Il quartiere dei gatti neri di Fox2_Fox (/viewuser.php?uid=831702)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 (+info e OC) ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 -parte 1- ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 -parte 2- ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 -parte 1- ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 -parte 2- ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 (+info e OC) ***
Cap 1
Vi riporto, qui seguendo, i fatti che mi sono stati chiesti
di trascrivere senza riassunti né interpretazioni poiché giudicati d’importanza
elevata da elementi la cui posizione e autorità è ben maggiore rispetto alla
mia. Mi prendo però la libertà di aggiungere una piccola nota per coloro che
leggeranno queste mie parole –parole sulle quali probabilmente trascorrerò gran
parte di ciò che mi resta da vivere-: tenterò di dimostrarmi il più imparziale
possibile sulle vicende che seguono sebbene ne abbia fatto parte e, dunque,
abbia preso uno schieramento e dato un colore al mio vessillo, almeno per un
certo periodo. Non posso dunque assicurarvi di essere capace di eliminare ogni mia
opinione sull’uno o sull’altro protagonista, sebbene tenterò quest’ardua impresa.
Ci tengo inoltre a dire che, sebbene l’ordine di scrittura di questo testo mi
sia giunto dall’alto, ho deciso di tenerne per me una copia, copia che alla mia
morte sarà resa pubblica se le condizioni da me poste non verranno rispettate:
non sto scrivendo di questi eventi per diletto, ma nemmeno per puro e mero
obbligo. Ritengo infatti che gli uomini di tutto il mondo abbiano il diritto di
conoscere queste vicende poiché parti integranti della loro storia, ma non è
questa l’unica ragione. Vorrei che qualcuno, leggendo queste parole, capisse
gli sbagli che tutti noi –e non mi escludo da questo insieme poiché sono
colpevole come tutti gli altri- abbiamo fatto e i disastri che abbiamo causato.
Mi piace credere che forse tutto questo servirà a qualcosa e che nessuno farà
più i nostri errori. Probabilmente m’illudo: noi umani siamo alla fin fine
naturalmente portati alla distruzione e amiamo ripetere gli sbagli passati per
perpetrare l’una o l’altra causa, ma pensare di poter fare qualcosa di buono,
anche dopo e nonostante il male che ho fatto mi farà chiudere gli occhi un poco
più serenamente. Dunque, per tornare al punto iniziale e dare senso a tutto
questo discorso, provvederò di persona a rendere pubblico tutto questo, in un
modo o nell’altro, se coloro che sono più in alto non lo faranno, come invece
abbiamo pattuito.
Come ultima cosa oserei chiedere a tutti voi che state leggendo di non cercare
di capire come abbia ottenuto le informazioni tanto dettagliate –compresi
pensieri e sentimenti di ognuno dei personaggi- che sto per riportarvi poiché,
almeno questo, è un segreto riservato a pochi e che spero venga perduto alla
morte di questi: non è cosa che debba essere ricordata.
***
L’uomo davanti a lei sputa e un grosso grumo di saliva mista
a sangue sporca il pavimento di legno ammuffito prima di venir assorbito: un
attimo dopo al posto di questo resta solo un alone un poco più scuro del legno
stesso. Sparito nel nulla, consumato e risucchiato da qualcosa di più grande.
C’è qualcosa di poetico e filosofico in quella banalità, almeno ai suoi occhi,
probabilmente chiunque altro sarebbe solo schifato dalla puzza del legno
marcio, non che lei non lo sia. Per un momento si sofferma a pensare a quanti
microbi e batteri si nascondono in ogni singola particella di quel luogo e le
viene da rabbrividire, la pelle coperta dagli spessi strati di stoffa che
inizia a pizzicare.
Scruta intorno a sé con gli occhi da demone che si è ritrovata alla nascita e
valuta l’idea di andarsene. Che ci fa lei, lì, lontano dalla sua città, dalla
sua base, dal suo capo, dal suo territorio? Un carico di armi, sì, un giro di
droga migliore, certo, tutti argomenti validi, ma non sufficienti.
Tutto quello, l’improvviso trasferimento, gli ordini contradditori e confusi,
la riunione montata per caso, quella casa di periferia degna dei peggiori film
di terza categoria, il berciare sconnesso e ripetitivo dell’omuncolo che ha
stabilito di essere il suo nuovo capo –quando, caro lettore, il massimo che
avrebbe mai potuto dirigere sarebbe stata una fabbrica di surgelati- tutto
quello la sta irritando. E Beatrice Pazzi odiava essere irritata, le provocava
sempre una fastidiosa sensazione d’insoddisfazione, una sorta di prurito lì
sotto le bende e la carne bruciata.
Beatrice non s’irritava quasi mai, questa era la verità: amava essere calma
tanto quanto amava il profumo dei chicchi di caffè appena tostati. Era una
ragazza semplice, lei, amava crogiolarsi nei piccoli piaceri della vita: la
morbidezza di un asciugamano nuovo, la comodità di un letto a una piazza e
mezza, l’odore di pulito di lenzuola e vestiti appena lavati, il sole che
filtra dalle tapparelle come una lama e le accarezza il viso con la sua leggera
e tiepida carezza, l’acqua gelida che le ruscella sulla pelle e le pizzica ogni
nervo del corpo, che la fa sentire un semplice pezzo di carne come tutti gli
altri.
Quelle erano cose che Beatrice apprezzava, si accontentava di poco, non aveva
mai preteso una casa più grande né una carica importante, ma quando loft e
promozione erano arrivati aveva ringraziato come le si confaceva sebbene quei
doni non le avessero donato alcuna soddisfazione a livello personale.
Aveva anche brindato, quella sera, si era abbassata la maschera e aveva bevuto
un sorso d’aspro vino rosso e corposo, chiudendo gli occhi ricordando il
passato e immaginando di star bevendo il sangue dei suoi nemici.
E dunque le era inevitabile domandarsi se, per caso, avesse fatto qualcosa di
sbagliato. Le sembra praticamente impossibile, in verità: lei è impeccabile
–non che la ritenesse una lode o un vanto, era un semplice dato di fatto, per
lei come per gli altri-, ma come molti è fatta anch’ella di carne, ossa e sangue
e dunque forse qualcosa le era sfuggito –e Beatrice non negava
quest’opportunità remota poiché aveva imparato a non escludere nulla-. Ma
perché sbatterla lì come se fosse tornata ad essere feccia e non punirla in qualche
altro modo? Il boss aveva sempre saputo quanto certe situazioni la
infastidissero.
L’uomo è grasso, grassa è la faccia, grasso il collo, grasse
le dita, le mani ed i polsi, grasso è il ventre e grasse sono gambe, polpacci e
piedi. E grassa e gonfia è la lingua che da ore s’agita prendendo aria,
sprecando ossigeno e il prezioso tempo di tutti i presenti.
Un uomo di cui Beatrice ha già scordato il nome, più giovane del grasso ma di
certo più anziano di lei e il terzo in una stanza di cinque persone, scoppia a
ridere scuotendo la testa, le braccia incrociate al petto. Vari tatuaggi gli
ricoprono le dita e la ragazza dai capelli castani si domanda se siano quelli a
fornirgli quell’insulsa spavalderia tipica di chi crede d’esser immortale.
«Ti sei rivelato ridicolo esattamente come c’era da aspettarsi, ma guardati, ti
eri preparato tutto il discorso, vero? Magari te lo eri anche provato davanti
allo specchio.»
Un ragazzo parecchio giovane –non era mai stata brava con i nomi-, ha stampato
in faccia un ghigno impertinente e le mani nelle tasche. Beatrice ha capito di
averne davanti uno nuovo quando ha notato un rigonfiamento nella giacca: una pistola
infilata in una fondina, probabilmente entrambe nuove di zecca e comprate
apposta per quella magica serata.
Probabilmente sarà lui a sparare il colpo, le sembra il più adatto tra i tre suoi
“colleghi” –tali li vedete qui definiti, poiché non trovo altre parole, ma sappiate
che a Beatrice quel termine non aggradava-.
Il grasso guarda confuso il tatuato, le sopracciglia aggrottate. Poi realizza e
il rosso cangiante che fino a poco prima gli ha colorato le gote svanisce per
lasciare spazio ad un grigio cinereo.
In Beatrice, unendosi all’irritazione, sopraggiunge la noia: la farsa è finita,
ed era già durata fin troppo, ma qualcosa dentro di lei le dice che quella
situazione durerà ancora per un po’ e che, di conseguenza, dovrà aspettare
ancora almeno un paio d’ore prima di rientrare nell’appartamento che le hanno
assegnato e farsi una doccia fredda.
La mente inizia a vagare mentre s’appoggia a una delle mura cigolanti della
casa di legno. Una casa delle bambole, quella, o almeno, tale le era sembrata
quando v’era sgusciata dentro con il favore delle tenebre. Una casa delle
bambole vecchia e cadente, un tempo il giocattolo preferito d’una bambina
viziata, piccolo pargolo di una tra le più ricche ed importanti famiglia della
città. Una casa delle bambole finemente intagliata e che era stata protagonista
delle più grandi storie d’amore tra bambole che il Cielo avesse mai avuto
l’onore d’ammirare. Una casa delle bambole che aveva visto la piccola bambina
crescere e che era stata abbandonata al suo destino come lo erano tutti i
giocattoli ad un certo punto.
A Beatrice, per un momento, torna in mente la casa per le bambole di legno
d’acero che aveva avuto lei, da bambina. Era stata bella, bellissima, con tutti
i mobiletti intagliati in legno più e meno scuro e le stoffe, tovaglie, tende e
lenzuola, ricamate dalla sua tata. E Beatrice, sebbene paia impossibile poiché
tutto quello lo ha perso quando aveva appena sette anni, ricorda con spaventosa
chiarezza le belle bambole di porcellana dal viso bianco ed immacolato con cui
giocava. Le ricorda tutte e trentasette, tutti i loro abiti, i loro nomi, il
colore delle loro pupille. Le ricorda mentre le pettina e le fa sedere intorno
al tavolo insieme a lei per prendere il tè. Ne ricorda i vestiti di pizzo
ricamati, gli occhi fissi e sgranati che l’avevano sempre un po’ inquietata. Ne
ricorda i bei capelli a boccoli che avevano preso fuoco, quel giorno.
Un urlo strozzato la distrae e le palpebre sbattono una singola
volta sugli occhi bicromatici così da mettere a fuoco la stanza e la grottesca
scenetta che vi si sta svolgendo: il ragazzino ha estratto la pistola che ora
tiene protesa davanti a sé, puntata contro l’uomo grasso. Il tatuato persiste
nella sua posizione a braccia incrociate esattamente come nell’espressione
strafottente che ha stampata in volto. Beatrice ha sempre detestato chi trae
piacere da quelle situazioni: uccidere non avrebbe mai dovuto essere un
piacere, le persone dovevano essere uccise per i crimini ed i peccati che
avevano commesso, non per la propria sadica sete di potere o vendetta.
L’ultimo individuo nella stanza pare pensarla all’incirca come lei, o più
probabilmente è semplicemente disinteressato alla sorte di quell’uomo e,
esattamente come lei, si è ritrovato lì per pura scena, senza nemmeno un
compito abbozzato come quello toccato in sorte a Beatrice.
L’uomo grasso indietreggia strascicando i piedi a terra e con le mani in alto,
sempre più pallido ogni secondo che passa. Biascica qualche parola
incomprensibile e si guarda intorno alla ricerca della porta o di una qualunque
altra via di fuga.
A Beatrice il tanfo di legno marcio e piscio inizia a dare la nausea e, dopo
poco, un fastidioso mal di testa inizia a torturarla facendole pulsare le
tempie. Probabilmente è i pressante desiderio di allontanarsi al più presto da
quel posto che spinge Beatrice ad aprire bocca.
«Muovetevi, non ci tengo a sprecare altro tempo.»
La voce risuona metallica e raschiante, un poco ovattata a causa della
maschera, ma basta per attirarsi addosso gli sguardi dei quattro uomini nella
stanza.
Terrore, timore, irritazione, curiosità.
Quattro espressioni per altrettanti uomini. Vede un lampo di curiosità negli
occhi del silenzioso, uno d’astio in quelli del tatuato, l’incertezza in quelli
del ragazzino e la muta disperazione illumina lo sguardo dell’uomo grassottello
che, seppur solo con lo sguardo, la prega di salvarlo, come se lei fosse
realmente una speranza.
«Non sono qui per vedere un bamboccio che si diletta ad usare una pistola come
se fosse un giocattolo.»
«Tu qui non hai diritto di parola.»
Quella parole la gelano il sangue nelle vene e le parole in gola.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.»
Il ghigno beffardo del tatuato si allarga ancora di più alla replica della
ragazza.
«Ho detto che non hai alcun diritto di parola: il comando per questo giro lo
hanno assegnato a me, tu devi solo far rapporto, sta al tuo posto, cagnetta.»
Il giovane, che è esattamente in mezzo a loro e tiene ancora puntata la
pistola, è visibilmente sbiancato fino a raggiungere la medesima tonalità
dell’uomo grasso.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.» ripete le medesime parole facendo
un passo in avanti. Per un attimo, quando si muove, pare che il tatuato voglia
arretrare, c’è qualcosa nel suo sguardo che lo suggerisce –Beatrice era sempre
stata incredibilmente brava a capire cosa passasse per la mente delle persone,
sapere come queste avrebbero agito era parte fondamentale del suo lavoro-, alla
fine però continua a restare immobile, le gambe leggermente divaricate e le
braccia incrociate al petto. Dalle labbra gli sfugge quella che dovrebbe esser
una risata strozzata, ma che assomiglia molto di più a un grugnito.
«Oltre ad essere menomata sei pure scema? Sei solo il fottuto cane da riporto
del quartier generale, chiudi la bocca e aspetta fino a quanto non ti dirò di
andartene.»
Beatrice tiene gli occhi spaiati –uno color nocciola, l’altro di un grigio
talmente chiaro da apparire violetto alla tenue luce della luna- puntati su di
lui. Quella è l’unica parte di se stessa che mostra al mondo sebbene,
soprattutto i primi tempi, avesse desiderato nascondere anche lo sguardo
bicolore che, durante la sua infanzia, l’aveva fatta etichettare come figlia
del Diavolo. Ma ora il luogo è diverso come è diverso il periodo e sono diverse
le persone, ma soprattutto è lei ad essere diversa: adesso i suoi occhi sono
solo una delle tante stranezze esistenti al mondo.
Lo sta fissando, lo fissa per attimi che paiono interminabili, poi, un battito
di ciglia dopo, una delle mani guantate tiene protesa una pistola fresca di
lucidatura, la canna rivolta verso il tatuato.
«Come scusa? Non credo di aver capito bene.»
Le stesse parole, un disco rotto dalla voce gracchiante.
L’uomo tatuato alza le mani e indietreggia di un passo, improvvisamente
pallido. Il ragazzino con in mano la pistola trema, Beatrice lo sa anche senza
vederlo.
«Cosa cazzo pensi di fare con quella?!» la voce che il tatuato sta cercando di
mantenere ferma è in realtà stridula, probabilmente si è reso conto della
ridicola distanza che li separa, talmente minima che anche il più incapace dei
tiratori potrebbe fare centro. «Abbassala immediatamente o giuro che…»
Cade in ginocchio un momento dopo, un urlo di dolore che trapana i timpani di
tutti e che fa storcere le labbra a Beatrice: ha sempre odiato i rumori forti
ed improvvisi. Le mani che si tiene strette sulla gamba sono lorde di sangue.
Tre battiti di ciglia e c’è un nuovo sparo, ma questa volta nessun urlo. L’uomo
grasso cade a terra con un buco in fronte e dopo aver dipinto il muro dietro di
lui, tende piene di tarli incluse, con un colorato schizzo di sangue e
cervella.
Il ragazzo giovane lascia cadere la pistola e arretra fino a che non inciampa
sui suoi stessi piedi e cade a terra, il viso sporco della stessa sostanza che
ha imbrattato le pareti.
Il silenzioso non dice nulla, si limita a sorridere divertito e a rivolgere un
cenno alla ragazza, come dicendole che, per lui, è liberissima di andarsene.
Beatrice, dal canto suo, resta impassibile, anche davanti allo sguardo del
silenzioso che si sta… complimentando con lei? In verità non le importa.
«Questo casino lo ripulisci tu, il cane da guardia menomato deve tornare dal
capo a fare rapporto.»
E detto questo esce dalla stanza.
***
Il sorriso che Isaia De’ Medici ha stampato in faccia pare
gli sia stato incollato addosso e adesso gli si sia ghiacciato sulla pelle. Non
è un sorriso granché sincero, in verità, proprio per nulla. Però è un sorriso.
Isaia De’ Medici sta sorridendo sebbene la maggior parte delle persone in una
situazione come quella avrebbe detto qualche parolaccia e preteso un
risarcimento. La maggior parte delle persone vedendosi versare addosso
un’enorme tazza di caffè bollente che, oltre ad aver macchiato e rovinato
irreparabilmente la camicia di marca, lo aveva anche ustionato, non avrebbe
stretto i denti e sorriso cercando di apparire il più sincero possibile come
aveva fatto Isaia.
La ragazza che gli era capitolata addosso si sta scusando a ripetizione, ma è
ben evidente –per Isaia come per chiunque stesse assistendo a quel teatrino-
che in verità vorrebbe semplicemente scappare via e andare all’appuntamento per
la quale sta facendo ritardo. Quando infatti Isaia riesce finalmente ad
interrompere lo spasmodico flusso di parole della ragazza con un “Davvero, non
importa” questa non si prende neppure la briga di ringraziarlo o di lasciargli
il suo numero di telefono o di assicurargli un risarcimento per la camicia
rovinata, ma scappa immediatamente via correndo e facendo slalom nel bar
affollato lasciandolo lì con la camicia bianca completamente zuppa e un
problema non poco rilevante: come avrebbe fatto a tornare a casa, cambiarsi la
maglietta e arrivare in orario al suo nuovo posto di lavoro entro trenta minuti
quando questo distava quindici minuti di camminata veloce dall’università e
casa sua era ad altri dieci? Sarebbe arrivato in ritardo il primo giorno,
magnifico. Come poteva pensare di amministrare la giustizia, sconfiggere la
Mafia e il male nel mondo se a stento riusciva ad essere puntuale? Maledetto
lui quando quella mattina aveva pensato che sarebbe stata una buona idea girare
a piedi invece che usare la macchina o la metro. La verità era che aveva temuto
di perdersi per le strade di Milano, di sbagliare fermata o di restare bloccato
nel traffico e quindi aveva preferito andare sul sicuro facendo la strada a
piedi come sempre.
E adesso avrebbe fatto ritardo. Un mostruoso, terribile e spaventoso ritardo
per il suo primo giorno come salvatore della nazione.
Chissà come lo avrebbero guardato male i suoi colleghi! Avrebbero tutto pensato
che non prendeva la cosa seriamente e lo avrebbero isolato, giudicandolo un
poppante immaturo ricco e viziato che aveva accettato l’incarico governativo
solo perché s’annoiava. Un disastro, un completo e totale disastro!
Quando aveva comunicato al padre la decisione di
entrare a far parte della squadra anti-Mafia che il Governo stava istituendo,
questo si era dimostrato subito contrario —non che si dimostrasse mai
particolarmente favorevole o entusiasta di qualunque iniziativa presa dal
figlio, questo il lettore deve saperlo per capire al meglio Isaia-. Quando però
il ragazzo dai capelli rossi aveva affermato di non aver la minima intenzione
di rinunciare all'opportunità di essere utile alla nazione "proprio come
te, papà" (riportando le stesse parole pronunciate dal fulvo) —poiché il
lettore deve anche sapere che la famiglia De' Medici era da secoli dotata di
poteri e che, da secoli, li metteva al servizio de Governo-, e dopo un'accesa
discussione durante la quale persino la madre di Isaia, solitamente silenziosa
e remissiva verso le decisioni del marito, aveva sostenuto il figlio, il padre
del ragazzo aveva ceduto intimandogli con durezza di "tenere alto il nome
della famiglia" e di "dimostrarsi all'altezza delle aspettative".
E di certo arrivare tardi e zuppo di caffè o sudore il primo giorno non era
quello che suo padre intendeva per "tenere alto l'onore dei De'
Medici".
L'appartamento che Guglielmo De' Medici aveva trovato al
figlio, quando anni prima questo l'aveva convinto, dopo mesi di trattative, a
farlo trasferire da solo a Milano per frequentare l'università, era davvero a
due passi dalla facoltà e, oltre ad essere di una vastità immensa ed esagerata
—con tanto di cameriera e cuoco-, era anche di una freddezza disarmante. C'era
qualcosa, in quell'attico ultra-moderno, capace di far rabbrividire Isaia in
piena estate.
Ci aveva provato, Isaia, a renderlo accogliente, ma pareva che per quante foto,
piante o dipinti da strada ci mettesse l'attico restasse sempre privo di
qualunque calore umano. Lo odiava. Lo detestava con tutta la forza e
l'intensità con cui si può detestare l'appartamento in cui si vive. Quel luogo
era semplicemente privo di qualunque conforto si potesse trarre dalla propria
casa.
L'unica cosa che lo aiutava a sopportare quella completa assenza di colore e
calore era Nocciolina, la sua piccola e dolcissima gattina trovatella che non
s'era più staccata da lui dopo che il ragazzo le aveva dato da mangiare un
pezzetto di prosciutto quando l'aveva vista, ancora piccola, al Lambro —che, se
il lettore non lo sapesse, è un parco milanese-.
La stessa gatta dal pelo fulvo come i capelli del suo padrone –che abbiamo
appena nominato-, salta addosso ad Isaia non appena questo apre la porta di
casa miagolando per chissà cosa: ma il ragazzo non ha un minuto da dedicare
nemmeno alla sua adorata gattina —alla quale, per altro, aveva dedicato
l'intera schermata home del suo cellulare e una cartella nell'album
fotografico-.
Corre in camera urlando un saluto alla cameriera impegnata a sistemare i libri
in salotto e si cambia la camicia alla velocità della luce strappando, per
altro, qualche bottone di quella sporca e abbandonandola sul parquet di legno
scuro.
Due minuti dopo sta guardando preoccupato le porte dell'ascensore che non accenna
ad arrivare e, dopo aver rivolto uno sguardo ansioso all'orologio, decide di
prendere le scale —nonostante l'attico fosse al settimo piano del palazzo-.
Sette minuti dopo è arrivato in università —tre in anticipo rispetto al tempo
che ci si impiegherebbe di solito-, ma a metà strada dal luogo
dell'incontro è costretto a rallentare la corsa fino a fermarsi perché ha
iniziato a sentirsi realmente male ed è conscio di rischiare di rimettere
colazione ed anima.
Dopo minuti di camminata interminabile —sotto quello che gli era parso il sole
più caldo della storia- arriva finalmente all'indirizzo che gli hanno indicato.
È sudato fradicio, ma grazie al Cielo aveva calcolato quell'eventualità poi non
così eventuale, e aveva deciso di portarsi dietro un'altra camicia bianca
fresca di bucato.
Isaia guarda l'orologio e si rende conto d'avere solo undici minuti di ritardo
e dunque di non essere in una situazione così disastrosa come invece aveva
temuto.
L'edificio dove hanno deciso sarebbe stato stabilito il
"quartiere generale" della squadra è un palazzo d'epoca abbastanza
imponente: la facciata è colorata di bianco (sebbene le case subito adiacenti
abbiano l'intonaco rosso), e il cancello d'ingresso —vicino al quale c'è
un'enorme lista di campanelli e una quantità ancora più enorme di targhe in
ottone con sopra nomi e titoli di vari professionisti presenti nello stabile- è
di legno scuro con finiture in ferro battuto. Isaia apre con le chiavi che gli
hanno spedito una settimana prima ed entra in un ampio cortile alberato dove si
affacciano varie finestre per quattro piani d'altezza, alcune delle quali anche
con dei balconcini pieni di piante. Il ragazzo dai capelli rossi procede sul
lato sinistro e apre un nuovo portoncino con le chiavi per poi chiamare l'ascensore.
Approfitta dell’attesa e del tragitto, che gli pare durare una vita, per
togliersi la camicia sudata, asciugarsi alla bell'e meglio con la stessa e
infilare quella pulita. Le porte dell'ascensore gli si aprono davanti sul
quarto piano mentre sta infilando la camicia sporca nella borsa: è dunque
costretto a caracollare impacciatamente fuori dall'abitacolo con le mani piene
per poi ringraziare tutte le divinità che ci sono in cielo per non aver trovato
nessuno sul pianerottolo che potesse assistere a quell’entrata di scena a dir
poco grottesca.
La porta, l'unica del pianerottolo, è verde e ha una targa d'ottone vuota
appesa all'altezza degli occhi. Isaia infila le chiavi nella toppa e si prepara
mentalmente alle occhiatacce dei suoi colleghi —che s'era immaginato come
professionisti tutti di certo più anziani di lui-, dunque spalanca la porta.
L'espressione sul suo volto quando si rende conto di essere l'unico oltre a una
ragazza dai capelli azzurri è, a giudizio dell'appena nominata ragazza,
semplicemente epica.
Nota autrice
Benvenuti, signori e signore, in questa nuova storia OC!
Spero che questo primo capitolo d'introduzione vi sia piaciuto. Beatrice ed
Isaia sono due dei quattro OC che ho deciso di inserire in partenza (ma che,
uno di questi a parte, non sono stati comunque scritti da me).
Come credo abbiate capito Beatrice fa parte della Mafia e Isaia del Governo
(credo fosse palese, MA SPECIFICHIAMO CHE NON SI SA MAI).
Non ho idea di quanti capitoli durerà questa storia, tutto sarà in base alla
quantità (e alla qualità!) della mia ispirazione.
Qui sotto troverete la scheda da compilare per
inviarmi il vostro OC e la descrizione dei quattro già presenti (più qualche
dettaglio fondamentale).
*Nome
*Cognome
*Luogo di nascita (anche generico)
*Aspetto fisico (evitabile dato che invece il presta volto è obbligatorio, ma
consigliato)
*Aspetto comportamentale
*Background
*Segni particolari, incluse ossessioni di sorta
*Abilità (se posseduta)
*Affiliazione (se membro della Mafia indicare da quanto tempo)
*Presta volto
*Frase/Citazione rappresentativa
Note
1.Possedere un'abilità non è obbligatorio, si può ugualmente far parte della
Mafia.
2.Il nome dell'abilità e l'abilità stessa devono essere ispirati a un'opera
della letteratura italiana, più o meno famosa.
3. I personaggi sono TUTTI rigorosamente italiani dato che la storia stessa
si ambienta solo ed esclusivamente in Italia, quindi niente nomi inglesi di
sorta, sorry.
4. Ninte personaggi over-power, bravi in tutto e fighissimi. Non esistono
persone né perfette né imbattibili.
5. Ricordatevi che più la storia del vostro personaggio e il personaggio in
genere saranno dettagliati più possibilità ci saranno che vengano scelti.
6. I presta volto possono essere cantanti, attori, personaggi di anime/manga o
di videogiochi, quel che volete, ma devono essere rintracciabili, quindi una
foto a caso non va bene, ho bisogno di nome, cognome e codice fiscale.
Ovviamente non c'è bisogno che siano esattamente identici al personaggio, ma mi
servono come riferimento.
7. La citazione non deve essere il nome dell'abilità per esteso, ma qualcosa
che rappresenti il personaggio!
Potete inviare tutti gli OC che volete, il
numero di quelli che selezionerò sarà variabile in base all'ispirazione.
Se un vostro OC verrà accettato NON SPARITE, potrei dovervi chiedere altre
cose. Nel caso succedesse mi prenderò la libertà di fare ciò che desidero del
personaggio c:
Detto questo, passiamo alle presentazioni!
Beatrice Pazzi - 20 anni. Mafia.
Abilità:
Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.
La giustizia è soggetta a contestazione, la forza è riconoscibilissima e senza
dispute: proprio per questa ragione non è stato possibile concedere la forza
alla giustizia.
Max Caulfield, Life is Strange
Michele Accardi - 23 anni. Mafia.
Abilità:
Uno, nessuno, centomila
Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve
recitare la sua parte.
Nezumi, No.6
Isaia De' Medici - 20/21 anni. Governo.
Abilità:
L'amor che move il sole e l'altre stelle
Pensavo semplicemente che mi sarei potuto scusare il giorno seguente, ma il
giorno seguente non arrivò mai.
Karma Akabane, Assassination Classroom (da adulto e con le lentiggini)
Greta Locatelli - 19 anni. Governo.
Abilità:
La lupa
Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di
arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la vita a credersi stupido.
Chloe Price, Life is Strange
Bene, spero sia tutto chiaro, se avete
domande chiedetemi pure.
Enjoy.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 -parte 1- ***
Cap 2 -parte 1-
Una lunga striscia nera percorre la pelle chiara e
lentigginosa della guancia destra: parte dallo zigomo e arriva fin quasi alla
punta del mento. Parrebbe esser una ferita mortale o qualcosa di simile –vista
da un occhio disattento che dedica al mondo solo sguardi fugaci, s’intende-, ma
in verità non è altro che una traccia del carboncino scuro e oleoso con il
quale Greta Locatelli stava disegnando fino a pochi attimi prima.
Ora il suo sguardo è puntato sul massiccio ragazzo pel di carota che si trova,
con un’espressione tra il confuso e lo sconcertato, esattamente davanti alla
porta.
Greta non può far a meno di inarcare un sopracciglio, sinceramente divertita e forse
un poco perplessa –ma d’altronde esser perplessa del mondo e dei fatti era
nella sua natura-, quando il ragazzo schiude le labbra per proferir parola per
poi restare con la bocca aperta come un ebete senza dir nulla. La ragazza dai capelli
blu lo scruta ancora qualche attimo analizzandone la forza del viso e la
sfumatura delle iridi tra il castano e il rossiccio con l’occhio critico e
attento dell’artista: ha il viso affilato chiazzato di rosso, segno di come sia
arrivato di fretta, e le labbra atteggiate naturalmente in un sorriso leggero
che però ora sono contratte per un qualche motivo. Ha le guance perfettamente
delineate e il bel naso dal taglio aristocratico, completamente opposto alla
forma ovale e sempliciotta degli occhi che però è, in qualche modo, ugualmente
accattivante. La camicia che indossa è stropicciata e un angolo, quello
sinistro, spunta fuori dai pantaloni scuri rompendo l’immagine di damerino
curato e attento che i capelli, scompigliati ad arte con una cura non indifferente
impossibile da non notare per chiunque avesse un minimo di occhio –e Greta
l’occhio per le cose belle e curate lo aveva indubbiamente-, avevano
contribuito a creare.
Una volta osservati i mocassini laccati di nero che il ragazzo ha indosso e senza
aver trovato alcun punto d’interesse né in questi né in alcun’altra parte del
vestiario o del fisico del rosso, Greta abbassa lo sguardo tornando a disegnare
un volto dai lineamenti tipicamente femminili sul suo quadernone. Erano anni
che non disegnava altro, in verità: spesso ripensava ai suoi schizzi con
l’amarezza di chi sa cosa ha perso ma non ha abbastanza forza e coraggio per
ammetterlo.
«La riunione è… finita?»
«Come dici? Finita?» Greta alza gli occhi azzurri sul ragazzo dai capelli
rossi, ancora inconsapevole della macchia di carboncino sulla guancia «La
riunione inizierà tra venti minuti.» Una volta le avevano detto che i suoi
occhi parevano pozze senza fine in cui perdersi non sarebbe stato tanto male,
ma quello era stato tanto tempo prima –eppure il tempo non le aveva impedito di
dimenticare, quello no. Il lettore deve sapere che Greta aveva il brutto vizio
di ricordare gran parte delle stupidaggini della propria e altrui vita senza
alcuna ragione apparente se non la sola e pura predisposizione naturale-. «Ieri
l’abbiamo posticipata di una mezz’ora perché Elia aveva avuto un problema.»
Aggiunge poi la ragazza vedendo che il ragazzo continua imperturbabile con la
sua faccia da pesce fuor d’acqua –e i lettori sapranno, per la parte del testo
qua sopra che abbiamo a lui dedicato, che Isaia, perché ovviamente di lui si
trattava, aveva normalmente la risposta abbastanza pronta e un sorriso per
qualunque circostanza-.
«Posticipata di… mezz’ora?»
Greta a quel punto fa facilmente due più due e sommando lo sconcerto, la faccia
allucinata, il fiato corto e la maglia stropicciata arriva facilmente alla
conclusione: non aveva letto lo scambio delle mail del giorno precedente, aveva
avuto un contrattempo e si era affrettato ad arrivare, probabilmente a piedi a
giudicare dai mocassini attualmente opachi per la polvere. Doveva anche essersi
cambiato la camicia in tutta fretta dato che le spiegazzature non combaciavano
nell’immagine generale con i pantaloni ben curati: doveva aver tenuto una
maglia di ricambio in borsa e, resosi conto di aver sudato assurdamente,
essersi cambiato in ascensore.
«Tu sei Isaia, giusto?»
Il ragazzo boccheggia, impreparato: le parole di Greta hanno interrotto
l’abbozzato tentativo di ritrovare un poco di contegno rimettendo al suo posto
il ribelle angolo della camicia bianca che si è accorto solo in quel momento
essere sfuggito all’oppressiva e tirannica morsa dell’elastico dei pantaloni.
Alza lo sguardo –che stava iniziando a schiarirsi e farsi un poco più
consapevole mano a mano che le nubi di confusione venivano disperse e scacciate
da qualche ragionamento logico- e lo punta sulla ragazza dai capelli azzurri
che, nel frattempo, aveva poggiato il gomito destro sul tavolo e la guancia sul
palmo della mano con i polpastrelli colpevoli dello scempio nero e grigiastro
che ora si trova in viso.
«Parli con me?»
Greta si lascia ora andare a una risata, trovando quella situazione non comica,
ma ai limiti del grottesco. In cuor suo però, nel frattempo, manda una
maledizione ai suoi superiori, e a una ragazza in particolare, che le avevano
buttato in squadra quello che a prima vista pare un completo incompetente e per
giunta pure svampito come pochi. Lo stesso ragazzo che si unisce alla sua
risata, ma la cui lieve tensione è ancora percepibile.
«Vedi altri?»
«No, giusto, scusa, hai ragione.» Il rosso si morde il labbro inferiore non
sapendo cos’altro aggiungere e strappando a Greta l’ennesimo sorriso divertito.
La ragazza dai capelli azzurri gli fa cenno di avvicinarsi e Isaia esegue
immediatamente, assolutamente intenzionato ad evitare altre figuracce.
Greta guarda il ragazzo sedersi e si gratta la punta del naso per poi tornare a
disegnare il mento del volto femminile. Continua però a sentirsi lo sguardo di
Isaia puntato addosso, intento ad analizzare lei, i suoi atteggiamenti e i suoi
vestiti, in particolare i suoi vestiti –e Greta ne è certa perché praticamente
qualunque persona la vedesse per la prima volta tendeva a soffermarsi sui suoi
vestiti giudicandoli poco consoni-.
«Domani mettiti un paio di jeans, ti prego, sei imbarazzante conciato così.»
«Cosa?»
Greta alza finalmente lo sguardo su di lui guardandolo infastidita senza
riuscire ad evitare di chiedersi di quale disturbo dell’apprendimento o di
quale problema cerebrale fosse affetto quel ragazzo. Magari era scemo e basta.
«Ti ho detto che domani dovresti metterti un paio di jeans e una t-shirt, puoi
anche venire in bermuda per quello che mi riguarda, ma ti prego, evita camicia
e mocassini.»
«Io… Ehm…»
Greta chiude gli occhi per poi contare mentalmente fino a dieci interrogandosi
nel frattempo sul senso della vita e dell’esistenza e stabilendo che, sì, era
semplicemente idiota.
«Sai che c’è? Non importa, vestiti come vuoi.»
Greta non era una ragazza particolarmente paziente, anzi. Sua madre aveva
sfruttato ogni secondo dei suoi diciannove anni di vita per definirla “facile
al nervo” e “dalla palpebra vibrante per un nonnulla”, ma questo non aveva mai
fatto altro che darle più fastidio e farla diventare, se possibile, ancor più impaziente
e peggiorare il suo temperamento, già di per sé irritabile e a tratti
infantile, fino a rendere Greta perennemente e spasmodicamente infastidita da,
per esempio, qualunque cosa le gravitasse attorno nel raggio di venti metri.
Gli esseri umani stupidi, nello specifico, tendevano ad irritarla e a causarle
quella famosa “vibrazione di palpebra” dalla madre tanto decantata.
Il ragazzo le dice qualcosa, ma Greta non si prende nemmeno la briga di
ascoltarlo troppo presa dal cercare di rendere il labbro superiore della
ragazza senza nome che sta disegnando dolce ma severo allo stesso tempo.
«Ascolti i The Clash?»
Greta solleva di nuovo lo sguardo, rassegnandosi alla consapevolezza di dover
interagire con il ragazzo che ha seduto davanti poiché le pare che questo non
abbia la minima intenzione di zittirsi e fissare il vuoto alla ricerca della
soluzione della funzione Z o, più banalmente, del motivo della sua fastidiosa e
grottesca idiozia.
«No» risponde secca per poi decidersi a infilare il disegno nel blocco,
chiudere quest’ultimo e infilarlo nello zaino verde militare mezzo distrutto
ricoperto di toppe colorate e scritte
più e meno schiarite. «Perché me lo chiedi?» domanda sollevando lo sguardo su
di lui per poi prendersi una ciocca di capelli azzurri tra le dita e iniziare a
strofinarla.
«Beh, perché indossi una loro maglietta…»
Greta piega la testa verso sinistra poggiando la testa sulle nocche del pugno
chiuso.
«Appunto.»
«Appunto?»
«Ho indosso una maglia dei The Clash, perché dovrei mettermela se non perché
sono una fan?»
Sbuffa e si sistema il capello blu scuro che indossa, cambiando nuovamente
posizione e decidendo di appoggiarsi contro lo schienale giusto per tentare di
star comoda, le dita ancora sporche della mano destra iniziano a tamburellare ,
senza che lei nemmeno se ne accorga, contro il suo ginocchio. Odia non avere
nulla per tenere le mani occupate, odia, semplicemente, non far nulla:
l’inattività le dà l’orticaria.
«Effettivamente hai ragione…»Isaia si morde il labbro inferiore cercando
qualcosa di intelligente da dire o una qualche battuta sagace che possa
alleggerire la situazione, alla fine, però, si limita a sospirare. «Senti,
scusa se ti ho disturbato arrivando in, ehm, anticipo e scusa se pensi che sia
un poco di buono o roba simile.» Si porta una mano tra i capelli rossi e se la
passa sulla nuca, sorridendo sinceramente dispiaciuto per nemmeno lui sa cosa dato
che, Greta lo sapeva, era convinto di non aver fatto assolutamente nulla per
infastidirla o simili. «Ci tengo sul serio a questa cosa e vorrei andare
d’accordo con i miei colleghi.»
Greta getta la testa all’indietro oltre lo schienale della comoda poltroncina
bianca su cui è seduta e si fa scappare dalle labbra quello che sta a metà tra
un sospiro rassegnato e una risata. Doveva riuscire a tenere a bada il suo
caratteraccio, almeno per quel giorno e per quel primo incontro: stava per
incontrare il gruppo di persone con cui avrebbe dovuto non solo condividere un
posto di lavoro, ma anche una missione e un obiettivo di una certa importanza,
avrebbe dovuto guidare quelle stesse persone! Non poteva permettersi di farsi
odiare, non se voleva svolgere il compito che le avevano assegnato bene come si
era prefissata.
Strizza gli occhi e se li strofina per poi tornare a guardare Isaia.
«No, scusami tu, devi aver passato una mattinata di merda a giudicare da come
sei conciato ed io ti ho praticamente aggredito. Sono quasi certa che tu non
sia scemo come sembri.»
«Quasi sicura?»
Greta sorride alzando gli occhi azzurri al cielo «Sì, quasi, ma comunque. Forse
è meglio ricominciare da capo: sono Greta Locatelli, la responsabile di
quest’unità governativa distaccata.»
«Oddio!» Greta non può far a meno di ridere per l’espressione che
improvvisamente è comparsa sulla faccia del rosso –e chiunque altro lo avrebbe
fatto dato che i muscoli del viso di Isaia si erano contratti repentinamente e
senza nessun preavviso trasformandosi da rilassati e divertiti a costernati e
completamente nel panico- «Tu sei il mio capo! I-io… cioè, scusa, cioè, scusi.»
e poi, abbassando la voce e il volto rosso per l’imbarazzo «ho dato della
stronza al mio capo» per poi alzare di scatto il viso, che ormai ha la stessa
tonalità rosso fuoco dei capelli «cioè io…non stavo dicendo questo, cioè sì, ma
non era quello che intendevo!»
È a questo punto che Greta scoppia realmente a ridere a crepapelle, colta da un
attacco di risate irrefrenabili che durano quelle che a un Isaia
imbarazzatissimo paiono ore. Scuote leggermente la testa e finalmente si calma
fingendo di asciugarsi con un dito –anche se ho qualche dubbio sul fatto che
stesse fingendo e basta- una lacrima causata dalle troppe risa.
«Se pensi che io sia una stronza quando conoscerai Rachele morirai, temo. E non
preoccuparti, sarò anche il “tuo capo”, ma prima di tutto vorrei essere tua
amica, se a te va bene.»
E finalmente tocca a Isaia sorridere mentre sente l’imbarazzo dissolversi.
«Grazie di non essertela presa… posso chiamarti per nome?»
«Ma che domanda è?»
«E va bene, e va bene, giuro che non farò più domande idiote.»
La ragazza alza gli occhi al cielo incrociando le braccia al petto e pensando
che, forse e dopo tutto, non era idiota come sembrava, forse sarebbe riuscita a
cavarne fuori qualcosa.
«Ah, Greta, ma perché tu sei già qui se la riunione è stata posticipata?»
Proprio in quel momento il citofono inizia a suonare emettendo uno squillo
acuto che, Greta lo nota, fa sussultare Isaia per lo spavento. E forse agli
occhi di qualcun altro potrebbe sembrare una piccolezza, ma il cervello di
Greta tendeva –come abbiamo già detto- a vedere e registrare gran parte dei
granelli di polvere nella matassa di lana. Quelle piccole osservazioni
permettevano di capire tantissimo di una persona: per esempio a quanto pareva
Isaia tendeva a concentrarsi particolarmente su una cosa per poi trascurare
tutto il resto e a reagire “violentemente” quando qualcosa lo prendeva di
sorpresa concentrando così l’attenzione sull’elemento “distraente” e
dimenticandosi, di nuovo, del resto.
Greta si alza e, dopo aver dato un’occhiata veloce al videocitofono, schiaccia
un paio di pulsanti per poi voltarsi di nuovo verso l’altro ragazzo.
«Sono Cassandra e Nicola, o almeno credo, di Nicola ho visto solo i capelli, ma
presumo sia lui. Perché? Beh, perché abito due piani più sotto, ma ho il frigo
vuoto e sono senza aria condizionata e quindi mi son detta “ehi, perché no?”»
«Oh beh, mi pare giusto.» sorride Isaia per poi ricordarsi della prima cosa che
aveva notato e che poi non le aveva potuto dire, preso com’era stato
dall’imbarazzo. «Lo sai che sei tutta sporca?»
«Che?»
«Sì, in faccia, sei tipo tutta sporca di carboncino nero.» afferma indicandosi
la faccia e gesticolando un po’ come era solito fare.
Immediatamente Greta si guarda le mani e si accorge di come siano,
effettivamente, ricoperte di nero. La sua mente non impiega molto a fare due
più due e capire che tutte le volte che si era toccata la faccia anche
accidentalmente non aveva fatto altro che impasticciarsi di più.
«Cazzo!» urla la ragazza immaginando già il peggio per la sua faccia. «Ma
dirmelo prima?»
Isaia non fa però in tempo a rispondere che la porta si apre lasciando la scena
a tre figure piazzate in ordine d’altezza. Il primo ad entrare nel quartier
generale è un tappetto dai capelli celesti più chiari di quelli di Greta.
«Per quale motivo sei completamente ricoperta di nero?»
Ma Greta Locatelli non si sofferma ad ascoltare la banale ed ovvia domanda di
Nicola, e si limita a schizzare verso il bagno cercando di non inciampare sui
suoi stessi piedi mentre nelle orecchie le risuona la risata gutturale di
Marco.
Magnifica e special nota autrice. Leggete.
No,
non sono morta come poteva sembrare, semplicemente mi ero un po' persa
tra vari ed eventuali disagi che non credo valga la pena di raccontare.
L'importante è che io sia effettivamente tornata! D'ora in poi
aggiornerò questa storia con regolarità (circa, spero),
anche perché ho deciso di dividere i capitoli in due parti
(una per ogni punto di vista), semplicemente perché altrimenti i
capitoli sarebbero risultati mostruosametne lunghi e, magari, un po'
pesanti.
As always il capitolo è stato riletto per le solite dieci volte,
ma qualcosa mi sarà certamente sfuggito, dunque se mi faceste
notare gli errori mi fareste un piacere enorme.
Ciancio
alle bande vi lascio qui sotto gli OC che sono stati selezionati
(insieme ai quattro del precedente capitolo) come protagonisti de "Il
quartiere dei gatti neri"!
Minimo D’Annunzio –20
anni. Mafia.
Abilità: Il trionfo della morte. (D’Annunzio)
Io modesto? È il solo difetto che mi
onoro di non avere.
Tatara
Totsuka, K-project
Lorenzo Locci –20
anni. Mafia.
Abilità: Ed è subito sera. (Ungaretti)
Se gli ultimi momenti di una sono quelli
che la rivelano, io posso dire di essere l’unico ad aver realmente conosciuto
le vittime.
Yato,
Noragami
Lidia Esposito – 20
anni. Mafia.
Abilità: La coda del diavolo (Verga)
Non fidarti mai di un sopravvissuto
finché non scopri cos’ha fatto per rimanere in vita.
Futaba
Yoshioka (Ao haru ride)
Gabriele Venturi – 25
anni. Mafia.
Abilità: Il sistema periodico (Levi)
Combatti ogni battaglia, ovunque, sempre,
nella tua mente.
Mikaela
Hyakuya, Owari no Seraph
Amos Occhipinti – 21
anni. Mafia.
Abilità: La roba. (Verga)
La chiave è la perseveranza.
Saeran
Choi, Mystic Messenger
Cassandra Pascal –24 anni. Governo.
Abilità: Il fu Mattia Pascal. (Pirandello)
Ancora mi chiedo se verremo mai messi
nelle canzoni o nei racconti.
Ayano
Aishi, Yandere Simulator
Elia Mezzanotte – 24
anni. Governo.
Abilità: Sovrumani silenzi e profondissima quiete. (Leopardi)
La vita è come suonare un assolo di
violino in pubblico e imparare a suonare lo strumento mentre si suona.
N,
Pokemon
Marco Nero – 21 anni.
Governo.
Abilità: Il grande viaggio (Marco Polo)
Muori e poi raccontami come è andata.
Hidan,
Naruto (un po’ più bianco)
Nicola Agnelli –19/20
anni. Governo.
Abilità: Se del perdono non sarai degno, tutta la vita sarai di legno.
(Collodi)
Ha visto giusto su di me, non solo l’eroe
della mia storia.
Nagisa
Shiota, Assassination Classroom
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 -parte 2- ***
Cap 2 -parte 2-
Gabriele non le stava simpatico, assolutamente no. Anzi,
Lidia era piuttosto sicura di odiarlo, o qualcosa del genere. Come avrebbe mai
potuto lei che aveva sempre detestato quelli che, come lui, s’atteggiavano a re
del mondo solo e solamente perché la sorte era stata benevola andare d’accordo
con il principe di questi elementi? Lo odiava, Dio se lo odiava, lui e quel suo
sproloquiare senza senso, lui e quel sorrisetto irritante di chi ha il mondo
sulle palme delle mani. Lui e la sua convinzione d’essere il migliore in ogni
cosa facesse o il suo ansioso ed ossessivo bisogno di divenirlo se, in caso
contrario, non lo fosse stato. Gabriele era irritante, svogliato eppure un
maledetto gradino sopra di lei. Dio se lo odiava. C’erano giorni, o serate, più
nello specifico, quando se ne stava stesa al buio cercando un sonno che si
divertiva a farsi rincorrere, in cui Lidia soppesava l’idea fargli il culo, il
giorno seguente: cosa ci sarebbe mai voluto? Nascosto dai vestiti di marca, dai
soldi e dal suo grado in realtà non c’era che un ragazzino spaurito che della
vita vera sapeva poco o niente, di questo Lidia era convinta. Solo un pallido
individuo come tanti altri alla ricerca dell’adrenalina e della trasgressione
che si divertiva con il sangue e le vite altrui.
Lo odiava, Dio se lo odiava, e odiava non potergli fare alcun tiro mancino, ma
soprattutto odiava dovergli dire sempre di sì.
Era a causa sua se adesso si ritrovava in una maledetta sauna quando avrebbe
potuto essere a casa a godersi una bella tazza di tè con la sua fidata biro blu
cercando l'ispirazione per una poesia.
Si porta una mano alla fronte sudata, teme di sentirsi male, ma di certo non
dirà a Gabriele di voler uscire, non ha intenzione di dargli la minima
soddisfazione: chiude gli occhi e pensa al gelo delle notti invernali passate
per strada, s’immagina che le gocce di sudore che le colano lungo le cosce
tornite in realtà siano le gocce di pioggia gelida che, quando era bimba, le
scorrevano sul volto come le lacrime che non aveva e le pungevano la pelle come
spilli. E Lidia, immersa negli ottanta gradi della sauna e con le zaffate di
vapore che regolarmente le inondano il corpo, finisce per rabbrividire mentre
la delicata ma malevola mano del gelo, che ha stampata in modo indelebile nella
memoria, le carezza la spina dorsale dal coccige fino alla nuca dove si ferma e
scompare, lasciandole solo un risolino nelle orecchie, brutti ricordi sotto le palpebre
chiuse e l’opprimente morsa del caldo a stringerle la gola.
No, non si sentirà male, di quello è certa, lo rifiuta categoricamente.
«Lidia, io sto uscendo, muoviti anche tu.»
La ragazza solleva lentamente le palpebre lentamente e facendole involontariamente
tremare, come se fossero macigni che spostare è pressoché impossibile. Si sente
pesante e teme di capitolare a terra non appena si metterà in posizione eretta,
ma si alza ugualmente e segue, con macchie nere che le coprono il campo visivo,
il suo capo. Non appena esce dalla sauna l’aria –che fredda non era, caro
lettore, perché alla fin fine i vapori dall’una e dall’altra stanza e vasca
avevano saturato l’ambiente rendendolo, se non caldo, almeno qualche tacca
sopra il tiepido- le pare gelida, eppure quel freddo non può che farle piacere.
Si infila in silenzio sotto una delle docce e apre il getto: boccheggia quando
sente l’acqua che le buca la pelle e la graffia come se ogni goccia fosse in
realtà un chicco di grandine affilato e grande come l’unghia del suo pollice,
ma si limita ad abbassare le palpebre e chinare il capo, così che il getto le
arrivi sulla nuca e da lì l’acqua le coli sul corpo. Dopo il primo
rinnalzamento improvviso la pressione inizia a risalirle lentamente così come,
lentamente, le mani che le artigliavano la gola e il petto proprio sotto i seni
allentano la loro stretta fino a sparire.
Il getto della doccia s’interrompe improvvisamente e Lidia strizza gli occhi
cercando di capirne il motivo, ma impiega solo un paio di strizzate di ciglia
per rendersi conto di come Gabriele la stia guardando con il suo imperturbabile
sorrisetto. Tiene le braccia incrociate al petto e Lidia sa che, sebbene paiano
due ossicini di pollo, in verità Gabriele è capace di sollevare tranquillamente
una trentina di chili. I capelli biondo vaniglia, accuratamente tagliati e,
normalmente, pettinati in un folto caschetto sbarazzino, gli sono ora incollati
al volto, eppure il ragazzo pare non farci nemmeno caso, anzi, usa
quell’”evento”, se così lo si può definire, per darsi ancor più arie dato che,
maledetto lui, i capelli umidi, che provvedeva a “sistemarsi” periodicamente
con un gesto della mano, e le ciocche più corte e ribelli appiccicate alle
tempie non facevano che renderlo ancor più carismatico ed affascinante di
quanto fosse già. Era d’altronde indole di Gabriele da quando Lidia lo aveva
conosciuto anni prima –e presto ogni lettore se ne accorgerà, ma andiamo per
gradi-, sfruttare ogni occasione, che fosse più o meno calcolata, per rendersi
invidiabile agli occhi di praticamente chiunque.
La ragazza si trattiene dallo stringere le labbra al gesto improvviso del
capo e parte a pettinarsi i capelli della cute con le dita con l’intento di
farsi una coda, ma viene prontamente bloccata dall'altro che le afferra un
polso.
«Lasciali sciolti, mi piacciono di più.»
Questa volta nulla trattiene Lidia dal fare una smorfia e dal liberarsi con uno
scatto dalla presa del ragazzo più grande, ma il suo autocontrollo è abbastanza
elevato da permetterle di mordersi metaforicamente la lingua e non sputargli in
faccia per poi tornare sotto la doccia.
«Sciolti mi danno fastidio, Gabriele.»
Il chiamarsi per nome era l’unico tipo di confidenza che Lidia si prendeva,
anche perché chiamarlo “capo” le avrebbe solo dato più fastidio ed erano un po’
troppo cresciuti per chiamarsi solo per cognome, come invece avrebbero fatto
due liceali. Purtroppo il distacco era monolaterale dato che Gabriele Venturi
di libertà se ne prendeva anche troppe.
«Sei ancor più acida di questa mattina. Cos’è, avresti voluto restare ancora un
po’ in sauna?» e vedendo che la ragazza non accenna a rispondergli e che,
invece, già sta ricominciando a legarsi i capelli la blocca nuovamente,
ricevendo in cambio la stessa identica reazione «Ti ho detto di lasciarti i
capelli sciolti, per quale motivo devi per forza contrariarmi?»
Lidia valuta l’idea di sfoderare la sua abilità e di trasformarlo in mucchietto
di carne sanguinolenta e valuta anche l’idea di rispondergli che era acida, come
diceva lui, perché quella di quel giorno sarebbe stata la sua ultima giornata
libera per il prossimo mese e mezzo e che di passarla alla terme seguendolo
giusto per starsene zitta e ascoltarlo blaterare non solo non era il suo
prototipo di giornata ideale, ma che anzi rientrava probabilmente in una delle
dieci giornate peggiori di tutte la sua vita. E se davvero Gabriele si fosse
mai premurato di chiederle quali fossero state le altre nove avrebbe capito,
senza ombra di dubbio, che sarebbe stato meglio smettere di tirare la corda. Ma
ancora una volta l’autocontrollo –quell’autocontrollo che no, caro lettore, non
era infinito, ma anche a questo ci arriveremo- di Lidia ha la meglio e –sebbene
le mani le bruciassero dalla voglia di strappare la lingua al ragazzo e i
muscoli facciali si ribellassero con ogni briciolo della loro forza a
quell’ordine- lascia cadere le mani lungo i fianchi rinuncino a legarsi i
capelli e, dunque, accontentandolo. Quelle che normalmente sarebbero morbide
ciocche color cioccolato le ricadono sulle scapole con le punte già un poco
arricciate per l’umidità che va a dissolversi. Curva gli angoli delle labbra
perfettamente proporzionate –labbra sagomate ad arte, quelle di Lidia, ma
labbra sulle quali nessuno sguardo s’era mai posato se non distrattamente e per
qualche secondo- e sorride, circa. Lidia si ricorda di come un tempo le
avessero detto di come fossero belle le sue fossette: non le ha mai più viste,
né lei né nessun altro. Ogni tanto, quando ci ripensa, spera che siano sparite,
come se fossero una malattia di cui liberarsi, ma nemmeno riesce a capire
perché le avesse odiate così tanto, all’epoca. Lidia è però certa che in
quello, di sorriso, non compaia alcuna fossetta.
Gabriele le sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e Lidia lo lascia
fare, perché improvvisamente non ha nemmeno voglia di arrabbiarsi: conoscendo
il ragazzo è probabile che abbia fatto tutto quello solo per infastidirla
–perché sì, Gabriele era perfettamente capace di spendere giornate intere con
il solo obiettivo di infastidire qualcun altro, era un gioco che proprio non
riusciva a stancarlo.-
«Oh, sì, tieniti il sorriso in faccia, sei molto più carina, così.» Non aspetta
la reazione di Lidia e finalmente si volta, probabilmente intenzionato verso la
prossima zona delle terme e lascia la libertà a Lidia si smettere di sforzare i
suoi muscoli facciali e di guardarsi intorno all’inutile ricerca –che lei stessa
sapeva bene esser tale- di una scusa più o meno futile per praticamente fuggire
da quel posto e da lui. Rivelatosi, naturalmente, un tentativo vano non le
resta da fare altro che seguire Gabriele, che già si era avviato per il
corridoio pieno di vapore senza aspettarla, e restare dietro di lui, poiché di
affrettare il passo degno di quello di una lumaca il più grande non ne aveva
proprio intenzione, a fissargli la schiena muscolosa che pareva essere stata
scolpita nel marmo, non solo per l’incarnato chiarissimo, ma per i muscoli
perfettamente delineati anche contro la magrezza che, sebbene non fosse
eccessiva, si poteva notare dalla spina dorsale incavata un poco più del
normale e dalle vertebre in rilievo: Lidia riusciva a contarle solo
guardandole.
Oggettivamente fragile come una foglia secca, ecco la verità. Ma Lidia aveva
imparato a sue spese a non prendere ciò che qualcuno sembrava per oro colato,
chiunque, o quasi, aveva una seconda lama: vecchio o bambino, uomo o donna, le
lame nascoste salvavano la vita quando di tutto il resto era rimasto solo
cenere.
Sulla spalla sinistra sfoggia inoltre un complesso e alquanto poco mascolino
–non che Gabriele lo fosse in qualunque caso dato il suo metro e sessantacinque
scarso e i lineamenti praticamente più femminili di quelli della stessa Lidia-
raffigurante un gatto nero tutto spelacchiato che pareva cercare di aggrapparsi
alla carne stessa del ragazzo per evitare di cadere chissà dove.
«Entriamo qui.» asserisce Gabriele, più a se stesso che a
lei, probabilmente, e svolta in una sala piena di vasche praticamente deserta,
poi sceglie la prima sulla destra e vi entra tranquillamente, senza badare ai
due signori di una certa età che già la occupavano. Lidia esita: la vasca,
sebbene vi siano solo tre persone, è praticamente già piena e per lei non c’è
spazio. È in imbarazzo sì, perché Gabriele la fissa e anche i due, marito e
moglie, probabilmente, la fissano, e Lidia si sente una scema a stare lì in
piedi con tutte le sue cicatrici esposte all’aria mentre il mondo intorno a lei
continua procede imperterrito nelle sue attività dedicandole solo qualche
occhiata perplessa o di scherno. Improvvisamente le viene freddo. Si guarda
intorno decidendo che entrerà nell’acqua, ma non lì, probabilmente Gabriele la
prenderà come la più grande delle offese, ma a Lidia non interessa: meglio il
suo sguardo scocciato e le continue ed immotivate critiche l’indomani al
“lavoro”, piuttosto che quel disagio che le sta facendo bruciare le
guance.
Lo odiava, sì. L’aveva costretta a quella ridicola giornata conscio della sua
impossibilità di rifiutare: sarebbe stato capace di andare dal suo superiore a
lamentarsi per chissà cosa e Lidia l’avrebbe pagata con il sangue dato che
nessuno si sarebbe premurato di ascoltare la sua versione dei fatti.
Alla fine però –per la benedizione di una divinità sconosciuta, aveva pensato
Lidia- prima che si decidesse a spostarsi ed entrare in un altro idromassaggio
la coppia s’era alzata ed era uscita rivolgendole uno sguardo strano.
Lidia non aspetta un attimo di più per scivolare nell’acqua, il più lontano
possibile da quello che, in quella giornata, si stava rivelando praticamente il
suo aguzzino.
«Non sei un po’ eccitata per domani?»
«Dovrei?»
«Davvero nemmeno un po’?»
«Cosa dovrebbe accadere di tanto entusiasmante, domani?»
Non che le interessi davvero: per lei il giorno seguente sarebbe stato un
martedì come tutti gli altri. Certo, ci sarebbero stati dei cambiamenti, ma a
Lidia non importava neppure quello: avrebbe ugualmente continuato a fare quello
che faceva sempre, ne era praticamente certa. Da quando era entrata nella Mafia
non faceva altro che eseguire gli ordini spostandosi da un punto all’altro
secondo le indicazioni e risolvendo i problemi causati da tutti quelli sopra di
lei. Sostanzialmente faceva lo spazzino e se questa cosa inizialmente le aveva
dato un enorme fastidio –poiché era ben conscia delle potenzialità della sua
abilità- alla fine aveva deciso di fare spallucce decidendo che, per il
momento, finché aveva un tetto sopra la testa e delle coperte calde le
importava ben poco di chi doveva ammazzare e per quale ragione. Testimoni
scomodi, spacciatori che avevano pensato che l’autonomia fosse magnifica,
trafficanti minori che credevano di potersi arricchire senza far conto alla
Mafia: tutti erano uguali e lo sarebbero sempre stati poiché nessuno avrebbe
loro tolto l’etichetta della carne da macello, che fosse lei o meno
l’esecutrice della sentenza.
Dunque no, non era interessata a qualunque cosa sarebbe accaduta il giorno
seguente. O almeno, non era stata interessata fino a dieci secondi prima. Ora
che Gabriele la guardava sogghignando, con lo sguardo che esprimeva un sincero
divertimento misto a un malcelato disprezzo compassionevole, come se la
ritenesse di un livello talmente basso da non essere nemmeno degna di leccargli
le scarpe, a quel punto la questione era diventata di suo interesse.
«Domani mi metteranno a capo di uno dei progetti più importanti degli ultimi
cinquant’anni e anche tu avrai l’onore di partecipare. Davvero non sei
emozionata?»
Di nuovo Lidia si chiede sinceramente perché dovrebbe interessarle: tutto
quello che il ragazzo le ha appena detto lo aveva saputo tempo prima, ma non
aveva stimolato la sua curiosità allora né l’avrebbe stimolata in futuro.
«Dovresti essere contenta che abbiano scelto un cane da esecuzione come te per
qualcosa di così importante.»
No, nessun effetto. Quelle parole non le facevano più nessun effetto, non dopo
tutti quegli anni, tantomeno se dette da Gabriele poiché una persona per cui
non provava né stima né rispetto non avrebbe mai potuto offenderla
realmente.
«Dovresti esserne onorata.»
«Lo sono.» risponde secca Lidia a quel punto. Forse dargli ragione lo avrebbe
fatto stare zitto. Una speranza vana, lo sa, lo conosce e ci prova già da
troppo, ma ammettere a se stessa che zittirlo fosse una battaglia persa
l’avrebbe sinceramente demoralizzata in parte dato che ormai quei tentativi
erano parte della sua routine.
«Non lo sembri.»
E Lidia sa benissimo che Gabriele la sta schernendo solo lui sa cosa:
evidentemente trova ridicola la sua faccia o forse vuole solo tirare la corda e
vedere fino a che punto può andare avanti prima di romperla. E Lidia lo lascerà
fare perché non può fare null’altro.
Ma Lidia contava i giorni a tappe di ventuno da quando lo aveva conosciuto: non
ha mai creduto in Dio, né, tantomeno, nella giustizia –divina e non-, e nemmeno
nel karma. Ma Lidia crede nelle occasioni e questo le basta, almeno per ora.
Lidia sa che ognuno ha il suo momento e sa che il momento
arriverà anche per lei. E quel giorno Gabriele e tutti gli altri capiranno che
giocare con il Diavolo non paga mai come piace credere.
Angoletto bellissimo
Ho amato scrivere questo
capitolo, davvero. Lidia è un personaggio che mi piace
moltissimo e per cui ho grandi progetti u.u (In realtà ho grandi
progetti per tutti, però shhh, non ditelo in giro).
Ho passato un'ora della mia vita (per non parlare di tutte le persone
che ho tirato in ballo) per cercare di capire l'esatta sfumatura dei
capelli di Gabriele (perché il platino è troppo chiaro,
ma il biondo oro è troppo scuro!)
Scherzi a parte spero abbiate apprezzato c: Forse può esservi
sembrato un capitolo un po' introduttivo, ma mi è servito per
delineare alcune cose (qualcuno le ha già capite? Perché
in quel caso posso andare a zappare AHAHAH)
Che ne pensate di Lidia e Gabriele?
||Fox
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 -parte 1- ***
Capitolo 3 -parte 1-
Vorrei dedicare questo capitolo a bicchan (titu
per gli amici) che mi ha sommerso di recensioni e complimenti (e a cui
avevo promesso di aggiornare velocemente, cosa che poi non è
accaduta, ma che spero mi perdonerà)
Potrà sembrare un’idiozia ai lettori perché, lo
ammetto candidamente, quando lo venni a sapere lo credetti anche io, ma
Cassandra Pascal, membro onorario della task-force anti-mafia, provava
un’immensa e incommensurabile soddisfazione nel sapere di non essere la più
bassa nel suo gruppo di lavoro –come lo definiva lei-. Conoscere un tappetto
come Nicola, che la scrutava dal basso del suo metro e sessanta, potergli
occasionalmente appoggiare il gomito sulla spalla e poter utilizzare tutte le
squallide battutine che da anni si sentiva ripetere (cose come “che tempo c’è
lì sotto?” oppure “ma così in basso prende il cellulare?”) e sapere che questo,
nella sua immensa gentilezza e pazienza, non si sarebbe nemmeno arrabbiato, era
per la ragazza fonte d’enorme soddisfazione. Non che Cassandra fosse bassa: la
sua altezza rientrava nella media di quella del genere umano. Questo lei lo
sapeva, certo, ma la verità era che il Fato le aveva giocato un brutto scherzo
facendola nascere e crescere in un mondo di persone che la superavano perennemente di almeno cinque
centimetri. Quindi il lettore non deve stupirsi se, quando camminava affianco a
Nicola, aveva stampato sul volto un perenne sorriso allegro.
I due si conoscevano da qualche tempo e, dopo uno scambio prima di mail e poi
di messaggi mano a mano meno formali ed imbarazzanti, avevano deciso di uscire
per prendersi un caffè e avevano scoperto di avere in comune la passione per i
racconti brevi, la cioccolata calda e la fantascienza (anche se Nicola, come le
aveva confidato, era appena uscito da un periodo d’ossessione per il fantasy
classico). Durante alcuni uggiosi pomeriggi di Febbraio si erano ritrovati
persino in videochiamata, entrambi sotto il rispettivo piumino, con una tazza
della bevanda fumante sopra nominata tra le mani a parlare dell’ultimo romanzo
letto come due veri critici. Marco ed Elia si erano uniti al loro gruppetto un
mese e mezzo dopo l’incontro dei due e il primo non aveva risparmiato neppure
una battutina sul quella che riteneva la “coppia nascente della task-force
anti-mafia”. Elia però si era premurato di punzecchiarlo con il suo solito
sorriso tranquillo facendogli notare come tutto quell’infierire apparisse una
scenata di gelosia malcelata e finendo per etichettare Marco come nuovo
spasimante di Cassandra e concorrente di Nicola per la conquista del suo cuore.
A Cass piaceva stare con gli altri tre ragazzi: li trovava interessanti e
spesso aveva scherzato dicendo che avrebbe sicuramente parlato di loro al padre
e che questo li avrebbe inseriti senza ombra di dubbio in l’uno o l’altro dei
suoi romanzi fantascientifici. Nonostante questo Cassandra Pascal era
ugualmente assurdamente nervosa per il suo primo giorno di lavoro.
Il pensiero di doversi vestire in modo semi formale l’assillava –sebbene Elia
avesse esplicitamente dichiarato che sarebbe andato alla riunione in pigiama-:
lei alla cappa di umidità e al soffocante caldo estivo di Milano non ci si
sarebbe mai abituata e l’idea di infilarsi una camicia non l’attirava proprio
per nulla, soprattutto considerando che l’avevano già avvisata che, con
l’avanzare di Luglio, il caldo si sarebbe fatto sempre più insopportabile –e
per un momento era stata talmente disperata all’idea da prendere in
considerazione l’opzione di tornarsene a gambe levate a casa sua ad Ancona.-
Quella mattina dunque –dato che Nicola di lasciarla scappare non ne aveva
proprio l’intenzione- aveva passato almeno un paio d’ore davanti allo specchio
provando questa e quella camicia cercando di dare un ordine e un senso ai suoi
capelli per poi rinunciare, buttarsi sul letto con una parolaccia irripetibile
–colpa delle sue lontane origini venete, sosteneva lei- e optare per una
t-shirt a stampa floreale, dei jeans scuri e una bella coda alta come al
solito.
Ed esattamente come ve l’ho appena descritta
Cassandra sosta davanti all’ingresso della porta 44b, adesso ufficiale sede
della task-force governativa.
Dà una piccola spinta a Nicola, il suo dolce tappetto dai capelli celesti, per
farlo riscuotere dallo stato di contemplazione di chissà cosa (dato che la
stanza è abbastanza spoglia e l’unico oggetto d’interesse e lo spilungone dai
capelli rossi al centro di questa) nel quale era precipitato.
Il ragazzo si riscuote borbottando qualcosa tra sé e sé per poi lasciarsi
scappare un sospiro.
Marco, dietro di lei, ancora continua a sghignazzare. Cass si volta guardandolo
male e intimandogli con lo sguardo di smetterla subito per poi tirargli una
bella gomitata nelle costole, che trasforma la risata in un grugnito, quando
vede che non ha intenzione di ascoltarla.
«È un piacere, rosso.» asserisce dopo un attimo di silenzio l’albino dietro di
lei beccandosi una nuova gomitata nelle costole «Ma ehi! Che ho detto!»
«Prova almeno a fingere di essere gentile.» borbotta la ragazza guardando storto
l’amico dai capelli chiari con stampato sul viso quello che Marco stesso
definiva il suo impertinente broncio da
bambina indispettita. Il più alto si limita ad alzare gli occhi al cielo e
Cass, trattenendo un sospiro per quella battaglia persa in partenza, torna a
girarsi verso “il rosso” con un sorriso timido, ma non per questo meno sincero
o contagioso, stampato in viso. Supera Nicola che nel frattempo si era
allontanato di qualche passo verso sinistra ma che era ricaduto nuovamente nel
suo “stato di contemplazione del nulla”, e si dirige verso quello che sospetta
essere Isaia –poiché i capelli rosso fuoco, il volto spruzzato di efelidi e la
mole non così modesta non lasciavano grandi dubbi- e gli porge la mano
socchiudendo gli occhi come le capitava da sempre quando si ritrovava a
sorridere così tanto.
«È un piacere conoscerti, Isaia.»
Il ragazzo le stringe la mano un poco stralunato e Cassandra si rende conto di
apparire, molto probabilmente, oggettivamente inquietante con quel sorriso
enorme e tutta quell’euforia per la nuova conoscenza –per non parlare del fatto
che, a giudicare dall'espressione del ragazzo, lui non aveva la minima idea di
chi avesse davanti, mentre lei aveva praticamente studiato in modo ossessivo e
alquanto preoccupante i fascicoli sui nuovi colleghi che aveva chiesto molto gentilmente, in altre
parole estorto con la forza, a Rachele-. Ritrae la mano di scatto, rossa in
volto come una di quelle mele che crescono nel cortile della casa di campagna e
che sua zia usa sempre per fare quelle torte alle buonissime che lei adora
tanto e che le ricordano i pomeriggi estivi passati nel frutteto insieme a sua
madre. Isaia De' Medici sospira un poco per poi scuotere impercettibilmente la
testa e Cassandra deve trattenere la sua innata ed incontrollabile curiosità
che le suggerisce di attivare la propria abilità e analizzare un po' meglio le
emozioni che sente aleggiare intorno ad Isaia. Vedendo che l’attenzione del
ragazzo non è più focalizzata su di lei, Cass riesce a riacquistare un colorito
più simile a quello di un essere umano anziché a quello di un pomodoro e a
schiudere le labbra per riprendere le presentazioni, magari con un po’ di
scioltezza in più. Purtroppo viene interrotta, come al solito, da un
estremamente rumoroso albino che le circonda le spalle con un braccio e che non
si cura minimamente dell'occhiataccia estremamente infastidita dalla ragazza irritata
non solo per essere stata interrotta, ma che perché Marco sapeva benissimo quando Cass odiasse essere così bassa, eppure
sembrava che non sprecasse mai un’occasione per ricordarglielo con l’uno o
l’altro gesto.
L'albino squadra Isaia dall'alto per qualche momento, e Cass ridacchia sotto i
baffi che non ha, il fastidio dissolto con la stessa velocità con cui era
arrivato. Il fatto era che non avrebbe mai voluto trovarsi nei panni di Isaia
in quel momento: scrutato da un bestione alto un metro e novanta con una luce
poco rassicurante negli occhi.
La tensione che accenna a formarsi sparisce però in pochi attimi –e prima che
Isaia possa sbiancare del tutto- quando Marco, evidentemente convinto di aver
marcato a sufficienza il territorio –e Cass lo avrebbe preso in giro per il
resto della vita per quei suoi atteggiamenti intimidatori che spesso sfociavano
in scenette davvero comiche-, distende i muscoli del viso tutto d'un tratto e
assesta un pugno forse un po' troppo forte -dato che il rosso si ritrova a
barcollare sul posto- sulla spalla del ragazzo.
«È un piacere conoscerti, rosso, io sono Marco e questa Cassandra qui è
ragazza» e strofina le nocche –senza curarsi del lapsus Freudiano, per lui
fenomeno abbastanza comune che ha invece fatto aggrottare le sopracciglia ad
Isaia- sulla testa della ragazza stessa scompigliandole i capelli che fino a
due secondi prima erano ordinati in una bella coda e ottenendo da lei un
grugnito di disapprovazione con conseguente gomitata nelle costole «il tappetto
laggiù invece è Nicola, e sorridi un po', forza, lo so che questi due non
massimo il sembrano, ma con il tempo si impara ad apprezzarli, circa.»
«Ma smettila di dire idiozie» borbotta una alquanto infastidita Cassandra
impegnata a rifarsi la coda «che finisci che lo terrorizzi già dal primo
incontro.» e poi torna a rivolgersi a Isaia con ancora lo sguardo rivolto al
cielo «lascialo perdere, si diverte a fare il rumoroso capoccione ma in
realtà...»
«Ma in realtà oltre a fingere di avere la testa dura come il granito, a
improvvisarsi molesto, fastidioso, irritante, irritabile e vagamente troppo
tendente alla collera dopo qualche tempo ti fa capire che in verità lo è sul
serio»
Le parole, pronunciate dalla voce perennemente rilassata che Cass aveva
imparato ad apprezzare nei mesi precedenti, sono seguite dal classico odore che
accompagnava Elia Mezzanotte ovunque andasse, odore che Cassandra e Nicola definivano
"un misto di zucchero sul punto di bruciare e tabacco con una punta amara
di retrogusto", ma che, detto senza il velo di gentilezza, era, testuali
parole della ragazza, la "puzza d'erba e non quella per cavalli e Dio mio
Elia non ho la minima idea di dove tu l'abbia comprata e non lo voglio nemmeno
sapere l'importante è che la porti fuori da casa mia e non dirmi che te la
coltivi in casa perché giuro che ti tiro un cazzotto".
La chioma verde e scompigliata del ragazzo, imprigionata dal cappello bianco e
nero tanto adorato dal proprietario, non si fa attendere molto dato che il
ragazzo si unisce al gruppetto trascinandosi dietro un non poco frastornato
Nicola che pare concentrare tutta la sua attenzione su un dialogo silenzioso
con la Fata Turchina –e per questo, lettore, dovrai aspettare ancora un po':
parlare ora dell'abilità di Nicola Agnelli sarebbe decisamente troppo prematuro
e impiegherebbe una digressione fin troppo lunga che spezzerebbe la nostra
narrazione, quindi per ora dovrai accontentarti di sapere che spesso Nicola si
perdeva nel chiacchiericcio dell'essere che gli abitava la testa e, a volte,
finivano per sfuggirgli dalle labbra commenti poco appropriati su argomenti che
solo lui e l’entità nella sua testa potevano conoscere.-
Cass lo vede dare un pugnetto scherzoso sulla spalla di Marco, che non sembra
comunque apprezzare l'interruzione, e portarsi due dita alla fronte abbozzando
verso Isaia un cenno che dovrebbe essere una qualche sorta di saluto militare
che però diventa solo un pretesto per sistemarsi il cappello in un gesto che
ormai Cassandra riconosceva come tipico di Elia ai livelli di uno strano tic
posseduto da lui solo e che poteva essere paragonato unicamente a cose
altrettanto particolari e caratteristiche come lo erano i lapsus di Marco o i
commenti randomici a voce alta di Nicola o la magica capacità di Cassandra di cambiare umore nel giro di tre
secondi ("e quelli con le triple e quadruple personalità accompagnano
soltanto", come le aveva detto Marco).
«Ma alla fin fine questo omaccione qui ha anche dei pregi, o almeno credo, io
non li ho ancora trovati, Cass? Tu come sei messa? O hai abbandonato questa
ricerca ai limiti dell'impossibile?»
E Cassandra non fa in tempo a rispondere, tentando di calmare le acque ed
evitare uno degli scatti d'ira di Marco che Elia si divertiva a provocare e
quietare subito per metà con la sua abilità –anche se spesso otteneva l’effetto
contrario- e per metà a spese di Cassandra poiché la voce del capo di tutti
loro –loro che avrebbero dovuto essere la task-force che avrebbe annientato la
Mafia e che invece si stavano punzecchiando come dei ragazzini- li riporta alla
realtà.
«Oh, bene, siete arrivati tutti.»
Con Greta Locatelli Cassandra ci aveva parlato solo qualche volta e solo via
messaggio. L'aveva vista anni prima a Roma nella sede principale del DICIDA
–Dipartimento Italiano per il Controllo degli Individui Dotati di Abilità-,
quando aveva in qualche occasione incontrato Rachele o collaborato con gli
agenti governativi per l'una o l'altra ragione, ma sempre e solo di sfuggita.
Sapeva il suo nome e conosceva la sua abilità –abilità a dir poco terribile, a
parer suo, almeno all'epoca: presto la sua concezione di "abilità
terribile" sarebbe ben cambiata, ma questo ancora non poteva saperlo-, e
la rispettava, sebbene fosse parecchio più giovane di lei –l'una aveva
ventiquattro anni e l'altra cinque di meno- e, a detta di Rachele, una vera e
propria teppista che "cosa ci fa tra le file governative lo sa solo
lei".
Con l’arrivo e le cinque casuali parole di Greta
si spezza improvvisamente il clima di familiarità che aveva invaso la stanza,
come se tutti si fossero ricordati all’improvviso e solo in quel momento di non
trovarsi al bar o per strada ma nel loro nuovo posto di lavoro. Greta rivolge
un sorriso e saluta ognuno di loro chiamandoli per nome per poi far cenno di
accomodarsi. Chi più imbarazzato e rigido e chi meno tutti sono presto seduti
intorno al tavolo sulle comode sedie-poltroncine. Il silenzio regna nella
stanza mentre occhi e sguardi corrono da una parte all’altra senza soffermarsi
mai troppo su un singolo particolare o una persona specifica, e Cassandra si
sente sprofondare nella seggiola –che improvvisamente le pare assurdamente
grande ed eccessivamente morbida-. Greta, dopo un tempo che a una persona
naturalmente facile all’imbarazzo come Cass pare infinito, tossisce
leggermente, probabilmente per evitare ulteriori scambi di sguardi e
imbarazzanti momenti di vuoto. Cassandra a quel punto si ritrova a sorridere
leggermente e inaspettatamente guardando coloro con cui avrebbe lavorato da
quel momento in avanti: tutti preda di quell'improvviso imbarazzo, come se
fosse il primo giorno di liceo e nessuno conoscesse nessuno e nessuno sapesse
che pesci pigliare.
Greta tossicchia di nuovo, attirando l'attenzione «Volete una birra?» le
sopracciglia di Cass si corrugano istintivamente.
«Capo, non per contraddirla o darle fastidio, ma non sono neppure le undici, è
certa che sia il caso?» È Nicola a replicare, dopo qualche attimo di silenzio perplesso,
con la sua voce tanto nitida e limpida quando, paradossalmente, abbastanza
incerta per quell’intervento.
La ragazza dai capelli azzurri, più scuri di quelli del suo amico tappetto,
nota Cassandra, che sono invece tendono più celeste, sbuffa agitando una mano
come a liquidare la questione per poi alzarsi, sparire un momento dietro quella
che deve essere la porta della cucina e tornare poi con sei birre che subito
piazza al centro del tavolo. Ne prende ora una per sé stappandola usando il
bordo dell’appena nominato tavolo, se la porta alle labbra e ne prende un lungo
sorso senza aspettare che qualcuno la imiti o qualcosa di simile.
Appoggia sul tavolo la bottiglia ora piena per metà e si pulisce le labbra con
il dorso della mano emettendo poi un leggero sospiro. Si china e da uno zaino
alquanto malmesso tira fuori un plico di fogli volanti, un quadernone tutto
spiegazzato e quattro o cinque biro. Cass osserva la scenetta e il suo seguito,
Greta che porge fogli e penne ad Isaia di fianco a lei e questo che ne prende
una copia per sé e fa passare le altre, con una sorta di sconcerto che non
saprebbe se definire positivo o negativo.
Si ritrova in mano le stesse schede che mesi
prima s’era fatta dare da Rachele. Osserva il proprio volto sorridente della
foto e la sfilza di dati anagrafici e di appunti clinici di sorta, seguita
dalla fotocopia fronte e retro della carta di identità, dalle informazioni sui
loro parenti stretti e da un breve resoconto sui punti focali della loro vita.
Quello che però attira l’attenzione della ragazza e ciò che segue la lista schematica
dei dati personali: per ognuno di loro ci sono infatti almeno tre pagine fronte
e retro che riguardano unicamente l’abilità posseduta. Cassandra ha una stretta
allo stomaco quando si rende conto che tutti potranno leggere della sua vita e
sapere praticamente ogni cosa.
«Bene, so che già alcuni di voi si conoscono, ma vorrei che comunque deste
un’occhiata per domani a questi fogli, alle abilità nello specifico: dobbiamo
farci un’idea gli uni degli altri e soprattutto sulle nostre capacità il prima
possibile. Ho già individuato qualche strategia che potrebbe rivelarsi
vincente, ma sei teste sono indubbiamente meglio di una, quindi aspetto le
vostre proposte.»
Greta si ferma un momento osservando il foglio senza dire più nulla strofinandosi
la radice del naso tenendo contemporaneamente le sopracciglia alzate, come se
stesse cercando il modo giusto per continuare il discorso. Poi alza lo sguardo
e incontra quello di Cassandra che se ne sta seduta esattamente di fronte a
lei. Tiene gli occhi fissi nei suoi per qualche attimo per poi farli scorrere
su tutti loro e, a quella vista, sorridere… soddisfatta?
Sposta il plico di fogli con un gesto della mano e si mette comoda sulla sedia
allungando le gambe e incrociando le braccia al petto e mettendo in mostra,
probabilmente involontariamente, i numerosi tatuaggi. La luce filtra dalle
finestra illuminandole gli occhi turchesi e facendoglieli brillare di una luce
che Cassandra definisce maliziosa senza alcun dubbio.
«E ora parliamo di Mafia.»
Angolo autrice
Lo
so, sono in ritardo (in super ritardo) e la cosa triste è che
non ho nemmeno una scusa: ho scritto e pubblicato questo capitolo su
Wattpad un paio di settimane fa e poi niente, tra una cosa e l'altra mi
sono dimenticata di postare anche qui. Sono un caso perso.
Spero che questo capitolo non vi abbia delusi, o ignoti lettori, e
prometto che mi impegnerò a pubblicare il prossimo un po'
più in fretta...
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 3 -parte 2- ***
Capitolo 3 -parte 2-
La prima volta che aveva visto Gabriele e Lidia, capo e sottoposta, padrone e cane, era stato praticamente certo che
i due avessero avuto una relazione, o anche che avessero semplicemente
scopato qualche volta, e si fossero poi lasciati malissimo,
perché altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare la
perenne tensione che raggelava l'aria ogni qual volta ai due capitava
di essere nella stessa stanza –evento non poi così raro
poiché lavoravano insieme tutti i giorni-.
Avevano iniziato a lavorare uniti quasi sette mesi prima, in una fredda
mattinata di gennaio, e sorvolando sul fatto che i risultati erano
stati ben differenti da quelli attesi, Amos Occhipinti aveva avuto la
possibilità –e il privilegio, a parere dello stesso
ragazzo- di studiare e analizzare due personalità estremamente
disturbate quali quelle dei due suoi "collaboratori". Aveva passato i
primi cinque mesi a studiare gli atteggiamenti ostili che dimostravano
l'una verso l'altro elaborando le più svariate teorie sulla
nascita di quell'odio reciproco che li accumunava e legava a doppio
filo con nodi troppo stretti perché l'origine fosse un semplice
scontro verbale o una banale insofferenza caratteriale: doveva esser
accaduto qualcosa tra Gabriele Venturi e Lidia, qualcosa che aveva
frantumato in milioni di frammenti qualunque legame passato, presente e
futuro. Aveva creduto nell'ipotetica relazione sentimentale andata male
fino a quando, due mesi prima, non si era ritrovato ad aggrapparsi con
anche le unghie al tavolo macchiato di sangue rappreso su cui
lavoravano con Gabriele inginocchiato tra le sue gambe intento a
succhiargli il cazzo. Nelle settimane successive, poi, l'ipotesi era
andata sbiadendosi fino a frantumarsi definitivamente in un milione di
pezzi quando, senza nemmeno accorgersene, aveva spogliato l'altro
ragazzo e questo si era fatto fottere fino a che i rivoli di sangue
vermiglio che avevano iniziato a rigargli le cosce erano arrivati al
pavimento, macchiandolo e lasciando una prova tangibile di quel
pomeriggio... e di tutti quelli successivi. Era accaduto una sola volta
che Lidia tornasse dalle sue "faccende" un poco prima del previsto
–o forse erano loro ad essersi attardati più del solito,
Amos non avrebbe saputo dirlo, in verità-, e quell'unica volta
il ragazzo aveva adorato vedere
le emozioni che scorrevano sul volto della sottoposta e che le
combattevano negli occhi. Gabriele non aveva mai saputo nulla di
quell'intrusione, troppo impegnato ad aggrapparsi alle spalle del
compagno più giovane gemendo oscenamente, né
dell'espressione attonita della ragazza –la prima emozione che
Lidia avesse mai palesato o persino provato, per quanto ne sapeva
Amos-, né del ghigno sadico che le aveva ridisegnato le belle
labbra quando Gabriele si era fatto scappare un urlo di dolore mal
soffocato contro la spalla del sottoposto. "Fagli male", sembrava
volergli dire la piega di quelle labbra, "spezzalo a metà come
si fa con un ramoscello secco", gli urlava la scintilla malata negli
occhi. Se ne era andata chiudendosi la porta senza far rumore e quando
Amos l'aveva rivista il suo viso era stato nuovamente un'impenetrabile
maschera d'acciaio, come se nulla fosse mai accaduto, come se non
avesse permesso ad Amos di intravedere la massa d'odio brutale che le
si annidava nell'anima come fa un tumore.
Scoprire dunque che altri si
sarebbero immischiati nel loro gruppo, un terzetto precario, mal
assortito e creato con la forza, certo, ma un terzetto che aveva
trovato un pericoloso equilibrio sull'orlo del baratro e le cui
dinamiche, delle quali lui stesso faceva parte, lo affascinavano come
poche altre cose nella sua vita avevano fatto, lo aveva irritato non
poco, sia a causa di quel brusco turbamento della normalità, sia
a causa della intrinseca indole del ragazzo che lo portava ad essere
ostile verso chiunque e che, comunque, gli impediva di fidarsi di ogni
persona oltre che di se stesso.
Le chiazze di sangue sono state ripulite, le stanze riordinate e loro
trasferiti in uno spazio più grande del precedente: di quei
sette mesi passati è rimasto ben poco, e Amos sente il viscerale
bisogno di tornare a macchiare tutto il più in fretta possibile,
poiché la visione di quell'ambiente sterilizzato gli porta alla
mente cose che preferirebbe davvero dimenticare.
È tardo pomeriggio e quella mattina avrebbe potuto riposare
–dato che quando aveva chiesto a Gabriele se ci fosse bisogno di
presentarsi in "ufficio" questo lo aveva guardato annoiato
rispondendogli di andare a farsi una vita e lasciare che "il cane",
Lidia, facesse qualcosa di utile e sistemasse ciò che serviva
nel nuovo edificio che avevano loro assegnato come laboratorio-, ma ha
passato la notte praticamente insonne, un po' come sempre. Se
però normalmente ha un modo per giustificarsi con la sua
coscienza –lo stress per gli esperimenti, gli incubi, i lavoretti
a cui si dedicava ormai da anni per infilarsi in tasca qualche soldo in
più, che di certo non gli fa male o semplicemente il caldo-, la
sera precedente non aveva davvero avuto scuse. Nonostante ciò
aveva trascorso la nottata a fissare la macchia d'umido sopra il suo
letto e a cercare calcolare quanto tempo avrebbe impiegato l'intonaco a
staccarsi perdendo però il filo dei suoi stessi calcoli in
continuazione e finendo per non concludere nulla. Verso le due del
mattino alla fine aveva deciso di mettersi al computer, giusto per
impegnare la mente e alle cinque e mezza era uscito per andare sul
tetto del palazzo dove abitava e guardare l'alba da lì: solo
dopo aver visto il sole sorgere e i raggi infilarsi tra i tetti delle
case milanesi le palpebre gli erano scivolate sugli occhi, complice la
brezza non ancora afosa che gli aveva scompigliato i capelli da ormai
anni tinti di bianco dalle punte di un rosso spento che richiamava il
suo colore naturale, fino a che non era scivolato in un sonno agitato
durato poche ore. Al suo risveglio collo e schiena gli facevano male e,
tra l'altro, era ora di darsi una sistemata e capire con chi gli
sarebbe toccato lavorare nei mesi, o anni?, successivi.
I
nuovi membri entrano alla spicciolata senza guardarsi né
guardarlo in faccia. Amos li osserva seduto alla propria postazione con
i rapporti dei sette mesi passati aperti sulle gambe. Gabriele, pur
sapendo tutto, si era ovviamente ben guardato dal dirgli qualunque cosa
riguardo i nuovi membri, probabilmente per il puro gusto d'infastidirlo
facendogli notare come fosse lui ad avere potere e informazioni, e non
si era lasciato sfuggire nulla se non che fossero tre. Di questi, nota
Amos quando la porta si chiude una terza volta, solo una è una
ragazza: sta con la schiena poggiata contro il muro, le braccia strette
al petto, la lunga mantella carminio che le ricade morbidamente sui
fianchi avvolgendo perfettamente la vita sottile. Le gambe sono lunghe
e secche come grissini, indubbiamente sproporzionate al torso
più tozzo e creano un effetto stridente con la minutezza
complessiva della figura, così come le braccia, avvolte fino ai
gomiti da guanti di pelle nera, secche come le gambe, appaiono strane
incrociate davanti ai seni più che abbondanti. Quella ragazza
gli appare a primo acchito così fatta di spigoli e
contraddizioni che Amos potrebbe considerare l'idea di farsela andare a
genio se non fosse per l'impeccabilità di tutto il resto: il
mantello senza nemmeno una piega, ricoperto di pizzo nero ad ogni orlo,
senza alcuno sfilacciamento, nessun bottone d'oro mancante, il
cappuccio tirato sulla testa per impedire a chiunque di scorgere un
centimetro di pelle più del necessario ma non troppo così
da non farle perdere un millimetro della larghezza del campo visivo, la
maschera nera che le copre tutto ciò che il cappuccio lascia
nudo, e gli occhi, vigili e gelidi, l'uno di un grigiastro tenue,
tendente al lilla, l'altro di un castano scuro totale, più
tendente al nero che ad altro, sono le uniche due cose che sfuggono
alla morsa oppressiva degli abiti. La schiena perfettamente dritta, il
collo, seppur coperto, in palese tensione, le spalle rigide, il mento
sollevato. L'aspetto apparentemente contraddittorio che aveva
inizialmente attirato lo sguardo di Amos è dunque ora duramente soppresso da
una rigidezza innaturale e auto-imposta, da un controllo totale di ogni
aspetto su cui si può effettivamente avere il controllo. Quella
che avrebbe potuto essere un nuovo soggetto interessante si è
rivelata alla fine l'ennesima macchietta grigia di regole e bugie,
proprio come Lidia e Gabriele e tutti gli altri esseri viventi prima di
loro. Quell'attimo meraviglioso è sparito e con questo
l'interesse di Amos per ogni cosa, anche per gli altri due ragazzi che,
difatti, si limita a guardare distrattamente: uno porta una giacca di
pelle un po' consumata e ha una specie di fazzoletto avvolto intorno al
collo, l'altro indossa un lungo giubbotto scuro a cui manca un bottone,
una sciarpa nera e tiene i capelli inchiostro legati in un codino. Se
da un lato per notare l'arrivo nel capannone del primo gli ci erano
voluti tre secondi, merito –o colpa- del passo sicuro o del
movimento un po' ciondolante di chi, di nascondersi, non aveva mai
avuto o sentito il bisogno per carenza di motivi o "occasioni" o
–più probabilmente data anche la situazione- per la
presenza d'altre capacità che sopperivano quella mancanza-,
dall'altro il secondo pare un fantasma nero ed evanescente sotto
spoglie umane. Amos ammette che, se non fosse stato per la porta, non
si sarebbe mai accorto della presenza del giovane: troppo silenzioso,
troppo ferino, troppo a suo agio con gli spettri del mondo. Se avesse
distolto lo sguardo dalla sua figura avrebbe perso completamente la
consapevolezza di dove l'altro si trovasse, poiché la completa
assenza d'un suono, d'un passo o d'un respiro, d'uno spostamento d'aria
rendeva impossibile localizzare il ragazzo nell'ambiente, come se si
fosse fuso con la parete, o, più semplicemente, non fosse
affatto lì, come se la porta si fosse aperta e chiusa per un
alito di vento e il corpo che aveva intravisto non fosse stato altro
che un'ombra o un miraggio.
Lidia
è rimasta nel suo angolino di stanza dall'inizio alla fine della
sfilata, e anche oltre: non ha mosso un muscolo né per osservare
i nuovi arrivati -almeno non apparentemente e non nella visuale di
Amos- né per reagire all'ingresso del capo di tutti i presenti.
Gabriele Venturi, al contrario di tutti gli altri, non aveva mai avuto
bisogno, in tutta la sua vita, di essere silenzioso, e in venticinque
anni non aveva mai imparato l'arte della discrezione: non gli era mai
interessato e non ne aveva mai avuto necessità, troppo impegnato
a godersi tutti i privilegi che la vita gli aveva regalato e a
crogiolarsi nella consapevolezza d'essere migliore di tutti quegli
altri pezzenti nati poveri e soli che vivevano nel mondo -e questo Amos
lo aveva capito dopo aver trascorso con lui sì e no due ore
scarse-. Probabilmente non sarebbe mai cambiato e mai avrebbe imparato
la lezione se le cose avessero continuato ad andare come andavano
allora, ma posso assicurarvi, cari lettori, che per quanto tutto
ciò non sia altro che un resoconto questa nostra storia possiede
tutte le caratteristiche d'un buon romanzo e, dunque, non c'è
bisogno che vi anticipi nulla per farvi trarre le vostre conclusioni,
almeno su questo.
Quel giorno indossa dei jeans attillati a vita alta e una camicia che
gli aderisce perfettamente al petto e ai fianchi, come se fosse stata
fatta su misura, come probabilmente è, a pensarci bene. La
figura di Gabriele è quasi eterea sotto certi punti di vista, o
forse è solo il netto contrasto tra l'oscurità
dell'ambiente circostante e i suoi capelli biondi a conferirgli quella
patina di pretenziosa perfezione.
«Alcuni
probabilmente la definirebbero sperimentazione umana, ma a voi non deve
interessare più di tanto.» chiusosi la porta alle spalle
procede ora dritto e si ferma proprio in mezzo alla stanza, dando le
spalle al giovane dalla giacca di pelle, di certo non preoccupato che
questi possa smettere di ascoltarlo «Praticamente la
totalità di voi non è altro che un branco di esecutori,
cani da riporto che agitano la coda per avere il loro osso a fine
giornata, continuate a comportarvi così e con me non avrete
problemi, fate quello che vi dico senza fiatare, velocemente e con
precisione, e avrete i vostri croccantini, sbagliate o disobbedite e il
bastone colpirà forte.» Fa una pausa, come se aspettasse
la replica di qualcuno, ma riprende a parlare prima che chiunque abbia
effettivamente il tempo di formulare un pensiero e pronunciarlo.
«Ottimo, vedo che siete tutti dotati di acume, sono certo che
andremo d'accordo.»
«Non ho intenzione di farmi bastonare come un cane, affrosciau*, quindi abbassa la cresta.»
C'è un momento in cui un silenzio attonito gela la stanza e
ognuno nella posizione in cui si trova. Amos stesso resta colto
impreparato da quell'uscita totalmente inattesa: lavorava ormai da anni
nella Mafia e non gli ci era comunque voluta più di una
settimana per capire l'andazzo generale delle cose. La sua opinione,
come quella di tutti gli altri subordinati, non era ed è
richiesta, loro non sono lì per fare domande o contestare,
poiché la Mafia li ha salvati da un'esistenza miserabile, paga
da vivere a lui e tutti quelli come lui, trovatelli mezzi pazzi
meritevoli d'essere salvati solo perché dotati di
un'Abilità, e loro in cambio vivono in funzione di questa stessa
con la testa china. Quelli come lui non avevano nessuna mira al potere,
troppo deboli e troppo meschinamente impegnati a sopravvivere, quelli
come lui obbediscono e basta, al limite cercano di racimolare
divertimento e soddisfazioni dove e come possono. Erano quelli come
Gabriele che, forse, un giorno, avrebbero sparato in testa al capo e si
sarebbero fatti re, e non partivi dal gradino più basso se avevi
questa possibilità: chi nasce avvantaggiato e vittorioso non ha
bisogno di fare il cane per vivere, nemmeno nei primi anni della sua
vita. Quindi perché alzare così inutilmente la voce? A
che scopo? Desiderio masochistico, forse?
Gabriele
ha probabilmente fatto lo stesso ragionamento perché osserva
infastidito il corvino dalla giacca di pelle, un po' come si
osserverebbe una mosca che ti ronza attorno da un tempo troppo lungo e
che ha logorato a sufficienza la tua pazienza.
«Come, scusa? Perdonami, ma non credo di aver capito.»
E anche Amos ne è convinto, perché non può aver
capito bene, non avrebbe senso, probabilmente il ragazzo ha solo detto
uno sproposito e ora si rimangerà tutto mordendosi la lingua a
sangue e dandosi contemporaneamente dell'idiota.
«Ho detto, brutto accavurau**»
s'avvicina a Gabriele fino a che tra di loro la distanza non è
che di qualche spanna e un sorriso di scherno gli si dipinge sulla
faccia lasciando in bella mostra un dente sbeccato. «che non so
per chi tu mi abbia preso, ma non sono un animaletto da compagnia che
mangia merda, quindi ridimensiona il tuo ego e il tuo modo di parlare,
perché altrimenti ti posso giurare che alla prossima uscita di
questo tipo ti ritroverai senza qualche appendice, come per esempio il
cazzo minuscolo che ti trovi tra le gambe.»
Amos Occhipinti è più che certo che Gabriele, il capo che
ha imparato, anche se con qualche difficoltà, ad apprezzare,
stia per avere un attacco isterico e teme davvero per la sorte del
nuovo arrivato poiché conosce il biondo e, soprattutto,
perché ha visto all'opera la sua Abilità. Gabriele
Venturi, però, fissando il corvino dal basso data la sua
modestissima altezza, sebbene le mani gli tremino, strette a pugni, e
gli occhi azzurrissimi trasudino rabbia, non accenna a fare nulla, e
Amos si domanda davvero il motivo dato che, se c'era una cosa che aveva
capito riguardo Gabriele, era quanto questo odiasse con ogni fibra di
sé le persone che gli mancavano di rispetto. Trattiene il fiato
aspettando che il ragazzo dai biondi capelli pieghi un dito e tolga
all'altro l'aria dai polmoni o gli sciolga il piercing sulla lingua e
tutti i bottoni causandogli una leggerissima ustione
o gli apra un buco sotto i piedi e lo rinchiuda sotto il pavimento,
tutte cose che, pur non conoscendo per bene la sua abilità
è più che certo che Gabriele sappia fare, ma non succede
nulla di tutto ciò: il giovane stringe i denti, irrigidisce le
spalle e fissa il corvino come se volesse aprilo a metà, ma poi
molla i pugni e fa un passo indietro.
Un sussulto attonito percorre tutta la stanza mentre il sorriso sul
volto di quello che, scopriremo a breve, è Lorenzo Locci
s'allarga ancor di più.
«Sono io ad avvisarti: parlami ancora così e la tua
patetica Abilità non ti servirà a nulla, ragazzino
viziato.» Un sorriso impertinente gli nasce nuovamente sulle
labbra, ma è un sorriso falso, e nella stanza lo sanno tutti,
nessuno escluso. «Alla prossima uscita di questo tipo Lidia ti
accompagnerà gentilmente alla porta, ma non sono sicuro che al
quartier generale farebbe piacere sapere del tuo atteggiamento,
soprattutto non a papino, che
ne pensi, Lorenzo?» Lidia si raddrizza, richiamata all'appello e
non più persa tra i fili della sua mente e avanza di un passo,
ritta come un fuso, con un bagliore rosso nello sguardo e le unghie
pericolosamente ridisegnate ad artiglio.
Lorenzo, però, si limita a ridere un poco. «Sei talmente
debole da aver bisogno di nasconderti dietro uno di quelli che tu
stesso hai definito cani, tra questi, poi, proprio ad una ragazza, per
di più, e dire che dovresti essere quello con il potere e il
cervello, qui dentro.»
«Semplicemente non voglio sprecarmi con i pezzenti che credono
d'essere invulnerabili perché hanno qualche amico ai piani
alti.» ma è una risposta debole e come lo sa Amos lo sa
Gabriele e lo sa Lorenzo.
E mentre il ragazzo dai capelli bianchi e rossicci continua a chiedersi
per quale motivo Gabriele non usi la propria Abilità, Lidia fa
un altro passo avanti mentre un inquietante spasmo le fa scattare la
testa verso sinistra e l'aria intorno a lei s'addensa. Lorenzo al
sentir nominare gli "amici ai piani alti" s'è irrigidito ed ora
stringe le nocche fino ad averle bianche mentre gli occhi azzurri gli
si rigano di nero e la situazione sembra peggiorare ogni secondo che
passa perché, sebbene l'Abilità di Gabriele non la
conosca bene Amos ha invece un'idea più che perfetta di quella
di Lidia e, soprattutto, del numero di cadaveri che è capace di
lasciarsi dietro e, anche se non sa nulla di quella di Lorenzo ha la
certezza che non possa reggere il confronto con la ragazza in alcun
modo. L'unica cosa che può fare, in quell'istante, è
contare i secondi che mancano all'impatto catastrofico contro la parete
di cemento armato che gli si è palesata davanti all'improvviso.
«Ora
basta!» La voce gli giunge un poco smorzata alle orecchie, ma la
sfumatura gelida e imperiosa non gli sfugge affatto. Si volta di scatto
insieme a tutti gli altri verso la giovane incappucciata che, con gli
occhi bicolori illuminati di un disprezzo che non le importa
dissimulare, pare una sdegnosa regina d'altri tempi pronta per tagliare
la testa a tutti quegli altri pezzenti che la circondano. «Mi
hanno mandato qui spacciando tutto per questo per una promozione, e
invece mi trovo a vedere due bambini che bisticciano tra di loro per il pezzo di pane più grosso. Siete ridicoli.
E tu» si volta di scatto verso Lidia «non ho la minima idea
di cosa tu stia facendo, ma hai esattamente cinque secondi per farla
finita prima che ti spari un colpo in testa dato che non ho nessuna voglia di
vedere tu e quell'altro sciocco giocare a chi ce l'ha più
grosso.» Si blocca e, mentre la stanza resta immersa nel silenzio
e Lidia se ne torna al suo posto, la ragazza s'abbassa la maschera con
l'indice guantato rivelando due labbra morbide ed un mento a punta.
Quando riprende a parlare la voce è perfettamente calma, e
questo fa rabbrividire Amos ancora più di quanto non avesse
fatto il tono gelido. «Ed ora, signori miei, tornerei
cortesemente all'argomento principale, se siete tutti d'accordo,
ovviamente.»
*frocio, in sardo
**rincoglionito, sempre in sardo
Nota dell'autrice (che è solo vagamente in ritardo)
Lo so che non ci speravate più
(iniziavo a perdere le speranze pure io), ma invece sono tornata.
Ebbene sì, non sono morta e il Quartiere (questo il nome
informale che ho deciso di dare a questa storiella) torna con me, super
carico e pronto ai prossimi capitoli che, finalmente -direte voi-,
inizieranno ad essere un po' più densi d'avvenimenti.
Spero che qualcuno si ricordi ancora a che
punto eravamo rimasti, perché qui abbiamo trovato una situazione
completamente diversa: nella Mafia (come forse un po' c'era da
aspettarsi) la tensione si taglia con un coltello e la situazione
è decisamente precaria (e siamo solo all'inizio!).
Ebbene, che dire, fatemi sapere i vostri
pareri su tutti i personaggi di questo capitolo, sia quelli che
già conoscevamo (Lidia, Gabriele e Beatrice, che è
comparsa all'ultimo ma ha salvato la situazione), sia sui nuovi
arrivati (Lorenzo e, ovviamente, il protagonista di questo capitolo,
Amos, personaggio che a me piace da morire per una serie di motivi che
non vi rivelerò, ops.) E c'è anche un misterioso figuro
che, dopo essere comparso, è rimasto in disparte e si è
praticamente volatilizzato, su di lui c'è qualche parere? (Forse
la sua identità è intuibile, ma se l'avete capita tacete
e fingete di non sapere, così mi fate felice)
Ringrazio chiunque leggerà, anche dopo questo luuuungo periodo e anche chi aspetterà i prossimi aggiornamenti c:
Segnalazioni di eventuali errori sono le benvenute!
||Fox
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