Fiery Ocean - Oceano Ardente

di Elianapi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una perla nella tempesta ***
Capitolo 2: *** Basil Coleman ***
Capitolo 3: *** La Calliope ***
Capitolo 4: *** L'eco di un ricordo ***
Capitolo 5: *** Acque nere ***
Capitolo 6: *** Lacrime d'argento ***
Capitolo 7: *** L'inganno ***
Capitolo 8: *** Interludio di pioggia ***
Capitolo 9: *** Bestie annidate nel buio ***



Capitolo 1
*** Una perla nella tempesta ***


✾ UNA PERLA NELLA TEMPESTA 

 

  La tempesta imperversava sullo splendido mosaico di terraferma e canali, per cui Amsterdam era divenuta famosa in tutta Europa, da quelle che sembravano ore, ormai.

  Un inaspettato vento pungente giunto da nordest aveva improvvisamente trasformato il tramonto di quella piacevole serata di fine luglio in un caleidoscopio di colori: il viola, il rosso e l'arancione erano stati inghiottiti, poco a poco, da grossi nuvoloni grigi, fino a quando - il cielo ormai divenuto un'informe macchia d'inchiostro - la pioggia aveva preso a riversarsi al suolo sotto forma di un violento scroscio che sembrava non avere alcuna intenzione di arrestarsi.

  L'intera cittadina era stata letteralmente paralizzata dal maltempo. Le strette viottole in terra battuta, un allegro brulichio di calesse e artisti di strada quando il sole splendeva, si erano tramutate in un guazzabuglio di fango e liquami, mentre i muri delle abitazioni, ora impregnati di pioggia, avevano assunto tonalità cupe, spente. Se qualcuno avesse potuto ammirare la città dall'alto avrebbe avuto la percezione di guardarla tramite una finestra appannata.

  Una tempesta altrettanto devastante, seppur impercettibile a occhi esterni, si stava scatenando nell'animo della giovane Elaine June.

  La ragazza - gli occhi del colore dell'oceano fissi sul riflesso di se stessa, restituitole dallo specchio della toletta - stava meditando sulla giornata appena conclusasi, rivivendo istante dopo istante la crescente frustrazione che l'aveva colta nel momento in cui si era definitivamente resa conto che la sua placida vita di campagna avrebbe avuto molto presto termine.

  Quel pomeriggio suo padre, Erasmus Zwaan, aveva siglato in maniera pressoché irreversibile l'accordo con Sir Reinhard Jenssen, membro della prestigiosa Compagnia Olandese delle Indie Orientali: la giovane June - come le piaceva farsi chiamare per tenere vivo il ricordo della madre - avrebbe presto dovuto sposarsi con il figlio del Commodoro, unendo così le famiglie e preservando, se non accrescendo, le rispettive ricchezze.

  Non che Aksel, il rampollo dei Jenssen, non fosse un bell'uomo, June non poteva mentire a se stessa; tuttavia la giovane non provava nulla per lui, assolutamente nulla, oltre a una blanda amicizia. Amicizia rigorosamente coltivata dai loro genitori fin da quando entrambi erano ancora bambini.

  In aggiunta a ciò, lasciare la sua adorata Scharmer per trasferirsi vicino alla movimentata Amsterdam - più precisamente nell'immensa magione in riva al gelido mare del Nord nella quale si trovava, suo malgrado, ospite al momento -, era una prospettiva atroce per lei. Era abituata a trascorrere le sue giornate passeggiando nelle interminabili serre di tulipani, inestimabile patrimonio della famiglia Zwaan, o galoppando in groppa a Whisper, l'andaluso che aveva ricevuto in dono all'età di dodici anni: come avrebbe potuto sopportare l'inevitabile reclusione in quella gabbia dorata che l'attendeva? Ma soprattutto, come avrebbe potuto rassegnarsi a una vita di coppia fredda e priva d'affetto, quando fin da bambina bramava di vivere le avventure di cui leggeva nei libri?

  Un tuono improvviso strappò con un sussulto June dagli amari pensieri che l'avevano rapita, riportandola alla ancor più amara realtà. La ragazza, poco a poco, prese a disfare l'elaborata acconciatura, pressoché intatta, con la quale aveva dovuto presentarsi al suo futuro marito quel pomeriggio; dopodiché, una volta sciolta sulle spalle, chiazzate qui e là da efelidi, cominciò a passarsi le dita tra i capelli lunghi e biondi.

  Erano tanto simili a quelli della madre, quei capelli - della stessa tonalità dorata e lucente del grano maturo -, che chiunque avesse conosciuto la donna da cui li aveva ereditati non faceva altro che farlo presente alla giovane, senza rendersi conto di quanto, ogni volta, risultasse doloroso per June riportare alla mente la sua mancanza.

  Il solo familiare che le restava era il padre. Padre al quale, tuttavia, non sembrava importare granché di lei, né dei suoi sentimenti. L'unica cosa cui l'uomo si mostrava interessato erano i suoi preziosi tulipani. Egli era, infatti, uno dei più famosi fornitori di quel particolare fiore di tutta Europa. Dalle corti francesi, a quelle italiane, a quelle inglesi: la varietà di tulipano che Erasmus Zwaan importava, lo screziato Semper Augustus, era la più ricercata... e naturalmente la meglio pagata.

  Un'unica, solitaria lacrima scivolò lungo la guancia di June: si sentiva così sola. Non che fosse solita piangersi addosso; anzi, detestava lasciarsi andare alle emozioni, ciò nondimeno quella giornata si era dimostrata molto dura per lei, persino più di quanto avesse immaginato. Costringersi a non dare a vedere il disappunto ma, al contrario, mostrarsi sempre cordiale e affabile con il suo futuro marito le aveva richiesto un enorme sforzo mentale; tanto che, ora, si sentiva stanca e amareggiata al punto da avvertire l'insopprimibile bisogno di sfogare tutto ciò che aveva trattenuto dentro di sé fino a quel momento.

  Pochi minuti dopo, mentre si passava le mani sul viso tirato con l'intento di scacciare ogni traccia del pianto, lo sguardo di June finì per essere catturato da un leggero baluginio nello specchio, acceso dalla fiamma della candela a cui aveva dato vita non molto tempo prima, quando le nuvole avevano oscurato la luce del sole, facendo calare quasi d'improvviso la lussuosa stanza che per quella notte sarebbe stata sua in una penombra forzata.

  Quel lieve scintillio non proveniva che dai suoi amati orecchini, ricevuti in eredità dalla madre al momento della morte, nove anni prima, quando la polmonite aveva definitivamente preso il sopravvento sul suo spirito battagliero. Si trattava di preziosissime perle bianche incastonate da mani esperte in un piccolo bottone di puro oro. Erano piccoli, tanto da scomparire, quasi, tra le ciocche ondulate della giovane.

  D'un tratto, June si rese conto con sgomento che, mentre l'orecchino destro era ancora al suo posto, il sinistro era scomparso, lasciando intravedere solo un minuscolo forellino sul lobo, dove avrebbe dovuto ancora essere.

  Subito la ragazza scattò in piedi, angustiata da quella visione: dov'era la perla? Non poteva averla smarrita. Rappresentava troppo per lei per accettarne la perdita, come se si fosse trattato di un qualsiasi altro monile. Si chinò in tutta fretta sotto la toletta, portando con sé il candelabro per far luce, e prese a cercarla sul pavimento, le gambe lasciate nude dalla leggera sottoveste bianca a contatto con il gelido marmo.

  «No. No, dov'è? Non posso averlo perso, non è possibile» mormorò sottovoce June, tastando dovunque con le mani. Ispezionò la superficie della toletta, controllò sotto il letto a baldacchino e frugò persino tra i preziosi strati del vestito che aveva indossato quel pomeriggio e che si era strappata di dosso non appena messo piede nella stanza. L'aveva abbandonato senza troppi riguardi in un angolo remoto della camera da letto, il più lontano possibile da lei, giacché si trattava di un dono non gradito di Aksel Jenssen. Non si sentiva minimamente in colpa di averlo fatto: era l'ultimo atto di ribellione che le rimaneva da mettere in atto.

  Dell'orecchino, in ogni caso, non v'era traccia.

  D'un tratto conscia di ciò, June si accasciò sul bordo del letto, sconsolata, e si nascose il viso tra le mani. «Madre, perdonatemi. Quelle perle erano tutto ciò che di vostro mi restava. Perdonatemi.»

  Proprio quando la giovane stava per lasciarsi prendere dall'angoscia, un'inaspettata rivelazione la colse: era successo quel pomeriggio, mentre passeggiava nei giardini della magione in compagnia di Aksel. Lui aveva colto un fiore da donarle, una dalia dalle tonalità rosate, e quando in tutta fretta si era voltato per porgerglielo, l'aveva inavvertitamente colpita in viso con la mano. Non le aveva fatto male, ma doveva essere stato in quell'occasione che la perla si era separata dal suo lobo.

  June non perse altro tempo: con l'ausilio del candelabro accese la piccola lampada a olio posta sulla toletta, dunque si infilo la vestaglia di raso, raccolse un lembo della sottoveste tra le dita e, pregando di non incontrare nessuno lungo il tragitto, lasciò le sue stanze, diretta in giardino. Era cosciente che trovare l'orecchino smarrito sarebbe stata un'impresa quasi impossibile, ed era cosciente anche del fatto che fuori imperversava una vera e propria tempesta che l'avrebbe inzuppata da capo a piedi, regalandole - se fosse stata clemente - un tremendo raffreddore, eppure questo non fu sufficiente a dissuaderla dal suo tentativo.

  Una volta in giardino - un immenso parco che da una parte si estendeva per ettari e ettari verso l'entroterra mentre dall'altra incontrava una deliziosa spiaggia bagnata dal Mare del Nord -, la ragazza rimase per qualche istante inebetita di fronte alla furia della tempesta, al pungente odore salmastro che al primo respiro le aveva riempito le narici; tuttavia non perse altro tempo e si diresse a passo spedito verso la fontana poco distante, che intravedeva a malapena attraverso la spessa coltre di pioggia. Ricordava fosse nei suoi pressi che quello sbadato di Aksel Jenssen le aveva fatto dono della dalia, privandola in cambio, seppur inavvertitamente, di uno degli oggetti più preziosi che possedeva.

  Dopo nemmeno una decina di metri percorsi, la sottoveste di June era già intrisa di pioggia, facendola rabbrividire da capo a piedi e battere i denti, e i suoi piedi nudi affondavano impietosamente nel fango, eppure lei non si perse d'animo e, un passo dopo l'altro, finalmente raggiunse la polla d'acqua, una maestosa struttura in travertino edificata da mastri artigiani italiani. Una volta lì, con l'aiuto della lampada a olio che miracolosamente non aveva ancora ceduto all'impeto della pioggia, la giovane prese a cercare con affanno la perla scomparsa.

  Dove poteva essere? Sotto una delle panchine che attorniavano la fontana? In mezzo all'erba? Tra le radici di un albero? O forse se ne era appropriata una gazza ladra? In quel caso, sarebbe stato impossibile recuperarla.

  June non scoprì mai le sorti del suo orecchino: pochi istanti dopo, mentre era troppo intenta nella ricerca del gioiello per prestare attenzione a ciò che accadeva attorno a lei, qualcuno la afferrò alle spalle e la strinse a sé con violenza, strappandole un urlo che si perse nella notte tempestosa.

  Per prima cosa, la ragazza percepì una dolorosa fitta all'altezza delle clavicole, laddove le dita dello sconosciuto avevano artigliato la sua carne; subito dopo, un forte odore di alcol le invase brutalmente le narici, togliendole il respiro. Non da ultimo, una voce maschile, bassa e minacciosa come non le era mai capitato di udire prima, le mormorò all'orecchio, sfidando senza alcuna paura il rombo della burrasca: «Ma guarda un po' che fortuna, stanotte. Anziché un mediocre gioiello rubato, mi capita tra le mani una giovane fanciulla di sangue nobile. Coleman ne sarà soddisfatto.»

  «Lasciatemi!» strillò June, terrorizzata da quanto stava accadendo. Si agitò nella stretta dello sconosciuto, ma quella presa era troppo forte perché la giovane potesse anche solo sperare di riuscire a liberarsi.

  Stentava a credere a ciò che le stava succedendo, chi era quell'uomo? Un bandito? Un corsaro? Un rivale di suo padre? E cosa voleva da lei? Come poteva trovarsi nella magione dei Jenssen senza che nessuno se ne fosse accorto? «Vi prego, liberatemi! Mio padre... mio padre...» Le mancava il fiato, la pioggia le entrava nella bocca e nel naso impedendole di respirare; non riusciva nemmeno a racimolare abbastanza voce per urlare e chiedere aiuto.

  L'uomo, infastidito dal suo incessante dimenarsi, grugnì un'imprecazione e le propinò uno strattone e, così facendo, la fece rovinare a terra.

  Nella caduta, June sbatté la tempia contro lo spigolo di una delle graziose panchine in pietra che decoravano il giardino e l'ultima cosa che udì prima di svenire fu la voce graffiante di quello sconosciuto che diceva nel mezzo di una risata: «Non rivedrai più il tuo caro padre, principessa. Non dove ti porterò adesso.»

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Capitolo 2
*** Basil Coleman ***


✾ BASIL COLEMAN 

  Fu un moto perpetuo e assai sgradevole a destarla dal sonno forzato nel quale la sua coscienza era sprofondata.

  June riconobbe quell'oscillare senza che nemmeno dovesse aprire gli occhi: si trattava del rollio delle onde. Del resto, aveva vissuto un'intera vita sulle rive di un lago e conosceva bene la piacevole sensazione del mansueto movimento dell'acqua sotto al corpo; così come conosceva il suo profumo pungente, in grado di coprire qualsiasi altro odore.

  Quell'agitarsi convulso, tuttavia, non somigliava minimamente al movimento placido e dolce dei flutti lacustri che si infrangevano sui suoi piedi quando era bambina. Quel moto era violento, brutale, tanto da sconvolgerle lo stomaco e darle la nausea. Per non parlare dell'intenso afrore salmastro, quasi acido, che le pungeva la pelle e le irritava le narici.

  Finalmente June si costrinse ad aprire gli occhi, ignorando la forte emicrania che le martellava contro le tempie. Dapprima, attorno a lei non v'era altro che l'oscurità più assoluta; un'oscurità viva, pulsante, che sembrava volesse inghiottirla. Dunque, sbattendo più volte le palpebre, in preda a una feroce ansia, la ragazza riuscì a delineare il vago contorno di ciò che la circondava: casse di legno accatastate l'una sull'altra fino a formare alti muri traballanti; fusti e barili contenenti un qualche liquido sciabordante; ceste di vimini e molte altre cianfrusaglie a cui le risultava difficile dare un nome.

  L'apprensione che le gravava in petto non se ne andò a quella visione: dove si trovava? Quella non era certo la sua camera da letto di Scharmer; tantomeno, si trattava di uno dei locali della magione dei Jenssen, poteva esserne certa.

  June distese le gambe rattrappite, i vestiti freddi e umidi appiccicati al corpo come una seconda pelle, e si tirò su a sedere, sperando in quel modo di schiarirsi le idee. Essendo una ragazza piuttosto ragionevole, si sforzò di trovare una spiegazione logica a quanto stava vivendo; alla fine, l'unica appena plausibile era che stava semplicemente sognando. Dopo la stressante giornata trascorsa a tirare le labbra in mille falsi sorrisi, doveva essere sprofondata in un sonno agitato, che l'aveva portata a fare sogni strani e ansiogeni. Dunque, non doveva preoccuparsi troppo di cosa sarebbe accaduto: al risveglio tutto si sarebbe sistemato. Quasi tutto, perlomeno.

  Eppure... Eppure il doloroso pulsare alle tempie la spingeva a dubitare che ciò che la circondava fosse frutto soltanto del suo inconscio dormiente. Era tutto troppo vivido, e la nausea che provava sembrava tutt'altro che una semplice sensazione.

  Si portò una mano tremante alla fronte, laddove il dolore era più intenso, e quando le punte delle sue dita vennero a contatto con essa si ritrovò a sfiorare qualcosa di umido e vischioso. Le sfuggì un tenue lamento nel rendersi conto che si trattava di sangue, del suo sangue, e che le fitte che le martellavano il cranio provenivano proprio da quel punto.

  Fu come un fulmine a ciel sereno: i ricordi di ciò che le era accaduto le sfilarono davanti agli occhi in un susseguirsi di immagini confuse, di suoni, di odori. L'orecchino di sua madre andato perso, la furia della tempesta, le mani ruvide dello sconosciuto che l'aveva aggredita alle spalle, la sua voce roca nell'orecchio. E, infine, la caduta e il violento colpo alla testa. Non si trattava di un sogno, era accaduto davvero.

  E ora? Ora dove si trovava? Cosa le avrebbero fatto?

  June, il cuore in gola e la voglia di urlare che le premeva nel petto, si alzò in piedi, seppur a fatica, e si guardò nuovamente attorno stringendosi nella vestaglia, l'unica protezione che aveva contro il freddo. Stando al rollio delle onde, che le rendevano assai difficile tenersi in piedi, e alla puzza di marciume che regnava nell'ambiente, giunse alla conclusione di trovarsi, suo malgrado, nella stiva di una nave, sebbene non ne capisse la ragione.

  Nonostante le notevoli difficoltà, poco a poco la giovane riuscì ad avanzare sul pavimento irregolare della cambusa, fino a giungere a una malmessa scala in legno, la quale conduceva a una porta serrata. Se fosse riuscita a superarla, si sarebbe trovata sul ponte della nave e, una volta lì, se questa fosse stata ancora ormeggiata in porto, sarebbe potuta fuggire e mettersi in salvo; oppure, ancor più ottimisticamente, avrebbe potuto chiedere aiuto a qualche passante. Sempre se il suo misterioso rapitore non l'avesse fermata prima.

  C'erano molti, troppi "se" nel piano che June  aveva ideato, ma aveva alternative? La ragazza prese a salire un gradino alla volta, i piedi nudi sul legno scheggiato che percepivano l'umidità di cui tutta la nave sembrava pregna; ma proprio quando stava cominciando a credere, in cuor suo, che sarebbe riuscita nell'intento di mettersi in salvo, la porta in cima alle scale si spalancò con un cigolio a dir poco sinistro e la luce accecante del sole la colpì in viso, ferendole gli occhi e disorientandola.

  June fu costretta a portarsi le mani al volto e a riparare gli occhi dietro di esse, dunque, quando un'onda particolarmente potente colpì il fianco della nave scuotendo la stiva, non poté nulla per impedirsi di perdere l'equilibrio e ritrovarsi nuovamente bocconi sul pavimento lercio della stiva.

  «La nostra deliziosa ospite si è svegliata, finalmente» proruppe una voce profonda, mentre June era troppo impegnata a tastarsi la caviglia dolorante per soffermarsi a pensare a chi avesse spalancato la porta in cima alle scale.

  Quando la giovane alzò il capo, si ritrovò a fissare una sagoma scura che torreggiava dall'alto su di lei. La luce del sole proveniente dalle spalle dello sconosciuto le impedì di scorgerne i lineamenti e questo non fece altro che accrescere la sua paura. «Chi... chi siete?» sussurrò, la voce che faticava a strisciarle fuori dalle labbra. Come se il non sapere avesse in qualche modo potuto proteggerla, preservarla dalla verità. «Cosa volete da me, dove sono?»

  L'uomo si lasciò sfuggire un sogghigno alle sue parole e, nel buio, June fu in grado di scorgere un lieve baluginio proveniente dal suo volto in ombra. Un dente d'oro, forse, o un orecchino. «È per me un privilegio informarti che ti trovi a bordo della Calliope» disse con quella che nella sua voce aspra sembrava fierezza. «Io, Basil Coleman, sono il Capitano di questa nave, e tu, mia cara, sei ufficialmente mia prigioniera.»

  June stentava a credere alle proprie orecchie. Doveva trattarsi di un equivoco, magari di uno scambio di persona. «Pri-prigioniera?» ripeté in un singulto, il cuore stretto in una morsa. «Non è possibile, no. Io...»

  L'uomo interruppe fin da subito il suo balbettare: «Le brave fanciulle non escono tutte sole, la notte. Hai commesso un grave errore, tesoro» mormorò, accucciandosi di fronte alla ragazza, che, dal canto suo, si ritrasse e arricciò d'istinto le narici nel percepire il forte odore d'alcol e tabacco che proveniva dai suoi vestiti. «Avresti dovuto restare nella tua bella stanza, sotto le coperte di seta. Invece hai voluto ribellarti, e guarda dove ti trovi, ora. Smithson ha subito annusato profumo di denaro appena ti ha notata.» Lo sconosciuto rise, particolarmente divertito dalle sue stesse parole. «Oh sì, merita una sostanziosa ricompensa, quell'uomo, non trovi? Mi farai guadagnare bene, sarei pronto a scommetterci un dito.»

  La giovane era spaventata e furiosa al tempo stesso. Spaventata perché non aveva idea di cosa quell'uomo avesse intenzione di farle; furiosa perché parlava di lei come se non fosse che un oggetto da rivendere al miglior offerente.

  Mettendo da parte ogni prudenza, si tirò a sedere più composta e disse, un'inflessione piuttosto dura nel tono di voce: «Voi non avete idea del guaio nel quale siete andato a cacciarvi. State parlando con Elaine June Zwaan, unica figlia di Erasmus Zwaan e promessa sposa del figlio del Commodoro Jenssen: vi conviene ricondurmi immediatamente alla magione dei Jenssen se non volete ritrovarvi con una flotta di navi della Marina Olandese alle calcagna e un cappio intorno al collo.»

  Coleman sbuffò non appena June ebbe terminato la sua arringa. «Ha un bel caratterino, questo passerotto» sghignazzò, anziché replicare alle parole della giovane. Dopodiché si sporse in avanti e, senza troppi complimenti, la agguantò per il mento e le ringhiò in faccia: «So benissimo chi sei, principessa, credimi. Il tuo cognome è l'unico motivo per cui non ti ho lasciato nelle mani dei miei uomini. Certo, non ti mostreresti più così spavalda se avessi concesso loro un po' di divertimento, ma, del resto, non varresti più nemmeno la metà di quello che invece mi farai guadagnare una volta giunti a destinazione. Si metteranno in fila per averti, faranno a gara a chi offrirà di più. Poi non sarai più affar mio e ci penserà qualcuno di loro a insegnarti come si dovrebbe comportare una brava signorina.»

  La risposta saccente che June si era preparata le morì sulle labbra, lasciandola ammutolita. Ancora stretta nella presa dell'uomo, si morse l'interno della guancia, in un ultimo, disperato tentativo di non cedere al pianto.

  «Il gatto ti ha mangiato la lingua, principessa?» la derise il corsaro, lasciandola andare di colpo e alzandosi in piedi. Indietreggiò poi di qualche passo, recuperò qualcosa da uno dei gradini, dunque tornò da lei, posando uno sgangherato vassoio vicino ai suoi piedi. «Ora mangia qualcosa, devi essere in salute per quando arriveremo a Port Royal».

  Port Royal. June aveva già sentito nominare quel nome, forse l’aveva letto su una delle cartine geografiche di cui erano tappezzate le pareti dello studio del padre, eppure non avrebbe saputo dire con certezza dove si trovasse. Ciò di cui era sicura era che fosse molto, molto lontano da casa sua e che, una volta là, quell'uomo, Coleman, l'avrebbe venduta al miglior offerente.

  La rabbia prese il sopravvento su di lei. Nonostante l'improvvisa fame che sentiva roderle lo stomaco – ora che la nausea era passata –, June afferrò il vassoio e lo scaraventò lontano, insozzandosi le mani e la vestaglia di quella che dall’odore nauseabondo doveva essere zuppa di pesce. Dopodiché, non contenta, si gettò contro il suo carceriere e – nonostante andasse contro ogni insegnamento che le era stato impartito fin da quando era una bambina, per prepararla a diventare una donna e moglie di buone maniere – prese a tempestarlo di pugni e calci, minacciandolo di riportarla a casa.

  Coleman, anziché spaventarsi di fronte alla furia della ragazza, ne risultò divertito. La lasciò sfogare per qualche minuto, dopodiché, non appena June prese a boccheggiare, senza alcuna fatica riuscì a immobilizzarle i polsi in una delle sue grosse e ruvide mani e la sospinse contro la parete della stiva. «Niente cibo né acqua per oggi, eh?» le alitò in viso, sfiorandole una guancia con il naso adunco. «Perfetto. La traversata dell’Atlantico è ancora lunga, avrò tutto il tempo per piegarti, Elaine June Zwaan.» Tirò le labbra in un sorriso pago e aggiunse, quasi tra sé: «Non dubitarne.»

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Capitolo 3
*** La Calliope ***


La Calliope ✾


  June l’aveva sempre sospettato, ma solo in quel momento comprese che la sua teoria aveva un che di veritiero. Rannicchiata su se stessa in un angolo della buia cambusa che le faceva da cella, intenta nel contare i secondi che le scorrevano sulla pelle con esasperante lentezza, arrivò alla conclusione che il tempo era in grado di dilatarsi o restringersi a suo piacimento.

  Confinata nella stiva della Calliope, senza alcuna possibilità di consultare il cielo per capire se fosse giorno o notte, la ragazza non aveva la benché minima idea di quanto ormai durasse la sua prigionia. Potevano essere trascorse poche ore, così come interi giorni.

  Il suo stomaco protestava di continuo, sebbene non capisse se ciò fosse dovuto alla fame o piuttosto alla nausea dovuta al perpetuo moto delle onde, e si sentiva debole come raramente le era capitato prima d’allora. Più di una volta, da quando quell’uomo di nome Coleman l’aveva lasciata sola con i suoi pensieri, si era avvicinata alla porta in cima alle scale. Dapprima con il semplice intento di capire cosa vi fosse appena oltre; poi nel tentativo di forzarla e fuggire; dunque, da ultimo, l’aveva presa a calci e vi aveva gridato contro tutta la sua rabbia. Da essa, tuttavia, non era giunta la minima risposta.

  Ghermita dallo sconforto, la ragazza prese a torturare tra le dita la perla non andata smarrita, ancora attaccata al suo lobo destro. Avvertirne sotto i polpastrelli la levigatezza, la rotondità fu sufficiente a calmare – almeno in parte – il suo animo tormentato. Era ancora terrorizzata al pensiero di ciò che avrebbe potuto accaderle, tuttavia era anche speranzosa: sarebbe riuscita a cavarsela, in qualche modo. Ancora non sapeva come, ma avrebbe trovato una soluzione. Doveva soltanto mantenere la calma e, da cristiana dabbene qual era, pregare Dio di aiutarla.

  Non erano passati che pochi minuti, quando l’uscio in cima alle scale si spalancò verso l’esterno e la luce si riversò nella stiva. June socchiuse gli occhi, tuttavia, a differenza della prima volta, non abbassò la guardia. Anzi, si alzò in piedi e si preparò a fronteggiare il nuovo venuto, chiunque fosse.

  Si trattava di una figura corpulenta, decisamente più massiccia di quella appartenente a Basil Coleman, e si stava avvicinando a lei con un’andatura minacciosa, quasi avesse intenzione di caricarla come avrebbe fatto un toro.

  La giovane si ritrasse, intimorita, ma, non avendo modo di nascondersi o fuggire, non poté fare nulla per impedire che la mano dello sconosciuto si stringesse attorno al suo polso. «Muoviti, ragazzina» disse l’uomo in un tono che non accettava repliche. «Il Capitano ti desidera nella sua cabina.»

  «Lasciatemi!» sbraitò lei, presa nel tentativo, del tutto vano, di liberarsi di quella presa ferrea. «Non intendo obbedire a quell’uomo, né a voi. E ora liberatemi immediatamente!»

  In risposta alle sue vigorose proteste, l’energumeno non rise come aveva fatto in precedenza Coleman, né si sprecò ad aprir bocca. Al contrario, si limitò a strattonare con più forza il braccio della ragazza, tanto da farle male e strapparle un lamento, e la costrinse a raggiungere le scale, dunque la spinse per farla risalire, gradino dopo gradino, fino alla soglia.

  Una volta raggiunta la sommità della gradinata, gli occhi di June non videro altro che un forte biancore punteggiato di macchie nere; dopodiché, in seguito all’aver sbattuto più volte le palpebre, fu finalmente in grado di mettere a fuoco ciò che le si prospettava davanti.

  Il primo elemento che distinse, proprio innanzi a lei di pochi passi, fu l’imponente albero maestro dell’imbarcazione, la cui circonferenza – la giovane avrebbe potuto giurarlo pur essendo quasi del tutto profana in materia – misurava svariati metri. Seguì l’intera altezza dell’albero con lo sguardo, e notò dunque dipanarsi dalla sua sommità numerose scale in corda, le quali arrivavano al ponte. Rifletté che molto probabilmente erano necessarie all’equipaggio per raggiungere i pennoni e manovrare le vele quadre, così da assecondare il vento e navigare più veloci.

  Ciò che davvero la impressionò, tuttavia, non fu tanto la maestosità del galeone, quanto la distesa infinita di acqua che scorse l’attimo dopo, appena oltre i parapetti in legno. Non riusciva a credere ai suoi occhi: ovunque guardasse, non vedeva altro che oceano, in ogni direzione.

  Mai come in quel momento, June si sentì insignificante in confronto alla vastità dell’abbagliante superficie d’acqua che la circondava. D’un tratto, i suoi problemi le parvero di poco conto e perserò d’importanza. Trasse un lungo respiro, inalando aria fresca e pulita dopo chissà quanto tempo rinchiusa nella stiva pregna di umidità del veliero, e, dimentica di essere prigioniera, avanzò di un passo, desiderosa di poter ammirare ancor più da vicino l’oceano.

  Ci volle solo un istante, tuttavia, perché June tornasse con i piedi per terra.

  «Dove credi di andare?» proruppe una voce cavernosa proveniente dalle spalle della ragazza. L’attimo dopo, Elaine June si sentì strattonare per il braccio e si ritrovò a premere involontariamente la guancia contro l’ispido petto di uno sconosciuto.

  Si ritrasse in tutta fretta, tanto quanto le veniva permesso dalla vigorosa stretta che le cingeva il polso, e alzò il capo, ritrovandosi così a scorgere in volto l’uomo che l’aveva prelevata senza troppi convenevoli dalla cambusa.

  Il primo particolare che notò fu l’insolito colore della pelle di quell’individuo: era molto scura, del colore dell’ebano, e, oltretutto, era logorata da spesse cicatrici, la cui natura era difficile da decifrare. Era la prima volta, per June, che si ritrovava ad avere a che fare con un uomo dalle chiare origini africane; in tutta onestà, era la prima volta, anche, che ne vedeva uno. Fino a quel momento ne aveva solo sentiti degli accenni dai discorsi origliati dallo studio del padre.

  L’energumeno, che ricambiava il suo sguardo con espressione torva, aveva occhi piccoli, dalla sclera giallastra, che si perdevano al di sotto dell’incalcolabile quantità di monili d’oro che glieli attorniavano. La bocca era molto carnosa, anch’essa decorata da orecchini dorati, e il naso aveva una forma insolita, decisamente più grosso e grezzo di quello degli uomini con cui lei era abituata ad avere a che fare.

  «Che hai tanto da guardare, sciacquetta?» l’accusò il gigante, digrignando i denti, candidi in confronto alla pelle nera. La sospinse con una mano sullo sterno e aggiunse, facendo un cenno oltre le spalle della ragazza: «Avanti, cammina.»

  Sebbene fosse alquanto contrariata dai modi sgarbati dell’uomo, June non osò protestare e obbedì ai suoi ordini: raccolse i lembi della sottoveste, gli diede la schiena e si incamminò nella direzione da lui indicata. Non fece che pochi passi, però, schivando a malapena le cianfrusaglie disseminate a terra, prima di rendersi conto della schiera di individui che la stava fissando da entrambi i fianchi del ponte di coperta: si trattava senza alcun dubbio della ciurmaglia della Calliope.

  Inizialmente la ragazza si bloccò, intimorita nel passare in rassegna i ghigni storti impressi su quei volti bruciati dal sole; pochi istanti dopo, tuttavia, riprese a camminare, decisa a non lasciar loro intravedere il suo turbamento. Era ben conscia di ciò che in quel momento passava per la mente di ognuno di quegli uomini, ma non aveva intenzione di lasciarsi prendere dall’angoscia: Coleman non avrebbe permesso a quegli individui di sfiorarla neppure con un dito. Era consapevole che non si trattasse di una manifestazione di bontà da parte sua – bensì del modo più semplice di tutelare i suoi interessi –, eppure tanto le bastava per mantenere il sangue freddo.

  Il sangue freddo, tuttavia, non bastò quando alcuni membri dell’equipaggio, contravvenendo alle regole, si avvicinarono a lei e presero a tirarle i lembi della sottoveste o a sfiorarle i capelli con le loro sudice dita. «Non toccatemi» sibilò June, allontanandosi freneticamente da un uomo per poi ritrovarsi subito dopo a dover scacciare con uno schiaffo le mani di un altro. «Lasciatemi stare, non toccatemi!»

  «Vieni, tesoro, vieni da Wibert» le propose uno di loro, i denti storti e la pelle giallognola, raggrinzita. La prese per mano e tentò di attirarla a sé. La giovane, anziché protestare a voce, stavolta replicò propinando al malintenzionato un violento schiaffo in pieno volto.

  All’inaspettata reazione di June, l’intero ponte di coperta scoppiò in una risata divertita. «Questo gattino ha gli artigli affilati!» esclamò qualcuno, dando di gomito a un compagno.

  «Meglio così,» replicò l’uomo che aveva ricevuto lo schiaffo, Wibert, passandosi una mano sulla guancia lievemente arrossata, «mi piacciono le donne di polso.»

  Quando, finalmente, Elaine June raggiunse alla porta che conduceva alla cabina del Capitano, era stremata: i capelli scarmigliati erano appiccicati al viso, purpureo e sudato, e la sottoveste di pizzo era ridotta a un cencio sporco e strappato. Benché fino a poco prima non nutrisse il minimo desiderio di avere di nuovo a che fare con Coleman, si ritrovò a essere quasi felice di essere giunta a destinazione.

  L’energumeno dalla pelle scura si sporse in avanti e batté un pugno sulla porta, attese un segnale dall’interno, dunque aprì l’uscio e fece entrare la ragazza, richiudendolo subito alle loro spalle.

  June fu lieta di non avvertire più il cianciare dei bifolchi appena fuori, i quali non sembravano avere la minima idea di cosa fosse la decenza; tuttavia, non appena un invitante profumo giunse alle sue narici, non poté che sentirsi aprire una voragine nello stomaco.

  Si guardò attorno nella cabina. Si trattava di un locale piuttosto ampio e riccamente adornato con ogni genere di manufatto: dai più strani – quali teschi e zanne di animali, schegge di un qualche minerale a lei sconosciuto, astrolabi d’oro e altre chincaglierie alle quali non era in grado di dare un nome –, ai più ordinari – come candelabri, planisferi e scrittoi. Dai lucernari che delimitavano la semicirconferenza della cabina – affascinanti mosaici di vetro colorato –, penetrava con prepotenza la luce del sole, la quale conferiva alla stanza un aspetto regale. Se non avesse saputo con assoluta certezza di trovarsi sul vascello di un branco di pirati senza scrupoli, sarebbe stato facile per lei convincersi di essere ancora nella lussuosa residenza dei Jenssen, ad Amsterdam, magari in una delle poche stanze in cui lei e Aksel, da bambini, non si erano insinuati.

  Finalmente, dopo diversi istanti di attenta osservazione, June fu in grado di individuare colui che, pur non avendolo mai visto in volto, era certa fosse il Capitano Coleman. Si trattava di un uomo di mezz’età, con baffi e capelli di un biondo slavato e la carnagione di chi aveva passato la sua intera esistenza in balìa del sole e delle peggiori intemperie. I suoi occhi, dalle tonalità grigiastre, esibivano un’espressione avveduta, sveglia. Vedendoli, scorgendo il loro ardere che li rendeva simili a fuochi fatui, Elaine June ebbe il presentimento che Basil Coleman ne sapesse una più del diavolo.

  Il corsaro se ne stava placidamente seduto su una poltrona dall’aspetto confortevole, proprio accanto al grosso tavolo imbandito dal quale, con ogni probabilità, proveniva il delizioso aroma che poco prima aveva solleticato l’olfatto della ragazza. «Mia cara, che piacevole sorpresa averti qui, nella mia mediocre cabina» esclamò l’uomo con slancio, facendo un gesto con la mano, come ad abbracciare l’intero ambiente. Dall’espressione che avevano assunto i suoi occhi plumbei nel pronunciare quelle parole, era evidente la consapevolezza del fatto che il suo alloggio non avesse nulla di mediocre. Nel mentre, si fece comparire un sorriso malevolo sul volto, appena segnato dalla vita di eccessi che aveva condotto.

  June tirò la bocca in una smorfia insofferente e si liberò con uno strattone della presa dell’uomo di colore sul suo polso. «Siete stato voi a volermi qui; non fingete che non sia così» replicò, le braccia che andarono a incrociarsi sul seno.

  «Perspicace, il mio passerotto» la derise Coleman, alzandosi dalla poltrona. Fece dunque un gesto al suo sottoposto e gli disse: «Lasciaci soli, Danso. E ricorda agli altri incapaci là fuori che non voglio essere disturbato per nessun motivo mentre sono in compagnia della mia graziosa ospite.»

  L’uomo alle spalle di June produsse un verso gutturale in risposta agli ordini del suo Capitano, dopodiché girò sui tacchi e se ne andò, lasciando la ragazza sola con Basil Coleman.

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Capitolo 4
*** L'eco di un ricordo ***


L'ECO DI UN RICORDO ✾

 

  Nella cabina del Capitano regnava il silenzio. Un silenzio corposo, palpabile, strisciante. Un silenzio che serpeggiava lungo le pareti in legno della stanza. L’unico rumore che osava insinuarsi tra le sue maglie intessute era lo sciabordio delle onde, le quali si infrangevano contro lo scafo del veliero, indisturbate.

  Elaine JuneZwaan e Basil Coleman si studiavano dai due lati opposti della cabina: lei, impettita accanto alla porta, il mento lievemente sollevato in un’espressione di distacco; lui, le dita serrate attorno allo schienale di una sedia e gli occhi ridotti a fessure. I due erano talmente immobili che avrebbero potuto apparire a occhi esterni come sculture. Sembravano i contendenti di un duello mortale, una mangusta e un serpente, entrambi in attesa della mossa dell’avversario.

  Poiché si rese conto che la ragazza non avrebbe ceduto per prima, a infrangere quel momento di stallo fu il Capitano della Calliope. «Avanti, avvicinati» esordì, facendo un cenno con la mano alla giovane, a indicare il tavolo imbandito alla sua sinistra. Scostò una sedia e accennò alla seduta imbottita. «Accomodati e serviti di tutto ciò che desideri.»

  Benché un fastidioso languore le stesse stritolando le viscere in una morsa ferrea, June non accennò il minimo movimento per avvicinarsi alla tavola, carica di ogni genere di cibaria. Il suo pensiero, al contrario, era rivolto alla porta – del tutto incustodita – che aveva alle spalle. La tentazione di voltarsi, spalancarla e fuggire era così forte che le mani avevano preso a formicolarle, smaniose di agire. Tuttavia resistette a quell’impulso: era ben cosciente che ciò che avrebbe trovato sul ponte di coperta sarebbe stato ben peggio. E anche se fosse riuscita a superare indenne la marmaglia di pirati, ad attenderla ci sarebbe stato solo e soltanto l’oceano. Era in trappola, ecco tutto. Si limitò perciò a ricambiare lo sguardo dell’uomo, stringendo i pugni.

  Il corsaro, tuttavia, non si lasciò scoraggiare dall’atteggiamento sprezzante della giovane. Anzi, le rivolse un sorriso indulgente e insistette dicendo: «Coraggio, principessa, sono certo che avrai parecchio appetito. E qui, su questo tavolo, c’è praticamente tutto quello che potresti desiderare.»

  «Smettetela di rivolgervi a me con quei nomignoli insulsi» replicò June, esasperata. Non solo da quel particolare, ma dalla situazione nel suo complesso. Dopo più di due giorni di prigionia, ancora non riusciva a capacitarsi di ciò che le era accaduto, una parte di lei continuava a credere che si trattasse di un incubo. «Mia madre mi ha fatto dono di un nome e gradirei che lo utilizzaste.» In realtà, poco le importava di come quell’uomo, verso il quale non nutriva il minimo rispetto, la chiamasse, tuttavia aveva bisogno di sfogare in qualche modo la frustrazione accumulata sino a quel momento. E giacché aveva già provato a opporsi fisicamente a lui – con scarsi risultati –, non le restava altro che alzare la voce e contestarlo a ogni occasione.

  La risposta che ottenne fu una risata sguaiata. Addirittura, Coleman si piegò in due, stringendosi teatralmente la pancia tra le braccia, e ci vollero parecchi istanti prima che riacquistasse un contegno. Riportò dunque l’attenzione sulla sua ospite e la squadrò da capo a piedi mentre si asciugava gli angoli degli occhi. «Sei prigioniera su un vascello di pirati senza scrupoli e hai l’ardire di avanzare pretese? È piuttosto presuntuoso da parte tua, principessa. Tuttavia...» Le mani sui fianchi e un sorriso sardonico sulla bocca, la raggiunse e, in seguito a un pomposo inchino, strinse le delicate dita della ragazza tra le sue, come un forziere che si chiude su un inestimabile tesoro. «Tuttavia, dal momento che mi considero un gentiluomo, ti accontenterò. Dunque, Signorina Zwaan, sareste così gentile da cenare in compagnia di quest’umile Capitano?»

  La pelle ruvida di Basil Coleman a contatto con la sua non faceva altro che darle ribrezzo, e cenare con lui era decisamente l’ultima delle cose che avrebbe desiderato, eppure la fame la stava tormentando dall’interno; di conseguenza, prima ancora di rendersene conto, June si ritrovò a cedere alla volontà dell’uomo. Senza più opporre resistenza, si lasciò condurre alla tavola imbandita e, quando Coleman le porse la stessa sedia che le aveva offerto poco prima, si sedette senza ulteriori indugi.

  Gli occhi della giovane furono immediatamente rapiti dal vero e proprio spettacolo che le si prospettò davanti: frutta esotica, carne servita su piatti d’argento, pesce di ogni tipo e persino delle invitanti tartine, che avrebbero fatto invidia ai migliori forni di Amsterdam. Si chiese da dove provenisse quel ben di Dio.

  Il Capitano Coleman si accomodò di fronte a Elaine June, trascinando la sedia sul pavimento di legno per avvicinarsi al tavolo. «Tornare ogni tanto sulla terraferma ha i suoi vantaggi, come potete vedere» disse, quasi che le avesse letto nel pensiero. Allungò la mano destra – alla quale Junepotè notare che mancavano le ultime falangi di anulare e mignolo – e arraffò una salsiera in ceramica. «Alla lunga, la zuppa di pesce dà la nausea. Avanti, Signorina Zwaan, favorite. Credo concorderete con me, se affermo che il vostro digiuno è durato più che a sufficienza.» E, dopo essersi servito di diverse fette di carne, vi rovesciò sopra un intingolo dal colore verdastro e prese a mangiare.

  Di fronte alle continue insistenze dell’uomo e a quella tavola imbandita, June non poté resistere a lungo. Ben presto mise da parte gli indugi e, allungando appena il braccio, si armò di forchettone. Con esso arpionò una di quelle che sembravano cosce di pollo, distese a raggiera in un elegante vassoio d’argento, e la depositò nel suo piatto. Fece dunque per munirsi di posate, quando notò l’espressione compiaciuta impressa sul volto del suo carceriere. Non poteva esserne certa, ma June era pronta a scommettere che nelle buone maniere che lei stava dimostrando l’uomo non vedesse altro che un cospicuo valore in oro: certamente, una signorina dai modi garbati gli avrebbe fruttato ben più di una qualsiasi donna rubata alla strada.

  Un moto d’orgoglio si agitò nella pancia di June, tanto che la ragazza si ritrovò a gettare in mezzo al tavolo le posate e ad afferrare a mani nude la coscia di pollo, portandosela alla bocca e addentandola come avrebbe fatto un selvaggio. Ne staccò un grosso morso, al quale seguirono un secondo e un terzo, fino a ritrovarsi la bocca piena di carne e il mento insozzato di condimento. Dopodiché, afferrò il bicchiere posto davanti al piatto, lo riempì fino all’orlo di ciò che conteneva la brocca poco distante – vino, probabilmente – e lo trangugiò in pochi sorsi. Quasi subito, una fastidiosa sensazione di estraniamento la colse, ma non vi diede troppo peso.

  Una volta che la bocca fu di nuovo vuota, Elaine Junesi rivolse al Capitano, rimasto sbigottito a fissarla: «Tutto ottimo, i miei complimenti.» Appena terminato di parlare, spostò l’attenzione su un grosso frutto dall’aspetto succoso, che mai aveva visto prima. Lo prese e ne addentò la buccia rossastra e lucida, lasciando che il suo succo le colasse lungo la gola, fino a essere assorbito dal tessuto della sottoveste a collo alto che indossava. Si sentiva meglio, ora; sia per quanto riguardava la fame, che aveva smesso di infastidirla, sia per la soddisfazione personale che si era tolta. Certo, era piuttosto sicura che se Beatrijs, la sua precettrice, l’avesse vista in quello stato, l’avrebbe biasimata da lì all’eternità, ma al momento non era un problema di cui avrebbe dovuto occuparsi.

  In ogni caso, non appena lo sconcerto abbandonò il suo viso, la reazione di Coleman non fu quella in cui June aveva sperato. Tutt’altro: l’uomo prese a ridere e, allungando un braccio, le riempì nuovamente il bicchiere di vino. «Ah, Signorina Zwaan, non avete idea di quanto mi ricordiate la mia Calliope. Orgogliosa e bella, proprio come lei.»

  June si morse l’interno della guancia e trasse un sospiro. Il suo tentativo di far infuriare l’uomo non era andato in porto. Al contrario, Basil Coleman sembrava compiaciuto di ciò a cui aveva assistito. O, meglio, più che compiaciuto, il Capitano sembrava essersi perso in pensieri lontani, nell’eco di un ricordo andato perso.

  «Chi è questa Calliope?» chiese, passandosi il polsino della veste sulle labbra, infastidita dall’unto e dall’appiccicume che vi erano rimasti in seguito al suo sgraziato pasto. Calliope non era forse il nome dell’imbarcazione su cui si trovava prigioniera?

  Nel sentire la voce della ragazza, che fino a quel momento aveva aperto bocca il meno possibile, Coleman riportò l’attenzione su di lei. Si passò pollice e indice sulla barba incolta che gli guarniva le guance e prese un altro sorso di vino. «Una persona che, un tempo, era molto importante per me» si ritrovò a dire, prima di rendersene conto. Si accorse dell’errore fatto e dissimulò le sue parole con un gesto della mano. «Ma questo appartiene al passato, è inutile riportare alla luce dettagli ormai sepolti. I ricordi, anche quelli a cui teniamo di più, restano pur sempre ricordi.»

  Per la prima volta, June avvertì palpitarle nel petto un sentimento diverso dalla rabbia che aveva covato finora nei confronti di quell’uomo spregevole. Si trattava di qualcosa di simile alla pietà, ma non altrettanto biasimevole. Forse era compassione? Era chiaro che, chiunque fosse, quella donna di nome Calliope aveva rappresentato – e rappresentava – qualcuno di importante per Basil Coleman e, ora, la sua mancanza lo affliggeva. Probabilmente tanto quanto June era afflitta per la morte della madre.

  «I ricordi non sono altro che ricordi, è vero» sussurrò a fior di labbra, lo sguardo perso sulle vetrate alle spalle  dell’uomo, dalle quali entravano prepotentemente i raggi del sole. «Ma, a volte, sono l’unico motivo per cui ci sforziamo di andare avanti.» Non era certa che quelle parole fossero sue, o tutt’al più dovute all’alcol, eppure sentiva che erano vere. Per lei lo erano, almeno.

  Prima che sua madre morisse, la sua mano quasi del tutto inerte stretta tra quelle della figlia, June, accasciata al suo capezzale, le aveva giurato che sarebbe diventata una donna forte, che non si sarebbe mai arresa, che avrebbe superato a testa alta qualsiasi difficoltà. E ora era giunto il momento di dimostrare che quelle parole non erano state dette per caso, per alleviare le pene di sua madre. Se anche non avesse voluto essere coraggiosa per se stessa, avrebbe dovuto esserlo per lei.

  Coleman si schiarì la gola, riportando la ragazza alla realtà. «Sapete, anni fa ho sentito un detto che credo si adatti perfettamente a voi.»

  June riacquistò il suo atteggiamento distaccato e, dopo essersi scostata i capelli dietro la spalla, chiese: «Vale a dire?»

  «Una donna saggia, è una donna pericolosa» rispose l’uomo con un emblematico sorriso stampato sulla bocca, osservandola da dietro il bordo del calice ricolmo di vino. Subito dopo, bevve un altro sorso.

  La giovane non riuscì a trattenere uno sbuffo. «Lo considero un complimento, Signor Coleman.»

  Lui arcuò le folte sopracciglia, posando con cura maniacale il bicchiere sul tavolo. «Lo è, Miss Zwaan.»

  June annuì, le labbra tirate in una linea sottile. Non riusciva proprio a comprendere l’uomo che le stava innanzi: sapeva essere rude e galante al tempo stesso, così come riusciva a incuterle timore e, nel contempo, farlaadirare. «Immagino che anche la vostra Calliope lo fosse.»

  Il Capitano poggiò la schiena alla sedia dalla fodera bordeaux e intrecciò le braccia sul petto. «Pericolosa?» Sogghignò. «Oh, altroché. Non per niente, era soprannominata “Furiosa”.»

  «Dovete volerle molto bene, per aver dato il suo nome alla vostra nave.»

  Il pirata tacque a lungo in seguito all’allusione di June, come se stesse soppesando cosa dire. Infine, socchiuse gli occhi e ammise sottovoce: «Quanto può voler bene un padre alla sua unica figlia?»

  Quella rivelazione lasciò la giovane letteralmente basita. Come poteva essere padre un uomo senza principi qual era Basil Coleman? «Vo-vostra figlia? Avete una figlia? E ora dov’è?»

  Come se solo in quel momento si fosse reso conto di aver detto troppo, l’uomo scosse la testa e prese un gran respiro. «Signorina Zwaan, credo che la nostra cena possa concludersi qui.» E, senza lasciare tempo a June di replicare, si alzò dal tavolo, strascicando sul pavimento la sedia, e indietreggiò di qualche passo, afferrando poi una sottile cordicella rossa.

  La ragazza rimase immobile al suo posto, senza sapere cos’altro dire. Si sentiva frastornata, e non aveva idea se fosse colpa del vino o di ciò che aveva scoperto.

  Pochi istanti dopo, lo stesso energumeno che l’aveva condotta a forza al cospetto di Coleman si materializzò sulla soglia della cabina, in attesa degli ordini del suo Capitano.

  «Danso» proruppe il padrone di casa, mentre tornava a sedersi al suo posto. «La nostra ospite è stanca, accompagnala nei suoi alloggi.» E guardò June negli occhi, come sfidandola a ribattere.

  Il suo sottoposto non se lo fece ripetere: si avvicinò a passi pesanti alla giovane e, senza troppiconvenevoli, la prese per un braccio, sollecitandola a seguirlo con un grugnito. Le sue labbra carnose erano talmente strette tra loro, che davano l’impressione che l’uomo si stesse sforzando di mandare giù un boccone particolarmente amaro.

  June si ritrovò costretta ad assecondare l’energumeno e presto, inciampando nei suoi stessi piedi, si ritrovò sulla soglia della cabina. Si stava già preparando a dover affrontare per la seconda volta  il ponte di coperta – e quindi l’indecente equipaggio della Calliope –, quando la voce di Coleman richiamò ancora una volta la sua attenzione: «Ah, Miss Zwaan, un’ultima cosa» disse.

  Lei si voltò e, non appena adocchiò l’uomo, la sensazione che percepì strisciarle lungo la schiena fu di osservare un cobra sul punto di colpire la preda prescelta con i suoi denti veleniferi. «Sì?»

  «È stato gradevole chiacchierare con voi, davvero. Mi auguro di cuore, però, che l’aver condiviso una cena insieme non vi abbia portata a pensare che, una volta a Port Royal, dimostrerò un qualche tipo di compassione per voi, nel momento in cui dovrò concludere i miei affari.»

  Elaine June rimase spiazzata in seguito a quelle parole. Non aveva mai creduto che quel breve colloquio avrebbe potuto rabbonire l’uomo nei suoi confronti;eppure sentirlo palesare così apertamente il disinteresse verso le sue sorti le aprì una voragine nel petto, tanto che le ci volle tutto l’autocontrollo di cui disponeva per non lasciarsi andare alle lacrime.«Non temete, l’idea non mi aveva neppure sfiorato, mioCapitano» replicò con tutta la pacatezza che riuscì a esibire, un sorriso forzato stampato sul volto.

  Soltanto quando fu di nuovo nella stiva della Calliope, le mille ombre che la abitavano come unica compagnia, si permise di lasciarsi andare a un pianto desolato; un pianto che nessuno avrebbe tentato di sedare.

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Capitolo 5
*** Acque nere ***


ACQUE NERE


  Il cigolio della porta destò June dal sonno inquieto nel quale indugiava. Del resto, non avendo altro da fare in quella fetida stiva divenuta per lei prigione, la ragazza trascorreva dormendo quasi tutto il tempo. Gli occhi chiusi e la mente altrove, le sembrava che in quel modo l'ondeggiare delle onde fosse meno feroce, attenuando, anche se appena, l'angoscia della veglia.

  Elaine June aveva quasi del tutto perso la cognizione del tempo che passava: a volte, i giorni le strisciavano addosso con esasperante lentezza; altre, la mente preda di deliri e allucinazioni, era come se scorressero in un battito di ciglia.

  Faticava a comprendere quando fosse giorno e quando notte. Gli unici momenti in cui le veniva concesso di vedere la luce del sole era quando Danso – il gigante dalla pelle d'ebano che aveva il compito di badare a lei – la scortava alle latrine, oppure quando le portava del cibo, il più delle volte rancido.

  Quello, in particolare, era uno di quei momenti.

  «Alzati» proruppe l'uomo, non appena ebbe raggiunto il suo giaciglio. Teneva le mani poggiate sui fianchi in una posa rigida, severa, e, dal tono con cui aveva parlato, non sembrava affatto disposto ad accettare un no come risposta.

  June sollevò appena il capo, gli occhi feriti dal debole riverbero che entrava dalla porta in cima alle scale, rimasta spalancata. Nonostante il bruciore, si ritrovò a fissare con insistenza quei raggi di sole, appena oltre la sagoma tenebrosa di Danso. Li desiderava, agognava di avvertirne il calore sulla pelle, eppure sembravano così distanti, così irraggiungibili.

  «Non ci riesco» sussurrò, dopo aver tentato di attirare a sé le gambe per tirarsi su. Era così debole, che persino tenere il viso alzato le richiedeva un certo sforzo: la fame, la mancanza di luce e le precarie condizioni igieniche stavano portando il suo corpo al limite della sopportazione. Odiava con tutta se stessa farsi vedere tanto fragile, ma non poteva farne a meno, giacché si sentiva sul punto di svenire da un momento all'altro. Mai, in vita sua, avrebbe pensato di potersi ridurre in un simile stato.

  In risposta alla resa di June, Danso grugnì qualcosa, spazientito, dunque si chinò su di lei e la afferrò sotto le ascelle, così da sistemarla in posizione eretta. Nonostante le sue maniere fossero rudi, di solito, questa volta l'uomo si sforzò di essere garbato, comprendendo che quello di June non fosse un semplice capriccio, bensì una reale difficoltà. Come se non pesasse più di una bambola di pezza, sollevò la giovane e le fece appoggiare il capo ciondolante alla parete della cambusa; dopodiché si chinò davanti a lei e disse: «Ho portato da mangiare.»

  Elaine June scosse piano la testa, sforzandosi di ignorare il fatto che la stanza avesse preso a girare su se stessa. Malgrado ciò, poco dopo, si ritrovò di nuovo accasciata nel suo giaciglio, un cumulo di paglia sul quale giorni prima aveva adagiato la sua vestaglia, ormai logora, così da renderlo appena più ospitale. «Non ho fame» biascicò nel mezzo di un sospiro. L'attimo dopo tuttavia, nel silenzio, il suo stomaco protestò, come a voler smentire ciò che aveva appena detto.

  «Devi mangiare» insistette Danso a voce bassa, trascinando un vassoio sulle assi di legno per avvicinarlo a lei. «Avanti.» Nella penombra, i monili che gli adornavano il viso mandavano leggeri riflessi.

  «Quella roba è avariata!» replicò la ragazza, esasperata. Scalciò con le gambe, imprimendo in quel gesto tutta la rabbia che covava dentro di sé, dunque tornò a rannicchiarsi ancor più stretta sul pagliericcio, le braccia allacciate attorno al corpo. «Dalla al tuo Capitano, quella brodaglia; io non la voglio.»

  L'uomo capì che insistere non sarebbe servito: quella ragazza sapeva essere più ostinata di una mandria di muli. Si alzò quindi in piedi con uno sbuffò, lasciando perdere. Indugiò per qualche istante, indeciso sul da farsi, poi si avviò alle scale. Invece di salirle, però, si sedette sul terzo gradino scricchiolante, poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Vuoi lasciarti morire di fame?»

  June non replicò a quelle parole, non sapeva cosa rispondere. Voleva morire di fame? No, certo che no. Ma non voleva nemmeno essere venduta a un qualche signore senza scrupoli, una volta a Port Royal. Se fosse stata abbastanza fortunata, il suo padrone si sarebbe limitato a esibirla come un trofeo; diversamente, avrebbe anche potuto finire per essere stuprata, o persino uccisa. «Non voglio morire» mormorò con voce inespressiva, gli occhi serrati e un rivolo di saliva che, pigro, le colava dall'angolo della bocca dischiusa, per poi essere assorbito dalla paglia sottostante. «Voglio solo che tutto questo finisca.»

  «Siamo solo a metà della traversata, mancano altre sei settimane, almeno.»

  La notizia non la rincuorò, tuttavia, nonostante la debolezza che la pervadeva, Elaine June si sforzò di tirarsi di nuovo a sedere. «Non era questo ciò che volevo dire. Io...»

  «So cosa intendevi» replicò Danso, senza permetterle di terminare il discorso. A differenza del solito, nella sua voce traspariva qualcosa di vagamente rassomigliante alla gentilezza. Dopo qualche istante di silenzio, l'uomo si alzò in piedi, lanciando un'occhiata alle scale, dunque tornò a guardarla, benché nel buio riuscisse a malapena a distinguere la sagoma raggomitolata della giovane. «Ora siamo nel mezzo dell'Atlantico: è troppo tardi per pensare di fuggire.» Si avviò su per i gradini con una calma esasperante, poi, una volta in cima, si voltò e, con appena un soffio di voce, aggiunse: «O, almeno, dipende da quanto sei disposta a rischiare.» Dopodiché, uscì alla luce del sole, richiudendosi la porta alle spalle.

  June tornò a essere sola, circondata dalle stesse tenebre che le avevano tenuto compagnia fino a quel momento. Si rannicchiò nel suo scomodo giaciglio e attirò le ginocchia al petto. Era confusa dalle parole con cui l'uomo di colore si era congedato: che cosa volevano dire? Avevano un senso, o Danso le aveva pronunciate senza motivo, soltanto per turbarla?

  La ragazza chiuse gli occhi, sperando di riuscire a sprofondare nuovamente nell'incoscienza. Fin da subito, i pensieri presero a vagare per la sua mente agitata, a rincorrersi, ad aggrovigliarsi e, infine, a sfilacciarsi. Non riusciva a giungere al termine di una riflessione senza che questa venisse contaminata dal riverbero di un'altra, era inevitabile.

  Dapprima, si ritrovò a pensare alla sua bella stanza a Scharmer, dunque al diario che aveva abbandonato sul fondo dell'armadio. La sua mancanza da casa avrebbe portato le domestiche a profanarlo senza timore di essere scoperte e, June avrebbe potuto scommetterci, quelle pettegole non avrebbero perso l'occasione di malignare sul suo conto, specialmente dopo aver letto ciò che lei aveva scritto riguardo il matrimonio con Aksel Jennsen.

  Ma, in fin dei conti, cos'avrebbe dovuto importarle di quello che avrebbero pensato di lei le domestiche? Elaine June non sarebbe mai più tornata a casa, non avrebbe mai più rivisto l'Olanda, tantomeno Scharmer. Un destino avverso al quale non avrebbe potuto sottrarsi la stava conducendo dall'altra parte del mondo.

  In balìa dell'agitazione, la giovane prese a giocherellare con l'orecchino di perla che portava all'orecchio destro. Quel contatto le concesse quel minimo di sollievo che permise ai suoi pensieri di rallentare la loro corsa. Fu così che, all'improvviso, un'intuizione la folgorò.

  «La porta» sussurrò. Alzò il busto da terra, animata da nuova energia, e il suo sguardo percorse le scale buie, fino a posarsi sul rettangolo bordato dall'oro della luce solare alla loro sommità. Non voleva illudersi inutilmente, ma, ripensandoci con attenzione, era quasi del tutto certa di non aver sentito scattare il chiavistello della porta. Possibile che lo scrupoloso Danso se ne fosse dimenticato?

  June non permise alla sua mente di porsi altri domande. Si alzò in piedi, invece, seppur con molta fatica, e si incamminò verso la rampa di scale.

  Barcollava, si sentiva preda della spossatezza che pervadeva ogni suo arto; tuttavia, la meta non era troppo lontana, e questo le diede la forza di raggiungerla. Si afflosciò sul primo gradino, stanca, e si sforzò di riprendere fiato. Era percorsa da brividi, la testa le girava, aveva i polmoni in fiamme, ma ciò non fu sufficiente a fermarla. Anzi, l'essere arrivata fino a quel punto convinse la ragazza che sarebbe riuscita nel suo intento; dunque raccolse tutte le energie rimastele in corpo e prese a salire la scala, un passo alla volta.

  Quando raggiunse la porta, Elaine June vi si accasciò contro, nel tentativo di riacquisire un respiro quantomeno regolare. Era terrorizzata e, contemporaneamente, eccitata e impaziente di agire: una pericolosa combinazione di emozioni.

  Da appena oltre la porta giungevano pochi rumori: il vociare lontano di qualche d'uno dei pirati e il leggero mormorio del vento. Del resto, secondo i calcoli approssimativi della giovane, avrebbe dovuto calare la notte, di lì a non molto.

  June prese coraggio: si accostò con tutto il corpo alla porta e, piano, fece per dischiuderla.

  Con suo sommo stupore, l'uscio si aprì senza alcuna difficoltà, dandole modo di intravedere, attraverso quel sottile spiraglio, una porzione del ponte di coperta, illuminato dalla luce aranciata del tramonto.

  Non appena fu certa che la porta fosse realmente aperta, June si catapultò di nuovo al suo giaciglio: non doveva sprecare quell'occasione. Avrebbe aspettato il buio, dunque... dunque, cos'avrebbe fatto? Anche se fosse riuscita a uscire da quella stiva senza farsi vedere, dove sarebbe andata? Si trovava su un veliero nel mezzo dell'oceano: non aveva modo di fuggire.

  A meno che... «A meno che, non riesca a calare una scialuppa in acqua, in qualche modo, e ad allontanarmi il più possibile da qui» concluse, pensando ad alta voce, rannicchiata contro la parete di legno del deposito, le ginocchia strette al petto e le dita di nuovo indaffarate nel torturarsi l'orecchino di perla.

  Era cosciente che, anche se il suo piano fosse filato liscio e fosse riuscita a scappare, avrebbe facilmente perso la vita tra le onde impietose dell'oceano, ma ciò non fu sufficiente a distoglierla dai suoi intenti: se ne sarebbe andata dalla Calliope, viva o morta.

  Erano trascorse ormai diverse ore da quando Elaine June aveva ideato il suo piano di fuga: era finalmente giunto il momento di metterlo in pratica.

  Con tutta la calma possibile, la giovane risalì le scale e si accostò alla soglia, pregando che nessuno si fosse accorto della dimenticanza di Danso e che, dunque, fosse ancora agibile. Fortunatamente, la situazione non era cambiata, quindi June, poco a poco, schiuse la porta fino a quando non le fu possibile sgusciarci attraverso.

  Una volta sul ponte di coperta, si bloccò, incerta sul da farsi. Giù nella stiva aveva programmato ogni minimo passo da compiere; ora, tuttavia, il suo corpo sembrava come paralizzato. Il cuore le batteva contro il petto con tanta forza da sembrare sul punto di scoppiare e, di nuovo, le mancava il respiro. Ciò nonostante, si sforzò di calmarsi: avrebbe avuto tempo più tardi per avere una crisi di nervi.

  La buona sorte era dalla sua parte: il ponte sembrava deserto. June si sforzò di allontanare ogni timore e si convinse ad agire. Con estrema circospezione, si richiuse la porta alle spalle, dunque si diresse in prossimità del parapetto, lontana da qualsiasi fonte di luce, così da rendere più difficile l'essere scoperta. Una volta nei pressi della balaustra intagliata del ponte, decise di seguirla per tutta la sua lunghezza, finché non avesse trovato una scialuppa.

  Svariate volte, June si ritrovò a inciampare nell'accozzaglia di oggetti disseminati sulla superficie di legno del ponte; una di queste, quasi rischiò di tagliarsi il palmo nudo di un piede, ma fortunatamente riuscì a evitare in tempo l'oggetto tagliente. Addirittura, la giovane tramutò quel mezzo disastro in un vantaggio: si era procurata una lama con cui recidere le corde della barchetta che avrebbe fatto sua.

  Finalmente, giunse nei pressi di una delle scialuppe del veliero. Era ben più grande di quanto si sarebbe aspettata: sarebbe stato parecchio difficile calarla in mare da sola. Nonostante questo, June non si lasciò scoraggiare. Al contrario, iniziò subito a passare la lama su una delle funi che tenevano l'imbarcazione fissata al suo alloggio.

  Le ci volle parecchio per riuscire a tagliare tutte le corde: del resto, più volte aveva dovuto interrompersi, a causa del dolore alle mani, sulle quali erano già comparse diverse vesciche, e per le ronde dei pirati, che spesso le passavano a soli pochi passi di distanza, ciarlando ad alta voce.

  Quando la scialuppa fu pronta da calare in mare, June era sfinita. Tuttavia, non poteva permettersi di riposare: avrebbe recuperato le forze una volta in mare. Con un sistema di leve e manovelle, riuscì a portare la piccola imbarcazione al livello del parapetto, dunque, a forza di spintoni, la fece precipitare tra le acque tumultuose dell'oceano, simili a una voragine senza fondo. Per grazia divina, la scialuppa non si rovesciò durante la caduta e, dopo un momento in cui sembrò sul punto di inabissarsi, si stabilizzò, accostata alla Calliope per mezzo dell'unica fune che June, previdentemente, non aveva reciso.

  Non appena capì che la barchetta era abbastanza resistente da combattere le imponenti onde che la squassavano, la ragazza trasse un profondo respiro e scavalcò il parapetto, pronta a raggiungerla.

  Una volta aggrappata al lato esterno della balaustra, June guardò giù, verso le acque che l'attendevano. Ora che era giunto il momento di saltare, non si sentiva più così sicura di voler procedere. Aveva paura. Più precisamente, era terrorizzata. Si sentiva il cuore in gola, tremava. In parte era dovuto al vento freddo, che tentava di strapparle di dosso la sottoveste, ma soprattutto era per l'agitazione.

  In ogni caso, sapeva che se avesse continuato a tergiversare, non sarebbe mai riuscita a racimolare abbastanza coraggio da lanciarsi. Dunque inspirò profondamente, trattenne il respiro nei polmoni e mollò la presa delle dita attorno al parapetto.

  Le acque nere sottostanti la accolsero nel loro gelido abbraccio.

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Capitolo 6
*** Lacrime d'argento ***


LACRIME D'ARGENTO

 

  L'impatto con la superficie appena increspata dell'oceano fu devastante. In un solo istante, il gelo le penetrò nella carne, fin dentro le ossa, strappandole con rabbia il respiro dal petto.

  June si ritrovò travolta dalla veemenza dell’oceano, completamente disorientata, spuma in balìa delle onde. Il cuore aveva preso a batterle in ogni anfratto del corpo, ticchettandole nella testa come a voler scandire i secondi di vita che le sfuggivano, inesorabili, tra le dita. I capelli biondi, oro liquido che assecondava l’andamento dei flutti marini, presero a danzarle intorno al viso, oscurandole la vista.

  In che direzione era il cielo – e con esso l’aria e la salvezza? In quale altra l’attendevano, invece, gli abissi più profondi, pronti a inghiottirla? Era talmente fuori di sé da non riuscire a comprenderlo. Prese a dibattersi, accecata dall’istintiva paura che aveva preso a stritolarle le viscere, dalla terribile sensazione di soffocamento che le dava l'acqua mentre tentava di penetrarle dalle labbra e dalle narici. Aveva bisogno di respirare; la gola e il petto le dolevano, sembravano sul punto di esplodere, di strapparsi.

  Preda della disperazione, si ritrovò a chiedersi come avesse potuto credere di poter riuscire nell’impresa che si era prefissata? Avrebbe dovuto capirlo subito che, anche con l’aiuto di Dio, si sarebbe rivelata un’opera impossibile. Aveva pensato che sarebbe stato meglio fronteggiare l’oceano per sua scelta, piuttosto che assecondare il volere di Coleman, arrendevole come una schiava; tuttavia, ora, l’impulso naturale alla sopravvivenza la stava maledicendo per quella folle decisione. 

  Coraggio è la parola più educata per definire la stupidità. Le sovvennero quelle parole frattanto che la sua mente andava alla deriva, accondiscendente, leggera. Era una frase che June si era sentita ripetere spesso da suo padre, quando era solo una bambina irrequieta che si arrampicava sugli alberi e che si vantava con – l'allora gracile – Aksel Jenssen di essere valorosa e temeraria quanto, se non più, di lui. Non aveva mai dato troppo peso a quelle parole, così severe e tediose, non le aveva soppesate come avrebbe dovuto fare; soltanto ora, troppo tardi, ne comprendeva appieno il significato.

  Fu proprio quando ormai aveva perso ogni speranza che June, in un ultimo istante di lucidità, scorse un leggero bagliore al limitare del suo campo visivo. Dapprima convinta che fosse un'allucinazione, un delirio della mente, dettato dal suo volersi aggrappare alla vita, si rese presto conto che si trattava invece della tenue luminescenza della luna. Essa riusciva, seppur a stento, a filtrare oltre lo specchio dell'acqua sotto il quale lei era intrappolata, donandogli meravigliose sfumature argentate che le riempirono il cuore di un sentimento simile all'estasi.

  Non è troppo tardi, June, le sembrò di sentirsi bisbigliare nell’orecchio da una voce sinuosa, ammaliante. Poteva trattarsi di una sirena, oppure di sua madre. Lotta e vivi, non arrenderti.

  Le sfuggì un verso strozzato, subito inghiottito dall'inossidabile silenzio dell'oceano. Non sarebbe morta. Non in quel momento; non in quel modo. Benché stremata, la giovane prese ad agitare gambe e braccia con foga, arrancando in direzione della luce, quindi della salvezza. Ce l'avrebbe fatta, sarebbe sopravvissuta.

  Non appena riuscì a riemergere dagli abissi, Elaine June inspirò così profondamente da inebriare i polmoni d'aria salmastra, lo sguardo rivolto al cielo stellato più bello che avesse mai visto: un’infinita distesa di diamanti incastonata nel firmamento. L'istante dopo si ritrovò a piangere di gratitudine, il petto scosso da singhiozzi mentre annaspava per restare a galla.

  Le ci volle qualche minuto per calmarsi e regolarizzare il battito frenetico del cuore, delirante per la gioia di essere ancora viva; dunque, una volta tornata in sé, June si guardò attorno, di nuovo apprensiva, in cerca del profilo della scialuppa. Scoprì che la corrente l'aveva sospinta ad almeno una decina di metri di distanza dalla piccola imbarcazione ancora ormeggiata alla Calliope.

  Oltremodo stanca e infreddolita, le sembrò che l'acqua fosse divenuta gelatina mentre, ripescando gli ultimi stralci di forza di volontà, si sforzava di muovere un poco gli arti, così da avvicinarsi pian piano alla lancia.

  Una volta nei pressi della scialuppa che aveva calato in mare poco prima, June si aggrappò al bordo intagliato della stessa e, faticosamente, vi si issò all'interno, stramazzando con ben poca grazia sul fondo, tra le panche in legno. In qualche modo riuscì a voltarsi supina, il viso puntato sulla volta celeste stellata, dunque calò le palpebre, respirando a fatica dalle labbra schiuse. «Sono viva, madre» solo questo riuscì a bisbigliare tra sé, prima di abbandonarsi, sfinita, tra le braccia della notte.

  Si svegliò di soprassalto poco dopo, con una terribile sensazione di soffocamento che le attanagliava la gola.

  In uno spasmo inspirò quanta più aria possibile, aggrappandosi ai bordi dell'imbarcazione, la quale aveva preso a oscillare insistentemente a causa sua, e comprese: era stato solo un incubo. Nessuno l'aveva davvero incatenata sul fondo dell'oceano, nessuno la stava guardando annegare.

  June si passò una mano sulla fronte sudata, così da togliere i capelli appiccicati a essa, e si guardò attorno, tra le fitte tenebre della notte. Fu con sgomento che si rese conto di essere ancora nei pressi della Calliope: scioccamente, si era addormentata prima di poter recidere l'ultima corda che teneva ormeggiata la scialuppa alla nave madre.

  A tentoni, ogni traccia di sonno ormai svanita e sostituita dalla smania di agire, recuperò il coltello che aveva provvidenzialmente gettato sul fondo della lancia e prese a passarne la lama affilata sulla grossa fune che la tratteneva alla Calliope. Aveva i palmi ricoperti di dolorose vesciche, ma le fitte che queste le procuravano erano solo un irrilevante dettaglio, nient’affatto in grado di minare la sua determinazione.

  Non appena la corda fu recisa, la piccola barchetta si discostò dallo scafo dell’imponente sorella maggiore, assecondando il moto delle onde. June, sollevata, si lasciò cadere su una delle panche e osservò il maestoso profilo della nave madre stagliarsi contro il nero della notte, le stelle che, simili a lacrime, formavano un’aureola d’argento attorno a essa. Le venne quasi da ridere nel ripensare a quante volte, da bambina, si era ritrovata a immaginarsi a bordo di un’imbarcazione del genere, senza idea che un giorno il suo desiderio sarebbe stato esaudito, anche se non come aveva sperato.

  Trasse un profondo sospiro nel rendersi conto che, mentre la sua piccola scialuppa si lasciava trasportare dal moto delle acque nella direzione opposta, la sagoma della Calliope stava divenendo sempre più lontana e misera, un insignificante puntino nell’inquantificabile vastezza dell’oceano.

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Capitolo 7
*** L'inganno ***


L'INGANNO ✾

  Furono degli scossoni e dei grugniti a destarla dal sonno profondo e senza sogni nel quale era, suo malgrado, sprofondata. Dopo essersi allontanata dalla Calliope quanto bastava da non avvertire più quello spiacevole groppo in gola che le dava la sua sola vicinanza, June si era rannicchiata tra le panche della sua piccola scialuppa e, troppo stanca per potervisi opporre, aveva ceduto al torpore, affidando la sua salvezza all’oceano.

  La ragazza spalancò gli occhi, frastornata da quel brusco risveglio e dalla luce improvvisa che la abbagliò, e si ritrovò a boccheggiare, sconvolta, quando mise a fuoco il volto raggrinzito dal tempo di un uomo. Esso, i tratti marcati distorti in uno sgradevole sorriso, si trovava ad appena una spanna dal suo naso, rischiarato dal sole nascente che proveniva da un punto indefinito alle spalle della giovane.

  Si sforzò di credere che fosse soltanto un altro sogno – un incubo, piuttosto –, ma un sordo dolore all’altezza delle spalle fece sfumare in breve quell’idea. Elaine June abbassò lo sguardo, in cerca della fonte di quel fastidio, e si rese conto che erano delle dita strette con ferocia attorno alla sua carne a procurarglielo. «No» le sfuggì in un sussurro strozzato, mentre pian piano la mente si schiariva e si rendeva conto di ciò che stava accadendo. L’avevano trovata, era stato tutto inutile.

  «Dove stavi scappando, bella signorina?» le alitò in faccia l’uomo che la immobilizzava, i denti gialli e storti in bella vista e i pochi capelli che gli restavano arruffati dal vento. Senza troppi complimenti, premette il naso sul collo della ragazza, inspirando, come se volesse saggiarne il sapore, e, mentre un suo compagno si premurava di legarle i polsi dietro la schiena, aggiunse in un biaschichio: «Che buon profumo, immagino il resto.» E le poggiò una mano sul fianco, così da togliere ogni sottinteso a quelle parole.

  June, disgustata da quel contatto, si dimenò nella stretta delle due iene, seppur conscia che non sarebbe servito a nulla. Prese a urlare, a scalciare, tanto che la scialuppa prese a ondeggiare, ma ogni tentativo di liberarsi fu vano. Anzi, il risultato fu lo stringersi delle corde attorno ai suoi polsi. «Lasciatemi andare!» sbraitò, furiosa e ancora leggermente stordita dalla stanchezza, mentre uno degli sconosciuti, quello che le aveva parlato poco prima, la costringeva in un angolo della scialuppa, un sorriso bieco dipinto in volto mentre la sfidava con lo sguardo a disubbidirgli.

  L’altro uomo, un tipo alto, robusto e nudo dalla cintola in su, i cui muscoli guizzavano sotto la pelle resa ambrata dal sole, aveva preso a vogare con energia, sbuffando di tanto in tanto per la fatica. La ragazza seguì con lo sguardo la direzione verso cui si stavano dirigendo e si sentì venir meno nello scorgere, tratteggiata sull’orizzonte innanzi a loro, l’inconfondibile sagoma della Calliope, ad attenderli. Fu così che ebbe la conferma che quei due bruti erano membri della ciurma di Coleman e che la stavano riportando da lui. Le vennero le lacrime agli occhi nel rendersi conto che era quasi annegata per nulla. Tornò con la mente alla tremenda sensazione di soffocamento, alla disperazione che aveva provato pensando che fosse giunta la sua ora e faticò a trattenere dentro di sé il bisogno di sfogare l’angoscia che si sentiva formicolare sottopelle. Tuttavia, non avrebbe dato a quegli uomini la soddisfazione di vederla piangere; tantomeno a Basil Coleman. Sigillò le labbra in una linea sottile, mordendosi l’interno delle guance, e tenne lo sguardo dritto di fronte a sé, imperturbabile all’apparenza, benché dentro si stesse sentendo morire.

  In appena una ventina di minuti, o poco più, la piccola lancia fu di nuovo al fianco della nave madre dalle vele ritratte, che sembrava indugiare in sua attesa, come una chioccia avrebbe fatto con il suo pulcino. Nonostante i nuovi moti di ribellione messi in scena da June, che si dibatté fino allo sfinimento, la ragazza venne issata a bordo del veliero senza particolari sforzi da uno dei due uomini che l’avevano riacciuffata, il rematore, il quale se l’era caricata su una spalla mentre si inerpicava sulla scala di corda.

  Elaine June si ritrovò accasciata sul ponte di coperta, al centro di un asfissiante cerchio composto da quella che, ai suoi occhi, poteva essere l’intera ciurmaglia della Calliope. Benché avesse ancora indosso la stessa camicia da notte con la quale era stata rapita – ormai più di un mese prima –, essa, impregnata dell’umidità dell’oceano, le aderiva al corpo come una seconda pelle e ciò le dava la terrificante sensazione di essere nuda di fronte a tutti quegli uomini. Questi, con i loro apprezzamenti poco eleganti, non facevano che accrescere quell’impressione.

  «Bene» tuonò d’un tratto una voce imperiosa, talmente forte e dirompente da ridurre al silenzio l’intera nave. L’istante dopo, un rumore cadenzato di passi che si approssimavano riempì le orecchie di June, ancora riversa sul pavimento di legno, i lunghi capelli a oscurarle la vista. Non le serviva vedere, però, per sapere che era Coleman l’individuo che, ostentando un’invidiabile flemma, si stava avvicinando a lei.

  Qualche momento più tardi, avvertì una mano posarsi sulla sua schiena, leggera. Provò a scacciarla, sentendosi come violata da quel tocco dalle parvenze gentili, tuttavia, a causa dei polsi legati, il tentativo fu misero. «Non mi toccate» sibilò dunque, inarcando il corpo vibrante di rabbia, come una corda di violino appena accarezzata.

  «Lady Zwaan, è un piacere rivedervi. Vi siete goduta la gita notturna?» sussurrò Basil Coleman, chinandosi su un ginocchio, così da avvicinare il viso a quello di June. Con quella che somigliava molto alla delicatezza, le scostò alcune ciocche bionde dietro l’orecchio e le sfiorò una guancia. «È una fortuna che non vi siate ferita. Sapete, l’oceano sa essere molto insidioso.»

  La ragazza alzò di scatto il capo, incontrando lo sguardo del Capitano. I suoi occhi erano blu, profondi e spietati come l’oceano. Le corse un brivido lungo la schiena a quel pensiero, ma si sforzò di ignorarlo. «Perché? Perché tutto ciò? Cosa vi ho fatto?»

  L’uomo rise in risposta a quelle domande e si alzò in piedi, le mani poggiate sui fianchi e il petto in fuori. «Perché?» esclamò, prendendo a camminare intorno a lei. Dunque, una volta tornato alla postazione iniziale, si fermò, si grattò il mento ispido di barba e concluse: «Ma che domande, mia cara, stavo semplicemente cercando di mettervi alla prova.» Indietreggiò di un passo, senza mai dare le spalle alla ragazza, dopodiché fece un fugace cenno con il capo, rivolto alla cerchia di uomini assiepati attorno a loro due, che osservavano la scena in rigoroso silenzio.

  Appena pochi istanti dopo, June si sentì sollevare da mani poco gentili, fino a ritrovarsi in posizione eretta. Stavolta non si ribellò, ben sapendo che sarebbe stato inutile. «Mettermi alla prova?» chiese invece, confusa. Di cosa stava parlando? Non riusciva a capire.

  Coleman sorrise; sembrava divertito da quella situazione, come se tutto stesse seguendo un suo piano ben preciso. «La porta, Miss Zwaan.» Si voltò, lanciando un’occhiata all’uscio che conduceva alla stiva che, fino alla sera precedente, le aveva fatto da prigione; poi tornò a guardarla. «Come avete potuto pensare che fosse stata lasciata aperta per sbaglio?»

  A quella rivelazione, la giovane sentì le gambe cederle. Fu solo grazie ai due uomini che la sorreggevano per le braccia che non crollò a terra. «Co-cosa...» La voce si spense, il respiro le venne meno e prese ad ansimare. Contemporaneamente, con gli occhi passò in rassegna la ciurma di pirati che la attorniava, in cerca di Danso. Nemmeno per un secondo aveva pensato che si trattasse di una trappola, né che quell’uomo, che era riuscito a dimostrarsi appena più clemente dei suoi compagni, stesse facendo il doppiogioco.

  Quando lo individuò tra la folla, in disparte rispetto agli altri, gli rivolse un’occhiata colma di incredulità e sconforto. Lui, impassibile, ricambiò il suo sguardo senza battere ciglio. Non sembrava pentito di ciò che aveva fatto, tantomeno dispiaciuto per le sorti della ragazza. Per lui si era trattato di un ordine da adempiere, evidentemente, nulla di più.

  «Esatto, Signorina Zwaan. Avete capito bene» intervenne di nuovo il Capitano della nave, ponendosi proprio innanzi a lei, così da catturare i suoi occhi ed essere al centro dell’attenzione, sua e degli uomini che li attorniavano. «La vostra fuga... o, per meglio dire, il vostro patetico tentativo di fuga, era stato predisposto dal sottoscritto. Io ho cortesemente invitato Danso a essere gentile con voi. Io gli ho chiesto di farvi credere di averlo dalla vostra parte. E sempre io gli ho suggerito di dimenticarsi accidentalmente di chiudere la porta con il chiavistello.» Si attorcigliò un boccolo della ragazza attorno a un dito e se lo portò al viso, solleticandosi con esso le labbra. «Insomma, ero curioso di scoprire fino a che punto vi sareste spinta.»

  June si ritrovò senza parole. Non riusciva a credere che tutto ciò che aveva passato fosse stato per un capriccio di quell’uomo. «Io... io stavo per annegare... io... voi...» Era talmente sbigottita, da non sentirsi più neppure arrabbiata. Era come se tutta la collera che fino a un istante prima provava fosse stata risucchiata fuori dal suo corpo, lasciandola completamente vuota, incapace di provare qualsivoglia emozione.

  «Lady Zwaan, non siate drammatica» replicò il pirata, scacciando i suoi farfuglii con un gesto della mano ingioiellata, quella a cui mancavano due dita. «Siete rimasta sott’acqua appena un minuto, o poco più. Non avete mai rischiato seriamente di annegare, vi ho tenuto d’occhio. Sapete quanto siete preziosa per me.»

  E poi, fu come se tutta la rabbia che le era stata prosciugata dal corpo in seguito alla rivelazione le venisse restituita a forza, pigiata, e calcata, e incuneata nella sua pancia, amplificata di dieci volte, di cento. «Voi... voi siete un mostro!» si ritrovò a sbraitare Elaine June, furibonda come non era mai stata prima in tutta la sua vita. Nemmeno quando suo padre le aveva detto che si sarebbe dovuta sposare con un uomo per cui non provava niente; nemmeno quando sua madre era morta, lasciandola sola. Prese a dimenarsi nella presa dei due bruti che la imprigionavano, sfruttando ogni grammo della forza scaturita dalla collera che la infiammava, e aggiunse ancora, urlando: «Siete un barbaro, un... un bastardo. Mi nauseate, siete disgustoso!»

  Basil Coleman scoppiò in un’oscena risata nell’udire simili epiteti scaturire dalla bocca della ragazza, che fino a quel momento si era mostrata sempre irreprensibilmente misurata con le parole. Lo stesso fecero i suoi uomini, che si unirono a lui in quello che presto si trasformò in qualcosa di simile a un ululato. «Non è molto educato, da parte vostra, utilizzare simili termini. Non è un comportamento da brave signorine.»

  June lo ignorò deliberatamente. «Dovreste marcire all’inferno!» proseguì, imperterrita, le unghie conficcate nei palmi. «Solo questo meritate.»

  L’uomo alzò le spalle, quasi a darle ragione. «Può darsi, Signorina Zwaan. Un giorno, quando si vedrà necessario, immagino che dovrò espiare tutte le mie colpe, in un modo o nell’altro. Ma non è questo il giorno. Adesso, piuttosto, sarete voi a pagare per ciò che avete fatto.» Coleman indietreggiò di un passo e prese ad armeggiare con la cintura dei pantaloni. «Sapete, mia cara, avete irrimediabilmente tradito la fiducia che avevo riposto in voi, scappando in quel modo. E rubando una delle mie scialuppe, per di più.»

  Elaine June, il cuore in gola, cercò di riacquistare un contegno, pur terrorizzata da quello che sarebbe potuto accaderle. «Cos’avete intenzione di fare?» chiese, il mento sollevato e lo sguardo fermo. Qualsiasi cosa sarebbe successa, non avrebbe pianto né chiesto pietà. Non si sarebbe abbassata a supplicare il perdono di un simile individuo.

  «Portate pazienza, tra non molto lo scoprirete» fu la vaga risposta che ricevette da Coleman. Dunque l’uomo rivolse un nuovo cenno ai due sottoposti che sorreggevano June e attese che la facessero voltare di schiena. Una volta girata, le scostò i capelli dalla nuca, sistemandoli oltre le spalle, ed estrasse dal fodero del gilet un pugnale dal manico d’avorio, il suo preferito. Ne saggiò la punta con un pollice, poi si passò con delicatezza la lama sulla lingua, sorridendo come se ne traesse piacere.

  «Mia cara, imparerete che su questa nave, la mia nave, il tradimento ha un prezzo molto alto» bisbigliò, nella voce la suadenza di un cobra pronto ad attaccare la sua vittima dopo averla a lungo ipnotizzata. Dopodiché, senza indugiare oltre, introdusse l’estremità del coltello nel tessuto ricamato della veste della giovane, all’altezza dell’osso sacro, fino ad avvertire la consistenza corposa della sua carne. Attese di scorgere  le spalle di June irrigidirsi, comprensibilmente turbata dal contatto della pelle con quel metallo freddo e mortale; dunque, con un gesto deciso, trascinò la lama versò l’alto, aprendo uno squarcio nella stoffa pregiata per tutta la lunghezza del busto, fino al colletto.

  I lembi di tessuto ricaddero su loro stessi, come petali di un fiore appassito, lasciando così la pelle nuda della ragazza alla mercé degli uomini della Calliope, dai quali si sollevarono subito commenti e risate. June strinse i denti, sentendosi umiliata come mai in vita sua, ma non proferì parola: sapeva che il peggio doveva ancora venire.
Pochi istanti dopo, si sentì percorrere la schiena da una mano ruvida, crudele. «Che pelle morbida avete» le sussurrò il Capitano all’orecchio, posando il mento, ispido di barba, sulla sua spalla nuda. «È un vero peccato doverla rovinare.»

  La giovane voltò appena la testa, il corpo teso come una corda, e vide l’uomo sfilarsi dalla vita la cintura che poco prima aveva allentato. Sapeva cosa sarebbe successo, ora. Tornò così a fissare lo sguardo davanti a sé, costringendosi a essere forte, a essere coraggiosa. Perché, in fondo, non riteneva che il coraggio fosse sinonimo di stupidità, come affermava suo padre e come si era convinta a credere mentre era intrappolata sott’acqua. Il coraggio, per lei, rappresentava semplicemente un particolare modo di porsi di fronte a situazioni ardue da affrontare.

  Qualche istante dopo, un fruscio acuto riempì l’aria, le sue orecchie. Irrigidì la schiena, pronta a ricevere il colpo, e trattenne il respiro, gli occhi sbarrati a fissare il sole che sorgeva proprio innanzi a lei.

  Arrivò lo schiocco, violento, crudele.

  Eppure... eppure quella sferzata non portò con sé il dolore a cui June si era preparata.

  Una risata, rauca e gutturale, si insinuò nel fastidioso ronzio che aveva farcito la testa della ragazza. Elaine June voltò il capo e si ritrovò a scrutare il Capitano Coleman mentre si risistemava la cintura in vita, la bocca tirata in un’espressione divertita.

  Il sollievo che la travolse fu incalcolabile, tanto che, per un istante, la sua vista si offuscò. Trasse un profondo respiro e si sforzò di rallentare il battito del cuore. Avrebbe voluto chiedere che cosa l’avesse fermato dal punirla, come sembrava sua intenzione fare sino a un istante prima, ma il timore che l’uomo potesse cambiare nuovamente idea la fermò.

  Fu Coleman a dissipare i dubbi. Ordinò ai suoi uomini di voltare verso di lui la ragazza, dunque le si avvicinò, fino a quando il suo naso arrivò a sfiorare quello di June, e disse: «Lady Zwaan, ve l’ho detto: siete preziosa per me. Chi mai vi vorrebbe, una volta a Port Royal, se vi presentassi con degli orribili sfregi sulla schiena?» Le accarezzò una guancia, quasi con affetto paterno, poi indietreggiò nuovamente di un passo, schioccò le dita e urlò, rivolto al cielo, più che a qualcuno in particolare: «All’albero di mezzana. Niente cibo né acqua per tre giorni.» 

 

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MINUSCOLO SPAZIO AUTRICE

Salve lettori! 
Se state aprrezzando questa storia (o se avete qualche consigli o critica da darmi/farmi) non esitate a farvi sentire!
Mi piacerebbe molto sapere che ne pensate :D

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Capitolo 8
*** Interludio di pioggia ***


✾ INTERLUDIO DI PIOGGIA 

  Per due giorni il sole si era dimostrato implacabile nell’infrangersi sulla pelle di June. L’aveva spezzata e piagata senza alcuna pietà, insensibile alla sofferenza che le provocava. Sembrava volesse punirla, rea di aver osato opporsi al suo destino. Comportandosi come un amante feroce e possessivo, aveva carezzato e baciato e lambito quel corpo indifeso fino a straziarlo.

  Soltanto il terzo e ultimo giorno dell’immotivato castigo divino che Elaine June doveva scontare, – come se qualcuno, lassù, avesse ascoltato le sue preghiere – il cielo si coprì di grossi nuvoloni temporaleschi, che somigliavano a batuffoli intrisi di cenere, coprendo quel sole malvagio che tanto l’aveva fatta soffrire. La pioggia, pur facendosi ancora desiderare, sembrava imminente.

  Elaine June era stremata. Non fosse stato per le corde che la tenevano ancorata all'albero di mezzana, sarebbe stata soltanto un cumulo di carne e ossa abbandonato sul ponte di coperta. Era talmente priva di forze e logorata nell’anima, che non riusciva a reagire nemmeno di fronte alla sfrontatezza degli uomini di Coleman, i quali si avvicinavano in continuazione a lei per rivolgerle i loro volgari apprezzamenti o per toccarla, addirittura. Neppure quando il giorno prima Wibert, un ghigno impresso sulla bocca per metà sdentata, aveva osato insinuare le mani sotto le sue vesti con la scusa di vincere una scommessa, la ragazza aveva protestato, tanto era debole. Si era limitata a serrare gli occhi e ad attendere che l'uomo venisse ripreso e allontanato da Danso, appostato non troppo distante da lei, così da salvaguardare la sua incolumità. Poi si era sforzata di deglutire in silenzio quel boccone amaro, troppo grande e spigoloso per essere mandato giù senza far male, e aveva ripreso a contare i minuti che la separavano dalla fine di quella tortura.

  Soltanto quando le prime gocce, fresche e corroboranti, le scivolarono tra i capelli e lungo le braccia trovò la forza per sollevare il viso e lanciare un'occhiata implorante al cielo. Aveva sempre apprezzato la pioggia, il lento scorrere delle gocce sulla finestra della sua stanza, il regolare ticchettio che di notte cullava il suo sonno. Ma mai come in quel preciso momento l’aveva amata. Schiuse la bocca, agognando quell'acqua pura che l'avrebbe dissetata, e finalmente, non appena la pioggia crebbe d'intensità fino a diventare un potente scroscio, si concesse di lasciarsi andare al pianto, speranzosa che quei piccoli diamanti che cadevano dal cielo avrebbero mascherato le sue lacrime.

  Fu un temporale passeggero, durò appena un'ora, o poco più; ciò nonostante, fu sufficiente a restituire a June quel tanto di energie che le furono necessarie a resistere fino al tramonto.

  Quando le prime stelle della sera cominciarono ad affacciarsi in quel cielo rassomigliante a inchiostro, preciso come l'arrivo dell'alta marea, Coleman si presentò innanzi a June. Indossava una camicia di lino inamidata, abbottonata fino alla gola, dove si apriva poi in un colletto ricamato, e gli stivali erano tirati a lucido, come se per lui si trattasse di un giorno di festa. Del resto, dall'espressione soddisfatta impressa sul suo volto, sembrava sicuro di essere finalmente riuscito a spezzare la volontà della prigioniera.

  L’uomo prese un gran sospiro, gonfiando d'aria il petto mentre si carezzava la rada barba che gli copriva il mento, e, dopo essersi schiarito la voce, ordinò a Danso, sopraggiunto alle sue spalle, di liberare la giovane.

  Non appena le corde che la imprigionavano vennero sciolte, June si ritrovò a barcollare come ubriaca, in preda alla nausea e alla debolezza. Si aggrappò con le unghie all'albero di mezzana, sperando di riuscire a mantenere l'equilibrio; invece pochi istanti dopo le gambe cedettero e crollò a terra, in preda alle violente convulsioni che le scuotevano lo stomaco. Da giorni non vedeva l'ombra di cibo, ma era come se il suo corpo fosse deciso a rivoltarsi a mo' di un guanto, o, forse, a espellere le viscere stesse, avvelenate dalla rabbia che aveva covato.

  Le ci volle qualche minuto per calmarsi e riacquistare un contegno; dunque alzò il capo, sfregandosi con un polso le labbra rese aride dalla sete, e rivolse uno sguardo carico d'astio a Coleman. In vita sua, non aveva mai odiato tanto qualcuno, nemmeno suo padre e l'indifferenza che da sempre aveva mostrato nei suoi riguardi. Prima o poi, quel mostro avrebbe pagato caro il trattamento che le stava riservando, lo giurò a Dio e a se stessa.

  Coleman, in qualche modo consapevole di ciò che passava per la testa della ragazza, piegò il capo di lato, un leggero sorriso a increspargli l'angolo destro della bocca. «E, dopotutto, siete ancora in grado di sfidarmi, Miss Zwaan» esordì, come se stesse proseguendo un discorso già da tempo iniziato. La sua voce era permeata da un tono allegro, derisorio, e risultava evidente che traesse piacere da quella situazione. Si inginocchiò di fronte alla giovane e allungò una mano per carezzarle il volto bruciato dal sole e dalla salsedine. «Ma non potete vincere. È una lotta persa in partenza, la vostra.»

  Elaine June si ritrasse dal suo tocco e, pur avendo la bocca riarsa, gli sputò addosso un grumo di saliva, colpendolo proprio sul petto. «Non toccatemi» ringhiò poi, la voce arrochita dalla penuria d’acqua, ma lo stesso ben comprensibile. «Non osate toccarmi, viscido verme.» E stavolta sillabò quelle parole, caricandole di tutta la collera che le era cresciuta dentro in quei giorni, simile a un parassita che, di ora in ora, di minuto in minuto, aveva acquisito sempre più vigore, fino a prendere pieno possesso del suo corpo.

  Di fronte alla rabbia esternata dalla prigioniera, il Capitano sorrise appena, socchiudendo gli occhi plumbei in un modo che, a sguardo esterno, poteva ricordare quello dei gatti. Erano abili, quegli animali, a fingersi distratti, mentre invece stavano preparando il loro agguato; allo stesso modo, Coleman sapeva nascondere senza fatica ciò che realmente pensava.

  Senza fretta, l’uomo estrasse da un taschino un fazzoletto candido, ricamato con orli di pizzo, e, senza staccare gli occhi da quelli della ragazza, prese a strofinarselo sulla camicia, pulendola alla bell'e meglio. «Come sapete, mi piacciono le donne che non si fanno mettere facilmente i piedi in testa. Tuttavia, mi duole davvero dovervelo dire, al momento non sono dell'umore per starvi a sentire, né ne ho il tempo. Ho altri problemi a cui pensare.» Fece dunque un gesto con la mano verso Danso e continuò, rivolto all'energumeno di colore: «Scorta la mia ospite nei suoi alloggi; credo abbia bisogno di placare i bollenti spiriti. Appena hai finito, vieni nella mia cabina.» Salutando June con un veloce inchino che sapeva di beffa, le diede le spalle e, senza ulteriori indugi, tornò sui suoi passi.

  Come ordinato, la ragazza venne ricondotta nella cambusa della nave. Le furono concessi una fiaschetta di vino e un'abbondante porzione di zuppa di pesce insapore e lei trangugiò tutto in pochi minuti, troppo affamata per pensare di protestare per la pessima qualità di quel cibo. Non appena ebbe finito, Danso – il volto illuminato flebilmente dalla luce della lanterna che aveva acceso per scendere le scale – mostrò a June un ammasso di catene tintinnanti che si era fatto comparire tra le mani.

  Benché sapesse che era inutile discutere, la giovane chiese: «Non vi basta tenermi segregata qui, dunque? Volete legarmi come un cane, adesso?»

  Come se nemmeno avesse aperto bocca, Danso si mise al lavoro, fissando un'estremità della catena a un piolo della scala; dopodiché si avvicinò a June e, con un lieve movimento della testa, le fece cenno di porgere i polsi. «Hai tentato a fuggire, Coleman vuole essere sicuro che non ci proverai di nuovo.»

  Ben sapendo che opporsi sarebbe stato inutile, June allungò i polsi in avanti e lasciò che l'uomo facesse scorrere i gelidi anelli della catena sulla sua pelle. «L'ho fatto perché tu me lo hai permesso» ribatté, trattenendo a stento la rabbia che le schiumava dentro nel pronunciare quelle parole. Lei si era fidata ciecamente di lui, aveva creduto che volesse aiutarla; invece era stata tradita nel peggiore dei modi.

  Le ombre prodotte dalle fiamme intrappolate nella lanterna danzavano sul volto del pirata, la sua espressione, tuttavia, rimase impassibile. «Era un ordine, ho solo obbedito. E tu avresti provato in ogni caso a fuggire, prima o poi.»

  Elaine June sogghignò amaramente, dei brividi che le correvano lungo la schiena. «Certo, non hai abbastanza spina dorsale per disobbedire al tuo Capitano. Nessuno di voi ne ha, siete i suoi sudici servi, fate tutto ciò che vi ordina come degli animali ammaestrati. Siete feccia.»

  Danso le rivolse un'occhiata granitica e June poté giurare di aver intravisto qualcosa, oltre al livore, in quello sguardo; tuttavia il contatto visivo fu troppo breve perché potesse averne la certezza. Fece per aggiungere altro, così da costringere l'uomo a risponderle, magari addirittura a fargli perdere quella sua flemma e indurlo ad ammettere quanto anche lui odiasse Coleman; ma il pirata, dopo aver stretto le catene attorno alle sue caviglie ed essersi assicurato con uno strattone che avrebbero retto a qualsiasi altro tentativo di fuga da parte della ragazza, afferrò la lanterna e se ne andò, lasciandola sola a crogiolarsi nel dubbio.

 

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Auguri e buon 2018 a tutti!

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Capitolo 9
*** Bestie annidate nel buio ***


ATTENZIONE, in questo capitolo non è presente linguaggio sessualmente esplicito, ma i lettori più sensibili potrebbero restare lievemente turbati dai contenuti forti, che ho comunque trattato nella maniera più pacata possibile. 

Buona lettura a chi deciderà di proseguire!
 

✾ BESTIE ANNIDATE NEL BUIO 

 

  Fin da quando era bambina, June aveva sempre avuto timore del buio. 

  Prima che fosse in grado di discernere tra menzogna e realtà, una delle domestiche della magione Zwaan, sua coetanea, era riuscita a farcirle la mente di terribili storie di fantasmi e assassini mentre alla sera le rimboccava le coperte. La bambina era infatti invidiosa dei bei vestiti di foggia italiana che la sua padroncina indossava e dei gioielli che le venivano regalati dagli ospiti del padre, e quello era l'unico modo che aveva, per quanto subdolo e meschino, di rivalersi su di lei.

  La domestica le raccontava che era con il favore delle tenebre che gli esseri malvagi di cui le aveva parlato uscivano allo scoperto e rapivano le brave signorine nascoste sotto le coperte, per poi ucciderle brutalmente. Ed era proprio per questo, nonostante il suo smisurato amore per l'avventura, che per anni Elaine June aveva convissuto con il terrore di chiudere gli occhi e abbandonarsi al buio. Sapeva che la sua era una paura irrazionale, ma restava più forte di lei.

  Almeno fino al giorno in cui la ragazza si era azzardata a confessare al padre le sue paure. "I mostri non esistono, sono solo il frutto della mente imperfetta dei fanciulli. E degli scrittori, ovviamente. Soltanto quegli inutili fannulloni sono in grado di credere a simili scempiaggini, una volta adulti. E probabilmente anche le ragazzette viziate che sfogliano i loro romanzetti da quattro soldi" aveva asserito lui, ben sapendo che la figlia fosse un'accanita lettrice.

  Nemmeno di fronte alla confessione di June e al suo palese tentativo di costruire tra loro un rapporto che non era mai esistito, Erasmus Zwaan aveva messo da parte l’algidità e il rigore che lo contraddistinguevano in favore di qualche briciola d’amore e comprensione da dispensare alla figlia. Con quelle parole annichilenti, al contrario, aveva fatto sentire June sciocca e inadeguata, un'inutile lavativa che non faceva altro che farcirsi la testa di storie e avventure, anziché pensare alla vita reale.

  Da quel momento in poi, la giovane si era costretta a relegare in un angolo della mente le sue paure e a convincersi che nulla di male le sarebbe accaduto. Non potendo essere il figlio maschio che Erasmus avrebbe voluto, si era sforzata di mostrarsi quantomeno all’altezza del cognome che portava, trasformando il suo entusiasmo in morigeratezza, serietà e posatezza. Non poteva immaginare che, tempo dopo, in una notte buia e tempestosa, i suoi timori di bambina si sarebbero dimostrati fondati.

  Ora, lontana da tutto ciò che conosceva e tra le mani di un uomo senza scrupoli, la paura dell'ignoto e dell’oscurità si era inevitabilmente riaccesa in lei. La sentiva strisciare sottopelle, infarcirle la mente, occupare ogni anfratto del suo corpo.

  Ciò nondimeno, a causa della sofferenza che le aveva provocato la prolungata esposizione alla luce del sole, June, in qualche modo, si ritrovò a compiacersi del buio che l’avvolgeva e della freschezza che esso portava con sé. La pelle le tirava e bruciava, arsa dal calore che aveva assorbito e - non fosse stato per il modo in cui le attanagliavano polsi e caviglie - persino il contatto con le catene, gelide quanto il ghiaccio, risultava quasi piacevole.

  Elaine June stava per crollare nell'incoscienza. Era arrabbiata con se stessa per aver miseramente sprecato la sua unica possibilità di fuga - e, ancor più, per non aver capito che si trattava di un inganno -, non voleva cedere alle lusinghe del sonno, tuttavia era troppo stanca per potervi resistere ancora a lungo. Poco a poco, le palpebre stavano diventando sempre più pesanti e il torpore calava sulle sue membra stanche.

  Per quanto concesso dalle catene, si allungò sul giaciglio di pagliericcio, in cerca di una posizione in cui non avrebbe sentito troppo fastidio, e cercò di rilassarsi. Non erano trascorsi che pochi istanti, che la sua mente era già corsa ai campi di tulipani che circondavano la sua casa a Scharmer. Al suo fianco poteva avvertire la presenza confortante di Regen, il suo cavallo, l'unico vero amico che avesse mai avuto, e nelle narici sentiva il profumo dei fiori mescolato all'odore pungente che proveniva dal lago Borgmeren, poco distante. Una gradevole sensazione prese a scaldarle la pancia, tanto da farle piegare le labbra in un leggero sorriso, tanto da stringerle la gola in un groppo. Era talmente intenso, quel piacere, da risultarle quasi doloroso.

  Fu uno schiocco improvviso a riportare June alla realtà, catapultandola nuovamente in quella fetida cambusa da dove aveva tentato di fuggire in mille modi diversi.

  Gli occhi della giovane, ormai abituatisi alle tenebre, individuarono subito lo spiraglio di luce lunare che entrava dalla porta appena schiusa in cima alle scale. Prima che essa venisse nuovamente serrata, fu persino in grado di scorgere il contorno di alcune figure umane che, con aria circospetta, scendevano i primi gradini.

  «Buonasera, meine liebe» proruppe dopo pochi istanti una voce graffiante, che recava uno spiccato accento tedesco a lei fastidiosamente familiare. Era pervasa dalle note asprigne dell'alcol e portava con sé un cattivo presagio. «Io e i miei amici abbiamo pensato che avresti gradito un po' di compagnia.»

  Non appena udite quelle parole biascicate, il cuore di June prese a battere all'impazzata, come a metterla in guardia dal probabile pericolo. Era l'istinto della preda, l'impulso alla conservazione, lo sapeva.

  Non osò aprire bocca. Si alzò in piedi, invece, e fece per correre a nascondersi dietro uno dei barili di rum di cui era stipata la cambusa. Presto, tuttavia, fu costretta a rammentarsi delle catene, proprio quando queste si serrarono come fauci attorno alle sue estremità legate, impedendole di fare più di qualche misero passo. Era in trappola.

  «Meine kleine dame» sentì canticchiare poco dopo, riconoscendo vagamente il significato di quelle parole di origine tedesca. Il tono con cui erano state pronunciate non sembrava minaccioso, eppure una scarica elettrica percorse la spina dorsale della ragazza, spezzandole il respiro in gola. «Dove sei? Ti stai nascondendo?»

  Benché le costasse ammetterlo, Elaine June sapeva di non avere vie di scampo. «C-chi siete?» balbettò, la schiena poggiata alla parete lignea della stiva e lo sguardo che vagava per l'ambiente tenebroso, in cerca di un qualsiasi movimento che le rivelasse la natura degli intrusi. «Cosa volete?»

  In risposta, la ragazza udì giungerle alle orecchie una serie di risate appena sussurrate. «Te l'ha appena detto Wibert, tesoro, l'aria di mare ti ha reso sorda?» si intromise una seconda voce, proveniente da tanto vicino a lei che una zaffata di alcol misto a sudore le ostruì le narici. «O e stato il troppo sole a stordirti?»

  June non fece in tempo a rispondere. Un'improvvisa esplosione di luce la costrinse a schermarsi in tutta fretta gli occhi e, nel frattempo, la stessa persona di poco prima continuò dicendo: «Siamo qui per farti un po' di compagnia. Non sai quanto ci dispiaceva saperti qui tutta sola.»

  A Elaine June sfuggì un sussulto nel sentirsi sfiorare da mani mordaci che tentavano di afferrarla e attirarla a sé. «Non toccatemi!» strepitò, ritraendosi il più possibile mentre inciampava nella paglia che le faceva da giaciglio. Poggiata alla fiancata della Calliope, si guardò attorno, gli occhi feriti dalla luce della lanterna, e si ritrovò a squadrare i volti di tre individui, i quali le tagliavano ogni possibile via di fuga per le scale.

  Riconobbe subito il tipo più vicino a lei: era Wibert, l'uomo dalle fattezze di scheletro che l'aveva infastidita più e più volte nei giorni precedenti. Le sue iridi scure erano rese ancor più cupe dalle ombre prodotte dal fuoco e le labbra erano arricciate in un sorriso che metteva in bella mostra i denti storti e ben poco curati. Avrebbe voluto colpirlo con uno schiaffo, di nuovo, così da ripagarlo del vergognoso trattamento che le aveva riservato mentre era impossibilitata a difendersi, legata a quel dannato albero a patire fame e sete; tuttavia si trattenne, conscia che esporsi in quel modo non sarebbe stata una buona idea.

  Il secondo uomo su cui posò lo sguardo, quello che reggeva la lucerna, le apparve subito ben più vecchio di Wibert. Aveva la mascella sporgente, ricoperta di una rada peluria bianca, e una benda gli celava l'occhio destro, probabilmente cieco; anche lui sorrideva, contraendo in continuazione un angolo della bocca, come preda di uno spasmo nervoso. Aveva già visto in precedenza quel tizio, ma non rammentava nulla di particolare sul suo conto: doveva essersi tenuto in disparte, senza infastidirla troppo o mettersi in mostra, come altri suoi compagni, al contrario, avevano fatto.

  L'ultimo intruso, lievemente in disparte rispetto ai compari, la stava osservando con occhi rapaci da dietro le schiene degli altri, accostato con la spalla a un tramezzo della nave. Benché fosse il più lontano, fu quello che più spaventò June, probabilmente a causa del cipiglio che gli incupiva lo sguardo, o, più probabilmente, per via della grossa cicatrice frastagliata che gli percorreva tutta la guancia destra, dal mento al sopracciglio, donandogli un aspetto tutt'altro che piacevole.

  In seguito a quel veloce esame, la ragazza riportò l'attenzione su Wibert, il pirata più vicino a lei, quello che, al momento, rappresentava la maggior minaccia. «Cosa volete? Non dovreste essere qui, andatevene» affermò, sostenendo con un tocco d'insolenza lo sguardo dell'uomo che aveva di fronte, benché ne fosse a dir poco spaventata. Avvertì una goccia di sudore scivolarle lentamente lungo la tempia, ma la ignorò.

  «Non dovremmo?» le fece eco Wibert, mentre si aggiustava la fusciacca legata in vita, a sostenere i pantaloni di tela grezza. «E chi sei tu per dirlo, eh? Unser Kapitän

  Grazie alle lezioni che le erano state impartite fin da quando aveva appena sette anni, Elaine June parlava scorrevolmente l'olandese, ovviamente, l'inglese e il francese. Il tedesco non le era stato insegnato, giacché suo padre l'aveva ritenuto superfluo, tuttavia non le risultava troppo difficile comprenderlo, data la somiglianza con la sua lingua madre. «I-io no, ma Coleman sì!» esalò in un soffio, sforzandosi di non dare a vedere con quanta ferocia l’angoscia avesse preso a palpitarle in ogni anfratto del corpo. «E lui non vuole che mi venga fatto del male. Lo sapete, non potete toccarmi. Oppure verrete tutti quanti puniti!»

  L'uomo esitò mentre si massaggiava il mento spigoloso, lo sguardo vitreo fisso sul viso della ragazza, ben illuminato dalla luce prodotta dalla lanterna che sorreggeva il compare più vecchio.

  Candido e immacolato era quel volto, perfetto come la porcellana; ora, invece, avrebbe potuto essere paragonato all'avorio appena colto da creature viventi: impuro in superficie, ma temprato e ben più prezioso sotto lo sporco.

  «Sai che ti dico? Hai ragione.» Wibert si voltò verso i compagni e sollevò le spalle in un sospiro rassegnato. «Se Coleman ci scoprisse ci farebbe tagliare le mani, wahrscheinlich

  «O la lingua!» intervenne l'uomo con la benda sull'occhio, ammiccando con quello sano a June mentre si faceva oscillare la lampada vicino al viso, così da crearvi ombre mutevoli.

  «O le palle» concluse il pirata che se ne stava in disparte, arricciando il naso in una smorfia che peggiorava ancor più il suo aspetto.

  «Scheiße, Cliff, quelle mi servono!» esclamò Wibert, portandosi la mano alla cintura in un gesto scaramantico. I tre risero sommessamente scambiandosi qualche occhiata, dunque quello che appariva come il cervello del terzetto tornò a rivolgersi alla ragazza e, quasi con delicatezza, le sfiorò la guancia con un dito. «Tuttavia, credo che correremo il rischio, meine liebe. Sai, dopo settimane per mare sentiamo parecchio la mancanza della dolce compagnia di una donna. Ma non devi aver paura per noi, schatz, Coleman non ci scoprirà, faremo piano, senza fare rumore.» Le ultime parole furono appena un sussurro. Si portò quindi l'indice alla bocca e tirò le labbra in un sorriso tetro, che non arrivò agli occhi. «E tu non farai parola di nulla, giusto? Perché se proverai ad aprire bocca sai bene la fine che farai, mmh?» Da un taschino della camicia il predone estrasse il pugnale più piccolo che June avesse mai visto: l'impugnatura scompariva del tutto nella mano del proprietario e la lama era così sottile e acuminata che probabilmente sarebbe stata in grado di trapassarle il cuore da parte a parte.

  Come se le avesse letto nella mente, l'uomo avvicinò l'arma allo sterno della ragazza, tracciando un disegno astratto sulla sua soffice pelle, e aggiunse: «Ti aprirei la gola da parte a parte e poi ti getterei in mare, in pasto agli squali.»

  L'orbo sghignazzò alle parole del compare, battendogli la mano sulla spalla. «Oh, sì. Si che lo farà, te lo dice Jeod!»

  «Allora, Coleman verrà a sapere qualcosa di tutto ciò?» insistette Wibert, sollevandole il mento con la lama del coltello perché lo guardasse negli occhi.

  Troppo spaventata anche solo per respirare, June non si azzardò a replicare alle minacce, consapevole che sarebbe stato meglio non tirare troppo la corda con quel pirata, forse persino più crudele del suo Capitano. Si morse il labbro inferiore, buttando fuori dal naso l'aria trattenuta nei polmoni fino a quel momento, e scosse appena la testa.

  Wibert assentì con un cenno, rimettendo al suo posto il pugnale. «Gut.» Dunque, senza sprecare ulteriore tempo, si avventò sulla sua preda. La afferrò per i polsi, già di per sé incatenati, e premette il corpo contro il suo, imprigionandola tra la sua considerevole stazza e la parete. Chinò poi la testa, così da incontrare il viso di June, e, come aveva desiderato fare fin dal primo momento che le aveva posato gli occhi addosso, cercò di baciarla.

  Invano però, perché lei prese a lottare e a divincolarsi, combattendo il voltastomaco che le dava la vicinanza con quel miserabile, la sensazione delle sue mani sulla pelle, il puzzo di alcol e sudiciume a intasarle le narici. «No, no! Lasciatemi! Non voglio. Non voglio, vi prego. Per favore...»

  «Non opporre resistenza, principessina» intervenne l'uomo di nome Jeod, intento a osservare la scena di violenza con un ghigno impresso sulla bocca, in buona parte sdentata. «Sarà peggio.» E, dopo aver depositato la lanterna sul barile più vicino, si avvicinò per aiutare il compagno.

  June non gli diede retta; al contrario, prese a scalciare con ancor più vigore, a urlare e a tentare di spingere via Wibert. Non aveva mai dovuto affrontare nulla del genere, le sembrava di essere intrappolata in un incubo senza via d’uscita, in una spirale di umiliazione e dolore. Si ritrovò a rammaricarsi di aver con così tanto fervore condannato suo padre per volerla dare in sposa ai Jenssen: l’avrebbe condannata a un matrimonio senza amore né avventura al fianco di Aksel, in favore soltanto di un suo profitto economico, tuttavia sarebbe stata una vita facile, agiata. Nessuno avrebbe cercato di venderla come una schiava, o frustarla, o, ancora, stuprarla se avesse accettato di buon cuore quel destino, senza opporvisi come invece aveva fatto.

  Dal canto suo, imperturbabile di fronte alla disperazione che trapelava sul volto di June mentre tentava di dissuaderlo dai suoi intenti, Wibert aveva già i calzoni calati e stava tentando con sempre maggior ferocia di insinuare una gamba tra le ginocchia serrate della ragazza, mentre, al contempo, le sollevava i lembi della sottoveste, tastando quella carne fresca, inviolata, su cui nessun altro aveva ancora mai posato le mani.

  Non c'era più nulla da fare, June lo sapeva. Avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, invocare la misericordia di quegli uomini, ma era cosciente che anche le preghiere più accorate sarebbero state inutili. E se avesse urlato con quanto fiato aveva in corpo, quei tre l'avrebbero uccisa prima ancora di scoprire se qualcuno sarebbe giunto in suo soccorso.

  La gola stretta nella morsa di uno dei due uomini, il respiro stentato, le orecchie imbottite delle risate di quelle viscide bestie, smise una volta per tutte di combattere e, stremata, si lasciò andare.

  Aveva creduto di avere ancora un po' di tempo, aveva creduto che finché fosse durato il viaggio per Port Royal sarebbe stata relativamente al sicuro su quella nave, custodita dal Capitano. Ma si era sbagliata. «Dio non ci dà mai più di quanto possiamo sopportare» esalò a fior di labbra, le guance percorse dalle lacrime e l’anima lacerata.

  «Non piangere, meine fräulein, piacerà anche a te.»

  Disgustata, avvilita, June sentì tra le cosce la presenza del pirata e si preparò alla violenta intrusione da parte sua, il corpo rigido, i denti stretti, gli occhi fissi sul soffitto irregolare della stiva, su cui si infrangevano le fiamme mutevoli della lanterna, uniche testimoni di quanto avrebbe subìto.

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