che Steve non ce l’avrebbe
fatta – subito dopo la sua investitura – si era
rifiutato di mangiare e niente e nessuno era stato in grado di
convincerlo, nemmeno sua madre che, saputo ciò che stava
succedendo, aveva preso dei giorni di ferie e lo aveva raggiunto per
stare accanto a lui come a Paige, di cui era diventata molto amica da
quando i loro bambini erano diventati compagni di stanza. Alla fine
erano stati costretti a nutrirlo via flebo, ma aveva comunque una
brutta cera.
Alex sperava che l’avessero già trasferito in
un’altra stanza, anche con dei ragazzi più grandi
pur di non lasciarlo da solo, ma ancora una volta aveva fatto male i
conti e lui era lì, seduto sul suo letto, che la fissava con
astio, già consapevole che il suo lavoro sarebbe stato
quello di portare via tutto ciò che Steve possedeva,
cancellandone del tutto il ricordo per poter offrire quel letto al
primo bambino bisognoso.
«Vedo che non hai ancora mangiato la tua
colazione», esclamò, fissando il vassoio pieno ai
piedi del suo letto.
«Non ho fame», rispose lui con un ruggito.
Alex sospirò e senza insistere oltre spostò il
letto già rifatto, con le lenzuola pulite e stirate, per
poter iniziare a staccare i disegni di Steve che lei stessa tempo prima
aveva appeso.
Un mare blu e un sole giallo gigantesco, una casetta immersa nel verde
di un bosco, la sua famiglia che si teneva per mano, i suoi amici e le
infermiere, due cavalieri che lottavano in un’arena con dei
serpenti tra loro, un cavaliere a cavallo che puntava la lancia contro
una specie di cavallo alato con il muso d’aquila –
sicuramente un grifone – e poi un enorme drago marrone che
chinava il capo di fronte ad un Merlino dai vestiti logori ma con gli
inconfondibili tratti del loro Merlino.
«Posso tenerli io?», chiese Gabriel, tirando su col
naso.
Alex allineò i fogli tra le mani e lo guardò
dispiaciuta. «Prima dovrò chiedere ai suoi
genitori: magari li vogliono loro per, sai…
ricordo».
«Ma loro hanno già un sacco di cose sue a
casa!», si lamentò, il volto già
sfigurato dal pianto imminente.
E ogni cosa farà male come una
pugnalata al cuore,
pensò. Ciononostante, ci vorrà del
tempo prima che le lascino andare. Mesi. Forse anni.
Prima che potesse dirgli che non poteva farci nulla, sua madre
entrò nella stanza e la salutò cortesemente,
rivolgendole un sorriso. Vedendo lo scatolone che Alex aveva posato sul
letto, chiese al figlioletto se volesse fare un giro.
L’infermiera espirò a lungo, sollevata, quando
Gabriel uscì dalla camera sulla sua piccola sedia a rotelle.
Al contempo però, da sola con il doloroso ricordo di Steve,
sentì crescere il magone e a stento riuscì a
trattenere le lacrime.
In qualche modo fu in grado di portare a termine il proprio dovere. Una
volta svuotato anche l’ultimo cassetto del suo comodino si
apprestò ad uscire dalla camera, ma sulla soglia
rischiò di andare addosso a Paige.
«Oh, hai già finito», esclamò
la donna, sforzandosi di sorridere.
Alex annuì e si fece da parte per permetterle di entrare in
quella che era stata la stanza del figlio per più di cinque
mesi. Lasciò lo scatolone sulla sedia accanto alla porta e
la osservò in silenzio: la sua gracile figura era
già stretta in un vestito nero, lungo fino alle ginocchia, e
le sue spalle leggermente curve, come sotto un peso insostenibile,
sarebbero state nude se non le avesse coperte con uno scialle di pizzo
nero, dai ricami floreali. I capelli biondi erano semplicemente
raccolti sulla nuca, il viso acqua e sapone mostrava ancora i postumi
della stanchezza, tra cui delle evidenti borse sotto gli occhi, ma
Paige restava sempre e comunque una donna bellissima, anche nella
sofferenza più atroce.
«È tutto così… vuoto»,
disse con gli occhi lucidi di lacrime.
Alex capì ciò che intendeva, ma non del tutto:
lei non aveva mai perso un figlio bello, dolce e di soli sei anni, con
ancora tutta una vita davanti.
«Ci sarai alla messa?», le chiese, cambiando del
tutto argomento.
L’infermiera annuì con un cenno del capo.
«Certo».
«Bene. Grazie, Alexandra».
Avrebbe voluto chiederle per che cosa, ma lasciò perdere ed
indicò lo scatolone. «Qui dentro ci sono tutti i
suoi oggetti personali».
Paige si avvicinò e vi diede una sbirciatina. Sorrise,
scorgendo i disegni di Steve, i suoi giochi, la sua lucina per la notte
e i regali che gli altri bambini gli avevano fatto durante la sua
permanenza in ospedale. Quando le sue dita sfiorarono
l’action figure di Capitan America si lasciò
andare addirittura ad una risata.
«Questo era il suo preferito in assoluto. Glielo hai regalato
tu, vero? Al suo compleanno».
Alex si limitò ancora una volta ad annuire, a capo chino,
ricordando la sua espressione di pura gioia quando aveva scartato il
pacco e si era trovato tra le mani il suo eroe preferito. Quel giorno
non l’aveva mai lasciato, nemmeno quando era stato il momento
di andare a letto. L’aveva tenuto accanto a sé,
stretto come un pupazzo, fino a quando una collega non
l’aveva posato sul comodino, in piedi e rivolto verso di lui,
in modo che potesse proteggerlo durante il sonno.
Paige unì le gambe del giocattolo ed attivò il
meccanismo che permise al braccio destro, quello a cui era attaccato lo
scudo blu e rosso, di allungarsi verso il nemico in un gancio
micidiale.
«Vorrei che restasse tutto qui. Ne ho già parlato
con mio marito e siamo d’accordo che nei prossimi giorni
faremo qualche scatolone con gli altri suoi giochi e ve li spediremo.
Sapere che saranno tra le mani di altri bambini ci farà
piacere».
«È molto bello da parte vostra»,
commentò, senza sapere bene che cosa dire.
«Questo però vorrei che lo tenessi tu»,
aggiunse Paige, mettendole tra le mani l’action figure e
sorridendole teneramente.
Alex deglutì, ma il nodo che le stringeva la gola non si
allentò nemmeno un po’. «No,
io… non posso».
«Quando sarò andata via potrai farne
ciò che vuoi, potrai lasciarlo in sala comune o buttarlo, ma
fino ad allora… Steve avrebbe voluto che tornasse a
te».
Guidata da Paige, Alex strinse le dita intorno al piccolo Capitan
America e con la voce incrinata dal pianto disse:
«Grazie».
Allora la madre di Steve l’abbracciò e si
vergognò come non mai: non era lei che doveva essere
consolata, non era lei che doveva aver bisogno del sostegno di tutti
quanti. Perché non poteva dimostrarsi forte, una volta tanto?
Si rivolsero un breve sorriso, poi Paige fece per uscire dalla
camerata. Alex la raggiunse nel corridoio, ricordandosi della piccola
chiavetta USB che avrebbe voluto consegnarle dopo la funzione.
«Anche io ho una cosa per te», esordì,
mettendogliela tra le mani. «Contiene le copie di tutte le
foto e i video in cui compare Steve. Non è molto,
ma…».
«Oh, invece è tantissimo. Grazie davvero,
Alexandra».
Alex sorrise e fu lei quella volta ad abbracciarla per prima,
massaggiandole la schiena.
Le sussurrò che si sarebbero riviste più tardi e
prima di tornare nella camera la guardò sparire dietro
l’angolo. Prese lo scatolone tra le mani ed
osservò ancora una volta i disegni posati in cima,
sorridendo mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua
mente.
Con la coda dell’occhio vide una collega passare di fronte
alla porta e la fermò, chiedendole un favore:
«Puoi dire a Gabriel che se non inizia a mangiare non
potrà venire alla messa?».
Poco dopo la collega avrebbe riferito il messaggio e il piccolo si
sarebbe sforzato di spazzolare il vassoio, sotto gli occhi increduli
della madre. Il vuoto che aveva nel petto, però, non si
sarebbe riempito così facilmente.
***
«Artù!
Dovete preparavi, o faremo tardi! Ma dove siete?».
Il re sentì i passi di Merlino avvicinarsi alla porta e non
poté nascondersi, solo posare sullo scaffalo uno dei tanti
diari scritti dallo stregone nel corso degli anni.
Era stupido intestardirsi in quel modo, e soprattutto dopo la morte di
Steve, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Alex a
proposito della “spada nella roccia”:
l’aveva chiamata Excalibur e l’aveva definita magica,
una coincidenza a cui non aveva creduto nemmeno per un istante.
Aveva sequestrato il computer portatile di Merlino, facendolo
borbottare che avrebbe dovuto comprarsene un’altro, e negli
ultimi due giorni aveva dedicato ogni momento libero e persino qualche
ora di sonno su Google e Wikipedia, a fare ricerche. Merlino una volta
gli aveva detto che lui e i Cavalieri della Rotonda erano diventati
delle vere e proprie leggende, così famose da essere
conosciute in tutto il mondo, a cui erano state dedicate decine di
film, libri e opere d’arte. Ciononostante era rimasto
sconcertato di fronte a tutti i link che aveva trovato e a tutte le
finestre che aveva aperto e che, alla fine, avevano sovraccaricato il
PC, impallandolo.
Aveva perso ore ed ore per leggere tutto, fino a sentire gli occhi
bruciargli per lo sforzo, ma erano state utili per capire che la
maggior parte dei miti tramandati di generazione in generazione erano
stati stravolti, arricchiti di dettagli e situazioni messe
lì per attirare l’attenzione e il piacere del
pubblico (lui e Morgana marito e moglie e Mordred il figlio nato dalla
loro unione?!) e che tra questi pochi, pochissimi, raccontavano
ciò che era realmente successo. A volte coglieva dei
frammenti di verità, dei nomi e dei luoghi che aveva sentito
e visto, ma nulla di più.
Ad un tratto aveva cercato anche suo figlio Graalmir, senza ottenere
successo fino a quando non aveva provato con
“Graal”, il diminutivo con cui Merlino aveva
l’abitudine di chiamarlo. I risultati erano stati talmente
tanti e talmente insoddisfacenti che non si era nemmeno soffermato a
leggere.
E infine aveva digitato sulla tastiera “Excalibur”,
ciò che aveva stuzzicato per prima la sua
curiosità, fornendogli la vanga per iniziare quel folle
scavo nel passato.
Aveva letto di opere che l’avevano resa la protagonista della
storia, che l’avevano ritenuta anche più
importante del suo possessore, tant’erano la sua potenza e
misteriosità, e che Excalibur era spesso identificata come
la Spada nella Roccia, ma che in numerosi racconti erano due spade
distinte. Tutte informazioni di poco conto, inutili per soddisfare la
sua curiosità. Un altro buco nell’acqua, aveva
pensato. Poi aveva letto del leggendario mago Merlino, il quale aveva
annunciato che solamente l’uomo in grado di estrarre la spada
dalla roccia sarebbe diventato re di Britannia. E, ancora, aveva visto
un’illustrazione in bianco e nero in cui si vedeva un uomo in
armatura, molto probabilmente un cavaliere, che gettava la spada nelle
acque di un lago, dove una mano l’afferrava al volo per
l’impugnatura.
Di fronte a quell’immagine aveva tremato come un bambino,
pensando subito a Freya, la custode di Avalon, e a Merlino, il quale le
chiedeva di tenere al sicuro quella spada che, stranamente, era sempre
apparsa nei momenti più difficili.
Nessun sito né enciclopedia virtuale che aveva visitato
però era stato in grado di dargli qualche certezza sulla
provenienza di quella spada e Artù, desideroso di andare
fino in fondo, aveva aspettato che Merlino si chiudesse in bagno per
lavarsi e poi era corso nella stanza in cui custodiva molti oggetti del
passato, tra cui tutti i suoi diari. Aveva iniziato a leggere, sperando
di trovare da qualche parte delle informazioni utili, ma era stato
tutto uno spreco di tempo e diottrie. Doveva darsi una regolata con la
lettura, o anche lui avrebbe dovuto iniziare a portare gli occhiali da
vista.
Merlino aprì la porta avvolto in un morbido accappatoio
bianco, con i capelli bagnati che gli si appiccicavano alla fronte e ai
lati del viso. Lo guardò in silenzio e con occhi sospettosi
per diversi secondi, fino a quando non sospirò e gli
domandò: «Perché non chiedete
semplicemente a me quello che volete sapere?».
«Stavo solo curiosando, in attesa che uscissi dal bagno. Sono
certo che una donna impiegherebbe meno tempo di te a
prepararsi».
Merlino roteò gli occhi e si appoggiò allo
stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto.
«Ci sono ancora tante cose che non sapete sulle tecnologie
del mondo moderno, tra cui come utilizzare un PC. Questa mattina, prima
che vi svegliaste, ho controllato la cronologia delle ricerche e non ho
potuto fare a meno di notare che vi siete concentrato su un particolare
ramo della mitologia».
Artù lo fissò quasi con orrore, realizzando
ciò che aveva appena detto. Si chiese se avesse visto anche
le sue sempre meno frequenti capatine in quei siti per adulti e
già rosso d’imbarazzo preferì
confessare tutto prima che l’argomento potesse saltar fuori.
«È vero, ero curioso e ho fatto delle
ricerche».
«Mmh», annuì Merlino, guardandosi le
unghie. «Soddisfatto?».
«Non proprio».
«Lo supponevo. Chiedete pure».
«La spada che ho tirato fuori dalla roccia».
Merlino tornò a prestargli la dovuta attenzione, alzando il
capo di scatto e guardandolo stupito e un po’ confuso. Ad un
tratto sorrise, mormorando: «La sala comune. Avrei dovuto
arrivarci subito».
«Non è mai stato il tuo forte», lo prese
in giro Artù, facendolo sorridere.
«Volete sapere se ha poteri magici, non è
vero?».
Il re non si chiese come facesse a saperlo, ormai era consapevole di
essere sempre stato un libro aperto per lui, ed annuì con un
cenno del capo.
«La risposta è sì. Ma non del tipo che
credete voi: a dispetto del nome, la sua lama non può
rompere l’acciaio; né tantomeno è in
grado di proteggere chi la impugna».
«Me ne sono accorto», rispose con un sorriso mesto,
portandosi una mano sul fianco, dove la spada di Mordred
l’aveva ferito mortalmente.
«Quella spada è stata forgiata con alito di drago,
il quale le ha dato il potere di uccidere qualsiasi creatura, mortale e
non. È stata forgiata per voi, solo per
voi, per questo sono stato costretto a sbarazzarmene dopo che vostro
padre Uther le aveva messo gli occhi addosso».
«Mio padre? Che c’entra mio padre?».
Merlino sospirò, spazientito. Avrebbero sicuramente fatto
tardi, ma Artù aveva bisogno di sapere.
«Ricordate il Cavaliere Nero che voi eravate così
deciso ad affrontare, nonostante fosse una follia? Si trattava dello
spirito di Tristan De Bois, fratello di vostra madre Igraine, evocato
da Nimueh con un incantesimo perché si vendicasse per quello
che Uther aveva fatto alla sua gente. Nessuna spada comune avrebbe
potuto sconfiggerlo, essendo già morto, perciò
sono andato da Kilgharrah e l’ho pregato di aiutarmi. La
spada però è finita nelle mani di vostro padre,
che con l’aiuto di Gaius vi aveva messo fuori combattimento.
Grazie alla spada Uther è riuscito a vincere su Tristan e
non appena il Grande Drago è venuto a saperlo…
beh, mi ha detto che sarebbero successe cose terribili se quella spada
fosse finita nelle mani sbagliate. Così l’ho
gettata nel lago, dove nessuno avrebbe potuto trovarla».
Artù con un enorme sforzo di memoria – il passato
si allontanava da lui ogni giorno di più, annebbiandosi e
dandogli solo frammenti che lo prendevano alla sprovvista sempre
più spesso e nei momenti più disparati
– ricordò che la sfida del Cavaliere Nero era
avvenuta molto tempo prima del suo incontro con Freya, la
ragazza-pantera. Allora non era ancora la custode del lago,
perciò l’illustrazione che aveva trovato su
Internet, se aveva qualcosa di vero, doveva risalire ad un episodio
successivo.
«Ora siete soddisfatto?», domandò
Merlino con una punta di irritazione.
Artù capì che il suo comportamento era dettato
dal dolore e lasciò correre la sua insolenza.
«Un’ultima domanda», disse.
«Ora la spada dove si trova?».
Merlino sobbalzò leggermente, come colpito da un ricordo
troppo doloroso. Abbassò gli occhi sul pavimento e dopo aver
raccolto la voce, lottando perché non si incrinasse rispose:
«È sempre stata con voi, sul fondo di Avalon. Ma
temo che, se non è tornata insieme a voi, sia impossibile
recuperarla».
«Perché?», chiese Artù, col
cuore che gli batteva forte nel petto.
Merlino esitò, dondolandosi sui talloni per una manciata di
lunghissimi, strazianti secondi. Quindi scrollò le spalle,
abbozzando un sorriso. «Non si può, senza la
magia. È sempre stato così».
Avrebbe voluto chiedergli che cosa intendeva, ma non ce ne fu bisogno:
l’unico motivo per cui Merlino avrebbe potuto dire una cosa
del genere era perché era convinto che oltre a lui non ci
fosse più nessuno con poteri magici, Freya compresa.
La custode di Avalon gli aveva detto che la magia stava morendo e che
mostrarsi a lui era stato un enorme sforzo… Possibile che
anche Merlino ne fosse a conoscenza, che lo percepisse e che sapesse
che lui, come ogni creatura dell’Antica Religione, aveva i
giorni contati?
Aprì la bocca, ma stordito da quell’orribile
segreto che forse Merlino gli stava nascondendo con l’intento
di non farlo preoccupare, riuscì soltanto a rantolare un
«Non può essere» che lo stregone non
udì.
«Ora sarà meglio che vi prepariate, o davvero
arriveremo in ritardo», disse, lanciandogli
un’occhiata di rimprovero prima di dirigersi verso la propria
camera da letto.
***
«Ma
sei sicuro che questo sia l’abito adatto?».
Merlino annuì senza distogliere gli occhi dalla strada,
sbattendo più volte le palpebre per spazzare via le lacrime
che glieli appannavano.
Pochi giorni prima aveva detto ad Artù che raccontare le
favole ai bambini era come riavere Graalmir al suo fianco, ma ora che
aveva perso Steve sentiva di aver perso il piccolo principe per la
seconda volta, ancora più dolorosa della prima.
Aveva da poco iniziato a piovere e guardando le grosse gocce di pioggia
striare obliquamente i finestrini si chiese perché si
sforzasse così tanto per non piangere, quando il cielo per
primo non se ne preoccupava.
«Avrei dovuto mettere l’uniforme da cerimonia, con
tanto di spada. È così che si va ad un funerale,
non con un cappio al collo», si lamentò ancora
Artù, tirando più giù il nodo alla
cravatta.
Merlino lo guardò con la coda dell’occhio e
strinse i denti per non inveirgli contro. Conosceva abbastanza bene
Artù da sapere che quando era nervoso o emotivamente
instabile per qualsiasi motivo lui era quello che ne subiva di
più le conseguenze, capro espiatorio o distrazione perfetta
nel cento percento dei casi.
«Le tradizioni sono cambiate», spiegò
mantenendo un tono di voce pacato. «Anche la cerimonia a cui
assisteremo… non sarà come i funerali che
celebravamo a Camelot. Cercate solo di astenervi da ogni commento e/o
domanda inopportuna, per favore».
Il re acconsentì di buon grado, anche fin troppo mestamente.
Per una volta però Merlino non se ne preoccupò:
dopotutto anche Artù aveva un cuore ed era abbastanza
intelligente da saper intuire i momenti in cui la
sensibilità e il rispetto erano tutto.
Il parcheggio di fronte all’ospedale era quasi pieno, tanto
per la pioggia che per il piccolo funerale che i genitori di Steve
avevano voluto organizzare nella cappella per tutti i medici, gli
infermieri e i piccoli pazienti del reparto di oncologia che si erano
affezionati a Steve tanto da considerarlo parte della famiglia.
L’impresa di pompe funebri poi si sarebbe occupata del
trasferimento della bara nella piccola cittadina in cui il bambino era
nato e cresciuto, dove si sarebbe svolto il funerale ufficiale, per
amici e parenti, e dove una zolla di terra del cimitero comunale era
già stata prenotata.
Merlino parcheggiò la Pininfarina e seguito da
Artù entrò nell’ospedale.
Quella mattina poche persone li salutarono e quelle poche che ogni
tanto riuscivano a tornare alla realtà, scalfendo la bolla
di dolore in cui tutti si erano ritrovati intrappolati, lo avevano
fatto debolmente, senza sorridere.
I due percorsero il corridoio principale in silenzio e non parlarono
nemmeno quando di fronte alla scelta tra ascensore e scale presero
entrambi le scale per raggiungere il quarto piano. Ad attenderli
trovarono Mark ed Abigail, seduti sulle loro sedie a rotelle ed
eleganti come non mai, specialmente quest’ultima: indossava
un cardigan nero con i bottoni bianchi, una gonna a balze blu scuro che
le lasciava scoperte le ginocchia e un paio di ballerine; tra i capelli
aveva fissato un fiocchetto nero e si era persino truccata gli occhi
con un po’ di matita e del mascara.
In confronto a lei Mark sembrava molto meno curato, con i suoi blu
jeans e la camicia nera che teneva slacciata fino al petto, sotto cui
si intravedeva una catenina d’oro, probabilmente un
crocifisso.
«Wow», mormorò Abigail non appena i suoi
occhi si posarono sui loro completi pressoché identici:
giacca e cravatta nere, camicia bianca e pantaloni neri appena stirati.
Merlino doveva ammettere però che Artù stava
decisamente meglio di lui, forse per le sue spalle larghe o forse
perché la sua figura si adattava perfettamente agli abiti
costosi e di pregio, mentre Merlino non riusciva a sentirsi mai
totalmente a proprio agio con vestiti che uno come lui, nato e
cresciuto in una famiglia povera, non si sarebbe mai potuto permettere.
«Anche tu sei bellissima», ricambiò
Artù con naturalezza, chinandosi su di lei per baciarle le
nocche di una mano.
Merlino notò Mark irrigidirsi sulla propria sedia a rotelle,
con le dita strette intorno ai braccioli, e sorrise pensando che aveva
sempre avuto ragione nel sospettare che avesse una cotta per la
coetanea.
Abigail, rossa come un peperone, incrociò gli occhi di
Merlino e disse: «Alex è passata poco fa, ha detto
che possiamo avviarci e che ci raggiungerà nella
cappella».
«Va bene. Gli altri bambini sono già
lì?».
«No, li accompagneranno gli infermieri quando
inizierà la funzione, quando la…».
«Quando la bara sarà chiusa», concluse
per lei Merlino, sorridendo teneramente. Abigail annuì,
senza riuscire però a ricambiare.
Artù guardò Merlino con un grosso punto
interrogativo sul viso, ma non aprì bocca, come gli aveva
chiesto di fare. Il mago scosse leggermente il capo e si
portò dietro la carrozzina di Mark per spingerlo verso gli
ascensori. Il re, vergognandosi tanto da non guardare nemmeno i
ragazzini negli occhi, disse che si sarebbero incontrati
giù. Quando le porte dell’ascensore si chiusero,
Mark sollevò il capo verso Merlino e chiese: «Che
problema ha?».
«Claustrofobia».
Mark arricciò le labbra in un sogghigno, ma non
riuscì a trattenere la grassa risata che rimbombò
tra le quattro pareti, smorzata però quasi subito dalla mano
di Abigail che l’aveva colpito sull’addome.
Merlino, alle loro spalle, sorrise.
Trovarono Artù già di fronte alle porte quando
l’ascensore si fermò al piano terra. Sorrideva
nervosamente, come se avesse appena visto un wildeon gigante e non
volesse allarmarli. Il re mosse impercettibilmente il capo verso la sua
destra e Merlino uscì per primo dall’ascensore per
poter vedere che cosa lo aveva quasi paralizzato sul posto con
quell’espressione idiota sulla faccia.
«Cathleen», esclamò non appena la vide
fuori dalle porte vetrate del pronto soccorso, sulla rampa per
disabili, intenta a fumare frettolosamente una sigaretta, una boccata
dopo l’altra.
Era vestita normalmente, nel senso che per Cathleen era perfettamente
normale indossare anfibi, collant nere smagliate in più
punti, shorts di jeans neri e un giubbotto di pelle sopra ad un
maglione traforato a collo alto. Cathleen spesso e volentieri passava
intere giornate libere all’ospedale – Merlino
sapeva che non aveva nessuno con cui trascorrerle, proprio come lui
– e poteva dire con certezza di averla vista con look molto
più stravaganti, quasi al limite della decenza,
perciò trovò sobrio e quasi elegante
l’abbigliamento che aveva scelto per il funerale di Steve.
«Quella è strana forte», disse Mark,
quasi simpatizzando con Artù. Non appena se ne accorse
però gli rivolse un’occhiata truce e si
voltò verso Abby, incitandola ad affiancarlo. Ma la
ragazzina non lo calcolò nemmeno, con lo sguardo ancora
rivolto verso le porte vetrate.
«Io penso che sia tutta una messinscena, invece»,
disse.
Merlino si accigliò. «La conosci?».
«Sì e no. Ogni tanto passa a trovarmi, quando
l’ambulanza è ferma nel parcheggio. Ed
è la ragazza più gentile e simpatica che ci sia.
Secondo me è semplicemente sola e questo è
l’unico modo che ha trovato per farsi guardare».
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo, lasciando che le parole
di Abigail aleggiassero nell’aria, fino a quando Cathleen non
spense la sigaretta nel posacenere ed entrò, incamminandosi
proprio verso di loro. Un sorriso sbocciò sul suo viso
punteggiato di efelidi e Merlino sobbalzò accorgendosi per
la prima volta di quanto fosse delicato e fragile senza il trucco
pesante sugli occhi e sulle labbra, con le vene bluastre che si
intravedevano sulla sua fronte e due ciocche di capelli rossi che le
sfioravano le guance ad ogni passo, mentre il resto della sua chioma
era raccolta sulla nuca in uno chignon morbido.
«Ciao», li salutò senza fermarsi,
facendo scomparire il sorriso subito dopo e chinando il capo.
Quel comportamento non era proprio da Cathleen. Merlino la
guardò andare via in silenzio, fino a quando i suoi occhi
non si posarono involontariamente su Artù. In volto aveva
un’espressione che conosceva bene e che gli fece correre un
brivido lungo la schiena: quando il solo ed unico re guardava qualcuno
in quel modo, voleva dire che ne era rimasto colpito e voleva dare una
mano, se possibile. Lo stregone non voleva mettergli i bastoni tra le
ruote, sapeva che in quel modo si sarebbe dedicato con ancora
più impegno alla causa, perciò cercò
di ignorare il brutto presentimento che gli gravava sulle spalle.
«A quanto pare era molto affezionata a Steve»,
disse Abigail, sospirando.
Merlino scosse il capo e strinse le dita intorno ai manici della sedia
a rotelle di Mark, rispondendo malinconico: «Chi non lo
era?».
La cappella dell’ospedale si trovava nella parte
più a nord del complesso e per raggiungerla bisognava
passare sotto uno dei porticati che, proprio come nei chiostri dei
monasteri, racchiudevano un piccolo giardinetto interno
dall’erba curata e con, al centro, un albero
d’ulivo alto come i due ragazzini, circondato da grosse
pietre bianche e piccole aiuole dai fiori lilla.
Gran parte degli infermieri e dei dottori che avevano avuto modo di
conoscere Steve erano già seduti sulle panche e guidati da
una suora recitavano pacatamente il rosario nell’attesa che
iniziasse la funzione. Ogni tanto qualcuno si alzava per raggiungere la
piccola bara bianca di fronte all’altare di marmo, adagiata
sopra una ghirlanda di fiori, anch’essi bianchi.
Un impiegato delle pompe funebri, più simile ad un bodyguard
a causa delle spalle larghe strette nel completo gessato e del cranio
perfettamente rasato, era a pochi metri di distanza, pronto a chiuderla
non appena il parroco gli avesse dato il via libera.
Il padre e la madre di Steve, seduti in prima fila, si voltarono
proprio quando Merlino e gli altri fecero il loro ingresso e
l’uomo posò un bacio sulla fronte di sua moglie
prima di uscire dalla panca per andare loro incontro. Strinse loro le
mani e salutò i ragazzini con un sorriso già
umido di lacrime.
«Per i bambini abbiamo tenuto un paio di panche libere
davanti», disse, invitandoli a proseguire con un gesto del
braccio.
Artù e Merlino accompagnarono Mark e Abigail in seconda
fila, sistemando poi le loro sedie a rotelle contro la parete, ma prima
che il mago potesse allontanarsi la ragazzina lo guardò
implorante, dicendo: «Voglio salutare Steve».
Merlino si guardò per un attimo le scarpe. «Non
sei obbligata a farlo».
«Me ne pentirò, se non lo farò. Ti
prego, Merlino».
Lo stregone annuì e fece per prendere di nuovo la sedia a
rotelle, ma Abigail lo fermò dicendo che voleva andare da
lui sulle sue gambe. Quindi le porse il braccio e camminarono insieme
fino a trovarsi di fronte al visetto di quel bambino troppo piccolo per
morire. Aveva gli occhi chiusi e le sue labbra pallide sembravano stese
in sorriso – forse a causa della formaldeide, forse
perché i muscoli facciali si erano naturalmente irrigiditi
in quel modo.
«Sembra che stia dormendo», disse Abigail con voce
tremante, sforzandosi di sorridere a sua volta.
Merlino non voleva essere cinico, ma odiò la
falsità del suo sorriso come quello sul volto di Steve, dato
che era impossibile che se ne fosse andato felice. Tuttavia rimase in
silenzio, impassibile, sorreggendo Abigail anche quando si
piegò leggermente verso il bambino per accarezzargli i
capelli biondi ora un po’ spenti pettinati ordinatamente su
un lato.
«Ti voglio bene, Steve. Hai capito? Ti voglio bene, te ne
vorrò sempre. Con tutto il mio cuore».
Si sporse ancora un po’ di più e Merlino per un
attimo ebbe paura che stesse per perdere i sensi; invece gli
posò un delicato bacio poco sopra l’attaccatura
del naso, sussurrando ancora qualche parola che lui, anche volendo, non
sarebbe riuscito a sentire.
Era vero che Abigail era una coraggiosa. Lui aveva visto molte,
moltissime persone morire, alcune delle quali avevano esalato il loro
ultimo respiro proprio tra le sue braccia, e nonostante fosse
già adulto aveva sempre lasciato che le emozioni prendessero
il sopravvento su di lui. Abigail invece si risollevò e come
se nulla fosse lo ringraziò.
Mentre la stava accompagnando di nuovo al suo posto alzò il
capo per guardarlo negli occhi e sussurrò: «Sai
che non devi sentirti in colpa, vero? Hai fatto tutto il possibile per
lui, più di tutti noi messi insieme».
Lo stregone la fissò incredulo e spaventato dal significato
intrinseco di quelle parole, senza riuscire a formulare una qualsiasi
frase di senso compiuto. Abby arricciò le labbra in un
minuscolo sorriso e si sedette accanto a Mark, a cui, per sua immensa
gioia e sorpresa, strinse forte una mano prima di posare il capo sulla
sua spalla.
Merlino si sforzò di spegnere il cervello e non
poté fare a meno di sorridere scorgendo quello speciale
bagliore negli occhi del tredicenne: la luce che solo gli occhi
innamorati sanno emanare. Poi raggiunse Artù, seduto qualche
panca più indietro, con lo sguardo rivolto verso il lato
opposto della cappella. Il mago lo imitò, sedendosi al suo
fianco, e scorse anche lui la figura di Cathleen, inginocchiata e con
le dita delle mani intrecciate di fronte al viso. Merlino si chiese se
fosse religiosa o se semplicemente si stesse appellando a Dio o a
qualsiasi altra forza superiore, inveendo come lui aveva fatto
più e più volte nel corso dei secoli e chiedendo:
«Perché?», fino a farsi venire il mal di
testa.
«Ha avuto coraggio Abigail», disse ad un tratto
Artù, riportandolo bruscamente alla realtà.
«È più forte di quello che
sembra».
«Già. Mi chiedo dove sia Lady Alex».
«Arriverà», lo rassicurò,
cercando al contempo di rassicurare anche se stesso.
Ricordava lo stato in cui era quando due notti prima lo aveva chiamato
nel cuore della notte per dirgli che una collega le aveva appena
mandato un SMS con scritto che Steve se n’era andato per
sempre: piangeva a dirotto e non riusciva a parlare, talmente forti
erano i singhiozzi. A fatica gli aveva chiesto se poteva raggiungerla a
casa e Merlino era corso da lei senza nemmeno svegliare
Artù, il quale al suo risveglio l’aveva trovato
già seduto in cucina, con la seconda tazza di
caffè tra le mani. Il re non aveva sospettato nulla e
Merlino non gli aveva raccontato nulla della notte trascorsa a casa di
Alex, delle ore passate a cullarla tra le braccia e ad accarezzarle i
capelli in silenzio e nella semi-oscurità, stretti sullo
striminzito divano arancione, prima che smettesse di giurare che lei
non avrebbe mai avuto figli e si addormentasse sfinita.
Artù in effetti non sapeva molto riguardo a come si era
sviluppato il loro rapporto, più sincero che mai sul piano
affettivo ma del tutto innocente, come quello tra due bambini, e in
attesa del domani. E per il momento Merlino non era intenzionato a
parlargliene, indispettito forse da tutte le gaffes
che negli ultimi giorni Artù si era lasciato scappare
riguardo ad Alex o ancora da ciò che aveva visto quel
pomeriggio in sala comune, quella specie di complicità e di
rispetto reciproco che gli avevano fatto venire la pelle
d’oca.
I giovani pazienti del reparto di oncologia, accompagnati dagli
infermieri, iniziarono ad arrivare uno dopo l’altro. La bara
era già stata chiusa e sopra di essa era stato sistemato un
grande primo piano di Steve, i suoi occhi azzurri brillanti sotto i
raggi del sole e il suo sorriso dolcissimo sulle labbra, accompagnato
da due adorabili fossette sulle guance.
Tra loro, Merlino e Artù scorsero anche Alex, che spingeva
la carrozzina di Danilo, il compagno di stanza di Mark, appena tornato
dalla chemio. Non lo prese in braccio per farlo sedere sulla panchina
– l’undicenne era troppo debole – ma si
chinò di fronte a lui con sguardo apprensivo. Merlino
riuscì a leggere le sue labbra: “Sei sicuro di
farcela?”.
Danilo, di cui riusciva a vedere solo la schiena, scrollò le
spalle. Alex aggiunse: “Se cambiassi idea, se dovessi
sentirti male… avvisami subito. Non vorrai mica vomitare di
fronte a tutti, uh?”. Probabilmente Danilo
ridacchiò, visto come le sue spalle sobbalzarono a scatti, e
Alex si sollevò facendogli un buffetto sulla guancia. Poi si
gettò un rapido sguardo intorno e senza alcuno sforzo
individuò Merlino e Artù, i quali avevano alzato
una mano contemporaneamente.
Si infilò nella loro panca e lo stregone, che le aveva
tenuto il posto accanto a sé, fu costretto a scalare per
farla sedere in mezzo a loro. Ancora una volta sentì il
cuore stretto nell’ardente morsa della gelosia –
immotivata, folle ed autodistruttiva gelosia – e di nuovo si
disse che non aveva prove concrete per credere che tra Alex e
Artù ci fosse qualcosa. E poi, anche nel caso avesse avuto
ragione, non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi: Alex meritava
tutta la felicità del mondo e se pensava che Artù
fosse la persona giusta doveva essere contento e solidale con lei,
conscio che lui se ne sarebbe preso cura come e meglio di lui.
La funzione iniziò e tutti si alzarono in piedi. Le parole
del parroco divennero senza senso nella sua mente, sovrastate da quei
pensieri futili che però non riusciva ad allontanare. Poi,
come vento in grado di spazzare via le nubi temporalesche, Alex
infilò la mano nella sua, stringendola delicatamente.
Merlino si rilassò e non dovette nemmeno sporgersi per
guardare in direzione della mano sinistra di Artù: sapeva
che Alex aveva scelto lui.
***
Sulla
porta della cappella avevano aspettato il loro turno per fare le
condoglianze ai genitori di Steve, dopodiché erano usciti.
Artù aveva notato che Alex e Merlino si erano tenuti per
mano per quasi l’intera durata della messa e nonostante
potesse essere un gesto del tutto innocente e causato
dall’emozione del momento, non aveva potuto fare a meno di
pensare che quei due gli stavano nascondendo qualcosa. Ne ebbe piena
conferma quando, passando accanto al giardino interno, sia Alex che
Merlino si paralizzarono sul posto accorgendosi dell’agente
Chandra, appoggiata ad una delle colonne e con il cellulare tra le
mani. Artù aveva avuto ragione nel pensare che avesse delle
forme perfette sotto l’uniforme: le gambe lunghe e longilinee
erano fasciate da un paio di blu jeans aderenti, i fianchi sinuosi e il
seno prosperoso assecondati dal maglione di lana intrecciato intorno
alla sua vita piatta. I capelli neri e lucidi come seta non erano
raccolti, bensì ricadevano in morbide onde sulla sua schiena
e quelli che le incorniciavano il viso facevano brillare ancora di
più i suoi occhi più grigi che verdi, simili a
pietre preziose. Artù si chiese come fosse possibile che
tutte le ragazze intorno a Merlino fossero così belle e come
se avesse appena ricevuto una botta in testa si ricordò
delle parole di Freya: «Abbiamo influenzato tutte le
donne che entravano in contatto con lui». Fu quello
il motivo per cui guardò Alex – la preoccupazione
che il suo amore per Merlino fosse solo frutto della magia –
e la trovò scioccata e quasi intimorita dalla presenza della
poliziotta.
Alla fine fu la stessa Myra a rompere il silenzio, alzando il capo ed
accorgendosi a sua volta del loro arrivo. Il suo sguardo
scivolò subito su Merlino e Artù notò
il luccichio di felicità nei suoi occhi, nonostante fosse
durato solo una frazione di secondo.
«Ciao», li salutò con un piccolo
sorriso. «Ho saputo di Steve e ho pensato di passare.
Inoltre, speravo proprio di trovarvi».
«Deve portarmi in Centrale un’altra
volta?», chiese stupidamente Artù, pentendosene
non appena chiuse bocca.
L’agente lo scrutò con la fronte aggrottata e poi
ridacchiò. «No, a meno che tu, andandotene in giro
con quel completo, non sia intenzionato a fare una strage di
cuori».
Prima che Artù potesse rispondere a quella specie di
complimento, Alex fece un passo avanti, come a volerlo proteggere, e
rivolgendole un’occhiata diffidente disse: «Di che
si tratta, Myra? Io dovrei tornare al lavoro».
«Oh, non avevo alcuna intenzione di intrattenerti,
Alex», rispose l’agente continuando a sorridere, ma
nel suo tono c’era un che di beffardo. «E non devi
nemmeno scusarti per essersi dimenticata di dire a Merlino che avevo
bisogno di parlargli. Dev’essere stato un periodo
difficile».
L’infermiera si ammutolì, impallidendo e
diventando paonazza subito dopo. Artù si sarebbe aspettato
come minimo che le urlasse contro, invece chinò il capo come
se avesse già capito che era una battaglia persa e si
allontanò dicendo: «Devo tornare dai bambini
adesso».
Il re fu tentato di rispondere per conto suo, ma Alex lo
afferrò all’improvviso per un braccio e se lo
trascinò dietro.
«Vieni, vorranno sicuramente un po’ di
privacy».
Merlino la sentì, la sentirono tutti, e Artù vide
lo stregone aprire la bocca per dire qualcosa e poi richiuderla quando
l’agente Chandra l’affiancò, iniziando
ad incamminarsi nella direzione opposta alla loro. Il mago
esitò, da solo in mezzo al corridoio, e Artù
avrebbe voluto prenderlo a pugni, pensando che se si trattava di una
scelta, non poteva che fare quella giusta. Alla fine lo vide stringere
i pugni lungo i fianchi col viso accartocciato e voltargli le spalle
per raggiungere Myra con lunghe falcate.
Idiota!
pensò frustrato, lasciandosi trascinare da Alex.
Erano quasi arrivati nei pressi dell’ascensore quando
l’infermiera gli lasciò bruscamente il braccio che
aveva stritolato a tal punto da farglielo sentire indolenzito. Ora la
rabbia le sfigurava il volto e le alterava la voce, rendendola
più acuta di qualche ottava e allo stesso tempo simile ad un
ruggito.
«Con che coraggio ha osato venire qui?»,
strepitò, attirando parecchia attenzione su di loro. Tra
tutti quelli che si erano girati a fissarli, Artù riconobbe
persino il medico che l’aveva visitato.
«Ma dico, l’hai sentita? Ha persino tirato in mezzo
Steve, quando il suo unico obiettivo era Merlino! Io non la sopporto,
non la sopporto!».
Se quella non era gelosia, Artù non aveva proprio idea di
che cosa fosse.
«E per quale motivo voleva parlare con Merlino?»,
le chiese, sperando che non sbranasse anche lui.
«Per quale motivo? Ah! Sono certa che inizierà
dicendo che vuole chiarire alcuni punti del tuo quasi-arresto e che lo
ammonirà di tenerti d’occhio, perché la
prossima volta non sarà così clemente, ma poi gli
dirà che c’è un altro motivo per cui
voleva parlargli e può essere solo quel
motivo!».
Alex aveva premuto o, meglio, preso a pugni il pulsante di chiamata
dell’ascensore e quando le porte si erano aperte di fronte a
loro era entrata, mentre Artù si era come pietrificato sul
posto.
«Che fai, non vieni?», gli chiese, irritata.
«Veramente, io…».
«Muoviti!». Lo prese per la cravatta e rischiando
di strozzarlo lo trascinò dentro l’ascensore
giusto un momento prima che le porte iniziassero a chiudersi.
Artù sentì il cuore fermarsi nella cassa toracica
e lo stomaco schizzargli dritto in gola, ma lottò con tutte
le proprie forze per fare respiri profondi e regolari e controllare la
paura, come gli aveva detto di fare Merlino. In fondo era vero che nel
corso della sua prima vita, a Camelot, aveva affrontato molto di
peggio, riuscendo in qualche modo a cavarsela tutte le volte.
Perché avevi Merlino a vegliare su di te,
gli ricordò la propria coscienza che, guarda caso, aveva la
sua stessa vocina irritante di quando gli ricordava che aveva avuto
ragione e avrebbe dovuto ascoltarlo.
Sentiva il sudore colargli lungo la schiena e faceva sempre
più fatica a respirare, ma inaspettatamente fu Alex ad
aiutarlo, distraendolo col suo racconto intriso di tristezza e
rammarico.
«Merlino era lì, quando Myra è stata
investita. Stava facendo jogging da sola perché io ero di
turno in ospedale e fuori era già buio, quando
un’auto con i fari spenti è sbucata fuori dal
nulla, a folle velocità, e l’ha travolta sulle
strisce pedonali. L’uomo al volante era ubriaco fradicio e
non aveva idea di dove fosse né perché. Merlino
era uscito un po’ prima dalla caffetteria della signora Begum
– nel periodo natalizio qui è un vero mortorio, te
l’assicuro – e ha visto tutta la scena, senza
però poter fare nulla oltre a prestare subito soccorso a
Myra, chiamando un’ambulanza. Aveva fatto un brutto volo e
aveva picchiato forte la testa, tanto che per un periodo è
rimasta in coma farmacologico, sotto osservazione
ventiquattr’ore su ventiquattro. E poi si era rotta il femore
della gamba destra, la peggior frattura che io abbia mai visto:
l’osso era spaccato in molti punti. Ci sono volute diverse
operazioni perché venisse riassemblato completamente, ma
l’osso è risultato comunque più corto
di un centimetro o giù di lì rispetto
all’altro. È per questo che zoppica».
Le porte dell’ascensore si aprirono dopo l’avviso
acustico e Artù uscì per primo, insistendo
perché proseguisse.
«Merlino è rimasto con lei da quando
l’ha soccorsa fino a quando non è stata ricoverata
in terapia intensiva. Si sentiva in qualche modo
responsabile». Alex si interruppe, come se avesse appena
colto un dettaglio fondamentale, poi riprese: «Ogni giorno
passava a trovarla e anche se, come ti dicevo, era tenuta in coma
farmacologico, parlava con lei: le raccontava la sua giornata, le
leggeva i giornali, qualche libro… Fino a quando non
è stata svegliata. Ovviamente non avevano mai avuto modo di
presentarsi, ma indovina qual è stata la sua prima parola
quando ha riaperto gli occhi?».
«Merlino».
Alex annuì, stringendosi le braccia al petto.
«Myra ha trascorso quasi un anno qui in ospedale,
praticamente tutto tempo speso nella riabilitazione, e lei e Merlino
sono diventati molto amici. C’era qualcosa nel loro
rapporto… forse perché lui le era stato
così vicino, ma era come se si conoscessero da sempre.
Merlino sosteneva che tra loro non c’era niente oltre ad una
forte amicizia, ma io ero convinta che Myra si fosse innamorata di lui.
Lo si percepiva da come lo guardava, da come rideva alle sue
battute… Insomma, si capiva».
«Ma non ne hai mai avute le prove», concluse
Artù, ricevendo un’occhiata fulminante che gli
fece capire di aver commesso un grosso errore.
«Lei deve averglielo confessato ad un certo punto,
perché pochi mesi prima della fine della riabilitazione
Merlino iniziò ad andarla a trovare sempre meno, fino a
quando non smise del tutto. Ho provato tante e tante volte a chiedergli
cosa fosse successo, ma non mi ha mai risposto. Questa non è
una prova, secondo te?».
L’immagine della sua Ginevra tra le braccia di Lancillotto lo
fece trasalire.
Quei flashback del suo passato lo coglievano di sorpresa sempre
più spesso, lasciandolo disorientato e col cuore stretto in
una morsa ghiacciata, e non riusciva a capirne il motivo. Che fosse
Freya che, anche da lontano, gli volesse ricordare del destino che
incombeva su di loro?
«Non li hai mai colti sul fatto», rispose,
scrollando il capo come se farlo potesse aiutarlo a dimenticare quel
ricordo doloroso.
Alex sogghignò. «Non so come avrei reagito, in
quel caso».
Artù pensò che se davvero era sangue del suo
sangue, avrebbe senza dubbio afferrato la prima arma a sua disposizione
e avrebbe cercato di uccidere Myra.
«Soprattutto perché allora ero
fidanzata», aggiunse, posandosi una mano sulla fronte mentre
scoppiava in una risatina sconsolata.
Artù aveva staccato il cervello quando aveva capito che
Alex, prima di innamorarsi di Merlino, era stata con un ragazzo,
perciò non fece lo stesso ragionamento
dell’infermiera, chiedendosi per quanto tempo avesse fatto
finta di non provare nulla per il mago. Continuava a chiedersi chi,
quando, dove, come e perché e per poco non fu quella la
sequenza di parole che uscirono dalla sua bocca.
«Aspetta un momento», esclamò portandosi
le dita alle tempie. «Tu eri fidanzata?».
«Non fidanzata nel vero senso del
termine… avevo un ragazzo», rispose, schivando il
suo sguardo per poi rivolgergliene uno tagliente: «Lo trovi
così strano?».
«Sì!».
Alex assottigliò ancor di più gli occhi.
«Sì?».
«Pensavo… pensavo fossi sempre stata innamorata di
Merlino!», rispose sinceramente e senza darle il tempo di
aprire bocca le chiese: «Lui chi era?».
L’infermiera alzò le mani come a voler dire:
«Io ci rinuncio», riprendendo a camminare lungo il
corridoio.
«Lady Alex!», la rimproverò
Artù, scandalizzato dal suo comportamento scortese. A volte
era tale e quale a Merlino e Artù si promise che, se tutto
quello che aveva saputo da Freya avesse trovato conferma, le avrebbe
fatto un ripasso intensivo su come essere un’impeccabile
gentildonna.
La rincorse e come un padre ossessivamente protettivo nei confronti
della figlia le ordinò di dirgli chi era il suo
“ragazzo”, abbassandosi pian piano fino ad
implorarla.
«E va bene!», urlò alla fine,
esasperata. Quindi gli puntò un dito contro il viso,
guardandolo con la stessa sete di sangue che aveva visto negli occhi
della Bestia Errante quando l’aveva attaccato. «Te
lo dico e tu mi lasci in pace, affare fatto?».
«Parola di Cavaliere», promise con una mano sul
cuore.
Alex sospirò. «Il dottore che ti ha visitato
quando ti ho colpito in testa con la padella. Si chiama Keith, Keith
Ellis».
Artù, incredulo – con il suo fisico prestante e il
suo sorriso affabile era l’opposto di Merlino! –
aprì la bocca per chiedere un’ulteriore conferma,
ma Alex gli tappò la bocca con l’intera mano.
«Hai promesso», gli ricordò.
«Ci vediamo più tardi».
Gli diede ancora una volta le spalle e sparì in una delle
tante camere che si affacciavano sul corridoio.
***
Seguendo
il corridoio fino alla sua fine, raggiunsero una delle uscite
d’emergenza che davano sul retro dell’ospedale e in
particolare sulla zona in cui si fermavano i fornitori per le
operazioni di carico e scarico. Il venerdì mattina era il
giorno fissato dalla lavanderia per il ritiro della biancheria sporca,
raccolta in decine di grossi cesti di metallo.
«Potevi avvisarmi», esclamò risentita
Myra, osservando i dipendenti salire e scendere dal lungo camion sulla
cui fiancata saltava subito all’occhio il nome della ditta:
“Kings Laundry Service”, scritto a caratteri
cubitali e sormontato da una gigantesca corona.
Merlino non poté fare a meno di trovarlo ironico.
«Avrei preferito qualcosa di più romantico per il
nostro primo incontro dopo… quanto, cinque mesi? Come vola
il tempo».
«È di questo che volevi parlarmi?», le
chiese, irritato dal suo sorriso sardonico, da come poco prima aveva
risposto ad Alex e da come lui stesso si era comportato, rimanendo in
silenzio invece di prendere le sue difese.
«In verità avrei preferito parlare prima del tuo
amico con la balestra, ma visto che siamo già sul pezzo
tanto vale proseguire». Si voltò verso di lui, le
mani nelle tasche posteriori dei jeans e gli occhi grigi fissi nei
suoi, feroci come quelli di una tigre ferita. «Cinque
mesi, Merlino. Non un SMS, non una telefonata.
Com’è possibile vedere una persona ogni giorno per
otto mesi e poi sparire del tutto?».
Merlino si appoggiò al muro alle sue spalle con un piede,
facendo attenzione a non aderirvi con parti dell’abito, e
ricambiò il suo sguardo. «Ti avevo spiegato la
situazione, Myra».
«Avevi detto che ci saremmo visti di meno,
perché sarebbe stato imbarazzante per entrambi, non che mi
avresti cancellato dalla tua vita!», urlò,
furibonda, ed avanzò di un passo.
Anche Merlino si avvicinò a lei. «Io non ti ho
cancellato dalla mia vita! Ci ho provato, ma non ci
sono mai riuscito!».
Occhi negli occhi, Myra e Merlino rimasero in ascolto dei loro respiri
leggermente affannati, pensando alla prossima mossa. Lo stregone si
rese conto di aver fatto un errore dicendo la verità, e che
ormai era troppo tardi per tornare indietro.
«Allora avresti potuto…», ruppe
timidamente il silenzio l’agente, sfuggendo per un attimo al
suo sguardo.
«No», la interruppe Merlino, negando anche con il
capo. «Pensavo di farcela, di poter essere tuo amico
nonostante tu volessi di più, ma non riuscivo a pensare ad
altro che standoti intorno ti avrei fatto più male che bene.
Speravo che, scomparendo, mi avresti dimenticato. A quanto pare mi
sbagliavo».
«Dovrebbero spararmi in fronte», disse, sorridendo
debolmente. Myra chinò il capo e si guardò le
scarpe basse, calciando qualche sassolino d’asfalto.
«Nessuno a parte i membri della mia famiglia mi era mai stato
tanto vicino. E tu non dovevi farlo per forza, non avevi alcun
obbligo… Ogni giorno aspettavo le ore che avrei trascorso
con te con impazienza, erano gli unici momenti in cui non odiavo il
letto in cui ero bloccata, il cibo della mensa, le infermiere che mi
cambiavano le medicazioni… E quando mi allenavo davo il
massimo per raccontarti dei miei progressi e vederti veramente felice
per me. Quanto ti ho detto che mi ero innamorata di te mi ha spezzato
il cuore capire di non essere ricambiata, ma è stato molto
peggio quando hai smesso di venire a trovarmi. Ero così
arrabbiata… Penso che alcune infermiere là dentro
mi lascerebbero soffrire se per caso dovessi essere ricoverata di
nuovo». Sorrise, incrociando di nuovo il suo sguardo.
«Avrei dovuto capirlo subito. Non ho mai avuto alcuna
speranza, vero?».
Merlino si strinse nelle spalle, nonostante fosse profondamente toccato
e dispiaciuto per tutto ciò che le aveva fatto passare.
«Col senno di poi, è chiarissimo che hai sempre
avuto un debole per Alex». Myra si avvicinò ancora
e ancora, fino a trovarsi ad un soffio dal suo viso. Il mago non si
mosse di un solo millimetro, conscio che quella che aveva di fronte non
era più la Myra che conosceva. «L’hai
sempre desiderata. L’innocente ragazza della porta accanto
che si mostra tanto forte ma che al primo soffio di vento cade a terra
ed è incapace di rialzarsi…».
«Sei ancora arrabbiata, Kajri».
«Non mi chiamare così!»,
gridò, bloccandolo contro il muro col proprio corpo e
sbattendo un pugno accanto al suo viso.
L’agente di polizia era più che arrabbiata, era
una specie di vaso di Pandora pronto ad esplodere in qualsiasi momento,
scatenando caos e distruzione in ogni angolo del creato.
«Perché?», le chiese Merlino, sollevando
le mani per posargliele sui lati della testa, sui capelli, sulle guance
e poi sul collo.
«Perché lei non ha niente più di
me», rispose, ma con la voce rotta dell’emozione.
L’implacabile agente Chandra era stata sopraffatta, alla fine.
Un paio di giovani dipendenti della lavanderia si erano fermati ad
osservarli, appoggiati alla fiancata del camion, ma Merlino non fece
caso a loro e scosse il capo, accarezzandole una guancia con il pollice.
«No», mormorò, mortificato per tutta la
sua rabbia e il suo dolore. «Ma dovrebbero spararmi al cuore
per costringerlo a non battere più per lei».
Myra lo guardò negli occhi per
un’infinità, quindi si scostò con
lentezza e respirò profondamente, riprendendo la calma. La
rabbia però non l’aveva abbandonata, era solamente
stata messa da parte per una tregua che non sarebbe durata a lungo, il
mago ne era certo.
«Suppongo che in questo caso l’argomento sia chiuso
definitivamente», disse con fermezza. La poliziotta che era
in lei era tornata.
«Sarebbe la cosa migliore».
«Bene».
Merlino annuì e si apprestò ad aprire la porta
per tornare da Alex ed Artù, ovunque fossero. In tutta
onestà avrebbe voluto restare un po’ da solo, non
voleva voglia di rispondere alle loro domande e dare spiegazioni, ma
aveva ormai capito che rimandare quasi mai era la soluzione migliore.
«Un’ultima cosa, Merlino».
Si voltò di tre quarti, guardandola con la sola coda
dell’occhio.
«Domani mattina dovresti passare in Centrale per mostrarmi i
documenti del tuo amico e ritirare i suoi oggetti personali, mostrando
ovviamente tutte le carte necessarie per la detenzione di armi di quel
genere, anche solo per collezionismo. E ti converrà tenerlo
d’occhio, d’ora in poi: se dovesse ricapitare un
episodio spiacevole come quello di lunedì sera potrei non
essere così clemente. Intesi?».
«Intesi», rispose pacatamente, sentendo un grande
dispiacere avvolgergli il cuore come piombo fuso.
Già cinque mesi prima sapeva che abbandonandola
l’avrebbe persa, ma ora che avevano consensualmente e
definitivamente firmato la fine della loro amicizia quel pensiero solo
teorico era diventato realtà e Dio solo sapeva quanto faceva
male.
***
Merlino
si passò ancora una volta le mani sul viso, borbottando:
«Ma come vi è venuto in mente?».
«Cosa hai detto?», gli chiese Artù,
rigirandosi tra le mani il suo boccale di birra quasi vuoto e gettando
una rapida occhiata attraverso la vetrata accanto a cui era sistemato
il tavolino alto intorno a cui erano seduti.
«Niente. Non pensavo che Alex accettasse».
«State parlando di me?», chiese proprio lei,
comparendo all’improvviso e posando entrambe le mani sulle
sue spalle.
Merlino le sorrise, prendendole una mano e facendole fare una giravolta
prima di farle prendere posto sullo sgabello accanto al suo. La sua
gonna a pieghe si sollevò un poco, rincorrendosi
all’infinito sopra le sue gambe affusolate avvolte in un paio
di collant color carne, e Alex gettò il capo
all’indietro, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Stavo dicendo che non pensavo che avresti accettato di
venire», le disse alla fine, quando l’infermiera
smise di girare e si sistemò sulla vita il maglioncino
bianco a pois neri a maniche corte.
«E come potevo rifiutarmi? Artù mi doveva due
boccali di birra!», esclamò, facendogli
l’occhiolino. Poi si voltò verso Merlino e lo
guardò con le sopracciglia inarcate, girandosi la fine della
treccia bionda tra le dita. «Credevo che steste discutendo su
quanto sono bella questa sera».
«Ma non c’è nulla di cui discutere:
è un dato di fatto».
Artù, rimasto fino ad allora in silenzio a guardarli mentre
si scambiavano tutta quella serie di smancerie, drizzò la
schiena all’improvviso quando scorse una moto parcheggiare
dall’altra parte della strada.
«È lei, ne sono sicuro», disse,
trepidante come un bambino.
Il motociclista si tolse il casco – da motocross, con il
parasole appuntito e senza la visiera – e
un’inconfondibile cascata di capelli rosso sangue venne
subito scompigliata dal vento freddo che nel tardo pomeriggio si era
sostituito alla pioggia. Cathleen.
Merlino non aveva ancora afferrato perché il sovrano fosse
così interessato a lei e non aveva neppure il coraggio di
chiederglielo apertamente, temendo di aprire vecchie ferite facendogli
notare quanto fosse diversa da Ginevra. Quindi rimase in silenzio e la
osservò mentre legava la moto – e che moto, ora
che riusciva a vederla meglio – e poi attraversava la strada
per entrare nell’unico pub della loro cittadina, ancora
semi-vuoto e con un disco dei Led Zeppelin che usciva piano dalle casse
disseminate qua e là nel piccolo locale.
Rispetto a quella mattina era tornata la solita Cathleen di sempre, col
trucco nero intorno agli occhi, le labbra rosso fuoco e il suo
scintillante sorriso a trentadue denti.
Indossava una canotta nera dei Bullet For My Valentine
con stampato sopra un teschio invaso da rovi di rose rosse e un paio di
leggings neri con decine e decine di lacci intrecciati sul davanti, che
lasciavano del tutto scoperte le ginocchia ora arrossate dal freddo.
Intorno al collo portava un foulard porpora con piccoli teschietti
bianchi e ai piedi i suoi irrinunciabili anfibi.
Non appena incrociò i loro sguardi però il suo
sorriso tentennò e lei esitò prima di
avvicinarsi, tenendo il casco stretto al petto e le spalle contratte
sotto la giacca di pelle.
«Ciao Cathleen, grazie per essere venuta»,
esclamò subito Artù, alzandosi in piedi in segno
di rispetto.
Merlino scosse il capo, realizzando che non avrebbe mai perso le
abitudini cavalleresche. Poi lo imitò e salutò la
rossa, invitandola a sedersi con un cenno del capo.
«Artù non mi aveva detto
che…», si interruppe, scossa da una risata
nervosa. «L’ultima volta che sono stata ad un
appuntamento a quattro…».
«Appuntamento a quattro?»,
ripeté scioccata Alex, arrossendo. «Oh no, non
è affatto un appuntamento a quattro. Anzi, se volete un
po’ di intimità io e Merlino possiamo spostarci in
un altro tavolo».
«Intimità? Loro due?!»,
squittì il mago, ansiolitico, ma Alex non vi badò
e sorridendo ad Artù e Cathleen lo prese per il braccio e lo
trascinò al bancone, su cui si sporse per attirare
l’attenzione del barista, un uomo che col suo aspetto austero
e arcigno avrebbe potuto benissimo essere stato un professore,
l’incubo di tutti i suoi studenti. Bastò un
sorriso però per trasformare il suo viso in quello
dell’uomo più gentile e disponibile sulla faccia
della terra.
«Cosa ti do’, tesoro?».
«Il secondo giro. Metta ancora sul conto del mio amico
qui», disse, dandogli una pesante pacca sulla schiena.
Merlino però non se ne accorse neppure, troppo impegnato ad
osservare ogni movimento ed espressione facciale di Artù e
Cathleen, seduti ora l’uno di fronte all’altra,
sorridenti e rilassati. Nonostante tutto sembrasse andare per il
meglio, lo stregone era certo che presto o tardi tutto sarebbe
precipitato, e rovinosamente, rendendo quella serata la peggiore di
tutti i tempi.
Alex gli prese il viso con una mano, premendo le dita sulle sue guance
magre, e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Perché sei così preoccupato? Cathleen
è grande e vaccinata, se Artù la
importunerà se la saprà cavare».
Merlino non riuscì a spalancare la bocca per lo stupore solo
perché Alex non aveva ancora mollato la presa. Per un attimo
pensò di poterle dire che aveva pensato esattamente il
contrario e che Artù non sarebbe stato in grado di
difendersi – di nuovo buone maniere cavalleresche –
ma evitò per non complicarsi ulteriormente
l’esistenza.
«Credo solo che non siano fatti l’uno per
l’altra», rispose, voltandosi ed attaccandosi al
suo nuovo boccale di birra.
«Come fai a dirlo?».
Merlino si passò il dorso della mano sulle labbra per levare
ogni possibile traccia di schiuma. «Conosco Artù e
so che Cathleen non è il suo tipo».
«Credi che ci si possa innamorare di un solo tipo di persone?
Perché per me non è stato
così».
«Ti riferisci a Keith?». Le rivolse un sorriso
beffardo. «Da come è andata a finire, credo che
questa sia la conferma della mia teoria. Non era il tuo
tipo».
«Quindi nemmeno Myra era il tuo, giusto?».
Merlino sapeva che prima o poi ci sarebbe arrivata, stava aspettando
quel momento da quel pomeriggio, quando era andato a cercarla e aveva
visto Artù rientrare dalle porte vetrate del pronto soccorso
con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva capito che il suo brutto
presentimento si era avverato non appena aveva incrociato il suo
sguardo e aveva capito che Alex avrebbe saputo quello che lui e Myra si
erano detti quando il re gli aveva confessato che aveva
l’aria di essere un po’ ostile
nei confronti della poliziotta.
«Tra me e Myra non c’è mai stato
niente», rispose sospirando, senza cercare un contatto visivo
con Alex, evidentemente più interessata al fondo del suo
boccale. «Ma sì, non sarebbe stata il mio
tipo».
«Non vuoi proprio raccontarmi quello che è
successo tra voi, eh?».
«Non c’è niente da raccontare, Alex.
Pensavo di fare del bene, standole vicino, invece ho incasinato tutto,
dandole false speranze. Lei era innamorata di me, è vero.
Era questo che volevi sapere? Era innamorata di me, ma io la
consideravo soltanto un’amica. Pensavo che sarebbe stato
meglio per lei non farmi più vedere – lontano
dagli occhi, lontano dal cuore – e invece, da quello che mi
ha detto oggi, so di averla resa ancora più infelice. Va
sempre a finire così. Sto cercando di dirtelo in ogni modo
che anche tu presto o tardi…».
Alex lo interruppe posandogli l’indice sulle labbra e dopo
averlo guardato intensamente negli occhi per una dozzina di secondi
sorrise smagliante, sussurrando: «Devo andare di nuovo a far
pipì. La birra ha sempre questo effetto collaterale su di
me, ma non ne farei mai a meno».
Merlino la guardò dirigersi sicura verso la toilette ed
accennò un sorriso, capendo solo in quel momento la sua
sottile metafora. E capì anche che per lui era lo stesso: se
con Myra e ancora prima con Louise era riuscito ad allontanarsi in
tempo, a rinunciare al loro amore, sapeva che non ne sarebbe mai stato
in grado con Alex. Non avrebbe mai potuto fare a meno di lei.
***
Abbandonato
da Alex, Artù si infilò le mani nelle tasche dei
pantaloni e passeggiò lungo il corridoio ripensando a tutto
ciò che gli aveva detto.
Si fermò accanto alle ampie finestre che davano sul
parcheggio e sul parchetto di fronte, dove Merlino l’aveva
trascinato per rivelargli che si trovava nel futuro.
Posò una mano sul vetro striato dalle gocce di pioggia e con
l’altra si allentò il nodo di
quell’odiosa ed insopportabile cravatta. Fu in quel momento
che vide Cathleen, seduta su una vecchia altalena, con i capelli umidi
e i piedi nel fango.
Non ci pensò su due volte e scese di corsa i quattro piani
che lo separavano dall’uscita, dopodiché la
raggiunse, incurante della pioggia sottile che presto avrebbe
appiccicato anche i suoi capelli al volto e probabilmente avrebbe
rovinato il vestito che Merlino, munito di ago e filo, aveva adattato
per lui con tanto impegno.
Si dondolava pigramente sull’altalena cigolante e non si
accorse della sua presenza fino a quando non le chiese:
«Posso?», indicando il secondo seggiolino libero.
Cathleen lo guardò con occhi appannati, come se il suo corpo
fosse lì e la sua anima no; sbatté le palpebre un
paio di volte ed annuì, abbozzando un sorriso fulmineo tanto
nell’apparire che nello scomparire.
Artù passò una mano sulla superficie bagnata del
seggiolino nero e poi si sedette, guardando il cielo bianco grigiastro
sopra di sé.
«Ti prenderai l’influenza»,
mormorò ad un tratto il paramedico, spezzando il silenzio.
«Anche tu».
«Già, ma se la prendo io nessuno se ne
preoccuperà».
Artù la guardò e schioccò la lingua
contro il palato. «Non ci credo».
Cathleen gli restituì l’occhiata, sorridendo
ironicamente. «Non mi conosci, perciò posso anche
capirti. Sai, io un terribile difetto: dico sempre la
verità, nuda e cruda. Perciò se dico che nessuno
si preoccuperà per me, vuol dire che è
così».
«Nemmeno tu mi conosci. Per quanto mi riguarda, raramente
ammetto di aver torto».
«Temo che questa sarà una delle rare volte,
allora».
Artù sogghignò e si voltò verso
Cathleen con tutta l’altalena, intrecciando le catene un
po’ arrugginite di fronte al suo viso. «Ti sbagli.
Io mi preoccuperei per te».
Cathleen rimase un po’ sbigottita dalle sue parole, per il
tempo necessario perché le catene si districassero, facendo
dondolare Artù da destra a sinistra e viceversa. Quindi
scoppiò a ridere, sorprendendolo.
Soprattutto perché scorse sulla sua lingua, proprio
nel mezzo, una piccola perla argentata.
«In questo caso»,
esordì, continuando a sorridere divertita, «o stai
mentendo – e molto bene, davvero – oppure stai
flirtando con me».
«Non sto mentendo», rispose sinceramente. E
altrettanto sinceramente aggiunse: «Ma non so nemmeno che
cosa voglia dire la seconda cosa che hai detto».
Il paramedico esitò, indecisa se stare al suo gioco o meno,
e alla fine gli spiegò teneramente, inarcando le
sopracciglia: «Non mi stai corteggiando?».
«Oh. Beh, io non… Tu che cosa
pensi? Perché sono sempre stato un disastro. Nel
corteggiamento, intendo».
Artù sentiva il viso in fiamme e lo stomaco stretto in una
morsa che non aveva ancora ben capito se fosse del tutto spiacevole.
Non l’aveva raggiunta con lo scopo di flirtare,
piuttosto per tirarla su di morale, ma non gli dispiaceva nemmeno
questo repentino ed inaspettato cambio di programma. Dopotutto Cathleen
era una bella ragazza, una ragazza strana e diversa
da qualsiasi altra, e gli sarebbe piaciuto molto conoscerla un
po’ di più, approvazione di Merlino o meno. Ora
che ci pensava aveva sempre avuto questo punto debole, il continuo
cercare la sua approvazione, il suo sostegno… era ora che
iniziasse a camminare da solo, visto che presto o tardi, con tutta
probabilità, i ruoli si sarebbero invertiti: Merlino sarebbe
stato quello da proteggere e lui avrebbe dovuto prendersi carico di
quella responsabilità.
«Non mi sei sembrato così
male», gli rispose, dopo aver riflettuto un poco, col naso
arricciato e gli occhi castani fissi nei suoi. Erano così
simili a quelli di Ginevra…
Artù scosse il capo per dimenticarsi del suo volto, presto
sostituito da quello di Cathleen, e ridacchiò passandosi una
mano tra i capelli ormai fradici di pioggia.
«Lo dici solo per essere gentile. Tutte le volte che mi sono
cimentato nel corteggiamento le ragazze si rivelavano essere mostri o
sotto l’effetto di una qualche droga».
«Per qualche tempo tra i bambini è girata la voce
che io fossi un vampiro, ma come vuoi vedere tu stesso»,
aprì la bocca e si toccò il canino destro,
indicandoglielo, «i miei denti sono solo frutto di una buona
igiene orale. Per quanto riguarda le droghe… la mia ultima
canna è stata all’ultimo anno del
liceo». Scrollò le spalle, rivolgendogli un
sorriso smagliante. «Sono pulita».
Era da tempo che Artù non si sentiva così
spensierato e rilassato ed era tutto merito di Cathleen. E ne era
spaventato, eccome se lo era, ma non voleva rovinare tutto.
Sorrise e nonostante un po’ di nervosismo disse:
«Ne ero sicuro. Ad ogni modo, saresti stata il mostro
più bello che avessi mai visto».
«Vedi, vai alla grande nel corteggiamento!»,
esclamò il paramedico, per poi scoppiare in una nuova risata
cristallina, contagiandolo.
Artù non sapeva nemmeno che in quella minuscola cittadina ci
fosse un pub – era così che venivano chiamate le
taverne ora – ed era stata la stessa Cathleen a
suggerirglielo, ma sua era stata l’iniziativa di portarla
fuori. All’inizio aveva pensato ad una cena, poi la ragazza
gli aveva fatto capire che non era il tipo di ragazza a cui piacevano i
bei ristoranti e che, come primo appuntamento, sarebbe andata benissimo
una birra.
Una volta a casa, con sua immensa vergogna, Artù aveva
chiesto a Merlino che cosa fosse un ristorante e soprattutto che cosa
intendesse con la parola “appuntamento”. Come aveva
previsto il mago era andato su tutte le furie, ripetendogli fino alla
nausea che quella storia non sarebbe andata a finire bene, ma era
contento di non avergli dato retta. Cathleen era radiosa, nonostante
l’inizio un po’ impacciato, e il suo sorriso gli
trasmetteva la stessa calma e serenità che gli aveva
trasmesso quel pomeriggio, su quell’altalena bagnata di
pioggia.
«Scusami ancora per prima, solo che… mi ha colto
alla sorpresa vedere Merlino e Alex. Pensavo saremmo stati
soli», disse Cathleen dopo aver bevuto un sorso della sua
birra.
«Non devi scusarti, è stata colpa mia»,
rispose cercando di rassicurarla, pensando in realtà che era
tutta colpa di Merlino: era lui che aveva insistito perché
lo accompagnasse e nemmeno la condizione che gli aveva proposto come
deterrente era servita, dato che Merlino aveva davvero chiesto ad Alex
di uscire con lui e lei aveva accettato.
Cathleen sorrise ed incrociando le braccia sul ripiano lucido del
tavolino voltò il capo verso il bancone, da dove Merlino,
rimasto solo, li stava spiando. Non appena si rese conto del suo
sguardo si voltò, nascondendosi dentro il suo boccale di
birra.
Cathleen ridacchiò e lo indicò col pollice,
confessando: «Mi detesta, sai?».
«Perché dovrebbe?», le chiese
Artù, la fronte corrugata.
«Abbiamo avuto un piccolo diverbio, qualche tempo
fa».
Il re contrasse le mascelle. «Quanto piccolo?».
«Okay, non così piccolo. Voleva immischiarsi in
questioni che non lo riguardavano e mi sono comportata da vera e
propria stronza, ma penso che certi segreti debbano rimanere tali,
soprattutto se riguardano qualcosa che fa paura e fa troppo
male».
Quelle parole furono come una coltellata alla schiena. Non poteva
immaginare quanto Merlino avesse sofferto in
silenzio nascondendo a tutti il proprio segreto, ma attraverso gli
occhi di Freya aveva visto quanto si era sentito sollevato quando aveva
trovato qualcuno con cui condividerlo, qualcuno di cui fidarsi e che
poteva capirlo. Per questo poteva benissimo immaginarsi anche come si
doveva essere sentito quando aveva capito che Cathleen stava patendo la
sua stessa sofferenza e perché aveva deciso di offrirle una
mano a cui aggrapparsi. Una cosa che Artù non aveva mai
potuto fare perché non aveva mai capito.
«Sono certo che Merlino volesse solo aiutare»,
disse schiarendosi la gola, gli occhi bassi.
«Beh, non poteva. Ma non si arrendeva, lui…
continuava a dire che ce l’avrei fatta, ma…
nessuno può o potrà mai aiutarmi,
nessuno». Tirò su col naso, evidentemente scossa,
ma invece di mostrare le proprie emozioni apertamente si nascose dietro
un sorriso e tirò fuori dalla sua grande borsa borchiata un
pacchettino da cui estrasse una di quelle sigarette che aveva visto in
una serie TV.
«Ti dispiace se vado a fumare?».
Cathleen non aspettò la sua risposta né gli
chiese di accompagnarla fuori: era chiaro che voleva stare da sola.
La guardò uscire dal pub, sedersi sul marciapiede, poco
lontano dalla porta, e accendere la sua sigaretta proteggendo la fiamma
dal vento con una mano. Poi Artù saltò
giù dallo sgabello e raggiunse Merlino riservandogli
l’espressione più minacciosa che avesse nel
proprio repertorio.
Lo prese per il collo della maglia ed incatenò lo sguardo al
suo, sibilando: «Ti sei per caso dimenticato di dirmi che tu
e Cathleen vi conoscete piuttosto bene?».
«No», rispose calmissimo, per nulla intimorito dal
suo sguardo furente. «Quello che so di lei è
quello che mostra di sé, nient’altro».
Artù digrignò i denti.
«Merlino…».
«Vi ha appena detto che abbiamo avuto una discussione, non
è così? Questo mi lascia stupito, ma non importa.
Non so cosa ci trovate in lei né che intenzioni avete, ma
non spetta a me giudicare e non volevo fare il guastafeste, per questo
non vi ho detto nulla».
Lo lasciò bruscamente e si sedette al suo fianco, senza
smettere però di guardarlo in cagnesco. «Parla,
avanti».
«Tempo fa ho scoperto che non è solo Cathleen che
va in cerca di attenzioni, ma che molti, all’ospedale, vanno
a cercare lei per qualche ora di… svago, chiamiamolo
così. Cathleen viene sfruttata, si lascia
sfruttare e io volevo solo capirne il motivo. Un pomeriggio
l’ho vista mentre si rifiutava di andare ad uno di questi
incontri e, insospettito, ho deciso di seguirla».
Artù aprì la bocca, sconvolto. «Non
perderai mai questa abitudine, vero?».
«Ha sempre funzionato con voi», rispose sorridendo.
«Comunque, Cathleen ha rinunciato all’offerta di
quel dottore perché doveva andare al cimitero.
L’ho raggiunta e l’ho vista piangere sulla tomba di
quello che poi ho scoperto essere il suo fidanzato. È
lì che abbiamo avuto quella discussione: io le ho chiesto
perché continuava a farsi del male con le sue stesse mani,
se per caso la morte del suo fidanzato c’entrasse qualcosa, e
lei mi ha accusato di averla pedinata, di aver violato la sua privacy e
che non ero nessuno per giudicarla ed intromettersi in quel modo nella
sua vita, che non aveva bisogno del mio aiuto né di quello
di nessun altro e alla fine… beh, mi ha mandato
all’inferno».
Artù non rispose, addolorato com’era per
ciò che aveva dovuto patire quella ragazza che, ora lo
capiva, sorrideva solo per nascondere ciò che la stava
dilaniando dentro, qualcosa che per un po’ era riuscito a
prendere il sopravvento, al funerale di Steve. Ricordò
inoltre le parole di Abigail, la sua teoria secondo la quale il suo
abbigliamento, il suo trucco, tutta la sua esteriorità
fossero soltanto una maschera in grado di celare la sua solitudine. Ora
che sapeva quanto aveva perso gli sembrava ovvio, persino comprensibile
e giustificabile, ma sapeva che in fondo non poteva esserlo. Cathleen
non lo meritava, non meritava ciò che lei stessa si stava
facendo.
«Con me è stata piuttosto chiara: non vuole aiuto.
Perché voi dovreste essere diverso?».
Artù notò che gli occhi di Merlino si erano
riempiti di amarezza e delusione, segno che aveva abbandonato quella
battaglia già da molto tempo.
Gli colpì la schiena con una mano, lasciando che un sorriso
affiorasse alle sue labbra. «Perché io non sono
te».
«Ovviamente», mormorò il mago proprio
quando Alex tornò dal bagno, accorgendosi subito della sua
aria demoralizzata.
«Che è successo?», chiese e rivolse
subito tutta la propria attenzione ad Artù, incrociando le
braccia al petto e guardandolo con sguardo ammonitore.
«Dov’è Cathleen? Che cosa le hai
fatto?».
«Un bel niente», sbottò roteando gli
occhi al cielo.
«Allora vai da lei», lo incoraggiò
Merlino, anche se – Artù glielo leggeva in faccia
– sapeva che presto se ne sarebbe pentito.
Il re annuì e afferrò il giubbotto per affrontare
il vento gelato, ma prima che uscisse del tutto Merlino aggiunse:
«Fai un complimento alla sua moto, le farà
piacere».
Non avrebbe mai immaginato di poter accettare consigli del genere da
lui, non a mente lucida almeno. Cercò di non pensare a
quanto suonasse strano e lo ringraziò, chiudendosi la porta
vetrata alle spalle.
Si avvicinò lentamente a Cathleen, intenta a fare dei cerchi
di fumo muovendo le labbra come un pesce, e si sedette al suo fianco
senza trovare nulla da dire. Non aveva altre carte da giocare, tanto
valeva usare subito quella che gli aveva suggerito Merlino.
«Ti ho vista arrivare su quella moto, prima. È
veramente bella».
«Te ne intendi?», gli chiese senza concedergli
nemmeno uno sguardo.
«Assolutamente no. Ma mi piace e mi piacerebbe moltissimo
farci un giro. Che ne dici?».
Sorrideva forzatamente, mangiato dall’ansia, ma veder
affiorare uno spiraglio di buon umore sul volto di Cathleen fu un vero
sollievo.
Rientrò nel pub solo per avvisare Merlino che Cathleen lo
portava a fare un giro con la moto e salutare Alex, raccomandandole di
non fare troppo tardi. Non ebbe il tempo di vedere le loro facce
sconvolte, per un motivo o per l’altro. Quando entrambi
uscirono dal pub, chiamandoli a gran voce, Cathleen era già
schizzata via e non li sentirono sopra il rombo del motore.
Aveva urlato entusiasta, scosso dall’adrenalina, e il suo
cuore batteva ancora forte quando Cathleen fermò la sua
enduro – così l’aveva chiamata
– e gli disse che ora poteva lasciarla andare.
Artù si affrettò a sciogliere
l’abbraccio che gli aveva impedito di volare via e
realizzò, avvertendo un certo rossore farsi spazio sul suo
viso, che probabilmente la vicinanza del corpo di Cathleen era stato
uno dei motivi per cui il suo cuore non aveva ancora smesso di correre.
«Allora?», gli domandò sorridente,
mentre lo aiutava a togliersi il casco – l’unico
che avesse e che gli aveva fatto indossare prima con le buone e poi con
le cattive maniere.
«È stato fantastico!», gridò,
saltando giù dalla moto. «Ne voglio una anche
io!».
Cathleen rise di gusto, passandosi le mani tra i capelli scompigliati
dal vento, poi indicò la palazzina di fronte alla quale si
erano fermati. «Ti va di salire per un
caffè?».
Artù sollevò
il capo, osservando le piccole finestre illuminate oppure dalle
persiane già abbassate. «Oh, tu abiti
qui?».
«Già. L’ascensore è fuori
uso, ma io sono al secondo piano, quindi…».
«Le scale vanno benissimo», la interruppe.
«Andiamo».
Cathleen abitava in un piccolo appartamento, con una sala
più grande che faceva contemporaneamente da cucina e da
salotto, un bagno e un’altra stanza che non poteva che essere
la sua camera da letto. Era ordinato e pulito, ma cosparso in ogni
angolo di statuine di fate alate, spiriti della foresta e altri esseri
chiazzati di muschio che davvero non riusciva nemmeno ad immaginare che
cosa fossero.
«Benvenuto nel mio mondo», gli disse, invitandolo a
darle il suo giubbotto e a fare come se fosse casa sua.
Artù si avvicinò ad una mensola su cui erano
disposte piccole ragazze coi capelli e le ali di ogni colore, il seno
prosperoso e le gambe nude sottili come fuscelli.
«Ti piacciono?», gli chiese, comparendo alle sue
spalle all’improvviso con indosso la sola canotta col teschio
e i capelli raccolti in una coda alta, il collo candido e sensuale in
bella vista. «Tranquillo, non mi offendo. Non saresti il
primo a dire che le trova inquietanti».
E quanti prima di me le hanno trovate inquietanti?
si chiese il re di Camelot, ripensando alle parole di Merlino.
Accennò un sorriso, deglutendo rumorosamente.
«Ho sempre avuto un rapporto complicato con gli esseri magici
e via dicendo».
«E come mai?».
Artù scrollò le spalle. «Non
sono… naturali?». Più che
un’affermazione suonò come una domanda,
perché davvero non aveva idea di cosa dire senza rivelarle
che quasi tutta la magia che aveva visto nel corso della sua vita aveva
provocato morti e sofferenze. E ne avrebbe provocate ancora.
«Chi ti dice che non sia il contrario? Io penso che non
essere magici sia innaturale. Mi piace pensare che dentro ognuno di noi
ci sia un pizzico di magia inespressa, pronta ad essere
risvegliata…».
«Sciocchezze», la interruppe bruscamente,
più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Non appena si
accorse della sua espressione corrucciata sospirò,
maledicendosi. «Perdonami, non volevo essere scortese.
È solo che… Se fosse come dici tu, se ognuno
avesse un po’ di magia dentro di sé…
Beh, non credo che tutti la utilizzerebbero per il bene».
La sua fronte si stese di nuovo, serena. «Su questo sono
d’accordo con te».
«Questi che cosa sono?», chiese Artù,
indicando delle piccole creature con pigne come cappelli e grossi
funghi come ombrelli, tutti in fila su un ripiano della libreria
accanto al televisore.
«Troll. Li adoro, sono birichini e anche molto vendicativi,
se li si fa arrabbiare».
«Non lo metto in dubbio», mormorò,
guardandoli più da vicino e sentendo un brivido corrergli
lungo la spina dorsale al ricordo di Lady Catrina, il troll di cui suo
padre si era follemente innamorato – nel vero senso del
termine.
«Ma il pezzo forte della collezione è qui,
vieni».
Cathleen lo prese per mano e Artù sentì un altro
brivido, ben più forte e di tutt’altra natura. Si
lasciò trascinare dall’altra parte del salotto, di
fronte alla grande libreria bianca, formata da tanti quadrati
accatastati gli uni sugli altri e senza fondo, che faceva da
separé tra il salotto vero e proprio e l’angolo
cottura. Dall’ingresso non li aveva notati, ma ora capiva
perfettamente perché Cathleen li aveva definiti il pezzo
forte della collezione. Erano quasi un centinaio, di ogni colore e
dimensione e raffigurati in pose sempre diverse: draghi.
«Ho visto che sul tuo mantello ce n’era uno. Che ne
pensi?».
Artù stirò un sorriso, rendendosi conto per la
prima volta di quanto suonasse ironico il fatto che la casata dei
Pendragon avesse un drago nel proprio stemma, la stessa casata che
aveva quasi fatto estinguere quella specie affascinante e, diciamoci la
verità, dannatamente pericolosa.
«Beh… sono impressionato», rispose senza
dover ricorrere alle bugie. E in un certo senso non avrebbe mentito,
omettendo che le mani di suo padre erano macchiate di sangue di drago e
che lui stesso ne aveva ferito uno con l’intenzione di
ucciderlo.
«Vorresti rimanere ancora più
impressionato?», gli chiese a bassa voce.
Artù la guardò e non fece nemmeno in tempo ad
accigliarsi che Cathleen si stava già sfilando la canotta,
mettendo il bella mostra il suo reggiseno di pizzo nero che spiccava
sulla sua pelle diafana. Gli gettò uno sguardo sensuale, un
angolo della bocca sollevato in un sorriso soddisfatto, poi si
voltò e posandosi la lunga coda sulla spalla sinistra si
apprestò a slacciare i ganci che coprivano in parte il
grande drago che aveva tatuato sulla schiena.
Aveva le zampe piegate come se la spina dorsale di Cathleen fosse un
ripido pendio da scalare, la testa girata di profilo e le fauci
spalancate a mostrare una fila di denti tanto aguzzi da far venire i
brividi. L’intero corpo del drago era color rosso fuoco con
sfumature verdi sulle scaglie del muso e sugli spuntoni che gli
percorrevano tutto il dorso. Le ali gigantesche erano semi-aperte e
ricoprivano praticamente tutta la pelle sopra la sua scapola destra,
mentre la lunga coda, dopo alcuni giri su se stessa, si piegava poco
sopra le fossette di venere alla fine della sua schiena.
Artù aveva la testa che gli girava, ma avvicinò
comunque una mano alle ali della creatura, rapito dalla sua forza e,
incredibilmente, dalla sua eleganza. Non appena le sfiorò
però si ricordò che quella era la schiena nuda di
Cathleen, bollente sotto le sue dita, e sobbalzò vedendola
rabbrividire. Il paramedico si girò, del tutto incurante di
essere nuda dalla vita in su, e lo guardò con occhi languidi
e allo stesso tempo assenti. Gli posò una mano sulla nuca,
all’attaccatura dei capelli, e lo baciò senza
dargli il tempo di reagire, il petto bollente contro il suo.
Artù provò a rilassarsi, a dimenticare tutto
quello che Merlino aveva detto e che forse lui era solo
l’ultimo di una lunga lista e che il giorno dopo sarebbe
stato dimenticato; provò a dimenticare anche il vuoto che
aveva visto nel suo sguardo, un dolore profondo e inconsolabile. Per un
attimo ci riuscì, il tempo necessario a posare delicatamente
le mani ai lati del suo viso per approfondire il bacio. Poi
l’ennesimo flashback lo fece trasalire.
«Io
non voglio più perderti. Vuoi sposarmi?».
«Sì! Sì, con tutto il mio
cuore».
Si
scostò bruscamente e le lasciò il viso per
guardare quella sbigottita non-Ginevra negli occhi, fino a quando non
riuscì a trovare la forza per accennare un sorriso e dire:
«È pronto il caffè?».
Cathleen boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
come se non avesse messo in conto che avrebbe dovuto prepararlo sul
serio, poi si piegò per raccogliere la canotta che aveva
lasciato cadere a terra assieme al reggiseno e corse in bagno senza
guardarsi più indietro.
Artù si passò il dorso di una mano sulla bocca e
poi si coprì il viso per sospirare amaramente, col cuore che
gli batteva dolorosamente nel petto.
***
Merlino
si era lamentato all’inverosimile, raggiungendo livelli di
paranoia che Alex non aveva mai avuto il piacere di riscontrare nel suo
carattere, ma alla fine era riuscita a convincerlo che era inutile
continuare ad aspettarli lì. Così erano usciti
dal pub ed erano saliti sull’auto di Merlino, il quale aveva
annunciato mestamente che la riportava a casa. Alex però
aveva dato un’occhiata al suo orologio e rischiando il tutto
per tutto aveva detto: «È ancora presto.
Perché non andiamo a casa tua?».
Come aveva previsto Merlino si era irrigidito, con le mani strette
intorno al volante, ma poi senza dire una parola, scrollando solo le
spalle, aveva fatto inversione ad U.
Parcheggiò l’auto di fronte al vecchio fienile e
per la prima volta Alex si trovò nell’immenso
giardino che aveva avuto modo di osservare solo dalla cucina. Era
bellissimo, sotto la mezzaluna che brillava nel cielo sgombro di
nuvole: decine di piccole lucciole saltavano da un fiore di campo
all’altro, quasi a perdita d’occhio, e tutto era
pace e silenzio, eccetto per il delicato stormire degli alberi, in
particolare del grande salice piangente, e del lento gorgogliare del
fiumiciattolo.
«Tè?», le domandò Merlino,
riportandola alla realtà.
Alex abbozzò un sorriso ed annuì.
«Volentieri».
In casa c’era un piacevole tepore, merito dei termosifoni
ancora accesi, ma Merlino insistette nel voler accendere il camino
mentre l’acqua per il tè si riscaldava sul
fornello.
Alex si sedette in cucina e si stava chiedendo che cosa stessero
facendo Artù e Cathleen, quando la borsa che aveva
appoggiato allo schienale della sedia cadde a terra rovesciando tutto
il proprio contenuto sul pavimento. Si inginocchiò per
sistemare e rimase pietrificata quando le sue dita sfiorarono
l’action figure di Capitan America di Steve. Le lacrime le
affluirono agli occhi con velocità sorprendente e si
ritrovò a tirare su col naso ancor prima di accorgersi della
presenza di Merlino alle sue spalle.
«Ehi…».
Alex voltò il viso dall’altra parte e
respirò profondamente, cercando di cacciare
nell’angolo più profondo della sua anima la
tristezza che le stava scavando l’ennesimo buco nel petto.
«Questo me lo ricordo», disse Merlino sorridendo,
inginocchiandosi al suo fianco per prenderle il gioco dalle mani.
«Ero così invidioso… Steve non ha
più calcolato nessun altro regalo quando tu gli hai dato
questo».
«Che ci vuoi fare», rispose ridacchiando. Poi
ingoiò il nodo che le stringeva la gola e come se nulla
fosse disse: «Oggi, durante la messa, ho sentito quello che
ti ha chiesto Artù».
Merlino socchiuse gli occhi, lasciando cadere le spalle: evidentemente
aveva sperato fino all’ultimo che non se ne fosse accorta. Ma
Alex aveva sentito fin troppo bene e quel pomeriggio, a casa, aveva
fatto delle ricerche sui funerali nell’epoca medioevale, al
tempo di Re Artù. Non aveva trovato molto, solo una serie di
dipinti che raffiguravano un’imbarcazione ornata di fiori
guidata da un individuo avvolto in un pesante mantello nero,
probabilmente la personificazione della morte stessa.
Quell’immagine le aveva fatto venire alla mente il film Thor:
The Dark World e in particolare la scena del funerale di
Frigga, la madre del Dio del Tuono. Da lì era riuscita a
risalire ai funerali vichinghi, nei quali c’erano proprio
barche funerarie su cui venivano cremati i morti.
Artù aveva proprio accennato al fuoco, chiedendo a Merlino
quando il corpo di Steve sarebbe stato bruciato, e Alex, di fronte al
computer, aveva realizzato che probabilmente era così che al
tempo dei Cavalieri della Tavola Rotonda venivano celebrati i riti
funebri: alla vichinga. Si era domandata se anche Artù
avesse ricevuto lo stesso trattamento e aveva sentito un brivido di
freddo percorrerle la spina dorsale pensando al lago da cui
l’aveva tirato fuori. Perché avrebbe dovuto
trovarsi lì, altrimenti?
«Devi imparare ad ignorarlo, ogni tanto»,
esclamò Merlino, scuotendo il capo.
«Lo so, è che…».
Abbassò gli occhi sull’action figure e poi con
determinazione riprese: «Ho fatto delle ricerche e penso che
Steve si meriti più di un funerale normale. E pensare che
non avrò un posto dove poterlo piangere mi spezza il
cuore».
Merlino la guardò intensamente, tanto intensamente che Alex
ebbe paura che potesse leggerle l’anima. Si
sollevò per spegnere il bollitore e poi le porse la mano
perché si alzasse a sua volta.
Alex lo seguì in giardino e senza dire una parola lo
guardò entrare nel vecchio fienile, ora utilizzato come
garage e deposito per la legna. Merlino afferrò una lanterna
a led e una vanga e gliele passò, poi levò un
grande telo di plastica da una carriola colma di sassi e
metà di ceppi di legno intagliati come piccole barchette
spartane.
Il moro sollevò gli occhi per cogliere la sua reazione e
Alex gli mostrò un sorriso. Non ci fu bisogno di
spiegazioni: l’infermiera aveva già capito che
Merlino nei giorni precedenti si era già organizzato per
celebrare il suo funerale personale, con o senza di lei, e
l’unica cosa che poteva pensare era che era fortunata ad
averlo al suo fianco.
Accese la lanterna e gli fece luce fino alla sponda del fiumiciattolo,
a qualche metro dal salice piangente. Lì Merlino
lasciò la carrucola ed iniziò a scavare con la
vanga, facendo un mucchietto di terra e sassolini accanto a
sé. Alex avrebbe voluto aiutarlo, fare qualsiasi cosa le
avesse chiesto di fare, ma Merlino agiva in silenzio, veloce e sicuro
come se lo avesse fatto centinaia di volte, e Alex stringeva forte
l’action figure di Steve tra le mani.
«Merlino…».
«Ci sono delle candele e un accendino in cucina, nel cassetto
sotto al cordless».
Alex annuì, sollevata, e corse verso la veranda.
Aveva appena aperto il cassetto indicatole da Merlino quando
sentì il rombo di una moto avvicinarsi. Si diresse verso uno
dei bovindi nel salotto e guardò Artù mentre si
toglieva il casco e lo passava a Cathleen. Non riusciva a vederli bene
in viso a causa del buio, ma vide Artù chinarsi su di lei
per posarle un bacio sulla fronte prima che si infilasse il casco.
Quando la salutò ed iniziò a percorrere il
vialetto Alex corse di nuovo in cucina e come se non avesse visto nulla
riprese a cercare le candele.
«Alex?», esclamò Artù non
appena aprì la porta, sorpreso di trovarla lì.
«Finalmente sei tornato. È stato molto scortese da
parte tua andartene così, sai?».
Artù aprì la bocca per parlare, le sopracciglia
aggrottate, ma Alex fu più veloce di lui e aggiunse:
«Per questo più tardi mi dirai per filo e per
segno che cosa è successo con Cathleen, intesi? Ora
seguimi».
Il biondo si arrese e mestamente lasciò che gli facesse
strada fino alla piccola fossa che Merlino aveva appena finito di
scavare. Lui e il mago si scambiarono un’occhiata
d’intesa.
«Tocca a te, Alex».
L’infermiera deglutì rumorosamente e si
inginocchiò per posare il piccolo Capitan America nella
terra nuda e fredda e trasferire un bacio dalle proprie dita al suo
scudo. Artù si fece dare la pala da Merlino e lo
ricoprì di terra, poi, insieme, iniziarono a posarvi sopra
le pietre raccolte dentro la carriola, fino a formare una specie di
piramide.
Merlino prese l’accendino dalle mani tremanti di Alex,
sfiorandole i capelli con un bacio, ed iniziò ad accendere
le piccole candele, bianche e rotonde, posizionandole poi nelle conche
di quei ceppi tagliati. Quando furono tutti pronti, allineati sulla
sponda del fiume, Artù chinò il capo e con la sua
voce solenne, la stessa che aveva usato durante la cerimonia
d’investitura, disse: «Rendiamo omaggio a Sir
Steve, uno dei Cavalieri più nobili che io abbia mai
conosciuto».
Alex, ora accanto a Merlino, con le mani strette intorno al suo
braccio, lo sentì trattenere un singhiozzo a quelle parole,
mentre una lacrima silenziosa faceva capolino sulla sua guancia.
«Non dimenticheremo mai il suo coraggio, la sua dolcezza, il
suo cuore generoso. Che gli spiriti siano buoni con lui come lui lo
è stato con noi».
Merlino tirò su col naso e seguì Artù
sulla sponda del fiume, dove uno dopo l’altro fecero
scivolare tutti i ceppi nell’acqua. Anche Alex ne spinse uno
e guardò la fiamma della candela che trasportava
allontanarsi velocemente seguendo la corrente, continuando a brillare
anche nell’oscurità più profonda.
Sentì la mano di Artù stringerle una spalla e poi
scostarsi, ritornando verso la veranda. Alex rimase lì
ancora un po’, accanto a Merlino, sperando con tutto il cuore
che quelle fossero le sue ultime lacrime di tristezza.
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Capitolo 14 *** 14. The witch’s quickening ***
Buongiorno!
:)
Allora, questo capitolo a mio parere è una vera bomba. Nel
senso che tutti i nodi - o quasi - vengono al pettine e si
scoprirà anche qualcosa di inaspettato... Non vedo l'ora di
sapere che cosa ne pensate!
Per
quanto riguarda invece ciò che ho scritto la scorsa volta,
sono davvero convinta che sia la soluzione migliore per continuare a
fornirvi un "prodotto" di qualità e con una certa
regolarità. Inoltre, non so se qualcuno segue la mia pagina
facebook, ma recentemente ho scritto un piccolo sfogo a proposito di
una situazione che mi è capitata. In breve, mi è
venuto in mente di poter aggiungere una scena in un capitolo, ma non
avrei potuto farlo senza andare a modificare quelli precedenti. Quindi
mi sono detta: che sarebbe successo se quei capitoli che sarei dovuta
andare a modificare fossero già stati postati? Di certo
avrei dovuto abbandonare un'idea che mi convinceva parecchio e io...
sarà per il mio perfezionismo, sarà
perché sono una cavolo di rompiballe quando mi ci metto, non
voglio che ricapiti.
Quindi continuerò a postare fino alla fine della prima parte
della storia, poi confermo che mi prenderò una pausa per
continuare a scrivere e possibilmente, se ce la farò,
concludere definitivamente questa FF, la quale si è rivelata
molto più impegnativa di quanto pensavo ma anche molto
più gratificante, un viaggio davvero fantastico. Spero che
anche per voi sia lo stesso e che non ve la prendiate troppo per la mia
decisione.
Okay,
detto ciò vi lascio al capitolo, che è meglio :)
Buona lettura!
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________________________
14.
The witch’s quickening
«Mi
prendo cinque minuti», esclamò estraendo una
sigaretta dal pacchetto e portandosela alle labbra mentre faceva
l’occhiolino all’infermiera seduta dietro il
bancone del ricevimento del Pronto Soccorso.
Lei ricambiò il sorriso, chinando subito dopo il capo per
l’imbarazzo.
Si accese la sigaretta e camminò fino alla stazione delle
ambulanze prima di tirare fuori dalla tasca del camice il cellulare e
selezionare il primo numero sulla lista delle chiamate effettuate. Se
lo portò all’orecchio e si guardò
intorno ancora una volta per accertarsi che non ci fosse nessuno, poi
sorrise quando sentì una voce di donna rispondergli in modo
freddo e distaccato, professionale. La forza dell’abitudine.
O forse perché riteneva il loro accordo un lavoro
vero e proprio. E pensare che all’inizio era stata tutta
urla, lacrime e dubbi. Ora sembrava ancora più determinata e
spietata di lui, un lanciarazzi impossibile da disarmare.
«Disturbo?».
«No, affatto. Novità?».
«Una, molto buona».
«Ci sei riuscito?».
«Ha già ricevuto la lettera».
«Hai visto come ha reagito?».
«No».
«Peccato. Avrei pagato oro per vedere l’espressione
sulla sua faccia. Quanto tempo credi che le servirà prima di
correre a supplicare il tuo aiuto?».
«Non molto, suppongo. Quel reparto è diventato la
sua vita perciò, se la conosco bene come credo, non si
arrenderà finché non avrà ottenuto
nuovamente il suo posto. Vedrai, andrà tutto secondo i
piani».
«Me lo auguro. So che tieni molto a lei, ma per favore, falla
patire un po’ prima di andare di nuovo a parlare con il
dottor Ellis».
Sogghignò, scuotendo il capo. «Ti ho promesso la
tua vendetta e l’avrai, sono un uomo di parola. Ma questo non
basterà ad allontanarli, lo sai vero? Dovrai fare la tua
parte».
«Non hai di che temere, Keith. Devo andare ora, ci
sentiamo».
«Sarà un piacere, Myra».
***
Dopo
millequattrocento anni, pensava che ormai i tempi in cui per lavoro
puliva stanze e rifaceva letti fossero finiti. Si sbagliava.
Mentre Artù era stato pienamente accontentato, stando
praticamente sempre a contatto con i cavalli, Merlino si era dovuto
adeguare pur di stargli vicino: si era messo a totale disposizione non
solo del signor Greenwood, ma anche della signora Morris, la quale gli
aveva subito fatto capire che in primo luogo si sarebbe occupato della
manutenzione e della pulizia delle stanze dell’agriturismo.
Poi, nel caso fosse avanzato del tempo – e succedeva sempre
– si sarebbe occupato della pulizia della hall, dei piatti da
lavare in cucina, della spazzatura da buttare e infine della cura delle
stalle insieme ad Artù. Era una vita dura, soprattutto per
uno della sua età, ma gli piaceva quasi quanto piaceva ad
Artù.
Erano già passate due settimane e il solo ed unico re, a
dispetto di ciò che Alex aveva predetto, non aveva per nulla
perso il proprio entusiasmo: all’inizio gli scalmanati
bambini in gita scolastica gli avevano quasi fatto dare di matto, ma
col tempo, i consigli del padre di Alex e un po’ di pratica
aveva trovato il modo per tenerli sotto controllo e farsi ascoltare,
impegnandosi persino perché si divertissero il
più possibile con gli animali e durante i laboratori nei
campi. Per questo non mentiva, quando diceva che era orgoglioso di lui.
Il telefono posato sul comodino iniziò a squillare e Merlino
dovette spegnere l’aspiratore per poter sentire la voce di
Rebecca, di turno in reception.
«Merlino, i clienti della 208 hanno detto che
c’è un problema con lo scarico della vasca da
bagno. Potresti darci un’occhiata quando hai due minuti? Sono
appena usciti, torneranno solo questa sera».
«Consideralo già fatto».
«Grazie mille. Ciao!».
Merlino si avvicinò alla finestra che dava proprio sulle
stalle e sul grande recinto in cui i cavalli venivano lasciati liberi
di brucare l’erba e dove i bambini potevano provare il
brivido di salire su un carretto trasporta persone della
metà del ‘900.
Appoggiato allo steccato, baciato dal sole delle quattro del
pomeriggio, vide Artù parlare proprio con Alex.
Quand’era arrivata? E perché il re non
l’aveva subito chiamato per avvisarlo?
Li fissò per una dozzina di secondi, il tempo necessario
perché il sangue gli bollisse nelle vene. Quando
Artù le posò entrambe le mani sulle spalle,
avvicinando fin troppo il viso al suo per guardarla negli occhi e
sussurrarle qualcosa, Merlino non ci vide più e
lasciò la stanza pulita a metà per correre di
sotto.
Rebecca lo vide sfrecciare attraverso la hall, ma non ebbe nemmeno il
tempo per chiedergli che cosa fosse successo: rimase così a
bocca aperta, sbigottita.
«Alex!», urlò correndo verso di lei,
così forte da togliersi completamente il fiato.
L’infermiera si voltò e i suoi occhi velati di
lacrime gli trafissero il cuore come coltelli affilati.
Provò a rivolgergli un piccolo sorriso, con scarsi
risultati, per poi mettergli sotto al naso una lettera con
l’intestazione dell’ospedale e la firma non solo
della sua capo-infermiera ma addirittura dell’intero
Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale.
Merlino afferrò la pagina scritta al computer e lesse
velocemente riga dopo riga, percependo ogni emozione che Alex doveva
aver provato quando si era trovata quelle stesse parole di fronte agli
occhi.
«Ma è… legale?»,
domandò, sconvolto.
Alex annuì, riprendendo il foglio tra le mani per infilarlo
di nuovo nella sua busta. «Solitamente però sono
gli infermieri a chiedere un cambio di reparto, di comune accordo con
la direzione. In questo caso, invece, a causa del periodo di crisi e di
ben due infermiere che sono andate in maternità…
io non posso oppormi in alcun modo».
«E quando…?».
«Da domani. Merlino, io non credo di potercela fare. Sono
più di tre anni che non lavoro in Pronto Soccorso
e…».
«Ehi, ehi», le posò entrambe le mani
sulla testa, sorridendole dolcemente. «Andrai alla
grande», sussurrò. «A Cardiff eri una
delle migliori, perché qui non dovresti esserlo? Li
surclasserai, ne sono certo».
Alex corrugò la fronte, scostandogli le mani, ma non fece in
tempo ad aprire bocca che la signora Morris, dalla finestra di una
delle stanze, chiamò Merlino a gran voce, facendolo
sobbalzare.
«Le camere non si rifanno da sole!»,
urlò. «Quando avrai finito potrai parlare con Alex
e avere anche una fetta di torta, ma fino ad
allora…!».
Con una mano si schermò gli occhi, infastiditi dalla luce
del sole, e le rivolse un sorriso. «Arrivo subito,
Wanda!». Quindi si voltò di nuovo verso Alex e le
diede un buffetto sulla guancia. «Ci vediamo dopo».
Si diresse verso le scale, ma dopo appena pochi passi si
girò e guardò Artù con irritazione.
«Tu non devi andare ad occuparti dei cavalli?».
«Sono in pausa», rispose il re, smagliante,
scrollando le spalle.
Merlino strinse i pugni lungo i fianchi e si allontanò
mentre borbottava come una pentola di fagioli, per nulla stupito che
anche in quella vita Artù fosse il privilegiato dei due.
***
«Merlino
pensa davvero quello che ha detto, sai?».
Alex lo guardò con le sopracciglia aggrottate, poi scosse il
capo con un sorriso non troppo convinto sulle labbra. «Lo so,
lo so. È solo che ho avuto una sensazione di
déjà-vu».
Artù rimase in silenzio, cercando di immaginare cosa diavolo
significasse l’ultima parola che aveva pronunciato, e dopo
essersi tirato via gli stivali da lavoro la seguì nella
piccola reception.
«Ciao Alex», la salutò Rebecca con un
sorriso. Quando i suoi occhi si posarono su Artù questo si
allargò, ma chinò il capo e riprese a battere
velocemente sulla tastiera del computer.
Anche Alex notò la sua reazione e una volta raggiunto il
salotto si voltò per lanciargli un sorrisetto malizioso,
canticchiando: «Il mio rubacuori…».
Si lanciò sulla poltrona di fronte al camino spento e lo
guardò accomodarsi in quella vicina, facendo una pernacchia
con le labbra.
«Non è colpa mia se sono così
attraente».
«Assolutamente no». Si morse un sorriso ed
allungò un braccio per sistemargli i capelli biondi su un
unico lato della fronte. «Cathleen non si è ancora
fatta sentire?».
Artù scosse il capo, ripensando all’ultima volta
in cui l’aveva vista: la sera del loro primo
“appuntamento”, quando l’aveva baciato e
lui aveva rovinato tutto allontanandosi. Era stato parecchio
imbarazzante, per entrambi, bere il caffè seduti
l’uno di fronte all’altra al tavolo rotondo della
cucina, tanto che alla fine Cathleen aveva detto che era meglio farla
finita. L’aveva riportato a casa, dove era arrivato giusto in
tempo per partecipare al secondo e simbolico funerale di Steve, ma
prima di andare le aveva chiesto di perdonarlo. Il paramedico aveva
annuito, con gli occhi bassi, e Artù l’aveva
salutata con un bacio sulla fronte, promettendole che
l’avrebbe chiamata il giorno dopo per spiegarle la
situazione. Peccato che la mattina seguente e il pomeriggio e poi la
sera, Cathleen non gli aveva mai risposto, ignorando sia le sue
chiamate sia gli SMS. L’aveva persino evitato quando si erano
incrociati in ospedale.
Si passò le mani sul viso, sospirando. «Non so
davvero cosa fare, Alex».
«Forse dovresti lasciar perdere e aspettare che sia lei a
fare il primo passo».
«Non è mai stato il mio forte,
aspettare».
«Lo immaginavo. Però, rifletti, quale alternativa
hai?».
Artù appoggiò i gomiti sulle ginocchia ed
iniziò a giocherellare con l’anello che portava
all’indice sinistro, un largo cerchio d’argento su
cui era stato sovrapposto uno più piccolo, dorato. Lo faceva
sempre, quando era teso e non sapeva qual era la cosa giusta da fare.
«Beh, so dove abita. Potrei…».
«Pessima idea», lo interruppe.
«Allora potrei usare un intermediario».
Realizzò ciò che aveva appena detto e si sorprese
di non aver avuto prima quell’idea geniale. Si
addossò allo schienale della poltrona e guardò
Alex con un sorriso euforico.
«Ma certo, è perfetto!».
«Se è quello che penso, levatelo dalla
testa», rispose Alex, puntandogli un dito contro con
espressione più spaventata che minacciosa.
«Ti supplico, Alex! Lei e Merlino non vanno d’amore
e d’accordo, perciò tu sei la mia unica speranza!
Devi parlare con lei e convincerla almeno ad ascoltarmi! È
tutto quello che mi serve, sul serio».
L’infermiera lo fissò intensamente per diversi
secondi, il labbro inferiore stretto tra i denti, poi
sospirò e sbatté le mani contro i braccioli della
poltrona, roteando gli occhi al cielo. «E va bene, ci
proverò. Ma che cosa hai intenzione di dirle,
precisamente?».
Artù esitò, boccheggiando. Di sicuro non poteva
dirle la verità vera e propria, ossia che il ricordo di
Ginevra gli aveva impedito di lasciarsi andare come avrebbe voluto, ma
sarebbe bastato confessare che anche lui aveva perso la persona che
amava – tutte le persone che amava, eccetto Merlino
– e che capiva come si sentiva; che era okay soffrire, ma non
lo era farsi più male di quello che si meritava.
Posò di nuovo gli occhi su Alex, ancora in attesa della sua
risposta, e fu lui quella volta a puntarle il dito contro:
«Tu preoccupati di fare la tua parte».
«Non hai la più pallida idea di che cosa dirle, ho
capito».
«Non è così, io so che cosa
–!». Si bloccò a metà frase
alla comparsa di Edwin, il padre di Alex, il quale sorrise alla figlia
e la salutò con un bacio sulla fronte.
«Come stai?».
«Bene, sì, alla grande. E tu?».
«Ogni tanto la mia schiena fa i capricci, ma va molto meglio
da quando ci sono Artù e Merlino a darmi una mano. Ed
è tutto merito tuo, bambina mia».
«Ah, figurati».
«Ti fermi a cena, questa sera?».
Alex guardò Artù e poi alzò di nuovo
gli occhi su suo padre. «Non lo so, forse. Sai, domani devo
lavorare».
«Certo, certo». Le passò una mano tra i
capelli, dietro l’orecchio, e si diresse di nuovo verso la
porta della cucina. «Torno dai cavalli a controllare che
abbiano tutto per la notte».
«Vuole che venga anch’io, signor
Greenwood?», chiese Artù, alzandosi in piedi.
L’uomo però gli fece cenno di restare pure
dov’era, sorridendo e facendogli l’occhiolino.
«Non ti preoccupare figliolo, me ne occupo io.
Divertitevi».
Artù ricambiò il sorriso e gli ci vollero una
dozzina di secondi per accorgersi dello sguardo inquisitore di Alex.
«Che c’è?», le chiese,
stringendosi il collo tra le spalle.
«Mio padre ti ha appena chiamato figliolo
e ti ha fatto l’occhiolino. Dimmelo tu che
c’è».
«Gli sto… simpatico, suppongo».
«Simpatico, sì», mugugnò
Alex, incrociando le braccia al petto.
Artù unì i palmi delle mani e se li
sfregò nervosamente, chiedendosi perché Merlino
ci mettesse tanto a raggiungerli. Per spezzare
quell’imbarazzante silenzio, chiese: «Come vanno le
cose tra voi due? Tra te e tuo padre».
«Bene», rispose passandosi due dita sulla fronte,
poco sopra il sopracciglio sinistro. «Abbiamo sei anni da
recuperare e molti errori a cui rimediare, ma ce la faremo. Sai, per
tutto questo tempo non mi sono mai preoccupata di capire perché
si fosse comportato in quel modo, ero troppo arrabbiata e delusa per
farlo. Avrei voluto chiederglielo prima, pensare un po’ di
più… Ci saremmo risparmiati moltissimo
dolore».
Alex abbozzò un sorriso, ma nei suoi occhi c’era
così tanta tristezza che Artù la sentì
circondargli sinuosamente il cuore, strisciando e facendolo
rabbrividire. Conosceva bene quella tristezza, una tristezza che non
tutti erano in grado di cogliere; a lui era così familiare
perché ricordava di averla vista più e
più volte, fissandosi allo specchio.
«Mio padre ha ripreso a scommettere per recuperare i soldi
che servivano per pagarmi l’università. I conti
della scuola d’equitazione erano sempre in rosso, come quelli
a casa, e pur di non deludermi è rientrato nel giro,
convinto che sarebbe riuscito a risolvere tutto da solo.
Così non è stato, ovviamente. Lui l’ha
fatto per me e io non gli ho rivolto la parola per sei anni
perché non me n’ero mai resa conto. Quanto sono
stata stupida, eh?».
«Facciamo tutti degli errori», rispose mestamente
Artù, pensando a quelli a cui lui e suo padre non avevano
mai posto rimedio, mai del tutto. «E non è forte
chi non ne commette, ma chi è in grado di perdonarli e
ricominciare».
Alex sorrise dolcemente e si massaggiò il naso con una mano,
poi infilò una gamba sotto l’altra e si
voltò sulla poltrona per poterlo guardare dritto negli occhi
con la testa posata sul morbido schienale in pelle.
«Grazie, Artù. Anche se devo ammetterlo:
è strano sentirti fare discorsi così
profondi».
«Perché, non suono credibile?», le
chiese, sogghignando.
«Oh no, sei molto credibile. È
solo che il novanta percento del tempo ti comporti da idiota,
quindi…».
Artù prese il cuscino che aveva dietro la schiena e glielo
lanciò contro, ma giusto una frazione di secondo prima che
la colpisse in pieno viso questo cambiò improvvisamente
traiettoria, finendo contro la libreria alla sinistra del camino. Sia
Alex che Artù fissarono il cuscino, impietriti, per quella
che sembrò un’eternità. Quindi si
guardarono l’un l’altro, incapaci di articolare una
frase di senso compiuto.
Alla fine Artù si alzò e si guardò
intorno alla ricerca di Merlino. Era sicuro che Alex non avesse nemmeno
sfiorato quel cuscino, che la sua mano fosse rimasta immobile di fronte
al viso per proteggerlo dal colpo, perciò doveva essere
stata per forza opera sua. Peccato che Merlino non fosse nei paraggi,
al momento.
Il telefono della reception trillò, facendolo sobbalzare, e
Rebecca rispose con un semplicissimo «Pronto», la
risposta classica che usava quando si trattava di una chiamata interna.
Alzò di scatto la testa in direzione di Artù e
Alex, nel salotto, e li guardò per poi dire con tono
incerto: «Sì, sono qui tutti e due e mi sembrano
in ottima forma. Merlino, stai bene?».
Artù strinse i denti e si voltò verso
un’Alex spaesata e con gli occhi sgranati. Con poche, lunghe
falcate raggiunse il cuscino e se lo rigirò tra le mani,
assicurandosi che fosse un semplicissimo cuscino ricamato a mano. Lo
sistemò di nuovo sulla poltrona e rivolse un sorriso
smagliante ad Alex, esclamando: «Ottimi riflessi!».
«Aspetta, dove stai andando?», gli chiese
l’infermiera sull’orlo di un crollo nervoso,
raggiungendolo proprio davanti alla reception.
«Vado a controllare se Merlino sta bene. Torno
subito».
«Vengo anch’io».
Artù si voltò nuovamente e le posò
entrambe le mani sulle spalle, guardando il soffitto per trovare la
forza di ridacchiare. «Non è necessario.
Avrà visto un insetto e si sarà spaventato per
una possibile infestazione. È fissato con i tarli, sai? Va
completamente nel panico quando si parla di tarli. Resta qui con
Rebecca. Il tempo di calmarlo e torno, okay? Brava».
Quella volta non le diede il tempo di ribattere e corse su per le
scale.
Trovò Merlino in una delle ultime stanze, in fondo al
corridoio, seduto sul letto sfatto e con gli occhi fissi nel vuoto. Lo
raggiunse e lo afferrò per le spalle per scuoterlo e farlo
ritornare alla realtà. Lo stregone sbatté
velocemente le palpebre e non appena si accorse della sua presenza gli
strinse le braccia tra le mani ed esclamò, terrorizzato:
«Qualcuno ha appena usato la magia! L’ho
sentito!».
«Lo so».
Merlino rimase a bocca aperta, per poi percorrerlo velocemente con lo
sguardo per verificare che non avesse ferite sanguinanti da qualche
parte. Quando fu sicuro delle sue perfette condizioni di salute si
accigliò, chiedendo confuso: «Come fate a
saperlo?».
«L’ho visto! È stata Alex».
«Alex?». Merlino all’inizio sorrise, poi
si lasciò andare ad una risata nevrotica. «Alex,
sul serio?! Mi state prendendo in giro? Alex non ne sarebbe mai in
grado!».
«Merlino!», lo fulminò con lo sguardo,
facendolo azzittire.
Gli raccontò quello che era successo, quello che aveva
visto, e poi entrambi rimasero in silenzio, seduti sul bordo del
materasso.
«Pensavo di aver avuto un’allucinazione, ma se
anche tu l’hai sentito…», concluse
Artù, passandosi una mano sulla nuca.
«Non è possibile», mormorò in
tutta risposta Merlino. «Non ha alcun senso!
Perché Alex? Insomma lei… Che cosa
c’entra?».
Artù deglutì rumorosamente, pensando alle parole
di Freya. Alex poteva anche essere la sua ultima discendente, ma
nessuno nella sua famiglia era stato mai in grado di utilizzare la
magia. O forse no? Lui era nato grazie alla magia, probabilmente gli
scorreva nelle vene ancor prima che venisse al mondo per strappare la
vita a sua madre. Suo figlio Graalmir aveva vissuto quattro anni a
stretto contatto con Merlino, il quale non gli aveva per nulla tenuto
nascosto il suo talento, e poi era sparito insieme a quella Hanna, una
sconosciuta che, chi lo sa, poteva anche essere una strega che
l’aveva iniziato all’uso della magia.
«Artù? Artù, mi state
ascoltando?».
Il solo ed unico re sollevò il capo e guardò
Merlino passeggiare avanti e indietro per la stanza, stritolandosi le
mani.
«Cos’hai detto?».
«Che dobbiamo esserne assolutamente certi, prima di fare
qualsiasi altra cosa. Fino ad allora, faremo finta che non sia successo
nulla e la terremo soltanto d’occhio. Va bene?».
«Sì, va bene», rispose mestamente,
annuendo col capo.
«Posso sapere a che cosa state pensando?».
«Niente, io… Devo tornare di sotto. Sbrigati a
finire».
«Ma sì, certo. Farò in modo che la mia
schiena torni quella di un ragazzo di vent’anni»,
borbottò, ma Artù non rispose, già
fuori dalla stanza.
***
Alex
si passò nervosamente le dita tra i capelli, camminando
avanti e indietro di fronte al bancone della reception.
Rebecca, con l’estremità della penna sulle labbra,
era veramente indecisa se chiederle o meno che cos’era
successo. Alla fine non ce ne fu bisogno, perché la bionda
le rivolse un finto sorriso e a bassa voce disse: «Se
Artù chiede di me, digli che avevo bisogno di prendere un
po’ d’aria».
Uscì passando per la porta sul retro, quella della cucina, e
si diresse verso le stalle con l’intenzione di raggiungere
suo padre.
La borsa che aveva sulla spalla le sembrava pesante come un macigno,
nonostante la busta che conteneva la comunicazione del suo
trasferimento pesasse solo pochi grammi.
Le parole che Merlino le aveva detto per tirarla su di morale le
vorticavano nella testa come un tornado, riportandole a galla ricordi
che un tempo non riteneva così importanti e che ora lo erano
eccome.
L’immagine di quel cuscino che cambiava completamente
traiettoria, come se qualcuno l’avesse preso al lazo,
continuava a scorrerle di fronte agli occhi, ancora e ancora, assieme
allo sguardo preoccupato e al contempo consapevole di Artù.
Lo stesso che aveva avuto lei, ne era certa.
Si guardò le mani, vedendole tremare ancora un
po’, e si costrinse a fare respiri profondi per calmarsi. Si
fermò nel bel mezzo del sentiero ed inspirò,
espirò, inspirò, espirò, fino a quando
non realizzò che non sarebbe servito a nulla. Fingere di non
avere paura non sarebbe servito, non se ciò che la
terrorizzava era un qualcosa di inspiegabile, lo stesso qualcosa che
aveva cercato fino a due settimane prima: la prova
dell’esistenza della magia. Ora finalmente ce
l’aveva, e non una sola a dire il vero, ma non si sentiva
affatto come aveva immaginato. Forse perché non si era mai
immaginata come la strega della situazione.
Nei giorni successivi alla scomparsa di Steve aveva impedito ad un
intero scaffale di rovesciarsi in testa ad una sua collega, aveva reso
afono il cane della vicina e aveva curato delle rose gialle appassite
solo sfiorandole. (Sua madre non perdeva mai l’occasione per
dirle che la sua famiglia aveva sempre avuto il pollice verde, ma quello
era decisamente troppo).
Aveva cercato di darsi delle spiegazioni ragionevoli, almeno
plausibili, e quando non ci era riuscita aveva deciso semplicemente di
ignorare quegli strani avvenimenti. La storia però si era
ripetuta ancora, con quel cuscino malvagio, e quella volta
c’era persino stato un testimone oculare, un testimone che
invece di gridare alla stregoneria era corso da Merlino, colui che da
tempo sospettava essere proprio uno stregone. Ora poteva fare di tutto,
eccetto ignorare ancora ciò che le stava succedendo.
Arrivata alle stalle, si appoggiò con una spalla allo
stipite della grande porta di legno e guardò suo padre per
un po’: stava parlando con un mansueto cavallo e gli
spazzolava dolcemente il manto color cioccolato, dandogli qualche pacca
sul fianco ogni tanto, come se fosse un vecchio amico.
«Sai che non mi sono più avvicinata ad un cavallo
dall’ultima gara?».
Edwin si voltò lentamente, posando gli occhi dispiaciuti
sulla figlia. Alex però sorrise e lo affiancò per
levargli la spazzola dalle mani e riprendere da dove aveva lasciato.
«Mi dispiace tanto, tesoro».
«Lo so, l’hai già detto. È
tutto passato, ormai».
Edwin si strofinò le mani sui pantaloni da lavoro, sporchi e
di una taglia più grande, poi si guardò intorno e
cambiando argomento chiese: «Dov’è
Artù?».
«Con Merlino».
«Oh. Senti, ma non è che loro due…? Non
c’è nulla di male, ma mi chiedevo
se…».
Alex rise, guardando il volto rosso d’imbarazzo di suo padre
con la coda dell’occhio. «No, sono solo migliori
amici».
Il signor Greenwood sospirò, quasi di sollievo, e Alex
corrugò la fronte, decisa ad andare fino in fondo
all’argomento prima che si facesse strane idee.
«Mi sembra di aver capito che lui ti piace», disse,
rivolgendogli un’occhiata inquisitoria.
«Beh, sì, è un bravo ragazzo.
È onesto, gentile… A volte ti somiglia
così tanto che mi sembra di vedere te».
«Quindi ti rendi conto che tra me e lui non potrebbe mai
funzionare».
Edwin boccheggiò, colto sul fatto, ed arrossì di
nuovo. «Che cosa? Tesoro, io non ho
mai…».
«Ho visto l’occhiata che gli hai lanciato poco fa.
E l’ultima volta che hai chiamato figliolo
un ragazzo che mi stava vicino è stata in seconda superiore,
quando Justin Patel, il secchione della classe, veniva a casa per farmi
ripetizioni di matematica».
I loro occhi si incrociarono ed Edwin non poté fare a meno
di ridacchiare di fronte all’espressione vittoriosa della
figlia, con entrambe le sopracciglia sollevate.
«Gli voglio bene, sul serio, ma non potrebbe mai essere
niente più di un amico», concluse, avvolgendosi il
corpo con le braccia mentre un sorriso dolce prendeva il sopravvento
sul suo volto.
«Ho capito». Edwin abbassò il capo e
prese la scopa per ammucchiare in un angolo tutta la paglia che
ricopriva il corridoio tra i vari box.
Alex si schiarì la gola con un finto colpo di tosse e
nonostante il disagio, si disse che era un modo come un altro per
recuperare in parte il loro rapporto padre-figlia.
«Che ne pensi di Merlino?», gli chiese con
nonchalance, senza guardarlo.
«Merlino? Si dà un gran daffare, se può
aiuta sempre tutti e passa spesso di qui per chiedere se
Artù abbia bisogno di qualcosa. A volte mi sembra una madre
protettiva, davvero». Ridacchiò, ma smise non
appena si accorse dell’espressione seria di Alex.
«Lui ti…? Per l’amor del cielo,
tesoro!».
«Cosa?».
«Spesso è impacciato, fa tutto quello che gli si
dice senza battere ciglio e una volta l’ho visto rovesciarsi
addosso il bidone della spazzatura. A stento riesce a prendersi cura di
sé, figuriamoci se potrebbe stare dietro a te, proteggerti
e…».
«Io non ho bisogno di protezione!»,
urlò, facendo spaventare il cavallo che stava spazzolando.
L’animale nitrì e si mosse agitato, facendo
qualche passo avanti e indietro fino a quando Edwin non gli
accarezzò il muso, fissando la figlia dritta negli occhi.
«Non voglio il coraggioso principe azzurro che tutti i padri
vorrebbero per le proprie figlie, quello che ucciderebbe un esercito di
draghi e risolverebbe i problemi mostrando i muscoli. Io ho bisogno di
ragazzo umile, che mi ami per quella che sono e che affronti le
difficoltà con la testa e con il cuore, tenendomi per mano.
Un ragazzo che faccia amicizia con i draghi, invece di
ucciderli».
Edwin scosse il capo, con gli occhi velati di lacrime.
Allungò una mano e le accarezzò il capo, poi la
guancia. «Sei tale e quale a tua madre. Mi manca talmente
tanto…».
Alex sentì le lacrime riempire anche i suoi occhi e
gettò le braccia intorno al collo di suo padre, nascondendo
il viso nell’incavo della sua spalla.
***
«Hai
finito, tesoro?».
Merlino accarezzò le spalle di Wanda, china su una torta
appena sfornata, ed inspirò profondamente il profumo
zuccheroso di mele calde.
«Avete ancora bisogno di me?», le chiese.
La donna gli rivolse un’occhiata intenerita e gli strinse una
mano, mormorando: «Non bisogna far aspettare troppo le
signore, dovresti saperlo».
La salutò con un sorriso raggiante ed uscì dalla
porta sul retro. Corse verso le stalle, dove secondo Rebecca avrebbe
trovato sia Alex che Artù. Ed infatti il solo ed unico re
era lì, fermo sulla soglia, quasi nascosto. Merlino si
fermò alle sue spalle e con una mano ammonitrice di
Artù sul petto si sporse verso l’interno: Alex e
suo padre erano stretti in un abbraccio commovente, accanto ad un
cavallo dal manto bruno, ed era una scena talmente bella e rassicurante
da guardare che Merlino non si sarebbe mai sognato di rovinare il
momento. Peccato che la sua imbranataggine si mostrasse sempre nei
momenti meno opportuni.
Fece un passo indietro per ritirarsi ed inciampò in un
secchio di latta pieno di vecchi stracci e qualche spugna. Rotolando
fece parecchio rumore, attirando l’attenzione di Alex e del
signor Greenwood, ma non fu tutto: per non cadere Merlino si
aggrappò alla scala che era appoggiata alla parete, la quale
ovviamente gli finì addosso, rendendo inutili tutti i suoi
sforzi e bloccandolo a terra, senza fiato.
Artù lo fissò impietosito e pieno di
disapprovazione, con le mani sui fianchi, e lo stesso fece il padre di
Alex, corso fuori per vedere cosa fosse accaduto. L’unica che
si preoccupò veramente delle sue condizioni di salute fu
l’infermiera, la quale si affrettò a tirare su la
pesante scala di legno e a porgergli entrambe le mani per aiutarlo ad
alzarsi.
«Ti senti bene?», gli chiese, spolverandogli la
maglietta sulle spalle.
«Sì, me la caverò. Grazie».
Alex gli sorrise e poi si voltò verso suo padre, gettandogli
un’occhiata silenziosa il cui significato gli sarebbe rimasto
celato per sempre. Ad ogni modo Edwin scosse il capo, morsicandosi un
sorriso appena accennato, e tornò dal cavallo che avevano
lasciato incustodito nel box aperto.
«Sei sempre il solito, Merlino», lo
sbeffeggiò Artù, per poi tirargli via dei fili di
paglia secca dai capelli.
Tutti e tre si guardarono a vicenda, fino a quando non scoppiarono a
ridere contemporaneamente.
«Io non mi avvicinerei a quello», la
avvertì Merlino non appena si avvicinò al
destriero nero nell’ultimo box, in fondo alla scuderia.
«Si lascia toccare a malapena», spiegò
Edwin, appoggiato con un braccio al manico della scopa. «In
effetti l’unico da cui si fa accarezzare e spazzolare senza
agitarsi troppo è Artù».
Alex guardò suo padre con aria annoiata, mentre Edwin
accennava un sorrisino vittorioso. A quel punto gli era chiaro che quei
due avevano parlato del re di Camelot, in un modo o
nell’altro.
«Non è amichevole con i bambini, non si lascia
imbrigliare e non segue gli ordini… È nato per
correre», aggiunse ancora il signor Greenwood, sospirando.
«Ha avuto un brutto incidente ad un palio, una lesione al
tendine della zampa anteriore che gli ha distrutto la carriera. Ma non
si adatterà mai a questa vita. Non so davvero a che cosa
stavo pensando quando l’ho comprato».
«Io sì», mormorò teneramente,
allungando una mano verso il muso dell’animale e tenendola a
qualche centimetro di distanza, in attesa che fosse lui a fare il passo
successivo. «Ti ricordava Arrow, vero?».
Edwin chinò il capo, pizzicandosi l’interno della
guancia con i denti, poi accennò un sorriso.
«Può darsi».
«Hai chiamato il tuo cavallo come il protagonista di una
serie TV?», chiese Merlino, con le sopracciglia inarcate per
la sorpresa – ma nemmeno troppa.
Alex rise, osservando quel magnifico esemplare mentre si avvicinava
cautamente alla sua mano, tirandosi indietro con un nitrito per poi
ricominciare da capo una, due, tre volte.
«Il nome per intero era proprio Green Arrow. Volevo dargli un
nome che ricordasse il cognome della nostra famiglia e
l’associazione mi è venuta spontanea, anche se
all’epoca non c’era ancora la serie TV. Avevo visto
dei fumetti a casa mio cugino».
«Ma di che state parlando?», bofonchiò
Artù, passandosi una mano tra i capelli. «Eppure
la guardo anche io la TV!».
«Devi provare lo streaming, Artù. Ohi, ciao
bello».
Il cavallo finalmente aveva posato il muso contro la sua mano e Alex si
esibì in una specie di inchino, piegando la schiena e il
capo senza mai interrompere il contatto visivo con l’animale.
Quando si risollevò, il cavallo si lasciò
accarezzare senza fare una piega, dandole anzi qualche colpetto sul
braccio e facendo dondolare la lunga coda setosa.
«Allora, come sono andata?», domandò
Alex eccitata, massaggiando il fianco del cavallo con una mano.
Merlino aprì la bocca per congratularsi, ma non disse una
parola a causa di Artù che, con gli occhi luminosi e un
sorriso quasi orgoglioso sul volto, esclamò:
«Voglio vederti cavalcare. Signor Greenwood,
possiamo?».
L’uomo scambiò un’occhiata con la
figlia, dopodiché scrollò le spalle, andando a
prendere tre selle.
Merlino si morsicò il labbro inferiore e sentì le
tanto ormai ben conosciute fitte di gelosia ed invidia trapassargli il
cuore guardando Artù e Alex che parlavano con
così tanto interesse e complicità di quel loro
ennesimo talento – e passione – in comune.
«Quale cavallo avete intenzione di montare, mio
Signore?», chiese ad alta voce, senza nascondere
l’irritazione.
Artù si voltò ancora con quel sorriso instupidito
sulla faccia e ci mise qualche secondo prima di rendersi conto della
sua ostilità. «Qualcosa non va,
Merlino?».
«Assolutamente. Ci pensi tu alla tua sella, non è
vero? Sei così bravo…».
«Stai per caso insinuando che io non
sappia…», non finì la frase, troppo
occupato a digrignare i denti.
Gli andò incontro e gli strappò la sella di mano,
per poi infilarsi velocemente nel box del cavallo color cioccolato che
Alex e suo padre avevano spazzolato poco prima. In quel momento Merlino
sentì la voglia impellente di fargli fare brutta figura
davanti ad Alex e bastò solo il pensiero perché
una scossa gli facesse tremolare la vista. Strinse i pugni contro i
fianchi e ricacciò indietro la magia, respirando
profondamente quando Artù finì di sellare il suo
destriero e lo guardò soddisfatto, sorridendo con quella
punta di arroganza che aveva imparato ad adorare col passare degli
anni.
«Qualcosa da ridire, Merlino?».
Lo stregone scosse il capo, stringendo le labbra tra loro mentre anche
l’ultima briciola di incandescente magia ritornava al sicuro
nell’angolo più profondo della sua anima.
«Allora andiamo, forza».
Alex finì di sistemare la sella sopra il dorso fremente del
cavallo, come se avesse atteso quel momento da tutta la vita, e quando
gli passò accanto per uscire dalla scuderia gli
infilò una mano tra i capelli, dalla nuca fino alla fronte,
scompigliandoglieli teneramente. E ancora, prima di uscire, si
voltò per sorridergli ed incitarlo a sbrigarsi, a meno che
non volesse essere lasciato indietro.
«Tu e Artù da soli non andate da nessuna
parte», mormorò al proprio cavallo, un esemplare
bianco chiazzato di nero sulla pancia e sulle zampe.
«Tornate prima del tramonto!», gridò il
padre di Alex quando ormai si erano già addentrati
nell’aperta campagna, seguendo lo stesso sentiero sterrato
che bisognava percorrere in auto per raggiungere
l’agriturismo.
Merlino fu l’unico a prestargli attenzione ed
annuì con un cenno del capo, venendo quasi subito ricambiato
con un’occhiata che non vedeva da secoli ormai, una di quelle
che potevano benissimo essere tradotte: “Fai del male a mia
figlia e ti farò patire le pene
dell’Inferno”.
Se il padre di Alex pensava che avrebbe potuto farla soffrire voleva
dire che sapeva dell’amore che sua figlia provava per lui, e
se lo sapeva voleva dire che ne avevano parlato e che forse era quello
il motivo per cui aveva cercato in tutti i modi di mettere in bella
luce i pregi di Artù, perché credeva che tra i
due fosse il più adatto a prendersi cura di lei. Se Merlino
non avesse avuto il cervello sottomesso dal cuore avrebbe pensato che
Edwin avesse ragione, ma in quel momento la felicità che
provava sapendo che Alex l’aveva preferito apertamente anche
di fronte al genitore era troppa, tanto che non riuscì a
nascondere il sorriso idiota che lo faceva apparire un imbecille al
cento percento.
Solo Artù fu in grado di riportarlo alla realtà,
urlando il suo nome e guardandolo con espressione esasperata.
«A che cosa diavolo stai pensando?», gli
domandò, stizzito.
«A niente».
«Com’è che questa risposta non mi
stupisce affatto?».
Alex si lasciò andare ad una risata accondiscendente.
«Smettetela, bambini. Piuttosto, non avevi detto di volermi
vedere cavalcare?».
Artù ebbe solo il tempo di annuire prima che
l’infermiera colpisse i fianchi del cavallo, si chinasse in
avanti e partisse al galoppo, sollevando una nube di polvere dietro di
sé.
Il re sorrise elettrizzato e diede il via all’inseguimento,
costringendo il mago, ancora scosso dalla tosse e con gli occhi stretti
in due fessure, a fare lo stesso.
***
«Te
la sei cavata bene, nonostante il tendine»,
sussurrò Alex saltando giù da cavallo per
potergli accarezzare amorevolmente la criniera con la fronte posata sul
suo collo muscoloso.
«Ma hai perso la sfida», esclamò
Artù, sorridendo beffardo, e l’infermiera gli
rispose con una linguaccia.
«Secondo voi è affrettato da parte mia volergli
dare un nome?», chiese poi riferendosi al cavallo, e non
ottenendo altro che una scrollata di spalle da parte di Artù
si rivolse a Merlino, ma la sua espressione la fece desistere dal
ripetere la domanda: sembrava quasi spaesato e i suoi occhi erano
lontani, lontanissimi, come se non stessero vedendo solo le grandi
rocce, le felci, il muschio sulle cortecce degli alberi e le piccole
foglie, nuove e verdissime, sui rami che ingabbiavano il cielo nella
loro intricata rete.
«Ci siamo allontanati troppo?», domandò
allora, preoccupata.
Merlino sbatté le palpebre e tornò in
sé. «Che cosa? No… Beh, sì.
Siamo vicini ad Avalon».
Quel nome fece correre un brivido lungo la schiena di Alex: si era
imbattuta in esso qualche tempo prima, quando aveva fatto quelle
ricerche sulle leggende riguardanti Re Artù e i Cavalieri
della Tavola Rotonda, ma non solo.
«Mamma? Perché non posso più vedere la
nonna? Mamma, rispondimi!».
Ellen, nonostante le lacrime, si inginocchiò di fronte a lei
e le sorrise accarezzandole i capelli raccolti in due codini.
«L’anima della nonna è andata in un
posto migliore».
«Voglio andare con lei», mugugnò,
cercando di reprimere un singhiozzo.
«Sei troppo piccola, amore mio. Un giorno, quando avrai la
stessa età della nonna, Avalon aprirà i propri
cancelli anche per te. È un posto magico, sai? Lì
ci sono tutti i nostri antenati, tutti i membri della nostra
famiglia».
«E papà? Ci sarà anche lui?».
Ellen ridacchiò, gettando un’occhiata al marito
alle spalle della piccola Alex. «C’è
questa leggenda, molto antica… Io l’ho saputa
dalla nonna, lei l’ha saputa da suo papà e suo
papà da suo padre… Tutti i membri della nostra
famiglia la conoscono e forse è giunto il momento che io la
racconti a te».
«Ellen», la rimproverò dolcemente Edwin,
scuotendo il capo.
La donna lo ignorò e si sedette al suo fianco, con Alex di
traverso sulle gambe.
«Verrà il giorno in cui Avalon aprirà i
propri cancelli per far tornare sulla Terra il nostro antenato
più importante. Insieme a lui dovremo affrontare un grande
male e…».
«Non mi piace questa leggenda», la interruppe,
iniziando a singhiozzare: seduta sulle ginocchia della sua mamma
riusciva a vedere all’interno della stanza in cui
c’era sua nonna, stesa sul letto, immobile e pallida. Non
sembrava affatto che la sua anima si trovasse in un posto migliore.
«E invece dovresti. Sarà grazie alla nostra
famiglia, al nostro sacrificio, che il mondo vivrà in pace e
in armonia».
«Io voglio solo la mia nonna», ripeté,
nascondendo il viso rigato di lacrime nel petto di sua madre.
«Alex. Alex, stai bene? Dio mio, stai tremando».
La ragazza sentì il calore del corpo di Merlino contro il
suo e le sembrò per un attimo di stringere ancora una volta
sua madre, poi tornò coi piedi per terra e cercando di
dimostrarsi calma e padrona della situazione si scostò,
sorridendo.
«La corsa. Non sono più abituata, mi ha
sfinita».
«E non hai nemmeno vinto, pensa un po’»,
si intromise Artù. Se avesse accennato alla sua vittoria
ancora una volta…
«Sicura che sia questo? Non è che magari ti stai
ammalando?».
«No, stai tranquillo». Gli accarezzò il
braccio e si voltò, imbarazzata dalla lunghezza di
quell’abbraccio così dolce e protettivo.
«Stavi parlando di… Avalon? Pensavo fosse solo una
leggenda».
«Oh. Eh, eh», ridacchiò, passandosi una
mano sulla nuca. Quindi si chinò verso il suo viso e col
pollice indicò l’ignaro Artù, alle loro
spalle, spiegando a bassa voce: «È come lui
chiama il lago. Perdonami, forza dell’abitudine».
Alex portò tutta la propria attenzione sul biondo, tanto
intensamente che Artù la fissò, facendola
trasalire. Distolse immediatamente gli occhi e si morse il labbro con
forza, maledicendosi: da bambina non aveva mai creduto alle storie di
sua madre, non c’era proprio alcun motivo per cui avrebbe
dovuto iniziare ora.
«Dovremmo tornare», disse Merlino, col volto alzato
verso il cielo.
Artù aprì la bocca, sicuramente per ribattere, ma
Alex lo anticipò e diede man forte allo stregone:
«Hai ragione. Mio padre si preoccuperebbe a morte se non
tornassimo prima del tramonto».
Montò a cavallo e tirò le briglie, facendolo
impennare.
Si allontanò ancora senza guardarsi indietro, ma quella
volta con la speranza di fuggire dalla verità.
***
«L’hai
già detto ai bambini?».
Alex scosse il capo, stringendo i pugni intorno alle briglie del suo
destriero. «Non ne ho avuto il coraggio».
Merlino allungò una mano e le accarezzò i capelli
scompigliati dal vento, sorridendole tanto dolcemente da far scomparire
gran parte della tristezza dal suo volto.
«Andrà tutto bene, fidati».
«Mi mancheranno così tanto…»,
mormorò sospirando, guardando Artù ondeggiare
seguendo l’andatura del cavallo a qualche decina di metri
avanti a loro.
«Sono solo a tre piani di distanza. E riavrai presto il tuo
posto. Giusto?».
«Non lo so. Sinceramente non me lo sarei mai aspettato, un
trasferimento. Mi ha colto totalmente di sorpresa. Perché io?».
«Perché a Cardiff lavoravi nell’ospedale
più grande della città, hai fatto moltissima
esperienza, preso parte a situazioni che probabilmente qui non
saprebbero neanche come affrontare… Devo andare
avanti?».
Alex ridacchiò e negò col capo prima che gli
occhi le si adombrassero nuovamente. «E se non fossi stata
abbastanza brava ad oncologia? Quando Steve stava male mi sono
comportata più come un familiare che come
un’infermiera e ho sbagliato: avrei dovuto mantenere le
distanze, occuparmi anche degli altri bambini invece di stare al suo
fianco tutto quel tempo…».
«Tu sei…». Merlino sbatté le
palpebre, cercando di mettere a fuoco tutto ciò che lo
circondava mentre nella sua mente, un tassello dopo l’altro,
nasceva un dubbio atroce: se Alex possedeva davvero dei poteri magici
allora poteva aver alterato – involontariamente, certo
– la durata della magia guaritrice che aveva adoperato su
Steve.
«Merlino, Alex! Muovetevi, o farà davvero
buio!», urlò Artù, l’unico in
grado di riportarlo alla realtà sempre nel momento giusto.
Abbozzò un sorriso verso l’infermiera e disse:
«Nessuno è stato professionale al cento percento
quando Steve ha iniziato a peggiorare. Come al solito sei troppo dura
con te stessa».
«Okay, ma… Io non posso perdere quel posto. Tu non
capisci che cosa significhi per me».
«Quando sei arrivata qui e hai fatto domanda
d’assunzione all’ospedale ti sei candidata come
infermiera di Pronto Soccorso. Mai ti saresti aspettata
un’assegnazione nel reparto di oncologia e ti ci è
voluto un bel po’ prima di ambientarti. Hai dovuto studiare,
fare corsi supplementari, imparare ad interagire con i
bambini… Ti è costata molta fatica, ma ci hai
lasciato un pezzo di cuore e, credimi, so perfettamente
com’è perdere una parte di
sé».
Il silenzio gravò su di loro per diversi secondi, un
silenzio talmente profondo che Merlino, rabbrividendo,
realizzò che aveva parlato troppo. Si arrischiò a
guardare Alex con la coda dell’occhio e la vide spaesata,
intimorita, come se le avesse appena dato una botta in testa.
«Come fai a sapere tutto questo?», gli chiese con
un fil di voce. «Non ci conoscevamo ancora».
«Io… Sei sicura di non avermelo mai raccontato?
Perché io me lo ricordo».
«No, Merlino, non ne abbiamo mai parlato».
«Allora dev’essere stato mio nonno di certo. Quel
vecchio pazzo era un gran pettegolo, sai?».
Lesse l’incertezza e la delusione negli occhi di Alex, ma ci
avrebbe convissuto. Non ci sarebbe riuscito invece con tutto
ciò che avrebbe visto nel caso cui avesse scoperto la sua
vera identità.
«Merlino...».
«Sì, ho capito, stiamo arrivando!»,
urlò irritato, senza distogliere lo sguardo da Alex.
«Aspetta… C’è qualcosa che
non va», lo contraddisse lei, indicandolo con un cenno del
capo.
Solo allora Merlino si rese conto che sì, c’era
decisamente qualcosa che non andava: Artù si era accasciato
sul cavallo, con un braccio penzolante lungo il fianco
dell’animale e l’altro sotto il petto.
Senza perdere altro tempo Merlino frustò le briglie e
galoppò verso il re di Camelot, seguito a ruota da una Alex
davvero preoccupata. Saltò giù da cavallo e
cercò di estrapolare qualche parola da Artù, ma
aveva già perso conoscenza: un pallore quasi mortale aveva
preso il sopravvento su tutta l’euforia che aveva provato
cavalcando di nuovo e il sudore che gli ricopriva il volto era gelato.
«Ti prego, ti supplico, non qui, non adesso»,
farfugliò lasciando che il panico lo travolgesse,
infilandosi un braccio inerte di Artù tra le spalle per
tirarlo giù da cavallo. A stento riuscì a
sostenerlo e a non cadere per terra insieme a lui, sul duro sentiero
sterrato illuminato dalla luna appena sorta.
Alex si gettò in ginocchio accanto a lui e
sollevò le palpebre di Artù, poi si
chinò sulla sua bocca per sentire se respirasse ancora, con
le dita strette intorno al suo polso per contare le pulsazioni.
«Sembra un attacco cardiaco», fu la sua diagnosi,
nonostante il tono incredulo.
«Non è niente del genere»,
ribatté Merlino.
Solo allora Alex prese sicurezza, esclamando: «Sono
un’infermiera e come hai detto tu poco fa mi sono fatta
parecchia gavetta!».
«Artù non sta avendo un infarto!»,
gridò con tutto il fiato che aveva in gola, lasciandola
ammutolita.
Lo stregone si sentì subito in colpa e stava proprio per
scusarsi quando la mano di Artù gli strinse improvvisamente
il braccio, traendo un respiro rantolante, quello di una persona andata
e tornata dalla morte, con gli occhi sbarrati fissi su di lui.
«Se l’ho accettata io… anche lei lo
farà», soffiò, riprendendo a respirare
affannosamente, come se stesse lottando per non annegare.
«Che cosa sta dicendo?», chiese Alex, terrorizzata.
«Merlino, dobbiamo fare qualcosa, ora!
Spostati!».
Lo spinse via con forza ed iniziò il massaggio cardiaco.
Uno, due, tre, quattro spinte e stava per posare le labbra su quelle di
Artù per soffiargli aria nei polmoni quando fu il turno di
Merlino a spingerla via, con tanta forza da farla cadere
sull’osso sacro. Quindi posò entrambe le mani sul
petto di Artù e lasciò crollare la sua diga
interiore, quella che conteneva tutta la potenza devastante della
magia, in grado di far ripartire il cuore del re di Camelot mentre il
sangue gli bruciava nelle vene come fuoco vivo.
Artù aprì gli occhi di scatto e trasse un respiro
profondo, di sollievo quella volta. Merlino, ancora con le mani sul suo
cuore, ascoltò il ritmo delle pulsazioni ritornare normale
ed abbozzò un sorriso quando i loro sguardi ora sereni si
incrociarono. Lo furono per poco, però.
«Alex!», gridò Artù,
sollevandosi di scatto per chinarsi sul suo corpo scosso da tremori
simili a convulsioni.
«Merlino, fai qualcosa!», gli urlò
contro, guardandolo con gli occhi sgranati.
Lo stregone scosse il capo, arretrando con le mani a sorreggerlo dietro
la schiena. «Artù, io sto bene».
«Lo vedo che stai bene! È Alex
che…», si interruppe bruscamente, arrivando solo
in quel momento alla stessa conclusione di Merlino.
«Ha assorbito la mia magia. L’ha fatto anche con
Steve…».
«Ma lei è in
pericolo?», domandò il re, gli occhi fiammeggianti
nel buio sempre più avvolgente.
Quella fu la scossa che gli serviva per reagire. Merlino si
precipitò al suo fianco, dall’altro lato di
Artù, e le posò una mano sulla fronte mentre con
l’altra le sollevava le palpebre. Sussultò quando
vide le sue iridi dorate anziché verdi, sopraffatte dalla
magia.
«È troppo potente, la
consumerà».
«Allora tiragliela fuori!».
Merlino aprì la bocca e lo guardò sconvolto per
un attimo. Aveva abbandonato la magia secoli e secoli prima e sapeva
per esperienza che un tempo erano esistite terribili creature in grado
di assorbire i poteri magici, ma mai aveva sentito parlare
né aveva letto di un incantesimo in grado di fare
altrettanto. Come poteva Artù pretendere che lui sapesse
cosa fare? Perché non c’erano alternative. La vita
di Alex era nelle sue mani e doveva almeno tentare.
Ripescò dalla memoria quella lingua antichissima che aveva
sempre conosciuto, memorizzata nella sua testa ancor prima che
imparasse a dire “mamma”, e si lasciò
guidare dalla forza della magia in quell’incantesimo che fu
in grado di espellere la magia dal corpo di Alex in un’onda
di energia dorata che li fece ruzzolare entrambi a qualche metro di
distanza.
Intontito e col cuore a pezzi Merlino, steso a pancia in su sulla terra
gelata, guardò il cielo scuro punteggiato di stelle,
ascoltando Artù trascinarsi al capezzale
dell’infermiera e sussurrarle: «Apri gli occhi,
forza. Non puoi lasciarmi proprio ora, ora che ho ritrovato tutto
ciò che resta della mia famiglia… Non puoi farmi
questo, Alexandra!».
Il mago si sollevò lentamente, sempre più
disorientato dalla piega catastrofica che tutta quella situazione stava
prendendo. Guardò Artù chino su Alex, una lacrima
solitaria solcargli la guancia prima che nascondesse il viso contro il
suo collo e la stringesse a sé.
«Artù», mormorò Alex dopo
attimi di pura disperazione, la voce tanto debole e roca da non
sembrare nemmeno la sua.
Il re sollevò la testa di scatto e fissò gli
occhi nei suoi con un sorriso radioso, in grado di riportare la luce in
quei campi immersi nel buio della notte.
«Alex», ridacchiò. «Alex,
pensavo di averti perso!».
L’abbracciò ancora, continuando a ridere tra i
suoi capelli biondi.
«Non pensavo contassi tanto per te», disse lei,
scherzosa ma anche genuinamente sorpresa.
«Tu non ne hai idea», rispose Artù in un
sussurro, ma Merlino sfortunatamente lo sentì e una parte di
lui venne messa K.O..
«Aspetta un momento. Tu stai bene, come…? Stavi
avendo un non-infarto e poi Merlino ha… Oh mio Dio,
è uno stregone!».
Artù sospirò ed annuì, accarezzandole
le spalle. «Lo so. È dura da accettare, ma non
c’è nulla di cui temere, davvero».
«Temere?». Alex si voltò per la prima
volta da quando si era ripresa ed incrociò lo sguardo di
Merlino per rivolgergli un sorriso eccitato. «Io lo sapevo,
lo sapevo! Ne ero sicura!».
«A quanto pare l’ha presa meglio di me»,
esclamò Artù con le sopracciglia inarcate e un
sorrisetto divertito sul volto. Un’espressione apprensiva
prese presto il sopravvento quando si rese conto del silenzio e della
rigidità del mago. «Merlino, ti senti
bene?».
Lo stregone rilassò le dita delle mani e solo allora
percepì il dolore delle unghie che doveva essersi rotto
ficcandole nel terreno per il nervosismo. Si alzò lentamente
e dando le spalle ai due disse pacatamente: «Ci staranno
cercando tutti».
***
Si
erano presi una bella strigliata non solo da suo padre,
bensì anche dai signori Morris, i quali erano sul punto di
chiamare i pompieri e la guardia forestale proprio quando avevano
varcato la soglia della reception.
Quando si erano calmati, tutti quanti avevano voluto delle spiegazioni
e Merlino era stato eccezionale in proposito, parlando con calma e
dispiacere, mentendo così bene che nemmeno lei, se non fosse
stata presente in prima persona, sarebbe riuscita a distinguere
ciò che c’era di vero e ciò che
c’era di falso nel suo racconto.
Nonostante il suo talento – anni e anni di pratica,
ovviamente – non era riuscito a sottrarsi alla cena: Wanda li
aveva costretti a mangiare lì, dicendo che era il minimo che
potessero concederle dopo lo spavento che avevano fatto prendere loro.
Alla tavolata si era aggiunta anche Rebecca Morris, la quale non aveva
fatto altro che lanciare occhiate ad Artù, venendo
bellamente ignorata. Lei si era comportata praticamente allo stesso
modo, cercando un qualsiasi contatto visivo con Merlino, con gli stessi
deludenti risultati.
Era rimasto in silenzio per quasi tutta la durata di quella
cena-punizione, aumentando e di molto i livelli di imbarazzo e disagio
che, nell’ampia sala ristorante deserta e da ripulire,
regnavano già sovrani.
Ogni tanto Alex aveva incrociato gli occhi di Artù, in una
silenziosa richiesta d’aiuto, e più di una volta
aveva provato ad intavolare una conversazione che avrebbe potuto
stemperare l’atmosfera tesa, ma aveva o fallito o addirittura
peggiorato la situazione, in particolare quando aveva accennato al suo
cambio di reparto improvviso.
«Che cosa?», aveva esclamato suo padre, punto sul
vivo come se lo avesse appena offeso personalmente.
Lei aveva annuito, stringendosi nelle spalle. «Ho ricevuto la
lettera questa mattina. Trasferimento con effetto immediato,
dice».
«Ci dev’essere stato sicuramente un
malinteso».
«Ne dubito».
«Beh, in ogni caso dovresti parlarne con quel tuo amico,
quello con il padre nel Consiglio d’Amministrazione. Keith,
giusto? Potrebbe intercedere per te, o almeno provarci».
Il sangue le si era gelato così tanto nelle vene che si era
stretta nella felpa, passandosi la lingua tra le labbra asciutte.
Merlino aveva alzato la testa dal piatto per la prima vera volta da
quando si erano seduti a tavola e l’aveva guardata con occhi
vuoti, spenti, e lei si era sentita così in colpa che aveva
abbassato lo sguardo, quasi con vergogna. La verità era che
anche lei aveva subito pensato di chiedere aiuto a Keith, ma non aveva
avuto il coraggio di confessarlo a Merlino per paura che la ritenesse
una stupida e la dissuadesse nel farlo. Solo guardandola era riuscito a
farle dire a suo padre che non l’avrebbe mai fatto; non
voleva nemmeno immaginare come avrebbe reagito nel caso avesse aperto
bocca. Ad ogni modo sapeva di aver mentito, almeno in parte: forse non
avrebbe chiesto subito a Keith di parlare con suo padre per farle
ottenere il suo vecchio posto ad oncologia, ma di certo gli avrebbe
chiesto se sapeva il perché di quel trasferimento. Aveva
bisogno di saperlo, che a Merlino stesse bene o meno.
Il mago era stato il primo ad alzarsi da tavola e ancora prima che
Wanda gli dicesse che ci avrebbe pensato lei a sparecchiare, lui aveva
già impilato tutti i loro piatti ed era schizzato in cucina,
fuggendo al suo sguardo come a quello di Artù.
Quest’ultimo aveva aspettato qualche secondo, meditabondo,
poi aveva posato le mani sul tavolo per annunciare che sarebbe andato a
dargli una mano.
«No», aveva esclamato lei, alzandosi e sporgendosi
sul tavolo per arraffare i bicchieri. Tutti, suo padre in primis,
l’avevano guardata accigliati, chiedendosi se fosse successo
qualcosa durante la loro scampagnata, perciò si
affrettò a raggiungere la cucina prima che potessero farle
domande a cui uno, non aveva alcuna intenzione di rispondere e due, non
avrebbe proprio saputo come farlo.
Nel giro di un quarto d’ora aveva visto Merlino utilizzare la
magia per recuperare Artù dal regno di Ade, ottenendo la
prova definitiva che fosse uno stregone (forse lo stesso protagonista
delle favole che raccontava ai bambini in ospedale); era venuta a
conoscenza del profondo affetto che Artù provava per lei
(forse fin troppo profondo); e nonostante
Artù le avesse raccontato che aveva avuto un attacco di
panico ed era svenuta, aveva capito perfettamente quello che era
successo veramente: la magia di Merlino era entrata dentro di lei,
l’aveva sentita scorrere nelle sue vene,
e non era riuscita a controllarla. Le aveva permesso di prendere il
sopravvento su di lei e sul suo corpo e aveva rischiato di farsi
uccidere. Probabilmente sarebbe morta se Merlino non fosse stato
lì con lei, ma era anche vero che avrebbe vissuto la sua
tranquilla e monotona vita – anche un po’ triste,
sì – se non l’avesse mai conosciuto.
Quindi era un po’ sfasata, eccitata e spaventata, non poteva
essere altrimenti, ma aveva anche bisogno di andare fino in fondo:
aveva altre domande che necessitavano una risposta e non potevano
aspettare, né Merlino
poteva rifiutarsi di dargliele.
Spinse una delle porte della cucina con la spalla, trovando subito
disorientante il contrasto tra la sala ristorante calda e accogliente,
dalle luci soffuse, i muri di mattoni a vista e il basso soffitto di
volte in pietra, e quell’ambiente freddo ed antisettico, con
i fornelli e i ripiani d’acciaio, le mattonelle bianche alle
pareti e lunghe luci al neon appese al soffitto piatto.
Con le due pile di bicchieri strette al petto, si aggirò tra
i banconi fino a quando non vide Merlino intento a caricare la grande
lavastoviglie, con un paio di guanti gialli infilati fino a
metà avambraccio e il volto serio e concentrato, come se
stesse detonando una bomba e non sciacquando i piatti.
«Lasciali pure lì, me ne occupo io»,
disse in tono piatto, senza degnarla nemmeno di uno sguardo.
Alex posò i bicchieri sul ripiano accanto al lavandino e poi
incrociò le braccia al petto, il fianco contro il bordo del
mobile. «Merlino, potresti fermarti un attimo
e…?».
«Non ho voglia di parlare, Alex».
«Allora ascoltami».
«Voglio stare da solo. Chiedo troppo?».
L’infermiera respirò profondamente, ma non
servì a nulla contro la rabbia che sentiva crescere dentro
di sé, tanto forte da procurarle quasi un male fisico.
«Perché ti comporti così?»,
gli chiese cercando di mantenere un tono di voce normale, continuando a
respirare lentamente. «Sono io quella che dovrebbe essere
arrabbiata perché non hai mai detto la verità,
quella che dovrebbe allontanare tutti per lo shock e la paura di
ciò che potresti fare».
«È proprio questo il problema»,
esclamò, urlando quasi, col volto sfigurato dalla
frustrazione. «Perché sei così
tranquilla? Perché mi sei sembrata felice quando hai visto
il mio… dono?».
Pronunciò quell’ultima parola con disgusto e
disprezzo, coprendosi la bocca con il braccio per un momento, come per
ricacciare indietro un conato. «Perché non mi hai
detto prima che sapevi?».
Espira, inspira.
«Perché avresti negato, come sempre! Ti saresti
inventato una scusa assurda e io avrei dovuto far finta di crederti,
rompendo io stessa la promessa che ti avevo fatto fare. Te la ricordi?
Niente più bugie, Merlino!».
«E infatti non ti ho più mentito, da allora! Ti ho
solo nascosto un segreto che ho mantenuto per tutta la vita e con
più o meno tutti quelli che ho conosciuto, Artù
incluso! Anche lui lo sa da poco e sai perché, Alex, lo sai?
Tu non hai idea di cosa sia stato per me mentire a lui ogni giorno per
dieci anni, mentire a tutte le persone che amavo… Ma
l’ho fatto proprio perché le amavo e volevo
proteggerle dal mio stesso destino!».
Non aveva mai visto Merlino così arrabbiato e non riusciva a
pensare lucidamente, immersa lei stessa in quell’atmosfera
tesissima. Continuava a ripetersi di espirare ed inspirare lentamente,
ma ad ogni secondo che trascorreva sentiva il cuore batterle sempre
più in fretta nel petto e la gola bruciarle come se stesse
per affogare in una pozza di acqua salata, scura e gelata.
«Non mi comporto così perché lo voglio,
Alex, ma perché mi stai costringendo a farlo. Non hai mai
smesso di fare domande, di voler sapere la verità. Pensavi
che ti tenessi nascosta gran parte della mia vita perché non
mi fidassi di te e ti sei sempre sbagliata su questo: lo facevo
perché il mio non è un dono, è una
maledizione, e io sono pericoloso. Lo facevo perché ti
voglio bene e non volevo che ti succedesse qualcosa di male,
perché chiunque viene a conoscenza del mio segreto prima o
poi fa una brutta fine e non potevo nemmeno immaginare come sarebbe
stato perderti».
I suoi occhi erano ora colmi di lacrime e le sue labbra incurvate in un
sorriso addolorato. Si allontanò di un passo, togliendosi i
guanti gialli con gesti calmi e misurati.
«Sono così arrabbiato perché ho
fallito. Di nuovo», mormorò, chinando il capo.
«Ora che sai ciò che sono dovrò starti
lontano, dimenticarti, e nonostante sia l’unica soluzione
perché tu sia al sicuro, per me sarà come
morire».
Alex scosse il capo, sentendo le lacrime scorrerle inarrestabili lungo
le guance. «No. Non puoi farlo, Merlino».
«Non ho alternative», mormorò con quel
sorriso triste ancora sulle labbra.
«NO!», gridò con tutto il fiato che
aveva in gola e sentì tutta la rabbia che covava dentro
esploderle nel petto e poi scivolare via, lasciandola senza forze e con
la testa che le girava vorticosamente.
Quando riaprì gli occhi si sentì ancora
più male, constatando che quella volta aveva utilizzato la
magia che aveva assorbito da Merlino non per fare del bene: le due pile
di bicchieri che aveva posato accanto a sé erano
letteralmente esplose, come colpite da una bomba ad ultrasuoni, e
milioni di pezzi di vetro giacevano sul ripiano, per terra, ovunque.
Sollevando lo sguardo, Alex fu costretta a portarsi le mani alla bocca
per non scoppiare in singhiozzi, terrorizzata da ciò che lei
stessa era stata in grado di fare: non solo aveva distrutto un intero
servizio di bicchieri, ma aveva ferito Merlino, il quale aveva fatto
appena in tempo a portarsi le mani di fronte al viso, procurandosi solo
un paio di tagli superficiali, uno sopra il sopracciglio sinistro e uno
sullo zigomo destro. Ciò che la stava facendo lentamente
scivolare a terra, scossa dai singhiozzi, erano i pezzi di vetro che
gli avevano tagliuzzato la felpa e quello più grosso che gli
si era conficcato nell’addome, provocando una ferita da cui
perdeva sangue in modo già copioso, tanto da chiazzare il
tessuto spugnoso dell’indumento.
«Alex. Alex, guardami».
L’infermiera sollevò lo sguardo fino ad incrociare
gli occhi di Merlino e trattenne il respiro per poter sentire la sua
voce flebile.
«Reggimi il gioco».
***
«NO!».
Tutti, alla tavolata, si pietrificarono e si guardarono l’un
l’altro fino a quando il signor Morris non chiese, a bassa
voce: «Era Alexandra?».
All’infrangersi delle stoviglie, tutti si alzarono per
schizzare verso la cucina. Artù spinse le porte a spinta con
così tanta forza che queste sbatterono contro le pareti, ma
nessuno vi badò.
«Alex!», gridò, la voce alterata dalla
preoccupazione.
Si chinò per vederla oltre le padelle e le pentole appese e
poi la raggiunse dietro ad uno dei banconi, quello dove si trovavano i
lavandini, la lavastoviglie e un piano di lavoro.
Era in piedi sopra ad un tappeto di frammenti di vetro, alcuni dei
quali insanguinati, e sorreggeva Merlino a fatica, piangendo a dirotto.
«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così
tanto!», farfugliò, singhiozzando a più
non posso.
Artù impallidì vedendo le condizioni in cui
riversava Merlino, ma bastò una sua occhiata per fargli
capire che aveva un piano e doveva reggergli il gioco.
«Alex, tesoro!», gridò Edwin, correndo
sopra i vetri scricchiolanti per aiutarla a sorreggere lo stregone. Non
appena vide la chiazza di sangue che si stava allargando sempre di
più sulla felpa del moro esclamò ancora,
terrorizzato: «Che cosa diavolo è
successo?!».
«Chiamo subito un’ambulanza!»,
strillò Wanda, le mani sul viso cadaverico.
«Alex mi aveva appena passato i bicchieri»,
mormorò il mago, mentre Alex e suo padre lo trascinavano via
dai pezzi di vetro per farlo stendere a terra ed evitare
così che si dissanguasse ulteriormente. «Per terra
era bagnato e sono caduto… sopra i bicchieri».
Artù camminò lentamente verso di loro,
guardandosi bene intorno, e vedendo il ripiano di lavoro pieno di cocci
di vetro capì che, nel caso qualcuno li avesse notati, le
bugie di Merlino sarebbero state subito smascherate. Quindi, senza
farsi notare né da Edwin né da Abraham,
passò un braccio sopra il ripiano e fece cadere tutti i
frammenti a terra, ricevendo un’occhiata
d’approvazione da Merlino, sempre più pallido ed
ansimante.
Rendendosi conto che non c’erano altre prove da cancellare,
Artù corse al suo capezzale e gli scostò i
capelli dalla fronte con una mano, sorridendo in modo beffardo.
«L’ho sempre detto che la tua goffaggine ti avrebbe
fatto ammazzare, un giorno».
Merlino accennò una risata che subito gli
accartocciò il volto in un’espressione di pura
sofferenza.
«Ehi, ehi», richiamò la sua attenzione,
guardandolo fisso negli occhi. «Non mi dirai addio,
chiaro?».
«Chi può dirlo?», bofonchiò,
guardandosi le mani insanguinate.
Artù le strinse forte tra le sue e pensò che in
effetti non sapevano se Merlino avesse perso o meno la sua
immortalità quando lui era risorto. Quello che sapeva di
certo era che non poteva perderlo, che non poteva guardarlo morire e
non provare a salvarlo fino alla fine. Ricordò come lui si
era ostinato a volerlo portare ad Avalon, alle miglia che aveva
percorso a piedi, sorreggendolo quasi a peso morto, senza darsi mai una
tregua, mentre lui più volte gli aveva detto che ormai era
troppo tardi. Ora capiva ciò che aveva dovuto passare, il
dolore che aveva provato nel sentire che il suo migliore amico si era
già dato per spacciato. Artù non
gliel’avrebbe mai permesso.
In quel momento sentì le sirene dell’ambulanza e
sospirò di sollievo. «Andrà tutto bene,
vedrai».
Merlino annuì, per poi voltare il viso verso Alex, la quale
riprese a singhiozzare forte, coprendosi il volto con entrambe le mani.
Il mago liberò una mano dalla stretta di Artù e
costrinse a Alex a guardarlo negli occhi mentre le accarezzava una
guancia, lasciando lievi linee di sangue sulla sua mandibola.
«Non è colpa tua», mormorò.
«Hai capito, Alex? Non è colpa tua».
«Ti prego, non mi lasciare».
Merlino abbozzò un sorriso, ma non fece in tempo a
rispondere che due paramedici entrarono nella cucina con una barella,
costringendo Edwin, Alex ed Artù a spostarsi.
Il re sobbalzò quando si trovò di fronte
Cathleen, quella Cathleen, e anche lei si
irrigidì, gli occhi fissi nei suoi. Fu solo una frazione di
secondo però, il tempo di ricordarsi che c’era una
vita in gioco, e non una qualunque.
«Porca…», bofonchiò il
paramedico non appena realizzò che le condizioni di Merlino
erano critiche. «Dobbiamo fare attenzione a spostarlo. Di chi
è stata l’idea di lasciargli il pezzo di vetro
conficcato nella pancia?».
«Mia», disse Alex, tremando.
«Sì, dovevo capirlo. Ottimo lavoro, Alex. Credo
che sia l’unico motivo per cui non sia già morto:
il pezzo di vetro sta facendo da tappo e se si dovesse muovere
causerebbe ulteriori danni. Non accadrà stasera, ve lo
prometto».
Scambiò uno sguardo col suo collega e lei da una parte, lui
dall’altra, al tre sollevarono Merlino e lo posarono sulla
barella, facendolo gemere di dolore.
«Non fare la femminuccia, Merlino»,
esclamò Cathleen e Artù, nonostante la
tragicità del momento, non poté fare a meno di
sorridere. La rossa se ne accorse e ricambiò, prima di
sollevare la barella e dirigersi velocemente verso
l’ambulanza.
«Uno solo», ordinò guardando
Artù e Alex, entrambi in piedi di fronte alle porte aperte
dell’ambulanza e ben intenzionati a non lasciare Merlino.
«Artù», mugugnò il mago
dall’interno, ormai allo stremo delle forze.
«Okay, deciso», esclamò Cathleen
spingendo dentro il biondo e chiudendo con forza le porte per poi
correre alla guida, facendo partire al massimo le sirene.
Artù allungò il collo per vedere fuori dal
finestrino e guardò Alex diventare una figura sempre
più indistinta nel buio della notte mentre si dirigevano
frettolosamente verso l’ospedale. Poi sentì
Merlino lamentarsi al suo fianco, sotto agli occhi del paramedico che
gli stava iniettando qualcosa nel braccio e nel contempo monitorava i
battiti irregolari del suo cuore, e tornò a stringergli la
mano, inerte lungo il suo fianco.
«Ci credo che poi la gente pensa che ci sia qualcosa
tra di noi», disse, riferendosi a come avesse scelto lui,
senza esitazione anche da mezzo svenuto.
Il paramedico gli lanciò un’occhiata di traverso e
Artù ripeté, serio più che mai:
«Non siamo una coppia, lo giuro».
Non lo erano, e su questo non si poteva discutere, ma era altrettanto
indiscutibile il fatto che si sarebbe rigettato nel lago di sua
spontanea volontà se Merlino fosse morto di fronte ai suoi
occhi.
Seduto su una poltroncina nella sala d’aspetto del pronto
soccorso, la testa reclinata appoggiata alla parete e gli occhi chiusi,
Artù aspettava come gli era stato ordinato di fare.
Aspettava che Merlino uscisse dalla sala operatoria, aspettava che Alex
arrivasse con suo padre, aspettava di poter tornare a casa col suo
migliore amico e di tirare un grande sospiro di sollievo prima di
chiudere gli occhi ed addormentarsi. L’attesa era davvero
snervante, ma cercava di fare del suo meglio.
Un colpo di tosse vicino a lui non gli fece né caldo
né freddo, dato che fino a poco tempo prima aveva sentito di
tutto e di più uscire dalla gola di un vecchio seduto di
fronte a lui dall’altra parte della stanza. Quando
però ce ne fu un altro, eccessivamente prolungato,
Artù inarcò le sopracciglia ed aprì
gli occhi per incrociare quelli di Cathleen, ancora in uniforme da
paramedico, seduta alla sua sinistra, con le mani unite tra le
ginocchia e un sorriso incerto sulle labbra.
«Ciao», lo salutò.
«Ciao».
Si fissarono per un’eternità, bloccati in un
silenzio così imbarazzante che ad un certo punto iniziarono
a parlare contemporaneamente. Cathleen accennò una risata,
massaggiandosi il naso.
«Pensavo accadesse solo nei film»,
mormorò. «Vai prima tu».
Artù si strinse nelle spalle, sospirando. «Volevo
solo dirti che mi dispiace, se ti ho offesa in qualche modo».
«Non mi hai offesa in alcun modo, Artù»,
rispose, corrugando la fronte come se non si sarebbe mai aspettata di
sentire quelle parole. «Al contrario, tu… Tu ti
sei comportato come non ha mai fatto nessuno e questo mi ha…
spaventata, ecco».
«Che cosa vuoi dire?».
Cathleen scrollò le spalle, puntando gli occhi sul
pavimento. «Non so che intenzioni hai, ma è meglio
che tu sappia subito che non voglio una relazione. Non posso».
«Già», mormorò
Artù, incrociando le braccia al petto e tornando ad
appoggiare la testa alla parete, gli occhi di nuovo chiusi.
«Nemmeno io. Pensavo che avrei potuto, che sarei riuscito a
mettere da parte il passato, ma mi sbagliavo».
Artù ripensò a quello che Merlino aveva scoperto
su Cathleen e si chiese se quello non fosse il momento adatto per
aprire l’argomento, dato che erano già in tema. Si
sarebbe arrischiato a dire almeno quello che era successo a lui,
confidandosi con la speranza che lei avrebbe fatto lo stesso, ma non ne
ebbe il tempo materiale.
Alex entrò dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso e
subito si precipitò verso di loro, cadendo quasi tra le
braccia di Artù. Era ancora più che sconvolta,
col mascara sbavato sotto gli occhi e i capelli arruffati, come se
avesse tentato di strapparseli dalla testa, e il suo volto e le sue
mani erano ancora macchiati del sangue di Merlino.
«Lui dov’è? Come sta?».
Cathleen si alzò e la prese per le spalle per farla sedere
al suo posto, dopodiché in silenzio si
inginocchiò di fronte a lei e tirò fuori da una
delle tante tasche dei pantaloni un pacchettino di salviette
umidificate, con cui iniziò a pulirle il viso. Quando le
prese le mani tra le sue per toglierle il sangue dalle dita,
iniziò a spiegare con calma e tranquillità:
«Merlino è ancora sotto i ferri. Da quello che so
hanno già rimosso il pezzo di vetro più grande,
quello più complicato. Ha causato un taglio abbastanza
profondo, ma non ha danneggiato gravemente nessun organo. Ora si stanno
occupando dei frammenti più piccoli, ma è
decisamente fuori pericolo. Dovrai sopportarlo per un bel po’
di tempo ancora».
«Grazie a Dio», mormorò Alex, tra il
riso e le lacrime. «Grazie a Dio!».
Gettò le braccia al collo di Cathleen e il paramedico, dopo
un attimo di esitazione, ricambiò la stretta massaggiandole
la schiena con una mano e scambiando un’occhiata
d’intesa con Artù, il quale mimò con le
labbra un «Grazie». Cathleen si limitò a
sorridere.
***
Merlino
aprì gli occhi lentamente e non dovette nemmeno guardarsi
intorno per capire di trovarsi in un letto d’ospedale.
Sollevò lentamente le mani e le vide fasciate da bende che
gli impedirono di quantificare la profondità dei tagli. Si
ricordò del pezzo di vetro che gli aveva perforato
l’addome e scostò le coperte da un lato per poi
sbirciare dal colletto della camicia azzurrina che gli avevano
infilato: anche lì, un grande cerotto bianco che non gli
permetteva di contare i punti che sicuramente gli avevano messo
né di immaginarsi l’ennesima cicatrice che avrebbe
decorato il suo corpo in maniera così unica e particolare.
«Le cicatrici», mormorò a se stesso,
chiedendosi se il chirurgo che l’aveva operato e gli
infermieri che avevano assistito si fossero posti delle domande a
riguardo e se, prima o poi, sarebbero venuti a riscuotere le dovute
spiegazioni. Come avrebbe potuto giustificare millequattrocento anni di
ferite di ogni genere? Era per quello che raramente si era rivolto a
strutture pubbliche per le cure, perché tutti si ostinavano
a fare domande. Il più delle volte, quando riusciva a non
svenire durante l’operazione, si era ricucito da solo, e per
le vere emergenze aveva chiesto aiuto a qualche medico non troppo
schizzinoso riguardo alle cause delle sue ferite o alla provenienza dei
suoi soldi.
«Davvero le cicatrici sono il tuo primo pensiero? Sei davvero
una donnicciola, Merlino».
Sollevò il capo e vide Artù seduto accanto alla
porta, con una mano a sorreggergli la testa e un sorriso beffardo sul
volto.
«Non pensavo al fattore estetico», rispose con la
voce ancora roca, dovuta probabilmente alla lunga dormita che si era
fatto. «Non importa. Che ore sono?».
«Le cinque del mattino».
«Non avete dormito?».
Il sorriso di Artù si allargò. «Una
volta un mio amico è rimasto sveglio tutta la notte solo
perché lo ero anch’io e quando gliene ho chiesto
il motivo mi ha detto che non voleva che avessi la sensazione di essere
solo».
«Un ottimo amico, davvero», rispose ricambiando il
sorriso, per poi posare di nuovo la testa sul cuscino. «Alex
dov’è?».
«Alle tre suo padre ed io l’abbiamo costretta ad
andare a casa a dormire. Probabilmente non l’avrà
fatto comunque, ma averla in giro in quelle condizioni non era
piacevole. Merlino, lei c’entra qualcosa con quello che ti
è successo, non è vero? Gliel’ho letto
negli occhi».
«Che cosa?».
«Senso di colpa».
Merlino sospirò, chiudendo gli occhi. «Non
è stata colpa sua», soffiò.
«Raccontami che cos’è
successo».
Per un attimo pensò di mentire, o almeno di ammorbidire le
colpe di Alex, ma realizzò che sarebbe stato inutile: il
problema c’era, ed era anche piuttosto grave, e aveva bisogno
anche dell’aiuto di Artù per poterlo risolvere.
Gli raccontò così la verità, ossia che
Alex aveva lasciato che la magia usasse la sua rabbia come via
d’uscita e che tutta quella che aveva assorbito e che non era
stata espulsa dal suo incantesimo - la quantità che il suo
corpo era stato in grado di gestire - era uscita tutta in una volta,
con effetti piuttosto pericolosi.
«Non posso credere che abbia fatto una cosa del
genere», mormorò alla fine Artù,
passandosi le mani tra i capelli proprio come faceva Alex quando era
agitata.
«Non è colpa sua, credetemi. La magia è
in grado di sopraffarti quando meno te lo aspetti, di farti fare cose
di cui non saresti mai stato capace. E controllarla, soprattutto se
è potente come la mia, richiede anni ed anni di pratica ed
esercizi. Persino Morgana all’inizio ha avuto
problemi».
Udendo il nome della sorella Artù schizzò in
piedi, gli occhi fiammeggianti fissi nei suoi. «Non ti
azzardare a paragonare Alex a Morgana. Lei è passata dalla
parte del male, voleva vendetta e ha ucciso decine di persone innocenti
pur di…».
«Vostro padre non ha fatto lo stesso?»,
ribatté, furioso. Si sollevò a fatica, gemendo
per il dolore, ma alla fine riuscì a mettersi seduto per
fronteggiarlo. «Morgana ha scoperto di avere poteri magici
per caso, era spaventata, temeva per la sua stessa vita, e senza una
guida che le spiegasse come utilizzare la magia per il bene si
è lasciata traviare da Morgause. Poi ha scoperto di essere
figlia di Uther e ogni sua certezza è crollata, si
è sentita sola come non mai e tutto questo le ha fatto
provare odio per il mondo intero».
«Sembra quasi che tu la stia difendendo, che stia trovando
una scusa per tutti i crimini che ha commesso».
«Sì, è quello che sto facendo.
Perché sono convinto che il suo destino non era
già scritto, che avrei potuto aiutarla e che è
colpa mia se lei…».
Si guardò le mani e ricordò il dolore che aveva
provato, il rumore assordante del suo cuore che si spezzava in mille
pezzi, quando aveva impugnato Excalibur e l’aveva uccisa. Il
suo sangue era sulle sue mani, indelebile da più di
millequattrocento anni, e mai sarebbe riuscito a perdonarsi.
«Sono state le sue scelte a delineare il suo destino, non le
tue», concluse Artù, pacatamente. «In
ogni caso Alex non sarà mai come lei».
«Perché?», gli chiese, stringendo i
denti. Il re di Camelot lo fissò perplesso e Merlino
riprese: «Perché non dovrebbe? Perché
lei è tutto
ciò che resta della vostra famiglia? Ho sentito
quello che le avete detto. Che cosa intendevate?».
Artù scosse il capo stancamente ed accennò un
sorriso. «Stavo solo farneticando…».
«Siete sempre stato un pessimo bugiardo».
«Forse hai ragione. Dopotutto sei tu l’esperto,
no?», rispose sarcastico, con una punta di irritazione nello
sguardo.
Merlino capì di aver esagerato e fece per scusarsi, ma
Artù aveva già aperto la porta. «Dove
state andando?».
«A casa, ho sonno».
«Artù, aspettate…».
Il re di Camelot si sbatté la porta alle spalle e Merlino
rimase solo, pentito e con la ferita all’addome che gli
pulsava dolorosamente, ma mai come il suo cuore infranto che sembrava
battere solo per inerzia ormai.
|
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Capitolo 15 *** 15. The Destiny’s Call ***
Buonasera!
(O buonanotte, per chi è anziano dentro come me ed
è già pigiamato per andare a letto u_u)
Eccoci qui, questo è l’ultimo capitolo prima della
pausa… il mid-season finale, come mi piace chiamarlo xD
No, a parte gli scherzi, come ho detto nelle ultime settimane mi
scoccia molto interrompere la pubblicazione, ma a causa dei molti
impegni e della scarsa ispirazione – lo ammetto, sto avendo
un calo a causa di alcuni problemi personali – sono costretta
a lasciarvi per un po’ di tempo. Tornerò il prima
possibile, cross my heart.
Spero che questo capitolo vi piaccia e che in ogni caso mi facciate
sapere qualcosa, qualsiasi cosa, con una recensione anche piccola,
piccolissima, piccinapicciò.
Se avete qualche idea, qualche illuminazione fulminante, qualche
sospetto su cosa succederà prossimamente…
scrivetelo pure, magari mi aiuterete a sbloccare alcuni punti su cui
sono ancora un po’ incerta. (Ovviamente vi darò
credito poi! u_u)
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e commentato fino a qui e chi ha
messo questa FF tra le preferite/seguite/ricordate. Ognuno di voi ha un
frammento del mio cuore!
Baci e abbracci a tutti, a presto!
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________________
15.
The Destiny’s Call
Quando
suo padre, circa alle quattro del mattino, era entrato di soppiatto
nella sua camera da letto, Alex aveva solo fatto finta di essersi
addormentata. Aveva aspettato che uscisse e aveva di nuovo acceso
l’abat-jour sul comodino, fissando il soffitto con la mente
affollata di pensieri.
Come avrebbe potuto abbandonarsi ad un sonno senza incubi, sapendo che
Merlino era finito in ospedale per colpa sua? Come avrebbe potuto, ora
che era sicura di poter assorbire dei poteri che non era in grado di
controllare? Come avrebbe potuto, essendo ormai a conoscenza che tutto
ciò che aveva sempre sospettato su Merlino e Artù
era la verità?
Non vedeva l’ora di scivolare fuori dalle coperte per correre
da Merlino, ma ne era anche spaventata a morte. Erano state le sue
parole che l’avevano fatta reagire in quel modo, parole dure
ed inaccettabili che le avevano infranto il cuore, e aveva paura che se
lui le avesse fatto un altro discorso del genere lei avrebbe potuto
fargli dell’altro male.
Aveva paura che l’allontanasse veramente – per il
suo stesso bene, aveva detto – che pensasse che fosse colpa
sua se non era riuscito a tenerla al sicuro dalla sua maledizione e che
soffrisse nell’inutile tentativo di dimenticarla. Anche per
lei una separazione sarebbe stata l’equivalente della morte
di una parte di sé e non poteva assolutamente permetterlo:
Merlino doveva cambiare idea, capire che affrontare il destino e le
maledizioni da solo non era la strategia giusta e che insieme, invece,
avrebbero avuto qualche possibilità in più contro
qualsiasi cosa lui combattesse.
Aveva ancora mille domande che avrebbe voluto porgli – tra
cui perché le era sembrato così simile a suo
nonno il pomeriggio prima – ma sapeva che non avrebbe
ottenuto risposte fino a quando non avrebbe raso al suolo, mattone dopo
mattone, il muro che aveva innalzato tra loro.
Alle cinque e un quarto spaccate si alzò dal letto e si
infilò in bagno per darsi una veloce rassettata, si
cambiò e poi si precipitò giù dalle
scale. In salotto, sdraiato sul divano ed intento a guardare il
telegiornale alla TV, trovò suo padre.
«Che ci fai già sveglia?», le chiese
rassegnato, muovendo la mano come se non volesse davvero sentire la sua
risposta. «C’è ancora un po’
di caffè se lo vuoi».
Alex bevve una tazza enorme di caffè, pucciandovi dentro una
brioche preconfezionata, poi afferrò la borsa e rivolse un
breve sorriso a suo padre prima di esclamare: «Andiamo,
forza. Ti riaccompagno all’agriturismo».
«Se pensi che ti lascerò
sola…».
«Oggi è il mio primo giorno al Pronto Soccorso,
papà».
Edwin la guardò intensamente, corrucciato, e Alex sorrise
tanto da lasciarsi sfuggire una risatina.
«Sto bene, davvero. Non devi preoccuparti per me».
«Lo faccio sempre, è più forte di
me», rispose emettendo un sospiro ed alzandosi dal divano
dopo aver spento la televisione.
La raggiunse e le infilò un braccio tra le spalle,
seguendola fuori di casa, nell’aria fredda del mattino ancora
buio.
***
Il
sole era ancora ben lungi dal sorgere e il cielo buio, punteggiato da
centinaia di piccole stelle, rendeva Avalon ancora più
misterioso ed affascinante. Per nulla incline a prendersi un momento
per ammirare la bellezza di quel luogo che era rimasto tale e quale a
come se lo ricordava, Artù vide l’instabile
barchetta lì dove l’aveva trovata
l’ultima volta, nascosta tra i canneti sulla sponda est del
lago. Non la raggiunse però, preferì urlare la
sua frustrazione dalla riva, senza dover per forza guardare gli occhi
ingannevoli di Freya.
«Vorrei dei chiarimenti, se non sei troppo impegnata a
giocare col destino degli altri!».
La custode del lago rise e la sua voce rimbombò forte tra le
pareti della scatola cranica di Artù, assieme ad una specie
di ronzio che gli procurava sempre un gran mal di testa.
«Quindi non siete qui perché avete
accettato di portare a termine la vostra missione».
«Al contrario, sto seriamente pensando di non prendere
nemmeno in considerazione la tua offerta».
«Si tratta della ragazza, non è
così? Che cos’è successo?».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, chiedendosi se lo
stesse prendendo in giro. «Non lo sai?».
«Il vostro non è l’unico
destino di cui mi interesso, Pendragon. Parlate, forza».
«Alexandra è in grado di utilizzare la
magia», disse stringendo i denti.
Era furioso perché non l’aveva avvisato prima,
perché tra tutti era toccato proprio a lei,
perché il ricordo di Morgana, riportato a galla poco prima
da Merlino, gli faceva battere ancora dolorosamente il cuore.
Il silenzio della custode fu lungo, tanto lungo che ad un tratto
Artù si domandò se non se ne fosse andata per
qualche motivo a lui sconosciuto, ma poi la sua risata squillante lo
fece trasalire.
«Temo che questa sia proprio quella che viene
definita "ironia della sorte", Pendragon».
«Stai per caso dicendo che non lo sapevi?».
«Oh, a vostro avviso sarò anche criptica
e manipolatrice, ma non credete che sarei stata entusiasta di sapere
che l’ultima Pendragon al mondo è in grado di controllare
la magia?».
«Controllare è una parola
grossa», mormorò, lasciandosi cadere a terra con
le ginocchia piegate e i gomiti su di esse, le mani a reggere la testa.
«Ha mandato Merlino in ospedale».
Ancora una volta Freya rimase in silenzio e fu proprio Artù
a doverlo rompere, anche se con la fronte corrugata per un pensiero
fulmineo che gli aveva attraversato la mente: possibile che fosse
ancora innamorata di lui?
«È fuori pericolo ormai. Lo dimetteranno
presto».
«Bene», rispose, fin troppo
freddamente. «Per quanto riguarda la ragazza, ora
che ci penso le sue capacità non sono così
incredibili».
Artù sollevò di scatto la testa, rabbrividendo.
«Che vuoi dire?».
«Vi ho già detto che la magia sta
morendo. Le persone che un tempo sarebbero nate naturalmente col dono
ora sono solo capaci di assorbire il potere, ma i luoghi e le creature
che ancora riescono a sopravvivere sono pochi e più tempo
passa meno ce ne saranno. Nel mondo c’è un intero
esercito di maghi e streghe che non sanno nemmeno di esserlo. Ma se a
queste persone venisse data l’opportunità di
venire a contatto con una fonte, allora il dono che giace assopito in
loro verrebbe risvegliato».
«Sì, io e Merlino ci eravamo già
arrivati: Alex ha assorbito la sua magia. Ma perché
è toccato a lei possedere questo…»,
Artù si interruppe, cercando la forza necessaria a
pronunciare quella parola che non avrebbe mai voluto utilizzare come
sinonimo di magia. Persino Merlino non la usava più.
«Dono?».
«Ho sentito del disprezzo nella vostra voce? Come vi
permettete, voi che così tante volte avete beneficiato della
magia di Merlino? Voi che siete nato, grazie alla
magia?».
«Mia madre è morta, a causa della magia che ha
permesso la mia nascita!».
«Non poteva essere altrimenti»,
affermò pacatamente. «Ad ogni modo, il
dono della ragazza non doveva sorprendermi proprio perché
voi stesso siete frutto della magia, ce l’avete nel sangue.
Ma per tramandarsi fino alla sua generazione doveva trattarsi di un
potere enorme, ben oltre le capacità di Nimueh. Mi chiedo
se…».
«Che cosa? Parla, Freya».
«Anche vostra sorella Morgana possedeva il dono. Mi
chiedo se vostro padre Uther non vi abbia celato dell’altro,
se il suo accanimento contro la magia fosse dovuto solo alla morte di
vostra madre».
«Stai per caso insinuando che anche mio padre potrebbe essere
stato uno…?». Non riusciva nemmeno a pronunciare
la parola “stregone” associandola a suo padre. Si
alzò in piedi, gridando: «È ridicolo!
Morgana deve aver ereditato la magia da sua madre! Altrimenti come
spiegheresti i poteri di Morgause? Lei non aveva alcun legame con mio
padre!».
«Forse avete ragione. In ogni caso, non è
importante sapere da chi abbia ereditato il dono la vostra discendente:
il fatto che ce l’abbia è una speranza in
più per il mondo intero. Se voi e Merlino non vorrete
portare a termine il vostro destino, scommetto che lei non se ne
starà con le mani in mano a guardare la Terra bruciare».
«Lei non dovrà mai sapere nulla di tutto questo,
chiaro? Prova solo a metterti in contatto con lei e
io…».
«Non potete impedirmelo, Pendragon. La ragazza si
è tuffata nelle mie acque per aiutarvi, è
già venuta in contatto con me. E in quello stesso istante il
suo destino è stato scritto».
Artù scosse ripetutamente il capo, conscio che Freya avrebbe
potuto vederlo. Con i pugni stretti lungo i fianchi e il viso sfigurato
dalla rabbia gridò: «Non accadrà una
seconda volta: non permetterò che il destino abbia ancora la
meglio su di noi».
Freya accennò una risata. «Cosa avete
intenzione di fare?».
«Lo cambierò».
***
Merlino
continuava a ripetersi che non sarebbe dovuta andare a finire
così: Alex non avrebbe dovuto sapere la verità,
non avrebbe dovuto affezionarsi a lui e ad Artù in quel modo
e soprattutto non avrebbe dovuto entrare in contatto diretto con la
magia. Ormai però era troppo tardi, per tutte e tre le cose.
Particolarmente preoccupante però era il fatto che, se era
come pensava che fosse, la magia aveva già avuto tutto il
tempo per insinuarsi nella sua anima, come un veleno senza antidoto,
rendendola pericolosa.
Da quando Artù se n’era andato non era riuscito a
chiudere occhio: era rimasto a guardare il sole sorgere lentamente
fuori dalla finestra, rischiarando il cielo buio e facendo scomparire
le stelle, e aveva pensato tanto da farsi venire il mal di testa.
Lo aveva chiamato al cellulare almeno una ventina di volte, senza mai
ottenere risposta, e alla fine si era arreso, rimanendo sdraiato sul
letto ad occhi chiusi fino a quando non aveva sentito la porta della
sua stanza aprirsi. Aveva semplicemente continuato a fingere di
dormire, dato che non era proprio dell’umore giusto per
interagire con un altro essere umano, ma non appena aveva sentito una
mano posarsi sulla sua e stringerla delicatamente e al contempo con
forza non aveva potuto fare a meno di aprire gli occhi per incrociare
quelli di Alex, in piedi al suo fianco, con i capelli legati in
un’alta coda di cavallo e la divisa azzurra da infermiera.
«Ciao», gli sussurrò, stirando un
sorriso.
Merlino si portò la mano stretta in quella di Alex sul petto
e la strinse anche con l’altra, ma la sua espressione stanca
e preoccupata non mutò. «Che ci fai
qui?».
«Lavoro qui adesso, ricordi?». Con un cenno del
capo indicò il carrello che aveva lasciato fuori dalla porta
e aggiunse: «Come primo incarico ho ricevuto la distribuzione
delle colazioni. Poteva andarmi peggio, no?».
Merlino conosceva quella tecnica: fare battute per stemperare la
tensione, allontanare il dolore e la tristezza ancora per un
po’. Artù l’aveva usata spesso con lui e
non aveva mai funzionato.
«Non ho appetito», rispose atono.
Il sorriso di Alex scomparve del tutto, lentamente. Gli
lasciò la mano per andare a prendere la sedia accanto al
muro e una volta seduta al suo fianco si portò le mani
davanti alla bocca, unite a mo’ di preghiera. Con poca voce,
rotta da un pianto che stava cercando di soffocare, disse:
«Non so come sia potuto succedere, Merlino. Perdonami, ti
prego».
«Ti ho già detto che non è colpa
tua».
«Non è nemmeno tua, se è per
questo».
Merlino sospirò, gettando un’occhiata al soffitto.
Non fece in tempo a replicare però che Alex riprese:
«Ricordi la promessa che mi hai fatto? Mi hai detto che un
giorno avrei saputo tutta la verità. Forse non è
successo come avresti voluto, ma ora lo so e… non scherzavo,
quando ti ho detto che qualsiasi cosa tu abbia fatto in passato non
cambierà il mio modo di vederti: tu resterai sempre il mio
impacciato e gentile Merlino dalle orecchie a sventola».
Il mago scosse il capo, non sapendo più come fare per farle
capire che ogni cosa tra loro non sarebbe più stata la
stessa ora che sapeva, che stargli ancora vicino non avrebbe portato a
nulla di buono e che lui l’amava così tanto da
rinunciare a lei, alla sua amicizia, pur di tenerla al sicuro.
«Tu non capisci, Alex. È più complicato
di così».
«Perché? Spiegamelo, voglio capire».
A quel punto Merlino capì che non aveva alternative. Le
prese di nuovo le mani tra le sue e la guardò dritta negli
occhi, sussurrando: «Io ti amo, Alex. Ti amo come non ho mai
amato nessun’altra e non voglio che tu sappia tutta la
verità su di me perché sono certo che mi
troveresti ripugnante. E ne morirei».
«Se credi che tutto questo possa farmi cambiare
idea…», iniziò a dire con voce
tremante, gli occhi colmi di lacrime dietro le lenti degli occhiali, ma
Merlino la interruppe bruscamente.
«Devi starmi lontana, Alex. Devi farlo per te stessa. Tu hai
un futuro di fronte a te, io… il mio destino è
già stato scritto».
Alex rimase in silenzio di fronte a lui, senza sapere come rispondere,
e Merlino, leggendo la disperazione nel suo sguardo, pensò
più volte di rimangiarsi tutto. Alla fine fu il dottor Ellis
a fare qualcosa di buono, comparendo di fronte alla porta e richiamando
l’attenzione di Alex.
«Ehi, gli altri pazienti aspettano la colazione».
L’infermiera annuì debolmente e dopo aver
sottratto le mani dalla stretta di quelle di Merlino uscì
dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
Il mago inspirò ed espirò profondamente, poi si
prese il cuscino da dietro la testa e vi immerse dentro la faccia per
soffocarvi un grido.
***
«Inizio
un po’ turbolento, eh?».
Alex scrollò le spalle, spingendo il carrello su cui vi
erano posati i vassoi delle colazioni. «È sempre
così, quando si tratta di Merlino».
E così sarebbe sempre stato, dato che sembrava davvero non
voler più avere niente a che fare con lei. Le sue parole
però, quella dichiarazione inaspettata che le aveva fatto
tremare il cuore, continuavano a rimbombarle nella mente come
un’eco interminabile e non riusciva proprio a credere che
fosse tutto finito. Merlino non poteva farle questo e non si sarebbe
arresa tanto presto. Dopotutto aveva ancora un asso nella manica,
l’unica sua speranza perché cambiasse idea, e
doveva almeno provarci.
«Spero che le sue condizioni non influenzino negativamente il
tuo lavoro: abbiamo bisogno di te concentrata. Io
ho bisogno di te concentrata».
Alex rivolse a Keith un pallido sorriso ed annuì, per poi
bussare alla porta di una camerata da tre posti letto.
«Ci vediamo dopo», la salutò il dottore,
ma non appena si girò Alex richiamò la sua
attenzione.
«Più tardi avresti cinque minuti? Devo di
parlarti».
Il dottor Ellis sorrise smagliante. «Ma certo, quando vuoi.
Per qualsiasi cosa…», picchiettò due
dita contro il cercapersone attaccato alla cintura dei pantaloni e si
voltò, il camice bianco che svolazzava dietro di lui come
una specie di mantello.
L’infermiera sospirò ed entrò nella
camerata augurando il buongiorno ai pazienti, pretendendo che fosse
davvero un buon giorno.
***
Qualcuno
bussò lievemente alla porta e Merlino riaprì gli
occhi istantaneamente, sforzandosi di mettersi di nuovo seduto. Aveva
sperato con tutto se stesso che fosse Artù e forse fu quello
il motivo per cui rimase tanto sconvolto nel vedere Myra entrare nella
sua stanza.
«Sono venuta appena ho saputo», esordì
sorridendo. «Disturbo?».
Merlino impiegò qualche secondo per rendersi conto che non
si trattava di un’allucinazione da farmaci – ormai
la morfina non gli faceva più alcun effetto – e
formulare una risposta di senso compiuto.
«No, no che non disturbi. Ma da chi l’hai
saputo?».
Myra scrollò il capo. «Non ha importanza. Come ti
senti?».
Sì che aveva importanza, ne aveva molta a dire il vero, e
Merlino corrugò la fronte, guardandola con scetticismo
mentre si sedeva sulla sedia accanto al letto. C’era qualcosa
che non gli tornava e quindi non si sentiva affatto tranquillo.
«Merlino, ci sei?».
Il mago sbatté più volte le palpebre e finse di
cadere dalle nuvole, ridacchiando. «Scusami, è che
sono ancora un po’ sottosopra».
«Capisco. Ti rimetterai, ne sono sicura». Gli prese
una mano e la strinse forte, accarezzandone le nocche con il pollice.
«Mi sono spaventata a morte, lo sai?».
Merlino ricambiò il sorriso, ma lentamente sottrasse la mano
e con essa finse di doversi grattare il naso. «Figurati
io».
Il silenzio piombò tra di loro e nessuno dei due si
azzardò ad infrangerlo per due minuti buoni. Quindi lo
stregone, sempre più convinto che Myra gli stesse
nascondendo qualcosa, si schiarì la gola e disse, indicando
la sua divisa: «Non dovresti essere in Centrale?».
«C’è Darrell, se la
caverà».
«Lui è nuovo, vero?».
«È stato trasferito qui da circa sei mesi.
All’inizio era semplicemente un mio sostituto, poi hanno
deciso di affiancarmelo a tempo indeterminato a causa di
questa», si picchiò la mano sulla gamba destra e
sollevò un angolo della bocca in un sorriso.
«Allora forse dovresti raggiungerlo. Io sto bene,
davvero».
Myra parve punta sul vivo dalle sue parole, probabilmente aveva intuito
che la sua presenza, se non addirittura sgradita, non aveva molto
senso.
Sospirò, sistemandosi una ciocca di capelli inesistente
dietro l’orecchio sinistro. «So di essere stata
parecchio dura, l’ultima volta che ci siamo visti. Ho
esagerato e mi dispiace, Merlino. Non era colpa tua, tantomeno di Alex,
se non ricambiavi i miei sentimenti. E purtroppo non esistono filtri
d’amore».
«No, infatti», mormorò il mago,
ricordando tutti quelli con cui era venuto in contatto durante gli anni
trascorsi con Gaius.
«C’è qualcosa che posso dire…
o fare, per farmi perdonare?», chiese, stringendosi nelle
spalle.
Sembrava davvero dispiaciuta e desiderosa di voltare pagina, ma Merlino
provava ancora la sensazione che ci fosse sotto qualcosa. Ricordava
bene, benissimo, la sofferenza che aveva letto nei suoi occhi qualche
settimana prima, quella rabbia cocente che aveva consumato la sua anima
per mesi. Com’era possibile che fosse svanito tutto quanto
nel nulla e che volesse sotterrare l’ascia di guerra, dopo
che lei stessa aveva annunciato che non avevano più nulla da
dirsi e che l’argomento era chiuso definitivamente? Che cosa
voleva davvero da lui?
Myra si alzò sospirando e piegò la testa di lato,
sorridendogli dolcemente. «Forse è meglio che ti
lasci riposare, uhm? Puoi chiamarmi a qualsiasi ora».
Merlino la guardò uscire dalla stanza in silenzio, le labbra
strette in una smorfia a causa del dubbio atroce che si era lentamente
insinuato nella sua mente non appena gli aveva dato le spalle. E se si
fosse sbagliato? Se Myra avesse davvero capito che non ne valeva la
pena di mangiarsi il fegato, che era arrivato il momento di trovare un
compromesso col passato e di perdonarne gli errori? In quel caso aveva
gridato al complotto ancora prima di provare a capire e si sarebbe
odiato per sempre, se non le avesse dato la possibilità di
spiegarsi e magari aiutarla a guarire certe ferite.
Le sue riflessioni vennero bruscamente interrotte da delle forti manate
contro il vetro plastificato accanto alla porta, grazie al quale lui
poteva vedere i dottori e le infermiere camminare lungo il corridoio e
i visitatori, invece, erano in grado di capire subito se i loro
familiari o conoscenti fossero in una determinata stanza o meno.
Dopo lo spavento iniziale non poté fare a meno di sorridere,
scorgendo Abigail, Mark, Gabriel e la piccola Jessica, di soli otto
anni e mezzo, sorridergli a trentadue denti. Ad un tratto Mark
sollevò il suo libro di favole e sbatté anche
quello contro il vetro, urlando: «Hai bisogno di una
storia?!».
Merlino rise e fece segno a tutti quanti di entrare, domandandosi chi
poteva averli avvisati.
Ottenne la risposta che cercava pochi minuti dopo, quando Cathleen
comparve dietro il vetro con le braccia incrociate al petto e un
sorrisino soddisfatto sulle labbra. Merlino smise di ascoltare le
parole di rimprovero ed apprensione di Abby e rivolse al paramedico
un’occhiata colma di sorpresa e gratitudine. Cathleen
annuì con un cenno del capo e si allontanò,
lasciandolo in balia di quei piccoli demoni che a volte si dimostravano
dei veri e propri angeli.
***
Artù
si strinse al petto il quaderno con i disegni animati di Merlino e
sospirò ad occhi chiusi prima di prendere il cellulare tra
le mani e leggere l’ennesimo messaggio di Lady Alex.
Se quello che hai detto ieri sera è vero, allora devi
aiutarmi.
Si alzò dal letto a baldacchino e camminò
lentamente verso il bagno, dove si sciacquò il viso con
acqua gelata. Si guardò allo specchio e strinse i bordi
spigolosi del lavandino tra le mani, chiedendo ad alta voce:
«Che cosa devo fare, Ginevra?».
Aspettò, invano, la sua voce dolce e i suoi consigli capaci
di guidarlo sempre nella direzione giusta. Ma lei non c’era
più. Non gli era rimasto più nessuno oltre a
Merlino e Alex, la ragazza coraggiosa che si era tuffata nelle acque di
Avalon per aiutarlo e che aveva scoperto essere la sua ultima
discendente.
Aveva solo loro due e non poteva di certo rischiare di perderli, ma non
poteva nemmeno continuare a mentire come se nulla fosse. Anche lui,
proprio come Merlino, non voleva altro che Alex fosse al sicuro, ma
forse starle lontani non era la soluzione migliore. C’era un
detto, “L’unione fa la forza”, e ci
credeva fermamente, dato che con l’aiuto dei suoi amici,
Cavalieri e non, era riuscito a fondare un regno che non aveva avuto
eguali. E credeva anche che Alex si sarebbe abituata presto ad essere
una Pendragon: già se la immaginava a cavallo, con i lunghi
capelli biondi sciolti sulla schiena, avvolta nel lungo mantello rosso
e una spada appesa al fianco. Avrebbe potuto essere il padre che non
era stato per Graalmir, ma quella era solo una sua stupida fantasia,
una fantasia che non era importante nemmeno la metà di tutti
gli avvertimenti di Freya: il tempo scorreva e l’intero mondo
era sull’orlo del baratro. Non poteva agire da solo, non
l’aveva mai fatto e come gli aveva ricordato la custode, non
era il suo destino ad essere il punto fermo della storia, non era lui
che avrebbe deciso la rinascita o la distruzione della Terra.
Eppure… eppure non riusciva a prendere quella maledetta
decisione.
A quanto pare, da solo non sono nessuno.
Io lo
amo, Artù. Hai capito? LO AMO.
Sospirò leggendo l’ultimo messaggio, preceduto
dall’ormai irritante fischiettio.
Con un salto tirò giù la scala con la quale si
accedeva alla soffitta nascosta. Tossì ripetutamente a causa
della polvere, ma raggiunse a passo sicuro la cassapanca con lo stemma
dei Pendragon. L’aprì e pregò
perché ciò che stava cercando si trovasse
lì, che Merlino fosse stato in grado di recuperarlo in
qualche modo.
Si imbatté in una scatoletta metallica nera, arrugginita in
più punti, su cui era stato inciso – con un
coltello, una chiave o qualcos’altro di appuntito –
un nome: James McTrusty.
Artù non aveva idea di chi fosse, perciò si
infilò la scatoletta nella tasca della felpa, deciso ad
indagarvi con più calma in un altro momento, e
continuò a cercare tra tutti i ricordi più cari
di Merlino fino a quando non ebbe tra le mani un sacchettino di pelle.
Lo aprì con le dita tremanti e fu quasi sul punto di
piangere realizzando che l’ultima persona ad averlo indossato
era stata proprio Ginevra.
Si portò alle labbra l’anello col sigillo reale e
rimase così, ad occhi chiusi, per una manciata di secondi.
Poi chiuse la cassapanca e si sollevò, spolverandosi i jeans
all’altezza delle ginocchia.
Stava scendendo la scala della soffitta, quando gli arrivò
un altro messaggio.
Devi
parlare con Merlino e fargli cambiare idea. Ti sto pregando.
Artù strinse più forte l’anello nel
pugno e corse a recuperare la bicicletta nel vecchio fienile.
***
Presa
com’era nel rileggere le decine di messaggi WhatsApp che
aveva inviato ad Artù – a cui non aveva mai
ricevuto risposta, tra l’altro – Alex
sobbalzò quando sentì le mani di Keith sulle sue
spalle. Il dottore aveva già una sigaretta tra le labbra e
nonostante ne avesse una tremenda voglia anche lei, rifiutò
quando gliene offrì una dal pacchetto.
«Di che cosa volevi parlarmi?».
«Del mio trasferimento».
Keith arricciò gli angoli della bocca in un sorriso amaro ed
iniziò a scuotere il capo, ma l’infermiera gli
posò una mano sul braccio ed imperterrita riprese:
«Non ti sto chiedendo di convincere tuo padre a mettere una
buona parola per me. Non ancora, almeno»,
ridacchiò nervosamente. «Voglio solo sapere
perché. Perché sono stata scelta io? È
per qualcosa che ho fatto ad oncologia?».
«Perché pensi questo?», le
domandò Keith, soffiando una boccata di fumo verso il cielo
ora coperto di nuvole.
«Ho le mie ragioni».
«Sono sicuro che siano stupidaggini. Tu sei
un’infermiera eccezionale, Alex. Immagino che per il
Consiglio sia stata una decisione ardua, soprattutto tenendo conto di
quanto i bambini si sono affezionati a te».
Alex si passò una mano sulla fronte, ricordandosi che a loro
non aveva ancora detto nulla. Non osava nemmeno immaginare come
avrebbero reagito, e forse era proprio l’idea che si era
fatta della loro reazione a spaventarla tanto.
«Farò un tentativo però»,
concluse Keith, spegnendo la sigaretta nell’apposito cestino
di fronte all’entrata del Pronto Soccorso.
«Grazie, ti devo un favore».
Il dottor Ellis le strizzò l’occhio.
«Preferirei una birra».
Alex, spiazzata, non riuscì a rispondere per una dozzina di
secondi. Alla fine Keith scosse il capo, muovendo una mano come a voler
cancellare le ultime parole scritte su una lavagna invisibile.
«Non importa, stavo scherzando».
Si era già voltato verso le porte scorrevoli, quando la voce
di Alex lo costrinse a fermarsi sul posto.
«Come hai detto?», le chiese, con la fronte
corrugata per la sorpresa.
L’infermiera si schiarì la gola e
ripeté con fermezza ciò che aveva già
detto a bassa voce: «Va bene. Una birra non ha mai fatto male
a nessuno, dopotutto».
Il sorriso luminoso di Keith le provocò una fitta allo
stomaco e allo stesso tempo la fece sentire maledettamente in colpa,
nonostante non ne avesse alcun motivo. Merlino era stato chiaro
riguardo al loro rapporto: doveva stargli lontana, dimenticarlo. E
quale modo migliore per farlo?
«Okay. Fantastico. Allora… ci sentiamo,
eh?».
Alex si infilò le mani nelle tasche posteriori dei
pantaloni, stringendosi il collo tra le spalle. «Sicuro. A
presto, Keith. E grazie».
«Sai che puoi contare su di me per ogni cosa».
Annuì debolmente e lo guardò sparire dietro le
porte scorrevoli, poi sospirò prendendosi la testa tra le
mani e si sedette nuovamente sul panettone giallo, gli occhi fissi sui
suoi zoccoli di gomma bianca.
«Ti stai rendendo conto che non è una buona
idea?».
Alex sollevò il capo e alla sua sinistra vide Cathleen, in
piedi e con le mani nelle tasche dell’uniforme da paramedico,
lo sguardo rivolto verso il parco dall’altra parte della
strada.
«Non è un buon momento, Cathleen».
«Oh, l’ho capito. Ma tuffarti nelle braccia del
primo che capita non è la soluzione, soprattutto se
è il tuo ex».
«Nessuno ti ha mai detto che è maleducazione
origliare? E poi che cosa ne sai tu?», le chiese stancamente,
ma se ne pentì subito dopo.
«Abbastanza, dato che l’ho fatto fino adesso. Ho
cercato di riempire il vuoto che avevo dentro finendo a letto con
chiunque me ne desse la possibilità, ma questo non ha fatto
altro che peggiorare le cose».
Alex iniziò a rigirarsi una ciocca di capelli tra le dita.
«Io non finirò a letto con
Keith».
Poi si ricordò della promessa che aveva fatto ad
Artù il giorno prima e senza giri di parole le chiese:
«Cosa ti ha fatto smettere?».
Cathleen chinò il capo, con un mezzo sorriso sul volto.
«Chi, vorrai dire. Artù.
Pensavo sarebbe stato l’ultimo dei tanti, ma lui…
si è tirato indietro. E poi ieri notte, quando abbiamo
portato qui Merlino, mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere.
Non ho chiuso occhio, in effetti».
«Che cosa ti ha detto?».
«Che avrebbe voluto lasciarsi andare, ma che non è
riuscito a mettere da parte il passato. Io non ho mai avuto la forza di
ammettere che il mio passato è ancora lì, dietro
l’angolo, pronto a farmi sanguinare. Ignorarlo per
così tanto tempo ha reso tutto molto più
complicato e doloroso, ma quando sto con Artù…
Lui deve aver sofferto come me, glielo leggo negli occhi, e quando sto
al suo fianco non mi sento più sola, sento che quel vuoto
potrebbe ancora riempirsi… provo qualcosa che avevo pensato
di aver perso per sempre: speranza».
Alex non aveva la più pallida idea di che cosa Cathleen
avesse dovuto affrontare, ma aveva la sensazione che fosse la persona
giusta per Artù.
Sorrise dolcemente e si alzò in piedi per poterle prendere
le mani tra le sue e accarezzarle.
«Artù è davvero un bravo ragazzo e
quando tiene ad una persona non c’è nulla che non
farebbe per aiutarla. Non è un tipo che si arrende
facilmente, ecco. Se ti fa sentire meglio solo standoti vicino, forse
dovresti dargli una possibilità e condividere con lui quello
che ti è successo».
«Lo farò, quando mi sentirò
pronta».
«Ma certo, non c’è fretta».
O almeno avrebbe voluto che fosse così. Il ricordo di
ciò che gli era successo la sera prima,
quell’attacco che solo Merlino con la sua magia era stato in
grado di curare, le fece tremare le gambe. Ma forse non era tutto
perduto: bastava solo capirne le cause, stabilire una diagnosi, ed era
certa che in un modo o nell’altro sarebbero riusciti a
trovare una cura permanente.
«Sei veramente intelligente, Alex».
L’infermiera corrugò la fronte, captando
l’ultima frase di Cathleen. «Uhm?».
«Stavamo parlando di te e sei riuscita a rovesciare la
frittata. Veramente in gamba, lo devo ammettere».
«Tra me e Merlino è leggermente più
complicato», iniziò a dire, ma il paramedico le
posò un dito sulle labbra, azzittendola.
«Qualsiasi cosa sia successa tra te e Merlino, non devi
fidarti di Keith. Può essere il figlio di uno dei membri del
Consiglio d’Amministrazione, ma non fa miracoli. È
un periodo di merda: Steve, l’ospedale senza più
fondi e il reparto di oncologia che rischia di
chiudere…».
Alex sentì le gambe sul punto di cederle. «Che
cosa?».
Cathleen si accorse del pallore mortale sul suo viso e la fece sedere
nuovamente sul panettone, accarezzandole le braccia.
«Davvero non lo sapevi? Lo sanno tutti ormai. È
una voce che ha iniziato a circolare da quando hanno interrotto i
lavori di ristrutturazione della piscina. Il Consiglio ha cercato di
mantenere la segretezza sulla questione, ma è palese ormai
che il reparto di oncologia sarà la prima cosa a venire
tagliata, dati gli elevati costi delle cure e dei
macchinari».
«No, loro non… Mi stai prendendo in giro,
Cathleen? Non possono farlo!».
Il paramedico fissò gli occhi nocciola nei suoi, seri come
non li aveva mai visti. «Non scherzerei mai su una cosa
così importante. Non hai notato che è ormai un
paio di mesi che non accettano più nuovi pazienti? Sono
già troppi quelli che ci sono e presto i casi più
gravi verranno trasferiti altrove, probabilmente a Cardiff».
«No, io mi rifiuto di crederci. Ci dev’essere un
modo!».
«A meno che tu non vinca alla lotteria o riesca a risollevare
l’intera economia del Paese, dubito che si possa fare
qualcosa».
Le accarezzò dolcemente i capelli e si risollevò
quando sentì il suo partner chiamarla per
un’emergenza.
«Devo andare», le disse. «Promettimi che
non farai stupidaggini con Keith. Non mi piace quel tipo».
Alex annuì debolmente, senza aver prestato nemmeno
attenzione alle sue parole ammonitrici, e Cathleen, in parte
rincuorata, corse verso l’ambulanza con la sirena
già in funzione.
***
«Alex
è già passata a trovarti?».
Merlino incrociò lo sguardo di Abigail e sospirò
prima di schiarirsi la gola.
«Che cosa ci state nascondendo?»,
domandò Mark, le sopracciglia aggrottate e le labbra sottili
strette tra loro, insospettito.
«Alex lavora al Pronto Soccorso adesso».
Forse buttarla lì così, senza dare alcun
preavviso, era stato un po’ avventato, ma Merlino non aveva
trovato modo migliore: in ogni caso i bambini ci sarebbero rimasti
male, con o senza tatto.
La prima a riprendersi dallo shock fu Abigail, come sempre, e dopo aver
boccheggiato un paio di volte, forse indecisa su quale domanda porre
per prima, esclamò: «Sono contenta per
lei».
«Scusa?!», le urlò contro Mark,
strabuzzando gli occhi. «Non puoi dire sul serio!».
«Beh, penso sia un salto di qualità in ambito
medico. O no? Bisogna essere pronti a tutto, rapidi nelle diagnosi e
nella somministrazione delle prime cure. Lavorare ad oncologia
è come… fare la babysitter».
Merlino piegò il capo, sorridendo dolcemente. «Se
Alex ti sentisse ti direbbe che stai dicendo un mucchio di
cavolate».
«E per una volta io e lei saremmo
d’accordo», aggiunse Mark, imperterrito.
«Non è stata una decisione di Alex,
comunque», spiegò alla fine lo stregone.
«In realtà non ne aveva idea, fino a ieri
pomeriggio. Altri hanno deciso per lei e non ha potuto opporsi in alcun
modo».
«Se è così perché non
è venuta subito a dircelo di persona? Perché ha
chiesto a te di…».
«Lei non mi ha chiesto niente, Gabriel. Sono certo che oggi
alla fine del turno verrà da voi per dirvelo, ma ho voluto
anticiparvelo per levarle la parte difficile».
«Non sto capendo», esclamò
l’ex compagno di stanza di Steve, massaggiandosi le meningi
con le mani.
Merlino sorrise e guardò tutti i bambini negli occhi, uno
per uno, prima di domandare: «Secondo voi qual è
il motivo per cui si mantengono i segreti?».
«Perché si pensa di proteggere le persone a cui si
tiene», rispose subito Abigail, la prima della classe.
«Per vergogna», ipotizzò invece Jessica.
Merlino scrollò le spalle ed inarcò un
sopracciglio incrociando per una frazione di secondo gli occhi
sfuggenti di Mark. «Altro?».
Il ragazzino strinse i braccioli della propria sedia a rotelle e con
poca voce disse: «Per paura».
Abigail si voltò verso il compagno d’avventure e
lo guardò con cipiglio perplesso, ma ben presto si
voltò verso Merlino, quasi infastidita: «Dove vuoi
arrivare?».
«Volevo solo farvi capire che ci sono delle ragioni che ci
spingono a mentire, ad evitare un certo argomento… Quando
Alex verrà a dirvelo avrò paura,
penserà che vi sentite feriti e proverà vergogna
perché non poteva fare nulla per stare con voi. Sapendo
tutto questo, potrete aiutarla».
«E possiamo aiutare anche te?», gli chiese Abigail,
gli occhi stretti in due fessure, quasi minacciosi. «Anche tu
hai un segreto, dopotutto».
«Sì, ce l’ho», rispose con
sincerità. «Chi non ne ha?».
«Qual è la tua ragione?».
«Il mio caso è un po’ più
complicato rispetto a quello di Alex», rispose anche lui con
severità, lanciandole uno sguardo che avrebbe dovuto
spingerla a lasciar perdere. Accadde proprio il contrario.
«Non starai per dire che siamo solo dei bambini e quindi non
possiamo capire, spero. Forza, mettici alla prova».
Merlino strinse i denti e raccolse la sfida, concentrandosi al massimo
per sostenere lo sguardo duro di Abigail. Sapeva di stare giocando col
fuoco – il sospetto che lei sapesse la verità era
ora più forte che mai – e
non sapeva nemmeno che cosa lo avesse attizzato, ma decise di andare
fino in fondo comunque.
«Quindi», esordì come un professore
– cosa che era stato, per un breve periodo, secoli e secoli
prima. «Supponiamo che io abbia questo segreto».
«Ce l’hai, è un dato di
fatto».
«Non mi interrompa, signorina Reed. Se avessi mantenuto
questo segreto per anni, per tutti i motivi che avete
elencato… Perché dovrei decidere di rivelarlo?
Che cosa dovrebbe accadere, cosa mi spingerebbe ad una decisione
così drastica?».
«Vedere che le persone a cui si tiene soffrono comunque, o
soffrirebbero ancora di più stando all’oscuro del
segreto, e capire che non c’è vergogna o paura
personale più grande dell’affetto che si nutre per
loro».
«Significherebbe non avere un briciolo di amor
proprio», ribatté Mark, senza sollevare lo sguardo
su Abigail.
«L’amor proprio non conta, se si ama davvero una
persona».
«Non sono d’accordo».
«Perché?», chiese Merlino, colpito da
quell’improvviso scambio di opinioni tra i due.
«Perché potrebbe anche darsi che quella persona
prima o poi non ci sarà più e noi dovremo
convivere comunque con noi stessi».
«Convivere con il rimpianto di non aver mai detto la
verità, convivere col dubbio che magari quella persona
provava lo stesso per noi e non le abbiamo mai dato la
possibilità di esprimere i propri sentimenti
perché anche lei aveva paura».
Mark si decise finalmente ad alzare il capo ed incrociò gli
occhi neri di Abigail, rimanendone incantato. Gabriel aprì
la bocca per urlare qualcosa, ma Merlino gli premette la mano contro le
labbra, ammutolendolo.
«Amare una persona e poi perderla è come perdere
se stessi, non si è più vivi»,
mormorò Mark, ancora incatenato al suo sguardo.
«Perché sei sempre così
pessimista?».
«Sono realista. E la realtà è che sto
morendo, Abby».
«Ma non sei ancora morto. Non puoi impedirti di essere felice
perché temi il momento in cui non lo sarai
più».
«Non si può rimpiangere un qualcosa che non si ha
mai avuto».
«Che vita sarebbe senza felicità, senza
amore?».
«La nostra non è vita!»,
gridò Mark, picchiando a terra i piedi.
Abigail allungò una mano per prendere la sua, ma il
ragazzino si scostò bruscamente con la propria sedia a
rotelle e si avviò verso l’uscita.
«Mark, aspetta!».
Ogni tentativo di Abigail fu vano: il tredicenne si sbatté
la porta alle spalle e si allontanò in fretta lungo il
corridoio, diretto verso l’ascensore. Lei sospirò,
abbandonandosi allo schienale della sua carrozzina, e gettò
un’occhiata agli sconvolti Jessica e Gabriel, i quali ormai
avevano ben chiara la situazione e preferirono non aprire bocca.
«Noi andiamo a farci un giro», esclamò
Gabriel anche per l’amica, uscendo dalla stanza di Merlino.
Una volta soli, Abigail e il mago rimasero in silenzio per diversi
secondi, pensierosi. Alla fine Merlino disse: «Non me
l’aspettavo, davvero».
«Tu lo sapevi?», lo interruppe, guardandosi le mani
unite in grembo. «Sapevi che Mark aveva una cotta per
me?».
«Era evidente. Non te ne sei mai accorta? E pensare che
capisci sempre tutti al volo».
«Quando si tratta di se stessi è difficile vedere
con chiarezza».
«Già».
«Merlino, Alex ti ama. Qualsiasi sia il tuo segreto,
lei…».
«Lo so. Ma questa volta sono d’accordo con Mark, mi
dispiace».
«Non capisco».
«Ci sono già passato, Abigail. Ho già
perso una persona che conosceva il vero me, che mi amava per
com’ero, e quello che ha detto Mark è vero: quando
l’ho persa è stato come perdere me stesso, una
parte di me è morta con lei e non voglio che accada ancora,
non voglio che Alex soffra tanto quanto ha sofferto Louise».
Abigail rimase per un attimo senza parole, assimilando le informazioni
che aveva appena ricevuto. «Non ti ho mai sentito parlare di
lei».
«No, perché è un ricordo doloroso, ed
è difficile riportarli a galla dopo che si è
fatto di tutto per seppellirli in fondo al cuore».
«Alex non si merita tutto questo».
«Hai ragione».
«Non si merita di essere paragonata a questa
Louise».
Merlino guardò Abigail negli occhi e li trovò
ardenti, quasi feriti.
«Alex è una persona diversa e non farà
la sua stessa fine, non se non lo vorrà. Devi fidarti di
lei, Merlino. Amarti è una sua scelta e se
continuerà a farlo nonostante i rischi tu non puoi fare
nulla per impedirglielo».
«Anche Louise aveva fatto un ragionamento simile»,
le disse, col sorriso più triste del suo repertorio dipinto
sul viso. «Non permetterò che Alex faccia il suo
stesso errore».
Abigail scosse il capo, convinta più che mai della propria
idea, e uscì dalla stanza come avevano fatto Mark, Jessica e
Gabriel prima di lei. Sulla porta si fermò
un’ultima volta per dire: «Il vero amore
è incontrastabile. Sembra una frase da film, lo so, ma
è la verità. Te ne accorgerai».
Merlino sentì il peso di quelle parole comprimergli il petto
ed affondò la testa nel cuscino. Sul comodino
c’era ancora il suo libro di favole e il disegno che Mark gli
aveva regalato, raffigurante un piccolo drago albino, appena uscito dal
suo uovo appuntito. Abbozzò un sorriso e chiuse gli occhi,
abbandonandosi ad un sonno leggero e travagliato dai ricordi di un
passato che gli bruciava ancora sottopelle.
***
Artù
abbandonò la bicicletta contro un panettone giallo ed
entrò di corsa nel Pronto Soccorso, cercando con lo sguardo
la coda fiammeggiante di Cathleen. Aveva il fiatone e nonostante avesse
avuto un attacco appena quella notte, non se ne curò e
continuò a muoversi, scansando pazienti e chiedendo a tutte
le infermiere e i dottori che incrociava se l’avessero vista.
Ad un tratto si imbatté in Alex, la quale per la sorpresa
fece cadere tutte le cartelle cliniche che aveva tra le braccia.
Entrambi si chinarono per raccoglierle frettolosamente e lei gli chiese
dove fosse stato e se avesse letto i suoi messaggi.
«Non ora, Alex. Hai visto Cathleen?».
«No. Hai già provato alla stazione delle
ambulanze?».
«Ma certo, perché
non ci ho pensato subito? Grazie».
Si sollevò e fece per correre fuori, quando sentì
la mano di Alex stringergli il braccio. Si girò e la
guardò negli occhi, confuso.
«Che cosa sta succedendo?», gli domandò,
al contempo preoccupata ed irritata.
«Niente, ho solo bisogno di parlare con Cathleen».
«E io ho bisogno di te,
Artù».
Il re di Camelot sospirò e la degnò di tutta la
propria attenzione, prendendole il volto tra le mani per sussurrarle:
«Sistemerò tutto, te lo prometto. Ti fidi di
me?».
Alex annuì, anche se con fare sconsolato, e Artù
sorrise dolcemente prima di posarle un bacio sulla frangetta. Si
allontanò senza interrompere il contatto visivo, ma fu
costretto a farlo quando picchiò contro una macchinetta del
caffè. Scorse un sorriso divertito sulle labbra di Alex e
quello gli bastò. Più tranquillo, le diede le
spalle e riprese a correre.
«Cathleen!», gridò a squarciagola di
fronte al garage delle ambulanze. «Cathleen, ci
sei?».
Il paramedico saltò giù da una delle ambulanze in
sosta, pulendosi gli angoli della bocca con un tovagliolo di carta, e
lo guardò quasi terrorizzata. «Che
c’è? Ti senti male?».
«No, sto bene. Scusami, non volevo spaventarti».
Si portò una mano sul petto e sospirò sollevata,
per poi lanciargli un’occhiata truce.
«Perché urlavi in quel modo?».
«Devo parlarti».
Cathleen lo fissò per una dozzina di secondi, cercando di
intuire quale fosse la causa di tutta quella agitazione, e quando non
ci riuscì indicò l’ambulanza con un
cenno del capo. Artù la seguì
all’interno del veicolo, occupando il sedile accanto a quello
del guidatore, e la guardò mentre prendeva un sorso di
Coca-Cola e chiudeva ciò che rimaneva del suo panino kebab
nella sacchetto.
«Avanti, sputa il rospo».
Artù tirò fuori dalla tasca della felpa
l’anello col sigillo reale ed iniziò a rigirarselo
tra le dita, nervosamente.
«So che ci conosciamo da poco e che il mio istinto raramente
mi ha fatto vedere le persone che mi stavano intorno per
com’erano davvero, ma sento di potermi fidare di te.
Posso?».
Cathleen sorrise, nonostante il rossore che aveva preso possesso delle
sue guance, e ad Artù bastò come risposta.
«Se tu fossi a conoscenza di un segreto che potrebbe far male
alle persone che ami e che allo stesso tempo è un segreto
che loro meritano di sapere e che probabilmente potrebbe aiutarle a
capire, ad accettare la situazione in cui si trovano… tu
glielo diresti oppure no?».
Cathleen sbatté le palpebre un paio di volte, metabolizzando
l’arduo quesito che le aveva appena posto. Quindi
sospirò e si strinse nelle spalle, dicendo: «Credo
che bisognerebbe sempre essere onesti con le persone che si amano, ma
anche con se stessi: il fatto che tu abbia mantenuto il segreto
è perché non vuoi fare del male a loro o
perché non ne vuoi fare a te stesso?».
Lanciò un’occhiata all’anello di
Artù e il re fece lo stesso, certo più che mai
della sua risposta.
«I segreti hanno rovinato la mia famiglia, l’hanno
letteralmente fatta a pezzi; non posso permettere che accada una
seconda volta. Forse mi odieranno, ma non m’importa: loro
devono sapere la verità».
«Bene allora», esclamò una Cathleen
sorridente. «Sai cosa devi fare».
«Grazie, Ginevra». Si pietrificò con la
mano infilata nella maniglia della grande portiera. «Cathleen.
Grazie, Cathleen».
Artù saltò giù
dall’ambulanza e senza più guardarsi indietro
corse di nuovo verso il pronto soccorso, con l’anello stretto
in pugno.
Cathleen si guardò intorno nell’abitacolo
semi-buio e sospirò tristemente, poi finì il
proprio pranzo come se quella breve chiacchierata non fosse mai
avvenuta.
***
«Alex!
Finalmente ti ho trovata!».
La ragazza trasalì e si voltò, trovando
Artù chinò sulle ginocchia, il respiro corto e
rantolante. Non un buon segno. Lo raggiunse e si infilò un
suo braccio tra le spalle per farlo sdraiare sulla panchina in mezzo
agli armadietti, con la testa posata sulle proprie gambe.
«Respiri lenti e profondi. Ecco, così. Sai, ho
pensato che potrei riuscire a farti fare una TAC».
«Una che cosa?», le
domandò, continuando ad inspirare ed espirare come gli aveva
suggerito, dato che stava lentamente dando i suoi frutti.
«Si tratta di un esame costoso e se quello che ho appena
scoperto è vero sarà ancora più
difficile ottenere l’autorizzazione per effettuarlo. Di certo
esaurirei tutti i favori che ho accumulato in quasi quattro anni di
lavoro, ma ne varrebbe la pena».
«È vero, per la famiglia si è disposti
a tutto».
Alex abbassò gli occhi su di lui e senza nemmeno rendersene
conto gli spostò delle ciocche di capelli biondi dalla
fronte, teneramente. «Famiglia? Io ti
voglio bene, Artù, ma credo che tu stia ingigantendo un
po’ le cose».
«No», mormorò, scuotendo il capo con un
mezzo sorriso. Aprì il pugno destro e le mostrò
l’anello, riprendendo: «Meriti di sapere tutta la
verità».
L’infermiera fissò il drago disegnato sulla parte
piatta dell’anello: sembrava una specie di sigillo, il
sigillo della famiglia Pendragon. Le parole di sua madre le
attraversarono di nuovo la mente, facendola rabbrividire: «Verrà
il giorno in cui Avalon aprirà i propri cancelli per far
tornare sulla Terra il nostro antenato più
importante».
«Non è un caso che ci fossi tu al lago, quella
sera».
Alex avrebbe voluto dire ad Artù di smetterla, di stare di
zitto, di non rendere ancora più incasinata la situazione in
cui si trovava, ma aveva anche un disperato bisogno di sapere, di
capire perché fosse toccato a lei e perché si
fosse sempre sentita incompleta, come se le fosse sempre mancata una
parte fondamentale di sé.
«Non è un caso che io e te ci somigliamo tanto, se
proviamo questo senso d’appartenenza. In te scorre il mio
sangue, tu sei la mia ultima discendente. Sei davvero
tutto ciò che mi rimane della mia famiglia».
L’infermiera rimase in silenzio per quella che le
sembrò un’infinità, mentre nella sua
mente molti dei tasselli rimasti senza una collocazione trovavano
finalmente posto nella grande trama che col passare dei giorni si
faceva sempre più chiara.
«Merlino», sussurrò. «Merlino
lo sa?».
Artù scosse il capo, prendendole le mani tra le sue e
costringendola a guardarlo negli occhi. «So che cosa stai
pensando. Vuoi andare da lui e dirgli tutto, non è
così?».
«Che domande! Il fatto che io sia una tua discendente cambia
tutto! Essendo una Pendragon, sono nella merda tanto quanto voi due!
Non avrà più scuse per tenermi a distanza!
Lasciami andare, Artù».
Il re si mise faticosamente seduto ed immerse gli occhi blu nei suoi
verdi come le pianure intorno a Camelot. «Prima devi sapere
tutta la verità anche su di lui».
Alex tornò al suo fianco muovendosi meccanicamente, proprio
come un robot, ed ascoltò ciò che aveva da dirle
senza mai interromperlo, venendo a sapere finalmente il segreto che
Merlino aveva tentato in ogni modo di preservare. Ricordava bene le sue
parole: aveva detto che se lei lo fosse venuta a sapere lo avrebbe
ritrovato ripugnante. Ora capiva perché
aveva scelto proprio quella parola. Capiva anche la sua paura, una
paura legittima e più che fondata, ma che su di lui aveva
avuto il tremendo effetto collaterale di annebbiare il suo giudizio,
rendendogli difficile, se non addirittura impossibile, capire quanto
più forte fosse il suo amore.
***
«Merlino?
Merlino, svegliati».
Lo stregone aprì lentamente gli occhi, ma non appena si
accorse che la persona al suo fianco era proprio Artù si
tirò su di scatto, dimentico dei punti che aveva
sull’addome.
«Siete qui, finalmente», gemette, mordendosi
l’interno della guancia. «Dove siete
stato?».
«Per un attimo ho quasi creduto che mi seguissi, sai? Era tua
abitudine farlo, te lo ricordi? Quella volta in cui hai rischiato di
farci ammazzare entrambi dai soldati di Annis…».
«Artù, state divagando. C’è
qualcosa che vi preoccupa?».
Il solo ed unico re chinò il capo, colto sul fatto. Quindi
si voltò per prendere la sedia accanto alla porta e la
trascinò al suo capezzale.
«Freya è viva», esclamò senza
giri di parole e Merlino, spiazzato, non riuscì a capire
subito ciò che volesse dire. Poi, rendendosi conto che
Artù non aveva mai conosciuto il nome della ragazza druida
che a causa di una maledizione si trasformava in una pantera alata, la
stessa ragazza che aveva ferito mortalmente e che era diventata la
custode di Avalon, iniziò a tremare violentemente.
«Sono stato da lei, questa mattina. Ma non è stata
la prima volta. Ricordi quando sono stato portato in Centrale
dall’agente Chandra? Non ero andato a caccia, ero di ritorno
dal lago».
«Questo è… è
impossibile», balbettò Merlino, lasciandosi andare
ad una risatina nervosa. «È da quando siete morto
che provo a mettermi in contatto con lei, l’ho fatto
centinaia di volte, e non ho mai ricevuto risposta».
«Non so perché l’abbia fatto»,
rispose Artù, serissimo. «Quello che so
è che mi ha rivelato il motivo per cui sono risorto: la
magia sta morendo. Nonostante tutti i loro sforzi, i loro
piani… questo mondo sta collassando».
«I loro piani? Di che cosa state
parlando?».
Artù gli raccontò tutto, proprio come Freya aveva
fatto con lui.
Gli raccontò che il re di Camelot era sempre stato solo un
mezzo dei guardiani della magia, un mezzo perché essa
tornasse ad essere praticata liberamente ad Albione.
Che quando lui era morto a causa di Mordred avevano fatto in modo che
Ginevra lo volesse sposare: una volta re, pensavano, Merlino avrebbe
potuto cambiare le leggi riguardanti la magia e renderla di nuovo un
dono, anziché una maledizione.
Che quando Merlino aveva rinunciato al trono avevano atteso in
silenzio, nelle tenebre, che la guerra degli altri regni contro Camelot
infuriasse, che essa togliesse allo stregone tutto quello che aveva e
che amava e che questo lo portasse a cercare vendetta.
Che quando Merlino invece aveva rinnegato la magia, avevano influenzato
le donne intorno a lui perché si innamorassero e volessero
dei figli da lui, figli che avrebbero ereditato i suoi poteri magici e
avrebbero potuto diffondere la magia al posto suo.
Che quando nemmeno questo aveva funzionato, avevano finalmente giocato
il loro asso nella manica, l’asso che Kilgharrah aveva avuto
il buon senso di tenere da parte come ultima risorsa: il ritorno di
Artù Pendragon.
Merlino sentiva il vuoto che aveva dentro allargarsi sempre di
più, scavando una voragine incolmabile, mentre la rabbia gli
faceva tremare la vista e gli incendiava il sangue nelle vene come se
si trattasse di benzina. Sentiva la potenza della magia premere contro
le barriere che aveva creato, la stessa magia responsabile della morte
di tutti i suoi amici, la sua famiglia.
Le lacrime iniziarono a scivolargli sul viso pallido, inarrestabili, e
non provò nemmeno a nasconderle di fronte ad
Artù, il quale gli posò una mano sulla spalla e
la strinse leggermente, come se questo potesse dargli conforto.
Artù voleva consolarlo, lui che aveva perso la vita, sua
moglie, il suo regno, per un destino che non era nemmeno il suo, ma
quello del suo stupido servitore.
«C’è dell’altro,
Merlino».
Come se tutto questo non fosse abbastanza,
pensò, tirando rumorosamente sul col naso e fissando gli
occhi nei suoi.
«Si tratta di Alexandra».
Lo stregone iniziò a scuotere il capo, stringendo le coperte
tra le dita, e i singhiozzi si fecero più forti, laceranti
sia per il corpo che per l’anima.
«Alexandra è una Pendragon»,
mormorò Artù, alzandosi per sedersi al fianco di
Merlino, posando una mano sul suo capo per accarezzargli quasi
amorevolmente i capelli arruffati. «È stata Freya
a farmi capire che non mi avevi rivelato tutto quello che era accaduto
a Camelot dopo la mia morte. Se Alex era davvero la mia ultima erede,
voleva dire che avevo avuto un figlio e che quel figlio aveva
tramandato il mio sangue. Tutto combacia, Merlino. È per
questo che è stata lei a recuperarmi dal lago; è
per questo che mi sento così legato a lei, protettivo e
responsabile nei suoi confronti».
«Alex non dovrà mai sapere nulla di tutto questo,
lei non…». Merlino respirò
profondamente, cercando di inghiottire il magone che gli bloccava la
gola.
«Se non lo avesse saputo da noi, l’avrebbe saputo
da Freya», intervenne Artù, sospirando.
«Per colpa mia, questa volta».
Merlino lo fissò atterrito, gli occhi spalancati.
«Cosa avete fatto?».
«Questa mattina sono andato da Freya per chiederle
perché Alex fosse in grado di controllare la magia. Lei non
lo sapeva. Ha detto che se noi ci rifiuteremo di compiere il nostro
destino, allora sarà Alex a farlo; che il suo destino
è stato scritto quando si è tuffata nelle acque
di Avalon per aiutarmi».
Lo stregone si portò entrambe le mani alla bocca, soffocando
nuovi e terribili singhiozzi.
Alex, la sua Alex, coinvolta nel loro spietato destino.
Cercò di trovare una soluzione a quell’astruso
problema, ma non riusciva nemmeno a pensare lucidamente, figuriamoci a
pianificare una contromossa per impedire che Alex sapesse. Fu in quel
momento che le parole di Artù lo colpirono come una frustata
sulla schiena – e sapeva di che cosa parlava.
Si levò lentamente le mani dalla bocca e fissò il
re di Camelot. «Se non l’avesse saputo da
noi, l’avrebbe saputo da Freya»,
ripeté le sue parole con voce quasi spiritata.
«Voi gliel’avete già detto».
Artù annuì solennemente. «Era la cosa
giusta da fare».
«No. No, non lo era affatto! Avremmo dovuto decidere insieme!
Forse c’era un’altra possibilità,
forse…».
«Ti sbagli, Merlino. Metterla al corrente della
verità, di tutta la verità,
era l’unico modo per proteggerla veramente».
Il mago strinse i denti e voltò il capo per deviare il suo
sguardo, ma Artù gli prese il mento tra le dita e lo
costrinse a guardarlo di nuovo negli occhi.
«Hai detto che ti senti in colpa per quello che è
successo a Morgana. Hai detto che pensavi che avresti potuto aiutarla a
cambiare il suo destino se le avessi rivelato la tua vera
identità, se le avessi fatto da guida. Non fare lo stesso
errore una seconda volta, Merlino».
«Alex non ha bisogno di una guida, non deve imparare a
controllare le sue doti! Deve dimenticarsene!».
«È troppo tardi, ormai».
«Cosa state dicendo? Artù, voi
non…», si interruppe bruscamente, vedendo la porta
aprirsi e mostrare una Alex con gli occhi lucidi e gonfi di pianto,
l’anello col sigillo reale dei Pendragon stretto tra le dita.
«So tutto, Merlino». Si avvicinò
lentamente al suo letto e gli sfiorò la mano, abbozzando un
sorriso. «È tutto okay, davvero».
Lo stregone si voltò verso Artù, sconvolto e
furioso come poche volte lo era stato nella sua vita.
«Era il mio segreto», disse tra
i denti. «Come avete potuto farmi questo?».
«Sono tuo amico», rispose, e nonostante Merlino
avrebbe dovuto rimanerne colpito – lo ammetteva di rado,
quasi mai a dire il vero – la rabbia che gli sfigurava
persino il volto non glielo permise.
«Andate via. Tutti e due, fuori».
«Merlino…», provò a
tranquillizzarlo Alex, prendendogli una mano tra le sue, ma lui la
ritrasse bruscamente e la guardò con astio.
«Ho detto andate via!», ruggì
nuovamente, proprio come un animale ferito.
Un paio di infermiere che passavano di lì si fermarono di
fronte alla porta e una di loro chiese timidamente: «Va tutto
bene?».
Alex accennò un sorriso. «Sì,
è tutto a posto. Scusateci».
Le due non si allontanarono: aspettarono che Alex e Artù
uscissero dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
«Ha solo bisogno di un po’ di tempo», la
rassicurò Artù, massaggiandole una spalla.
«Gli passerà».
L’infermiera annuì col capo, senza guardarlo negli
occhi. «Sarà meglio che torni al
lavoro».
Aveva fatto solo qualche passo, quando tornò indietro e gli
posò sul palmo della mano l’anello col sigillo
reale.
«Ho bisogno di un po’ di tempo anch’io,
perdonami».
Artù la guardò andare via in silenzio, senza
sapere con certezza se avesse preso la decisione giusta. Solo il tempo
gliel’avrebbe fatto capire.
***
Abigail
trovò Mark nella sala comune, di fronte ai disegni, alle
foto e alle frasi che i bambini, insieme ad Alex e ad altre infermiere
del reparto, avevano incollato sul muro in memoria di Steve. Non
c’era un vero proprio ordine nella disposizione: le piaceva
pensare che fosse la rappresentazione della confusione che
l’improvvisa e dolorosa scomparsa di quel bambino sempre
felice e sorridente aveva lasciato nei loro cuori.
«Ehi».
Mark la guardò con la coda dell’occhio, sbuffando
lievemente. «Non ho voglia di parlare».
«Bene, perché non ce n’è
bisogno. Dobbiamo organizzare una festa per Alex e ho bisogno del tuo
aiuto».
Quella volta il ragazzino si voltò verso di lei, guardandola
allibita. «Una festa? Sei impazzita?».
Abigail roteò gli occhi al cielo. «Non
c’è nulla da festeggiare, lo so, ma…
dobbiamo dimostrare ad Alex che le vogliamo bene e saremo sempre qui
per lei».
«Fino a quando non moriremo», mormorò e
Abigail sospirò affranta, appoggiandosi allo schienale della
propria sedia a rotelle.
«Mi viene voglia di prenderti a schiaffi quando fai
così».
«Forse dovresti. Sai, ho fatto una promessa ad Alex, per
Steve, ma continuo ad infrangerla. È solo che…
non ce la faccio a non pensare al peggio, a non demoralizzarmi.
È il mio destino, non vedo perché pretendere che
non lo sia».
Abigail lo afferrò per il colletto della maglia e
posò le labbra sulle sue, in un bacio a stampo che
cristallizzò il tempo intorno a loro. Quando si
scostò, Mark rimase ancora ad occhi chiusi, come se pensasse
che quello fosse stato solo un sogno e non volesse in nessun modo
svegliarsi.
«Non sei solo», sussurrò la ragazzina,
rossa come un peperone. Dopotutto era stato il suo primo bacio.
«Se hai paura… non devi far altro che
dirlo».
In quel momento Mark aprì gli occhi ed incontrò
quelli di Abby, neri e lucenti.
«Che cosa stiamo aspettando? Abbiamo una festa da
organizzare».
Abigail rise e ruotò la propria carrozzina per andare a
chiamare gli altri bambini del reparto.
***
Era
tutto troppo, decisamente troppo, e l’unica cosa che voleva
fare era cadere a faccia in giù sul letto e spegnere il
cervello per l’intero pomeriggio. Ma aveva un ultimo dovere
da compiere, una promessa che aveva fatto a se stessa e che doveva
mantenere ad ogni costo.
Respirò profondamente e strinse più forte la
tracolla della borsa mentre le porte dell’ascensore si
aprivano sul corridoio principale del quarto piano: il reparto di
oncologia infantile.
Vi entrò sentendosi quasi fuori posto, un’estranea
in quello che avrebbe dovuto essere il suo territorio.
Camminò lentamente, girando la testa a destra e sinistra per
capire quanti bambini avrebbe dovuto salutare. Non si stupì,
quando trovò le prime due stanze vuote. Iniziò
invece a nutrire qualche sospetto quando anche le due camerate
successive le sembrarono abbandonate, e con una certa fretta. Allora
aumentò il passo e si diresse verso la stanza di Abigail, la
quale avrebbe saputo certamente che cosa stava succedendo.
Entrò senza bussare, con lo stomaco –
desolatamente vuoto – contratto dalla preoccupazione, e
strabuzzò gli occhi quando trovò Mark nel bel
mezzo della stanza, con delle grosse cuffie sulle orecchie e la testa
che faceva su e giù a ritmo di musica. Lo raggiunse e gli
posò le mani sulle spalle, ma il ragazzino non fece una
piega: era come se sapesse che stava arrivando e la stesse aspettando.
«Ciao», la salutò con un sorriso fin
troppo largo per essere rassicurante.
«Che cosa diavolo state facendo?».
Mark corrugò la fronte. «Ti riferisci al fatto che
sono scomparsi tutti? Già, anche io me lo stavo
chiedendo».
«Non ho proprio voglia di giocare»,
sbuffò, incrociando le braccia al petto.
«Perciò facciamola breve e dimmi che cosa sta
succedendo».
«Tempo al tempo, Alex. Andiamo».
L’infermiera non poté far altro che seguirlo lungo
il corridoio, fino alla sala comune. Non aveva mai visto le porte
chiuse e quella, oltre al cartello con la scritta “Do Not
Disturb” a caratteri cubitali, fu l’ennesima
conferma che doveva aspettarsi di tutto.
«So che questo non c’entra nulla, ma Abby mi ha
baciato».
Alex abbassò di scatto gli occhi su Mark, non credendo alle
proprie orecchie. Aprì la bocca per domandargli quando,
dove, come e perché, ma il ragazzino sogghignò e
spalancò le porte della sala comune, gridando insieme a
tutti gli altri bambini: «Sorpresa!».
L’infermiera sbatté più volte le
palpebre, disorientata. La sala comune si era riempita di palloncini
colorati ed era stato persino allestito una specie di buffet, con
bibite gassate, succhi di frutta, patatine e un vassoio di muffin che
non potevano che provenire dalla caffetteria della signora Begum.
Cathleen era seduta proprio accanto al banchetto, con in mano un
dolcetto al cioccolato, e dalla sua faccia compiaciuta doveva essere
stata lei a dare una mano ai bambini.
Alex fu quasi sul punto di lanciarle un’occhiata di
rimprovero, quando si accorse che aveva la vista appannata dalle
lacrime e non riusciva a leggere ciò che i bambini avevano
scritto sui cartoncini colorati che tenevano tra le mani per formare
una frase. Si passò le dita sotto gli occhi, assordata dai
fischi e dagli applausi dei suoi ex colleghi di reparto, e si
lasciò andare ad una breve risata.
«Era questo il vostro intento, farmi commuovere»,
mormorò, posando distrattamente la mano sulla bandana di
Mark per poi avvicinarsi al semicerchio di carrozzine di fronte a lei.
«Buona fortuna Alex», lesse ad
alta voce, sorridendo teneramente. «Grazie, siete davvero dei
tesori. Non so come farò senza di
voi…». Chinò il capo per nascondere le
lacrime e tirò su col naso con una mano alla bocca.
Abigail si avvicinò a lei e le diede un fazzolettino di
carta. «Saremo qui, per ogni cosa, e aspetteremo il tuo
ritorno. Perché ritornerai, vero?».
Alex si chinò di fronte a lei e, facendole un buffetto sulla
guancia, sussurrò: «Farò qualsiasi
cosa, te lo prometto».
Quindi si alzò e con una mano sulla spalla di Abby
esclamò, rivolta a tutti i presenti: «Vi ringrazio
di cuore per tutto questo e… mi dispiace di non aver avuto
il coraggio di dirvelo prima. A proposito, come l’avete
saputo?».
«Pff, secondo te?», domandò Cathleen dal
fondo della sala, con la bocca piena e tante piccole briciole di muffin
sull’uniforme da paramedico.
«Ce l’ha detto Merlino, stamattina»,
disse Mark alle sue spalle.
E Abigail aggiunse: «Sapeva che ti saresti sentita a disagio
ad affrontare l’argomento, quindi… ha voluto
levarti la parte difficile».
Alex annuì, provando una fitta di dolore al ricordo del suo
sguardo ferito ed arrabbiato e delle sue parole venate
d’odio. Eppure continuava a starle accanto, ad aiutarla, in
un modo o nell’altro. L’aveva sempre fatto. «Assicuratevi
che abbia un muffin ai mirtilli, sono i suoi preferiti».
Cathleen sollevò il pollice, annuendo col capo mentre
deglutiva e prendeva il secondo dolcetto di fila. Scorgendo le occhiate
di Mark, Abigail e Alex, si giustificò dicendo:
«Li adoro! Ma questo è l’ultimo,
giuro».
Scoppiarono tutti a ridere, anche Alex, ignorando il vuoto che sentiva
nel petto e la profonda convinzione che non sarebbe mai riuscita ad
essere veramente felice senza il ragazzo che amava.
***
Stava
finendo di compilare una multa per divieto di sosta, quando il
cellulare iniziò a squillarle nella tasca del giubbotto. Se
lo portò all’orecchio e senza nemmeno salutare
esclamò irritata: «Finalmente».
«Perdonami, è il primo momento di pausa che riesco
a prendermi. Ci sono novità?».
«Non hai letto il mio messaggio?».
«No. Che diceva?».
«Con Merlino è stato un disastro. Non è
stupido, Keith».
«Non l’ho mai pensato, infatti».
«Mi sono persino scusata, ma non ha funzionato. Sospetta
qualcosa, ne sono sicura».
«Ci saranno altre opportunità, non disperare. Per
quanto mi riguarda, invece, sono riuscito a farmi offrire una birra da
Alex. Dobbiamo solo decidere dove e quando. Ti terrò
informata».
«Ottimo. Spero che Merlino cambi idea e mi chiami. Se lo
conosco, si sarà sicuramente messo in dubbio e
vorrà perlomeno dei chiarimenti».
«E per allora saremo pronti. Ti devo lasciare,
Myra».
«Sì, certo. Ci sentiamo allora».
«Ciao».
Terminò la comunicazione proprio nel momento in cui il
proprietario dell’auto a cui aveva appena dato quella multa
iniziò a correre verso di lei, sollevando le braccia con
espressione sconsolata.
«Mi dispiace, troppo tardi!», esclamò
chiudendo la propria penna con il pollice e dandogli le spalle per
ritornare all’auto di pattuglia.
Attraverso lo specchietto retrovisore Myra vide l’uomo
imprecare e tirare un calcio contro lo pneumatico della ruota anteriore
destra ed abbozzò un sorriso.
Avviò il motore girando la chiave nel cruscotto e si
allontanò, chiedendosi se si sarebbe sentita così
soddisfatta anche quando avrebbe visto Merlino disperarsi nello stesso
modo o forse addirittura di più. Perché ormai
anche per lui era troppo tardi: aveva rifiutato il suo amore una volta
ed era troppo tardi per una seconda chance; troppo tardi
perché riuscisse a dimenticare l’odio e il
desiderio di vendetta che le avvelenavano corpo e anima.
FINE PRIMA PARTE
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Capitolo 16 *** 16. A lesson in vegeance – Part I ***
Ed così che, dopo 1 anno e 7 mesi e vari annunci, io ritorno
a concludere questa storia su Merlin.
Non so bene che cosa dire, perché il tempo trascorso
è veramente tanto e mi dispiace tantissimo per chi seguiva
con passione ogni capitolo. Spero soltanto che ci sia ancora qualcuno e
che ciò che leggerete sia valso tutta l'attesa.
Di seguito un piccolo recap per chi giustamente
non ricorda nulla dei 15 capitoli precedenti:
Merlino è un
essere immortale in attesa del ritorno del solo ed unico Re,
Artù Pendragon, e che dopo aver rinnegato la magia per via
di grandi delusioni, nel corso dei secoli si è sempre
sforzato di apparire mortale, non senza qualche difficoltà.
Della sua ultima vita fa
parte Alex - all'anagrafe Alexandra Greenwood e di professione
infermiera di oncologia infantile - la quale è perdutamente
innamorata di lui (e un po' meno di tutti i suoi segreti).
Merlino è
restio a ricambiare i suoi sentimenti e le cose si complicano
ulteriormente quando è proprio lei a ripescare
Artù da Avalon.
Nasconderle la
verità è quasi impossibile, ancor prima che Freya
- custode di Avalon e vecchia fiamma di Merlino - riveli che in
realtà lei è l'ultima discendente del leggendario
sovrano e che, come se non bastasse, è in grado di assorbire
la magia dalle ultime fonti disponibili (Merlino è una di
queste) e di riutilizzarla.
Dopo varie disavventure,
tra cui i tentativi di Artù di ambientarsi nel ventunesimo
secolo e di capire il vero motivo per cui i custodi della magia lo
hanno riportato in vita, i nostri si rendono conto che i loro destini
sono intrecciati per un unico scopo: riportare la magia nel mondo e
salvarlo così dall'autodistruzione. Facile, no?
Buona lettura, alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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INIZIO SECONDA PARTE
16. A lesson in vegeance
– Part I
«Tesoro, che
cosa succede?».
Alex continuò a girare pigramente il cucchiaino nella sua
tazza di tè fino a quando non si accorse dello sguardo
insistente della signora Begum, ferma di fronte a lei.
«Parlava con me?», domandò.
La donna si lanciò sulla spalla destra lo straccio con cui
stava asciugando le stoviglie e si appoggiò accanto al
registratore di cassa, una mano sul fianco e le sopracciglia inarcate.
«È da un po’ che hai quella
faccia», esclamò la signora Begum. «Sei
triste, distratta… come se qualcuno ti avesse strappato la
voglia di vivere».
L’infermiera abbozzò un sorriso.
«Addirittura?».
«Ti dico quello che vedo».
«Beh… ho diverse cose per la testa,
sì».
«Ne vuoi parlare?».
«No, ma grazie per l’offerta».
Dopotutto non sarebbe stato semplice spiegare alla signora Begum che
era passata ormai una settimana da quando Merlino era stato dimesso
dall’ospedale e che da allora l’aveva a malapena
visto, sempre inavvicinabile ed irreperibile, soprattutto quando sapeva
che lei e Artù si dovevano vedere. Avevano persino cercato
di organizzare una sua visita a sorpresa, ma lo stregone se
l’era subito squagliata senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
Se la signora Begum l’avesse saputo avrebbe pensato ad una
semplice litigata, un qualcosa che col tempo si sarebbe aggiustato da
solo, ma non era affatto così: lei e Merlino non si
parlavano per via del suo segreto, della magia e del fatto che
più lui si era allontanato, più lei si era
avvicinata ad Artù, trascorrendo ore ad ascoltarlo mentre
raccontava del suo passato a Camelot ed iniziando persino
l’addestramento che le aveva proposto – e a cui, in
realtà, non avrebbe potuto dire di no comunque.
L’unica persona con cui avrebbe potuto parlare di tutto
quello che le stava succedendo veramente, di quanto si sentisse sola ed
abbandonata, confusa da quel passato che si era intrecciato
così saldamente al suo presente, era proprio
Artù, ma sarebbe stato alquanto imbarazzante per lei
confessargli quanto Merlino le mancasse e quante lacrime aveva
già versato a causa di quell’amore ancora una
volta a senso unico.
«Si tratta dell’ospedale, non è
così?».
Proprio quando si era finalmente decisa a portarsi alla bocca la
seconda forchettata di torta di mele, a causa di quella domanda la
posò di nuovo sul piatto.
«Anche, ma… lei che cosa ne sa, di
preciso?».
«Che è da tempo non riceve più
abbastanza fondi e che presto il Consiglio d’Amministrazione
si troverà costretto a dover trasferire alcuni bambini in
altri ospedali».
Alex scosse il capo, rivolgendole un’occhiata sconcertata.
«Che cosa?», chiese la signora Begum, sollevando le
mani in segno di innocenza.
«Lei e Cathleen potreste mettervi in affari: siete sempre al
posto giusto quando si tratta di captare informazioni che non vi
riguardano».
«Stai dicendo che mi piace origliare? Piccola insolente, se
ti prendo!».
Alex rise, scostando il viso perché la donna non le
stringesse il naso tra le dita tozze e sempre profumate di zucchero.
«Ad ogni modo, sono molto preoccupata. Non so davvero che
cosa farei, se il reparto di oncologia dovesse chiudere».
«Se solo Dio buttasse un occhio sul nostro piccolo paesino,
di tanto in tanto!», esclamò la donna,
sistemandosi la fascia che conteneva i suoi voluminosi capelli castani.
Quindi le posò una mano sulla sua e le sorrise
amorevolmente: «Le cose miglioreranno, vedrai. Soprattutto se
mangi la tua torta».
Alex la ringraziò con un sorriso e la guardò
sparire dietro la porta della cucina.
Finalmente si portò alla bocca la forchettata di torta alle
mele, ma rischiò di andarle di traverso quando
sentì la giornalista TV lanciare un servizio riguardante la
cena di gala organizzata per raccogliere fondi per numerosi ospedali
con reparti oncologici.
«Il telecomando!». Saltò giù
dallo sgabello e andò incontro al nuovo ragazzo che la
signora Begum aveva assunto come sostituto di Merlino, forse
addirittura più impacciato ed imbranato di lui.
«Alza il volume, è importante!».
Il nuovo cameriere si dimenticò totalmente del signore
anziano a cui stava prendendo l’ordinazione e corse dietro il
bancone per fare ciò che quell’isterica ragazza
gli aveva ordinato.
Alex non lo ringraziò nemmeno, troppo concentrata a
catturare ogni parola e fotogramma del servizio di gossip: « La settimana prossima,
precisamente giovedì 17 aprile, il Principe William
parteciperà all’annuale raccolta fondi per aiutare
gli ospedali che si impegnano continuamente nella ricerca e nella cura
dei pazienti malati di cancro. La cena di beneficienza si
terrà al Castello di Windsor e vi parteciperanno molte
personalità influenti, tra cui anche celebrità
del cinema e della musica. Alcuni nomi: Helena Bonham Carter, Benedict
Cumberbatch e Taylor Swift. Visitando il sito Internet…».
Alex smise di ascoltare e diede le spalle alla TV, incrociando lo
sguardo ansioso del cameriere. Aveva smesso di respirare e si era messo
sull’attenti, come in attesa del prossimo ordine, ma
l’infermiera scosse rapidamente il capo e tornò al
bancone per tirare fuori dalla borsa il portafoglio, chiamando a gran
voce la signora Begum.
«E adesso che cosa succede?», le domandò
preoccupata, uscendo dalla cucina con le mani ancora sporche
d’impasto.
«Devo scappare. Pago il mio tè e la mia torta, ma
potrebbe mettermela in un sacchetto insieme ad una fetta di crostata
all’albicocca? Altrimenti chi lo sente
Artù…».
La signora Begum fece un cenno col capo al ragazzo ancora fermo dietro
di lei e lui eseguì senza proferir parola.
«Tu e quell’Artù state legando parecchio
o mi sbaglio?».
«Stiamo imparando ad apprezzarci a vicenda»,
rispose frettolosamente Alex, ignorando l’occhiolino che la
donna le aveva rivolto.
«Quant’è?».
«Sei e cinquanta».
Posò sul bancone una banconota da dieci sterline ed
afferrò il pacchetto che il nuovo cameriere –
Jake, a quanto diceva il cartellino – le stava porgendo con
cura.
«Tieni il resto. A presto signora Begum, grazie di
tutto!».
Schizzò fuori dalla caffetteria seguita dallo scampanellio
della porta ed imprecò quando non riuscì a
trovare subito le chiavi dell’auto nell’enorme
borsa. Quando finalmente impugnò il telecomando,
aprì la portiera e senza farci troppa attenzione
incastrò il sacchetto con le due fette di torta nel vano
porta oggetti, mentre con l’altra mano scorreva la rubrica
sul cellulare alla ricerca di un numero in particolare.
«E dai, rispondi», mormorò, girandosi
nervosamente una ciocca di capelli tra le dita.
Partì la segreteria telefonica e Alex fece per riattaccare,
ma poi ci ripensò. Aveva fatto una promessa ad Abigail, una
settimana prima, e non l’aveva dimenticata; prima
però doveva fare in modo di avere ancora un reparto
oncologico in cui tornare.
«Ciao Keith, sono io, Alex. Ehm… Ti ricordi la
birra che ti dovevo? Che ne dici di riscuoterla tipo questa sera? Fammi
sapere. Ciao».
Respirò profondamente, sentendosi tanto agitata quanto in
colpa, ed avviò il motore dell’auto. Era
già in ritardo e Artù non gliel’avrebbe
fatta passare liscia, ma era sicura che sarebbe riuscita ad ignorarlo:
la folle idea che le ronzava nella testa era decisamente più
importante di qualsiasi sua ramanzina su come il Codice dei Cavalieri
fosse una cosa seria.
Magari Dio non avrebbe buttato l’occhio sul loro piccolo
paesino, ma se c’era anche una sola piccola
possibilità che il Duca di Cambridge lo facesse allora
doveva tentare.
«No, devo riuscirci! Ci sarà anche Benedict
Cumberbatch!», urlò, partendo a tutto gas.
***
Era stato stupido da parte sua uscire dall’ospedale prima che
lo dimettessero, ma aveva imparato la lezione e dopo solo un paio
d’ore si era ripresentato al Pronto Soccorso, senza
rispondere a nessuna delle insistenti domande dei medici e delle
infermiere.
Si era vestito frettolosamente, tremando ancora per lo sconvolgimento e
la rabbia, ed era uscito dalla finestra, sentendo i punti
sull’addome tirare e bruciare. Quel dolore però
era sopportabile, quasi piacevole in confronto a quello che gli
stringeva il cuore in una morsa. In effetti quella sofferenza fisica
era stata l’unica cosa che gli aveva fatto capire di essere
ancora vivo, il motivo per cui non era crollato in mille pezzi e la
spinta per continuare a camminare verso il lago.
Salì
sull’instabile barchetta abbandonata sulla sponda est di
Avalon e dopo aver remato faticosamente per una ventina di metri
chiamò Freya a gran voce.
«So che ci
sei! Artù mi ha detto tutto!».
L’acqua sotto
di lui si increspò fino a mostrare l’immagine di
Freya, uguale a millequattrocento anni prima, esattamente come se la
ricordava. Fu l’ennesimo colpo al cuore, soprattutto dopo
aver saputo dal suo re quello che lei e altri custodi della magia
avevano architettato, come avevano rovinato la sua vita e sacrificato
quella di tutte le persone a cui voleva bene perché erano
considerate solo pedine sulla grande scacchiera del suo destino.
«Merlino…»,
mormorò la dama del lago, sorridendo con malinconia.
«Ho saputo che sei stato ferito. Mi dispiace molto. Lascia
che ti aiuti».
«Non voglio il
tuo aiuto. Ho abbandonato la magia, dovresti saperlo»,
rispose seccato, digrignando i denti. «Come la magia ha
abbandonato me quando ne avevo bisogno. Non mi importa che vi siate
messi a giocare col mio destino, è sempre stato
così, ma farlo con le vite delle persone che mi stavano
intorno, come se non fossero importanti… Non vi
perdonerò mai per questo».
«Merlino, il
nostro obiettivo è proteggere questo mondo, non importa a
quale costo. Tu sei l’unica nostra speranza, e se vieni
descritto come il più grande mago di tutti i tempi
c’è un motivo».
«È
evidente che quello che è sempre stato detto su di me
è sbagliato. Non sono più il ragazzo di una
volta, Freya, come tu non sei la ragazza di cui mi sono
innamorato».
Ricordava il loro primo
incontro come se fosse stato il giorno prima, ricordava la sua paura e
le sue lacrime, ricordava il sorriso che le era comparso sul viso
quando aveva usato la magia per far colpo su di lei e le aveva donato
quella rosa anziché la fragola che aveva chiesto.
Ricordava il momento in
cui il destino gliel’aveva strappata via, togliendole la vita
mentre era tra le sue braccia, e il funerale che aveva celebrato per
lei. Era stato lui a portarla sulla riva di quel lago, era stato lui a
spingere la sua barca funeraria sulla superficie piatta su cui si
riflettevano le montagne che le ricordavano casa, era stato lui a
creare ciò che poi era diventata: prima un’alleata
fondamentale, poi una cospiratrice, infine una nemica.
«Se quella
sera tu non fossi scappata, Artù non ti avrebbe mai inferto
quel colpo mortale», disse Merlino con amarezza, gli occhi
opachi immersi nel passato. «Avevamo i nostri progetti,
condividevamo il desiderio di costruirci una vita lontano da Camelot,
lontano da chiunque ci conoscesse, per essere ciò che
eravamo senza la paura di essere braccati».
«Non mi pento
delle mie scelte. Il tuo posto era al fianco di Artù, me lo
sentivo nelle ossa, e se anche fossimo partiti saresti tornato da lui.
Lui era ed è tuttora il tuo destino, la tua metà.
Ed è per questo che è risorto, perché
senza di lui non potresti mai farcela».
«Questo
perché mi sono affezionato a lui! Se non ci fossimo mai
incontrati…».
«La tua vita
sarebbe stata triste e vuota! Non avresti mai conosciuto il valore
dell’amicizia, della lealtà, del
sacrificio… Non avresti mai capito che vivere è
un continuo prendersi cura di ciò che si ha di
più caro! E questo è il compito che ti
è stato assegnato lune prima della tua nascita: devi
prenderti cura e proteggere il mondo, perché è
l’unico che abbiamo!».
Stava per consigliarle
la carriera pubblicitaria nel settore ecologico, specializzandosi
magari sugli slogan per incentivare il risparmio dell’energia
e la raccolta differenziata, ma evitò.
«È
scritto nel mio destino che ci riuscirò? A salvare il mondo,
intendo».
«Questo non
è mai stato predetto. O almeno così mi ha detto
Kilgharrah».
Il Grande Drago. Anche
lui alla fine l’aveva tradito, consegnando Artù a
Freya per tenerlo come asso nella manica piuttosto che aiutarlo a
salvarlo e far sì che Camelot continuasse ad avere il
proprio adorato sovrano.
«Lascia allora
che te lo predica io», esclamò, rigettando i remi
in acqua. «Non lo farò».
«Merlino,
pensa alle conseguenze della tua scelta. Sette miliardi di persone
moriranno, i mari si prosciugheranno, le foreste
scompariranno!».
Lo stregone
cercò di non pensare alle parole della dama mentre remava di
nuovo verso riva, ma continuarono a rimbalzargli nella mente,
nauseandolo. Si disse che quel mondo gli aveva riservato ben poche
gioie e che non gli doveva proprio nulla, eppure il pensiero di essere
la causa della morte dell’intera popolazione mondiale,
compresa la sua Alex, i bambini che tanto adorava, i figli, i nipoti e
i bis-nipoti delle persone che aveva conosciuto durante tutte le sue
vite, questo pensiero gli annodava lo stomaco.
Era anche vero che
nessuno avrebbe mai saputo che era stata colpa sua, nessuno tranne
Artù e Alex, le uniche due persone per cui sarebbe morto
ancora e ancora, nei modi più atroci. Sarebbe più
riuscito a guardarli negli occhi, sapendo di aver deciso
consapevolmente di causare un genocidio mondiale?
Da allora era tornato al lago solo una volta, per urlare a Freya che se
si fosse messa in contatto con Alex gliel’avrebbe fatta
pagare cara. La dama non gli aveva risposto, ma Merlino sapeva che
l’aveva sentito.
Aveva dormito poche ore a notte, il minimo necessario perché
riuscisse a stare in piedi, e aveva evitato con determinazione sia Alex
che Artù, scervellandosi sul crudele destino che gli gravava
sulle spalle. Il re di Camelot gli aveva già detto come la
pensava al riguardo: non era più il loro mondo,
perciò non gli dovevano proprio nulla. Alex
l’avrebbe pensata diversamente, non solo perché si
era rivelata essere una Pendragon ma perché la conosceva e
non avrebbe mai permesso che vite innocenti si spegnessero per il suo
egoismo, il suo orgoglio e il suo desiderio di vendetta. Aveva evitato
di incontrarla perché non voleva veder nascere in lei
l’odio che lui stesso, spesso e volentieri, provava nei
propri confronti.
Quindi aveva vagabondato di qua e di là, facendo tappa nei
luoghi – quelli che erano rimasti, ovviamente – in
cui aveva passato la sua giovinezza, tra cui la caverna di cristallo.
Nel corso dei secoli aveva cercato di proteggerla in ogni modo, anche
se la grotta stessa, pregna della Religione Antica che aveva mantenuto
intatto anche Avalon, si era ben difesa da sola. Almeno fino a quando,
durante la Seconda Guerra Mondiale, una bomba sganciata da un aereo
tedesco non l’aveva quasi distrutta del tutto. Merlino ci
aveva impiegato mesi per togliere i detriti più grandi e
scavarsi un passaggio secondario. Col passare degli anni poi aveva
perfezionato il tutto, costruendo una ripida scalinata illuminata da
luci al neon e mettendo una botola d’entrata e una seconda
porta simile a quella dei caveau delle banche, apribili entrambe
tramite un meccanismo a puzzle che solo lui conosceva.
Anche quella mattina vi si era rifugiato, cercando inutilmente di
consultare i cristalli per conoscere il futuro che sarebbe stato deciso
in base alla sua scelta. Il problema era che non aveva ancora preso una
decisione, nonostante a Freya avesse detto il contrario. I dubbi lo
torturavano di continuo, facendolo arretrare di due passi non appena
avanzava di uno.
Steso sul freddo pavimento di ciò che rimaneva della
caverna, aveva fissato i cristalli incastonati ovunque: sul soffitto,
sulle pareti, sulle rocce appuntite che si ergevano intorno a lui.
Aveva sperato di vedere non il suo futuro, ma quello di Alex, e non
aveva ottenuto nulla. Ancora una volta, la magia lo aveva abbandonato.
Salì sulla sua Pininfarina e lasciò che il vento
gli scompigliasse i capelli e gli asciugasse quelle lacrime che non
aveva più la forza di versare.
Parcheggiò proprio di fianco all’entrata del
Pronto Soccorso ed entrò, incrociando quasi subito lo
sguardo di Cathleen, appoggiata al bancone del ricevimento.
Spostò subito gli occhi, senza rallentare la propria
andatura, ma Cathleen lo raggiunse con una corsetta e lo
afferrò per la spalla.
«Non fare finta di non avermi vista»,
esclamò con una ruga di preoccupazione in mezzo alle
sopracciglia.
«Non ho tempo di parlare, tutto qui».
«Sbagliato. Non vuoi
parlare».
Merlino le rivolse un finto sorriso. «Perspicace, davvero.
Ora se permetti…». Scivolò dalla sua
stretta e si incamminò nuovamente verso
l’ascensore.
Pensò di essersela levata dai piedi, ma all’ultimo
momento si infilò tra le porte che si stavano chiudendo e lo
fissò severamente.
Aspettò che l’ascensore iniziasse a salire prima
di attaccare col suo discorso: «Artù mi ha detto
che è da circa una settimana che non gli rivolgi
più la parola».
Ma certo che
Artù gliel’ha detto.
Non si era informato su come procedesse il loro rapporto – e
non gli interessava, al momento – ma supponeva che stesse
andando bene se Artù le confidava ciò che
succedeva tra le mura di casa. Probabilmente quando stava ore svaccato
sul divano, con un occhio rivolto verso la televisione e
l’altro sulla tastiera del cellulare era con lei che parlava.
«So che io e te non siamo mai andati d’accordo. So
di essere stata una stronza, di non aver accettato il tuo aiuto quando
me l’hai offerto, ma voglio rimediare. Perciò se
hai bisogno di qualcosa, se vuoi parlare…».
«Una cosa che potresti fare ci sarebbe».
Cathleen si sorprese della sua risposta e sgranò un
po’ gli occhi: non pensava sarebbe stato così
facile. «Quale?».
«Starmi lontana. E stai lontana anche da Artù, ti
risparmierà un sacco di casini».
Cathleen aprì la bocca per rispondere, il viso contratto
dall’ira, ma le porte dell’ascensore si aprirono al
quarto piano e Merlino le passò accanto, sbattendo la spalla
contro la sua, per uscirvi.
Quella volta non lo rincorse, ma con i pugni stretti lungo i fianchi
gridò: «Alex è riuscita a fissare la
TAC per Artù. Domani, alle otto e trenta. Ci
sarai?».
Merlino si fermò nel bel mezzo del corridoio e si
voltò lentamente di tre quarti, fissando il paramedico con
una maschera d’impassibilità sul viso.
«Forse».
«Faresti meglio a deciderti: o sei amico di Artù
oppure no».
«Chi ti credi di essere per mettere in dubbio la mia
–?».
«Nessuno», lo interruppe, scrollando le spalle.
Premette un tasto dell’ascensore, ma prima che le porte si
chiudessero nuovamente aggiunse: «Ah, è passata
una poliziotta. Credo che faccia Chandra per cognome. Ti cercava,
diceva che era importante».
Merlino sospirò e si voltò senza dire altro,
sentendo lo sguardo di Cathleen bruciargli tra le scapole.
***
Artù era appena rientrato in cucina per attaccarsi
direttamente al cartone di succo di frutta quando sentì il
campanello suonare con insistenza.
Andò ad aprire passandosi un asciugamano sul viso e sul
collo, guardando dalla spioncino prima di tirare verso di sé
la porta e lasciar entrare un’Alex tesa come una corda di
violino.
«Devo parlare con Merlino», esclamò
senza nemmeno salutarlo.
Artù richiuse la porta e si sistemò
l’asciugamano intorno al collo. «Buona
fortuna».
«Non è in casa, vero? Sai quando torna?».
«Mi prendi in giro?», le urlò contro,
gli occhi fiammeggianti e la mascella contratta per il nervosismo.
«No, certo che no». Alex si passò la
mano sulla fronte e sospirò. «È che
devo parlargli di una cosa molto importante».
«Cioè?».
«Ti ho detto che ho scoperto che l’ospedale non ha
più fondi. Beh, prima mi è venuto in mente un
piano che potrebbe salvare il reparto».
«E hai bisogno dell’aiuto di Merlino?».
«Volevo semplicemente avere il suo parere a
riguardo».
Artù scosse il capo, senza riuscire a trattenere un
sogghigno sarcastico. «Buona fortuna davvero».
Alex fece per lasciare la borsa sul divano quando si ricordò
del sacchetto che teneva in mano. «Ti ho portato una fetta di
crostata all’albicocca della signora Begum».
Il re di Camelot annuì senza nemmeno voltarsi e Alex
sospirò, seguendolo mestamente nel giardino sul retro, dove
lo aiutò a sostituire i manichini da vetrina martoriati.
Quando il nuovo cerchio fu pronto, il re di Camelot sollevò
la spada che aveva infilzato nel terreno e riprese a sferrare fendenti
a destra e manca, amputando braccia e provocando lunghi e profondi
tagli nella plastica, con una ferocia e una rabbia che sembravano non
esaurirsi mai.
«Artù. Artù, guardami!».
Sollevò gli occhi su Alex, ferma di fianco al manichino a
cui aveva appena infilzato il cuore, e vide sul suo viso tanta
apprensione da fargli ingarbugliare lo stomaco.
«Sei stato tu a dirmi che ha bisogno di tempo e che gli
passerà. Non possiamo ancora arrenderci».
Il suo voleva essere solo un incoraggiamento, un modo per fargli capire
che era al suo fianco, ma Artù, poco incline al ragionamento
quel giorno, lo prese come un rimprovero e scattò,
puntandole la spada contro, a pochi centimetri dalla gola. Alex non
arretrò né mostrò paura, un
comportamento che in un’altra occasione l’avrebbe
reso fiero di lei.
«Se vuoi allenarti bene, sai dov’è la
tua armatura. Altrimenti vattene».
L’infermiera assottigliò gli occhi e gli diede le
spalle, di nuovo diretta verso la veranda. Artù
aspettò che fosse sparita alla sua vista e poi
colpì il manichino alla sua destra con un colpo
così ben assestato che gli fece volare via la testa.
Merlino si stava comportando in modo assurdo, tenendolo così
a distanza.
Odiava che fosse lui la causa del suo allontanamento, odiava
l’affetto che provava per lui, odiava che gli mancasse tanto
e odiava il senso di solitudine che gli gravava sul cuore. E tutto
quell’odio sfociava in rabbia, una rabbia cieca che colpiva
chiunque gli stesse intorno, Alex per prima, l’unica che non
l’aveva mai lasciato solo da quando aveva ripreso con
sé l’anello col sigillo reale dei Pendragon.
Ancora una volta aveva preso la decisione sbagliata, non consultando
Merlino prima di dire tutta la verità ad Alex, e aveva
davvero paura che quella volta non potesse rimediare in alcun modo
all’errore commesso. Nessun atto di onore, nessun sacrificio
avrebbero portato Merlino di nuovo da lui. L’unico in grado
di risolvere la situazione era ancora una volta lo stregone: solo lui
poteva trovare la forza di perdonarlo, come aveva fatto tante e tante
altre volte prima d’allora, in silenzio e senza che lui ne
fosse a conoscenza.
Aveva paura di aver raggiunto il punto di non ritorno. Aveva paura di
aver calpestato anche l’ultimo briciolo di rispetto e di
lealtà che Merlino nutriva nei suoi confronti. Aveva paura
di averlo perso per sempre. E quella era la paura peggiore che avesse
mai provato, peggiore persino della paura della morte.
***
Merlino entrò nella Centrale di Polizia e dopo aver superato
una reception deserta bussò alla porta dell’unico
ufficio presente.
«Avanti!».
Si sporse solo con la testa e all’interno, seduti alle loro
scrivanie, vide sia Myra che l’agente Darrell Fisher.
«Merlino», esclamò sorpresa la
poliziotta, addossandosi allo schienale della propria poltrona.
«Che cosa ci fai qui?».
Lo stregone scrollò le spalle. «Ho saputo che sei
venuta a cercarmi all’ospedale».
«Oh, sì». Guardò in direzione
del collega e con un cenno eloquente del capo gli indicò la
porta.
«Capito», borbottò Darrell, prendendo la
sua giacca dall’appendiabiti. Poi porse la mano a Merlino,
presentandosi: «Agente Darrell Fisher. Ho sentito molto
parlare di te».
«Davvero?», domandò senza interesse lo
stregone, stringendogli la mano.
Il poliziotto esitò, per poi rispondere a bassa voce,
deviando il suo sguardo: «No, veramente no». Si
voltò un’ultima volta verso Myra e poi sorrise,
esclamando: «Io vado a prendere dell’altro
caffè. Ci vediamo, Merlino».
Lo stregone non rispose. Quando fu fuori dall’ufficio, si
avvicinò alla scrivania di Myra e si lasciò
cadere sulla poltrona, guardandola negli occhi.
«Spero che la tua visita non sia ancora per i documenti
Artù».
«No, i documenti di Artù sono tutti perfetti.
Certificato di nascita, carta d’identità,
assicurazione sanitaria… ho trovato tutto. Ti cercavo per
un’altra ragione».
«Sarebbe?».
Myra corrugò la fronte, sporgendosi sul tavolo con le
braccia incrociate sul ripiano. «Merlino, ti senti
bene?».
Lo stregone si massaggiò le tempie, improvvisamente colpite
da un atroce mal di testa. «Sì, ho solo bisogno di
un’aspirina», mormorò, cercando di
stirare un sorriso. «Stavi dicendo?».
«Sì, ehm… Volevo chiederti se ti andava
di bere qualcosa, questa sera». Portò subito le
mani avanti, abbassando lo sguardo ed accennando una risata.
«Se non vuoi non fa niente, so che non dovrei essere
così insistente, ma mi piacerebbe davvero rimediare al
casino che ho fatto e non so…».
La sua voce si abbassò fino a scomparire quando Merlino le
strinse una mano, ancora fasciata a causa dei tagli non ancora
totalmente rimarginati. Sollevò cautamente gli occhi e
trovò quelli dello stregone quasi sereni, due frammenti di
cielo incastonati nel suo volto stanco e pallido.
«Avrei dovuto chiamarti», le disse a bassa voce.
«Facciamo alle otto? Vengo a prenderti io».
Myra sorrise incredula, ricambiando la stretta. «Alle otto
è perfetto. Grazie, Merlino. Dopo le cose orribili che ho
detto non meritavo una seconda chance».
«Tutti meritano una seconda chance».
Si alzò continuando a sorridere, chiedendosi
perché gli costasse ancora così tanta fatica.
Perché continuava a dubitare delle sue intenzioni?
Perché si sentiva sull’orlo di una trappola,
ingannato? Era più forte di lui, ma soffocò il
suo istinto, ciò che più e più volte
l’aveva protetto ed aiutato negli ultimi quindici secoli.
«Allora a stasera».
«A stasera», ripeté Myra, annuendo ed
alzandosi a sua volta per avvicinarsi a lui quasi timidamente.
Merlino la osservò e nonostante avesse voluto lasciarsi
andare, sollevò una mano in segno di saluto e si
voltò prima che allungasse le braccia per stringergliele
intorno al collo in un abbraccio rappacificatore.
Camminò rapidamente, senza voltarsi mai indietro: sapeva che
se l’avesse fatto si sarebbe rimangiato tutto, sentendosi
troppo in colpa nei confronti di Alex. Ma forse era quello che gli
serviva per dimenticarla: una distrazione. Forse era quello che a lei
serviva per dimenticarlo: un tradimento.
Si disse che in un modo o nell’altro stava facendo la cosa
giusta e saltò in auto, mettendo rapidamente in moto e
schizzando via ignorando il giovane agente Fisher di ritorno dalla
caffetteria della signora Begum con due bicchieroni di
caffè.
***
Alex non era arrabbiata con Artù. Non ci riusciva, visto che
sapeva esattamente che cosa stava provando in quel momento.
L’assenza di Merlino si faceva ogni giorno più
dolorosa, una voragine sempre più profonda nel suo cuore che
al contrario del suo corpo non era difeso da alcuna armatura.
Rassettando un po’ il disastro che regnava sovrano in cucina
scoprì che in ogni caso, arrabbiatura o meno, Merlino non
trascurava mai il suo migliore amico.
Aveva aperto il frigorifero per sistemare il cartone di succo di frutta
che Artù aveva lasciato accanto al lavello pieno di piatti
da lavare, e aveva sorriso addolcita leggendo i post-it gialli
appiccicati su una serie di vaschette di plastica: contenuto e metodo
di preparazione, ossia l’elettrodomestico in cui doveva
infilarlo – quasi sempre il microonde – e i minuti
necessari. C’erano primi piatti, secondi e contorni di
verdura. Doveva aver speso delle ore ai fornelli per preparare tutto
quanto e questo la convinse ancora di più che non aveva
intenzione di abbandonarli, ma che aveva solo bisogno di un
po’ di tempo per se stesso, per affrontare le sue paure. O
almeno questo era quello che sperava con tutto il cuore.
Quando riuscì a dare una parvenza d’ordine in
cucina, salì al piano di sopra per cambiarsi nella stanza di
Artù. Prese la propria armatura, o almeno quello che il re
era riuscito a recuperarle e che non risultava troppo grande rispetto
al suo fisico minuto, e la indossò: una maglia di ferro che
le arrivava fino alle ginocchia, un usbergo per il petto, due
protezioni per i polsi e un elmo che nonostante fosse il più
piccolo della collezione di Merlino le ballava un po’ in
testa.
Appesantita da tutto quello che aveva addosso, si lasciò
cadere sul letto a baldacchino di Artù. Chiuse gli occhi
concentrandosi sul proprio respiro, ma sentendo il clangore della spada
con cui il biondo continuava ad infilzare quei poveri manichini si fece
coraggio e si risollevò.
Stava per uscire dalla stanza con l’elmo sotto braccio, ma la
coda dell’occhio le cadde sullo scrittoio, in particolare su
una scatoletta metallica che Artù era riuscito a scassinare.
Ne osservò l’esterno, ricordandosi che anche suo
nonno ne aveva una uguale. Sul metallo arrugginito era stato inciso un
nome, James McTrusty, e all’interno trovò alcune
lettere, una catenina d’oro con una piccola croce ed una
fotografia in bianco e nero e dai bordi usurati che ritraeva una bella
ragazza, con i capelli castani acconciati in morbidi boccoli, due occhi
grandi e dolci e un piccolo sorriso, quasi timido. Ebbe come la
sensazione che non avrebbe dovuto vedere quella foto, che non avrebbe
dovuto tenere tra le mani quelle lettere scritte sia nel bel mezzo
della Prima Guerra Mondiale, dallo stesso James per sua figlia, sia
poco prima della Seconda, quella volta per un certo Emrys e firmate
Louise McTrusty.
Alex provò un brivido di freddo scorrendo rapidamente le
parole ormai sbiadite scritte da Louise con una calligrafia ordinata e
svolazzante allo stesso tempo. Diceva ad Emrys che lo amava, ma che non
poteva scappare con lui perché avrebbe voluto dire
arrendersi, ammettere la sconfitta. Lei invece voleva combattere come
aveva fatto suo padre, servire la sua nazione, e l’unica cosa
che sapeva fare era curare i malati. Chiedeva a Emrys di stare con lei,
di aiutarla a fronteggiare il male che si stava per diffondere.
Alex si portò una mano alla bocca per trattenere un
singhiozzo e trasalì quando sentì un rumore alle
sue spalle. Artù, con i capelli appiccicati al viso sudato,
era fermo sulla porta e la osservava.
«Anche Merlino aveva la brutta abitudine di
ficcanasare», le disse quasi con dolcezza. Ed infatti quando
si avvicinò le posò una mano sulla spalla, come
se fosse dispiaciuto per lei. Ma lei non era triste perché
Merlino, o Emrys, come si faceva chiamare allora, aveva amato
un’altra prima di lei; lo era perché aveva amato
un’altra e l’aveva persa. Era la maledizione
dell’essere immortali: vedere le persone care morire, una
dopo l’altra, senza poter fare nulla per impedirlo.
«Ti ha mai parlato di lei?», domandò
cercando di tenere a freno l’emozione che le incrinava la
voce.
Artù scosse il capo. «Non mi ha mai raccontato
nulla di ciò che gli è capitato dopo la fine del
mio regno. Una volta, stupidamente, gli ho chiesto perché
non si fosse mai fatto una famiglia. Credo di averlo capito».
«Non voleva sopravvivere alla donna che amava, ai suoi figli,
ai suoi nipoti…», continuò per lui,
mentre una grande tristezza l’avvolgeva nel suo freddo
abbraccio. Si strinse di più ad Artù, trovando il
suo petto il luogo più accogliente del mondo, nonostante la
sua armatura scomoda ed ingombrante.
«Dev’essersi sentito così triste,
così solo…», mormorò
Artù, posandole le labbra tra i capelli.
«Ma ora non lo è più. Noi due ci saremo
sempre per lui, non è vero?».
Alex sollevò il capo per guardarlo negli occhi e solo il suo
sorriso venato di amarezza le fece capire che entrambi avrebbero voluto
credere a quella menzogna. Gli rivolse uno sguardo implorante: aveva
davvero bisogno di sentirselo dire.
«Sì, noi ci saremo sempre per lui»,
disse Artù, tornando a stringerla forte a sé.
***
«Grazie per il caffè, Darrell».
«Figurati. Ma dove stai andando?».
Myra si voltò verso il collega strabuzzando gli occhi.
«Al bagno. Prova a farmi di nuovo una domanda del genere e ne
pagherai le conseguenze: io non devo rispondere a te di ciò
che faccio».
«Sissignora», borbottò
l’agente Fisher, tornando a battere velocemente sulla
tastiera del proprio computer.
Uscì dall’ufficio e si chiuse nel bagno, dove
prese il cellulare e se lo portò all’orecchio dopo
aver premuto il testo di chiamata rapida.
«Pronto?».
«Ciao Keith. Puoi parlare?».
«Sì. Ci sei riuscita, vero? Lo si capisce dal tuo
tono di voce».
Myra si guardò rapidamente allo specchio: sorrideva come non
faceva da mesi. «Verrà a prendermi alle otto,
questa sera».
«Chiamo subito Alex per confermare. Ci vediamo al pub
allora».
«Già mi immagino la faccia di Merlino quando la
vedrà con te!».
«Sarà un bello spettacolo, poco ma
sicuro».
«Non sto più nella pelle».
Poco dopo, Myra tornò in ufficio e trovò Darrell
accanto alla boccia dell’acqua. Le rivolse un sorriso nervoso
e la poliziotta arricciò il naso, sospettosa, ma fu solo un
momento: aveva molto su cui riflettere e il comportamento di Darrell
non era nemmeno sulla sua lista. Si sedette alla propria scrivania e
riprese a lavorare alle sue scartoffie senza mai smettere di sorridere.
«La visita di Merlino ti ha proprio cambiato la giornata,
eh?», disse l’agente Fisher spezzando il silenzio.
«Non puoi nemmeno immaginare quanto»,
mormorò Myra, battendosi la penna sulle labbra.
Darrell fu scosso da un brutto presentimento, ma non fiatò.
Anzi, abbassò il capo sulla tastiera e non lo
rialzò fino alla fine del turno, meditabondo.
***
Merlino entrò in casa già consapevole che avrebbe
trovato Alex in giardino, con una spada in mano e la visiera
dell’elmo calata sugli occhi.
Non gli faceva piacere che Artù la coinvolgesse nei suoi
allenamenti: solo perché aveva un lontano legame familiare
con i Pendragon non voleva dire per forza che fosse una guerriera e che
dovesse ad ogni costo esporsi ai pericoli che maneggiare armi del
genere comportavano.
Impegnato a cucinare il pranzo e la cena di Artù, quella
mattina non aveva fatto colazione. Così aprì un
armadietto, leggendo di sfuggita il post-it che aveva appiccicato al
barattolo di Nutella – “Un altro buco nella
cintura?” – e tirò fuori una brioche
preconfezionata. L’aprì facendo scoppiare la
plastica e se la portò alla bocca mentre fuori
Artù spiegava ad Alex come il suo braccio dovesse sembrare
il naturale proseguimento della spada. Merlino scosse il capo con
arrendevolezza e buttò l’involucro di plastica nel
cestino, poi salì le scale due gradini per volta.
Entrò in camera di Artù e raccattò i
vestiti sporchi che aveva buttato qua e là sul pavimento e
sui mobili, tra cui sulla sedia dello scrittoio. Lì i suoi
occhi si posarono su una scatoletta metallica che fece saltare un
battito al suo cuore. Accarezzò con le dita il nome inciso
su di essa e poi l’afferrò con decisione,
portandosela con sé in bagno, dove caricò la
lavatrice e poi si sedette sulla tazza del water, in attesa.
Artù doveva averla trovata per caso nella cassapanca in
soffitta e doveva averla presa per curiosità, riuscendo a
rompere il lucchetto ormai arrugginito con cui Merlino
l’aveva chiusa decenni prima.
Aveva di sicuro letto le lettere in essa contenute, aveva visto
l’unica foto che possedeva di Louise e preso tra le mani la
sua collanina. Ma non poteva aver capito tutto ciò che
c’era stato tra di loro, non poteva nemmeno immaginarlo.
«Artù, è un’ora che ci
alleniamo! Facciamo una pausa?».
Merlino, udendo la voce di Alex, si alzò ed aprì
la finestra. Si sedette sul davanzale e guardò gli ultimi
due Pendragon fronteggiarsi in mezzo ad un cerchio di manichini
mutilati.
«Rimettiti l’elmo, decido io quando è il
momento di fare una pausa».
«Sarai anche il mio bis-bis-bis-bis-bis-bis e molti altri
innumerevoli bis nonno, ma non puoi darmi ordini. Ho sete e sono
stanca, quindi faccio una pausa».
Alex si voltò, ma Artù invece di lasciarla andare
riprese la spada con entrambe le mani ed iniziò a correre
verso di lei urlando: «Mai dare le spalle
all’avversario!».
L’infermiera si girò di scatto, ma non ebbe i
riflessi pronti di sollevare la spada per parare il colpo. Merlino
sentì lo stomaco saltargli fino in gola e non
riuscì a controllare la magia che distrusse ogni sua
barriera: con una mano sollevata verso Artù
mormorò poche parole nel linguaggio della Religione Antica e
quando i suoi occhi si tinsero d’oro la spada del re di
Camelot volò via, roteando in aria per una ventina di metri
prima di infilzarsi nella fronte di uno dei manichini ancora in piedi.
Artù guardò esterrefatto la spada, poi Alex.
«Pensavo avessi esaurito la magia assorbita da
Merlino!», urlò.
L’infermiera, pietrificata, scosse il capo bisbigliando:
«Non sono stata io».
«Allora chi…?», iniziò a
chiedere il re, guardandosi intorno. Quando finalmente alzò
il capo, incrociò gli occhi furenti di Merlino, tremante sia
per la rabbia che per la magia che stava disperatamente ricacciando
indietro.
«Non le avrei mai fatto del male!»,
gridò Artù in sua difesa.
«Si chiamano incidenti perché non sono
prevedibili, testa di fagiolo!».
Merlino rientrò, ma prima di chiudere la finestra
sentì il solo ed unico re scoppiare a ridere ed esclamare:
«Non sono mai stato così felice di sentire quel
nomignolo!».
Lo stregone non riuscì a trattenere un sorriso e
tornò a sedersi sulla tazza del water, gli occhi fissi
sull’oblò della lavatrice e la sensazione che la
sua testa fosse proprio così, in quel momento: un cestello
che non smetteva mai di girare, in modalità centrifuga, che
sballottava e mescolava continuamente i suoi pensieri, rendendoli
confusi ed inafferrabili.
Abbassò gli occhi per puro caso e vide una goccia di sangue
sul pavimento chiaro, proprio tra le sue ginocchia. Si
sollevò e si portò le dita al naso, scoprendo che
era da lì che proveniva.
Si alzò velocemente e si guardò allo specchio del
lavandino, scorgendo un rivolo di sangue colargli dalla narice al
mento, sporcandogli persino la maglietta. Si sciacquò con
l’acqua fredda e si tirò via la maglietta sporca,
gettandola nel cesto della biancheria da lavare e ringraziando il cielo
che non fosse Artù a fare il bucato. Chissà come
avrebbe reagito se avesse scoperto dei suoi continui mal di testa e ora
del sangue dal naso. Sicuramente si sarebbe preoccupato, anche
più di lui.
Non gli era mai successa una cosa del genere. Forse perché
prima del ritorno di Artù non aveva più usato la
magia, forse perché se quello che aveva detto Freya era vero
allora il mondo aveva i giorni contati e lui, figlio della terra, del
cielo, dei mari, stava morendo con esso.
***
«Vedi perché le ragazze non potevano essere
cavalieri?».
Un’Alex senza fiato, stesa sull’erba,
sollevò il medio nella sua direzione. Artù
fissò quel gesto senza capirne il significato e si
voltò non appena sentì la porta scorrevole della
veranda scivolare nei cardini: Merlino, con il cesto della biancheria
tra le braccia, era diretto verso i fili su cui stendeva i panni appena
lavati.
Non sapeva che cosa fosse cambiato né perché, e
in fin dei conti non gli importava: quello che contava era che Merlino
gli avesse rivolto di nuovo la parola. E doveva sfruttare il momento,
se voleva che le cose tra loro tornassero quelle di sempre.
«Ehi, Merlino!», urlò nella sua
direzione, infilzando la spada nel terreno ed appoggiandosi al pomolo
dell’elsa con entrambe le mani. «Ti va di farmi da
scudiero ancora una volta? Come ai bei vecchi tempi!».
Merlino gli rivolse un’occhiata scettica e Artù si
umettò le labbra, notando che persino Alex aveva alzato la
testa per guardare il suo patetico tentativo di coinvolgerlo.
Si schiarì la gola e ci ritentò: «E
dai, sarebbe un’iniezione d’incoraggiamento per
Alex vedere che nonostante abbia appena iniziato è pur
sempre più brava di te!».
Merlino sogghignò, allungando il collo oltre la felpa che
stava stendendo. «Ne dubito».
«In che senso?».
«Lasciate perdere Artù, è
meglio».
Il re strinse i denti e dopo aver tirato fuori dal terreno la spada
stese una mano verso Alex, sibilando: «La tua spada,
dammela».
L’infermiera gliela consegnò e nonostante temesse
non fosse una buona idea non proferì verbo ed
osservò il suo antenato dirigersi con passo pesante verso
Merlino.
«Forza, ricordami quanto sei patetico!», gli
urlò prima di lanciare nella sua direzione la spada di Alex.
Artù pensava che l’avrebbe schivata e
l’avrebbe guardato con gli occhi sgranati come se fosse
impazzito, invece l’afferrò senza alcuna
difficoltà e se la fece roteare a destra e a sinistra del
corpo come era solito fare lui. Perciò fu Artù a
spalancare gli occhi per la sorpresa, ma non ebbe il tempo di dire o
fare altro: Merlino gli fu subito addosso, menando fendenti
così veloci e precisi che riuscì a malapena a
pararli.
Dopo un minuto e mezzo di difesa, Artù provò ad
attaccarlo, ma la tecnica con cui Merlino parò il colpo lo
prese così alla sprovvista che mollò la presa
sull’elsa. Abbassò il capo all’ultimo
minuto nello schivare un colpo, ma non riuscì proprio a
deviare il calcio in pieno petto con cui lo stregone lo fece cadere a
terra, trovandosi poi con la punta della spada posata sotto il mento.
«In questi millequattrocento anni ho dovuto imparare a
difendermi senza l’uso della magia», gli
spiegò. «È sempre stato un mondo
crudele, questo. L’ho imparato a mie spese».
Lanciò via la spada e gli porse una mano con
l’abbozzo di un sorriso sul volto. Artù la strinse
e si sollevò, provando vergogna per essere stato battuto dal
suo vecchio servitore ma anche profonda ammirazione per quel ragazzo
imbranato ed ingenuo che con le sue sole forze aveva dovuto imparare a
lottare per sopravvivere e ci era riuscito.
Alex iniziò ad applaudire, lasciandosi andare a qualche
urletto eccitato. Entrambi la guardarono con cipiglio perplesso, poi
Merlino ritornò ai panni da stendere.
«Che cos’ho fatto di sbagliato?», chiese
Alex di fronte allo sguardo ora pieno di rimprovero
dell’antenato. «Ti ha umiliato, è stato
fantastico!».
Artù sbuffò innervosito e mentre si dirigeva
verso la veranda urlò: «Per oggi abbiamo
finito!».
***
Alex respirò profondamente e ad occhi chiusi
bussò alla porta della camera di Merlino. Non udendo alcuna
risposta, disse: «Ehi, posso entrare?».
«Vieni», rispose il mago dopo qualche secondo.
L’infermiera infilò la testa all’interno
e trovò Merlino steso sul letto con un libro tra le mani. Si
chiuse piano la porta alle spalle e si avvicinò al letto
fino a sedersi accanto a lui, all’altezza del suo fianco.
«Avrei bisogno di parlarti», esclamò,
deglutendo a fatica a causa del nodo che aveva messo radici nella sua
gola.
Merlino rispose senza staccare gli occhi dalle pagine del libro:
«Ti ascolto».
Era pur sempre un miglioramento.
«Questa mattina ero dalla signora Begum e ho sentito una
notizia interessante al telegiornale. Ci sarà un evento di
beneficienza la settimana prossima, al Castello di Windsor, per aiutare
gli ospedali con reparti oncologici e laboratori di ricerca. Capisci?
Se potessimo partecipare e rappresentare il nostro ospedale riusciremmo
a raccogliere i fondi sufficienti ad impedire che il reparto
chiuda!».
«E come pensi di riuscirci?», le chiese con le
sopracciglia aggrottate. Finalmente la guardava negli occhi e Alex
rischiò quasi di dimenticarsi quello che voleva dire.
«Beh, innanzitutto devo capire se il nostro ospedale
è nella lista dei beneficiari della raccolta».
«Metti caso che non lo sia – è
l’ipotesi più probabile. Che cosa potresti fare
tu?».
«Potrei provare a parlare col Consiglio
d’Amministrazione e…».
«Credi che funzioni così? Quando si tratta di
beneficienza è chi l’organizza che decide a chi e
in che misura verrà devoluto il ricavato».
Alex posò istintivamente una mano su quella di Merlino,
posata sulla copertina del libro aperto sul suo petto. «Non
posso starmene in disparte e non fare niente. È il mio
reparto, devo almeno provarci».
Merlino si tirò su, appoggiando le spalle contro la testata
del letto, e ritrasse la mano da quella di Alex. «Che cosa
c’entro io in tutto questo?», le chiese abbassando
gli occhi.
«Ho bisogno che tu stia dalla mia parte, come hai sempre
fatto». Sapeva di avere le lacrime agli occhi, ma sorrise
comunque. «Ti ricordi? Sei stato tu ad incoraggiarmi a non
abbandonare la nave quando mi hanno dato il posto in oncologia
anziché al Pronto Soccorso. Mi hai detto di provarci, che
forse avrei cambiato idea».
«Sì, mi ricordo», mormorò.
«È grazie a te se mi sono affezionata tanto a quel
lavoro, se ora è quello che voglio fare per il resto della
mia vita. E non mi arrenderò, perché quel vecchio
inquietante e saggio mi ha detto di non farlo mai».
Merlino strinse gli occhi ed arricciò gli angoli della bocca
nel tentativo di reprimere un sorriso. «In che senso inquietante?».
Alex scoppiò a ridere e dopo aver gettato da parte il libro
abbandonato sul suo petto si chinò su di lui, con
l’orecchio premuto contro quel cuore che batteva da
più di millequattrocento anni e le mani strette sulla sua
felpa.
«Ti amo, Merlino. Non odiarmi per questo», avrebbe
voluto dirgli, ma rimase in silenzio e chiuse gli occhi quando
sentì le mani dello stregone accarezzarle delicatamente la
schiena.
Pioveva a dirotto da
quella notte e Alex l’aveva preso come un cattivo presagio.
Nervosa com’era, non era riuscita a fare colazione quella
mattina e ora lo stomaco le brontolava rumorosamente.
L’avevano
chiamata la mattina precedente, dicendole che c’era un posto
disponibile ed erano intenzionati a farle un colloquio. Aveva quasi
fatto i salti di gioia, piena di speranza, e sua madre con lei.
Trasse un respiro
profondo e scese dall’auto aprendo immediatamente
l’ombrello. Si diresse a passo spedito verso
l’entrata del Pronto Soccorso, ma lo sguardo le cadde sul
vecchio seduto su una delle panchine dall’altro lato della
strada, accanto all’ingresso del parco. Lasciava che la
pioggia gli bagnasse il viso rugoso, i capelli e la lunga barba bianca,
e che gli inzuppasse il cappello di lana e il cappotto logoro.
Non era la prima volta
che lo vedeva. Anche quando era passata di lì per lasciare
il proprio curriculum l’aveva notato, seduto sempre sulla
stessa panchina, intento a fissare qualcosa di fronte a sé
oppure semplicemente immerso nei ricordi.
Si avvicinò
cautamente e si chinò di fronte a lui, muovendogli una mano
davanti agli occhi.
«Che cosa
vuoi, ragazzina?», berciò senza rivolgerle nemmeno
uno sguardo.
Alex rimase a bocca
spalancata, colpita dal suo tono acido. Si portò una mano
sul fianco e con una smorfia sul viso rispose: «Proprio
niente».
«Vai ad
infastidire qualcun altro, allora».
«Io non
infastidisco nessuno!».
«Hai
infastidito me!».
Il vecchio la
guardò negli occhi per la prima volta e Alex ebbe subito
l’istinto di arretrare e fissarsi le scarpe, profondamente a
disagio, ma il suo orgoglio fu più forte e le permise di
sostenere il suo sguardo penetrante, in grado di scavarle
nell’anima.
I suoi occhi,
esattamente come il volto in cui erano infossati, erano occhi da
vecchio, intrisi di ricordi, specialmente ricordi spiacevoli e tristi.
Sembravano aver visto il mondo intero e portarselo sempre dietro,
incatenato dietro quelle iridi azzurre come il cielo.
«Hai coraggio,
ragazzina».
«Non mi chiami
ragazzina ».
Il vecchio le sorrise e
il suo viso non sembrò più tanto minaccioso e
scorbutico, solo piuttosto buffo. Alex ricambiò, traendo un
sospiro di sollievo, e poi fece quello per cui si era avvicinata: si
tirò sulla testa il cappuccio della felpa e gli
consegnò l’ombrello.
«Non posso
accettarlo», esclamò il vecchio quasi con
spavento, prendendole la mano con le sue avvizzite e ricoperte da degli
usurati guanti senza dita.
«Ne ha
più bisogno lei di me, lo prenda. Ora devo proprio
andare».
Alex ritrasse la mano ed
iniziò a correre sotto la pioggia. Era ormai quasi alle
porte scorrevoli del Pronto Soccorso quando si voltò e
trovò gli occhi del vecchio fissi su di lei.
«Mi perdoni,
non mi sono presentata. Io mi chiamo Alexandra Greenwood, ma tutti mi
chiamano Alex».
«Tu puoi
chiamarmi Dragoon».
Alex trattenne a stento
il sorriso che le arricciò gli angoli della bocca. A quel
vecchio mancavano sicuramente un paio di rotelle, ma non poteva fare a
meno di trovarlo simpatico.
***
«Ti fermi qui a cena, Alex?».
«Mi piacerebbe, ma ho già un impegno per questa
sera».
Artù inarcò le sopracciglia, stupito.
«Che tipo di impegno?».
«Non penso ti riguardi», rispose Alex rivolgendogli
un sorriso, sfilandosi la lunga maglia di ferro. Quindi si raccolse i
capelli sulla nuca e si massaggiò le braccia con una smorfia
sul viso, borbottando che le spade del medioevo erano davvero
pesantissime.
«Non mi riguarda? Certo che mi riguarda! Devo per caso
ricordarti che tu sei…».
«Tutto ciò che ti è rimasto della tua
famiglia. No, non ce n’è bisogno, grazie. Ma non
puoi comportarti come un padre geloso, no davvero».
Artù sentì il sangue affluirgli alle guance e
strinse i pugni lungo i fianchi, poi si voltò di scatto
verso Merlino, intento a lucidare con un panno le parti
d’armatura che si era già tolto.
Lo stregone lo guardò confuso per un attimo, il tempo
necessario a capire che volesse il suo sostegno. Scrollando le spalle,
disse: «Alex ha il diritto di fare quello che
vuole».
«Grazie, Merlino», lo ringraziò lei,
abbassando il capo in una specie di inchino.
Artù guardò quei due scambiarsi un fugace sorriso
ed intuì che dovevano aver parlato, buttando giù
uno dei tanti muri che li separavano. Era contento per loro, ma in quel
momento era anche furente: Merlino gli era sempre andato contro e per
una ragione, il suo bene; ora solo perché i sentimenti che
provava per Alex erano di tutt’altra natura prendeva sempre
le sue difese, facendogli fare la figura dell’allocco.
«Sì, molte grazie Merlino»,
berciò, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia a
capotavola.
«Ad ogni modo anche io questa sera ho un impegno»,
aggiunse lo stregone, come se fosse una cosa da niente.
Prima d’allora non li aveva mai informati dei suoi
spostamenti: spariva per ore, senza rispondere né alle
chiamate né ai messaggi, e ritornava agli orari
più impensabili. Era già un passo avanti quindi
che li avesse resi partecipi, ma Artù non riuscì
proprio a trattenersi e domandò, stizzito: «E
nemmeno tu hai intenzione di approfondire
l’argomento?».
Merlino sogghignò, scuotendo il capo.
«Perfetto!», sbuffò e sollevò
le mani per poi sbatterle contro le ginocchia.
«Un’altra serata triste e solitaria!».
Alex, che per un po’ era rimasta in silenzio, col capo chino
e le braccia incrociate al petto, si rianimò di colpo,
sforzandosi persino di fare un sorriso, e gli strinse le braccia
intorno al collo mentre si sedeva sulle sue ginocchia.
«Tu continui a sorprendermi, Artù. Davvero dietro
questa impenetrabile corazza c’è un cuoricino
tenero che ha bisogno di compagnia?». Gli pungolò
il petto con un dito, fino a fargli comparire un debole sorriso sul
volto.
«Porta un po’ di rispetto, ragazzina!»,
la sgridò poi e Alex si fermò subito,
stranamente, gettando un’occhiata di sottecchi a Merlino, il
quale la ricambiò per un attimo.
Artù capì subito di essere il terzo incomodo,
colui che non sapeva e che non avrebbero di certo informato a proposito
di quello che stava succedendo tra loro, ma non appena aprì
bocca per perdere definitivamente le staffe l’infermiera si
voltò verso di lui, gli occhi ad un centimetro dai suoi.
«Potresti andare dai bambini in ospedale! Loro
apprezzerebbero la tua compagnia!».
«Pessima idea», intervenne Merlino. «Sono
passato a salutarli, questa mattina, ma c’era aria di
tempesta: Abby e Mark hanno litigato».
Alex sgranò gli occhi, incredula. «Di nuovo?!
È già la quarta volta questa
settimana!».
«A volte superare il confine tra amicizia e amore
può essere disastroso».
Artù sentì il brivido di freddo che scosse Alex
come se avesse attraversato la sua stessa spina dorsale. Le
passò una mano in mezzo alle scapole, per calmarla e farle
sentire il suo supporto, ma l’infermiera non
calcolò né lui né Merlino e come se
nulla fosse venne fuori con un’altra proposta per la sua
serata.
«Potresti andare da Cathleen, allora».
Artù la fissò, stordito, fino a quando lei non
gli schioccò le dita di fronte al naso.
«Da Cathleen?», domandò, ridacchiando
nervosamente. «Dovrei vederla di persona, faccia a faccia,
dopo…? No, non se ne parla».
Alex sospirò e si alzò dalle sue ginocchia,
restituendogli una leggerezza che pesava più di quanto
pensasse. Era così che si era sentito suo padre –
abbandonato, incapace di tenersi stretto quella parte di lui
– quando da ragazzino si rifiutava di stare sulle sue
ginocchia più del tempo necessario al discorsetto del
giorno, impaziente di correre per il castello ad infastidire ogni
guardia e servitore e passarla sempre liscia?
«Che cosa è successo?»,
domandò un Merlino piuttosto incuriosito.
Mentre Artù rispondeva: «Non ti
riguarda», Alex spiattellò tutto spiegando:
«L’ha accidentalmente chiamata Ginevra».
Lo stregone spalancò la bocca, ma per una buona dozzina di
secondi non riuscì a dare fiato alle parole che gli
passavano per la mente. Quando finalmente ne fu in grado,
balbettò: «Avete chiamato Cathleen…
Ginevra?».
«Grazie tante, Alex», mugugnò
Artù gettandole un’occhiata di rimprovero.
«Ma come è potuto succedere?!», riprese
il mago, rinvigorito. «Non potrebbero essere due persone
più diverse!».
«È successo e basta! Non devo dare spiegazioni
né a te né a nessun altro, chiaro?».
«Io se fossi in lei la vorrei, una spiegazione»,
disse Alex, con le mani posate sui fianchi. «È
così difficile per te aprirti, mostrare le tue debolezze, le
tue cicatrici?».
Il re di Camelot si alzò in piedi, il volto rosso di rabbia,
e tuonò: «Sì, lo è!
Perché in tutta la mia vita non ho fatto altro che fidarmi,
di vedere il buono nelle persone, mentre loro alla prima occasione non
hanno fatto altro che pugnalarmi alle spalle! Solo due persone mi sono
rimaste accanto in ogni circostanza; solo due persone conoscevano chi
ero veramente e io mi fidavo ciecamente di loro: una mi è
stata portata via, l’altra… ho rischiato di
perderla per colpa di quegli stessi segreti che l’hanno fatta
soffrire così tanto e per così tanto
tempo».
Non ebbe bisogno di alzare lo sguardo per percepire quello di Merlino
su di sé, intenso e caldo come il sole allo zenit. Non ebbe
nemmeno bisogno di sentire le braccia di Merlino intorno a
sé: le sue parole lo avevano stretto, facendolo sentire di
nuovo tranquillo e sicuro sotto le ali dell’angelo custode
che, inconsapevolmente, aveva sempre avuto.
«Non ricordate? Sono felice di essere vostro servo, fino alla
morte. Vi ho aspettato per millequattrocento anni, non mi perderete
proprio ora che vi ho ritrovato».
Alex tirò su col naso e solo allora Artù
sollevò lo sguardo, per guardare la sua ultima discendente
sull’orlo delle lacrime.
«Scusatemi. È solo che… amo le bromance»,
mormorò, asciugandosi gli angoli degli occhi.
Accennò un sorriso, guardando prima uno e poi
l’altro. «Voi andate avanti, io… vado a
prendere una boccata d’aria».
L’infermiera uscì in veranda e si sedette sugli
scalini di legno, traendo lunghi respiri profondi. Artù la
guardò a lungo, attentamente, cercando di capire
perché si ostinasse ad usare parole di cui lui ignorava il
significato. Merlino doveva aver capito invece, visto il sorrisetto che
non era riuscito a trattenere. Lo stesso Merlino che smise di lucidare
la sua armatura e sollevò una sedia per mettersi proprio di
fronte a lui, occhi negli occhi.
«Mi dispiace se vi ho dato l’impressione sbagliata.
Avevo solo bisogno di un po’ di tempo per me
stesso», disse il mago, pacatamente. «Se solo mi
aveste detto che avevate bisogno di me…».
«Non ho sempre bisogno di te», borbottò
lamentosamente, conscio di star dicendo una bugia. E anche Merlino
l’aveva intuito, dall’occhiata eloquente che gli
rivolse.
«Ricordate quando stavate per sposare la principessa
Mithian?», gli chiese a bassa voce, incrociando le braccia
sullo schienale della sedia. «Quando avete trovato
l’anello che avevate dato a Ginevra e continuavate a
chiedervi come potevate amare qualcuno che vi aveva tradito?».
Artù strinse i pugni sulle ginocchia, mordendosi
l’interno della guancia al ricordo di tutta la sofferenza che
entrambi avevano dovuto patire prima di ritrovarsi. Merlino sapeva che
non gli faceva piacere pensare a quel periodo buio della sua vita,
allora perché lo stava riportando a galla?
«Tutto questo che cosa c’entra?».
Merlino sorrise dolcemente. «Voi, il re di Camelot, avete
chiesto a me che cosa fare. Vi ho detto di seguire il vostro cuore e
penso che dovreste farlo anche questa volta, visto che alla fine avete
preso la decisione giusta».
«Il mio cuore vorrebbe Ginevra qui al mio fianco»,
confessò, sentendo le lacrime affluirgli rapidamente agli
occhi. Respirò a fondo, cercando di ricacciarle indietro, e
ci riuscì.
«Suonerà tremendamente sciocco e banale, ma lei è a
vostro fianco, Artù. Lo sarà sempre, non la
dimenticherete mai», sussurrò. «Ma sono
certo che non approverebbe se voi decideste di non lasciarvi
più amare da nessuno».
Artù pensò a sua moglie, a tutto
l’amore che provava per lei, così forte ed
incancellabile che ancora lo poteva sentire bruciargli le vene. Se solo
l’avesse avuta al suo fianco… tutto sarebbe stato
infinitamente più semplice.
«Lei non si è più legata a
nessuno», mormorò, gli occhi rivolti verso il
pavimento.
«Sir Leon le è stato molto vicino,
sapete».
Artù sobbalzò, raggelato da un brivido di
gelosia. Ciò nonostante, non sollevò gli occhi in
quelli di Merlino.
«Le ho fatto lo stesso discorso, ma lei aveva un regno e una
recita da portare avanti, per il bene di Graal. E sapete cosa mi
rispondeva, tutte le volte? Che vostro figlio era l’unico
uomo che desiderava. Un Pendragon basta e avanza, diceva».
Merlino ridacchiò, scuotendo il capo come a voler scrollarsi
di dosso quei ricordi. Quindi si alzò dalla sedia ed
iniziò a raccogliere dal tavolo i pezzi della sua armatura,
dandogli le spalle.
Artù sentì le parole che il cuore gli suggeriva
premergli sulla lingua, ma esitò fino alla fine, combattuto
tra ciò che sapeva fosse meglio per i suoi migliori amici e
cosa gli diceva quell’assurda logica che lui per primo aveva
infranto, sposando Ginevra.
«Merlino, aspetta».
Lo stregone si fermò sulla soglia della porta della cucina e
si voltò, il mento appoggiato ai pezzi d’armatura
perché restassero in equilibrio. Rimase in attesa per
qualche secondo, poi sbuffò ed esclamò inacidito:
«Fate con calma, tanto non le rimpiangerò affatto
le mie braccia!».
Artù lo raggiunse alzando gli occhi al cielo e lo
aiutò a posare a terra tutta l’armatura. Poi gli
posò le mani sulle spalle e fissò gli occhi nei
suoi, avvertendo una stretta al cuore.
«Anche tu devi lasciarti amare».
Il mago aggrottò le sopracciglia e poi abbassò
lentamente lo sguardo sulle mani di Artù, iniziando a
sottrarsi dalla sua stretta.
«Non da me, idiota!», gridò il re di
Camelot, rosso di vergogna. Col braccio teso indicò Alex,
ancora seduta in veranda, respirando profondamente col naso.
«Oh», mormorò Merlino, voltando subito
il capo nella direzione opposta. «Non posso».
«So di essere stato un po’... come dire,
altalenante nei vostri confronti in questo periodo: volevo il meglio
per l’ultima Pendragon e avevo paura che il suo amore fosse
influenzato in qualche modo dalla magia, ma ormai mi è
chiaro che non è così. Tu sei quello che vuole e
solo con te sarà veramente felice. E anche tu meriti un
po’ di felicità, finalmente. Sei il
mio…», deglutì, imbarazzato come non
mai. «Tu sei il mio migliore amico e hai la mia
benedizione».
Merlino lo fissò in silenzio per quella che al re di Camelot
sembrò un’eternità. Alla fine
abbozzò un sorriso desolato e scosse il capo, per poi
chinarsi a raccogliere nuovamente l’armatura.
Prima di uscire definitivamente dalla cucina gli disse, senza voltarsi:
«Scrivete a Cathleen. Sono certo che avrà capito e
perdonato la vostra gaffe».
Artù lo guardò andare via con la tremenda voglia
di lanciargli dietro qualcosa di appuntito e pesante. Perché
non riconosceva mai i suoi sforzi per aiutarlo? Perché
faceva sempre di testa sua? E, soprattutto, che cosa diamine voleva
dire gaffe?
***
Alex si guardò allo specchio un’ultima volta e si
alzò i capelli sulla nuca, guardandosi il profilo del viso
da entrambe le angolazioni prima di decidere che li avrebbe tenuti
legati.
Ricordava bene i gusti di Keith, ma non voleva dargli
l’impressione di essersi fatta bella per lui. Tuttavia sapeva
anche che per ciò che doveva chiedergli il suo aspetto
avrebbe potuto aiutarla, per questo non riusciva a decidersi e i sensi
di colpa avevano già iniziato a tormentarla.
Se Merlino avesse scoperto che aveva invitato Keith ad
uscire… beh, non voleva nemmeno immaginare come avrebbe
reagito. D’altro canto, il fatto che Merlino le avesse detto
di dimenticarlo le dava una motivazione, anche se piuttosto fiacca.
Ciò che le impediva di cancellare quel folle appuntamento
però era ben altro: la possibilità di salvare
l’ospedale dall’imminente fallimento e di
conseguenza riavere il suo vecchio posto di lavoro ad oncologia.
Si prese due ciocche di capelli tra le mani e sbuffò
guardandosi allo specchio con espressione esasperata. Quindi
recuperò il cellulare da sotto i cuscini decorativi con cui
il piccolo Artù si era messo a giocare sul letto e si fece
un paio di selfie, uno con i capelli sciolti e uno con la coda di
cavallo. Quindi li inviò ad Abigail, sperando che le
rispondesse prima che Keith suonasse alla sua porta. Il fischiettio
fortunatamente non si fece attendere troppo, ma Alex non ottenne il
consiglio che voleva. Lo aveva immaginato.
Con chi devi uscire?
Si gettò di schiena sul letto, spaventando tanto il suo
micio da farlo balzare sul comodino, col rischio che facesse cadere a
terra l’abat-jour. Lo fissò senza nemmeno trovare
la forza di rimproverarlo e decise di tagliare direttamente la testa al
toro: chiamò Abigail.
La ragazzina le rispose dopo appena il primo squillo, ripetendole la
domanda che le aveva posto per iscritto.
«Non è come sembra», iniziò a
rispondere l’infermiera, ma Abigail non la lasciò
concludere.
«Con Keith! Oh mio Dio, non posso crederci! Alex,
è una pessima idea. Davvero, la peggiore che tu abbia mai
avuto!».
«Abby… Abby, ascoltami! Non lo sto facendo per
quel motivo, credimi. È più complicato di
così».
«Ah sì? Spiegamelo».
«Non posso».
«Grandioso, anche tu adesso hai dei segreti da mantenere ad
ogni costo».
Alex si portò due dita negli incavi degli occhi, accanto al
setto nasale, facendo attenzione a non rovinarsi il trucco. Come poteva
dirle che il reparto in cui era ricoverata rischiava di chiudere e che
tutti i suoi amici, compreso Mark, sarebbero stati trasferiti in altri
ospedali?
«Lo sai che Merlino ci aveva chiesto di tenere
d’occhio Keith e di avvisarlo nel caso si fosse trovato nel
nostro reparto più volte del necessario?»,
esclamò Abigail, quasi con rabbia. «Lui voleva
proteggerti, impedire che quello lì ti facesse altro male, e
tu invece che fai? Ti getti tra le sue braccia!».
«Ti ho già detto che non è
così, ma anche se fosse spetta a me decidere, non credi? Io
ho detto chiaro e tondo a Merlino che cosa provo per lui e lui mi ha
sbattuto la porta in faccia, dicendomi di dimenticarlo. Che altro
dovrei fare? Non posso costringerlo a stare con me!».
Alex sentì le lacrime bruciarle gli occhi e si
sollevò di scatto, facendo rotolare il povero
Artù, fino ad allora accoccolato sulle sue gambe.
Mormorò un improperio e si sventolò una mano di
fronte agli occhi, respirando profondamente per calmarsi.
Ora più che mai capiva le parole di sua madre a proposito
delle anime gemelle: Merlino era la sua, lo sapeva come sapeva che il
sole sarebbe sorto ad est e tramontato ad ovest, e come ogni anima
gemella di degno rispetto era in grado di risultare la più
bella delle benedizioni e la più atroce tra le maledizioni.
Al momento, propendeva per la seconda. Il dolore che provava a causa
sua era inimmaginabile e avrebbe dato di tutto per farlo smettere, ma
niente di ciò che possedeva valeva tanto.
«Mi dispiace, Alex. Non lo sapevo», disse Abigail,
ora pacatamente.
«Sono successe un po’ di cose, ultimamente. Ma non
ho intenzione di tornare con Keith, questo te lo posso
assicurare».
«E io sono sempre qui, se hai bisogno di sfogarti
oppure…».
«Ti ringrazio, Abigail, ma… essere adulti vuol
dire cavarsela da soli, a volte».
«Solo gli adulti irresponsabili si aggrappano a questa
convinzione».
Alex abbozzò un sorriso e passò una mano sul pelo
morbido del suo gatto. Lo stava trascurando molto da quando un altro
Artù era entrato nella sua vita, non poteva continuare
così.
Il campanello al piano di sotto la fece tornare alla realtà.
«Devo andare Abby, ci vediamo domani».
«Legati».
«Cosa?».
La ragazzina ridacchiò. «I capelli. Dovresti
tenerli legati».
«Oh. Okay, grazie. Buonanotte».
«‘Notte. Non fare nulla di
stu–».
Alex terminò la comunicazione prima che Abby terminasse la
frase e si legò frettolosamente i capelli, poi si
precipitò giù per le scale per aprire la porta a
Keith.
***
«È una pessima idea, Merlino».
Il mago scosse lievemente il capo ed allungò il braccio per
aprirgli la portiera. «Andrà bene,
vedrete».
«Non mi riferivo a Cathleen». Artù lo
fissò intensamente e poi sospirò, esclamando:
«Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, sento che
è una pessima idea».
La sua preoccupazione era tanto lusinghiera quanto fuori luogo,
perciò rimase in silenzio mentre nel suo animo si agitava lo
stesso pensiero, rafforzandosi ogni istante di più. Per
quanto provasse a convincersi del contrario, il comportamento di Myra
gli risultava ancora sospetto e ogni muscolo del suo corpo era teso
come una corda di violino. Ma non poteva davvero basarsi soltanto su
una propria sensazione; doveva darle l’opportunità
di spiegarsi.
«Tutto questo vostro interessamento mi onora, Sire, ma vi
assicuro che posso badare a me stesso».
Artù trattenne uno sbuffo frustrato e aprì la
bocca per ribattere, quando Merlino gli scoccò un ampio
sorriso che lo fece ammutolire, imbarazzato. Scese frettolosamente
dall’auto e si sbatté la portiera alle spalle,
senza nemmeno salutarlo.
Lo stregone rimase in attesa col motore acceso fino a quando il portone
non scattò e il re di Camelot non scomparve
all’interno dell’androne illuminato fiocamente. Poi
alzò al massimo la radio, per assordare i propri pensieri, e
partì a tutto gas.
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Capitolo 17 *** 17. A lesson in vegeance – Part II ***
Buonasera a tutti! :)
Beh, non so veramente cosa dire... Non mi aspettavo proprio ci fosse
ancora tutto questo seguito, ma ne sono felicissima e commossa. Grazie,
grazie di cuore.
Non dico altro, vi lascio immediatamente alla lettura!
Vostra,
_Pulse_
_____________________________________________________________
17. A lesson
in vegeance – Part II
«Scusami se ti ho fatto aspettare, c’era
coda».
Alex inghiottì le arachidi che si era appena messa in bocca
ed abbozzò un sorriso scrollando il capo.
«Figurati, non c’è problema».
Keith si sedette nuovamente sullo sgabello ed incrociò le
mani sotto il mento, fissandola. L’infermiera
passò un dito sul bordo del proprio boccale di birra, poi
iniziò ad arricciarsi tra le dita le punte dei capelli
raccolti. Sapeva che avrebbe dovuto rompere quel silenzio imbarazzante
e chiedergli finalmente ciò che voleva sapere a proposito
dei problemi economici dell’ospedale e del galà di
beneficienza a Windsor, ma il nervosismo le aveva completamente tolto
la voce. Nervosismo forse dovuto a ciò che le aveva detto
prima di andare al bagno: delle numerosissime cicatrici ed abrasioni,
di ogni forma e dimensione, che il chirurgo che aveva operato Merlino
aveva notato su ogni angolo del suo corpo; delle domande che le aveva
rivolto in proposito; oppure ancora della curiosità che
aveva iniziato a tormentarla non appena era entrata nel pub in cui era
stata proprio con Merlino, Artù e Cathleen solo qualche
settimana prima: qual era l’impegno che il mago aveva
affermato di avere?
«Va tutto bene, Alex?», le chiese ad un tratto, con
la fronte corrugata.
«Sì, certo. Perché me lo
chiedi?».
«È da quando ho nominato Merlino che non apri
bocca. Stai pensando a lui, per caso?».
Alex prese un lungo sorso di birra, cercando disperatamente una scusa.
Appoggiò di nuovo il boccale di vetro sul tavolino ornato di
graffi e scritte di vario genere, opera indelebile di qualche ragazzino
ansioso di lasciare un segno nel mondo.
«Mi dispiace, non avrei dovuto parlare di lui adesso.
È stato tremendamente stupido», disse ancora Keith.
Alex trasse un profondo respiro e lo interruppe: «Non
importa. Non stavo pensando a lui, ma al vero motivo per cui ti ho
chiesto di uscire questa sera».
«Oh». Il dottore si addossò allo
schienale del proprio sgabello alto e rimase in silenzio per qualche
istante, poi accennò una risata. «Dovevo
immaginarlo».
«No, no. Keith, ascoltami. Quello che hai fatto è
acqua passata ormai, veramente, ma non potremo più essere
quello che eravamo. Mai più».
«Capisco».
Alex inarcò le sopracciglia, sorpresa.
«Davvero?».
«Sì, davvero», rispose sospirando e
massaggiandosi la fronte. Rivolgendole un sorriso amareggiato,
aggiunse: «Ho fatto un vero casino, eh?».
L’infermiera ricambiò e posò la mano
sulla sua. «Forse era destino».
«Forse. Allora, qual è il vero motivo per cui mi
hai chiesto di uscire?».
«Ecco…». Alex si schiarì la
gola, fissando il liquido ambrato nel boccale. «Ho saputo dei
problemi economici dell’ospedale. Probabilmente ero
l’unica a non esserne a conoscenza, sai?».
Keith scosse il capo, respirando a pieni polmoni. «Alex, io
non posso parlarne, lo sai».
«Lo so, non ti ho chiesto di farlo. Voglio solo che tu sappia
che non starò con le mani in mano in attesa che i bambini
vengano trasferiti chissà dove e che il reparto venga
smantellato. Ho intenzione di provarle tutte, ma come saprai da sola
non ho alcuna speranza di farcela».
«E qui dovrei entrare in gioco io? È vero, mio
padre fa parte del Consiglio d’Amministrazione
dell’ospedale, ma non fa miracoli. Da quello che so le ha
provate tutte pure lui perché non si arrivasse al punto di
chiudere il reparto, ma…».
«Il galà di beneficienza al Castello di
Windsor», esclamò Alex, fissando gli occhi nei
suoi e piantando entrambe le mani sul tavolino.
«Che cosa? Sono anni che l’ospedale non riceve
più fondi dalle associazioni che organizzano
quell’evento».
«Perché? Non è per caso
all’altezza degli ospedali oncologici di Londra, di
Edimburgo, di Belfast? Decine di bambini sono ricoverati da noi,
provengono da ogni parte del Galles perché è la
struttura migliore della regione. E per le loro famiglie è
già difficile così, immagina che cosa
succederebbe se dovessero essere trasferiti fuori dal
Galles».
Keith si strofinò il viso e si strinse nelle spalle,
guardandola mortificato. «Non so che cosa dirti, Alex. Vorrei
davvero poterti aiutare…».
«Fammi parlare con tuo padre o con qualcun altro del
Consiglio. Ti prego, Keith, se non vuoi farlo per me fallo per i
bambini. È tutto ciò di cui mi
importa».
Il dottor Ellis la guardò intensamente, gli occhi di
ghiaccio incredibilmente caldi ed apprensivi, ma quando aprì
la bocca per darle la propria risposta slittarono verso la porta del
pub. Alex fece per girarsi, ma il medico le afferrò entrambe
le mani e scosse il capo, un tacito consiglio a non farlo. Alex
ovviamente non gli diede peso, anzi… il suo gesto le fece
venire ancora più voglia di voltarsi e quando lo fece
desiderò ovviamente di non essere stata tanto stupida. Myra
era stretta al braccio di un Merlino quasi inespressivo, ma la fitta
che provò al cuore fu comunque tanto dolorosa che le
mancò il fiato.
Ecco l’impegno di Merlino: l’agente Chandra, con i
suoi lucenti capelli corvini sciolti sulla schiena, i pantacollant
color denim stretti intorno alle lunghe ed affusolate gambe e, sotto al
cappotto, la camicetta verde smeraldo che lasciava ben poco
all’immaginazione.
Pensava di aver provato il dolore più grande della sua vita
quando aveva perso sua madre, ma si sbagliava. Il dolore più
grande lo provò quella sera, quando Merlino si
guardò intorno ed incrociò i suoi occhi lucidi di
lacrime e quelli di Keith, seduto di fronte a lei e con le mani ancora
sui suoi polsi. Furono i suoi occhi a causarle quel dolore, o meglio
tutto ciò che vi lesse: stupore, confusione, sofferenza,
delusione e infine rabbia, una rabbia tanto cocente da sfigurargli il
viso, in grado di fargli dimenticare totalmente Myra e di farlo uscire
dal locale sbattendosi la porta alle spalle.
***
«Merlino!».
Lo stregone si fermò nel bel mezzo della strada e strinse
forte i pugni lungo i fianchi, forte quasi quanto gli occhi. Il buio
dietro alle palpebre non fece altro che peggiorare il dolore che
sentiva in mezzo al petto e che si estendeva pian piano in tutto il
corpo, come un veleno di cui non conosceva l’antidoto.
Ascoltò i battiti sordi del suo cuore vecchio e stanco,
fragile e dimentico di tutte le esperienze che aveva vissuto negli
anni. Non imparava mai.
«Merlino, guardami».
Il mago aprì gli occhi, ma non si voltò.
«Non lo farò. Non ti guarderò negli
occhi mentre mi dici che ti dispiace, raccontandomi
l’ennesima bugia».
«Se ti riferisci a ciò che ti avevo detto, che non
sarei mai uscita con Keith, beh…».
«Risparmiami le spiegazioni, ti prego».
Stranamente Alex lo ascoltò e rimase in silenzio, un
silenzio così profondo che Merlino trovò la forza
di girarsi e rivolgerle uno sguardo quasi sprezzante.
«Sei proprio una degna Pendragon»,
esclamò, annuendo. «Non importa quanto si faccia
per proteggervi, che cosa si è disposti a
sacrificare… voi troverete sempre il modo per farvi del male
con le vostre stesse mani».
«Stai zitto, Merlino!».
Il volto di Alex, sfigurato dalla rabbia e dall’urlo che
aveva appena lanciato, fu tanto simile a quello di Artù da
fargli annebbiare la vista. Perciò non ebbe il tempo
necessario ad arretrare, quando l’infermiera lo raggiunse in
mezzo alla strada per prendergli il volto tra le mani e baciarlo con
forza sulla bocca.
Stordito dal suo gesto e dalla facilità con cui tutta la
rabbia e la delusione svanirono, facendolo sentire di nuovo leggero
come una piuma, in alto come lo era stato solo in uno dei rari viaggi
su Kilgharrah, impiegò diversi secondi a racimolare tutta la
razionalità rimastagli e a scostarsi.
«Credi che questo risolvi le cose?», le
domandò a bassa voce, evitando di osservare troppo a lungo
le sue labbra, così calde e morbide, di cui sentiva
già la mancanza.
«Non c’è niente da risolvere, a quanto
mi risulta. Non c’è nessun noi, giusto? Quindi
sicuramente le peggiora. Sono proprio una degna Pendragon, hai
ragione».
Il mago si portò due dita alle tempie martellanti.
«Non capisco…».
«L’unica cosa da capire qui è che
io…», si interruppe di colpo, come se le parole
che avrebbe voluto dire le fossero andate di traverso. «Che
tu mi creda o no, sono uscita con lui questa sera perché ho
bisogno del suo aiuto per salvare l’ospedale. Tu,
invece?».
Merlino incrociò i suoi occhi accusatori, venati di gelosia,
e davvero non poté credere di star avendo quel tipo di
conversazione proprio con Alex, la ragazza che avrebbe dovuto essere
irraggiungibile per almeno un milione di motivi.
«Myra mi ha chiesto di uscire», iniziò a
spiegare, ma si bloccò improvvisamente quando gli
ritornò alla mente il pensiero che aveva avuto quella
mattina: uscire con Myra sarebbe stata sicuramente una distrazione per
rendere Alex un terreno sempre più off-limits, ma non solo;
Myra sarebbe stata anche l’espediente perfetto
perché Alex lo dimenticasse e capisse che tra loro non
avrebbe mai potuto funzionare. Si trattava di ingannarla e di mentirle
spudoratamente, ma l’aveva già fatto prima per il
bene di un Pendragon e sapeva che poteva conviverci.
«Myra mi ha chiesto di uscire e io ho accettato
perché è da quando l’ho rivista che non
faccio che ripensare a lei», riprese, guardandola negli occhi
e vedendovi sparire ogni traccia di luminosità.
«Non l’ho mai dimenticata. Inoltre lei non sa il
mio segreto e, cosa più importante, non è di
sangue reale come te».
Alex non interruppe mai il contatto visivo e per Merlino fu una tortura
vera e propria, specialmente quando una lacrima rotolò sulla
pelle chiara del suo viso e dovette costringersi a non alzare la mano
per spazzarla via.
«Sono tutte cazzate», mormorò dopo
infiniti attimi di silenzio. «Ti stai inventando tutto,
tu…».
«Non è così», rispose e
cercò di essere il più convincente possibile,
nonostante il dolore si fosse trasformato in agonia. «Ma se
così fosse, allora sai cosa dovresti fare. Avevi giurato che
se ti avessi mentito non saresti più riuscita a starmi
vicino, dico bene?».
Non lo vide nemmeno arrivare, lo schiaffo; sentì soltanto il
bruciore intenso lasciato dalle sue cinque dita sulla guancia sinistra.
E non sollevò più gli occhi, nemmeno quando Alex
si strinse le braccia al petto e a capo chino, trattenendo le lacrime
per una questione di orgoglio, rientrò nel pub. Fu costretto
a farlo, invece, quando un’auto gli fece gli abbaglianti e
l’assordò con il clacson, intimandogli di levarsi
di mezzo. Per un attimo Merlino pensò di farsi tirare sotto,
per poi convenire che farsi fuori non avrebbe aiutato. Quindi raggiunse
il marciapiede opposto a quello del pub ed iniziò ad
incamminarsi verso l’auto, parcheggiata dietro
l’angolo.
«Hai intenzione di lasciarmi qui?», urlò
Myra alle sue spalle, raggiungendolo più in fretta
possibile, con i tacchi e la gamba.
Merlino sentì un’ondata di rabbia travolgerlo non
appena fu al suo fianco e si sottrasse immediatamente dalla sua stretta
quando provò a prendergli una mano.
«Sei arrabbiato a causa di Alex e Keith?», gli
chiese allora, cercando di catturare il suo sguardo.
Il mago strinse i denti e tirò fuori dalla tasca del
giubbino le chiavi dell’auto, ma Myra non si arrese.
Entrando nell’abitacolo, esclamò: «Forse
quello che ho sempre pensato su di lei non era così
sbagliato, dopotutto. Come può piacerti una sgualdrina del
genere?».
Il sangue gli andò al cervello così in fretta che
non riuscì nemmeno a dire addio all’ultimo
briciolo di razionalità che era riuscito a conservare sino a
quel momento. Scattò verso l’agente Chandra,
bloccandola contro il finestrino freddo con un avambraccio premuto
contro la sua gola, tanto forte da trasformare il suo respiro in un
rantolo.
«Non sono io quella da incolpare per le decisioni della tua
Alex», sibilò con un ghigno ad incurvarle le
labbra.
Merlino dovette ammettere che era vero, e dovette ammettere anche che
quella era anche la sola ed unica cosa vera che gli avesse propinato da
quando era venuta a trovarlo all’ospedale. Tutti i suoi
sospetti e i suoi brutti presentimenti erano sempre stati fondati.
«Potevamo andare ovunque, questa sera, ma tu hai scelto di
venire qui. Una strana coincidenza che ci fossero anche Alex e Keith,
non trovi?».
Il ghigno di Myra si allargò mentre scrollava le spalle.
«Non troppo. È l’unico pub del paese,
sai?».
«Tu volevi che li vedessi, volevi che…»,
si interruppe, colto alla sprovvista da un’illuminazione:
come faceva Myra a sapere che Keith e Alex sarebbero usciti quella sera
e che sarebbero andati al pub? C’era un’unica
risposta logica: aveva un complice.
«Tu e Keith avete organizzato tutto, eravate
d’accordo. Perché, Myra? Qual era il vostro
scopo?».
«Proprio non ci arrivi, eh?». Myra
scoppiò in una risata intrisa di rancore e lasciò
che le lacrime iniziassero a scorrerle sul viso, rovinandole il trucco.
«Volevo farvi provare un po’ del dolore che ho
provato io in questi mesi, volevo che quella puttanella ti odiasse
tanto quanto ti odio io».
«Kajri…», mormorò dolcemente
Merlino, allontanando il braccio dalla sua gola per provare a scostarle
una ciocca di capelli dalla guancia.
«Ti ho già detto di non chiamarmi in quel
modo!», gridò e con un gesto rapido
tirò fuori dalla borsa la sua pistola d’ordinanza,
puntandogliela in mezzo agli occhi. «Kajri è
morta! È morta quando tu l’hai
abbandonata!».
«E mi dispiace, non avrei mai dovuto farlo. Ora
però abbassa la pistola, hai bisogno di aiuto. Lasciati
aiutare, Myra».
«Io non ho bisogno di aiuto! Avevo bisogno di te e tu non
c’eri!», continuò a gridare,
singhiozzando tanto forte da far tremare persino la pistola che teneva
tra le mani.
«Quindi pensi davvero che la soluzione a tutto sia
spararmi?», le domandò piano, quasi con dolcezza.
«Avanti, fallo. Non ho paura».
Myra sgranò gli occhi gonfi di pianto e lentamente tolse la
sicura, mentre Merlino ricambiava il suo sguardo con un debole sorriso
sulle labbra, un sorriso quasi sereno.
«Avrai la tua vendetta. È questo che cerchi, vero?
Vendetta. La otterrai, se premerai il grilletto. Ma non starai meglio,
questo no. Te lo posso assicurare».
Myra si umettò le labbra e tirò su col naso,
stringendo più saldamente il calcio della pistola.
«Come… Come puoi dire una cosa del
genere?».
«Ci sono tante cose che non sai di me, cose che non saprai
mai, che non saprà mai nessuno. Prima parlavi di odio e di
dolore… Tu non sai nemmeno che cosa sia, il vero dolore. Non
sai cosa vuol dire odiare se stessi e convivere coi sensi di colpa
più atroci, ricordare tutti i nomi e i volti delle persone
scomparse, sentirsi gli unici al mondo…».
«Che cosa?», mormorò, accigliata.
Merlino sollevò le mani con cautela e le posò su
quelle di Myra, ancora strette intorno alla pistola. Erano gelate e
sudate, contratte come se fossero disperatamente aggrappate alla sua
stessa vita.
«Mi dispiace, Kajri», sussurrò ancora il
mago, avvicinando il viso al suo mentre le faceva abbassare la pistola.
L’agente Chandra provò ad arretrare ma,
già premuta contro la portiera del passeggero, non
poté andare da nessuna parte. Merlino le sfiorò i
capelli con le labbra, in un bacio appena accennato, poi
abbatté una delle tante barriere a contenimento della magia
e le sussurrò all’orecchio una formula magica che
la fece cadere immediatamente in un sonno profondo.
Rimase per qualche minuto appoggiato a lei, col viso nascosto
nell’incavo del suo collo, a riprendere fiato e a sopportare
il dolore indicibile che la magia continuava a provocargli, in un modo
o nell’altro. Quindi si sollevò e le
allacciò la cintura, girò le chiavi nel cruscotto
e sgommò lungo la strada deserta.
***
Quando alla fine aveva trovato il coraggio e aveva chiamato Cathleen,
aveva percepito dell’imbarazzo anche in lei e questo gli
aveva permesso di non fare la figura del completo idiota chiedendole se
quella sera poteva passare da lei.
Il paramedico, nonostante avesse deciso l’orario, gli aveva
aperto la porta avvolta in un accappatoio di morbida spugna viola e con
i capelli bagnati, appiccicati come rivoli di sangue scuro al suo collo
e all’incavo del suo pallido seno. Si era scusata,
mortificata, spiegandogli che aveva perso la cognizione del tempo, e
l’aveva invitato ad accomodarsi e a fare come se fosse a casa
sua mentre lei finiva di prepararsi.
Artù aveva percorso nuovamente con lo sguardo la sua
collezione di fate, esseri magici e draghi, dopodiché si era
fermato accanto ad una libreria su cui erano impilati libri di vario
genere e decine di DVD. Ne aveva letto i titoli, realizzando che anche
Merlino ne possedeva qualcuno, fino a quando non era stato distratto
dalla figura di Cathleen: era comparsa quasi all’improvviso
nel rettangolo della porta aperta della sua stanza e si era tolta
l’accappatoio, restando in sola biancheria intima di fronte
all’armadio in cui stava cercando dei vestiti da indossare.
Se i suoi capelli rossi, ancora bagnati ma legati in un alto chignon,
erano in netto contrasto sulla sua pelle diafana, la sua biancheria
nera era come una grande macchia d’inchiostro su un foglio
ancora immacolato, tanto fastidiosa che Artù avrebbe dato
qualsiasi cosa per levarla di mezzo. Quando si rese conto di
ciò che quel pensiero comportava scostò subito lo
sguardo, il volto ormai in fiamme, e si sedette su un angolo del divano.
Cinque minuti dopo il paramedico si mostrò a lui con indosso
una tuta di almeno due taglie più grande, il viso struccato
e quell’acconciatura semplice e a suo parere molto regale. Lo
guardò con un sorriso incerto sulla bocca e le braccia
strette al petto come se avesse freddo.
«Allora…», esordì, guardando
a tratti il suo viso e a tratti le sue spesse calze arancioni.
«A che cosa devo la tua visita?».
Artù scrollò le spalle, posando gli occhi sullo
schermo nero della televisione. «Merlino e Alex sono usciti e
io non volevo stare a casa da solo».
«Nel senso che Merlino e Alex sono usciti insieme?».
La sua espressione stupita mutò in una entusiasta in una
frazione di secondo, sedendosi al suo fianco sul divano.
Artù la osservò senza riuscire a levarsi dalla
testa il pensiero che poco prima gli aveva attraversato la mente
– quello di volerla spogliare e di percorrere con le mani e
le labbra ogni centimetro della sua pelle lattea. Dovette scuotere il
capo e deglutire con decisione prima di poter rispondere:
«Sì. Cioè, no. Non credo. Se fosse
così Alex me l’avrebbe di certo detto, ne sono
sicuro».
«Uhm, capisco», mormorò meditabonda,
sfiorandosi il labbro inferiore con il pollice.
Il re di Camelot fu come ipnotizzato da quel gesto e la sua mente gli
ricordò la morbidezza e il sapore di quelle labbra, tanto
intensamente che se non avesse trovato la forza per controllarsi si
sarebbe sporto su di lei per assaggiarle ancora e non lasciarle
più.
«Questa storia non mi piace nemmeno un
po’».
«Nemmeno a me», rispose automaticamente
Artù, rendendosene conto solo qualche secondo dopo, quando
Cathleen lo fissò con un sopracciglio inarcato.
«Cosa hai detto, scusa?».
Il paramedico scosse il capo e ridacchiò, alzandosi.
«Hai già cenato?».
«Sì, ma se vuoi ti faccio compagnia».
«No, tranquillo, anche io ho già mangiato.
Perciò… che cosa facciamo?».
Artù arrossì e, nonostante fosse a secco di
saliva già da un po’, deglutì ancora.
Per fortuna Cathleen si rispose da sola, sorridendo.
«Ti va di vedere un film?».
«Sì, mi piacerebbe».
«Perfetto, quale scegliamo?».
Artù la raggiunse accanto alla libreria e la
guardò scorrere le custodie di plastica con un dito, senza
nemmeno ascoltare i brevi riassunti che gli faceva, film dopo film.
Ormai gli era perfettamente chiaro che non sarebbe riuscito pensare ad
altro che a lei e alla tempesta di reazioni chimiche che gli scatenava.
«Scegli quello che ti piace di più», la
interruppe.
Cathleen lo fissò con un grande punto interrogativo sul
volto. «Ma…».
«Mi fido di te», mormorò e le sorrise
dolcemente, tornando a sedersi sul divano.
Il paramedico sospirò e senza aggiungere altro scelse un
DVD.
***
«Siamo quasi arrivati, un piccolo sforzo».
Keith scortò Alex fino alla camera da letto, con un braccio
avvolto intorno alla sua schiena, e quando fu sul punto di accendere la
luce la ragazza, in un attimo di estrema lucidità, gli prese
la mano e la portò insieme all’altra sulla sua
schiena, come se avesse voluto che l’abbracciasse.
Era la sua occasione, l’occasione che aveva sperato di avere
da quando, per puro caso, aveva sentito parlare di Myra ed era riuscito
a coinvolgerla nel suo piano. Quindi perché non
l’aveva ancora colta? Era così semplice…
«Alex, non vedo niente», disse cercando di leggere
nei suoi occhi – grandi, lucidi ed arrossati
dall’alcool – tutto ciò che le stava
passando per la mente.
«Vuoi dirmi che non ti ricordi come arrivare al mio
letto?».
Arretrò di qualche passo, sempre barcollando, e Keith fu
costretto ad assecondarla perché non cadesse. Alla fine
l’infermiera sbatté contro il bordo del materasso
e si lasciò cadere all’indietro, trascinando il
medico con sé.
«Eccoci», esclamò con euforia,
ridacchiando.
«Bene. Puoi lasciarmi andare, adesso».
Alex scosse il capo con un sorriso malizioso sulla bocca e
faticosamente si sollevò fino a trovarsi ad un soffio dalle
sue labbra. Gli accarezzò il naso col proprio, esitando e
lasciandosi prendere da quel gioco perverso, poi gli diede un fuggevole
bacio, un altro e un altro ancora. Piegò una gamba e gliela
strofinò contro il fianco mentre gli prendeva una mano e
gliela faceva posare contro il suo seno, inarcando appena la schiena.
«Sei ubriaca», mormorò Keith quando
riuscì a sottrarsi dalla sua bocca famelica.
«E quindi? Non è la prima volta che succede. Mi
ricordo che una volta mi hai detto che preferivi fare sesso con me
quando ero ubriaca perché ero più…
come avevi detto? Ero più disinibita. Sì,
di-si-ni-bi-ta».
Keith la guardò ancora negli occhi, quegli occhi annebbiati
dall’alcool e languidi, eccitati ed assenti. La migliore
occasione della sua vita.
«All’epoca stavamo insieme, Alex.
Adesso…».
«Sono consenziente, Keith!», gridò
frustrata, interrompendolo. Nel suo tono c’era rabbia,
impazienza e tanto, tanto dolore. «Che cosa vuoi, un permesso
scritto per scoparmi?». Provò a spingerlo via, ma
tutti i chupito che aveva ordinato senza che Keith riuscisse a farla
smettere le avevano tolto le forze.
«Pensavo che lo volessi», iniziò a dire
in tono lagnoso. «Pensavo davvero che…».
«E io lo voglio, Alex. Io ti voglio più di
qualsiasi altra cosa».
«Che cosa stai aspettando allora?».
Il medico si diede per la decima volta dello stupido e sorrise,
chinandosi di nuovo su di lei. Ad un soffio dalle sue labbra
mormorò: «Niente».
Alex lo afferrò per la nuca e lo baciò con
prepotenza, lasciandosi spogliare e spogliandolo a sua volta. Il
bruciore allo stomaco causato dall’alcool si
mischiò a quello del piacere e desiderosa com’era
di cancellarsi dalla testa il ricordo delle parole che le aveva detto
Merlino, di fargliela pagare sbattendogli in faccia che era andata a
letto con il suo ex, lo pregò di penetrarla subito,
lasciando perdere i preliminari.
Dall’altro canto Keith, che era riuscito a mettere da parte
la sgradevole sensazione di rimorso che gli aveva fatto sprecare
così tanto tempo, si bloccò nuovamente udendo
quella richiesta. Gli sembrò quasi che non fosse Alex a
parlare e si rese conto che non era lei, non era l’Alex che
amava quella che aveva di fronte. Quell’Alex era persa, lui
l’aveva persa per sempre, e non sarebbe più
tornata indietro. Era stato stupido illudersi che avrebbe potuto
riaverla, la cosa più stupida che avesse mai pensato.
«Non posso farlo», disse rotolando
dall’altra parte del letto, sulle lenzuola già
stropicciate che profumavano della sua Alex. Quella che aveva di fianco
sapeva di alcool e sale, il sapore delle lacrime che senza che se ne
rendesse conto avevano iniziato a scivolarle sul viso.
«Che cosa stai dicendo? Certo che puoi», rispose
l’infermiera, biascicando.
Si sollevò e provò a salire su di lui, ma
rischiò soltanto di cadere giù dal letto; se
Keith non l’avesse afferrata per le braccia si sarebbe di
sicuro fatta male, ma quel dolore non sarebbe stato nulla in confronto
a quello che già provava in mezzo al petto.
«Mi dispiace, Alex», sussurrò
mestamente, accarezzandole i capelli intorno al viso. «Mi
dispiace, non avrei mai dovuto… La verità
è che era tutta una messinscena, io e Myra ci siamo messi
d’accordo perché tu e Merlino vi allontanaste.
Sono stato io a proporti per il trasferimento al pronto soccorso, sono
stato io a dire a Myra che avrebbe potuto riavere Merlino tutto per
sé se io avessi riavuto te. Pensavo di poterlo fare, che
avevo tutto il diritto di farlo perché pensavo che ci fosse
ancora speranza per noi due. Ma non è così,
l’ho capito finalmente. Tu ami Merlino e ora stai facendo la
stessa cosa che abbiamo cercato di fare io e Myra: vendicarci sulle
persone che ci avevano portato via ciò che amavamo di
più. Ma non è la cosa giusta da fare; fare sesso
con me non lo è, te lo garantisco».
Keith serrò le labbra e continuò a guardarla
negli occhi e ad accarezzarle il viso e i capelli mentre le lacrime
scendevano copiose dai suoi occhi. E capì di aver fatto
finalmente la cosa giusta.
«Dì qualcosa, Alex. Qualsiasi cosa».
L’infermiera si strinse nelle spalle, poi posò la
fronte nell’incavo del suo collo ed iniziò a
singhiozzare forte, tremando tra le sue braccia.
«Se potessi tornare indietro… Ho fatto tanti
sbagli, Alex; ti ho fatto soffrire così tanto e non voglio
più ripetermi. Ti prometto che sistemerò tutto,
ci proverò. Hai capito?».
Alex sollevò la testa per annuire e subito dopo
provò ad alzarsi, reggendosi a malapena in piedi da sola.
Keith la sostenne e l’accompagnò quasi di corsa
fino al bagno, dove le tenne la fronte mentre vomitava.
***
All’improvviso l’immagine si bloccò e
Artù schizzò seduto sul divano, indicando a bocca
aperta il televisore e posando poi gli occhi su Cathleen, sorridente e
felice al suo fianco, come se stesse assistendo allo spettacolo
più bello del mondo.
«Fallo ripartire!», gridò
Artù con un insolito tono di voce stridulo, ma imperioso.
«Tra un attimo. Li vuoi i popcorn?».
Il re di Camelot cercò di ricordare se avesse mai visto o
sentito nominare “i popcorn”, ma la sua mente era
talmente scossa da quell’interruzione inaspettata proprio nel
momento più teso del film che rispose sgarbatamente:
«L’unica cosa che voglio è che tu faccia
ripartire il film, adesso».
«Vedo che sei un tipo che vuole sempre tutto e subito,
eh?».
Cathleen pronunciò quella frase in tono quasi provocante,
sporgendosi su di lui fino a trovarsi ad un palmo dal suo viso.
Artù iniziò a sentire il suo profumo e i battiti
del suo cuore aumentarono a dismisura, mentre il suo volto diventava
paonazzo.
«Non te l’ha mai insegnato nessuno che per le cose
belle vale la pena aspettare?», concluse a bassa voce e si
alzò, diretta verso la cucina.
Artù non la perse di vista nemmeno per un momento e si
strinse forte le mani sulle gambe, cercando disperatamente di
riprendere il controllo. Forse poteva sfruttare quel momento, forse
poteva trovare il coraggio di fare ciò che andava fatto:
chiederle scusa per averla chiamata come la sua compianta moglie.
Si alzò dal divano e la raggiunse dietro la libreria con i
draghi. La osservò mentre prendeva un sacchetto da uno degli
armadietti, leggeva le istruzioni sul retro e poi regolava il forno a
microonde.
«Se proprio non vuoi aspettarmi il telecomando è
sul tavolino», esclamò Cathleen, dandogli le
spalle per osservare il sacchetto che come per magia iniziava a
gonfiarsi.
«No, devo dirti una cosa».
«Che cosa?».
Artù rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen si
voltò e lo fissò con un misto di preoccupazione e
trepidazione negli occhi.
«Sei per caso preoccupato per la TAC di domani?
Andrà bene, te lo prometto. Starò tutto il tempo
lì nei paraggi, se vorrai».
Il re di Camelot corrugò la fronte, rispondendo:
«Mi farebbe davvero piacere se tu ci fossi, ma non
è di questo che si tratta. Io volevo scusarmi».
«Scusarti?».
Gli improvvisi scoppiettii provenienti dal sacchetto dentro il forno
furono la distrazione perfetta per Artù, imbarazzato e a
disagio come poche volte in vita sua.
«È normale che faccia così?».
Cathleen annuì rapidamente. «Scusarti per che
cosa?».
«Beh, per… per averti chiamata
“Ginevra”, qualche tempo fa».
«Oh. Non c’è problema,
davvero».
«Tu non… non vuoi sapere chi era?», le
domandò, davvero sbigottito. Alex aveva detto che se fosse
stata in Cathleen avrebbe voluto delle spiegazioni, allora
perché non faceva domande?
Il paramedico fece un passo verso di lui, ignorando gli ormai frenetici
pop provenienti dal forno a microonde, e sorridendo dolcemente disse:
«Ginevra era la tua anima gemella, era la persona che amavi e
che ti è stata portata via. In qualche modo sono riuscita a
fartela tornare in mente e ne sono felice, perché doveva
essere una ragazza davvero straordinaria se era degna di stare al tuo
fianco. Sono orgogliosa di avere qualcosa che aveva anche
lei».
Artù abbassò gli occhi lucidi e si morse un
sorriso, prima di annuire e rispondere: «Sì, hai
ragione. Gwen era davvero straordinaria».
Cathleen annuì a sua volta e al din del microonde si
voltò.
Stava tirando fuori il sacchetto di popcorn, tentando di non ustionarsi
le dita, quando sentì una mano di Artù sulla base
del collo. Chiuse gli occhi a quella carezza e si appoggiò a
lui, chino sul suo orecchio per sussurrarle: «E anche tu lo
sei».
La fece voltare con delicatezza e le prese il mento tra due dita,
osservando i suoi occhi sgranati e le sue labbra rosse appena
dischiuse.
«Tu hai il mio stesso sguardo, Cathleen; lo sguardo di chi ha
perso tutto».
Il paramedico si passò la lingua tra le labbra, scostando la
sua mano e dandogli di nuovo le spalle per prendere finalmente il
pacchetto di popcorn tra le mani. Doveva scottare da morire, ma
Cathleen non fece una piega, anzi lo strinse più del
necessario.
Versò i popcorn in una ciotola di plastica e quando
incrociò di nuovo il suo sguardo gli rivolse un largo
sorriso, come se nulla fosse accaduto, esclamando: «Facciamo
ripartire questo film, forza».
Artù lasciò ciondolare le braccia lungo i fianchi
e sospirò, seguendola in silenzio.
***
Merlino trovò con facilità le chiavi
dell’appartamento di Myra nella sua borsa e dopo averle tolto
cappotto e scarpe la stese sul letto, rimboccandole bene le coperte.
Rimase seduto al suo fianco, al buio e con le mani intrecciate davanti
alla bocca come se stesse pregando anziché riflettendo, per
quasi un’ora. Poi perlustrò ogni centimetro della
casa e nel bagno trovò ciò che aveva sperato di
trovare: antidolorifici. Perfettamente normale che ci fossero
– dopotutto l’incidente le aveva causato danni
permanenti alla gamba – ma gli bastò contare i
barattoli e rispolverare le sue conoscenze di medicina per capire che
Myra aveva qualche problema con le dosi.
Fece qualche foto col cellulare e sistemò tutto esattamente
come l’aveva trovato. Poi uscì per attuare la
seconda parte del suo piano. Guidò lentamente fino in aperta
campagna, fermò l’auto e senza spegnere il motore
né le luci, scese. Respirò profondamente,
guardando il cielo scuro sopra di sé, ed
accarezzò il cofano della propria piccola, mortificato,
mentre faceva il giro per sedersi sul lato del passeggero. Si mise
nella stessa posizione in cui aveva bloccato Myra appena qualche ora
prima e con la sua pistola stretta tra le mani, protette dai guanti,
puntò verso il finestrino e sparò. Il rumore del
vetro infranto fu molto simile a quello del suo cuore, ma si disse che
non aveva avuto scelta.
Continuò a mormorare «Mi dispiace, mi
dispiace» per un bel po’, durante il tragitto che
lo riportò a casa di Myra.
In cucina trovò un blocchetto per appunti, una penna e dei
sacchetti gelo. Dispose tutto sul tavolo, inclusa la pistola
dell’agente Chandra e i guanti che aveva usato per sparare.
Dalla tasca del giubbotto tirò fuori il bossolo che aveva
raccolto sulla “scena del crimine” e lo
infilò in uno dei sacchetti, poi si sedette ed
iniziò a scrivere la lettera per Myra.
“Ho visto le
tue medicine. Un poliziotto non dovrebbe essere in servizio se abusa di
antidolorifici, è come se facesse uso di
stupefacenti.”
“Ho raccolto
un campione di polvere da sparo dalle tue mani e ho trovato per strada
il bossolo della pallottola che era diretta alla mia testa. Hai tentato
di uccidermi, Myra.”
“Nessuno
sospetta niente, ho fatto qualche domanda. È un paese
così tranquillo, questo… Avranno sicuramente
pensato ad un petardo. Ma io so, Myra, e giuro che se ti
rivedrò ancora ti rovinerò la vita. È
la tua ultima chance, l’ultima chance che hai per sistemare
le cose. Lasciati aiutare, Kajri.”
Apposta la propria firma alla fine della lettera, Merlino si
alzò e tornò in camera da letto, dove
trovò Myra come l’aveva lasciata. Tornò
a sedersi al suo fianco e si preparò per la parte
più difficile, quella di modificare i suoi ricordi.
Pensò intensamente alla scena che doveva imprimerle nella
mente: la pistola nelle sue mani, la paura e l’adrenalina che
scorrevano nelle sue vene, il dito che si abbassava sul grilletto, la
pallottola che Merlino schivava quasi per caso, abbassandosi con le
mani sulla testa; il rumore del finestrino infranto, il colpo che
Merlino fu costretto a darle perché mollasse la presa sulla
pistola e il braccio che le strinse intorno alla gola, togliendole il
fiato, la voce e alla fine i sensi. Poi più il nulla.
Respirò profondamente un’ultima volta, poi
posò una mano sulla sua fronte e i suoi occhi dorati
brillarono nel buio della stanza.
***
Cathleen infilò la mano nella ciotola dei popcorn, ma dentro
vi trovò solo dei semi di mais inesplosi. Voltò
la testa verso Artù e lo trovò con le guance
piene e lo sguardo fisso sullo schermo del televisore, nonostante ormai
scorressero i titoli di coda.
«Menomale che non li volevi», borbottò
per poi scoppiare a ridere, facendo scontrare la sua spalla sinistra
con la sua destra.
Il re di Camelot batté rapidamente le ciglia, come se fosse
appena uscito da uno stato di ipnosi, e non poté fare a meno
di venir contagiato dalla sua risata. Poi guardò
l’ora sull’orologio appeso alla parete e il cuore
gli balzò in gola rendendosi conto di quanto fosse tardi e
dello strano silenzio di Merlino e di Alex. Non gli avevano mandato
né messaggi né avevano provato a chiamarlo: che
fossero ancora ai loro appuntamenti? Aveva un brutto, bruttissimo
presentimento.
«Ehi, va tutto bene?».
Artù guardò con la coda dell’occhio la
mano che Cathleen gli aveva posato sulla spalla e dovette sforzarsi per
non raggiungerla con la propria.
«Sono preoccupato per Merlino ed Alex».
Il paramedico annuì, massaggiandogli la spalla.
«Quei due sono fatti l’uno per
l’altra… Spero davvero che non abbiano fatto
qualche stupidaggine».
«Che cosa vuoi dire?». La fissò con la
fronte corrugata, sedendosi meglio al suo fianco. «Cathleen,
sai qualcosa che io non so?».
«Ma no, no. Sono sicura che si risolverà
tutto».
Gli rivolse un tenue sorriso e gli tolse la ciotola dei popcorn dalle
mani, quindi si alzò dal divano. Una volta in cucina,
gridò: «E per quanto mi riguarda puoi stare qui
tutto il tempo che vuoi».
«Grazie, ma non penso che sia una buona idea».
Cathleen rimase in silenzio più tempo del previsto e
Artù non aprì più bocca.
Aspettò che chiudesse l’acqua del rubinetto e si
ripresentasse in salotto con uno straccio tra le mani.
«In che senso?».
Il re di Camelot scrollò le spalle. «Non sono
bravo in queste cose, ma… temo che più tempo
passo con te, più il rischio che mi affezioni diventi alto.
E né io né tu vogliamo che accada, giusto? Non
siamo pronti».
«Già, è vero», rispose
balbettando.
Lo fissò per istanti che sembrarono eterni, mentre la
colonna sonora dei titoli di coda riempiva il silenzio tra loro. Quando
cedette, si portò il dorso di una mano sulla fronte e
l’altra sul fianco, affranta.
«Tu almeno riesci a pronunciare il suo nome, tu riesci a
ricordarla e a sorridere… Io non ce la faccio.
Artù, non ce la faccio». Si coprì il
viso con entrambe le mani per celare le lacrime e il biondo si
alzò per cingerla delicatamente tra le braccia.
«È tutto okay», sussurrò
respirando il profumo dei suoi capelli. «È normale
che sia così».
«Da quanto tempo è morta Gwen?».
Quella domanda a bruciapelo gli fece chiudere gli occhi e tremare il
cuore di dolore. Con la bocca improvvisamente impastata, rispose:
«Una vita fa, ma fa male come se fosse accaduto
ieri».
«Scusami, non dovevo chiedertelo».
«Ehi, non c’è problema». Le
accarezzò una guancia, cancellando il percorso di una
lacrima. «Un amico mi diceva sempre che il dolore non bisogna
tenerlo dentro, va affrontato. Ed è ancora meglio se non lo
si fa da soli. Quando vorrai farlo, quando sarai pronta… io
ci sarò, te lo prometto».
Cathleen annuì con un cenno del capo, mostrando il suo
sorriso migliore, poi sciolse l’abbraccio per tornare in
cucina a lavare i piatti lasciati a mollo nel lavello. Artù
tornò a sedersi sul divano e controllò ancora una
volta il cellulare. Si sdraiò con la testa su uno dei
braccioli e si girò nel dito uno dei suoi anelli fino a
quando i suoi occhi non si chiusero, vinti dal sonno.
Fu così che mezz’ora dopo lo trovò
Cathleen: addormentato. Decise di non svegliarlo e gli stese addosso
una coperta, rimanendo ad osservarlo dolcemente per una decina di
minuti prima di posargli un bacio sulla fronte, tra i capelli biondi, e
di andare prepararsi a sua volta per la notte.
Si stava giusto lavando i denti quando ricevette un SMS. A
quell’ora lo avrebbe di certo ignorato se non avesse avuto il
cellulare accanto e non avesse scorto sul display il nome di Merlino.
Prenditi cura di
Artù.
Questa è bella,
pensò. Ma gettando un’occhiata verso il salotto si
disse che sì, per Artù avrebbe fatto qualsiasi
cosa Merlino le avrebbe chiesto, anche la più impensabile.
***
Merlino aprì lentamente gli occhi, abbagliato dal debole
raggio di sole che da chissà dove penetrava le
profondità della terra e si rifletteva su quasi tutti i
cristalli che lo circondavano.
La testa gli faceva un male terribile, come se avesse un nido di vespe
arrabbiate al posto del cervello, e i suoi vestiti erano sporchi e
puzzolenti. Si sollevò lentamente, con una mano sulla fronte
e l’altra all’altezza dello stomaco, e la sua
immagine riflessa in uno dei cristalli lo fece sobbalzare: gli occhi
stanchi ed incavati che mostravano la sua vera età; la pelle
rugosa, chiazzata qua e là da macchie e talmente sottile da
mostrare tutti gli intricati reticoli di vasi sanguigni sotto di essa;
la barba lunga e i capelli bianchi spettinati, presenti in maniera
sempre meno uniforme sul suo cranio.
Scostò lo sguardo e si massaggiò il viso,
cercando di dimenticare l’immagine di quel vecchio,
ciò che era veramente sotto il suo attuale aspetto, giovane
e ancora piacevole. Rinnegare se stesso: l’aveva fatto per
tutta la vita, era l’unica cosa che gli riusciva veramente
bene.
Cercò il cellulare e nello svuotare le tasche
trovò un flacone di antidolorifici. Mentre lo apriva per
poter inghiottire un paio di pillole, ricordò a sprazzi di
averlo preso dal bagno di Myra giusto prima di uscire, forse
immaginando che gli sarebbe tornato utile. Non ricordava
però se ne avesse già presa qualcuna prima di
svenire, sfibrato dalle convulsioni e dall’agonia che
più di una volta gli aveva fatto implorare
l’arrivo della morte.
Il cellulare alla fine lo trovò sul pavimento di nuda
roccia, macchiato di sangue. Pulì lo schermo sui pantaloni e
quando lo sbloccò si ritrovò nella sezione dei
messaggi inviati, in cui spiccava quello che aveva inviato a Cathleen
quella sera stessa.
Guardando l’orario si ricordò
dell’appuntamento che attendeva Artù: la TAC che
avrebbe o meno rivelato ciò che gli provocava quei
non-attacchi cardiaci. Non poteva assolutamente mancare.
Si alzò in piedi e barcollò fino alla cassapanca
dentro cui aveva sistemato alcuni vestiti di ricambio. Si tolse la
felpa e i jeans, macchiati di vomito e sangue. Ora ricordava: prima di
entrare nella grotta di cristallo aveva rimesso; ecco da dove proveniva
il sangue che aveva notato sul cellulare.
Con i vestiti puliti addosso e una lanterna elettrica in mano
attraversò un paio di cunicoli bui fino a raggiungere il
punto più profondo della grotta, dove si trovava un piccolo
lago sotterraneo. Le sue acque erano così scure ed immobili
che sembrava un vero e proprio specchio, in grado di riflettere il
soffitto costellato di stalattiti. Si inginocchiò sulla
sponda e guardò il proprio viso sporco e con una pessima
cera, ma ancora giovane. Si lavò via il sangue e rimase
diversi istanti sott’acqua, godendo della sensazione di gelo
sulla sua pelle. Poi si asciugò e tornò tra i
cristalli, dove recuperò il giubbino e le chiavi
dell’auto per correre al fianco di Artù, dove
doveva stare, dove sarebbe sempre stato.
***
«Sono preoccupato per Alex e Merlino».
Cathleen gli posò una mano sulla guancia e con
l’altra gli sistemò la spalla della leggera
camicia azzurrina che un infermiere gli aveva detto di indossare.
«Ti ho già detto che l’unica cosa di cui
devi preoccuparti adesso è te stesso, sperare che la TAC non
riveli nulla di grave».
«E se lo facesse? Se avessi davvero qualcosa di
grave?».
Si guardarono negli occhi per una dozzina di secondi. Quindi il
paramedico si chinò e gli posò un delicato bacio
sulla fronte, sussurrando: «In quel caso lo affronteremo
insieme, lo prometto».
Artù annuì e ricambiò debolmente,
lasciando andare la sua mano non appena l’infermiere
scostò bruscamente la tenda che circondava il suo letto e
aveva protetto la sua privacy mentre si cambiava.
«È tutto pronto, andiamo».
Cathleen lo aiutò ad infilarsi il vecchio accappatoio bianco
che aveva trovato sul fondo di un armadio e poi gli offrì il
braccio, sorridendo furbescamente. Artù lo
accettò chinando un poco la testa, come avrebbe fatto una
vera dama con il suo cavaliere, ma non riuscì a fingere a
lungo che il sorriso che aveva sulle labbra fosse sincero: la tensione
per l’esame e l’assenza di Merlino ed Alex, la
sensazione che l’avessero abbandonato in un momento
così critico e la paura che ogni sospetto sulla causa dei
suoi attacchi si rivelasse fondato gli facevano quasi tremare le gambe.
Guardò Cathleen stretta al suo fianco, quel giorno con i
lunghi capelli ondulati sciolti sulla schiena e il viso delicato
truccato, ma in modo leggero.
Il suo volto era stata la prima cosa che aveva visto quella mattina
svegliandosi e si era sentito vagamente in colpa, come se fosse stato
sbagliato, ma era stata una sensazione passeggera: aveva ricordato le
parole di Merlino, la sua convinzione a proposito di Ginevra e di che
cosa avrebbe voluto per lui, e in qualche modo aveva capito che ancora
una volta aveva ragione. Perciò si era lasciato accarezzare
da quello che sembrava un barlume di felicità, senza
respingerlo, e non poteva negare che si era sentito bene, bene come non
si sentiva da tempo.
«Ehi, perché mi fissi in quel modo?».
Artù ridacchiò e tornò a guardare quel
corridoio quasi infinito di fronte a sé. «Ti sono
davvero riconoscente, Cathleen».
«Per che cosa? Non ho fatto niente».
«Hai fatto moltissimo invece: ti sei presa cura di me,
nonostante tu mi conosca appena. Non eri obbligata a farlo».
Il paramedico si grattò dietro l’orecchio
sinistro, cercando di ignorare il rossore sul suo volto.
«Beh, prego».
«Per questo, se avrai bisogno di me non dovrai far altro che
chiedere. Intesi?».
«Intesi», rispose col petto in fuori e portandosi
una mano sulla fronte, un gesto che lì per lì non
riconobbe e che poi ricordò di aver visto in un film alla
TV: un saluto militare.
Giunsero finalmente davanti alla stanza in cui si sarebbe svolta la TAC
e Cathleen si fermò sulla porta, il braccio teso e la mano
ancora stretta nella sua.
«Sarò dall’altra parte del
vetro», gli spiegò scorgendo una punta di
agitazione nel suo sguardo.
Cathleen lo incitò a proseguire con un cenno del capo e un
sorriso incoraggiante sulle labbra. Artù lasciò
lentamente la sua mano, ma non ruppe il contatto visivo fino a quando
la porta non si chiuse alle sue spalle, lasciandolo solo con
l’infermiere e quell’enorme macchina che solo a
guardarla gli fece correre un brivido di freddo lungo la spina dorsale.
***
Merlino gettò nervosamente il centesimo sguardo
all’orologio dal vetro crepato che aveva al polso –
Quando era successo? Quella notte, alla caverna, oppure prima?
– e colpì il volante con una mano, imprecando
contro quell’esasperante semaforo. Ebbe quasi la tentazione
di far scattare il verde con l’uso della magia, ma si
costrinse a trattenersi: doveva conservare tutte le energie che era
riuscito a recuperare per affrontare le eventuali conseguenze a cui
Alex ovviamente non aveva pensato quando era riuscita a prenotare
quella TAC per Artù.
Era dovuto passare a casa per recuperare alcune cosette che avrebbero
potuto tornargli utili ed ora era in un ritardo mostruoso. Sperava
soltanto che il loro sistema sanitario non avesse deciso di diventare
improvvisamente puntuale ed efficiente.
Con uno stridio di gomme parcheggiò l’auto, col
finestrino ancora mancante e alcuni pezzi di vetro sul tappetino.
Quindi corse verso l’entrata del pronto soccorso con lo zaino
che gli rimbalzava sulle spalle.
Fu davanti alle porte scorrevoli che incontrò Alex,
proveniente dall’altra parte del parcheggio e in ritardo
tanto quanto lui. Si squadrarono in silenzio per un po’,
fermi immobili e con maschere d’inespressività ben
calcate sui loro visi terribilmente sciupati.
«Hai un aspetto orribile», esclamò per
prima Alex.
«Grazie, anche tu», rispose Merlino, invitandola ad
entrare al suo fianco.
A passo svelto si diressero verso il reparto di radiologia. Nessuno dei
due si fermò quando Merlino si chinò sul suo
orecchio per sussurrare: «Hai pensato a che cosa accadrebbe
nel caso in cui trovassero nel suo petto qualcosa che non potrebbe
umanamente trovarsi lì? Un frammento di spada incantata, per
esempio».
Alex lo fissò ad occhi sgranati, occhi arrossati e
circondati da lividi violacei che gli facevano immaginare
l’infermiera nel bel mezzo di un incontro clandestino di boxe.
«No, certo che no», si rispose da solo Merlino,
inarcando le sopracciglia. «Per fortuna Artù ha me
al suo fianco».
«Stai per caso insinuando che io non sono alla tua
altezza?», esclamò Alex, serrando innervosita la
mascella.
«Sto solo dicendo che se davvero vuoi far parte di tutto
questo, allora devi seguire le mie regole. Un’altra
stupidaggine come questa, un altro errore che potrebbe costare la
sicurezza di Artù… Sarò costretto a
prendere provvedimenti».
Alex si fermò di colpo e si esibì in una finta
risata. «Ah! E che tipo di provvedimenti? Sentiamo».
Lo stregone si guardò intorno e si avvicinò a lei
tanto da sfiorarle il naso col proprio, gli occhi fissi nei suoi.
«Credi che in più di millequattrocento anni non
sia mai capitato che qualcuno di scomodo abbia scoperto il mio segreto?
Ho fatto quello che dovevo e lo farò ancora, se
necessario». Le rivolse un’occhiata eloquente e le
afferrò un braccio per riprendere a camminare ed essere
sicuro che lo seguisse.
***
«Fermatelo! Fatemi uscire di qui, è un ordine!
FATEMI USCIRE!».
Le urla di Artù si sentivano fin dal corridoio. Alex e
Merlino entrarono nella stanza di monitoraggio facendo sbattere la
porta contro la parete, così bruscamente che sia il tecnico
col camice bianco chino sull’interfono, sia
l’infermiere che Cathleen sobbalzarono dallo spavento.
«Che cosa diavolo succede?», urlò Alex,
fissando inorridita Artù che si agitava in maniera disumana
dentro la cavità della TAC per uscirne.
«Credo sia nel bel mezzo di un attacco di panico»,
rispose il tecnico.
«Certo che lo è, soffre di
claustrofobia», mugugnò irritato Merlino, come se
tutti in quella stanza, eccetto lui ovviamente, fossero dei perfetti
idioti. E Alex dovette convenire con lui, dato che lei sapeva
perfettamente di quella sua fobia e non ci aveva pensato. Davvero, dove
aveva la testa?
Il tecnico gli lanciò un’occhiata gelida e riprese
a parlare nel microfono: «Signor Pendragon, si calmi, adesso
spengo tutto e manderò l’infermiere ad
aiutarla».
«No, non può farlo».
Tutti quanti si voltarono verso Alex, confusi ed increduli.
«Invece sì, e lo farà»,
rispose Cathleen, il volto contratto dall’ira.
«Guardalo, sta male!».
«Ma così non avremo mai più
l’occasione di capire che cos’ha che non
va!».
«Alex ha ragione», la sostenne Merlino, cosa che le
fece spalancare la bocca per lo stupore: o quel giorno era
particolarmente lunatico, o la sua insensibilità avrebbe
dovuto farle paura.
Il mago scansò chiunque si trovasse sulla sua strada e
strappò il microfono dalle mani del tecnico:
«Artù, sono Merlino».
«Merlino! Merlino, sei davvero tu? Ti prego, tirami fuori di
qui!».
«Mi dispiace, non posso farlo. Ho bisogno che vi calmiate.
È necessario che restiate completamente immobile, solo
così riusciranno a completare l’esame e noi
otterremo che risposte che vogliamo».
«Merlino…», lo sentì
singhiozzare, ma aveva già iniziato a rilassare le gambe sul
ripiano su cui era sdraiato.
«Sono qui, non vi lascio. Concentratevi sul vostro respiro,
fate respiri profondi e rimanete immobile. Non vi succederà
nulla di male, ve lo prometto».
«Alex è lì con te?».
Merlino sollevò gli occhi in quelli di Alex ed
abbozzò un sorriso. «Sì, è
qui al mio fianco. Siamo qui Artù, insieme».
Alex chinò il capo, sentendo la stessa fitta di dolore che
aveva provato da ragazzina quando aveva capito che sua madre e suo
padre, dopo una litigata, si sforzavano di sembrare felici solo
perché lei
fosse felice.
Sentì la mano di Merlino avvolgerle delicatamente il polso e
sollevò di scatto la testa trovando il suo sguardo, stanco
ma dolce, ad attenderla. Le indicò l’interfono e
l’infermiera si chinò al suo fianco:
«Ciao Artù, sono qui».
«Ho quasi fatto», sussurrò il tecnico,
controllando le scansioni del petto di Artù sui due schermi
di fronte ai suoi occhi, l’unica fonte di luce in quella
piccola stanzetta sovraffollata.
«Manca poco, Artù», disse ancora
Merlino, sorridendo come se il re di Camelot potesse anche vederlo.
«Continuate a rimanere immobile. Come quella volta che siamo
stati costretti ad attraversare quei tunnel abitati dai wildeon e ci
siamo spalmati quelle bacche puzzolenti sulla faccia. Vi ricordate?
Rischiavamo di diventare il pranzo di quei mostri, invece siamo rimasti
così immobili che se ne sono andati. Pensate di riuscirci
ancora per un po’?».
Tutti quanti lo guardavano come se fosse appena diventato matto, ma le
sue parole ottennero il risultato sperato: Artù non si mosse
e la TAC andò a buon fine, tanto che il tecnico e
l’infermiere esclamarono contemporaneamente: «Ma
che diavolo…?», prima che Merlino acciuffasse
dallo zaino due fazzoletti di stoffa e li tenesse premuti sui loro nasi
e sulle loro bocche dopo averli inumiditi con il liquido contenuto in
una bottiglietta di Pepsi. I due persero conoscenza nel giro di pochi
secondi e Merlino li adagiò senza troppa cautela sul
pavimento, uno appoggiato alla spalla dell’altro. Quindi,
sempre sotto gli occhi sbarrati di Alex e Cathleen, si sedette sulla
poltrona del tecnico ed iniziò ad armeggiare con le tastiere
dei computer ed una chiavetta USB, dando ordini a destra e manca:
«Alex, infilati uno di quei camici e quando ti do’
il segnale vai a recuperare Artù. Cathleen, tu stai fuori
dalla porta e avvisami nel caso qualcuno volesse entrare. Poi dovrai
coprirci mentre ce ne andiamo, trovare questi due e dare
l’allarme. Tutto chiaro?». Non aspettò
la sua risposta – sapeva che non ne avrebbe avuta alcuna,
dato il suo stato di shock, – ed attivò di nuovo
l’interfono per dire ad Artù:
«È finita, mando Alex a prendervi».
Quando trovò il modo di spegnere tutta
l’apparecchiatura fece segno ad Alex di entrare nella stanza.
L’infermiera esitò, tanto da beccarsi
un’occhiataccia dallo stregone, poi corse al capezzale di
Artù, lo liberò dagli elastici che gli avevano
stretto all’altezza delle spalle e del basso ventre
perché non si muovesse e lo aiutò ad alzarsi.
Tremava come una foglia, ma la sua espressione seria ed orgogliosa non
lasciava trasparire alcuna emozione.
«Abbiamo portato a termine la missione?», le chiese
soltanto, a bassa voce.
Alex abbozzò un sorriso e gli strofinò una mano
tra le scapole. «Sì, missione compiuta».
Nonostante Cathleen avrebbe dovuto fare da palo fuori dalla stanza di
monitoraggio, quando Alex e Artù raggiunsero Merlino la
trovarono ancora lì, in piedi accanto ai due uomini che lo
stregone aveva messo K.O., e la sua espressione non prometteva nulla di
buono.
«Artù, potete dire alla vostra nuova fiamma di
fare ciò che le dico, per cortesia? Forse voi sapete come
farvi ascoltare».
«Ehi!», urlò Cathleen, attirando
l’attenzione di tutti sul suo volto paonazzo ed accartocciato
dal nervosismo. «Uno, io non sono la fiamma di nessuno; due,
non farò un bel niente senza sapere perché
rischio di cacciarmi in un guaio di proporzioni epiche!».
Merlino si addossò allo schienale della sedia girevole e la
fece roteare fino a quando non fu perfettamente davanti a lei. La
serietà e la schiettezza con cui riassunse la loro
situazione fece venire i brividi ad Alex, ma non solo: erano i suoi
occhi a serrarle il cuore in una morsa gelata, o meglio ciò
che non c’era più in essi. Qualunque cosa fosse.
«Io e Artù siamo i famosi Merlino ed
Artù delle storie, il potente mago e il re di Camelot della
Tavola Rotonda e di Excalibur. Io ho più di
millequattrocento anni e ho vissuto su questa Terra, immortale, per
un’unica ragione: riportare la magia nel mondo per impedirne
così la distruzione. Non ti sto a spiegare il
perché, ma chi ha scritto il mio destino ha deciso che non
avrei potuto farcela senza Artù, perciò
è stato riportato in vita proprio ora che la Terra ne ha
più bisogno. Dubito che tu sappia che durante quella che
dagli storici è stata chiamata la Battaglia di Camlann
Artù sia stato ferito mortalmente da una spada incantata.
Beh, vedi questo rettangolino qui?», con una penna trovata
sulla scrivania indicò un punto avvolto da
un’ombra scura su uno degli schermi che mostravano da varie
angolazioni l’interno della gabbia toracica di
Artù. «Questo è un frammento di quella
spada, si suppone ancora impregnato di magia, che di quando in quando
decide di far patire terribili sofferenze al cuore del nostro
Artù. Ora dimmi, che cosa farebbe un qualunque chirurgo nel
caso in cui si trovasse queste lastre tra le mani?».
Cathleen abbassò lo sguardo, quasi con vergogna.
«Non sono un chirurgo».
«Per favore, Cathleen… Basta aver guardato qualche
episodio di Gray’s
Anatomy per saperlo. Persino Artù potrebbe
dirmelo!».
Alzò rapidamente gli occhi per incrociare quelli del biondo,
improvvisamente pallido come un cencio, e si morse le labbra
mormorando: «Lo opererebbe per estrarre il corpo
estraneo».
«Corretto!», esultò Merlino con un
sorriso forzato sul viso, battendo le mani. «Non possiamo
permettere che accada».
Solo Alex fu tanto stupida da rompere il silenzio agghiacciante che li
aveva circondati non appena Merlino aveva smesso di fissare Cathleen
per tornare alle tastiere dei computer.
«Perché?», chiese e se ne
pentì immediatamente.
La risata sadica di Merlino le fece accapponare la pelle e il suo
sorriso maligno fece anche di peggio.
«Scusami, è che pensavo fosse ovvio. Abbiamo detto
che la spada di Mordred era incantata e che quel frammento è
impregnato di magia oscura, una magia così potente che
è riuscita a sopravvivere per più di quindici
secoli. Non sappiamo cosa potrebbe accadere se qualcuno tentasse di
tirargli via quel pezzo di lama dal petto. E se la magia si ribellasse
e lo uccidesse? Non possiamo rischiare».
«E quindi saresti disposto a lasciarlo lì e a
starmi sempre accanto per intervenire durante gli attacchi, rischiando
la tua vita usando la magia per salvare la mia?»,
domandò Artù con un nuovo fuoco negli occhi,
divampato all’improvviso.
«Perché no? È quello che ho sempre
fatto: sacrificare la mia vita per la vostra». Merlino
abbozzò un sorriso e con quella luce azzurrognola riflessa
sul viso Alex pensò che sembrava ad un fantasma vecchio e
solo. «È l’unica cosa in cui sono
bravo».
Artù fece un passo avanti e lo afferrò per la
spalla, voltandolo perché i loro sguardi si incatenassero.
«Non te lo permetterò ancora».
«E sentiamo, come avete intenzione di fermarmi?».
Il re di Camelot esitò, infastidito ed addolorato allo
stesso tempo dal sorriso sereno di Merlino, il sorriso di un condannato
a morte che aveva accettato da tempo la sorte che era stata decisa per
lui. Quindi, inspirando forte dal naso, rispose:
«Diventerò Iron
Man».
«Questo è troppo», borbottò
Cathleen, mettendosi entrambe le mani nei capelli. La sua espressione
esasperata non aveva affatto bisogno di spiegazioni ed infatti nessuno
ne chiese.
«Vado a fare quel maledetto palo, ma vi voglio fuori di qui
entro dieci minuti. Ci siamo capiti bene?».
Merlino annuì con un solo cenno del capo a cui Cathleen
ricambiò, anche se incerta, prima di uscire dalla porta
evitando accuratamente lo sguardo dispiaciuto di Artù.
«Era proprio necessario che Cathleen sapesse?»,
esclamò irritato proprio quest’ultimo, fulminando
Merlino con lo sguardo.
Lo stregone scrollò le spalle. «Era proprio
necessario che Alex sapesse?».
Artù sospirò massaggiandosi gli occhi con due
dita e nessuno osò più fiatare. La tensione si
tagliava a fette, ma Merlino, proprio come se nulla fosse,
continuò a scrivere parole immaginarie sulle tastiere dei
computer, riempiendo intere schermate nere di codici. Stava per caso
hackerando il sistema interno dell’ospedale?
Solo successivamente Alex avrebbe scoperto che in quei pochi minuti
aveva cancellato ogni traccia della loro presenza: la prenotazione
elettronica della TAC a nome Artù Pendragon, i filmati delle
telecamere che li avevano ripresi entrare al pronto soccorso, i
risultati degli esami… insomma, qualsiasi cosa avrebbe
potuto portare a loro se ci fossero state delle indagini interne.
Dopo aver estratto la chiavetta USB, Merlino si voltò verso
Alex e la fissò così intensamente che ebbe paura
che il sangue le si congelasse nelle vene. «Se non avessi
già forzato la mano ieri sera, non te lo chiederei
mai».
« Forzato la
mano?». Artù inarcò le
sopracciglia prima per la confusione, poi per la rabbia. «Hai
usato la magia. Dovevo capirlo, ne hai tutti i postumi. Ma non capisci
che ti sta consumando, Merlino?!».
Lo stregone non lo degnò nemmeno di uno sguardo, la sua
attenzione era ancora tutta focalizzata su Alex, la quale
deglutì rumorosamente e sistemandosi una ciocca di capelli
dietro l’orecchio chiese: «Che cosa devo
fare?».
«Sostenermi».
Le porse una mano e l’infermiera la osservò per
diversi istanti, fino a quando non si rese conto che non avevano
più tempo e che se c’era una persona di cui poteva
fidarsi ciecamente, quella persona era Merlino.
Afferrò la sua mano e si inginocchiò al suo
fianco di fronte ai due uomini svenuti. Solo in quel momento,
raccogliendo i fazzoletti di cui dovevano sbarazzarsi, Alex
realizzò che la sostanza che aveva fatto loro perdere
conoscenza era cloroformio. Non si chiese dove Merlino
l’avesse preso né volle mai saperlo.
«Devo cancellare i loro ricordi e rimpiazzarli con
altri», le spiegò a bassa voce, il viso
decisamente troppo vicino al suo.
«Perché devi anche rimpiazzarli? Ci metterai il
doppio del tempo e delle energie…».
«E lasciargli un vuoto di memoria? No. Troppi rischi, troppe
domande».
«Che cosa gli farai ricordare?».
Merlino accennò un sorriso quasi divertito. «Un
qualcosa che non andranno a raccontare a nessuno, puoi
giurarci».
Alex non ebbe nemmeno il tempo di prepararsi con un respiro profondo:
la magia di Merlino la investì come un treno ad alta
velocità e sentì il corpo andarle a fuoco, prima
dolorosamente e poi donandole sempre più energia, tanto da
farle passare il mal di testa e la nausea causate dall’alcool
e dalla notte insonne. Vide sprazzi di ciò che Merlino
immaginò per i due uomini, come se fosse dentro la sua
mente, e pensò che non avrebbe proprio voluto essere nei
loro panni al momento del loro risveglio.
Scoprire di essere gay
così all’improvviso… Che shock!
Poi tornò il dolore, un dolore quasi insopportabile: il
fuoco si era trasformato in un vero e proprio incendio e dovette
sforzarsi terribilmente per non urlare.
Stava giusto per cedere, quando sentì Merlino sorreggerla
per la schiena, trovandosi così abbracciato a lei, e
sussurrarle tra i capelli: «Immagina una barriera in grado di
contenere la magia, rendila vera e poi lasciala andare».
Le venne subito in mente il video animato della canzone “ Another brick in the wall”
dei Pink Floyd, un video che suo padre, fan della band, le aveva fatto
vedere centinaia di volte, nonostante lei, piccola com’era,
fosse terrorizzata da quel professore deforme e spietato.
Immaginò quello stesso muro di mattoni richiudersi sul fuoco
dorato che le faceva male persino alla vista, ma fu faticoso e anche
quando fu perfettamente sigillato non riuscì a staccarsene;
continuò a spingere e a spingere con le spalle contro quei
pallidi mattoni freddi, per paura che la magia fuoriuscisse e la
riducesse in cenere.
La voce di Merlino la raggiunse a malapena: «Lasciala
andare».
«Non posso, non posso», mugugnò
scuotendo il capo contro i mattoni umidi e contro il petto di Merlino.
«Sì che puoi. Ci sono qui io, ti
proteggerò. Ti proteggerò sempre».
Alex strinse forte gli occhi e respirò profondamente facendo
un passo indietro. Aspettò che la magia la investisse
nuovamente, ma non accadde. Quando aprì gli occhi, tutto
ciò che vide fu il volto di Merlino, sudato ma sorridente.
«Sei stata bravissima», le sussurrò
prima di svenire tra le sue braccia.
«No. No, no, no. Ehi, Merlino, dobbiamo uscire di qui. Apri
gli occhi».
Gli tirò uno schiaffetto leggero sulla guancia, scrollandolo
poi per le spalle, e Merlino parve riprendersi, tanto da alzarsi in
piedi, stando aggrappato alle spalle di Alex ed Artù.
Controllarono di aver preso tutto, compresa la bottiglietta di Pepsi
col resto del cloroformio, poi aprirono un poco la porta ed intravidero
Cathleen intrattenere un’infermiera dietro l’angolo
del corridoio. Il paramedico li notò con la coda
dell’occhio e con una mano dietro la schiena
indicò loro di passare in fretta. Alex e Artù si
scambiarono uno sguardo d’intesa e sgattaiolarono fuori con
Merlino di nuovo a peso morto tra loro, la testa ciondolante contro lo
sterno.
Camminarono il più velocemente possibile lungo il corridoio
che conduceva alla cappella, ma sulla loro strada si imbatterono in un
paio di giovani infermieri, un ragazzo e una ragazza tra cui
sicuramente c’era qualcosa, e furono costretti a nascondersi
dietro una delle colonne del porticato. Solo allora Alex si rese conto
dell’abbigliamento di Artù: la camicia
dell’ospedale e un accappatoio bianco troppo stretto per le
sue spalle larghe.
«Non puoi uscire così»,
sussurrò ad occhi sgranati.
Artù si gettò una rapida occhiata e
scrollò il capo: «Tutto ciò che mi
interessa è portare Merlino a casa. Ha bisogno di
riposo».
«Me ne rendo conto benissimo, ma attireresti troppa
attenzione e renderemmo vani tutti i suoi sforzi».
I due Pendragon si scambiarono un lungo sguardo. Fu Artù a
spezzarlo, respirando profondamente.
«Va bene», esclamò. «Qual
è il tuo piano?».
Alex non aveva un piano, o almeno non l’avrebbe definito
tale, perciò finse di dimostrarsi sicura di ogni parola:
«Più avanti c’è una porta
d’emergenza che dà sull’ingresso dei
magazzini: aspettatemi lì. Io vado a recuperarti i vestiti e
vi raggiungo. Ah». Si sporse su Merlino e gli
infilò le mani nelle tasche del giubbotto e in quelle dei
pantaloni, fino a quando non trovò le chiavi della sua
Pininfarina.
Artù sgranò un poco gli occhi.
«Andrà su tutte le furie, quando lo
scoprirà».
«Me ne farò una ragione», rispose
distrattamente Alex, per poi trarre un respiro profondo per farsi
coraggio. Quindi assunse un’andatura normale e
girò l’angolo, mostrandosi vagamente scocciata di
trovare i due infermieri sul punto di scambiarsi un bacio. Si
portò entrambe le mani sui fianchi, con le sopracciglia
inarcate, e si schiarì la gola con prepotenza, facendoli
sussultare.
«Farò finta di non aver visto nulla se tornate
immediatamente al lavoro», disse con tono di rimprovero e i
due ragazzi, a capo chino per l’imbarazzo, corsero via senza
aprire bocca.
Quando furono lontani, Alex si voltò verso Artù e
Merlino e gli fece segno di muoversi. Il re di Camelot le rivolse un
ultimo cenno col capo, traducibile in un «Mi
raccomando», poi sorresse lo stregone fino alla porta che
l’infermiera gli aveva indicato.
***
«Allora?».
Alex si sollevò e gettò un’occhiata ad
Artù, appoggiato con una spalla allo stipite della porta.
«Come un’ora fa: non ci sono peggioramenti,
né miglioramenti. Sembra stabile, ma lo sai, Merlino non
è un paziente comune. Chissà cosa sta succedendo
dentro di lui…».
Il re di Camelot entrò nella stanza dello stregone e si
abbandonò sul piccolo pouf accanto alle porte della cabina
armadio. «E tu, invece?».
«Io che cosa?».
L’infermiera si sedette con delicatezza sul letto ed
osservò il volto di Merlino, pallido ed inespressivo, fino a
quando non allungò una mano per scostargli delle ciocche di
capelli dalla fronte umida. Solo in quel momento si rese conto che
c’era qualcosa di diverso.
«Si sono ingrigiti», mormorò
avvicinandosi di colpo per osservare meglio la sfumatura di colore che
avevano perso.
«Che cosa hai detto?», chiese Artù, le
sopracciglia aggrottate.
«Niente, dev’essere una mia impressione. Che cosa
volevi sapere?».
«Se tu ti senti bene: anche tu hai la faccia di chi ha
passato una brutta serata».
Alex scrollò le spalle e si strinse le braccia al petto.
«Sto bene».
«Sei una pessima bugiarda», le rispose con
l’abbozzo di un sorriso sul volto, sorriso che si
trasformò nell’accenno di una risata.
«Ti ho trasmesso pure questo, a quanto pare».
L’infermiera non poté impedire ai ricordi della
sera precedente, anche se frammentari e confusi, di invaderle la mente
e farla sentire uno straccio. Chiuse gli occhi per cercare di
cancellare l’immagine di Keith, il suo viso dispiaciuto
mentre le confessava di aver fatto quello che aveva fatto per
allontanarla da Merlino, ma fu ancora peggio. Li riaprì e
fissò quelli di Artù, ancora posati su di lei.
«Non vedo perché dovrei essere onesta con te,
quando voi non avete fatto altro che tenermi all’oscuro della
verità», esclamò.
Il re di Camelot fece una smorfia ed evitò il suo sguardo.
Nonostante sapesse benissimo a che cosa si riferisse,
sussurrò: «Di che cosa stai parlando?».
«Di quello che ha detto Merlino all’ospedale: che
il suo destino è quello di riportare la magia nel mondo per
impedirne la distruzione. Perché non ne sapevo
niente?».
«Perché tu devi stare fuori da tutto questo, ed
è l’unica cosa su cui siamo entrambi
d’accordo».
«Ecco, ci risiamo; lo state facendo di nuovo».
Artù si alzò in piedi di scatto e si
avvicinò a lei con occhi fiammeggianti. «Vogliamo
solo che tu sia al sicuro, perché non lo capisci?».
Anche Alex si alzò e lo fronteggiò senza paura,
il viso a pochi centimetri dal suo. Parlò con determinazione
e rabbia, sentendo il fuoco della magia scorrerle nelle vene, domabile
a stento.
«Si tratta della mia
vita, è un mio diritto poter fare le scelte che ritengo
più giuste per me, e né tu né Merlino
riuscirete a togliermelo».
Artù sostenne il suo sguardo così a lungo e con
così tanta intensità che Alex credette che non ce
l’avrebbe fatta, che l’avrebbe abbassato per prima,
ma alla fine il biondo arretrò di un passo e si
lasciò cadere nuovamente sul pouf alle sue spalle, una mano
sulle labbra e il viso rivolto verso la finestra, verso il cielo
coperto.
«È inutile scegliere»,
mormorò ad un tratto, a voce così bassa e con la
bocca ancora coperta dalla mano che Alex faticò a
distinguere le parole.
«Che cosa intendi dire?».
Artù scosse il capo come se non si fosse reso conto di aver
parlato ad alta voce ed abbozzò un sorriso dolce.
«Dimentica quello che ho detto. Saresti così
gentile da preparare del tè?».
Alex aprì la bocca per rispondere che non era la sua
cameriera personale, ma la richiuse quando si rese conto che comunque
non avevano più nulla da dirsi. Si alzò
sospirando lievemente ed uscì dalla stanza di Merlino.
Prima di chiudersi definitivamente la porta alle spalle però
osservò di nascosto Artù mentre prendeva il suo
posto accanto allo stregone e lo guardava con espressione talmente
apprensiva che sentì una fitta al cuore. Ma fu ancora peggio
quando lo sentì sussurrare: «Credi sia stato un
caso che tu e mio figlio siate stati separati? Era destino. Separarvi
era l’unico modo perché noi, oggi, potessimo avere
al nostro fianco Alexandra. E sappiamo benissimo entrambi che alla fine
non ci tireremo indietro: noi salveremo questo mondo, o almeno ci
proveremo, perché non farlo sarebbe come abbandonare Alex. E
né tu né io abbandoneremmo mai di nostra
volontà qualcuno che amiamo, non è
così?».
Artù si lasciò scappare una mezza risata e quando
voltò il capo Alex si ritrasse, ma aveva fatto in tempo a
vedere lo scintillio di una lacrima sulla sua guancia.
***
Merlino si svegliò urlando e traendo una lunghissima boccata
d’ossigeno, come se fosse stato in apnea per tutto il tempo
in cui era rimasto privo di conoscenza. E in effetti così
era stato, almeno nella sua testa. Aveva sognato di essere ancora nella
caverna di cristallo, col viso immerso nell’acqua gelida
della falda, paralizzato da ciò che aveva visto sul fondale
scuro rischiarato di tanto in tanto da qualche debole raggio di sole
riflesso dalle pietre: Alex, con indosso lo stesso vestito che aveva
regalato a Freya poco prima che venisse ferita a morte, e i lunghi
capelli biondi che le ondeggiavano intorno al viso pallido.
Era assurdo quello che aveva visto, ma non riusciva a smettere di
tremare di paura. Solo vedendo Alex sana e salva, il rossore sulle sue
guance per aver fatto le scale di corsa, e sentendo la sua voce
riuscì a calmarsi un poco.
«Ti senti male?», gli chiese preoccupata, mentre
Artù la raggiungeva.
«No, era solo un incubo», mugugnò
passandosi entrambe le mani sul viso. Quindi si ricordò di
quello che era successo quella mattina all’ospedale e del
vuoto che c’era dal momento in cui aveva usato la magia sul
tecnico e sull’infermiere al suo risveglio nella propria
camera da letto.
«Raccontatemi tutto quello che è successo da
quando sono svenuto», ordinò, interrompendo Alex
ancor prima che potesse porgergli qualsiasi altra domanda.
L’infermiera gli fece un breve riassunto su come erano
riusciti a sgattaiolare via senza che nessuno li vedesse, anche se era
stato a tratti un po’ complicato.
Gli raccontò di essere riuscita a recuperare tutti i vestiti
e gli oggetti personali di Artù, ma non come (Alex aveva la
sensazione che non sarebbe stato felice di sapere che aveva usato un
pizzico della magia che aveva assorbito da lui).
Gli raccontò che era riuscita a prendere la sua auto e che
era andata a recuperare lui e Artù senza che nessuno la
notasse.
«Ah, il finestrino era già così quando
sono salita in auto, quindi non te la prendere con me»,
aprì e chiuse parentesi, mordendosi il labbro per
l’ansia.
«Sì, lo so», rispose Merlino con
indifferenza, cosa che fece strabuzzare gli occhi sia ad Alex che ad
Artù: entrambi sapevano quando fosse legato alla sua auto,
eppure non aveva fatto una piega né sul fatto che
l’avesse guidata Alex né, soprattutto, sul
finestrino mancante.
Merlino li fissò con gli occhi leggermente sgranati e le
sopracciglia inarcate, in attesa. «E poi?».
«Beh… ti abbiamo portato a casa e tu hai dormito
per tre ore filate», concluse Artù per Alex, ora
insospettita dal suo comportamento.
«E la tua auto?», chiese lo stregone indicando
l’infermiera.
«La mia…? Oh, non sono arrivata con la mia auto
stamattina, mi hanno accompagnata».
Merlino chiuse gli occhi ed annuì, dicendosi che avrebbe
dovuto immaginarlo, poi si lasciò cadere ancora una volta
sul letto, con la testa immersa nei cuscini: si sentiva a pezzi, non
solo fisicamente ma anche mentalmente.
«Cathleen?», domandò a bassa voce, di
nuovo privo di forze.
«Ho provato a scriverle, ma non ho ancora ricevuto
risposta», disse Artù, demoralizzato.
Nonostante non ritenesse Cathleen all’altezza del suo re,
Merlino si sentì come sempre in dovere di tirarlo su di
morale: «Ha solo bisogno di un po’ di tempo. Si
farà sentire, prima o poi».
«Lo spero».
Il mago riaprì gli occhi e si tirò sui gomiti,
ricordandosi all’improvviso dell’insensata e folle
risposta che gli aveva dato subito dopo la TAC.
«Che cosa intendevate dire esattamente con le parole:
“Diventerò Iron Man”?».
Alex, interessata alla questione, si sedette sul fondo del letto senza
staccargli gli occhi di dosso, senza perciò rendersi conto
dello sguardo di Merlino, a tratti ancora terrorizzato da
ciò che aveva sognato. Che poi, si era trattato solamente di
un sogno, di uno scherzo della sua fantasia?
«Ieri sera con Cathleen ho visto il film e ho pensato
che… sì, se non possiamo tirarmi fuori dal petto
questo pezzo di spada perché rischiamo di fare danni
peggiori, potremmo trovare il modo di controllarlo
dall’esterno, come ha fatto l’uomo che ha salvato
Tony Stark con quel coso che gli ha messo nel petto».
«Un elettromagnete», lo corresse Alex,
arricciandosi subito dopo una ciocca di capelli tra le dita con
espressione meditabonda. «Quindi una specie di calamita
attira magia negativa, in grado di tenere il pezzo di spada lontano dal
tuo cuore. Pensi si potrebbe fare?».
Merlino si rese conto che Alex stava parlando con lui solo quando
Artù gli sventolò una mano di fronte al viso.
Solo l’idea che il re di Camelot avesse avuto
un’idea così geniale lo aveva sconvolto,
immaginare un progetto così ambizioso lo aveva completamente
mandato nel pallone.
Scosse il capo, troppo stanco anche solo per formulare un pensiero
concreto: «Non lo so».
Artù annuì, dandogli una leggera pacca sulla
spalla. «È meglio se ti riposi ancora un
po’, uhm? Andiamo, Alex».
Ma l’infermiera non si mosse. Accarezzò con un
dito la trama del piumone sul letto dello stregone e senza alzare gli
occhi disse: «Ti dispiace se ti raggiungo tra cinque minuti?
Ho bisogno di parlare con Merlino».
Il re di Camelot esitò, poi annuì ed
uscì chiudendosi delicatamente la porta alle spalle.
Merlino gettò la testa all’indietro, sospirando
con tono esasperato. «Non si potrebbe rimandare?».
«Non sai nemmeno quello che ti voglio dire».
«Sì che lo so. Vuoi dirmi che il fatto che tu e
Keith foste lì insieme in quel pub non significa per forza
che volevate riprovarci, che sono stato uno stupido a reagire in quel
modo e che non credi a nessuna delle cose che ho detto riguardo a Myra.
E fai bene, perché ho mentito: volevo che mi dimenticassi,
che mi detestassi a tal punto da non volermi nemmeno più
vedere. Questo era l’unico motivo per cui ho accettato di
uscire con lei. Poi ho scoperto che il vero motivo per cui lei invece
voleva uscire con me era cercare vendetta: era in combutta con Keith
perché litigassimo e ci allontanassimo l’uno
dall’altra, lo sai?».
Alex chiuse gli occhi ed annuì, umettandosi le labbra.
Quando li riaprì, erano lucidi di lacrime.
«Me l’ha detto ieri sera», disse,
schiarendosi la gola. «È stato lui ad insistere
perché venissi trasferita al pronto soccorso».
Merlino si tirò su seduto di scatto e la stanza
iniziò a girargli intorno, facendogli provare un vago senso
di mal di mare.
«Ma non era questo che volevo dirti», aggiunse
prima che il mago potesse replicare. Deglutì rumorosamente e
fissando finalmente gli occhi nei suoi esclamò:
«C’è una cosa che ho sempre voluto
dirti, una cosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti. Mi
crederesti, se ti dicessi che l’ho pensata anche quella notte
di Capodanno, quando ti sei presentato alla festa
dell’ospedale al posto di tuo –?», si
morsicò un sorriso. «Quando ti sei presentato con
un altro aspetto e un altro nome?».
Merlino inspirò silenziosamente dal naso, sentendo il cuore
appesantirsi di varie tonnellate e allo stesso tempo fluttuare libero
nel suo corpo, pulsando ovunque e sempre più velocemente.
«Io ti amo, Merlino. Ti amo come non ho mai amato nessuno e
qualsiasi cosa tu faccia, qualsiasi dolore tu possa farmi
patire… non potrà mai sovrastare
l’amore che provo per te. E se pensi che tra noi non possa
funzionare, che è semplicemente sbagliato…
è okay, non posso costringerti a pensare il contrario.
Però dovevo dirtelo».
Si alzò dal letto con un tenue sorriso sulle labbra, intriso
di amarezza, e senza aggiungere altro lo lasciò solo.
Merlino raggiunse la porta troppo tardi, quando se l’era
giù chiusa alle spalle. Scivolò con la schiena
lungo il legno chiaro e si sedette per terra, col mento abbandonato
contro lo sterno.
Cosa sarebbe successo se le avesse detto che anche lui aveva pensato la
stessa cosa quando i loro sguardi si erano incrociati, nonostante
fossero ai lati opposti della grande sala e divisi dalla gente che si
era già arrischiata a calcare la pista da ballo? E che cosa
sarebbe successo se le avesse detto che l’aveva saputo ancora
prima, inconsciamente, e che per lei, per non farle fare una brutta
figura a quella festa di Capodanno, si era tolto la vita?
Alzò gli
occhi sullo specchio ancora una volta, si accarezzò la lunga
barba bianca e le rughe che gli contornavano gli occhi, poi
guardò la bottiglietta che aveva lasciato sul ripiano del
lavandino e sospirò togliendone il tappo con le dita
tremanti.
«Ad Alexandra
Greenwood», mormorò in un brindisi col suo stesso
riflesso ed inghiottì tutto in una volta il potente veleno.
Quando si
risvegliò, steso nella vasca da bagno vuota, la prima cosa
che fece fu quella di vomitare sul pavimento ciò che
rimaneva della dose di veleno che non era servita ad ucciderlo e gli
era rimasta in circolo.
Poi guardò
l’ora sull’orologio che portava al polso. Mancava
un’ora a mezzanotte. Era in ritardo.
Uscì dalla
vasca facendo attenzione a non scivolare e prima di sciacquarsi la
bocca si osservò allo specchio, chiedendosi per la centesima
volta come mai ogni volta che moriva il suo aspetto tornava quello del
giovane uomo che aveva sacrificato la propria vita per proteggere la
sua regina.
Ad ogni modo,
ciò che vedeva nello specchio era proprio quello che aveva
desiderato. Perché Alexandra Greenwood aveva bisogno di un
cavaliere della sua età, non di un vecchio decrepito.
La festa di Capodanno
era stata organizzata come al solito nella grande sala comune del
reparto di oncologia, per il personale di turno ma anche per i pazienti
che erano in condizione di poter festeggiare. I più piccoli
erano stati messi a letto da un pezzo, ma Merlino era certo che
avrebbero trovato il modo di celebrare l’arrivo del nuovo
anno come tutti gli altri.
Godette appieno delle
sue articolazioni ora più scattanti e dei suoi polmoni meno
affaticati dagli anni, ma si pentì di non aver preso
l’ascensore non appena raggiunse il quarto piano. O forse il
suo cuore stava per scoppiare per un altro motivo?
Respirò
profondamente per farsi coraggio e spinse avanti una delle porte della
sala comune, rimanendo affascinato da come avevano letteralmente
trasformato quell’ambiente solitamente a misura di bambino in
una grande pista da ballo con tanto di angolo bar e postazione per il
DJ. Il volume e i drink serviti non erano certo da far girare la testa,
erano pur sempre in un ospedale, ma quell’anno avevano fatto
davvero un lavoro fantastico!
Sotto le luci colorate e
i riflessi di una piccola palla stroboscopica cercò Alex tra
le persone che si erano già buttate in pista. Non
trovandola, si avvicinò al tavolo con le bibite e gli
stuzzichini e si versò un bicchiere di punch. Lo bevve tutto
d’un fiato continuando a passare da un viso
all’altro nel disperato tentativo di trovare il suo,
scorgendo solamente un nonnino addormentato sulla sua sedia a rotelle e
una ragazza dai capelli rosso fuoco – un paramedico, vista
l’uniforme che indossava – sgattaiolare verso
l’uscita di servizio seguita da un chirurgo che non aveva
alcuna intenzione di lasciarle andare il sedere, col rischio di farli
cadere entrambi faccia a terra.
Aveva incominciato a
pensare che forse se n’era andata, che si era stancata di
aspettarlo e aveva preferito tornare a casa da sua madre, quando si
aprì una specie di varco nella pista da ballo e la vide
proprio di fronte a lui, dall’altra parte della sala.
Stava parlando con un
ragazzo della sua età, un dottore che conosceva solo di
vista e di fama – suo padre faceva parte del Consiglio
d’Amministrazione dell’ospedale – ma
Merlino non si diede per vinto ed iniziò a camminare con
passo deciso verso di lei.
Era bellissima, una
delle ragazze più belle che avesse mai visto in tutta la sua
vita, regine incluse: i capelli acconciati in morbidi boccoli
d’oro che le accarezzavano le spalle nude, la vita sottile e
le gambe longilinee accarezzate morbidamente dal vestito rosso cremisi
che gli ricordava tanto il colore del mantello dei Cavalieri di
Camelot, e un paio di occhi verdi, luminosi e determinati, splendidi.
Con un brivido che gli
percorse tutta la spina dorsale ebbe la sensazione di essere stato
riconosciuto: Alex, nonostante non l’avesse mai visto prima e
non sapesse chi fosse, stava ricambiando il suo sguardo con
intensità, dimentica di quel ragazzo che le stava
raccontando qualcosa di divertente.
Il tempo si
fermò mentre si andavano incontro, guardinghi ed impazienti,
preoccupati e frementi, due calamite impossibili da tenere lontane.
«Tu sei
Alexandra Greenwood», esclamò sorridendole
dolcemente quando furono l’uno di fronte all’altra.
«Alex va
benissimo. E tu conosci Dragoon, non è
così?».
Merlino
annuì, colpito dalla sua perspicacia.
«È mio nonno. Mi ha detto di dirti che sarebbe
stato sconveniente farti vedere con lui».
«Perciò
ha mandato il suo giovane ed affascinante nipote?».
Alex arrossì
non appena finì di porre quella domanda e lo
guardò quasi terrorizzata, ma tutto si risolse con una
risata che li coinvolse entrambi.
«È
da lui, no?».
L’infermiera
annuì con un cenno del capo, ma il suo sorriso
svanì di colpo. «Lui sta bene? Ti prego, dimmi che
sta bene».
Merlino aprì
la bocca per mentirle o per dirle la verità, ancora non era
sicuro delle parole che ne sarebbero uscite, ma fu interrotto dal conto
alla rovescia. Guardò Alex negli occhi durante tutti e dieci
i secondi che dividevano il Duemilanove dal Duemiladieci – i
dieci secondi più belli di quella sua nuova vita. In quei
dieci secondi, capì che si era innamorato di lei e
capì che avrebbe sempre tenuto un occhio su di lei.
«Buon
anno!», gridarono le persone accanto a loro e Merlino le
scostò delicatamente una ciocca di capelli biondi dal viso,
soffermandosi poi con le dita sulla sua guancia.
«Ora capisco
perché ti voleva tanto bene», le
sussurrò e lasciò che Alex si appoggiasse a lui,
nascondendo il viso oltre la sua spalla per non mostrargli la lacrima
che le era rotolata fino alle labbra, mentre tutto il resto del mondo
festeggiava e roteava vorticosamente.
***
«Ehi, dove stai andando?».
Alex tirò su col naso e senza voltarsi verso
Artù, seduto al tavolo della cucina con una tazza di
tè tra le mani, mugugnò: «A casa, ho
bisogno di una dormita».
«E ci vai a piedi? Ci metterai
un’eternità!».
«Tranquillo, non ho impegni».
Artù la raggiunse prima che finisse di infilarsi il cappotto
e la costrinse a voltarsi afferrandole un braccio.
L’infermiera provò a divincolarsi e a tenere il
viso rivolto verso il basso perché non notasse i suoi occhi
lucidi e pieni di dolore, ma il re di Camelot sapeva essere insistente.
«Hai litigato con Merlino? Vuoi che gli dia una botta in
testa? Farò tutto quello che vorrai».
Alex riuscì ad abbozzare un sorriso e gli
accarezzò una mano, per poi scostarla dal suo braccio e
dirigersi verso la porta.
«Voglio stare un po’ da sola, tutto qui. Ci
sentiamo più tardi».
L’espressione impotente sul viso di Artù le fece
tanta tenerezza, ma non ritornò sui suoi passi. Si
lasciò la strana villa di Merlino alle spalle e pian piano
la sua camminata svelta si trasformò in una corsa sfrenata,
accompagnata dalle lacrime e dal cuore che le batteva furiosamente
nella cassa toracica.
Ma la corsa non bastò: non alleviò il peso che le
schiacciava il petto, non spense il fuoco che le bruciava nelle vene,
non lenì le ferite che sentiva sanguinare in modo sempre
più copioso.
Senza neanche rendersene conto aveva raggiunto il lago, lì
dove tutto era iniziato, lì dove si era trovata
costretta a prendere una scelta che a quanto pareva aveva segnato non
solo il suo destino, ma anche quello di Merlino e di Artù.
Una folle idea le attraversò la mente e Alex la
cavalcò senza pensarci su due volte: nascosta dal folto del
bosco, si spogliò e rimasta in intimo si tuffò
nell’acqua gelida di Avalon.
Il sale delle lacrime che le irritava la pelle scivolò via e
con esso tutti i suoi pensieri, ma non quella rabbia cieca e folle
contro il mondo. Galleggiando a pancia in su, Alex urlò
contro il cielo e qualcosa dentro di lei si strappò: il muro
era crollato. L’acqua assorbì tutta la potenza
della magia e vibrò come se si trattasse di un terremoto,
creando intorno a lei cerchi che si ripeterono per una dozzina di
secondi. Poi un punto del fondale, a una ventina di metri
più a largo, iniziò a brillare.
Alex nuotò, sentendosi attratta in maniera irresistibile da
quella luce dorata, e quando fu proprio sopra il bagliore si immerse.
Nonostante il freddo le stesse mordendo ogni centimetro di pelle,
ciò che vide tra le alghe e alcuni lunghi rami le fece
dimenticare persino di aver bisogno di ossigeno: una spada
dall’elsa e dalle incisioni dorate, una spada che non poteva
che essere la
spada. Excalibur.
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Capitolo 18 *** 18. Sorcerers’ hearts ***
18. Sorcerers’ hearts
Il sole non era ancora sorto e il bosco intorno ad Avalon era ancora
avvolto dalla nebbia e dal freddo penetrante della notte, ma Alex
trovava quell’atmosfera rinvigorente: tutti i suoi sensi
erano in allerta mentre correva, saltando le radici degli alberi,
facendo attenzione a non scivolare sul terreno irregolare e prestando
orecchio ai rumori fuori e dentro di lei. Solo così riusciva
a non pensare a quello che avrebbe dovuto affrontare di lì a
qualche ora.
Excalibur, nel fodero che aveva rubato ad Artù qualche
giorno prima, le sobbalzava sulla schiena ad ogni passo e la faceva
sentire al sicuro come mai prima d’allora. Al sicuro ed
invincibile, tanto da farle credere di non aver più bisogno
di niente e nessuno per ottenere ciò che voleva.
***
«Ti prego, ti prego, rispondi».
Artù si allontanò il cellulare
dall’orecchio ed ebbe voglia di lanciarlo con forza contro la
parete per romperlo in mille pezzi. A che scopo avere quello strumento
incredibile se poi le persone lo ignoravano?
In qualche modo riuscì a trattenersi dal fare qualcosa di
cui si sarebbe pentito e si alzò dal letto per scostare da
sé le tende dalle finestre che davano sul giardino sul
retro.
Il sole appena sorto gli schiarì le idee e
trasformò la sua rabbia in determinazione. Cathleen ignorava
i suoi messaggi e le sue chiamate? Era curioso di sapere che cosa
avrebbe fatto se se lo fosse trovato davanti, in carne ed ossa, occhi
negli occhi.
Si vestì in fretta e si fermò in bagno solo per
lavarsi i denti, pettinarsi i capelli e spruzzarsi addosso
un’infinità di deodorante. Quindi si
precipitò giù dalle scale e trovò
Merlino seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè
in una mano e la propria testa nell’altra, gli occhi spenti e
circondati da evidenti occhiaie fissi su una valigetta nera chiusa di
fronte a lui.
Vederlo ridotto in quello stato gli straziava il cuore, ma dopo la loro
ultima tremenda litigata aveva deciso di non aprire più
l’argomento, di lasciarlo nel proprio brodo fino a quando non
si sarebbe reso conto che per quanto si opponessero non sarebbero mai
riusciti a cambiare il loro destino, di cui Alex ormai faceva
pienamente parte.
Strinse i denti e passò accanto al tavolo in silenzio,
diretto verso la veranda sul retro. Si fermò di colpo quando
sentì la voce atona di Merlino chiamarlo.
«Il taxi sarà qui alle nove, non fate
tardi».
Artù sospirò pesantemente e, deluso ed
arrabbiato, si chiuse con violenza le porte scorrevoli alle spalle, per
poi correre verso il vecchio fienile. Montò sulla vecchia
bicicletta dello stregone e sfrecciò verso il centro
abitato.
***
Merlino finì il caffè ormai freddo e lentamente
si alzò dalla sedia per posare la tazza nel lavello.
Nonostante avesse già preso la sua dose mattutina di
antidolorifici e sapesse perfettamente che non doveva abusarne per non
diventarne dipendente (era già abbastanza difficile
sgraffignare un flacone dal magazzino del Pronto Soccorso, figuriamoci
farlo in astinenza!), il corpo gli doleva come se ogni osso fosse sul
punto di frantumarsi, ogni tendine di strapparsi e ogni muscolo di
sciogliersi. Per non parlare poi della vista. Gli oggetti, anche quelli
più vicini, non avevano più i bordi: erano solo
chiazze di colori diversi, e la luce gli bruciava le retine come
avrebbe fatto un raggio laser.
Artù pensava sicuramente che stesse male e non dormisse per
colpa di Alex e aveva ragione, ma anche torto.
Nell’ultima settimana aveva trascorso gran parte delle sue
notti nel bunker segreto la cui esistenza era stata sconosciuta anche
per lui per i primi tre anni da proprietario della villa. Ne aveva
scoperto l’accesso per caso, quando sistemando la stanzetta
che usava come sgabuzzino per le scope, le scarpe e altre
cianfrusaglie, la sua maglietta si era impigliata in un chiodo piantato
a metà della parete. Un po’ insolito come posto
per appendere un quadro, no? Aveva provato a toglierlo, ma era stato
costretto a desistere quando lo aveva ruotato come una chiave e la
parete si era ritirata verso l’interno, mostrando una
scalinata in pietra stretta e ripida.
L’odore di muffa gli aveva fatto lacrimare gli occhi, ma
Merlino si era coperto naso e bocca con l’incavo del gomito
ed era sceso verso le fondamenta della villa illuminandosi la via con
una piccola torcia elettrica.
Il bunker doveva essere stato costruito come rifugio antibomba,
probabilmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Merlino
l’aveva trasformato in una specie di laboratorio forense. In
quel luogo aveva ripassato più e più volte le
pozioni di Gaius – perché non dimenticasse tutto
ciò che aveva imparato con il curatore di corte –
e proprio lì si era fabbricato il veleno che era stata la
causa della sua ultima morte.
Su una scrivania aveva sistemato un paio di computer, una stampante e
uno scanner. A vedere quella strumentazione si sarebbe detto che non
era nulla di che… In realtà erano i file
contenuti in quegli hard-disk ad essere di valore inestimabile per
Merlino: foto, video, contatti che col passare degli anni aveva
iniziato ad accumulare per avere qualcosa di compromettente tra le mani
semmai qualcuno avesse avuto l’insana idea di denunciarlo per
qualche favore o lavoretto richiesto. E ne aveva chiesti parecchi, da
quando per essere qualcuno non bastava dire semplicemente il proprio
nome, quello dei propri genitori e un paio di testimoni, o da quando
per essere curato non bastava mostrare i sintomi del proprio malessere.
Aveva fatto uso di uno dei propri contatti giusto poco tempo prima,
quando aveva dovuto procurare i documenti necessari ad Artù
per essere considerato una persona reale, viva e vegeta, nata e
cresciuta nel Ventunesimo secolo. Pagando un bel gruzzoletto aveva
ottenuto in poco tempo dei documenti perfetti, ancora migliori degli
originali, tanto che la stessa Myra non aveva sospettato nulla. Un
lavoro impeccabile, ma non sempre i soldi comprano la fiducia degli
uomini e prima di entrare in contatto con qualcuno del mondo
dell’illegalità tendeva a procurarsi delle
garanzie.
Col tempo e l’avanzamento della tecnologia, Merlino aveva
dovuto per forza di cose adeguarsi e aveva imparato a destreggiarsi nel
mondo dei computer, diventando un abile hacker. In fondo lui li aveva
visti nascere i computer, evolversi, a tratti semplificarsi…
Gli era bastato tenersi sempre aggiornato e svilupparsi con loro. Anche
questa attività non era particolarmente legale,
perciò si limitava a praticarla quando e se necessario. Il
suo intervento all’ospedale ne era la prova.
Per aiutare Alex aveva sfruttato le sue abilità di hacker
per autoinvitarsi al galà di beneficenza al Castello di
Windsor, inserendosi nella lista dei facoltosi filantropi che, per
finanziare i reparti oncologici di vari ospedali, avrebbero offerto
direttamente generose quantità di denaro oppure avrebbero
messo all’asta opere d’arte e cimeli di famiglia (a
cui non dovevano poi tenere molto) perché altri facoltosi
filantropi le comprassero con altre generose quantità di
denaro.
Quello che gli aveva tolto il sonno durante quell’ultima
settimana però era stato un progetto che non
c’entrava niente con tutto questo, un progetto ambizioso e
decisamente folle. Probabilmente avrebbe fatto meglio a dormire, invece
di sfibrarsi in quel modo e di mettere ancora più a
repentaglio le sue già precarie condizioni di salute. Eppure
non ci sarebbe riuscito, non con le parole di Artù che gli
ronzavano nella testa e il presentimento che se c’era davvero
una possibilità su un milione che potesse funzionare allora
doveva tentare.
Ora il prototipo era pronto, chiuso al sicuro in quella valigetta con
tanto di combinazione numerica, ma era completamente inutile senza la
magia che avrebbe fatto da polo positivo. E per quello aveva bisogno di
Alex, la stessa Alex che gli aveva confessato ancora una volta di
amarlo e a cui in quell’ultima settimana aveva
rivolto a malapena la parola per paura di dover affrontare
l’argomento.
Sapeva che non avrebbe potuto rimandare per sempre, e sapeva anche che
probabilmente trascorrere insieme tre interi giorni a Londra avrebbe
potuto distruggere definitivamente il loro rapporto con le stesse
probabilità con cui avrebbe potuto salvarlo. Ma, cosa
più importante di tutte, sapeva di essere tanto stanco:
stanco di mentire, stanco lottare contro se stesso, contro il proprio
cuore… Perciò si promise che, in un modo o
nell’altro, durante quei giorni a Londra avrebbe messo la
parola fine a quella situazione. Lo avrebbe fatto in maniera
definitiva.
***
Alex era appena uscita dalla doccia quando il campanello al piano
inferiore trillò. Si strinse meglio l’accappatoio
intorno al corpo e frizionandosi i capelli con un asciugamano scese al
piano inferiore, raccogliendo Artù con l’altra
mano quando lo incrociò nel bel mezzo delle scale, in vena
di farle le fusa intorno alle caviglie nude.
«Il tuo baby-sitter è venuto a
prenderti», gli sussurrò, posandogli un paio di
baci tra le orecchie. «Non ti preoccupare, mammina
tornerà presto».
Aprì la porta e si trovò davanti proprio Keith.
Indossava vestiti freschi di bucato, ma le bastò guardarlo
in viso per capire che aveva appena smontato: i suoi occhi stanchi ma
soddisfatti erano una prova inconfutabile.
Il dottor Ellis esitò sulla scollatura
dell’accappatoio, per poi abbassare frettolosamente lo
sguardo, imbarazzato. «Scusami, momento sbagliato».
Alex scrollò le spalle, abbozzando un sorriso.
«Quando mai noi due abbiamo fatto le cose con il giusto
tempismo? Dai, entra».
Keith ricambiò il sorriso e le passò accanto,
ricordando la velocità con cui avevano deciso di andare a
convivere e il giorno in cui tutto era andato a rotoli, lo stesso
giorno in cui lui avrebbe voluto chiederle di sposarlo.
«Nottata impegnativa?», gli domandò
lasciando che il gattino balzasse sul divano e stendendo una mano verso
di lui perché le lasciasse il cappotto.
«No», rispose Keith. «Vado via
subito».
«Oh. Okay, allora. Ti ho già sistemato le
scatolette e i croccantini che di solito mangia in quella borsa.
Lì invece c’è la lettiera
e…».
«Ce la caveremo, vedrai», la interruppe.
«Bene, perfetto. Gli piace dormire accoccolato sul letto. Sul
mio letto, almeno…».
«Alex, puoi fare silenzio per un attimo?».
L’infermiera serrò le labbra e lo fissò.
Il dottor Ellis deglutì, sentendosi agitato come la prima
volta in cui si era avvicinato per parlarle, la notte di Capodanno di
quasi cinque anni prima.
Si era sempre ritenuto un tipo sicuro di sé, forse persino
un po’ troppo spavaldo con le donne, eppure ci era voluto del
tempo e parecchi bicchieri di punch prima che trovasse il coraggio di
attaccare bottone. Alex era stata la sola ed unica donna – e
lo sarebbe sempre stata – che gli aveva fatto tremare le
ginocchia per la paura di un rifiuto. E lui era stato tanto stupido da
rovinare tutto per un’infatuazione passeggera.
Quando finalmente mise da parte i rimpianti e riprese il controllo di
sé, si schiarì la gola e disse:
«È che non capisco che senso abbia andare a
Londra. Mio padre ti ha spiegato la situazione e lo sai che senza un
invito non vi faranno mai entrare: sarà anche un
galà di beneficenza, ma è un galà
esclusivo».
«Ma noi ce li abbiamo, gli inviti. O meglio, Merlino e
Artù ce li hanno. Io sarò il loro
“più uno”».
Gli occhi di Keith erano così sgranati che Alex ebbe paura
che gli schizzassero fuori dalle orbite in modo talmente splatter che
avrebbe avuto gli incubi per almeno un mese.
«Ma come…? Com’è
possibile?».
«Nemmeno io ci credevo quando me l’hanno detto, ma
a quanto pare le loro famiglie erano molto ricche, talmente ricche che
hanno lasciato loro un conto in banca a molti zeri, sai, per le
emergenze».
Era una storia davvero assurda per lei che sapeva chi fossero veramente
Merlino e Artù, ma per chi non li conosceva affatto, come
nel caso di Keith, era una storia plausibile. Un estraneo non avrebbe
potuto contestare il benessere economico della famiglia di due poveri
orfani. Anzi, il fatto che fossero orfani alzava ancora di
più le probabilità che i loro genitori fossero
ricchi. Si potevano fare decine di esempi in questo senso: Bruce Wayne,
Harry Osborn, Tony Stark, Harry Potter…
«Però… Insomma… Il fatto che
siano ricchi non conta», riprese Keith, sempre più
agitato. «Potranno anche spendere tutta la loro
eredità, ma nemmeno una sterlina raggiungerà il
nostro ospedale».
«E a quel punto dovrei intervenire io», disse
tranquillamente, posandogli le mani sulle braccia e rivolgendogli il
suo sorriso più supplichevole. «Sarebbe proprio il
massimo, Vostra Altezza Duca di Cambridge, se anche una piccolissima
parte del ricavato di questa sera venisse donata all’ospedale
in cui lavoro. Ospitiamo bambini di tutto il Galles, siamo una vera
benedizione per i genitori di queste povere
creature…».
«Il tuo piano è davvero quello di far commuovere
il principe William? Non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a
lui».
Alex si allontanò bruscamente, gettandogli
un’occhiata fulminante. «E tu sei venuto qui solo
per dirmi che ogni tentativo che farò sarà del
tutto inutile? Beh, grazie tante, ma non ne ho bisogno. Non mi
arrenderò fino a quando non avrò provato in ogni
modo a salvare il reparto». Si avvicinò alla porta
e l’aprì, rimanendo dietro di essa
perché l’aria fredda non le lambisse le gambe.
A testa bassa, aggiunse: «Non mi aspetto che tu capisca, ma
ho fatto una promessa e ho intenzione di mantenerla, anche a costo di
farmi sbattere nella Torre di Londra per aver tentato di corrompere il
principe William».
Keith si avvicinò lentamente e le posò una mano
sulla guancia, sollevandole il viso per guardarla negli occhi. Quanto
ammirava la lealtà, l’orgoglio e la determinazione
che c’erano in quegli occhi verdi…
«Non sono mai stato bravo nel mantenere le promesse, lo sai.
Non avrei mai dovuto fartene. Ti auguro buona fortuna, Alex. Se
qualcuno può davvero compiere
quest’impresa… sei tu».
Si chinò per posarle un bacio sulla fronte e poi si
congedò, raccogliendo con una mano le borse che Alex gli
aveva preparato e il trasportino con dentro il piccolo Artù
nell’altra.
Dirigendosi verso la propria auto, guardò il sole appena
sorto illuminare d’oro i fiori nel giardino e
sentì dentro di lui un qualcosa che non provava da tempo:
speranza.
La sua vita non sarebbe tornata come quella di un tempo, non avrebbe
mai amato nessuna come aveva amato Alex, ma perlomeno ora poteva
sperare che anche lui, presto o tardi, avrebbe trovato la
felicità.
Il micino miagolò dentro il proprio trasportino, come se
fosse d’accordo con lui, e Keith avviò il motore
sorridendo.
***
La fortuna fu dalla sua parte.
Trovò il portone del condominio aperto e decise di sfruttare
la situazione a suo vantaggio, aumentando l’effetto sorpresa.
Corse su per le scale e con un leggero fiatone si trovò di
fronte alla porta dell’appartamento di Cathleen. Il cuore gli
batteva all’impazzata nel petto, ma non era sicuro che fosse
a causa di tutta l’attività fisica che aveva fatto
quella mattina.
Suonò al campanello ed attese, sforzandosi di sentire
qualsiasi rumore proveniente dall’interno
dell’appartamento. Riuscì a distinguere dei passi
avvicinarsi, ma nulla di più.
«Cathleen», la chiamò.
«Vattene, Artù».
Era lì, proprio dietro quella porta. Si appoggiò
ad essa con entrambi i pugni chiusi e ricacciò indietro il
cuore che si era fatto strada fino alla sua gola.
«Ti prego, fammi entrare. Ho solo bisogno
di…».
«Hai per caso intenzione di spiegarmi perché hai
mentito sulla tua vera identità? Diavolo, non so nemmeno
perché credo che la tua vera identità sia quella
che è. Forse vedere Merlino con quello sguardo da
psicopatico mi ha influenzata. Ad ogni modo, non voglio sapere
perché hai mentito. Non voglio avere nulla a che fare con
te. Voglio vivere la mia vita senza più drammi».
«Avevi promesso…», mormorò
Artù. Batté un pugno contro la porta, con rabbia,
e ripeté: «Avevi promesso che l’avremmo
affrontato insieme, se avessi avuto qualcosa di grave. Ho un pezzo di
spada magica che potrebbe in ogni momento perforarmi il cuore. Hai
intenzione di rimangiarti la parola data solo perché adesso
sai chi sono veramente?».
Incredulo, Artù ascoltò il silenzio provenire
dall’altro lato della porta. Trattenendo a stento il
disprezzo, sibilò: «Ginevra, lei… Non
so che cos’ho visto di speciale in te».
Arretrò, poi si voltò e si aggrappò al
corrimano per correre giù dalle scale, ferito
nell’orgoglio e con una gran voglia di tagliare le teste ai
manichini. Il rumore della serratura però lo fece esitare e
la voce di Cathleen, rotta dall’emozione e allo stesso tempo
forte come un ruggito, gli fece schizzare di nuovo il cuore in gola.
«Io non sono Ginevra. Come tu non sei Zach. Io non ti ho mai
paragonato a lui e tu non hai il diritto di…».
Sobbalzò sotto lo sguardo di Artù, rendendosi
conto di aver pronunciato ad alta voce il nome del suo fidanzato.
Il re di Camelot la raggiunse in poche rapide falcate e le prese il
volto tra le mani per posare le labbra sulle sue in un bacio casto.
Si scostò quel tanto che bastava per incrociare i suoi occhi
nocciola umidi di lacrime e le accarezzò lentamente la
guancia con il pollice.
Cathleen sospirò come se un grande peso avesse smesso di
gravarle sul cuore, quindi gli strinse forte le braccia intorno al
collo e lo baciò di nuovo.
***
Merlino aveva appena faticosamente portato in salotto le due valige che
la sera prima aveva preparato, una per sé e
l’altra per Artù, quando attraverso una delle
finestre dei bovindi vide di sfuggita una volante della polizia
fermarsi di fronte alla villa. Sospirò stancamente,
passandosi un polso sulla fronte madida di sudore.
Era trascorsa una settimana da quando aveva intimato a Myra di uscire
dalle loro vite. Da allora non l’aveva più vista e
aveva quasi sperato in un lieto fine, ma a quanto pare aveva cantato
vittoria troppo presto.
Aprì la porta e rimase parecchio sorpreso di vedere
l’agente Darrell Fisher percorrere il vialetto guardandosi
intorno, sbattendosi sul palmo della mano sinistra una busta bianca.
«Agente Fisher», esclamò quando
finalmente i loro sguardi circospetti si incontrarono.
«Buongiorno, Merlino».
«Credimi, non lo sarà nel caso in cui tu sia
venuto per consegnarmi una multa».
Il poliziotto stirò un sorriso. «Credo che tu mi
abbia confuso con Doherty. Non so se ritenermi offeso,
sai...», allargò i gomiti e gonfiò le
guance ad indicare la stazza del postino del paese, prima che la risata
di Merlino lo contagiasse. «Scherzo, ovviamente».
«Rimarrà tra noi. Allora, che cosa ti porta
qui?».
Darrell si fissò le scarpe, poi gli stese la busta e con
voce tremendamente seria spiegò:
«L’agente Chandra ha dato le dimissioni e due
giorni fa si è trasferita a Swansea dai suoi genitori. Mi ha
lasciato questa lettera per te».
«Due giorni fa?», ripeté con le
sopracciglia inarcate.
Darrell non alzò gli occhi, sapendo di essere nel torto, e
si strinse il collo fra le spalle. «Ho avuto la tentazione di
aprirla più e più volte. Insomma… io e
Myra non ci conoscevamo poi così bene, ma non avrebbe mai
dato le dimissioni se non fosse successo qualcosa di veramente grave. E
da quando avete iniziato a frequentarvi di nuovo mi è
sembrata diversa, arrabbiata…».
«Le cose tra noi non hanno mai funzionato come lei avrebbe
voluto», confessò Merlino senza mettere alcun
sentimento nella propria voce. «Ma dubito che abbia deciso di
dimettersi a causa mia».
«Già, è un’idea stupida
vero?». Darrell sollevò il capo ridacchiando ed
indicò la busta perfettamente chiusa. «Come vedi,
alla fine te l’ho portata intatta».
«Grazie mille».
L’agente Fisher annuì. Si fissarono per un altro
paio di lunghissimi secondi, senza sapere più che dire, fino
a quando il biondino non lo salutò con un cenno del capo e
girò i tacchi, incamminandosi di nuovo verso la volante.
«Devo dedurre quindi che rimarrai qui a tempo
indeterminato?».
Darrell si voltò, la fronte corrugata.
«Come?».
Merlino gli rivolse un sorriso. «Myra se
n’è andata, qualcuno dovrà pur rimanere
in questo posto dimenticato da Dio per interrogare i pazzi che vanno in
giro con le balestre».
A quel punto anche il poliziotto si rilassò e
ricambiò il sorriso. Sollevò un poco le mani,
esclamando: «Chissà, potrebbe iniziare a
piacermi».
«Lo spero, Darrell. Buona giornata».
L’agente Fisher lo salutò portandosi due dita alla
fronte, poi salì in auto e fece inversione.
Merlino si chiuse la porta alle spalle ed aprì la busta che
Myra gli aveva lasciato.
Avevi
ragione, come sempre.
Spero che un giorno tu
possa perdonarmi e ricordare il meglio di me.
Dì ad Alex
che mi dispiace e che è fortunata ad averti accanto.
Per sempre tua,
Kajri
Pescò l’accendino da uno dei cassetti in cucina e
diede fuoco alla lettera, osservando quelle poche parole andare in fumo
tra le braci spente del camino.
***
Alex parcheggiò l’auto nell’enorme
giardino sul retro, accanto al vecchio fienile come le aveva detto
Merlino, quindi trasportò la propria valigia accanto alle
altre due e si guardò intorno, trovando strano il silenzio
che regnava in quella grande casa.
«Dov’è Artù?»,
chiese, gettando un’occhiata all’orologio appeso al
muro. Mancava ormai poco all’arrivo del taxi che li avrebbe
portati alla stazione di Newport, dove avrebbero preso il treno per
Londra.
Il mago scrollò il capo, tornando a concentrarsi sulle
persiane. Si era già occupato di tutte quelle al primo piano
e di gran parte di quelle al piano terra, tanto che la villa era
piombata in una sgradevole oscurità, ovattata nel silenzio.
«Da Cathleen, sospetto. Non mi ha rivolto la parola, questa
mattina».
Alex non lo trovò strano, visto che da una settimana a
quella parte Merlino era stato scostante anche con lei, sicuramente per
ciò che gli aveva detto dopo la loro fuga
dall’ospedale.
«Spero che arrivi in orario. Tutto il resto è
pronto? I biglietti del treno, la prenotazione in hotel, gli inviti per
il galà?».
«Rilassati Alex, è tutto a posto».
Il suo tono annoiato le fece venir voglia di prenderlo a pugni, ma si
costrinse a calmarsi facendo dei respiri profondi. Non era la prima
volta che le capitava di sentire quella rabbia sproporzionata
incendiarle il petto e non sapeva proprio a che cosa fosse dovuta.
Probabilmente era colpa dello stress. Lo stress era sempre la causa di
ogni male.
«E tu? Stai bene?».
Merlino la guardò con la coda dell’occhio.
«Sto bene».
Alex non ci credeva, ma non insistette. «Vado a prendere una
boccata d’aria».
Uscì in veranda e camminò lentamente verso il
fiumiciattolo, verso la tomba che lei, Artù e Merlino
avevano costruito per onorare la memoria di Steve.
Non c’era giorno in cui non pensasse a lui, a volte persino
nei momenti meno opportuni. Bastavano delle parole, delle immagini
viste alla TV, una canzone alla radio… e il suo ricordo la
travolgeva come un’onda anomala, lasciandola senza fiato.
Spesso una lacrima le scivolava sul viso, pensando che se non fosse
stato per lei la magia di Merlino sarebbe durata di più:
avrebbe concesso a lui e ai suoi genitori qualche ora, forse
addirittura un giorno extra da trascorrere insieme.
Alex trasalì quando sentì una mano posarsi sulla
sua spalla e in men che non si dica bloccò il braccio del
proprio assalitore dietro la schiena ed estrasse un corto pugnale con
la lama argentata simile alla punta di un arpione da pescatore, il
manico in pelle marrone e un piccolo pomolo d’oro.
«Te l’ha regalato Artù,
quello?», furono le prime parole di Merlino, accennando
all’arma che aveva puntata alla gola. «Ricordo bene
la prima volta che me l’ha fatto vedere».
La ragazza sgranò gli occhi e lo lasciò andare
frettolosamente, terrorizzata dal suo stesso comportamento. Da quando i
suoi riflessi erano diventati precisi come quelli di un ninja e i suoi
movimenti rapidi ed agili come quelli di un ghepardo? Che gli
allenamenti con Artù stessero davvero dando i loro frutti?
«Mi dispiace, io…».
«Colpa mia: mai prendere un cavaliere alle spalle»,
rispose sforzandosi di rivolgerle un sorriso, ma il suo tentativo fu
così patetico che Alex morì di vergogna:
l’aveva spaventato sul serio.
«Io non sono un cavaliere», sussurrò,
riponendo il coltello nella fibbia legata alla cintura dei jeans per
poi stringersi le braccia al petto, gli occhi rivolti verso la tomba di
Steve. «Sono una strega».
Scorse Merlino rabbrividire, o forse fu solo la sua immaginazione.
«Non sei responsabile della sua morte, lo sai vero? Nessuno
avrebbe potuto salvarlo, ormai».
Alex strinse così forte i pugni lungo i fianchi che
sentì le unghie graffiarne i palmi. «Tu gli avevi
dato del tempo… io gliel’ho tolto».
«Non sapevi di poterlo fare, non è colpa
tua».
«Sì, invece!», urlò,
digrignando i denti con rabbia. «È tutta colpa
mia! Io… Io non voglio essere il motivo per cui il vostro
destino dovrà compiersi, non voglio che voi vi
sacrif–».
Alex si interruppe bruscamente quando sentì le braccia di
Merlino stringerla forte – una forza che guardandolo non gli
avrebbe mai attribuito – contro il suo petto. Respirando a
pieni polmoni il suo profumo un po’ della rabbia che le
bruciava dentro sfumò, facendole tirare un sospiro di
sollievo mentre immergeva il viso nell’incavo della sua
spalla e lasciava che le lacrime che le bruciavano gli occhi si
asciugassero.
«Purtroppo è così che funziona col
destino», le sussurrò tra i capelli,
accarezzandole la nuca con una mano. «I custodi della magia
sapevano che non avremmo mai accettato di essere ancora delle semplici
pedine sulla loro scacchiera, per questo hanno messo te sul nostro
cammino: un motivo per cui lottare, per cui non tirarci
indietro».
«Io cambierò il destino, io vi
salverò», mugugnò, stringendo forte i
pugni sulla sua schiena.
Merlino si lasciò andare ad una lieve risata gutturale.
«Questa non è la nostra epoca, Alex».
«Artù si sta ambientando bene,
potrebbe…».
«Forse».
L’infermiera sciolse lentamente l’abbraccio e lo
guardò con cipiglio interrogativo. «Che cosa stai
cercando di dire?».
«Niente», rispose sbrigativamente scuotendo il
capo, sperando che il discorso morisse lì. Ma Alex non era
dello stesso parere.
«Artù ci sta aspettando e il taxi sarà
arrivato ormai, sarà meglio…».
Lo afferrò per il polso prima che potesse fare un passo
verso la veranda e fissò gli occhi nei suoi.
Ripeté la domanda e quella volta Merlino fu costretto a
risponderle.
«Rispetterò qualsiasi decisione
prenderà Artù, ma per quanto mi
riguarda… io sono stanco, Alex; non ce la faccio
più. Ho vissuto per troppo tempo, ho visto troppe cose,
amato e perso troppe persone… L’unico pensiero che
mi faceva andare avanti era Artù e ora che l’ho
rivisto e so che sta bene vorrei solo… chiudere gli occhi e
riposare».
Un’Alex incredula mollò la presa sul suo polso.
Merlino aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi ci
ripensò ed abbassando lo sguardo si voltò.
Un freddo intenso, risalito dalle profondità della terra per
avvilupparle il cuore, aveva congelato tutta la voglia di vivere che
ardeva in lei. In quel momento avrebbe voluto soltanto accoccolarsi a
terra e piangere tutte le sue lacrime, ma qualcosa di più
forte, qualcosa di persino più forte del pensiero della
morte, le fece percorrere con gli occhi il corso del fiumiciattolo, in
direzione di Avalon. La rabbia era tornata, così cocente da
farla tremare da capo a piedi.
«Che un fulmine possa colpirmi in questo istante se non
cambierò il destino di Artù e Merlino. Vi
farò pentire di aver architettato tutto questo, fosse anche
l’ultima cosa che faccio».
Estrasse nuovamente il coltello di Artù e lo
ficcò nella terra, dichiarando guerra.
***
Senza nemmeno dargli il tempo di aprire bocca, Merlino aveva avvicinato
le labbra al suo orecchio e in tono mortalmente serio aveva sussurrato:
«Lei sa di essere l’unico motivo che ci
spingerà ad accettare il nostro destino».
Quelle parole e ciò che comportavano lo avevano fatto
rabbrividire, tanto che non era riuscito a dirgli che non era stato lui
a rivelarglielo. Ad ogni modo, dubitava che Merlino gli avrebbe dato
ascolto.
Ci aveva rimuginato sopra durante tutto il viaggio in taxi, trovandosi
spesso e volentieri a disagio tra Alex e Merlino, tesi come corde di
violino e silenziosi come tombe.
La situazione era grave, e se aveva imparato a conoscere Alex come
credeva, sapeva che se si era messa in testa qualcosa – come
ad esempio cercare di cambiare il loro destino – allora
avrebbe fatto di tutto pur di riuscirci, o sarebbe morta provandoci.
Quel pensiero avrebbe dovuto far peggiorare il suo mal d’auto
all’ennesima potenza, eppure nello stomaco sentiva soltanto
le farfalle.
Era più forte di lui, si trattava di una debolezza che aveva
sempre avuto e che a Camelot avrebbe potuto ucciderlo almeno una decina
di volte se al suo fianco non avesse avuto Merlino.
Probabilmente le cose nel mondo moderno non erano migliorate, visto che
appena sceso dal taxi aveva rischiato di farsi investire da un auto
perché invece di prestare attenzione alla strada la sua
mente era volata ancora una volta al viso di Cathleen, ai suoi occhi
lucidi di lacrime, alle sue efelidi che avrebbe tanto voluto contare
una ad una, alle sue labbra morbide e calde.
Alex l’aveva acchiappato giusto in tempo, facendolo sbattere
contro la fiancata del taxi da cui Merlino stava ancora scaricando i
bagagli.
«Ma sei impazzito?!», gli gridò in
faccia, rossa come un peperone. Sembrava fosse sul punto di
schiaffeggiarlo, ma poi gli accarezzò la guancia, scuotendo
il capo con fare rassegnato. «Non farlo mai più,
testa di legno».
Artù non riuscì ad impedirsi di fissarla a bocca
aperta, mentre Merlino chinava il capo e ridacchiava sommessamente
mentre consegnava una più che lauta mancia al tassista per
l’aiuto.
Alex li fissò entrambi con cipiglio perplesso, per poi
sbottare con un mezzo sorriso sulle labbra: «Che
c’è? Mi spiegate ora perché fate
così?».
Merlino la guardò per la prima volta da quando erano usciti
di casa e lo fece sorridendo, cosa di cui Artù
andò molto orgoglioso. Certo, aveva quasi rischiato di
finire sotto un’auto e si era fatto insultare, ma se quello
era il risultato allora ne era valsa decisamente la pena.
«È solo che anche io lo chiamavo così,
quando mi faceva arrabbiare. E accadeva molto spesso,
credimi». Inarcò le sopracciglia ed
aspettò che l’autista fosse tornato sul suo taxi
prima di aggiungere: «Prima del mio arrivo a Camelot non
aveva nemmeno un valletto ufficiale, forse perché nessuno
ambiva ad ottenere quel posto».
«Stai per caso insinuando che ero un tipo difficile da
servire?», lo incalzò Artù,
già pronto a sollevare una mano per schiaffargliela sul
coppino.
Merlino affiancò Alex e le fece l’occhiolino.
« Difficile?
Persino suo padre il re aveva meno pretese di lui. Merlino, l’acqua del
mio catino è troppo calda! Merlino, ho bisogno
dell’armatura lucidata entro dieci minuti! Merlino, il mio
cavallo deve essere strigliato! Merlino, c’è un
topo che mi rosicchia gli stivali proprio sotto il tuo naso!»,
imitò la sua voce più petulante e lo fece
così bene che Alex non riuscì a trattenere le
risate. Però al contrario del mago, il quale aveva parlato
sottovoce per non farsi sentire dagli altri passeggeri che
raggiungevano il loro stesso binario, l’infermiera rise
forte, piegando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.
Praticamente tutti si voltarono a guardarla, ma anziché
lanciarle occhiate scocciate si ritrovarono con un sorriso sulle
labbra, contagiati dalla bellezza di quel suono.
«Oh, Dio», sospirò quando si fu calmata,
asciugandosi gli angoli degli occhi. «Come hai fatto a
sopportarlo per così tanto tempo? Io l’avrei
ucciso nel sonno, come minimo!».
Artù sollevò le mani dietro di loro, sconvolto.
«Ehi, sono qui, vi sento!».
Merlino però non gli prestò attenzione e
scrollò le spalle, gli occhi fissi sul punto da cui sarebbe
dovuto comparire il loro treno.
«Col tempo ho scoperto che era un uomo migliore di
ciò che spesso e volentieri dimostrava. Al contrario di suo
padre, lui lottava per ciò che era giusto, per una Camelot
più equa in cui tutti potessero vivere in condizioni
dignitose, che fossero fabbri, stallieri o ricchi mercanti. Il popolo
lo rispettava e lo amava per questo, ma non solo… Tutti
sapevano che avrebbe corso qualsiasi pericolo per Camelot, combattuto
qualsiasi battaglia… avrebbe persino dato la propria vita se
questo avesse voluto dire salvare quella di un solo
uomo…».
Merlino gli rivolse una rapida occhiata e Artù
sentì le orecchie andare in fiamme, ricordando
immediatamente quando aveva corso mille e più pericoli solo
per recuperare una pianticella oppure quando aveva creduto di bere un
calice di veleno e sacrificare la propria vita per quella del mago.
«Ho capito che non era solo nobile di nascita»,
continuò Merlino. «Il suo cuore era nobile. Questo
mi ha spinto a credere in lui, a credere in un mondo migliore, quello
che lui avrebbe costruito una volta re».
«Wow», mormorò Alex dopo eterni istanti
di silenzio, rotto soltanto da un fischio lontano. «E
com’è che vi siete conosciuti?».
Merlino assottigliò le labbra in un sorriso che lottava per
diventare una vera e propria risata.
«Posso raccontartelo io, se vuoi»,
esclamò Artù, incrociando le braccia al petto.
«Oh, questa non me la voglio assolutamente
perdere», mormorò lo stregone.
Il re di Camelot si portò una mano sul petto, con un sorriso
storto sul viso. «Sarò obiettivo, lo
prometto».
E così, mentre aspettavano che il loro treno arrivasse
– erano un po’ in anticipo – seduti su
una panchina fredda e piena di scarabocchi, Artù
raccontò ad Alex come Merlino era entrato nella sua vita.
Non l’aveva voluto, anzi, la prima volta che aveva osato
fronteggiarlo era finito alla gogna, ricoperto di frutta e verdura
marcia, ma col senno di poi aveva ringraziato il destino, dio o
qualsiasi altra cosa li avesse messi sullo stesso cammino.
«E allora io gli dico: “Ti avviso, sono stato
allenato ad uccidere sin dalla nascita”. Ma vuoi che Merlino
ascolti un consiglio da amico?».
«Non eravamo amici, allora», borbottò
Merlino, mordendosi un sorriso.
«Sai che cosa ha detto in risposta? “E da quanto
tempo vi allenate ad essere un idiota, mio
Signore?”».
Alex scoppiò in un’altra delle sue risate
contagiose, ma durò poco. Si interruppe infatti quasi
subito, puntando gli occhi brillanti di malizia in quelli di
Artù: «Non mi dire che ha usato qualche trucchetto
di magia per farti fare una pessima figura!».
La smorfia di disappunto del re di Camelot fu addirittura meglio di una
risposta. «Oh mio Dio, l’ha fatto davvero!
Com’è potuto diventare il tuo servitore, dopo
tutto questo?».
«Oh, era la solita giornata tipo a
Camelot…», esclamò Merlino scrollando
le spalle. «Una vecchia strega che portava rancore verso il
re perché aveva condannato a morte suo figlio voleva
vendicarsi assassinando il suo di figlio, il qui presente
Artù. Era stato organizzato un grande banchetto, con la
presenza di una cantante molto famosa, e Gaius era riuscito a trovarmi
un posto da servitore. Così, riempiendo una coppa o due, ho
notato che tutti nella sala si stavano addormentando».
«Ehi, dovevo raccontare io!», urlò
Artù, dandogli una manata. «Perché non
vai a prenderci del caffè? Non ho fatto nemmeno colazione,
questa mattina!».
Merlino fece per ribattere, ma il biondo indicò la
caffetteria dall’altra parte della stazione.
«Forza, sbrigati!».
«Artù, stai facendo di nuovo il bullo»,
lo rimproverò debolmente Alex, cercando di trattenere le
risate.
«Ora capisci che cosa intendevo, dicendo che nessuno voleva
fargli da valletto?», domandò Merlino, per poi
allontanarsi con le mani nelle tasche.
Alex aspettò che fosse lontano, quindi si alzò
dalla panchina e si sedette sulla propria valigia, in modo da trovarsi
Artù di fronte. «Dai, continua».
Artù sorrise compiaciuto e riprese: «La strega era
riuscita a prendere le sembianze della cantante, in modo da poter
arrivare a noi del tutto indisturbata. Iniziò a cantare e
come ha detto Merlino tutti iniziarono ad addormentarsi, me compreso.
Solo lui si è coperto le orecchie in tempo e – ora
me ne rendo conto – deve aver usato la magia per far cadere
il lampadario sulla strega e spezzare l’incantesimo. A poco a
poco ci siamo svegliati tutti, ma non avevamo idea del
perché la nostra cantante fosse a terra, con un lampadario
addosso e l’aspetto di quella brutta vecchia che aveva
giurato vendetta poco prima che suo figlio venisse giustiziato
perché aveva usato la magia».
«Che cosa hai detto?».
Artù sollevò gli occhi, senza capire
immediatamente cosa l’avesse sconvolta tanto. Quando ci
arrivò, si sentì nudo come un verme.
«Mio padre, lui… Aveva regole ferree per quanto
riguardava la pratica della stregoneria. Aveva i suoi motivi e
io…».
«Merlino praticava la magia per aiutarti e salvarti la vita
ogni volta che poteva, credi che tuo padre l’avrebbe
giustiziato comunque?!».
«Mia madre è morta a causa della magia»,
mormorò, ripensando dolorosamente al solo ed unico ricordo
di sua madre, un miraggio che proprio una strega – Morgause
– gli aveva mostrato.
«Non poteva avere figli, ma mio padre voleva così
tanto un erede che chiese i servigi di una strega molto potente, una
certa Nimueh. La strega acconsentì, ma non gli disse che,
secondo le regole della Religione Antica, ogni vita che veniva donata
ne necessitava una in cambio».
«Nimueh si prese la vita di tua madre quando tu venni alla
luce», concluse Alex per lui, stringendogli una mano tra le
sue, ricoperte da un paio di guanti viola.
Artù annuì. «L’odio di mio
padre per la magia era così accecante… Avrebbe
ucciso chiunque. Tranne forse…».
«Chi?», domandò l’infermiera,
col fiato bloccato in gola.
«Scusami, sto divagando. Dov’ero arrivato con la
storia? Ah sì, l’incantesimo si era spezzato e la
strega aveva ripreso il suo vero aspetto».
Sentiva gli occhi inquisitori di Alex bruciargli la pelle, ma non era
pronto per parlarle di Morgana. Era una ferita ancora aperta, una
ferita che forse non si sarebbe mai richiusa.
All’improvviso si domandò come si sentisse Merlino
al riguardo.
Il mago aveva capito per primo che Morgana aveva il suo stesso dono,
però aveva mantenuto il segreto, forse per mancanza di prove
da portare di fronte al re e al principe, o forse per altre ragioni,
ragioni di cuore… Aveva sempre sospettato che Merlino
provasse qualcosa per colei che alla fine si era rivelata la sua
sorellastra, ma nemmeno lui aveva mai avuto prove concrete per
affermarlo con certezza. Forse era arrivato il momento
perché lo scoprisse una volta per tutte.
«Con le ultime forze che le erano rimaste, mi
lanciò contro un pugnale. Merlino intervenne di nuovo e mi
salvò, tirandomi via dalla sua traiettoria prima che mi
trafiggesse il cuore. Ero ovviamente sconcertato: lo stesso ragazzo che
mi aveva dato dell’idiota e del cretino mi aveva salvato la
vita. Non aveva senso ai miei occhi. Per questo mi ritenni
profondamente offeso quando mio padre decise di premiare Merlino
trasformandolo nel mio servitore personale. Iniziai a pensare che quel
piccoletto dalle orecchie a sventola l’avesse fatto per
entrare nelle grazie del re e non perché tenesse alla mia
vita, ma molto presto fui costretto a ricredermi».
Alex sorrise dolcemente, ma poteva ancora leggere nei suoi occhi la
curiosità per quella frase lasciata a metà.
Sarebbe sicuramente tornata sull’argomento e ne aveva paura,
ma decise che fino ad allora non ci avrebbe più pensato.
Un enorme serpentone metallico sferragliò
all’improvviso di fronte a loro, facendolo schizzare in piedi
con i capelli spettinati dal vento. Sapeva cos’erano i treni
– li aveva visti alla TV – ma vederne uno dal vivo
lo impressionò tanto che avvertì alla bocca dello
stomaco lo stesso rifiuto che aveva provato quando Merlino lo aveva
fatto salire per la prima volta sulla sua auto.
«Potete scordarvelo. Anche a costo di rimanere qui seduto per
tre giorni, io non salirò su quel coso».
«Che cosa?», esclamò Alex, scioccata,
quando si voltò di scatto sentendo la voce di Merlino alle
proprie spalle.
«Ci salirà, vedrai».
Con un sorriso le porse il suo bicchierone di caffè, poi
recuperò le valigie e si avviò verso le porte
metalliche della loro carrozza.
Artù sentì lo stomaco rimpicciolirsi ancor di
più, ma la mano di Alex intorno alla sua, protettiva come
quella di una madre, gli diede la forza di incamminarsi a sua volta e
raggiungere il serpentone. Esitò ancora prima di salire le
scalette e deglutì imbarazzato, alzando il viso verso quello
di Alex, già a bordo.
«Avanti, non fare il fifone!», esclamò e
lo tirò così forte che quasi non cadde con la
faccia sui gradini.
Non sapeva con esattezza che tipo di espressione avesse sul viso, ma
doveva essere una parecchio buffa, visto che due ragazze scoppiarono in
un risolino nascosto dalle mani quando lo videro camminare incerto tra
le due file infinite di sedili e tavolini, alcuni occupati ed altri
ancora liberi.
Il solo pensiero che silenziosamente lo stessero prendendo in giro
ferì così tanto il suo orgoglio che
lasciò bruscamente la mano di Alex e deviò il
loro sguardo, imbronciandosi. Avrebbe tanto voluto vedere loro,
catapultate a mille e passa anni di distanza dalla loro epoca!
«Ecco i nostri posti», annunciò Merlino
indicando un tavolino circondato da quattro sedili, del tutto identici
a quelli dietro o davanti.
Artù lo guardò inerte mentre afferrava la propria
valigia e la sistemava nello scomparto proprio sopra al tavolino e poi
si voltava verso Alex con le mani tese.
«Ce la faccio anche da sola», rispose lei, ma non
fece in tempo ad infilare del tutto la valigia che un ragazzo con delle
grosse cuffie sul cappellino di lana la urtò, facendole
perdere l’equilibrio.
Merlino fu più veloce di lui e si piazzò dietro
Alex, afferrando la valigia prima che le cadesse addosso e spingendola
di nuovo nello scomparto.
In un’altra occasione non ci avrebbe pensato su due volte
prima di rincorrere il ragazzo e pretendere che si scusasse
pubblicamente prima di metterlo con la testa fuori dal finestrino e
tenercelo per tutta la durata del viaggio. Quella volta però
non riuscì a muovere un muscolo, come ipnotizzato dal
contatto che si era creato tra Alex e Merlino: lui aveva abbassato le
braccia ora, ma non osava sfiorare quelle di Alex; mentre lei invece si
era appoggiata al suo petto con la schiena, guardandolo in viso da una
distanza fin troppo ravvicinata.
Due schieramenti differenti iniziarono a prendersi a pugni nel suo
stesso cervello: uno affermava che non c’era nulla di male se
Alex e Merlino fossero così intimi, anzi, lo incitava quasi
ad avvicinarli ancor di più e ad autoproclamarsi il cupido
del loro amore; l’altro invece gli sussurrava che non era
giusto, che il fatto che lui avesse dato la sua benedizione a Merlino
non voleva dire che quei due potevano fare tutto quello che volevano.
Alla fine il lato più all’antica vinse e si
schiarì profondamente la gola, facendosi spazio tra i due
per sistemare anche la propria valigia. Si sentì vagamente
in colpa per averli separati, ma gli passò presto, preso in
contropiede dal treno in movimento.
Era affascinante vedere il paesaggio scorrere rapido fuori dal
finestrino. Affascinante e tremendamente spaventoso.
***
Tornare in sé dopo quello che aveva provato accanto ad Alex
era stato difficile. Non ricordava l’ultima volta in cui si
era sentito così eccitato, ed era stata una vera sorpresa
per lui realizzare che il suo corpo era ancora in grado di reagire in
quel modo agli stimoli.
Da quando aveva preso posto non aveva fatto altro che lanciare occhiate
ad Alex, chiedendosi pieno di imbarazzo se se ne fosse accorta oppure
no. Pure in quel momento, nascosto in parte dallo schermo del laptop,
la osservava di sottecchi.
Era così bella… Anche se da qualche giorno a
quella parte nei suoi occhi e nei tratti del suo viso c’era
qualcosa di diverso, come se si fossero induriti ed affilati, in grado
di ferire con la stessa facilità con cui potevano ammaliare.
E poi quella mattina anche il suo comportamento gli era sembrato
insolito: gli aveva puntato un pugnale alla gola con fin troppa
facilità, come se si fosse aspettata un attacco a sorpresa,
e questo non gli piaceva affatto. Non voleva che si sentisse
minacciata; non voleva che Alex diventasse un cavaliere, né
una strega. Amava Alex per ciò che era e…
Lui amava Alex. L’unica cosa che non avrebbe dovuto
permettersi di fare, per nessuna ragione al mondo.
Abbassò di scatto lo schermo del laptop e si
alzò. Nonostante non ne avesse mai sofferto prima,
iniziò a sentirsi un po’ claustrofobico. Aveva
bisogno di un po’ d’aria.
«Dove vai?», gli domandò
Artù, lanciandogli un’occhiata preoccupata.
«In bagno», rispose nervosamente e senza nemmeno
volerlo incrociò lo sguardo di Alex, cosa che
peggiorò la situazione.
Si mosse in fretta lungo la carrozza e ne uscì, trovandosi
così solo nel piccolo corridoio in cui si trovavano i bagni
e le porte da cui erano saliti all’incirca un’ora
prima. Si appoggiò al vetro di una di esse e lo
guardò appannarsi all’altezza del suo naso.
Rimase così per cinque secondi, o forse per cinque minuti,
con gli occhi fissi sulla campagna e i paesini che si susseguivano
velocemente in lontananza, quando sentì le porte automatiche
della carrozza aprirsi nuovamente. Con la coda dell’occhio
scorse Alex e si morse l’interno della guancia, imprecando
silenziosamente.
«Va tutto bene?», gli domandò
l’infermiera, con le sopracciglia aggrottate.
«Sì, avevo solo bisogno di sgranchirmi un
po’ le gambe. Tu, invece?».
Alex scrollò il capo, ridacchiando. «Mai stata
meglio. Perché?».
«Mi sembri… diversa,
tutto qui».
La sua espressione cambiò in modo assai repentino,
insospettendolo ancora di più: sembrava stata colta sul
fatto a rubare, con un misto di paura e vergogna negli occhi.
«Alex, c’è qualcosa che vuoi
dirmi?», le chiese quasi dolcemente, avanzando di un passo
verso di lei.
Nonostante si fosse mosso con cautela, l’infermiera
sobbalzò come un cerbiatto spaventato da un rumore
improvviso nella foresta – e lui ne aveva visti tanti
scappare a causa della sua inettitudine nella caccia.
«Torno da Artù», gli disse con voce
strozzata prima di scomparire di nuovo dietro le porte scorrevoli,
veloce come Flash in persona.
Merlino sospirò e decise di tornare sull’argomento
alla prossima occasione, ma per i prossimi cinque minuti sarebbe
rimasto ancora lì in piedi, con la fronte contro il vetro
freddo e gli occhi chiusi, cullato dal ritmico sferragliare del treno
sulle rotaie.
***
«Allora, l’hai trovato?».
Alex fissò Artù come se fosse comparso dal nulla
e sbatté più volte le palpebre.
«Chi?».
«Come chi? Merlino!».
«Oh… No, è veramente al
bagno», mentì, sedendosi di fronte a lui
anziché di fianco.
Artù sospirò e si appoggiò al tavolino
con le braccia incrociate, gli occhi blu come il mare e colmi di
apprensione fissi nei suoi.
«Mi vuoi dire che cosa c’è che non va?
È da qualche giorno che sembri diversa, quasi in collera con
il mondo».
Anche Artù l’aveva notato. Allora non era solo una
sua impressione… Da quando aveva recuperato Excalibur dal
lago era veramente cambiata. Ma non poteva confessarglielo,
né a lui né tantomeno a Merlino.
Chissà come avrebbero reagito, se avessero saputo del suo
ritrovamento! Sicuramente gliel’avrebbero portata via e
questo non poteva assolutamente permetterlo: Excalibur aveva scelto lei
per tornare alla luce ed impugnandola si sentiva invincibile, una
sensazione troppo bella per potervi rinunciare.
«Non dovrei esserlo?», rispose alla fine, facendo
del suo meglio per risultare una bugiarda migliore
dell’antenato. «Ci ritroviamo in questa situazione
per colpa mia».
«E che cosa ti fa pensare che sia per colpa tua?».
Era stata convincente, ma si era tradita con le sue stesse mani.
Sospirò, confessando: «La settimana scorsa ti ho
sentito parlare con Merlino, quando era ancora privo di conoscenza. Hai
detto che Merlino e tuo figlio sono stati separati perché
oggi io potessi spingervi a lottare ancora una volta per questo
mondo».
«Ma non sei stata tu a deciderlo. La colpa è di
Freya e di quelli come lei».
«Chi è Freya?».
«La custode di Avalon, una lunga storia».
Artù sollevò di scatto gli occhi e si
ammutolì, salutando Merlino con un cenno del capo.
Lo stregone si avvicinò al loro tavolo e dopo un attimo di
esitazione si sedette accanto al suo re, lasciando Alex da sola.
Il vagone sembrava piombato nel silenzio più assoluto e
l’infermiera cercò di pensare a qualcosa da dire,
o almeno di inventarsi un passatempo che avrebbe fatto trascorrere
più velocemente l’altra ora di viaggio che
rimaneva, ma il cellulare di Artù le fornì
l’argomento perfetto.
«Chi è?», gli chiese, sporgendosi
così tanto sul tavolino che se Artù avesse
sollevato di scatto il capo le avrebbe tirato una testata.
«Fatti gli affari tuoi, impicciona»,
l’apostrofò, coprendo lo schermo dello smartphone
con una mano.
Ma Alex non si arrese e con sguardo malizioso riprese: «Prima
hai detto che questa mattina non hai fatto colazione. Dove sei
andato?».
«Mi lasci in pace? Vai a tormentare qualcun altro».
«Ma tu sei il mio
bis-bis-bis-bis-bis-bis…».
«Piantala».
«Per favore!». Alex sbatté le ciglia
così dolcemente che avrebbe potuto fare concorrenza al
più tenero dei cuccioli. E Artù fu costretto a
cedere.
«Sono andato da Cathleen», sbottò con
irritazione. «Sei contenta adesso?».
«Affatto! Voglio sapere tutto quello che vi siete detti,
parola per parola».
Artù aprì la bocca, poi arrossì e la
richiuse.
Sia Alex che Merlino lo fissarono trattenendo il respiro, fino a quando
l’infermiera quasi non si lasciò scappare un
gridolino di emozione.
«Avete fatto sesso?!», esclamò
sforzandosi per tenere un tono di voce basso, ma probabilmente i
passeggeri dell’intera carrozza la sentirono.
Artù rischiò di strozzarsi con la sua stessa
saliva, squittendo un «Che cosa?!» che
attirò ancora maggiore attenzione sul loro trio.
«Te lo ricordi vero che questo è il ventunesimo
secolo e non c’è nulla di male se due persone non
sposate fanno sesso, vero?», gli domandò Alex, a
voce bassissima quella volta.
«Io e Cathleen non
abbiamo fatto sesso», precisò,
paonazzo in volto. Quindi ribaltò la situazione, guardandola
con sguardo assassino: «Stai per caso insinuando che anche tu
hai…?».
Alex si ritrasse all’improvviso, appoggiando la schiena alla
poltroncina ed incrociando le braccia al petto. «Questo
è troppo anche per te, nonno. E non osare spostare
l’attenzione su di me un’altra volta: stavamo
parlando di te e Cathleen. Che cos’è successo
stamattina?».
«Ho deciso di andare a casa sua perché da quando
Merlino le ha rivelato la verità su di noi non mi aveva
più rivolto la parola», rispose alla fine,
grattandosi la nuca dopo essersi scompigliato i capelli biondi sulla
testa. «Continua ad avere ancora forti dubbi su tutta la
storia del re di Camelot, ma le ho promesso che quando
tornerò le spiegherò ogni cosa».
Alex inarcò le sopracciglia, in attesa.
«E?», lo incalzò con impazienza.
«E l’ho baciata», disse con un filo di
voce, come se stesse confessando un crimine punibile con la pena di
morte. «E poi lei ha baciato me ed è stato tutto
fantastico, anche se…».
« Anche se
cosa?», ansimò l’infermiera, guardandolo
disperata.
Quella volta fu Merlino a rispondere, stringendosi il collo tra le
spalle. «Anche se entrambi hanno perso l’amore
della loro vita e i sensi di colpa saranno inevitabili». Si
rivolse direttamente ad Artù, parlando con calma e dolcezza:
«Ne abbiamo già parlato: Ginevra avrebbe voluto
vedervi felice».
«Lo so». Si passò le mani sugli occhi
ora lucidi di lacrime e pretendendo che non si fosse commosso stese una
mano verso Alex. «Mi presti quel tuo affare per ascoltare la
musica?».
L’infermiera annuì controvoglia, decidendo di
concedergli un po’ di spazio per se stesso, e
frugò nella borsa a tracolla fino a quando non
trovò l’mp3. Glielo passò e lo
osservò infilarsi le cuffie nelle orecchie ed isolarsi,
rannicchiandosi ad occhi chiusi contro il finestrino, il giubbotto
steso addosso a mo’ di coperta.
Alex esitò prima di gettare un’occhiata fugace
verso Merlino, scoprendo che lui la stava già guardando.
Non voleva aumentare la tensione che c’era tra loro
riportando a galla il desiderio di Merlino di
“riposare” – l’altra parola era
troppo spaventosa anche solo per pensarla, – oppure mettersi
ulteriormente in ridicolo spiegandogli che i suoi sentimenti per lui
non impedivano loro di essere solo amici; soprattutto, non voleva che
il mago indagasse ancora sui motivi delle sue ultime stranezze. Quindi
abbozzò un sorriso e scivolando sulla poltrona di fronte
alla sua gli chiese candidamente di raccontarle una delle sue storie.
«Come, scusa?».
«A furia di parlare di Camelot mi è venuta una
specie di nostalgia, come se vi appartenessi anche io. Credo che mi
sarebbe piaciuto vivere al castello». E magari io e te ci saremmo
incontrati e avremmo potuto essere felici insieme, almeno per un
po’.
Merlino annuì lentamente, per poi aprirsi anche lui in un
sorriso. «Sì, credo proprio che saresti stata
felice. Di sicuro tutti i cavalieri ti avrebbero fatto la
corte».
Il sorriso di Alex si allargò per il piacere.
«Raccontami un’avventura in cui ci siano anche
loro».
«Vediamo… La conosci la storia di
Lamia?».
L’infermiera scosse il capo e Merlino iniziò a
raccontare, senza rendersi conto che Artù si era tolto una
cuffietta per poterlo ascoltare e ogni tanto accennava un sorriso,
ricordando i tempi andati in cui non aveva la minima idea di tutto
ciò che Merlino faceva per lui quotidianamente.
***
Era da poco passato mezzogiorno quando scesero dal treno.
Il viaggio era durato solo un paio d’ore, eppure furono tutti
felici quando toccarono di nuovo terra e nessuno obiettò
quando Merlino propose di camminare verso il loro hotel, invece di
ritrovarsi di nuovo seduti su un taxi. Dopotutto fuori dalla stazione
di Paddington il sole allo zenit splendeva in un cielo così
azzurro e limpido da non crederci, riscaldando piacevolmente la pelle
mentre un venticello primaverile e frizzante la levigava.
Non attraversarono Hyde Park, anche se stendersi sull’erba,
in quell’oasi di verde piantata nel cuore pulsante di Londra,
era un qualcosa che sarebbe piaciuto molto al re di Camelot. Ci
girarono attorno, percorrendo prima Bayswater Road e poi la lunga Park
Lane.
Sul loro cammino incrociarono almeno una mezza dozzina di autobus rossi
a due piani che sponsorizzavano visite turistiche della
città, molte cabine telefoniche rosse e un chiosco al quale
si fermarono per comprare tre enormi porzioni di fish and chips. Solo
il cibo fu in grado di far star zitto Artù, il quale non
aveva mai smesso di porre domande da quando avevano messo piede fuori
dalla stazione. Sembrava un bambino.
«E quell’arco che abbiamo visto prima?
Perché era lì?».
Alex roteò gli occhi al cielo: aveva gioito troppo in fretta.
Merlino invece sorrise, felice di poter soddisfare la sete di
conoscenza del suo re. Inghiottì le patatine che si era
appena messo in bocca e rispose: «Quello era il Marble Arch.
John Nash, l’architetto che l’ha progettato nel
1828, l’aveva pensato come nuova entrata trionfale alla
residenza reale di Buckingham Palace, ma una volta costruito si rese
conto che le carrozze da cerimonia non sarebbero mai passate sotto le
arcate, erano troppo strette. Così venne spostato sui resti
di Tyburn».
«Tyburn?».
Il mago scrollò le spalle, cercando un cestino in cui
buttare i propri avanzi. «La vecchia piazza in cui fino al
Diciottesimo secolo avvenivano le pubbliche esecuzioni, anche quelle post mortem. Uno
spettacolo davvero macabro».
Alex non si sarebbe mai abituata alla quantità di
informazioni storiche che Merlino conosceva. E mai, mai avrebbe smesso
di chiedersi quante di esse le avesse soltanto lette sui libri e quante
invece le avesse apprese di prima mano.
Rabbrividì solo al pensiero e si alzò a sua volta
dalla panchina, stirando le braccia verso il cielo.
«Quanto manca al nostro hotel?», gli chiese con
finta noncuranza: la curiosità infatti la stava logorando.
«Non molto».
«Non molto quanto,
esattamente?».
Merlino le sorrise furbescamente e la ignorò.
«Forza, andiamo».
Alex non sapeva il nome dell’albergo in cui avrebbero
pernottato, ma si era immaginata un piccolo edificio bianco, con alcune
bandiere sulla facciata e molti fiori sui davanzali delle finestre. Un
ambiente accogliente, magari a conduzione familiare, con i servizi
minimi ma ben curati in ogni dettaglio. Un due, tre stelle al massimo.
Per questo rischiò un infarto quando Merlino
indicò l’altissima torre di fronte a loro,
così alta che venne loro il torcicollo per averla guardata
troppo a lungo.
«Tu sei completamente pazzo!», gli urlò
contro non appena ritrovò un briciolo di autocontrollo.
«Hai prenotato un cinque stelle lusso?!».
Merlino scrollò di nuovo le spalle, continuando a sorridere
angelicamente. «Domani sera al galà ci spacceremo
per ricchi filantropi, questo ci aiuterà a calarci meglio
nella parte».
Alex stava giusto per dargli ancora una volta del pazzo scriteriato, ma
il mago attraversò la strada invitando Artù a
seguirlo, lasciandola indietro. Non poté far altro che
mordersi la lingua ed affrettarsi ad entrare con loro nella hall,
anch’essa immensa ed elegante da togliere il fiato.
Rimase in disparte con Artù – più per
soggezione che per altro – mentre Merlino, al bancone del
ricevimento, consegnava i loro documenti e la propria carta di credito.
Il portiere (che come secondo lavoro faceva sicuramente il modello ad
Abercrombie) fece una rapida strisciata e dopo aver controllato che
fosse tutto in regola allungò a Merlino le chiavi delle loro
stanze e diede il via libera al facchino che con efficienza
sistemò le loro valigie sul carrello e fece loro strada
verso uno dei tanti ascensori dalle pareti dorate.
«Questo posto mi mette a disagio»,
sussurrò Alex all’orecchio di Merlino, cercando di
non mostrarsi sofferente a causa della stretta micidiale di
Artù sul suo povero polso. La sua claustrofobia era alle
stelle.
I loro nasi quasi si sfiorarono quando il mago si voltò
verso di lei e ci fu un attimo di imbarazzo. Poi a sua volta si
chinò verso il suo orecchio e rispose a bassa voce:
«Pensavo che essendo di stirpe reale ti sarebbe piaciuto il
lusso».
Alex non riuscì a ribattere perché
Artù la trascinò fuori dall’ascensore
non appena le porte scorrevoli si aprirono, traendo un respiro profondo
e ringraziando gli dei di essere sopravvissuto.
«Signorina Greenwood, da questa parte prego», disse
il facchino, invitandola a seguirlo lungo il corridoio.
Alex lo fissò confusa, poi fissò Merlino che le
consegnava la chiave della sua stanza, spiegando: «La nostra
camera è due piani più su».
Artù sobbalzò. «Cosa?! Mi stai dicendo
che devo risalire su quella cabina della morte? Io ti odio,
Merlino».
Lo stregone sorrise e con un cenno del capo la invitò a
proseguire.
«Ci vediamo dopo», li salutò sospirando
e si incamminò dietro il facchino che ora trasportava solo
la sua valigia.
Avanzarono per quella che le sembrò
un’eternità, tanto che quando si fermarono di
fronte ad una delle tantissime porte tutte uguali si lasciò
scappare un «Finalmente» più maleducato
di quanto non avesse voluto. Imbarazzata, chinò il capo e
consegnò la chiave al facchino, il quale le fece strada
all’interno della sua suite.
Non poté davvero evitare di rimanere a bocca aperta quando
si ritrovò in un salotto grande quanto quello di casa sua,
con un divano a tre posti addossato sulla parete di sinistra e una
scrivania e una chaise-longue sulla destra, mentre sul fondo della
stanza delle pesanti tende dalle sfumature autunnali si aprivano su una
grande finestra da cui si poteva ammirare gran parte dello skyline di
Londra, tra cui la famosa ruota panoramica sulle rive del Tamigi.
«Wow», mormorò, mentre il facchino
depositava la sua valigia accanto al divano e accendeva mano a mano
tutte le applique, spiegandole come regolarne
l’intensità in base all’atmosfera che
voleva creare.
Alex fece del suo meglio per prestargli attenzione, ma tutto le
sembrava così surreale da farle temere che stesse sognando.
Probabilmente era appena rientrata dall’ennesimo turno di
notte in ospedale ed era collassata sul divano, dimenticandosi di dare
da mangiare al piccolo Artù.
«Signorina Greenwood, se ora vuole seguirmi le mostro la
camera da letto».
Annuì senza troppa convinzione, lasciando che il facchino la
conducesse nella stanza attigua, ancora più grande e
confortevole della precedente: il letto alla francese si trovava sulla
sinistra, sormontato da un quadro famoso ma di cui non ricordava il
titolo; sulla destra c’erano un altro divanetto e una porta
scorrevole che il facchino indicò come il guardaroba. Nella
parete in fondo alla stanza c’era un’alta finestra,
ma a differenza di quella nel salotto quella sembrava più
una specie di bovindo, con una panchina imbottita e un paio di cuscini
su cui sedersi per godersi in tutta tranquillità il panorama.
Alex non vedeva l’ora che il facchino se ne andasse per
potersi rilassare di fronte a quella vista magnifica, ma prima la
invitò a seguirlo un’ultima volta
perché le mostrasse il bagno.
Stava quasi per dirgli che l’avrebbe trovato sicuramente
anche da sola, ma le parole le morirono in gola, sopraffatte
dall’incredulità, quando tantissime luci piccole
come candele si accesero intorno ad una vasca idromassaggio posta
proprio di fronte all’ennesima vetrata.
«Credo sia tutto, signorina Greenwood. Se ha bisogno di
qualcosa, non esiti a contattare la reception. Buona permanenza a
Londra».
Alex annuì come uno zombie, seguendo il facchino fino
all’ingresso, dove rimase fermo con le mani unite sul ventre.
Il suo sguardo la mise così in imbarazzo che
l’infermiera fu costretta a scrollarsi di dosso lo shock.
Solo allora capì che il facchino stava attendendo la mancia.
Gli rivolse un sorriso quasi meschino, ma non era rivolto a lui. Sapeva
che dopo tre giorni trascorsi in quella suite avrebbe odiato casa sua e
Merlino doveva pagare per questo.
«Dica pure ai miei accompagnatori che le ho promesso una
lauta mancia, provvederanno loro», gli disse e gli chiuse la
porta in faccia, alla quale si appoggiò per guardarsi di
nuovo intorno. Si lasciò scappare un risolino quasi isterico
e corse in bagno per riempire la vasca idromassaggio.
All’improvviso il lusso non la metteva più a
disagio.
***
Artù si gettò sul divanetto di pelle chiara, le
lunghe gambe che sporgevano dal bracciolo, e guardò Merlino
chiudere la porta della loro suite con un sorriso divertito sulle
labbra, il portafoglio ancora stretto in mano.
«Adesso che si fa?», gli domandò,
portandosi le braccia incrociate dietro la nuca.
«Pensavo che avremmo potuto riposare per qualche ora e poi
fare un altro giro per la città».
In una frazione di secondo Artù fu seduto sul divano, gli
occhi blu fissi nei suoi. «Perché, ti senti male?
Non mi mentire, Merlino, o giuro che…».
«Ho solo dormito poco questa notte», lo interruppe,
trovando comunque dolce il fatto che si preoccupasse per lui.
Il re di Camelot rilassò le spalle e tornò a
sdraiarsi, ma non lo perse di vista nemmeno per un attimo.
Merlino recuperò la valigetta nera che aveva lasciato sul
tavolo dall’altra parte del salotto e poi con il trolley
nell’altra mano si avviò verso la propria camera.
O almeno lo avrebbe fatto, se Artù non gli avesse chiesto
che cosa ci fosse in quella valigetta.
«Gli inviti per il galà e altri
documenti», mentì e Artù gli credette
– o fece finta – permettendogli di chiudersi
finalmente la porta alle spalle.
Merlino sospirò e posò la valigetta sul letto,
quindi inserì i quattro numeri della combinazione. La
serratura si sbloccò, mostrando un piccolo cerchio di
metallo, spesso all’incirca due centimetri e ricoperto di
incisioni, con un cristallo grezzo incastrato nel mezzo. Lo
sfiorò, sentendo un brivido corrergli lungo la spina
dorsale. Richiuse di scatto la valigetta e la cacciò sotto
al letto, maledicendosi.
Lanciò a terra i cuscini di troppo e si stese sopra le
coperte, dando le spalle al sole accecante che illuminava lo skyline di
Londra. Non appena chiuse gli occhi piombò in un sonno
profondo e tormentato dagli incubi.
***
Alex pensava che la sua camera fosse enorme, ma non aveva ancora visto
quella di Merlino e Artù. La sua in confronto era uno
sgabuzzino per le scope!
Incredula, non riusciva a far altro che vagare per l’immensa
suite, notando ogni piccolo particolare ed ignorando lo sguardo
scioccato di Artù, pigramente steso sul divano. Doveva
essere davvero preoccupato per la sua sanità mentale, se
distoglieva lo sguardo dalla replica di una vecchia partita di calcio
che lui ovviamente si era perso.
«Posso vedere la tua camera da letto?», gli
domandò ad un tratto, tanto all’improvviso che il
re di Camelot sobbalzò, lasciandosi quasi sfuggire di mano
il telecomando.
Sospirò, indicando con un cenno del capo la porta dietro la
poltrona. «Da quella parte».
L’infermiera corse contro la porta come avesse voluto
sfondarla e si pietrificò di fronte alla magnificenza di
quella zona notte.
Mentre i toni della sua stanza erano prevalentemente quelli caldi ed
avvolgenti del legno, quella suite sembrava un piccolo pezzo di
Paradiso: il bianco candido delle lenzuola, delle tende e della
poltrona ricordava un soffice manto di nuvole, le venature
d’oro degli intagli nei mobili e dei ricami sui cuscini
brillavano come raggi di sole, i fiori che si trovavano sul comodino e
il sedile di velluto trapuntato ai piedi del letto sembravano frammenti
di cielo.
Alex fece un passo incerto all’interno della camera e
sfiorò uno dei pali di legno lucido a sostegno del
baldacchino: era decisamente vero. Lei aveva sempre desiderato avere un
letto a baldacchino!
Quasi pestò i piedi a terra per l’invidia, poi si
gettò a volo d’angelo sul materasso soffice e
chiuse gli occhi, beandosi del piacevole calore che la luce del sole le
regalava sulla pelle entrando dalla finestra panoramica.
Senza rendersene conto si appisolò, ma credette davvero di
star sognando quando aprì di scatto gli occhi e si
ritrovò il viso di Merlino a pochi centimetri dal proprio,
la sua mano che le accarezzava i capelli ancora un po’ umidi
sull’attaccatura del collo dopo la sua immersione
nell’idromassaggio.
«E il lusso ti metteva a disagio, uh?».
Alex si sollevò sui gomiti troppo in fretta, senza dare a
Merlino il tempo necessario per scendere dal letto: le loro fronti si
scontrarono ed entrambi gemettero per il dolore, per poi scambiarsi
un’occhiata e scoppiare a ridere. Un sogno non avrebbe fatto
così male.
«Per quanto ho dormito?», gli domandò,
controllando se avesse sbavato o meno.
Aveva scoperto che poteva capitarle durante l’ultimo pigiama
party della sua vita, a tredici anni, e il nomignolo con cui avevano
iniziato a chiamarla a scuola l’aveva ossessionata tanto che
anche adesso, a distanza di anni, si preoccupava di come qualcuno di
estraneo potesse trovarla dopo un sonnellino. Non che Merlino fosse un
estraneo, ma era pur sempre l’uomo di cui era
innamorata…
«Una ventina di minuti, al massimo. Sono io che ho dormito
troppo».
«Probabilmente ne avevi bisogno. Ma perché mi hai
svegliata?».
Merlino aprì la bocca, ma qualcosa scattò nella
sua mente e la richiuse, facendo svanire persino il sorriso che ne
incurvava le labbra.
Alex si chiese se non avesse dovuto essere più specifica,
ora che l’aveva preso in contropiede. Avrebbe potuto
chiedergli perché le stava accarezzando i capelli di
nascosto, perché si fosse avvicinato così tanto
al suo corpo… Non ne ebbe il coraggio.
«Non che volessi dormire, comunque»,
esclamò, scendendo dal letto. «Allora, dove
andiamo?».
Merlino riconquistò il proprio sorriso, gli occhi lucenti
d’emozione. «Pensavo di far vedere ad
Artù la residenza della Regina».
«Sperando che non voglia spodestarla».
«Ehi, vi siete dimenticati ancora di me? Vi
sento!», urlò Artù dal salotto.
Alex trovò inquietante che il suo bis-bis-bis-eccetera-nonno
origliasse le sue conversazioni con Merlino, ma non appena
incrociò lo sguardo dello stregone scoppiò a
ridere, contagiandolo.
Trascorsero un bel pomeriggio, come tre semplici turisti senza nessun
altro pensiero oltre a quello di godersi la città inondata
dal sole.
Avevano raggiunto Buckingham Palace passando per Constitution Hill, una
strada che permise loro di vedere il Wellington Arch e
l’Australian Memorial, su cui Merlino raccontò un
paio di aneddoti probabilmente sconosciuti al resto del mondo.
Alex aveva scattato moltissime foto al Palazzo, mentre Artù
continuava a borbottare che non poteva essere la vera residenza della
famiglia reale: che castello era, senza le torri?
Così erano passati oltre, dirigendosi verso le rive del
Tamigi per ammirare il Big Ben e il Palazzo di Westminster.
Mano a mano che si avvicinavano all’orologio più
iconico del mondo Alex sentiva la delusione crescere sempre
più dentro il suo cuore. Quando era stata a Londra da
bambina, con i suoi genitori e poi in gita scolastica, le era sembrato
molto più alto! Ora invece persino il loro hotel lo superava.
La sede del Parlamento invece era incantevole, un vero spettacolo per
gli occhi, anche se le faceva specie osservare quell’edificio
in stile neogotico affiancato, sull’altra sponda del fiume,
dal London Eye, la gigantesca ruota panoramica che lei aveva sempre
associato ad un’enorme ruota per criceti.
Il sole era già quasi calato all’orizzonte quando
decisero di tornare in albergo per la cena. Merlino aveva detto proprio
così: «Sarà meglio tornare in hotel, o
ci perderemo la cena».
Alex l’aveva fissato sconvolta, chiedendosi se avesse davvero
fatto quello che temeva avesse fatto.
«Hai prenotato a quel
ristorante? Quello al ventottesimo piano?».
«Uhm-uhm», aveva annuito lui con un sorriso ebete
in faccia.
Merlino era pazzo, veramente ricco e pazzo.
Raggiunsero l’albergo e Alex tirò fuori dalla
valigia il vestito che teoricamente avrebbe dovuto indossare la sera
successiva, al galà. Era l’unico abito che fosse
adatto all’occasione e l’unico che si era portata
dietro, certa che l’avrebbe usato appunto per una sera
soltanto.
Continuò a dare dell’idiota a Merlino mentre si
spogliava e si immergeva nella vasca per il secondo idromassaggio della
giornata, il quale però non servì a molto.
Si era appena avvolta nel morbido accappatoio bianco in dotazione,
quando sentì dei colpi inconfondibili alla porta della sua
suite.
«Avevi detto alle sette e trenta, se ti aspetti che sia
già pronta sei proprio…».
Si era interrotta a metà, guardando lo stregone sorreggere
due buste di plastica con il logo rosso di un ristorante cinese
take-away. Era così felice che quasi si dimenticò
di indossare soltanto l’accappatoio quando gli
gettò le braccia al collo.
Quella sera mangiarono tutti e tre cibo cinese, seduti per terra
intorno al basso tavolino di vetro del suo soggiorno, commentando la
giornata appena terminata e ridendo a crepapelle quando Merlino
raccontò loro dell’occhiata piena di repulsione
che la receptionist gli aveva rivolto quando si era resa conto che era
rientrato con la cena take-away.
Alex non si sentiva così bene da tanto, troppo tempo, e
quando arrivò il momento della buonanotte un nodo le strinse
la gola, facendole desiderare che Artù e Merlino restassero
lì con lei per altri cinque minuti. Probabilmente sarebbero
rimasti se gliel’avesse chiesto, ma non le andava di fare la
bambina capricciosa. Quindi li salutò rimanendo sulla soglia
della sua suite, completamente a suo agio nel proprio pigiama azzurro
con le pecorelle, e poi si chiuse la porta alle spalle, avvertendo
immediatamente il silenzio e la solitudine come due macigni sul petto.
Si era messa a letto da dieci minuti (e si era girata e rigirata per
altrettanti) quando le arrivò un SMS. Afferrò il
cellulare e nel giro di due minuti si era già cambiata,
pronta per sgattaiolare fuori dalla suite.
***
Vediamoci
tra dieci minuti al bar del ventottesimo piano.
Lesse per l’ennesima volta il messaggio che le aveva inviato
e sospirò, passandosi stancamente una mano sul viso per poi
portarsi alle labbra il cocktail che nel frattempo aveva ordinato.
Forse seguire il proprio istinto era stata una mossa azzardata,
considerando che Alex non si era ancora vista. Ma non sarebbe riuscito
a darsi pace e non poteva più continuare così:
doveva parlare con lei, riuscire a farle dire che non c’era
futuro per loro e costringerlo ad accettarlo. Perché il vero
problema – solo ora lo vedeva – era lui.
Alzò lo sguardo verso l’entrata del bar e
finalmente scorse Alex affacciarsi e scrutare tra la folla. Merlino
sollevò una mano per farsi notare e lei accennò
un sorriso, incrociando il suo sguardo.
Indossava dei semplicissimi jeans e una camicetta rossa –
quanto le donava il colore dei mantelli dei cavalieri di Camelot!
– e aveva legato i capelli in uno chignon morbido, a cui
sfuggivano diverse ciocche bionde che le sfioravano il profilo della
mandibola e il collo candido.
«Scusami se ci ho messo tanto, non trovavo
l’ascensore giusto», esordì, sedendosi
al suo fianco mentre un solerte cameriere passava a ritirare la sua
ordinazione.
«La stessa cosa che ha preso lui», rispose
velocemente Alex, indicando il bicchiere di Merlino.
«Qualunque cosa sia», mormorò quando si
fu allontanato, guardando il cocktail con sguardo circospetto.
Il mago si strinse nelle spalle. «Non è male.
È whisky con succo di lamponi, crema di cacao e succo di
lime».
«Nah, troppo sofisticato per i miei gusti. Ma non siamo qui
per bere, no?».
Merlino sentì il cuore battergli su per la gola, come se
volesse anche lui un sorso del cocktail, ed abbassò lo
sguardo.
Rimasero in silenzio per quella che sembrò
un’eternità, avvolti dalla rilassante musica jazz,
dalle leggere conversazioni degli altri avventori del bar e dalle luci
soffuse che mettevano in risalto il bagliore notturno della
città tutt’intorno a loro.
Solo quando arrivò anche il suo cocktail, Alex
osò interrompere quell’imbarazzante silenzio.
«Perché mi hai detto di venire qui, se hai
intenzione di startene zitto?», gli chiese quasi con rabbia,
stringendo forte una mano intorno al bicchiere.
Merlino sollevò lentamente il capo e la guardò
negli occhi, realizzando che se esisteva davvero un Paradiso allora i
suoi prati dovevano essere per forza del colore dei suoi occhi.
«Ti amo», sussurrò, rendendosene conto
troppo tardi: Alex l’aveva sentito, non poteva rimangiarselo.
E che senso avrebbe avuto, in fin dei conti?
La sorpresa che vide prendere possesso del suo volto fu talmente grande
che Merlino abbozzò un sorriso triste, prendendole una
ciocca di capelli per sistemargliela dietro l’orecchio destro.
«È tutta colpa mia», aggiunse, cercando
di leggere tutte le emozioni che le attraversarono lo sguardo,
rendendolo annebbiato, lontano. «Non avrei mai dovuto provare
questi sentimenti, non di nuovo. Lo sapevo che era uno sbaglio bere
quel veleno, morire, rinascere con questo aspetto e presentarmi alla
festa di capodanno all’ospedale. Lo sapevo, ma l’ho
fatto lo stesso, perché ti amavo e volevo starti
più vicino di quanto il vecchio Dragoon avrebbe mai potuto.
«Mi sono reso conto della pazzia che avevo commesso quando
ormai era troppo tardi per tornare indietro, ma ho iniziato a sperare
che mi sarebbe passata quando tu e Keith avete iniziato a frequentarvi.
L’hai conosciuto alla stessa festa in cui hai, per
così dire, conosciuto me. Ironico, non trovi? Mi sono
sentito ferito, ero geloso, ma era proprio ciò di cui avevo
bisogno: vederti felice era l’unica cosa di cui mi importasse
veramente.
«Per un po’ mi sono davvero illuso che i miei
sentimenti per te si fossero affievoliti, ma poi involontariamente ho
ascoltato una telefonata di Keith e tutto quello che avevo cercato di
dimenticare, di cacciare nell’angolo più profondo
del mio cuore, mi è crollato addosso di nuovo. Keith ti
stava tradendo e io non potevo, non
potevo permettere che ti facesse del male.
«Ho iniziato a pedinarlo. Per settimane l’ho
seguito durante le sue trasferte a Newport e ho raccolto prove della
sua seconda relazione. Avevo foto, video… avrei potuto
farteli avere in qualsiasi momento, eppure ho esitato. Ho realizzato
che se tu e Keith aveste rotto, allora io avrei ripreso a sperare. Il
mio amore assopito si sarebbe svegliato e mi avrebbe tormentato, giorno
e notte, sapendo che mai e poi avrei potuto averti.
«Ad un tratto Keith smise. Aveva deciso che eri tu la persona
che amava, che voleva spendere il resto della sua vita con te: in poche
parole, voleva chiederti di sposarlo. Allora mi dissi di lasciar
correre, mi dissi che per il mio stesso bene avrei dovuto far finta di
niente, fingermi entusiasta quando mi avresti mostrato il tuo anello di
fidanzamento e mi avresti raccontato per un milione di volte il modo
romantico con cui ti aveva fatto la proposta. Però una parte
di me continuò, imperterrita, a dirmi che non me lo sarei
mai perdonato, se un giorno tu fossi venuta a sapere quello di cui io
ero già a conoscenza. Ti saresti pentita di averlo sposato,
avresti sofferto moltissimo e lo sai… io non sono un tipo
egoista.
«Sapevo quando Keith avrebbe deciso di farti la proposta,
così quello stesso giorno corsi a Newport e convinsi Bess,
l’amante di Keith, a chiamarti. Non è stato
difficile, lei era stata scaricata per un’altra e sapeva bene
come ti saresti sentita se avessi sposato un uomo che ti aveva tradita
per così tanto tempo. Usai un indirizzo email falso per
inviarti quelle foto e il resto lo sai».
Le parole gli erano uscite come un fiume in piena, inarrestabili. E
sarebbe stato bello se si fosse sentito anche solamente in parte libero
da quel fardello che gli comprimeva il petto. La verità era
che gli sembrava ancora più pesante, di fronte agli occhi
colmi di lacrime di Alex.
«Perché mi stai dicendo tutto questo?»,
gli chiese dopo un minuto di silenzio, sforzandosi per mantenere la
voce ferma.
«Ti ricordi quando mi hai chiesto se era così
sbagliato amarmi? Ecco, per me amarti è la cosa
più sbagliata che ci sia. Io non posso renderti in alcun
modo felice, Alex. Quando tutta questa storia del nostro destino
sarà finita, io… io ti lascerò, e
questa volta per sempre».
«E credi che non soffrirò comunque?».
Ormai le era impossibile trattenere i singhiozzi, ma il suo
autocontrollo era a dir poco spaventoso: le sue spalle, che solitamente
tremavano quand’erano squassate dai singhiozzi, erano rigide
come legno, e la sua voce, tremante e spezzata, usciva chiara e decisa,
come se dentro di lei non stesse avvenendo alcun terremoto di livello
dieci della scala Richter.
«Tu sei pazzo, se credi che ti permetterò
di…», deglutì, mostrando
così il primo piccolo segno di cedimento. «Tu non
ti toglierai la vita di fronte ai miei occhi, Merlino».
«Non potrai impedirlo».
Alex aprì nuovamente la bocca per ribattere, ma Merlino
scivolò più vicino a lei sul divanetto e le
accarezzò la testa col palmo della mano, lasciandola
scorrere dai capelli alla sua guancia rigata dalle lacrime.
«Ci ho pensato a lungo», sussurrò.
«Se davvero la Terra sta morendo perché la magia sta
morendo, allora qualcuno dovrà guarirla. Io sono
l’unico in grado di ristorarla, di dare indietro al mondo
tutto il potere che si è accumulato nelle mie vene durante i
secoli. Man mano che la rilascerò mi indebolirò,
le mie forze verranno meno… Quando tutta la magia
avrà abbandonato il mio corpo, diventerò
polvere».
«Stai zitto, zitto», gemette e lo colpì
al petto con dei pugni leggeri, per poi affondare il viso nel suo petto.
Aveva attirato l’attenzione dei clienti dei tavoli vicini,
tanto che Merlino capì che era meglio levare le tende. Prese
Alex per mano e l’aiutò ad alzarsi,
accompagnandola fuori dal bar tenendola stretta a sé.
Chiamò l’ascensore con ancora Alex appoggiata
addosso, il suo respiro caldo ed irregolare contro il collo. Il
desiderio di stringerla più forte, con entrambe le braccia,
e di sentire quel respiro mescolarsi al proprio era quasi
incontrollabile, perciò ringraziò il cielo quando
le porte dell’ascensore si aprirono con un din.
Aveva intenzione di accompagnarla in camera, ma decise che forse non
era l’idea migliore. Quando l’ascensore si
fermò di nuovo, prese Alex per le braccia e la
scostò da sé per guardarla negli occhi.
«È il tuo piano», le spiegò,
indicando il corridoio con un cenno del capo.
«Non puoi davvero lasciarmi così. Cristo, mi hai
appena detto che hai bevuto del veleno perché mi amavi e che
secondo te l’unico modo per salvare il mondo è
consumarti fino a diventare polvere!».
Merlino scrollò le spalle, rivolgendole un sorriso
rammaricato. «Odiami pure, sarà più
facile per entrambi».
Lo schiaffo arrivò forte e all’improvviso. E il
bacio pure. Merlino chiuse gli occhi, la schiena contro la parete
dorata dell’ascensore e le mani strette saldamente sui suoi
fianchi.
Alex gli accarezzò la guancia su cui l’aveva
colpito ed immediatamente il bruciore scomparve, donandogli in cambio
una piacevole sensazione, come se vi avesse appena posato sopra un
pugno di neve fresca. A quel tocco il mago recuperò un
po’ di lucidità e si ritrasse bruscamente,
voltando il capo dall’altro lato, evitando gli occhi
dell’infermiera.
«Se potessi
odiarti sarebbe davvero più facile»,
sibilò questa prima di aprire di nuovo le porte
dell’ascensore ed uscire.
Merlino non riuscì a muoversi per diversi istanti. Quando lo
fece, si portò istintivamente una mano sulle labbra,
sentendole infuocate. Deglutì e socchiudendo gli occhi fece
scorrere una mano di fronte a sé, mormorando poche parole.
Come aveva temuto, le porte dell’ascensore eseguirono il suo
comando e si chiusero per magia. Aspettò il contraccolpo,
quasi lo sperò, ma non accadde nulla.
Sudando freddo, colpì il pulsante con il numero del piano in
cui si trovava la sua suite e cercò di convincersi che
doveva esserci un’altra spiegazione possibile.
Per quanto ci provasse però, quella notte si girò
e rigirò nel letto, terrorizzato – tra le altre
cose – dal pensiero che Alex fosse venuta a contatto con
un’altra fonte magica, in grado di risvegliare ed alimentare
i suoi poteri.
____________________________________________________________
Buongiorno a tutti! :)
Allora, in questo capitolo sono venuti al pettine alcuni nodi lasciati
lì ingarbugliati l'ultima volta.
Primo Myra e Keith, che hanno preso strade diverse: la prima si
è trasferita, il secondo cerca di rimediare ai suoi errori.
La situazione tra Artù e Cathleen - che sembra essersi
risolta nel migliore dei modi *w* - e quella tra Merlino ed Alex - che
più complicata di così non potrebbe essere.
Quest'ultima in particolare sembra destinata a finire male
già dal principio, dato che Merlino ha confessato la sua
stanchezza nei confronti di quell'immortalità che non ha mai
chiesto o desiderato. Ma Alex, la conosciamo, non si
arrenderà e ha persino fatto un giuramento, una
"dichiarazione di guerra" nei confronti dei custodi della magia. Come
andrà a finire?
Per quanto riguarda la gita Londinese per il nostro trio delle
meraviglie, staremo a vedere se Alex riuscirà effettivamente
ad incontrare il Principe, anche grazie al "coraggio" fornitole da
Excalibur.
E che ne pensate di questa ultima chiacchierata a cuore aperto tra
Merlino e Alex? #shocking XD
Mi aspetto di leggere i vostri pareri, a questo punto! Un grazie a chi
ha letto fino a qui e a chi ha commentato lo scorso capitolo! ;)
Ci vediamo tra un paio di settimane!
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 19 *** 19. Sweet dreams ***
Buonasera merliniani! :)
Vorrei tanto avere un giorno fisso per gli aggiornamenti, ma purtroppo
lavorando non posso permettermi questo lusso, peciò spero mi
perdonerete se a volte ritardo un po'.
Comunque questo capitolo è bello ricco: vedremo le reazioni
di Merlino e Alex dopo il loro ultimo incontro al bar, il famoso
galà di beneficienza (si è tenuto davvero, un
paio di anni fa, ed erano anche circolati dei rumors sul Principe
William e Taylor Swift) e nel finale... beh, questo non ve lo spoilero
;)
Ringrazio tutti per aver letto e commentato lo scorso capitolo e vi
auguro un'ottima settimana!
Vostra,
_Pulse_
__________________________________________________________________
19. Sweet
dreams
Era tornato il gelo.
Non in senso letterale: le temperature di Londra erano fin troppo nella
norma, ora che il cielo si era annuvolato e una sottile pioggia
sembrava non voler dar tregua alla città.
Era tornato il gelo tra Alex e Merlino.
L’aveva scoperto quella mattina, quando Alex non si era
presentata a far colazione nella loro suite – lei che giusto
la sera prima si era mostrata tanto entusiasta all’idea
– e Merlino invece di esserne sorpreso aveva scrollato le
spalle e in silenzio era tornato a rintanarsi nella propria camera da
letto con uno dei vassoi.
Rimasto solo e senza più appetito nel grande salotto della
suite, Artù aveva deciso di scoprire che cos’era
successo tra loro.
Merlino non aveva aperto bocca in proposito, anzi l’aveva
proprio ignorato. Sperava che almeno Alex fosse più propensa
a sfogarsi.
Bussò rapidamente alla porta della suite e dovette aspettare
un po’, prima di sentire la serratura interna scattare. Alex
aprì la porta quel tanto che bastava per vedere chi ci fosse
dall’altra parte e al contempo nascondere ciò che
aveva alle spalle. Ad Artù quel particolare non
sfuggì, come non sfuggirono i suoi occhi gonfi ed arrossati,
segno inconfutabile di un pianto recente.
«Giuro che lo ammazzo», mormorò a se
stesso come promemoria. Quindi rivolse un tenero sorriso ad Alex, ma
questa lo interruppe ancor prima che potesse aprire bocca.
«Mi dispiace per la colazione, ma non è un buon
momento».
«Che cos’è successo?», le
chiese e fece per entrare, posando una mano sul legno della porta; Alex
però oppose resistenza, rendendo ancora più
sottile la fessura che gli permetteva di intravedere la sua figura
nella semioscurità della stanza.
«Alexandra? Fammi entrare, per favore».
La ragazza scosse lentamente il capo, mordendosi le labbra.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende? Sto iniziando a
preoccuparmi», sbottò Artù.
Non ottenendo alcuna risposta, perse definitivamente le staffe. Dando
un colpo deciso alla porta riuscì a farla indietreggiare
quel tanto che gli permise di intrufolarsi nella suite e di rimanere
sbigottito di fronte al disastro che vi regnava. Era tutto a soqquadro,
come se un tornado avesse deciso di fare una breve sosta nel salotto,
ribaltando il divano e la poltrona e frantumando qualsiasi oggetto di
vetro o ceramica presente– tra cui il tavolino intorno al
quale avevano cenato la sera prima – per poi continuare per
la propria strada, ignaro della distruzione che aveva arrecato.
Mentre Artù cercava invano di unire i puntini,
l’asta di sostegno delle tende si staccò
definitivamente dalla parete e cadde a terra, facendo entrare nella
stanza la luce di quel giorno piovoso.
«Come diavolo…?», iniziò a
chiedere voltandosi verso Alex, ma non riuscì più
a continuare: le parole gli morirono in gola, guardando i suoi occhi di
nuovo lucidi di lacrime e le sue spalle scosse da silenziosi singhiozzi.
«Non volevo. Te lo giuro Artù,
è… è successo, non ho potuto
fermarlo».
Piangendo, lo abbracciò ed affondò il viso nel
suo petto. Artù si guardò intorno ancora una
volta, incredulo che Alex fosse stata davvero l’artefice di
quel di disastro, poi si fece forza e respirando profondamente la
strinse a sé, posandole un bacio tra i capelli spettinati.
Ci volle un po’ prima che si calmasse. Artù la
fece sedere sul divano – dopo averlo risistemato al suo posto
ed aver tolto decine di frammenti di vetro dai cuscini – e
con calma la invitò a spiegarle che cosa l’aveva
portata a reagire in quel modo.
All’inizio fu comprensibilmente restia, poi si arrese
all’evidenza di aver un disperato bisogno di confidarsi con
qualcuno e gli raccontò tutto: di come una settimana prima
aveva rivelato ancora una volta a Merlino di amarlo
incondizionatamente, di quello che le aveva detto il mago a proposito
del suo desiderio di riposo dopo che il loro destino si fosse compiuto
e delle molteplici confessioni che le aveva fatto la sera prima, al bar
dell’hotel. Era stato troppo, semplicemente, e non era
più riuscita a tenersi tutto dentro. I suoi sentimenti
– la rabbia, la paura, la frustrazione – erano
stati i canali che la magia aveva sfruttato per tornare libera.
Quando finì il proprio racconto, Artù aveva
almeno un milione di pensieri e di preoccupazioni che gli affollavano
la mente. Per questo decise di procedere per priorità:
numero uno, la sicurezza di Alex.
Dopo averle preparato una tazza di tè usufruendo della
piccolo bollitore in dotazione nella suite, le disse di rilassarsi ed
aspettarlo lì.
«Dove vai adesso?», gli chiese, tesa come una corda
di violino.
Artù sospirò, abbassando le spalle. «Da
Merlino. Deve sapere quello che è successo qui dentro, lui
è l’unico che
può…».
«No». Alex si alzò di scatto dal divano,
senza trovare nessun posto a portata di mano dove poter lasciare la
tazza di tè. La tenne quindi tra le mani, aggiungendo:
«Non farlo, ti prego. Se dovesse scoprirlo potrebbe lasciarmi
qui mentre voi questa sera andrete al galà, oppure potrebbe
decidere che nessuno di noi ci andrà. Non possiamo
rischiare».
Artù ebbe come la sensazione che si stesse arrampicando
sugli specchi, come se non gli avesse detto tutto e avesse paura della
reazione di Merlino per un altro motivo, ma non lo diede a vedere.
«Ma visto che è Merlino che paga il conto
dell’albergo, penso proprio che debba essere avvisato delle
condizioni in cui si trova questa camera».
Detto questo si voltò ed uscì dalla porta, senza
dare il tempo ad Alex di obiettare nuovamente.
***
Artù era piombato in camera sua nello stesso momento in cui
aveva deciso di alzarsi dal letto ed affrontare la giornata, invece di
lasciare che gli scivolasse addosso.
Con Alex la sera precedente era stato un vero e proprio disastro: non
aveva risolto pressoché nulla e aveva addirittura ottenuto
un altro grattacapo, ma piangersi addosso era del tutto inutile.
Artù lo colse con i jeans infilati per metà e
anziché arretrare per l’imbarazzo come credeva
avesse fatto, non se ne curò minimamente e col fiatone
esclamò: «È successo ancora».
Merlino lo fissò e tirò su la schiena,
abbottonandosi i jeans. «Avete fatto le scale invece di
prendere l’ascensore? Sapete che non dovete sforzarvi,
potreste avere un attacco in qualsiasi momento».
«Merlino, hai sentito quello che ho detto? È
successo ancora!».
«È successo ancora cosa?!»,
gridò a sua volta lo stregone, lanciandogli
un’occhiata spazientita.
Artù fece un respiro profondo, massaggiandosi le tempie.
«Alex ha usato di nuovo la magia, senza volerlo, e la sua
camera è ridotta male, molto male».
Il cuore gli schizzò in gola, battendo
all’impazzata. Ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, il
re di Camelot aggiunse: «È come con Morgana. Devi
aiutarla, Merlino».
Il nome della sorellastra di Artù gli fece sanguinare il
cuore e riportare a galla il suo incubo più frequente,
quello che lo svegliava nel cuore della notte madido di sudore e con la
sua voce ancora nella testa.
«Non posso aiutarla, se lei non vuole», si
lasciò scappare, riferendosi al pensiero che
l’aveva tormentato tutta la notte, ovvero che probabilmente
aveva trovato una fonte magica di cui non gli aveva parlato. Ma questo
Artù non poteva saperlo e rispose in base a ciò
di cui era appena venuto a conoscenza.
«Senti, mi ha raccontato tutto quello che vi siete detti ieri
sera e nonostante io non sia d’accordo con la maggior parte
dei tuoi programmi per il futuro – ammettilo, sono pessimi
– per quanto riguarda Alex devi fare tutto il possibile
perché sia al sicuro. Se la ami come dici, non puoi
arrenderti».
Merlino non si sarebbe mai aspettato che Alex andasse a piagnucolare da
Artù. Ad ogni modo, se Artù era venuto a sapere
delle sue intenzioni tanto meglio, aveva una conversazione scomoda in
meno da affrontare.
«Non ne ho alcuna intenzione, infatti», rispose
sbrigativo, afferrando la felpa blu con la zip e superandolo.
***
Alex camminò avanti e indietro nel salotto della suite,
mordicchiandosi le unghie. Aveva provato a fermare Artù, un
tentativo fiacco e poco convinto che non aveva portato ai risultati
sperati. Forse perché una parte di lei voleva
l’aiuto di Merlino.
Si era sentita svuotata quando rientrata nella suite aveva lanciato
quell’urlo di rabbia, ma era stata una sensazione piacevole.
Si era sentita meglio, come se si fosse liberata di un peso. Gran parte
di quella che lei aveva stupidamente chiamato
“rabbia” era sparita. Solo ora si rendeva conto che
in realtà si trattava magia, pura ed incontrollabile magia.
E pensava anche di aver capito da che cosa l’avesse
assorbita: l’unico oggetto proveniente dal passato e
strettamente legato alla magia, nato proprio grazie ad essa, era
Excalibur.
La preziosa spada forgiata per il re di Camelot non aveva effetti
positivi su di lei, lo capiva, ma era comunque terrorizzata dal
pensiero che qualcuno potesse portargliela via. Anche in quel momento
avrebbe tanto voluto aprire l’armadio e scavare tra i vestiti
per impugnarne l’elsa e beneficiare della sicurezza che le
infondeva, ma era a diversi chilometri di distanza.
Tornò a sedersi sul divano, facendo attenzione a non pestare
le schegge di vetro sulla moquette. Si prese la testa fra le mani e le
sfuggì una risata, pensando che si trovava nella stessa
situazione del povero Bilbo Baggins: aveva trovato per caso un tesoro
pericoloso, capace di renderla ciò che non era per natura, e
pur sapendolo non riusciva a liberarsene. Non da sola, almeno.
La trovarono così, quando Merlino e Artù
entrarono nella sua stanza.
«Alex, stai bene?», le chiese immediatamente lo
stregone, inginocchiandosi di fronte a lei.
L’infermiera annuì con un cenno del capo,
guardando Artù sulla soglia della porta.
«Come avete fatto ad aprire?», fu la prima cosa che
chiese.
«Al check-in mi sono fatto dare un doppione di entrambe le
nostre chiavi, in caso di necessità»,
spiegò Merlino distrattamente, intento ad esaminarle gli
occhi e a sentirle le pulsazioni con due dita sul suo polso, proprio
come un vero dottore.
«Quindi saresti potuto sgattaiolare in camera mia mentre
dormivo?».
«A giudicare dal tuo aspetto, dubito che tu abbia dormito
questa notte. E poi perché mai avrei dovuto?».
Alex roteò gli occhi al cielo, assumendo
un’espressione tra l’annoiata e
l’irritata. «Non ne ho idea. Per tenermi
d’occhio, magari? Sai come siamo fatti noi Pendragon: ci
impegniamo al massimo per vanificare gli sforzi altrui e farci del male
con le nostre stesse mani».
Merlino la fissò con le labbra serrate e poi si
voltò verso Artù, spettatore silenzioso e
piuttosto confuso.
«Potete lasciarci soli per un momento?», gli chiese
con gentilezza.
Il re spalancò la bocca e dopo un attimo di esitazione,
sfiatò: «E dove dovrei andare?».
Merlino lo guardò con una certa eloquenza, lasciando intuire
persino a lei che avrebbe voluto dirgli che quello non era un
suo problema.
Scocciato, Artù uscì dalla suite sbattendosi la
porta alle spalle.
Rimasti soli, Alex e Merlino si fissarono per qualche secondo, fino a
quando entrambi non provarono l’istintivo impulso di baciarsi
o strozzarsi.
Il mago fu il primo a reagire, sollevandosi ed incrociando le braccia
al petto. «Se vuoi che mi scusi per aver mandato a monte il
tuo matrimonio, sappi che non lo farò».
«Perfetto, perché non le voglio le tue scuse. Non
avrei mai sposato Keith, tradimento o meno».
Non avrebbe voluto dirlo, non in quel momento. Aveva già
messo il proprio cuore a nudo troppe volte di fronte a lui, senza
ottenere nient’altro che rifiuti. L’aveva capito
ormai che si trattava di una portata non gradita, assaggiata e poi
sputata, da rimandare in cucina.
Gli occhi di Merlino le bruciavano addosso come tizzoni ardenti,
perciò continuò ad evitarli mentre si metteva
sempre più in ridicolo: «Ti sei preso il mio cuore
quella notte di capodanno, senza chiedere. Sei entrato nella mia vita
senza chiedere, l’hai cambiata, l’hai resa migliore
e allo stesso tempo peggiore… Tutto questo ancor prima di
rovinare il mio matrimonio. Ne avevi il diritto?».
«Non volevo che soffrissi, io…».
Lo azzittì con un movimento della mano. «Il dolore
è inevitabile, non puoi controllarlo. Ho sofferto questa
notte, persino adesso ho il cuore a pezzi. Che hai intenzione di fare
in merito?».
Un sorriso amaro le incurvò le labbra, scorgendo
l’impotenza negli occhi di Merlino. E l’ennesima
crepa si aprì sul proprio cuore: non avrebbe mai ceduto ai
sentimenti, poco ma sicuro.
«Lo sai che io e Myra eravamo amiche?», gli
domandò, avvicinandosi a lui d’un passo. Merlino,
forse senza rendersene conto, arretrò.
«Sì, me l’aveva detto».
«Come credi che mi sia sentita, quando hai iniziato a
trascorrere ore ed ore nella sua stanza, ignorando tutto il resto? Ero
gelosa. Ma stavo con Keith, in un certo senso lo amavo. Non sono mai
intervenuta nella tua vita, non mi sono mai messa in mezzo,
perché non ne avevo il diritto».
«O forse non ne avevi il fegato», la
incalzò Merlino, rivolgendole improvvisamente
un’occhiata gelida, che la fece irrigidire sul posto.
Le redini della conversazione le scivolarono di mano e si
sentì piccola piccola sotto il suo sguardo serio.
«La predica non dovrebbe venire da me, visto che ho mentito
per tutta la vita, ma se fossi stata onesta con te stessa, se avessi
rotto con Keith a tempo debito e fossi entrata nella stanza di Myra
esprimendo i tuoi sentimenti per me… Non dico che io e te
avremmo avuto un lieto fine, questo non posso farlo, ma almeno Keith e
Myra non si sarebbero nutriti di false speranze.
«E per quanto riguarda me, io ho preso una decisione quella
sera e ci ho convissuto come meglio ho potuto. Ero lì,
dall’altra parte della strada, quando Myra è stata
investita. Ho visto l’auto avvicinarsi sempre di
più, sapevo che cosa sarebbe successo, e avrei potuto usare
la magia per impedirlo. Ho scelto di non farlo perché avevo
un giuramento da mantenere e come hai detto tu il dolore è
inevitabile: milioni di persone ogni giorno hanno degli incidenti, di
fronte a me o dall’altra parte del mondo non ha importanza.
Come mago è stata una mia scelta lasciare che Myra venisse
investita, ma come essere umano l’ho soccorsa e le sono stato
accanto come ho potuto».
Fu Merlino quella volta ad avanzare, prima di uno e poi di due passi,
fino a trovarsi a pochi centimetri dal viso di Alex. Lei
continuò a guardarlo negli occhi, nonostante sentisse il
cuore pesante come piombo.
«Sì, sapevo che tu e Myra eravate amiche e che
facevate jogging insieme. E non sai quante volte, seduto al suo
capezzale, ho ringraziato il cielo che tu quella sera fossi di turno in
ospedale. Avrei reagito diversamente, se ci fossi stata tu di fronte a
quell’auto».
Sollevò una mano e Alex rimase immobile quando ne
posò delicatamente il dorso sulla sua guancia. Chiuse gli
occhi a quella carezza e rabbrividì quando sentì
il respiro di Merlino sul suo orecchio.
«Il dolore è inevitabile, ma non
c’è nulla che non farei per evitarlo a
te».
Alex posò la mano sulla sua, scivolata sul suo collo. Forse
non si sarebbe più fermata se lasciata a se stessa, ma il
rumore secco di un quadro che si staccava dalla parete alle loro spalle
e cadeva a terra li riportò bruscamente alla
realtà.
Merlino allontanò la mano e si guardò intorno,
imbarazzato, fino a quando non si schiarì la gola e
mormorò: «Dovrei proprio andare ad avvisare la
reception».
Era già alla porta, quando Alex ritrovò la
propria voce per chiedergli: «Che cosa dirai?».
«Non ne ho idea», sospirò.
«Saremo fortunati se non ci getteranno per strada a
calci».
***
«Sei sicura di stare bene?».
Alex sollevò la testa dal piatto di uva a cui stava
togliendo con cura i semini e sbuffò, facendo svolazzare la
sua frangetta.
«Sarà la decima volta che me lo chiedi.
Sì, Artù, sto bene».
«Scusami, è che… nemmeno io ho mai
avuto un buon rapporto con la magia e mi terrorizza sapere che tu ce
l’abbia».
L’infermiera si sistemò meglio sulla sedia,
incrociando le gambe, e si portò alla bocca un chicco
d’uva.
«Immagino quante streghe abbiano cercato di propinarti filtri
d’amore per diventare regine di Camelot»,
esclamò, un sorriso sbarazzino sul volto.
Artù la fissò tanto seriamente che Alex si
sentì a disagio ed abbassò lo sguardo.
«Non scherzare», l’ammonì.
«Certo, è capitato pure quello,
ma…».
Respirò profondamente, chiedendosi se fosse il caso di
parlarle di Morgana. Soprattutto, lui era pronto ad affrontare
l’argomento? Aveva riflettuto molto su ciò che gli
aveva detto Merlino l’ultima volta che avevano parlato di
lei, di come il suo destino sarebbe potuto cambiare se avesse avuto
qualcuno accanto che la guidasse e le mostrasse come la magia potesse
essere uno strumento per fare del bene. E aveva immaginato che poteva
essere una delle tante ipotesi che non avrebbero mai più
avuto la possibilità di verificare.
Con Alex però era diverso, lei era ancora lì con
loro ed era loro dovere aiutarla. Artù non avrebbe fatto lo
stesso errore una seconda volta: era pronto a stendere una mano
– anche entrambe, se necessario – verso di lei e a
non lasciarla andare.
«La mia sorellastra… anche lei possedeva il dono
della magia», iniziò a raccontare, disegnando con
l’indice dei motivi immaginari sul legno lucido del tavolo.
«Era troppo spaventata di deludere mio padre, di venire
cacciata o addirittura di essere giustiziata, perciò nascose
il suo segreto per anni, come Merlino. Nessuno fu lì per lei
quando la paura dei propri poteri la bloccava nel letto, nessuno
l’aiutò a controllarli… La pressione e
l’odio per mio padre, in continua lotta contro la magia,
crebbero fino a diventare insostenibili. Venne in contatto col lato
malvagio della magia e ciò che imparò lo
sfruttò per arrecare danni a Camelot. Al contrario di
Merlino, Morgana pensava che la magia potesse aiutarla ad ottenere
ciò che era suo di diritto: un posto nel mondo, la
felicità… Non importava quanta gente ne
soffrisse».
«Morgana, hai detto?». Alex aveva gli occhi
sgranati per l’incredulità. «Credevo che
fosse… Non è mai stata tua promessa
sposa?».
Artù sorrise, ricordando gli anni della propria giovinezza,
quando l’idea di avere Morgana per moglie l’aveva
sfiorato più e più volte.
«Tutti a corte speravano in una nostra unione, tutti tranne
nostro padre. Lui ovviamente sapeva la verità, mentre io e
Morgana l’abbiamo scoperto molto tempo dopo, quando ormai le
nostre strade si erano separate».
Alex parve rifletterci per un po’, fino a quando non
posò di nuovo gli occhi nei suoi, chiedendo: «Beh,
dove volevi andare a parare parlandomi di lei?».
«Volevo solo dirti che io e Merlino ci saremo, per
te». Allungò una mano verso di lei ed attese che
Alex vi posasse sopra la propria, quindi la strinse con forza e
delicatezza allo stesso tempo, in modo protettivo. «Devi solo
permetterci di aiutarti».
L’infermiera sorrise ed annuì, ma nel farlo non
sembrò molto convinta. Infatti la sua espressione
mutò rapidamente, divenendo una maschera impenetrabile,
mentre i suoi occhi sembravano aver abbandonato la realtà,
distratti e lontani.
Artù si chiese che cosa le passasse per la mente, se avesse
già iniziato a chiudersi in se stessa. Aveva già
perso una sorella, non poteva perdere anche lei a causa della magia.
«A che cosa stai pensando?», le chiese quasi a
bassa voce, chinandosi verso di lei con le braccia incrociate sul
tavolo.
Alex scrollò le spalle, segno che comunque aveva prestato
attenzione. I suoi occhi però continuavano a fissare il
vuoto, immersi in un altro tempo e in un altro luogo.
«Una volta Merlino mi ha detto che la magia come la si
descrive nelle favole non esiste. Allora non avevo capito fino in fondo
che cosa volesse dire, ma lui stesso si è arreso
all’evidenza che la magia non è la soluzione ai
problemi, che è solo una toppa temporanea che prima o poi si
squarcerà di nuovo, peggiorando la situazione. Per quanto ci
si sforzi per usarla per fare del bene, ti si ritorcerà
sempre contro. È stata la magia a distruggere tutto
ciò che amava… e per questo l’ha
rinnegata».
Artù chiuse gli occhi, cercando di non pensare che in quel
“tutto ciò che amava” erano compresi
anche sua moglie e suo figlio.
«Hai perfettamente ragione», mormorò.
«Ma non si può semplicemente smettere di lottare,
non ci si può arrendere all’evidenza. Sai che
cos’ha detto a me, una volta?».
«Che cosa?».
Gli veniva ancora da ridere se ripensava a come Merlino si era
agghindato, trasformandosi in Dolma, per non farsi riconoscere da lui e
Ginevra.
«Che nella magia non c’è alcuna
malvagità, poiché essa dimora nei cuori degli
uomini. Può darsi che ora si sia ricreduto, non gliene farei
una colpa, ma è stato grazie alla magia se più e
più volte ha salvato la mia vita e centinaia di altre vite
innocenti. E se davvero il mondo sta morendo perché non
c’è abbastanza magia a sostenerlo, allora vuol
dire che è qualcosa di importante e di necessario. Sono i
metodi dei custodi, le loro trame e i loro inganni, ad essere sbagliati
e malvagi, tanto da aver fatto apparire colpevole la magia».
Colpito dal suo prolungato silenzio, alzò lo sguardo e
trovò Alex a bocca aperta, con un chicco d’uva tra
le dita.
«Che cosa c’è?», le chiese,
imbarazzato dal suo sguardo.
Alex si sciolse in un tenero sorriso, il primo della giornata.
«Artù Pendragon, ora capisco perché sei
diventato il re leggendario che tutti conoscono. E non riesco ad
esprimere a parole quanto io sia onorata di essere una tua
discendente».
Nonostante quelle parole lusinghiere gli avessero accarezzato
l’anima come un balsamo, riuscì a stemperare
l’atmosfera alzandosi dal tavolo ed esclamando:
«Smettila e sbrigati con quell’uva. Ci aspetta una
lunga giornata».
Non fece in tempo ad udire la risposta di Alex però: Merlino
entrò nella stanza, facendoli sobbalzare entrambi per la
sorpresa.
«Ho pagato un risarcimento record per i danni, ma a quanto
pare non ci cacceranno», esclamò, abbozzando un
sorriso.
Alex sospirò, invitandolo a proseguire con un movimento
circolare del polso. «Non è finita qui,
vero?».
«No, infatti. Purtroppo tu sei stata bandita per sempre da
questo e da ogni altro hotel della catena. Mi dispiace».
Artù guardò lo stregone con sguardo sgomento. Non
gli era mai piaciuta la parola “bandita”, almeno
non da quando si era trovato costretto a cacciare Ginevra dopo il suo
tradimento con Lancillotto. Merlino dovette leggergli nel pensiero, ma
fu Alex a parlare per prima, scrollando le spalle con noncuranza.
«Non credo che ci sarei mai tornata in futuro, comunque.
Sarò anche di stirpe regale, ma non ho un forziere pieno di
monete d’oro sotto al letto!».
Artù si chiese come facesse lei a sapere dove un tempo
teneva i suoi risparmi, mentre Merlino scoppiò a ridere
stringendosi l’addome tra le braccia.
Strano ma vero, quella volta fu la risata di Merlino a contagiarli,
facendoli sorridere. E Artù provò il forte
desiderio di abbracciarlo, per tutto quello che aveva fatto e
continuava a fare per lui. Avendo una certa reputazione da mantenere,
optò per stringergli il collo con un braccio e sfregargli le
nocche di una mano tra i capelli, facendolo strepitare come ai vecchi
tempi.
Magari agli occhi di Alex avrebbe fatto la figura
dell’irritante bulletto, ma Merlino avrebbe di certo capito.
***
«Artù, a che punto siete?»,
domandò Merlino alla porta chiusa di fronte a sé,
sistemandosi il farfallino nero. «Posso entrare?».
Un mugolio frustrato fu tutto ciò che ottenne e, preoccupato
che Artù si sentisse male, non ci pensò su due
volte prima di aprire la porta e piombare all’interno della
principesca camera da letto.
Artù stava bene, ammesso e concesso che il tentativo di
strangolamento con la cravatta fosse involontario.
Merlino lo raggiunse con due brevi falcate e gli liberò il
collo, permettendogli di tornare a respirare regolarmente.
«Grazie», tossicchiò il re, paonazzo.
«Guarda qui che disastro che avete fatto»,
esclamò Merlino a mezza voce, arretrando di un passo per
poterlo guardare dalla testa ai piedi. Quindi posò gli occhi
nei suoi, scuotendo leggermente il capo: «Capisco che non
vogliate dipendere da nessuno, ma non c’è davvero
niente di male nel chiedere un po’ d’aiuto quando
se ne ha bisogno. Lasciate fare a me».
Lo stregone iniziò a sbottonargli la camicia bianca
– aveva saltato un’asola ed era tutto da rifare
– e Artù osservò il soffitto, forse
immaginando a come l’avrebbe preso in giro Alex se
l’avesse visto in quel momento.
Ad un tratto, come se il silenzio lo infastidisse, esordì:
«Allora, vogliamo parlare dei tuoi pessimi piani per il
futuro?».
«Non c’è nulla di cui
parlare», tagliò corto Merlino, ma il re di
Camelot non si arrese.
«Oh sì, invece. Credi davvero che ti
permetterò di…?».
Il mago alzò di scatto il capo e gli lanciò
un’occhiata truce, parlandogli sopra: «Si tratta
della mia vita e, credetemi, è durata fin troppo».
«Quindi che cos’hai intenzione di fare? Restituire
la magia a questo mondo e morire da eroe? Tempo fa mi hai detto di non
esserlo. E non lo diventerai, sacrificandoti per ciò che i
guardiani della magia vogliono. Gliela darai vinta e basta!».
«Quali altre alternative abbiamo?!»,
urlò Merlino, smettendo di abbottonargli la camicia per
portarsi un pugno alla bocca, gli occhi lucidi di lacrime.
«Non possiamo lasciare che il mondo muoia per
ripicca».
«Troveremo un altro modo, insieme».
«No, voi dovete starne fuori».
«Che cosa? Sei per caso impazzito?».
Merlino scosse il capo e prima che Artù potesse afferrarlo
per le spalle gli voltò la schiena. Con un fil di voce,
confessò: «Non posso vedervi morire
un’altra volta. Qualsiasi sia il motivo per cui siete tornato
dal mondo degli spiriti, farò in modo che non dobbiate
tornarci. Avete una seconda possibilità e giuro che non la
sprecherete cercando di combattere il destino al mio fianco».
Artù riuscì finalmente a posargli una mano sulla
spalla e lo costrinse a voltarsi. Lo guardò fisso negli
occhi per quella che sembrò un’eternità
e col suo tono più solenne, sussurrò:
«L’ho sempre detto che sei un idiota, ma non
credevo fino a questo punto».
Merlino aprì la bocca per ribattere stancamente, ma
Artù aggiunse: «Lo faremo insieme, o moriremo
provandoci».
«Ma Cathleen…».
«Quando arriverà il momento, Cathleen
capirà. Per quanto riguarda Alex,
invece…».
«Ne abbiamo già parlato,
Artù».
Il re sospirò, leggendo il dolore negli occhi
dell’ex servitore. «È una Pendragon, non
si arrenderà fino a quando non avrà ottenuto
ciò che vuole. È solo una questione di tempo,
prima che tu ceda».
«Oh, ora finalmente capisco perché
Ginevra…».
Artù lo interruppe colpendolo alla nuca, nonostante le sue
labbra si fossero incurvate in un sorriso.
«Ahia!».
«Te la sei andata a cercare. Ora muoviti, o faremo
tardi».
Merlino tornò ad occuparsi in silenzio del suo completo
elegante, spazzolandogli con cura le spalle della giacca ed annodando
con maestria quella specie di cappio che si usava indossare in
occasioni così galanti.
Osservandolo con attenzione, non poté fare a meno di notare
i segni di stanchezza sul suo viso – la pelle chiara
più pallida del solito, quasi trasparente, le borse sotto
gli occhi arrossati, i capelli neri spenti e con qualche bagliore
argentato di tanto in tanto – e del lieve tremore delle sue
mani, nervose e freddissime. Sembrava peggiorare ogni giorno un
po’ di più, come se le sue energie avessero
già iniziato a consumarsi.
«Merlino».
«Uhm?».
«Anche tu puoi chiedere il mio aiuto, se ne hai
bisogno».
Merlino lo fissò come se avesse appena affermato che gli
asini erano in grado di volare, fino a quando non mostrò un
nuovo sorrisetto.
«Se è come per il giorno libero che non ho mai
avuto…».
Artù roteò gli occhi al cielo e
sbottò, irritato da come riuscisse sempre a rovinare tutto:
«Alla fine ho mantenuto la mia parola: ti ho concesso
millequattrocento anni!».
Il volto di Merlino si incupì e Artù
capì di aver esagerato.
«Perdonami, non dovevo. Ma dicevo sul serio: puoi contare su
di me, se mai dovessi aver bisogno d’aiuto».
Lo stregone annuì, abbozzando un sorriso. «Lo so.
Grazie, Artù».
Il re di Camelot strinse le labbra e gli diede un pugnetto sulla
spalla, facendolo mugugnare silenziosamente dal dolore.
***
Quando anche il secondo dei due uomini che avevano fatto parte del
viaggio con lei uscì dall’ascensore, Alex diede le
spalle alla porta scorrevole e guardò di nuovo il proprio
riflesso nelle pareti dorate.
Il vestito che Merlino le aveva fatto consegnare dal facchino che il
giorno prima li aveva accompagnati nelle loro rispettive suite era
firmato Versace e sembrava esserle stato disegnato direttamente sulla
pelle, talmente le donava.
Era dello stesso colore degli abiti da sposa tradizionali e allo stesso
tempo era diverso da qualsiasi vestito avesse mai visto: due strette
fasce le avvolgevano i seni e l’addome, incrociandosi
all’altezza dello stomaco per poi separarsi sulla schiena,
dov’erano sorrette da una rigida striscia di pelle dorata a
forma di otto – o di infinito rovesciato, come le piaceva
chiamarlo – tempestata di grossi rubini dalla forma
esagonale.
Anche le gambe erano fasciate come il bozzolo di una farfalla, ma solo
fino al ginocchio; da lì in poi partiva un sottile velo di
seta color cremisi che le arrivava fino ai piedi, fresco e leggero come
le estremità delle fasce che dal fondo
dell’infinito rovesciato arrivavano a toccare persino il
pavimento, a mo’ di strascico.
Alex non riusciva ancora a credere di star indossando
un’opera d’arte del genere, un pezzo unico al mondo
che doveva valere milioni di sterline, ed era così felice e
allo stesso tempo così arrabbiata con Merlino che avrebbe
voluto soffocarlo di baci.
Aveva raccolto i capelli biondi in una specie di treccia che partiva
dal punto più alto della testa e proseguiva lungo tutta la
curva del cranio, fino alla base del collo, e sperava davvero che non
si sfaldasse sul più bello: sarebbe stata una vera
catastrofe.
Stava giusto controllando lo stato della propria acconciatura e
dell’ombretto dorato che si era messa sulle palpebre, quando
le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo, mostrando una
hall insolitamente affollata e rumorosa, la quale però si
acquietò all’improvviso quando mise piede fuori
dalle pareti riflettenti.
Decine di occhi si puntarono su di lei e Alex si sentì tanto
in imbarazzo quanto lusingata, mentre i suoi tacchi riecheggiavano sul
pavimento in marmo. Tenne la testa bassa e l’alzò
solo quando si trovò accanto ai divanetti su cui si erano
accomodati Artù e Merlino in sua attesa. Persino loro la
fissavano a bocca aperta, incapaci di esprimere un qualsiasi giudizio.
Alex si strinse i pugni sui fianchi, rossa come un peperone.
«Giuro che se nessuno dice niente, torno in camera a
cambiarmi», sibilò.
Artù schizzò in piedi e si chinò
leggermente in un baciamano. «Sei così bella che
faresti impallidire qualsiasi principessa».
«Troppo gentile», ribatté, rispondendo
all'inchino.
Ma Artù, ostinato come un mulo, ci tenette a precisare:
«Dico sul serio. Mi ricordi mia madre, sai?».
Alex boccheggiò per qualche secondo, ricordando quando il re
di Camelot le aveva confessato di non aver mai conosciuto sua madre
perché morta dandolo alla luce. Intercettò lo
sguardo di Merlino e ad un suo cenno del capo rimase in silenzio,
ringraziando nuovamente il sovrano con un semplice sorriso.
Quando fu il turno dello stregone, la sua gola si seccò
all'improvviso e la situazione non fece che peggiorare quando dal nulla
esclamò: «Qualsiasi uomo al mondo sarebbe
combattuto, vendendoti».
«In che senso?».
Merlino si avvicinò al suo orecchio e sussurrò:
«Toglierti il vestito oppure no?».
Alex sentì un forte brivido percorrerle la spina dorsale,
dal punto della schiena in cui Merlino posò la mano alla
nuca, dove la baciò delicatamente, e qualcosa le morse il
basso ventre. Sembrava l’inizio di uno dei suoi sogni ad
occhi aperti…
Riuscì faticosamente ad abbozzare un sorriso quando il mago
si scostò e la invitò a voltarsi per aiutarla ad
indossare il cappotto. Con estrema dedizione le sistemò il
colletto e le accarezzò le spalle, poi tornò ad
appoggiare la mano sulla sua schiena per accompagnarla verso
l’uscita, dove un’auto con autista privato li stava
attendendo.
«Che cos’hai in quella valigetta?», gli
chiese ad un tratto, mentre la portiera del bagagliaio veniva aperta.
«Una cosa di cui, se tutto andrà per il meglio,
non avremo bisogno. Quello che mi preoccupa è che
cos’ha lui in quella borsa». Merlino
indicò con un cenno del capo la sacca da ginnastica che
Artù stava consegnando all’autista e Alex
corrugò la fronte, stupita che l’antenato non
l’avesse messa al corrente.
Non ebbe però il tempo materiale per preoccuparsi: era
troppo concentrata sulla missione che doveva portare a termine, per
quanto folle e disperata fosse. Doveva farlo per i bambini
dell’ospedale, ma anche per se stessa.
A quel proposito si voltò verso Merlino, seduto di fronte a
lei sull’auto di lusso, e lo colse intento a guardare fuori
dal finestrino con sguardo assorto.
Ancora una volta l’età dei suoi occhi le
colpì il cuore, facendola sentire misera ed insignificante,
solo una piccola parentesi all’interno di
quell’espressione molto più larga e complessa di
quanto potesse anche solo comprendere che era la sua lunghissima vita.
«Ehi, va tutto bene?», le chiese
all’improvviso Artù, sfiorandole una mano.
Alex sobbalzò leggermente, rivolgendogli poi un piccolo
sorriso. «Sì, sto bene. Pensavo solo ai bambini
dell’ospedale. Tu li hai sentiti, Merlino?».
«Mentre ti aspettavamo, Abby mi ha chiamato».
«Oh».
Abigail era la sua confidente, l’unica oltre ad
Artù che sapesse quanto amasse Merlino in realtà,
e il fatto che lei e lo stregone potessero parlarne alle sue spalle le
faceva un strano effetto, ma si costrinse ad ignorare la propria vocina
interiore e a sorridere.
«Che cosa ti ha detto?».
Merlino scrollò le spalle, sospirando. «Nulla di
nuovo: Mark è un vero osso duro, la fa disperare. Mi ha
chiesto se il nostro ritorno è confermato per
domani».
«Certo! Ho promesso ai bambini che per Pasqua avremmo fatto
la migliore caccia alla uova di sempre».
Artù si chinò verso di loro e gettando
un’occhiata all’autista, chiese a bassa voce:
«Che cosa sarebbe?».
Ormai aveva capito che era inutile attirare l’attenzione
degli altri con le sue domande e aveva imparato a farlo con discrezione.
Merlino aprì la bocca per iniziare con la spiegazione, ma
Alex sollevò una mano, intimandogli di non dire niente.
«Lo scoprirai da te», disse ad Artù,
emozionata al solo pensiero.
Lo stregone ridacchiò e tornò a guardare la
strada scorrere fuori dal finestrino.
Ci impiegarono circa un’ora a raggiungere il Castello di
Windsor e quando lo avvistarono, imponente sopra la collina,
Artù fu il primo a riprendersi dalla stupore e ad esclamare:
«Questa sì che è una degna residenza
reale!».
Merlino e Alex si scambiarono un’occhiata e si sorrisero, ma
lo stregone distolse lo sguardo quasi subito, lasciando
l’infermiera con l’amaro in bocca.
Se solo questo fosse stato in grado di renderlo felice e se solo ne
avesse avuto il fegato – come le aveva detto Merlino proprio
quella mattina – si sarebbe protesa in avanti e lo avrebbe
baciato proprio lì, di fronte ad Artù.
Ma che lei l’avesse fatto o meno, comunque il mago non
sarebbe stato felice. Di conseguenza, doveva cercare di limitare i
danni per se stessa ed accontentarsi dei sogni.
***
«Non riesco a
capire perché Mark si comporta così.
Più io mi avvicino, più lui si allontana. Eppure
giusto ieri mi ha detto che mi ama! Che cosa vuol dire tutto questo,
Merlino?».
«È
solo spaventato».
«Spaventato di
cosa?».
«Di star male,
di vederti star male… della morte».
«Anche io ho
paura di morire, puoi giurarci, ma… noi siamo vivi, adesso,
e non possiamo buttare via la nostra felicità pensando al
dolore. Sono convinta che si debba cogliere l’attimo.
C’è pure un proverbio in latino che lo
dice!».
«Carpe
diem ».
«Esatto,
quello lì! Tu che ne pensi? Ho ragione oppure
no?».
Dire che non le aveva risposto era poco. Le aveva direttamente chiuso
il telefono in faccia, con il cuore che gli batteva fortissimo nelle
tempie.
Gli erano tornati alla mente tutti i momenti in cui si era inflitto
volontariamente le pene più atroci, in particolar modo dopo
la sua ultima parentesi felice con Louise. Con lei era stato
così in alto ed era caduto così in basso, e
così malamente, che aveva giurato a se stesso che non
avrebbe più amato nessuna, e se non ci fosse riuscito
– perché doveva ammetterlo, era un tipo a cui
bastava poco per innamorarsi (e Freya ne era la prova) –
almeno avrebbe impedito a quell’amore di sbocciare,
accontentandosi di fantasticare.
Era stato il caposaldo a cui aveva sempre fatto riferimento da quando
aveva capito che Alex poteva diventare qualcosa di più,
eppure le cose erano degenerate fino a quel punto, facendolo stare
tanto male quanto una rovinosa caduta.
Le parole di Abigail avevano sfondato una porta che era riuscito a
tener chiusa fino a quel momento, anche se con estrema fatica, e tutti
i pensieri che vi aveva celato dietro gli erano cascati addosso,
cogliendolo impreparato.
Aveva detto ad Alex che avrebbe fatto di tutto per evitarle di provare
dolore, eppure farla soffrire era sempre stata la sua
specialità. Quella mattina ne aveva avuta la conferma,
quando gli aveva sbattuto in faccia che aveva il cuore a pezzi a causa
sua.
«Che hai intenzione di fare in merito?», gli aveva
chiesto.
Quelle parole continuavano a rimbombargli nella mente, impedendogli di
concentrarsi.
Stese una mano verso di lei per aiutarla ad uscire dall’auto
e fu quasi doloroso vedere il suo sorriso, sentire la stretta della sua
mano e poi lasciarla andare da Artù, il quale le porse il
braccio da vero cavaliere.
«Che hai
intenzione di fare in merito?».
***
«Siamo dentro. Siamo dentro, è
incredibile».
«Mettevi per caso in dubbio le mie
abilità?».
Alex si portò una mano sul petto, trasalendo, e si
voltò verso Merlino, così vicino al suo corpo da
poterne sentire il calore.
«Non ti ho sentito arrivare», disse, prendendo tra
le dita il calice che le offrì.
Aveva appena bevuto un sorso, in grado di mandare in estasi le sue
papille gustative, quando rischiò di sputarlo.
«Dov’è Artù?».
Merlino sorrise, indicandolo dall’altra parte del salone, che
intratteneva un gruppo di giovani e bellissime donne. Sembrava
così tranquillo e rilassato nel suo abito blu notte, i
capelli biondi dall’aspetto spettinato e gli occhi blu
luminosi come non li aveva mai visti. Dava quasi
l’impressione di essere il padrone di casa, talmente si
muoveva con grazia e disinvoltura.
«Il re che è in lui si sta mostrando»,
le sussurrò Merlino, leggendole nel pensiero.
«E tu non dovresti essere al suo fianco?».
Sollevò il capo verso di lui e scorse i suoi occhi brillare
di orgoglio.
Avrebbe dato di tutto per poter vedere ciò che stava vedendo
lui in quel momento: una festa a Camelot, i cavalieri in piedi attorno
alle tavole imbandite che innalzavano le coppe d’oro per un
brindisi, le dame di corte che applaudivano gentilmente e la regina che
guardava amorevolmente il suo re e gli accarezzava un braccio. E
Merlino, il Merlino che tutti quanti avevano sempre ritenuto un
semplice servitore, che correva da una parte all’altra per
riempire quelle coppe d’oro e servire da mangiare, gettando
di tanto in tanto un occhio ad Artù per accertarsi che tutto
andasse per il meglio, senza mai lamentarsi per la fatica o la poca
riconoscenza che gli dimostrava. Vederlo sorridere gli bastava.
«Alex, mi stai ascoltando?».
L’infermiera sbatté rapidamente le palpebre,
tornando alla realtà. «Eh?».
Merlino accennò una risata, sistemandole la frangetta come
se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho detto
che Artù se la caverà egregiamente anche senza di
–».
Non fece nemmeno in tempo a terminare la frase che due agenti di
polizia furono scortati all’interno del salone da un ometto
basso e tarchiato, con gli occhiali spessi e pochi capelli bianchi
sistemati in un riporto di fortuna.
«È lui, sì, il signore col completo blu
notte», esclamò abbastanza ad alta voce
perché tutti lo sentissero, Artù compreso.
Il re di Camelot si indicò, gettando poi
un’occhiata preoccupata a Merlino ed Alex.
«Che cosa diamine sta succedendo?»,
domandò l’infermiera, guardando terrorizzata i due
agenti avvicinarsi ed invitare sì gentilmente
Artù a seguirli, ma prendendolo anche per le braccia.
«Temo lo scoprirò presto», rispose
Merlino a denti stretti, pronto a raggiungere il proprio re. Alex
però gli strinse una mano prima che potesse allontanarsi, in
modo da poterlo seguire tra la folla.
«Tu devi rimanere qui, devi cercare di parlare con il
Principe», le ricordò severamente.
«Non se ne parla, io vengo con te».
«Non puoi, Alex», ripeté, sospirando.
Quindi le prese il volto tra le mani e fissando intensamente gli occhi
nei suoi mormorò: «Pensa ai bambini in ospedale.
Noi ce la caveremo».
«Controllerò costantemente il cellulare, attendo
tue notizie».
Merlino annuì e prima di allontanarsi le posò un
fugace bacio sulla guancia, pericolosamente vicino alle labbra.
Si scambiarono un ultimo sguardo prima che le pesanti porte del salone
venissero richiuse dai maggiordomi, poi Alex respirò
profondamente e buttò giù l’intero
bicchiere di champagne che teneva ancora tra le mani tremanti.
***
«Scusate… Ehm, scusatemi, posso sapere che
cos’è successo?».
«Lei chi è?», domandò uno
degli agenti di polizia, dallo sguardo arcigno.
«Mi chiamo Merlino e quello che state portando
chissà dove è il mio migliore amico».
«Il signor Artù Pendragon, a quanto ne so. E tu
sei il suo migliore amico, Merlino?
Non farmi ridere».
Lo stregone roteò gli occhi e tirò fuori dalla
tasca interna della giacca un documento
d’identità, mostrandolo all’agente
mentre continuavano a camminare lungo un corridoio senza fine.
«E va bene, Merlino»,
cedette il poliziotto, anche se con una certa irritazione.
«Il tuo amico qui è accusato di furto».
«E che cosa avrebbe rubato, di preciso?».
«Un pezzo di grandissimo valore, non solo storico: una corona
che si dice risalga al Sesto secolo».
Il sangue gli si gelò nelle vene, ma ebbe comunque la forza
di non darlo a vedere, rimandando a più tardi la sfuriata
che avrebbe fatto al solo ed unico re.
«L’ho riconosciuta subito!», si intromise
l’ometto che aveva condotto da Artù i due agenti
di polizia. «Il signore qui presente è stato
accompagnato da me da un maggiordomo perché voleva
consegnare un pezzo da poter mettere all’asta questa sera. Io
gli ho spiegato che tutti gli articoli dovevano essere inviati
anticipatamente, in modo da poter essere autenticati e valutati, ma ha
insistito così tanto che ho fatto uno strappo. A quanto pare
ho fatto bene!». Si mise a ridacchiare in un modo
così irritante che Merlino avrebbe voluto strappargli la
lingua e fargliela ingoiare.
«Potete immaginare il salto che ho fatto quando ho aperto la
borsa e ho visto la corona! Sapevate che era scomparsa da
più di cinquant’anni? Faceva parte della
collezione privata dello storico d’arte Wojciechowski. Dico
faceva perché gli è stata rubata, più
di cinquant’anni fa appunto. La sua era una delle collezioni
più ricche al mondo e sarebbe diventata di sicuro la più
ricca se quel fattaccio non fosse mai accaduto, ma purtroppo... Da
allora ha smesso di acquistare, ha iniziato addirittura a vendere, e
tutte le fatiche di una vita sono risultate vane».
Merlino avrebbe voluto acidamente ribattere che quell’uomo
avaro e privo di scrupoli aveva tutt’altro che faticato per
aggiungere pezzi alla propria collezione. Non si era mai sforzato di
uscire di casa, rintanato nel suo bunker di massima sicurezza, e i suoi
pezzi più pregiati, tra cui proprio la corona di
Artù, erano spesso e volentieri macchiati di sangue
innocente.
Ingoiò quel boccone amaro e rimase in silenzio,
perché lui non poteva di certo saperle tutte quelle cose
– insomma, non era nemmeno nato, all’epoca!
– e si concentrò sul problema che doveva
assolutamente risolvere: scagionare Artù e proteggere se
stesso.
«E credete davvero che sarebbe stato così stupido
da donarla all’asta, se avesse saputo tutte queste cose?
È ridicolo!», urlò.
I due agenti si fermarono e si voltarono verso di lui, fissandolo come
se avesse appena risolto il caso dell’anno.
«Intendi forse dire che il qui presente signor Pendragon non
aveva idea della storia di quella corona?».
«Guardatelo!». Quasi scoppiò a ridere,
indicando l’espressione sconvolta ed spaurita di
Artù. «Vi sembra la faccia di un efferato ladro,
quella?».
I due agenti si scambiarono un’occhiata incerta, poi quello
che sembrava il cattivo della situazione, quello dall’aria
arcigna, sbottò: «Sentiamo, Grissom, sai anche
come ha fatto ad ottenerla?».
«Io credo proprio di sì».
Artù gli lanciò un’occhiataccia, che
Merlino ricambiò con una ancora più severa,
aggiungendo: «Mio nonno».
«Tuo… nonno?».
Merlino spiegò della collezione di armi e reliquie medievali
di suo nonno, che lui aveva ereditato automaticamente quando era
passato a miglior vita. Ciò che non aveva di sicuro
ereditato però era la sua stessa passione e quindi aveva
disordinatamente ammucchiato tutto in soffitta, lasciando quelle
“cianfrusaglie” alla mercé della
polvere. Non si era nemmeno dato la briga di catalogare tutto quanto,
ma non si sarebbe stupito se quella vecchia volpe di suo nonno avesse
ottenuto qualcosa in maniera poco legale.
Difese a spada tratta Artù, affermando che come al solito
era andato a ficcanasare nelle sue cose e con l’intenzione di
fare colpo su qualche bella ragazza non aveva pensato di documentarsi
su ciò che aveva trovato.
«Nemmeno io sapevo la storia di quella corona, l’ho
scoperta adesso grazie al signor…».
«Zielinski», si presentò
l’ometto, porgendo una mano dalle dita tozze e sudaticce.
«Consulente d’arte. Al vostro servizio».
«Com’è che siete tutti polacchi, voi
fissati?».
«Come, scusi?».
«Ho detto che i polacchi sono sempre pieni di
interessi!».
Il consulente gongolò, tutto contento per la lode, e Merlino
concluse: «Perciò potrei esserci benissimo io tra
di voi, in questo momento».
I due agenti lasciarono andare Artù per potersi avvicinare
allo stregone, il quale sollevò le mani ed
arretrò d’un passo.
«Sono più che disponibile a fornirvi qualsiasi
tipo di informazione abbiate bisogno, posso anche acconsentirvi una
perquisizione a casa mia per restituire al mondo dell’arte
tutto ciò che potrebbe esserci in quella soffitta,
ma…».
«Non puoi dettare condizioni con noi, Merlino»,
lo interruppe bruscamente il poliziotto cattivo, prendendolo per un
braccio. «Abbiamo bisogno che tu venga in centrale per una
deposizione, dopodiché procederemo anche con la
perquisizione».
«Ma il galà…!».
«Il Principe William non noterà nemmeno la tua
assenza, stai tranquillo».
Merlino si arrese e si lasciò trascinare via, voltando il
capo verso Artù, trovandolo con gli occhi sgranati per
l’incredulità e la confusione.
«Una cosa soltanto, scusatemi!», esclamò
all’improvviso il mago, girandosi nuovamente verso il re.
«E ora che c’è?»,
mugugnò il poliziotto arcigno, sfinito.
«Artù, dì ad Alex che la tua medicina,
nel caso dovesse servirti, è nella valigetta che ho portato
con me. Diglielo, mi raccomando, è importante».
Artù annuì, ma Merlino dubitò che
avesse intuito veramente a che cosa si stesse riferendo.
Sperò almeno che lo dicesse ad Alex: lei era la Pendragon
con più cervello e non ci avrebbe messo molto a capire.
«Finito? Abbiamo molto lavoro da sbrigare».
Il poliziotto gli diede uno strattone tutt’altro che gentile
e lo incitò a camminare verso l’uscita, dove i
lampeggianti blu della volante erano ancora accesi e un piccolo
gruppetto di fotografi di gossip stavano per fare un salto di
qualità.
«Sarà una lunga notte».
Merlino ancora non sapeva quanto avesse ragione; non
l’avrebbe mai nemmeno sognato.
***
«Tu che cosa?!».
Alex non riusciva a credere alle proprie orecchie.
«Mi dispiace, io…».
« Ti dispiace?
Ma come hai potuto essere così stupido?!»,
urlò a bassa voce, fermando un maggiordomo per prendere da
un vassoio una tartina e ficcarsela in bocca tutta intera. Fame nervosa.
Artù abbassò il capo e si fissò le
scarpe lucide. «Volevo sbarazzarmi di quella corona, lasciare
andare ciò che non sono più… Pensavo
che questa fosse l’occasione giusta, ma ho
sbagliato».
«E pensare che Merlino ti aveva pure raccontato che
l’aveva rubata!». Sbuffò sonoramente,
stringendo la pochette nella mano e trattenendosi solo per miracolo
nello sbattergliela in testa più e più volte.
Artù le prese un polso e cercò il suo sguardo per
scusarsi per l’ennesima volta, ma Alex si liberò
fin troppo facilmente e sibilò: «È
meglio che vada a prendere un po’ d’aria, o sento
che potrei dire qualcosa di cui poi mi pentirei».
Detto questo si allontanò e senza sapere bene dove andare
per trovare un po’ di solitudine si diresse verso la prima
uscita che vide, la quale la portò nell’immenso
giardino circondato su tutti e quattro i lati dalle costruzioni. Si
trattava del Cortile Superiore, altrimenti chiamato Quadrangolo proprio
per la sua forma.
Alex camminò fino alla statua equestre situata in un angolo
del giardino e si sedette sul bordo della bassa fontana alla sua
sinistra, maledicendo le sue scarpe aperte: un sassolino le si era
infilato sotto al piede, facendole vedere le stelle.
Sospirò di sollievo, togliendosi i tacchi e posando i piedi
nudi sull’erba curata. Aprì la pochette e
controllò ancora il cellulare, sperando disperatamente che
Merlino le avesse scritto un SMS per rassicurarla. Ovviamente non era
così.
Abbattuta, l’occhio le cadde sul pacchetto di sigarette che
aveva infilato nella pochette all’ultimo minuto.
Non aveva proprio ripreso a fumare, ma da quando aveva smezzato quella
sigaretta con Merlino molte volte non riusciva più a farne a
meno, specialmente quando era agitata o preoccupata.
Quello era proprio uno di quei momenti, ma in giro non vedeva nessun
posacenere. Provò a pensare ad altro per cacciare via
l’improvvisa voglia di nicotina, ma non ci riuscì.
Dicendosi che tanto peggio di così non poteva andare,
voltò le spalle alla porta a vetri da cui era uscita e con
una gamba sotto l’altra si accese una sigaretta.
Il primo tiro le fece rilassare le spalle e alzare il viso verso la
luna che illuminava quella notte scura e senza stelle. Non fece in
tempo a fare il secondo però che una voce la fece trasalire
dallo spavento, tanto che la sigaretta cadde nell’acqua della
fontana.
«Taylor, ti ho cercata ovunque. Non sapevo fumassi».
Alex si voltò e rimase di stucco quando vide il Principe
William in persona fermarsi ad un metro dalla statua, colto di sorpresa
almeno quanto lei.
«Mi perdoni, da dietro l’ho scambiata per la
signorina Swift», spiegò, imbarazzato.
Alex non seppe se ringraziarlo o meno, ma di una cosa era certa: era
stata colta in flagrante mentre fumava, scalza per giunta, dal Duca di
Cambridge, l’unica persona che avrebbe potuto decidere le
sorti del loro ospedale. Doveva trattarsi di un incubo,
nient’altro.
Impacciata, si alzò e si coprì i piedi nudi col
vestito, torturandosi le mani. «Sono desolata, Vostra
Altezza, io…».
«La capisco, questi eventi possono essere molto
stressanti».
Si avvicinò tenendo una mano in tasca e sotto la luce della
luna stiracchiò un sorriso nervoso, gettando
un’occhiata circospetta alle sue spalle, dove un uomo dalle
spalle possenti strette nello smoking – una delle sue guardie
del corpo, magari? – lo fissava così intensamente
da non sbattere nemmeno le palpebre. Quindi le sussurrò:
«Non è che me ne offrirebbe una? Se mia moglie
dovesse scoprirlo mi ucciderebbe, ma non riesco a resistere».
Alex si sforzò per non guardarlo a bocca aperta e
frettolosamente tirò fuori il pacchetto di sigarette,
lasciando che ne prendesse una tra le labbra. Poi
gliel’accese proteggendo la fiamma dell’accendino
con le mani.
«Grazie, le sono debitore, signorina…?».
«Ahm, sì, Greenwood. Mi chiamo Alexandra
Greenwood, è un vero onore conoscervi».
Il Principe le strinse la mano con un sorriso e poi si sedette sul
bordo della fontana, invitandola a fargli compagnia. Alex si
accomodò, rigida come un pezzo di legno e muta come un
pesce, nonostante la sua voce interiore le urlasse di sfruttare il
momento per parlargli dell’ospedale. Era lì per
questo!
Si schiarì la gola e aprì la bocca per dare
finalmente voce ai pensieri, ma il Principe William la interruppe sul
nascere, chiedendo: «Lei sa per caso
cos’è successo poco fa? Ho sentito che
è arrivata la polizia – in effetti non si fa che
parlare di questo – ma nessuno sa con esattezza
perché».
L’infermiera sospirò e si massaggiò la
fronte. «Credo di aver capito che uno degli ospiti volesse
mettere all’asta una corona che era stata rubata
cinquant’anni fa».
«Oh, capisco. Una bella sfortuna».
«Già…».
«Com’è che ho l’impressione
che conosca quell’ospite?».
Alex sollevò di scatto il capo ed incrociò lo
sguardo del Duca, sorridente e comprensivo allo stesso tempo. Non
poté far altro che confessare.
«Perché è così. E ammetto di
essere preoccupata per lui. Ho paura che possa finire nei guai,
nonostante sia del tutto innocente».
«Se è davvero innocente, allora non ha nulla da
temere».
«Grazie», mormorò abbozzando un sorriso.
Nemmeno nel più strano dei sogni il Principe William
l’avrebbe consolata, indi per cui doveva per forza trattarsi
della realtà. Questo la convinse a raccogliere tutto il
proprio coraggio. Peccato che prima che potesse sfoderarlo il Principe
spense la sigaretta sotto un piede e poi la raccolse per nasconderla
all’interno di un fazzoletto di seta.
Alzandosi in piedi, esclamò: «Beh, signorina
Greenwood, la ringrazio infinitamente per questi cinque minuti di
relax. E mi raccomando, che resti un segreto tra noi».
Alex sgranò gli occhi, guardandolo allontanarsi. No, non
poteva lasciarsi scappare quell’occasione. Aveva una promessa
da mantenere.
«Vostra Altezza, aspettate!», urlò senza
nemmeno rendersene conto, spinta dalla disperazione.
Il Duca di Cambridge si voltò e la osservò
stupito mentre gli correva incontro a piedi nudi sopra la ghiaia, i
tacchi e la pochette stretti al petto.
«Forse mi prenderete per pazza, forse è
ciò che sono, ma la verità è che io
non sono venuta qui per fare beneficenza, ma per parlare con voi. Non
pensavo che ne avrei mai avuta la possibilità, ma se il
destino ci ha fatto incontrare dev’esserci
senz’altro un motivo».
«Vostra Altezza», si intromise la guarda del corpo,
affiancando il Principe con aria allarmata. «Forse
è il caso che torniate dentro».
«No, voglio sentire cos’ha da dire»,
rispose il Principe William.
Alex si sentì così felice che non
provò nemmeno più dolore alle piante dei piedi.
Gli spiegò di essere un’infermiera e di lavorare
nel reparto oncologico più grande ed attrezzato del Galles,
al quale però già da tempo mancavano i fondi
necessari al mantenimento delle costose macchine e al finanziamento dei
laboratori di ricerca. Senza l’aiuto dello Stato decine di
bambini rischiavano il trasferimento in altre strutture e per le loro
famiglie sarebbe stato davvero insostenibile. Desiderava solo che quei
bambini potessero ricevere le cure necessarie, un reparto oncologico in
grado di accoglierli e di dare loro speranza.
«Mi appello al vostro buon cuore. Siete la nostra unica
speranza ormai».
Il Principe William la guardò con espressione
compassionevole, cosa che non la rassicurò per niente.
Quando poi le prese una mano tra le sue, racchiudendola in maniera
quasi protettiva, fu ancora peggio.
«Sono molto dispiaciuto per la situazione in cui si trova il
suo ospedale e ammiro la sua determinazione, ma dubito che io possa
concretamente fare qualcosa. Di queste questioni se ne occupa il
Ministero della Sanità e…».
«Ho capito, non avete bisogno di aggiungere altro»,
disse pacatamente, ritirando la mano. «Grazie per avermi
ascoltata, Vostra Altezza».
Dopo aver chinato il capo con reverenza, lo superò e
rientrò nel lussuoso corridoio, rischiando di andare a
sbattere contro uno dei tanti carrelli portavivande.
Sotto gli occhi sbigottiti dei maggiordomi, Alex saltellò
prima su un piede e poi sull’altro per rimettersi i tacchi;
quindi chiese loro dove fossero tutti quanti.
«Nella St. George’s Hall, signorina».
«Molte grazie».
Raggiunse il salone dov’erano state apparecchiate due
lunghissime tavolate e quasi rimase senza fiato di fronte
all’altissimo soffitto dalle travi in legno costellato da
centinaia di stemmi, ai dipinti appesi alle pareti e ai mezzi busti
d’alabastro posti tra le finestre ogivali e i caminetti
accesi.
Quando si riscosse, percorse quasi di corsa l’intero
corridoio tra le tavolate, scorgendo solo di sfuggita tutte le
celebrità del cinema e della moda per i cui autografi, se
fosse stata pienamente in sé, avrebbe dato di tutto.
L’unico viso che le interessava al momento era quello di
Artù e quando finalmente lo trovò aveva il
fiatone.
«Alex, non riuscivo più a trovarti! Vieni, ti ho
tenuto il posto», esclamò, alzandosi per scostarle
la sedia dal tavolo.
«Ce ne andiamo», disse invece
l’infermiera, afferrandolo per il braccio e trascinandoselo
dietro con tanta forza da impedirgli di obiettare.
Non fecero in tempo però a raggiungere la porta
d’uscita. Il Principe William fece la sua entrata trionfale
dall’altro capo della sala e Alex sentì i suoi
occhi bruciarle tra le scapole non appena iniziò a parlare
al microfono, salutando i presenti e ringraziandoli della loro presenza.
Spiegò che dopo cena si sarebbe svolta l’asta di
beneficenza il cui ricavato sarebbe stato donato a vari ospedali
oncologici del Paese e li elencò tutti. Alex
sperò fino all’ultimo che aggiungesse un nome alla
lista, ma non accadde. Allora si voltò, adirata, e come
sospettava trovò gli occhi del Duca di Cambridge su di
sé.
Facendole un’impercettibile cenno col capo, concluse:
«Ovviamente non sono solo queste le strutture che ne
avrebbero bisogno, perciò invito ognuno di voi, nel vostro
piccolo, a fare del bene ovunque ce ne sia bisogno. Ricordate le vostre
origini, tornate nelle cittadine in cui siete nati e cresciuti e
partite da lì. Che Dio vi benedica e lunga vita alla
Regina».
«Lunga vita alla Regina!», rispose in coro tutta la
sala e Alex vide con la coda dell’occhio Artù
vacillare al suo fianco, come se fosse sul punto di svenire. Questo la
distrasse dalla rabbia cocente che avrebbe di certo riversato in
qualche modo poco proficuo, magari urlando che erano tutti degli
ipocriti, il Principe compreso, oppure facendo molto di peggio.
«Ti senti bene?», gli chiese preoccupata,
posandogli una mano sul braccio.
Artù si portò una mano sul petto e la
guardò negli occhi, respirando profondamente più
e più volte. Alla fine annuì e con un fil di voce
disse: «Andiamocene».
Alex si trovò perfettamente d’accordo con lui e
uscirono dal salone mentre uno dopo l’altro i maggiordomi
portavano all’interno i loro carrelli portavivande, stracolmi
di pietanze degne della famiglia reale.
«Quindi sei riuscita davvero a parlarci»,
ricapitolò Artù, anche se con una smorfia sul
viso, sdraiato sui sedili in pelle della loro auto.
Alex sapeva che non gliela stava raccontando giusta e aveva paura che
stesse peggio di quanto affermasse, ma il re di Camelot era testardo
almeno quanto lei.
«Sì, ma non è servito a nulla.
L’intero viaggio è stato inutile: non abbiamo le
donazioni per l’ospedale, tu hai perso per sempre la tua
corona e Merlino è stato portato in centrale. Si
è rivelato un disastro colossale!».
«Magari il Principe questa sera parlerà con sua
moglie, ci penserà su e cambierà idea. Io lo
facevo di continuo, sai?».
«Io non ci conterei troppo», bofonchiò.
All’improvviso Artù rovesciò gli occhi
ed iniziò ad annaspare alla ricerca d’aria. Alex
capì subito quello che stava succedendo e per prima cosa
urlò al loro autista di premere quel maledetto acceleratore,
poi tirò su il vetro divisorio in modo che non sentisse
nulla di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.
L’infermiera si chinò accanto ad Artù e
posò le mani sul suo petto, come aveva visto fare da
Merlino, concentrandosi per richiamare a sé la magia. Si
sforzò e pregò con ogni fibra del suo corpo, ma
non accadde nulla. Che avesse esaurito ogni sua risorsa quella notte,
mettendo a soqquadro la propria suite?
«E ora che cosa faccio? Che cosa diavolo faccio?!»,
strepitò, gli occhi colmi di lacrime.
«La valigetta», rantolò Artù.
«Che cosa?».
«Merlino ha detto… la valigetta».
Alex ricordò ciò che Merlino le aveva detto quel
pomeriggio, quando gli aveva chiesto che cosa ci fosse nella valigetta
che teneva tra le mani: «Una
cosa di cui, se tutto andrà per il meglio, non avremo
bisogno».
A quanto pare quella sera nulla voleva andare per il meglio.
Alex tirò giù ancora una volta il vetro scuro che
li separava dall’autista e gridò di accostare
immediatamente.
«Ma, signorina, siamo in autostrada!».
«Per la miseria, alla prima piazzola si fermi! È
un’emergenza!».
Furono i due minuti più lunghi della vita di Alex, impotente
di fronte ad un Artù che riusciva a malapena a respirare,
con un rivolo d’acqua che dalla bocca gli colava lungo la
guancia.
Quando finalmente sentì l’auto rallentare e
deviare sulla sinistra, Alex aprì la portiera ancor prima
che si fermasse del tutto e balzò giù,
sollevandosi il vestito per non inciamparvi.
«Apra il bagagliaio, si sbrighi!», urlò
all’autista, il quale corse a fare come gli aveva chiesto.
Alex afferrò la valigetta e disse che potevano rimettersi in
marcia verso Londra.
«Posso sapere che succede?!», chiese
l’autista, asciugandosi con un fazzoletto la fronte imperlata
di sudore, nonostante tirasse un vento freddo più invernale
che primaverile.
«Il mio amico è diabetico e al galà si
è lasciato un po’ andare. Ma ho la situazione
sotto controllo, sono un’infermiera. Lei pensi soltanto a
portarci all’ospedale più vicino il più
velocemente possibile».
Detto questo sì che l’autista si
rilassò. Saltò al volante e corse a
più non posso, tanto che alla fine fecero la strada che
all’andata avevano percorso in un’ora in poco
più della metà del tempo.
Alex, intanto, fece per aprire la valigetta, ma non ci
riuscì a causa della combinazione numerica.
«Qual è il codice? Artù, il
codice!», urlò, dandogli leggeri schiaffetti sulle
guance. Ormai era andato, non poteva più contare sul suo
aiuto.
Alex cercò di pensare come Merlino e la prima cosa che le
venne in mente fu l’anno in cui lui e Artù si
erano conosciuti. Inserì la data, mettendoci uno zero
all’inizio, ma la serratura non si sbloccò. Decise
di provare allora con la data in cui Artù era perito: un
altro buco nell’acqua.
«Che tu sia maledetto, Merlino! Tu e il momento in cui ti ho
conosciuto!».
Alex si prese la testa tra le mani, lasciando che le lacrime le
scivolassero sulle guance mentre Artù aveva smesso del tutto
di agitarsi: il suo polso era quasi impercettibile ormai, il suo
respiro un soffio d’aria freddissima.
«Aspetta», mormorò ad un tratto,
realizzando ciò che aveva appena detto. «Il
momento in cui l’ho conosciuto…».
Alex trafficò freneticamente con i numeri, inserendo
l’anno del loro primo incontro. Non funzionò
nemmeno quello, ma non disperò, dato che ufficialmente loro
due si erano incontrati non una ma ben due volte.
«Due-zero-uno-zero», mormorò e socchiuse
gli occhi, pregando.
Finalmente sentì la serratura sbloccarsi e
scoppiò in una risata di sollievo, che ben presto le
morì in gola quando si trovò davanti un cristallo
bianco inserito in una specie di anello di metallo.
«E con questo che cosa dovrei farci?», si
domandò frustrata.
Le bastò però prenderlo tra le mani
perché una scossa la travolgesse da capo a piedi,
lasciandola stordita ed indebolita. Sentì le energie venirle
meno a poco a poco, mentre le incisioni sul metallo si accendevano una
dopo l'altra, emettendo un bagliore caldo, e il cristallo accumulava al
suo interno sempre più luce: stava assorbendo dal suo
organismo ogni traccia di magia ancora rimastale.
Seguendo il proprio istinto portò il cristallo sopra al
petto di Artù ed immediatamente si sentì
trascinare verso di esso, come se fosse stato prepotentemente attratto
da qualcosa.
Alex ricordò all’improvviso l’idea che
Artù aveva avuto e a come lei stessa l’aveva
definita: una calamita attira magia negativa. Merlino era riuscito a
costruirne un prototipo e stava funzionando!
Il corpo del re di Camelot infatti iniziò a rilassarsi, il
suo respiro tornò regolare e poco tempo dopo
riaprì gli occhi, fissandola con sguardo spaesato e confuso.
Alex si lasciò andare ad un sospiro di sollievo e si
spostò, sedendosi sul sedile di pelle di fronte al suo.
«Come ti senti?», gli chiese, ignorando il cerchio
alla testa.
Artù non rispose ed indicò nella direzione del
cristallo. «Le tue mani…».
Alex abbassò di scatto lo sguardo e solo allora
avvertì l’intenso calore che le stava bruciando i
palmi delle mani. Immediatamente mollò la presa e quasi
svenne, guardando la propria pelle ustionata. Ciò che le
impedì di perdere i sensi fu il lento sollievo che
provò dal momento in cui smise di impugnare
l’anello: pian piano le ferite si cicatrizzarono, la pelle si
rigenerò e i palmi delle sue mani tornarono come nuovi,
senza che lei facesse alcunché.
Incredula incrociò lo sguardo di Artù, poi
contemporaneamente posarono gli occhi sul cristallo che ora conteneva
una specie di macchia scura, una goccia liquida che girava e rigirava
all’interno della pietra chiara, cercando forse una via
d’uscita.
«È quello che penso che sia?»,
domandò Alex.
«Il cristallo ha estratto ed intrappolato un po’
della magia nera di cui è impregnato il frammento di
spada», disse Artù, esterrefatto.
Come ipnotizzato allungò una mano verso il cristallo, ma
Alex lo fermò prima che fosse troppo tardi. Si tolse in
fretta la sciarpa dal collo e con essa intorno ad una mano
sollevò l’anello per sistemarlo di nuovo nella
valigetta, che richiuse con uno scatto secco.
«È meglio che nessuno lo tocchi per un
po’, almeno fino a quando non l’avremo fatto vedere
a Merlino», affermò ed Artù
annuì, tornando a sdraiarsi sui sedili di pelle.
Affaticato com’era, ci mise meno di un minuto ad
addormentarsi. Alex lo imitò poco dopo, sfibrata e con il
manico della valigetta ancora stretto in pugno.
***
Era da poco passata la mezzanotte, quando Merlino rientrò
nella hall dell’albergo col cravattino sciolto e i capelli
spettinati.
Alla centrale di polizia l’avevano subissato di domande ed
era riuscito a risultare tanto credibile nel dimostrarsi completamente
estraneo ai fatti da ritardare di qualche giorno la perquisizione a
casa sua, agevolato anche dal cambio di giurisdizione. Avrebbe avuto
tutto il tempo necessario per trasferire nel bunker tutte le poche cose
che ancora avrebbero potuto comprometterlo o aumentare i sospetti nei
suoi confronti. In poche parole, se la sarebbe cavata.
Di certo nulla di tutto ciò sarebbe successo se
Artù non si fosse comportato da idiota come suo solito, ma
era talmente stanco e ansioso di sapere che cos’era successo
al galà durante la sua assenza che non ce la fece proprio ad
arrabbiarsi con lui. Quando entrò nella suite, inoltre, lo
trovò sdraiato sul divano mezzo addormentato, col volto
pallido e sciupato.
Immediatamente gli portò una mano sulla fronte e gli
controllò le pulsazioni con due dita sul suo collo, ma i
suoi parametri sembravano nella norma.
«Merlino, sei arrivato finalmente».
Il mago si sollevò e lo guardò irritato,
incrociando le braccia al petto. «Sì, grazie
tante. Vi sentite bene?».
«Sì, grazie ad Alex».
«In che senso?».
Artù indicò la valigetta posata sul tavolo da
pranzo e poi gli raccontò per filo e per segno tutto
ciò che era successo da quando era stato portato via dai due
agenti.
Riportò quello che Alex gli aveva detto a proposito della
sua infruttuosa conversazione col Principe William, descrisse le
occhiate che i due si erano lanciati proprio prima che se ne andassero
e poi gli spiegò come Alex gli aveva salvato la vita
utilizzando il cristallo che c’era nella valigetta.
«L’autista ci ha lasciato di fronte
all’ospedale, ma abbiamo solo fatto finta di entrare. Quando
se n’è andato siamo andati da McDonald’s
e Alex ha mangiato tipo il doppio di me. Non sapevo che la magia
causasse questi effetti collaterali».
Merlino quell’ultima parte l’aveva ascoltata solo
distrattamente, troppo assorto nell’esaminare il cristallo
dentro cui si agitava ancora quel concentrato di magia nera.
«Probabilmente posso fare qualche modifiche perché
l’anello non si surriscaldi», disse a se stesso.
«Ma il fatto che funzioni è…
strabiliante».
«Merlino, mi stai ascoltando? Se permettiamo ad Alex di
utilizzare la magia dovremo metterla a dieta e farle fare molto
allenamento, perché se continua così rischia di
prendere peso e…».
«Alex. Devo andare da Alex, scusatemi».
Merlino scorse Artù boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua, indeciso se dire ciò che stava pensando
oppure no. Alla fine non gli diede il tempo di fare una scelta,
chiudendosi la porta alle spalle.
Lui la sua decisione l’aveva finalmente presa.
***
Alex si alzò faticosamente dalla chaise-longue e,
infastidita dal modo in cui le stavano tempestando la porta di pugni,
gridò: «Arrivo, arrivo!».
Si sciolse anche l’ultimo pezzo di treccia, lasciando che i
capelli lunghi le scivolassero intorno al viso e sulla schiena, ed
aprì la porta, trovandosi di fronte Merlino.
«Oddio, sei tornato!», urlò al settimo
cielo, gettandogli le braccia al collo. Stringendolo ancora forte, gli
tirò un pugnetto su una spalla. «Aspettavo una tua
chiamata, un messaggio, qualsiasi cosa!».
Merlino la scostò da sé prendendole i fianchi tra
le mani e la guardò dritta negli occhi, accostando la fronte
alla sua.
«Questa mattina mi hai detto che hai il cuore a
pezzi», esordì, cogliendola alla sprovvista.
«Lo sai che esagero, non devi prendermi sempre sul
serio».
«Mi hai chiesto che ho intenzione di fare in
merito», continuò imperterrito e il suo sguardo
determinato e il modo in cui le cingeva i fianchi la fecero
rabbrividire. Si era per caso addormentata sulla chaise-longue?
Merlino avanzò d’un passo, stringendosi Alex
addosso, così da potersi chiudere la porta della suite alle
spalle. Le prese il mento tra due dita e concluse: «Ho
intenzione di smetterla di farti soffrire, di far soffrire entrambi. Ho
intenzione di essere felice, di vivere, senza pensare al dolore o alla
morte. Carpe diem».
Alex corrugò la fronte, chiedendosi se fosse impazzito o se
la stesse prendendo soltanto in giro. Forse la stanchezza e le ore
passate in centrale gli avevano fatto perdere il contatto con la
realtà.
«Okay Merlino, forse è meglio
se…», iniziò a dire, ma fu bruscamente
interrotta dalle labbra del mago che intrappolarono le sue in un bacio
mozzafiato, travolgente e passionale.
In qualche modo, nonostante tutte le sue terminazioni nervose stessero
andando in cortocircuito, una parte del suo cervello rimase
razionalmente lucida, tanto che mentre Merlino la sollevava e
continuando a baciarla la trasportava verso la camera da letto, Alex si
diede un pizzicotto sul braccio. Lo sentì, lo
sentì come sentì le labbra bollenti di Merlino
iniziare a tracciare un percorso invisibile sul suo collo, scendendo
sulle clavicole e verso lo sterno. Era tutto vero, non si trattava di
un sogno, e lei non si era nemmeno lavata i denti.
Ad un passo dal letto, Merlino le fece toccare di nuovo terra solo per
sfilarle di dosso il vestito e calciarlo via come se fosse uno straccio
qualunque. A quanto pare lui non era affatto combattuto in proposito.
Alex gli tirò via la giacca e poi la camicia, maledicendo i
bottoni e i baci sul collo di Merlino, di cui però non
avrebbe mai fatto a meno.
Alla fine riuscì a spogliarlo e per non esitare con le dita
sulle sue cicatrici corse a sbottonargli i pantaloni. Merlino
però la fermò e la gettò sul letto,
salendole sopra per dedicarsi al suo corpo con minuzia e dedizione.
Alex avrebbe tanto voluto che la prendesse subito, ma non appena le
mani e la bocca di Merlino iniziarono ad esplorarla ci
ripensò, invasa da scariche di piacere tanto intense da
desiderare che non si interrompesse nemmeno per sfilarsi i pantaloni.
«Dio, perché hai aspettato tanto?»,
disse ad un tratto, giocando con i suoi capelli mentre le baciava il
ventre piatto.
«Pensavo a cosa fosse più giusto per
te». Merlino risalì fino a morderle il labbro
inferiore, tirandolo delicatamente. Quindi le fece inarcare la schiena
perché i loro bacini si scontrassero.
«Come potrebbe non essere giusto?»,
esalò lei, piantando le unghie tra le sue scapole.
«Non ti fa un po’ ribrezzo, pensare a me come
Dragoon?».
Alex aprì gli occhi e lo fissò per qualche
secondo prima di ribaltare la situazione con un colpo di reni ed
esclamare con tono malizioso: «Ma tu non sei come Dragoon
adesso, non mi pare».
«No, ma…».
«Shhh». Alex gli posò un dito sulle
labbra e si sistemò meglio a cavalcioni su di lui.
Mentre trafficava per slacciarsi il reggiseno, Merlino le
scostò i capelli dal viso con entrambe le mani, fino a
sollevarsi per accarezzarli con le labbra.
«Grazie a Dio te li sei sciolti»,
mormorò. «Quell’acconciatura non si
poteva vedere: sembravi un cucciolo di stegosauro».
L’infermiera inarcò le sopracciglia e fece
penzolare il reggiseno di fronte al suo viso. «Il cucciolo di
stegosauro più sexy che si sia mai visto, mi
auguro».
«Assolutamente».
Merlino afferrò il reggiseno e con uno strattone improvviso
la fece cadere di nuovo su di sé, così da poter
assaporare ancora una volta le sue labbra e godere del calore della sua
pelle sulla propria.
«Ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon»,
sussurrò il mago respirando tra i suoi capelli, mentre lei
gli baciava il pomo d’Adamo.
«Io non ho mai saputo il tuo cognome».
«Il mio vero cognome? Non lo sa nessuno, neppure
Artù. Tutti mi hanno sempre conosciuto come Merlino, o
Emrys».
«Emrys», ripeté assorta, ricordando la
lettera firmata da quella Louise. Lei lo chiamava in quel
modo…
Merlino le accarezzò il viso con una mano, cercando il suo
sguardo. «Ehi».
«Ehi», lo imitò, abbozzando un sorriso.
«La verità è che non mi importa se hai
più di mille anni, se hai amato altre donne prima di
me… Quello che conta è che ora il tuo cuore
appartenga a me».
«Fino alla fine dei miei giorni»,
sussurrò in tono solenne.
Il sorriso di Alex si allargò e si addolcì mentre
si lasciava abbracciare e rotolava con lui tra le coperte, liberandosi
a vicenda degli ultimi indumenti che indossavano.
Sotto il suo corpo, Alex gli accarezzò il viso e gli
scostò i capelli dalla fronte con tenerezza. «Ti
amo anche io, Merlino».
Il mago si chinò sul suo orecchio e le sussurrò
il proprio cognome.
Alex sentiva il cuore scoppiarle: era l’unica al mondo a
conoscere quel dettaglio di lui, lei che fino ad un paio di mesi prima
non sapeva quasi nulla sul suo conto. Aveva confidato a lei quel
segreto, perché l’amava, e Alex non
l’avrebbe mai e poi mai tradito.
Suggellò quella promessa con un bacio e smise ufficialmente
di sognare.
***
«No…
Il tempo per tutti questi spargimenti di sangue è finito. Mi
biasimo per quel che sei diventata, ma… questo deve
finire».
«Sono una
Grande Sacerdotessa, nessuna lama forgiata dall’uomo
può uccidermi».
La trapassò
con Excalibur, mozzandole il respiro.
Col suo corpo adagiato
contro il proprio, gli occhi implacabili fissi nei suoi colmi di dolore
e sulla sua bocca dischiusa, sussurrò: «Questa non
è una lama forgiata dall’uomo. Come la tua,
è stata forgiata dal fuoco di un drago».
Spinse più a
fondo la lama e Morgana trasalì nuovamente, poi
serrò gli occhi e si abbandonò alla sua stretta.
Merlino la
accompagnò a terra, quasi con dolcezza, e sotto gli occhi di
Artù estrasse Excalibur dal suo ventre.
Le labbra della strega
si mossero, ma non un suono echeggiò nel silenzio spettrale
del bosco. Merlino la guardò impassibile, nonostante una
parte di lui stesse morendo con lei, mentre le sue ultime parole gli
rimbombarono nella mente grazie alla telepatia.
"C’è
stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?".
Col cuore in frantumi,
Merlino cacciò indietro i ricordi e non rispose alla sua
domanda. Anche volendo, non avrebbe saputo cosa dire.
«Addio,
Morgana».
La strega smise di
respirare e i suoi occhi rivolti verso il cielo in tempesta divennero
vitrei.
Merlino
spostò il capo di lato per evitare di versare lacrime per
lei – non di fronte al suo re, – e raggiunse
Artù, sorretto dalla pietra contro cui l’aveva
fatto sedere perché riposasse. Continuava a fissare la
sorellastra, ma c’era qualcosa di diverso nel suo sguardo,
qualcosa che Merlino non riuscì a decifrare.
Quando finalmente
Artù sollevò il viso verso il suo, lo
trovò sfigurato dal dolore, dalla rabbia e dal disprezzo.
«Che cosa hai
fatto?», gli chiese una volta, due, tre, sempre
più forte, fino a quando non scoppiò a piangere
contro la sua spalla, chiamando il nome di Alex.
Con il terrore a
gelargli il sangue nelle vene, Merlino si voltò lentamente
verso il corpo di Morgana e una chioma bionda e spettinata gli
offuscò la vista.
«No»,
mormorò incredulo, sopraffatto dal dolore. «No,
Alex, no…».
Raggiunse il corpo della
ragazza gattonando sul terreno ricoperto di foglie secche e rami
spezzati, ferendosi i palmi delle mani e stracciandosi i pantaloni.
Si chinò sul
suo corpo immobile e più e più volte vi
avvicinò le mani, senza mai trovare la forza di afferrarlo.
Quando ci riuscì, le pelle gelata del suo viso e i suoi
spenti occhi verdi lo fecero urlare dalla disperazione.
La strinse forte a
sé, alcune ciocche dei suoi capelli biondi tra le dita, ma
nonostante la chiamasse a squarciagola Alex non si risvegliava. E le
parole di Morgana continuavano a tormentarlo, ripetendosi ancora e
ancora nella sua mente, pronunciate però dalla voce di Alex:
"C’è stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo
arrivati a questo?".
Merlino aprì gli occhi di scatto e fece per mettersi a
sedere sul letto, ma un peso sul proprio petto lo fece desistere.
Abbassò gli occhi e scorse un braccio sottile e candido
abbandonato all’altezza dei suoi capezzoli. Lo percorse fino
a raggiungere una spalla nuda, su cui scivolavano le stesse ciocche di
capelli biondi che aveva impugnato nell’incubo da cui era
appena uscito. Solo allora riuscì a tornare nel mondo reale,
ricordando la nottata appena trascorsa con Alex.
Spostò con delicatezza il suo braccio, posandolo sul
cuscino, e si avvicinò al suo corpo, mettendosi sdraiato su
un fianco e puntellandosi su un gomito per scostarle i capelli dal viso
ed ascoltare il suo respiro contro la propria gabbia toracica. Chiuse
gli occhi, iniziando a seguire anche i battiti del suo cuore, e quando
si fu calmato del tutto tornò ad appoggiare la testa sul
cuscino, la punta delle dita ad accarezzarle lentamente
l’avambraccio.
Fare l’amore con Alex era stato un vero sogno ad occhi
aperti, il sogno migliore e più appagante che avesse mai
fatto. In un certo senso si era sentito rinascere, era tornato a vivere
sul serio dopo anni in cui aveva fatto solo finta, recitando una parte
con così tanta naturalezza da imbrogliare persino se stesso.
Era felice, felicissimo, eppure la paura per ciò che prima o
poi, inevitabilmente sarebbe accaduto era ancora lì, dietro
l’angolo, pronta ad assalirlo.
Non aveva paura di morire, non ne aveva mai avuta. Aveva paura di non
riuscire a proteggere le persone che amava, aveva paura della
sofferenza e del dolore che la propria morte avrebbe portato nei loro
cuori. In parole povere, di ciò che avrebbe provato Alex nel
dirgli addio.
E da qualche tempo a quella parte aveva anche un’altra paura,
forse anche peggiore della precedente: temeva per la sicurezza di Alex,
per la sua vita.
Erano giorni ormai che tutte le volte che gli incubi gli facevano
rivivere la morte delle persone a lui care, esse venivano
all’improvviso sostituite da Alex. Era successo con la morte
di Freya, con quella di suo padre, di Artù e ora con quella
di Morgana. Ma mai prima d’allora l’incubo aveva
subìto tante variazioni: i personaggi non avevano mai
cambiato le loro battute, né si erano comportati in maniera
differente da come li ricordava.
Morgana non gli aveva mai rivolto quelle parole e dubitava che in punto
di morte avrebbe anche solo potuto pensarle: la rabbia e
l’odio l’avevano cambiata, rendendola ben diversa
dalla principessa di cui un tempo Merlino era stato innamorato.
Perciò, da dove provenivano? Perché in ogni
incubo Alex si ritrovava morta tra le sue braccia? Che quei dettagli
non fossero solo un caso, un riflesso delle sue paure più
grandi, ma piccoli indizi che col tempo avrebbero costruito un vero e
proprio sogno premonitore?
Avrebbe continuato a tormentarsi all’infinito, ponendosi
sempre le stesse domande, se Alex non avesse rivolto il viso verso il
suo, sorridendogli con gli occhi verdi socchiusi.
«Buongiorno raggio di sole», sussurrò
accarezzandole una guancia con il pollice.
Alex mugugnò, stropicciandosi gli occhi con una mano ed
intrecciando le gambe alle sue. «Sto ancora
sognando?».
«Non è stato un sogno», rispose Merlino
sorridendo, per poi sollevare il capo e posare le labbra sulle sue in
un bacio appena accennato. Alex lo afferrò per la nuca e non
contenta gliene strappò un altro.
Poi il mago l’avvicinò di più a
sé e le avvolse le braccia intorno alla schiena, iniziando
ad accarezzarle i capelli, dalle mille sfumature bionde a causa del
sole che brillava fuori dalla finestra panoramica.
Alex si schiarì la gola e tracciando con la punta
dell’indice delle forme immaginarie sul suo petto –
una delle quali gli riportò alla mente il simbolo dei druidi
– gli chiese timidamente: «Lo so che non dovrei
chiedertelo, ma quand’è stata l’ultima
volta che hai… insomma…».
«Il 2 Settembre 1939, il giorno prima che la Gran Bretagna
dichiarasse guerra alla Germania».
Alex deglutì sonoramente, ma non gli chiese altro. Merlino
si pentì della propria sincerità: probabilmente
avrebbe dovuto glissare, o almeno dare quell’informazione con
un po’ più di tatto… Così
sembrava davvero che avesse contato i giorni dall’ultima
volta in cui aveva fatto sesso.
Era comunque troppo tardi per rimangiarsi tutto e fu la stessa Alex a
riprendere la parola, anche se in tono ancora più incerto.
«Quindi tu e Myra davvero non avete
mai…?».
«Sei proprio gelosa di lei, eh?»,
esclamò, interrompendola.
Le baciò teneramente la fronte, massaggiandole una spalla, e
la rassicurò dicendo: «No, tra me e Myra non
è mai successo niente. E d’ora in poi non dovrai
più preoccuparti di lei».
«Che intendi dire?».
«L’agente Fisher è venuto a dirmi che ha
dato le dimissioni e si è trasferita dai suoi genitori a
Swansea».
Alex si sollevò, tirandosi il lenzuolo sul seno.
«E per quale motivo avrebbe dovuto farlo?».
«Non ne sono sicuro, ma credo che si sia sentita in colpa per
quello che ha fatto insieme a Keith. Mi ha scritto una lettera, ma
è stata criptica a riguardo. Però voleva che ti
dicessi che le dispiace e che sei fortunata ad avermi
accanto».
«Come minimo la seconda parte te la sei inventata»,
lo prese in giro, sorridendo furbescamente.
Merlino sgranò gli occhi, fingendosi mortalmente offeso.
«Che cosa? Non lo farei mai!».
«Allora lo pensa solo perché non ti conosce
veramente! Non sa che sei uno stregone complessato, misterioso e con
un’ambigua ossessione per un certo
Artù».
«Ambigua ossessione per… Ah, questo non dovevi
dirlo!».
Alex ridacchiò e saltò giù dal letto
portandosi dietro il lenzuolo, sfruttando i secondi che Merlino
sprecò nel cercare e nell’infilarsi i boxer.
Quando la raggiunse in salotto, Alex inciampò in un lembo
del lenzuolo e insieme caddero sul divano, ridendo sommessamente mentre
le loro bocche erano impegnate a fare altro.
«Perché volevi sapere quand’è
stata la mia ultima volta?», le chiese ad un tratto,
sogghignando.
«No, nessun perché…
curiosità», rispose evasiva, tanto che Merlino si
scostò dal suo viso e con le braccia appoggiate ai lati del
suo capo la fissò intensamente.
«Dimmelo. Giuro che non mi offendo, se… Insomma,
sono passati settantacinque anni, è normale che io sia un
po’ arrugginito».
Alex lo guardò sorridendo e gli prese il viso con una mano
fino a fargli venire le labbra da pesce. «Stai zitto,
stupido. È stato il miglior sesso della mia vita».
«È la verità? Giuri?».
«Te l’ho detto che sei complessato!».
Merlino rise e si tuffò di nuovo sulle sue labbra, scendendo
ad accarezzarle le spalle, i seni, i fianchi sopra e sotto al lenzuolo
che l’avvolgeva.
Si staccarono l’uno dall’altra, atterriti, solo
quando sentirono dei colpi alla porta e poi una voce inconfondibile.
«Alex? Alex, sei sveglia?».
L’infermiera guardò il mago, chiedendogli
silenziosamente che cosa doveva fare. Merlino si alzò in
fretta e furia e aiutandola ad alzarsi la spinse verso la camera da
letto, dove Alex si infilò il pigiama e urlò,
fingendosi assonnata: «Arrivo, un attimo!».
Alex si diresse verso la porta e prima di aprire guardò
Merlino nascondersi dietro l’angolo e mostrarle il pollice
rivolto verso l’alto. Allora abbassò la maniglia e
sorrise ad Artù, dandogli il buongiorno.
«Ciao», la salutò lui, fortunatamente
senza dar segno di voler entrare. «Scusami, ti ho
svegliata?».
Alex scrollò le spalle. «Come mai qui?
È successo qualcosa?».
«In realtà sì: ho perso
Merlino».
«Hai perso
Merlino?», ripeté, rischiando di scoppiargli a
ridere in faccia.
«Ieri notte mi ha detto che sarebbe venuto da te, ma poi non
è più tornato. Il suo letto è ancora
intatto e, indovina, non mi risponde al cellulare. Hai idea di dove
possa essere?».
«Ahm… no, nessuna».
Artù iniziò a guardarla con sospetto.
«Ma ieri è venuto qui, giusto?».
«Sì, sì, certo. È venuto a
chiedermi come stavo e a ringraziarmi per averti salvato la vita, ma
poi se n’è andato. Pensavo fosse tornato da
te».
Il re di Camelot la fissò, meditabondo, e Alex si
sforzò di mantenere l’espressione più
seria del suo repertorio. Alla fine Artù dovette crederle,
perché sospirò e disse:
«Proverò a chiamarlo ancora. E quando si
rifarà vivo giuro che gli farò passare un brutto
quarto d’ora».
«Mi sembra giusto. Tienimi aggiornata, mi
raccomando».
Artù annuì e si allontanò,
già con il cellulare in mano. Alex chiuse la porta alle sue
spalle e non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che Merlino
la sollevò per le gambe, facendogliele intrecciare intorno
alla propria vita.
« Ti sembra
giusto, eh?», le chiese, mordendole il labbro.
«Grazie per averlo salvato, comunque».
«Figurati», rispose Alex, offrendogli il collo e
stringendo una mano tra i suoi capelli. «Non potremo
mentirgli per sempre. Se dovesse scoprire che noi
due…».
«C’è solo una cosa che possiamo fare per
entrare nelle sue grazie».
«Che cosa?».
Merlino incatenò lo sguardo al suo.
«Sposarci».
Alex non riuscì a far altro che guardarlo a bocca aperta per
un paio di interi minuti. Quando ritrovò il controllo della
propria voce, squittì: «Stai
scherzando?».
«Mai stato più serio di così. Sposami,
Alexandra Greenwood-Pendragon».
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Capitolo 20 *** 20. The labyrinth of chances ***
Buongiorno cari! :) Come
promesso sulla mia pagina facebook, oggi è lunedì
e vi pubblico finalmente un capitolo!
Mi dispiace di farvi attendere così ogni volta, ma i
capitoli sono lunghi e poi il mio tempo libero è
imprevedibile... sfugge via che manco me ne rendo conto D:
Comunque sia, ringrazio di cuore gli affezionati, chi legge e commenta
e chi legge soltanto... Tanto ammmore per tutti!
Spero che questo capitolo vi piaccia e vi auguro una buona lettura!
A presto!
Vostra,
_Pulse_
______________________________________________________________________________
20. The
labyrinth of chances
Il suo cellulare iniziò a vibrare con insistenza sul
comodino e Alex allungò faticosamente un braccio
addormentato per poter disattivare la sveglia. Quindi si sedette sul
bordo del letto, con i piedi nudi sul pavimento freddo, e sbuffando per
la stanchezza si grattò la nuca.
All’improvviso una mano le afferrò il lembo della
maglia del pigiama, invitandola a tornare tra le coperte.
«Mmm», mugugnò, lottando per non cedere
alla tentazione di ricadere tra le braccia di Merlino.
Alla fine riuscì ad alzarsi, trovando a tastoni tutti i suoi
vestiti sparsi per la camera. Si stava giusto infilando i jeans, in
equilibrio su una gamba sola e con le palpebre pesanti come mattoni,
quando scorse il volto di Merlino illuminato dalla luce del display del
proprio cellulare.
«Ma è l’alba»,
farfugliò, coprendosi gli occhi con l’avambraccio.
«Me ne sono accorta», rispose Alex. «Che
cosa fai, ti alzi oppure no?».
Sentì il mago sospirare e poi lo vide tirarsi su seduto,
scostandosi bruscamente le coperte di dosso. Una volta in piedi,
raggiunse le porte finestre che davano sul balcone e le aprì
per poter spalancare le persiane e permettere alla luce del sole appena
sorto di inondare la stanza.
Alex rimase a guardarlo mentre si stirava le braccia, sbadigliando, e
ancora una volta fu impressionata dalla quantità di
cicatrici sulla sua pelle. La sua schiena, in particolare, sembrava la
mappa della metropolitana londinese.
Merlino si voltò finalmente verso di lei e le sorrise,
prendendole il volto tra le mani prima di posarle un bacio a stampo
sulle labbra. Quindi si infilò i pantaloni della tuta ed
uscì dalla stanza, tornando poco dopo per darle il via
libera.
Nel silenzio più assoluto passarono davanti alla camera di
Artù, scorgendolo ancora profondamente addormentato
– ed invidiandolo moltissimo per questo – e una
volta in bagno si lavarono la faccia a turno, ancora troppo
addormentati per rivolgersi la parola.
Alex non era una persona mattiniera, o meglio, non era una di quelle
persone già pronte e scattanti non appena messo piede fuori
dal letto: ogni azione, anche la più semplice, le risultava
doppiamente difficile e il suo umore ne risentiva, rendendola acida e
scontrosa.
Forse fu quello il motivo per cui, lavandosi i denti,
sbottò: «Questa storia deve finire».
Merlino, seduto sull’asse del water alle sue spalle,
sollevò il capo solo per mostrarle la propria espressione
annoiata, la quale poteva essere benissimo tradotta in un:
“Ecco, ci risiamo”.
«È inutile che alzi gli occhi al cielo»,
lo rimproverò, puntandogli contro lo spazzolino.
«Siamo nel dannato Ventunesimo secolo: io e te stiamo insieme
e se abbiamo voglia di dormire nello stesso letto Artù deve
farsene una ragione».
«Lo sai che c’è una soluzione a tutto
questo», disse Merlino, passandosi una mano tra i capelli
ormai simili ad un cespuglio: doveva assolutamente tagliarli.
«E ti sembra una soluzione sensata?».
«Sì».
Alex si voltò ed incrociò il suo sguardo serio,
incurante dei propri capelli spettinati e della bocca piena di
dentifricio.
Senza mai interrompere il contatto visivo, Merlino aggiunse:
«Per me ha perfettamente senso. Io ti amo, Alex, e voglio che
tu diventi mia moglie».
L’infermiera rilassò le spalle e con uno sforzo
disumano riuscì a dargli la schiena per sciacquarsi la bocca
nel lavandino. Quindi, con l’asciugamano tra le mani,
rispose: «Anche io ti amo, lo sai, ma… sposarci?
Ci prenderanno per pazzi».
«Da quando ti importa di quello che pensano gli
altri?», le chiese, scrollando le spalle. «Voglio
poter dire con orgoglio di essere legato a te per
l’eternità, voglio farlo prima che sia troppo
tardi».
« Troppo tardi?
Oh, ho capito. Vuoi che io sia la tua vedova. Sei incredibile,
Merlino».
Scossa dalla rabbia, uscendo dal bagno si dimenticò quasi di
dover fare piano per non svegliare Artù. Merlino la
raggiunse a metà della scalinata e la superò
perché i loro occhi fossero alla stessa altezza.
«Che cos’è che ti impedisce di dirmi
quel maledetto sì?», le chiese con delicatezza,
cercando di raggiungere le sue mani. Alex però
alzò le braccia, quasi in segno di resa, e chiuse gli occhi.
«Io non…», incominciò a dire
coi denti serrati, interrompendosi subito per poter prendere un respiro
profondo e ripartire con più calma: «Non voglio
che tu mi chieda di sposarti per far contento Artù,
né perché sei convinto che presto morirai. Voglio
che tu mi chieda di sposarti perché mi ami più di
qualsiasi altra donna tu abbia mai conosciuto, perché vuoi
promettermi che lotterai fino all’ultimo respiro per poter
invecchiare con me».
Merlino aprì la bocca per rispondere, ma dopo un attimo di
esitazione la richiuse, chinando il capo. Alex sospirò,
trattenendo a stento il desiderio di spingerlo giù dalle
scale, e lo aggirò dandogli una lieve spallata.
«Ah, buona Pasqua», esclamò in tono
lugubre prima di sparire in cucina.
***
«Buongiorno!».
Merlino, seduto al tavolo della cucina con il naso nella propria tazza
di caffè, salutò Artù con un semplice
cenno del capo, al quale il re del passato e del futuro rispose con una
smorfia.
«Hai dormito male anche questa notte?», gli chiese
incrociando le braccia al petto. «Altri incubi?».
Il mago si schiarì la gola per prendere tempo, cercando la
bugia migliore da propinargli. Quella notte non aveva dormito molto,
era vero, ma non a causa degli incubi. Questi tendevano a diminuire,
quando sapeva di avere Alex stretta tra le braccia, ma la
verità era che era proprio Alex la causa di ogni sua
agitazione, perciò… Sì, dormire non
era esattamente la cosa che gli riusciva meglio da quando erano tornati
da Londra.
Avrebbe voluto parlarne con Artù, ma aveva come il sospetto
che dirgli la verità sul loro conto e sul sogno che aveva
fatto pochi giorni prima avrebbe peggiorato soltanto la situazione.
"C’è
stato un tempo in cui ti amavo. Come siamo arrivati a questo?". La
frase pronunciata da Morgana-barra-Alex lo stava letteralmente
ossessionando, come ciò che avrebbe potuto comportare:
sarebbe davvero arrivato un tempo in cui lui e Alex non si sarebbero
più amati, un tempo in cui addirittura si sarebbero trovati
l’uno contro l’altro, nemici
l’uno dell’altro? E se così fosse,
sarebbe toccato proprio a lui il compito di toglierle la vita,
esattamente come era successo con l’ultima Grande
Sacerdotessa, l’opposto che l’aveva sempre ed
inevitabilmente attratto?
Sapeva quanto potessero essere fraintendibili le profezie e quanto
fossero difficili da aggirare, ma avrebbe fatto di tutto pur di
ottenere un po’ di chiarezza, in modo da poter essere
preparato per ciò che il futuro riservava loro. Per questo
non appena tornati da Londra si era recato ad Avalon.
Nonostante avesse promesso a se stesso che non avrebbe più
avuto nulla a che fare con Freya e quelli come lei, aveva urlato il suo
nome fino a quando non si era ritrovato completamente senza voce. La
custode del lago non gli aveva risposto e non avrebbe dovuto
sorprendersi tanto, né provare delusione nel rendersi conto
che i suoi stessi simili l’avevano abbandonato ancora una
volta, ma…
«Merlino, mi stai ascoltando?».
Lo stregone alzò di scatto il capo verso Artù e
lo trovò con la fronte aggrottata, appoggiato al tavolo con
i pugni chiusi.
«Scusatemi, mi sono distratto. Cosa stavate
dicendo?».
Artù sospirò, annoiato dal doversi ripetere.
«Suggerivo soltanto che dovresti prendere qualcosa, se gli
incubi non ti danno tregua. In quest’epoca non
c’è qualche pozione che fa dormire meglio? Tipo
quelle che preparava Gaius per Morgana. Non hai imparato proprio niente
da lui?».
Merlino gli lanciò un’occhiata così
cupa che Artù si morse il labbro inferiore, deviando il suo
sguardo e servendosi da sé la colazione.
Quella mattina però il re di Camelot doveva essersi alzato
col desiderio di infliggergli una qualche punizione, dato che riprese
l’argomento mentre si versava un po’ di
caffè in una tazza.
«Insomma, adesso ho capito che gli incubi di Morgana non
erano incubi normali, ma…».
«Basta», lo interruppe Merlino, alzandosi di scatto
dalla sedia. «Perché continuate a parlare di
lei?».
Artù inarcò un sopracciglio, fingendosi stupito e
confuso. «Non posso?».
«Lo sapete che parlare di lei mi è
difficile».
«Lo so, davvero? A me non pare di aver mai affrontato
l’argomento».
Merlino respirò profondamente, massaggiandosi gli occhi con
due dita. «Bene. Se dovete chiedermi qualcosa fatelo, non
girateci intorno».
Artù lo fissò per qualche secondo e dopo averlo
indicato – silenzioso ordine di non muoversi –
corse su per le scale. Non appena ritornò, con un lieve
fiatone, sbatté sul tavolo un largo braccialetto argentato e
con fini motivi floreali color oro antico.
Il cuore di Merlino si fermò vedendolo e per un attimo
pensò che quella volta ci sarebbe rimasto secco.
Così non fu, perché riprese a battergli
dolorosamente nella gabbia toracica.
«Quando l’avete trovato?», gli chiese con
un fil di voce, allungando una mano per accarezzarlo e ritraendola
immediatamente.
«Prima della perquisizione, quando ti ho aiutato a recuperare
gli oggetti di valore dalla soffitta».
Lo stregone chiuse gli occhi, abbozzando un sorriso dalle venature
tristi. Certo, avrebbe dovuto immaginare che Artù ne avrebbe
approfittato per curiosare.
«Che cosa volete sapere?».
I lineamenti del viso di Artù si ammorbidirono e addirittura
gli posò una mano sulla spalla, quasi come se volesse
consolarlo per la sua perdita.
«C’è mai stato qualcosa tra di
voi?».
«Se c’è stato qualcosa?». A
Merlino scappò una risatina isterica, mentre gli occhi gli
si riempivano di lacrime. «Credo di essermi innamorato di lei
dal primo momento in cui l’ho vista, quando Gaius mi ha
chiesto di portarle proprio uno di quei filtri per gli incubi.
C’è sempre stato qualcosa tra noi,
perché entrambi possedevamo un dono che non avevamo chiesto,
un dono scomodo, ingombrante. La magia ci ha legato, ma poi ci ha
irreparabilmente resi la nemesi l’uno dell’altro:
Emrys e Morgana, la luce e l’oscurità,
l’amore e l’odio. Decine di volte, quando voi
pensavate che io fossi alla taverna o chissà dove, io e lei
ci siamo fronteggiati. Lei mi ha avvelenato, torturato, ha soggiogato
la mia mente perché vi uccidessi, mi ha imprigionato nel
fitto della foresta così che gli scorpioni giganti mi
mangiassero vivo, mi ha reso privo di poteri proprio prima della
battaglia di Camlann… Ma non è stata sempre
così, voi ve la ricordate tanto quanto me. E io…
io sono rimasto a guardare mentre cambiava e diventava una persona che
non era, mentre covava il rancore che l’avrebbe
distrutta… E poi l’ho vista morire».
Merlino si sottrasse dalla ormai debole stretta di Artù
– complice lo shock per tutti i retroscena che gli aveva
appena rivelato – ed incrociò le braccia al petto,
in un abbraccio solitario. Quando ebbe il coraggio di rialzare la
testa, nonostante le lacrime gli rigassero le guance, trovò
gli occhi blu del re ancora fissi su di sé.
«Sono stato io ad ucciderla, Artù. Non esistono
pozioni che possono cancellare ciò che ho fatto».
Finalmente riuscì ad afferrare il braccialetto di Morgana
– ritrovato per puro caso nella Francia del 1500, su una
bancarella carica di oggetti di ogni genere – e con lo
stomaco sottosopra si diresse verso l’ingresso.
«Merlino», lo chiamò Artù
prima che potesse chiudersi la porta alle spalle, col giubbotto blu
infilato solo per metà.
«Mi ricordo cosa le dicesti quella notte: “Mi
biasimo per quel che sei diventata”. Voglio che tu sappia che
non è stata colpa tua se Morgana ha scelto
un’altra strada».
Senza voltarsi, Merlino rispose pacatamente: «Invece
è stata tutta colpa mia, perché non ci ho creduto
abbastanza: avrei dovuto stare dalla sua parte fin
dall’inizio, aiutarla a cambiare il destino che avevano
scritto per noi».
«E adesso? Adesso ci credi?».
Merlino rimase in silenzio, il bracciale di Morgana stretto forte tra
le dita.
«Stai facendo lo stesso errore», aggiunse
Artù, quasi con disprezzo. «Hai fatto intendere ad
Alex che il destino non si può cambiare, ma la
verità è che, come allora, non vuoi nemmeno
provarci».
Lo stregone si passò una mano sul viso per spazzare via le
lacrime e come se Artù non avesse detto nulla
esclamò: «Muovetevi, o faremo tardi al
lavoro».
Detto ciò, si chiuse la porta d’ingresso alle
spalle e si infilò il bracciale di Morgana in tasca, tirando
su col naso.
***
Alex chiuse gli occhi ed immaginò di star impugnando ancora
Excalibur; quando li riaprì, una forza e una sicurezza quasi
pericolose la fecero sentire rilassata e a proprio agio persino in
quella situazione disperata.
«Libera!».
Keith alzò gli occhi sul monitor coi parametri vitali della
paziente ancor prima di sollevare del tutto le piastre del
defibrillatore. Ormai erano rimasti solo loro due a lottare per quella
vita, testardi e tenaci come muli.
Se fosse stata pienamente in sé l’infermiera
avrebbe capito che non c’era più nulla che
potessero fare, che quel cuore si era fermato e che non avrebbe ripreso
a battere, ma da quando era tornata da Londra, da quando il richiamo
della spada magica le era risultato irresistibile, era diversa. E se ne
rendeva conto, eccome: Excalibur la faceva sentire potente, le faceva
credere di più nelle proprie possibilità e non
aveva più paura di mettersi in gioco.
Ovviamente c’erano degli effetti negativi
all’esposizione di tutta quella magia: alcuni che aveva
già avuto modo di provare sulla sua pelle - scatti
d’ira improvvisi, martellanti mal di testa - ed altri del
tutto nuovi che più di una volta l’avevano
spaventata così tanto da farle quasi confessare tutto ad
Artù e Merlino.
Il lato oscuro della sua anima si era fatto più intenso,
così potente che il pensiero di ottenere tutto quello che
voleva e di porre rimedio alle ingiustizie con la forza,
l’inganno e se necessario persino la sofferenza, non le era
sembrato poi tanto sbagliato. E poi aveva iniziato a fare quei sogni,
confusi e senza né capo né coda, che
però le lasciavano addosso un velo di sudore e un terribile
senso di inappartenenza.
Spesso e volentieri pensava di aver raggiunto il proprio limite, di
essere sul punto di spezzarsi, combattuta tra il bene e il male, ma
ogni volta che si convinceva che dire la verità a Merlino
fosse la cosa giusta da fare, lo scudo che la magia le stava lentamente
costruendo intorno al cuore le faceva cambiare idea. Quel giorno era
successo già due volte: quando Merlino aveva riaperto il
discorso “matrimonio” e ora, davanti al cadavere di
quella signora che le ricordava tremendamente la sua amata nonna. La
magia era come un anestetico che allontanava le emozioni, le rendeva
meno vivide: la felicità era sì smorzata, ma lo
era anche il dolore, e per lei questo contava moltissimo. Era stanca di
soffrire, stanca di combattere fino allo stremo delle forze per
realizzare i propri sogni. Preferiva vivere così, distante
dal mondo reale, in una bolla di apatia, piuttosto che ricoprirsi di
lividi invisibili.
«Dannazione!», urlò Keith stringendo i
denti, per poi chinare il capo e concedersi un paio di respiri
profondi.
Consegnò ad Alex le piastre del defibrillatore e si
voltò per guardare l’orologio appeso alla parete.
«Ora del decesso: dieci e cinquantaquattro».
Alex segnò l’ora sulla cartella clinica e senza
dire una parola gliela porse perché firmasse.
Keith si tolse con stizza i guanti in lattice e prese la penna per
scarabocchiare il proprio nome, anche se i suoi occhi non si
allontanarono di un centimetro dal volto dell’infermiera.
«Grazie per essere rimasta, per averci provato fino alla
fine», le sussurrò.
«È il mio lavoro».
Il dottore si accigliò, stranito. «Il tuo lavoro
è assistere, sì, ma l’Alex che conosco
mi avrebbe detto di dichiararla almeno dieci minuti fa».
«Di sicuro non le ha fatto male»,
commentò scrollando le spalle.
Con la cartella clinica sotto braccio si avviò verso la
porta, ricordandogli che il marito e il figlio della donna stavano
aspettando nella sala d’aspetto, quando Keith
l’afferrò per un braccio ed inchiodò
gli occhi grigio-azzurri nei suoi.
«Alex, sei sicura di stare bene?».
«Benissimo, perché?».
«Lo so che non è la prima volta che vedi morire
qualcuno, ma è normale non abituarsi; non devi vergognarti
di nulla, men che meno con me».
«Non capisco di cosa tu stia parlando», rispose
quasi con rabbia l’infermiera, scrollando il braccio
perché la lasciasse andare. «Ora ho molte
scartoffie da sistemare, se permetti».
Keith aprì la bocca per dire qualcos’altro,
qualcosa che Alex non sentì, già lontana lungo il
corridoio.
Per raggiungere la reception dovette passare di fronte alla sala
d’aspetto, dove con la coda dell’occhio scorse i
familiari della donna che non erano riusciti a salvare. Tirò
dritto e rendendosi conto di non provare né dolore
né sensi di colpa nei loro confronti un sorriso sereno le
incurvò le labbra.
«Ehi, è tutto okay?».
Una collega del pronto soccorso, con la cornetta del telefono
incastrata tra l’orecchio e la spalla, la stava fissando con
un’espressione indecisa, tra il preoccupato e
l’inorridito, come quando non si sa bene se far notare un
brufolo o far penosamente finta che non ci sia.
«Ce l’hai con me?», le chiese
indicandosi.
«Sì. Hai… Stai piangendo».
Alex si passò una mano sulla guancia indicata dalla collega
e la trovò rigata da una lacrima silenziosa. Rise
nervosamente, dimostrandosi sorpresa.
«Dev’essermi entrato qualcosa
nell’occhio, sto bene».
La collega stiracchiò un sorriso e per sua fortuna non
poté aggiungere altro, ricevendo finalmente risposta alla
sua telefonata. Alex ne approfittò per sgattaiolare via e
rifugiarsi nei bagni, dove attraverso lo specchio si osservò
piangere fuori, senza avvertire alcunché dentro.
***
Un rombo a lui familiare gli fece voltare di scatto la testa verso la
strada sterrata che portava alla facciata in mattoni
dell’agriturismo.
Alla guida del carretto su cui facevano salire a turno i bambini delle
scolaresche perché sperimentassero il più antico
mezzo di trasporto dei contadini, Artù non poté
allontanarsi fino a quando non completò il giro.
Dopodiché aiutò quelle tre ochette vestite di
rosa e lilla a scendere, prendendole in braccio una alla volta ma senza
prestare troppa attenzione ai loro ringraziamenti: era impaziente di
correre incontro a Cathleen, sperando che si trattasse davvero del
paramedico.
«Forza Artù, vai. Per oggi hai fatto
abbastanza».
Il re di Camelot raddrizzò la schiena dopo aver lasciato a
terra l’ultimo confetto dai capelli neri e si
voltò verso Edwin, il quale lo stava guardando con un
sorriso di chi la sapeva lunga.
Con una mano stesa verso le redini dello stallone dal manto color
cioccolato, il padre di Alex accennò ancora una volta allo
stabilimento oltre le stalle. «Non farla aspettare».
Artù sorrise entusiasta e diede una carezza alla criniera
del cavallo prima di consegnare le redini all’uomo.
«Grazie, Edwin. Ci vediamo domani».
Iniziò ad incamminarsi frettolosamente verso il maniero, ma
un improvviso vociare concitato lo fece voltare nuovamente,
incuriosito.
«Sono ventitré, ne manca uno! Chi manca? Oh mio
Dio, mio Dio».
La giovane insegnante si sistemò nervosamente i capelli
dietro le orecchie, rossa in volto e con gli occhi lucidi di
preoccupazione, mentre il collega più anziano la rassicurava
dandole leggere pacche sulla schiena ed iniziava a fare
l’appello.
Artù ed Edwin si scambiarono un’occhiata e il
padre di Alex gli fece segno di andare comunque, lasciando sottointeso
che ci avrebbe pensato lui. Il re fu tentato, fece persino un passo
verso la sua meta, ma alla fine scosse il capo e sbuffando
ritornò vicino alla classe: ventiquattro bambini di otto
anni, tanto chiassosi ed irritanti da far venire il mal di testa,
eppure adorabili e fonti inesauribili di allegria. Ventiquattro meno
uno.
«Cody?», chiamò il professore, senza
ricevere risposta.
L’insegnante, ora pallida come un cencio, mormorò
ripetutamente: «Cody non c’è.
Dov’è Cody?».
«Va bene signorina, abbiamo capito che Cody si è
allontanato dal gruppo. Vedrà che sarà qui nei
paraggi, ne sono sicuro. Lo troveremo», tentò di
rassicurarla Edwin, ma la ragazza iniziò ad urlare il nome
dell’alunno, vagando quasi senza meta tra i recinti.
Il signor Greenwood si avvicinò ad Artù e gli
sussurrò: «Questa è andata. Portala da
Wanda e poi torna qui con Abraham, più siamo meglio
è».
«Ci penso io».
Artù raggiunse la professoressa ed avvolgendole le spalle
con un braccio la condusse fino all’agriturismo. Entrarono in
cucina passando dalla porta sul retro e lì trovarono la
signora Morris, intenta a sfornare una torta di mele: il suo profumo
delizioso si sentiva da chilometri di distanza.
«Che cos’è successo a questa povera
creatura?», gli chiese non appena mise piede nel suo regno,
affrettandosi per far sedere l’insegnante ormai muta e ben
lontana dall’afferrare qualsiasi cosa succedesse intorno a
lei.
«Si sono persi un bambino», spiegò
brevemente il biondo. Non era la prima volta che capitava,
perciò erano abituati a gestire situazioni del genere.
Wanda lo congedò con un cenno del capo, non prima di dirgli
che avrebbe potuto trovare Abraham nella cucina del ristorante.
Artù si avviò con passo pesante, pregando che nel
frattempo quel bambino fosse già tornato dai compagni.
Passando di fronte alla reception, dove Rebecca stava esaminando alcune
carte, non riuscì a resistere ed esclamò,
facendola sobbalzare per lo spavento: «È per caso
passata di qui una ragazza? Capelli rossi, piercing al naso…
bella?».
La figlia dei signori Morrison scosse il capo, un po’ delusa
che cercasse un’altra e non lei. «È la
tua ragazza?», chiese infatti un po’ di risentita.
«Non lo so, forse. Quindi non l’hai proprio
vista?».
«L’ultimo a passare di qui è stato
Merlino, venti minuti fa», disse scrollando le spalle e con
gli occhi di nuovo sulle sue carte.
«Okay, grazie comunque».
Lei non gli rispose né lo salutò e
Artù decise che non l’avrebbe mai capita.
Passò oltre, facendo lo slalom tra le poltrone in salotto ed
accedendo alla sala da pranzo del ristorante. Non gli piaceva entrare
in quella cucina, visto che cos’era successo a Merlino
l’ultima volta, ma si fece coraggio e spinse le pesanti porte
per venir subito assalito da un caldo quasi soffocante.
«Signor Morris?», chiamò boccheggiando
alla ricerca d’aria.
«Sì? Chi mi cerca?».
Abraham comparì da dietro i fornelli, con un mestolo in una
mano e una padella nell’altra, lo stretto grembiule bianco
macchiato e la cuffietta in testa che stonavano terribilmente con la
sua corporatura massiccia.
«Artù, che cos’è
successo?».
«Si sono persi un bambino. Edwin mi ha mandato a
chiamarla».
Il proprietario dell’agriturismo guardò il
contenuto della sua padella, quindi sbuffò e la
posò sul ripiano della cucina.
«Ragazzi, fate in modo che non si bruci! Torno tra
poco!», gridò e dopo essersi spogliato della
divisa di aiuto-cuoco seguì Artù
all’esterno.
Provò persino a far smuovere dal proprio morbido cantuccio
il vecchio Rufus, un bellissimo esemplare di pointer inglese dal pelo
fulvo chiazzato di bianco sul muso e sull’addome, ma
l'età l'aveva reso stanco e pigro. Adorava sonnecchiare
accanto al fuoco e farsi accarezzare dai bambini, e gli unici
spostamenti che faceva erano dettati da bisogni fisiologici
improrogabili. Perciò rimasero senza parole quando lo videro
sollevarsi sulle quattro zampe e seguirli in giardino, dove Edwin e
l’insegnante rimasto si erano già spartiti le
varie zone da controllare.
«Artù, tu controlla nel pollaio».
«Perché proprio io il pollaio? Odio quelle
bestiacce!», si lamentò, ma sotto lo sguardo
acceso di furbizia dei compagni di classe del piccolo Cody
sospirò ed annuì.
Mentre percorreva il sentiero che l’avrebbe portato al
pollaio si chiese se non si fosse soltanto immaginato il rombo della
moto di Cathleen, se la sua voglia di vederla fosse talmente grande da
tirargli quegli scherzi.
Non era stato facile per lui, ma aveva mantenuto la parola data e una
volta ritornato da Londra aveva voluto incontrarla subito,
così da levarsi il pensiero. Si erano visti al parco di
fronte all’ospedale, un luogo neutrale, e seduti sulle
altalene cigolanti Artù aveva parlato per quelle che gli
erano sembrate ore, rivelandole tutta la verità sul suo
conto. Non aveva tralasciato niente: le aveva raccontato della sua vita
a Camelot, le aveva elencato tutto ciò che aveva perso, le
aveva spiegato i motivi della sua morte e del suo ritorno, o almeno
quelli su cui i custodi della magia avevano puntato tutto.
Cathleen aveva ascoltato in silenzio, senza mai interrompere, poi si
era alzata e l’aveva invitato a fare lo stesso per poterlo
abbracciare. A bassa voce, col mento posato sulla sua spalla, gli aveva
chiesto del tempo per metabolizzare il tutto. Si sarebbe fatta sentire
lei quando sarebbe stata pronta e lui aveva rispettato la sua scelta,
anche se in certi momenti gli era sembrato di impazzire, controllando
ossessivamente il cellulare, scrivendo e cancellando decine di
messaggi, urlando ogni volta che sentiva la propria suoneria o anche
quella di Merlino.
Lo stregone aveva cercato di stargli accanto, di consigliarlo proprio
come ai vecchi tempi, ma né lui né Alex in quel
periodo sembravano in ottima forma. Entrambi sembravano distratti,
appesantiti da fardelli non condivisibili. In particolare, Alex gli era
parsa allo stadio successivo del suo cambiamento, in cui a dominarla
non c’era più la rabbia cocente con la quale aveva
raso al suolo la propria suite, ma il gelo, il disinteresse e
l’indifferenza.
Nonostante la sua preoccupazione, nessuno dei due aveva voluto
approfondire l’argomento, liquidandolo con spiegazioni vaghe,
scuse e «Non so» che l’avevano costretto
ad allontanarsi di propria volontà. Non gli era mai piaciuto
rimanere da solo, ma se la sua esperienza come re gli era servita a
qualcosa era proprio capire che abbracciare la solitudine era prova di
grande coraggio e saggezza.
Pescò da una delle tasche del marsupio legato in vita una
piccola torcia elettrica ed entrò con cautela nel pollaio.
La maggior parte delle galline si trovavano fuori, a scorrazzare nel
recinto, ma alcune sonnecchiavano sopra le uova appena deposte.
Artù si chiuse la cigolante porta alle spalle e nel silenzio
gli sembrò di sentire un lieve singhiozzare.
«Cody?», chiamò sottovoce, puntando il
fascio di luce negli anfratti della costruzione in legno. «Lo
so che sei qui, vieni fuori».
Il re porse l’orecchio per capire da dove provenissero i
singhiozzi e continuò ad avanzare fino a quando non si
trovò faccia a faccia con una gallina che, spaventata dalla
luce della torcia, gli volò addosso chiocciando
istericamente. Artù, preso alla sprovvista, fece appena in
tempo a coprirsi il volto con le braccia e ad accucciarsi a terra,
mordendosi la lingua al pensiero delle risate che Merlino si sarebbe
fatto se fosse stato lì con lui. Lui e Alex
l’avrebbero preso in giro per settimane.
Aspettò immobile che la gallina si tranquillizzasse ed
iniziasse a beccare tra la paglia, poi sollevò il capo e
quasi cadde culo a terra incrociando gli occhi lucidi di Cody,
rannicchiato proprio di fronte a lui, dietro la grata.
«Eccoti qui, finalmente», esclamò,
aprendo la grata perché il bambino abbandonasse il proprio
nascondiglio. «Gli insegnanti e i tuoi compagni di classe ti
stanno cercando, sai?».
«Non voglio tornare da loro», mugugnò
tirando su col naso, le braccia strette intorno alle ginocchia.
«Perché?».
Il bambino cercò di ignorarlo, guardando altrove, ma alla
fine cedette agli occhi blu di Artù, così
profondi e degni di fiducia.
«Non voglio tornare a casa, non voglio vedere mio
papà». Nascose di nuovo il volto tra le braccia e
i singhiozzi ripresero, ancora più forti.
Artù sentì il cuore stretto in una morsa e dopo
essersi chiesto che cosa avrebbe fatto se quello fosse stato suo
figlio, spense la torcia e non senza qualche difficoltà
strisciò all’interno del cantuccio per sedersi
accanto al bambino. Quindi gli avvolse un braccio intorno alla schiena
e con l’altra mano iniziò ad accarezzargli i corti
capelli biondi.
«La mia mamma è morta un mese fa», disse
ancora, avvicinandosi ad Artù tanto da posare il capo sul
suo petto. «E tutte le volte che mi vede piangere mi dice che
non devo farlo, che devo essere forte e che nessuno merita le mie
lacrime».
Quelle parole furono come una botta in testa per il re di Camelot, che
lo riportò al giorno in cui aveva visto Merlino piangere sul
cadavere dell’ultimo signore dei draghi. Aveva cercato di
tirarlo su di morale e gli aveva detto ciò che diceva a
tutti i suoi cavalieri più giovani: «Nessun uomo
merita le tue lacrime». Il mago ci aveva scherzato su come
sempre e non gli aveva mai confessato che in realtà quello
sconosciuto morto tra le sue braccia era il padre che aveva appena
ritrovato.
Aveva sbagliato molte volte a giudicare Merlino, e molte volte ancora
l’avrebbe fatto, ma una lezione almeno l’aveva
imparata.
«Tuo padre si sbaglia», mormorò
sollevandogli il viso con due dita sotto il suo mento, così
che i loro sguardi si incrociassero. «Ci sono delle persone
che meritano le nostre lacrime, persone speciali ed insostituibili.
È solo che gli adulti spesso hanno paura di mostrare i
propri sentimenti, le proprie debolezze… si sentono
vulnerabili. E tuo padre deve sentirsi così, al momento.
Vuole che tu sia forte perché lui non lo è
abbastanza, perché vederti piangere lo fa star male ancora
di più».
«Allora che cosa devo fare per farlo stare meglio, secondo
te?».
Artù scrollò le spalle, guardando le tegole di
legno sopra la sua testa. «Io e mio padre non parlavamo mai
dei nostri sentimenti, ma se potessi tornare indietro gli direi che
tenersi tutto dentro fa male e che mostrarsi indifesi non è
sempre una cosa di cui vergognarsi. Gli spiegherei perché
piango e lo inviterei a farlo con me, se vuole».
Insospettito dall’improvviso silenzio caduto tra di loro, il
re di Camelot abbassò gli occhi e trovò quelli di
Cody di nuovo luminosi, colmi di gratitudine e determinazione.
Somigliavano a quelli di Graalmir nei disegni di Merlino.
«Allora, che cosa stiamo aspettando?», gli chiese
con una finta nota impaziente nella voce. «Asciugati gli
occhi e andiamocene: questo posto puzza».
Il bambino rise di cuore e si passò le maniche della felpa
sulle guance, poi uscì agilmente dall’anfratto ed
aspettò che Artù lo raggiungesse. Si
lasciò prendere tra le braccia e una volta seduto sulle
spalle del re di Camelot alzò le braccia verso il cielo, da
dove sperava che la sua mamma lo stesse guardando.
I compagni di classe di Cody corsero loro incontro, entusiasti, non
appena li videro arrivare. Artù fece scendere il bambino e
fu sorpreso da un suo caloroso abbraccio, le braccia strette intorno al
suo collo.
«Grazie, ragazzo della fattoria».
Il re non ebbe nemmeno il tempo di ricordargli il suo nome: Cody e i
compagni, urlando e spingendosi a vicenda, corsero verso gli insegnanti
che li chiamavano a squarciagola, specialmente la professoressa in
stato di shock che sembrava essersi rimessa e accolse la pecorella
smarrita tra le sue braccia rachitiche.
Scuotendo il capo con un sorriso divertito sulle labbra,
Artù notò Merlino in tenuta da giardinaggio, con
i guanti e un marsupio simile al suo pieno di attrezzi per curare le
piante, appoggiato al recinto dei cavalli. Al suo fianco
c’era Cathleen, i capelli rosso sangue scompigliati dal vento
e un sorriso dolcissimo ad incurvarle le labbra.
Il cuore di Artù iniziò a battere
all’impazzata, tanto da fargli temere un attacco. Fu solo un
attimo però ed incurante dei rischi le corse incontro,
travolgendola in un abbraccio euforico per cui la sollevò
per la vita e le fece fare un giro di trecentosessanta gradi.
«Sono così felice di vederti», le
sussurrò tra i capelli non appena la riportò con
i piedi per terra.
«Me ne sono accorta!», rispose ridendo.
Più teneramente e togliendogli una piuma bianca dai capelli,
aggiunse: «Anche tu mi sei mancato».
«Okay, non voglio vedere altro», si intromise
Merlino sollevando le mani. «Ci vediamo più tardi
all’ospedale».
Artù corrugò la fronte, esclamando confuso:
«Credevo ci andassimo tutti insieme».
«Cambio di programma». Cathleen gli porse un casco
arancione decorato da grandi stelle nere e bianche. «Io e te
li raggiungeremo più tardi. Voglio portarti in un posto
prima».
«Okay, allora… A dopo, Merlino».
Lo stregone lo salutò con un cenno della mano e
scambiò un’occhiata con Cathleen, la quale
annuì quasi solennemente.
Artù si chiese se mentre lui non c’era avessero
parlato di qualcosa in particolare, fu quasi sul punto di domandarlo
alla diretta interessata, ma se ne dimenticò non appena
salì sulla sua moto e le strinse le braccia intorno alla
vita, il petto contro la sua schiena e i suoi capelli che gli
accarezzavano il volto.
Adorava andare in moto, adorava andare in moto con Cathleen
perché poteva stringerla forte come desiderava senza provare
alcun imbarazzo, sentirla vicina senza avvertire alcun senso di colpa
infilzargli il cuore.
***
Merlino fermò l’auto vicino ad Avalon e si
incamminò a piedi fino alla riva est, dove la vecchia
barchetta dondolava pigramente sulla superficie piatta
dell’acqua. Vi salì e con calma iniziò
a remare verso l’isola avvolta nella nebbia più
fitta che avesse mai visto.
Quando intorno a sé non vide altro che barriere lattiginose,
tirò fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e
chiamò il primo numero della sua rubrica: Alex.
Mentre aspettava che rispondesse, Merlino fu ancora una volta assalito
dalle preoccupazioni e non fece altro che peggiorare la situazione
ripensare a ciò che gli aveva detto Cathleen poco prima.
Un rombo insolito ruppe
il silenzio e la calma della campagna.
Merlino
allontanò lo sguardo dai vitigni che stava potando e vide
una moto a lui familiare sollevare un gran polverone nel parcheggio
dell’agriturismo.
Raggiunse il
motociclista e si appoggiò al muro di mattoni con una
spalla, togliendosi gli spessi guanti per appenderli alla fibbia del
marsupio mentre lo osservava sfilarsi il casco dalla testa. Avrebbe
riconosciuto tra mille quella cascata di capelli rosso sangue.
«Ciao».
Cathleen si
voltò quasi di scatto e lo fissò cercando di
decifrare la sua espressione. Merlino le rese il lavoro molto
più facile: sollevò entrambe le mani in segno di
resa ed abbozzò un sorriso.
«Vengo in
pace», esclamò prima di avvicinarsi ulteriormente.
«Com’è
che questo non mi rassicura, anzi, mi mette ancora più in
ansia?».
Merlino
sospirò e si passò una mano sulla nuca, cercando
le parole adatte per scusarsi. Come poteva dirle, possibilmente senza
ferire i suoi sentimenti, che tutto quello che desiderava era la
felicità di Artù?
«Io e te non
viaggiamo sulla stessa lunghezza d'onda, è
evidente», esordì Cathleen, risolvendo ogni suo
problema. «E forse non andremo mai d’accordo,
eppure c’è qualcosa, o meglio, qualcuno che ci lega: Artù.
Lui è davvero speciale e… ti prometto che
avrò cura di lui. Questo ti basta?».
«È
tutto ciò che voglio».
«Allora siamo
d’accordo». Sorridendo, stese una mano verso di lui
in segno di pace. Merlino l’afferrò a
metà dell’avambraccio, guidando la sua mano
perché facesse lo stesso.
«Si usava
così tra i cavalieri di Camelot», le
spiegò teneramente.
Cathleen
rinsaldò la stretta, guardandolo dritto negli occhi.
Quando si separarono
l’uno dall’altro, Merlino le fece cenno di
seguirlo: Artù era impaziente di vederla e non voleva
nemmeno immaginare la sua reazione nel caso in cui avesse saputo che
non l’aveva immediatamente portata al suo cospetto.
«Sai, sono
contenta di questa tregua», disse lei dopo un paio di minuti
di silenzio, spesi nell’attraversare i vitigni.
«Anche io. Mi
dispiace di essermi intromesso in quel modo nella tua vita, due anni
fa; volevo solo dare una mano».
«Un uccellino
me l’ha fatto capire».
Merlino e Cathleen si
scambiarono un’occhiata e ridacchiarono, ringraziando
silenziosamente Artù.
Visto che ormai stavano
mettendo tutto sul piatto, Merlino aggiunse: «E mi dispiace
anche che tu sia venuta a sapere la verità sul nostro conto
in maniera così… brutale. Non ero in me, quel
giorno».
«Alla fine
credo che sia stato meglio così: non vi avrei mai creduto,
se me l’aveste detto seduti ad un tavolo, con
delicatezza».
«Può
darsi», mormorò sollevando gli occhi verso il
cielo terso.
Si chiese se Alex si
stesse già organizzando per la caccia alle uova di quel
pomeriggio e quale fosse il suo umore al momento.
Cathleen gli diede un
pugnetto sul braccio, estrapolandolo dai propri pensieri.
«Chissà, magari col tempo e conoscendoci meglio
potremmo persino diventare amici, io e te».
«Mai dire
mai», rispose stirando un sorriso.
«Pensa,
Artù sarebbe così felice
se…».
Merlino la
lasciò parlare per un po’, senza prestarle
attenzione: non riusciva a pensare ad altro che ad Alex in quei giorni,
al suo infausto destino che ora gravava pure su di lei.
Da quando erano tornati
da Londra l’aveva sentita ridere sempre meno,
l’aveva vista meno partecipe e più incline alla
solitudine e al silenzio. Si stava allontanando anche da lui, un passo
alla volta, e Merlino era certo che c’entrasse la fonte di
magia che le aveva conferito quegli straordinari poteri i cui effetti
le stavano costando così caro.
Sapeva quanto potesse
essere forte il richiamo della magia, perciò sapeva
già che chiedere direttamente ad Alex sarebbe stato inutile.
Se voleva delle risposte, doveva cercarsele da solo.
Aveva guardato ovunque
nei paraggi di casa sua, nei luoghi che di solito frequentava e anche
in quelli più impensabili. Aveva chiesto a suo padre, alle
sue colleghe e alla signora Begum se recentemente avessero assistito a
qualcosa di insolito – fasci di luce dorata, ad esempio
– e l’unica stranezza che era riuscito a scovare
era l’improvvisa crescita di vegetazione sui campi a
metà strada tra il paese e l’agriturismo, campi
che tutti nella zona avevano dichiarato sterili da almeno dieci anni.
Ma per quella aveva già la spiegazione:
sull’odierna radura di erba color smeraldo, margherite e
altri colorati fiori di campo, Alex aveva assorbito e rigettato la
magia con cui Merlino aveva potuto curare Artù davanti ai
suoi occhi increduli.
Quelli che cercava erano
segni ed effetti negativi, come quelli che stavano lentamente
avvelenando la sua Alex. Doveva trovare in fretta quella fonte e
distruggerla, o avrebbe corrotto la sua anima per sempre.
«Ehi».
Cathleen lo fermò all’improvviso e lo
guardò fisso negli occhi.
«Scusami, mi
sono distratto. Stavi dicendo?».
Il paramedico
incrociò le braccia al petto. «Ti stavo dicendo
che Keith è venuto a cercarmi, stamattina, per chiedermi se
Alex stava bene. Ci sei?».
All’improvviso
col cuore in gola, scosse il capo. «Ricomincia
dall’inizio».
Cathleen gli
raccontò che dopo aver perso una paziente per arresto
cardiaco, Keith aveva trovato Alex fin troppo calma ed indifferente,
come se davvero non le fosse importato nulla della vita di quella
donna. La sua reazione l’aveva insospettito tanto da andare a
cercare Cathleen, quella che nell’ultimo periodo era
diventata una delle persone più vicine ad Alex tra le mura
dell’ospedale, per chiederle appunto se aveva
un’idea di che cosa potesse esserle successo. Lei gli aveva
promesso che avrebbe indagato, perché magari non era
così per Alex, ma per Cathleen l’infermiera stava
decisamente diventando una sua cara amica.
Così
l’aveva cercata in lungo e in largo, chiedendo a chiunque
incontrasse sulla propria strada, e alla fine aveva incrociato
un’infermiera che aveva affermato di averla vista piangere e
sorridere contemporaneamente, un’immagine che le aveva fatto
venire la pelle d’oca e che non avrebbe dimenticato tanto
facilmente.
«Io dovevo
già andare da Alex per avvisarla che io e Artù vi
avremmo raggiunti più tardi alla caccia alle uova, quindi
quando l’ho trovata ho usato quella scusa. Anche io ho notato
che non sembrava pienamente in sé e le ho chiesto se era
successo qualcosa che l’avesse turbata, ma mi ha assicurato
di star bene. Ma è veramente così?».
Gli occhi color nocciola
di Cathleen si inchiodarono in quelli del mago: non aveva scampo.
L’unica cosa che poteva fare per il momento era mentire,
ammesso e concesso che dopo tutte le confessioni non avesse dimenticato
come si facesse.
«Alex ti ha
per caso raccontato del nostro viaggio a Londra?», le chiese
arricciando il naso.
«No, non
personalmente. Ho saputo da Keith però che è
stata molto vaga in proposito: da come me l’ha raccontato
lui, è come se qualcosa di buono fosse comunque successo,
qualcosa in grado di darle speranza».
Quelle parole furono in
grado di riscaldargli il cuore, ma non di dargli pace.
«Sei stato tu,
vero?».
Merlino gettò
un’occhiata confusa a Cathleen, la quale sollevò
un angolo della bocca in un sorrisetto malizioso e fece scontrare le
loro spalle.
«Dai, lo si
vede da lontano un miglio che è successo qualcosa tra voi
due. Hai finalmente deciso di lasciarla entrare nella tua vita e siete
una coppia adesso. Allora, ci ho preso oppure no?».
Esasperato dalla sua
eccitata insistenza confessò, mordendosi un sorriso
imbarazzato. «Sì, ci hai preso. Ma abbiamo deciso
di non dirlo a nessuno per il momento. Nemmeno Artù lo sa e
guai se…».
«Geloso della
nipotina?», gli chiese, ridacchiando, e Merlino nascose il
collo tra le spalle.
«Una cosa del
genere».
«Non ti
preoccupare, con me il vostro segreto è al sicuro».
Merlino
ricordò le rare occasioni in cui aveva sentito quella frase
e sorrise emozionato, senza però riuscire a ringraziarla.
Quella ragazza era una vera chiacchierona, quando si metteva
d’impegno.
«Forse
è questo allora che la mette a disagio: non è mai
stata brava con i segreti, la sua faccia è un libro
aperto».
«Forse»,
disse ancora il mago, perfettamente a conoscenza del fatto che quello
non fosse l’unico segreto che Alex si ostinava a mantenere,
mettendo inconsapevolmente in serio pericolo la sua stessa vita.
Cathleen gli diede una
pacca sulla schiena, sospirando sollevata. «Allora non
abbiamo nulla di cui preoccuparci: dobbiamo solamente attendere il
grande annuncio! Avvisami, mi raccomando, non voglio
perdermelo».
Il mago sorrise,
annuendo mestamente, ma non fece in tempo a rispondere: il paramedico
aveva già cambiato argomento, domandandosi se prima o poi
avrebbero davvero fatto quell’uscita a quattro.
«Pronto?».
«Ciao Alex, ti disturbo?».
«Ciao… No, dimmi tutto».
Merlino si sdraiò sul fondo umido della barchetta e
guardò il cielo azzurro oltre la foschia. «Avevo
solo voglia di sentire la tua voce».
«Sicuro? Mi sembri strano…».
«Alex, non me lo perdonerei mai se ti accadesse qualcosa di
male».
L’infermiera ridacchiò. «E cosa potrebbe
mai succedermi?».
«Non lo so, scusami se ti annoio con le mie
paranoie».
«Merlino, tu non mi annoi. Però ho bisogno di te
qui in ospedale, sono in ritardo sulla tabella di marcia».
«Ho paura che arriverò in ritardo»,
disse lo stregone, chiudendo gli occhi e sporgendo il braccio fuori
dall’imbarcazione, le dita della mano a mollo
nell’acqua gelida. «Wanda ha bisogno di me ancora
per un po’».
«Che cosa? E le hai detto di sì? Lo sapevi
benissimo che oggi c’era la caccia alle uova!».
«Credimi, si tratta di una questione importante».
«Più importante anche di me?».
Merlino strinse ancora di più le palpebre mentre tremando si
preparava a liberare la magia dalle proprie catene.
«Non c’è nulla che io ritenga
più importante di te».
«Evidentemente non è così»,
mormorò con voce intrisa di delusione l’infermiera.
«Alex. Ti prego non riattaccare, ho bisogno
di…».
Ma lei aveva già terminato la chiamata.
Merlino avvertì una lacrima scivolargli lungo la tempia
giusto prima che la magia rompesse anche l’ultima sua
barriera e lo percorresse con la stessa forza di una scossa elettrica.
Inarcò la schiena e sbarrò gli occhi dalle iridi
dorate urlando nella lingua dell’Antica Religione, mentre
onde di luce si espandevano lunga tutta la superficie di Avalon:
l’acqua iniziò a brillare e gli spiriti degli
antichi custodi del lago, gli Sidhe, iniziarono a mostrarsi ai suoi
occhi, volteggiandogli intorno nelle loro auree bluastre. Sorpresi e
meravigliati dalla forza della sua magia, e nonostante essa li avesse
risvegliati dal lungo sonno a cui erano stati costretti per preservare
le energie e non morire, in coro iniziarono ad avvertirlo che se avesse
continuato in quel modo si sarebbe distrutto.
«Ho bisogno di sapere», riuscì a dire
tra i denti, il viso grondante di sudore e il corpo che gli doleva in
ogni parte. «Devo parlare con Freya».
«Colei che cerchi non riposa più qui»,
gli rivelò una fata. «Esattamente come tu hai
risvegliato noi, ella è stata riportata alla vita da una
potente magia. Devi riconsegnarla a noi, stregone, o questo mondo ne
perirà».
Stravolto com’era dalla sofferenza non riuscì a
dimostrarsi sufficientemente scioccato, né ebbe le energie
necessarie per chiedere se Alex fosse in qualche modo coinvolta.
L’ultima cosa che vide prima di perdere conoscenza fu il
cerchio iridescente che gli Sidhe formarono sopra il suo capo;
l’ultima cosa che sentì fu il loro canto melodioso
che alleviò un poco il suo dolore. Poi il buio lo
inghiottì.
***
Artù non era mai stato in un cimitero moderno e gli fece
parecchia impressione varcare i cancelli di quel grande campo con file
e file di lapidi e statue di angeli.
Senza nemmeno rendersene conto cercò la mano di Cathleen per
stringerla forte mentre camminando al suo fianco osservava i volti
delle persone un tempo sorridenti e ora sepolte sotto tre metri di
terra.
«Va tutto bene?», gli chiese il paramedico,
scorgendo la sua espressione addolorata.
Il re si morse le labbra, deviando il suo sguardo, per poi confessare:
«Non mi trovo a mio agio, sapendo di calpestare le ossa delle
persone un tempo amate da qualcuno. Noi li bruciavamo, i nostri
defunti. Li posavamo su barche colme di fiori e li spingevamo a largo
per guardare le fiamme rendere libere le loro anime».
«Ma così non avevate nessun posto dove andare per
onorare la loro memoria», puntualizzò Cathleen,
con le sopracciglia inarcate.
«Non c’è bisogno di andare in un posto
per onorare la memoria delle persone a noi care»,
sussurrò e posandosi una mano sul cuore aggiunse:
«Sono sempre qui».
Cathleen, nonostante gli occhi lucidi di lacrime, lasciò che
un sorriso sbocciasse sulle sue labbra rosse. «Sono punti di
vista, immagino».
Lo prese di nuovo per mano e lo invitò a proseguire al suo
fianco.
Si fermarono di fronte ad una lapide bianca su cui spiccava la
fotografia di un ragazzo dagli occhi blu elettrico e i capelli castani
con un ciuffo verde.
Cathleen si inginocchiò di fronte alla tomba e
rimpiazzò i fiori vecchi con quelli che aveva comprato al
chiosco all’esterno del cimitero. Poi si posò un
bacio sulle dita e con esse sfiorò il volto spigoloso del
suo ex fidanzato, immortalato per sempre nel bel mezzo di una risata.
Alzò il capo verso Artù e con fare solenne disse:
«Tu mi hai raccontato tutto del tuo passato,
perciò è giusto che io ti renda partecipe del
mio. Questo è Zachary, l’amore della mia vita.
Sono passati già sette anni dalla sua morte, ma quel giorno
è ancora marchiato a fuoco nella mia mente».
Artù si inginocchiò al suo fianco e le
posò una mano sulla schiena, a mo’ di conforto.
«Stavamo andando a Cardiff per assistere ad un concerto e
c’è stato un incidente… Per evitare il
camion che aveva invaso la nostra corsia –
l’autista si era addormentato – la nostra auto si
è schiantata contro il guardrail. Zachary ed io sembravamo
esserne usciti più o meno illesi: avevamo qualche livido, a
lui usciva del sangue dal naso e io pensavo di essermi rotta solo il
braccio, perciò ci guardammo negli occhi e scoppiammo a
ridere. Lo so, è pazzesco, ma eravamo così felici
di essere vivi che…». I singhiozzi la interruppero
e Artù fu costretto a sedersi sull’erba per
stringerla forte tra le braccia.
«Shh, va tutto bene», le sussurrò
baciandole i capelli.
«Degli automobilisti si fermarono per soccorrerci e
chiamarono subito l’ambulanza, ma nel frattempo Zachary perse
conoscenza. Aveva sbattuto violentemente la testa sul finestrino e il
colpo aveva causato un’emorragia interna che in poco tempo
l’ha portato alla morte celebrale. In ospedale non poterono
fare più nulla per lui, se non decretare che non si sarebbe
mai risvegliato. Io impazzii dal dolore e mi accanii contro i
paramedici dell’ambulanza, pensavo che ci avessero messo
troppo tempo ad arrivare, che era tutta colpa loro se il mio Zach era
morto. Solo molto tempo dopo mi sono resa conto che non era
così, che quei pochi minuti non sarebbero serviti a
salvarlo. Ciò nonostante decisi di diventare io stessa un
paramedico, per onorare quelle persone che avevano dato il massimo per
noi e per alleviare il dolore della perdita di Zachary salvando altre
vite».
«Scommetto che lui sarebbe orgoglioso di te», disse
Artù, accarezzandole il viso ed asciugandole le lacrime con
il pollice.
«Lo sai che cosa mi fa più rabbia?»,
continuò Cathleen, guardandolo fisso negli occhi.
«Noi non ce lo meritavamo. Zachary ed io abbiamo rischiato la
vita centinaia di volte, correndo con le nostre moto».
Artù abbassò lo sguardo sui pupazzi, gli
striscioni, le dediche e le fotografie che gli amici del ragazzo
avevano lasciato sulla sua tomba, soffermandosi in particolare sulla
foto che ritraeva proprio due motociclisti che si tenevano per mano
durante una pericolosa acrobazia a mezz’aria, con le loro
moto da cross strette tra le gambe.
«Circa un mese prima dell’incidente ci eravamo
promessi che non avremmo più gareggiato, che avremmo messo
la testa a posto. Ci saremmo trovati un lavoro normale, ci saremmo
comprati una casa e ci saremmo sposati… tutto
perché avevo scoperto di essere incinta». Si
strinse il ventre tra le braccia, nascondendo il viso
nell’incavo tra la spalla e il collo di Artù.
«Ho perso anche il nostro bambino, quella notte. Aborto
spontaneo dovuto allo shock, mi hanno detto. Tutti i nostri sogni si
sono infranti quella notte e io mi sono ritrovata sola, a pezzi. Non so
nemmeno come sia riuscita a rialzarmi…».
«Lo so io», mormorò Artù,
prendendole il mento tra due dita per sollevarle il viso. Immerse gli
occhi nei suoi, fronte contro fronte, e le rivolse un sorriso dolce.
«Ce l’hai fatta perché sei forte,
perché il fuoco della vita brucia dentro di te e niente al
mondo potrebbe mai spegnerlo».
«E sei sicuro che sia un bene? A me sembra piuttosto che
questo fuoco bruci tutto quanto».
«Solo perché ancora non gli hai trovato uno
scopo». Le accarezzò il viso con una mano,
scostandole i capelli. «Ti ricordi la nostra promessa?
Affronteremo qualsiasi cosa, insieme».
Cathleen annuì e chiuse gli occhi alle ennesime lacrime che
le scivolarono sulle guance, perfette come gocce di diamante. Quindi
avvolse le braccia intorno al collo di Artù e lo strinse
forte, respirando profondamente.
«È buffo», mugugnò ad un
tratto.
Artù non smise di accarezzarle la schiena. «Che
cosa?».
«Non ho mai creduto alle seconde
possibilità».
Il re di Camelot fu grato che Cathleen non potesse vederlo in viso,
dove al momento aleggiava un’espressione amareggiata. Solo
ora riusciva a comprendere appieno ciò che Merlino aveva
voluto dirgli il giorno del galà al Castello di Windsor: «Avete una seconda
possibilità e giuro che non la sprecherete cercando di
combattere il destino al mio fianco».
Quella era davvero la sua seconda possibilità di essere
felice, di avere la vita che nel profondo aveva sempre voluto, lontano
da Camelot, libero dalle sue responsabilità di
sovrano… Ma sapeva anche che non avrebbe mai lasciato che
Merlino affrontasse da solo il proprio destino.
Ricordava bene anche quello che gli aveva risposto: «Quando
arriverà il momento, Cathleen capirà».
Con il paramedico ancora stretto tra le braccia, iniziava a pensare che
forse non sarebbe stato così facile. Come avrebbe potuto
dirle che avrebbe inevitabilmente rovinato anche la sua seconda
possibilità? Al momento gli sembrava impossibile.
Perciò chiuse gli occhi e si abbandonò alla sua
stretta, pregando perché durasse ancora un po’.
***
Abigail fece un respiro profondo e si alzò in piedi,
lasciando la sedia a rotelle accanto alla porta. Quindi
bussò ed aspettò di sentire la voce di Mark darle
il permesso di entrare, invano.
Ad un certo punto si azzardò ad aprire la porta quel tanto
che bastava per sbirciare all’interno della stanza: Mark
c’era e, sdraiato sul letto con le scarpe ai piedi, stava
giocando con la sua PS Vita. Il motivo per cui non l’aveva
sentita bussare erano le due grosse cuffie verde acido che gli
coprivano le orecchie e che sparavano a tutto volume i ruggiti dei
motori delle auto da corsa.
Abby si avvicinò e si sedette sul bordo del letto. La prima
volta Mark sollevò gli occhi annoiato, alla seconda li
sgranò per lo stupore e si dimenticò
completamente della gara, tanto che dalle cuffie si sentì lo
schianto dell’auto contro il guardrail.
La ragazzina ridacchiò, riportandolo alla realtà.
Mark si tolse velocemente le cuffie dalle orecchie, facendosi cadere
persino la bandana rossa dalla testa. Cercò di sistemarsela
frettolosamente, paonazzo in volto, ma Abigail gli prese le mani tra le
sue e si sporse verso di lui fino a che le loro labbra non si
incontrarono.
Con estrema cautela, Abby sollevò una mano e gli
accarezzò la guancia, poi scese sul collo e lentamente
iniziò a risalire sulla sua nuca rasata. Fu allora che Mark
si scostò bruscamente, facendo penzolare le gambe
dall’altro lato del letto rispetto a quelle di Abigail.
Lasciò la Play Station in mezzo a loro e si legò
nuovamente la bandana intorno al capo privo di capelli, poi strinse i
pugni sulle ginocchia e serrò la mascella, senza trovare la
forza di rompere il silenzio senza urlarle contro. Perché
con Mark era così: o era tutto rose e fiori oppure era un
completo disastro; nessuna via di mezzo.
«Dì qualcosa, qualsiasi cosa», lo
pregò Abigail, cercando ancora una volta di prendergli una
mano tra le sue.
«Non ho più nulla da dirti, lo sai».
«Non è vero».
«Perché sei così ostinata?!»,
gridò e finalmente si voltò a guardarla,
trovandola con gli occhi pieni di lacrime. Sentì il cuore
pulsargli in gola, dolorosamente, e pieno di vergogna
abbassò il capo.
«Io ho bisogno di te, Mark», sussurrò
con voce tremante Abigail. «Se tu non vuoi essere
più il mio ragazzo è okay, mi sta bene, ma non
posso rinunciare completamente a te».
«Il problema è che la tua amicizia non mi basta.
Essere il tuo ragazzo è tutto quello che voglio»,
confessò Mark, prendendole il volto tra le mani. Anche lui
aveva gli occhi lucidi, in quel momento. «Lo so che per te
è difficile da capire, cercherò di spiegartelo
ancora una volta: io non voglio illudermi. Il solo pensiero che uno dei
due possa sopravvivere all’altro mi terrorizza: se fossi tu,
non mi perdonerei mai che tu pianga per me; se fossi io… non
vorrei vivere in un mondo senza Abigail Reed».
Abby lo guardò intensamente negli occhi, fino a quando una
risata non le arricciò le labbra.
«C’è qualcosa che ti
diverte?», le chiese il ragazzino, con la fronte corrugata.
«L’hai letto, alla fine. Hai appena citato Colpa delle stelle».
«Cosa? No!».
«Sì, invece», insistette e lo
punzecchiò all’addome.
Mark, rosso come un peperone, non cedette: «Ti dico di
no!».
Continuarono così per un po’, fino a quando non si
ritrovarono a ridere, appoggiati l’uno all’altra.
Abigail gli avvolse le braccia intorno alla schiena e
respirò profondamente il profumo della sua pelle.
«È troppo tardi, ormai», gli
sussurrò ad un tratto.
«È troppo tardi per cosa?».
«Per tirarci indietro. Credi che non soffriremo, stando
lontani? Sarà peggio… molto peggio. Se mai non
dovessi farcela, vorrei andarmene con te al mio fianco».
«Non dire così. Tu non te ne andrai. Non puoi
andartene», mugugnò Mark contro la sua spalla.
Quindi la strinse più forte a sé e Abby, pur
sapendo che il suo corpo fragile ne avrebbe riportato i segni, lo
lasciò fare. Anzi, avrebbe voluto che la stringesse ancora
più forte, in modo da rendere quei lividi indelebili sulla
sua pelle.
«Basandomi puramente sulle percentuali, tu hai molte
più possibilità di sopravvivere di me. Il linfoma
di Hodgkin è più curabile della
leucemia».
«Ma tu sei già guarita», fece notare.
«Sei qui solo per la terapia di consolidamento».
Mark aveva ragione, tuttavia… negli ultimi anni Abigail
aveva imparato a conoscere il suo corpo e da qualche settimana a quella
parte aveva sentito qualcosa cambiare, nonostante i farmaci. Il giorno
degli esami di controllo non era lontano e aveva paura, una paura
tremenda che mostrassero una recidiva. Per questo e anche
perché semplicemente teneva moltissimo a Mark, voleva che
tutto tra loro si risolvesse per il meglio.
Dopo un silenzio interminabile, Mark si scostò per guardarla
negli occhi ed accarezzarle delicatamente le guance, il collo, le
spalle e infine le braccia, fino a raggiungere le sue mani esili e
pallide. Se le portò entrambe alle labbra e
sussurrò: «Non ti arrenderai mai, vero?».
Abby, con gli occhi luminosi e il cuore pieno di speranza, scosse il
capo.
«Allora sarò costretto ad essere il tuo
cavaliere».
«Non desideravo altro», rispose prima di gettarsi
di nuovo tra le sue braccia e baciarlo sulle labbra.
Fu di nuovo Mark a staccarsi, chiedendo: «Ma tu ti sei
vestita in questo modo per la caccia alle uova?».
Abigail si alzò e costrinse il ragazzino a fare lo stesso.
Tenendolo per mano, fece un giro su se stessa in modo da mostrargli il
suo vestito color rosa perla, con la gonna alta fin sotto al seno e il
corpetto tempestato di brillanti. Dato che aveva la schiena
completamente scoperta e le sue difese immunitarie non avrebbero
gradito molto, sulla carrozzina aveva lasciato un maglioncino chiaro.
«Ti piace? Me l’ha regalato mia nonna».
«Non sapevo fosse così moderna», rispose
Mark, non riuscendo a non indugiare con lo sguardo sulle sue gambe
snelle avvolte soltanto dal sottilissimo velo delle collant color nude.
Abigail rise, trovandosi col petto contro quello di Mark in una specie
di ballo lento di cui solo loro sentivano la musica.
«Che scemo che sei. Mi ha detto che si è fatta
consigliare dalla ragazza che l’aiuta a casa».
«Allora dovrò ringraziarla, prima o
poi».
Sorridendo sbarazzino, si protese verso il suo viso per baciarla; Abby
però gli posò un dito sulle labbra e con gli
occhi sorridenti disse: «Dovremmo andare. Siamo in ritardo
per la caccia alle uova».
Mark arricciò il naso, non proprio felice, ma alla fine
annuì con un cenno del capo e le posò una mano
sulla schiena per invitarla a precederlo mentre lui recuperava la
propria sedia a rotelle.
Abigail sospirò di sollievo quando tornò a
sedersi sulla carrozzina, senza però farsi vedere dal suo
ragazzo. Infatti gli sorrise quando lo vide spingersi fuori dalla
stanza e chiudersi la porta alle spalle.
Fianco a fianco raggiunsero la sala comune, dove trovarono tutti i
bambini che avevano ricevuto l’invito di Alex e che non erano
impegnati con le terapie. Peccato che di lei non ci fosse traccia.
«Dov’è andata?», chiese
Abigail.
Gabriel, con entrambe le braccia sul tavolo e la testa nascosta tra di
esse, mugugnò: «Non si è ancora vista.
Probabilmente si è dimenticata».
«È impossibile», esclamò con
determinazione Mark, stringendo i pugni sui braccioli della sedia a
rotelle. «Sarà solo in ritardo.
Arriverà, ne sono sicuro», aggiunse, ma nel
profondo temeva il peggio. Gettò un’occhiata nella
direzione di Abigail, la quale lo capì al volo e lo sostenne.
Successivamente si spostarono per parlare in privato e, preoccupati che
quella giornata si trasformasse in un completo disastro, decisero di
andarla a cercare.
«Forse però è meglio se vado solo
io», lo interruppe la ragazzina.
«Perché?».
«Perché se davvero dovesse esserle successo
qualcosa, tu non avresti la sensibilità adatta».
«Io sono molto sensibile!», ribatté,
offeso.
Abigail gli tirò una guancia, per poi sfiorargli appena le
labbra con le proprie, incurvate in un sorriso.
«Sì, come un cactus. Torno presto».
«Va bene», si arrese con un sospiro Mark,
lasciandola andare.
Abigail diede le spalle alla sala comune ed iniziò a cercare
Alex, chiedendo sue notizie a tutte le infermiere e ai dottori che
incontrava. La cercò nella sala relax del quarto piano, nei
bagni e negli spogliatoi, poi prese l’ascensore e una volta
nel reparto del Pronto Soccorso si ritrovò un po’
spaesata: non visitava spesso il piano terra e i corridoi le sembravano
tutti uguali, infiniti. Ad un certo punto fu costretta a fermarsi a
causa della stanchezza.
Chiuse gli occhi, posando la testa contro la parete alle sue spalle, e
si concentrò sul proprio respiro. Venne distratta da una
voce calda e da una mano che delicatamente le accarezzò la
fronte. Sollevando le palpebre pesanti trovò due occhi
grigio-azzurri ad attenderla, colmi d’apprensione, subito
sostituiti da un fascio di luce accecante.
«Penso che dovresti stenderti un po’»,
disse un dottor Ellis privo di camice, inginocchiandosi di fronte a lei.
«No, sto bene», mentì, abbozzando un
sorriso. «Cercavo proprio lei».
Keith si indicò stupito. «Me? Hai avuto fortuna
allora: stavo andando via. Devo comprare altro cibo per gatti. Sai,
quando Alex è andata a Londra mi ha chiesto di occuparmi del
suo micio, ma quando è tornata mi ha chiesto se volevo
tenerlo. È stata molto vaga sul motivo...».
«Ecco, a proposito di Alex... l'ha vista da qualche parte? In
oncologia la stiamo aspettando per la caccia alle uova».
«Oh sì, mi ha accennato qualcosa in proposito.
Però non ho idea di dove sia, mi dispiace. Hai
già provato a chiamarla?».
«Decine di volte», rispose sollevando il cellulare.
«È davvero strano. Non è da Alex
sparire così».
Keith si strinse nelle spalle. «Probabilmente oggi
è la giornata delle stranezze. Dovevi vederla questa
mattina: non la riconoscevo neanche».
Abby si morse il labbro inferiore e dopo qualche istante di silenzio
sorrise, ringraziando il dottor Ellis per il suo tempo.
Prima di uscire dalle porte scorrevoli del Pronto Soccorso si
infilò il maglioncino, ma il freddo le entrò
comunque nelle ossa mentre si dirigeva faticosamente verso la piscina
chiusa per i lavori di ristrutturazione.
Mark le aveva raccontato che poco prima che Steve li lasciasse si era
rifugiato lì, in cerca di silenzio e solitudine, e che Alex
l’aveva trovato subito. Sperava che l’infermiera
avesse riciclato il suo nascondiglio, o sarebbe dovuta tornare in sala
comune per annunciare che la caccia alle uova era stata rimandata a
data da definirsi.
«Oh no», mormorò sfinita di fronte alla
transenna.
Si fece coraggio, per i bambini e la buona riuscita della caccia alle
uova, e lasciò la carrozzina all’esterno per
potersi infilare nel cantiere. Reggendosi al muro, si
incamminò verso l’entrata e ringraziò
il cielo quando, oltre il vetro sporco, scorse Alex seduta a bordo
piscina. La raggiunse lentamente e poi si appoggiò con una
mano alla sua spalla per sedersi al suo fianco.
«Ti ho cercata ovunque», sospirò Abby,
accarezzandole un braccio. «Gli altri ci stanno
aspettando».
Alex si massaggiò gli occhi lucidi con una mano, tirando su
col naso. «Porgi loro le mie scuse. Al momento non sono in
vena di festeggiare».
«Posso sapere che cos’è
successo?».
«Io e Merlino abbiamo fatto l’amore, a
Londra».
Abby sgranò gli occhi, scioccata. «Puoi ripetere,
per favore?».
«Sì, noi… siamo una coppia,
adesso».
«Cosa, come…? Perché non ci avete detto
nulla?!».
«Abbiamo deciso di aspettare il momento giusto. Il fatto
è che… Non lo so, Abby. Io lo amo, non ho mai
amato nessuno in questo modo, e sognavo questo momento da anni, eppure
ora che ho quello che desideravo… ne sono spaventata. E se
rovinassimo tutto? Se tra noi non dovesse funzionare e perdessimo anche
la nostra amicizia? Io non voglio vivere senza di lui».
La ragazzina sorrise e le posò una mano sulla schiena per
confortarla. Alex si voltò per la prima volta a guardarla e
non riuscì più a tenere a freno le lacrime:
lasciò che le rigassero il volto, nascondendolo tra le
pieghe della gonna di Abigail.
«Ti capisco benissimo», mormorò la
ragazzina, accarezzandole i capelli.
«Non voglio smettere di amarlo… Non voglio
smettere di sentire il mio cuore accelerare, di sentire le farfalle
nello stomaco tutte le volte che i suoi occhi incrociano i
miei…».
«Questo non succederà mai. Come potrebbe? Niente
è più forte dell’amore».
Alex singhiozzò più forte, stringendo i pugni.
«Anche io avevo paura all’inizio»,
confessò Abigail. «Avevo paura che io e Mark
avremmo perso qualcosa, mettendoci insieme. Ma non è
successo. In effetti, non è cambiato proprio niente: i
sentimenti che proviamo l’uno per l’altra sono gli
stessi che provavamo quando eravamo semplicemente amici. Forse siamo
destinati a stare insieme, non ne ho idea. Nulla potrà
spezzare il nostro legame, o quello tra te e Merlino».
«Vorrei poter avere la tua stessa sicurezza»,
mugugnò l’infermiera, sollevandosi lentamente per
poterla guardare negli occhi.
Abigail le accarezzò il viso con entrambe le mani,
soffermandosi a guardare il colore delle sue iridi. C’era
qualcosa di diverso, qualcosa che però non riusciva ad
afferrare.
Le sorrise, prima di asciugarle il viso e posarle un leggero bacio
sulla fronte. «Basta piangere: non tutti hanno la fortuna di
avere accanto la propria anima gemella».
Alex si sforzò di ricambiare il sorriso e si
alzò, prendendo Abigail per le mani per aiutarla a fare lo
stesso. Quindi, con lei appoggiata ad un fianco, la riportò
alla sua sedia a rotelle.
«Non è che potresti spingermi tu?», le
chiese la ragazzina, troppo spossata per continuare a fingere.
«Certamente. Va tutto bene?».
«Sì, sono solo un po’ stanca. Ho girato
tutto l’ospedale per trovarti!», rispose
ridacchiando, socchiudendo gli occhi.
«Mi dispiace, non avrei dovuto reagire in questo modo. Mi
farò perdonare, te lo prometto».
«Iniziamo a rendere questa caccia alle uova indimenticabile.
Sei d’accordo?».
«Certamente».
Abigail sorrise, cacciando in un angolo della sua mente il pensiero che
quella sarebbe potuta essere proprio la sua ultima caccia alle uova.
***
«Ti dico che questo è il momento adatto per andare
fino in fondo alla faccenda. Non sappiamo quando la vecchia
tornerà a far visita a sua nipote, non possiamo lasciarci
scappare quest’occasione!».
La ragazza dai capelli corvini roteò gli occhi al cielo e
chiuse l’acqua del rubinetto. Posò il secchio in
un angolo della cucina e vi versò dentro un po’ di
detersivo per pavimenti, ignorando il fratello che continuava
a dire tutte quelle sciocchezze sulla fonte dell’eterna
giovinezza e su tutti i soldi che avrebbero fatto, così
tanti da riempirci una piscina e poterci fare il bagno.
«Hala, ma l’hai visto bene? È la stessa
persona!».
«Spostati».
Il ragazzo si scansò dalla traiettoria dello straccio che la
sorella aveva appena lanciato sul pavimento.
«Lo so che non vuoi che vada a cercarlo perché
pensi che non avrei dovuto frugare tra le cose che la vecchia aveva
detto di buttare, ma…».
«Adesso basta!», gridò Hala,
sollevandosi e puntandogli il manico dello spazzolone contro il petto.
«Uno, non chiamare la signora Chapman “la
vecchia”; due, sì, non mi sta bene che tu te ne
vada in giro per il Galles alla ricerca di uno sconosciuto che somiglia
all’uomo di quella fotografia».
«Somiglia? Hai detto davvero somiglia?! Dovresti
andare da un oculista, ciccia».
Serrando la mascella per non urlargli ancora contro, Hala riprese:
«E sentiamo, nel remoto caso in cui tu riesca davvero a
rintracciarlo… Che cosa gli dirai? "Mi scusi, nella soffitta
della signora Chapman ho trovato una foto risalente agli anni Trenta e
mi chiedevo se lei fosse immortale!"».
Il ragazzo strinse i pugni e dopo un attimo di esitazione
scrollò le spalle, gli occhi fuori dalle orbite.
«Sì, una cosa del genere!».
«Tu sei tutto matto, Baqi», mormorò
arrendevolmente, riprendendo a pulire per terra.
«Questa è la tua decisione definitiva? Vuoi
restarne fuori per davvero?».
«Non mi imbarcherò nella tua ennesima folle
impresa».
«Ottimo!», esclamò il ragazzo,
gonfiandosi il petto. «Ma non venire a piangere da me quando
diventerò ricco e tu sarai ancora a lavare pavimenti e a
cambiare pannoloni!».
Hala socchiuse gli occhi, sospirando. «La signora Chapman non
porta il pannolone».
«Oh insomma, ci siamo capiti!».
Baqi gettò il vecchio diario e il giornale locale sul tavolo
e se ne andò a passo spedito, borbottando tra sé.
Hala aspettò che il gemello fosse lontano, poi
posò lo spazzolone contro lo schienale di una delle sedie e
confrontò ancora una volta le due fotografie che qualche
giorno prima Baqi le aveva sventolato trionfante sotto al naso.
Alla TV si era parlato molto dell’antichissima corona che era
stata ritrovata quasi per caso all’asta di beneficienza
svoltasi al Castello di Windsor e della sua nuova collocazione al Great
North Museum: Hancock, a Newcastle upon Tyne, ma in pochi servizi era
stato fatto vedere il ragazzo che quella sera era stato prelevato dalla
polizia per un interrogatorio. La prima volta che Baqi
l’aveva visto era stato proprio alla redazione del giornale
locale, con cui collaborava saltuariamente come freelance sia per gli
articoli che per le fotografie. Subito aveva fatto una copia della foto
che lo immortalava mentre veniva infilato nella volante dai
lampeggianti blu e una volta a casa gliel’aveva mostrata
portandogliene un’altra a confronto, molto più
vecchia, in bianco e nero e consumata dal tempo, in cui compariva lo
stesso ragazzo, quella volta in camice bianco e circondato da altri
dottori ed infermiere, tutti in posa di fronte alla facciata di un
ospedale immerso nella campagna gallese. Sul retro, solo una data: 1935.
Hala era sempre stata una ragazza coi piedi per terra: non aveva mai
creduto all’impossibile, ai miracoli… eppure il
ragazzo in quelle fotografie, nonostante affermasse il contrario di
fronte a Baqi, lasciava senza parole anche lei.
Sentì i frettolosi passi di suo fratello scendere le scale e
si allontanò rapidamente dalle prove, riprendendo a
strofinare con foga lo strofinaccio sul pavimento. Baqi fece un salto
all’interno della cucina per recuperare le proprie cose e poi
col giubbotto appeso ad un braccio si diresse verso la porta.
«Dove vai?», gli domandò a squarciagola.
«Ad imbarcarmi nella mia folle impresa! Non mi aspettare per
cena!».
Sbatté la porta con violenza e Hala chiuse gli occhi,
sospirando e chiedendosi perché mai il suo gemello fosse
nato con animo così sognatore.
***
Artù voltò il capo quando sfrecciarono accanto ad
Avalon e lo trovò sovrastato da una nebbia fitta, come non
l’aveva mai vista. Ciò nonostante con la coda
dell’occhio gli parve di scorgere un bagliore azzurrognolo,
così particolare ed unico da riportare a galla
quell’antico ricordo dalla sua memoria.
Urlò a Cathleen di fare inversione ad U e la ragazza non
pose domande. Fermò la moto proprio di fronte alla sponda
del lago ed entrambi si tolsero il casco, a bocca aperta di fronte alla
sfera iridescente che sembrava attenderli.
Artù scese rapidamente dalla moto, pronunciando il nome di
Merlino in un rapido crescendo: iniziò mormorando,
terminò gridando con tutto il proprio fiato.
La sfera lo guidò fino alla sponda est, dove si rese ben
presto conto dell’assenza della piccola barca con cui era
riuscito a raggiungere Freya.
«Merlino!», lo chiamò disperato, con
entrambe le mani intorno alla bocca.
La palla iridescente si immerse nella nebbia, fino quasi a sparire alla
loro vista. Quando si fermò iniziò a brillare
più intensamente per guidarli, come un faro.
«Che cos’hai intenzione di fare?», gli
domandò Cathleen, guardandolo mentre lanciava il casco tra
le felci e si toglieva le scarpe.
«Merlino è là, devo andare a
prenderlo».
«Non ci pensare nemmeno, è troppo
pericoloso».
Artù la fissò intensamente. «Lui
l’avrebbe fatto per me».
Cathleen fece per imporre ancora la propria autorità, ma non
un suono le uscì dalla gola; l’unica cosa che
riuscì a fare fu afferrarlo per un braccio prima che
entrasse in acqua. E gli salvò la vita.
Non appena Artù entrò in contatto con
l’acqua del lago, infatti, una fortissima corrente
tentò di trascinarlo sul fondale melmoso. Il re di Camelot
si aggrappò con entrambe le mani al braccio di Cathleen e il
paramedico usò tutte le proprie forze per tirarlo fuori.
Alla fine ci riuscì e Artù le cadde addosso
sull’erba, ad un soffio dal suo viso.
«Grazie», ansimò il biondo.
«Figurati».
Si rialzarono faticosamente mentre la sfera continuava a brillare con
insistenza ad una trentina di metri dalla riva.
Artù aveva appena iniziato a guardarsi intorno alla ricerca
di un metodo alternativo per attraversare il lago senza toccarne la
superficie, fallendo miseramente, quando si accorse che Cathleen si
stava spogliando.
«Che cosa stai facendo?», le domandò
strabuzzando gli occhi, osservando la maglietta che le metteva in
risalto il seno e le lasciava scoperto il tatuaggio col drago sulla
schiena. (Ecco, un drago sarebbe stato d’aiuto in quel
momento!).
«Tieni, inizia a chiamare un’ambulanza: ne avremo
bisogno».
Artù osservò il cellulare della ragazza, confuso.
«Cathleen…».
«Mi pare ovvio che tu non possa entrare in acqua,
perciò lo farò io».
«Assolutamente no».
Il paramedico si voltò verso di lui ed incatenò i
loro sguardi. «Ho promesso a Merlino che mi sarei presa cura
di te e io mantengo sempre le mie promesse. Tu hai bisogno di lui e io
ti aiuterò a salvarlo».
Senza dargli il tempo di rispondere gli prese il volto tra le mani per
stampargli un bacio sulle labbra e poi gettarsi nell’acqua
gelata.
«No, Cathleen!», urlò Artù
prendendo la rincorsa, ma ad un passo dalla riva si fermò
con le mani protese in avanti, digrignando i denti.
***
L’acqua era tanto fredda da intorpidirle i muscoli, ma
Cathleen evitò di pensarci e continuò a nuotare
verso il centro del lago, fino a quando non si rese conto di aver perso
di vista la sfera luminosa che avrebbe dovuto farle da guida.
Circondata dalla nebbia, si guardò intorno spaesata, mentre
un velo di panico iniziava ad avvolgerla. Quando non riuscì
più a non pensare al peggio, scorse la sfera di luce
volteggiare poco sopra la sua testa. Sospirò sollevata,
concedendosi persino una risata, e disse: «Portami da
Merlino».
La sfera eseguì i suoi ordini, conducendola fino ad una
barchetta malridotta da cui penzolava un braccio inerte. Ne
afferrò il polso per controllarne le pulsazioni:
c’erano, seppur deboli.
«Merlino. Merlino, svegliati!», provò a
chiamarlo, sporgendosi sulla traballante imbarcazione.
Essa non avrebbe mai sorretto il peso di entrambi e di sicuro non
sarebbe mai riuscita a spingerla fino a riva. C’era
un’unica soluzione ed era sicura che se Merlino fosse stato
sveglio non gli sarebbe piaciuta.
Respirò profondamente e si aggrappò al braccio
penzolante del mago, i piedi appoggiati al fianco della barchetta.
«Al mio tre. Uno, due… tre!».
Facendo leva con le gambe tirò Merlino verso di
sé ed ottenne il risultato sperato: la barca si capovolse e
lo stregone le cadde addosso a peso morto, trascinandola
sott’acqua.
Le ci volle qualche secondo per reagire a quel freddo penetrante, in
grado di assopirla. Riaprì gli occhi di scatto e scorse
Merlino galleggiare verso il fondo a qualche metro da lei.
Nuotò più velocemente che poté nella
sua direzione e quando lo ebbe afferrato per la vita lo
trascinò con sé in superficie. Inspirò
tant’aria da farle male ai polmoni e poi, con lo stregone
ancora tra le braccia, iniziò a nuotare verso riva, mentre
sentiva le sirene dell’ambulanza avvicinarsi sempre di
più.
Sentì anche la voce di Artù e fu quella a darle
l’energia necessaria a percorrere gli ultimi metri, fino a
dove il livello dell’acqua era sufficientemente basso da
potersi reggere sulle gambe.
La nebbia si diradò e sorrise incrociando lo sguardo colmo
di apprensione di Artù, il quale per quanto volesse
avvicinarsi per aiutarla non poté farlo. Ci pensarono un
paio di suoi colleghi, i quali la raggiunsero e la liberarono del peso
di Merlino, subito caricato su una barella ed infilato nel retro
dell’ambulanza.
Una volta completamente fuori dall’acqua, Artù la
strinse fra le braccia e la baciò appassionatamente sulle
labbra, togliendole quel poco di fiato che aveva. Lei si
allontanò ridendo e lasciò che le scostasse i
capelli bagnati dal viso, rassicurandolo: «Sto bene,
è tutto okay».
«Mi hai fatto quasi venire un attacco».
Cathleen si beò del calore del corpo di Artù, ma
quando capì che non sarebbe bastato si fece consegnare una
coperta da uno dei paramedici.
«Stai bene, Cath?», le domandò il
collega. Senza darle il tempo di rispondere, aggiunse: «Sali
su, devi farti dare un’occhiata».
Cathleen scosse il capo, indicando la moto abbandonata sul ciglio della
strada. «Io mi rivesto e vi seguo, non
c’è problema. Fate salire lui,
piuttosto».
«Come preferisci. Forza, andiamo!».
Artù la guardò ed esitò a lasciarle
andare la mano. Lei annuì e lo spinse sul retro
dell’ambulanza, accanto alla barella dove giaceva il corpo
immobile di Merlino. Lo salutò con un cenno della mano prima
che le porte venissero chiuse di colpo e poi si sedette, sfinita,
accanto ai suoi vestiti asciutti, lo sguardo fisso sul lago e sulla
nebbia che lentamente si stava diradando.
***
«Ce l’ho, ce l’ho! Il cestino di uova
numero sei è alla reception del Pronto Soccorso!»,
esclamò Danilo puntando il dito sul foglietto con gli indizi
e sistemandosi gli occhiali sul naso.
«Che stiamo aspettando? Andiamo!», gridò
Mark, affrettandosi a raggiungere per primo l’ascensore.
Premette freneticamente il pulsante mentre i bambini della sua squadra
incastravano le loro carrozzine accanto alla sua. Troppo tardi si rese
conto che Abigail, caposquadra rivale, si stava dirigendo da sola nella
direzione opposta.
Mark sarebbe tornato subito al quarto piano, preoccupato per lei, se
non avesse visto dei paramedici affrettarsi nello spostare da una
barella all’altra un incosciente Merlino, affiancato da
Artù, pallido come un lenzuolo.
Dall’ascensore accanto al suo comparve la seconda squadra,
ora guidata da Gabriel. A loro si era unita Alex, contenta che la
caccia alle uova stesse riscuotendo un tale successo. Il suo sorriso
però scomparve non appena Mark le indicò i
paramedici che stavano scortando Merlino lungo il corridoio.
***
«Merlino!». Alex si fece spazio tra le infermiere e
prese la mano gelata dello stregone tra le sue. «Merlino, ti
prego, rispondimi!».
«I parametri vitali sono stabili, ma non reagisce agli
stimoli», disse un paramedico al dottore che si era preso in
carico il suo caso.
«Dobbiamo fargli subito una TAC. Potrebbe avere un emorragia
interna o dei danni al sistema nervoso».
Alex guardò Artù, terrorizzata. Era
già successo prima che Merlino piombasse in quella specie di
coma, ma ora sapeva che cosa fare per svegliarlo. Ma per farlo aveva
bisogno di stare da sola con lui, bastavano pochi minuti.
Artù, proprio come se le avesse letto nel pensiero, le
fornì il diversivo perfetto.
«È tutta colpa mia! È tutta colpa
mia!», iniziò a gridare disperato, mettendosi le
mani tra i capelli e tirando giù uno scaffale colmo di
provette ed altri strumenti. Un paio di infermiere si staccarono dalla
barella per contenere la sua follia, ma il re di Camelot non ci
impiegò molto per liberarsi della loro stretta ed avventarsi
sul dottore, che colpì al naso con un pugno ben assestato. A
quel punto anche i due paramedici lasciarono la barella, affidandola
completamente alle mani di Alex, e placcarono Artù,
spingendolo addirittura a terra, in attesa dei ragazzi della sicurezza.
Alex corse più a non posso verso l’ascensore e
quando si aprirono le porte gridò a tutti di levarsi di
mezzo, ché quella era un’emergenza. Si
fiondò all’interno e premette un paio di tasti a
caso: tutto ciò di cui aveva bisogno era che le porte si
chiudessero lasciandoli soli.
Le sue preghiere vennero ascoltate.
Aspettò che l’ascensore fosse salito di qualche
metro e poi premette il pulsante d’arresto, grazie a cui si
ritrovarono sospesi e nella semi-oscurità.
«Che cosa ti è successo?», gli chiese
teneramente, scostandogli dalla fronte il suo nuovo ciuffo di capelli
bianchi. Quindi chiuse gli occhi e concentrandosi al massimo
liberò la magia che sentiva incendiarle il petto.
Una scarica elettrica la percorse da capo a piedi e attraverso le mani
che aveva stretto sul petto di Merlino si diffuse nel corpo dello
stregone, che come dopo una scarica di defibrillatore riaprì
gli occhi, mostrando le iridi dorate.
Il mago schizzò seduto sulla barella, chiedendosi dove fosse
e perché. Alex non gli rispose: semplicemente gli
gettò le braccia al collo e lo baciò, sentendo
finalmente il cuore stretto in una morsa dolorosa ma piacevole.
***
«Mi dispiace di aver rovinato la caccia alle uova»,
ruppe finalmente il silenzio lo stregone, una volta solo con Alex nella
sua stanza di ospedale, dove sarebbe rimasto fino al mattino seguente
per accertamenti.
«Non che fosse partita nel migliore dei
modi…», rispose l’infermiera
stringendosi nelle spalle.
Si abbandonò alla sedia che fino a quel momento era stata
occupata da Artù e sospirò, massaggiandosi gli
occhi.
«Perché mi hai mentito, Merlino? Che ci facevi ad
Avalon?».
Il mago rabbrividì sentendo pronunciare da Alex il vero nome
del lago, non tanto perché aveva deciso di chiamarlo anche
lei in quel modo ma per il pensiero che ne fosse venuta in contatto a
sua insaputa. Che fosse venuta in contatto con Freya, ora libera dalle
sue catene. Solo il cielo sapeva quello che la custode avrebbe potuto
dirle per ammaliarla.
La fissò intensamente e alla fine decise di scoprire le
carte in tavola: Alex era in pericolo e, che le piacesse o no, doveva
lasciarsi aiutare.
«Sono andato ad Avalon perché avevo bisogno di
risposte».
«Risposte?», ripeté Alex, muovendosi
nervosamente sulla sedia.
«Sì. Volevo sapere se vi eri stata, se avessi
trovato qualcosa».
Il silenzio che seguì le sue parole fu così
profondo e pesante che Merlino si sentì morire per la
centesima volta.
«Alex, qualsiasi sia il problema… possiamo
risolverlo, insieme. Devi solo parlarmene».
L’infermiera era sul punto di cedere, con la bocca
già dischiusa, quando Mark aprì di colpo la porta
della stanza, gli occhi sgranati per l’incredulità.
«Dovete venire subito a vedere, è
pazzesco».
Alex ovviamente non si lasciò scappare
quell’occasione d’oro per rimandare il discorso e
si alzò per aiutare Merlino ad indossare qualcosa.
Gli recuperò una delle vestaglie in dotazione
dell’ospedale e poi a braccetto si incamminarono lentamente
verso la sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove si era
radunato praticamente l’intero ospedale.
Lì incontrarono Artù e Cathleen, sorridenti
mentre li invitavano a farsi avanti.
«Tutto questo non mi piace», mormorò
Alex, facendosi largo tra la folla. «Non so tu, ma io ho
detto di noi solo a…». La voce le morì
in gola non appena lo sguardo del Principe William si posò
su di lei.
«Bene, ora che ci siamo tutti», esordì
il Duca di Cambridge, senza smettere di sorriderle, «sono
davvero onorato di poter fare questa donazione al reparto oncologico
del vostro ospedale».
Con un gesto teatrale un uomo panciuto e sorridente entrò
dalle porte scorrevoli tenendo tra le mani un grandissimo assegno
facsimile. La cifra riportata aveva un sacco di zeri ed era firmato con
lo stemma reale.
Alex sollevò il volto esterrefatto verso quello di Merlino e
lui non riuscì a non ricambiare il sorriso. Quindi le diede
una leggera spinta per farla uscire dal cerchio e il Principe William
le porse una mano. Alex la strinse, titubante e rossa come un peperone,
poi prese in consegna il largo assegno di cartone e si
lasciò scattare delle foto dai colleghi
dell’ospedale. Ad un tratto invitò tutti i bambini
a raggiungerla e insieme posarono per gli obiettivi dei cellulari,
facendo linguacce, segni di vittoria e pugni
rock’n’roll.
Merlino si stava beando di quello sprazzo di gioia, dimentico di tutti
i loro problemi, poi si accorse di un uomo grande e grosso, vestito in
modo elegante e con un auricolare all’orecchio, che stava
facendo il giro della sala per raggiungerlo, e tutto tornò
alla schifosa normalità di sempre.
Cercò di sgusciare via come se nulla fosse, invisibile; il
gorilla però lo afferrò per una spalla prima che
potesse nascondersi nei bagni e gli sussurrò
all’orecchio delle parole che non solo lo tranquillizzarono,
ma che addirittura lo fecero sorridere di nuovo.
Gettò uno sguardo rassicurante ad Artù e
Cathleen, i quali lo avevano visto e avevano temuto il peggio, e
seguì l’omone fino alla limousine reale. Si
chinò per entrare nell’ampio abitacolo e una volta
seduto sui morbidi sedili di pelle ridacchiò, eccitato come
un bambino.
«Dovevo immaginarlo che dietro tutto questo doveva esserci il
tuo zampino, Lilibeth».
La Regina Elisabetta II abbassò il giornale che stava
sfogliando e gli sorrise. «Pensavo non ti avrei
più rivisto, amico mio».
***
«Che cavolo di giornata», disse Alex non appena si
fu chiusa la porta alle spalle. Aveva ancora il sorriso che le andava
da un orecchio all’altro.
«Dove sono Artù e Cathleen?».
«Li ho spediti a casa», spiegò Merlino,
sistemandosi meglio i cuscini dietro la testa. Fu solo una scusa
però, grazie alla quale nascose il braccialetto di Morgana,
su cui aveva rimuginato fino ad un’ora prima con il solo ed
unico re.
«Aspettate un
attimo: che cosa sono questi Sidhe?».
«Sono gli
spiriti custodi delle porte di Avalon. Assomigliano a delle fatine blu,
piuttosto repellenti…».
Artù si
passò una mano sul viso, lanciando un’occhiata
torva a Merlino, il quale non capì l’errore che
aveva commesso fino a quando non vide Cathleen alzarsi in piedi di
scatto ed iniziare ad urlare che le fate erano la sua ossessione e lui
non l’aveva avvisata dell’esistenza di quegli
esseri magici ad un passo da casa sua.
«In ogni caso
non avresti potuto vederli. Sono poche le persone che hanno
l’onore di interagire con loro», tentò
di spiegarle Merlino ed incredibilmente riuscì a calmarla.
Artù
incrociò le braccia al petto ed attirando
l’attenzione di entrambi su di sé fece il punto
della situazione.
«Sei andato ad
Avalon per parlare con Freya, però in qualche modo hai
risvegliato gli Sidhe e loro ti hanno detto che lei non dimora
più nelle acque del lago, che è stata riportata
in vita da una potente magia. E tu credi davvero che sia stata
Alex?».
«È
l’unica spiegazione possibile», esalò
Merlino, prendendosi il setto nasale tra due dita. «Avete
visto cosa è stata in grado di fare a
Londra…».
«Scusate
ancora se vi interrompo, ma io ancora non ho capito da dove la prende,
tutta questa magia», disse Cathleen, ferma ai piedi del letto
di Merlino.
Lo stregone scosse
mestamente il capo. «Purtroppo non l’ho ancora
scoperto. Dev’essere qualcosa di estremamente potente,
però».
«Ci
dev’essere un collegamento», borbottò
Artù, prendendosi la testa tra le mani.
«Perché mai Alex avrebbe dovuto riportare in vita
Freya? Non riesco a capirlo».
«Forse non
l’ha fatto apposta. O forse Freya ha ignorato la mia
minaccia, l’ha avvicinata e le ha offerto qualcosa in
cambio».
«Ma
cosa?!», sbottò Artù, irritato da tutti
quei punti interrogativi.
Merlino aprì
la bocca per sciorinare altre ipotesi, quando un pensiero tanto
semplice quando terrificante gli attraversò la mente.
La risposta era sempre
stata di fronte ai suoi occhi… Come aveva fatto a non
rendersene conto prima?
«Merlino? Ehi,
ti è venuto in mente qualcosa?», gli chiese
Cathleen, convergendo su di sé lo sguardo apprensivo di
Artù.
«No. No,
nulla», mentì istintivamente.
Doveva rifletterci
ancora un po’, prima di avvertire Artù della
possibilità che Alex avesse trovato l’oggetto
magico forse più potente che fosse mai stato creato.
«Una cosa
è certa però: non possiamo rischiare che Alex
assorba ancora più potere. Potrebbe esserle letale, per
quanto ne sappiamo».
«Che cosa hai
intenzione di fare?».
Merlino
sollevò gli occhi su Cathleen. «Passami il
giubbotto, per favore».
«Se stai
cercando il tuo cellulare, penso che sia kaputt ormai».
«No, non sto
cercando il mio cellulare…», mormorò
infilando la mano prima in una tasca e poi nell’altra.
Artù
trattenne il fiato quando il mago estrasse il bracciale di Morgana,
già consapevole di ciò che avrebbe significato:
mentire ad Alex, all’unica persona che poteva davvero
definire “di famiglia”.
«Nemmeno io mi
abbasserei a tanto, ma… è per il suo
bene», disse Merlino.
Cathleen
osservò prima l’uno e poi l’altro,
ripetutamente. Alla fine sospirò, sconsolata:
«Grazie per la spiegazione, illuminante».
«Questo
braccialetto è incantato», iniziò a
raccontare lo stregone. «Morgause l’ha regalato a
Morgana perché non avesse più gli incubi che le
impedivano di dormire, incubi che altro non erano che visioni. In poche
parole è in grado di contenere la magia».
«Quindi se ho
capito bene vuoi darlo ad Alex nella speranza che lo indossi in ogni
momento», ricapitolò Cathleen e Artù
terminò la frase per lei: «Così nel
caso in cui dovesse venire in contatto con la fonte magica sconosciuta,
essa non possa influenzarla in alcun modo».
Merlino posò
il braccialetto sul comodino, combattuto. «L’idea
è quella».
«E per quanto
riguarda Freya? Che cosa intendevano gli Sidhe dicendo che il mondo ne
perirà se non la riportiamo da loro?».
Cathleen
deglutì rumorosamente all’ipotesi
dell’apocalisse, ma lo stregone, per nulla impressionato,
rispose semplicemente: «La mia priorità ora
è Alex. Più avanti penseremo a Freya».
«È
saggio lasciarla libera di andare dove vuole, di fare ciò
che vuole?», insistette Artù.
«Ovviamente
non è saggio, ma, come ho detto…».
«Potrei
occuparmi io di lei».
Merlino e
Artù si voltarono contemporaneamente verso Cathleen,
sorridente e nervosa allo stesso tempo.
«Insomma…
conosco tutti in paese. Qualcuno deve pur aver visto una ragazza uscire
dalle acque del lago. Avrà avuto fame, freddo…
deve per forza aver chiesto aiuto a qualcuno».
«Il suo
ragionamento non fa una piega», disse Merlino dopo una
dozzina di secondi di silenzio.
«Non ti
azzardare!», lo rimproverò Artù. Poi,
con lo sguardo più severo che gli avesse mai visto negli
occhi, le disse: «Tu non ti occuperai proprio di nessuno da
sola. Non sappiamo nemmeno se Freya sia ancora maledetta».
«Maledetta?
Perché continuano a venire fuori dettagli
inquietanti?», domandò Cathleen, dondolandosi sui
talloni.
Merlino roteò
gli occhi al cielo e chiarì: «Al tempo, Freya era
stata vittima di una maledizione a causa della quale ad ogni luna piena
si trasformava in un Bastet, una pantera alata. Non abbiamo prove
però che la maledizione sia ancora attiva…
è diventata la custode di Avalon, dopotutto».
«In ogni caso
avrebbe la magia dalla sua parte e tu, indifesa, non andrai da nessuna
parte», rincarò la dose Artù,
indicandola minacciosamente.
«Se seguissi
il tuo ragionamento dovrei chiudermi in casa e non uscirne mai
più per paura di essere attaccata
all’improvviso!».
«Non sarebbe
una brutta idea!».
I due si guardarono
negli occhi, senza rendersi subito conto della vicinanza dei loro corpi
e dei loro respiri affannati che si univano in uno solo. Quando
finalmente si allontanarono l’uno dall’altra, erano
già paonazzi.
«Non puoi
impedirmi di fare qualche domanda in giro», disse pacatamente
Cathleen.
«No, non
posso. Ma se vorrai seguire delle piste dovrai avvisarmi e lo faremo
insieme».
I loro sguardi si
incrociarono di nuovo e quella volta si sorrisero.
«Abbiamo un
patto?», chiese Artù, allungando la mano verso di
lei.
Cathleen
annuì e lo sorprese stringendogli l’avambraccio
come le aveva insegnato Merlino.
Proprio in quel momento
qualcuno bussò alla porta. L’agente Darrell Fisher
fece capolino nella stanza e gettò un’occhiata
frustrata ad Artù, il motivo per cui lui era lì.
«Ho parlato
delle tue condizioni con il dottore a cui hai spaccato il naso e alla
fine ha deciso di ritirare la denuncia. Sei molto fortunato,
Pendragon».
«Grazie mille,
Darrell», disse Merlino, sollevato di avere una rogna in meno
a cui pensare.
«Non
c’è problema. Tu piuttosto, che ci facevi nel bel
mezzo del lago? E che hai fatto ai capelli?».
«Oh, il
capello bianco è solo una nuova moda»,
esclamò sorridendo. «Al lago invece stavo
pescando. Lo faccio ogni tanto, per rilassarmi. Questa volta
però mi è venuto un malore improvviso e devo
essere svenuto».
«È
stato davvero un miracolo che tu non sia caduto in acqua. Potevi morire
annegato».
Cathleen sorrise,
mordicchiandosi un’unghia. «Il Club della Dea
Bendata, li chiamo io. Senta un po’, agente… Posso
farle una domanda un po’ strana?».
Il poliziotto
annuì. «Spara».
«Ha per caso
visto qualcosa di sospetto, negli ultimi tempi, intorno al
lago?».
Artù e
Merlino si scambiarono un’occhiata, increduli che Cathleen
avesse già iniziato a giocare al detective.
«Qualcosa di
strano, eh? A parte la passeggiata con balestra del signor Pendragon e
il quasi annegamento di Merlino, no, non mi pare…
Perché?».
«Semplice
curiosità. Mio nonno mi raccontava un sacco di storie su
quel lago, diceva che era infestato dai fantasmi. Spiegherebbero la
nebbia costante e lo strano malore di oggi di Merlino».
L’agente
sorrise, dicendo: «Mi dispiace, ma non credo nel
soprannaturale». Quindi si diresse verso la porta.
«Ora devo andare. Riguardati, Merlino. E non tentate troppo
la sorte, voi due!».
«Sarà
fatto, agente!», rispose per gli interessati Cathleen,
congedandosi col saluto militare.
«Bene, e uno
è fatto», esclamò poi, orgogliosa del
proprio operato.
Artù e
Merlino si guardarono e scossero il capo, iniziando a pentirsi di
averla coinvolta in quella storia.
«Strano, non li ho incrociati lungo la strada».
«Uhm?». Merlino sbatté le palpebre e
ricordando ciò che aveva detto poco prima precisò
con tono malizioso: «Non ho detto a quale casa li ho
spediti».
«Oh… Credi che possa davvero funzionare tra
loro?».
Merlino scrollò le spalle e le fece spazio sul lettino.
Alex lasciò lo zaino con i vestiti puliti del mago sulla
sedia, spense la luce sul comodino e si accucciò al suo
fianco, arrotolandosi nella coperta arancione con cui di solito lo
copriva quando lo trovava addormentato in una delle stanze dei bambini.
Merlino iniziò ad accarezzarle i capelli, ancora non del
tutto convinto del suo piano. Si ripeté le stesse parole che
aveva detto ad Artù quel pomeriggio, ovvero che era per il
bene di Alex, e prendendo un lungo respiro per farsi coraggio
infilò nuovamente la mano tra i cuscini per recuperare il
braccialetto.
«Alex», le sussurrò nel buio e nel
silenzio della stanza. C’era così tanto silenzio
che aveva paura che l’infermiera si accorgesse del tranello
grazie ai battiti furiosi del suo cuore.
«Uhm?».
«Ho un regalo per te».
Alex si sollevò su un gomito e fissò a bocca
aperta il bracciale che le stava porgendo. «È
bellissimo, davvero. Ma… perché adesso? Lo sai
che non è il mio compleanno».
«Lo so, stupida».
L’aiutò ad infilarselo al polso e
guardò attentamente la sua reazione, cercando di capire se
avesse avvertito la magia di cui era impregnato.
«È meraviglioso», sussurrò
invece, alzando il polso verso la luce lunare per poterne ammirare
meglio le incisioni floreali.
«L’ho trovato poco tempo fa, tra le cianfrusaglie
in soffitta, e mi sei venuta in mente tu», le
spiegò. «Apparteneva ad una principessa bella e di
buon cuore, proprio come te».
«Era più bella di me?».
Merlino fece finta di essere indeciso e si beccò un cuscino
in faccia, subito seguito da un bacio.
«Grazie, Merlino. Ti amo», sussurrò
Alex, col capo di nuovo posato sul suo petto.
Merlino inspirò piano e chiuse gli occhi al soffitto,
riprendendo ad accarezzarle i capelli. «Anche io, Alex. Anche
io».
***
Darrell aprì la porta del suo piccolo appartamento e subito
se la richiuse alle spalle mettendo il chiavistello. Quindi si
liberò della giacca e della fondina e si diresse verso il
salotto, dove l’unica fonte di luce era quella azzurrognola
della televisione accesa.
Sorrise, sollevato ed intenerito, quando trovò la sua ospite
addormentata sul divano.
Le tolse il telecomando di mano e dopo aver recuperato una coperta
gliela stese addosso, facendo attenzione a non svegliarla. Avrebbe
voluto anche accarezzarle i capelli e posarle un bacio sulla fronte, ma
non si azzardò. Non sapeva come avrebbe reagito. In effetti,
oltre al suo nome non sapeva proprio nulla di lei.
Circa una settimana prima l’aveva trovata affamata,
infreddolita e spaventata nei pressi del suo condominio, nascosta
dietro gli alberi al limitar del bosco che circondava il lago. Senza
pensarci su due volte l’aveva presa tra le braccia e portata
a casa, per poi scoprire che aveva quasi del tutto perso la memoria. O
almeno così gli aveva detto.
Il tarlo del dubbio aveva iniziato a mettere radici dentro la sua
testa, precisamente da quel pomeriggio, quando l’amica di
Merlino e Artù si era dimostrata tanto incuriosita dal lago.
Ovviamente aveva mentito per prendere tempo e decidere sul da farsi, ma
da allora non aveva fatto altro che rimuginarci sopra.
Perché gli aveva fatto quella domanda? Perché
tutte le cose più insolite e sospette capitavano proprio nei
pressi di quel lago spesso e volentieri immerso nella nebbia?
Darrell si massaggiò le palpebre ed entrò in
cucina per mettere qualcosa sotto i denti prima di andare a letto. Si
immobilizzò, piacevolmente sorpreso, trovando la tavola
apparecchiata, un paio di candele che donavano un’atmosfera
romantica, del pane e un piatto di minestra da riscaldare.
Guardò la ragazza addormentata sul divano e sorrise,
cacciando in un angolo tutte le domande e le teorie scomode.
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Capitolo 21 *** 21. Love in the time of insecurities ***
Hola! :)
Spero stiate tutti bene e che siate pronti per questo nuovo capitolo!
La storia si fa sempre più intricata, ora che anche Freya
è uscita da Avalon. E Alex riuscirà finalmente a
confessare a Merlino e ad Artù di aver trovato Excalibur?
Staremo a vedere.
E per quanto riguarda Hala e Baqi, i due fratelli gemelli introdotti
nello scorso capitolo? Che ne pensate? Il ragazzo ha trovato davvero la
prova dell'immortalità di Merlino? Sarà una
minaccia per il suo segreto?
Ringrazio tutte le belle persone che hanno commentato lo scorso
capitolo e chi ha semplicemente letto fino a qui.
Un bacio e una serena Pasqua/Pasquetta a tutti! ;)
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________________
21. Love in
the time of insecurities
«Piano, Artù... Fai piano».
Il biondo corrugò la fronte per la concentrazione e
socchiuse gli occhi, spingendo con ancora più delicatezza.
Di sfuggita vide gli angoli della bocca di Cathleen arricciarsi in un
sorriso e...
ROOM, STUMP, PUF.
«No, no, no!», gridò il paramedico,
pestando i piedi. «Stavi andando così bene questa
volta! Che cos’è successo?!».
Artù picchiò i palmi delle mani contro il volante
e subito dopo si tolse la cintura di sicurezza per poter uscire dalla
bestia di metallo e lamiere – più comunemente
chiamata automobile – che da più di
un’ora lo stava facendo impazzire.
Cathleen sospirò e lo seguì nel bel mezzo della
radura ricoperta di fiori.
«Artù! Artù, dove stai
andando?».
«Lasciami in pace, Cathleen».
Il paramedico accennò una corsetta e si portò
davanti a lui, ma il re di Camelot non accennò a volersi
fermare e per non essere travolta fu costretta ad iniziare a camminare
all’indietro come un gambero.
«Mi spieghi qual è il problema? Non sei
l’unica persona al mondo ad essere incapace a
guidare!».
Artù le rivolse uno sguardo carico d’astio.
«Questo dovrebbe farmi sentire meglio?».
«Sì! Cioè...». Cathleen si
passò una mano tra i capelli, sbuffando. «Quello
che intendo dire è che non è un problema.
Esistono tanti altri modi per spostarsi, in
quest’epoca».
«È vero, ci sono le moto», disse
guardandola con occhi eccitati.
Il paramedico gli puntò il dito contro. «No, non
ci pensare nemmeno. Nessuno tocca la mia moto».
Il re di Camelot scosse il capo con un sorrisetto amareggiato sul
volto, segno che aveva già immaginato la risposta della
rossa.
La spostò con un braccio e proseguì attraverso la
radura, verso il nulla. Cathleen quella volta non lo seguì:
si sedette semplicemente sull’erba, a gambe incrociate e con
una mano a sorreggerle il viso. Artù provò ad
ignorarla, ma la curiosità fu troppo grande e si
voltò, irritato dal suo comportamento.
«E adesso che cosa stai facendo?».
«Non ho più voglia di rincorrerti»,
rispose lei con una scrollata di spalle. «Mi troverai qui,
quando ti sarai sbollito e avrai voglia di parlare».
Cathleen era proprio strana: adorabile ed irritante, imbarazzante ed
affascinante, divertente e cupa. A volte Artù non riusciva
nemmeno a capire perché gli piacesse così tanto.
Gli ricordava Gwaine e i suoi modi di fare, il suo essere totalmente
devoto alla causa, il più leale dei suoi cavalieri, e al
contempo il più testa calda, pronto a dirgli in faccia se
una cosa non gli stava bene oppure no. E forse – molto
probabilmente – era proprio questo il motivo del suo affetto.
Artù alzò gli occhi al cielo e sbuffando
tornò sui suoi passi. Cathleen sollevò il viso
verso il suo, sorridendo candidamente, e gli indicò tutto lo
spazio che aveva a disposizione per sedersi.
«Mi sporcherò i jeans», le disse.
Il paramedico gli rivolse un’occhiata incredula e poi
prendendolo per mano lo trascinò giù, urlando:
«Non fare la principessa!».
Il re di Camelot provò un senso di
déjà-vu e al contempo di orrore sentendo quelle
parole. Non appena si trovò di fronte ai suoi occhi gentili
però, ogni sorta di tempesta dentro di lui si
placò.
«Allora, vuoi spiegarmi che ti prende?», gli
chiese. «Oggi è stata la prima volta che ti
mettevi al volante, non credo che sia già arrivato il
momento di gettare la spugna».
«Non ho intenzione di gettare la spugna, è solo
che...». Abbassò il capo, posando lo sguardo
sull’anello che aveva iniziato a rigirarsi intorno al dito.
Cathleen attese in silenzio, senza mettergli pressioni.
Alla fine confessò: «Mi sento inadeguato, in
questa epoca. Io... faccio di tutto per ambientarmi, per sembrare come
voi... Ma è così difficile! Io non sono abituato
a fallire e qui mi capita molto spesso, fin troppo».
Cathleen gli prese una mano tra le sue. «Da quanto tempo
sei... da quanto tempo ti sei risvegliato?».
«Quasi due mesi».
«E tu credi davvero che in due mesi avresti potuto
aggiornarti completamente? Non sei una macchina, Artù... Sei
un essere umano. E a me pare che tu te la stia cavando
egregiamente».
«Lo dici solo per farmi contento», la
rimbeccò, deviando il suo sguardo.
«Certo».
Artù si voltò di nuovo, incredulo.
«Come, scusa?».
«Ho detto: certo. Io ti voglio bene, Artù, e
voglio che tu sia contento. Se poi tu non pensi che io ti stia dicendo
quello che penso... beh, sono affari tuoi».
Artù non si sarebbe mai stancato dei suoi intricati metodi
per tirarlo su di morale, né di lei in generale. E mai
sarebbe riuscito a sdebitarsi completamente.
«Grazie, Cathleen».
Il paramedico sorrise e gli strinse una spalla. «Figurati.
Che dici, vuoi riprovarci un’ultima volta?».
Artù annuì e si alzò, porgendole una
mano per aiutarla a fare lo stesso. Lei la ignorò, forse non
la vide nemmeno perché era abituata a fare da sola, e una
volta in piedi iniziò a correre verso l’auto,
gettandogli un’occhiata di sfida.
Artù non avrebbe dovuto farlo per via dei suoi
“problemi di cuore”, ma quello non fu
l’unico motivo per cui si trattenne e la lasciò
vincere.
***
«Sinistra, destra, alto, giro…».
Il cozzare delle loro spade interrompeva il cinguettio degli uccelli e
sovrastava il gorgoglio del fiume, tanto che ad Alex sembrava che
fossero i soli al mondo.
«Che ne dici se improvvisiamo un po’?»,
gli chiese leggermente in affanno. «Voglio vedere se i miei
riflessi sono migliorati».
«Okay», acconsentì Merlino, facendo un
passo indietro.
Alex fece un respiro profondo e posizionò il piede destro
davanti al sinistro, facendo volteggiare la spada di trecentosessanta
gradi con una semplice rotazione del polso. Guardandola, il volto del
mago si illuminò grazie ad un sorriso che la
spiazzò.
«Che c’è?», gli chiese,
venendone contagiata.
«Il movimento che hai fatto… È
un’abitudine di Artù. Allora, sei
pronta?».
L’infermiera annuì, gettandosi dietro la spalla la
coda di cavallo. A causa di quella distrazione quasi non vide il
fendente di Merlino, che parò all’ultimo secondo,
spostando il corpo verso sinistra.
«Ehi!», si lamentò, o almeno ci
provò mentre un Merlino implacabile non le lasciava nemmeno
il tempo di respirare, puntando la spada verso ogni suo spazio mal
difeso.
Quando finalmente riuscì a contrattaccare, Merlino si
accucciò a terra e stendendo una gamba le colpì
le caviglie, facendole perdere l’equilibrio. Alex sarebbe di
certo caduta all’indietro, ma lo stregone fu più
veloce della stessa forza di gravità e
l’afferrò per un braccio. Si ritrovarono
così petto contro petto, occhi negli occhi.
«I tuoi riflessi sono… okay»,
ansimò Merlino, sorridendo.
Alex si protese ancora un po’ verso il suo viso, come se
volesse baciarlo, ma ad un soffio dalle sue labbra disse: «La
prima lezione di Artù è stata quella di non dare
mai nulla per scontato durante un combattimento, chiunque sia il tuo
avversario».
Merlino sentì la punta di un pugnale pungergli il fianco
sotto la maglia di ferro e sollevando gli occhi al cielo
scoppiò a ridere, per poi sollevare le mani in segno di resa.
L’infermiera si allontanò soddisfatta, anche se un
po’ le bruciava che Merlino le avesse detto che i suoi
riflessi erano solamente “okay”. Sapeva che se
avesse avuto Excalibur tra le mani l’esito di
quell’esercitazione sarebbe stato del tutto diverso, ma aveva
deciso di tenergliela nascosta ancora per un po’.
Da una settimana a quella parte infatti la spada magica non sembrava
causarle più gli stessi problemi: niente più
inibizione delle emozioni, niente più fastidiosi mal di
testa e, soprattutto, niente più incubi.
Era così sollevata e felice che Excalibur non le provocasse
più effetti collaterali – era come se finalmente
il suo organismo si fosse abituato a quel flusso di energia –
che aveva pensato che non ci fosse più bisogno di mettere al
corrente Merlino o Artù.
Anche il mago dopo l’ultima volta non le aveva più
fatto domande, sembrava proprio che se ne fosse dimenticato, ma questo
non la rendeva più tranquilla, anzi… La sua
attenzione per non destare sospetti doveva mantenersi sempre alta.
Però era felice, felice come non lo era da tanto tempo, e
non avrebbe cambiato nulla della propria vita.
«Che ne dici, facciamo una pausa?».
Alex smise di sfiorare i manici delle varie armi a disposizione per gli
allenamenti e si voltò di tre quarti per sorridergli.
«Volentieri. Mi daresti una mano a togliermi di dosso tutta
questa ferraglia?».
«Non aspettavo altro», rispose Merlino con sguardo
malizioso.
Con delicatezza le slacciò la gorgiera (a protezione del
collo), gli spallacci, i bracciali inferiori e poi l'armatura a scaglie
che le stringeva la pancia, a partire da sotto il seno.
La fece voltare delicatamente e la guardò negli occhi mentre
le sfilava lentamente anche la sottile maglia di ferro, luccicante
sotto i raggi del sole del mattino inoltrato.
«Magari ci fossero state delle donne cavaliere come te, a
Camelot. Mi sarei offerto di lucidare tutte le loro armature, e senza
l’uso della magia», le disse prima di catturare le
sue labbra tra le proprie.
Alex sorrise, aggrappandosi alle sue spalle per poi risalire ad
accarezzargli il collo e il viso. Si scostò dolcemente,
percorrendo con le dita le zampe di gallina che dopo
l’incidente al lago si erano accentuate ancora di
più agli angoli dei suoi occhi azzurri. Liberando la magia
che lo teneva in vita era invecchiato rapidamente, almeno di dieci
anni, ma ciò che provava per lui non sarebbe mai cambiato.
«Ti amo, Merlino».
Lo stregone annuì, posando la fronte contro la sua.
«Ti amo anch’io».
Improvvisamente sentirono una canzone sparata a tutto volume
all’interno della casa e senza esitazioni si scostarono
l’uno dall’altro per precipitarsi
all’interno.
***
Cathleen e Artù entrarono in casa, trovandola fin troppo
silenziosa.
«Merlino!», urlò a squarciagola il re di
Camelot. «Siamo tornati!».
Mentre il biondo si toglieva il giubbotto, il paramedico
entrò in cucina e attraverso le porte finestre che davano
sulla veranda scorse Merlino e Alex in giardino, stretti
l’uno nelle braccia dell’altro ed intenti a
scambiarsi effusioni, ignari del loro arrivo.
«Ma dove diavolo si è cacciato
quell’idiota?», borbottò Artù
comparendo sulla soglia della cucina.
«Ehi!», gridò Cathleen, facendolo
sobbalzare. «C’è troppo silenzio qui,
mettiamo un po’ di musica!».
Accese la radio e alzò il volume al massimo, lasciando che
quell’orribile canzone otturasse i timpani di entrambi.
Artù la fissò scioccato, tappandosi le orecchie.
«Cosa diavolo stai facendo?!». Le andò
incontro per spegnere l’apparecchio, ma Cathleen gli
gettò le braccia al collo e lo baciò
appassionatamente sulle labbra, sperando che quella bastasse come
distrazione e che Alex e Merlino accorressero il più in
fretta possibile.
Al contrario delle sue aspettative, Artù non si
allontanò da lei tanto presto. Approfondì il
bacio, spingendola di nuovo verso il lavello e sollevandola per i
fianchi per farla sedere sul ripiano della cucina.
Aveva appena sfiorato la pelle calda sotto la maglietta, quando Alex e
Merlino aprirono le porte finestre e li colsero sul fatto, rimanendone
a bocca aperta.
«Hai capito il nostro Mr.
Casto-fino-al-matrimonio?», esordì Alex,
sorridendo furbescamente di fronte al volto paonazzo di Artù.
Cathleen trattenne una risata invece, sporgendosi per spegnere la
radio. Poi incrociò lo sguardo di Merlino, il quale la
ringraziò silenziosamente.
«Un po’ di rispetto, ragazzina!», la
rimproverò il solo ed unico re, puntandole il dito contro.
«Piuttosto, voi che cosa stavate facendo?».
Alex e Merlino si scambiarono un’occhiata, quindi scrollarono
contemporaneamente le spalle, rispondendo in perfetta sincronia:
«Il solito allenamento».
«Com’è andata la prima lezione di
guida?», domandò poi Merlino.
Artù deviò il suo sguardo e fu Cathleen a
rispondere per lui, accarezzandogli una ciocca di capelli biondi:
«Ha ancora molto da imparare, ma confido nelle sue
capacità».
Lo stregone sorrise e gli diede una pacca d’incoraggiamento
sulla spalla. «Vedrete, ce la farete. Ora, avete qualche
richiesta particolare per il pranzo?».
Artù negò con un cenno del capo e si
voltò verso Cathleen, esitando un paio di secondi prima di
chiederle se volesse fermarsi lì a mangiare. Il paramedico
ne fu piacevolmente sorpresa ed accettò, a patto che potesse
aiutare.
«La cucina è tutta vostra!»,
gridò Alex, dileguandosi con Artù al seguito.
Merlino e Cathleen si guardarono con le labbra arricciate,
sull’orlo di una risata che non riuscirono a reprimere a
lungo.
***
«Allora Crudelia, come va?».
Merlino ghignò, osservandosi il ciuffo di capelli bianchi
attraverso la lama del coltello con cui stava tagliando a cubetti la
verdura.
«Non c’è male. Grazie per
prima».
«Oh, figurati».
«Visto che siamo soli, vorrei ringraziarti anche
per… lo sai, per avermi tirato fuori dal lago e aver salvato
Artù».
Cathleen gli sorrise, dandogli un leggero colpo d’anca.
«Non hai niente di cui ringraziarmi: una promessa
è una promessa. Piuttosto, come ti sembra stia reagendo Alex
al bracciale?».
«Magnificamente». Merlino sollevò lo
sguardo e oltre la finestra guardò Alex e Artù
esercitarsi al tiro con l’arco. «È
tornata la solita Alex di sempre, il che vuol dire che il bracciale sta
facendo il suo lavoro».
«Però?», lo incalzò il
paramedico, asciugandosi le mani su uno straccio ed incrociando le
braccia al petto.
Lo stregone sospirò. «Però temo che il
fatto che stia meglio l’abbia convinta ancora di
più a tenere segreta la sua fonte magica».
«Hai un piano?».
«In realtà sì, ce
l’ho». Lasciò il coltello sul tagliere e
posando entrambe le mani sul bordo del piano da lavoro sorrise
amareggiato, guardando Alex alle prese coi festeggiamenti dopo aver
scoccato una freccia che aveva centrato perfettamente il proprio
bersaglio.
«Da quando siamo diventati una coppia io non sono mai andato
a dormire a casa sua», iniziò a spiegare.
«All’inizio pensavo fosse solamente
perché se Artù avesse scoperto che non
c’ero si sarebbe insospettito, ma poi ho cominciato a pensare
che forse il vero motivo per cui non mi vuole è
perché…».
«Perché è lì che tiene la
fonte», concluse Cathleen per lui, accarezzandosi le labbra
con il pollice. «Hai intenzione di entrare in casa sua per
cercarla».
Merlino annuì, passandosi le mani sul viso stanco.
«Alex non mi perdonerebbe facilmente, se dovessi tradire in
questo modo la sua fiducia. Più di quanto io non abbia
già fatto con il bracciale di Morgana. Se lo facessi
davvero… rischierei di rovinare tutto ciò che
abbiamo».
Cathleen rimase per qualche secondo in silenzio, meditabonda. Poi
sorrise e gli posò una mano sulla spalla, stringendola
appena.
Il mago la osservò stupito, rendendosi conto che con lei era
stato così facile esternare i dubbi che lo dilaniavano da
un’intera settimana, al contrario di tutte le volte in cui ci
aveva provato con Artù ed aveva fallito.
«Lo faremo insieme», gli disse in tono
rassicurante. «Alex non potrà allontanarci tutti e
alla fine capirà che l’abbiamo fatto per il suo
bene».
Merlino abbozzò un sorriso e ricambiò il saluto
di Alex, la quale approfittando della distrazione di Artù si
era voltata per soffiargli un bacio.
«Grazie, Cath», mormorò, gli occhi
lucidi di commozione.
«È a questo che servono gli amici, no?».
«Alex è fortunata ad averti».
«Non mi riferivo solo a lei».
Merlino si voltò a fissarla, colpito da un
déjà-vu. Decise però di rimanere in
silenzio e dopo averle rifilato a sua volta un leggero colpo
d’anca tornò a tagliare le sue verdure.
***
Baqi osservò il proprio riflesso sulla teca che proteggeva
la preziosa corona ritrovata al galà di beneficienza di
Windsor, poi, sbuffando, raddrizzò la schiena.
Uscì dal museo a mani vuote, ma ancora pieno di speranze:
niente avrebbe scalfito la sua determinazione e in un modo o
nell’altro sarebbe andato fino in fondo alla faccenda, anche
a costo di ritrovarsi senza un penny. (E secondo sua sorella sarebbe
accaduto presto).
Con la borsa a tracolla che gli sbatteva sul fianco, si
fermò ad un Caffè Nero e con il proprio
bicchierone d’asporto si diresse nuovamente verso la
stazione. Mentre aspettava il treno, chiamò proprio Hala.
«Pronto?».
«Ciao, sono io. A che punto sei con i preparativi?».
«Ho finito adesso. Spero solo di essermi ricordata tutto. Tu
hai qualche novità?».
«No, nessuna».
«L’ennesimo buco nell’acqua. Che ti avevo
detto, Baqi?».
Il gemello alzò gli occhi al cielo nuvoloso ed
iniziò a farle silenziosamente il verso, prevedendo con
assoluta precisione tutto ciò che gli avrebbe detto.
All’improvviso Hala si interruppe ed infastidita disse:
«Mi stai facendo il verso, non è così?
Baqi… Te lo dico per il tuo stesso bene:
dimenticatene».
«Non posso, io… Non ce la faccio! Questa cosa
potrebbe cambiarmi la vita e fino a quando non le avrò
provate tutte non mi fermerò!».
«Senti, perché non vieni con me dalla signora
Chapman? Anche solo per un paio di giorni, per cambiare aria».
«Non servirà a niente, Hala. Ora, se non hai
nient’altro per cui rimproverarmi…».
«Potresti venire a fare qualche foto all’ospedale
in via di ristrutturazione grazie alla donazione del Principe William.
Potresti persino intervistare le infermiere che c’erano quel
giorno, scrivere un pezzo per il giornale…».
«Ti ho già detto che non sono interessato. Ci
vediamo tra poco».
Baqi terminò la telefonata senza nemmeno ascoltare le ultime
parole di sua sorella, parole che sarebbero state comunque sovrastate
dallo sferragliare del treno in arrivo.
***
Abigail strinse più forte la mano della nonna,
inconsapevolmente, mentre si schiariva la gola per chiedere
all’infermiera che le stava servendo il pranzo:
«Quanto ci vuole ancora per gli esiti degli esami?».
«Lo sai che ci vogliono almeno un paio di giorni,
tesoro».
«Sono passati, un paio di giorni».
L’infermiera le sorrise gentilmente, accarezzandole i
capelli. «Arriveranno quando arriveranno».
«Grazie», borbottò la ragazzina quando
la donna si fu allontanata per servire altri tavoli.
Sua nonna ridacchiò, accarezzandole il dorso della mano.
«C’è qualcosa che ti preoccupa, amore
mio, ma non ce n’è bisogno».
«Non puoi saperlo, nonna. Se questi esami sono andati
male…».
«Se sono andati male, faremo in modo che la prossima volta
vadano bene. Ce la caveremo, ne sono sicura».
Abby sorrise, giocando col purè nel proprio piatto.
«Grazie, nonna. Anche per essere rimasta, nonostante il tuo
agente ti faccia pressioni per il libro. Significa molto per
me».
«Il mio agente può anche andare al diavolo, lo
sai. E poi sento terribilmente la tua mancanza a casa».
«Pensavo che Hala e Baqi ti tenessero compagnia».
«Oh sì, i gemelli rendono viva quella vecchia
catapecchia, ma non sono come te». Le accarezzò
una guancia e senza alcun motivo ridacchiò.
«Che c’è?», le chiese Abigail,
voltandosi per seguire la direzione del suo sguardo. Non appena i suoi
occhi incrociarono quelli di Mark, il ragazzino li abbassò
sul proprio piatto, imbarazzato.
«A proposito dei gemelli… Vado a chiamare Hala per
sapere a che ora arriverà», esclamò sua
nonna, facendole l’occhiolino.
Abby arrossì e la guardò uscire dalla mensa, poi
si voltò di nuovo verso Mark e con un cenno del capo lo
invitò a raggiungerla. Lui non se lo fece ripetere due volte
e con il solo piatto di pasta e la forchetta sulle gambe la raggiunse.
«Dici che tua nonna se n’è
accorta?», le domandò subito, vergognosamente.
Abby annuì, trattenendo a stento le risate. Quindi
allungò le mani verso di lui e lasciò che gliele
stringesse, riscaldandole piacevolmente.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende?», le
domandò alla fine. «È da Pasqua che ti
comporti in modo strano e ogni volta che provo a chiederti qualcosa
cambi argomento. Cosa mi nascondi?».
«Niente, Mark. Sul serio».
Il ragazzino scosse il capo, le sopracciglia inarcate. «Non
so più come dirtelo, Abby: non me la bevo».
Abigail sospirò e ritirò le mani per unirle in
grembo, dove iniziò a torturarsi il bordo della maglietta.
«In queste ultime settimane mi sento più stanca
del solito e ho… ho paura che gli esami di controllo mi
dicano qualcosa che non voglio sentire».
«Esami di controllo? Quando li hai fatti? Perché
non ne sapevo niente?».
Mark era furioso e Abby avrebbe voluto essere nel suo letto, con le
coperte tirate fin sopra alla testa.
«Non volevo che ti preoccupassi».
« Preoccuparmi?
Abby, stai per caso dicendo che potresti…?».
«Non lo so, Mark!», urlò, attirando su
di sé l’attenzione di tutta la mensa.
«So solo che tu pensi sempre al peggio, è sempre
stato così! Sei fatto così! E se ti avessi detto
degli esami e delle mie paure, tu non saresti stato in grado di
aiutarmi! Anzi, avresti soltanto peggiorato la situazione!».
Aveva i polmoni che le dolevano e la gola che le bruciava a causa del
magone. Con la morte nel cuore e la voce tremante, concluse:
«Mi dispiace, ma non volevo finire per consolarti. Non questa
volta».
Abbassò lo sguardo e nonostante non avesse toccato cibo
uscì dalla mensa, diretta verso la propria stanza, dove
avrebbe pianto fino a non avere più lacrime.
***
«Grazie per il pranzo, era tutto buonissimo»,
esclamò Alex, alzandosi per impilare i piatti vuoti da
portare in cucina.
Merlino però le strinse il braccio e scosse il capo,
dicendo: «Lascia stare, faccio io».
«Dai, tu e Cathleen avete cucinato, ora tocca a me e ad
Artù dare una mano».
«Ehi, non mi mettere in mezzo!», si tirò
fuori il re di Camelot, alzandosi per dirigersi in salotto, dove si
spaparanzò sul divano, col telecomando in mano.
Tutti risero di fronte al suo comportamento regale e così
furono Alex e Merlino a sparecchiare. Soli in cucina, lontani dallo
sguardo del biondo, distratto anche da Cathleen, riuscirono persino a
scambiarsi un bacio.
«Fingi che la tua auto non parta, così
sarò costretto ad accompagnarti a casa. Che ne
dici?», le chiese il mago, sporgendosi per accarezzarle il
collo con le labbra, baciandolo e mordendolo lungo la linea della
mandibola.
«Mi stai proponendo una sveltina? Questo non me lo sarei mai
aspettata da te, Merlino», rispose con un sorriso incerto,
scostandosi. «Ad ogni modo non credo si possa fare.
L’allenamento di questa mattina mi ha distrutta ed
è meglio che mi faccia una dormita: ho il turno di
notte».
«Va bene, sarà per la prossima volta».
«Certamente», mormorò rubandogli un
altro bacio.
In quel momento sentirono Artù avvicinarsi e quasi si
ignorarono, riprendendo a sciacquare i piatti e ad infilarli nella
lavastoviglie.
«Ho ancora un buco…», disse il re del
passato e del futuro – più che a se stesso che a
loro – aprendo le ante dell’armadietto in cui
c’erano tutte quelle cose non proprio salutari che a lui
piacevano tanto.
«So io a che cosa dovrò fare un buco, se continua
così», sussurrò Merlino ad Alex, ma
abbastanza ad alta voce perché Artù lo sentisse e
gli tirasse addosso la prima cosa che gli capitò sotto tiro:
un portafrutta di legno quasi vuoto.
L’infermiera però agì puramente
d’istinto e fu più veloce: le sue iridi si tinsero
d’oro e il portafrutta si incenerì prima che
potesse colpire Merlino. Un mucchietto di cenere sul pavimento fu tutto
ciò che ne rimase.
Ci fu un momento di profondo silenzio, così profondo che
Alex si sentì un mostro ed ebbe voglia di scappare via. Ad
un tratto però Merlino le prese le mani, cercando qualcosa
che lei non scorse, e poi si concentrò sui suoi occhi per
esaminarli uno alla volta, come un vero dottore.
«Dimmi come ti senti», le ordinò.
«Io… Bene, credo. Era da tanto che non riuscivo ad
usarla».
Non avrebbe dovuto dirlo, Alex se ne rese conto troppo tardi e si morse
la lingua di fronte all’espressione furiosa di
Artù.
«Stai dicendo che hai provato
ad usarla? Per quale stupido motivo avresti dovuto?», le
urlò contro, sotto gli occhi sgranati di Cathleen.
«Volevo esercitarmi, volevo riuscire a controllarla per
potervi aiutare! Ma da quando l’ho usata per risvegliare
Merlino non ci sono più riuscita, non so
perché».
Artù aprì la bocca per rimproverarla ancora, ma a
quel punto sia Cathleen che Merlino gli fecero segno di stare zitto.
Lo stregone la fece sedere e si inginocchiò di fronte a lei,
accarezzandole ancora le mani.
«Quello che voleva dire Artù è che non
è saggio usare la magia senza qualcuno che ti guidi.
Potresti ferirti seriamente».
«Allora guidami, Merlino. Ti supplico».
Merlino la fissò intensamente, poi posò gli occhi
in quelli di Artù, il quale gli rivolse uno sguardo tra il
minaccioso e l’impaurito.
Alla fine disse pacatamente: «Ci
penserò».
Artù provò ancora una volta a dire la sua
– e probabilmente avrebbe detto che Merlino era un pazzo
scriteriato – ma di nuovo Cathleen glielo impedì,
tappandogli la bocca con una mano e trascinandolo in salotto.
«Avresti dovuto dirmelo», disse Merlino non appena
furono soli, alzandosi per darle le spalle.
«Lo so. Lo so, ma sapevo che ti saresti arrabbiato e
così…».
«Io non sono arrabbiato, sono deluso. Deluso che tu non mi
ritenga degno di sapere che cosa ti succede. Forse è questo
il vero motivo per cui non vuoi sposarmi».
«Che cosa stai dicendo?».
«La verità è che non vuoi condividere
tutto con me. Ma lo capisco, anche io ho dei segreti, cose che
riguardano il mio passato e che probabilmente non saprai mai. Ma qui si
tratta del tuo presente… del nostro futuro».
Alex si alzò e lo abbracciò da dietro, affondando
il viso tra le sue scapole appuntite. Ogni volta che le guardava le
sembravano sempre sul punto di bucare la pelle tesa per lasciar spazio
ad un paio di ali d’angelo. E forse era così,
forse Merlino era davvero un angelo: il suo, costantemente impegnato a
proteggerla.
Non sapeva che cosa dire e non riusciva a dire quello che avrebbe
dovuto confessargli, perciò rimase in silenzio. Rimasero
così per parecchio tempo, fino a quando Merlino non si
voltò e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Io ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon. Darei la mia vita
per te e tutto quello che faccio è per il tuo bene. Non
dimenticarlo mai».
Le posò un bacio sulla fronte e le diede di nuovo le spalle,
aggiungendo: «Credo che ora dovresti andare a riposarti per
il turno».
Alex annuì con un cenno del capo e senza aprire bocca
uscì dalla cucina ed attraversò il salotto, sotto
gli sguardi di Cathleen e Artù.
Saltò in auto e sfrecciò verso casa senza nemmeno
accendere la radio.
Era alla porta, alla ricerca delle chiavi, quando sentì il
proprio cellulare suonare. Se lo portò
all’orecchio e rispose distrattamente.
«Ciao Alex, sono Keith».
«Qualsiasi cosa sia, non è un buon
momento».
«Scusami, è solo che una collega del ricevimento
mi ha detto che è venuta di nuovo quella ragazza che chiede
sempre di te».
«Come? Questa è già la terza volta!
Secondo me si confonde… Da come me l’hanno
descritta, non credo di conoscerla».
«Beh, volevo solo avvisarti».
«Grazie, Keith. Ci vediamo».
Chiuse la chiamata e finalmente riuscì a trovare le chiavi.
Un fruscio alle sue spalle le fece rizzare le orecchie e si
girò, ma non vide nessuno. Probabilmente si trattava solo di
un gatto randagio, o dell’uccellino che aveva fatto il nido
tra le sue rose.
Entrò in casa, liberandosi subito del giubbotto e delle
scarpe.
Una volta in camera si gettò sul letto, affondando il viso
nel cuscino. Quando riaprì gli occhi, al proprio polso vide
il braccialetto coi motivi floreali che le aveva regalato Merlino.
«Apparteneva
ad una principessa bella e di buon cuore, proprio come te».
Sentendo di non meritarselo, se lo tolse e lo posò sul
comodino. Continuò a fissarlo fino a quando il sonno non le
fece chiudere gli occhi alle lacrime.
Nel suo giardino, dietro ai cespugli di rose, Freya osservava la
finestra della sua camera da letto e sorrideva.
***
«Credo che dovresti andare a parlare con Merlino»,
gli disse Cathleen, posando la guancia sulla sua spalla.
Artù la guardò con la coda dell’occhio
e capì che aveva ragione, come sempre. Raramente le donne
con cui aveva a che fare non l’avevano: anche Ginevra era
sempre stata la luce sul suo cammino, la guida che con gentilezza lo
aveva portato a prendere molte decisioni sensate.
Fu Merlino però ad andare da loro. Con ancora lo straccio
umido tra le mani, si lasciò cadere sulla poltrona e
sospirò con un braccio a coprirgli gli occhi.
«Lo faremo questa notte», esordì in tono
lugubre.
«Che cosa?», chiese Artù, arricciando il
naso: sentiva puzza di guai.
«Merlino vuole entrare in casa di Alex mentre lei non
c’è per cercare la fonte magica che sta tenendo
nascosta a tutti noi», gli spiegò Cathleen.
Per qualche istante Artù non riuscì a formulare
una frase di senso compiuto, spiazzato. Poi riuscì a stento
a trattenere la rabbia, digrignando: «Che piano è
mai questo? E tu come fai a saperlo?».
«Mi ha accennato qualcosa prima, mentre preparavamo il
pranzo. Ma non è importante, Artù». Gli
prese il mento tra le dita per guardarlo fisso negli occhi.
«Dobbiamo farlo per Alex, per la sua sicurezza».
«Non possiamo più aspettare», intervenne
il mago, massaggiandosi il viso. «Avete visto che
cos’ha fatto al mio portafrutta…».
«A proposito, come ci è riuscita?»,
chiese Artù. «Indossava il bracciale!».
Merlino sospirò, scuotendo il capo. «Non lo so,
forse sta perdendo di efficacia. Oppure, ancora peggio, la magia che
sta assorbendo è così potente da riuscire a
neutralizzarne gli effetti».
«Però hai sentito che cos’ha detto? Ha
detto che nonostante ci provasse, non è riuscita ad
utilizzare i suoi poteri prima di oggi», fece notare
Cathleen. «Questo che cosa potrebbe significare?».
Merlino rimase in silenzio con le mani unite di fronte al naso,
pensieroso, fino a quando non mormorò, con sguardo
spiritato: «È stato istintivo, emotivo…
Aveva una ragione ben precisa per evocare la magia: proteggere me. E
questo l’ha resa così potente da infrangere la
barriera creata dal bracciale».
«Tipo una scossa di adrenalina», disse Cathleen.
«Sì, ha senso».
Artù si alzò improvvisamente dal divano e si
diresse verso la mensola del grande camino, dicendo:
«Premettendo che per me niente di tutto questo ha senso, possiamo
tornare al pessimo piano di Merlino? Come fai ad essere così
sicuro che la fonte magica sia a casa sua?».
Merlino e Cathleen si guardarono e Artù si sentì
ancora una volta l’escluso del gruppo, ma non fece in tempo a
farlo notare che il paramedico rispose: «È
semplicemente l’unico posto in cui Merlino non ha ancora
guardato. E poi sarebbe logico: anche io, se trovassi un qualcosa da
cui non vorrei mai separarmi, me la terrei sempre a portata di
mano».
«Cath ha ragione», l’appoggiò
Merlino.
Artù incrociò le braccia al petto, scrutandoli.
Non capiva perché all’improvviso quei due
andassero d’amore e d’accordo, ma non era il
momento adatto per occuparsi della questione: Alex aveva la
priorità su tutto.
«Va bene», esclamò arrendevolmente.
«Supponiamo che la fonte magica sia a casa di Alex. Come
facciamo ad entrare? E che ne facciamo quando la troviamo? Insomma, non
sappiamo nemmeno cos’è!».
Il silenzio cadde su di loro. Come aveva sempre sostenuto, i piani di
Merlino si rivelavano sempre fallimentari. Per questo se ne occupava
lui.
Fu proprio lo stregone però a parlare per primo, dopo
essersi schiarito la gola con un colpetto di tosse.
«In realtà io un’idea ce
l’avrei».
Artù sgranò gli occhi, incredulo alle proprie
orecchie. Spalancò le braccia e con tono sarcastico disse:
«Oh, molte grazie per averci messi subito al
corrente!».
«Non ne sono sicuro al cento percento, ma...».
«Dillo e basta, Merlino».
«Non vi piacerà… non vi
piacerà affatto».
«Merlino!».
«Excalibur!», gridò, alzandosi per
guardarlo dritto negli occhi. «Penso che ad Avalon Alex abbia
trovato Excalibur!».
Non c’erano parole per descrivere lo stato di shock in cui
Artù era piombato. Il fatto che Alex avesse trovato la spada
che era stata forgiata per lui la rendeva la sua più
importante discendente, ma anche colei che avrebbe dovuto sopportarne
il peso quasi insostenibile, un peso che gravava sull’anima
piuttosto che sulla mano con cui la si impugnava.
Ancora una volta fu Cathleen a riportarlo alla realtà,
rigorosamente a modo suo.
Seduta ancora sul divano, allungò le gambe fino ad
incrociare i piedi sul tavolino e si portò le mani dietro la
nuca, sogghignando: «Non so nemmeno come riuscivo a non
annoiarmi prima di conoscervi».
***
Erano state solo un paio d’ore di viaggio, tuttavia le erano
sembrate infinite. Era preoccupata per Baqi, preoccupata che in sua
assenza si ficcasse in guai ben più grandi di quelli con cui
aveva a che fare di solito.
Non si erano mai divisi per più di mezza giornata,
specialmente da quando i loro genitori li avevano cacciati fuori di
casa perché si erano ribellati alle regole ferree della loro
religione, e forse – al contrario di ciò che
pensava – era proprio Hala a non essere pronta a stare
lontana da lui.
La ragazza scese dal taxi e dopo essersi guardata un po’
intorno entrò nell’ospedale.
All’accettazione chiese indicazioni per il reparto oncologico
e una volta ottenute si diresse verso l’ascensore.
Non era una grande fan degli spazi ristretti, così come non
lo era degli ospedali, perciò pregò Dio, Allah e
tutti i suoi cugini perché non dovesse assistere ad una di
quelle scene da film, con tanto di rianimazione od operazione
d’emergenza. Ma fu proprio lì che lo
incontrò, l’amore della sua vita.
«Aspetta, aspetta!».
Hala si gettò tra le porte dell’ascensore, anche
col rischio di farsi male, per far sì che
quell’angelo sceso in terra, col camice bianco che gli
svolazzava alle spalle, le facesse compagnia in quel box di metallo.
Una volta al suo fianco la ringraziò, rivolgendole il
più bel sorriso che avesse mai visto.
«Grazie a te per onorarmi della tua visione»,
avrebbe voluto rispondergli, ma per fortuna le sue corde vocali si
erano attorcigliate l’una con l’altra.
Quando le porte si chiusero, Hala respirò profondamente per
annusare il suo profumo: nulla di troppo forte, solo un leggero accenno
di dopobarba al pino silvestre. Come piaceva a lei.
«Sei in visita a qualcuno?», le chiese il dottore,
indicando il trolley che aveva abbandonato in un angolo.
Hala annuì e si schiarì la gola.
«Nipote».
«Non l’avrei mai detto: sei giovane per avere una
nipote».
«No, non è mia, la nipote. Beh, quasi. Si tratta
di Abigail Reed, la conosce?».
Lui la fissò con i suoi ipnotici occhi grigio-azzurri, messi
ancora più in risalto dalla sua carnagione mulatta.
«È per caso una ragazzina con i capelli castani e
gli occhi scuri?».
«In carne ed ossa», rispose Hala, riuscendo
finalmente a ricambiare il sorriso.
«Sì, la conosco di vista. Leucemia,
giusto?».
Annuì mestamente, ricordando la conversazione che aveva
avuto con la signora Chapman prima che la invitasse a raggiungerla:
Abby aveva chiesto alla nonna di prolungare la sua permanenza in
ospedale fino a quando non avrebbe ricevuto gli esiti degli esami di
controllo, e visto che questo non era mai successo prima
d’ora (semmai era stato il contrario), le
possibilità che non prevedesse buone notizie erano alte.
«È la prima volta che vieni qui?», le
chiese ancora, dopo qualche lungo istante di silenzio.
O quell’ascensore era molto lento, o il tempo lì
dentro scorreva in modo diverso.
«A dire la verità sì. Mi hanno detto
che devo andare al quarto piano, ma...».
«Io stavo andando giusto da lei; ti accompagno».
Hala sentì il rossore iniziare ad impadronirsi del suo viso
e cercò di combatterlo, con ben scarsi risultati.
«Grazie, è... è molto gentile da parte
sua».
«Dammi pure del tu».
Le porte si aprirono sul quarto piano quando il dottore le porse una
mano e, sorridendo, si presentò: «Mi chiamo
Keith».
«Hala».
Il dottore sorrise e per la prima volta nella vita di Hala non fece
commenti né domande sul suo nome. Uno dei tanti motivi per
cui, nonostante tutta la fredda razionalità che aveva sempre
sostenuto di avere, iniziò ad innamorarsi perdutamente di
lui.
***
Abigail si asciugò le guance con una mano quando
sentì la porta della sua camera aprirsi per far entrare i
rumori di un lento pomeriggio in ospedale.
«Nonna, davvero... vorrei restare un po’ da
sola», mugugnò, tirando su col naso.
Ma la persona che si era seduta sul bordo del suo letto non era sua
nonna, e lo capì grazie alla delicata carezza con cui le
sistemò le coperte. Si voltò supina e
riuscì persino ad abbozzare un sorriso, incrociando gli
occhi azzurri di Merlino, dolci e rassicuranti, due fari luminosi nel
bel mezzo della semi-oscurità che regnava nella sua stanza a
causa del brutto tempo e delle tapparelle abbassate.
«Non c’era bisogno che venissi», gli
disse, massaggiandosi ancora una volta gli occhi umidi di lacrime.
«Invece credo proprio di sì. Non sarò
bravo a dispensare consigli come Alex, ma ci provo. E se non dovessi
riuscire a tirarti su di morale, posso sempre mandarti
Artù».
Abby rise di fronte all’espressione ammiccante di Merlino, al
quale tirò un pugnetto sulla spalla per farlo smettere.
«Tu e Alex avete litigato? È per questo che
è irreperibile?», gli domandò, sperando
che si dimenticasse di quello che gli aveva accennato al cellulare.
Merlino sospirò, gettando un’occhiata al soffitto.
«Non è stato proprio un litigio... Semplicemente
su alcune cose non la vediamo allo stesso modo».
«Già... Conosco la sensazione»,
mormorò. Poi si sforzò di sorridere, esclamando:
«Comunque ero sicura che alla fine vi sareste messi insieme:
siete fatti l’uno per l’altra!».
Il moro le rivolse un’occhiata eloquente, prendendole una
mano tra le sue. «Credi che non abbia capito che cosa stai
facendo? Sono venuto qui per te, non per parlare della mia relazione
con Alex».
Abigail sbuffò e il desiderio di piangere la travolse di
nuovo, con la forza di un’onda anomala.
«È tutto così difficile... Sto
iniziando persino a pensare che Mark aveva ragione, quando diceva che
stando insieme avremmo sofferto il doppio se uno dei due...».
«Qual è il problema, Abby?».
«Io ho paura che...». Deglutì il magone
che le bloccava la gola, abbassando gli occhi.
Merlino diede una strizzatina alla sua mano, così piccola e
fredda, attirando nuovamente la sua attenzione. Il sorriso sul suo viso
la colpì, perché era un sorriso che non gli aveva
mai visto ma che in qualche modo gli calzava a pennello: consapevole,
empatico, quasi saggio.
«Temi una recidiva», le disse, spiazzandola
completamente.
Con gli occhi sgranati, Abby non riuscì a trattenersi:
«Come fai a saperlo?».
«Ho notato gli stessi cambiamenti che hai notato tu,
suppongo», rispose con gentilezza, scrollando le spalle.
«Ti stanchi più facilmente, mangi poco
perché hai la nausea, controlli sempre che le maniche dei
maglioncini ti coprano bene fino al polso...».
Abby gli mostrò le petecchie sulle braccia, tornate
all’improvviso nel bel mezzo della terapia. Con gli occhi
colmi di lacrime e la voce non proprio ferma, disse: «Io non
voglio pensare al peggio».
«E non devi», sussurrò il moro,
avvicinandosi a lei per stringerle delicatamente il viso tra le mani.
«Ascoltami: non puoi saperlo per certo, è inutile
che ti disperi ora. E sarà inutile anche disperarsi dopo,
nel caso in cui i tuoi sospetti siano fondati: potrai ancora lottare,
Abby, e ce la farai. Ne sono certo».
«Ho trattato malissimo Mark»,
singhiozzò, posando il capo nell’incavo della sua
spalla. «Gli ho detto che non volevo consolarlo questa volta,
che lui pensa sempre al peggio e non avrebbe potuto aiutarmi».
«Ehi... Ehi, è tutto okay»,
cercò di tranquillizzarla, massaggiandole la schiena.
«Sistemeremo tutto, te lo prometto. Artù si sta
occupando di lui».
Abigail alzò di scatto la testa, atterrita.
«Artù cosa?».
***
Al ritmico bussare alla porta, Danilo gettò
un’occhiata verso Mark, profondamente immerso nel gioco della
PS Vita con cui stava scaricando un po’ di tensione
– aveva assistito a ciò che era successo tra lui e
Abigail in mensa e poteva immaginare che di tensione da scaricare ne
avesse a palate – crivellando di buchi i propri nemici. Era
ovvio che non aspettava visite. E anche se fossero state visite a
sorpresa, non le avrebbe gradite.
Danilo sospirò stancamente e si spinse giù dal
letto per scivolare nella propria sedia a rotelle. Quindi
andò alla porta e l’aprì di scatto,
facendo spaventare il ragazzo dall’altra parte, proteso per
captare i rumori provenienti dall’interno.
«Guarda un po’ chi c’è... Il
re di Camelot in persona», esclamò divertito.
Artù lo fissò con cipiglio perplesso, incerto se
lo stesse silenziosamente prendendo in giro o facesse sul serio. Alla
fine borbottò: «Ex re, a voler essere
precisi».
Ma il ragazzino non parve sentirlo e disse ancora: «Il che mi
ricorda che non ti ho ancora ringraziato come si deve! Sto mangiando
doppia razione di dessert grazie a te!». Protese un pugno in
avanti, aspettandosi che il biondo lo colpisse col proprio; tutto
ciò che ottenne però fu un’occhiata
confusa.
«Ma che problemi hai, bro?»,
gli domandò stizzito, per poi aggiungere:
«Perché sei qui?».
Artù ignorò volontariamente il suo tono
sfrontato, nonostante nel giro di due minuti quel ragazzino fosse
riuscito a fargli saltare i nervi, e spiegò il motivo della
sua presenza: «Volevo chiedere udienza a Mark».
«Tu vuoi...?». Danilo deglutì,
scioccato. Quando si riprese, alzò le mani in segno di resa
e si voltò per poter urlare in direzione di Mark:
«Ehi, lo schizzato è tutto tuo!».
Il ragazzino alzò gli occhi dalla Play Station e si
pietrificò quando vide il proprio compagno di stanza
dileguarsi, lasciandolo da solo con Artù, il ragazzo che
Merlino aveva usato come modello per i suoi disegni; lo stesso ragazzo
di cui Abby era una profonda ammiratrice – l’aveva
persino definito sexy, una volta! – e che Mark odiava proprio
per questo motivo.
Mise in pausa il gioco, sperando che si trattasse di una cosa breve, e
si tolse le cuffie dalle orecchie.
«Ciao Mark», lo salutò il biondo, dopo
essersi chiuso la porta alle spalle.
«Che cosa vuoi?».
«Se fosse stato per me, non sarei qui ora. Ma Merlino ha
insistito perché facessi almeno un tentativo».
«Non ti seguo».
Artù prese la sedia addossata al muro accanto alla porta e
la portò vicino al letto del ragazzino; quindi si sedette
con le braccia incrociate sullo schienale e le gambe divaricate.
«Abby non è riuscita a contattare Alex e
così ha chiamato Merlino. Era piuttosto scossa».
«Sì, beh, non so cosa vi abbia detto, ma
io...», iniziò a dire, senza nemmeno sapere dove
lui stesso sarebbe andato a parare. Comunque Artù lo
interruppe, alzando una mano e guardandolo severamente.
«Merlino è con lei, al momento, e mi ha mandato
qui a parlare con te».
Mark lo fissò fino a quando il biondo non abbassò
la mano, dandogli il permesso di contribuire alla conversazione. E
tutto quello che disse fu: «Tu e Merlino siete
pazzi».
Dopo un minuto di pausa, infastidito dal silenzio e dallo sguardo fisso
di Artù, aggiunse: «Di che cosa dovremmo parlare,
eh? Della ragazza che amo e che probabilmente non metterà
più piede fuori da quest’ospedale? Del fatto che
la mia teoria era fondata? No, grazie. E se anche ci fosse una remota
possibilità che io dica ad alta voce come mi sento in questo
momento, nessuno capirebbe».
Artù scrollò le spalle, sogghignando.
«Sei un tipo da scommesse, vero? Beh, che ne dici di questa?
Se io ti dico come ti senti in questo momento, tu mi dai
l’affare a cui sei sempre attaccato», disse
indicando con un cenno del mento la PS Vita che aveva in grembo.
«Se mi sbaglio… puoi chiedermi tutto quello che
vuoi».
Mark era così infuriato che le nocche sui propri pugni
divennero bianche. «Ma chi cazzo ti credi di essere, eh? Sei
davvero uno schizzato».
«Abbiamo un patto oppure no?».
«Patto sia!».
«Ottimo!». Artù si alzò, con
un sorriso già vincente sul viso, e si portò ai
piedi del letto di Mark, con le mani strette intorno alle sbarre su cui
scorreva il vassoio-tavolino.
«Ti senti inutile, spezzato, devastato, perché la
ami più di ogni cosa e non puoi immaginare di passare anche
un solo giorno di questa vita senza di lei. Vorresti poter far
sbocciare di nuovo il sorriso sul suo volto, vorresti poterla farla
ridere, ma hai perso ogni speranza. Pensi di non essere abbastanza
forte per te stesso, figuriamoci per entrambi. Faresti di tutto per
lei, qualsiasi cosa, ma sei anche convinto che la vita non è
una favola e che per voi non ci potrà mai essere il lieto
fine».
Il silenzio cadde su di loro, un silenzio così pesante che
Mark sentì il proprio cuore battere furiosamente nella cassa
toracica. Abbassò gli occhi umidi di lacrime,
vergognosamente, e con uno sforzo si allungò verso
Artù per porgergli la Play Station. Sapeva riconoscere la
sconfitta.
Il biondo più che stringere le mani intorno alla console le
strinse intorno a quella di Mark, il quale sollevò gli occhi
e fece una smorfia perché non sarebbe riuscito a trattenersi
ancora a lungo: alla fine, avrebbe pianto di fronte ad un estraneo.
«Ora capisci perché Merlino mi ha mandato qui? Noi
due siamo simili, Mark. So come ti senti perché ci sono
passato».
«E com’è andata a finire?»,
gli domandò, tirando su col naso.
Artù sorrise dolcemente, ricordando gli occhi di Ginevra,
luminosi e pieni di amore la prima come la seconda volta in cui le
aveva chiesto di diventare sua moglie.
«Che tu ci creda o no, abbiamo avuto il nostro lieto
fine», disse, liberandolo dalla propria stretta per potersi
sedere al suo fianco sul letto. «Se c’è
una cosa che Merlino è stato in grado di insegnarmi
è proprio questa: l’amore vero è
più forte di qualsiasi cosa, è in grado di
mantenere sempre viva la speranza. E anche se fa male non
può essere accantonato, ignorato, tantomeno rinnegato.
Perciò lotterai fino a quando avrai respiro, e scoprirai che
ci riuscirai, che troverai la forza e il coraggio necessari,
perché semplicemente non puoi arrenderti».
Mark scrutò quegli occhi blu come il mare, ardenti di vita
eppure anche spenti, risucchiati in un passato che sembrava
irrecuperabile ormai. Quindi gli porse la mano in segno di gratitudine:
avrebbe lottato per Abby, lo avrebbe fatto fino alla fine dei suoi
giorni.
Artù gli afferrò l’avambraccio e lo
strinse, sorridendo soddisfatto. «Va’ da lei,
su».
Mark ricambiò lo sguardo con determinazione e scese dal
letto per recuperare la propria sedia a rotelle. Sulla porta della
stanza, si voltò un’ultima volta verso
Artù, ancora seduto sul suo letto.
«Come si chiamava l’amore della tua
vita?».
Artù abbassò il capo, mordendosi un sorriso
consapevole. Quando rialzò gli occhi rispose con fierezza,
pronunciando il suo nome con tenerezza e devozione:
«Ginevra».
Mark scosse il capo, ridacchiando. «Certo, che domanda
stupida».
Il re di Camelot lo salutò con un cenno del capo e quando se
ne fu andato si alzò per andare alla finestra: il tempo non
prometteva nulla di buono, anzi… sembrava che il cielo si
stesse preparando per una tempesta coi fiocchi. Eppure eccolo
là il suo raggio di sole: seduta sull’altalena nel
bel mezzo del parco, Cathleen si fumava una sigaretta con un sorriso
sereno sulle labbra, e tutta la malinconia svanì guardandola.
***
Merlino uscì dalla camera di Abby proprio quando Mark
fermò la propria sedia a rotelle davanti alla porta. Si fece
da parte e guardò i due ragazzini alzarsi in piedi e
corrersi incontro sulle proprie gambe: un’immagine da un
significato così profondo, quasi sacro, che gli
scaldò il cuore.
«Non ti lascerò andare, non lo
permetterò», sussurrò Mark,
accarezzandole i capelli sulla nuca.
Quando fu in grado di distogliere lo sguardo e scacciare via la
malinconia causata dalla semplicità dei loro sentimenti, una
semplicità che lui e Alex per varie ragioni non avrebbero
mai avuto, trovò sei paia di occhi ad attenderlo: quelli
della nonna di Abby, la signora Chapman; quelli di Keith e quelli di
una ragazza che non conosceva, dalla pelle olivastra, con dei magnetici
occhi ambrati e i capelli neri, lunghi fino alle spalle e un
po’ scompigliati.
Quest’ultima lo fissava come se avesse appena visto un
fantasma, un misto tra l’incredulo e l’atterrito.
Provò ad accennarle un sorriso, ma la sua espressione
scioccata non mutò. Così la ignorò e
basta, rivolgendosi a Keith: «Dottor Ellis, come mai al
quarto piano?».
«A Pasqua ho incrociato Abigail e volevo solo vedere come se
la passava. Inoltre in ascensore ho conosciuto Hala,
la…».
«La mia figlioccia», specificò la
signora Chapman, sorridendo.
«E visto che non era mai stata qui l’ho
accompagnata».
«Sì, infatti non mi sembra di averla mai vista da
queste parti. O mi sbaglio?», le chiese, ricambiando il suo
sguardo ora con durezza, insospettito dal suo comportamento. Il sesto
senso non gli stava fornendo sensazioni positive… affatto.
«No, noi… No, non ci siamo mai visti»,
balbettò, sistemandosi una ciocca di capelli dietro
l’orecchio. «È solo che… mi
ricorda molto un’altra persona, mi scusi».
«Non c’è problema. Mi chiamo Merlino,
dammi pure del tu», si presentò porgendole la
mano, anche se con riluttanza.
«Hala, piacere».
« Aureola
intorno alla luna. Molto poetico».
La ragazza rimase ancora una volta a bocca aperta e nessun altro fece
commenti sulla sua uscita. In ogni caso Merlino non gliene avrebbe dato
il tempo, dato che si congedò subito dopo: «Visto
che la situazione sembra risolta, io andrei: ho diverse commissioni da
sbrigare».
«Ci vediamo domani all’agriturismo,
Merlino», lo salutò la nonna di Abigail.
«Certo. Presuppongo che anche Hala si fermerà
lì per la notte, giusto?».
«Sì, ho già prenotato una stanza anche
per lei».
«Benissimo. Allora a domani, buona serata».
«Ciao Merlino», lo salutò anche Keith,
sollevando una mano.
Merlino si voltò, non dopo aver scambiato
un’ultima occhiata con quella ragazza così
scioccata dal suo aspetto.
Uno dei suoi peggiori timori si stava facendo strada nella sua mente,
ma prima che diventasse un pensiero troppo ingombrante lo
accantonò, concentrandosi sul piano che doveva ancora
mettere a punto per quella sera: il recupero della fonte magica di
Alex.
***
«Sei sicura di stare bene? Mi sembri… strana,
ecco».
«Tranquillo Baqi, è tutto okay».
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli e
gettò il cartone della pizza nel lavandino,
dopodiché si gettò su uno dei tre divani in
salotto ed accese la TV per passare un po’ il tempo.
«Allora, come sta la vecchia? E la piccola Abby?».
Sentì Hala sospirare dall’altra parte del telefono
e si corresse: «Volevo dire la signora Chapman».
«Stanno bene, più o meno. Lo sai che Abby ha un
ragazzo, ora? L’ho conosciuto oggi, si chiama Mark».
«È ricoverato anche lui?».
«Sì, linfoma di Hodgkin se non ho capito
male».
«Uhm… immagino le scene romantiche e super
strappalacrime».
«Te l’ho mai detto che sei insopportabile a volte?
Solo perché a te non te ne va mai bene una non devi
denigrare la felicità degli altri, hai capito?».
«Ecco che ricomincia… Senti, Hala, se tu stai bene
e non hai nient’altro da raccontarmi io me ne andrei a
letto».
«Sì, bravo Baqi, dormici sopra. Buona
notte».
Il gemello terminò la comunicazione senza nemmeno salutarla,
convinto che gli stesse nascondendo qualcosa di grosso. La conosceva da
quando erano ancora due feti nell’utero di loro madre, come
pensava di potergliela fare sotto il naso?
Spense la TV dopo nemmeno cinque minuti di zapping, innervosito, e
salì in camera sua per togliere la corrente anche al suo
cervello. Ma il sonno tardò ad arrivare e i pensieri si
accumularono l’uno sull’altro, fino a quando non si
ricordò di ciò che Hala gli aveva detto quella
mattina: «Potresti venire a fare qualche foto
all’ospedale in via di ristrutturazione grazie alla donazione
del Principe William».
Per quale diavolo di
motivo il Principe William ha voluto donare personalmente dei soldi a
quell’ospedale? A così poca distanza dal
galà di beneficienza, soprattutto…
Il suo istinto di reporter lo fece alzare di scatto dal letto.
Recuperò il PC e cercò su Google notizie
sull’accaduto, trovandosi poi risucchiato da quel vortice di
link, hashtag e foto che altro non era che Twitter. Trovò
gli account di alcune delle infermiere dell’ospedale, le
quali avevano scattato foto e fatto video per immortalare quel momento
più unico che raro.
«Oh, cavolo», mormorò ad un tratto.
Avvicinò di più il viso allo schermo del PC, poi
ingrandì la foto con lo zoom e si massaggiò gli
occhi increduli. In un angolo, diretto verso le porte
d’uscita, era stata catturato il profilo del suo ragazzo
immortale.
In fretta e furia preparò una valigia e corse alla stazione,
per poi scoprire che l’ultimo treno che portava a Newport era
appena partito. Il prossimo disponibile era quello delle sei e
quarantacinque.
Baqi si sdraiò su una delle panchine della stazione con la
custodia del proprio PC tra le braccia. Nonostante la
scomodità e il freddo, riuscì ad appisolarsi con
un sorrisino vittorioso sulle labbra.
***
All’atteso bip
bip del proprio cellulare, Cathleen si affrettò
a leggere l’SMS di Merlino e poi lo infilò
nuovamente in una delle tasche dei pantaloni, facendo cenno ad
Artù che potevano andare.
Per l’intera durata del viaggio tra loro regnò il
silenzio, rotto soltanto dal tamburellare insistente delle pioggia e
dal rumore delle spazzole dei tergicristalli, probabilmente da
cambiare.
Cathleen fermò l’auto proprio di fronte al
giardino di Alex e si voltò verso Artù, con gli
occhi fissi verso il parabrezza e l’espressione assorta.
«Che cosa c’è?», gli chiese
quasi lamentosamente, richiudendo la portiera al vento freddo e alla
pioggia.
«Non capisco perché non hai lasciato venire anche
Merlino».
Cathleen si soffiò tra le mani unite a coppa di fronte alla
bocca, in modo da scaldarle un poco, e gli lanciò
un’occhiata saccente: «A certe cose proprio non ci
arrivi, eh Artù? Come pensi che si senta Merlino in questo
momento?».
Il re di Camelot scrollò le spalle, facendo una pernacchia
con le labbra, e diede un colpetto al draghetto di pezza rossa appeso
allo specchietto retrovisore. «Non sono mica un veggente, io.
Suppongo… non bene».
«Non bene», ripeté il paramedico,
fermando il dondolio del suo feticcio. «Si sente schiacciato
dai sensi di colpa, crede che tutto questo stia succedendo a causa sua
e ha paura che la magia gli porti via anche Alexandra. Non ha bisogno
di sgattaiolare in casa sua, come un ladro, per proteggerla
da qualcosa che lei, di sua spontanea volontà, ha scelto di
tenergli nascosta».
«Io non credo che lei…»,
iniziò a dire per difendere la sua erede, ma fu interrotto
dal paramedico.
«Shhh», lo azzittì con una mano sulla
sua bocca. Quindi indicò la finestra della camera di Alex,
al secondo piano, da cui grazie alla luce di un fulmine riuscirono a
scorgere per la seconda volta un’ombra.
«Di sicuro non è il suo gatto»,
sussurrò il re quando si fu liberato.
Cathleen recuperò di nuovo il proprio cellulare, con mani
tremanti. «Dobbiamo avvisare Merlino».
«No», glielo impedì Artù,
prendendole l’apparecchio dalle mani.
«Sei per caso impazzito?».
Con sguardo orgoglioso e determinato esclamò:
«Possiamo farcela anche senza di lui», poi
uscì in fretta dall’auto e senza nemmeno curarsi
di prendere l’ombrello si incamminò verso la porta
di casa.
«Cosa? No, Artù!».
Cathleen lo rincorse, urlandogli a mezza voce di ritornare in
sé. Alla fine lo raggiunse e gli strappò di mano
la copia della chiave di casa di Alex (recuperata da Merlino senza che
spiegasse loro come).
«Si può sapere che ti prende? Non sappiamo con chi
abbiamo a che fare, se si tratta di un topo d’appartamento o
di qualche creatura magica spuntata da chissà dove! Non so
come fosse quindici secoli fa, ma ora finire ammazzato non ti
renderà un eroe!».
«Dammi la chiave, Cathleen», disse tra i denti,
guardandola severamente nonostante la pioggia battente gli avesse ormai
inzuppato i capelli, gocciolanti sul viso.
Il paramedico ricambiò lo sguardo, rimanendo in silenzio per
una dozzina di secondi. Poi sollevò un angolo della bocca in
un sorriso amareggiato.
«Ho capito», mormorò, avvicinandosi a
lui d’un passo. Erano così vicini da poter vedere
il riflesso dei propri occhi in quelli dell’altro.
«Questa mattina hai detto che ti senti inadeguato, che troppo
spesso fallisci in ciò che fai… Vuoi dimostrare
il tuo valore, dimostrare che anche in quest’epoca puoi
renderti utile. Ma la verità, Artù, è
che non devi farlo per forza. Non ne abbiamo bisogno… Io non
ne ho bisogno».
«Io invece sì, io ne ho bisogno»,
rispose, sollevando una mano per scostarle dalla fronte una ciocca di
capelli rossi. «Da quando ho scoperto che senza Merlino non
avrei mai ottenuto nulla a Camelot, e che mi ha salvato la vita
centinaia di volte, io ho… ho giurato a me stesso che questa
volta sarei stato io ad aiutarlo. Devo farlo, Cathleen. Mi
capisci?».
Il paramedico annuì, con gli occhi bassi, e lentamente gli
porse la chiave che gli aveva sottratto. Artù
l’afferrò con solennità e poi sotto la
debole luce della luna, in gran parte nascosta dalle nubi
temporalesche, la infilò nella serratura.
Silenziosamente e senza accendere la luce si avviarono verso le scale.
Artù fece segno a Cathleen di rimanere alle sue spalle e
mentre si dirigevano verso il piano superiore estrasse dalla cintura
dei jeans il proprio pugnale.
Si fermarono improvvisamente quando un'ombra si stagliò su
di loro. In cima alla scalinata, nel rettangolo della porta della
camera di Alex, c'era una donna. A suggerirglielo era solo la sua
corporatura minuta, dato che il cappuccio che portava sulla testa e
l’oscurità impedivano loro di scorgerne il volto.
Potevano vedere benissimo però la spada che teneva tra le
mani, luccicante grazie ai fulmini che continuavano a schiantarsi non
molto lontano da lì: Excalibur, in tutta la sua
magnificenza.
Tutti quanti rimasero immobili per un paio di secondi, indecisi sul da
farsi; poi accadde tutto talmente velocemente che non ebbero nemmeno il
tempo di pensare.
La ladra corse di nuovo all’interno della stanza, andandosi a
ficcare in un vicolo cieco. O almeno così credevano. Una
volta raggiunta, infatti, la donna era già a metà
della sua trasformazione e ancora prima di completarla si
gettò contro la finestra.
Cathleen gridò per lo spavento, mentre pezzi di vetro e
pioggia piombavano nella stanza già messa a soqquadro dalla
sconosciuta. Artù invece si affacciò sul giardino
e scorse una pantera alata atterrare sulle quattro zampe e poi
ritrasformarsi in essere umano sotto i suoi occhi increduli: Freya gli
lanciò un’ultima occhiata prima di iniziare a
correre verso il bosco, dove sperava di far perdere le proprie tracce e
trovare un nascondiglio sicuro.
«Presto, dobbiamo raggiungerla! Ha preso
Excalibur!», urlò il solo ed unico re, prendendo
Cathleen per mano per trascinarla con sé giù per
le scale.
La rincorsero per quelle che sembrarono ore, inoltrandosi nel fitto del
bosco che circondava Avalon.
Ad un certo punto Freya si fermò e con un braccio steso
verso di loro disse poche parole nella lingua dell’Antica
Religione. Non riuscirono ad udirle a causa dei rombi di tuono,
così come non sentirono il rumore degli alberi sradicati dal
suolo. Per questo non furono in grado di reagire tempestivamente e si
salvarono solo grazie alla prontezza di riflessi di Artù, il
quale afferrò Cathleen per la vita e si gettò con
lei in un basso burrone, giusto un momento prima che gli alberi
cadessero loro addosso.
Senza badare ai ringraziamenti ripresero l’inseguimento e
corsero, corsero e corsero fino a quando Artù non
riuscì più ad ignorare il pezzo di spada intriso
di magia nera che gli stava perforando il cuore e cadde a terra.
Cathleen si gettò al suo capezzale, senza più
fiato, e sotto il suo sguardo terrorizzato il sovrano iniziò
a respirare affannosamente, sputando acqua salmastra. Inarcò
la schiena per il dolore e sbatté più volte le
palpebre, ma questo non servì a cancellare la sensazione di
star sprofondando di nuovo nelle acque di Avalon.
«Artù! Artù, ti prego,
resisti!», gridò il paramedico, conscia che il
panico la stava per sopraffare. Perciò si costrinse a
reagire e ricordò cosa le aveva detto Merlino qualche giorno
prima, a proposito del dispositivo che aveva creato per aiutare
Artù a superare quel genere di attacchi.
Lo aveva portato con sé, come Merlino le aveva detto di
fare, ma il terrore la sovrastò quando, infilando entrambe
le mani nella borsa a tracolla aperta, non lo trovò. Doveva
esserle caduto quando si erano gettati nel burrone per non rimanere
schiacciati da quei tronchi.
Si guardò intorno, alla ricerca di una qualche ispirazione,
ma il senso di déjà-vu fu più forte e
il panico la travolse definitivamente.
Non avrebbe sopportato di assistere inerme alla morte della persona che
amava, non un’altra volta. Il volto di Zachary prese per un
attimo il posto di quello di Artù, ma le bastò
chiudere gli occhi perché tutto tornasse alla
normalità e vedesse il viso del biondo abbandonato contro la
terra umida.
«No, no, no… Artù! Artù,
rispondimi!», gridò Cathleen con tutto il fiato
che aveva nei polmoni, per poi accasciarsi su di lui, scossa dai
singhiozzi.
Sentì dei passi alle sue spalle e prima che potesse voltarsi
venne scaraventata ad un paio di metri di distanza da una forza
invisibile, ma tanto potente da lasciarla disorientata. Quando smise di
vedere tutto sfocato, vide la ladra infilzare la spada nel terreno e
chinarsi su Artù.
«Non osare avvicinarti!», le urlò
nonostante fosse allo stremo delle forze.
La donna non l’ascoltò e premette le mani sul
petto del sovrano, da cui si sprigionò quasi subito una luce
dorata tanto intensa da farle male agli occhi.
Artù si rianimò all’istante, respirando
a pieni polmoni e sputacchiando ancora un po’
d’acqua. Non appena si accorse della presenza di Freya si
tirò persino su seduto, puntandole contro il pugnale che
teneva ancora stretto in mano. Non fu costretto ad usarlo
però, perché la custode di Avalon cadde a terra
svenuta non appena la luce irradiata dai suoi palmi si spense.
Il re di Camelot cercò con lo sguardo Cathleen, trovandola
seduta contro il tronco di un albero, sporca di terra e con gli occhi
sgranati per lo shock. Faticosamente si alzò e la raggiunse
per stringerla in un abbraccio. Non la lasciò andare nemmeno
quando decise di chiamare Merlino per avvisarlo dell’accaduto
ed ammettere che anche quella volta aveva rischiato di finire
ammazzato.
***
Merlino era nella sala d’attesa del quarto piano –
deserta a quell’ora – in piedi di fronte alle
vetrate da dove si poteva avere uno sguardo d’insieme del
piccolo parco giochi e del parcheggio di fronte all’ospedale,
quando aveva mandato a Cathleen l’SMS di via libera. Poi si
era seduto ad aspettare, certo che Alex, essendo arrivata in anticipo,
sarebbe passata ad augurare la buonanotte ai bambini prima di iniziare
il turno al Pronto Soccorso. E così era stato.
«Ehi», esclamò con voce insicura
l’infermiera.
«Ciao».
Dopo aver stritolato per bene la fibbia della propria borsa, Alex si
sedette al suo fianco e si sistemò i capelli dietro le
orecchie, sospirando. Aprì la bocca per pronunciare il
discorso che si era preparata, ma Merlino glielo impedì,
mormorando: «Non porti il bracciale».
L’infermiera si accarezzò il polso.
«Sì, io… l’ho dimenticato a
casa, perdonami».
Lo stregone scrollò le spalle, per poi posare gli occhi
sulla copertina del proprio libro di favole.
«Sono già andati tutti a letto?», chiese
Alex, schiarendosi la gola.
«Così hanno detto. Ma sono sicuro che Abby e Mark
rimarranno alzati, questa notte».
«Ho visto delle chiamate di Abby, ma dormivo. Che cosa mi
sono persa?».
«Hanno avuto un momento di crisi, ma l’hanno
risolto».
«Bene, sono contenta per loro».
C’era un’insolita tensione tra di loro,
così fitta che Alex non riuscì più a
reggerla e ruppe il silenzio: «Mi dispiace, Merlino. Mi
dispiace di non averti detto dei miei tentativi con la magia, di averti
tenuto all’oscuro di alcune cose che mi stavano
succedendo». Gli prese le mani tra le sue, ma Merlino
deviò ancora il suo sguardo. «Voglio che tu faccia
parte del mio presente e del mio futuro, davvero».
Dopo un istante di silenzio, sollevò le sue mani per
baciarne una sulle nocche. Solo allora Merlino voltò il capo
verso di lei, con gli occhi seri e saggi, stanchi ed antichi come la
sua anima.
Alex gli accarezzò dolcemente una guancia, sorridendo
emozionata. «Ti ricordi tutte le volte in cui ti ho invitato
a fare una colazione decente, alla fine del mio turno?».
«Ti ho sempre detto di no», mormorò
Merlino, posando la fronte contro la sua.
«Beh, faresti meglio a dire di sì questa volta,
perché devo farti una proposta molto importante».
«Ah sì?».
«Uhm-uhm». Alex avvicinò le labbra alle
sue e le sfiorò in un bacio.
Merlino le prese il volto tra le mani e lo approfondì,
sentendosi al settimo cielo e allo stesso tempo calpestato da una
decina di cavalli.
Non era pronto ad affrontare le conseguenze di ciò che lui,
Artù e Cathleen avevano architettato alle sue spalle. Ne era
così spaventato che addirittura avrebbe voluto interrompere
la missione, fare marcia indietro e dimenticarsi di tutto. Ma
l’amava troppo per farlo. Magari l’avrebbe persa
per sempre, ma almeno non avrebbe dovuto convivere col peso di aver
avuto la possibilità di aiutarla e di non averlo fatto.
«Allora?», lo incalzò Alex, sorridendo
sulle sue labbra.
«Ci sarò», promise, strappandole
l’ultimo bacio prima che si alzasse.
Merlino continuò a sorriderle mentre richiamava
l’ascensore, con gli occhi verdi luminosi come mai, e
nonostante i secoli di esperienza ebbe paura di non farcela, di
tradirsi e di mostrarle ciò che realtà provava:
un dolore immenso, una sofferenza che aveva provato in pochi momenti
della sua vita.
Quando Alex scomparve all’interno dell’ascensore,
Merlino si lasciò andare e con il viso nascosto tra le mani
versò qualche lacrima, pregando perché
eventualmente Alex riuscisse a perdonarlo, un giorno.
L’avrebbe aspettata, anche più di quanto aveva
aspettato Artù, e l’avrebbe amata ancora
più forte.
Era ancora seduto lì, a pezzi, quando il solo ed unico re lo
chiamò per spiegargli che il loro piano non aveva dato i
risultati sperati, ma che in un certo senso era andato ancora meglio:
avevano preso due piccioni con una fava.
Ancora non sapevano che gli eventi di quella notte avevano soltanto
dato il via al compimento del loro destino.
***
Alex era convinta, quella volta niente e nessuno le avrebbe impedito di
essere totalmente onesta con Merlino. Perché lo amava senza
riserve e voleva spendere ogni giorno della sua vita con lui, bello o
brutto, in gioia o in malattia, magia o normalità.
Perciò, se per lui era così importante, era anche
pronta a fare il grande passo.
Mancavano ancora diverse ore alla fine del turno, un’attesa
quasi insopportabile che però viveva felicemente,
immaginandosi come avrebbe reagito il mago a quello che sperava fosse
solo il primo dei loro successi insieme.
Il suo umore cambiò radicalmente quando fu chiamata al
ricevimento del Pronto Soccorso, dove l’attendeva un agente
Fisher dai capelli bagnati, la divisa di riserva e un sacchetto di
plastica chiuso ermeticamente, contenente il dispositivo assorbi magia
nera che Merlino aveva costruito per Artù.
Alex cercò di dimostrarsi il più calma possibile,
nonostante avesse il presentimento che fosse successo qualcosa di
grosso, e salutò l’agente chiedendogli il motivo
per cui l’aveva fatta chiamare.
«La tua vicina di casa, la signora Levinson, ha chiamato alla
Centrale un’ora e mezza fa per denunciare
un’effrazione a casa tua», le spiegò con
fin troppa calma.
«Che cosa?».
«Ho già effettuato un sopralluogo e confermo che
qualcuno ha messo a soqquadro la tua camera da letto, solo ed
esclusivamente la camera da letto. La mia ipotesi è che
fosse una persona che sapeva dove cercare, una persona che conoscevi,
dato che a quanto mi risulta non ci sono segni di scasso sulla
porta».
Alex boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
incrociando gli sguardi di un paio di colleghe. Darrell si
avvicinò e posandole una mano sulla schiena le chiese se ci
fosse un posto dove potessero parlare in privato.
L’infermiera lo condusse nella stanza relax e in qualche modo
riuscì a superare lo shock e ad offrirgli un
caffè. Poi, seduti al tavolo, l’agente
continuò a raccontarle ciò che aveva visto sulla
scena: la finestra rotta dall’interno, il testimone oculare
che aveva visto due persone correre verso il bosco e le orme che
confermavano il racconto di quest’ultimo. Quindi spinse verso
di lei il prototipo di Merlino – solo ora realizzava che era
imbustato in quel modo perché era da considerarsi una prova
– e le chiese: «Hai idea di che cosa
sia?».
Alex posò lo sguardo sul cristallo, pregando
perché non reagisse alla sua vicinanza, e dopo aver
deglutito negò col capo. «Mai visto in vita
mia».
«Quindi confermi che non è questo che cercavano a
casa tua».
«Sì, confermo».
Darrell allora mise il dispositivo da parte e Alex lo seguì
con gli occhi, domandandosi che fine avrebbe fatto e perché
fosse finito nel bosco. Una possibile risposta iniziò a
farsi strada nella sua mente, ma fu bloccata dalla nuova domanda
dell’agente.
«So che hai dato alla tua vicina un doppione delle chiavi,
per le emergenze. Ce l’ha qualcun altro?».
«Beh, mio padre».
«Capisco. E hai idea di chi avrebbe potuto fare una cosa del
genere? Anche una sensazione va bene per iniziare».
«No, io non…».
«È successo qualcosa di strano in questi giorni?
Hai visto qualcosa di insolito nel vicinato? Magari persone
sconosciute?».
Alex si portò le mani tra i capelli, sospirando.
«Al momento non mi viene in mente niente».
Poi però le tornò alla mente la ragazza che aveva
chiesto di lei all’ospedale per ben tre volte.
Aprì la bocca per metterne a conoscenza l’agente,
ma all’ultimo decise di tacere e di indagare prima per conto
suo: se avesse avuto a che fare col “magico mondo”
di Merlino avrebbe rischiato di esporlo.
«Okay, allora… ti aspetto in Centrale per la
denuncia contro ignoti», esclamò Darrell,
rivolgendole un sorriso cortese. «Grazie per il
caffè».
«Grazie a te», mormorò Alex,
già immersa in altri pensieri.
Non si accorse infatti che l’agente era rimasto sulla porta
fino a quando non esclamò: «Lo so che questo non
è il momento adatto, ma voglio scusarmi per il nostro ultimo
scambio di battute. Non avrei dovuto fare quella domanda su Merlino e
Myra, non è stato molto professionale».
L’infermiera alzò il capo, colpita dal suo tono
dispiaciuto, e inaspettatamente riuscì ad abbozzare un
sorriso. «Non c’è problema, è
acqua passata».
«Bene», esclamò contento. «Ora
sarà meglio che vada a mettere in sicurezza casa tua. Mi
raccomando, fai cambiare la serratura».
«Lo farò».
Darrell la salutò con un cenno della mano e quando fu uscito
Alex ripescò il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni,
lo accese e chiamò subito Merlino per informarlo
dell’accaduto. Quando non le rispose, il pensiero che aveva
interrotto poco prima si fece ancora più insistente e la
sensazione di aver commesso un terribile errore le strinse lo stomaco,
facendole salire persino le lacrime agli occhi.
Finito il turno in ospedale corse a casa, sicura che Merlino non la
stesse aspettando dalla signora Begum.
Come le aveva anticipato, Darrell aveva messo un nastro della polizia
sulla porta e chiuso a chiave con il doppione della signora Levinson.
Facendo il giro della villetta, Alex poté rendersi conto che
aveva fatto lo stesso alla finestra sfondata, che ora aveva la persiana
chiusa.
Aprì la porta e passò sotto al nastro, senza
toglierlo, per poi correre direttamente al piano di sopra, il cuore che
le batteva forte nella cassa toracica. L’agente Fisher le
aveva detto che nella sua camera da letto era stato messo tutto a
soqquadro, ma fu comunque diverso dal vederlo coi suoi occhi, tanto che
si pietrificò sulla soglia.
Quando si riprese, si diresse per prima cosa verso l’armadio
sventrato. La cercò furiosamente, lanciando fuori i vestiti
rimasti appesi e calciando via i cassetti già aperti, ma di
Excalibur nessuna traccia.
Alzò lentamente gli occhi, scioccata, e nella stessa
posizione in cui l’aveva lasciato il pomeriggio prima, sul
comodino, vide il bracciale che le aveva regalato Merlino. Lo stesso
Merlino che da allora aveva smesso di fare domande sulle sue
capacità, di ricordarle che se c’era qualcosa che
la turbava poteva parlarne con lui, di voler passare del tempo a casa
sua. Lo stesso Merlino che il giorno prima l’aveva
allontanata in quel modo, che le era sembrato così strano,
quasi mortificato, quando le aveva detto che quella mattina avrebbero
fatto colazione insieme.
Ora non aveva più dubbi: lui l’aveva sempre
saputo, o almeno immaginato, e aveva atteso pazientemente che Alex
facesse il primo passo verso di lui. Quando si era reso conto che non
sarebbe successo, aveva deciso di intervenire.
Alex, ora più che mai divorata dai sensi di colpa,
gattonò fino al comodino per prendere il bracciale ed
avvicinarselo alle labbra, in un bacio di scuse.
«Merlino», iniziò a mormorare ad occhi
chiusi, serrati con forza, e le gambe strette al petto.
«Merlino, mi dispiace».
***
Lo stregone fu scosso da un brivido così forte che dovette
sedersi sulla poltrona alle sue spalle. Sentì
Artù chiamarlo, ma la sua voce era lontanissima, al
contrario di quella di Alex, echeggiante nella sua mente.
«Mi dispiace
di averti deluso».
La sua sofferenza era così intensa che Merlino riusciva a
sentirla come propria, il legame che aveva creato tra loro
così potente che faticò a spezzarlo e a tornare
alla realtà per rispondere ad Artù e Cathleen,
chini su di lui e preoccupati.
«Alex mi ha appena parlato col pensiero, come
Mordred», spiegò, stringendosi le gambe al petto e
circondandole nel suo stesso abbraccio.
Artù era troppo sconvolto per rispondere, perciò
fu Cathleen ad accarezzargli la spalla e a sussurrare:
«Va’ da lei. Ha bisogno di te».
Merlino posò gli occhi su Freya, stesa sul divano e con
diverse coperte a tenerla al caldo. Era esattamente come se la
ricordava, nonostante i secoli.
«Noi ce la caveremo, te l’assicuro»,
aggiunse il paramedico, dandogli un altro colpetto al braccio.
Il mago annuì, convincendosi che Alex era sempre e comunque
la sua priorità.
Durante il viaggio verso casa sua cercò di prepararsi una
spiegazione, ma le parole continuavano a sfuggirgli. Così,
quando parcheggiò l’auto di fronte al suo
vialetto, non aveva la minima idea di che cosa sarebbe successo.
Salì velocemente le scale e la trovò in camera da
letto, seduta con la schiena appoggiata al muro e gli occhi sollevati
verso il soffitto. Tutto intorno a lei era caos e distruzione e Alex
sembrava una fenice, appena rinata dalle sue stesse ceneri e bellissima.
Quando si accorse della sua presenza, si alzò in piedi e gli
corse incontro per gettargli le braccia al collo. Merlino si sarebbe
aspettato di tutto, tranne quello.
Non appena incrociò quegli occhi splendidi che tanto amava,
ebbe la certezza che se anche fosse riuscito a prepararsi in anticipo
un discorso, pronunciarlo correttamente sarebbe stato impossibile.
Perciò la strinse forte a sé, baciandole i
capelli e sussurrandole semplicemente la verità:
«Avrei dovuto essere sincero con te, avrei dovuto metterti a
conoscenza delle mie paure, ma avevo il terrore che mi allontanassi
ancora di più. Non posso perderti, Alex, e mi dispiace
di…».
«Smettila, smettila», disse dolcemente
l’infermiera, allontanandosi per guardarlo negli occhi.
«Non devi scusarti di nulla, tu. Sono io quella che ha
sbagliato, quella che si è lasciata corrompere dalla magia e
che ha rischiato di perdere non solo la sanità mentale, ma
tutto ciò che ha di più caro».
«Ero così spaventato…», disse
ancora Merlino, baciandole la fronte, le guance, il mento.
«Ma va tutto bene adesso. E ti prometto che d’ora
in poi…».
Alex lo interruppe posando le labbra sulle sue, prendendogli
delicatamente il volto tra le mani. Poi si inginocchiò su
una gamba e sorridendo disse: «Avrei preferito farti questa
proposta a colazione, ma non posso più aspettare. Merlino,
vuoi ancora sposarmi?».
Lo stregone sgranò gli occhi e scoppiò a ridere,
il cuore gonfio di gioia. «Sì. Sì, lo
voglio».
«Grazie al cielo», mormorò Alex,
stringendogli di nuovo le braccia intorno al collo e lasciandosi
sollevare da terra in una giravolta.
***
«Nottata impegnativa?».
L’agente Fisher alzò il capo, abbandonato poco
prima tra le braccia incrociate sul bancone, ed accennò un
sorriso alla signora Begum e al bicchierone di caffè gli
aveva appena messo di fronte al naso.
«Non ne avete idea. Ciambelle?».
«Scherza, vero?».
Si stava servendo dall’espositore, quando un nuovo cliente
entrò nella caffetteria accompagnato da uno scampanellio.
«Buongiorno!», lo salutò cordialmente la
signora Begum. «Come posso aiutarla?».
«Ahm… un caffè bello forte, grazie,
e… mi chiedevo se lei conosce per caso un ragazzo che si fa
chiamare Emrys».
«No, mai sentito».
Il ragazzo si appoggiò al bancone, proprio accanto a
Darrell, ed iniziò a sfogliare nervosamente un taccuino
pieno d’appunti, parlando tra sé.
«Era qui, da qualche parte… Ah, ecco! Un certo
Merlino, invece? Le dice qualcosa?».
«Merlino?», ripeté la signora Begum,
aprendosi in un sorriso.
L’agente Fisher però la interruppe sul nascere,
chiedendo allo sconosciuto: «Chi lo cerca?».
Il ragazzo si voltò verso di lui ed esitò, forse
a causa del timore reverenziale della divisa o forse per il suo viso
sfatto. Darrell diede un vigoroso morso alla sua ciambella, sporcandosi
di zucchero a velo ai lati della bocca, e questo lo rese più
innocuo agli occhi del ragazzo, il quale finalmente rispose:
«Il mio nome è Baqi. Sto portando avanti
un’indagine privata».
L’agente lo fissò, sempre più
incuriosito. «Continua».
_________________________________________________________________
Avanti, quanti hanno pensato che all'inizio del capitolo
Artù e Cath stessero facendo... altro? xD
#supertroll
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Capitolo 22 *** 22. Excalibur (and other stuff) ***
Buonasera!
Finalmente possiamo scoprire le conseguenze del piano di Merlino, le
spiegazioni che danno ad Alex, le confessioni... E conoscere
un po' meglio anche Darrell! Il quale si è ritrovato una
bella "gatta" da pelare! (Spoiler xD). E anche Baqi, col suo arrivo in
ospedale, darà molto su cui riflettere alla nostra piccola
Abby!
Eh sì, c'è molta carne al fuoco :)
Spero sia una buona lettura e ringrazio chi ha letto/commentato/seguito
fino a qui!
Peace&Love
_Pulse_
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22. Excalibur
(and other stuff)
«Polizia locale, sono
l’agente Fisher. Come posso aiutarla?».
«Buonasera
agente, mi chiamo Angela Levinson. Credo che dei ladri si siano
introdotti in casa della mia vicina, la signorina Greenwood. Le ripeto
sempre di chiudere le persiane prima di uscire…».
«Mi
scusi… La signorina Alexandra Greenwood, intende?».
«Proprio lei.
La conosce?».
La noia del turno di
notte era stata spazzata via così e Darrell
all’inizio ne era stato grato, dato che temeva di impazzire,
da solo in quel silenzioso ufficio. (Da quando Myra aveva rassegnato le
dimissioni e si era trasferita erano rimasti in quattro agenti, il
numero minimo per potersi alternare e avere dei giorni di riposo, e lui
– che un tempo era il bonus, la spalla d’appoggio
dell’agente Chandra – era rimasto come gli altri da
solo senza un partner). Ancora però non sapeva che cosa lo
aspettava.
Deviò le
chiamate alla stazione di polizia più vicina, quella di
Caerleon, e si recò immediatamente all’indirizzo
che la signora Levinson gli aveva comunicato al telefono. Aveva dato
una rapida occhiata a ciò che lo circondava, notando che in
molte abitazioni si erano riaccese le luci, e poi con una mano sulla
fondina della pistola si era avvicinato alla porta della villetta a due
piani di Alexandra. Bussò e si annunciò, ma non
ottenne alcuna risposta. Così posò una mano
guantata sul pomello, ma gli bastò appoggiarsi con una
spalla al legno perché la porta si aprisse su un salotto
buio ed immerso nel silenzio, rotto soltanto dai tuoni e dalla pioggia
all’esterno.
Con lentezza misurata
estrasse la pistola dalla fondina per potersi fare luce con la piccola
torcia posta sopra il carrello, quindi si avvicinò alle
scale e nonostante fosse quasi certo che ormai chiunque fosse entrato
lì se ne fosse anche già andato iniziò
a salire i gradini a passo felpato. Una volta al piano superiore, una
corrente fredda gli lambì i polpacci, attirando la sua
attenzione verso la camera da letto. Rimase sbalordito dal disordine in
cui la trovò, ma rimase anche concentrato e si
accertò che nessuno si fosse nascosto dietro la porta,
nell’armadio o sotto il letto.
Dopo aver controllato
anche le altre stanze ed essersi assicurato di essere solo, ripose la
pistola nella fondina e camminò in punta di piedi verso la
finestra in frantumi, da cui entravano pioggia e vento. Un particolare
lo colpì subito: c’erano pochissimi pezzi di vetro
sul pavimento, segno che chiunque avesse rotto la finestra
l’aveva fatto dall’interno. Si avvicinò
dunque al davanzale e si sporse verso il giardino, su cui vide una
serie di impronte che si intrecciavano tra loro sul terreno fangoso. A
causa di quel temporale presto non ne sarebbe rimasto più
nulla, doveva seguirle.
Bussò alla
porta dalla signora che aveva chiamato in Centrale, alla quale chiese
se avesse visto qualcuno nei paraggi dopo averlo chiamato. La signora
Levinson scosse il capo e aprì la bocca per rispondere, ma
un uomo in giaccone e pigiama la anticipò, emergendo dalla
piccola folla che si era radunata davanti alla villetta per sapere che
cosa fosse successo.
«Io ho visto
due persone fare il giro della casa e correre verso il
bosco», esclamò.
Darrell si scrisse
rapidamente il nome del testimone e il suo indirizzo, poi
raccomandò a tutti di rientrare in casa e di dormire sonni
tranquilli. Quando il vicinato iniziò a disperdersi,
l’agente corse alla volante per recuperare una grossa torcia
e corse sul retro della casa. Lì osservò da
più vicino le orme, anche se la pioggia aveva reso tutto un
grande pasticcio di fango. Aveva appena iniziato a seguire ogni traccia
di terreno smosso quando sentì un tonfo in grado di far
tremare la terra proveniente dal folto del bosco. Senza pensarci su
troppo lasciò cadere l’ombrello e corse in quella
direzione, cercando di orientarsi tra gli alberi illuminando le orme
che si facevano sempre più difficili da individuare sul
manto di foglie e rami spezzati.
Capì di
essere arrivato quando si trovò di fronte a due alberi
completamente sradicati dal terreno e che gli sbarravano la strada. Non
aveva mai visto una cosa del genere – lui che prima di
trasferirsi in quel paesino di poche anime immerso nella campagna
gallese aveva sempre vissuto in città – e per
ovvie ragioni non seppe spiegarselo.
Con la torcia percorse
tutta la lunghezza dei due tronchi, incrociati a formare una specie di
X, fino a quando non notò tra di essi uno stretto burrone e
delle tracce piuttosto evidenti di passaggio umano. Si
avvicinò, facendo attenzione a non scivolarci dentro, e
qualcosa brillò alla luce elettrica. Si aggrappò
ad un ramo e si sporse verso l’oggetto, ripescandolo da una
pozza d’acqua e fango. Corrugò la fronte,
studiando con lo sguardo quel cerchio di metallo al cui centro era
stato fissato un cristallo bianco. Solo un fulmine, schiantatosi poco
distante, fu in grado di riportarlo alla realtà.
Il temporale continuava
a peggiorare e lui, da solo, non aveva alcuna possibilità
ormai di raggiungere il o i malviventi che si erano rifugiati a loro
rischio e pericolo nel bosco. Così tornò sui suoi
passi e con il suo strano ritrovamento tra le mani – non per
forza collegato all’effrazione in casa di Alexandra
– salì in auto e tornò alla Centrale
per cambiarsi.
Darrell sospirò stancamente mentre infilava le chiavi nella
toppa, costringendosi a non pensare più al turno movimentato
di quella notte.
Entrò nell’appartamento e lo trovò
immerso nel silenzio – una rarità da quando Freya
era piombata nella sua vita, sconvolgendola. A causa sua aveva persino
iniziato ad apprezzare la musica pop.
«Freya?», la chiamò ad alta voce,
iniziando a perlustrare l’appartamento alla sua ricerca.
«Freya, dove sei finita?».
Si tolse il giubbotto e lo lanciò sul divano, poi si
passò una mano tra i capelli: prima l’effrazione a
casa di Alexandra Greenwood e la doccia di pioggia che si era fatto
avventurandosi nel bosco, poi il ragazzo pakistano che stava portando
avanti “un’indagine privata” su Merlino e
adesso Freya che usciva di casa dopo due settimane di totale reclusione.
Una volta in bagno il campanello d’allarme dentro la sua
scatola cranica iniziò a suonare all’impazzata,
lasciandolo stordito e allo stesso tempo pieno di adrenalina.
La finestra che dava sul bosco che circondava Avalon, la stessa
finestra da cui aveva visto Freya per la prima volta, era aperta.
Dubitava di averla dimenticata così quella mattina, come
dubitava che una ragazza fragile come lei potesse arrischiarsi a
scendere giù dal palazzo in quella maniera.
Perché avrebbe dovuto, poi?
L’analogia con ciò che aveva visto a casa di
Alexandra fu troppo evidente per essere ignorata e si
affacciò subito per verificare che non ci fossero segni di
scasso o eventuali orme sul davanzale esterno. Rimase a bocca aperta
quando, sull’erba tagliata di recente e sul terreno ancora
fangoso a causa della pioggia di quella notte, vide una scia di grosse
impronte, piene di acqua piovana e poco definite, ma decisamente non
umane. Per quanto fosse impossibile, gli ricordavano quelle di un
felino dalle dimensioni extra-large.
L’agente Fisher diede le spalle alla finestra e si
massaggiò il viso stanco.
Come aveva detto a quel paramedico dai capelli rossi, lui non credeva
nel soprannaturale; eppure tutto quello che stava succedendo gli stava
facendo venire dei ripensamenti e non poteva accettarlo, rischiava
seriamente di perdere il lume della ragione.
Aveva bisogno di dormire e di riflettere sulla linea d’azione
da intraprendere, specialmente con Freya, a cui si era particolarmente
affezionato nel corso di quelle settimane di convivenza.
E fu proprio per questo che per più di mezz’ora si
rotolò tra le lenzuola, preoccupato per lei. Alla fine scese
dal letto, indossò dei jeans e una felpa e andò a
cercarla.
***
«Baqi!».
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, sobbalzando sulla
poltroncina. Quando capì che si era addormentato nella sala
d’aspetto del quarto piano, stiracchiò un sorriso
mentre si massaggiava il viso e si passava le dita tra i capelli neri.
«Ciao Abby», la salutò alla fine,
alzandosi per stringerla in un delicato abbraccio. «Allora,
come procede la vacanza?».
Tra loro non avevano mai chiamato la degenza in ospedale come avrebbe
dovuto essere chiamata – troppo triste. Così
avevano optato per quella variante, con tanto di abbronzatura lunare e
cocktail da sballo iniettati direttamente in vena.
«Alla grande», mormorò la ragazzina,
dandogli dei colpetti sulla schiena. «Ma tu che ci fai qui?
Hala mi ha detto che eri rimasto a casa per lavoro».
«Infatti. Il caso però ha preso una piega
inaspettata e mi ha portato proprio qui. È vero quando
dicono che la vita di un reporter è piena di colpi di
scena!».
Abigail ridacchiò, scuotendo mestamente il capo. Quindi
disse: «Io stavo andando a fare colazione. Ti unisci a
me?».
«Mi sono già fermato strada facendo, ma ti
accompagno volentieri». Baqi si spostò dietro la
sua carrozzina e sogghignò, chinandosi accanto al suo
orecchio per sussurrare: «Potrei anche approfittarne per
farti un paio di domande».
«Giuro che sono innocente!», affermò
lei, portandosi una mano sul cuore.
Il ragazzo le passò affettuosamente una mano sulla testa.
«Lo so, piccola. E come mio informatore, la tua
identità rimarrà segreta».
Abby a quel punto capì che non stava più
scherzando, ma non aggiunse altro fino a quando non furono in mensa.
Una volta con la colazione davanti al naso, lo fissò con
entrambe le sopracciglia inarcate.
«Quindi… su che cosa stai indagando,
precisamente?».
Baqi si guardò intorno con fare circospetto,
dopodiché infilò una mano nella sua inseparabile
borsa a tracolla e tirò fuori un sottile PC portatile,
quello che usava sia per lavoro che per svago.
«Devi giurarmi che quello che ti dirò
rimarrà confidenziale».
«Parola di Giovane Marmotta», promise, mettendo da
parte la tazza di latte caldo con i cereali.
«E va bene». Baqi sospirò e
girò lo schermo del computer verso di lei, mostrandole la
foto di un ragazzo dai capelli neri e gli occhi azzurri in procinto di
salire su una volante della polizia. «Il suo nome
è Emrys, o Merlino, ancora non ho capito bene. Lo
conosci?».
Abby gettò un’occhiata al pakistano, poi
tornò a fissare la fotografia: non c’erano dubbi,
si trattava al cento percento del loro Merlino, ma perché
stava per salire su un’auto della polizia? E, soprattutto,
perché Baqi stava indagando su di lui?
«Abigail? Rispondimi», la esortò
quest’ultimo, impaziente.
La ragazzina, messa alle strette, prese la decisione che le suggeriva
il cuore.
Scrollò le spalle e con le labbra arricciate in una smorfia
rispose: «No, non lo conosco».
Il pakistano non sembrò convinto e gettandole uno sguardo
quasi derisorio premette la freccetta per passare ad un’altra
foto, poco nitida a causa dello zoom ma con lo stesso protagonista:
quella volta Merlino si trovava proprio in quello stesso ospedale.
«E non l’hai nemmeno mai visto?».
«Vedere e conoscere sono due cose ben diverse»,
precisò Abigail. «Tu mi hai chiesto se lo
conoscevo, prima».
«E ora ti chiedo se l’hai mai visto da queste
parti».
«Sì, è probabile che io
l’abbia visto da qualche parte. Quindi?».
A quelle parole Baqi sorrise così tanto da sembrare la
versione bollywoodiana di Joker.
«Devo sapere assolutamente se è ancora qui, o in
alternativa devo trovare qualcuno che lo conosce. La proprietaria di
quella caffetteria sa chi è, ne sono sicuro, ma non ha
più voluto dirmi niente dopo che quell’agente di
polizia mi ha chiesto chi fossi e perché facessi tutte
quelle domande. Devo assolutamente rintracciarlo e parlare con lui. Non
so se mi spiego, Abby, ma questa potrebbe essere la grande occasione
della mia vita!».
«No, non ti sei per nulla spiegato»,
borbottò, preoccupata per Merlino e allo stesso tempo felice
per l’emozione di Baqi, che aveva sempre considerato una
specie di fratello maggiore.
Gli prese le mani tra le sue e le strinse più forte che
poté, incrociando il suo sguardo eccitato. «Ti
vuoi calmare? Perché questo ragazzo è
così importante? Che cos’avrà mai
fatto!?».
«Oh, non puoi nemmeno immaginare Abby…».
Girò rapidamente lo schermo del computer verso di
sé e smanettò un po’, fino a quando non
le mostrò l’ennesima fotografia.
«Che cos’è?», chiese la
ragazzina, avvicinando di più il viso allo schermo.
«Una foto scattata nel 1935. L’edificio sullo
sfondo è un ospedale, all’epoca uno dei
più grandi di tutto il Galles. È stato
completamente distrutto nella Seconda Guerra Mondiale, a causa dei
bombardamenti, e indovina un po’? Era proprio qui».
«Qui… nel senso che camminiamo sopra le sue
ceneri?», balbettò Abby, con gli occhi sgranati.
Baqi annuì, nuovamente eccitato come un bambino.
«Ho fatto le mie ricerche. Al tempo era l’unico
edificio della zona, immerso nella campagna e nel silenzio,
perciò nessuno pensava che sarebbe stato colpito. A quanto
pare però è successo e ci sono voluti anni, prima
che qualcuno decidesse di stabilirsi qui in pianta stabile. I primi
furono i cari delle persone morte – dei dottori, delle
infermiere, dei pazienti che non avevano avuto scampo. È
nato così, questo piccolo paese. Poi con la ripresa
economica gran parte della nuova generazione si è trasferita
di nuovo nelle città e qui non è rimasto nessuno
in grado di testimoniare ciò che è accaduto.
Nessuno a parte una persona, se non sono impazzito del tutto».
Baqi cliccò più volte sullo zoom, fino a rendere
la foto sgranata, ed indicò con la freccetta un viso che
Abigail riconobbe con un tuffo al cuore. Del tutto assorbita da quel
racconto, si era quasi dimenticata di Merlino.
In posa assieme a decine di altri dottori ed infermiere c’era
proprio lui, con indosso il camice bianco e lo stesso sorriso
innamorato che gli aveva visto rivolgere ad Alex tante e tante volte.
Aveva le mani posate sopra le spalle di una giovane infermiera, in
piedi di fronte a lui, e guardandola in viso Abby scorse qualcosa di
familiare in lei, tanto che una strana sensazione le strinse lo
stomaco, assieme alla nausea.
«Beh… la somiglianza è
notevole», disse con poca voce, tossicchiando.
Baqi aprì la bocca per manifestare tutta la propria
indignazione, ma Abigail non gliene diede il tempo, indicando col dito
proprio la donna di fronte al gemello di Merlino: «Lei invece
chi è? Lo sai?».
Il ragazzo allungò il collo per capire chi stesse indicando,
poi sorrise guardandola negli occhi. «Somiglia alla signora
Chapman da giovane, non è vero?».
«Sì, ma nonna non era ancora nata nel
’trentacinque».
«Infatti non è lei, ma sua madre. Quella
è la tua bisnonna, Louise McTrusty. La fotografia
apparteneva a lei».
Abby rimase a fissare lo schermo del laptop con gli occhi spalancati
ancora per qualche istante, poi lo chiuse bruscamente, scatenando le
ire di Baqi, e si allontanò spingendo velocemente le ruote
della propria sedia a rotelle.
«Ehi, ma dove vai?!», urlò il ragazzo,
scioccato.
Lei non gli rispose, non si voltò nemmeno. Ignorò
persino Mark quando lo incrociò lungo il corridoio, troppo
concentrata a sistemare i pezzi del puzzle che al momento possedeva e
che le vorticavano furiosamente nella testa.
Louise. Merlino aveva nominato una certa Louise, qualche settimana
prima. Che si riferisse proprio alla sua bisnonna?
Si chiuse in camera sua e con la sedia a rotelle si fermò
accanto al letto per poter incrociare le braccia sul materasso,
nasconderci dentro la testa e riposare ad occhi chiusi, aspettando che
le passasse l’affanno e i battiti del suo cuore tornassero
regolari. Ma non accadde tanto presto.
***
In quei giorni gli ospiti dell’agriturismo erano
più del solito, perciò i signori Morris avevano
deciso di aprire la sala ristorante anche per la colazione.
Seduta ad uno dei tanti tavoli rotondi, Hala si guardava intorno mentre
aspettava che la signora Chapman tornasse dal bagno.
Si sentiva ancora terribilmente in colpa per non aver detto la
verità a suo fratello, ma continuava a ripetersi che in
fondo nemmeno lei sapeva quale fosse, la verità. Insomma,
aveva visto il ragazzo della fotografia e – diamine
– era davvero identico anche a quella scattata nel 1935, ma
non aveva niente per dimostrare che fossero la stessa persona.
Se l’avesse detto a Baqi se lo sarebbe trovato tra i piedi
quella mattina stessa, pronto a documentare ogni cosa. Almeno
così avrebbe avuto un po’ di tempo per fare le sue indagini
– discrete, razionali e senza alcuno scopo di lucro.
La nonna di Abigail aveva detto al ragazzo immortale che si sarebbero
visti quella mattina e Hala l’aveva cercato con lo sguardo da
quando era uscita dalla propria stanza, ma di lui ancora nessuna
traccia. Che avesse sentito puzza di guai e se la fosse filata? Ecco,
stava iniziando a pensare come Baqi.
Si era appena portata la tazza di tè alle labbra, decisa a
non pensarci più, quando Rebecca, la receptionist
nonché figlia del proprietario dell’agriturismo,
riportò a galla l’argomento.
«Insomma papà, non è possibile che
Merlino e Artù vengano a lavorare quando fa più
comodo a loro! Adesso come faccio con gli ospiti della 103?».
Hala si sporse un po’ di più verso
l’ingresso della sala ristorante e scorse Rebecca e il signor
Morris l’uno di fronte all’altra nel salotto. La
ragazza sembrava furiosa, col viso paonazzo e le mani che non facevano
altro che gesticolare mentre parlava, mentre l’uomo,
dall’espressione bonaria, la guardava negli occhi con
tranquillità.
Quando la figlia smise di agitarsi, le posò le mani sulle
spalle e le accarezzò teneramente le braccia, sorridendo.
«Tesoro, devi davvero mettere una pietra sopra
Artù: ho visto la sua attuale ragazza e fidati, tu non sei
il suo tipo».
«Papà!».
«Ad ogni modo, non è vero che vengono quando fa
più comodo a loro: questa mattina Merlino mi ha chiamato e
mi ha chiesto di poter anticipare ad oggi il loro riposo. Ho risposto
che non c’era problema, dato che oggi non abbiamo scolaresche
in programma e gli ospiti della 103 non avevano ancora intasato il
cesso con Dio solo sa cosa».
Il signor Morris le rivolse un altro sorriso, quella volta soddisfatto,
e le sistemò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
«Ci penserò io più tardi, tesoro. Non
ti preoccupare».
Rebecca sbuffò e tornò dietro il bancone della
reception. Il signor Morris invece ridacchiò e scuotendo il
capo entrò nella sala ristorante, dove Hala chinò
di nuovo il capo verso il proprio tè.
In quel momento la signora Chapman tornò a sedersi al suo
fianco e sorrise all’uomo, il quale si fermò
accanto al loro tavolo.
«Allora, come andiamo? Avete dormito bene questa
notte?».
«Certamente Abraham, come sempre!»,
esclamò la signora Chapman, tutta contenta.
Hala avrebbe voluto dire che quello stupido gallo l’aveva
svegliata proprio quando era riuscita a far tacere tutti i pensieri che
le affollavano la mente e ad addormentarsi, ma rimase in silenzio,
annuendo con un cenno del capo.
«Tra poco vado giù in paese a sbrigare delle
commissioni», disse ancora il proprietario
dell’agriturismo, «volete che vi accompagni
all’ospedale?».
La nonna di Abigail sorrise, prendendogli una mano tra le sue.
«Oh, sarebbe gentilissimo da parte tua».
L’uomo ricambiò affettuosamente, piegandosi per un
baciamano, ma sua moglie glielo impedì, gridando
dall’altra parte della sala: «Per l’amor
del cielo, Abraham, lascia in pace la signora Chapman!».
Il signor Morris rise di cuore e gettò un’occhiata
a Wanda, per poi sussurrare: «È tanto gelosa,
dovete scusarla».
«Ah, lo ero anche io col mio caro marito! Diventavo davvero
insopportabile».
Abraham annuì, prima di congedarsi. «A
più tardi allora».
Hala ricambiò il saluto con un cenno della mano, poi
tornò a spezzettare con la forchetta il proprio waffle.
«C’è qualcosa che non va, cara? Mi
sembri pensierosa».
Hala guardò la signora Chapman con la coda
dell’occhio, rivolgendole il primo piccolo sorriso della
giornata.
Quando sua zia le aveva detto che una signora che conosceva aveva
bisogno di una colf e le aveva dato il suo indirizzo, mai e poi mai
Hala si sarebbe immaginata che quella stessa signora sarebbe diventata
come una madre per lei. Non solo le aveva dato un lavoro, ma aveva
accolto lei e suo fratello in casa sua, aveva dato loro del cibo con
cui sfamarsi e quando Hala aveva bisogno di sfogarsi o di qualche
consiglio lei c’era sempre.
«Vuole la verità?», rispose alla fine.
«La verità è che continuo a pensare a
quel Merlino».
La signora Chapman gettò un’occhiata verso il
soffitto, come se stesse soppesando le sue parole; quindi
abbozzò un sorriso. «Beh, devo ammettere che oltre
ad avere un cuore d’oro è anche un bel
giovanotto».
Hala finse di essersi presa una cotta per lui e con le mani sotto al
mento chiese: «Mi parli un po’ di lui. Da quanto lo
conosce?».
«Vediamo un po’… Da quando Abby
è stata ricoverata in ospedale per la prima volta,
sì». Si tolse gli occhiali dal viso e morse la
punta di un’astina, cercando le parole adatte per
descriverlo. «È un ragazzo sorridente, dolce, che
si è sempre preso cura dei bambini ricoverati ad oncologia.
Molto spesso legge loro delle favole ambientate a Camelot, con Re
Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda. E ha lavorato per
molto tempo alla caffetteria della signora Begum, quella non lontana
dall’ospedale».
La ragazza rimase in attesa, ma la signora Chapman scrollò
le spalle, dicendo: «È tutto, credo».
«Che cosa? Davvero non sa nient’altro della sua
vita privata?».
«Che ti posso dire… è sempre stato un
tipo riservato». Sorrise, posando una mano rugosa sulla sua.
«Ma se vuoi il consiglio di una povera vecchia, non
è bene sapere subito tutto di un uomo: si perde
l’interesse».
Hala si sforzò di ricambiare il sorriso, mentre dentro di
sé non faceva altro che imprecare, chiedendosi come diavolo
facesse Baqi a non perdere mai la speranza.
***
«Quindi... questo bracciale è in grado di
contenere il flusso magico», ricapitolò Alex,
sfiorandone le incisioni floreali.
Merlino si gettò una rapida occhiata alle spalle, verso le
porte vetrate che davano sulla cucina, per accertarsi che
Artù non fosse nei paraggi; quindi le prese il polso tra le
mani e lo accarezzò con dolcezza prima di baciarne
l’interno pallido, da cui si poteva seguire il corso di
alcune vene bluastre.
«Proprio così», confermò.
«Mi dispiace di aver agito alle tue spalle, dico
davvero».
Alex lo guardò severamente, con un sopracciglio inarcato, e
se avesse avuto uno specchio a portata di mano avrebbe riso di
sé, perché era identica ad Artù.
«Ti ho già detto che non ti devi scusare. Certo,
avrei preferito che non mi dicessi che apparteneva ad una principessa
bella e buona di cuore, ma...».
«Non me lo sono inventato».
L’infermiera non riuscì a nascondere la delusione,
fu più forte di lei. Pensava che glielo avesse detto per
rendere quell’oggetto ancora più speciale, per
assicurarsi che non se lo togliesse mai... Non avrebbe mai pensato che
Merlino lo riciclasse in quel modo, specialmente se la principessa di
cui parlava aveva avuto un ruolo importante nella sua vita a Camelot.
«Apparteneva a Morgana, la sorellastra di
Artù», aggiunse il mago dopo qualche secondo di
silenzio, tenendo gli occhi bassi sui gradini in legno della veranda,
dov’erano seduti. «Anche lei aveva il
dono».
«Lo so, Artù me ne ha parlato».
Merlino annuì, deglutendo. «Lei… era la
persona più gentile e generosa che conoscessi a Camelot,
insieme a Ginevra. Pensa che una volta è persino scesa in
battaglia al mio fianco, per proteggere il mio villaggio natale.
È stata… fenomenale».
Abbozzò un sorriso e si strofinò gli occhi
improvvisamente umidi di lacrime.
Alex non poté mostrare indifferenza di fronte a quei ricordi
e si avvicinò un po’ di più al suo
fianco, stringendo più forte la sua mano.
Nonostante le facesse male pensare che Merlino avesse amato altre donne
prima di lei, comprendeva di non poter competere col passato: oltre che
stupido, era ingiusto nei suoi confronti.
«Quando ho scoperto che Morgana possedeva il mio stesso dono
ho pensato di aver trovato la mia anima gemella, qualcuno con cui
potevo essere liberamente me stesso… Ma il destino ci ha
sempre remato contro. Non ho potuto aiutarla come avrei dovuto, o forse
sono io che non l’ho mai voluto davvero. La magia
l’ha cambiata, l’ha resa una persona rancorosa,
assetata di potere e di vendetta. Ed è per questo che non
volevo che tu ne entrassi in contatto. Anche adesso, faccio sempre
questi sogni in cui tu…», si interruppe,
coprendosi il volto con le mani.
«Io che cosa?», lo incitò a continuare,
col cuore che le batteva forte nel petto.
«La mia paura più grande è che la magia
ti trasformi in ciò che non sei, Alex. Ho paura che la
storia di Morgana si ripeta».
L’infermiera gli passò una mano tra i capelli,
avvicinandosi quel tanto che bastava per baciargli lo zigomo e
sussurrare: «Non succederà».
«No, non lo permetterò»,
esclamò Merlino, guardandola negli occhi per la prima volta.
«Per questo ti insegnerò a controllarla. Insieme
riusciremo a cambiare il destino. Proveremo a salvare il mondo se lo
vuoi, ma alle nostre condizioni».
«Conta su di me».
Lo stregone le sorrise e in uno slancio d’emozione le prese
il viso tra le mani per baciarla, ma fu interrotto da Artù,
il quale aprì di scatto le porte finestre e rimase con la
bocca spalancata, le parole che voleva dire incastrate in gola.
«Le stavo controllando un occhio»,
inventò subito una scusa Merlino, avvicinandosi di nuovo al
viso di Alex per fissare da vicino la sua iride destra.
«Dev’esserle entrato un moscerino,
vedete?».
Artù parve bersela, anche se col naso arricciato, e disse:
«Freya si è svegliata e vuole parlare con
te».
Merlino e Alex si alzarono contemporaneamente, pronti a rientrare in
casa, ma l’infermiera venne bloccata da un’occhiata
e dal braccio di Artù, il quale poi tornò a
posare gli occhi sul mago.
«Da sola», aggiunse con una smorfia sul viso,
quella volta di disappunto.
Merlino sospirò lievemente prima di passargli accanto e
sparire in salotto.
L’infermiera, rimasta con Artù e Cathleen, la
quale li aveva raggiunti subito dopo aver lasciato soli Freya e
Merlino, tornò a sedersi sul gradino più alto, la
schiena contro il pilastro di legno e una gamba stretta al petto.
«Che faccia scura che hai. È successo
qualcosa?», le domandò Cathleen, sedendosi al
fianco di Artù, beato tra le donne.
«Merlino mi ha raccontato di Morgana»,
confessò dopo un attimo di esitazione, rigirandosi il
bracciale intorno al polso.
Artù scrollò le spalle, gli occhi rivolti verso
il cielo annuvolato. «È sempre stata fuori dalla
sua portata».
«No, invece», ribatté aspramente.
«Merlino aveva ogni diritto di essere felice, lo ha
tutt’ora. Solo lui si è accorto del dolore di
Morgana, del suo sentirsi diversa, rinnegata… e ha provato
fino all’ultimo ad aiutarla, ne sono sicura».
«Sì, è così. Ma Morgana si
è spinta troppo oltre, era irrecuperabile. E Merlino ha
fatto ciò che doveva».
Un brivido freddo la percorse da capo a piedi, sotto gli occhi fieri
dell’antenato. Non avrebbe voluto fare quella domanda,
sperava che Artù decidesse di tenerla all’oscuro
di quella parte del loro passato, ma la verità era che aveva
assolutamente bisogno di sapere che cosa Merlino non voleva che si
ripetesse.
«Che cos’ha fatto?».
All’improvviso gli occhi di Artù si adombrarono e
si fissarono su un punto oltre la sua spalla, la sua espressione si
fece stanchissima, disperata e rassegnata. Stava rivivendo quel momento
e Alex poteva vedere il riflesso di un Merlino che non conosceva nel
suo sguardo.
«L’ha uccisa», mormorò alla
fine, come se l’avesse realizzato per la prima volta.
«Con Excalibur».
Alex sentì le poche cose che aveva ancora nello stomaco
risalirle lungo l’esofago, ma riuscì a trattenersi
traendo alcuni respiri profondi.
Merlino aveva paura che cambiasse in modo irrecuperabile, che si
trasformasse nello stesso caso disperato che già una volta
l’aveva portato ad uccidere la donna che forse, in segreto,
non aveva mai smesso di amare. E i sogni a cui aveva
accennato… Che gli avessero mostrato la propria morte,
magari per mano sua?
«Alex? Ehi, Alex, ti senti bene? Sei pallida come un
lenzuolo».
Cathleen, in ginocchio al suo fianco, le stava dando degli schiaffetti
sulle guance per riportarla alla realtà.
«Sì, ho… ho solo bisogno di fare due
passi», balbettò, sbattendo ripetutamente le
palpebre.
Si incamminò verso la tomba di Steve, stringendosi la felpa
addosso per proteggersi dal vento freddo residuo del temporale di
quella notte. Quindi seguì il percorso del fiumiciattolo,
pensando e ripensando a tutto ciò che ancora non sapeva di
Merlino e di se stessa: fino a due mesi prima non sapeva nemmeno di
avere come antenato il leggendario Artù Pendragon,
né che possedesse il dono della magia; chissà che
altro ancora le riservava il futuro.
Si imbatté in una piccola pianta che non ricordava di aver
mai visto prima e, chinandosi per esaminarne le foglioline, si rese
conto che l’arbusto si era sviluppato intorno al pugnale che
le aveva regalato Artù, quello che aveva lasciato
lì come prova della sfida lanciata ai custodi della magia.
Aveva promesso che avrebbe cambiato il destino di Merlino e
Artù, ma ora le cose si erano un tantino complicate: come
poteva pensare di cambiare il loro destino, se la prima persona contro
cui doveva combattere e da cui doveva difendersi era se stessa?
***
Merlino scambiò un rapido sorriso con Cathleen sulla soglia
della cucina e fece per superarla, quando lei lo prese per un braccio e
lo guardò dritto negli occhi.
«Senza di lei in questo momento Artù sarebbe
morto, perciò... vacci piano».
Lo stregone le diede la propria parola, senza rivelarle che temeva che
Freya avesse avuto in mente un qualche secondo fine quando aveva deciso
di salvare Artù invece di approfittare della situazione per
scappare indisturbata con Excalibur.
Raggiunse la custode del lago, seduta sul divano con una tazza di
tè caldo tra le mani, e si sedette sul tavolino basso.
«Ciao», lo salutò dolcemente, soffiando
sulla bevanda fumante.
Merlino si sforzò di ricordare l’amore bruciante
che provava per lei, per il quale avrebbe persino lasciato Camelot
– avrebbe lasciato Artù – per iniziare
una nuova vita al suo fianco. Per quanto si impegnasse, in quel momento
vederla gli faceva soltanto provare rammarico e delusione: anche lei,
esattamente come Morgana, aveva abbracciato delle idee che non erano
sue ed era scesa in una battaglia a cui non avrebbe dovuto prendere
parte.
«Non sarebbe dovuta finire così»,
sospirò.
«No davvero», rispose Freya, ignara di
ciò a cui lui si riferisse. «Hai commesso
così tanti errori, Merlino... Il più grande con
le Disir».
«Il passato me lo sono lasciato alle spalle, ormai. Dimmi
come hai fatto ad uscire da Avalon».
«Come ho fatto? Ah, questa è bella».
Ridacchiò, mettendosi seduta a gambe incrociate.
«Perché non lo chiedi all’ultima
Pendragon? Tutto quello che so è che stavo risparmiando le
energie quando sono stata travolta da un flusso magico potentissimo. Ho
aperto gli occhi ed ero di nuovo io, affamata ed infreddolita e con
indosso l’abito che avevi rubato a Morgana. Ti ricordi?
È stato così stupido...».
«Stai dicendo che non le hai chiesto tu di
ritornare?».
«Certo che no! Se avessi creduto che una cosa del genere
fosse possibile avrei cercato di tornare libera secoli fa! E
poi...», si sporse verso di lui per accarezzargli una mano e
Merlino non si mosse, nonostante sapesse che scansarsi sarebbe stata la
cosa giusta da fare. «L’ultima volta mi hai
minacciata, dicendomi che se avessi provato a contattarla me
l’avresti fatta pagare cara. Come avrei potuto
sottovalutarti? Dopotutto sei ancora lo stregone più potente
di tutti i tempi».
Le sue parole adulatrici non lo impressionavano, come moltissime cose
dopo più di millequattrocento anni di vita,
perciò non dovette nemmeno fingere di ignorarle.
Con la risolutezza e la precisione di un cecchino continuò
con la propria sfilza di domande: «Per quanto riguarda
Excalibur? Perché la stavi rubando ad Alex?».
«Non la stavo rubando! La stavo proteggendo!»,
sbottò e si allontanò rapidamente da lui, offesa
dalle sue insinuazioni.
Merlino le rivolse un’occhiata perplessa.
«Proteggendo da chi?».
«Da voi!», urlò. «Tu e
Artù ormai siete solo un pallido riflesso di ciò
che eravate a Camelot, e avete espresso abbastanza bene la vostra
posizione riguardo alla salvezza di questo mondo. Excalibur
l’ha scelta, ha lasciato che la sua mano la raccogliesse dal
fondo del lago: questo vorrà pur dire qualcosa per
te!».
Lo stregone deviò il suo sguardo, mordendosi le labbra.
«Alexandra è il futuro, è colei che
spezzerà la tua maledizione e riporterà la magia
sulla Terra, non importa a quale prezzo», aggiunse in tono
suadente. «Lo sai anche tu, Merlino… Non mentire a
te stesso».
Scioccato com’era, il mago non sentì nemmeno il
campanello. Fu Cathleen, ad un certo punto, a correre verso
l’ingresso e a guardare attraverso lo spioncino.
«È l’agente Fisher»,
esclamò a bassa voce il paramedico, lanciando
un’occhiata preoccupata allo stregone.
Quella notte avevano davvero rischiato grosso. Non si erano incrociati
per pura fortuna, sia mentre Cathleen e Artù rincorrevano
Freya nel bosco sia mentre tornavano verso l’auto, con
Excalibur e la custode di Avalon. Poi era arrivato Merlino in loro
aiuto: era apparso alle loro spalle, impedendo loro di farsi scoprire
da Darrell, e insieme, nascosti dietro la vegetazione, avevano
aspettato che il poliziotto si allontanasse sulla propria volante.
Quindi lo stregone aveva preso Freya fra le braccia, dicendo che
sarebbe stato più sicuro evitare di passare davanti ai
vicini di casa di Alex con una ragazza svenuta tra le braccia, ed era
tornato nel fitto del bosco, fino al punto in cui aveva lasciato la sua
auto quando aveva capito che non era il caso di farsi vedere nei
paraggi ancor prima che Alex fosse informata di ciò che era
successo.
Una Freya nervosa lo riportò al presente, affrettandosi ad
alzarsi con la coperta ancora avvolta intorno alle spalle.
«Devo nascondermi. Darrell non può trovarmi qui,
si insospettirebbe».
Merlino sgranò gli occhi. «Lo conosci?».
«Dove credi che sia stata, in queste due
settimane?», gli chiese roteando gli occhi al cielo.
«Dovevo per forza sperare nell’aiuto di qualcuno e
lui è stato il primo che ho incontrato».
«Okay, fare il detective non è il mio
mestiere», ammise Cathleen, rassegnata di fronte
all’evidenza. All’insistenza del poliziotto,
sussurrò ancora: «Cosa faccio, gli apro oppure
no?».
La custode di Avalon, dopo un silenzioso cenno di Merlino,
annuì e corse su per le scale con le sue scarpe strette al
petto.
Una volta lontana, lo stregone raggiunse Cathleen e le fece segno di
tornare da Artù ed Alex per avvisarli del loro ospite
inatteso.
«Mi raccomando, qualsiasi cosa succeda non fatevi
vedere», esclamò e dopo aver ricevuto
l’ennesimo cenno d’assenso aprì la
porta.
«Darrell, che sorpresa! Scusami per l’attesa, ma
ero in bagno».
L’agente abbozzò un sorriso, scrollando le spalle.
«Non c’è problema. Come va?».
Merlino si fece da parte per farlo entrare e richiuse la porta dietro
di sé. «Bene, tu? Hai fatto il turno di
notte?».
«Si nota così tanto?», gli
domandò, ridendo lui stesso del proprio pessimo aspetto.
«Posso?».
«Accomodati pure».
Darrell si lasciò cadere sulla poltrona più
vicina a lui e sospirò, chiudendo gli occhi al soffitto.
Merlino, in piedi a qualche metro di distanza, si infilò le
mani nelle tasche, a disagio.
«Ho saputo dell’effrazione a casa di
Alex», esordì. «Sei venuto qui per
questo?».
L’agente Fisher riaprì di scatto gli occhi, per
poi strofinarseli con due dita. «Come? No, non
esattamente. Il fatto è che mi sembra di impazzire e speravo
che tu potessi rassicurarmi in questo senso, visto
che…».
«Che ho a che fare con Artù tutti i
giorni?», rise sedendosi sul divano, obliquamente a lui.
«Avanti, sputa il rospo».
Darrell si sedette in maniera più composta, con i gomiti
posati sulle ginocchia e le mani unite quasi a mo’ di
preghiera.
«Okay», sospirò, quasi per farsi
coraggio. «Ti ricordi quando quella ragazza dai capelli
rossi…».
«Cathleen».
«…mi ha chiesto se avessi visto qualcosa di
sospetto nei pressi del lago?».
«Sì, mi ricordo. E dunque?».
«Beh, ho mentito. So che come tutore della legge dovrei dare
il buon esempio, ma… stavo proteggendo una
persona».
Lo stregone iniziò ad unire i puntini, ma rimase in silenzio
e fece finta di non aver capito, corrugando la fronte. Il poliziotto
esitò per un paio di istanti prima di riprendere con la
propria confessione:
«Due settimane fa, nei pressi del mio condominio ho visto una
ragazza: era disorientata, infreddolita, affamata, e addosso aveva un
vestito che sembrava essere uscito direttamente dal guardaroba delle
principesse Disney. Senza pensarci su due volte le ho offerto la mia
ospitalità. Ho provato a chiederle perché si
trovasse lì e che cosa le fosse successo, ma mi ha detto che
non ricordava nulla a parte il suo nome: Freya».
«Potrebbe essere stata rapita e aver rimosso i ricordi a
causa del trauma. L’ho letto su una rivista»,
provò a ipotizzare Merlino, continuando con la propria
facciata. «L’hai portata all’ospedale per
un controllo?».
«Ci ho provato. Dio se ci ho provato! Ma ogni volta che
provavo a farla uscire di casa iniziava ad urlare e a piangere e non ci
sono riuscito. Non ha nemmeno voluto che le scattassi una foto per
cercare un confronto nell’elenco delle persone scomparse.
Sono riuscito però a raccogliere un campione del suo DNA
– dei capelli dalla spazzola – e l’ho
inviato ad un mio collega di Newport perché lo analizzasse
per me. Mi doveva un favore».
«E?», lo spronò a continuare Merlino,
sporgendosi un po’ di più verso di lui.
Darrell si colpì le ginocchia con le mani, sbuffando.
«E niente: non è in nessun database».
«Okay, hai una bella gatta da pelare. Come posso
aiutarti?».
«Aspetta, non hai sentito ancora la parte
migliore!», esclamò l’agente, ridendo
nervosamente. «Questa mattina torno dal turno, stanco morto e
con un mezzo raffreddore, e indovina? Lei non c’era.
L’ho cercata ovunque, ho persino controllato se fosse stata
ricoverata in ospedale, ma è stato un enorme buco
nell’acqua. È come se fosse scomparsa,
Merlino».
Il mago si appoggiò allo schienale del divano, le braccia
incrociate al petto. «Avrà finalmente deciso di
uscire, di prendere un po’ d’aria fresca».
«Uscendo dalla finestra del bagno e lasciandosi dietro le
impronte di un leone geneticamente modificato? E poi è
successo quello che è successo a casa di Alexandra e non ho
idea di che cosa sia quello strano aggeggio che ho trovato nel
bosco… Ho la sensazione che sia tutto collegato, ma non so
come».
Merlino si irrigidì e poi sollevò un angolo della
bocca in un sorriso sornione. «Aspetta un momento, non credo
di aver capito… Che impronte?».
Darrell, serissimo in volto, infilò una mano nella tasca del
giubbotto che aveva ancora addosso e gli mostrò le foto che
aveva scattato col proprio smartphone: non c’erano dubbi,
erano proprio impronte degne di un Bastet.
«Ho detto a Cathleen di non credere nel soprannaturale, ma
questo… è da pazzi. Dimmi che non lo sono, ti
prego».
Merlino sollevò gli occhi in quelli dell’agente di
polizia e cercò di pensare ad una scusa convincente, senza
ovviamente trovarne nessuna all’altezza della situazione.
Alla fine posò una mano sulla sua spalla e sorrise
divertito, esclamando: «Le foto possono essere ingannevoli:
la prospettiva, la luce… La tua gatta da pelare non
può essere così
grossa».
«Stai dicendo che mi sto inventando tutto?»,
esclamò Darrell, infastidito.
Merlino si alzò e lo invitò a fare lo stesso,
dandogli qualche pacca rassicurante sulla schiena. «Sto
semplicemente dicendo che forse ti stai lasciando condizionare da
quello che ha detto Cath… e che hai bisogno di dormire un
po’».
«Ma Freya –?!».
«Sono sicuro che tornerà prima che te ne renda
conto», aggiunse, spingendolo verso l’ingresso.
«Magari in questo momento è già a casa
e si starà chiedendo dove sei finito».
Darrell puntò i piedi sull’uscio e si
voltò per fissarlo col suo miglior sguardo inquisitorio.
«Come mai tutto d’un tratto vuoi che me ne vada?
C’è qualcos’altro che vorresti dirmi,
Merlino? Perché se è così sputa il
rospo».
«No, assolutamente! È che ho una marea di cose da
fare e…». Sospirò, passandosi una mano
sulla nuca, e alla fine ammise: «Artù sta avendo
una delle sue giornate no e non posso davvero lasciarlo solo troppo a
lungo, mi dispiace».
Il viso di Darrell si ammorbidì e agitando una mano come a
voler scacciare via qualsiasi altro sospetto gli avesse attraversato la
mente, disse: «Scusami tu, non avrei dovuto gettarti addosso
tutte le mie paranoie: non gestisci una casa di cura,
dopotutto».
«Però potrei prendere l’idea in
considerazione, no?».
L’agente Fisher rise, dandogli una pacca sul braccio.
«Sarei il tuo primo paziente. Ci vediamo in giro».
Merlino annuì e stava già per rientrare in casa,
quando Darrell attirò di nuovo la sua attenzione.
«Ti dice niente il nome Emrys?».
Lo stregone scrollò le spalle, mostrandosi con un grosso
punto interrogativo in faccia. «No, dovrebbe?».
«Non so. Questa mattina dalla signora Begum mi sono imbattuto
in un tizio che cercava questo Emrys e che poi ha fatto il tuo
nome», gli disse, continuando a camminare
all’indietro verso l’auto. «Un certo
Baqi».
«Non ho idea di chi sia».
«Lo immaginavo. Aveva il tesserino di un piccolo giornale e
ha detto che sta conducendo un’indagine privata, ma non ha
voluto rivelarmi altro per paura che gli rubassi lo scoop».
Scosse il capo, trattenendo a stento una risata. «Penso
davvero che qui faresti soldi a palate con quella casa di
cura».
Merlino ricambiò il saluto sollevando una mano e finalmente
si precipitò all’interno. Trovò
Artù, Alex e Cathleen seduti in veranda, in silenzio.
«Allora, che cosa voleva Darrell?», gli chiese
subito il paramedico.
«Non c’è tempo per le
spiegazioni». Gettò una rapida occhiata ad Alex e
sospirando aggiunse: «Devo andare via con Freya, ci
impiegherò mezz’ora al massimo».
Il re di Camelot, vagamente preoccupato, si alzò
perché i loro occhi fossero allo stesso livello.
«Perché? Che cos’è
successo?».
«Perché non mi avete avvisato che era ancora in
grado di trasformarsi in Bastet?!», urlò in
risposta Merlino, adirato.
«Grazie al cielo, pensavo di essermelo immaginato»,
sospirò di sollievo Cathleen, abbandonando il capo contro il
pilastro di legno.
Merlino la ignorò, esattamente come fece con lo sguardo
incredulo di Alex, e continuò: «Darrell ha trovato
delle orme di felino dietro casa sua – le ha fotografate!
– e devo risolvere la situazione prima che esploda tra le
nostre mani».
Artù lo afferrò per un braccio prima che gli
desse definitivamente le spalle. «Puoi scordartelo che ti
lasci andare da solo con lei. È pericolosa!».
«Come Cath mi ha fatto notare, lei vi ha salvato la vita,
nonostante quindici secoli fa proprio voi l’abbiate uccisa
ingiustamente», rispose Merlino, rivolgendogli un sorriso
macchiato dal rammarico. «Le dovete una seconda chance».
Artù, ferito e al contempo offeso dalle sue parole, lo
lasciò andare bruscamente. Lo stregone non si
voltò indietro e una volta al piano superiore
trovò Freya in camera sua, seduta sul suo letto ed immersa
nella lettura di un classico della letteratura inglese. Non appena si
accorse di lui chiuse il libro e si alzò, inciampando in un
lembo della coperta e cadendo dritta tra le sue braccia.
Merlino sentì un brivido percorrergli la schiena sentendo il
suo corpo contro il proprio, un brivido talmente forte da far
riaffiorare un po’ di quell’amore quasi
adolescenziale che pensava di aver dimenticato e superato.
Si schiarì la gola e l’aiutò a
rimettersi in piedi, per poi esclamare perentorio: «Dobbiamo
andare».
«Dove? Si tratta di Darrell? Che cosa ti ha detto?».
«Ti spiego strada facendo, non abbiamo molto tempo».
Merlino la prese per mano e ancora una volta provò una
stretta allo stomaco – sensi di colpa? – che
prontamente ignorò.
***
«Che cosa diavolo intendeva dire Merlino?».
Artù cercò di ignorare Cathleen, lo sguardo fisso
sull’anello con lo stemma regale e legato ad una catenina
d’argento che Alex si stava nervosamente rigirando tra le
dita. Il paramedico però insistette e gli pizzicò
il braccio.
«Intendeva dire quello che ha detto»,
sbottò. «Sono stato io ad uccidere Freya, quando
era sotto forma di pantera. Non sapevo che Merlino fosse innamorato di
lei, non sapevo che volevano lasciare Camelot per cercare di curare la
maledizione e vivere insieme. All’epoca non sapevo niente di
lui».
Cathleen sospirò, accarezzandogli la schiena.
«Sono sicura che non voleva rinfacciarti nulla; era troppo
concentrato sulla missione e non ha pensato a cosa diceva».
«No, sono contento che si sia sfogato. È da quando
l’ho saputo che avevo un peso sullo stomaco».
Cathleen abbozzò un sorriso che scomparve non appena lesse
l’ora sul proprio orologio da polso.
«Sarà meglio che vada a casa a riposare un
po’: sono di turno oggi pomeriggio».
«Va bene, ci sentiamo più tardi».
Artù si sforzò di sorriderle prima di prenderle
il volto tra le mani e posarle un bacio sulla fronte.
«Ciao», la salutò ancora una volta prima
che sparisse oltre le porte vetrate, quindi abbassò di nuovo
gli occhi su Alex e respirando profondamente si sedette al suo fianco.
La osservò per un po’, in silenzio, fino a
rendersi conto che quando era concentrata o immersa nei propri
ragionamenti aveva la sua stessa espressione seria e risoluta.
«A che cosa stai pensando?».
«Non sapevo che Merlino e Freya avessero avuto una
storia», mormorò.
Artù si passò una mano tra i capelli per poi
massaggiarsi il volto. «Come ho detto prima…
nemmeno io lo sapevo. Ma da quello che mi ha mostrato Freya, non hanno
avuto modo di stare molto tempo insieme. Merlino l’ha aiutata
a scappare dall’uomo che l’aveva catturata e poi
l’ha nascosta fino a quando… beh, lo
sai».
«Dev’essere stato amore a prima vista, se ha fatto
tutto questo per lei», disse ancora, sporgendosi per
strappare qualche filo d’erba ed iniziare a giocarci.
«Può darsi», ammise Artù,
stringendosi nelle spalle. «Ad ogni modo è
successo moltissimo tempo fa, quasi un’eternità. E
poi perché dovrebbe interessarti?».
«Infatti non mi interessa», ribatté Alex
con determinazione, ma non riuscì a celare il rossore che le
infiammò il volto.
Il re di Camelot, notandolo, storse il naso, combattuto: ancora una
volta non sapeva se rassicurarla sull’amore di Merlino oppure
tentare di convincerla del fatto che poteva puntare più in
alto. Pensandoci bene però, ora che Freya era tornata
nell’equazione, in carne ed ossa per giunta, non era certo al
cento percento che Merlino non si sarebbe fatto trascinare dalla
nostalgia. Quello che sapeva per certo era che se Alex avesse sofferto
a causa sua, lui gli avrebbe fatto patire il doppio.
«Ehi, posso chiederti una cosa?».
Artù tornò a prestarle attenzione, stupito dal
suo improvviso cambio d’espressione: sembrava preoccupata,
quasi spaventata, e aveva iniziato a spezzettare i fili
d’erba in minuscoli pezzetti.
«Anche tu hai paura che io diventi come Morgana?».
Il re fissò il giardino in tutta la sua ampiezza, alla
ricerca delle parole giuste da rivolgerle, ma alla fine fu ancora Alex
a parlare, affermando: «Non succederà. Alla fine
sarò io a dominare la magia, non il contrario. Non vi
deluderò, ve lo prometto».
Si avvicinò a lei di qualche altro centimetro, fino a che le
loro spalle e le loro gambe non si toccarono, e poi le
accarezzò i capelli sulla nuca, sorridendo dolcemente:
«No, non ci deluderai; ne sono certo».
Alex lasciò che anche sulle sue labbra fiorisse un sorriso e
per la prima volta incrociò il suo sguardo.
«Grazie».
Artù le avvolse un braccio intorno alle spalle e rise,
appoggiando la testa alla sua tempia. «Se qualcuno mi avesse
detto che sarei risorto dopo millequattrocento anni e che avrei dovuto
aiutare l’ultima mia discendente a controllare i suoi poteri
magici… l’avrei fatto rinchiudere nelle
segrete».
«Non ne dubito», rispose l’infermiera,
prima di alzarsi in piedi.
Artù la imitò, con un brivido che gli correva
sottopelle. «Dove vai?».
«A casa. Ho fatto il turno di notte, sono esausta. Anche se
mi sa che dormirò sul divano, dato che Freya ha fatto
proprio un bel disastro in camera mia».
Non sapeva esattamente perché, ma Artù aveva il
sospetto che non gli stesse dicendo la verità. Ciononostante
ignorò quel presentimento per vedere come sarebbe andata a
finire e le sorrise esclamando: «Ma certo, vai a
riposarti».
«Mi presteresti la bici di Merlino?».
Il re indicò il vecchio fienile con un cenno del capo e Alex
gli stampò un bacio sulla guancia prima di iniziare a
scendere i gradini della veranda. Una volta con i piedi
sull’erba però si fermò, come se avesse
all’improvviso cambiato idea, e scosse il capo.
«Dici che sarebbe un problema se dormissi un po’
qui?», gli domandò quindi, con una smorfia di
stanchezza sul viso.
Artù non ci vide proprio nulla di male e scrollò
le spalle, offrendole la propria stanza.
«Quella di Merlino andrà benissimo»,
rifiutò però l’infermiera, gettandosi i
capelli dietro la spalla destra.
Lui aggrottò le sopracciglia, accigliato. «Che
cos’ha la mia camera che non va?».
«Mi mette a disagio», rispose in tono evasivo e
senza aggiungere altro corse all’interno, lasciandolo solo
con i propri sospetti.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Era da troppo tempo
che quei due gliela facevano sotto il naso ed era giunto il momento di
porre la parola fine a quella storia una volta per tutte.
Si lasciò cadere sulla poltrona più vicina alla
televisione e pensò ad un piano per smascherarli, ma
finì per rimanere affascinato dalla replica di una puntata
di NCIS.
***
Nonostante quello fosse il suo primo viaggio in auto, Freya sembrava
calmissima. Con la schiena addossata al finestrino e un ginocchio
stretto al petto lo fissava con curiosità, giocando con una
ciocca di capelli neri che ad un tratto si portò persino
alla bocca.
«Potresti tirare giù il piede dal sedile? La pelle
è molto delicata», esclamò Merlino,
rompendo quel silenzio imbarazzante.
La custode di Avalon eseguì senza proferir parola, solo
accennando un sorriso. Il mago strinse più forte le mani
intorno al volante e ad un certo punto, stanco del suo comportamento,
sterzò bruscamente in una via chiusa e frenò per
poterla guardare dritta negli occhi.
«Che cosa vuoi da me, Freya?».
Il sorriso sul suo volto si allargò, ma sparì non
appena gli accarezzò una guancia e si sporse timidamente
verso di lui. Ad un soffio dalle sue labbra infatti Merlino si
scostò, dicendo tra i denti: «Io non ti amo
più, Freya».
«Lo dici perché hai preso un impegno con la
Pendragon o perché lo pensi?», gli chiese con un
fil di voce, senza allontanarsi di un millimetro dal suo volto: Merlino
riusciva ancora a sentire il suo respiro sulla pelle.
«Saresti dovuta rimanere con me quando te l’ho
chiesto, adesso è troppo tardi. Siamo due persone
diverse».
«Non hai risposto alla domanda».
Lo stregone tornò a fissare gli occhi nei suoi scuri e
l’ennesimo brivido dovuto ai ricordi lo
attraversò, facendogli serrare i pugni sulle gambe.
«Io amo Alex, la amo più della mia stessa vita.
Lei è il mio presente e il mio futuro. Tu, invece, sei il
mio passato; un passato da dimenticare».
Freya alzò le mani in segno di resa e si sedette composta
sul sedile del passeggero, lo sguardo rivolto verso il parabrezza.
«Se ne sei convinto tu…»,
mormorò, prima di esclamare: «Darrell
sarà già arrivato a casa, di questo
passo».
Merlino sospirò, sollevato che finalmente avesse abbandonato
l’argomento, e mise di nuovo in moto la Pininfarina.
Darrell aveva appena parcheggiato l’auto di fronte al suo
condominio, quando Freya e Merlino raggiunsero il lato del bosco
visibile dalla finestra del suo bagno.
«Eccole, sono quelle», sussurrò la
custode di Avalon, indicando le orme sull’erba a qualche
metro da loro.
Il mago abbassò lo sguardo sul tatuaggio druido sul suo
braccio e dopo essersi umettato le labbra mormorò:
«Speravo che la maledizione fosse scomparsa nel momento della
tua morte».
«Infatti è così», lo sorprese
Freya, abbozzando un sorriso. «Ora posso decidere io quando
trasformarmi. E non ho nemmeno sete di sangue! Figo, non
trovi?».
Merlino rimase a bocca aperta, per quella scoperta ma anche
perché si rese conto che la custode si stava ambientando al
Ventunesimo secolo senza alcuno sforzo apparente.
«Dovremmo concentrarci, ora», fu la sua risposta,
tossicchiando e con la fronte aggrottata. «Pronta?».
Freya gli abbassò il braccio che aveva alzato in direzione
delle orme e disse, con tono da non voler ammettere repliche:
«Faccio io». Respirò profondamente e ad
occhi chiusi iniziò a recitare un incantesimo nella lingua
dell’Antica Religione, così a bassa voce che
Merlino dovette sforzarsi per sentirlo.
Era vero che non usava la magia da secoli ed era arrugginito, ma
sentì la potenza di ogni frase scivolargli sotto la pelle e
bruciargli il sangue nelle vene, e quando Freya riaprì gli
occhi dalle iridi dorate fu come se Merlino avesse appena ricevuto un
pugno contro lo sterno, in grado di rubargli il fiato. Cadde seduto
dietro un cespuglio, la schiena contro il tronco di un albero. Freya lo
imitò poco dopo, quando la magia abbandonò il suo
corpo per trasformare le grosse impronte del Bastet in quelle di un
innocuo gattino, e abbandonò persino il capo su una spalla,
sfinita.
Da quella posizione Merlino scorse Darrell fare il giro del palazzo e
fermarsi ad occhi sgranati di fronte a quelle impronte. Le
confrontò con le fotografie scattate col proprio cellulare,
piegandosi sulle ginocchia, poi si passò una mano tra i
ricci biondi, dandosi sottovoce del pazzo.
Udendolo anche Freya ebbe la forza di riaprire gli occhi e ricambiare
il sorriso di Merlino, il quale subito se ne pentì e
deviò il suo sguardo.
Aspettarono in silenzio che l’agente Fisher sparisse dietro
l’angolo, poi svuotarono i polmoni.
«La magia che Alexandra mi ha trasferito si sta
esaurendo…», disse ad un tratto la custode di
Avalon. «Come Artù, come qualsiasi cosa che vive
grazie ad essa… prima o poi morirò se non ti
deciderai a condividere l'immenso potere che si è accumulato
in te nel corso dei secoli».
«Mi stai chiedendo di sacrificarmi, ho capito
bene?».
«Non c’è altro modo per spezzare la
maledizione che tu stesso hai lanciato, Merlino. Non hai solo giurato
di non usare più la magia, hai giurato che avresti fatto
tutto ciò che era in tuo potere per impedire ad altri di
soffrire a causa di essa. Da quel momento ti sei trasformato in una
calamita gigante, privando la terra, l'aria e l'acqua della magia
necessaria al loro equilibrio».
Lo stregone, inorridito da ciò che aveva fatto, si
alzò faticosamente in piedi grazie al sostegno
dell’albero alle sue spalle. Se davvero aveva lanciato una
maledizione di quella portata... il suo destino era ancora
più segnato di quanto credeva.
«E Artù?», gli venne spontaneo chiedere.
«Che c'entra Artù in tutto questo?
Perché l'hai salvato?».
Freya aggrottò la fronte, guardandolo confusa.
«Oh, fammi il piacere», la rimproverò,
leggermente nauseato. «Avevi Excalibur, potevi fuggire
indisturbata e invece sei tornata indietro per salvare Artù
e sprecare energie. Devi avere un secondo fine, un
tornaconto».
La custode di Avalon continuò a fissarlo, sbigottita, fino a
quando un sorriso non fece capolino tra le sue labbra. «Devo
dire che se questo è davvero ciò che pensi di
me… sono molto delusa, sì»,
esclamò. «Certo, se lo avessi lasciato morire tu
mi avresti odiato e saresti rimasto ancor più
dell’idea di non voler compiere il tuo destino, ma il vero
motivo per cui ho rinunciato alla fuga, a Excalibur, è la
tua felicità».
«Prego?», ripeté con un nodo stretto in
gola.
«So quanto tieni a lui e non avrei mai potuto convivere col
rimorso di non averci almeno provato».
Il silenzio cadde tra di loro, per istanti che sembrarono eterni. Fu
ancora Freya a spezzarlo, tenendo però gli occhi bassi.
«Mi aiuti ad alzarmi?».
Merlino esitò, ma alla fine afferrò la mano che
aveva steso verso di lui e una volta in piedi le avvolse un braccio
intorno alla vita per aiutarla a sostenersi sulle gambe.
«L’ultima Pendragon prima o poi verrà a
cercarmi, lo sai vero?», gli domandò ad ormai
pochi passi dal portone del condominio.
Il mago chinò il capo, afflitto. «Sì,
lo so».
«E non hai nessuna intenzione di impedirglielo?».
«Come potrei?».
La lasciò andare ed indietreggiò di qualche
passo. Quindi la guardò negli occhi, incapace di nascondere
l’ansia e la frustrazione.
«Se è vero che conto ancora qualcosa per te,
allora ti chiedo solo di… di tenerla fuori da tutto questo.
Alex merita di essere felice, merita una vita normale».
Freya sorrise nuovamente, in quel modo sornione e derisorio.
«Non penso che tu abbia realizzato quanto lei sia speciale.
Alexandra non è destinata alla normalità,
bensì alla grandezza».
«Anche Morgana la pensava così. Ti devo per caso
ricordare com’è andata a finire?».
«Morgana era accecata dall’invidia, dal rancore,
dal dolore. Ma Excalibur l’ha liberata, ha assorbito quella
negatività e le ha donato la pace».
Merlino la fissò come stordito, mentre le immagini di
ciò che Alex era stata in grado di fare sotto
l’influenza della spada magica si accavallavano nella sua
mente. Lui stesso aveva notato che molti degli incantesimi che aveva
involontariamente lanciato erano molto simili a quelli che avevano
portato Morgana a realizzare di possedere il dono, ma mai prima
d’ora si era spinto a fare quel collegamento.
«Il destino di tutti noi è già
scritto», aggiunse quasi dolcemente Freya, prima di recitare
le parole che così tante volte il Grande Drago Kilgharrah
gli aveva detto: «Nessun uomo, non importa quanto grande egli
sia…».
«Può conoscere il proprio destino,
sì», concluse per lei lo stregone.
«Questa volta però sarà
diverso».
La custode si avvicinò di un passo per posargli nuovamente
una mano sul viso. «Ti conosco, Merlino. Ti lascerai guidare
dal cuore anche questa volta e rovinerai tutto».
«È qui che ti sbagli»,
ribatté, sorridendole mentre le allontanava la mano dalla
propria guancia. «Questa volta non seguirò il mio
cuore, ma quello di Alex. Il suo cuore ha abbastanza luce e speranza
per entrambi e sceglierà ciò che è
meglio per questo mondo».
Freya non trovò le parole per rispondere e si
limitò ad annuire, stringendosi nelle spalle. Merlino la
guardò sparire dietro il portone e poi tirò fuori
il cellulare per scrivere un messaggio ad Alex:
Dove sei? Ti
raggiungerei anche in capo al mondo.
Poche, semplici e disperate parole. Aveva bisogno di vederla, di
stringerla tra le braccia, di affondare il viso tra i suoi capelli, di
respirare sulla sua pelle candida.
Era già in auto, quando ricevette la sua risposta:
Nel tuo letto.
Ti aspetto.
Merlino non capì se scherzasse o facesse sul serio, ma non
se lo fece ripetere due volte e premette il piede
sull’acceleratore.
Entrò in casa e la prima cosa che vide fu Artù,
addormentato sulla poltrona in salotto e con il telecomando ancora
stretto in mano. Lo stregone provò la forte tentazione di
passargli alle spalle e sgattaiolare di sopra, ma alla fine non
riuscì ad ignorare il senso del dovere e con delicatezza gli
tolse il telecomando di mano prima di coprirlo con una coperta.
Artù girò il viso proprio verso il suo, i loro
nasi a pochissimi centimetri di distanza, e Merlino trattenne il
respiro per paura di svegliarlo. Quindi si allontanò con
cautela e solo quando fu con un piede sul primo gradino della scalinata
tornò a respirare regolarmente.
Trovò Alex esattamente dove gli aveva scritto di trovarsi:
sdraiata sul suo letto, sotto al piumone candido. Si spogliò
in fretta, sparpagliando i propri vestiti sul pavimento, e si stese al
suo fianco, avvolgendole le braccia intorno alla vita ed accarezzandole
la nuca con la punta del naso.
«Sei freddissimo», sussurrò Alex, scossa
da un brivido, ma non si spostò, anzi: si girò,
in modo da poterlo guardare negli occhi, e si addossò ancora
di più contro il suo petto, intrecciando anche le loro gambe.
«Devo confessarti una cosa», disse invece Merlino,
dopo qualche istante trascorso ad ammirare i suoi occhi verdi e ad
accarezzarle i capelli color del miele. «Per un momento ho
sentito di nuovo qualcosa per Freya. E mentre la accompagnavo da
Darrell ho quasi lasciato che mi baciasse».
Lo stregone abbassò le palpebre per sfuggire al suo sguardo
immobile e il suo silenzio fu peggio di mille coltellate. Ad un tratto
non riuscì più a resistere e si coprì
metà del volto con una mano, disperato.
«Ho mandato tutto all’aria, non è
vero?».
L’infermiera gli spostò delicatamente la mano dal
viso e si sollevò sul gomito per posargli un bacio sulla
fronte.
«Artù mi ha raccontato come vi siete conosciuti e
che cos’è successo prima che morisse»,
sussurrò, passandogli una mano tra i capelli bianchi e neri.
«E non posso dire che tutto questo non mi renda gelosa
– sono stata quasi sul punto di seguirvi – ma non
è colpa tua. Non posso nemmeno immaginare come ti sia
sentito nel vederla ritornare dalla morte, identica a come quando
eravate sul punto di lasciare Camelot. Insomma, tra voi non
è mai finita davvero: non vi siete separati
perché l’avete deciso voi. È come se il
fidanzato di Cathleen questo pomeriggio bussasse alla sua porta: credi
che lei non si troverebbe in difficoltà, se dovesse
scegliere tra il suo primo amore e Artù?
«Mentre eri via con lei ho pensato ad ogni possibile
scenario, sai… Avevo paura che capissi di avere
più cose in comune con lei che con me, che decidessi di
lasciarmi per fuggire con lei come avresti voluto fare mille anni
fa…».
Merlino scosse il capo, accarezzandole il volto con entrambe le mani,
ma non poté parlare a causa dell’indice di Alex
posato sulle sue labbra.
«Poi ho letto il tuo messaggio e sono tornata in
me», riprese, sorridendogli e sfiorandogli il naso con il
proprio. «Non avrei mai dovuto dubitare della tua
fedeltà, del tuo amore. D’altronde hai chiesto a
me di sposarti, a nessun altra. E con me non hai bisogno di fuggire,
perché insieme possiamo affrontare qualsiasi cosa».
Merlino sorrise commosso, gli occhi lucidi di lacrime, e
l’attirò a sé per baciarla.
«Ti amo da impazzire».
«Anche io, Dumbo», ricambiò Alex, prima
di cadergli addosso definitivamente e di coprirsi la bocca per
trattenere le risate.
***
«Non ti preoccupare, Artù si è
addormentato sulla poltrona come un vecchietto», la
rassicurò Merlino, tra un bacio e l’altro sul
collo.
«Potevi dirmelo subito…».
Alex si sedette a cavalcioni su di lui, lasciando che il piumone le
scoprisse la schiena, e si slacciò il reggiseno nero per
gettarselo alle spalle.
Artù se lo vide arrivare quasi in faccia, per questo si
spostò bruscamente di lato, dietro la parete. Con gli occhi
ancora sgranati per lo shock, ci mise un po’ prima di
decidersi ad allontanarsi con passo felpato.
Una volta in salotto, si sedette di nuovo sulla poltrona dove aveva
finto di dormire e dove aveva appallottolato la coperta quando aveva
sentito Merlino salire le scale, e dopo qualche attimo di esitazione
scrisse un messaggio a Cathleen.
Sei ancora
sveglia?
La rossa ci mise un po’ a rispondere, tanto che era quasi sul
punto di rimandare a più tardi lo sfogo, ma alla fine la
vibrazione della risposta ricevuta lo fece sobbalzare sulla poltrona.
Sì,
ero sotto la doccia. Che c’è?
Si tratta di
Alex e Merlino.
Cathleen non replicò, aspettò semplicemente che
trovasse le parole adatte per descrivere ciò che aveva
visto. Ma ogni suo sforzo sfumò quando si lasciò
andare a ciò che sentiva: un misto di gelosia, invidia e
nervosismo.
Sono in camera
da letto!!!
Nel senso che
Alex sta dando una mano a Merlino a riordinare?
No, in QUEL
senso!
Oh...
l’hai scoperto, alla fine.
Il re di Camelot rimase letteralmente a bocca aperta e
guardò il display del cellulare come se Cathleen in quel
modo potesse vedere la sua espressione sconvolta. Poi
selezionò la voce “chiama” e se lo
portò all’orecchio. Quando lei rispose,
urlò subito a mezza voce: «Tu lo sapevi? Lo sapevi e
non mi hai detto niente? Come hai potuto, Cathleen!».
«Per l’amor del cielo, Artù…
Se nessuno te l’ha detto è perché
sapevamo che avresti dato di matto».
« Avrei dato di
matto? Oh, voi non avete visto ancora nulla!».
«Posso sapere cos’è che ti infastidisce
tanto? Non stanno infrangendo nessuna legge!».
«Forse no, ma ai miei tempi un membro della famiglia
Pendragon…».
«Mi dispiace ricordartelo ma uno, non siamo più ai
tuoi tempi; due, le famiglie con nomi importanti fanno
schifo».
Artù rimase in silenzio, colpito duramente dalle sue parole.
Anche Cathleen dovette accorgersi di essere andata troppo oltre
perché provò a scusarsi, ma l’ex re di
Camelot la interruppe sul nascere, dicendo atono: «Io facevo
parte di una famiglia con un nome importante e per quanto fosse poco
presente, disastrata e piena di drammi, era l’unica che avevo
e l’amavo; e tu non hai alcun diritto di dire che faceva
schifo».
«Artù, davvero, io…».
Ma Artù terminò la conversazione e
successivamente spense il cellulare, per evitare che lo richiamasse. Si
massaggiò il viso e poi uscì in veranda, dove si
sedette cercando di riportare alla mente alcuni dei bei momenti
trascorsi con suo padre o con Morgana, quando ancora non sapeva che era
la sua sorellastra. Nonostante il passato gli tornasse alla mente solo
in frammenti, riuscì a sorridere prima di venir travolto
dalla nostalgia e dal vuoto che provava a causa della loro mancanza.
***
Quando quella mattina il signor Morris le aveva lasciate davanti
all’ospedale, Hala aveva sperato con tutte le sue forze di
incrociare ancora il dottor Ellis, uno dei pensieri che
l’avevano portata ad una notte insonne.
Purtroppo non l’aveva visto, ma in compenso aveva fatto una
scoperta che dopotutto, conoscendolo meglio di se stessa, non avrebbe
dovuto sorprenderla poi così tanto: Baqi aveva preso il
primo treno ed era lì, intento a fermare ogni infermiera
lungo la sua strada per porre qualche domanda su Merlino.
Quando la signora Chapman aveva smesso di stritolarlo a sé e
di pettinargli i capelli con le mani, Hala si era avvicinata per
tirargli un pugno sul petto e guardarlo con espressione truce.
«Che ci fai qui?», gli aveva chiesto a denti
serrati.
Ma lui, nonostante gli avesse fatto male, non aveva perso il proprio
sorriso eccitato, esclamando: «Non crederai mai a
ciò che ho scoperto!».
Così l’aveva aggiornata, spiegandole che il fatto
che il Principe William avesse donato di tasca sua una cifra a cinque
zeri lo aveva insospettito e lo aveva portato a trovare su Twitter
delle fotografie che ritraevano senza alcun’ombra di dubbio
il suo ragazzo immortale.
Aveva fatto anche delle ricerche su quel paesino in mezzo al nulla e
aveva scoperto che l’ospedale in cui lui lavorava con la
bisnonna di Abigail si trovava proprio dove avevano costruito il nuovo
ospedale, quello dove la stessa Abigail era ricoverata.
«Ci sono troppe coincidenze, non trovi?», le aveva
chiesto e aveva atteso trepidante una sua conferma, ma Hala aveva
semplicemente scosso il capo, decisa a mantenere il segreto sul proprio
incontro con Merlino.
Ovviamente Baqi non l’aveva lasciata stare fino a quando non
aveva avuto almeno una parte di verità, quella in cui si era
presa una folle cotta per un dottore con cui aveva scambiato solo poche
parole.
Sarebbe stata dura mentire a Baqi, soprattutto se avessero trascorso
insieme il giorno intero, ma doveva resistere, tenere duro fino a
quando non si fosse assicurata che la persona con cui avevano a che
fare non fosse nulla di tutto ciò che Baqi era convinto che
fosse.
Avrebbe sofferto a causa dell’ennesima delusione, a causa
dell’ennesimo sogno in frantumi, ma si sarebbe rialzato,
prima o poi. Lo faceva sempre.
«Ecco qui il pranzo per la nostra Abby!».
«Agatha! Non c’era bisogno che me lo portassi in
stanza… Sarei venuta in mensa tra poco»,
esclamò Abigail, guardando il vassoio che
l’infermiera le lasciò sotto il naso.
Agatha si strinse nelle spalle, sollevando forzatamente un angolo della
bocca. «Sai com’è… ordini
della dottoressa».
«Oh, fantastico…», mormorò,
passandosi le dita sulla fronte.
L’infermiera non aggiunse altro ed uscì, lasciando
nella stanza un’atmosfera tutt’altro che leggera.
«Mi sono perso qualcosa?», domandò ad un
tratto Baqi, rompendo il silenzio.
«Se non sono i pazienti a chiedere di essere serviti in
camera, vuol dire che ci sono brutte notizie in arrivo»,
spiegò mestamente Abby, stringendo le mani intorno al
vassoio. Poi aggiunse: «Hanno gli esiti dei miei
esami».
Sua nonna posò una mano su un suo pugno serrato e sorrise
dolcemente. «Non puoi saperlo con certezza,
tesoro…».
«Vivo qui dentro da due anni, ormai ho capito come funziona.
È solo questione di tempo, prima che mi facciano il
discorso».
A quelle parole la signora Chapman si ritrasse e con gli occhi lucidi
di lacrime si alzò e si diresse verso la porta.
«Dove vai, nonna?», domandò la
ragazzina, stancamente.
«A prendere un po’ d’aria. Torno subito,
tesoro».
Uscì dalla stanza senza voltarsi indietro e Hala, dopo
qualche secondo, diede un calcio al gemello, attaccato al suo
smartphone, perché la raggiungesse. Non voleva che la
signora Chapman rimanesse da sola, certo, ma in realtà
voleva anche rimanere qualche secondo da sola con Abby per capire che
cosa sapesse su Merlino. Poteva aver mentito a Baqi, ma con lei
quell’opzione era fuori discussione: l’aveva visto
uscire dalla sua stanza, doveva per forza sapere chi fosse.
Si avvicinò al suo letto con la sedia e le posò
una mano sulla gamba, sorridendole. «Ehi… lo sai
che tua nonna ci rimane male se pensi al peggio».
«Sì, lo so, mi dispiace».
Allontanò da sé il vassoio con una smorfia sul
viso. «È che a volte sono così stanca
di lottare anche per gli altri… Per questo motivo ho anche
litigato con Mark, ieri».
«Ma poi avete fatto pace».
Abby accennò un sorriso. «Sì, tutto
merito di Merlino e Artù».
Ad Hala brillarono gli occhi, sentendo i loro nomi. Ora aveva
l’appiglio per aprire l’argomento.
«Merlino e Artù? Chi sarebbero?».
Ma la ragazzina passò subito sulla difensiva, accorgendosi
dell’errore che aveva fatto nel nominarli. «Due
ragazzi che passano di qui ogni tanto, per farci compagnia».
«Credo di aver conosciuto Merlino, ieri».
«Può darsi. A questo proposito,
Hala…».
«Sì?».
Abigail sollevò gli occhi nei suoi e li fissò
intensamente per tutto il resto del loro dialogo, mettendola spesso in
soggezione. Le bugie e le recite in fondo non erano e non sarebbero mai
state il suo pane quotidiano.
Abbozzò anche un sorriso, esordendo: «Baqi mi ha
detto della sua indagine, a colazione. Assurdo, non trovi?».
«Sì, assolutamente! Gli ho detto più e
più volte di lasciar perdere, ma lo conosci…
quando si mette in testa qualcosa è inarrestabile».
«Ma questa volta è diverso… Insomma,
l’immortalità? È semplicemente
impossibile».
Hala si strinse nelle spalle e si sporse un po’ di
più verso Abby, con i gomiti posati sulle ginocchia.
«Mettiamo che incontri Merlino e gli chieda spiegazioni
riguardo alla foto e al diario di Louise. Che cosa potrebbe mai
succedergli di male? Farebbe una così brutta figura che gli
servirà da lezione per la prossima volta. Dico
bene?».
Abby però esitò, immersa nei propri pensieri, e
Hala si convinse che sapeva davvero più di ciò
che voleva dire. Ma ancora si rifiutava di credere che il ragazzo che
aveva incrociato il pomeriggio precedente fosse immortale e avesse
avuto una relazione con la madre della signora Chapman. Doveva esserci
un’altra spiegazione, una con un briciolo di logica.
«Abby?», richiamò la sua attenzione, a
disagio a causa del suo prolungato silenzio.
La ragazzina la guardò, prima con espressione vacua, poi
mettendola sempre più a fuoco, fino a quando non
ritornò completamente alla realtà. «Hai
detto che avete trovato anche il diario della bisnonna?».
«Sì, la foto era tra le sue pagine.
Ma…».
«Credi che Baqi me lo farebbe leggere, se glielo
chiedessi?».
Hala boccheggiò per qualche istante, come un pesce fuor
d’acqua. Alla fine sospirò ed annuì.
«Perché no?».
«Perfetto, vado subito», esclamò e fece
per togliersi le coperte di dosso, ma la ragazza la fermò e
con sguardo ammonitore disse: «Tu non vai da nessuna parte,
se prima non metti qualcosa sotto i denti».
Abby deglutì rumorosamente guardando il vassoio, quindi
sospirò e si fece forza. Hala rimase al suo fianco per tutto
il tempo, ma con la testa altrove.
Quella storia iniziava ad appassionarla, mentre il suo bisogno di
risposte si faceva sempre più insistente. Ma questo non
voleva dire che le piacesse. O forse non le piaceva la
possibilità – improbabile, ma pur sempre da tenere
in considerazione – che ciò in cui erano andati a
cacciarsi fosse qualcosa di molto più grande di loro e che
non ne sarebbero usciti bene.
***
Merlino scese al piano di sotto trotterellando, con indosso i pantaloni
di una vecchia tuta e una maglietta viola che aveva trovato sul
pavimento e gli andava un po’ stretta.
Sorrideva a trentadue denti, sollevato che Alex, nonostante la gelosia,
non avesse reagito d’impulso come avrebbe fatto il suo
antenato – come aveva fatto, in realtà.
Ripensare al tradimento di Gwen era sempre doloroso, ma ora che ci
faceva caso non era mai riuscito a dire ad Artù quello che
pensava fosse veramente successo. Si promise di raccontarglielo, un
giorno o l’altro.
Si aggrappò al corrimano e all’ultimo scalino fece
una mezza giravolta verso la porta della cucina, ma si
bloccò non appena scorse Artù seduto in veranda,
con la testa posata contro una delle due colonne portanti di legno.
Nascosto dietro l’angolo, con la schiena al muro, Merlino
pensò rapidamente ad una scusa da rifilargli nel caso gli
avesse chiesto quando fosse tornato e dove fosse stato fino a quel
momento. Non gliene vennero in mente molte, come al solito,
perciò si affidò ancora una volta
all’improvvisazione.
Si concesse un respiro profondo e poi entrò in cucina come
se nulla fosse, diretto verso il frigorifero. Artù lo vide
con la coda dell’occhio e dopo qualche istante di esitazione
si alzò ed aprì una delle porte finestre per
appoggiarsi allo stipite con una spalla e salutarlo con un cenno del
capo.
Merlino non lo incitò a fare conversazione, piuttosto
cercò di evitarlo, mostrandosi concentrato nel prepararsi
due tramezzini.
«C’è bisogno per caso che ti chieda
espressamente com’è andata con Freya?»,
gli domandò alla fine il sovrano, infastidito.
«Come volete che sia andata? Non mi ha fatto piacere
riportarla da Darrell, sapendo che lo prenderà in giro e
sfrutterà la sua ospitalità fino a che le
farà comodo».
Artù inarcò un sopracciglio, scettico.
«Ma le hai detto che dobbiamo riportarla ad Avalon,
giusto?».
Lo stregone si fermò con il coltello a pochi centimetri dal
pomodoro che voleva affettare.
Gli Sidhe erano stati chiari, a riguardo: «Devi riconsegnarla a
noi, stregone, o questo mondo ne perirà».
Eppure lui non aveva nemmeno considerato l’idea di rispedirla
da dov’era venuta. Come avrebbe potuto? Se gli Sidhe avessero
decretato che fosse Artù quello che doveva ritornare nelle
profondità di Avalon lo avrebbe fatto? No, mille volte no.
Per questo motivo e per la propria libertà, Freya si sarebbe
opposta con tutte le sue forze, lottando con le unghie e con i denti se
necessario.
«Merlino... Freya è morta. Quella che è
uscita dal lago è solo il suo fantasma, in cerca di qualcosa
che ormai non c'è più».
«Potrei dire lo stesso di voi, o ancor di più di
me», esclamò, picchiando con forza il coltello nel
tagliere, tanto forte che si incastrò nel legno. Quindi si
voltò, il viso accartocciato in una smorfia sofferente, e
non si accorse dell’occhiata che Artù
gettò poco sotto il suo mento.
«È vero che il tempo cambia le persone e io,
ormai, sono solo un pallido riflesso di ciò che ero a
Camelot», riportò le parole veritiere di Freya.
«E non ho più le forze, non ho più
voglia di giustificarmi o di fare ciò che è
meglio per gli altri: se la nostra vita sta davvero per finire, allora
non voglio sprecarne un solo giorno».
Artù lo fissò intensamente, fino a quando non si
appoggiò al tavolo, con le braccia incrociate al petto.
«Qualche settimana fa sarei stato d’accordo con te
al cento percento», disse. «Adesso però
ci sono altre persone in ballo, persone che non possiamo deludere. Se
ami Alex come dici di amarla... non puoi abbandonarla al suo, di
destino».
«Non è mia intenzione. Infatti io… io
le ho detto che salveremo il mondo, se lo vorrà»,
rispose debolmente, innervosito dal suo sguardo profondo.
Artù annuì e si avvicinò a lui fino al
punto da poter vedere riflessi nei suoi occhi chiari i propri blu come
il mare.
«Sarà meglio», sussurrò,
puntandogli l’indice sul petto.
Solo in quel momento, abbassando lo sguardo, Merlino
realizzò perché quella maglietta gli stava
così stretta: non era sua. Arrossì da capo a
piedi e provò un brivido di terrore quando
incrociò nuovamente gli occhi del solo ed unico re. Niente,
nemmeno la magia, avrebbe potuto salvarlo dalla sua furia.
«Giuro che se la fai soffrire...»,
iniziò a dire, con i denti serrati.
«Io e Alex ci sposiamo!», squittì e si
rese conto della pazzia che aveva fatto nel momento in cui
pronunciò quelle parole. Perché,
perché gliel’aveva detto?
Ma Artù non reagì come si aspettava: dopo un
attimo di stordimento, infatti, sul suo viso si aprì un
sorriso dolcissimo e fiero, come non ne vedeva da tempo.
«Congratulazioni, ve lo meritate», disse, dandogli
una pacca sulla spalla.
Lo stregone lo guardò incredulo, mentre gli dava le spalle
per tornare in veranda. Alla fine non riuscì a trattenersi e
sbottò: «Tutto qui? E io che pensavo...».
Artù si voltò di scatto con un cucchiaio tra le
mani e lentamente se lo portò vicino al viso, sibilando:
«Ti cavo gli occhi, se la fai soffrire».
Merlino deglutì, atterrito. Poi un pensiero gli
balenò alla mente e sogghignò, facendo aggrottare
la fronte del biondo.
«Sapete, come futuro marito di Alex, forse siete voi a non
dover fare del male a me... In fondo lo sappiamo che è solo
questione di tempo prima che vi prenda a calci nel
–».
Non ebbe il tempo materiale per concludere la frase, troppo impegnato a
correre su per le scale con Artù alle calcagna.
Riuscì a sfuggirgli per un pelo, rifugiandosi in camera sua
e chiudendosi a chiave la porta alle spalle.
«Apri subito questa maledetta porta, Merlino!»,
gridò Artù, tempestandola di pugni.
Merlino trattenne a stento una risata, gli occhi rivolti verso il
cielo. Li abbassò quando scorse Alex emergere dalle coperte
con i capelli scompigliati sulla testa.
«È la mia maglietta quella che hai
addosso?», gli chiese, accigliata.
Lo stregone annuì con un semplice cenno del capo e lei
scrollò le spalle, aggiungendo:
«Dov’è il mio tramezzino? E
perché diavolo Artù vuole sfondare la
porta?!».
«Non saprei… Gli ho solo detto che ci
sposiamo!».
Rimasero a guardarsi in silenzio per un po’, fino a quando
non scoppiarono a ridere all’unisono, compreso
Artù dall’altra parte della porta.
***
Darrell guardò Freya dall’altra parte del divano:
si stava attorcigliando una ciocca di capelli intorno al dito e a volte
se la portava alla bocca, inconsciamente, mentre guardava la TV.
Non gli aveva detto molto da quando era tornata e quando le aveva
chiesto perché fosse uscita senza lasciargli nemmeno un
biglietto, Freya aveva risposto che non pensava che sarebbe stata fuori
così a lungo: aveva finalmente trovato il coraggio di uscire
e sperava che vedendo le case, i negozi, il lago, qualcosa scattasse
nella sua mente, permettendole di ricordare. A quanto pareva non era
successo.
Eppure Darrell non era convinto, era sicuro che ci fosse
dell’altro, qualcosa che non gli stava dicendo. E poi quelle
impronte sul retro del condominio… Era certo che non fossero
così piccole, la prima volta che le aveva viste, ma non
potevano nemmeno essersi rimpicciolite magicamente! Si sentiva
sull’orlo della pazzia e come se non bastasse non era ancora
riuscito a chiudere occhio. Forse ci voleva un piccolo aiuto.
Si alzò e subito sentì gli occhi di Freya posarsi
su di lui.
«Non guardi come va a finire?», gli chiese
indicando la televisione.
«Lo so già come va a finire», rispose
con un lieve sorriso sul volto. «Sono stanco, vado a
riposare».
L’agente si avviò verso la propria camera, ma si
fermò di nuovo quando Freya esclamò:
«Sei sicuro che non ci sia dell’altro? Se sei
ancora arrabbiato perché non ti ho avvisato mi dispiace,
davvero».
«Ehi, non importa».
La ragazza spense la TV e si mise seduta a gambe incrociate, posando
una mano accanto a sé per invitarlo a sedersi nuovamente.
Darrell sospirò e la raggiunse, confessando: «La
verità è che vorrei aiutarti».
«Ma tu mi stai già aiutando… Mi stai
ospitando a casa tua, mi stai dando da mangiare e abiti con cui
vestirmi…».
«Vorrei aiutarti a recuperare la memoria e a riportarti dalla
tua famiglia. Saranno così preoccupati per
te…».
Freya abbozzò un sorriso e posò una mano sulle
sue, unite su un ginocchio. Lo sguardo del poliziotto cadde ancora una
volta sul tatuaggio che aveva all’interno
dell’avambraccio, tre semplici spirali nere intrecciate.
«Ti ringrazio, Darrell. Non riuscirò mai a
sdebitarmi».
«Lascia che ti accompagni in ospedale per un
controllo», le disse ancora, avvicinandosi e sistemandole una
ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Starò con te tutto il tempo, te lo
prometto».
La ragazza esitò, ma alla fine sorrise ed annuì.
«Domani».
«Fantastico!». In uno slancio di entusiasmo le
prese il volto tra le mani per baciarla sulla fronte e poi,
imbarazzato, si allontanò in fretta.
«Ora è davvero il caso che vada a dormire un
po’. A dopo».
La salutò con un cenno della mano e si chiuse in camera,
dandosi dello stupido. Quindi si sdraiò sul letto, ma
anziché prendere una pastiglia, chiudere gli occhi e
lasciare che il torpore lo avvolgesse, accese il PC portatile e fece
qualche ricerca sul significato del simbolo che Freya aveva tatuato sul
braccio.
***
Alex era pronta per iniziare il turno di notte. Non si sentiva
così rilassata e serena da moltissimo tempo ed era tutto
merito di Merlino: il suo amore era la luce che scacciava
l’oscurità, era il vento che allontanava le nuvole
temporalesche. Se solo avesse avuto la forza necessaria per dirgli di
Excalibur il momento stesso in cui l’aveva trovata sul fondo
di Avalon…
Nello spogliatoio del Pronto Soccorso, Alex si stava cambiando quando
sentì la porta aprirsi e richiudersi violentemente.
Cathleen si sedette sulla panchina proprio dietro di lei e Alex si
coprì il petto con la maglia, guardandola incerta sul da
farsi.
«Va tutto bene?», le chiese alla fine, con un
sopracciglio inarcato.
Il paramedico si portò le mani sulla testa, sospirando:
«Ho fatto un casino con Artù».
Alex finì di vestirsi e si sedette al suo fianco per
massaggiarle la schiena a mo’ di conforto. Senza nemmeno
darle il tempo di chiederle se voleva parlarne, il paramedico si
appoggiò semplicemente alla sua spalla ed iniziò
a sfogarsi: «Stare con Artù è come fare
bungee jumping: quando ti tuffi non puoi che provare eccitazione e
libertà, poi la paura che la corda si spezzi ti travolge ed
inizi a pensare a te stesso spiaccicato al suolo, e infine provi il
sollievo per avercela fatta e il desiderio incontrollabile di farlo
ancora».
«Parli per esperienza personale?», chiese Alex.
«Sì, l’ho fatto un paio di volte, ma non
è questo il punto. Credo che mi stia innamorando di
lui».
Alex rimase un po’ spiazzata da quella confessione, ma dopo
qualche attimo di silenzio sorrise e riprese ad accarezzarle la
schiena.
«E questo ti fa paura? Hai paura che non vada a finire bene,
che ti ritroverai spiaccicata da qualche parte?».
Cathleen annuì. «Vedi, era più facile
quando andavo a letto con persone per cui non provavo niente: nessuno
era interessato ad altro, era solo sesso. Con
Artù… Lui sa cose di me che nessun altro conosce.
L’ho persino portato alla tomba di Zach».
«Non dev’essere stato facile… Ma
l’hai fatto. Che cos’è cambiato da
allora?».
Il paramedico si sollevò per guardarla negli occhi e
spiegò: «Quando mi ha chiamato per dirmi che aveva
beccato te e Merlino a letto insieme, gli ho chiesto perché
gli desse così fastidio; lui ha citato la sua famiglia e
io… io gli ho fatto capire che non mi piacciono le famiglie
con nomi importanti, che si credono superiori e padrone del mondo
intero. Lui ovviamente si è offeso e non so come
scusarmi».
Alex la osservò per qualche secondo col naso arricciato, e
alla fine sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso.
«Si tratta della tua famiglia, ho indovinato?».
«Come…?», balbettò Cathleen,
per poi scoppiare in una risatina.
«Ascolta», mormorò Alex, posandole le
mani sulle spalle. «Artù non è stupido,
avrà sicuramente capito che se hai fatto quel commento non
l’hai fatto per offenderlo. Perciò prenditi il
tempo che ti serve, ma prima o poi dovrai spiegarglielo, esattamente
come gli hai raccontato di Zach. Probabilmente sarà il tuffo
più spaventoso che farai, ma starai meglio dopo che ti sarai
lanciata».
Cathleen le sorrise e dopo averla ringraziata le stampò un
bacio sulle labbra, lasciandola sbigottita.
«Ora sarà meglio andare. Ci aspetta una lunga
notte!».
Alex la guardò uscire dagli spogliatoi, poi si
alzò e sorridendo chiuse il proprio armadietto.
***
Era stata forse la cena più imbarazzante della sua vita, con
Artù che non faceva altro che porgergli domande a proposito
del suo futuro matrimonio con Alex.
Non era stato meglio quando gli aveva chiesto quando le aveva fatto la
proposta, dato che la verità – preferita
all’ennesima bugia – aveva messo in luce che lui ed
Alex avevano tenuto nascosta la loro relazione per quasi due settimane
e che alla fine, perché arrivassero entrambi ad un
“sì”, era stata Alex a rivolgergli la
domanda fatidica.
Artù non l’aveva presa benissimo, ma Merlino a
quel punto si era già rifugiato nel bunker, ad esaminare
Excalibur più da vicino.
Irradiava veramente una quantità di magia impressionante
– la percepiva come una scossa sottopelle solo avvicinandosi,
– un dettaglio che aveva avvalorato ancora di più
la teoria che si era fatto intorno alle parole di Freya. Era sicuro che
un semplice incantesimo di rivelazione avrebbe messo in luce
l’aura negativa intorno alla spada. Si sarebbero spiegati
così gli sbalzi d’umore di Alex, la sua
aggressività e la forza distruttiva dei suoi poteri. Ma non
era nelle condizioni per poter sprecare in quel modo la propria magia,
specialmente se aveva intenzione di usarla quella sera stessa per un
altro motivo.
Aspettò pazientemente che Artù andasse a letto,
poi uscì silenziosamente di casa e a piedi, con Excalibur
infilata in una spessa custodia di pelle, si diresse verso il fitto del
bosco che circondava Avalon.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda e ricordava le notti
trascorse tra quegli stessi alberi secoli prima, con i cavalieri di
Camelot oppure da solo con Artù. Nella vegetazione, con la
luna che filtrava a tratti tra le fronde, gli sembrava che di essere
tornato indietro nel tempo.
Camminava in silenzio, puntando la torcia elettrica sul fogliame e sul
terriccio ancora umidi di pioggia per evitare di inciampare nelle
radici degli alberi, e fu allora che si accorse di essere seguito, ma
fece finta di nulla.
Raggiunse una piccola radura quasi al terminar del bosco e si
fermò di fronte ad una piramide di sassi ammucchiati gli uni
sugli altri e ormai ricoperti di muschio. Si lasciò cadere
in ginocchio e si sfilò Excalibur dalla schiena per
stringerla tra le mani, a capo chino.
«Perdonami se non ti ho portato dei fiori,
Morgana», sussurrò. «Perdonami se non
sono venuto a trovarti, negli ultimi vent’anni.
Perché oggi? Beh… Freya ha detto che Excalibur ha
assorbito tutto il tuo dolore, tutto il tuo rancore; che ti ha donato
la pace. Io non so se sia vero, ma anche se fosse così,
questo non mi libererebbe dagli incubi. Non smetterò mai di
pensare che avremmo potuto trovare una soluzione diversa, insieme. E
voglio assicurarti che non farò lo stesso errore due volte:
Alex… lei ti piacerebbe, ne sono sicuro. Ha molto di
Artù, mi spaventa quanto si somiglino a volte, ma mi ricorda
anche te: la tua gentilezza, la tua forza di lottare per ciò
che crede giusto». Abbozzò un sorriso, passandosi
una mano sulla guancia per spazzare via il segno di una lacrima.
«La proteggerò come avrei dovuto proteggere te, te
lo prometto».
Merlino rimase in silenzio, con la luna ad illuminargli il viso, fino a
quando non si voltò di tre quarti verso il bosco ed
esclamò: «Ora potete uscire,
Artù».
Il sovrano si fece avanti quasi vergognosamente e lo raggiunse. In
piedi di fronte alla tomba di Morgana, disse: «È
qui che…?».
«Dopo avervi lasciato alle acque di Avalon, sono tornato sui
miei passi. Non c’era questa radura…
l’ho creata io: ero talmente disperato ed arrabbiato che ho
sradicando tutti gli alberi intorno a noi. Con essi ho costruito una
pira e ho bruciato il suo corpo».
Artù gli posò una mano sulla spalla, porgendogli
l’altra perché si alzasse.
«Che hai intenzione di fare con Excalibur?», gli
chiese dopo qualche istante di silenzio.
Merlino abbassò gli occhi sulla spada e rispose:
«Fino a quando non troveremo il modo di purificarla e Alex
non sarà in grado di controllare la magia,
c’è solo un posto dove possiamo
lasciarla».
Insieme tornarono nei meandri del bosco e in silenzio Artù
seguì Merlino fino all’entrata di quella che
sembrava proprio una caverna. Dopo aver azionato una serie di
meccanismi che se eseguiti in modo errato avrebbero fatto scattare
delle trappole, Merlino aprì le pesanti porte ed
entrò per primo.
Artù rimase a bocca aperta di fronte alla miriade di
cristalli luccicanti che donavano un’atmosfera più
che magica a quella caverna altrimenti spoglia ed umida. Il loro
bagliore azzurrognolo permetteva di vedere chiaramente, tanto che
Merlino spense la torcia elettrica e la ripose nello zaino.
Il re seguì ogni passo del mago, senza azzardarsi a sfiorare
nulla, e più e più volte si morse la lingua per
non rompere il silenzio surreale che regnava in quella grotta.
«A che cosa state pensando?», sussurrò
ad un tratto lo stesso Merlino, senza voltarsi a guardarlo.
«Mi chiedevo… La prima volta che mi hai parlato
della caduta di Camelot hai accennato al fatto che non ti servivano
più i cristalli per vedere il futuro. Sono questi, i
cristalli a cui ti riferivi?».
«Certamente. Ricordate la notte prima della battaglia di
Camlann? Voi dormivate, quando vi ho parlato in sogno per avvisarvi
dell’imboscata di Morgana».
«Allora eri veramente tu!».
Lo stregone si fermò e si voltò, sorridendo
sghembo. «E chi altri? Venite, da questa parte».
Camminarono ancora per un po’, tra gli stretti cunicoli della
caverna, fino a quando non raggiunsero una fonte d’acqua
scura. I cristalli si riflettevano su di essa come se si trattasse di
uno specchio e Merlino porse la spada ad Artù
perché la estraesse dal fodero.
«Forse il fatto che mi abbiate seguito risulterà a
mio vantaggio», commentò il mago.
Prima che Artù potesse chiedere ulteriori spiegazioni in
merito, lo stregone disse ancora: «La vedete quella roccia
laggiù? Dovete incastrarvi la spada».
«Che cosa? Non ce la farò mai!»,
urlò e la sua voce echeggiò cupamente nella
caverna. «Insomma, tirarla fuori è un
conto…».
Merlino scoppiò a ridere e Artù iniziò
a sentire una stretta allo stomaco, che ben presto si
trasformò in consapevolezza: era stato Merlino a condurlo
alla spada nella roccia, era stato lui a convincerlo ad estrarla in un
momento in cui aveva perso ogni speranza. Senza il suo aiuto, senza un
pizzico di magia, non ce l’avrebbe mai fatta.
«Il vostro popolo non aveva mai smesso di credere in
voi», esclamò il mago, quasi con dolcezza.
«Ciò che vi serviva era una bella iniezione di
autostima e quella è stata l’unica idea che mi
è venuta in mente. Ha funzionato, no?».
Artù borbottò qualcosa in risposta,
dopodiché si girò a guardare la roccia che
emergeva sulla riva della falda. «Che cosa devo
fare?».
«Dovete infilzarla nella roccia, con tutte le vostre forze.
Al resto penserò io».
«Tu? Non se ne parla, Merlino! Non userai la magia
per…».
«Shhh», sussurrò, socchiudendo gli
occhi. Quando li riaprì, brillavano di determinazione.
«Fidatevi, è il posto più sicuro. Se
anche Alex sentisse il richiamo della spada, non potrà
estrarla fino a quando non sarà pronta».
Artù sospirò con arrendevolezza ed
impugnò Excalibur. Quindi si avvicinò alla roccia
e sollevò la spada fino ad avere l’elsa sopra la
testa.
«Dimmi quando sei pronto», disse, guardando con la
coda dell’occhio lo stregone mentre respirava profondamente
ed allungava entrambe le mani verso la roccia.
«Va bene, al mio tre. Uno… due…
tre!».
Artù abbassò la spada con violenza e quando
pensò che si sarebbe dislocato entrambe le spalle per il
contraccolpo, la spada scivolò all’interno della
roccia sferragliando e spruzzando scintille da una fessura dorata.
Quando la lasciò andare, non poteva credere ai propri occhi:
ci erano riusciti.
Si voltò entusiasta verso Merlino e gridò:
«Ce l’abbiamo fatta!».
Lo stregone abbozzò un semplice sorriso prima di perdere i
sensi ed accasciarsi al suolo con un rigagnolo di sangue che gli usciva
dal naso. Artù si gettò al suo fianco e
provò a svegliarlo insultandolo e dandogli degli schiaffetti
sul viso, ma non servì a nulla. Allora prese il cellulare
per chiamare Alex, ma in quella grotta ovviamente non c’era
campo.
«Dannazione, Merlino! Lo sapevo che non dovevo
ascoltarti!».
Se lo caricò in spalla e faticosamente uscì dalla
grotta dei cristalli, nell’aria fredda della notte.
Riprovò a chiamare Alex, ma l’infermiera non
rispose.
Mordendosi nervosamente l’interno della guancia, il sovrano
si guardò intorno nell’oscurità e non
molto lontano vide le luci di una serie di abitazioni. Doveva chiedere
aiuto a qualcuno, non importava chi. O forse sì.
Scorse una ragazza uscire dall’androne di un condominio, col
cappotto sopra al pigiama e in mano un sacco della spazzatura.
Attirò la sua attenzione nei pressi del grosso bidone e
rischiò quasi di lasciare la presa su Merlino quando la
riconobbe.
«Pendragon?», chiese Freya, stringendo le palpebre
per osservarlo meglio nell’oscurità.
Il re sospirò e si fece avanti fino a che un lampione non lo
illuminò, mostrando anche il corpo inerme di Merlino tra le
sue braccia. Vedendolo, la custode lasciò cadere il sacco e
lo raggiunse correndo.
«Per quale motivo ha usato la magia?», gli
domandò posandogli una mano sulla fronte.
Artù non le chiese come facesse a saperlo e lei non pretese
una risposta alla propria domanda; gli ordinò solo di
seguirla all’interno del palazzo e lui, pur sapendo che
poteva rivelarsi una pessima idea, la seguì.
***
Alex aveva iniziato il turno nel migliore dei modi, assistendo il
chirurgo in sala operatoria per un’appendicite acuta
fulminante.
Si era appena tolta i guanti imbrattati di sangue, quando era stata
raggiunta da niente meno che da Ellis Senior, il padre di Keith.
«Che cosa ci fa lei qui a quest’ora?»,
esclamò sorpresa, chinandosi per lavarsi le braccia nei
grandi lavandini.
«L'altro giorno sono venuto a trovare mio figlio e sul
tabellone ho guardato quand'eri di turno. Devo parlarti,
Alexandra».
Alex finì di asciugarsi e poi salutò
l’uomo che era stato ad un passo da diventare suo suocero. Un
sogno infranto da cui lui non si era ancora del tutto ripreso: aveva
sempre provato una forte simpatia per lei, diceva che avrebbe
voluto avere una figlia come lei e che invece aveva avuto solo maschi,
ben tre.
«Per quanto mi faccia piacere questa visita a sorpresa,
avrebbe dovuto chiamarmi: l'avrei incontrata di giorno»,
esclamò Alex mentre si incamminavano insieme verso la sala
relax del Pronto Soccorso.
«Ah, lo sai come sono i vecchi: brontoloni ed
insonni», rispose lui, sistemandosi sul naso gli occhiali
dalla montatura d’acciaio.
«Ho assistito all’operazione», aggiunse.
«Non ricordavo avessi un così bel tocco. Il modo
in cui hai applicato quei punti… Non rimarrà
nemmeno la cicatrice, a quella ragazza».
Alex ridacchiò ed aprì la porta, invitandolo ad
entrare per primo. La sala relax era deserta – per fortuna
– e qualcuno aveva appena preparato il caffè:
evidentemente era la sua serata.
«Lo sa che non ha mai ottenuto molto da me con i
complimenti», disse Alex, versando un po’ di
caffè in due tazze. Quindi le portò al tavolo a
cui il dottor Ellis si era già seduto e lo guardò
in viso, trovando gli stessi occhi grigio-azzurri di Keith, ridenti ed
affettuosi, ad attenderla.
«Lo so, ragazzina. E tu sai che detesto quando mi dai del
lei».
L’infermiera si morse il sorriso ed alzò le mani
in segno di resa. «Okay, perdonami… David. Ora mi
dirai di che si tratta?».
Il membro del Consiglio d’Amministrazione bevve un sorso di
caffè e dopo aver lasciato la propria tazza sul tavolo
infilò una mano nella tasca interna della giacca, ma la
lasciò lì per un altro po’.
«Sai, Keith alla fine mi ha detto tutto quello che
è successo tra voi. Gli è sempre piaciuto
rendersi la vita un inferno».
Alex rimase in silenzio, senza sapere come replicare: quello che aveva
fatto Keith, in fondo, l’aveva fatta stare male per
settimane; non tanto perché l’aveva tradita
– anche per quello, ovviamente – ma soprattutto
perché lei non se n’era mai accorta.
«E ha anche confessato l’ultima sua
“trovata geniale”: convincermi a mettere una buona
parola per il tuo trasferimento al Pronto Soccorso. Voglio scusarmi
nuovamente per ciò che ha fatto e assicurarti che io non ho
proposto il tuo nome perché me l’ha consigliato
lui, ma semplicemente perché sei una risorsa preziosa per
quest’ospedale. Avrei scelto te in ogni caso, lo
giuro».
«Non lo metto in dubbio, David. E ti ringrazio per
questo».
«D’altra parte…»,
l’uomo sospirò e finalmente tirò fuori
ciò che aveva pescato dalla tasca interna della giacca: una
busta, con il sigillo dell’ospedale in un angolo.
«So quanto tu tenga al reparto oncologico. Adesso che abbiamo
ricevuto i fondi necessari… A proposito, posso sapere come
diavolo hai fatto?».
«Credi davvero che sia merito mio?». Alex
ridacchiò e posò una mano sul polso
dell’uomo: «No, il Principe William deve essersi
semplicemente reso conto che negare ciò che spetta di
diritto ai nostri bambini era sbagliato».
Il dottor Ellis sogghignò, con un bagliore di malizia negli
occhi. «Non cambierai mai, vero Alexandra? Non riconoscerai
mai i tuoi meriti».
«Probabile», rispose scrollando le spalle.
«Allora spero di poterlo fare io al tuo posto per molto tempo
ancora».
Posò la busta sul tavolo e la spinse verso di lei,
picchiettando le dita su di essa prima di alzarsi. Alex lo
imitò e si lasciò stringere in un abbraccio, poi
lo guardò uscire dalla stanza relax.
L’infermiera finì il proprio caffè
prima di prendere la busta ed aprirla con mani tremanti, impazienti ma
anche spaventata dalla possibilità di aver pensato ad
un’illusione.
Lesse velocemente, col cuore che le batteva forte, e poi si strinse la
lettera al petto, guardando il soffitto con espressione entusiasta.
***
Abby si voltò ed abbozzò un sorriso, guardando
sua nonna addormentata sulla poltroncina accanto al suo letto, con la
testa sulla spalla e le labbra dischiuse.
Solo allora infilò una mano sotto al cuscino ed
accarezzò la copertina in pelle del diario di Louise
McTrusty, la sua bisnonna.
Alla fine era riuscita a convincere Baqi a prestarglielo per una
lettura veloce, ma da quando l’aveva ricevuto non aveva
ancora avuto modo di aprirlo. Il motivo era sul suo comodino, in una
grande busta color paglierino: gli esiti degli esami di controllo.
La dottoressa era passata nel tardo pomeriggio e aveva fatto il
discorso che Abby tanto temeva e al contempo era impaziente di sentire.
Le aveva ripetuto le solite cose che si usavano dire in casi come
quelli: “Stiamo facendo tutto ciò che è
nelle nostre possibilità”, “Non ci
arrendiamo”, “Le proveremo tutte”.
Quando sua nonna era scoppiata in lacrime, Abby aveva chiesto di
scambiare due parole da sola con la dottoressa. I gemelli avevano
portato fuori la signora Chapman e la ragazzina aveva fatto sedere la
dottoressa al suo fianco, sul letto. Lei all’inizio aveva
rifiutato, poi si era lasciata convincere e quando aveva sentito le
mani fredde di Abby sulle proprie la sua espressione era cambiata: gli
occhi si erano fatti umidi, le labbra avevano iniziato a tremare per la
commozione e le sue spalle si erano curvate sotto un peso quasi
insostenibile. Ora la ragazzina non era più parte del
lavoro, ma un essere umano in carne ed ossa, con pensieri ed emozioni;
non era più una paziente qualunque, ma una figlia che non
avrebbe mai sopportato di perdere.
«Shhh, va tutto bene», le aveva sussurrato Abby,
sporgendosi un po’ per accarezzarle una ciocca di capelli
neri a caschetto. «Avete davvero provato di tutto con
me».
«No, possiamo ancora tentare un trattamento».
La ragazzina le aveva passato un fazzoletto perché si
soffiasse il naso. «Si riferisce al trapianto,
vero?».
La dottoressa aveva annuito. «Se trovassimo un donatore
compatibile...».
«Ci sarebbe comunque la lista d’attesa. Quanto
tempo ho?».
La dottoressa l’aveva guardata per qualche secondo, prima di
scoppiare di nuovo in singhiozzi. Allora aveva capito che non ne aveva
abbastanza.
Quando la dottoressa era uscita – dopo essersi asciugata il
viso e aver sistemato il trucco – era stato un via vai
continuo: la voce si era già sparsa su tutto il piano e non
solo. Erano passati infermieri, dottori, paramedici, pazienti, e
ovviamente i suoi amici. Ma nessuno aveva detto nulla a Mark, nemmeno
Danilo aveva osato tanto. Così era andata lei da lui.
L’aveva raggiunto nella sala della chemioterapia e
l’aveva trovato con una brutta cera: il viso pallido ed
imperlato di sudore, la bandana rossa abbandonata sulle gambe e un
secchio per il vomito a portata di mano.
Non appena l’aveva vista avvicinarsi sulla propria sedia a
rotelle le aveva lanciato un’occhiata di rimprovero, ma era
troppo debole per esprimere a parole la sua irritazione e
contrarietà.
Abby l’aveva preso per mano e con tono di voce pacato, senza
mai distogliere lo sguardo dal suo, gli aveva raccontato tutto quanto:
della terapia di consolidamento che non stava dando i risultati
sperati, della comparsa dei sintomi di una recidiva e del fatto che
l’unica opzione che le rimaneva a quel punto era il trapianto
di midollo.
Mark l’aveva ascoltata senza mai interromperla, lasciando che
le lacrime gli scorressero sul viso indisturbate, e poi aveva lasciato
che Abby lo abbracciasse, con il capo abbandonato sul suo esile petto.
Erano rimasti lì, avvinghiati l’uno
all’altro e alla vita fino a quando un’infermiera
non era passata ad avvertire il ragazzino che la seduta era terminata.
Non pioveva, quella notte, ma nel cielo non c’era nemmeno
traccia di stelle.
Vicina alle vetrate della sala d’aspetto, il suo sguardo era
stato catturato dalla coppia che era appena uscita dalle porte
scorrevoli del Pronto Soccorso: entrambi sorridenti, l’uomo
teneva una mano sul ventre gonfio della donna, con gli occhi luminosi e
trasudanti d’amore e sollievo, probabilmente per un esame
andato a buon fine.
Abigail sorrise amaramente, certa che lei, nonostante ce
l’avesse nel sangue – l’ennesimo
paradosso – non avrebbe mai conosciuto la gioia di diventare
mamma. Forse per questo aveva cercato di prendersi cura dei bambini
più piccoli sin dal primo giorno di ricovero.
Tra le mani teneva il diario della sua bisnonna, ma non aveva molta
voglia di leggere: ogni volta che ci provava, vedeva e rivedeva i
terrificanti paroloni che aveva scorto sugli esiti dei suoi esami. Si
limitò quindi a guardare gli alberi del parco, le ambulanze
coi lampeggianti accesi che andavano e venivano, i dottori e le
infermiere che uscivano per una pausa sigaretta e chiacchieravano
tranquillamente tra loro, ridendo e scherzando, ignari di
ciò che le stava succedendo. O forse lo sapevano e facevano
finta di niente perché confrontarsi con la realtà
faceva troppo male.
Ad un tratto sentì il ding
dell’ascensore arrivato a destinazione e con la coda
dell’occhio vide Alex avvicinarsi in silenzio, con le mani
nelle tasche dei pantaloni celesti.
«Cath è riuscita a dirmelo solo adesso»,
esordì dopo qualche istante.
Anche il suo sguardo era fisso fuori dalle vetrate, non si mosse
nemmeno quando le posò gentilmente una mano sulla spalla.
Non le chiese come stava, non le disse che in qualche modo tutto
sarebbe andato per il meglio. Continuò a stringere con forza
e delicatezza la sua spalla e mormorò: «Lo sai...
Mi è stato concesso il trasferimento: torno in oncologia.
Volevo che fossi la prima a saperlo, tutto qui. Se vuoi restare
sola...».
Abigail scosse il capo, gli occhi ormai annacquati. Non aveva ancora
pianto da quando aveva ricevuto la notizia; aveva guardato le lacrime
degli altri, ma lei non era riuscita a versarle. Lì, con
Alex, capì che era il momento giusto per lasciarsi andare.
Si alzò dalla sedia a rotelle e si aggrappò alle
sue spalle infilando le braccia sotto le sue, il viso nascosto
nell’incavo del suo collo. I singhiozzi le fecero male come
coltellate, ma non smise. E Alex rimase in silenzio, accarezzandole ora
i capelli corti ora la schiena, fino a quando non tornò a
respirare più o meno regolarmente.
«Sono felice di riaverti accanto»,
sussurrò, tirando su col naso.
Alex sorrise, posandole un bacio sulla tempia. «Non mi sono
mai allontanata».
Quando Abby rientrò nella propria stanza trovò
sua nonna come l’aveva lasciata. Le stese addosso una coperta
e si coricò, addormentandosi se non con il sorriso sulle
labbra almeno serenamente, riconoscente di avere vicine così
tante persone speciali. E avrebbe lottato per loro, fino
all’ultimo respiro.
Il diario di Louise avrebbe aspettato il sorgere del sole.
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Capitolo 23 *** 23. The mark of Abigail ***
Buongiorno e buon inizio
settimana!
Allora... Con profondo rammarico ho notato che gli ultimi due capitoli
hanno avuto poche visualizzazioni e nessuna recensione. Io non sono una
che scrive per ricevere elogi, lo dico francamente... ritengo che la
scrittura sia per me una cura, un modo per staccare dalla vita di tutti
i giorni e concedermi di fantasticare. Però non posso negare
quanto mi renda triste vedere questo calo di interesse. Spero vivamente
che sia per causa mia - della lunghissima pausa e dei miei
aggiornamenti irregolari - e non della storia in sé,
perché questo farebbe molto male. Ad ogni modo lo
accetterei, non si può andare incontro ai gusti di tutti.
Se qualcuno può farmi sapere qualcosa in proposito ve ne
sarei eternamente grata.
E con questo direi che vi lascio alla lettura. Grazie per aver letto
fino a qui :)
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________
23.The mark of
Abigail
Freya si fece da parte per farlo entrare nell’appartamento di
Darrell ed indicandogli il salotto esordì: «Deduco
che non sia necessario che io sappia perché ha usato la
magia, no?».
Artù si limitò ad annuire mentre adagiava con
delicatezza il corpo inerme di Merlino sul divano. Dopo essersi
sollevato la guardò con un sopracciglio inarcato, non
capendo perché non fosse al suo fianco per tentare di
rianimare il mago; quindi in tono imperioso esclamò:
«Beh, hai intenzione di aiutarmi a svegliarlo oppure
no?».
«E se io mi rifiutassi?», domandò la
custode, incrociando le braccia al petto.
Il sovrano boccheggiò, preso alla sprovvista, e Freya ne
approfittò per spiegare, quasi con tono annoiato:
«Quando la magia ha iniziato a scomparire per via della
maledizione di Merlino, essa per preservarsi si è
concentrata in pochi punti del pianeta, luoghi rimasti intatti e
lontani dall’insaziabile ed aggressiva espansione
dell’uomo. Merlino ovviamente è diventato uno di
quei punti, una delle fonti, un custode se vogliamo: il potere che
risiede in lui è talmente forte che liberarlo potrebbe
essergli fatale. Potrebbe ucciderlo sul colpo, disintegrarlo, oppure,
come succede ad ogni creatura magica, la sua morte sarà
lenta e progressiva: più libererà la magia che
è dentro di lui, più si consumerà,
poco alla volta».
Artù strinse i pugni lungo i fianchi, il viso accartocciato
dalla rabbia. «Tu menti: Merlino non ha lanciato nessuna
maledizione».
Freya sorrise come se si trovasse davanti ad un ingenuo ed innocente
bambino. «Non l'ha fatto di proposito ma l'ha fatto,
rinnegando la magia».
Il sovrano, a seguito di quella rivelazione, finalmente capì
i motivi dei suoi lunghi silenzi, dell'espressione spesso colpevole che
assumeva quando pensava che nessuno lo stesse guardando: si sentiva
colpevole per essersi lasciato sopraffare dal dolore, proprio come
Morgana, e di aver condannato il mondo al suo lento declino.
«Non ho intenzione di indebolirmi perché Merlino
torni subito a vostra disposizione», concluse la ragazza
druida prima di sparire in cucina, da cui aggiunse: «Si
sveglierà quando avrà ricaricato le
batterie!».
Il re di Camelot abbassò lo sguardo sul volto privo di
espressione dello stregone, trovandolo dolce ed irritante allo stesso
tempo – soprattutto perché era tutta colpa sua se
si trovavano in quella situazione – e si massaggiò
gli occhi stanchi.
La notte precedente non aveva chiuso occhio, non voleva raddoppiare;
allo stesso tempo, era troppo stanco per ritornare a casa con Merlino
sulla schiena. Avrebbe potuto chiamare Cathleen, perché
arrivasse con un’ambulanza e desse loro uno strappo, ma
qualcosa glielo impediva.
Non si erano ancora sentiti da quando avevano avuto quel diverbio
riguardo alla questione "famiglia" e nonostante avesse intuito che non
voleva offendere lui in particolare, non aveva voglia di sentirla. Come
aveva fatto lei poco tempo prima, non voleva rincorrerla: si sarebbe
seduto e avrebbe aspettato che facesse lei il primo passo.
Sbuffò, arrendendosi all’evidenza che avrebbe
dovuto aspettare che Merlino si svegliasse spontaneamente. Si
guardò intorno in quell’appartamento sconosciuto e
sbuffò di nuovo, rendendosi conto che tutto il divano era
occupato dal mago e che l’agente Fisher non era un fan delle
poltrone.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Freya esclamò:
«Mettetevi pure comodo! Potrebbe volerci anche tutta la
notte, sapete?».
Riconobbe una sfumatura divertita nella sua voce. Che realmente
riuscisse a leggergli nella mente?
Così Artù si sedette sul pavimento, con la
schiena contro il bordo del divano, e nascose la testa tra le braccia.
Chi gliel’aveva fatto fare, di accettare il suo invito? Ma
forse non tutto il male doveva per forza nuocergli, dato che aveva uno
o forse due fastidiosi pesi sullo stomaco di cui voleva al
più presto liberarsi. Magari quella era
l’occasione buona.
«Ho fatto del tè».
Artù levò lo sguardo e prese la tazza che Freya,
sorridendo, gli stava porgendo. La tenne stretta tra le mani,
nonostante il liquido bollente gli bruciasse la pelle attraverso la
ceramica, mentre la custode afferrava una coperta e la posava sopra il
mago, soffermandosi un attimo di troppo ad accarezzargli il mento con
le dita.
Quando si sedette poco lontano da lui e si accorse che il sovrano non
aveva ancora osato avvicinare la tazza alla bocca, alzò gli
occhi al cielo ridacchiando.
«Non ho intenzione di avvelenarvi, fidatevi».
Artù strinse le labbra in un sorriso amaro e posò
la tazza sul tavolino basso di fronte a lui. «Ho imparato a
mie spese quanto possa essere pericoloso fidarsi».
Freya bevve un sorso del proprio tè e stese le gambe di
fronte a sé, muovendo le dita dei piedi nei calzini di
spugna fucsia. Ad Artù diede fastidio il suo atteggiamento
rilassato, il fatto che si comportasse come se fosse da sola e non
seduta accanto all’amore della sua vita e al cavaliere che le
aveva tolto la vita.
Ad un tratto si stancò e le chiese bruscamente:
«Perché mi hai aiutato, ieri notte?».
«Siete una delle tessere del puzzle, non era giunta la vostra
ora», rispose la custode scrollando le spalle, senza
guardarlo in viso.
«Questa è la risposta che dovevi darmi. Quella
vera, invece?».
Freya abbozzò un sorriso. «Lo sapete, qual
è». Si voltò verso lo stregone e lo
guardò per un momento, una mano sollevata a
mezz’aria verso il suo viso. Ma non arrivò mai a
sfiorarlo, come se ci fosse un campo di forza intorno a lui, e il suo
sorriso presto di spense.
«Ho sognato di tornare per secoli ed ora che non lo ritenevo
più possibile... il suo cuore appartiene alla vostra
erede», sospirò tristemente e gli diede nuovamente
le spalle. «Merlino e Freya, costantemente allontanati dai
Pendragon», aggiunse a bassa voce.
Artù non avrebbe voluto sentirsi male per lei, ma era
più forte di lui. Ciò nonostante non lo diede a
vedere e riprese: «Ad ogni modo, grazie. Anche se a dirla
tutta è colpa tua, se ho rischiato di morire: se non fossi
scappata e non ci avessi gettato addosso quegli alberi...».
«Siete impossibile», commentò Freya
ridendo, facendo leva su una mano per alzarsi dal tappeto.
Artù però le afferrò il polso ed
inchiodò gli occhi nei suoi. Iniziò ad intuire
ciò che aveva spinto Merlino ad innamorarsi perdutamente di
lei: il viso pulito, gli occhi dolci e l’espressione
impaurita che aveva quando il mago l’aveva vista per la prima
volta, rinchiusa in quella gabbia.
«Io non lo sapevo», disse alla fine, a bassa voce.
«Che cosa?».
«Non sapevo di te e Merlino».
Freya posò inaspettatamente la mano sulla sua e sorrise
teneramente, inginocchiandosi di fronte a lui. «Ne sono
consapevole, Pendragon; voltate pagina. Per quanto mi riguarda non sono
mai stata in collera con voi: dovevo essere fermata, per la sicurezza
di tutti, inclusa quella di Merlino. Soprattutto la sua».
Artù non capì subito ciò che aveva
sottinteso con quelle parole. Quando lo fece, Freya era già
in cucina con la propria tazza di tè vuota. Posò
lo sguardo su quella che gli aveva offerto, ancora sul tavolino, e
senza darsi il tempo di avere dei ripensamenti se la portò
alle labbra. Il liquido caldo e dolce – forse un
po’ troppo per i suoi gusti – gli fece chiudere gli
occhi e abbandonare il capo contro il divano. Si sforzò di
resistere al sonno, invano.
Sentì un fruscio accanto a sé, ma nel dormiveglia
capì che non era nulla di cui preoccuparsi: Freya, china su
di lui, lo stava invitando a stendersi, con un morbido cuscino sotto la
testa e una coperta a tenerlo al caldo.
Sul momento aveva pensato ad un sogno: mai avrebbe pensato che la
custode potesse essere così gentile nei suoi confronti. Si
dovette ricredere, quando Merlino lo svegliò bruscamente a
poche ore dall’alba.
«Dove diavolo siamo?», urlò a mezza voce
Merlino, ancor prima che si svegliasse del tutto.
Artù si sollevò e stropicciandosi gli occhi
mugugnò: «Non ti rivolgere a me con quel
tono».
«Dove diavolo siamo, vostra
altezza?», ripeté, ancora
più infuriato. Provò ad alzarsi, ma una fitta
alla testa lo fece ricadere seduto sul divano.
Allora il sovrano si tolse di dosso la coperta e si guardò
intorno alla ricerca di Freya. Non trovandola, spiegò:
«Dopo aver usato la magia per mettere Excalibur nella roccia
sei svenuto, così ti ho portato fuori dalla grotta dei
cristalli e mi sono diretto verso le abitazioni. Non sapevo che Freya
fosse qui, l’ho incontrata per caso».
«State… state dicendo che siamo a casa
dell’agente Fisher? Oh, cavolo».
Merlino si passò lentamente le mani sul viso, sospirando, e
poi un altro pensiero lo fece sobbalzare e recuperare quasi con
frenesia il cellulare nella tasca dei jeans.
«Lo sapevo, lo sapevo. E adesso come spiegheremo ad Alex
perché abbiamo chiesto aiuto a Freya?», gli chiese
iracondo, mostrandogli le chiamate perse.
«Ehi, vedi di darti una calmata», sbottò
Artù, stufo delle sue lagne. «Diremo la
verità ad Alex, non avrà motivo di arrabbiarsi. E
se lo farà… sei tu il suo fidanzato, non
io».
Merlino lo fissò e dopo un attimo di esitazione
afferrò il suo braccio per tirarsi in piedi.
«Molte grazie», bofonchiò.
«Dov’è ora Freya?».
Artù scrollò le spalle e sostenendo lo stregone
si incamminò verso la porta.
«Presuppongo non vogliate ringraziarla per
l’ospitalità», esclamò
Merlino, guardandolo con una lieve traccia di rimprovero nello sguardo.
«Dobbiamo metterci in cammino, se vogliamo arrivare a casa e
dormire qualche ora in un vero letto».
Il mago si lasciò condurre fuori e all’aria fredda
del mattino ancora buio rabbrividì, tanto che
Artù si tolse la sciarpa e gliela legò intorno al
collo, rischiando quasi di strozzarlo.
Iniziarono a camminare verso casa, tagliando per il bosco per fare
prima, e Merlino non riuscì proprio a tenere la bocca
chiusa: volle sapere che cosa si erano detti, in particolare se le
avesse riportato ciò che gli Sidhe avevano profetizzato.
Artù aveva mentito, dicendogli che sì, le aveva
detto che l’avrebbero riportata ad Avalon; perché
lo pensava, era sicuro fosse la cosa giusta da fare, e ciò
che provava adesso nei suoi confronti era solo compassione, che presto
sarebbe passata. Aveva solo bisogno di un altro po’ di tempo
e poi avrebbe fatto ciò che doveva.
***
Mancava ormai poco all’alba e i corridoi erano immersi in un
silenzio surreale, tanto che Alex si sentì l’unica
persona ancora sveglia, sovrana e custode dell’intero
ospedale.
Quella fantasia svanì presto, una volta svoltato
l’angolo. Salutò la collega al bancone della
reception, gettò un’occhiata al collega che stava
ponendo le domande di rito all’ultimo paziente in sala
d’attesa e poi uscì dalle porte scorrevoli per
raggiungere Cathleen, seduta su uno dei panettoni gialli che
delimitavano il parcheggio.
Le posò una mano sulla spalla e il paramedico
tirò fuori da una delle innumerevoli tasche dei pantaloni un
pacchetto di sigarette sgualcito per offrirgliene una ed estrarne
un’altra per sé direttamente con le labbra.
«Grazie», mormorò chinandosi verso la
fiamma dell’accendino; quindi tirò a lungo e
soffiò il fumo verso il cielo che iniziava a tingersi dei
colori dell’alba. «Ho ricevuto una chiamata da
Artù, verso l’una, ma quando l’ho
richiamato non mi ha risposto. Tu sai…?».
Cathleen scosse il capo, portandosi la sigaretta tra le labbra. Ad un
tratto si alzò di scatto dal panettone e si voltò
a guardarla con gli occhi lucidi: «Perché proprio
Abigail? Perché sono sempre le persone migliori a
perderci?».
«Non saprei… Ma sto iniziando pensare che siamo
davvero legati ad un destino».
«Beh, il destino fa schifo!», urlò e
gettò a terra la sigaretta per avventarcisi sopra con un
piede.
Alex si avvicinò e l’abbracciò con
delicatezza, accarezzandole i capelli. «Lo so. Credimi, lo
so».
«Tu pensi che si possa cambiare, il destino?», le
domandò piano Cathleen, tranquillizzata dalla sua stretta.
«Lo spero con tutte le mie forze. So però che non
smetterò di provarci, puoi starne certa».
Cathleen sciolse l’abbraccio e la guardò con la
sua caratteristica ruga d’espressione tra le sopracciglia,
segno di preoccupazione. «Che hai intenzione di
fare?».
«Tutto ciò che posso per aiutare Abby»,
rispose Alex con un sorriso appena accennato, il viso rivolto verso
l’alto per ammirare le nuvole cambiare colore ai primi raggi
del sole.
***
Darrell diede il cambio al collega e come ogni mattina – che
facesse il turno di notte o meno – si incamminò
verso la caffetteria della signora Begum per il primo caffè
della giornata.
Respirava a pieni polmoni l’aria fredda, intrisa del profumo
della rugiada sulla natura, e nonostante la quiete del paesaggio la sua
mente era ancora turbata da ciò che aveva letto riguardo al
tatuaggio di Freya.
Quella notte aveva approfondito la ricerca iniziata il pomeriggio
prima, inserendo nel motore di ricerca le parole: “tre
spirali intrecciate”. Come risultato principale aveva
ottenuto il Triskelion, un simbolo comparso per la prima volta durante
il periodo Neolitico a Malta e in varie zone della Grecia, per poi
diventare molto popolare nella cultura Celtica e nelle religioni
pagane. Tutt’ora il Triskelion, in alcune sue varianti, era
raffigurato su diverse bandiere, come quella della Sicilia, in Italia,
e quella dell’Isola di Man, nel Mar d’Irlanda.
Il suo significato però era andato perduto, probabilmente a
causa dell’abitudine di tramandare le conoscenze oralmente;
c’erano solo ipotesi, supposizioni. Alcuni studiosi pensavano
che le tre spirali simboleggiassero la Triplice Dea, altri che fossero
tre dei quattro elementi naturali (terra, fuoco e acqua), altri ancora
che rappresentassero il tempo (passato, presente e futuro) e infine
c’era chi pensava che si riferissero ai tre mondi di questa
realtà (il mondo degli esseri viventi, dei morti e degli
spiriti erranti). Tutte opzioni poco rassicuranti per uno come lui, ben
attaccato alla razionalità e alla logica. E, sopratutto, se
venivano associati a Freya e alla sua perdita di memoria: cosa avrebbe
fatto, nel caso in cui si fosse rivelata membro di una qualche folle
setta? Gli sembrava impossibile, per quel poco che l’aveva
conosciuta in quelle settimane, ma non poteva escludere nulla al
momento.
Le pagine Wikipedia, i blog, le discussioni, i link, gli asterischi e
le note che gli erano comparsi sullo schermo del computer erano stati
così tanti che a mezz’ora dalla fine del turno
aveva dovuto affrettarsi per occuparsi di tutto ciò che
avrebbe dovuto fare nel corso dell’intera notte e si sentiva
esausto, oltre che suggestionato dal mondo di mitologia, paganesimo,
magia ed arti oscure in cui si era ritrovato immerso.
Il campanello all’ingresso della caffetteria fu in grado di
riportarlo alla realtà, oltre che alla rassicurante
normalità delle abitudini.
«Buongiorno agente Fisher», lo salutò
con timidezza il ragazzo dietro il bancone. «Il solito
caffè da portar via?».
«Sì, grazie Jake».
Nell’attesa si appoggiò al bancone, con lo sguardo
rivolto verso la televisione con l’audio quasi al minimo, su
cui stava andando in onda il telegiornale.
«Mattinata tranquilla?», domandò ad un
tratto.
«Come sempre a quest’ora».
Dalla cucina si udì il segnale acustico del forno e Jake
corse a tirar fuori le brioches e le ciambelle appena cotte.
Iniziò a deporle nell’espositore e
gettò un’occhiata all’orologio alle sue
spalle, aggiungendo: «Anche se tra poco dovrebbero iniziare
ad arrivare i dottori e le infermiere del turno di notte».
Jake non fece in tempo a terminare la frase che la porta si
aprì con il solito scampanellio, facendo entrare i primi
camici bianchi. Darrell allora chiese al ragazzo di tenergli da parte
due ciambelle, una con sopra la glassa e gli zuccherini colorati e una
col cioccolato.
Pagò sorridendo al ragazzo, raccomandandogli di salutargli
la signora Begum, e quando si voltò rischiò quasi
di finire addosso ad Alexandra Greenwood e alla sua amica paramedico.
L’infermiera gli lanciò un’occhiata di
scuse e superandolo continuò a parlare al cellulare:
«Ho capito, sul serio... Artù ha fatto bene, non
aveva altra scelta. No, Merlino, non sono arrabbiata. Ma sei sicuro di
voler andare al lavoro comunque? Posso chiamare mio padre
e...».
A quel punto Darrell smise di ascoltare, distratto da Cathleen.
«Ehi, agente! Come va? Un altro turno di notte?».
Darrell si sforzò di sorridere, rispondendo: «A
quanto pare ne avrò ancora per un po’. Spero solo
non siano tutti movimentati come gli ultimi». Quindi
indicò Alex con un cenno del capo, la fronte aggrottata:
«È successo qualcosa a Merlino?».
La rossa gli agitò un dito di fronte al viso, lo sguardo
malizioso. «Ah-ah, non è carino
origliare».
Darrell guardò ancora una volta l’infermiera,
appoggiata con entrambi i gomiti al bancone e una mano tra i capelli
biondi sciolti sulla schiena. Sembrava stanca, ma non solo
perché aveva appena finito il turno; era una stanchezza
profonda, come se avesse avuto un peso a gravarle sull’anima.
«C’è una cosa che devo dirti. No,
è una questione un po’ delicata. Facciamo che ti
raggiungo lì nel pomeriggio. Okay. Ti amo
anch’io».
Cathleen gli schioccò le dita di fronte al naso e quando
quella volta incrociò il suo sguardo, lo trovò
infastidito.
«Come avrai capito, è già
impegnata», sibilò a pochi centimetri dal suo
volto.
Il poliziotto indietreggiò di un passo e dopo un attimo di
esitazione rispose: «Non sapevo che lei e Merlino fossero una
coppia».
«Le farò le tue congratulazioni».
Un sorrisino gli sollevò un angolo della bocca,
così all’improvviso che Cathleen ne rimase
sbigottita. Darrell le posò una mano sul braccio e la
superò per raggiungere l’infermiera, sussurrandole
all’orecchio: «Grazie, faccio da me».
Quando Alex vide l’agente sedersi sullo sgabello alto accanto
al suo domandò silenziosamente spiegazioni a Cathleen, la
quale roteò gli occhi al cielo e alzò le mani.
Poi si concentrò su di lui, stringendosi il collo tra le
spalle: «Volevi dirmi qualcosa?».
«Innanzitutto, congratulazioni: ora capisco perché
la mia domanda su Myra e Merlino ti ha infastidito tanto».
«Pensavo avessimo superato l’argomento»,
bofonchiò Alex, irritata.
«Infatti, scusami. Prometto che non ne parleremo mai
più», si fece una croce sul cuore e poi le disse
quello per cui si era avvicinato: «Non sei più
passata in Centrale per la denuncia».
«Scusami, ma non ho fatto in tempo. Domani lavori?».
«Sì, faccio il primo turno».
«Perfetto, io sono di riposo domani. Ti prometto che
passerò».
«Okay, allora… ti aspetto».
Alexandra annuì e gli rivolse un sorriso nervoso quando lo
vide esitare sullo sgabello. Rendendosi conto di non aver altri motivi
per rimanere, Darrell si decise ad alzarsi e ad allontanarsi.
Non si voltò più indietro, nemmeno quando
sentì Cathleen chiedere all’amica che cosa si
fossero detti, e una volta fuori dalla caffetteria
attraversò la strada per raggiungere la propria auto.
Si fermò accanto alla portiera e si tastò le
tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi. Fu per caso, quindi,
che lo sguardo gli cadde sull’auto parcheggiata dietro alla
sua, con un draghetto di pezza rossa appeso allo specchietto
retrovisore. Con le chiavi dell’auto in mano si
soffermò a guardarlo, chiedendosi dove l’avesse
già visto. L’illuminazione gli venne
all’improvviso, così prepotentemente che
rischiò di far cadere il sacchetto con le ciambelle.
Aprì l’auto per lasciare la sua colazione sul
sedile del passeggero, poi prese il proprio taccuino e si
segnò targa e modello dell’auto. Non poteva
aspettare il giorno seguente per sapere, perciò si mise al
volante e tornò alla Centrale, dove il collega che da poco
gli aveva dato il cambio gli chiese ridendo se volesse sostituirlo.
Darrell non lo sentì nemmeno, troppo concentrato sulla pista
che stava seguendo.
Inserì nell’archivio i dettagli che si era segnato
ed attese che la pagina si caricasse. Non ci volle molto, ma per un
po’ rimase in silenzio, immobile, come se il computer si
fosse impallato.
La patente dell’intestatario dell’auto era
lì, davanti ai suoi occhi, eppure si rifiutava di crederci.
Perché mai l’auto di Cathleen avrebbe dovuto
trovarsi di fronte alla villetta di Alexandra, la notte in cui si era
verificata quell’insolita effrazione?
***
Merlino si sentiva ancora malissimo, tanto che faticava a dare i
contorni alle cose e la testa gli doleva come se qualcuno stesse
provando ad aprirgli in due il cranio con un'accetta.
Si massaggiò ancora una volta le palpebre pesanti con due
dita e fece un respiro profondo, concentrandosi sulla strada sterrata
oltre il parabrezza. Poi si accorse dell’espressione assorta
di Artù, del cellulare che teneva tra le mani e che
controllava ogni due per tre, e pensò che nonostante tutte
le preoccupazioni che gli affollavano la mente al momento –
l’agente Fisher che aveva archiviato il suo prototipo come
una prova, Freya, il ragazzo che stava conducendo un'indagine su di
lui, Hala e Alex – non poteva comunque trascurare il suo re.
«Aspettate una chiamata?», gli domandò,
abbozzando un sorriso.
Artù scosse il capo e sospirò. «Tanto
so perfettamente che non lo farà».
Si infilò nuovamente lo smartphone in tasca ed
abbandonò la testa contro il sedile, affranto.
«Non te ne ho parlato perché avevi altro per la
testa, ma io e Cathleen abbiamo avuto una specie di diverbio quando ho
scoperto di te e Alex».
«Ehi», attirò la sua attenzione.
«Voi potete parlarmi di qualsiasi cosa in qualsiasi momento
vogliate. Avete capito? Io ci sarò sempre, per
voi».
Riuscì a farlo sorridere e Merlino la contò come
una vittoria.
«In poche parole», iniziò a raccontare,
«ero infuriato perché non me l’avevate
detto prima e anche lei me l’aveva tenuto nascosto. Stavo per
dirle che ai miei tempi le cose per i membri della famiglia reale, la mia famiglia, erano
diverse, ma mi ha interrotto dicendomi che le famiglie “con
nomi importanti fanno schifo”. Ha detto proprio
così. Da allora non ci siamo più
sentiti».
Merlino rimase in silenzio a riflettere, cercando di capire a che cosa
si potesse riferire Cathleen con quelle parole taglienti. Gli venne in
mente solo un motivo plausibile.
«Che cosa sapete sulla sua famiglia?», gli chiese.
«Assolutamente niente», rispose Artù,
come se si fosse aspettato quella domanda. E infatti aggiunse:
«Anche io penso che l’abbia detto basandosi sulla
sua esperienza personale. Non ha mai accennato ai suoi genitori, a
fratelli o sorelle… È come se fosse sempre stata
sola al mondo, prima di conoscere Zachary».
«Non so che cosa dire», esclamò Merlino
dopo qualche altro istante di silenzio. «I legami familiari
sono complicati, voi più di tutti lo sapete:
l’amore più profondo può tramutarsi in
odio in un battito di ciglia e viceversa. Per quanto mi riguarda mi
sono sempre ritenuto fortunato: mia madre mi ha amato oltre ogni
misura, ha persino rinunciato a me quando nel mio villaggio i sospetti
che fossi uno stregone avevano iniziato a farsi più
insistenti, e mio padre… beh, lo conoscevo da appena un
giorno quando ha sacrificato la sua vita per la mia».
Sentì lo sguardo di Artù sul suo profilo,
profondo e triste, ma Merlino non si girò a guardarlo
nemmeno quando disse: «Mi dispiace se l'ho giudicato male,
era un brav'uomo».
Merlino annuì, un sorriso mesto sul viso.
«Perdonatemi se allora ho mantenuto il segreto anche su
questo, ma temevo che vostro padre non avrebbe gradito avere l'ultimo
Signore dei Draghi al servizio di suo figlio…».
«Va bene così, Merlino».
Il mago, stupito da tanta calma e gentilezza, si soffermò a
guardare il sovrano, di nuovo assorto nei propri pensieri.
Erano quasi arrivati all’agriturismo, quando gli
posò una mano sulla spalla, esclamando: «Prima o
poi si aprirà con voi, datele un po’ di
tempo».
Artù ricambiò il sorriso, anche se si spense non
appena si voltò verso il finestrino. Lo stregone avrebbe
voluto fare di più per lui, ma si rendeva conto che non
poteva; avrebbe pianto con lui e avrebbe gioito con lui, continuando a
stargli accanto come aveva sempre fatto.
«Buongiorno Rebecca».
La ragazza sollevò lo sguardo dal computer e gli sorrise,
ricambiando il saluto. Quando incrociò gli occhi di
Artù la sua espressione cambiò radicalmente ed
inspirò a lungo prima di esordire: «Per quanto mi
dispiaccia ammetterlo, mio padre ha ragione: io non sono il tuo tipo e
forse nemmeno tu sei il mio. Penso che dovremmo smetterla di
illuderci».
Merlino guardò Artù, confuso e spaventato come
poche volte l’aveva visto, e dovette mordersi le labbra per
non scoppiare a ridere sguaiatamente. Per fortuna arrivò la
signora Chapman a salvare tutti da quell’imbarazzante
situazione, anche se prima di dedicarsi a lei Rebecca concluse a bassa
voce: «Sarà difficile dimenticare, ma ci
riusciremo, vedrai».
Artù gli afferrò un polso e negò piano
con la testa, mimando con le labbra: «Questa è
pazza».
Lo stregone aumentò la pressione dei denti, scosso da un
altro attacco di ridarella. Poi tutta la sua attenzione fu catturata
proprio dalla signora Chapman, la quale, appoggiata al bancone della
reception e china verso Rebecca, chiedeva se le potesse chiamare un
taxi per andare in ospedale.
«Certamente», affermò Rebecca con un
sorriso cordiale. «Ah, già che è qui
signora Chapman, ne approfitto… So che ieri sera
è arrivato il fratello di Hala e che ha dormito con lei, ma
per questa sera mi si è liberata una camera con i letti
separati. Si troverebbero meglio?».
«Sei molto gentile, cara. Chiedo subito a Baqi e Hala e ti
faccio sapere, va bene?».
Rebecca stava per dirle che non c’erano problemi, ma Merlino
le parlò sopra ripetendo: «Baqi?».
Entrambe le donne lo guardarono fino a quando la signora Chapman non
spiegò: «Sì, è il fratello
gemello di Hala. Non penso vi siate conosciuti, ma ce ne
sarà di sicuro l’occasione».
«Senza dubbio», tentò di rimediare
Merlino, stirando un sorriso. «Buona giornata e mi saluti
Abby».
Nel sentir nominare la nipote, l'anziana impallidì e il suo
volto si accartocciò, come se stesse trattenendo uno
starnuto o qualcosa di altrettanto irrefrenabile. Quindi
annuì con un cenno del capo ed abbassando gli occhi si
allontanò, lasciando i due ragazzi piuttosto confusi.
Merlino però accantonò presto l'episodio per
concentrarsi su quello che aveva appena scoperto: Baqi, il ragazzo che
stava indagando su di lui, era il gemello di Hala e dormiva
all'agriturismo, dove lui lavorava. Tutto d'un tratto era impaziente di
rassettare camere.
Fece il giro della reception e sulla piccola bacheca di sughero
trovò i compiti della giornata, scritti nella bella ed
ordinata calligrafia della signora Morris.
Staccò il foglietto e dopo aver recuperato anche il planning
delle camere in fermata e in partenza tornò da
Artù, il quale stava deviando in ogni modo lo sguardo quasi
impietosito di Rebecca, dicendo: «Io vado di sopra a fare le
camere». Poi, con nonchalance, chiese: «Qual
è la camera di Hala e Baqi?».
«Ahm… al momento hanno la 112. Ti chiamo per farsi
sapere se rimangono lì o si spostano, così dai
loro una mano con i bagagli».
«Perfetto. A dopo».
Artù lo seguì come se fosse la sua ombra, rigido
come un manico di scopa, e Merlino, divertito, tornò da
Rebecca ridendo sotto i baffi.
«Artù non ha mai pensato che tra voi due potesse
nascere qualcosa, ma ti ringrazia comunque per
l’incoraggiamento».
Il re gli lanciò un’occhiata incredula e adirata,
ma quando vide che la stessa Rebecca scoppiò a ridere si
ricredette e riuscì persino a dargli una bonaria pacca sulla
spalla, trascinandolo via.
***
Darrell si chiuse la porta di casa alle spalle e, sovrappensiero
com’era, si dimenticò di fare piano. Sul momento
però non se ne rese conto e si diresse in cucina, dove si
spogliò della giacca e della fondina, lasciandole sullo
schienale della sedia su cui poi si sedette, con le mani a nascondergli
il viso.
Aveva troppe domande e decisamente troppe poche risposte, e questo lo
stava facendo ammattire. Come il fatto che tutto era iniziato quando
Freya era entrata a far parte della sua vita, un dettaglio che non
poteva di certo ignorare.
«Sei tornato».
Darrell sobbalzò, portando involontariamente una mano sulla
pistola appesa alla sedia. La lasciò subito, quando scorse
un fremito di paura proprio negli occhi dolci di Freya.
«Mi hai spaventato», si giustificò
debolmente, per poi rivolgerle un pallido sorriso. «Ti ho
svegliata?».
La ragazza scrollò le spalle e si passò una mano
tra i capelli ancora un po’ gonfi. «Non ho dormito
molto questa notte».
«Come mai?».
«Non lo so… Forse ero agitata per oggi».
«Che succede oggi?».
Freya si avvicinò e passandogli le dita tra i ricci biondi
accennò una risata. «Hai insistito così
tanto perché mi lasciassi accompagnare
all’ospedale e ora non ti ricordi nemmeno che avevamo deciso
di andarci oggi».
«Certo, sì, l’ospedale»,
mugugnò e si alzò, spostandosi dalle gentili
carezze che avevano fatto saltare un battito al suo cuore.
La ragazza lo osservò fare il giro del tavolo per andare ad
accendere la macchina del caffè e con la fronte aggrottata
gli domandò: «C’è qualcosa
che non va?».
Darrell non rispose e cambiò argomento, indicando il
sacchetto sopra il ripiano del tavolo: «Ti ho preso la
ciambella che ti piace».
Freya aprì il sacchetto e tirò fuori il dolce con
la glassa e gli zuccherini colorati, sorridendo a trentadue denti.
«Oh, grazie mille».
Quindi recuperò un tovagliolo e la lasciò sul
tavolo per prendere una tazza dalla credenza e il latte dal
frigorifero. Anche Darrell aveva bisogno di una tazza per il
caffè, perciò le disse di lasciare pure aperta
l’anta.
Mentre Freya andava a sedersi, il poliziotto si spostò
davanti alla credenza, dove però non trovò la sua
tazza preferita, quella che suo fratello minore gli aveva regalato
quando era diventato un agente e su cui era stampato il logo della
Police Academy, i cui film erano sempre piaciuti ad entrambi.
Abbassò lo sguardo e nel lavello vide due tazze sporche, una
delle quali era proprio quella che stava cercando. Con la coda
dell’occhio vide Freya mordere la propria ciambella, ignara
di tutti i sospetti che gli stavano facendo gelare il sangue nelle
vene.
«Freya? Perché hai usato la mia tazza?».
La ragazza lo guardò con sguardo perso e dopo aver
boccheggiato per un istante tornò a sorridergli,
rispondendo: «Ti ho detto che ieri sera non riuscivo a
dormire; mi sono fatta del tè e non ci ho fatto caso. Mi
dispiace».
Darrell non era stupido e il presentimento che Freya gli stesse
mentendo tornò a farsi sentire con forza. Il problema era
che non aveva prove concrete su cui basarsi e fondare le proprie
accuse. E continuando di quel passo non ne avrebbe mai avute.
«Okay, hai finito?», le chiese bruscamente,
trovandola con la bocca piena e i baffi di latte. In un altro momento
l’avrebbe trovata così buffa e tenera che gli si
sarebbe sciolto il cuore, ma tutto quello che stava succedendo gli
aveva inaridito l’anima.
Freya deglutì rumorosamente ed annuì subito, come
se non volesse vederlo arrabbiato, e senza nemmeno finire il proprio
latte corse nella stanza degli ospiti per cambiarsi e prendere la borsa
che aveva preparato con alcuni cambi – giusto per ogni
evenienza.
Darrell non avrebbe voluto trattarla in quel modo, come la sospettata
di un crimine orrendo, ma era più forte di lui.
Approfittò di quei minuti d’attesa per darsi una
rapida sciacquata e cambiarsi, infilandosi un paio di semplici jeans e
una camicia a quadretti sotto alla giacca a vento color petrolio.
Quando entrambi furono pronti, uscirono di casa e raggiunsero
l’ospedale in religioso silenzio. La tensione tra loro era
così densa da poterla tagliare a fette.
La situazione non migliorò nemmeno in ospedale, quando la
dottoressa che prese in carico il caso di Freya iniziò a
fare domande per stabilire un primo quadro clinico e decidere a quali
tipi di esami sottoporla. Darrell rispose quasi a monosillabi, troppo
distratto e deluso dal suo stesso comportamento.
Come aveva potuto essere così ingenuo? Avere la presunzione
di poter fare l’eroe? Ospitare a casa sua una sconosciuta e
sottostare alle sue regole, anziché chiamare subito le
autorità competenti?
«Beh, direi di iniziare con un esame del sangue e delle urine
e poi controlleremo il tuo corpo per appuntarci segni particolari,
cicatrici, qualsiasi cosa possa aiutarci a costruire la tua storia
clinica. Più tardi faremo anche una TAC per cercare di
capire che cosa ha provocato la perdita di memoria, okay?».
Freya annuì alle parole della dottoressa e
l’espressione impassibile sul suo volto non lasciò
trasparire nessuna delle emozioni che provava, tantomeno la paura, ma
Darrell riuscì a percepirla grazie al lieve tremore della
mano che aveva cercato il conforto della sua. L’agente aveva
socchiuso gli occhi e si era sottratto a quella stretta, portandosi
entrambe le mani dietro la schiena, e la ragazza allora –
solo allora – lo aveva guardato impaurita mentre la
dottoressa e un’infermiera la invitavano a seguirle,
prendendola sottobraccio.
Darrell si sentì un mostro ed evitò il suo
sguardo chinando il capo. Non lo rialzò nemmeno quando
sentì la sua voce mormorare: «Avevi promesso che
saresti stato con me per tutto il tempo. L’avevi promesso,
Darrell».
Alla fine trovò la forza per rispondere, anche se con poche
parole: «Mi dispiace, non ci riesco», ma Freya era
già lontana.
***
Merlino abbandonò il proprio carrello e guardò da
una parte all’altra del corridoio prima di aprire la porta
della stanza 112. Senza infilare la tessera nella slot apposita
– non voleva che Rebecca dalla reception lo vedesse e gli
facesse domande – entrò ed iniziò a
curiosare tra gli oggetti personali dei gemelli. Aprì le
valigie addossate alla parete, controllò
nell’armadio e frugò nei cassetti dei comodini,
poi sollevò i cuscini e tirò via le coperte.
Niente, non c’era niente.
Lo sguardo gli cadde sul blocchetto di appunti posato accanto
all’abat-jour. Lo portò accanto alla finestra e si
accorse che era stato scritto qualcosa sul foglietto prima –
ce n’era ancora l’impronta. Si precipitò
al cestino posato ai piedi del letto, lo svuotò sul
pavimento ed iniziò a cercare freneticamente
l’unico indizio che avrebbe potuto fargli avere una certezza
in più sulla pericolosità di quei due ragazzi.
Aprì un foglietto appallottolato ed ebbe solo il tempo di
leggere il primo punto prima di essere colto in flagrante proprio da
Hala, ferma sulla porta e con gli occhi sgranati, impauriti e al
contempo desiderosi di scoprire la verità.
«Mi dispiace infinitamente», disse subito Merlino
col tono più mortificato del suo repertorio.
«Stavo rifacendo il letto e ci sono inciampato».
Raccolse da terra tutto il contenuto del cestino e poi si
alzò, sorridendo innocentemente alla ragazza di fronte a
lui.
«Se vuoi posso tornare più tardi», disse.
Hala si schiarì la voce e si gettò
un’occhiata alle spalle, come se avesse paura che qualcuno la
vedesse parlare con lui, e rispose: «A me e mio fratello
è stata assegnata un’altra camera, credo che
Rebecca ti stesse cercando per dirtelo».
«Oh… Ma certo, che stupido».
Tirò fuori dalla tasca dei jeans il passepartout dei
camerieri e glielo indicò, ridacchiando. «Non so
dov’ho la testa, oggi».
Dopo qualche secondo di silenzio, Merlino chinò il capo e
con un mezzo sorriso sulle labbra uscì dalla stanza
passandole accanto. Percepì la sua agitazione e quella fu
proprio la conferma che cercava: lei sapeva, chissà come ma
sapeva.
«Chiamatemi, se avete bisogno di aiuto con i
bagagli», esclamò una volta raggiunto il carrello.
Hala non si voltò nemmeno per rispondergli:
«Grazie, non ce ne sarà bisogno».
«Come vuoi».
Merlino si allontanò e si infilò nella prima
camera libera che necessitava della pulizia. Inserì la
propria tessera magnetica nella slot e subito il telefono
squillò. Sospirando sollevò la cornetta e
salutò Rebecca, la quale gli chiese subito dove cavolo era
finito.
«Scusami, sono andato a recuperare le federe pulite in
magazzino, non ne avevo più sul carrello»,
mentì. «Avevi bisogno di qualcosa?».
«Volevo solo avvisarti che i gemelli…».
«Cambiano stanza, sì. Ho incrociato adesso la
ragazza e me l’ha anticipato. Le ho anche chiesto se avesse
bisogno con i bagagli, ma ha detto di no».
«Oh, okay, meglio così allora. A più
tardi».
Merlino posò la cornetta e si sedette sul letto per
esaminare più attentamente il foglietto che si era nascosto
all’interno della manica della felpa quando era stato beccato.
La scrittura era decisamente femminile, perciò era stata
Hala a segnarsi ciò che aveva scoperto su di lui o le
domande che necessitavano ancora di una risposta:
-
Non parla quasi mai del suo passato
-
Racconta storie ambientate a Camelot, su Re Artù e i
Cavalieri della Tavola Rotonda
-
L’ospedale della foto del 1935 è stato distrutto e
sulle sue ceneri è stato costruito quello odierno.
Coincidenza?
-
Relazione con la bisnonna di Abby – lei sa qualcosa?
L’ultimo punto, un tassello fondamentale del puzzle, lo
lasciò senza fiato. Se era davvero come pensava, le cose si
facevano ancora più complicate.
Sentì il clacson di un’auto e si alzò
dal letto, reggendosi a fatica sulle gambe per lo shock. Dalla
finestra, riuscì a vedere il taxi fermo nel parcheggio
dell’agriturismo e la signora Chapman salire per prima, con
Baqi e Hala al seguito. La ragazza alzò per caso il capo e
quando incrociò il suo sguardo non si ritrasse, anzi lo
ricambiò con fierezza, come a volergli lanciare una sfida.
Merlino strinse con più forza il foglietto nella mano e
quando il taxi imboccò la strada sterrata per raggiungere il
paese si sedette a terra, con le spalle al muro e la testa abbandonata
tra le braccia.
***
Alla fine, per una cosa o per un’altra, non era riuscito a
scambiare due parole con Abigail. Quello era il suo giorno libero, come
il giorno precedente, ma siccome non aveva altri impegni aveva deciso
di farle visita. E forse, inconsciamente, voleva anche incrociare lo
sguardo profondo di Hala.
Salì fino al quarto piano con l’ascensore e si
diresse verso la camera della ragazzina, ma vi trovò
soltanto un’infermiera che stava rifacendo il letto. Allora
optò per la mensa e fu proprio lì che la vide,
seduta da sola nell’ultimo tavolo della sala, più
intenta a leggere che a fare colazione.
La raggiunse e si sedette di fronte a lei. Dovette schiarirsi la gola
un paio di volte prima che si accorgesse della sua presenza ed
arricciasse il naso chiedendogli in tono sorpreso ma anche scettico che
cosa ci facesse lì.
«Sono solo passato a vedere come te la passi».
Abby mise il manico della forchetta di plastica tra le pagine del libro
dall’usurata copertina di pelle che stava leggendo ed
abbozzò un sorriso, scrollando le spalle. «Sai, ho
accettato che non avrò il futuro che ho sempre voluto, che
non lascerò un’impronta abbastanza duratura nel
mondo… perciò sono a metà
dell’opera».
Keith sospirò e negò lentamente il capo.
«Non ci credo».
«A che cosa?».
«Al fatto che tu ti stia arrendendo. Tutti quelli che ti
conoscono non fanno altro che ammirare il tuo coraggio, la voglia di
vivere che trasmetti a chi crede di non avere più
speranze… Si sono fatti un’idea sbagliata di
te?».
I suoi occhi si fecero all’improvviso duri come
l’acciaio, inflessibili, e la sua voce più
determinata che mai: «No. Lotterò fino
all’ultimo respiro per le persone che amo, ma so anche che
c’è un’elevata percentuale che io non ce
la faccia prima che venga trovato un donatore compatibile».
«Sei un bel tipo, Abigail», esclamò
Keith, sorridendo. «E sono sicuro che la lascerai,
un’impronta abbastanza duratura nel mondo».
«Grazie, dottor Ellis».
Si alzò e sistemò la sedia sotto al tavolo, ma
prima di andarsene le indicò la tazza di latte e cereali
ancora piena che aveva lasciato sul vassoio assieme alla macedonia.
«Devi mantenerti in forze, per quando arriverà il
donatore».
«Certo», rispose Abby con un piccolo sorriso, prima
di riprendere la lettura da dove l’aveva interrotta.
Stava per andarsene veramente quella volta, ma non riuscì a
tenere a freno la lingua ed esclamò: «Che tu
sappia Hala si vede con qualcuno?».
Abigail alzò di scatto gli occhi dalle pagine del libro e
gli rivolse un sorriso malizioso, non molto rassicurante.
Keith stava trotterellando giù per le scale, felice come una
pasqua, e non si accorse del motivo della sua contentezza fino a quando
non rischiò di finirle addosso.
«Perdonami», esclamò subito, stringendo
lievemente la mani intorno agli avambracci della ragazza
perché non cadesse all’indietro. Poi
incrociò quegli occhi color ambra in grado di fondergli il
cervello e la lasciò subito andare, colpito da un attacco
improvviso di vergogna.
«Hala», balbettò. «Ciao,
scusa, non ti ho proprio vista».
«Già, le ragazze come me passano inosservate la
maggior parte delle volte».
Keith aprì la bocca per dirle che non era assolutamente
così, che l’aveva colpito sin dalla prima volta
che si erano visti, ma lei non gliene diede il tempo.
«Ci vediamo», lo salutò riprendendo a
salire rapidamente le scale.
«No, Hala, aspetta!».
La ragazza si fermò all’improvviso e strinse
più forte le dita intorno al corrimano.
«So che ci siamo visti appena due volte, ma mi chiedevo se ti
andasse di uscire a bere qualcosa, una di queste sere».
Deglutì rumorosamente, mandando giù tutto il
nervosismo che aveva accumulato prima di riuscire a dire quelle parole.
Ma Hala non rispose come si aspettava e fece più male del
previsto.
«Ci penserò. Ora devo proprio andare».
Keith rimase in silenzio e la guardò salire quasi di corsa
gli ultimi gradini e sparire alla sua vista. Quindi sospirò,
dandosi un colpo in testa col palmo della mano. Allo stesso tempo
però sorrideva, perché prima che le cose
andassero in porto con Alex, lei lo aveva fatto stare sulle spine
proprio come aveva fatto Hala. Che fosse un segno? In quel caso, non
avrebbe mandato tutto a monte una seconda volta.
Speranzoso che prima o poi Hala sarebbe uscita con lui, sarebbe andato
dritto per la sua strada se attraversando il corridoio non avesse
scorto di sfuggita il volto di una ragazza familiare.
Tornò sui suoi passi e seduta su uno dei lettini del Pronto
Soccorso riconobbe la ragazza che a quanto sapeva aveva più
volte cercato Alex. Un infermiere le stava stringendo un laccio
emostatico sopra all’incavo del braccio per un prelievo e i
suoi occhi erano spaesati e assenti, ben lontani dalla
realtà che la circondava.
Aveva visto quell’espressione solamente in un altro caso e
mai l’avrebbe dimenticata: Artù, l’amico
di Merlino, era nello stesso stato psicologico quando l’aveva
visitato.
Coi brividi lungo la schiena si avvicinò e senza farsi
notare dalla diretta interessata – cosa che non sarebbe
comunque successa – aspettò che
l’infermiere finisse di prelevarle il campione di sangue da
mandare in laboratorio e poi lo placcò, chiedendogli che
cos’avesse.
«Dice di aver perso completamente la memoria.
L’agente Fisher l’ha trovata mentre vagabondava per
il bosco e l’ha ospitata per un po’, fino a quando
lei non si è sentita pronta a farsi visitare. È
un peccato, perché ogni traccia che avrebbe potuto esserci
sul suo corpo è andata da un pezzo».
«Memoria, eh? Tu le credi?», gli chiese Keith, con
le braccia incrociate al petto.
L’infermiere scrollò le spalle.
«Perché non dovrei? Aspetta… Non
è che la conosci?».
«Mai vista prima», mormorò e poi sorrise
all’uomo, dandogli una pacca sulla spalla. «Buon
lavoro».
Si allontanò e prima di uscire dalle porte scorrevoli
gettò un’occhiata all’interno della sala
d’aspetto, dove trovò l’agente Fisher
con i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani in faccia.
C’era qualcosa che non quadrava in tutto ciò, se
lo sentiva, ma non era mai stato bravo a far parlare le persone.
Conosceva però qualcuno in grado di riuscirci.
Sulla rampa per disabili, si appoggiò alla ringhiera con un
fianco e scrisse un SMS ad Alex.
***
Quando Hala aveva raggiunto la signora Chapman e Baqi nella stanza di
Abby, lievemente affannata e col cuore che le batteva forte per tutto
ciò che era successo, aveva scoperto che in
realtà Abigail non c’era.
Aveva chiesto informazioni ad un’infermiera di passaggio e
questa le aveva detto che forse, visto l’orario,
l’avrebbe trovata in mensa, a fare colazione. Aveva detto al
gemello di aspettare nella sua stanza mentre andava a cercarla e
l’ipotesi della donna si era rivelata corretta, se non per un
particolare: Abby aveva a malapena spiluccato qualcosa, ben
più interessata al diario della sua bisnonna Louise.
«Proprio di questo volevo parlarti»,
esordì bruscamente, sbattendo sul tavolo la propria borsa.
«Dimmi tutto quello che sai su Merlino. E non osare
mentirmi».
Abigail sollevò lentamente gli occhi dalle pagine del diario
e le rivolse un’occhiata infastidita. «Cosa pensi
che sappia, esattamente?».
«Più di quanto dici», ribatté
e con poca grazia allontanò la sedia da sotto il tavolo per
sedersi di fronte alla ragazzina, la quale incrociò le
braccia al petto.
«Ci sono stati forse sviluppi di cui io non sono a
conoscenza?», le chiese sorridendo beffarda.
«A dire la verità, sì. Questa mattina
ho trovato il tuo amico intento a rovistare nel mio cestino,
all’agriturismo».
«Sbadato com’è, ci sarà
inciampato».
«Non difenderlo, Abby. Lo so che cercava qualcosa».
«Che cosa potrebbe mai volere da te, eh? Siete tu e Baqi
quelli che stanno indagando su di lui!», urlò a
mezza voce, per non attirare l’attenzione delle infermiere in
mensa. Danilo però, seduto a qualche tavolo di distanza,
sentì tutto e le gettò un’occhiata
perplessa.
Hala sospirò, posando con calma i palmi delle mani,
lievemente sudati, sulla superficie del tavolo. «Non farmi
sentire in colpa adesso, non sto facendo nulla di male».
«Non spetta a te giudicare se quello che state facendo sia
giusto o sbagliato, ma a Merlino. Perciò, a meno che tu non
abbia una prova inconfutabile che dimostra che sia immortale, che abbia
avuto una relazione con la mia bisnonna o che abbia qualche
collegamento con la costruzione di questo ospedale, fareste meglio a
smetterla. Dovete lasciarlo stare, tutti e due».
La pakistana aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo
gelido di Abby la fece desistere.
«Sono stata chiara?», le domandò ancora,
quasi ringhiando.
Hala non rispose, si limitò ad annuire con un cenno del capo
e ad alzarsi.
Ovviamente non avrebbe smesso di indagare, avrebbe solamente evitato di
coinvolgere ulteriormente la ragazzina.
A quanto pare, questo
Merlino riesce ad ottenere l’amicizia e la lealtà
di chiunque, pensò mentre le dava le spalle,
diretta verso l’uscita. Persino quella di Abigail, che aveva
sempre reputato una ragazzina intelligente.
Come poteva non rendersi conto che c’era qualcosa di
sbagliato, in lui? Lei l’aveva saputo dalla prima volta che
l’aveva visto, una consapevolezza che aveva preso forma nel
suo cuore attraverso un brivido sottopelle.
«Hala?».
Sorpresa, esitò prima di girarsi. E lo fu ancora di
più quando vide Abby sorriderle dolcemente, come se non le
avesse appena voltato le spalle, preferendo Merlino a ciò
che di più vicino ad una sorella avesse mai avuto.
«Il dottor Ellis è venuto a trovarmi, poco fa. Mi
ha chiesto di te e se fossi già impegnata».
«L’ho incontrato per le scale», rispose
con la voce rotta dall’emozione. «Che cosa gli hai
detto?».
Abby scrollò le spalle. «Che per quanto ne so, non
ti stai vedendo con nessuno. Però gli ho detto di non essere
sicura e di chiedere direttamente a te, se era davvero
interessato».
Davvero interessato. Quand’era stata l’ultima volta
che qualcuno si era davvero interessato a lei, ai suoi sentimenti? A
parte suo fratello e la signora Chapman, nessuno negli ultimi quattro
anni.
L’ultimo ragazzo che aveva avuto, se così poteva
definirsi, era addirittura stato il ragazzino che a undici anni i suoi
genitori avevano scelto per lei, convinti che iniziare a frequentarsi
da piccoli avrebbe reso più facile lo sbocciare
dell’amore (come se fosse davvero importato loro qualcosa).
La verità era che volevano solo togliersi un peso dalla
coscienza, cercando di rendere meno squallida possibile
l’usanza del matrimonio combinato.
Da quando aveva scoperto il loro subdolo piano – e spezzato
il cuore di Yasir – ogni volta che un ragazzo le si
avvicinava era sempre stata un po’ scettica, sempre alla
ricerca del trucco o dell’inganno. Le risultava difficile
fidarsi e prendere sul serio le attenzioni maschili, visto soprattutto
che in una scala da uno a dieci dava al proprio aspetto fisico un sei
scarso.
Perciò come poteva credere che quell’angelo
mulatto fosse interessato ad una come lei? Era impossibile ai suoi
occhi.
«Allora, l’ha fatto?», le chiese Abby ad
un tono di voce decisamente alto, volto a farla tornare coi piedi per
terra.
«Fatto cosa?», ripeté, sbattendo le
palpebre.
«Ti ha chiesto di uscire?».
Hala annuì e solo allora si rese conto di quanto era stata
fredda e disinteressata nel rispondere a Keith, come se avesse avuto
decine di quelle proposte ogni giorno. La lista delle colpe di Merlino
continuava ad allungarsi.
«E tu che cosa gli hai risposto?».
L’espressione sul viso di Abby era così curiosa ed
eccitata che Hala provò un immenso piacere nel darle le
spalle e rispondere incurante:
«Chissà!».
***
Alex aveva appena aperto la porta di casa a Sebastian – il
tuttofare della cittadina che aveva chiamato per la finestra della sua
camera da letto – quando le era arrivato il primo messaggio
di Keith.
La ragazza che l’aveva cercata più volte
all’ospedale si stava sottoponendo ad alcuni test ed
affermava di aver perso la memoria. Era stato l’agente Fisher
a trovarla e ad ospitarla fino a quando non si era sentita pronta a
farsi visitare, ma era evidente che c’era qualcosa che non
tornava. Pure Keith l’aveva capito e Alex non poteva
più ignorare la presenza di Freya nelle loro vite: che cosa
sarebbe successo se il suo ex non si fosse fermato lì e
avesse iniziato a fare domande? Automaticamente anche il segreto di
Merlino sarebbe stato a rischio e non era disposta ad accettare che
accadesse. Era ora di chiudere quella storia una volta per tutte.
Lasciò le chiavi di casa all’operaio e
tornò in ospedale, dove – non poté
evitarlo – incrociò nuovamente Darrell. Anche quel
ragazzo le dava l’impressione di nascondere qualcosa e
faticava ad inquadrarlo, coi suoi comportamenti istintivi e a volte
imprevedibili.
Camminava avanti e indietro nella sala d’aspetto del Pronto
Soccorso, torturandosi le mani o infilandole tra i folti capelli ricci.
Ovviamente, Freya era riuscita a farsi voler bene. E parecchio, vista
la sua agitazione.
Alex provò a tirare dritto, ma l’agente di polizia
la vide e le corse incontro, il viso prima contratto in
un’espressione di pura preoccupazione e successivamente,
rendendosi conto che non avrebbe dovuto trovarsi lì,
sospettosa.
«Pensavo avessi fatto il turno di notte»,
esordì con la fronte aggrottata.
«Infatti. Ho solo dimenticato una cosa
nell’armadietto. Tu invece perché sei
qui?», gli domandò, nonostante conoscesse
perfettamente la risposta.
«Ho fatto un casino». Sospirò e le diede
le spalle per sedersi su una delle poltroncine.
Alex avrebbe potuto ignorarlo e andarsene, ma fu più forte
di lei: vederlo così abbattuto le dispiaceva e il minimo che
poteva fare era rassicurarlo che aveva visto e fatto lei stessa casini
peggiori.
Se ne sarebbe pentita, lo sapeva; ciò nonostante, si sedette
al suo fianco e gli chiese: «Che cos’è
successo?».
Darrell si appoggiò il mento tra le mani, i gomiti puntati
sulle ginocchia. «Mi sono messo in una situazione spiacevole.
Ho ospitato in casa mia una sconosciuta, potrei anche essere accusato
di aver intralciato la giustizia se per colpa mia si fossero cancellate
delle prove, e poi...».
«Poi cosa?».
«Mi sono fidato di lei, mi sono... affezionato. Non
dovevo».
«E perché no?».
«Perché bisogna pensare con questa»,
rispose battendosi due dita sulla tempia. «E non lasciarsi
governare dal cuore».
Alex sorrise e Darrell ne fu tanto sorpreso quanto infastidito.
«Ho detto qualcosa di divertente?», la
rimbeccò.
«No, mi hai solo ricordato che anche io, per un po’
di tempo, mi costringevo a pensarla così. E alla resa dei
conti non è andata a finire bene».
Darrell non disse niente, si limitò a guardarla
profondamente coi suoi occhi color nocciola, e Alex aggiunse:
«Quelli come noi.. non riescono a non farsi guidare dal
cuore. Possiamo provarci, ma non staremo mai bene con noi stessi,
perché non è nella nostra natura».
«Quindi secondo te dovrei ignorare ciò che mi dice
l’istinto e seguire il cuore?».
«No, aspetta un momento», lo frenò,
portando entrambe le mani avanti. «Stavamo parlando di
ragione, non di istinto; sono due cose diverse».
Il poliziotto si coprì il volto con le mani e
respirò profondamente. «Ho la testa che sta per
scoppiarmi».
Alex si guardò intorno nella sala d’aspetto e
quando realizzò che non c’era nessuna collega che
stesse prestando loro attenzione, gli posò una mano sulla
schiena per accarezzarla.
«Lo so che ci conosciamo a malapena, ma... se vuoi parlarne
con qualcuno, puoi contare su di me». Specialmente se riguarda Freya e
i suoi piani per il futuro, avrebbe voluto aggiungere.
«Grazie, Alexandra», rispose guardandola negli
occhi.
Alex accennò un sorriso, che si tramutò in una
smorfia di nervosismo quando si rese conto che non riusciva a schiodare
gli occhi dai suoi. Erano così belli... Di
un’innocenza e di una genuinità a cui non era
più abituata, a furia di perdersi in quelli di Merlino, che
da tempo avevano perso la gioia e l’ardore della giovinezza.
Fu lui alla fine a distogliere per primo lo sguardo, puntandolo verso
il banco dell’accettazione.
«Credi che ci metteranno molto?», le
domandò, mordendosi il labbro inferiore.
Alex si alzò frettolosamente e senza nemmeno pensarci
rispose: «Vado a controllare a che punto sono, se
vuoi».
«Lo faresti davvero?».
Annuì, cercando di ignorare la stretta allo stomaco causata
dagli occhi limpidi del biondo.
«Non so davvero come...», iniziò a
ringraziarla, ma l’infermiera lo interruppe bruscamente,
già girata di tre quarti: «Non devi. Faccio in un
lampo».
Veloce proprio come un fulmine, uscì dalla sala
d’aspetto e chiese ad una collega dove potesse trovare Freya.
Le indicarono uno dei lettini nell’area riservata ai pazienti
da visitare o con ferite lievi. Erano tirate solo le tende laterali,
quelle che dividevano un letto dall’altro, perciò
fu facile individuarla.
«Non ti aspettavo così presto»,
esordì la custode.
Alex la ignorò e con fare circospetto tirò anche
l’ultima tenda, in modo da avere un po’ di privacy.
«Avresti dovuto prestare più attenzione, quando
sei venuta qui a cercarmi».
La studiò da lontano per qualche istante, prima di
avvicinarsi e posare entrambe le mani sulla sbarra di ferro ai piedi
del letto.
«Un mio collega ti ha riconosciuta e mi ha avvisata che eri
qui. Che intenzioni hai?».
«Ho solo mantenuto la parola data», rispose Freya,
per poi aggiungere sottovoce e a capo chino: «Al contrario di
qualcun altro».
«Ti riferisci a Darrell? È qui fuori ed
è a pezzi, per colpa tua», indicò oltre
le tende, rabbiosa. «Cosa gli hai fatto?».
«Proprio niente. Forse si è solo pentito di avermi
aiutata».
«Non lo so. Ma di una cosa sono certa: tu non passerai come
vittima della situazione, è chiaro? È colpa tua
se Darrell sta male, se Artù e Merlino hanno dovuto patire
una vita di sofferenze e io...».
«Lo capisco, sei arrabbiata e hai bisogno di un capro
espiatorio», esclamò interrompendola.
«Sono d’accordo con te».
«Sei d’accordo? Ah, questo è il
colmo!», sbuffò trattenendo a stento una risata
amara. Si voltò e con una mano sulla tenda, pronta a
scostarla bruscamente, concluse: «Mi chiedo che cosa speravo
di ottenere venendo qui».
«Io credo che tu lo sappia fin troppo bene, invece. Volevi
conoscere il tuo destino, non è così?».
Alex si pietrificò sul posto, come se una forza invisibile
avesse appena inchiodato le suole delle sue scarpe al pavimento.
Riuscì però ad affermare a denti stretti:
«Io non credo nel destino».
«Oh, sì, ho saputo della tua promessa…
La Dea non ha preso bene la tua dichiarazione di guerra».
Alex si ritrovò all'improvviso con lo stomaco annodato e
prima che potesse chiederle che cosa volesse dire, oppure chi fosse la
Dea di cui parlava, Freya disse con solennità:
«È scritto che tu riporterai la magia nel mondo. E
nessun uomo, o sarebbe meglio dire donna
in questo caso… Nessuna donna, non importa quanto grande
ella sia, è in grado di contrastare il proprio
destino».
«Proporrei una scommessa, ma so che non possiedi
niente…», provò a sdrammatizzare, ma la
custode le rivolse un’occhiata gelida.
«E tu possiedi fin troppo, Alexandra. Un padre che ti vuole
bene», iniziò ad elencare sulla punta delle dita.
«Il tuo antenato più famoso, un lavoro
gratificante, degli amici, l’amore di Merlino e…
oh», ridacchiò, indicando il bracciale che portava
al polso, e concluse: «Dei poteri di cui hai
paura».
L’infermiera abbassò gli occhi sul bracciale di
Morgana, stretto intorno al suo polso destro, e serrò la
mascella. «È vero, ne ho paura»,
confessò, ma a testa alta. «Però sono
stata io a tirarti fuori dal lago e sono certa che in un modo o
nell’altro riuscirei a ributtartici se lo volessi».
Freya aprì la bocca per ribattere, arcigna in volto, ma un
infermiere tirò la tenda alle spalle di Alex e glielo
impedì.
«È arrivato il tuo turno per la TAC! Ehi,
Alex… Pensavo fossi andata a casa»,
esclamò il collega, corrugando la fronte.
«Sì, è vero, ma ho dimenticato una cosa
nell’armadietto», Alex ripeté la scusa
che aveva già usato con Darrell. Poi, sorridendo, aggiunse:
«Questa ragazza mi ha visto passare e mi ha scambiato per una
persona che conosceva. È un buon segno, no? Ho letto sulla
sua cartella che ha perso la memoria».
«Sì, lo farò sapere al suo
dottore», esclamò l’infermiere.
«Grazie, Alex».
«Ma figurati. Ti do’ una mano?».
Senza aspettare la sua risposta, raggiunse la parte sinistra del
lettino e disabilitò il freno delle ruote, in modo che
potesse essere trasportato ovunque si volesse all’interno
della struttura.
«Ci si vede», la salutò il collega.
Prima che voltassero l’angolo, Alex e Freya si scambiarono
un’occhiata carica di tensione: anche loro si sarebbero
riviste presto, poco ma sicuro.
La bionda si diresse a passo spedito verso gli spogliatoi, stringendo
forte il bracciale con una mano e ripensando alle parole della custode
della magia, e anziché entrare in quello delle donne si
intrufolò in quello degli uomini. Aprì
l’armadietto di Merlino e recuperò la prima cosa
che vi trovò all’interno: un foulard rosso che il
mago non portava da tanto, troppo tempo. Se lo legò intorno
al collo e vi immerse il naso per respirare il suo profumo, come sempre
in grado di calmarla.
Quando uscì, fu costretta a passare di fronte alla sala
d’aspetto e a mantenere la parola data a Darrell, il quale
aspettava fremente che ritornasse con delle notizie su Freya.
«Allora?», le domandò non appena
l’ebbe raggiunta.
«Sta bene, la stanno portando ora a fare la TAC».
«Puoi dirmi dov’è che la fanno? Devo
assolutamente parlarle, farle sapere che sarò lì
fuori ad aspettarla».
Alex sospirò ed indicò l’ascensore:
«Primo piano, sulla destra. Non so farai in tempo
però…».
«Grazie, grazie davvero», esclamò
posandole una mano sul braccio.
Lei sobbalzò a quel contatto, ma il poliziotto non se ne
accorse e corse verso le scale senza voltarsi più indietro.
Uscendo dall’ospedale, Alex scosse il capo, fermamente
convinta che fosse tutto dovuto allo stress e alla stanchezza. Il suo
cuore apparteneva a Merlino, l’uomo che doveva sposare, e a
nessun altro.
Si portò nuovamente il fazzoletto rosso al naso, inspirando
avidamente, ma quella volta il profumo dello stregone non
bastò.
***
«Ho finito con le camere», esclamò
Merlino saltando l’ultimo gradino della scalinata. Quindi si
appoggiò al bancone della reception, dietro cui
c’era Rebecca intenta a controllare gli arrivi di quella
sera, e passandosi il dorso della mano sulla fronte sudata le chiese:
«Sai dov’è tua madre?».
«Credo all’orto. Ma Edwin mi ha chiesto di mandarti
da lui, non appena avessi finito».
«Okay, alle stalle?».
La mora annuì e Merlino non attese oltre. Uscì
dalla porta sul retro e pescò i suoi stivali da lavoro dalla
scarpiera comune, poi si diresse verso lo stabile. Passando vide
Artù circondato da una ventina di bambini delle scuole
elementari, tutti impazienti di poter accarezzare una pecora sul muso,
e sorrise abbassando il capo. Sarebbe stato un ottimo padre se ne
avesse avuta l’opportunità, ne era certo.
Quando raggiunse le stalle, picchiò le nocche sullo stipite
dell’ingresso e si sporse all’interno.
«Signor Greenwood, aveva bisogno di me?».
Il padre di Alex scosse il capo, arrendevole, all’ennesimo
tentativo fallito di spazzolare la criniera del cavallo dal manto nero,
il più irrequieto tra tutti.
«Merlino, sì, devo parlarti. Siediti».
Lo stregone avanzò a passo insicuro, chiedendosi che cosa
mai dovesse dirgli. A dire la verità era lui a dover dire
qualcosa al padre di Alex, qualcosa che continuava a rimandare per
paura della sua reazione. Che l’infermiera
gliel’avesse già detto e si fosse dimenticata di
avvisarlo?
Si schiarì la gola e si sedette rigidamente sullo sgabello
che Edwin gli aveva indicato. Poi, senza riuscire più ad
aspettare, esclamò: «Mi dispiace, avrei voluto
dirglielo prima, ma non era mai il momento adatto
e…».
Il signor Greenwood lo fissò con entrambe le sopracciglia
inarcate. «Dirmi che cosa?».
«Quello di cui… di cui deve parlarmi»,
ripeté evasivo Merlino, guardandolo con la sua stessa
confusione dipinta sul viso.
«Io volevo solo chiederti di anticipare ad Alexandra che non
ho altre alternative che vendere questo cavallo: è troppo
irrequieto e al momento è un costo che non possiamo
permetterci. So che si è affezionata e che tu riesci a farla
ragionare più di chiunque altro,
perciò…», diede una pacca al fianco del
cavallo, il quale parve sbuffare irritato, e poi afferrò un
altro sgabello per sedersi proprio di fronte al mago, la fronte solcata
di rughe d’espressione e gli occhi ben piantati nei suoi.
«Tu, invece, che cosa devi dirmi?».
«Io…». Merlino si passò una
mano sul collo, nervosamente, ed abbassò gli occhi. Dopo un
respiro profondo, confessò: «Ho chiesto ad Alex di
sposarmi».
Si sforzò di sollevare il capo quel tanto che bastava per
scorgere l’espressione sul volto dell’uomo.
Rendendosi conto che l’aveva scioccato tanto da lasciarlo a
bocca aperta, si affrettò a scusarsi: «Lo so che
avrei dovuto prima chiedere la sua benedizione, ma mi è
venuto così, è stata una decisione
spontanea… Non sto dicendo che non lo rifarei ancora e
ancora, amo sua figlia più della mia stessa vita,
però ha ragione ad essere arrabbiato, se lo
è… Lo è?».
Edwin gli posò una mano sulla spalla e alla fine
abbozzò un sorriso, sussurrando: «È
successo a Londra, non è così?».
Merlino annuì con un cenno del capo e aprì la
bocca per chiedere come facesse a saperlo, ma il signor Greenwood non
gliene diede il tempo e rispose direttamente: «Da quando
siete tornati da quel viaggio l’ho vista diversa,
cambiata… Ho solo unito i puntini».
«E lei è… insomma, è
d’accordo?», gli domandò, col cuore che
gli batteva forte nel petto e un velo di sudore sulla schiena.
«Io voglio solo che la mia bambina sia felice. Quindi
ricordati che se le farai del male…». Si
alzò ed afferrò il rastrello che aveva lasciato
appoggiato contro la parete. Lo sollevò un poco e concluse:
«Ti scuoierò vivo con questo».
«Oh. Okay, lo terrò a mente»,
mormorò, deglutendo rumorosamente.
Edwin rise e gli offrì una mano perché si
alzasse, esclamando: «Avanti, vieni qui imbranato che non sei
altro». E lo attirò in un abbraccio inaspettato,
dandogli diverse pacche sulla schiena.
Merlino ne fu così piacevolmente sorpreso che non
riuscì a spiccicare parola: sperava che il suo sorriso a
trentadue denti parlasse per lui.
Poi Edwin gli avvolse un braccio intorno alle spalle e accompagnandolo
fuori dalle stalle notò: «Però non
l’ho vista portare anelli nuovi».
Lo stregone si passò nuovamente una mano tra i capelli umidi
a contatto con la pelle sudata del collo. «Le ho detto che
non avevo programmato nulla quando le ho fatto la proposta…
E ultimamente non ho avuto tempo per andare a cercare
l’anello giusto, sono mortificato».
«Sai, forse a questo proposito potrei aiutarti io».
«Davvero? Gliene sarei eternamente grato»,
balbettò, rosso come un peperone per l’imbarazzo,
ed Edwin gli diede l’ennesima pacca sulla schiena.
«Vieni con me, coraggio».
Una volta all’esterno, Merlino pensò di aver
sentito il suo nome e si gettò un’occhiata alle
spalle, dove vide Artù con le mani sui fianchi e un enorme
punto interrogativo sul volto. Gli fece segno di aspettare e poi
seguì il padre di Alex verso la sua piccola magione.
***
Era stato strano parlare in quel modo con Alexandra, soprattutto dopo i
sospetti che gli erano sorti sull’effrazione a casa sua. Si
era sentito legato a lei, quasi connesso, ed era stato facile sfogarsi.
Fin troppo.
Quel pensiero lo fece esitare una volta arrivato nel corridoio del
primo piano, ma non abbastanza da non raggiungere
l’infermiere che stava portando Freya a fare la TAC.
«Ehi, aspettate!».
Il ragazzo si voltò e roteò gli occhi al cielo,
esclamando con voce un po’ effemminata: «Non
c’è bisogno di fare tutte queste scene, non sta
andando a fare un’operazione!».
«Lo so, ma ho bisogno di parlarle. Solo due minuti».
«E va bene!», sbuffò e li
lasciò soli.
Darrell si portò alla sinistra di Freya e con timore quasi
riverenziale le accarezzò una ciocca di capelli corvini che
le sfiorava la guancia.
«Risparmiati le scuse, non servono»,
esclamò freddamente la ragazza, rivolgendo altrove
l’attenzione dei propri occhi lucidi.
«Invece sì. Mi dispiace di non aver mantenuto la
promessa, sono stato un vero stupido. E anche dubitare di te
è stato –».
«Dubitare di me?», lo interruppe, scostandosi dalla
carezza della sua mano. Poi abbozzò un sorriso venato
d’amarezza, esclamando: «Ora capisco
perché eri così distante, a volte. E ti
do’ ragione, Darrell».
«Cosa? No, no, non sono io quello da compatire, ma tu: tu hai
perso la memoria, tu...».
Freya si sollevò sul lettino e gli posò un dito
sulle labbra per azzittirlo. Sorridendo con dolcezza, aggiunse:
«Questa situazione non poteva andare avanti
all’infinito, lo sai. Forse è giunto il momento
che ognuno vada per la propria strada».
«Non dire sciocchezze, Freya», esclamò
con determinazione l’agente, afferrandole delicatamente il
polso. «Tu non andrai da nessuna parte, non prima
di...».
«È meglio per entrambi», lo
sovrastò con la voce ancora una volta, gli occhi fissi nei
suoi. «Devi fidarti di me».
L’infermiere ritornò dal proprio giro con le mani
nelle tasche e quando li raggiunse canticchiò: «Vi
siete detti addio, che vi amerete per sempre qualunque cosa accada e
blablabla?».
«Sì, possiamo andare», rispose Freya,
senza schiodare lo sguardo da quello di Darrell, con la bocca ancora
aperta, sul punto di dire un qualcosa che non le avrebbe mai confessato.
Ma forse lei lo lesse nei suoi occhi, perché
abbozzò un sorriso e gli baciò il dorso della
mano, mimando un «Grazie» con le labbra, prima che
l’infermiere riprendesse a spingere il suo lettino lungo il
corridoio, allontanandola da lui.
Darrell inghiottì faticosamente le parole che – al
diavolo la razionalità – gli erano salite
direttamente dal cuore fino alle corde vocali. Quindi si convinse che
avrebbe fatto un errore lasciandosi andare in quel modo, che non
avrebbe portato a nulla di buono e che su questo, poco ma sicuro,
Alexandra aveva torto.
***
Lo scoppiettio del
fuoco, il frinire dei grilli nei campi e delle risate che era certa di
conoscere.
Si concentrò
e oltre ai suoni riuscì finalmente a scorgere delle
immagini, prima sfocate e poi sempre più nitide: le fronde
degli alberi mosse dalla brezza serale, le fiamme ardenti al centro di
un cerchio di pietre, i tronchi su cui Cathleen, Artù, Abby,
Mark, Merlino e lei stessa erano seduti, felici e spensierati. Tenevano
tra le mani dei bastoncini su cui avevano infilzato dei marshmallows e
quello di Mark, troppo vicino alle lingue di fuoco, andò in
fiamme. Ecco il perché delle risate.
Ad un tratto gli uomini
si alzarono per andare a recuperare altre coperte e lei, Cathleen e
Abby rimasero sole. Si scambiarono uno sguardo e poi il paramedico si
sedette a terra, con la schiena contro il tronco e le mani unite dietro
la nuca, gli occhi rivolti verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai
immaginato di poter provare ancora tutto questo».
«Già…
Ci voleva, dopo quello che è successo»,
mormorò Alex, gettando un’occhiata verso Abby, la
quale si sporse verso di lei per stringerle una mano tra le sue.
«Hai fatto
anche troppo per me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non
è ancora detta l’ultima parola»,
ricordò Cathleen con gli occhi fiammeggianti, e non
perché vi erano riflesse le lingue di fuoco del
falò.
Alex annuì,
rianimata dalle parole dell’amica. «No, infatti.
Insieme ce la faremo, ne sono sicura», affermò
stringendo la ragazzina in un abbraccio delicato.
Abigail
ridacchiò. «Noi tre, eh?».
«Proprio
così, noi tre», ripeté con convinzione
il paramedico. Sollevandosi, arricciò il naso e le
lanciò un’occhiata circospetta, nonostante il
sorrisino che le sollevava un angolo della bocca: «Non credi
che potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se
solo lo volessimo!».
«Non
saprei», ammise Abby, stringendosi nelle spalle.
«Non riesco a prendermi cura di me, come potrei fare qualcosa
di buono per gli altri?».
Cathleen, piena di
disappunto, si alzò per andare a sedersi alla sinistra di
Abby. Puntandole un dito su un braccio, esclamò:
«Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe
“coraggio”. Tu sei la persona più
coraggiosa che abbia mai conosciuto, non solo perché non ti
sei mai arresa alla malattia ma perché sei in grado di dare
speranza a chiunque ti stia vicino, indipendentemente dalla sua
condizione. Non ho ragione, Alex?».
«Non avrei
saputo dire di meglio», rispose l’infermiera,
sorridente.
«E tu, invece?
Se dovessi descriverti con una sola parola, quale sarebbe?»,
le domandò la ragazzina.
Cathleen
scrollò le spalle. «Io non ho alcun talento
particolare».
«Ah
no?», intervenne Alex, con entrambe le sopracciglia inarcate.
«Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza incredibile;
Artù me l’ha detto più volte.
Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia trovata
sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei riuscita
ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati ora…
sei di nuovo felice».
«Non ci sarei
mai riuscita senza di voi», provò a sminuirsi
Cathleen, ma Alex le tirò un pugnetto su un ginocchio,
mordendosi un sorriso.
«Invece
sì, perché hai un fuoco al posto del cuore.
Magari ci avresti messo più tempo, ma ce l’avresti
fatta alla fine».
Cathleen strinse il naso
e poi si soffermò a fissarla, proprio come Abby, la quale
disse: «Manchi solo tu ora. Io so qual è la parola
che ti descrive».
«Anche
io», si aggiunse il paramedico.
«E quale
sarebbe?», domandò allora Alex, incuriosita.
«Magia»,
esclamarono in perfetta sincronia le due, per poi battersi il cinque.
Offesa, Alex mise il
broncio e si strinse le braccia al petto, ribattendo: «Ah,
quindi io sarei la ragazza coi poteri magici? Senza non sarei niente,
uh?».
«È
proprio il contrario!», disse Abby, ricambiando con
più forza il suo abbraccio. «Tu sei sempre stata
magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei perfetta, ma sei la
persona migliore che conosco».
«Concordo»,
le diede man forte Cathleen, unendosi all’abbraccio.
«Farò
finta di credervi», sussurrò Alex, fingendo ancora
di essersela presa, nonostante delle lacrime di commozione le
appannassero gli occhi.
«Ci fai vedere
qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina,
eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non
vuole che usi la magia se non è strettamente
necessario», disse guardandosi le spalle, verso
l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino
ora non c’è, giusto?», la
stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino.
«Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i
frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si
accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e
sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai
convinta».
Cathleen e Abby le
lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro
profondo, prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli
occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Quando le sue iridi
divennero dorate, le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il
falò e diedero vita ad un drago, il quale sbatté
le ali un paio di volte prima di scomparire così
com’era venuto, disperdendosi nell’aria.
«Non ci
credo!», gridò Cathleen, per poi coprirsi la bocca
al cenno di Abby: i ragazzi stavano tornando.
Alex trattenne a stento
una risata vedendo l'amica così eccitata, ma ogni traccia di
ilarità scomparve dal suo viso quando scorse una donna
osservarla oltre le fiamme del falò, al delimitare del
bosco.
Era interamente avvolta
da un pesante mantello di velluto verde e tutto ciò che
riusciva a scorgere del suo viso, nascosto dal cappuccio, erano le
guance incavate e le labbra stese in un sorriso enigmatico.
Alex si alzò
in piedi, con una mano sull'impugnatura del pugnale che teneva al
fianco, ma non appena fece un passo verso di lei Merlino
l'afferrò per un braccio e la travolse in un casquet grazie
a cui le strappò un bacio. Una volta tornata con entrambi i
piedi per terra, la donna era stata inghiottita dal buio penetrante del
bosco.
Aprì gli occhi di scatto e si tirò a sedere,
respirando affannosamente.
Quindi guardò il braccialetto di Morgana, abbandonato sul
comodino prima che si coricasse, e si sporse per poterselo infilare di
nuovo al polso. Lei e il suo stupido orgoglio: aveva permesso a Freya
di insinuare il dubbio nella sua mente e ora non sapeva che cosa
pensare di quel sogno. Innanzitutto, era davvero un sogno? Oppure si
trattava di una visione? Comunque non c’era modo che potesse
scoprirlo prima del tempo e questo la faceva impazzire.
***
«Ehi, ti ho cercata dappertutto!».
Abby alzò a malapena il viso dal diario di Louise, ormai
alle ultime pagine.
«Cosa stai leggendo?».
«Mm-mm».
Mark sospirò e le prese il mento tra le dita per far
incrociare i loro sguardi e poi le loro labbra. La baciò
così dolcemente che Abigail, nonostante una prima
resistenza, fu costretta a cedere e a ricambiare, portandogli una mano
sul collo.
«Guarda che cosa devo fare per avere la tua
attenzione», mormorò il ragazzino quando si
scostò, la fronte ancora appoggiata alla sua.
«Dovresti farlo un po’ più
spesso», rispose Abby, rossa sulle guance.
Mark abbassò gli occhi, sorridendo, e poi le prese il diario
dalle mani, sfogliandolo velocemente. «Che
cos’è?».
«Dài, lascialo! È importante,
Mark!», urlò Abby, sporgendosi su di lui per
raggiungere con la punta delle dita il diario dalla copertina in pelle.
«Perché è importante?
Dimmelo».
«Non posso! Non è mio!».
«E allora di chi è?».
«Di mia madre!».
A quelle parole Mark si adombrò all’istante e
Abby, sollevandosi sulla propria sedia a rotelle, riuscì a
strappargli l’antico diario dalle mani. Sapeva di aver
giocato sporco – la carta dei genitori morti non la usava mai
– ma non poteva rischiare che il ragazzo che amava scoprisse
ciò che Merlino aveva nascosto per anni. O meglio dire
secoli.
«Mi dispiace, io… non lo sapevo».
Abby gli strinse la mano tanto forte quanto i sensi di colpa le stavano
stringendo il cuore. «Non fa niente»,
mormorò, prima di posargli un leggero bacio sulla guancia.
«Che ore sono?», gli chiese poi. «Stando
qui, ho perso la cognizione del tempo».
Mark guardò l’orologio che portava al polso.
«Quasi le quattro».
«Uhm, un po’ presto per la merenda ma…
andresti a prendermi qualcosa?».
«Sicuro. Mi aspetti qui?».
Abby annuì e si lasciò baciare ancora, poi lo
guardò sparire dietro l’angolo.
Sospirando, infilò il diario nella sacca che portava appesa
allo schienale della sedia a rotelle; poi fece il giro del porticato
vicino alla cappella e si portò sotto alla targa
commemorativa su cui erano segnati i nomi di tutti i medici, le
infermiere e i pazienti, la maggior parte soldati, che erano morti
durante il bombardamento che aveva raso al suolo l’ospedale
numero uno. Quasi a livello del pavimento era stato scritto in corsivo
che la costruzione del secondo ospedale era in loro memoria, un
ringraziamento per il sacrificio che avevano compiuto nel tentativo di
proteggere ciò che c’era di più
importante al mondo: la vita.
Il nome della sua bisnonna non c’era e Abby sapeva
perché si era salvata. Sapeva come quell’evento
tragico l’avesse portata a conoscere l’uomo che poi
avrebbe sposato e da cui avrebbe avuto due figli, Henry e Daisy, sua
nonna. Sapeva persino perché Louise aveva deciso di chiamare
la sua secondogenita come quel fiore di campo così comune,
il vero
motivo. Ma c’erano ancora tante cose che non sapeva, cose che
Louise aveva preferito custodire nel suo cuore, cose che lei a quel
punto non poteva ignorare. E c’era una sola persona che
avrebbe potuto illuminare i punti che le erano ancora oscuri di quella
storia d’amore tormentata e antica di diversi decenni:
Merlino.
***
Stava pensando così intensamente al sogno che aveva fatto,
per salvarsi dal tormento che gli occhi di Darrell le stavano causando,
che non sentì la voce di Artù chiamarla e nemmeno
i suoi passi dietro di lei. Si accorse della sua presenza solo quando
l’afferrò per una spalla: Alex si voltò
di scatto, in posizione difensiva, e oltre alla temporanea perdita
della vista sentì una fitta allo sterno.
«Alex, stai bene?», le chiese Artù,
apprensivo solo come lui sapeva esserlo, afferrandola per entrambe le
braccia per sostenerla.
L’infermiera si appoggiò allo steccato e dopo un
paio di respiri profondi tutto tornò alla
normalità, se così poteva definirsi.
Ciò che rimase di quella brutta esperienza furono solo la
paura, perché senza il bracciale di Morgana avrebbe lanciato
sicuramente – anche se involontariamente – un
incantesimo contro Artù, rischiando di ferirlo; e la
frustrazione, dato che le parole di Freya si rivelavano sempre
più veritiere e le bruciavano ancora come braci ardenti
sotto i piedi.
«Alexandra?», la chiamò nuovamente
Artù.
«Sì, sto bene, tranquillo».
Ben lungi da raggiungere quello stato, il solo ed unico re fece per
aprire la bocca e ribattere, ma Alex lo interruppe sul nascere
chiedendogli se avesse visto Merlino.
«Sì, non più di un quarto
d’ora fa era con tuo padre. Sembravano diretti verso casa
sua».
«Uhm, strano», commentò e
Artù annuì, affermando che era stato anche il suo
primo pensiero.
«Beh, ci vediamo più tardi», lo
liquidò poi, in fretta e furia, per dirigersi verso la
piccola dependance di suo padre, sul retro dell’agriturismo.
Lo sentì borbottare alle sue spalle, ma Alex non se ne
curò.
Non arrivò mai a bussare alla porta, dato che passando di
fronte alle stalle scorse due gambette secche sparire nella botola del
sottotetto, dove erano conservati il fieno e il cibo concentrato per i
cavalli.
Alex corse all’interno e salì velocemente i pioli
della scala fino a vedere Merlino chino su un sacchetto di fieno.
Sentì il cuore mancare un battito nel petto e si chiese cosa
mai avesse sentito per Darrell, uno sconosciuto che non le stava
nemmeno simpatico. Sì, ciò che aveva creduto di
vedere nei suoi occhi l’aveva affascinata, ma quello non era
niente in confronto a ciò che provava quando vedeva lo
stregone o stava tra le sue braccia. Quello per Merlino era amore, puro
ed inossidabile; Darrell poteva essere chiamato appena
un’attrazione fisica del momento. Allora perché si
sentiva così in colpa nei confronti del mago?
Si chiuse la botola alle spalle e Merlino trasalì a causa
del tonfo, ma si ritrovò ben presto a sorridere.
«Ehi, sei arrivata. Hai dormito?».
Alex non rispose, si limitò ad avvicinarsi a lui,
sbottonandosi la camicia, sotto cui portava solo un reggiseno a
balconcino. Quindi gli diede una spinta, tanto forte da fargli perdere
l’equilibrio, e una volta steso su diversi sacchi di fieno si
sistemò a cavalcioni su di lui, avventandosi famelica sulla
sua bocca.
Il mago, preso del tutto allo sprovvista, ci mise qualche secondo a
capire le sue intenzioni – gli furono del tutto chiare quando
iniziò ad armeggiare con la sua cintura – e fu
completamente inutile provare ad opporsi: nemmeno la paura di essere
colti in flagrante da suo padre la spaventava.
Alex si staccò solo per sciogliersi i capelli e liberarsi
dei jeans, ordinando: «Prendimi e basta, Merlino».
Però alla fine fu lei a prendere lui, tirandolo su seduto
con una mano tra i suoi capelli e facendo l’amore come non
aveva mai fatto prima: del tutto priva di dolcezza, quasi
rabbiosamente. Merlino non poteva saperlo, ma Alex ne ebbe abbastanza
solo quando gli occhi e le mani di Darrell non furono sostituiti da
quelli del mago, così come doveva essere.
***
«Ho voglia di una sigaretta», esclamò
qualche secondo dopo essersi sdraiata al suo fianco sul cumulo di
fieno. «Ne hai?».
Merlino ebbe solo la forza di scuotere il capo, ancora col fiato grosso
e i muscoli contratti. Sentì lo sguardo di Alex indugiare
sul profilo del suo volto accaldato, ma non lo ricambiò: era
troppo imbarazzante, oltre che frustrante.
«Mi dispiace», gli disse poco dopo, posando la
testa sul suo torace che sembrava sul punto di esplodere: il cuore gli
batteva così forte che già immaginava quando
l’avrebbe visto aprirsi un buco nel suo petto e volare via
roteando come un mini-elicottero.
«A volte mi dimentico della tua vera
età», concluse Alex, sospirando.
E quel sospiro fu ciò che più gli fece male: si
sentiva in colpa per essersene dimenticata oppure era semplicemente
triste che l’uomo che aveva accettato di sposare fosse in
realtà un vecchio decrepito incapace di soddisfare ogni suo
bisogno? In ogni caso, Merlino aveva predetto che prima o poi sarebbe
successo – e senza l’uso della Vista – e
la cosa insopportabile era che la parte peggiore di lui avrebbe voluto
canzonarla con un “Te l’avevo detto”.
«Questa mattina, al telefono, hai accennato al fatto che
avevi qualcosa da dirmi. Di che si tratta?», le
domandò allora il mago, ben deciso a cambiare argomento.
«Oh, sì». L’infermiera si mise
sul fianco, con una mano a tenerle la testa e il gomito puntato nel
sacco di fieno. «Ho una notizia buona e una cattiva. Quale
vuoi sentire prima?».
«La buona».
Il volto di Alex si illuminò di gioia, mentre urlava:
«Torno a lavorare in oncologia!».
«Ma è fantastico!». Anche Merlino non
poté rimanere impassibile alla notizia e preso
dall’entusiasmo si sporse per baciarla. Solo dopo gli
tornò alla mente che c’era anche una cattiva
notizia. Scostandosi un poco dal suo viso, le chiese:
«È tanto cattiva?».
Gli occhi verdi dell’infermiera si adombrarono e senza
prepararlo in alcun modo disse: «Gli esiti degli esami di
Abby hanno evidenziato una recidiva. L’unica sua speranza ora
è trovare in tempo un donatore compatibile e sarà
difficilissimo, visto che ha perso i genitori, non ha mai avuto
fratelli e sua nonna è troppo anziana anche solo per
provarci».
Merlino rimase in silenzio, senza sapere cosa dire, e lasciò
che Alex semplicemente si accucciasse nuovamente sul suo petto, la
testa proprio sotto il suo mento e i capelli che gli solleticavano lo
stomaco.
Mai prima di allora aveva immaginato ad un mondo senza Abigail Reed: la
sua voglia di vivere e il suo animo coraggioso non lo avevano mai fatto
dubitare del fatto che prima o poi avrebbe sconfitto la malattia e
avrebbe vissuto ancora molti anni felici.
Ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista e quanto lo
avesse profondamente colpito.
Gli bastò
varcare la soglia del Pronto Soccorso per rendersi conto del trambusto
nei pressi del bancone dell’accettazione. Subito
immaginò che qualcuno si fosse sentito male e che i curiosi
in sala d’aspetto fossero accorsi per vedere un po’
d’azione, ma tutto ciò che vide fu
un’elegante signora dai capelli bianchi circondata dalla
maggior parte delle infermiere di turno e da alcuni pazienti, tra cui
alcuni anche in vestaglia e con i trespoli della flebo appresso.
Impiegò
qualche secondo di troppo a riconoscerla, forse perché era
l'ultima persona che si sarebbe immaginato di incrociare di nuovo, ma
il suo cuore reagì pompandogli sangue infuocato nelle vene.
Per lui si trattava di
una donna che non meritava un briciolo della sua attenzione, ma per la
folla che la circondava era una specie di celebrità: Daisy
Chapman, autrice di romanzi rosa di successo. Il suo nome doveva aver
fatto il giro di tutto il Pronto Soccorso, attirando fans desiderosi di
accaparrarsi un autografo personalizzato.
La sua
notorietà era passata decisamente in primo piano, tanto che
nessuno si era chiesto perché si trovasse
all’interno di un Pronto Soccorso di un paesino dimenticato
da Dio. Stava male? Si era fermata a chiedere dove fosse
l’autofficina più vicina? A quanto pare Merlino
era l’unico a porsi quelle domande, ma non se ne
curò: se lei per prima preferiva firmare autografi piuttosto
che spiegare la sua presenza, meglio così; voleva dire che
non si trattava di un’emergenza.
Prese
l’ascensore e salì fino al quarto piano, dove si
trovava il reparto oncologico. Sapeva che Alex era di turno quel
pomeriggio e sperava tanto di incontrarla, di incrociare i suoi occhi
verdi mozzafiato anche solo per un istante. Era tutto ciò
che poteva sperare, specialmente ora che la sua storia con Keith
iniziava a sembrare seria.
«Te lo ripeto
ancora una volta, ragazzina: devi essere accompagnata da un adulto per
richiedere degli esami».
Merlino, attirato da
quella voce, fece una deviazione e passò per la sala
d’aspetto, dove trovò proprio Alex e una ragazzina
dal corpo esile e la pelle diafana, il volto incorniciato da una
cascata di capelli castani, dritti come spaghetti, e in cui erano
incastonati due occhi neri e lucenti come onici.
Il cuore di Merlino
saltò un battito, guardandola. Le somigliava così
tanto…
«E io le
ripeto che mia nonna, la mia tutrice legale, è al Pronto
Soccorso che firma autografi. Il suo nome è Daisy Chapman,
è una scrittrice piuttosto famosa».
«Mai sentita
nominare. Comunque, se è davvero come dici, devi chiederle
di salire e firmare alcuni moduli», continuò
imperterrita Alex e, accorgendosi della sua presenza, gli
lanciò un’occhiata con cui implorava aiuto.
«In effetti al
Pronto Soccorso c’è una specie di signing
session», si intromise il mago, attirando
l’attenzione della ragazzina. Ora che la vedeva meglio in
volto, gli risultò ancora più bella: doveva avere
dodici, al massimo tredici anni, eppure i suoi occhi erano
intelligenti, venati di tristezza ma anche pieni di vita e consapevoli
del grande dono che possedevano. Proprio come quelli della sua bisnonna.
«Sembra che ne
avrà per un bel po’», concluse,
ricambiando il grande sorriso che gli aveva rivolto.
Alex sbuffò
sonoramente e sorpassò entrambi, diretta verso il bancone
d’accettazione del piano. «Non ti ci mettere pure
tu, Merlino!», lo rimproverò. «Non posso
far eseguire degli esami ad un minore senza il consenso di un genitore
o di un tutore, lo sai!».
«Ci sono
volute settimane, prima che mia nonna accettasse di portarmi
qui», esclamò la ragazzina, correndole dietro, a
sua volta seguita da Merlino. «Lei non crede che io stia
male. Pensa che mi inventi tutto per farle trascorrere più
tempo con me, ma le assicuro che non mi sto inventando niente,
infermiera Greenwood!».
Alex si fermò
e si voltò per chiederle qualcosa, poi abbassò
gli occhi sul proprio badge, appeso alla tasca dell’uniforme,
e riprese a camminare fino a raggiungere il retro del bancone.
«Ho segnato
qui tutti i miei sintomi», riprese la ragazzina, tenace come
poche, picchiettando un dito sulla copertina di un piccolo diario
scolastico. «E mi sono anche documentata».
«Non si
possono fare le diagnosi su Internet, quand’è che
la gente capirà?», chiese Alex, più a
se stessa che ad altri, guardando però negli occhi lo
stregone, il cui cuore mancò un battito.
«Io penso di
avere una malattia al sangue».
A quelle parole, dette
con tono grave e una calma del tutto innaturale, sia Alex che Merlino
si irrigidirono. L’infermiera porse velocemente una mano e la
ragazzina le consegnò il diario. Dopo una veloce sfogliata,
Alex sollevò il capo e gli disse: «Porta su sua
nonna, dobbiamo farle fare subito gli esami».
La ragazzina sorrise
soddisfatta, dimentica per un attimo della gravità della
situazione, e guardò Merlino contrarre il volto in
un'espressione stizzita. Poi, dopo aver ricambiato a lungo il suo
sguardo profondo, i suoi lineamenti si rilassarono tanto da permettere
ad un sorriso di sbocciare sul suo volto. Quindi annuì con
un semplice cenno del capo e si avviò verso l'ascensore.
Prima che le porte si
chiudessero le fece una domanda di cui sapeva già la
risposta: «Come ti chiami?».
«Abigail Reed,
molto piacere. E tu sei Merlino, giusto? Come l’amico di re
Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda?».
Lo stregone si
lasciò scappare una risata e non fece in tempo a rispondere,
preceduto dal chiudersi delle porte dell’ascensore.
«Ho deciso di fare il test di
compatibilità», esclamò Alex,
riportandolo bruscamente al presente.
Merlino si sollevò sui gomiti e lei fu costretta a sollevare
il capo e guardarlo negli occhi.
«Come? Nel senso… sei sicura? Lo sai che le
probabilità che tu possa…».
«Lo so».
«Non voglio che tu rimanga delusa», aggiunse,
accarezzandole il volto.
L’infermiera abbozzò un sorriso. «Devo
provarci comunque. Capisci?».
«Sì, certo». Si sporse per posarle un
altro leggero bacio sulle labbra. «Ti amo».
«Anche io», sospirò, tornando ad
appoggiare l’orecchio sul suo petto, dove i battiti del suo
cuore erano tornati quasi normali.
Merlino infilò una mano nella tasca dei pantaloni per
sfiorare il cofanetto di velluto rosso che gli aveva dato il signor
Greenwood e sorrise, posandole un bacio tra i capelli.
«Io di più», mormorò e Alex
non rispose: si era addormentata.
***
«E adesso dove vai?», domandò un
Artù stizzito, guardandolo mentre si alzava in fretta e
furia dal tavolo della cucina, ancora con la bocca mezza piena, per
recuperare le chiavi dell’auto e la giacca.
Escludendo la conversazione in auto di quella mattina, avevano
scambiato sì e no due parole in tutta la giornata.
C’erano state delle volte, a Camelot, che avrebbe svuotato il
proprio forziere di monete d’oro per un po’ di
silenzio e di solitudine, ma da quando si era ritrovato catapultato in
quell’epoca non gli era ancora capitato e dubitava sarebbe
mai successo: si sentiva un estraneo, lontano da tutto ciò
che lo metteva a suo agio, e Merlino era l’unica persona con
cui riusciva ad essere pienamente se stesso. Senza di lui, la nostalgia
si faceva ancora più dolorosa e non riusciva più
a sopportarla, specialmente da quando era iniziata quella guerra fredda
con Cathleen.
«All’ospedale», rispose frettolosamente
Merlino.
«Bene, vengo anche io».
«No».
Artù si irrigidì, le mani strette in pugni sul
tavolo. «Cos’hai detto? Che vorrebbe dire
“no”?».
«Ho bisogno di parlare da solo con Abby»,
provò a dargli una spiegazione, ma il re non se la bevve:
c’era qualcosa sotto, poco ma sicuro.
«Non puoi dirmi cosa posso o non posso fare,
Merlino».
«No, avete ragione, ma dovrete trovare un metodo alternativo
per arrivare all’ospedale». Lo stregone fece
tintinnare le chiavi della propria Pininfarina di fronte al viso,
sorridendo smagliante.
«Ci vediamo più tardi!», urlò
ormai all’ingresso.
Artù rimase in cucina e ascoltò prima il tonfo
della porta, poi il motore scoppiettante dell’auto
d’epoca e la ghiaia dello sterrato scricchiolare sotto gli
pneumatici. Quando tornò a regnare il silenzio,
Artù afferrò il bordo della tovaglia e la
tirò rabbiosamente, facendo cadere a terra piatti, bicchieri
e posate, rendendo il pavimento un campo minato impraticabile. Subito
dopo si sentì in colpa, osservando i cocci e i frammenti di
vetro, perciò si passò le mani sul volto e
respirò profondamente, camminando sulle punte dei piedi per
uscire dalla cucina e recuperare la scopa dallo sgabuzzino.
Aveva appena incominciato ad ammucchiare tutto in un angolo, quando il
silenzio della sera e della campagna venne interrotto dal rombo di un
motore. L’avrebbe riconosciuto tra altri mille.
Col cuore in gola, Artù appoggiò il manico della
scopa sul frigorifero e raggiunse l’ingresso, quindi si
appoggiò con le spalle alla porta ed aspettò che
Cathleen suonasse il campanello.
Ci sarebbe rimasto così male, se non si fosse trattato di
lei! Ma le sue aspettative non furono deluse: il paramedico dai capelli
rossi era proprio lì, sotto la luce dell’ingresso,
bella come se la ricordava e anche di più.
«Disturbo?», gli domandò, accennando un
timido sorriso. Ed era così strano, perché lei e
la timidezza erano agli antipodi.
«No, io… Entra».
Si fece da parte per farla passare e poi chiuse la porta dietro di lei,
pensando a qualcosa di intelligente da dire. Fu allora che lo strano
comportamento di Merlino, incluso il perché non lo avesse
voluto portare con sé all’ospedale,
trovò un senso del tutto nuovo: lui sapeva della visita del
paramedico e aveva fatto in modo di lasciarli soli. Gli sarebbe costato
il doppio della fatica, ma la strigliata che aveva pianificato di
fargli fu sostituita da un discorso di ringraziamento.
«Pensavo fossi di turno questa sera»,
esclamò Artù, rompendo
quell’imbarazzante silenzio.
Cathleen scosse il capo e si lasciò cadere sul divano,
rispondendo: «No, sono di riposo. Mi hanno dato tre giorni di
fila, questa settimana».
Quindi si voltò a guardarlo e diede qualche pacca accanto a
lei, invitandolo silenziosamente a raggiungerla. Artù
deglutì e prendendo coraggio si sedette al suo fianco, anche
se decise di mantenere una certa distanza.
«Volevo scusarmi per quello che ho detto l’ultima
volta», esordì il paramedico, guardandosi le
unghie corte. «A volte… La maggior parte delle
volte, a dire il vero, non ho alcun filtro e dico cose di cui poi mi
pento. Non mi riferivo alla tua famiglia… come avrei potuto?
Non ho conosciuto i tuoi genitori, e anche se li avessi conosciuti non
starebbe a me giudicare…».
«Ehi», la interruppe, posando una mano sulle sue.
Cathleen sollevò di scatto il capo ed incrociò i
suoi occhi blu come il mare, rimanendone come sempre incantata.
Il sovrano accennò un sorriso, dicendo: «La mia
famiglia non era perfetta, anzi… mio padre aveva un sacco di
difetti e un problema serio con la magia, mia sorella è
diventata una strega pazza, rancorosa e senza un briciolo di
compassione… però era la mia famiglia e non si
può non voler bene alle persone con cui sei cresciuto;
sarebbe innaturale».
Cathleen non ribatté a parole, bensì con un
sorriso venato di tristezza. Poi strinse la sua mano ed
esclamò: «Non capita quasi mai che io abbia un
week-end libero, perciò, se non hai altri impegni, mi
piacerebbe trascorrerlo con te. Potremmo fare una gita fuori porta con
la moto».
Artù non si aspettava una proposta del genere e nonostante
avesse sognato di trascorrere del tempo da solo con lei, lontano dalla
casa di Merlino o da Alex, ci mise qualche secondo per rispondere che
sì, gli sarebbe piaciuto molto.
«Dove andremo?», le chiese subito dopo, divorato
dalla curiosità.
«È una sorpresa», sussurrò
Cathleen avvicinandosi al suo viso, tanto da sentire il suo respiro
alla menta e da scorgere il riflesso dei propri occhi nei suoi.
Il paramedico si accorse di aver invaso un po’ troppo il suo
spazio – Artù lo capì da come aveva
sgranato gli occhi e socchiuso le labbra – ma nessuno dei due
si mosse, come sotto gli effetti di un incantesimo.
Ad un tratto il re parve uscirne, ma solo per posarle una mano sulla
guancia ed annullare del tutto la distanza che lo separava dalla sua
bocca.
***
Darrell si riempì un bicchiere d’acqua e si
appoggiò allo stipite della porta della cucina, guardando
Freya seduta in un angolo del divano, con le gambe strette al petto e
il mento sulle ginocchia, gli occhi fissi sullo schermo della TV al
plasma.
«Freya», la chiamò, sospirando.
Non gli aveva più rivolto la parola da quando
l’avevano dimessa dall’ospedale, dopo gli esiti
infruttuosi dei test, ed erano tornati a casa. Continuava a pensare a
ciò che si erano detti prima della TAC, ma fino ad allora
Freya non si era comportata come se avesse voluto mettere in pratica le
sue parole: non aveva preparato i bagagli, non aveva fatto ricerche
sugli orari dell’autobus, non aveva controllato nessuna mappa
per decidere quale sarebbe stata la sua prossima meta. Darrell aveva il
presentimento che avrebbe architettato la propria fuga durante la
notte, mentre dormiva, e per questo sapeva che non sarebbe mai riuscito
a chiudere occhio. Ma non poteva nemmeno costringerla a rimanere
– sarebbe stato sequestro di persona –
né offrirsi di seguirla ovunque volesse andare –
sarebbe stato semplicemente da pazzi.
Ma è
così l’amore che riduce le persone, no? Le rende
pazze.
«Freya?», tentò di nuovo, alzando un
poco la voce.
«Uhm?», mugugnò lei, senza voltarsi.
Darrell si strofinò il viso con una mano, soffermandosi
sulla bocca. «Io vado a dormire, domani mattina mi devo
svegliare presto. Buonanotte».
Attese il silenzio per una dozzina di secondi, ma Freya non gli
rispose. Quindi decise di arrendersi e si chiuse in camera sua, dove
bevve il bicchiere d’acqua e si gettò sul letto,
programmando di fissare il soffitto per le prossime ore che lo
separavano dal suono della sveglia.
***
Merlino sorrise, gli occhi rivolti verso la strada illuminata dai fari
dell’auto ma la mente verso Cathleen e Artù,
probabilmente sulla via della riappacificazione.
Parcheggiò nel primo posto libero che trovò di
fronte all’ospedale e varcò le porte scorrevoli
del Pronto Soccorso. Salutò un paio di infermieri e poi
chiese se sapevano dove fosse Alex al momento; gli indicarono la sala
relax e fu proprio lì che la trovò, intenta a
versarsi la prima tazza di caffè della nottata.
Non le aveva ancora detto che il signor Greenwood aveva intenzione di
vendere il cavallo nero che tanto le piaceva, ma quella sera, prima di
cena, gli era venuta in mente un’idea che forse avrebbe fatto
felici tutti quanti.
Si avvicinò di soppiatto e una volta alle sue spalle
l’abbracciò, posandole una serie di baci sul
collo, a cui lei rispose prima con un sobbalzo e poi una risata.
«Merlino, sei pazzo? Mi hai spaventata!».
«Oh, perdonatemi mia signora… sono
desolato».
Alex gli posò una mano sulla testa, afferrandolo per i
capelli, e gettò del tutto il capo all’indietro
per offrirgli meglio il proprio collo. «Non ti fermare,
è un ordine», ansimò.
Merlino alternò i baci a dei piccoli morsi, passando dalla
nuca al lobo dell’orecchio destro. Le percorse le braccia con
le mani e una volta giunto alle spalle le fece scivolare sul suo seno,
per poi scostarsi per grande disappunto di Alex.
«Ehi, non ci si comporta così!», lo
rimproverò l’infermiera, lanciandogli
un’occhiataccia.
Merlino sogghignò, aprendo la porta della sala relax.
«Lo sai che avremo tutto il week-end per noi? Se tutto va per
il verso giusto, Cathleen e Artù faranno una gita fuori
porta».
«Dici sul serio?».
Il mago annuì e rise quando Alex gli corse incontro per
gettargli le braccia al collo e baciarlo sulle labbra.
«Ma è fantastico! Potremo finalmente pianificare
un po’ di dettagli del matrimonio senza venire
interrotti!», esclamò, eccitata.
«Non è quello che immaginavo io, ma sì,
potremo fare anche questo».
Alex gli tirò un pugnetto sul braccio e poi, con aria
maliziosa, gli sussurrò all’orecchio:
«Potremo dormire insieme una notte intera, senza paura di
essere importunati».
Merlino si scostò per guardarla negli occhi e accarezzarle
il viso. «Ehi, se sarà come oggi pomeriggio temo
che dovrò pagare qualcuno per compilarmi una
ricetta».
«Una ricetta per cosa?».
«Pillole blu».
«Stupido!».
L’infermiera quella volta lo picchiò
più forte, facendolo scappare fuori dalla stanza relax.
Merlino si voltò indietro per farle vedere che stava ridendo
e Alex lo imitò, anche se con minor convinzione.
***
Freya rimase in ascolto dietro la porta per qualche secondo, poi
posò la mano sul pomello e lo girò lentamente, ma
la serratura oppose resistenza.
La custode abbozzò un sorriso, pensando che nonostante
ciò che le aveva detto in ospedale, Darrell dubitava ancora
delle sue intenzioni. E se l’avesse vista in quel momento,
furtiva come una ladra, si sarebbe dato ragione da solo.
« Aliese»,
bisbigliò e i suoi occhi brillarono d’oro mentre
la serratura interna ruotava silenziosamente. Grazie a quel trucco, fu
facile entrare nella camera da letto di Darrell. Peccato che il
poliziotto era ancora sveglio e sollevò di scatto le
palpebre quando avvertì la sua presenza sulla soglia.
«Ehi, mi hai spaventato. È successo
qualcosa?».
Freya sorrise timidamente, stringendo più saldamente il
manico del pugnale che teneva nascosto dietro la schiena.
«Non riesco ad addormentarmi e ho pensato…
scusami, è una cosa stupida, non sarei mai dovuta venire a
disturbarti».
«No… dimmelo», la fermò
Darrell, sollevandosi sui gomiti.
«Mi chiedevo se potessi… insomma, stendermi con te
per un po’».
L’agente, colto alla sprovvista, boccheggiò
qualche secondo. Poi si guardò intorno e disse:
«Non ci vedo nulla di male, in fondo. Forza, vieni».
Freya sospirò di sollievo e lo raggiunse a letto,
infilandosi sotto le lenzuola.
Il silenzio regnò sovrano per interi minuti, entrambi troppo
spaventati per interromperlo, gli occhi fissi sul soffitto candido.
Alla fine fu Darrell a parlare per primo, quando anche Freya si era
ormai decisa a fare la sua mossa.
«Non voglio che tu te ne vada per colpa mia»,
mormorò, le dita delle mani intrecciate sullo sterno.
Freya si girò sul fianco, così da guardare il
profilo del suo viso, e rispose con un leggero sorriso sul volto.
«Non me ne andrò».
«Hai… hai cambiato idea?», le chiese
l’agente, fissandola a sua volta.
La custode scosse il capo, gli occhi lucidi. «No, voglio dire
che sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada, e che una
parte di te vivrà in me; la custodirò e nessuno
potrà farti del male, te lo prometto».
Un sorriso quasi derisorio fece la propria comparsa sulle labbra di
Darrell, il quale esclamò, divertito quanto scettico:
«Che cosa stai dicendo, Freya? Non ha alcun senso».
Lei però si limitò a sorridere e gli
accarezzò una guancia. «Te lo prometto»,
sussurrò di nuovo e quando i suoi occhi si tinsero
nuovamente d’oro Darrell aprì la bocca per urlare,
ma il sonno lo catturò prima, facendogli sentire la testa e
le palpebre talmente pesanti da crollare inerme sul letto.
Freya si alzò lentamente e fece il giro del letto,
osservandolo dall’alto, per poi chinarsi nuovamente su di lui
e baciarlo sulla fronte, ringraziandolo per tutto ciò che
aveva fatto per lei. E quello che stava per fare ne era la prova.
Impugnò il coltello e lo sollevò a
mezz’aria, iniziando a recitare un incantesimo antico e
potente, tanto che poco lontano da quell’appartamento, al
centro di Avalon, la terra iniziò a tremare
impercettibilmente.
Al culmine del rituale, Freya piegò all’indietro
la testa ed abbassò il pugnale, ferendosi
l’avambraccio. Scossa dai tremiti dovuti alla potente magia
utilizzata e al dolore, si tenne il braccio ferito mentre girava
intorno al corpo immobile di Darrell, formando una specie di cerchio
color cremisi intorno a lui.
Riprese a recitare le intricate formule dell’incantesimo
quando completò il cerchio e concluse il tutto facendo
cadere alcune gocce di sangue sulle labbra dell’agente. In
quell’istante un’accecante luce azzurra
circondò sia Darrell che Freya, per poi intrecciarsi ed
insinuarsi nei loro corpi, scuotendoli come se fossero in preda alle
convulsioni.
Quando finalmente la luce si spense, appena qualche secondo dopo, non
c’era più traccia del sangue versato da Freya e
anche la ferita sul suo braccio era sparita.
Un fulmine si schiantò sull’isola al centro di
Avalon e contemporaneamente la custode cadde a terra priva di sensi.
***
Merlino fu costretto ad addossarsi alla parete del corridoio per non
cadere a terra, scosso dai sudori freddi. Con gli occhi sgranati, si
chiese cosa diavolo fosse accaduto.
Un’infermiera di passaggio si fermò al suo fianco
e gli chiese se stesse bene. Il mago rispose che era tutto okay e la
ringraziò, quindi si concentrò sul proprio
respiro e lentamente i battiti del suo cuore tornarono regolari, ma la
preoccupazione che fosse appena successo qualcosa di grosso rimase.
Quando si fu calmato a sufficienza, raggiunse la stanza di Abigail e
sbirciò attraverso le vetrate, ringraziando il cielo che
l’avesse trovata sola in camera; quindi bussò alla
porta. La ragazzina sollevò il capo da ciò che
stava leggendo e gli fece segno di entrare.
Si rese subito conto che qualcosa non andava: i suoi occhi sembravano
di pietra e non lo perdevano di vista un secondo; il suo tono di voce
era freddo e distaccato, come se stesse parlando con un estraneo.
«È tutto okay?», le domandò,
prima di rendersi conto della pessima domanda. «Scusami, non
volevo».
«Alex te l’ha detto, eh? Una bella
sfortuna».
Lo stregone si sedette al suo fianco e le prese una mano, sorridendo
incoraggiante. «Non ti farti abbattere, Abby. Non
è tutto perduto».
«Senti, ti ringrazio, ma non ho voglia di
parlarne», disse ad occhi chiusi, prima di posare quello che
aveva pensato erroneamente fosse un libro sul comodino. Non lo era, non
lo era affatto.
Provò ad ignorare la coincidenza, a dirsi che
c’erano mille quaderni con la custodia di pelle come quello,
ma gli appunti di Hala continuavano a tornargli alla mente, facendo
aumentare il battito del suo cuore, e nemmeno stringere il cofanetto di
velluto rosso che era andato a mostrarle gli impedì di
domandarle tutto d’un fiato: «Dove l’hai
preso quello?».
«Me l’ha dato Baqi», rispose con
tranquillità Abby, gettando un’occhiata al diario.
«Vuoi sapere dove l’ha trovato?».
Merlino non dovette nemmeno annuire per avere la risposta.
«Nella soffitta di mia nonna, tra le cose di cui voleva
disfarsi. È il diario della mia bisnonna, Louise
McTrusty».
Sentendo di nuovo il suo nome, una ferita profonda si aprì
sul cuore di Merlino, che riprese a sanguinare dolorosamente. Ma il
mago strinse i denti ed abbozzò un sorriso, alzandosi dalla
sedia.
«Te la senti di ascoltare una storia? È da troppo
tempo che non ve ne leggo una. Vado a prendere il mio libro e a
radunare gli altri, ci metterò poco».
Era già alla porta, pronto a correre via nella notte per
rifugiarsi in qualche suo nascondiglio nel bosco, quando
sentì Abby esclamare alle sue spalle:
«Perché questa volta non te ne fai raccontare una
tu? Quella che ha scritto la mia bisnonna è veramente
bellissima, anche se un po’ strappalacrime.
Chissà, magari potresti anche riconoscerti nel
protagonista…».
Merlino inspirò profondamente e si voltò, gli
occhi che gli bruciavano a causa delle lacrime.
«Ecco che cosa faremo», esordì, cercando
di mantenere un tono di voce fermo. «Tu restituirai quel
diario a Baqi senza dirgli una parola, io mi dimenticherò di
questa conversazione ed entrambi non ritorneremo mai più
sull’argomento. Ci siamo capiti?».
Abby lo fissò a lungo, in silenzio, fino a quando una
lacrima non tracciò un solco inaspettato anche sulla sua
guancia. Allora si sporse nuovamente per prendere il diario e dopo
averne accarezzato la copertina con dita tremanti, se lo
portò al petto sussurrando: «Quindi sei davvero
tu. Tu sei Emrys».
Il mago non riuscì più a trattenere i singhiozzi
e barcollò fino al suo letto, dove si sedette. Abby lo
accolse tra le sue esili braccia e lasciò che piangesse
contro la sua spalla, liberandosi del dolore che aveva troppo a lungo
ignorato.
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Capitolo 24 *** 24. The secret sharer – Part I ***
24. The secret
sharer – Part I
«Se non fosse stato per la guerra, non avrei mai conosciuto
Louise», iniziò a raccontare Merlino, sdraiato
accanto ad Abby sul piccolo lettino.
«Ero stufo di starmene con le mani in mano, così
quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale mi sono
arruolato e sono partito con la Royal Navy Britannica per proteggere il
nostro Paese. Sin dall’inizio ho fatto parte
dell’equipaggio di diversi incrociatori da battaglia, fino a
quando non sono stato trasferito sulla Queen Mary: classe Lion, in
servizio nel Primo Squadrone, armata con otto cannoni da 343
millimetri, con un dislocamento di 27.200 tonnellate e una
velocità di ventotto nodi. Tutte cose molto importanti, ma
la più importante per me è che fu la nave su cui
conobbi James McTrusty».
«Il padre di Louise?», domandò Abby, con
gli occhi grandi pieni di curiosità. Merlino si
limitò ad annuire, abbassando le palpebre, e riprese il
racconto da dove lo aveva interrotto.
«Dormivamo uno accanto all’altro e
all’inizio non ci parlavamo nemmeno: entrambi riservati, con
troppi pensieri per la testa… Poi ci fu
quell’episodio, durante la distribuzione del rancio serale.
«James stava guardando la foto di sua moglie, come faceva
durante la maggior parte del poco tempo libero a nostra disposizione, e
il cuoco lo saltò. Quando se ne accorse, era ormai troppo
tardi e protestare non sarebbe servito a nulla, così io gli
diedi la mia porzione. Quando quella sera, prima di spegnere le luci,
mi chiese perché l’avessi fatto, gli ho risposto
che lui aveva qualcuno da cui tornare alla fine della guerra, al
contrario di me, e che non poteva permettersi di morire di fame.
«Ovviamente molti marinai avevano assistito
all’episodio e da allora iniziò a circolare la
voce che io fossi gay. Gli insulti volavano con le occhiate, tra un
tiro e l’altro di sigaretta, a mezza voce durante la
cena… A me non importava e nemmeno a James, il quale
iniziò a raccontarmi della sua famiglia, della sua casa e
della sua vita prima della guerra. Siamo diventati amici, soli in mezzo
a quelli che dovevano essere i nostri alleati. Eravamo in guerra su due
fronti, invece.
«Un giorno un marinaio con qualche legame con uno degli
ufficiali, un certo Brandon, fece una battuta di pessimo gusto senza
paura di poter essere sentito. In effetti i pettegolezzi erano giunti
persino al comandante, e nonostante essere omosessuale a quei tempi
fosse un reato, nessuno era intervenuto: in mare aperto, è
consigliato non dare ossigeno a piccoli fuochi perché per
quanto innocui possano sembrare, se alimentati possono distruggere ogni
cosa.
«Quel giorno feci l’errore di ribellarmi e
rispondere a tono alle accuse, dando del frocetto a Brandon, insinuando
che quell’ufficiale gli proteggesse il culo perché
ne voleva un po’ ogni sera, e quella stessa notte fui
trascinato fuori dal mio letto, legato ed imbavagliato e pestato a
sangue. Poi mi infilarono in uno sgabuzzino e con una siringa rubata
dall’infermeria mi iniettarono dell’aria nel
sangue».
Abby rabbrividì al suo fianco e Merlino si
domandò se non stesse esagerando con i particolari. In fondo
era stata lei a chiedergli che le raccontasse tutto, ogni cosa; stava
solo esaudendo il suo desiderio.
«Ero già bello che andato, quando James si
svegliò a causa di uno scossone improvviso, temendo che ci
stessero attaccando, e si accorse della mia assenza. Ovviamente venne
subito a cercarmi e mi trovò, ricoperto di lividi ed
escoriazioni, con la siringa ancora nel braccio. Pianse come solo un
amico piangerebbe per un altro, poi si alzò per andare a
dare l’allarme e fu allora che accadde – fu allora
che scoprì il mio segreto.
«I lividi lentamente scomparvero, le ferite si rimarginarono
lasciando solo delle cicatrici e le ossa tornarono al loro posto nel
mio corpo. Il mio cuore riprese a battere singhiozzando, come un motore
difettoso, e un respiro rantolante mi sfuggì dalle labbra
quando sollevai la testa per abbandonarla contro il muro alle mie
spalle. Quando aprii gli occhi ed incrociai quelli terrorizzati di
James, capii che avrei dovuto ucciderlo e poi nascondermi fino a quando
non avessi trovato un modo per andarmene dalla Queen Mary.
«Iniziai a chiedermi perché mi avesse trovato lui,
perché non qualcun’altro, qualcuno di cui non mi
importava un fico secco. Ucciderlo, rubandolo a sua moglie e
costringendo sua figlia a vivere senza un padre, mi avrebbe
perseguitato per il resto dei miei giorni, ma non ero sicuro che
avrebbe potuto mantenere un segreto così grande e non avevo
altre alternative».
«Non ci credo che tu l’abbia fatto. Non
l’hai fatto davvero, Merlino!», sussurrò
inorridita Abigail, il viso paonazzo e gli occhi lucidi.
Lo stregone si girò per la prima volta verso di lei e i loro
nasi quasi si sfiorarono, mentre si guardavano intensamente negli
occhi. Alla fine abbozzò un sorriso, mormorando:
«Non ce n’è stato bisogno».
Abby sospirò di sollievo, tornando a fissare il soffitto, e
così fece anche Merlino.
«Al terrore succedette l’incredulità e
poi ancora l’euforia. James era così contento che
fossi vivo che scoppiò a ridere, rischiando di svegliare
l’intero equipaggio, e mi abbracciò stretto. Ne
rimasi così sorpreso che abbandonai con sollievo
l’idea di ucciderlo, ma gli feci giurare solennemente che non
avrebbe detto nulla a nessuno. James giurò e così
inizio la nostra amicizia segreta.
«Venni accusato di essere un disertore e tutti sulla nave
avevano ricevuto l’ordine di spararmi a vista nel caso fossi
stato trovato, incluso Brandon e i suoi scagnozzi, i quali non erano
più riusciti a dormire sonni tranquilli da quando il mio
corpo era scomparso da quello sgabuzzino. James aveva sapientemente
messo in giro la voce che il mio fantasma, dopo aver buttato in mare il
corpo, aveva deciso di rimanere a bordo per dare la caccia a coloro che
mi avevano ucciso. E in effetti lo feci, sgattaiolando di notte fino ai
loro letti per rubare loro vestiti, scarpe, o lasciare dei regalini
dall’odore piuttosto indelebile.
«James era il mio compagno di avventure ormai e una volta
spente le luci riusciva sempre a raggiungermi nella sala caldaie o
ovunque mi nascondessi per portarmi qualcosa da mangiare, abbastanza da
non morire di nuovo. Mi raccontava ciò che succedeva ai
piani superiori, mi portava dei libri per passare il tempo, mi
aggiornava sull’andamento della battaglia, delle rotte che
prendevamo e ci facevamo un sacco di risate quando mi descriveva
l’aspetto sempre più sconvolto e spaventato di
Brandon e degli altri. In cambio, io gli raccontavo di me, del vero me:
della mia vita a Camelot, di Artù, della magia e di Morgana;
dei posti che avevo visto, delle mie morti più
spettacolari… Era l’unica persona a cui avessi
detto tanto di me, il primo migliore amico che avessi avuto dalla morte
di Artù, e quando lo persi… beh, fu
devastante».
Merlino si voltò nuovamente verso Abby e la ragazzina
ricambiò il suo sguardo, chiedendogli silenziosamente di
proseguire. Il mago però le domandò:
«Com’è il livello di istruzione qui in
ospedale?».
«Molto scarso direi», rispose, ridendo.
«Quindi presumo tu non sappia nulla della battaglia dello
Jutland».
Abby perse il sorriso e scosse gravemente il capo. Merlino si concesse
un grande respiro ed iniziò a spiegare: «Fu una
delle tante battaglie navali tra la flotta inglese e quella tedesca.
Alla fine furono gli Alleati a prevalere, ma le conseguenze furono
catastrofiche… Nel giro di due giorni – quanto
durò effettivamente lo scontro – morirono
più di ottomila uomini, di entrambe le fazioni».
«È tremendo», disse Abby, con un nodo a
stringerle la gola. «E… e
James…?».
«Sì», le rispose ancor prima che
concludesse la domanda. «È morto anche
James».
«Emrys! Emrys,
sono James!».
Merlino si
alzò quel tanto che bastò all’amico per
individuarlo nell’immenso locale caldaie e lo raggiunse di
corsa, col volto pallido e allo stesso tempo velato di sudore.
«C’è
qualcosa che non va? È successo qualcosa?», gli
chiese, posandogli una mano sulla spalla.
James annuì e
dopo aver respirato profondamente per calmare il proprio cuore
impazzito, spiegò: «È appena arrivato
l’ordine di puntare verso est alla massima
velocità».
«Sì,
poco fa ho notato un’improvvisa virata… Ma che
vuol dire?».
«Vuol dire che
domani a quest’ora potremmo essere morti».
Un silenzio pesante
cadde tra di loro, interrotto soltanto dagli sbuffi e dai rumori
meccanici dovuti a tutti gli strumenti presenti in quel locale in cui
il calore si appiccicava ai vestiti e ai capelli, rubando
l’aria ai polmoni.
«Pardon, io
potrei essere morto, perché tu ti risveglieresti dopo un
po’», si corresse James con una risatina nervosa,
togliendosi il cappello per passarsi le mani tra i capelli castani.
Alla fine Merlino lo
prese per le spalle e fissò gli occhi nei suoi:
«Smettila di dire idiozie e raccontami che cosa mi sono
perso».
James gli
spiegò allora che alla Stanza 40 – un ufficio di
decrittazione inglese – avevano decifrato un messaggio
proveniente dall’ammiragliato tedesco, individuando la
posizione di una delle flotte sotto il comando di Scheer.
«Stanno
navigando nelle acque dello stretto dello Skagerrak e Jellicoe ha
ordinato a tre squadre di navi di linea – tra cui anche noi
– di inchiodare e affrontare il nemico nello stretto.
Potremmo morire in uno scontro del genere, Emrys! Non
capisci?».
James si
lasciò allora andare alla lacrime, baciando più
volte la foto di sua moglie, e Merlino non osò dirgli di
smetterla, come non provò a dirgli che era sicuro che
sarebbe sopravvissuto. Come poteva promettergli una cosa del genere?
Rimase in silenzio al
suo fianco per quelle che gli sembrarono ore, fino a quando la sirena
che scoccava la mezzanotte non squarciò l’aria,
ordinando a tutti i marinai di raggiungere le proprie brande per la
notte.
James si ricompose e gli
sorrise, scusandosi per il suo comportamento infantile. Quindi gli
augurò la buonanotte e gli promise che si sarebbero rivisti
il giorno successivo.
Il suo amico, come gli
piaceva ricordare spesso scherzando col proprio cognome, era uno di cui
ci si poteva fidare e manteneva sempre le promesse. E Merlino attese
con ansia il suo arrivo, tanta che iniziò a provare della
delusione quando non lo vide nemmeno durante la pausa pranzo. Ma non
avrebbe mai dovuto dubitare di James e se ne convinse quando lo vide
entrare di corsa in sala macchine e stringerlo nel loro secondo
abbraccio, forte come quello che gli aveva dato dopo averlo visto
risorgere ma dovuto quella volta alla paura, anziché alla
gioia.
Erano ancora
l’uno nelle braccia dell’altro, quando si
udì il primo colpo di cannone, in grado di far tremare loro
le ossa.
Frettolosamente James
infilò le mani sotto la casacca nera dell’uniforme
ed estrasse la scatoletta di metallo in cui aveva conservato la foto
della moglie e la collanina che lei gli aveva dato come atto di fede,
promessa che presto o tardi sarebbe tornato a casa per rimettergliela
al collo: una catenina d’oro con un piccolo crocifisso come
ciondolo. Quante volte aveva sentito James pregare ad occhi chiusi,
tenendola stretta nel pugno vicino al cuore? E ora la stava consegnando
a lui.
«Assolutamente
no», si rifiutò, allontanandola con una mano.
«Senti, io per
primo vorrei rimanere in vita e rivedere la mia famiglia, ma metti caso
che non ce la faccia… Chi si prenderà cura di
loro?».
«Non io,
James! Sai che non posso farlo!».
Il secondo e poi il
terzo colpo di cannone vennero sparati, anche se quella volta da
più lontano. La battaglia stava per infuriare.
James gli prese una mano
e gliela strinse con forza intorno alla scatoletta nera, guardandolo
negli occhi con intensità: «Ti supplico, Emrys. Se
sei davvero mio amico, promettimi che lo farai».
Merlino
respirò profondamente e finalmente annuì con un
cenno del capo. «Te lo prometto, James. Ma non ce ne
sarà bisogno: tua moglie e tua figlia dovranno sopportare la
vista del tuo brutto muso fino a quando non avrai
novant’anni».
James, nonostante gli
occhi lucidi, sorrise e lo abbracciò di nuovo, proprio
mentre l’ennesimo colpo sembrava averli mancati per un
soffio.
Si salutarono in
silenzio, scambiandosi solo un’occhiata, senza sapere che
sarebbe stata l’ultima.
«Un’ora dopo il nostro incontro, la Queen Mary
è stata colpita. Mi sono precipitato subito sul ponte,
conscio del fatto che nessuno si sarebbe preoccupato di me sotto
attacco, e il mio cuore ha smesso per un attimo di battere quando ho
visto il fumo salire nero e denso dalla torre Q. Lì
c’era James. Dalla mia posizione non riuscivo a capire quale
dei due cannoni fosse stato messo fuori uso e comunque poteva anche
essere che nell’esplosione entrambi i marinai fossero stati
uccisi. Ho avuto qualche speranza quando il cannone di sinistra, il
cannone di James, riprese a sparare contro la Seydlitz.
«Iniziai a correre a più non posso verso la torre
Q: se quelli dovevano essere i nostri ultimi istanti, volevo
trascorrerli con il mio amico. Intanto la nave tedesca continuava a
rispondere al fuoco e furono quasi colpite le torri a prua. Ero quasi
sotto la torre, quando qualcuno si mise sulla mia strada:
Brandon».
«Non ci credo», sussurrò Abby scioccata,
proprio come se stesse guardando un film appassionante e pieno
d’azione.
«Per colpa sua, dei suoi “Ma io ti ho controllato
il polso!”, “Tu eri morto!”,
“Com’è possibile?”, la torre Q
venne colpita di nuovo e crollò prima che io potessi
raggiungere James. Successivamente ci fu un incendio e prima che ne
accorgessimo la nave si inclinò ed affondò. A
quel punto feci l’unica cosa sensata: presi Brandon per il
braccio e lo buttai in mare, per poi seguirlo a ruota.
«Furono pochi i marinai della Queen Mary che si salvarono e
io e Brandon fummo tra questi fortunati, anche se venimmo pescati da
una nave nemica. Ci catturarono, ci torturarono e, cosa peggiore di
tutte, io e lui fummo tenuti rinchiusi nella stessa minuscola cella.
Brandon non fece altro che scusarsi e piangere, ammettendo che era
davvero lui l’omosessuale, e ad un certo punto rischiai anche
di ucciderlo. Ero lì, con le mani intorno al suo collo, e il
suo volto era così rosso da sembrare
un’aragosta… Ma alla fine ho pensato a James, a
quello che avrebbe detto se mi avesse visto, e l’ho lasciato
andare».
«E alla fine come sei tornato in Inghilterra? Come hai
mantenuto la promessa?», gli chiese Abby, che ormai pendeva
dalle sue labbra.
«Ho aspettato e aspettato, ascoltando le conversazioni delle
guardie tedesche – ignare che io conoscessi la loro lingua,
– fino a quando non ho capito che eravamo abbastanza vicini
alla terra ferma da riuscire a scappare con una scialuppa di
salvataggio. Ed è quello che ho fatto, alla fine».
«Lo racconti come se fosse stato facile»,
esclamò Abby, ridendo.
Merlino rise a sua volta. «Ho fatto cose molto più
difficili nella mia lunga vita: scappare dai crucchi è stata
una passeggiata, in confronto».
Rimasero entrambi in silenzio per un po’, ripensando a quel
passato incredibilmente lontano eppure vicinissimo.
Abby si chiese quante altre storie del genere avesse collezionato
Merlino in più di millequattrocento anni e quante sarebbero
rimaste celate al mondo per sempre. Le dispiaceva che il mago non ne
avesse mai parlato con nessuno prima d’ora e soprattutto che
lei, a cui avrebbe fatto così piacere, non avesse il tempo
necessario ad ascoltarle tutte.
«Quanti anni aveva Louise quando l’hai incontrata
per la prima volta?», gli domandò ad un tratto,
allontanando la tristezza.
Merlino abbozzò un sorriso e sollevò una mano,
col pollice nascosto dietro il palmo ad indicare la sua età.
«Sono tornato in Galles una volta finita la guerra, nel
novembre del 1918, ma ci ho messo qualche altro mese per prendere
coraggio e trovare la famiglia di James. Sapevo che sua moglie era
già stata informata della sua morte, ma non ero sicuro che
vedere un suo compagno d’armi le avrebbe fatto
bene… Poi, quasi due anni dopo che me l’aveva
affidata, ho deciso di aprire la scatola col suo nome inciso sopra:
dentro ci trovai la collanina, ma non la foto di sua moglie.
Probabilmente aveva deciso di tenerla vicina al cuore, nel caso fosse
morto. C’erano anche due lettere: una per sua moglie e
l’altra per sua figlia, entrambe scritte lo stesso giorno
della sua morte, il 31 maggio 1916. Le lessi e fu come risentire la
voce di James, come averlo di nuovo vicino, e capii che non potevo
tradire la sua fiducia non mantenendo la promessa. Così sono
andato a Cardiff e dopo qualche settimane di ricerche finalmente le ho
trovate.
«Louise aveva solo quattro anni, ma di carattere era
già identica a suo padre, mentre da sua madre aveva preso la
bellezza. Fu strano presentarmi a loro, raccontare alla signora
McTrusty del tempo trascorso con suo marito e ciò che
avevamo fatto l’uno per l’altro… ma mi
sono sentito sollevato, meno in colpa. E decisi che avrei aiutato e
protetto Louise in ogni modo. Mi trasferii in una minuscola casa non
molto lontana dalla loro ed iniziai a lavorare in una nuova fabbrica,
spendendo ogni attimo del mio tempo libero con la famiglia di James.
«Nella lettera diretta alla moglie le aveva spiegato che mi
aveva scucito una promessa e che doveva lasciarmi fare,
perciò non trovò inappropriato che un uomo della
mia età si fosse avvicinato tanto alla figlia piccola.
Però la gente sì, lo vedeva come una specie di
scandalo, e Edith – si chiamava così la moglie di
James – per il bene della figlia, che si era affezionata a me
come un padre, mi chiese di sposarla. Allora capii che ero andato
troppo oltre e che era giunto il momento di cambiare tattica: avrei
sempre tenuto un occhio sulla famiglia McTrusty, ma da lontano.
«Fu difficile separarmi da quella che avevo iniziato a
ritenere la mia famiglia, ma mi costrinsi ad abituarmici dicendo che
era per il loro bene».
Abby si tirò seduta sul letto ed incrociò le
gambe, guardandolo con una mano sotto il mento, impaziente di ascoltare
dell’altro. Gli chiese: «E quando hai rivisto
Louise? All’ospedale in cui lavoravate?».
«No, quello successe molto tempo dopo. Fu al funerale di
Edith. Non pensavo mi avrebbe riconosciuto, aveva solo cinque anni e
mezzo quando me ne andai ed incominciai a seguire la sua crescita da
lontano, ad inviare soldi a sua madre perché le comprasse i
vestiti più belli e la facesse studiare nelle scuole
migliori. Quando Edith morì ne aveva sedici ed era ancora
più bella. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo,
uno soltanto, e realizzai che lei ricordava chi fossi. Non a caso mi
rincorse, una volta concluso il funerale, prima di andare via con sua
zia, e la prima cosa che mi chiese fu come facessi a non essere
invecchiato di un giorno da quando mi aveva visto l’ultima
volta. Mi ricordava così tanto suo padre che decisi subito
di rivelarle il mio segreto e lei mi credette, senza se e senza ma.
Sorrise e mi salutò con un bacio sulla guancia, molto
impudicamente, poi tornò da sua zia, da cui si
trasferì, in una piccola cittadina a qualche chilometro
dall’ospedale che sorgeva in aperta campagna».
«Quello che sorgeva proprio qui, prima di questo»,
disse Abby, sorridendo smagliante.
«Esatto. Cambiai identità e la storia del mio
passato – com’era facile, allora – ed
ottenni facilmente un posto all’ospedale, mentre Louise
terminò gli studi per poi iniziare un corso da infermiera,
spinta da sua zia.
«Ci scrivemmo centinaia di lettere in quel periodo, ma ci
incontrammo anche molte volte, nel cuore della notte. Guardavamo il
cielo, ci raccontavamo le nostre giornate, i nostri sogni e le nostre
speranze per il futuro… E il mio affetto per lei cresceva a
dismisura: era la figlia che non avrei mai avuto, la mia migliore amica
e poi, lentamente, il mio primo grande amore dopo secoli di solitudine.
Sapevamo tutto l’uno dell’altro ed era
così bello… Parlare con lei, stare al suo fianco
era… liberatorio. Ma anche un macigno che sentivo pesarmi
sul cuore nei momenti più impensabili: sapevo che prima o
poi sarebbe arrivato il giorno in cui lei non ci sarebbe più
stata e io non sarei più riuscito a vivere, eppure non
riuscivo mai a lasciarla andare».
«Tanto che è stata lei a lasciarti, alla
fine», concluse Abby per lui, riprendendo tra le mani il
diario della sua bisnonna.
Merlino annuì e sospirò, portandosi le mani
dietro la nuca e chiudendo gli occhi alle lacrime.
«All’inizio della Seconda Guerra Mondiale. A causa
della guerra l’ho incontrata, a causa della guerra
l’ho persa», mormorò con la voce intrisa
di malinconia.
«Non è vero, non l’hai mai persa. Lei ti
ha sempre amato, Merlino. È vero, amava anche suo marito, ma
tu sei stato il suo primo amore, la sua anima gemella… Non
avrebbe mai potuto dimenticarti. Altrimenti perché avrebbe
ascoltato la tua voce in sogno, quella che l’ha avvertita del
bombardamento dell’ospedale? Si è fidata tanto da
provare a salvare i colleghi e i pazienti, ma tutti le hanno dato della
pazza e lei è corsa via, da sola, nel bosco, giusto un
momento prima che le bombe facessero saltare in aria tutto quanto.
È stata l’unica sopravvissuta, grazie a te. Tu non
hai mai smesso di proteggerla e lei non ha mai smesso di pensare a
te».
Abby fece una pausa, sfogliando le pagine ingiallite su cui la sua
bisnonna aveva raccolto tutte le memorie di una vita, a partire da
quando le loro strade si erano separate. Più che un diario
sembrava una lunghissima lettera scritta nel corso di settimane, forse
mesi, nella speranza che un giorno Emrys – Louise aveva
iniziato proprio con “Caro Emrys” – lo
trovasse. Voleva fargli sapere che nonostante tutto aveva vissuto una
bella vita e lo doveva totalmente a lui.
«Lo sai che ha chiamato mia nonna Daisy perché
quando lavoravate all’ospedale tu ogni mattina le andavi a
raccogliere delle margherite e gliele posavi sul comodino?»,
gli chiese sorridendo, con gli occhi ancora sulle pagine
dall’inchiostro in molti punti sbavato, come se fosse stato
bagnato.
Merlino sorrise e subito dopo si sollevò, dandole le spalle.
Si puntellò sul materasso, ma non si alzò, come
se volesse aggiungere dell’altro ma non sapesse se fosse
giusto o meno.
«Che cosa c’è?», lo
incalzò Abby, chiudendo il diario.
«Non l’hai capito?». Merlino si
voltò di tre quarti e posò delicatamente una mano
sulla copertina in pelle. Aveva gli occhi più lucidi ed
arrossati che mai e le sue labbra tremavano, di nuovo sul punto di
scoppiare in singhiozzi. «Secondo te come ho fatto a
riconoscerlo?».
Abby aprì la bocca, quando un’idea le
attraversò la mente, facendole sgranare gli occhi.
Scioccata, ci mise qualche secondo a mettere in fila una parola dietro
l’altra per comporre una frase di senso compiuto:
«Tu sei andato a trovarla prima che morisse in
quell’ospizio».
Merlino annuì soltanto e tirò su col naso. Poi si
alzò e si diresse verso la porta, dove si
aggrappò allo stipite e le disse: «Non scherzavo,
quando ho detto che uccidevo chi scopriva il mio segreto e non era
intenzionato a mantenerlo. Vedi di tenere sotto controllo Hala e Baqi,
stanno facendo troppe domande».
Abby deglutì e non disse una parola, inorridita
dall’immagine di Merlino, il suo dolce ed impacciato Merlino,
che uccideva qualcuno a sangue freddo. Rialzò gli occhi e
lui non c’era già più, sostituito da
Mark sulla propria carrozzina, che le chiedeva se aveva voglia di fare
un giro. La ragazzina accettò, desiderosa di un
po’ d’aria fresca per tornare alla
realtà.
***
Artù era così felice che le cose che tra lui e
Cathleen fossero tornate alla normalità che non vedeva
l’ora che Merlino tornasse per raccontargli tutto. E poi
aveva bisogno di una mano per preparare il bagaglio da portare via la
mattina seguente: il paramedico gli aveva detto solo che sarebbero
stati via per il week-end, ma non aveva voluto rivelargli dove lo
avrebbero trascorso. A conti fatti al sovrano non importava molto:
tutto quello che desiderava era stare con Cathleen, conoscerla ancora
meglio e vivere un po’ la vita, come se non ci fosse alcun
destino da portare a termine, nessuna preoccupazione, nessun ricordo
triste.
Seduto nella veranda che dava sul giardino sul retro, guardava il cielo
punteggiato di stelle e pensava alla sua vecchia vita, così
diversa da quella parentesi, quella seconda chance che forse un giorno,
chissà, avrebbe apprezzato ancor di più della
prima.
Ad un tratto sentì il motore della Pininfarina in
avvicinamento e poco dopo lo scricchiolio degli pneumatici sullo
sterrato. I fari illuminarono parte del giardino, allungando le ombre
dei manichini mutilati e del rudimentale stendi abiti e poi Merlino
parcheggiò proprio di fronte alle porte chiuse del vecchio
fienile. Spense il motore e il silenzio tornò a regnare
nella campagna, reso ancora più piacevole dai grilli e dai
gufi nel bosco, usciti allo scoperto per cacciare.
Artù attese che Merlino scendesse dall’auto e lo
raggiungesse, ma non lo fece. Con la fronte corrugata e la
curiosità di un bambino, si alzò dalla sedia e
con cautela si avvicinò all’auto. Ad un paio di
metri dalla portiera iniziò a sentire dei singhiozzi e
sforzandosi di vedere in quell’oscurità, aiutato
dalla luce della luna, tutto ebbe un senso: Merlino non scendeva
dall’auto perché stava piangendo, col viso
nascosto tra le braccia posate sul volante, mentre tra le mani
stringeva una collanina con una croce che Artù aveva
già visto. Avvicinandosi ulteriormente, nonostante il groppo
alla gola, il re vide sul suo grembo la scatoletta di metallo che lui
stesso aveva tirato fuori dalla soffitta, qualche tempo prima.
Non riusciva a vedere il suo unico e migliore amico in quello stato,
così aprì bruscamente la portiera e lo
tirò fuori dall’auto prendendolo per la giacca.
«Riprenditi», bofonchiò, sorreggendolo
tra il proprio corpo e la fiancata dell’auto. «Fai
l’uomo, Merlino!».
Ma lo stregone reagì istintivamente e la magia prese il
sopravvento, permettendogli di scaraventarlo a qualche metro di
distanza. Artù, dolorante, rimase a terra per una dozzina di
secondi, guardando il cielo che ora sembrava girargli intorno come una
trottola. Quando quel movimento nauseante si placò, si
sollevò sui gomiti e vide Merlino inginocchiato a terra,
intento a raccogliere ciò che gli era caduto
nell’erba: la scatola di James, l’ultima lettera
dell’uomo a sua figlia, la fotografia in bianco e nero di
Louise e la sua ultima lettera, indirizzata proprio a lui, a Emrys.
Senza smettere di singhiozzare, anche se meno vistosamente,
infilò tutto nella scatola e se la portò al
petto. Quindi si risollevò, barcollando e tirando su col
naso, e guardò Artù per la prima volta negli
occhi, furiosamente.
«Andatelo a dire a qualcun altro, che piangere non
è da veri uomini», berciò prima di
superarlo, diretto verso la veranda.
«Merlino… Cercavo solo di aiutarti!»,
gli gridò dietro il sovrano, finalmente seduto
sull’erba umida.
«Non ho bisogno del vostro aiuto!», fece in tempo a
rispondere, prima che un violento attacco di tosse gli squassasse la
schiena e lo facesse ruzzolare sulle scale, il corpo rannicchiato in
posizione fetale e in preda a delle terribili convulsioni.
Artù lo raggiunse correndo e provò a sollevarlo,
ma Merlino si oppose con tutte le forze che gli rimanevano.
L’unica cosa che riuscì a fare fu girarlo e
rendersi conto del sangue gli usciva dalle narici e da un angolo della
bocca, macchiandogli il maglioncino, e della botta che aveva preso alla
fronte.
«Merlino, devo portarti in casa», provò
a farlo collaborare, ma lo stregone scosse il capo ed
abbozzò un sorriso, gli occhi vacui e patinati dal dolore
rivolti verso il cielo.
«Voglio stare qui, voglio guardare il cielo fino al sorgere
del sole, come facevo con Louise. La mia Louise…».
Riprese a piangere, singhiozzando piano tra le sue braccia, e
Artù sospirò con la morte nel cuore, le lacrime
che rischiavano di bagnare anche i suoi occhi.
«I suoi figli l’hanno messa in
quell’ospizio quando si è ammalata», gli
raccontò, incurante che lo ascoltasse o meno.
«L’hanno abbandonata come un cane
sull’autostrada e raramente passavano a trovarla…
Io ho trascorso con lei gli ultimi anni, quando la malattia le impediva
di alzarsi dal letto e gli antidolorifici le impedivano di ricordare
chiaramente ciò che voleva scrivere sul suo diario. Io
l’ho aiutata, perché mi informavo sul suo conto
regolarmente e sapevo molte cose.
«Ero con lei quando è morta… Le ho
stretto forte la mano, le ho chiuso gli occhi, poi sono rimasto al suo
fianco per un’ora, prima di chiamare gli infermieri.
«Al suo funerale ho visto i suoi due figli, i suoi nipoti e
anche la piccola Abby, sapete? Aveva due anni, allora. Stava tra le
braccia della sua mamma e non capiva cosa stesse succedendo. Credo che
i nostri sguardi si siano anche incrociati, per un attimo,
perché ricordo di aver pensato che fosse identica a Louise
da bambina. Era così bella ed innocente, eppure io
l’ho odiata, come ho odiato chiunque fosse lì, a
piangere lacrime false. Se l’amavano davvero avrebbero potuto
andare a trovarla più spesso, trascorrere un po’
di tempo con lei, farle conoscere i suoi nipoti e bisnipoti…
farla sentire un po’ meno sola e un po’
più felice. Non ho ragione? Non ho ragione,
Artù?».
«Sì, hai ragione», rispose piano il re
di Camelot, passandogli una mano sulla fronte imperlata di sudore. La
sua pelle scottava, nonostante il freddo stesse calando su di loro come
una coperta. Doveva assolutamente portarlo dentro, prima che si
prendesse un accidenti.
Si issò con uno sforzo delle gambe ed afferrò
Merlino avvolgendogli un braccio intorno alla schiena e
l’altro sotto alle ginocchia piegate. Lo stregone non
protestò quella volta, forse era troppo stanco per farlo, e
continuò a farfugliare frasi sconnesse fino a quando non lo
adagiò sul suo letto.
«Vado a prenderti delle pezze bagnate, torno
subito», lo avvisò, ma non fece in tempo ad
allontanarsi di un passo che il mago artigliò le dita
intorno al suo polso, stringendolo con una forza che non avrebbe mai
immaginato.
Con gli occhi gonfi ed arrossati, resi pazzi dal dolore, gli disse con
chiarezza: «Perché dovrei sacrificarmi per questo
mondo, per queste persone che pensano solo a se stesse? Voglio che
muoiano. Devono morire tutti!».
«Stai farneticando, Merlino», rispose
Artù con rabbia, liberandosi il polso con uno strattone.
Lasciò il mago nella sua stanza e andò a prendere
degli asciugamani e una bacinella d’acqua fredda. Una volta
di fronte alla porta socchiusa, riuscì a sentire Merlino
ripetere ancora e ancora quelle parole terribili, figlie del delirio e
della disperazione. Artù respirò profondamente e
poi entrò, si sedette al suo capezzale e gli pulì
il sangue dal viso, sforzandosi di non ascoltarlo. In qualche modo ci
riuscì e si sorprese quando si accorse che Merlino si era
finalmente addormentato, stremato.
Artù si addossò allo schienale della sedia e
sospirò, massaggiandosi il volto. Lo stregone aveva parlato
di sacrificarsi, ma che cosa voleva dire? In ogni caso non gli piaceva,
per niente, e forse partire con Cathleen, il giorno successivo, non era
la cosa giusta da fare. Non poteva lasciarlo solo, non in quelle
condizioni.
Si appoggiò al bordo del materasso con la testa tra le
braccia, giusto un momento per far riposare gli occhi, ma si
addormentò non appena li chiuse.
Venne tormentato dalle
parole di Merlino persino nei sogni.
***
Il suono della sveglia gli fece male come se ci fosse stato un alveare
di api assassine dentro la sua testa.
L’aria che respirava – faticosamente, ma respirava
ancora – gli fece male ai polmoni come se questi fossero in
fiamme, fiamme che crescevano e bruciavano i suoi organi interni ad
ogni boccata di ossigeno.
E infine la luce, quando si azzardò a sollevare un poco le
palpebre. La luce gli fece male come se avesse una sfilza di aghi
dietro agli occhi.
Con un enorme sforzo, Darrell allungò un braccio verso il
comodino, sentendo i muscoli irrigiditi tirare, ed afferrò
il cellulare per disattivare la sveglia. Poi lo lasciò
ricadere sul petto, sfinito. Un velo di sudore gli imperlava la fronte
e allo stesso tempo tremava di freddo, perciò giunse alla
ovvia conclusione che doveva essersi ammalato e che in quelle
condizioni non poteva andare al lavoro.
Lui che aveva sempre vantato una salute di ferro, lui che non aveva mai
saltato un giorno alla scuola d’addestramento così
come alla Centrale.
Poi si ricordò della promessa che era riuscito a strappare
ad Alexandra: tra poche ore si sarebbe presentata in Centrale a
sporgere denuncia contro ignoti per l’effrazione a casa sua e
Darrell avrebbe dovuto essere lì, ad aspettarla, dopo aver
indagato ancora un po’ sul perché l’auto
di Cathleen fosse parcheggiata proprio di fronte alla villetta
dell’infermiera. No, non poteva stare a casa.
Peccato che ogni movimento equivalesse ad una pugnalata, che il suo
stomaco fosse in preda a spasmi incontrollabili a causa
dell’acidità e la sua testa fosse pesante come
piombo e svuotata da ogni pensiero.
Non ricordava nulla di ciò che era successo la notte
precedente, eppure era certo di non aver toccato nemmeno un goccio
d’alcool. La droga non era neppure da prendere in
considerazione. Allora che cosa gli era successo?
Riuscì ad arrivare fino al bagno, dove si
accasciò sul lavandino, con la faccia sotto il getto
d’acqua ghiacciata del rubinetto. Poi si sollevò e
si guardò allo specchio, trovandosi così malmesso
che lui stesso si sarebbe buttato via: la pelle di uno strano colorito
smorto, degli evidenti rigonfiamenti sotto gli occhi arrossati, i
capelli arruffati.
Non si diede nemmeno la pena di asciugarsi il viso prima di spogliarsi
e di gettarsi sotto la doccia per cercare di levarsi di dosso
quell’intorpidimento mentale e fisico. Non fu un completo
successo, ma almeno riuscì a pensare più
chiaramente e soprattutto a ricordare, come se l’acqua fosse
riuscita a lavare via uno strato di sabbie mobili che lo affaticava e
gli impediva di fare qualsiasi cosa.
Era ancora nudo, con solo un asciugamano in vita, quando le immagini
della sera precedente invasero il suo cervello - una serie di
diapositive messe l’una dietro l’altra, tanto
veloci da aggravare il suo mal di testa.
Freya in ospedale che gli diceva che voleva andarsene e che una volta a
casa non gli rivolgeva più la parola; lui che avrebbe voluto
dirle che l’amava ed andava a letto con la paura di non
trovarla più il mattino seguente; Freya che nel cuore della
notte entrava in camera sua e gli chiedeva il permesso di stendersi un
po’ con lui, che gli diceva quelle cose assurde e poi...
Le gambe gli cedettero e dovette aggrapparsi al lavandino per non
cadere a terra, con gli occhi sgranati e la testa che gli doleva
così tanto che gli sembrava di avere alle spalle qualcuno
intento ad aprirgli il cranio con un rompighiaccio. Alla fine fu
schiacciato dai suoi stessi ricordi e si rifiutò di
combattere: si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla
tazza del water e vomitò tutto ciò che ancora
aveva nello stomaco dalla sera prima.
Il suo ultimo ricordo, quello che lo stava riducendo in quel modo, era
così assurdo che doveva per forza essere parte di un sogno;
non c’erano altre spiegazioni. Eppure perché lo
faceva tremare come un bambino, perché avrebbe voluto
gridare e disperarsi? Era solo un sogno.
Deve esserlo, per l’amor di Dio.
I conati finalmente cessarono, lasciandolo svuotato e privo di forze,
ancora aggrappato alla tavoletta. Darrell si passò il dorso
di una mano sulla bocca e chiuse gli occhi, respirando profondamente
per calmarsi, ma non fece altro che vedere ancora una volta le iridi
dorate di Freya lampeggiare nel buio, inghiottirlo e cancellargli ogni
volontà.
Darrell sollevò di scatto le palpebre, sentendo il cuore
scoppiargli nella cassa toracica, e si disse che doveva esserci una
spiegazione logica a tutto ciò. Forse era ancora influenzato
da ciò che aveva letto a proposito dello strano simbolo
tatuato sul braccio di Freya, o forse doveva prendere in considerazione
la droga.
Facendo leva sulle braccia, si alzò e tirò lo
sciacquone. Poi si lavò i denti e tornò in camera
per vestirsi. Seduto sul bordo del letto, trovò il bicchiere
che la sera precedente si era portato sul comodino. Lo prese e lo
guardò controluce, cercando di scorgere qualche residuo,
mentre con la mente ripercorreva quegli istanti. Era solo, quando aveva
tirato fuori il bicchiere pulito dalla credenza e vi aveva versato
l’acqua, poi lo aveva sempre tenuto in mano durante la
conversazione a senso unico con Freya. Lei non si era nemmeno
avvicinata, quindi la droga era da escludersi al novantanove percento.
È stato tutto
un sogno, si ripeté, cercando di
convincersene. Freya
non è mai entrata in camera mia, non si
è mai sdraiata al mio fianco, non mi ha mai detto quelle
cose e, soprattutto, non ha mai avuto gli occhi dorati.
Soddisfatto del proprio discorsetto, c’era comunque da capire
perché si sentisse così stanco e malaticcio. Si
rifiutò semplicemente di rimuginarci ancora sopra
– non era mica Superman – e finì di
vestirsi.
Era già in ritardo, perciò abbandonò
l’idea di fare colazione. Con lo stomaco ancora sottosopra,
poi, non sarebbe stata la cosa più intelligente da fare.
Prima di uscire però non riuscì a resistere: che
gli piacesse o no, sogno o realtà, doveva scoprire cosa
aveva deciso di fare Freya.
Si avvicinò alla stanza degli ospiti e posò
l’orecchio contro la porta, poi bussò piano una,
due, tre volte, fino a quando non si decise a sbirciare
all’interno. Il letto era intatto e non c’era
più niente ad indicare che quella stanza era stata abitata
da qualcuno per le ultime tre settimane, a parte forse il profumo. Il
suo profumo.
Darrell strinse le labbra in una smorfia di tristezza e richiuse subito
la porta, come a non voler sprecare l’unica cosa che Freya
aveva deciso di lasciargli. Era tutto ciò che gli rimaneva
di lei, assieme al proprio cuore infranto.
***
Artù si svegliò all’improvviso, forse
per la strana posizione che aveva assunto sulla sedia, e
sentì il proprio cuore mancare un battito non vedendo
Merlino a letto. Dov’era andato, quel citrullo?
Si alzò, un po’ troppo in fretta a dire il vero,
ed iniziò a cercarlo per tutto il piano: in bagno, nella sua
camera, nella Stanza dei Ricordi. Quindi scese le scale ed
entrò in cucina, dove lo trovò intento a
preparargli una colazione coi fiocchi: uova, bacon, salsicce, pane
tostato, frutta e caffè.
Stava proprio rompendo l’ennesimo guscio per far scivolare
l’uovo nella padella con uno sfrigolio, quando si accorse
della sua presenza e lo salutò con un sorriso fin troppo
ampio: «Buongiorno, maestà! Sedetevi, forza, non
vorrete mica che si freddi!?».
«Merlino», balbettò, scioccato.
«Merlino, come ti senti?».
Lo stregone continuò a sorridere, ma per una frazione di
secondo ad Artù parve di vedere un tremito sulle sue labbra,
come se sotto sforzo.
«Che domande sciocche! Benissimo, come dovrei sentirmi?
È una splendida giornata e so che voi e Cathleen vi
divertirete un mondo questo week-end, perciò non potrei
sentirmi meglio!».
Il re sentì la rabbia salirgli piano, dai pugni delle mani
al cervello, fino a quando non riuscì più a
contenerla ed avanzò verso di lui a grandi passi,
prendendogli la padella di mano e guardandolo con aria truce.
«Smettila di fingere, di pretendere che non sia successo
niente. Non mi interessa quello che hai detto, so che deliravi e che
non pensi davvero quelle cose, perciò...».
« In vino
veritas», mormorò lo stregone,
a capo chino.
«Che cosa?».
«È un proverbio latino. Vuol dire che il vino e
l’ubriachezza permettono agli uomini di rivelare i loro
pensieri più nascosti, quelli che non rivelerebbero mai da
sobri». Finalmente Merlino alzò il capo,
permettendogli di vedere i suoi occhi lucidi di lacrime. «E
se le pensassi davvero, le cose che ho detto? Se davvero, nel profondo,
desiderassi vendicarmi sul mondo per la morte di Louise?».
«Non è così», rispose
Artù, quasi dolcemente. Si avvicinò e gli
posò le mani sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi.
«Ti conosco, Merlino».
Il mago ricambiò il suo sguardo con intensità,
poi sospirò e sorrise veramente, come solo lui era capace.
Il sovrano lo imitò inconsapevolmente e gli tirò
un colpetto sulla nuca, poi si sedette a tavola. Ma la fame gli
passò presto, quando ricordò le parole che
più di tutte gli avevano fatto uscire il fumo dalle
orecchie, tanto si era sforzato di darvi un senso diverso da quello che
aveva intuito.
«Hai detto che ti saresti dovuto sacrificare. Che
intendevi?».
Merlino si strinse nelle spalle, cercando di scrostare l’uovo
che si era appiccicato alla padella.
«Dimmelo, Merlino».
«Già lo sospettavo, in
realtà», esordì a bassa voce,
continuando a dargli la schiena. «Freya mi ha confermato che
l’unica possibilità per questo mondo è
che io distribuisca tutta la magia che si è immagazzinata
nel mio corpo. Così facendo, però, io... Non
rimarrà nulla di me, solo polvere».
Artù era talmente incredulo e nauseato da
quell’idea che allontanò il proprio piatto.
«Ci dev’essere un altro modo»,
esclamò poi.
«A quanto pare no».
«E io a che servirei a questo proposito, eh? Freya ha detto
che io ero l’asso nella manica, ciò che ti avrebbe
convinto a fare questa pazzia. Lei e i custodi si aspettano per caso
che ti dica che è la cosa giusta da fare?! Sono
matti».
«È ancora più semplice, in
realtà».
Merlino si voltò: stava sorridendo come se di fronte a
sé avesse il cucciolo più dolce e carino del
mondo e sapesse che gliel’avrebbero portato via presto.
Artù si sentì talmente a disagio e in imbarazzo
che avrebbe voluto tirargli un pugno sul naso.
«Beh, che significa?», urlò ad un
tratto, innervosito dal suo silenzio.
Il mago però non ebbe il tempo di spiegarsi, interrotto dal
trillo del campanello. Presi com’erano dalla loro
conversazione, non si erano nemmeno accorti dell’arrivo di
Cathleen.
Non aspettò che qualcuno le desse il permesso di entrare:
dato che la porta era aperta, si introdusse e si annunciò da
sola.
«Mmm, che buon profumino!», esordì una
volta in cucina, e i suoi occhi brillarono alla vista di tutto
ciò che Merlino aveva cucinato. «Posso
favorire?».
Il mago rise e le indicò il tavolo. «Almeno tu
potresti darmi delle soddisfazioni».
Il paramedico si accomodò ed iniziò a
banchettare, sotto gli occhi esterrefatti e divertiti rispettivamente
di Artù e Merlino. Quando Cathleen si accorse dello sguardo
del biondo, alzò entrambe le sopracciglia e dopo aver
mandato giù il boccone gli chiese: «Che
c’è che non va? Perché tu non
mangi?».
«Si è svegliato di cattivo umore», lo
anticipò Merlino, lanciandogli un’occhiata
ammonitrice: probabilmente non voleva che si sapesse di quello che era
successo la sera prima.
«È per la gita? Perché se non ti va, o
non vuoi, possiamo fare un’altra volta, oppure
mai...», tentò disperatamente di salvare la
situazione il paramedico, arrossendo sotto il trucco pesante
– forse anche più pesante di quanto erano abituati
– che quel giorno nascondeva la bellezza e la delicatezza del
suo viso.
«Non c’entra niente la gita», la
rassicurò Artù, posando una mano sulla sua.
«È solo che…».
«È un po’ nervoso perché di
solito era lui che organizzava le spedizioni e ne manteneva il riserbo,
celando tutto o quasi persino ai propri cavalieri»,
spiegò Merlino, impedendogli di aprire bocca ancora una
volta. «Pensa che una volta mi ha detto che se mi avesse
rivelato dov’eravamo diretti, poi avrebbe dovuto uccidermi,
“immediatamente e senza esitazioni”».
Cathleen rise e ricambiò la stretta. «Non ti
preoccupare Artù, andrà tutto bene. Almeno, lo
spero…».
Il sovrano corrugò la fronte alle sue ultime parole e
scambiò uno sguardo con lo stregone, ma non
riuscì a dar voce ai propri pensieri.
Cathleen si alzò in piedi quasi di scatto e dopo essersi
leccata le dita sorrise a trentadue denti, esclamando:
«Allora, se tu sei pronto possiamo andare».
«Sì, devo solo…».
Merlino sorrise a sua volta e lo interruppe dicendo: «Vi ho
già preparato lo zaino, è di fianco al
letto».
Artù aprì la bocca, scioccato, e si costrinse a
richiuderla, sospirando dentro di sé. Sapeva che sarebbe
stato in pensiero per lui tutto il week-end, ma non voleva nemmeno
rinunciare a Cathleen. Si costrinse a rilassarsi e si diresse verso le
scale, pregando perché le sorprese future fossero tutte
positive.
***
Alex fece una capatina al quarto piano prima di andare via.
Riempì il suo vecchio armadietto e poi fece un giro di ronda
per i corridoi che da lunedì sarebbero tornati ad essere di
nuovo quelli che avrebbe percorso ogni giorno.
Le piaceva entrare nelle camere dei bambini, rimboccare loro le coperte
e guardare le loro espressioni serene mentre dormivano nella quiete del
primo mattino. Eccetto quando avevano degli incubi o il dolore
prevaleva su tutto, quello era il momento in cui le sembravano normali,
sani e felici. Riusciva persino ad immaginarseli nelle loro camerette
colorate, circondati dai loro giochi e dai libri di scuola, e questo la
faceva stare bene.
Entrò nella camera di Mark e Danilo e sorrise, trovandoli
entrambi sdraiati scomposti tra le lenzuola. Gli unici rumori che si
sentivano erano il cinguettio degli uccellini fuori dalla finestra e il
lieve russare di Danilo.
Si avvicinò al letto di quest’ultimo e gli
portò delicatamente il braccio sul petto, fino ad allora
penzolante oltre il bordo del materasso, poi gli sistemò le
coperte, incastrandole contro le basse sponde. Poi passò a
Mark, su cui si chinò per accarezzargli il cranio rasato e
sfiorargli la fronte con le labbra.
Il ragazzino si girò verso di lei e ancora addormentato
mugugnò: «Ancora cinque minuti, mamma».
Alex si morse il labbro per trattenere una risata: avrebbe potuto
prenderlo in giro per quell’attimo di debolezza –
lui che si dipingeva come il duro dell’ospedale –
ma sapeva che non l’avrebbe fatto. Avrebbe conservato
gelosamente quel ricordo, con affetto, dato che le
possibilità che potesse mai sentirsi chiamare
“mamma” al momento le sembravano pari a zero.
Quando Steve li aveva lasciati aveva promesso a se stessa che non
avrebbe mai dato alla luce un essere innocente. Inoltre, se le
previsioni di Freya erano esatte, non aveva senso mettere al mondo un
bambino sapendo che la sua vita sarebbe stata ancora più a
rischio del normale. Però le sarebbe piaciuto avere un
bambino, le sarebbe piaciuto molto. Quando immaginava la sua vita
ideale, c’era almeno un marmocchio tra le sue braccia. Ma
Merlino che cosa avrebbe pensato? Soprattutto, sarebbe stato mai in
grado di...?
L’infermiera sospirò e si sollevò
lentamente, per non svegliare Mark, ed uscì dalla stanza in
silenzio, più triste di come era entrata.
Tornò al Pronto Soccorso e ad aspettarla trovò
tutti i colleghi, sia del turno di notte sia quelli del mattino, che la
riempirono di abbracci e di pacche sulle spalle.
«È stato bello lavorare con te, per quel che
è durato», le disse un’infermiera.
«Se hai bisogno di un po’ d’azione, sai
dove trovarci!», disse un’altra.
Avrebbe voluto rispondere che erano proprio degli ingenui a credere che
in oncologia non ci fosse azione, ma sorpresa com’era da
tutto l’affetto dimostratole, si limitò a
sorridere e ad annuire ad ogni cosa.
In un angolo scorse Keith, il quale si limitò a rivolgerle
un debole sorriso e un cenno del capo, come se le avesse appena letto
nel pensiero.
Quando finalmente riuscì ad andare a casa, già in
auto iniziò a sentire un vago senso di oppressione e
malinconia pesarle sul petto, tanto da farle salire le lacrime agli
occhi. Non ci volle molto prima che le lasciasse scivolare sul viso:
avendo deciso di non volere figli non aveva mai realizzato che, se
avesse cambiato idea, non avrebbe potuto averli comunque. In effetti,
con Merlino non avrebbe mai avuto una vita normale. Si stava tirando
indietro, dopo tutto quello che aveva fatto e sopportato? Lei
l’aveva scelta, l’aveva voluta con ogni fibra del
suo corpo, eppure all’improvviso...
Stringendosi il cuscino sotto al viso irritato dalle lacrime, si disse
che doveva smetterla di pensare a stronzate del genere: lei amava
Merlino, voleva spendere ogni istante della sua vita con lui, nel bene
e nel male, ed era certa che la normalità
l’avrebbe stufata, presto o tardi. E poi ormai
c’era dentro fino al collo e non c’era modo che
potesse uscirne: bracciale o meno, i poteri assopiti in lei si erano
riaccesi e sentiva il richiamo della magia, un richiamo così
forte da non poter essere ignorato.
Fece un respiro profondo e chiuse gli occhi, cercando di
tranquillizzarsi. Poi prese il cellulare e mandò un SMS a
Merlino: avrebbe dormito fino all’ora di pranzo e sarebbe
andata da Darrell per quella stupida denuncia, poi l’avrebbe
raggiunto. Non aspettò la sua risposta: spense direttamente
il telefono e nascose il viso sotto al cuscino, addormentandosi senza
nemmeno accorgersene.
***
«Allora, non mi vuoi proprio dire dove siamo
diretti?». Artù dovette urlare per farsi sentire
sopra il rombo del motore e i caschi integrali che entrambi indossavano.
Nonostante vedesse solo la sua schiena e una massa di capelli rossi che
gli sfioravano il viso, il sovrano immaginò il sorrisetto
malizioso che incurvava le labbra di Cathleen mentre gli rispondeva,
urlando a sua volta: «Ti ho detto che è una
sorpresa!».
Artù si arrese e si godette il viaggio, lasciandosi cullare
dalla guida sciolta e sicura del paramedico ed ammirando il paesaggio:
verdi colline, campi coltivati e piccoli villaggi che si susseguivano
l’uno a pochi chilometri di distanza dall’altro.
Il mondo era così cambiato, rispetto ai suoi tempi... A
tratti peggiorato, ma sapeva che era comunque degno di essere salvato.
Non a discapito della vita di Merlino però, questo mai.
Decisero di fare una breve pausa sulla riva di un fiumiciattolo stretto
e dall’acqua così limpida da riuscire a vederne il
letto sassoso, per sgranchirsi le gambe e dissetarsi. Oltre ad una
bottiglietta d’acqua, Merlino gli aveva messo nello zaino
anche un paio di tramezzini e dei cracker, coi quali fecero una specie
di picnic seduti sull’erba, poco lontano da dove avevano
lasciato la moto.
Immersi nel verde, circondati dai suoni della natura, gli sembrava di
essere tornato a Camelot, alla sua prima uscita ufficiale con Ginevra.
Era stato tutto così bello, così normale e
semplice, fino a quando suo padre e Morgana non erano comparsi proprio
di fronte a loro, sorprendendoli nel bel mezzo di un bacio ed accusando
ingiustamente Ginevra di stregoneria. Ripensando a quello spiacevole
episodio, che li aveva costretti ad amarsi da lontano e ad aspettarsi
in silenzio, Artù si ritrovò a sorridere
realizzando che era stato allora che aveva fatto la conoscenza di
Dragoon, lo stregone che altri non era che Merlino. Anche quella volta
l’aveva aiutato, salvando Gwen da una morte certa, e lui non
se n’era mai reso conto, anche se, in effetti, aveva scorto
qualcosa di familiare negli occhi di quel vecchio.
La voce di Cathleen lo fece ritornare all’improvviso alla
realtà. «Che cos’hai detto?»,
le chiese sbattendo le palpebre.
«Avevi un’espressione strana, divertita e allo
stesso tempo malinconica, e mi chiedevo a che cosa stessi
pensando».
Artù si strinse il collo tra le spalle, tornando a fissare
la corrente a nemmeno un metro da lui. «Io e Ginevra a volte
facevamo dei picnic simili a questo, fuori dalle mura di Camelot. Mi
sono ricordato che una volta mio padre ci ha sorpresi e abbiamo
trascorso un bel po’ di guai perché... beh, lei
era una serva ed io un principe: non potevamo stare insieme».
Le labbra di Cathleen si strinsero in una smorfia di disgusto, ma si
sforzò di risultare indifferente chiedendogli: «E
poi com’è andata a finire?».
«C’è voluto del tempo e tanti, tanti
sacrifici... però alla fine siamo riusciti a farla
funzionare: Ginevra è diventata regina e gli anni che
abbiamo trascorso insieme – non abbastanza – sono
stati i migliori della mia vita».
Si voltò a guardare il paramedico, incuriosito dal suo
silenzio, e la tristezza che vide adombrare i suoi occhi nocciola fece
male come una fitta al cuore. Dandosi dello stupido, sospirò
e disse: «Mi dispiace, non dovrei parlare di lei con
te».
Ma Cathleen lo sorprese come solo lei sapeva fare, scoppiando in una
risata argentina, una delle più belle che avesse mai
sentito, e si gettò all’indietro, atterrando di
schiena sul tappeto di erba e muschio. I suoi capelli formavano
un’aureola color cremisi intorno alla sua testa e
Artù ebbe la forte tentazione di accarezzarli, ma
all’ultimo momento ritrasse la mano, come per timore di
bruciarsi.
«Puoi parlarmi di Ginevra quanto vuoi, Artù,
credimi. È solo che la vostra storia sembra così
simile alla nostra...».
Il sovrano ci mise qualche secondo a capire che si stava riferendo a
lei e Zachary e, ad essere del tutto onesto con se stesso,
provò un po’ di delusione e di insensata gelosia.
Come poteva essere invidioso di un ragazzo che non aveva mai conosciuto?
Scrollandosi di dosso quei pensieri malsani, Artù stava per
chiederle in che modo le loro storie potessero essere simili, quando
Cathleen si tirò a sedere di scatto e con una maschera di
determinazione sul viso esclamò: «Abbiamo
cazzeggiato fin troppo, andiamo».
Artù la osservò spolverarsi il retro dei
pantaloni mentre si dirigeva verso la moto e il suo sguardo
indugiò un attimo di troppo sul suo sedere, ma lo distolse
non appena se ne rese conto. Quindi si alzò e la raggiunse
appena in tempo: Cathleen diede gas che lui non si era ancora
allacciato il casco. Sembrava che all’improvviso avesse
fretta di arrivare – ovunque stessero andando – e
che allo stesso tempo fosse nervosa a riguardo, visto quanto stringeva
le mani intorno al manubrio.
Non si azzardò a chiederle cosa le fosse preso, sapeva che
non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, perciò
rimase in silenzio e le strinse più forte le braccia intorno
alla vita, sperando che il suo contatto riuscisse a calmarla.
***
Abigail stava ancora dormendo, quando sua nonna era entrata nella sua
camera e aveva iniziato ad accarezzarle i capelli con gentilezza. La
ragazzina si era svegliata, ma aveva continuato a fingersi
addormentata, cercando di cacciare in fondo al cuore il rancore che
aveva iniziato a provare nei suoi confronti quando Merlino se
n’era andato: anche in compagnia di Mark, aveva continuato a
pensare a quanto fosse stato ingiusto abbandonare Louise, dimenticarsi
della sua esistenza ed ignorare la sua malattia.
Quella era stata una notte insonne e Abby prima di riuscire finalmente
ad abbandonarsi al sonno, qualche ora prima dell’alba, aveva
anche pensato al suo primo incontro con Merlino. Il mago
l’aveva riconosciuta, quando i loro sguardi si erano
incrociati per la prima volta? Di sicuro non poteva essersi dimenticato
di sua nonna, perciò l’ipotesi più
probabile a cui era giunta era che sì, aveva fatto due
più due e ciò nonostante aveva mantenuto il
segreto, fingendo di non averla mai vista in vita sua. Era stato tanto
convincente da ingannare persino se stesso, almeno fino a quando non
era stato riportato tutto quanto a galla, lasciandolo ad annaspare.
Abigail sospirò e si voltò lentamente verso sua
nonna, accennando un sorriso.
«Buongiorno tesoro».
«Buongiorno», mugugnò, strofinandosi gli
occhi gonfi di sonno.
Sua nonna si sedette al suo fianco e le accarezzò il viso
con una mano, mostrandosi un po' preoccupata. «Hai dormito
male? Hai un faccino così sciupato...».
«Sono andata a letto tardi e credo di essermi agitata un
po’».
«Brutto sogno?».
Abby sollevò di scatto gli occhi in quelli di sua nonna ed
esitò, indecisa se mettere in atto l’idea che le
era venuta in mente oppure no. Alla fine la curiosità fu
troppo grande e, suo malgrado, usò la scusa dei suoi
genitori per la seconda volta in pochi giorni: «Ho sognato
mamma e papà».
La signora Chapman chinò il capo, il mento a sfiorarle lo
sterno, e le strinse forte una mano tra le sue. Abby però
non le diede il tempo di parlare e aggiunse: «Tranquilla, era
un bel sogno – forse un ricordo – nulla a che
vedere con il loro incidente».
Sua nonna scosse il capo, mordendosi le labbra. «Sono sempre
stati due avventurieri, i tuoi genitori».
«Immagino di sì. Non mi ricordo molto di quel
giorno, solo che ero rimasta nello chalet a valle con la madre di
un’amichetta che mi ero fatta e che ad un certo punto
c’è stato un gran trambusto intorno a me. Poi
ricordo di aver dormito con quella bambina e, nel cuore della notte, di
aver sentito gli elicotteri passare continuamente sopra le nostre
teste, diretti verso la montagna. Al mio risveglio, c’eri
tu».
«Ricordi più di quanto immaginassi»,
esclamò sua nonna, abbozzando un sorriso. «Avevi
solo sei anni, allora…».
«Perché tu?», le chiese Abby a
bruciapelo, sollevandosi un po’ sui gomiti. «Prima
dell’incidente non mi ricordo di averti mai vista. Nemmeno
nelle fotografie dei miei compleanni, a Natale, o a Pasqua…
tu non c’eri mai».
Il sorriso di Daisy si spense lentamente e Abby non riuscì a
decifrare la sua espressione, dato che si alzò e si diresse
alla finestra, davanti alla quale si fermò per guardare
fuori.
«Sapevo che prima o poi mi avresti fatto questa
domanda», disse alla fine. «Io e tua
madre… non siamo mai andate troppo d’accordo,
è la verità. Avevamo quello che si potrebbe
chiamare tranquillamente un rapporto conflittuale. Mi accusava spesso
di trattarla come una bambina, di disapprovare ogni sua
scelta… Lei era la mia unica figlia e volevo solo che fosse
felice, ma mi sono resa conto troppo tardi di non averla aiutata in
questo senso.
«La situazione è degenerata quando è
morta la tua bisnonna. Solo allora Valerie ha scoperto che
l’avevamo portata in una struttura specializzata e mi ha
urlato contro che le sarebbe piaciuto andarla a trovare, farle
conoscere te, ma non ha potuto a causa del mio cuore di pietra. Sai, ho
sempre lasciato che fosse mio fratello ad occuparsi di lei e non sono
mai andata a trovarla all’ospizio, nemmeno una volta. Non ci
sono riuscita. Nonostante nei miei libri le protagoniste siano sempre
donne forti, donne come tua madre o la tua bisnonna, io sono sempre
stata una codarda: vedere mia madre soffrire, morire…
avrebbe fatto troppo male. Ho preferito lasciarla sola, piuttosto che
stare al suo fianco a stringerle la mano».
Sua nonna tirò su col naso e si passò una mano
sulla guancia, lì dove una lacrima aveva tracciato un solco.
Abby si alzò lentamente per raggiungerla e porgerle un
fazzoletto, stringendole delicatamente una spalla con l’altra
mano. Daisy sobbalzò e sforzandosi di sorridere la
rimproverò e la riportò subito a letto, dove
tornò a sedersi al suo fianco, senza però
incrociare mai i suoi occhi.
«Quando ho sentito della valanga, sapevo che
c’erano pochissime possibilità che Valerie e Tom
fossero sopravvissuti», riprese pacatamente, asciugandosi
ancora gli angoli degli occhi. «Avevo deluso già
mia madre e mia figlia, non potevo deludere anche la mia nipotina. Ne
ero terrorizzata, certo, ma non appena ti ho vista, da sola in quella
camera d’albergo, ho capito che chiedere il tuo affidamento
era la cosa giusta da fare».
Le passò teneramente una mano sui capelli e poi le prese il
volto tra le mani, facendo finalmente incontrare i loro sguardi.
«Sono grata che Valerie non abbia preso nulla da me e che ti
abbia dato alla luce. So di non essere stata perfetta, ma
credimi… se dovessi perdere anche te, la mia vita non
avrebbe più senso».
Abby posò le mani sulle sue e sorrise. «Grazie per
aver trovato il coraggio di prendermi con te, nonna. Ti prometto che
farò del mio meglio per vincere anche questa
battaglia».
«È tutto ciò che chiedo,
tesoro».
Si abbracciarono e Abigail sentì il rancore sciogliersi
lentamente, lasciando il suo cuore di nuovo libero e leggero. Sorrise,
affondando il viso nell’incavo della spalla della nonna ed
inspirando il suo profumo, e la strinse ancora più forte
ricordando quando, a sei anni, le sue braccia erano state
l’unico posto in cui aveva voluto stare dopo aver scoperto
che non avrebbe mai più rivisto i suoi genitori.
***
Darrell premette il pulsante di linea sulla base del telefono per
terminare la chiamata e, sempre tenendo la cornetta incastrata tra la
spalla e l’orecchio, si massaggiò gli occhi
stanchi con due dita. Poi raccolse tutte le proprie forze con un
respiro profondo e compose l’ultimo numero della sua lista di
nominativi e numeri spuntati.
«Pronto?», rispose una donna anziana, dalla voce
arrochita ma allegra.
«Buongiorno, parlo con la signora Levinson?».
«Sì, sono io».
«Salve, sono l’agente Darrell Fisher. Mi sono
occupato dell’effrazione a casa della sua vicina, la
signorina Greenwood. Si ricorda?».
«Ma sì, certo! Fortunatamente la mia memoria
è rimasta quella di trent’anni fa. Come posso
aiutarla, agente?».
«Volevo sapere se nei giorni successivi
all’effrazione ha notato qualcosa di strano, qualcosa di
inusuale… qualsiasi cosa».
«Mmm, no, non mi pare proprio, sa?».
«E per quanto riguarda la signorina Greenwood? L’ha
vista, come le è sembrata?».
La donna ridacchiò prima di rispondergli.
«Giovanotto, crede che me ne stia tutto il giorno davanti
alla finestra?».
Beh, a dire la
verità sì, avrebbe voluto
ammettere, ma evitò.
«Comunque col lavoro che fa, povera stella, la vedo molto
poco. Però non mi è sembrata spaventata, se
è quello che vuole sapere».
«E – l’ultima domanda, glielo prometto
– sa se per caso qualcuno le ha fatto visita, dopo
l’effrazione?».
«No, non credo. In effetti, non rimane mai molto a casa da
sola».
«Potrei passare a mostrarle un paio di fotografie? Sempre se
non reco disturbo, ovviamente».
«Passi pure quando vuole agente, non dico mai di no ad un
po’ di compagnia».
«Perfetto. Grazie per la disponibilità, signora
Levinson».
Finalmente abbandonò la cornetta sulla base del telefono e
si massaggiò l’orecchio, sospirando. Aveva
chiamato tutti i vicini di Alexandra, tutti coloro che potevano aver
visto o sentito qualcosa la notte dell’effrazione e nei
giorni successivi. Non aveva ottenuto molto, eccetto due appuntamenti
fuori orario di lavoro. Entusiasmante.
Si sentiva ancora instabile – prima accaldato, subito dopo
infreddolito – e la testa gli girava terribilmente, per non
parlare dello stomaco, così stretto e disturbato da
impedirgli di mettere qualsiasi cosa sotto i denti, con
l’unico risultato di renderlo ancora più debole.
Darrell si alzò e andò alla boccia
d’acqua per prendersene un bicchiere. Aveva assolutamente
bisogno di un’aspirina.
Ritornò alla scrivania e aprì il primo cassetto,
ma la sua attenzione fu catturata dallo strano oggetto che aveva
trovato nel bosco la notte dell’effrazione a casa di
Alexandra. Darrell l’afferrò e se lo
rigirò ancora una volta tra le mani, osservandolo pieno di
curiosità e con un pizzico di timore attraverso il sacchetto
di plastica.
Non riusciva a capire che cosa potesse essere, figuriamoci se poteva
immaginare quale fosse il suo utilizzo. Forse era solo un ninnolo, un
soprammobile cattura-polvere, ma l’istinto gli diceva il
contrario. Si chinò un po’ di più
sull’oggetto e strinse gli occhi nel tentativo di decifrare
gli incomprensibili segni incisi sull’anello metallico al cui
centro era stato fissato quel cristallo bianco, simile ad un quarzo. I
simboli si alternavano a delle parole, appartenenti ad una lingua
antica e sconosciuta, ed abbandonò ogni tipo di ragionamento
dopo il primo tentativo, sentendo il mal di testa trapanargli il
cervello.
Sospirando, trovò il flaconcino di aspirine e
versò una pastiglia effervescente nel bicchiere
d’acqua. Nell’attesa, con la coda
dell’occhio continuò ad osservare quella
potenziale prova, incapace di tenere a freno il desiderio di risolvere
quel mistero.
Spazientito dai suoi stessi ripensamenti, afferrò di nuovo
la busta, ne aprì la chiusura ermetica e con estrema cautela
estrasse quella potenziale prova. Il metallo risultò
freddissimo alla sua presa, come se fosse stato nel freezer. Con le
dita sfiorò i simboli, prima uno alla volta, grattandoli con
l’unghia dell’indice, poi provò a
percorrerli in senso orario ed antiorario, avendo come la sensazione
che si riscaldassero. Quando terminò un giro completo essi
si illuminarono, prendendo lo stesso colore del metallo messo sul fuoco
per essere modellato dal fabbro, mentre all’interno del
cristallo iniziò ad intravedersi una materia scura, liquida
e vischiosa. Darrell era per ovvi motivi trasalito, alzandosi in piedi
ed allontanandosi dalla scrivania con così tanta foga da far
cadere il bicchiere con l’aspirina, ma non appena aveva
mollato la presa l’aggeggio si era come spento, ritornando
alla normalità.
Era ancora sotto shock, con gli occhi sbarrati per il terrore, quando
sentì la porta aprirsi e poi dei passi leggeri avvicinarsi
all’ingresso del suo ufficio. Non ebbe nemmeno il tempo
materiale per ricomporsi prima che Alexandra comparisse sulla soglia,
con le nocche che picchiettavano contro lo stipite
nell’incerto tentativo di annunciarsi.
«Cavolo, sembra tu abbia appena visto un fantasma»,
esclamò l’infermiera, senza azzardarsi a fare un
passo all’interno dell’ufficio.
L’agente si passò una mano sulla fronte e poi la
fece scivolare sugli occhi, concentrandosi sul proprio respiro per
tranquillizzarsi. Lentamente la razionalità tornò
a prendere il sopravvento, facendogli catalogare tutto quanto come
un’allucinazione da stress. Gli studiosi della psiche
avrebbero avuto qualcosa da ridire, ma che si trattasse di magia,
tecnologia aliena o chissà cos’altro, a lui poco
importava; era stato solo un brutto scherzo della sua mente, sintomo
che la stanchezza e gli avvenimenti dell’ultima settimana lo
avevano davvero provato.
«Buon pomeriggio, Alexandra», la salutò
sospirando. «Perdona il disordine».
«Che cos’è successo?», gli
chiese e finalmente avanzò, facendo scivolare lo sguardo sul
cerchio metallico con il quarzo.
Darrell si chinò per prendere un paio di guanti in lattice
dal secondo cassetto della scrivania e dopo averli infilati
afferrò l’aggeggio con il pollice e
l’indice, il minimo necessario, e lo ripose nuovamente nella
busta di plastica. Una volta lontano dai suoi occhi si poté
concentrare di nuovo sull’infermiera.
«Niente, sono solo stato sbadato. In effetti, non mi sento
tanto bene», rispose, lasciando che Alex gli offrisse un
fazzoletto per asciugare il disastro che aveva combinato sulla
scrivania. Per terra, vicino al piedino più esterno, si era
anche formata una piccola pozza d’acqua effervescente.
«Io sono di riposo», disse l’infermiera,
sollevando le mani per tirarsene fuori.
«Non ti ho chiesto di visitarmi, non mi pare».
Alexandra sbuffò facendo anche una piccola pernacchia con le
labbra e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte alla
scrivania di Darrell, la stessa su cui si era seduta quando
Artù era stato portato in Centrale da Myra.
«Facciamo questa cosa in fretta, ho altri impegni».
Darrell sollevò il sopracciglio ed approfittò
della situazione per scambiare due chiacchiere, nella speranza che
venisse smentito a proposito dei suoi sospetti. Voleva aver torto,
sarebbe stato più semplice per tutti.
«Sai, ho conosciuto persone che non sono riuscite a chiudere
occhio per settimane, dopo un’esperienza come la
tua», esordì, continuando a passare il fazzoletto
sull’acqua rovesciata. «Ti rendi conto vero che
qualcuno è entrato in casa tua? Perché sembra
proprio che non te ne importi niente».
L’infermiera scrollò le spalle, annoiata.
«Non ero in casa quand’è successo e a
mio parere è inutile fasciarsi la testa prima di essersela
rotta. Comunque non credo che ricapiterà».
«Come fai a dirlo?».
«Beh, se non mi è stato portato via niente vuol
dire che nulla di ciò che possiedo vale la pena di essere
rubato, o sbaglio?».
Il suo tono di voce vagamente saccente gli fece storcere il naso, ma la
lasciò finire.
«Scommetto che il ladro ha già fatto passaparola
con tutti i suoi colleghi per dire loro di non sprecare
tempo».
Darrell si sforzò di non sbattersi una mano sul viso e fece
il giro della scrivania per buttare nel cestino il fazzoletto bagnato.
Ritornando alla sua poltrona, notò che Alexandra aveva
iniziato ad arricciarsi una ciocca di capelli tra le dita tremanti. Che
fosse sintomo di nervosismo? Forse era sulla buona strada.
«Sei sicura che non ti manchi niente?», insistette,
guardandola dritta negli occhi mentre si sedeva.
«Sì, te l’ho già
detto», rispose con le sopracciglia aggrottate e le labbra
arricciate in un ghigno aggressivo. «Perché dovrei
mentire?».
Darrell scrollò le spalle come aveva fatto lei poco prima.
«Non ne ho idea. Era giusto per mettere in chiaro il
punto».
«Bene, ora che abbiamo chiarito
il punto,
potremmo…?».
Il poliziotto però la interruppe, picchiettandosi una penna
alle labbra e guardando il ventilatore fermo appeso al soffitto:
«Eppure è stato molto selettivo, il nostro
ladro… Ha messo a soqquadro solo la camera da letto e
nessun’altra stanza. Sapeva dove cercare, forse».
Gettò una rapida occhiata ad Alex, con la coda
dell’occhio, e la vide arrossire mentre tratteneva il fiato.
Dopo qualche secondo sbottò: «Dimmi a cosa stai
pensando e falla finita, Darrell».
«Non è che conoscevi la persona che è
entrata in casa tua e, per chissà quale motivo, la stai
proteggendo?».
Alexandra lo fissò in silenzio, tanto a lungo che
iniziò a temere di averci preso. Poi però un
angolo della sua bocca si sollevò in un sorrisino beffardo e
alla fine scoppiò a ridergli in faccia, tenendosi la pancia.
«Ma ti ascolti quando parli?», gli
domandò, asciugandosi gli angoli degli occhi. «Per
quale diavolo di motivo dovrei proteggere una persona che ha ridotto la
mia camera ad uno schifo e rotto una finestra?».
Darrell, ferito nell’orgoglio, si imbronciò e si
voltò per tirare fuori da un mobile le pratiche per la
denuncia. Le sbatté sul tavolo e gliele porse, ma Alexandra
smise di ridere di colpo e strinse le mani intorno ai suoi polsi,
bloccandoglieli sulla scrivania. Si trovarono così occhi
negli occhi, tanto vicini da poter sentire ognuno il fiato
dell’altro sul viso.
«Posso sapere perché ti fai così tante
domande? Non ci sono prove e dubito le troverai, eppure continui a
rimuginarci sopra. La mia sicurezza sembra interessare più a
te che a me».
Darrell non distolse gli occhi dai suoi e con un rapido movimento di
polsi rovesciò la situazione, così da bloccare le
sue di mani al ripiano di legno. La vide digrignare i denti, come se
non ne fosse stata contenta, e senza saperne il motivo provò
un po’ di soddisfazione.
«È il mio lavoro, fare domande e rimuginare sulle
cose. C’è qualcosa che non torna, in tutta questa
faccenda, e ti prometto che ne verrò a capo, che ti piaccia
o no».
Alexandra gli rivolse l’ennesimo sogghigno, replicando:
«Forse dovresti prima preoccuparti dei problemi a casa tua,
invece di guardare in quelle degli altri».
«Ti stai riferendo a Freya?», le chiese sentendo il
sangue incendiarsi nelle sue vene, come se il suo ricordo avesse
innescato una miccia invisibile dentro di lui.
«Ieri non mi sembravi troppo convinto di aver fatto la cosa
giusta, ospitandola a casa tua».
«No, infatti. Ma è un problema risolto,
ormai».
L’espressione sorpresa sul suo viso lo stupì tanto
da lasciare la presa sui suoi polsi. Che cosa aveva detto di tanto
incredibile?
«Che intendi dire?», gli domandò, quasi
balbettando.
Senza pensarci su due volte, confessò: «Freya se
n’è andata, questa notte». Forse
perché con Alexandra era facile parlare, forse
perché era lui ad avere un disperato bisogno di sfogarsi.
«Andata? E dove? Insomma… Non aveva perso la
memoria?».
Darrell annuì e raccontò cos’era
successo all’ospedale prima della TAC, quando la ragazza gli
aveva detto che era ora che ognuno andasse per la propria strada, che
sarebbe stato un bene per entrambi. Le disse anche che era stata tutta
colpa sua, visto che si era lasciato sfuggire che aveva dubitato di
lei.
Mentre l’agente parlava le dita delle loro mani si erano
intrecciate dolcemente e quando se ne resero conto ovviamente le
separarono, guardandole esterrefatti ed imbarazzati, chiedendosi come
poteva essere successo.
Alex fu la prima a rompere il silenzio, schiarendosi la gola con un
colpetto di tosse: «Mi dispiace che lei ti abbia…
Cioè, sapevo che ci tenevi».
«Non fa niente», rispose, stringendosi il collo
nelle spalle. «Non ho mai creduto nelle favole, in
fondo».
Alex sorrise, un sorriso vero quella volta, e Darrell ne fu
così piacevolmente sorpreso da ricambiare inconsciamente.
Grazie a quel sorriso tutto il risentimento che c’era tra di
loro, nato in quei pochi minuti, scivolò via altrettanto
velocemente, senza che potessero fare niente a riguardo. Questo
però non voleva dire che Darrell avesse abbandonato la sua
missione: prima o poi avrebbe scoperto cos’era successo
veramente quella notte, lo giurò a se stesso.
***
Cathleen provò una spiacevole stretta al cuore quando si
ritrovò a percorrere il ponte in mattoni da cui iniziava
ufficialmente la proprietà della sua famiglia.
Una volta guadato il canale, due filari quasi infiniti di alberi li
affiancarono, fornendo loro frescura grazie alle loro fronde ombrose,
fino a quando non si avvicinarono ad un enorme cancello dipinto di
bianco e sormontato ai lati dalle statue di due cervi imponenti,
così fieri e maestosi da incutere un timore quasi
riverenziale. A Cathleen venne solamente voglia di sparare loro contro,
come aveva fatto quella notte, col fucile che il migliore amico di Zac
aveva rubato a suo padre. Ripensandoci un sogghigno le
incurvò le labbra, per poi scomparire quando si rese conto
che i ricordi di lei e Zachary avrebbero continuato ad affiorare,
implacabili e dolorosi. Ma faceva parte della prova, no? E se non fosse
riuscita a reggere, sapeva che poteva contare su Artù.
«Siamo arrivati?», domandò ad un tratto
l’ex-sovrano, confuso.
Cathleen sospirò ed annuì con un cenno del capo,
poi diede una leggera mandata di gas per avvicinarsi al grosso citofono
con telecamera, tirarsi via la mascherina a protezione degli occhi e
premere il pulsante di chiamata.
A rispondere, dopo una manciata di secondi, fu una voce maschile,
austera e distaccata: «Residenza Shaw».
Il paramedico non poteva vedere in viso il suo interlocutore, ma sapeva
di essere osservata tramite l’occhio elettronico posto sopra
l’interfono, perciò gli fece l'occhiolino e
sorrise maliziosamente, esclamando: «Ehi
Freddie, ti ricordi di me?».
Il maggiordomo rimase in silenzio tanto a lungo che Cathleen ebbe il
serio timore che si fosse dimenticato di lei, lui come tutta la sua
famiglia. Poi però si sentì un clic e un ronzio
– il cancello che si apriva di fronte a loro – e
Freddie rispose: «Bentornata a casa, signorina
Shaw».
Cathleen guardò il sentiero sterrato, anch’esso
immerso nel verde, che portava alla villa da cui più di
dieci anni prima era scappata, promettendo che non vi avrebbe
più messo piede, ed esitò stringendo forte le
dita intorno ai manici del manubrio. Fu Artù a darle la
forza necessaria di portare a termine ciò che aveva
iniziato, addossandosi ancora di più alla sua schiena per
chiederle pieno di stupore: «Tu… La tua famiglia
vive qui?».
Il paramedico gli gettò un’occhiata con la coda
dell’occhio, sforzandosi di sorridere. «Non te
l’aspettavi, vero?».
«No, anche se… tu mi sorprendi sempre, in
fondo».
Quelle parole le riscaldarono il cuore. Da suo padre si era
sentita dare dell’anticonformista, dell’anarchica,
della ribelle, solo perché voleva vivere una vita diversa
rispetto a quella che aveva pianificato per lei e lottava con le unghie
e con i denti per fare ciò che riteneva più
giusto. Non aveva fatto altro che criticarla negli anni immediatamente
precedenti alla sua fuga, dicendole che non avrebbe mai fatto nulla di
buono nella vita se avesse continuato a seguire il cuore.
Artù invece, proprio come sua madre e come Zachary, pensava
che lei fosse sorprendente:
i suoi colpi di testa, le sue decisioni
prese d’istinto… erano una parte di lei che
amavano, e non disprezzavano.
Cathleen avvicinò il viso al suo per baciarlo, ma i loro
caschi cozzarono l’uno contro l’altro, facendoli
ridere.
«Rimandiamo a dopo», sussurrò il
paramedico, ridacchiando a causa del rossore che si
impadronì delle guance di Artù. Quindi si
voltò e diede gas per oltrepassare il cancello e le sue
guardie di pietra.
Fermò di nuovo la moto solo dopo aver disegnato un otto
intorno alle due aiuole circolari, di un raggio di una trentina di
metri ciascuna, al cui centro si ergevano fontane con
l’ennesimo richiamo ai cervi, simboli della casata nobiliare
a cui apparteneva suo padre.
Artù scese per primo, lasciando la presa sui suoi fianchi, e
Cathleen lo guardò mentre girava su se stesso come un
idiota, misurando con gli occhi tutti e ottantacinque gli ettari di
proprietà e l’immensa facciata della villa della
sua famiglia: un maniero costruito nella seconda metà
dell’ottocento, immerso nella campagna e tramandato da
generazione in generazione. Una struttura quasi interamente spigolosa,
con due sezioni laterali più sporgenti e col tetto a punta,
gli infissi candidi e i mattoni a vista negli spazi lasciati liberi
dalle numerosissime finestre e i rispettivi balconi. Sul tetto dalle
tegole violacee abbondavano i comignoli e diverse torrette, simili a
quelle dei castelli, mentre un grande terrazzo divideva già
dall’esterno il piano terra dal primo, degna imitazione di
quelli che usavano con orgoglio i regnanti per guardare
dall’alto in basso i loro sudditi.
Davanti all’ingresso, alla fine di una piccola scalinata
semicircolare, li aspettava un maggiordomo in livrea, con dei folti
capelli bianchi e la barba curata dello stesso colore, il viso serio e
gli occhi azzurro-ghiaccio imperscrutabili.
Cathleen decise di lasciare ad Artù ancora qualche minuto
per metabolizzare e con un sorriso tirato si diresse verso il
domestico, la cui espressione non cambiò di una virgola
nemmeno quando i loro sguardi si incrociarono dopo ben undici anni.
«Cavolo Freddie, mi aspettavo un po’ di
entusiasmo», esclamò ridacchiando, tirandogli un
pugnetto sul braccio. Il maggiordomo fissò per un attimo il
punto dove l’aveva colpito, poi rispose con voce atona:
«Sono molto felice di rivederla, signorina Shaw. Sono
desolato di non riuscire a dimostrarglielo».
«Non ti preoccupare. Anzi, ad essere sincera mi tranquillizza
che tu non sia cambiato affatto».
«Intendete dire che lei e signorino Shaw non dovrete pensare
a nuovi soprannomi per il sottoscritto?».
Cathleen impallidì a quella risposta, chiedendosi come
facesse a sapere dei vari soprannomi che lei e Ash gli avevano
affibbiato quando lei era un’adolescente. Giurò
inoltre di aver notato un luccichio di soddisfazione negli occhi di
Freddie, ma lo ignorò e si voltò verso
Artù, richiamando la sua attenzione: «Allora, hai
finito sì o no?».
Il sovrano la guardò con quei suoi grandi occhi blu, ancora
più spalancati per la sorpresa, e il cuore di Cathleen fece
una capriola nel petto. Poi le sorrise e il paramedico non
poté fare diversamente, stendendo una mano verso di lui
perché la raggiungesse.
«Scusami, è solo che… wow»,
ammise, facendo due gradini per volta. Guardò
l’uomo di fronte a loro e da perfetto abitante del
ventunesimo secolo si presentò, togliendo a Cathleen
l’imbarazzo di doverlo introdurre – in effetti, non
aveva idea di cos’erano l’uno per l’altra.
Freddie non afferrò la mano che gli aveva porto, ma rispose
con gentilezza: «Il piacere è tutto mio, signor
Pendragon». Poi si rivolse ad entrambi: «Posso
avere i vostri bagagli?».
«Oh, non c’è problema Freddie, li
portiamo noi», rispose la rossa, sistemandosi meglio lo zaino
sulla spalla.
«Sarò anche vecchio come una mummia –
come dite voi signorini Shaw – ma posso ancora occuparmi di
certe mansioni», ribatté piccato il maggiordomo,
ma non rimase in attesa di scuse: si voltò semplicemente e
fece loro strada all’interno del maniero.
Le diede i brividi ritrovarsi di nuovo in quello che lei aveva sempre
chiamato “l’ingresso
dell’inferno” – d’altronde ne
aveva tutto l’aspetto, col basso soffitto a volta decorato da
dipinti raffiguranti angeli e demoni duellanti; con
l’illuminazione ridotta a delle piccole lampade sorrette da
puttini sul punto di cedere sotto il loro peso; e, ciliegina sulla
torta, il pavimento di marmo nero su cui ogni passo produceva
un’eco spettrale – perciò strinse
più forte la mano di Artù. Nonostante la sua
presenza rassicurante, rischiò un infarto quando Freddie si
voltò all’improvviso verso di loro, esclamando con
la sua solita voce monocorde: «Perdonatemi, posso sapere per
quanto tempo avete intenzione di fermarvi?».
«Cristo, Freddie!», urlò Cathleen, con
una mano sul cuore. «Mi hai spaventata!».
Il maggiordomo aprì la bocca per scusarsi, impassibile come
sempre, ma venne interrotto dalla risata cristallina di
Artù, il quale avvolse un braccio intorno alle spalle del
paramedico e con l’altra mano le massaggiò il
braccio.
«Tranquilla, è tutto a posto», le
sussurrò tra i capelli, facendola arrossire. Cathleen
avrebbe preferito davvero essere all’inferno in quel momento.
Evitò il suo sguardo e si concentrò sulla domanda
di Freddie: «Sì, io penso… penso che ci
fermeremo fino a domani pomeriggio, se non siamo di troppo
disturbo».
«Questo possono dirlo solo i signori Shaw, sa che io non mi
permetterei mai», esclamò il maggiordomo, chinando
un poco il capo in segno di rispetto. «Avviserò
subito Cecilya e Margaret che vi fermerete per la notte. Quante stanze
devo farvi preparare?».
Giù di un’altra decina di metri, direttamente tra
le braccia di Lucifero.
Artù la tirò fuori dai pasticci ancora una volta,
nonostante l’imbarazzo avesse preso il sopravvento anche sul
suo viso: «Due, grazie».
Il maggiordomo annuì. «Perfetto».
Si voltò di nuovo e spalancò le pesanti porte di
legno intagliato, quelle che davano accesso al salotto di ricevimento:
un grande spazio in cui intrattenere gli ospiti, seduti sulle comode
poltrone imbottite di fronte al monumentale camino e circondati da
tappeti pregiati, dipinti ad olio e scaffali stracolmi di libri. Sulla
destra c’era un corridoio porticato, con tanto di colonne di
marmo perlaceo, che portava alle cucine e ad altre stanze della
servitù, mentre il soffitto era semplicemente un grande
lucernario che permetteva di vedere il cielo e che durante le ore del
giorno offriva luce in abbondanza. Il primo e il secondo piano,
infatti, si estendevano lungo i lati della residenza, girando intorno
al perimetro quadrangolare del salotto grazie ad altri porticati sulle
cui balconate era stato inciso nella pietra lo stemma della casata
Shaw.
A lei ed Ash piaceva stare seduti con le gambe a penzoloni tra le
ringhiere di pietra, a sbirciare dall’alto del secondo piano
i discorsi dei loro genitori e degli ospiti. Peccato che se Ash
reputava tutto un gioco, una recita in cui loro erano gli astuti ed
indispensabili colleghi dell’agente 007, per Cathleen
origliare era un’occasione come un’altra per
accaparrarsi qualche segreto che magari, un giorno, le avrebbe fornito
la libertà.
Ripensando a quei giorni e al suo fratellino, non si era accorta che
Freddie era nel bel mezzo di un discorso quando lei smise di guardare
in alto e chiese frettolosamente: «Ash è in
casa?».
Freddie sarebbe risultato infastidito dall’interruzione se
solo Dio gli avesse concesso l’espressività
facciale, ma visto che il giorno della distribuzione lui si era
dimenticato di mettere la sveglia, rispose con la solita voce atona che
lo contraddistingueva: «Dovrebbe essere ancora sul campo da
tennis con la signora Shaw».
Cathleen annuì distrattamente e si avvicinò al
tavolino rotondo posto tra le
due poltrone più vicine, su cui aveva adocchiato il retro di
un portafoto. Prese la cornice dorata tra le mani e strinse le labbra
tanto forte da farle impallidire, realizzando che probabilmente
qualcuno si era davvero dimenticato della sua esistenza: suo padre, dal
volto sciupato ma pur sempre sorridente, che nella foto compariva
accompagnato soltanto da Trisha e Ash.
Artù le posò una mano sulla spalla e il
paramedico si voltò, ritrovandosi a pochissima distanza dal
suo viso col proprio, il quale subito avvampò.
«Va tutto bene?», le chiese apprensivo.
Cathleen annuì e si tolse lo zaino dalla spalla per
lasciarlo su una delle poltrone, quindi si rivolse al maggiordomo:
«Freddie, ci chiami tu quando le nostre stanze sono pronte?
Io faccio fare un giro ad Artù».
Il domestico si chinò un poco col busto, le mani unite
dietro la schiena. «Certamente, signorina
S–».
«Cathleen», lo interruppe bruscamente. A bassa
voce, già diretta verso il corridoio che li avrebbe portati
all’esterno, aggiunse: «Chiamami
Cathleen».
***
«Allora?», sbottò
all’improvviso Baqi, seduto al suo fianco nella sala
d’aspetto del quarto piano, di fianco alle grandi vetrate da
cui si potevano vedere le ambulanze in sosta e il parchetto di fronte
all’ospedale.
Hala sospirò, riconoscendo quel tono, e chiuse gli occhi
appoggiando la nuca sulla parete alle sue spalle. «Allora
cosa?».
«Quando hai intenzione di dirmi quello che mi stai
nascondendo?».
La ragazza si irrigidì e la gola le divenne arida tutto
d’un tratto. Troppe volte si dimenticava che una delle
fregature dell’essere gemelli era la capacità di
leggere l’uno nella mente dell’altro, che lo
volessero oppure no.
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse e si
sistemò meglio sulla poltroncina, incrociando le braccia al
petto e continuando a tenere gli occhi chiusi. Da quando erano
lì aveva serie difficoltà a dormire, un
po’ perché Baqi russava e un po’
perché pensava troppo: pensava a Merlino, alla bisnonna di
Abby, all’ospedale, a Keith… Keith!
Un’idea le balzò alla mente e dovette trattenersi
dal sorridere.
«Non pensavo semplicemente che tu volessi saperlo»,
rispose alla fine, sollevando le spalle.
«Probabile, ma mi dà i nervi non sapere. Sputa il
rospo».
«Il dottore che mi ha accompagnata da Abby il primo giorno
– il suo nome è Keith Ellis – mi ha
chiesto di uscire con lui».
Baqi tirò fuori la lingua, fingendo un conato.
«Bleah. Tu che gli hai risposto?».
«Che gli avrei fatto sapere».
«Tutto qui?».
«Tutto qui».
«Sicura non ci sia dell’altro?».
Hala aprì gli occhi e voltò il capo verso il suo,
sorridendo maliziosamente. «No, a meno che tu non voglia
sapere che cosa mi piacerebbe fargli».
Il gemello scosse la testa, ancora più disgustato, e si
alzò per andare a fare due passi.
Rimasta sola, Hala sospirò e guardò fuori dalle
vetrate, lasciandosi ipnotizzare da un paio di uccellini che volavano
l’uno accanto all’altro, intrecciando le loro
traiettorie di quando in quando.
Poi un’ambulanza con le luci accese attirò la sua
attenzione, frenando bruscamente una volta di fronte alle porte del
Pronto Soccorso. Subito un paio di infermiere e un dottore uscirono per
correre incontro ai paramedici e sentì il cuore finirle in
gola quando realizzò che il dottore in servizio era proprio
Keith, il quale distribuiva i compiti mentre esaminava i parametri
vitali del paziente.
Deglutì rumorosamente e poi sospirò, dicendosi
che doveva ancora dargli una risposta. Decise che più tardi
sarebbe andata da lui e avrebbe seguito il proprio istinto, in modo da
non avere ripensamenti.
Sarebbe andata come sarebbe andata e quel pensiero la
tranquillizzò, rendendole più facile raggiungere
la camera di Abigail.
***
Alex uscì dalla Centrale di polizia e si appoggiò
con la schiena ad uno dei pilastri del piccolo porticato per trarre una
lunga boccata d’ossigeno.
In quell’ufficio si era sentita soffocare ogni minuto di
più, almeno fino a quando non aveva toccato le mani di
Darrell: era stato come attaccarsi ad una bombola d’ossigeno
e allo stesso tempo respirare lava, talmente era bruciante il dolore
che aveva sentito al petto pensando a Merlino, il quale
l’aspettava a casa per trascorrere insieme il week-end.
Socchiuse gli occhi e respirò nuovamente, strofinandosi la
fronte.
Il senso di colpa aveva iniziato a divorarla dall’interno e
sapeva che non sarebbe mai stata bene, se non avesse trovato il modo
per espiarlo, almeno in parte. E fu così che le venne
un’idea: doveva recuperare il prototipo.
Ma come? Di certo non poteva rientrare e chiederlo a Darrell; le
avrebbe chiesto cos’era, come aveva fatto a perderlo nel
fitto del bosco... Avrebbe fatto domande a cui non avrebbe potuto
rispondere. No, aveva bisogno di agire di nascosto, senza che la
vedesse.
Fece il giro dell’edificio, passando sotto il profilo delle
finestre, agile e veloce come una ladra professionista, e una volta sul
retro si sollevò quel tanto che bastava per sbirciare dalla
finestra alle spalle delle due scrivanie.
L’agente Fisher era ancora seduto sulla sua poltrona, intento
a battere sulla tastiera del computer: sembrava stesse compilando un
modulo elettronico, forse quello della sua denuncia. Ad un certo punto
si fermò ed aprì Chrome, su cui rimase per una
decina di secondi senza scrivere nulla nella barra delle ricerche, come
se non sapesse proprio da che parte cominciare. A quel punto
cambiò idea e tornò al proprio lavoro, ma non
proseguì per molto: due minuti dopo, infatti,
ritornò su Google e quella volta scrisse qualcosa.
Alex era troppo lontana per riuscire a leggere l’oggetto del
suo interesse, perciò ci rinunciò e si
accovacciò per terra, con la schiena addossata alla parete
di assi di legno scuro e le ginocchia contro lo sterno.
Pensò ad una soluzione, pur sapendo fin
dall’inizio che c’era solo una cosa che potesse
fare. Tirò fuori dalla borsa il cellulare e
chiamò Merlino.
«Alex! Ma dove sei finita? Ti ho preparato il
pranzo!».
I sensi di colpa crebbero di colpo al pensiero di Merlino che cucinava
per lei e qualcosa le morse lo stomaco, qualcosa di ben diverso dalla
fame.
«Scusami, sono andata in Centrale per la denuncia e non
pensavo ci fossero così tante scartoffie da compilare.
Comunque avrei dovuto avvisarti, è colpa mia».
«Non c’è problema», rispose
amorevolmente il mago. «Ora stai tornando?».
«In realtà c’è
un’altra cosa di cui vorrei occuparmi... ma ho bisogno del
tuo aiuto».
Merlino esitò, forse preoccupato dal tono incerto che aveva
usato – e in effetti Alex non aveva idea di come sarebbe
andata a finire – e quando alla fine rispose lo fece con fin
troppa tranquillità: «Certo, che cosa devo
fare?».
L’infermiera respirò profondamente per prendere
coraggio, ma non ne trovò a sufficienza per spiegargli il
suo piano (anche se definirlo tale era un atto di spavalderia), anzi
iniziarono a venirle dei dubbi. Quindi fece retromarcia: «Ho
voglia di gelato. A te che gusti piacciono?».
Merlino dovette intuire che quello era un salvataggio in corner, ma
lasciò correre.
Quando pose fine a quella fallimentare telefonata, Alex tirò
fuori dalla borsa a tracolla il libro di magia che Gaius aveva
tramandato a Merlino e si strappò dal polso il bracciale di
Morgana.
Era stata un’idea stupida chiamare lo stregone: come aveva
potuto anche solo sperare che avrebbe acconsentito a farle usare la
magia senza prima averla addestrata a dovere su come controllarla?
Inoltre Merlino, abituato com’era a fare a meno dei suoi
poteri, avrebbe sicuramente trovato un metodo altrettanto efficace, e
forse anche più semplice, per far sparire il dispositivo
assorbi magia nera. Lei invece, per quanto stupido, rischioso ed
inutile potesse essere, voleva disperatamente mostrargli che poteva
farcela, che poteva e doveva fidarsi di lei. Voleva sorprenderlo,
renderlo orgoglioso, e non c’era modo migliore di questo.
«Non c’era modo migliore? Ma ti rendi conto di che
stupidaggine sia?!», le urlò contro Merlino,
paonazzo in volto. Sollevò il dispositivo che con
così tanta fatica Alex era riuscita a recuperare
dall’ufficio di Darrell e continuò: «Mi
stanno venendo in mente almeno una dozzina di modi diversi con cui
avremmo potuto recuperarlo! Ma tu hai preferito metterti in mostra,
rischiare di farti beccare e passare un sacco di guai, invece di darmi
retta! Perché con voi Pendragon è sempre
così difficile farsi ascoltare?!».
Alex tentò nuovamente di rispondere per le rime, ma si
sentiva così denigrata e demoralizzata che
abbassò semplicemente il capo ed evitando il suo sguardo
mormorò: «Mi dispiace».
Merlino non si aspettava una resa così rapida, infatti le
chiese di ripetere. L’infermiera ripeté, cosa che
non avrebbe fatto se non fosse stata davvero mortificata, poi prese la
confezione di polistirolo con dentro il gelato e un cucchiaio e se ne
andò in salotto, dove si rannicchiò sul divano a
guardare la TV.
***
Merlino diede un calcio ad una sedia, facendola rovesciare sul
pavimento, e poi si passò le mani sul viso. Appoggiato al
bordo del tavolo col fondoschiena, respirò profondamente per
calmarsi, ma per sbollirsi del tutto dovette uscire in veranda.
Camminare per il giardino, sotto un sole insolitamente caldo, gli
schiarii le idee e gli fece capire che aveva esagerato con Alex.
L’aveva aggredita con foga, urlando tanto da farle chiudere
forte gli occhi; le aveva riversato addosso tutto il nervosismo e la
frustrazione che sentiva da quella mattina, quando si era svegliato e
vedendo Artù addormentato al suo capezzale si era ricordato
di ciò che aveva detto e fatto la notte prima. Si era
sentito così in colpa che gli aveva preparato la colazione
migliore della sua vita, ma non era bastato per cancellare la vergogna
e riempire il vuoto che aveva iniziato a sentire in mezzo al petto dopo
aver riportato a galla il ricordo di Louise con Abby.
Louise… Non riusciva più a togliersela dalla
testa ormai e questo non faceva che peggiorare le cose: la voragine si
allargava di minuto in minuto, risucchiando come un buco nero qualsiasi
cosa sul suo cammino, e il solo pensiero di dover trascorrere con Alex
un intero week-end lo tormentava. Ricordava fin troppo bene
ciò che gli aveva detto Abby quando per la prima volta
l’aveva nominata: Alex non meritava di essere paragonata a
Louise, non meritava di dividere il suo cuore con un fantasma. Lei si
meritava il meglio, come Artù più e
più volte aveva affermato, e Merlino non era più
convinto di esserlo. Sapeva fin dall’inizio che non avrebbero
dovuto portare la loro relazione a quel livello, ma Alex era riuscita a
convincerlo, a fargli credere che il loro amore avrebbe sconfitto ogni
cosa… Avevano mentito a loro stessi, preferendo una dolce
bugia alla cruda realtà.
Merlino si fermò accanto al salice piangente e si
infilò una mano nella tasca dei pantaloni della tuta, dove
teneva il cofanetto che il signor Greenwood gli aveva in un certo senso
tramandato. Lo strinse forte nella mano e guardò il cielo,
chiedendo consiglio.
Amava Alex, ma non l’amava più di quanto avesse
amato Louise. Il
peso di quella verità gli crollò sul cuore,
lasciandolo affannato, e con gli occhi lucidi spostò alcuni
rami del salice, i quali poi tornarono al loro posto alle sue spalle,
proprio come una tenda in grado di assicurargli una certa privacy.
Si chinò e trovò un punto in cui le radici
dell’albero non fossero troppo vicine alla superficie; quindi
a mani nude iniziò a scavare una piccola fossa. Quando fu
soddisfatto del proprio lavoro, prese di nuovo il cofanetto di velluto
rosso tra le mani sporche e se lo portò alle labbra per
baciarlo ad occhi chiusi.
Alex meritava di sapere la verità, meritava di trovare
qualcuno che l’amasse più di ogni altra cosa o
persona al mondo. Se l’avesse sposata davvero, se avesse
fatto finta di nulla, se si fosse tenuto quel peso dentro, agendo
egoisticamente, era certo che questo lo avrebbe lentamente ucciso.
Mise il cofanetto nella buca e lo ricoprì fino a quando non
fu completamente sotterrato. Dopo un po’ si alzò,
guardò il segno scuro lasciato dalla terra smossa per quella
che gli sembrò un’infinità e
ritornò in cucina, dove si lavò con cura le mani,
facendo particolare attenzione alle unghie. Una volta cancellate le
prove – nonostante continuasse a sentirsi lercio dentro
– racimolò tutto il coraggio che ancora possedeva
e varcò la soglia del salotto. Lentamente si
avvicinò al divano e si sedette accanto ad Alex, mantenendo
però una distanza di sicurezza. (Anche se avesse voluto
avvicinarsi di più, l’infermiera sembrava come
avvolta da un campo di forza così potente che nemmeno la
magia sarebbe riuscita a spezzare).
«Perdonami se ho alzato la voce, ho esagerato»,
esordì con semplicità, guardando il profilo del
suo viso rivolto verso la televisione. «Continuo a pensare
che tu abbia corso un rischio inutile e sono ancora arrabbiato con te
perché mi hai tenuto all’oscuro di tutto, ma
questo non significa che io non sia impressionato».
Quel risvolto improvviso catturò l’attenzione di
Alex, la quale spense la televisione e si girò verso di lui,
infilando una gamba sotto l’altra. Ciò nonostante
non fu abbastanza e non aprì bocca, lasciando continuare
Merlino.
«Che cosa avrei fatto, se Darrell ti avesse visto utilizzare
la magia?», le domandò, sollevando una mano verso
il suo viso.
Alex chiuse gli occhi: non più perché in quel
modo sperava di non sentire le sue urla, piuttosto per dargli il tacito
consenso di toccarla. Il mago le accarezzò la guancia e poi
la strinse forte contro il suo petto, immergendo il viso tra i suoi
capelli biondi. Respirò profondamente e in quel momento
realizzò che non poteva in alcun modo lasciarla andare:
poteva sopportare di mentirle, poteva morire lentamente – lo
stava già facendo, dopotutto – ma non poteva
vederla infelice. Perché lui ci aveva già
provato, ad allontanarla, e non ci era riuscito. Anzi, aveva solo fatto
del male ad entrambi. Alex non si era mai arresa, aveva lottato con le
unghie e con i denti, ed era certo che qualsiasi cosa le avesse detto
lei non avrebbe smesso di amarlo. E lui neanche, nonostante il pensiero
di Louise avesse infettato una buona parte del suo cuore.
Non le avrebbe detto nulla di lei, ma non le avrebbe nemmeno dato
l’anello un tempo appartenuto a sua madre, quello che Edwin
le aveva regalato quando si erano fidanzati e che qualche giorno prima
aveva consegnato a lui perché facesse la proposta ufficiale
a sua figlia. La sua unica possibilità era che il suo
destino si compisse il prima possibile.
I suoi stessi pensieri lo nauseavano, eppure riuscì a
trovare la forza per allontanarsi quel tanto che bastava per guardarla
negli occhi ed esclamare con finta eccitazione: «Ti conviene
iniziare a raccontare, perché voglio sapere tutto, ogni
particolare, anche il più superfluo».
Il sorriso di Alex si allargò e senza farselo ripetere due
volte gli spiegò che all’inizio era stata
fortunata, dato che Darrell si era allontanato per andare in bagno. Gli
descrisse l’incantesimo che aveva usato per aprire la
finestra e quello per aprire a distanza il cassetto della scrivania, da
cui poi aveva fatto volteggiare verso di sé il prototipo.
Poi aveva ammesso che era stato difficile utilizzare così
tanta magia tutta insieme, ma non era stata la parte peggiore.
Pronunciare correttamente e con la giusta intonazione le parole nella
lingua della Religione Antica infatti, era stato ciò che
l’aveva fatta sudare di più, tanto che aveva
rischiato di far schiantare il prototipo contro il soffitto quando
finalmente aveva avuto successo con la telecinesi.
Merlino l’aveva ascoltata in silenzio, senza interromperla
mai e fingendosi incredulo: in verità sapeva già
a grandi linee quello che era successo… l’aveva
dolorosamente percepito.
Alex aveva iniziato ad accumulare un po’ di potere e a
tenerselo da parte nell’organismo, forse assorbendolo
inconsciamente da lui con il semplice stargli vicino. E mentre lei era
all’opera per cercare di renderlo orgoglioso, Merlino si era
ritrovato improvvisamente senza forze ed era quasi svenuto di fronte ai
fornelli, col sangue che gli bruciava nelle vene e con la sensazione
che ogni organo del suo corpo stesse per collassare.
Merlino continuò ad ascoltarla rapito e a sorridere, conscio
che non le avrebbe confessato nemmeno questo.
Diceva sempre che i Pendragon non sarebbero mai cambiati: gliene faceva
una colpa, c’erano momenti in cui li odiava per questo, ma
non aveva mai capito prima di allora che la verità era che
loro non potevano
cambiare. All’improvviso aveva realizzato
che, al contrario, lui avrebbe potuto, ma non l’avrebbe mai
fatto. Per scelta.
Questo lo rendeva una cattiva persona? Era ancora definibile una
persona, dopo più di millequattrocento anni di vita? Merlino
non lo sapeva. Era solo stanco, tanto stanco, e scegliere
ciò che era sempre stato – un bugiardo
doppiogiochista – era e sarebbe sempre stata la scelta
più facile.
***
Artù seguì Cathleen attraverso
l’immenso maniero in silenzio, evitando di farle domande o
semplicemente di confessarle che si sentiva perfettamente a suo agio
tra quelle mura, quasi come si sarebbe sentito se si fosse ritrovato a
passeggiare tra i corridoi e le sale di Camelot. Aveva intuito che per
Cathleen non era lo stesso, dal suo passo nervoso e dal suo continuo
guardarsi intorno: sembrava che avesse fatto di tutto per dimenticarsi
quei luoghi ed era come se, più che considerarla una casa,
il paramedico la ritenesse una specie di prigione, una gabbia
d’oro in cui aveva sperato ardentemente di non dover
più tornare.
Artù capì di aver avuto ragione quando si
ritrovarono di nuovo all’aperto e Cathleen trasse un sospiro
di sollievo, come se invece all’interno fosse stata in apnea.
«Di qua», gli disse, indicandogli di fare il giro
intorno alla piscina olimpionica intorno alla quale c’erano
decine di lettini prendisole e diversi ombrelloni da spiaggia.
Poco più in là, in un angolo più
appartato del giardino, c’era anche una specie di tinozza di
legno simile a quella che usava lui per fare il bagno al castello, solo
dalle dimensioni extra-large, e purtroppo non ebbe modo di chiedere a
Cathleen quale fosse il suo utilizzo.
Oltre alla piscina c’era un ampio gazebo in ferro circondato
da bellissimi cespugli di fiori, sotto cui prendere un tè in
tutta tranquillità, e proseguendo per un’altra
ventina di metri il giardino sembrava terminare bruscamente, quasi a
strapiombo, permettendo di intravedere in lontananza la linea blu del
mare che si fondeva con quella più chiara del cielo.
Cathleen proseguì senza paura verso il bordo e quando si
accorse che Artù aveva smesso di seguirla si
voltò per rivolgergli un sorriso e stendere una mano verso
di lui. Allora il biondo la raggiunse e sospirò quando si
rese conto che era solo un effetto ottico: non c’era alcuno
strapiombo in realtà, solo una scalinata di pietra infinita
che portava ai due campi da tennis.
Fu una passeggiata scendere, ma Artù già sudava
al pensiero di doverla risalire per tornare al maniero.
Sui campi di terra rossa c’erano solo due persone che stavano
giocando: una donna coi
capelli e gli occhi castani, che poteva avere dai trenta ai
cinquant’anni – per Artù era
tremendamente difficile riconoscere l’età delle
persone di quell’epoca a causa di tutto ciò che
facevano per sembrare più giovani ed attraenti – e
un ragazzo che per via della corporatura esile non dimostrava
più di diciotto anni.
Quest’ultimo dava loro le spalle e dovette aspettare che la
donna dall’altra parte della rete non rispondesse
volontariamente al servizio prima che potesse constatare che anche il
suo viso, dai lineamenti incredibilmente delicati, quasi androgini,
mostrava ancora i segni dell’adolescenza.
«Oh, per favore!», esclamò con voce
stridula, quando la donna mollò la presa sulla racchetta e
lasciò che la pallina le rimbalzasse accanto senza battere
ciglio. Abbassò le braccia, sbuffando sconsolato, e si
voltò per seguire la traiettoria dello sguardo della donna,
urlando ancora: «Posso sapere che cosa diavolo
stai…?». Si interruppe bruscamente
però, iniziando a boccheggiare come un pesce fuor
d’acqua, una volta incrociato lo sguardo di Cathleen, la
quale, notò Artù, stava esibendo il suo primo
sorriso di gioia da quando avevano varcato il cancello della Residenza
Shaw.
«Ehi, coglioncello, perché mi guardi con quella
faccia da ebete?», gli domandò la rossa,
portandosi una mano sul fianco.
Il ragazzo ghignò e la imitò, rispondendo:
«Brutta stronza che non sei altro, sei per caso
ingrassata?».
Artù non riusciva a capire cosa stesse accadendo e,
nonostante fosse sconvolto e ad occhi sgranati, non osò
intervenire per difendere il paramedico. Fu la mossa giusta,
perché dopo qualche altro insulto i due si corsero incontro
e si abbracciarono forte, girando in tondo. Probabilmente era
così che si salutavano e si dimostravano affetto reciproco.
La gente del ventunesimo secolo gli sembrava sempre più
strana.
«Perché non mi hai avvisato che saresti venuta? Mi
sarei fatto trovare pulito!», gridò ancora il
ragazzo – se avesse continuato così,
Artù a fine giornata si sarebbe ritrovato sordo –
prendendosi la maglietta del completo bianco tra le dita e tirandosela
verso il naso per asciugarsi il sudore sulle guance. Poi bisbigliando
aggiunse: «Di sicuro avrei avuto la scusa per non giocare con
mia madre. Io odio il tennis».
Cathleen rise e quel suono fu musica celestiale per Artù, il
quale dimenticò tutto il resto e sentì soltanto
una grande pace interiore.
«È stata una cosa decisa all’ultimo
momento. E poi volevo fosse una sorpresa», gli
spiegò, arruffandogli i lunghi capelli neri tenuti indietro
da una fascia di spugna bianca.
Il ragazzo le allontanò la mano, ma a Cathleen quel gesto
non piacque e gli avvolse rapidamente un braccio intorno al collo per
strofinargli il pugno sulla testa con più insistenza, quasi
come faceva lui con Merlino ogni tanto.
«Piantala!», si lamentò il moro, anche
se ridendo, e il paramedico decise di mostrare clemenza liberandolo.
«Sei sempre la solita», bofonchiò, ma
risultò più un complimento che un rimprovero. Poi
il ragazzo fissò gli occhi in quelli di Artù e
questo si sentì quasi intimidito dalla loro
particolarità: l’iride era in prevalenza grigia,
ma intorno alla pupilla nera c’era un’aureola color
rame. Erano semplicemente incantevoli, tanto da togliere il respiro, ma
il sovrano evitò di dirlo ad alta voce e distolse lo sguardo
per guardarsi alle spalle, fingendo di non aver capito che stesse
fissando proprio lui.
Alla fine il ragazzo ruppe il silenzio, esclamando con un sorrisino
malizioso dipinto sul volto: «E nemmeno le tue buone maniere
sono migliorate. Posso avere l’onore di sapere chi
è questo manzo che ti sei portata dietro?».
Artù si sentì arrossire fino alle punte dei
capelli e guardò Cathleen, sperando che almeno lei lo
salvasse dall’imbarazzo. Purtroppo non fu così,
perché lo prese per il braccio e si chinò verso
il ragazzo, sussurrando: «Non ci provare, Ash. Lui
è mio».
«Te pareva», bofonchiò il moro prima di
porgere una mano verso di lui.
«Artù, lui è Ash, mio fratello. Ash,
lui è Artù».
«Ed è…?», la
incalzò e fu lei quella volta ad essere travolta
dall’imbarazzo.
«Ci stiamo lavorando», rispose Artù per
lei, anche se avrebbe preferito di gran lunga starne fuori, mentre
stringeva la mano di Ash.
«Questa sì che è una sorpresa coi
fiocchi!».
Tutti sobbalzarono e si voltarono verso la donna che si era avvicinata
a loro.
Artù avrebbe capito che era la madre di Ash semplicemente
ascoltandola parlare: aveva lo stesso tono di voce del figlio,
inconsapevolmente alto e un po’ stridulo, e anche i tratti
del viso erano pressoché identici. Ciò che non
riusciva a capire era come quella donna potesse avere un qualche legame
di parentela con Cathleen: erano l’una l’opposto
dell’altra, eccezion fatta forse per il decolté
– incredibile ma vero, quello della madre di Ash sembrava
essere ancora più… Si costrinse a cancellarsi
dalla testa quell’immagine e si schiarì
rumorosamente la gola, beccandosi un’occhiata sia da Cathleen
che da Ash.
La donna si sporse verso il paramedico e prima che potesse sottrarsi
l’abbracciò forte, accarezzandole i capelli.
«Ci sei mancata tanto, Kitty».
Al contrario di Ash, Artù si trattenne nel fare una smorfia
sentendo quel soprannome. Conoscendola, dubitava che Cathleen lo
gradisse, eppure non disse niente e quando si scostò
abbozzò persino un sorriso, chiedendo: «Come stai,
Trisha? In forma come sempre, vedo…».
Indicò il suo seno pronunciato, visibile grazie
all’ampia scollatura della polo bianca abbinata alla gonna
cortissima. «Le hai gonfiate ancora un
po’?».
La donna abbassò gli occhi e si strizzò i seni
con fare amorevole ed orgoglioso. «Oh sì,
l’hai notato? Non sono bellissime?».
Cathleen guardò Artù con la coda
dell’occhio e trattenendo una risata rispose:
«L’importante è che piacciano a
papà».
«Forse non è…»,
iniziò a dire Ash, allarmato, ma la madre non lo fece finire.
«Tuo padre ed io siamo nel bel mezzo di una crisi, ma sono
sicura che col tempo la supereremo».
Cathleen evidentemente non se lo aspettava, perché
corrugò la fronte e guardando Ash e Trisha
corrugò la fronte. «Una crisi? Perché,
che cos’è successo?».
«Tesoro, ci sono così tante cose che non
sai…», le disse teneramente, posandole una mano
sulla schiena. «Forse dovremmo sederci e parlare un
po’, che ne dici?».
«In realtà preferivo far sistemare Artù
e farmi una doccia prima di vedere papà».
«No, zuccherino, a meno che non andremo noi da lui, tuo padre
non ci sarà».
Cathleen sospirò, afflitta, e al contempo strinse i pugni
lungo i fianchi. «Ho capito, papà non mi considera
più sua figlia da quando sono scappata e vuole che vada da
lui a prostrarmi ai suoi piedi e a scusarmi, ma si sbaglia di grosso se
io…», si interruppe notando lo sguardo apprensivo
di Trisha. Artù inoltre scorse nello sguardo di Ash
un’ansia che non seppe a cosa attribuire ed istintivamente
prese la mano di Cathleen, proprio mentre lei sbottava:
«Allora, vuoi dirmi perché mi guardi
così? Sembra che…». Il paramedico
impallidì all’improvviso e balbettò:
«Papà sta bene, vero?».
Trisha si precipitò a rassicurarla, massaggiandole la
schiena con la mano: «Ma sì, certo tesoro, sta
bene».
«Mamma», la rimproverò Ash, lanciandole
un’occhiata tagliente. «Non mentirle, non
è una bambina».
«Ma…».
«Che cos’ha?», domandò
Cathleen, guardando prima l’uno e poi l’altra.
Quando ripeté la domanda, strinse così forte la
sua mano che Artù dovette serrare i denti per non
lamentarsi.
Ash alzò semplicemente gli occhi verso il maniero ed
aspettò che Cathleen si voltasse e facesse lo stesso.
Artù, travolto dalla curiosità, la
imitò.
Dietro ad una delle finestre del piano più alto si scorgeva
il volto pallido ed emaciato di un uomo coi capelli bianchi e gli occhi
resi folli dalla rabbia. Guardava proprio verso di loro, ma non
sembrava per nulla intenzionato ad aprire la finestra per salutarli.
«Quello che intendevo dire, tesoro»,
iniziò a dire Trisha, il più pacatamente
possibile, «è che Roger non può uscire
dalle sue stanze».
Artù voleva sapere di più, capire che cosa
significassero quelle parole, ma
rispettò il silenzio di Cathleen e le rimase accanto
lasciando che gli stringesse forte la mano. Quando
all’improvviso scostò lo sguardo e si diresse
verso delle strane automobili aperte sui lati, il sovrano si
lasciò trascinare senza porre domande, seguito anche da un
Ash cupo e dal collo infossato tra le spalle.
Il paramedico gli lasciò la mano solo per ordinargli di
salire sul posto del passeggero e di reggersi forte. Il fratello aveva
appena fatto in tempo a salire sulla piccola vettura prima che la
facesse partire in quarta verso una galleria che attraversava
l’immenso giardino.
Artù immaginò l’enorme piscina sopra di
loro, i litri e litri d’acqua che si sarebbero potuti
riversare in quel tunnel in ogni momento, e l’aria
iniziò a mancargli dai polmoni, ma nemmeno respirare
velocemente lo aiutò a riempire il vuoto che sentiva
schiacciarlo da dentro. Stava avendo un attacco di panico che, se
sommato ai suoi speciali problemi di cuore, poteva essergli fatale.
Merlino gli aveva raccomandato più volte di stare attento e
non fare sforzi, visto che non avevano ancora recuperato il
dispositivo, ma lui gli aveva dato dello stupido: a che serviva
preoccuparsi tanto? A quanto pare, con lui non c’era affatto
da stare sereni.
«Ehi, amico, stai bene?», gli domandò ad
un tratto Ash, sporgendosi tra lui e Cathleen.
Solo allora il paramedico si accorse delle sue condizioni, ma
anziché fare retromarcia premette ancora di più
il piede sull’acceleratore e gridò: «Non
ti ci mettere anche tu, ora! Ho appena scoperto che
l’agorafobia di mio padre è peggiorata e che mio
fratello me ne ha tenuto all’oscuro… Non puoi
spaventarti per una galleria!».
Artù avrebbe voluto scusarsi e allo stesso tempo gridarle
contro che non era colpa sua, che non doveva mancargli di rispetto e
avrebbe voluto ricordarle che a Camelot era il più valoroso
degli uomini e che non aveva mai sofferto di questi problemi. La
verità però era che aveva smesso di respirare del
tutto.
Quando la galleria finalmente finì, facendoli sbucare di
fronte a diversi cespugli disposti a mo’ di mini-labirinto,
Artù trasse un respiro così profondo che
sentì male dappertutto.
Cathleen tirò il freno a mano ancor prima che il piccolo
veicolo si fosse fermato e si voltò verso di lui per
controllargli i parametri vitali. Certa che stesse bene, gli
posò un bacio sulle labbra – un po’
migliorando e un po’ aggravando le sue condizioni –
e gli accarezzò il viso.
«Scusami, mi sono dimenticata della tua claustrofobia. Ora va
meglio?».
Artù annuì, deglutendo più volte, e si
sporse per baciarla di nuovo, ma Ash urlò: «Oh, vi
prego, mi farete venire il diabete!».
«Non dovevi andare a fare doccia, Ash?», gli
ricordò la sorella, a denti stretti.
«Puzzi».
«’kay, me ne vado».
Il ragazzo saltò giù dal veicolo e si diresse
verso un ingresso secondario senza mai guardarsi le spalle.
Artù aprì la bocca per chiedere a Cathleen la
vera natura del loro legame – come Trisha non poteva essere
la sua vera madre, Ash non poteva essere suo fratello di sangue
– ma fu azzittito direttamente dalle sue labbra. Chiuse gli
occhi e si rilassò, godendosi quel momento come se fosse
l’ultimo, e per la prima volta riuscì a non
sentirsi in colpa nei confronti di Ginevra. Quel pensiero lo fece
sorridere e il paramedico fece istintivamente lo stesso, per poi
scostarsi, pur rimanendo con la fronte contro la sua, e chiedergliene
il perché.
«Non eri costretta a portarmi qui, a farmi conoscere la tua
famiglia», le disse, sistemandole una ciocca di capelli
dietro l’orecchio. «Vedo che stare qui ti rende
nervosa, sai?».
Cathleen scrollò le spalle, abbassando gli occhi.
«Tu mi hai raccontato tutto di te e io… volevo
ricambiare. E spiegarti il perché ho detto quelle cose
riguardo alle famiglie con nomi importanti».
«E io te ne sono infinitamente grato, Cathleen, ma devi
promettimi che se non dovessi più farcela, me lo dirai e ce
ne andremo. Siamo d’accordo?».
«Siamo d’accordo».
Artù sorrise e le posò un nuovo bacio sulle
labbra, poi scese dalla piccola auto senza portiere e strizzando gli
occhi per la luce abbagliante del sole alzò il viso verso il
piano più alto del maniero, nella direzione dove supponeva
si trovasse la finestra attraverso la quale avevano visto il padre di
Cathleen.
«Che cos’ha tuo padre? Perché non
può uscire dalle sue stanze?», le chiese e quando
si rese conto della poca delicatezza con cui aveva posto quelle domande
era ormai già troppo tardi.
Cathleen però non si pose il problema e rispose pacatamente,
quasi con distacco, come se si riferisse ad un paziente qualunque e non
a suo padre: «Si chiama agorafobia. È una
manifestazione ansiosa: chi ne soffre ha paura di stare in posti
affollati o in grandi spazi all’aperto… insomma,
di uscire dalla propria “zona sicura”».
Artù aveva individuato la finestra, ma il signor Shaw non
c’era più. «E da cosa è
causata?», chiese ancora.
«Dipende». Cathleen si strinse nelle spalle e
cercò il pacchetto delle sigarette per accendersene una. Con
il filtro tra le labbra, continuò: «Paura del
nuovo, dello sconosciuto, di non riuscire a controllare la situazione
intorno a sé, disturbi
ossessivi-compulsivi…».
Il re si voltò verso di lei, sempre più
incuriosito. Voleva chiederle di più, chiederle
perché suo padre si fosse trovato rinchiuso nelle sue
stanze, da quanto tempo soffriva di agorafobia e come aveva potuto lei,
sapendolo, non preoccuparsi della sua salute per ben undici anni. Non
sapeva però da dove cominciare e aveva paura di risultare
troppo invadente.
«A che cosa stai pensando?», gli chiese ad un
tratto, riportandolo alla realtà. Cathleen sorrideva e
Artù si umettò le labbra, incerto.
Fu lei alla fine a parlare, esclamando: «E va bene. Volevo
aspettare, ma ti racconterò l’intera
storia».
Artù avrebbe voluto dirle che non c’era fretta,
che non doveva farlo per forza, ma non ci riuscì, in parte
perché avrebbe mentito e in parte perché lei non
gli diede il tempo di aprire bocca: lo prese semplicemente per mano e
lo portò in casa, al fresco, trascinandoselo per gli
infiniti corridoio e di salottino in salottino, ognuno con una diversa
carta da parati e diverse tappezzerie per divani.
Poi arrivarono ai piedi di un’ampia scalinata di marmo, quasi
a chiocciola, e una volta terminata, al secondo ed ultimo piano, si
trovarono di fronte l’ennesimo corridoio. La stanza che
cercavano però era proprio davanti alle scale, la porta
chiusa e calda a causa del sole che entrava dall’alta
finestra lì accanto.
Cathleen posò la mano sul pomello, ma prima di entrare si
girò verso di lui e lo guardò profondamente negli
occhi, quasi come a cercare un incoraggiamento. Artù le
rivolse un pallido sorriso, senza sapere cosa dire. Dovette bastare,
perché il paramedico aprì la porta e trasse un
lungo sospiro.
La guardò fare qualche timido passo all’interno e
guardarsi intorno con aria spaesata, gli occhi lucidi di lacrime.
Quando la raggiunse, corrugò la fronte cercando di collegare
tutti i pezzi.
La stanza era grande, priva di mobilia ma piena zeppa di vasi colmi di
fiori freschi, ed era inondata di luce grazie all’immensa
vetrata da cui si riuscivano a scorgere il mare e le scogliere della
baia in lontananza. Erano dall’altro lato della casa,
perciò la piscina, il gazebo e i campi da tennis non si
vedevano. Da lì, la vista era solo verde, verde, verde,
cielo e mare. Uno spettacolo.
Dall’altro lato della stanza, sul muro opposto alla vetrata,
era stato appeso un quadro gigantesco il cui soggetto era una donna
bellissima, col volto spruzzato di efelidi e dai lineamenti fini e
delicati e gli occhi color nocciola. Era stata ritratta dal busto in su
e probabilmente avrebbe dovuto assumere una postura composta, seriosa,
ma anche volendo non ci sarebbe mai riuscita. C’era qualcosa
in lei che ti costringeva a volerle bene e a trovarla simpatica: forse
la sua chioma pel di carota e naturalmente scompigliata, oppure la
scintilla di pura genuinità che brillava nei suoi occhi, o
ancora il suo sorriso contagioso.
Artù riusciva ad immaginarsela mentre veniva costretta a
star ferma su quello sgabello, e ogni volta che il ritrattista
abbassava gli occhi sulla tavola gli faceva le boccacce o assumeva pose
provocanti. Quella fantasia lo fece sorridere ed istintivamente
posò lo sguardo su Cathleen: una lacrima le era rotolata su
una guancia, fino a nascondersi nella tenerissima fossetta che le
spuntava tutte le volte che mostrava il suo sorriso più
bello e più raro, lo stesso sorriso della donna nel
ritratto.
Si avvicinò a lei di qualche passo e senza guardarla fece
scivolare le dita della mano destra tra le sue, intrecciandole piano.
Cathleen tirò su col naso e finalmente parlò,
dicendo ciò che Artù già sapeva:
«Lei è mia madre, Helena».
«Siete due gocce d’acqua», disse a bassa
voce, come se si trovassero in una vera cappella, un santuario in cui
commemorare il ricordo di quella donna tanto amata e che evidentemente
se n’era andata troppo presto.
«Sì, è vero. È stata la mia
benedizione e la mia rovina».
«Perché?». Come poteva essere una
rovina, essere tanto belle e vere allo stesso tempo?
Cathleen si prese una ciocca di capelli tra le dita ed
iniziò a tirarla, nervosamente. «Forse
è per questo che mio padre ha iniziato a dare di matto. Ma
partiamo dall’inizio, okay?».
Si avvicinò in fretta alla specie di altare che era stato
innalzato sotto al ritratto di Helena e Artù la
seguì.
La rossa indicò una delle tante fotografie posate
sul ripiano, accanto ad un lume acceso, e raccontò:
«Mia madre morì quando avevo nove anni. Lei era
davvero una forza della natura, energica ed iperattiva, ma anche un
po’ incosciente. Sottovalutava sempre il pericolo, o questa
è l’idea che mi sono fatta di lei quando
è morta». Fece una breve pausa, scuotendo il capo
mestamente. «Sai che non me la ricordo quasi più?
Non mi ricordo la sua voce, il suo profumo… Sono passati
vent’anni ormai, però pensavo che…
Insomma, è la mia mamma, pensavo non avrei potuto
dimenticarmela».
Artù deglutì e prese coraggio per dire:
«La mia è morta dandomi alla luce, se questo
può farti stare meglio. L’ho vista per la prima
volta con Merlino, grazie alla magia. Non so nemmeno se fosse
così, da viva. Ma quella riproduzione non aveva nessun
profumo».
Cathleen tornò a prendergli la mano, ma non gli disse nulla
per tirarlo su di morale, non lo compatì, e Artù
lo apprezzò molto.
«Hai visto che tutte le finestre hanno le
inferriate?», gli chiese.
«Sì, ho notato».
«Le ha fatte mettere mio padre dopo la sua morte. Prima non
c’erano, anche perché… a che scopo? Le
finestre dei corridoi le hai viste, non sono a livello del pavimento.
Sto divagando.
«Mio padre le ha fatte mettere lì
perché mia madre era un’amante della natura e
degli animali. Cioè, non proprio per questo, ma capirai.
«Mia madre adorava i canarini, dico davvero. In questa
stanza, la più fresca e meno soleggiata del maniero, mamma
teneva tutti i suoi canarini: ne avremmo avuti una ventina. Le piaceva
svegliarsi sentendoli cantare e stava con loro per ore, a parlare, a
curare le loro gabbiette… robe così.
«Un giorno passando per un corridoio di questo piano
sentì un cinguettio. Veniva dall’esterno, ma non
era un uccellino di passaggio. Incuriosita, ha trovato un binocolo ed
è scesa in giardino per scoprire da dove provenisse. Ci
riuscì: due uccellini avevano fatto il nido proprio sopra
una delle finestre del corridoio, nella grondaia, e non poté
resistere alla sua estrema passione per quegli animali.
Tornò in casa, rubò un pezzo di pane dalla cucina
e corse alla finestra. Si arrampicò sul davanzale, tenendosi
aggrappata alla stessa grondaia, e quando gli uccellini scapparono via
spaventati, lei perse l’equilibrio. Non si sa se avesse
mollato la presa di proposito per acchiapparli o se fu solo una
fatalità. Sta di fatto che lei cadde proprio di fronte
all’ingresso, con il pezzo di pane ancora in mano.
«Questo è quello che mi ha raccontato di nascosto
il giardiniere, che ha visto tutta la scena. Mio padre non ha mai
voluto dirmi quello che è successo davvero, forse pensava
che fosse un modo troppo stupido per morire, indegno di Helena, o forse
se ne vergognava soltanto. Io ricordo che lo trovai poetico, ricordo di
aver scritto sul mio diario che la mia mamma era morta da eroina,
perché voleva salvare dalla fame un paio di uccellini.
«Quando mio padre è stato avvisato di
ciò che era successo, è rimasto sulla soglia
dell’ingresso, incapace di raggiungere mamma sul selciato, e
quel rifiuto ha dato il via alla sua agorafobia. Non è
più uscito di casa da quel momento. Ci abbiamo provato in
tutti i modi: io, Freddie, gli psicologi… Non appena
provavamo a farlo uscire, anche per fargli fare una semplice
passeggiata in giardino, non importava di fronte a quale porta lo
portassimo… lui iniziava a gridare e a dire che
c’era Helena di fronte a lui, con la testa spaccata e il
sangue che scorreva tra le fughe delle piastrelle di mattoni.
«Da allora non è più stato lo stesso,
era irriconoscibile. Non riusciva più a stare davanti ad una
finestra aperta, soffriva di paranoia, di insonnia, era
lunatico… E il fatto che io somigliassi così
tanto a mamma non ha aiutato. C’erano momenti in cui mi
odiava e non sopportava la mia vista, altri in cui non poteva starmi
lontano e mi costringeva a tenerlo per mano ovunque decidesse di
andare. Capisci che per una bambina della mia età fu
traumatico. L’unico modo per sfuggire alla pazzia di mio
padre era stare all’aperto, dove lui non avrebbe mai potuto
raggiungermi, e ovviamente camuffare il mio vero aspetto. Iniziai coi
capelli, chiedendo ad una delle cameriere di tagliarmeli come quelli di
un maschio. Poi passai ai vestiti, sbarazzandomi delle gonne e delle
scarpe carine. A tredici anni scoprii i trucchi e da quel momento in
avanti iniziai a sperimentare fino a quando non raggiunsi questo
risultato», si indicò il volto stiracchiando un
sorriso quasi imbarazzato.
Artù avrebbe voluto approfondire l’argomento, ma
al momento c’era un’altra questione che lo
interessava: «Aspetta un attimo. Quand’è
che entrano in scena Ash e Trisha? Soprattutto…
com’è successo? Con tuo padre recluso tra queste
mura…».
Cathleen sorrise e lo prese per mano per farlo uscire dalla stanza
dedicata a sua madre. Camminarono un po’ per i corridoi del
secondo piano, fino a quando non raggiunsero un alto parapetto in
pietra: si affacciarono e Artù si rese conto con immenso
stupore di essere sopra il primo salotto che avevano incontrato
entrando nella residenza, scortati da Freddie.
Il paramedico sorrise furbetta e si sedette per terra, infilando le
gambe tra le colonne del parapetto, così da avere i piedi
penzoloni nel vuoto. Artù non poté fare altro che
imitarla.
«Mio padre faceva davvero una vita da recluso,
così decise di portare la vita qui dentro. Ogni sera
c’era un party diverso e lui intratteneva i suoi ospiti come
se nulla fosse successo. Fu proprio qui, in questo salotto, che mio
padre e Trisha si incontrarono per la prima volta. Lei al tempo era
fidanzata con un altro riccone, vivevano su uno yacht – una
barca molto lussuosa».
«Grazie per la spiegazione», le disse, anche se
sorridendo.
«Dovere», replicò, ridacchiando.
«Ad ogni modo poco tempo dopo Trisha mollò quel
tipo e me la ritrovai qui, con un figlio di sei anni al seguito; io ne
avevo tredici e Ash non mi piacque subito. Poi capii che eravamo sulla
stessa barca e tanto valeva remare insieme».
«Ora siete molto legati?».
«Moltissimo. Non abbiamo lo stesso sangue, ma è
come se fosse mio fratello a tutti gli effetti».
«Eppure… tu sei andata via, mentre lui
è ancora qui. Da quanto tempo non vi vedevate?».
Cathleen si rabbuiò e Artù si pentì di
quella domanda. Avrebbe voluto scusarsi, ma lei liquidò
l’argomento, dicendo con tono ferale: «È
stata una sua scelta». Quindi riprese da dove aveva lasciato,
per poi rendersi conto che non c’era nient’altro da
dire, o almeno nulla che volesse confidargli al momento. Una cosa per
volta: Artù lo capiva bene e non le avrebbe fatto pressioni.
Il pesante silenzio che era piombato su di loro venne interrotto dal
maggiordomo, il quale, passando per il salotto sotto di loro,
alzò il capo ed esclamò: «Signorina
Cathleen, le vostre stanze sono pronte se volete».
Lei non parlò, ma riuscì a leggerle in faccia
ciò che pensava: “Giusto in tempo”.
Artù sospirò e si alzò, seguendola
giù per l’ennesima scalinata di marmo, solo che
questa era spigolosa, più convenzionale e maestosa, e non a
chiocciola.
«Facci strada, Freddie».
Seguirono il domestico dall’altro lato della casa e poi
salirono al primo piano. Durante il tragitto Cathleen lo aveva anche
affiancato e gli aveva stretto il braccio, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio. Il sovrano aveva afferrato qualche parola, quel
che bastava per capire che lo stava ringraziando per aver tenuto in
ordine la stanza di sua madre.
«È un piacere, signorina. Ogni mattina raccolgo
personalmente i fiori».
A quella risposta ad alta voce, Cathleen guardò
Artù con la
coda dell’occhio, rossa come un peperone, come se si
vergognasse di sentire la mancanza di sua madre. Lui
avrebbe voluto dirle che non c’era nulla di male, ma fu solo
una delle tante considerazioni che non riuscì a farle.
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Capitolo 25 *** 25. The secret sharer - Part II ***
25. The secret
sharer – Part II
«Ah».
Cathleen si bloccò di fronte alla porta che le aveva appena
indicato Freddie, con una smorfia sul viso.
«Se desidera una stanza in particolare...»,
iniziò a dire il domestico, ma il paramedico scosse il capo
con finta noncuranza e lo ringraziò prima di entrare.
Sentì Artù seguirla all’interno e per
spiegargli che cosa le era preso dovette raccogliere tutto il coraggio
che le era rimasto dopo il racconto sull’incidente di sua
madre.
Fece un mezzo giro su se stessa con le braccia aperte e si
fermò solo quando fu di fronte all’ex re di
Camelot; allora mimò un piccolo inchino, piegando appena le
ginocchia verso terra, ed esclamò: «Benvenuto
nella mia cameretta».
Lui si guardò intorno per una manciata di secondi,
soffermandosi sulle bambole di porcellana in posa sulle mensole, sulle
grandi vetrate che davano sulla piscina, sul dresser principesco e poi
sulla grossa custodia di velluto blu posata accanto a due grossi armadi
e un paravento. Quando finalmente tornò a concentrarsi su di
lei, Cathleen rabbrividì per
l’intensità con cui i suoi occhi blu la fissarono:
ogni volta era come se il mare stesso le entrasse dentro, agitandosi e
riportando in superficie emozioni che pensava di aver dimenticato.
«In questa stanza c’è così
poco della Cathleen che conosco... Da bambina dovevi essere
un’altra persona, prima che, insomma...».
«Oh no», lo interruppe, aiutandolo ad uscire
dall’intricato groviglio in cui si era infilato.
«Non sono cambiata a causa della morte di mia madre. Da
bambina facevo quello che mi veniva detto di fare, reprimevo la vera me
per non deludere papà. Crescendo, semplicemente, ho capito
che non potevo continuare a fingere di essere quella che non ero: ho
deciso di vivere la mia vita come volevo, ignorando ciò che
era già stato deciso per me e prendendomi la
responsabilità delle mie scelte».
Artù annuì con un sorriso mesto sul viso, come se
sapesse fin troppo bene quello che aveva passato prima di fare
ciò che le diceva il cuore – di essere un
po’ di più figlia di sua madre – ma non
fece in tempo a dire nulla che Freddie richiamò la loro
attenzione, come se fosse di fretta.
«Signor Pendragon, posso mostrarle la sua stanza?».
Artù la guardò chiedendole cosa fare e Cathleen
rispose: «Sì, certo, andiamo».
Per il paramedico in realtà fu un sollievo chiudersi fuori
da quella stanza ricca di ricordi, quella stanza che l’aveva
vista crescere e cambiare, ridere e piangere, amare e odiare. I muri
erano stati ridipinti, i poster tolti, le bambole sostituite... Era
come se quella camera fosse stata riportata all’origine, a
quando lei era una bambina; la sua adolescenza era stata cancellata,
come se lei fosse scappata con Zach a quindici anni –
l’età in cui era iniziata la sua ribellione
– e non a diciannove.
Non capiva perché Freddie aveva voluto prepararle proprio
quella stanza. Pensava davvero che ci avrebbe passato la notte? Forse
stava perdendo il tocco, se non addirittura qualche rotella.
«Eccoci, questa è la sua stanza»,
annunciò il maggiordomo una volta raggiunta la fine del
corridoio, voltandosi verso la porta alla sua sinistra. Cathleen sapeva
che quella sarebbe stata la camera di Artù ancor prima che
Freddie togliesse ogni dubbio, dato che quella di fronte apparteneva ad
Ash. Il fatto che fossero dirimpettai la fece sorridere in silenzio.
Entrarono in quella che era solo una delle varie stanze degli ospiti
disseminate per tutta la residenza, fatte con lo stesso stampino: una
zona notte con letto kingsize, un piccolo soggiorno con un paio di
poltrone e un tavolino e infine il bagno, grande il triplo di quello
del suo appartamento.
Il domestico spiegò sbrigativamente ad Artù che
se aveva bisogno di qualcosa lui era a sua completa disposizione e si
dileguò. Cathleen gli diede un poco di vantaggio, poi si
scusò con il sovrano e gli corse dietro.
«Freddie!», lo chiamò a pieni polmoni.
Questo si fermò ed irrigidì le spalle, per poi
rilassarle subito dopo e voltarsi con il solito volto inespressivo.
«Sì, signorina?».
«Dov’è che vai così di
fretta?», gli domandò.
Incredibile ma vero, a quella domanda il viso del domestico perse un
po’ della sua compostezza e i suoi occhi furono attraversati
da un lampo di insicurezza.
«Sputa il rospo, Freddie», lo esortò la
rossa, incrociando le braccia al petto.
Il maggiordomo non poté far altro che confessare:
«Sto andando da suo padre, signorina. È ora che
prenda le medicine».
Cathleen incassò il colpo senza fare una piega, nonostante
avesse sentito una crepa aprirsi nel suo petto. Quindi annuì
con determinazione, esclamando: «Ti accompagno».
«È sicura, signorina?».
«Via il dente, via il dolore», rispose scrollando
le spalle, ma la verità non poteva essere più
diversa: temeva il momento in cui avrebbe incrociato lo sguardo severo
di suo padre, temeva di non reggere alla pressione, e avrebbe voluto
Artù al suo fianco, proprio come aveva avuto Zach quando
aveva deciso finalmente di scappare dalla gabbia dorata in cui
l’aveva rinchiusa. Purtroppo però non sarebbe
accaduto: era una cosa che doveva fare da sola, una volta per tutte.
Dopo un profondo respiro, disse: «Vado ad avvisare
Artù. Tu aspettami qui».
Freddie annuì e Cathleen tornò nella stanza degli
ospiti che era stata preparata per il re di Camelot.
«È tutto okay?», fu la prima cosa che le
chiese quando la vide entrare con le mani nelle tasche dei pantaloni
stretti, dalla fantasia camouflage, e le spalle sollevate a nascondere
il collo, come se si aspettasse da un momento all’altro un
colpo alle spalle.
Sorrise teneramente, rendendosi conto di tutto il tempo che era passato
da quando qualcuno era riuscito a capire i suoi stati d’animo
solo guardandola, a vedere la realtà sotto la maschera che
indossava spesso e volentieri.
«Accompagno Freddie da mio padre»,
affermò, cercando però di convincere se stessa a
farlo veramente.
Artù si avvicinò e le posò le mani
sulle braccia, facendole scorrere lentamente verso le spalle. Le davano
i brividi, le sue carezze e i suoi fottuti occhi blu.
«Vuoi che venga con te?», le domandò con
un sorriso.
Le ci volle molta forza di volontà per tener fede al proprio
proposito e negare con un cenno del capo.
«Tranquillo, starò bene», lo
rassicurò, stirando un pallido sorriso che lui
ricambiò, sollevando una mano per accarezzarle la guancia.
Il pollice esitò sull’angolo della sua bocca e
Cathleen chiuse gli occhi, mormorando: «Hai intenzione di
baciarmi oppure no?».
Sentì il respiro di Artù farsi più
vicino, ma dopo qualche secondo di attesa aprì un occhio per
sbirciare: erano lì, i suoi occhi blu come il mare,
probabilmente divertiti dal suo broncio. Anche la sua bocca rideva
silenziosa quando le disse: «Non stai andando in
battaglia».
Lo vedremo,
pensò Cathleen, abbassando gli occhi proprio mentre
Artù le concedeva un bacio delicato sulla fronte,
aggiungendo: «Ci vediamo dopo».
Cathleen avrebbe voluto mostrarsi più infastidita con lui,
invece di dover trattenere una risata intrisa di gratitudine tra i
denti. Gli diede le spalle e sulla porta si voltò a
guardarlo un’ultima volta, poi accennò una
corsetta per raggiungere nuovamente Freddie.
***
Cathleen era andata via da qualche minuto e Artù aveva
giusto iniziato a prendere confidenza con la sua stanza, guardando i
quadri raffiguranti laghetti abitati da rane e ninfee e tastando il
materasso, quando ricevette un SMS da Merlino, un semplice:
“Tutto bene?”.
Artù, inconsapevolmente, accennò un sorriso: lo
stregone non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui,
l’aveva fatto sin dal primo giorno, e lui non si sarebbe mai
sdebitato abbastanza.
Il sentimento di gratitudine che provava mentre rispondeva
però venne affiancato pian piano dall’irritazione:
non poteva continuare così per sempre, doveva fargli capire
che prima o poi avrebbe dovuto lasciarlo andare, prendersi
più cura di se stesso che di lui. Ma come?
Si lasciò cadere supino sul letto, senza vedere realmente lo
stucco in stile barocco che ornava il soffitto, col cellulare posato
sullo sterno. Si era completamente dimenticato del messaggio ora e per
un attimo si dimenticò persino dov’era, tanto che
fu Ash a riportarlo alla realtà.
«Ehi, bel manzo».
Artù corrugò la fronte e si sollevò
sui gomiti, trovando il fratellastro di Cathleen appoggiato allo
stipite della porta con una spalla e i capelli neri ancora un
po’ umidi che gli incorniciavano il viso, arrivandogli quasi
alle spalle, mentre un ciuffo gli sfiorava le sopracciglia sottili.
Quel ragazzo androgino aveva uno strano fascino, cupo ed intimidatorio.
Gli ricordava moltissimo Morgana.
«Posso entrare?», gli domandò ad un
tratto, ma non aspettò la sua risposta e lo raggiunse sul
letto, gettandosi a pancia in giù al suo fianco, talmente
vicino che per Artù, il quale non era mai stato un fan del
contatto fisico tra uomini, specialmente se sconosciuti, fu automatico
spostarsi di lato di qualche centimetro.
Ash se ne accorse e sogghignò, esclamando:
«Cos’è, ti faccio paura?».
«No», rispose.
Da quella distanza, i suoi occhi erano ancora più ipnotici.
«Bene, perché di solito non mordo. Lo faccio solo
se qualcuno mi fa arrabbiare o in un altro frangente che, dai, non sto
a spiegarti».
Il sovrano si sforzò per non imbarazzarsi a
quell’allusione e dopo essersi schiarito la gola chiese:
«Hai bisogno di qualcosa?».
«Dritto al punto, eh? Mi piace». Sorrise
incrociando ancora una volta il suo sguardo, si sollevò e si
sedette a gambe incrociate, battendo i palmi delle mani sulle ginocchia
ossute.
«Okay. Sono quasi convinto che Freddie ti abbia sistemato in
questa camera per un motivo; riesci ad immaginare quale?».
Artù ci pensò su e prima che potesse giungere ad
alcuna conclusione, Ash gli spiegò con aria annoiata:
«Devo tenerti d’occhio, ovviamente, e scoprire che
intenzioni hai con Cath. Ma perché invece non ci veniamo
incontro? Risolviamo la cosa velocemente».
Gli piaceva il modo di fare di quel ragazzo ed era contento che ci
fosse ancora qualcuno, della sua famiglia, che si preoccupasse per lei.
Ciò nonostante, non voleva dargliela vinta troppo
facilmente: che cosa ci avrebbe guadagnato lui, confessandogli tutti i
suoi sentimenti per Cathleen? Forse il suo interesse poteva diventargli
utile, se non addirittura vantaggioso.
«Va bene, ci sto», esclamò, ricambiando
il sorriso sghembo di Ash. «Ad una condizione».
Il ragazzo si imbronciò, somigliando ancora di
più ad un bambino, e Artù dovette trattenere una
risata genuina, anche se singhiozzante: anche Morgana, da piccola,
reagiva in quel modo se non veniva accontentata. Poi aveva capito che
il metodo più efficace per ottenere qualcosa era
semplicemente andare a prendersela, con le sue sole forze. Mai, mai
avrebbe immaginato che quella stessa determinazione l’avrebbe
portata un giorno a rivoltarsi contro Camelot, contro suo padre, contro
di lui.
«Allora? Vuoi dirmi o no qual è questa
condizione?», ripeté scocciato Ash.
Artù si scrollò di dosso tutti i rimpianti e si
tirò su seduto perché i loro sguardi si
intrecciassero. Con tono serio, quasi inquisitorio, esclamò:
«Voglio sapere perché Cathleen è andata
via di casa e tu sei rimasto qui».
Gli occhi di Ash si oscurarono, diventando dello stesso colore plumbeo
del cielo notturno illuminato all’improvviso da una saetta.
Artù temeva di aver osato troppo e che il ragazzo
abbandonasse lo scambio, ma non lo fece.
Irrigidendo le spalle, spiegò atono: «Quando Cath
è andata via io avevo dodici anni e come minore ero sotto la
tutela di mia madre; non poteva di certo portarmi con sé e
non penso abbia mai preso in considerazione di farlo, a
quell’età. Le è dispiaciuto lasciarmi,
ne sono sicuro, ma... aveva Zachary. Voleva passare il resto della sua
vita con lui, fuori da queste mura, e costruire qualcosa di
loro».
«Lei ha detto che è stata una tua
scelta».
Ash si passò le mani sul viso, sospirando frustrato.
«Perché diamine vuoi sapere queste cose? Non ha
alcuna importanza!».
«Ne ha, per me». Ed era vero. Aveva riscontrato fin
troppe somiglianze tra la sua famiglia e quella di Cathleen ed uno dei
tanti sassolini che voleva togliersi dalle scarpe era proprio capire
che cosa fosse andato storto. E perché no, se se ne fosse
presentata l'occasione, avrebbe voluto dare una mano per fare in modo
che la famiglia Shaw non si sfaldasse come era successo ai Pendragon.
«Ascolta», aggiunse, continuando a fissare gli
occhi ora lucidi del ragazzo. «Anche io avevo una sorellastra
e nonostante l’amassi... tra noi non è andata a
finire bene. Avrei voluto fare di più per lei, starle
più vicino, capire ciò che le passava per la
testa, ma non l’ho fatto. È una delle cose che non
mi perdonerò mai».
«Non mi interessa», esclamò Ash, quasi
ringhiando. «Cathleen ha scelto di andare via, di farsi una
nuova vita con la sua anima gemella e non la biasimo per questo, anzi
la ammiro. Quando Zach è morto e lei ha perso il bambino le
ho chiesto di tornare qui, per non stare da sola, ma lei mi ha risposto
che se le volevo bene non avrei mai dovuto chiederle una cosa simile,
ma piuttosto offrirmi di raggiungerla. Io non l’ho
fatto».
Artù non se lo aspettava. Scioccato, riuscì a
pronunciare solo una parola: «Perché?».
«Perché non potevo colmare il vuoto lasciato da
Zach, semplicemente! Era anche un mio amico, sai?».
Ormai era sul punto di lasciar scorrere le lacrime, ma il suo orgoglio
impediva loro di superare la barriera delle ciglia.
«E poi, quando ho compiuto diciott’anni,
l’ho delusa di nuovo, rimanendo qui. Pensava che avrei
seguito il suo esempio, che avrei lasciato questo posto per
incominciare una nuova vita, ma la verità è che
non voglio andarmene. Perché dovrei?».
Scoppiò in una risatina isterica, aprendo le braccia ad
indicare tutto ciò che li circondava. «Qui ho
tutto quello che mi serve, senza alcuna fatica. E da quando il vecchio
è intrappolato nelle sue stanze, è tutto ancora
più facile: faccio quello che mi pare, quando mi
pare».
«Ma in questo modo è come se fossi anche tu
intrappolato qui, senza nulla di tuo nel mondo»,
ribatté Artù, irritato dal tono arrendevole di
Ash, come se non ci fosse nulla per cui valeva la pena di lottare.
Anche lui aveva avuto una vita agiata, ma aveva dovuto impegnarsi per
migliorare il regno lasciatogli da suo padre e rendersi valido agli
occhi del popolo, per diventare il re giusto e tanto amato che ora
quasi tutti reputavano una leggenda. Qualcosa di lui era rimasto nei
secoli, una specie di lascito, e non poteva credere che Ash non volesse
altrettanto.
«Non me ne frega niente!», urlò di nuovo
il ragazzo e, confermando la sua ipotesi, indicò fuori dalle
grandi finestre per spiegare: «Che senso ha cercare un posto
nella società, se poi basta un niente a distruggere tutto
quanto e a cancellarti dalla faccia della Terra?».
Di nuovo, il ricordo di Zachary gravava sulle loro spalle, specialmente
su quelle strette ed appuntite di Ash, così
fragili. Come quelle di Merlino.
Artù vi posò sopra le mani, stringendole piano ma
con decisione. «Non puoi lasciare che la vita ti passi
accanto: questo non è vivere, è esistere, e tu
meriti di più».
«Che ne sai tu di che cosa merito?», gli
domandò Ash con poca voce, senza riuscire più a
trattenersi: una lacrima gli scivolò sul viso, soffermandosi
poi sotto il suo mento.
Artù gli rivolse un sorriso sincero. «Niente.
Però vuoi bene a Cathleen e anche lei te ne vuole, e questo
mi basta per essere certo che ti meriti qualcosa di speciale. Se
Zachary fosse qui, sarebbe d’accordo con me».
Quell’ultima frase fu in grado di far reagire Ash, il cui
volto diventò paonazzo; le lacrime iniziarono a scendere
copiose, una dietro l’altra, come un fiume in piena. Alla
fine, aveva osato troppo.
«Non parlare di lui come se lo conoscessi!»,
latrò con la voce graffiata dal dolore. «Tu non
hai idea –! Vaffanculo!». Fu persino sul punto di
sollevare un pugno per colpirlo sul naso, quando ricalcolò
le possibilità di successo e saltò semplicemente
giù dal letto per correre fuori dalla sua stanza per
chiudersi a chiave dentro la propria.
Artù si alzò sbuffando, dandosi dello stupido per
aver nominato ancora una volta l’ex-fidanzato di Cathleen, e
raggiunse la porta bianca. Solo quando aveva già bussato una
dozzina di volte, realizzò che la reazione di Ash era un
tantino esagerata. Insomma... era l’ex-fidanzato di Cathleen,
non suo. Anche lui aveva perso moltissimi amici, alcuni al suo fianco
sin dall’infanzia, ma non aveva mai reagito così.
Solo per due persone aveva pianto: suo padre e il suo amore, Ginevra.
Un sospetto iniziò ad insinuarsi nella sua mente, tanto
sconvolgente che rimase col pugno sollevato in aria, a pochi centimetri
dalla porta. Ora tutte le allusioni e i commenti che aveva pensato di
fraintendere avevano acquistato un senso. Ash era gay ed era sempre
stato innamorato – lo era tutt’ora – di
Zachary. Lo amava e soffriva della sua mancanza tanto quanto la sua
sorellastra.
«Mi dispiace, io non… non lo sapevo»,
riuscì a mormorare, prima di voltarsi per tornare nella sua
stanza.
Era già dentro il rettangolo della porta, quando
sentì la serratura di quella di Ash scattare. Il ragazzo
uscì e non lo guardò fino a quando non si fu
lasciato scivolare sul pavimento del corridoio, con la schiena
addossata alla parete.
«Come avresti potuto?», gli domandò,
retorico. «Nessuno lo sa, nemmeno Cathleen».
Lanciandogli un’occhiata tagliente, inspiegabilmente ancora
più efficace a causa delle lacrime, lo minacciò:
«E non dovrà mai saperlo, intesi?».
«Hai la mia parola», rispose Artù.
Si sedette di fronte a lui, chiedendosi perché si fosse
lasciato scappare un segreto così grande con un perfetto
sconosciuto. Forse perché era più facile: non si
aveva paura di venire giudicati, di provocare delusione o vergogna.
Ash non dimostrava la sua vera età – se non aveva
fatto male i calcoli, aveva ventidue anni – e sembrava ancora
di più un ragazzino col volto arrossato e rigato dalle
lacrime e le braccia avvolte intorno alle gambe, le ginocchia strette
al petto scheletrico. Provò l’istinto di
abbracciarlo, di dirgli che tutto sarebbe passato, ma sapeva che non
l’avrebbe fatto: non era da lui e, cosa più
importante, Ash l’avrebbe preso sul serio a pugni in faccia
se solo si fosse avvicinato con quelle intenzioni.
La curiosità però l’ebbe vinta e
Artù chiese: «Com’è potuto
accadere?».
Ash parve infastidito da quella domanda, eppure rispose con calma e
precisione, quasi come se fosse una storia che aveva visto svolgersi di
fronte ai suoi occhi, da spettatore, e lui non fosse stato uno dei
protagonisti.
«Come saprai, o probabilmente no, Cathleen e Zachary si sono
conosciuti quando erano due ragazzini: lei aveva sedici anni
ed era nel pieno della sua ribellione, come ogni bravo adolescente
della sua età. Odiava suo padre e faceva di tutto per farlo
infuriare: si truccava pesantemente, indossava jeans strappati o gonne
cortissime, beveva i suoi alcolici, fumava di fronte a lui, ascoltava
sempre la musica a tutto volume, saltava spesso scuola, usciva nel
cuore della notte per andare chissà dove… Io
l’ammiravo moltissimo, mi sentivo così fortunato
ad avere una sorella così bella e forte, rispettosa solo
della propria libertà. Io la pregavo di portarmi con lei in
ogni sua spedizione alla scoperta del mondo e spesso mi accontentava.
Rubava la bicicletta di Freddie – la lasciava sempre senza
lucchetto, quasi come se volesse che la prendessimo – e Cath
mi faceva sedere sulla canna, tra le sue braccia. Mentre attraversavamo
il parco, il ponte e la cittadina, col vento tra i capelli, riuscivo a
capire perfettamente perché le piacesse tanto la
libertà. Mi sentivo leggero, felice, e non avevo mai la
sensazione di essere un peso, un fardello di cui volersi liberare, al
contrario di quando stavo in compagnia di mia madre e dei suoi
precedenti fidanzati: ero il bambino che non sarebbe dovuto nascere, un
errore di una notte, e anche se non l’ha mai detto a voce
alta sono certo che ogni tanto lo pensasse, glielo leggevo negli
occhi… Con Cath ero l’Ash vivo e amato.
«Un pomeriggio Cathleen disse a suo padre che sarebbe uscita
per andare al negozio di musica: era uscito l’ultimo CD di
una delle sue band preferite e doveva assolutamente comprarlo. Lui, che
amava solo la musica classica, le aveva proibito di uscire e aveva
rincarato la dose affermando che avrebbe chiamato il suo docente di
violoncello per una lezione extra. Lei odiava le lezioni di
violoncello, non scherzo: trovava quasi sempre il modo di saltarle.
Però lo strumento in sé non le dispiaceva, anche
se non l’ha mai ammesso. Qualche volta mi è
capitato di sentirla suonare, da sola nella sua stanza, e aveva
talento. Forse era per questo che suo padre si infuriava tanto,
perché conosceva il suo potenziale. Ad ogni modo quando non
riusciva a scappare si rifiutava di seguire gli spartiti che le
mettevano di fronte e suonava ciò che le passava per la
testa: motivi dei film, famosi pezzi rock… Lei lo faceva
ancor prima dei 2Cellos, pensa un po’».
Artù sorrise, anche se non aveva la più pallida
idea di chi o cosa Ash stesse parlando. Aveva solo intuito che la
grande custodia affusolata che aveva visto nella stanza di Cathleen
conteneva proprio quello strumento, il violoncello.
«Beh, Cath non si curava di ciò che le imponevano
e come molte altre volte le era bastato correre più veloce
della guardia del corpo che suo padre pagava profumatamente per non
farla uscire dalla Residenza. Era una vera frana, il povero Hank, ma
era anche vero che Cath ne sapeva una più del diavolo. Era
intelligente e testarda quanto suo padre, mentre da sua madre aveva
ereditato la bellezza e il desiderio di libertà, ma non
solo. Nel suo sangue c’era anche un po’ della sua
pazzia, anche se in dosi molto minori». Le labbra di Ash si
arricciarono all’improvviso in un sorriso divertito.
«Lo sai che una volta per uscire di casa si è
buttata giù da una finestra? Quella volta l’aveva
fatta grossa, disegnando baffi, occhiali o denti sporgenti a tutti i
ritratti degli antenati di suo padre, e Hank, mia madre, persino io e
Freddie, le eravamo corsi dietro per evitare che il signor Shaw le
facesse del male nel caso in cui fosse riuscito ad acchiapparla. Fino a
quel momento non l’aveva mai picchiata sul serio, ma temevamo
che un giorno potesse perdere le staffe, visto anche che le elevate
dosi di medicine che prendeva per l’agorafobia non lo
rendevano tanto lucido. Abbiamo corso per non so quanto, per i corridoi
del primo e del secondo piano... Ricordo solo che avevo la gola in
fiamme e avevo paura per la mia sorellona, perché alla fine
si è ritrovata in un vicolo cieco e suo padre
iniziò a ridere, certo che quella volta la vittoria fosse
sua. Cath si è voltata verso di noi, lentamente, e
sorridendo disse una frase che mi rimarrà sempre in testa,
tanto ero eccitato e allo stesso tempo terrorizzato. Disse:
“Voi potrete rinchiudere anche il mio corpo tra queste mura,
ma non avrete mai la mia anima”. Dopodiché
aprì la finestra alle sue spalle, scavalcò
rapidamente la ringhiera e si buttò di sotto».
Artù sgranò gli occhi, incredulo. «Si
è fatta tanto male?», gli chiese poi, smanioso che
continuasse subito con il racconto.
Ash sorrise, come se si fosse aspettato quella domanda e si fosse
preparato in anticipo la risposta perfetta. «Nemmeno un
graffio», esclamò, entusiasmato dal colpo di
scena. «Vedi, mentre correvamo eravamo così
concentrati a non perdere di vista Cathleen che non avevamo badato al
senso dell’orientamento. Quando l’abbiamo vista
tuffarsi nel vuoto abbiamo gridato tutti quanti, disperati che alla
fine la pazzia della madre l’avesse contagiata del tutto.
Avevamo fatto così tanto frastuono che non avevamo nemmeno
sentito lo splash».
Rise, con la nuca posata sul muro e la gola candida esposta, per poi
gettare uno sguardo verso la finestra. «Cathleen era
perfettamente consapevole invece che sotto di lei ci fosse la piscina e
ha solo voluto farci spaventare, oltre che mettersi in mostra.
«Quando sono corso alla finestra, l’ho vista
nuotare verso la sponda più lontana, coi vestiti fradici e i
capelli incollati al viso, e quando mi ha fatto l’occhiolino
mi sono sentito sia orgoglioso che invidioso di lei, perché
sapevo che io non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Poi mia madre
le ha tirato dietro una ciabatta e tutta la poesia svanì,
proprio come Cathleen. Tornò all’alba e ovviamente
non disse a nessuno dove fosse andata, anche se io lo sapevo fin troppo
bene: era stata con Zach».
Artù non voleva risultare scortese o troppo impaziente, ma
non riuscì proprio a tenere a freno la lingua: «A
proposito di Zach, mi stavi raccontando come si sono
conosciuti».
«Già», mugugnò Ash, tornando
a stringersi le gambe al petto. «Dov’ero
arrivato?».
«Al punto in cui voleva andare a comprare il CD e suo padre
gliel’aveva proibito».
«Ah, sì. Come al solito, Cath è
riuscita ad uscire di casa e io l’ho raggiunta al ponte dopo
un po’, dicendo a mia madre che andavo a giocare in giardino.
Siamo andati al negozio di musica e quando abbiamo chiesto il CD al
commesso, ci disse che aveva ricevuto solo un paio di copie e le aveva
già vendute tutte, l’ultima proprio pochi minuti
prima, al ragazzo che avevamo incrociato sulla porta e che ora mostrava
il proprio trofeo ai suoi amici, in sella ai loro motorini.
L’espressione sul volto di Cathleen mi spezzò il
cuore e per una volta nella mia vita volli essere tanto coraggioso e
pazzo quanto lei: senza farmi vedere da lei sgattaiolai fuori dal
negozio e raggiunsi il gruppetto di ragazzi. Mentre spiegavo quello che
volevo, sforzandomi di non balbettare, loro mi guardavano con un misto
di repulsione e pena, ridendomi in faccia. Tutti tranne uno, il ragazzo
che aveva acquistato l’ultima copia del CD: Zachary. Non so
se a nove anni sapevo già di essere gay, ma ricordo
perfettamente quello che pensai quando si inginocchiò di
fronte a me, in modo che i nostri sguardi fossero alla stessa altezza;
pensai che fosse il ragazzo più bello del mondo, con quei
suoi occhi blu elettrico e i capelli a spazzola con un ciuffo
più lungo color rosso fuoco».
«Non era verde?», gli domandò
Artù, interrompendo la sua descrizione.
Ash lo guardò aggrottando le sopracciglia, forse chiedendosi
dove potesse aver visto una foto di Zachary. Quando ci
arrivò, rispose semplicemente: «Si è
tinto quel ciuffo di quasi ogni colore, dipendeva dal momento. Quando
è morto il verde si stava già scolorendo: aveva
deciso di non tingersi più, di fare la persona seria per suo
figlio».
Artù ricordava che Cathleen gli aveva detto più o
meno la stessa cosa, al cimitero: entrambi avevano deciso di smetterla
coi pericoli, di sposarsi e vivere tranquillamente, come la
più ordinaria delle famiglie.
«Comunque sia», riprese Ash, schiarendosi la gola.
«Per me Zach aveva l’aspetto di un angelo caduto,
con quel suo sorriso dolce che poteva trasformarsi in un sogghigno
beffardo quando meno te l’aspettavi. In ginocchio di fronte a
me, aveva appena aperto la bocca per parlare, con un occhio chiuso come
se con l’altro mi stesse mettendo meglio a fuoco, quando
Cathleen mi afferrò per le spalle e mi tirò
indietro, scusandosi coi ragazzi. Iniziò a trascinarmi verso
l’altro lato della strada, col capo chino e le labbra strette
tra loro, e io non riuscivo a credere che la mia sorellona fosse capace
di sentirsi in imbarazzo. Esterrefatto com’ero, non mi ero
nemmeno accorto che Zachary ci aveva inseguito, scatenando le risate di
tutti i suoi amici. Si piazzò di fronte a noi e finalmente
potei sentire la sua voce, roca come quella di un fumatore incallito e
allo stesso tempo carezzevole, avvolgente…».
«Ci siamo
già visti da qualche parte?».
Cathleen si
fermò di colpo per non andare a sbattere contro il petto del
ragazzo, più alto di lei di una spanna, e Ash dovette fare
di conseguenza, trovandosi stretto tra loro, come un hamburger in mezzo
a due fette di pane.
«Hai
un’aria familiare…», aggiunse il
ragazzo, stringendo un occhio come aveva fatto poco prima con Ash.
«Frequentiamo la stessa scuola?».
Cathleen
intercettò per un attimo il suo sguardo, dandogli la
conferma che voleva.
Sorridendo, il ragazzo
le porse una mano. «Io sono Zachary. Zach per gli
amici».
Vedendo la sorella
esitare, Ash decise ancora una volta di agire per conto suo ed
esclamò con tono orgoglioso: «Lei si chiama
Cathleen».
Subito le dita della
ragazza si artigliarono sulle sue fragili spalle, facendogli male, e
Ash capì di aver commesso un errore non appena si rese conto
della reazione di Zach, il quale arricciò il naso in una
smorfia di disprezzo e ritirò la mano, chiedendo:
«Quella Cathleen? La figlia di Shaw? Lo sai che il mese
scorso, e quello prima ancora, stavamo quasi per essere sfrattati per
colpa sua? Qualcuno deve spiegargli che alla gente normale i soldi non
escono dal culo».
Si voltò un
attimo per guardare verso la collina su cui si ergeva il maniero e
quando tornò a guardare verso di loro, la rossa era
finalmente pronta ad affrontarlo, nonostante le sue guance si fossero
abbinate ai capelli.
«Sì,
abito lassù», rispose. «Ma non
c’è niente che mi accomuni a mio padre. Se vuoi la
verità, lo odio quanto tutti voi».
Zachary la
fissò con gli occhi sgranati per la sorpresa, ma non fu del
tutto convinto della sua confessione. Si allontanò di un
passo e senza degnarla più di uno sguardo si
inginocchiò di nuovo di fronte ad Ash. Tirò fuori
il CD dalla borsetta a tracolla e glielo sventolò sotto al
naso.
«Sei stato
molto coraggioso a venire da me da solo per questo. Devi volerle molto
bene, uh?».
Ash sorrise a trentadue
denti ed annuì, portando le mani su quelle di Cathleen.
«La mia sorellona è la migliore.
È… speciale».
«Ah
sì?», le gettò una rapida occhiata di
sottecchi e si alzò, scompigliando i capelli al bambino.
Sorridendo, aggiunse: «Staremo a vedere».
Quindi si allontanò a grandi falcate, tornando verso la sua
compagnia.
«Ehi!»,
gli gridò dietro Cathleen, preoccupata. «E questo
cosa vorrebbe dire?».
Ma Zachary non rispose;
si limitò a saltare sul suo motorino truccato e a sparire
dietro l’angolo, lanciando loro un’ultima occhiata
ridente.
«Cathleen mi raccontò che il lunedì
successivo, a scuola, non poté evitare di incrociare lo
sguardo di Zach. Sembrava quasi che la stesse aspettando, seduto sulle
gradinate all’ingresso. Le diede il CD, dicendole soltanto
che lo rivoleva indietro non appena avesse finito di ascoltarlo.
Cathleen pensava che avrebbe dovuto restituirglielo a scuola, ma
all’interno della custodia trovò un biglietto con
un indirizzo. L’aveva invitata a casa sua.
«Io so solo quello che lei mi raccontava, perciò
non so dirti se successe dell’altro quella sera. Cathleen
uscì poco dopo cena, passando attraverso gli alloggi dei
domestici, e andò all’indirizzo segnato sul
foglietto. Si trattava di una piccola casa in mattoni, subito prima del
ponte che segnava l’inizio e la fine delle
proprietà della famiglia Shaw. Cathleen si
affacciò ad una delle finestre sulla facciata e vide Zach e
sua madre seduti a tavola, intenti a cenare. Stavano guardando un quiz
in TV e ridevano. È una cosa che Cathleen continuava a
ripetermi, quando me l’ha raccontato. Ridevano. Ridevano
anche se ogni mese rischiavano lo sfratto, anche se i piatti che
avevano davanti erano sbeccati, anche se il segnale della televisione
era disturbato. Ridevano ed erano felici perché erano
insieme, ed era l’unica cosa che contava. Qui avevamo tutto,
ma non eravamo mai stati così felici. Cathleen mi disse che
l’ultima volta che aveva visto suo padre ridere era stato
ancor prima che sua mamma morisse.
«Ad ogni modo lei non trovò la forza per bussare
alla porta e fu Zachary ad andare da lei. Quando uscì per
fumarsi una sigaretta, la trovò seduta sotto la finestra,
con il viso nascosto tra le braccia, e le porse semplicemente una mano.
Cathleen fece per restituirgli il CD, ma Zach la fece alzare e la
condusse all’interno della casa, dove conobbe sua madre, una
persona squisita. Era rimasta incinta da ragazza e il padre di Zach non
aveva voluto saperne, li aveva abbandonati al loro destino. La donna
non fu sorpresa di vedere Cathleen e la invitò ad unirsi a
loro per il dolce. Lei provò a rifiutare – si
sentiva estremamente a disagio – ma alla fine si
ritrovò seduta accanto a Zach, davanti ad una fetta della
torta di mele più buona che avesse mai assaggiato.
Passò una delle serate più felici e spensierate
della sua vita e quando fu l’ora dei saluti avrebbe voluto
chiedere se poteva tornare, ma non lo fece, certa che Zach non si
sarebbe mai interessato ad una come lei. Ovviamente si sbagliava, ma ci
volle del tempo prima che se ne rendesse conto.
«Da quel giorno Cathleen cambiò: celò
tutto il rancore che provava per suo padre, facendo buon viso a cattivo
gioco. Si interessò alle proprietà, portandolo a
credere che fosse rinsavita all’improvviso e volesse
dimostrarsi una degna erede del suo piccolo impero. In
realtà tutto ciò che le interessava era rendere
migliore la vita di tutte le persone che vivevano nelle loro case,
quella di Zach in primis. Riuscì a convincere suo padre a
farle fare una specie di stage dal contabile che gestiva i loro
contratti e più di una volta finse di aver ricevuto
l'autorizzazione per far apportare alcune modifiche alle case:
sistemò le antenne, gli impianti di riscaldamento,
truccò anche le scadenze dei pagamenti. Mantenere quella
facciata di brava figlia di papà le costava
un’immensa fatica: faceva tutto quello che lui le imponeva
– andava regolarmente a scuola, si vestiva in modo sobrio e
non si truccava… era persino tornata a suonare il
violoncello! – e non lo contraddiceva mai, nemmeno quando la
scambiava per Helena.
«I suoi sforzi però la ripagarono,
perché Roger le permise di mettere di nuovo mano sul suo
conto bancario, quello destinato al suo futuro, e soprattutto la
riavvicinarono a Zachary. All’inizio non fu facile: lui si
arrabbiò moltissimo, sosteneva che non l’aveva
invitata a casa sua per farle compassione e non voleva essere in debito
con lei. Cath, quella tonta, non capiva il vero motivo per cui
l’aveva fatto e non glielo chiese, rispondendogli a tono che
era intervenuta solo perché era la cosa giusta da fare, e
aveva atteso anche troppo. Comunque Zach si intestardì e fu
così che le chiese di uscire per la prima volta. Non fu
nulla di che: le offrì un panino e una birra, ma quando
tornò a casa Cathleen aveva il sorriso più bello
e felice del mondo».
Ash si fermò, gli occhi fissi su un punto indefinito sulla
parete, poco sopra la testa di Artù. I ricordi
però continuavano a scorrere dietro i suoi occhi malinconici
e il sovrano avrebbe voluto conoscerli tutti, ma sapeva che se lo
avesse forzato avrebbe ottenuto l’effetto contrario.
Il moro si portò all’improvviso le mani sul volto,
forse per impedirgli di vedere le lacrime che gli avevano inumidito gli
occhi.
«Non so come sia successo», mugugnò da
dietro la barriera delle dita. «Non c’era coppia
più perfetta di loro, erano l’uno la
metà dell’altro… E c’erano
dei giorni in cui io li odiavo, perché…
perché era grazie a me che si erano conosciuti e anche io
meritavo qualcosa di così speciale. Ma tutto ciò
che ottenni fu un fratello maggiore che non volevo ma di cui avevo un
disperato bisogno. Potevo sopportare che mi trattasse come se fossi
sangue del suo sangue, che baciasse Cathleen di fronte ai miei occhi,
ma non potevo assolutamente allontanarlo da me, anche se, col senno di
poi, mi sarei evitato altro male. Allora non capivo ancora quanto e
soprattutto in che modo tenessi a Zach, ma di una cosa sono certo:
quando la diciottenne Cathleen mi confidò che tramite un
legale era riuscita a trasferire in un conto a suo nome, assolutamente
intoccabile per suo padre, abbastanza soldi per potersene andare ed
iniziare una vita con Zachary, io… io diedi di matto.
Chiamai immediatamente Zach e gli chiesi se poteva raggiungermi ai
frangiflutti. Lui e Cath si erano appena messi insieme quando mi
portò lì per la prima volta, a pescare granchi.
Avevo nove anni». Ash si tolse le mani dal viso su cui
aleggiava un sorriso umido quanto i suoi occhi. «Eppure me lo
ricordo come fosse ieri. Due anni più tardi, in quello
stesso posto, capii che cosa voleva dire amare una persona. Quello che
provavo per Zachary era un amore puro, ingenuo… nulla a che
vedere con la sessualità. L’unica cosa che sapevo
perfettamente era che non potevo stare senza di lui, proprio come non
potevo stare senza Cathleen. Era il mio migliore amico, il padre che
non avevo mai avuto, e qualche anno dopo divenne anche
l’ossessione della mia pubertà.
«Alla nostra spiaggia, Zachary mi promise che ci saremmo
visti ancora, che quando sarebbero passati a salutare sua madre
sarebbero passati anche da me. Mantenne la sua promessa – lo
faceva sempre – e ogni volta per me era come morire e
rinascere contemporaneamente, ma in qualche modo riuscii a nascondere a
tutti il mio amore per lui, almeno fino al giorno del mio quindicesimo
compleanno. Quella sera stavo peggio del solito e nonostante sapessi
che Cathleen aveva organizzato qualcosa per festeggiare, mi nascosi ai
frangiflutti, dove solo Zachary sarebbe venuto a cercarmi».
Ash sentì il
rombo di una moto avvicinarsi e sollevò gli occhi verso la
strada, dove scorse la figura esile e snella di Zachary scendere dalla
sella e togliersi il casco. Come aveva immaginato, era solo.
Scivolò sulla
sponda di sabbia ed erba secca e lo raggiunse spolverandosi i jeans
strappati. Quando fu ad un passo da lui, in bilico sui frangiflutti, lo
prese per i capelli e tirandogli indietro il capo esclamò a
denti stretti: «Dammi un valido motivo per cui non dovrei
prenderti a calci in culo. Conterò fino a tre:
uno…».
Ricacciando indietro le
lacrime per il dolore dovuto alla stretta vigorosa di Zachary, Ash
rispose con voce atona: «Non c’è nulla
da festeggiare».
Il ragazzo strinse un
occhio, inquadrandolo meglio nel proprio mirino.
«Due…».
«La mia vita
fa schifo, vorrei non essere mai nato!».
«Tr-».
«E amo una
persona che non potrò mai avere!», urlò
interrompendo l’implacabile conteggio di Zachary.
Urlò così forte che persino le onde parvero
ritirarsi.
L’espressione
ferita negli occhi di Ash colpì così tanto il
motociclista che allentò la presa sui suoi capelli, una
mossa che permise al ragazzino di alzarsi e spintonarlo via da
sé, tanto bruscamente da fargli quasi perdere
l’equilibrio sulle rocce. All’ultimo momento
però Ash gli afferrò la mano e lo
salvò da un bel bagno, mentre le sue guance si infiammavano
per l’imbarazzo. Cercò di interrompere nel
più breve tempo possibile quel contatto, ma non ci
riuscì: Zachary tenne stretta la sua mano e con
l’altra gli prese il mento e lo costrinse a sollevare gli
occhi nei suoi.
«Io amo tua
sorella, Ash».
Quelle parole e tutti i
loro sottintesi crollarono sulle esili spalle del ragazzino con tanta
forza che temette di rimanerne schiacciato, come Atlante sotto il peso
del mondo.
Non appena
trovò il coraggio per aprire bocca, mormorò:
«Tu lo sapevi».
«Ma certo che
lo sapevo», replicò Zachary, sorridendo
teneramente. «Non sono stupido, sai?».
«Da…
da quanto?».
«Abbastanza
per assicurarti che io non sarò di certo l’ultima
persona di cui ti innamorerai».
Ash gli rivolse uno
sguardo carico d’astio. «Come fai a dirlo? Cathleen
non ha mai amato nessun altro al di fuori di te».
«Proprio per
questo posso dirtelo per certo: io e lei ci apparteniamo l’un
l’altro, siamo destinati a stare insieme, e nel mondo
c’è qualcuno che è destinato a stare
con te».
«Cazzate»,
sputò, scrollando il capo per liberarsi della sua stretta.
«È
così, Ash, te lo posso assicurare. Noi siamo stati fortunati
a trovarci».
«Cazzate!»,
ripeté rabbiosamente. «Non troverò mai
una persona migliore di te, non la voglio!».
Nonostante gli desse le
spalle, Ash riuscì ad immaginarsi il ragazzo stringersi
nelle spalle ed abbassare il capo, senza sapere più che cosa
dire per uscire da quella situazione. Alla fine qualcosa disse, la cosa
peggiore: «Mi dispiace».
Ash si voltò
di scatto e come una belva si avventò contro di lui, con una
forza e una determinazione che rese praticamente inutile ogni tentativo
di difesa da parte di Zachary. Caddero sulla passerella di cemento e
rotolarono per un bel pezzo, graffiandosi e lasciandosi lividi su ogni
parte del corpo. In tutto ciò, Ash gridava: «Non
dire che ti dispiace! Non compatirmi! Perché sei sempre
così giusto? Fottiti! Ti odio!».
Quando Ash ne ebbe
abbastanza, sfinito e col viso rigato di lacrime, cadde sdraiato
accanto a Zachary.
«Non
è vero che ti odio», sussurrò guardando
il cielo punteggiato di stelle.
«Lo
so», rispose Zach. «Va meglio, ora?».
Ash lo guardò
negli occhi e si rese conto che sì, stava davvero meglio,
anche se sapeva che presto o tardi il dolore che tanto conosceva
sarebbe tornato a tormentarlo. Ciò nonostante
abbozzò un sorriso ed annuì.
«Bene. Allora
andiamo, tua sorella sarà preoccupata a morte».
Si sollevò e
gli porse la mano, che Ash prontamente afferrò per tirarsi
su.
Diretti verso la moto di Zach, il ragazzino gli fece promettere che
non avrebbe detto nulla di quello che era successo a Cathleen.
Zachary
promise.
Artù rimase in silenzio, chiedendosi come certe persone
potessero convivere con segreti del genere per mesi, addirittura anni.
Persone come Ash, persone come Merlino: tanto fragili se visti
dall'esterno eppure tanto forti dento.
Provava pena per lui, avrebbe voluto aiutarlo, ma allo stesso tempo
sapeva fin troppo bene che dolori come quelli erano incancellabili.
«Qualche mese dopo, Cathleen mi chiamò per dirmi
che aspettava un bambino e che lei e Zach avevano deciso di
sposarsi», riprese Ash, con la voce rotta e i pugni
strettisulle ginocchia. «Volevo morire. Lo volevo sul serio,
ma non
bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato, eccome…
Sono rimasto per ore di fronte alla finestra, a mollo in piscina, con
le forbici fredde posate sul polso, con un barattolo delle medicine di
Roger stretto in pugno… Io, che desideravo così
ardentemente la morte, non sono mai riuscito ad andare fino in fondo.
Zachary, invece, che amava la vita, che aveva ancora così
tanto da fare…». Tirò rumorosamente su
col naso e inchiodò gli occhi lucidi nei suoi.
«Perché?».
Artù rimase in silenzio fino a quando non
realizzò che Ash lo stava fissando, quasi implorandolo,
perché desiderava una risposta. Allora sgranò gli
occhi per la sorpresa: che cosa avrebbe dovuto dirgli? Non era nemmeno
sicuro di quale fosse la domanda.
«Io non…», iniziò a
balbettare, ma Ash lo interruppe per chiarire.
«Perché la sua assenza mi fa ancora
così male? Il suo ricordo… è una
tortura».
Non erano mai state pronunciate parole più vere. Anche per
lui, a volte, il pensiero di Ginevra, di suo figlio o di qualunque
altra persona che si era lasciato alle spalle, era troppo doloroso da
sopportare. L’unica sua consolazione era che non li aveva
visti morire: non aveva dovuto piangere sulle loro tombe né
vedere il sole sorgere come se nulla fosse accaduto. Solo in quel
momento realizzò che invece sua moglie e Merlino –
soprattutto Merlino, l’ultimo ad averlo tenuto tra le braccia
– avevano dovuto convivere con l’atroce dolore
della perdita e andare avanti, per Camelot. Nel caso del mago, erano
trascorsi secoli prima che il suo cuore potesse trovare un
po’ di pace, e Artù non riusciva nemmeno ad
immaginare, di nuovo, come avesse fatto a tirare avanti fino a quel
momento.
Da giovane era stato tanto stupido da sottovalutarlo, più e
più volte, e a quanto pareva non avrebbe mai imparato la
lezione. Ad occhi chiusi, promise che una volta a casa si sarebbe fatto
perdonare.
Quando incrociò nuovamente lo sguardo di Ash, ancora puntato
su di lui, in attesa, disse l’unica cosa che valeva la pena
di essere detta: «Io le voglio bene. Non saprei dirti se mi
sto innamorando, ma di una cosa sono sicuro: non ho alcuna intenzione
di ferirla».
Ash rimase per un attimo interdetto, preso alla sprovvista da quella
risposta, poi la sua fronte si distese e riuscì persino ad
accennare un sorriso.
«Sei sicuro di quello che dici? Cathleen non ti
amerà mai come ha amato Zachary».
«Lo so». Artù scrollò le
spalle, stirando le gambe indolenzite per alzarsi dal pavimento.
«Lei mi fa stare bene e se anche lei prova lo stesso in mia
compagnia, mi basta».
Il sorriso di Ash si allargò e mentre Artù si
alzava continuò a guardarlo dal basso, fino a
quando il sovrano non gli domandò perché avesse
quell’espressione soddisfatta sul viso.
«Perché lo sono: Cath è in buone
mani».
«E tu?».
«Io?».
Artù gli porse le mani per aiutarlo a tirarsi su e
ripeté: «Sì, tu. Tu ti sei confidato
con me, perché? Come fai a sapere che non le dirò
tutto alla prima occasione?».
Ash guardò le sue mani aperte e dopo qualche attimo di
esitazione le afferrò e si diede la spinta necessaria a
mettersi sulle proprie gambe.
«È più facile confidarsi con dei
perfetti sconosciuti, non trovi? Non si temono le loro reazioni. Ad
ogni modo tu non hai la faccia di uno spione, anzi… ho il
sospetto che faresti di tutto, anche tradire i tuoi stessi principi,
per una buona causa».
Artù ripensò a tutte le volte in cui era andato
contro suo padre, il massimo esponente ed esempio da seguire in materia
di principi morali, per aiutare Ginevra, Merlino o la stessa Morgana.
Molte scelte l’avevano cacciato nei guai, ma si era sempre
addormentato con la coscienza pulita e non ne rimpiangeva nessuna. E
gli piaceva pensare – sempre più spesso,
ultimamente – che se Merlino gli avesse confidato prima di
essere uno stregone gli avrebbe coperto le spalle, aiutandolo a
mantenere il segreto tra le mura del castello e fuori.
«Ho indovinato?», gli chiese Ash, gli occhi
brillanti anche se ancora un po’ arrossati dalle lacrime.
Artù evitò di rispondere, ma il suo volto doveva
essere un libro aperto dato che il fratello di Cathleen
annuì ed aprì la porta della sua camera. Prima di
chiudersela alle spalle, tornò serio per ringraziarlo. Senza
aspettare la sua risposta, sparì dietro il legno massiccio.
Artù chinò il capo e tornò in camera
sua, dove trovò il cellulare abbandonato sul letto, col
messaggio indirizzato a Merlino scritto a metà. Lo
cancellò e lo chiamò direttamente: aveva bisogno
di sentire la sua voce e di ringraziarlo per non aver mai perso la
speranza.
***
«Posso chiederti una cosa, Freddie?».
«Ho scelta, signorina?».
Cathleen non si sarebbe mai abituata alla stranezza del sarcasmo del
maggiordomo accompagnato dalla totale inespressività del suo
viso.
«Da quanto tempo mio padre è rintanato nelle sue
stanze?», gli domandò.
Freddie sospirò e scosse leggermente il capo, come se non
fosse contento di quel quesito. Infatti non rispose e gliene pose un
altro: «Perché è tornata qui,
signorina? Perché adesso?».
«Non… Non avrei dovuto?», gli chiese
ancora, fissando il pavimento ricoperto di morbida moquette.
«Non sto insinuando questo, signorina. La mia è
semplice curiosità».
Cathleen esitò, riordinando i pensieri che
l’avevano spinta ad attuare quella folle idea: il battibecco
con Artù, la nostalgia, il senso di colpa, il desiderio di
condividere con lui quell'enorme peso.
«Si tratta del signor Pendragon, vero?».
Cathleen guardò Freddie e, scioccata, trovò un
sorriso sulle sue labbra. Aveva dimenticato come fosse,
perché i casi in cui ne mostrava uno erano estremamente
rari; ma ne aveva già visto qualcuno nel corso degli anni:
quando aveva imparato ad andare in bicicletta grazie al suo aiuto,
quando dopo ore di studio con lui aveva preso il voto massimo al
compito di matematica, oppure ad uno dei suoi compleanni, quando gli
aveva chiesto di aiutarla a soffiare sulle candeline.
Era strano e triste, ma Freddie era stato un padre migliore del suo.
Non avrebbe mai avuto la forza di dirglielo e ringraziarlo,
perciò gli strinse una mano e decise di essere onesta:
«Sì, è per Artù che sono
tornata. Volevo che vedesse dove sono cresciuta, fargli capire che i
soldi, la nobiltà… non fanno la
felicità».
Il domestico diede una pacca leggera al dorso della sua mano e
finalmente rispose alla sua domanda iniziale: «Quando ha
lasciato questa casa, il signor Shaw ha avuto un crollo nervoso e
quando si è ripreso, ha lentamente iniziato a restringere i
suoi spazi vitali. La sua agorafobia peggiorava di giorno in giorno:
diceva che non poteva controllare ciò che gli stava intorno,
se non era riuscito nemmeno a capire che cos’aveva in mente
la sua stessa figlia. Alla fine non riuscì più a
varcare la soglia della sua stanza e da qualche mese a questa parte ha
persino vietato alla signora Shaw di dormire con lui. Vive in totale
isolamento ormai, l’unico che può entrare nelle
sue camere sono io, ma solo per portargli i pasti e somministrargli le
medicine. Non vuole che tocchi nulla, perciò… non
si spaventi, se troverà un po’ di
confusione».
Cathleen deglutì, sentendo il cuore batterle furiosamente in
gola, mentre Freddie apriva la porta dopo aver bussato in codice
– l’ennesima prova del disturbo ossessivo di suo
padre.
Il maggiordomo era stato gentile, quando aveva detto che ci sarebbe
stata “un po’ di confusione”. In
realtà, la stanza era un vero disastro: l’aria
così viziata che Cathleen dovette sforzarsi per non gridare
di aprire una delle numerose finestre, tutte rigorosamente protette
dalle inferriate. Il letto era disfatto e le lenzuola stropicciate come
carta velina; sui mobili e sulle mensole la polvere era tanto alta da
nascondere il colore naturale del legno e del marmo.
In generale, tutto era grigio e spento, proprio come l’uomo
seduto sulla poltrona di fronte all’unica finestra non celata
dalle pesanti tende di velluto blu: suo padre.
Quasi non riuscì a riconoscerlo, come se la polvere avesse
ricoperto anche la sua vera essenza. Un tempo era stato un uomo forte,
ambizioso, pieno di carisma. Ora era il fantasma di se stesso, un uomo
vecchio e malato, rancoroso e sprezzante. Cathleen realizzò
tutto questo non appena si voltò verso di loro e li
squadrò con i suoi occhi scuri una volta affamati di vita e
ora straripanti di odio.
I folti capelli neri che usava portare pettinati all’indietro
ora erano candidi, radi in molti punti e scompigliati sulla testa, del
tutto trascurati. Il volto dalla pelle sottile era solcato da un
reticolo di rughe e vene bluastre e le sopracciglia importanti erano
contratte in un’espressione feroce, come le labbra, spaccate
dalla scarsa idratazione, tirate sui denti in un ringhio silenzioso.
«Ciao papà», esordì con voce
tremante, incapace di schiodarsi dalla soglia della stanza.
«Sono Cathleen, tua figlia».
I suoi occhi opachi furono in grado di passarle attraverso e dopo
attimi di straziante silenzio, sibilò: «Mia figlia
è morta».
La rossa sbarrò gli occhi, mentre un dolore sordo le
schiacciava il cuore. Aveva previsto che non la accogliesse a braccia
aperte, ma venire a sapere che la considerava morta... Questo non
l’avrebbe mai immaginato.
Freddie le rivolse uno sguardo carico di apprensione –
secondo i suoi standard – e riempì
d’acqua un bicchiere di vetro, per poi porgerlo al signor
Shaw con una manciata delle pillole più disparate. E fu
proprio quello sguardo a riscuoterla dal torpore.
Infervorata, rispose con tono fermo: «Ti sbagli,
papà. Mamma è morta, Zachary è morto.
Io sono viva e vegeta e soprattutto sono qui, nonostante avessi giurato
a me stessa che non avrei più messo piede in questa
casa».
Il signor Shaw la fissò con ancora più astio e ad
un tratto tutta la sua rabbia esplose in un gesto imprevedibile:
colpì la mano tesa del maggiordomo e il bicchierino e i
piccoli confetti bianchi rotolarono sul pavimento impolverato; quindi
si alzò dalla poltrona, le gambe tremanti che quasi non lo
sostenevano, e paonazzo in viso urlò: «Nessuno ti
ha chiesto di tornare!».
«Signor Shaw, la prego». Freddie tentò
inutilmente di calmarlo e farlo risedere, ma l’uomo lo
allontanò ancora una volta, minacciandolo col pomo dorato
del suo bastone da passeggio, fino ad allora appoggiato contro un
bracciolo della poltrona.
«Mi hai ingannato, hai agito alle mie spalle, sei scappata di
casa e non mi hai rivolto la parola per anni. Nemmeno per dirmi che
sarei diventato nonno hai avuto il fegato di chiamare!».
Fece una pausa per riprendere fiato, ma non sembrò aiutarlo
in alcun modo: i suoi respiri erano rantoli e la sua voce si spezzava
di continuo, come se non fosse più abituato a pronunciare
più di qualche parola al giorno.
Freddie ci ritentò, posando una mano sulla sua schiena
ingobbita e piegandosi un poco verso il suo volto: «Signor
Shaw, credo davvero che dovrebbe stendersi un attimo».
«Lasciaci soli», abbaiò in risposta suo
padre. «Subito, Freddie».
Il maggiordomo chinò il capo e con riluttanza
lasciò la stanza, anche se prima consegnò delle
nuove dosi di pillole a Cathleen. La ragazza osservò il
bicchierino pieno e si chiese quante portassero il suo nome sulle
ricette dei vari psicologi che avevano in cura suo padre. Non ebbe
però il motivo materiale per farsi un’idea,
perché Roger si accasciò con un gemito sulla
poltrona e riprese da dove si era interrotto.
«Dopo l’incidente in cui hai rischiato la vita, ho
pregato tuo fratello perché ti convincesse a tornare qui.
Volevo ricominciare, rimediare ai miei sbagli... volevo che la mia
famiglia fosse di nuovo felice. Tu però ti sei rifiutata e
io ho dovuto fingere che anche tu fossi morta contro quel guardrail. Se
non me ne fossi convinto... non sarei mai riuscito a sopportare il peso
dei miei fallimenti».
Cathleen finalmente si avvicinò e si chinò per
avvolgergli le braccia intorno al collo con delicatezza e massaggiargli
la schiena tremante a causa dei singhiozzi.
«Ho dovuto quasi perderti per sempre, per capire che razza di
padre sono stato», aggiunse contro la sua spalla.
«Terribile, terribile. Ho capito perché mi odi
tanto».
«Shhh». Cathleen chiuse gli occhi a loro volta
umidi di lacrime e sciolse la presa solo per inginocchiarsi al suo
cospetto, le mani strette intorno alle sue.
«L’importante è che sono qui, adesso, e
ti prometto che mi farò perdonare per tutto il tempo che ho
trascorso lontana da questa casa, lontana da te. Mi dispiace tanto,
papà».
Le labbra del signor Shaw si spaccarono ulteriormente a causa di un
sorriso, il primo dopo chissà quanti anni, e passando le
dita, scosse da lievi tremori, sulle guance di Cathleen,
iniziò a sussurrare: «La mia bambina. La mia
bellissima bambina».
Lei non lo corresse, nonostante fosse certa di aver ben poco ormai
della bambina: il suo cuore aveva amato e sofferto troppo, i suoi occhi
avevano visto troppe cose e ogni traccia di innocenza era svanita. Una
cosa tipica dei bambini però stava rinascendo nella sua
anima, una piccola fiamma accesa da Artù e che, col passare
dei giorni, stava diventando sempre più forte e alta: la
speranza.
«Forza, prendi le tue medicine e lascia che Freddie e Cecilya
si occupino di dare una ripulita a questa stanza: ne ha davvero
bisogno».
«Solo Freddie», esclamò Roger
ansiosamente.
Cathleen esitò, ma capì che non poteva pretendere
troppo da suo padre. Ci sarebbe voluto del tempo e tanta buona
volontà perché riuscisse a migliorare.
«Va bene, vorrà dire che gli darò una
mano io», rispose dolcemente, porgendogli il bicchiere
d’acqua.
Osservò suo padre inghiottire un paio di pastiglie alla
volta, quasi in maniera meccanica, e il senso di colpa la
colpì forte alla bocca dello stomaco, tanto che dovette
distogliere lo sguardo.
Suo padre aveva commesso molti sbagli, ma il
suo comportamento era stato altrettanto deplorevole. Come aveva potuto
essere tanto egoista?
Era talmente immersa nei suoi pensieri che suo padre dovette toccarle
il braccio per attirare la sua attenzione.
«Hai detto qualcosa?», gli chiese, prendendogli di
mano il bicchiere vuoto.
Il signor Shaw ripeté ciò che le aveva chiesto:
«Chi era il ragazzo che ho visto con te ai campi da
tennis?».
Cathleen ritrovò il sorriso. «Una persona molto
speciale».
***
Hala entrò nella stanza di Abby dopo aver bussato piano alla
porta. Guardando la ragazzina e sua nonna, sedute vicine e mani nelle
mani, ebbe come la sensazione di aver interrotto qualcosa ed
indietreggiò di un passo.
«Scusate, torno tra un po’».
«Hala, entra pure. Stavo giusto andando a prendere la
colazione per Abby».
La signora Chapman si alzò dal letto dopo aver posato un
bacio sulla fronte della nipote e le accarezzò un braccio
uscendo dalla camera.
Rimaste sole, Hala e Abigail si scambiarono
un’occhiata da lontano, studiando ognuna la propria mossa.
Fu la ragazzina a parlare per prima, con tono stanco: «Tu e
Baqi non avete proprio intenzione di lasciar stare Merlino,
vero?».
Hala esitò, mordendosi le labbra, ma non poteva tirarsi
indietro proprio ora che era a tanto così dallo scoprire la
verità. Negò col capo ed avvicinò una
sedia al letto di Abby, chiedendole: «Tu lo
faresti?».
«Tu non capisci, Hala. Merlino è la persona
più buona e gentile di questo mondo, forse
dell’Universo, e tutto ciò che vuole è
evitare che il suo segreto venga rivelato. Ti rendi conto di
quello che accadrebbe, se si sapesse che è
immortale?».
Per qualche secondo, paralizzata dallo shock, la pakistana non
riuscì ad aprire bocca. Quando finalmente ritrovò
il controllo di sé, l’unica cosa che disse fu:
«Allora è vero».
Il volto di Abby si infiammò come se qualcuno avesse appena
acceso una candela dentro il suo cranio –
un’inquietante zucca di Halloween umana.
«Certo che è vero», esclamò,
allungandosi per prendere dal primo cassetto del comodino il diario di
Louise. «Credi che la mia bisnonna fosse pazza?».
«Io non...».
«Se tutto ciò che c’è scritto
qui non fosse vero, allora il suo nome sarebbe segnato sulla targa
commemorativa che c’è vicino alla cappella, non
trovi?».
Di nuovo Hala provò a parlare, ma la voce di Abby la
sovrastò: sembrava un fiume in piena, incapace di
arrestarsi, e l’unica cosa che poteva fare era aspettare che
la tempesta passasse da sé.
«Io non riesco nemmeno ad immaginare che cosa abbia voluto
dire per lui vivere così a lungo, sopravvivere a tutte le
persone che amava, soffrire in silenzio senza mai potersi confidare con
qualcuno... Adesso che finalmente sembra aver trovato un equilibrio,
che sembra addirittura felice, voi volete rovinare tutto per uno
stupido scoop?». Fece una breve pausa, necessaria
solo a riprendere fiato e a rivolgerle lo sguardo più serio
e determinato che le avesse mai visto fare, poi aggiunse:
«C’è un motivo, se a Merlino
è stata donata l’immortalità; non so
quale sia, ma sono convinta che si tratti di un ottimo motivo. E ti
giuro che non permetterò a nessuno di intromettersi nel suo
destino, fosse anche l’ultima cosa che
farò».
Hala era impressionata. Non aveva mai sentito Abby parlare
così – la sua dolce e fragile Abby –
né l’aveva mai vista così convinta
riguardo alla sua posizione. Aveva trovato un nuovo obiettivo, qualcosa
per cui lottare veramente, e fintanto che il suo cuore avesse
continuato a battere non avrebbe smesso.
Ciò nonostante, la sua risposta risultò sterile
ed
inconcludente come poche: «Ne parlerò con
Baqi». Dopotutto era la sua indagine, o come
l’aveva definito Abby, il suo “scoop”.
La ragazzina continuò a fissarla, come se si aspettasse
dell’altro, ma Hala si alzò e uscì
dalla stanza come un automa. Era tanto sconvolta da non riuscire
nemmeno a manifestarlo, anche se non per il motivo per cui avrebbe
dovuto esserlo. Ciò che la turbava profondamente era la
sensazione che aveva provato non appena aveva ottenuto la confessione
di Abby, la sensazione che non fosse abbastanza. Sì, Abby
era una delle persone più vicine a Merlino, ma le sue parole
non pesavano quanto quelle del diretto interessato. E poi, le sole
parole non dimostravano un bel niente. Quello di cui avevano bisogno
erano prove, ben più concrete ed inconfutabili di una foto
sbiadita, il diario di una donna malata e della parola della bisnipote
di quest’ultima.
Hala si lasciò cadere seduta su una delle poltroncine della
sala di aspetto e si prese il volto tra le mani. Non era nemmeno sicura
che lei sola potesse procurarsi delle prove vere e proprie: insomma,
come si dimostrava l’immortalità? Forse dovevano
davvero lasciar perdere, prima di ficcarsi davvero nei guai.
Forse…
***
Darrell parcheggiò proprio di fronte alla villetta di
Alexandra e rimase per qualche secondo a fissarla, ricordando la sera
in cui si era precipitato lì per cogliere un ladro sul
fatto. Ora non solo non era sicuro che si fosse trattato di un reale
tentativo di furto, ma dubitava persino
sull’onestà dell’infermiera.
L’unica certezza che possedeva al momento era che gli stava
nascondendo qualcosa, qualcosa di grosso.
Sospirò, massaggiandosi gli occhi stanchi con due dita, e si
diresse verso la villetta accanto. Trovò il piccolo cancello
aperto, perciò percorse il vialetto e suonò
semplicemente il campanello. Poco dopo la signora Levinson lo fece
accomodare nel suo salotto, seduto su un morbido divano dalla
tappezzeria floreale e con una tazza di tè tra le mani.
Era una bella casa, con morbida moquette rosa sui pavimenti e tante
fotografie sulle pareti, quasi esclusivamente di famiglia. Sopra il
caminetto c’era una grande cornice d’argento che
conteneva un collage il cui soggetto principale era un uomo dai capelli
bianchi e il sorriso bonario, probabilmente il marito della donna.
La signora Levinson uscì dalla cucina con un piatto colmo di
biscotti appena sfornati, il cui profumo invase tutto il soggiorno,
mescolandosi a quello dei fiori freschi colti dal giardino. Si sedette
sulla poltrona accanto al tavolino e sorrise dolcemente al barboncino
toy bianco che andò subito ad accucciarsi ai suoi piedi.
Mentre gli faceva un grattino dietro un orecchio gonfio di
pelo, il cane iniziò a scodinzolare di felicità
ma non emise un suono. Darrell ne fu particolarmente colpito,
perché anche una sua ex ragazza possedeva un toy e ricordava
bene quanto fosse rumoroso, specialmente con gli sconosciuti. O il cane
della signora Levinson era estremamente quieto, oppure aveva qualcosa
che non andava, perché quando era entrato si era limitato a
fissarlo, anche se coi denti leggermente sporgenti in un ringhio muto.
«Signora Levinson, perdoni la mia curiosità, ma ho
notato che il suo cane non abbaia e mi
domandavo…».
L’anziana lo interruppe con un gesto della mano e rivolgendo
un altro sorriso all’animale rispose: «Non
è sempre stato così. C’era un tempo in
cui era molto difficile tenerlo a bada. Circa un mese fa, era con me in
giardino, che mi teneva compagnia mentre davo del fertilizzante alle
mie piante, quando all’improvviso si è ammutolito.
Pensavo avesse visto qualcosa che lo aveva spaventato e mi sono girata
per capire, ma vidi solo Alexandra alla finestra, che beveva una tazza
di caffè».
Uno sgradevole sospetto gli fece passare l’acquolina per i
biscotti della signora Levinson, tanto che lasciò sul
proprio piattino quello che aveva preso dal vassoio.
«Vada avanti», la esortò, serissimo.
La donna scrollò le spalle. «Beh, non
c’è molto altro da dire. L’ho portato da
due diversi veterinari, ma nemmeno loro sono riusciti a capire quale
fosse il problema. Hanno ipotizzato che fosse la sua reazione alla
scomparsa di mio marito, ma è successo ormai tre anni fa e
non si era mai comportato così, prima».
«No, intendevo…». Darrell si
sentì infinitamente stupido, ma doveva sapere tutto
ciò che poteva su Alexandra. «Riguardo alla
signorina Greenwood. L’ha vista alla finestra e
poi?».
«In che senso? L’ho salutata e lei ha ricambiato,
tutto qui. Avrei voluto dirle che mi dispiaceva se Rolly
l’aveva svegliata, ma è andata via prima che
potessi farle cenno di aprire la finestra». Angela aveva gli
occhi sgranati per la stranezza di quella domanda e infatti volle
sapere: «Che cosa c’entra questo con
l’effrazione?».
«Niente, niente», tossicchiò,
imbarazzato. «Non voglio rubarle troppo tempo,
perciò per lei va bene se le mostro alcune
fotografie?».
«Certamente. Si tratta dei possibili indiziati?».
«In un certo senso», mugugnò Darrell,
tirando fuori dalla borsa a tracolla il proprio tablet.
Trovò il file che aveva scaricato poco prima in Centrale e
si spostò nell’angolo più esterno del
divano, così da poter porgere tranquillamente lo schermo
alla signora Levinson. La prima fotografia che le mostrò fu
quella della patente di guida di Cathleen Shaw, la sua principale
indiziata.
«L’ha mai vista nel quartiere?».
Angela si infilò gli occhiali sulla punta del naso e dopo
aver fissato i lineamenti della ragazza per qualche secondo, scosse il
capo. «No, non mi pare proprio. Chi è?».
«Un’amica della Greenwood. Lavora con lei
all’ospedale, fa il paramedico».
«E per quale motivo una sua amica avrebbe dovuto entrare in
casa sua per rubare?».
«Ecco, questa è una delle tante domande a cui
voglio trovare una risposta. Ma andiamo avanti».
Fece scorrere un dito sul touch-screen del tablet e le fece vedere la
seconda fotografia, ricavata dal passaporto di Artù
Pendragon. Perché lo considerava un sospettato?
Innanzitutto, il secondo testimone – da cui sarebbe andato
più tardi – aveva affermato di aver visto due
persone uscire dalla villetta di Alexandra; poi, ricordava fin troppo
bene la sera in cui Myra lo aveva portato in centrale, armato di una
balestra e altre armi poco convenzionali. Lui e Cathleen si conoscevano
e forse il paramedico, qualunque fosse il suo intento, lo aveva
persuaso ad aiutarla.
«Questo ragazzo l’ho già
visto…», esclamò la signora Levinson,
improvvisamente preoccupata.
Darrell rischiò quasi di fare un salto sul divano, smanioso
di sapere. «Quando? Dove? Mi racconti tutto».
«È successo quasi due mesi fa. Fuori pioveva a
dirotto ed io ero seduta lì dove è lei, a
guardare la televisione. Ad un certo punto ho sentito il rumore di una
brusca frenata e incuriosita sono andata alla finestra. Fu allora che
vidi questo ragazzo: era svenuto e aveva addosso una specie di
armatura, ha presente?, quelle dei cavalieri nei film. Alexandra e un
uomo di mezz’età l’hanno portato in
casa, ma non ho mai saputo che cosa fosse successo. Qualche volta fui
ad un passo dal chiederle delle spiegazioni, però ho sempre
cambiato idea: Alexandra è una così cara ragazza
e non mi andava di farmi gli affari suoi. La mia ipotesi è
che quel ragazzo abbia avuto un malore e lei lo abbia portato a casa
sua per aiutarlo. Dopotutto è
un’infermiera».
«Se fosse davvero come dice lei, perché non
l’ha portato in ospedale?», ribatté
Darrell, massaggiandosi il mento. «No,
c’è qualcosa che non torna».
Angela sgranò gli occhi, agitandosi tanto sulla sua poltrona
che persino Rolly alzò la testa per ringhiargli
silenziosamente contro.
«Sta per caso insinuando che
Alexandra…?».
«Non si preoccupi di quello che penso io. Ha visto altro,
quella sera?».
«Io… Non mi piace la piega che ha preso questa
conversazione. Mi rifiuto di credere che Alexandra abbia fatto qualcosa
di male. Lei e la sua povera madre – che Dio
l’abbia in pace – sono sempre state vicine perfette
e non dirò più una parola su di lei, non se crede
che sia colpevole di qualche cosa».
L’agente Fisher trasse un respiro profondo e posò
il tablet sul tavolino per poter porgere le mani all’anziana
donna. Titubante, la signora Levinson impiegò qualche
secondo per decidere se far incontrare i loro palmi oppure no. Alla
fine cedette agli occhi gentili di Darrell e con le mani nelle sue lo
ascoltò in silenzio.
«Signora Levinson, tutto ciò che mi interessa al
momento è che la signorina Greenwood non corra alcun
pericolo. Qualcuno è entrato in casa sua nel cuore della
notte e ha cercato qualcosa, qualcosa che a quanto pare non ha trovato.
Non posso escludere la possibilità che questa o queste
persone ritornino per completare il lavoro: magari la prossima volta
non si limiteranno a mettere a soqquadro una stanza, non decideranno di
agire con la casa vuota. Capisce che non posso rischiare?
L’unico modo perché Alexandra sia completamente al
sicuro è arrestare i colpevoli».
La signora Levinson annuì debolmente, abbassando il capo.
«Qualsiasi cosa può essere utile alle indagini,
anche il dettaglio più insignificante», aggiunse
con voce carezzevole. «Le prometto che non
succederà nulla ad Alexandra, non prima che questo caso
sarà risolto».
La donna sospirò e si convinse a parlare. Guardandolo dritto
negli occhi, continuò a raccontare di quella sera di due
mesi prima: «Sono rimasta alla finestra ancora per un
po’, ma Alexandra e quell’uomo non sono
più usciti. In compenso però è
arrivato di gran carriera un ragazzo in bicicletta».
«Me lo descriva», le chiese Darrell.
«Mi faccia pensare… Alto quanto lei, decisamente
mingherlino, coi capelli neri, gli occhi azzurri…».
Il poliziotto afferrò di nuovo il tablet e cercò
una foto di Merlino, poi la mostrò alla signora Levinson.
«È lui?».
«Sì, proprio lui. Era molto scosso e mi ricordo
che suonò al campanello come un ossesso; ha smesso soltanto
quando l’uomo che era con Alexandra lo ha fatto entrare in
casa».
Non poteva dire che avesse le idee più chiare, ma era
contento di avere del nuovo materiale su cui pensare, evitando
così di arrovellarsi sempre sulle stesse domande. Inoltre,
c’era un particolare di quel racconto che lo aveva colpito
come un pugno dritto al cervello: Artù indossava un armatura
da cavaliere quando Alex l’aveva trovato. Anche Freya, quando
lui l’aveva tirata fuori dai cespugli dietro casa sua,
indossava degli abiti che erano ben lontani dall’epoca
moderna. Una semplice coincidenza? Il suo istinto ne dubitava
fortemente. Ma quali erano le alternative? Una setta segreta con usi e
costumi medievali? Un portale spazio-temporale? Il suo mal di testa non
poteva che peggiorare.
Una decina di minuti dopo lasciava l’accogliente casa della
signora Levinson per attraversare la strada ed entrare in quella un
po’ trascurata dell’uomo che, la notte
dell’incidente, gli aveva detto di aver visto due persone
correre verso il bosco.
Si trattava di un quarantenne single e sovrappeso, operaio in una
fabbrica ad un’ora di distanza dal loro paesino. Gli
raccontò senza troppi giri di parole che quando era
rientrato dal turno si era preparato la cena e l’aveva
consumata sul divano in salotto, di fronte alla TV, dove era rimasto
fino a quando non si era appisolato. L’aveva svegliato
l’infrangersi di un vetro e preoccupato che il temporale
fosse più forte del previsto, era corso alla finestra per
chiudere le imposte. Allora aveva visto le due persone uscire di corsa
dalla porta d’ingresso della villetta di fronte alla sua e
dirigersi verso il bosco.
«Saprebbe riconoscerli, se le mostrassi delle
foto?», gli chiese ad un tratto Darrell, desideroso di uscire
da quella casa il più in fretta possibile.
La moquette era sporca in molti punti, gli angoli del soffitto erano
anneriti dalla muffa e sul tavolino di fronte alla TV c’erano
scatole di piatti pronti, cartoni della pizza vuoti e tazze colme di
mozziconi di sigarette. Come se tutto ciò non bastasse,
l’uomo di fronte a lui indossava una semplice canotta
ingiallita che non era in grado di contenere la villosità
del suo petto e il suo alito era davvero pessimo.
«Sa com’è agente, era buio e
pioveva…».
«Proviamoci, okay?».
Gli mostrò le stesse foto che aveva fatto vedere alla
signora Levinson, ma l’uomo oltre a non averli mai visti in
vita sua non seppe dargli alcuna certezza.
«Sì, uno dei due aveva i capelli lunghi come una
ragazza, ma al giorno d’oggi non si può mai sapere
che cosa ci sia lì sotto! Mi raccomando, agente, non si
faccia ingannare».
Dopo quel preziosissimo consiglio, con tanto di strizzata
d’occhio, Darrell riuscì a lasciarsi alle spalle
quella casa e il suo proprietario. Una volta all’aperto, si
rifece i polmoni respirando profondamente, poi raggiunse la propria
auto e si mise al volante, indeciso se tornare a casa – dove
avrebbe potuto prendere un’altra aspirina e dormire,
nonostante la mancanza di Freya – oppure continuare a seguire
la sua pista.
Abbandonò il capo contro il poggiatesta e a malincuore
decise di tornare a casa: era troppo stanco e forse era meglio
riposarsi un po’, prima di fare la prossima mossa.
***
«Un’ultima cosa, Merlino».
«Che cosa?».
«Grazie».
Lo stregone era rimasto per qualche secondo in silenzio, in attesa che
Artù aggiungesse qualcosa. Il re però
gli aveva chiuso il telefono in faccia, mettendogli addosso con un vago
senso di inadeguatezza.
Non solo era insolito sentire da lui una parola gentile, ma lo era
ancora di più in quel momento in particolare: dopo
ciò che aveva detto la notte precedente, dopo aver
realizzato che la ferita lasciata sul suo cuore da Louise era ancora
troppo dolorosa per poter legare per sempre a sé Alex nel
sacro vincolo del matrimonio... Tutte le sue certezze stavano venendo
meno e non aveva proprio bisogno di ringraziamenti.
Abbattuto, diede le spalle al terrazzo e rientrò in camera
da letto, dove trovò Alex stesa di traverso sul letto, lo
sguardo fisso sul soffitto e una ciocca di capelli tra le dita.
Dopo aver finito la vaschetta di gelato, stufi di guardare la TV, lei
aveva proposto di andare al piano di sopra per godersi un po’
di intimità senza aver paura di essere interrotti sul
più bello da Artù. Il sovrano li aveva
sì interrotti, ma era stato quasi un sollievo per il mago
avere la scusa per allontanarsi. E dovevano rimanere da soli per un
intero week-end?
Dentro di sé, Merlino respirò profondamente e
sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso quando
Alex voltò il capo verso di lui e gli chiese:
«Come sta Artù?».
«Bene, credo. Mi ha detto che Cathleen l’ha portato
a casa della sua famiglia».
«Ci tiene davvero tanto a lui», esclamò,
sollevando le gambe nude per guardarsi le unghie dei piedi.
Merlino le percorse con lo sguardo per poi vergognarsene subito dopo.
Si sedette al suo fianco, sollevandosi il colletto della maglia per
passarselo sul viso sudato. Non era eccitato, né accaldato;
semplicemente i postumi di quella nottata iniziavano a farsi sentire.
In più, il fatto che Alex avesse utilizzato così
tanta magia per recuperare il suo dispositivo non aiutava.
«Come fai a dirlo?», le chiese.
Alex ridacchiò, tornando a guardare il soffitto.
«Non lo sai? Per noi ragazze introdurre un ragazzo alle
nostre famiglie equivale ad una dichiarazione
d’amore».
Merlino si sdraiò a sua volta, con la testa accanto ai suoi
piedi delicati. «Ah sì?»,
mugugnò. Ogni fibra del suo corpo ululava di dolore, ma
voleva resistere e non prendere altri dolorifici. Finivano sempre
più in fretta e prima o poi, se non prestava attenzione,
Alex e Artù avrebbero finito per accorgersi della sua
dipendenza.
Chiuse gli occhi dalle palpebre pesanti e cercò di
rilassarsi, ma Alex si sedette a gambe incrociate sul letto e lo
osservò in silenzio per qualche istante.
«Stai bene?», gli domandò alla fine,
allungando una mano verso il suo viso.
Merlino la intercettò e se la portò sul petto,
evitando di rispondere. «Che ne dici se ce ne stiamo un
po’ qui sdraiati?».
L’infermiera annuì e si stese al suo fianco, con
la testa posata sul suo braccio destro e le gambe intrecciate alle sue.
Merlino con uno sforzo prese la coperta ai piedi del letto e se la
gettò addosso, dato che ora aveva i brividi. Nel mentre di
quell’operazione, Alex approfittò della sua
distrazione per liberarsi della sua stretta e portargli una mano sulla
fronte, su cui tra l'altro svettava un bel bernoccolo per il colpo che
la sera prima aveva dato agli scalini della veranda.
«Ma tu scotti!», esclamò con gli occhi
pieni di preoccupazione.
Il mago provò a rassicurarla, ma la bionda era
già entrata in modalità infermiera.
Dovette
alzare la voce per attirare di nuovo la sua attenzione:
«Alex! Rilassati, non è niente. Mi capita, ogni
tanto… È l’età».
Riuscì persino ad abbozzare un sorriso, il quale non
riuscì nell’intento di tranquillizzare Alex.
Le sfiorò il mento con il pollice, inchiodando gli occhi nei
suoi, e aggiunse: «Resta qui con me, per favore».
L’infermiera non riuscì a dire di no a quegli
occhi e ricambiò con un piccolo sorriso, accoccolandosi
contro di lui sotto le coperte. Merlino sospirò e chiuse gli
occhi, cadendo quasi subito in un sonno agitato.
***
Menomale che Artù pensava di trascorrere un week-end
tranquillo con Cathleen.
Le cose erano degenerate in fretta, in modo del tutto inaspettato, da
quando lei aveva bussato alla porta della sua stanza con un sorriso
radioso sul volto, per annunciare che forse aveva ancora qualche
speranza di recuperare il rapporto con suo padre.
Il sovrano era felice per lei ovviamente, ma non pensava che una cena
in famiglia avrebbe scatenato tutto quello scompiglio.
Innanzitutto, per via della malattia del signor Shaw, il personale si
era dovuto attrezzare perché venisse allestita una piccola e
dignitosa sala da pranzo nelle sue stanze.
Poi era partita la caccia all’abito perfetto, dato che per
quell’occasione speciale Trisha aveva ordinato uno specifico
dress-code: serata di gala. Artù e Cathleen si erano portati
dietro solo lo stretto necessario, perciò la matrigna li
aveva portati nella sua stanza guardaroba per agghindarli a dovere.
Solo quando si era stancata di trattarli come bambole in carne ed ossa
e aveva permesso loro di andare a rinfrescarsi, si erano resi conto di
non aver più visto Ash da quel pomeriggio. Artù
le aveva spiegato a grandi linee che avevano parlato un po’
– senza rivelarle di che cosa – e che quando si
erano separati ognuno era andato nella propria camera.
Avevano bussato e bussato, chiamandolo da dietro la porta chiusa a
chiave, inutilmente. Allora erano subito andati a cercare Freddie per
farsi dare un doppione della chiave, ma avevano scoperto che Ash
– intransigente quando si trattava della sua privacy
– aveva da tempo buttato ogni copia, esclusa la sua. Visto
che non potevano passare dall’interno, a Cathleen era venuta
una pessima idea e suo malgrado fu anche la loro unica idea.
Il tempo di togliersi il lungo vestito verde smeraldo per infilarsi i
suoi amati pantaloni di pelle e aveva già scavalcato la
ringhiera della finestra del secondo piano posta proprio sopra il
balconcino della camera di Ash. Nonostante Artù avesse
cercato in ogni modo di dissuaderla, o almeno di convincerla a far
saltare lui, il paramedico non aveva voluto sentire ragioni, affermando
che aveva giurato – a Merlino, supponeva – che si
sarebbe presa cura di lui: senza il dispositivo assorbi-magia nera i
rischi erano ancora più alti e non poteva assolutamente
permettere che avesse un altro crollo di fronte ai suoi occhi.
Così Cathleen si era appesa alla ringhiera e dopo qualche
dondolio si era lasciata cadere, atterrando con la stessa grazia di un
gatto. Gli aveva fatto il pollice verso e dopo aver fatto un giro
completo della camera, bagno compreso, era tornata sul balcone per
gridargli che Ash non c’era. Artù aveva cercato di
trovare una qualche spiegazione, ma ancora una volta la versione dei
fatti di Cathleen fu quella con più logica.
Per qualche motivo, dopo la chiacchierata con il sovrano, Ash aveva
sentito il bisogno di stare da solo e, sapendo che prima o poi qualcuno
sarebbe andato a cercarlo, aveva deciso di tagliare la testa al toro
andando via per primo. Ash aveva disseminato indizi per far credere
loro di aver usato una delle tecniche di Cathleen, quella di chiudere
la porta a chiave per darsi più tempo mentre saltava dal
balcone, ma non aveva calcolato due cose: la prima, l’altezza
eccessiva dal balcone al terreno ricoperto di ghiaia: Ash non avrebbe
mai potuto saltare da lì - non senza evitare di sfondarsi le
caviglie - e non c’era traccia né di una corda
né dei tipici solchi lasciati sul terreno da una scala
aperta; la seconda, la mancanza della chiave nella serratura interna.
Questi piccoli dettagli avevano convinto la sorella che in
realtà era semplicemente uscito dalla sua camera, portandosi
dietro la chiave ovunque avesse deciso di andare.
«E adesso che si fa?», le aveva chiesto
Artù quando si era reso conto che mancava solo
mezz’ora all’orario che Freddie aveva stabilito per
la cena.
Cathleen si era passata il pollice sulle labbra, la fronte aggrottata,
pensierosa. Alla fine aveva sospirato, esclamando: «Andiamo a
cercarlo».
«Ma tuo padre...? Non voleva conoscermi?».
Gli aveva sorriso con tenerezza, prendendolo per mano. «Ti
conoscerà domani», aveva risposto, e
Artù aveva sentito un piacevole calore espandersi dentro di
lui, come se gli avesse promesso ben più di un altro giorno
insieme.
«Credo di sapere dove sia andato il signorino Shaw».
Cathleen aveva appena acceso la propria moto e il potente rombo le
aveva quasi impedito di sentire le parole di Freddie, in piedi nel
rettangolo della porta d’ingresso. Le luci soffuse
provenienti dal corridoio allungavano la sua ombra sulla ghiaia e
l’espressione del suo viso era ancora più
indecifrabile a causa del buio che era calato all’improvviso.
Il paramedico fece scendere Artù dalla sella per poi fare lo
stesso. Si tolse la mascherina dagli occhi e fulminò il
maggiordomo: «E quando avevi intenzione di
dircelo?».
Freddie sospirò, stringendosi nelle spalle. «Il
signorino Shaw mi fece promettere di non dire a nessuno ciò
che era successo».
«Cosa? Cos’è successo?».
«Quasi un anno fa suo fratello si è recato in un
locale e si è sentito male. Aveva bevuto più del
consentito, assunto certe sostanze illegali e subìto delle
violenze…».
Artù scorse il volto di Cathleen impallidire sotto il casco
e percepì il suo dolore come fosse proprio, solo standole
vicino. Le posò una mano sulla schiena per mostrarle la
propria vicinanza e rabbrividì, sentendo il suo cuore
correre impazzito nella cassa toracica.
«È stato portato all’ospedale e i medici
sono riusciti a salvarlo per il rotto della cuffia», riprese
Freddie. «Il signorino Ash era stato derubato del portafoglio
e del cellulare e senza documenti non poterono avvisare i familiari.
Quando riprese conoscenza, la mattina successiva, gli chiesero chi
potessero chiamare e il signorino ha fatto il mio nome. Sono
immediatamente corso in ospedale ed è stato allora che il
signorino Ash mi ha fatto promettere che non avrei dovuto raccontare
nulla di tutto questo a sua madre e soprattutto a lei,
signorina».
Cathleen strinse forte i pugni lungo i fianchi e non si
lasciò impietosire dall’espressione sinceramente
addolorata di Freddie. Lo raggiunse con poche lunghe falcate e lo
fronteggiò, occhi negli occhi.
«Avresti dovuto comunque», ruggì.
Il domestico chinò il capo, ma rimase in silenzio.
«Quel locale è ancora aperto?», gli
chiese poco dopo, con la voce alterata dalla preoccupazione e dalla
rabbia.
«Sì. La polizia si recò sul posto, ma
il proprietario affermava di essere all’oscuro che nel suo
locale girassero delle droghe e infatti non trovarono elementi a
sufficienza per aprire una vera e propria indagine. Inoltre fu proprio
lui a trovare il signorino Ash nei bagni e a chiamare
l’ambulanza. Per quanto riguarda le persone che
l’avevano malmenato…».
«Vai avanti», lo esortò bruscamente
Cathleen.
Freddie si portò pollice e indice sulle palpebre.
«Il signorino Ash non volle sporgere denuncia: diceva che se
l’era cercata».
Artù sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene
udendo quelle parole ed iniziò a nutrire un terribile
sospetto, ricordando anche ciò che gli aveva confessato Ash
quello stesso pomeriggio: «Volevo
morire. Lo volevo sul
serio, ma non bastava: ci voleva anche il coraggio. Ci ho provato,
eccome…».
«Dobbiamo andare», esclamò nervosamente,
attirando in particolare l’attenzione di Cathleen.
«Artù, ti senti bene?».
Il sovrano annuì. «Sì, ma dobbiamo
sbrigarci. Sono preoccupato».
«È mio fratello, lo sono anche io»,
ribatté il paramedico, per poi rivolgersi al maggiordomo e
chiedergli l’indirizzo del locale.
Mezz’ora più tardi, lasciarono la moto nel vicolo
accanto al nightclub dalle esplicite insegne al neon ed entrarono.
Cathleen gli aveva anticipato che ne sarebbe uscito sconvolto se quella
era la prima volta che entrava in un ambiente del genere, ma
Artù era talmente in pensiero per Ash che non ebbe tempo per
elaborare ciò che videro i suoi occhi: ragazze e ragazzi
seminudi che si muovevano sinuosamente sopra a cubi illuminati,
attorcigliandosi intorno a pali conficcati nel soffitto e lasciando che
gli spettatori infilassero loro banconote negli striminziti indumenti
intimi; chi si agitava a tempo dei bassi sotto le luci intermittenti
colorate, strusciandosi contro il proprio vicino e concedendosi
effusioni tutt'altro che pudiche; altri clienti, seduti ai tavolini ai
lati della grande sala, bevevano da grandi bicchieri colorati e
ridevano in maniera innaturale.
Artù, assordato dalla musica e spintonato da tutti quei
corpi sudati, dovette faticare per tenere il passo di Cathleen,
sicuramente più a suo agio. Si fermarono di fronte ad un
lungo bancone illuminato di bianco, dietro il quale due uomini
preparavano cocktail facendo le stesse acrobazie di un giullare di
corte.
Quando finalmente quello con la barba curata posò gli occhi
su di loro, Cathleen gli mostrò il cellulare con una foto
abbastanza recente di Ash e gridò: «Hai mai visto
questo ragazzo?».
«Certo bellezza, Ash è un nostro
habitué. Perché lo cerchi?».
«Questi non sono affari tuoi. È venuto qui anche
questa sera?».
L’uomo afferrò una bottiglia squadrata piena di
liquido ambrato e se la fece volare dietro la schiena prima di versare
un po’ del contenuto in un bicchierino. Quindi
scrollò le spalle e lo posò di fronte a Cathleen,
rivolgendole un sorriso smagliante. «Forse».
Artù stava per sbottare, quando il paramedico
afferrò con decisione il bicchierino e ne bevve il liquido
tutto d’un fiato, per poi riposarlo sul bancone insieme ad
una banconota da venti sterline.
Il barista annuì soddisfatto e si intascò i
soldi, rispondendo: «L’ho visto di sfuggita,
è andato direttamente da Inky».
«E chi sarebbe Inky?».
«Lo riconoscerai». Le indicò le tende di
velluto porpora dall'altra parte della pista da ballo, presidiate da un
uomo calvo, grande e grosso, vestito con giacca e cravatta.
«Digli che ti mando io, ti lascerà
passare».
Cathleen sbuffò scocciata e diede un colpetto al bancone col
bicchierino di vetro, facendogli capire che voleva il secondo giro.
«L'ho pagato, dopotutto».
Il barista esitò solo un attimo, prima di sorriderle di
nuovo ed esclamare: «Sei una tipa tosta! Questo lo offro
io». Poi si avvicinò al suo viso per sussurrarle
qualcosa, ma non gli riuscì molto bene perché la
musica sembrava essersi fatta ancora più alta.
«Nel caso in cui dovessi scaricarlo, fammelo sapere
okay?».
Artù, punto di nuovo sul vivo, quella volta non si
lasciò fermare dal paramedico e puntò alla sua
faccia col pugno chiuso. L’uomo però fece un passo
indietro, protetto dal bancone che li divideva, e lo
sbeffeggiò ulteriormente con un’espressione
vittoriosa.
Cathleen finì di bere e lo afferrò per il gomito,
incitandolo a seguirla verso il privè. Raggiunsero il
bodyguard e la rossa lo guardò negli occhi senza paura,
indicando il bancone col pollice: «Ci manda
l’idiota con la barba laggiù. Dobbiamo vedere
Inky».
L'uomo guardò in direzione del barista e questo gli fece
“okay” con la mano; solo allora scostò
la tenda per farli procedere.
Mentre salivano una stretta scalinata, Artù non
poté fare a meno di prendere Cathleen per un braccio e
rimproverarla: «Hai appena dato dei soldi ad uno sconosciuto
per delle informazioni!».
«Sì, hai ragione, l’ho
comprato», affermò guardandolo dritto negli occhi,
infiammati dalla determinazione. «Tu non l’avresti
fatto per tuo fratello?».
Artù rimase in silenzio, certo che lei avesse già
capito quale sarebbe stata la sua risposta; dopodiché la
seguì su per gli ultimi gradini.
Si ritrovarono in un soppalco disseminato di tanti salottini con
tavolini di cristallo e divanetti immacolati e dal pavimento in vetro
oscurante, simile a quello che si usavano nelle stanze interrogatori
delle centrali di polizia: da lì potevano vedere la pista da
ballo sottostante, col vantaggio di non essere visti. Ottimo per
sfuggire alle retate.
Iniziarono a camminare lungo lo stretto corridoio, tra ragazze in
vestitini succinti e tacchi alti e uomini dai completi eleganti, alla
ricerca di Inky. Artù non aveva idea di come avrebbero
dovuto capire chi fosse, ma tutto divenne più chiaro quando
scorsero un ragazzo dai lunghi capelli rossicci, acconciati in
tantissime treccine, e con ogni centimetro di pelle visibile ricoperta
di tatuaggi. Dato che indossava una semplice canotta bianca con grandi
spacchi sui lati e pantaloncini corti, la visione era piuttosto
impressionante.
«È lui», esclamò Cathleen.
Artù l’afferrò per un braccio prima che
si avventasse come un falco sul tatuato. «Se hai intenzione
di fare ciò che hai fatto con quel barista,
scordatelo».
«Hai un’idea migliore?».
«Lascia fare a me».
Cathleen respirò profondamente e nonostante non fosse
convinta gli indicò di andare e fare ciò che
credeva.
Artù raccolse tutto il proprio coraggio e una volta di
fronte al ragazzo si schiarì la gola per attirare la sua
attenzione. Non fu abbastanza, evidentemente era più
interessato alle due ragazze asiatiche che gli stavano quasi in braccio
e a turno gli baciavano le guance e il collo, accarezzandogli il petto
tatuato sotto la canottiera.
«Ehi!», urlò spazientito e finalmente il
tatuato lo fissò, anche se con aria di sufficienza.
«Che cosa diavolo vuoi?».
«Voglio sapere se questa sera hai visto Ash Shaw».
«Io vedo tanta gente amico, non posso ricordarmi tutti i
fottuti nomi».
Artù guardò Cathleen, chiedendole silenziosamente
il cellulare con la foto del fratello. Lo mise di fronte al viso
lentigginoso del ragazzo, il quale lo fissò per qualche
secondo. Artù immaginava che le labbra rosse che aveva
disegnate sul mento fossero un ricordo lasciato col rossetto da una
delle due ragazze, ma quando se lo strofinò, pensieroso, e
rimasero esattamente dov’erano, realizzò che anche
quello era un tatuaggio.
«Allora?», lo incalzò ad un tratto,
infastidito dal suo atteggiamento noncurante.
«Non lo so, amico… Può
darsi», rispose guardando le sue ragazze e scrollando le
spalle. Quando incrociò di nuovo il suo sguardo, sorrideva:
«Che mi dai in cambio?».
«Non sono qui per fare scambi. Ora dimmi quello che voglio
sapere e ti lascerò in pace».
Il ragazzo si fece all’improvviso più attento e
tolse le braccia dalle spalle delle sue ragazze, indicando loro di
allontanarsi. Poi si alzò ed esclamò divertito:
«Sai, non credo che tu sia nella posizione di poter darmi
degli ordini».
Ad Artù bastò sbirciare con la coda degli occhi
per rendersi conto che Inky non era venuto da solo al club: diversi
ragazzi si erano alzati dai loro divanetti e fissavano lui e Cathleen
con aria minacciosa.
«Si può sapere chi diavolo credere di essere?
Siete degli sbirri?».
Artù sorrise, compiaciuto che Inky si stesse agitando.
«Può darsi», gli rispose con la sua
stessa moneta.
Sentì Cathleen dargli una gomitata, come ad invitarlo a non
giocare col fuoco, ma il re di Camelot aveva la sensazione di avere il
coltello dalla parte del manico.
«Tu non sei il proprietario del locale»,
esclamò poco dopo.
«No, sono suo figlio».
«Tuo padre sa che fai il bulletto nel suo locale? O ti
comporti così solo quando lui non c’è,
uh?».
Inky, ferito nell’orgoglio, saltò sul tavolino per
colpirlo, ma Artù fu più veloce di lui e lo
acchiappò avvolgendogli un braccio intorno al collo e
puntandogli il suo pugnale vicino all'occhio destro.
Tutti i ragazzi amici di Inky rimasero paralizzati sul posto, scioccati
dall’evolversi della situazione, e la stessa Cathleen fece un
passo indietro mentre Artù sussurrava all’orecchio
del tatuato: «Ora sono nella posizione di darti degli ordini,
non trovi?».
Inky annuì e inaspettatamente iniziò a piangere,
singhiozzando forte. «Ti dirò tutto quello che
vuoi, ma non uccidermi. Non ho fatto nulla di male, te lo
giuro».
«Questo lo vedremo».
Lo gettò
bruscamente sul divanetto e guardò i suoi amici –
un tacito monito a starsene buoni – prima di sedersi al suo
fianco col coltello sempre in bella vista. Il paramedico invece rimase
in piedi, le braccia incrociate e gli occhi sgranati.
«Forza, inizia a parlare. Hai visto Ash?».
Inky annuì freneticamente. «Sì,
è andato via poco più di un’ora
fa».
«Cos’è venuto a fare?».
«Il solito: ha comprato un po’ di roba
e…».
«Che roba?», lo interruppe Artù.
Cathleen si riprese quel poco che bastò a rispondere al
posto suo: «Della droga». Poi si sedette
sul divanetto di fronte e chiese: «Cos’ha
comprato?».
«Un po’ di erba, dell’ecstasy…
Ash è uno che varia molto».
«Okay e poi?».
«Prima di venire qui, questo pomeriggio, mi ha chiamato
perché aveva un ordine speciale. L’ho trovato
strano, perché lui non programma mai niente, viene qui
quando ne ha voglia e prende ciò che
c’è».
Artù fece roteare il pugnale, riprendendolo al volo con
maestria. «Non ti interrompere».
«Insomma…», Inky deglutì, gli
occhi che seguivano atterriti i movimenti della lama e il sudore che
gli colava sulle tempie. «Mi ha chiesto se potevo
recuperargli una pistola».
Da come Cathleen si piegò, fu come se un’incudine
le fosse appena caduta tra le scapole. «Una pistola? Non
capisco».
«Ti giuro bambola, è stata una sorpresa anche per
me».
«Ehi, non ti azzardare mai più a chiamarla
così», lo minacciò Artù,
avvicinando il coltello alla sua gola.
«Scusa, scusa!».
«Allora Ash ti ha chiesto una pistola e tu
gliel’hai data senza fare domande?», gli
domandò ancora Cathleen.
«Evito di farmi gli affari degli altri, se ci sono in ballo i
soldi. Nemmeno i miei agganci si occupano di armi, perciò
è stato difficile procurarmela, ma ne è valsa la
pena. Posso?».
Artù allontanò il coltello quel tanto che bastava
a Inky per piegarsi e recuperare da sotto il divanetto una borsa da
ginnastica con dentro molte centinaia di sterline.
Cathleen fissò l’interno della borsa con sguardo
spiritato, fino a quando Artù non le chiese a cosa stesse
pensando.
«Quando nostro padre ci ha creato dei conti per essere
indipendenti, mise per i prelievi un tetto massimo settimanale, quindi
non può averli prelevati tutti insieme».
«Cathleen…», Artù
provò ad interrompere il rincorrersi dei suoi pensieri, ma
ormai era troppo tardi: anche lei stava iniziando a nutrire il suo
stesso sospetto.
«Era pianificato. Ash vuole…». Si
portò un pugno sulla bocca, mentre i suoi occhi si
riempivano velocemente di lacrime. Tutto d’un tratto
alzò lo sguardo nel suo e ringhiò: «Di
cosa avete parlato? Dimmelo, Artù».
«Non è il momento adatto».
«Non è il mom–?»,
iniziò ad urlare, ma il solo ed unico re si alzò
e le afferrò il volto con la mano sinistra, quella che non
impugnava il coltello, per esclamare risoluto: «Dobbiamo
trovarlo».
Quelle parole o forse i suoi occhi blu, in grado di restituirle un
po’ di lucidità, le fecero capire che era come
diceva Artù: Ash era la loro priorità. Si
alzò a sua volta e si diresse a passo spedito verso le scale.
Prima di seguirla, Artù puntò nuovamente il
coltello verso Inky, il quale sobbalzò, e disse:
«Ti consiglio di fare il bravo ragazzo d’ora in
poi, se non vuoi che torni a trovarti».
Il tatuato annuì spaventato e Artù se ne
andò senza guardarsi più indietro. Fuori dal
locale, Cathleen lo aspettava già in sella alla sua moto.
«So dove potrebbe essere andato», le disse
Artù mentre si infilava il casco, con le orecchie che gli
fischiavano fastidiosamente a causa di quella musica assordante.
«Dove?».
«C’è una spiaggia dove tu e Zachary lo
portavate a pescare granchi quando era piccolo».
Cathleen lo fissò da dietro la visiera, ma
rimandò le spiegazioni ad un altro momento. Mise in moto con
un rombo e sfrecciarono in quella notte fredda e senza stelle.
***
Hala, appoggiata alla ringhiera intorno al piccolo giardino interno,
stava leggendo per l’ennesima volta tutti i nomi incisi sulla
grande targa di bronzo: i nomi dei dottori, delle infermiere e dei
pazienti rimasti uccisi a causa di un bombardamento durante la Seconda
Guerra Mondiale. Come aveva detto Abby, Louise non faceva parte di
quell’elenco; che si fosse salvata grazie a Merlino,
però, era tutto da verificare.
Era così assorta nei suoi pensieri che non si rese nemmeno
conto di avere compagnia. Sobbalzò quindi quando Keith la
salutò.
«Scusami, non volevo spaventarti».
La pakistana abbassò gli occhi con la scusa di doversi
sistemare una ciocca di capelli dietro l’orecchio e
sorridendo in modo impacciato rispose: «Non ti
preoccupare».
«Come mai da queste parti?», le chiese allora il
dottore, avvicinandosi per guardare a sua volta la targa commemorativa.
«Avevo bisogno di un momento per me».
«Oh, quinti ti ho disturbato. Mi dispiace, non era
mia…».
«Ma no, figurati, non disturbi affatto», lo
interruppe frettolosamente, posandogli persino una mano sul braccio per
non farlo allontanare. Quando se ne rese conto, arrossì da
capo a piedi e lasciò di nuovo che i capelli le
nascondessero parte del viso.
«Anzi», riuscì ad aggiungere contro ogni
aspettativa. «Sarei venuta a cercarti, più
tardi».
Hala non si azzardò a guardarlo in viso, ma
immaginò che la sua espressione fosse stupita tanto quanto
il suo tono di voce.
«Ah sì?».
«Beh, devo ancora darti una risposta. A meno che tu non ti
voglia rimangiare l’invito…».
«Assolutamente no».
Hala sollevò il capo di scatto, colpita dalla sua sicurezza,
e ad attenderla trovò il sorriso più bello che
avesse mai visto in vita sua. Dubitava fortemente che si sarebbe messo
l’anima in pace nel caso in cui gli avesse dato una risposta
negativa, ma, appunto, non era quello il caso…
Respirò profondamente per prendere coraggio e disse:
«Mi piacerebbe molto bere qualcosa con te, Keith».
«Facciamo subito?».
Non se l’aspettava, perciò non riuscì a
rispondere tempestivamente e il suo silenzio venne interpretato come
tacito assenso.
Keith le afferrò la mano e sorridendo la trascinò
all'aria aperta, dove decisero di camminare fino all'unico pub della
cittadina, a qualche isolato di distanza.
Si era alzato un vento freddo e Hala si strinse le braccia intorno al
petto per cercare di riscaldarsi, ma non appena Keith notò
il suo tremore le avvolse un braccio intorno alle spalle, facendole
bruciare un fuoco dentro.
«Scusami, ho corso troppo?», le domandò
imbarazzato, notando il suo sguardo perso.
Hala non era mai stata una tipa facile, raramente si era lasciata
travolgere dalle emozioni e ancor meno dagli ormoni, ma Keith... Dio,
Keith era una calamita a cui non poteva opporsi in alcun modo.
Ignorando la sua domanda si alzò in punta di piedi e lo
baciò, aggrappandosi alle sue spalle ed abbandonandosi
completamente alle sue braccia, le quali non la delusero e la fecero
sentire nel posto perfetto per lei.
La pakistana si scostò, oltre che per prendere fiato, per
chiedergli: «Abiti lontano?».
«Ecco... Hala, non credo sia...», provò
ad articolare un discorso di senso compiuto, ignorando l'eccitazione
come avrebbe fatto la persona migliore che si era ripromesso di essere.
L'incantesimo si spezzò all'improvviso e Hala
tornò la razionale e pudica ragazza di sempre, arrossendo
tanto da giurare di vedere del vapore intorno a lei.
Indietreggiò di qualche passo, con gli occhi pieni di
vergogna. «Mi dispiace, io... non so cosa mi sia
preso», balbettò. «O meglio, lo so
benissimo, però io non sono così. Adesso penserai
che sono una poco di buono, ma tu... Tu mi piaci tanto».
Le ultime parole le aveva dette in uno squittio, tanto in imbarazzo da
tenere gli occhi bassi e i pugni stretti lungo i fianchi.
«Anche tu mi piaci».
Hala alzò di scatto di capo, incredula alle proprie
orecchie. Insomma, aveva intuito che Keith nutrisse qualche tipo di
interesse nei suoi confronti quando le aveva chiesto di uscire, ma
piacergli... era ben altra cosa.
«È troppo tardi per ricominciare da
capo?», gli chiese timidamente.
Il dottor Ellis rise, una risata roca e sensuale che diede un'ultima
scossa stordente agli ormoni impazziti della ragazza.
«Ricominciare? Assolutamente no», rispose, tornando
ad avvolgerle le spalle con un braccio. «Anche quel bacio mi
è piaciuto, non voglio fare finta che non sia
accaduto».
Hala ricambiò il sorriso e camminando stretta al suo fianco
ebbe la sensazione di essere finalmente tornata alla
normalità dopo giorni in cui le era sembrato di impazzire.
***
Alex vide le ceneri del
falò sollevarsi per dare vita ad un
drago e capì di star rivivendo lo stesso sogno, anche se
quella volta c'era qualcosa di diverso; lei era diversa: non era
più la protagonista inconsapevole, la spettatrice impotente,
incapace di modificare ciò che sarebbe accaduto.
Sfruttando la
distrazione di Cathleen e Abigail, Alex
sgattaiolò verso il bosco, dove intravide la donna avvolta
nel mantello di velluto verde nascondersi alla sua vista con la
complicità degli alberi.
L'infermiera
cercò di raggiungerla, ma il buio la ostacolava
non poco. Inciampò in una radice sporgente, cadendo faccia a
terra nel tappeto di aghi di pino e muschio.
"Alexandra", la
chiamò una voce morbida, gentile. Le
ricordava molto quella di sua madre.
Alex si
guardò intorno, cercando di capire da che parte
dovesse andare, fino a quando non realizzò che non l'avrebbe
mai capito: quella voce era nella sua testa.
"Alexandra, alzati".
«Chi
sei?», gridò, spaventando tutti gli
animali notturni nelle vicinanze.
"Non ha importanza chi
sono io, ma chi sei tu .
Tu sei l'ultima
Pendragon, sulle tue spalle grava il destino del mondo".
La figura sfuggente
della donna riapparve una trentina di metri
più avanti per poi scomparire di nuovo, esattamente come un
fantasma. Alex però non si diede per vinta e dopo essersi
risollevata corse in quella direzione.
"Se solo sapessi che
diavolo significa!"
L'aveva solamente
pensato, ne era certa, eppure la donna misteriosa
l'aveva sentita e le rispose, facendole capire che quella telepatia non
era a senso unico.
"La profezia che
è stata tramandata di generazione in
generazione dai tuoi avi è vera, pronunciata dalla Triplice
Dea in persona e rivelata a Graalmir Pendragon, figlio di re
Artù".
Alex capì
all'istante a quale profezia si stesse riferendo:
sua madre gliel'aveva raccontata alla morte di sua nonna ed era certa
di essersene dimenticata fino a qualche settimana prima, quando dopo
anni aveva risentito il nome "Avalon".
All'epoca era troppo
piccola per capirne il significato e probabilmente
sua madre aveva ammorbidito i toni per non impressionarla, ma il succo
ce l'aveva impresso a fuoco nella mente: insieme ad Artù
avrebbe dovuto affrontare un grande male e grazie al loro sacrificio il
mondo avrebbe vissuto in pace e in armonia.
Forse era stato un bene
che gliel'avesse raccontata allora e non quando
aveva quindici, sedici anni: l'avrebbe presa per pazza e se ne sarebbe
dimenticata sul serio. Invece grazie all'ingenuità e alla
purezza di cuore tipica dei bambini, le parole di sua madre erano
sopravvissute.
"Il grande male che
dovremo affrontare è Freya, vero? Non mi
fido di lei, sta tramando qualcosa".
La donna comparve
all'improvviso a pochi metri da lei e Alex
frenò la propria corsa, tracciando con le scarpe dei segni
sul terreno.
Il cappuccio le copriva
gran parte del volto, come negli altri suoi
sogni (o qualunque cosa fossero), ma il suo sorriso le
sembrò divertito quella volta, come se avesse appena
raccontato una barzelletta.
"Freya è una
minaccia e va fermata, ma non è
nulla in confronto al male che sta divorando questo mondo",
affermò senza muovere le labbra piene. "È la
magia che ha sempre tenuto il mondo in equilibrio, Alexandra. La magia
era nell'acqua, nel cielo, nella terra, ma quando il suo figlio
prediletto, il più potente stregone di ogni tempo l'ha
rinnegata, è successo qualcosa di terribile".
Ad Alex risultava
più difficile parlare col pensiero,
soprattutto avendo la donna a pochi metri di distanza. Ad ogni modo le
rivolse il suo sguardo più irritato, consapevole che
nonostante il cappuccio calato sugli occhi potesse vederla, e si
sforzò di trasmetterle le seguenti parole: "Hai intenzione
di dirmi di che si tratta o vuoi tenermi sulle spine?"
"Una maledizione",
rispose in tono lugubre, sollevando le mani ad
indicare tutto ciò che le circondava. "Emrys era
così pieno d'odio per via di tutte le perdite
subìte da giurare che da quel momento in avanti avrebbe
fatto tutto ciò che era in suo potere perché
nessun altro soffrisse per via della magia. Senza saperlo, ha
condannato anche se stesso. Per secoli ha camminato su queste terre,
accumulando dentro di sé la forza della magia ovunque
andasse. È per questo che il mondo sta collassando su se
stesso: senza la magia a sostenerlo e a proteggerlo, presto
morirà ogni cosa".
Alex si sentiva
stordita, come se quelle parole fossero entrate a forza
nel suo cranio a furia di martellate nelle orecchie.
Era come Merlino le
aveva detto a Londra: lui era l'unico che poteva
restituire al mondo l'energia magica che aveva "rubato", ma nel farlo
si sarebbe ucciso.
«Non posso
permetterlo», sussurrò,
sentendo le lacrime salirle agli occhi. «Ci dev'essere un
altro modo! Non posso guardare Merlino morire!».
Le labbra della donna si
incurvarono in un'espressione desolata. "Mia
cara, è questo il sacrificio che sarai costretta a compiere.
La Dea l'ha predetto".
L'infermiera scosse il
capo, coprendosi le orecchie. "Non lo
farò, non lo farò mai".
«Alex!».
«Alex, dove
sei?!».
L'infermiera si
voltò, scorgendo dei fasci di luce ambrata
tra gli alberi: Merlino e gli altri si erano accorti della sua
scomparsa e la stavano cercando con delle fiaccole. Non aveva molto
tempo e, per quante ne dicesse, quella donna le avrebbe dato delle
risposte.
Peccato che quando
tornò a rivolgerle la propria attenzione,
questa si era già dileguata tra gli alberi del bosco.
"Dimmi almeno chi sei!",
gridò mentalmente, ricevendo in
risposta una risata posata.
I suoi amici l'avevano
individuata tra gli alberi e la stavano
raggiungendo, quando Alex sentì un rumore familiare, come lo
scrosciare di un ruscello. Abbassò gli occhi e li
sgranò, osservando l'acqua lambirle le scarpe e salire
sempre più, trascinandosi dietro terra, aghi di pino, rami
spezzati.
Iniziò ad
urlare il nome di Merlino e di Artù, ma
non le risposero. Allora provò a raggiungerli, ma la
corrente dell'acqua le opponeva resistenza. Ormai vi era immersa fino
alla vita e il panico stava iniziando a prendere il sopravvento, tanto
era vivida la sensazione del fango dentro i vestiti.
«Basta!»,
gridò con tutte le sue forze.
«Basta!», ripeté, ritrovandosi seduta
sul divano nel salotto di Merlino, con la televisione accesa e
sintonizzata su BBC News.
Immagini di strade allagate, abitazioni sommerse dal fango e persone
tratte in salvo dai vigili del fuoco le fecero accapponare la pelle,
soprattutto perché risalivano appena alla notte precedente,
quando le incessanti perturbazioni - stava spiegando la giornalista -
avevano causato disagi e danni per milioni di sterline nella contea di
Dorset.
Si alzò dal divano cercando di scuotersi di dosso i brividi
e il terribile pensiero che non avesse sognato un'inondazione solo
perché aveva captato la notizia nel dormiveglia; non dopo la
chiacchierata con la donna col mantello.
Anziché darle risposte le aveva dato ancora più
interrogativi e questo non le piaceva, come non le piaceva il fatto che
fosse stata nominata ancora una volta la Dea. Chi era? Che fosse lei la
vera burattinaia che si era accanita contro Merlino e Artù -
ma soprattutto Merlino - per tutti quei secoli?
Merlino... Che fosse davvero quello il suo destino? Sacrificarsi
perché il mondo riavesse la magia necessaria al suo
equilibrio? Purtroppo aveva senso: se era stato davvero lui a scagliare
quella maledizione, lui era l'unico che poteva spezzarla.
Inoltre, ad avvalorare quella teoria, c'era la profezia
raccontatale da sua madre: lei e Artù avrebbero dovuto
affrontare un grande male - il collasso del pianeta - e avrebbero
dovuto fare un enorme sacrificio per riportare pace e
serenità - assistere alla morte di Merlino.
Salì lentamente le scale che portavano al piano superiore e
raggiunse la camera dello stregone, il quale sollevò appena
il capo quando sentì la porta aprirsi.
«Ehi», la salutò, con voce roca e gli
occhi ancora gonfi di sonno. «Che ore sono?».
«Le dieci e un quarto. Di sera», gli rispose,
raggiungendolo sul letto per rannicchiarsi al suo fianco.
«Ho dormito tutto il giorno? Mi dispiace, Alex...»,
sbuffò, passandosi le mani sul viso. «Questo
doveva essere il nostro week-end».
Già, avrebbe dovuto esserlo. Tuttavia, nessuno dei due
sembrava troppo disperato che una giornata se ne fosse andata in quel
modo. Di certo Alex non lo era, vista la confusione emotiva che stava
vivendo.
L'infermiera si sporse comunque a posargli un bacio sulla guancia
ancora un po' accaldata. «Vuoi mangiare qualcosa? Ho
preparato della minestra».
«No grazie, non ho fame», rispose, per poi
lasciarsi sopraffare da una risatina.
«Che c'è?», gli chiese la bionda, senza
riuscire a trattenere a sua volta un sorriso.
«Nulla, mi è soltanto tornato in mente Gaius, il
mio mentore. Anche se, a onor del vero, è stato un vero e
proprio padre per me».
«Era il curatore di corte, vero? Artù me ne ha
parlato, qualche volta».
«Sì. Mi ha preso sotto la sua ala quando nel mio
villaggio iniziò a girare la voce che io fossi uno stregone.
Mia
madre, per proteggermi, mi mandò a Camelot e vissi con lui
fino alla fine. È grazie a lui se ho imparato a controllare
davvero i miei poteri, ad usarli con saggezza. Senza Gaius...
probabilmente avrei fatto la stessa fine di Morgana».
Con un singulto all'altezza del cuore, Alex ripensò alla
figura avvolta nel mantello e si chiese se fosse lei, la donna
misteriosa. L'istinto le diceva che si trattava proprio della
sorellastra di Artù, ma la ragione la metteva in guardia:
perché avrebbe dovuto mostrarsi a lei in sogno? E,
soprattutto, poteva fidarsi della strega che aveva cercato di
distruggere Camelot e aveva provocato la morte di Artù?
«C'è qualcosa che non va?», le chiese
Merlino, guardandola col capo sollevato.
Alex si trovò davanti all'ennesimo dilemma: doveva avvertire
Merlino dei propri sogni oppure gli avrebbe dato altre gatte da pelare,
aggravando così le sue condizioni già precarie?
La risposta giusta era: "Sì, deve sapere", ma decise di
rimandare tutto ad un altro momento.
«Anche Morgana era una custode della magia?», gli
domandò, nonostante conoscesse benissimo la risposta.
Merlino scosse il capo, guardando il soffitto. «No, era una
Grande Sacerdotessa della Religione Antica. Era solo un canale, proprio
come me».
Aveva detto le ultime parole con titubanza, come se non fosse convinto
che fosse ancora così, ma se ne dimenticò poco
dopo, quando il suo viso si illuminò grazie ad un sorriso
simile al primo raggio di sole dopo un temporale.
«Perché questa domanda?».
«Ho sentito parlare dei custodi della magia, ma non ho ancora
capito chi siano. Insomma... Freya è una di loro,
giusto?».
«Sì, è diventata la custode di Avalon,
uno dei luoghi più sacri della Religione Antica. Loro sono i
protettori di ciò che è rimasto della magia, ne
sono così ossessionati che sono disposti a tutto, anche a
provocare la morte di persone innocenti, pur di raggiungere i loro
scopi. Con le loro stupide profezie, manovrano gli uomini
perché facciano quello che vogliono».
Alex ebbe un tuffo al cuore, pensando alla sua, di profezia. Anche lei
ci sarebbe cascata? Anche lei avrebbe cercato in ogni modo di cambiare
il destino, finendo invece per portarlo a compimento?
«E la Triplice Dea? Anche lei è
così?».
Merlino si tirò su seduto di scatto, forse provocandosi
anche una fitta di dolore. La ignorò però,
concentrandosi totalmente su di lei per leggerle l'anima attraverso gli
occhi.
«Come fai a sapere della Dea?».
«Io... Credo di averla sentita nominare da te»,
rispose l'infermiera, fingendo nonchalance per rimediare a quel
terribile scivolone.
«No, io non l'ho mai nominata», replicò
Merlino, ferale. Il suo sguardo era così duro da incuterle
un certo timore. «Alex, è importante che io sappia
la verità».
La bionda sospirò e si sedette a sua volta a gambe
incrociate, ammettendo a mezza voce: «È stata
Freya».
«Che cosa?», sbottò con il giusto mix di
inquietudine e rabbia sul viso, oltre che con la voce di qualche ottava
in meno. «E quando vi sareste incontrate?».
«Ieri», confessò. «Era
già da un po' che Freya cercava di avvicinarmi, venendomi a
cercare all'ospedale. Ieri Keith l'ha rivista e mi ha avvisato,
così ho deciso di porre fine alla cosa andando da
lei».
«Un momento», la interruppe il mago, con due dita
sul setto nasale per la concentrazione. «Che ci faceva Freya
all'ospedale?».
«Darrell. Voleva a tutti i costi farla visitare per capire il
motivo della sua "perdita di memoria"», mimò le
virgolette con le dita, «e lei ha acconsentito, non so per
quale motivo. Ad ogni modo, quando l'ho affrontata mi ha detto che
è scritto che io salverò il mondo riportandovi la
magia e che la Dea non ha preso bene la mia dichiarazione di
guerra».
Merlino rimase in silenzio per quelle che le sembrarono ore, il volto
pallido e al contempo ricoperto da un velo di sudore per la febbre.
Alex allungò un braccio per prendergli la mano, pronta a
ripetere che non avrebbe mai permesso che si sacrificasse, ma lo
stregone la scansò con un gesto distratto, immerso in mille
e più pensieri.
«Pensavo che la Dea fosse scomparsa, ma come Freya deve aver
semplicemente conservato le forze», mormorò
più a se stesso che ad Alex. «Mi chiedo quante
creature siano sopravvissute in realtà...».
L'infermiera deglutì, terrorizzata dalla
possibilità di dover affrontare più di una
creatura magica. La donna misteriosa aveva detto che Freya era una
minaccia che andava fermata e Alex, nonostante a parole avesse
affermato il contrario, non era pronta ad affrontarla. Sarebbe stata
una catastrofe se la dama del lago avesse trovato e risvegliato dal
loro letargo anche solo alcuni dei mostri che Merlino e Artù
avevano sconfitto nelle loro avventure.
«Merlino», provò ad interromperlo, ma il
suo balbettio lo distrasse appena.
«Uhm? Oh, la Triplice Dea. Sì, è una
delle forze primordiali, il centro del culto della Religione Antica. Le
Grandi Sacerdotesse si rivolgevano a lei per qualsiasi cosa, ma
soprattutto perché si diceva che lei controllasse il ciclo
infinito della Ruota d'Argento: il passato, il presente e il futuro; la
nascita, la vita e la morte; il destino di ogni creatura vivente, in
parole povere. Non posso credere che ci fosse lei dietro tutti i
complotti...».
Alex ci riprovò, sforzandosi perché la sua voce
smettesse di tremare. «Avrei dovuto dirtelo prima, ma tu
stavi male e...».
«Aspetta, che hai detto?», la interruppe lo
stregone, cercando i suoi occhi.
«Quando?», gli chiese l'infermiera, confusa dal suo
saltare di pane in frasca. Forse la febbre stava salendo di nuovo,
impedendogli di concentrarsi.
«Hai detto che la Dea non ha preso bene la tua dichiarazione
di guerra. Che cosa intendevi? Quale dichiarazione? Che cos'hai fatto,
Alex?».
«Non lo so, non ho capito che cosa volesse dire Freya. Che
importanza ha? Devo dirti una cosa che...».
«Può essere molto importante, oltre che
pericoloso», ribatté, sottolineando la
serietà della questione prendendole le spalle.
«Hai rivolto un qualche tipo di sfida ai custodi della magia?
Fatto un giuramento?».
L'infermiera raggelò. Ricordò la rabbia e la
frustrazione che aveva provato prima di partire per Londra, quando si
era rivolta direttamente ai custodi della magia, promettendo che
avrebbe cambiato il destino di Artù e Merlino e che avrebbe
fatto pentire i responsabili di tutte le loro sofferenze. A sigillare
quel giuramento, solo ora se ne rendeva conto, aveva piantato il
pugnale regalatole da Artù nel terreno sulla sponda del
fiume immissario di Avalon, intorno al quale, guarda caso, una pianta
stava crescendo a ritmi innaturali: in pochi giorni era passata da
germoglio a pianticella e di quel passo, in meno di tre mesi, Merlino
si sarebbe ritrovato con un nuovo giovane albero nel giardino.
Merlino la scosse, esortandola a parlare, e Alex gli
raccontò tutto con tono distaccato, tant'era lo shock.
«Non bisogna mai sottovalutare la potenza di un
giuramento», mormorò lo stregone dopo
interminabili secondi di silenzio.
Alex abbassò gli occhi umidi di lacrime e aprì la
bocca per chiedergli se anche lui avesse scagliato un qualche tipo di
malezione, ma alla fine optò per una domanda diversa,
più diretta: «Che cosa succederà se non
cambierò il vostro destino?».
Non solo non sarebbe riuscita a salvare Merlino e Artù, ma
avrebbe dovuto pure aspettarsi di essere colpita da un fulmine?
«Ce la farai», le disse dolcemente, sollevandole il
capo con due dita sotto il suo mento perché i loro sguardi
si incrociassero. La sorprese ancora di più con un sorriso,
ma questo non la rincuorò, anzi... la fece stare peggio,
dato che non gli aveva ancora presentato il piatto forte.
«Freya se n'è andata»,
esclamò, esitante. Evitando nuovamente gli occhi limpidi di
Merlino, aspettò che la notizia venisse metabolizzata; poi
aggiunse: «Me l'ha detto Darrell. A quanto pare, gli ha detto
che le loro strade dovevano separarsi, per il bene di
entrambi».
Lo stregone si alzò dal letto e in silenzio, con sguardo
quasi spiritato, raggiunse le finestre che davano sul balcone.
Guardò il cielo privo di stelle, l'espressione assorta. Alex
avrebbe dato di tutto per conoscere anche uno solo dei suoi intricati
pensieri.
«Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo subito», disse
pur di spezzare il silenzio, tirando su col naso. «Pensavo ci
fossimo sbarazzati di un problema, ma ora sono sicura che ha qualcosa
in mente. Devi credermi».
«Oh, ti credo. So che è così,
perché la conosco. Ma tu... Come fai ad esserne
certa?», le domandò, voltandosi con le braccia
incrociate al petto.
«Io ho... ho fatto un sogno», ammise e lo stupore
sul volto dello stregone fu più che palese.
«Un sogno premonitore, intendi? Hai visto il
futuro?».
«No», affermò, cercando di aggrapparsi a
quella convenzione con tutte le sue forze.
Fino ad allora si era limitata a dire che nulla di ciò che
aveva visto si era ancora avverato, perciò poteva anche
trattarsi di un sogno come tutti gli altri; ricorrente ed estremamente
vivido, ma pur sempre un sogno. Si rifiutava di credere che tutto
ciò che le aveva detto la donna misteriosa fosse vero, che i
risultati del suo esame di compatibilità per la donazione di
midollo sarebbero stati negativi...
«Non lo so, forse», singhiozzò alla
fine, cedendo sotto il peso dei dubbi.
Merlino lasciò cadere la corazza che si era messo addosso
quando aveva scoperto della partenza di Freya e tornò a
sedersi sul letto, solo che quella volta le avvolse le braccia intorno
al corpo per stringerla a sé e cullarla.
«Shhh. Va tutto bene», sussurrò,
sfiorandole i capelli con le labbra. «Il futuro
può essere spaventoso, ma non è
immutabile».
«Tu sapevi che Artù sarebbe stato ucciso da
Mordred, eppure non sei riuscito a cambiare le cose», gli
ricordò, rendendosi conto troppo tardi della propria
indelicatezza. «Scusami, non volevo...».
«No, hai ragione». Le sollevò il viso
per spazzare via le lacrime con i pollici, gli occhi fissi nei suoi.
«Io non sono stato in grado di cambiare le cose, ma non posso
smettere di sperare, devo credere che tu possa farlo. Ho
fede in te,
Alex. Come ne avevo in Artù quando dicevo che un giorno
sarebbe stato il più grande di tutti i re».
L'infermiera lo seguì sotto alle coperte, dove si
accucciò con la testa sopra il suo petto. Si
lasciò accarezzare i capelli, mentre con le dita tracciava
disegni concentrici sullo sterno leggermente incavato del moro e
cercava di regolarizzare il proprio respiro, ancora scosso dai
singhiozzi.
«Artù aveva ragione: avrei dovuto riportarla
subito ad Avalon, ascoltare il monito degli Sidhe»,
sussurrò Merlino, passandosi una mano tra i capelli
arruffati.
Alex sollevò gli occhi ed osservò il suo profilo,
notando la mascella contratta per il rammarico.
«Chi sono gli Sidhe?», decise di chiedergli,
fiduciosa che avesse capito male il resto.
«Sono gli altri abitanti di Avalon, un popolo di fate. Li ho
risvegliati io a Pasqua, nel tantivo di parlare con Freya. È
stato allora che ho scoperto che una magia molto potente era stata in
grado di farla uscire dalle acque di Avalon».
Alex venne scossa da un altro tremito quando unì finalmente
i puntini. Come aveva fatto a non capirlo prima? Darrell aveva ospitato
Freya per circa due settimane, ovvero da quando lei aveva ripescato
Excalibur. La linea temporale combaciava perfettamente.
«Sono stata io a liberarla», realizzò,
scioccata. «È tutta colpa mia».
«Ho i miei dubbi», esclamò lo stregone,
stringendola di più a sé. «Freya aveva
avvisato Artù che era sorto una specie di legame tra te e il
lago, quando ti tuffasti per salvarlo. È probabile che sia
stata la magia di Avalon ad attirarti, oppure la stessa Excalibur. E se
così non è stato, ti assicuro che nessuno avrebbe
potuto immaginare una cosa simile, nemmeno io».
Il suo sguardo si adombrò e Alex capì
immediatamente il motivo: rimpiangeva di non averlo saputo. Un tempo
avrebbe voluto riportare indietro Freya, questo era chiaro. E ora? Il
sentimento che provava per lei era davvero svanito oppure, come le
aveva confidato un paio di giorni prima, ardeva ancora, in qualche
angolo remoto del suo cuore?
«Quindi questi Sidhe ti hanno detto di riportare Freya ad
Avalon e tu non l'hai fatto», ricapitolò,
risultando più nervosa di quanto avrebbe voluto dimostrare.
Lo stregone lo notò e voltò il capo per poterla
guardare negli occhi con espressione addolorata, colpevole.
«Continuo a fare lo stesso errore», le
spiegò, risultando davvero mortificato. «Morgana,
Mordred e adesso Freya... Ho sempre sperato che potessero cambiare, che
il buono che c'era in loro potesse tornare a prevalere se avessi dato
loro una seconda possibilità. Freya ha salvato
Artù, la notte in cui ha cercato di rubarti Excalibur. Ha
sacrificato parte della sua magia, che altro non è che la
sua forza vitale, per lui. E Artù non me ne ha voluto
parlare, ma sono piuttosto sicuro che anche lui abbia avuto dei
ripensamenti, quando lei ci ha ospitato a casa di Darrell.
«Ancora una volta ho mal riposto la mia fiducia. Ho esitato e
questo, forse, ci porterà alla rovina».
Lo
stregone sospirò e chiuse gli occhi, ma quando li
riaprì Alex li trovò ancora più tristi
e spenti, antichissimi. Ciò nonostante riuscì ad
arricciare le labbra in un sorriso, per quanto amareggiato.
«Chi ha più colpe, tra noi due?».
La bionda, per l'ennesima volta, fu divorata dai sensi di colpa: come
poteva ingelosirsi in quel modo per via di una donna del suo passato,
dopo tutte le dimostrazioni d'amore di Merlino, lei che giusto quella
mattina aveva stretto tra le mani quelle di Darrell, sentendo le
farfalle nello stomaco?
Alex si puntellò sul gomito e col viso sopra quello di
Merlino, lo fissò intensamente negli occhi. «Non
so nemmeno perché perdi tempo con una stupida come
me».
Il sorriso dello stregone si ampliò e con entrambe le mani
le accarezzò il viso, per poi intrecciarne una tra i suoi
capelli biondi e tenerglieli sulla nuca. «Perché
ho sempre avuto un debole per gli stupidi della famiglia Pendragon.
È mio dovere proteggerli, servirli e...».
«Stai zitto, Merlino», sussurrò prima di
baciarlo appassionatamente.
Il mago portò le mani sotto la sua maglietta e gliela
sfilò, poi invertì le loro posizioni per poterla
guardare dall'alto. «Dovresti riposare», le
ricordò. «Domani hai l'esame per Abby».
Alex non gli rispose nemmeno, afferrandolo per la nuca per poter far
incontrare nuovamente le loro bocche.
Non voleva pensare all'esame, né voleva dormire per paura di
avere altre visioni di ciò che li attendeva.
***
Cathleen frenò bruscamente e mentre Artù si
affrettava a scendere dalla moto per saltare il guardrail e scivolare
giù dalla duna di sabbia per raggiungere la spiaggia, lei si
tolse il casco e gridò a squarciagola il nome del fratello
acquisito.
Si trovava sui frangiflutti, pericolosamente vicino alle onde
ingrossate dal vento; onde che ogni volta che si infrangevano sugli
scivolosi massi a tre punte schizzavano spuma fino a diversi metri
d'altezza.
Il buio era così fitto per via della luna celata dalle
nuvole che il paramedico aveva dovuto lasciare i fari della moto
accesi, puntati sui frangiflutti.
«Ash!», gridò il re di Camelot, correndo
sulla passerella di cemento.
Il ragazzo si voltò e serrò le labbra,
riservandogli uno sguardo fulminante. «Avevi promesso che
avresti mantenuto il segreto».
«Ed è così», giurò
Artù, contando i massi che li dividevano.
«Cathleen non sa nulla».
La sua espressione rabbiosa stonava terribilmente coi brividi che gli
scuotevano il corpo. «Perché dovrei
crederti?».
«Perché ti ho dato la mia parola!».
Ash rischiò di cadere in avanti, spinto da una folata di
vento più forte delle altre. Riuscì comunque a
mantenere l'equilibrio, ma per farlo tirò fuori dalla tasca
della felpa la mano con cui impugnava la piccola pistola che si era
fatto procurare da Inky.
«Ash, ti prego, getta quella cosa!»,
gridò Cathleen, finalmente giunta al fianco di
Artù, coi capelli rosso sangue che le turbinavano intorno al
viso e la voce rotta dall'ansia.
Il ghigno che comparve sulle labbra del moro fece accapponare loro la
pelle.
«Perché dovrei farlo? Ho aspettato fin
troppo!», urlò, osservando l'arma nella propria
mano. «Non sono mai stato coraggioso come te, Cath.
Né ho mai avuto la tua forza. Guardami, sono una
nullità! Ho ventidue anni e non ho ancora dato un senso alla
mia vita! Tanto vale che la faccia finita!».
«Fermo!», gridò terrorizzata Cathleen
quando il ragazzo si portò la canna lucida della pistola
alla tempia. Le lacrime iniziarono a scorrerle inarrestabili sul volto.
«Fermo, per l'amor del cielo!».
«Ash, ascoltami bene», intervenne Artù,
facendo un passo avanti sui frangiflutti. «Anche io alla tua
età mi sentivo una nullità. Nonostante avessi un
padre ricco e tutti mi rispettassero per questo, non avevo niente di
mio. Non mi ero guadagnato niente, né mi ero posto il
problema prima di allora. Un giorno conobbi quello che è
tutt'ora il mio migliore amico, un ragazzo dalle mille risorse,
altruista e testardo. Mi fece notare che stavo facendo il prepotente e
mi sfidò, una cosa che mai nessuno fino ad allora aveva
osato fare. Lui mi ha insegnato a vedere con occhi nuovi le persone che
mi stavano intorno, a lottare per ciò che desideravo, a
meritarmi il rispetto».
«È una storia molto bella»,
esclamò Ash, sarcastico. «Ora posso premere il
grilletto?».
«No! Adesso arriva la parte più bella».
Artù, raccontando il suo incontro con Merlino, aveva
guadagnato qualche metro, ma si era già accorto dello
sguardo circospetto del moro. Per quanto ancora gli avrebbe permesso di
avvicinarsi?
«Qualche tempo dopo, trovai l'amore della mia vita. Era
sempre stata lì, ad un passo da me, eppure non l'avevo mai
notata prima. Mio padre non voleva che stessi con una ragazza di rango
inferiore al nostro, ma io l'amavo... e lei, grazie al cielo, amava me.
Mi ha reso un uomo migliore e l'uomo più felice di questo
mondo».
Il volto pallido di Ash, illuminato fiocamente dai fari della moto di
Cathleen, sembrava quello di un fantasma in lacrime e scosso dai
singhiozzi. Il suo dito si posò con più decisione
sul grilletto e fu allora che Artù fece il passo di troppo,
quello che il moro vide come un'estrema minaccia. L'unico lato positivo
era che ora non puntava più la pistola verso la propria
testa.
«Non ti avvicinare!», gridò.
«A meno che tu non voglia finire agl'inferi con
me!».
«Ci sono già stato. Ma anche tu sai cosa si prova,
non è vero?», rispose Artù, con un
lieve sorriso. «È così che ci si sente,
quando si perde la persona amata. Credimi, lo so perfettamente. Anche
io ho provato lo stesso dolore eppure guardami, sono qui. Non mi sono
puntato una pistola alla testa col desiderio di morire. Ci sono stati
giorni duri più di altri, è vero, ma... col tempo
anche le peggiori ferite guariscono. Mia moglie era una donna
straordinaria e non amerò mai nessuna come ho amato lei, e
non smetterò mai di sentire la sua mancanza,
però...». Artù si voltò
verso Cathleen, alle sue spalle, e le stese una mano perché
la stringesse.
In qualche modo la rossa riuscì a scrollarsi di dosso il
terrore che fino a quel momento l'aveva resa una statua di sale ed
abbozzò persino un sorriso umido, raggiungendo le dita
dell'ex re di Camelot.
«Non ho chiesto io di tornare ad amare», aggiunse
Artù, guardando di nuovo il ragazzo. «Non credevo
nemmeno fosse possibile! Ma è successo. E
succederà anche a te prima o poi, ne sono certo».
Ash fissò intensamente Artù, con le lacrime che
continuavano a rigargli le guance, e poi spostò gli occhi
arrossati sulla sorella, la quale stese la mano libera verso di lui e
gli rivolse un sorriso dolcissimo. Non ebbe bisogno di parole per
convincerlo a gettarsi la pistola alle spalle, nelle onde del mare, e
ad avvicinarsi al raggio d'azione di Artù, il quale non
appena poté l'afferrò repentinamente per un
braccio e lo condusse con sé sulla passerella in cemento,
giusto un momento prima che un'onda anomala si schiantasse sul masso su
cui era stato fino a quel momento e bagnasse le loro schiene con la sua
spuma.
Cathleen, dal trucco ormai completamente sciolto per via delle lacrime,
lo intrappolò in un abbraccio stritolatore, lasciandolo
sfogare nell'incavo della sua spalla, e dopo una dozzina di secondi
cercò lo sguardo di Artù. Gli fece segno di
avvicinarsi con una mano e coinvolse anche lui, strappandogli un bacio
da sopra la spalla di Ash.
Erano ancora lì, aggrappati l'uno all'altro come se ne
andasse delle loro vite - ed era così, dopotutto - quando
degli scoppi nel cielo non li costrinsero a sciogliere l'abbraccio per
alzare le teste.
«Che cosa diamine...?», sussurrò
Artù, rapito dalle stelle cadenti rosse, gialle e verdi che
esplodevano a grappoli, brillando ed illuminando il mare mosso.
«Fuochi d'artificio», gli spiegò a bassa
voce Cathleen, senza farsi notare da Ash. «Vengono sparati in
aria per festeggiare festività particolari».
Ash tirò su col naso, sorridendo verso il cielo illuminato.
Cinque minuti prima stava per spararsi un colpo in testa, morto dentro;
ora guardava i fuochi sparati nel cielo e si sentiva vivo, vivo come
non mai. Ed era tutto merito di Artù.
Si voltò verso il biondo e gli porse la mano, esclamando:
«Avevo ragione a pensare che Cathleen fosse in buone mani.
Grazie, Artù».
Il biondo sorrise e gli strinse l'avambraccio, attirandolo a
sé per un abbraccio con cui gli scompigliò i
capelli sulla nuca. Quando si allontanarono, Cathleen prese da parte
Ash per tirargli un pugno poco sotto la spalla, facendolo gemere dal
dolore. Il ragazzo però ammise: «Me lo
meritavo».
«Sbrighiamoci, la strada è lunga!»,
ordinò la rossa, iniziando ad incamminarsi verso la sua
moto. «Sei in grado di guidare, Ash?».
Il fratello annuì, ma Cathleen costrinse Artù ad
andare con lui. Probabilmente aveva paura che l'istinto suicida potesse
tornare e che lo spingesse a gettarsi giù da un dirupo.
Ash aveva rubato una delle auto d'epoca del signor Shaw, una Bentley S2
decappottabile color grigio perla e dagli interni di pelle rossa, e
seduto al posto del passeggero, Artù lo guardò
accendere il motore e lasciarsi alle spalle gli ultimi fuochi
d'artificio, mentre Cathleen faceva loro strada sulla sua enduro.
«Mi dispiace per tua moglie», esordì
Ash, guardando il biondo con la coda dell'occhio. «Ma in un
certo senso sono felice, perché questo ha permesso a Cath di
incontrarti. Erano anni che non la vedevo sorridere
così».
«Anche io sono felice di averla conosciuta. È
davvero speciale».
«In più, senza di te a quest'ora probabilmente
sarei un cadavere sbatacchiato sui frangiflutti dalle onde»,
aggiunse.
Imbarazzato ed inorridito da quell'immagine, Artù
chinò il capo. «Io non mi darei così
tanta importanza».
«Dovresti. Sei stato in grado di infondermi speranza, e non
è cosa da poco».
Il re di Camelot guardò il mare scorrere oltre il guardrail
di quella strada che costeggiava una parete rocciosa e
ripensò alle parole che Merlino gli aveva detto poco dopo il
suo ritorno da Avalon: anche lui gli aveva confidato di aver rischiato
di perdere ogni speranza e che un uomo senza speranza è un
uomo morto.
Che fosse quello, il motivo per cui era tornato dal mondo degli
spiriti? Il suo compito era quello di dare speranza a Merlino, a
chiunque dovesse lottare quella guerra che non avrebbe nemmeno dovuto
essere la loro?
Era sempre stato bravo con le parole, a fare discorsi di incitamento
prima di andare in battaglia, ma solo se credeva fermamente in
ciò che diceva. Si trovavano in un vicolo cieco, dato che al
pianeta serviva la magia di Merlino e mai e poi mai lui gli avrebbe
permesso di sacrificarsi, nemmeno se fosse stata l'unica
possibilità per la salvezza del mondo.
I piatti della bilancia erano in perfetto equilibrio e solo una persona
poteva far sì che la situazione cambiasse: Alex, la sua
ultima discendente. Assisterla, insegnarle a seguire il cuore e a
lottare per ciò che riteneva giusto, infonderle speranza
quando le decisioni da prendere sarebbero risultate impossibili,
addirittura dolorose... Era quella la ragione per cui era tornato in
realtà. E questo, poco ma sicuro, poteva farlo.
***
Cathleen si ravvivò ancora una volta i capelli e
respirò profondamente, quindi sollevò il pugno
per bussare alla porta di Artù. Si era detta di farlo e
basta, senza pensarci su troppo, ma la sua esitazione le era stata
fatale.
Abbassò il braccio, dandosi della codarda, e si
girò per tornare al capezzale di Ash, a cui aveva dato una
dose ridotta dei sonniferi del padre per aiutarlo a dormire. Si
fermò però, sentendo la porta alle sue spalle
cigolare un poco nell'aprirsi.
«Cathleen», la chiamò sorpreso
Artù.
La ragazza ricambiò il suo sguardo, nonostante fosse certa
di essere diventata rossa tanto quanto i suoi capelli.
«Che ci fai qui?», le domandò.
«Ash sta bene?».
«Sì, sta dormendo. Ero solo venuta a controllare.
E tu... tu come mai sei ancora sveglio?».
Artù si strinse nelle spalle, sfuggendo al suo sguardo.
«Non riesco ad addormentarmi per i troppi pensieri».
Avrebbe dato qualsiasi cosa, persino tutta la propria collezione di
statuette, per sapere quali fossero i suoi pensieri, se anche lei ne
faceva parte. Perché lui si era conquistato un posto in
prima fila nel suo cervello, specialmente dopo ciò che aveva
detto ad Ash per convincerlo a non spararsi.
Aveva detto di essere tornato ad amare... ad amare lei. E dal modo in
cui il cuore le era esploso nella gabbia toracica, aveva il forte
sospetto che il suo sentimento fosse ricambiato. Ma non aveva il
coraggio di dirglielo, forse per paura che avesse ingigantito le cose.
«Mentre tornavamo, Ash mi ha detto che sono stato in grado di
infondergli speranza», le disse, strofinandosi la fronte.
«È solo una teoria, ma credo che sia questo il mio
scopo: convincere chi mi sta accanto che finché saremo in
grado di stare in piedi e di lottare perché il bene
prevalga, ci sarà speranza».
Cathleen sorrise, sentendo un piacevole calore avvolgerle il cuore e
lenirlo come un balsamo. Probabilmente le sciolse anche il grumo di
paura che le bloccava la gola, perché ammise:
«L'hai fatto anche con me. Anche io ero convinta che non
sarei più stata felice, che non avrei più amato
nessuno dopo Zachary... tu mi hai smentita, hai riacceso in me quel
fuoco che si era affievolito. Sono tornata a vivere, grazie a te, e ti
devo tutto».
Non si era nemmeno accorta di essere avanzata tanto da scorgere i
propri occhi riflessi in quelli blu del sovrano, profondi e gentili,
nei quali si perse. Le sarebbe piaciuto restare lì per
sempre, cullata dalle loro mille sfumature, ma Artù
girò il capo verso la finestra, lasciandosi illuminare il
viso dalla luna che finalmente era riuscita a crearsi un varco tra le
nubi.
Cathleen gli posò una mano sulla guancia, apprensiva.
«Che cosa c'è?».
«Ho un pezzo di spada incantata a pochi centimetri dal cuore
e Avalon mi rivuole indietro... Il mio destino è segnato,
Cathleen, e non voglio che tu ne soffra».
«Guardami negli occhi».
Nonostante uno tsunami interno le stesse sballottando gli organi, la
voce le uscì abbastanza imperiosa da convincere
Artù a rivolgerle ancora lo sguardo.
Dio, con quegli zaffiri
non era necessaria una spada per trapassarle il cuore.
«Ti ho promesso che l'avremmo affrontato insieme, ti
ricordi?».
«Non posso chiederti...».
«Non mi hai chiesto nulla, Artù. Non è
colpa tua se sei tanto sexy da far crollare ogni ragazza ai tuoi piedi,
inclusa me».
Il re abbozzò un sorriso divertito e al contempo
compiaciuto.
«Io... io sono innamorata di te»,
confessò finalmente, sentendo l'enorme peso che le
schiacciava il cuore sgretolarsi e lasciarla molto più
leggera, tanto da farle sbocciare un sorriso beffardo sulle labbra.
«E so di non avere poteri magici, né di saper
combattere, e che le nostre possibilità di successo
oscillano tra poche e nessuna, ma d'altronde... mi sono sempre piaciute
le sfide impossibili».
Artù, per una volta, smise di insistere e si
lasciò convincere dalle sue parole. Le avvolse le braccia
intorno alla schiena e la strinse forte a sé e di nuovo
Cathleen non avrebbe mai voluto allontanarsi dal suo petto, contro il
quale si sentiva protetta e sicura. Non aveva previsto però
quello che sarebbe successo dopo, quando quel desiderio le sarebbe
sembrato una bazzecola in confronto.
Le mani di Artù risalirono la sua schiena per raggiungere la
sua chioma scompigliata e il paramedico alzò il capo per
cercare il suo sguardo, ma ciò che trovò furono
le sue labbra, calde e quasi timide sulle sue.
All'inizio fu un bacio dolce, ma ben presto crebbe di
intensità e la rossa si ritrovò con le dita di
una mano intrecciate ai suoi capelli biondi e le altre artigliate alla
sua spalla, mentre Artù si piegava quel tanto che bastava a
passarle un braccio sotto alle ginocchia per sollevarla e portarla
nella sua camera, dando persino una mandata di chiave alla porta.
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Capitolo 26 *** 26. The nightmare begins ***
26. The
nightmare begins
«Avanti Jake,
andiamo», ordinò una voce femminile, una voce che
Darrell riconobbe all'istante: Freya.
Provò a
voltarsi, o anche solo a girare il capo a destra e a sinistra per
vederla ancora una volta, almeno in sogno, ma non ci riuscì.
Si sentiva il terzo incomodo, come se non fosse lui il creatore di quel
sogno.
Il ragazzo si
avvicinò, non senza essersi voltato indietro un'ultima
volta, e con la fronte corrugata per l'irritazione sbottò
proprio di fronte a lui: «Ce ne andiamo così? Quel
tipo merita una lezione!».
Indicò un
giovane senzatetto, dal volto emaciato e sporco, con un paio di
penetranti occhi verdi e i capelli di un biondo pallido, come se avesse
provato a lavarseli con la candeggina - anche se l'ultima volta che si
era occupato della propria igiene personale doveva essere stata molto,
molto tempo prima, considerando l'odore e la condizione dei
suoi abiti, lerci e tappezzati di toppe di fortuna.
Stava seguendo ogni loro
movimento con espressione circospetta, sfregandosi le mani dalle unghie
incrostate vicino al fuoco che scoppiettava in un barile, e Darrell
avrebbe voluto chiedergli chi fosse, che cosa avesse fatto per
infastidirlo tanto, ma fu ancora Freya a parlare: «Non
abbiamo tempo, né per convincerlo né per
costringerlo ad abbracciare la nostra causa. Quanto impiegheremo a
raggiungere Glasgow?».
«Sono tre ore
e mezza di auto, quindi all'alba dovremo essere
lì».
«Bene,
perché ho bisogno di riposare».
Facendo il giro
dell'anonimo pick-up verde petrolio, Jake chiese: «Sempre per
la spartizione della forza vitale?».
«Già.
Darrell ora sta dormendo, ma domani mattina si sveglierà e
andrà al lavoro. Se uno dei due non si facesse da parte,
saremmo entrambi così deboli da essere praticamente
inutili».
Freya salì al
posto del passeggero e diede un'occhiata ai sedili posteriori, dove due
sorelle gemelle di quindici, massimo sedici anni, dormivano l'una
addosso all'altra, imbacuccate nei loro bomber dai colori fluo e con i
cappellini coordinati che contenevano i loro voluminosi ricci arancioni.
«Sono ancora
del parere che siano troppo piccole per venire con noi»,
mormorò Jake, guardandole a sua volta.
«È
stata una loro scelta. Adesso andiamo».
Il ragazzo
sospirò e mise in moto, quando lo straccione che all'inizio
aveva rifiutato il loro invito bussò ripetutamente al suo
finestrino, facendolo sobbalzare. Jake abbassò il vetro e il
biondo si spostò dalla fronte una ciocca di capelli
scoloriti.
«Ho cambiato
idea, vengo con voi», affermò prima di aprirsi in
un sorriso tutto denti.
Senza aspettare loro
istruzioni saltò sul retro del pick-up, incurante del freddo
che avrebbe patito all'aperto. Probabilmente ci era abituato.
Darrell, fino ad allora
spettatore silenzioso e terrorizzato, impiegò tutta la
propria forza di volontà perché la sua coscienza
prendesse brevemente il sopravvento su quella di Freya, permettendogli
di allungare una mano verso lo specchietto retrovisore e girarlo verso
di sé. Ciò che vide fu la prova definitiva,
quella che rese realtà il suo atroce sospetto: era davvero
intrappolato nel corpo di Freya.
La ragazza
ricambiò il suo sguardo, mostrandosi spaventata tanto quanto
lui, ma ebbe comunque la forza necessaria per riprendere il controllo e
cacciarlo fuori dalla sua testa.
Darrell sbarrò gli occhi, sudato tra le coperte del suo
letto, e per diversi minuti non riuscì a muovere un muscolo,
tant'era lo shock. A quel punto dubitava che fosse stato un semplice
sogno: c'erano troppe prove che dimostravano la folle ed assurda teoria
dell'esistenza della stregoneria.
Con le lacrime che gli rigavano il volto in un pianto liberatorio, il
poliziotto si tirò su seduto e si allungò verso
il comodino per prendere il block notes su cui, da una settimana a
quella parte, aveva iniziato a scrivere tutto ciò che
sognava: all'inizio erano state istantanee senza un preciso senso
logico, immagini che allo sbattere delle ciglia scomparivano; poi aveva
iniziato a captare rumori, parole a casaccio e frasi spezzate a
metà, come una radio che non riusciva a beccare la giusta
frequenza. Ora questo.
Rilesse tutto ciò che aveva scritto, guardò con
più attenzione gli schizzi che aveva disegnato e
cercò di dare un senso al tutto. Incredibilmente ci
riuscì: Freya stava cercando delle persone, attraversando
tutto il Regno Unito con Jake, scomparso misteriosamente il giorno dopo
la partenza di Freya. Adesso sapeva che non era una semplice
coincidenza e che stava bene, anche se non era certo di quanto potesse
stare bene qualcuno in compagnia di una strega.
Accese l'abat-jour e con le spalle contro la testiera del letto scelse
una pagina bianca per disegnare i volti dei ragazzi sconosciuti che
aveva visto in compagnia di Freya. Il minimo che poteva fare era
cercarli nel database della polizia. Sapere chi fossero o se avessero
delle famiglie da qualche parte non sarebbe servito a molto, ma forse
gli avrebbe evitato la pazzia. E a proposito di pazzi, iniziava a
pensare che fosse giunto il momento di scoprire le proprie carte con le
persone che riteneva sempre più collegate a tutte le
assurdità che gli capitavano: Artù e Merlino.
***
Merlino stava bevendo il suo caffé sulla veranda,
sorridendo, quando fu raggiunto dal solo ed unico re.
Entrambi guardarono Alex trottare in cerchio sulla groppa di Flash, il
cavallo nero che suo padre sarebbe stato costretto a vendere al primo
sconosciuto se lo stregone non avesse deciso di dargli una casa, per la
felicità dell'infermiera.
«Sono contento di essere riuscito a farti
ragionare», ruppe il silenzio Artù, dopo aver
bevuto a sua volta un sorso di caffé.
«Sì, anche io. La felicità di Alex
è più importante di una stupida auto».
«Non mi riferivo al fienile convertito a stalla per il
cavallo».
Merlino non dovette nemmeno guardarlo in viso per capire che in
realtà intendeva dire che era orgoglioso che avesse cambiato
idea e che presto avrebbe ufficialmente chiesto ad Alex di sposarlo.
Era iniziato tutto per colpa di Edwin, quando erano andati a prendere
il cavallo all'agriturismo. Il padre di Alex l'aveva preso da parte per
chiedergli se avesse già programmato il momento, magari dopo
una bella cena oppure in un luogo particolare, e Artù aveva
assistito al suo patetico arrampicarsi sugli specchi, capendo
immediatamente che non c'era in programma un bel tubo.
Dopo qualche pressione lo stregone non aveva potuto far altro che
cedere e aveva confessato i dubbi che l'avevano assalito dopo che Abby
aveva scoperto la storia della sua bisnonna: Louise McTrusty, il suo
ultimo e più importante amore prima di conoscere Alex.
In quella settimana il ricordo bruciante di Louise si era affievolito
ed erano bastate poche parole dell'ex re di Camelot perché
tornasse sui suoi passi: come essere immortale non avrebbe mai
dimenticato le donne che aveva amato nelle sue vite precedenti, ma non
per questo doveva rinnegarsi la felicità e l'amore nel
presente.
Diede le spalle al giardino e Artù lo imitò per
guardare ancora una volta l'anello di fidanzamento che ai tempi Edwin
aveva regalato a sua moglie Ellen e che aveva tramandato a lui. L'aveva
dissotterrato quella mattina all'alba, spronato da Artù, e
quando aveva riavuto il cofanetto tra le mani si era sentito
così rincuorato che aveva capito all'istante di aver fatto
la scelta giusta.
Merlino alzò gli occhi per incrociare quelli di
Artù e aprì la bocca per rispondergli, ma
Cathleen comparve in cucina con indosso solo una canottiera dalle
spalle fini e gli slip, sbadigliando senza ritegno.
Con più di millequattrocento anni sulle spalle, Merlino
aveva smesso di scandalizzarsi, ma Artù divenne rosso
porpora per il modo in cui andava in giro la sua donna, specialmente in
casa d'altri. Non ebbe però modo di aprir bocca,
perché il paramedico li notò e li raggiunse in
veranda per esclamare, tutta eccitata: «Non potete immaginare
che cos'ho sognato! Stavo mangiando una pizza, una pizza che sapeva di
torta al cioccolato! Avete mai fatto un sogno del genere?».
Merlino e Artù si scambiarono un'occhiata, sconvolti.
Avrebbero dovuto fare delle ricerche approfondite in merito all'albero
genialogico di Cathleen, perché c'erano delle volte in cui
era tale e quale a Sir Gwaine.
La rossa si stancò di aspettare la loro risposta e
sventolando una mano in aria, affermò: «Non sapete
che vi siete persi».
Quindi notò Alex alle loro spalle, la quale era scesa da
cavallo per dargli una carota fresca dell'orto dei signori Morris, e
alzandosi in punta di piedi sventolò un braccio nel
salutarla a gran voce.
L'infermiera sgranò gli occhi vedendola mezza nuda, ma poi
si sciolse in un sorriso e ricambiò con un cenno della mano.
***
Baqi, di ritorno dalla caffetteria della signora Begum, le
passò accanto senza rivolgerle nemmeno uno sguardo e Hala si
sentì morire dentro.
Si scusò con Keith, incrociato per caso quando era uscita
per prendere una boccata d'aria ed allontanarsi dalla visione di una
Abby addormentata e ciò nonostante sofferente, col volto
pallido e lividi violacei intorno agli occhi.
Non ricordava di averla mai vista in quello stato prima di allora: la
malattia era tornata all'attacco, aggressiva e spietata, e la lista
d'attesa per il trapianto di midollo non sembrava mai accorciarsi.
Raggiunse il gemello con una corsetta e lo afferrò per una
spalla, costringendolo ad affrontarla.
Erano diversi giorni che non le rivolgeva la parola, precisamente da
quando aveva scoperto che gli aveva tenuto nascosto di aver incontrato
il suo uomo immortale e, cosa ancora più grave, di aver
avuto conferma della sua teoria da Abby.
Lei aveva provato a giustificarsi, a dirgli che ciò che
credeva una ragazzina malata non era necessariamente la
verità, ma il fratello, ferito dal tradimento, non aveva
voluto sentire ragioni.
«L'ho fatto per te», esordì,
rispecchiandosi negli occhi di Baqi e rendendosi conto di quanto
suonasse patetica. Per questo aggiunse: «Non voglio che tu
finisca nei guai, okay?».
«Non sono un bambino, Hala; so badare a me stesso»,
replicò atono, scrollandosi la sua mano di dosso.
La pakistana guardò il fratello dirigersi verso le porte
scorrevoli e ad un tratto gli gridò dietro: «Non
puoi ignorarmi per sempre!».
Baqi non si voltò nemmeno, rispondendo semplicemente:
«Devo andare dalla signora Chapman, prima che il
caffè si raffreddi».
Quando fu scomparso all'interno del complesso ospedaliero, Keith
raggiunse la ragazza e le posò una mano tra le scapole in
segno di conforto.
«Fratelli, eh?», sospirò con un lieve
sorriso sulle labbra. «Io sono il più piccolo
della famiglia ed è sempre stato difficile. Eravamo sempre
in competizione».
«Non è il nostro caso»,
spiegò Hala, sistemandosi dietro le orecchie i lunghi
capelli neri. «Di solito è lui che fa arrabbiare
me, ma questa volta è colpa mia: sta lavorando ad una storia
ed io mi sono messa in mezzo».
«Sono certo che ti farai perdonare», le disse prima
di fare l'ultimo tiro alla sigaretta e di spegnerne il mozzicone
nell'apposito posacenere.
Il dottor Ellis si sporse per baciarle la guancia e la
salutò per tornare al lavoro, ma la pakistana se ne accorse
appena, riflettendo sulle sue parole: un modo per farsi perdonare
c'era, ma era l'idea più folle che potesse venirle in mente.
Ciò nonostante, sapeva di dover tentare.
***
Alex alzò gli occhi e guardò fuori dalla finestra
della cucina, avendo come l'impressione di essere stata di nuovo
catapultata a scuola.
Nel prato, Artù e Cathleen si stavano allenando al tiro con
l'arco e in quel momento avrebbe dato di tutto per raggiungerli e
mostrare all'antenato i propri progressi. Perché sui suoi
insegnamenti poteva esercitarsi, mentre su quelli di Merlino no. Per
carità, era felicissima che avesse finalmente deciso di
addestrarla a controllare la forza della magia, ma dubitava fortemente
che la teoria sarebbe servita a qualcosa con un'avversaria come Freya.
Doveva rimediare al danno che aveva fatto, rispedire la custode nelle
acque di Avalon, e per farlo doveva imparare a lanciare gli
incantesimi, ma Merlino si era come fossilizzato sulla pronuncia, sulle
buone intenzioni... Era come quando aveva convinto i suoi genitori ad
iscriverla ad un corso di chitarra: pensava che avrebbe subito iniziato
a suonare, invece il maestro l'aveva costretta ad imparare le basi del
solfeggio prima. Una vera delusione.
E a proposito di delusioni, quella simpaticona della donna misteriosa
non l'aveva più raggiunta in sogno dall'ultima volta. Alex
aveva così tante domande da farle... tra cui la
più importante: era davvero lo spirito di Morgana?
Il libro di Merlino - una copia di quello che Gaius gli aveva regalato
all'inizio della sua carriera di mago - cadde sul tavolo con un tonfo e
l'infermiera si voltò di scatto, trovando lo stregone con le
braccia conserte e un'espressione affranta sul viso.
«Se non trovi interessante ciò che sto dicendo
puoi dirlo apertamente», la sfidò.
Alex si addossò allo schienale, arricciando le labbra in una
smorfia d'insoddisfazione. «Non è che non
è interessante», spiegò. «Il
fatto è che è trascorsa una settimana e non mi
hai ancora permesso di fare nulla!».
Merlino abbandonò le braccia lungo i fianchi e si sedette di
fronte a lei con un sospiro, poi la guardò negli occhi e
ammise: «A meno che tu non voglia vedermi in preda alle
convulsioni, non puoi usare la magia».
L'infermiera aprì la bocca per chiedere che cosa volesse
dire, ma non ce ne fu bisogno: con la sua maledizione, Merlino si era
trasformato in una calamita attira magia e tutta quella che un tempo
scorreva libera nel mondo - nella terra, nel cielo e nei mari - ora era
intrappolata nelle sue vene. Lui era una delle poche fonti rimaste,
nonché la più potente, e se avesse davvero
provato ad utilizzare la magia... beh, la verità era che
l'avrebbe sottratta a lui.
«Quindi... quindi anche quando ho recuperato il tuo prototipo
dalla Centrale...», balbettò, capendo finalmente
come mai Merlino si era ritrovato con quella febbre da cavallo che
l'aveva costretto a letto per tutto il giorno.
«Va tutto bene», la rassicurò con un
sorriso, allungando un braccio per poterle stringere una mano.
«Non capisco... Come faremo a battere Freya senza la magia? E
lei come fa a non collassare? È pur sempre una creatura
magica! Pensi abbia trovato un'altra fonte?».
«Non lo so», fu costretto ad ammettere Merlino.
«Può darsi che essendo stata la custode di Avalon
per quindici secoli, sia la sua magia a tenerla in vita. Come
Artù, dopotutto».
Dopo aver gettato entrambi uno sguardo al re di Camelot, intento a
scoccare una freccia che non colpì il centro esatto del
bersaglio solo perché Cathleen lo aveva sbilanciato con un
colpo d'anca, lo stregone si alzò in piedi ed
uscì dalla cucina.
«Torno subito», le aveva detto, e in effetti pochi
minuti dopo era tornato con uno zainetto logoro sulla spalla, in cui
infilò una bottiglia d'acqua presa dal frigorifero.
«Stiamo andando a fare una scampagnata?», gli
chiese allora Alex, incuriosita.
Merlino annuì con un cenno del capo. «Un modo per
lottare ad armi pari con Freya c'è: anche se non mi piace
granché, è la nostra unica scelta».
Dopo aver preso anche un paio di merendine, il mago posò lo
zainetto sul tavolo e la guardò intensamente negli occhi,
con la stessa espressione corrucciata di un giudice indeciso su una
sentenza. Che per caso non la ritenesse in grado di affrontare quella
prova?
Un moto d'orgoglio le indurì il volto, permettendole di
ricambiare lo sguardo del moro. «Ce la
farò», affermò, convincendosi a sua
volta. «L'hai detto anche tu che devo credere in me,
no?».
Merlino si sciolse in un sorriso e le disse di prepararsi, mentre lui
avvisava Artù e Cathleen e sellava Flash.
Merlino la condusse nel fitto del bosco che delimitava la fine della
sua proprietà e seduta in groppa all'ex cavallo da corsa,
Alex avvertì una specie di fitta di dolore poco sotto al
seno, dove si era allacciata lo spesso corpetto di cuoio che usava come
protezione quando tirava di spada con Artù.
Aveva la sensazione di aver già visto quegli alberi,
moltissimo tempo prima, e più si avvicinavano alla radura su
cui brillava l'alto sole del primo pomeriggio più il dolore
aumentava, costringendola a stringere i denti.
Alex si portò una mano sul punto preciso e chiudendo gli
occhi ebbe una specie di visione, della durata di un paio di secondi.
Erano bastati però per vedere un giovanissimo Merlino
dall'espressione determinata e al contempo addolorata torreggiare sopra
di lei e trafiggerla con una spada unica nel suo genere: Excalibur.
«Fermo, fermo», esclamò, strappando le
redini dalle mani del mago.
«Che cosa c'è?», le domandò
sorpreso. Lentamente il suo sguardo si fece più attento,
notando la preoccupazione e il pallore mortale sul suo viso.
Alex deglutì, cercando di raccimolare il coraggio.
«Ho un brutto presentimento su questo posto. Non mi piace
proprio, sento... sento che è morto qualcuno, qui».
Merlino accennò appena un sorriso, abbassando mestamente gli
occhi. «È come immaginavo. Vieni, devi
sapere».
Lo stregone proseguì verso la radura, certo che l'infermiera
l'avrebbe seguito, e una volta scesa da cavallo lo fece. Lo raggiunse
davanti ad una piramide di sassi ricoperti di muschio e rimase in
silenzio al suo fianco, aspettando che fosse pronto a condividere con
lei il ricordo della persona che era morta proprio in quel punto, poco
prima che Artù venisse preso in custodia dalle acque di
Avalon. Alex aveva già capito di chi si trattava ovviamente,
ma non sapeva come né perché si fosse creato
quello strano legame tra loro.
«È qui che ho ucciso Morgana con
Excalibur», le confessò, cercando di celare
l'emozione che gli stava rompendo la voce. «Ho speso anni
della mia vita a struggermi e a domandarmi che cosa sarebbe successo se
l'avessi risparmiata. Poi, qualche settimana fa, Freya mi ha rivelato
che l'unico modo per liberarla da tutto l'odio e il dolore che provava
era proprio trafiggerla con Excalibur. La spada ha assorbito la magia
nera che aveva corrotto la sua anima e le ha donato la pace».
Merlino si voltò per incrociare i suoi occhi e sorrise di
nuovo, nonostante le lacrime minacciassero di bagnargli gli zigomi
spigolosi. «Non sapevo se credere o meno alle parole di
Freya, ma poi mi sono ricordato del tuo strano comportamento dopo il
ritrovamento di Excalibur e ho capito che aveva detto il vero. Il male
che aveva afflitto Morgana ha cercato di impadronirsi anche del tuo
cuore, dandoti la forza, la risolutezza e il potere a discapito della
gentilezza e della bontà».
Alex fissò la tomba della Grande Sacerdotessa e si
domandò se fosse proprio quella la ragione per cui aveva
iniziato a sentirsi così legata a lei, tanto da riuscire a
comunicare con il suo spirito e a rivivere sulla propria pelle i suoi
ricordi. E se davvero Excalibur era riuscita a purificare il suo cuore
poteva considerarla un'alleata, una guida preziosa nella lotta contro
il "grande male" della profezia?
«La nostra unica possibilità contro Freya
è Excalibur, come avrai capito», riprese Merlino,
lasciandosi scompigliare i capelli dal vento che si era alzato e stava
spettinando anche le fronde degli alberi. «La spada
è stata forgiata dal fuoco di un drago, perciò
è in grado di uccidere gli esseri immortali. Ed è
anche una delle ultime fonti da cui puoi assorbire la magia, ma nel
farlo assorbirai anche la magia nera di Morgana».
Alex fissò l'orizzonte, profondamente immersa nei propri
pensieri. Voleva davvero che Freya tornasse da dove era venuta, ma non
sapeva se a quelle condizioni il gioco valesse la candela. Ricordava
come si era sentita quando era stata in possesso di Excalibur: potente
ed invincibile, ma anche incapace di amare e di provare vera
felicità. Era disposta a sacrificare la parte migliore di
sé per avere qualche chance in più contro la dama
del lago?
«Non c'è modo di purificare la spada? Magari il
tuo prototipo funziona anche su Excalibur»,
esclamò, pur sapendo che se fosse stato così
semplice Merlino ci avrebbe già pensato.
Lo stregone scosse il capo, amareggiato. «Excalibur
è l'arma più potente mai creata, tanto da avere
quasi una coscienza propria. Risponde alle sue regole soltanto ed
è lei a scegliere le persone degne di impugnarla».
«Come il martello di Thor», provò a
stemperare la tensione Alex, con ben poco successo.
«Kilgharrah mi aveva avvisato, d'altronde... È
stata forgiata per Artù e Artù soltanto e se
qualcun altro l'avesse usata sarebbero accadute cose terribili. Se
fosse stato Artù ad uccidere Morgana, magari...».
«Il passato è passato», lo interruppe
Alex, prendendogli una mano e costringendolo a voltarsi, non prima di
non aver gettato a sua volta un'ultima occhiata alla tomba di Morgana.
Mentre ritornavano nei meandri del bosco, Merlino esclamò
mogio: «Forse la Triplice Dea sarebbe in grado di purificare
la spada, ma dubito che ci aiuterà dopo la tua presa di
posizione...».
Alex non pensava che avrebbe potuto sentirsi ancora più in
colpa, ma le parole di Merlino la smentirono. Non solo aveva liberato
Freya, si addirittura era inamicata una Dea!
«Torniamo a casa?», gli domandò,
sentendo il peso del mondo sulle spalle.
«No, prima devo mostrarti un'altra cosa».
Merlino la condusse fino all'ingresso di una specie di bunker scavato
nella roccia e le mostrò come accedervi. Quindi, con una
torcia elettrica pescata dallo zaino in una mano e le dita di Alex
strette nell'altra, la invitò a seguirla in quella che
chiamò la caverna di cristallo. L'infermiera non
capì a cosa si riferisse il nome fino a quando non si
ritrovò in una grotta in cui al posto delle stalattiti e
delle stalagmiti c'erano enormi cristalli che coi loro bagliori azzurri
rendevano inutile la torcia.
«È incredibile», soffiò,
incantata. Anche senza poteri, poteva percepire la magia che permeava
quella caverna.
Merlino sorrise e la fece avvicinare ad una roccia su cui pullulavano i
cristalli.
«Posso toccarli?».
«Sì, però potresti...».
Alex non si fermò ad ascoltare oltre il "Sì" e
non appena sfiorò la punta di una pietra la sua testa venne
bombardata di immagini e suoni, come se si fosse trovata davanti ad una
parete di televisori, tutti sintonizzati su canali diversi. Tra quelle
che riuscì ad afferrare, vide i figli addottivi della nonna
di Abby - Hala e Baqi - arretrare spaventati nella cappella
dell'ospedale; vide Jake ai piedi del letto di una Freya addormentata e
un ragazzo dai capelli biondo pallido che li spiava dalla fessura della
porta; vide un ciondolo d'argento con incise tre spirali intrecciate in
raffinati ghirigori; vide Darrell impugnare Excalibur ed alzarla verso
il cielo.
Per fortuna Merlino l'allontanò dai cristalli prima che il
suo cervello si liquifacesse e le uscisse dalle orecchie.
«Che cosa...?», riuscì a balbettare,
adagiata a peso morto contro il petto di Merlino.
«Stavo cercando di avvisarti che avresti potuto avere delle
visioni», la rimproverò, ma senza metterci troppo
impegno.
Aspettò che recuperasse il senso dell'equilibrio, anche se
il mal di testa le sarebbe rimasto fino a sera, poi la
lasciò andare.
«Quindi le sfere di cristallo delle chiromanti...»,
iniziò a chiedere Alex, per venire bruscamente interrotta.
«Non scherziamo».
«Come siamo suscettibili», bofonchiò,
tornando a guardare le pietre ma tenendosi a debita distanza.
«Quindi ho visto davvero il futuro?».
«Sì. Ma bisogna fare molta attenzione con queste
visioni: se mal interpretate, possono portare a conseguenze disastrose.
Credimi, lo so per esperienza».
Le capacità di ragionamento di Alex avevano risentito della
quantità di informazioni ricevute, perciò
impiegò qualche minuto per metabolizzare il tutto e avvisare
lo stregone: «Ho visto Freya. E Jake! Jake era con
Freya!».
Merlino sgranò un poco gli occhi, allibito.
«Jake... Il ragazzo che lavorava alla caffetteria della
signora Begum, quello scomparso? Ne sei sicura?».
L'infermiera annuì con un deciso cenno del capo.
Non c'erano stati servizi al telegiornale, ma nel loro minuscolo
paesino, in cui non era mai successo nulla di simile, la notizia aveva
lasciato tutti sconvolti.
Nell'ultima settimana Darrell aveva interrogato pressoché
tutti e perquisito più volte l'appartamento del ragazzo per
ricostruire le sue ultime ventiquatt'ore, ma non aveva scoperto nulla
di rilevante: se aveva deciso di andarsene spontaneamente non era stato
pianificato, se qualcuno l'aveva rapito non aveva lasciato tracce e se
per caso, tornando a casa di sera, al buio, fosse caduto in qualche
fosso o addirittura nel lago, il corpo ormai avrebbe dovuto essere
stato avvistato. Sembrava semplicemente svanito nel nulla, ma ora
sapevano che non era così.
Alex si dimenticò di dirgli il resto, troppo sconvolta
dall'improvviso colpo di scena, e Merlino non se ne curò
particolarmente.
In silenzio guardò lo stregone spingersi verso un angolo un
po' nascosto, arredato alla bell'e meglio con un lenzuolo come tenda,
un sacco a pelo per terra, diverse candele, una sedia pieghevole con
sopra qualche libro e una vecchia cassapanca. Fu proprio quest'ultima
il suo obiettivo: si chinò all'interno e spostò
via diverse cianfrusaglie fino a quando non trovò
ciò che cercava, ossia un piccone da vero minatore.
«Che vuoi fare con quello?», gli
domandò, ora spaventata. Non gli avrebbe permesso di
infrangere nemmeno una di quelle meraviglie!
«I sogni sono solitamente più precisi dei
cristalli, però non si possono controllare. Non possiamo
lasciare che Freya ci colga di sorpresa,
perciò...».
«Vuoi portarti a casa un pezzo di grotta», concluse
Alex per lui, seguendolo con lo sguardo mentre si avvicinava agli
stessi cristalli che aveva sfiorato poco prima.
Sollevò il piccone e le rivolse un sorriso smagliante,
rispondendo: «Bingo».
Merlino si stancò in fretta, ma riuscì a portare
a termine il lavoro.
Dalla cassapanca tirò fuori un sacco di juta che doveva
avere almeno cento anni e lo usò per infilarci il pezzo di
roccia che aveva spaccato dal masso principale, su cui spuntavano come
funghi almeno una decina di cristalli azzurrognoli.
Sudato e ansante, si caricò il sacco in spalla ed
iniziò ad avviarsi verso la scalinata, ma dovette fermarsi
quando si accorse che Alex gli dava le spalle, con lo sguardo puntato
verso un'altra apertura della caverna, da cui proveniva un bagliore
diverso rispetto a quello dei cristalli. Un bagliore dorato.
«Che cosa c'è lì?», gli
domandò ad un tratto, con voce quasi spiritata.
Lo stregone sospirò. Aveva temuto quel momento, temuto che
tra Alex ed Excalibur si fosse ormai creato un legame e che ancora una
volta Freya avesse avuto ragione: la spada l'aveva scelta e l'avrebbe
sempre attratta a sé, che lo volesse oppure no.
«Lì c'è Excalibur», le
confessò, certo che la sua domanda fosse stata una semplice
formalità.
Non voleva che Alex si lasciasse corrompere dal potere e dalla magia
nera assorbita da Morgana, ma era anche consapevole che la spada era
l'unico modo per rispondere alla magia di Freya e fermarla.
«La scelta è tua», si costrinse a dire,
ignorando quella parte di sé che avrebbe voluto proteggerla.
Non ci riuscì troppo bene, dato che si affrettò
ad aggiungere: «Puoi pensarci su, abbiamo tempo».
In realtà non ne avevano, ma sperava che nel frattempo i
cristalli li avrebbero aiutati a scoprire le intenzioni di Freya, in
modo da poter escogitare un piano per contrastrarla, preferibilmente
che non prevedesse l'utilizzo della magia.
Alex fece un passo verso l'insenatura, spinta da una forza invisibile,
ma in qualche modo riuscì a scuotersi di dosso il torpore
magico e si voltò per raggiungerlo. Merlino ne fu
così colpito che la guardò incredulo: ci voleva
una forza non comune per ribellarsi al richiamo di una magia potente
come quella dei draghi.
«Andiamo, Flash si starà spazientendo»,
gli disse prima di chiudergli la bocca con due dita sotto il suo mento
e superarlo.
Lo stregone sorrise e la seguì, sollevato.
***
Cathleen aveva iniziato il turno alle tre di pomeriggio,
perciò incrociò Merlino e Alex mentre si
preparava a tornare a casa da Artù.
Da quando erano tornati dalla Residenza Shaw ed erano diventati una
coppia a tutti gli effetti, la rossa aveva trascorso quasi tutte le
notti nell'enorme letto a baldacchino dell'ex re di Camelot e aveva
iniziato a considerare la villa dello stregone la sua nuova casa e lui
e Alex i suoi coinquilini.
Era stato strano all'inizio, ma si era ambientata in fretta.
Sicuramente più in fretta di loro, che non si erano ancora
abituati del tutto a vederla nella sua formosa bellezza oppure a
ritrovarsela in bagno anche nei momenti più privati.
La mamma di Zachary le diceva sempre che non si conosceva veramente una
persona fino a quando non si viveva sotto lo stesso tetto e nel corso
di quella settimana di convivenza aveva dovuto darle ragione
ogniqualvolta si era ritrovata davanti a comportamenti ed abitudini che
non aveva mai notato prima né in Merlino né in
Alex. Specialmente il mago l'aveva lasciata piacevolmente di stucco in
diverse occasioni, tanto che si era chiesta come avesse potuto odiarlo
tanto non appena si erano conosciuti. Certo, lui aveva ficcanasato
senza ritegno nella sua vita privata tanto da pedinarla, ma allora non
aveva la minima idea di chi fosse in realtà. Adesso invece
adorava stare in sua compagnia, divertendosi a punzecchiarlo o
semplicemente rimanendo in silenzio.
Per questo fu facilissimo per lei leggere nei suoi occhi che doveva
essere successo qualcosa mentre lei non c'era. E qualcosa di serio per
giunta, dato che Merlino aveva smesso di lasciarsi prendere dal panico
da moltissimo tempo ormai.
«Che cosa mi sono persa?», chiese il paramedico,
sciogliendosi lo chignon per frizionarsi i lunghi capelli con una mano.
Sentendo la sua voce Merlino parve riaversi e guardò Alex al
suo fianco. «Tu vai, l'aggiorno io».
L'infermiera annuì e si sporse per posargli un frettoloso
bacio sulle labbra, quindi passò accanto a Cathleen e senza
più voltarsi indietro raggiunse l'ascensore che l'avrebbe
portata al quarto piano.
Cathleen guardò il volto livido dello stregone ed
iniziò a preoccuparsi sul serio. Pensò a decine
di possibili catastrofi, ma il suo primo pensiero andò alla
persona più importante di tutte.
«Artù sta bene, vero?», gli chiese,
facendo sbocciare un sorriso sulle labbra del mago.
«Sì, non ti preoccupare. Si tratta dell'agente
Fisher».
Il paramedico trasse un sospiro di sollievo e seguì Merlino
fuori dall'ospedale, fino al parco aldilà del parcheggio.
Una volta seduti sulle altalene, si fece offrire una sigaretta e le
raccontò della visita di Darrell.
Merlino si
alzò per andare ad aprire alla porta e fu sorpreso di vedere
l'agente Darrell Fisher dall'altra parte, ma non tanto quanto Alex, la
quale sembrò voler sparire sotto il tavolo quando Darrell
varcò la soglia della cucina, dove avevano informato
Artù della loro visita alla caverna di cristallo.
Non indagò
però, colpito dal terribile aspetto del ragazzo: capiva che
l'ultima settimana doveva essere stata spossante per via della
scomparsa di Jake, ma il Darrell che si trovavano davanti sembrava
invecchiato di almeno cinque anni.
«Ho bisogno
del vostro aiuto», esordì, anche se con tono
scettico.
«Che cosa
possiamo fare per te?», gli chiese Merlino, indicandogli di
sedersi al tavolo, proprio di fronte ad Alex, ed offrendogli una tazza
di té.
«Voglio la
verità».
La determinazione con
cui disse quelle parole fece scorrere un brivido sotto la pelle di
Merlino, ma nel rispondergli si dimostrò tranquillo e anche
un po' confuso.
«A che cosa ti
riferisci?».
«Alle vostre
vere identità», replicò, indicando lui
ed Artù, ma in particolare l'ex re di Camelot, a cui si
rivolse direttamente: «Sono successe troppe cose strane da
quando sei comparso tu, con le tue armi e il tuo abbigliamento da
cavaliere medievale».
Un silenzio tombale
calò nella stanza, raggelando i tre e facendo capire a
Darrell che ci aveva visto giusto.
«Myra ha dato
le dimissioni; ho ospitato in casa mia una ragazza che ho trovato
bagnata fradicia e con indosso un vestito principesco; a casa
tua», e indicò Alex, «c'è
stata un'effrazione per cui la mia principale sospettata è
Cathleen Shaw, la quale guarda caso è una vostra amica; e
ora sono sull'orlo della pazzia perché ho sognato Freya in
compagnia di Jake, misteriosamente scomparso una settimana
fa».
Quando
terminò, Darrell aveva un leggero fiatone e gli occhi fuori
dalle orbite. Nessuno si degnò a dargli delle risposte e a
quel punto non poté far altro che pregarli, prendendosi i
capelli tra le mani: «Se mi sono innamorato di una qualche
fottuta strega, ho bisogno di saperlo».
A quelle parole Alex
sobbalzò, ma ancora una volta Merlino decise di ignorare il
suo strano comportamento per concentrarsi sull'agente Fisher.
«Che cosa ti
fa credere che Freya sia una strega?».
E allora Darrell
rischiò quasi di scoppiare in lacrime, raccontando
ciò che all'inizio aveva ritenuto un semplice incubo e che
col passare dei giorni aveva capito essere stato l'incantesimo con cui
la ragazza lo aveva legato a sé, cibandosi della sua linfa
vitale come un parassita. Poi narrò loro il sogno che aveva
fatto quella notte, o meglio di come era riuscito ad entrare nella
mente di Freya e a sbirciare quello che stava combinando.
Merlino, Alex e
Artù si scambiarono occhiate preoccupate per una dozzina di
secondi, fino a quando l'agente non ammise di essere stato onesto con
loro, rischiando pure di farsi dare del pazzo, e che ora meritava lo
stesso tipo di franchezza.
Alex e Artù a
quel punto avevano fissato Merlino, in attesa della sua decisione. Il
moro ci pensò su e alla fine fece quello che nessuno si
aspettava: si alzò ed uscì dalla cucina. Darrell
si prese nuovamente la testa tra le mani, disperato, ma la
rialzò di colpo scorgendo Merlino rientrare con un piccolo
quaderno dalla copertina di pelle tra le mani.
«Che
intenzioni hai?», chiese Artù, riconoscendo il
reperto.
Merlino lo
posò di fronte all'agente e disse: «Io ti credo,
Darrell. Ma prima di dirti la verità sul nostro conto devo
essere sicuro che ci creda anche tu. So che ti sembra assurdo e da
pazzi, ma voglio aiutarti».
«E come pensi
di fare? Facendomi il test di Rorschach?».
Lo stregone
abbozzò un sorriso. «Nulla del genere. Devi solo
sfogliare questo quaderno e vedere che succede: se le figure reagiranno
al tuo tocco, allora avrai la conferma che Freya ti ha lanciato un
incantesimo, conferendoti parte della sua magia, e potrai metterti
l'anima in pace».
Darrell
deglutì a vuoto, allungando una mano tremante verso il
quaderno. Lo aprì all'incirca a metà, trovandosi
di fronte ad un disegno fatto a carboncino, il cui protagonista era un
bambino di circa tre anni seduto su un cavallo a dondolo, con un
piccolo elmo calato sulla testa e una spada di legno nella mano destra.
L'agente Fisher stava
per chiedere spiegazioni, quando all'improvviso il cavalluccio
iniziò a muoversi avanti e indietro e il bambino
brandì la spada fingendo di dover tagliuzzare nemici a
destra e manca.
Scorgendo il disegno
muoversi, sia Alex che Artù smisero di trattenere il
respiro. Anche Darrell reagì più o meno nello
stesso modo, anche se quello che gli sfuggì dalle labbra fu
un singhiozzo. Merlino gli portò una mano sulla spalla e lo
lasciò sfogare, realizzando amaramente che le loro
possibilità di fermare Freya potevano essere diminuite
ancora.
«Abbiamo trascorso le due ore successive a riassumergli chi
siamo e qual è il nostro destino, a rispondere alle sue
domande e ad ipotizzare quale siano le intenzioni di Freya»,
concluse Merlino, sospirando stancamente.
«Credi davvero che stia radunando un esercito di
maghi?», gli chiese Cathleen, osservando gli identikit che
Darrell aveva dato loro: c'erano Jake, due ragazzine pel di carota e un
giovane senzatetto con due occhi che avevano già visto
troppo. Come immaginava, immettendoli nel database della polizia non
aveva ancora ottenuto alcun riscontro, ma avrebbe continuato a provare.
Lo stregone si strinse nelle spalle, insicuro. «Ha sempre
detto che in giro per il mondo c'erano maghi e streghe che non avevano
idea dei loro poteri perché, in mancanza di fonti magiche,
erano sempre stati assopiti. Mettiamo che abbia trovato questi ragazzi
e li abbia convinti a seguirla... Come risveglierà la magia
che è in loro? Deve avere in mente qualcosa, altrimenti non
si sarebbe data tutto questo disturbo».
Il paramedico sbuffò, restituendogli i disegni e cancellando
i solchi che aveva lasciato sulla sabbia umida. «E quindi ora
che cosa facciamo? Usiamo Darrell come sfera di cristallo?».
«È più complicato di così.
Darrell ci ha raccontato che non aveva mai avuto una visione
così chiara prima e che Freya ad un certo punto si
è resa conto di essere osservata. Di sicuro
alzerà le proprie difese e magari proverà anche a
fare lo stesso per scoprire se Darrell ci ha detto qualcosa. Se ci
dovesse riuscire perderemmo qualsiasi vantaggio».
«E non c'è un modo di spezzare
l'incantesimo?», domandò ancora Cathleen,
innervosita.
«Una volta ho avuto a che fare con un potente stregone che
aveva rinchiuso la propria anima in un gioiello per poter tornare e
vendicarsi su Camelot, ma qui parliamo di connessione tra due anime...
Non ho idea se si possa annullare e se anche lo sapessi, le mie
condizioni non me lo permetterebbero».
Cathleen sbuffò di nuovo e quella volta si alzò
in piedi, sbottando: «Beh, c'era da aspettarselo. Quella
tizia è rimasta in un lago per quindici secoli, è
ovvio che abbia sfruttato la prima occasione per assicurarsi
di non ritornarci tanto presto. Peccato che ad andarci di mezzo sia
stato l'agente Fisher. Lui voleva solo aiutarla! Ed ecco il
ringraziamento».
«Fa arrabbiare anche me», commentò lo
stregone, quasi di riflesso.
Gli dispiaceva sul serio per Darrell - era l'ennesima vittima innocente
dei complotti dei custodi della magia - ma al momento era
più preoccupato per Alex. Non solo perché a quel
punto le possibilità che fossero costretti a tirare fuori
Excalibur dalla roccia erano più che concrete, oppure che
l'esito negativo del test di compatibilità l'avrebbe
distrutta come la perdita del piccolo Steve, ma anche perché
aveva capito che c'era qualcosa che non gli stava dicendo a proposito
dell'agente di polizia. Non voleva metterle pressione - ne aveva
già abbastanza - né farle pensare che non si
fidasse di lei, perciò era rimasto in silenzio, in attesa
che facesse lei il primo passo. Quando sarebbe successo, non lo sapeva.
Odiava non avere risposte e in quel periodo ne aveva pochissime, cosa
che peggiorava ulteriormente il suo umore già a terra.
Merlino guardò l'orologio dal vetro scheggiato che aveva al
polso e disse a Cathleen che doveva andare. Aveva una questione da
risolvere e non poteva più rimandare.
«Okay, allora ci si becca a casa», lo
salutò porgendogli il pugno chiuso e lo stregone lo
colpì col proprio, sorridendo.
Aveva fatto solo qualche passo quando gli venne un'idea che gli avrebbe
evitato un inutile dispendio di energie.
«Ehi, Cath!», richiamò l'attenzione del
paramedico. «Ti andrebbe di darmi una mano a spaventare
qualcuno?».
Sul volto della rossa si aprì un sorriso pieno di
eccitazione e dopo aver inviato un SMS ad Artù per avvisarlo
del ritardo lo seguì verso la piscina coperta che presto,
grazie alla donazione della Regina Elisabetta in persona, sarebbe
tornata agibile per le avanzate sessioni di fisioterapia. Ci passarono
solo davanti però, dato che il luogo fissato per l'incontro
era la cappella dell'ospedale.
Merlino aveva ricevuto quell'invito mentre Darrell veniva reso
partecipe dell'enorme guaio in cui si era trovato coinvolto e aveva
capito subito che nonostante arrivasse dal cellulare di Abby non era la
ragazzina la mittente: uno, sapeva che le sue condizioni attuali non le
permettevano nemmeno di scendere dal letto; due, non aveva senso che
volesse incontrarlo a mezzanotte nella cappella.
Sapeva esattamente chi fosse il suo appuntamento e dopo aver informato
Cathleen del piano che aveva già architettato,
forzò la porta della sagrestia ed entrarono.
***
Alex tirò fuori i capelli dal collo della maglietta azzurra
e se li legò rapidamente in una coda di cavallo, quindi
uscì dallo spogliatoio e raggiunse subito il ricevimento,
dove ritirò le consegne del turno e una busta chiusa con il
timbro dell'ospedale sullo spazio riservato al mittente: l'esito
dell'esame di compatibilità per la donazione di midollo.
Con la busta tra le mani e la morte nel cuore per via di ciò
che aveva visto nel suo sogno premonitore, raggiunse Abigail nella sua
camera, dove la trovò addormentata e in compagnia di sua
nonna.
L'infermiera esitò sulla porta, ma la signora Chapman le
fece segno di entrare.
«Voleva aspettarti sveglia, ma non ce l'ha fatta. Mi ha fatto
promettere che l'avrei svegliata se fossi passata».
Alex ricordava com'era quando l'aveva vista per la prima volta, quando
Abby si era presentata nel reparto convinta che avesse una malattia del
sangue, e nonostante fosse rimasta una donna affascinante, in quegli
anni era invecchiata molto velocemente. E in quell'ultima settimana, a
causa dell'improvviso peggioramento della nipote, aveva iniziato a
mostrare qualche anno di più.
Si alzò dalla sedia con un'esclamazione appena sussurrata e
una volta di fronte a lei le posò una mano sulla spalla,
sorridendo commossa.
«Non ci sono parole per descrivere quello che hai
fatto», le disse, accennando al test. «Qualsiasi
sia l'esito... Grazie di cuore».
Alex annuì, abbassando gli occhi, ed aspettò che
la donna uscisse dalla stanza prima di prendere posto al capezzale di
Abigail. Le lacrime le salirono agli occhi e non poté
ricacciarle indietro, ma riuscì a soffocare i singhiozzi
mentre le prendeva una mano pallida e fredda tra le sue e se la portava
alle labbra.
Aveva già perso Steve e il solo pensiero di dover dire addio
anche a Abby le spezzava il cuore. Come se non bastasse, si sentiva
tremendamente in colpa nei confronti di Merlino per ciò che
aveva creduto di provare per Darrell, il quale si era rivelato essere
una persona peggiore di quanto avrebbero mai potuto mostrare le
apparenze.
La ragazzina a quel punto si svegliò e voltò il
capo verso la bionda, guardandola con quei suoi occhi neri una volta
pieni di vita e ora resi opachi dal dolore. Ma Abby era coraggiosa come
una leonessa, perciò le sorrise e spostandosi su un lato del
letto la invitò a sdraiarsi al suo fianco.
«Hai già aperto la busta?», le
domandò, adagiando il capo sul braccio con cui Alex le aveva
cinto le spalle.
«No, non ancora».
«E allora perché piangi?».
«Perché so già che cosa
leggerò. A quanto pare sono in grado di sognare il
futuro».
«Intendi... Veramente? Come Morgana?».
L'infermiera annuì, tirando su col naso. «Nulla di
quello che ho visto si è ancora avverato, perciò
questa è la prova del nove».
«Deduco che tu abbia predetto un esito negativo, tuttavia...
Ti offendi se prego perché tu abbia ragione? Vedere il
futuro sarebbe una figata pazzesca!».
Alex aveva iniziato a pensare che si trattasse invece di una
maledizione, ma contagiata dall'euforia della ragazzina non
poté evitare di sorridere.
Prese la busta tra le mani e l'aprì, quindi tirò
fuori il foglio su cui era scritto se il suo midollo fosse compatibile
o meno a quello di Abby e lo tenne in modo che anche lei potesse
leggere.
«Beh, non avrò il tuo midollo ma potrai sempre
avvisarmi quando in mensa daranno la torta di mele»,
esclamò Abigail con un sorriso sbarazzino sulle labbra, non
sufficiente ad impedire ad Alex di scoppiare di nuovo a piangere, col
piccolo foro non ancora del tutto cicatrizzato che aveva sulla base
della schiena - dove le avevano prelevato un campione di midollo osseo
- che le pulsava dolorosamente.
Abigail tentò in ogni modo di confortarla, nonostante non
fosse lei quella da compatire, e ad un certo punto l'infermiera smise,
forse perché non aveva più lacrime da versare.
«Non è giusto», mormorò, con
la voce ancora rotta.
«È destino», la corresse la ragazzina.
«Forse non sono destinata a lasciare un segno in questa vita,
bensì nella prossima. Credi di poter predire quando
morirò? No, scherzavo, non voglio saperlo. Non voglio dover
salutare Mark come nei film strappalacrime. Scriverò delle
lettere. Nah, è troppo scontato ormai. Vi manderò
delle note audio su Whatsapp, da ascoltare solo una volta che
sarò andata».
Alex si tirò su seduta, scombussolata da tutto quel flusso
di parole, e Abby le rivolse l'ennesimo sorriso.
«Hai fatto tutto quello che potevi, Alex. Sei... No, questo
me lo riservo per la tua nota audio».
«Non è ancora detta l'ultima parola»,
affermò l'infermiera, scendendo dal letto per rimboccarle le
coperte e sistemarle i cuscini dietro la testa. «Devi
continuare a lottare, okay? Questa stronza di leucemia dovrà
patire le pene dell'inferno prima di averti».
«Ci puoi scommettere», rispose socchiudendo gli
occhi, vinti dalla stanchezza.
In meno di due minuti Abby si addormentò e Alex si chiuse
piano la porta della stanza alle spalle. Si ritrovò
appoggiata al muro di fronte, con una mano alla base della schiena e il
respiro irregolare, ma si fece forza e dopo aver buttato la busta con
l'esito dell'esame iniziò la ronda per controllare che i
bambini fossero tutti nei loro letti.
Davanti alla camera di Mark e Danilo esitò prima di aprire
la porta. Nonostante le luci fossero spente, il fidanzatino di Abigail
era sveglio, sdraiato sul suo letto, con le cuffie sulle orecchie e gli
occhi fissi sul soffitto. Quando la vide nel rettangolo della porta
spense la musica e si sistemò il cuscino, borbottando
mestamente: «Sì, adesso dormo».
«No», lo fermò l'infermiera, nonostante
il nodo in gola. Voleva essere lei a dirgli l'esito del test, glielo
doveva. «Vieni un attimo fuori, devo parlarti».
Mark la fissò confuso, ma solo per un attimo: sapeva
riconoscere ormai gli sguardi da buone notizie e quelli da cattive,
perciò pensava di essere preparato a riceverle. Eppure,
trattandosi della sua Abby, la sua reazione non fu tanto diversa da
quella di Alex, alle cui spalle si aggrappò mentre
nascondeva il viso rigato di lacrime nell'incavo del suo collo.
Se il giorno seguente Danilo, svegliato dal suo trafficare con la sedia
a rotelle, gli avesse chiesto che cos'era successo, di certo avrebbe
mentito per mantenere la sua reputazione di duro, ma ad Alex stava bene
così.
***
Darrell si spogliò e si infilò sotto il getto
già caldo della doccia.
Passandosi le mani tra i capelli ripensò al pomeriggio
trascorso a casa di Merlino lo stregone e di Artù Pendragon
il re di Camelot.
Solo il pensiero che la magia esistesse sul serio lo faceva diventare
matto, figuriamoci sapere che quei due erano davvero nati quindici
secoli prima.
Lui si era sempre impegnato al massimo per raggiungere i suoi scopi,
aveva meritato tutto ciò che possedeva... e a loro sarebbe
bastato uno schiocco delle dita, o meglio una luce dorata negli occhi,
per ottenere lo stesso risultato? No, non poteva accettarlo. Non solo,
ma era così arrabbiato che aveva finito per prendersela con
Alex, la quale nonostante in passato si fosse dimostrata gentile e
piuttosto normale con lui, si era rivelata essere falsa tanto quanto
Freya.
«Quindi adesso
che cosa dovrei fare?», chiese a Merlino, seduto sulla sedia
in rattan al suo fianco, sulla veranda che dava sul giardino sul retro.
Da quando aveva un cavallo?
«Nulla di
diverso dal solito: Freya non deve accorgersi che ci hai detto quello
che hai visto. E se avrai altre visioni... continua a scriverti tutto e
a farci rapporto».
Darrell chinò
il capo, stringendosi forte le mani sul grembo. Se qualcuno gli avesse
detto che sarebbe finito a "fare rapporto" ad uno stregone di
millequattrocento anni... beh, non sapeva esattamente cosa avrebbe
fatto, ma nulla di buono comunque. Chi si credeva di essere per
trattarlo in quel modo?
Merlino si
alzò e gli diede un'altra pacca sulla spalla prima di
andarsene. Con un piede già all'interno della cucina,
aggiunse: «Oh, Darrell... ti conviene mantenere il segreto su
tutta questa faccenda: la tua carriera e la tua vita in generale ne
risentirebbero».
Il sangue gli
ribollì ancora di più nelle vene a quelle parole,
ma ingoiò il rospo in silenzio. In fondo aveva ragione:
nessuno gli avrebbe permesso di continuare a fare il poliziotto se
fosse andato in giro a raccontare di aver conosciuto i Merlino e
Artù originali e di essere sotto l'influsso di una druida
diventata custode della magia. Sarebbe stato rinchiuso direttamente in
un ospedale psichiatrico, ecco cosa.
Stava ancora cercando di
sbrogliare la matassa dei suoi pensieri, quando sentì
scorrere nuovamente la porta finestra. Si voltò e
trovò Alexandra Greenwood sulla soglia, incupita.
«Una fottuta
strega , eh?»,
esordì, guardandosi le sneakers. «Non credi di
generalizzare un po' troppo?».
«Che cosa stai
cercando di dire?».
Nello stesso momento in
cui disse quelle parole però, ogni tassellò
andò al suo posto. Si alzò in piedi ed
arretrò di un passo, furioso.
«Anche tu lo
sei. Sei stata tu a rendere afono il cane della tua vicina, la signora
Levinson; sei stata tu a rubare quello strano affare che avevo trovato
nella foresta... e hai sempre saputo chi era Freya in
realtà».
«Non ho mai
avuto cattive intenzioni, te lo giuro», si difese la bionda,
dimostrandosi davvero mortificata. Ma a lui non si
impietosì, non poteva permettersi di cascarci un'altra volta.
«Non voglio
sentire scuse. Non voglio sentire nulla da te».
Alex strinse i pugni
lungo i fianchi, infervorandosi. «Solo perché
posso controllare la magia? Io non l'ho mai utilizzata per fare del
male, Darrell».
«Non importa.
Quelli come te non dovrebbero esistere», affermò,
perentorio, e la ragazza vacillò per un momento, incredula e
addolorata. Quando tornò in sé però,
un fuoco diverso ardeva nei suoi occhi, mentre la sua voce si
venò di delusione.
«Non hai
ascoltato nulla di quello che ha detto Merlino? La magia c'è
sempre stata, è il tessuto di questo mondo e la sua
scomparsa lo sta danneggiando gravemente. È necessaria
perché il pianeta non collassi su se stesso. E le creature
magiche, i maghi e le streghe, i druidi e le sacerdotesse sono i canali
attraverso cui questa energia di diffonde, come le api che volano di
fiore in fiore e nel frattempo ne disperdono i semi».
«Questo
è quello che ti racconta lui », rispose in tono
sprezzante indicando l'interno della casa. «È una
creatura magica, no? È ovvio che tiri acqua al suo mulino!
Chi ti dice che sia vero? Quali prove hai?».
Alex gli rivolse un
sorriso quasi compiaciuto. «Sai dov'è
l'agriturismo dei signori Morris?».
«Sì,
perchè? Che cosa c'entra adesso?».
«Poche miglia
prima di arrivare c'erano dei campi coltivati che adesso sono sterili,
giusto?».
«Sì,
così mi sembra».
«Puoi chiedere
a chiunque: non ci cresceva più niente da anni, solo erbe
infestanti. Se vuoi delle prove sulla bontà della magia,
è là che devi andare».
Detto questo si
voltò e lo lasciò di nuovo solo in veranda, per
nulla propenso a cambiare idea.
Prima di tornare a casa era andato sul serio nel luogo indicatogli
dall'infermiera ed era rimasto senza parole.
Sotto un cielo tinto di colori pastello grazie al sole calante, aveva
ammirato la strabiliante trasformazione dei campi un tempo aridi ed
incolti: un tappeto di erba nuova si estendeva a perdita d'occhio e i
fiori dai colori più diversi riempivano l'aria di dolcezza,
tanto da coprire quasi del tutto l'olezzo che proveniva dalla fattoria
dell'agriturismo.
Forse Alex aveva ragione: non doveva giudicare male la magia solo
perché alcuni la utilizzavano per scopi malvagi, tipo
incatenare la propria anima ad un'altra. Le avrebbe fatto le sue scuse,
ma ciò non voleva dire che si sarebbe fidato automaticamente
anche di Artù e Merlino.
Darrell uscì dalla doccia con un asciugamano legato in vita
e con un altro si frizionò i capelli biondi fino a che non
fu davanti allo specchio. Allora si guardò il volto -
prosciugato di ogni vitalità da quando era diventato il
caricatore bluetooth di Freya - e decise di farsi la barba, cresciuta
un po' troppo rispetto ai suoi standard. Si spalmò la
schiuma sulle guance e sul mento ed iniziò a radersi con una
lametta nuova e perfettamente affilata. Aveva già fatto
metà viso, quando sentì una presenza farsi largo
nella sua mente ed intorpidirgli il corpo. Ad un tratto nello specchio
non vide più se stesso ma una Freya con un sorriso appena
accennato sulla bocca.
«Non avere paura Darrell», disse con la sua solita
voce, ma furono le labbra dell'agente a muoversi. «Sto
mantenendo la promessa: finché sarò in vita,
nessuno potrà farti del male».
Il poliziotto chiuse gli occhi e finse di sbatterle la porta in faccia,
un trucco che incredibilmente servì a spezzare la
connessione. Non si era accorto però di avere ancora il
rasoio posato sullo zigomo, dove si fece un piccolo taglio.
Guardò una goccia di sangue scarlatto rotolargli fino alla
mandibola, ma presto la sua attenzione fu catturata di nuovo dal taglio
che come per magia, anzi, senza come, si stava richiudendo.
Esterrefatto ed atterrito dalle possibili implicazioni delle sue
parole, si avvicinò di più allo specchio e si
esaminò a lungo, senza trovare nemmeno una piccolissima
cicatrice. Che cos'aveva fatto Freya?
Abbassando gli occhi vide la goccia di sangue cadere nell'acqua con cui
aveva riempito il lavandino e sparire nella lattiginosa schiuma
sciolta.
***
«Io me ne vado».
Hala afferrò il fratello per la manica della giacca a vento
e lo costrinse a risedersi sulla panca, rivolto verso l'altare e il
Gesù crocifisso appeso sopra di esso.
«Non è ancora mezzanotte.
Arriverà».
«Secondo me volevi solo trascorrere del tempo con me
perché ti perdonassi, ma la verità è
che sei troppo orgogliosa per scusarti!».
«Abbassa la voce, Baqi! Siamo pur sempre in una
chiesa!».
«Ma noi non siamo cristiani!».
«Che cosa vuol dire? Bisogna sempre portare
rispetto».
Il gemello sbuffò e si lasciò andare contro lo
schienale della panca in legno, le braccia conserte.
Aspettarono ancora e i minuti sembrarono ore, ma ad un tratto sentirono
un rumore provenire dalla sagrestia ed entrambi si alzarono in piedi
per uscire frettolosamente dalla panca.
«C'è qualc-?», provò a dire
Baqi prima che la gemella gli tappasse la bocca con una mano.
Il silenzio era così profondo che potevano sentire i loro
cuori battere in sincronia perfetta, ma ad un ritmo tutt'altro che
normale.
«Che cosa volete?», domandò una voce
proveniente dalla porta socchiusa della sagrestia.
«È lui», sussurrò Hala,
mentre Baqi ora non sembrava più così sicuro di
voler andare fino in fondo. «Tu sei Emrys, vero? Ora ti fai
chiamare Merlino, ma sei lo stesso uomo che Louise McTrusty amava.
Fatti vedere».
La porta della sagrestia si aprì cigolando e Baqi
afferrò il polso di Hala, arretrando mentre sussurrava:
«Andiamo via, per favore».
Ma la ragazza aveva i piedi ben piantati a terra e non si mosse di un
centimetro, nemmeno quando una figura avvolta nell'ombra si fece avanti
fino a raggiungere la prima fila di panche.
«E se lo fossi?».
La sua voce era così calma da far tremare le ginocchia e per
la prima volta Hala si ritrovò a deglutire a vuoto,
spaventata.
«Questo implicherebbe... implicherebbe che tu sei
immortale».
«Immortale?», ripeté la figura, con tono
divertito. «Non credete che se fossi veramente immortale
molti prima di voi se ne sarebbero accorti?».
«Sì, ma... ma potresti esserti assicurato il loro
silenzio», balbettò Hala, sentendo il sudore
colarle giù per la spina dorsale.
«E in che modo?», chiese ancora l'uomo,
avvicinandosi di un passo lungo la stretta navata.
I due gemelli arretrarono insieme quella volta, tenendosi per mano.
Avevano capito perfettamente dove volesse andare a parare e la cosa
più saggia che avrebbero potuto fare a quel punto era
correre a gambe levate, ma Hala si interstardì ancora di
più e nonostante tremasse da capo a piedi tirò
fuori il cellulare dalla tasca del giaccone.
«Fermo!», gridò. «Ho
registrato tutto e sono pronta ad inviarlo a tutti i contatti della mia
rubrica se ci farai del male!».
La figura rimase in silenzio per una decina di secondi, poi
sollevò di scatto le braccia e la porta della sagrestia,
rimasta aperta, sbatté con un tonfo che fece rizzare i
capelli dei due gemelli. Subito dopo, tutte fiammelle delle candele
poste alla sinistra dell'altare si spensero per via di una folata di
vento improvvisa, non facendo altro che aumentare il loro terrore.
«Come osate voi comuni mortali minacciare me, il grande Emrys
il Saggio, figlio del demone Wyllt! Andatevene ora e smettetela di
pretendere di svelare misteri più antichi di questa stessa
Terra, e forse non vi dilanierò l'anima!».
La sua voce aveva squarciato l'aria come un tuono e questo monito
soltanto servì a far scappare i due gemelli. Hala, in preda
al panico, aveva persino fatto cadere il cellulare a terra, dicendo
addio anche alla sua misera prova.
Corsero a perdifiato fino all'entrata dell'ospedale, dove
incredibilmente trovarono un taxi ad attenderli. Senza alcuna
esitazione, fregandosene anche di tutto ciò che avevano
lasciato all'agriturismo dei signori Morris, saltarono sul mezzo ed
esortarono l'autista a partire, a portarli il più lontano
possibile per i soldi che al momento avevano nelle tasche.
***
Merlino abbassò le braccia e fece segno a Cathleen di
alzarsi dal portaceri dietro cui si era nascosta mentre lui distraeva
Hala e Baqi: era uscita dalla sagrestia alle sue spalle e una volta nei
pressi dell'altare si era accovacciata per gattonarvi dietro e
raggiungere il lato sinistro della cappella. Dal suo nascondiglio
strategico aveva atteso il segnale di Merlino - l'alzata di braccia con
cui, grazie ad un filo di nylon legato al pomello, aveva anche fatto
sbattere la porta della sagrestia - e aveva sventolato la parte
superiore della sua divisa per far spegnere le candele.
L'effetto scenico era stato impressionante e aveva funzionato alla
perfezione, anche senza l'utilizzo della magia. Certo, riconosceva che
veder brillare due occhi dorati sarebbe stato il colpo di grazia, ma
non si poteva avere tutto nella vita.
Uscirono da dov'erano entrati e di corsa raggiunsero le cataste di
detriti lasciate dagli operai impegnati al restauro della piscina,
così da poter vedere il parcheggio dell'ospedale senza
essere notati. Hala e Baqi erano già saliti sul taxi che lui
aveva preventivamente prenotato per mezzanotte, fornendo una delle sue
numerose carte di credito irrintracciabili per addebitare l'importo
dovuto nel caso in cui i suoi clienti avessero tardato e richiedendo la
massima riservatezza sul proprio conto.
Merlino e Cathleen guardarono il taxi sfrecciare via nella notte,
diretto verso le maggiori autostrade, e dopo qualche minuto di silenzio
il paramedico chiese: «Non credi di aver esagerato un po'? Se
io ho i brividi, non riesco nemmeno ad immaginare che cosa stiano
passando quei poveretti!».
Lo stregone abbozzò un sorriso amaro. «Dipende da
quanto sono suggestionabili le loro menti». Si
alzò in piedi e tornò tranquillo alla cappella,
dove recuperò il filo di nylon e raccolse il cellulare dal
vetro in frantumi di Hala. Lo aprì e staccò la
batteria perché non potesse più essere
rintracciato, poi raggiunse Cathleen, la quale lo stava guardando
muoversi con la calma e la tranquillità di chi era abituato
a nascondere prove.
«Posso sapere quante volte ti sei cimentato in sceneggiate
del genere, demone?», riuscì a chiedergli alla
fine, perplessa ed ansiosa allo stesso tempo.
Merlino scrollò le spalle. «Un po'. Non che siano
stati in molti a scoprire il mio segreto, ma... fino a qualche secolo
fa era più facile far sparire nel nulla le
persone».
Cathleen deglutì, scioccata dal lato oscuro di Merlino.
«Menomale che sono nata in questo secolo, allora!».
Lo stregone le sorrise, sereno come se non avesse appena terrorizzato
due ragazzi, tanto da spingerli alla fuga, fingendosi un
demone-dilania-anime.
«C'è ancora una cosa che dovrei fare. Riesci a
darmi uno strappo fino all'agriturismo?».
«Certo, mio signore degli inferi», rispose la
rossa, fingendo un inchino reverenziale.
Fece gli ultimi due chilometri a piedi - la enduro di Cathleen faceva
un rumore proprio degno degli inferi - e per Merlino fu un gioco da
ragazzi introdursi nell'agriturismo e raggiungere indisturbato la
camera che Hala e Baqi condividevano. Lì cercò
qualsiasi prova li collegasse a lui e la distrusse, tranne il diario di
Louise e l'unica foto, rigorosamente in bianco e nero, che li ritraeva
insieme. Per il resto non toccò nulla, decidendo che avrebbe
lasciato quella gatta da pelare a Darrell una volta che la signora
Chapman si fosse accorta della loro scomparsa, e tornò dalla
sua partner in crime.
«Fatto?», gli domandò Cathleen,
infilandosi il casco.
«Sì, per il momento dovremmo essere a posto.
Possiamo andare».
«Forte! Dovremmo farlo più spesso, non
trovi?».
Merlino avrebbe riso, se non fosse stato costretto ad aggrapparsi a
Cathleen per non volare via mentre partiva con un'impennata.
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Capitolo 27 *** 27. The sword in the stone ***
27. The sword in the stone
Cathleen si girò nel letto ed aprì un'occhio,
trovandosi di fronte ad un Artù già sveglio, con
le spalle contro la testiera del letto e lo sguardo assorto.
«Ehi», lo riportò alla
realtà, sventolandogli anche una mano davanti agli occhi.
«Buongiorno», la salutò lui dopo aver
sbattuto le palpebre, abbozzando un sorriso.
Scivolò di nuovo sdraiato sul letto e
l'abbracciò, per poi posarle dei lievi baci sul collo
pallido in confronto ai capelli rosso sangue.
Il paramedico mugugnò deliziata, poi gli chiese:
«Da quanto tempo sei sveglio?».
«Mezz'ora, circa. Pensavo a quello che mi hai detto ieri a
proposito di Abby... Davvero potrebbe non farcela?».
Ormai tutta la magia era svanita, perciò Cathleen sciolse
l'abbraccio e si girò sulla schiena a guardare il
baldacchino sopra le loro teste, cupa in viso.
Il suo silenzio fu meglio di una risposta per Artù, il quale
riprese: «Una volta Mark mi ha detto di temere che Abby non
sarebbe più uscita dall'ospedale e non voglio che
accada».
All'improvviso il suo umore migliorò, tanto che
riuscì persino a sorridere. «Che cos'hai in
mente?».
Artù ricambiò e si avvicinò al suo
orecchio per sussurrarle quello a cui aveva pensato, quindi attese il
suo responso.
Cathleen ci rifletté un po' su, ma dopotutto non c'era molto
su cui riflettere: l'idea di Artù era buona ed era certa che
sarebbe stato il modo giusto per creare un bel ricordo, magari uno
degli ultimi.
«Dovremo parlarne con i dottori che hanno in cura i ragazzi e
chiedere il permesso alle loro famiglie, ma per quanto mi riguarda il
tuo piano è promosso», esclamò alla
fine, prima di prendergli il viso tra le mani e baciarlo a stampo sulle
labbra.
Artù avrebbe voluto approfondire, ma il paramedico si
sottrasse ridacchiando.
«Scusami, ma la natura chiama».
Dopo la capatina in bagno di Cathleen, entrambi scesero al piano
inferiore per fare colazione. Merlino era già sveglio,
mentre Alex, dopo il turno di notte, era collassata sul divano e non si
era più mossa.
«Che cosa stai facendo?», gli domandò
Artù entrando in cucina, cogliendolo nel patetico tentativo
di vedere qualcosa attraverso i cristalli.
Lo stregone sospirò ed allontanò le mani per
strofinarsi gli occhi. «Niente, non ci riesco. È
come se mi avessero tagliato fuori».
«Benvenuto tra noi», esclamò Cathleen,
battendogli una mano sulla spalla.
Merlino le porse la tazza per il secondo giro di caffé ed
aspettò che Artù finisse di mangiare e che si
vestisse, poi salutarono il paramedico e andarono al lavoro.
Sulla strada, Artù spiegò a Merlino
ciò a cui aveva pensato e lo trovò d'accordo.
«I bambini saranno felici di uscire un po'. Abby in
particolare ne ha proprio bisogno».
«È quello che pensavo».
«Prima di chiedere ai signori Morris però
è meglio parlarne anche con Alex».
«Va bene. A proposito... che cos'ha deciso di
fare?».
Merlino si strinse nelle spalle, gli occhi fissi oltre il parabrezza
della Pininfarina. «Questa sera andiamo a prendere Excalibur.
Non abbiamo scelta: se Freya riuscirà davvero a risvegliare
i poteri dormienti di quei ragazzi, Alex dovrà potersi
difendere».
«Sai... Credo anche io sia la nostra unica
possibilità», disse Artù, sorprendendo
non poco il mago. «E adesso che è a conoscenza
della magia nera di Morgana potrà cercare di
combatterla».
«Forse», soffiò Merlino, rimanendo
comunque preoccupato.
All'agriturismo i due si separarono per svolgere le loro mansioni, ma
le loro menti rimasero fisse su Alexandra, la quale da un giorno
all'altro si era ritrovata con tutto il peso del mondo sulle spalle.
***
Alex aprì gli occhi e riconobbe immediatamente Avalon, anche
senza la nebbia che di solito nascondeva alla vista la sua isoletta
centrale con la torre diroccata, un semplice cumulo di pietre.
Quella mattina l'acqua era uno specchio su cui si riflettevano il cielo
azzurro e le nuvole bianche e soffici come zucchero filato e Alex
trovò tutto così strano che iniziò a
sospettare che stesse per accadere qualcosa di grosso.
«Noi siamo pronti», disse una voce gentile alle sue
spalle, la voce di Merlino.
Indossava un completo scuro, con tanto di cravatta, e le sorrideva
malinconico, gli occhi lucidi di lacrime. Dietro di lui c'erano
Artù, Cathleen e persino Mark in sedia a rotelle, a loro
volta elegantissimi e dalle espressioni addolorate. Nelle retrovie, ai
confini del bosco, c'erano i ragazzi che Darrell aveva visto con Freya,
ma al posto di Jake c'era una giovane donna afroamericana, quella che
probabilmente era stata reclutata a Glasgow.
Alex abbassò gli occhi e si accorse che anche lei indossava
una mise da funerale: un lungo vestito nero con il corpetto stretto e
tempestato di brillanti e un velo trasparente che le copriva il
decolté e le si intrecciava intorno al collo.
Poi si accorse dell'auto funebre e della bara al suo interno e si
sentì tremare da capo a piedi. Probabilmente venne preso
come un cenno d'assenso, perché Merlino, Artù, il
ragazzo dai capelli scoloriti e Mark stesso la tirarono giù
e la portarono fino alla riva del lago, dove una barchetta era stata
trasformata in un letto di foglie e fiori freschi.
Mark cadde in ginocchio accanto alla bara, scoppiando a piangere senza
ritegno, graffiando la verniciatura del legno e gridando il nome di
Abby.
Alex sarebbe scoppiata a piangere a sua volta se lo squillo del
campanello non l'avesse sbalzata fuori da quella visione e l'avesse
svegliata, tanto improvvisamente da ritrovarsi ad annaspare, seduta sul
divano nel salotto di Merlino.
«Ehilà, bella addormentata», la
salutò Cathleen, diretta alla porta. Prima di aprire
però la guardò con espressione quasi materna:
«Sei pallida come un fantasma... Hai avuto una
visione?».
Alex sospirò e si passò le mani sul viso,
cercando di cancellare ciò che aveva visto, ma non
servì a molto. Nel frattempo Cathleen aveva aperto la porta,
mostrando un Darrell in divisa e con un sacchetto della Caffetteria
Begum in mano.
«Fisher», esclamò stupita.
«Che ci fai qui?».
«Alexandra è in casa? Devo parlarle».
Cathleen si fece da parte riservandogli un'occhiata sospettosa e Alex
si alzò in piedi, appiattendosi frettolosamente i capelli
gonfi sulla testa.
Rimasero a guardarsi da lontano fino a quando Darrell non
gettò un'occhiata a Cathleen, facendole capire che voleva
parlare con lei in privato.
Il paramedico sollevò le mani in segno di resa:
«Okay. Io sarò in cucina, nel caso in cui abbiate
bisogno di me».
Lanciò un'eloquente occhiata all'infermiera, la quale si
irrigidì sul posto e si schiarì la gola, facendo
segno a Darrell di accomodarsi.
«A cosa devo il piacere?», gli chiese quando
trovò il coraggio di aprire bocca.
«Io, uhm... ti ho portato un caffé e una fetta di
torta ai semi di papavero. La signora Begum ha detto che è
la tua preferita».
Alex strabuzzò gli occhi, incredula. «E per quale
motivo l'hai fatto?».
Il cuore le era salito fino alle corte vocali, rendendo la sua voce
più acuta del solito, ma poi il pensiero di Merlino e delle
dure parole dell'agente la convinsero a rispedirlo al suo posto e ad
esclamare in tono pungente: «Sei venuto ad arrestarmi per
aver mentito ad un pubblico ufficiale? O per intralcio alla
giustizia?».
«Potrei, ma non lo farò», rispose
Darrell pacatamente, posando il sacchetto sul tavolino. Quindi si
sedette sulla poltrona alle sue spalle e senza interrompere il contatto
visivo spiegò: «Avevi ragione, a proposito dei
campi. E sono venuto a scusarmi: ho sbagliato a dire che quelli come
voi non dovrebbero esistere».
Alex abbassò gli occhi, fingendo di interessarsi a
ciò che c'era nel sacchetto della caffetteria. «Mi
fa piacere sentirtelo dire. Accetto le tue scuse».
«Questo non vuol dire che abbia cambiato idea su tutto il
resto», aggiunse l'agente. «Non tutti sono come te,
Alexandra. Non tutti utilizzerebbero la magia per fare del bene e Freya
ne è l'esempio. Per questo credo che la magia dovrebbe
continuare ad essere... bandita. Il mondo sta andando in rovina?
Potremmo iniziare a prendercene più cura, a trovare delle
soluzioni alternative grazie alla scienza. E se non cambierà
nulla pazienza, è il ciclo della vita».
Alex non riuscì a rispondere, troppo spiazzata dal suo
ragionamento. Una sgradevole sensazione le strinse lo stomaco e
pensò a Uther Pendragon: lei non l'aveva conosciuto,
ovviamente, ma Morgana era stata come una figlia per lui fino a quando
non aveva scoperto di esserlo davvero. Quello che provò fu
forse uno strascico del rancore non ancora del tutto svanito nei
confronti del re di Camelot: anche lui aveva combattuto la magia per
tutta la vita, ma che cosa sarebbe successo se invece di Nimueh avesse
incontrato una strega buona? La sua opinione sarebbe cambiata? O forse,
semplicemente, certe persone non potevano tollerare la presenza di
individui capaci di fare cose straordinarie? La gelosia, l'invidia e la
paura del diverso erano stati d'animo più che moderni e Alex
li capiva, ma non le appartenevano. Per questo accettò la
sua presa di posizione e prendendo un sorso di caffé gli
chiese che cos'avesse intenzione di fare.
Il poliziotto si alzò dalla poltrona col classico cappello
bombato tra le mani e sospirò rassegnato.
«È mio dovere proteggere e servire,
perciò vi aiuterò a fermare Freya.
Dopodiché, se mai ne uscirò vivo, mi
farò trasferire da qualche altra parte e mi
dimenticherò ogni cosa».
Alex annuì, senza nemmeno provare a convincerlo a
ripensarci.
L'aveva visto quando era stata alla caverna dei cristalli con Merlino:
aveva chiaramente visto Darrell impugnare Excalibur ed alzarla al
cielo, perciò in qualche modo avrebbe partecipato alla
battaglia. Dopo che Cathleen le aveva raccontato di come Merlino era
riuscito a far scappare Hala e Baqi fingendosi un demone, era certa che
si sarebbe avverata anche quella visione. E riguardo al
trasferimento... era meglio così.
Quindi si alzò per accompagnarlo alla porta e lo
ringraziò per la colazione, nonostante fosse passata da un
pezzo l'ora di pranzo. Si congedarono in modo molto formale e
l'infermiera lo guardò percorrere il vialetto per
raggiungere la volante, fino a quando non le venne un sospetto
riguardante le sue ultime parole.
«Ehi, Darrell».
L'agente si voltò e la guardò, in attesa.
«Che vuol dire: "Se mai ne uscirò
vivo"?».
Darrell aprì la bocca con un sorriso amareggiato sulle
labbra, ma il suo cellulare iniziò a squillare e prima di
rispondere alla telefonata scosse il capo, facendole segno di
dimenticarsene.
Alex rimase sulla porta fino a quando non lo vide salire sull'auto e
partire lasciando sullo sterrato dietro di sé una nuvola di
polvere. Allora rientrò in casa per trovarsi subito
analizzata dallo sguardo intenso di Cathleen.
«Che cos'era quello?»,
le chiese con le mani sui fianchi e il naso arricciato.
Alex sospirò e tornò sul divano, dove si
lasciò cadere a peso morto. Il paramedico però
non si perse d'animo e continuò a farle pressione
perché parlasse e alla fine l'ebbe vinta: l'infermiera
confessò tutto, assicurandole che non provava nulla di serio
per Darrell, che era solo attrazione fisica e che lui era stato
piuttosto chiaro riguardo a come la pensava su quelli come lei e su
cosa avrebbe fatto una volta sventato il piano di Freya.
«Ehi, non voglio giudicarti», la
rassicurò Cathleen, scavalcando lo schienale del divano per
scivolare al suo fianco. «Penso solo che dovresti parlarne
con Merlino, essere onesta con lui».
Alex dovette ammettere che Merlino era stato sincero riguardo a Freya,
al sentimento che provava per lei e che in un angolo del suo cuore
ancora ardeva. Lei l'aveva accettato ed era certa che anche lo stregone
non ne avrebbe fatto un dramma, consapevole che la sua vera
età e il destino a cui andava incontro non erano a suo
favore. Il vero motivo per cui Alex pensava che dirglielo sarebbe stata
una pessima, pessima idea, era perché era sicura che Merlino
non l'avrebbe solo perdonata, ma avrebbe addirittura provato a
convincerla che Darrell era la scelta migliore per lei, che doveva
provarci, che se erano rose sarebbero fiorite... Non poteva
permetterlo, in nessun modo. Gli aveva chiesto di sposarlo e l'avrebbe
fatto, non poteva rimangiarsi la parola data.
***
«Agente Fisher? Oh, grazie a Dio l'ho trovata. Ascolti, ho
appena ricevuto una chiamata da Hala».
Abby guardò la nonna camminare avanti e indietro davanti al
suo letto, con una mano a sistemarsi compulsivamente i capelli bianchi.
La ragazzina sapeva per filo e per segno che cos'era successo due
giorni prima alla cappella dell'ospedale, perché Hala e Baqi
fossero scappati senza nemmeno prendere le loro cose dall'agriturismo,
e sapeva anche che Darrell era a conoscenza della verità, e
si sentiva uno schifo nel dover mentire a sua nonna, specialmente
quando la vedeva agitarsi in quel modo. Avrebbe voluto dirle che i
gemelli stavano bene, o che lo sarebbero stati dopo molte sedute di
terapia, e che sarebbe potuto accadere loro molto di peggio.
«No, nulla del genere. Mi ha detto che lei e suo fratello
stanno ritornando in Pakistan, che vogliono riavvicinarsi alla loro
cultura, al loro Dio. Ma è una cosa senza senso! Non hanno
mai mostrato questo interesse prima d'ora, anzi hanno sempre fatto di
tutto per allontanarsi dalle tradizioni della loro famiglia. Ho paura
che ci sia qualcuno con loro, magari un membro di quei gruppi
fondamentalisti...».
Abigail sospirò e scorse Mark arrivare di gran carriera
sulla sua sedia a rotelle. Quando i loro sguardi si incrociarono, la
ragazzina gli fece segno di aspettare fuori per via di sua nonna.
«Che vuol dire che non potete fare niente? Le dico che mi
sembrava impaurita! Le tremava la voce, le... Sono certa che non sia un
allontanamento volontario, agente. Va bene. Va bene, grazie lo
stesso».
Daisy terminò la chiamata con un gesto brusco ed ebbe quasi
l'impulso di scagliare il cellulare fuori dalla finestra, ma si
calmò e si accorse del ragazzino fuori dalla camera. Si
sciolse in un sorriso e si avvicinò alla nipote per posarle
un bacio sulla fronte.
«Vado a sbollirmi un po', okay?».
Abby sorrise seguendo la nonna con lo sguardo mentre usciva dalla
stanza e passava accanto a Mark, dandogli una gentile pacca sulla
spalla. Il ragazzino entrò col viso rosso tanto quanto la
bandana da motociclista che portava legata in testa e tirò
il freno a mano una volta accanto al letto.
Le sembrava nervoso, come se volesse dirle qualcosa ma fosse bloccato,
e Abby stava per chiedergliene il motivo, quando lui
l'anticipò.
«Che è successo?», le
domandò, indicando col pollice dietro di sé.
Nemmeno a lui poteva dire la verità e questo le faceva
più male ancora, se possibile.
«Hala ha chiamato, poco fa, per dire che lei e Baqi stanno
bene e che non dobbiamo preoccuparci. Ma mia nonna non si
arrenderà facilmente, continuerà a cercarli anche
senza l'aiuto della polizia».
«Se hanno detto che stanno bene che senso ha preoccuparsi
tanto?».
Abby si strinse nelle spalle. «Non credo lo faccia per loro,
infatti. È una scusa per tenersi occupata, per non pensare
a...».
«A te», concluse per lei Mark, sporgendosi oltre la
sbarra per stringerle la mano.
«Sta soffrendo molto», la difese, abbassando gli
occhi.
«Stiamo soffrendo tutti. La vita è un'enorme
sofferenza in cui a volte, se siamo fortunati, ci capitano cose
belle».
Abigail alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a
trattenere una risata. «Sei il solito ottimista,
vedo».
«Sai, quando ho scoperto di avere il linfoma di Hodgkin ho
pensato: "Ecco, questo è il momento peggiore della mia vita.
Da qui in poi farà tutto più schifo del solito".
Ma mi sbagliavo. Il cancro mi ha veramente regalato momenti fantastici:
ho conosciuto il mio migliore amico, ho conosciuto te... E tu sei la
cosa più bella che mi sia mai capitata».
Abby aveva le lacrime agli occhi: non si sarebbe mai aspettata una
dichiarazione del genere da parte di Mark, il duro più duro
dell'ospedale. Certo, sapeva che non era veramente così, che
la sua era solo una facciata, però... Ricordava fin troppo
bene com'era stato all'inizio, quando entrambi avevano capito di essere
più che amici: lui non aveva voluto saperne, per paura di
soffrire, e lei gli aveva detto che era stupido, che non potevano
vivere nella paura. Ora che Abby sapeva di essere spacciata, le loro
posizioni si erano decisamente invertite.
«Voglio presentarti alla mia famiglia come la mia
ragazza», esclamò ancora Mark. «Non che
il loro parere mi interessi, ma... voglio che lo sappiano. Voglio che
tutti in questo ospedale sappiano quanto sono fortunato».
«È da pazzi». Abby scosse il capo,
troppo scioccata per dire qualcosa di più articolato.
«Allora sono felice di essere pazzo», rispose Mark,
alzandosi dalla sedia a rotelle per sporgersi su di lei e baciarla
sulle labbra.
***
Alex era andata a casa sua per controllare che fosse tutto a posto e
per riempire un'altra valigia di vestiti e di oggetti personali da
portare da Merlino.
La sua camera ormai era quasi completamente spoglia e tutto le sembrava
così vuoto... Tanto da ricordarle il periodo successivo alla
morte di sua madre.
La sua mancanza si era sempre fatta sentire, nonostante le avesse
provate tutte per colmarla. Aveva raccolto dalla strada il piccolo
Artù, cercando di contrastare la solitudine, ma ora anche
lui se n'era andato. No, in realtà era stata colpa sua: lei
l'aveva lasciato a Keith quando era sotto l'influenza negativa di
Excalibur. Certo, avrebbe sempre potuto riprenderselo, ma non le
sembrava giusto: anche quel micetto aveva bisogno di qualcuno che lo
amasse come meritava e lei, prossima a compiere il proprio destino, non
era la persona adatta.
Dopodiché era andata al supermercato per prendere quello che
Cathleen le aveva scribacchiato su un foglietto e poi, finalmente, era
tornata a casa dello stregone, dove come una brava casalinga aveva
riordinato e fatto partire la lavatrice.
Durante quelle operazioni aveva trovato un quadernetto dalla copertina
di pelle, una delle prime Moleskine forse, e sfogliandolo velocemente
aveva capito che si trattava di una specie di diario, o al massimo di
una biografia. Aveva anche letto di sfuggita il nome di Emrys, ma non
era lui il narratore di quella storia. Quando si era trovata tra i
piedi la fotografia in bianco e nero che ritraeva medici ed infermieri
davanti a quello che sembrava proprio la vecchia versione del suo
ospedale, allora aveva capito tutto quanto: in quella foto c'erano
Louise McTrusty e Merlino, all'epoca dottore, e quel diario era senza
alcun dubbio della donna.
L'aveva rimesso dove l'aveva trovato, decisa a non rivangare il
passato, e aveva finito di pulire, rifiutando persino l'aiuto del
paramedico pur di tenersi impegnata il più a lungo
possibile, fino al ritorno di Merlino e Artù.
Alla fine però la curiosità era stata troppo
forte e aveva ceduto, leggendo pagina dopo pagina col cuore in gola,
tifando per Louise ed Emrys e al contempo tremando di gelosia. Era
stato allora che aveva scoperto chi fosse in realtà Louise,
una verità così scioccante che si era ritrovata
con le lacrime agli occhi, le gambe strette al petto e il diario
abbandonato sul letto di Merlino.
Era rimasta lì rannicchiata a lungo, chiedendosi come
potesse Merlino essere sopravvissuto ad una cosa del genere, con che
forza ogni giorno si recasse all'ospedale e guardasse Abby,
così simile alla donna che aveva tanto amato.
Aveva perso la cognizione del tempo e a riportarla alla
realtà fu proprio il mago, il quale bussò piano
sullo stipite della porta aperta per annunciarsi.
«Ehi... Cath ha detto che sei qui da sola da ore. Che
cos'è successo?».
Ma la bionda non dovette rispondere, perché lo sguardo di
Merlino cadde sul diario.
«Alex, non...».
«Perché non me l'hai detto?», gli chiese
con la voce ancora nasale per via del pianto e lo sguardo invece fiero,
coraggioso. «Sapevo che Louise era stata l'ultima tua storia
importante, ma... ma questo».
«Era proprio quello che cercavo di evitare»,
confessò lo stregone, abbassando il capo. «Sai,
è facile dire: "Sei immortale, wow, che figata". Ma non
è così... Fino ad ora non credo che tu ci abbia
mai dato la giusta importanza, non ti eri pienamente resa conto di
ciò che sono: un essere che ha vissuto più di
millequattrocento anni. Ho visto coi miei occhi cose che gli storici
pagherebbero oro per conoscere, ho sentito i primi vagiti e gli ultimi
respiri di così tante persone... e ci ho provato a starmene
da solo, a non affezionarmi a nessuno, sapendo che prima o poi avrei
dovuto dirgli addio, ma è impossibile. Gli esseri umani non
sono fatti per stare da soli. E Louise... Louise ha buttato
giù ogni mia barriera. Ero così stanco e lei
così... viva».
Merlino abbozzò un sorriso e si sedette di traverso ai piedi
del letto, prese la fotografia tra le mani e ne accarezzò un
angolo.
«Era così intelligente, generosa, forte... Non
aveva paura di niente. Abby le assomiglia moltissimo ed è un
vero peccato che non si siano mai conosciute».
«Se fosse ancora viva, avrebbe quasi cento anni»,
fece il conto Alex.
«E invece è morta nel 2002».
«Tu... tu eri con lei?».
Merlino infilò la fotografia nel diario, evitando il suo
sguardo, ed annuì con un cenno del capo. «Nessuno
della sua famiglia la andava mai a trovare in quell'ospizio, nemmeno i
suoi figli».
«La signora Chapman...». Alex sgranò un
po' gli occhi ed incrociò le gambe, sporgendosi verso di
lui. «È per questo che l'hai sempre evitata. Tu...
tu sapevi perfettamente chi era Abby quando l'abbiamo conosciuta. Lei
lo sa?».
Il mago annuì di nuovo, in silenzio. Alzò gli
occhi per incrociare quelli dell'infermiera e timidamente le chiese:
«A che cosa stai pensando?».
«Non lo so, io... Abby poteva essere la tua
pronipote». Alex si strinse nelle spalle. «Come fai
a convivere con tutto questo?».
Merlino le rivolse un sorriso venato di tristezza. «Non posso
fare altrimenti. Ti sembrerà insensibile da parte mia, ma la
vita va avanti comunque: puoi decidere di restare fermo oppure cercare
di fare ancora qualcosa di buono. Sono rimasto fermo troppo a
lungo, dopo la morte di Louise. Sono rimasto fermo fino a quando non ti
sei avvicinata a me, sotto quel diluvio, per darmi il tuo
ombrello».
Alex sentì nuove lacrime pungerle gli occhi e fece del suo
meglio per ricacciarle indietro.
«Tu hai risvegliato la mia voglia di vivere, di lottare per
ciò che abbiamo di più caro. E non ti ho mai
raccontato di Louise perché non volevo che tu pensassi che
fossi un rimpiazzo: non lo sei, Alex; non lo sei mai stata. Non so dire
se l'amore che provo per te è lo stesso che provavo per
Louise, ma di una cosa sono certo: ora ci sei tu al mio fianco e ti
terrò stretta, finché tu lo vorrai».
A quel punto Alex era così confusa ed emotivamente fragile
che non riuscì più a controllarsi:
lasciò che le lacrime le scorressero libere sulle guance e
si gettò tra le braccia del mago, il quale la strinse forte
a sé e la cullò fino a quando non parve calmarsi.
Allora le prese il volto tra le mani per asciugarlo e dopo averle
sistemato i capelli dietro le orecchie infilò una mano nella
tasca della felpa per tirare fuori un cofanetto di velluto rosso. Lo
riconobbe all'istante, come riconobbe l'anello all'interno: un semplice
cerchio d'oro e un piccolo rubino, un solitario diverso e particolare,
proprio come la donna a cui era stato regalato - sua madre.
Alex boccheggiò, sentendo i polmoni andarle in fiamme, e
sollevando gli occhi incrociò quelli di Artù e
Cathleen, fermi sulla porta. Da quanto tempo erano lì?
«Qualche tempo fa mi dissi che se dovevo chiederti di
sposarti dovevo farlo perché avevo tutte le intenzioni di
continuare a vivere, di invecchiare ancora con te. Alexandra
Greenwood-Pendragon, vuoi combattere il destino al mio fianco, come
marito e moglie?».
L'infermiera rischiò di annegare negli occhi azzurri di
Merlino, nei propri sensi di colpa e nelle insicurezze. Quella mattina
si era detta che avrebbe tenuto fede alla propria promessa di sposarlo,
ma in quel momento, dopo la storia di Louise...
Alzò lo sguardo ed incrociò ancora una volta
quello di Cathleen, la quale sgranò un poco gli occhi e le
fece segno di dire quel maledetto sì. Alex però
non ci riuscì, ricordando ciò che le aveva detto
dopo che si era confidata: essere marito e moglie comportava essere
sinceri l'uno con l'altra, sempre, e lei aveva un paio di segreti che
ancora non era riuscita a confessargli.
«Alex, ti senti bene?», le domandò
Merlino, apprensivo.
No, non stava affatto bene. Era così disgustata da se stessa
che probabilmente fu quella la causa per cui sentì il pranzo
risalirle lungo l'esofago e dovette scansare prima Merlino e poi
Artù e Cathleen per fiondarsi in bagno e rimettere.
Merlino chiuse il cofanetto con uno schiocco e lo strinse tra le mani,
lo sguardo fissò di fronte a sé.
«Io... io vado a vedere come sta Alex»,
sussurrò Cathleen, dando una pacca sul sedere ad
Artù perché raggiungesse il mago e lo confortasse.
Il re di Camelot si avvicinò incerto, con le mani nelle
tasche della tuta, e quando fu seduto al suo fianco esclamò:
«Sono sicuro che non stia vomitando per la tua
proposta».
Merlino gli rivolse un'occhiata tagliente, tanto intimidatoria che per
un attimo ebbe paura di venire scagliato dall'altra parte della stanza.
Cathleen bussò e non ricevendo alcuna risposta si
azzardò ad entrare in bagno, dove trovò Alex
intenta a tirare lo sciacquone.
«Non voglio parlarne», mormorò ancor
prima che potesse aprire bocca.
I lineamenti del paramedico si indurino. «Ah no? Molto
comodo».
«Non voglio parlarne ora»,
specificò allora l'infermiera, chinandosi sul lavandino per
lavarsi il viso.
Cathleen però non mollò e si avvicinò
tanto da comparire nello specchio insieme alla bionda.
«Ascoltami. Ascoltami attentamente, okay? Nella situazione in
cui siamo, non puoi sprecare un solo secondo. Voglio dire... domani
potrebbe essere tutto finito, per quello che ne sappiamo! Tu ami
Merlino, lo so. E lui ama te, alla follia, perciò digli la
verità su Darrell, o qualsiasi cosa ti abbia impedito di
dire di sì, e poi sposatevi. Te ne pentirai per tutta la
vita, altrimenti».
Alex guardò la rossa negli occhi per una dozzina di secondi,
in silenzio, poi la superò ed uscì dal bagno.
Cathleen alzò gli occhi al cielo e sospirò
affranta, seguendola con lo sguardo fino a quando non corse
giù per le scale.
***
Merlino non sapeva proprio cosa pensare. Insomma... era stata lei alla
fine di chiedergli di sposarlo. Che ci avesse ripensato? Dopo tutto
quello che era successo, dopo tutto quello che aveva scoperto, non
l'avrebbe biasimata se avesse cambiato idea. Nemmeno lui si sarebbe mai
sposato se avesse ragionato con la testa anziché col cuore.
Il sole stava calando e se volevano recuperare Excalibur dovevano farlo
prima dell'arrivo del buio, sfruttando il fatto che durante le ore di
luce Freya si riposava: essendo stata collegata alla spada per secoli,
era certo che da sveglia avrebbe avvertito maggiormente quello che
avevano in mente.
«Vado a cercare Alex», esclamò allora,
alzandosi da tavola.
Non si era nemmeno presentata a cena.
«Non credi che dovresti... darle un po' di
spazio?», gli chiese Artù.
Merlino lo fissò con un sorriso appena accennato sulle
labbra. «Apprezzo lo sforzo, ma so come prendere voi
Pendragon».
Prima di uscire dalla porta finestra che dava sulla veranda,
esclamò: «Ci vediamo tra venti minuti
alla caverna di cristallo».
Merlino si inoltrò nella foresta e non fu difficile seguire
le tracce lasciate da Alex. Da giovane era stato una frana a caccia, ma
nel corso degli anni e grazie agli insegnamenti di Artù era
migliorato. Anzi, era stato proprio grazie ai suoi insegnamenti se
più di una volta non era morto di fame.
Scorse Alex addossata contro il tronco di un albero che dava su una
leggera pendenza, con una balestra tra le mani, puntata verso un
coniglietto ritardatario. Da dietro, con i capelli legati
perché non la infastidissero, sembrava la copia femminile di
Artù. Ricordava quanto il solo ed unico re si imbestialiva
quando a causa della sua imbranataggine faceva scappare tutte le prede,
ma decise di correre ugualmente il rischio: pestò di
proposito un ramo secco e Alex sobbalzò, per poi voltarsi di
scatto e puntargli contro la balestra.
«Sono solo io», disse Merlino, alzando le braccia.
L'infermiera-cacciatrice rilassò le spalle e
sospirò, quindi si sistemò la balestra sulla
schiena e porse una mano allo stregone, il quale l'afferrò
senza esitazione.
«Dove andiamo?», le domandò, lasciandosi
guidare giù dalla pendenza.
«Sei venuto a dirmi che dobbiamo andare a prendere Excalibur,
giusto?», gli domandò, ma non attese la sua
risposta. «Non voglio che la spada influenzi i miei pensieri,
perciò è meglio se parliamo ora».
«Alex, non devi giustificarti...»,
iniziò a dire Merlino, ma la ragazza si voltò di
scatto e si ritrovarono a guardarsi negli occhi ad una distanza davvero
minima, coi loro nasi che si sfioravano e le labbra ad un soffio da
quelle dell'altro.
«Stai zitto, Merlino».
«Lo sai che tutte le volte che me lo dici mi viene in mente
Artù, vero?».
L'infermiera abbozzò un sorriso e riprese a camminare, fino
a quando non giunsero in una specie di gola, dove su entrambi i lati si
ergevano pareti rocciose ricoperte di felci e muschio. Un luogo
perfetto per un'imboscata.
Lì Alexandra aveva composto un cerchio con delle pietre e
aveva raccolto diversi rami secchi. Quando realizzò che
voleva accendere un fuoco, Merlino si sentì tremare le
ginocchia: le conversazioni più importanti e profonde della
sua vita si erano svolte davanti alle fiamme scoppiettanti di un
falò, tra cui la sua confessione ad Artù.
Perso com'era nei ricordi, non aveva nemmeno fatto in tempo a chiederle
se aveva bisogno di aiuto. Ma d'altronde aveva anche dimenticato che
ora esistevano gli accendini.
Alex gli fece segno di sedersi al suo fianco, su un telo che doveva
aver preso dal fienile e che aveva sistemato davanti ad un paio di
rocce lisce.
«Mi dispiace per come mi sono comportata oggi
pomeriggio», esordì l'infermiera, gli occhi fissi
sulle lingue di fuoco e le ginocchia strette al petto.
«È solo che la tua storia con
Louise...».
«Forse farti la proposta ufficiale in quel momento non
è stata un'idea così brillante»,
commentò Merlino, facendola sorridere.
«E poi l'anello di mia madre... Come l'hai avuto?».
«Tuo padre. Gli ho confessato che avevamo intenzione di
sposarci, che volevo la sua benedizione e lui... lui ha fatto molto di
più». Tirò fuori il cofanetto, ormai
con lui ovunque andasse, e ne accarezzò il velluto rosso.
«Ce l'ho da un paio di settimane, ma non sono mai riuscito a
dartelo prima perché anche io sono stato sul punto di
tirarmi indietro. Il diario di Louise era a casa della signora Chapman
e sono stati Hala e Baqi a riportarlo qui, a farlo leggere a Abby. Ho
dovuto raccontarle tutta la storia e rivivere quegli anni mi ha
sopraffatto. Pensavo di non poterti più sposare, di fare un
torto a te oltre che a Louise, ma poi Artù mi ha riportato
in carreggiata. Il fatto è che è una tua scelta,
Alex. Io sono quello che sono e il mio passato non posso cambiarlo.
Posso però... possiamo decidere che cosa fare del nostro
futuro».
Alex sorrise commossa, ma quella volta non versò lacrime.
Concedendosi un respiro profondo, disse: «Mia madre ha sempre
creduto nelle anime gemelle. Io ero scettica a riguardo. Lo
sono stata fino a quando non ho conosciuto te, a quella festa di
Capodanno. Quando i nostri sguardi si sono incrociati... non c'era
più nessun'altro per me. Tu sei la mia anima gemella, ne
sono certa. Ed è per questo che non capisco come possa
essere successo...».
Merlino corrugò la fronte, sentendo il proprio vecchio cuore
iniziare a battere più forte nel petto. «Che
cosa?».
«Io ho... ho provato qualcosa per Darrell»,
confessò, sentendosi più leggera nel momento
stesso in cui diede fiato a quelle parole per troppo tempo trattenute.
Accorgendosi dello sguardo perplesso di Merlino, si affrettò
ad aggiungere: «Attrazione fisica, tutto qui».
«Wow. Cioè... Ammetto che è un bel
ragazzo», disse alla fine.
«Merlino! Sii serio».
Lo stregone scrollò le spalle, lasciando che un sorriso
affiorasse sulle sue labbra. «Potrei fargli bere una pozione
che lo faccia diventare calvo, o con le pustole...».
Alex era a dir poco sconcertata. «Stai dicendo che... che
saresti disposto a questo pur di toglierlo dall'equazione?».
«Certo», rispose il mago, fissandola di nuovo con
la fronte corrugata. «Come pensavi che avrei
reagito?».
«Pensavo che tu... che sapendolo mi avresti spinta tra le sue
braccia, ritenendo che fosse meglio per entrambi».
Merlino capiva il suo punto di vista: aveva passato così
tanto tempo a sminuirsi, a dirsi che la propria felicità non
contava, che doveva tenere le persone lontane per la loro di
felicità... L'aveva fatto anche con Alex, per anni, ma non
era più disposto a vivere una vita di solutidine per colpa
dei custodi della magia e dei loro piani.
«Sei stata tu a farmi cambiare idea», le rispose
alla fine. «E non ho intenzione di spingerti nelle braccia di
nessun altro, solo nelle mie».
Alex venne sopraffatta da Merlino, il quale si era sporto su di lei e
l'aveva baciata appassionatamente, prendendola per i fianchi come a
sottolinearne il possesso.
Erano stesi pericolosamente vicini al fuoco ma Alex non lo sentiva
nemmeno, a causa di quello che le bruciava di nuovo dentro: il fuoco
dell'amore.
Ecco cos'era, ecco perché si era infatuata di Darrell: non
si sentiva abbastanza desiderata, i fatti e le scoperte dell'ultimo
periodo avevano spento la passione che provava per lo stregone, e lei
l'aveva cercata altrove fantasticando sull'agente Fisher, tutt'altro
che la sua anima gemella.
«Sappi che non vi farò più stare nella
stessa stanza», le mormorò Merlino all'orecchio,
mentre le sbottonava i jeans. «E che ti punirò, se
ti sorprenderò a guardarlo».
Alex rise, sapendo che Merlino non sarebbe mai stato in grado di fare
una cosa del genere, proprio come lei non sarebbe mai stata in grado di
uccidere un coniglietto con una balestra.
«Se le punizioni saranno così, allora non
farò altro che guardarlo», rispose con lo stesso
tono, seguendo Merlino con lo sguardo mentre scivolava con la lingua
sul suo addome, girava intorno all'imbelico e raggiungeva la sua
intimità.
Alex inarcò la schiena e si aggrappò al telo,
cercando di non gemere troppo forte per non spaventare tutti gli
animali della foresta.
«Comunque voglio diventare tua moglie»,
riuscì a dire ad un tratto.
Merlino alzò il capo, gli occhi luminosi di
felicità. «Davvero?».
Alex rise e puntellandosi su un gomito lo prese per i capelli e lo
riportò a fare quello che stava facendo tra le sue gambe,
rispondendo: «Sì, stupid- oooh!».
***
«Ma dove sono finiti quei due?»,
borbottò Cathleen, camminando nervosamente di fronte ad
Artù, il quale da una decina di minuti aveva iniziato a
guardarla e a pensare ad un modo con cui farle la domanda che gli
ronzava in testa da un paio di giorni e che ora più che mai,
vista la situazione di Merlino e Alex, gli bussava alle pareti del
cranio, desiderosa di uscire.
«Dagli un altro po' di tempo», rispose,
stringendosi le mani. «Torna a sederti».
Il paramedico sbuffò e lo raggiunse, ma anziché
sedersi al suo fianco sulla roccia piatta che quasi faceva da panchina
naturale si accomodò per terra, tra le sue ginocchia, in
modo da appoggiare la testa sul suo addome.
Artù divenne rosso come un peperone, ancora destabilizzato
da quell'epoca in cui tutto era permesso, niente era considerato fuori
luogo o impudico.
«Sei strano. Di solito non sopporti i ritardatari»,
esclamò ad un tratto Cathleen, cercando di guardarlo negli
occhi gettando indietro la testa.
«Sapevamo che la loro conversazione sarebbe potuta durare
più del previsto...», tentò di
giustificarsi, ma il paramedico colse la bugia e sorrise furbescamente,
voltandosi e mettendosi sulle ginocchia, così che i loro
volti arrivassero quasi alla stessa altezza.
«Qual è la verità?», gli
chiese, con quella malizia negli occhi che in primo luogo gli aveva
fatto girare la testa. Come se non bastasse, iniziò anche a
giocare col piercing alla lingua, prendendolo tra i denti bianchissimi.
«La verità...», boccheggiò,
trovandosi senza saliva da deglutire.
Cathleen gli infilò le mani tra i capelli, avvicinando
ancora di più il viso al suo. Le loro labbra si sfiorarono
quando gli chiese: «Avanti, non farti pregare».
«Io pensavo... pensavo che potremmo farlo anche
noi».
Il paramedico si accigliò e si allontanò di un
paio di centimetri. «Fare che cosa?».
Artù deviò il suo sguardo, trovandosi in enorme
imbarazzo. Poteva affrontare mostri, eserciti, ma le donne... ah,
sarebbero sempre state il suo tallone di Achille.
«Artù, di cosa stai parl-?».
«Potremmo sposarci anche noi»,
sputò fuori tutto d'un fiato.
Cathleen non disse nulla per un'eternità e quando si mosse
lo fece per alzarsi ed allontanarsi a braccia conserte, dandogli le
spalle.
Il silenzio della rossa lo stava ferendo come milioni di piccoli spilli
infilzati uno dopo l'altro nel suo cuore già provato e
Artù si maledisse per aver aperto bocca. Non avrebbe mai
dovuto venirsene fuori con un'idea così stupida: erano
appena diventati una coppia e sapeva che nel mondo moderno il
matrimonio non era obbligatorio - tanto che avevano già
consumato - però... se avesse avuto davvero una seconda
chance, allora era con Cathleen che voleva trascorrere il resto di
quella sua seconda vita.
Ringraziò il cielo quando sentì dei rumori
provenire da dietro delle rocce e poi scorse Merlino e Alex camminare
verso di loro, mano nella mano e con due sorrisi stupidi sulla faccia.
Sull'anulare sinistro della bionda brillava l'anello di fidanzamento
che era stato di sua madre.
Buffo come loro avessero risolto ogni loro problema mentre lui aveva
appena rischiato di rovinare il suo fragile rapporto con Cathleen.
«Scusate il ritardo», esclamò Alex,
scendendo per prima dalla roccia che aveva usato come scalino.
«Io non mi scuso affatto», replicò
Merlino, seguendola subito dopo ed indicando orgogliosamente ai due il
rubino che le aveva messo al dito.
Cathleen si congratulò con un applauso poco convinto, poi si
avvicinò alla porta blindata della caverna dei cristalli e
disse: «Il sole sta tramontando e abbiamo una spada da tirare
fuori dalla roccia».
Merlino la fissò confuso fino a quando non si
dedicò ad Artù. Quest'ultimo non sapeva come
spiegargli il disastro che aveva combinato, neanche se ne avessero
avuto il tempo.
Alex raggiunse l'entrata e sbloccò i meccanismi come Merlino
le aveva insegnato, mentre i due ancora si lanciavano occhiate
silenziose. L'ex re di Camelot avrebbe davvero voluto che il mago
cancellasse con la magia quei cinque minuti prima del loro arrivo, ma
sapeva fin troppo bene che non sarebbe mai successo.
«Entriamo?», domandò ad un tratto
l'infermiera.
Merlino rinunciò a capire i suoi gesti - non era mai stato
portato - e dopo avergli dato una pacca d'incoraggiamento sulla spalla
raggiunse la sua futura moglie.
Artù chiuse la fila, trovandosi alle spalle di Cathleen; gli
sarebbe bastato allungare una mano per accarezzarle le spalle e la sua
cascata di bellissimi capelli rossi, eppure la sentiva lontanissima.
Rischiò quasi di finirle addosso quando si fermò
di colpo, col fiato mozzato per via dei cristalli azzurri che
illuminavano la grotta. Si fermò in tempo, con le mani
alzate come se intorno a lei ci fosse stato un campo elettromagnetico.
«Questo posto è sempre stato qui?!»,
sussurrò Cathleen col naso all'insù, incredula.
Merlino sorrise, intenerito forse dal poco senso della sua domanda.
«Sì, qui la magia è forte e ha
continuato a vivere».
«È incredibile. Posso...?».
Merlino aprì la bocca, ma non riuscì ad
articolare una risposta. Così fu Alex ad intervenire,
sorridendo gentilmente al paramedico: «Ma certo, fai
pure».
Cathleen alzò un braccio per raggiungere un grappolo di
cristalli e li sfiorò con la punta delle dita, chiuse gli
occhi e dopo qualche secondo li riaprì, con la delusione
dipinta sul viso.
«Pensavo ci fosse un po' di magia anche dentro di
me», spiegò scrollando le spalle.
Artù non riuscì più a resistere e le
posò una mano sulla spalla, sentendo una scossa percorrergli
la pelle fino a raggiungergli il cuore. La rossa si voltò
per guardarlo negli occhi, sulla difensiva.
«A me non dispiace che tu non abbia la magia».
Il suo sguardo divenne ancora più tagliente. Si sottrasse
alla sua presa e bofonchiò: «Grazie
tante», prima di allontanarsi e superare Alex e Merlino, i
quali scossero leggermente il capo nella sua direzione.
Non era quello che voleva dire. O forse sì. In fondo aveva
trascorso metà della sua vita con la paura della magia,
alimentata per anni da suo padre, ed era colpa di esseri magici se
erano in quel pasticcio, perciò era anche comprensibile il
suo sollievo. Quello che però non aveva avuto il tempo di
dire era che per lui era già speciale ed unica, che l'amava
così com'era.
Artù ci rinunciò e a testa bassa li
seguì fino allo stretto cunicolo da cui provenivano i
bagliori dorati di Excalibur, risvegliata dalla presenza di colei che
l'aveva impugnata dopo più di quindici secoli.
La grotta non era grande come la precedente e Artù sentiva
mancargli l'aria ad ogni passo, ma quando fu al cospetto della spada si
sentì subito meglio: il potere che irradiava era davvero
fortissimo.
Guardò Alex avvicinarsi alla roccia sulla riva della falda
come ipnotizzata, con gli occhi sbarrati e il fiato corto.
«Che le prende?», chiese a Merlino, preoccupato.
«Il richiamo della spada», rispose e senza perdere
tempo l'afferrò per un braccio perché i loro
sguardi si incrociassero. Ci volle un po', e diversi schiocchi di dita,
prima che Alex sbattesse le palpebre e tornasse da loro.
«La spada... è così forte».
«Non è più forte di te»,
esclamò Artù, sorprendendo entrambi.
Prese Alex per le spalle e sorridendo chinò un poco il capo
perché i loro sguardi fossero perfettamente allineati.
«Non lasciarti piegare dalla volontà di qualcun
altro, mai».
L'infermiera ricambiò il sorriso e con rinnovata
determinazione tornò a concentrarsi sulla spada. Il bagliore
si intensificò, ma Alex strinse forte i pugni lungo i
fianchi e rimase lucida.
«Merlino?», lo chiamò, allungando una
mano verso l'elsa.
«Sono qui».
«Se dovessi venire sopraffatta...».
«Non succederà, okay? Troveremo un modo per
impedirlo».
Alex guardò lo stregone, poi cercò gli occhi di
Artù e infine quelli di Cathleen. C'erano anche altre
persone che avrebbe voluto accanto in quel momento, per contrastare la
forza di Excalibur con l'affetto dei suoi cari, quindi se li
immaginò: Abby, Mark, suo padre e... l'ombra della donna
misteriosa? Un battito di ciglia ed era scomparsa.
Respirò profondamente ed afferrò l'elsa: un'onda
d'energia magica le attraversò il corpo con la potenza di un
fulmine e la sua testa scattò all'indietro, ma Alex si
batté per dominarla: finalmente avrebbe avuto la
possibilità di capire quanto fossero servite le lezioni
dello stregone.
Pensò a tutto il bene che avrebbe potuto fare, al suo
desiderio di liberare Merlino e Artù da quel destino
ingiusto, di avere una famiglia, di essere felice...
"Puoi avere molto di più", le sussurrò la spada
con voce melliflua, simile a quella di Morgana ma più
metallica.
Alex respinse la magia nera che cercava di corromperla e
sussurrò l'incantesimo su cui si era tanto esercitata,
quindi piantò un piede sulla roccia per fare leva ed
estrasse Excalibur. Per un attimo scorse il suo viso sulla lama
riflettente della spada, dalla parte in cui non vi erano quelle strane
incisioni, e quasi sobbalzò scorgendo le proprie iridi
dorate. L'immagine però cambiò in fretta,
mostrandole il volto di Morgana in corrispondenza del proprio.
Alex quella volta rischiò di perdere davvero la presa
sull'elsa, ma Artù la raggiunse e l'aiutò a
tirare fuori dalla roccia quel che rimaneva di Excalibur. Consapevole
che mai l'avrebbe lasciata cadere, si abbandonò al suo
corpo, stremata, e lasciò che l'oscurità calasse
sui suoi occhi.
Cathleen era risalita verso la superficie mentre Artù e
Merlino si occupavano di una Alex ancora incosciente. «Ho
bisogno di un po' d'aria», aveva detto prima di lasciarli.
«Si riprenderà?», domandò il
re di Camelot, sfiorando il volto della sua sola erede.
«Sì, il suo corpo sta metabolizzando tutta la
magia che ha assorbito», spiegò Merlino.
«La prima volta Alex non sapeva di dover contrastare qualcosa
ed Excalibur non le ha opposto resistenza, si è
semplicemente lasciata raccogliere dal fondo di Avalon».
«Quindi che cosa facciamo?».
Il mago sospirò e si appoggiò alla parete alle
sue spalle, la testa di Alex sulle gambe e una mano ad accarezzarle
teneramente i capelli. «Aspettiamo».
Artù non fu felice di quella risposta, ma anche lui si mise
comodo al fianco dello stregone.
«Che cosa fate?», gli domandò
però quest'ultimo. «Non andate da
Cathleen?».
Il sovrano si massaggiò la fronte. «Non so se
è la cosa giusta da fare».
«Ma che cosa è successo?».
Artù gli fece un riassunto dei suoi ultimi scivoloni e si
sentì ancora una volta così stupido da voler
prendere a testate la parete di roccia dietro di lui. Si
rifiutò di guardare Merlino negli occhi, preferendo fissare
il dito che stava torturando con uno dei suoi anelli.
«Forse sono stato affrettato, ma... Se avessi potuto, avrei
sposato Ginevra ancor prima di diventare re. Ora che non ho niente e
nessuno a vietarmelo, ho pensato...».
«Capisco», lo interruppe il mago. «Ma
Cathleen ha già ricevuto una proposta di matrimonio e poco
dopo ha visto quel sogno andare in frantumi. Presumo che abbia paura
che succeda di nuovo».
«Cosa mi consigli di fare, Merlino?».
Lo stregone abbozzò un sorriso, ripensando a tutti i
consigli che gli aveva dato a Camelot e che puntualmente non aveva
ascoltato. «Beh, credo che ignorare la questione non vi
aiuterà in alcun modo: se quello che provate è
sincero, allora dovreste affrontare l'argomento».
«Come avete fatto tu e Alex questa sera?».
«Proprio così. Alex mi ha spiegato quello che l'ha
frenata e ora siamo a posto. La sincerità è
sempre la soluzione».
Artù annuì brevemente e si alzò usando
la spalla di Merlino come appoggio. Lo stregone aprì la
bocca in un grido muto e il solo ed unico re sorrise, tirandogli anche
un calcetto su uno stinco.
«Vedo che trovate ogni volta modi diversi per dimostrare
gratitudine», bofonchiò, proprio mentre Alex
iniziava a svegliarsi, accartocciando il viso in un'espressione
sofferente.
«Merlino?», lo chiamò con la voce
impastata, sollevando appena una mano.
Lo stregone fece segno ad Artù di andare e si
chinò a baciarle la fronte, sussurrando: «Sono
sempre qui».
Artù lo lasciò a spiegarle cos'era successo e
risalì nella grotta. Sperava davvero che Cathleen fosse
uscita, così da poter respirare un po' d'aria fresca, invece
si era semplicemente seduta nell'angolo rozzamente arredato da Merlino.
«Ehi», esclamò avvicinandosi.
La rossa abbassò gli occhi su di lui e ricambiò
con un semplice cenno del capo, per poi tornare col naso
all'insù, più interessata ai cristalli che a
quello che aveva da dirle.
Artù si schiarì la gola con un finto colpo di
tosse e senza sedersi disse: «Senti, non sono bravo in queste
cose. Esprimere i miei sentimenti... non è proprio il mio
forte. Però non voglio che tu pensi che abbia detto quelle
cose senza averci pensato. Ci ho pensato tanto, Cathleen. E non dico
che dobbiamo farlo ora, o domani, ma se sopravvivremo... io voglio
stare con te».
Cathleen si alzò dalla consumata sedia a sdraio, ma
Artù non ebbe il coraggio di incrociare il suo sguardo:
sapeva che se l'avesse fatto non avrebbe più detto una
parola.
«Ti ho già detto che non avrei mai immaginato di
innamorarmi di nuovo, e che soprattutto non avevo idea di potermi
innamorare di una persona così diversa da Ginevra... Ma tu
sei speciale ed è un dato di fatto: ti amo, così
come sei. Non hai la magia, ma la verità è che
non ti serve: sei la persona più forte e determinata e pazza
e...».
Artù era così impegnato a fissarsi le scarpe e a
parlare a ruota libera che non si era minimamente accorto che Cathleen
si era avvicinata, un passo dopo l'altro. Lo realizzò quando
ormai aveva il suo corpo addosso, le sue braccia allacciate al collo e
la sua bocca sulla propria. Chiuse gli occhi, espirando profondamente
dal naso, e la strinse forte a sé circondandole la vita.
Quando Cathleen si scostò per riprendere fiato, gli
accarezzò le guance ed abbozzò un sorriso
beffardo. «Scusami, sono una stupida».
«Non dire così».
«Dico solo la verità. È che mi hai
ricordato terribilmente Zachary: anche lui ha tirato fuori la proposta
così, come se nulla fosse. E ho pensato... ho pensato che se
non ho mai portato la fede è perché se
n'è andato prima del tempo. Non voglio che succeda un'altra
volta, Artù».
Merlino ci aveva preso, ancora una volta. Lui sì che capiva
le donne!
Il solo ed unico re non poteva prometterle che tutto sarebbe andato per
il meglio, che avrebbero entrambi avuto una seconda chance,
perché non lo sapeva. Si limitò allora a
stringerla forte.
«Giusto questa mattina ho detto ad Alex che non doveva
sprecare neanche un minuto con Merlino e so che risulterò
ipocrita, ma non me la sento. Non potrei sopportarlo, se...».
La voce di Cathleen si incrinò e Artù le
posò un bacio tra i capelli, annuendo.
Merlino e Alex avevano tutte le intenzioni di sposarsi prima della loro
battaglia col destino, o almeno così pensava di aver capito,
ma comprendeva anche la scelta di Cathleen: avrebbe combattuto al suo
fianco, ma non voleva farsi illusioni nel caso in cui le cose fossero
finite male. Non poteva biasimarla.
«Ce la faccio, ce la faccio».
Entrambi sciolsero l'abbraccio e si voltarono sentendo la voce di Alex,
la quale comparve per prima nella caverna di cristallo. Alle sue spalle
Merlino reggeva Excalibur, al sicuro nel suo fodero.
«Come ti senti?», le chiese il paramedico.
Alex sbuffò, ravvivandosi i capelli sul lato destro della
testa. «Come se mi fossi appena fatta una dose. E non di roba
leggera».
«Ti passerà presto», la
rassicurò il mago, posandole una mano alla base della
schiena. Quindi alzò il capo verso Artù,
chiedendogli con un solo movimento di sopracciglia come fosse andata
con Cathleen.
Il biondo abbozzò un sorriso ed annuì col capo in
risposta: avrebbe preferito sentire qualcos'altro dalla rossa, ma non
era colpa sua se aveva già sofferto così tanto
per via del destino. Come portatore di speranza, doveva essere il primo
a credere che insieme sarebbero riusciti a sormontare qualsiasi
ostacolo.
Tutti e quattro uscirono dalla grotta e furono costretti a tirare fuori
le torce per via del buio che rendeva il bosco impraticabile.
«No, aspettate», esclamò Alex, cercando
lo sguardo di Merlino per ottenere la sua approvazione.
«E va bene», rispose questo, intuendo
ciò che voleva fare e cacciando via il senso di inquietudine
che lo assaliva ogni volta che vedeva Alex, la sua normalissima Alex,
praticare la magia. Se era difficile per lui, Artù stava
ancora peggio: il timore che quei poteri quasi illimitati inquinassero
il suo animo gentile, proprio come era successo a Morgana, era tanto da
gelargli il sangue nelle vene.
«Raccogliete dei pezzi di legno», ordinò
l'infermiera e quando tutti e tre ne ebbero uno in mano sorrise
soddisfatta, facendo in modo che le punte di quelle fiaccole di fortuna
si toccassero.
Chiuse gli occhi per trovare la concentrazione e quando li
riaprì i suoi occhi dorati fecero correre un brivido lungo
le spine dorsali di tutti e tre.
« Leohtbora»,
sussurrò e le fiamme arsero all'improvviso sulle punte delle
loro torce, solo che si ingrossarono e si alzarono per almeno mezzo
metro.
«Uoh, uoh, così è troppo!»,
gridò Artù, ma Alex era già andata in
panico.
«Non riesco a fermarle!».
Merlino allungò una mano per prenderle il gomito ed avere la
sua attenzione. «Controlla il battito del tuo cuore, respira
profondamente».
Artù si ritrovò a guardare lo stregone e la sua
erede inspirare ed espirare in sincronia, mentre la torcia che aveva in
mano si stava consumando rapidamente. Troppo rapidamente.
«Adesso immagina di contenere le fiamme. Ce la puoi fare: sei
tu a controllare la magia, non il contrario».
La bionda chiuse di nuovo gli occhi, la fronte corrugata per la
concentrazione, e lentamente le fiamme si abbassarono.
«Bravissima», si congratulò Merlino,
sporgendosi per avvolgerle un braccio intorno alle spalle e baciarla
sulla guancia.
Alex sorrise, ma il suo viso era provato ed imperlato di sudore.
«Non pensavo fosse così difficile
controllarla».
«È solo una questione di allenamento. Hai visto
gli effetti di una magia incontrollata: è molto pericolosa e
poi, cosa più importante, ti consumerebbe».
Artù deglutì a quelle parole, immaginando Alex
avvolta dalle fiamme magiche, e desideroso di cambiare argomento
esclamò: «Torniamo a casa».
Nessuno ebbe da ridire.
***
Abby aveva i crampi allo stomaco da quanto aveva riso. Non trascorreva
una giornata così spensierata da anni e doveva tutto a Mark.
Si accoccolò meglio nell'incavo della sua spalla e gli
accarezzò il petto, in corrispondenza del suo cuore
scalpitante.
«Grazie», sussurrò, sollevando appena il
capo per poterlo guardare negli occhi.
«Oh sì, certo, mia madre ti ha raccontato le cose
più imbarazzanti della mia infanzia e ora mi
ringrazi», la canzonò, fingendosi offeso.
Abby però lo ignorò completamente: fece scivolare
la mano dal suo petto al suo viso e si sporse per baciarlo sulle
labbra.
Se qualcuno fosse entrato nella sua stanza in quel momento, trovandoli
a scambiarsi effusioni su quel letto troppo piccolo per entrambi, si
sarebbero beccati una ramanzina epica. Eppure nessuno dei due ci
pensò.
Per la prima volta in assoluto, Mark osò sfiorarle il seno
da sopra la maglietta e Abby inarcò la schiena per sentirlo
più vicino. Le loro lingue si erano appena sfiorate,
timidamente, quando sentirono un lieve bussare contro il vetro accanto
alla porta. Sobbalzarono e il ragazzino rischiò di cadere
giù dal letto, ma alla fine riuscirono a ricomporsi prima
che la porta si aprisse mostrando un dottor Ellis in jeans e dolcevita.
«Scusate, ho interrotto qualcosa?».
«No! No, assolutamente! Che cosa avrebbe dovuto
interrompere?», farfugliò Mark, rosso come la sua
bandana, mentre scendeva dal letto per sedersi sulla sua sedia a
rotelle.
Abby trattenne a stento una risata e sollevò una mano quando
il ragazzino le augurò la buonanotte. Una volta uscito,
Abigail si abbandonò contro i cuscini e nonostante
l'eccitazione sentì la stanchezza piombarle addosso come
un'incudine.
«Sai, siete proprio una bella coppia»,
esordì Keith, trascinando la sedia di plastica al capezzale
del suo letto.
«Ma?», chiese Abby, notando il suo tono insicuro.
Il medico si strinse nelle spalle. «Non lo so, non pensi che
nelle vostre condizioni...?».
«Abbiamo il cancro e la nostra vita è segnata, ma
per il tempo che abbiamo meritiamo di essere felici».
Il suo ragionamento non faceva una piega e Keith annuì con
un cenno del capo, abbassando gli occhi.
Si comportava in modo strano, ma Abby non gli mise alcuna fretta. Ne
approfittò per chiudere gli occhi e riposare un po'. Quando
li riaprì non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma
Keith era ancora lì, intento a cercare le parole.
«Si tratta di Hala?», gli domandò a
bruciapelo, con voce assonnata.
Gli occhi del dottor Ellis finalmente si mostrarono e quello che vi
vide non le piacque: dolore, delusione, rabbia... Aveva fatto centro.
«Questa mattina ho ricevuto una sua telefonata, ma non ho
fatto in tempo a rispondere. È da allora che provo a
ricontattarla, ma scatta sempre la segreteria».
Abby sospirò e si spimacciò il cuscino sotto la
testa. «Ascolta, Keith... Non devi prenderla sul personale,
okay? Tu non c'entri nulla».
«Di che cosa stai parlando? Dov'è Hala? Lei non se
ne sarebbe mai andata così, di punto in bianco, lasciandosi
tutto alle spalle!».
«Non lo so. Davvero», disse la verità.
Quella era la parte più facile, dopotutto. «Ha
chiamato anche mia nonna questa mattina e le ha detto che lei e Baqi
stanno tornando in Pakistan, a riscoprire le loro origini».
«Ma... ma non ha senso!», balbettò, gli
occhi di ghiaccio sgranati per lo shock.
«Non lo dire a me».
Keith si alzò e ancora una volta Abby si ritrovò
a fissare l'ennesima persona che faceva avanti e indietro davanti al
suo letto. Di quel passo avrebbe avuto un fossato tra lei e la finestra.
«Pensavo che lei fosse quella giusta, quella con cui
ricominciare dopo Alex...».
«Mi dispiace tanto», rispose Abigail ed era
sincera: tutti meritavano una seconda chance, persino Keith.
«C'è qualcosa che proprio non mi torna... Posso
parlare con tua nonna? Devo sapere che cosa le ha detto, le esatte
parole».
La ragazzina annuì. «L'ultima volta che l'ho vista
era in sala comune coi genitori di Mark».
«Grazie. Riposati ora».
Lei l'avrebbe fatto anche prima, se non si fosse trovata nei panni di
Dottor Stranamore. Non glielo disse, si limitò a sorridere e
a salutarlo con un debole cenno della mano. Quindi chiuse gli occhi e
sprofondò tra le braccia di Morfeo, il quale le parve avere
le fattezze di Mark.
***
«Quindi ora che si fa?», domandò
Cathleen ad un tratto, rompendo il silenzio che si era creato in quella
cucina. Seduti ognuno ad un lato del tavolo, fissavano la spada nel suo
fodero: Artù con le mani sotto il mento, Alex tra i capelli
e Merlino davanti alla bocca, intrecciate a mo' di preghiera.
Lo stregone sospirò e guardò la bionda, seduta al
capotavola alla sua sinistra. «Tu come ti senti?».
«Ancora in me», affermò seriamente,
senza distogliere lo sguardo da Excalibur. «Non ho manie di
potere, né voglio distruggere qualcosa».
Merlino la osservò a lungo, poi decise di fare la prova del
nove: «Allora non ti dispiacerà se la tengo
io».
Ancora prima che Merlino potesse sfiorare il fodero, Alex
sfilò la spada ed alzandosi in piedi gliela puntò
contro, gli occhi assottigliati e le labbra arricciate in un ringhio
muto.
«Alexandra!», gridò Artù
alzandosi a sua volta, con le mani protese in avanti.
L'infermiera sbatté le palpebre e tornò in
sé, realizzando ciò stava facendo.
Lasciò cadere la spada sul tavolo e si intrecciò
le mani dietro alla testa, come a volersi arrendere alle manette.
«Non posso oppormi, è troppo forte»,
mugugnò e si lasciò cullare dalle protettive
braccia di Merlino, il quale si era avvicinato per confortarla
nonostante lui stesso avesse bisogno di sentirsi dire che sarebbe
andato tutto bene.
Artù afferrò l'elsa ed osservò il
piatto della spada nel tentativo di scorgerci la stessa magia nera che
permeava il frammento che aveva vicino al cuore. Avrebbe volentieri
assorbito anche quella, se fosse servito ad impedirle di influenzare
Alex.
«Fino a quando Merlino non troverà un modo per
proteggerti, la terrò io», esclamò
ponendola nel suo fodero. Era il minimo che poteva fare.
Alex annuì col capo, anche se i suoi occhi mostravano
chiaramente quanto fosse contrariata. Vederla così in
conflitto era davvero straziante.
«E sei sicuro che non influenzerà te?»,
gli chiese Cathleen, preoccupata.
«Ne dubito», rispose per lui Merlino.
«Excalibur è stata forgiata per lui dal Grande
Drago Kilgharrah e non può ribellarsi alla sua
volontà».
«Ogni volta che nomini il Grande Drago divento
così gelosa che potrei mandarti al Pronto Soccorso, per poi
ricordarmi che dovrei portartici io», bofonchiò il
paramedico, gettandosi i capelli dietro le spalle. «Sei
proprio sicuro che non ci siano più draghi in
circolazione?».
Merlino le rivolse un sorriso triste. «Sì, ne sono
sicuro. Kilgharrah e Aithusa erano gli ultimi della loro specie, come
io sono l'ultimo Signore dei Draghi. Le cose vanno di pari
passo».
«Aspetta un momento». Cathleen si portò
una mano sulla tempia, fissandolo quasi in cagnesco. «Che
vuol dire che sei un Signore dei Draghi? E perché io non ne
sapevo niente?».
Merlino si strinse nelle spalle. «Il mio è un
titolo che non posso più portare. Come potrei essere un
Signore dei Draghi senza draghi?».
«Esattamente come un re senza regno»,
commentò Artù con amarezza.
Cathleen aprì nuovamente la bocca, ben decisa a non cambiare
argomento, ma venne interrotta dall'insistente trillo del campanello.
«Chi può essere a quest'ora?»,
domandò Alex, mentre andava alla porta.
Sbirciò dallo spioncino e fu molto sorpresa di vedere Keith
dall'altra parte. Che cosa ci faceva lì? E perché
sembrava così arrabbiato?
«Allora, chi è?», domandò
Merlino, sporgendosi oltre la soglia della cucina.
Alex lo guardò con la fronte corrugata per la
perplessità. «Keith».
Entrambi rimasero in silenzio, senza sapere che cosa pensare. Alla fine
lo stregone la raggiunse ad aprì la porta al suo posto. Il
dottor Ellis non gli diede nemmeno il tempo di chiedergli il motivo
della sua visita: lo afferrò per la maglietta e gli
tirò un pugno sul viso, sbattendolo contro la parete
dell'ingresso.
«È tutta colpa tua!», gridò,
pronto a colpirlo di nuovo.
Alex però si gettò in mezzo e Keith fu costretto
a fermarsi per non farle del male. Non pensava però che la
ragazza avrebbe risposto all'attacco, tirandogli un calcio sullo sterno
così forte che si ritrovò schiena a terra.
«Che diamine...?», iniziò a domandare
Artù, precipitandosi fuori dalla cucina con Cathleen al
seguito per via del trambusto. Vedendo Merlino accasciato sul pavimento
con una mano sul naso sanguinante, l'ex re di Camelot sentì
la rabbia incendiargli le vene ed affiancò Alex per
continuare il lavoro, ma Cathleen lo prese per le braccia giusto in
tempo.
«Calmiamoci tutti!», gridò il
paramedico, tirando indietro anche Alex. «Si può
sapere che cosa sta succedendo?».
«È colpa di Merlino se Hala se n'è
andata», spiegò allora Keith, il viso ancora
accartocciato dall'ira.
«Di cosa stai parlando?», domandò il
moro, fissando prima la propria mano sporca di sangue e poi gli occhi
gelidi del medico.
«Hala ed io avevamo iniziato a frequentarci, lo sapevi? Tutto
andava a meraviglia, pensavo davvero di poter costruire qualcosa con
lei, ma ancora una volta tu hai mandato tutto a rotoli!».
«Sei fuori strada, Keith», ringhiò Alex,
rischiando di sfuggire alla stretta di Cathleen. Se al suo fianco non
ci fosse stato un Artù dai riflessi pronti si sarebbe
gettata di nuovo contro il dottore.
«Quando ho saputo che Hala se n'era andata lasciandosi tutto
alle spalle ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. Ho
parlato con la signora Chapman e sai cos'ho scoperto? Hala le aveva
detto di essere interessata a Merlino! Questo ovviamente prima che
iniziasse ad uscire con me, ma pensaci un attimo... prima Myra, ora
Hala... perché tutte le donne che si avvicinano a lui ad un
tratto spariscono? C'è qualcosa di sbagliato in
lui!», gridò, alzandosi e puntandogli il dito
contro. «Ascolta Alex, lo so che tu lo ami ed è
difficile, ma credimi: è lui la causa di tutto quello che ci
è capitato! Io ho sbagliato, lo ammetto, ma avevo tutte le
intenzioni di farmi perdonare e se lui non si fosse messo in mezzo a
quest'ora noi due saremmo felicemente sposati! La verità
è che Merlino mi odia, l'ha sempre fatto, e ancora adesso me
la sta facendo pagare!».
Alex si dimenò ancora, tanto che Artù e Cathleen
non riuscirono più a trattenerla. L'infermiera
però strinse i pugni, si avvicinò a Keith e
guardandolo fisso negli occhi sibilò tra i denti:
«Tu mi hai tradita. Per mesi. E se Merlino non si fosse messo
in mezzo a quest'ora avrei un divorzio alle spalle, non solo
perché l'avrei scoperto ma perché tu non sei mai
stato la mia anima gemella. Per quanto riguarda Myra, il motivo per cui
se n'è andata lo sai benissimo: il vostro stupido piano di
vendetta le si è rivoltato contro e non ha potuto sopportare
i sensi di colpa».
«E io non ho mai saputo che Hala era interessata a me. Le
avrò parlato sì e no una volta»,
intervenne Merlino.
Alex avanzò di un altro passo ed intercettando nuovamente lo
sguardo di Keith gli indicò la porta ancora aperta:
«Mi dispiace che tu sia stato scaricato in questo modo, ma la
prossima volta che devi sfogarti con qualcuno, non osare venire a
sputare merda sull'uomo che sposerò».
Keith rimase letteralmente a bocca aperta, mentre sul suo viso
compariva un'espressione sempre più mortificata. Dopo una
dozzina di secondi, abbassò il capo vergognosamente e senza
dire una parola voltò loro le spalle per raggiungere la
lussuosa Mercedes che aveva lasciato nel vialetto sterrato.
Alex non aspettò nemmeno che salisse sull'auto prima di
sbattere la porta e voltarsi verso i suoi amici, i quali la stavano
guardando con ammirazione e un pizzico di timore. La verità
era che non sapevano se quella che avevano visto fosse la loro Alex o
quella influenzata dalla magia nera di Morgana.
Ebbero la loro risposta quando i suoi occhi verdi si riempirono di
dispiacere nel vedere del sangue sul volto di Merlino. Con Keith era
solamente uscita la forza dei Pendragon.
« Dumbo,
stai bene?», gli domandò, infilandosi sotto il suo
braccio per scortarlo al piano superiore e aiutarlo a pulirsi.
Merlino rispose affermativamente e gettò il viso sotto
l'acqua fredda, mentre Alex si sedeva alle sue spalle, sulla tazza del
gabinetto.
«Non è rotto, ma mi uscirà un bel
livido», esclamò guardandosi allo specchio ed
esaminandosi il setto nasale gonfio.
Alex lo ignorò totalmente, chiedendogli invece:
«È vero che non sapevi che Hala era interessata a
te?».
Merlino si asciugò il viso e si voltò per
ricambiare il suo sguardo con espressione divertita. «Mi
stavo giusto domandando quando me l'avresti chiesto. Comunque no, non
ne avevo idea. Ma Hala avrebbe potuto inventarselo, solo per mascherare
il vero motivo per cui faceva tante domande su di me».
L'infermiera soppesò le sue parole, poi scrollò
le spalle e sorrise. «Ah, non importa. Per sua fortuna se
n'è andata e non dovrò farla a fettine con
Excalibur».
«Alex...», l'ammonì il mago, col capo
piegato leggermente a sinistra.
Lei sollevò le mani in segno di resa. «Okay, non
è argomento di battute. Capito».
«Alex! Dobbiamo andare!», gridò Cathleen
dal piano inferiore.
Merlino gettò uno sguardo all'orologio che aveva al polso
per dare ragione al paramedico e si accorse che le lancette si erano
fermate poco dopo le venti, ossia quando Alex si era apprestata a
tirare fuori la spada dalla roccia. Inutile dire che lo
trovò un pessimo segno.
«Devo andare», esclamò Alex, alzandosi
per prendergli il viso tra le mani e stampargli un bacio sulle labbra.
«Ci vediamo a colazione, okay?».
«Okay. Ti accompagno alla porta, nel caso qualcun altro
voglia prendermi a pugni».
«Non ti preoccupare, ti difendo io».
Alex ridacchiò e mano nella mano fecero per tornare di nuovo
in salotto, dove trovarono Artù e Cathleen intenti a
scambiarsi un bacio appassionato.
«Ehi, andateci piano prima che vi esploda il
cuore!», gridò Merlino da metà
scalinata. Artù rispose semplicemente alzando il dito medio,
un'usanza moderna che gli piaceva ogni giorno di più.
«Sarò lì quando ti
sveglierai», lo salutò il paramedico, le guance
arrossate per il desiderio.
«A domani», ricambiò furbescamente
Merlino.
Prima che uscissero con le loro borse appese alle spalle,
Artù si ricordò dell'argomento che non avevano
ancora trattato in presenza di Alex.
«Cathleen, puoi parlarle della gita che pensavamo di
organizzare?».
«Quale gita?», chiese l'infermiera, gettando uno
sguardo in direzione di Merlino.
La rossa le avvolse un braccio intorno alle spalle, costringendola a
procedere lungo il vialetto. «Artù ha avuto
un'idea geniale! Ti spiego mentre andiamo, altrimenti facciamo
tardi».
***
L'ispettore di polizia della Centrale di Newport l'aveva svegliato nel
cuore della notte per richiamarlo in servizio: c'era stato un grave
incidente sul tratto di autostrada che passava per il loro minuscolo
paese, situato tra Caerleon e la stessa Newport, e tutti gli agenti
della zona erano stati chiamati sul posto per dare assistenza ai feriti
e ai loro parenti, per raccogliere le testimonianze oppure per dirigere
il traffico. Ovviamente a lui era toccato l'ultimo incarico.
Faticosamente raggiunse la cucina per prepararsi del caffé
con cui tenersi sveglio e poi andò in bagno, il luogo che
odiava di più della casa da quando aveva visto l'immagine di
Freya nel suo specchio.
Pensava di esserle sfuggito evitando di guardarsi, ma si sbagliava. La
sua voce gli rimbombò forte e chiara nella mente, mentre
tutto intorno a lui mutava: all'improvviso non si trovava
più nel corridoio che collegava la sua camera da letto col
soggiorno, bensì in una foresta rischiarata solo dalla luce
di alcune fiaccole.
"Tu non dovresti essere
sveglio", gli disse, appoggiandosi al tronco di un albero
con una mano.
Darrell sentì distintamente la corteccia dura sotto le dita,
ma si sforzò di tornare alla sua realtà e si rese
conto che ciò che lui stava toccando era una semplice e
liscia parete.
«Mi dispiace, cambio di programma»,
bofonchiò, riprendendo a camminare verso la cucina.
Barcollando raggiunse la credenza e fece per tirare fuori la sua tazza,
ma la coscienza di Freya prese ancora il sopravvento e gli fece perdere
la presa: la tazza si schiantò sulla terra umida, ricoperta
di foglie secche e radici, e nonostante si fosse frantumata in mille
pezzi Darrell sentì solo le parole della druida: "Non possiamo stare svegli
entrambi: torna a dormire".
L'agente si liberò nuovamente della sua presenza
ingombrante, sentendosi sempre più provato, e vide i cocci
della tazza sul pavimento della cucina. Era la sua tazza preferita,
dannazione!
«Non posso», rispose mentre finalmente riusciva a
versarsi del caffé. «Della gente ha bisogno del
mio aiuto. Puoi rimandare a domani i tuoi piani malvagi?».
Freya si addossò contro una parete rocciosa e con voce
affaticata rispose: "I
miei non sono piani malvagi, Darrell. Se nemmeno Alexandra vuole
abbracciare il suo destino, allora lo farò io per lei:
riporterò la magia nel mondo e tutti mi ringrazieranno, un
giorno".
«E come pensi di fare?», le chiese ancora ad alta
voce, rendendosi conto all'improvviso di quanto fosse da pazzi. Dio, se
la sua vicina l'avesse sentito parlare da solo che cosa avrebbe
pensato? «E che cosa c'entrano Jake e gli altri
ragazzi?».
Freya guardò nella loro direzione e anche Darrell
riuscì a vederli: il ragazzo che tutti credevano scomparso,
le due sorelle pel di carota, il senzatetto dai capelli color biondo
pallido e l'acquisto più recente, una ragazza afroamericana
che doveva essere la più grande del gruppo.
"Loro sono il futuro,
Darrell. Presto saprai di che cosa sono capaci".
«E tu scoprirai quello di cui sono capace io»,
replicò con rabbia. «Adesso fatti da parte, ho del
lavoro da sbrigare».
"Ragazzi, c'è
stato un cambio di programma: ci accampiamo qui per la notte",
Freya si rivolse direttamente al suo piccolo esercito. Quindi
tirò fuori un piccolo specchio dalla tasca della giacca e
gli mostrò il proprio viso provato, ma sorridente. "A presto, Darrell".
Il poliziotto sentì il collegamento interrompersi come se
qualcuno avesse appena staccato una spina dal retro del suo cervello e
dopo un breve momento di stordimento sospirò sollevato.
Finì il caffé e una volta indossata la giacca si
chiuse la porta di casa alle spalle.
***
Alex aveva già fatto il giro di ronda, due volte, e Cathleen
non si era ancora fatta viva.
Stava sfogliando una rivista dietro il bancone del ricevimento, in
quella serata finalmente tranquilla nel reparto di oncologia ma
capitata proprio nel momento sbagliato. Nello stato in cui si trovava,
avrebbe dato di tutto per un po' d'azione, per potersi distrarre da
tutto quello che le vorticava nella testa: i suoi timori riguardo a
Excalibur, la scenata di Keith e soprattutto la gita di cui avevano
parlato brevemente in auto.
Come sospettava, Artù aveva pensato di portare i bambini
dell'ospedale, in particolare Abby e Mark, all'agriturismo dei signori
Morris per poter trascorrere una serata diversa al di fuori delle mura
dell'ospedale. Proprio come aveva visto nel suo sogno premonitore. Lo
stesso sogno in cui aveva incontrato per la prima volta la donna
misteriosa che a quel punto non poteva che essere Morgana.
Il trillo che segnalava un'emergenza in una delle camere la fece
scattare in piedi. Se fosse arrivato da quella di Mark e Danilo non
sarebbe stata così preoccupata - loro lo suonavano quasi per
gioco - ma la ragazzina non l'avrebbe mai fatto se non fosse stato
assolutamente necessario. E nelle sue condizioni attuali, voleva dire
che c'erano guai in vista.
Entrò nella stanza insieme ad una collega e trovò
Abby nel bel mezzo di una crisi respiratoria, altrimenti chiamata anche
dispnea - una delle varie conseguenze dell'anemia provocata dalla
leucemia.
«Abby? Abby, siamo qui, sei stata bravissima», la
tranquillizzò Alex, accarezzandole la fronte imperlata di
sudore ed infilandole al dito il pulsiossimetro mentre la collega
correva ad accendere il respiratore.
«Ecco qua», disse ancora Alex, sistemandole sul
naso e la bocca la mascherina con l'ossigeno.
Col viso alzato verso il monitor, notò che il battito
cardiaco non esitava a scendere. Si voltò verso la collega e
le sussurrò: «Vai a chiamare la dottoressa, non
possiamo somministrarle nulla senza la sua approvazione».
«Non sussurrare Alex, ti sento», rantolò
Abigail, portando una mano su quella che teneva la mascherina.
«L'hanno chiamata poco fa dal Pronto Soccorso per
un'emergenza», la informò la collega.
«Per quale motivo? Lei non lavora al Pronto
Soccorso!».
La collega si strinse nelle spalle, leggermente intimorita dal suo
sguardo carico d'astio. «A quanto pare il dottor Ellis non
è venuto al lavoro questa sera».
Alex strinse i denti, giurando che quella volta nessuno l'avrebbe
fermata se per colpa sua fosse successo qualcosa ad Abby.
«Tu chiamala lo stesso!», ordinò,
cacciandola fuori dalla stanza.
Rimaste sole, Alex cercò di ingannare l'attesa parlando con
Abigail: «È proprio una fortuna che questa sera
tua nonna non ci sia. Ti immagini? Avremmo dovuto ricoverare anche lei
per questa sciocchezza».
Abby avrebbe riso, se solo non fosse stata impegnata ad immagazzinare
ogni più piccola particella di ossigeno proveniente dalla
mascherina.
«Ehi, ho sentito che oggi hai fatto la conoscenza ufficiale
dei genitori di Mark», continuò, cercando di
celare il nervosismo: dove diavolo era la dottoressa? Ma soprattutto,
chi diavolo pensava di essere Keith? Solo perché aveva
ricevuto una delusione amorosa allora si sentiva autorizzato a non
presentarsi al lavoro? Quanti anni aveva, quindici?!
«È un passo importante, sai?».
Abby chiuse gli occhi d'ossidiana e una lacrima le sfuggì
dall'angolo di quello sinistro, finendole tra i corti capelli scuri.
«Non posso andarmene ora... Non ho preparato i vostri
messaggi».
«Non te ne andrai ora, non sotto i miei occhi»,
esclamò Alex, lasciandole la mano solo per correre a
prendere una siringa di eritropoietina. Non aveva l'autorizzazione a
somministrargliela, ma non le importava: avrebbe affrontato qualsiasi
conseguenza a cuor leggero se avesse aiutato Abby a superare quella
crisi.
Iniettò il farmaco direttamente nella flebo ed attese che
facesse effetto col cuore in gola, gli occhi fissi sul monitor.
Passarono interi secondi in cui credette di morire, ma alla fine i
parametri si stabilizzarono e Abby tornò a respirare
regolarmente, anche se il viso le rimase pallido e stremato.
Fu allora che entrò la dottoressa, ancora con la cuffietta
da sala operatoria in testa. Esaminò prima le condizioni di
Abby, poi le rivolse un'occhiata e le fece segno di seguirla fuori.
Alex sospirò con un sorriso affranto, pronta a ricevere una
delle peggiori lavate di testa della sua carriera, ma prima di uscire
lasciò una carezza sul volto di Abby, la quale
aprì un poco gli occhi e si tolse la mascherina per
sussurrarle un «Grazie» che le scaldò il
cuore. Sì, non se ne sarebbe mai pentita.
E non le venne nemmeno chiesto di farlo, dato che la dottoressa non si
arrabbiò con lei, anzi le fece i complimenti per la sua
tempestività: certo, per regolamento avrebbe dovuto
aspettarla, ma se lo avesse fatto davvero Abby avrebbe potuto soffrire
conseguenze ancora peggiori.
«Hai il fegato giusto per correre i rischi del mestiere,
Alexandra. Sarai un'ottima dottoressa un giorno», le disse
prima di tornare ad occuparsi della ragazzina.
Alex aveva l'umore così alle stelle che quando finalmente
Cathleen la raggiunse la trovò con un stupido sorriso
dipinto in faccia. Stupido perché, se ne sarebbe accorta
presto, era probabile che non avrebbe mai avuto un futuro come
dottoressa.
«Scusa il ritardo. C'è stato un grave incidente
sulla M4, due morti e sette feriti e... Cosa c'è da
sorridere in quel modo? Sei inquietante».
L'infermiera le fece un breve riassunto di ciò che era
successo e Cathleen si congratulò, certo, ma la maggior
parte della sua attenzione venne catturata dalle condizioni attuali di
Abigail.
«È stabile. Probabilmente oggi si è
stancata troppo».
«Dannazione, non ci daranno mai il permesso di portarla fuori
da qui», mugugnò il paramedico, scura in volto.
Alex perse finalmente il sorriso, ricordando il proprio sogno.
«Come è nata quest'idea?».
«Qualche tempo fa Mark ha confidato ad Artù di
temere che Abby non potesse più uscire dall'ospedale e viste
le sue condizioni pensavamo di farle questo regalo: un giorno di
normalità all'aria aperta. Secondo te abbiamo qualche
possibilità?».
Alex sapeva per certo che l'avrebbero fatto, ma decise di non dirle la
verità. Si strinse nelle spalle e rispose: «Non lo
so, vedremo. Più tardi faccio un tentativo con la
dottoressa, okay?».
Cathleen dovette subodorare qualcosa, ma si limitò ad
annuire.
Stavano tornando ognuna al proprio lavoro, quando il paramedico
esclamò con stizza: «Ah, sai chi non si
è presentato al lavoro questa sera, gettando il Pronto
Soccorso nel caos?».
«Keith. Ho saputo», rispose stringendo i pugni
lungo i fianchi. «E ho tutta l'intenzione di fargli un altro
discorsetto».
Cathleen le rivolse un sorriso quasi perfido, chiamando l'ascensore.
«Questa volta io non ti fermerò!».
***
«Pendragon... Pendragon!».
Artù aprì di scatto gli occhi e tutto
ciò che vide fu una fitta oscurità.
Provò a muoversi, ma non ci riuscì. Allora
provò a gridare aiuto e fu allora che si rese conto di
essere sott'acqua: il freddo l'aveva intorpidito a tal punto da
impedirgli di capire che il motivo per cui in realtà non
poteva muoversi erano le alghe che gli stringevano i polsi e le
caviglie, incatenandolo al fondale melmoso del lago di Avalon.
Chiuse la bocca per non perdere più bolle d'ossigeno e si
guardò intorno, alla ricerca della voce che l'aveva
chiamato. Ad un tratto scorse dei puntini luminescenti avvicinarsi e si
dimenò con più vigore, smuovendo la sabbia nel
tentativo di trovare qualcosa di appuntito con cui tagliare quelle
alghe e risalire verso la superficie.
«Vi avevamo avvertiti, Pendragon».
I puntini luminosi smisero di muoversi freneticamente tra le correnti e
Artù, nonostante non li avesse mai visti prima,
capì che si trattava degli Sidhe, creaturine umanoidi
paragonabili alle fate, solo molto più raccapriccianti e
potenti.
Artù si chiese se anche loro potessero parlare
telepaticamente e dato che non aveva molte altre alternative decise di
provare: "Che cosa volete?".
«Qui non si tratta di noi, ma dell'equilibrio del regno di
Avalon. Emrys ha iniziato qualcosa, quando ha desiderato che l'anima di
Freya non morisse: l'ha resa una custode e i suoi poteri hanno protetto
le porte che separano il regno dei vivi da quello degli spiriti. Il
nostro popolo non può tenerle chiuse ancora a lungo, siamo
troppo vecchi e deboli. Dovete riportare qui Freya al più
presto!».
"E una volta restituita Freya che cosa succederà? Che ne
sarà di me?!"
L'anziano Sidhe iniziò a svanire, avviluppato nella sua
sfera di luce azzurra.
"Rispondimi!"
«Il tuo destino non mi compete, Artù Pendragon.
Noi abbiamo fatto solo quello che ci è stato chiesto di
fare, impedendo al tuo spirito di attraversare le porte di Avalon
perché un giorno potesse tornare a camminare nel regno dei
vivi».
"Chi ve l'ha chiesto?", domandò ancora Artù,
sentendo improvvisamente i suoi polmoni raggrinzirsi per la mancanza
d'aria e i battiti del suo cuore rallentare. Lottò per
rimanere sveglio, per liberarsi da quella sua prigionia, mentre si
ostinava a chiedere chi ci fosse in realtà dietro tutta la
storia del suo ritorno.
Il nugolo di Sidhe rispose quasi in coro, allontanandosi e lasciandosi
dietro solo oscurità: «Colei che vede il passato,
il presente e il futuro; colei che tutti noi serviamo: la Triplice
Dea».
Artù avrebbe voluto rispondere che lui non serviva proprio
nessuno, ma perse i sensi.
«Artù! Artù, svegliatevi!».
Il re prese un'enorme boccata d'ossigeno ancor prima di aprire gli
occhi.
«Artù, state bene?», gli
domandò Merlino, inginocchiandosi al suo fianco con le mani
posate sulla bocca e gli occhi umidi di lacrime.
«C'è mancato così poco...».
Artù fece per mettersi seduto, ma le forze lo abbandonarono
e lasciò ricadere il capo sul cuscino bagnato.
«Che cosa è successo? Ero sul fondo del lago, gli
Sidhe...».
Merlino si alzò per esaminarlo da più vicino,
apprensivo come una madre. «Di che parlate? Avete avuto un
attacco, esattamente come le altre volte. Ho sentito dei lamenti e sono
corso subito, vedete?». Recuperò il prototipo,
dentro il cui cristallo si agitava un agglomerato di magia nera.
Artù si portò le mani sul volto, trovandolo
sudato e freddo tanto quanto le acque di Avalon. «No, io...
Non so se era un sogno o qualcos'altro, ma ero legato sul fondo del
lago e ho parlato con gli Sidhe».
«E che cosa vi hanno detto?».
«Che Avalon ha bisogno di una custode che tenga chiuse le
porte del regno degli spiriti».
Lo stregone si sedette al suo fianco, sospirando stancamente. Si
massaggiò il viso e dopo qualche secondo di silenzio si
gettò rassegnato le mani sulle ginocchia. «Okay,
quindi non solo dobbiamo sventare il piano di Freya, ma dobbiamo
costringerla a tornare ad Avalon per evitare un'invasione di fantasmi.
Come se non avessimo abbastanza problemi...».
«C'è dell'altro», fu costretto a dire
Artù, nonostante non gli facesse piacere infierire.
«Ho provato a chiedere che cosa mi succederà,
ma... l'unica che potrebbe rispondermi è la Triplice Dea.
C'è lei dietro tutto questo, Merlino».
Il mago non sembrò sorpreso e Artù in altre
circostanze si sarebbe arrabbiato, ma era troppo stanco. Il sole non
era ancora sorto fuori dalla finestra, per questo decise di rimandare.
Come se gli avesse appena letto nel pensiero, Merlino si
alzò e gli rimboccò le coperte dicendo:
«Tornate a dormire. Sono qui accanto, se avete
bisogno».
Artù annuì debolmente e si
riaddormentò ancor prima che il moro si fosse socchiuso la
porta alle spalle.
***
«Ciao».
Alex si portò il cellulare all'orecchio destro e si tolse
frettolosamente la sigaretta di bocca per rispondere: «Ehi,
che velocità! Eri già sveglio?».
«Sì, Artù ha avuto un attacco questa
notte e non sono più riuscito a prendere sonno».
«Artù ha avuto un attacco questa notte»,
ripeté l'infermiera, toccando il braccio di Cathleen.
Il paramedico gettò via la sigaretta, nonostante anche lei
l'avesse appena accesa, e le fece segno di avviarsi verso l'auto. Alex
però tirò fuori le chiavi e gliele
lanciò, dicendo: «Inizia ad andare, vi raggiungo
tra un po'».
«Cosa, perché?», domandarono all'unisono
Merlino e Cathleen.
«Artù è già in buone mani.
Io devo occuparmi di una questione in sospeso».
La rossa rinunciò a capire e si allontanò, ma lo
stregone, dall'altro capo del telefono, insistette: «Di che
stai parlando?».
Alex si ravvivò i capelli e scese dalla rampa per
allontanarsi dai colleghi che avrebbero potuto sentire la sua
conversazione.
«Keith... Questa notte era di turno, eppure non si
è presentato. Ho provato a chiamarlo, ma mi
ignora».
«Forse dovresti fare altrettanto, non credi?».
«Mi conosci, sai che non posso farlo».
«Già... Sempre a cercare rogne, voi Pendragon!
Stai attenta, okay?».
Alex abbozzò un sorriso. «Certo. Ah,
Merlino!».
«Dimmi».
«Ho accennato la questione "gita" alla mia caporeparto:
riferirà ai dottori e ci farà sapere. Non
sembrava molto ottimista, visto quello che è
successo...».
«Che cos'è successo?».
«A casa ti racconto, okay?».
«Okay...».
«Ti amo», esclamò Alex e non
aspettò nemmeno la risposta del mago prima di chiudere la
telefonata e, borsa in spalla, incamminarsi verso il quartiere
residenziale della loro minuscola cittadina.
Keith Ellis viveva in una villetta a pochi chilometri dell'ospedale,
dalla facciata bianca e col tetto spiovente dalle tegole blu scuro.
Annesso c'era anche il garage, davanti a cui era parcheggiata la
Mercedes su cui l'aveva visto salire la sera prima.
Sollevata che l'auto fosse ancora lì, aprì il
cancello in legno infilando una mano tra i pali della staccionata ed
iniziò a percorrere il vialetto in ciottolato, quando Keith
in persona uscì dalla porta con una sacca da ginnastica
sulla spalla.
«Alex», esclamò con la fronte aggrottata
per lo stupore. «Che cosa ci fai qui?».
«Non ti sei presentato al lavoro questa notte».
Sul volto di Keith fece la sua comparsa un piccolo e confuso sorriso.
«Ed eri... preoccupata per me?».
«Preoccupata? Piuttosto infuriata!».
L'infermiera si portò le mani sui fianchi e sostenne il suo
sguardo mettendocela tutta per dimostrarsi arrabbiata, ma la
verità era che le sue intenzioni di prenderlo nuovamente a
calci si erano affievolite nel corso delle ultime ore, sostituite
invece dall'apprensione: si era messa nei suoi panni e aveva realizzato
che al suo posto avrebbe probabilmente reagito alla stessa maniera.
«Ascolta... Mi dispiace per ieri sera»,
esordì il dottore, raggiungendola a metà
vialetto. «Non ero in me».
«Già, l'avevo notato. Hai intenzione di andare in
palestra a sfogarti ancora un po'?».
Keith posò gli occhi sulla borsa che Alex stava indicando
con un sorriso sbarazzino sul volto e scosse il capo. «Sto
partendo».
La sorpresa si palesò sul volto dell'infermiera.
«Partendo? E dove vai?».
«A cercare Hala». Il medico le posò
entrambe le mani sulle spalle e ancor prima che potesse replicare
aggiunse: «Lo so che è assurdo, ma devo farlo.
Forse non la troverò, ma almeno farò chiarezza su
di me, su come voglio che sia la mia vita».
Le rivolse un tiepido sorriso, quindi la invitò ad
abbracciarlo. Alex ricambiò la stretta, troppo sconvolta per
fare altro.
«Sarei passato da te tra poco per lasciarti Mr. Palla di
pelo», esclamò mentre la conduceva con
sé verso la porta.
Artù era già nel suo trasportino, che miagolava
triste, e quando l'infermiera ne afferrò il manico
riuscì a chiedere: «Sei sicuro che sia la cosa
giusta? Lasciare tutto?».
«La verità? No, non ne sono sicuro»,
rispose con sincerità. «Ma ci ho pensato molto
e... sai, forse è questo posto ad allontanare le persone. Ho
sempre avuto l'impressione che ci fosse qualcosa di diverso qui...
Forse non è per tutti».
Keith non poteva sapere quanto avesse ragione e Alex preferì
non rivelarglielo. Lo guardò chiudere la porta di casa e poi
consegnarle le chiavi, chiedendole di darle a suo padre quando si
sarebbe precipitato a mettere a ferro e fuoco tutta la città
per dare un senso alle azioni di suo figlio.
Era già seduto dietro il volante, quando Keith le rivolse un
tenero sorriso ed accennando all'anello di fidanzamento le disse:
«Ti auguro tutta la felicità di questo mondo,
Alex; te la meriti».
L'infermiera sollevò la mano libera per salutarlo e quando
fu lontano sollevò il trasportino per guardare negli occhi
il piccolo Artù. Si erano finalmente ritrovati, ma a che
prezzo? La storia con Keith era stata la più intensa che
avesse mai avuto prima di incontrare Merlino e nonostante tutti gli
sbagli, tutto il dolore, ne avrebbe sentito la mancanza. Era stata una
stupida a non dirglielo, soprattutto ora che il loro tempo era agli
sgoccioli e la battaglia contro Freya imminente. Chissà,
forse aveva perso la sua unica occasione per dirgli addio.
Rimuginando su tutto questo, Alex si incamminò verso la
villa di Merlino. Scelse di passare lungo la pista ciclabile che
portava ad Avalon e una volta di fronte alla distesa d'acqua sormontata
dalla solita nebbia, un brivido le corse sotto la pelle.
C'era qualcosa che non andava, in ciò che stava vedendo: la
torre al centro dell'isola era in piedi, a differenza di ciò
che le aveva visto nel suo ultimo sogno. Perché ne aveva
viste solo le rovine e quali sarebbero state le conseguenze?
Ansiosa di scoprirlo, riprese a camminare.
________________________________________________________________
Ciao a tutti! :)
Mi scuso per il ritardo con cui ho postato questo capitolo, perdonatemi!
Grazie a chi ha letto fino a questo punto e a chi riuscirà a
seguire la storia fino alla fine, dato che ormai non manca moltissimo
alla battaglia finale con Freya.
Grazie per il supporto e la pazienza, davvero. Alla prossima!
P.S. I termini e le azioni mediche citate sono il frutto di
informazioni trovate su Wikipedia, perciò mi scuso con tutti
i lavoratori del settore se ho fatto qualche strafalcione.
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 28 *** 28. The darkest hour ***
28. The darkest hour
Cathleen si accarezzò le labbra imbronciate con il pollice
ascoltando ciò che stava avvenendo all'interno del bagno.
Nell'ultima settimana non era la prima volta che lo faceva e infatti
nemmeno Alex fu sorpresa di trovarla con una spalla addossata contro la
parete divisoria tra un WC e l'altro, pronta a riservarle la
più apprensiva delle occhiate.
«Non riesco proprio a capirti», esordì
quella volta, raggiungendola al lavandino a cui si stava lavando le
mani. «Lavori in un fottuto ospedale, perché non
ti fai fare una visita e la facciamo finita?».
«Per quanto mi piacerebbe che tu la smettessi di farti gli
affari miei, la risposta é sempre quella: no,
grazie».
La rossa alzò gli occhi al cielo.
«Perché? Perché,
Gesù?!».
«Ascolta», sbottò Alex, strappando con
rabbia un paio di fazzoletti di carta per asciugarsi le mani.
«Io non sono incinta, okay? Sono un'infermiera, so
riconoscere i sintomi di una gravidanza!».
«Beh, cara la mia infermiera, lasciati dire che li stai
ignorando! E non riesco a capirne il motivo!».
«Ne abbiamo discusso fin troppo», concluse Alex in
tono ferale, tirando a sé la porta per uscire dal bagno.
Cathleen la seguì fuori e fece per dirigersi dalla parte
opposta, ma alla fine ci ripensò e con le mani intorno alla
bocca gridò: «Così non mi lasci altra
scelta!».
La bionda si fermò all'improvviso in mezzo al corridoio e
quando si voltò aveva gli occhi venati di rabbia. L'amica
non si lasciò intimorire - anche se avrebbe dovuto, visto
l'allenamento intensivo a cui si era costretta per arrivare preparata
alla battaglia con Freya - e con determinazione continuò:
«Lo dirò a Merlino. Magari lui saprà
farti ragionare».
Alex la fissò per la dozzina di secondi successivi, poi
abbassò il capo e quando lo rialzò Cathleen
scorse un sorriso mellifluo sulle sue labbra. Questo avrebbe dovuto
farle davvero paura, ma ancora una volta sostenne il suo sguardo e
rimase ferma, attendendo che l'infermiera la raggiungesse.
«Vuoi sapere perché sto ignorando i sintomi? E va
bene», esclamò scrollando le spalle. «La
morte di Steve mi ha distrutta, tanto da farmi giurare che non avrei
mai messo al mondo un figlio. Lo stesso mondo che sta rischiando la
distruzione perché lo stregone immortale che devo sposare ha
lanciato una maledizione che l'ha reso un attira-magia, oltre che una
bomba pronta ad esplodere da un momento all'altro. Ma il bambino non
avrà solo un mago di millequattrocento anni come padre,
avrà anche una strega che discende dalla dinastia Pendragon
come madre, perciò non crescerà come il
più normale dei bambini. Presto dovrò affrontare
Freya e non sarei mai in grado di scendere sul campo di battaglia
sapendo di dover difendere non solo me, ma anche mio figlio. E se mai
sopravviveremo, dovrò affrontare il mio destino e compiere
un sacrificio di cui non ho la più pallida idea solo per via
di una profezia». Alex respirò profondamente per
riprendere fiato e le rivolse un altro sorriso. «Ti vanno
bene come motivazioni?».
Cathleen non riuscì ad articolare una frase di senso
compiuto per via del peso che le era caduto tra capo e collo, un peso
che non doveva essere nemmeno un decimo di quello che doveva sopportare
Alex.
L'infermiera si ritenne comunque soddisfatta e si allontanò
nuovamente lungo il corridoio, senza più guardarsi indietro.
***
«Ciao, volevo solo avvisarti che io e Merlino passiamo a
salutare Abigail prima di tornare a casa».
Artù si fermò in mezzo al parcheggio
dell'ospedale, come se da fermo potesse sentire meglio ciò
che Cathleen, dall'altro capo del telefono, gli stava dicendo.
Merlino aggrottò le sopracciglia per chiedergli
silenziosamente di cosa si trattasse, ma il re si limitò a
ricambiare lo sguardo, serio come poche volte lo era stato in vita sua.
«Cathleen, sei sicura di stare bene? Mi sembri agitata. Okay,
se lo dici tu... A dopo».
«Che succede?», gli chiese il mago non appena
terminò la chiamata.
«Forse mi preoccupo un po' troppo. Siamo tutti stressati
e...», Artù si interruppe e gli rivolse un
sorriso, sventolando una mano come a voler cancellare una lavagna.
«Andiamo da Abby, dai».
Anche lo stregone stava arrivando a livelli di paranoia mai raggiunti
prima di allora, con Alex così esposta alla magia nera di
Morgana.
Come era già successo prima, l'infermiera stava cambiando
sotto i suoi occhi e non c'era nulla di concreto che potesse fare per
impedirlo. Aveva provato a farsi venire in mente un'idea per
contrastarla, ma sommata alla magia di Excalibur era troppo potente per
le sue condizioni attuali. Perciò aveva cercato di stare il
più vicino possibile ad Alex, aiutandola ad incanalare
quella rabbia e quella forza distruttiva in attività meno
dannose in giro per i boschi e la campagna gallesi. L'aveva anche
allenata a lanciare incantesimi di difesa e di attacco, ma c'era sempre
il rischio che ci mettesse troppa energia e saltassero entrambi in
aria.
Era arrivato addirittura a desiderare che Freya si facesse viva il
prima possibile, così da affrontarla una volta per tutte e
successivamente disintossicare Alex. Sempre se fossero riusciti a
batterla, ovviamente.
Merlino si fermò ai piedi delle scale e disse ad
Artù: «Io non ce la faccio, prendo l'ascensore. Ci
vediamo di sopra».
Il re si costrinse a tenere la bocca chiusa ed annuì,
iniziando a salire i gradini mentre il mago attendeva l'apertura delle
porte. Quando finalmente pigiò il tasto per il quarto piano
e l'ascensore stava per muoversi fu costretto ad infilare un piede
fuori per far sì che la signora Chapman potesse salire con
lui. Avrebbe potuto non farlo - si sarebbe risparmiato ulteriore dolore
- ma il cavaliere che era in lui aveva preso il sopravvento.
«Grazie Merlino, sei un tesoro», esordì
l'anziana con un leggero fiatone, sorridendogli.
Il suo viso era sciupato e stanco, completamente diverso da quello che
compariva stampato sul retro delle copertine dei suoi romanzi, e
nonostante il rancore che nutriva nei suoi confronti per non essere
stata accanto a Louise almeno nei suoi ultimi mesi di vita,
provò pena per tutto ciò che stava affrontando.
«Ho sentito dell'uscita che volete organizzare per i
bambini», ruppe il silenzio la donna, stringendo tra le mani
i manici della sua borsa firmata. «Nonostante quello che
dicono i medici, io penso sia una bella idea».
«Davvero?», domandò Merlino, scettico.
«Sì. Sai... Mia madre amava molto gli spazi
aperti. Ricordo che ogni domenica portava me e mio fratello in
bicicletta e facevamo dei bellissimi pick-nick. Quando non è
più stata in grado di badare a se stessa e abbiamo deciso di
affidarla alle cure di una struttura specializzata, ho insistito
perché fosse immersa nel verde. Pensavo che questo l'avrebbe
fatta felice, anche se col senno di poi... avrebbe preferito vedere i
suoi figli. Non ho mai trovato il coraggio di andarla a trovare, di
passeggiare con lei tra i sentieri di quel parco che avevo visto nelle
brochures».
Merlino strinse i pugni lungo i fianchi, chiedendosi perché
quel dannato ascensore ci stesse mettendo tutto quel tempo. A saperlo,
avrebbe rischiato di svenire sulle scale.
Lui conosceva a menadito il parco di cui Daisy parlava: ci aveva speso
le ore, pomeriggi interi a volte. Da solo o in compagnia della sua
Louise dai capelli bianchi, il sorriso dolce e lo sguardo un po' perso,
come la sua memoria inaffidabile. Il suo luogo preferito era il
laghetto con le ninfee.
«Una volta ce l'ho quasi fatta»,
continuò, sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di
capelli che le era sfuggita dallo chignon. «Sono arrivata
alla reception, ho chiesto quale fosse la sua stanza e ho scoperto che
un uomo l'aveva portata a fare una passeggiata. Ho chiesto chi fosse,
ma nessuno ne sapeva molto. Visto che era l'unica persona che andasse a
farle visita avevano sempre chiuso un'occhio a riguardo. All'inizio mi
arrabbiai, dissi che se si fosse trattato di un poco di buono li avrei
denunciati, e andai a cercarla. La trovai davanti ad un laghetto con le
ninfee, seduta sulla sua carrozzina ed avvolta in uno scialle di lana.
Sulla panchina al suo fianco c'era l'uomo misterioso, un vecchio con
dei lunghi capelli bianchi raccolti in una coda e gli occhi gentili.
Sono rimasta alle loro spalle, senza annunciarmi, e li ho guardati
parlare e ridere per non so quanto tempo. Mi sono sentita
così in colpa nei suoi confronti e ancora una volta non sono
riuscita ad andare fino in fondo. Questo è uno dei miei
più grandi rimpianti, insieme a quello di non aver mai
scoperto chi fosse l'uomo che le ha tenuto compagnia».
L'anziana abbassò il capo, ridacchiando. «Scusami,
non so nemmeno perché ti ho raccontato tutto questo. Quello
che volevo dire é che se Abby vuole trascorrere una giornata
all'aperto, come una bambina normale, non sarò di certo io
ad impedirglielo».
Alla fine Merlino aveva smesso di pregare di arrivare al quarto piano.
In effetti, nemmeno quando le porte si aprirono accennò a
volersi muovere da lì.
Forse non aveva analizzato a fondo la situazione, guardandola solo dal
proprio punto di vista. Aveva giudicato Daisy senza conoscere tutta la
storia, senza domandarsi davvero quale fosse il motivo per cui non era
mai andata a far visita a sua madre, usandola come capro espiatorio per
sfogare tutto il proprio dolore.
«Tu non vieni?», gli domandò la nonna di
Abby, guardandolo con cipiglio perplesso.
Lo stregone uscì dall'ascensore e scorse Artù
poco più avanti, in compagnia di Mark. I due gli fecero
segno di raggiungerli, ma Merlino posò di nuovo gli occhi su
Daisy e le chiese: «Se avesse la possibilità di
parlare con quell'uomo, che cosa gli direbbe?».
La signora Chapman fu colta di sorpresa da quella domanda, ma solo per
un attimo. Gli rivolse un sorriso venato di malinconia e unendo le mani
rispose: «Lo ringrazierei per aver fatto quello che io non
sono riuscita a fare: starle accanto fino alla fine».
Merlino si infilò le mani nelle tasche ed annuì
con un breve cenno del capo. «Nonostante tutto... sua madre
non ha mai smesso di volerle bene e l'ha perdonata».
Daisy spalancò la bocca, scioccata dalla sicurezza con cui
aveva pronunciato quella frase. Come poteva saperlo?
Il mago però non le diede il tempo di fargli quella domanda.
Le sorrise e concluse: «È così che
fanno i bravi genitori, no?». Quindi si allontanò
e raggiunse Artù e Mark, sentendosi finalmente libero da una
tenaglia che gli aveva fatto sanguinare il cuore per troppo tempo.
«Salve signora Chapman», la salutò il
ragazzino.
«Ciao tesoro. Stavo giusto dicendo a Merlino che io
darò l'autorizzazione per la gita».
«Ecco, a questo proposito... questa mattina c'è
stata una riunione dei dottori del reparto e da quello che è
trapelato solo Abby non ha avuto il via libera»,
spiegò con espressione demoralizzata.
Daisy gli posò una mano sulla spalla e guardando prima lui e
poi Merlino esclamò con fermezza: «Vado a
verificare questa voce di corridoio. Ci vediamo tra poco nella sua
stanza, va bene?».
I tre fecero come era stato detto loro e andarono da Abigail, la quale
dopo l'ultima crisi aveva bisogno di ossigeno supplementare, inniettato
direttamente nelle sue narici grazie a delle canule trasparenti.
«Ehi, ragazzi», li salutò debolmente,
mettendo da parte il bloc-notes su cui stava scrivendo prima del loro
arrivo. «Non fatevi ingannare da tutti questi macchinari, sto
bene».
Merlino sorrise e portò una sedia accanto al suo letto per
sedersi e prenderle una mano tra le sue. «Non ho mai pensato
il contrario».
«Già... Vallo a dire ai miei dottori. A quanto
pare sarò l'unica ad avere negata l'autorizzazione ad
uscire».
«E chi te l'ha detto?», le chiese Mark,
strabuzzando gli occhi.
Abby prese il cellulare che aveva abbandonato accanto alle gambe,
inarcando entrambe le sopracciglia. «Danilo l'ha scritto sul
gruppo Whatsapp in cui ci sono anche io».
«Se il cancro non lo ammazzerà, lo farò
io prima o poi», sibilò il ragazzino stringendo i
pugni sulle gambe, facendo ridere Abigail.
La risata però si trasformò presto in un violento
attacco di tosse e Artù e Merlino si precipitarono a
sollevarla un po' per aiutarla a respirare meglio. Quando lo
superò, Abby appoggiò il capo contro il petto
dello stregone e sussurrò: «Ho bisogno di una
storia, una col lieto fine».
Merlino alzò gli occhi in quelli di Artù e
silenziosamente entrambi convennero che era una buona idea per
ingannare l'attesa. Lo stregone volle regalare una storia nuova ad
Abigail, una che le infondesse speranza e che le restituisse un po' di
fiducia nel genere umano. Decise di raccontarle la storia di Daegal e,
nonostante fossero passati secoli, il ricordo di quel giovane ragazzo
che credeva di non valere nulla e che in realtà aveva
salvato lui, Artù e tutta Camelot dai complotti di Morgana e
di una Ginevra controllata da quest'ultima, gli fece salire le lacrime
agli occhi.
Stava quasi rischiando di farsi scoprire da Mark, quando la signora
Chapman aprì la porta ed entrò nella stanza,
seguita dalla dottoressa che si occupava di Abby.
«Voglio andare anche io all'agriturismo», disse
subito la ragazzina, guardando la dottoressa con sguardo implorante.
«Mi dispiace tesoro, ma le tue condizioni non sono abbastanza
stabili. Hai bisogno di riposo, di stare qui nel caso in cui dovessi
avere un'altra crisi».
Abby gettò uno sguardo a Merlino, al momento in piedi al suo
fianco, e in labiale gli rivolse delle scuse che lui non
riuscì a contestualizzare fino a quando non la
sentì esclamare: «Merlino e Alex si sposeranno
questo week-end e non posso perdermi il loro matrimonio, per nessuna
ragione al mondo!».
Tutti rimasero senza parole per una dozzina secondi, Merlino compreso.
«Questo... questo non ce l'avevate comunicato»,
disse la dottoressa, riprendendosi per prima. «Potremmo fare
un'eccezione, in questo caso».
Abby strinse forte la mano di Merlino, facendolo rinvenire.
«Sì, noi... non volevamo che lo venisse a sapere
tutto l'ospedale», si giustificò, passandosi una
mano sulla nuca. «Però teniamo tantissimo che Abby
sia presente, visto che sarà la damigella d'onore di
Alex».
Quella volta fu Abigail a rimanere ad occhi sgranati, scioccata.
«Davvero?! Oh mio Dio! Sarò damigella
d'onore!».
Persino la dottoressa sorrise, emozionata dalla sua reazione, e si
avvicinò per farle le sue congratulazioni.
«Riproporrò la tua situazione ai miei colleghi, ma
a questo punto penso proprio che nessuno ti impedirà di
partecipare se è quello che vuoi».
Abby scoppiò in lacrime di gioia e Merlino per primo si
chinò ad abbracciarla.
«Grazie, grazie», gli sussurrò
nell'orecchio, stringendolo forte.
«Te lo meriti».
Quel pomeriggio avevano affrontato già abbastanza emozioni,
perciò Artù e Merlino decisero di lasciarla
riposare. La signora Chapman li seguì fuori dalla stanza per
ringraziare ulteriormente il moro, per ciò che aveva fatto
per sua nipote e per le sue parole a proposito di sua madre.
«Avrei dovuto farlo da tempo», le
confessò, lasciandola ancora una volta senza parole con cui
replicare.
Una volta lontani Artù gli avvolse un braccio tra le spalle
e sospirò. «Non finirò mai di
sorprendermi per quante volte mi hai salvato la vita senza che io me ne
accorgessi», esclamò riferendosi alla storia di
Daegal.
Merlino abbozzò un sorriso. «Eppure non facevo
altro che ripetervelo».
«Pensavo che lo dicessi solo per infastidirmi!»,
replicò, sfregandogli le nocche della mano sul capo.
Lo stregone si dimenò fino a quando non riuscì a
liberarsi, sorridendo felice. Presto però sul suo volto
calò un velo di preoccupazione e il re se ne accorse.
«Che c'è?».
«Pensavo che Alex ed io avremmo deciso insieme la data del
nostro matrimonio e che saremmo stati felici, invece...
Perché nulla va mai come immaginiamo?».
Artù scrollò le spalle. «Sono l'ultima
persona a cui puoi fare questa domanda. Però di una cosa
sono certo: siamo sempre stati bravi ad improvvisare».
Merlino ci pensò su e preferì non portare avanti
quella discussione, dato che persino con tutto l'aiuto della Vista fino
ad allora non era mai riuscito a cambiare il destino. Sperava soltanto
che almeno il giorno del loro matrimonio potessero tutti rilassarsi e
dimenticare la spada di Damocle che pendeva sulle loro teste.
***
Alex chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò respirando
profondamente. Quindi fissò la bottiglia di vetro che aveva
posato su un ceppo di legno a cinquanta metri da lei e protese la mano
destra: il suo unico obiettivo era quello di far esplodere la
bottiglia, eppure la potenza dell'incantesimo fece volare via il ceppo
e intere zolle di terra.
Per l'ennesima volta andò a recuperare il ceppo e a
sostituire la bottiglia per ripetere l'esercizio da capo. Peccato che
avesse l'impressione che ogni tentativo finisse peggio, tante'ra la
rabbia che accumulava insuccesso dopo insuccesso.
Lei ci provava a seguire i consigli di Merlino, ad allontanare i
pensieri negativi, ma iniziava seriamente a dubitare che con la magia
nera che le circolava nelle vene potesse fare quelcosa di buono. Non
era abbastanza forte per convertirla in magia bianca e continuare a
provare era da pazzi.
La voce di Excalibur tornò a stuzzicarle quella parte di
mente infetta, quella che la faceva scattare per ogni piccolo torto od
ingiustizia subita, quella che le impediva di gioire o provare emozioni
in generale, quella che l'aveva costretta a rinfacciare a Cathleen
tutto ciò che stava sopportando in silenzio per il bene
comune. Ormai erano passate ore e nonostante fosse ben consapevole di
doverle delle scuse non riusciva a riprendere il controllo di
sé. Ogni giorno era sempre più difficile e avere
come coinquilina quella spada non l'aiutava.
"Perché
trattieni il tuo potere, Alexandra? Potresti fare così
tanto, se solo ti lasciassi andare!"
Di solito, quando iniziava a sentire la voce, si infilava le cuffie
nelle orecchie, impostava il genere rock ed alzava il volume al
massimo. Il trucco funzionava per un po', fino a quando non le veniva
un mal di testa così doloroso da doversi stordire con i
sedativi che aveva trovato insieme alle scorte di antidolorifici di
Merlino: morfina, ossicodone, fentanyl... un vero e proprio
assortimento che aveva scoperto per caso, mentre cercava di resistere
al potente richiamo di Excalibur.
Adesso che Cathleen l'aveva costretta a dire ad alta voce le parole
"gravidanza" e "bambino" sapeva che non avrebbe mai più
avuto la forza di inghiottire una pillola che avrebbe potuto nuocere al
feto.
Si sedette per terra e guardò verso la cucina, dove colse
Cathleen intenta a spiarla attraverso la finestra. Quando i loro
sguardi si incrociarono la rossa tornò a spignattare come
una forsennata e Alex sospirò nuovamente.
Si sentiva prigioniera del suo stesso corpo, incapace di esprimere
ciò che sentiva veramente, come se la magia nera avesse
costruito una corazza intorno a lei e come una burattinaia malvagia la
costringesse a dire e a fare cose che normalmente non avrebbe mai detto
o fatto. Chissà se anche Morgana si era mai sentita
così, se si fosse trasformata nella psicopatica che tutti
ricordavano perché aveva smesso di lottare, trovando
più facile la resa.
Io non lo farò,
disse chiaro e forte alla voce nella sua testa. Non mi arrenderò.
Fu come se delle catene invisibili fossero appena state allentate,
abbastanza da farla tornare a respirare regolarmente. Alex non se ne
chiese il motivo, colse soltanto l'opportunità e dopo
essersi alzata corse velocemente verso la veranda.
Vedendola arrivare Cathleen si allontanò dai fornelli e la
fissò guardinga, domandandosi che cosa le stesse passando
per la testa. Da come sollevò le braccia a proteggersi la
testa, Alex intuì che mai si sarebbe aspettata di ricevere
un abbraccio.
«Non so per quanto durerà questa tregua, ma voglio
che tu sappia che mi dispiace. Quando faccio la stronza non sono io,
è la magia nera».
Cathleen sospirò sollevata e ricambiò
l'abbraccio, affondando il viso tra i suoi capelli biondi.
«Non sai quanto sono felice di sentirtelo dire».
«È un inferno anche per me, credimi. È
come... come avere un disturbo della personalità».
«E per quanto riguarda la gravidanza?»,
sussurrò, prendendola per le spalle per guardarla negli
occhi.
Alex sentì le catene tornare a stringerle il busto,
impedendo alle parole di uscire dalla sua bocca. Si
concentrò al massimo e tutto ciò che
riuscì a dire con voce strozzata fu: «Su questo
sono d'accordo con la me malvagia. Non posso fare il test, se
risultasse positivo...». E fu di nuovo confinata nella sua
testa.
Si allontanò bruscamente da Cathleen, così che
smettesse di toccarla, e fissandola con astio disse: «Fatti
gli affari tuoi, okay?».
Cathleen abbandonò tristemente le braccia lungo i fianchi ed
abbassò il capo, realizzando che la magia nera aveva di
nuovo preso il sopravvento.
Alex - la Alex buona - avrebbe voluto gridarle ancora che le
dispiaceva, ma le parole le rimbalzarono soltanto nella scatola
cranica, incapaci di uscire. Uscì invece dalla cucina per
tornare in giardino, dove tornò a far esplodere bottiglie.
***
Cathleen adorava Alex - quella buona - e soffriva terribilmente quando
doveva avere a che fare con la sua gemella cattiva, perciò
non riusciva nemmeno ad immaginare ciò che stava passando
Merlino. Si era all'improvviso ritrovato fidanzato con una donna
diversa e doveva pure parlarle del loro matrimonio! Abby aveva
anticipato tutto a quel week-end e c'erano un sacco di preparativi da
fare, un mucchio di dettagli da definire, e la Alex priva di sentimenti
era difficile da guardare negli occhi, figuriamoci parlarle di fiori e
torte nuziali.
La cena si era svolta nel più imbarazzante dei silenzi e
anche se in un paio di occasioni Merlino aveva fatto cenno a voler
aprire l'argomento alla fine aveva rinunciato, tornando a fissare il
piatto di pollo, carotine e piselli che aveva davanti.
Una volta finito, Alex si alzò e senza dire nulla
uscì in veranda per fumarsi una sigaretta. Merlino si
coprì il volto con le mani e ne approfittò per
mugugnare: «Non ce la faccio, non ci riesco».
«Ehi», esclamò Cathleen, accarezzandogli
un braccio. «Non puoi rinunciare così, okay? Lei
è lì dentro, ti sente e ti vede. Come la
prenderebbe, se capisse che ti stai arrendendo senza nemmeno
lottare?».
«Diventerebbe peggio della Alex cattiva, ecco
cosa», rispose Artù per lui, portandosi alla bocca
uno spicchio di mela.
Merlino li fissò entrambi, con un'espressione talmente
sperduta da fare persino tenerezza. Il paramedico gli diede un altro
buffetto sul braccio e gli sorrise incoraggiante.
«Vai a parlarle, avanti. Convincila a ribellarsi».
Il mago si fece coraggio e si alzò da tavola per
raggiungerla in veranda.
Cathleen invece impilò i piatti per portarli al lavello, ma
prima che potesse allontanarsi Artù l'afferrò per
un polso e la costrinse a tornare seduta. Quindi fissò gli
occhi blu in quelli castani di lei e pronunciò una sola
parola, ma con enfasi e serietà: «Dimmi».
«Dirti che cosa?», replicò, a disagio.
Non le piaceva mentire, specialmente non le piaceva mentire ad
Artù, l'unico uomo con cui fosse riuscita ad essere sincera
su tutto: Zachary, la sua famiglia, le sue paure.
«Prima, quando ti ho chiamata dall'ospedale, mi sei sembrata
strana. Penso che sia successo qualcosa con Alex e voglio sapere di
cosa si tratta».
La rossa aprì e richiuse la bocca più volte, come
un pesce fuor d'acqua, incredula dalla sua perspicacia. Dimenticava
sempre che era stato il re che aveva unito la Gran Bretagna, anche se
spesso e volentieri non era stato in grado di vedere i complotti e i
traditori che aveva sotto il naso. Artù era semplicemente
troppo buono, tanto da riporre la propria fiducia nelle persone
sbagliate, persone che si erano approfittate di lui per i loro scopi.
Cathleen non voleva far parte di quella lista, ma si trattava di Alex e
non voleva nemmeno tradire la sua di fiducia, perciò...
Si portò le mani tra i capelli, lasciando che le cadessero
sul viso come una tenda. «Mi dispiace, io... non posso
parlartene».
Artù si avvicinò ancora un po' di più
con la sedia, tanto da toccarle le ginocchia con le proprie, e le
spostò i capelli per raggiungere il suo mento e sollevarle
il viso.
«Guardami negli occhi, Cathleen».
Il paramedico obbedì, sentendosi così in colpa da
mordersi le labbra.
«Devo preoccuparmi?», le domandò.
«No. No, è tutto sotto controllo. Il fatto
è che non spetta a me dirtelo».
L'ex sovrano guardò Alex, in quel momento intenta a
ricambiare lo sguardo di Merlino senza alcuna espressione sul viso, e
sospirando le rivolse un tenue sorriso.
«Va bene. Mi fido di te».
Gli strinse forte le braccia intorno al collo, accarezzandogli i
capelli biondi con una mano, e chiudendo forte gli occhi
sussurrò: «Grazie. Grazie di cuore».
Artù sciolse per primo l'abbraccio per prenderle il volto
tra le mani e, posando la fronte contro la sua, mormorare:
«Ti amo, Cathleen».
«Anche io. Anche io ti amo, sei la prova che i miracoli
esistono e sai... ho pensato e ripensato alla tua
proposta...».
«Shhh, non c'è bisogno di ritirare fuori quella
storia adesso».
«Non fare shhh a me, Artù», lo
ammonì, posando l'indice sulla punta del suo naso. Per un
attimo gli occhi del re si incrociarono, facendola sorridere, ma la
serietà del discorso la riportò presto in
carreggiata. «So che per te il matrimonio è il
vincolo più sacro che esista, ma sappi che per me
è come se fossimo già un po' sposati».
Intrecciò le dita delle loro mani e le guardò
teneramente, portandosele poi ai lati del viso. «È
con te che voglio la mia seconda chance, okay? Te e nessun altro. E
farò di tutto perché il destino non ci strappi
anche questo sogno».
Artù ricambiò il sorriso e le posò un
lieve bacio sulle labbra, lasciandola poi libera di andare a mettere i
piatti a bagno.
***
Alex avrebbe voluto piangere ogni sua lacrima, ma sapeva fin troppo
bene che non sarebbe mai successo. Era tutto il giorno che lottava per
resistere al richiamo di Excalibur ed era esausta, ma sapeva che
proprio come per la maggior parte delle assefuazioni le prime
ventiquattr'ore di astinenza erano le peggiori. Aveva assorbito molto
potere nell'ultima settimana e per espellerlo tutto ci sarebbero voluti
giorni, ma sperava lo stesso che lasciando la spada chiusa a chiave
nell'armadio di Artù lei potesse riappropriarsi del suo
corpo e delle sue emozioni, belle o brutte che fossero.
Durante l'intera cena non era riuscita a spiccicare parola, schiacciata
dall'influenza della magia nera, e una volta sola in veranda aveva
cercato di ribellarsi come aveva fatto quel pomeriggio, senza successo.
Ecco perché avrebbe voluto piangere, ecco perché
sarebbe volentieri tornata indietro nel tempo e rischiare di affrontare
Freya senza magia e con una qualsiasi altra spada pur di rimanere se
stessa.
Merlino fece scorrere la porta finestra ed uscì in veranda,
abbozzando un sorriso impacciato nella sua direzione. Se fosse stata al
suo posto - se si fosse trovata davanti alla versione cattiva di
Merlino - probabilmente non avrebbe osato tanto.
«Posso?», le chiese, indicando il posto libero
sulla piccola panca.
Alex non rispose, anche se avrebbe voluto dirgli che doveva sedersi e
stringerla forte tra le braccia, tanto forte da soffocarla o almeno
farle perdere i sensi.
Lo stregone si sedette e coi gomiti puntati sulle cosce unì
le mani sotto il mento, lo sguardo fisso verso la stalla di Flash.
Avrebbe pagato milioni per sapere quello a cui stava pensando e
probabilmente li avrebbe gettati via, perché la tristezza
nei suoi occhi era eloquente: era lei il problema, ciò che
lo faceva soffrire tanto. Sapevano a che cosa sarebbero andati incontro
quando avevano deciso di estrarre Excalibur da quella roccia, ma se
avessero anche lontanamente immaginato che si sarebbero sentiti
così lontani l'uno dall'altra...
«Okay, non ci girerò troppo intorno»,
esordì finalmente Merlino, sospirando. «So che
puoi sentirmi, Alex, e voglio che tu sappia che sono terribilmente
dispiaciuto per quello che stai passando. È colpa mia, tutta
colpa mia. Vorrei... vorrei poterti aiutare, ma non so come».
L'infermiera urlò forte, ma l'eco della sua voce rimase
dentro la sua scatola cranica. Merlino non doveva sentirsi in colpa,
aveva deciso lei di andare fino in fondo!
«Ed è un pessimo momento per discuterne, ma non
abbiamo scelta: oggi in ospedale Abby potrebbe aver leggermente
anticipato le nostre nozze. Era l'unica a non aver ricevuto il permesso
per andare all'agriturismo e ha detto alla dottoressa che non poteva
mancare al nostro matrimonio. Quindi... si farà questo
week-end».
Il silenzio che Merlino ricevette sarebbe stato lo stesso anche senza
la magia nera, tant'era lo shock. Era giovedì, il che voleva
dire che al massimo avevano due giorni per organizzare tutto. E lei al
momento era impegnata nel cercare di non finire come Morgana!
«Lo so che non era così che te lo immaginavi,
nemmeno io a dire il vero, ma ormai non possiamo farci molto. Volevo
solo avvisarti e assicurarti che troveremo una soluzione, okay? Voglio
sposare la mia Alex, nessun altro».
Merlino posò timidamente una mano sulla sua, abbandonata in
grembo, e Alex sentì di nuovo l'impellente desiderio di
piangere dal dolore. La sua mano era così vicina al loro
possibile bambino...
«Ehi. Alex, sei tu?».
La bionda sbatté rapidamente le palpebre e sentendole
muoversi ai suoi comandi, sentendo una lacrima scorrerle sul viso, si
voltò di scatto verso Merlino e lo abbracciò
stretto, posando il viso contro il suo petto.
«Sono io», singhiozzò, sollevata e con
così tante cose da dire da non sapere da dove iniziare.
«Non ho molto tempo, perciò non mi interrompere.
Non è colpa tua se mi trovo in questa situazione, non voglio
più sentirtelo dire. Mi dispiace di non essere abbastanza
forte per prendere il controllo, ma ho deciso di stare lontana da
Excalibur per un po'. Dì ad Artù di cambiare
posto alla chiave dell'armadio, mi raccomando».
Merlino sorrise e tirò su col naso, anche lui con gli occhi
lucidi.
«Abby ha fatto bene, sai? Prima di affrontare Freya avremmo
dovuto sposarci comunque e in fondo non importa nemmeno quando o come,
quello che conta è che saremo io e te: è il
nostro matrimonio, dopotutto. E per quel giorno sarò in me,
costi quel che costi».
«Non avrei potuto essere più d'accordo»,
sussurrò lo stregone, posandole un bacio sul capo.
«Ti amo, Alexandra».
Anche io,
rispose, ma le parole le tornarono indietro come un pacco inviato
all'indirizzo sbagliato. Provò e riprovò a
trovare il meccanismo in grado di farle riguadagnare il controllo, ma
non ci riuscì. Fu costretta ad assistere impotente mentre si
liberava dall'abbraccio di Merlino e si alzava per rientrare in casa,
lasciandolo di nuovo sopraffatto dalla tristezza.
***
Sabato
«Sono così emozionata! Insomma, damigella
d'onore!».
«Non me lo ricordare», esclamò Cathleen,
porgendo ad Abby entrambe le mani per aiutarla a salire sul Van che
avevano noleggiato per il trasporto dei bambini all'agriturismo.
«Quel posto era mio prima che Merlino decidesse di darlo a
te. Non spettava nemmeno a lui decidere!».
La ragazzina sorrise furbescamente e salì sul mezzo,
portandosi appresso il carrellino dell'ossigeno. In quei giorni era
notevolmente migliorata, ma pur di evitarsi problemi il giorno del
matrimonio era disposta a tutte le precauzioni possibili.
«Okay, ci siamo tutti?», chiese il paramedico,
capitolando all'interno per contare i bambini e scambiare un sorriso
con la signora Chapman, seduta accanto alla nipote.
«Benissimo, si parte!».
Il viaggio non durò molto, nonostante Cathleen non avesse
mai superato i quaranta chilometri orari per non causare problemi ai
piccoli pazienti.
Ad attenderli alla reception trovarono praticamente tutti: Abraham,
Wanda e Rebecca Morris, Edwin Greenwood, Merlino e Artù.
L'unica grande assente era Alex, la quale era andata a Newport a
ritirare il Versace che Merlino le aveva regalato per il
galà al castello di Windsor e che lei aveva deciso di
trasformare nel suo abito da sposa. Lei lo aveva
deciso, proprio così. A quanto pareva, la distanza che aveva
messo tra se stessa ed Excalibur l'aveva aiutata a liberarsi dalla
presa ferrea della magia nera e ora, ad appena un giorno dal suo
matrimonio, aveva quasi il pieno controllo di sé. Non era
stato affatto facile e Artù ne aveva sofferto più
di tutti, ma alla fine ce l'aveva fatta.
«Benvenuti, è un vero piacere avervi tutti
qui», esclamò la signora Morris, sorridendo
entusiasta. «Vogliamo che vi sentiate come a casa vostra,
quindi...».
«Che diavolo ti è successo
all'occhio?!», la interruppe Mark, per poi scoppiare a ridere
indicando il livido sul volto di Artù, il quale
alzò lo sguardo e sbuffò irritato.
«È una lunga storia», tagliò
corto Merlino. In realtà, oltre che lunga si trattava anche
di una storia impossibile da raccontare, in quanto nessuno avrebbe mai
creduto che a fargli quell'occhio nero fosse stata Alex nel tentativo
di impossessarsi di Excalibur.
Dopo la loro breve chiacchierata in veranda Merlino aveva avvisato il
sovrano della sua decisione e quando quest'ultimo l'aveva beccata nella
sua stanza mentre tentava di scassinare la serratura del suo armadio
aveva subito capito che c'era qualcosa che non andava e doveva
fermarla. La situazione era ben presto degenerata in una colluttazione
in cui Artù non aveva dato tutto se stesso per paura di
farle del male e invece l'Alex cattiva non si era fatta tanti scrupoli.
Alla fine la vera Alex era riuscita a riprendere il controllo e si era
scusata un'infinità di volte, confessando loro che l'ultima
cosa che ricordava era che aveva deciso di andare a riposarsi un po'
prima dell'inizio del turno in ospedale. La scoperta che la magia nera
potesse controllare il suo corpo durante il sonno li aveva spaventati
così tanto che da allora non erano più riusciti a
dormire serenamente.
«Wanda, Abraham, vi ringraziamo ancora per aver permesso
tutto questo», disse Cathleen, togliendo Merlino e
Artù dall'impaccio.
«Come ho già detto, è un piacere. Ora
Rebecca, tesoro, ci daresti la lista con le camere dei nostri
ospiti?», le chiese la madre, per poi rivolgersi di nuovo ai
ragazzini e aggiungere: «I nostri ragazzi qui vi
accompagneranno di sopra, così che possiate sistemarvi e
riposarvi un po'».
«Sono stufo di riposare», esclamò Mark,
trovando d'accordo anche Danilo, Gabriel e persino la piccola Jessica.
Abby scosse il capo, con un sorriso dolce sul viso. Il solito
fomentatore.
La signora Morris, presa in contropiede, si voltò verso il
marito, il quale scrollò le spalle col suo solito aspetto
bonario.
«E va bene, inizieremo subito con le attività che
abbiamo preparato per voi». L'uomo si avvicinò a
Mark e gli prese l'orecchio destro tra le dita, torcendolo un poco.
«Ma non voglio sentire nessuno lamentarsi, è
chiaro?».
«Sissignore!», si concesse un gridolino acuto, per
poi massaggiarsi l'orecchio torturato ed arrossire di fronte allo
sguardo divertito di Abigail.
Cathleen e Merlino spinsero le carrozzine dei più piccoli
fino al montacarichi solitamente usato dal personale di servizio,
mentre Artù si spostò in salotto con la signora
Chapman, Mark, Danilo e Abby, in attesa del loro turno.
Rufus lasciò il suo tranquillo posticino accanto al camino
per avvicinarsi ai ragazzini ed annusare loro le mani. Ci volle poco
perché tornasse a sdraiarsi pancia all'aria sul pavimento in
legno per ricevere le loro carezze.
Artù si chinò dietro la sedia a rotelle di Abby,
in modo da far quasi sfiorare le loro guance, e le sussurrò:
«Sei stranamente silenziosa. Va tutto bene?».
Abby annuì brevemente e quando si voltò verso di
lui si limitò a posargli un lieve bacio sulla guancia. L'ex
sovrano si assicurò che Mark non avesse visto nulla, poi le
rivolse di nuovo la propria attenzione con un sopracciglio inarcato;
quindi aprì la bocca per chiederle il motivo di quel bacio,
ma non ne ebbe il tempo.
«Ehi, il montacarichi è libero»,
esclamò Cathleen, tanto all'improvviso che Artù
sobbalzò un poco, tirandosi su di scatto.
«Ci stanno solo due carrozzine per volta però,
quindi dovremo fare un terzo...», stava spiegando Merlino, ma
quella volta fu lui ad essere interrotto.
«Non c'è problema: la porto io Abby, alla vecchia
maniera».
«Che coooosa?», squittì Mark, diventando
rosso come un peperone mentre guardava il biondo passare un braccio
sotto le ginocchia della sua ragazza e avvolgerle l'altro intorno alla
schiena per sollevarla.
«Su, non devi essere geloso», gli disse Daisy, ma
il modo in cui Abby avvolse il braccio intorno al collo di
Artù (con l'altro teneva la bombola d'ossigeno portatile) e
soprattutto il modo in cui gli sorrise guardandolo negli occhi, rese
nulla ogni tipo di rassicurazione.
Mark si precipitò sul montacarichi e quasi lasciò
fuori Danilo, tanta era stata la furia con cui aveva premuto il tasto
del primo piano.
Nel frattempo una piccola processione seguì Artù
e Abby su per le scale: Merlino con la sedia a rotelle piegata sotto il
braccio, Cathleen con le chiavi delle stanze e Daisy Chapman. Abby
sarebbe stata nella stanza della nonna ovviamente, perciò
una volta in corridoio Cathleen si diresse verso il montacarichi e
Merlino riaprì la carozzina per permettere ad
Artù di lasciarla andare.
«Grazie mille, da qui ci penso io», disse la nonna
sorridendo, ma Abby si voltò più che
poté per guardarla negli occhi.
«Posso stare un momento con Artù, per
favore?».
L'anziana fu così sorpresa dalla sua richiesta che rimase
per qualche secondo in silenzio, a bocca aperta.
«Per favore», insistette Abby e la nonna non
poté far altro che acconsentire con un sorriso incerto.
Aprì la porta della stanza e la tenne aperta per farla
entrare, poi fece cenno ad Artù di seguirla all'interno.
Rimasti soli il re di Camelot ebbe finalmente l'opportunità
di chiederle il perché del suo strano comportamento.
«Che significava quel bacio?».
La ragazzina sorrise e gli fece segno di sedersi sul letto, quindi con
lo sguardo rivolto verso la finestra rispose: «Ti ho baciato
perché ti voglio bene e fino ad oggi eri l'unica persona a
cui non l'avessi dimostrato. Conoscerti è stato...
confortante. Ho sempre avuto paura che dopo la morte non ci fosse
nulla, che il Paradiso fosse solo una bugia per farci sentire meglio,
ma tu... tu sei davvero tornato, dopo secoli, e questo mi ha ridato
speranza».
«È questo il mio scopo, a quanto pare».
Finalmente Abby lo guardò negli occhi: la sua ossidiana si
immerse nel proprio oceano ma non ne venne inghiottita, piuttosto il
contrario. Artù sentì un brivido corrergli sulla
pelle, una specie di presentimento, e ne capì il
perché quando lei gli chiese: «Com'è
morire?».
Istintivamente Artù si portò una mano sulla
ferita inflittagli da Mordred, ora più che mai pulsante.
Abby seguì quel movimento e con uno sforzo voltò
la direzione della sua sedia a rotelle per stendere un braccio e
sollevargli gentilmente il maglioncino dal collo a V che indossava.
Timidamente, senza incrociare i suoi occhi, con le dita
sfiorò la spessa cicatrice e rabbrividì un poco.
«Avevo paura», rispose alla fine Artù,
prendendo la mano di Abby per stringerla forte tra le sue.
«Ero spaventato e il dolore era insopportabile. Volevo che
finisse e ho pregato perché la morte mi prendesse».
Abigail abbassò il capo, ma il sovrano le portò
un dito sotto il mento perché i loro occhi si fondessero
nuovamente. Li trovò arrossati ed umidi di lacrime, ma
comunque bellissimi.
«Però c'era Merlino al mio fianco e sai
com'è fatto... ha lottato anche per me, mi ha infuso
coraggio e alla fine, quando la morte è veramente calata su
di me, grazie a lui non avevo più paura. Il dolore
è scomparso e sapevo che i miei cari avrebbero sofferto, ma
sapevo anche che si sarebbero rimessi in piedi. Il mio corpo
è diventato leggero, leggerissimo, ma la stretta di
Merlino... è come se fosse arrivata fino al mio spirito. A
volte la sento ancora, prima di addormentarmi, pronta a cacciare via
gli incubi».
La ragazzina si tolse le canule dalle narici per tirare su col naso e
si asciugò le lacrime che le avevano bagnato le guance,
ricomponendosi. Addossata contro lo schienale della carrozzina
respirò profondamente e gli rivolse un breve sorriso.
«Grazie per avermene parlato, non dev'essere stato
facile».
Artù ricambiò il sorriso e si sporse per posarle
una mano sulla nuca ed avvicinarle la fronte alle sue labbra, dove le
lasciò un bacio delicato. «Quando vuoi»,
sussurrò.
Quindi si alzò dal letto e la superò per uscire e
trovarsi di fronte ad un Mark rosso di gelosia, il quale aveva cercato
invano di origliare la loro conversazione.
Artù si chiuse la porta alle spalle e ancor prima che Mark
potesse lamentarsene disse piano: «Dalle un paio di
minuti».
Quando fu sicuro che il ragazzino avesse recepito la serietà
della situazione, si chinò su di lui e posandogli una mano
sulla spalla aggiunse: «Stringila forte, okay? Tutte le volte
che puoi. Anche quando non vorrà, tu fallo».
Mark annuì, come ipnotizzato dal blu dei suoi occhi, e
quando Artù se ne fu andato fece davvero quello che gli
aveva detto: aspettò per quella che gli sembrò
un'eternità e poi bussò, sorprendendo Abby mentre
tentava di sollevarsi dalla sedia a rotelle per sdraiarsi sul letto.
Era troppo debole per farcela da sola, perciò il ragazzino
non ci pensò su due volte: abbandonò la propria
carrozzina e la raggiunse sulle sue gambe, la prese per le braccia e
lasciò che si affidasse completamente a lui, artigliando le
dita sulle sue spalle. Mark la sostenne e poi l'adagiò con
cautela sul letto, raggiungendola di conseguenza. E fece l'altra cosa
che Artù gli aveva detto di fare: la strinse forte,
incurante che la porta della stanza fosse rimasta aperta o che la
signora Chapman potesse beccarli. La strinse forte e pregò
perché non dovesse lasciarla mai.
***
«Pronto?».
«Alex, dove sei? Ti sento malissimo!».
«Ti ho messo in vivavoce perché sto guidando. Che
cosa c'è?».
«Ti fermeresti a casa? Ho dimenticato il caricabatterie e ne
ho bisogno».
Alex sbuffò, stringendo un po' più forte le mani
intorno al volante. «È proprio necessario,
Artù? Non puoi usare quello di Merlino?».
«Lo sai benissimo che i nostri cellulari sono di marche
diverse! Di che cosa si tratta? Oh...».
Finalmente c'era arrivato. Era vero che in quei due giorni era riuscita
a contenere la magia nera e che ora la voce dentro la sua testa era
lontana e debole, ma non si fidava ancora a stare nei paraggi di
Excalibur, specialmente da sola. E se avesse ceduto al suo richiamo?
Tutti i suoi sforzi sarebbero andati in fumo e il suo matrimonio
sarebbe stato da rimandare, tutto per colpa di un maledetto
caricabatterie.
«Vedila come la prova definitiva: se la superi, allora non
hai più di che temere».
«Vuoi davvero farmelo fare?! Giuro che se non dovessi farcela
questa volta non mi limiterò ad un occhio nero!».
Detto ciò Alex mise bruscamente fine alla telefonata e
cambiò itinerario.
Fino ad allora non le era mai capitato di trovarsi da sola a casa di
Merlino e il silenzio che l’accolse non appena
varcò la soglia le fece uno strano effetto. Come se non
bastasse, il richiamo di Excalibur, così facile da
raggiungere in quel momento, era più forte e suadente che
mai. Dovette continuare a ripetersi il motivo per cui si trovava
lì – maledetto Artù – e
camminare spedita e con gli occhi puntati sulle proprie scarpe per
resistergli. Raggiunta la camera da letto del sovrano però
le fu impossibile ignorare la voce metallica che le rimbombò
tra le pareti del cranio: “Dovresti
portarmi con te, lo sai”.
«Non se ne parla», rispose, aprendo il primo
cassetto del comodino. Ovviamente il caricatore non era dove
Artù era sicuro di averlo visto l’ultima volta.
“E se Freya
decidesse di attaccare proprio quando meno te lo aspetti? Saresti
indifesa”.
Excalibur non aveva tutti i torti, ma se non fosse stata abbastanza
forte e l’avesse impugnata prima del previsto, mandando a
monte il suo matrimonio?
“È
più importante il tuo matrimonio o distruggere
Freya?”, le chiese ancora, con tono stizzito.
«Distruggere? Mi sembra eccessivo, come termine».
“O lei o
Merlino, scegli tu”.
Il cuore le finì in gola a quelle parole e non
poté fare a meno di girarsi verso l’armadio, dalle
cui fessure proveniva un bagliore dorato inequivocabile. La
spada la conosceva alla perfezione ormai, le era entrata nella testa, e
sapeva benissimo che il suo punto debole erano le persone che amava.
A piccoli passi fece il giro del grande letto a baldacchino, fino a
ritrovarsi davanti alle ante chiuse.
“Devi fare
chiarezza sulle tue priorità, Alexandra”.
L’infermiera strinse i pugni lungo i fianchi e dopo qualche
secondo di immobilità in cui le era sembrato di sentire dei
battiti provenire dall’interno dell’armadio
– un secondo cuore perfettamente sincronizzato col suo
– si voltò di scatto e urlando scese in cucina.
Aprì un paio di cassetti e mentre cercava le pinze da
barbecue notò nella presa sotto la finestra il
caricabatterie bianco di Artù.
Imprecando sottovoce contro l’antenato, salì
nuovamente al piano di sopra e stendendo una mano verso le ante
dell’armadio sussurrò: «Aliese».
La serratura scattò e Alex sospirò, trovandosi di
fronte un’Excalibur luminescente che, quasi dolcemente, le
disse: “Hai
fatto la scelta giusta”.
Alex la ignorò e con estrema attenzione afferrò
la fibbia del fodero con le pinze, quindi uscì dalla camera
da letto reale tenendo il braccio steso davanti a sé, la
spada a distanza di sicurezza.
Stava per uscire quando il suo sguardo intercettò una specie
di bagliore provenire dalla libreria sopra la televisione a schermo
piatto.
Sconsolata lasciò la spada nel portaombrelli - ricevendo in
ricambio un paio di epiteti coloriti - e fece il giro del divano. Fu
facile individuare la fonte del bagliore misterioso: l'unico oggetto
magico presente su quella libreria era l'agglomerato di cristalli che
Merlino si era portato a casa per non dover andare ogni volta alla
caverna. Peccato che fino a quel momento fosse stato completamente
inutile, come se lontano dalla fonte magica avesse perso ogni potere di
divinazione.
«Okay, sono qui», esordì, sentendosi una
stupida ed una pazza nel rivolgersi a delle stalattiti. Ma in fondo di
che si sorprendeva? Pochi minuti prima aveva avuto una conversazione
con una spada!
I cristalli si illuminarono nuovamente prima di trasmettere la replica
della visione che aveva monopolizzato i suoi sogni per diverso tempo,
la visione che teoricamente avrebbe dovuto realizzarsi quella sera
stessa.
«Il falò all'agriturismo, i marshmellows, Abby,
Cath e me... Sono cose che ho già visto,
perché...?». Ma non ebbe il tempo di terminare la
domanda perché scorse qualcosa di diverso nella visione,
diverso e terribile.
«Ci fai vedere
qualcosa?», le domandò ad un tratto la ragazzina,
eccitata come una bambina a Natale.
«Merlino non
vuole che usi la magia se non è strettamente
necessario», disse guardandosi le spalle, verso
l’agriturismo, da dove i ragazzi sarebbero tornati a momenti.
«Ma Merlino
ora non c’è, giusto?», la
stuzzicò anche Cathleen, facendole l’occhiolino.
«Dai che non vedi l’ora di mettere in mostra i
frutti del tuo allenamento».
Ed era vero. Alex si
accertò che Merlino non fosse ancora uscito dalla cascina e
sospirò, sussurrando: «Okay, mi hai
convinta».
Cathleen e Abby le
lasciarono un po’ di spazio e Alex si concesse un respiro
profondo prima di stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli
occhi, bisbigliando: «Upastige draca».
Le sue iridi ebbero
qualche difficoltà a diventare dorate, ma quando l'energia
parve stabilizzarsi le ceneri incandescenti si sollevarono sopra il
falò e diedero vita ad un drago, il quale però si
accartocciò quasi subito su se stesso e svanì in
una nuvola di scintille e polvere.
«Che... che
cos'è successo?», domandò Cathleen
preoccupata, ma Alex, rimasta altrettanto a bocca aperta, non
riuscì a risponderle. Non solo non avrebbe saputo cosa
dirle, ma i ragazzi stavano tornando.
"Alexandra. Alexandra!"
L'infermiera smise di guardare all'interno dei cristalli e si
voltò di scatto, trovandosi a pochi centimetri di distanza
dalla donna col viso nascosto dal cappuccio che aveva pregato di
rivedere così tante volte. Eccola, finalmente. Aveva
così tante cose da chiederle!
"Alexandra, svegliati!",
le gridò ancora, stendendo le mani verso le sue braccia per
afferrarle, ma esse la trapassarono bruciandole la pelle, le vene e le
ossa tant'erano fredde.
«Svegliarmi? Non capisco!», balbettò.
"Fallo, Alexandra! ORA!"
Il suono assordante di un clacson la fece trasalire e nello stesso
momento si ritrovò nella sua auto, prossima ad uno scontro
frontale con un camion. L'adrenalina prese il sopravvento e questo,
oltre all'intervento della donna misteriosa, le salvò la
vita: sterzò bruscamente e tornò nella propria
corsia giusto in tempo.
Alex strinse forte il volante, gli occhi sbarrati fissi sulla strada
oltre il parabrezza, e non appena poté accostò.
Solo allora riuscì a respirare profondamente e a rendersi
conto di quanto stesse tremando: il respiro, le mani, le lacrime che le
velavano gli occhi, i denti. Si slacciò la cintura di
sicurezza ed uscì dall'auto, inspirando quanta
più aria i suoi polmoni potessero contenere mentre con le
mani si tirava indietro i capelli.
Non le era mai capitato di avere una visione ad occhi aperti e non era
pronta, affatto. Per quanto tempo aveva guidato senza saperlo? Era un
miracolo che fosse ancora viva. Per non parlare poi di ciò
che aveva visto! Era troppo da metabolizzare, troppo.
Il cellulare iniziò a suonare e Alex lo tirò
fuori dalla tasca dei jeans per sentire di nuovo i sudori freddi: era
Artù che la stava chiamando.
Appoggiandosi al cofano caldo dell'auto, rispose con tono incerto:
«Pronto?».
«Alex, dove sei?».
Le stesse parole che le aveva rivolto nella visione...
«Ahm, per strada. Ti... ti serve qualcosa?».
«In effetti sì! Ti fermeresti a casa? Ho
dimenticato...».
«Il caricabatterie», concluse per lui, passandosi
una mano sul viso.
«Esattamente! Come facevi a saperlo?».
Prima regola delle visioni: attenzione agli spoiler.
«Io, ahm... mi sembrava di averlo visto in cucina questa
mattina, prima di uscire di casa».
«In cucina? E io che pensavo fosse in camera da letto...
Comunque, andresti a prenderlo? Ne ho bisogno».
Alex ripensò a ciò che l'aspettava a casa e
decise di tentare la sorte: aveva visto attraverso i cristalli che
quella sera sarebbe rimasta a corto di magia, perciò aveva
ragione di credere che non avrebbe ceduto ad Excalibur. Tolto questo
fardello, poteva sfruttare l'occasione per verificare per la prima
volta cosa volesse dire avere un vantaggio sugli eventi non ancora
accaduti: cosa poteva accadere cambiando il futuro? Era davvero
possibile cambiarlo?
«Va bene, vado», rispose alla fine, ricordandosi di
Artù.
«Ah, è stato facile! Avevo come il presentimento
che ti saresti opposta per via di Exc-».
Alex pose bruscamente fine alla telefonata e tornò dietro al
volante.
***
Merlino si appoggiò allo steccato che definiva lo spazio per
i cavalli, dove al momento Artù stava conducendo il cocchio
per i due piccioncini del gruppo, Mark e Abigail.
Provò di nuovo a chiamare Alex, ma continuò a non
rispondergli. Sospirò e si stropicciò il viso con
le mani, fino a quando con la coda dell'occhio non vide Cathleen
raggiungerlo.
Il paramedico diede le spalle alle travi di legno per issarsi su quella
più alta e sedersi incastrando gli anfibi tra quelle
più in basso.
Prima che potesse chiedergli qualsiasi cosa, Merlino le
domandò: «Dove sono Danilo, Gabriel e
Jessica?».
«Stanno aiutando Wanda a preparare una torta di mele. Tu
invece, tu dove sei?».
Merlino le rivolse un sorriso dubbioso. «Sono qui, mi
vedi».
«Nah, la tua testa è da un'altra parte e sono
pronta a scommetterci le chiappe che stai pensando ad Alex. Non doveva
essere già tornata, a quest'ora?».
A che scopo fingere che non fosse come diceva?
«Ho un brutto presentimento, Cath»,
confessò.
La rossa si sporse verso di lui per massaggiargli la schiena ossuta, in
segno di conforto. «Sei solo nervoso per domani, è
normale».
«Domani...», ripeté Merlino, sospirando
nuovamente. «Inizio a pensare che sia una pessima idea
sposarsi con Freya là fuori, pronta ad attaccarci in
qualsiasi momento».
«Ehi, se fosse davvero pronta ad attaccare Darrell ci
avviserebbe, no?».
«Suppongo di sì», mormorò,
alzando gli occhi nei suoi. «Mi sto facendo prendere dal
panico, uh?».
Cathleen sorrise a trentadue denti e saltò giù
dalla staccionata per gettargli le braccia intorno al collo.
«Andrà tutto bene, ne sono certa».
«Ragazzi!».
I due sciolsero l'abbraccio per voltarsi verso Artù, il
quale aveva appena tirato le briglie del proprio cavallo per fissare
quello nero che era appena comparso dal fitto della foresta. A
guidarlo, una ragazza dai lunghi capelli biondi scompigliati dal vento.
«Ma quella è Alexandra!»,
esclamò Mark, strabuzzando gli occhi.
Vederla cavalcare in quel modo era sempre sconvolgente, tanto era bella
e naturale in ogni sua mossa: sembrava nata per stare in sella.
Nei pressi della staccionata l'infermiera disse a Flash di rallentare e
lo stallone nitrì, fermandosi poco dopo per annusare il muso
del cavallo da traino.
«Ciao a tutti», esordì con un pallido
sorriso, mettendo i piedi per terra. «E scusate il ritardo.
Mi sono persa qualcosa?».
«No, nulla di particolare», rispose Cathleen,
raggiungendola per prenderle dalle braccia la custodia scura in cui
c'era il suo vestito da sposa.
«Ho provato a chiamarti», la rimproverò
invece Merlino, per poi accarezzarle il viso con apprensione.
Alex deviò il suo sguardo, sorridendo nervosamente.
«Scusami, non l'ho sentito».
«Va tutto bene? Mi sembri... strana», le disse, ma
non le diede il tempo per dargli spiegazioni: appesa alla sella di
Flash vide niente meno che Excalibur. «Alex...
Perché l'hai portata qui? Come...?».
«Per favore Merlino, possiamo rimandare? Sto morendo di
fame».
Detto questo lasciò Flash alle cure di Artù e
superò Merlino per entrare nella cascina, dove sperava di
trovare qualche dolce appena sfornato.
Lo stregone, sempre più preoccupato, fissò
Cathleen in una silenziosa richiesta d'aiuto. Lei corrucciò
le labbra ed abbassando vergognosamente lo sguardo gli diede le spalle
per seguire i passi di Alexandra.
«Donne», sbuffò Artù mentre
apriva il recinto per farvi entrare il destriero nero. «Chi
le capisce è bravo».
Per una volta Merlino dovette dargli ragione.
***
«Che diavolo!», esclamò Cathleen,
raggiungendola sulle scale che portavano alle camere.
Rischiò anche di cadere, inciampando sulla custodia del
vestito.
«Lo diventerò io, se mi rovini
l'abito!», gridò Alex, prendendoglielo dalle
braccia con fare protettivo.
«Così non va, okay? Non puoi continuare a mentire
a Merlino! Adesso la spada non ti possiede più, non hai
scuse!».
Alex si voltò di scatto e la guardò dall'alto,
con quel suo sguardo intimidatorio che la faceva somigliare moltissimo
ad Artù.
«Credi che sia tutto qui? Che sia così semplice?
Tu non hai idea del peso che grava sulle mie spalle!».
«No, non lo so e non lo saprò mai»,
sussurrò Cath, salendo un paio di gradini per guardarla
negli occhi da più vicino. «Ma non sei sola, Alex.
Possiamo aiutarti, se solo ti aprissi con noi».
La bionda alzò gli occhi al cielo, ma dopo qualche istante
tornò a fissare quelli dell'amica con un'espressione
totalmente diversa: triste, stanca, sull'orlo di una crisi di nervi.
Le porse una mano e Cathleen l'afferrò e la strinse forte,
seguendola fino alla stanza che avevano assegnato loro. Ovviamente lei
e Merlino non avrebbero dormito insieme quella notte, come voleva la
tradizione.
Una volta chiusa la porta, Alex si sedette sul bordo del letto e si
prese il viso tra le mani, iniziando a farfugliare imprecazioni.
«Ehi... ehi, è tutto okay»,
cercò di tranquillizzarla la rossa, accarezzandole la
schiena. «Dimmi che cos'è successo».
«Okay», rispose quando si calmò,
concedendosi un respiro profondo. «Ahm, da dove
comincio?».
«Dall'inizio sarebbe l'ideale».
Alex le lanciò un'occhiata arrendevole. «Se solo
fosse facile, capire quando tutto è iniziato».
In un modo o nell'altro le raccontò della visione e del suo
risveglio in auto, dell'incidente sfiorato e di come gli eventi che
aveva già vissuto avessero iniziato a ripetersi. Dopo la
conversazione con Artù per il suo caricabatterie - di cui
lei già sapeva tutto - era andata a casa con l'unico scopo
di capire se gli eventi potessero davvero cambiare, se potesse
sfruttare le visioni a suo vantaggio oppure dovesse attenercisi per non
scatenare conseguenze catastrofiche nella linea temporale.
La realtà dei fatti era che non era successo niente di
quello che aveva visto. Forse proprio perché l'aveva visto,
o forse perché stava soltanto diventando pazza e si era
sognata tutto. Certo, la chiamata di Artù era successa
veramente, ma poteva trattarsi di una coincidenza. Una coincidenza
molto bizzarra, ma pur sempre una coincidenza.
Excalibur non le aveva parlato, incitandola a portarla con
sé all'agriturismo, né i cristalli avevano
attirato la sua attenzione per mostrarle la visione in cui realizzava
di aver consumato tutta la sua riserva di poteri.
«Aspetta, quale visione?», le chiese Cathleen,
scioccata. «Non ce ne hai mai parlato!».
«Non è saggio condividere le visioni».
«Chi te l'ha detto, Merlino?».
«No, l'ho provato sulla mia pelle. Le persone si lasciano
condizionare e... insomma, è complicato».
«Ecco, ci risiamo: i segreti di Alex. Suona bene, dovrebbero
farci un film».
L'infermiera si tirò indietro i capelli e smise di
raccontare, decidendo di non rivelarle l'apparizione della donna
miseriosa, nè della sua cavalcata fino alla tomba di
Morgana, colei che pensava si celasse sotto quel cappuccio. Aveva
gridato il suo nome, pregandola di farsi vedere, ma non aveva ricevuto
risposta. Forse l'avrebbe vista quella sera, come nelle sue precedenti
sbirciatine al futuro.
Cathleen, ancora al suo fianco, sospirò e le prese una mano
tra le sue. «Ascolta, Alex: le persone normali riescono a
sopravvivere senza sapere in anticipo cosa succederà, quindi
non vedo perché non dovremmo riuscirci anche noi».
«Forse perché Freya può attaccarci in
qualsiasi momento col suo esercito di maghi e chissà
cos'altro?», le domandò con tono sarcastico.
«Come ho detto a Merlino: per quanto riguarda Freya abbiamo
Darrell a coprirci le spalle».
L'infermiera non pensava che affidarsi a lui fosse la cosa giusta da
fare, soprattutto perché ciò che gli permetteva
di avere informazioni su Freya era un'incantesimo pronunciato dalla
stessa Dama del Lago e che perciò dava a lei gli stessi
privilegi del poliziotto. Ma non avevano altra scelta, no?
«Lo so che non ne vuoi parlare, però... in quella
visione non è che hai visto...?».
Alex seguì il suo sguardo ammiccante e si ritrovò
a guardarsi il ventre. Si abbracciò in modo protettivo e
fissò il pavimento, serrando le labbra. Qualcuno
bussò con decisione alla porta e non dovette essere scortese.
«Avanti!», esclamò frettolosamente,
alzandosi addirittura per andare ad aprire.
«Scusate se vi disturbo», esordì
Artù, sbirciando all'interno. «Mentre aspettiamo
che la cena sia pronta i bambini hanno chiesto di poter guardare un
film tutti insieme, volete venire?».
«Certo, ottima idea! Fammi solo... rinfrescare un attimo, va
bene?».
Cathleen sospirò e si alzò dal letto per
lasciarla sola. Mentre usciva chiese ad Artù: «Che
film si guarda?».
«La spada
nella roccia. Merlino l'ha portato dall'ospedale,
così che potessi finalmente vederlo».
«Ottimo, abbiamo tutti bisogno di ritornare spensierati e
sinceri come i bambini».
Cathleen gettò un'ultima occhiata ad Alex, la quale
ignorò la frecciatina e chiuse la porta. Ci si
appoggiò con la schiena e chiudendo gli occhi si
portò le mani sul ventre. Se lo accarezzò con
tenerezza e le venne quasi da sorridere, mentre lacrime di incertezza e
paura le rigavano il volto.
***
Erano stati gli ottanta minuti più strani della sua vita.
Quel cartone animato non rappresentava affatto ciò che era
successo a Camelot, come lui fosse diventato re e quale ruolo avesse
avuto la magica spada nella roccia, eppure aveva notato dei dolorosi
parallelismi.
Mago Merlino era stato rappresentato come un vecchio potente e di buon
cuore, imbranato, facilmente irritabile e a cui stava molto a cuore il
destino di Artù - per tutti Semola - per il quale avrebbe
anche barato con la magia se necessario.
Il padre adottivo del giovane somigliava terribilmente al suo, Uther
Pendragon, con la sua severità e il suo odio per la magia.
Ma Semola, al contrario di ciò che aveva fatto lui, aveva
difeso il mago, ribellandosi per la prima volta per affermare:
«Solo perché non capite qualcosa, non vuol dire
che sia sbagliata!». Avrebbe dato di tutto per tornare
indietro nel tempo e dire le stesse parole a suo padre, per impedire
che molte persone innocenti morissero ingiustamente.
E che dire di Caio, il fratellastro? Si era profondamente vergognato
quando si era reso conto che spesso e volentieri anche lui aveva
trattato Merlino alla stessa maniera, disprezzandolo come scudiero e
rifilandogli i lavori più umilianti.
Quel cartone animato avrebbe dovuto farlo sorridere, invece gli aveva
lasciato più amaro in bocca di quanto si sarebbe mai
aspettato. Aveva fatto così tanti errori, da giovane... E a
molti di questi non avrebbe mai potuto rimediare.
Le luci del salotto si riaccesero grazie a Cathleen, la quale si era
alzata non appena erano partiti i titoli di coda, e solo allora
Artù si rese conto che Alex e Merlino erano spariti.
Cercò lo sguardo del paramedico e lo trovò tanto
confuso quanto il proprio. Quando si erano allontanati?
Il sovrano si alzò a sua volta, sentendo le ginocchia gemere
per la posizione scomoda a cui le aveva costrette per troppo tempo, e
raggiunse il paramedico.
«Vado a cercarli, tu resta qui con i bambini».
«Artù...», lo trattenne Cathleen,
afferrandolo per il polso.
Non era la prima volta che vedeva quell'espressione sul suo volto:
sembrava in conflitto, addolorata per qualcosa.
«Forse dovremmo lasciare loro un po' di spazio. Hanno tante
cose da dirsi».
«Che cosa? Che significa?».
Cathleen sobbalzò, lasciandolo andare. «Niente.
Sai com'è... cose da... da matrimonio».
Non gliela raccontava giusta. Forse, dopo anni trascorsi a non
accorgersi delle menzogne delle persone che gli stavano accanto, stava
iniziando ad imparare.
«Cathleen... Si tratta di quello che non puoi dirmi?
Perché chiaramente è un peso che non riesci a
sopportare e io non voglio più vederti in questo
stato».
Il paramedico si torturò le labbra con i denti, gli occhi
pieni di dubbi. Alla fine lo afferrò di nuovo per il polso e
lo trascinò nel disimpegno dove c'era il bancone della
piccola reception. Dopo essersi accertata che nessuno avesse notato il
loro allontanamento - grazie alla perfetta imitazione di Anacleto di
Mark - la rossa prese il volto di Artù tra le mani e lo
fissò intensamente negli occhi.
«Okay, hai ragione: non ce la faccio più a
tenermelo per me», esordì a bassa voce.
«Ma devi promettermi che non ne farai parola con
nessuno».
«Cathleen...».
«Promettimelo, Artù».
L'ex re di Camelot fu costretto a cedere.
«Prometto».
«Okay, allora...». Intrecciò forte le
mani e respirò profondamente per farsi coraggio, dondolando
anche sui talloni tanto era il nervosismo. «Si tratta di
Alex».
«E fino a qui mi era piuttosto chiaro»,
sbottò il biondo, iniziando a perdere la pazienza.
«Avanti, dimmelo! Quanto potrà
essere...?».
«Alex potrebbe essere incinta»,
farfugliò Cathleen, così piano e così
veloce che nessuno avrebbe potuto capire il senso delle sue parole.
Incredibilmente però Artù ci riuscì e
ne fu così sconvolto che rimase a bocca aperta, col cuore
sul punto di cedere prima del tempo.
Notando le sue condizioni Cathleen si prodigò nel farlo
sedere sulla piccola panchina imbottita posta proprio di fronte al
bancone e poi si chinò tra le sue gambe, stringendogli forte
le mani tra le sue.
«Potrebbe, ho detto potrebbe!»,
tentò di rassicurarlo. «Sono solo sospetti.
Alex... si rifiuta di fare il test».
«Test?», ripeté Artù con
sguardo stordito, quasi spiritato.
«Oh... Nel Medioevo non avevate i Clearblue, eh? Come
facevate a sapere se una donna aspettava un bambino?».
Artù fissò il pavimento e parve sul punto di
volersi scavare una fossa, ma Cathleen abbozzò un sorriso e
sedendosi al suo fianco disse: «Non voglio saperlo davvero.
Ti basti sapere che adesso le cose sono molto semplici. Ciò
nonostante, Alex sostiene di non volerlo sapere fino a quando non
avrà sconfitto Freya. Dice che se fosse davvero incinta
avrebbe troppa paura di scendere in battaglia».
Il silenzio in cui era piombato Artù continuò per
i due minuti successivi, nei quali Cathleen aveva provato di tutto per
ottenere una reazione. Quando finalmente si voltò a
guardarla aveva gli occhi lucidi di lacrime.
«Non dovevi dirmelo, Cathleen», sussurrò
addolorato. Aveva perso la sua famiglia, i suoi amici, sua moglie e il
figlio che non aveva mai conosciuto. Ora aveva ritrovato Merlino, la
sua ultima discendente, un amore... Non voleva perdere tutto una
seconda volta, non poteva.
«Adesso come farò a...? Non posso rischiare la
vita del mio bis-bis-bis-bis...».
«Me l'hai promesso», lo minacciò con ben
poca cattiveria, finendo poi per abbracciarlo. «Ehi, adesso
siamo in due: possiamo tenerci d'occhio a vicenda».
Artù annuì piano col capo e sciolse l'abbraccio
per accarezzarle una guancia. Cathleen sorrise dolcemente e gli
posò un leggerissimo bacio sull'angolo della bocca, quindi
si alzò e gli porse entrambe le mani per aiutarlo a fare lo
stesso.
«Ah, eccovi qui ragazzi!», esclamò
Wanda. «Scusatemi, ho interrotto qualcosa?».
«No, nulla», rispose Artù con gentilezza.
«Bene. La cena è pronta. Sapete dove sono Alex e
Merlino?».
I due si scambiarono un'occhiata e sospirando dissero all'unisono:
«Andiamo a cercarli».
***
Merlino non ce l'aveva più fatta. Vedersi in quel cartone
animato non avrebbe causato alcun problema se lo avessero guardato un
mese prima, quando la vita di tutti era incasinata ma semplice,
specialmente per lui ed Alex.
La sua controparte di fantasia aveva detto tante cose sagge e giuste,
ma una citazione in particolare lo aveva costretto ad alzarsi dal
pavimento e ad allontanarsi. Protetto dall'oscurità simile a
quella di un cinema, nessuno tranne la persona al suo fianco l'aveva
notato, la stessa persona per cui stava soffrendo così tanto
e senza saperne il perché.
«Vedi, giovanotto, questa faccenda dell'amore... è
una cosa potentissima!».
«Più forte della gravità?»,
aveva chiesto il piccolo Artù al suo tutor.
«Beh, sì figliolo, in un certo senso... Io direi
che è la forza più grande sulla Terra!».
Mai parole più vere erano state pronunciate. E odiava
ammettere che non fossero sue.
Alex l'aveva evitato tutto il pomeriggio e ormai gli era chiaro che
c'era qualcosa che la turbava e di cui non voleva metterlo a
conoscenza. Ora finalmente capiva come doveva sentirsi Gaius quando lui
si comportava allo stesso modo. Peccato che nel suo caso finiva sempre
per cedere e confessare tutto al medico di corte, mentre con Alex,
molto più simile all'antenato, insistere e promettere del
pudding non era sufficiente. Anzi, farle pressione non avrebbe che
peggiorato la situazione e dato che sentirla così lontana -
per di più nei giorni in cui avrebbero dovuto essere una
cosa sola - gli faceva così male da non riuscire quasi a
respirare, aveva deciso di lasciare il salotto e rifugiarsi nelle
stalle, il posto che più gli ricordava casa.
Aveva perso la cognizione del tempo, pensando e ripensando ad una
soluzione, e quando sentì dei passi avvicinarsi ai box dei
cavalli Merlino voltò semplicemente il capo verso
l'ingresso. Mai si sarebbe aspettato di vedere proprio l'infermiera.
«Sapevo di trovarti qui», esordì
appoggiandosi con una spalla allo stipite dalla vernice verde
scrostata, le mani nelle tasche dei pantaloni color verde militare e
una gamba incrociata davanti all'altra.
Era così simile ad Artù... Quante volte il re di
Camelot l'aveva guardato allo stesso modo, con il dolore negli occhi e
le labbra sorridenti per cercare di compensarlo, troppo orgoglioso per
ammettere che c'era qualcosa che non andava? I Pendragon erano sempre
stati in conflitto con i propri sentimenti: li ritenevano una
debolezza, una cosa da femminucce. Ma non Alex. No, fino a poco tempo
prima era sempre stata aperta e sincera, pretendendo lo stesso anche da
lui, e riconoscere quanto fosse cambiata, come i ruoli si fossero
invertiti nella loro relazione... fu l'ennesima coltellata al cuore.
Fu allora che vide il foulard rosso che portava al collo. Alex
chinò il capo fino a sfiorare la stoffa con il naso e
traendo un respiro profondo lo accarezzò con le dita. Forse
non era troppo tardi, forse c'era ancora speranza.
«Spero non ti dispiaccia», gli disse ancora,
evitando il suo sguardo.
«No, affatto», rispose Merlino con un lieve
sorriso. «Il rosso è il tuo colore».
A quel punto il silenzio calò di nuovo tra loro e lo
stregone continuò a fissare l'ibrido che aveva di fronte -
metà Pendragon e metà strega - fino a quando non
ricordò di aver detto pressoché le stesse parole
ad Artù in merito a suo figlio Graalmir. Come sua
discendente, Alex combinava entrambe le qualità e forse era
per questo che era stata scelta per portare sulle spalle il gravoso
fardello del destino.
Finalmente la bionda si staccò dallo stipite e sospirando
afferrò un secchio di latta vuoto, lo capovolse e vi si
sedette in modo da trovarsi davanti a lui, dall'altra parte del
corridoio.
Con le braccia incrociate sopra le ginocchia disse semplicemente:
«Mi dispiace».
«Per che cosa?», chiese Merlino, fingendo di non
capire proprio come faceva con Artù per spronarlo ad
articolare un discorso.
E allo stesso modo Alex alzò gli occhi al cielo prima di
rispondere: «Ti ho a malapena rivolto la parola oggi. Devi
scusarmi, non era mia intenzione. Io... sono solo stanca e
stressata».
Merlino le rivolse uno sguardo di sufficienza, nonostante gli facesse
malissimo mantenere le distanze: doveva farlo però, se
voleva tutta la verità.
L'infermiera non si aspettava quella reazione, ma anziché
lanciargli contro qualcosa come avrebbe fatto l'antenato si
sollevò un poco e trascinandosi dietro il secchio si
avvicinò allo sgabello di Merlino per stringergli le mani e
portarsele alla bocca a mo' di preghiera.
«Parlami, ti prego».
«Ti ricordi quando tu mi feci promettere di non
mentirti?», le chiese alla fine, guardandola intensamente
negli occhi. «Io usai una scappatoia: non potevo mentirti su
ciò che non sapevi, perciò continuai a mantenere
il mio segreto».
Alex allentò la presa, la fronte corrugata e un velo di
preoccupazione nella voce. «Dove vuoi arrivare?».
«So che mi stai nascondendo qualcosa, Alex. E ho provato a
far finta di niente, a credere che prima o poi avresti aperto tu
l'argomento, quando saresti stata pronta».
«Merlino...».
«Fammi finire, per favore», sussurrò
chiudendo gli occhi traboccanti di vera sofferenza. «Domani
dovremmo sposarci e mi dispiace, mi dispiace davvero, ma non posso
farlo se non mi dici che cosa ti sta succedendo».
Alex rimase in silenzio, con le labbra socchiuse e gli occhi sgranati,
e Merlino non poté far altro che alzarsi e dirigersi verso
l'uscita. Era ormai fuori quando l'infermiera gli domandò:
«Mi stai davvero dando un ultimatum?».
Lo stregone strinse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime, e nel
voltarsi si appoggiò allo stipite con una mano.
«Mi dispiace. Non vedo cos'altro potrei fare, a questo
punto».
Si scambiarono uno sguardo sofferto, consapevole di avere entrambi la
propria dose di colpa. Merlino fu sul punto di crollare, di rimangiarsi
tutto di fronte a quegli occhi verdi di solito pieni di vita e allegria
di cui ora era rimasto solo il ricordo, ma Artù e Cathleen
li interruppero giusto in tempo.
«La cena è pronta», esclamò
Artù con tono incerto.
«Sì, arriviamo», mormorò il
mago mentre Alex si alzava e con le braccia strette al petto, come a
volersi confortare da sola, li raggiungeva a piccoli passi. Era come se
volesse tenersi a distanza di sicurezza dal moro e così fu,
dato che questo si avviò verso l'agriturismo senza
aspettarli né guardarsi più indietro.
_________________________________________________________________
Ehilà,
eccomi tornata con questo capitolo che è un grumo di dolore,
ammettiamolo. Ormai non manca molto alla fine e i nodi stanno venendo
tutti al pettine.
Merlino e Alex si sposeranno?
Lei gli dirà di essere incinta (se lo è)? E Freya
quando attaccherà?
Grazie per essere arrivati fino
a qui e per la pazienza!
Alla prossima :)
|
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Capitolo 29 *** The coming of Alex ***
Buongiorno bella gente :) Mi scuso come sempre per il ritardo, ma ne
sono successe parecchie. Anyway, ci stiamo avvicinando sempre di
più alla fine e nel capitolo che state per leggere vedremo
finalmente Alex alle prese con la sua famosa visione! Come
andrà a finire? E il matrimonio, alla fine si
farà oppure no? Beh, lo scoprirete solo leggendo...
Perciò grazie a chi ancora sta seguendo questa storia, non
sapete quanto conti per me!
Ne approfitto anche per farvi gli auguri di Natale e di un felice Anno
Nuovo :)
Buona lettura e alla prossima!
Vostra,
_Pulse_
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29. The coming of Alex
«Vorrei proporre un brindisi», esclamò
Edwin alzandosi da capotavola col proprio calice di vino in mano.
Alex sapeva che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, ma dopo la
sua ultima chiacchierata con Merlino era così devastata che
non ne era più spaventata. I sensi di colpa erano spariti,
schiacciati sotto il peso della paura di perderlo per sempre, e tutto
il resto la lasciava indifferente.
«Ho sempre voluto il meglio per te, bambina mia. E ammetto di
non aver esattamente fatto i salti di gioia scoprendo che il tuo cuore
aveva scelto Merlino, ma ora... ora capisco che siete due anime affini,
destinate a stare insieme. Tua madre sarebbe così orgogliosa
di voi...».
Merlino, seduto al fianco sinistro di Edwin, si alzò a sua
volta e gli strinse una spalla per spazzare via le lacrime che gli
avevano improvvisamente inumidito gli occhi.
Il signor Greenwood sorrise imbarazzato, scuotendo il capo.
«Scusatemi».
«Se ti emozioni adesso, chissà domani!»,
lo prese in giro Abraham dall'altro lato del tavolo, beccandosi uno
scappellotto amorevole da parte di sua moglie Wanda.
Già, Alex non voleva immaginare che cosa sarebbe successo se
alla fine il matrimonio fosse andato a monte. Era tutto nelle sue mani,
ancora una volta Merlino aveva dato a lei la responsabilità
di scegliere come sarebbe stato il loro futuro.
Edwin ridacchiò. «Dov'ero rimasto? Ah, giusto.
Brindiamo. A Merlino e a mia figlia, alla loro
felicità».
I bicchieri dell'intera tavolata si alzarono e Alex non poté
che fare lo stesso, pretendendo di essere felice e scambiando persino
uno sguardo con Merlino, il quale, abituato da secoli a nascondere la
sua vera natura, sembrava davvero a suo agio. Gli unici che non era in
grado di imbrogliare erano Artù e Cathleen, seduti proprio
di fronte a loro, i quali durante tutta la cena non avevano fatto altro
che guardarli di sottecchi e poi scambiarsi occhiate, come se sapessero
esattamente che quella che avevano davanti era una recita messa in
piedi in fretta e furia per evitare scandali riguardanti quella
complicata situazione che forse, con un po' di fortuna, poteva ancora
essere risolta.
Alex buttò giù tutto il vino che c'era nel suo
bicchiere (era già al terzo) e quasi rischiò di
strozzarsi quando Mark iniziò ad incorare: «Bacio!
Bacio! Bacio!», finendo per essere seguito da tutti i bambini
e persino da Abraham e Wanda.
Sarebbe sicuramente scappata via in lacrime, se Merlino non avesse
intrecciato le dita delle loro mani e cercato il suo sguardo. I suoi
occhi azzurri come il cielo...
Lo stregone abbozzò un sorriso e sollevò l'altra
mano per posargliela sul profilo del viso, l'avvicinò a se e
la baciò delicatamente sulle labbra.
Come faceva a mentire in quel modo? Come poteva baciarla ancora, dopo
aver ricevuto conferma dei suoi sospetti?
Una lacrima le scivolò sulla guancia, non poté
fare nulla per impedirlo, e quando Merlino si scostò
gliel'asciugò col pollice, ma Edwin notò quel
gesto e per fortuna lo interpretò male, esclamando:
«Vedete? Non sono l'unico ad emozionarsi!».
Alex però quasi non lo sentì, come non
sentì le risate e i commenti su quanto quella scena fosse
sdolcinata. Merlino l'aveva stretta a sé e con la bocca
premuta contro il suo orecchio, nascosto dagli occhi di tutti, le
sussurrò: «Mi dispiace, Alex. Non avevo alcun
diritto di dirti quelle cose, alle stalle. Io ho mentito alle persone
che amavo per anni e avevo le mie ragioni. Mi fido di te e ti amo, ti
amerò sempre. Spero solo che... che mi renderai parte di
tutto, un giorno».
L'infermiera rischiò ancora una volta di scoppiare in
singhiozzi, perciò si aggrappò alle sue spalle ed
affondò il viso nell'incavo del suo collo, stringendolo
più forte che poté nel tentativo di fargli capire
che odiava la situazione in cui si era cacciata e che avrebbe cercato
di risolverla nel minor tempo possibile, così che potessero
sposarsi serenamente e senza segreti a dividerli.
Quando si scostarono l'uno dall'altra, tra gli applausi e gli auguri
della tavolata, Alex si sentì più leggera, ma fu
una sensazione breve: infatti bastò incrociare lo sguardo di
Artù - deluso e rattristato - perché tutto
tornasse come prima, se non cento volte peggio. Il modo in cui Cathleen
abbassò il capo confermò il suo più
grande timore: Artù sapeva della sua possibile gravidanza.
Temeva la sua reazione, forse anche più di quella di
Merlino, ma da un lato sapere che non avrebbe dovuto parlargliene in
prima persona la rincuorò.
Si erano appena riseduti a tavola, eccetto Wanda, Rebecca e Merlino, il
quale aveva insistito per aiutare a sparecchiare nonostante fosse anche
la sua festa, quando Abby attirò l'attenzione di tutti
dicendo: «So che prima delle nozze si dovrebbero celebrare
gli addii al nubilato e al celibato, i maschi con i maschi e le femmine
con le femmine, ma che ne dite se invece facciamo una festa
collettiva?».
«Che cos'hai in mente?», le domandò
Cathleen, felice di potersi concentrare su qualcosa che non fosse il
segreto della sua migliore amica.
«Pensavo ad un falò», rispose sorridendo
a trentadue denti. «Sotto le stelle, con i marshmallow...
L'ultima volta che l'ho fatto avevo sei anni».
La signora Chapman impallidì all'improvviso, ma si
sforzò di sorridere e accarezzò la testa della
nipote. Più o meno lo stesso accadde ad Alex, la quale stava
assistendo in diretta all'avverarsi della sua visione.
La rossa si alzò in piedi, eccitata. «Idea
fantastica! Io e Alex finiamo qui e ci occupiamo dei marshmellow,
mentre Artù e Merlino andranno a cercare il posto adatto. Su
su, andate!».
Il sovrano avrebbe ribattuto, se solo la sua ragazza non gli avesse
lanciato un'occhiata truce, abbastanza eloquente, che lo convinse a
seguire Merlino fuori dalla sala vuota.
«Voi bambini andate pure in salotto a giocare con Rufus, non
ci metteremo molto», disse ancora.
Alex non aveva molta voglia di parlare e scoprì che, al
contrario di ciò che aveva pensato, nemmeno Cathleen era
dell'umore. Di solito faceva in modo di rimanere sola con lei quando
voleva spronarla a fare qualcosa a cui lei si sarebbe opposta, ma
quella volta doveva essere stato un caso. Il paramedico infatti non la
guardò nemmeno, concentrandosi sui piatti sporchi da portare
in cucina, e questo anziché tranquillizzarla la fece ancora
più insospettire. Ecco di cosa si trattava! Psicologia
inversa.
Sospirando, si posizionò nel lavello di fianco a quello in
cui Cathleen stava sciacquando la sua parte di piatti e a bassa voce
sussurrò: «So cosa stai facendo».
«Ci credo, lo stai facendo anche tu».
«Non intendo... lavare i piatti. Stai tenendo per te tutto
quello che pensi nella speranza che sia io ad iniziare il discorso. Non
funzionerà, Cath».
«Ah no? E come mai?».
«Beh, ho intenzione di sistemare le cose con Merlino questa
sera stessa, dopo...».
Cathleen si fermò per voltarsi a guardarla, incuriosita
dalla sua improvvisa interruzione. «Dopo che
cosa?», la incalzò.
«Dopo il falò», concluse
frettolosamente.
Ovviamente ciò che intendeva era dopo il suo incontro con
quella che ormai era convinta fosse Morgana, ma non poteva dirglielo.
Cathleen conosceva già un suo segreto e metterla al corrente
di un altro non sarebbe stato d'aiuto. A tal proposito...
«L'hai detto ad Artù, non è
vero?».
A quell'accusa il paramedico si lasciò quasi scappare dalle
mani il piatto che stava sistemando nella lavastoviglie. Si
risollevò in fretta e furia e la fronteggiò, o
almeno aprì la bocca per farlo. Il suo volto era dello
stesso colore dei suoi capelli e Alex provò addirittura
tenerezza nei suoi confronti.
«Non ce l'ho con te», le disse alla fine,
sorridendo.
«D-Davvero?».
«Davvero. Mi sorprende che tu abbia resistito così
tanto».
«Che cosa...?».
«È la verità: sei terribile a mantenere
i segreti. Prega che Artù non lo sia altrettanto,
perché se si dovesse lasciare scappare qualcosa con
Merlino...».
Cathleen scorse il proprio riflesso nella superficie del coltello che
le aveva puntato contro e deglutì, senza capire se stesse
scherzando o meno.
***
Artù guardò Merlino con la coda dell'occhio
mentre si chinava a prendere un bastone abbastanza resistente per
usarlo come appoggio, poi tornò ad ispezionare il terreno
alla ricerca di un buon punto dove accendere un fuoco.
Si erano lasciati l'agriturismo e le stalle alle spalle, dirigendosi
verso il limitare del bosco da dove quel pomeriggio avevano visto
Alexandra arrivare in groppa al suo destriero nero.
Più ci pensava, meno si raccapezzava: da quando era entrata
in contatto con la magia aveva iniziato a mentire, a prendere decisioni
incomprensibili e ad allontanare i suoi amici; ora che sembrava sul
punto di disintossicarsene perché aveva deciso di portare
con sé Excalibur? E alla vigilia del proprio matrimonio per
giunta! Cos'altro stava nascondendo loro?
«Artù».
L'ex-re si voltò di scatto, allarmato dal tono sofferente
dell'amico, ed infatti trovò Merlino acquattato a terra, con
il capo posato contro il bastone a cui era aggrappato con entrambe le
mani.
«Ehi! Ehi, Merlino, stai male?». Si
inginocchiò di fronte a lui e gli portò una mano
sulla schiena. «Parlami».
Lo stregone respirò profondamente e quando aprì
gli occhi per incrociare i suoi, Artù venne colto di
sorpresa da delle iridi dorate. Fu solo un attimo però:
quella stessa luce magica gli attraversò il corpo e poi il
bastone che teneva tra le mani, annerendolo; infine si
riversò nella terra sotto di loro, disperdendosi in un
reticolo di vene sempre più sottili.
«Che cosa diavolo...?», mormorò
Artù, spaventato.
«Freya», rispose debolmente Merlino, mentre
un'altra ciocca dei suoi capelli si colorava di bianco. «Ha
appena formulato un potente incantesimo».
«Quale incantesimo? Che intenzioni ha?».
Il mago si afflosciò, ma Artù fu abbastanza
pronto di riflessi da prenderlo al volo. Si sistemò il suo
capo in grembo e gli diede qualche schiaffetto in viso, esclamando:
«Avanti, riprenditi. Merlino, ti ordino di riprenderti! Ti
prego...».
Non poteva perderlo, aveva giurato che l'avrebbe protetto! Ma come
poteva contrastare la magia? Solo in quel momento si rese conto di
quanto fosse stato sfrontato ed arrogante nel fare quella promessa.
Sbatté più volte le palpebre per asciugare le
lacrime che minacciavano di rigargli il viso e guardò il
cielo scuro ricoperto di stelle, affranto. «Ti supplico
Merlino, non mi lasciare. Lo sai che sarei perso senza di
te...».
«Potreste sempre trovarvi un altro George»,
esalò alla fine lo stregone.
Artù non riuscì a trattenere un sorriso,
replicando: «Di certo mi darebbe meno noie. Tu... buffone che non sei
altro!».
Con delicatezza fece per spostare il capo di Merlino per alzarsi e
andare a chiamare aiuto, ma il moro gli afferrò un polso e
aprendo gli occhi gli disse: «Rimanete qui, per favore. Ho
solo bisogno di un momento».
Artù valutò i pro e i contro e decise che forse
era meglio non coinvolgere Alex, non dopo ciò che aveva
appreso da Cathleen. Aveva faticato a guardarla negli occhi a cena,
come poteva rivolgerle la parola sapendo che sarebbe scesa in battaglia
rischiando di mettere a rischio la vita di suo nipote?
«Va bene», rispose, posando con incertezza una mano
sulla fronte di Merlino per scostargli i capelli.
Rimasero in silenzio per quella che gli sembrò
un'eternità, ma una volta tanto godette di quella pace:
ascoltò il vento frusciare tra le fronde degli alberi e il
frinire dei grilli, seguì i movimenti di alcune lucciole e
il tragitto di un aereo che per un attimo confuse per una stella
cadente.
«Sembra Camelot, non è vero?», gli
chiese piano Merlino ad un tratto.
Artù non incrociò il suo sguardo.
«Sì, ma non lo è».
«Manca anche a me, ora più che mai. Era tutto
così semplice...».
«Davvero? Mentire a tutti, mentire a me a tempo pieno
lo trovavi semplice?».
Merlino abbozzò un sorriso e con uno sforzo si
puntellò sui gomiti per sollevarsi e guardarlo dritto negli
occhi. «Alla fine della giornata ne valeva la pena, ve
l'assicuro».
«Continuo a chiedermi che cos'avrei fatto se avessi saputo
prima che tu eri uno stregone, o che mi avevi visto morire per mano di
Mordred».
«Mi sono torturato con questi quesiti per più di
mille anni, Artù», rispose il mago, posandogli una
mano sulla spalla. «Non fate il mio stesso errore».
«Ma che senso ha conoscere il futuro se non lo si
può cambiare?».
«Posi esattamente la stessa domanda a Gaius quando faceste
arrestare Mordred. Volete sapere che cosa mi disse?».
Artù annuì con un cenno del capo.
« Alcune trame
sono così intrecciate nelle fibre del mondo che non si
può fare nulla per cambiarle».
«Mi stai dicendo che quindi tutti i nostri sforzi sono
inutili? Non importa quanto coraggiosamente combatteremo, quello che
succederà è già scritto?».
Merlino sospirò, rispondendo:
«Probabilmente». Quindi usò la spalla di
Artù come sostegno e con l'ennesimo sforzo si
alzò. Si spolverò i vestiti e gettò
via il bastone ormai carbonizzato, avviandosi lentamente verso il
limitare del bosco, dove aveva visto dei tronchi che avrebbero potuto
usare come panchine naturali.
«Se è davvero così... sono grato che tu
non mi abbia mai detto nulla riguardo alla mia morte. Forse avrei
potuto salvarmi, ma a quale costo?».
Merlino si girò e lo sguardo che gli rivolse, pieno di
dolore e rimorso, lo ferì più di mille spade.
«Il peso che hai portato sulle tue spalle... Non oso nemmeno
immaginarlo».
«Il passato è passato»,
liquidò in fretta la questione Merlino.
«Ciò che mi preoccupa è che ora quello
stesso peso sia ricaduto sulle spalle di Alex».
Artù impiegò qualche secondo di troppo per
rispondere a quell'insinuazione, scioccato e col cuore in gola.
«Credi che abbia avuto delle visioni?».
«Oh, ne sono certo. Glielo leggo negli occhi: il conflitto
che si prova sapendo più di ciò che si dovrebbe
è inconfondibile».
Il sovrano pensò che probabilmente i suoi segreti non
riguardavano solo il futuro, ma anche la possibile gravidanza. Non
poteva dirlo a Merlino però, vero? L'aveva promesso a
Cathleen. Aveva fatto un sacco di promesse senza avere l'assoluta
certezza di poterle mantenere e non era da lui.
«Va tutto bene?».
La domanda del moro lo riportò bruscamente alla
realtà e disse la prima cosa che gli venne in mente:
«L'incantesimo di Freya. Non dovremmo...?».
«Non possiamo andare a cercarla ora, rischieremmo di mettere
tutti in pericolo», rispose saggiamente Merlino, indicando
l'agriturismo. «Ci penseremo domani, dopo il
matrimonio».
Artù stesso volse lo sguardo verso la cascina e si
accarezzò la nuca, mordendosi l'interno della
guancia. Non era un fan dei segreti o delle cospirazioni, non lo era
mai stato dato che solitamente era lui quello all'oscuro di tutto,
tuttavia quel matrimonio sarebbe potuta essere l'ultima occasione che
avevano per stare tutti insieme, per essere felici. Ma sarebbe stata
vera felicità, in fondo?
«Artù? A che cosa state pensando?».
Fu colto nuovamente di sorpresa, tanto che quasi sobbalzò.
«Cosa? A niente».
Merlino si sciolse in un sorriso. «Già,
perché ve l'ho chiesto?».
«Ah-ah, molto divertente!», esclamò
sarcastico, dando le spalle a tutte le sue preoccupazioni nella vana
speranza che sparissero magicamente.
***
«La prima volta che l'ho visto pensavo fosse un po'
ritardato, lo ammetto».
«Non fatico a crederti, Mark: mio padre ne era assolutamente
certo».
Artù si beccò una fiacca spallata da parte di
Merlino, ma il sorriso carico di tenerezza che gli rivolse subito dopo
gli fece dimenticare l'offesa. Anche se Alex avesse saputo che cosa
significava avere una sorella, non avrebbe potuto comunque quantificare
l'amore fraterno che c'era tra l'ex-re di Camelot e il suo
ex-servitore: un amore così grande e così forte
da durare nei secoli; una luce che non si era mai affievolita, nemmeno
nei periodi più bui.
«Insomma, si è presentato nella sala comune con il
suo libro di favole e quelle orecchie a sventola...».
«Non è colpa mia se sono
così!», provò a difendersi lo stregone,
coprendosi gli organi uditivi che gli avevano fatto guadagnare il
soprannome di Dumbo.
Abby si accucciò un po' di più tra le braccia di
Mark, sollevando gli occhi per guardarlo in viso. «Io le
trovo tenere».
«Ah davvero? Per te niente più
marshmallows», la castigò il ragazzino,
sporgendosi per prendere tra i denti la caramella che la fidanzatina
stava facendo raffreddare. Lui ovviamente non se n'era curato e per
questo si ustionò la lingua, scatenando le risate di tutti,
eccetto Alex.
Cathleen, seduta proprio al suo fianco, notò la sua
serietà e il modo in cui si stava rigirando tra le mani
l'impugnatura del suo nuovo pugnale, recuperato da ciò che
era rimasto dell'armeria di Merlino dopo la perquisizione fatta da
Scotland Yard.
Si schiarì un poco la gola e si chinò in avanti,
con le braccia incrociate sulle ginocchia, per sussurrarle:
«Va tutto bene?».
Alex le rivolse a malapena un'occhiata ed annuì con un cenno
del capo per tornare a concentrarsi ed evitare di perdersi dei
dettagli.
Il desiderio di Abby era stato accontentato e una volta trovato il
luogo giusto per accendere il falò, gli adulti vi avevano
accompagnato i bambini per dare il via a quell'insolito addio al
celibato/nubilato. A turno, tutti avevano raccontato come avevano
conosciuto lei e Merlino e che cosa amavano di loro, singolarmente e
come coppia. Separati dalle lingue di fuoco, i due futuri sposi avevano
incrociato gli sguardi più di una volta, ricordando con
sorrisi velati di amarezza i giorni in cui tutto era infinitamente
più semplice.
Il tempo era volato e un po' per il freddo e un po' per la stanchezza,
Abraham, Edwin e Wanda erano stati costretti a portare nelle loro
camere gli addormentati Gabriel e Jessica, mentre Danilo si era
ritirato di sua spontanea volontà usando come scusa le
smancerie di Abby e Mark.
Così erano rimasti solo i protagonisti della sua visione:
Cathleen, Artù, Abby, Mark, Merlino e lei stessa.
Lo scoppiettio delle fiamme ardenti al centro di un cerchio di pietre,
il frinire dei grilli nei campi e le risate; le fronde degli alberi
mosse dalla brezza serale, i tronchi come panchine e i bastoncini coi
marshmallows. Ogni cosa era esattamente come nella sua visione, eppure
non era ancora arrivato il momento che lei aveva visto e rivisto nei
suoi sogni.
Continuava a pensare a quello che le era successo quel pomeriggio,
quando aveva deciso di usare ciò che aveva visto per agire
di conseguenza. Il risultato? Tutto era cambiato. Si era trattato di un
semplice sogno o comportarsi diversamente era bastato a cambiare il
futuro? L'unico modo per avere chiarezza era sperimentare un altro
approccio. Aveva dunque deciso di non modificare nulla, di recitare la
sua parte e sperare che alla fine la donna misteriosa si sarebbe fatta
viva.
«Tocca a te Artù», esclamò
Mark dopo aver fatto prendere aria alla sua lingua scottata.
«Raccontaci come hai conosciuto Merlino».
«Come...? Oh, è... è una lunga
storia», balbettò a disagio, abbassando il volto
arrossato. Nessuno vi fece troppo caso però, grazie ai
bagliori delle fiamme.
«Abbiamo tempo», insistette il ragazzino prima che
Abby potesse convincerlo a desistere.
Artù guardò Merlino e ad un suo cenno d'assenso
tornò a voltarsi verso il fuoco. «Uhm... okay.
Avevamo qualche anno più di voi, all'epoca. Merlino...
Merlino si trasferì nel mio paese e non sapeva minimamente
chi fossi, o quali fossero le regole».
«Aspetta, mi sto già perdendo. Quali regole?
Perché avrebbe dovuto conoscerti?».
«Hai ragione, Artù è pessimo a
raccontare storie», intervenne Merlino. «Posso
continuare io?». E senza aspettare una risposta affermativa
ricominciò il racconto: «Il padre di
Artù possedeva diverse fabbriche a nord di Carleon, le quali
davano praticamente lavoro a tutti gli abitanti dei paesi vicini. Mio
zio sapeva che avevo bisogno di un lavoro e grazie alle sue conoscenze
di medico riuscì a trovarmi un posto in una delle fabbriche
del signor Pendragon, così mi trasferii da lui.
«Il giorno dopo il mio arrivo, mio zio mi mandò a
fare alcune commissioni perché ne approfittassi per
guardarmi intorno e fu allora che incrociai Artù. Come stava
dicendo, io ero nuovo della zona e non sapevo che fosse il figlio del
mio datore di lavoro. L'importanza delle fabbriche Pendragon era tale
che Artù si comportava come se fosse il figlio del re,
facendo il bullo con gli altri ragazzi della nostra età e
rimanendo impunito».
«Mi stai dipingendo come un mostro», disse tra i
denti Artù, sempre più imbarazzato.
«No, solo come un asino», replicò lo
stregone dandogli una pacca sulla schiena. «Ma non
preoccuparti, grazie a me sei diventato una persona
migliore!».
Cathleen si coprì la fronte con entrambe le mani,
trattenendo le risate, e persino Alex si concesse un sorriso,
nonostante la capacità di Merlino di rigirarsi come voleva
le storie del suo passato la lasciasse sempre esterrefatta.
«Vai avanti!», lo pregò impaziente Mark,
infilando l'ennesimo marshmallow nel proprio spiedino.
«Passai davanti ad un parco giochi e vidi Artù
lanciare delle pigne contro un ragazzo con un coperchio dell'immondizia
tra le mani. Credo lo stesse usando come bersaglio mobile per
migliorare la propria mira, non è così
Artù?».
«E lasciami indovinare: tu hai preso le difese del
ragazzo», esclamò Abby, sorridendo orgogliosa.
«Ma certo! L'avrebbe fatto chiunque!».
«Io non ne sarei tanto sicura, ma continua».
«Artù non prese bene la mia intromissione e dopo
avermi umiliato per bene, mi disse chi era e che cosa mi sarebbe
successo al lavoro il giorno dopo. Mantenne la parola e venni messo a
pulire i bagni e la mensa».
«Che schifo!».
«Già. Però l'avrei rifatto comunque. E
infatti, la seconda volta che lo incrociai sul mio cammino non mi tirai
indietro».
«Non sapevo fossi un tipo così
coraggioso», commentò Mark, davvero colpito.
«Sapevi in partenza che Artù ti avrebbe sconfitto
e l'hai comunque fronteggiato?».
«Oh, ha fatto molto di più», furono le
prime parole di Alex, la quale non era più riuscita a
resistere. Rivolgendo un sorriso ai due ragazzi, concluse:
«In effetti, nonostante Artù non avesse fatto
altro che trattarlo come una pezza da piedi, gli ha salvato la
vita».
«Che cosa?! Aspetta un momento... ho capito». Mark
sogghignò, scuotendo il capo. «Questa storia
è identica al primo capitolo del tuo libro di favole,
Merlino».
«Perché è alla storia della loro
amicizia a cui si è ispirato», gli disse Abby,
togliendo tutti quanti dai guai. Abbassando la voce, aggiunse:
«Te ne avevo parlato, non ti ricordi? Artù,
disturbi della personalità...?».
Mark deglutì forzatamente, quindi sorrise nella direzione
del biondo. «Oh. Oh, sì. Scusa, vai avanti
Merlino».
«Beh, la versione breve è che durante la mia terza
giornata di lavoro si è presentata alla fabbrica una signora
che poco tempo prima aveva perso suo figlio mentre lavorava ad una
delle fornaci. È stato un incidente, ma quella donna era
così distrutta dal dolore che non riusciva a capirlo. Voleva
far provare al signor Pendragon quello che stava provando lei...
così ha estratto una pistola e BAM!».
Mark sobbalzò e rimase a fissarlo a bocca aperta, gli occhi
sgranati per lo shock.
Merlino si sciolse in un sorriso, posando la mano sulla spalla di
Artù, e concluse: «Il proiettile l'ha mancato
perché sono riuscito a gettarmi su di lui. Come segno di
gratitudine, sono diventato il segretario di Artù:
praticamente facevo tutto quello che lui non aveva voglia di fare. Ma
col passare degli anni siamo diventati ottimi amici».
«Migliori amici», lo corresse Artù
porgendogli la mano. Merlino, scacciando la sorpresa, lo
afferrò all'altezza dell'avambraccio come era usanza tra i
cavalieri di Camelot. «Grazie per avermi salvato,
Merlino».
Quella frase ebbe l'effetto di far inumidire gli occhi dello stregone,
il quale abbassò il capo per sfuggire agli occhi blu del
sovrano. Alex sapeva fin troppo bene il motivo della sua improvvisa
tristezza, ma non ebbe il tempo per curarsene.
«Mark!», gridò Abby, e tutti si
voltarono verso il ragazzino per vedere il suo marshmallow andare a
fuoco.
Ecco l'inizio della sua visione. Alex era così scioccata che
si pietrificò sul posto mentre Artù, Merlino e
Cathleen si alzavano per assistere Mark mentre tentava di spegnere il
mini-incendio sventolando lo spiedino. Tutti avevano iniziato a ridere
per la comicità della scena e alla fine Merlino decise di
porvi fine gettando direttamente tutto nel fuoco.
«Caspita, c'è mancato poco!»,
esclamò Mark in tono sollevato.
Artù alzò gli occhi verso il cielo scuro e
gettò un'occhiata al mago: «È tardi,
non dovremmo...?».
«Oh no, vi prego, restiamo qui un altro po'!», fece
gli occhi dolci Abby, convincendo Artù seduta stante.
«Okay, allora noi uomini andiamo a prendere altre
coperte», disse Merlino. «Non vogliamo nessuno col
raffreddore domani!».
Alex ricambiò lo sguardo dello stregone, ma distrattamente:
di fatto, non era ancora riuscita a superare lo shock di essere davvero
nel bel mezzo della sua visione.
Quando lei, Abby e Cathleen rimasero sole, quest'ultima fece proprio
quello che si aspettava da lei: si sedette a terra, con la schiena
contro il tronco e le mani unite dietro la nuca, gli occhi rivolti
verso il cielo stellato sopra le loro teste.
«Non avrei mai immaginato di poter provare ancora tutto
questo».
Il silenzio che calò fu tanto profondo, tanto strano, come
se mancasse qualcosa. Quando Alex ricordò di dover recitare
la sua parte, non riuscì a risultare naturale.
«Già… Ci voleva, dopo quello che
è successo», disse meccanicamente, gettando
un’occhiata verso Abby in attesa che si sporgesse verso di
lei per stringerle una mano tra le sue.
E così fece, dicendo: «Hai fatto anche troppo per
me, non mi sdebiterò mai».
«Ehi, non è ancora detta l’ultima
parola», ricordò Cathleen con gli occhi
fiammeggianti, e non perché vi erano riflesse le lingue di
fuoco del falò.
Alex annuì, ma non fu in grado di fingersi sincera quando
ripeté a memoria: «No, infatti. Insieme ce la
faremo, ne sono sicura», né quando si sporse per
stringere la ragazzina in un abbraccio delicato. E questa volta la
causa era l'altra visione, quella in cui aveva visto Abby in una bara.
Sia Abigail che Cathleen la fissarono stranite, cosa che non sarebbe
dovuta succedere. Presa dal panico, rubò la battuta della
ragazzina: «Noi tre».
Il paramedico inarcò le sopracciglia e la guardò
con circospezione, mordendosi il piercing sulla lingua per il
nervosismo prima di parlare.
«Alex, è da quando Abby ha proposto il
falò che ti comporti in modo strano».
«No, no ti sbagli», rispose frettolosamente.
«Che stavamo dicendo? Ah sì. Non credete che noi
tre potremmo fare grandi cose insieme? Potremmo salvare il mondo, se
solo lo volessimo!».
«Che cosa...?», balbettò Cathleen, ma
per qualche strana ragione Abby le fece segno di darle corda e la
realtà tornò in linea con la visione.
«Non saprei», ammise la ragazzina, stringendosi
nelle spalle. «Non riesco a prendermi cura di me, come potrei
fare qualcosa di buono per gli altri?».
Alex fissò Cathleen, col cuore in gola, ma la rossa non si
mosse dal suo posto. Al diavolo, stava mandando a monte tutto il suo
duro lavoro!
Trattenendo la rabbia, le disse: «Dovresti dirle qualcosa.
Tipo... Se dovessi descriverti con una sola parola, sarebbe "coraggio".
No? Nulla?».
«Alex, tu... tu hai già visto tutto
questo», esclamò Cathleen ad occhi sgranati,
alzandosi in piedi. Alla fine ci era arrivata. «È
la visione di cui non volevi parlarmi! Dimmi, è
perché ci sono anche io? Avevi paura che potessi cambiare le
cose sapendolo?».
«Che importanza ha ora?!», gridò
piantando il pugnale nel tronco cavo ed alzandosi a sua volta.
«Hai già rovinato tutto!».
«Cosa? Alex, come potevo...?».
«Lascia perdere, okay? Ho bisogno che voi... facciate quello
che vi dico. Ne ho bisogno. Ho bisogno che questa cosa vada nel verso
giusto».
Cathleen e Abby si guardarono e nonostante le rimostranze della prima,
acconsentirono con un cenno del capo. Rigidamente, Alex
tornò a sedersi ed indicò alla rossa di mettersi
alla sinistra di Abby.
«A questo punto le avresti detto che lei è la
persona più coraggiosa che conosci, non solo
perché non si è mai arresa alla malattia ma
perché è in grado di dare speranza a chiunque le
stia vicino, indipendentemente dalla sua condizione. E io ti avrei
detto che non avrei saputo dire di meglio». Si sentiva una
stupida nel spiegare come sarebbero dovute andare le cose e non sapeva
se questo avrebbe modificato o meno il futuro, ma doveva provarci:
aveva bisogno di vedere la donna misteriosa, ad ogni costo.
«E poi?», chiese Abby.
«Poi tu avresti chiesto a Cathleen quale parola avrebbe usato
per descriversi».
Il paramedico scrollò le spalle. «Io non ho alcun
talento particolare».
«È esattamente quello che hai detto nella mia
visione! Oh Dio, sta funzionando!», gridò
entusiasta Alex, ricominciando a sperare. Incrociò lo
sguardo sperduto di Cathleen e inarcando le sopracciglia disse:
«Ah no? Tu non te ne rendi conto Cath, ma hai una forza
incredibile; Artù me l’ha detto più
volte. Nonostante tutto quello che hai passato, nonostante tu ti sia
trovata sul fondo di un baratro, non ti sei mai data per vinta e sei
riuscita ad uscirne. Hai lottato per stare a galla e guardati
ora… sei di nuovo felice».
«Non ci sarei mai riuscita senza di voi»,
provò a sminuirsi Cathleen, ma Alex le tirò un
pugnetto su un ginocchio, mordendosi un sorriso.
«Invece sì, perché hai un fuoco al
posto del cuore. Magari ci avresti messo più tempo, ma ce
l’avresti fatta alla fine».
Cathleen si strinse il naso e poi si soffermò a fissarla,
proprio come Abby, la quale disse: «Manchi solo tu ora. Io so
qual è la parola che ti descrive».
«Anche io», aggiunse il paramedico.
«Anche io lo so, ma farò finta di no»,
sussurrò con un sorriso divertito sul volto.
«Quale sarebbe?».
«Magia», esclamarono in perfetta sincronia le due,
per poi battersi il cinque.
Alex mise su un finto broncio e si strinse le braccia al petto,
ribattendo: «Ah, quindi io sarei la ragazza coi poteri
magici? Senza non sarei niente, uh?».
«È proprio il contrario!», disse Abby,
ricambiando con più forza il suo abbraccio. «Tu
sei sempre stata magica, anche quando non sapevi di esserlo. Non sei
perfetta, ma sei la persona migliore che conosco».
«Concordo», le diede man forte Cathleen, unendosi
all’abbraccio.
«Farò finta di credervi»,
sussurrò Alex, e - visione o meno - le lacrime di commozione
le appannarono veramente gli occhi.
«Come... come siamo andate?», le chiese dopo
qualche secondo di silenzio la rossa, stringendosi le mani tra le gambe.
Alex annuì, ricomponendosi. «Bene, bene. Grazie.
Ora c'è un'ultima cosa che dovreste chiedermi».
«Che cosa?».
«Abby, dovresti chiedermi di farti vedere qualcosa. Una
magia».
«Oh. Okay». Respirò profondamente e la
pregò: «Per favore, ci fai vedere
qualcosa?».
«Merlino non vuole che usi la magia se non è
strettamente necessario», disse Alex come da copione,
guardando pure verso l’agriturismo, nonostante sapesse che i
ragazzi non sarebbero tornati per almeno un altro paio di minuti.
«Ma Merlino ora non c’è,
giusto?», la stuzzicò Cathleen, senza bisogno che
le suggerisse nulla. Probabilmente aveva capito che Alex doveva usare
la magia. «Dai che non vedi l’ora di mettere in
mostra i frutti del tuo allenamento».
L'infermiera aveva visto quel momento in due versioni diverse e
nonostante ne fosse spaventata, doveva sapere quale fosse la
verità in merito ai suoi poteri.
«Okay, mi hai convinta», sussurrò.
Sopraffatte dall'emozione, Cathleen e Abby le lasciarono un
po’ di spazio e Alex si concesse un respiro profondo prima di
stendere una mano verso le fiamme e chiudere gli occhi, bisbigliando:
« Upastige draca».
La forza della magia non le incendiò le vene come al solito,
ma dopo un attimo le sue iridi diventarono dorate e Alex si
ritrovò addirittura a sospirare di sollievo. Le ceneri
incandescenti si sollevarono sopra il falò e diedero vita al
solito drago, il quale però non fece in tempo a mostrare
interamente la propria apertura alare: come nella visione gentilmente
offertale dai cristalli, l'essere si accartocciò su se
stesso con un grido di dolore e svanì in una nuvola di
scintille e polvere.
Alex conosceva la magia da poco, eppure si ritrovò a pensare
che c'era del vero in ciò che aveva detto prima a Cathleen:
lei era la ragazza con i poteri, che cos'era senza?
Il dolore le inumidì gli occhi, mentre Cathleen,
preoccupata, domandava che cosa fosse successo.
La bionda non le rispose: si alzò in piedi e senza
preoccuparsi delle voci di Merlino, Artù e Mark, di ritorno
dall'agriturismo con le coperte, si voltò verso il
delimitare del bosco. Oltre le fiamme del falò, la donna
misteriosa le stava rivolgendo il suo sorriso enigmatico.
Scossa dalla rabbia, Alex si chinò per estrarre il pugnale
dal tronco e quando si risollevò scorse solamente un lembo
del suo pesante mantello di velluto verde prima che venisse inghiottito
insieme al resto della sua figura nell'oscurità del bosco.
Ormai aveva corso tra quegli alberi così tante volte nei
suoi sogni che sapeva perfettamente dove fossero le radici sporgenti e
gli avallamenti naturali del terreno che l'avevano fatta cadere faccia
a terra notte dopo notte. Ciò nonostante, la donna
misteriosa manteneva sempre un certo vantaggio e non importava quante
volte la pregasse di fermarsi, lei si limitava a rivolgerle un'occhiata
da sotto il cappuccio e a sparire per poi ricomparire qualche metro
più avanti.
Al massimo della frustrazione, Alex smise di correre e a causa del
fiato grosso si ricordò di poter gridare anche mentalmente.
"Morgana!"
La donna si fermò a sua volta, come pietrificata, e un
brivido le corse sotto pelle pensando che allora aveva ragione, allora
era davvero la nemesi di Merlino, la sorella di Artù, la sua
lontana... prozia?
«Fatti vedere», sussurrò con la bocca
impastata, l'impugnatura in cuoio del pugnale umida di sudore.
Abbassò gli occhi e dandosi della stupida per la propria
ingenuità sollevò entrambe le mani e poi con
cautela lasciò il pugnale a terra. Colpendolo con la punta
di una scarpa per farlo rotolare nella sua direzione, aggiunse:
«Non ho cattive intenzioni».
"E conosci anche le mie,
di intenzioni?"
L'infermiera deglutì nuovamente, ma cercò di
mantenere un tono di voce fermo e deciso. «No, non le
conosco. Ma se avessi voluto farmi del male avresti potuto lasciare che
mi schiantassi semplicemente contro quel tir».
La donna finalmente si girò verso di lei e
sollevò le mani lentamente, fino a prendersi i lembi del
cappuccio. Con un movimento altrettanto calcolato, se lo
lasciò cadere sulle spalle e lasciò che i loro
sguardi si incrociassero per la prima volta.
Era così bella, così regale... La pelle diafana
in contrasto con i lunghi capelli neri, gli zigomi alti e affilati, le
labbra piene e gli occhi di un verde così chiaro da sembrare
trasparenti, fieri e determinati. Ora capiva perché
Artù - prima di scoprire il loro grado di parentela - fosse
stato attratto da lei, perché Merlino l'aveva sempre
considerata il suo amore proibito, perché tutti a Camelot
avrebbero dato qualsiasi cosa per un suo sorriso. Poi qualcosa era
cambiato, il suo cuore si era spezzato e tutta la sua bontà,
la sua compassione e il suo senso di giustizia erano stati avvelenati
dalla magia nera.
«Sei così simile al mio fratellino»,
furono le prime parole che le rivolse muovendo le labbra tremanti.
«Artù e Merlino sono là»,
esclamò, indicando le luci arancioni del falò.
«Perché non...?».
«Loro non possono vedermi, Alexandra. Solo tu puoi».
«Non capisco».
«Excalibur. La spada mi ha liberata, ma una parte della mia
anima vi è rimasta imprigionata, costringendomi a vagare per
queste terre per secoli, nella più completa solitudine.
È la mia punizione, ciò che mi merito per aver
causato così tanta morte e sofferenza. Ma forse ora posso
rimediare ai miei sbagli, posso aiutarti. Alexandra, tu sei l'ultima
Pendragon, su di te grava il destino del mondo».
«Sì, lo so, lo so», la interruppe
portando le mani avanti. «Abbiamo già avuto questa
conversazione nella mia testa: la profezia della Triplice Dea, la
maledizione di Merlino, il mondo che sta collassando su se stesso... so
tutto».
«Il dono della Vista va usato con saggezza,
Alexandra».
«Ah, inizio a dubitare fortemente che sia un dono. Comunque
sia, hai detto di volermi aiutare, giusto? Beh, ho un paio di domande:
come posso fermare Freya senza la magia? I poteri che ho assorbito da
Excalibur si stanno esaurendo e in tutta onestà non voglio
tornare ad essere una psicopatica per riottenerli. Non che tu fossi
una... forse un pochino, ma...».
Le labbra di Morgana si incurvarono in un sorriso fino a che non furono
costrette ad aprirsi a causa di una risata argentina. Ancora una volta,
Alex fu colpita dolorosamente dal ricordo di sua madre. Le somigliava
così tanto...
«Credo di avere la soluzione al tuo problema», le
disse alla fine. «Seguimi, presto».
La bionda si guardò alle spalle, chiedendosi
perché Merlino e Artù non la stessero
già cercando, quindi trasse un respiro profondo per farsi
coraggio e seguì lo spirito della prozia tra gli alberi. Non
le chiese dove stessero andando, anche perché non ce ne fu
bisogno: ormai conosceva bene quella strada.
Alex uscì dall'ombra degli alberi e guardò come
la luce della luna facesse brillare i capelli corvini della strega,
rendendola simile ad una vera e propria Dea.
Morgana, in piedi accanto alla sua stessa tomba, le sorrise dolcemente
e poi si portò una mano sul ciondolo che portava al collo,
il ciondolo con lo stemma druido che Alex aveva visto nei brevi flash
di visioni che aveva avuto quando era stata nella caverna di cristallo.
Se lo tolse e tenendolo tra le mani a coppa disse qualche parola nella
lingua della Religione Antica: i suoi occhi brillarono d'oro e
successivamente anche le incisioni sul ciondolo.
Quando sulla radura tornò ad essere illuminata
esclusivamente dalla luce lunare, Morgana gemette e il suo spirito
parve affievolirsi, in agonia proprio come il drago che poco prima
aveva cercato di creare con la cenere del falò.
Istintivamente Alex fece un passo verso di lei per sostenerla, ma come
quel pomeriggio non appena la sfiorò sentì un
gelo bruciante avvilupparle le dita, così doloroso che
dovette rinunciare.
«Sì, hai proprio il cuore di mio
fratello», mormorò la sacerdotessa stirando un
sorriso come ringraziamento per il tentativo.
Morgana posò il ciondolo sulla pietra più alta
della sua tomba ed incredibilmente le parve di vederlo diventare reale,
concreto contro la roccia.
«Indossalo. Quando impugnerai Excalibur ne
assorbirà la magia nera».
Alex fissò il simbolo druido, poi rivolse lo sguardo verso
Morgana e nonostante le incertezze fece un ulteriore passo in avanti
per allungare una mano verso il ciondolo d'argento. Lo trovò
freddo al tatto, ma non tanto quanto lo spirito della strega.
Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma il pensiero di
fallire, di non essere abbastanza, le tolse la voce. Alla fine fu
Morgana a parlare, dopo essersi concessa un sospiro mesto.
«Il nostro tempo è esaurito, Alexandra.
Dì a Merlino e ad Artù che mi dispiace tanto, per
tutto».
Il suo spirito era quasi svanito, quando l'infermiera alzò
il capo e trovò la forza di gridare:
«Aspetta!». Le fu quasi doloroso ricambiare il suo
sguardo, mostrarsi a lei tanto debole e fragile, sull'orlo del pianto.
«Dev'esserci un altro modo. Dev'esserci! Merlino non
può...».
L'espressione desolata di Morgana fu fin troppo eloquente e Alex non
riuscì più a contenere la sofferenza: si
acquattò a terra e con le unghie conficcate nei palmi
lasciò che le lacrime le rigassero le guance e che i
singhiozzi le mozzassero il respiro, sconquassandole la schiena.
«Oh, mia cara...», mormorò la strega
inginocchiandosi al suo fianco, una mano stesa sopra la sua nuca. Anche
da quella distanza, sentiva il freddo pungente penetrarle la pelle.
«Non lo guarderò morire»,
sussurrò. «Non lo permetterò, hai
capito? Morgana?». Alex alzò il capo e non vide
nessuno al suo fianco. In compenso, sentì dei rumori alle
sue spalle e facendosi forza si ricompose, alzandosi ed asciugandosi il
viso.
«Alex! Alex, che diavolo...?». Artù
comparve nella radura, subito seguito da un Merlino rigido come un
manico di scopa, e si ammutolì ed impallidì
quando si rese conto di essere al cospetto della tomba della sorella.
«Scusate, io... pensavo di aver visto qualcuno nel bosco e mi
sono ritrovata qui», disse con una mano sulla fronte,
fingendosi veramente desolata di averli fatti preoccupare.
Il mago fece in modo che lo guardasse dritto negli occhi e Alex si
sentì nuda, completamente esposta, ma allo stesso tempo
riuscì a capire che Merlino sapeva più di quanto
volesse far credere. E la prova definitiva la ebbe quando non pose
domande, bensì si limitò ad esclamare in tono
grave: «Torniamo all'agriturismo, è
tardi».
L'infermiera annuì con un cenno del capo e dopo essersi
infilata il ciondolo di Morgana nella tasca della giacca li raggiunse.
Artù sospirò, lanciando un'occhiata triste verso
l'insieme di pietre, dopodiché l'afferrò per un
gomito e la tenne stretta al suo fianco come avrebbe fatto un genitore
in un luogo affollato.
Alex si voltò solo una volta, quando ormai si erano
già inoltrati nel bosco buio e silenzioso, e le parve di
vedere la figura di Morgana in piedi accanto alla sua tomba, col volto
sorridente ma rigato di lacrime. Fu solo un attimo però: un
battito di ciglia ed era già scomparsa.
***
Artù non riusciva a dormire. Si sentiva preoccupato,
inquieto come lo era stato nelle ore che precedevano la Battaglia di
Camlann.
Sdraiato nella tenda reale, solo la vicinanza di Ginevra era stata in
grado di farlo addormentare, mentre la voce di Merlino, apparsogli in
sogno per avvertirlo delle intenzioni di Morgana, l'aveva svegliato.
Tenendo una mano sotto il capo, voltò il viso verso il letto
dello stregone, il quale gli dava le spalle. Per quanto lui si
sforzasse, i ricordi della sua vita a Camelot si affievolivano giorno
dopo giorno, portandolo sull'orlo della pazzia, eppure la sua memoria
non lo abbandonò quella volta: sembrava ieri, quando lui e
Merlino erano partiti alla ricerca dell'ultimo Signore dei Draghi e si
erano fermati in quella squallida locanda per la notte. Pur di farsi
dire che cosa lo turbasse, aveva detto a Merlino che se non fosse stato
un principe avrebbero potuto essere amici, quando in realtà
il suo orgoglio gli impediva di confessargli che lo riteneva
già tale da tempo. Contava sul fatto che il servitore
tenesse conto delle sue azioni - più volte aveva
già rischiato la vita per la sua - più che delle
sue parole.
Se il suo istinto non lo traeva in inganno ed erano davvero alla
vigilia della battaglia con Freya, allora avevano bisogno di riposare.
Con questa convinzione nel cuore, chiuse gli occhi e si
sforzò di cadere nel mondo dei sogni, ma fu allora che lo
stregone sobbalzò spaventato e si tirò su seduto,
le mani sopra il viso e le ginocchia strette al petto.
«Merlino, ti senti bene?», gli domandò
sollevando la testa dal cuscino.
Il mago si voltò di scatto verso di lui e dopo un attimo di
esitazione gli rivolse un sorriso forzato. «Sì,
tutto okay. Era solo un incubo».
Artù sospirò e tornando a guardare il soffitto
mormorò: «Dovrei crederti?».
«Perché siete sveglio?»,
cambiò argomento il moro, infilandosi nuovamente sotto le
coperte, quella volta rivolto verso di lui.
«Domani Freya farà la sua mossa, ne sono sicuro.
Per quale motivo avrebbe fatto quell'incantesimo,
altrimenti?».
«Avete paura?».
L'ex sovrano lo guardò in viso e non vi trovò
alcun segno di ironia. «Non temo per me, bensì per
Alex, per Cathleen... per te».
«Per me?», ripeté Merlino, lasciandosi
sfuggire un sorriso divertito mentre nei suoi occhi calavano le
tenebre. Cosa diavolo aveva sognato?
«Mi hai salvato la vita innumerevoli volte e non hai mai
chiesto nulla: niente denaro, niente riconoscimenti, nemmeno un grazie.
Hai dedicato la tua intera vita a me e non posso permettere che tu ti
metta ancora in secondo piano. Sarà un onore morire per il
più grande stregone di tutti i tempi».
«Voi non morirete, non una seconda volta».
«Pensa ad Alex! Non puoi lasciarla sola, non ora
che...!». Si interruppe, ricordando della promessa fatta a
Cathleen. Si schiarì la gola e concluse brevemente:
«Hai ancora tanto da insegnarle».
Merlino si passò le mani sopra il viso e sospirò,
per poi bofonchiare: «Alex se la caverà».
«Perché sei così testardo? Giuro sul
mio nome che non ti sacrificherai, Merlino».
Lo stregone a quel giuramento ridacchiò, intrecciando le
mani sullo sterno. «Avete ragione. Quando arriverà
il momento, non sarò tanto coraggioso».
«E questo che cosa vorrebbe dire?»,
domandò con la fronte aggrottata per l'irritazione. Forse
non sarebbe arrivato a vedere il sole sorgere, forse l'avrebbe ucciso
lui con le sue mani tant'era l'odio che provava nei suoi confronti in
quel momento. Ma odio e amore erano due facce della stessa medaglia,
proprio come lui e Merlino: non erano nulla senza l'altro e una
metà non poteva veramente odiare ciò che la
rendeva completa.
«Niente. È inutile fasciarci la testa prima di
essercela rotta», rispose alla fine lo stregone, deviando il
suo sguardo. E prima che Artù potesse replicare, aggiunse:
«Sforzatevi di dormire ora».
«Non puoi dirmi che cosa fare, Merlino»,
bofonchiò e subito dopo gli arrivò un cuscino in
faccia, proprio come aveva fatto lui quella notte di tanti secoli prima
per convincerlo a parlare con lui.
«Quest'epoca inizia a piacermi», disse ancora,
nell'ultimo, disperato tentativo di fargli cambiare idea. «Ma
non voglio viverci senza il mio migliore amico. Vivremo entrambi, o non
vivremo affatto».
Merlino aprì gli occhi per incrociare i suoi e si sciolse in
un sorriso commosso. «Anche io vi voglio bene,
asino».
«Io non... non intendevo nulla del genere!»,
balbettò preso in contropiede, ma venne interrotto dal bip bip del
cellulare di Merlino, il quale si sporse verso il comodino per leggere
l'SMS che gli era appena arrivato.
Artù lo guardò mentre si alzava e si vestiva,
serio in volto.
«Che succede?», gli domandò ad un
tratto, allarmato dal fatto che l'amico avesse tirato giù
Excalibur dall'armadio.
«Niente. Al mio ritorno voglio vedervi addormentato, ci siamo
intesi?».
Il re si scostò bruscamente le coperte di dosso e
alzò a sua volta, avanzando minaccioso verso il moro.
«Ah-ah, hai capito male se pensi di potermi lasciare qui
mentre tu te ne vai in giro nel cuore della notte con...!».
«Mi dispiace», sussurrò Merlino e
Artù non riuscì a capire a che cosa si riferisse.
Aprì la bocca per chiedere spiegazioni, ma non un suono
uscì dalle sue labbra quando vide le iridi del mago tingersi
d'oro. Dopodiché un sonno improvviso ed incontrastabile gli
fece chiudere gli occhi mentre ricadeva storto sul letto.
Maledetto Merlino!
***
Lo stregone dovette addossarsi alla parete per non svenire e fu
costretto ad aspettare qualche minuto prima di muoversi, scosso dalle
convulsioni. Quando si stabilizzò, tirò fuori
dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa e si
tamponò il naso sanguinante, quindi inghiottì le
ultime pillole della sua scorta di antidolorifici ed uscì
dalla stanza chiudendosi dolcemente la porta alle spalle.
Stava percorrendo il corridoio col cuore pesante come piombo, le parole
di Artù ancora nelle orecchie e ciò che aveva
visto nel suo così detto incubo di fronte agli occhi, quando
un rumore alle sue spalle lo fece voltare.
«Mark?», lo chiamò sorpreso.
Il ragazzino arrossì incrociando il suo sguardo,
ciò nonostante mise su la sua solita aria spavalda e lo
salutò con un cenno del capo.
«Ehi, Merlino. Come mai sveglio?».
«Potrei chiederti la stessa cosa».
«Ahm, io...».
Merlino arricciò le labbra in un sorriso. «Si
tratta di Abby, non è vero?».
«Forse», mormorò portandosi una mano
sulla nuca. «E tu stai andando da Alex, nonostante non
dovreste vedervi fino a domani?».
«Che ci vuoi fare: le donne chiamano e noi
corriamo». Gli strizzò l'occhio e senza aggiungere
altro si allontanò, col cuore ancora più pesante
nel petto ed Excalibur stretta nella mano destra.
Aveva notato lo sguardo di Mark posarsi sul fodero, ma non gli aveva
dato il tempo di formulare la domanda di cui lui per primo non sapeva
la risposta: perché impugnava quella spada. Era stata Alex a
chiedergliela, come post scriptum del messaggio con cui lo aveva
pregato di raggiungerla al falò. Aveva avuto qualche dubbio?
Certo, ma dopo gli squarci di futuro che aveva visto non aveva potuto
fare altrimenti.
Merlino si strinse nel giubbotto e con la spada inguainata appesa sulla
spalla camminò a testa bassa verso il fuoco che Alex stava
ravvivando aggiungendoci dei ceppi da camino. Quando lo vide si
portò le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni color
verde militare e respirò profondamente, facendogli poi segno
di accomodarsi accanto alle fiamme.
Il cuore gli rimbombava nelle orecchie tant'era l'ansia di scoprire
cosa voleva dirgli. Aveva così tanti interrogativi... e non
era sicuro di voler sapere tutte le risposte.
La guardò girarsi e rigirarsi nel dito l'anello di
fidanzamento, proprio come faceva Artù quand'era immerso nei
propri pensieri, e alla fine non poté più
aspettare: posò una mano sulle sue e Alex sbatté
le palpebre, tornando nel mondo reale.
«Scusami, io... non so da dove cominciare»,
confessò gettandosi i capelli dietro le spalle.
Merlino abbozzò un sorriso. «Sono qui, non me ne
vado».
In qualche modo le sue parole, pronunciate con l'intenzione di
rassicurarla, ebbero l'effetto contrario: l'infermiera si strinse le
braccia intorno alle ginocchia, il volto accartocciato in una smorfia
di dolore.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto...».
«Ehi», sussurrò stringendola a
sè, baciandole la tempia e cullandola nel suo abbraccio.
«Va tutto bene. Qualsiasi cosa sia... la supereremo. Insieme.
Okay?».
Alex rimase in silenzio, aggrappata alle sue spalle, per quella che gli
sembrò un'eternità. Magari avesse potuto
trascorrere davvero un'eternità del genere: ci avrebbe messo
la firma senza pensarci su due volte.
Quando alla fine la stretta della bionda si allentò, Merlino
la lasciò andare a malincuore e la guardò negli
occhi con tutto l'amore che riusciva a dimostrare, sfiorandole anche la
guancia con il dorso delle dita.
Lei respirò profondamente e tornò a torturare il
rubino che aveva al dito, decidendosi a parlare.
«Mi è sempre piaciuto giocare con i Lego. Mi ha
sempre dato pace... rovesciare tutti i pezzi sul pavimento, seguire
passo passo le istruzioni e vederli trasformarsi nell'immagine stampata
sulla scatola. Dare un senso al caos, capisci?». Alex
accennò un sorriso guardando verso l'alto e Merlino rimase
in silenzio, scioccato: dire che non si aspettava un prologo del genere
era poco.
«È da quando mia madre è morta che ho
la sensazione che la mia vita si sia frantumata in mille pezzi. Penso
spesso a lei, ultimamente. Penso a quello che ancora avevamo da dirci,
a quello che ancora avrebbe potuto insegnarmi. Sento... so che se
quella notte avesse saputo che una volta addormentata non avrebbe
più riaperto gli occhi mi avrebbe detto che cosa fare. Ma
non è successo e mi ritrovo alle prese con qualcosa che non
so gestire, un destino che a stento riesco a comprendere,
figuriamoci...».
A quel punto, scorgendo le lacrime intrappolate tra le sue ciglia e il
tremore delle sue mani, Merlino non poté più
stare in silenzio.
«Alex, capisco fin troppo bene come ti senti». Le
posò una mano sul ginocchio e con l'altra la costrinse a
guardarlo negli occhi, prendendole il mento tra le dita.
«Nemmeno io avevo idea di quale fosse il mio destino prima di
mettere piede a Camelot. Credimi, se l'avessi saputo sarei corso nella
direzione opposta».
«Davvero? Davvero l'avresti fatto?», gli chiese,
riservandogli un'occhiata piena di scetticismo.
«Perché per quanto io cerchi di volgere lo sguardo
dall'altra parte, non ci riesco mai fino in fondo. È
qualcosa di profondo, viscerale... semplicemente non posso
ignorarlo».
Tutti gli anni trascorsi al fianco di Artù gli passarono
davanti agli occhi: quante volte si era chiesto, nel buio della sua
stanzetta, perché continuasse a subire gli insulti e le
umiliazioni, a servire un re che se avesse saputo la sua vera natura lo
avrebbe messo al rogo, a correre pericoli per un principe con cui non
poteva essere se stesso, a lottare per la salvezza di un regno che
forse non avrebbe mai visto nascere? Centinaia, forse addirittura
migliaia. Avrebbe potuto fare i bagagli e andarsene in qualsiasi
momento, eppure... era come diceva Alex: qualcosa gliel'aveva impedito,
tutte le volte. Non l'amicizia di Artù, di Ginevra e dei
cavalieri. Non l'affetto che nutriva per Gaius. La
responsabilità, la consapevolezza di essere stato scelto per
quel compito e del fatto che se si fosse tirato indietro avrebbe avuto
tutte le persone a lui care sulla coscienza. Ecco perché era
riuscito a spezzare il legame con la magia solamente quando ormai non
gli era rimasto più nessuno per cui lottare.
«So che avrei dovuto essere sincera con te fin dall'inizio,
che probabilmente avresti saputo guidarmi, ma se ho scelto di tenerlo
segreto è perché io per prima volevo vederci
chiaro. Avevo paura di aver interpretato male i segni, non volevo farti
preoccupare ulteriormente... o farti soffrire», concluse,
abbassando gli occhi sulla mano ancora sul suo ginocchio.
Intrecciò le loro dita e sospirò, scuotendo piano
il capo. «Non voglio perderti, Merlino».
Lo stregone socchiuse gli occhi, ma fu costretto a riaprirli a causa
del sogno premonitore che l'aveva svegliato col cuore sul punto di
scoppiare.
«Come ho detto prima... qualsiasi cosa sia, ne verremo a
capo», trovò la forza di dire, riservandole
persino un sorriso rassicurante.
L'infermiera annuì con un cenno del capo, con la stessa
attitudine di un galeotto che aveva appena accettato la propria
condanna, e si infilò una mano nella tasca della giacca.
Merlino osservò ogni suo movimento e trovò tutto
di una lentezza esasperante: la suspance l'avrebbe ucciso ben prima
della propria visione.
Alex aprì il pugno e nel suo palmo vide qualcosa di
impossibile, qualcosa che pensava di aver sepolto millequattrocento
anni prima, figurativamente e letteralmente: il ciondolo con il simbolo
druido di Morgana.
«No», affermò scuotendo il capo.
«No, no, no».
«Merlino...».
Alex allungò l'altra mano per afferrargli il braccio, ma
Merlino arretrò e cadde persino dal tronco su cui erano
seduti, continuando a fissare il ciondolo con occhi sbarrati e
ciò nonostante a negare che fosse ciò che stava
vedendo.
«Ti prego, calmati», lo supplicò
l'infermiera, senza rendersi conto dello sforzo assurdo che stava
già facendo per non perdere definitivamente il senno.
Aveva impiegato anni, secoli per contenere il dolore che la morte di
Morgana gli aveva causato. Non aveva mai smesso di rivivere in sogno il
momento in cui l'aveva uccisa a sangue freddo e più di una
volta gli era sembrato di avvertire la sua presenza nel bosco dove si
trovavano sia Avalon che la caverna di cristallo, oltre che ovviamente
la sua tomba. Ad osservarlo da dietro i tronchi, a sussurrargli parole
di perdono tramite i fruscii delle fronde, a piangergli addosso lacrime
di rugiada o a porgergli i frutti più belli avvicinandogli i
rami. E se non fosse stata opera della sua immaginazione? Se Morgana
fosse sempre stata lì, ad un passo da lui, e non se ne fosse
mai accorto?
Alex si alzò dal tronco e con cautela si chinò su
di lui, le mani avanti come se avesse a che fare con un animale feroce
che necessitava di cure.
«Ora capisci che cosa intendevo quando ho detto che non
volevo farti soffrire?», gli disse dolcemente,
inginocchiandosi perché i loro sguardi fossero allineati.
Merlino aveva così tante domande in testa da temere che gli
sarebbe scoppiata, ma mantenne il controllo e dopo aver deglutito
chiese: «Come l'hai avuto?».
«Me l'ha dato lei», confessò con un
sospiro, rigirandosi il ciondolo tra le dita come una moneta. Morgana
lo indossava su una collana di argento rigido, ma Alex l'aveva infilato
in una di quelle semplicissime catenine a pallini.
Ogni suo sospetto si stava avverando, peggiorando le sue condizioni di
minuto in minuto.
Si portò una mano alla fronte bollente e al contempo si
avvicinò al fuoco, scosso dai tremori di freddo. Alex lo
seguì, riuscendo finalmente a toccarlo: gli
accarezzò i capelli e fece in modo che le loro dita si
intrecciassero nuovamente prima di infilare la testa nell'incavo della
sua spalla.
«Lo so che è scioccante Merlino, o almeno posso
immaginarlo», disse piano, con sensibilità.
«Perciò prenditi tutto il tempo che ti serve, non
me ne vado nemmeno io».
Con Alex stretta tra le braccia, Merlino respirò
profondamente tra i suoi capelli e paradossalmente riuscì a
calmarsi solo quando si concentrò sulle visioni avute poco
meno di un'ora prima.
Merlino aprì
la pesante porta del fienile, lasciando entrare i primi raggi di sole
di quel nuovo giorno, e Flash lo accolse con un nitrito. Gli
accarezzò il muso passandogli accanto, poi
proseguì fino alle scalette che portavano al soppalco in cui
aveva spostato tutto ciò che non apparteneva ad una stalla:
attrezzi da giardinaggio, vecchie sedie, pezzi di ricambio della
Pininfarina, una ruota di bicicletta arrugginita. Fu lì che
trovò Alex, rannicchiata in un angolo. Aveva i capelli
scompigliati, gli occhi gonfi ed arrossati per il pianto, la ferita
alla fronte che aveva ripreso a sanguinare sotto il grosso cerotto.
Non appena lo vide sul
suo volto si accese una scintilla di speranza, ma bastò un
cenno del capo per farla ripiombare nello sconforto.
«È
tutta colpa mia», farfugliò nascondendo di nuovo
il capo tra le ginocchia.
Merlino la raggiunse e
si lasciò scivolare seduto al suo fianco sulla segatura,
quindi le avvolse un braccio intorno alle spalle e la invitò
ad appoggiare il capo contro la sua spalla.
«No che non lo
è. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato».
Rimasero in silenzio per
un po', ognuno immerso nei propri pensieri, confortati dalla presenza
l'uno dell'altro. C'era una pace quasi surreale dopo tutto
ciò che era accaduto in poco più di quarantotto
ore. Fino ad allora la loro luna di miele era stata un disastro.
«Non posso
sopportarlo», mormorò Alex ad un tratto,
stringendogli forte le mani. «Ci dev'essere qualcosa che
possiamo fare!».
«Una cosa
c'è, lo sai».
Alex alzò gli
occhi per incrociare i suoi e nonostante l'impegno non poté
evitare di tremare rispondendo: «No. Non se ne parla,
Merlino».
«È
la nostra unica possibilità».
«La Triplice
Dea non ci aiuterà senza pretendere nulla in cambio e sai
perfettamente che cosa chiederà! Aspetta da secoli
un'occasione del genere e non se la lascerà sfuggire,
soprattutto se siamo noi a servirgliela su un piatto
d'argento!».
Merlino sorrise
teneramente mentre si interessava alla sua ferita: le tolse il cerotto
e controllò che i punti che aveva applicato non fossero
saltati e che non ci fossero infezioni.
«Io ho vissuto
il mio tempo, Alex. Ho vissuto anche troppo, ad essere onesti. Sono
pronto ad andarmene, se servirà a...».
«No, no,
no», lo interruppe posandogli le dita sulla bocca ed
affondando il viso nel suo petto, scossa dai singulti.
«Io sto
morendo in ogni caso», le disse ancora, accarezzandole la
schiena e baciandole i capelli. «Vai dalla Triplice Dea e
strappa il miglior accordo che puoi. Credo in te, Alex».
«Quindi
è giunta l'ora?», domandò Merlino, lo
sguardo fisso in direzione di Avalon. Il sole nascente tingeva di rosso
le cime degli alberi e le montagne ancora innevate sembravano ad un
passo di distanza.
Si voltò solo
quando sentì l'inconfondibile rumore che faceva Excalibur
quando veniva estratta dal fodero.
Alex lo fissò
con espressione determinata, nonostante le lacrime le stessero rigando
il volto. «Mi dispiace», mormorò con un
fil di voce.
Un'auto sporca e
scolorita dalle intemperie si fermò sulla strada sterrata e
la portiera del passeggero si aprì ancor prima che la
polvere potesse essere spazzata via dal vento primaverile.
Una bambina con indosso
una maglietta azzurra a maniche corte, una salopette di jeans che le
lasciava scoperte le ginocchia sbucciate, delle scarpe da tennis che
sembravano aver percorso chilometri e chilometri e un fazzoletto rosso
legato al collo scese dall'auto e ne fece il giro per potersi fermare
di fronte al vialetto di quella grande casa rovinata dal tempo, con le
imposte sverniciate se non addirittura scardinate e persino un grande
buco tra le tegole della torre di destra. Non c'era traccia
però di vandalismi: nessun graffito, nessuna
pubblicità abusiva.
«Tu e
papà vivevate qui?», domandò con
semplicità, continuando ad osservare quel piccolo castello
col naso all'insù e la bocca dischiusa per lo stupore.
«Sì
tesoro», rispose una voce morbida, piena d'amore e al
contempo di malinconia.
«Che cosa
facciamo adesso?», chiese ancora la bambina, voltandosi per
guardare la madre, la quale le accarezzò il volto da
folletto, con tanto di orecchie un po' a sventola, e poi le
tirò indietro la frangetta nera che spesso e volentieri le
copriva gli occhi azzurri come il cielo, gli occhi di suo padre.
«Zio
Artù e zia Cathleen saranno qui presto,
perciò...».
«Vado in
esplorazione!», esclamò prima di allontanarle le
mani e correre verso la casa abbandonata.
«Enid!»,
gridò Alex, per poi scuotere il capo con un sorriso sulle
labbra e le mani sui fianchi.
Dio, non era invecchiata
di un giorno. Solo i suoi occhi mostravano i segni del tempo, sfacciato
ed implacabile.
"Stai attenta, okay?",
le disse col pensiero quando la perse di vista.
"Sono la figlia del mago
più potente che questa Terra abbia mai visto, posso
cavarmela", rispose la bambina.
Merlino, le labbra incurvate in un sorriso quasi impercettibile,
aprì gli occhi e guardò il ventre ancora piatto
di Alex. Sapeva già di essere incinta? Lo sospettava,
almeno? Conoscendola, era sicuro che avrebbe fatto il test solo una
volta sconfitta Freya: come sarebbe scesa sul campo di battaglia se
l'esito fosse stato positivo?
«Va un po' meglio?», gli domandò
dolcemente, guardandolo profondamente negli occhi e prendendogli le
orecchie tra le mani proprio come aveva fatto con la loro Enid.
Lo stregone annuì con un cenno del capo, poi disse:
«Raccontami tutto. Devo sapere».
E così Alex gli raccontò della prima visione in
cui era comparsa la donna misteriosa, dei ricordi e delle sensazioni
che aveva provato da quando era entrata in contatto con Excalibur,
della connessione che aveva capito essersi creata tra lei e Morgana,
del modo in cui solo quella mattina l'aveva salvata e del loro ultimo e
a conti fatti primo incontro.
«Mi ha detto di dire a te e ad Artù che le
dispiace, per tutto», concluse la bionda, accarezzandogli una
spalla.
Merlino scrollò il capo, sentendo il peso che aveva sul
cuore ingigantirsi sempre di più. «È
tutta colpa mia. L'ho condannata io a questo».
«Lei non è d'accordo, te lo posso assicurare. E
vuole davvero aiutarci, per quel che può. Mi fido di
lei».
Il mago incrociò il suo sguardo. Ma certo che si fidava, era
una Pendragon.
Il suo istinto gli gridava di metterla in guardia, di impedirle di fare
l'errore che Artù aveva fatto più e
più volte, ma pensava davvero ciò che le avrebbe
detto nel futuro.
Abbozzò un sorriso, prendendole le mani tra le sue.
«Credo in te».
Alex si concesse un respiro profondo, rincuorata, e persino un sorriso.
Si allacciò al collo il ciondolo appartenuto a Morgana e poi
chiese a Merlino di passarle Excalibur. Lo stregone fu percorso da un
brivido quando sguainò la spada e gliela porse, realizzando
che presto Alex l'avrebbe impugnata per compiere il suo destino.
«Sei mai rimasto senza poteri, Merlino?», gli
chiese all'improvviso, ritraendo di scatto la mano, come a voler
prendere tempo. Che non fosse poi così sicura delle buone
intenzioni di Morgana?
«Perché me lo chiedi? Sai che non ho usato la
magia per gli ultimi quattordici secoli».
«No, questa è stata una tua scelta. C'è
stato un momento, prima di allora, in cui hai avuto la sensazione di
aver perso... tutto ciò che eri?».
Merlino si accigliò, ma ben presto capì il motivo
di quelle domande. «Alex, è proprio questo il
motivo per cui ho abbandonato la magia. Non capisci? Ne basta un
assaggio e anche le persone più forti si sentono perse senza
di essa. Il mio stesso padre pensava che io fossi la magia stessa, che
fossi parte del cielo, del mare e della terra, e forse è
davvero così, non lo so, ma la cosa importante è
che io gli ho creduto. E dove mi ha portato questo? Mi sono affidato
totalmente ai miei poteri, senza mai chiedermi quale fosse il costo da
pagare. La verità è che la magia non ci rende
ciò che siamo, voglio che tu lo capisca bene. L'Alex di cui
mi sono innamorato... se qualcuno le avesse detto che un giorno si
sarebbe trovata alle prese con Excalibur si sarebbe fatta una grassa
risata, non pensi?».
L'infermiera annuì, convincendosi che sì, Abby
aveva ragione a dire che lei era sempre stata speciale, magia o meno.
«Se non vuoi, non sei obbligata a farlo», le disse
ancora lo stregone, tirando la spada verso di sé, ma ancor
prima che potesse finire la frase Alex si era alzata su un ginocchio e
si era sporta in avanti per afferrare l'elsa.
La magia le percorse le vene della mano, del braccio, del collo e il
suo viaggio terminò nei suoi occhi, rendendoli dorati. Alex,
sopraffatta da tutto quel potere, perse i sensi e Merlino,
già pronto a quell'eventualità, fece in modo che
gli cadesse addosso.
Guardò il suo volto privo d'espressione, le
accarezzò i capelli e le posò un bacio sulla
fronte, mentre la propria mano si muoveva quasi per riflesso
incondizionato. Si posò sul suo ventre e le lacrime gli
velarono gli occhi, pensando che da lì a nove mesi sarebbe
nata una bellissima bambina che molto probabilmente non avrebbe mai
conosciuto. Quel pensiero lo addolorò tanto, in modo
così inaspettato, che lasciò il capo di Alex
accanto alle fiamme ormai morenti del falò per alzarsi e
correre in mezzo agli alberi, dove gridò tutta la propria
sofferenza.
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Capitolo 30 *** The gates of Avalon ***
Ciao Merlinians! I'm
back! :)
Ormai ci avviciniamo alla fine di questa storia che è stata
peggio di un parto per me, la quale però ne è
valsa ogni attimo: sono orgogliosa di questa storia e sono grata a
chiunque l'abbia seguita, nel bene e nel male.
Perciò bando alle ciance e vi auguro una buona lettura. Sono
disponibile a rispondere a qualsiasi domanda e curiosità,
sia qui sia sulla mia pagina facebook ;)
A presto (spero)! Un bacio.
Vostra,
_Pulse_
_________________________________________________________
30. The gates of Avalon
«Mi stai ascoltando? Alex?».
L'infermiera alzò gli occhi e attraverso il grande specchio
da terra che Wanda aveva procurato loro vide Cathleen alle sue spalle,
che la fissava con sguardo apprensivo e diverse forcine tra le labbra.
«Scusami, stavi dicendo qualcosa?».
La rossa sospirò e sputò con ben poca grazia i
fermacapelli sul letto, poi spalancò la finestra e si
sedette sul davanzale per accendersi una sigaretta. Prese una lunga
boccata di fumo prima di esclamare: «Mi vuoi dire che
cos'è successo? Se è così che tu e
Merlino avete sistemato le cose, ci sarà da
divertirsi».
Alex scosse il capo, torturando l'anello di sua madre.
Pensava che fosse andata piuttosto bene con Merlino, almeno fino a
quando non aveva messo alla prova il ciondolo di Morgana con la potente
magia contenuta in Excalibur. Com'era già successo aveva
perso i sensi, ma quella volta al suo risveglio lo stregone non era al
suo fianco. L'aveva cercato nei dintorni e all'agriturismo, sentendo
una voragine in mezzo al petto risucchiare tutto quanto, persino l'aria
che respirava, ma di lui nessuna traccia. Non aveva detto una parola in
merito, sperando che si fosse allontanato volontariamente per
riflettere su tutto ciò che gli aveva confessato, e
sinceramente era sorpresa che Artù non avesse già
organizzato le squadre di ricerca.
Sapeva di aver sbagliato, più e più volte, ma
sperava con tutto il cuore che Merlino fosse in grado di perdonarla.
Non sapeva cos'avrebbe fatto se l'avesse perso per colpa dei suoi
segreti, di certo qualche follia. Aveva bisogno di lui, ora
più che mai.
Cathleen gettò il mozzicone e una volta chiusa la finestra
tornò a concentrarsi sulla sua acconciatura senza
più aprire bocca.
***
Artù si fermò all'inizio del tappeto rosso che
era stato steso sull'erba tagliata di recente e coi pugni stretti lungo
i fianchi trattenne un'imprecazione.
Di tutte le volte in cui aveva voluto stragolare a morte lo stregone,
quella era la peggiore. Non solo l'aveva addormentato con la magia
perché non lo seguisse - già abbastanza
imperdonabile di per sé, - ora si era persino dato alla
macchia!
L'aveva cercato ovunque e aveva provato a chiamarlo al cellulare almeno
un centinaio di volte, ma non era riuscito a rintracciarlo. Dove poteva
essersi cacciato? E poi, perché sparire in quel modo? Temeva
fosse successo qualcosa con Alex, ma non aveva avuto ancora il coraggio
di andare da lei per avvisarla. Inoltre, cercando indizi, aveva notato
che il suo completo da sposo era scomparso. Questo lo aveva in parte
rassicurato che in un modo o nell'altro si sarebbe presentato al
matrimonio.
Ormai mancava davvero poco ed era quasi tutto pronto: l'arco di
gardenie bianche, le sedie foderate per gli invitati, il gazebo sotto
il quale si sarebbe svolto il taglio della torta, i bracieri che
sarebbero stati accesi al calar della sera per allontanare gli insetti
e creare un'atmosfera romantica.
Nonostante il poco preavviso, il padre di Alex e i signori Morris si
erano impegnati al massimo per curare ogni più piccolo
dettaglio e Merlino, comportandosi in quel modo, stava mancando loro di
rispetto.
«Ciao Artù!».
L'ex sovrano si voltò e rimase quasi a bocca aperta di
fronte a quella versione di Abigail: il trucco aveva restituito al suo
viso un colorito sano che non le aveva mai visto, i suoi occhi
risplendevano di gioia e il vestito da damigella d'onore, bianco come
quello della sposa, la rendeva simile ad una Dea. Per un attimo si
dimenticò persino la sua verà età e
gli si annodò lo stomaco quando la truce verità
lo colpì in faccia come un pugno: era troppo piccola per
andarsene.
«Sei... sei bellissima, Abby», riuscì a
dirle, inghiottendo il magone.
La ragazzina sorrise timidamente, abbassando gli occhi sulla gonna
candida che le arrivava fino alle caviglie.
«Grazie».
Artù si avvicinò d'un passo e mandò al
diavolo i protocolli e il proprio rigore: le avvolse le braccia intorno
alla vita e respirò profondamente il suo profumo, cercando
di mettersi il cuore in pace: per quanto facesse male, non poteva
aiutarla.
Abby ricambiò l'abbraccio picchiettandogli una mano sulla
schiena, presa alla sprovvista. «Va tutto bene?».
«Sì, io... volevo far ingelosire un po' Mark,
tutto qui», scherzò indicando il ragazzino, seduto
sulla sua sedia a rotelle e con gli occhi ridotti a due fessure per la
rabbia.
«Beh, ci sei riuscito», replicò la
ragazzina, ridacchiando. All'improvviso però si
accigliò, notando l'assenza di uno degli ospiti
fondamentali: «Dov'è Merlino?».
Come temeva, Artù fu costretto a mentire per non rivelare
che in realtà non ne aveva la più pallida idea.
«In bagno. L'ansia gli fa quest'effetto».
Abby arricciò il naso e non riuscì a capire se
per il disgusto o perché aveva sentito puzza di bugia. Ad
ogni modo si risedette sulla propria carrozzina e raggiunse gli amici,
lasciandogli spazio per pensare.
Alzando gli occhi al cielo in una muta richiesta di consiglio scorse
una delle finestre dell'agriturismo aprirsi e un fondoschiena che
avrebbe riconosciuto tra milioni posarsi sul davanzale: quello di
Cathleen. Eccola la sua risposta.
Quasi corse fino alla stanza delle ragazze e si rese conto che non era
stato tanto coinvolto nemmeno nel proprio matrimonio. Bussò
freneticamente alla porta e fu proprio Cathleen ad aprire, o almeno a
sporgere fuori il naso.
«Sei da solo?», gli chiese. «Non so come
fosse ai tuoi tempi, ma ora porta sfortuna che lo sposo veda la sposa
col vestito prima delle nozze».
«Tranquilla, Merlino non c'è», rispose
con un grande sospiro: dubitava che sarebbe riuscito a ripeterlo senza
scatenare il panico. «Puoi uscire un attimo? Devo
parlarti».
«È urgente?».
«Molto».
«'kay». Si rivolse verso Alex e le disse:
«Sono qui fuori con Artù, torno subito»,
ma l'infermiera non rispose.
In effetti, da come Cath sollevò le sopracciglia, ebbe la
netta impressione che il suo atteggiamento non l'avesse sorpresa. Non
un buon segno.
Il tempo di chiudere la porta e il paramedico partì subito
in quarta dicendo quanto la urtasse il silenzio di Alexandra, mentre
lui esordì con la scomparsa di Merlino. Si parlarono l'uno
sopra l'altro, eppure capirono perfettamente che le loro esperienze
avevano la stessa spiegazione.
«È successo qualcosa ieri notte»,
dedussero come due perfetti detective, picchiandosi i pugni sulle mani.
Peccato che detto questo rimasero in silenzio a fissarsi per diversi
secondi, preoccupati.
Ad un tratto però Artù fu colpito dall'aspetto
della sua ragazza, tanto che si dimenticò quasi
completamente di Merlino. Indossava un elegante vestito verde smeraldo,
un colore che le donava moltissimo per via dei capelli rosso sangue e
la pelle diafana. L'abito aveva una sola spallina, in stile vagamente
romanico, ed era tempestata di gemme brillanti.
«Sei... wow. Sembri una vera principessa»,
mormorò incantato.
Cathleen tuttavia gli rivolse un'occhiata sconcertata, esclamando:
«E questo come dovrebbe aiutarci? Dobbiamo fare
qualcosa!».
Artù aprì la bocca per scusarsi e probabilmente
ammettere ancora una volta di essere a corto di idee, quando la porta
della stanza si aprì rivelando una Alex per il cui viso
stanco e triste non sarebbero bastati chili di trucco né un
make-up artist professionista.
«Non potete fare niente», rispose con voce flebile
ed arrochita, come se avesse gridato per tutta la notte.
«È una questione tra me e Merlino, nessun
altro».
La rossa le prese una mano tra le sue e le massaggiò le
dita. «Puoi almeno raccontarci cos'è
successo?».
«A questo punto, tanto vale che sia onesta anche con
voi».
Alex aveva usato il plurale, ma aveva guardato intensamente
Artù dicendo quelle parole. Entrando nella stanza, il re di
Camelot percepì che ne sarebbe uscito di umore radicalmente
diverso. Cercò di prepararsi al peggio, ma la
verità era che non avrebbe mai immaginato la
gravità della situazione.
«Stai dicendo che Morgana, la stessa che ha dichiarato guerra
a Camelot e ha desiderato con ogni fibra del suo corpo la morte di
Artù per il suo trono, quella
Morgana, è tra noi?», chiese Cathleen non appena
Alex finì di aggiornarli.
L'infermiera si portò una mano tra i capelli, ricordandosi
troppo tardi dell'acconciatura su cui l'amica aveva lavorato per due
ore, e dopo essersi scusata precisò: «Si tratta
del suo spirito. E ora non è più cattiva:
Excalibur l'ha liberata. Vuole aiutarci, sul serio».
«Non me la bevo», rimase sulle sue il paramedico,
scuotendo il capo.
«Ieri mi ha dato questo». Alex si alzò e
recuperò da sotto il cuscino il ciondolo con sopra incise
tre spirali intrecciate.
«Ho già visto questo simbolo. Freya ce l'aveva
tatuato sul braccio».
«Il simbolo dei druidi».
Il paramedico arricciò il naso e le allontanò la
mano, come se ne fosse inorridita. «Okay, stai ancora
cercando di convincermi che Morgana è dalla nostra parte,
vero? Perché questo non aiuta».
«Ascoltami, Cath. Ha fatto un incantesimo a questo ciondolo e
ora se lo indosso posso impugnare Excalibur senza diventare una fredda
macchina da guerra».
Cathleen si alzò dal letto ed iniziò a
passeggiare su e giù per la stanza, gesticolando come una
forsennata.
«Come fai a sapere che funziona? Magari l'ha incantato
perché la collana ti mozzi via la testa!».
«Perché l'ha già provato»,
disse Artù a bassa voce, ciononostante fu come se avesse
appena urlato quelle parole a squarciagola.
«Che cosa?», sbottò la rossa con
entrambe le mani sui fianchi. «E tu come fai a
saperlo?».
«Ieri notte Merlino è uscito senza dirmi dove
fosse diretto. Con Excalibur».
Il «Che cosa?» di Cathleen quella volta fu
più debole, tant'era lo shock. Alex chiuse gli occhi di
fronte allo sguardo severo dell'antenato, consapevole che se l'avesse
fronteggiato non sarebbe riuscita a frenare le lacrime.
«È per questo che Merlino è scomparso,
non è vero? Gli hai detto tutto. O quasi».
Era stato più forte di lui. La rabbia che provava in quel
momento rischiava di fargli venire un attacco, perciò decise
di uscire a prendere una boccata d'aria prima che fosse troppo tardi.
Avrebbe dovuto limitarsi ad andarsene sbattendosi la porta alle spalle,
ma non ci riuscì.
«Come sai, uno dei miei compiti da re era addestrare e
nominare i cavalieri di Camelot. Ho compiuto scelte difficili, in tempi
difficili, per le quali mio padre, se fosse stato ancora in vita, non
mi avrebbe mai perdonato. Ho scelto uomini dalle umili origini, ma
coraggiosi e leali, e non me ne pentirò mai.
«Quando ho scoperto della nostra lontana parentela e del tuo
desiderio di allenarti non mi aspettavo molto, sono sincero. Eppure sei
riuscita a sorprendermi, a farmi cambiare idea, persino a... a rendermi
orgoglioso di te. E di tutti i cavalieri che ho addestrato, tu sei uno
dei migliori.
«Non succedeva spesso, ma anche i migliori sbagliavano. E in
quelle occasioni mi sentivo responsabile, non potevo fare a meno di
chiedermi dove avessi sbagliato. Ma mai, mai in tutta la mia
vita, ho provato una tale delusione. Mi hai spezzato il cuore,
Alexandra, e non so se meriti di essere una Pendragon».
Quell'ultima frase vibrò nell'aria a lungo, come una triste
nota di violino, e Artù sentì le proprie corde
vocali rispondere con lo stesso tremore. Perciò chiuse
finalmente la porta e tornò in giardino, dove
aiutò Edwin a montare le lanterne sopra la pista da ballo in
legno.
***
Merlino si svegliò al gracchiare di un corvo.
Col capo posato contro il tronco dell'albero sotto le cui fronde si era
fermato a riflettere e poi ad ubriacarsi, alzò lo sguardo
verso il ramo più basso e vide l'uccello, dal piumaggio
lucente, che lo fissava con i suoi occhietti scuri.
«Che cosa vuoi?», biascicò con
espressione arcigna. «Vattene!».
Il corvo non si mosse e Merlino prese la lattina di birra vuota
più vicina a sé e gliela lanciò
contro, urlando di rabbia. Ovviamente non lo colpì.
«Dannazione. Dannazione!».
Si coprì il volto con le mani e respirò
profondamente, più e più volte.
Non aveva avuto il coraggio di rimanere accanto ad Alex e di aspettare
il suo risveglio: aveva troppa paura che Morgana li avesse ingannati di
nuovo, sfruttando l'ingenuità e l'innocenza dell'infermiera
per fare loro altro male.
Si era rifugiato nel bosco e aveva pregato tutti gli dei che conosceva,
pagani e non, mentre ciò che aveva visto del proprio futuro
continuava a ripetersi in loop nella sua mente.
Alex aspettava una bambina, una bellissima bambina che avrebbe
ereditato i suoi poteri, e forse anche per questo lui sarebbe morto
prima di poterla conoscere. I custodi della magia si sarebbero accaniti
contro di loro con ogni mezzo, perciò non c'erano
alternative: era la sua vita per quella di sua figlia ormai.
Per secoli aveva atteso il ritorno di Artù, certo che alla
fine si sarebbe sacrificato perché il re del passato e del
futuro potesse vivere la vita che meritava. Quello che avevano sempre
voluto i custodi, in fin dei conti. L'arrivo di Alex aveva cambiato
tutto, ma come in una partita a scacchi sbilanciata, per qualunque loro
mossa ce n'era già una pronta in grado di vanificarla. Non
avrebbero mai vinto, era scritto.
Il corvo gracchiò nuovamente, attirando la sua attenzione, e
Merlino decise di alzarsi per guardarlo da più vicino.
Doveva comunque tenere il capo rivolto verso l'alto, ma l'animale
sembrava interessato allo stregone quanto quest'ultimo di lui.
«Sei tu, Morgana?», gli domandò con la
bocca improvvisamente asciutta. In compenso, le lacrime tornarono a
bagnargli gli occhi. «Che cosa stai cercando di dirmi? Che
sono un codardo? Sì, probabilmente lo sono. Ero pronto ad
accettare il mio destino, ma Alex... A causa sua ora ho paura di
morire, è questa la verità. Non posso lasciarla,
non voglio. Non voglio che sia costretta ad uccidermi,
perché so che se lo farà, questo la
perseguiterà per tutta la vita. Rivivrà quel
momento tutte le notti, proprio come ho fatto io per più di
millequattrocento anni. Non volevo ucciderti, Morgana, ma dovevi essere
fermata. Mi dispiace... Mi dispiace così tanto».
Il corvo quella volta rimase in silenzio, per poi volare via dal ramo.
Il mago allora crollò a terra, in ginocchio, senza
preoccuparsi che il completo che stava indossando fosse quello del
matrimonio. Un look quasi total black, ravvivato un poco dalla cravatta
e dal fazzoletto nel taschino, entrambi viola acceso.
L'aveva preso quella mattina all'alba, quando era tornato
all'agriturismo ancora immerso nel più totale silenzio.
Artù era ancora profondamente addormentato per via del suo
incantesimo e Alex... beh, aveva preferito non svegliarla. Ancora una
volta, non aveva trovato il coraggio di affrontarla. Aveva aperto la
porta della stanza che condivideva con Cathleen e si era avvicinato al
suo letto. Si era inginocchiato al suo fianco e le aveva accarezzato il
viso con lo sguardo, poi le aveva rimboccato le coperte ed era uscito
così com'era entrato, senza fare il minimo rumore.
Perse di nuovo la cognizione del tempo o forse si
riaddormentò, lì steso su quel letto di muschio
ed aghi di pino. Quando riaprì gli occhi, non solo il corvo
era tornato con una gardenia bianca nel becco, ma c'era qualcuno
sdraiato al suo fianco.
«Tu non dovresti essere qui. Io non dovrei vederti
così», mormorò Merlino, guardando il
profilo perfetto del naso di Alex sotto il velo.
«Non vuoi più sposarmi?», gli chiese lei
dopo una dozzina di secondi.
«Che cosa te lo fa pensare?».
«Io non sposerei una persona che mi ha tenuto all'oscuro di
una cosa così importante. L'ho detto ad Artù,
sai? Ha detto che non è mai stato così deluso da
un cavaliere, che gli ho spezzato il cuore e che non merito di essere
una Pendragon».
«Artù esagera, lo conosci. Per quanto mi
riguarda... Ti ricordi quando abbiamo fatto l'amore per la prima
volta?».
Alex si voltò finalmente a guardarlo, alzandosi persino il
velo e rivelando la sottile corona d'oro che le cingeva la fronte. Era
così fottutamente bella!
«È una domanda a trabocchetto?», gli
chiese con l'accenno di un sorriso. «Certo che mi
ricordo!».
«Tu mi dissi che l'unica cosa importante era che il mio cuore
appartenesse a te».
«E tu mi risposi... "Fino alla fine dei miei
giorni"», concluse per lui Alex, sbattendo rapidamente le
palpebre per cacciare via le lacrime. Gli portò una mano sul
volto, avvicinandosi tanto da far toccare le loro fronti.
Merlino respirò profondamente e chiuse gli occhi, le avvolse
un braccio intorno alla vita e finalmente si sentì in pace
col mondo.
«Non so se sarà per un giorno, per un anno o altri
cinquanta. So solo che non smetterò mai di amarti, Alex.
Qualsiasi cosa succederà, hai capito?».
«Mi stai facendo spaventare. Hai visto qualcosa?».
Lo stregone scosse il capo e le impedì di insistere posando
le labbra contro le sue.
Quando si scostarono l'uno dall'altro erano consapevoli che avrebbero
riaperto il discorso, prima o poi. Ora però c'era un
matrimonio da celebrare.
Si alzarono e si spolverarono vincendevolmente i vestiti. In quel
frangente Merlino ebbe l'opportunità di ammirare le
modifiche apportate al Versace che le aveva regalato per il
galà al Castello di Windsor: erano state aggiunte delle
maniche di pizzo bianco, con motivi floreali e piccoli brillanti rossi
qua e là, che richiamavano il colore del lungo strascico
aggiunto a mo' di mantello - si allacciava infatti intorno al suo collo
candido - e su cui era stato cucito lo stemma d'oro dei Pendragon.
«Sei bellissima, una vera regina», non
poté evitare di commentare, facendo sbocciare uno stupendo
sorriso sul suo volto.
L'aiutò a montare sul cavallo con cui l'aveva raggiunto e
solo in quel momento, chiedendosi come avesse fatto a trovarlo nei
meandri del bosco, si ricordò del corvo. Era stato lui a
guidarla, dopo aver attirato la sua attenzione rubando un fiore
dall'allestimento.
Prima di sedersi alle spalle di Alexandra, Merlino si
avvicinò al ramo su cui era appollaiato e si alzò
in punta di piedi per farsi cosegnare il fiore.
«Grazie, Morgana», sussurrò appuntandosi
la gardenia all'occhiello della giacca.
***
Partì la musica e Merlino le rivolse un mezzo inchino
porgendole la mano. Alex sorrise, il cuore straripante di gioia per
quello che si stava davvero rivelando il più bel giorno
della sua vita, e lo seguì sulla pista da ballo.
«Artù mi ha insegnato qualche passo,
ma...», provò ad avvertirlo una volta stretta a
lui. Lo stregone però la interruppe, sussurrando:
«Lascia fare a me».
Così si abbandonò totalmente, lasciandosi guidare
nei passi e nei movimenti. Per avere più di
millequattrocento anni, si muoveva con la stessa grazia e delicatezza
di una farfalla. Alex si sentiva un elefante in confronto, eppure
riuscì ad arrivare alla fine di quel primo ballo.
Merlino le fece fare un'ultima giravolta, poi si allontanò
di un passo per cederle la mano a suo padre, il quale era entrato in
pista insieme al resto degli invitati. Persino i bambini avevano
lasciato le loro sedie a rotelle e Abigail e Mark, tenerissimi nei loro
passi imbarazzati, erano uno spettacolo meraviglioso: la
perfetta rappresentazione dell'amore più puro e
genuino.
«Oh, tesoro», mormorò suo padre, coi
lucciconi agli occhi. «Sei bellissima. Vorrei che tua madre
fosse qui per... lo sai».
«Lo so», sussurrò Alex avvolgendogli le
braccia intorno al collo in un lento.
«Ci avete fatto prendere un bello spavento, lo
sai?».
«Credimi, non era nostra intenzione».
Alex rise, scorgendo Merlino alle prese con la signora Morris: stava
cercando di guidarla come aveva fatto con lei, ma finiva sempre con i
piedi pestati e una malcelata espressione di dolore sul volto.
«Ovviamente io ed Artù non abbiamo detto agli
altri che eravate scomparsi, solo che volevate fare un'entrata ad
effetto. E che effetto! Vederti a cavallo mi fa ancora drizzare i peli
delle braccia».
Non avrebbe mai dimenticato le facce di Mark e Rebecca quando li
avevano visti arrivare al galoppo: a bocca aperta e con gli occhi
sbarrati, come se stessero scendendo da un arcobaleno su un unicorno.
Forse erano state le loro espressioni felici, forse i loro capelli
scompigliati dal vento o forse il lungo strascico rosso che turbinava
intorno a loro quasi come sotto incantesimo.
Artù, invece...
«Tesoro, che succede?», le domandò il
padre, notando l'ombra che le era calata sul viso.
Alex si sforzò di sorridere, passando sotto il suo braccio
alzato e guardando il cielo venato d'arancione oltre le lanterne
già illuminate. «Niente, papà.
Niente».
«Non mi mentire, Alexandra».
«No. Hai ragione, niente più bugie». Lo
guardò negli occhi ed aprì la bocca per
chiedergli consiglio, quando qualcuno le picchiettò un dito
sulla spalla per chiederle un ballo. Dal modo in cui suo padre sorrise,
Alex capì di chi si trattava ancor prima di girarsi.
Sospirò internamente con le labbra strette in una linea
sottile e si voltò, trovandosi di fronte ad un
Artù serio, quasi contrariato. Ciononostante le porse una
mano per chiederle di ballare e il signor Greenwood gliela cedette
volentieri.
Iniziando a volteggiare, Alex notò Merlino muoversi con
Abigail, i piedi nudi puntati sulle sue scarpe, e Cathleen ondeggiare
con un Mark violaceo per via del prorompente decolté del
paramedico, così pericolosamente vicino al suo volto. Quindi
si schiarì la gola e avvicinandosi al suo orecchio disse:
«Non sei obbligato, se non vuoi».
«Di che cosa stai parlando?».
«Se non vuoi ballare con me...».
«Fai silenzio», le ordinò stancamente,
volteggiando. «Non volevo dire quello che ti ho
detto».
«Ma l'hai fatto. Vuol dire che un fondo di
verità c'è».
«Sapere di Morgana mi ha scosso, ero arrabbiato e ferito. Tu
hai fatto quello che ritenevi più giusto e non posso
giudicarti per questo. Se lo facessi, sarei proprio come mio padre. Tu
sei una degna Pendragon, Alexandra; non permettere a nessuno di
affermare il contrario, nemmeno a me».
«Grazie Artù, lo apprezzo molto»,
sussurrò con la guancia posata contro la sua spalla,
sentendo il ghiaccio intorno al suo cuore sciogliersi. Tuttavia c'era
un'altra questione da affrontare prima che potesse liberarsi del tutto.
«Cathleen ti ha detto della mia possibile
gravidanza», esordì ancora più piano,
per paura che qualcuno li potesse sentire.
«Mi aveva fatto promettere di non fartene parola. Non mi devi
alcuna spiegazione, okay? So che la cosa più importante al
momento è Freya».
L'erede scosse il capo, stringendo un po' più forte la presa
sulla sua mano. «La cosa più importante
è la famiglia. E questa notte non riuscivo a dormire,
così... ho fatto il test».
«Tu...? Questo vuol dire che sai se...?».
«Sì, lo so», Alex annuì,
trovando adorabile l'espressione smarrita sul volto di Artù.
E non era nemmeno lui il padre del bambino! «Saresti il primo
a saperlo, ma se fossi davvero incinta... allora dovresti comunque
mantenere il segreto con Merlino. Non voglio che si preoccupi per me in
battaglia. Vuoi che te lo dica?».
Dopo un attimo di riflessione, Artù le sorrise e
negò con un cenno del capo. «Ti ringrazio, ma per
ora preferisco vivere nell'ignoranza».
Alex sollevò le spalle con fare sbarazzino. «Uhm,
nulla di nuovo allora».
Il solo ed unico re fu tentato di rispondere per le rime alla
frecciatina, ma un imbucato aveva attirato non solo la sua attenzione,
ma anche quella di Merlino e Cathleen, i quali si erano avvicinati al
bordo della pista.
«Mi dispiace fare il guastafeste, ma ho bisogno di
parlarvi», esclamò l'agente Darrell Fisher, nella
sua divisa d'ordinanza.
Scambiarsi uno sguardo fu sufficiente perché capissero che
era giunta l'ora: la battaglia con Freya li attendeva.
***
«Darrell.
Darrell, svegliati».
Il poliziotto
aprì gli occhi e oltre le cime degli alberi vide un milione
di stelle brillare nel cielo notturno. Non ne aveva mai viste
così tante in vita sua, nemmeno quando suo padre lo aveva
portato in campeggio. Suo padre... avrebbe dovuto chiamarlo
più spesso, dirgli che gli voleva bene.
Cacciò via
quel pensiero prima che Freya potesse metterci sopra le mani e la sua
coscienza fluttuò all'interno di quel corpo che non gli
apparteneva, leggera ma priva di qualsiasi controllo.
La ragazza druida si
alzò dal proprio giaciglio per prendere dallo zaino alle sue
spalle una coppa d'oro, lucidata di recente, con dei piccoli draghi
dalle ali spiegate come piedini d'appoggio. Non appena la
sfiorò sentì una scarica di magia incendiare le
loro vene in simbiosi, e sul riflesso della coppa scorse il sorriso
compiaciuto di Freya.
"Che cos'è?",
le chiese, ma non sentì la propria voce. Solo lei poteva
sentirla, essendo nella sua mente.
«Bellissima,
non è vero? È stata chiamata in molti modi, nel
corso dei secoli. Il più famoso è sicuramente
Sacro Graal, ma è anche il più sbagliato.
Graalmir Pendragon non c'entra nulla, probabilmente non ne ha nemmeno
mai sentito parlare. Questa è la Coppa della Vita, un
artefatto della Religione Antica così potente che non
può essere distrutto in alcun modo».
Darrell rimase in
silenzio, mentre Freya cercava qualcos'altro nello zaino. Con la coda
dell'occhio, tra le coperte su cui erano seduti, vide una lunga spada
dalla lama a doppio filo, con la guardia e il pomolo dorati. Ma c'era
qualcosa di più... qualcosa di minaccioso ed inquietante.
Più la guardava, più gli sembrava di sentire
un'altra voce nella testa, sibilante e maligna.
«Qualcosa ha
catturato il tuo interesse?», gli domandò Freya,
quasi con tono divertito. «La spada di Mordred. È
a causa sua se ho ritardato tanto: ho dovuto perlustrare tutta la
foresta per trovarla. Morgana l'aveva nascosta proprio bene.
Impossessarmi della Coppa della Vita in confronto è stato un
gioco da ragazzi».
"Mordred, hai detto? Il
tizio che ha ucciso Artù?".
«Oh, qualcuno
ha fatto delle ricerche! Bravo, Darrell. Forgiata nel fuoco di un
drago, nessuno sopravvive ad una sua ferita. È
così letale che solo Excalibur può
eguagliarla».
"Mio Dio, Freya, che
cos'hai in mente?".
Finalmente la dama del
lago trovò ciò che cercava: una boccetta di
plastica contenente un liquido trasparente.
«Bene, basta
chiacchierare. Rimani per lo spettacolo?».
Una domanda retorica,
ovviamente: sapeva che Darrell non se ne sarebbe mai andato, non prima
di scoprire le sue intenzioni. Questo la fece ridacchiare.
Raggiunse il suo
ristretto esercito di maghi e streghe, riunito intorno al fuoco. Chiuse
gli occhi e dopo un profondo respiro iniziò a recitare una
complessa formula, in un linguaggio antico e cerimonioso. Le fiamme
parvero ingrossarsi all'improvviso e a quel punto Freya
versò nella Coppa il contenuto della bottiglia. Sembrava
semplicissima acqua, ma il suo odore era strano: somigliava tanto a
quello che sentiva passando coi finestrini aperti accanto alle rive del
lago. A meno che non si trattasse proprio della stessa acqua del lago!
"Proprio
così", confermò Freya mentalmente, mentre passava
teatralmente la Coppa a Jack e ordinava di fare il giro, proprio come
se si trattasse della grolla dell'amicizia.
"Perché
gliela fai bere? Che cosa gli stai facendo?".
"Davvero, Darrell? Ti
facevo più sveglio. Questi ragazzi sono portati alla magia,
è dentro di loro, assopita. Avalon invece è una
delle fonti magiche ancora attive. Ti va bene come aiuto?".
"Vuoi risvegliare la
magia che è in loro", mormorò scioccato. "Vuoi
mandarli in battaglia al posto tuo!".
"Oh, ma io ci
sarò! Diciamo che sto prendendo delle precauzioni. Ma non ti
preoccupare, conosco Merlino e i suoi amici: non ucciderebbero mai dei
ragazzini innocenti".
"Sei pazza, Freya".
"Faccio quello che deve
essere fatto per il bene del mondo in cui viviamo. Alexandra, anche se
per caso, mi ha dato una seconda possibilità e voglio
sfruttarla al massimo. Potremmo essere così felici,
Darrell...".
Non aveva mai
considerato il fatto che anche lei, proprio come tutti, voleva vivere.
Era così disperatamente attaccata alla vita che non riusciva
a vedere il confine tra giusto e sbagliato. Tutto ciò che
contava era lottare, lottare e lottare per la sopravvivenza. E se poi
si era convinti che riportare la magia nel mondo fosse l'unico modo per
salvarlo... beh, non poteva stupirsi che stesse assistendo ad un rito
d'iniziazione da setta.
L'ultimo a bere dalla
Coppa fu il senzatetto dai capelli biondi ossigenati, gli occhi verdi
vigili e scattanti. Si passò il dorso di una mano guantata
sulla bocca e poi sorrise con tutti i denti, esclamando:
«L'acqua delle fontane pubbliche è più
buona di questa, sapete? O almeno non sa di pesce marcio».
«Silenzio!»,
lo rimproverò Freya, riprendendo tra le mani la Coppa della
Vita e chiudendo gli occhi.
"Ti prego, fermati!
Torna a casa, possiamo essere felici anche così", fu
l'ultimo tentativo di Darrell, il quale nonostante tutto continuava a
provare qualcosa per lei. Poteva perdonarla e potevano ricominciare da
capo, ne era certo.
Le mani di Freya
tremarono, ma fu solo un attimo. La sua presa si rinsaldò e
in qualche modo riuscì a bloccarlo in un angolo della sua
mente: poteva assistere, ma non poteva parlarle né ascoltare
i suoi pensieri.
La druida
sollevò la Coppa verso il cielo stellato e concluse il
rituale, urlando le ultime parole dell'incantesimo per via della scia
di potere dorato che dal terreno penetrò nel suo corpo per
poi confluire in parti uguali anche nei giovani maghi.
Darrell fu in grado di
sentire il flusso magico, ma non ne fu affetto come i diretti
interessati: Freya crollò in ginocchio, le due sorelle pel
di carota svennero e i ragazzi più grandi - Jack e l'ultima
arrivata dalle origini africane - si ritrovarono col fiato grosso e il
volto imperlato di sudore, febbricitanti. Il vagabondo, invece,
impiegò qualche secondo di troppo per soffrire degli stessi
effetti collaterali. Stava recitando! Ma come? L'unico motivo
plausibile era che non avesse bevuto dalla Coppa come tutti gli altri.
Prima che potesse
cogliere il vantaggio di trovarsi in una Freya quasi incosciente, dalle
difese abbassate, il collegamento si interruppe.
«Cavolo, tutto quel tempo nell'acqua del lago deve averle
arruginito delle rotelle», esclamò Cathleen,
toccandosi la tempia con due dita.
«Tutto questo è successo ieri notte?»,
urlò invece Artù, per poi rivolgere a Merlino uno
sguardo pieno di significati a loro nascosti, come se all'improvviso
tutto avesse un senso.
«Perché non ci hai avvisati? Contavamo su questo,
agente Fisher!», aggiunse.
«Non ho potuto!», si giustificò.
« Fisicamente!
L'incantesimo di Freya deve avere messo K.O. anche me,
perché mi ricordo di essermi svegliato e di aver provato a
chiamare Alexandra, ma il cellulare mi è caduto dalle mani e
io sono ripiombato nell'oscurità più assoluta. Mi
sono svegliato un'ora fa».
Merlino strinse Alex a sé, la quale lo guardò con
un misto di apprensione e rammarico negli occhi. Poi tornò a
concentrarsi sul poliziotto e gli chiese: «Perché
sei venuto qui di persona? Potevi chiamare».
Darrell respirò profondamente, socchiudendo gli occhi.
«È stata Freya a svegliarmi. Mi ha chiesto di
condurvi da lei».
«Si tratta di una trappola», affermò
Artù, dicendo ad alta voce ciò che tutti
pensavano. Un invito al loro stesso funerale.
«Ma potrebbe anche essere la nostra unica occasione per
fermarla. Dobbiamo tentare», disse Alex, cercando
l'approvazione del suo taciturno marito.
«E se non ci presentassimo?», domandò
timidamente il paramedico.
Darrell si concesse il secondo respiro profondo di fila. «Ha
detto anche che se non sarete lì entro l'alba
inizierà ad uccidere i ragazzini».
A quel punto nessuno osò più fiatare. Gli sguardi
di tutti si posarono su un Merlino ad occhi chiusi, quasi in
meditazione. Dovettero passare diversi minuti prima che li riaprisse e
allora Darrell sentì il cuore salirgli in gola, scorgendovi
tutta la tristezza accumulata in secoli e secoli di solitudine, dolore
e odio per se stesso.
«Non abbiamo scelta», ruppe finalmente il silenzio.
«Prepariamoci, partiamo fra un'ora».
***
«Non capisco. Perché dovete andarvene? E che cosa
c'entra quell'agente... come hai detto che si chiama?».
Alex accarezzò le braccia del padre e gli rivolse il sorriso
più rassicurante del proprio repertorio. «Fisher.
Agente Darrell Fisher. Ascolta papà, non c'è
tempo per i dettagli. Ho bisogno che tu dia un occhio ai bambini questa
notte e che domani mattina li riporti in ospedale nel caso in cui noi
non fossimo ancora tornati».
Forse quell'ultima frase non avrebbe dovuto dirla.
«Che significa? Alexandra, devo sapere che
cosa...!».
L'infermiera lo abbracciò forte, così forte da
togliergli il fiato, e con gli occhi chiusi sussurrò:
«Grazie per oggi, è stato il giorno più
bello della mia vita. Ti voglio bene papà».
Il signor Greenwood non poté che arrendersi all'evidenza:
non avrebbe ottenuto nulla di più da sua figlia.
Perciò ricambiò l'abbraccio e le
accarezzò i capelli che si era sciolta quando si era tolta
il vestito da sposa per indossare qualcosa di più comodo:
pantaloni verde militare, una lunga camicia di flanella a quadretti blu
e rossi e la giacca di pelle marrone.
«Sei tale e quale a tua madre», mormorò
in un sospiro.
Alex si scostò per guardarlo in viso con un sorriso dolce.
Però non riuscì a dire nulla, le corde vocali
all'improvviso ingarbugliate per via della busta bianca che suo padre
aveva appena tirato fuori dalla tasca interna della giacca dello
smoking. Quella calligrafia...
«Tua madre me la diede qualche giorno prima di...».
Edwin abbassò gli occhi e deglutì rumorosamente.
«Mi fece promettere di dartela al momento giusto. Disse
proprio così, senza darmi ulteriori spiegazioni, ma penso
che quel momento sia arrivato».
Con mani tremanti Alex afferrò la busta e fissò
il proprio nome scritto in un corsivo elegante, quasi d'altri tempi.
Il padre le accarezzò la testa ancora una volta, poi le
posò un leggero bacio sulla fronte e si diresse verso il
salotto, dove batté le mani per attirare l'attenzione dei
ragazzini. Le parole le giunsero alle orecchie come suoni ovattati,
lontanissimi, ma riuscì a captare Mark mentre si lamentava.
«Nemmeno all'ospedale ci fanno andare a letto così
presto!», stava dicendo.
Ciononostante il salotto fu ben presto vuoto, fatta eccezione per
Rufus, la signora Chapman e Abigail. Alex decise di rimandare
l'apertura della lettera di sua madre per salutare la propria damigella
d'onore.
Daisy si alzò dalla poltrona non appena la vide arrivare e
come se le avesse letto nel pensiero disse che sarebbe andata a
prepararsi una tazza di tè, lasciando loro un po' di
privacy. Quindi Alex prese il suo posto e allungò un braccio
per far sì che la ragazzina le stringesse una mano.
«Il destino vi chiama?», le chiese Abby,
continuando a fissare le danzanti lingue di fuoco nel camino.
«Già».
«Qualche idea su come andrà a finire?».
Alex si passò la lingua tra le labbra, chinando il capo.
Sapeva troppo e troppo poco allo stesso tempo.
Sapeva che Darrell sarebbe intervenuto nella battaglia brandendo
Excalibur, che in qualche modo sarebbero riusciti a portare i giovani
adepti di Freya dalla loro parte, e sapeva anche che avrebbero spinto
il corpo senza vita di Abby sulle acque di Avalon.
I riferimenti temporali, i come e i perché mancanti,
rendevano quel quadro ancora più spaventoso.
«Lo prendo come un sì»,
mormorò la ragazzina, chiudendo gli occhi per abbandonarsi
contro lo schienale della propria sedia a rotelle.
«Ho visto anche il tuo futuro», rivelò
alla fine, sentendo un macigno caderle sul petto. «E non so
quando accadrà né come fare a fermarlo.
Io...».
«Certe cose non si possono cambiare», la interruppe
Abby, guardandola in viso per la prima volta. Rinsaldò la
presa sulla sua mano e le rivolse persino un mezzo sorriso,
aggiungendo: «Non si può sfuggire per sempre alla
morte. A meno che tu non ti chiami Merlino, ovviamente. Lo sai che mi
ha detto di aver imparato a ballare alla corte di Pietro I di
Russia?».
Alex, nonostante le lacrime, fu contagiata dalla sua risata. Si
appoggiò alla sua spalla e si lasciò accarezzare
i capelli mentre pian piano il proprio respiro tornava regolare.
«Che cos'hai lì?», le domandò
ad un tratto Abigail, indicando la busta che stringeva in una mano.
«Oh, è... è una lettera di mia
madre».
«Tua madre?».
«Sì, a quanto pare l'ha consegnata a mio padre,
perché la custodisse per me, pochi giorni prima di
morire».
«Ma un aneurisma non è prevedibile.
Come...?».
Le due si scambiarono un'occhiata, realizzando che invece era stato
previsto grazie alla magia.
«Tua madre sapeva che sarebbe morta, eppure non ha fatto
niente», disse piano Abigail, accarezzandole la mano.
«Sapeva che la sua storia doveva finire perché la
tua potesse iniziare».
Alex abbassò il capo verso la lettera e non
riuscì più a rimandare: doveva sapere
ciò che sua madre le aveva lasciato.
Bocciolo mio,
se stai leggendo
questa lettera vuol dire che io non ci sono più. Non so
quanto tempo sia passato, se pochi giorni o anni. Tuo padre
è un uomo buono e spero abbia scelto il momento giusto per
consegnartela, come spero che tu sia riuscita a perdonarlo per i suoi
errori.
Ti chiederai
perché ho organizzato tutto questo: ciò che stai
per leggere ti cambierà la vita e ora, nel tempo in cui sto
scrivendo queste parole, non sei pronta. Spero che ora tu lo sia,
perché in ogni caso non potrai più guardare il
mondo allo stesso modo.
La magia esiste, amore
mio. È la linfa vitale del mondo e scorre in ogni cosa: la
terra, l'acqua, il cielo. È ciò che mantiene in
equilibrio gli elementi, l'ingrediente segreto della formula che
nessuno scienzato potrà mai scoprire o comprendere appieno.
Riesci ad immaginare
che cosa accadrebbe se all'improvviso venisse a mancare? Il contrario
dell'equilibrio è il caos, della vita è la morte.
Il pianeta collasserebbe su se stesso. Ed è quello che sta
accadendo, purtroppo.
È da tempo
che la nostra famiglia - mia madre, suo padre prima di lei e
così via - si impegna per riparare i danni creati
dall'assenza della magia in ogni parte del mondo. Non ti ho mai
raccontato nulla del mio passato e nemmeno tuo padre ne sa molto. La
maggior parte delle persone non è in grado di capire il
compito che ci è stato affidato secoli orsono, quando il
mago Merlino ha rinnegato la propria natura, dando così
inizio alla catena di eventi che ci ha portati fino a qui.
Ho fatto
più volte il giro del mondo con mia madre, tentando di
prevenire quanti più disastri possibili e quando era troppo
tardi limitandoci a rattoppare gli squarci, ma ho smesso quando ho
conosciuto l'amore, la mia anima gemella: tuo padre. La nonna si oppose
in ogni modo, diceva che sposarmi non faceva parte del mio destino.
Come puoi immaginare, la ignorai. E quando tu venni alla luce ebbi la
certezza che eri tu il membro della nostra famiglia che avrebbe
incontrato il nostro antenato più famoso: Artù
Pendragon.
Ti ricordi della leggenda che ti raccontai quando tua nonna stava
morendo? Eri solo una bambina e scoppiasti a piangere, spaventata. Non
devi esserlo, amore mio. La nostra famiglia discende
proprio da Artù, il primo cavaliere della Tavola Rotonda, il
solo ed unico re, nato dalla magia e morto per via della stessa.
È stato profetizzato che un giorno, quando Albione
avrà più bisogno, i cancelli di Avalon si
apriranno e lui ritornerà. Insieme a lui dovremo combattere
perché la magia torni nel mondo nel modo giusto, evitando
che persone malvagie la utilizzino per i propri scopi. La magia non
è cattiva Alexandra, lo è solo se chi la utilizza
non è puro di cuore.
È stato
anche detto che sarà grazie ad un nostro sacrificio che il
mondo vivrà in pace e in armonia.
Le profezie non sono
mai complete, né dettagliate. Mi dispiace non poterti dire
di più, mi dispiace non essere lì con te in
questo momento. Ma so che la profezia riguarda te, che il tuo destino
è quello di riportare la magia nel mondo, che il sacrificio
che dovrai compiere ti sembrerà insostenibile.
Non mi pento del mio
amore per Edwin, non mi pento di averti dato alla luce. Mi dispiace
solo che sia tu a dover affrontare tutto questo. Ti ho sempre detto di
seguire il cuore, di lottare per realizzare i tuoi sogni, ed
è quello che voglio che tu faccia anche ora: il peso che ti
grava sulle spalle è inimmaginabile, ma sentiti libera di
fare quello che credi sia più giusto, bocciolo mio. Sei il
mio orgoglio e so che riuscirai a piegare il destino al tuo volere.
Ti voglio bene, te ne
vorrò sempre. E quando il giorno verrà, ci
ricongiungeremo nel regno di Avalon.
La tua mamma,
Ellen
Alex chiuse gli occhi alle lacrime e si piegò in avanti per
contenere il dolore che sentiva nel petto, la lettera di sua madre
accartocciata tra le mani.
Sua madre... Una persona conosciuta a metà, i cui segreti le
avevano permesso di vivere un'infanzia e un'adolescenza normali e che,
al contempo, le avevano impedito di conoscerla veramente. Non riusciva
nemmeno ad immaginarsela alle prese con la magia.
La sera precedente suo padre aveva detto che Ellen sarebbe stata
orgogliosa di lei se l'avesse vista in quel momento, ad un passo dallo
sposarsi con Merlino. E lei stessa si era detta più volte
che se l'avesse conosciuto l'avrebbe adorato. Ora aveva i suoi dubbi in
merito. Nella sua lettera l'aveva menzionato solo una volta,
definendolo colui che aveva rinnegato la propria natura, causando la
serie di eventi che le aveva portate fino a lì.
Lui era il motivo per cui la sua famiglia, generazione dopo
generazione, si era impegnata per proteggere il precario equilibrio del
mondo; il motivo per cui sua madre era stata costretta a viaggiare per
il mondo senza mai sentirsi a casa; il motivo per cui si era dovuta
scontrare con la nonna per avere un briciolo di normalità;
il motivo per cui il suo bocciolo si ritrovava con un peso
inimmaginabile sulle spalle.
Conoscendo tutto questo, davvero l'avrebbe adorato? Alex non lo sapeva,
non l'avrebbe mai saputo. Quello che sapeva era che il destino le aveva
portate in quel paesino dimenticato da dio - uno dei fulcri della
magia, - che sua madre era morta senza aver mai incrociato lo stregone
e che lei si era ritrovata ad innamorarsene, a sposarlo e a portare in
grembo suo figlio. E ora, com'era stato predetto e voluto dai custodi
della magia, Alex avrebbe dovuto compiere il sacrificio supremo per
salvare il mondo e tutte le persone che vi abitavano, compresi suo
padre, i suoi amici e il suo bambino: uccidere Merlino
perché la sua maledizione si rompesse e la magia ristorasse
l'equilibrio del mondo.
Un ruggito di dolore le sfuggì dalle labbra e Abby si sporse
immediatamente su di lei, circondandola con le braccia e posando la
guancia sulla sua schiena.
«Andrà tutto bene», le
sussurrò, cercando di rassicurarla.
In quel momento arrivò anche Cathleen, la quale si
avvicinò con cautela e si inginocchiò proprio
davanti ad Alex, dando le spalle al camino.
Le posò una mano sul ginocchio, accarezzandolo piano.
«Ehi».
Anche lei si era cambiata per lo scontro: anfibi, pantaloni di pelle
nera, felpa di una band metal sconosciuta e trench con le borchie.
«Non sei sola, okay? Ci siamo noi».
«Proprio così. Noi tre possiamo salvare il
mondo».
«Coraggio, Forza e Magia».
Alex alzò finalmente il capo e rivolse un tiepido sorriso
alle amiche per far credere loro che stesse meglio. Non avevano bisogno
dei suoi drammi in quel momento. Si alzò dalla poltrona e
con la magia fece volare la lettera appallottolata di sua madre nel
camino, poi si chinò nuovamente su Abby e la strinse in un
abbraccio.
«Non puoi proteggermi per sempre»,
sussurrò la ragazzina. «Ma puoi essere l'eroina
che sei destinata a diventare».
«Eroina? Ti stai sbagliando, Abby».
«Un vero eroe non si misura dalla grandezza della sua forza,
ma dalla forza del suo cuore».
«E questo chi l'avrebbe detto?».
«Hercules, nel cartone della Disney».
Alex si sollevò, ridacchiando, e Cathleen si
avvicinò a lei per avvolgerle un braccio intorno alle spalle.
«Continua a lottare, okay? Promettimelo».
La ragazzina sorrise ed annuì. «Fino alla
fine».
«Bene. Allora andiamo».
Alex e Cathleen si diressero verso l'ingresso e prima di chiudersi la
porta alle spalle sentirono Abigail gridare: «Non voglio
mettervi pressione, ma il mondo intero conta su di voi!».
***
Merlino scese dalla Pininfarina e raggiunse Darrell davanti al cofano
della volante, dove aveva aperto una grossa mappa con una X segnata in
rosso sul posto che Freya gli aveva mostrato l'ultima volta che erano
stati in contatto.
«Dove siamo?», domandò Cathleen piegando
le braccia dietro il collo per farsi un massaggio. Ben presto anche
Artù e Alex li raggiunsero per dare un'occhiata alla mappa.
Dall'agriturismo avevano guidato in direzione della città di
Caerleon, l'avevano superata senza rispondere alle domande dell'ex
sovrano in merito al sito archeologico - non era il momento adatto per
rivelargli che quello era tutto ciò che era rimasto del
castello di Camelot - e poi si erano diretti a nord. Dopo
quarantacinque minuti di nervosi silenzi si erano finalmente fermati di
fronte alla...
«...Mynydd Du Forest. Da qui dobbiamo proseguire a piedi per
raggiungere il luogo d'incontro», spiegò Darrell.
Merlino fissò gli alberi oltre la barriera di metallo,
l'espressione vacua, persa nei ricordi. Erano passati quasi
millecinquecento anni, eppure ricordava quel giorno come se fosse stato
ieri. Ogni dettaglio, ogni odore, ogni rumore... impressi a fuoco nella
sua memoria. Si era promesso che non sarebbe mai tornato nel luogo in
cui non era riuscito a salvare Artù e a cambiare la
profezia, ma erano proprio lì che erano diretti.
Freya... A che gioco
stai giocando?
«Merlino? C'è qualcosa che non va?».
Lo stregone si voltò e guardò sua moglie, poi si
rivolse all'agente Fisher: «Sei sicuro che sia questa la
strada?».
«Al cento percento», rispose con stizza,
infastidito che non si fidasse di lui. «Freya si trovava in
una foresta durante il rituale e sono certo che sia questa».
«La stessa foresta dove ha trovato la spada di
Mordred?», chiese Artù, portandosi istintivamente
una mano sul costato.
«Così pare».
«Mi chiedo per quale motivo ne abbia bisogno»,
intervenne Cathleen. «Ha la magia dalla sua parte, a che cosa
le serve una spada?».
Merlino si girò nuovamente verso la foresta e con voce
lontana spiegò: «Quella non è una spada
qualunque: prima della battaglia di Camlann, Morgana l'ha immersa nel
fuoco di Aithusa perché potesse contrastare Excalibur. Si
tratta di una spada magica, nessuno può sopravvivervi:
né mortali né immortali».
«Stai dicendo che vuole usarla su di te?».
Lo stregone abbozzò un sorriso, alzando lo sguardo verso il
cielo. «Non c'è altro modo per
uccidermi».
Alex lo placcò da dietro, stringendogli le braccia intorno
al busto ed immergendo il viso tra le sue scapole.
«Non lo permetteremo», sussurrò, e
Merlino si domandò se stesse parlando al plurale per
Artù e Cathleen o per la bambina che portava in grembo.
Forse per tutti.
Fece in modo di ritrovarsi davanti a lei e le sorrise prima di
prenderle il volto tra le mani e baciarla sulla fronte. Poi si rivolse
al resto del gruppo: «Dobbiamo muoverci se vogliamo arrivare
al punto d'incontro prima dell'alba».
Il mago aprì il bagagliaio della propria auto e
tirò fuori un paio di zaini che aveva preparato
all'agriturismo, contenenti acqua e cibo e dei kit di sopravvivenza che
avrebbero fatto loro comodo durante il viaggio che li attendeva. In una
terza borsa c'erano invece dei pezzi di armatura essenziali che aveva
iniziato a portare sempre con sé per ogni evenienza:
gorgiere, spallacci, maglie di ferro, bracciali.
«Mi dispiace di non aver preso il tuo bustino di
ferro», si scusò Merlino, ma Alex gli rivolse un
sorriso quasi compiaciuto e lo tirò fuori dalla propria
borsa.
Mentre Artù, Cathleen e Alex indossavano le armature,
Darrell per non sentirsi inadeguato controllò le proprie
armi: la pistola d'ordinanza col caricatore pieno, il teaser, il
manganello. Alzò il capo quando sentì Merlino
ridacchiare, appoggiato sul bordo del bagagliaio.
«Quelle armi non ti serviranno contro la magia».
Darrell strinse i denti. «Almeno io non me ne vado in giro
con un cappello a punta sulla testa,
stregone».
Avrebbe potuto rispondergli non ne aveva mai posseduto uno, ma
preferì evitare: stavano per scendere sul campo di battaglia
e crearsi un nemico interno non era una mossa saggia.
Alla fine, Merlino tirò fuori Excalibur per Alex, un'altra
spada per Artù e un arco con faretra per Cathleen. L'ex re
aprì la bocca per chiedergli come lui si sarebbe difeso ad
un eventuale attacco, quando Merlino si chinò un'ultima
volta nel bagagliaio e tirò fuori un lungo bastone un po'
ricurvo e dal manico intagliato in una spirale. Si vedeva che era stato
fatto da una mano non troppo esperta, vista l'imprecisione e la
scarsità di dettagli. Ciò nonostante, non appena
Merlino ne fece toccare l'estremità sul suolo,
Artù provò lo stesso tuffo al cuore che aveva
provato quando aveva visto la sua versione più anziana
scagliare fulmini contro i Sassoni, proprio quando l'esito della
battaglia sembrava ormai scritto. La speranza e il timore reverenziale
si mescolarono in un grumo che gli impedì di parlare, mentre
le sue ginocchia tremanti fecero quello che a causa dell'orgoglio e dei
pregiudizi non era riuscito a fare allora: si piegarono in un inchino
per lo stregone più potente di tutti i tempi.
«Che diavolo...?», domandò allibito
Darrell, fissando la scena ad occhi sgranati.
Merlino abbassò solennemente il proprio bastone sopra il
capo di Artù, ma all'ultimo momento sogghignò e
gli diede un colpo in testa.
«Ahia! Merlino, ma sei impazzito?!»,
urlò il solo ed unico re, portandosi una mano sul punto
dolorante.
«Ah, suvvia! Con la testa dura che vi ritrovate non l'avrete
nemmeno sentito».
Lo stregone gli porse una mano e Artù la fissò,
imbronciato e sospettoso, fino a quando non gli disse:
«Andiamo, ci aspetta un'ultima battaglia. Finalmente fianco a
fianco, senza doverci nascondere».
Artù sorrise e l'afferrò per alzarsi.
***
La foresta era fitta, così fitta che la luce della luna non
riusciva a penetrare tra le fronde degli alberi. Alex si era offerta di
fare un po' di luce, ma Merlino l'aveva convinta a risparmiare le
energie per il confronto con Freya. Artù ne era stato sia
grato che innervosito: per quanto volesse che la sua erede non usasse
la magia, gli avrebbe fatto più piacere trovare un modo per
impedirle di combattere in prima linea.
Quando finalmente uscirono dalla Mynydd Du Forest, la luna
mostrò loro i fianchi infiniti della vallata e le cime delle
altre alture. Artù sentì un brivido percorrergli
la spina dorsale a quella vista: aveva come la sensazione di esserci
già stato, ma non poteva fare affidamento sulla propria
memoria.
«Okay, da qui dovremmo proseguire in... quella
direzione», esclamò Darrell, il volto nascosto
dietro la mappa e il dito puntato verso un sentiero per le pecore.
«Metti via la mappa, Darrell», rispose stancamente
Merlino, guardando l'orizzonte col bastone stretto in mano e i capelli
bicolore mossi dal vento. «So perfettamente dove Freya vuole
incontrarci».
Artù a quel punto non poté più
ignorare la propria intuizione: se Merlino e Freya conosceva il posto,
doveva conoscerlo per forza anche lui. Si avvicinò a Darrell
di gran carriera e gli strappò la mappa di mano per
osservarla alla luce della luna. Una scritta lo colpì
più delle altre: Black Mountains. Quindi guardò
con più attenzione la morfologia del terreno e nonostante
fossero passati secoli, riconobbe senza ombra di dubbio il posto in cui
si stavano dirigendo.
«La pianura di Camlann. È lì che stiamo
andando, non è vero? Un tempo queste si chiamavano "White
Mountains", ma per qualche motivo...».
«Il nome è cambiato dopo la vostra morte, per il
lutto», spiegò Merlino in tono lugubre. Quindi
senza accertarsi che lo stessero seguendo, lo stregone riprese il
cammino.
Le montagne erano molto cambiate da quando le aveva attraversate per
l'ultima volta, ma non era una sorpresa: il tempo, l'erosione, i
cambiamenti climatici avevano reso docili quelle terre ostili, con
panorami bellissimi per gli appassionati di trekking.
Nessuno di loro era propriamente attrezzato per una camminata del
genere e nonostante Cathleen non avesse aperto bocca era lei che stava
soffrendo di più: il suo respiro affaticato e l'espressione
contratta del viso aveva più volte costretto Artù
a rallentare per starle accanto.
Avevano percorso due delle quattro miglia che li separavano dalla
pianura, quando un gruppo di cavalli allo stato brado
attraversò loro la strada. In quella zona non c'era molto da
brucare e dal modo in cui li guardavano sembrava quasi che li stessero
aspettando.
«Sono cinque, proprio come noi. Un regalo da parte di
Freya?», domandò Alex, sospettosa.
«Io posso continuare a piedi», esclamò
Cathleen prima di sedersi su una roccia sporgente, il volto paonazzo e
il fiato grosso.
Merlino si avvicinò al cavallo più vicino, una
femmina dal manto candido come la neve e la criniera che le copriva gli
occhi. Stese una mano e la puledra nitrì: lei e i suoi
compagni fecero dietro front e si allontanarono al galoppo, nella
speranza di allontanarsi il più possibile dagli umani che
avevano interrotto il loro spuntino.
«Okay, solo una coincidenza», scrollò le
spalle Alexandra.
Artù aspettò di rimanere da solo con Cathleen e
le posò una mano sulla spalla, facendo in modo che alzasse
il viso: le sue guance infiammate gli ricordarono la prima volta che
avevano fatto l'amore e dovette sforzarsi per non eccitarsi. Non era
proprio il momento.
«Forse faresti meglio a rimanere qui», disse piano,
sorridendole.
Le sue sopracciglia si aggrottarono. «Assolutamente no! Ti ho
promesso che avrei lottato al tuo fianco e lo farò, anche a
costo di perdere un polmone».
Cathleen si alzò in piedi e Artù
l'afferrò per la vita e la baciò: poteva essere
l'ultima volta, dopotutto.
«Qualsiasi cosa succeda a Camlann»,
mormorò, sistemandole delle ciocche di capelli rossi dietro
le orecchie. «Voglio che tu sappia che trascorrere tutti
quegli anni ad Avalon è valsa la pena: ho potuto conoscere
te».
Il paramedico sorrise, sfiorandogli il naso con un dito. «Ho
anche promesso che ti proteggerò, perciò stai
tranquillo: non fallirò».
«Sei tale e quale a Gwaine», ridacchiò.
«Andiamo, prima che ci distanzino troppo».
Mano nella mano si avviarono verso la pendenza dietro cui erano spariti
i loro amici.
«Aspetta, chi è Gwaine?»,
domandò ad un tratto Cathleen, facendolo ridere nuovamente.
***
Alex poteva percepire la tensione che aleggiava tra Merlino e Darrell,
perciò tentò di concentrarsi il più
possibile sulla strada e sul panorama, pensando che non le sarebbe
dispiaciuto trascorrere la luna di miele viaggiando in quel modo, con
uno zaino sulle spalle. Non ne avevano mai parlato, visto che avevano
questioni più urgenti di cui occuparsi, ma se tutto si fosse
risolto nel migliore dei modi con Freya, allora, magari...
Sospirò, scuotendo il capo. Come poteva essere
così ingenua? Come poteva, dopo tutto quello che i custodi
della magia avevano architettato? Come poteva, dopo aver letto la
lettera lasciatale da sua madre?
«Merlino?».
Lo stregone la guardò, e così fece Darrell alla
sua destra. Alex lo ignorò, accarezzandosi la fede.
«Tu hai mai conosciuto mia madre?».
«Tua madre? No, te l'avrei detto altrimenti».
«Sì, scusami, è stata una domanda
stupida», rispose con un lieve sorriso.
«Se me l'hai fatta non la ritenevi tale. Di che si
tratta?».
L'infermiera si chiese se fosse il caso di rivelargli la seconda vita
di sua madre, l'obiettivo della sua famiglia: in un certo senso, era
stata incaricata di porre rimedio al pasticcio di Merlino, e questo li
rendeva all'improvviso di due fazioni opposte. Ma prima di tutto, lei e
Merlino erano moglie e marito.
Lo prese per mano e ad aggrappandosi al suo braccio gli
raccontò tutto ciò che aveva appreso quando suo
padre le aveva consegnato la lettera di Ellen.
Il mago fu sorpreso dall'ennesimo colpo di scena, ma nemmeno troppo.
«Ma certo, avrei dovuto capirlo»,
mormorò, guardando il terreno di fronte a sé.
«Sapevo che c'era qualcuno che stava cercando di ristorare le
fonti magiche nel mondo, ma non mi sono mai interessato più
di tanto: conoscevano la teoria, tuttavia nessuno possedeva un potere
simile al tuo».
«Pensavo fosse ereditario», esclamò
Alex, confusa.
«Oh sì, lo è. La magia è
qualcosa con cui si nasce. Essere uno strumento per cui possa
manifestarsi, però, è tutto un altro paio di
maniche. Ci vogliono persone forti, capaci di mantenere il controllo,
consapevoli delle proprie capacità».
«Nel bene e nel male?».
«Nel bene e nel male. Come ho detto secoli orsono: la magia
non è cattiva, lo è solo se chi la utilizza non
è puro di cuore».
Alex sentì un dolore improvviso nell'esofago, come se la
propria saliva si fosse trasformata in acido corrosivo. «Sono
le stesse parole che ha usato mia madre nella lettera»,
gracchiò.
Merlino sorrise e le posò una mano sulla base del collo per
avvicinarla a sé e poterle baciare la fronte. «Ti
giuro di non aver mai conosciuto tua madre».
Questo non voleva dire che durante i secoli non avesse conosciuto un
suo avo, ma come avrebbe potuto saperlo? Avrebbe dovuto mostrargli
tutto il proprio albero genealogico, ma costruirne uno a partire da
Graalmir Pendragon era a dir poco impossibile. Inoltre, avrebbe sempre
potuto dirle di non ricordarsi di tutte le persone che aveva incontrato
nella sua lunghissima vita e lei sarebbe rimasta con un pugno di
mosche. Non poteva fare altro che fidarsi, come una brava moglie.
Aprì la bocca per dirgli che gli credeva, ma Darrell si era
allontanato - per dare loro un po' di privacy forse - e incuriosito si
era messo ad osservare un cairn, senza però resistere alla
tentazione di toccare una delle pietre impilate.
«Dannazione, Darrell! Non è un jenga
gigante!», lo rimproverò Merlino, spingendolo via
con una manata e contemplando il disastro: la parte esposta a nord si
era completamente sfaldata e una valanga di pietre giaceva a terra.
«Mi dispiace, io...», balbettò il
poliziotto, provando ad avvicinarsi per rimediare all'errore, ma
Merlino lo fulminò con lo sguardo, per poi guardare Alex con
espressione allibita. La domanda che avrebbe voluto porgerle era fin
troppo chiara: «Davvero ti piaceva questo qui?».
«Ehi, perché ci siamo fermati?», chiese
Artù, raggiungendoli insieme a Cathleen. Gli
bastò dare un'occhiata al cairn però per
azzittirsi ed assumere un'aria preoccupata. «Chi è
stato?».
Sia Alex che Merlino indicarono Darrell, il quale iniziò a
ridacchiare dicendo: «Ehi, ma è così
grave? Sono solo delle pietre impilate!».
«No, invece», intervenne Alex. «Si tratta
di un'antica lapide: qualcuno l'ha costruita per piangere la morte di
qualcuno. E tu... tu l'hai dissacrata».
«Ah, se una mano scheletrica uscisse dal terreno per
afferrarlo io scappo, sappiatelo», sussurrò
Cathleen, stringendosi le braccia al petto come se avesse freddo.
«Non succederà nulla del genere»,
sospirò lo stregone, alzandosi con l'aiuto del proprio
bastone. «Però...».
«Se stai per dirmi che avrò sette anni di sfiga o
cose del genere lascia perdere», sbottò l'agente
Fisher. «Data la situazione in cui mi trovo, non credo che
possa andarmi peggio. E ora muoviamoci, non manca molto
all'alba».
Dopo l'incidente del cairn sepolcrale nessuno era in vena di
chiacchierare, perciò percorsero le ultime due miglia in
direzione sud-est in perfetto silenzio. Alex era parecchio inquieta -
la battaglia con Freya non era ancora iniziata e uno di loro si era
già beccato una maledizione - ma cercò di
nascondere le proprie paure, come un bravo cavaliere di Camelot.
Il cielo esitava ancora a rischiararsi, quando raggiunsero la
sommità di Waun Fach - a 2660 piedi d'altitudine - e Freya
li accolse aprendo le braccia, come una vecchia amica.
Quella montagna era diversa dai soliti stereotipi: non aveva una punta
vera e propria, ma un grande cratere ricoperto di torba, a cui centro
si stagliava un masso che contraddiceva ogni legge della fisica stando
in equilibrio su una sporgenza. Se avesse potuto sorvolare l'area
avrebbe avuto ancora di pù la percezione che qualcosa fosse
atterrato su quella cima e che l'impatto avesse formato il cratere, ma
poteva anche sentire una specie di elettricità solleticarle
le piante dei piedi, perciò... che fosse stata la magia a
crearlo?
«Panorama stupendo per la battaglia finale, non
trovate?».
Alex aveva visto fin troppe vallate, fin troppe foreste,
perciò si concentrò su Freya e sui ragazzi alle
sue spalle, quelli che Darrell aveva visto nei suoi "sogni": Jake, coi
suoi capelli castani arruffati e il viso sciupato per la mancanza di
sonno; le sorelle gemelle dai voluminosi capelli arancioni e i bomber
fluorescenti; l'allampanato senzatetto coi capelli biondo pallido,
praticamente bianchi sotto la luce lunare, gli abiti sporchi e
consunti, il trench nero pieno di toppe; infine, la ragazza di origini
africane, alta, snella e dallo sguardo quasi felino.
«Lo sappiamo che non ci hai portato qui per il
panorama», digrignò i denti Merlino, avanzando di
un passo.
«Mi hai scoperto». Freya alzò le mani
con un ghigno beffardo sul volto. «Avevo pensato ai resti di
Camelot, dove sono morta io, ma poi ho pensato che sarebbe stato
più divertente farti tornare qui, dove hai dato tutto te
stesso per vincere la battaglia e ciononostante hai perso la guerra.
Non sei riuscito ad impedire a Mordred di infilzare il tuo migliore
amico... tu, il più grande mago di tutti i tempi, hai
fallito. Cosa ti fa pensare che questa volta sarà
diverso?».
Merlino abbassò il capo e strinse forte la mano di Alex, per
poi sollevala e urlare, pieno d'orgoglio: «Perché
questa non è la mia storia! Alex riuscirà dove io
ho fallito, ne sono certo».
Il peso che aveva sulle spalle triplicò, ma l'infermiera lo
sostenne e riuscì persino a sorridere a Freya, la quale si
era incupita. Al contrario di ciò che pensava
però, il motivo non era lei, bensì Darrell.
«Ti avevo detto di dare a Merlino le indicazioni per
raggiungermi, non di accompagnarlo qui», disse piano,
un'espressione indecifrabile sul volto: un mix di rabbia, paura, ansia
e amore.
L'agente Fisher avanzò, superando addirittura Merlino, e con
tono gentile disse: «Pensavo davvero quello che ti ho detto
l'altra sera: possiamo ancora essere felici insieme. Andremo via da
qui, dove nessuno ci conosce, ci prenderemo una casa...».
«Mi dispiace Darrell, ma ho già sentito queste
parole. E visto com'è andata l'altra volta, non credo sia il
caso». Si girò verso la ragazza di colore e disse:
«Hanna, ti dispiace immobilizzarlo? Non voglio essere
costretta a fargli del male».
La ragazza si acquattò, con le mani posate sulla terra, e
con gli occhi che risplendevano della caratterisca sfumatura dorata
sussurrò: « Gehaeftan».
Alex sguainò Excalibur e provò a correre da
Darrell per difenderlo dalle radici che all'improvviso gli erano
comparse intorno alle caviglie e lentamente si inerpicavano sul suo
corpo per avvolgerlo in un bozzolo, ma venne intercettata da un'onda di
energia che la spinse a qualche metro di distanza, con Excalibur
abbandonata al suo fianco.
«Alex! Alex, stai bene?», esclamò
Merlino, gettandosi al suo fianco e scostandole i capelli dalla fronte.
L'infermiera mugulò dal dolore, sollevando il capo quel
tanto che bastava per vedere Jake abbassare le mani e cercare
l'approvazione di Freya.
«Ottimo lavoro», gli disse quest'ultima,
sorridendo. Quindi si rivolse di nuovo a Merlino, indicando i ragazzi
alle sue spalle: «Allora, che te ne pare? Li ho addestrati
bene, non trovi?».
Lo stregone digrignò i denti ed aiutò Alex ad
alzarsi, mentre Artù e Cathleen si facevano avanti per
proteggerli.
«Ti ho fermata una volta, lo farò di
nuovo!», gridò l'ex sovrano prima di lanciarsi
all'attacco con la spada sollevata sopra la spalla.
Freya sorrise tranquilla, forse sapendo che i suoi adepti l'avrebbero
protetta, e così accadde. Le due ragazzine stesero le mani
avanti e in perfetta sincronia gridarono: « Forbearnan!».
Immediatamente una striscia di fuoco impedì ad
Artù di avvicinarsi oltre, anzi lo costrinse ad arretrare.
Cathleen incoccò una freccia, ma Merlino le
impedì di scoccarla abbassandole l'arco.
«Non possiamo fare loro del male, sono sotto l'incantesimo di
Freya», spiegò.
La dama del lago scoppiò a ridere, eccitata. Si interruppe
però quando una voce intrisa di rabbia la
sovrastò, lanciando un incantesimo che spense il fuoco.
Alex respirò profondamente e strizzò gli occhi,
cercando di recuperare le energie. La battaglia non era nemmeno
iniziata e lei era già affaticata - non un buon segno.
«E va bene, basta scherzare», esclamò la
ragazza druida. Alzò una mano con sufficienza e diede loro
spalle, aggiungendo: «Fate del vostro meglio, rendetemi
orgogliosa».
«Hai intenzione di rimanere a guardare?»,
gridò Artù, oltraggiato. «Non sapevo
fossi una tale codarda, Freya!».
Lei si limitò a sorridere e sedendosi ai piedi del masso
guardò i propri maghi cimentarsi nei loro migliori attacchi.
Il primo arrivò dalle gemelle, le quali scagliarono delle
palle di fuoco nella loro direzione. Alex si parò di fronte
agli amici e gridò: « Shieldan!».
Le sfere si infransero contro lo scudo magico eretto da Alexandra, ma
non riuscì a tenerlo attivo per molto tempo. Quando
l'effetto si esaurì, l'unica cosa che poterono fare fu
quella di correre via per non venir abbrustoliti. Nel contempo, Hanna
decise di metterci del suo: radici simili a quelle che avevano
intrappolato Darrell uscirono dalla terra e provarono a raggiungere le
loro gambe come serpenti, ma Artù riuscì a
renderne inerte la maggior parte, tagliandole di netto con la sua
spada.
«Non so che cosa vi abbia detto Freya, ma sappiate che state
sbagliando a mettervi contro di noi!», gridò
Merlino nel tentativo di riportare quei ragazzi alla ragione.
«Noi siamo i buoni!».
«Ah sì?», domandò Jake,
sistemandosi gli occhiali sul setto nasale. «E
perché "i buoni" dovrebbero impedire il ritorno della magia,
impedire a noi di essere ciò che siamo? Tu, Merlino, tu
più di tutti dovresti capire com'è vivere a
metà».
«Ma allearsi a Freya è sbagliato!»,
tentò di difenderlo Alex, col fiatone, ma Merlino le
portò un braccio davanti al petto come a volerla nascondere
dietro la propria ala.
«Hai ragione, Jake. So perfettamente come ci si sente. Ma so
anche che fidarsi delle persone sbagliate può essere
disastroso. Noi non abbiamo nulla contro di voi, dovete credermi.
Stiamo cercando di impedire a Freya di riportare la magia nel mondo
perché il suo metodo non funzionerebbe: se un potere del
genere finisse nelle mani sbagliate, i danni sarebbero
enormi».
«Stai dicendo che se ti consegnassimo Freya ti
sacrificheresti di tua spontanea volontà?».
La dama del lago alzò di scatto il capo, gli occhi saettanti
per la piega che stava prendendo quella conversazione.
Alex sentì la fiamma della speranza tornare ad ardere dentro
di lei: Freya temeva che i maghi che aveva addestrato la tradissero,
perciò se fossero davvero riusciti a portarli dalla loro
parte avrebbero avuto qualche chance di fermarla. D'altro canto,
però...
«Merlino, no», sussurrò, stringendogli
la mano. «Hai promesso di invecchiare al mio fianco,
ricordi?».
Lo stregone strinse le labbra, guardando Jake e gli altri ragazzi.
«Merlino non farà mai una cosa del
genere», si intromise Freya, di nuovo sorridente.
«Ama troppo la sua mogliettina per lasciarla. Sta solo
cercando di mettervi contro di me, come un bravo stratega. Alla fine
hai davvero imparato qualcosa da Artù Pendragon».
«Artù... Pendragon», ripeté
con voce spiritata il clochard, i suoi grandi occhi verdi fissi sull'ex
re di Camelot. Anche gli altri ragazzi manifestarono la loro sorpresa
con mormorii ed occhiate, ma la reazione del biondo fu quella
più strana: strinse i pugni lungo i fianchi e
piegò il capo verso sinistra, le labbra che tremavano
leggermente.
Freya serrò la mascella e guardandolo con la coda
dell'occhio gli chiese: «Qualcosa da condividere,
Elijah?».
Il ragazzo urlò di dolore e cadde sulle ginocchia, le dita
sulle tempie. «No, nulla», gracchiò e
poi sospirò di sollievo, quando la presa di Freya sulla sua
mente si sciolse. Senza fare movimenti bruschi, alzò di
nuovo gli occhi su Artù e i due si scambiarono un'altra
serie di sguardi che Alex non riuscì a decifrare per via
della maschera di impassibilità sul volto dell'antenato.
«Jake?», lo incalzò Freya, invitandolo a
riprendere da dove aveva interrotto.
L'ex cameriere della Caffetteria Begum stese le braccia e
gridò con rabbia: « Svelt!».
Uno dei pugnali che portava in vita si sguainò da solo, come
animato, e sfrecciò verso Merlino, così
velocemente che Alex non ebbe nemmeno il tempo per formulare un
incantesimo di difesa. Per fortuna Merlino aveva dei riflessi
eccezionali e riuscì a sollevare il bastone in modo che il
pugnale trafiggesse quello anziché la sua fronte.
Prima che Jake potesse ripetere l'incantesimo con altre armi, Alex lo
stese con un « Astrice».
Peccato però che in quel modo attirò su di
sé gli attacchi delle tre ragazze. Per qualche assurdo
motivo, Elijah non aveva ancora fatto nulla, tenendosi in disparte. Che
Freya gli avesse impedito di mostrare il suo potenziale per potersene
servire in caso di emergenza?
Le due sorelle prepararono le loro palle di fuoco, mentre Hanna si
concentrò tanto per controllare la terra che avevano sotto i
piedi che le si ingrossò una vena sulla fronte. La
situazione stava davvero per degenerare, quando un'improvvisa nebbia li
avvolse, impedendo a tutti di vedere aldilà del proprio
naso.
Alex trovò facilmente la mano di Merlino e lo
seguì fino a ritrovarsi inginocchiata al fianco di
Artù e Cathleen.
«Io non sono esperta di montagne, ma non credo sia
normale», esordì a bassa voce Cathleen.
«Si tratta di un diversivo», spiegò
Artù.
«Come fai a saperlo?».
«Me l'ha detto Elijah».
Alex corrugò la fronte e finalmente capì il
motivo di quelle occhiate. «Ma certo, ti ha parlato col
pensiero! È un druido!».
Artù annuì, ma non fece in tempo ad aprire bocca
che Cathleen domandò: «E perché ci
starebbe offrendo un diversivo?».
«Perché non vuole che Freya si impossessi del
potere di Merlino. Ricordate che cos'ha detto Darrell, che ha trovato
la spada di Mordred? Beh, la magia nera di quella spada ha alimentato
la sua sete di riscatto: vuole ancora costruire un mondo pieno di
magia, ma vuole tenere una parte di potere per sé per
regnare sugli altri maghi, e farà fuori chiunque provi a
contrastarla».
«Di male in peggio, di male in peggio»,
farfugliò Cathleen.
«Che cosa facciamo? Excalibur mi è d'aiuto, ma io
sto già esaurendo le forze», confessò
Alex, anche se non avrebbe voluto dare altre cattive notizie.
Artù si chinò ancora un po' di più
verso il centro. «Okay, dobbiamo neutralizzare i maghi,
però... noi non possiamo combatterli e tu non puoi farlo da
sola. Non ho idea di come fare».
«Io però sì»,
esclamò Merlino.
***
Darrell odiava profondamente la magia, ma in quel momento iniziava a
piacergli un po' di più: grazie a quella fitta nebbia poteva
contorcersi indisturbato per raggiungere la propria pistola e sparare
alle radici che lo stavano imprigionando senza preoccuparsi di dare
nell'occhio. Una volta libero avrebbe fatto un bel discorsetto ai suoi
compagni di battaglia: quando Alex era stata gettata a terra erano
corsi tutti al suo capezzale, ma nessuno si era degnato di verificare
le sue condizioni!
«Avanti, avanti», mormorò, sfiorando il
calcio della pistola con la punta delle dita.
Era così preso che non si accorse del giovane senzatetto
fino a quando non se lo ritrovò accanto. Elijah gli
tappò la bocca per non farlo gridare di sorpresa e si
avvicinò fin troppo al suo viso per guardarlo coi suoi
enormi occhi verdi, nei quali la pupilla era così piccola da
sembrare inesistente.
«Ciao Darrell», sussurrò con un largo
sorriso. «Tranquillo, sono dalla tua parte».
Il poliziotto aspettò che il ragazzo allontanasse la mano
ricoperta dal solito guanto senza dita per rispondere: «Lo
so».
«Interessante», commentò, poi
tirò fuori un coltellino svizzero piuttosto rovinato ed
iniziò a tagliare le radici.
«Ci metterai un'eternità con quello! Non puoi...
usare la magia?». Non credeva l'avrebbe mai detto, ma era il
modo più veloce per liberarlo.
«Oh no, sto usando tutto il mio potere per mantenere la
nebbia al più a lungo possibile».
«La nebbia? Stai dicendo che... che è opera
tua?».
«Uhm-uhm».
«Ma come...? Tu non hai bevuto dalla Coppa, hai fatto solo
finta!».
Elijah alzò di scatto il capo e i capelli scoloriti gli
coprirono gli occhi, rendendo ancora più spettrale il suo
sorriso. «Fantastico».
«Perché? I tuoi poteri sarebbero
aumentati».
«Certo, ma sarei stato legato a Freya più di
quanto lo sia già».
« Legato?
Che significa?».
Darrell sentì il cuore schizzargli in gola quando il
senzatetto si sollevò il maglione bucato per mostrargli il
tatuaggio che aveva vicino all'ombelico: tre spirali intrecciate, il
simbolo dei druidi. Era identico a quello di Freya, fatta eccezione per
una linea gialla che si arrotolava sinuosa intorno alle spirali.
Voleva chiedergli se questa differenza li rendesse due tipi di druidi
distinti, ma Elijah finì di tagliare una delle radici e la
presa sul suo corpo si attenuò tanto da farlo sospirare di
sollievo. Si era dimenticato che cosa volesse dire respirare veramente.
«Perché mi stai aiutando?», gli
domandò alla fine.
Il senzatetto si scostò i capelli dagli occhi e lo
fissò intensamente, quella volta senza nemmeno l'ombra di un
sorriso sul volto. Darrell si ritrovò a deglutire
rumorosamente, divorato dall'ansia.
«Perché tu sei l'unico che può fermare
Freya, lo sai perfettamente. È per questo che sei venuto
fino a qui, non è vero?».
Il cuore gli batteva furiosamente nel petto, tanto non riuscire a
sentire con chiarezza quello che disse. Qualcosa sul non essere sicuro
di farcela.
«Quando verrà il momento, troverai la forza. L'ho
visto».
Darrell sbarrò gli occhi. «L'hai...?».
Non ebbe il tempo di finire la frase a causa della forte onda di magia
che spazzò via la nebbia, rivelando Elijah nel tentativo di
liberarlo.
«Tu, razza di traditore!», gridò Jake,
lanciandogli contro un altro dei suoi pugnali.
« Culter, ic pe
hate!», rispose in fretta Elijah, bloccando la
lama a pochi centimetri dal proprio occhio destro. Quindi lo
afferrò per il manico e lo usò per tranciare di
netto l'ultimo pezzo di radice. Darrell si liberò e
tornò in piedi, estraendo subito la pistola per sparare
contro Freya, incurante delle urla di Merlino. Ora non voleva nemmeno
che desse una mano?!
La druida non se lo aspettava, per questo riuscì a deviare
il colpo solo in parte. Il proiettile le lasciò una ferita
superficiale sul braccio destro e quando alzò il capo per
incrociare il suo sguardo non sembrava soffrire molto, piuttosto
sembrava... impietosita.
«Darrell, fai sul serio? Le armi comuni non possono
uccidermi. E poi, dovresti già sapere che ciò che
ferisce me, ferisce anche te...».
Il poliziotto iniziò ad avvertire un intenso bruciore sul
proprio braccio destro e in preda ad un attacco isterico si
sfilò il giubbotto per vedere coi propri occhi la chiazza di
sangue che si stava lentamente allargando sulla camicia che indossava.
«Che tu sia maledetta!», gridò
un'Alexandra dal viso stanco e madido di sudore. Ciononostante corse al
fianco del poliziotto, mentre sia Cathleen che Artù erano
rimasti scioccati dalla scoperta. Probabilmente erano già
arrivati alla stessa conclusione di Elijah: solo lui poteva sconfiggere
Freya e per farlo doveva sacrificare se stesso.
«Non ti preoccupare cara, nemmeno io voglio veder soffrire
Darrell». Freya si passò una mano sul braccio e la
ferita si rimarginò, poco dopo la stessa cosa successe a
quella dell'agente. «Ma non ti azzardare a farlo un'altra
volta», aggiunse a denti stretti, gli occhi fiammeggianti.
«Hanna, per sicurezza...».
Alex non le lasciò nemmeno terminare la frase.
«Adesso!».
Cathleen, che aveva avuto tutto il tempo per incoccare una freccia
dalla punta baluginante, quasi sicuramente incantata, mirò e
colpì un punto del terreno davanti a loro. Freya e i
ragazzini erano già pronti a deriderla, quando la freccia
brillò e fu colpita da un fulmine, accecando tutti gli
impreparati, Darrell compreso.
***
Elijah si era esposto perché loro avessero
l'opportunità di organizzare un piano d'azione, quindi
doveva funzionare ad ogni costo.
Quello che gli aveva detto mentalmente, però, continuava a
deconcentrarlo.
"Non dovrei rivelartelo,
ma a questo punto penso che non farà molta differenza.
Verrai trafitto di nuovo dalla spada di Mordred. Mi chiedo se sia
questo posto maledetto oppure se sia tu quello perseguitato dalla
sfortuna".
La freccia di Cathleen attirò il fulmine e quando tutti si
coprirono gli occhi, momentaneamente accecati, Artù corse in
direzione di Jake e lo colpì in testa con il pomolo della
spada.
E il primo è
andato.
Alle sue spalle sentì il rumore di una spada che veniva
sguainata e si voltò giusto in tempo per parare il colpo di
Freya.
«Sei ancora in tempo per cambiare idea», le disse,
guardandola dall'altra parte della V creata dalle due spade in attrito
tra loro. «Nemmeno io voglio tornare nelle acque di Avalon,
troveremo un modo».
«Conosco già un modo: usare il potere di
Merlino!».
Mentre le loro spade cozzavano tra loro in uno scontro impari - la
spada di Mordred, forgiata dall'alito di un drago, era infinitamente
più forte - Alex e Cathleen si occuparono delle gemelle e
della ragazza di colore.
Merlino aveva notato che ognuno dei ragazzi si era concentrato ad
imparare gli incantesimi riguardanti un solo elemento, forse per
problemi di tempo, perciò tutto ciò che dovevano
fare per disarmarli era rendere loro impossibile sfruttarlo.
Jake controllava l'energia cinetica e si dilettava con la telecinesi,
Hanna aveva indubbiamente un talento per gli incantesimi di terra e le
due sorelle amavano pazzamente il fuoco. L'ex cameriere era il
più pericoloso, dato che poteva lanciare loro contro
qualsiasi cosa oppure respingerli con una sola parola, ed era stato
ovvio per tutti che doveva essere fermato per primo.
Cathleen attirò l'attenzione delle due sorelle lanciando
frecce infuocate, dicendo loro che a giocare col fuoco rischiavano di
scottarsi, e Alex ne approfittò per evocare un tornado che
inglobò Hanna, lasciandola con i piedi ad una spanna da
terra. Senza toccarla, infatti, i suoi incantesimi non avevano presa.
«La tua discendente si sta mostrando piena di
risorse», commentò Freya, sorridendo beffarda.
«Frutto di un severo allenamento».
«Già... Mi chiedo però se non stia
raggiungendo il limite».
Artù gettò un'occhiata ad Alex e la
trovò ancora più stravolta, coi capelli
scarmigliati e profonde ombre sotto gli occhi.
«La magia di Excalibur non è infinita, sai? E lei
sta continuando a prendere e prendere, senza rendersi conto che la
spada si sta alimentando con la sua stessa linfa vitale. Un altro
attacco, un solo, e...».
«Alexandra, no!», urlò Artù,
riuscendo a respingere Freya con tanta forza da farla cadere a terra.
Provò a raggiungerla, ma era troppo lontana e a causa del
tornado non l'aveva nemmeno sentito.
La sua unica erede pronunciò l'incantesimo che
creò due potenti geiser proprio sotto le due ragazzine,
inzuppandole e rendendo inefficaci le loro magie di fuoco.
Finalmente Alex lo vide e sorrise, alzando un pollice per confermargli
che il loro piano aveva avuto successo, ma lentamente il suo viso
assunse un pallore mortale, le sue palpebre si abbassarono e le sue
ginocchia cedettero.
Artù scivolò sulla torba e raccolse l'infermiera
prima che potesse battere la testa, quindi se la strinse al petto e
cercò di rianimarla, gridando il suo nome. Non c'era nessun
altro rumore intorno a loro, nessuno: il tornado e i geiser erano
svaniti quando Alex aveva perso i sensi, lasciando le ragazze intontite
ma libere.
«Alex! Alex, ti prego apri gli occhi!».
Cathleen, Darrell e persino Elijah raggiunsero i due Pendragon.
Artù non nascose nemmeno le lacrime, gridando tutto il
proprio dolore per la lontana nipote e il bambino che portava in
grembo.
Alzò lo sguardo verso Merlino, immobile alle loro spalle e
con lo sguardo fisso verso Freya, la quale invece sorrideva maligna.
Era come se lei sapesse esattamente cosa stava per succedere, come se
quello fosse sempre stato il suo intento, e non vedesse l'ora.
«Merlino?».
«Sono stato uno stupido», mormorò,
lasciando cadere a terra il bastone. «Avrei dovuto prevedere
tutto questo. E ora non mi resta che fare il suo gioco».
«Che cosa...? Non riesco a capire»,
balbettò Darrell, chiedendo silenziosamente spiegazioni a
Elijah, il quale scosse il capo con gli occhi sbarrati.
Prima che potesse intimargli di rinunciare però, Merlino
aveva già preso Alex tra le braccia e quando
iniziò a sussurrare una lunga e complicata formula entrambi
brillarono di energia dorata. Ad un certo punto fu così
accecante che tutti dovettero scostare lo sguardo, fino a quando non
vennero addirittura sbalzati via dall'onda d'urto creata dalla
dirompente magia custodita nel corpo di Merlino, parte della quale
ormai era stata assorbita da Alex, ma non solo: tutti coloro che erano
canali della magia ne avevano beneficiato, inclusa Freya.
Artù riaprì gli occhi sentendo la risata sguaiata
della dama di Avalon, tuttavia la prima persona che cercò fu
Alex: la individuò a qualche metro di distanza, sveglia e
confusa, ma soprattutto sana come un pesce.
«Ah, siano ringraziati gli dei!», gridò
abbracciandola.
«Che cos'è successo? Ero così
stanca...».
«Hai usato troppa magia ed Excalibur stava assorbendo la tua
energia vitale, ma Merlino... Merlino!».
Entrambi sobbalzarono scorgendo Merlino steso a poca distanza da loro,
i capelli ormai completamente bianchi e il volto privo di espressione.
«Merlino! Mio Dio, Merlino, che cos'hai fatto?», si
disperò Alex, porgendo l'orecchio sulle sue labbra per
sentire se respirava, mentre controllava il polso con due dita.
«È ancora vivo», sospirò di
sollievo.
Elijah comparve all'improvviso davanti a loro e si tolse il trench per
coprire lo stregone. «Andate, rimango io con lui»,
disse, per poi aggiungere accennando a Freya: «Credo che la
situazione sia un tantino peggiorata».
I maghi al soldo della druida erano tutti in piedi e pieni di energia,
pronti a riprendere il combattimento, e la follia negli occhi della
stessa druida non presagiva nulla di buono.
«Idee?», sussurrò Cathleen, cercando di
togliersi della terra dalla guancia senza alcun risultato.
Nessuno parlò, entrambi troppo orgogliosi per ammettere che
si trovavano nei guai fino al collo, e fu Freya ad interrompere il
silenzio.
«Bene ragazzi, siete stati bravi»,
esordì con un sorriso radioso, il quale ben presto prese una
sfumatura diabolica. «Ma non abbastanza».
I giovani maghi la guardarono confusi, poi si accasciarono a terra
svenuti mentre tutta la magia che avevano involontariamente assorbito
da Merlino venne accumulata dalla dama del lago, la cui pelle
iniziò persino a brillare d'oro.
Se prima avevano ben poche possibilità di batterla, ora era
praticamente impossibile. E non finì lì: stese le
mani davanti a sé, coi palmi rivolti verso il terreno, e la
montagna intera tremò fino a che non si spaccò,
permettendo a due scorpioni giganti di zampettare fuori coi loro aculei
avvelenati tremanti, desiderosi di pungere qualcuno.
«Dite ciao ai miei due nuovi amici: Serket Uno e Serket Due!
Non c'è bisogno che impariate i loro nomi, dopotutto
morirete presto».
Cathleen arretrò insieme ad Artù e Alex, le spade
pronte tra le mani.
«Ripeto la domanda: idee?».
***
Il gesto di Merlino era stato sconsiderato, folle, dettato dalla
disperazione e dalla rabbia. Nel donarle parte della propria magia
aveva involontariamente ricaricato anche i loro avversari e Freya, la
quale doveva aver immaginato uno scenario del genere e aveva
prosciugato i suoi stessi adepti, ingorda di potere. Per rendere le
cose più divertenti, poi, aveva evocato due serket,
scorpioni giganti che brulicavano nelle foreste intorno a Camelot.
«Era questo che intendevi per "legato"?», chiese
Darrell ad Elijah, entrambi chini su Merlino.
Il senzatetto annuì con un cenno del capo. «Freya
ha usato l'acqua di Avalon nel suo rito e lei ne è la
custode, perciò...».
Alex smise di ascoltare, cercando di trovare una soluzione. Non sapeva
nulla dei mostri dell'Antica Religione, come poteva pretendere di
combatterli?
«Artù?».
«Uhm?».
«Non so cosa fare».
L'ex re abbozzò un sorriso e si spostò dalla
fronte umida di sudore delle ciocche di capelli. «E credi che
io lo sappia? A quanto pare era Merlino ad occuparsi dei mostri quando
io svenivo!».
«Qualcosa dobbiamo provare!», gridò
Cathleen, incoccando una freccia infuocata e lanciandola contro gli
scorpioni. Questi la deviarono e furono ben attenti a non avvicinarsi
troppo.
«Okay, il fuoco non gli piace», commentò
Alex, per poi stendere le mani avanti e creare un cerchio di fiamme
intorno a loro.
Freya scoppiò a ridere. «Non potrai scappare per
sempre, Alexandra».
Questo lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. Non poteva nemmeno
gettarsi contro un serket però: non era certa di essere
più veloce dei loro aculei e morire in quel modo sarebbe
stato da stupidi.
"Sono creature
dell'Antica Religione, solo Excalibur può ucciderle".
Alex sgranò gli occhi e si portò una mano sul
ciondolo che portava sotto la maglia di ferro. Improvvisamente era
diventato freddissimo contro la sua pelle, tanto da bruciare.
"Morgana",
sussurrò mentalmente. "Ti
prego, aiutami!".
"Fidati di
Artù. Questo è l'unico consiglio che posso darti".
L'infermiera guardò l'antenato al suo fianco, l'espressione
fiera e attenta, piegato sulle ginocchia in posizione di difesa.
Excalibur era stata forgiata per lui e solo lui poteva sfruttarne il
cento percento del potenziale. Inoltre, lei non avrebbe potuto
utilizzare la magia mentre menava fendenti a destra e manca.
Respirò profondamente e si girò verso
Artù, porgendogli Excalibur con fare quasi solenne.
«Che cosa fai?», le domandò il biondo,
confuso.
«Solo Excalibur può uccidere quei cosi e tu sei
uno spadaccino migliore di me. Vai, io ti coprirò le spalle
con la magia, come faceva Merlino».
«E io che faccio?», domandò Cathleen.
Alex le sorrise. «Tu coprirai le mie, di spalle».
Il paramedico la fissò interdetta, poi ricambiò
il sorriso e le strinse l'avambraccio.
«Okay, al mio tre. Uno, due... tre!».
Il cerchio di fuoco si spense, lasciando la terra bruciata e fumante, e
Artù gridò «Per Camelot!»
mentre si lanciava contro gli scorpioni giganti con Excalibur in pugno,
lucente più che mai. Alex allontanò uno dei
serket con colpi stordenti, in modo che Artù potesse
concentrarsi su un nemico per volta.
***
Deviò diversi colpi di pungiglione e al momento apportuno
riuscì persino a mozzargli la coda. Sfruttando poi i lamenti
di dolore dell'animale fece un balzo e lo infilzò nella
testa, uccidendolo.
Artù si girò verso l'altro scorpione per
occuparsene, ma scorse Freya raccogliere da terra la spada di Mordred
ed avanzare furente verso Cathleen. Gridò il suo nome, ma
sapeva che non avrebbe mai fatto in tempo a raggiungerle. Per fortuna
c'era Elijah vicino a lei, il quale notò la minaccia e
sfruttando i poteri assorbiti da Merlino lanciò un
incantesimo che fece volare via la spada dalle mani della druida.
«Ti prego, fermati! Noi siamo gente pacifica!», le
gridò, rivolgendole un'occhiata intrisa di pietà.
«Vallo a dire ai druidi che volevano uccidermi per via della
mia maledizione!».
« Maledizione?
Di che stai parlando?».
Il ghigno di Freya lo fece rabbrividire, ma fu distratto dall'urlo di
Alex: in qualche modo il serket era riuscito ad avvicinarsi e
l'infermiera aveva eretto uno scudo per difendersi dai colpi
dell'aculeo, ma si stava già incrinando.
Artù corse a più non posso e con una scivolata si
ritrovò sotto l'addome dello scorpione, che trafisse
spingendovi la lama fino alla sua base. La bestia si contorse
fischiando e poi scrollò a terra. L'avrebbe schiacciato, se
Alex non l'avesse tirato via per i piedi giusto in tempo.
«Grazie», sospirò guardando il cielo
rosso sangue, segno che il sole stava sorgendo da qualche parte oltre
le montagne.
«Siamo pari», rispose Alexandra, per poi alzarsi e
porgergli la mano.
«È finita Freya, abbiamo ucciso i tuoi
animaletti!», gridò l'infermiera, prima di
sussultare alla vista di Cathleen in ginocchio, con gli occhi fuori
dalle orbite, il volto paonazzo e le unghie con cui si stava graffiando
la gola. Freya sorrideva con una mano stesa verso di lei, come se si
stesse divertendo un mondo.
«Credete davvero che sia finita? Illusi. Voi non potete
fermarmi in alcun modo, la vostra amica qui ne è la
prova».
«Smettila!», gridò Alex, ma l'altra mano
di Freya si sollevò nella sua direzione e anche lei
crollò a terra, la bocca aperta alla ricerca di aria che non
sarebbe mai riuscita a respirare.
Prima ancora che Artù potesse correre da lei per tranciarle
di netto le mani con Excalibur, un boato fece volare via uno stormo di
uccelli dalla foresta a valle.
«Aaah!», urlò Darrell, stringendosi una
mano intorno alla coscia destra, da cui iniziò a sgorgare
copioso sangue rosso cremisi. Pur sapendo di condividere anima e corpo
con Freya, le aveva sparato comunque.
La druida, colta di sorpresa, aveva lasciato la presa sulle due
ragazze, le quali avevano iniziato a respirare con foga, tossendo e
mugugnando di dolore.
«Ti diverti, Darrell? Fai l'eroe perché sai che
tanto ti guarirò?».
Artù aiutò Alex ad alzarsi e con lei appesa al
collo raggiunse Cathleen, Darrell ed Elijah, schierati davanti al corpo
di Merlino per proteggerlo.
Alex si inginocchiò accanto alla gamba di Darrell e fu
facile per lei capire che se Freya avesse aspettato ancora un po'
sarebbe morto dissanguato, dato che aveva colpito l'arteria femorale.
«Stupido», gracchiò macchiandosi le mani
di sangue.
«Non potevo stare a guardare mentre ti strangolava».
Artù corrugò la fronte e si voltò a
guardarli, trovandoli occhi negli occhi e con le mani che si sfioravano
sopra la ferita del poliziotto. Provò una sgradevole
sensazione, ma fece del proprio meglio per ignorarla e
dedicò a Freya tutta la propria frustrazione.
«Sai, inizio a pensare che tu non abbia mai voluto essere
aiutata da Merlino. Tu ti spacciavi per la povera ragazza maledetta, ma
in realtà ti piaceva: ti piaceva il timore che incutevi
nelle persone, il potere... Perché avresti dovuto
rinunciarvi?».
«Ti stai sbagliando», ringhiò la dama
del lago, mostrando i denti.
«Davvero? Allora lascia perdere e vattene: avrai la tua
seconda possibilità, potrai vivere come vuoi, e noi non ti
cercheremo più».
Freya assottigliò gli occhi. «E perchè
dovrei fidarmi, Pendragon?».
«Perché è quello che voglio anche io!
Sono stato nelle acque di Avalon tanto quanto te, so come ci si
sente».
«C'è solo un piccolo problema»,
esclamò sorridendo. «Questo mondo
collasserà, se Merlino non restituirà tutto il
potere che ha sottratto nel corso dei secoli. È chiaro ormai
che lui non lo farà di sua spontanea volontà,
perciò siamo punto e a capo: deve morire. Spetta a me
l'onore, non credi? In fondo... è stato lui a rendermi la
dama del lago!».
«Adesso basta, mi hai stancato!», intervenne Alex,
piazzandosi davanti Artù.
«Alex, che cos'hai in mente?», sussurrò
preoccupato.
«È ora di finirla. Vuoi uccidere Merlino? Bene,
dovrai passare sul mio cadavere!».
Il sorriso di Freya si allargò fino a trasformarsi in una
vera e propria risata. «Ah, Alexandra! Hai fegato, lo sai?
Quasi mi dispiace ucciderti. Tutte le profezie sul tuo conto, sulla tua
eredità... Dimostrerò che sono tutte fandonie,
che questa volta la Triplice Dea ha sbagliato!».
La spada di Mordred si sollevò alle spalle di Freya e con un
sibilo sfrecciò in direzione di Alex. Artù fece
appena in tempo a rendersi conto che la profezia di Elijah si stava
avverando, prima che la punta della spada squarciasse la maglia di
ferro e gli trafiggesse il ventre. Cadde a terra accanto ad Alex,
sgomenta ed inorridita, e le sorrise prima di chiudere gli occhi, certo
che se proprio era destinato a morire era così che voleva
che accadesse: proteggendo la propria famiglia.
***
«No. No, non è possibile»,
farfugliò Alex, guardando incredula l'antenato riverso al
suolo, con la spada di Mordred conficcata nella pancia.
Si era sacrificato per lei, spingendola via all'ultimo momento,
consapevole che né lei né il bambino che portava
in grembo sarebbero sopravvissuti ad una ferita inferta da una spada
magica. Tuttavia non aveva alcun senso: Artù non poteva
morire! Nella visione del funerale di Abby c'era anche lui, vivo e
vegeto!
«Artù? Artù, ti prego,
rispondimi».
Una Cathleen in lacrime si portò gentilmente la testa di
Artù sulle ginocchia e gli accarezzò i capelli,
per poi posare le labbra sulla sua fronte.
«Avevo promesso di proteggerti... ma ho fallito. Non sono
abbastanza forte», singhiozzò.
Artù sollevò una mano e con uno sforzo la
posò sul collo di Cathleen, invitandola ad accostare
l'orecchio alle sue labbra bluastre. «No, sei stata brava.
Hai lottato con onore. Mi dispiace non essere stato alla tua
altezza».
«No. No, non puoi arrenderti!», gridò
col volto stravolto dal dolore.
Si girò verso Alex, la quale stava lentamente cedendo,
schiacciata sotto i sensi di colpa, e con voce implorante
urlò: «Fai qualcosa! Curalo!».
«Io... io non...». Era così sicura che
non sarebbe successo nulla di male ai suoi amici che durante gli
allenamenti con Merlino non le era nemmeno venuto in mente di
chiedergli di insegnarle le basi della magia curatrice.
«Alexandra sa benissimo che non si può curare una
ferita come quella», esclamò Freya divertita, per
poi estrarre la spada dal ventre di Artù e riportarla nella
sua mano. Cathleen mise subito una mano sulla ferita, imbrattandosela
di sangue, nel vano tentativo di fermare l'emorragia.
«Merlino non ci è riuscito la prima volta, non
vale nemmeno la pena provarci».
Merlino.
Alex si voltò verso lo stregone, chiedendosi che
cosa avrebbe detto quando avrebbe scoperto che per colpa sua
Artù era morto, di nuovo.
Scosse il capo, convincendosi che non sarebbe morto, non sotto il suo
sguardo. Doveva dimostrare ad Artù che il suo gesto non era
stato vano, che era una degna Pendragon e non si sarebbe arresa
finché aveva ancora la forza per respirare.
Si alzò in piedi col corpo squassato da tremori di rabbia e
sentì la magia ribollirle nelle vene, gli occhi
già dorati ancor prima che potesse formulare un qualunque
incantesimo.
Freya vacillò di fronte a tutta quella potenza e non fece in
tempo a difendersi.
« Forp fleoge!»,
recitò Alex e un'onda di energia colpì la dama
del lago, facendola rotolare fino al bordo del cratere.
Darrell gemette e si portò una mano sporca di sangue sul
costato. Il volo doveva aver incrinato le costole della druida, cosa
che si era riflessa su di lui. Alex non se ne curò, raccolse
Excalibur e si diresse a passo di marcia verso la nemica.
Freya si sdraiò supina per fronteggiarla e riderle in
faccia. «Vuoi davvero uccidermi, Alexandra? Se lo farai,
sarà il primo passo per diventare come Morgana. Era questo
di cui aveva tanta paura Merlino, non è vero? Beh, a questo
punto credo non abbia più importanza... Quando si
risveglierà e vedrà il caro Artù
morente ti odierà comunque».
Alex non ci vide più. Il ciondolo di Morgana bruciava sul
suo sterno, eppure si sentiva come se non lo stesse più
indossando: il dolore le stava consumando l'anima, impedendole di
comprendere cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Non ci pensò
due volte quindi prima di alzare Excalibur e di calarla su Freya con
tutta la propria forza, mentre alle sue spalle Cathleen si sgolava nel
tentativo di fermarla. Prima che Excalibur potesse infilzarle il cuore,
la druida rotolò via e cadde giù dalla montagna.
Alex si voltò verso Cathleen per chiedere spiegazioni e solo
in quel momento tornò in sé quel tanto che
bastò a farle comprendere che se avesse colpito Freya con
Excalibur, trattandosi di una spada magica dalle cui ferite nemmeno lei
poteva guarire, avrebbe inevitabilmente condannato a morte anche
Darrell.
Sconvolta, aprì la bocca per chiedere scusa, ma le
espressioni di terrore sui volti dei suoi amici la fecero desistere.
Inoltre, una strana ombra aveva riportato la notte su di lei. Un
ruggito le fece accapponare la pelle e ancor prima che Cathleen potesse
dirle di abbassarsi lei ci aveva già pensato.
Picchiò la testa contro un masso nascosto dalla torba, ma
poteva andarle peggio: per esempio poteva essere dilaniata dagli
artigli della bestia che le era appena atterrata davanti, una
gigantesca pantera alata con gli occhi gialli e dei canini da tigre dai
denti a sciabola.
Alex cercò Excalibur con una mano, senza schiodare lo
sguardo dal Bastet, ma non la trovò: doveva essere finita da
qualche parte quando si era gettata a terra.
«Era questo che intendevi per "maledizione"?»,
domandò Elijah, gli occhi verdi sgranati. «Ora
capisco perché volevano ucciderti!».
Freya gli ringhiò contro, poi tornò a rivolgere
la propria attenzione verso Alex. Si avvicinò mostrando i
denti aguzzi e l'infermiera arretrò, arretrò
tanto che finì sullo stesso orlo del precipizio da cui la
druida si era gettata, consapevole di potersi trasformare in una bestia
alata.
Una volta in trappola scorse un ghigno sul volto della pantera e poi la
voce di Freya le rimbombò nel cranio: "Dov'è finito tutto
il tuo ardore, Alexandra?".
« Astrice!»,
gridò Alex nel tentativo di farla arretrare, ma il colpo la
spostò di un paio di centimetri appena.
La sua risata le fece salire le lacrime agli occhi, realizzando che in
fin dei conti Artù aveva ragione: non era una degna
Pendragon, né una degna apprendista strega.
Freya le disse di recitare le sue ultime preghiere e Alex chiuse gli
occhi nell'attesa di ricevere il colpo di grazia, la zampa del Bastet
già alzata sopra di lei, ma i minuti trascorsero
interminabili e non successe nulla.
Quando finalmente si decise ad aprire gli occhi per capire cosa stesse
succedendo, trovò gli occhi della pantera spalancati,
attraversati dal dolore e dalla paura. Quindi spostò lo
sguardo dietro di lei e ciò che vide le spezzò il
cuore: Darrell si era trafitto con Excalibur per salvarla. La profezia
dei cristalli si era avverata alla fine.
Il Bastet crollò a terra e Alex trovò la forza
per alzarsi e correre dal poliziotto.
«Ehi. Ehi, Darrell», sussurrò
portandogli una mano sulla fronte.
L'agente Fisher la guardò negli occhi con i propri
già vagamente annebbiati ed abbozzò un sorriso.
«Ehi, Alex».
«Che cos'hai fatto?».
«L'unica cosa che si poteva fare». Darrell
tossì e un rivolo di sangue gli uscì dall'angolo
della bocca.
«Non scherzare, te la caverai. Ti porteremo in ospedale e ti
salveremo, okay?».
Le lacrime avevano ripreso a scorrere sul suo viso, il cuore in
frantumi per chissà quale motivo. Che ciò che
provava per lui alla fine non fosse solo attrazione fisica?
«No, non potete. Se mi salverete, salverete anche
lei», mormorò, guardando oltre Alex per incrociare
lo sguardo quasi spento di Freya, tornata umana e con una grossa
chiazza di sangue sul ventre. «Ero la sua... assicurazione
sulla vita».
Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Ecco che cosa intendeva, quando
le aveva detto che non sapeva se sarebbe uscito vivo da quella storia.
«E hai deciso di ucciderti per fermarla?!».
Darrell gettò un'occhiata ad Elijah, sussurrando:
«Era l'unico modo e nessuno l'avrebbe fatto, tranne
me».
Il senzatetto annuì con un debole sorriso sulle labbra.
«Ma... ma non è giusto»,
farfugliò Alex.
Il poliziotto le prese una mano e ne accarezzò il dorso con
il pollice. «Posso... posso chiederti un ultimo
favore?».
L'infermiera annuì col capo, tirando su col naso.
«Qualunque cosa».
«Voglio parlarle. Potete... avvicinarla?».
«Che cosa?». Alex fissò Freya,
stravolta. Alla fine l'amore per lei, per la ragazza che aveva ospitato
a casa sua senza sapere chi fosse veramente, avrebbe prevalso su ogni
cosa, persino sulla morte. Sospirò e guardò
Elijah. «Va bene».
Il ragazzo druido si avvicinò alla vecchia insegnante ed
ebbe qualche remora a prenderla tra le braccia, ma questa gli rivolse
un sorriso stanco e mormorò: «Non mordo
più».
Elijah si fece coraggio e la sollevò con attenzione, non
riuscendo però a non farla gemere dal dolore, e una volta
accanto a Darrell la stese al suo fianco.
C'era qualcosa di diverso sul suo viso, qualcosa di dolce che Alex non
aveva mai visto. Che la morte le stesse conferendo una
lucidità tale da permetterle di tornare ad essere la Freya
di millequattrocento anni prima, quella di cui Merlino si era
innamorato?
Darrell sollevò una mano e le sfiorò la guancia
col dorso delle dita. «C'è stato un tempo in cui
ti amavo. Come siamo arrivati a questo?».
«Mi dispiace», singhiozzò
silenziosamente la druida, lasciando che una lacrima le attraversasse
il setto nasale. «Non avresti mai dovuto avvicinarti a me,
Darrell. Anche io ti amavo, ti amo tutt'ora, e nella mia follia ti ho
trascinato in questa storia, senza comprendere che tu avresti fatto
ciò che ritenevi giusto, anche a costo di sacrificare te
stesso».
«Ti perdono», soffiò, quindi chiuse gli
occhi e la sua mano cadde a terra, inerte.
Freya ululò di dolore rivolgendo il volto verso il cielo e
quando smise i suoi occhi divennero vitrei, la mano ancora stretta sul
cuore.
Alex si portò entrambe le mani sul viso, chiedendosi quanto
di ciò che era successo fosse colpa sua, ma fu costretta ad
abbandonare quel pensiero quando la terra sotto il corpo di Freya si
spaccò per inglobarla e lo stesso fece con Darrell,
nonostante lei si fosse aggrappata alla sua mano con tutte le sue
forze.
Cathleen la tirò via prima che potesse essere risucchiata
anche lei in quel buco e Alex le cadde addosso. Per un attimo fu
convinta che fosse solo lei a tremare, ma in realtà stavano
percependo un lieve terremoto. Durò solo una decina di
secondi, abbastanza da svegliare Merlino e i ragazzi a cui Freya aveva
assorbito ogni briciolo di magia.
«Alex», fu la prima parola dello stregone quando
riaprì gli occhi e l'infermiera sentì il sapore
della terra in bocca, come se alla fine fosse stata risucchiata
comunque nelle profondità della montagna.
«Sono qui», rispose piano, prendendogli la mano.
Lui l'attirò in un abbraccio e sospirò di
sollievo. «Stai bene, grazie al cielo!».
«Sì... sì, sto bene».
Merlino si scostò per guardarla in viso, non convinto. Alex
allora indicò Artù, abbandonato tra le braccia di
Cathleen, e il volto dello stregone impallidì tanto quanto i
suoi capelli.
«Che cos'è successo?»,
domandò con foga, precipitandosi al suo capezzale.
«La spada di Mordred», rispose Cathleen con gli
occhi arrossati, quindi voltò il capo verso l'ultima
Pendragon e aggiunse: «Ha protetto Alex».
Il mago strinse i pugni, combattuto. Lei e Artù erano le due
persone che amava di più al mondo, dopotutto.
«Andiamo, non c'è un momento da
perdere», esclamò ad un tratto, ferale.
Si avvolse un braccio di Artù intorno al collo e Cathleen
fece lo stesso con l'altro. Solo allora si accorse che doveva essere
successo dell'altro, mentre era svenuto.
«Dove sono Freya e Darrell?».
Alex abbassò il capo ancora una volta, ma non fu costretta a
rispondere. Lo stregone infatti liquidò la questione,
dicendo che avevano altro a cui pensare.
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Capitolo 31 *** Diamond of the day ***
31. Diamond of the day
Merlino non poteva permettere che Artù morisse, non una
seconda volta. In quel momento avrebbe tanto voluto poter chiamare
Kilgharrah per chiedergli un passaggio fino ad Avalon, dove quella
volta avrebbe preteso l'aiuto degli Sidhe, ma poteva contare solo sulle
proprie forze e quelle di Cathleen, la quale non si era fermata un
attimo né aveva mai aperto bocca da quando avevano iniziato
a camminare. Sembrava distrutta tanto quanto lui, ma il dolore le
impediva di arrendersi.
Non poteva dire lo stesso per Alex, la quale aveva iniziato ad
inciampare sempre più spesso alle loro spalle, il taglio
sulla fronte che sembrava peggiorare di minuto in minuto. Elijah
l'aveva convinta ad appoggiarsi a lui, ma prima o poi avrebbero dovuto
fermarsi. Anche gli altri ragazzi non avevano una bella cera: li
seguivano come zombie, scossi dal tradimento e spaventati per
ciò che li attendeva in futuro.
Mancava meno di un miglio alle auto quando Merlino sentì il
gorgoglio di un fiume. Ne scorse le rive tra gli alberi e fece segno a
Cathleen di dirigersi verso quella direzione. Il paramedico non
obiettò, eseguì semplicemente gli ordini.
«Che ci facciamo qui?», chiese Elijah una volta
fatta sedere Alex sotto un piccolo albero contorto, le cui fronde si
sporgevano sopra l'acqua del ruscello.
«Ci prendiamo una pausa», rispose Merlino. Con
cautela appoggiò Artù sul manto erboso in
prossimità di una piccola cascata, quindi si girò
verso i giovani maghi e lanciò loro lo zaino che aveva sulle
spalle. «Sedetevi tutti e riposate! Lì dentro ci
sono anche delle provviste. Elijah, vieni qui».
Il druido guardò Alex, poi si spostò i capelli
dagli occhi e si inginocchiò accanto a Merlino.
«Conosci incantesimi curativi?», gli
domandò schietto, spogliando Artù
affinché potessero osservare il profondo taglio.
«Qualcuno, ma dubito che avrebbero effetto su una ferita
inflitta da una spada magica».
«Devi provare».
Elijah esitò, ma bastò il suo sguardo intenso a
convincerlo. Respirò profondamente ed intrecciò
le dita sopra la ferita, senza toccarla. Chiuse gli occhi e le sue mani
brillarono d'oro, ma la situazione non cambiò.
«Riprova, Elijah».
Il senzatetto corrugò la fronte per la concentrazione e
ritentò, invano. Aprì la bocca per dirgli che era
tutto uno spreco di forze, ma Merlino lo precedette gridando:
«Riprova! E credici magari!».
Elijah non si lasciò intimorire e si alzò,
ricambiando il suo sguardo venato di rabbia con uno mesto e pacifico.
«È oltre le mie capacità. Tanto vale
che sfrutti il potere che mi rimane per qualcuno che posso
curare».
Detto questo, tornò da Alex e le prese il mento tra le dita
per esaminare la sua fronte. Merlino sapeva che il ragionamento di
Elijah non faceva una piega, ma odiava profondamente ritrovarsi
impotente di fronte al suo migliore amico morente, di nuovo.
«Perché?!», gridò a
squarciagola, alzandosi in piedi col volto rivolto verso il cielo.
«Perché ancora?!».
***
Alex guardò Merlino urlare contro il cielo, ignorando il
ragazzo druido che le stava disinfettando la ferita sulla fronte con la
magia.
Lo stregone non ottenne alcuna risposta, se non quella di uno stormo di
uccellini spaventati, perciò tornò a sedersi
accanto a Cathleen e le posò una mano sulla spalla. Lei
deviò il suo sguardo, nascondendosi dietro i suoi capelli
rossi, e riprese a piangere silenziosamente.
«È tutta colpa mia», mormorò
l'infermiera, sentendosi scivolare sempre più in basso nella
fossa che si stava scavando da sola.
«Non lo pensare nemmeno», la rimproverò
Elijah, voltandole il viso per rimirare il proprio operato.
«Ecco, ora non rischia di infettarsi. Servono comunque dei
punti, ma...».
«Tu non capisci. Io... io ho avuto una visione, qualche tempo
fa, e c'era anche Artù, e lui stava bene, nemmeno un
graffio! Ho dato per scontato che non gli sarebbe successo nulla ed
è per questo che sta morendo, perché mi credevo
più furba di tutti». Si portò le mani
sul viso, a celare le lacrime che stavano per rigarle le guance.
«Come lo dirò a Cathleen? Lei... lei non mi
perdonerà mai».
Il senzatetto le prese i polsi e delicatamente le allontanò
le mani dal viso per poterla guardare negli occhi. Le sue iridi erano
così grandi e così verdi da non sembrare reali.
In effetti, più che una persona Elijah sembrava un
personaggio uscito da un manga. O forse stava solo delirando per la
stanchezza.
«Ascoltami. Le visioni sono in grado di ingannare chiunque.
Il futuro è soggetto a cambiamenti, la gente fa cose stupide
senza sapere neanche il perché continuamente...».
Elijah si interruppe per umettarsi le labbra, ma quando
riaprì la bocca per continuare esitò, come se
fosse indeciso se vuotare il sacco o meno.
«Ma Darrell sapeva cosa stava facendo, era perfettamente
consapevole che se ci avesse accompagnato da Freya sarebbe morto. Se
avesse fatto quello che lei gli aveva chiesto, ovvero di indicarci
soltanto il luogo... a quest'ora sarebbe ancora vivo».
Elijah abbassò il capo, mormorando: «Come ho
detto, la gente fa cose stupide».
«No, non stupide... coraggiose», lo
corresse Alex, tornando a guardare il corpo esanime dell'antenato.
«Anche se l'avesse saputo, sono certa che Artù mi
avrebbe protetta comunque».
Si accarezzò il ventre e il ragazzo lo notò, ma
deviò subito lo sguardo, bloccato ancora una volta
dall'incertezza. Alla fine esclamò: «La tua
bambina darà inizio ad una delle dinastie più
potenti che il mondo abbia mai conosciuto, il connubio perfetto tra la
forza dei Pendragon e la magia dell'Antica Religione. Non poteva
permettere che morisse».
Alex sentì il cuore salirle in gola, mentre un calore
indescrivibile le incendiava il volto: dopo essere caduta
così in profondità, finalmente rivedeva la luce
del sole.
«Una bambina, hai detto?». Tirò su col
naso, sentendo persino un sorriso incurvarle le labbra.
«Come... come fai a sapere tutte queste cose?».
Elijah sospirò e per la seconda volta in poche ore si
sollevò il maglione per mostrarle il suo tatuaggio.
«Non sono un druido qualunque, ma un veggente. Ho visto molte
cose, persino che Freya sarebbe venuta a cercarmi. All'inizio mi sono
detto di non immischiarmi, che la vita che conducevo non era poi
così male, ma alla fine ho deciso di seguirla per tenerla
d'occhio».
Alex aprì la bocca, ma lui le posò un dito sulle
labbra, azzittendola.
«Non voglio che si sappia in giro, okay? Mi verrebbero a
chiedere i numeri della lotteria e non funziona così. Non
sempre, almeno».
Riuscì a strapparle un altro sorriso e il ragazzo la
imitò con tutti i denti, risultando ancora più
strampalato di quanto non fosse già.
«Che cosa diavolo succede ora?», esclamò
Jake, scioccato, con gli occhi sgranati rivolti verso la riva del
ruscello.
Alex e Elijah seguirono il suo sguardo e rimasero senza fiato quando
tra i riflessi dorati videro delle bolle sollevarsi dalla superficie.
Una in particolare spiccò tra le altre per grandezza,
brillantezza e soprattutto per il volto di donna che vi si intravedeva
all'interno, come scoprirono quando si avvicinarono a Cathleen, colei
che aveva attirato la loro attenzione.
« Le tue
lacrime ci hanno svegliati da un lungo sonno, fanciulla. Che cosa
c'è che non va?».
Il paramedico si asciugò il volto e come se non fosse per
nulla impressionata disse semplicemente: «L'uomo che amo sta
morendo. Voi potete curarlo?».
La donna nella bolla si avvicinò per esaminare la ferita e
poi risalì fino al volto di Artù. Riconoscendolo,
la bolla tremò tanto da far temere loro che stesse per
scoppiare.
« Mi dispiace,
mia cara. Artù Pendragon è destinato a tornare
nel mondo degli spiriti, come noi».
«Chi siete?», domandò Elijah, accucciato
sulla riva, mentre protendeva il dito indice verso una delle bolle per
toccarla. Questa però si spostò fulminea,
facendogli persino una pernacchia.
« Noi siamo i
Vilia, spiriti dei fiumi e dei ruscelli. Gli umani di solito non
riescono a vederci, ma la custode di Avalon è morta e ora le
porte del mondo degli spiriti stanno cedendo. Gli Sidhe hanno attuato
il piano d'emergenza, per questo Artù non è
ancora scomparso».
«Intendi risucchiato nella terra come è successo a
Freya e Darrell?», domandò Alex con rabbia,
facendo voltare Merlino.
«Beh, noi non vogliamo che succeda, perciò meglio
così», rispose Cathleen.
« Non avete
molto tempo... Presto o tardi gli Sidhe non saranno più in
grado di tenere chiuse le porte e allora sarà il caos: tutti
gli spiriti, buoni o cattivi, torneranno liberi».
«Cosa dobbiamo fare per impedirlo?».
Lo spirito si avvicinò al volto serio e determinato di
Merlino e sorrise quasi con dolcezza, come una madre orgogliosa del
proprio bambino.
« Non sei
cambiato, Emrys».
Lo stregone non rispose, nonostante tutti avrebbero voluto sapere
quando e come i due si erano conosciuti, e il Vilia disse
ciò che Alex più di tutti sospettava e temeva:
« Dovete
trovare una nuova Dama del lago».
***
«È proprio una bella casa la tua,
Merlino», esclamò Elijah, vedendolo scendere dalle
scale.
Avevano appena sistemato Artù nella sua camera e Cathleen,
nonostante gli sforzi che avevano fatto lui e Alex per convincerla a
riposarsi un po', non aveva voluto lasciare il suo capezzale. Il mago
aveva bisogno di allontanarsi invece, di pensare ad altro per almeno
dieci minuti, e andare a preparare del té gli era sembrata
una buona soluzione. Peccato si fosse completamente dimenticato dei
loro ospiti.
Dopo l'incontro con i Vilia avevano finalmente raggiunto le auto e
vedendo la volante dell'agente Fisher erano venuti alla luce una serie
di problemi legati alla sua scomparsa che prima o poi avrebbero dovuto
affrontare. In un paese piccolo come il loro, avevano al massimo un
giorno per prepararsi ad affrontare le domande dei suoi colleghi senza
tradirsi l'un l'altro. Per fortuna non era la prima volta di Merlino.
Ad ogni modo, usare l'auto di un poliziotto senza di lui sarebbe
risultato sospetto, quindi avevano recuperato anche il pick-up verde
petrolio di Jake, nascosto dietro una vecchia base della guardia
forestale, e tutti insieme erano tornati a casa.
La priorità rimaneva Artù, perciò
avevano lasciato i ragazzi nel salotto e per un'ora buona Merlino aveva
provato a rianimare l'amico con ogni mezzo a disposizione, senza
però riuscirci. Si rifiutava di credere che Artù
fosse già morto, che il suo spirito si trovasse in un limbo
e che non appena avessero trovato una nuova Dama del lago il suo corpo
sarebbe scomparso sotto i loro occhi. Potevano provare a lasciare
Avalon incustodito fino a quando non avessero trovato un modo per
riportarlo indietro, ma il gioco valeva la candela? Se avessero
aspettato troppo avrebbero rischiato davvero di riversare orde di
spiriti nel mondo dei vivi.
In qualsiasi caso, le chance di Artù di riaprire gli occhi
erano vicine allo zero.
«Davvero possiamo stare qui?».
Merlino sbatté le palpebre e guardò uno per uno i
ragazzi che Freya aveva trovato ed assoldato per combattere la sua
battaglia. Nascosto in ognuno di loro c'era sempre stato il potenziale
per diventare maghi e ora che era stato risvegliato non avrebbero
più guardato il mondo con gli stessi occhi, soprattutto se
la persona che li aveva introdotti a tutto questo si era rivelata una
persona corrotta dal potere, dall'orgoglio e dalla vendetta.
Sorrise dolcemente - o almeno fece del suo meglio - e portandosi dietro
la poltrona per appoggiarsi allo schienale con entrambe le mani
rispose: «Certo, questa casa ha diverse stanze vuote. Potete
rimanere per tutto il tempo che volete». Cercò lo
sguardo dei ragazzi più grandi, Jake e Hanna, e aggiunse:
«O potete andarvene, se preferite. Nessuno vi
fermerà».
Il ragazzo abbassò il capo ed incrociò le
braccia, per poi mugugnare: «Ho bisogno d'aria» ed
uscire dalla porta d'ingresso.
Hanna invece rimase in silenzio, accarezzando i capelli delle due
gemelle sedute sul divano davanti a lei.
«Io credo che resterò»,
affermò Elijah con un ampio sorriso, lasciandosi sprofondare
nella poltrona opposta a quella di Merlino. «Insomma, quando
mi ricapiterà di avere gratis un tetto sulla testa, acqua
calda e cibo che non venga dai cassonetti?».
Merlino ridacchiò guardandolo mentre si tirava via gli
stivaletti consunti per stendendere le lunghe gambe e posare i piedi
sul bordo del tavolino, un paio di dita che spuntavano dai calzini
bucati. Elijah si portò anche le mani dietro la nuca ed
espirò rilassato, fingendo soltanto di chiudere gli occhi
per poter osservare le reazioni di Hanna e delle gemelle. Queste ultime
si scambiarono un'occhiata e un cenno di assenso prima di guardare la
più grande.
«Perché lo stai facendo?», gli chiese
Hanna. «Abbiamo cercato di farvi del male. Perché
ci stai aiutando?».
«Voi non avete colpe», spiegò Merlino.
«Scommetto che non sapevate nemmeno il motivo per cui stavate
combattendo. Freya... ha approfittato di voi e mi dispiace. Per questo
vi sto aiutando».
«Okay, a me basta come risposta». Sorrise alle
ragazzine pel di carota. «Rimaniamo».
Lo stregone picchiò le mani sullo schienale della poltrona.
«Ottimo! Preparo il té».
Aveva appena messo l'acqua sul fuoco, quando Elijah lo raggiunse in
cucina.
«Merlino?».
«Se sei venuto qui a scusarti per il nostro scambio al
ruscello risparmiati, non ce n'è bisogno. Anzi, ti ringrazio
per esserti preso cura di Alex. Ero sconvolto per Artù
e...».
«No», lo interruppe, avvicinandosi e al contempo
sfuggendo al suo sguardo, come se si vergognasse di qualcosa.
Ora che si era tolto la sciarpa, i guanti mangiucchiati e il trench, la
sua magrezza era ancora più evidente. Il maglione che
indossava era di almeno due taglie più grande e le sue
braccia, così come le lunghe gambe, erano sottili; eppure
aveva dimostrato più volte di possedere una forza non comune
in quelle ore. La forza di chi è abituato a lottare per la
propria vita e per le poche cose care che possiede, anche
più volte al giorno. Darrell aveva detto loro che Freya
l'aveva prelevato dalla strada, che era un senzatetto,
perciò Merlino non era affatto sorpreso del suo carattere
forte. La fragilità che aveva negli occhi in quel momento,
però...
«Di che cosa si tratta, Elijah?».
«Tu... tu ci stai ospitando qui senza chiedere nulla in
cambio e voglio essere onesto con te. Prima ho recitato un po' per
convincere Hanna e le gemelle, ma devo dirti una cosa che forse ti
spingerà a spedirmi fuori a calci. Non mi stupirei, dato che
è quello che ha fatto mio padre non appena ho compiuto
diciott'anni».
Merlino posò una mano sulla sua spalla, scuotendolo un poco
con un sorriso comprensivo sulle labbra. «Non ti
spedirò fuori a calci per via di ciò che
sei».
«E... e che cosa sarei?», chiese Elijah, stringendo
gli occhi.
«Un Vate».
Da come il ragazzo sobbalzò, Merlino capì di
averci preso. Fino ad allora era solo una teoria, un sospetto che gli
era sorto quando per la prima volta aveva sentito Darrell parlare di
lui. Il tutto si era concretizzato in battaglia, quando l'aveva visto
tenersi in disparte ad osservare e poi aveva scambiato due chiacchiere
con Artù. Aveva immediatamente capito che si erano detti
più di quanto il sovrano avesse rivelato loro e ora ne aveva
la certezza, dato che solo una previsione avveratasi avrebbe potuto
farlo sentire così in colpa da non poter accettare a cuor
leggero la sua ospitalità.
«Ascoltami, qualsiasi cosa tu avessi visto...».
«Patrick mi ha sempre detto di non rivelare le mie visioni,
specialmente se riguardano qualcosa di brutto, ma io non ce la faccio.
A che cosa servirebbero, se me ne stessi zitto? Però non
posso fare a meno di pensare che forse, se non avessi detto ad
Artù che sarebbe stato trafitto da quella spada per la
seconda volta, forse lui...».
«Sarebbe comunque successo, Elijah. Alcuni eventi sono
immutabili, purtroppo. Più si evitano, più si
finisce per sbatterci contro. Credimi, lo so per esperienza
personale».
Elijah rilassò le spalle e sorrise. «Grazie,
Merlino».
«Grazie a te. Senza il tuo aiuto non ce l'avremmo mai
fatta».
«Una tazza di té e siamo pari, allora».
«Affare fatto».
Merlino tornò a dedicarsi all'acqua, come se guardandola
potesse bollire prima, e Elijah fece per tornare in salotto, ma si
arrestò sulla soglia per esclamare sorpreso: «Ti
ho detto che mio padre mi ha cacciato non appena ho compiuto
diciott'anni e non hai fatto domande. Sei il primo, lo sai?».
Lo stregone abbozzò un altro sorriso, senza guardarlo.
«Quando vorrai parlarmene ti ascolterò».
«Dubito che succederà».
Merlino impiegò qualche secondo di troppo a comprendere il
senso di quelle parole. Quando si voltò per chiedere
conferma ad Elijah, non c'era già più.
***
Cathleen sbatté le palpebre, così come aveva
fatto inconsciamente per tutto il tempo trascorso accanto ad
Artù. Quella volta però fu diverso e non
riuscì a capirne il motivo: aveva sbattuto le palpebre e i
suoi pensieri erano tornati lucidi, chiari. La tempesta era finalmente
finita.
Artù era ancora sdraiato immobile sotto le coperte, il volto
privo di espressione, preda di un sonno da cui probabilmente non si
sarebbe più svegliato. Ma se c'era anche la più
piccola possibilità, loro dovevano tentare. Non poteva stare
a guardare mentre il secondo amore della sua vita moriva, senza nemmeno
provare a salvarlo. Arrendersi non era un'opzione da contemplare, dato
che aveva promesso di proteggerlo.
Si alzò dalla sedia, trovando le gambe intorpidite, e col
cuore che batteva fortissimo per il timore di uscire da quella stanza,
tornare e non trovarvi più Artù, lo
fissò dalla soglia per diversi minuti. Quando decise di
agire, si voltò e senza guardarsi più indietro
corse al piano di sotto, immerso nel buio e nel silenzio.
Nel salotto vide Elijah, che dormiva sul divano con le gambe strette al
petto e la coperta stretta tra le mani, come se temesse che qualcuno
gliela rubasse.
Cath ebbe quasi voglia di avvicinarsi per fargli una carezza sul viso,
tanto la inteneriva quel ragazzo, ma seguì la debole luce
che proveniva dalla cucina e oltre la finestra vide Merlino e Alex
seduti in veranda, anche loro avvolti in una coperta per ripararsi dal
vento freddo che si era alzato.
Non le sembrava stessero parlando, piuttosto che stessero fissando il
cielo punteggiato di stelle. Ciò nonostante bussò
per avvisarli del suo arrivo.
«Cathleen», esclamò Merlino, scattando
subito in piedi. «È successo qualcosa?».
«Se ti riferisci ad Artù, la risposta è
no. Per quanto mi riguarda, invece... non riesco più a
starmene con le mani in mano. Voglio sfruttare questo dolore, questa
rabbia, per qualcosa di utile. Ditemi che abbiamo un piano».
Alex alzò gli occhi in quelli del marito, una ruga di
preoccupazione tra le sopracciglia. Prima che potesse risponderle
però, uno dopo l'altro ricevettero un messaggio sul
cellulare. Come coincidenza era veramente assurda, ma il solo pensiero
che non lo fosse era ancora più spaventoso.
«Al matrimonio Abby mi ha detto di aver finito con i
messaggi», disse Cathleen. «Ha trovato un'app con
cui le bastava cambiare la data prima di andare a dormire per ritardare
l'invio automatico di un giorno. Se non l'avesse fatto, allora avrebbe
voluto dire che...».
«Magari si è dimenticata», la interruppe
Merlino, stirando persino un sorriso per cercare di tranquillizzarle.
Una risatina nervosa gli sfuggì dalle labbra mentre si
passava una mano tra i capelli. «Avanti, non può
essere... Ieri stava bene!».
«Dobbiamo andare in ospedale», affermò
Alex in tono ferale.
Nessuno obiettò.
Mentre Merlino e Alex si cambiavano, Cathleen accese al minimo la
lampada da lettura accanto al divano e si inginocchiò
accanto ad Elijah. Gli posò una mano sul braccio e lo scosse
un poco per svegliarlo il più gentilmente possibile, ma
questi trasalì e le puntò contro il proprio
coltellino svizzero, facendola cadere col fondoschiena per terra per lo
spavento.
«Scusami, è l'abitudine»,
mormorò il senzatetto, mortificato.
«Non c'è problema».
«Che ora è?».
«Mezzanotte. Ascolta, abbiamo ricevuto un messaggio da una
nostra carissima amica e dobbiamo andare da lei in ospedale».
Elijah si tirò su seduto e si appiattì i capelli
scoloriti sulla testa. «Volete che dia un'occhiata ad
Artù?».
«Sì, te ne prego».
«Va bene. Sono abituato anche ai turni di guardia».
«Grazie, non so davvero come ringraziarti»,
sussurrò, prendendogli il volto tra le mani per stampargli
un bacio sulla fronte.
Il ragazzo divenne rosso come un peperone, ma in quel momento Alex e
Merlino li raggiunsero e consegnarono al ragazzo lo smartphone di
Artù, raccomandandogli di chiamare per qualsiasi cosa.
Elijah li rassicurò e rimase sulla soglia di casa a
guardarli fino a quando le luci posteriori dell'auto di Alex non
vennero inghiottite dall'oscurità.
***
"Ciao, Alex. Se stai
ascoltando questo messaggio, allora è probabile che io sia
morta o quasi. C'è anche la possibilità che mi
sia dimenticata di posticipare l'invio automatico, ma spero proprio non
sia questo il caso... Pensa a come mi sentirei se vi avessi fatto
credere di essere in punto di morte per una dimenticanza! -
ride piano - silenzio - sospira triste - Perdonami, ho qui davanti il
messaggio che ho scritto per te, ma non ci riesco. Tu sei troppo
importante per me e non posso lasciarti con un messaggio scritto e
letto ad alta voce. Ci vuole sentimento, capisci? Ce l'ho sempre messo,
per le cose importanti. Che fossero risate o che fossero lacrime... non
mi pento di nulla. - tira su col naso - Voglio che anche tu faccia lo
stesso, che non ci siano rimpianti nella tua vita. Vivi al massimo,
prova tutto e, ti prego, diventa mamma. Fallo per me, per favore. Steve
ed io ci siamo ammalati, ma siamo stati felici di essere nati. E tu non
puoi rinunciare ad una cosa così bella per paura di patire
la stessa sorte delle persone che ci vogliono bene. Saresti una mamma
fantastica, sai? Ne sono certa, perché in un certo senso sei
stata la mia. Avevo sei anni quando i miei genitori sono morti e mia
nonna è una brava donna dopotutto, ma è sempre
stata frenata dalla paura di rovinare tutto anche con me,
perciò non si è mai avvicinata più del
necessario. Si rifugiava dentro i suoi libri che raccontavano di donne
forti per non dover ammettere di non esserlo. Tu, invece... tu mi sei
sempre stata accanto, sin dai primi esami. Mi hai fatta sentire a casa
nel luogo più triste che ci sia, mi hai confortata, mi hai
dato speranza, mi hai abbracciata e mi hai fatto ridere esattamente
quando ne avevo bisogno. In sostanza ti sei presa cura di me come una
vera mamma farebbe, e non ti ringrazierò mai abbastanza per
questo. - silenzio - si soffia il naso - si schiarisce la
gola - Non so quanto
tempo sia passato dal matrimonio, ma se anche ne fosse passato poco,
troppo poco, non voglio che tu e Merlino vi sentiate in colpa. Non
è stato il vostro matrimonio a farmi ammalare; anzi,
partecipare alla vostra felicità è stato un vero
toccasana. È stato uno dei giorni più belli della
mia vita ed è stato un onore farti da damigella. Grazie di
cuore. Ti voglio bene, tanto."
***
Merlino si girò sul fianco e cercò Alex
allungando il braccio nella sua parte di letto, trovandola fredda e
vuota. Allora aprì gli occhi e confermò
ciò che aveva intuito: sua moglie era già
sveglia, oppure non aveva proprio chiuso occhio.
Si alzò e si infilò un paio di jeans e una felpa,
poi passò a controllare Artù nella sua camera.
Cathleen era sdraiata al suo fianco e finalmente si concedeva qualche
ora di riposo, una mano sul suo petto immobile.
Sicuro che non fosse cambiato nulla, scese al piano inferiore: a parte
il lieve russare di Elijah, raggomitolato sul divano, il silenzio
regnava sovrano. In cucina trovò la caraffa del
caffé quasi piena, ma doveva essere stato preparato almeno
un'ora prima, dato che toccandola la trovò tiepida. Se ne
versò comunque una tazza e si sedette al tavolo: solo allora
si accorse del foglietto che spuntava tra le mele nel suo portafrutta
di riserva.
"Mi dispiace, ma non
posso stare qui. Ero così accecato dalla rabbia, dal
desiderio di diventare qualcuno, che ho rischiato di fare del male a
delle persone innocenti. Non posso nemmeno tornare alla mia vecchia
vita, perciò viaggerò e mi documenterò
sulla magia. Forse un giorno tornerò e mi farò
perdonare. Addio. Jake".
Merlino si passò una mano sul viso e sospirò,
dicendosi che d'altronde non avrebbe potuto costringerlo a restare.
Anzi era stato lui a dire che erano liberi di andarsene in qualsiasi
momento. Sperava soltanto che Jake non si cacciasse nei guai.
Finito il caffè si alzò per mettere la tazza nel
lavandino, guardò fuori dalla finestra ed avvertì
un brivido lungo la spina dorsale nel vedere il cielo tinto dei colori
dell'alba. Stringendosi nella felpa, uscì in veranda e poi
mise i piedi nudi sull'erba bagnata di rugiada. Chiuse gli occhi e
nonostante conoscesse benissimo il processo chimico, non
poté fare a meno di chiedersi se quella notte anche la
terra, come loro, avesse pianto la scomparsa di Abigail Reed.
Avanzò lentamente verso il vecchio fienile trasformato a
stalla e solo quando aprì la pesante porta, lasciando
entrare i primi raggi di sole di quel nuovo giorno, si rese conto che
la prima delle sue più recenti visioni si stava avverando.
Flash lo accolse con un nitrito e Merlino gli accarezzò il
muso passandogli accanto, poi proseguì fino alle scalette
che portavano al soppalco in cui aveva spostato tutto ciò
che non apparteneva ad una stalla: attrezzi da giardinaggio, vecchie
sedie, pezzi di ricambio della Pininfarina, una ruota di bicicletta
arrugginita.
Fu lì che trovò Alex, rannicchiata in un angolo,
proprio dove doveva essere. Aveva i capelli scompigliati, gli occhi
gonfi ed arrossati per il pianto, la ferita alla fronte che aveva
ripreso a sanguinare sotto il grosso cerotto che le avevano applicato
in ospedale, dopo che una collega preoccupata l'aveva convinta a farsi
mettere dei punti, dicendole che non poteva entrare nella stanza di
Abby in quelle condizioni. Ovviamente non erano mancate le domande su
come si era procurata quel brutto taglio, ma Alex era stata abbastanza
pronta da rispondere che aveva picchiato la fronte contro il comodino
cadendo giù dal letto.
Non appena lo vide, sul suo volto si accese una scintilla di speranza,
ma bastò un cenno del capo per farla ripiombare nello
sconforto.
«È tutta colpa mia»,
farfugliò nascondendo di nuovo il capo tra le ginocchia.
Merlino non sapeva se si riferisse ad Artù o ad Abby.
Probabilmente ad entrambi, conoscendola. La raggiunse e si
lasciò scivolare seduto al suo fianco sulla segatura, quindi
le avvolse un braccio intorno alle spalle e la invitò ad
appoggiare il capo contro la sua spalla.
«No che non lo è. Sapevamo che questo giorno
sarebbe arrivato».
Alla fine la profezia dei custodi della magia si sarebbe avverata in
ogni sua parte: Merlino si sarebbe sacrificato, oltre che per la sua
nuova famiglia, anche per Artù.
Rimasero in silenzio per un po', ognuno immerso nei propri pensieri,
confortati dalla presenza l'uno dell'altra. C'era una quiete, una pace,
quasi surreale dopo tutto ciò che era accaduto in poco
più di quarantotto ore. Fino ad allora la loro luna di miele
era stata un disastro.
«Non posso sopportarlo», mormorò Alex ad
un tratto, stringendogli forte le mani. «Ci dev'essere
qualcosa che possiamo fare!».
«Una cosa c'è, lo sai».
Alex alzò gli occhi per incrociare i suoi e, nonostante
l'impegno, non poté evitare di tremare rispondendo:
«No. Non se ne parla, Merlino».
«È la nostra unica
possibilità».
«La Triplice Dea non ci aiuterà senza pretendere
qualcosa in cambio e sai perfettamente che cosa chiederà!
Aspetta da secoli un'occasione del genere e non se la
lascerà sfuggire, soprattutto se siamo noi a servirgliela su
un piatto d'argento!».
Merlino sorrise teneramente mentre si interessava alla sua ferita: le
tolse il cerotto e controllò che i punti non fossero saltati
e che non ci fossero infezioni.
«Io ho vissuto il mio tempo, Alex. Ho vissuto anche troppo,
ad essere onesti. Sono pronto ad andarmene, se servirà
a...».
«No, no, no», lo interruppe posandogli le dita
sulla bocca ed affondando il viso nel suo petto, scossa dai singulti.
«Io sto morendo in ogni caso», le disse ancora,
accarezzandole la schiena e baciandole i capelli. «Vai dalla
Triplice Dea e strappa il miglior accordo possibile. Credo in te,
Alex».
L'infermiera si asciugò il viso e prese le loro mani per
rimirare le loro fedi. Abbozzò persino un sorriso,
mormorando: «Nessuna profezia aveva predetto questo,
eh?».
Merlino ricambiò, sollevandole il mento per baciarle le
labbra. «Ne sono grato».
Alex chiuse gli occhi per intrappolarvi le ennesime lacrime e gli
strinse le braccia intorno al collo, baciandolo con più
passione quella volta. Gentilmente, Merlino la fece sdraiare su un
sacco di fieno e le accarezzò il ventre sotto la maglietta,
sentendola tremare a quel tocco. Si fermò, pensando che
forse non era saggio fare l'amore ora che Alex portava in grembo una
creatura, ma l'infermiera aprì gli occhi e lo
guardò con le guance arrossate di desiderio.
«Perché ti sei fermato?», gli
domandò, esitante.
«Io...». Doveva dirle che sapeva della gravidanza?
C'era sicuramente un motivo se continuava a mantenere il segreto, per
questo decise di fidarsi e di rispettarlo.
Sorrise, accarezzandole i capelli. «Mi chiedevo se fosse il
luogo giusto per la nostra prima volta da marito e moglie». O per l'ultima volta prima che
io muoia.
«Ha davvero importanza?».
Merlino scrollò le spalle. «Non so,
forse».
«Ti amo, Merlino. Per me un posto vale l'altro; anche
l'inferno andrebbe bene, purché tu sia con me».
A quelle parole, non poté far altro che cedere. La
riempì di baci, concentrandosi più del dovuto sul
ventre senza spiegarle il motivo, e fecero l'amore con dolcezza,
godendosi ogni battito del cuore, ogni brivido sulla pelle, ogni loro
respiro, ogni piccola sfumatura delle loro voci, fino a giungere ad un
piacere non solo del corpo, ma anche dell'anima. Poi, finalmente, Alex
riuscì ad addormentarsi tra le braccia di Merlino.
***
«Artù è morto, non è
vero?».
Cathleen sussultò e la forchetta che si stava portando alla
bocca le cadde nel piatto. Tremando si portò entrambe le
mani sul viso e Alex l'avvicinò a sé per
massaggiarle un braccio con dolcezza.
«Non è ancora detta l'ultima parola», la
rassicurò, per poi lanciare un'occhiata ammonitrice alla
gemella che aveva fatto quella domanda. Dire se si fosse trattato di
Doreen o Maureen era troppo presto, dato che da quando erano loro
ospiti avevano parlato a malapena un paio di volte.
«Mi dispiace, Maureen non voleva essere
indelicata», si scusò la gemella che a quel punto
non poteva che essere Doreen: aveva i capelli legati e un maglione blu
che metteva ancora più in risalto le efelidi che le
tempestavano la pelle pallida.
Maureen si girò verso la sorella e a bassa voce, ma non
abbastanza, sbottò: «Non si è mosso per
due giorni e non sembra nemmeno respirare, perciò
è piuttosto ovvio che...».
«Ma che ti prende?! Smettila!».
«Sto solo dicendo che è inquietante avere un morto
in casa!».
«Adesso basta, tutte e due!», gridò
Hanna, alzandosi in piedi per fulminarle con lo sguardo. Quindi si
rivolse a Merlino, porgendo le proprie scuse chinando mestamente il
capo.
Lo stregone sventolò una mano. «Grazie Hanna, ma
capisco la confusione di Maureen». Allontanò anche
lui il piatto e posò entrambi i gomiti sul tavolo,
osservando la ragazzina coi riccioli sciolti e il pollice dalle
cuticole martoriate alla bocca. «Lo spirito di
Artù al momento non si trova nel suo corpo, ma non
è nemmeno dall'altra parte, siccome le porte di Avalon sono
state messe in sicurezza dagli Sidhe. È in una specie di
limbo, da cui speriamo di riuscire a farlo tornare».
«Come?», chiese Elijah, intento a spolpare all'osso
la propria coscia di pollo.
Merlino e Alex si scambiarono un'occhiata e Cathleen, insospettita dal
loro silenzio, si tolse le mani dal viso e se ne accorse.
«Che cosa c'è? Sapete come salvare Artù
e non mi avete detto nulla? Che razza di...!».
«Questa mattina ho proposto ad Alex di andare dalla Triplice
Dea», la interruppe Merlino, incupendosi.
Il paramedico capì ciò che questo avrebbe
comportato e si voltò verso Alex, la quale aveva smesso di
accarezzarle il braccio per stringere forte i pugni in grembo, il capo
abbassato. Dire che era mortificata era un eufemismo.
«Lo sai che non ti chiederei mai una cosa del
genere», provò a scusarsi.
«Ma non c'è altro modo», insistette
Merlino.
A quel punto intervenne Elijah, dopo essersi pulito le dita unte sul
tovagliolo.
«Gli spiriti del ruscello che abbiamo incontrato... hanno
detto che gli Sidhe non riusciranno a tenere chiuse le porte del mondo
degli spiriti ancora per molto, che serve una nuova custode. E se
questa custode fosse in grado di rispedire lo spirito di
Artù nel suo corpo?».
«Non so se la custode di Avalon possa fare una cosa del
genere. E prima dovremmo comunque trovare una custode».
«La vostra amica che è appena morta
potrebbe...».
Maureen venne bruscamente interrotta dalla sorella, paonazza in volto
per la sua sfrontatezza. Per essere gemelle, avevano caratteri ben
diversi.
Merlino notò Alex alzare di scatto il capo e guardare la
rossa con gli occhi sgranati, ma diede la colpa allo shock. Quindi
riportò la propria attenzione su Elijah e concluse:
«Se anche riuscissimo per miracolo a riportare lo spirito di
Artù nel suo corpo, per quanto durerebbe con quel frammento
di spada nel suo petto? Solo la Triplice Dea è in grado di
purificarlo».
«Ma quello che vorrà in cambio...»,
Cathleen scosse il capo e si sporse per stringergli una mano.
«Amo Artù, con tutto il mio cuore, ma non voglio
perdere te».
Merlino sorrise dolcemente, ricambiando la stretta. Forse Cathleen
aveva davvero qualcosa di Ginevra, in fondo.
Alex si alzò di scatto, facendo stridere i piedi della sedia
sul pavimento in ceramica, e senza dire una parola uscì
dalle porte scorrevoli che davano sulla veranda. Si passò le
mani tra i capelli, la schiena che si alzava e si abbassava al ritmo
dei suoi respiri concitati. Quindi corse al centro del giardino, prese
la prima arma che trovò sull'espositore - una mazza ferrata
- e urlando iniziò a fare strage dei manichini che erano
rimasti in piedi dal suo ultimo allenamento con Artù.
«Hai visto cos'hai fatto? Spero tu sia contenta»,
disse tra i denti Doreen, schiaffeggiando il braccio della gemella.
«Oh, scusami tanto se tra le due io sono la più
realista», rispose a tono, ricambiando lo schiaffo.
Le due si lanciarono un'occhiata astiosa prima di ritornare a fissare i
loro piatti mezzi pieni. L'unico che non aveva mai smesso di
rimpinzarsi era stato Elijah, a cui l'appetito non mancava nemmeno in
una situazione del genere.
«Mi dispiace molto, ma sono d'accordo con Maureen»,
esordì quest'ultimo con tono rassegnato, portandosi alla
bocca il proprio bicchiere di Coca-Cola. «Le
possibilità di riavere indietro Artù sono...
poche. Ma se posso aiutarvi in qualche modo lo
farò».
«Grazie, Elijah», disse Merlino alzandosi a sua
volta. «Che ne dici di sparecchiare e mettere i piatti in
lavastoviglie?».
Il druido non ne fu felice, ma serrò le labbra ed
annuì con un cenno del capo.
Cathleen seguì il mago in veranda e guardò in
silenzio Alex, la quale non aveva più le energie per
sollevare la mazza ferrata e si era seduta a terra, la faccia nelle
mani e una sfilza di manichini distrutti intorno a lei.
«Ho una tremenda voglia di fumare»,
mormorò il paramedico, strofinandosi le mani tra loro.
«Fai pure».
«No, ho deciso di smettere».
Lo stregone la fissò incuriosito.
«Perché?».
Cathleen ricambiò lo sguardo, il volto arrossato per
l'imbarazzo. Non poteva dirgli che lo stava facendo per
solidarietà, per tenere Alex lontana dalla tentazione.
«Ho capito, è per la camminata sulle Black
Mountains? Hai visto che non riuscivi a starci dietro», la
tolse Merlino dall'impaccio, sorridendo in modo fin troppo
accondiscendente.
«Sì, proprio così»,
mormorò, chiedendosi se in realtà Merlino non
avesse scoperto la verità e stesse solo aspettando il
momento in cui Alex gli avrebbe finalmente confessato di essere incinta.
«Bene, sono contento. Avrai bisogno di essere al top della
forma per prenderti cura di Alex quando io non ci sarò
più».
Il paramedico sentì il cuore sprofondarle nel petto ed
impiegò qualche secondo per reagire. «Non posso
permetterlo, Merlino».
Il mago si girò verso di lei e le rivolse lo sguardo
più minaccioso che avesse mai visto. Nei suoi occhi c'era di
tutto: rabbia, dolore e tanta, tanta tristezza.
«Mi hai fatto una promessa, Cathleen. Mi hai promesso che ti
saresti presa cura di Artù, ricordi?».
«Sì, ma non a discapito della tua
vita!», replicò a mezza voce, picchiandogli un
pugno sul petto mentre le lacrime minacciavano di rigarle il volto.
«Non posso scegliere tra te e lui! Non potrei più
guardare in faccia Alex, se tu...».
Merlino l'attirò in un abbraccio e si chinò per
sfiorarle l'orecchio con le labbra e sussurrare: «Io non
morirò, Cath. Io sono la magia in persona e quando
tornerà, tornerò anche io».
Cathleen si scostò e cercò i suoi occhi.
Lasciò che Merlino le spazzasse via le lacrime dal viso con
i pollici, il resto delle dita a tenerle alto il capo, e
guardò il suo sorriso mesto e sincero.
«Adesso non c'è bisogno di tirarsela in questo
modo», lo prese in giro alla fine, scostandosi.
Merlino ridacchiò e la lasciò sotto il portico
per raggiungere Alex e lasciarsi stringere forte.
***
«Lo faremo, sapete?».
Merlino e Cathleen osservarono Alex, seduta allo scrittoio
dell'antenato, accanto al fuoco acceso nel camino. Le fiamme sembravano
danzare su di lei, rendendo i suoi occhi ancora più lucidi e
i suoi capelli arancioni come il sole al tramonto.
«Che cosa?», domandò Merlino, alzandosi
dalla sedia accanto al letto per avvicinarsi. Si fermò
accanto al pilastro intagliato del baldacchino e vi si
appoggiò con una spalla, scosso dalle parole della moglie.
«Ho avuto una visione in cui mettavamo Abby su una barca e la
spingevamo sul lago di Avalon. Maureen ha ragione: la renderemo la
nuova Dama.
«No», esclamò Cathleen, seduta a gambe
incrociate sul materasso, una mano fredda di Artù tra le
sue. «Non possiamo farle questo. Avete visto in che cosa si
è trasformata Freya!».
«Ma Avalon ha bisogno di una custode e più tempo
aspettiamo, più rischiamo che tutti gli spiriti malvagli si
riversino su di noi», intervenne Merlino.
Alex annuì e con voce monocorde disse:
«Esatto».
«È una follia», insistette Cathleen.
A quel punto l'infermiera si girò e con gli occhi stretti in
due fessure, la voce controllata a stento, spiegò:
«Pensaci, Cathleen. Qualcuno deve prendere il posto di Freya,
su questo non ci piove. Preferiresti una persona qualunque, oppure
un'amica di cui ti fidi e che ha sempre sperato di poter fare qualcosa
di importante nella sua vita? Quante volte ha detto di voler lasciare
il segno, di sperare che ci fosse qualcosa dopo la morte? Questo
potrebbe essere il suo destino».
«E se lei non volesse? A Freya non è stato chiesto
e guarda che fine ha fatto!».
«C'è anche da dire che io non avevo idea che
l'avrei resa la custode di Avalon», mormorò
Merlino, lo sguardo rivolto verso il pavimento di legno.
«Lo chiederemo a Mark», esclamò Alex e
si girò, come se la discussione per lei fosse terminata.
«A Mark?», ripeté lo stregone.
«Questo comporterebbe che noi...».
«Gli diremo tutto, sì. Merita di sapere che
c'è di più di quanto crede in questo
mondo».
Merlino sospirò, massaggiandosi gli occhi stanchi.
«Alex...».
«Basta, è deciso. Non abbiamo più tempo
per pensare ad altro».
Si alzò in piedi e respirando profondamente aprì
una grande mappa del Galles meridionale, quindi iniziò a
confrontarla con quella che Merlino aveva disegnato su uno dei suoi
diari.
«Che cosa stai cercando?», le chiese quest'ultimo,
arrendendosi al fatto che non sarebbe riuscito a farle cambiare idea.
«Il Calderone di Arianrhod. È lì che si
trova la Triplice Dea, giusto?».
Merlino e Cathleen si scambiarono una nuova occhiata sconcertata e Alex
dovette trattenersi per non urlare loro di smetterla. Era tutto il
giorno che si parlavano con gli occhi quando lei sembrava non vederli e
iniziava seriamente a pensare che le stessero dando corda solo per
farla stare buona, come se fosse una pazza da assecondare. O forse,
cosa ancora più probabile, avevano parlato e avevano in
mente un piano loro, di cui non volevano renderla partecipe.
Non riuscì più a reggere la pressione e
picchiò entrambi i pugni sullo scrittoio, facendosi male ai
polsi già doloranti per via della battaglia e degli sforzi
che aveva fatto quel pomeriggio con la mazza ferrata.
Merlino la fermò intrappolandola nel suo abbraccio e
all'inizio provò a dimenarsi, ma alla fine crollò
e si accasciò contro di lui, sfinita.
«Se avete delle idee migliori ditemelo, perché...
perché sto impazzendo», mormorò.
«Non voglio avere un'altra morte sulla coscienza, non posso
perdere Artù e di certo non posso perdere te,
Merlino...».
Lo stregone posò le labbra sul suo capo, accarezzandole le
spalle. Senza ripeterle ciò che le aveva detto nel fienile,
la fece sedere nuovamente sulla sedia che aveva intagliato con le
proprie mani per Artù e con un cenno della mano
invitò anche Cathleen a raggiungerli. Quindi
esaminò le due mappe e dopo qualche secondo
indicò un punto oltre le Black Mountains, non lontano da un
piccolo centro abitato.
Alex prese subito il cellulare e digitò la
località sul motore di ricerca, scoprendo che gli abitanti
andavano orgogliosi di una e una cosa soltanto: il vastissimo golf club
che sorgeva tra le colline e i boschi di querce e betulle. Al suo
interno - precisamente vicino alla buca diciotto - c'era anche un
magnifico lago, in un'area scavata tra le rocce e quindi
particolarmente difficile per gli appassionati.
«Mi stai prendendo in giro?», domandò
Alex stancamente, una mano sulla fronte.
«Purtroppo no».
«Quindi... La potente Triplice Dea abita in un golf
club», esclamò esasperata Cathleen, prima di
alzare gli occhi al cielo e aggiungere: «Perché
ancora mi stupisco di come vanno le cose con voi?».
Merlino abbozzò un sorriso e le strinse una spalla, facendo
lo stesso con Alex poco dopo, chinandosi anche per posarle un bacio
sulla tempia.
***
«Merlino, siamo pronte quando lo sei tu»,
sussurrò Alex all'auricolare collegato allo smartphone.
Era notte fonda - l'unico momento in cui il campo da golf sarebbe stato
deserto - e come due perfette ladre Alex e Cathleen stavano aspettando
che Merlino, al "quartier generale", facesse la sua magia con le
telecamere di sicurezza prima che loro potessero tagliare la recinzione
ed intrufolarsi nel percorso.
Avevano lasciato l'auto a quasi un miglio di distanza, ma erano
abbastanza vicine alla diciottesima buca. In meno di un quarto d'ora
avrebbero affrontato la Triplice Dea e Alex era così nervosa
che avrebbe voluto prendere Cathleen per mano.
Cathleen... la guardò e sorrise, pensando a quando l'aveva
avvicinata la prima volta per chiederle una sigaretta. Sembravano
passati secoli da allora.
«Che cosa c'è?», le chiese proprio il
paramedico, con la fronte corrugata.
«Niente».
«Stavi sorridendo».
«Pensavo al nostro primo incontro», le
confessò, tornando a fissare il campo oltre la recinzione.
Si era persino dimenticata di avere ancora Merlino in linea, il quale
poteva ascoltare tutto ciò che si stavano dicendo.
«Se me l'avessero detto allora, che saresti diventata la mia
migliore amica e che ci saremmo trovate qui oggi, non ci avrei mai
creduto».
«Sono... sono la tua migliore amica?».
Dalla sua espressione allibita e al contempo imbarazzata, Alex
capì che non se lo aspettava davvero.
«Ma certo. Pensavo fosse ovvio».
Cathleen le si gettò addosso, stritolandola in uno dei suoi
abbracci. Con la bocca vicino all'orecchio destro, quello privo
dell'auricolare, sussurrò: «Non sei costretta ad
accettare le condizioni di questa stupida Dea. Non devi sacrificare
Merlino. E se... se Artù morirà... non te ne
farò una colpa. Voglio che tu lo sappia».
Il paramedico sciolse l'abbraccio per guardarla negli occhi, l'ombra di
un sorriso sul volto illuminato dalla luna, e Alex ricambiò,
sinceramente grata per quelle parole.
Vennero interrotte da Merlino, il quale parlò nell'orecchio
dell'infermiera: «Andate pure».
Alex trovò strano che ci avesse messo così tanto
- con le sue capacità da hacker - e si domandò se
in realtà non avesse atteso proprio che si scambiassero
quelle ultime confidenze a cuore aperto prima di affrontare la Triplice
Dea.
«Grazie», sussurrò portandosi il
microfono vicino alla bocca, sperando che capisse il sottinteso. Quindi
prese le cesoie ed iniziò a tagliare la recinzione.
«Wow», soffiò Cathleen, alzando gli
occhi sulla parete di roccia che sembrava toccare il cielo scuro e
punteggiato di stelle.
Alex, in piedi al suo fianco, non riusciva a distogliere gli occhi
dalla superficie dell'acqua, talmente piatta e riflettente da sembrare
uno specchio. Attratta dalla potente magia, si lasciò
trascinare fino alla riva ciottolosa e fu solo grazie a Cathleen che
non finì zuppa.
«Devi evocare la Dea, non farci una nuotata».
L'infermiera rinvenne ed arretrò di un paio di passi,
cercando di capire che cosa le fosse successo. Se Excalibur l'aveva
tormentata ogni volta che vi stava lontana, la vista di quel lago e il
non poter entrarci dentro le provocava del vero dolore fisico. Alex
respirò profondamente e tirò fuori dalla tasca
della giacca di pelle un foglietto su cui Merlino aveva scritto
l'incantesimo di evocazione. Lo recitò come si era
esercitata e sentì un'ondata di magia travolgerla da capo a
piedi e poi attraversare la terra per raggiungere il lago, ma non
accadde nulla.
«Che cosa significa?», domandò Cathleen.
«Non lo so, io...».
"Non capisco, avrebbe
dovuto funzionare", le disse Merlino attraverso
l'auricolare. Almeno non era colpa della sua pronuncia.
Rimasero in silenzio, in trepidante attesa, per minuti che sembrarono
ore. Alla fine Cath si portò le mani tra i capelli e si
accucciò a terra.
«Maledizione», mormorò. Poi
alzò il capo e posò le ginocchia a terra, prese
un sasso e lo lanciò verso il lago, gridando ancora:
«Maledizione!».
Lo specchio d'acqua si increspò in cerchi ripetitivi,
facendo tremolare il riflesso della luna, per poi tornare alla perfetta
immobilità.
Alex non poteva credere di aver fatto tutta quella strada per nulla,
non poteva accettarlo. Strinse nel pugno il ciondolo di Morgana,
chiedendole consiglio, ma anche lei sembrava averla abbandonata.
"Alex, parlami",
le disse all'orecchio Merlino.
«E va bene», esclamò con determinazione.
«Io entro».
«Che cosa? Non ci pensare nemmeno!», si oppose il
paramedico, sollevandosi per afferrarla per un gomito. Nei suoi occhi
c'era un terrore che non aveva mai visto prima di allora.
«Ti ho raccontato cos'è successo ad
Artù quando ha provato ad entrare ad Avalon. E se venissi
risucchiata pure tu?».
«Credimi, non lo farei se non fosse necessario. Ma qualsiasi
cosa ci sia là dentro mi sta chiamando, lo sento»,
replicò Alex, stringendo le mani dell'amica.
Abbozzò un pallido sorriso, aggiungendo: «E poi
tutto è iniziato quando mi sono tuffata dentro Avalon per
ripescare Artù, è giusto che finisca
così».
"Non finirà
così. Tu ne uscirai, Alex. Devi uscirne", disse
Merlino tramite l'auricolare.
L'infermiera sorrise, nonostante sapesse benissimo che lui non poteva
vederla. Ritrasse lentamente le mani da quelle di Cathleen e le diede
le spalle per parlare in privato con suo marito.
«Qualsiasi cosa succeda...», iniziò a
dire, chiedendosi se fosse un buon momento per dirgli di essere
incinta. Non le avrebbe permesso di tuffarsi, poco ma sicuro, e sapeva
che era ciò che doveva fare.
"Lo so", la
interruppe Merlino, con tono infinitamente dolce.
Alex ridacchiò e si tolse l'auricolare, quindi senza
chiudere la comunicazione passò il cellulare a Cathleen.
Si tolse le scarpe e si spogliò fino a rimanere in intimo,
lasciò tutto sull'acciottolato e si avvicinò alla
riva, sentendo la magia attirarla come il canto di una sirena. Ad ogni
passo si sentiva più leggera, come se ogni sua
preoccupazione svanisse, e Alex avrebbe tanto voluto che quella pace
fosse vera. Purtroppo non era così, lo sapeva fin troppo
bene.
Si aggrappò quindi a tutto ciò che amava, alle
persone per cui avrebbe combattuto fino all'ultimo respiro, al ricordo
di ogni singola lacrima che aveva versato, e ad occhi chiusi
entrò nell'acqua. Il freddo le intorpidì le dita
dei piedi e presto le avviluppò i polpacci, ma Alex
continuò ad avanzare. Quando fu immersa fino alla vita e i
brividi erano così intensi da farle battere i denti, solo
allora riaprì gli occhi e si rese conto che l'acqua intorno
a lei stava brillando. Era come se sotto di lei ci fosse stato un faro
che la seguiva ovunque andasse, racchiudendola in un cilindro di luce
bianca, tanto intensa da ferirle gli occhi.
Si voltò verso Cathleen, vedendola sbracciarsi e chiamarla
oltre la parete di luce, ma prima che potesse ricambiare in qualche
modo delle mani l'afferrarono per le caviglie e la trascinarono
sott'acqua.
Alex riaprì gli occhi di scatto, inspirando tutta l'aria che
poté e tastandosi la gola bruciante. Quando si rese conto
che non era annegata come pensava sarebbe successo, vista tutta l'acqua
salmastra che aveva ingerito, si tirò su a sedere e si
guardò intorno per capire dove fosse.
Il cuore le schizzò in gola riconoscendo quel salotto dalle
pareti di legno, col caminetto acceso e il divano dalla fantasia a
quadrettoni su cui si trovava. C'era stata solo un paio di volte,
quand'era piccola, ma non l'avrebbe mai dimenticato.
Sulla poltrona accanto all'ampia finestra incassata in una cornice di
mattoni a vista, era seduta sua nonna, in carne ed ossa, intenta a
sfogliare un grosso libro con un'usurata copertina di pelle.
Alex cercò di controllare le pulsazioni e di convincersi che
doveva trattarsi di una magia, un trucco della Triplice Dea per
estorcerle chissà cosa o semplicemente divertirsi a sue
spese. O forse stava davvero morendo e quella era solo una delle
fermate obbligatorie prima di poter raggiungere l'aldilà.
Che cosa le aveva detto sua madre? Che lei e tutti i loro antenati si
sarebbero riuniti ad Avalon.
«Ciao, Alexandra», disse sua nonna, con lo stesso
tono di voce che usava quand'era una bambina e rivolgendole persino lo
stesso sorriso. Chiuse il libro e tenendolo sulle gambe, coperte da uno
scialle di lana, si tolse gli occhiali dal viso per poterla guardare
con più attenzione.
«Cosa c'è che non va? Stai tremando. Vieni,
avvicinati al camino».
L'infermiera, rigida come un tronco, si alzò e solo allora
si rese conto di indossare gli stessi vestiti che si era tolta prima di
entrare nel lago: erano asciutti contro la pelle, eppure avvertiva
ugualmente un freddo incredibile. Si accucciò accanto alle
fiamme, ma nemmeno quelle riuscirono a riscaldarla. Che fosse davvero
la fine? No, non l'avrebbe permesso. Cathleen la stava aspettando in
quel campo da golf, come Merlino e Artù e suo padre e tutti
gli altri.
«Devo andarmene da qui», esclamò,
sollevandosi nuovamente. Ogni movimento le costava una tremenda fatica,
ma non si sarebbe arresa.
«Ma come, sei stata tu ad invocarmi e già te ne
vuoi andare?».
Alex posò gli occhi su quella vecchia che aveva l'aspetto di
sua nonna, incredula. «Tu sei... Tu sei la Triplice
Dea?».
«È uno dei miei nomi, sì»,
rispose sorridendo. «E ammetto di essere molto colpita,
Alexandra. Non pensavo avrei mai avuto l'onore di incontrarti, non dopo
il tuo giuramento... Ma d'altronde gli esseri umani sono volubili, la
loro fedeltà cambia in base a ciò che
più gli conviene».
L'infermiera strinse i pugni lungo i fianchi, il volto contratto
dall'ira. «Se non sbaglio, ho giurato che avrei cambiato il
destino di Artù e Merlino e che vi avrei fatto pentire di
tutte le vostre macchinazioni».
«Eppure eccoti qui, con la precisa intenzione di ricavare da
me la soluzione. Io vincerò, Alexandra. Lo sai anche
tu».
«Come fai ad esserne tanto sicura?».
La Dea, nelle sembianze di sua nonna, si alzò dalla poltrona
e sollevò davanti al petto il libro che stava sfogliando
prima che si svegliasse. Sulla copertina c'era un simbolo argentato:
due mezzelune a formare un cerchio e altre due ai rispettivi lati, come
parentesi tonde al contrario.
«Perché stai parlando con la rappresentazione
della Saggezza. Merlino non te l'ha spiegato perché vengo
chiamata Triplice Dea?».
Sì, l'aveva fatto, ma il quel momento Alex non riusciva a
mettere insieme i pezzi. Si sentiva intontita, come se il freddo le
avesse congelato il cervello.
Quanto tempo aveva prima di morire assiderata, o annegata, nelle acque
del Calderone di Arianrhod?
Si avviò verso la finestra che dava sul giardino dalle
aiuole fiorite, ma la Dea le si parò davanti e Alex, nel
tentativo di scostarla, finì tra le sue braccia.
«Non posso rinunciare a Merlino, non posso», disse
con voce flebile, ma ferma.
«Lo so, bocciolo mio».
Alex trasalì e come se le avessero appena iniettato una
fiala di adrenalina nel cuore arretrò, trovandosi nello
studio da pittrice di sua madre. E al suo cospetto c'era proprio lei,
Ellen, col suo sorriso amorevole. Crudele, persino per una Dea che si
era vista arrivare nel suo tempio decine di palline da golf.
«Mamma...», mormorò, sentendo le lacrime
inondarle gli occhi e rigarle il viso.
La donna si avvicinò e con cautela le accarezzò
una guancia. «Sei così cresciuta...».
L'infermiera chiuse gli occhi, continuando a ripetersi che era solo
un'illusione. Non riuscì però a trattenersi e
portò una mano su quella della madre, premendola con
più forza contro la sua pelle irritata.
«E ti sei anche sposata», commentò
Ellen. «Con l'unica persona in grado di infrangerti il
cuore».
Alex riaprì gli occhi, trovando in quelli della mamma una
compassione degni della Vergine Maria. La Madre, un'altra
rappresentazione della Triplice Dea.
«Lo dicevi sempre anche tu: l'anima gemella è una
benedizione tanto quanto una maledizione», rispose
l'infermiera.
«Oh, amore mio... Lo sai che succederà, non puoi
evitarlo. La nostra famiglia è abituata ai sacrifici, siamo
forti».
Alex scosse il capo, allontanandosi dal tocco di sua madre col cuore
infranto. «Non posso farlo, mi dispiace».
Lo schiaffo arrivò forte ed inaspettato, tanto che si
ritrovò ad occhi chiusi e con un sapore metallico in bocca.
Sua madre non l'aveva mai picchiata, nemmeno durante le loro peggiori
litigate. Quella fu la scossa in grado di farle capire che per quanto
fosse stato bello rivederla, era stato tutto finto.
Respirò profondamente, sentendo i polmoni bruciarle nella
cassa toracica, e riaprì gli occhi per ritrovarsi nella sua
vecchia camera, nella casa di Cardiff. L'unica luce accesa era quella
della scrivania, sommersa di libri di medicina. Il silenzio era
interrotto da deboli singhiozzi e Alex, girandosi verso il letto alle
sue spalle, riuscì appena in tempo ad abbassarsi per evitare
il caschetto da equitazione nero che la sua doppelgänger
più giovane le aveva lanciato contro.
«E così sei davvero disposta a rinunciare a tutto
per Merlino? Il lavoro in ospedale, la carriera per cui ti sei
impegnata così tanto, i tuoi sogni? Lascerai che il mondo
diventi un ammasso di cenere, per lui?».
L'Alex più giovane si alzò e la
fronteggiò con la ferocia degli adolescenti.
Vedersi in quello stato la turbò, specialmente
perché sapeva che c'era stato un tempo in cui era stata
davvero così arrabbiata. All'epoca, quando suo padre aveva
tradito la sua fiducia, aveva pensato che il mondo non meritasse nulla.
E ora la rimproverava perché preferiva Merlino al mondo
intero? La Dea stava finendo gli assi nella manica. O almeno
così credeva.
«Negherai un futuro persino alla nostra bambina?»,
le gridò in faccia, afferrandola per le spalle e scuotendola
con espressione disperata. Dopodiché le strinse le braccia
intorno al collo, singhiozzando contro la sua spalla.
Alex si abbracciò, sentendo il cuore sgretolarsi nel petto.
La sua bambina...
«Io voglio salvare tutti, Merlino compreso»,
sussurrò. «Se è la sua magia che vuoi
puoi prendertela, lui stesso l'ha rinnegata... Ma permettigli di
vivere. Ti prego, Dea. Farò qualsiasi cosa in cambio, lo
giuro».
Il pavimento tremò e la giovane Alexandra Greenwood
sfrigolò tra le sue braccia, trasformandosi nella stessa
luce bianca che l'aveva avvolta una volta immersa nell'acqua del lago.
Tuttavia era ancora consistente tra le sue braccia e l'infermiera
sentì il suo respiro caldo sull'orecchio quando le
sussurrò con voce suadente, ben diversa da quella di sua
nonna, di sua madre o dalla propria: «Lo giuri?».
Alex non avrebbe dovuto giurare senza prima conoscere le condizioni del
patto, Merlino l'aveva già avvertita una volta, ma era
talmente stanca e desiderosa di tornare alla realtà che
diede la sua parola.
***
«Alex! Alex, ti prego!».
Con mani tremanti, Cathleen si riportò il cellulare
all'orecchio e disse: «Merlino, da quanto tempo è
là sotto?».
"Quattro minuti e
cinquantasette secondi", rispose in tono lugubre.
«E va bene, entro anch'io».
"Non dire idiozie,
Cathleen".
«Sono piuttosto sicura che senza ossigeno si muoia. E a meno
che Alex non si sia fatta crescere le branchie...».
"Lo so benissimo, ma
devi renderti conto che c'è la Triplice Dea con lei. Che
motivo avrebbe di lasciarla morire? È me che vuole".
«Quindi pretendi che io me ne stia con le mani in mano mentre
la mia migliore amica è lì dentro? Non se ne
parla!».
"Cathleen, no!".
Il paramedico gettò il cellulare nell'erba e a passo deciso
si diresse verso la riva. Stava perdendo Artù, non poteva
permettersi di perdere anche Alexandra.
Si era appena calciata via le scarpe, quando lo stesso fascio di luce
bianca in cui aveva visto sparire l'infermiera la risputò
fuori. Cathleen a quel punto non ebbe più esitazioni e si
gettò nel lago per raggiungerla, chiamandola a squarciagola.
La bionda sembrava priva di sensi e se quella luce non l'avesse tenuta
a galla nell'acqua sarebbe di certo annegata. Forse Merlino aveva avuto
ragione a dire che la Triplice Dea non la voleva morta.
«Da qua ci penso io, grazie», esclamò il
paramedico afferrando l'amica e passandole un braccio sotto l'ascella
in modo da tenerle il volto fuori dall'acqua. Nello stesso istante la
luce si spense e Cathleen iniziò a nuotare a dorso verso la
riva, battendo i denti per il freddo.
Ringraziò il cielo quando sentì il terreno sotto
i piedi e poté sollevarsi per trascinare il più
delicatamente possibile Alex sul pietrisco.
«Ehi! Alex, apri gli occhi!», la chiamò,
dandole degli schiaffettini sul volto. Non funzionò.
«Ah, maledizione!».
Si tirò indietro i capelli e si inghinocchiò al
suo fianco per iniziare il massaggio cardiaco. Con le mani sul suo
sterno, la chiamava ad ogni spinta. Poi si chinò sul suo
volto, le chiuse il naso tra due dita e soffiò nella sua
bocca. Ripeté l'operazione un'altra volta e finalmente Alex
riaprì gli occhi, si voltò di lato e
sputò parte dell'acqua ingerita.
«Grazie a Dio», mormorò Cathleen,
passandosi un polso sulla fronte.
Quando Alex finì di rimettere tornò sdraiata,
ansimante, e guardò Cathleen con occhi spenti.
«Che cosa diamine stavi facendo?», le chiese, per
poi aprirsi in un debole sorriso e aggiungere: «Sono una
donna sposata, adesso».
Cath scoppiò a ridere, mandandola a quel paese con tutte le
espressioni verbali del suo repertorio.
***
Merlino le stava aspettando seduto sui gradini del porticato e quando
vide l'auto di Alex, con Cathleen alla guida, si concesse un enorme
sospiro di sollievo.
Le aveva sentite al cellulare e sapeva che erano entrambe uscite vive
da Arianrhod, ma non era riuscito a liberarsi dal macigno che gli
pesava sul petto. Solo quando poté aprire la portiera dal
lato del passeggero e tirare fuori Alex per stringerla forte al petto,
con una mano tra i suoi capelli ancora bagnati, fu in grado di
disfarsene.
Dall'espressione grave sul volto di Cathleen, la quale si
liquidò subito con la scusa di voler controllare le immutate
condizioni di Artù, Merlino capì che Alex doveva
aver preso l'unica decisione possibile e ne aveva reso partecipe il
paramedico.
La guardò negli occhi limitandosi a rivolgerle un sorriso
carico di comprensione e poi tornò a stringerle un braccio
intorno alle spalle mentre l'accompagnava in casa. La fece sedere sulla
poltrona in salotto (il divano era occupato da Elijah), davanti al
camino acceso, e le avvolse intorno una coperta, poi andò a
versarle una tazza di té, preparato sempre mentre attendeva
il loro ritorno.
Quando tornò dalla cucina però trovò
l'infermiera rannicchiata sul tappeto, scossa da singhiozzi silenziosi.
Merlino lasciò la tazza sul tavolino e si sdraiò
al suo fianco, stringendola a sé come aveva fatto la prima
volta che avevano trascorso la notte insieme. Da allora sembravano
passati anni e non pochi mesi.
Non ci fu nemmeno bisogno di parlare.
Alex pianse tutte le sue lacrime contro il suo petto, stringendo la sua
maglietta tra i pugni, poi si addormentò.
Merlino rimase a fissare il fuoco che pian piano si affievoliva e si
spegneva, lasciando solo dei carboni ardenti e poi nemmeno
più quelli, certo che il sole sarebbe sorto ancora, con o
senza di lui.
***
Tre giorni dopo
Mark aveva preso incredibilmente bene tutta la questione della magia. O
forse, più probabilmente, aveva perso interesse per
qualsiasi cosa ora che non c'era più un'Abigail Reed con cui
condividerla.
Aveva ascoltato in silenzio ciò che Alex e Merlino gli
avevano raccontato, nella privacy della sua stanza d'ospedale, e
l'unico momento in cui aveva avuto una reazione era stato quando gli
avevano messo davanti la possibilità di dare ad Abby una
seconda vita, permettendole di lasciare il famoso segno nel mondo di
cui tanto aveva sognato.
«Potrò parlarle ancora?», aveva chiesto,
gli occhi illuminati da una piccola scintilla di speranza.
Merlino e Alex si erano guardati ed avevano annuito, dicendogli che
Abby sarebbe diventata la custode di Avalon e sarebbe stata immortale.
«Allora fatelo».
Peccato che mettere in pratica la loro idea non era stato altrettanto
semplice.
Tantissime persone avrebbero partecipato al funerale, molte
più di quelle che pensavano, e scambiare le bare sulla
strada del cimitero sarebbe stato impossibile, così Merlino,
il quale si era incaricato di organizzare il tutto al posto di una
distrutta signora Chapman, aveva allestito una camera ardente
all'interno dell'ospedale in modo che gli amici potessero salutare Abby
prima del funerale, quando ormai la bara sarebbe rimasta
chiusa e vuota.
L'impresario delle pompe funebri non aveva fatto troppe domande quando
Merlino aveva commissionato due bare identiche, però aveva
iniziato ad insospettirsi quando gli era stata chiesta a noleggio anche
un'auto funebre. Era bastato un assegno per comprare il suo silenzio.
L'alba li colse di sorpresa, nel grande salotto di Merlino. Nessuno se
l'era sentita di andare a dormire e avevano parlato per tutta la notte,
ricordando i bei momenti trascorsi con Abby. All'ora stabilita
svegliarono i giovani maghi assoldati da Freya e si diressero verso
Avalon, mentre Cathleen li avrebbe raggiunti più tardi con
Mark, dopo averlo aiutato a sgattaiolare fuori dall'ospedale.
Alex scese dall'auto e seguita da Hanna e dalle gemelle dovette
percorrere solo una ventina di metri per emergere dal folto della
vegetazione e trovarsi davanti ad Avalon, la cui superficie piatta
rifletteva come uno specchio il cielo azzurro, le nuvole bianche e
soffici come zucchero filato e i primi raggi del mattino. Come nella
sua visione, non c'era traccia della solita nebbia e l'isoletta al
centro del lago era ben visibile, così come la torre
diroccata che, solo ora se ne rendeva conto, doveva essere andata in
macerie quando Freya era morta, rendendo così privo di
difese il cancello del regno degli spiriti.
Immersa com'era nei suoi pensieri, Alex non si era nemmeno resa conto
dell'arrivo di Cathleen e Mark. Fu Merlino a riportarla alla
realtà, con voce gentile: «Noi siamo
pronti».
Alex si voltò e percorse con lo sguardo la sua intera
figura, rapita dalla sua bellezza nonostante l'occasione e i lividi
riportati nella battaglia con l'ex-custode di Avalon: indossava lo
stesso completo scuro del funerale, i capelli ormai completamente
bianchi erano pettinati alla bell'e meglio sulla testa e i suoi occhi
azzurri, lucidi di lacrime, brillavano come pietre preziose. Dietro di
lui c'erano Cathleen e Mark in sedia a rotelle, a loro volta
elegantissimi e dalle espressioni addolorate. Nelle retrovie, ai
confini del bosco, c'erano Elijah, Hanna, Maureen e Doreen.
L'assenza di Artù era così dolorosa che Alex
dovette abbassare gli occhi sul proprio vestito, quello che vedendolo
nell'armadio non aveva potuto fare a meno di indossare, stanca di
combattere contro l'inevitabile. La gonna a pieghe era lunga fino ai
piedi e il corpetto tempestato di brillanti le stringeva i fianchi e il
seno, per poi trasformarsi in un velo sottile che le copriva le spalle
e il collo.
«Facciamolo», mormorò sollevando di
nuovo il capo verso il sole nascente.
Merlino ed Elijah si caricarono la bara sulle spalle e Mark li volle
aiutare ad ogni costo, ignorando il tremore delle sue gambe. Insieme la
portarono fino alla riva del lago, dove lei e le ragazze avevano
ricoperto con foglie e fiori profumati la barchetta che tante ne aveva
viste e che, imperterrita, continuava a ricomparire ogni volta che ne
avessero bisogno.
Il ragazzino cadde in ginocchio accanto alla bara, senza più
riuscire a trattenere le lacrime e i singhiozzi. Graffiò la
verniciatura del legno con le unghie e mentre piangeva chiamava il nome
di Abby in una nenia spaccacuore.
Alla fine fu Merlino ad allontanarlo e ad aprire la bara per sollevare
il corpo senza vita della ragazzina, bellissima nel vestito che aveva
scelto per la sepoltura: sembrava quasi una sposa, grazie alla seta e
al pizzo che le fasciava la pelle diafana delle braccia. La
adagiò con delicatezza tra i fiori e poi Mark
poté chinarsi su di lei per un ultimo bacio.
Merlino aspettò che il ragazzino si spostasse prima di
spingere la barca sull'acqua con l'aiuto di Elijah. Quindi
infilò la mano in quella di Alex e le sussurrò:
«Sei pronta?».
«No», confessò, ma con la mano destra
estrasse comunque Excalibur dal fodero che Cathleen le stava porgendo e
lasciò che la sua magia le fluisse lungo il braccio fino a
raggiungerle il cuore. Il ciondolo di Morgana si riscaldò
contro il suo petto, assorbendone l'oscurità.
« Westiray.
Wecce on saebat baelfyra maest»,
pronunciò l'incantesimo come le aveva insegnato lo stregone.
La barchetta si spinse a largo, guidata da una forza invisibile, e
successivamente prese fuoco. Mark trasalì, inginocchiato
sull'erba, ma non distolse mai lo sguardo. Con la coda dell'occhio,
Alex vide alle sue spalle Elijah farsi un rapido segno della croce e
poi chinarsi su un ginocchio.
Ci vollero una decina di minuti prima che la barchetta affondasse,
trascinando con sé il corpo di Abby. Quando il fuoco si
spense e il fumo fu solo una striatura nel cielo azzurro, Alex
alzò lo sguardo su Merlino.
«Ha funzionato?», gli chiese.
«C'è solo un modo per scoprirlo».
Le sfilò l'elsa di Excalibur dalle dita e fece un passo
indietro, poi alzò il braccio come un battitore di baseball
e lanciò la spada verso l'acqua con tutta la forza che
aveva. La lama roteò parecchie volte, lanciando fasci di
luce ogni volta che il sole la colpiva, ma non arrivò mai a
toccare la superficie di Avalon: una mano esile e pallida,
inconfondibile, l'aveva afferrata al volo.
«Abby!», gridò Mark, incredulo e, per la
prima volta dopo giorni, sorridente.
« Ciao, Mark»,
lo salutò la nuova Dama del lago.
«Stai bene? Che cosa... che cosa provi?».
« Non ti
preoccupare per me, sono in pace».
«Però io...».
« Non posso
rimanere ora. Ho così tanto da fare... Ma sarò
sempre qui, quando avrai bisogno di me».
Mark annuì, asciugandosi le lacrime, e guardò la
mano di Abby sparire sott'acqua insieme ad Excalibur.
Merlino lo raggiunse e gli porse una mano per aiutarlo a rialzarsi, poi
gli strinse un braccio intorno alle spalle e lo condusse di nuovo alla
sua sedia a rotelle. Cathleen e i giovani maghi diedero le spalle ad
Avalon per tornare alle auto, mentre Alex si attardò sulla
riva del lago con le mani unite in grembo, il peso grave dei propri
doveri sulle spalle. Alla fine, al richiamo di Merlino, anche lei fece
per allontanarsi, ma la voce di Abigail la fermò.Si
voltò di tre quarti, trovando la superficie piatta e
lucente. Merlino la chiamò di nuovo. Possibile che l'avesse
sentita solo lei?
"Mi dispiace molto per
la scelta che sei stata costretta a fare. Era impossibile uscirne
vincitori".
Sì, era proprio la sua Abby. Sorrise flebilmente,
ringraziandola col pensiero. L'avrebbe sentita.
***
Cathleen bussò piano alla porta della camera da letto di
Merlino, ma fu Alex ad aprirle e a spostarsi per lasciarla entrare.
«Lo stai facendo sul serio?», le chiese col cuore
dilaniato, gli occhi posati sullo zaino che stava preparando per il
viaggio lungo una vita che si preparava a compiere. Aveva fatto una
promessa a Merlino: aveva promesso di proteggerla e di prendersi cura
di lei quando lui non ci sarebbe più stato, ma come avrebbe
potuto se se ne fosse andata?
«Non ho scelta», rispose piano l'infermiera.
«Sì invece, ce l'hai. Non te ne farei mai una
colpa, se decidessi di...».
«È colpa mia se Artù è in
quelle condizioni!», gridò, indicando la stanza
accanto. Il suo volto era diventato paonazzo e gli occhi stanchi e
circondati da ombre violacee erano pieni di lacrime, ma non ne
versò nemmeno una.
Cathleen corrugò la fronte, confusa. «Che cosa
stai dicendo?».
«Il rituale per rendere Abby la custode di Avalon. L'avevo
visto in una visione, ti ricordi? Beh, quando la feci c'era anche
Artù. Mai, mai avrei pensato che potesse non esserci. Mi
sono affidata alla magia e Artù ne ha pagato le
conseguenze».
Alex si sedette sul letto, abbandonando il volto tra le mani. Cathleen
la seguì poco dopo, sotto shock. Rimase in silenzio per un
po', fino a quando non posò una mano sul suo ginocchio.
L'infermiera lo fissò strabuzzando gli occhi.
«Non sono arrabbiata», le disse la rossa,
pacatamente. «E non voglio che tu ti senta in colpa. Se
Artù non avesse fatto ciò che ha fatto, tu e il
tuo bambino sareste morti e a questo punto saremmo nei guai fino al
collo, con gli spiriti e tutto il resto. Sono orgogliosa di
lui».
Alex batté le ciglia e due grosse lacrime le rotolarono
sulle guance, raggiungendo le labbra tremanti. Saggiandone la
sapidità, la bionda si riscosse e si asciugò il
volto. Pur di non incrociare ancora il suo sguardo si alzò e
prese dall'armadio un paio di felpe che cacciò a forza nello
zaino.
«Ad ogni modo non cambierò idea»,
affermò tirando su col naso. «Artù
è un membro della famiglia, proprio come Merlino. E questo
è l'unico modo per averli entrambi».
«Ma a quale prezzo?», le domandò il
paramedico. «Vuoi fare la stessa vita di tua nonna, in giro
per il mondo a rattoppare i danni causati dall'assenza della magia,
sotto la dipendenza di una Dea ricattatrice? Vuoi costringere tuo
figlio a vivere la vita di tua madre, sapendo tutto ciò a
cui ha rinunciato?».
«Mia figlia», la corresse sottovoce, pentendosene
subito dopo. Putroppo però Cathleen aveva sentito e fu solo
per cortesia che le chiese di ripetere.
«È una bambina».
«Come... Come fai a saperlo? È troppo presto
per...».
«Elijah è un Vate, un druido con la Vista. E anche
la Dea me l'ha confermato».
La rossa si alzò e le tolse i vestiti dalle mani per
travolgerla in un abbraccio soffocante.
«Quando lo dirai a Merlino?», le chiese a bassa
voce.
«Forse è meglio che non lo sappia».
Cathleen si scostò per guardarla negli occhi, serissima.
«Stai scherzando, vero?».
«Tu forse non ti rendi conto... Come dovrei
dirglielo?». L'allontanò bruscamente da
sé e chiuse finalmente lo zainetto. «"Merlino mi
dispiace ma devo sacrificarti. E, a proposito, aspetto una
bambina!"».
Si spostò di nuovo verso l'armadio e dal fondo estrasse una
serie di buste. Gliele consegnò senza dire una parola e
Cathleen le scorse velocemente: una lettera di licenziamento, alcuni
messaggi indirizzati ai bambini dell'ospedale e a suo padre e l'ultima,
la più corposa, era per Artù.
«Ho cercato di scrivere il perché delle mie
azioni, ma conoscendolo la getterà nel camino»,
esclamò Alex tristemente. «Avrà tutte
le ragioni di questo mondo per odiarmi».
«No, non è vero», negò
Cathleen.
«Chissà, magari tu riuscirai a convincerlo. Per
sua nipote, più che altro. Vorrei che si conoscessero, un
giorno».
Cathleen la travolse in un altro abbraccio, quella volta stringendole
le braccia intorno al ventre e premendo il viso contro la sua nuca. Era
sull'orlo delle lacrime, ma voleva essere forte per lei.
«Cathleen...».
Alex non riuscì mai a finire la frase. Qualcuno
bussò alla porta ed entrò senza aspettare il
permesso: Merlino.
Le fissò con un sopracciglio inarcato, per poi sbottare:
«Prima la respirazione bocca a bocca, ora questo... Mi state
nascondendo qualcosa?».
L'infermiera stirò un sorriso mentre Cathleen si allontanava
ad occhi bassi, dando solo l'impressione di essere imbarazzata.
«Non è un segreto che Cathleen mi venisse dietro.
Artù è solo il Pendragon di ripiego»,
scherzò Alex, ma nessuno era dell'umore giusto per le
battute.
Infatti lo stregone si incupì e spiegò il motivo
per cui era lì: «Io ed Elijah abbiamo caricato
Artù in auto, possiamo andare quando siete pronte».
«Scendiamo subito», replicò la bionda,
calciando lo zaino sotto il letto e prendendo la mano di Cathleen
perché questa la seguisse fuori dalla stanza.
***
Merlino pensava di essersi salvato, di aver trovato una scappatoia
quando aveva lanciato Excalibur - l'unica arma in grado di ucciderlo -
sul fondo di Avalon. Era una mera illusione, lo sapeva, ma per un
attimo aveva davvero sperato di aver battuto il destino.
Dopo essere stati al Calderone di Arianrhod, nelle cui acque magiche
avevano immerso il corpo di Artù, erano tornati a casa senza
dire nemmeno una parola. L'aria era così carica di tensione
da risultare elettrica, tanto che si erano separati per rimanere coi
propri pensieri: Elijah era tornato a sonnecchiare sul divano, Cathleen
era rimasta al capezzale del solo ed unico re, Merlino si era rifugiato
nel giardino sul retro e Alex... Alex aveva recuperato lo zaino che le
aveva visto nascondere sotto il loro letto ed era uscita, probabilmente
per recarsi ad Avalon, dove avrebbe recuperato Excalibur.
Era quasi l'alba e, secondo ciò che aveva detto
l'infermiera, Artù si sarebbe svegliato quando i primi raggi
del sole gli avrebbero accarezzato il volto. Sembrava una poesia,
tant'era bella quell'immagine, e Merlino sapeva perfettamente che c'era
un'altra strofa prima di quella, molto più dolorosa.
Si alzò dalla panca e lasciò la veranda per
avvicinarsi a quella che un tempo era stata una semplice piantina,
cresciuta intorno al pugnale che Alex aveva conficcato nel terreno
quando aveva dichiarato guerra ai custodi della magia.
Quella piantina era cresciuta in fretta, inglobando dentro di
sé il simbolo di quel giuramento, e nelle ultime ore si era
trasformata in un pino sempreverde alto diversi metri e dalla corteccia
robusta.
Merlino vi posò sopra la mano e chiuse gli occhi, percependo
la magia scorrere insieme alla linfa nelle venature del largo tronco.
Poi sentì la porta scorrevole aprirsi sulla veranda alle sue
spalle ed abbozzò un sorriso malinconico, mentre le lacrime
gli riempivano gli occhi. Non era mai stato così spaventato
della morte prima di allora. In realtà la morte in
sé non lo spaventava; erano le conseguenze sulle persone a
lui care, in particolare su colei che si era presa il compito di porre
fine alla sua vita per spezzare la maledizione che lui stesso,
inconsapevolmente, aveva gettato secoli e secoli prima, a fargli paura.
Lui e Alex non erano diventati nemici, come spesso aveva temuto durante
i suoi sogni premonitori, ma come lui aveva ucciso Morgana per il bene
comune, ora Alex avrebbe ucciso lui. Se lo meritava.
Merlino, sempre tenendo una mano sul tronco del pino, si
voltò in direzione di Avalon e guardò il sole
nascente tingere di rosso le cime degli alberi. Le montagne ancora
innevate sembravano ad un passo di distanza.
«Quindi è giunta l'ora?»,
domandò piano.
Si voltò solo quando sentì l'inconfondibile
rumore metallico che faceva Excalibur quando veniva estratta dal
fodero.
Alex lo stava guardando proprio come nella sua visione: la sua
espressione era determinata, nonostante le lacrime le stessero rigando
il volto.
«Mi dispiace», mormorò con un fil di
voce.
Lo stregone sorrise, scuotendo il capo. «Non devi.
È quello che volevo, ricordi? E poi è solo colpa
mia se siamo qui».
L'infermiera tremava così tanto che dovette abbassare
Excalibur fino a farle toccare il terreno. Coi capelli davanti al
volto, scoppiò in singhiozzi più forti e Merlino
non poté far altro che raggiungerla e stringerla
delicatamente tra le braccia.
«Ti amo, Alexandra Greenwood-Pendragon. Sei così
bella e forte... Mi sento onorato per aver ricevuto il tuo amore e per
essere diventato tuo marito». Le prese il mento tra le dita
per costringerla a guardarla negli occhi e posando la fronte contro la
sua aggiunse: «L'unica cosa che voglio è che la
mia famiglia stia bene. E se devo sacrificarmi per voi, così
sia. Lo farei ancora e ancora, senza pensarci su due volte».
Quindi abbassò una mano per posargliela sul ventre e
sorrise, lasciandole intendere che sapeva. Alex lasciò
cadere del tutto Excalibur e gli gettò le braccia al collo,
riprendendo a piangere contro la sua spalla.
Rimasero stretti in quel modo per tanto tempo, e Merlino avrebbe voluto
rimanere così per sempre. Arrivò però
l'alba e Alex si scostò, tirando rumorosamente su col naso.
Gli posò entrambe le mani sulle orecchie e lo
baciò, per poi sussurrare sulle sue labbra: «Ti
aspetterò».
«Che cosa?».
Alex abbozzò un sorriso, accarezzandogli una guancia.
«Il miglior accordo possibile, ricordi? Avvicinati
all'albero».
Merlino indietreggiò, senza porre ulteriori domande. Credeva
in Alexandra, l'aveva sempre fatto.
Quando sentì la corteccia ruvida contro le spalle, lo
stregone guardò la moglie raccogliere la spada ed avanzare
verso di lui. Non tremava più, ora.
«Enid», esclamò ad un tratto Merlino,
ricordandosene all'improvviso. Alex lo fissò confusa.
«Nostra figlia si chiamerà Enid. Vuol dire
"anima", in gallese».
I capelli biondi turbinarono intorno al volto dell'infermiera a causa
di una folata di vento improvvisa, finendole tra le labbra socchiuse e
sugli occhi. Lei fece per scostarli, ma quell'attimo di distrazione
permise a Merlino di sottrarle Excalibur ed infilzarsi la lama fredda
nella pancia, con tanta forza che la punta si incastrò nel
tronco del pino.
«No», mormorò Alex ad occhi sgranati,
devastata. «No, no, no!».
Merlino invece sorrise, accasciandosi sulla spada su cui ora scorreva
il suo sangue.
Alla fine aveva trovato il coraggio per farlo, il coraggio per salvare
Alex dagli stessi rimorsi che l'avevano perseguitato per tutta la vita.
L'infermiera gli corse incontro e con la schiena squassata dai
singhiozzi estrasse Excalibur dal suo ventre, per poi sostenere il mago
con tutto il corpo.
«Merlino... Merlino, no...».
«Shhh, va tutto bene», esalò, sentendo
un piacevole calore avvolgerlo. Era l'albero, scintillante di magia,
che lo stava inglobando dentro di sé: le sue gambe e le sue
braccia si ricoprirono di radici e corteccia, come una seconda pelle.
«Ti amo, ti amo e un giorno staremo di nuovo insieme.
È una promessa», affermò Alex,
accarezzandogli freneticamente il viso e posandogli una serie di baci a
stampo sulle labbra. Poi si sfilò il ciondolo datole da
Morgana e glielo mise al collo, pregando lo spirito della Sacerdotessa
di tenerlo al sicuro.
Merlino avrebbe voluto dirle qualcosa, ripeterle ancora una volta che
amava lei e la loro bambina non ancora nata, ma non ne ebbe il tempo:
le sue labbra si trasformarono in legno e anche i suoi occhi si
chiusero, facendolo piombare in una piacevole oscurità.
Sentiva ancora il vento tra i capelli grazie ai rami, sentiva ancora il
sangue scorrergli nelle vene grazie alla linfa e sentiva la magia che
lentamente lo abbandonava e ritornava alla terra, all'aria e all'acqua
a cui apparteneva, mentre il suo cuore smetteva di battere.
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Ci vediamo prossimamente per l'epilogo.
Grazie di cuore a chi è arrivato fino a qui. ♥
Vostra,
_Pulse_
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Capitolo 32 *** 32. Epilogue ***
Ed eccoci qua, alla fine di questa storia che ha avuto i suoi alti e
bassi ma che mi rimarrà sempre nel cuore. Non scherzo quando
dico che è una delle più belle che mi siano mai
uscite e ringrazio il dio Apollo e tutte le Muse per l'ispirazione.
Ringrazio la BBC per aver dato vita ad una serie così bella.
Ma soprattutto ringrazio voi, che l'avete seguita nonostante la pausa e
i ritardi. Mi scuso infinitamente per le mie mancanze e spero di aver
scritto un finale dignitoso.
Per chi volesse contattarmi per qualsiasi motivo o seguire i vari
aggiornamenti ricordo la mia pagina
Facebook ;)
A presto!
Vostra,
_Pulse_
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32. Epilogue
Tante cose erano
cambiate, nel corso di quei dieci lunghi anni. Anni difficili, anni in
cui il peso delle sue scelte le era sembrato insostenibile; ma anni
anche ricchi di gioia e significati.
La sua vita era stata stravolta quello stesso giorno di dieci anni
prima, quando aveva ripescato il leggendario re Artù dal
lago di Avalon, eppure se ne avesse avuto la possibilità non
avrebbe fatto nulla di diverso.
«Alex?».
La donna dai corti capelli biondi si voltò verso quella voce
familiare e provò una piacevole stretta al petto nel
realizzare che no, non si era sbagliata. Un ragazzo allampanato sui
venticinque anni, con una zazzera di ricci scuri e un paio di occhi
castani incastonati in un viso un po' spigoloso ma bello, la stava
fissando con un misto di incredulità e divertimento. Fu quel
sorriso sbilenco, infatti, a farle capire che era proprio lui, dedito e
leale come il primo giorno.
«Sì Mark, sono io».
Il ragazzo, conosciuto una vita fa tra i corridoi del reparto di
oncologia infantile, abbassò il mazzo di fiori che aveva tra
le mani e le corse incontro per stringerla in un abbraccio soffocante.
Mettendosi sulle punte dei piedi Alexandra riusciva a malapena a vedere
oltre la sua spalla.
«Sei diventato un gigante», gli disse, sfregandogli
una mano sulla schiena.
«Lo prendo come un complimento».
Si guardarono negli occhi e l'ex-infermiera gli sorrise teneramente.
«Lo è».
Mark ricambiò, ma ben presto l'euforia di averla rivista
dopo così tanto tempo scemò per fare spazio ad un
altro sentimento: la preoccupazione.
«Ma che cosa ti è successo?», gli
chiese. «Perché sei sparita così
all'improvviso?».
«Cathleen non ti ha dato la tua lettera?».
«Sì, l'ha fatto. L'ho letta e riletta centinaia di
volte e non sono mai riuscito a capire. Dove sei stata per tutti questi
anni?».
Alex sospirò e tornò a guardare i raggi del sole
del mattino che brillavano sulla superficie di Avalon: l'isola al
centro del lago non era mai stata così nitida, la sua torre
era tornata allo splendore originale e la magia che percepiva sulla
pelle e nelle ossa, sotto forma di lievi scosse elettriche, era come un
balsamo per la sua anima tormentata. Le sue rinunce non erano state
vane.
«Sei sicuro di volerlo sapere?», gli
domandò alla fine. «Il tuo appuntamento con
Abby...».
Mark sorrise mestamente, abbassando gli occhi sul mazzo di fiori.
«Abby non va da nessuna parte, lo sai».
Alexandra diede un'occhiata alle sue spalle, verso i sedili posteriori
della propria auto, e trovando sua figlia ancora addormentata cedette:
infilò il braccio sotto quello che il ragazzo le aveva
offerto e andarono a sedersi sulla panchina più vicina.
***
«E così è arrivato il grande
giorno».
Artù non si voltò, ma abbozzò un
sorriso quando Cathleen gli avvolse le braccia intorno al torace e
posò il capo contro la sua spalla. Riusciva a vedere il loro
riflesso sul vetro della finestra davanti alla quale era rimasto per
ore, ad osservare il mare e a pensare a quei dieci lunghi anni.
Quant'erano cresciuti e cambiati... insieme.
Se qualcuno gli avesse mai detto che sarebbe andata a finire
così, che avrebbe avuto una seconda possibilità,
una seconda vita, non ci avrebbe mai creduto. Nonostante le
difficoltà, i rimpianti e i dolori che inevitabilmente ogni
tanto tornavano a galla, il tempo trascorso al fianco di Cathleen e
della famiglia che si erano costruiti era stato il più bello
e felice di tutta la sua esistenza.
«Dove sono i bambini?».
«In piscina con le gemelle».
Artù si voltò, senza sciogliere l'abbraccio della
moglie, e posò le mani sui suoi fianchi mentre accostava la
fronte alla sua e le sussurrava dolcemente: «Ti amo, lo
sai?».
«Certo che lo so. E tu lo sai che se c'è qualcosa
che ti preoccupa puoi parlarmene, vero?».
L'ex-sovrano di Camelot abbozzò un sorriso intriso di
malinconia. «Merlino», rispose semplicemente.
Cathleen sospirò e si allontanò per fare qualche
passo in quella che un tempo era stata la biblioteca di suo padre e che
col passare degli anni era stata trasformata in un'aula: decine di
tavoli rotondi erano disseminati per l'ampia stanza e sulle pareti non
occupate dai libri erano appese mappe geografiche, tavole periodiche,
schemi di anatomia e poster che spiegavano la forza degli elementi. Sul
lato nord, come in ogni aula che si rispettasse, c'era una grande
lavagna nera su cui c'era ancora il brainstorming dell'ultima lezione,
scritto nella grafia striminzita e frettolosa di Elijah.
Tra quelle quattro pareti erano cresciuti tantissimi maghi e streghe
provenienti da tutti gli angoli del globo, condotti lì dallo
stesso druido - capace di individuarli con i suoi poteri di Vate -
oppure con una lettera di raccomandazione di Alexandra.
Ogni volta che ci pensava, l'ex-paramedico non poteva fare a meno di
paragonare la Residenza Shaw ad un misto tra Hogwarts e la scuola per
giovani dotati degli X-Men. Lì i ragazzi che dopo il ritorno
della magia si erano scoperti possessori del dono potevano vivere in
pace, in un ambiente protetto, e cosa più importante
imparavano a controllare i loro poteri, così da non esserne
spaventati.
La maggior parte di loro poi tornava a casa e riprendeva in mano la
propria vita, o almeno ci provava, ma c'era anche chi decideva di
rimanere, come avevano fatto Maureen e Doreen, Hanna e il
già citato Elijah, diventato professore e custode della
Residenza.
«E se non dovesse tornare?», aggiunse
Artù. «Se... se la Triplice Dea ci avesse
ingannati, divertendosi alle nostre spalle per tutti questi
anni?».
«No, non può essere», rispose finalmente
Cathleen, stringendo forte i pugni lungo i fianchi.
«Elijah...».
«Elijah ha solo visto che Alexandra sarà
là. Non ha mai predetto nulla sulle sorti di
Merlino».
La rossa si voltò e lo guardò col cuore spezzato:
da quando era tornato indietro dal limbo, risvegliandosi dal coma, e
aveva scoperto del patto stretto tra la Triplice Dea e Alex, non era
più stato lo stesso nei confronti dell'infermiera; era come
se il legame che avevano sempre avuto si fosse spezzato. Da allora
raramente aveva pronunciato il suo nome e nonostante Cath avesse
provato più e più volte a farlo ragionare, a
spiegargli che non aveva avuto alternative, Artù non aveva
mai cambiato atteggiamento.
Cathleen incrociò le braccia al petto, più per
confortarsi che come atteggiamento di chiusura, ed esclamò:
«Suppongo che tu non verrai, allora».
«Che cosa?».
«Se ce l'hai tanto a morte con Alex perché ha
cercato di salvarvi entrambi, allora non venire. Lei soffre
già abbastanza, non ha bisogno che tu la faccia sentire
peggio».
Artù ricambiò il suo sguardo con una nuova
determinazione, i pugni tanto stretti lungo i fianchi da farsi
sbiancare le nocche.
«Pensi che per me non sia stato doloroso far finta che non
esistesse?», gridò. «Sono stato
arrabbiato con lei per un paio di giorni, per ciò che aveva
fatto. Ma allontanarsi, andarsene lasciandomi una semplice lettera...
è questo che mi ha fatto più male. E lo so che
non poteva fare altrimenti, ma avrei preferito che mi affrontasse, che
mi dicesse addio».
«Addio? Era proprio quello che Alex sperava di non dover
fare! Noi ci siamo sempre tenute in contatto, e lo sai! Le cartoline
che mi ha inviato da ogni parte del mondo, le foto sue e di Enid... ho
provato a fartele vedere centinaia di volte, ma non hai mai voluto! E
anche quando riusciva a chiamarmi non hai mai voluto
parlarle!».
Ormai la rabbia la scuoteva come una foglia autunnale, pronta a
staccarsi dal suo ramo, ma il sorriso umido di lacrime di
Artù la colpì come un pugno dritto nello stomaco,
così forte e così inaspettato che fu costretta a
sedersi.
«Le ho viste tutte, Cathleen», confessò
con voce pacata. «Mentre dormivi, o ti occupavi dei bambini.
Le ho guardate e riguardate. E le ho anche parlato, una volta. Il
giorno del suo compleanno, nove anni fa».
Cathleen era talmente scioccata da non riuscire ad articolare una frase
di senso compiuto. Perché si era comportato in quel modo?
Perché fingere che Alex fosse morta, quando in
realtà...? All'improvviso le tornò alla mente suo
padre, il quale per venire a patti col dolore della sua assenza aveva
preferito raccontarsi la stessa bugia. Possibile che anche
Artù...?
Il marito le si avvicinò e prese una delle sedie intorno al
tavolo per sedercisi a cavalcioni, le braccia incrociate sullo
schienale e gli occhi fissi nei suoi.
«Ti sei mai chiesta perché ti chiamasse
così di rado?», le domandò gentilmente.
«Io... Pensavo fosse per via dei suoi spostamenti, o del suo
piano telefonico...».
Artù apprezzò la sua battuta con un altro
sorriso. «La verità è che sentire la
tua voce le ha sempre ricordato ciò che ha fatto, la vita a
cui ha rinunciato e quella che è stata costretta a fare per
colpa della magia. Se si è sforzata di portare avanti quelle
conversazioni è stato solo per te, perché sapeva
che tu ne avevi bisogno».
La verità le fece contrarre lo stomaco e Cathleen dovette
sforzarsi per non rimettere la colazione. Il solo ed unico re le
posò una mano sulla schiena e la invitò a posare
il capo sulla sua spalla.
«In quell'unica telefonata, nove anni fa, le ho detto che non
la odiavo per quello che aveva fatto e che, se mai avesse avuto bisogno
di me, io ci sarei stato», concluse Artù.
«Dopodiché abbiamo giurato di non sentirci
più, per non farci altro male».
Cathleen non aveva mai capito nulla, per questo si ritrovò a
singhiozzare senza ritegno, le mani strette sulle sue spalle.
Artù non disse niente, la consolò e basta,
baciandole i capelli.
Alla fine fu Elijah ad interromperli, bussando alla porta e sporgendosi
all'interno della biblioteca con metà del corpo. Indossava
un completo grigio elegante - pantaloni con la piega, camicia bianca e
panciotto - e i lunghi capelli color biondo slavato erano raccolti in
una coda sulla nuca. La barba ben curata, della stessa
tonalità dei capelli, lo faceva sembrare più
vecchio e saggio di ciò che era; bastava però
guardarlo negli occhi, vitali e sorridenti anche quando era serissimo,
per rendersi conto della sua vera età.
«È ora di andare», esclamò.
Artù lo ringraziò con un cenno del capo.
«Arriviamo».
Il druido socchiuse di nuovo la porta e quando si fu allontanato
Artù si alzò in piedi per prendere le mani della
moglie ed aiutarla a fare lo stesso.
Cathleen gli portò le mani sul viso, accarezzandogli le
guance ispide per via della barba che si era lasciato crescere negli
ultimi giorni, e raccogliendo la voce mormorò: «Mi
dispiace tanto. Ho sempre pensato di aver fallito...».
Artù le spazzò via le lacrime e le
posò un bacio sulla fronte. «Mai, amore
mio».
Trovarono Elijah vicino all'ingresso principale, accanto a Freddie,
l'immortale domestico a servizio della famiglia Shaw, a cui stava
dicendo che aveva affidato la sicurezza della Residenza ad Hanna.
Era vero che la vasta proprietà della famiglia di Cathleen
era abbastanza isolata - da una parte c'erano ettari di bosco,
dall'altro una scogliera a picco sul mare - ma non potevano rischiare
che qualcuno scoprisse la vera natura dei ragazzi molto speciali che le
numerose stanze ospitavano. Per questo in concomitanza con le mura e i
confini naturali era stata innalzata una barriera con le stesse
proprietà di un glamour,
in grado cioè di illudere ed allontanare chiunque non
possedesse i requisiti necessari a vedere la realtà. Inoltre
il ritorno della magia nel mondo non aveva solo risvegliato i poteri
dormienti dei maghi e delle streghe, ma anche tutta una serie di
creature date per estinte che avrebbero potuto creare il panico nel
mondo degli esseri umani. Non a caso avevano costruito, vicino al
bosco, una grande dépandance in cui nel corso degli ultimi
anni avevano ospitato un esemplare di grifone, un paio di goblin e
delle pixie.
Esseri magici e oggetti ritenuti tali erano la specialità di
Jake, il primo e più convinto soldato di Freya, il quale poi
aveva deciso di dedicare la propria vita allo studio e, dopo solo un
paio di anni dalla seconda battaglia di Camlann, si era presentato alla
loro porta con tantissime storie da raccontare. Da quel momento, ogni
sei mesi o giù di lì, tornava alla Residenza per
riposarsi e condividere le sue scoperte. Non era una sorpresa che le
sue "lezioni" fossero le più seguite dai giovani maghi.
Freddie doveva essere stato fermato mentre portava un paio di cocktail
ai signori Shaw, sotto il gazebo di ferro in giardino.
Non era stato facile introdurre Trisha e Roger, soprattutto, nel mondo
magico, ma tutto il via vai di ragazzi aveva ridato vita a quella
vecchia casa e incredibilmente aveva giovato anche all'agorafobia di
suo padre, il quale ormai riusciva ad avvicinarsi persino al cancello
d'ingresso senza avere attacchi di panico.
Il vassoio d'argento in mano al maggiordomo rischiò di
rovesciarsi sul pavimento al passaggio irruento di uno dei ragazzi
più piccoli, il quale aveva appena imparato l'arte
dell'animazione e si divertiva un mondo a dare vita agli oggetti
più improbabili, poggiapiedi imbottiti inclusi.
Cathleen chiuse gli occhi, prevedendo il disastro, ma non udendo il
rumore di vetri infranti li riaprì giusto in tempo per
vedere un Elijah con le iridi dorate che con un movimento fluido della
mano faceva tornare nei bicchieri il liquido arancione, il ghiaccio e
le rispettive cannucce.
Non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di fronte alla magia.
Poi il druido alzò gli occhi verso di loro e la sua bocca si
piegò in un sorriso. «Possiamo andare?».
Senza aspettare una vera risposta aprì la porta d'ingresso e
scese i gradini fino a fare il giro della jeep che aveva già
tirato fuori dal garage per portarsi avanti. Una voce alle sue spalle
però lo fermò prima che potesse mettersi al
volante.
«Ehi, dove pensavi di andare senza salutarmi?»,
esclamò il ragazzo davanti alla porta.
Ash, il fratello adottivo di Cathleen, si passò una mano tra
i capelli neri, lucenti e scompigliati dal vento, e sorridendo in
direzione di Elijah scese i gradini.
«Quando sei tornato?», domandò il
druido, confuso.
Ash, il quale era stato tanto colpito dall'improvvisa morte di Zachary
da aver iniziato a pensare che non valesse la pena di cercare il
proprio posto nel mondo, sembrava che alla fine lo avesse davvero
trovato: da un giorno all'altro aveva informato la famiglia che si
sarebbe iscritto al Britannia Royal Naval College per diventare un
soldato della Marina Militare Inglese e non aveva dato troppe
spiegazioni in merito. Al momento era un ufficiale assegnato ad una
delle portaerei della flotta di superficie e sembrava soddisfatto della
sua vita, felice. E questo era tutto ciò che importava.
«Questa notte, ma non ho voluto svegliarti», gli
chiese divertito, posando le mani sul suo panciotto. «Sono
riuscito a sorprenderti?».
«Sì, direi di sì».
Ash alzò gli occhi in quelli verdi di Elijah e
corrugò la fronte, scostandosi un poco. «Che
accoglienza! Se vuoi che ritorni in mare basta che tu me lo dica
e...».
Il druido lo interruppe prendendolo per la nuca e posando le labbra
sulle sue, in un bacio dapprima casto che ben presto si
trasformò in qualcosa di più urgente e
passionale. Erano mesi, dopotutto, che non si sfioravano.
Artù distolse lo sguardo, imbarazzato, e aprì la
portiera per far salire Cathleen, poi si accomodò sul sedile
del passeggero e diede un colpetto al clacson. Né Ash
né Elijah parvero sentirlo, esplorandosi a vicenda con mani
impazienti, tanto da chiedersi quante braccia avessero.
Alla fine fu Cathleen a sporgersi e ad attaccarsi al clacson, gridando:
«Mi dispiace piccioncini, ma dobbiamo andare!».
A quel punto Elijah non poté più ignorarli e si
scostò dolcemente dal fidanzato per sussurrargli qualcosa
all'orecchio. Dal sorriso malizioso di Ash e dalla pacca che gli diede
sul sedere quando si voltò, Artù e Cathleen non
ebbero difficoltà ad immaginare ciò che avevano
in programma per la serata.
Elijah si sedette dietro il volante e sospirando mise in moto,
dopodiché guidò la jeep fuori dalla residenza
Shaw, in direzione della vecchia casa di Merlino.
***
«Mamma, chi era il ragazzo con cui stavi parlando
prima?».
Alex guardò la figlia con la coda dell'occhio: si era
spostata sul sedile del passeggero e stava mangiando un pacchetto di
biscotti con le gocce di cioccolato, anche se la maggior parte finivano
in briciole sul fazzoletto rosso che portava legato al collo e sulle
sue gambe.
«Pensavo dormissi».
La bambina le rivolse un sorriso malandrino che era tale e quale a
quello che aveva lei alla sua età - parole di suo padre.
Nonno Greenwood... sarebbero dovute andare a trovare anche lui, una
volta portata a termine quella faccenda.
Alex strinse forte le dita intorno al volante, infastidita dal suo
stesso comportamento. Da quando aveva smesso di sperare? Sia lei che
Enid - così piccola eppure molto più potente di
lei - avevano avuto lo stesso sogno premonitore riguardo al risveglio
di Merlino, ma non riusciva a crederci. O meglio, non voleva crederci
per non soffrire nel caso in cui...
«Mamma?».
Alex si riscosse e senza distogliere lo sguardo dalla strada
allungò una mano per scompigliarle la frangetta di capelli
neri che spesso e volentieri le copriva gli occhi azzurri come il
cielo, gli stessi occhi di suo padre.
«Si chiama Mark, è un ragazzo che ho conosciuto
quando lavoravo in ospedale», rispose.
Enid si scostò infastidita e si portò alla bocca
la cannuccia del succo di frutta che teneva tra le ginocchia. Bevve
avidamente fino a finirlo e Alex non la rimproverò quando si
sentì il risucchio delle ultime gocce.
«Era un tuo paziente, vero?», le chiese poi,
appiattendo il cartone del succo.
«Sì, esatto. Ma come fai a...?».
«La sua aura era di un colore strano, come quello delle
persone che hanno subìto dei trattamenti medici invasivi. Ti
conosce ed è giovane, perciò ho ipotizzato che
fosse stata la chemioterapia a renderla di quel colore».
Nove anni ancora da compiere, era questa l'età di sua
figlia. Tutti però, sua madre compresa, non se ne
capacitavano: la sua intelligenza era fuori dal comune e nonostante ne
andasse orgogliosa, in certi momenti ne aveva anche paura. Quanto era
dovuto dai geni e quanto dalla magia? E come sarebbe diventata da
grande a causa del suo quoziente intellettivo superiore alla media?
«Ottima deduzione», esclamò Alex,
dimostrandosi orgogliosa di lei.
La bambina ricambiò il sorriso e spostò lo
sguardo fuori dal finestrino. Rimase in silenzio per un po' e la madre
avrebbe pagato oro per sapere che cosa le stesse passando per la testa
in quel momento. Si stavano dirigendo verso il luogo di cui aveva tanto
sentito parlare, il luogo in cui suo padre si era sacrificato per il
bene del mondo intero. La visione che avevano avuto aveva mostrato loro
solo che si sarebbero ritrovate davanti a quell'albero, in compagnia
anche di Artù, Cathleen ed Elijah, ma non che cosa sarebbe
effettivamente successo. Possibile che il futuro di Merlino non fosse
stato ancora deciso?
Spostò la mano dal cambio e la posò sul ginocchio
della bambina, stringendolo con delicatezza.
«Qualsiasi cosa accada, voglio che tu sappia che
io...».
«Lo so, mamma», la interruppe Enid, posando una
manina sulla sua. «Ti voglio bene anche io».
Alex sorrise commossa e sospirò, tornando a concentrarsi
interamente sulla strada davanti a loro. Non poteva fare di
più.
Alex fermò l'auto sulla strada sterrata davanti all'ingresso
della villetta e Enid aprì la portiera del passeggero ancor
prima che la polvere potesse essere spazzata via dal vento primaverile.
Fece il giro del veicolo sgangherato e si fermò di fronte al
vialetto nascosto dalle erbacce di quella grande casa sporca di
graffiti, con le imposte sverniciate se non addirittura scardinate e
persino un grande buco tra le tegole della torre di destra.
«Tu e papà vivevate qui?»,
domandò con semplicità, continuando ad osservare
quel piccolo castello col naso all'insù e la bocca dischiusa
per lo stupore.
«Sì, tesoro», rispose piano,
ripercorrendo i ricordi legati a quelle mura ed avvertendo degli spilli
pungolarle il cuore.
Era passato davvero tanto tempo, non poteva pretendere che tutto
rimanesse come se lo ricordava.
«Che cosa facciamo adesso?», chiese ancora la
bambina, voltandosi per guardare la madre.
Alex le accarezzò il volto da folletto, le orecchie un po' a
sventola e poi le tirò indietro la frangetta nera.
«Zio Artù e zia Cathleen saranno qui presto,
perciò...».
«Vado in esplorazione!», esclamò prima
di allontanarle le mani e correre verso la casa abbandonata.
«Enid!», gridò la madre, per poi
scuotere il capo con un sorriso sulle labbra e le mani sui fianchi. "Stai attenta, okay?",
le disse col pensiero.
"Sono la figlia del mago
più potente che questa Terra abbia mai visto, posso
cavarmela", rispose la bambina.
Alex la guardò sparire sul retro della villetta e solo
allora si lasciò sfuggire un sospiro tremante, permettendo
persino alle lacrime di accarezzarle le ciglia. Non ne versò
nemmeno una, consapevole che se si fosse abbandonata al pianto non si
sarebbe fermata presto. Quindi si fece forza, come d'altronde aveva
fatto negli ultimi dieci anni, e percorse il vialetto per raggiungere
la porta d'ingresso. Ripescò le chiavi dalla borsa, ma non
ce ne fu bisogno: la serratura era stata fatta saltare via e i cardini
cigolarono quando Alex posò la mano sul legno per sbirciare
all'interno.
Artù e Cathleen non avevano potuto vendere la casa, credendo
fortemente che un giorno Merlino sarebbe tornato, ma le loro visite col
passare degli anni dovevano essere diminuite fino a terminare del
tutto. Per questo la casa era stata vandalizzata in quel modo da
ragazzini di passaggio, usata come rifugio dai vagabondi e come tana
dai gatti selvatici. C'era un odore tremendo - un misto di muffa,
polvere e urina - e Alex si costrinse a raggiungere i bovindi per
aprire le finestre e lasciar entrare dell'aria fresca.
Alla luce del sole del mattino, la visione del salotto fu ancora
più desolante: era stato portato via tutto, fatta eccezione
per il divano e le poltrone, una volta ricoperti dal cellophane e ora
macchiati, graffiati e con le molle che spuntavano dai cuscini insieme
alle imbottiture rigurgitate. Sul pavimento sporco c'erano stracci,
immondizia e candele sciolte.
Alex procedette verso la cucina e trovò anch'essa in
condizioni rivoltanti, perciò non si soffermò ed
aprì la porta finestra che conduceva alla veranda del
giardino sul retro. Rimase senza parole quando lo trovò
esattamente come se lo ricordava. Si guardò alle spalle,
chiedendosi se non fosse tutto un sogno o se magari fosse passata
dentro un varco temporale - non si sarebbe sorpresa - ma era tutto
vero: quel luogo era rimasto immutato; nessuno aveva osato profanarne
la sacralità, protetto proprio come il lago di Avalon, dalla
magia oppure da...
Alex mise i piedi nell'erba - curata come quella di un giardino reale -
e sorrise in direzione dell'albero. «Grazie per averlo
protetto, Morgana».
Per un attimo, uno solo, l'ex-infermiera scorse la Sacerdotessa seduta
tra le radici del pino, col capo posato contro il possente tronco, gli
occhi chiusi e un sorriso sereno tra le labbra.
***
«Eccoci qua», esclamò Elijah fermando la
jeep dietro una monovolume sporca e con diverse ammaccature qua e
là.
«Sono già qui», disse invece
Artù, indeciso se esserne contento o spaventato. Rivedere
Alex dopo tutti quegli anni non sarebbe stato facile e anche se ormai
non aveva più nulla da temere, si chiese come avrebbe
reagito il suo cuore.
I tre scesero dal mezzo e Cathleen si mise subito in testa al loro
piccolo gruppo: attraversò il vialetto invaso d'erbacce,
sentendosi in colpa per non essere più riuscita a curare
quella casa come un tempo, e raggiunse la porta, trovandola aperta.
Non indugiò molto nel salotto, preferendo andare dritta alla
meta: il giardino sul retro. Anche la portafinestra che dava sulla
veranda era aperta e le bastò avvicinarsi alla soglia per
scorgere la figura di Alex in piedi a pochi metri dal maestoso albero
in cui riposava Merlino.
Aprì la bocca per chiamarla, ma non un suono le
uscì dalla gola. Il cuore le batteva nei timpani e dei
brividi le correvano su per le braccia, nonostante il sole primaverile
donasse un piacevole tepore.
I sentimenti provati dieci anni prima, in particolare i sensi di colpa
per come fossero andate le cose, le avevano tolto la voce e la
sicurezza. Quel giorno avrebbe dovuto essere una festa in cui la sua
famiglia sarebbe tornata al completo, eppure non riusciva a scrollarsi
di dosso il peso della terribile scelta che Alex era stata costretta a
prendere anche per colpa sua e del suo egoismo.
Artù le strinse forte la mano destra, trovandola fredda e
tremante, e si chinò su di lei per posarle la labbra tra i
capelli e sussurrare: «Nulla di ciò che
è successo è colpa tua».
Provò a convincersene, come faceva da ormai dieci anni nelle
notti in cui proprio non riusciva ad addormentarsi, ma una lacrime le
cadde comunque sulla guancia. Nello stesso momento Alex si
voltò ed incrociò il suo sguardo.
Cathleen trattenne il respiro e si aggrappò anche con
l'altra mano al braccio di Artù, sentendo le gambe cederle.
L'ex-infermiera però le sorrise dolcemente mentre si portava
dietro l'orecchio una ciocca dei corti capelli biondi che una folata di
vento le aveva scompigliato. Quindi si diresse verso di loro ed Elijah
le andò incontro, scendendo i tre gradini che portavano al
giardino.
«È bello porterti finalmente
abbracciare», esclamò il druido, circondandola con
le lunghe braccia.
Alex sorrise contro la sua spalla e gli diede delle pacche sulla
schiena. «L'abbiamo fatto molte volte nel mondo
onirico».
«Lo sai che non è lo stesso».
«Sì, lo so», sospirò
lasciandosi cullare.
Quando la lasciò andare, Elijah si spostò per
lasciare il giusto spazio ad Artù e Cathleen. Alex
respirò profondamente e con i pugni stretti nervosamente
lungo i fianchi salì quei pochi gradini che li separavano,
poi si piegò su un ginocchio per un inchino reverenziale.
Artù la fissò per diversi secondi, cercando di
risultare impassibile. Presto però le forze gli vennero meno
e cadde in ginocchio a sua volta, le braccia strette intorno alla
schiena della sua discendente.
Alex, sconvolta, rimase a bocca aperta fino a quando non
sentì il sapore salato delle lacrime. Solo allora
ricambiò la stretta, stringendo i pugni tra le sue scapole e
singhiozzando contro la sua spalla.
Di fronte a quella scena anche Cathleen crollò a terra e si
unì all'abbraccio, baciando i capelli dei Pendragon senza
dire una parola. Non ce n'era bisogno.
Ci volle un po' prima che si ricomponessero.
Una volta asciugate le lacrime si avvicinarono insieme al grande pino e
rimasero coi volti alzati a guardare le fronde sussurrare nel vento.
All'interno del tronco, cresciuto tanto che nemmeno se si fossero messi
in cerchio tenendosi per mano sarebbero riusciti a circondarlo del
tutto, c'erano il corpo e l'anima di Merlino.
Il mago più famoso e potente del mondo si era sacrificato
per ridistribuire nel mondo tutta la magia in suo possesso, diventando
una specie di batteria d'emergenza, a seguito del patto che l'ultima
discendente della dinastia Pendragon aveva stretto con la Triplice Dea,
la quale le aveva promesso che un giorno sarebbe tornato in vita. I
sogni che sia Alex che Elijah avevano avuto nelle ultime settimane
sembravano profetizzare finalmente il suo ritorno, ma nessuno aveva
idea di come sarebbe successo. Era la clausola nascosta nel contratto a
cui Alex, a corto di tempo ed alternative, non aveva prestato
attenzione.
«Allora, Elijah?».
Il veggente scosse il capo mentre staccava la mano dal tronco e faceva
qualche passo indietro. «Non vedo nulla».
«Che cosa facciamo adesso?», chiese Cathleen, gli
angoli degli occhi ancora arrossati per il pianto.
«Aspettiamo», rispose Alex, sedendosi sul prato.
Artù la guardò attentamente, realizzando che era
cambiata ben poco in quei dieci anni. I suoi capelli erano ancora
biondi e lucenti, anche se più corti; il suo viso,
nonostante fosse maturato, era rimasto bello e giovanile. Forse solo il
suo sguardo, quegli incredibili occhi verdi che avevano fatto
innamorare Merlino, si era un po' incupito, succube della tristezza.
All'improvviso si rese conto dell'assenza di una persona che aspettava
di incontrare da ben nove anni.
«Dov'è Enid?», le chiese senza giri di
parole.
Cathleen trasalì. «Caspita, mi ero completamente
scordata di lei!».
Alex sorrise e il suo volto si illuminò, occhi compresi.
Artù sospirò sollevato nel constatare che
l'oscurità che vi aveva notato non fosse permanente.
«Ha detto che sarebbe andata in esplorazione qui nei
dintorni».
«Che cosa? E tu l'hai lasciata andare? Da sola?».
Alex scrollò le spalle, quasi divertita dalla reazione di
Cathleen. «Capisco la tua preoccupazione. Anche io, che sono
sua madre e so di cosa è capace, sono sempre in pensiero per
lei quando la vedo allontanarsi. La verità però
è che Enid è una bambina in cui convivono la
forza dei Pendragon e la magia di Merlino; è forse l'essere
più potente che questo mondo abbia mai visto».
Alex guardò in direzione di Avalon, seguendo il corso del
ruscello, e concluse: «Non le succederà nulla di
male».
***
La magia in quella foresta era forte, tanto forte che poteva sentirla
scorrere nel terreno, tra le fronde degli alberi e nel vento che le
avrebbe scompigliato i capelli se non li avesse legati in un codino
sulla nuca. Ovviamente la chiamava, attirandola e spingendola nelle sue
profondità.
Enid aveva il cuore che le batteva veloce nel petto, ma non era
spaventata. Lei stessa era parte di quella magia, perché
avrebbe dovuto temerla?
Aveva camminato a lungo e quando finalmente sentì di essere
arrivata a destinazione realizzò che il sole stava quasi per
tramontare. Sua madre le avrebbe fatto una bella ramanzina, nonostante
non si fosse persa un bel niente. Sarebbe stata infatti la prima ad
avvertirlo se suo padre fosse tornato.
Si avvicinò ad una parete rocciosa coperta di piante
rampicanti, le strappò ed osservò la pesante
porta in ferro battuto, arrugginita dal tempo e dalle intemperie.
Bisognava risolvere una specie di puzzle ad incastri per aprirla, ma
Enid non aveva tempo da perdere e decise di usare una scorciatoia: vi
posò sopra il palmo e i suoi occhi si illuminarono d'oro
mentre la magia faceva per lei tutto il lavoro.
La porta si aprì cigolando ed Enid sbirciò
all'interno, ma il buio era totale. Cercò quindi tra i rami
spezzati un bastone abbastanza spesso per farne una torcia e
sussurrò: « Leohtbora».
L'estremità si incendiò all'istante e la bambina
si decise ad entrare nella grotta, scoprendo che c'era una seconda
porta, questa volta nel terreno, come una specie di tombino. La
sollevò con un altro incantesimo e scese nelle
profondità della caverna.
Non aveva mai visto nulla di così bello in vita sua e rimase
per diversi secondi a bocca aperta a guardare la miriade di cristalli
che riflettevano la luce della sua torcia e al contempo emettevano un
freddo bagliore azzurro. Era semplicemente incantevole e sentiva la
magia sfrigolarle nella punta delle dita.
«C'è nessuno?», si azzardò a
chiedere ad un tratto, ricordando le parole di sua madre: bisognava
sempre annunciarsi prima di entrare nella casa di qualcuno.
Perché sì, lì ci abitava qualcuno,
un'entità molto antica e allo stesso tempo nuova. Enid non
aveva mai avvertito un'aura del genere, in nessuno delle centinaia di
paesi che aveva visitato.
Non ottenendo alcuna risposta, Enid scese i gradini di pietra che la
condussero in uno spiazzo in cui qualcuno, diversi anni prima, aveva
cercato di costruirsi un rifugio. Passò oltre, chiamata da
quella forza misteriosa.
Raggiunse l'entrata di una grotta secondaria, piccola eppure
altrettanto sconvolgente. I cristalli sul soffitto brillavano ancora
più intensamente e sarebbe stato uno spettacolo unico
vederli riflessi sull'acqua che un tempo doveva aver riempito la falda
al centro della caverna.
Enid si avvicinò alla roccia vicino al bordo del cratere e
sfiorò con le dita la fessura annerita dove suo padre e zio
Artù avevano incastonato Excalibur. Non molto tempo dopo era
stata sua madre ad estrarla, dimostrandosi una degna Pendragon, e
insieme l'avevano usata per combattere contro Freya. Conosceva quella
storia a memoria, tante erano state le volte in cui aveva chiesto a sua
madre di raccontargliela. Certo, lei aveva fatto di più
sbirciando nella sua mentre per avere delle immagini in accompagnamento
alle parole, ma questo Alex non lo sapeva.
Enid si inginocchiò sulla roccia e guardò
giù nella falda, trovando finalmente ciò che
irradiava quel potere e l'aveva chiamata a sé. Sorrise a
trentadue denti e con cautela iniziò a scendere nella
fossa.
***
Il sole era ormai scomparso dietro le montagne, ma il cielo del
tramonto aveva ancora quella sfumatura rossastra che rendeva
più romantica ogni cosa.
«Tieni», disse Artù, porgendole un
piatto con sopra una tazza di té e un tramezzino.
«Elijah è riuscito a prendere solo questo in un
alimentari che stava per chiudere. Non è molto, ma
è meglio di niente».
«Grazie». Alex lo accettò con entrambe
le mani e lo posò alla sua sinistra sulla panca, mentre
Artù prese posto alla sua destra.
Si era avvolta una coperta intorno alle spalle, come una specie di
mantello, ed era rimasta seduta in veranda per tutto il pomeriggio, lo
sguardo rivolto verso il pino. L'ex-re la osservò, pensando
a quanto fosse simile all'Alexandra della vigilia della battaglia
contro Freya, e solo quando vide la sua bocca muoversi
ritornò alla realtà.
«Cos'hai detto?».
Alex abbozzò un sorriso, bevendo un sorso di té.
«Ho detto che mi dispiace che mia figlia ti stia facendo
aspettare».
La preoccupazione tornò a gravare sulle spalle di
Artù come se si trattasse di uno dei suoi figli.
«Non credi sia il caso di chiamarla per sapere se sta
bene?».
«Non ha un cellulare. O meglio, ce l'ha, ma non lo usa mai.
L'ha lasciato in auto».
In quell'epoca in cui la tecnologia era diventata ormai essenziale per
gli uomini, sapere che c'erano ancora bambini che non possedevano un
cellulare era da non crederci. La sua primogenita l'aveva voluto che
aveva appena quattro anni.
«Stai pensando che sia strana, vero?», disse Alex,
appoggiando il mento alle braccia incrociate sulle ginocchia.
«Il fatto è che non ne ha proprio bisogno. Se le
succedesse qualcosa, potrebbe semplicemente chiamarmi col pensiero.
Quando aveva cinque anni è uscita dalla stanza d'albergo in
cui le avevo detto di rimanere, ha sbagliato a prendere la
metropolitana ed è finita dall'altra parte di Londra.
Ciò nonostante siamo riuscite a comunicare e ho potuto
raggiungerla».
«Incredibile».
«Già. A volte però... mi spaventa, lo
sai? Ho paura che diventi troppo potente, che la magia la
cambi».
Artù le posò una mano sulla spalla, attirando il
suo sguardo. Sorrise, esclamando: «Non succederà.
È la figlia di Merlino dopotutto».
A quelle parole Alex ritrovò il sorriso, ma durò
poco. La terra tremò sotto i loro piedi e la tazza che aveva
lasciato sul bordo della panca cadde a terra, infrangendosi sulla
veranda.
Cathleen e Elijah li raggiunsero non appena la scossa si
arrestò.
«Che cosa diavolo è stato?», chiese la
rossa, una mano posata sul petto.
«Credo che sia giunta l'ora», disse Elijah con voce
pacata. «Guardate».
Alex si alzò lentamente in piedi, gli occhi fissi sul
bagliore dorato che dal lago di Avalon attraversò il
ruscello e penetrò nelle radici dell'albero, infondendo nel
tronco, nei rami e in ogni singola foglia una quantità tale
di magia da farlo brillare contro il cielo di una tonalità
sempre più vicina al violetto.
Lentamente la corteccia del pino iniziò a fumare e Alex
lasciò cadere la coperta per corrervi vicino, seguita da
Artù, Cathleen ed Elijah.
Il legno si spaccò piano, assottigliandosi sempre di
più, e l'attesa fu snervante. Quando però un
grosso pezzo rivelò parte del volto di Merlino, rimasto
immutato in quei dieci anni, Alex non riuscì più
a resistere ed iniziò a strappare il resto a mani nude
nonostante il calore fosse tale da ustionarle i palmi.
Anche Artù, dopo un attimo di esitazione, l'aiutò
ed insieme estrassero il mago dal tronco dell'albero per adagiarlo
sull'erba fresca.
«Merlino. Amore mio, svegliati. Merlino», lo
chiamò più e più volte la donna,
accarezzandogli il volto e i capelli mentre le lacrime le scorrevano
inarrestabili sulle guance. Le sembrava di sognare e aveva il terrore
di risvegliarsi.
Strinse forte la sua mano e baciò la fede che aveva ancora
al dito, pregando come non aveva mai fatto. Aprì gli occhi
solo per guardare Elijah che si chinava al suo fianco e posava una mano
sul petto dello stregone. Una calda luce bianca fuoriuscì
dal suo palmo e Merlino aprì di colpo gli occhi, tirandosi
su a sedere con così tanta foga che avrebbe dato una testata
ad Alex se lei non avesse avuto i riflessi pronti.
«Merlino... Merlino, sei tornato. È tutto
vero», singhiozzò e lo abbracciò,
stringendolo forte a sé.
«Che cosa...? Dove mi trovo? E dov'è la regina?
Io...».
Il mago allontanò Alexandra e si esaminò il
ventre, trovandolo attraversato da un reticolo di cicatrici.
Artù, rimasto alle spalle del mago per dare il giusto spazio
a sua moglie, sentì il cuore stringersi non solo per quelle
parole e il loro significato ma anche e soprattutto per l'espressione
disperata sul volto di Alex.
Aveva atteso per dieci anni quel momento, dieci lunghi anni per potersi
ricongiungere con l'amore della sua vita e lui... lui aveva dimenticato
tutto?
Respirò profondamente per farsi coraggio e decise di
intervenire per appurare quella teoria.
«Merlino», lo chiamò con tono di voce
estremamente serio.
Vide la schiena dello stregone irrigidirsi e poi il suo capo voltarsi
lentamente, come se temesse di vedere un fantasma. Quando i loro
sguardi si incrociarono però il corvino si alzò
frettolosamente e lo strinse, si aggrappò a lui come se
fosse uno scoglio in mare aperto e piangendo scivolò in
ginocchio, il volto nascosto nel suo maglione.
«Artù... Artù, siete tornato! Io... Mi
dispiace, non so cosa sia successo... Ero a Camelot, Ginevra
è stata... Non sono riuscito a... Ma non c'è
tempo da perdere, vostro figlio... Avete un erede, un maschio, proprio
così! Si chiama Graalmir! A quest'ora sarà
sicuramente nel regno della regina Mithian con Percival, dobbiamo
sbrigarci!».
«Papà, smettila!».
Tutti quanti si voltarono verso quella voce sottile ma potente,
incrociando lo sguardo fiero ed addolorato di Enid. Aveva il fiatone,
il volto arrossato e sporco di terra come del resto i suoi vestiti -
maglietta azzurra e salopette di jeans - e le ginocchia sbucciate. Era
bellissima.
Nessuno osò dire una parola mentre posava a terra il grosso
uovo che aveva tra le braccia ed avanzava in direzione di Merlino. Lo
stesso stregone rimase a fissarla a bocca spalancata, confuso ed
incredulo. L'aveva appena chiamato "papà"?
Enid si chinò perché i loro volti fossero a pochi
centimetri di distanza, dopodiché lo colpì in
fronte con un dito sussurrando un incantesimo che lo fece crollare
addormentato all'istante. Poi, come se nulla fosse, corse da sua madre
per gettarle le braccia al collo.
«Mamma! Mi dispiace di essere arrivata tardi, mi
dispiace».
«Tu lo sapevi?», le domandò Elijah, le
braccia incrociate al petto.
La bambina si girò a guardarlo senza smettere di accarezzare
i capelli di Alex. Chi fosse la madre e chi la figlia, in quella
situazione, era difficile dirlo.
«Tu devi essere il Vate. Molto piacere. No, non lo sapevo, ma
quando è iniziata ho sentito che c'era qualcosa di diverso
nel mio papà».
«Assolutamente», fu d'accordo il druido,
inginocchiandosi nuovamente.
«Volete rendere partecipi anche noi?»,
domandò Cathleen, innervosita.
«Merlino è tornato al momento successivo alla sua
prima resurrezione, quando Camelot è caduta», le
disse Artù, cercando la sua mano più per
sé che per lei. «Tutti i secoli successivi, le sue
altre vite, ciò che abbiamo vissuto insieme... sono stati
cancellati dalla sua mente».
«Non solo», aggiunse Elijah. «Non
c'è più traccia di magia in lui. È
un... un umano comune, adesso».
Nell'udire quelle parole Alex uscì dal mutismo in cui era
piombata per lo shock, ma lo fece per gridare e scoppiare in un pianto
disperato.
***
Artù, con un pugno davanti alla bocca, sedeva sull'unica
sedia rimasta intorno al tavolo della cucina, ricoperto di polvere e
sporcizia. Con occhi quasi spiritati fissava quella bambina che aveva
preso tanto da Alexandra quanto da Merlino: i capelli neri e gli occhi
azzurri come il cielo erano quelli dello stregone, mentre i lineamenti
del viso e il sorriso erano decisamente della sua discendente.
Stava spiegando a Cathleen, come lei a gambe incrociate sul pavimento,
le difficoltà che aveva superato per poter recuperare il
primo uovo di drago di una nuova era. Il guscio era di una
tonalità verdastra e liscio come un confetto e Enid non lo
mollava un secondo, tenendolo stretto tra le braccia per trasmettergli
il proprio calore.
Artù avrebbe voluto unirsi a loro, raccontarle come lui e
Merlino - principalmente Merlino - aveva salvato e fatto nascere
Aithusa, ma provava una fastidiosa sensazione di inadeguatezza ogni
qualvolta quegli occhi si posavano su di lui, curiosi ed intelligenti.
Si sentiva esposto, mentre Enid era per lui un'enigma indecifrabile.
«Dovresti parlarle», esordì con voce
calma Elijah.
Artù lo trovò appoggiato al vecchio frigorifero,
a braccia incrociate e la bocca incurvata in un ghigno divertito.
«Da quanto sei lì?».
«Un po'».
«Sei inquietante».
«Non tanto quanto te. Credi che non se ne sia accorta?
Sinceramente non so più che cosa dirle».
Artù lo fissò confuso e il druido si
colpì la tempia con due dita.
«Parlate col pensiero alle mie spalle? Fantastico».
«Mi dispiace, non volevo mancarti di rispetto».
L'ex-sovrano sobbalzò e in men che non si dica si
ritrovò in piedi, gli occhi sgranati di fronte alla diverse
volte pro-nipote. Elijah si staccò dal frigorifero e
passandole accanto per dare loro un po' di privacy le posò
la mano sul capo, ma Enid non distolse mai gli occhi da quelli di
Artù.
Rimasti finalmente soli la bambina si avvicinò al lontano
antenato e con un semplice gesto della mano fece volare via tutte le
cianfrusaglie che c'erano sul tavolo, gli occhi iridescenti. Quindi si
sedette sul bordo, con le gambe penzoloni, e chiese: «Ti
faccio paura?».
Artù boccheggiò per un paio di secondi.
«Paura? No, non si tratta di questo».
«Allora che cos'è che ti preoccupa? Mamma mi ha
parlato tantissimo di te ed io ero così ansiosa di
incontrarti!».
Il solo ed unico re gettò al vento ogni remora e la strinse
tra le braccia facendole affondare il volto nel proprio petto. Col
mento posato sulla sua testa sussurrò: «Anche io
ho atteso questo giorno con ansia. Non vedevo l'ora di conoscerti, ma
allo stesso tempo... È colpa mia se hai vissuto senza un
padre, se hai dovuto...».
Le manine di Enid lo allontanarono perché potesse tornare a
guardarlo negli occhi che erano davvero la copia di quelli di Merlino.
Quanto gli erano mancati...
«Non ho mai pensato che fosse colpa tua. E non è
vero che ho vissuto senza un padre». Il suo sorriso si
allargò. «Papà è in tutto
ciò che ci circonda e... oh, si è
svegliato».
Entrambi si voltarono verso la finestra che dava sulla veranda e videro
Merlino mettersi seduto sulla panca, una mano sulla testa.
Dandogli un pizzicotto sul braccio, Enid esclamò:
«Meglio che tu vada a dirgli che cos'è
successo».
Artù serrò le labbra, ricordando quando era stato
lui in quella situazione e lo stregone aveva dovuto raccontargli
ciò che si era perso e prepararlo alla realtà in
cui si trovava. Era giunto il momento di ricambiare.
«Avremo tempo per conoscerci meglio», aggiunse la
bambina, saltando giù dal tavolo e facendogli l'occhiolino.
Artù riuscì a sorridere e la seguì con
lo sguardo mentre tornava in salotto per recuperare l'uovo che aveva
momentaneamente affidato ad una Cathleen in brodo di giuggiole. Seduta
accanto a lei c'era Alex, le ginocchia strette al petto e gli occhi
fissi sul camino che era diventato un cestino ed un orinatoio per i
vandali.
Artù strinse i pugni lungo i fianchi. Doveva farlo anche per
lei, per ripagarla del suo sacrificio.
***
Merlino aprì di nuovo gli occhi e lentamente, per via della
fronte che gli doleva, si mise seduto sulla panca di legno su cui
qualcuno l'aveva adagiato, coprendolo persino con una coperta.
Aveva una grande confusione in testa e troppe domande, tante che non
sapeva da dove cominciare a chiedere, né a chi.
Il suo sguardo fu catturato dal grande pino nel giardino: aveva un
grande buco nel tronco, della dimensione giusta per un corpo umano, e
gli aghi erano passati dal verde scuro al marrone chiaro. Stava
morendo, mentre lui...
Si guardò le mani, ricordandole insanguinate per aver
stretto una Ginevra in punto di morte. Lui stesso poi era perito, lo
ricordava fin troppo bene.
«Ti stai chiedendo perché sei vivo?».
Merlino alzò di scatto gli occhi e trovò quelli
di Artù ad attenderlo, due iridi blu come il mare in cui
brillava una scintilla di scherno.
«Benvenuto nel club», aggiunse, sedendosi al suo
fianco.
«Che cosa vorrebbe dire? Io... non riesco a capire».
Il solo ed unico re gli posò una mano sulla spalla,
sospirando. «Promettimi di ascoltarmi senza mai
interrompermi. Quando avrò finito potrai farmi tutte le
domande che vorrai, okay?».
Lo stregone,a corto di alternative, promise.
Con gli occhi rossi per il pianto, Merlino si avvicinò al
carro di metallo che Artù gli aveva indicato quando gli
aveva chiesto dove fosse Alexandra e sbirciò all'interno,
trovando Enid - sua figlia - addormentata sui sedili posteriori.
Il fazzoletto rosso che le aveva visto portare al collo ora era
annodato intorno al suo uovo, il simbolo del ritorno della magia e del
passaggio di testimone generazionale. Avendo perso tutti i propri
poteri, la sua interà identità, non poteva
più essere chiamato Signore dei Draghi.
Gli sembrava incredibile che tutto ciò che Artù
gli aveva raccontato fosse successo veramente, ma non avrebbe avuto
motivo di mentirgli.
Alexandra invece si trovava dietro il volante, a sua volta
addormentata. Non voleva svegliarla, era ancora incerto su cosa le
avrebbe detto, perciò aprì con cautela la
portiera e si sedette al suo fianco. La osservò e
capì subito che nemmeno il sonno era in grado di darle pace.
Si sforzò di ricordare, di riportare a galla quell'amore
così forte di cui Artù gli aveva parlato, ma la
Triplice Dea aveva fatto un ottimo lavoro nel cancellargli la memoria.
«Mi dispiace. Mi dispiace tanto»,
sussurrò, accarezzandosi la fede che portava al dito. Non
riusciva nemmeno ad immaginare il dolore che doveva averle causato,
eppure le lacrime gli velarono di nuovo gli occhi.
Una terza mano si posò sulle sue, accarezzandogliele
delicatamente, e Merlino alzò di scatto il capo. Gli occhi
verdi di Alexandra lo guardarono con una dolcezza infinita e il suo
cuore saltò un battito.
«Non è colpa tua», replicò
piano, per non svegliare Enid.
«Temo di sì, invece. Se non fosse stato per il mio
egoismo, fin dall'inizio...».
«Non mi pento di nulla, Merlino. Ogni momento trascorso
insieme, io lo ricordo e lo custodisco gelosamente nel cuore».
Lo stregone abbassò gli occhi, arrossendo. «Tu...
tu mi ami ancora?».
«Certo. Finché morte non ci separi».
«E io... io ti amo?».
Alexandra ridacchiò, allontanando la mano per portarsela
davanti alla bocca. «Come posso saperlo, Dumbo?».
Sentirsi chiamare con quel nomignolo accese una specie di miccia nel
suo petto e Merlino non pensò affatto quando le
portò una mano sulla nuca e fece incontrare le loro labbra a
metà strada. La baciò e non si sentì a
disagio, affatto. Fu naturale, fu giusto. Doveva averlo fatto centinaia
di volte.
Quando si allontanò la tenne comunque vicina a
sé, le fronti che si toccavano.
«Credo che non ci vorrà molto per innamorarmi
nuovamente di te», le disse sorridendo.
Alex ricambiò, puntandogli il dito contro il petto.
«Attento a quello che dici. L'ultima volta hai impiegato
quattro anni per deciderti».
«Non sarò tanto stupido».
Stavano per baciarsi un'altra volta quando vennero interrotti da Enid,
la quale tirò loro contro il piccolo cuscino da viaggio e
mugugnò: «Sono contenta per voi, ma potreste
andare da un'altra parte a recuperare i dieci anni perduti? Vorrei
dormire».
Merlino inarcò un sopracciglio e guardando una Alex
più che imbarazzata disse: «Somiglia in modo
inquietante ad Artù».
A quel punto Enid aprì gli occhi, le iridi come due cerchi
d'oro, e con la magia si riportò sotto la testa il cuscino.
«E ora somiglia a te», sussurrò Alex
all'orecchio del mago, facendogli correre mille brividi sulla pelle.
Enid sogghignò e tornò a riposare come se nulla
fosse mentre i genitori uscivano dall'auto per sedersi fianco a fianco
sul cofano.
«No, io non sono più così»,
ruppe il silenzio Merlino, guardandosi le mani. «Non ho
più il dono».
«L'hai odiato per secoli, dopo la morte di tutti i tuoi cari.
Non lo ritenevi nemmeno più un dono, ma una
maledizione».
«Capisco».
«Ti manca?».
Merlino si strinse nelle spalle. «Non lo so. Forse devo solo
abituarmi, capire chi sono».
«Capire chi sei? Che stupidaggine è mai questa? Tu
sei Merlino, magia o meno. Sei l'amore della mia vita, mio marito e il
padre di mia figlia. Tutto questo non ti basta?».
Guardando il volto illuminato dalla luna di Alex, bella come una dea,
sorrise.
Oh sì, gli sarebbe bastato eccome. Lei era l'unica cosa che
nessuna profezia aveva mai predetto e non doveva ringraziare nessuno
per averla messa sulla sua strada, se non lei stessa: aveva lottato per
lui, l'aveva amato come mago e l'avrebbe amato da umano, fino alla fine
dei giorni. Era lei il vero dono, la vera magia.
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