Rossane - il fiore di Persia

di EffyLou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Moqaddame - prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Yek ***
Capitolo 3: *** 2. Do ***
Capitolo 4: *** 3. Seh ***
Capitolo 5: *** 4. Chahar ***
Capitolo 6: *** 5. Panj ***
Capitolo 7: *** 6. Sehsh ***
Capitolo 8: *** 7. Haft ***
Capitolo 9: *** 8. Hasht ***
Capitolo 10: *** 9. Noh ***
Capitolo 11: *** 10. Dah ***
Capitolo 12: *** 11. Yaz-dah ***
Capitolo 13: *** 12. Davaz-dah ***
Capitolo 14: *** 13. Seez-dah ***
Capitolo 15: *** 14. Chahar-dah ***
Capitolo 16: *** 15. Poonz-dah ***
Capitolo 17: *** 16. Shoonz-dah ***
Capitolo 18: *** 17. Heev-dah ***
Capitolo 19: *** 18. Heezh-dah ***
Capitolo 20: *** 19. Nooz-dah ***
Capitolo 21: *** 20. Beest ***
Capitolo 22: *** 21. Yaz-beest ***
Capitolo 23: *** 22. Davaz-beest ***
Capitolo 24: *** 23. Seez-beest ***
Capitolo 25: *** 24. Chahar-beest ***



Capitolo 1
*** 0. Moqaddame - prologo ***


Premessa

I. Nonostante la presenza di Alessandro Magno e le sue gesta per circa 30 capitoli, non è incentrata su di lui ma su Rossane, la sua prima moglie. Una figura totalmente anonima, oscurata da diversi fattori storico-culturali, ma che era presente e non molto mite...
Ciò che riguarda questa donna (all'epoca poco più di una ragazzina) è quasi nullo e molto vago: nessuno descrisse con esattessa il suo aspetto fisico, limitandosi a dire che fosse la fanciulla più bella di Persia dopo Statira I, moglie di re Dario III; non si fa accenno nemmeno alla sua personalità. Tuttavia le donne della Persia Achemenide erano molto emancipate, al punto che potevano diventare satrapi o persino Immortali. In particolare i nativi della Battria-Sogdiana (come Rossane) erano sotto le influenze Scite, di cui facevano parte le famose Amazzoni, ed erano considerati feroci e agguerriti. Rossane stessa, ci è dato credere, che fosse stata una donna focosa e agguerrita. 
Cercherò di parlare del contesto persiano, l'aspetto antropologico e religioso, mettendolo a paragone con quello greco-macedone. Spero di rendere questa storia un viaggio nel passato. 

II. Ho sempre amato Alessandro Magno come personaggio storico, nonostante alcune sue brutalità, ma non avevo alcuna intenzione di scrivere su di lui. È una figura complessa e sfaccettata, e il rischio di snaturarla e fare un fiasco totale... è alto. Già temo di averlo fatto mentre scrivevo i capitoli in cui è presente, figuriamoci. 
Allo stesso tempo, a darmi l'input per scrivere questa storia fu un articolo online dedicato interamente a Rossane. Questa fanciulla che dai confini del mondo ha sposato una delle figure più straordinarie della storia. Personalmente dubito che lu l'abbia sposata solo per calcolo politico: ovviamente anche per quello, ma credo anche in una punta di romanticismo. Anche se se io questa storia l'ho resa più romantica di quanto, probabilmente, in realtà non fosse, senza togliere quel rapporto burrascoso che avevano HAHAH Nonostante questo, i due si sono voluti bene: dopo tante difficoltà superate insieme si era instaurata una buona complicità, al punto che Alessandro la voleva portare con sé anche durante la spedizione in Arabia, lasciando le altre due mogli a Susa.
Una nota per le Alessandro/Efestione shippers (?): non la troverete. Non come volete voi, immagino. In primo luogo perché la storia tratta di Rossane in primis; in secondo luogo perché ho dei dubbi sulla natura romantica tra i due. Credo sia stato un rapporto molto discreto, limitato ad atteggiamenti e parole piuttosto che ad azioni (baci, rapporti) come invece accadeva tra Alessandro e l'eunuco Bagoa, amanti veri e propri. Non so se mi spiego..
Vi prego quindi di evitarmi commenti come: "Alessandro era omosessuale" perché no, non lo era. Era bisessuale/pansessuale come il 99,9% dei greci, macedoni e persiani del tempo. Non esisteva questa polarizzazione all'epoca.
Troverete accenni di entrambi i rapporti, comunque, ma nessuna scena precisa. 

III. Per ultimo voglio chiedervi di cercare di dimenticare la nostra etica e morale. La storia è ambientata in un luogo lontano e in un tempo lontano, si parla di avvenimenti accaduti più di duemila anni fa. Gli usi, costumi, la mentalità, le persone.... erano molto diversi da noi oggi. Ciò che ora troviamo ripugnante o senza senso, all'epoca era normalità. Perciò vi chiedo di tener conto di questo prima di giudicare i personaggi, cercare di incastrare i loro comportamenti e motivazioni nel contesto del loro tempo.
Neanche dovrei farlo questo discorso, veramente, deve essere scontato, ma ho avuto lettrici che mi hanno fatto cadere le braccia a terra per certi commenti.

Fonti usate:
- il sito del professor Kaveh Forrokh per gli approfondimenti sui vari aspetti culturali della Persia Achemenide;
- una cronologia riassuntiva e dettagliata degli eventi sul sito leonardo.it.

Revisioni:
Revisione in corso dei capitoli pubblicati (prima parte della storia) + aggiunta (su EFP) dei capitoli dal 25 al 31.
La revisione di questi capitoli sarà molto generica e superficiale. Al termine della storia, la revisionerò in modo completo e radicale.



 


Moqaddame
prologo


 
 
 
Impero di Persia, regione di Sogdiana, provincia di Battria.
Città di Ai Khanum1, 328 a.C.


 
Amu era brava a suonare il santur. Quando le mezrab, le bacchette, sfioravano le corde cominciava magia. Ti portava in un regno dove tutto sembrava lontano e ovattato, quasi onirico e ultraterreno.
C'era un che di mistico nel suono di quello strumento.
Amu aveva ventuno anni, i suoi capelli erano neri e ondulati, lucenti, sempre ordinati con fermargli d'oro. Gli occhi erano di un profondo blu, simile al cielo notturno rischiarato dalla debole luce lunare. Suonava il santur e adorava creare bracciali con perle e minerali preziosi.
Il padre le diceva sempre che con il suo rango poteva avere tutti i gioielli che voleva, ma Amu si divertiva a fabbricarseli da sé. Inoltre, talvolta, le piacevano anche di più proprio perché erano personali.
Darya aveva quattordici anni, somigliava ad Amu solo che aveva gli occhi con un taglio diverso, più allungato, le labbra erano sottili e il naso leggermente adunco. Era ancora acerba, aveva tanto tempo per crescere.
Vivace e sbarazzina, i suoi capelli erano sempre in disordine e questo faceva dannare la balia che l'aveva cresciuta.
La loro madre era morta pochi giorni dopo la nascita di Darya per un'infezione, ma nessuno l'aveva detto alla ragazzina per non farla sentire responsabile. Le fu raccontato che morì quando aveva tre anni a causa di una malattia sconosciuta.
Darya era ingenua, innocente, pura. Credeva a tutti, anche agli sconosciuti. Era una sognatrice, si metteva spesso appoggiata al davanzale della sua stanza e sospirava guardando le montagne del Paropamiso2.
Rossane era la secondogenita, aveva diciannove anni. Era un po' diversa dalle due sorelle: la sua chioma era più chiara, i capelli si curvavano in una moltitudine di onde e riccioli poco definiti; gli enormi occhi felini erano di un colore simile all’oro vecchio; il naso all'insù, le labbra delicate, il volto a cuore.
Si considerava meno bella di sua sorella Amu, eppure di lei dicevano che fosse la fanciulla più bella dell'Asia. Il fiore di Persia.
Non ci aveva fatto molto caso a quelle dicerie. Molti uomini l'avevano chiesta in sposa, ma Rossane non era poi così interessata all'amore. I suoi piani non prevedevano il matrimonio. La principessa aveva un’idea molto chiara del suo futuro, in accordo anche con suo padre Ossiarte che la seguiva nei suoi studi politici.
Amu, che era promessa al figlio di un satrapo dell'impero persiano, le diceva che invece poteva nascere l'amore e non c'era niente di meglio.
Ma Amu si sbagliava, qualcosa di meglio c'era: la cultura.
 
Quel giorno le tre sorelle erano nelle stanze del palazzo riservato alle donne, l'harem.
Sentivano la balia cantare una nenia mentre tesseva, le concubine di loro padre ridere e ballare, suonare. Amu suonava il santur, Darya guardava fuori la finestra, Rossane leggeva alcune pergamene. Copie dell'Epopea di Gilgamesh.
Quel giorno erano quattro anni che loro padre, con l’esercito battriano, era partito per il cuore dell’impero per dare man forte al Gran Re Dario III nella battaglia contro l’invasione macedone.
Avevano poi saputo che, dopo la battaglia di Gaugamela, il sovrano si era dato alla fuga per non cadere in mano al re nemico.
«Perché dobbiamo starcene confinate qui? Nostro padre non è a palazzo, possiamo uscire» si lamentò Rossane, gettando la testa sui grossi cuscini cobalto sul pavimento, appena sotto una finestra con i vetri colorati e le grate.
Non le piaceva stare nel serraglio. Era un posto profumato e colorato, rilassante, ma la faceva sentire prigioniera in casa sua.
«Sta calando il sole, Rossane. Non è più sicuro uscire dalle mura del palazzo» le spiegò Amu, dolcemente.
Aveva smesso di suonare, stava accordando le corde del santur per quando l'avrebbe suonato di nuovo, così si sarebbe risparmiata quei preparativi. Il santur aveva tra le settanta e le cento corde da accordare. Era uno strumento complesso che tutte le donne del palazzo sapevano suonare, ma Amu era senza dubbio la migliore. Persino più brava di Fayruz, la favorita del satrapo.
Forse suo padre l'avrebbe presa in sposa.
«Nemmeno nel giardino interno?» provò a dire, districandosi dai suoi pensieri.
Amu scosse la testa.
Un eunuco fece l'ingresso nell'harem, vestito con abiti neri e un copricapo alto e rettangolare, da cui scendeva un velo semi trasparente che copriva la parte bassa del viso, lasciando gli occhi scoperti. Aveva le palpebre truccate con una linea di kajal e una polvere azzurra. Suo padre l'aveva acquistato in Egitto, uno schiavo senza più un nome proprio3
«Il mio signore vostro padre è alle porte di Ai Khanum. La cena verrà servita non appena si sarà ripulito delle polveri del viaggio».
Dovevano dunque prepararsi ad essere ricevute dal satrapo4.
Era un uomo di mezz'età, i capelli neri brizzolati, anelli e collane d'oro. Rossane non sapeva come definirlo, tuttavia adorava suo padre. Darya era quella più restìa ad averci a che fare, ed era più rilassata quando lui non era a palazzo, nonostante ella negasse e affermasse invece che le mancasse la presenza di suo padre.

Le tre sorelle si lavarono nella grande vasca di mosaico dei bagni.
C'erano alcuni servitori presenti, pronti a massaggiare le carni delle fanciulle con oli profumati e rimuovere la peluria.
Loro ridevano nell'acqua fumante della vasca, strofinandosi la pelle a vicenda con sali speciali, purificando l'epidermide. Quando uscirono dall'acqua alcune concubine le aiutarono a indossare dei teli per asciugarsi e ne avvolsero altri attorno ai loro capelli lucenti. Si stesero su dei lettini morbidi e imbottiti da cuscini, supine, e gli eunuchi spalmarono la pasta nūra in ogni punto del corpo per rimuovere ogni segno di peluria, anche minima ed invisibile. Mentre attendevano che la pasta depilatoria facesse il suo corso, alcune concubine si affrettarono a sistemare le loro sopracciglia con pinzette metalliche e truccare i loro visi con polveri dai colori tenui e kajal sulle palpebre.
Quando la crema venne rimossa, la loro pelle era liscia e morbida come seta. Gli eunuchi s'impegnarono per renderla ancora più bella, attraverso i massaggi con gli oli profumati.
Tornate nelle loro stanze, alcune servitrici le aiutarono con l'acconciatura. Intrecciarono pietre preziose, perle, spessi filamenti d'oro, ai loro capelli. Le aiutarono ad indossare gli abiti per la cena. Le braghe, una camicia lunga di lino, e due tuniche colorate la più corta sopra quella più lunga.
Non era un abbigliamento molto diverso da quello degli uomini, ma le donne persiane ci tenevano particolarmente agli abiti ricamati, la cura del viso, a risaltare i punti del corpo ritenuti importanti quali il punto vita e il seno.

Rossane era esile, con ben poco seno da esaltare. Al contrario di altri popoli come la Grecia, l'impero persiano non imponeva un modello femminile di bellezza poiché copriva una parte così vasta del mondo che le donne e gli uomini variavano anche drasticamente in base alle regioni.
Certo, le donne in carne erano favorite: la loro corporatura morbida era indice di buona salute e orientata verso la procreazione, ma nessuno sdegnava le fanciulle esili come le tre principesse.
Le tre sorelle fecero il loro ingresso nella sala dei banchetti di Ossiarte. C'erano anche la balia Mizda e Fayruz. Il satrapo era scuro in viso, non rivolse uno sguardo a nessuna di loro e mangiò in silenzio. Amu cercò di spezzare il silenzio parlandogli di ciò che avevano fatto in quei quasi quattro anni, ma Ossiarte non guardava, non ascoltava, e presto la giovane si zittì per l'umiliazione di così poca considerazione da parte del suo amato padre.
«Domani partirete» esordì, al termine della cena.
Rossane fece scattare la testa nella sua direzione. «E andare dove? Perché?»
«Perché così ho deciso» replicò, secco. «Andrete alla rocca di Arimazes5. Partirete all'alba, anche tu Mizda e anche tu Fayruz. Io finirò di disporre le ultime cose qui in città e vi raggiungerò. Questo è quanto. Buonanotte».
Ossiarte aveva lasciato le cinque donne in un'atmosfera gelida fatta di interrogativi e confusione. Non aveva dato spiegazioni, l'unica direttiva era andare. Partire. La rocca di Arimazes era inespugnabile, inaccessibile. Per quale motivo voleva mandarle lì?
Amu scoppiò a piangere, scappando nella sua stanza. Darya era rimasta interdetta, mille ipotesi pessimistiche le sfioravano la mente. Forse suo padre non le voleva più.
Rossane, invece, era di altro avviso. Al contrario delle sue sorelle, aveva una vaga idea dei tumulti che stavano avvenendo per mano del re di Macedonia. Aveva invaso la Battria, avanzava tra le montagne, e presto sarebbe arrivato ad Ai Khanum.
Non sapeva altro, ma questo le bastava per formulare ipotesi. Fu grata a suo padre per aver disposto la loro partenza già dal giorno successivo verso un luogo sicuro.

Si ritirò nelle sue stanze. Avrebbe dovuto dormire il più possibile, la partenza era prevista all'alba e sarebbe stato un lungo viaggio.
Una servitrice la seguì per aiutarla svestirla, struccarla, districarle i capelli e prepararle una valigia con tutti i suoi effetti.
Rossane la fermò con uno sguardo. «Metti solo le camice di lino, i pantaloni, e le tuniche leggere. In un sacco mettici i sandali, gli stivali, le altre scarpe con la punta arricciata. Niente gioielli, niente profumi, niente cosmetici. Non voglio caricarmi di pesi inutili, sarà un lungo viaggio» sospirò «…e portami l'Epopea di Gilgamesh»
«Sì, mia signora».

Avvolta nella sua lunga veste da notte, i capelli sciolti sulle spalle, Rossane uscì sulla balconata del palazzo. Le montagne oscure alla sua destra, il fiume Oxus che scorreva placido a sinistra, la città che si estendeva nella vallata. Fumi, luci, le musiche che venivano dalle strade, la brezza fredda invernale che arrivava dalle montagne. Avrebbe dovuto abbandonare quel luogo dopo quella notte, vivere in una rocca inespugnabile. Era la cosa migliore, certo, ma per quanto tempo? Rossane aveva paura di fare la fine del topo.
Non seppe dire per quanto tempo rimase lì a contemplare la città, ma le musiche andarono a scemare e le luci delle case si spensero poco a poco. Doveva rientrare, era molto tardi.
Nel corridoio verso la sua camera, passò di fronte allo studio di suo padre. Ossiarte era dentro, una candela accesa sullo scrittoio e un generale in piedi di fronte ad esso.

«Consentitemi, mio signore, ma a mio parere dovrebbe seguire le sue figlie alla rocca di Arimazes. È rischioso restare qui e lei non sa quando potrà raggiungerle»
«Non posso. Ci sono cose che devo disporre, ma le seguirò al più presto. Conto di partire tra una settimana. Fidati di me».
Rossane si appiattì sulla parete vicino all'arcata. Non c'era una porta, solo una pesante tenda verde impediva di sbirciare all'interno. Sentì una terza voce, gracchiante, di Pirsar. Il funzionario del re che ogni tanto gli inviava missive per comunicare i movimenti di Ossiarte.
Un vecchio spelacchiato che guardava in modo viscido e lascivo le figlie del satrapo, in particolare la piccola Darya.
«Non dannarti l'anima, Ossiarte. Avete fatto la cosa giusta»
«Pirsar tu dici così perché odiavi Dario. Come Besso, Satibarzane, e Spitamene. Ma hai visto loro che fine hanno fatto? Trucidati dal conquistatore straniero. Sono rimasto l'ultimo» un sospiro rammaricato gli sfuggì dalle labbra prima di caricarsi di rabbia. «Quegli inetti! Non sono stati neanche in grado di uccidere a dovere un re! Dario si fidava di loro, era nelle loro grinfie. E non l'hanno pugnalato nemmeno a dovere, quegli idioti! Stanno pagando per la loro superbia»
«Come può il re di Macedonia conoscere i nomi dei satrapi traditori, mio signore?» domandò il generale.
«Ha trovato Dario morente, lui gli ha comunicato i nostri nomi. E lui ha deciso di vendicarlo. È qui, in Battria, e sta facendo stragi tra i civili per trovarci. Besso è stato così idiota e pomposo da essersi autoproclamato re di Persia. Satibarzane è stato il primo a morire, in un conflitto a viso aperto con il conquistatore. Barsente fu il secondo: l'idiota tentò la fuga verso l'India ma fu catturato e consegnato al re macedone. Spitamene fu il peggiore, infame fino alla fine. Consegnò Besso nelle mani dello straniero, è stato ucciso a Persepoli. Poi Spitamene fu così stupido da attaccare Marcanda, solo per dar fastidio al conquistatore e dichiarargli guerra, cercando di dimostrargli che non lo temeva. Quell'imbecille! È morto anche lui. Sono rimasto solo io, Pirsar. E non per molto, ma non posso andarmene senza aver dato le ultime disposizioni per la città. Il re di Macedonia si macchierà anche qui di terribili crimini di guerra come è successo in altre città di Battria, la mia gente deve stare pronta. Ho davvero paura, i miei compagni sono andati incontro una fine cruenta e terribile, non voglio che alle mie figlie venga fatto lo stesso. Devono andare via».

Come poteva non avere paura, il satrapo Ossiarte? Era stato un congiurato di re Dario. Il leone di Macedonia non avrebbe interrotto la sua marcia, non avrebbe mollato la presa ora che aveva gustato il sangue dei traditori. Era stato ampiamente dimostrato: da Gaugamela fino alla Sogdiana. La fine del mondo. Aveva bussato personalmente a tutte le porte dei congiurati e avrebbe fatto altrettanto alla porta di Ossiarte. Avrebbe trucidato lui e la sua famiglia.
Il satrapo credeva in ciò che dicevano i magi: il re dei macedoni era l'incarnazione di Arimane.
Viene il signore dell'Asia, colui che ha negli occhi il giorno e la notte.

«E com'è questo macedone?» fece Pirsar.
«Scaltro, anche troppo. Dicono sia irruento, passionale, ma gelido in battaglia e capace di valutare situazioni complicate con incredibile distacco. Difficile da inquadrare. Giovane, molto bello, molto forte. Forte come un leone, maledizione»
«E non ha punti deboli?» incalzò il generale.
«Vino, donne. Niente di rilevante. Pare che non si lasci soggiogare nemmeno dall'amore».
Rossane non ascoltava più. Si mise una mano sulle labbra, per non emettere un grido.
Il re macedone stava arrivando per uccidere suo padre e, per beffa, anche loro. Per questo dovevano andarsene al più presto. Gli occhi le si riempirono di lacrime, il cuore di tristezza.
Rifletté sulle parole di suo padre. Gli uomini uccisi dal conquistatore straniero erano satrapi come lui. Da quanto aveva capito, Besso e Satibarzane avevano pugnalato a morte re Dario, ma non abbastanza da ucciderlo subito, ed era stato trovato dal re di Macedonia. Aveva comunicato i nomi dei satrapi traditori e tra questi c'era pure suo padre.
Ci mise un po' ad ingoiare il groppo, non voleva vedere la verità eppure era così palese: suo padre era stato uno di quei traditori ad organizzare l'assassinio di re Dario. La delusione era troppo forte, qualcosa in lei si era spezzato. L'affetto che provava per suo padre, tutta l'ammirazione... un ricordo lontano.

Fece irruzione nel suo studio, lasciando il generale, Pirsar e Ossiarte inizialmente confusi. Poi sul volto del satrapo si dipinse un'espressione furibonda, dura.
«Hai origliato!»
«Come avete potuto uccidere il vostro re! Lo stesso re che vi ha dato tutto questo» indicò il palazzo intorno a sé. «Siete un uomo spregevole, irriconoscente. Mi avete delusa nel profondo, mi fate schifo! Spero che moriate sotto la spada del re di Macedonia come re Dario è morto sotto la lama dei vostri tradimenti!».
Aveva parlato senza pensarci. Aveva mancato di rispetto a suo padre, il satrapo di Battria e re di Sogdiana.
L'aveva fatto davanti al funzionario del re Dario, anche lui un traditore, Pirsar. L'aveva fatto davanti ad uno dei generali più vicini ad Ossiarte. Erano tutti traditori in quella stanza, irriconoscenti, infami. Il disgusto che Rossane provava per loro era ineguagliabile.
Nessuno avrebbe mai potuto farle più schifo di così. Avevano ucciso il loro re.
In un momento tutto le fu ancora più chiaro e ancora più infido: re Dario era fuggito da Gaugamela per non morire sotto le mani del re di Macedonia. Si fidava solo dei suoi satrapi, non poteva sapere che erano tutti traditori e tramavano per ucciderlo. L'avevano pugnalato alle spalle. Un tradimento orribile e ripugnante.
Ai bambini persiani veniva insegnato a non mentire mai, per nessun motivo. Per questo non si aspettavano che qualcuno mentisse. Rossane era ingenua, non si sarebbe mai aspettata di vedere colui che le aveva sempre insegnato il valore dell'onestà, tradire in quel modo il suo sovrano.
Ossiarte si avvicinò a grandi passi verso la figlia, lo sguardo ridotto a due fessure nere che lanciavano fulmini rabbiosi.
Alzò una mano, la colpì in pieno viso facendole girare la testa dall'altro lato. I segni rossi delle dita sulla guancia, le piccole ferite che le avevano procurato gli anelli che ornavano le mani del padre.
Non so dove trovò il coraggio di guardarlo negli occhi, dove trovò il coraggio di pretendere di avere l'ultima parola in capitolo.
«Io vi disprezzo».





 

1 - Ai Khanum si trova a nord dell'Afghanistan, all'estremità orientale della pianura di Battria, vicino al fiume Oxus. La regione (Battria) era chiamata in persiano Bakhtār  e Ai Khanum era chiamata anche Zariaspa.

2 - Il Paropamiso è la regine storica che oggi conosciamo come Hindu Kush.

3 - Nella Persia antica, i fanciulli in età pre adolescenziale potevano venir sottoposti all'evirazione. I motivi erano vari: povertà, schiavitù, religione. Dopo l'evirazione questi bambini perdevano il proprio nome e venivano chiamati Bagoa. Nella storia persiana troviamo spesso questo nome per indicare di solito gli amanti eunuchi dei sovrani, ma di fatto non è neanche un nome proprio.

4 - I satrapi erano nobili nominati dal Gran Re stesso per governare in sua vece in determinate regioni dell'impero, le satrapie.

 

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Capitolo 2
*** 1. Yek ***


PARTE PRIMA 
Petali d'acciaio





۱ . Yek
 
 
Impero di Persia, provincia di Battria.
Rocca di Arimazes1, 327 a.C.


 
Quando partì da Ai Khanum non salutò nemmeno suo padre. Non le importava, quel traditore dell’impero non meritava alcun tipo di saluto. Gli era grata di averle messe al sicuro, ma non poteva che disprezzarlo.
Le sue sorelle quando avevano visto i piccoli tagli sullo zigomo e il segno rosso sulla pelle, si erano allarmate e le avevano chiesto cosa fosse successo. Rossane non poteva far crollare l’affetto che provavano per loro padre raccontando del suo tradimento, pertanto tacque riferendo che aveva sbattuto da qualche parte con il viso. Mizda non ci aveva creduto, ma non aveva fatto domande.

La Rocca di Arimazes si trovava su un promontorio roccioso, si poteva accedere da una stretta scalinata di pietra che si attorcigliava intorno alla collina come un serpente
Fu un viaggio lungo ed estenuante, durato due settimane. Era un luogo angusto, pietroso, umido, ma se non altro era tenuto pulito. I servitori di Ossiarte che dimoravano lì ci tenevano a renderlo un luogo piacevole e accogliente, fecero trovare i camini accesi nelle camere delle principesse, i letti con le lenzuola profumate, e qualcosa da sgranocchiare dopo quel lungo viaggio.
C’era un’enorme sala per i banchetti, un salotto con le pergamene per leggere, terrazze, giardini, bagni, cucine e ricche dispense. Sembrava di stare in un castello, un po’ diverso dal palazzo in cui abitavano ad Ai Khanum ma pur sempre un castello.
Quando Rossane arrivò, capì che quel posto era davvero sicuro. Era impossibile arrivarci con un esercito, troppo complicato. Inoltre il portone di legno del muro di cinta era enormemente spesso, le pareti mura inespugnabili, l’interno brulicava di soldati e anche le torri di guardia. La possibilità che il re di Macedonia riuscisse a fare breccia in quelle mura era lontana e non contemplata.
 
 
Amu riempiva l’aria con la melodia malinconica del suo santur, talvolta accompagnata dal canto di Darya. Mizda tesseva, Fayruz pettinava spesso i capelli. Rossane si sedeva tra le arcate del porticato che davano al giardino interno e leggeva le avventure di Gilgamesh.
Conosceva a memoria quella storia, ma ne era perdutamente innamorata. Tanto che aveva lasciato ad Ai Khanum tutti i beni considerati effimeri, tranne le pergamene di Gilgamesh. Non avrebbe mai potuto privarsene.
Alla Rocca di Arimazes faceva più freddo e ogni tanto cadeva la neve, anche se non attecchiva. Le giornate scorrevano lente, tutte uguali.
Rossane non aveva più parlato con suo padre dopo quello schiaffo, ed erano ormai passati circa tre mesi da quando erano arrivate alla rocca.
Ossiarte continuò da lì la sua opera di sfida nei confronti del re di Macedonia. Lo provocava, lo sfidava a conquistare la rocca in cui dimoravano, forte delle sue convinzioni che non ci sarebbe mai riuscito. Pirsar sconsigliava al suo satrapo di fare atti avventati come quello, ma il persiano ormai sembrava fuori di sé. Presto, infatti, ricevette una missiva molto breve e concisa da parte del conquistatore straniero.
  • Starete a vedere, nobile Ossiarte.
 


 
 
 
Era arrivata la primavera tra i monti del Paropamiso. Il sole era un po’ più tiepido ed era piacevole passare i pomeriggi soleggiati fuori nel giardino interno. Rossane e Darya giocavano ad arrampicarsi sulle torri di guardia, afferrando i pezzi di massi che sporgevano dalla costruzione. La minore era brava ad arrampicarsi e veloce, tanto che la sorella non riusciva a starle molto dietro pur essendo una buona scalatrice anche lei.
Arrivate sulla cima, un paio di arcieri di guardia lanciarono loro un’occhiata allarmata.
«Siete di nuovo voi, principessa Darya. Oh, e ci siete anche voi!»
«Principessa Rossane, perché vi ostinate a sfidare vostra sorella?» ridacchiò l’altro.
La maggiore arricciò il naso. «In qualcosa dovrò pur essere la più brava, no?».

Lei non eccelleva in niente. Amu era la musa del santur, Darya del canto e dell’arrampicata. Rossane era brava a fare molte cose, ma non eccelleva in niente di esse e questo era frustrante.
Era considerata la più bella delle tre sorelle, la donna più bella di tutta l’Asia. Ma a lei non interessava, perché in fondo la bellezza a lungo andare si sciupava. E cosa rimaneva poi se non le proprie doti e virtù? Anche per questo Rossane era un’amante della cultura, assetata di conoscenze.
Mizda le diceva sempre che c’era una cosa nella quale eccelleva: far uscire dalla grazia di Ahura Mazda chiunque, per quella lingua tagliente e quell’atteggiamento da impunita. Erano caratteristiche di Rossane che aveva ereditato da sua madre, e Ossiarte le amava e odiava.
Aveva sempre reputato Rossane come la sua figlia prediletta per queste caratteristiche e per il polso che dimostrava in certe situazioni. Ma poi l’aveva fatto uscire di senno la notte in cui era tornato ad Ai Khanum e non aveva più voluto rivolgerle la parola. Non che a lei importasse discutere di qualcosa con un traditore del genere, l’assassino di un re.

«Rossane, nessuno riesce a far arrabbiare la gente come te!» rimarcò Darya, infatti.
«Beh, è una dote naturale che non può essere insegnata né appresa» le diede spago, gonfiando il petto in modo melodrammatico.
La luce del sole cominciava a svanire dietro le montagne, portando con sé un manto oscuro rischiarato da punti luminosi.
Le principesse si lavarono e prepararono per la cena. Mizda non fu d’accordo con la scelta di Rossane di non portare abiti più galanti, gioielli o cosmetici. Era pur sempre una principessa dell’impero persiano, d’altronde. Ma la vecchia balia sapeva che con quella ragazza non avrebbe cavato un ragno dal buco.
Si rassegnò a vederla vestita come una popolana, i capelli castani raccolti in una treccia laterale intrecciata a fili d’oro e gemme, gentilmente offerti da Fayruz per cercare di dare un tocco nobile alla principessa.
Da quand’erano alla Rocca di Arimazes cenavano alla sala dei banchetti insieme alla servitù, era rimasto poco delle vecchie usanze di Ai Khanum.
Tra le risate, la musica, il cibo, il mantello della notte calò sui monti del Paropamiso, il cielo rischiarato dalla luna piena.

Poi fu il suono dei tamburi d’allarme. Il loro rimbombare frenetico che si espandeva tra tutte le torri di guardia. Fu il grido strozzato di una serva, il vino rovesciato di Ossiarte, gli occhi pieni di terrore di Mizda.
Furono le urla provenienti da fuori, dei soldati di guardia, il rumore lontano e metallico di spade che cozzavano.
Fu il generale fidato del satrapo a ordinare di far sigillare le porte della rocca. Fu Mizda che tornò in sé e mandò le principesse dentro le proprie stanze, ordinando loro di barricarsi dentro.
Rossane non se lo fece ripetere. Il cuore che palpitava frenetico poteva sentirlo nelle orecchie, sentiva solo quel suono. La vista che si annebbiava per l’adrenalina. La gonna stretta nelle dita durante la corsa scomposta e mentre saliva le scale veloce come una lepre.
Si chiuse dentro la sua stanza, fece girare la chiave nella serratura tre volte. Spostò il comò di fronte alla porta, puntandosi con i piedi e spingendolo con la schiena. La stessa sorte toccò al comodino e al baule con i vestiti dentro.
Spese tutte le candele, ne accese solo una vicino al letto. Spostò lievemente una tenda dalla grande finestra della sua stanza, guardò giù. Da lì poteva vedere ciò che accadeva nel giardino interno e fuori dal muro di cinta.
Dentro le mura erano penetrati alcuni uomini macedoni ma non erano molti e combattevano contro le guardie della rocca. C’erano cadaveri a terra, qualcuno era ferito. Fuori le mura c’era l’esercito macedone che premeva sulle porte. Gli arcieri nelle torri di guardia erano stati uccisi, i loro corpi riversi sul muro basso della torretta.
Rossane aveva il cuore in gola. Il suo più grande terrore, quello di fare la fine del topo, stava per divenire realtà.
 

 
Non dormì quella notte. I pensieri annullati.
I suoi occhi d’ambra erano fissi sulla battaglia che infuriava di sotto, che non sembrava prendere una piega decisiva per nessuna delle due fazioni. Le guardie della rocca combattevano, instancabili, tenevano occupati i macedoni penetrati nelle mura e non permettevano loro di raggiungere uno dei due portoni. L’esercito continuava a premere alle porte, ma non sembrava ottenere grandi risultati.
Rossane era incapace di distogliere lo sguardo da quelle scene di morte, era incapace di prendere sonno e dormire almeno un po’.
Alle prime luci dell’alba, decise di bere un sorso d’acqua. In quel momento pensò che non aveva valutato l’idea di portarsi qualcosa da mangiare in camera e non sapeva quanto tempo sarebbe rimasta chiusa lì.
Ma poi pensò che, se tanto doveva morire, preferiva farlo per mano propria negandosi cibo ed acqua, piuttosto che farsi ammazzare dai macedoni e dare loro questa soddisfazione.
Tre giorni. Solo tre giorni e sarebbe morta per l’assenza d’acqua.

Seduta sul letto, gli occhi sul tappeto, ripensò a suo padre e al tradimento di re Dario.
Era un vile. Avrebbe appoggiato i macedoni solo per permettere al loro re di tagliare la testa a quel vile traditore sangue del suo sangue. Non si sarebbero trovati in quella spiacevole situazione se Ossiarte non avesse congiurato contro Dario. Rossane non perdonava, non dimenticava. Era inflessibile quando si trattava di certe cose.

La battaglia infuriò per il resto della mattina. Il sole era alto e tiepido nel cielo. Rossane disegnò dodici linee con un carboncino sul pavimento di legno della sua stanza, poi vi poggiò al centro una molletta allungata. Per determinare l’ora dall’ombra che proiettava.
Era mezzogiorno, e la battaglia era ancora statica.
Si gettò sul letto, annoiata, e restò a fissare il soffitto per un lasso di tempo indeterminato.
Poi le palpebre si chiusero da sole.
 
 

Colpi alla porta svegliarono malamente Rossane dal torpore del sonno.
Mugugnò di disapprovazione. Non era qualcuno che bussava. Era qualcuno che stava cercando di entrare con la forza.
Quanto aveva dormito? Troppo, erano scese le tenebre e l’aria si era fatta fredda. Scattò verso la finestra per guardare la situazione: le porte del muro di cinta spalancate, cadaveri di soldati persiani e macedoni ammassati tutti da una parte. Persino con il buio, persino a quell’altezza, riusciva a vedere la scia di sangue sull’erba del giardino interno, che avevano lasciato i cadaveri quando erano stati trascinati.
E qualcuno stava cercando di sfondare la porta della sua camera, come i macedoni avevano tentato di fare dalla sera prima. Erano già riusciti a fare breccia? Ma non era una fortezza inespugnabile, quella? Eccola, la fine del topo. Che modo terribile per morire. Ma forse non aveva molto da perdere. Solo Amu e Darya le sarebbero mancate. 
Una lacrime le rigò la guancia, lei chiuse gli occhi lasciando che facesse il suo corso. I colpi che continuavano insistenti alla porta, finché non esplose: i mobili si riversarono in avanti, la porta scardinata scostata da un lato. Trovarono la principessa seduta sul davanzale della finestra, lo sguardo rivolto verso il cielo e una guancia rigata da lacrime amare. I due che avevano fatto irruzione erano macedoni, non parlavano persiano. Uno di loro le afferrò malamente un braccio e la costrinsero ad alzarsi. Rossane non fece resistenza.
Sarebbe andata incontro al proprio destino senza fiatare. Non avrebbe avuto senso ribellarsi, erano uomini armati, soldati addestrati, e ce n’erano centinaia. Scampava a loro, ma al piano di sotto avrebbe trovato l’intero esercito e non avrebbe potuto aggirarlo per fuggire dalla rocca.
Perciò si lasciò trascinare, come una vela si lasciava trasportare dal vento. Come una conchiglia veniva guidata dalle correnti del mare e finiva sulle spiagge.
Rossane sapeva che le famiglie degli altri satrapi traditori erano state linciate, trucidate. L’esercito macedone che compiva terribili crimini di guerra e si macchiava di sangue innocente.
Ma così era la guerra. Quella stessa sorte stava per toccare a lei, alle sue sorelle, alla vecchia balia, alla concubina intelligente, e a tutta la servitù.
Eppure, quando arrivarono al salone dei banchetti, scoprì che non era morto nessuno di quelli che si erano nascosti nel castello. Persino suo padre era vivo. Legato e imbavagliato, abbandonato in un angolo buio del salone, ma vivo. Se non altro. La vecchia Mizda sedeva ad un tavolo semi nascosto insieme alle donne. Amu e Darya l’abbracciarono.

«Sono entrati due ore fa. Hanno cercato tutti i nascosti della rocca e poi hanno ammassato i cadaveri. Ci hanno permesso di mangiare senza disturbarci, perché anche loro erano stanchi e affamati» le spiegò Amu, a bassa voce. Tremava come una foglia.
Il salone dei banchetti pullulava di guerrieri macedoni, l’intero esercito che affollava quella sala. Ridevano, mangiavano, bevevano. Sporchi di sangue rappreso e feriti non gravemente.
Qualcuna delle serve più belle, quando passava a portare le nuove portate, veniva palpeggiata senza pudore. Greci e macedoni avevano l’abitudine di definire “barbari” tutti i popoli che non appartenevano al loro territorio. Se non altro, tra i persiani non si permettevano di toccare in quel modo vergognoso una donna.
«Almeno ci hanno lasciato in pace» mormorò ancora Amu.
«Stanno solo prendendo tempo, non ti illudere» borbottò Rossane.
Nessuna delle tre sorelle aveva dormito durante la notte. Nessuna era cambiata d’abito. Erano rimaste pettinate e vestite come la sera in cui avevano suonato i tamburi. Rossane aveva la faccia un po’ più assonnata, per via del brutto risveglio. Appoggiò il mento al palmo della mano, adocchiando distrattamente il piatto con un pezzo di carne di cervo fumante. Aveva fame, ma lo stomaco le si era chiuso per via di quei bruti.
Una principessa di Persia, abituata allo sfarzo e vissuta dentro una campana di vetro, che si ritrovava nel bel mezzo di un assedio e ora banchettava col nemico.

Fu allora che se ne accorse. La pelle che sembrava bruciare.
Era la sensazione netta e decisa che si ha quando ci si sente osservati. Ma non guardati con uno sguardo qualsiasi: lo sguardo attento che si rivolge ad una persona quando si ha l’intenzione di studiarne ogni angolo del viso, del corpo, dell’anima. Uno sguardo che spogliava, che studiava, che bramava da lontano.
Rossane sentì le orecchie andare a fuoco, alzò gli occhi per cercare il proprietario di tale occhiata. Fu il primo paio di occhi che incontrò, come se fosse inevitabile. Dall’altro lato del salone, alla sua destra.
Un uomo a capotavola, l’armatura da condottiero e un mantello che scendeva morbido dietro la schiena. Possente, probabilmente piuttosto alto. I capelli biondi spettinati e sporchi di fango e sangue sulle punte, piccole ferite di guerra sul viso. La guardava come un leone guardava una gazzella. Gli occhi di chi sa spogliare con uno sguardo per leggere il corpo e l’anima. Il pollice che carezzava il labbro inferiore, attento.
I loro sguardi si erano fatalmente incrociati. Niente sarebbe stato più come prima.

Rossane si sentì arrossire, distolse lo sguardo. Si accorse che Amu stava parlando con lei e si sentì in colpa per non averla minimamente ascoltata.
«… non vogliono ucciderci»
«Scusa, come?»
«Ho detto che pare che non vogliono ucciderci. Non noi, almeno»
«Sono soldati macedoni, Amu» le ricordò Rossane. «Hanno trucidato tutti»
«Io non voglio morire. Devo sposare Kassìm».
Rossane non aveva niente a cui aggrapparsi e le sembrava triste trovare un motivo valido per restare in vita nell’epopea di Gilgamesh o nella semplice paura dell’ignoto. Ma non aveva mai fatto niente di sbagliato né di cattivo o ingiusto, e anzi si era sempre battuta per la giustizia e la sincerità, nel suo piccolo. Magari Ahura Mazda sarebbe stato misericordioso con lei.
Senza volerlo tornò a guardare nella direzione dell’uomo che la stava fissando poco prima. Non c’era più. E non c’era più neanche suo padre.
 

 
In una delle sale del castello, il re di Macedonia tolse la benda della bocca di Ossiarte.
Il satrapo aveva la bocca asciutta, la saliva prosciugata dal panno e la gola secca. I polsi legati in corde troppo strette che avevano lasciato profondi solchi sulla pelle e ferite.
«Vi darò tutto ciò che desiderate, mio re, ma vi prego di lasciarmi in vita. Mi scuso, sono profondamente mortificato per avervi sfidato e altrettanto dispiaciuto per aver complottato alle spalle di re Dario. Risparmiatemi, potente re, ve ne prego», le parole uscirono dalle sue labbra come un fiume in piena.
In quel momento era solo un vile sacco di carne che si dimenava per il perdono e per restare attaccato alla propria vita. Ecco come appariva agli occhi di Alessandro III di Macedonia.
«Satrapo Ossiarte, immagino che non vi dispiacerà dunque se in cambio della vostra vita prenderò quella delle vostre tre figlie».
Ossiarte sfarfallò le ciglia, come risvegliato da un sonno profondo. Si ricordò in quel momento di loro, del loro essere in pericolo nella sala del banchetto e prive di ogni protezione da parte delle guardie ormai tutte perite sotto le spade dei macedoni. Quei soldati potevano disporre di loro, dei loro corpi, come volevano. Ebbe un fremito. «Non le toccate, ve ne prego. Sono tutto ciò che possiedo di reale valore»
Alessandro si carezzò il viso glabro. «Ossiarte, io ho un grande disegno» si chinò su di lui. «Voglio creare un unico grande impero. Fondere tradizioni. Il mondo sotto un unico sovrano»
«È davvero un bel progetto, mio re» balbettò.
Si chiese se lo pensasse davvero. Era davvero disposto ad appoggiare un simile progetto? Le culture persiane e greche erano molto diverse, non seppe come inquadrare il conquistatore straniero. Era molto ambizioso, un visionario, e il suo progetto molto grande. Ai limiti dell’impossibile, del folle.
«Tuttavia guerre e conquiste non sono l’unico mezzo per un’unificazione. Mi seguite, Ossiarte? È necessario un matrimonio» continuò il macedone.
Voleva una delle sue figlie.
Anzi, voleva quella figlia in particolare. L’aveva adocchiata subito. I capelli castani, lucenti e mossi, intrecciati a gemme e fili d’oro; il naso all’insù, gli occhi particolarmente grandi e quasi felini; il viso a cuore, le labbra delicate. Se n’era invaghito perdutamente solo guardandola. Aveva capito che lei era tutto ciò che desiderava in una donna. E quello sguardo... non era difficile capire che una fanciulla con uno sguardo del genere possedesse il fuoco dentro.
«Prendete una delle mie figlie! Quella che volete! Amu ha ventuno anni, è promessa in sposa al figlio di un satrapo persiano ma per voi, mio re, posso far annullare tutto. È molto bella, con i suoi capelli neri, gli occhi neri… Sa suonare il santur divinamente! Sarebbe un ottimo partito».
Capelli e occhi neri? No, non era lei.
Non rispondendo al satrapo, Ossiarte continuò. «Darya ha quattordici anni. È molto giovane e il suo corpo è ancora acerbo, vi potrebbe aggradare? Canta come un usignolo, è divertente e…»
«La terza?» domandò, chiaramente non poteva chiamarsi Darya la ragazza che aveva visto. Non aveva quattordici anni.
«Mio re, permettetemi di oppormi: Roshanak ha una dote straordinaria di farvi uscire dalle grazie del vostro dio. È considerata la donna più bella dell’Asia, ma non la darei come moglie nemmeno al mio peggior nemico!».

Roxane2.
Dunque era così che si chiamava. Aveva sentito parlare della donna più bella dell’Asia, della Persia in particolare, ed era proprio Rossane. Per una volta, le voci sembravano essere vere.
Alessandro aveva conosciuto diverse donne, ma perlopiù concubine. Si era già innamorato di donne in passato: Barsine, Campaspe…
Stavolta gli sembrò diverso. Gli sembrò d’aver trovato in Rossane l’incarnazione della donna che preferiva, quella che sognava, il suo ideale femminile.
«Roxane» carezzò quel nome con la lingua e con la voce, gustandoselo. «Prenderò la vita di Roxane, satrapo. In cambio verrete lasciati in vita e tu verrai riconfermato satrapo di Battria».


 

1 - La rocca di Arimazes si trova a sud rispetto Ai Khanum. È chiamata anche fortezza dell'Avarana.

2 - Il nome Roshanak è di origine battriana (usato ancora in Afghanistan) e significa "piccola stella". La lingua greco-macedone antica tuttavia non riconosceva il suono "sh" di questo nome, dunque veniva pronunciato e scritto Roxane.

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Capitolo 3
*** 2. Do ***


۲ . Do
 


 
Impero di Persia, provincia di Battria.
Rocca di Arimazes, 327 a.C.

 
«No! Non se ne parla».
Rossane era in piedi, di fronte allo scrittorio dello studio di suo padre Ossiarte. Le braccia incrociate al petto, il mento sollevato.
Il satrapo la guardava con fare rassegnato. «È già stato deciso. Sposandoti con re Alessandro, non solo diventerai la regina di Macedonia e dell’impero di Persia, ma garantirai la vita alle tue sorelle e alla servitù, e la carica di satrapo a me».
Gliel’aveva spiegato già dieci volte. Rossane sembrava irremovibile, ma a forza di sottolineare il fatto che Amu e Darya sarebbero rimaste in vita in cambio del matrimonio, la sua volontà vacillò. Ossiarte sapeva di star facendo breccia nel cuore di pietra di quella sua figliola irritante.
Non capiva perché avesse quell’atteggiamento di sdegno verso il matrimonio, le altre fanciulle non desideravano altro.
Non era stata educata come le sue sorelle, non del tutto. Amu e Darya non avevano mai dimostrato di avere polso o un’indole dominante, una vena ribelle, e Ossiarte non si era premurato di insegnare loro un minimo di politica ed economia. Cosa che, invece, aveva fatto con Rossane parallelamente ai suoi studi “da donna”. Era molto giovane, ma era più colta delle sue sorelle proprio perché il satrapo teneva particolarmente alla formazione culturale di Rossane.
Sapeva che non poteva costringerla ad un matrimonio, a relegarla alla vita di moglie e madre, e si era mosso di conseguenza. Farla sposare non rientrava neanche nei suoi, di piani. Poiché sperava di portarla, in futuro, ad ereditare la provincia di Battria. Mentre Amu e Darya venivano preparate esclusivamente per la vita di mogli e madri o, in alternativa, di concubine, Rossane veniva preparata anche al comando.
Lei non voleva sposarsi e lui era d’accordo, acconsentiva. Ma la proposta del re di Macedonia non poteva essere rifiutata. Era un ottimo patto per entrambe le parti. Rossane avrebbe potuto comandare insieme al re, come regina, e la sua famiglia sarebbe rimasta in vita e con la solita carica prestigiosa.
«Stasera spaccherà il pane con la spada» le riferì. «È già deciso. Tu non potrai far nulla per impedirlo. Ti prego di vedere il lato vantaggioso e positivo della tua situazione. Buon pomeriggio».
La liquidò con un gesto ed un saluto sbrigativo. Rossane sbuffò dal naso come un toro, girò i tacchi e si dileguò.
Il matrimonio non rientrava nei suoi piani, non aveva alcuna intenzione di sposarsi. Non con un re nemico. Però le parole del padre la fecero riflettere.
I lati vantaggiosi e positivi c’erano, erano numerosi in effetti, e in cambio le sue sorelle sarebbero state al sicuro.
Inoltre non era un matrimonio dettato dall’amore, ma dall’interesse politico. Pertanto una volta sposati, gli unici doveri di Rossane sarebbero stati quelli di mostrarsi in pubblico con il suo re e dargli un erede a tempo debito. Per il resto avrebbe avuto le sue concubine e lei la sua vita di sempre, tutto sommato. E sarebbe stata regina. Poteva essere fattibile. Vantaggioso per tutti e fattibile.
Sperò solo che re Alessandro non fosse un vecchio bavoso come Pirsar.
 
 
Il pranzo era terminato da poco, Ossiarte l’aveva poi convocata e ora il caldo sole del primo pomeriggio cullava il riposo pomeridiano.
Rossane andò a raccontare del matrimonio combinato alle sue sorelle, chiuse nel salottino per la lettura. Furono molto felici per lei, la sorella si risparmiò di dire loro del patto tra Ossiarte e re Alessandro. Fece solo presente che il sovrano aveva chiesto la sua mano campando in aria spiegazioni quali l’amore a prima vista.
Amu credeva in queste cose, la guardava sospirando romanticamente.
Poi le sue sorelle si erano ritirate nelle loro stanze per il consueto sonno di bellezza, e Rossane aveva preso le pergamene con l’epopea di Gilgamesh. Era uscita nel giardino interno. Avrebbe voluto scalare una delle torrette di guardia e leggere in pace, ma prese posto sul muretto sotto una delle arcate del porticato. Appoggiò la schiena alla colonna di pietra fresca, all’ombra, le pergamene in grembo e una aperta tra le mani.

Finì di leggere due pergamene, il sole che andava a calare dietro le montagne. Cominciata la terza, sentì una voce dietro di sé.
«L’epopea di Gilgamesh, eh? Una lettura importante per una principessa».
Rossane si voltò di scatto. Incrociò due occhi eterocromatici, uno era azzurro come il cielo e l’altro nero come il baratro più profondo. Lo sguardo di chi spogliava e leggeva l’anima, si sentì esposta al suo giudizio.
Boccheggiò. Era l’uomo che aveva incrociato il suo sguardo la sera dell’invasione della rocca, il soldato macedone. I capelli erano biondi, puliti e luminosi, il viso glabro, le labbra piegate in un sorriso sfrontato. L’armatura saldata al corpo possente, il mantello cremisi che scendeva dalle spalle, la daga legata alla cintura.
«Insinui forse che dovrei leggere qualcosa di più banale?» replicò piccata, mettendosi a sedere.
Il soldato incrociò le braccia al petto. «No, dicevo solo che è difficile trovare una donna a cui piacciano queste letture. Ci sono altre opere di tuo interesse?»
Lei lo guardò diffidente, richiudendo lentamente le pergamene. «Molte» rispose, cauta. «Mi piace studiare, mi piace la cultura. Parli il persiano egregiamente, insolito per un soldato» osservò infine, inquisitrice.
Gli occhi di lui brillarono. «Seguendo re Alessandro per tutto l’impero di Persia, la lingua si impara» le fece un sorriso enigmatico. «Conosci qualche opera della Macedonia o della Grecia?»
«Le opere di Platone, Aristotele. Al palazzo di Ai Khanum non avevamo molte pergamene straniere, difficile trovare qualcuno che traduca tali lingue, in Battria» alzò le spalle.
«Aristotele è stato il precettore del re Alessandro» le disse il soldato. «So che stasera è previsto il vostro matrimonio»
Rossane si adombrò. «Sarà solo un matrimonio politico, sarò il punto di congiunzione tra due culture diverse. Tutto qui»
«Il nostro re dice che è rimasto molto colpito dalla tua bellezza, principessa»
Lei sollevò un sopracciglio. «Il vostro re non è il primo né l’ultimo ad avere di me questa considerazione. Mi piace curare il mio corpo, ma ritengo che la bellezza esteriore sia effimera. Con gli anni sfiorisce e si sciupa, e cosa rimane allora? Virtù, doti, conoscenze, azioni passate. Preferisco curarmi di queste cose, piuttosto che dare eccessiva importanza all’estetica» replicò, sollevando il mento e guardandolo dritto negli occhi con il suo fare impunito.
Il soldato sembrò colpito da quelle parole, tanto che aggrottò le sopracciglia e la guardò con attenzione. Rossane si sentì studiata come se fosse un animale esotico mai visto prima. Infine, il macedone le fece un sorriso gentile. Percepì la stima dietro quegli occhi eterocromatici.
La campana suonò, annunciando la cena.
«Non potrei essere più d’accordo. È ora di rientrare, cenare e sposarsi. Sei emozionata?»
«No. Solo curiosa»
«La curiosità è la dote più grande che una persona possa avere, a mio modesto parere» sorrise di nuovo e le porse il braccio. «Posso accompagnarti, principessa?».
Rossane incrociò di nuovo il suo sguardo, sollevando la testa per poterlo guardare. Sfarfallò le ciglia, poi annuì incerta, con le pergamene sotto il braccio mentre l’altro si appoggiava a quello del soldato.
«Curioso. Non sei affatto vestita come una sposa» osservò lui, con un sorriso.
«Te l’ho detto, è solo un matrimonio politico. Non gli do tutta questa importanza»
«Tuo padre o la tua balia non si sono impuntati per farti cambiare?»
«Sanno che è una battaglia persa in partenza»
Il soldato ridacchiò, Rossane sollevò un sopracciglio con un sorrisetto sornione. «Ti burli di me, soldato?»
«No, principessa, al contrario. Trovo divertente in senso positivo questo temperamento pepato» rispose portando una mano sul cuore e pronunciandosi con fare solenne.

Fuori le porte della sala dei banchetti, due servitori si inchinarono con espressione indecifrabile. Sia Rossane che il soldato ricambiarono con un gesto del capo, e la principessa lasciò ad uno di loro tutte le pergamene di Gilgamesh ordinando di farli riportare nella sua stanza. Fecero il loro ingresso senza essere notati. Lui le rivolse un ultimo sorriso e la lasciò andare dalle sue sorelle.
Rossane corse da loro tenendosi la gonna tra le dita. Amu la guardava come si guarda un fiore esotico e raro. Le carezzò i capelli, cominciò ad intrecciarli a gemme e fili d’oro in una lunga treccia laterale che arrivava fino al bacino. Mizda le guardava l’abito con severità, scioccò la lingua sul palato e fece un cenno a Darya. La ragazzina si sfilò il cinturino d’oro che le legava la tunica rosa alla vita e lo agganciò al corpo della sorella mettendo in risalto il girovita.
Amu si tolse la collana di gemme e gliela mise al collo, Fayruz si tolse il bracciale d’oro arricciato e l’aiuto a metterlo facendolo salire fino a sotto la spalla. Darya le donò un altro bracciale d’oro. Infine la concubina l’aiutò a mettere almeno un filo di kajal sulla palpebra.
Le sue sorelle e Mizda le parlavano di quanto fossero felici che Rossane avesse trovato un marito, tra l’altro un re. Un conquistatore straniero, il re di Macedonia divenuto il Re dei Re e faraone d’Egitto. Rossane si sentiva di vivere in una leggenda, tra tante belle donne… possibile che un uomo del genere avesse scelto di prendere in moglie proprio lei? Non era l’unica bella donna persiana. Perché lei e non Amu o Darya? Erano principesse anche loro, molto belle tra l’altro. Non aveva niente di più rispetto alle sue sorelle.
Ossiarte arrivò al tavolo della figlia, le fece un sorriso cauto e la accompagnò al tavolo centrale, dove come da usanza battriana per i matrimoni, il re avrebbe spaccato il pane con la spada e avrebbe sancito il matrimonio.
«Andrà bene, vedrai» le disse, a bassa voce.
Ossiarte apprezzò il gesto delle sue figlie, della balia e della concubina. Avevano abbellito Rossane, rendendola visibilmente una principessa anche se non sfoggiava lo sfarzo persiano.
«Inoltre è stata disposta la partenza verso Ai Khanum dopodomani. Il re deve riorganizzare un esercito e ripartire al più presto»
«Io dovrò andare con lui quando sarà il momento, non è vero?»
Il padre le fece un cenno d’assenso. «Ma tu hai un polso molto forte, figlia mia, una vena portata per il comando che spero uscirà fuori con questo matrimonio. Non devi preoccuparti di niente».
Rossane tacque. Si sedette sul sofà ai lati del tavolo imbandito. C’era un grosso pane al centro, pronto ad essere tagliato. Fiori, candelabri. Si mosse nervosamente, torturandosi le dita delle mani, gli occhi bassi.
Il rumore freddo di una spada sguainata. Il terribile presentimento che tutta quella messa in scena fosse una trappola e lei stesse per essere giustiziata sul momento. Ma sui visi dei soldati e della servitù persiana c’erano sorrisi o sguardi soddisfatti. Il rumore secco della lama che taglia il pane, di netto. Il bagliore della spada si riflesse negli occhi sgranati della principessa. Sollevò lo sguardo, incontrò due occhi che ben conosceva e da cui si era separata all’inizio del banchetto. Eterocromatici. Uno azzurro e uno nero. Il sorriso soddisfatto, trionfale. I capelli biondi. Ora lo guardava con occhi diversi.
«Tu…!».
La folla esplose in un applauso, mentre lei era incapace di distogliere lo sguardo dal suo. Come se esistessero solo loro due in tutta la sala affollata dall’esercito macedone e dalla servitù.
Rossane boccheggiava, sentì le guance imporporarsi e il petto sollevarsi in cerca d’aria. Si sentì in imbarazzo e si vergognò per come gli aveva parlato sotto il portico, in tono così confidenziale. Lui era re Alessandro di Macedonia, Re dei Re e faraone d’Egitto. Non le aveva detto niente, si era spacciato per un semplice soldato. Fece il giro del tavolo e si sedette vicino a lei sotto gli applausi della folla. Rossane distolse lo sguardo dalla sua figura, puntandola sul pane appena tagliato di netto.
Era sposata. Era regina.
I presenti attesero invano di vederli allontanarsi insieme per consumare il matrimonio. Non si rivolsero la parola per tutta la serata e si allontanarono in silenzio, ognuno nelle proprie stanze. Non parlarono neppure il giorno seguente, nonostante durante i banchetti sedessero insieme. Lei si sentiva osservata dai suoi occhi penetranti e cercava di mantenere un atteggiamento tranquillo e noncurante.
 
 
Arrivò il momento della partenza, due settimane di viaggio e notti condivise sotto la sua stessa tenda sontuosa.
La prima notte, dopo la cena intorno ad uno dei focolari accesi nell’accampamento, entrò nella tenda di Alessandro, che era pure la sua.
Si sentì in imbarazzo. Lasciò addosso la camicia di lino, lunga fino a sopra il ginocchio. Liberò i capelli dalle gemme e dai fili d’oro, lavò il viso, tolse le cavigliere e gli ornamenti di cui le era stato fatto dono dopo le nozze.
Alessandro entrò mentre lei era seduta tra le coperte, a pettinare i lunghi capelli castani, morbidi ed ondulati. Si fermò all’entrata della tenda, come paralizzato, guardando la donna che aveva sposato illuminata dalla debole luce delle candele. Era così bella nella penombra, mentre era concentrata a pettinarsi quella lucente chioma bruna. Avrebbe voluto accarezzarla, baciarla. Era ammaliato da tanta bellezza. Era un fiore esotico, raro e prezioso. Una stella luminosa nel cielo nero.
Rossane alzò gli occhi su di lui, per poi riabbassarli poco dopo.
Alessandro cominciò a sganciare l’armatura e il mantello, tolse la camicia di lino con cui aveva viaggiato restando totalmente nudo di fronte a lei. Non che gli importasse, tanto Rossane non lo stava guardando e inoltre prima o poi l’avrebbe dovuto vedere. Indossò una tunica azzurra.
Si sedette vicino a lei, le posò una mano sulla sua che stringeva le dita sulla spazzola di setole morbide. La persiana alzò gli occhi su di lui, interrogativa. Quei grandi occhi che, con quella luce, erano scuri e torbidi.
«Io sarò paziente, mia regina. Non voglio forzarti a fare niente, non ti toccherò se non lo vorrai. Questo matrimonio verrà consumato quando sarai tu a deciderlo. So che non è un momento felice, ti sei ritrovata in questa situazione contro la tua volontà»
«Grazie per la comprensione, maestà» sussurrò, abbassando lo sguardo.
«Ci tengo che tu sappia che questo è sì un matrimonio politico, ma spero di unire la politica alla passione. Sono perdutamente innamorato dal primo momento in cui ti ho vista. So che per te non è la stessa cosa, ma cercherò di conquistare te, la tua fiducia, il tuo cuore»
Lei gli sorrise. «Sei un conquistatore, magari non sarà così difficile»
«Lo spero, ma ho il sentore che sarà più difficile conquistare il tuo cuore che tutta l’Asia, mia regina» le fece un sorriso divertito, le baciò il dorso della mano e la lasciò andare.
Rossane si sdraiò tra le pellicce di un qualche animale, vicino a suo marito. Com’era strana per lei quella situazione. Magari non per lui, probabilmente era abituato a condividere il letto con una donna come le sue concubine. Ma per la neo regina, quella era la prima volta che si trovava a condividere il letto con un uomo.

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Capitolo 4
*** 3. Seh ***


Rossane
il fiore di Persia



۳ . Seh

 
Impero di Persia, provincia di Battria.
Città di Al-Khanoum, 327 a.C.

 
Ossiarte lavorava per il suo nuovo re, Alessandro, ormai. Riuscì a convincere persino un altro capo locale, Choriene, ad abbandonare il fortino in cui si era rifugiato e deporre le armi in favore dei macedoni.
Infine, l’ultima cittadella sogdiana cadde sotto la mano di uno dei più vicini compagni di Alessandro, Cratero. Le conquiste di Sogdiana furono sugellate dalla fondazione di colonie e da Alessandria Eschate all’estremo confine settentrionale dell’impero, all’ingresso della valle di Fergana e sulla sponda meridionale del fiume Iaxartes. Queste cittadelle vennero popolate, oltre dai contadini nativi, anche dai veterani dell’esercito macedone non più in grado di combattere. Il loro dovere era sì coltivare la terra e stare a riposo, ma anche proteggere le satrapie da possibili insurrezioni locali e invasioni da parte degli Sciti.
Nello stesso tempo, Alessandro dispose che trenta mila indigeni locali fossero educati e istruiti all’uso macedone per farne sudditi fedeli al pari degli altri, e soldati per l’esercito.
Il re stava dunque riorganizzando l’armata per partire alla volta dell’India.
I persiani dedicavano ad Alessandro il gesto della proskynesis, che consisteva in un bacio sulle dita e un inchino più o meno leggero, in taluni casi persino una prostrazione a terra davanti al sovrano.
Greci e macedoni non avevano mai omaggiato il re con questo saluto, perché in quella zona più occidentale del mondo tale devozione veniva riservata solo agli dèi.
Alessandro non aveva mai preteso da loro questo tipo di trattamento, e ciò creò scandalo tra i persiani. Il re allora decise dunque di cercare di introdurre questo gesto anche tra i suoi compagni greci e macedoni, ma vi opposero resistenza perché lo consideravano un gesto tirannico, da schiavo.
Il sovrano rischiò di morire per mano di un pugno di paggi reali addetti alla cura della sua persona. Volevano pugnalarlo nel sonno e per pura fortuna Alessandro si destò in tempo.
Il capo della banda, Ermolao, aveva convinto i suoi compagni congiurati dopo una ferita all’orgoglio inferta da parte di Alessandro. Il re, quando li ebbe in mano, non riuscì a credere che il motivo di tale congiura fosse tanto banale e che non avessero un suggeritore.
Fece torturare il manipolo di giovani finché non uscì fuori il nome di Callistene, lo storico che seguiva Alessandro per documentarne le gloriose imprese, e furono lapidati dall’assemblea dei macedoni. Callistene dipingeva Alessandro come tiranno sanguinario, pomposo, e che i suoi successi erano unicamente dovuti alla sua fortuna. Venne fatto sparire, il modo non fu mai chiaro.
La campagna di Battria fu dura e crudele, e segnò profondamente Alessandro e le sue truppe senza tuttavia spegnere la volontà di proseguire.

Nel corso di quei mesi era riuscito ad avvicinare Rossane.
La sera facevano passeggiate in città, parlavano a lungo di cultura e tradizioni lontane. La persiana era affascinata dal mondo da cui veniva Alessandro, e lui era affascinato dal suo.
C’erano dibattiti e confronti. Ma a volte, lui non reagiva così bene quando veniva contraddetto dalla moglie. S’infervorava di più o di meno a seconda dell’umore oppure dell’argomento.
A volte Rossane si inquietava per quegli sbalzi d’umori o impeti di rabbia, anche se non le aveva mai fatto del male Alessandro alzava la voce. Pensava che fosse dovuto al fatto che era un re, un faraone, un condottiero, sempre abituato ad ottenere ciò che voleva e non sopportava l’idea che qualcuno invece non appoggiasse le sue idee o lo contraddicesse.
A parte questi siparietti, erano diventati molto amici. Rossane sentiva di volergli bene.
Le spediva fiori, le faceva carezze di tanto in tanto, giocava con i suoi capelli. A volte le dava un bacio sulla guancia o sulla fronte, quando doveva salutarla.
Non dormivano insieme, ognuno nelle sue stanze. Ossiarte non approvava molto. Temeva che il re si stancasse dell’atteggiamento schivo di Rossane e mandasse a morte tutta la loro famiglia rendendosi conto di aver fatto un patto ben poco fruttuoso, se lei non gli concedeva nemmeno un bacio sulle labbra.
Alessandro però sembrava tranquillo, in qualche modo appagato, anche senza averla carnalmente.
Gli piaceva trascorrere il tempo con Rossane, era una ragazza appassionata, arguta e molto colta per la sua giovane età. Non conosceva il mondo, non sapeva nulla di ciò che c’era fuori. Conosceva le tradizioni più vicine a quella persiana per forza di cose, e perché le aveva lette sulle pergamene, ma non aveva mai conosciuto altre realtà. Questo alimentava la sua curiosità, la sua sete di conoscenza, doti che Alessandro trovava deliziose in una donna. E inoltre, questo suo essere così innocente e a tratti ingenua, gli inteneriva il cuore e alimentava il suo spirito di protezione nei suoi confronti, già presente a causa della differenza d’età tra i due – otto anni.
Ma lei era come diceva Ossiarte: lo faceva uscire fuori dalle grazie del suo dio ogni qualvolta replicava e non utilizzava un tono reverenziale nei suoi confronti. Ma era la regina, non poteva permettersi più di tanto di imporle il suo punto di vista.
Le aveva fatto conoscere i suoi diadochi e in particolare ci tenne molto a presentarle Efestione, che le aveva fatto come dono di nozze una giumenta di nome Artemide.
Era riuscito ad avvicinarla ma poi le cruente azioni rivolte ai paggi di Alessandro, dopo il tentativo di assassinio, sembrarono farla allontanare di nuovo per diversi giorni.
Era un tira e molla. Sembrava star giocando a nascondino.
Rossane non biasimava Alessandro per le sue decisioni riguardo i congiurati, ma era rimasta impressionata dal suo cambiamento repentino. Con lei era affettuoso e comprensivo, con gli altri affabile e cordiale, e poi si trasformava in un uomo intransigente e spietato.
Era stata lei a riavvicinarsi, poi, con grande stupore del marito. Aveva messo da parte l’orgoglio ed era andata a salutarlo.
Era arrivata la fine dell’estate. L’esercito era in procinto di partire alla volta dell’India.

Quel giorno Rossane era con Alessandro, nella brezza leggera d’autunno, era l’ultimo giorno in Battria prima della partenza. Le foglie secche che si muovevano placide seguendo il vento del tramonto.
Erano in una radura appena fuori Al-Khanoum.
Rossane aveva fatto la conoscenza del magnifico cavallo nero di Alessandro, Bucefalo. Le aveva raccontato di com’era riuscito a “domarlo” e lei ne era rimasta molto colpita.
Quel giorno non c’era niente di regale nella regina. Portava i pantaloni da fachiro di seta viola, che usava per andare a cavallo, infilati negli stivali stretti e scuri al ginocchio con la punta arricciata verso l’alto; portava una camiciola color bianco sporco, infilata nei pantaloni a vita alta, e vi aveva legato una cintura di cuoio. Sopra teneva un gilet dai ricami elaborati, da cui sbucavano le maniche larghe della camiciola e terminavano nei guantoni di cuoio della ragazza. I capelli erano legati in una treccia laterale senza ornamenti di alcun genere.
Alessandro la trovava bellissima anche così. Gli aveva fatto strano vedere una donna indossare i pantaloni, ma d’altronde erano un’invenzione persiana e i persiani stessi furono i primi a permettere alle loro donne di indossarli.
Rossane era in piedi e stava accarezzando la chioma di Bucefalo, che li aveva accompagnati al galoppo fino a quella radura, un po’ sopraelevata rispetto al livello della città. Da lì potevano vedere le case, il fiume, le strade, investite dalla luce rosata del sole che calava dietro le montagne.
Alessandro stava seduto sull’erba, le gambe distese e le mani piazzate sul prato dietro la schiena per tenersi sollevato.
Non avevano parlato di niente fino a quel momento. Lui si era presentato alle porte dell’harem, aveva chiesto a un eunuco di far uscire Rossane, e poi l’aveva portata alle stalle. Erano montati su Bucefalo, lei stretta dietro di lui, ed erano partiti al galoppo verso quella radura che Alessandro aveva scoperto poco tempo prima. Forse lei la conosceva già, ma pensò che potesse essere una buona occasione per stare finalmente soli del tutto.
Solo che ora che aveva ottenuto un po’ di solitudine con lei, non riusciva a dirle niente. Cosa avrebbe voluto dirle? Parlavano sempre di tante cose, ma forse di loro non si erano mai detti niente.
«Com’è Ossiarte? – se ne uscì Alessandro. – Come padre, intendo.»
Avesse fatto quella domanda solo un paio di mesi prima, si sarebbe subito scusato per la troppa curiosità. Ma avevano raggiunto un livello di confidenza tale da non farlo sentire in imbarazzo nel porre alcune domande come quella.
«Io non ho un’alta considerazione di mio padre dopo aver scoperto che era complice dell’assassinio di re Dario. – spiegò, distratta. – Ma come padre non mi ha mai fatto mancare nulla, per amor dell’onestà. Forse non è bello da dire, ma ero la sua figlia favorita e tentò di educarmi il meno possibile ad un’esistenza come moglie e madre, e il più possibile al comando di un popolo. Contava di lasciare a me la provincia di Battria, dopo la sua dipartita.»
Solo che il padre non aveva fatto i conti con i dubbi di Rossane. Era davvero tagliata per una carica del genere? Ossiarte sosteneva di sì, ma che sarebbe stata davvero pronta solo quando avrebbe imparato a seguire gli ordini. Quando avrebbe imparato a stare dall’altra parte.
Rossane conosceva la politica, l’economia, i diritti civili e penali del cittadino di Persia.
E allora? Anche uno stolto poteva conoscerli. La principessa sosteneva che non bastava solo la conoscenza a rendere qualcuno idoneo a certi ruoli di rilievo, ci voleva anche qualcosa di più.
Lei era più volitiva, ambiziosa e cocciuta rispetto alle donne che circondavano suo padre e, in particolare, delle sue sorelle. Ma non era sicura che questo bastasse.
«Siete stata il figlio maschio che non ha mai avuto, in altre parole.» commentò Alessandro, riscuotendola dai suoi pensieri.
«Non credo, no. A mio padre pesò sulle spalle il fatto di non avere un erede maschio. Ma poi sono cresciuta io. Sono la figlia femmina con il carattere più volitivo. – si lasciò cadere vicino a lui, facendogli un sorriso. – Non volevo sposarmi, mio re. Ho ricevuto molte proposte di matrimonio, le ho rifiutate tutte con il consenso di Ossiarte. Farmi sposare non era nei suoi piani, ma capisco che l’offerta di un re è parecchio allettante.»
Alessandro le sorrise enigmatico. «Mia regina, cosa devo fare per conquistare il vostro cuore? Sembra una fortezza inespugnabile, e non come la Rocca di Arimazes. – ammiccò, divertito. ─ Sono mesi che ci provo, non ne vengo a capo. Datemi un suggerimento.»
Rossane si strinse nelle spalle senza dire niente.
In realtà in cuor suo non riusciva a lasciarsi andare, ad aprirsi. Le attenzioni delicate di Alessandro le scaldavano il cuore, sbriciolavano la pietra di cui era ricoperto. E poco a poco aveva cominciato a battere per lui. Un sentimento netto, puro e delicato, sovrastato dall’assordante razionalità della fanciulla.
Mizda le aveva detto che avrebbe avuto tutto il tempo per conoscerlo ed innamorarsi. Perché così funzionava nei matrimoni combinanti: all’inizio non c’era mai amore, ma con un po’ di tolleranza e buona volontà poteva nascere quel fiore prezioso.
Lei era troppo orgogliosa per ammettere a sé stessa che si stava innamorando.
Rossane non aveva un’alta considerazione degli uomini, i pochi che se l’erano meritata l’avevano sempre delusa e suo padre era stato l’ultimo ad aver spezzato il cuore di Rossane. Non avrebbe permesso a nessun altro di far breccia in lei e, quindi, di spezzarla.
Anche se fosse finalmente riuscita ad essere sincera con sé stessa, mai avrebbe mostrato i suoi sentimenti. Mostrare una parte di sé ad un uomo del genere, capace di sondare l’anima e scovare ogni antro oscuro, significava dargli potere. Rossane non gliel’avrebbe dato, sapeva che se ne sarebbe approfittato.
Ma quello era suo marito, il suo re. Era davvero giusto chiudersi a riccio?
Mio marito. Si ritrovò a ripetere mentalmente quel concetto un paio di volte. Ora era regina, aveva una posizione vantaggiosa e aveva assicurato la vita alle sue sorelle. Ma non era del tutto appagata, né si sentiva del tutto libera. Una parte di sé odiava Alessandro per essere il suo sposo. E sentiva che questo veleno che covava in sé sarebbe stato deleterio per il rapporto.
 Distolse lo sguardo dai suoi occhi eterocromatici per puntarlo sul fiume Oxus nella valle, e ingoiò un groppo, le orecchie andavano a fuoco. E le guance pure.
«Vi faccio sentire a disagio?» domandò Alessandro, inclinando la testa a sinistra e studiando il profilo di sua moglie baciato dal sole. Il naso piccolo, leggermente all’insù, le labbra delicate, il mento rotondo, gli occhi socchiusi per la luce.
«Un po’.» ammise. Come non avrebbe potuto di fronte a quegli occhi indagatori?
«Non dovete. Io vorrei essere per voi un amico, un compagno, un amante.»
«Siete ad un terzo dell’opera, mio re, siete mio amico.» gli fece un sorriso furbo.
Lui ricambiò, ma si fece serio presto. «Posso darvi un bacio, mia regina?»
Rossane abbassò gli occhi tra i fili d’erba, si morse il labbro inferiore con un sorriso timido. Alzò poi lo sguardo su di lui, guardandolo da sotto le ciglia.
Non seppe dire dove trovò la malizia.
«Buffo che chiediate. Voi siete un conquistatore, mio re. Venite a prendervi quello che volete.»
Non seppe dire nemmeno se sia stata una mossa intelligente, dirgli una cosa del genere. Ma le parole erano rotolate fuori dalle labbra prima che potesse fermarle, prima che potesse soffermarsi sulle conseguenze o sul significato implicito che potevano avere.
Vide il suo pomo d’Adamo fare su e giù, mentre con gli occhi indugiava sull’intero corpo di Rossane fino a posare lo sguardo sulle sue labbra.
Emise un sospiro dalle narici, poi piegò il busto verso di lei. Era così vicina, poteva sentirne il profumo di incenso. Inebriante. Le mise una mano tra la testa e la nuca e la attirò a sé, in un bacio che non dava spazio al respiro.
Alessandro era audace e dominante, cercava di sopraffarla e imporsi. Non era mai stata baciata così da un uomo, in quel modo così prepotente ma al contempo affettuoso. Era quello il bacio di un re, il bacio di un conquistatore. Alessandro si stava prendendo quello che voleva, compreso il suo cuore.
Sentiva che poco a poco lo stava conquistando. Mai avrebbe dovuto fargliene rendere conto.
 
 
* * *
 
Le forze combattenti contavano circa quarantamila uomini, mentre gli ausiliari e i non guerrieri erano venti mila.
Varcarono la catena dell’Hindu Kush e presero la strada di Bamian e della valle di Ghoroband.
Qui Alessandro decise di dividere le sue forze: Perdicca ed Efestione, al comando delle truppe pesanti, si mossero con i bagagli attraverso la valle del Kabul fino a Pushkalavati, la Città del Loto.
Alessandro era a capo delle truppe leggere, si spinse più a nord attraverso le regioni dello Swat, abitate da popoli montanari particolarmente bellicosi e molto restie a sottomettersi. Tuttavia caddero comunque sotto la mano di Alessandro.
Il re si preparava ad assediare la fortezza di Aorno, posta su un piccolo picco vicino alla valle dell’Indo.
Aveva gentilmente chiesto a Rossane di seguire Efestione e Perdicca, dal momento che il loro viaggio sarebbe stato più tranquillo e consono ad una fanciulla così giovane e ben poco abituata alla guerra.
Lei però aveva deciso di restare e seguirlo, con suo momentaneo disappunto. Non era abituato a vedere qualcuno che rifiutava così a viso aperto le sue decisioni. Rossane era irremovibile e lui non poteva insistere poiché era la sua regina.
Ma tuttavia gli piaceva averla intorno. Poteva controllarla, studiarla, cercare di capirla.
Rossane dal canto suo aveva fatto amicizia con i diadochi di Alessandro, eccetto Cassandro che sembrava molto ostile nei suoi confronti, ma aveva stretto un legame con Efestione e Cratero. Le dispiacque vedere il primo allontanarsi.
Aveva fiutato un rapporto molto particolare tra il soldato e il re. Si conoscevano dall’infanzia ed erano molto uniti, ma sembrava esserci di più. Un affetto più profondo dell’amicizia.
A lei, comunque, non dava fastidio nonostante tutto. Forse per l’affetto che provava per Efestione ella stessa.
Alessandro non si curava di nascondere quel rapporto particolare con il suo soldato, nemmeno di fronte a Rossane. E, tra l’altro, Alessandro aveva con sé anche qualche concubina e servitore.
Le concubine, però, le aveva fatte scortare fino a Pushkalavati da Perdicca ed Efestione, tenendo con sé i servitori. Tra questi c’era Bagoa.
Bagoa era un ragazzo giovane, il viso glabro, gli occhi truccati. Era persiano, un eunuco. Fu il catamita (“compagno intimo”) di re Dario e riuscì a fuggire al satrapo Besso e gli altri assassini del re. Un signore dell’ex corte persiana, Nabarzane, mentre l’eunuco cercava di raggiungere i superstiti persiani, gli offrì di entrare al servizio di Alessandro: ci furono incomprensioni linguistiche e di etichetta, ma alla fine si fece ben volere con la sua innocenza, diventando suo eromenos. Alessandro non lo abbandonò neanche dopo aver sposato Rossane.
La ragazza non lo guardava con disprezzo o diffidenza, non si sentiva gelosa di lui. Bagoa però, sapendo che ella era figlia di Ossiarte, la schivava ad ogni tentativo di amicizia.
I due erano praticamente coetanei, Bagoa aveva solo un paio d’anni in meno di Rossane. Mentre lei ne aveva venti, lui ne aveva diciotto. Alessandro ne aveva ventotto.

Una sera Rossane raggiunse Bagoa, mentre erano accampati lungo il fiume, un affluente minore dell’Indo di cui la ragazza non conosceva neppure il nome. La valle era secca, arida, ma intorno al fiume crescevano arbusti e piccoli alberi. Il giovane eunuco era lì, appoggiato al sottile tronco di un albero lungo la dolce discesa verso le rive del fiume.
Da quando era partita Rossane non indossava più tuniche, ma solo pantaloni e stivali comodi.
«Bagoa.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Mia regina, posso fare qualcosa per voi?»
«Volevo solo parlarti. Dammi del tu, per favore.»
«Siete una regina, mia signora. Non è opportuno.»
Nonostante parlasse di ciò che era opportuno e cosa no, l’eunuco non aveva comunque mai effettuato la proskynesis alla regina, ma solo al suo re. Insolito, se non fosse per il suo malcelato disprezzo.
Lei si sedette vicino a lui. Potevano quasi sembrare fratello e sorella.
Bagoa era geloso di Rossane. Lei aveva sposato l’uomo che amava. Lei era la figlia di uno dei traditori di re Dario, il suo amato re.
E Rossane sapeva che a causa di questi fattori, non avrebbe mai potuto risultare simpatica a Bagoa. Non del tutto almeno, lui avrebbe sempre covato in sé un po’ di risentimento e una vena vendicativa più o meno accentuata.
Voleva essergli amica, perché si sentiva in colpa per i crimini di suo padre. E perché sentiva che, in qualche modo, Bagoa potesse farle compagnia. Lei era sempre sola. Le concubine non c’erano, Efestione era andato via, Cratero aveva il suo da fare e anche Alessandro.
L’eunuco si consolava pensando che, se non altro, la regina non aveva giaciuto con il re macedone. La notte dormivano in due tende diverse. Vicine, ma diverse. E lui lo sapeva bene, perché la notte si trovava spesso tra le braccia del suo re. Era un bello schiaffo morale alla regina bambina.
«Io non ho colpe, Bagoa. Non ho scelto io di sposare Alessandro, non ho detto io a mio padre di assassinare re Dario.»
Anzi, gli aveva riversato contro tutto lo schifo che provava nei suoi confronti per quel tradimento ripugnante.
Bagoa sospirò tristemente, alzando le spalle. Lanciò un piccolo sasso nel fiume.
Sembrò riflettere in quel momento sulla condizione di Rossane. Era una fanciulla innocente che stava pagando per le nefandezze di suo padre e subiva gli accordi tra due popoli. Era vittima tanto quanto lui. Non erano poi così lontani.
«Voi siete mai stata innamorata, Rossane?»
Si rivolse a lei in modo più confidenziale. Avevano quasi la stessa età, ed ella stessa gli aveva chiesto meno formalità. Si sentì più rilassato.
«È successo, una volta. – rispose lei, piano. – Non è andata bene.» si limitò a dire, con una scrollata di spalle.
Uomini che si approfittavano dell’ingenuità e del buon cuore di Rossane, arrivisti che non si erano fatti scrupoli a calpestare le sue emozioni.
«Avete chiuso il vostro cuore, in quel momento, non è vero? È per questo che non permettete più a nessuno di entrarci, nemmeno al vostro re. Avete paura di dargli potere su di voi. Ma lui ce l’ha già, Rossane, è un re.»
Lei gli sorrise debolmente alla luce della luna. I riflessi platino si riflettevano sulla superficie delle acque del fiume.
Aveva sia ragione che torto. Sì, aveva paura di dargli potere. No, lui non avrebbe avuto potere su di lei fintanto che teneva il cuore chiuso in una fortezza. Non le importava se era il Re dei Re, faraone d’Egitto e re di Macedonia. Poteva essere pure Ahura Mazda in Terra ma mai avrebbe permesso a qualcuno di sopraffarla, di soffocare la sua volontà, di calpestare le sue emozioni e umiliarla come era successo in passato.
«E tu?» gli domandò, sviando il discorso.
«Anche io ho amato, re Dario. Chiusi il mio cuore come avete fatto voi, quando fu assassinato. Poi però ho incontrato re Alessandro. Le sue attenzioni, le sue premure, era delicato e passionale. Il mio cuore tornò a battere, mi aprii e mi lasciai andare.»
«Sei arrabbiato con me perché l’ho sposato, ma non devi. Non l’ho scelto io, ed è un matrimonio politico. L’amore non c’entra niente, è solo una questione legale.»
Alessandro aveva detto più di una volta di essere innamorato di Rossane. Lei non gli aveva mai creduto: bastava vedere come si comportava con Efestione e gli sguardi che rivolgeva a Bagoa. Quello era amore.
Poi c’era ancora quella parte di sé che lo odiava. Lo odiava perché non la considerava, perché era stata costretta a sposarlo, perché tendeva a imporle il suo volere e controllarla, perché le mentiva dicendole di essere innamorato.
«Voi due… siete così strani. A volte vi guardate e percepisco affetto, altre volte percepisco la guerra.»



 
♣ ♣ ♣
Angolino autrice
Ragazzi, è faticoso scrivere ciò che prova Rossane, ve lo giuro HAHAH È combattuta: si sta innamorando ma non vuole darlo a vedere, si impegna per mantenere il controllo ma poi lo perde. È complesso parlare di questo rapporto, ecco.
Vabbuon, oggi abbiamo conosciuto Bagoa! ♥ Man mano conosceremo anche Cratero, Efestione, Cassandro e Perdicca, e il loro impatto nella vita di Rossane. Ribadisco che questa storia segue le vicende personali della regina, perciò non ci saranno scene incentrate solo su Alessandro quando non c'è lei, eccetto casi eccezionali - non so se mi spiego.
Btw, ho intenzione di far uscire i capitoli ogni domenica e sono già arrivata a scrivere il settimo. So essere davvero efficiente quando mi prende l'ispirazione giusta, sì HAHAH
Btw pt. 2 : per chi volesse, mi trova anche su Wattpad! (

Vi ringrazio infinitamente per aver speso un po' di tempo a leggere Rossane, vi ringrazio per seguire questa storia, per recensirla. Insomma, grazie mille, spero sempre di essere all'altezza (o quasi, almeno) delle vostre aspettative ç_ç ♥
Fatemi sapere cosa ne pensate, se volete!
Intanto vi saluto, vi mando un bacino a tutti e a presto! ♥

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Capitolo 5
*** 4. Chahar ***


Rossane
il fiore di Persia

۴ . Chahar

 
Gandhara, inverno 327 a.C.

Con Bagoa era riuscita ad arrivare ad un punto d’incontro. Dopo quella sera sul fiume, passavano pomeriggi insieme mentre Alessandro aveva il suo da fare.
Durante la marcia Rossane era sempre in coda con i servitori, mentre il re era avanti, e si affiancava a Bagoa per parlare e ridere.
Procedevano seguendo il corso di un fiumiciattolo per raggiungere la roccaforte di Aorno. Cratero ipotizzava un altro paio di giorni di marchia, massimo tre.
All’alba smontavano l’accampamento e si mettevano in marcia. Al tramonto lo rimontavano in fretta, prima che arrivasse il buio, e accendevano i fuochi.
Appena arrivati nel luogo in cui accamparsi, Alessandro si era affiancato a Rossane che stava legando il proprio cavallo ad un ceppo.
Quando lo vide, gli regalò un sorriso che lui non riuscì a non ricambiare. Le posò una mano sulla guancia, carezzandole il viso con il pollice. Poi le prese il mento tra le dita e si chinò per poggiarle un bacio casto sulle labbra.
«Rossane, devo chiedervi di fare attenzione d’ora in avanti lungo il cammino. Ci avviciniamo alla roccaforte di Aorno e ho paura che ci siano guardie appostate lungo la via. Inoltre, voglio che restiate lontana dalla battaglia, insieme ai servitori.»
Rossane aggrottò le sopracciglia. «Mi sento completamente inutile, come un bagaglio in più. Qui tutti hanno un ruolo, soldati e servitori. Io a cosa servo? Insegnatemi a combattere. Non prenderò parte alla battaglia della roccaforte, non ne sarei comunque in grado, ma in caso di ogni evenienza io voglio saper impugnare una spada e difendermi un minimo.»
«Ci sono le guardie per questo, Rossane. Non ho intenzione di permetterti di impugnare una spada. È una maledizione, rende assetati di sangue. E io desidero che ve lo risparmiaste, mia regina. Siete così pura, non mi perdonerei mai di vedervi insozzarvi con certe maledizioni.»
«Ma è solo per difesa personale!»
«Ho detto di no. Non insistete!»
Rossane lo guardò in cagnesco, e si allontanò a grandi passi verso l’accampamento.
Afferrò una delle daghe appartenenti a chissà chi, abbandonate sulla rastrelliera. Quando fu lontana dal chiacchiericcio, sguainò la spada. Era pesante, doveva ammetterlo, fu costretta a tenerla con due mani. Era più corta rispetto alle shamshir di Persia, e più pesante.
Se il suo re non voleva insegnarle a combattere, avrebbe imparato da sola. In tanti imparavano da auto-didatti e ce l’avevano fatta, lei non aveva niente in meno rispetto a quella gente. Solo forza fisica, ma era un problema a cui avrebbe potuto far fronte in un modo o nell’altro.
Di certo non si sarebbe arresa al primo no.
Cominciò a martoriare un povero ceppo con la spada, il sudore cominciò a scendere dalle tempie.
Una risatina roca la fece interrompere bruscamente, la spada a mezz’aria sopra la testa mentre caricava il colpo.
Cratero aveva le braccia incrociate al petto, si stava divertendo. Rossane arrossì, lasciò cadere la spada e intrecciò le dita dietro la schiena.
«Guarda, una spada!»
«Credo proprio che sia la mia.» sghignazzò di nuovo, avvicinandosi per recuperarla e rimetterla nel fodero.
«Infatti mi domandavo di chi fosse!»
«Mia regina, solo voi potete rubare la mia spada senza che vi vengano tagliate le mani. La prossima volta avvisatemi, magari. – le strizzò l’occhio. – Cosa stavate facendo? Eravate molto arrabbiata con quel ceppo, vi ha forse importunato?»
«Ecco, io… Volevo imparare a combattere. Un minimo, insomma. Corriamo pericoli e io sono un peso, se imparo a combattere posso almeno difendermi da sola senza chiamare aiuto in caso di aggressione. Non voglio fare la fanciulla in difficoltà, mi capisci, Cratero?»
«Non saresti la prima donna che impara, d’altronde. La sorellastra di Alessandro stessa è scesa in battaglia con suo padre Filippo, una volta, e ha pure ucciso una regina nemica in un corpo a corpo. Tra la tua gente, ci fu Artemisia che guidò cinque triremi della flotta di re Serse. Ah, le donne. Vengono rilegate a ruoli come moglie e madri, eppure sul campo di battaglia si dimostrano spesso al pari o superiori degli uomini. Sapete delle donne di Sparta? Prodigiose. – si rese conto d’aver parlato più del dovuto e si schiarì la gola. ─ Se volete imparare, chiedete al vostro re di insegnarvi.»
Rossane aveva ascoltato rapita le parole di Cratero sulle donne. Conosceva la storia di Artemisia, come non poteva? La considerava quasi un’eroina. Ma non sapeva delle donne di Sparta o della sorellastra di Alessandro. Avrebbe voluto saperne di più, ma prima che potesse esporre una qualsiasi domanda in merito, il generale concluse il discorso con quella frase infelice. Lei storse le labbra.
«Non vuole aiutarmi. Ma tu potresti.»
«Se il re non vuole, non vi insegnerò nulla, mia regina. Mi dispiace.» asserì, alzando le spalle.
«Allora ruberò sempre la tua spada. Per ripicca.» replicò piccata, incrociando le braccia al petto e sollevando il mento.
Cratero aggrottò le sopracciglia, le lanciò la daga. Rossane la prese al volo, accogliendola tra le braccia e facendo un passo indietro.
«Ho visto il modo orribile in cui l’avete impugnata prima, devo proprio partire dalle basi.»
 
 
Rossane era soddisfatta della sua prima lezione di spada con Cratero.
Era un insegnante paziente e volenteroso. Si fece prima spiegare i motivi dietro la scelta di apprendere tale arte e li comprese appieno, li appoggiò persino. Le disse che avrebbe preferito cominciare utilizzando bastoni o rami, ma per le motivazioni espresse dalla regina, decise di partire subito con la spada. Per farle prendere familiarità col peso, il metallo, la lama affilata, la sua consistenza nello spazio circostante. L’aveva già svezzata, in altre parole.
Inoltre le aveva dato uno spadino che poteva nascondere negli stivali, per ogni evenienza.
Cratero aveva capito che Rossane non si sarebbe fermata con un banale “no”. Non aveva senso opporsi alle sue scelte, era fatica sprecata, perché in un modo o nell’altro sapeva ottenere ciò che voleva. Era minuta e atletica, il saldato pensò che poteva diventare una buona spadaccina. Magari non eccellere nella tecnica, ma era agile e poteva cavarsela.
Avrebbe potuto farle provare la tecnica dei coltelli, il tiro con l’arco, in alternativa alla spada che richiedeva una forza fisica maggiore di quanta ne avesse lei.
L’indomani l’avrebbe iniziata a quelle due discipline, sì, aveva deciso così.
Durante la cena, Rossane parlò con Bagoa della sua lezione. Gli aveva detto di essere andata contro gli ordini di Alessandro, e lui aveva avuto un tremore. Non aveva mai avuto il coraggio di opporsi alla volontà del re, invece lei sì. Forse per carattere, o forse perché era la regina e aveva il diritto di far sentire la sua voce.
Nella sua tenda quella sera, Rossane si pettinò i capelli come di consueto. L’indomani li avrebbe lavati al fiume. Avevano perso un po’ di lucentezza, per via dell’assenza degli oli e dei balsami che utilizzava ad Al-Khanoum per nutrirli, ma rimanevano morbidi e fluenti. Cercava di curarli come poteva con impacchi naturali e ogni sera non si negava di spazzolarli.
Aveva dovuto tagliarli prima di partire. In estate avevano raggiunto metà natica e li aveva accorciati un po’, tagliandoli fino al girovita. Quand’erano umidi sfioravano l’osso sacro, le fossette di Venere.
Alessandro fece il suo furioso ingresso nella tenda, facendola sobbalzare. Non le diede il tempo di dire niente, la afferrò per i capelli e la costrinse ad alzarsi. Avvicinò il viso al suo, strattonandola.
«Vi avevo ordinato di non toccare una spada! Mi sono stancato di vedere i miei ordini bellamente ignorati da voi.»
«Io non sono un soldato, non potete darmi ordini. Voi non potete dirmi cosa devo e non devo fare! Se ritengo che imparare la spada è giusto, io imparerò a maneggiare una spada.»
Lo guardava dritto negli occhi, cercando di mascherare il dolore lancinante alla cute che lui le stava provocando tenendola per i capelli. Se li era attorcigliati intorno al polso, la stretta delle dita ferrea.
Non avrebbe mai creduto di vederlo arrivare a tanto.
C’era la guerra negli occhi nocciola di Rossane, la dignità e l’orgoglio.
«Credete che io mi diverta a dare ordini a destra e a manca? Voi non fate che remarmi contro, Rossane. – ringhiò, al suo orecchio. – Come se non bastasse, vi siete fatta dare lezioni da Cratero!»
La strattonò di nuovo, facendola inginocchiare a terra. Lui si chinò sui talloni di fronte a lei, continuando a tirarle i capelli, tenendole la testa piegata leggermente indietro.
«Voi mi avete negato l’aiuto.» gemette, mantenendo la schiena dritta con dignità.
Perché doveva fare così?, si chiese Rossane stringendo le labbra.
Lei aveva chiesto aiuto al suo re, lui gliel’aveva negato e si era fatta aiutare da uno dei generali. Qual era il problema? Perché doveva tirarle i capelli e trattarla in quel modo?
Strinse gli occhi, obbligandosi a non piangere per l’umiliazione e la rabbia.
«Io non so cosa devo fare con voi, Rossane. Siete disobbediente, schiva, ma solo con me. Con Bagoa, Efestione e Cratero siete una persona deliziosa, aprite il cuore all’amicizia. Perché scappate da me?»
«Guardatevi, Alessandro. Ditemi come non potrei scappare da un uomo che tira la moglie per i capelli.»
Il re sembrò rendersi conto in quel momento. Allontanò subito la mano, non la toccò.
Lei scivolò verso il cantuccio con le pellicce, il suo letto. Si tenne a distanza di sicurezza. Il macedone la raggiunse, scivolando vicino a lei.
«Non fatemi del male.» sussurrò, scostandosi leggermente.
«Non accadrà più. Perdonami, Rossane.»
Era la prima volta che le parlava in modo così intimo.
«Sono molto stanco. – continuò. – E nervoso. Non avrei dovuto prendermela con te, e hai il diritto di fare ciò che ritieni giusto.»
Lei tacque, lo sguardo basso mentre si martoriava le dita.
Dopo un lungo silenzio, annuì appena.
«Va bene, non importa. È colpa mia, vi ho sfidato e non avrei dovuto. Cercherò di essere più accondiscendente, mio re.»
In cuor suo sapeva che non sarebbe mai accaduto, a meno che non si sarebbe trovata d’accordo con le sue decisioni, e non si sentiva davvero in colpa.
Alessandro allungò una mano verso il suo viso. Ne accarezzò i bellissimi lineamenti con la punta delle dita. «Mia meravigliosa Rossane.» sussurrò a fior di labbra, studiandola come se la stesse guardando per la prima volta.
Lei guardava i suoi occhi, incantata da quella meraviglia della natura. Non pensava che Ahura Mazda fosse in grado di creare gli occhi di due tonalità così diverse in un solo individuo. La notte e il giorno.
Brillavano di una luce dolce mentre la studiavano. Era il suo sguardo che rendeva belli quegli occhi.
Altre volte le aveva dato l’appellativo “mia”, ma mai in modo così deciso e possessivo.
Rossane aveva ormai capito di essersene innamorata. Gli sfuggiva perché aveva paura ad aprire il suo cuore per timore di restare ferita, proprio come aveva detto Bagoa. Ma per lui Alessandro aveva rappresentato una guarigione, magari sarebbe stato lo stesso anche con lei. Forse avrebbe potuto lasciarsi andare.
Il viso del re era sempre più vicino al suo, come se volesse studiare le fattezze della pelle, la tonalità, la purezza.
Le sue dita percorrevano come una carezza i suoi lineamenti. Il profilo del naso, gli zigomi, l’arcata del sopracciglio, il mento. Rossane chiuse gli occhi, lui le sfiorò le labbra studiandone il disegno.
«Non ho mai conosciuto una donna bella come voi, mia regina.»
«Non vi credo.»
«Non vi fidate della parola del vostro re?»
Lei aprì gli occhi, Alessandro le stava sorridendo divertito e malizioso.
Rossane boccheggiò, il re posò la fronte sulla sua e la posò una mano dietro le schiena mentre la faceva stendere. Scivolò sdraiato su un fianco, vicino a lei. Appoggiò il braccio al lato del suo viso, tra i cuscini.
Le baciò il collo, sotto l’orecchio, la curva della mascella. Arrivò a baciarle il mento, l’angolo delle labbra.
«Quello che dice il re è legge.» le sussurrò, le labbra che sfioravano le sue.
«E quello che dice la regina, invece?»
«La mia regina non fa che contestarmi e disobbedirmi, forse mi disprezza.»
Le baciò gli zigomi, il naso.
«La vostra regina non vi disprezza affatto, ma non sopporta le imposizioni.»
«Se non mi disprezza, perché mi sfugge? È come vento tra le dita, intangibile. Riesco a sentirla a volte, e diventa quasi materiale, ma non riesco ad afferrarla e a tenerla a me. Mi fa diventare matto.»
Mentre continuava a lasciarle baci sul viso, la sua mano scese sul suo fianco accarezzandone le forme. La infilò sotto la sottana, toccando quella pelle meravigliosa e saggiandone finalmente la delicatezza. Era la prima volta che la toccava.
Alessandro si bloccò, le labbra premute sulla pelle. Allontanò la mano, sistemandole la veste. Le diede un bacio casto sulle labbra. Non l’aveva più baciata come aveva fatto alla radura di Al-Khanoum.
«Poco fa è stato deciso che partiremo domani per la roccaforte di Aorno. Saranno due giorni di cammino, poi ci sarà l’assedio. Quando la conquisteremo, ci fermeremo un giorno lì. Manderò qualcuno per avvisarvi che la rocca è caduta e potrete raggiungerci in modo da proseguire il viaggio.»
Le disse, alzandosi in piedi. Si passò una mano tra i capelli.
Rossane aveva le guance rosse ed era ancora frastornata per le carezze sui fianchi che lui le aveva fatto. Il contatto più intimo che avessero avuto in quell’arco di tempo insieme.
«Noi resteremo qui, dunque.»
«Sì, è più sicuro. Mi dispiace che non potrete continuare le vostre lezioni con Cratero, per il momento.»
«Davvero?»
Alessandro alzò le spalle. Cercava di andare incontro ai desideri della sua regina. Non aveva senso imporsi e dirle di non fare una cosa, se lei lo desiderava. Era volitiva, determinata, sapeva arrivare dove voleva e questo aspetto era amato e odiato da Alessandro. Era l’unica donna con cui c’era un confronto diretto. E lei non aveva alcuna paura ad andare contro i suoi ordini, come se non le importasse che lui fosse il Re dei Re.
Rossane fece un gesto vago con la mano.
«Tornerete da me, mio re?»
«Sarete voi a venire da me, stavolta. – sorrise malizioso, scostò le tende per uscire. – Buonanotte, Rossane.»
 


♣ ♣ ♣
Angolo autrice
Violenza e dolcezza infinitaa~ 
Okay questo è solo un capitolo di passaggio ma mi serviva per introdurre le lezioni di spada di Rossane e farvi capire che Alessandro ha i suoi scatti d'ira, argh. Il fatto che di lei si sappia poco e niente, mi dà la possibilità di prendermi alcune libertà, tra cui anche la scelta di farle prendere lezioni di spada per l'appunto hahah! 
A darmi l'ispirazione per questo aspetto è stato un articolo di Europinione.it che parlava appunto di Rossane, e l'ho trovato per puro caso. In particolare un pezzo mi ha dato la carica sia per scrivere di questo lato agguerrito e sia per scrivere la storia in sé:

R
ossane rimase lì, tra i combattimenti, il sangue e la pioggia che bagnava le foglie carnose dell'umida foresta tropicale; un fiore delicato tra i rovi della guerra. Vide e visse orrori inimmaginabili, come quello dell'Idaspe, dove la battaglia contro re Poro e i suoi soldati si risolse in un violento massacro.

Ringrazio tutti per aver speso un po' di tempo a leggere questa storia, per averla recensita, per averla inserita tra i seguiti o le preferite, ma anche per averla semplicemente sbirciata. Insomma, grazie davvero! Non nutrivo grandi pretese per questa storia, invece sta riscuotendo più successo di quanto mi aspettassi, il che mi lascia sorpresa e felice haha
Vi ringrazio tanto ;; ♥
Come al solito, se avete consigli, precisazioni, domande o volete dirmi cosa ne pensate, io vi ascolterò con piacere ♥

Ricordo che aggiorno settimanalmente, ogni domenica!

Alla prossima, grazie a tutti! ♥


 



 

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Capitolo 6
*** 5. Panj ***


Rossane
il fiore di Persia

 
Angolo autrice:
Ve lo imbuco in alto stavolta, vi avviso in anteprima HAHAH
Anche questo capitolo sarà un po' di passaggio e, nell'ultima parte, ci sarà un vago romanticismo (?).
Come al solito grazie a tutti che leggete silenziosamente o recensite, mi fa sempre tanto piacere vedere che qualcuno spende un po' del suo tempo per sbirciare questa storia o per scrivermi due righe! Critiche costruttive e consigli son sempre ben accetti e se avete domande o volete esporre la vostra opinione non preoccupatevi che non mordo nessuno. Solo quando c'è la luna piena, ma è un altro discorso (simpaticissima). Fatemi sapere cosa ne pensate se vi va, buona lettura e alla prossima! ♥

 


۵ . Panj
 
Gandhara, inverno 327 a.C.
 
All’accampamento erano rimasti alcuni dei servitori dell’esercito. Un manipolo di trecento persone.
I giorni scorrevano lenti, tutti uguali, scanditi dal susseguirsi delle ore. Il sole che disegnava il suo arco nel cielo, dall’alba al tramonto, proiettando ombre sempre diverse intorno a loro.
La sera prima di partire Alessandro aveva fatto visita a Rossane nella sua tenda, per rimproverare la ragazza di aver preso una piccola lezione di spada da Cratero. Si era poi scusato, l’aveva accarezzata, ed era stato il contatto più intimo avuto fino a quel momento.
Rossane si era addormentata con lo stomaco in subbuglio e all’alba, durante lo stato di dormiveglia, sentì labbra calde posarsi sulla sua spalla nuda.
Alessandro la stava salutando prima di partire per l’assedio della roccaforte di Aorno.
Si svegliò con questo pensiero e le farfalle nello stomaco.
Rossane contava i giorni. Due, massimo tre, fino alla rocca. Quanti per l’assedio? Si mordicchiava le dita presa dall’ansia, Bagoa che le toglieva le mani dalle labbra per farla smettere di tormentarsi.
Quel pomeriggio erano insieme, sulle rive del fiume, a tirare sassi piatti e farli rimbalzare sulla superficie dell’acqua. Non avevano più parlato di Alessandro o del loro passato. Avevano parlato di loro. Rossane aveva trovato in Bagoa un amico sincero e prezioso, alla stregua di un fratello.
Suo padre apprezzava gli eunuchi, come tutti i nobili persiani e anche i greci e macedoni di alto lignaggio, ma al contempo non si fidava di loro. Le diceva di tenerli alla larga ogni volta che le fosse stato possibile poiché covavano invidia, rancore e vendetta.
A Rossane non era affatto sembrato che Bagoa fosse capace di tradire qualcuno, ma anzi era molto devoto.
C’erano tante domande che avrebbe voluto fargli sulla sua condizione di eunuco, ma probabilmente non era saggio andare a toccare certi tasti dolenti.
«Tu… - cominciò, prima che potesse fermare le parole. – Ricordi come ti chiamavi prima?»
Lui le lanciò un’occhiata. «Che importanza ha?»
«Non mi piace chiamarti Bagoa, non è il tuo nome. È come se cominciassi a chiamarmi “regina” come se fosse il mio nome.» brontolò.
Bagoa, infatti, era il nome che acquisivano tutti gli eunuchi quando venivano evirati prima della pubertà. Non era un nome proprio.
Il ragazzo non le rispose, si limitò a sollevare le spalle.
«Ti manca la vita che facevi prima?» le chiese d’un tratto.
Rossane assottigliò lo sguardo, lasciandolo vagare sulle increspature dell’acqua del fiume. Il sole dava fastidio agli occhi. Rifletté sulla domanda.
Le mancavano Amu e Darya, sentiva il bisogno di parlare con loro e abbracciarle quasi ogni giorno. Era così lontana da Battria, adesso. Sembrava passata una vita da quando faceva il bagno nell’hammam e i servitori si prendevano cura della sua pelle e dei suoi capelli, una vita da quando prendeva lezioni private di politica ed economia da un precettore, una vita da quando passeggiava nei giardini del palazzo di Al-Khanoum o restava relegata nell’harem a leggere o danzare con le concubine.
Di fatto non era passato molto. Nella sua testa sembravano passati anni. Si sentiva quasi invecchiata, nonostante la giovanissima età. Le mancava la vita di sfarzo che faceva a Battria, le sue pergamene, i suoi giochi, i suoi dispetti bonari alla servitù.
Ma lì, nell’accampamento di un esercito, si sentiva viva. Non era sicura che fosse proprio quello il suo posto nel mondo, tutto ciò che sapeva era che grazie al matrimonio combinato era riuscita a respirare un’aria diversa da quella profumata d’incenso del palazzo di Al-Khanoum. Si sentiva una donna, si sentiva libera nonostante i vincoli con Alessandro e tutte le questioni da regina.
In qualche modo, sentiva che la campagna d’India era solo un momento transitorio. Che una volta portata a termine, sarebbe andata a Babilonia con Alessandro e lì sarebbe cominciata la vita di corte, molto simile a quella che conduceva ad Al-Khanoum. Con tutti i vantaggi e gli svantaggi.
Almeno finché la sete di conoscenza e di scoperta del re non avrebbero di nuovo bussato alle porte della mente e avrebbe riorganizzato un esercito per ripartire verso l’est.
«Mi mancano le mie sorelle.» si limitò a dire.
Bagoa le fece un sorriso, lanciò un altro sasso piatto. Fece due rimbalzi sull’acqua, creando lievi increspature. «A me un po’ manca la vita con re Dario. Preferisco stare in un posto chiuso, al sicuro, piuttosto che in un accampamento in cui la nostra vita è sempre in pericolo solo perché seguiamo un esercito.»
«Non ti annoi a stare rinchiuso?»
«Negli harem con le concubine c’è sempre tanto da fare.»
Rossane gli fece un sorrisetto malizioso, sollevando un sopracciglio. «Ah sì, immagino.»
Bagoa sfarfallò le ciglia, le guance si imporporarono. «Sei una maliziosa! Cosa hai capito? I-Io non…!»
«Rilassati! – scoppiò a ridere, in quella risata contagiosa che tanto piaceva al suo amico. – Stavo solo scherzando. Lo so che non sei interessato alle donne in quel senso.»
«Le donne… - sospirò. – Sono creature meravigliose. I corpi armoniosi, eleganti. La donna ha un corpo perfetto, non c’è niente che stona. Amo le donne, sono una forma d’arte vivente.»
«Mi confondi, Bagoa. Ti piacciono le donne o gli uomini?» ridacchiò Rossane, immergendo i piedi nelle acque del fiume.
Era fresca, pulita. Il suolo era coperto da ciottoli tondeggianti che non davano fastidio al piede.
Non faceva poi così freddo, nonostante fosse inverno. L’aria era fresca sulla pelle, ogni tanto tiravano fili di vento più gelidi, soprattutto verso sera, e la notte le temperature si abbassavano costringendoli a coprirsi con pellicce.
Loro si trovavano in prossimità di uno degli affluenti dell’Indo. A pochi chilometri dalla valle sua valle.
«Gli uomini, perché io mi sento una donna qui. – si indicò il petto. – Ma non nego la bellezza delle donne. L’uomo è più grottesco, più rude e grezzo, forse è per questo che mi piacciono di più i maschi.»
«Non sono sicura d’aver compreso appieno. – sorrise. – Ma anche gli uomini sono belli, Bagoa. Sì, più rudi e forse grezzi, ma c’è dell’armonia anche nei loro corpi, non trovi?»
Le sorrise, quasi compatendola. «Hai mai visto un uomo nudo, Rossane? Completamente.»
Lei sfarfallò le ciglia e boccheggiò. «Beh in realtà no. Solo fino ai fianchi, al massimo.»
«Devi sapere che tra le gambe un uomo ha…» le fece un gesto eloquente, che lei si rifiutò di guardare mettendosi le mani sul viso.
«Va bene, ho capito!»
«Ed è sgraziato!» continuò imperterrito, mentre scoppiava a ridere.
«Finiscila, ho capito ti dico!» si prese il volto fra le mani, le guance arrossate.
Bagoa non smetteva di ridere, dalla riva asciutta. «Oh, non farti impressionare! Prima o poi dovrà succederti di vederne uno.»
Non gli piaceva pensare che sarebbe stato Alessandro, quell’uno. Nonostante l’affetto che provava nei confronti di Rossane, non aveva ancora metabolizzato il fatto che fosse la moglie del suo amato re. Forse perché lei cercava di evitare il discorso, di non farglielo pesare sulla pelle ben conscia dei suoi sentimenti verso Alessandro. Ma Bagoa lo sapeva che prima o poi avrebbero consumato il matrimonio, e non ne era molto felice.
Non riusciva a capire cosa provasse Rossane per il re. Forse non lo aveva chiaro nemmeno lei.
«Non vieni a rinfrescarti?» lo incalzò, riscuotendolo dai suoi pensieri.
Ormai si era immersa fino ai fianchi, muoveva le mani nell’acqua e girava creando lievi onde sulla superficie.
Bagoa mosse un passo nella sua direzione, incerto. L’acqua era fredda, i brividi gli percorsero la schiena.
«Ma è gelida, come fai!»
«Ti ci abitui, poi. Come a vivere in un accampamento di bruti soldati: ti ci abitui.» gli fece un sorrisetto scherzoso.
Bagoa non riuscì a non ricambiare. «Io non sono come te, io non mi abituo mai a niente.»
«Alla mia presenza ti sei abituato però.»
«Perché sai come prendere le persone. Un accampamento e un fiume freddo non sanno come prenderti!»
Rossane gettò la testa indietro e scoppiò a ridere. Si lasciò cadere in acqua di schiena e riemerse poco dopo, tirando indietro i capelli. Li strofinò per lavare via le impurità e la sporcizia.
Bagoa si allontanò verso l’accampamento per recuperare un telo da porgere alla regina una volta uscita dall’acqua. L’aiutò ad avvolgersi nella morbidezza del tessuto e la accompagnò nella sua tenda.
A terra c’erano tappeti per proteggere i piedi dall’erba, all’angolo sinistro c’era il giaciglio fatto di pelli e pellicce, e un po’ di paglia morbida, con cuscini coperti di seta e raso ricamati con fili d’oro. In fondo c’era un telo che nascondeva il catino di ferro in cui Rossane si lavava. All’angolo destro c’era il baule con i pochi abiti che aveva con sé, una toeletta con incensi e oli per il corpo e i capelli, cosmetici, portagioie. Niente a che vedere con ciò che la regina aveva ad Al-Khanoum, ma aveva mantenuto un minimo della sua femminilità. Nel portagioie ce n’erano ben poche, di gioie, in effetti. Una collana, un bracciale, una cavigliera, un paio d’orecchini e un fermacapelli.
Poi c’erano piccole candele disseminate ovunque e i rotoli di pergamena dell’epopea di Gilgamesh accatastate ai piedi del giaciglio. C’erano anche un paio di sgabelli di legno.
Di solito le tende della regina erano sempre aperte per far entrare aria e luce, se si trovavano chiuse voleva dire che si stava lavando o riposando, o semplicemente non voleva essere disturbata. Era un tacito codice che ormai tutti avevano imparato nel campo. La servitù agli inizi le ronzava intorno, poi si era resa conto che Rossane non necessitava di tutto questo servizio: solo quando doveva sistemare i capelli aveva bisogno di aiuto, in quanto non sapeva fare le trecce e farglielo imparare risultava impossibile.
Bagoa si sedette su uno sgabello mentre lei appendeva il telo su un filo che percorreva la tenda e si toglieva la veste zuppa. Non aveva vergogna a mostrarsi nuda di fronte a lui, tanto non provava niente per le donne. Solo una grande ammirazione e, secondo lei, anche una punta d’invidia.
L’eunuco osservò le forme di Rossane, il mento poggiato sulla mano.
La regina aveva un corpo tonico, era magra e atletica, le gambe lunghe e sinuose. I glutei tondi, il girovita delineato, il seno piccolo. Le sue forme erano meno accennate rispetto a quelle di altre nobildonne persiane più in carne e voluttuose, ma erano armoniose ed eleganti, aggraziate.
«Ecco cosa intendo quando dico che il corpo femminile è un’opera d’arte.» sospirò, quasi malinconico. Probabilmente non rispecchiava il fisico idoneo per una femmina destinata alla procreazione: non aveva fianchi larghi e seno prosperoso, cosce morbide e ventre paffuto. Eppure risultava così elegante e sinuosa nel suo essere sottile e atletica. Si era domandato perché Alessandro l’avesse scelta: i greci amavano le donne carnose, era segno di buona salute e buona capacità di procreazione, ma lei non era così. Per un momento, si chiese cosa ne avrebbe pensato il re quando l’avrebbe vista. Ma scacciò il pensiero.
Rossane accennò un sorriso mentre infilava una tunica bianca con ricami in oro. Gli fece un cenno, Bagoa comprese che doveva avvicinarsi per intrecciarle i capelli.
Si posizionò dietro di lei, seduta su uno sgabello, mentre guardava il loro riflesso sul vassoio d’argento posato tra la toeletta e la parete della tenda.
«Ti piacerebbe essere una donna?» gli domandò, a bassa voce.
«Sì. Di fatto ho ben poche cose che mi differenziano da voi, ma ho pur sempre le fattezze di un uomo. Sono sgraziato, sono… a disagio col mio corpo. Mi sento una donna, questo corpo sento che non mi appartiene. Mi guardo allo specchio e non lo riconosco.» aggiunse piano.
Rossane sentì stringersi il cuore. Poteva solo immaginare il disagio di Bagoa nel vivere in un corpo che non sentiva proprio. Era una situazione dolorosa per lui. Lei non l’aveva mai provata: si era sempre sentita bene con sé stessa, si era sempre apprezzata.
Darya stava attraversando un’età in cui il suo corpo cambiava, non si piaceva e si sentiva a disagio. Ma era un tipo di sensazione molto diversa da quella che provava l’eunuco.
«Insomma, sono già donna per metà, in un certo senso. Perché non posso esserlo del tutto?» continuò, con una nota di dolore nella voce.
Rossane non sapeva bene come consolarlo. Era diverso dal consolare sua sorella.
«Posso renderti una splendida concubina, Bagoa.» gli propose, guardandolo maliziosa.
Gli occhi del ragazzo brillarono appena.
Rossane lo fece sedere sullo sgabello, gli pettinò i capelli neri lunghi fino alle scapole e li acconciò alla maniera delle donne persiane, fissandoli con un fermacapelli d’oro. Era ancora mascolino.
Gli truccò le guance con le polveri tenui, ammorbidendo i lineamenti, gli passò una linea di kajal egiziano sulla palpebra allungandola fino ad oltre la coda dell’occhio. Gli delineò le sopracciglia, gli mise alle orecchie i suoi vistosi orecchini d’oro. Una collana di pietre preziose, i bracciali ai polsi.
Lo fece alzare in piedi, lo aiutò ad indossare una delle sue vesti viola ricoperta di ricami floreali d’oro. Era abbastanza larga da stargli bene, nonostante la differenza d’altezza. Lei gli legò un cinturino d’oro rigido attorno al girovita stretto, ma con la morbidezza della veste non si notavano i tratti mascolini del corpo.
Dopodiché, Rossane prese il vassoio d’argento. L’oggetto restituì a Bagoa l’immagine di una donna bellissima ed elegante.
L’eunuco si toccò il volto, il petto. Era una donna davvero. Si sentì donna. Gli mancava il seno.
Rossane sembrò intuire i suoi pensieri e alzò le spalle.
«Consolati: nemmeno io le ho, ma questo non ci rende meno donne, giusto?»
Parlava al plurale. Come se fosse anche lui una donna davvero.
Questo gli scaldò il cuore, gli fece salire le lacrime agli occhi. Abbracciò forte Rossane, affondando il viso nella sua spalla. Le differenze erano tante, ma in quel momento Bagoa si sentì donna grazie a lei, e questo gli bastava più di ogni altra cosa.
 
 
Due settimane più tardi, era arrivato un messaggero da parte della roccaforte di Aorno.
Comunicava che la rocca era stata presa e che le truppe attendevano di essere raggiunte per proseguire il viaggio.
Bagoa, dopo quel pomeriggio con Rossane, si era sempre vestito come una donna e truccato come tale.
La regina si sentiva felice per lui e gli prestava volentieri i suoi abiti. Tanto lei ormai metteva solo i pantaloni, di rado le tuniche.
Cominciarono il viaggio seguendo il corso del fiume come al solito, Rossane in testa alla marcia a cavallo della sua giumenta bianca, pezzata con macchie nocciola, di nome Artemide. Era il regalo di nozze che le aveva fatto Efestione.
La mattina del terzo giorno, riprendendo il cammino, videro la rocca e i soldati alle pendici del promontorio su cui era arroccata. Li attendevano per ripartire.
Il cuore le balzò in gola.
Cratero li accolse, sorridendo a Rossane. «Mia regina. Avete fatto un bel viaggio?»
«Oltremodo noioso. – sorrise a sua volta. – Immagino che non vedrò Alessandro prima di stasera.»
«Ahimè, avete ragione.»
Tempo di riorganizzare la marcia e l’esercito continuò il cammino. Alessandro puntava ad un impero universale. Gran parte dell’India nord-occidentale era stata sottomessa ai persiani ai tempi di Dario I, il quale fece anche esplorare l’intera valle dell’Indo.
Procedevano verso sud, con l’obbiettivo di penetrare nel Punjab.
Al tramonto l’accampamento venne montato in una zona vicino ad uno degli affluenti dell’Indo. Era un territorio pianeggiante, a ridosso delle vette himalayane. C’era qualche albero sottile lungo la strada, arbusti, grossi massi. Dall’accampamento al fiume era una camminata piuttosto lunga tra le rocce e il terreno scosceso.
Cenarono sotto le stelle, Rossane si ritrovò a parlare con Cratero riguardo la prossima lezione di spada. Lui le disse che quella sera era troppo stanco per sopportarla, e le fece un sorriso.
La conversazione col generale andò scemando con la fine della cena. La regina si congedò con un sorriso, pensando di andare a salutare Alessandro.
D’altronde era ansiosa di vederlo, voleva sapere se stava bene. Ma sicuramente il re era in gran forma, altrimenti gliel’avrebbero fatto subito presente.
Si avvicinò alla sua imponente tenda nel momento in cui Bagoa era in procinto di uscire.
Il ragazzo indugiò con gli occhi all’interno e se ne andò allontanandosi, dando le spalle a Rossane. Non si era neanche accorto di lei.
La regina sentì montare una sofferenza sorda. Si sentì tradita da Bagoa, nonostante sapesse dei suoi sentimenti per il marito; si sentì presa in giro. Relegata al ruolo di seconda scelta.
Si avvicinò all’entrata, traendo profondi respiri nel tentativo di placarsi.
«È permesso?»
«Rossane.» esalò Alessandro, in piedi al centro della tenda.
Addosso non aveva altro che un paio di pantaloncini di stoffa scura e una vestaglia di colore rosso cremisi con ricami in oro, che lasciava scoperto il petto e parte degli addominali. Aveva qualche medicazione sul corpo, piccole strisce di cerotto in alcuni angoli del viso.
«Pensavo di ritrovarvi più ammaccato.» gli sorrise.
«È stata faticosa, ma non dolorosa. Io pensavo di non rivedervi fino a chissà quando, invece. Non mi aspettavo che sareste venuta.»
Lei esibì un sorriso tirato. «Sì, immaginavo.»
Alessandro si avvicinò come una pantera, i suoi occhi seri. Si fermò solo quando i loro corpi si attaccarono, Rossane non aveva fatto un solo passo indietro.
Le prese il volto fra le mani, accarezzandola con i pollici.
«Mi siete mancata, Rossane.»
«Non si direbbe. Avete fatto mandare Bagoa per tenervi “compagnia”. Non mi mentite, Alessandro, non sono una stolta.»
«E voi come potete dire che io l’abbia mandato a chiamare? Potrebbe essere venuto lui.»
«Conosco Bagoa. Non entra nella vostra tenda se non siete voi a chiamarlo. Ditemi, vi è piaciuta la sua trasformazione?» i suoi occhi lampeggiarono di sfida.
«Dunque è opera vostra. – si allontanò per versarsi un bicchiere di vino. – In effetti il suo abito mi sembrava di conoscerlo, l’avevo già visto addosso a voi.»
«Molto arguto, non vi sfugge nulla.» borbottò sarcastica.
Alessandro bevve senza staccare gli occhi dai suoi, si pulì le labbra con l’avambraccio in un gesto distratto.
«Stavate conversando con Cratero, non me la sono sentita di disturbarvi.» la guardò da sotto le ciglia, a volerla sfidare, il tono di voce tradiva una nota d’amarezza.
«Adesso è colpa mia?»
«Voi non avete capito, Rossane. – si avvicinò di nuovo, le strinse le mani sui fianchi, possessivo. – Io non voglio condividervi.»
«Sarò io quella che dovrà condividervi con altri, veramente.» borbottò imbronciata.
Le concubine, Bagoa, Efestione. Doveva abituarsi all’idea di condividere Alessandro con altre persone, uomini e donne.
«Siete gelosa?» si leccò il labbro inferiore.
«No.» mentì spudoratamente.
«Bugiarda.» le sussurrò, baciandole uno zigomo.
Rossane vacillò. «Non vi fidate della vostra regina?» replicò mal celando l’ironia nel riproporgli la frase che lui stesso le disse tempo prima.
«Io mi fido degli occhi della gente, Rossane, dei loro sguardi. Il vostro… Zeus solo sa cosa si cela nel fondo di questi vostri occhi verdastri. Ma adesso hanno brillato di qualcosa, hanno avuto un bagliore di gelosia.»
«Non è vero.»
«Non sapete mentire, smettetela di provarci. – le baciò il lato della bocca, la guancia, la curva della mascella. – Perché non rimanete con me stanotte?»
Rossane aggrottò le sopracciglia, si districò dal suo abbraccio passionale. Lui la tenne ferma per le braccia.
«Avete giaciuto con Bagoa! Come posso? Voi amate lui, amate Efestione, non me! Smettetela di illudermi e mentirmi!»
«Vi sbagliate, non ho giaciuto con Bagoa stasera. – si difese, aggrottando le sopracciglia. ─ Ci sono tanti tipi di amore. Quello che provo per voi è molto diverso da quello che provo per lui, è molto più profondo e intenso, dovete credermi.»
«Ma a chi volete ingannare! – sbottò, strattonando le braccia per allontanarlo. – Mi sta bene che mi avete sposata per interesse politico, ma non sopporto di venire illusa con queste parole melense e prive di sentimento. Relegatemi con le altre puttane, o con la servitù. Non mi interessa. Ma non vi permettete di mentirmi e di illudermi in questo modo!»
Quello che seguì fu confusionario. Lei cercò di mollargli uno schiaffo, accecata dalla frustrazione.
Alessandro non sopportò di essere stato preso per bugiardo, tentò di rabbonire Rossane tenendola ferma tra le braccia. Lei si divincolò con energia, riuscì ad assestargli anche un paio di sonori schiaffi in viso.
Il re la fece cadere sul letto, senza farle troppo male, liberandosi della vestaglia.
In ginocchio uno di fronte all’altro. Alessandro che cercava di tenerle le braccia per non essere schiaffeggiato di nuovo, Rossane che si divincolava.
Gli mollò uno schiaffo più forte, lui fu svelto e le tirò i capelli attorcigliandoli intorno al polso. La costrinse ad avvicinare l’orecchio alle sue labbra.
«Adesso basta.»
«Lasciatemi.»
Alessandro le liberò i capelli lentamente, le tenne le mani sulle sue braccia. Rossane lo guardava in cagnesco, la guerra nello sguardo. L’ironia negli occhi eterocromatici del re.
Arricciò il naso e simulò un ringhio. Lei aggrottò le sopracciglia, contrariata.
«Voi siete irrispettosa, forte, e ingestibile. Non avete nemmeno paura.»
Rossane sembrò rabbonirsi, rilassò i muscoli. Quelle parole suonavano come complimenti, nonostante avessero un retrogusto amaro sulla bocca del re. Si lasciò cadere sul letto, tra i grossi cuscini di seta e le pellicce. Guardò il soffitto della tenda, le venne da ridere per averlo schiaffeggiato. Aveva schiaffeggiato il Re dei Re, il faraone d’Egitto e il re di Macedonia.
Ossiarte non avrebbe mai approvato. Suo padre non avrebbe approvato niente degli atteggiamenti sfrontati che la ragazza aveva avuto. Ma cosa le importava? Lei non voleva l’approvazione di nessuno.
«Ridete di me?» le domandò Alessandro.
«Rido di me, mio re.» mormorò con dolcezza.
Lui rilassò le spalle, inclinò la testa verso sinistra. «Voi siete una donna così strana a volte, mia Rossane.»
La regina sospirò, non gli disse niente e non lo guardò neppure.
Seguì un silenzio lungo ma sorprendentemente privo di imbarazzo.
«Io non vi relegherò con le concubine o con la servitù. – le disse piano, interrompendo la calma. – Voi siete la mia regina. Ci siamo sposati per accordi politici, ma tutto quello che c’è tra noi, nel bene e nel male, non è frutto di un accordo. Se lo fosse stato, ora avremmo già consumato il matrimonio e voi sareste gravida; se lo fosse stato, voi non sareste così irriverente e così gelosa. Vi sareste comportata seguendo l’etichetta, i doveri e tutto il resto come tutte le altre mogli.»
«Ma il mio comportamento o le mie sensazioni sono lecite.» replicò piccata, sollevandosi sui gomiti.
«Forse. Ma una buona moglie non si sarebbe comportata come voi: penserebbe solo a compiacere il marito e non parlerebbe se non interpellata, sarebbe gentile e sottomessa. Voi vi sfogate e vi ingelosite, mi schiaffeggiate e mi urlate contro, v’infiammate, eruttate come un vulcano, e poi diventate di ghiaccio.»
«Se non vi sto bene poiché non sono una buona moglie, perché non volete rilegarmi con le altre concubine? Prendetevi un’altra donna e lasciate stare me, se non vi vado bene. Io non cambierò il mio atteggiamento per voi. Voglio tornare alla mia tenda, se non vi dispiace, sire.» borbottò inacidita.
Alessandro sghignazzò, il naso che si arricciava ogni volta che sorrideva. Ma lei non mosse un muscolo per alzarsi. Forse non lo voleva davvero, e il corpo lo sapeva.
«Non ho mai detto che non mi andate bene. Io non voglio una moglie come se fosse un oggetto da tenere per bellezza o solo per procreare. Preferirei mille donne come voi, piuttosto che una sola donna che non mi dà niente.»
Rossane boccheggiò. Non se l’aspettava.
Alessandro inarcò le sopracciglia, con un sorriso dispettoso.
«Ovviamente scherzavo, una sola Rossane basta e avanza. – scoppiò a ridere. ─ Vi giuro su tutto ciò che volete, che stasera non ho giaciuto con Bagoa. Non lo faccio da un po’. Ve lo giuro. Alla luce di ciò e di quello che vi ho detto, cosa avete intenzione di fare? Resterete con me?»
Rossane non fece in tempo a rispondere che lui incontrò le sue labbra. Delicate, morbide, il miele della saliva. Non fu un bacio casto. Alessandro desiderò approfondire ogni contatto.
Quando si allontanò, la guardò così intensamente che lei arrossì. Come se le stesse chiedendo il permesso.
«Io non voglio costringervi, Rossane.» sussurrò, scuotendo appena la testa come a sottolineare il concetto.
«Non mi state costringendo, mi state conquistando. Per stavolta, forse potrei provare a fare la brava moglie.»
Arricciò il naso con un sorriso ironico, che lui ricambiò.
Si stava aprendo a lui, stava aprendo il suo cuore di pietra.
Alessandro lo sentì come terra tra le dita. Concreto, tangibile, per la prima volta. Non più vento sfuggente, non più sabbia che si perde. Non voleva perdersi o lasciarsi sopraffare dai piaceri della carne, ma non gli era mai accaduto di essere così vicino a perdere il controllo. Rossane lo faceva infuriare e lo mandava fuori di testa, sia per i suoi atteggiamenti sfuggenti e sia per il suo essere così: bella e testarda, maliziosa e innocente. Ma non l’avrebbe mai scambiata per nessun’altra donna, e di questo se n’era reso conto da quando imparò a conoscerla. L’unica che sembrava tenergli testa almeno un po’.
Quella sera un pezzo di cuore le era sfuggito al controllo e gliel’aveva mostrato senza volerlo. Alessandro lo trovò inebriante, sentì come se non avesse più potuto farne a meno.
«Da stanotte sarete mia davvero, Rossane. Mi apparterrete e io apparterrò a voi.»
Vi sbagliate, mio re. Io sono mia, appartengo solo a me stessa.
E anche voi non apparterrete mai a nessuno se non a voi stesso e al mondo che tanto bramate.

 

 
 

 

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Capitolo 7
*** 6. Sehsh ***


Rossane
il fiore di Persia



۶ . Sehsh

Pressi di Aorno, inverno 327 a.C.
Si svegliò che il cielo era grigio, l’aria pungente e umida. Non era ancora giunta l’alba, ma la luce del sole illuminava debolmente l’accampamento.
Rossane aveva passato la notte con Alessandro, nella stessa tenda e nello stesso letto.
Ricordava le gambe intrecciate, le fronti imperlate di sudore, i corpi attaccati in quel silenzioso rituale. Lui l’aveva presa e aveva preso anche la sua virtù, ma l’aveva fatto con dolcezza, senza nemmeno farla sanguinare.
Qualcosa l’aveva irrimediabilmente legata a lui, dopo quella notte, a livello emotivo. Niente a che vedere con il matrimonio.
Perché doveva essere così difficile cercare di nascondere il proprio cuore? Lui se ne stava appropriando pezzo dopo pezzo, e la sera prima aveva perso il controllo per un momento, aprendosi a lui. Non sarebbe più accaduto.
Rossane era sicura che Alessandro non l’amava. Era un buon oratore, questo lo riconosceva. Ma non l’amava davvero, ciò che le aveva detto la sera precedente erano menzogne, ne era del tutto convinta.
Non le piaceva condividere, ma non poteva impedire al re di giacere con chi volesse né poteva dare a vedere il suo fastidio. Significava esporsi, e l’aveva fatto anche troppo.
Quanto tempo avrebbe resistito nascondendo le sue emozioni contrastanti e turbolente?
«Ben svegliata.» la voce di Alessandro le arrivò roca e assonnata. Si stropicciò un occhio, quello azzurro cielo, con un sorrisetto. Le ricordò un bambino.
«Buongiorno anche a voi.»
«Te.» la corresse.
«Cosa?»
«Buongiorno anche a te. – ripeté. – Non mi va più di parlare in modo così formale con te.»
Lei si strinse nelle spalle ed annuì, aveva un senso. «D’accordo.»
Alessandro si alzò in piedi, senza curarsi della nudità. Si accucciò per frugare in un baule ai piedi del giaciglio e ne estrasse una pergamena arrotolata. La passò a Rossane, che si sporse per prenderla e si girò sulla pancia, le gambe che ondeggiavano avanti e indietro.
La srotolò, scrutò quella calligrafia così strana, così insolita. Non aveva mai visto niente del genere.
Il condottiero si distese di nuovo vicino a lei, su un fianco, tenendosi su con il gomito. Con la punta delle dita della mano libera, le accarezzò la curvatura della schiena, dalle spalle sollevate al coccige.
Quella pelle dalle sfumature dorate, liscia e pura come seta.
«Che lingua è?» domandò Rossane, senza distogliere lo sguardo dalla pergamena.
«Greco. E questa è un’opera di Omero, l’Iliade. Molto popolare dalle mie parti.» le sorrise.
«Te ne porti una copia dietro come io custodisco quella dell’epopea di Gilgamesh.» sussurrò, quasi allibita.
«Ho anch’io i miei eroi.»
«Non capisco una parola di quello che c’è scritto qui, ti va di raccontarmi di questa Iliade?»
Alessandro tese un orecchio, cercando di captare rumori di risveglio dell’accampamento. Era ancora presto, forse qualcuno sveglio c’era ma certamente non in procinto di levare le tende.
Le raccontò brevemente del testo epico greco, di Achille, di Ettore, di Patroclo, Briseide, Elena e Paride, Odisseo.
Rossane lo ascoltava attenta, memorizzando tutte quelle informazioni su una cultura così lontana. Ascoltava la sua voce, magnetica e ipnotica, le sue descrizioni incerte nella lingua persiana e quell’accento lontano che deformava le parole.
Le dita ruvide del re che continuavano ad accarezzarle la schiena, talvolta disegnando piccoli cerchi, lo sguardo che non lasciava il suo mentre raccontava.
Gli fece un piccolo sorriso, comprendendo quanto per lui fosse ispiratrice quell’opera e il suo eroe, Achille.
«Molto meglio Ettore.» commentò infine, dopo che Alessandro espresse la sua ammirazione verso l’eroe acheo. Gli lanciò un sorrisetto astuto, per punzecchiarlo.
«Era un uomo d’onore, sotto certi aspetti anche più di Achille. – acconsentì. – Ma la gloria a volte richiede gesti orribili e l’onore sacrifici immensi.»
«Stai attento, Alessandro. La tua brama di eguagliare Achille potrebbe esserti fatale.» arrotolò di nuovo la pergamena e la posò al lato del giaciglio.
Lui non le rispose. Le posò un bacio sulla fronte e si alzò per vestirsi. Lei fece altrettanto, senza proferire più parola.

 
* * *
 
 
Regione del Punjab, primavera 326 a.C.
Alessandro e le sue truppe penetrarono nel Punjab nella primavera del 326 a.C.
Riuscirono a scavalcare un fiume grazie all’intervento di Efestione e Perdicca che, essendo arrivati prima attraverso un percorso più semplice, avevano fatto costruire dei ponti presso il guardo di Ohind a nord di Attock, per permettere il futuro passaggio del re. Il Punjab, come suggerisce il nome, era un territorio rigoglioso e composto da cinque fiumi affluenti dell’Indo.
Il territorio in cui era penetrato l’esercito era dominato da tre potentati: quello di Ambhi, che si estendeva tra l’Indo e l’Idaspe, e che come capitale aveva Taxila; quello di Poro, Paurava, tra l’Idaspe e l’Acensine; quello di Abisare, situato a nord-est da quello di Poro.
Durante la traversata, alcune truppe in avanguardia capitanate da Cratero si erano ritrovate a fronteggiare un esercito di uomini piccoli, appostati sugli alberi per difendere il loro territorio.
Cratero riuscì a fare qualche prigioniero e li portarono all’accampamento, nella foresta umida e afosa.
Erano ominidi di bassa statura, coperti di pelliccia e avevano persino una coda lunga.
Quando Rossane li vide scoppiò a ridere.
«Ma questi non sono soldati! Sono animali! – aveva preso la mano di uno di loro. – Si chiamano scimmie.»
Alessandro la guardò esterrefatto, poi tutti posarono gli occhi sull’animale chiamato scimmia.
Si chinò su una di loro, vicino alla moglie, prendendo la mano della bestia e paragonandola alla sua.
«È incredibile, hanno le mani come le nostre. Camminano come noi. Beh, quasi.»
«Hanno mani anche al posto dei piedi, guarda.»
Decisero di tenere un paio di scimmie con loro, quelle più restie ad allontanarsi da quelle creature senza peli e coperte di metallo che offrivano loro da mangiare. Le altre furono liberate.
La marcia proseguì, l’esercito avanzò fino a raggiungere le porte della città di Taxila nel pomeriggio di quel giorno umido di primavera.
Quando Alessandro si presentò alle guardie, quelle fecero passare l’esercito con un gran sorriso. D’altronde, il loro sovrano Ambhi aveva fornito circa settecento truppe al conquistatore macedone durante l’avanzata in Sogdiana.
Taxila aprì le sue porte, rivelando una città ricca e vivace.
Sorgeva tra i due fiumi, l’Indo e l’Idaspe, il cui corso era stato virato artificialmente in modo da irrigare i giardini della città, ed era colma di piantagioni. C’era persino qualche giardino pensile, segno del passaggio dei persiani ai tempi di Dario I.
I colori che dominavano erano il beige e il verde, piccole barche a remi fluttuavano sulla superficie delle acque dei fiumi.
L’esercito fu accolto dalla popolazione con una grande festa: donne, uomini e bambini accorrevano ai bordi delle strade per salutare i visitatori stranieri.
Rossane si guardava intorno, gli occhi febbrili dall’emozione di tutto quell’ambiente nuovo e diverso dalla cultura persiana. I bambini le gettavano corone di fiori al collo, pioggia di petali, in lontananza riusciva a scorgere gabbie con le tigri.
Quei pochi che non erano accorsi erano intenti in lotte tra galli, piccole risse, furti ai venditori distratti.
Era tutto così diverso, aveva letto delle civiltà sulla valle dell’Indo solo nelle pergamene della biblioteca di suo padre. Ora le vedeva con i suoi occhi, cosa che mai avrebbe immaginato di fare.
Ormai, giunti quasi al centro della città in cui si ergeva l’imponente palazzo di Ambhi in mattonato dai colori tenui, un servitore invitò il re, la sua sposa, i suoi generali e la servitù più stretta, ad entrare a palazzo. L’esercito invece si accampò fuori le mura, e le porte della città sarebbero rimaste aperte.
Il palazzo reale era in perfetto stile indiano, con merlettature sulle arcate e cupole a cipolla. C’era un muro di cinta che lo circondava, come fosse stato una fortezza lussuosa, e dentro giardini interni, fontane, siepi curate, vasche d’acqua.
Lo sfarzo non aveva freni, i colori dei drappeggi erano sgargianti sulle tonalità del rosso.
Il servitore di Ambhi fece scortare la servitù e i diadochi nelle proprie stanze, esortando loro a riposare e passare il tempo come meglio credevano pur restando nelle mura del palazzo in attesa dell’ora di cena.
Alessandro e Rossane, invece, furono condotti alla sala del trono, passando per corridoi colonnati e dalle arcate merlettate. Sembrava quasi un tempio, quel luogo.
La regina era sicura d’aver intravisto una tigre aggirarsi liberamente per il palazzo, e pure un pavone.
La sala del trono aveva ampie finestre ai lati, ma era una stanza abbastanza stretta e lunga, con il tetto basso. C’erano colonne sottili ad accompagnare il cammino, un tappeto rosso con motivi indiani, lanterne di vetro colorato che scendevano dal soffitto coloratissimo, pieno di forme geometriche e ghirigori delle tonalità più disperate.
Ambhi era seduto in fondo alla stanza, su una poltrona in velluto rosso che aveva tutta l’aria di essere molto comoda. Veniva sventolato da ventagli di piume rosate da due fanciulle dal volto quasi interamente coperto da un velo semi trasparente.
«Re Alessandro!» scattò in piedi, andando incontro al sovrano dell’imponente impero.
Era un uomo dalla scura pelle ambrata, le sopracciglia folte, la barba ispida sale e pepe, il turbante viola sul capo. Sul naso adunco una pittura bianca che terminava in un puntino rosso al centro della fronte. Non doveva avere meno di cinquant’anni. La pancia era gonfia sotto gli abiti regali, tradendo il vizio per il vino. Parlava in persiano… o quello che doveva essere, almeno. D’altronde quelle due lingue, seppur diverse, venivano dallo stesso ceppo e molte parole erano simili: non era strano trovare un indiano che parlasse il persiano o viceversa.
«Rajah Ambhi. – lo salutò a sua volta il macedone, con un inchino. – Grazie per averci accolto nella vostra dimora.»
«Avreste dovuto avvisarmi prima, avrei fatto preparare più stanze. – con gli occhi sbirciò in direzione di Rossane, intenta a scrutare il soffitto. – La vostra accompagnatrice sembra molto incuriosita.»
Lei sembrò destata da un sogno, s’inchinò ai piedi del sovrano Ambhi come da proskynesis.
Il sovrano guardò Alessandro, che posò una mano sulla spalla della moglie.
«Mio re, vi presento la mia sposa. Rossane di Persia, figlia di Ossiarte satrapo di Battria.»
«Il fiore di Persia. – esalò Ambhi, colpito di vedere quella donna lì nel suo palazzo. – È un piacere fare la vostra conoscenza, regina Roshanak. Le voci che giungono fin qui, che parlano di voi e della vostra bellezza, sono dunque veritiere.»
Ora comprendeva il motivo per il quale la fanciulla aveva fatto la proskynesis. Era persiana, e in Persia quella era l’usanza e il trattamento che si rivolgeva ad un sovrano. Quel gesto, effettuato dalla regina di Persia, fece gonfiare Ambhi come un pavone.
«Grazie, Ambhi-baga, mi lusingate. Il piacere è il mio.»
Dopo il saluto al rajah, si dileguarono nella loro stanza. Il sovrano indiano aveva fatto disporre una camera sontuosa degna del Re dei Re e della sua sposa.
Rossane aveva ammirato quelle colonne eleganti color azzurro, quelle arcate merlettate, quello sfarzoso letto con le lenzuola e i cuscini di seta, le tende del baldacchino che scendevano dal soffitto. C’era persino un ampio balcone che si affacciava sulla città e v’erano solo delle tende gialle all’entrata.
Il matrimonio combinato l’aveva portata ad assistere a battaglie, marce estenuanti, accampamenti di soldati chiassosi, ma anche a questo. Meravigliosi luoghi lontani dalla cultura persiana.
Alessandro le aveva dato un bacio sulla spalla, facendola sussultare dalla sorpresa.
«La camera è di tuo gradimento?» sorrise malizioso.
«È assurdo.»
«A me piace molto. È davvero diverso dalle stanze di Babilonia, ancor di più da quelle di Macedonia o Grecia.»
«Non l’avrei mai detto, sai?» replicò alzando un sopracciglio, il sorriso dispettoso.
«Fai la spiritosa, mia regina? Ti burli del tuo re?» le si era avvicinato come una tigre, accarezzandole un fianco. Le dita dell’altra mano che percorrevano il collo e si piantarono sulla nuca, intrecciandosi ai capelli. Le tirò indietro la testa con uno scatto rapido ma non doloroso, costringendola ad alzare il viso per guardarlo.
I loro sguardi restarono incatenati per interminabili attimi. Lui che la studiava come se la volesse mangiare. Fuoco nei loro occhi. Alessandro avvicinò le labbra a quelle di sua moglie.
La porta si aprì con un tonfo.
«Mio signore… Oh!»
«Non si usa bussare? Sei diventato forse un barbaro, Perdicca?» gli lanciò un sorriso da lupo.
La regina sussultò a quella parola. Barbaro. Lanciò un’occhiata fiammeggiante al sovrano, che neppure se ne accorse.
«Scusami, io…» era arrossito come un peperone, dopo aver guardato la ragazza persiana.
Districò le dita dalla chioma di Rossane, e posò le mani sui fianchi. «Lascia stare. Che cosa c’è?»
«La nobiltà indiana chiede di te, è curiosa di conoscere il Re dei Re.»
Alessandro annuì, lanciò un’ultima occhiata in tralice a Rossane, e poi uscì dalla stanza con Perdicca.
La regina, rimasta sola, aggrottò le sopracciglia sbigottita dal cambiamento così repentino del suo re. Senza neppure rendersene conto, aveva sbuffato come un toro e allargato le braccia, lasciandole poi scontrarsi lungo i fianchi.
Inveì a bassa voce contro Alessandro. E pure contro Perdicca, che gliel’aveva portato via in un momento delicato.
Scese le scale fino al grande atrio centrale, a cielo aperto.
Voleva raggiungere Bagoa, o forse no. Una parte di sé si sentiva ancora tradita dall’amico eunuco. Non avevano neanche più parlato dopo la notte con Alessandro. Si torturò il labbro con i denti, chiedendosi se non fosse un po’ troppo permalosa.
No, per quel giorno non sarebbe rimasta con Bagoa, semplicemente non le andava. Tra non molto sarebbe stata servita la cena.
Decise di ritirarsi all’interno dell’area riservata alle donne del palazzo, in cui erano state inserite anche le concubine di Alessandro. Non sapeva se si chiamasse harem anche in India.
Era un luogo per la maggior parte all’aperto, un piccolo giardino interno in cui v’era una vasca d’acqua. Vi galleggiavano petali di rosa, alcune ragazze stavano facendo lì il bagno. Altre danzavano, qualcuna suonava, altre si intrecciavano i capelli, altre ancora giocavano con i pavoni.
Una delle concubine di Alessandro riconobbe Rossane.
Si chiamava Almas, veniva dalla Siria, Damasco. La regina si chiedeva per quale motivo le concubine avevano sempre nomi di fiori o pietre. Fayruz, la favorita di suo padre, aveva il nome che in arabo significava turchese, come la pietra. Almas, in arabo, significava diamante.
Possibile che fosse una coincidenza oppure le concubine una volta che venivano fatte schiave sceglievano un nome diverso? Come gli eunuchi che prendevano come nome “Bagoa” dopo la castrazione.
Si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia mentre la ragazza le prendeva la mano. Era bella, i lucenti capelli neri, la pelle ambrata, gli occhi nocciola.
Invitò la regina a ballare con loro. Rossane era cresciuta tra l’harem di suo padre e la biblioteca. Tra le concubine e il precettore. Sapeva ballare, certo, l’aveva fatto per una vita.
«Stiamo preparando una piccola coreografia, sapete, mia regina? – le disse Almas, tutta contenta. – Per onorare re Ambhi, così cordiale da averci ospitate. Perché non vi unite anche voi al ballo?»
La persiana ci rifletté su.
Di norma avrebbe rifiutato. La raqs sharqi era una danza sacra che affondava le sue radici nel culto primitivo della Dea Madre, poi nel culto di Inanna, di Ishtar, di Iside. Era una danza rituale, sacra. Con il tempo era diventata oggetto di intrattenimento tra le concubine, che l’avevano arricchita di movimenti e oggetti scenici.
Ma la raqs sharqi era soprattutto una danza in cui la femminilità veniva esaltata, anche la donna meno bella o aggraziata poteva risultare meravigliosa e sinuosa con i movimenti della danza.
«Non è saggio per una regina esporsi così.» affermò.
Eppure bramava di ballare.
Alessandro la rilegava come seconda scelta, l’avrebbe fatto per attirare la sua attenzione. Fargli perdere il controllo, cercare di tirar fuori un minimo di emozione simile all’ammirazione. Avrebbe significato che per lei qualcosa provava sul serio. Gli sguardi e le azioni facevano la differenza, le belle parole erano tutti bravi a pronunciarle. Aveva detto di amarla, non era vero.
Aveva detto che avrebbe cercato di conquistarla, ci stava riuscendo.
Ma lei sentiva di non aver conquistato lui, e questo non era giusto. La mattina dopo la notte in cui il matrimonio venne consumato, le sembrò di essersi appropriata di un pezzettino del suo cuore. Ma a Rossane non le bastava, tutto o niente. E il niente non le stava bene.
Non era sicura che ballare di fronte a tutti fosse la scelta giusta, ma tanto valeva tentare. Cosa aveva da perdere?
«Potreste coprire il viso. Lo copriremo tutte, seguendo voi, così che sembrerà l’abito di scena e voi non darete nell’occhio.» propose Almas, con un sorrisetto malizioso, astuto.
Rossane sollevò un sopracciglio, arricciando un angolo delle labbra.
«Abbiamo poco tempo per la coreografia, mia cara Almas. Affrettiamoci. Oggetti di scena?»
«Nessuno. Poi ognuna di noi improvviserà un pezzo con un oggetto a scelta. Io userò il velo, ad esempio. Miraj userà il candelabro, Nys userà le ali.»
«Io prenderò la spada.»
 
 
La sala dei banchetti era immensa, a cielo aperto, con colonne tutt’intorno per le balconate interne.
C’erano piante, tendaggi rossi e arancio, statue raffiguranti divinità o simboli sacri. I generali e gli stretti collaboratori di Alessandro erano presenti. Non c’erano tavoli. C’erano solo tappeti su cui erano posati enormi cuscini di seta colorata e ricamata in oro. Gli ospiti e altri piccoli nobili indiani alla corte di Ambhi erano tutti riversi sui cuscini, serviti e riveriti dalla servitù indiana e persiana.
Qualche fanciulla dal corpo acerbo e il volto velato faceva aria ai sovrani con ventagli fatti di piume colorate.
Le concubine indiane di Ambhi intrattennero la serata, danzando al centro dello spiazzo concentrico in cui veniva consumata la cena. Sotto le stelle.
Indossavano abiti tipici e ballavano le danze tradizionali d’India. I generali e altri membri della nobiltà indiana sembrarono apprezzare oltremodo quello spettacolo.
Alessandro guardava tutte quelle concubine, meravigliose nei loro abiti e accessori, con le loro movenze frizzanti a ritmo della musica incalzante.
«Amico mio. – cominciò Alessandro, rivolto ad Ambhi. – Quanto è grande l’India?»
Il re indiano scoppiò a ridere. «È vasta quanto la terra compresa tra il Tigri e l’Indo. Ma è frammentata in tanti regni in perenne lotta tra loro e retta da re che potrebbero essere figli di un barbiere!»
Il macedone restò in silenzio. Avrebbe mandato una truppa in avanscoperta, il tempo di prepararle e inviarle. Del resto era intenzionato a marciare sull’Indo e spingersi oltre il fiume Ifasi, dove sapeva della dinastia Nanda che controllava l’intero bacino del Gange dalla capitale Pataliputra.
Si rigirò il calice di vino tra le mani, fissando un punto di fronte a sé e meditando sul da farsi. Bagoa che gli ronzava intorno pronto a compiacere ogni capriccio del sovrano.
Nello spiazzo entrarono le concubine di Alessandro, con sua piacevole sorpresa. Erano vestite con una miscela di abiti tradizionali arabo-persiani e indiani. I volti coperti fino al naso da un velo spesso che lasciava scoperti solo gli occhi, truccati da pesanti linee di kajal.
Le gambe erano fasciate dai pantaloni da fachiro tipici indiani, con il cavallo che arrivava quasi a strusciare sul pavimento, stretti in vita da fasce di medagliette e sulle caviglie. Un reggipetto impreziosito da pietre brillanti e ornamenti, con fili d’oro e perle che scendevano sul ventre nudo.
La musica dal santur era accompagnata da movimenti lenti di fianchi, sinuosi e sensuali, e presto lasciò lo spazio ad un ritmo più incalzante suonato con i tamburi darbuka. I movimenti dei fianchi si fecero scattosi, rapidi, con vibrazioni e onde che si ripercuotevano sul ventre.
Poi la musica finì, il pubblico si lasciò andare ad uno scrosciante applauso. Ma non era finita. Ogni concubina avrebbe fatto il suo piccolo assolo a ritmo di musiche diverse, con oggetti scenici differenti e in stili di danze diverse.
Una delle concubine, egiziana, ballò il Saidi, la danza simpatica e frizzante con il bastone.
Un’altra egiziana ballò secondo lo stile Baladi, dai sobborghi poveri d’Egitto.
Almas si dedicò alla leggiadra danza con il velo, muovendolo come se fosse l’oggetto più prezioso e delicato mai esistito.
Miraj veniva dall’Anatolia, ma le sue origini non intaccarono la scelta della danza: ballò con il pesante candelabro calato sulla testa (raqs al shamadan), le candele accese, dando prova della sua grande abilità e del suo ferreo equilibrio.
Nys si destreggiò con le meravigliose ali di Iside, un oggetto che si legava al collo con un laccio sottile e le mani stringevano bacchette, era un velo ampio dai colori cangianti ispirato appunto alle ali della dea egizia Iside.
Per ultima, a concludere lo spettacolo, Rossane. La musica aveva un che di tribale, di agguerrito. La sovrana col volto coperto incatenò il suo sguardo a quello di Alessandro, a volerlo sfidare apertamente.
Come voleva il tipo di danza che aveva scelto, la raqs al saif, rubò la scimitarra di uno dei generali, con fare scherzoso. Proprio come faceva ad Al-Khanoum. La danza con la spada era sempre stata la sua specialità, era la danza della dea e donna guerriera.
La fece roteare con maestria ed eleganza, a ritmo della musica, come se stesse combattendo un’aggraziata lotta contro sé stessa e la sua parte più oscura.
Alessandro si mosse nervoso sull’ampio cuscino cremisi, come se bruciasse e gli desse fastidio. Avrebbe riconosciuto quegli enormi occhi ovunque, il verde oliva risaltato dal kajal pesante sulle palpebre. Lo sguardo di Rossane sembrava sfidarlo, provocarlo, tentarlo. Sembrava studiarlo, sondargli l’anima, come una pantera che si nasconde tra i fili d’erba a distanza di sicurezza dalla preda. Ma lui era troppo preso da lei, dai suoi movimenti che sprizzavano femminilità e sensualità da ogni poro pur non essendo voluttuosa come le altre concubine. Alessandro scoprì di provare qualcosa di molto vicino all’adorazione per quel corpo sinuoso, minuto, aggraziato. Le donne carnose gli piacevano ed erano perfette per la procreazione, erano l’ideale femminile almeno in Grecia e Macedonia, ma Rossane metteva in discussione i suoi stessi gusti e gli stessi ideali di donna che sempre l’avevano accompagnato.
Non l’aveva mai vista danzare, non l’aveva mai vista nella sua così totale femminilità.
Rossane tenne la spada in equilibrio sulla testa, poi sul fianco, infine sulla spalla, mentre si muoveva sinuosa nello spiazzo.
Terminò nell’esatto momento in cui i musicanti smisero di suonare, con un affondo della spada al terreno. La punta della scimitarra provocò un tintinnio quando cozzò sul pavimento di pietra.
Come in ogni altra esibizione precedente, il pubblico applaudì. Nessuno aveva riconosciuto la regina di Persia se non suo marito.
 


Angolo autrice
Uelà, bentrovati! Non so bene come definire questo capitolo, perché di fatto non racconta granché se non un possibile stralcio della vita tra concubine, in particolare della danza. La raqs sharqi, volgarmente chiamata "danza del ventre", è una danza che ho molto a cuore ed è davvero svalutata oppure malvista. Ma come ho scritto, in antichità era una danza sacra e rituale, utilizzata per propiziare la fertilità. Non si direbbe, ma c'è un mondo dietro, e io non voglio dilungarmi troppo hahaha
Insomma sì, è un capitolino un po' così. Ma nei prossimi accadranno robe. EHEH.
Vi saluto lasciandovi un paio di filmati della danza con la spada, in caso siate curiosi!
Video uno ; video due.

Grazie per dedicare un po' di tempo alla lettura di questa storia, e grazie se vorrete farmi sapere cosa ne pensate! Domande, opinioni, consigli. sempre ben accetti.
Alla prossima! ♥

 

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Capitolo 8
*** 7. Haft ***


Rossane
il fiore di Persia



۷ . Haft


Taxila, primavera 326 a.C.
Alessandro quella notte si dedicò totalmente a Rossane, l’amò con un’intensa tenerezza e l’abbandono totale ai piaceri carnali – cosa che non era mai accaduta con le altre persone con le quali aveva giaciuto. Non le disse esplicitamente che aveva capito che la danzatrice con la spada era lei, ma glielo fece ben intendere.
La regina si riempì il petto d’orgoglio, aveva sortito l’effetto desiderato.
La mattina dopo si svegliarono tardi, nell’umida afa indiana. La pelle ricoperta da un velo di sudore che la rendeva appiccicosa. Tuttavia il cielo era coperto da una compatta coltre di nubi grigiastre.
Non si erano più detti niente, nemmeno la sera e la notte precedente. Praticamente non si parlavano da quando Perdicca aveva fatto irruzione nella camera.
Ora erano svegli entrambi, gli occhi fissi sulle tende del baldacchino attaccate al soffitto sopra il letto.
«Sei stata brava.» mormorò Alessandro.
Rossane avvampò, ma gli fece comunque un sorrisetto sornione. «Quando?»
Lui roteò gli occhi, senza far a meno di sorridere divertito. «Nel lasso di tempo tra la cena e il risveglio.»
«Mi hanno insegnato le concubine di mio padre.»
Le lanciò un’occhiata maliziosa. «Ah sì, non avevo alcun dubbio.»
«A ballare intendevo!» arrossì.
Alessandro scoppiò a ridere. «Anche io, cosa pensava quella tua testolina maliziosa?»
«Bugiardo.»
«Dubiti del tuo re?»
«Sempre.»
«Male.» si girò verso di lei, le soffiò un bacio sulle labbra. Rossane si rabbonì solo per un momento. Ricordò del suo re la sera precedente. Di come non si era nemmeno accorto della sua assenza al banchetto, di come guardava Bagoa e di come l’eunuco guardava lui.
«Non ti eri accorto che non c’ero, ieri sera, al banchetto.» osservò, atona.
Eri troppo occupato a mangiarti Bagoa con gli occhi per accorgerti che mancava tua moglie.
«Sei polemica. – sospirò. ─ Vuoi discutere proprio ora?»
Le occhiate tra lui e Bagoa bruciavano, la ferivano nell’orgoglio.
«Preferiresti una camera da solo in cui invitare chi ti pare la notte?» domandò, senza acidità nella voce, ma con solo un senso di sconsolatezza.
«Perché lo pensi? Sei gelosa, di nuovo.»
«Non mi dai motivi per non esserlo.»
«Di chi? Di Bagoa? – le accarezzò il viso col pollice, lei gli schiaffò via la mano facendogli storcere le labbra. – Ti dà fastidio che io abbia un rapporto con lui? È normale per noi avere un eròmenos
«Perché? – scattò a sedere, i capelli in disordine. – Dici di amarmi e poi fai così. Che cos’ho io che non va, che ti spinge a cercare altri?»
Alessandro la guardava disteso sul letto, di fianco. I suoi occhi eterocromatici che scrutavano ogni angolo del suo corpo, ogni centimetro di pelle scoperta sfuggita alle lenzuola.
Rossane ricambiava quell’occhiata, frustrata e furibonda, le labbra serrate. Bagoa aveva lo stesso ruolo di una donna, nel letto del re, e lei – a detta del conquistatore stesso – era la donna più bella che avesse mai visto. Allora perché Alessandro sceglieva spesso di stare con lui e non con la moglie? La regina non riusciva a spiegarselo.
Tutto l’autocontrollo le stava sfuggendo di mano, ma non le importava. Voleva sapere.
Era diventata così suscettibile, si alterava alla minima cosa, era diventata paranoica e polemica. Ne era ben consapevole, ma non sopportava l’idea di dover essere accantonata così. Era una ferita all’orgoglio che non sopportava né tollerava, e non aveva intenzione di stare zitta e buona. Anche a costo di risultare noiosa o irriverente, voleva una spiegazione concreta. L’avrebbe accettata, ma finché Alessandro si rifiutava di esprimersi lei si avvelenava il sangue.
«Tu non hai proprio niente che non va. Sei perfetta. È una cosa mia.»
Che Alessandro apprezzasse uomini e donne indistintamente, lei l’aveva capito e l’aveva in parte accettato. Che Alessandro la relegasse come seconda scelta, nonostante tutto, questo non avrebbe saputo spiegarselo.
Rossane gli faceva paura. Perché provava per lei qualcosa di inaspettato, di sconosciuto: un profondo senso di pace nell’animo e allo stesso tempo l’inquietudine. Rossane era il veleno ed era l’antidoto. Era l’aria arida che gli seccava la gola e l’acqua che la rinfrescava. Era la lama che gli squarciava il cuore e la miracolosa medicazione che riusciva a risanarlo. Aveva una fame e una sete inestinguibile per lei. Aveva vissuto storie platoniche, come con Efestione; di profonda e intensa passione, di bruciante libidine, come con Bagoa, Barsine e Campaspe. Ma Rossane… Non aveva mai amato così, fino a quel punto. Non aveva mai fatto fronte ad un sentimento così netto, genuino e spaventosamente profondo. Sapeva che non avrebbe amato nessuna donna, in futuro, come amava lei. Anche l’amore con la persiana era dolce e affettuoso, la passione bruciante passava quasi in secondo piano. Gli faceva perdere il suo rigido autocontrollo che gli impediva di essere sopraffatto dai piaceri della carne, gli abbassava ogni difesa e si sentiva vulnerabile.
Rossane gli faceva paura. Perché era forte e testarda, focosa e glaciale, schiva e agguerrita. Le donne con cui aveva giaciuto non erano come lei. Si lasciavano sottomettere volentieri al volere del sovrano. E la stessa cosa valeva per Bagoa, sempre così reverenziale.
Le donne forti gli incutevano un certo timore e non sapeva come gestirle. Gli ricordavano sua madre Olimpiade. Rossane non era come lei, certo, ma aveva una natura centaura tra l’impulsività e la razionalità, a tratti selvaggia, barbara. Erano caratteristiche di Rossane che amava e odiava. Le amava perché gli donavano emozioni forti, nel bene e nel male; le odiava perché non riusciva a gestirla.
E poi, Rossane non gli dava sicurezze. Il suo cuore era chiuso nella pietra più dura, non riusciva a scalfirla, non aveva idea di quali emozioni lo affollassero e quali pensieri accarezzassero quella sua testolina bruna. Questo lo spaventava, non aveva idea di come gestirla e di come comportarsi. Quando sembrava trovare una stabilità, lei aveva pronto il contraccolpo.
Ma quella frustrazione da lei manifestata gli fece pensare che qualcosa c’era, in quel cuore, che non era vuoto come un guscio. Era una perla sigillata in un’ostrica.
Si sentì sciocco: scendeva in battaglia senza nessuna paura, ma poi incrociava i suoi occhi verdastri e gli tremava l’anima. La guerra non lo spaventava, sua moglie e le sue emozioni per lei sì.
Suo padre glielo diceva, che le donne erano pericolose. Soprattutto se ci si innamorava di loro.
«Ci sarà un giorno in cui ti deciderai tra loro e me?» lo incalzò, amareggiata.
Non le diede una risposta. Avrebbe voluto dirle che non era come credeva, che per lui era solo difficile far fronte alle emozioni che gli scatenava nel petto e fronteggiare lei e la sua forza d’animo. Ma non riuscì a dire niente, le parole gli morirono in gola. La vide alzarsi e vestirsi.
Indossare larghi pantaloni da fachiro con le stampe indiane, stretti sulla pancia e alle caviglie, una camiciola infilata nell’elastico del pantalone, le scarpe basse con la punta arricciata verso l’alto che lasciavano scoperto il collo del piede.
Rossane passò le dita tra i capelli per districarli velocemente dai nodi, dopodiché li ordinò dietro la testa con una molletta d’oro. Uscì senza salutarlo, senza la vacua promessa di rivedersi più tardi.
Alessandro si abbandonò sul materasso.
Come avrebbe potuto gestire una donna del genere? Così schiva, così irriverente. Gli chiedeva di metterla al primo posto tra le concubine e Bagoa, ed era giusto poiché era pur sempre sua moglie ed era bellissima, più delle altre. Lui non sapeva gestire la sua personalità né assecondarla. Sfuggiva al suo controllo, e ciò non gli piaceva molto. Non sapeva gestire sé stesso e le emozioni che provava per lei, e questo non gli era mai successo.
Rossane era veleno ed era antidoto.
 
*
 
 
Durante il viaggio il generale Cratero le aveva insegnato a maneggiare i coltelli, era stato relativamente semplice: non erano ingombranti e potevano essere ben nascosti nei vestiti. Non richiedevano forza ma solo agilità, velocità. Alla tecnica però andava aggiunta la pratica e soprattutto l’esperienza. Rossane aveva fatto un po’ di pratica ma l’esperienza…
Cratero l’aveva iniziata anche al tiro con l’arco. Non aveva proprio una buona mira, in realtà, ma il generale si era stretto nelle spalle: «Mica dovrei colpire una sottile linea, ma corpi compatti nello spazio. Anche se non colpirai al cuore, potresti prenderlo vicino e forargli un polmone. Direi che va bene comunque.»
Perciò la sua tecnica rudimentale con arco e frecce andava bene. Magari non colpiva il centro, ma l’importante era colpire. Ma lei non riusciva ad accettare il fatto che la sua tecnica fosse così scarsa. Si allenava con il tiro con l’arco anche fuori le lezioni del generale, estenuanti allenamenti che videro persino le dita sanguinare, scalfite dalla corda tesa dell’arco. Alla fine la mira migliorò, le frecce che colpivano sempre più vicine al centro del bersaglio.
 Con la daga invece non aveva fatto progressi, era troppo pesante per lei, ed era stata accantonata.
Cratero le diede allora una shamshir persiana, leggera, lunga, sottile. Rossane sorrise, perché sapeva maneggiare la scimitarra per la danza, chissà se non era molto diversa da farla roteare in combattimento. Non lo disse al generale.
Con quella spada, Rossane si trovò a suo agio. Conosceva il peso, la lama, il suo spazio nell’ambiente, il metallo freddo. Sapeva come maneggiarla, al contrario della daga.
Durante gli allenamenti estenuanti nel giardino interno del palazzo di Ambhi, insieme a Cratero, se le davano di santa ragione.
E se le diedero per due lunghe settimane.
Nel mentre Alessandro aveva mandato una truppa di ricognizione per confermare le parole di Ambhi, in merito alla grandezza dell’India, e non aveva più avuto contatti con la regina, con la quale non condivideva più nemmeno il letto. Scambiavano sporadiche frasi formali quando si vedevano, ciò aveva lasciato interdetti un po’ tutti, dal momento che fino a pochi giorni prima sembravano quasi affiatati.
Ma nessuno aveva osato esprimersi in merito, solo Efestione aveva cercato di parlare con Alessandro per comprendere i motivi dietro quell’allontanamento e aveva appurato che, sorvolando le problematiche della coppia, la lontananza era dovuta ad una cosa sola: l’orgoglio.
I problemi c’erano, tra i due, ma invece di cercare di superarli si comportavano come bambini ed Efestione cercò di farlo capire all’amico.
«Bene, Rossane. – sospirò Cratero, passandosi il braccio sulla fronte. – Direi che per oggi basta. Non ti sto appresso dopo un po’.» le scoccò un sorriso bonario e furbastro.
L’allenamento giornaliero si concludeva al tramonto. Il generale era fradicio di sudore, lei invece era pimpante. Sudaticcia, ma pimpante. Aveva fiato ed energie d’avanzo.
Scostò una ciocca di capelli dal viso.
«Va bene. Opinioni del maestro?»
«Sei migliorata molto. Sei agile, elegante, rapida. Non sembri più quella sciocca ragazzina che martoriava un ceppo con una daga più pesante di lei.»
«Ho avuto l’insegnante migliore.»
Cratero la scrutò con i suoi occhi azzurri, glaciali. Era un bell’uomo, non doveva avere più di quarant’anni. I capelli castano chiaro cominciavano a dare accenni di candore, la barba corta.
«Si può sapere che succede tra voi due?»
Rossane aggrottò le sopracciglia, contrariata. «Oh, nulla. Solo che lui mi mente dicendo di amarmi e poi preferisce tuffarsi tra le coperte con Bagoa.»
A parte la sera del loro arrivo a Taxila. Ma lei faceva un discorso generico, che il generale afferrò.
«Il che fa di lui uno stolto, se non giace con una donna come te, consentimelo. – inarcò le sopracciglia, divertito. – Capisco la tua frustrazione. Purtroppo ti ci abituerai.»
Cratero aveva sempre una parola gentile per Rossane. Ma non lo faceva con un tono viscido o lascivo, era un giudizio oggettivo e amichevole, come uno zio che dice la sua opinione alla nipote.
Era un po’ così che considerava Cratero: uno zio, un mentore.
Poteva rivolgerle parole di conforto o rimproveri severi, ma sempre con la massima oggettività, senza lasciarsi accecare dai suoi pareri personali o dalle emozioni.
«E se non volessi abituarmici?» borbottò Rossane, calciando l’aria.
Lui alzò le spalle, le prese la scimitarra dalle mani per riporla nella rastrelliera. «Gliene hai parlato? Che dice?»
«“È una cosa mia, tu sei perfetta”.» scimmiottò la voce del re.
Il generale scoppiò a ridere e si passò le mani sul volto, grattando la barba sotto il mento. «Per Zeus. Sembra un ragazzino alle prime armi. Efestione ci ha parlato, sai? Lo ha rimproverato.»
Rossane inarcò un sopracciglio.
Efestione era il migliore amico di Alessandro, la loro amicizia era così genuina, così pura. E loro due avevano un rapporto particolare. Ma era diverso da quello del re con Bagoa: non baciava Efestione, non giacevano insieme. C’era un che di platonico nel loro affetto, che non turbava particolarmente Rossane. Anzi, credeva che tutto sommato qualcuno come Efestione, capace di rimetterlo in riga, era necessario nella vita di Alessandro.
Efestione era l’unico a cui il re dava retta davvero.
Cratero continuò. «Nonostante giacere con altri sia parte sia della mia che della tua cultura, Efestione capisce la tua posizione e il tuo risentimento. Ora bisognerà dargli tempo perché le sue parole facciano effetto.» le sorrise bonario.
Rossane si lasciò andare in un sorriso incerto.

 
In serata fecero ritorno le truppe che Alessandro aveva mandato in avanscoperta circa dodici giorni prima.
Dopo cena, Ambhi seguì il macedone e i suoi soldati in una stanza appartata abbastanza grande da ospitarli tutti. Efestione aveva insistito con Rossane perché partecipasse: in quanto regina ne aveva il diritto, e lei era solamente contraria a vedere Alessandro.
La presenza della ragazza lo sorprese, ma non disse nulla e ascoltò il resoconto della missione esplorativa.
Gli uomini inviati fecero presente che si erano addentrati nella regione chiamata dai popolani Amristar che confermava in parte il racconto di Ambhi. Venne sottolineata la difficoltà dell’impresa per via della scarsità di vie di comunicazione, per il clima quotidianamente piovoso che trasformava i sentieri aridi e polverosi in paludosi.
Inoltre confermarono la presenza di regni limitrofi frammentati, e che quello più vicino a Taxila era numericamente superiore a quello messo in campo dai regni della valle dell’Indo fino a quel momento.
«Purushottama governa Paurava, il regno qui vicino, tra l’Idaspe e l’Acensine. I nostri regni non sono in buoni rapporti, ora che sanno che un conquistatore straniero è mio ospite e che ha intenzione di marciare su tutta l’India, si starà sicuramente preparando ad attaccare.» affermò il re di Taxila.
«E questo era chiaro. – intervenne Efestione. – Poro ha risposto in modo assolutamente eloquente alla richiesta di Alessandro.»
Per l’appunto, il sovrano macedone aveva chiesto a tutti i rajah delle province d’India di sottomettersi di loro spontanea volontà. Poro aveva risposto in modo più che esplicito: “Mi preparo ad accogliervi, ma con le armi!”
«E Abisare? L’altro rajah?» incalzò Alessandro.
Efestione si strinse nelle spalle. «Ha una tattica attendista, è pronto a soccorrere il vincitore dello scontro imminente.»
Alessandro era seduto su una poltrona di velluto rosso, fissava un punto dritto di fronte a sé mentre si tamburellava le dita sulle labbra.
«D’accordo. Bisognerà perlustrare preventivamente la zona più a sud di Taxila, ai margini dell’Idaspe. Controlliamo il territorio. Io voglio prendermi l’India, Poro è solo un banale ostacolo.»
I soldati restarono in silenzio, scambiandosi sguardi.
C’era la possibilità, sempre più concreta, di non ritornare a casa.
«Alessandro. – si permise Perdicca. – Nemmeno i persiani hanno superato l’Idaspe. Tra l’altro ci stiamo preparando per una battaglia in territori sconosciuti, mai cartografati, e si avvicina la stagione dei monsoni.»
«E con questo?»
«Beh è… rischioso.»
«Lascia tornare a casa i più anziani, sono anni che non fanno ritorno dalle loro mogli, dai loro figli, dai loro nipoti.» provò a dire Cratero, conciliante.
«Per la battaglia contro Poro cosa ne pensi, Cratero? Sei un grade generale, consigliami.» lo incalzò Alessandro. Il mento sul pugno chiuso, le gambe accavallate. Gli occhi che sondavano l’anima del generale. Pensava davvero che l’amico fosse il più abile, tuttavia la sua voce era incrinata dall’amarezza.
L’amarezza che in quelle due settimane aveva passato più tempo lui con Rossane, che chiunque altro. Ma in cuor suo sapeva di non poter biasimare nessuno se non sé stesso, e le sue mancanze nei confronti della moglie.
«È una campagna rischiosa. Soprattutto per i monsoni in arrivo. – lanciò un’occhiata a Perdicca. – I fiumi straripano continuamente e le provviste sarebbero a rischio, se le lasciamo incustodite o nei pressi del fiume dall’altro lato del campo di battaglia. L’intera conquista dell’India, con l’esercito di ora e le risorse di ora, non può essere svolta. I soldati minacciano l’ammutinamento, il clima non ci è favorevole.»
Alessandro ci pensò su.
Cratero aveva ragione, tuttavia doveva raggiungere la fine del continente asiatico, prendersi tutte le terre finché non le avrebbe viste tuffarsi in mare. Anche se avesse deciso di restare a Taxila fino alla fine della stagione dei monsoni, Poro minacciava guerra al regno di Ambhi e ai macedoni. Andava preso di petto e fermato.
«Pensiamo a Poro, prima. Fate sacrifici agli dèi, che ci aiutino e rendano il clima favorevole. Poi vedremo cosa fare, se tornare a Babilonia o proseguire.»
Si alzò in piedi, sciogliendo l’assemblea con un gesto. I suoi occhi si puntarono su Rossane, in piedi come una colonna in fondo alla stanza, il mento sollevato, lo sguardo di sfida.
Alessandro ripensò alle parole di Efestione. Forse avrebbe dovuto parlarle.
Aggrottò le sopracciglia impercettibilmente, poi lasciò perdere. Lei sembrò quasi intuire, perché uscì dalla stanza senza fare un fiato. C’era una battaglia alle porte, doveva cominciare a radunare l’esercito, tenere pronti i suoi uomini, ragionare su una tattica.
L’indomani qualcuno sarebbe andato a perlustrare il corso dell’Idaspe per sondarne il territorio, non ci sarebbero voluti più di quattro giorni. Una volta tornati avrebbe discusso con i diadochi della strategia da adottare in base al territorio.
Aveva troppe cose per la mente, non poteva permettersi di pensare anche a Rossane.

 
*
 
 
Nei quattro giorni consecutivi, periodo in cui una piccola truppa di Alessandro era andata ad esplorare la zona lungo l’Idaspe, Rossane continuò la sua routine quotidiana.
Si svegliava nella sua camera, dall’altro lato del palazzo rispetto a dove si trovava il marito, trovava il carrello con la colazione, mangiava, si lavava ed usciva.
Aveva visitato Taxila, scarabocchiando su alcuni pezzi di carta l’architettura dei palazzi per timore di dimenticarli con il passare del tempo; aveva visitato la stupa Dharmarajika decorata con ghirigori indù e buddisti; aveva comprato qualche abito tipico indiano nel mercato, tentato di imparare le danze popolari con le donne dei sobborghi.
Ovviamente era sempre tenuta sotto controllo da Perdicca, incaricato di scortarla e assicurarsi che non le accadesse niente di spiacevole.
Per l’ora di pranzo tornavano al palazzo di Ambhi e dopo mangiato, Rossane riposava un’oretta.
Si allenava poi con Cratero e prima di cena si sistemava. Passava poco tempo con le concubine nell’harem indiano, in ogni caso aveva chiesto che Almas diventasse la sua ancella. La ragazza siriana ne era stata davvero felice, voleva bene alla regina e l’ammirava.
Cratero aveva disposto per lei degli allenamenti a sorpresa. Quando si aggirava a palazzo da sola, uno dei soldati le andava addosso all’improvviso e lei doveva difendersi. Sotto sorveglianza di Cratero stesso. Se la cavava bene con gli agguati, aveva buoni riflessi e la sua corporatura minuta l’aiutava a scivolare via dagli aggressori.
«Ti da un gran bel da fare.» commentò Perdicca mentre la raggiungeva, accompagnandola al suo posto nello spiazzo dove si tenevano i banchetti.
«Già. – annuì. – Quando attaccherete Poro?»
Lui tentennò. «Molto presto. Alessandro sta cercando falle nella tattica, ma se non le trova entro domani, dopodomani partiremo.»
Rossane annuì di nuovo, incerta. Perdicca aveva un anno in più rispetto ad Alessandro. I capelli neri e lisci sempre in disordine e gli occhi di un intenso azzurro. Era alto, possente, il portamento fiero. Era astuto, leale e buono, e aveva sempre lavorato al fianco di Alessandro come guardia del corpo e generale.
Comunque, dopo la cena, avrebbe parlato con Alessandro. Tra le vie di Taxila si vociferavano cose su Poro e la sua armata.
Il re, dall’altro capo della stanza, non le staccava gli occhi di dosso nonostante ci fosse Bagoa a ronzargli intorno e le ballerine dell’harem a muoversi sinuose di fronte a lui nello spiazzo.
La stessa sensazione bruciante che ebbe la prima volta che incrociò i suoi occhi. Rossane conosceva quello sguardo: stava cercando di comprenderla, di decifrarla, come se stesse tentando di risolvere l’enigma della Sfinge.
Terminata la cena, Ambhi era ubriaco. Dovette essere scortato nelle sue stanze, per quanto aveva bevuto non si reggeva in piedi.
Rossane ne approfittò per sgusciare al fianco di Alessandro, lasciandosi cadere sul cuscino di velluto cremisi.
«Girano voci su Poro, in città.» esordì.
«Potrebbero essere false. Non devi credere a tutto quello che senti per strada.» sospirò.
«Dicono che abbia duecento elefanti tra le sue fila.» insistette lei, ignorandolo.
Alessandro inclinò la testa verso sinistra. «Non sarebbe strano. Qui usano gli elefanti per ogni cosa.»
Per l’esercito macedone non sarebbe stata la prima volta che si ritrovavano a fronteggiare elefanti, tuttavia nella battaglia di Gaugamela ne erano solo quindici. Se le voci che riportava Rossane erano vere e Poro aveva davvero duecento elefanti tra le sue fila, sarebbe stato un grosso problema.
«E che faranno appollaiare arcieri tra i rami degli alberi.»
Si bloccò, una piccola ruga d’espressione si formò tra le sopracciglia. «Questo è interessante. Se fosse vero, indebolirebbero le nostre forze.»
«Fai venire anche me.»
Lo disse tutto d’un fiato. Le parole rotolarono sulla lingua prima che potesse fermarsi.
«Sei diventata matta?! – sbottò, stringendole le dita intorno al braccio. – Tu non ti muovi da Taxila. So bene che dirti di no è futile, ma ascoltami per una volta. È una battaglia, non un gioco per bambini, lo capisci o no?» ringhiò, a bassa voce.
«Ti ho già detto che mi sento inutile, una zavorra.» replicò piccata.
«E il suicidio è il tuo piano geniale per sentirti utile, Rossane? I patti erano che tu imparassi a combattere per difesa personale, non per venire in battaglia. – si bloccò, come illuminato da una rivelazione. – Tu hai sempre avuto l’intenzione di scendere sul campo di battaglia! Ecco perché!»
Rossane scosse la testa. «Ti sbagli. E comunque posso aiutarvi, so usare la scimitarra, i pugnali, so tirare con l’arco.»
Aveva espresso a voce il pensiero che tormentava il suo inconscio, senza che ci avesse mai riflettuto su. Lo stesso silenzioso tormento generato dal suo sentirsi inutile, al pari di un carico in più, che l’aveva spinta a prendere lezioni da Cratero. Ed era passato dalla bocca prima che dalla mente.
Alessandro strinse di più le dita sulla pelle. «I miei uomini sono soldati addestrati.»
E non sono donne, si ritrovò a pensare amaramente Rossane, come intuendo i pensieri del re.
«Ci sono state donne che hanno combattuto! Artemisia I di Caria è stata una comandante della flotta di Serse, era alla guida di cinque triremi!»
«Molto eroico. Anche mia sorella Cynane ha combattuto al fianco di mio padre durante una campagna militare, in cui ha ucciso la regina degli Illiri, Caeria. Ma era addestrata! Anche la moglie di Dario III, Statira, seguì il marito ma l’abbiamo fatta prigioniera insieme alle due figlie e alla madre del re in seguito alla battaglia di Isso. Durante un attacco a Tebe, uno dei miei generali ha stuprato una donna e lei lo ha buttato in un pozzo.»
E lui non aveva in alcun modo punito quella donna ma anzi l’aveva lodata per non aver permesso a quell’uomo di fare di lei ciò che voleva. Non si era lasciata sopraffare.
Era sicuro che una donna come Rossane avrebbe fatto la medesima cosa, sapeva che sarebbe stata in gamba in battaglia. Solo che lei era sua moglie e l’amava, non avrebbe mai rischiato di perderla.
«Ecco! E perché io non posso seguirti? Non farò la fine di Statira, né della donna di Tebe!»
«Non voglio che tu rimani qui perché non ho fiducia in te, Rossane, anzi.  Ma se tu sei sul campo di battaglia, non ce la farò a concentrarmi. Avrò il terrore di perderti e non permetterò che ciò accada. Devo saperti al sicuro, lontana dalla violenza e dagli orrori della guerra.» ammise, tutto d’un fiato.
I suoi occhi erano torbidi, fissi in quelli della regina. Poteva leggervi dentro tutta l’angoscia del re, tutta l’apprensione.
Era troppo pura per prendere parte al conflitto e lui avrebbe preservato quel candore.
Rossane ammutolì e Alessandro tolse la mano dal suo braccio, mostrando i segni rossi che le aveva lasciato per la forte stretta. La ragazza si strofinò le pelle, distratta, sotto lo sguardo del condottiero.
«Ma se sarò io a perdere te?» domandò piano.
Lui abbassò gli occhi, intrecciò le dita a quelle della moglie. «Non accadrà, abbi fiducia in me.»


Angolo autrice:
Habemus capitolo. Avrei voluto aggiornare prima, ma è stata una mattinata piuttosto amara e per questo non ero neanche moto concentrata nell'ultimo controllo del capitolo, prima della pubblicazione. Perciò se trovate qualche errore, fatemelo notare, che io purtroppo oggi ho la testa altrove!
Bene, oggi abbiamo conosciuto il punto di vista di Alessandro, che non vedevo l'ora di farvi leggere; la vena paranoica e polemica di Rossane, che dal mio punto di vista è pallosa ma nel contesto, secondo me, ci sta che diventi così, con un marito del genere; e infine il suo lato più scellerato, la matta vuole scendere in battaglia HAHAH 
Grazie a tutti per le views, l'aggiunta alle preferite/seguite/ricordate, anche ai lettori disinteressati che spulciano hahaha e ovviamente grazie mille a chiunque decida di scrivermi, fa sempre tanto piacere sentire le vostre opinioni! 
Un bacino, a presto! ♥

 

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Capitolo 9
*** 8. Hasht ***


۸ . Hasht
 
 
Ossiarte, satrapo di Battria e re di Sogdiana, ad Alessandro, Re dei Re, luce degli ariani, signore dei quattro angoli della terra, re dei macedoni – Salve, sire!
La situazione in Sogdiana è stabile, proprio come l’avevate lasciata. Le città prosperano e gli ufficiali che avevate lasciato ad Alessandria Eschate non si sono ritrovati nella scomoda situazione di dover fronteggiare gli attacchi degli Sciti o rivolte cittadine. Ma ahimè mi duole informarvi che la cultura ellenica non riesce ad attecchire in Battria: l’impronta iranica è troppo forte e antica qui per essere cancellata o solamente amalgamata a quella greca. Questa situazione vale solo per la Battria, nel resto della Sogdiana l’ellenismo, anche se un po’ a rilento, prende piede e in molti vengono istruiti secondo il costume greco. Io stesso, per dare l’esempio. Ma sarò onesto, mio Re: ho troppo caro il culto di Ahura Mazda per abbracciare il vostro credo. Non me ne vogliate.
In qualità di satrapo vi informo di questo, in qualità di padre chiedo a voi se potete informare me riguardo mia figlia. Da quando è partita non ha scritto nemmeno una missiva a me o alle sue sorelle, e nonostante io sappia dei ritmi frenetici che vivete, credo che un momento di tranquillità l’abbiate avuto anche voi. Rossane è sicuramente ancora adirata con me, ma non vedo il motivo per cui non abbia scritto alle sue sorelle. Comprendete i timori di un padre che pensa al peggio. So bene che chiedervi certe informazioni non sarebbe consono né al mio rango né al vostro, mio re, ma speravo che poteste darmi qualche notizia di lei, voi che siete la persona più vicina a mia figlia.
Abbiate cura di voi.
 
Alessandro di Macedonia al satrapo Ossiarte – Salve, caro suocero.
Sono lieto della tranquillità che sta vivendo la Sogdiana e della prosperità che l’avvolge. D’altronde, anche se hai avuto un passato da traditore della corona, ti stai dimostrando senz’altro efficiente. Mi rincresce sapere che in Battria, proprio la regione da cui proviene la mia amata sposa vostra figlia, non riesca ad integrare la cultura ellenica. Io non desidero cancellare le orme persiane e iraniche, ma amalgamare le due civiltà. Ho un grande rispetto per la vostra Storia, nonostante non la conosca ancora adeguatamente. Quando cominciai a dare corpo a questo mio progetto, ero ben consapevole che non tutti si sarebbero facilmente piegati ai cambiamenti, non subito almeno. Sono fiducioso: il mio passaggio in Battria è stato recente, voi siete un popolo duro forgiato dai gelidi venti dell’Hindu Kush, ma con pazienza e perseveranza riusciremo ad unire le due culture, ellenica e iranica. Non ti preoccupare, satrapo Ossiarte: rispetto e ammiro la tua scelta di mantenere il tuo credo in Ahura Mazda, e apprezzo il fatto che tu me l’abbia fatto presente senza troppi giri di parole.
Comprendo le tue preoccupazioni per tua figlia. Attualmente siamo in India, ospiti alla corte del re Ambhi a Taxila. Rossane sta bene: mangia e beve a dovere, riposa, coltiva i suoi interessi per la danza e per l’arte della spada. Ossiarte, io vi ringrazio per avermela donata in sposa. Nonostante sia impunita e spesso irriverente nei miei confronti, è capace di donarmi forti emozioni.
Le dirò di farti avere sue notizie, e anche di scrivere ad Amu e Darya. Mi sorprende non l’abbia fatto, ma forse le è passato di mente essendo molto distratta da tutte queste novità.
Tieni alto il morale e riguardati
.
 
 
 
Taxila, maggio 326 a.C.
 
«Non voglio partire per una battaglia senza aver fatto pace con te.»
Alessandro si era presentato alla porta della stanza di Rossane la mattina dopo. Sarebbe partito il giorno seguente. Lei aveva abbassato gli occhi per un momento.
«Nemmeno io.»
«Se non hai fatto colazione, possiamo farla insieme. – le prese la mano, carezzandole le nocche col pollice. – E magari fare un giro per i giardini. Dopo pranzo avrò da fare, non potrò passare il tempo con te.»
Lei annuì, lo invitò ad entrare e mangiare qualcosa di quello che i servitori le avevano preparato sulla mensa. Si trattava perlopiù di frutta esotica e frullati colorati.
Mangiarono e bevvero in silenzio, Alessandro le lanciava occhiate continue ma stava ben attento a non farsi notare. Solo che Rossane se n’era accorta, e dentro di sé sorrideva compiaciuta.
Scesero nei giardini, quando passarono di fronte alla rastrelliera in cui erano poggiate le scimitarre e le daghe che Cratero usava per allenare Rossane, la ragazza lanciò un’occhiata fugace alle armi che non sfuggì al re.
«Magari potrei allenarmi un po’, prima della battaglia. – cominciò Alessandro, in greco, toccando una daga. – Male non mi farebbe.»
In realtà stava parlando più a sé stesso, che a lei. Poi ripensò alla fugace occhiata che Rossane aveva rivolto alla rastrelliera e agli allenamenti di spada. La incalzò in persiano, chiedendole di aiutarlo: «Shoam mitooni ke komakam konid?»
«Mishe tekrar konid Farsi chi? – sollevò un sopracciglio. ─ Motavajjeh nemisham.» esalò Rossane, chiedendogli di ripetere in persiano e sottolineando il fatto che non aveva capito quello che lui avesse detto in greco, né le sue intenzioni.
Lui scoppiò a ridere vedendo il suo sguardo confuso, afferrò una scimitarra e gliela passò, mentre tenne per sé una daga.
La ragazza sguainò la scimitarra, accarezzò la lama che brillava alla luce del sole.
Alessandro la guardava rapito, bellissima e agguerrita come le dee greche Atena e Artemide, come le dee mesopotamiche della bellezza e della guerra Inanna e Ishtar. Rivide nella sua mente la scena della sua danza con la spada, la prima sera da Ambhi.
La guerra è donna, fu la prima cosa che pensò.
Gli occhi di Rossane brillarono ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, Alessandro le fu addosso con una serie di attacchi con la spada.
La ragazza li schivò prontamente, lasciandosi sfuggire un gridolino di sorpresa, presa alla sprovvista ma fortunatamente munita di buoni riflessi.
Lo schivava, parava i suoi colpi, gli ronzava attorno come un’ape fastidiosa. Lui non la trovava mai e quando la intercettava, c’era il puntuale rumore dell’acciaio che cozzava. Una danza dell’amore e della guerra.
Era diventata abile, una spietata Amazzone d’Oriente. Riuscì comunque a disarmarla, l’esperienza di Alessandro superava la combattività della sua sposa. Le puntò la punta della daga alla gola, il respiro corto.  Le fece un sorriso, che lei non ricambiò.
Guardò un punto alle sue spalle, con intensità tale da costringere il re a voltarsi per vedere cosa stesse guardando Rossane.
Lei fu più svelta, veloce come un gatto. Estrasse lo spadino dallo stivale e approfittando della presa lenta sull’elsa della spada di Alessandro, lo disarmò con eleganza e senza lasciar cadere a terra la daga. Anzi, strinse le dita attorno all’elsa e stavolta fu lei a puntargliela alla gola, mentre l’altra mano stringeva sullo spadino.
Ciocche di capelli ribelli si liberarono dalla treccia, incorniciandole il viso imperlato da un sottile strato di sudore.
«Sei sleale.» commentò il macedone, in persiano.
Un sorrisetto sardonico. «Era un trucco talmente banale, ci sei cascato come un pollo.»
«Forse perché hai un grande potere su di me, e neppure te ne rendi conto.»
Fece un passo avanti, la pelle del collo piegata sotto la punta della spada. Rossane deglutì, ma non abbassò il braccio.
«Sei abile. Ti avevo sottovalutata.»
«Molto strano. – commentò sarcastica, girò la spada per porgergliela dall’elsa. – Quando tornerai dalla battaglia contro Poro, ti aiuterò con il combattimento.» lo canzonò bonariamente, mentre gli passava accanto e raggiungeva la rastrelliera.
«Spiritosa.» grugnì lui, con un sorriso di mite rassegnazione.
Rossane si posò ad una delle colonne che circondavano il cortile interno, le mani dietro la schiena con i palmi che si appoggiavano alla pietra dietro di sé.
Alessandro le si avvicinò, le tagliò le vie di fuga posando le mani sulla colonna a cui lei era poggiata. Il corpo leggermente curvo, la testa china per guardarla meglio.
Arricciò il naso, con un sorriso dispettoso.
«Quando tornerò, ti insegnerò il greco. – si umettò le labbra, facendosi serio. ─ Mi ha scritto tuo padre.»
«Che gioia.» borbottò.
«Mi ha informato della situazione in Sogdiana e mi ha chiesto tue notizie. Io credo che dovresti scrivergli, Rossane. Sia a lui, sia alle tue sorelle.»
Lei aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo per un momento. «Hai ragione. Mi è completamente passato di mente. Solo che non mi è arrivata nessuna lettera neanche da parte loro, quindi è stato più facile non pensarci. Ci sono tante cose qui, ogni giorno scopro qualcosa, e finisco sempre per dimenticare di far avere mie notizie almeno alle mie sorelle.»
Le accarezzò il viso. «Lo comprendo, ci ho pensato e gliel’ho riferito. Per quanto riguarda le loro lettere che non hai ricevuto, forse c’è stato un problema. Mentre aspetterai il mio ritorno a Taxila dalla battaglia, puoi indagare. Prima scopri se è successo qualcosa, però, poi manderai le tue lettere.»
Rossane si adombrò. «Domani partirai.»
«Con le prime luci dell’alba. – annuì. ─ Mi attende una lunga battaglia. Forse morirò, oppure vincerò.»
Lei ingoiò un groppo, incapace di parlare. Alessandro si sfilò allora dal collo un medaglione in oro con il disegno di un’aquila, e lo mise al collo della sua sposa.
«L’aquila è il simbolo del padre degli dèi della mia religione, Zeus. Mia madre diceva che io sono suo figlio, e l’oracolo di Amon nell’oasi di Siwa, in Egitto, me lo confermò. – restò un momento a fissare il medaglione, poi sollevò lo sguardo su di lei. ─ Per non farti dimenticare, sia in caso di morte che di vittoria, che sei mia moglie, la donna che ho scelto per amore prima che per politica, e sempre con il dovuto riguardo dovrai essere trattata.»
«Ho paura.» gli confessò in un sussurro, trovando il coraggio di guardarlo finalmente negli occhi.
Da una parte c’era il cielo sereno, limpido e infinito; dall’altra c’era la notte, il baratro più profondo. Eppure il suo sguardo era morbido, addolcito, e curioso. Ogni volta che guardava quelle iridi, sentiva che non c’era niente di impossibile al mondo.
«Di cosa hai paura, mia stella?»
Alessandro poteva non tornare e lei aveva fatto la bambina capricciosa tenendogli il muso, quando c’era qualcosa di molto più prezioso a rischio in quel momento: la sua vita. Perché nonostante la collera e nonostante il loro rapporto altalenante, Rossane non immaginava più una vita senza di lui.
Era una figura importante per il mondo, ormai. Si sentì egoista a non pensare affatto a quanto ne avrebbe risentito il mondo per una possibile dipartita di Alessandro, ma solo a come si sarebbe sentita lei. Devastata.
Non poteva continuare a restare chiusa nella sua fortezza, tagliandolo fuori dalla sua sfera emotiva, solo per orgoglio. In quei giorni ci aveva riflettuto. Non aveva capito il reale pericolo di perderlo fino a quel momento, con la battaglia con Poro alle porte. In una vita del genere, non c’era spazio per l’orgoglio e i capricci infantili, dove ogni attimo poteva essere fatale e pertanto andavano vissuti appieno. Rossane non voleva vivere nel rimpianto di non godersi, momento dopo momento, una presenza preziosa come quella di Alessandro.
«Di perderti. Di non vederti tornare da me.» ammise, e chiuse gli occhi. Ben consapevole che essi fossero lo specchio dell’anima, cercò di difendersi dallo sguardo del re. Così abile nel sondare l’animo delle persone attraverso gli occhi.
Ma Alessandro non ebbe bisogno di leggerle lo sguardo per sentirla. Il cuore gli fece una capriola in petto. Sarebbe tornato. Doveva tornare: l’impero, i suoi progetti, lei. Troppe cose lo attendevano.
Le posò un bacio sulla fronte, poi la strinse tra le braccia.
«Tornerò, te lo giuro.»

 
* * *
 
 
Fiume Idaspe, maggio 326 a.C.
Era la stagione delle piogge monsoniche. Il fiume si gonfiava pericolosamente.
C’erano alberi sottili lungo il suo corso, arbusti bassi, anatre che galleggiavano sulla superficie dell’acqua. Il fiume doveva essere largo all’incirca quindici metri, profondo tre o anche di più. Almeno, in quel punto del corso. Il corso d’acqua aveva una corrente molto forte, era profonda e rischiosa.
Dall’altro lato, sulla sponda orientale coperta da alberi più robusti, Poro aveva schierato il suo esercito. Tra i tronchi, i soldati macedoni riuscivano a scorgere le tende dell’accampamento, l’enormità degli elefanti, i fumi dei fuochi.
Tutte le strategie pensate al chiuso, nel palazzo di Ambhi, svanirono e lasciarono il posto ad una tattica che gli era arrivata alla mente in quel momento. Alessandro aveva avuto un’idea, e convocò il consiglio di guerra con i diadochi.
Il piano di Alessandro prevedeva due fasi preliminari basate sulla confusione del nemico. Avrebbe cominciato già dall’indomani una “guerra” d’informazione servendosi dei contadini locali: fece spargere la voce che i macedoni consideravano l’acqua del fiume troppo alta per essere attraversata e che avrebbero impiegato del tempo per progettare e costruire un ponte oppure delle zattere.
Non gli importava quanto tempo avrebbe atteso nell’accampamento, le scorte arrivavano dal villaggio Bhora lì vicino. Avrebbe aspettato che la notizia giungesse alle orecchie di Poro e lo avrebbe fatto stendere sugli allori.
I comandi della seconda fase prevedevano invece il rumore: rumore continuo, spostamenti continui, in modo da abituare gli indiani a non dare troppo peso a quelle continue manovre.
Tempo di farli rilassare, e Alessandro avrebbe marciato verso il guado che le truppe d’esplorazione avevano individuato qualche miglio più a nord rispetto all’accampamento.
Poi sarebbe stato l’inizio della battaglia.
Il mattino a seguire, qualcuno dei paggi di Ambhi raggiunse Bhora e al mercato cominciarono a parlare con tutti dei macedoni, mettendo in giro la voce che desiderava Alessandro.
Non ci volle molto perché raggiungesse le orecchie di Poro, i contadini si diedero subito da fare per ingraziarsi il rajah con quella fuga di informazioni.
La tranquillità che cominciò ad aleggiare nell’accampamento indiano era palpabile. Il primo giorno della seconda fase dell’esercito macedone ridestò la loro attenzione.
Spostamenti continui su e giù lungo il corso d’acqua con piccoli commandos.
Poro restò allerta per i primi giorni, ordinò di tenere sorvegliate le rive.
Non durò molto: presto, gli indiani si adagiarono nuovamente sugli allori e privarono l’accampamento di ogni controllo.
Perdicca riferì ad Alessandro che Poro sembrava convinto di non stare sul campo di battaglia ma in un’allegra scampagnata in compagnia.
 
Rossane dormiva nella tenda con i servitori. Spalleggiata da Bagoa, venne fatta passare per un eunuco egiziano muto finché non sarebbe cominciata la battaglia. Allora avrebbe indossato un’armatura di riserva dell’esercito, preso la sua scimitarra e il suo arco, e avrebbe raggiunto le forze di Alessandro. Avrebbe truccato il viso con la terra umida delle rive del fiume, avrebbe tagliato i capelli corti se necessario. Ringraziò per la prima volta il suo seno ben poco florido, da sempre oggetto di vergogna per la ragazza, ma ora utile più che mai per nascondere il suo essere donna.
Con l’eunuco non aveva ancora avuto modo di chiarire la questione. Rossane era ben conscia del rancore latente che Bagoa provava per lei, lo stesso sentimento che lo spingeva a pugnalarla alle spalle pur di passare una notte con Alessandro, suo marito. Ne avrebbero discusso a tempo debito. Rossane non dimenticava. Restava in attesa, come un felino tra l’erba che aspettava pazientemente il momento più opportuno per saltare sulla preda.
«Tu sei completamente pazza.» le bisbigliò Bagoa, sdraiato vicino a lei nella tenda.
Le faceva scudo col suo corpo, per non mostrare il viso della regina agli altri servitori. Lei al mattino si alzava per prima e indossava subito il copricapo col velo che le copriva dal naso in giù e sugli occhi una sottile cortina simile ad una rete. Alessandro, durante la danza con le concubine, l’aveva riconosciuta per i suoi enormi occhi. Avrebbe potuto farlo anche stavolta, per questo doveva coprirsi e stare lontana da lui e i diadochi il più possibile.
«Stai facendo una cosa rischiosa e contro le regole, potresti morire. E se dovessi sopravvivere, te la vedresti con l’ira di Alessandro.» aggiunse con foga, in un sibilo.
«E quali regole? Dettate da chi? Lo so che sono pazza, ma non ce la faccio a stare ferma e buona. Tu resteresti a Taxila a non fare niente se sapessi impugnare la spada o un arco quando invece potresti dare un contributo all’esercito di tuo marito? D’accordo, tu sì. Io no, però. Ad Alessandro potrei tornare utile, un uomo in più potrebbe fare la differenza. Non sono le mie sorelle, non sono una concubina e nemmeno una civile. Sono la regina barbara che sa maneggiare una spada, per Dio. E adesso lasciami dormire, Bagoa.»
«Ma tu non sei un uomo, dannazione, Rossane! È un suicidio bello e buono, questo! La tua impulsività potrebbe costarti la pelle.»
«La venderò cara.» archiviò, distratta, girandosi verso la parete della tenda per dargli la schiena.
«C’è un labile confine tra coraggio e follia.»
Rossane si voltò di scatto. «Finiscila, stai diventando ripetitivo e io sto cercando di dormire. Buonanotte, tanti saluti.»
 
Il mattino che seguì aveva il cielo plumbeo.
La pioggia si abbatté presto sugli accampamenti, i soldati videro l’Idaspe gonfiarsi a vista d’occhio ma fortunatamente non straripò. Il fango raggiungeva le caviglie e quando smise di piovere gli insetti assalirono le truppe indiane e macedoni.
Rossane restò nascosta, ogni tanto adocchiava uno dei diadochi o addirittura Alessandro, e subito cambiava strada. Era invisibile, nessuno l’aveva notata e solo Bagoa le rivolgeva la parola.
Alessandro lasciò crogiolare ancora un po’ gli indiani nella loro fatiscente tranquillità e una sera, durante la baldoria dell’accampamento macedone, richiamò con sé cinquemila cavalieri e seimila fanti e li guidò verso il guado del fiume, venti chilometri più a nord dall’accampamento indiano. Tra questi, Rossane. Si improvvisava una degli arcieri a cavallo, visto che aveva l’arco a tracolla e le redini dell’animale strette in pugno.
Aveva fasciato il petto per appiattire il seno; indossato una corazza di bronzo stretta sul corpo con un uccello dalle ali spiegate all’altezza del cuore, un bracciale al polso sinistro per proteggere la mano che teneva le redini. Coprì con altre placche di metallo gli avambracci, i gomiti, e il braccio. I pantaloni larghi erano infilati in stivali rinforzati che arrivavano a metà stinco. Aveva indossato un elmo corinzio e alla cintura aveva legate la scimitarra e la faretra, dietro la schiena aveva legato l’arco. Negli stivali rinforzati aveva messo lo spadino e i pugnali nascosti. Passò il fango del fiume attorno agli occhi, fino al naso, come avevano fatto pure altri soldati.
Nel complesso sembrava proprio una barbara persiana con una corazza e un elmo greco.
Rossane aveva paura. Una paura matta che le esplodeva in petto, il cuore martellava e pompava adrenalina in tutto il corpo.
Seguì le truppe di Alessandro portando con sé uno dei cavalli rubato a chissà chi dell’esercito. Avrebbe voluto Artemide, la sua giumenta, con sé ma avrebbe significato esporsi troppo.
Si domandò per quale motivo lo stesse facendo. Desiderio di dimostrare qualcosa? Ma a chi, che nessuno sapeva della sua presenza tra le fila militari? Non sentiva il bisogno di dimostrare qualcosa a qualcuno, di farsi notare e mostrare a tutti la sua presenza lì per vederli a bocca aperta. Gloria personale? Forse. Ma non era così sciocca da gettarsi in battaglia per la gloria.
Sentiva che era quello che voleva, che la determinazione era più forte della paura. L’ancestrale spirito dei persiani, guerrieri e conquistatori che avevano dominato gran parte del mondo conosciuto e che solo Alessandro, il suo re, era riuscito a sconfiggere. Forse era solo questo, forse era solo lo spirito agguerrito richiamato dall’idea della battaglia e la voglia di essere d’aiuto.
Se c’erano cose a cui i persiani venivano educati fin da bambini, senza distinzioni di sesso, erano l’equitazione e il tiro con l’arco – oltre che a ferree regole morali che impedivano loro di mentire e alimentavano lo spirito guerriero che da sempre animava quel popolo. E Rossane era un’ottima cavallerizza, come le sue sorelle, ma nessuno si premurò d’insegnare alle principesse il tiro con l’arco. Cosa se ne potevano mai fare, tre fanciulle di alto lignaggio, di una disciplina di guerra?
Immaginò Ossiarte, e la sua reazione se avesse saputo che la sua secondogenita aveva deciso di invischiarsi in modo clandestino nell’esercito per partecipare alla battaglia contro un rajah indiano.
Immaginò Amu e Darya e le loro facce preoccupate, spaventate, se glielo avesse raccontato.
Immaginò il volto della vecchia balia Mizda, che sicuramente l’avrebbe rimproverata, le avrebbe dato uno scappellotto e le avrebbe detto che era una pazza sconsiderata.
Rossane si rincuorava pensando che tra le donne persiane ce n’erano state a bizzeffe che avevano combattuto o ideato strategie militari, soprattutto per cercare di impedire l’avanzata di Alessandro nell’impero. Molte indossando panni maschili, altre no. Rossane però li aveva indossati tenendo conto di quanto le aveva detto Alessandro: se sapeva che era sul campo, non si sarebbe concentrato e avrebbe rischiato troppo. Oltre al fatto che lui la credeva a Taxila, e così doveva continuare a credere. Nella sua totale inesperienza e assoluta ingenuità, non teneva nemmeno in considerazione il fatto che sarebbe sicuramente rimasta ferita e che, a quel punto, Alessandro l’avrebbe scoperta per forza.
Raggiunsero il guado. La corrente era forte, l’acqua alta ma meno rispetto alle altre zone.
Alessandro andò per primo, tirando le redini di Bucefalo.
«Tenetevi stretti! Passa parola.» intimò a quello dietro di lui.
Il comando del re giunse a Rossane per ultima, a cui il soldato di fronte a lei scoccò un’occhiata indagatoria. Non ricordava d’aver visto quel ragazzino prima.
La regina teneva le labbra serrate per nascondere la loro reale forma. Ogni cosa poteva mandarla al patibolo.
I soldati attraversavano il guado in fila indiana, con una mano si tenevano alla spalla del compagno di fronte e con l’altra le briglie del cavallo. L’acqua arrivava alle ascelle e ai cavalli al garrese.
Per ultima toccò a Rossane. L’acqua che le raggiungeva il mento e le piccole onde le lambivano la faccia.
La corrente era molto forte, e lei era un peso piuma. Se non altro, a renderla più pesante c’era l’armatura. Il cavallo che teneva con sé ogni tanto sbandava, le andava addosso e le faceva perdere l’equilibrio. S’immergeva con l’acqua fino al naso e riemergeva ansante, spaventata e spaesata, ma manteneva salda la stretta sulla spalla del soldato di fronte a sé.
Un manipolo di militari aiutava quelli nel fiume a tirarsi su, gli altri salivano a cavallo e cominciavano a seguire Alessandro. Gli arcieri e la cavalleria in testa, la fanteria che seguiva la formazione. Tra cui Rossane.
Gli esploratori indiani informarono re Poro che gli invasori avevano oltrepassato il fiume ma fecero anche presente che erano pochi uomini, perciò il contrattacco del rajah consistette nell’inviare duemila cavalieri e centoventi carri guidati dal suo stesso figlio. D’altronde, la parte più consistente dell’esercito macedone era rimasto nell’accampamento con Cratero.
Rossane in testa alla formazione, incoccò una freccia. Non aveva mai tirato al buio né a cavallo, se non altro con sua sorpresa l’elmo non dava troppo fastidio.
Ingoiò un groppo, la paura che montava. Respirò profondamente, inspirando col naso ed espirando dalla bocca. Doveva placare il battito cardiaco. L’adrenalina che rendeva tutti i sensi vigili.
Lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli in avvicinamento, un cigolio basso di ruote di carri.
Fin dove poteva arrivare la sua freccia?
Quando un carro indiano fu abbastanza vicino, Rossane strinse le gambe attorno al corpo del cavallo. La briglia se l’era passata sul braccio, era stretta nel gomito.
Scoccò, senza pensarci troppo. Il primo soldato indiano sul carro si accasciò sul terreno, colpito alla gola. Era la prima mossa dei macedoni che, dopo quella freccia, si fiondarono sugli indiani.
Rossane vide Alessandro galopparle al fianco e superarla. Una pioggia di frecce si scagliò sugli indiani.
Gli uomini sui carri caddero tutti. Presto anche la fanteria perì sotto le forze macedoni e lo stesso figlio del rajah morì.
Rossane scese da cavallo, uno dei soldati a piedi la guardò interrogativo. Lei gli passò le briglie senza tante cerimonie. Il soldato non capì ciò che lei stesse facendo e ciò che gli intimò in persiano: «Mo’afagh bashed
Si allontanò dalla formazione correndo a perdifiato e facendo il giro lungo per raggiungere la zona di fronte all’accampamento macedone, laddove arcieri nascosti attendevano tra le fronde degli alberi l’esercito. In realtà non era sicura che ci fossero davvero, ma non poteva permettersi di non controllare. Se erano lì sul serio, avrebbero dimezzato le forze di Cratero quando l’esercito sarebbe stato al completo. Se invece non c’erano, sarebbe tornata dagli altri. Non aveva proprio un piano, dalla sua, guidava il corpo e l’istinto.
Ecco perché sono fuori di senno.
Quando fu abbastanza vicina, camminò silenziosamente sgattaiolando dietro ogni tronco, infine si arrampicò su un albero. Faretra e scimitarra legate alla cintura, l’arco a tracolla, spadino e pugnali negli stivali.
Sentì Poro urlare qualcosa nella sua lingua e schierare poco dopo quasi tutto l’esercito verso Alessandro, mentre una schiera misera veniva lasciata a custodia del fiume per sorvegliare Cratero. Si era accorto che la truppa che aveva oltrepassato il fiume non doveva essere poi così piccola, se aveva sconfitto tutti i suoi uomini, perciò aveva pensato bene di dedicare loro tutta la sua attenzione.
Rossane si guardò attorno, gli occhi che cominciavano ad abituarsi al buio e i fulmini in lontananza che rischiaravano a tratti il campo di battaglia e il cielo compatto.
In quella zona giungevano solo i suoni lontani della battaglia, non c’era nessuno: solo lei e gli arcieri nascosti. Non rischiava la vita, poteva agire indisturbata ma con attenzione.
Scrutò i movimenti tra le fronde degli alberi: si rivelarono per la maggiore dovuti agli uccelli o a qualche soffiata di vento notturno. Cominciò a sentirsi sconsolata e presa in giro, forse Alessandro aveva ragione a non credere alle voci di mercato: d’altra parte, lui stesso aveva usato quella tattica. Le nuvole compatte non lasciavano filtrare i raggi lunari, ma dall’albero su cui era appollaiata Rossane vedeva la tenue luce dei focolari degli accampamenti.
Un movimento tra le fronde di un albero vicino catturò la sua attenzione.
Rossane spezzò un rametto sottile, tenendo gli occhi fissi sul fogliame. Nessun movimento. Spezzò un altro rametto, e un altro ancora, e fece tintinnare impercettibilmente l’elsa alla corazza. Infine spezzò un ultimo ramoscello, e lo lanciò in direzione opposta alla traiettoria che avrebbe percorso lei una volta scesa dall’albero. Una freccia si conficcò nel terreno, subito dopo, segno che l’arciere era teso e fremeva.
Idiota.
Gli arcieri c’erano, nascosti tra gli alberi. Ma probabilmente non erano molti ed erano distanti, altrimenti anche altri si sarebbero allarmati e avrebbero scoccato le loro frecce.
Scese in punta di piedi, aggirò l’albero con passo felpato senza che nulla facesse rumore. Né una foglia scricchiolante, né il tintinnare delle armi. Seguì il percorso che si era prefissata, dal lato opposto della freccia che era stata scagliata.
Il tronco era basso ma le fronde fitte di rami e fogliame. L’arciere non si era accorto di Rossane dietro di sé. Lei estrasse lentamente il pugnale dallo stivale.
Arrampicata sull’albero, con un paio di balzi e appigli, piantò un pugnale nel collo dell’arciere, all’attaccatura del cranio. L’altra mano che gli tappava la bocca. Morì con un rantolo soffocato, il sangue che usciva dalle labbra e sporcava le dita della ragazza. Non permise al cadavere di cadere e lo issò tra i rami.
Aveva appena ucciso un uomo. A sangue freddo. Aveva ancora la mano macchiata del suo sangue e non provava nulla. Si sentiva come estraniata dalla realtà, una bambola di pezza senza pensieri ma guidata solo da una volontà superiore.
Dall’altro lato, Poro aveva schierato la cavalleria su entrambi i fianchi e la linea di duecento elefanti frontale. Di fronte ad uno schieramento del genere, Alessandro si ritrovò momentaneamente spaesato: la sua strategia aveva sempre previsto di far breccia nelle linee nemiche e colpirla con la cavalleria. Ma quella formazione sembrava inespugnabile frontalmente. Diede ordine ad un manipolo di cavalieri di aggirare gli indiani e attaccarli da dietro.
Gli elefanti avevano terrorizzato i cavalli e il conquistatore dovette cambiare strategia.
Diecimila uomini attraversarono il guado e arrivarono per fare forza alla falange di Alessandro. 





Angolo autrice:

ROSHANAK in dialetto battriano significa "piccola stella". Ecco perché Alessandro la chiama "mia stella".
 
Per l'armamento di Rossane ho preso spunto dalle indicazioni di Senofonte, su come un cavaliere deve equipaggiarsi, e riadattato un po' alla situazione della nostra protagonista.

Quest'ultima versione del capitolo l'ho scritta con "Drums of Gaugamela" dei Vangelis, una soundtrack del film Alexander. Una pellicola che mi piace relativamente per la poca fedeltà. Ma quell'OST è un capolavoro

Ho scritto questo capitolo almeno tre volte, forse anche quattro, da: "Rossane dormiva nella tenda dei servitori" in poi. È la prima vota che scrivo di una battaglia, siate clementi (?). Non era nei miei piani lanciarla in battaglia, sapete?
Sarebbe rimasta a Taxila e mi sarei occupata solo della battaglia seguendo le gesta di Alessandro. Però ho desistito perché
Uno: la storia ruota intorno Rossane, io scrivo ciò che lei vede, nel 90% dei casi. È una cosa che ho deciso quando ho dato il titolo alla storia, ed è una cosa che voglio onorare (?).
Due: la faccenda degli arcieri sugli alberi è controversa. In alcuni testi la confermavano, in altri no, e siccome stavo diventando scema, ho cercato un compromesso.
Tre: credo che sia stato un gesto coerente con la natura di Rossane (e del popolo persiano in generale), estremo e azzardato, ma coerente.

Insomma sì, prende parte alla battaglia dell'Idaspe e si occuperà degli arcieri. Non farà assolutamente niente di eroico né starà sempre nella mischia. È scema, neanche poco, ma le donne persiane non erano molto "manze". Come ho detto, spesso hanno preso parte alle battaglie in prima persona (vestendosi da uomini o meno) oppure ideando strategie. Questo perché erano molto emancipate, e anche agli occhi della legge erano pari agli uomini. Tant'è vero che potevano diventare anche satrapi o Immortali, per i persiani non era così strano vedersi una donna nell'esercito (anche se nemmeno frequente), e venivano educate sia per diventare buone mogli, che buone donne di politica. 
Un esempio che riporto sempre è Artemisia I, la regina di Alicarnasso, che nel 480 a.C. fu uno dei comandanti navali e consigliera di Serse durante la battaglia di Salamina.
Oppure la nobildonna Youtab combatté contro l'esercito di Alessandro stesso alla battaglia della porta persiana.
-porca zozza sto diventando una piccola Callistene-

Sto cercando di farvi arrivare il percorso interiore di Rossane (?), che sta maturando, sta crescendo.
A tratti capricciosa e desiderosa di continue attenzioni, infantile, orgogliosa, FINALMENTE qualcosa nel suo cervellino si smuove e comincia a capire, per quanto riguarda Alessandro, che quello che fa non è una scemenza ma è la guerra. 

Per ultimo faccio una precisazione: le frasi in persiano sono corrette, certo, solo che non sono in persiano antico né medio o pahlavi. Si tratta del persiano attuale. Ci saranno sporadiche frasi anche in greco, ma vale lo stesso discorso: saranno frasi in greco moderno. E non so nemmeno se saranno giuste, perché userò il traduttore. Ma mi piace dare un tocco di multietnicità alle mie storie, non me ne vogliate (?)

Basta, questo angolo autrice sta diventando lungo quanto il capitolo.
Grazie per passare di qua, per inserire la storia nelle vostre liste, per scrivermi, qualcosa. 
Qualsiasi opinione, appunto, consiglio, domanda o chessoio, verrà senz'altro ben accolta, miei prodi. 
Alla prossima!
 

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Capitolo 10
*** 9. Noh ***


۹ . Noh
 

Fiume Idaspe, notte fonda, maggio 326 a.C.
 
Rossane era arrivata a contare cinquanta arcieri tra gli alberi, morti con un pugnale infilato nel collo, eccetto uno.
Il fango attorno agli occhi si era seccato e le tirava la pelle alla minima espressione di ribrezzo. Col buio non vedeva bene le ferite che aveva inferto alle sue vittime, gli zampilli di sangue le avevano sporcato l’armatura, il viso, le mani. Sapeva solo che quegli indiani non erano così astuti, bastava poco: tenere allertata la loro attenzione con rumori lievi, rami che si spezzavano e tintinnio di armi, e poi trovare un modo per far scoccare le loro frecce, per intercettare la traiettoria e capire da dove venissero. Rossane doveva individuarli e farli fuori: avrebbero indebolito le forze macedoni di Cratero. E ad aspettarli c’erano gli elefanti, non potevano permettersi di morire per mano di quegli indiani appollaiati come avvoltoi.
Era stata molto vicina a farsi scoprire un paio di volte.
La prima volta, uno degli arcieri aveva udito i suoi passi dietro di sé. Si era voltato, lei non aveva ragionato troppo e gli era balzato addosso infilandogli un coltello nella gola, trapassandolo da parte a parte. Neanche il tempo di rantolare. A quel punto aveva deciso che era meglio indossare le loro armature finché non avrebbe concluso il suo operato, sostituendo anche l’elmo. Poté persino aggirarsi più tranquillamente nello spiazzo tra gli alberi.
La seconda volta, che era vestita come un indiano, uno degli arcieri le bisbigliò qualcosa nella sua lingua. Lei non capì, tentennò troppo e mentre lui capiva l’inganno dell’armatura, Rossane fu più svelta e fece la sua mossa fulminea scoccando la freccia. Per pura fortuna il cadavere non cadde dall’albero, ma lei salì comunque per issarlo meglio e derubarlo delle frecce.
La fortuna aiuta gli audaci.
Se l’era ripetuto per tutta la sua “missione” come un mantra, un motto, un modo per pensare positivo. Anche se, più si entrava nel vivo, più la ragazza dubitava di essere audace ma solo sconsiderata.
La battaglia, ormai vicinissima al luogo in cui si aggirava Rossane, continuava ad infuriare e lei doveva sbrigarsi a togliere di mezzo quegli arcieri.

Alessandro ordinò a Perdicca di attaccare l’ala sinistra del nemico con la cavalleria.
Gli aurighi indiani decisero di precipitarsi con i loro carri nel bel mezzo della battaglia, pensando che questa mossa fosse l'estrema soluzione d'aiuto per i loro compagni. Questa decisione si rivelò letale per entrambi gli schieramenti. I fanti macedoni vennero annientati durante l’assalto dei carri nemici. Questi ultimi, lanciati su un terreno scivoloso e impraticabile, si ribaltarono facendo cadere a terra i passeggeri. Pochi di loro riuscirono a sopravvivere all’impatto, i pochi che ci riuscirono vennero uccisi poco dopo dai macedoni o dall’avanzata degli elefanti stessi.
Gli elefanti, disposti sul campo di battaglia in mezzo ai soldati nemici, parvero ai Macedoni delle grandi torri. Lo stesso Poro, di per sé alto circa due metri, sembrava ancora più enorme in groppa al suo elefante.

Dall’altro lato, Rossane terminò con l’assassinio degli arcieri nascosti, ne aveva contati centodieci.
Una volta conclusa la sua “missione”, recuperò l’elmo che le copriva il volto e si tolse di dosso l’armatura del nemico, abbandonandola ai piedi di un albero.
Guardò in direzione della battaglia, senza sapere bene come agire, ma c’erano alcuni cavalli senza cavaliere. Questo non la fece pensare un minuto di più. Pensare troppo non avrebbe giovato, non poteva tentennare né rimuginare. Guidava il corpo, l’istinto, non il pensiero razionale.
Corse a perdifiato nella loro direzione, l’elmo corinzio e il fango incrostato sulle ciglia che le infastidivano la vista.
Afferrò le redini di uno dei cavalli e lo strattonò, costringendo l’animale a fermarsi e darle la possibilità di saltargli in groppa. Si guardò attorno cercando di orientarsi e ritrovare il suo schieramento. Arrivò appena in tempo, mentre Alessandro ordinava agli arcieri a cavallo di spingere sul lato sinistro.
Anche se era buio e pioveva, scoprì che l’adrenalina dava il suo contributo e le parole di Cratero si erano rivelate veritiere: doveva colpire corpi nello spazio, non sottili linee o minuscoli puntini del tiro a bersaglio. La difficoltà stava nel prendere la mira, distorta dal movimento del cavallo, più che dal buio, dall’elmo e dalla pioggia. Ma qualche bel colpo lo segnò anche lei.
Gli uomini guidati dal generale Ceno apparvero alle spalle degli indiani, e questi ultimi non riuscirono a sostenere l’urto di cavalieri di Alessandro.
Poro dispose che gli elefanti attaccassero un po’ la cavalleria macedone e un po’ le truppe dietro di loro. I pachidermi attaccarono senza pietà, massacrando la falange a cavallo.
Rossane schivò un paio di colpi delle enormi bestie ma la terza volta non fu così fortunata: un colpo di proboscide scaraventò a terra lei e colpì il suo cavallo, spezzandogli l’osso del collo.
La ragazza cadde malamente sulla schiena, nel fango e nel sangue altrui, vide il pachiderma caricarle contro e l’avrebbe schiacciata con le sue enormi zampe. L’impatto prima con la proboscide e poi con il terreno le provocarono una fitta lancinante, mozzandole il fiato: era quasi sicura di essersi incrinata le costole, se non addirittura rotte. Tra l’altro, l’armatura era bozzata verso l’interno e premeva sul punto dolorante.
Tutta l’adrenalina e il terrore che le salirono in corpo, le fecero quasi dimenticare il dolore alla cassa toracica, alla spina dorsale e al coccige. Rotolò di lato per sottrarsi al pesante tonfo nel terreno della zampa e non venire schiacciata, accompagnato da un barrito rabbioso.
«Fravashis, komakam kon.» rantolò, alzandosi sulle gambe malferme e improvvisamente prive di forze.
Come voleva il Mazdeismo, Rossane cercò l’aiuto del suo angelo custode (Fravashis) in quel momento di pericolo mortale. L’angelo non le rispose, lei sentì le lacrime agli occhi e strinse le labbra, costringendosi a scacciarle.

Ogni momento le sembrava lontano, ovattato. Le grida, il sangue. Era davvero lei, la principessa di Battria, che si era infilata in quella situazione? Il delicato fiore di Persia nel bel mezzo di quella cruenta e brutale battaglia? I suoi petali erano coperti da un’armatura. Erano d’acciaio.
Volse lo sguardo verso il marasma. Cadaveri che disseminavano il terreno, morti in modi onorevoli oppure nel più terribile. Aveva ucciso anche lei, era sporca di sangue e fango. Ma era diverso uccidere con una lama rispetto ad un pachiderma che schiacciava i corpi dei soldati, le zanne che li squarciavano, le proboscidi che li scaraventavano via.
Sentì il fiato corto, la forza abbandonarla. Arrancò verso un albero, si accasciò alle sue radici per tentare di riprendere fiato. Non poteva più tenere quell’armatura, l’ammaccatura spingeva sulle costole incrinate (se non addirittura rotte), e le mozzava il respiro. Nel marasma della battaglia, nessuno si sarebbe accorto di un cambio di corazza.
Rossane sganciò l’armatura ammaccata, e ne prese una da un soldato persiano morto lì vicino. Si affrettò ad indossarla. Aveva il salvacuore a forma di cerchio con inciso una testa di leone. Il dolore alle costole era lancinante, ma senza l’abbozzatura che premeva era meglio.
Intorno a sé c’erano cadaveri o uomini che gorgogliavano nel vano tentativo di respirare nonostante le gole squarciate e il sangue che risaliva fino a colare lungo le guance. Uomini in punto di morte che piangevano, stringevano la terra tra le dita cercando di aggrapparsi al mondo. Uomini con il ventre completamente aperto e organi che ricoprivano la terra. Ormai se ne erano accumulate così tante, di interiora, che i soldati ci camminavano sopra immersi fino alle caviglie.
Non realizzò l’orrore finché non si ritrovò appunto a osservare quei corpi dilaniati e aperti. Sentì la bile salire, respinse un primo conato di vomito ma non riuscì a trattenere il secondo. Vomitò la paura, l’orrore, la disperazione di quel momento.
Non avrebbe mai creduto di poter vedere quegli orrori con i propri occhi. Ne aveva sempre sentito parlare, ma tra le parole e i fatti c’era un abisso. Era un massacro vero e proprio.
Un uomo morente tra le fila dei macedoni le parlò in greco, lei non capì assolutamente niente ma gli strinse la mano tra le sue e guardò i suoi occhi acquosi pieni di orgoglio e malinconia. Lacrime calde le scesero lungo le guance, facendo colare il fango. Cercò di dirle qualcosa, ma vide che lei non capiva. Allora s’indicò debolmente la spada e la ferita. Doveva aiutarlo a morire, non ce la faceva più a sopportare quel dolore.
La ragazza singhiozzò, estrasse il pugnale che aveva usato per uccidere gli indiani.
Che la terra ti sia lieve, uomo di ferro.
Rossane rinfoderò l’arma. Lo pianse, pur non conoscendo neppure il suo nome. Era un uomo di mezza età, era stato ferito con una zannata d’elefante in pieno ventre. C’era un buco che lo trapassava da parte a parte, incurante dell’armatura. Pensò che aveva seguito Alessandro fino all’India, inseguendo il sogno del sovrano macedone anche a costo di abbandonare la sua patria, la sua famiglia, le sicurezze della sua casa. Ed era morto nel peggiore dei modi.

Alessandro ordinò di attaccare gli elefanti. I soldati agirono in modo efficace, a tal punto che la falange riprese fiducia e ricominciò ad attaccare il nemico.
Poro reagì, fece contrattaccare gli elefanti e riuscì a spingere verso il fiume la cavalleria nemica. I cavalli macedoni, terrorizzati dai pachidermi indiani e il fiume alle loro spalle, fuggirono scaraventando a terra i loro cavalieri.
Il rajah, vedendo i cavalieri appiedati, comandò qualcosa in direzione degli alberi, ma lanciò un urlo di rabbia quando non ottenne riscontro. Alessandro capì che Poro stava comandando agli arcieri appostati tra gli alberi, ma questi ultimi non diedero risposta, non eseguirono gli ordini. Assottigliò lo sguardo, cercando di carpire di più.
«Pare che siano morti tutti. – gli gridò Efestione. – Non se ne è accorto nessuno perché sono rimasti incastrati tra i rami degli alberi. Sono stati uccisi in modo netto: un pugnale nel collo.»
Efestione lo sapeva, perché un soldato di loro che si ritrovava vicino a lui parlava la lingua degli indiani e captò la discussione tra i soldati, riferendola poi al generale.
Alessandro aveva preso sottogamba il problema degli arcieri, dal momento che si trattava solo di voci al mercato che aveva udito Rossane, e non aveva dato nessun comando in merito. In quel momento si rese conto che, se uno dei suoi non li avesse uccisi, sarebbero morti loro sotto una pioggia di frecce.
«Io… Non credevo ci fossero davvero. – esalò, stupefatto. – Troveremo chi è stato così lungimirante. Efestione, attent--!» non fece in tempo.
Efestione venne scaraventato a terra da un colpo di proboscide, ma riuscì a scartare di lato prima di essere schiacciato. Il cavallo non fu così rapido a rialzarsi, lanciò un ultimo acuto nitrito di dolore.

All’alba, che le forze degli indiani erano ancora consistenti ma spossate, Cratero guadò il fiume e si riversò nella giungla con la massiccia mole dell’esercito macedone.
Rossane si era rialzata sulle gambe malferme, ma non aveva neanche avuto tempo di pensare. La battaglia la inghiottì completamente. Combatté con la scimitarra, si districò dagli agguati degli indiani come faceva negli allenamenti a sorpresa con Cratero. La sua corporatura minuta fu di estremo aiuto, e non se lo sarebbe mai aspettato. Sentiva le membra stanche, il fiato – già provato dalle costole incrinate – mancare, la vista appannata. Sentiva che le spade cozzavano contro le placche metalliche sulle braccia, sentiva che venivano aperte ferite sulle gambe coperte solo di tessuto, una sul viso, ma non sentiva neanche più dolore: quello alle costole li sovrastava tutti. Mentre si appropriava delle vite dei suoi nemici, una freccia si conficcò nella sua coscia. Alzò lo sguardo sul responsabile: un indiano, appollaiato tra i rami. Non era uno degli arcieri, a giudicare dall’armatura doveva essere un cavaliere senza più destriero. Incoccò una freccia e colpì l’arciere indiano sulla fronte, facendolo stramazzare giù dai rami.
Si appoggiò ad un albero, cercando di non cadere nel trambusto dei cavalli. Strinse i denti e cercò di sfilare la freccia dalla carne. L’asta si spezzò, la punta metallica restò all’interno.
«Komakan kon, Fravashis.» implorò di nuovo, con lacrime calde che sgorgavano dagli occhi.
Rossane si lasciò cadere a terra, cercò in qualche modo di rimuovere quella punta di freccia. Sapeva che in certi casi si utilizzava una spada per fare leva, ma lei non era un medico e non voleva rischiare di fare danni irreparabili. Era conficcata troppo a fondo, serviva un chirurgo.
Alzò lo sguardo su Poro, era stato colpito da diverse frecce ed era sul punto di svenire per il troppo sangue perduto. Il conducente capì che il rajah faceva fatica a restare cosciente e spinse l’elefante in fuga.
Alessandro tirò le briglie di Bucefalo, Rossane udì chiaramente la sua voce mentre ordinava qualcosa in greco. Non le servì capire le sue parole, vide rinnovato vigore nell’esercito macedone che attaccò senza pietà gli ultimi indiani rimasti. Il condottiero invece si fiondò alla rincorsa del pachiderma su cui era Poro.

La battaglia infuriò spietata e rabbiosa più di prima. I volti dei macedoni e dei persiani deformati dalla stanchezza, la rabbia, la determinazione che alimentava ogni loro colpo.
Rossane decise che non poteva stare in piedi, né accasciarsi, nonostante la gamba continuasse a sanguinare copiosa. Bastava non sforzarla troppo, pensava. Si alzò barcollando. Bloccò un soldato tirando il suo cavallo per le briglie, gli fece un cenno col capo e lui le disse qualcosa in greco indicandole la gamba ferita. La ragazza arricciò il naso, sperò che non fosse una domanda, e si limitò ad arrampicarsi in groppa dietro di lui. Sguainò la scimitarra, la lama incrostata di sangue rappreso per le vite che si era presa prima, e cominciò a mieterne altre mentre il soldato galoppava nel marasma. Non durò a lungo, perché poi fu costretta ad accasciarsi contro la schiena dell’altro soldato: la ferita perdeva troppo sangue, aveva la vista annebbiata e la testa che girava, era senza forze.
Le diceva qualcosa, di tanto in tanto, ma lei non capiva una parola di greco e si limitò a far finta di niente.
Il soldato frenò il cavallo quando vide tutti i pachidermi inginocchiarsi. Gli indiani si fermarono, l’esercito amico pure. Una calma surreale avvolse il campo di battaglia, interrotta da qualche nitrito e barrito. Poi cominciò il vociare indistinto di lingue: greco, persiano, hindi.
Alessandro ordinò qualcosa ad un manipolo di soldati, che si avvicinarono titubanti al corpo esangue di Poro. Quando cominciarono a toccarlo per privare i rajah dei suoi averi, l’elefante s’infervorò e scacciò i soldati con colpi di proboscide. Dopodiché avvolse il suo padrone e se lo caricò sulla schiena. Il conducente dell’animale lanciò un’ultima occhiata ad Alessandro, che gli fece un cenno col capo e lo lasciò andare.
Gli indiani si ritirarono. La battaglia era finita.
 
* * *
 
Tornarono all’accampamento che era mattina inoltrata. Rossane aveva recuperato un cavallo senza cavaliere. Riuscì a salirci con l’aiuto di un soldato ragazzino e sempre grazie a lui, riuscì a guadare il fiume con gli altri senza accasciarsi in acqua, in balìa della corrente. Si sentiva debole e febbricitante, pregò che nessuna ferita si fosse infettata.  
I più gravi furono subito curati alla bell’e meglio, i morenti furono aiutati a morire in fretta. Chi stava meglio, dovette fare la conta dei morti sul campo di battaglia e recuperare i feriti e moribondi, e vedere, a mente lucida, gli orrori che la notte aveva portato. Tutto il dolore, tutta la morte. Cadaveri, interiora, arti, fino ai polpacci. C’erano alcuni soldati indiani a fare la conta dei loro morti, ma le due fazioni si ignorarono completamente.
I soldati di Poro ritrovarono, incastrati tra i rami degli alberi, i cadaveri dei loro compagni arcieri. I lembi di pelle aperte, laddove era stato conficcato il pugnale, erano già quasi marciti e mangiati dalle infezioni.

Rossane si accasciò tra le pelli della tenda dei servitori, lasciando cadere a terra l’elmo e scoprendo il capo bruno, i capelli attaccati alla cute per il sudore. Il viso annerito, sporco di terra, sudore e sangue, gli occhi circondati da fango secco mezzo sciolto come se fosse una maschera tragica. Zuppa di sangue e fango, era entrata zoppicando e con una mano sul costato.
Bagoa la vide entrare e sussultò per il suo orribile aspetto. Era provata, distrutta.
«Sei viva!» esalò, andandole vicino.
«Bagoa, aiutami con la ferita.» rantolò, le labbra screpolate, indicando debolmente la gamba.
L’eunuco le tolse gli stivali e i pantaloni, mostrando la carne aperta in cui era conficcata la punta metallica della freccia. Tutt’intorno era già arrossata e si vedevano sacche di pus che cominciavano a formarsi, il sangue continuava ad uscire. Ma almeno Rossane aveva avuto il buonsenso di applicare un bendaggio, seppur disattento, per diminuire il flusso. Solo per questo non era ancora morta dissanguata, ma a vedere quella ferita… c’era molto vicina. Impallidì, divenne cereo.
«Rossane, devo chiamare Filippo.»
«No, mi scopriranno. Estrai la punta.»
«Testarda d’una ragazza. Non sono capace. La ferita si sta infettando, stai per morire dissanguata! – le posò una mano sulla fronte sudata. – Hai pure la febbre.»
«Accidenti...» sussurrò.
«Io vado a chiamare Filippo.»
Non volle sentire ragioni. Si alzò in piedi e uscì a grandi passi dalla tenda. Il campo era ricoperto da soldati feriti e in punto di morte. Sporchi, insanguinati; pregavano, deliravano, si lamentavano.
Era quella la guerra, dunque. Nessun vincitore, nessun vinto. Cercò Filippo tra i vari medici e chirurghi che si muovevano tra i corpi.
«Man be Filippo-doktor ehtiaj daram.» diceva rivolto a tutti, infine uno dei chirurghi glielo indicò con un gesto svogliato della mano.
Lo vide che stava aiutando un uomo a morire e lo raggiunse solo quando ebbe finito.
Il medico si accorse dell’eunuco e inarcò le sopracciglia, invitandolo a parlare.
«E'laamey Khatar! La regina Rossane ha una punta di freccia infilata in una coscia, si sta infettando!»
«Non ho tempo per queste sciocchezze, eunuco. La regina è Taxila.»
Bagoa scosse il capo con energia. Filippo tremò, capendo in un lampo. Afferrò tutto il necessario e seguì di corsa Bagoa fino alla tenda dei servitori. Trovò la regina sporca di terra, sudore e sangue, stesa tra pellicce e lenzuoli sporchi. Le gambe, nude, sporche di sangue e ferite qua e là da tagli lievi. La gamba destra era zuppa di sangue che colava dalla ferita provocata dalla freccia.
Si chinò vicino a lei, non le fece domande, Rossane era febbricitante e troppo debole. La sporcizia sul corpo non fu utile, e Bagoa dovette lavarle almeno le gambe prima di farla medicare. Le venne tolta cautamente l’armatura di dosso, mostrando il corto chitone militare, che era stato infilato nei pantaloni, e lasciando intravedere sotto il tessuto la stoffa ben stretta al petto che appiattiva il seno.

Riportava quella brutta ferita, qualche altra meno grave in altri punti del corpo, diversi lividi violacei sulla schiena ed uno nero sul costato. Filippo decretò che avesse almeno tre costole incrinate, una rotta che per puro miracolo non aveva lacerato il polmone. Fu costretto a sgonfiare la sacca di sangue che si era formata tagliando la pelle con una lama sottile, applicare il bendaggio e alla fine fasciarle l’intero busto. Avrebbe dovuto tenere la fasciatura per due giorni, non di più onde evitare malattie gravi e una scorretta guarigione della costola. Avrebbe dovuto fare profondi respiri anche a costo di sentire quel dolore lancinante e non avrebbe dovuto sforzarsi. Riferì a Bagoa che avrebbe dovuto dormire quasi seduta, per i primi tempi almeno, in modo da favorire la respirazione, dopodiché avrebbe potuto sdraiarsi ma supina – mai prona e mai su un fianco. Le costole meno incrinate sarebbero guarite in fretta, quella rotta invece ci avrebbe impiegato un paio di mesi.
Per la punta di freccia ci volle un po’ di più, le infilarono un panno arrotolato in bocca da mordere.
Filippo allargò la ferita, ma Rossane scalciava e si dimenava come una forsennata per il dolore, tanto che furono costretti ad intervenire i servi per tenerla immobilizzata. Allargata la lacerazione della carne, fece leva con un coltello dalla lama smussata per tirare fuori la punta metallica. La regina tentò di dimenarsi ancora, con le lacrime agli occhi e il panno stretto tra i denti con una forza incredibile alimentata dal dolore. Estratta la punta, Filippo disinfettò tutte le ferite più piccole applicando le garze. Fu il momento in cui lei sembrò quasi rilassarsi, ma il tormento non era finito perché il medico disinfettò infine la carne dilaniata dalla freccia. Rimosse il pus bucando le pustole nella carne viva, la pulì a fondo e la disinfettò. Bruciava come sale. Ogni passaggio provocava un dolore immenso, tanto che fu quasi convinta di morire per tutta quella sofferenza. Saturò il tutto bruciando i lembi di pelle, in modo che si sarebbe cicatrizzata più in fretta. Infine, bendò.
Le diede una soluzione per placare il dolore, che Bagoa pensò fosse una specie di sedativo per elefanti, visto il modo in cui la regina crollò stremata poco dopo averla ingerita.
 
 
Per i successivi quattro giorni Alessandro restò a piangere Bucefalo e aveva già predisposto la costruzione di una città in suo onore e un’altra nei pressi del campo di battaglia per onorare la vittoria, Alessandria Bucefala e Alessandria Nicea. Nessuno aveva ancora detto al re che sua moglie aveva preso parte clandestinamente alla battaglia ed era rimasta ferita.
Ora stava bene, il peggio era passato. Per camminare si aiutava con un bastone e respirava ancora a fatica, non usciva dalla tenda per nessun motivo. I diadochi non sapevano della presenza di Rossane, solo i servitori e Filippo, che ogni due giorni andava a controllare la situazione della regina.
Rossane in quella convalescenza aveva dormito, mangiato e pregato davanti al fuoco ringraziando Ahura Mazda e Fravashis per averla aiutata in guerra, e averle salvato la vita. Era sicura che il “miracolo” di cui parlava Filippo, secondo cui la costola rotta non aveva forato il polmone, era opera di Fravashis che aveva risposto in quel modo al suo appello. L’aveva salvata.

Quel giorno, Perdicca entrò nella tenda della servitù per chiamare Bagoa da parte di Alessandro.
Rossane s’irrigidì sia per tale richiesta, sia per l’irruzione del generale. E anche Bagoa, che sentiva il cuore martellargli nel petto: da quando aveva superato la maggiore età, il re non aveva più chiesto di lui.
«Mia regina, cosa…»
Rossane tacque, Perdicca notò le varie fasciature e infine i suoi occhi saettarono su una nicchia della tenda: un’armatura pesante, una leggera, pugnali, spadino, scimitarra, elmo, arco e faretra. Spalancò le labbra. «Oh, per Zeus.»
Lei aggrottò le sopracciglia. «Non devi dire niente, per favore, Perdicca.»
«Sei rimasta ferita.»
«Sì.» archiviò in fretta.
«Dovrei riferirlo ad Alessandro, lo sai.»
«No.» affermò, perentoria.
«Rossane, lo verrà a sapere comunque. Sei ferita e non puoi nasconderti fino alla completa guarigione.»
«E va bene! – sbottò. – Va’, diglielo. Ma questa storia non deve diffondersi.»

Perdicca corse a riferirglielo. Entrò nella sua tenda mentre il re studiava le mappe disposte disordinatamente tra le pelli del giaciglio, i percorsi tracciati con l’inchiostro nero. Quando vide entrare il generale senza Bagoa, inarcò le sopracciglia interrogativo.
«Alessandro, Rossane è qui.»
Perché è qui? , si chiese subito. Un presentimento s’insinuò nella sua mente.
«Ottimo. Portala da me, per favore.»
L’altro scosse la testa con energia. «Non può camminare, è… Ecco lei è…»
«Parla, per Ercole!»
«È ferita.»
Una morsa strinse il cuore del re, e una terribile sensazione gli oscurò lo sguardo.
«Che significa?»
«Che ha preso parte alla battaglia, Alessandro. Ed è rimasta ferita. Ha chiesto di non far sapere a nessun altro di questa storia.»
Odio quando i miei drammatici presentimenti si rivelano veri.
Ma lui era così affranto dalla perdita di tutti quegli uomini e di Bucefalo, che non ce la faceva ad arrabbiarsi con lei. S’innervosì perché come al solito aveva ignorato i suoi ordini e non era rimasta a Taxila mettendo in pericolo la sua incolumità, ma ringraziò tutti gli dèi per averle salvato la vita nonostante avesse preso parte a quella battaglia cruenta. Una forte angoscia gli riempì il cuore, sperando di trovarla in salute quanto possibile. Ma sparì presto, Perdicca gliel’avrebbe detto.
Sotto lo strato di apprensione, sbocciò un forte sentimento di adorazione, stima, ammirazione.
Seguì Perdicca fino alla tenda della servitù.

Rossane, vestita solo di una clamide bianca fermata da due spille sulle spalle, era seduta su uno sgabello e si grattava via una crosticina dall’avambraccio, Bagoa la rimproverava di non farlo. Quando i due entrarono, la regina e l’eunuco ammutolirono e calò il gelo nella tenda. La vide che era pallida come un cencio, occhiaie profonde intorno agli occhi e l’aria stanca, provata. Vide le garze che le coprivano le gambe nude in punti sparpagliati e una piccola sullo zigomo sinistro, e una spessa fasciatura attorno alla coscia destra. Le mani avevano piccole escoriazioni, le braccia piccole crosticine. Ai lati, in cui la clamide era aperta e mostrava la pelle, s’intravedevano le bende sul busto.
Alessandro si lasciò cadere in ginocchio di fronte alla moglie. Le strinse le mani tra le sue, gli occhi pieni di lacrime. Le toccò il viso, quasi avesse paura che lei fosse frutto di un sogno. Ma lei era lì: ammaccata, bendata e ferita. Ma forse per questo ai suoi occhi risultò meravigliosa in quel momento più che mai.
Era morto Bucefalo. Non avrebbe sopportato anche la perdita di Rossane.
«Come ti è venuto in mente…?» le sussurrò.
«Ti prego, non arrabbiarti. Ho avuto i miei motivi.»
Se poi erano più o meno validi, in quel momento non aveva importanza.
«Anche se volessi, non ho abbastanza forze mentali per farlo. – sorrise incerto. ─ Non voglio rimproverarti, non me la sento. Ma accidenti a te, Rossane, potevi morire! Mi sono preoccupato! Per Zeus, se fossi morta, io… Non so cosa avrei fatto.»
In realtà lo sapeva. Avrebbe trucidato tutti coloro che servivano Poro, tutti gli abitanti di Paurava.
Sarebbe sceso nell’Ade e se la sarebbe ripresa, se fosse stato necessario.
Il cuore le fece una capriola nel petto. «Sto bene. Rimarrà solo una brutta cicatrice.» mugugnò toccando la fasciatura.
«Per me sarà bellissima e ti renderà ancora più bella di ciò che sei. La bacerò ogni notte.»
Arrossì, e sviò il discorso. «Ho anche le costole incrinate, ma in un paio di mesi dovrei guarire del tutto. Un elefante mi ha colpito con la proboscide, facendomi cadere da cavallo.»
«Fammi capire: eri nella cavalleria che è stata massacrata dai pachidermi? – impallidì. – Gia ton Día! Saresti potuta morire in un modo ancora più orribile, e sai come, l’hai visto!»
«Sono stata svelta. – gli sorrise furba. –Mi sono occupata degli arcieri, perlopiù. Tu non ci credevi che li avrebbe posizionati, qualcuno doveva pur controllare e agire di conseguenza.» borbottò.
Le prese il volto fra le mani, stampandole un bacio sulle labbra. «Dovevo aspettarmelo: la tua ingenuità ti ha fatto credere alle voci di mercato e ci è stata d’aiuto. Nessuno di noi si sarebbe preoccupato dei pettegolezzi. Io per primo, come sai.»
Rossane gli lanciò un’occhiata astuta e affettuosa.
«È per questo che il re ha bisogno di una regina.»







La battaglia è conclusa e in tutto durò otto ore, Rossane se l'è vista brutta, però se non altro qualcosa di buono l'ha fatto nella sua impulsività.
Personalmente io non approvo questo lancio di Rossane nella mischia, però come ho detto credo che sia coerente col personaggio perciò è quella la cosa importante in fondo, no? La coerenza prima di tutto hahah
 È stato un capitolo un po' difficile da scrivere per via della battaglia e delle cure mediche, sono arrivata alla fine della stesura che mi ero un po' stancata di scrivere 'sto capitolo.... è stato il più stressante tra tutti, credo HAHAH
E niente, sicuramente ci saranno cose da rivedere e quando revisionerò la storia sistemerò tutto, soprattutto i primi capitoli e altre sviste. 

Grazie a chiunque decida di lasciarmi una recensione e grazie a tutti che avete inserito questa storia nelle vostre liste, siete più di quanto mi aspettasi, considerando che ho cominciato a scrivere questa storia per sfizio, senza pretese e senza neanche l'iniziale intenzione di postarla accidenti! HAHAH

Grazie infinite a tutti! Alla prossima!

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Capitolo 11
*** 10. Dah ***


۱۰ . Dah
 
 
Amu alla sorella Roshanak – Mia cara sorella!
So che è passato molto tempo e non so quando questa lettera giungerà a te.
Ti scrivo finalmente in un momento di tregua. Ho una profonda e logorante nostalgia per te, per i tuoi sorrisi, i tuoi giochi, la tua vena dispettosa.
Ho sposato Kassìm, non abito più ad Al-Khanoum. Sono a Susa in questo momento, molto vicina a Babilonia. Vorrei che venissi a trovarmi, un giorno, mia cara sorella.
Sento la mancanza dei monti dietro il palazzo in cui siamo cresciute, la nostalgia dell’harem, di nostro padre e di Darya, dell’aria profumata di incenso e fiori secchi, dei nostri giochi.
Kassìm è un marito buono, non mi fa mancare nulla. A volte è un po’ grezzo e può avere scatti d’ira violenti. Forse non sono stata educata sufficientemente.
Spero che riceverai presto questa lettera e riuscirai a rispondermi, le voci delle incredibili gesta di tuo marito sono giunte fino alle mie orecchie! Raccontami, sorella!
 
Roshanak alla sorella Amu – Salve, sorella!
Spero di riuscire a venire fino a Susa. Ma da quando sono sposata con Alessandro, la mia vita è molto incerta!
Tutte le avventure che sto vivendo mi proibiscono di sentire la mancanza di casa, ma quando sopraggiunge la sera, sento una morsa nel petto e la nostalgia disturba il mio riposo. Anche tu e Darya mi mancate molto, ma se devo essere sincera Al-Khanoum non mi manca affatto. Mi mancate voi, delle persone, e non un luogo fisico. Mi mancano i ricordi, non un palazzo colmo di segreti e complotti.
Le avventure che sto vivendo sono numerose. Ad esempio in questo momento sono tra le giungle dell’India, te lo saresti mai aspettata? Te ne parlerò a voce non appena verrò a Susa.
La vita con Alessandro non è rose e fiori, ma sicuramente te lo aspetterai: la vita da moglie non è pane per i miei denti e credo che nemmeno lui sia l’uomo più tagliato per essere un marito, un padre, un compagno. Un amante, un amico, questo sì. Ci sono stati dei problemi tra noi.
Il nostro rapporto si avvelena e si guarisce a intervalli. Al momento pare che abbiamo trovato una stabilità.
Amu, sorella mia, non permettere a Kassìm di imporsi su di te, di trattarti come se fossi un soprammobile o un bell’ornamento per il talamo. Tu sei molto di più e vali molto di più. Tieni la schiena dritta e fatti sempre valere. Sei una donna persiana e pertanto sei sua pari, anche secondo la legge. Confido che il tuo sposo non ti abbia fatto del male o lasciato segni evidenti sulla pelle.
Abbi cura di te, ti scriverò appena potrò.
Ti voglio bene.
 
Roshanak al padre Oxáthrēs, re di Sogdiana, satrapo di Battria e di Paropamiso – Salve, padre.
Volevo innanzitutto congratularmi per la tua promozione: ho saputo che Alessandro ti ha nominato satrapo della provincia di Paropamiso. Ora sei il signore di tutta la Sogdiana e dell’intera catena montuosa dell’Hindu Kush. Complimenti per la scalata al potere.
Mio marito mi ha riferito del vostro scambio di lettere e mi ha ricordato di scriverti. Con tutto ciò che mi è accaduto, mi è passato di mente. Inoltre, da quanto ne so, ci sono stati anche problemi con i corrieri. Ad ogni modo, sto bene.
Porta i miei saluti a Darya, Mizda e Fayruz.
Riguardati.



«Scrivi a tuo padre?» domandò Alessandro, entrando nella tenda.
Rossane sobbalzò, colta di sorpresa, facendolo sghignazzare. Ripose lo stilo nel calamaio e soffiò sulle pagine di pergamena per far asciugare l’inchiostro.
«Anche a mia sorella Amu.»
«Qualche novità?» le posò un bacio frettoloso tra i capelli.
«Nessuna. Pare che il suo sposo sia violento e iracondo. Spero non le abbia fatto del male.»
«Dov’è tua sorella?»
«A Susa.»
«Quando torneremo a Babilonia, ci fermeremo lì così potrai salutarla e vedere tu stessa se le è stato torto un capello.»
Rossane si voltò a guardarlo, sorpresa. «Andremo a Babilonia?»
«Prima dobbiamo conquistare l’India.» fu una sorta di scherzoso monito, come a consigliarle di non illudersi troppo in un ritorno imminente.
Lei annuì con un sorriso rassegnato, e arrotolò le pergamene. «Tu come stai?»
Alessandro si accovacciò di fianco a lei, guardandola dal basso. Le mani che stringevano quelle di lei. «Dovrei chiederlo io a te. È stata la tua prima volta in battaglia e mi auguro l’unica. Sembri così tranquilla, eppure hai visto l’orrore.»
Rossane abbassò lo sguardo con un sorriso incerto. «Sto bene.»
Le accarezzò la coscia, laddove c’era la fasciatura. Guardava attento quelle bende candide strette sulla pelle dorata, poi alzò lo sguardo sul suo petto. Poggiò la mano all’altezza del costato. La regina sussultò per quel contatto inaspettato e delicato.
«E le costole? Come respiri?»
«Non benissimo, ma ci vorrà solo pazienza.» sorrise.
«Tu non ne hai molta. Ne vuoi un po’?» la canzonò.
Rossane ridacchiò. «Tienila da parte, serve di più ad un grande re. – ammiccò. – Qualche novità da Poro?»
Alessandro si alzò in piedi. «Sì. Ho atteso che si sentisse meglio per inviargli Ambhi in mia vece, ma ha tentato di assassinarlo considerandolo un traditore. Dovrò andare io con un altro interprete.»
«Vedi? Quelle scorte di pazienza ti serviranno subito.» lo prese in giro bonariamente.
Lui arricciò il naso, le posò un bacio sulla fronte e uscì di nuovo, informandola che sarebbe andato da Poro. Le sconsigliò di aggirarsi troppo nell’accampamento, dal momento che era disseminato di feriti. Le sere precedenti c’erano state le pire: bruciavano blocchi di duecento cadaveri.
Quella sera si sarebbe tenuta l’ultima pira.
Alessandro era partito con la pioggia incessante verso l’accampamento di Poro.
Rossane era rimasta tra i macedoni. Perdicca l’aveva tempestata di domande sul perché quella scelta avventata. Lei si era limitata ad alzare gli occhi al cielo e sorridergli. «Tu ci sapresti stare fermo e buono invece di dare un contributo, pur sapendo utilizzare le armi e cavalcare un cavallo?»
E il generale aveva taciuto.
Con Alessandro avevano deciso che nessuno, eccetto chi lo sapeva già e i fedelissimi, avrebbe dovuto sapere della regina in battaglia.
Come si sentiva Rossane in realtà, era difficile da spiegare.
Era come se guardandosi indietro e rivivendo i momenti di quella notte, guardava nei ricordi di un’altra persona. Si era emotivamente dissociata. Come se non fosse stata lei ad uccidere gli arcieri, a mietere vittime sul campo di battaglia. Anche se non sentiva apparentemente nulla, sapeva che ad un qualche livello molto profondo di sé, la battaglia l’aveva segnata. Tutti quei morti, i feriti, i corpi dilaniati dalle spade e dalle zanne degli elefanti, schiacciati dal peso dei pachidermi. Cadaveri ed interiora fino ai polpacci, il sangue che sporcava l’armatura, le gambe, il volto, le mani, l’anima.
Immagini che con il sopraggiungere del sonno, si ripresentavano alle porte della mente sottoforma di terribili incubi. Sentiva una vaga inquietudine, un vago turbamento. Ma affrontava la cosa con contegno tanto che se ne era quasi totalmente distaccata.
Mentre combatteva con gli indiani era terrorizzata e reattiva, l’adrenalina la rendeva più forte, più veloce, più intrepida, rendeva il pensiero più vigile, i sensi più fini, i riflessi più rapidi. Era quella che l’aveva salvata, insieme ad una mano divina e ad una massiccia dose di fortuna. Ma d’altronde, come ripeteva Alessandro: “La fortuna aiuta gli intrepidi”. Doveva essere vero, almeno nel suo caso. Sapeva di essere stata avventata e neanche molto intelligente, sapeva d’aver rischiato tanto. Non si sentiva coraggiosa, si sentiva quasi folle, incosciente.
Sentiva che il suo cuore era stato bruciato dalle fiamme della guerra, qualcosa si era irrimediabilmente spezzato una volta per tutte. Aveva toccato un fondo che non credeva di poter raggiungere, e sentiva scivolare via i frivoli pensieri della fanciullezza, sentendo che non le appartenevano più.
Rossane aveva ventuno anni, ormai era una donna fatta e finita.
 
 
Si fece notte. Nello spiazzo dell’accampamento erano state preparate tre enormi pire con i cadaveri posti ordinatamente. A turno, tutti resero l’ultimo omaggio ai defunti, su ognuno di loro erano state messe due dracme sugli occhi per il traghettatore nell’Ade.
Rossane in piedi tra le pire. Efestione la affiancava, la guardò. «Dovresti provare a dire qualcosa, visto che Alessandro non c’è per fare le esequie.» le disse in greco, facendole un sorriso confortante.
In quei giorni di convalescenza, il re aveva aiutato molto Rossane ad imparare la sua lingua. Lei apprendeva, ma non capiva ancora la maggior parte delle parole e non era in grado di fare discorsi troppo lunghi o articolati. Inoltre bisognava usare parole semplici e parlarle piano, affinché capisse.
Sfarfallò le ciglia. «Io non…»
«Prova.»
«Fallo tu, sei un generale.»
«E tu sei la regina.»
Rossane aggrottò le sopracciglia, contrariata. «Non li conoscevo.»
«Alcuni di loro, non li conoscevo neanche io. Guarda le facce di chi è rimasto: aspettano che tu dica qualcosa.»
La regina si schiarì la voce. Non era un gioco, doveva onorare quei soldati valorosi.
La folla, in effetti, sembrava attendere due parole da parte sua in quanto loro sovrana. Seppur barbara, era comunque la moglie di Alessandro..
«Pensa a cosa direbbe Alessandro.» provò a consigliarle Efestione, con un’alzata di spalle.
Rossane inarcò un sopracciglio, lo guardò con un’intensità tale da metterlo in soggezione. «Io non sono Alessandro. Esm e man Roshanak.» aggiunse l’ultima frase in persiano, come a voler sottolineare il concetto. Io mi chiamo Rossane.
Efestione ammutolì, e si limitò ad annuire col capo.
«Voi siete uomini valorosi. – cominciò la regina con voce incerta, nella sua lingua natia, mentre l’interprete traduceva. – Mi dispiace che tocchi a me, la regina barbara dai confini del mondo, onorare con un discorso questi uomini caduti in battaglia. Non conosco il greco, non conosco la vostra religione né le vostre usanze. Ma se c’è una cosa che ho imparato a conoscere e ad ammirare, è il vostro valore in battaglia. Il vostro coraggio, la vostra dedizione. Alla fine della vita, tutto ciò che conta è ciò che ti lasci dietro. Questi uomini, questi fratelli, lasciano dietro di loro gesta eroiche e coraggio insormontabile. E per questo motivo sono sicura che nel vostro oltretomba, qualunque esso sia, le anime di questi soldati non saranno misere ombre destinate a sbiadire nella memoria con il passare degli anni, ma brilleranno come astri per generazioni. Io di certo non potrò mai dimenticare il loro valore e il loro coraggio, né i loro sguardi pieni di determinazione durante la battaglia o mentre spiravano.»
L’ultima frase fu aggiunta a bassa voce, quasi parlasse con sé stessa. L’interprete non la udì neppure e si limitò a tradurre fino a “battaglia”. La sua mente era corsa a quel soldato che aveva aiutato a morire, conscia che l’avrebbe rivisto ogni qualvolta avrebbe parlato di battaglie.
Efestione le fece un cenno col capo, come ad approvare quelle parole. Cratero, in prima fila, la fissava con le braccia incrociate al petto. Increspò un angolo delle labbra.
Rossane sapeva che molti soldati conoscevano il persiano e l’avevano capita, ma pensò che sentire quel discorso in greco facesse loro un altro effetto.
La folla la fissò senza dire niente. La regina allora accennò un inchino e si dileguò a grandi passi, impettita.

Si accasciò seduta sull’impalcatura di legno su cui era montata la tenda reale. Osservò i soldati dare fuoco alle pire e restare lì a testa china per rivolgere un ultimo pensiero ai loro compagni.
Cratero si sedette vicino a lei, le mani intrecciate tra le gambe.
«A me è piaciuto, se può consolarti.»
Lei gli rivolse un sorriso dispettoso che nascondeva una punta d’amarezza.
«Tu sei di parte, la tua opinione non vale.»
«Mi offendi. – le scoccò un’occhiata astuta. – Non sminuirti, è stato il tuo primo discorso e aveva il suo perché. Poi credo che fatto da te, abbia tutt’altro effetto.»
«E dubito che sia positivo, sono pur sempre una barbara. Non ho nemmeno il carisma di Alessandro.»
«Nessuno è come lui. – si volse verso di lei con la testa. – Cos’è questa storia che eri tra di noi durante la battaglia?»
Rossane non batté ciglio. «Perché?»
«Perché lasciatelo dire: non sei stata molto intelligente. Ti sei schierata in prima linea all’inizio della battaglia e hai preso parte alla cavalleria che è stata massacrata dagli elefanti, sei diventata matta?»
«Attento a come parli, Cratero, sei mio amico ma non dimenticarti del mio rango. – sorrise, come se lo stesse ammonendo. ─ Comunque non ho fatto proprio niente, nessun gesto eroico. Ho combattuto molto poco. Sono saltata su un cavallo e ho scoccato frecce, perlopiù. Solo per poco ho preso parte ad uno scontro diretto. E ci ho pure rimesso con una freccia nella gamba.» mugugnò.
«E gli arcieri sugli alberi sono morti da soli?»
«Non è detto che sia stata io.» brontolò.
Cratero le lanciò un’occhiata con il sopracciglio sollevato. «Ma voi giovani persiani non venite educati per essere onesti e sinceri fino a fare male?»
«Non ho dato una risposta decisiva.»
«Sei stata tu o no?»
Rossane sospirò, stanca di quel gioco. «Non è stato un incarico pericoloso, dovevo solo fare attenzione. Quello non significa niente: chiunque avrebbe potuto farlo.»
«Rossane, non è l’azione in sé. Ma è stata la lungimiranza che ha guidato il tuo atto. La guerra d’informazione è una tattica per confondere l’avversario, Alessandro stesso l’ha utilizzata. Nessuno di noi crede alle voci di mercato per questo motivo. Forse Poro lo sapeva e se ne voleva approfittare, ritorcendoci contro la nostra diffidenza, oppure non è una tattica che si usa qui in India, diffondere false informazioni. In ogni caso, tu hai avuto fede e vedendo che nessuno si preoccupava di quel problema, ci hai pensato tu. Così inesperta e così pronta a gettarti nella mischia. Per stavolta ti è andata bene, avevi ragione e sei viva, ma la prossima potresti morire oppure restare delusa da quanto l’essere umano sa essere bugiardo e calcolatore. Tu sei ancora molto giovane e per questo ingenua e priva di esperienza, impara a guardarti le spalle da chiunque.»
Rossane abbassò lo sguardo senza sapere bene cosa dire. Si era già accorta delle menzogne che sembravano mandare avanti l’esistenza degli uomini. A partire da quel traditore di suo padre e compreso Alessandro, che seppur le fosse affezionato – e lei lo sapeva – mandava avanti il teatrino facendole credere di amarla. Conosceva l’animo bugiardo degli uomini, eppure ogni volta cadeva nelle sue stesse convinzioni, ci credeva sempre alle loro parole. Cratero aveva ragione: era molto giovane. Per questo ancora immatura e ingenua, complice anche la sua crescita in una campana di vetro. Ma era un mondo insidioso e crudele, doveva indossare una corazza anche se non doveva scendere in battaglia.
Lui le strinse la spalla con affetto. «Ti dirò una cosa. Io, ad Alessandro, non ce lo vedevo proprio a prendere in moglie una fanciulla tutta inchini e riverenze.»
«Difficile dirlo: non c’è tanta concorrenza femminile.»
Cratero scoppiò a ridere e le mollò una pacca sulla schiena guadagnandosi un’occhiataccia. Non la vedeva più come un delicato fiorellino esotico, ma come un fiore dai petali d’acciaio.
«Questo lo pensi tu, per il resto… è tutto un altro discorso. Sta tornando il tuo re. Ti auguro una buona notte.»
Rossane ricambiò il saluto e sospirò. Entrò nella tenda, e si tolse la grossa pelliccia dalle spalle. Chissà quando sarebbe rientrato Alessandro, sicuramente avrebbe fatto un giro tra i diadochi. Forse si sarebbe infilato nella tenda delle concubine.

Ne approfittò quindi per farsi preparare una vasca d’acqua fresca da Bagoa, che l’aiutò a lavarsi, asciugarsi. Non si dissero niente, lui cominciò a districarle i capelli, trattarli con gli oli e gli impacchi naturali. Le massaggiò la pelle, le applicò la pasta depilatoria su tutto il corpo – dove poteva, tra ferite e bendaggi.
Mentre l’aiutava poi a sciacquarla via, si mise a ridacchiare, e Rossane lo guardò interrogativa.
«Gli ideali di bellezza greci sono strani. – le spiegò. – Ad esempio, per loro una bella donna deve avere le sopracciglia unite. Se non le hanno così naturalmente, se le disegnano.»
La regina sfarfallò le ciglia. Com’era possibile trovare attraente e addirittura ideale una cosa del genere? Tra i persiani, le sopracciglia unite ricordavano i gorilla e oltretutto veniva rimossa tutta la peluria per cultura. I peli non erano considerati igienici e non erano belli da vedere, trattenevano il sudore e facevano puzzare la pelle, per questo andavano tolti. Nella zona intima a volte venivano tenuti, proteggendola da infezioni, ma qualcuno preferiva comunque toglierli e dedicarsi all’igiene di quella zona più attentamente. Alcuni persiani si toglievano persino le sopracciglia e se le facevano tatuare.
Anche i greci applicavano la pasta depilatoria sul corpo, soprattutto tra le fanciulle in età da marito. Il corpo era considerato un tempio: non andava sporcato né profanato, ma anzi curato e reso impeccabile. Anche sotto questo punto di vista, i persiani venivano considerati barbari: tra gli iranici c’era la cultura del tatuaggio – soprattutto sul viso – e degli ornamenti che bucavano la pelle sulle sopracciglia, sul naso, sull’ombelico, e in altre parti del corpo, oltre agli orecchini. Erano mode in voga soprattutto tra la nobiltà, perché in quel modo mostravano apertamente la loro gloria. Ma ogni classe sociale aveva il suo ornamento e tatuaggio, come a marcare il suo ruolo nella società.
Per i greci, era profanazione del corpo e disprezzo per la bellezza naturale concessa dagli dèi, un vero atto barbarico.
«Oh, e a loro piacciono le donne carnose. – proseguì Bagoa. ─ Quando ti ho visto la prima volta mi sono stupito per questo, sei molto magra rispetto ai loro canoni e non mi aspettavo che Alessandro avesse preso in sposa un peso piuma come te.»
Anche tra i persiani le donne in carne erano apprezzatissime. Avevano i seni floridi, i glutei e le cosce morbidi, c’era di più da toccare rispetto a un corpo come quello di Rossane.
Voluttuose, paffute. Più rispecchiavano queste caratteristiche e meglio era. Questo era stato motivo di imbarazzo per Rossane e le sue sorelle, in quanto non si sentivano idonee. Era vero che la cultura persiana non imponeva modelli da seguire, che ogni donna veniva valorizzata, ma le donne carnose erano comunque favorite: c’era più da toccare, rispecchiavano un’ottima salute e una predisposizione alla fecondità. La servitù aveva cercato di riempirle di cibo per far loro mettere su qualche altro chilo, ma non era servito a nulla. Darya soffrì molto per questo, ancor di più in quel periodo in cui il suo corpo cambiava e da ragazzina diventava donna. Amu e Rossane se n’erano fatte una ragione, invece, perché avevano imparato che molti apprezzano i corpi magri e atletici come quello delle tre sorelle.
Bagoa le fasciò nuovamente le gambe dove doveva. Accese una lucerna, mentre aspettava che Rossane indossasse la sua clamide, fermata con due spille sulle spalle, e le fu dietro per intrecciarle i capelli.
«Sei scesa in battaglia, ma non sai farti una treccia. Questo è buffo.» commentò con un sogghigno.
«Io e gli intrecci non andiamo tanto d’accordo.» borbottò con le braccia incrociate al petto.
Alessandro fece in quel momento il suo ingresso nella tenda. Fissò Rossane, infine Bagoa.
L’eunuco sentì il cuore fargli un salto mortale nel petto, si accorse di essere arrossito. Imbarazzato dall’entrata del re, dal suo sguardo attento e sorpreso, come se fosse stato beccato in flagrante in un atto osceno. Lo stesso cuore gonfio di gioia per il suo sguardo, venne stretto in una morsa notando che sorrideva a Rossane e sembrava non avere occhi che per lei.
Cos’era cambiato? Era da tempo che Alessandro non si dedicava più a nessuno. La prima sera a Taxila le concubine avevano danzato nello spiazzo, il re ne aveva adocchiata una e non aveva più lasciato andare i suoi occhi per tutta la durata della danza. Non l’aveva più considerato da allora, non aveva più giaciuto con nessuno: o con la regina o con nessuno.
Cos’era cambiato tra loro due? Era un continuo rincorrersi, avvelenarsi e guarirsi. Ma a differenza delle volte precedenti, Alessandro non aveva più giaciuto con altri, nemmeno quando litigava con Rossane. Che avessero trovato un equilibrio? Bagoa aveva sentimenti contrastanti in merito: era felice per l’amica, ma al contempo sentiva una lacerante invidia nei suoi confronti.
Lo guardò sganciarsi il mantello, gli schinieri e la corazza, restando con il chitone militare.
«Lascia, Bagoa, ci penso io ora.» lo congedò con un sorriso garbato ma distaccato.
L’eunuco trattenne le lacrime. Accennò un inchino e se ne andò.
Rossane lo guardò uscire. Probabilmente non si aspettava quel cambiamento da parte di Alessandro. Dal canto suo, il re sembrava non accorgersi di niente e si dedicava alla cura dei capelli di sua moglie con impegno. Continuò lui ad intrecciarli, beccandosi un’occhiata curiosa e amareggiata da Rossane, attraverso lo specchio d’argento.
Persino lui, un uomo che non ne ha bisogno, sa intrecciare i capelli. Ho qualche problema.
«Come è andata?» gli domandò in greco.
Alessandro ricambiò l’occhiata attraverso lo specchio, vagamente sorpreso per la lingua che lei stava utilizzando per parlargli.
«Ho apprezzato particolarmente lo spirito di Poro e del suo esercito. Gli ho riferito questo, ho risparmiato i suoi duecento elefanti. Gli ho chiesto come volesse essere trattato, lui ha risposto “Per quello che sono, un re”. Gli ho donato un territorio in più e gli ho concesso di regnare sul territorio che già possedeva più uno, in mia vece. E l’ho fatto riappacificare con Ambhi. Mi ha fatto dono di cinquemila uomini e settanta elefanti, come supporto per l’avanzata verso il Gange.»
Nonostante lui parlasse piano, scandendo bene le parole per farle capire, lei afferrò solo qualche frase e il senso generale del discorso.
«Hai un grande cuore, Aléxandre.» mormorò.
Al re piaceva come le parole in greco che pronunciava Rossane risultassero incerte, come se ci riflettesse su per ricordarne il significato. Gli piaceva il modo in cui venivano distorte dal suo accento esotico. Gli piaceva quando pronunciava il suo nome cercando di essere fedele alla pronuncia originaria. Quando gli parlava in persiano e lo chiamava per nome, risultava sempre Iskandar.
Ma d’altro canto, valeva anche per lui. Se la pronuncia originaria di Rossane era Roshanak, lui la pronunciava “alla greca”: Roxane. Così come Ossiarte, per lui era Oxyartes.
Gli piaceva sentirla parlare, sentire la sua voce – solitamente ferma e sicura – improvvisamente incerta, come se vederla impacciata la facesse risultare sottomessa e dandogli quindi un senso di dominazione su di lei.
«Mi è stato detto che hai reso tu gli onori ai cadaveri della pira.» sbuffò un sorriso tenero, mentre chiudeva la treccia con un laccio per poi sistemargliela su una spalla.
«Ci ho provato. – ammise. – Ma i soldati sono abituati ai tuoi discorsi potenti, il monologo di una barbara non è lo stesso.»
«Non voglio più che ti consideri una barbara. Tu non ti devi preoccupare di niente, Rossane. – le sussurrò in persiano, come a rimarcare il concetto, baciandola sotto l’orecchio. – Lo sai, quando ero bambino e Aristotele mi dava lezioni, diceva che i greci sono superiori ai persiani. Io mi chiedevo per quale motivo, allora, i persiani regnavano su tre quarti del mondo e lui non sapeva rispondermi. Ho scoperto che siete un popolo antico, molto più del nostro, siete la culla della civiltà e noi osiamo chiamarvi barbari mancandovi continuamente di rispetto. È assurdo, ed è anche per questo che mi sto impegnando quanto possibile per integrare le civiltà. Non voglio più che ti consideri come una regina barbara. Semmai il barbaro sono io. – le sorrise, scherzoso. – Ma tu non lo sei di certo. Né tu, né gli altri persiani o indiani. Siete popoli meravigliosi. Tu sei meravigliosa.»
Aggiunse l’ultima frase in un sussurro, come a volerne sottolineare l’intimità.
La vide alzarsi, le sue mani gli cinsero il volto e i suoi occhi lo studiarono. La cicatrice sullo zigomo, sulla coda della palpebra, sul sopracciglio. Il corpo di Alessandro era tappezzato da segnacci di guerra e questo lo rendeva grezzo e maschio.
Lui la guardava trattenendo il fiato, gli occhi gli brillavano come folgori. Quando i loro sguardi infine si incrociarono, lesse negli occhi chiari di Rossane – in quel momento simili all’ambra – tutta la sua innocenza e ingenuità, che gli ricordò quanto lei fosse giovane e preziosa. Si chinò per incontrare le sue labbra. Tiepide, delicate, morbide.
Potevano andare così d’accordo, loro due, in fondo. Perché dovevano continuare ad avvelenarsi? Quanto sarebbe durata quella tregua? Ci voleva una guerra per farli unire così? I loro animi erano inquieti a pensare che era una calma fatiscente, temporanea, perché entrambi sapevano che sarebbe bastato poco a far crollare quel palazzo di vetro. Alternavano attimi di passione ad attimi di tempesta, dalla complicità alla diffidenza, dall’affetto all’odio.




♠ ANGOLO AUTRICE ♠
Boh io sti angoli autrice li "dichiaro" sempre in modi diversi, troverò pace un giorno.
Capitolino di passaggio senza pretese e abbastanza vago, con sprazzi di fashion(?) dell'epoca e romanticherie a caso. Ho voluto spezzare una lancia in favore dell'atto pazzoide di Rossane, per bocca di Cratero. #TeamCraty 
Btw ho fatto ricerche ragazi, su questi argomenti di cui non frega niente a nessuno: il fashion greco e persiano. Ma non vi assicuro che sia proprio vero. O meglio, i persiani avevano il culto del tatuaggio e del piercing, questo sì, ma sotto la dinastia Achemenide... non sono sicura, anche se probabile di sì!
I greci consideravano barbari persino i macedoni, poveracci, che abitavano comunque a nord della Grecia, parlavano il greco e veneravano gli stessi dèi - ma avevano un re quindi... BARBARI!!!11! Quindi immaginate come potevano considerare i persiani. 'Sta cosa mi ha sempre dato un po' fastidio, mannagg. Ateniesi e tebani smorfiosetti (?)

Quindi sì, questo capitolo è un po' così. Un po' generico, un po' di passaggio. Nel prossimo le cose si movimenteranno un pochino, e in ogni caso siamo molto vicini alla fine della spedizione in India! Il ritorno a Babilonia non sarà semplice... e nemmeno pacifico e tranquillo.

Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! Nel frattempo... grazie a tutti ♥
Alla prossima!

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Capitolo 12
*** 11. Yaz-dah ***


۱۱ . Yaz-dah
 
 
Alessandria Nicea, maggio 326 a.C.
 
Per celebrare la vittoria e far rifocillare i soldati dalla sfiancante battaglia e la lunga marcia in India, Alessandro promosse celebrazioni della durata di quattro giorni, festeggiamenti, giochi, sacrifici agli dèi.
Alessandria Nicea era nata da un nucleo cittadino già esistente, le case che vennero costruite erano molto semplici ma ben salde e presto il legno delle pareti sarebbe stato sostituito da mattoni e pietre.
Ma la città già splendeva della luce che emanava il conquistatore macedone. Il suo vessillo, il simbolo della casata reale argeade, era esposto in ogni dove.
Le mense erano state sistemate nella piazza principale della città, mantenendo uno spiazzo centrale per gli spettacoli e i vari intrattenimenti. A ripararli dalla pioggia, era stata montana una gigantesca tettoia in legno che riparava l’intera ampiezza della piazza.
Scorrevano fiumi di vino, cibo pregiatissimo. I soldati ridevano, bevevano, si ubriacavano e si intrattenevano con bellissime donne indiane, concubine di Alessandro, di Ambhi, di Poro, di Abisare - giunto fino a Nicea per onorare il Gran Re con doni propiziatori.
Poi, di punto in bianco, le musiche si facevano più tribali, le “compagne” più audaci… e tutto il banchetto restava intrappolato nell’ebbrezza orgiastica che li trascinava nel baratro come un vortice.
Alessandro non aveva abbandonato il suo posto nemmeno per un momento, durante i festeggiamenti. Beveva con moderazione, rideva e mangiava a sazietà. Quando arrivava il momento di andare a dormire, si alzava e si defilava nella grande casa che, in futuro, avrebbe avuto la funzione di residenza per il futuro governatore di Nicea.
Rossane non aveva assistito alle varie orge. Aveva preferito ritirarsi nella casa e godersi un po’ di pace tra quelle mura. La testa che doleva per il baccano. Restava seduta sul letto, tra le pelli e i teli candidi, e leggeva qualche pergamena oppure ripassava il greco. Quando non udiva più gli ansimi dal piazzale, usciva.
L’aria umida le impregnò le narici di quel suo odoraccio. Le musiche dello spiazzo, proprio di fronte la grande casa, le arrivavano assordanti. Si strinse un po’ nel mantello pesante.
«Non è usanza persiana accoppiarsi in pubblico. – le disse Almas, sospirando, dopo averla affiancata. – Per i greci sembra quasi normalità.»
«Credo che lo facciano solo durante i festeggiamenti.» mormorò Rossane, restando a guardare lo spiazzo dall’alto della scalinata della grande casa.
Era appena uscita, l’aria umida che le si appiccicava alla pelle. L’ultima grande orgia dell’ultimo giorno di festeggiamenti era conclusa. Ogni partecipante si stava dileguando per tornare al proprio posto, gli occhi febbricitanti per l’atto appena consumato.
«E poi chiamano barbari noi.» sospirò di nuovo Almas, quasi rammaricata.
«Ogni popolo ha le sue usanze, bisogna rispettarle anche se non le condividiamo.» rispose semplicemente.
Ricordò le parole di Alessandro. Lui non li considerava barbari, come gli altri greci. Riconosceva l’antichità della cultura persiana, la culla della civiltà posta proprio tra il Tigri e l’Eufrate nel centro del mondo: Babilonia.
Le usanze persiane e zoroastriane risultavano barbariche agli occhi dei greci, e viceversa.
Per esempio, per i persiani bruciare o seppellire i morti era sacrilego: la terra non andava sporcata dai residui del corpo, il fuoco sacro non doveva essere costretto a nutrirsi di quella carne rancida, l’acqua non doveva inquinarsi con il cadavere gettato in un lago o in fiume, e le ceneri non dovevano disperdersi nell’aria e insozzarla. Per questo erano nate le Torri del Silenzio, sulla cui cima venivano posti i cadaveri e lasciati agli avvoltoi e alle intemperie. Anche antichi sovrani avevano avuto la stessa sorte, come Serse, Ciro o Dario.
Questo era considerato barbarico dai greci, ma i zoroastriani avevano un rispetto molto più profondo per la purezza della natura che per un impuro involucro di carne abbandonato, dopo tre giorni, dalla sua stessa anima.
Il corpo era momentaneo e sporco, la natura era eterna e pura. Preferivano preservare quest’ultima, piuttosto che onorare un cadavere con la sepoltura o una pira.
Almas s’adombrò. «Certo, io le rispetto. Sono loro che non rispettano noi e la nostra cultura.»
Rossane le lanciò un’occhiata indecifrabile, ma abbassò presto lo sguardo, e si riavvicinò al tavolo dov’era seduto Alessandro. Almas aveva ragione, ma la regina sapeva che con lui le cose sarebbero cambiate.
Quando la vide, le fece un sorriso e una carezza sul braccio. Portò una coppa d’oro piena di vino alle labbra e bevve un piccolo sorso.
«Ti stai divertendo?» le domandò, mentre davanti a loro venivano eseguiti spettacoli di danza col fuoco.
«Sì e no. – ammise. – Quattro giorni di festeggiamenti intensi sono tantissimi e sfiancanti. Inoltre le orge mi mettono un po’ a disagio.» sussurrò l’ultima frase distogliendo lo sguardo dal suo per l’imbarazzo.
Alessandro ridacchiò. «Mi spiace che ti sia sentita a disagio, la prossima volta che si farà qualcosa che non rientra nella tua cultura, ti avviserò per tempo. Voi siete abituati a fare certe cose in privato, se non vado errato.»
«N-non mettermi in imbarazzo.» Rossane arrossì, e scoppiò a ridere.
Lui la contemplava con l’ombra di un sorriso sulle labbra. Gli piaceva il modo in cui rideva: muoveva appena le spalle e sembrava la risata dei bambini, sincera e genuina. Forse avrebbe dovuto farla ridere più spesso.
La regina si portò un calice di vino alle labbra e bevve un sorso, poi lanciò un’occhiata al suo sposo.
«Cosa?» gli domandò, piano, con un sorrisino imbarazzato.
«Un re non può guardare la sua regina? – le strinse appena la mano. – Partiremo fra tre giorni. Abisare mi ha fatto dono di una cartina geografica che mostra l’India, divisa nelle varie regioni e completa con i fiumi e città. Sarà molto più semplice così.»

«Rani Roshanak.» la chiamò Poro, facendosi largo nello spiazzo.
Era alto come una torre, misurava poco più di due metri d’altezza. L’incarnato scuro, le sopracciglia folte e incurvate in un’espressione arcigna, gli occhi neri come carboni erano profondi e scaltri. Aveva pitture bianche sul viso e un turbante giallo intorno al capo. La barba nera, ispida e ricciuta, che andava a imbiancarsi per l’età.
Era seguito da un servitore basso e paffutello, molto buffo. Che, tuttavia, portava al guinzaglio una tigre.
Chi era rimasto nello spiazzo si diede alla fuga vedendo il grosso animale. Maestoso e letale, esattamente come il territorio in cui viveva: l’India.
«Poro-baga. – il saluto le uscì più come un’esclamazione, si inchinò a baciargli le dita della mano. – Lieta di incontrarvi. Ho saputo dei vostri figli, mi dispiace molto.»
L’omino paffuto fungeva anche da interprete, e traduceva parola per parola tutto ciò che i due si dicevano. Rossane notò quanto le loro lingue si somigliassero in suoni, e anche in alcune parole.
«Non dispiacetevi. Hanno avuto una morte onorevole, cadendo in battaglia. Per un guerriero, non c’è morte più dignitosa.»
Fece un cenno all’omino, invitandolo ad avvicinarsi con la tigre, e tornò a guardare Rossane.
«Al vostro re abbiamo fatto dono di uomini ed elefanti per proseguire l’avanzata verso il Gange. – continuò. – Ma non potevo dimenticare la sua sposa, sarebbe stato irrispettoso da parte mia. Tanto più che si tratta della regina di Persia. Il Gran Re mi ha detto che siete una donna senza paura e di buon cuore, pertanto ho ritenuto opportuno farvi dono di Durga.»
Le presentò la tigre, che nel frattempo si era accomodata docilmente.
Rossane non riusciva a credere di star parlando con lo stesso uomo contro il quale avevano combattuto pochi giorni prima, come se fosse un grande amico. Era così strano.
«È un dono importante, Poro-baga.» commentò, incerta.
Lui sollevò una mano, interrompendola. «Lasciatemi spiegare il perché di tale dono.
Durga significa colei che difficilmente si può avvicinare, e nella nostra religione è una divinità che incarna la shakti, l’energia creativa femminile, ha in sé poteri di distruzione e di creazione. È una dea guerriera che incarna un ruolo prettamente maschile, ma è di una bellezza disarmante. In alcuni testi ha sfumature di carattere più gentili e dolci, in altri letali e spietati e allora prende un altro nome, la chiamiamo Kalì. Di solito è rappresentata mentre brandisce diverse armi e cavalca una tigre. Per questo lei. – indicò l’animale. – è stata chiamata Durga. È nata e cresciuta in cattività, nel mio palazzo, non avete di che temere. È giovane, ha due anni.»
Rossane si scambiò un’occhiata con Alessandro, che assisteva compiaciuto a quel momento e le fece cenno di provare ad avvicinarsi al grosso felino. Lei obbedì, alzandosi in piedi.
L’animale la guardava senza particolare interesse. Il pelo arancione striato di nero era lucente, gli occhi ambrati così simili a quelli della regina. Era più grossa di un leone.
Allungò in mano, Durga l’annusò appena e poi la ignorò. Rossane provò quindi a posarla sul muso della tigre. La bestia la stava praticamente ignorando, e nonostante la pericolosità dell’animale, la ragazza non ne aveva paura. Rincuorata dal disinteresse e dalla crescita in cattività, era sicura che non le potesse fare del male, e nemmeno ne avesse l’interesse.
«Fate attenzione, non avendo le mani, gli animali utilizzano la bocca: tenete sempre a mente che i suoi canini misurano quasi dieci centimetri. Di certo non potrete giocare con lei come se fosse un cane, dovrete sempre tenere in considerazione la sua mole. – continuò Poro, un sorrisetto compiaciuto nascosto dalla barba. – Potrete portarla in città anche tenendola con una corda, per il trasporto potete decidere se lasciarla sciolta oppure metterla in una gabbia, per lei non farà differenza perché vi seguirà comunque. Per quanto riguarda il cibo, se lo procurerà da sola nella giungla, finché siete qui. Quando tornerete a Babilonia, avrà bisogno di mangiare selvaggina cruda. Voi potrete offrirle un po’ d’acqua o un cantuccio asciutto in cui dormire. Vedrete che sarà estremamente fedele e vi proteggerà. Nella nostra cultura, la tigre ha diversi incarichi: porta la pioggia nei periodi di siccità, dona bambini alle donne che non ne hanno e poi li proteggono dagli incubi, guariscono il corpo e l’anima.»
«Conosco le tigri. – mormorò Rossane. – Io vengo dalla Battria, in Sogdiana. Quella zona è piena di tigri dell’Ircania, sono tutte stanziate vicino Al-Khanoum e lungo il corso del fiume Oxus. Ma hanno il muso più schiacciato di queste, hanno il pelo più folto perché si trovano in montagna, e sono coperte da un maggiore strato di grasso.»
«Ne possedete in cattività?»
«Sì. Anche noi ne avevamo una, ma morì di vecchiaia poco dopo la nascita di mia sorella minore. Le tigri non dimenticano chi ha fatto loro del bene e tantomeno chi ha fatto loro del male. – guardava rapita quell’animale maestoso. – Grazie per questo prezioso dono, Poro-baga. Me ne prenderò cura.»
Rossane toccava il capo di Durga, rapita da tanta morbidezza del pelo. Accarezzava l’animale senza timore, senza staccarle gli occhi di dosso. Finché non sentì un tremore, un suono attutito e profondo.
Poro e il servitore scoppiarono a ridere, riferendole che il grosso animale stava facendo le fusa, segno che cominciava ad apprezzare le attenzioni di Rossane.
Lei ridacchiò, fece cenno anche ad Alessandro di raggiungerla e toccare l’animale ma lui scosse la testa con energia. Non amava molto i felini. Anzi per niente, in realtà. Ma era felice che sua moglie avesse ricevuto un dono tanto prezioso, ed era convinto che Durga sarebbe tornata molto utile durante il corso della spedizione.
 
* * * 
 
Con l’arrivo di giugno, le piogge monsoniche si erano fatte più insistenti e incessanti. L’esercito di Alessandro non aveva alcuna intenzione di lasciare Nicea per avventurarsi nelle giungle pericolose dell’India con quel maltempo. Anche se dalla loro avevano una mappa che segnava città e fiumi, non c’erano segnate foreste, paludi o quant’altro. Erano territori sì cartografati, ma dalla dubbia affidabilità anche per gli indiani stessi.
Alessandro dovette fare un appello spassionato per invogliarli a proseguire con la marcia. Gli ellenici e gli indiani fecero sacrifici ai loro dèi di fronte altari, i persiani pregarono Ahura Mazda davanti ad un focolare. Alla fine, con rammarico, l’esercito ricominciò la marcia sotto l’incessante pioggia monsonica.
Sottomettendo civiltà lungo il cammino, Alessandro superò l’Acensine e l’Idraote. Restava solo l’Ifasi da superare e poi avrebbero proseguito verso il Gange.
Il conquistatore macedone vedeva il suo grande disegno prendere corpo, vedeva la sua missione in India giungere al termine. Era praticamente convinto che erano quasi giunti alla fine del mondo conosciuto e che presto avrebbero raggiunto l’estremo Oceano.
Le città che conquistava di solito si arrendevano spontaneamente, esortati da alcuni oratori indiani che Poro, Abisare e Ambhi avevano mandato con Alessandro. Con qualche popolazione dovette marcare la mano, ma senza troppe perdite in nessuna delle due fazioni.

Il problema si presentò a luglio, alle mura della città di Sangala oltre l’Idraote, nel territorio che lo separava dall’Ifasi. La cittadina, abitata dal bellicoso popolo dei Catei, si rifiutò in ogni modo di sottomettersi nonostante gli ottimi oratori che cercavano di persuaderli e rispondevano con dispetti e provocazioni, dalle mura cittadine.
Alessandro in mattinata radunò il consiglio di guerra nella sua tenda, a cui presenziarono i diadochi, gli oratori indiani e il segretario Eumene.
«Perché tanti tentennamenti? Assediamo la città e basta.» fece Efestione con un’alzata di spalle.
«Perché non posso inimicarmi senza motivi validi gli indiani, Efestione. Preferisco non ricorrere subito al colpo ferire e trattare diplomaticamente, prima di calcare la mano. Non c’è proprio verso di farli arrendere?» ci riprovò Alessandro, rivolto poi agli oratori.
Uno di loro, Jandraj, arricciò il naso. «Possiamo riprovare, ma sono molto determinati a non arrendersi.»
Alessandro li mandò di nuovo a trattare, dunque, e restò a fissare le mura della città per il resto del tempo. Si stagliavano grigie ma poco salde, anche se per gli abitanti erano inespugnabili, e nascondevano alla sua vista ciò che accadeva agli oratori e tra i partiti catei. Era sicuro che qualcuno stesse lottando per accettare le condizioni di Alessandro, così come qualcun altro era invece indirizzato verso la guerra.
In serata, dalle mura di Sangala cadde qualcosa.
Efestione andò a controllare di cosa si trattasse e con immenso orrore e rabbia crescente, riferì ad Alessandro che si trattava della testa mozzata di Jandraj. Poco dopo fecero cadere anche il corpo.
Il medico Filippo controllò il povero cadavere e appurò che fosse stato torturato fino alla morte. Gli altri due dovevano essere ancora dentro, in ostaggio.
«Assediamo.» decise il re, alla fine.
Fece preparare le sue truppe in fretta, organizzando le varie armi d’assedio e l’esercito.
«Rossane. – la richiamò, entrando nella tenda e trovandola intenta a leggere. – Devi allontanarti. Stiamo per assediare Sangala e temo che la battaglia possa riversarsi sull’accampamento. Prendi Durga e Artemide, porta Bagoa e Almas se desideri, ma allontanati.»
«Come farò a sapere quando sarà finita?»
«Allontanati verso sud, non troppo. Devi saper tornare indietro e devo riuscire a mandare qualcuno a riprenderti. Capito? – le prese il volto fra le mani. – Ci sono tigri, serpenti, insetti velenosi e coccodrilli. Avrai una scorta, un medico e un corriere.»
Rossane aveva lo sguardo stralunato, posò le mani su quelle di Alessandro.
«Secondo te quanto ci vorrà?»
«Poco. Smonterò quella città mattone dopo mattone.» un’ombra rese più cupo e torbido il suo sguardo.
«Stai attento, ti prego, e non fare pazzie.»
Le schioccò un bacio sulla fronte. «Anche tu. Vai ora, ci vediamo presto.» le fece un’ultima carezza prima di infilare l’elmo ed uscire.
Fuori erano già state preparare le truppe, gli arieti, le baliste, le catapulte.
Non gli piaceva ricorrere alla violenza quando non necessario, ma quei Catei si erano espressi in modo più che eloquente, facendo rotolare la testa e il corpo di Jandraj giù dalle mura cittadine. Doveva ritrovare anche Loknath e Mukul, gli altri due oratori.

 
Rossane preparò le bisacce in fretta e furia, e le legò alla sella di Artemide. Corse a richiamare Almas e Bagoa, seguita a debita distanza da Durga, e quando anche loro si prepararono, partirono verso sud. Il trio improbabile composto da una regina, un’ancella e un eunuco, accompagnati da cavalli e una tigre, e una piccola scorta composta da una decina di uomini, un medico e un corriere, arrivò la mattina dopo in una bella zona a sud in prossimità dell’Idraote.
La pioggia incessante aveva reso fangoso il terreno, quasi paludoso, e i cavalli avevano avuto problemi a procedere al galoppo. Decisero di restare accampati sotto un immenso banyan.
Le foglie erano così fitte che la pioggia scrosciante era ridotta ad un gocciolare quasi impercettibile e il raggio che copriva era discretamente grande, abbastanza da legare i cavalli a qualche radice e proteggerli dalla pioggia.
Cominciarono presto i preparativi per l’accampamento, accendendo piccoli fuochi intorno alle tende per allontanare i serpenti. Durga trovò il suo posto su un ramo robusto e osservava quelle strane creature a due gambe che si muovevano ai piedi dell’albero.
Nonostante fosse mattina, il cielo era oscurato quasi fosse sera. E nonostante si trovassero all’asciutto, l’ambiente era così umido che non riuscivano ad asciugarsi e anzi, con il sudore erano anche appiccaticci.
Il banyan affondava le sue radici fino alle acque del fiume e protendeva i suoi rami fino al centro del corso d’acqua, si sarebbe rivelato un ottimo rifugio per i giorni dell’assedio.
Bagoa offrì strisce di carne essiccata e si sedette vicino ad uno dei falò di fronte la loro tenda.
«Io ci vivrei, in un posto del genere. – se ne uscì l’ancella. – Con la giusta attrezzatura, magari. Non dev’essere tanto male, a contatto con la natura.»
«Tra tigri, serpenti, scimmie dispettose e bestie di ogni genere. Certo, non male.» commentò Bagoa, con amara ironia.
«Beh in fondo di cosa abbiamo bisogno? Di un letto, un focolare e un riparo sulla testa. Un banyan offre tutto ciò. Guarda che bestione di albero. Gli indiani ci fanno piccoli templi sotto queste fronde, ci mettono le loro statuette da idolatrare e i loro doni agli dèi. Vedi? È molto semplice. Si prende ciò che la natura offre, senza snaturarla e deformarla con costruzioni di mattoni.»
«Ma ti prego, Almas! Vuoi dirmi che preferiresti un posto del genere alla comodità dell’harem?»
«Perché no?» borbottò.
«Voi fenici non siete tanto arguti.»
«E voi persiani siete troppo pieni di lussi per capire i piccoli piaceri della natura.» replicò piccata.
«Tu vieni da Tiro, che è una città non poco ricca, non fare la furba!»
«Secondo voi perché hanno deciso di attaccare così di punto in bianco?» domandò d’un tratto Rossane.
«Se non lo sai tu!» esclamò Bagoa.
«Alessandro non mi ha detto niente. Scusa se non sono ancora una divinità capace di leggere nella mente delle persone.» replicò piccata.
«Hanno torturato gli oratori indiani. – rispose Almas, scoccando un’occhiataccia all’eunuco. – Uno di loro è morto e hanno fatto cadere dalle mura prima la testa e poi il corpo del poverino. Gli altri due sono ostaggi, forse avrebbero mandato qualcuno a trattare una tregua, ma il re non mi è sembrato molto disposto a contrattare…»
«Per Zardukhsht! Ma sono animali!» sbottò l’eunuco, indignato.
«Erano andati solo a contrattare la resa un’ultima volta. – mormorò Rossane, stupefatta. – Un gesto estremo del genere… Sono tremendi, questi Catei.»
«Alessandro non è benvoluto in India.» osservò Bagoa, piano.
«Direi di no. Ma non era benvoluto neanche in Persia, eppure è riuscito a conquistarla.» gli fece notare Almas.
«Voi ci credete al suo progetto?» chiese Rossane.
Bagoa rispose senza esitazione. «No.»
Almas invece ci pensò su. «Viste le sue risorse, non è impossibile. Però temo per la durata di questo regno cosmopolita, con culture diverse e popoli diversi.»
«Tu ci credi?»
Rossane sollevò le sopracciglia. «Certo che ci credo. Sarà difficile come dice Almas, ma conosciamo Alessandro, niente sarà impossibile per un uomo come lui.» 





A N G O L O A U T R I C E

Oggi conosciamo Durga, la babus. 
Come ho spiegato, Durga è una dea indù. Però di solito viene rappresentata che cavalca un leone, più raramente la tigre. Vabbè, sta cosa l'ho romanzata.
Le tigri dell'Ircania che nomina Rossane, invece, si sono estinte negli anni '70 o '80, e l'ultimo esemplare era tenuto nello zoo di Berlino - se non erro.
Che sadness.

Sono così pudica (?) che mi imbarazzavo da morire mentre scrivevo dell'orgia, rido. Però per i greci era normale, quindi... 
Sì, faccio sempre paragoni tra la cultura greca e quella persiana perché di fatto con Rossane e Alessandro, si incontrano, scontrano, amalgamano e quant'altro. D'altronde Rossane simboleggiò proprio questo ponte di collegamento tra due culture diverse e quasi opposte. Poi anche Statira e Parisatide, ma Rossane è stata la prima ecco.

Fatemi sapere cosa ne pensate se vi va ♥


NON HO FINITO
MI FACCIO UN PO' DI SPAM

È in corso di pubblicazione (?) e COSTANTE revisione un'altra mia storia. Diversa da questa, ma sempre a tema storico.
Ambientata in Germania tra il 1929 e il 1944. Praticamente copro un lasso di tempo dalla Repubblica di Weimar alla fine della Seconda Guerra Mondiale. È una storia romantica, drammatica, tragica, da strapparsi i capelli , ma soprattutto è una storia vera.

Non si parla di ebrei, né di SS con le crisi di coscienza perché innamorati della prigioniera del KZ.
Si parla di un ragazzo zingaro che fu campione di boxe nel 1933. La parte sportiva della sua vicenda sarà solo per i primi 15-16 capitoli. Poi assisteremo alla sua caduta, a cui erano destinati tutti i rom e sinti nella Germania nazista.
Alcune persone hanno raccontato di Johann Trollmann attraverso libri (Dario Fo, per citarne uno), canzoni, spettacoli teatrali.
Anche io ho voluto farlo perché adoro Trollmann, oltre ad essere stato un pugile amato in tutta la Germania, uno dei più temuti dell'epoca, ha dato anche GROSSI grattacapi ai nazisti semplicemente perché non gliela dava vinta e combatteva, provocava, scherniva.
Ho cominciato a scrivere Wie Blumen pensando alla sua vicenda romantica (ero in un periodo in cui mi sentivo particolarmente melensa) perché mi dicevo: Trollmann era un farfallone, rimorchiava tantissimo, ma cos'aveva sua moglie in più delle altre donne da tenerlo così calamitato?
Lei era di origini cosacche, perciò era considerata una slava, una sub-umana, come lui. Però di lei non si sa nulla eccetto nome, data di nascita e origini appunto. Ho romanzato molto. È stata vicina a lui in anni molto pericolosi e l'ha sposato, gli ha persino dato una figlia, quindi la immagino coraggiosa, innamorata, e anche protettiva. 
VABBE' STOP.
Se vi interessa il genere, se vi interessa in generale e soprattutto se vi va, andate a conoscere Johann e Frieda ♥

Per quanto riguarda Rossane, aggiornerò presto! Intanto, se volete farmi sapere cosa ne pensate, mi farà moto piacere!
Vi avviso sin da ora che il prossimo capitolo sarà smielato, Alessandro e Rossane si chiariranno. TA-TA-TAAAAAN.
Grazie a tutti che seguite questa MIRABOLANTE avventura! Alla prossima ♥

 

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Capitolo 13
*** 12. Davaz-dah ***


Avvertenza:
Capitolo scritto in un momento in cui mi sentivo romantica, scusate per le sdolcinerie (?)
A vostro rischio e pericolo (?).


 
____________________

۱۲ . Davaz-dah
 
 
Pressi dell’Idraote, sud di Sangala.
Luglio 326 a.C.

 
Ormai era diventata consuetudine svegliarsi con il rumore scrosciante della pioggia e con qualche insetto che camminava loro sul viso. Era diventata la normalità.
Si erano ritrovati a fronteggiare strani insetti, serpenti lunghi quasi tre metri attorcigliati sugli alberi, coccodrilli che sentivano il loro territorio invaso e li avevano costretti a salire sul banyan per non essere azzannati. Gli insetti potevano essere affrontati con facilità; ai serpenti però, Rossane era stata costretta a mozzare loro la testa. Erano più pericolosi perché s’insidiavano e non venivano visti, ma Durga li notava. La loro carne risultava persino gustosa. I coccodrilli invece erano un problema. La tigre, dal canto suo, era praticamente indifferente a quel clima disperato, era il suo habitat; al contrario, i cavalli erano sempre piuttosto nervosi. Sentivano il pericolo ovunque, nitrivano, sbuffavano dalle froge, sbattevano i zoccoli sul terreno ammorbidito dall’umidità. Avevano di che mangiare e di che bere, ma era l’ambiente che li rendeva inquieti, e la loro impossibilità a non muoversi più di un raggio ristretto.
In quei giorni furono costretti a cambiare albero. L’Idraote cominciò a straripare, e loro dovettero arrancare nella fanghiglia e nell’acqua melmosa fino ai fianchi per raggiungere i cavalli e allontanarsi dalla zona.
Almas aveva avuto l’idea di segnare i tronchi d’albero staccando loro un pezzo di corteccia, per segnare la strada che avevano percorso dall’accampamento e dunque ritrovarla (e farsi ritrovare) con facilità. E ora che cambiavano posizione, ripeté l’operazione aiutandosi con un pugnale.
Rossane era in ansia per Alessandro. Si chiedeva se stesse bene, se avesse conquistato Sangala.
Per un momento, il lato più pessimista e paranoico di sé la indusse a credere che aveva concluso l’assedio e se ne fosse andato, e che presto anche la scorta sarebbe sparita senza dire niente, lasciando una concubina fenicia, un eunuco troppo innamorato, e una regina impertinente. Tre piccioni con una fava. I giorni passavano, Bagoa ne aveva contati sette, e Rossane era sempre più amareggiata e convinta della sua teoria. Sospirava continuamente, sconsolata, e parlava sempre meno volentieri.
Quando l’Idraote straripò, dovevano sbrigarsi ad abbandonare la zona. Rossane, solitamente ben reattiva, si muoveva lenta. Quasi volesse lasciarsi inghiottire dalla fanghiglia.
La pioggia lavò via la melma fangosa dai loro corpi, e trovarono un banyan più piccolo del precedente, ma funzionale in egual maniera. Si sistemarono lì di nuovo, con Durga che ronzava lì intorno e si accoccolava di tanto in tanto vicino ai focolari. Rossane le accarezzava il capo striato, e le fusa della tigre la rincuoravano un po’.

Il mattino appresso, quando Rossane aprì gli occhi e uscì dalla tenda, l’accampamento ancora dormiva. Trovò un uomo seduto a gambe incrociate sotto le fronde del loro albero. La regina svegliò Almas e Bagoa con un sibilo, e tutti e tre si misero a fissare di nascosto quell’indiano in meditazione.
Era magrissimo, capelli e barba grigi e lunghi, ispidi, un turbante bianco e sporco intorno alla testa e pitture su tutta la fronte fino alle sopracciglia, e anche sugli zigomi e il mento, e sulle mani. Era una pittura che nonostante avesse alcuni punti in cui era più sciolta, sembrava incrostata sulla pelle come un tatuaggio. Teneva gli occhi chiusi.
«Vi vedo.» parlò l’indiano.
Bagoa emise un grido sordo, quell’indiano parlava il persiano.
Rossane si fece avanti. «Buongiorno. Volete una coperta, qualcosa da mangiare?»
«Tu non hai idea di chi sono io, non è vero?»
«Accidenti a questo indiano, lei è la regina!» borbottò Almas in un sussurro, restando nascosta.
«Ti sento, fenicia. – la incalzò. – Di cosa è la regina, questa fanciulla? È così giovane e inesperta.»
«Posso chiedervi chi siete e come ci conoscete?» domandò Rossane, conciliante.
«Oh, le vibrazioni energetiche parlano alla mia anima affannata. Io sono Brahmin e non voglio né le tue coperte né i tuoi viveri. Ho fatto voto di santità e semplicità, rinunciando a tutti i beni materiali per raggiungere l’illuminazione.»
«Venite sempre a pregare qui?» gli domandò ancora, sedendosi vicino a lui nel fango e imitandone la postura a gambe incrociate.
Alcuni dei soldati si erano svegliati, ma Almas aveva fatto loro cenno di tacere e non intervenire.
«Non sto pregando. Sto meditando. C’è un’enorme differenza. – le scoccò un’occhiata in tralice. – No. Sono qui perché sentivo che c’eravate voi. La vostra energia porta presagi di cambiamento, e siete accompagnati da una tigre mentre alloggiate sotto un banyan. Avete dunque, dalla vostra parte, due elementi sacri che propiziano il cambiamento che portate.»
Rossane aggrottò le sopracciglia e sfarfallò le ciglia. Comprese che l’energia di cambiamento di cui parlava Brahmin non era davvero la loro, ma quella di Alessandro che li avvolgeva tutti come un mantello. Come se fossero stati impregnati del suo odore.
La regina fu felice che la tigre e il banyan fossero simboli sacri. Avrebbero accompagnato Alessandro per tutta la spedizione in India come buon auspicio. Il suo disegno prendeva corpo.
Un qualche dio, o forse più di uno, era dalla sua parte.
«Sono ottime notizie queste. Brahmin, vorreste venire all’accampamento con noi? Vorrei che il mio sposo vi conoscesse.»
«E sia.»
 
 

Tre giorni dopo, Perdicca accompagnato da Filippo e Tolomeo, riuscirono a trovare il banyan in cui erano accampati. Tutto grazie alla corteccia che Almas aveva staccato dagli alberi per indicare la strada.
Bagoa si era preso la febbre e Tolomeo fu costretto a caricarlo sul cavallo come un sacco di patate. Rossane notò una certa diffidenza dei soldati verso Brahmin, ma spiegò loro che era una persona di cui fidarsi. E, inoltre, non le sfuggì il modo in cui Perdicca guardava Almas, e come l’ancella guardava lui quando non se ne accorgeva.
Filippo si interessò alle sue condizioni di salute in quell’ambiente avverso per più di una settimana, le chiese di come procedeva la guarigione della costola visto che era prossima alla completa risanazione, e le rivelò che la conquista di Sangala si era rivelata più dura del previsto per via della combattività dei Catei. Le disse in anteprima che avevano preso provvedimenti molto seri, ma che almeno i due oratori indiani erano salvi. Feriti e martoriati dalle torture, ma la loro vita non era in pericolo.

Dopo un giorno di viaggio, arrivarono all’accampamento in una serata in cui non pioveva. Il cielo minacciava pioggia, la luna non si vedeva oltre la fitte coltre di nubi, e l’umidità era sempre la stessa. L’accampamento era in fermento, ma se non altro c’erano pochi feriti. Niente a che vedere con la battaglia dell’Idaspe. Con sorpresa di Rossane, c’erano anche Poro e le sue truppe, più venti elefanti. Ciò che però turbò la regina, fu l’assenza della città. Al suo posto, solo un cumulo di macerie.
Alessandro andò loro incontro. Aveva una piccola garza sul viso e una fasciatura intorno alla coscia.
«Come stai?» gli domandò vedendolo arrivare. Lui le posò un bacio sulla guancia.
«Mi reggo in piedi. – rispose con un sorriso. – E tu?»
Accennò un sorriso. «Sto bene. Avete raso al suolo Sangala. ─ osservò Rossane. – E i suoi abitanti?»
«Ci sono decisioni che possono risultare drastiche, ma purtroppo necessarie.»
«Quindi cosa ne avete fatto di loro?»
«Li abbiamo trucidati, Rossane. Tutti gli oppositori. Il resto sono stati fatti schiavi e portati a Paurava, il regno di Poro, per essere venduti. Eccetto un paio che useremo come testimoni per le prossime città che opporranno resistenza.»
«Avete bruciato i cadaveri?»
Scosse il capo, incerto. «Li abbiamo lasciati sugli alberi, legati, alla mercé delle intemperie.»
La natura ne sarà riconoscente.
«Andiamo a cena, vieni. – la riscosse Alessandro, accarezzandole il braccio. – Abbiamo tanto da raccontarci.»
«C’è una persona che devi conoscere, prima. – gli prese la mano e lo guidò dal santone. – Lui è Brahmin. È un Sadhu indiano, ha rinunciato a tutti i beni materiali per dedicarsi al raggiungimento dell’illuminazione.»
«Dove l’hai trovato? Parla la nostra lingua? O meglio… la tua?» le sorrise, mentre si lasciava trascinare.
«È lui che ha trovato noi, dice che è stato attirato dalla nostra energia di cambiamento unita a quella sacra della tigre e del banyan sotto cui ci eravamo rifugiati. Sa tante cose, Eskandar. Devi parlarci, magari può aiutarti.»
Brahmin si voltò per guardare il condottiero macedone. Fissò i suoi occhi scuri, infossati e cerchiati da una fitta rete di rughe, in quelli eterocromatici del re. Si fissarono a lungo, come se si stessero scambiando parole con lo sguardo.
Dopodiché, Alessandro stampò un bacio tra i capelli di Rossane e si allontanò con Brahmin di qualche passo. Li vide sedersi sulle radici di un banyan poco distante dall’accampamento, restare in silenzio a lungo fin quando il macedone non si decise a parlare.
Ma erano troppo distanti perché lei riuscisse a sentirli, e decise di entrare nella tenda reale per darsi una ripulita e mangiare. Almas le preparò un bagno rinfrescante, nel catino di metallo, poi si premurò della cura dei capelli. Rossane indossò una clamide porpora con ricami floreali d’oro, tenuta con un’elaborata spilla in oro con pietre preziose a forma di uccello esotico. Non si fece preparare la cena, avrebbe atteso il ritorno di Alessandro, si fece portare un vassoio con la frutta tipica dell’India e si mise a mangiucchiarla mentre rileggeva i suoi appunti di greco.

Il sovrano entrò nella tenda dopo che montò il primo turno di guardia.
Era scuro in volto e Rossane lo guardò mentre si toglieva gli schinieri, alla tenue luce delle candele.
Si domandò che cosa gli avesse detto Brahmin.
«Allora, come…»
«Mi hai portato un uccello del malaugurio, Roxane. – la fulminò con un’occhiata, parlandole in greco. – Profetizza fallimento e morte.»
La regina raggelò. «No, non è possibile. Ha detto che tigre e banyan sono simboli sacri e che…»
Il tono di voce incerto, l’accento esotico sulle parole greche… Alessandro s’inteneriva quando la sentiva parlare nella sua lingua. Ammorbidì il tono di voce.
«Ha detto che sono vicino alla fine della mia vita.»
Cominciò ad armeggiare con gli spallacci della corazza.
«Tu ci credi?» gli domandò infine, con cautela.
Le diede le spalle, mentre sistemava i suoi ferri. «Non lo so, ma non è bello sentirselo dire.»
Rossane restò in silenzio, fissando gli appunti che aveva aperti davanti a sé. Inghiottì un fiotto di saliva e li depose vicino al letto; si alzò, la clamide frusciò appena, e lo strinse tra le braccia posando il viso sulla sua schiena fasciata dal chitone militare. Inspirò il suo odore pungente, di terra umida, cuoio, e metallo.
«Di cosa hai paura, Aléxandre?» gli sussurrò, docile.
«Di cosa dovrei averne?»
«Di niente, nemmeno della morte. Ma io sento in te una vaga inquietudine. – posò la fronte sulla schiena compatta del condottiero. – Ti tormenta l’animo. Ha a che fare con il tuo grande progetto?»
Alessandro chiuse gli occhi. «Forse. Ma lo porterò avanti finché vedrò terra davanti a me.»
«Allora cos’è che ti angoscia?»
Parlavano piano, nella penombra della tenda. Nel silenzio dell’accampamento, forse loro erano gli unici svegli.
«Non lo so. – ammise. – Forse l’ansia di non riuscire a concludere questa missione, nonostante la buona volontà.»
«Comunque andrà, tu non fallirai.»

Lo strinse ancora un po’. La dolcezza in quell’abbraccio e in quelle parole semplici ma significative, commossero il re macedone.
Alessandro rimase colpito da quelle parole. Capì in quel momento che, al contrario di altri compagni che cominciavano a considerare il suo progetto irraggiungibile, Rossane riponeva in lui una fiducia incrollabile e una solidarietà totale, nonostante i diverberi e gli scontri più che frequenti.
Aveva cominciato a “temerla” di meno. I sentimenti turbolenti che provava per lei li aveva compresi, e aveva deciso di assecondarli. Quando parlava di lei con i suoi amici, loro si erano accorti che non c’era più quel retrogusto di astio nelle sue parole, ma solo ammirazione e un profondo affetto. Alessandro: impossibile da corrompere, stoico, non si lasciava soggiogare nemmeno dall’amore. Così credeva lui e credevano tutti. Rossane aveva smantellato questa certezza, aveva un forte ascendente su di lui e non lo sapeva nemmeno.
«Per me è importante questo tuo appoggio. Grazie di avere fiducia in me.»
Erano altre le cose per cui Rossane diffidava di Alessandro, ma niente a cui non aveva intenzione di porre rimedio. Aveva deciso che avrebbe aperto il suo cuore.
«Sei un grande uomo. È difficile non fidarsi di te quando si tratta di imprese impossibili.» sorrise, timidamente.
Sapeva che si sarebbe gonfiato come un pavone e che, probabilmente, se ne sarebbe anche approfittato di quel suo cuore così esposto e privo della fortezza di pietra in cui era stato sepolto. Dopo tutto quel tempo insieme, era stanca di giocare a nascondersi e rincorrersi. Era stanca di non dargli fiducia. Magari non era come credeva lei, e si sarebbe preso cura del suo cuore. Doveva solo dargliene la possibilità.
Si guardarono a lungo nella penombra della tenda. La luce soffusa delle candele ammorbidiva i loro corpi, in piedi l’uno di fronte all’altra. I loro occhi si comunicavano tante cose, tante emozioni, mostravano tutti i demoni che affollavano i loro cuori.
Rossane esposta al giudizio di Alessandro. Alessandro esposto al giudizio di Rossane.
Giocavano a carte scoperte ed armi pari, come mai prima d’allora.
«È buffo. – iniziò lui, piano, quasi sorpreso. – Sono un uomo che è partito da un Paese lontano anni fa, con le bisacce piene di convinzioni e progetti. Sono un uomo che ha trovato la donna perfetta per lui ai confini del mondo, in una rocca inespugnabile in mezzo a montagne inospitali. Una meravigliosa rosa piena di spine, in mezzo ai rovi. Questa donna ha messo in discussione buona parte delle mie convinzioni. Mi ha obbligato, senza nemmeno accorgersene, a farmi rivalutare molti concetti con i quali sono cresciuto. E grazie a lei, sono cresciuto ancora. Non ho mai conosciuto una donna così, con un tale potere, e non ho mai provato niente di lontanamente somigliante a quello che provo per lei.»
Le parlò in persiano, per farle comprendere ogni parola. Vedeva i suoi occhi enormi, di un nocciola talmente chiaro da sembrare oro, diventare lucidi e luminosi, brillavano di una luce intensa e vibrante come quella delle stelle. Le labbra si erano schiuse appena, per la sorpresa, ma le sopracciglia restavano immobili e non tradivano emozioni.
Alessandro poteva vedere nel suo sguardo tutte le emozioni che in quel momento affollavano l’animo della sua sposa. Poteva sentire le pareti di pietra del suo cuore che si sbriciolavano e lo invitavano ad entrare nella sua sfera emotiva. Attraverso quegli occhi felini, riusciva finalmente a scorgere il suo inesplorato mondo interiore.
Si rese conto della fragilità di Rossane, della sua fatica per aprirsi in quel modo, del profondo affetto che provava per lui, della sua paura di restare ferita. L’ostrica si era aperta e gli stava rivelando la sua perla. La regina gli stava consegnando le chiavi dello scrigno che conteneva un tesoro prezioso e intangibile.
«Ho fatto un sogno stanotte, molto simile a questo momento. – proseguì. – Ho sognato che ti aprivi a me, completamente, e mi concedevi il tuo amore. Io ti accarezzavo, ti prendevo dolcemente. Da quando siamo insieme, ci siamo avvelenati l’animo a vicenda molto spesso. Ma tu sei cambiata, sei una donna e non più una bambina. Viviamo vedendo la morte cavalcarci al fianco senza che riesca a prenderci, siamo immortali, e certi momenti sono concessi solo agli dèi.»
«La morte dovrà aspettare ancora un po’. – gli fece un piccolo sorriso. ─ Ti guardo e scopro di amarti, odiarti, temerti e commiserarti allo stesso momento.»
Inclinò la testa verso sinistra, come era solito fare, assottigliando lo sguardo per studiarla meglio. «Vuoi sapere cosa scopro io quando ti guardo?»
«Dimmelo.»
Abbozzò un sorriso enigmatico, come se la cosa lo lasciasse più sorpreso di quello che volesse far vedere. «Scopro di amarti, odiarti, temerti e commiserarti allo stesso tempo.»
Rossane sfarfallò le ciglia. Possibile che lei suscitava in lui le stesse sensazioni che Alessandro creava nella ragazza? Forse.
«Perché?»
«Commiserarti perché hai ancora un lato fanciullo, sei ingenua e non hai alcuna esperienza; perché ti sei ritrovata sposata contro la tua volontà con un conquistatore straniero; perché soffri e ti tormenti per la minima cosa, perché sei smaniosa di dimostrare qualcosa a qualcuno e cerchi conferme in ogni gesto. Temerti e odiarti perché mi hai mostrato la tua natura centaura, impulsiva e razionale, indomita; perché mi disobbedisci, mi tieni testa, rispondi colpo su colpo ogni cosa che ti viene detta; perché mi hai dimostrato che non hai paura né di me, né di una guerra. Amarti... Non credo ci sia altro da aggiungere, sul perché.»
Rossane avrebbe voluto soffermarsi per discutere di ogni aspetto che aveva pronunciato Alessandro.
Le sembrò sincero. Bagoa una volta le aveva detto che il re dei macedoni sapeva tutto, vedeva tutto, si accorgeva di tutto. Il suo sguardo indagava nelle profondità dell’animo di chi aveva di fronte e nessuno aveva possibilità di sfuggirgli. Rossane aveva rappresentato per lui una sfida, e aveva faticato un po’ di più per decifrare il suo enigma.
«Perché giacevi con Bagoa invece che con me, allora?» ecco, gliel’aveva domandato di nuovo. Sperò davvero che stavolta lui le desse una risposta concreta.
Rossane si morse il labbro inferiore, Alessandro ci passò il pollice per liberarlo dalla morsa dei denti e fece scorrere le dita fino al mento, afferrandolo con delicatezza e sollevandole il viso.
«Mi facevi paura, così ermetica e impunita. Mi facevi paura tu e queste emozioni che provo per te. Non le avevo mai provate per nessuno. Non sapevo come gestire loro e te, e non riuscivo ad assecondarle. Ma ora è diverso, tu sei qui senza scudo davanti a me e i tuoi occhi brillano come stelle. Non respingermi, non farmi patire negandoti a me. Amami, Rossane.»
La sua voce vibrava di una passione profonda. Rossane alzò gli occhi su di lui, incrociandone lo sguardo, e fu presa da un senso di vertigine quasi avesse guardato un dio.
Fu costretta ad abbassare lo sguardo.
Capiva. Finalmente capiva. E con sua sorpresa, non lo biasimava neppure. Lui si era rifugiato dai sentimenti per lei, come Rossane aveva fatto da lui chiudendo il suo cuore. Alimentati dalle stesse emozioni, avevano reagito in modi diversi. La strada percorsa per arrivare a quel punto del rapporto era stata piena di veleno e piena d’ostacoli. Un tira e molla senza mai tenersi stretti.
Ma i pericoli, le battaglie, le cicatrici, avevano permesso ad entrambi di crescere e maturare.
La regina comprendeva, finalmente, che Alessandro l’amava. A dispetto di quello che aveva sempre pensato, soffrendo per una paranoia tutta sua, lui l’amava.
 L’apertura di Rossane nei suoi confronti l’aveva reso tranquillo e più rilassato. Lei non aveva ancora capito di quanto rischio correva il suo re scendendo sempre sul campo di battaglia. Solo in vista della guerra con Poro si era ritrovata a riflettere sull’eventualità di perderlo e, dunque, fronteggiare il turbinio di emozioni.
E si era resa conto che in una vita così, sempre a rischio, non c’era spazio per l’orgoglio e i capricci infantili. Dovevano godere l’uno della presenza dell’altra, godersi attimo per attimo, perché quello successivo poteva essere fatale. Rossane non aveva voglia di vivere nel rimpianto di non aver vissuto appieno le emozioni, di non aver goduto appieno di una presenza importante e magnifica come quella di Alessandro. Il Re dei Re che aveva scelto lei come sposa, andando contro i consigli dei generali più anziani, andando contro l’idea di sposarsi solo quando avrebbe avuto abbastanza tempo da spendere per scegliere “candidate”, organizzare il matrimonio e quant’altro. Cose che gli avrebbero portato via troppo tempo. Ma aveva sposato lei, scelto lei. Andando contro tutto e tutti con sorpresa dell’intero esercito.
«Lo faccio già da un po’.» sussurrò.
«Perché ti negavi?»
Una strana sensazione si era impadronita di Rossane. Non riusciva a distogliere gli occhi da quelli di Alessandro, e non riusciva a non rispondergli con estrema sincerità. Le parole rotolavano sulla lingua senza che lei ci pensasse su.
«Avevo paura di mostrarti il mio cuore.»
«E ora ne hai?»
«No.»
Le baciò la guancia.
«Tu sei qui contro la tua volontà, sposata con me contro il tuo volere. Ma è passato un anno, mia stella, e dunque dimmi: rimpiangi ancora d’essere mia moglie?» le sussurrò, con le labbra che sfioravano la sua pelle liscia.
Chiuse gli occhi per un istante. «No. Affatto. – ammise. ─ Grazie per aver chiesto a mio padre la mia mano. Grazie per aver scelto me, nonostante tutto. Mamnoon
«Non ho scelto te perché sei la più bella tra le tue sorelle, avrei potuto prendere anche Amu. Ma lei non aveva il tuo sguardo quella sera alla Rocca. Fiero e nobile, sfavillava come fuoco. Mi ha profondamente colpito. Poi, nel giardino interno, ho conosciuto il tuo attraente cipiglio.» strofinò il naso su quello di Rossane.
Lei si morse il labbro con un sorriso. «Tu odi il mio cipiglio.»
«Lo amo anche. – replicò distratto, mentre le sganciava la spilla lasciando cadere la clamide a terra. – Ti amo, ti odio, ti temo, ti compatisco. Come faccio a dare un nome a questo insieme di sensazioni? Mi fai arrabbiare, mi disobbedisci, mi supporti, mi addolcisci, mi sfidi, mi contraddici, mi fai diventare folle. Ma mai, mai dico, ti cambierei, sostituirei o rinuncerei a te.»
La prese tra le braccia come fosse una bambina e la sollevò da terra.
«Forse dovresti smetterla: il mio ego comincia un po’ a gonfiarsi, sire.» ridacchiò, mentre lui la stendeva sul giaciglio con dolcezza.
Alessandro sorrise, arricciando il naso. La baciò sulle labbra esprimendo per lei tutto il delicato e puro affetto che provava nei suoi confronti. Tutta la fame insaziabile, tutta le sete inestinguibile, che aveva per la sua regina. Le sue labbra scesero a baciarle il collo, il seno, il ventre, l’inguine.
«Hai ragione. Basta con le parole. Certi momenti sono riservati solo agli dèi, e noi ora siamo dèi. Stanotte e negli anni a venire… amami.»




 
* * * * *

Adesso potete fare i test per controllare se avete il diabete oppure no.
RAGAZZI IO SONO UNA ROMANTICONA però a volte sfocio nel melenso TIPO IN QUESTO CASO.
Ciancio alle bande(?), anche se questo capitolo è sdolcinato, ho voluto comunque trovare uno spazio per permettere ai due di chiarirsi e capirsi. Non credete che sia tutto sistemato tra i due, niente peace&love o altre robe del genere. Perché sappiamo tutti cosa accadrà a Susa. Oppure cosa potrei far accadere io prima ehehe quindi non stendetevi sugli allori :^)
Ci tenevo comunque a postare questo capitolo perché da ora, nonostante ci saranno altri diverberi, i due ora si capiscono e si può dire che si conoscano anche meglio. Perciò ci sarà una base solida del loro rapporto, e non più instabile come prima.
Il prossimo capitolo invece sarà più sulla situazione generale della spedizione e seguiremo più Alessandro, che Rossane, perché faremo dietrofront.

Spazio social (?):
potete trovarmi anche su Wattpad oppure su Instagram, per chi ha i profili in quelle due piattaforme. Altrimenti, per qualsiasi cosa, messaggio privato e via ;^)

Okay questo è quanto. Se vi va lasciate una recensione, io come sempre vi ringrazio per la pazienza, che seguite questa mirabolante storiella!
A presto ♥

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Capitolo 14
*** 13. Seez-dah ***


۱۳ . Seez-dah

 
 
Roshanak alla sorella Amu – Salve, sorella!
Mentre ti scrivo, siamo nelle foreste dell’India. L’aria è umida, afosa, irrespirabile. Il territorio tra i fiumi è paludoso, arranchiamo con la melma fino ai polpacci. Stare sui cavalli risulta difficile. Gli attacchi di serpenti, lunghi quasi tre metri, e insetti giganteschi sembrano all’ordine del giorno. I coccodrilli sembrano più schivi, ma non sono rari i loro attacchi. Le tigri non frequentano questi luoghi paludosi, eccetto la mia s’intende. Ho ricevuto in dono una tigre, prima era di proprietà di un rajah locale ma ha deciso di farmela in dono. Da quanto ho capito ne ha altre tre! Si chiama Durga, ed è davvero importante la sua presenza dell’accampamento. Ci protegge, tiene lontani i coccodrilli quando tentano di attaccare. Se si trova nei paraggi, scaccia pure i serpenti.
Siamo un impero in movimento, Amu: ci sono storici, artisti, attori, prostitute, medici, mogli e figli di soldati, cuochi. È sfiancante, ma è… divertente.
Spesso ci imbattiamo nelle scimmie, di ogni colore e dimensione. Sono dispettose, a volte ci rubano il cibo dalle mani oppure ci imitano in ogni comportamento. Sono buffe!
Questo esercito è pieno di animali: tra le scimmie che ci seguono, una tigre, cavalli, cani, settanta elefanti, non ci facciamo mancare nulla! Alessandro dice che siamo prossimi a raggiungere l’Oceano, ma è da confermare poiché gli esploratori devono ancora tornare. Quando terminerà la conquista dell’India e torneremo indietro, per raggiungere Babilonia, ti farò visita a Susa. Ma raccontami: com’è la città? Con Kassìm invece come procedono i rapporti? Mi auguro che abbiate risolto i diverberi.
Mi auguro che questa lettera ti raggiunga presto e che anche la tua risposta mi arrivi per tempo.
Su col morale, riguardati!

 
 
L’avvicinamento all’Ifasi si rivelò tristemente sempre più letale. Le armi e le armature marcivano sotto le piogge monsoniche, i soldati si ammalavano di febbre o di altre malattie sconosciute spesso provocate dal morso di insetti. L’Idraote e l’Ifasi, straripando, avevano creato nel territorio di mezzo un’enorme palude che aumentava la proliferazioni di serpenti, insetti, ma anche di coccodrilli. Per proteggersi dalla natura ostile, i medici indiani si adoperarono con la preparazione di speciali unguenti e medicinali ricavati da erbe. Per i serpenti avevano trovato rimedio accendendo fuochi intorno all’accampamento.
L’esercito avanzava con il terreno melmoso fino ai polpacci, la vegetazione fitta rendeva difficile il cammino. Alessandro non si fermava un secondo: avanzava, a testa bassa come un toro, sotto la pioggia e le intemperie. Si faceva strada nella giungla mulinando la spada, faceva avanti e indietro tra le sue fila per soccorrere chi cadeva ed esortare chi era stanco.
Rossane procedeva sollevando faticosamente i piedi per poi riaffondarli nel fango. Teneva Artemide per le briglie e spesso era costretta a tirarla un po’ più forte per liberarla dalla melma in cui la sua maestosa giumenta era affondata. Durga procedeva vicino alla regina, a passo lento: ormai i soldati si erano abituati alla sua presenza, nonostante ne avessero ancora un po’ timore.
Di tanto in tanto, Alessandro arrivava vicino alla moglie e si assicurava che andasse tutto bene: come respirava, se avesse dolori, se fosse stanca. Rossane gli sorrideva e scuoteva la testa, si lamentava un po’ della fanghiglia, ma procedeva senza tante scene.
Una sera l’aveva punta un insetto strano, ma a parte il bubbone che si era formato sull’avambraccio, non le provocò alcun danno. Filippo comunque lo sgonfiò incidendo la pelle con una lama sottile, e bendò la ferita: «Tutte a te capitano!»
Alla fine avevano raggiunto l’Ifasi. L’accampamento venne montato in prossimità delle sue sponde.
Gli esploratori indiani dissero che aveva già straripato e il suo livello d’acqua era stabile, non avrebbero rischiato d’essere inondati tanto presto. Giusto il tempo di organizzare il necessario per la costruzione di barche e oltrepassarlo indisturbati.
Montarono l’accampamento con tranquillità, sistemando pedane di legno in cui sarebbero state posizionate le tende per creare una pavimentazione, e non posare letti e mobilia nel fango.
Il mattino a seguire tornarono dalle spedizioni in avanscoperta gli esploratori che Alessandro aveva mandato qualche tempo prima. Li accolse nella sua tenda, offrì loro cibo e vino, e per ultimo domandò cosa avessero scoperto.
«Un messaggio da parte di un principe indiano, sire.» disse un persiano, in un greco un po’ arrangiato, mentre gli porgeva una picca pergamena arrotolata.
«È tutto?»
«È tutto.»
«Grazie. Potete andare.»
Gli esploratori si congedarono, lasciando il sovrano a leggere la curiosa lettera da parte di quel principe indiano.

 
Principe Fegeo, signore della valle del Kangra, al re Alessandro, sovrano dell’Impero Persiano – Salve!
La notizia di un conquistatore straniero, d’incredibile forza e abilità capace di piegare un impero vasto come quello dei persiani dalla lontana Grecia, è giunta fino alle mie orecchie.
È un vero onore poter fare, anche se via epistolare, la vostra conoscenza. So che siete un uomo dal grande ingegno e pieno di strategia militare, munito di un vasto bagaglio culturale ed una sapienza invidiabile. Vi rispetto.
Mi presento a dovere: sono il principe Fegeo. Il mio regno si trova nella valle del Kangra, ed è posto esattamente dopo l’Ifasi, che so che voi siete intenzionato ad attraversare per giungere al Gange.
Mi permetto, in nome della mia stima per voi, di illustrarvi i lati negativi della vostra scelta di arrivare all’ultimo fiume dell’India.

Alessandro sorseggiò del vino, mentre si metteva a leggere tutta la pericolosità dei territori oltre l’Ifasi. Invivibili, inospitali, letali, anche più del Punjab. Lo informò della pericolosità del popolo dei Nanda, comandati dal rajah Magadha, e dei Gandaridi. Entrambe le popolazioni erano capaci di schierare un numero di soldati e, soprattutto, di elefanti, molto superiore a quello che aveva messo in campo Poro.
Ma il principe Fageo menzionava, tra gli altri popoli oltre l’Ifasi, anche società estremamente ricche e ben amministrate, forti nella guerra come pochi. La voglia di misurarsi con loro, per Alessandro, era elevata.

Fece radunare il consiglio di guerra sotto la sua tenda, a cui presenziarono Efestione, Cratero, Perdicca, Lisimmaco, Leonnato, Seleuco, Tolomeo, Cassandro e il segretario generale Eumene.
Lesse loro la lettera di Fageo, per sentirne i pareri.
«Vuoi il mio parere sincero? – fece Efestione, serio. – Questo Fageo è un ruffiano. Si caga sotto, ha paura che tu lo possa invadere e sottomettere come hai fatto con Poro e l’Impero Persiano.»
«Forse. – sorrise Alessandro, per la schiettezza dell’amico. – Ma per il resto?»
«Tu che vuoi fare?» gli domandò Tolomeo.
«Se voi siete con me, avanziamo.»
«Di soldi per farlo ne abbiamo.» Eumene alzò le spalle.
«Eumene pensa sempre ai soldi! – esclamò Leonnato. – Appena torneremo a Babilonia, voglio che sia tu a pagarmi il vino e le puttane!»
Seleuco gli mollò uno scappellotto sul capo, su cui ricci color rame si annodavano e gonfiavano dandogli l’aspetto di un leone.
«Alessandro. – lo richiamò Cratero, serio. – Fosse per noi, ti seguiremmo ovunque. Ma in tutta franchezza, con l’esercito di ora… io non avanzerei. Tantomeno se ad aspettarci ci sono eserciti ben più numerosi e letali di quello di Poro. Non dimentichiamo la carneficina sull’Idaspe, per quei maledetti elefanti. Lui poteva schierarne duecento, questo rajah Magadha e i Gandaridi, se possono schierarne di più, quanti ne metteranno in campo? Mille? L’esercito è stanco, distrutto, ridotto a pezzi. Arrancano nel fango, sotto le piogge ininterrotte, hanno combattuto battaglie dure in questi ambienti inospitali e sottomesso settanta città. Non ne possono più.»
«Ho vissuto i loro stessi disagi.» protestò il re.
«Ma tu sei Alessandro. Nessuno ha la tua forza vitale, la tua energia inarrestabile. Loro sono solo uomini. L’esperienza con Poro li avrà segnati, ma non credo che sia la guerra ciò che fa loro paura. Si sono spinti fino ai confini del mondo per realizzare il tuo sogno. Quanti ne sono morti? Quanti sono morti per malattia, oppure uccisi dai mostri qui fuori? È questa natura avversa che fa loro paura. E l’angoscia è amplificata dal fatto che sono anni che non tornano a casa dalle loro mogli, i loro figli, dai loro nipoti. Molti di loro sono nonni e non lo sanno neppure! Ti basta guardarli, Alessandro, per capire. Riportali a casa.»


 
Alessandro radunò l’esercito, tentò per l’ultima volta di persuaderli a continuare. Ma nemmeno il suo carisma e la sua eloquenza bastarono per convincerli, ormai logorati da anni di fatiche e spaventati dalla prospettiva di non tornare mai più a casa. Per bocca del generale Ceno, venne comunicata l’intenzione di non proseguire per i motivi esposti anche da Cratero in consiglio di guerra. Se Alessandro voleva arrivare al Gange, poteva contare solo sulle forze asiatiche.
Per tre giorni restò chiuso nella sua tenda a meditare, inaccessibile a tutti.

Rossane, in pensiero per quel comportamento, tentò di fargli visita. Le guardie poste all’entrata le sbarrarono la strada.
«Mi dispiace, mia regina. Il re non vuole vedere nessuno.»
«Questo lo so. – mugugnò. – Come sta? Sapreste dirmelo almeno?»
«Fatela passare, è pur sempre mia moglie e la vostra regina.» ordinò Alessandro, da dentro la tenda.
Le guardie le diedero il via libera, e lei entrò timidamente nella sontuosa tenda del sovrano.
Teli decorati di disegni e ricami floreali dividevano i vari ambienti, tutt’intorno c’erano travi in legno intagliato che sorreggevano la struttura.
L’ambiente in cui si ritrovò Rossane era la sala che il re usava per i pasti e per le riunioni. Poi c’erano la “stanza” da letto, e quella per il bagno.
Alessandro era su uno sgabello e leggeva alcuni rotoli di pergamena scritti in greco.
«Cosa leggi?» domandò, sinceramente interessata, mentre si sedeva a gambe incrociate ai suoi piedi. Quasi fosse una bambina in attesa di farsi leggere una storia.
Alessandro la guardò con occhi stanchi, segnati dall’insonnia, ma le sorrise comunque.
«L’India, di Ctesia. Qui descrive la flora e la fauna, e parla di creature assurde come tigri dai volti umani e tribù di cinocefali. A me non risulta d’averli incontrati, e a te?»
Rossane sorrise, vagamente divertita. «Io ne ho visti un paio, di cinocefali.»
«Hai visto più cose di me, dunque. Non lo accetto mica.»
Posò le pergamene sullo scrittoio che aveva di fianco, tenendo il segno con un pugnale. Poi la sua attenzione si concentrò di nuovo su di lei.
«Come stai?» gli domandò, precedendolo.
«Sono un po’ affranto.» e non si dilungò oltre.
Rossane incrociò i suoi occhi torbidi ed ebbe l’impressione di affacciarsi su un mondo sconosciuto, ultraterreno.
«Volevo vedere come stavi… vuoi che vada via, se vuoi restare ancora solo?» gli domandò, cauta.
«Io ti voglio per me. Resta, la tua presenza mi fa bene.»
«Anche se dovessi fare domande curiose?»
«Sì, certamente. Prendi qualcosa da mangiare o da bere, se vuoi, e rimani. – sorrise. – Quali domande vuoi farmi?»
Lei si mosse nervosa sul pavimento di legno coperto da tappeti persiani.
«Io lo so che per uomini come te, ciò che hanno non è abbastanza. O meglio, magari non è quello che vogliono davvero. Io credo che a te importi relativamente della ricchezza persiana, che per te è solo il mezzo per finanziare le tue campagne e i tuoi soldati, che il tuo unico obbiettivo è conoscere. E mi chiedo… perché? È solo per curiosità che stai rischiando tutto questo?»
Alessandro la soppesò con gli occhi, inclinando la testa a sinistra mentre cercava le parole adatte per risponderle.
«Finché ci saranno confini e barriere, lingue e costumi diversi, divinità e credenze differenti, non si avrà mai la pace. Io ho sempre desiderato sapere cosa c’è oltre l’alba e il tramonto, dove finisse il sole. Voglio giungere vicino agli dèi, superare chi mi ha preceduto e non permettere a chi mi succederà, di eguagliarmi o superarmi facilmente. Non voglio essere un’ombra inghiottita nell’Ade, quando verrà il mio momento.»
«L’Ade?»
«L’Oltretomba.»
Rossane studiò quelle parole con diversa attenzione. «Non credo accadrà mai. – disse, infine. – Nemmeno il mio popolo si è mai spinto tanto lontano in così pochi anni. Tu hai rivoluzionato le nostre vite, nel bene e nel male. Hai fuso due culture profondamente diverse, dimostrando che con la buona volontà possono coesistere e amalgamarsi. La tua stella brillerà anche nell’Ade.»
Alessandro sospirò. «La stella che brilla più splendente, è destinata a spegnersi per prima.»
«Ma tutti ne ricorderanno la luce.» replicò, senza batter ciglio.
Il condottiero le versò dell’acqua in una coppa d’oro, sapendo quanto poco sua moglie amasse il vino. Lei lo ringraziò con un sorriso affettuoso.
Amava Rossane. Amava la sua fiducia cieca e la sua solidarietà incrollabile, e amava il fatto che non si comportasse così solo perché era il Gran Re. Quando c’era qualcosa che non le stava bene lo diceva. Il suo appoggio e il suo disappunto erano sinceri, e Alessandro apprezzava più di ogni altra cosa quell’onestà.
«Cosa ne pensi di ciò che ha espresso l’esercito?» le domandò, sinceramente incuriosito da cosa pensasse lei di quella situazione.
«Li compatisco, e a mio parere hanno ragione a non voler continuare. Sono lontani da casa da tanti anni e qui la natura è avversa. Le mogli e i figli conducono gli uomini a casa. – gli sorrise, timidamente. ─ Ma se vuoi possiamo andare avanti io e te, a scoprire cosa c’è oltre quel fiume.»
«Menomale che mia moglie è con me. – ricambiò il sorriso. ─ Non posso e non voglio andare avanti senza il mio esercito. Consulterò gli dèi.»
«Quasi mi dispiace tornare. – ammise. – Il primo giorno a Babilonia sarà bellissimo. Ma il giorno dopo mi fa un po’ paura. Tutto questo mi mancherà.»
Oh, e Alessandro amava anche quel silente spirito avventuriero della sua sposa. Quel suo muto “Andiamo avanti, vediamo cosa c’è prima dell’alba e oltre il tramonto”. Quella sua grinta, quella sua curiosità, quella sua assenza di paura nel conoscere nuove realtà, che la accumunava a lui.
Rossane non aveva mai espresso a voce questo aspetto del suo carattere, eppure in situazioni del genere gli sembrava così evidente.
Le sarebbe mancata quella vita che, nonostante i pericoli e le avversità estreme, la faceva sentire viva. Le ricordava che stava vivendo, e non si limitava ad esistere.
«Anche a me il giorno dopo fa paura. – le confessò con un sorriso. – Per questo non volevo fermarmi, dovevo oltrepassarlo.»
Rossane non era sicura d’aver capito il senso di ciò che le aveva detto Alessandro. Lui si chinò su di lei, sporgendosi dallo sgabello, le prese il viso fra le mani e con i pollici ruvidi le accarezzò gli zigomi. Si sentì avvampare ma non volle distogliere le sguardo, e nemmeno il re voleva che lei lo distogliesse.
«Noi resteremo insieme il giorno dopo, e quello dopo ancora. Così avremo meno paura.»
 
 

Il quarto giorno, Alessandro cedette: cercò di capire la volontà degli dèi. Fece sacrificare degli animali, studiare le loro viscere e il volo degli uccelli. Chiese ad alcune donne del campo, tra cui Almas, ti effettuare i loro rituali di divinazione.
In tutto ci vollero due intensi giorni dedicati ai segni degli dèi e del destino. Sotto l’occhio attento di Brahmin, tutto si svolgeva cercando il contatto con il divino e il suo disegno.
Al tramontare del secondo giorno, il santone si recò alla tenda del sovrano.
«E dunque?» indagò Alessandro.
«Gli dèi sono contrari al proseguimento di questa spedizione.»
Il re si adombrò e restò in silenzio. Brahmin capì che doveva dileguarsi, tuttavia venne fermato:
«Hai avuto altre… visioni?»
Il santone accennò un debole sorriso. «Non sono visioni. È l’eco dell’energia, del filo del destino che ci unisce tutti. Ricevo sempre lo stesso da circa dieci anni.»
«Da quando ho cominciato la mia conquista in Oriente.» osservò Alessandro, indecifrabile.
«Ed è sempre lo stesso suono, lo stesso eco, che preannuncia la tua ascesa e la tua caduta.»
«In che modo avverrà?» indagò.
«Non posso saperlo e a te non è dato conoscerlo. Non puoi cercare di scoprirlo per impedire al fato di fare il suo corso, non ha senso rimandarlo. Più lo rimandi, più si riempirà di ciottoli, come un fiume, e allora se la tua fine doveva essere mite, diverrà torbida. Lascia che il destino faccia il suo corso, non tentare di deviarlo.»
«Quanto è vicina la mia caduta?»
«Molto vicina, ma forse più lontana di quanto credi.»
«Questa non è una risposta.» replicò.
Brahmin accennò un sorriso. «Ognuno ha la sua concezione del tempo, Alessandro.» e uscì.
Decise di accantonare le premonizioni del santone, e dedicarsi al ritorno a Babilonia.
Risultava chiaro, ormai, che la spedizione non poteva più essere portata avanti. I soldati si ammutinavano e gli dèi erano contrari. Sarebbe tornato alla capitale e avrebbe cominciato a guidare il suo impero, in attesa dei preparativi per una prossima campagna militare.

Dopo che Brahmin si fu congedato, Alessandro fece radunare l’esercito di fronte alla sua tenda.
Il cielo si dipingeva di rosso e d’arancio, alle loro spalle il manto di Nyx cominciava ad avvolgere il mondo che dovevano vedere e conquistare, tutte le terre al di là dell’Ifasi. L’estremo Oriente.
«Mi hanno detto che non volete più andare avanti. – esordì, la voce vibrava alta verso il cielo. – Io so che in cuor vostro volete proseguire, perché bruciate di curiosità e di voglia d’avventura, perché l’euforia della battaglia è come la droga più potente di cui nessuno di noi, volente o nolente, potrà più farne a meno. Ma siamo uomini, non dèi, e pertanto ci stanchiamo. I nostri desideri e il nostro cuore sono dove c’è la nostra casa, la nostra famiglia, e un filo ci tira sempre più forte verso di loro con l’aumentare della distanza. – prese una lunga pausa a effetto. – Ho interrogato gli dèi, per conoscere il loro volere in merito a questa spedizione. Per sapere se sia meglio proseguire o desistere. Si sono rivelati sfavorevoli al proseguimento e ci invitano a tornare a casa. In Macedonia, in Persia, in Egitto, ovunque essa sia. Perciò torniamo, uomini. Torniamo!»
Al contrario di quanto si sarebbe aspettato, nessuno festeggiò o urlò di gioia. Le fila dell’esercito erano avvolte nella silenziosa commozione. Alessandro vide qualcuno di loro piangere, sorridere, darsi pacche composte. L’unica battaglia che il loro ambizioso re aveva perso, era quella contro il suo esercito.

Quella sera, dopo che montò il primo turno di guardia e il campo era tra le braccia di Morfeo, il re sgattaiolò fuori dalla sua tenda e si diresse sulle sponde dell’Ifasi. La luna faceva capolino di tanto in tanto dalle nuvole, con i suoi raggi d’argento, e le acque torbide del fiume gorgogliavano per la forte corrente. Alessandro camminò nel fango delle sue rive, fino a trovare posto tra le radici di un grosso banyan. Lì si sedette e fissò l’oscurità e le ombre degli alberi oltre il fiume.
Quante cose c’erano da vedere, da scoprire, le popolazioni da incontrare, culture da apprendere, quante meraviglie ancora prima della fine del mondo. In cuor suo, sapeva che non le avrebbe mai viste.
E pianse.








Ebbene eccoci alla fine della spedizione in India! Vedremo che non è proprio terminata, poiché ora dovranno riprendere la strada del ritorno utilizzando il corso dei fiumi e dell'Indo per raggiungere l'Oceano. Poi ci sarà una scissione dell'esercito.
VABBÈ. In questo capitolo un po' più corto rispetto agli altri, ho raccontato la situazione generale soffermandomi un po' di più su Alessandro che su Rossane.  Penso che sia stato uno dei momenti più dolorosi e frustranti della sua vita, questo. Ma, ahimé, necessario. Nemmeno Alessandro il Grande poteva ottenere sempre tutto quello che voleva! Hahahah

Il 14esimo capitolo potrebbe tardare un po' ad arrivare. Non ce l'ho pronto, devo finire di scriverlo e purtroppo non sono particolarmente ispirata. Ma risolvo presto, so io come aizzare 'sta fiamma eheh (?)

Come sempre io vi ringrazio tutti, lettori silenziosi e recensori, che seguite così attivamente questa storia. Non avrei mai pensato che avrebbe riscontrato questo discreto successo, sinceramente. Che non è molto, ma più di quanto mi aspettassi, appunto! xD
Ordunque (?) io vi auguro una buona serata e una buona settimana!
Alla prossima ♥

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Capitolo 15
*** 14. Chahar-dah ***



۱۴ . Chahar-dah
 
 
Alessandro fece costruire dodici enormi altari in legno in onore agli dèi che l’avevano accompagnato in India, e li allineò lungo la sponda dell’Ifasi, lasciandoli a guardare instancabilmente l’altra sponda del fiume. Suggestiva la visione dei loro volti scuri che sbucavano tra le fronde degli alberi, i loro corpi che sparivano nel fogliame dei banyan.

Dispose il viaggio di ritorno verso l’Idaspe. Qui mandò un’ambasceria a riconfermare i loro ruoli di rajah ad Abisare, Poro e Ambhi, facendo loro dono di alcune concubine macedoni: sicuramente un bene di un certo valore, in quanto completamente diverse dalle donne indiane, con i loro capelli biondi o rossi, la pelle di porcellana e gli occhi chiari.
In cambio, i tre sovrani fornirono al sovrano la manodopera necessaria per la costruzione delle navi, per percorrere il corso dei fiumi.
Con l’ammiraglio Nearco dispose che avrebbero percorso l’Idaspe fino alla confluenza con l’Acensine, e l’Acensine fino alla confluenza con l’Indo.
Non aveva persuaso i suoi uomini a proseguire la marcia oltre l’Ifasi, ma in un modo o nell’altro volva raggiungere l’Oceano e verificare se esistesse una rotta navale che collegasse l’India al Golfo Persico e all’Egitto. Uno dei suoi obbiettivi l’avrebbe raggiunto comunque.

Durante la costruzione della flotta, che fu preparata in tempi brevi, sostarono ad Alessandria Nicea.
Qui morì il generale Ceno, valoroso veterano che alla battaglia contro Poro diede un importante contributo per l’esito dello scontro. I medici indiani non avevano abbastanza conoscenze mediche per guarire una tale malattia, e il medico macedone Filippo non disponeva di risorse necessarie né nelle dispense mediche dell’esercito né poteva contare sui rifornimenti degli indiani. Tentarono comunque di salvarlo, ma senza successo. Alessandro tributò per lui gloriosi funerali che durarono tre giorni.

Quando terminarono i preparativi, cominciarono la discesa dell’Idaspe. L’esercito venne tripartito: una parte comandata da Cratero, percorreva la riva destra del fiume; le altre due, sulla riva sinistra, erano comandate rispettivamente da Efestione e Tolomeo. Il resto seguiva Alessandro lungo il corso del fiume.
La marcia fungeva da perlustrazione puntigliosa, una sorta di rastrellamento via fiume e via terra, per sottomettere pacificamente o meno tutte le popolazioni che incontravano.
Alla confluenza con l’Acensine, l’esercito si riunì.
Qui vennero inoltre raggiunti dai supporti europei: ventimila soldati greci e macedoni ben addestrati, medicinali e attrezzature mediche, armi e armature nuove, abiti puliti.
L’ammiraglio Nearco diede ordine di far costruire ulteriori navi per il carico dell’esercito. L’accampamento venne montato sulla riva occidentale dell’Acensine.

Le piogge monsoniche avevano smesso di tormentarli e i soldati erano di ottimo umore. Scherzavano tra loro, ridevano, bevevano, si intrattenevano con le concubine. La vittima preferita dei diadochi era senz’altro il povero segretario Eumene. Impettito nella sua corazza, pur non essendo un soldato, si aggirava nell’accampamento e teneva tutto cotto controllo.
Con le belle giornate, qualcuno di soldati si buttava nell’Acensine. E guai se Eumene si avvicinava, veniva spinto in acqua oppure lo inzuppavano dalla testa ai piedi tendendogli agguati.
Il segretario a volte andava a lamentarsi con Alessandro, tutto fradicio, ma il re si limitava a scoppiare a ridere e canzonarlo dicendogli che sembrava un polletto bagnato. «Dai, signor segretario generale, non te la prendere! Sono ragazzacci. Con questa bell’armatura, potresti anche bacchettarli.»
«Ti ci metti pure tu?»
E Alessandro continuava a ridere.
Rossane, dal canto suo, aveva scoperto che la nave proprio non faceva per lei. I primi giorni di navigazione era stata così male che Alessandro le propose di unirsi ad una delle truppe a terra. Lei si era accodata a Cratero, approfittandone per prendere altre lezioni di spada.
Non riusciva a stare sulla nave: nausea, vertigini, persino se stava sdraiata. La flotta aveva attraversato un punto di rapide, vicini alla confluenza con l’Acensine, e Rossane fu davvero lieta di non trovarsi a bordo in quel momento.
Con il passare dei giorni, pensava sempre di più a Babilonia. Le sembrava di star tornando alla vita che faceva ad Al-Khanoum, tra gli sfarzi e i lussi. Anche se, stavolta, sarebbero triplicati: la capitale battriana era un’umile cittadina di montagna, fondamentalmente, non aveva niente a che fare con la sfavillante Babilonia.
Rossane la sognava. Sognava le porte di Ishtar, con i suoi colori cobalto e i bassorilievi in oro dei leoni e i buoi alati; sognava le ziqqurat, in particolare l’Etemenanki, edificata dallo stesso Hammurabi; immaginava i meravigliosi giardini pensili, i loro colori, e di come sarebbe stato meraviglioso camminarci.
Li disegnava, disegnava ciò che immaginava sperando che la realtà superasse l’aspettativa.

Quella sera Alessandro la osservava intenta a tracciare su una pergamena la sua fantasia. La guardava rapito, seduto vicino a lei, mentre la regina riportava su carta la sua visione dei giardini pensili.
«Sono un po’ diversi da così. – le sorrise. – Amerai Babilonia.»
«Sono meglio o peggio di come li immagino?» gli domandò, lanciandogli un’occhiata.
«Molto meglio. – le incastrò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. – Si dice che la regina Amytis, proveniente dalla verdeggiante e montuosa Media, fosse così triste per la nostalgia della sua terra, che Nabucodonosor volle replicare a modo suo quei monti, per renderla di nuovo felice.»
Rossane lo guardò con attenzione, smettendo di disegnare. «Tu per me lo faresti? Anche io vengo da una zona di montagna.»
«Io per te creerei un’intera catena montuosa con terra e sassi, alberi e fiori.» le baciò la guancia.
Rossane arrossì, facendolo sorridere compiaciuto. «Ci fermeremo a Susa, prima di andare a Babilonia? C’è mia sorella Amu, vorrei salutarla.»
«Certo che sì, te l’avevo promesso.»
«Poi sai… mi piacerebbe visitare tutte le capitali dell’impero un giorno. Soprattutto Persepoli. L’ho sognata a lungo, dicono sia anche più bella di Babilonia. È una città-simbolo per il mio popolo, tra l’altro lì sono anche conservati i più antichi testi Zoroastriani! È la meta che ogni persiano sogna di raggiungere.»
Alessandro s’irrigidì, allontanandosi appena da lei, la mascella contratta e le narici dilatate.
«In Battria non vi giunse notizia? Persepoli è stata distrutta.»
L’espressione di Rossane mutò di colpo. Da sognante divenne sgomenta, poi terribilmente triste.
I suoi grandi occhi nocciola erano spalancati, sconvolti. «Come…»
In effetti, in Battria la notizia arrivò. Ma Rossane non lo sapeva. Cresciuta nella sua cupola di vetro, le notizie che non riguardavano la Sogdiana non le conosceva neppure.
«Io l’ho distrutta. – ammise con distacco, nonostante il cuore appesantito dai sensi di colpa. – Ho lasciato che il mio esercito la saccheggiasse, stuprasse e uccidesse i suoi abitanti, ho lasciato che la città venisse data alle fiamme. Dopo aver traferito il tesoro e i documenti dal palazzo di Dario I a Ecbatana, ho lasciato che una prostituta desse fuoco anche a quello.»
C’era l’orrore, lo sgomento, il rifiuto, la confusione, negli occhi di sua moglie.
Rossane non riusciva a credere che quell’uomo, così generoso e cordiale, avesse dato alle fiamme la perla iranica. Non riusciva a credere che suo marito avesse distrutto Persepoli. I magi lo ritenevano l’incarnazione di Arimane, per via del suo elmo a forma di testa di leone, la sua chioma leonina, il suo soprannome di Leone di Macedonia. Ogni cosa era collegata al leone, e l’animale era anche una delle forme del malvagio Arimane.
Rossane sembrava comprendere il perché di quel paragone. Alessandro era capace di grandi bontà, e di grandi cattiverie dettate dall’ira. Aveva una natura pacifica e violenta, accomodante e drastica.
Chiuse gli occhi sopraffatta dall’orrore, e si lasciò andare ad un grido rabbioso che sembrò scuotere la tenda, finché non lo soffocò tra le mani.

Efestione, Cratero, e gli altri diadochi accorsero fuori la tenda per controllare che tutto andasse bene, ma quando sentirono la voce di Rossane, rabbiosa e spezzata dal pianto, non mossero un muscolo.

«Hai distrutto tutto! Hai cancellato una città rituale, un simbolo, e la sacralità di un culto!»
«Ti devo spiegare.» provò a dire, colto alla sprovvista da quella reazione esplosiva.
Lei scattò in piedi, allontanandosi per raggiungere l’altro lato della tenda.
«No! Sei un barbaro! Osate appellarvi a noi in questo modo sprezzante: ma hai visto la nostra ricchezza, la nostra maestria nell'ingegneria e nell'architettura, la nostra cultura, la nostra antichità. L'hai vista, l'hai vissuta, ne hai goduto appieno e poi ci hai sputato sopra! Osi profanare i simboli della mia gente, distruggere le città dell'impero che hai conquistato! E i barbari saremmo noi?»
«Voi persiani avete bruciato l’acropoli di Atene, avete invaso la Macedonia! Avete commesso crimini indicibili contro la mia gente!»
Rossane lo guardò come se stesse per lanciare in aria ogni cosa, era fuori di sé. Alessandro non l'aveva mai vista così in collera. La sua era un'ira funesta e distruttiva, che tanto gli ricordava la sua. Ma lei, al contrario suo, non era collerica. Era difficile far arrabbiare Rossane, ma quando succedeva… era un’esplosione, un’eruzione vulcanica.
«Non ti azzardare! Non ti permettere, Alessandro! È successo centocinquant’anni fa! Tu che decanti il rispetto per il nostro popolo e la nostra storia, per la nostra cultura; tu che decanti una politica cosmopolita... hai osato distruggere la perla del mondo! Dov'era il tuo rispetto mentre ordinavi ai tuoi soldati di stuprare, saccheggiare e dilaniare Persepoli? Dov'era la tua ammirazioni mentre permettesti ad una puttana di bruciare il magnifico palazzo di Dario? Era solo il suo tesoro che ti interessava? Il tuo ostentato buonismo e comprensione verso gli altri popoli, degni di un grande attore e bugiardo quale sei. Dov'era tutto questo mentre distruggevi i nostri testi sacri?»
«Sono il tuo re! Non azzardarti a parlarmi in questo modo, Rossane!»
Gli occhi di Rossane erano brucianti, pugnali che squarciavano il cuore. Leggeva nel suo sguardo la delusione, l'orrore, l'amarezza, la rabbia cieca. Il loro equilibrio precario... troppo bello per essere vero.
Ma ad Alessandro in quel momento non importava niente. La sua ira gli aveva contratto i muscoli, stava facendo appello a tutta la sua pazienza e buona volontà per non punire Rossane come meritava.
«Un re non avrebbe mai distrutto una delle capitali del suo stesso impero! Se vuoi una donna che ti adula anche quando commetti ignobili crimini, tornatene da quella puttana che ha incendiato il palazzo del mio re.»
Gli tornarono in mente le parole che disse Ossiarte quando la chiese in sposa: “Ha il dono di far uscire dalle grazie di Ahura Mazda chiunque. Non la darei in sposa neanche al mio peggior nemico”. Ma con lui, oltre alla disobbedienza, non aveva mai mostrato una vena tanto impunita. Quando si adirava, come in quel momento, Rossane era implacabile. Credeva di conoscerla abbastanza, ma fino a quel momento non aveva assaggiato la furia della sua regina.
Alessandro si ritrovò a sentirsi piccolo di fronte a quell'ira travolgente, a quegli occhi fiammeggianti. Ma ancor di più, sentì i sensi di colpa impadronirsi del suo cuore, acuti più che mai, per aver distrutto Persepoli, testi sacri Zoroastriani, e con essi il sogno di sua moglie di vedere una delle capitali dell'impero. Aveva distrutto una città-simbolo che l’aveva accolto senza resistenza alcuna, che era già sua di diritto. Aveva dato alle fiamme una città sacra del suo stesso impero, vittima dei fumi dell’alcool e del desiderio di vendetta risvegliato dal vino, per un torto subìto centocinquant’anni prima.
Non ne andava fiero. Si vergognava terribilmente di quel gesto così totalmente privo di rispetto, sotto ogni punto di vista, di una cultura antica come quella persiana, di una tale sacralità, di una così tanta maestria architettonica.
Ma in quel momento Rossane metteva a dura prova persino la sua vergogna, persino il suo latente desiderio di chiederle perdono in ginocchio.
«Rossane, cerca di capire le mie azioni. – cercò di calmarsi e dare un senso a ciò che aveva commesso. ─ Ho sacrificato Persepoli sull'altare della lega panellenica, ho eliminato la tentazione di Dario III di tornare.»
Lei lo fissò sgranando gli occhi lentamente, ed emise un altro grido rabbioso che sembrò scuotere la terra.
«Non hai scusanti! Perché l’hai fatto, Alessandro? Perché? – singhiozzò. – Era tua, era una delle capitali del tuo impero. Non dovevi dimostrare niente. Dovevi solo placare il tuo desiderio di vendetta per qualcosa accaduto centocinquant’anni fa… Hai distrutto tutto, ci hai sputato sopra in ogni modo possibile. Tu non hai idea di quanto Persepoli fosse importante per noi. Hai distrutto i nostri testi sacri, i nostri templi… Sacrificato Persepoli ai greci. Perché?»
Ingoiò il groppo della vergogna, strinse i pugni e sollevò il mento. «Non sono tenuto a risponderti. Sono il re.»
«Come, scusa? – aggrottò le sopracciglia, basita. – Non sei tenuto a rispondermi?» sillabò.
Lanciò un altro grido rabbioso, a denti stretti e più basso rispetto ai precedenti, colta di nuovo dalla furia cieca. Gli tirò contro un cuscino, prontamente schivato. «Demone yauna! Barbaro senza rispetto!»
Ne volò un altro, stavolta colpì Alessandro in pieno petto.
Non fu perché sentì dolore. Alzò lo sguardo su Rossane, i suoi occhi erano fiammeggianti. Il tipo di sguardo che i suoi uomini temevano più di ogni altra cosa al mondo. Più dell’India, degli elefanti, del non ritorno a casa, della morte.
La regina ricambiò quello sguardo con altrettanta forza nonostante avesse gli occhi pieni di lacrime. Era delusa, amareggiata, infuriata. Un turbine di emozioni che erano esplose in modo violento: erano troppe e troppo forti. L'uomo a cui aveva aperto e donato il suo cuore era l'artefice della distruzione di Persepoli. Alle porte della mente bussò il ricordo dell'ultima sera ad Al-Khanoum, quando insultò suo padre di fronte a Pirsar e uno dei suoi generali.
La delusione, la rabbia, il disgusto. Erano uguali a quelli provati quella sera. Era esplosa allo stesso modo. Davanti non aveva suo padre, stavolta, ma il leone di Macedonia. Lo stesso uomo che aveva bussato alle porte della Rocca di Arimazes per trucidarli tutti e che era rimasto poi innamorato di lei.
Nelle grandi falcate di Alessandro che accorciava le distanze tra loro, rivide i passi di suo padre quella sera nello studio; nella sua mano da guerriero, dura e forte, rivide quella inanellata di Ossiarte. Ma lo schiaffo che lui le diede non aveva niente a che vedere con quello che le stampò in viso suo padre. Era più forte, più sprezzante.  Gli occhi gelidi non tradivano alcuna emozione.
Rossane si quietò e, come presa da un'improvvisa mancanza di forze, si lasciò cadere in ginocchio per terra. La testa china, lo sguardo perso. Davanti a lei c'erano gli stivali di Alessandro, li vide allontanarsi ed uscire.
Nessuno entrò nella tenda della regina.
 
 
Alessandro, tornato alla sua tenda, rovesciò un paio di mense incurante di ciò che c’era sopra, e lanciò un grido di frustrazione. Si lasciò cadere seduto sul letto, prendendosi il viso fra le mani. Non sapeva bene come sentirsi: aveva appena assaggiato la devastante ondata rabbiosa di Rossane.
Si era sentito piccolo, come al cospetto di un giudice implacabile, come travolto da una mandria imbufalita. Era stata imperdonabile, irriverente e spregiudicata. Come aveva osato quella donna rivolgersi a lui in quel modo? Al suo re!
Rossane era capace di pronunciare grandi dolcezze, di sollevare gli animi più abbattuti; ma era anche in grado di distruggere quegli animi, ponendoli di fronte ai loro errori in modo così brutale e senza vie di fuga.
Si passò le mani tra i capelli, il cuore colmo di rabbia, vergogna, sensi di colpa, frustrazione. Lei gli aveva mancato di rispetto, ma sapeva che aveva la sua parte di ragione, se non totale. Comunque, con quell’atteggiamento, era passata dalla parte del torto a prescindere.
Efestione chiese di entrare nella tenda del re, lo fecero passare. Trovò l’amico con il volto deformato dalle emozioni e dalla gravità della litigata appena conclusa.
«Se può consolarti. – cominciò l’amico. – Eravamo tutti fuori la tenda di Rossane, ci siamo cagati sotto. Certo che potevi prenderne una più mite, sai tipo… Barsine.»
Alessandro alzò lo sguardo su Efestione. «Barsine…»
«Proprio lei. Mite, colta, bellissima, nobile, la madre di tuoi figlio Eracle. Giusto per dirti alcuni motivi per i quali avresti dovuto sposare lei invece della montanara.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Ascolta, Alessandro. – si sedette vicino a lui, stringendogli la spalla con la mano. – Hai visto com’è Rossane. Credi sia una buona moglie? Nemmeno un figlio ti ha dato ancora, probabilmente è pure sterile. Sbrigati a prenderne un’altra e accantona lei. Non voglio essere cattivo ma purtroppo si tratta di priorità. Un re deve avere una moglie mite, con un peso politico, e capace di dargli un erede. Barsine era nobile e aveva un peso politico più rilevante di quello di una principessa delle montagne, era la moglie di Memnone di Rodi, bellissima, intelligentissima, colta ed educata secondo il costume greco e persiano. E, più importante, madre di tuo figlio Eracle, dato alla luce giusto un mese prima che sposassi Rossane. Perché non hai preso in moglie Barsine? Era perfetta, la regina ideale. Certo, l’ideale sarebbe stata una donna macedone, ma era un ottimo partito per essere una barbara. Aveva tutte le carte in regola, e tutti noi scommettevamo che avresti sposato lei dopo la nascita di Eracle.»
Alessandro guardò Efestione come se non lo riconoscesse. «Tu sei amico di Rossane. Perché dici questo? Che hai contro di lei?»
«Non mi fraintendere, io le voglio bene. È impavida, e credo che sia l’unica degna di te. – ingoiò un groppo. – Ma, oggettivamente... Non adempie ai doveri di una regina, e lo sai. Potevi prenderla come concubina e sposare Barsine. Perché proprio Rossane? La Sogdiana ormai era tua, anche la Battria, il matrimonio politico era futile. O se proprio volevi, avresti dovuto sposare anche le principesse di altre satrapie. Avevi tante papabili spose: Barsine tra tutte, Statira che è la figlia di Dario… Ne avevi di belle barbare da sposare, e con un peso politico. Rossane non è come loro.»
«Esatto, è questo il punto: non è come loro. Sembra che tu non sappia cosa sia l’amore, Efestione.» sorrise incerto.
L’amico sospirò dal naso, inarcando le sopracciglia. «Addirittura di questo stiamo parlando?»
«Forse un giorno prenderò altre mogli, certo. – sussurrò. – Ma non rinuncerò a lei, né la sostituirò o abbandonerò, anche se è così feroce, politicamente irrilevante o addirittura sterile come credi. Dopotutto… lei è Rossane.»







 
* * * *

POSSO SPIEGARE, credo.

ALLORA 
Persepoli era una città meravigliosa, la più bella di Persia. Nella sua architettura c'erano moltissimi simboli religiosi, era una città rituale in cui si svolgevano le più importanti celebrazioni dedicate ad Ahura Mazda, erano qui conservati tantissimi testi sacri zoroastriani.
La situazione è stata un po' come Roma quando fu saccheggiata dai barbari. Una situazione drammaticissima, sigh.
(e Persepoli, a mio parere, era molto più magnifica di Roma. Non credete, da brava romana guai a chi mi tocca Roma, ma come ho detto... secondo me Persepoli non si batteva in bellezza).

Io adoro la figura di Alessandro Magno, ma a Persepoli ha commesso un crimine ignobile e praticamente immotivato. 
La reazione di Rossane, per quanto esagerata sia, è un po' quella che hanno avuto tutti i persiani quando giunse la notizia di Persepoli distrutta, oltre al terrore per il macedone. Solo che Rossane... è Rossane(?), reagisce a modo suo quando si tratta di questioni che intaccano l'impero (il tradimento di suo padre nei confronti del Re, la distruzione di Persepoli) o di situazioni che la umiliano, come vedremo più avanti. Reagisce male.
Poi trovandosi di fronte all'artefice della distruzione della città, che guardacaso è suo marito e l'uomo che lei ha tanto faticato ad accettare... tutto ciò non ha giovato a farle mantenere la calma.
Ho voluto ricordare il prologo di questa storia, con il paragone della sera ad Al-Khanoum, perché Rossane è esplosa allo stesso modo. 

Ma dal momento che nel 12esimo capitolo si è chiarita con Alessandro, nessun litigio è irrisovibile: ora il loro rapporto ha basi solide, nonostante le delusioni e le arrabbiature.

Per l'ultima parte, non odiate Efestione. Cercate di inquadrare il suo discorso nel contesto dell'epoca.

Spero di non avervi deluso con questo capitolo, spero di non essermi fatta troppo odiare - solo due capitoli fa 'sti due erano pappa e ciccia, alla fine.
Fatemi sapere cosa ne pensate se vi va, io cercherò di aggiornare in tempi decenti. Non ho più capitoli pronti, sigh.

Alla prossima ♥

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Capitolo 16
*** 15. Poonz-dah ***


Avvertenza
È un capitolo strano, con riti e simboli.

 


۱۵ . Poonz-dah

 
 
Nelle due settimane che seguirono, Alessandro impose delle punizioni per Rossane: non uscire dalla sua tenda, toglierle un quarto delle razioni di cibo e acqua, impedire ad Almas e Bagoa di occuparsi di lei. Nessuno doveva fare visita alla regina se non per prepararle i pasti.
L'unica compagnia che ebbe la ragazza in quei giorni, furono le sue pergamene e Durga. Ma la tigre usciva la mattina e tornava la sera.
Rossane si era adattata: quando si lavava, trattava il corpo e i capelli come facevano Almas e Bagoa, allo stesso modo applicava la crema depilatoria e si pettinava. Non essendo capace di intrecciarsi i capelli, li lasciava sciolti sulle spalle, lunghi e ondulati, le carezzavano il coccige.
Alessandro passava quasi ogni giorno davanti alla sua tenda, fermandosi e osservando, chiedendosi cosa stesse facendo sua moglie. Aveva disposto che non avrebbe potuto uscire da lì finché non avesse chiesto un'udienza con il re.
E dopo due settimane e mezzo, le guardie la condussero alla tenda reale.
Rossane si presentò con paio di calzoni larghi e il cavallo basso, stretti sulle caviglie, un corpetto di cuoio e una mantella fermata da una spilla sulla spalla. Come monili portava grandi cerchi d'oro alle orecchie e polsini d'argento con una pietra turchese. Una ciocca di capelli, posata su una spalla, era chiusa in una rete d'oro.
Alessandro era immerso nella lettura di alcuni documenti, in particolare lettere del suocero Ossiarte che lo informava di rivolte popolari in Battria. Quando lei fece il suo ingresso, perse la concentrazione su quella documentazione ma non volle darlo a vedere.
La fece attendere, mentre finiva di leggere. Infine alzò gli occhi su di lei, spostò le scartoffie sullo scrittorio, e intrecciò le mani in grembo. Si studiarono per interminabili attimi, guardandosi di sottecchi.
«Due settimane e mezzo… Pensavo avresti ceduto prima, nelle condizioni in cui ti ho posta.» esordì il re, alla fine.
«Pensavi male.» replicò lei, aspra.
«Sei ancora irriverente. Devo calcare la mano? Non ti è bastata la punizione che ti ho dato?»
«Sei tu il re, sta a te decidere. L’hai sottolineato più volte, come se non fosse abbastanza chiaro.»
Da quel tono di voce e da come sosteneva lo sguardo, con il mento sollevato, Alessandro capì che non si era pentita di ciò che gli aveva detto. Serrò la mascella.
«E dunque? Non sei qui per chiedere scusa.» constatò, squadrandola dalla testa ai piedi.
Alessandro la trovava bellissima e affascinante, nonostante non sembrasse affatto la regina di un impero. Sentì una morsa nel petto ripensando a ciò che gli aveva detto Efestione.
«Dipende su cosa.»
«Che cosa intendi?»
«Ho intenzione di scusarmi solo per il modo in cui ho reagito, ho esagerato, e mi dispiace. Se ti avessi detto le stesse cose con calma e senza aggressività, non sarebbe andata così.»
Lui serrò la mascella. Rossane lo considerava ancora un barbaro, un demone. E, in fondo, anche lui si sentiva un po’ così per ciò che aveva fatto a Persepoli. Solo che il suo orgoglio gli impediva di accettare il fatto che lei fosse stata così brutale nell’esporre il suo pensiero, lo infastidiva il suo solo pensare che lui fosse un barbaro o un demone addirittura.
«Il tuo pensiero e la tua considerazione di me mi offendono, la tua lingua taglia più di una spada.»
«Perché non ho una spada. – replicò, secca. – Ti senti offeso da ciò che penso, io invece trovo offensivo il tuo gesto.»
«Dovresti lasciare che ti spieghi.» mormorò, conciliante.
«Se posso permettermi, sire, quel che è fatto è fatto. Qualche parola campata in aria per dare senso a tale brutalità non servirà a molto. Il mio pensiero non cambierà, e non cambierà nemmeno solo perché ti sei offeso. Ammetto d'aver sbagliato con la mia reazione, passando dalla parte del torto. Questo è il massimo delle scuse che posso offrirti.»
Prendere o lasciare.
«Dunque ti scusi solo per il modo in cui hai espresso la tua opinione?»
«Sì.»
«Bene. C’è qualcos’altro che vuoi dirmi?»
Rossane accennò un sorriso sarcastico. «C’è qualcos’altro che vuoi sentirti dire?»
Alessandro la guardò impassibile, con la mascella contratta, per interminabili momenti. Infine rilassò i muscoli del volto e strinse appena le labbra. «No. Ora che ho le tue scuse parziali, hai il permesso di riprendere con te solo uno dei servitori, le razioni di cibo verranno ristabilite e potrai uscire dalla tua tenda per un giro di clessidra al giorno.»
«Bene. Posso andare?»
Alessandro annuì e tornò con gli occhi bassi, riprendendo i documenti che stava leggendo. Rossane uscì in silenzio.

 
Almas poté finalmente tornare a prendersi cura della sua regina.
Le pettinava i capelli con premura, si prendeva cura della sua pelle, si occupò dei suoi abiti e di tanto in tanto la rimproverava per il suo atteggiamento scorbutico e irrispettoso nei confronti del Gran Re.
«Circolano brutte voci sul tuo conto, Rossane.» le sussurrò un giorno, mentre le disegnava le mani con l’henné.
«Che sono una grezza e feroce barbara di montagna?» sbuffò.
Almas le lanciò un’occhiata. «Peggio. Offendono la regina con crudeli chiacchiere sulla più grande qualità di una donna: creare la vita. – sospirò. – Dicono che tu sia sterile. Se fosse vero, Alessandro potrebbe sostituirti e toglierti il ruolo di regina, rilegandoti ad una semplice moglie da serraglio.»
«Almas, io non sono sterile.» replicò, sulla difensiva.
«Allora perché non hai ancora dato un figlio ad Alessandro? Non ho visto il tuo grembo neppure gonfiarsi un poco.»
«Io non sono sterile. – ripeté. – E poi non vorrei mai fronteggiare una gravidanza nella situazione frenetica e sempre a rischio che viviamo. Fino ad ora non c’è mai stato il contatto volto a procreare. Credo che quello avverrà una volta arrivati a Babilonia, e penso che Alessandro sia dello stesso parere.»
Almas sembrò rifletterci su, e rimase in silenzio a lungo prima di parlare di nuovo. «Nel dubbio, lascia che ti guidi attraverso il rito della fertilità. Conosco i riti greci e persiani, oltre a quelli fenici. Tanto vale tentare per dissipare ogni dubbio, non credi?»
 
 
Il suo orgoglio di donna si riteneva ferito, per essere considerata sterile. La sua più grande dote, in quanto femmina, era la possibilità di creare la vita e veniva schernita da quei bruti che la consideravano sterile.
Rossane si era sentita toccata nell’orgoglio, tuttavia il dubbio s’era insinuato nella sua mente. Per questo aveva accettato l’invito di Almas, alla fine. Perché aveva accettato? Per l’orgoglio ferito? Non era solo quello. Rossane era disposta a tutto pur di essere accettata completamente come regina e moglie, persino a sfidare la natura: se era davvero sterile, sarebbe diventata fertile.
Era la sera prima in cui avrebbero preso la via del ritorno lungo l’Acesine. Il mattino dopo avrebbero salutato metà dell’esercito, comandato da Cratero, che avrebbero preso la via del ritorno attraverso l’Arachosia e la Carmania, mentre Alessandro e l’altra metà delle truppe avrebbero preso la via dei fiumi.
Poco prima che montasse il primo turno di guardia, Almas entrò nella tenda di Rossane per condurla al luogo dell’appuntamento. La regina aveva il cuore in gola e le gambe molli, non aveva idea di cosa aspettarsi.
Almas era una donna che praticava la divinazione, riti misterici in nome dell’antica religione fenicia. Non era solo una concubina e una dolce ancella. Era quasi una sacerdotessa, una maga.
Una strana atmosfera c’era quella sera. Magica, densa, presagiva qualcosa di arcano e potente. Rossane lo sentiva nella pelle e questo la faceva fremere: sensazioni ancestrali erano risvegliate in lei, le gambe si muovevano come guidate da una forza superiore, come se stesse sognando o fosse in uno stato d’ipnosi.
Almas era stata molto chiara. Piedi nudi, per sentire il contatto con la madre terra.
«La terra è il simbolo femminile per eccellenza. Anche l’acqua, ma la terra rappresenta la fertilità e la procreazione, ed è quello che noi andremo a cercare stasera. – le spiegò Almas. – Sarà un’esperienza mistica e forte, Rossane. Te la senti?»
La regina annuì, incerta. Sapeva che, dopo quella notte, non avrebbe più partecipato a certi rituali. Ma secondo Almas, una volta bastava per aiutare ad accrescere la fecondità. In seguito avrebbe solo dovuto praticare più frequentemente la raqs sharqi per mantenerla.
Arrivarono al centro di uno spiazzo, lontano dall’accampamento. Almas trovò la via grazie a dei segni tracciati sulla corteccia degli alberi.
C’erano altre donne in cerchio, altre avevano i tamburi e i santur, al centro c’erano un falò e una pecora. Qualcuna delle donne era una concubina, proveniente da ogni dove, ma c’era anche qualcuna delle mogli dei soldati.
Almas prese posto nel cerchio, lasciando Rossane al centro vicino alla pecora. Venne raggiunta da una donna macedone con i capelli rossi e gli occhi verdi, dal viso squadrato ma molto bella.
«Lo Sparagmòs è un rito dionisiaco per celebrare sì Dioniso, ma anche la potenza della madre terra. – le disse in un persiano arrangiato. – La carne della bestia appena uccisa va mangiata cruda. Assaggiando il sangue fresco del sacrificio, ci si riappropria del primordiale spirito della madre terra.»
«E quello spirito è fondamentale per cominciare il rito. È una pratica cruenta ma che si usa ovunque, prima del rituale.» aggiunse Almas.
Rossane la guardò sfarfallando le ciglia. Il cuore batteva frenetico nel petto, conscia del fatto che stesse per partecipare ad un rito che l’avrebbe messa a contatto con la natura primordiale e brutale.
Almas le porse un pugnale, lanciando un’occhiata alla pecora.
E in quel momento le donne munite di strumenti musicale cominciarono un basso rullo di tamburi, e le altre presero a muoversi in cerchio intorno a lei proiettando ombre dietro di loro alla luce rossa del fuoco. Il ritmo dei tamburi si faceva sempre più incalzante, cozzava piacevolmente con la tonalità placida dei santur.
Rossane guardò la pecora negli occhi, strinse le labbra. Sarebbe morta comunque, sarebbe stata mangiata in ogni caso, e quel rituale – se davvero funzionante – l’avrebbe salvata dall’abbandono di Alessandro. L’avrebbe resa una moglie degna, almeno sotto il punto di vista della procreazione. Gli avrebbe dato un erede. Almeno quello.
Alzò lo sguardo sul fuoco, ipnotizzata dal movimento ondeggiante delle fiamme. Il fuoco sacro. Ahura Mazda. Per un momento si sentì come inebriata dal suo spirito, le sembrò di percepire la sua presenza lì nel cerchio.
Senza staccare gli occhi dal falò, si inginocchiò di fronte all’animale, gli carezzo il collo, e fulminea gli infilò la lama nella carne. Un fiotto di sangue sporcò il terreno, il corpo della povera bestia e quello della regina.
I tamburi sembravano assordanti, i passi delle danzatrici in cerchio sembravano far tremare la terra, lo spirito di Ahura Mazda manifestato sottoforma di fuoco sembrava scalpitare e incitarla ad andare avanti con il cruento rito.
«Mamnoon.» sussurrò, gli occhi chiusi.
Si pulì la guancia col dorso della mano prima di adoperarsi per continuare il sanguinoso rituale.
Il bollente liquido rosso le aveva inzuppato la mano, gli abiti, il corpo e il terreno. Ma non provava disgusto. Dopo aver assistito alla carneficina sull’Idaspe, nulla le faceva più paura o ribrezzo.
Afferrò la coscia della pecora, la carne viva ancora sanguinante, gli occhi fissi sul fuoco scoppiettante e le ombre delle donne che danzavano frenetiche al ritmo tribale dei tamburi. Tutte sembravano in uno stato di trance, continuavano a muoversi in cerchio e ognuna danzava e ingraziava Rossane al proprio dio.
I fiotti di sangue uscirono copiosi quando la regina morse l’agnello e ne mangiò le carni. Non ne sentiva neanche il sapore, sentiva solo il calore del liquido vitale che le riempiva la bocca e colava ai lati delle labbra; sentiva l’umidità della terra sporcarle le ginocchia e la veste.
Posò le mani nella pozza di sangue sul terreno, senza staccare gli occhi dalle fiamme, come presa dalla stanchezza e al contempo la forza di continuare. Le sembrò quasi che il fuoco le rispondesse: «Shab khosh, Roshanak
E la presenza di Ahura Mazda sembrò lasciare il cerchio.
Il rito continuò, ma il fuoco si spense.


____________________


C'è l'inizio di un rituale cruento praticato un po' ovunque prima dei riti di fertilità, e in Grecia prendeva il nome di Sparagmòs, un rito misterico dedicato al dio Dioniso. Poi ogni cultura proseguiva con il proprio rituale. In questo capitolo non mi sono soffermata sulla provenienza del rito, perché (eccetto il fuoco) non ci sono simboli religiosi o di una cultura in particolare: la terra e il cerchio sono riconosciuti come femminili, almeno nell'Europa e Medio Oriente.
Probabilmente, nella tradizione persiana, danzavano la raqs sharqi (danza del ventre) nella sua versione più arcana e sacra, dedicandola al contatto con le divinità Ištar o Inanna per propiziare la fertilità. La danza in cerchio era un elemento importante, perché il cerchio è un simbolo femminile e, secondo la credenza, le donne in cerchio creano un'energia molto potente.  Ancor di più se si balla la raqs sharqi in cerchio.

Insomma questo è un capitolo di rituali e simboli. Al tempo credevano in queste pratiche, e vista la situazione, i personaggi (Almas in particolare) e il contesto, ho pensato che prendere parte ad un rito simile sarebbe stato "normale".

È un capitolo molto breve, e su Word mi sembrava nettamente più lungo. Mannagg. Comunque di queste stranezze non ne vedrete altre, tranquilli, mi fa un po' strano scriverle-
Vi lascio così, col dubbio se Rossane era davvero sterile e il rito sia stato effettivamente maggggico, col dubbio se Rossane ha percepito la presenza di Ahura Mazda perché era lì davvero o lei era solo presa dall'ebbrezza del momento (?). Misticoh, non lo sapremo mai.

Una piccola nota: ho scritto la mia prima one-shot, tadan. La trovate sul mio profilo. Racconta del momento in cui, secondo la leggenda, Nabucodonosor fece costruire i giardini pensili di Babilonia per rendere felice sua moglie. Se vi va fateci un salto. È probabile che io mi sia dilungata troppo, siate clementi, era la mia prima one-shot HAHAHA
Per il resto... Scusate per il capitolaccio che vi ho rifilato, cercherò di farmi perdonare.
Alla prossima!

 

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Capitolo 17
*** 16. Shoonz-dah ***


۱۶ . Shoonz-dah
 
 
Rossane si svegliò il mattino seguente frastornata. Ricordava la sera prima come se l’avesse sognata, ma a dire il vero la sua mente era offuscata. Aveva il solo ricordo della cruenta fase iniziale del rito, poi era tutto confuso. Erano tornate tutte all’accampamento con le prime luci dell’alba, senza farsi notare dai soldati di guardia, e Rossane si era lavata via di dosso il sangue e l’ebbrezza. Le sue vesti le aveva prese in custodia Almas.
Sfarfallò le ciglia, stropicciò gli occhi e infine si portò una mano alla tempia. La testa le doleva terribilmente, non riusciva a smettere di chiedersi cosa fosse successo quella notte dopo che il ricordo s’interrompeva. Non le sembrava opportuno fare domande.
Un altro grande dubbio s’insinuò nella sua mente: il rito avrebbe funzionato? Sarebbe riuscita a dare un erede ad Alessandro?
D’improvviso fu presa da un senso di panico. Se il rituale non avesse sortito l’effetto desiderato, il re l’avrebbe rinnegata. E lei non aveva alcuna intenzione di perderlo. Per scoprire se aveva funzionato o meno, non c’era che un modo.
Almas le offrì un piatto con della frutta fresca e una lettera arrotolata sopra. Rossane la guardò come se aspettasse che dicesse qualcosa, riguardo la notte magari, ma l’ancella non si pronunciò.
«Almas, senti…» decise di prendere parola lei, infine.
La fenicia la interruppe con un gesto della mano. «Mia regina, chiedo perdono per averti interrotta, ma non si parla dei rituali una volta compiuti. Lo so che hai tante domande da fare, ma tutto avviene per una ragione e non tutto ha bisogno di una spiegazione.»
Rossane si zittì. Le stava dicendo che se aveva dimenticato, un motivo c’era. Le stava dicendo che avrebbe mai saputo se durante la prima fase, nel cerchio c’era davvero Ahura Mazda. Forse aveva percepito anche lei che c’era qualcosa. Ma come le aveva detto, certe cose non dovevano avere risposta.
Masticando le sue noci, prese a leggere la lettera sul vassoio. Era da parte di Cratero, molto breve.

 
Comandante generale Cratero, alla regina Rossane – Salve!
Come sai, questa mattina presto sono partito con metà dell’esercito verso l’Arachosia su ordine di Alessandro, per riconfermare il suo dominio. Avrei voluto salutarti di persona, ma mi è stato detto che stavi dormendo.
Ci rivedremo a Hormuz. Nel frattempo, se sentirai il bisogno, non farti remore ad inviarmi lettere.
Buon proseguimento di viaggio, stai di buon animo.
 
 

Ripreso il viaggio, Rossane non potette più evitare di salire sulle navi. Filippo si adoperò per farle bere infusi che placassero quella nausea insopportabile, quelle vertigini tremende persino con la nave ferma.
La regina e il re non parlarono più dopo il battibecco nella tenda. In realtà, lei non parlò più con nessuno che non fosse Filippo quando le portava i suoi infusi, Almas e Bagoa, o Perdicca. Non voleva parlare con nessun altro, dopo che seppe delle brutte voci sul suo conto. Cominciava come a nutrire un certo rancore per quei soldati malelingue, un certo odio dopo la ferita all’orgoglio che le avevano inferto.
Con l’avvicinarsi alla confluenza con l’Indo, ad Alessandro giungevano voci riguardo l’improvvisa interruzione delle guerriglie tra Malli e Ossidraci: i due popoli si erano infatti alleati per combattere il nemico comune, fortificandosi nelle loro cittadelle. I Malli, nemici di Poro, erano famosi per essere potenti, coraggiosi e ingovernabili. 
Alessandro non volle scendere a compromessi, volle dare un esempio di terrore in modo da evitare altre guerriglie lungo l’Indo e garantendo quindi una sottomissione senza più colpo ferire.

Le navi vennero attraccate sulla sponda orientale al tramonto, in parallelo a dove – secondo gli esploratori – erano stanziate le cittadelle dei Malli.
Alessandro diede ordine di prepararsi all’assalto delle città e divise l’esercito in cinque squadroni comandati da lui, Lisimmaco, Tolomeo, Efestione, e Seleuco.
La mattina dopo, prima dell’alba, fece preparare le squadre dietro le colline che li dividevano dalle cittadelle, e decise di andare a salutare Rossane.
Sulla riva era stato montato solo l’accampamento militare, quindi non c’erano molti servitori o le mogli dei soldati. Loro erano rimasti sulle navi: era previsto un assalto lampo, sarebbero ripartiti presto.
Alessandro aprì la porta della stanza riservata alla regina, sulla nave ammiraglia, la trovò in ginocchio davanti ad un piatto in cui ardeva una fiamma. Le lingue di fuoco ondeggiavano placide, illuminandole il viso con luce soffusa, che ne ammorbidiva i lineamenti del volto. Il legno di sandalo bruciava in un astuccio di metallo forato, impregnando l’aria di quel profumo inebriante.
Rossane recitava una preghiera a fior di labbra, senza emettere alcun suono, lo sguardo rapito dal movimento delle fiamme. Alessandro attese che finisse, incantato a guardarla.
Lei alzò il capo verso di lui.
«Dunque?»
«Stiamo per assaltare.»
«Bene.»
Si alzò facendo frusciare la veste, i lunghi capelli ricadevano morbidamente sulla schiena formando deliziose onde. Raccolse il piatto e lo ripose all’interno del cassetto di un mobile vicino al letto.
«Io ti ho perdonato.» sussurrò Alessandro.
Rossane si voltò, gli occhi fiammeggianti come quelli di una fiera. «Io no.»
«Amare è anche perdonare» replicò.
Allora lei prese un pezzo di pergamena e accese un cero. Gli si piantò di fronte, ma non c’era più severità nel suo sguardo. Era indecifrabile, assorto.
«Il fuoco è sacro per noi, questo lo sai. Rappresenta la manifestazione di Ahura Mazda. Ecco perché preghiamo di fronte al fuoco, e nei nostri templi le fiamme non vengono mai fatte spegnere. Il fuoco è un elemento che al contrario degli altri non può essere contaminato da niente, è puro, è fonte di luce e calore. – lo guardò. – È un terribile presagio il fatto che proprio il fuoco abbia distrutto il palazzo di Persepoli e i testi sacri.»
Aggrottò le sopracciglia. Lo sapeva, ma non immaginava un tale impatto.
«Sono rammaricato, mi dispiace, Rossane.»
«Guarda. – avvicinò la carta alla fiamma, e subito si annerì e bruciò. – Se chiedi scusa di nuovo, noterai che la carta non torna com’era prima. Questo è solo un foglio privo di scritte, non ha valore. Persepoli e quei testi lo avevano, ma la loro fine non è diversa da questa pergamena. Puoi chiedere scusa quanto vuoi, ma le cose non torneranno come prima. Nessuno ci restituirà quei testi.»
Gli voltò le spalle soffiando sul cero e sulla pergamena in fiamme per spegnerli entrambi.
«Me ne rendo conto perfettamente. Quel che è fatto, è fatto. Ma non puoi continuare a fare così. Non ti chiedo di dimenticare, ma di non serbarmi rancore e perdonarmi. Stipuliamo una tregua.»
Gli sembrava quasi di star parlando dei piani per una battaglia, in cui lui stava perdendo e doveva chiedere tregua. Rossane era una guerra che non riusciva a vincere.
Lei era rimasta in silenzio a lungo, alla fine sospirò.
«Porta con te Durga, – si voltò a guardarlo – e fa’ attenzione. Ti prego.»
Alessandro si avvicinò cautamente, studiando il suo profilo delicato all’ombra delle candele.
Ogni volta che la guardava, era come se si vestisse di spine. Il cuore trafitto dai sensi di colpa per tutto ciò che le aveva tolto: la sua terra natale, la stabilità di una casa e di una famiglia, una vita tranquilla, il sogno di vedere Persepoli.  Si sentiva in colpa, perché avrebbe preso altre mogli e lei avrebbe patito la stessa umiliazione che patì sua madre Olimpiade quando Filippo sposò Euridice. Alessandro lo ricordava bene. E detestava pensare che si sarebbe comportato come suo padre, nei confronti della donna che amava. Era un colpo mancino, ma rientrava nei doveri di un re.
Nessun’altra donna è degna di te come lo è Rossane, ma non è tagliata per il ruolo di moglie – gli aveva detto Efestione. E da allora Alessandro pensava a farle generare un erede, per toglierle di dosso almeno le voci che la credevano sterile quando in realtà avevano stretto il tacito accordo di non procreare finché le loro vite sarebbero state così a rischio nelle campagne militari.
Le posò una mano sul volto, con delicatezza la costrinse a voltarlo per guardarlo. Poi l’altra mano raggiunse il viso della sua sposa, le carezzò gli zigomi con i pollici e posò la fronte sulla sua.
Lei chiuse gli occhi, e titubante gli accarezzò il petto fino a raggiungere il suo viso.
Alessandro strinse appena le labbra, erano tante le cose che voleva dirle eppure le parole gli morirono in gola. Si limitò a posarle un bacio sulla fronte e si allontanò quasi con fatica da Rossane, uscendo in religioso silenzio.
 Lei restò in piedi al centro della cabina, rammaricata. Ogni volta che Alessandro impugnava una spada, sentiva il cuore tremare di paura.
Perderlo. Era l’unica cosa che Rossane temeva al mondo.
Non la guerra, non la malattia, non l’Oceano. Perdere Alessandro, solo questo.
E l’angoscia di vederlo morire senza avergli detto grazie per tutto quello che le aveva dato, che superava ciò che le aveva tolto, senza aver adempiuto ai suoi doveri, senza avergli regalato momenti di serenità nel caos della guerra, ma solo altra guerra e litigio.
 
 
La cavalcata nella prateria fino alle cittadelle si rivelò fin da subito una mattanza.
I Malli sbucarono dal terreno, i corpi dipinti di verde e tatuaggi di serpenti lungo le braccia. Sembravano selvaggi: privi di armature, attaccavano in massa come topi, inglobando i soldati appiedati. La cavalleria riusciva a scrollarseli di dosso più facilmente, ma meno di quanto si aspettassero.
Mentre i soldati erano ognuno occupato nel proprio squadrone, alle porte delle cittadelle, all’accampamento fervano i preparativi per il campo e le medicazioni dei primi soldati feriti.
Filippo e i suoi medici correvano ovunque, per far fronte alla quantità di uomini che venivano portati. Rossane assisteva alla scena da un lato dell’accampamento: era scesa dalla nave, incapace di sopportare oltre quella cabina. Lei, Bagoa, Almas e gli altri non-combattenti cercavano di dare il loro contributo fornendo ai chirurghi ciò di cui necessitavano.
Di prima mattina, mentre la battaglia continuava a infuriare nella prateria, l’ancella fenicia si fermò di colpo, come paralizzata.
Bagoa vicino a lei le lanciò un’occhiata interrogativa. «Almas? Ti senti bene?»
Anche Rossane si fermò incuriosita, ma prima che potesse aprire bocca per parlare, lo sentì anche lei. La terra che tremava. I ciottoli sulla riva del fiume, quelli più piccoli, saltellavano per quanto tremava la terra.
Tutto il campo sembrava essersene accorto. Si erano tutti immobilizzati, in ascolto.
«Che cos’è?» domandò piano Bagoa.
«Cavalli.» rispose Rossane, gli occhi che saettavano in ogni direzione per capire dove si trovassero.
Una volta Alessandro le aveva detto che uno squadrone di cavalli al galoppo faceva tremare la terra. Se ne ricordava in quel momento, aveva riconosciuto i segni. Almas se n’era accorta per prima, se non l’avesse vista paralizzarsi non si sarebbe mai fermata a chiedersi che cos’avesse l’ancella.
Poi d’improvviso eccoli. Una nube di terra si sollevava al passaggio dei cavalli.
Come una valanga, i Malli invasero l’accampamento uccidendo e afferrando al volo le ancelle, le mogli, le concubine, che si stavano dando da fare come supporto medico del campo. Urlavano, schiamazzavano. Rossane schivò prontamente un cavallo al galoppo, ma perse di vista Almas e Bagoa. Li chiamò a gran voce.
L’eunuco le rispose dal ponte della nave, dove altri si stavano rifugiando. Quei selvaggi non avevano i mezzi per raggiungerli lì. Alcuni dei soldati a guardia del campo riuscirono a tenere testa a quell’attacco a sorpresa.
«Rossane! Sali!» le urlò Bagoa.
«Dov’è Almas?»
«Sarà salita! Muoviti, sali!»
Non era salita. Altrimenti le avrebbe urlato dal ponte della nave insieme all’eunuco.
Rossane si guardò intorno spaesata, nel caos di polvere e cavalli al galoppo, tra i cadaveri di coloro che erano stati feriti e i chirurghi. I soldati macedoni facevano quello che potevano, completamente colti alla sprovvista e disorientati. Derubò un arciere persiano del suo arco e delle sue frecce, per scoccarne una contro uno dei Malli. Il suo cavallo si paralizzò mentre il cavaliere cadeva mollemente a terra. E in quel momento la vide, Almas svenuta gettata come un sacco vuoto davanti alla sella di uno degli indiani, in galoppo verso le cittadelle attraverso un percorso che le aggirava per non farsi vedere dal resto dell’esercito di Alessandro.
Corse a perdifiato verso il cavallo senza fantino, riuscì quasi a raggiungerlo.
Poi fu nero.
 
 
La notizia dell’invasione del campo raggiunse in fretta le orecchie di Alessandro, pur stando nel bel mezzo del conflitto nella prateria. Durga non deluse: nonostante l’indole mansueta, da tigre cresciuta in cattività e ben addestrata, si era rivelata una furia in battaglia e il re macedone fu ben felice di averla a fianco durante il conflitto, nonostante non amasse i felini.
Quando seppe che il campo era stato invaso, fece dietrofront senza pensarci due volte affidando Durga a Perdicca.
Alessandro e un manipolo di soldati raggiunsero l’accampamento e vi trovarono il tragico scenario.
I corpi falciati, dilaniati, dei chirurghi e delle donne che stavano medicando i feriti dell’esercito, sdraiati sopra dei teli sul terreno arido. Quelli che erano feriti prima, erano morti ora, calpestati dalla mandria di cavalli e trafitti dalle frecce dei Malli.
Una scena tragica, sanguinosa, che strinse il cuore del re. Salì sulla nave, osservando i volti stravolti di chi era sopravvissuto.
«Dov’è Rossane?» domandò a Bagoa, rabbioso.
L’eunuco tremò, la voce gli morì in gola di fronte alla rabbia del leone di Macedonia. Deluso e infuriato con coloro che non erano stati in grado di proteggere sua moglie.
«Dimmelo, Bagoa! Dov’è?» sbraitò Alessandro afferrandolo per il bordo della tunica.
Il ragazzo singhiozzò ed esitò prima di rispondere. «Hanno preso molte donne. Voleva recuperare Almas, ma non credo che…»
Il re emise un grido di rabbia, allontanando l’eunuco. «Da che parte?»
«Hanno fatto il giro per raggiungere la cittadella, almeno così credo.» sussurrò asciugandosi le lacrime dalle guance.
«Sono lì dentro, quei figli di un cane. – ringhiò, e fece un cenno ai soldati con lui. – Hanno mia moglie. Staniamoli. Non avrò alcuna pietà.»





 
* * * *

Aggiornamento mattutino! 
Dal momento che oggi non è detto che avrò tempo per postare e avevo un buco di tempo questa mattina, ecco qui. 
Ho fatto le capriole per scrivere questo capitolo e non credo sia venuto lungo. Cioè, da cellulare e su carta sembrava lungo, ma qui su EFP non saprei HAHAHA 
Ho ricontrollato molto velocemente quindi è probabile che mi sia sfuggito qualcosa. Tra l'altro è un periodo un po' strano perché l'unico momento in cui posso scrivere è la sera, e ho anche voglia di farlo, ma arrivo che ho un sonno terribile e non so cosa partorisce il mio cervello, in quei momenti. Perciò se i capitoli sembrano sconclusionati e i periodi poco chiari, scusatemi. Sistemerò tutto appena possibile, voi fatemi sapere se riscontrate orrori grammaticali, scarsa chiarezza oppure cose improbabili!
Tanto, comunque, quando finirò di scrivere questa storia la revisionerò da capo. E le mie revisioni comprendono cambi radicali di scene, a volte.
Dal momento che non ho trovato molto sull'assedio delle città dei Malli, ho voluto prendermi alcune libertà come questa. Stranamente Rossane è di nuovo nei guai. Chi se lo aspettava eh, lei e la fortuna sono pappa e ciccia. Almeno non è sola, con lei ci sono molte altre donne tra cui la povera Almas. 

Ne approfitto per farmi spam.
Ho di recente pubblicato due one-shot (le mie prime, sigh) Storiche: la prima tratta di una leggenda legata ai giardini pensili di Babilonia, la seconda è il famigerato episodio biblico in cui Salomé chiede la testa di Giovanni Battista a Erode. Forse mi sono dilungata molto a scriverle, ma è stato divertente cimentarmi nelle one-shot. Ci sto un po' prendendo gusto devo essere sincera HAHAH

Io come al solito vi ringrazio per la pazienza e vi do appuntamento per la prossima volta (?).
A presto! ♥
Passo e chiudo.

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Capitolo 18
*** 17. Heev-dah ***


Riassunto dei capitoli precedenti: 
La campagna in India sta volgendo al termine. Alessandro, dopo l'ammutinamento dell'esercito, ha rinunciato a oltrepassare l'Ifasi e ha deciso di tornare indietro. Percorrerà i vari fiumi fino all'Indo, e dall'Indo fino all'Oceano, e lungo il percorso riconfermerà il suo dominio.
Appacificato con Rossane, la loro calma è precaria in quanto presto la regina scoprirà che Alessandro è stato l'artefice della distruzione della città sacra ai persiani, Persepoli, per un semplice impeto d'ira provocato dai fumi dell'alcol. Rossane manifesta una rabbia distruttiva che quasi lo spaventa, ed Efestione gli fa notare di quanto poco idonea al ruolo di moglie e regina sia  - seppur perfetta per un uomo come Alessandro.
Rossane, venuta a sapere delle cattiverie che vociferano i soldati che la considerano sterile, si sottopone ad un arcano e cruento rito della fertilità, assistita da Almas. Durante il rituale, le sembra quasi di percepire la presenza di Ahura Mazda, ma non saprà mai se è solo una sua impressione o realtà.
Ripreso il viaggio, Alessandro si ritrova fronteggiare la resistenza del tenace e potente popolo dei Malli, appostati lungo il corso dell'Acesine quasi alla confluenza con l'Indo.
Mentre l'esercito attacca le cittadelle, viene allestito un campo per la cura dei feriti in cui sono presenti i medici, assistiti da servitori e concubine. Un gruppo di Malli attacca l'accampamento, uccidendo e distruggendo, e rapiscono le donne lì presenti. Almas viene presa e Rossane, nel tentativo di recuperarla, non avrà fortuna e verrà catturata anche lei.


 
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۱۷ . Heev-dah

 
 
Rossane si risvegliò scossa da brividi di freddo. Il corpo abbandonato in una putrida segreta di terra umida. Era buio, tanto che la regina dubitò d’aver effettivamente aperto gli occhi.
C’era un fetido odore di escrementi di topo, urina, il puzzo metallico del sangue e un vago alone di putrefazione. Il tutto con la puzza di umido, di chiuso, di terra e di sudore… Non facevano gioire le sue povere narici.
La testa le doleva terribilmente, come se avesse ricevuto una sonora batosta sotto la nuca. Anche la schiena le faceva male, per la posizione scomoda in cui era rannicchiata.
I polsi erano legati dietro la schiena con delle corde dure come ferro, ed erano così strette che la pelle era lacerata e livida. Non proveniva alcun rumore da fuori, solo il pianto sommesso di qualcuna delle donne o il respiro pesante di coloro che erano ancora addormentate.
Chiamò il nome di Almas, o delle altre concubine che erano state prese, sperando che fossero sane e salve. La flebile voce di Miraj la raggiunse come un lontano alito di vento: «Mia regina, anche tu…»
Rossane non capiva da dove venisse il suo sussurro e gli occhi non riuscivano ad abituarsi al buio.
«Qualcuno sa dove ci troviamo?»
«In un buco nella terra dimenticato dagli dèi, ecco dove» brontolò la voce impastata di Almas.
«Almas! – esclamò Rossane, come colta da un impeto di euforia. – Stai bene?»
«Credo che mi esca il sangue dal naso, ho preso una botta»
«Dobbiamo uscire da qui» sbottò Nys, dal suo angolo.
«E come, genio? – la incalzò Miraj, acida. – Non vedi che abbiamo le mani legate? In tutti i sensi!»
Nys non fece in tempo a risponderle a tono che udirono un grugnito di dolore, il respiro affannato di chi sta cercando di soffrire in silenzio, e il suono attutito di piedi che colpiscono a terra.
Le donne trattennero il fiato, impegnate a cercare di comprendere chi stesse soffrendo in quel modo.
Poi, così com’era cominciato, tutto si quietò.
«Io le mani legate non ce le ho più» sussurrò Almas, sfinita dallo sforzo.
«Che hai combinato?» domandò Nys, incuriosita.
«Mi sono liberata. Anche se mi è costato un po’»
«Libera noi, se ce la fai, altrimenti cerca un’uscita e corri a chiedere aiuto!»
«Ce la faccio, vi libero».

 
* * *



Alessandro cavalcava nella radura tra il fiume e le cittadelle, mietendo anime come Thanatos.
Avvolto nella sua armatura e in sella ad Artemide, il cavallo della sua sposa dal colore dorato, sembrava una folgore che si abbatteva sui compatti gruppi di Malli. Mulinava fendenti con la spada, ruggiva come un leone, il viso imbrattato di sudore e sangue nemico.
Arrivò presto alle mura di Multan, la capitale di quel popolo selvaggio. Preso dalla foga della battaglia e dalla furia omicida che avevano scatenando prendendo sua moglie, Alessandro scese da Artemide e, con uno schiaffo, le fece intendere di allontanarsi da quella zona.
Il re macedone saltò sulle impalcature che l’esercito aveva costruito per assediare Multan, continuando a prendersi le vite di tutti i Malli che gli capitavano a tiro. Dalla cima delle mura, intravide il manto arancione di Durga che si accaniva con ferocia sui selvaggi che avevano portato via la sua padrona.
Sulla cima delle mura c’erano Leonnato e i soldati Pauceste e Abrea. Gli altri dietro di loro non poterono raggiungerli poiché le scale erano crollate per il troppo peso, e i quattro si ritrovarono soli a fronteggiare la resistenza dei Malli. Si ritrovarono presto sommersi dai nemici e opposero una strenua resistenza. Alessandro sferrò qualche ultimo colpo con la daga, facendosi largo verso il bordo del muro e si lanciò un’occhiata intorno. Balzò giù, atterrando sul tetto di una casina bassa, e poi saltando anche da quella per affiancarsi a Durga. Era sporca di sangue e pezzi di carne incastrati tra i denti e incrostati al pelo, e aveva un lieve taglio sulla coscia che fortunatamente non impediva i movimenti.
Poi, come colta di sorpresa, la tigre girò la testa guardando in una precisa direzione, tra le vie della città, e lì scomparve per inseguire chissà quale sensazione. Alessandro la seguì correndo per starle al passo. Durga avanzava sicura tra le vie di Multan, solo di tanto in tanto si fermava. Il sovrano poteva riposare le braccia, lontano dallo scontro che infuriava poco lontano, poteva sentire il fragore del metallo che cozzava.
L’istinto gli diceva che doveva seguire la tigre, che se si era sottratta allo scontro era per un motivo preciso, aveva sentito o fiutato qualcosa. Si sentiva in colpa per Leonnato e gli altri, per questo sperò di poter tornare presto nella battaglia.
Durga si fermò di fronte alla porta di una catapecchia sotto le mura. Alessandro lanciò un’occhiata sopra di sé, per controllare di non essere un bersaglio, e sferrò un calcio alla porta di legno. Nell’interno della casa c’erano cinque Malli, ma con l’aiuto della tigre se ne sbarazzò presto.
«Erano qui per una ragione, e non la vigliaccheria» rifletté il sovrano, osservando ogni antro della catapecchia.
La tigre sembrò dargli una risposta puntando ad un tappeto con ricami indiani in un’altra stanza, senza porta a dividerla dall’ingresso. Alessandro scostò l’ornamento con un gesto secco, scoprendo una botola chiusa. La aprì, trovandovi dentro un buco nella terra e i visi sconvolti di alcune donne.
«Mio re!» esultarono, e presto tutte si ammucchiarono sotto il buco verso la libertà.
Il re sentì il cuore più leggero, aveva trovato le donne rapite da quei barbari. Tra di loro doveva esserci anche Rossane. Ma non poteva tirarle fuori da solo, doveva chiamare rinforzi. «Aspettatemi qui, vado a chiamare qualcuno che possa aiutarmi a tirarvi tutte fuori»
Durga restò a vegliare sul buco nella terra in cui era intrappolata la sua padrona, mentre Alessandro corse fuori per tornare nel fragore della battaglia.
Nel centro di Multan erano penetrati altri soldati macedoni e agriani. Subito venne riconosciuto dai Malli, che gli furono addosso, ma vedendolo arrivare da quella direzione compresero che quel sovrano – in qualche modo – aveva trovato i loro ostaggi. Un nutrito gruppo di Malli spinse nella sua direzione per raggiungere la catapecchia, e Alessandro si ritrovò da solo a fronteggiare quei barbari.
Sentì la voce di Leonnato: «Resisti, arrivo!»
«Leonnato! Le donne, Rossane! Sono in una catapecchia a ridosso del muro di cinta, manda qualcuno!»
L’amico riferì a Pauceste ed Abrea, che si avviarono per la ricerca con una quindicina di soldati, mentre il primo si faceva largo tra i selvaggi a colpi di scure per raggiungere il suo re. Non fece in tempo: vide volare sopra la sua testa un giavellotto, che colpì Alessandro.
Leonnato lanciò un urlo di rabbia: «No! Maledetti!», e mulinò l’arma con rinnovato vigore, alimentato dall’ira e dal desiderio di trarre in salvo il sovrano.

 
* * *
 
 
«Ecco dov’era il passaggio per uscire! Sul soffitto!» esclamò Nys.
Alessandro aveva lasciato la botola aperta, in modo da permettere loro di respirare aria pulita e fare un po’ di luce nel buco di terra.
Almas si guardò le mani con orrore: per liberarsi dalle corde, si era slogata il mignolo e scorticata la pelle. La carne viva era esposta, livida, annerita dalla sporcizia, e tremava come una foglia. Eppure, con immensa forza di volontà, era riuscita a liberare molte delle prigioniere.
Con la luce, la regina aveva strappato il tessuto del suo mantello per fasciarle le mani alla bell’e meglio.
«Non possiamo aspettare Alessandro, dobbiamo uscire da sole» decise Rossane, mentre stringeva il bendaggio sulle mani di Almas.
«Il buco è troppo in alto, ci servirebbero delle corde» Miraj alzò le spalle.
«Ci tiriamo su. Una rimane sotto, con le mani unite, e l’altra ci mette il piede. Quella sotto dà la spinta alla compagna e al resto ci pensa da sola, per uscire. Ma con una spinta dal basso dovremmo riuscirci. E poi quelle fuori aiutano quelle dentro»
«Non possiamo aspettare i soldati?» brontolò Nys, amareggiata. Una concubina come lei non era abituata a certi sforzi, ma nessuna di loro d’altronde. La differenza era che non tutte volevano giocarsi il ruolo delle fanciulle da salvare, se potevano farlo da sole e con un lavoro di squadra.
«No. – replicò Rossane, secca. – Non sappiamo quando e se arriveranno. Possiamo salvarci da sole»
«E fuori? Non avremo protezione»
«Abbiamo Durga. Ma staremo a ridosso delle mura e usciremo da uno dei cancelli della città. Dobbiamo sbrigarci però, prima che venga qualcuno»
Alla fine l’idea di Rossane ebbe la meglio. Priorità assoluta era uscire da quel buco, altrimenti non le avrebbero mai trovate.
Nys, che era più piazzata rispetto ad altre donne lì presenti, posò un ginocchio a terra e unì le mani a coppa in modo da permettere un appoggio. La prima ad uscire fu Rossane, seguita da Miraj e da Almas. Quest’ultima era impossibilitata ad aiutare le prime due con il sollevamento delle altre ancelle, per questo restò sulla porta della catapecchia, a controllare la strada oltre lo stipite.
Delle donne rapite, la metà fu fatta uscire e avviata verso l’accampamento. Rossane sperò solo che ci arrivassero sane e salve.
Una volta che tutte furono fatte uscire, toccava a loro allontanarsi a ridosso del muro. Procedettero con cautela, accompagnate da Durga e dal fragore della battaglia.
Presto, alle loro spalle, udirono le grida dei Malli. Si erano accorti della fuga delle prigioniere ed ora correvano per i vicoli di Multan alla loro ricerca.
Le donne cominciarono a correre, senza più prestare attenzione alle strade e avvicinandosi sempre di più fulcro della battaglia.
Rossane vide Perdicca aggirarsi con un paio di soldati, e lo chiamò.
«Rossane! – le corse incontro. – Andiamo, presto!»
«Le altre sono uscite sane e salve?»
«Sì, le ho viste, a quest’ora saranno già arrivate. Svelte!»
Le guidò per i vicoli di Multan, fino ai cancelli. Ormai erano caduti sotto il dominio macedone e i Malli non erano più un problema. Rossane si lanciò un’ultima occhiata alle spalle, nella speranza di vedere Alessandro, ma il tono concitato di Perdicca la fece desistere. Dei carri erano pronti per portarle all’accampamento, e ormai il sole era basso nel cielo.
 
 
Quando arrivarono, trovarono chi era rimasto intento a sistemare ciò che i Malli avevano distrutto quella mattina. I morti erano stati sistemati poco lontano, con teli bianchi a coprire i corpi.
I feriti che erano arrivati nel frattempo erano più o meno gravi: chi stava meglio voleva tornare nella mischia oppure si aggirava per il campo aiutando come possibile.
Filippo si adoperò per medicare le mani di Almas e le eventuali ferite che altre donne riportavano, e anche la coscia ferita di Durga. Rossane, se non altro, ne era uscita totalmente incolume e solo con un gran mal di testa. Bagoa abbracciò le amiche, commosso e felice che stessero bene.
Poco dopo la scomparsa del sole oltre la linea dell’orizzonte, tutto era già avvolto dal manto della notte. In lontananza, Multan e le cittadelle emanavano un filo di fumo e si vedevano le fiaccole accese. Tutte le città erano cadute sotto le forze macedoni, e i soldati tornarono all’accampamento stabilendo dei turni: non avrebbero lasciato le cittadelle libere o prive di sorveglianza. Quei Malli erano astuti, feroci, crudeli. E avevano ferito a morte il Re dei Re.
Perdicca, dopo aver condotto le donne alle porte della città, era stato raggiunto da Leonnato che invocava il suo aiuto per salvare il re. Il giavellotto si era conficcato sotto la clavicola ed era incastrato nella scapola, in obliquo. Fu Perdicca ad estrarre il ferro, aiutandosi con la spada per aprire un varco e facendo patire al sovrano un dolore insopportabile.
Alessandro fu ricondotto all’accampamento col buio, e si prese tutte le attenzioni di Filippo.
Restava solo una cosa da fare: dirlo alla regina.

La tenda di Rossane era stata montata a terra, perché aveva espresso apertamente il suo disappunto ed odio verso le navi, che non facevano altro che procurarle nausee e vertigini. Perdicca si fece annunciare, dopodiché entrò a capo chino.
Lei stava finendo di accendere alcune lucerne, dopodiché spense il cero con un soffio e si rivolse a lui. «Va tutto bene, Perdicca?»
Il generale scosse il capo. «Ho una brutta notizia da riferirti. Molto brutta»
Rossane venne colta da un terribile presentimento che le strinse le viscere in una morsa ferrea. Istintivamente, portò la mano al medaglione d’oro che le diede Alessandro prima di partire per la battaglia contro Poro.
«È morto?» sussurrò.
«No, per fortuna no. – rispose, ingoiando un groppo. – Ma è gravemente ferito»
«Voglio vederlo»
Perdicca l’accompagnò alla tenda reale, fuori erano piazzati i diadochi a parlare sommessamente. Quando Rossane passò, tutti chinarono il capo con rammarico. Nella tenda, in penombra, c’erano Brahmin e Filippo. Il santone seduto a un lato del letto, in meditazione; il medico era dall’altra parte, intento ad effettuare il drenaggio. Il polmone destro si era riempito di sangue, ma ora la situazione – almeno respiratoria – stava migliorando.
Alessandro era addormentato, il corpo fasciato, i capelli biondi ancora sporchi di sudore e terra, la pelle era cerea con profonde ombre scure sotto gli occhi. Se non fosse stato per il petto che si alzava e abbassava a fatica, sembrava morto.
Rossane si chinò vicino al suo viso, gli accarezzò le guance, la fronte. Le lacrime cadevano sul volto pallido del re, all’altezza degli zigomi e degli occhi. La sua più grande paura era ad un passo dall’avversarsi.
Filippo le accarezzò il capo con delicatezza, Perdicca la guardò un’ultima volta con gli occhi pieni di tristezza, prima di uscire dalla tenda con il medico e lasciarla al suo dolore. Brahmin non si mosse, rimase immerso nella sua meditazione.
«Non morirà. – le disse, atono. – Non è questo il suo momento. A suo tempo, guarirà»
Lei emise un respiro tremante. «Puoi lasciarmi sola?»
Brahmin aprì gli occhi per incontrare quelli affranti e spaventati di Rossane. I grandi occhi felini erano pieni di lacrime, arrossati dal pianto, e alla luce delle candele sembravano del colore del miele. Il Sadhu annuì appena, e con passo leggero uscì dalla tenda.
La regina poté finalmente lasciarsi andare ad un pianto liberatorio. I suoi singhiozzi vennero uditi da tutti i presenti fuori la tenda reale. I diadochi, il medico e il santone ascoltarono mortificati quel pianto sommesso, disperato e logorante.
In casi di morte – o situazioni ad essa molto vicine – dei re, l’etichetta di corte persiana imponeva che la moglie esibisse una tale disperazione da stracciare le vesti e tirare i capelli, urlando il loro dolore per la morte del marito e sfoggiando le lacrime migliori.
Il pianto di Rossane era addolorato e terribile da ascoltare, ma era sommesso, talmente sincero e genuino che la sua sofferenza raggiunse persino i diadochi. In quel momento non importava se era una barbara, se era una feroce e grezza montanara, non importava se non era una brava moglie o una degna regina, non importava se era sterile. In quel momento era solo una donna che vedeva il suo amato sul punto di scivolare tra le braccia di Thanatos.







 
A breve anche il diciottesimo capitolo, con le note autrice!



 

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Capitolo 19
*** 18. Heezh-dah ***


۱۸ . Heezh-dah

 
 
Eumene di Cardia prese il posto del re per gli affari burocratici, in quel periodo, mentre il resto dei Diadochi si riunivano per le restanti questioni.
Filippo, Rossane, Efestione e Brahmin non lasciavano mai la tenda del re, nemmeno per dormire.
I soldati erano stati tenuti all’oscuro di tutto: si vociferava che Alessandro fosse morto, e come confermare questa tesi vedevano i generali radunarsi sempre nella sua tenda, qualcuno vide persino Eumene usare il sigillo reale sulle missive. Credendolo morto, per vendicarlo rasero al suolo le cittadelle e trucidarono tutti i Malli, non importava se uomini, donne, bambini o disabili. Non ebbero pietà di nessuno.
Bagoa ed Almas assistevano in silenzio alla muta disperazione di Rossane. Non mangiava, non dormiva, restava a guardare Alessandro con occhi persi. Come se stesse ricordando tutti i momenti trascorsi con lui, sia belli che brutti, e come se si stesse aggrappando alla speranza di vedergli aprire gli occhi da un momento all’altro.
Efestione restava vicino a lei, uniti più che mai dal medesimo affetto per la medesima persona. Nemmeno lui staccava gli occhi dal volto pallido del re. Aveva molte più cose da ricordare e a cui aggrapparsi: l’infanzia a Pella, a Mieza, le battaglie, le promesse, i sogni condivisi.
Anche Bagoa si perdeva in ricordi. Da quando Nabarzane l’aveva donato al conquistatore macedone, ai primi timidi contatti sempre più infiammati con il passare delle notti.
E Almas, che non era mai stata toccata da quel re, ricordava quando si inchinò la prima volta di fronte lui. Era stato gentile con lei, le aveva fatto molte domande sulla sua arte e la sua antica religione. Ricordava quella notte: non l’aveva toccata, avevano parlato ininterrottamente.
Dopo quasi un mese di tensione, di quel limbo di incertezza tra la vita e la morte, il miracolo accadde. Alessandro aprì gli occhi, faticosamente.
Bagoa scosse Filippo, che si era assopito in un angolo, e subito scattò in piedi accorrendo al capezzale del sovrano. «Mio re, come stai?»
«Come uno che si è preso un palmo di lama tra le costole» grugnì, la voce impastata e roca.
Rossane gli fece una carezza sul volto, con un sorriso sollevato e sereno sul viso segnato dalla stanchezza. Alessandro alzò gli occhi su di lei, un’ombra di sorriso gli increspò le labbra, e posò una mano sulla sua. «Sei salva»
Lei gli accarezzò le labbra con la punta delle dita come a volerlo zittire dolcemente. «Sssh, non sforzarti»
Filippo si voltò verso Almas: «Preparagli del brodo di carne, deve rimettersi in forze al più presto» e lei obbedì.
Efestione si avvicinò al capezzale, strinse la mano dell’amico con un sorriso commosso. «Lo sapevo che nessuna lama potrà mai farti fuori, sei un leone»
Alessandro sorrise sollevato nel vedere che stava bene anche lui. «Gli altri?»
«Tutti bene. Dovrai stare più attento, hai sfidato la fortuna troppo a lungo»
«Thanatos dovrà aspettare ancora un po’».
Filippo mollò uno scappellotto sulla nuca di Efestione, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di quest’ultimo. «Non farlo affaticare, disgraziato».
Almas tornò con una ciotola di brodo di carne fumante, e vi inzuppò un panno da far succhiare al re, in modo che potesse nutrirsi senza affaticarsi.
 
 
Per un altro lungo mese Alessandro restò in quel limbo tra la vita e la morte, ogni sforzo per farlo tornare in forze sembrava vano ed effimero. Filippo, nonostante i momenti di sconforto, non demorse mai: continuava senza sosta a medicarlo, drenare la ferita, e nei momenti di lucidità del re impediva a chiunque di farlo sforzare più del dovuto. Tutti i suoi compagni facevano visita regolarmente al sovrano, solo Efestione, Rossane, Brahmin e Filippo restavano costantemente al capezzale.
Rossane sembrava rincuorata, tanto che a volte trovava il coraggio di allontanarsi e prendere un po’ d’aria fresca o cambiarsi d’abito. Anche Efestione, ma rimaneva più restìo ad allontanarsi dal capezzale.
Alessandro riprendeva le forze lentamente. Si faceva leggere i versi dell’Iliade da Efestione, si faceva suonare qualche melodia da Bagoa o da Almas, gli attori del suo seguito improvvisavano scenette per lui, chiedeva a Rossane di ballare per lui.
Il tempo ce trascorreva sveglio cominciava a stabilizzarsi, senza crollare addormentato continuamente.
Presto domandò a Leonnato, Efestione e Perdicca, di far schierare i soldati al tramonto e di preparare un cavallo. I compagni lo aiutarono a montare in sella, non senza prendere precauzioni: decisero di legare il sovrano, in modo da non rischiare di farlo cadere dalla sella. Filippo espresse il suo disappunto, ma li lasciò fare. Comprendeva le azioni del re, ora che si sentiva meglio poteva mostrarsi al suo esercito dissipando ogni chiacchiera.
Al tramonto i soldati vennero schierati e si udì il suono basso e cupo del tamburo che venne utilizzato alla battaglia di Cheronea, molti anni prima. Alessandro chiuse gli occhi per un momento, godendosi quel suono e i ricordi che portava con sé, dopodiché – dritto sulla sella del cavallo – mollò un colpetto con i talloni sui fianchi dell’animale. Il ronzino uscì dalla tenda reale, avanzando tra le fila dell’esercito. I soldati trattennero il respiro, esibendo la solita rigidità militare.
Passò in mezzo ad ogni reparto, e al suo passaggio i generali facevano un passo avanti per porgergli saluto. Alessandro non voleva fare discorsi né chiarire la situazione: i suoi soldati lo credevano figlio di un dio e in quanto tale non poteva di certo restare ferito. Perciò si limitò a sfilare tra le fila con la schiena dritta e il mento sollevato, per far vedere a tutti che era vivo e stava bene, era a cavallo e non sarebbe caduto.
 
Da quel momento la sua salute parve migliorare di giorno in giorno.
Presto riuscì a stare di nuovo in piedi e non assopirsi continuamente, mangiava con moderazione, nel pomeriggio cavalcava oppure si allenava con i generali nella lotta e nel combattimento.
Un giorno lo aveva chiesto a Rossane. Lei aveva guardato la scimitarra che Alessandro le porgeva, aveva aggrottato le sopracciglia e scosso la testa. Forse per il troppo sangue che aveva visto, le battaglie sanguinose a cui aveva assistito. Toccare una spada le provocava quasi un dolore fisico, quasi l’elsa bruciasse.
Alessandro l’aveva guardata interrogativo, ma non aveva insistito. Rossane sembrava quasi essersi spenta, in quel periodo dopo la battaglia a Multan, e aveva notato che si occupava prettamente di passatempi da donne. Leggeva l’Epopea di Gilgamesh come sempre, e altre pergamene, pregava, si esercitava con il greco, danzava con le ancelle.
Alessandro non riusciva più a scorgere nei suoi occhi la scintilla agguerrita che la contraddistingueva, ma nemmeno l’affetto. Spenta.
Rossane aveva deciso di cercare di fare la brava moglie, senza tentare di raggiungere un rapporto paritario che aveva sempre cercato di ottenere. Questo al sovrano faceva piacere, da buon re e macedone, eppure al contempo gli dispiaceva perché l’amava anche per quella sua vena infiammata. Per Alessandro era destabilizzante: aveva desiderato che fosse più mansueta, poi aveva imparato ad amare quel suo lato focoso, e ora lei si era “addomesticata”. Abituato com’era ad una Rossane testarda e impunita, ora che aveva la sua versione docile non sapeva come comportarsi. O meglio, forse lo sapeva, d’altronde Barsine, Pancaspe e le altre concubine erano tranquille; ma la sua regina… non era mai stata così, e non era una concubina o un’amante qualsiasi.

 
* * *
 
 
Erano ripartiti a gennaio, dopo tre mesi fermi.
Nel punto di confluenza tra l’Indo e l’Acesine venne fondata Alessandria di Opiene, e il viaggio proseguì a bordo delle navi. L’ambiente si faceva sempre più desertico man mano che procedevano verso sud poiché il flusso del monsone si faceva sempre più labile fino a divenire nullo.
Ad est dell’Indo si estendeva il deserto di Thar, e a sud la regine del Sindh. C’erano molte popolazioni lungo il fiume: i raja Sambo e Musicano si sottomisero al re macedone, ma presto furono spinti dai Bramani a tradirlo e ribellarsi a lui, scatenando la terribile reazione di Alessandro.
Uccise Musicano, caduto nelle sue mani, e ne assoggettò il popolo; in seguito espugnò le città del suo aiutante, il raja Ossicano, le distrusse e saccheggiò; infine raggiunse il raja Sambo, devastando il suo regno e riducendo in schiavitù i suoi abitanti. I superstiti Bramani lo pregarono di avere pietà e Alessandro si fece consegnare solo i principali responsabili, perdonando gli altri. Sambo, intanto, era scappato con trenta elefanti al di là dell’Indo.
La rapidità di reazione del conquistatore macedone e la sua spietatezza, indussero il raja di Patala ad arrendersi senza resistenza.
Patala si trovava sul delta dell’Indo, in una posizione strategica, e vi arrivavano mercanti e navi da ogni dove. Si raccontava di un’isola nel mare al di là dell’India, chiamata dai greci Taprobane e dai persiani Serendib, da cui venivano beni di ogni genere e fattura.
I mercati di Patala erano colorati, ricchi e vari quasi quanto quelli persiani.
Il governatore della città venne riconfermato con il suo ruolo e il suo unico dovere era provvedere al mantenimento dell’esercito occupante. Tuttavia delegò un segretario e scappò dalla città con una parte della popolazione.
Dopo aver fatto rifornimento ed aver permesso ai soldati di riprendere le forze, ripartirono lungo il corso dell’Indo. Non disponendo di piloti locali, l’ammiraglio Nearco dovette procedere alla cieca e imboccò il ramo destro del delta del fiume. Nonostante l’assistenza a terra con un reparto di fanteria leggera al comando di Leonnato, le difficoltà cominciarono subito. La prima fu una tempesta che distrusse alcune navi e ne fece arenare altre.
Alla fine riuscirono a giungere alla foce.

La navigazione procedette anche durante la notte, Nearco era ben lieto di fare il suo lavoro ora che ne aveva l’opportunità. Quella sera c’era la luna nuova, che i persiani interpretarono come cattivo segno.
Non avevano tutti i torti: vennero sorpresi dalla bassa marea e, con la secca, le navi si incastrarono al fondale melmoso e si rigirarono.
Rossane, udendo le grida terrorizzate e percependo il pericoloso movimento della nave ammiraglia, uscì dalla cabina per raggiungere il ponte. Almas era immobile lì fuori, il naso verso il cielo scuro, la luna tetra che non illuminava nulla mostrava il suo volto più oscuro. La regina si avvicinò all’amica, lei parlò: «Un terribile segno di dio».
Alessandro fece capolino agitato, e venne subito raggiunto da Nearco.
«Cosa sta succedendo?»
L’ammiraglio lanciò un’occhiata alle navi superstiti. «Marea oceanica, siamo vicini alla foce. La secca sta creando non pochi problemi»
«Come risolviamo, allora?»
«Dobbiamo necessariamente attendere l’alta marea e sperare che gli dèi siano dalla nostra».
Alessandro si massaggiò la base del naso e si voltò incrociando i grandi occhi di Rossane, mentre Nearco diede ordine di non lasciare le imbarcazioni per nessun motivo.
Il re si avvicinò a sua moglie, le fece una carezza sul braccio. Lei era turbata da quella situazione, ma non era la sola: in quella notte di luna nuova aumentava l’oscurità portando con sé panico e confusione. Moltissimi marinai erano terrorizzati dal fenomeno e conoscevano le dicerie in merito, pertanto cercano di fuggire per mettersi in salvo.
E mentre Rossane si abbracciava ad Alessandro cercando conforto, le grida disperate di chi cercava di fuggire ma veniva inghiottito dal fango risuonarono nell’aria, rendendola satura di terrore. La regina rabbrividì e lui la strinse ancora un po’. Non aveva paura se c’era lui.
Almas pregava senza proferir parola, muovendo solo le labbra, sul bordo del pontile. Rossane non sapeva quali divinità stesse pregando: se il persiano Ahura Mazda, o il fenicio Baal. Forse entrambi, pregna com’era di spiritualità.
Per tutta la notte risuonarono quelle grida di angoscia e terrore, nessuno dormì e tutti restarono sui pontili delle navi, come in silente attesa.
Con l’arrivo dell’alba, la marea s’innalzò e anche in quell’occasione non fu piacevole poiché la barra di marea distrusse parecchi navigli.
Il giorno seguente furono costretti a fermarsi nell’isola deltizia di Ciluta per riparare il riparabile.
Il re compì solenni sacrifici agli dèi e innalzò un altare per Teti e l’Oceano, infine proclamò di aver raggiunto il termine della spedizione in India. Restava da affrontare solo il viaggio di ritorno.








Allora, è stato un parto.
Ho avuto un blocco terribile per questa storia, il capitolo 17 era stato scritto per metà ma non riuscivo più a continuarlo. 
Poi la voglia un po' è tornata e ne ho approfittato. Abbozzai i capitoli su carta, ma puntualmente dimenticavo di trascriverli sul pc. Quando finalmente li trascrissi, dovetti comunque aggiustare, aggiungere qualche elemento, etc. 
Comunque alla fine ce l'ho fatta, ed ecco qui i capitoli. Uno dietro all'altro hahaha!
Come notate sono qualitativamente parlando un po' inferiori a quelli che ho postato finora, devo riprendere il ritmo e immedesimarmi di nuovo nel contesto.

Ad ogni modo, questo capitolo è molto generico e introduce la scissione dell'esercito che avverrà nel prossimo capitolo. Una parte è già stata affidata a Cratero, per attraversare l'Arachosia, ora si dividerà tra Nearco e Alessandro. 
Spero di non farvi aspettare secoli anche per il dicianovesimo capitolo hahah che tristezza i blocchi dello scrittore.

Voglio condividere con voi un piccolo grande traguardo: su WATTPAD sto partecipando ad un concorso - il mio primo, tra l'altro - con Rossane e un'altra storia (ambientata nel Terzo Reich). Entrambe sono passate alla prima scrematura e ora siamo alla fase delle votazioni. Se qualcuno di voi ha Wattpad, se credete che Rossane meriti, e se qualcuno vuole supportarmi e votare a favore, fatemelo sapere con un mp! Chiaramente non voglio costringere nessuno, né elemosinare niente a qualcuno, semplicemente volevo farvelo sapere.

Con questo vi auguro il buon Natale e buon Capodanno, e tante gioie per voi ♥
Alla prossima! ♥

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Capitolo 20
*** 19. Nooz-dah ***


۱۹.  Nooz-dah


 
 
Alessandro aveva studiato il miglior itinerario per raggiungere in fretta Susa e Babilonia, e aveva deciso di dividere nuovamente l’esercito: una parte sarebbe andata con Nearco attraverso il Mare Arabico, e una parte avrebbe seguito la flotta via terra attraverso la Gedrosia.
Si trattava prettamente di una missione esplorativa. Alessandro voleva sapere se era possibile tracciare una rotta marittima che collegava l’India alla Mesopotamia, ma sarebbe stato molto difficile per i marinai proseguire quella spedizione senza un supporto sulle coste, dal momento che la Gedrosia era una regine satura di ostilità. Il sovrano macedone ci teneva che la flotta arrivasse sana e salva al Golfo Persico, per questo prese la decisione di seguirla via terra liberandola dalla minaccia di quei popoli aggressivi e lasciare depositi di rifornimento di cui potessero disporre.
Le truppe via terra si sarebbero ritrovate ben più indaffarate e in pericolo, tra stenti e ostilità previste. Per tal motivo era stato deciso che Rossane sarebbe andata con la flotta.
Alessandro stesso andò a comunicarglielo alla sua tenda. Si era fatto annunciare da Almas e l’aveva trovata intenta ad esercitarsi con il greco.
Da qualche tempo ormai parlavano solo in greco, non più in persiano. Era stato un passaggio involontario, e lei era migliorata moltissimo. L’accento esotico era una deliziosa costante, ma era ormai quasi padrona del greco. Alessandro aveva pensato di insegnarle anche il dialetto macedone, ma per il momento preferiva evitare per non sovraccaricarla. Avrebbero avuto tutto il tempo del mondo.
Quando le aveva comunicato la sua decisione, Rossane aveva fatto un po’ di resistenza. Alla fine aveva desistito, comprendendo la difficoltà del percorso via terra.
L’idea di stare in mare aperto non la rassicurava: odiava il mare, odiava le navi. Ma più di tutto odiava non avere vicino Alessandro. Anche se era un litigio continuo, era il suo unico punto di riferimento. Averlo così lontano le stringeva il cuore.
Tempo di definire gli ultimi dettagli per la scissione dell’esercito, e i soldati del re si schierarono pronti a partire. Quasi tutte le donne e tutti i bambini sarebbero stati caricati sulle navi. Da ambo le parti v’erano medici, corrieri e servitori, e alcune guardie erano pronte a salpare con la regina. Tra cui Perdicca.
Nearco avrebbe atteso il tramonto delle Pleiadi per salpare, circa a metà autunno. C’erano ancora molti navigli da aggiustare, dopo la spiacevole esperienza con le maree oceaniche.
«Ormai sei stato nominato la mia guardia personale?» Rossane abbozzò un sorriso astuto mentre Perdicca le passava accanto per unirsi al gruppo di coloro che salutavano chi andava via.
«Qualcosa del genere» replicò cercando di trattenere un sorrisetto.
Tutto sommato, a Rossane la compagnia di Perdicca non dispiaceva. Era l’unico tra i diadochi che non aveva mai proferito parola contro la regina, e anzi era sempre stato corretto e onesto nei suoi confronti.
Con una punta d’invidia, la persiana notò che tra i servitori che avrebbero seguito l’esercito in Gedrosia c’era anche Bagoa. Non poté far a meno di stringere appena le labbra, un gesto che non sfuggì agli attenti occhi azzurri di Perdicca. Tuttavia preferì non commentare.
Terminato l’appello dei generali e dei loro reparti, Alessandro si voltò verso coloro che restavano.
Si avvicinò a Perdicca, gli posò le mani sulle spalle con affetto: «Fa’ attenzione» e lanciò una fugace occhiata a Rossane.
Poi raggiunse Nearco, e ripeté il gesto: «Cercherò di farvi trovare i necessari approvvigionamenti lungo la costa, farò accendere un fuoco in ogni punto in cui li lascerò. Fate attenzione – abbassò la voce, – strane voci circolano riguardo questi mari»
«Pirati?»
«Peggio, temo. – scosse la testa, come a scacciare il pensiero. – Ma lungo la costa non dovreste avere problemi».
Gli regalò un ultimo sorriso, poi andò da Rossane. La raggiunse a grandi falcate e si fermò di fronte a lei, chinando appena la testa per poterla guardare in viso. Il giorno e la notte negli occhi del re si posavano su ogni punto del viso della ragazza, come se volesse ritrarla. Gli occhi grandi, nocciola ma ambrati al sole, il naso piccolo, le labbra delicate, i capelli ondulati color castagna. Le prese il mento tra le dita, sollevandole il viso e poggiandole un bacio lieve sulla bocca.
«Hai ancora il ciondolo?» le domandò in un sussurro.
Lei rabbrividì. «Non lo tolgo mai».
Come se si fosse rincuorato dal sapere il legame simbiotico che Rossane aveva sviluppato con quella collana, Alessandro tornò a baciarla. In modo diverso, stavolta. Più intimo, più profondo. Un bacio dal retrogusto di parole non dette, di sentimenti non esposti e di voglia di rivedersi presto.
Era raro che si scambiassero un bacio. Ancora più raro che il bacio in questione andasse oltre la leggerezza di una piuma, sfiorato.
Rossane sorrise contro le sue labbra, al ricordo del primo bacio che lui le diede alla radura da cui si vedeva tutta Al-Khanoum: dolce e prepotente, lieve e dominante. Sembravano passati molti più anni di quanti ne erano trascorsi in realtà.
Alessandro posò la fronte sulla sua, con gli occhi chiusi, mentre con le mani le teneva il viso.
«Niente eroismi»
Lei sorrise: «Lo stesso vale per te, niente eroismi»
Il sovrano si separò dalla moglie con un passo indietro, abbozzando un sorriso affettuoso.
«Inviami una lettera, ogni volta che potrai. Ci rivediamo alla piana di Hormuz, mia stella».



 
 * * *


 

A metà autunno, con il tramonto delle Pleiadi e un vento favorevole per la navigazione, Nearco diede ordine di fare vela verso il Golfo Persico.
Filippo, che era in viaggio con Alessandro, aveva assegnato alla regina uno dei suoi migliori sottoposti, conscio dei problemi che aveva Rossane sulle navi. Si chiamava Demetrio, era un uomo di mezz’età con capelli e barba brizzolati, lo sguardo serio. E si era già adoperato a preparare infusi per il mal di mare della ragazza.
Perdicca si dava un gran da fare per aiutare Nearco, ma nei momenti di quiete spariva. E guarda caso spariva anche Almas. Rossane si ritrovava a sorridere tra sé e sé, immaginando quelle scappatelle. Era molto felice per la sua amica, ma d’altro canto sapeva che quell’affetto con Perdicca non era destinato a durare: l’ancella era un’umile serva fenicia, una barbara, e lui era un soldato di tutto rispetto. Destinato probabilmente a prendere in moglie una donna nobile.
Le piogge monsoniche erano magre, non disturbavano il viaggio e non inferocivano il mare. Nearco manteneva la rotta verso ovest, tenendo ben in vista l’opaco contorno delle coste della Gedrosia sulle destra, col vento in poppa che faceva avanzare placidamente la nave sulle acque scure.
Fecero tappa un paio di volte sulle coste, laddove si vedevano i fuochi accesi da Alessandro, e scendevano per i rifornimenti. La popolazione locale era chiamata Mahi khoran, “mangiatori di pesce”, in persiano, mentre in greco erano Ittiofagi. Nearco passava sempre un po’ più di tempo nei loro villaggi, studiandone le abitudini e lo stile di vita per riportarlo sul suo diario di bordo da presentare poi ad Alessandro.
Rossane scendeva con lui, approfittandosi della situazione per tornare sulla terraferma.
La popolazione locale era gentile. Gente semplice, che non aveva nulla da offrire se non il pesce pescato. Un pescatore sdentato ne offrì all’ammiraglio tre intere ceste.
«Questa gente non ha idea di trovarsi tra due zone in cui è possibile sguazzare nella ricchezza» commentò Rossane, seguendo il cretese.
Nearco sorrise sotto i baffi. «Forse è per questo che sono così felici»
La regina tacque, accompagnandolo nei suoi giri per il villaggio, districandosi nella folla del mercato. Molti si fermavano a guardarli per via della differenza di connotati: Rossane aveva sì un aspetto più esotico, ma la sua carnagione e i suoi lineamenti erano molto diversi dagli Ittiofagi; mentre Nearco spiccava per i suoi capelli castano chiaro, brizzolati, e gli occhi grigio scuro.
L’ammiraglio cretese, di tanto in tanto, si metteva ad appuntare alcune particolarità e, se il caso lo richiedeva, disegnava ciò che vedeva.
Una volta risalito sulla nave, poi, trascriveva tutto nel migliore dei modi su pergamene pulite.
Rossane ammirava la dedizione di Nearco, il suo impegno, la sua lealtà. In effetti pochi erano così leali e dediti ad Alessandro, ed erano solo in quattro: Efestione, Perdicca, Nearco ed Eumene.
Gli altri, anche Cratero, non riponevano nel sovrano macedone quella fiducia cieca o quella solida devozione. E anche se voleva bene a Cratero, preferiva mettersi nelle mani di coloro che avevano quel riguardo nei confronti di Alessandro.
Terminarono il giro nel villaggio che era il tramonto, e risalirono sulla nave ammiraglia. Almas si adoperò subito per preparare il bagno a Rossane prima della cena.
La regina si lavò, si rivestì per la notte, pregò di fronte al fuoco ed infine accolse il vassoio di cibo che l’ancella le aveva portato insieme all’infuso contro il mal di mare.
Quella sera era un po’ mosso, la nave oscillava più del solito e ciò non giovava alle nausee e vertigini della persiana.
«Resta» le disse, dopo aver bevuto la medicina.
L’ancella accettò e si sedette di fianco a Rossane su uno dei grossi cuscini al centro della cabina.
«Vuoi raccontarmi qualcosa?» la incalzò, con una punta di malizia nello sguardo.
Almas sembrò incerta, le guance si imporporarono. «Vuoi che ti racconti qualcosa in particolare?»
«In effetti sì. La situazione con Perdicca, e non guardarmi così. Lo so che c’è del tenero»
L’altra boccheggiò, abbassò lo sguardo, sempre più rossa d’imbarazzo, ma alla fine non riuscì a far a meno di sorridere. «Non c’è niente di speciale, davvero, è un buon amico»
«Anche Bagoa lo è, ma non gli rivolgi lo stesso sguardo che dedichi a Perdicca»
«D’accordo, forse c’è qualcosa di più del semplice affetto ma credimi, Rossane, niente che vada oltre. Sono molto consapevole del mio ruolo e del suo».
Almas si era rattristita, a pensarci, dal momento che era consapevole del fatto che – anche volendo – non avrebbe mai potuto avere un futuro con Perdicca. Sapeva come erano considerate le barbare, e i soldati glielo ricordavano tutti i giorni non solo quando schernivano i popoli mediorientali ma anche quando scimmiottavano lei. O addirittura la regina stessa. E non aveva alcun potere per ribellarsi: barbara, serva e pure donna. Doveva tacere e subire quella condizione umiliante tra i soldati macedoni, ed aveva smesso di sperare che qualcuno cercasse di far tacere lo scherno per un impeto di umanità nei suoi confronti.
In un’altra situazione, non avrebbe trovato umiliante il suo mestiere. Era una concubina di alto lignaggio, una sacerdotessa e l’ancella più vicina alla regina. Non avrebbe potuto chiedere di meglio, visto anche il riguardo con cui i sovrani la trattavano. Il problema erano i soldati del re.
Era stanca di vivere costantemente a disagio. Era sicura che anche per Rossane fosse lo stesso, ma per lei era diverso: era pur sempre la moglie di Alessandro. Nessuno osava umiliarla e schernirla di persona.
Rossane non rispose ad Almas, aveva ragione a non farsi illusioni, e la fenicia interpretò bene quel silenzio. La regina non voleva nemmeno mentirle e dirle quelle effimere parole: andrà tutto bene, potete superarla, e altre baggianate simili. Sapevano entrambe che la situazione tra l’ancella e il generale macedone non sarebbe migliorata.
Almas stava per aggiungere qualcosa, ma la nave subì uno strattone che fece cadere alcune pergamene dal tavolo della camera e fece rotolare a terra l’ancella.
Il mare era mosso quella sera, l’oscillare agitato sulle onde provocava a Rossane vertigini e nausee che si erano fortunatamente affievolite con il rimedio di Demetrio. Ma uno scossone del genere la fece allarmare non poco.
Si coprì con una pelliccia pesante ed uscì sul pontile seguita da Almas. Pioveva a dirotto, i marinai correvano come formiche impazzite e Nearco urlava ordini sopra il fragore del vento e della pioggia. Le vele erano state chiuse per evitare di essere strappate. Avevano perso di vista la costa. Il nero del cielo e del mare, unito a quella consapevolezza, fece stringere il fegato di Rossane in una morsa di panico.
Un fulmine squarciò l’aria, e un tuono fece tremare il cuore della regina. Ma non ebbe tempo nemmeno di sfarfallare le ciglia, che fu raggiunta da Perdicca.
«Tornate dentro, restate al chiuso!» urlò sopra l’ululato del vento.
«E adesso?» rispose Rossane.
«Ci inventeremo qualcosa. – il generale si passò le dita sulle ciglia cariche di pioggia. – È arrivata la tempesta all’improvviso, ci ha colti impreparati. Tornate dentro!»
E le due non se l’erano fatte ripetere una terza volta. Si fiondarono di nuovo nella camera di Rossane e sigillarono le finestrelle quadrate per non far entrare l’acqua. C’erano momenti in cui la nave oscillava così tanto che la finestra si avvicinava pericolosamente alle onde nere.
Le due donne restarono avvolte da una coperta pesante e non dormirono per tutta la notte, terrorizzate dalla furia del mare, pregando Ahura Mazda di far terminare quella tempesta al più presto.







 

Scusate per il capitolo breve, non credevo fosse uscito COSI corto... ç_ç
Ad ogni modo, TADAN. L'esercito è stato nuovamente diviso, Alessandro a terra e Nearco in mare.

Avviso
per questa parte della vicenda ho preso due decisioni. 
La prima: racconterò un po' la situazione di Alessandro e un po' quella di Rossane. 
La seconda: la parte di Rossane e della flotta sarà un po' fantasy. Mi sono presa questa libertà perché il diario di bordo di Nearco è andato perduto, e anche se Arriano scrisse l'Indika (dall'Anabasi di Alessandro)  basandosi su quello, volevo dare questo tocco fantasioso. 

 

Detto ciò, io vi auguro buon divertimento per Capodanno e vi auguro soprattutto un buon 2018, che possa darvi serenità e gioia, regalarvi positività e nuove esperienze ♥


 

Alla prossima, grazie a tutti di tutto ♥

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Capitolo 21
*** 20. Beest ***


۲۰. Beest

- -
 
Alessandro aveva predisposto in maniera ottimale il convoglio che doveva attraversare il deserto, dividendolo in quattro squadroni: un’avanguardia doveva avanzare e scavare nei pressi della costa dei pozzi, preceduta però da lui stesso in avanscoperta, perché invadesse le località degli Oriti e ne saccheggiasse i villaggi; Leonnato aveva l’ordine di coprire il fianco nord, Tolomeo quello costiero a sud mentre il grosso del convoglio sarebbe stato guidato a distanza da Efestione che seguiva, sulla stessa asse, il primo distaccamento.
Alessandro e le sue truppe si addentrarono un po’ di più nella regine, seguendo la pista praticabile e tracciata dalle linee delle ruote dei carri.
La boscaglia che fiancheggiava le rive dell’Indo divenne una prateria semi-paludosa in cui pascolavano bufali, cervi e antilopi. Durga, la fedele tigre di Rossane, era in custodia al re lungo il tragitto via terra. In quella prateria cacciava liberamente, e faceva ritorno alla tenda di Alessandro durante la sera. Il re, nonostante la diffidenza con i felini, aveva ormai instaurato un rapporto d’amicizia e complicità con il felino, quasi fosse umano. Durga lo affiancava sempre nella marcia, gli teneva compagnia se era da solo, era sempre vigile soprattutto quando Alessandro dormiva.
La prateria si trasformò poi in una steppa con radi cespugli, in cui pastori dall’aspetto selvaggio e primitivo facevano pascolare pecore e buoi, e guardavano incuriositi il passaggio di quel corteo scintillante che avanzava dietro il vessillo di una stella a sedici raggi.
Una guida indiana, di fianco ad Alessandro, gli parlò in persiano: «Sono Oriti, sire. Questi sono del tutto innocui, ma più avanti bisognerà fare molta attenzione».
Le truppe macedoni avanzarono fino a farsi strada alla città degli Oriti, Rambacia. La trovarono disabitata e in fiamme quasi estinte, ma ciò non scoraggiò il re e dispose i preparativi per fondarvi una nuova Alessandria.
A distanza di pochissimi giorni dalla partenza dal nuovo nucleo, Alessandro raggiunse la costa e predispose le provviste da lasciare a Nearco.

In piedi sulla costa, con le braccia incrociate al petto e il mantello che si gonfiava dietro di sé a causa della brezza, teneva gli occhi fissi sulla linea dell’orizzonte. Il cielo era nuvoloso, a tratti i raggi del sole facevano capolino facendo scintillare le onde.
Si sentiva calmo, nonostante fosse consapevole che presto avrebbero affrontato il terribile deserto. Nonostante non riuscisse a scorgere la flotta, gli piaceva immaginarla a poca distanza dalla costa mentre le onde si infrangevano leggere sulle fiancate delle navi.
«Alessandro. – lo chiamò la voce di Efestione. – Abbiamo finito. Il frumento dovrebbe sfamare la flotta per una decina di giorni, se hanno fatto bene i calcoli»
«Allora ripartiamo subito», si lanciò un’ultima occhiata alle spalle prima di affiancare l’amico e avviarsi verso il convoglio dei soldati.
«Tra non molto raggiungeremo il deserto» mormorò Efestione, tradendo una punta di ansia nella voce. Che tuttavia non sfuggì al re.
«Siamo ben organizzati, non c’è da temere»
«Lo so, ma i persiani non fanno che agitarsi. – borbottò. – Anche Bagoa si lagna»
Alessandro ghignò. «Puoi biasimarli? Non è molto allettante la prospettiva di attraversare un deserto. Poi i persiani conoscono le disavventure della regina Semiramide e di Ciro il Grande nel deserto della Gedrosia, il Dasht-e-kabir. Ma abbiamo affrontato già il deserto egiziano per arrivare a Siwa»
«Sì, ma…»
Il re gli posò le mani sulle spalle, con un sorriso fiducioso. Non aveva bisogno di dirgli altro. Efestione restò a guardarlo con la fronte appena aggrottata. Aveva cieca fiducia in Alessandro e nella sua organizzazione, e nonostante lo scetticismo, non poteva ignorare gli occhi dell’amico. Ogni cosa impossibile diveniva possibile, e quel sorriso oltre a confermarglielo, gli riempiva il cuore di coraggio e voglia di andare avanti.
 
Così, con la fine di ottobre, l’esercito si lasciò indietro la verdeggiante vallata del fiume Purali, e arrivò al confine con il deserto tanto temuto. La linea costiera, solitamente ricca di flora e fauna, da questo lato era arida. Una distesa di sabbia e rocce bianche fin dove poteva arrivare lo sguardo.
Il pensiero di Alessandro era soprattutto rivolto alla flotta: dovevano seguire un cammino parallelo, ma la carenza di scorte costrinse il convoglio ad addentrarsi di più nella regine, dove c’erano maggiori possibilità di imbattersi in centri abitati.
Allungando così il percorso, attraverso zone inesplorate, si imbatterono nelle valli di Kolwa e Kech. Qui, trovando un ambiente più fertile, il re inviò migliaia di foraggiatori fino a nord della Gedrosia, per rifornire sia l’esercito a terra che quello in mare. Ma quando ripartì in avanscoperta, gli ordini per la flotta vennero ignorati.
Alessandro raggiunse l’oasi di Turbat, e da lì discese per raggiungere di nuovo le coste. Il problema fu che le provviste si consumarono più in fretta del previsto, ancor prima di arrivare, e le piogge sarebbero arrivate solo dopo qualche settimana.
L’esercito non reggeva più la fame, il caldo e la sete. Decise allora che avrebbero continuato l’avanzata di notte, con una temperatura più fresca, e avrebbero ucciso gli animali da soma per sfamarsi.
All’alba montavano l’accampamento, per restare poi fermi fino al tramonto, e approfittando dei momenti di riposo per farsi medicare le vesciche, mangiare, dormire.
Alessandro non dormiva. E se lo faceva, era per poco. Era sempre pronto a scattare da una parte all’altra dell’accampamento per aiutare o incoraggiare.
Ma quando si stancava troppo, si chiudeva nella sua tenda e lasciava che Bagoa si occupasse di lui.

«Hai trovato qualcosa da far mangiare a Durga?» domandò il re con voce assonnata, sdraiato sulla branda.
La tigre era accoccolata lì vicino e riposava. Era visibilmente dimagrita rispetto all’inizio del viaggio di torno. Si vedevano le costole, sotto quelle striature nere. Alessandro allungò una mano verso di lei per accarezzarla dietro l’orecchio con la punta delle dita.
«Sì, mio re. Gliene ho già lasciato un po’ in un vassoio» rispose Bagoa, osservando le carezze che il sovrano dedicava all’animale.
«Ci sono lettere?»
«Una da parte di Nearco e una da parte di Rossane».
Alessandro allungò il braccio nella sua direzione, e con un leggero accenno delle dita lo invitò a porgergliele. Bagoa obbedì in religioso silenzio, e osservò il suo re mentre leggeva velocemente le brevi righe scritte sulla lettera di Nearco. Lo informava che le scorte erano state prese, e lo metteva al corrente che il diario di bordo proseguiva con dettagli e disegni sugli Ittiofagi.
Poi prese tra le mani la lettera di Rossane.
 
Da Rossane, al suo sposo Alessandro re di Persia – Salve!
Come prosegue il viaggio a terra? Il deserto è tanto ostile? Durga come sta?
Il mare è tremendo, sono costretta a prendere continuamente gli infusi che Demetrio, il medico che mi ha assegnato Filippo, mi prepara tanto pazientemente. Il mare mi mette un po’ d’inquietudine: ovunque io mi giri, il paesaggio è sempre uguale, e questo mi serra la gola dalla paura.
Mi annoio molto, ad essere sincera. Ogni tanto Nearco mi fa provare a stare al timone, con Almas e qualche volta anche Perdicca, facciamo giochi con i dadi. Ogni volta che attracchiamo, sono sempre la prima a scendere e baciare terreno!
Spero che il tuo viaggio prosegua bene, non ho avuto nemmeno una tua lettera e mi sono un po’ preoccupata, ma so che è per via dell’avventura che stai affrontando. Non so quando la mia ti arriverà, spero presto, in ogni caso il mio pensiero è sempre con te. Non arrenderti e stai di buon animo, ho fiducia in te. Ti abbraccio.
 
La lettera fece sorridere Alessandro, che non perse tempo per risponderle e si fece passare da Bagoa un foglio di pergamena e lo stiletto per scrivere.
 
Da Alessandro sovrano di Persia, alla sua lontana sposa Rossane regina di Persia –
Salve a te!
La tua lettera è un toccasana per la mia stanchezza e la mia tensione. Il viaggio è estenuante e molto difficile: avanziamo di notte per evitare la calura, e per mancanza di cibo siamo stati costretti ad abbattere alcune bestie da soma. L’acqua è poca e viene razionata severamente, ma sono fiducioso poiché presto dovrebbero arrivare le piogge a placare la nostra sete.
Durga è malridotta come noi: stanca, affamata, assetata. Mangia, beve e riposa poco, ma quanto basta per continuare l’avanzata.
Fai bene a temere il mare. Sai bene quanto me che la natura sa essere molto ostile, e l’oceano non è come una foresta pluviale. Io spero con tutto il cuore che Poseidone vi sia propizio.
Anche il mio pensiero è con te, e spero che tu possa trovare conforto in questo nei momenti di angoscia o timore. Porta i miei saluti a Perdicca ed Almas, e ringrazia Demetrio.
Grazie della tua fiducia. Ti bacio, mia stella.
 
 
 
* * * * * *

 
La notte era stata lunga, in balìa della tempesta. Per miracolo le navi non si erano distrutte contro la furia delle onde, o l’una addosso all’altra. Alcuni alberi maestri si erano spezzati e l’equipaggio si ritrovò costretto ad utilizzare i remi.
La tempesta si placò che era ancora buio, lasciando il mare piatto come una tavola e le navi ferme sulla superficie dell’acqua. Come se fossero in attesa. I capitani controllarono le perdite e i danni causati che si rivelarono essere non pochi. Alcune navi erano affondate, altre avevano alcune parti strappate via dalla furia del vento e del mare. La preoccupazione di Nearco andò al cielo.
Era coperto da nubi più nere del manto della notte, e non poteva vedere la stella polare per orientarsi. Dovevano andare a nord… ma qual era il nord?
Decisero di attendere il sorgere del sole, e fino all’alba si occuparono di recuperare alcuni marinai che avevano abbandonato i loro navigli a causa di buchi nella stiva.
Rossane fissava sconsolata e spaventata quelle navi che affondavano, con solo la prua, la poppa o un fianco ancora fuori la superficie di quell’oscurità. Il mare di notte era terrificante. Ancor di più in assenza della luna a illuminarlo debolmente. Non si distingueva dov’è che finisse il mare e iniziasse il cielo, c’era solo il nero più assoluto, e le navi sembravano fluttuare.
«È magico» aveva sospirato Almas.
«No, è terrificante» aveva risposto, invece, Rossane.
Di spiacevoli avventure, forse ne aveva vissute anche troppe, tra l’India e il mare.

L’alba arrivò di un colore grigio, rosato; a causa delle nuvole, la luce del sole sembrò colorare ogni cosa di grigio chiaro. Soprattutto l’acqua.
Nearco individuò subito l’est e gli altri punti cardinali, puntando la nave verso nord. Ben presto, sulla linea dell’orizzonte, comparve l’ombra di una montagna. Alcuni marinai gioirono perché, pur consapevoli che non si trattasse della costa, avrebbero comunque raggiunto terra.
Fu deciso di attraccare lì, per riposarsi dopo quella notte disastrosa, e cercare di riparare i navigli laddove fosse stato possibile.
Ci misero un po’ prima di arrivare, ma ne valse la pena: l’isolotto aveva solo una montagna di piccole dimensioni, ed era ricoperta di boscaglia. Non aveva sabbia, sulle sue spiagge, ma solo sassolini piccoli e duri, di colore scuro.
Non era un’isola molto grande, tanto che fu possibile circumnavigarla in un giorno e mezzo, sembrava di forme tondeggianti. Vennero montate alcune tende sulla riva e Nearco concesse un po’ di riposo ai marinai della flotta, prima di mandarli a tagliare la legna.
Ma dopo un paio d’ore, tutti erano a lavoro. C’era chi tagliava la legna, e la portava ai falegnami per preparare le tavole per riparare le navi; chi si occupava dell’esplorazione del posto, chi si occupava dei feriti, chi gettava le reti da pesca per vedere se abboccava qualcosa.
Le donne erano state divise tra il supporto all’accampamento, e la raccolta di frutti nella boscaglia.

Rossane, desiderosa di esplorare quell’isola, era immersa nel fitto della vegetazione. Gli alberi erano sottili, con le fronde abbondanti e spesse radici che fuoriuscivano dal terreno fino a coprirlo quasi del tutto. Laddove non creavano quel tappeto legnoso, c’era muschio umido. Persino nella boscaglia potevano trovarsi conchiglie, ed Almas ne raccolse un po’ per creare una collana.
«È stata una vera fortuna trovare quest’isola. – commentò Miraj, china su un cespuglio pieno di bacche mature. – Guarda che frutti particolari! Avete mai visto bacche del genere?» esclamò poi, estasiata.
Le bacche erano di tutti i colori dell’arcobaleno, punteggiate di bianco, e le foglie erano piccole e verdi, carnose. Erano bellissime da guardare, non sembravano nemmeno di quel mondo.
Nys ne staccò una e la portò alla bocca. Quando morse, un liquido dello stesso colore viola della bacca le colò ai lati delle labbra. «E sono anche buone!»
Rossane si avvicinò incuriosita, prendendone una di colore blu. La ruppe a metà con le mani, sporcandosi le dita del liquido azzurro, ed osservò l’interno. A parte il succo, il frutto era vuoto. Miraj scoccò un’occhiata curiosa: «Oh, come le noci di cocco».
Lei veniva dall’Anatolia, ma era stata in Egitto, ed era lì che vide per la prima volta quei frutti particolari. Anche in Persia c’erano, ma nella regine a sud, dove le coste incontravano il mare e dove le foci del Tigri e dell’Eufrate si mischiavano con le acque salate.
Nys annuì e tossì, deglutendo gli ultimi rimasugli di frutto. «Però la buccia è dura, fa strozzare».
«Bevi un po’ d’acqua» le consigliò Almas, porgendole la borraccia.
«No, sto bene. – le sorrise. – Hanno un buon sapore» aggiunse, e prese un’altra bacca di colore giallo. La aprì con le mani come aveva fatto Rossane, e si limitò a berne il succo, abbandonando la buccia tra le fratte.
Tossì di nuovo e si batté la mano sul petto, poi si placò e tirò un sospiro soddisfatto. Almas aggrottò le sopracciglia e le porse di nuovo la borraccia. Nys declinò ancora l’offerta.
Rossane guardò i cesti che le donne tenevano in braccio, colme di bacche variopinte. «Direi che possiamo tornare».

Nys continuò a mangiare bacche e tossire lungo il percorso di ritorno. Improvvisamente le sembrava più lungo dell’andata, eppure anche dal fitto del bosco in cui si trovavano riuscivano a intravedere il mare e il via vai di marinai laboriosi come formiche.
Si appoggiò ad un albero, affaticata, mentre le sue compagne procedevano. Miraj si voltò per guardarla interrogativa, ma Nys le fece segno di continuare: «Vi raggiungo subito, voglio mangiare altre bacche». L’amica turca sorrise scuotendo appena la testa, alla solita golosità dell’egiziana, e continuò il cammino. Nys doveva solo appoggiarsi un momento, con tutto quel camminare si era stancata e le era venuto anche un po’ di sonno.
Scosse la testa, si sarebbe riposata nell’accampamento. Allungò una mano per mangiare un’altra bacca dal cesto, sporcandosi le labbra di blu stavolta. Mosse un passo in quella direzione, ma improvvisamente quelle che sembravano radici si erano trasformati in serpenti. Si paralizzò, e cercò di gridare alle compagne di fare attenzione, ma la voce le morì in gola. Pensò che doveva essere la paura, ma poi si rese conto di far fatica a respirare. La gola si era gonfiata, ostruendo le vie respiratorie. Barcollando si mosse indietro, per allontanarsi dai serpenti. Tossì ancora, perse l’equilibrio sul corpo di un grosso serpente marrone che le strisciava ai piedi, e cadde indietro facendo rovesciare il cesto con le bacche colorate. Si immobilizzò, pregando che così non l’avrebbero considerata una minaccia e attaccata.
 

Le ragazze posarono le ceste nella tenda del cuoco.
«Dov’è finita Nys?» domandò Rossane, guardinga.
Miraj sorrise bonaria. «Ha detto che voleva restare per mangiare altre bacche, ma prima del buio dovrebbe arrivare».
La regina aggrottò le sopracciglia, era già il tramonto e aveva un brutto presentimento. «Forse si è persa. Andiamo a cercarla»
«Chi si è persa?» domandò Perdicca, entrando nella tenda con alcune noci di cocco tra le braccia.
«Nys»
«Vi accompagno. Non sappiamo niente di questo posto, e ora che sta calando la notte potrebbero uscire fuori pericoli. Vi serve qualcuno che possa difendervi» e detto questo, portò la mano ad un grosso pugnale ricurvo che aveva legato alla cintura, sganciandolo e porgendolo a Rossane, mentre lui teneva per sé la daga. La regina sorrise divertita, pensando che a quanto pareva Perdicca non aveva dimenticato di cosa fosse capace la persiana.
Partirono subito, portando con sé alcune torce per fare luce nella boscaglia cupa. A gran voce chiamarono Nys. La pioggia cominciava a battere sulle fronde, gocciolando sul tappeto di muschio e radici, ma senza che li bagnasse. L’aria era umida e calda, ma al contempo arrivavano di tanto in tanto refoli di vento freddo che provocavano brividi al gruppo.
Miraj avanzava vicino a Rossane, portando la torcia mentre la regina teneva il pugnale davanti a sé e faceva strada tra alcune fratte. Le bacche, di colori piacevoli e sgargianti col sole, al buio erano cupe e oscure.
«Rossane…» la chiamò la flebile voce di Miraj. La regina si voltò a guardarla: aveva gli occhi fissi su un punto, ma non sembrava guardare davvero, tremava con una foglia e aveva tutta l’aria di essere terrorizzata o sul punto di una crisi.
Rossane seguì lo sguardo della concubina, e vide il corpo di una donna riverso a terra, semi nascosto dalle fratte. Gli occhi chiusi le conferivano l’aria dormiente, rilassata; ma la posa era innaturale e scomposta. Ciò che pietrificò Rossane, e che aveva paralizzato Miraj, erano le labbra. Di un vivace color viola, rivoli di succo scendevano ai lati della bocca. Le dita della mano erano sporche dello stesso liquido.
La regina fece un lungo respiro, cercando di mantenere il sangue freddo. Forse non era morta. Si chinò su di lei, portandole la mano sul petto per cercare il battito del cuore. Non trovandolo, alzò lo sguardo su Miraj, afflitta.
«Dobbiamo portare via quelle bacche dalla tenda del cuoco» concluse la concubina.
Rossane annuì freneticamente, mentre si alzava in piedi. «Corri all’accampamento»
«Ti serve luce. – si guardò intorno in cerca di un ramo a cui regalare un po’ del suo fuoco. - Aspetta»
«Non c’è tempo, non c’è tempo! Non è così buio, riesco ancora a vederci senza la torcia. Cerco di raggiungere Perdicca ed Almas, ma tu devi correre, Miraj»
«Trova Nys, ti prego» le sussurrò, con il cuore in mano. Poi si voltò e corse verso l’accampamento, ma in cuor suo lo sapeva che era troppo tardi. Nys aveva mangiato troppe bacche.
 
La notte fu colma di angoscia. Diversa da quella della tempesta.
Miraj era corsa all’accampamento prima di cena, aveva avvisato tutti e dato fuoco alle ceste di bacche. All’inizio aveva suscitato gli schiamazzi dei soldati macedoni, ma i medici per primi si allarmarono delle parole della ragazza.
Furono organizzate squadre di ricerca di tutte le donne disperse quel giorno. Quasi tutte furono ritrovate, ognuna di loro aveva le labbra e le mani colorate. Poi, quando la luna era già alta nel cielo, Perdicca fece capolino dalla boscaglia seguito da Rossane ed Almas. In braccio aveva il corpo freddo di Nys. Intatto, solo sporco di succo delle bacche sulle labbra e sulle mani.
Recuperarono tutti i corpi prima dell’alba, e prepararono pire e piccole Torri del Silenzio.
Nearco era abbattuto, afflitto. Troppe perdite, tra la tempesta e quell’isola maledetta. Qualche soldato macedone si compiaceva della perdita delle donne: «Meno bocche inutili da sfamare!».
Qualche soldato persiano era terrorizzato e osò avvicinarsi all’ammiraglio: «Ammiraglio, sbrighiamoci ad andare via. Quest’isola non è quello che sembra, è Zaratan»
«Di cosa stai parlando?»
«Il mostro-isola. Sta dormendo, ecco perché è in superficie. Ma dobbiamo andare via prima che si svegli, altrimenti siamo perduti, ammiraglio».
Il corpo di Nys fu profumato e pulito, poi fu adagiato su una delle pire insieme a quello di altre donne. All’alba i fuochi vennero accesi, e dopo alcuni minuti di preghiera per quelle anime sacrificate, in cerca di cibo per tutti, Nearco diede ordine di riprendere il viaggio.
Lasciarono quell’isola maledetta che emanava sottili fili di fumo. Quasi gli dèi si fossero placati, quella mattina aveva il cielo quasi del tutto sgombro e partirono con la brezza leggera ad accompagnarli.



 

Buonsalve, come va? Piaciuto il capitolo? Tra l'altro ho deciso di cambiare font. Prima usavo Times New Roman, ora Georgia. Tutto sommato sono simili, quindi poco importa. 
È vero che Nys non era un personaggio importante, perché non l'ho mai presentato come tale, ma era comunque un'amica di Rossane ed Almas, ancora di più di Miraj.
La nostra flotta è davvero approdata su Zaratan (il mostro-isola) oppure è solo ciò che credono i superstiziosi marinai persiani? Oh-oh-oh! Una cosa è certa: è stata una disgrazia.

Dall'altra parte, invece, c'è Alessandro che deve fare i conti con la calura del deserto, la fame, e la sete. Il che sarà molto complicato: ancora una volta il sovrano sta sfidando la storia e personaggi temerari che prima di lui ci hanno provato, come la regina assira Semiramide (figura affascinante, di cui mi piacerebbe scrivere qualcosa un giorno) e il re persiano Ciro il Grande.
Ci riuscirà? Certo che ci riuscirà, è Alessandro dopottutto. E lo farà con un metodo che pare scontato, invece è molto importante.

Se vi va lasciatemi una recensione, mi fa sempre piacere sapere cosa ne pensate! Grazie a tutti coloro che seguono questa storia, attivamente o meno, a chi mi scrive una recensione o un messaggio privato, e grazie ai lettori silenziosi. Siete davvero tanti, accidenti! Hahaha!
Buona serata, alla prossima ♥

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Capitolo 22
*** 21. Yaz-beest ***


۲۱. Yaz-beest
 
 
 
Le piogge stagionali arrivarono come una mano divina. La guida disse ad Alessandro che, in realtà, le precipitazioni erano rare in quel periodo e che cadevano soprattutto sui monti a nord. Ma questo non scoraggiò né il re, né l’esercito. I piccoli corsi di fiume che avevano trovato lungo il cammino, con la calura delle ore diurne, erano pressoché prosciugati e le piogge permisero un rigonfiamento delle acque nei letti. Sui monti andarono avanti incessantemente per circa tre giorni consecutivi, fornendo un buon rifocillamento ai soldati assetati.
Gli accampamenti vennero montati poco distanti dai corsi d’acqua, e i primi tempi gli uomini si agitavano sulle rive, bevevano senza fermarsi per placare la sete. Ciò portò alcune morti e l’inquinamento delle acque a causa del fango sul fondale che veniva smosso dalla loro euforia.
Alessandro impose una rigida disciplina, unico modo per far contenti tutti ed evitare perdite inutili. Regolò il flusso di assetati sulle rive, fece raccogliere dell’acqua in grandi otri da portare lungo l’avanzata. Sarebbero dovute bastare fino alle prossime piogge, e nessuno aveva idea di quando ci sarebbero state per via della loro rarità nella stagione.
Ripreso il viaggio in assenza di corsi d’acqua e piogge, i soldati cominciarono ad essere indisciplinati ed erano persino disposti a uccidere per bere un goccio d’acqua in più dagli otri con le riserve. Tutti avevano sete, tutti soffrivano per la calura e gli stenti: soldati e animali morivano come niente. Gli uomini venivano seppelliti alla bell’e e meglio sotto la sabbia, in fosse scavate con le mani o con le spade, chi restava sapeva che le anime dei defunti non avrebbero trovato pace a causa di quell’indegno rito funebre; gli animali, semplicemente, venivano mangiati quando possibile, ma sulle loro ossa ce n’era rimasta ben poca, di carne.

Alessandro era seduto con Eumene ed Efestione, intenti a fare un calcolo di quanti chilometri restassero dalla loro posizione fino alla piana di Hormuz. Erano seduti fuori la tenda del re, nei momenti che precedevano il tramonto. L’accampamento si stava risvegliando dal consueto riposo e rifocillamento, i soldati si preparavano a ripartire.
«Dubito che Cratero ci raggiungerà qui nel deserto. – osservò Eumene. – Ci aspetterà al confine con la Carmania, al massimo, oppure direttamente alla piana di Hormuz»
«Chiamalo scemo» commentò Efestione, una mano poggiata sulla coscia e il busto sporto in avanti per scrutare meglio i punti sulla mappa indicati dal segretario generale.
«Invece Nearco dov’è, secondo te?» domandò Alessandro.
Eumene si accarezzò il mento, riflettendoci su. «Credo stia attraversando il Golfo di Oman. I venti vengono da oriente, sono tesi e costanti, perciò immagino che la flotta sia già molto avanti rispetto a noi»
«Senza provviste, senza niente» scosse la testa, amareggiato.
«In mare ci sono un sacco di pesci, - fece Efestione con un’alzata di spalle. – avranno gettato una rete e preso qualcosa»
«Non erano navi attrezzate per la pesca»
«L’avranno costruita».
Il re sollevò un sopracciglio, scettico, ma ci pensò Eumene a commentare facendogli notare quanto fosse caprone e grezzo, tanto che il generale incrociò le braccia al petto e brontolò qualche frase incomprensibile.
«Mio re», una voce titubante e affaticata costrinse Alessandro a sollevare lo sguardo.
Il sole stava tramontando, tingendo di rosso la distesa di pallida sabbia del deserto, e i suoi uomini erano tutti pronti per partire. Talmente magri da perdersi dentro le armature, in groppa a destrieri rachitici e affaticati, con zoccoli consumati come le calzature indossate dagli uomini.
Il soldato di fronte a lui era un veterano, un devoto macedone che seguiva il re fin dalle prime battaglie: da Tebe a Tiro, da Isso a Gaugamela fino a Babilonia e la corte di Taxila nell’aspro territorio indiano.
Tra le mani teneva una ciotola d’acqua limpida, che aveva tutta l’aria di essere fresca.
Alessandro era incapace di distogliere lo sguardo e si passò la lingua sulle labbra screpolate, nel tentativo di umettarle. Il soldato avvicinò ancora la scodella, per fargliela prendere e permettergli di bere. Il re dovette sforzarsi per impedirsi di afferrarla. Il suo senso di giustizia era più forte delle tentazioni e degli stenti.
Si alzò in piedi, i soldati intorno tenevano tutti gli occhi su di lui. Desideravano essere al suo posto, poter usufruire di una ciotola d’acqua in più senza l’obbligo di sottostare ai razionamenti.
Alessandro prese la scodella, regalando un sorriso appena accennato al veterano, e si avvicinò ad un asino a cui erano legati due otri, ormai quasi vuoti.
«Io ti ringrazio – gli disse con un cenno del capo, – ma non berrò quest’acqua, mentre i miei uomini muoiono di sete».
Il soldato restò interdetto per qualche istante, sembrò realizzare solo quando il re versò il contenuto della ciotola all’interno di un otre. 
Tornò a guardare il veterano, per poi abbracciare con lo sguardo tutti gli uomini che osservavano la scena. Sospirò: «Ripartiamo».
 


L’avanzata proseguì. Secondo Eumene, percorsero altri trecento chilometri.
La natura aveva smesso di rivelarsi ostile, e lasciava sul percorso ruscelli, alberi che fornivano ombra, persino qualche villaggio di umili contadini. Il bestiame venne sostituito, i soldati cominciarono a riprendere un poco di vigore nell’ultimo sforzo di concludere la marcia. Ormai la piana di Hormuz era vicina, dovevano stringere i denti ancora un po’.
Ma se Alessandro non era più in pensiero per i suoi uomini, di certo cominciava ad esserlo per Brahmin.
Da qualche tempo ormai il santone indiano lamentava un malessere strano, che non sembrava dargli tregua. Un male più spirituale che fisico, a detta sua, impossibile da spiegare a parole ma che somigliava ad un’acuta sofferenza del vivere. Alessandro le provò tutte per farlo rinvigorire, aiutarlo a sorpassare quello che forse poteva essere un brutto momento di sconforto. Brahmin si lasciava intrattenere da poeti e attori al servizio del re, passivamente, ma quando si ritrovavano soli guardava il sovrano macedone con quei suoi occhi neri. Pozzi profondi di sapienze mistiche e capacità superiori, impenetrabili alla gente comune. In quei momenti Alessandro sentiva su di sé il peso di quel malessere che attanagliava lo spirito del santone, e non sapeva come fare.
Finché un giorno, Brahmin non gli chiese di ergere una pira per lui. Voleva, semplicemente, lasciarsi morire.
Il re aveva fatto resistenza, ma l’indiano lo aveva pregato: «Se vuoi davvero aiutarmi, fallo. Liberami di questo dolore, Alessandro, lascia che il mio spirito si quieti».
Alla fine aveva acconsentito. Non fu una decisione semplice, poiché si sentiva complice di quel suicidio. Avrebbe sentito le mani macchiate del sangue del santone per il resto della sua vita. Era un peso gravoso che aveva scelto di portare, pur di liberare il fidato guru da quel male misterioso e devastante.
Alle porte della regione di Persia, appena il sole fu calato, la pira venne innalzata. I soldati erano radunati intorno, in religioso silenzio, e Alessandro aspettava lì di fronte con una torcia accesa in mano.
Brahmin fece il suo ingresso tra le fila dei soldati cosparso di oli profumati e collane di fiori intorno al collo, seduto su una piccola portantina leggera. Quando scese aveva l’atteggiamento fiero di un re che non temeva nulla, il mento sollevato e una strana luce negli occhi. Come di leggerezza e, al contempo, profezie taciute. Efestione gli legò i polsi dietro un palo della pira, e prima di allontanarsi gli mollò una leggera pacca sulla spalla.
«Puoi appiccare il fuoco, Re dei Re» disse semplicemente, senza neppure guardare il sovrano in questione.
Alessandro gli lanciò un’ultima occhiata, sperando quasi che ci ripensasse, ma non trovò gli occhi scuri di Brahmin, che guardava il cielo stellato sopra di loro.
«Addio», mormorò semplicemente.
Il santone finalmente lo guardò, sorrideva. Il re avvicinò le fiamme della torcia ai legni della pira, e si voltò di schiena per non guardare l’amico mentre veniva divorato dalle fiamme. Efestione invece lo guardava sconsolato, osservava il fuoco arrampicarsi sulla carne del santone e annerirla, consumarla, scorticarla.
Il guru non lanciò un solo grido di dolore. L’unica cosa che gridò, alle spalle del sovrano macedone, suonò come una cupa profezia, la voce di un oscuro presentimento che incombeva sulle spalle di quasi tutti i soldati:
«No, Alessandro, arrivederci. Ci rivedremo a Babilonia!»




 
* * * * * *




 
Dopo la fuga in fretta e furia dalla letale isola, che i persiani identificarono come Zaratan, un costante e teso vento da est cominciò a spingere contro le vele delle navi, conducendole verso occidente.
A volte soffiava così forte che le imbarcazioni rischiarono di rovesciarsi e tenere salda la rotta diventava complicato. Per fortuna i capitani delle navi erano abili navigatori, e Rossane si fidava ciecamente di Nearco.
Dopo la fuga dall’isola, non ne scovarono più altre e il viaggio proseguì lento e monotono. Le provviste erano ormai terminate, restavano solo un paio di sacchi di foraggio, ma il cibo era ormai così razionalizzato che ne mangiavano una misera manciata ogni tre o quattro giorni. Si spingevano il più possibile ai limiti prima di consumare un pasto. L’acqua chiaramente non rappresentava un problema, anche se il processo per cercare di pulirla almeno un po’ dal sale risultava sempre piuttosto lungo.
Rossane, come altre donne, passava la giornata nell’ozio. Il vento che smuoveva, a volte pericolosamente, le navi le creava la nausea. Aveva provato a restare seduta in cabina, senza far niente, ma si annoiava terribilmente e dopo un po’ le mancava l’aria. Quindi aveva preso l’abitudine di sedersi sul pontile, ad osservare gli esausti e affamati marinai trascinarsi per svolgere le più semplici mansioni. Cercava distrazione nella lettura, nel ripasso della grammatica greca, nel disegno; oppure semplicemente parlando con Almas e Miraj, giocando a dadi con loro, e talvolta anche Perdicca si univa.

Finché all’alba di un nuovo giorno, finalmente, una delle vedette in cima all’albero maestro si mise ad urlare: «Terra! Terra!».
Nearco aguzzò la vista, individuando a fatica la pallida ombra di una sagoma all’orizzonte. Era quasi invisibile, quasi impossibile da vedere, e per un momento temette si trattasse di un miraggio. L’unica opzione era proseguire in quella direzione. I venti erano ancora incredibilmente favorevoli, e nonostante le difficoltà avevano fatto sì che la flotta attraversasse il mare più in fretta del previsto.
Con il cielo terso del pomeriggio, la sagoma all’orizzonte s’inscuriva sempre di più, si delineava poco a poco fino ad assumere il contorno di una costa. I marinai avevano trattenuto il fiato fino a quel momento, con gli occhi fissi in quella direzione, e quando tutti si accorsero della stessa cosa, ritrovarono le energie per festeggiare.
Rossane alzò lo sguardo verso l’orizzonte e lo tenne fisso lì fin quando non furono abbastanza vicini da confermare ancora una volta che, sì, quella era proprio terra.
Salì sul secondo pontile, dove Nearco aveva lasciato il timone ad un capitano e, appoggiato alla ringhiera di legno, stava tracciando una linea su una mappa. Lì dove sapevano che ci fossero terre emerse, lì dove sapevano ci fosse l’Arabia. E loro si trovavano proprio di fronte le sue coste. Aveva dato il comando di avvicinarsi il più possibile alle coste a nord, appartenenti all’impero persiano, onde evitare spiacevoli incontri con pirati e farabutti di ogni genere.
L’ammiraglio tracciò una croce sulla mappa, in un punto che sembrava essere l’ingresso ad un altro tratto di mare che separava l’Arabia dalla Persia.
«Dobbiamo arrivare qui. – le disse, indicandole una specie di penisola al centro di quel mare. – È lo stretto di Hormuz. Domani o forse dopodomani, saremo lì»
«Secondo te le truppe di Alessandro e Cratero sono già arrivate?» gli chiese.
Nearco alzò le spalle. «Non te lo so dire, davvero»
Rossane si rabbuiò, ma annuì e tornò a guardare l’orizzonte.
Il giorno dopo o quello dopo ancora. Mancava poco alla fine di quel viaggio senza fine e l’arrivo a Babilonia. La futura vita alla corte persiana, servita e riverita come doveva essere per la moglie del Re dei Re, la regina di Persia. Forse sarebbe stata così circondata dalla servitù, che non avrebbe potuto nemmeno cambiarsi da sé gli orecchini. E poi, avrebbe dato un erede ad Alessandro. Con il termine delle campagne militari e il ricominciare di una vita tranquilla e agiata, doveva farlo, era nei suoi doveri di consorte.
Ripensò al rito della fertilità a cui prese parte in India, su consigli di Almas. Si domandò se avesse funzionato, se sarebbe riuscita nell’unico compito e dovere che aveva nei confronti del re.
Passò il pomeriggio sul pontile, senza mai staccare gli occhi dall’orizzonte. Dopo quel tempo passato in mare aperto, circondata da nient’altro che acqua, quell’ombra irregolare le sembrava una visione celestiale.


Dopo il tramonto, la flotta imboccò il golfo.
La regina, con Almas e Miraj, erano nella stiva ad ammazzare il tempo con chiacchiere leggere. Ora che vedevano le coste, la curiosità nei confronti di Babilonia sembrava tornare prepotente nella mente. Alessandro gliel’aveva descritta, a volte, ma le parole non potevano esprimere la bellezza di certe città e a Rossane non restava altro che immaginarla.
Sia Miraj che Almas erano state a Babilonia: la prima faceva parte dell’harem di Dario, era una delle trecentosessantacinque concubine del precedente sovrano di Persia; mentre la seconda era stata presa durante l’assalto dei macedoni a Tiro.
Anche loro avevano descritto a Rossane la città, ma il discorso era sempre quello.
Un gran baccano si udì sopra le loro teste, sul ponte principale. I passi pesanti dei soldati in corsa provocavano tonfi sordi che facevano cadere la polvere dalle travi.
«Ma che stanno facendo? Senti che rumore!» esclamò Miraj, spazientita.
«Pirati, forse? Nel Golfo di Oman ne girano parecchi» tentò Almas, con un brivido.
Rossane sporse il naso verso la botola che conduceva al pontile, ma senza intravedere niente e nessun rumore di combattimento. «Non credo».
Le tre giovani decisero allora di salire, raggiungere i marinai e capire cosa stessero facendo, cos’è che provocasse tanto fermento. E di certo non si aspettavano un simile spettacolo della natura.
Il mare cupo intorno a loro, era rischiarato dalla luminescenza azzurro-verdastra di quella che sembrava una patina galleggiante sulla superficie dell’acqua. Le onde lievi brillavano come luci colorate, s’infrangevano delicatamente sulle fiancate delle navi e lasciavano lì la loro luce, a macchiare il legno delle imbarcazioni. Qualcuno era riuscito a toccarne un po’, facendo presente a tutti che si trattava di un qualche organismo simile alle alghe.
Almas sussurrava parole in fenicio, felice e con le lacrime agli occhi, e Rossane immaginò che stesse ringraziando dio per quel meraviglioso spettacolo.
Anche la regina non poteva far a meno di sorridere, guardandosi intorno frenetica. Era un’atmosfera magica, in cui regnava la pace e la calma. Improvvisamente tutte le battaglie, tutte le fatiche, le sofferenze, gli stenti… sembravano un ricordo. I loro cuori, in quel momento, non erano coperti da un’armatura logorata dal tempo trascorso in viaggio e dalla salsedine, ma galleggiavano leggeri sull’acqua, avvolti da quella luce rassicurante e divina.
Rossane ebbe come l’impressione che Ahura Mazda li stesse salutando, li stesse riaccogliendo tra le sue braccia per metterli al sicuro a casa, a Babilonia, nel meraviglioso impero persiano. 








 

Liberissimi/e di trucidarmi. Vi ho fatto aspettare più di un mese, mi sento un mostro.
È stato un periodo un po' fiacco d'ispirazione e pieno di cose da fare che, anche volendo, non mi avrebbero permesso di mettermi un attimo al pc per scrivere il capitolo. Tra l'altro il capitolo sembrava lunghissimo su Word, invece su EFP mi esce corto e non so mai regolarmi, perché non voglio renderli troppo lunghi o pesanti... MA NEMMENO CORTISSIMI. Vabbé, pazienza...

Piccola curiosità sul capitolo: le "luci" che vedono alla fine i membri della flotta, sono alghe bioluminescenti che si trovano nel Golfo Persico e nel Golfo di Oman. Quindi sì, esistono hahah anche se con l'inquinamento sono molto diminuite di quantità!

Stavo riflettendo sul fatto che, appena concluderò la prima parte di questa storia, la revisionerò velocemente. Correggerò errori di punteggiatura, grammaticali e quant'altro, che sto trovando in questo periodo che ho riletto velocemente i capitoli. Soprattutto i primi. Ci sono anche altre cose che modificherò, ad esempio i nomi: Al-Khanoum, la città natale di Rossane, in realtà si chiamava Zariaspa, e quello che io chiamo Brahmin in realtà si chiamava Kàlanos. 
Insomma, urge una veloce revisione. Quella approfondita e fatta come si deve la farò quando concluderò la storia, perciò la versione che state leggendo... è un po' come una bozza, ecco hahaha

Detto questo, spero che il capitolo (anche se di passaggio) vi sia piaciuto e se vi va lasciatemi una recensione :)
Alla prossima! E credo che stavolta ci rivedremo presto ♥
Besitos ♥

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Capitolo 23
*** 22. Davaz-beest ***


۲۲. Davaz-beest

 
 
Arrivarono alla piana di Hormuz che era il tramonto.
L’esercito si era rifocillato strada facendo, abbeverandosi in pozzi d’acqua buona e mangiando grazie al supporto di alcuni villaggi sulla via. I cavalli azzoppati e malandati dovettero essere abbattuti, così come le bestie da soma; in entrambi i casi, i popolani li rifornirono di tutto ciò di cui avessero bisogno. Persino di donne.
Eumene calcolò che le perdite subìte in Gedrosia erano pari a quattro quinti del contingente con cui Alessandro partì da Patala. Un terribile viaggio di ritorno, più tragico di quanto si sarebbe mai aspettato, umiliante e drammatico.
Ma ora, finalmente, sembrava terminato. Aveva inviato due esploratori in avanscoperta all’ora di pranzo, ed erano tornati poco dopo dicendo di aver incontrato l’accampamento con le truppe di Cratero.
Quando furono avvistati, le vedette suonarono le trombe e non ci volle molto perché Alessandro scorgesse la figura di Cratero al limitare del campo che li attendeva con un sorriso difficile da non notare.
Il re trovava il suo generale in ottima forma, pulito e ben vestito. Quando scese da cavallo, lo abbracciò mollandogli pacche sulla schiena.
«Puzzi di cavallo e sudore, maledizione!» esclamò Cratero, ridendo.
«E mi sono anche lavato un po’!»
«Ci sono proprio tutti. - fece un cenno di saluto anche ad Efestione, Eumene, Tolomeo, Lisimmaco e Seleuco. – Persino Durga!»
«Tutti? Quelli che vedi sono solo un quinto degli uomini con cui partii da Patala. Fame, sete e fatica ci hanno massacrati»
«Oh, per Zeus»
«E Brahmin si è fatto bruciare», non si dilungò oltre riferendogli le enigmatiche parole. Ci aveva già pensato Efestione a creargli una certa dose di ansia con le sue osservazioni e ipotesi drammatiche.
«Il santone? Perché mai?»
«Un male spirituale, ha detto… - sussurrò, ancora preda dei rimorsi. - Tu come te la sei cavata in Carmania?»
«Un male spirituale? Al punto da farsi bruciare? Mah! Comunque mi è andata molto meglio di te. – rispose con un sorriso incerto. – Abbiamo portato un po’ d’ordine nei paesi in sommossa, ma non abbiamo avuto tante perdite»
«Notizie da Nearco, invece?»
Cratero scosse la testa. «Niente. Ma senti che vento da est, se non sono ancora arrivati di certo lo faranno presto».
 
 
* * * *

 
«Nearco è qui, è arrivato! – esclamò il re. – Per Zeus, Eumene, cosa stai facendo lì? Sbrigati, fa’ preparare tutto il cibo che puoi. Voglio che scorrano fiumi di vino, cibo in abbondanza. Bisogna preparare tutto per il loro arrivo, dobbiamo festeggiare!»
«Ci vorrà tempo!» protestò il segretario.
«Beh, allora trovalo!»
Gli occhi del re brillavano come stelle, emozionati e febbrili, felici come quelli di un bambino a cui viene regalato un nuovo gioco. Persino il suo occhio sinistro, nero come la notte senza luna, sembrava brillare. Ed Eumene, davanti a quello sguardo, non seppe dire di no al suo re.
Dopo due giorni dal loro arrivo all’accampamento di Cratero, gli esploratori inviati sulle coste per chiedere notizie di Nearco riportarono la lieta novità: l’ammiraglio era fermo poco più a sud dello stretto di Hormuz, per far riposare e rifocillare i marinai della flotta, ma avrebbe presto ripreso il viaggio fino alla piana.
Ed ora le navi erano attraccate sulla costa, vicino alla loro posizione, tanto che dall’accampamento si potevano vedere gli alberi maestri e i vessilli con la stella argeade.
«Farò in fretta. – annuì Eumene. – Però, Alessandro, ora che siamo di nuovo entro i confini dell’impero ci sono alcune questioni riguardo i satrapi che andrebbero risolte»
Il re lo zittì con un gesto della mano. «Lasciami tutti i rapporti, missive e quant’altro sullo scrittoio. Immagino già di cosa si tratti, e non voglio avvelenarmi il sangue proprio oggi che è un giorno di festa. Leggerò ogni cosa a festeggiamenti conclusi».
Gli diede altre direttive per i giorni di festeggiamenti, come preparare gare atletiche, sacrifici agli dèi e spettacoli teatrali.
Fece sellare il suo cavallo e partì, con Cratero ed Efestione, verso l’accampamento di Nearco.
I marinai lo accolsero con grida euforiche e schiamazzi vari, e Alessandro li salutò tutti con grandi sorrisi. L’ammiraglio gli corse incontro e i due si abbracciarono dandosi pacche sulle spalle. Poi, quando si separarono tenendosi per le spalle, le loro espressioni erano incredule e felici, emozionate.
Il re scoppiò in una risata liberatoria: «Ce l’abbiamo fatta!» gridò, strattonandolo appena per le spalle, mentre a quel grido soldati e marinai esplodevano in urla trionfali.
«Ce l’abbiamo fatta davvero! Abbiamo tracciato una linea marittima con l’India! E tu, brutto pazzo, hai attraversato il deserto della Gedrosia!»
«Devi raccontarmi tutto! Stasera festeggeremo, e anche domani e dopodomani ancora! Ma dimmi – si avvicinò, abbassando la voce in un sussurro, – dov’è mia moglie?»
«Credo si stia riposando sulla nave, e poi avrà il suo bel da fare per sistemarsi adeguatamente. Puzzavamo tutti di pesce marcio, sai, compresa il fiore di Persia»
Alessandro sorrise divertito. «Dunque la vedrò solo stasera al banchetto. E Perdicca?»
«Sono tutto tuo» esordì la voce del generale in questione, scoppiando in una risata.
Alessandro incontrò gli occhi di quel vivace blu del suo amico, scoprendolo un po’ sciupato ma in forma. Era pulito, indossava un chitone militare e gli schinieri, come se fosse pronto a combattere.
Il re lo abbracciò forte, felice di rivederlo e ritrovarlo sano e salvo. «Ah, Perdicca, quanto mi è mancata la tua linguaccia biforcuta»
«E a me è mancata la tua testardaggine» ridacchiò, mentre il sovrano gli scompigliava i capelli scuri.



 
Nel tardo pomeriggio, Nearco si recò all’accampamento di Alessandro per mostrare al re le mappe che aveva tracciato e il suo diario di bordo.
Il macedone sembrò molto incuriosito dalla strana avventura su quell’isola spuntata dal nulla in mezzo al mare, ad un persiano domandò di più sulla leggenda di Zaratan e quello gli rispose come già gli aveva anticipato l’ammiraglio: «È un mostro-isola, alcuni dicono abbia l’aspetto di una gigantesca tartaruga. Non si riesce a distinguere dalle isole normali. Sale in superficie solo per dormire, meglio non farla svegliare».
Dopodiché il re lesse velocemente i rapporti trascritti sul diario di bordo di Nearco e scrutò la mappa da lui preparata. Fece scorrere le dita sulla carta, tracciando con la punta il percorso segnato e le coste.
Alzò gli occhi puntandoli in quelli grigi dell’amico: «È splendida. Hai fatto un ottimo lavoro. – la arrotolò, posandola sul suo scrittoio. – Amico mio, non sai quanto mi sono preoccupato quando non abbiamo più ricevuto vostre notizie»
«Anche noi. – annuì, grave. – Abbiamo affrontato una tempesta e la grave perdita subìta sulla presunta Zaratan, ma a parte gli stenti ce la siamo cavata bene»
«Stasera dimentichiamo gli affanni, Nearco, festeggiamo».
Al tramonto arrivarono carri con il vino e cibo delizioso appena preparato da cuochi persiani, che sprigionarono nell’aria un odore da acquolina in bocca.
La servitù si occupò di far trasportare letti da convito e mense sulla spiaggia, ma molti soldati restarono senza e dovettero sedersi sulla sabbia. A nessuno importò molto, visto che la fame era pur sempre fame, e l’importante non era dove mettersi seduti ma mangiare.
 
Rossane aveva appena finito di indossare gli orecchini, si guardava allo specchio e si compiacque nel vedersi di nuovo tirata a lucido. Quel pomeriggio si era finalmente concessa un bagno come si deve, Almas le aveva cosparso il corpo con la pasta depilatoria e poi le aveva massaggiato la pelle.  Aveva intrecciato i capelli della regina in una lunga treccia che cadeva morbida sulla spalla sinistra; indossava una semplice veste di un azzurro cupo tendente al blu, fissata con due spille tonde sulle spalle e una cintura d’oro attorno alla vita. Le gambe erano fasciate dai pantaloni di cuoio da scita, infilati in stivali bassi. Complessivamente era vestita comoda, non risultava affatto regale ma, d’altronde, non lo sembrava da quando aveva lasciato Al-Khanoum. Le circostanze di certo non lo permettevano. Gli unici ornamenti che indossava erano i sottili e rigidi bracciali d’oro, la collana regalatale da Alessandro prima della battaglia contro Poro, e gli orecchini a disco.
Si sentiva finalmente pulita, leggera, quasi i giorni della navigazione fossero un ricordo distante.
I profumi del banchetto e il leggero puzzo acre dei falò, le invase le narici non appena uscì dalla sua tenda. Era un miscuglio di odori che, tuttavia, non risultava spiacevole. C’era un calore confortante in quella serata d’inverno.
Vedeva la servitù aggirarsi tra le file dei soldati seduti a terra con vassoi colmi di pietanze, ma di qualche generale conosciuto neppure l’ombra, da laggiù. Uno dei servi persiani la vide, le fece un sorriso e la invitò a seguirlo verso la parte più centrale di quella grande mensa a cielo aperto. Tra le teste dei soldati festanti, gli occhi di Rossane furono catturati dal brillante arancione del manto della sua amata tigre. Lì vicino, sdraiato su un fianco sul letto da convito, il re.
Rossane si prese qualche attimo per ammirarlo da lontano, come poche volte si era concessa di fare e come da tanto tempo non faceva. Ammirò i suoi lineamenti così armoniosi, i capelli biondi e ondulati, gli occhi che custodivano il giorno e la notte. Gli zigomi erano leggermente arrossati, contrastavano piacevolmente sul candore della pelle. Era di una bellezza così naturale, così armoniosa, sembrava una statua greca scolpita da un artista dalle mani d’oro.
Alessandro alzò lo sguardo, incontrando gli occhi ambrati di Rossane come se attirati da una calamita. Come se sapesse esattamente che, alzando i suoi, si sarebbe subito imbattuto in quelli della regina senza la necessità di cercarla.
Il cuore di lei perse un battito e si ritrovò ad arrossire. Improvvisamente si chiese se lui la trovasse bella anche così, se fosse felice, se avesse cambiato idea durante il viaggio. Pensiero che sorpresero persino Rossane, sempre incurante di ciò che gli altri pensassero del suo aspetto fisico poiché effimero, ma che vennero subito smorzati dal sorriso che Alessandro le rivolse.
Non l’aveva mai visto sorridere così, come se avesse appena visto un tesoro meraviglioso di cui solo lui poteva disporre.
Si alzò in piedi, dicendo qualcosa ai generali lì con lui che si limitarono a sorridere e ammiccare.
Alessandro percorse a grandi falcate la distanza che lo separava da Rossane, i soldati lì vicino si scansarono appena ma non si preoccuparono di guardare la scena. Lei trattenne il fiato, finché il re non la raggiunse e l’attirò a sé, stringendola forte in un abbraccio.
L’avvolse completamente. Rossane riscoprì la solidità del suo corpo, la forza delle sue braccia e il calore della sua pelle.
Per Alessandro fu lo stesso: risentirla così piccola e minuta tra le sue braccia, il profumo dei suoi capelli, la dolcezza delle sue mani che si posavano sulla schiena ricambiando l’abbraccio. Quasi si commosse nel risentirla così materialmente, così reale, e non più un abbaglio quando chiudeva le palpebre.
Rossane si accoccolò con la testa sul suo petto, lui posò la guancia sul suo capo stringendola ancora un po’. Desiderarono che quel momento durasse per sempre. Senza fatiche, senza divergenze, senza niente e nessuno; solo loro stretti l’uno all’altra come se tutto il mondo stesse crollando, tranne quel pilastro che stringevano.
Alessandro l’allontanò appena, portando le mani al suo viso e accarezzandole gli zigomi con i pollici. Si guardarono per una manciata di secondi, poi si chinò per poggiarle un bacio sulle labbra. Un bacio anche più intenso di quello che le aveva dato prima di partire. Rossane sorrise contro le sue labbra, alzandosi sulla punta dei piedi per raggiungerlo meglio. Anche il re sorrise all’ennesima dimostrazione del suo essere minuta, le circondò i fianchi con le braccia e la tirò poco più su, facendole staccare i piedi da terra.
«Sono tentato di lasciare tutto e portarti nella mia tenda» le sussurrò con un sorriso divertito.
Lei scoppiò a ridere. «E da quando un re si fa tanti scrupoli?»
«Da quando sa che sua moglie ha fame e non vuole strapazzarla troppo sapendola digiuna» replicò facendola tornare con i piedi a terra.
«Molto premuroso»
«Non ti preoccupare, piccola sfacciata, abbiamo tutta la notte» le sorrise sornione e Rossane scoppiò di nuovo a ridere alla sua espressione. Le sembrava spensierato, senza preoccupazioni. Probabilmente erano complici i fumi del vino che, seppur lievi, contribuivano.
«Mi sei mancato» ammise, inclinando la testa.
Il suo sguardo si addolcì e le prese la mano per baciarne il dorso. «Anche tu, non sai quanto. E non hai idea di quanto io sia stato in pensiero dopo aver perso i contatti con la flotta»
«Hai avuto paura? Per me?»
«Molta. E gli dèi sanno quanto io ti sia grato per non aver mangiato quelle dannate bacche sull’isola!»
Rossane gli sorrise, stringendogli la mano, e poiché Alessandro non si decideva a tornare al centro del grande banchetto, ce lo condusse lei.

Cratero ed Efestione la salutarono calorosamente, le bocche piene di carne speziata alla maniera persiana, e la regina si sedette sul letto da convito del re. Durga le si avvicinò subito, strofinandole il grosso muso sul grembo; lei non poté far a meno di accarezzarla, abbracciarla.
Per il resto della serata s’intrattenne con Alessandro e i generali ascoltando i loro racconti, compresi quelli che lei stessa aveva vissuto tra i marinai di Nearco.
Ad un certo punto, per giocare e scherzare, alcuni soldati gettarono sulla testa del re una corona di frasche d’alloro, tranci di vite e pampini. Lui non s’infuriò, anzi: domandò ad un servitore di portargli una delle sue pellicce di animali selvatici. L’ordine fu compiuto immediatamente, e Alessandro si denudò per coprirsi solamente della pelliccia di leopardo.
Brillo e ai l’imiti dell’ubriachezza, si fece portare un’altra coppa di vino, improvvisandosi il dio Dioniso. Scatenò l’ilarità generale, e tutti lo seguirono in un traballante corteo sulla spiaggia fredda.
Qualcuno andò a gettarsi in mare, giocando; altri continuarono a bere; qualcuno iniziò a danzare; altri ancora si avvicinarono alle concubine sparse per tutta la mensa a cielo aperto.
«Per Zeus, breviamo!» gridò Alessandro, scoppiando subito in una fragorosa risata contagiosa che coinvolse tutti indistintamente.
Rossane lo guardò destreggiarsi nei panni del dio Dioniso, esortando l’euforia dei festeggiamenti, l’ebrezza del vino e del sesso, trasformando quel banchetto in una festa orgiastica.

All’inizio aveva riso anche lei, tenendosi addirittura la pancia per le risate, ma quando cominciò a notare i primi grovigli di corpi intenti ad accoppiarsi, si defilò al limitare del banchetto, dove Alessandro finiva di bere la sua grossa coppa di vino tenendola con entrambe le mani.
«Io torno in tenda, qui la situazione comincia a mettermi a disagio» sorrise, incerta, sperando che lui non fosse troppo ubriaco per non capirla.
Invece il re scosse velocemente e forte la testa, come per cercare di riprendersi, e si portò le dita alla tempia. «Giusto, non ti piace assistere a certe cose»
«Scusa»
«Di che ti scusi? Io sono avvezzo, ma rispetto il tuo pudore»
Rossane sorrise, riconoscente e felice di non sentirlo ubriaco, ma piuttosto brillo. «Ti lascio ai festeggiamenti allora. – abbassò lo sguardo. – Se… se vuoi, quando hai finito, puoi raggiungermi»
Lui sorrise nel vederla così impacciata, e si chinò per darle un bacio sulla guancia. «Io qui ho già finito» le sussurrò all’orecchio, facendola avvampare. Prima che potesse rispondergli, la prese in braccio e lei dovette aggrapparsi al suo collo.
Alessandro non barcollava, giusto ogni tanto sbandava e urtava contro alcuni soldati intenti ad accoppiarsi, ma Rossane non temette mai di cadere. Piuttosto scoppiava a ridere di quella strana e spassosa situazione, facendo sghignazzare anche il re. Come due bambini che trovavano divertente una situazione che, apparentemente, non aveva nulla di comico.
Entrò nella tenda della regina, la adagiò sul letto un po’ goffamente ma con delicatezza. La fece ridacchiare ancora. Anche se lei non aveva bevuto, si sentiva pervasa da una leggerezza d’animo, da una tale euforia, che aveva solo voglia di ridere e divertirsi. Era come ubriaca anche lei.
Alessandro strofinò il viso nell’incavo del suo collo. Il profumo di lei. In quel periodo nel deserto aveva temuto di non poterlo più sentire o di dimenticarlo. Miele, oli e fiori. Delicato, irresistibile, la goccia che faceva traboccare il vaso del suo autocontrollo. Fuoco dei suoi lombi.
«Doset daram, cheshmam» le sussurrò in un sospiro, la bocca premuta sulla pelle della spalla. Come se si fosse appena liberato da un peso e si sentisse più leggero, come se non si fosse neppure accorto d’averlo detto.
Rossane avvampò a quella dichiarazione e quel modo di chiamarla. Era la prima volta che glielo diceva così apertamente, in modo così spontaneo. Di certo no, non se lo aspettava. Era quasi rassegnata a passare la vita al suo fianco, senza aver udire neppure una volta quelle parole.
«Facciamo un gioco. – le disse, sembrando ora consapevole delle sue parole. – Io sono Dioniso, tu sei Arianna»
Rossane scoppiò a ridere, gettando indietro la testa. Il re si accanì sul collo esposto con baci e piccoli morsi, sorridendo contro la pelle liscia e profumata. «Non ridere di me, sono brillo» si giustificò.
«No, tu sei Alessandro e io sono Rossane!» gli disse ridendo.
Lui alzò gli occhi, le morse una guancia, giocoso e delicato come una piuma. «Che è anche meglio, Dioniso se la sogna una donna come te, invece io ne ho l’esclusiva. – la baciò sulle labbra, facendosi strada tra le sue gambe, e sorrise divertito. – Però questa corona non me la levo».





 


Nota:
Il verbo daram (persiano moderno, non antico) significa sia amare che "aver bisogno" e "volere". Dipende dal contesto in cui viene utilizzato!


Questo e il prossimo sono un po' di passaggio, perché poi riprenderanno la marcia verso Susa e ci sarà un crick anche stavolta, un po' come per la questione di Persepoli... ops. Senza contare che Alessandro si arrabbierà non poco con i vari satrapi... ma vedremo tutto, pian piano!
Questo capitolo è più romantico e leggero, toni giocosi e festaioli, niente di serioso e pesante. Ogni tanto ci vuole!
Alla prossima ♥


 

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Capitolo 24
*** 23. Seez-beest ***


۲۳. Seez-beest
 
 
 
Rossane si svegliò a pancia in giù, con la faccia spalmata sui morbidi cuscini del letto, il corpo annodato al tripudio di lenzuola sfatte e disordinate. Si girò di schiena, stropicciandosi gli occhi infastiditi dalla forte luce che filtrava dalla tenda. Vicino a lei, il corpo di Alessandro emanava un calore cocente e piacevole, in contrasto al freddo pungente che sentiva non appena una porzione di pelle restava scoperta e si trovava esposta all’aria circostante. Il re dormiva beato, le dava le spalle mostrandole la schiena nuda segnata di cicatrici pallide in contrasto sulla pelle rosata, abbronzata e a tratti arrossata da tutto il tempo passato sotto il sole del deserto della Gedrosia.
Rossane si voltò col corpo verso di lui, posandogli la fronte tra le scapole e circondandogli il busto muscoloso con le braccia. Ispirò il suo profumo pungente ma piacevole, di metallo e cuoio. Tutto il suo corpo si scaldò quando aderì a quello del re. Un tepore confortevole, che la faceva sentire a casa, al sicuro. D’altronde le cose non potevano che andare bene, finché c’era lui al suo fianco.
Alessandro, percependo la presenza di Rossane nel dormiveglia, bofonchiò qualcosa di incomprensibile e si voltò verso di lei, ancora mezzo addormentato. L’avvolse tra le sue braccia, attirandola a sé. Ma ormai stava quasi per svegliarsi, il respiro si era fatto meno pesante.
«Mh, sì. – grugnì con un sorriso assonnato. – Questo è proprio il corpo della mia regina»
«Buongiorno» sorrise Rossane dandogli un bacio sulla punta del naso.
Lui aprì prima un occhio, poi l’altro, mostrandole il susseguirsi del giorno e della notte in due uniche iridi sovrumane. «Non dormivo così bene da… oh, per Ercole, neanche me lo ricordo».
Le regine ridacchiò appoggiandosi con le mani e il mento sul petto del re. Si guardarono a lungo, in silenzio, con piccoli sorrisi che increspavano le labbra ad entrambi. Le dita di Alessandro le percorrevano dolcemente la schiena, gli occhi si perdevano nello studio di ogni dettaglio di lei. Come se la stesse riscoprendo in quel momento.
«Secondo te – cominciò Rossane – hanno già ricominciato i festeggiamenti?»
«Ovvio, sono macedoni. Quando si tratta di bere e fottere non c’è tempo neanche per dormire. – ridacchiò, poi sembrò accorgersi di qualcosa. – Oh, scusami. Non volevo sembrare tanto grezzo»
«Anche per te è così?» gli domandò. Si chiedeva se sotto la scorza da re inamovibile e stratega calcolatore, non si celasse l’animo festaiolo e un po’ sempliciotto dei macedoni. Alessandro amava il vino, ma per quanto riguardava il fottere, come l’aveva detta lui, non sembrava propenso a lasciarsi andare a quei piaceri sfrenati e libidinosi. Per un greco, condividere certi momenti di passione solo per lussuria era quasi sacrilego, bisognava mantenere l’autocontrollo; e Alessandro era un po’ così, perché anche se non era greco, il suo maestro fu nientemeno che Aristotele. Ma a volte prevaricava il suo lato macedone, a tratti barbaro e selvaggio.
«A volte. – ammise arricciando il naso. – Soprattutto con il vino. Per il resto, devo proprio ammetterlo, l’unica che mi fa perdere l’autocontrollo sei tu».
Neppure Barsine aveva esercitato su di lui tanto potere. Rossane non se ne rendeva conto, e tutto sommato non faceva nulla che potesse permettere un tale crollo. L’aveva trovata meravigliosa ferita e sporca di terra e sangue anche dopo la battaglia contro Poro, anche con un’armatura, i pantaloni addosso, e l’assetto da amazzone. Come poteva non trovarla meravigliosa anche quando sfavillava femminilità e sensualità, magari mentre ballava o quando era nuda sopra di lui?
«Onesto» commentò Rossane con un sorriso divertito.
«Secondo te che ore sono?» le domandò distrattamente, arricciandosi una ciocca dei suoi capelli castani attorno al dito.
Lei ci rifletté su. «L’ora di pranzo, credo. Il sole mi sembra molto alto»
«Hai fame? Credi che sia meglio andare a mangiare e continuare i festeggiamenti?»
Rossane gli si rannicchiò addosso, nel bozzolo confortante delle sue braccia. Alessandro tirò le coperte fin sopra la testa immergendoli completamente nel caldo buio del letto. Si udivano solo i loro respiri e i leggeri battiti dei cuori.
La regina teneva il viso sul suo petto, con le dita tracciava piccoli cerchi o seguiva le linee delle innumerevoli cicatrici in rilievo che tappezzavano il corpo del suo re.
«Lo prendo come un no» sussurrò lui con voce arrochita, mentre le sue mani ruvide tornavano ad esplorarla su tutto il corpo.

 
* * *

 
Alessandro e Rossane uscirono dalla tenda solo nel primo pomeriggio, affamati e pronti a continuare i festeggiamenti. Appagati e riposati. Appena fuori dalla spiaggia, dove cominciava la terra sterrata, giovani soldati si prodigavano in gare atletiche con tanto di giuria improvvisata composta da Eumene e qualche altro notabile.
Quando il sovrano si sedette tra il segretario e l’amico Efestione, lanciò un’ultima occhiata a Rossane, che si stava accomodando accanto ad Almas e Bagoa.
«Alla buon’ora!» esordì Eumene, con gli occhi fissi sulle gare.
«Certo che siete instancabili eh, vi siete dati un gran da fare» commentò invece Efestione, mollandogli una gomitata.
Alessandro alzò gli occhi al cielo, senza trattenere un sorriso. «Tutto quel tempo nel deserto senza Rossane andava in qualche modo recuperato, non credi?»
«Sai che si dice? Che non è più la fanciulla più bella di Persia»
«Non mi interessa» si limitò a rispondere, con un’alzata di spalle.
«Ti ricordi Statira? La figlia di Dario. La incontrammo ad Isso. Te la ricordi?»
«Certo che me la ricordo, era una bambina» gli scoccò un’occhiata diffidente, senza capire dove volesse andare a parare.
«Sai quanti anni sono passati da allora? Nove. La principessa è cresciuta e dicono abbia superato persino sua madre e Rossane in bellezza» annuì, eloquente.
«Ti ripeto che non mi interessa. Te l’ho già detto, Rossane è Rossane»
«In questo periodo è a Susa, da quanto so. – continuò imperterrito, Efestione. – Dobbiamo fare tappa lì, giusto?»
«Te la darò in sposa, se è questo che vuoi, va bene» sospirò, esasperato ma anche vagamente divertito.
Efestione aggrottò le sopracciglia. «No, no. Lo dicevo per te. È la donna più bella di Persia, ed era la figlia di Dario. È una delle ultime principesse achemenidi, credo che dovresti sfruttare la situazione»
«L’ideale – si intromise Eumene – sarebbe stata una donna macedone. Ma devi rafforzare i tuoi legami con la Persia, in effetti. Purtroppo Rossane non basta più come ponte di collegamento. Non è mai bastata, a dir la verità, è quasi insignificante politicamente»
«Questa storia mi ha seccato. Non l’ho sposata solo per il peso politico che aveva in Battria»
«Nessuna donna è come Rossane. – ripeté Efestione, imitando le parole dell’amico. – E hai ragione, quale fanciulla sana di mente si sarebbe lanciata in uno scontro violento come quello sull’Idaspe? È una specie di Semiramide»
«Re Nino conobbe Semiramide durante l’invasione della Battria, mi ricorda qualcuno» commentò Eumene con un sogghigno.
«Io gliel’ho detto: siamo tutti d’accordo che Rossane sia la donna più conforme ad Alessandro. Ma è adatta al ruolo di regina di Persia? Doveva solo darti un erede e compiacerti, non è in grado di fare cose così semplici, come può essere adeguata?»
«Perché parli così di lei? Credevo le volessi bene» lo accusò Alessandro, scoccandogli un’occhiataccia.
Di fronte a loro, nello spiazzo di polvere e terra formatosi, Cratero e Lisimmaco si sfidavano nel pugilato. Ma il re non li guardava, adocchiava Rossane distante da lui, nella calca dei soldati, mentre si scansava distrattamente una ciocca di capelli dal viso.
«Io le voglio bene. – confermò Efestione. – Parlo solo con oggettività, da estraneo alla situazione e alla sfera emotiva»
«Mi darà un erede. Vedrai che lo farà. Siamo stati in viaggio fino ad ora, abbiamo affrontato pericoli. Una gravidanza non avrebbe giovato né alla sua salute in certi ambienti malsani, né a quella del bambino. – gli fece notare con calma. – L’India, il mare… non era il caso di rischiare. Ma ora stiamo tornando a Babilonia, vedrai che sarà diverso»
Eumene annuì, distrattamente. «Però pensaci. A Statira, dico. Non scartarla a priori, riflettici su e decidi cosa fare».
 
 
Dall’altro lato della calca, Rossane si era seduta tra Bagoa e Almas, Durga era accoccolata lì tra loro con il grosso muso posato sulle zampe anteriori.
Li raggiunse mentre l’eunuco si lamentava di quanto fosse stanco e non vedesse l’ora di tornare alla civiltà. Tutti sapevano che avrebbero fatto tappa nelle città principali: Pasargade, Susa, Ecbatana, e infine Babilonia, finalmente.
«Che bello, tornerò a casa» squittiva Bagoa, contento.
«Babilonia ti piacerà tantissimo, Rossane. – le sorrise Almas. – È la città più bella al mondo»
«Mi sarebbe piaciuto vedere anche Persepoli» sospirò lei, amareggiata.
Seguì un breve silenzio. Tutti ricordavano l’ira della regina, quando scoprì che Alessandro aveva distrutto la capitale sacra e simbolica dell’impero. Quell’ira funesta, seguita da un sonoro schiaffo, la quiete improvvisa e due lunghe settimane di punizione.
Alessandro aveva punito la sua regina. Era la prima volta che i soldati gli vedevano prendere quei provvedimenti nei confronti di una donna.
Ora Rossane si era semplicemente rassegnata all’idea che Persepoli non era più quella di un tempo. Era una città come tante, forse più malandata e malmessa, con i segni della distruzione macedone. Non aveva perdonato Alessandro, né aveva dimenticato tale atto barbarico, ma cosa avrebbe risolto arrabbiandosi ancora?
«Anche Susa e Ecbatana sono molto belle. - le mormorò Almas, conciliante. – Meno di Babilonia e di Persepoli, ma belle anch’esse»
«Una città persiana che non è bella… esiste?» commentò Bagoa, ridacchiando.
«Al-Khanoum» rispose Rossane, con un sorriso divertito.
«Quella più che persiana è una roccaforte degli Sciti» le fece notare.
La regina emise una risatina. Il suo sguardo si perse sull’incontro di pugilato tra Lisimmaco e Cratero, ma la mente vagava per i ricordi della sua città natale. Come stava Darya? E la vecchia balia Mizda? E la concubina Fayruz, alla fine, aveva davvero sposato suo padre? E Ossiarte stesso, quel traditore con il quale condivideva il sangue… come stava?
Vicino a lei le voci di Almas e Bagoa si perdevano nella freschezza del primo pomeriggio, Rossane non li ascoltava. Aveva le orecchie tappate di voci e rumori della natura; gli occhi acciecati dai ricordi delle sue montagne e dai visi che l’avevano vista crescere; il naso colmo degli odori selvaggi della Battria, profumi di piante e terra umida, di cavalli e cuoio.
Quanto tempo era passato? Non sapeva dirlo, forse tre anni, ma le sembravano un’eternità. Le sarebbe piaciuto tornare a far visita alle sue montagne, un’altra volta nella vita. Era sicura che Alessandro l’avrebbe accontentata, ma sapeva che non era il caso di chiederglielo: era il re, aveva tante cose da fare, non poteva preoccuparsi anche dei capricci della moglie.
E lei, comunque, non sentiva di meritare tale attenzione e premura, in ogni caso. Si toccò il grembo. Neanche un erede gli aveva dato. Sapeva che tutto sommato avevano fatto bene ad evitarlo, visti gli ambienti malsani in cui avevano vissuto fino a quel momento, ma al contempo odiava il fatto di non aver adempiuto neppure ad uno dei suoi doveri, e odiava lo scherno dei soldati nei suoi confronti.
Non aveva parlato a nessuno della sua frustrazione, neppure ad Almas e tantomeno a Bagoa. Il fatto che presto avrebbe riabbracciato sua sorella Amu la rincuorava profondamente.
«Scusate» mormorò ai due amici, alzandosi in piedi e dileguandosi. L’eunuco e l’ancella si scambiarono un’occhiata perplessa ma decisero di non seguirla.
Rossane entrò nella sua tenda, tirò fuori da una scatola di legno un foglio di pergamena e uno stilo.

 
Da Roshanak a sua sorella Amu – Sorella mia!
Mi scuso se non mi sono più fatta sentire, è stato un periodo colmo di avventure. Sono stata su una flotta in mare aperto fino a pochissimi giorni fa, non ho avuto modo di farti avere mie notizie. Ora siamo ad Hormuz, la prossima tappa sarà Susa e finalmente ci abbracceremo! Oh, Amu, non hai idea di quanto io abbia bisogno di confidarmi con te e di riabbracciarti. Ti racconterò tutto appena ci vedremo, mi fido poco delle lettere.
Ti voglio bene.

 
 
Uscì dalla tenda e consegnò la lettera firmata ad un corriere. Mentre quello si allontanava al galoppo, Rossane vide Alessandro alzarsi dal suo posto vicino ad Eumene ed Efestione, per allontanarsi dal campo e rientrare nella sua tenda. Ma aveva qualcosa nello sguardo. Preoccupazione, forse, o addirittura inquietudine.




 

Da quanto tempo non ci sentivamo! Devo proprio scusarmi, è un periodo - che va a avanti da circa tre mesi ormai - in cui non sono più molto sicura di questa storia. Su Wattpad (che non richiede la modifica dell'html quindi è più veloce) ho pubblicato fino al capitolo 27, ma... tre mesi fa.  E da allora, vuoi che ho perso ispirazione e vuoi che ho un calo di autostima (?), non ho più scritto nulla per Rossane. 
Ora non so quando riprenderò a scrivere, qualche bozza per il capitolo 28 l'ho buttata giù, ma nel frattempo devo pubblicare i capitoli pronti qui su EFP perché ci siete voi che seguite questa storia e non è giusto lasciarvi appesi.
Non li pubblicherò tutti insieme per evitare confusioni, ma fino al cap. 27 li posterò!

MI dispiace molto. Se siete iscritti a Wattpad e volete seguirmi, questo è il link:
.
A presto! ♥

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Capitolo 25
*** 24. Chahar-beest ***


۲۴. Chahar-beest


 
Da quando lasciarono l’accampamento per continuare a muoversi verso nord-ovest, in direzione di Pasargade, Alessandro non fece altro che inviare lettere, riceverle, dare ordini e arrabbiarsi. Era tremendamente irascibile, tanto che anche Efestione evitava di disturbarlo più del dovuto.
Rossane aveva scoperto, tramite voci tra i soldati e indiscrezioni di Bagoa e Perdicca, che il re era infuriato con i notabili che aveva messo al comando delle città e delle satrapie. Quasi tutti i governatori furono responsabili di abusi verso i sudditi, arruolamenti illegali, violenze e sacrilegi. Già da quando erano ad Hormuz, aveva subito dato ordine di costruire una prigione in un piccolo centro abitato in un’oasi tra i deserti del Dasht-e Kavir e il Dasht-e Lut. Era abitata da gente umile, ma avevano un grazioso Tempio del Fuoco e alcune Torri del Silenzio.
La cosiddetta Prigione di Alessandro, secondo i rapporti, fu costruita in tempi molto brevi in quanto il re era già in collera e non volevano fomentarla ulteriormente ritardando la costruzione.
Arrivarono a Pasargade dopo pochi giorni di marcia. Alcuni contadini lungo la via gli avevano detto che la tomba di Ciro era stata profanata e saccheggiata, e Alessandro voleva constatarlo di persona.

Si fece condurre alla Torre del Silenzio da una guida e quando vi entrò, raggelò. Il meraviglioso interno d’oro era stato barbaramente scrostato, lasciando segni di raschiatura sulle pareti di mattoni; il tesoro con cui Ciro si era fatto chiudere lì era completamente assente. Ormai quello che fu il corpo dell’antico re, non c’era più, era un cumulo di ossa. Ma quelle stesse ossa erano sparse qua e là nella Torre. Senza alcun rispetto. Era una tomba spoglia, poteva appartenere ad un misero contadino per quanto era vuota.

«Mio re, - cominciò la voce fievole del contadino, - non voglio adirarvi ulteriormente ma la situazione è più drammatica. La profanazione della tomba re Ciro è solo una parte dei danni. Alcuni generali macedoni, in vostra assenza, hanno stuprato, saccheggiato e ucciso soprattutto nei paesi più piccoli».

Alessandro fece appello a tutto il suo autocontrollo per placare la collera. Lo ringraziò e lo pagò profumatamente. Mandò le truppe di Efestione e Cratero a indagare e arrestare i notabili e i generali colpevoli; i profanatori della tomba, però, non vennero trovati. I prigionieri furono rinchiusi nella Prigione di Alessandro, nell’oasi tra i due deserti. Tuttavia non tutti: seicento uomini tra soldati e generali, colpevoli di stupri e omicidi su gente civile e innocente, furono passati per le armi.
Il re non dimostrò alcuna pietà.

L’Asia tremava di terrore ad ogni movimento di Alessandro. I satrapi divennero più controllabili, ma nelle province l’instabilità raggiungeva livelli altissimi. Le convocazioni o le missive reali erano viste come un segnale che precedeva la purga.
Nonostante le punizioni, Alessandro era profondamente amareggiato e deluso dal comportamento dei macedoni, sia governatori che generali. Per evitare ogni rischio di insubordinazione, sostituì i satrapi e diede loro ordine di congedare le truppe mercenarie al loro servizio. Decise di riformare gli eserciti da capo, inglobandoci anche quegli stessi mercenari.

Un altro duro colpo in arrivo, amico mio, pensò Efestione mentre apriva un lembo della tenda reale, trovando Alessandro intento a discutere con Cratero e Perdicca riguardo le nuove decisioni per l’ordine militare.
«Ah, Efestione! – lo salutò con un sorriso. – Vieni, stavamo discutendo delle ultime sistemazioni. Dicci cosa ne pensi»
«Aspetta, Alessandro. Qui un uomo ha delle notizie da darti, è uno dei miei informatori»
Il sorriso si spense. «Fallo entrare».
Efestione fece un cenno fuori la tenda, ed un uomo scheletrico fece il suo ingresso. Trovandosi in presenza del Re dei Re, il conquistatore che stava facendo tremare l’Asia, rabbrividì. Voci che lo paragonavano ad un leone sembravano vere. Lo sguardo scaltro, vigile, e al contempo feroce e predatorio, in quegli occhi come il cielo e come la notte, più di tutti ricordavano gli occhi di un leone. Più dei suoi ondulati capelli dorati. Più di quel portamento regale e forte.
«Qual è il tuo nome, buon uomo?»
Il vecchio trovò la sua voce graffiante, piacevole. Era ferma, proprio come si aspettava da un personaggio così carismatico.
«Mi chiamo Darioush»
«E che notizie mi porti, Darioush?»
«Riguardano Arpalo, mio re».
Alessandro lanciò un’occhiata ad Efestione, mordicchiandosi il lato del pollice. Cosa aveva da dirgli quell’uomo su Arpalo? Era un suo amico d’infanzia, un fratello. Si fidava ciecamente di lui, gli aveva affidato il delicato compito di custodire il tesoro di Babilonia e le rendite reali. Temette per la sua vita: con le insurrezioni degli ultimi tempi, sperò che non fosse rimasto ucciso.
«Lui ha… – esitò per un momento. – Ha sperperato buona parte del tesoro reale in vizi e capricci. Quando ha saputo che stavate arrivando, si è dato alla fuga con cinquemila talenti»
«Calunnia» ringhiò Alessandro, arricciando il naso in un’espressione feroce.
Gli occhi di Darioush si allargarono per l’agitazione e la paura, l’adrenalina prese a scorrergli nel sangue facendogli tremare le gambe. «No, mio re, ve l’assicuro»
«Calunnia! Arpalo non lo farebbe mai!» sbraitò scattando in piedi.
L’informatore si fece minuscolo sotto gli occhi fiammeggianti di Alessandro. Aprì bocca per cercare di farlo ragionare, ma il re lo prese per la mascella con la mano. «Non fiatare. – sibilò. – Non voglio sentire un’altra parola uscire dalla tua bocca, maledetto calunniatore. Efestione! Portalo via, rinchiudilo».
L’amico lo guardò confuso, ma fece come gli era stato detto. Non voleva alimentare l’ira di Alessandro insistendo, avrebbe cercato di parlargli una volta che avrebbe sbollito l’ira. Affidò Darioush ad alcune guardie fuori la tenda, per condurlo alla prigione dell’accampamento.

Il re si accomodò sul seggio, senza fiatare. Anche Perdicca e Cratero erano rimasti in silenzio. Allora Efestione tentò di portare il suo pensiero altrove.
«Per la tomba di Ciro, invece, cos’hai intenzione di fare?»
«Ho già dato ordine di restaurarla e sigillarla, sotto la supervisione di Aristobulo. Poi dovrà ricevere nuovamente onori e gloria. Sono un grande estimatore di Ciro» replicò annoiato.
«I responsabili sono stati trovati?»
«No. A questo punto la responsabilità ricadrà sul quel satrapo della Parside, auto-eletto come tale e dalla spocchia di pochi. Non ricordo neppure il suo nome per quanto mi è indigesto» brontolò.
Perdicca sorrise divertito. «Orxine» gli ricordò, accomodante.
Cratero invece aggrottò le sopracciglia. «È un discendente di Ciro, ha molte persone dalla sua parte»
Il re sollevò pigramente gli occhi sul generale. «E non credi che sia un’ottima occasione per levarlo di mezzo, questa? – poi posò lo sguardo su Efestione. – Va’ da Eumene, digli di scrivere una lettera per convocare Orxine. Qualcuno dovrà pagare per la profanazione della tomba di Ciro».


 
 
Tre giorni dopo, all’accampamento si presentò Orxine. Si comportò in maniera estremamente amichevole e carezzevole nei confronti di Alessandro, portò persino dei regali a lui e a Rossane. Come se sapesse già la sorte che lo attendeva e cercasse di far cadere la decisione del sovrano.
Tra l’altro il re aveva parlato alla sua sposa della profanazione della tomba di Ciro, ben consapevole che l’avrebbe incattivita come sempre faceva quando qualcuno osava intaccare l’impero persiano in qualche modo. S’incattivì quando scoprì che il suo stesso padre era un congiurato di Dario, quando scoprì che suo marito aveva distrutto Persepoli, e s’incattivì anche stavolta quando Alessandro le disse che la tomba di Ciro era stata profanata, che Orxine non era stato in grado di proteggerla e non aveva fatto niente per trovare il colpevole. Dunque erano d’accordo: Orxine doveva pagare.
Ancora una volta, Alessandro non ebbe pietà. Lo fece crocifiggere come usurpatore.
In quei giorni, l’informatore Darioush fu liberato in quanto le tremende notizie che portava riguardo Arpalo si rivelarono vere. Colui che fu un fidato compagno del re fin dall’infanzia, si rivelò uno sperperatore degli stessi tesori che doveva sorvegliare e, preda della paura per l’arrivo di Alessandro ben consapevole della sua ira, fuggì ad Atene con cinquemila talenti. Da Atene arrivarono informazioni secondo cui tentò di spronare il popolo a ribellarsi al sovrano macedone, ma senza successo.
 
 
* * * *

 
 
Primavera 324 a.C.
Susa.



Arrivarono a Susa dopo una marcia di ventiquattro giorni. La città, una delle cinque capitali dell’impero, era la residenza imperiale della famiglia di Dario.
Il palazzo era talmente grande da poter ospitare tutti i diadochi in stanze confortevoli e adeguate al loro rango. Era bellissimo, spazioso e decorato con mattonelle smaltate di blu cobalto e bassorilievi d’oro raffiguranti tori e leoni alati. Persino sui capitelli nell’Apadana, la sala delle udienze, c’erano teste di toro.
Rossane si era guardata attorno con profonda ammirazione e sgomento, mentre Alessandro le spiegava il percorso tra i corridoi e le sale del palazzo. Era quasi convinta che in vita sua sarebbe rimasta in Battria, che non si sarebbe mai spinta fino al cuore dell’impero. Ora, invece, avrebbe persino dormito nel palazzo reale di Dario, a Susa.
Amu le aveva detto che erano arrivati anche Ossiarte, Darya e Mizda. Il giorno seguente li avrebbe incontrati tutti dopo tre anni.
Andò a dormire con il cuore leggero e la mente sgombra, dopo tanto tempo, tanto che persino Alessandro se ne accorse. Avrebbero condiviso la stanza poiché non erano più rimasti appartamenti per la regina, e per loro non era un problema condividere il talamo.

Lei era già sotto le coperte, guardava il soffitto pieno di intarsi dorati dalle forme geometriche ed elaborate. Alessandro si chinò per avvicinarsi, scostando appena le lenzuola e le pellicce.
«Sei felice» osservò, con un sorriso.
Rossane lo guardò, ricambiò increspando le labbra. «Da cosa te ne accorgi?»
Le fece cenno di accoccolarsi a lui, lei obbedì. «Da niente. Semplicemente, ti sento felice. Appena ci siamo incontrati di nuovo, a Hormuz, più che felice eri spensierata. Ma ora sei davvero felice, ed è la prima volta che succede da quando siamo insieme»
«Non è colpa tua. – sussurrò. – Non del tutto» e gli regalò un sorriso furbo e dispettoso.
«Ora sarà diverso. Per un po’ di tempo, almeno»
Lo guardò interrogativa. «Cioè?»
«Perché poi avremo un figlio, e a quel punto non saremo più noi due ma noi tre. Le cose cambieranno. E poi, sto pensando di partire per l’Arabia tra qualche tempo, allargare i confini»
«Non è lontana come l’India. – osservò Rossane. – Si può fare»
«Lo farei comunque. E tu verrai con me. – le baciò la tempia. – La famiglia conduce l’uomo a casa, ma se tu sarai con me non avrò bisogno di tornarci. E poi sarei onorato di combattere al tuo fianco, coniugi e compagni in armi»
«Come Nino e Semiramide» commentò sorridendo.
«Come Nino e Semiramide. - annuì Alessandro, ripensando che Efestione ed Eumene avevano commentato allo stesso modo. – Ora dormi. Domani accoglierò la tua famiglia a palazzo, ci saranno anche le principesse che dimorano qui»
«Statira e Dripetide? Le figlie di Dario?»
«Sì. – rispose piano, le diede un ultimo bacio e lasciò che si accoccolasse a lui. – Buonanotte, cheshmam».

Eppure, Rossane se ne accorse, quella notte Alessandro non riuscì a dormire. La stringeva tra le braccia e le sussurrava parole che somigliavano al greco, ma lei udiva a malapena e non capiva; si mosse solo quando lei si spostò per girarsi di fianco. Si era messo seduto, non aveva mai interrotto il contatto tra le loro pelli. Qualcosa lo tormentava e pensò si trattasse solo degli squilibri in Persia.

Quando si svegliò, il mattino dopo, Alessandro non c’era già più. Rossane venne servita e riverita per la colazione e i trattamenti del corpo, le ancelle la tirarono a lucido per la prima volta dopo Al-Khanoum. D’altronde stava per avere un incontro ufficiale con la sua famiglia e le principesse figlie di Dario. Le pulirono la pelle tramite oli e impasti, le pettinarono i capelli e le truccarono il viso.
Rossane fece il suo ingresso nella sala dei banchetti, gremita di ospiti, splendente come una stella. Almas, vicino a lei, era compiaciuta dagli sguardi sgomenti che le rivolgevano i macedoni e i persiani stessi.
La regina indossava una lunga veste porpora con ricami floreali d’oro, impreziosita da gemme luminose, dietro le spalle scendeva il lungo mantello di una tonalità viola scuro, senza alcun ricamo. Ai capelli castani erano intrecciati filo d’oro e pallide perle, sul capo era posato il diadema reale che la classificava come regina ufficiale dell’impero di Persia. Gli occhi erano truccati da una linea di kajal che si estendeva oltre la palpebra, facendo sembrare ancor più grandi i suoi occhi d’ambra, sporcati da pagliuzze verde oliva vicino alla pupilla. Le braccia erano coperte di gioielli rigidi, sottili o spessi, dalle forme che variavano in teste di toro a serpenti attorcigliati, mentre sulle dita anelli impreziositi da gemme o incisioni particolari; indossava collane preziose e vistose e orecchini a disco.
Nessuno, nemmeno Alessandro, aveva mai visto la regina nelle vesti regali. La regina barbara venuta dall’ostile terra di Battria, colei che aveva preso parte alla sanguinosa battaglia sull’Idaspe, aveva condiviso le disgrazie del viaggio in India e ritorno, si mostrava per quella che la sua fama voleva: la donna più bella di Persia.

Nella sala ammutolita, tra gli occhi che la fissavano, riconobbe quelli blu di Amu, e quelli ambrati di Darya e Ossiarte. Sorrise, preda dell’emozione e la voglia di riabbracciarli. Suo padre era sempre uguale, con i suoi capelli e barba sale e pepe; anche Amu non era cambiata molto. Ma Darya ormai era una donna, ed era bellissima.
Alessandro si avvicinò appena ad Efestione, senza smettere di guardare Rossane. «Chi è che dice che Statira è più bella di Rossane, scusami?»
«Un cieco, credo» rispose l’amico, incredulo.
Il re si alzò in piedi, porgendo una mano alla moglie. Lei lo afferrò, e Alessandro la tirò delicatamente al suo fianco. «Amici commensali, ora siamo al completo. Non tutti la conoscete: lei è Rossane, mia moglie. La vostra regina».

Alla ragazza non sfuggirono le occhiate di Statira, il cui letto da convito e la mensa erano poco distanti da quelli di Alessandro. Le aveva poste così vicino per un atto di cordialità e rispetto nella loro posizione.
Statira era bellissima, ma aveva un ché di aggressivo e volgare nel suo aspetto. Doveva essere sua coetanea, o poco più giovane, aveva la pelle dorata e sottili occhi azzurri, il viso affilato incorniciato dai capelli nero corvino. Sembrava esile, del tutto priva di forme nonostante avesse circa vent’anni. Dripetide era diversa per lineamenti e per colori: la pelle era poco più scura, gli occhi neri e i capelli castani. Era palese che Statira somigliasse più a sua madre, e Dripetide a re Dario.
Le occhiate della principessa erano quasi sprezzanti. Guardava Rossane e poi Ossiarte, consapevole che egli fosse uno dei congiurati di suo padre e quella che doveva chiamare regina era la figlia di un traditore. Una selvaggia battriana, una scalatrice di classi sociali troppo ambiziosa per quella misera regione, che dalla fine del mondo era riuscita a raggiungere il cuore dell’impero. Era bella, non lo negava, ma Statira non comprendeva come quella selvaggia avesse fatto a conquistare le attenzioni e il cuore di Alessandro. Che fosse frutto di un accordo politico non c’era dubbio, ma non le sfuggirono le dolci attenzioni che lui le rivolgeva. I sorrisi, gli occhi con cui la guardava. Come aveva fatto? Se c’era riuscita una battriana, poteva riuscirci anche lei che era una principessa.

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