Il quartiere dei gatti neri

di Fox2_Fox
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 (+info e OC) ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 -parte 1- ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 -parte 2- ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 -parte 1- ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3 -parte 2- ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 (+info e OC) ***


Cap 1

Vi riporto, qui seguendo, i fatti che mi sono stati chiesti di trascrivere senza riassunti né interpretazioni poiché giudicati d’importanza elevata da elementi la cui posizione e autorità è ben maggiore rispetto alla mia. Mi prendo però la libertà di aggiungere una piccola nota per coloro che leggeranno queste mie parole –parole sulle quali probabilmente trascorrerò gran parte di ciò che mi resta da vivere-: tenterò di dimostrarmi il più imparziale possibile sulle vicende che seguono sebbene ne abbia fatto parte e, dunque, abbia preso uno schieramento e dato un colore al mio vessillo, almeno per un certo periodo. Non posso dunque assicurarvi di essere capace di eliminare ogni mia opinione sull’uno o sull’altro protagonista, sebbene tenterò quest’ardua impresa.
Ci tengo inoltre a dire che, sebbene l’ordine di scrittura di questo testo mi sia giunto dall’alto, ho deciso di tenerne per me una copia, copia che alla mia morte sarà resa pubblica se le condizioni da me poste non verranno rispettate: non sto scrivendo di questi eventi per diletto, ma nemmeno per puro e mero obbligo. Ritengo infatti che gli uomini di tutto il mondo abbiano il diritto di conoscere queste vicende poiché parti integranti della loro storia, ma non è questa l’unica ragione. Vorrei che qualcuno, leggendo queste parole, capisse gli sbagli che tutti noi –e non mi escludo da questo insieme poiché sono colpevole come tutti gli altri- abbiamo fatto e i disastri che abbiamo causato. Mi piace credere che forse tutto questo servirà a qualcosa e che nessuno farà più i nostri errori. Probabilmente m’illudo: noi umani siamo alla fin fine naturalmente portati alla distruzione e amiamo ripetere gli sbagli passati per perpetrare l’una o l’altra causa, ma pensare di poter fare qualcosa di buono, anche dopo e nonostante il male che ho fatto mi farà chiudere gli occhi un poco più serenamente. Dunque, per tornare al punto iniziale e dare senso a tutto questo discorso, provvederò di persona a rendere pubblico tutto questo, in un modo o nell’altro, se coloro che sono più in alto non lo faranno, come invece abbiamo pattuito.
Come ultima cosa oserei chiedere a tutti voi che state leggendo di non cercare di capire come abbia ottenuto le informazioni tanto dettagliate –compresi pensieri e sentimenti di ognuno dei personaggi- che sto per riportarvi poiché, almeno questo, è un segreto riservato a pochi e che spero venga perduto alla morte di questi: non è cosa che debba essere ricordata.

***

L’uomo davanti a lei sputa e un grosso grumo di saliva mista a sangue sporca il pavimento di legno ammuffito prima di venir assorbito: un attimo dopo al posto di questo resta solo un alone un poco più scuro del legno stesso. Sparito nel nulla, consumato e risucchiato da qualcosa di più grande. C’è qualcosa di poetico e filosofico in quella banalità, almeno ai suoi occhi, probabilmente chiunque altro sarebbe solo schifato dalla puzza del legno marcio, non che lei non lo sia. Per un momento si sofferma a pensare a quanti microbi e batteri si nascondono in ogni singola particella di quel luogo e le viene da rabbrividire, la pelle coperta dagli spessi strati di stoffa che inizia a pizzicare.
Scruta intorno a sé con gli occhi da demone che si è ritrovata alla nascita e valuta l’idea di andarsene. Che ci fa lei, lì, lontano dalla sua città, dalla sua base, dal suo capo, dal suo territorio? Un carico di armi, sì, un giro di droga migliore, certo, tutti argomenti validi, ma non sufficienti.
Tutto quello, l’improvviso trasferimento, gli ordini contradditori e confusi, la riunione montata per caso, quella casa di periferia degna dei peggiori film di terza categoria, il berciare sconnesso e ripetitivo dell’omuncolo che ha stabilito di essere il suo nuovo capo –quando, caro lettore, il massimo che avrebbe mai potuto dirigere sarebbe stata una fabbrica di surgelati- tutto quello la sta irritando. E Beatrice Pazzi odiava essere irritata, le provocava sempre una fastidiosa sensazione d’insoddisfazione, una sorta di prurito lì sotto le bende e la carne bruciata.
Beatrice non s’irritava quasi mai, questa era la verità: amava essere calma tanto quanto amava il profumo dei chicchi di caffè appena tostati. Era una ragazza semplice, lei, amava crogiolarsi nei piccoli piaceri della vita: la morbidezza di un asciugamano nuovo, la comodità di un letto a una piazza e mezza, l’odore di pulito di lenzuola e vestiti appena lavati, il sole che filtra dalle tapparelle come una lama e le accarezza il viso con la sua leggera e tiepida carezza, l’acqua gelida che le ruscella sulla pelle e le pizzica ogni nervo del corpo, che la fa sentire un semplice pezzo di carne come tutti gli altri.
Quelle erano cose che Beatrice apprezzava, si accontentava di poco, non aveva mai preteso una casa più grande né una carica importante, ma quando loft e promozione erano arrivati aveva ringraziato come le si confaceva sebbene quei doni non le avessero donato alcuna soddisfazione a livello personale.
Aveva anche brindato, quella sera, si era abbassata la maschera e aveva bevuto un sorso d’aspro vino rosso e corposo, chiudendo gli occhi ricordando il passato e immaginando di star bevendo il sangue dei suoi nemici.
E dunque le era inevitabile domandarsi se, per caso, avesse fatto qualcosa di sbagliato. Le sembra praticamente impossibile, in verità: lei è impeccabile –non che la ritenesse una lode o un vanto, era un semplice dato di fatto, per lei come per gli altri-, ma come molti è fatta anch’ella di carne, ossa e sangue e dunque forse qualcosa le era sfuggito –e Beatrice non negava quest’opportunità remota poiché aveva imparato a non escludere nulla-. Ma perché sbatterla lì come se fosse tornata ad essere feccia e non punirla in qualche altro modo? Il boss aveva sempre saputo quanto certe situazioni la infastidissero.

L’uomo è grasso, grassa è la faccia, grasso il collo, grasse le dita, le mani ed i polsi, grasso è il ventre e grasse sono gambe, polpacci e piedi. E grassa e gonfia è la lingua che da ore s’agita prendendo aria, sprecando ossigeno e il prezioso tempo di tutti i presenti.
Un uomo di cui Beatrice ha già scordato il nome, più giovane del grasso ma di certo più anziano di lei e il terzo in una stanza di cinque persone, scoppia a ridere scuotendo la testa, le braccia incrociate al petto. Vari tatuaggi gli ricoprono le dita e la ragazza dai capelli castani si domanda se siano quelli a fornirgli quell’insulsa spavalderia tipica di chi crede d’esser immortale.
«Ti sei rivelato ridicolo esattamente come c’era da aspettarsi, ma guardati, ti eri preparato tutto il discorso, vero? Magari te lo eri anche provato davanti allo specchio.»
Un ragazzo parecchio giovane –non era mai stata brava con i nomi-, ha stampato in faccia un ghigno impertinente e le mani nelle tasche. Beatrice ha capito di averne davanti uno nuovo quando ha notato un rigonfiamento nella giacca: una pistola infilata in una fondina, probabilmente entrambe nuove di zecca e comprate apposta per quella magica serata. Probabilmente sarà lui a sparare il colpo, le sembra il più adatto tra i tre suoi “colleghi” –tali li vedete qui definiti, poiché non trovo altre parole, ma sappiate che a Beatrice quel termine non aggradava-.
Il grasso guarda confuso il tatuato, le sopracciglia aggrottate. Poi realizza e il rosso cangiante che fino a poco prima gli ha colorato le gote svanisce per lasciare spazio ad un grigio cinereo.
In Beatrice, unendosi all’irritazione, sopraggiunge la noia: la farsa è finita, ed era già durata fin troppo, ma qualcosa dentro di lei le dice che quella situazione durerà ancora per un po’ e che, di conseguenza, dovrà aspettare ancora almeno un paio d’ore prima di rientrare nell’appartamento che le hanno assegnato e farsi una doccia fredda.
La mente inizia a vagare mentre s’appoggia a una delle mura cigolanti della casa di legno. Una casa delle bambole, quella, o almeno, tale le era sembrata quando v’era sgusciata dentro con il favore delle tenebre. Una casa delle bambole vecchia e cadente, un tempo il giocattolo preferito d’una bambina viziata, piccolo pargolo di una tra le più ricche ed importanti famiglia della città. Una casa delle bambole finemente intagliata e che era stata protagonista delle più grandi storie d’amore tra bambole che il Cielo avesse mai avuto l’onore d’ammirare. Una casa delle bambole che aveva visto la piccola bambina crescere e che era stata abbandonata al suo destino come lo erano tutti i giocattoli ad un certo punto.
A Beatrice, per un momento, torna in mente la casa per le bambole di legno d’acero che aveva avuto lei, da bambina. Era stata bella, bellissima, con tutti i mobiletti intagliati in legno più e meno scuro e le stoffe, tovaglie, tende e lenzuola, ricamate dalla sua tata. E Beatrice, sebbene paia impossibile poiché tutto quello lo ha perso quando aveva appena sette anni, ricorda con spaventosa chiarezza le belle bambole di porcellana dal viso bianco ed immacolato con cui giocava. Le ricorda tutte e trentasette, tutti i loro abiti, i loro nomi, il colore delle loro pupille. Le ricorda mentre le pettina e le fa sedere intorno al tavolo insieme a lei per prendere il tè. Ne ricorda i vestiti di pizzo ricamati, gli occhi fissi e sgranati che l’avevano sempre un po’ inquietata. Ne ricorda i bei capelli a boccoli che avevano preso fuoco, quel giorno.

Un urlo strozzato la distrae e le palpebre sbattono una singola volta sugli occhi bicromatici così da mettere a fuoco la stanza e la grottesca scenetta che vi si sta svolgendo: il ragazzino ha estratto la pistola che ora tiene protesa davanti a sé, puntata contro l’uomo grasso. Il tatuato persiste nella sua posizione a braccia incrociate esattamente come nell’espressione strafottente che ha stampata in volto. Beatrice ha sempre detestato chi trae piacere da quelle situazioni: uccidere non avrebbe mai dovuto essere un piacere, le persone dovevano essere uccise per i crimini ed i peccati che avevano commesso, non per la propria sadica sete di potere o vendetta.
L’ultimo individuo nella stanza pare pensarla all’incirca come lei, o più probabilmente è semplicemente disinteressato alla sorte di quell’uomo e, esattamente come lei, si è ritrovato lì per pura scena, senza nemmeno un compito abbozzato come quello toccato in sorte a Beatrice.
L’uomo grasso indietreggia strascicando i piedi a terra e con le mani in alto, sempre più pallido ogni secondo che passa. Biascica qualche parola incomprensibile e si guarda intorno alla ricerca della porta o di una qualunque altra via di fuga.
A Beatrice il tanfo di legno marcio e piscio inizia a dare la nausea e, dopo poco, un fastidioso mal di testa inizia a torturarla facendole pulsare le tempie. Probabilmente è i pressante desiderio di allontanarsi al più presto da quel posto che spinge Beatrice ad aprire bocca.

 


«Muovetevi, non ci tengo a sprecare altro tempo.»
La voce risuona metallica e raschiante, un poco ovattata a causa della maschera, ma basta per attirarsi addosso gli sguardi dei quattro uomini nella stanza.
Terrore, timore, irritazione, curiosità.
Quattro espressioni per altrettanti uomini. Vede un lampo di curiosità negli occhi del silenzioso, uno d’astio in quelli del tatuato, l’incertezza in quelli del ragazzino e la muta disperazione illumina lo sguardo dell’uomo grassottello che, seppur solo con lo sguardo, la prega di salvarlo, come se lei fosse realmente una speranza.
«Non sono qui per vedere un bamboccio che si diletta ad usare una pistola come se fosse un giocattolo.»
«Tu qui non hai diritto di parola.»
Quella parole la gelano il sangue nelle vene e le parole in gola.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.»
Il ghigno beffardo del tatuato si allarga ancora di più alla replica della ragazza.
«Ho detto che non hai alcun diritto di parola: il comando per questo giro lo hanno assegnato a me, tu devi solo far rapporto, sta al tuo posto, cagnetta.»
Il giovane, che è esattamente in mezzo a loro e tiene ancora puntata la pistola, è visibilmente sbiancato fino a raggiungere la medesima tonalità dell’uomo grasso.
«Come, scusa? Non credo di aver capito bene.» ripete le medesime parole facendo un passo in avanti. Per un attimo, quando si muove, pare che il tatuato voglia arretrare, c’è qualcosa nel suo sguardo che lo suggerisce –Beatrice era sempre stata incredibilmente brava a capire cosa passasse per la mente delle persone, sapere come queste avrebbero agito era parte fondamentale del suo lavoro-, alla fine però continua a restare immobile, le gambe leggermente divaricate e le braccia incrociate al petto. Dalle labbra gli sfugge quella che dovrebbe esser una risata strozzata, ma che assomiglia molto di più a un grugnito.
«Oltre ad essere menomata sei pure scema? Sei solo il fottuto cane da riporto del quartier generale, chiudi la bocca e aspetta fino a quanto non ti dirò di andartene.»
Beatrice tiene gli occhi spaiati –uno color nocciola, l’altro di un grigio talmente chiaro da apparire violetto alla tenue luce della luna- puntati su di lui. Quella è l’unica parte di se stessa che mostra al mondo sebbene, soprattutto i primi tempi, avesse desiderato nascondere anche lo sguardo bicolore che, durante la sua infanzia, l’aveva fatta etichettare come figlia del Diavolo. Ma ora il luogo è diverso come è diverso il periodo e sono diverse le persone, ma soprattutto è lei ad essere diversa: adesso i suoi occhi sono solo una delle tante stranezze esistenti al mondo.
Lo sta fissando, lo fissa per attimi che paiono interminabili, poi, un battito di ciglia dopo, una delle mani guantate tiene protesa una pistola fresca di lucidatura, la canna rivolta verso il tatuato.
«Come scusa? Non credo di aver capito bene.»
Le stesse parole, un disco rotto dalla voce gracchiante.
L’uomo tatuato alza le mani e indietreggia di un passo, improvvisamente pallido. Il ragazzino con in mano la pistola trema, Beatrice lo sa anche senza vederlo. 
«Cosa cazzo pensi di fare con quella?!» la voce che il tatuato sta cercando di mantenere ferma è in realtà stridula, probabilmente si è reso conto della ridicola distanza che li separa, talmente minima che anche il più incapace dei tiratori potrebbe fare centro. «Abbassala immediatamente o giuro che…»
Cade in ginocchio un momento dopo, un urlo di dolore che trapana i timpani di tutti e che fa storcere le labbra a Beatrice: ha sempre odiato i rumori forti ed improvvisi. Le mani che si tiene strette sulla gamba sono lorde di sangue.
Tre battiti di ciglia e c’è un nuovo sparo, ma questa volta nessun urlo. L’uomo grasso cade a terra con un buco in fronte e dopo aver dipinto il muro dietro di lui, tende piene di tarli incluse, con un colorato schizzo di sangue e cervella.
Il ragazzo giovane lascia cadere la pistola e arretra fino a che non inciampa sui suoi stessi piedi e cade a terra, il viso sporco della stessa sostanza che ha imbrattato le pareti.
Il silenzioso non dice nulla, si limita a sorridere divertito e a rivolgere un cenno alla ragazza, come dicendole che, per lui, è liberissima di andarsene.
Beatrice, dal canto suo, resta impassibile, anche davanti allo sguardo del silenzioso che si sta… complimentando con lei? In verità non le importa.
«Questo casino lo ripulisci tu, il cane da guardia menomato deve tornare dal capo a fare rapporto.»
E detto questo esce dalla stanza.

***

Il sorriso che Isaia De’ Medici ha stampato in faccia pare gli sia stato incollato addosso e adesso gli si sia ghiacciato sulla pelle. Non è un sorriso granché sincero, in verità, proprio per nulla. Però è un sorriso. Isaia De’ Medici sta sorridendo sebbene la maggior parte delle persone in una situazione come quella avrebbe detto qualche parolaccia e preteso un risarcimento. La maggior parte delle persone vedendosi versare addosso un’enorme tazza di caffè bollente che, oltre ad aver macchiato e rovinato irreparabilmente la camicia di marca, lo aveva anche ustionato, non avrebbe stretto i denti e sorriso cercando di apparire il più sincero possibile come aveva fatto Isaia.
La ragazza che gli era capitolata addosso si sta scusando a ripetizione, ma è ben evidente –per Isaia come per chiunque stesse assistendo a quel teatrino- che in verità vorrebbe semplicemente scappare via e andare all’appuntamento per la quale sta facendo ritardo. Quando infatti Isaia riesce finalmente ad interrompere lo spasmodico flusso di parole della ragazza con un “Davvero, non importa” questa non si prende neppure la briga di ringraziarlo o di lasciargli il suo numero di telefono o di assicurargli un risarcimento per la camicia rovinata, ma scappa immediatamente via correndo e facendo slalom nel bar affollato lasciandolo lì con la camicia bianca completamente zuppa e un problema non poco rilevante: come avrebbe fatto a tornare a casa, cambiarsi la maglietta e arrivare in orario al suo nuovo posto di lavoro entro trenta minuti quando questo distava quindici minuti di camminata veloce dall’università e casa sua era ad altri dieci? Sarebbe arrivato in ritardo il primo giorno, magnifico. Come poteva pensare di amministrare la giustizia, sconfiggere la Mafia e il male nel mondo se a stento riusciva ad essere puntuale? Maledetto lui quando quella mattina aveva pensato che sarebbe stata una buona idea girare a piedi invece che usare la macchina o la metro. La verità era che aveva temuto di perdersi per le strade di Milano, di sbagliare fermata o di restare bloccato nel traffico e quindi aveva preferito andare sul sicuro facendo la strada a piedi come sempre.
E adesso avrebbe fatto ritardo. Un mostruoso, terribile e spaventoso ritardo per il suo primo giorno come salvatore della nazione.
Chissà come lo avrebbero guardato male i suoi colleghi! Avrebbero tutto pensato che non prendeva la cosa seriamente e lo avrebbero isolato, giudicandolo un poppante immaturo ricco e viziato che aveva accettato l’incarico governativo solo perché s’annoiava. Un disastro, un completo e totale disastro!

Quando aveva comunicato al padre la decisione di entrare a far parte della squadra anti-Mafia che il Governo stava istituendo, questo si era dimostrato subito contrario —non che si dimostrasse mai particolarmente favorevole o entusiasta di qualunque iniziativa presa dal figlio, questo il lettore deve saperlo per capire al meglio Isaia-. Quando però il ragazzo dai capelli rossi aveva affermato di non aver la minima intenzione di rinunciare all'opportunità di essere utile alla nazione "proprio come te, papà" (riportando le stesse parole pronunciate dal fulvo) —poiché il lettore deve anche sapere che la famiglia De' Medici era da secoli dotata di poteri e che, da secoli, li metteva al servizio de Governo-, e dopo un'accesa discussione durante la quale persino la madre di Isaia, solitamente silenziosa e remissiva verso le decisioni del marito, aveva sostenuto il figlio, il padre del ragazzo aveva ceduto intimandogli con durezza di "tenere alto il nome della famiglia" e di "dimostrarsi all'altezza delle aspettative". E di certo arrivare tardi e zuppo di caffè o sudore il primo giorno non era quello che suo padre intendeva per "tenere alto l'onore dei De' Medici".

L'appartamento che Guglielmo De' Medici aveva trovato al figlio, quando anni prima questo l'aveva convinto, dopo mesi di trattative, a farlo trasferire da solo a Milano per frequentare l'università, era davvero a due passi dalla facoltà e, oltre ad essere di una vastità immensa ed esagerata —con tanto di cameriera e cuoco-, era anche di una freddezza disarmante. C'era qualcosa, in quell'attico ultra-moderno, capace di far rabbrividire Isaia in piena estate.
Ci aveva provato, Isaia, a renderlo accogliente, ma pareva che per quante foto, piante o dipinti da strada ci mettesse l'attico restasse sempre privo di qualunque calore umano. Lo odiava. Lo detestava con tutta la forza e l'intensità con cui si può detestare l'appartamento in cui si vive. Quel luogo era semplicemente privo di qualunque conforto si potesse trarre dalla propria casa.
L'unica cosa che lo aiutava a sopportare quella completa assenza di colore e calore era Nocciolina, la sua piccola e dolcissima gattina trovatella che non s'era più staccata da lui dopo che il ragazzo le aveva dato da mangiare un pezzetto di prosciutto quando l'aveva vista, ancora piccola, al Lambro —che, se il lettore non lo sapesse, è un parco milanese-.
La stessa gatta dal pelo fulvo come i capelli del suo padrone –che abbiamo appena nominato-, salta addosso ad Isaia non appena questo apre la porta di casa miagolando per chissà cosa: ma il ragazzo non ha un minuto da dedicare nemmeno alla sua adorata gattina —alla quale, per altro, aveva dedicato l'intera schermata home del suo cellulare e una cartella nell'album fotografico-.
Corre in camera urlando un saluto alla cameriera impegnata a sistemare i libri in salotto e si cambia la camicia alla velocità della luce strappando, per altro, qualche bottone di quella sporca e abbandonandola sul parquet di legno scuro.
Due minuti dopo sta guardando preoccupato le porte dell'ascensore che non accenna ad arrivare e, dopo aver rivolto uno sguardo ansioso all'orologio, decide di prendere le scale —nonostante l'attico fosse al settimo piano del palazzo-. 
Sette minuti dopo è arrivato in università —tre in anticipo rispetto al tempo che ci si impiegherebbe di solito-, ma a metà strada dal luogo dell'incontro è costretto a rallentare la corsa fino a fermarsi perché ha iniziato a sentirsi realmente male ed è conscio di rischiare di rimettere colazione ed anima.
Dopo minuti di camminata interminabile —sotto quello che gli era parso il sole più caldo della storia- arriva finalmente all'indirizzo che gli hanno indicato. È sudato fradicio, ma grazie al Cielo aveva calcolato quell'eventualità poi non così eventuale, e aveva deciso di portarsi dietro un'altra camicia bianca fresca di bucato.
Isaia guarda l'orologio e si rende conto d'avere solo undici minuti di ritardo e dunque di non essere in una situazione così disastrosa come invece aveva temuto.

L'edificio dove hanno deciso sarebbe stato stabilito il "quartiere generale" della squadra è un palazzo d'epoca abbastanza imponente: la facciata è colorata di bianco (sebbene le case subito adiacenti abbiano l'intonaco rosso), e il cancello d'ingresso —vicino al quale c'è un'enorme lista di campanelli e una quantità ancora più enorme di targhe in ottone con sopra nomi e titoli di vari professionisti presenti nello stabile- è di legno scuro con finiture in ferro battuto. Isaia apre con le chiavi che gli hanno spedito una settimana prima ed entra in un ampio cortile alberato dove si affacciano varie finestre per quattro piani d'altezza, alcune delle quali anche con dei balconcini pieni di piante. Il ragazzo dai capelli rossi procede sul lato sinistro e apre un nuovo portoncino con le chiavi per poi chiamare l'ascensore. Approfitta dell’attesa e del tragitto, che gli pare durare una vita, per togliersi la camicia sudata, asciugarsi alla bell'e meglio con la stessa e infilare quella pulita. Le porte dell'ascensore gli si aprono davanti sul quarto piano mentre sta infilando la camicia sporca nella borsa: è dunque costretto a caracollare impacciatamente fuori dall'abitacolo con le mani piene per poi ringraziare tutte le divinità che ci sono in cielo per non aver trovato nessuno sul pianerottolo che potesse assistere a quell’entrata di scena a dir poco grottesca.
La porta, l'unica del pianerottolo, è verde e ha una targa d'ottone vuota appesa all'altezza degli occhi. Isaia infila le chiavi nella toppa e si prepara mentalmente alle occhiatacce dei suoi colleghi —che s'era immaginato come professionisti tutti di certo più anziani di lui-, dunque spalanca la porta.
L'espressione sul suo volto quando si rende conto di essere l'unico oltre a una ragazza dai capelli azzurri è, a giudizio dell'appena nominata ragazza, semplicemente epica.

Nota autrice
Benvenuti, signori e signore, in questa nuova storia OC!
Spero che questo primo capitolo d'introduzione vi sia piaciuto. Beatrice ed Isaia sono due dei quattro OC che ho deciso di inserire in partenza (ma che, uno di questi a parte, non sono stati comunque scritti da me).
Come credo abbiate capito Beatrice fa parte della Mafia e Isaia del Governo (credo fosse palese, MA SPECIFICHIAMO CHE NON SI SA MAI).
Non ho idea di quanti capitoli durerà questa storia, tutto sarà in base alla quantità (e alla qualità!) della mia ispirazione.
Qui sotto troverete la scheda da compilare per inviarmi il vostro OC e la descrizione dei quattro già presenti (più qualche dettaglio fondamentale).

*Nome
*Cognome
*Luogo di nascita (anche generico)
*Aspetto fisico (evitabile dato che invece il presta volto è obbligatorio, ma consigliato)
*Aspetto comportamentale
*Background 
*Segni particolari, incluse ossessioni di sorta
*Abilità (se posseduta)
*Affiliazione (se membro della Mafia indicare da quanto tempo)
*Presta volto
*Frase/Citazione rappresentativa

Note
1.Possedere un'abilità non è obbligatorio, si può ugualmente far parte della Mafia. 
2.Il nome dell'abilità e l'abilità stessa devono essere ispirati a un'opera della letteratura italiana, più o meno famosa.
3. I personaggi sono TUTTI rigorosamente italiani dato che la storia stessa si ambienta solo ed esclusivamente in Italia, quindi niente nomi inglesi di sorta, sorry.
4. Ninte personaggi over-power, bravi in tutto e fighissimi. Non esistono persone né perfette né imbattibili. 
5. Ricordatevi che più la storia del vostro personaggio e il personaggio in genere saranno dettagliati più possibilità ci saranno che vengano scelti.
6. I presta volto possono essere cantanti, attori, personaggi di anime/manga o di videogiochi, quel che volete, ma devono essere rintracciabili, quindi una foto a caso non va bene, ho bisogno di nome, cognome e codice fiscale. Ovviamente non c'è bisogno che siano esattamente identici al personaggio, ma mi servono come riferimento. 
7. La citazione non deve essere il nome dell'abilità per esteso, ma qualcosa che rappresenti il personaggio!

Potete inviare tutti gli OC che volete, il numero di quelli che selezionerò sarà variabile in base all'ispirazione. 
Se un vostro OC verrà accettato NON SPARITE, potrei dovervi chiedere altre cose. Nel caso succedesse mi prenderò la libertà di fare ciò che desidero del personaggio c:

Detto questo, passiamo alle presentazioni!

Beatrice Pazzi - 20 anni. Mafia.
Abilità: Lasciate ogni speranza, o voi ch'entrate.
La giustizia è soggetta a contestazione, la forza è riconoscibilissima e senza dispute: proprio per questa ragione non è stato possibile concedere la forza alla giustizia.
Max Caulfield, Life is Strange

Michele Accardi - 23 anni. Mafia.
Abilità: Uno, nessuno, centomila
Io considero il mondo per quello che è: un palcoscenico dove ognuno deve recitare la sua parte.
Nezumi, No.6

Isaia De' Medici - 20/21 anni. Governo.
Abilità: L'amor che move il sole e l'altre stelle
Pensavo semplicemente che mi sarei potuto scusare il giorno seguente, ma il giorno seguente non arrivò mai.
Karma Akabane, Assassination Classroom (da adulto e con le lentiggini)

Greta Locatelli - 19 anni. Governo.
Abilità: La lupa
Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la vita a credersi stupido.
Chloe Price, Life is Strange

Bene, spero sia tutto chiaro, se avete domande chiedetemi pure. 
Enjoy.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 -parte 1- ***


Cap 2 -parte 1-

Una lunga striscia nera percorre la pelle chiara e lentigginosa della guancia destra: parte dallo zigomo e arriva fin quasi alla punta del mento. Parrebbe esser una ferita mortale o qualcosa di simile –vista da un occhio disattento che dedica al mondo solo sguardi fugaci, s’intende-, ma in verità non è altro che una traccia del carboncino scuro e oleoso con il quale Greta Locatelli stava disegnando fino a pochi attimi prima.
Ora il suo sguardo è puntato sul massiccio ragazzo pel di carota che si trova, con un’espressione tra il confuso e lo sconcertato, esattamente davanti alla porta.
Greta non può far a meno di inarcare un sopracciglio, sinceramente divertita e forse un poco perplessa –ma d’altronde esser perplessa del mondo e dei fatti era nella sua natura-, quando il ragazzo schiude le labbra per proferir parola per poi restare con la bocca aperta come un ebete senza dir nulla. La ragazza dai capelli blu lo scruta ancora qualche attimo analizzandone la forza del viso e la sfumatura delle iridi tra il castano e il rossiccio con l’occhio critico e attento dell’artista: ha il viso affilato chiazzato di rosso, segno di come sia arrivato di fretta, e le labbra atteggiate naturalmente in un sorriso leggero che però ora sono contratte per un qualche motivo. Ha le guance perfettamente delineate e il bel naso dal taglio aristocratico, completamente opposto alla forma ovale e sempliciotta degli occhi che però è, in qualche modo, ugualmente accattivante. La camicia che indossa è stropicciata e un angolo, quello sinistro, spunta fuori dai pantaloni scuri rompendo l’immagine di damerino curato e attento che i capelli, scompigliati ad arte con una cura non indifferente impossibile da non notare per chiunque avesse un minimo di occhio –e Greta l’occhio per le cose belle e curate lo aveva indubbiamente-, avevano contribuito a creare.
Una volta osservati i mocassini laccati di nero che il ragazzo ha indosso e senza aver trovato alcun punto d’interesse né in questi né in alcun’altra parte del vestiario o del fisico del rosso, Greta abbassa lo sguardo tornando a disegnare un volto dai lineamenti tipicamente femminili sul suo quadernone. Erano anni che non disegnava altro, in verità: spesso ripensava ai suoi schizzi con l’amarezza di chi sa cosa ha perso ma non ha abbastanza forza e coraggio per ammetterlo.
«La riunione è… finita?»
«Come dici? Finita?» Greta alza gli occhi azzurri sul ragazzo dai capelli rossi, ancora inconsapevole della macchia di carboncino sulla guancia «La riunione inizierà tra venti minuti.» Una volta le avevano detto che i suoi occhi parevano pozze senza fine in cui perdersi non sarebbe stato tanto male, ma quello era stato tanto tempo prima –eppure il tempo non le aveva impedito di dimenticare, quello no. Il lettore deve sapere che Greta aveva il brutto vizio di ricordare gran parte delle stupidaggini della propria e altrui vita senza alcuna ragione apparente se non la sola e pura predisposizione naturale-. «Ieri l’abbiamo posticipata di una mezz’ora perché Elia aveva avuto un problema.» Aggiunge poi la ragazza vedendo che il ragazzo continua imperturbabile con la sua faccia da pesce fuor d’acqua –e i lettori sapranno, per la parte del testo qua sopra che abbiamo a lui dedicato, che Isaia, perché ovviamente di lui si trattava, aveva normalmente la risposta abbastanza pronta e un sorriso per qualunque circostanza-.
«Posticipata di… mezz’ora?»
Greta a quel punto fa facilmente due più due e sommando lo sconcerto, la faccia allucinata, il fiato corto e la maglia stropicciata arriva facilmente alla conclusione: non aveva letto lo scambio delle mail del giorno precedente, aveva avuto un contrattempo e si era affrettato ad arrivare, probabilmente a piedi a giudicare dai mocassini attualmente opachi per la polvere. Doveva anche essersi cambiato la camicia in tutta fretta dato che le spiegazzature non combaciavano nell’immagine generale con i pantaloni ben curati: doveva aver tenuto una maglia di ricambio in borsa e, resosi conto di aver sudato assurdamente, essersi cambiato in ascensore.
«Tu sei Isaia, giusto?»
Il ragazzo boccheggia, impreparato: le parole di Greta hanno interrotto l’abbozzato tentativo di ritrovare un poco di contegno rimettendo al suo posto il ribelle angolo della camicia bianca che si è accorto solo in quel momento essere sfuggito all’oppressiva e tirannica morsa dell’elastico dei pantaloni. Alza lo sguardo –che stava iniziando a schiarirsi e farsi un poco più consapevole mano a mano che le nubi di confusione venivano disperse e scacciate da qualche ragionamento logico- e lo punta sulla ragazza dai capelli azzurri che, nel frattempo, aveva poggiato il gomito destro sul tavolo e la guancia sul palmo della mano con i polpastrelli colpevoli dello scempio nero e grigiastro che ora si trova in viso.
«Parli con me?»
Greta si lascia ora andare a una risata, trovando quella situazione non comica, ma ai limiti del grottesco. In cuor suo però, nel frattempo, manda una maledizione ai suoi superiori, e a una ragazza in particolare, che le avevano buttato in squadra quello che a prima vista pare un completo incompetente e per giunta pure svampito come pochi. Lo stesso ragazzo che si unisce alla sua risata, ma la cui lieve tensione è ancora percepibile.
«Vedi altri?»
«No, giusto, scusa, hai ragione.» Il rosso si morde il labbro inferiore non sapendo cos’altro aggiungere e strappando a Greta l’ennesimo sorriso divertito. La ragazza dai capelli azzurri gli fa cenno di avvicinarsi e Isaia esegue immediatamente, assolutamente intenzionato ad evitare altre figuracce.
Greta guarda il ragazzo sedersi e si gratta la punta del naso per poi tornare a disegnare il mento del volto femminile. Continua però a sentirsi lo sguardo di Isaia puntato addosso, intento ad analizzare lei, i suoi atteggiamenti e i suoi vestiti, in particolare i suoi vestiti –e Greta ne è certa perché praticamente qualunque persona la vedesse per la prima volta tendeva a soffermarsi sui suoi vestiti giudicandoli poco consoni-.
«Domani mettiti un paio di jeans, ti prego, sei imbarazzante conciato così.»
«Cosa?»
Greta alza finalmente lo sguardo su di lui guardandolo infastidita senza riuscire ad evitare di chiedersi di quale disturbo dell’apprendimento o di quale problema cerebrale fosse affetto quel ragazzo. Magari era scemo e basta.
«Ti ho detto che domani dovresti metterti un paio di jeans e una t-shirt, puoi anche venire in bermuda per quello che mi riguarda, ma ti prego, evita camicia e mocassini.»
«Io… Ehm…»
Greta chiude gli occhi per poi contare mentalmente fino a dieci interrogandosi nel frattempo sul senso della vita e dell’esistenza e stabilendo che, sì, era semplicemente idiota.
«Sai che c’è? Non importa, vestiti come vuoi.»
Greta non era una ragazza particolarmente paziente, anzi. Sua madre aveva sfruttato ogni secondo dei suoi diciannove anni di vita per definirla “facile al nervo” e “dalla palpebra vibrante per un nonnulla”, ma questo non aveva mai fatto altro che darle più fastidio e farla diventare, se possibile, ancor più impaziente e peggiorare il suo temperamento, già di per sé irritabile e a tratti infantile, fino a rendere Greta perennemente e spasmodicamente infastidita da, per esempio, qualunque cosa le gravitasse attorno nel raggio di venti metri. Gli esseri umani stupidi, nello specifico, tendevano ad irritarla e a causarle quella famosa “vibrazione di palpebra” dalla madre tanto decantata.
Il ragazzo le dice qualcosa, ma Greta non si prende nemmeno la briga di ascoltarlo troppo presa dal cercare di rendere il labbro superiore della ragazza senza nome che sta disegnando dolce ma severo allo stesso tempo.
«Ascolti i The Clash?»
Greta solleva di nuovo lo sguardo, rassegnandosi alla consapevolezza di dover interagire con il ragazzo che ha seduto davanti poiché le pare che questo non abbia la minima intenzione di zittirsi e fissare il vuoto alla ricerca della soluzione della funzione Z o, più banalmente, del motivo della sua fastidiosa e grottesca idiozia.
«No» risponde secca per poi decidersi a infilare il disegno nel blocco, chiudere quest’ultimo e infilarlo nello zaino verde militare mezzo distrutto ricoperto di toppe colorate  e scritte più e meno schiarite. «Perché me lo chiedi?» domanda sollevando lo sguardo su di lui per poi prendersi una ciocca di capelli azzurri tra le dita e iniziare a strofinarla.


«Beh, perché indossi una loro maglietta…»
Greta piega la testa verso sinistra poggiando la testa sulle nocche del pugno chiuso.
«Appunto.»
«Appunto?»
«Ho indosso una maglia dei The Clash, perché dovrei mettermela se non perché sono una fan?»
Sbuffa e si sistema il capello blu scuro che indossa, cambiando nuovamente posizione e decidendo di appoggiarsi contro lo schienale giusto per tentare di star comoda, le dita ancora sporche della mano destra iniziano a tamburellare , senza che lei nemmeno se ne accorga, contro il suo ginocchio. Odia non avere nulla per tenere le mani occupate, odia, semplicemente, non far nulla: l’inattività le dà l’orticaria.
«Effettivamente hai ragione…»Isaia si morde il labbro inferiore cercando qualcosa di intelligente da dire o una qualche battuta sagace che possa alleggerire la situazione, alla fine, però, si limita a sospirare. «Senti, scusa se ti ho disturbato arrivando in, ehm, anticipo e scusa se pensi che sia un poco di buono o roba simile.» Si porta una mano tra i capelli rossi e se la passa sulla nuca, sorridendo sinceramente dispiaciuto per nemmeno lui sa cosa dato che, Greta lo sapeva, era convinto di non aver fatto assolutamente nulla per infastidirla o simili. «Ci tengo sul serio a questa cosa e vorrei andare d’accordo con i miei colleghi.»
Greta getta la testa all’indietro oltre lo schienale della comoda poltroncina bianca su cui è seduta e si fa scappare dalle labbra quello che sta a metà tra un sospiro rassegnato e una risata. Doveva riuscire a tenere a bada il suo caratteraccio, almeno per quel giorno e per quel primo incontro: stava per incontrare il gruppo di persone con cui avrebbe dovuto non solo condividere un posto di lavoro, ma anche una missione e un obiettivo di una certa importanza, avrebbe dovuto guidare quelle stesse persone! Non poteva permettersi di farsi odiare, non se voleva svolgere il compito che le avevano assegnato bene come si era prefissata.
Strizza gli occhi e se li strofina per poi tornare a guardare Isaia.

«No, scusami tu, devi aver passato una mattinata di merda a giudicare da come sei conciato ed io ti ho praticamente aggredito. Sono quasi certa che tu non sia scemo come sembri.»
«Quasi sicura?»
Greta sorride alzando gli occhi azzurri al cielo «Sì, quasi, ma comunque. Forse è meglio ricominciare da capo: sono Greta Locatelli, la responsabile di quest’unità governativa distaccata.»
«Oddio!» Greta non può far a meno di ridere per l’espressione che improvvisamente è comparsa sulla faccia del rosso –e chiunque altro lo avrebbe fatto dato che i muscoli del viso di Isaia si erano contratti repentinamente e senza nessun preavviso trasformandosi da rilassati e divertiti a costernati e completamente nel panico- «Tu sei il mio capo! I-io… cioè, scusa, cioè, scusi.» e poi, abbassando la voce e il volto rosso per l’imbarazzo «ho dato della stronza al mio capo» per poi alzare di scatto il viso, che ormai ha la stessa tonalità rosso fuoco dei capelli «cioè io…non stavo dicendo questo, cioè sì, ma non era quello che intendevo!»
È a questo punto che Greta scoppia realmente a ridere a crepapelle, colta da un attacco di risate irrefrenabili che durano quelle che a un Isaia imbarazzatissimo paiono ore. Scuote leggermente la testa e finalmente si calma fingendo di asciugarsi con un dito –anche se ho qualche dubbio sul fatto che stesse fingendo e basta- una lacrima causata dalle troppe risa.
«Se pensi che io sia una stronza quando conoscerai Rachele morirai, temo. E non preoccuparti, sarò anche il “tuo capo”, ma prima di tutto vorrei essere tua amica, se a te va bene.»
E finalmente tocca a Isaia sorridere mentre sente l’imbarazzo dissolversi.
«Grazie di non essertela presa… posso chiamarti per nome?»
«Ma che domanda è?»
«E va bene, e va bene, giuro che non farò più domande idiote.»
La ragazza alza gli occhi al cielo incrociando le braccia al petto e pensando che, forse e dopo tutto, non era idiota come sembrava, forse sarebbe riuscita a cavarne fuori qualcosa.
«Ah, Greta, ma perché tu sei già qui se la riunione è stata posticipata?»
Proprio in quel momento il citofono inizia a suonare emettendo uno squillo acuto che, Greta lo nota, fa sussultare Isaia per lo spavento. E forse agli occhi di qualcun altro potrebbe sembrare una piccolezza, ma il cervello di Greta tendeva –come abbiamo già detto- a vedere e registrare gran parte dei granelli di polvere nella matassa di lana. Quelle piccole osservazioni permettevano di capire tantissimo di una persona: per esempio a quanto pareva Isaia tendeva a concentrarsi particolarmente su una cosa per poi trascurare tutto il resto e a reagire “violentemente” quando qualcosa lo prendeva di sorpresa concentrando così l’attenzione sull’elemento “distraente” e dimenticandosi, di nuovo, del resto.
Greta si alza e, dopo aver dato un’occhiata veloce al videocitofono, schiaccia un paio di pulsanti per poi voltarsi di nuovo verso l’altro ragazzo.
«Sono Cassandra e Nicola, o almeno credo, di Nicola ho visto solo i capelli, ma presumo sia lui. Perché? Beh, perché abito due piani più sotto, ma ho il frigo vuoto e sono senza aria condizionata e quindi mi son detta “ehi, perché no?”»
«Oh beh, mi pare giusto.» sorride Isaia per poi ricordarsi della prima cosa che aveva notato e che poi non le aveva potuto dire, preso com’era stato dall’imbarazzo. «Lo sai che sei tutta sporca?»
«Che?»
«Sì, in faccia, sei tipo tutta sporca di carboncino nero.» afferma indicandosi la faccia e gesticolando un po’ come era solito fare.
Immediatamente Greta si guarda le mani e si accorge di come siano, effettivamente, ricoperte di nero. La sua mente non impiega molto a fare due più due e capire che tutte le volte che si era toccata la faccia anche accidentalmente non aveva fatto altro che impasticciarsi di più.
«Cazzo!» urla la ragazza immaginando già il peggio per la sua faccia. «Ma dirmelo prima?»
Isaia non fa però in tempo a rispondere che la porta si apre lasciando la scena a tre figure piazzate in ordine d’altezza. Il primo ad entrare nel quartier generale è un tappetto dai capelli celesti più chiari di quelli di Greta.
«Per quale motivo sei completamente ricoperta di nero?»
Ma Greta Locatelli non si sofferma ad ascoltare la banale ed ovvia domanda di Nicola, e si limita a schizzare verso il bagno cercando di non inciampare sui suoi stessi piedi mentre nelle orecchie le risuona la risata gutturale di Marco.

Magnifica e special nota autrice. Leggete.
No, non sono morta come poteva sembrare, semplicemente mi ero un po' persa tra vari ed eventuali disagi che non credo valga la pena di raccontare. L'importante è che io sia effettivamente tornata! D'ora in poi aggiornerò questa storia con regolarità (circa, spero),  anche perché ho deciso di dividere i capitoli in due parti (una per ogni punto di vista), semplicemente perché altrimenti i capitoli sarebbero risultati mostruosametne lunghi e, magari, un po' pesanti.
As always il capitolo è stato riletto per le solite dieci volte, ma qualcosa mi sarà certamente sfuggito, dunque se mi faceste notare gli errori mi fareste un piacere enorme. 

Ciancio alle bande vi lascio qui sotto gli OC che sono stati selezionati (insieme ai quattro del precedente capitolo) come protagonisti de "Il quartiere dei gatti neri"!

Minimo D’Annunzio –20 anni. Mafia.
Abilità: Il trionfo della morte. (D’Annunzio)
Io modesto? È il solo difetto che mi onoro di non avere.
Tatara Totsuka, K-project

Lorenzo Locci –20 anni. Mafia.
Abilità: Ed è subito sera. (Ungaretti)
Se gli ultimi momenti di una sono quelli che la rivelano, io posso dire di essere l’unico ad aver realmente conosciuto le vittime.
Yato, Noragami

Lidia Esposito – 20 anni. Mafia.
Abilità: La coda del diavolo (Verga)
Non fidarti mai di un sopravvissuto finché non scopri cos’ha fatto per rimanere in vita.
Futaba Yoshioka (Ao haru ride)

Gabriele Venturi – 25 anni. Mafia.
Abilità: Il sistema periodico (Levi)
Combatti ogni battaglia, ovunque, sempre, nella tua mente.
Mikaela Hyakuya, Owari no Seraph

Amos Occhipinti – 21 anni. Mafia.
Abilità: La roba. (Verga)
La chiave è la perseveranza.
Saeran Choi, Mystic Messenger


Cassandra Pascal –24 anni. Governo.
Abilità: Il fu Mattia Pascal. (Pirandello)
Ancora mi chiedo se verremo mai messi nelle canzoni o nei racconti.
Ayano Aishi, Yandere Simulator

Elia Mezzanotte – 24 anni. Governo.
Abilità: Sovrumani silenzi e profondissima quiete. (Leopardi)
La vita è come suonare un assolo di violino in pubblico e imparare a suonare lo strumento mentre si suona.
N, Pokemon

Marco Nero – 21 anni. Governo.
Abilità: Il grande viaggio (Marco Polo)
Muori e poi raccontami come è andata.
Hidan, Naruto (un po’ più bianco)

Nicola Agnelli –19/20 anni. Governo.
Abilità: Se del perdono non sarai degno, tutta la vita sarai di legno. (Collodi)
Ha visto giusto su di me, non solo l’eroe della mia storia.
Nagisa Shiota, Assassination Classroom

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 -parte 2- ***


Cap 2 -parte 2-

Gabriele non le stava simpatico, assolutamente no. Anzi, Lidia era piuttosto sicura di odiarlo, o qualcosa del genere. Come avrebbe mai potuto lei che aveva sempre detestato quelli che, come lui, s’atteggiavano a re del mondo solo e solamente perché la sorte era stata benevola andare d’accordo con il principe di questi elementi? Lo odiava, Dio se lo odiava, lui e quel suo sproloquiare senza senso, lui e quel sorrisetto irritante di chi ha il mondo sulle palme delle mani. Lui e la sua convinzione d’essere il migliore in ogni cosa facesse o il suo ansioso ed ossessivo bisogno di divenirlo se, in caso contrario, non lo fosse stato. Gabriele era irritante, svogliato eppure un maledetto gradino sopra di lei. Dio se lo odiava. C’erano giorni, o serate, più nello specifico, quando se ne stava stesa al buio cercando un sonno che si divertiva a farsi rincorrere, in cui Lidia soppesava l’idea fargli il culo, il giorno seguente: cosa ci sarebbe mai voluto? Nascosto dai vestiti di marca, dai soldi e dal suo grado in realtà non c’era che un ragazzino spaurito che della vita vera sapeva poco o niente, di questo Lidia era convinta. Solo un pallido individuo come tanti altri alla ricerca dell’adrenalina e della trasgressione che si divertiva con il sangue e le vite altrui. 
Lo odiava, Dio se lo odiava, e odiava non potergli fare alcun tiro mancino, ma soprattutto odiava dovergli dire sempre di sì. 
Era a causa sua se adesso si ritrovava in una maledetta sauna quando avrebbe potuto essere a casa a godersi una bella tazza di tè con la sua fidata biro blu cercando l'ispirazione per una poesia. 
Si porta una mano alla fronte sudata, teme di sentirsi male, ma di certo non dirà a Gabriele di voler uscire, non ha intenzione di dargli la minima soddisfazione: chiude gli occhi e pensa al gelo delle notti invernali passate per strada, s’immagina che le gocce di sudore che le colano lungo le cosce tornite in realtà siano le gocce di pioggia gelida che, quando era bimba, le scorrevano sul volto come le lacrime che non aveva e le pungevano la pelle come spilli. E Lidia, immersa negli ottanta gradi della sauna e con le zaffate di vapore che regolarmente le inondano il corpo, finisce per rabbrividire mentre la delicata ma malevola mano del gelo, che ha stampata in modo indelebile nella memoria, le carezza la spina dorsale dal coccige fino alla nuca dove si ferma e scompare, lasciandole solo un risolino nelle orecchie, brutti ricordi sotto le palpebre chiuse e l’opprimente morsa del caldo a stringerle la gola. 
No, non si sentirà male, di quello è certa, lo rifiuta categoricamente.
«Lidia, io sto uscendo, muoviti anche tu.»
La ragazza solleva lentamente le palpebre lentamente e facendole involontariamente tremare, come se fossero macigni che spostare è pressoché impossibile. Si sente pesante e teme di capitolare a terra non appena si metterà in posizione eretta, ma si alza ugualmente e segue, con macchie nere che le coprono il campo visivo, il suo capo. Non appena esce dalla sauna l’aria –che fredda non era, caro lettore, perché alla fin fine i vapori dall’una e dall’altra stanza e vasca avevano saturato l’ambiente rendendolo, se non caldo, almeno qualche tacca sopra il tiepido- le pare gelida, eppure quel freddo non può che farle piacere. Si infila in silenzio sotto una delle docce e apre il getto: boccheggia quando sente l’acqua che le buca la pelle e la graffia come se ogni goccia fosse in realtà un chicco di grandine affilato e grande come l’unghia del suo pollice, ma si limita ad abbassare le palpebre e chinare il capo, così che il getto le arrivi sulla nuca e da lì l’acqua le coli sul corpo. Dopo il primo rinnalzamento improvviso la pressione inizia a risalirle lentamente così come, lentamente, le mani che le artigliavano la gola e il petto proprio sotto i seni allentano la loro stretta fino a sparire. 
Il getto della doccia s’interrompe improvvisamente e Lidia strizza gli occhi cercando di capirne il motivo, ma impiega solo un paio di strizzate di ciglia per rendersi conto di come Gabriele la stia guardando con il suo imperturbabile sorrisetto. Tiene le braccia incrociate al petto e Lidia sa che, sebbene paiano due ossicini di pollo, in verità Gabriele è capace di sollevare tranquillamente una trentina di chili. I capelli biondo vaniglia, accuratamente tagliati e, normalmente, pettinati in un folto caschetto sbarazzino, gli sono ora incollati al volto, eppure il ragazzo pare non farci nemmeno caso, anzi, usa quell’”evento”, se così lo si può definire, per darsi ancor più arie dato che, maledetto lui, i capelli umidi, che provvedeva a “sistemarsi” periodicamente con un gesto della mano, e le ciocche più corte e ribelli appiccicate alle tempie non facevano che renderlo ancor più carismatico ed affascinante di quanto fosse già. Era d’altronde indole di Gabriele da quando Lidia lo aveva conosciuto anni prima –e presto ogni lettore se ne accorgerà, ma andiamo per gradi-, sfruttare ogni occasione, che fosse più o meno calcolata, per rendersi invidiabile agli occhi di praticamente chiunque.
La ragazza si trattiene dallo stringere le labbra al gesto improvviso del capo e parte a pettinarsi i capelli della cute con le dita con l’intento di farsi una coda, ma viene prontamente bloccata dall'altro che le afferra un polso. 
«Lasciali sciolti, mi piacciono di più.»
Questa volta nulla trattiene Lidia dal fare una smorfia e dal liberarsi con uno scatto dalla presa del ragazzo più grande, ma il suo autocontrollo è abbastanza elevato da permetterle di mordersi metaforicamente la lingua e non sputargli in faccia per poi tornare sotto la doccia. 
«Sciolti mi danno fastidio, Gabriele.» 
Il chiamarsi per nome era l’unico tipo di confidenza che Lidia si prendeva, anche perché chiamarlo “capo” le avrebbe solo dato più fastidio ed erano un po’ troppo cresciuti per chiamarsi solo per cognome, come invece avrebbero fatto due liceali. Purtroppo il distacco era monolaterale dato che Gabriele Venturi di libertà se ne prendeva anche troppe. 
«Sei ancor più acida di questa mattina. Cos’è, avresti voluto restare ancora un po’ in sauna?» e vedendo che la ragazza non accenna a rispondergli e che, invece, già sta ricominciando a legarsi i capelli la blocca nuovamente, ricevendo in cambio la stessa identica reazione «Ti ho detto di lasciarti i capelli sciolti, per quale motivo devi per forza contrariarmi?» 
Lidia valuta l’idea di sfoderare la sua abilità e di trasformarlo in mucchietto di carne sanguinolenta e valuta anche l’idea di rispondergli che era acida, come diceva lui, perché quella di quel giorno sarebbe stata la sua ultima giornata libera per il prossimo mese e mezzo e che di passarla alla terme seguendolo giusto per starsene zitta e ascoltarlo blaterare non solo non era il suo prototipo di giornata ideale, ma che anzi rientrava probabilmente in una delle dieci giornate peggiori di tutte la sua vita. E se davvero Gabriele si fosse mai premurato di chiederle quali fossero state le altre nove avrebbe capito, senza ombra di dubbio, che sarebbe stato meglio smettere di tirare la corda. Ma ancora una volta l’autocontrollo –quell’autocontrollo che no, caro lettore, non era infinito, ma anche a questo ci arriveremo- di Lidia ha la meglio e –sebbene le mani le bruciassero dalla voglia di strappare la lingua al ragazzo e i muscoli facciali si ribellassero con ogni briciolo della loro forza a quell’ordine- lascia cadere le mani lungo i fianchi rinuncino a legarsi i capelli e, dunque, accontentandolo. Quelle che normalmente sarebbero morbide ciocche color cioccolato le ricadono sulle scapole con le punte già un poco arricciate per l’umidità che va a dissolversi. Curva gli angoli delle labbra perfettamente proporzionate –labbra sagomate ad arte, quelle di Lidia, ma labbra sulle quali nessuno sguardo s’era mai posato se non distrattamente e per qualche secondo- e sorride, circa. Lidia si ricorda di come un tempo le avessero detto di come fossero belle le sue fossette: non le ha mai più viste, né lei né nessun altro. Ogni tanto, quando ci ripensa, spera che siano sparite, come se fossero una malattia di cui liberarsi, ma nemmeno riesce a capire perché le avesse odiate così tanto, all’epoca. Lidia è però certa che in quello, di sorriso, non compaia alcuna fossetta. 
Gabriele le sposta una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e Lidia lo lascia fare, perché improvvisamente non ha nemmeno voglia di arrabbiarsi: conoscendo il ragazzo è probabile che abbia fatto tutto quello solo per infastidirla –perché sì, Gabriele era perfettamente capace di spendere giornate intere con il solo obiettivo di infastidire qualcun altro, era un gioco che proprio non riusciva a stancarlo.- 
«Oh, sì, tieniti il sorriso in faccia, sei molto più carina, così.» Non aspetta la reazione di Lidia e finalmente si volta, probabilmente intenzionato verso la prossima zona delle terme e lascia la libertà a Lidia si smettere di sforzare i suoi muscoli facciali e di guardarsi intorno all’inutile ricerca –che lei stessa sapeva bene esser tale- di una scusa più o meno futile per praticamente fuggire da quel posto e da lui. Rivelatosi, naturalmente, un tentativo vano non le resta da fare altro che seguire Gabriele, che già si era avviato per il corridoio pieno di vapore senza aspettarla, e restare dietro di lui, poiché di affrettare il passo degno di quello di una lumaca il più grande non ne aveva proprio intenzione, a fissargli la schiena muscolosa che pareva essere stata scolpita nel marmo, non solo per l’incarnato chiarissimo, ma per i muscoli perfettamente delineati anche contro la magrezza che, sebbene non fosse eccessiva, si poteva notare dalla spina dorsale incavata un poco più del normale e dalle vertebre in rilievo: Lidia riusciva a contarle solo guardandole. 
Oggettivamente fragile come una foglia secca, ecco la verità. Ma Lidia aveva imparato a sue spese a non prendere ciò che qualcuno sembrava per oro colato, chiunque, o quasi, aveva una seconda lama: vecchio o bambino, uomo o donna, le lame nascoste salvavano la vita quando di tutto il resto era rimasto solo cenere. 
Sulla spalla sinistra sfoggia inoltre un complesso e alquanto poco mascolino –non che Gabriele lo fosse in qualunque caso dato il suo metro e sessantacinque scarso e i lineamenti praticamente più femminili di quelli della stessa Lidia- raffigurante un gatto nero tutto spelacchiato che pareva cercare di aggrapparsi alla carne stessa del ragazzo per evitare di cadere chissà dove.

«Entriamo qui.» asserisce Gabriele, più a se stesso che a lei, probabilmente, e svolta in una sala piena di vasche praticamente deserta, poi sceglie la prima sulla destra e vi entra tranquillamente, senza badare ai due signori di una certa età che già la occupavano. Lidia esita: la vasca, sebbene vi siano solo tre persone, è praticamente già piena e per lei non c’è spazio. È in imbarazzo sì, perché Gabriele la fissa e anche i due, marito e moglie, probabilmente, la fissano, e Lidia si sente una scema a stare lì in piedi con tutte le sue cicatrici esposte all’aria mentre il mondo intorno a lei continua procede imperterrito nelle sue attività dedicandole solo qualche occhiata perplessa o di scherno. Improvvisamente le viene freddo. Si guarda intorno decidendo che entrerà nell’acqua, ma non lì, probabilmente Gabriele la prenderà come la più grande delle offese, ma a Lidia non interessa: meglio il suo sguardo scocciato e le continue ed immotivate critiche l’indomani al “lavoro”, piuttosto che quel disagio che le sta facendo bruciare le guance. 
Lo odiava, sì. L’aveva costretta a quella ridicola giornata conscio della sua impossibilità di rifiutare: sarebbe stato capace di andare dal suo superiore a lamentarsi per chissà cosa e Lidia l’avrebbe pagata con il sangue dato che nessuno si sarebbe premurato di ascoltare la sua versione dei fatti. 
Alla fine però –per la benedizione di una divinità sconosciuta, aveva pensato Lidia- prima che si decidesse a spostarsi ed entrare in un altro idromassaggio la coppia s’era alzata ed era uscita rivolgendole uno sguardo strano. 
Lidia non aspetta un attimo di più per scivolare nell’acqua, il più lontano possibile da quello che, in quella giornata, si stava rivelando praticamente il suo aguzzino. 
«Non sei un po’ eccitata per domani?» 
«Dovrei?» 
«Davvero nemmeno un po’?» 
«Cosa dovrebbe accadere di tanto entusiasmante, domani?» 
Non che le interessi davvero: per lei il giorno seguente sarebbe stato un martedì come tutti gli altri. Certo, ci sarebbero stati dei cambiamenti, ma a Lidia non importava neppure quello: avrebbe ugualmente continuato a fare quello che faceva sempre, ne era praticamente certa. Da quando era entrata nella Mafia non faceva altro che eseguire gli ordini spostandosi da un punto all’altro secondo le indicazioni e risolvendo i problemi causati da tutti quelli sopra di lei. Sostanzialmente faceva lo spazzino e se questa cosa inizialmente le aveva dato un enorme fastidio –poiché era ben conscia delle potenzialità della sua abilità- alla fine aveva deciso di fare spallucce decidendo che, per il momento, finché aveva un tetto sopra la testa e delle coperte calde le importava ben poco di chi doveva ammazzare e per quale ragione. Testimoni scomodi, spacciatori che avevano pensato che l’autonomia fosse magnifica, trafficanti minori che credevano di potersi arricchire senza far conto alla Mafia: tutti erano uguali e lo sarebbero sempre stati poiché nessuno avrebbe loro tolto l’etichetta della carne da macello, che fosse lei o meno l’esecutrice della sentenza. 
Dunque no, non era interessata a qualunque cosa sarebbe accaduta il giorno seguente. O almeno, non era stata interessata fino a dieci secondi prima. Ora che Gabriele la guardava sogghignando, con lo sguardo che esprimeva un sincero divertimento misto a un malcelato disprezzo compassionevole, come se la ritenesse di un livello talmente basso da non essere nemmeno degna di leccargli le scarpe, a quel punto la questione era diventata di suo interesse. 
«Domani mi metteranno a capo di uno dei progetti più importanti degli ultimi cinquant’anni e anche tu avrai l’onore di partecipare. Davvero non sei emozionata?» 
Di nuovo Lidia si chiede sinceramente perché dovrebbe interessarle: tutto quello che il ragazzo le ha appena detto lo aveva saputo tempo prima, ma non aveva stimolato la sua curiosità allora né l’avrebbe stimolata in futuro.
«Dovresti essere contenta che abbiano scelto un cane da esecuzione come te per qualcosa di così importante.» 
No, nessun effetto. Quelle parole non le facevano più nessun effetto, non dopo tutti quegli anni, tantomeno se dette da Gabriele poiché una persona per cui non provava né stima né rispetto non avrebbe mai potuto offenderla realmente. 
«Dovresti esserne onorata.» 
«Lo sono.» risponde secca Lidia a quel punto. Forse dargli ragione lo avrebbe fatto stare zitto. Una speranza vana, lo sa, lo conosce e ci prova già da troppo, ma ammettere a se stessa che zittirlo fosse una battaglia persa l’avrebbe sinceramente demoralizzata in parte dato che ormai quei tentativi erano parte della sua routine. 
«Non lo sembri.» 
E Lidia sa benissimo che Gabriele la sta schernendo solo lui sa cosa: evidentemente trova ridicola la sua faccia o forse vuole solo tirare la corda e vedere fino a che punto può andare avanti prima di romperla. E Lidia lo lascerà fare perché non può fare null’altro. 
Ma Lidia contava i giorni a tappe di ventuno da quando lo aveva conosciuto: non ha mai creduto in Dio, né, tantomeno, nella giustizia –divina e non-, e nemmeno nel karma. Ma Lidia crede nelle occasioni e questo le basta, almeno per ora. Lidia sa che ognuno ha il suo momento e sa che il momento arriverà anche per lei. E quel giorno Gabriele e tutti gli altri capiranno che giocare con il Diavolo non paga mai come piace credere.

Angoletto bellissimo
Ho amato scrivere questo capitolo, davvero. Lidia è un personaggio che mi piace moltissimo e per cui ho grandi progetti u.u (In realtà ho grandi progetti per tutti, però shhh, non ditelo in giro).
Ho passato un'ora della mia vita (per non parlare di tutte le persone che ho tirato in ballo) per cercare di capire l'esatta sfumatura dei capelli di Gabriele (perché il platino è troppo chiaro, ma il biondo oro è troppo scuro!)
Scherzi a parte spero abbiate apprezzato c: Forse può esservi sembrato un capitolo un po' introduttivo, ma mi è servito per delineare alcune cose (qualcuno le ha già capite? Perché in quel caso posso andare a zappare AHAHAH)
Che ne pensate di Lidia e Gabriele?
||Fox

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 -parte 1- ***


Capitolo 3 -parte 1-

Vorrei dedicare questo capitolo a bicchan (titu per gli amici) che mi ha sommerso di recensioni e complimenti (e a cui avevo promesso di aggiornare velocemente, cosa che poi non è accaduta, ma che spero mi perdonerà)

Potrà sembrare un’idiozia ai lettori perché, lo ammetto candidamente, quando lo venni a sapere lo credetti anche io, ma Cassandra Pascal, membro onorario della task-force anti-mafia, provava un’immensa e incommensurabile soddisfazione nel sapere di non essere la più bassa nel suo gruppo di lavoro –come lo definiva lei-. Conoscere un tappetto come Nicola, che la scrutava dal basso del suo metro e sessanta, potergli occasionalmente appoggiare il gomito sulla spalla e poter utilizzare tutte le squallide battutine che da anni si sentiva ripetere (cose come “che tempo c’è lì sotto?” oppure “ma così in basso prende il cellulare?”) e sapere che questo, nella sua immensa gentilezza e pazienza, non si sarebbe nemmeno arrabbiato, era per la ragazza fonte d’enorme soddisfazione. Non che Cassandra fosse bassa: la sua altezza rientrava nella media di quella del genere umano. Questo lei lo sapeva, certo, ma la verità era che il Fato le aveva giocato un brutto scherzo facendola nascere e crescere in un mondo di persone che la superavano perennemente di almeno cinque centimetri. Quindi il lettore non deve stupirsi se, quando camminava affianco a Nicola, aveva stampato sul volto un perenne sorriso allegro.
I due si conoscevano da qualche tempo e, dopo uno scambio prima di mail e poi di messaggi mano a mano meno formali ed imbarazzanti, avevano deciso di uscire per prendersi un caffè e avevano scoperto di avere in comune la passione per i racconti brevi, la cioccolata calda e la fantascienza (anche se Nicola, come le aveva confidato, era appena uscito da un periodo d’ossessione per il fantasy classico). Durante alcuni uggiosi pomeriggi di Febbraio si erano ritrovati persino in videochiamata, entrambi sotto il rispettivo piumino, con una tazza della bevanda fumante sopra nominata tra le mani a parlare dell’ultimo romanzo letto come due veri critici. Marco ed Elia si erano uniti al loro gruppetto un mese e mezzo dopo l’incontro dei due e il primo non aveva risparmiato neppure una battutina sul quella che riteneva la “coppia nascente della task-force anti-mafia”. Elia però si era premurato di punzecchiarlo con il suo solito sorriso tranquillo facendogli notare come tutto quell’infierire apparisse una scenata di gelosia malcelata e finendo per etichettare Marco come nuovo spasimante di Cassandra e concorrente di Nicola per la conquista del suo cuore.
A Cass piaceva stare con gli altri tre ragazzi: li trovava interessanti e spesso aveva scherzato dicendo che avrebbe sicuramente parlato di loro al padre e che questo li avrebbe inseriti senza ombra di dubbio in l’uno o l’altro dei suoi romanzi fantascientifici. Nonostante questo Cassandra Pascal era ugualmente assurdamente nervosa per il suo primo giorno di lavoro.
Il pensiero di doversi vestire in modo semi formale l’assillava –sebbene Elia avesse esplicitamente dichiarato che sarebbe andato alla riunione in pigiama-: lei alla cappa di umidità e al soffocante caldo estivo di Milano non ci si sarebbe mai abituata e l’idea di infilarsi una camicia non l’attirava proprio per nulla, soprattutto considerando che l’avevano già avvisata che, con l’avanzare di Luglio, il caldo si sarebbe fatto sempre più insopportabile –e per un momento era stata talmente disperata all’idea da prendere in considerazione l’opzione di tornarsene a gambe levate a casa sua ad Ancona.-
Quella mattina dunque –dato che Nicola di lasciarla scappare non ne aveva proprio l’intenzione- aveva passato almeno un paio d’ore davanti allo specchio provando questa e quella camicia cercando di dare un ordine e un senso ai suoi capelli per poi rinunciare, buttarsi sul letto con una parolaccia irripetibile –colpa delle sue lontane origini venete, sosteneva lei- e optare per una t-shirt a stampa floreale, dei jeans scuri e una bella coda alta come al solito.

Ed esattamente come ve l’ho appena descritta Cassandra sosta davanti all’ingresso della porta 44b, adesso ufficiale sede della task-force governativa.
Dà una piccola spinta a Nicola, il suo dolce tappetto dai capelli celesti, per farlo riscuotere dallo stato di contemplazione di chissà cosa (dato che la stanza è abbastanza spoglia e l’unico oggetto d’interesse e lo spilungone dai capelli rossi al centro di questa) nel quale era precipitato.
Il ragazzo si riscuote borbottando qualcosa tra sé e sé per poi lasciarsi scappare un sospiro.
Marco, dietro di lei, ancora continua a sghignazzare. Cass si volta guardandolo male e intimandogli con lo sguardo di smetterla subito per poi tirargli una bella gomitata nelle costole, che trasforma la risata in un grugnito, quando vede che non ha intenzione di ascoltarla.
«È un piacere, rosso.» asserisce dopo un attimo di silenzio l’albino dietro di lei beccandosi una nuova gomitata nelle costole «Ma ehi! Che ho detto!»
«Prova almeno a fingere di essere gentile.» borbotta la ragazza guardando storto l’amico dai capelli chiari con stampato sul viso quello che Marco stesso definiva il suo impertinente broncio da bambina indispettita. Il più alto si limita ad alzare gli occhi al cielo e Cass, trattenendo un sospiro per quella battaglia persa in partenza, torna a girarsi verso “il rosso” con un sorriso timido, ma non per questo meno sincero o contagioso, stampato in viso. Supera Nicola che nel frattempo si era allontanato di qualche passo verso sinistra ma che era ricaduto nuovamente nel suo “stato di contemplazione del nulla”, e si dirige verso quello che sospetta essere Isaia –poiché i capelli rosso fuoco, il volto spruzzato di efelidi e la mole non così modesta non lasciavano grandi dubbi- e gli porge la mano socchiudendo gli occhi come le capitava da sempre quando si ritrovava a sorridere così tanto.
«È un piacere conoscerti, Isaia.»
Il ragazzo le stringe la mano un poco stralunato e Cassandra si rende conto di apparire, molto probabilmente, oggettivamente inquietante con quel sorriso enorme e tutta quell’euforia per la nuova conoscenza –per non parlare del fatto che, a giudicare dall'espressione del ragazzo, lui non aveva la minima idea di chi avesse davanti, mentre lei aveva praticamente studiato in modo ossessivo e alquanto preoccupante i fascicoli sui nuovi colleghi che aveva chiesto molto gentilmente, in altre parole estorto con la forza, a Rachele-. Ritrae la mano di scatto, rossa in volto come una di quelle mele che crescono nel cortile della casa di campagna e che sua zia usa sempre per fare quelle torte alle buonissime che lei adora tanto e che le ricordano i pomeriggi estivi passati nel frutteto insieme a sua madre. Isaia De' Medici sospira un poco per poi scuotere impercettibilmente la testa e Cassandra deve trattenere la sua innata ed incontrollabile curiosità che le suggerisce di attivare la propria abilità e analizzare un po' meglio le emozioni che sente aleggiare intorno ad Isaia. Vedendo che l’attenzione del ragazzo non è più focalizzata su di lei, Cass riesce a riacquistare un colorito più simile a quello di un essere umano anziché a quello di un pomodoro e a schiudere le labbra per riprendere le presentazioni, magari con un po’ di scioltezza in più. Purtroppo viene interrotta, come al solito, da un estremamente rumoroso albino che le circonda le spalle con un braccio e che non si cura minimamente dell'occhiataccia estremamente infastidita dalla ragazza irritata non solo per essere stata interrotta, ma che perché Marco sapeva benissimo quando Cass odiasse essere così bassa, eppure sembrava che non sprecasse mai un’occasione per ricordarglielo con l’uno o l’altro gesto.
L'albino squadra Isaia dall'alto per qualche momento, e Cass ridacchia sotto i baffi che non ha, il fastidio dissolto con la stessa velocità con cui era arrivato. Il fatto era che non avrebbe mai voluto trovarsi nei panni di Isaia in quel momento: scrutato da un bestione alto un metro e novanta con una luce poco rassicurante negli occhi.
La tensione che accenna a formarsi sparisce però in pochi attimi –e prima che Isaia possa sbiancare del tutto- quando Marco, evidentemente convinto di aver marcato a sufficienza il territorio –e Cass lo avrebbe preso in giro per il resto della vita per quei suoi atteggiamenti intimidatori che spesso sfociavano in scenette davvero comiche-, distende i muscoli del viso tutto d'un tratto e assesta un pugno forse un po' troppo forte -dato che il rosso si ritrova a barcollare sul posto- sulla spalla del ragazzo.
«È un piacere conoscerti, rosso, io sono Marco e questa Cassandra qui è ragazza» e strofina le nocche –senza curarsi del lapsus Freudiano, per lui fenomeno abbastanza comune che ha invece fatto aggrottare le sopracciglia ad Isaia- sulla testa della ragazza stessa scompigliandole i capelli che fino a due secondi prima erano ordinati in una bella coda e ottenendo da lei un grugnito di disapprovazione con conseguente gomitata nelle costole «il tappetto laggiù invece è Nicola, e sorridi un po', forza, lo so che questi due non massimo il sembrano, ma con il tempo si impara ad apprezzarli, circa.»
«Ma smettila di dire idiozie» borbotta una alquanto infastidita Cassandra impegnata a rifarsi la coda «che finisci che lo terrorizzi già dal primo incontro.» e poi torna a rivolgersi a Isaia con ancora lo sguardo rivolto al cielo «lascialo perdere, si diverte a fare il rumoroso capoccione ma in realtà...»
«Ma in realtà oltre a fingere di avere la testa dura come il granito, a improvvisarsi molesto, fastidioso, irritante, irritabile e vagamente troppo tendente alla collera dopo qualche tempo ti fa capire che in verità lo è sul serio»
Le parole, pronunciate dalla voce perennemente rilassata che Cass aveva imparato ad apprezzare nei mesi precedenti, sono seguite dal classico odore che accompagnava Elia Mezzanotte ovunque andasse, odore che Cassandra e Nicola definivano "un misto di zucchero sul punto di bruciare e tabacco con una punta amara di retrogusto", ma che, detto senza il velo di gentilezza, era, testuali parole della ragazza, la "puzza d'erba e non quella per cavalli e Dio mio Elia non ho la minima idea di dove tu l'abbia comprata e non lo voglio nemmeno sapere l'importante è che la porti fuori da casa mia e non dirmi che te la coltivi in casa perché giuro che ti tiro un cazzotto".
La chioma verde e scompigliata del ragazzo, imprigionata dal cappello bianco e nero tanto adorato dal proprietario, non si fa attendere molto dato che il ragazzo si unisce al gruppetto trascinandosi dietro un non poco frastornato Nicola che pare concentrare tutta la sua attenzione su un dialogo silenzioso con la Fata Turchina –e per questo, lettore, dovrai aspettare ancora un po': parlare ora dell'abilità di Nicola Agnelli sarebbe decisamente troppo prematuro e impiegherebbe una digressione fin troppo lunga che spezzerebbe la nostra narrazione, quindi per ora dovrai accontentarti di sapere che spesso Nicola si perdeva nel chiacchiericcio dell'essere che gli abitava la testa e, a volte, finivano per sfuggirgli dalle labbra commenti poco appropriati su argomenti che solo lui e l’entità nella sua testa potevano conoscere.-
Cass lo vede dare un pugnetto scherzoso sulla spalla di Marco, che non sembra comunque apprezzare l'interruzione, e portarsi due dita alla fronte abbozzando verso Isaia un cenno che dovrebbe essere una qualche sorta di saluto militare che però diventa solo un pretesto per sistemarsi il cappello in un gesto che ormai Cassandra riconosceva come tipico di Elia ai livelli di uno strano tic posseduto da lui solo e che poteva essere paragonato unicamente a cose altrettanto particolari e caratteristiche come lo erano i lapsus di Marco o i commenti randomici a voce alta di Nicola o la magica capacità di Cassandra di cambiare umore nel giro di tre secondi ("e quelli con le triple e quadruple personalità accompagnano soltanto", come le aveva detto Marco).
«Ma alla fin fine questo omaccione qui ha anche dei pregi, o almeno credo, io non li ho ancora trovati, Cass? Tu come sei messa? O hai abbandonato questa ricerca ai limiti dell'impossibile?»
E Cassandra non fa in tempo a rispondere, tentando di calmare le acque ed evitare uno degli scatti d'ira di Marco che Elia si divertiva a provocare e quietare subito per metà con la sua abilità –anche se spesso otteneva l’effetto contrario- e per metà a spese di Cassandra poiché la voce del capo di tutti loro –loro che avrebbero dovuto essere la task-force che avrebbe annientato la Mafia e che invece si stavano punzecchiando come dei ragazzini- li riporta alla realtà.
«Oh, bene, siete arrivati tutti.»
Con Greta Locatelli Cassandra ci aveva parlato solo qualche volta e solo via messaggio. L'aveva vista anni prima a Roma nella sede principale del DICIDA –Dipartimento Italiano per il Controllo degli Individui Dotati di Abilità-, quando aveva in qualche occasione incontrato Rachele o collaborato con gli agenti governativi per l'una o l'altra ragione, ma sempre e solo di sfuggita. Sapeva il suo nome e conosceva la sua abilità –abilità a dir poco terribile, a parer suo, almeno all'epoca: presto la sua concezione di "abilità terribile" sarebbe ben cambiata, ma questo ancora non poteva saperlo-, e la rispettava, sebbene fosse parecchio più giovane di lei –l'una aveva ventiquattro anni e l'altra cinque di meno- e, a detta di Rachele, una vera e propria teppista che "cosa ci fa tra le file governative lo sa solo lei".

Con l’arrivo e le cinque casuali parole di Greta si spezza improvvisamente il clima di familiarità che aveva invaso la stanza, come se tutti si fossero ricordati all’improvviso e solo in quel momento di non trovarsi al bar o per strada ma nel loro nuovo posto di lavoro. Greta rivolge un sorriso e saluta ognuno di loro chiamandoli per nome per poi far cenno di accomodarsi. Chi più imbarazzato e rigido e chi meno tutti sono presto seduti intorno al tavolo sulle comode sedie-poltroncine. Il silenzio regna nella stanza mentre occhi e sguardi corrono da una parte all’altra senza soffermarsi mai troppo su un singolo particolare o una persona specifica, e Cassandra si sente sprofondare nella seggiola –che improvvisamente le pare assurdamente grande ed eccessivamente morbida-. Greta, dopo un tempo che a una persona naturalmente facile all’imbarazzo come Cass pare infinito, tossisce leggermente, probabilmente per evitare ulteriori scambi di sguardi e imbarazzanti momenti di vuoto. Cassandra a quel punto si ritrova a sorridere leggermente e inaspettatamente guardando coloro con cui avrebbe lavorato da quel momento in avanti: tutti preda di quell'improvviso imbarazzo, come se fosse il primo giorno di liceo e nessuno conoscesse nessuno e nessuno sapesse che pesci pigliare.
Greta tossicchia di nuovo, attirando l'attenzione «Volete una birra?» le sopracciglia di Cass si corrugano istintivamente.
«Capo, non per contraddirla o darle fastidio, ma non sono neppure le undici, è certa che sia il caso?» È Nicola a replicare, dopo qualche attimo di silenzio perplesso, con la sua voce tanto nitida e limpida quando, paradossalmente, abbastanza incerta per quell’intervento.
La ragazza dai capelli azzurri, più scuri di quelli del suo amico tappetto, nota Cassandra, che sono invece tendono più celeste, sbuffa agitando una mano come a liquidare la questione per poi alzarsi, sparire un momento dietro quella che deve essere la porta della cucina e tornare poi con sei birre che subito piazza al centro del tavolo. Ne prende ora una per sé stappandola usando il bordo dell’appena nominato tavolo, se la porta alle labbra e ne prende un lungo sorso senza aspettare che qualcuno la imiti o qualcosa di simile.
Appoggia sul tavolo la bottiglia ora piena per metà e si pulisce le labbra con il dorso della mano emettendo poi un leggero sospiro. Si china e da uno zaino alquanto malmesso tira fuori un plico di fogli volanti, un quadernone tutto spiegazzato e quattro o cinque biro. Cass osserva la scenetta e il suo seguito, Greta che porge fogli e penne ad Isaia di fianco a lei e questo che ne prende una copia per sé e fa passare le altre, con una sorta di sconcerto che non saprebbe se definire positivo o negativo.

Si ritrova in mano le stesse schede che mesi prima s’era fatta dare da Rachele. Osserva il proprio volto sorridente della foto e la sfilza di dati anagrafici e di appunti clinici di sorta, seguita dalla fotocopia fronte e retro della carta di identità, dalle informazioni sui loro parenti stretti e da un breve resoconto sui punti focali della loro vita. Quello che però attira l’attenzione della ragazza e ciò che segue la lista schematica dei dati personali: per ognuno di loro ci sono infatti almeno tre pagine fronte e retro che riguardano unicamente l’abilità posseduta. Cassandra ha una stretta allo stomaco quando si rende conto che tutti potranno leggere della sua vita e sapere praticamente ogni cosa.
«Bene, so che già alcuni di voi si conoscono, ma vorrei che comunque deste un’occhiata per domani a questi fogli, alle abilità nello specifico: dobbiamo farci un’idea gli uni degli altri e soprattutto sulle nostre capacità il prima possibile. Ho già individuato qualche strategia che potrebbe rivelarsi vincente, ma sei teste sono indubbiamente meglio di una, quindi aspetto le vostre proposte.»
Greta si ferma un momento osservando il foglio senza dire più nulla strofinandosi la radice del naso tenendo contemporaneamente le sopracciglia alzate, come se stesse cercando il modo giusto per continuare il discorso. Poi alza lo sguardo e incontra quello di Cassandra che se ne sta seduta esattamente di fronte a lei. Tiene gli occhi fissi nei suoi per qualche attimo per poi farli scorrere su tutti loro e, a quella vista, sorridere… soddisfatta?
Sposta il plico di fogli con un gesto della mano e si mette comoda sulla sedia allungando le gambe e incrociando le braccia al petto e mettendo in mostra, probabilmente involontariamente, i numerosi tatuaggi. La luce filtra dalle finestra illuminandole gli occhi turchesi e facendoglieli brillare di una luce che Cassandra definisce maliziosa senza alcun dubbio.
«E ora parliamo di Mafia.»

Angolo autrice
Lo so, sono in ritardo (in super ritardo) e la cosa triste è che non ho nemmeno una scusa: ho scritto e pubblicato questo capitolo su Wattpad un paio di settimane fa e poi niente, tra una cosa e l'altra mi sono dimenticata di postare anche qui. Sono un caso perso.
Spero che questo capitolo non vi abbia delusi, o ignoti lettori, e prometto che mi impegnerò a pubblicare il prossimo un po' più in fretta...

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Capitolo 5
*** Capitolo 3 -parte 2- ***


Capitolo 3 -parte 2-

La prima volta che aveva visto Gabriele e Lidia, capo e sottoposta, padrone e cane, era stato praticamente certo che i due avessero avuto una relazione, o anche che avessero semplicemente scopato qualche volta, e si fossero poi lasciati malissimo, perché altrimenti non ci sarebbe stato modo di spiegare la perenne tensione che raggelava l'aria ogni qual volta ai due capitava di essere nella stessa stanza –evento non poi così raro poiché lavoravano insieme tutti i giorni-. Avevano iniziato a lavorare uniti quasi sette mesi prima, in una fredda mattinata di gennaio, e sorvolando sul fatto che i risultati erano stati ben differenti da quelli attesi, Amos Occhipinti aveva avuto la possibilità –e il privilegio, a parere dello stesso ragazzo- di studiare e analizzare due personalità estremamente disturbate quali quelle dei due suoi "collaboratori". Aveva passato i primi cinque mesi a studiare gli atteggiamenti ostili che dimostravano l'una verso l'altro elaborando le più svariate teorie sulla nascita di quell'odio reciproco che li accumunava e legava a doppio filo con nodi troppo stretti perché l'origine fosse un semplice scontro verbale o una banale insofferenza caratteriale: doveva esser accaduto qualcosa tra Gabriele Venturi e Lidia, qualcosa che aveva frantumato in milioni di frammenti qualunque legame passato, presente e futuro. Aveva creduto nell'ipotetica relazione sentimentale andata male fino a quando, due mesi prima, non si era ritrovato ad aggrapparsi con anche le unghie al tavolo macchiato di sangue rappreso su cui lavoravano con Gabriele inginocchiato tra le sue gambe intento a succhiargli il cazzo. Nelle settimane successive, poi, l'ipotesi era andata sbiadendosi fino a frantumarsi definitivamente in un milione di pezzi quando, senza nemmeno accorgersene, aveva spogliato l'altro ragazzo e questo si era fatto fottere fino a che i rivoli di sangue vermiglio che avevano iniziato a rigargli le cosce erano arrivati al pavimento, macchiandolo e lasciando una prova tangibile di quel pomeriggio... e di tutti quelli successivi. Era accaduto una sola volta che Lidia tornasse dalle sue "faccende" un poco prima del previsto –o forse erano loro ad essersi attardati più del solito, Amos non avrebbe saputo dirlo, in verità-, e quell'unica volta il ragazzo aveva adorato vedere le emozioni che scorrevano sul volto della sottoposta e che le combattevano negli occhi. Gabriele non aveva mai saputo nulla di quell'intrusione, troppo impegnato ad aggrapparsi alle spalle del compagno più giovane gemendo oscenamente, né dell'espressione attonita della ragazza –la prima emozione che Lidia avesse mai palesato o persino provato, per quanto ne sapeva Amos-, né del ghigno sadico che le aveva ridisegnato le belle labbra quando Gabriele si era fatto scappare un urlo di dolore mal soffocato contro la spalla del sottoposto. "Fagli male", sembrava volergli dire la piega di quelle labbra, "spezzalo a metà come si fa con un ramoscello secco", gli urlava la scintilla malata negli occhi. Se ne era andata chiudendosi la porta senza far rumore e quando Amos l'aveva rivista il suo viso era stato nuovamente un'impenetrabile maschera d'acciaio, come se nulla fosse mai accaduto, come se non avesse permesso ad Amos di intravedere la massa d'odio brutale che le si annidava nell'anima come fa un tumore.

Scoprire dunque che altri si sarebbero immischiati nel loro gruppo, un terzetto precario, mal assortito e creato con la forza, certo, ma un terzetto che aveva trovato un pericoloso equilibrio sull'orlo del baratro e le cui dinamiche, delle quali lui stesso faceva parte, lo affascinavano come poche altre cose nella sua vita avevano fatto, lo aveva irritato non poco, sia a causa di quel brusco turbamento della normalità, sia a causa della intrinseca indole del ragazzo che lo portava ad essere ostile verso chiunque e che, comunque, gli impediva di fidarsi di ogni persona oltre che di se stesso. 
Le chiazze di sangue sono state ripulite, le stanze riordinate e loro trasferiti in uno spazio più grande del precedente: di quei sette mesi passati è rimasto ben poco, e Amos sente il viscerale bisogno di tornare a macchiare tutto il più in fretta possibile, poiché la visione di quell'ambiente sterilizzato gli porta alla mente cose che preferirebbe davvero dimenticare. 
È tardo pomeriggio e quella mattina avrebbe potuto riposare –dato che quando aveva chiesto a Gabriele se ci fosse bisogno di presentarsi in "ufficio" questo lo aveva guardato annoiato rispondendogli di andare a farsi una vita e lasciare che "il cane", Lidia, facesse qualcosa di utile e sistemasse ciò che serviva nel nuovo edificio che avevano loro assegnato come laboratorio-, ma ha passato la notte praticamente insonne, un po' come sempre. Se però normalmente ha un modo per giustificarsi con la sua coscienza –lo stress per gli esperimenti, gli incubi, i lavoretti a cui si dedicava ormai da anni per infilarsi in tasca qualche soldo in più, che di certo non gli fa male o semplicemente il caldo-, la sera precedente non aveva davvero avuto scuse. Nonostante ciò aveva trascorso la nottata a fissare la macchia d'umido sopra il suo letto e a cercare calcolare quanto tempo avrebbe impiegato l'intonaco a staccarsi perdendo però il filo dei suoi stessi calcoli in continuazione e finendo per non concludere nulla. Verso le due del mattino alla fine aveva deciso di mettersi al computer, giusto per impegnare la mente e alle cinque e mezza era uscito per andare sul tetto del palazzo dove abitava e guardare l'alba da lì: solo dopo aver visto il sole sorgere e i raggi infilarsi tra i tetti delle case milanesi le palpebre gli erano scivolate sugli occhi, complice la brezza non ancora afosa che gli aveva scompigliato i capelli da ormai anni tinti di bianco dalle punte di un rosso spento che richiamava il suo colore naturale, fino a che non era scivolato in un sonno agitato durato poche ore. Al suo risveglio collo e schiena gli facevano male e, tra l'altro, era ora di darsi una sistemata e capire con chi gli sarebbe toccato lavorare nei mesi, o anni?, successivi.

I nuovi membri entrano alla spicciolata senza guardarsi né guardarlo in faccia. Amos li osserva seduto alla propria postazione con i rapporti dei sette mesi passati aperti sulle gambe. Gabriele, pur sapendo tutto, si era ovviamente ben guardato dal dirgli qualunque cosa riguardo i nuovi membri, probabilmente per il puro gusto d'infastidirlo facendogli notare come fosse lui ad avere potere e informazioni, e non si era lasciato sfuggire nulla se non che fossero tre. Di questi, nota Amos quando la porta si chiude una terza volta, solo una è una ragazza: sta con la schiena poggiata contro il muro, le braccia strette al petto, la lunga mantella carminio che le ricade morbidamente sui fianchi avvolgendo perfettamente la vita sottile. Le gambe sono lunghe e secche come grissini, indubbiamente sproporzionate al torso più tozzo e creano un effetto stridente con la minutezza complessiva della figura, così come le braccia, avvolte fino ai gomiti da guanti di pelle nera, secche come le gambe, appaiono strane incrociate davanti ai seni più che abbondanti. Quella ragazza gli appare a primo acchito così fatta di spigoli e contraddizioni che Amos potrebbe considerare l'idea di farsela andare a genio se non fosse per l'impeccabilità di tutto il resto: il mantello senza nemmeno una piega, ricoperto di pizzo nero ad ogni orlo, senza alcuno sfilacciamento, nessun bottone d'oro mancante, il cappuccio tirato sulla testa per impedire a chiunque di scorgere un centimetro di pelle più del necessario ma non troppo così da non farle perdere un millimetro della larghezza del campo visivo, la maschera nera che le copre tutto ciò che il cappuccio lascia nudo, e gli occhi, vigili e gelidi, l'uno di un grigiastro tenue, tendente al lilla, l'altro di un castano scuro totale, più tendente al nero che ad altro, sono le uniche due cose che sfuggono alla morsa oppressiva degli abiti. La schiena perfettamente dritta, il collo, seppur coperto, in palese tensione, le spalle rigide, il mento sollevato. L'aspetto apparentemente contraddittorio che aveva inizialmente attirato lo sguardo di Amos è dunque ora duramente soppresso da una rigidezza innaturale e auto-imposta, da un controllo totale di ogni aspetto su cui si può effettivamente avere il controllo. Quella che avrebbe potuto essere un nuovo soggetto interessante si è rivelata alla fine l'ennesima macchietta grigia di regole e bugie, proprio come Lidia e Gabriele e tutti gli altri esseri viventi prima di loro. Quell'attimo meraviglioso è sparito e con questo l'interesse di Amos per ogni cosa, anche per gli altri due ragazzi che, difatti, si limita a guardare distrattamente: uno porta una giacca di pelle un po' consumata e ha una specie di fazzoletto avvolto intorno al collo, l'altro indossa un lungo giubbotto scuro a cui manca un bottone, una sciarpa nera e tiene i capelli inchiostro legati in un codino. Se da un lato per notare l'arrivo nel capannone del primo gli ci erano voluti tre secondi, merito –o colpa- del passo sicuro o del movimento un po' ciondolante di chi, di nascondersi, non aveva mai avuto o sentito il bisogno per carenza di motivi o "occasioni" o –più probabilmente data anche la situazione- per la presenza d'altre capacità che sopperivano quella mancanza-, dall'altro il secondo pare un fantasma nero ed evanescente sotto spoglie umane. Amos ammette che, se non fosse stato per la porta, non si sarebbe mai accorto della presenza del giovane: troppo silenzioso, troppo ferino, troppo a suo agio con gli spettri del mondo. Se avesse distolto lo sguardo dalla sua figura avrebbe perso completamente la consapevolezza di dove l'altro si trovasse, poiché la completa assenza d'un suono, d'un passo o d'un respiro, d'uno spostamento d'aria rendeva impossibile localizzare il ragazzo nell'ambiente, come se si fosse fuso con la parete, o, più semplicemente, non fosse affatto lì, come se la porta si fosse aperta e chiusa per un alito di vento e il corpo che aveva intravisto non fosse stato altro che un'ombra o un miraggio.

Lidia è rimasta nel suo angolino di stanza dall'inizio alla fine della sfilata, e anche oltre: non ha mosso un muscolo né per osservare i nuovi arrivati -almeno non apparentemente e non nella visuale di Amos- né per reagire all'ingresso del capo di tutti i presenti.
Gabriele Venturi, al contrario di tutti gli altri, non aveva mai avuto bisogno, in tutta la sua vita, di essere silenzioso, e in venticinque anni non aveva mai imparato l'arte della discrezione: non gli era mai interessato e non ne aveva mai avuto necessità, troppo impegnato a godersi tutti i privilegi che la vita gli aveva regalato e a crogiolarsi nella consapevolezza d'essere migliore di tutti quegli altri pezzenti nati poveri e soli che vivevano nel mondo -e questo Amos lo aveva capito dopo aver trascorso con lui sì e no due ore scarse-. Probabilmente non sarebbe mai cambiato e mai avrebbe imparato la lezione se le cose avessero continuato ad andare come andavano allora, ma posso assicurarvi, cari lettori, che per quanto tutto ciò non sia altro che un resoconto questa nostra storia possiede tutte le caratteristiche d'un buon romanzo e, dunque, non c'è bisogno che vi anticipi nulla per farvi trarre le vostre conclusioni, almeno su questo. 
Quel giorno indossa dei jeans attillati a vita alta e una camicia che gli aderisce perfettamente al petto e ai fianchi, come se fosse stata fatta su misura, come probabilmente è, a pensarci bene. La figura di Gabriele è quasi eterea sotto certi punti di vista, o forse è solo il netto contrasto tra l'oscurità dell'ambiente circostante e i suoi capelli biondi a conferirgli quella patina di pretenziosa perfezione.

«Alcuni probabilmente la definirebbero sperimentazione umana, ma a voi non deve interessare più di tanto.» chiusosi la porta alle spalle procede ora dritto e si ferma proprio in mezzo alla stanza, dando le spalle al giovane dalla giacca di pelle, di certo non preoccupato che questi possa smettere di ascoltarlo «Praticamente la totalità di voi non è altro che un branco di esecutori, cani da riporto che agitano la coda per avere il loro osso a fine giornata, continuate a comportarvi così e con me non avrete problemi, fate quello che vi dico senza fiatare, velocemente e con precisione, e avrete i vostri croccantini, sbagliate o disobbedite e il bastone colpirà forte.» Fa una pausa, come se aspettasse la replica di qualcuno, ma riprende a parlare prima che chiunque abbia effettivamente il tempo di formulare un pensiero e pronunciarlo. «Ottimo, vedo che siete tutti dotati di acume, sono certo che andremo d'accordo.»
«Non ho intenzione di farmi bastonare come un cane, affrosciau*, quindi abbassa la cresta.» 
C'è un momento in cui un silenzio attonito gela la stanza e ognuno nella posizione in cui si trova. Amos stesso resta colto impreparato da quell'uscita totalmente inattesa: lavorava ormai da anni nella Mafia e non gli ci era comunque voluta più di una settimana per capire l'andazzo generale delle cose. La sua opinione, come quella di tutti gli altri subordinati, non era ed è richiesta, loro non sono lì per fare domande o contestare, poiché la Mafia li ha salvati da un'esistenza miserabile, paga da vivere a lui e tutti quelli come lui, trovatelli mezzi pazzi meritevoli d'essere salvati solo perché dotati di un'Abilità, e loro in cambio vivono in funzione di questa stessa con la testa china. Quelli come lui non avevano nessuna mira al potere, troppo deboli e troppo meschinamente impegnati a sopravvivere, quelli come lui obbediscono e basta, al limite cercano di racimolare divertimento e soddisfazioni dove e come possono. Erano quelli come Gabriele che, forse, un giorno, avrebbero sparato in testa al capo e si sarebbero fatti re, e non partivi dal gradino più basso se avevi questa possibilità: chi nasce avvantaggiato e vittorioso non ha bisogno di fare il cane per vivere, nemmeno nei primi anni della sua vita. Quindi perché alzare così inutilmente la voce? A che scopo? Desiderio masochistico, forse?

Gabriele ha probabilmente fatto lo stesso ragionamento perché osserva infastidito il corvino dalla giacca di pelle, un po' come si osserverebbe una mosca che ti ronza attorno da un tempo troppo lungo e che ha logorato a sufficienza la tua pazienza. 
«Come, scusa? Perdonami, ma non credo di aver capito.» 
E anche Amos ne è convinto, perché non può aver capito bene, non avrebbe senso, probabilmente il ragazzo ha solo detto uno sproposito e ora si rimangerà tutto mordendosi la lingua a sangue e dandosi contemporaneamente dell'idiota. 
«Ho detto, brutto accavurau**» s'avvicina a Gabriele fino a che tra di loro la distanza non è che di qualche spanna e un sorriso di scherno gli si dipinge sulla faccia lasciando in bella mostra un dente sbeccato. «che non so per chi tu mi abbia preso, ma non sono un animaletto da compagnia che mangia merda, quindi ridimensiona il tuo ego e il tuo modo di parlare, perché altrimenti ti posso giurare che alla prossima uscita di questo tipo ti ritroverai senza qualche appendice, come per esempio il cazzo minuscolo che ti trovi tra le gambe.» 
Amos Occhipinti è più che certo che Gabriele, il capo che ha imparato, anche se con qualche difficoltà, ad apprezzare, stia per avere un attacco isterico e teme davvero per la sorte del nuovo arrivato poiché conosce il biondo e, soprattutto, perché ha visto all'opera la sua Abilità. Gabriele Venturi, però, fissando il corvino dal basso data la sua modestissima altezza, sebbene le mani gli tremino, strette a pugni, e gli occhi azzurrissimi trasudino rabbia, non accenna a fare nulla, e Amos si domanda davvero il motivo dato che, se c'era una cosa che aveva capito riguardo Gabriele, era quanto questo odiasse con ogni fibra di sé le persone che gli mancavano di rispetto. Trattiene il fiato aspettando che il ragazzo dai biondi capelli pieghi un dito e tolga all'altro l'aria dai polmoni o gli sciolga il piercing sulla lingua e tutti i bottoni causandogli una leggerissima ustione o gli apra un buco sotto i piedi e lo rinchiuda sotto il pavimento, tutte cose che, pur non conoscendo per bene la sua abilità è più che certo che Gabriele sappia fare, ma non succede nulla di tutto ciò: il giovane stringe i denti, irrigidisce le spalle e fissa il corvino come se volesse aprilo a metà, ma poi molla i pugni e fa un passo indietro. 
Un sussulto attonito percorre tutta la stanza mentre il sorriso sul volto di quello che, scopriremo a breve, è Lorenzo Locci s'allarga ancor di più. 
«Sono io ad avvisarti: parlami ancora così e la tua patetica Abilità non ti servirà a nulla, ragazzino viziato.» Un sorriso impertinente gli nasce nuovamente sulle labbra, ma è un sorriso falso, e nella stanza lo sanno tutti, nessuno escluso. «Alla prossima uscita di questo tipo Lidia ti accompagnerà gentilmente alla porta, ma non sono sicuro che al quartier generale farebbe piacere sapere del tuo atteggiamento, soprattutto non a papino, che ne pensi, Lorenzo?» Lidia si raddrizza, richiamata all'appello e non più persa tra i fili della sua mente e avanza di un passo, ritta come un fuso, con un bagliore rosso nello sguardo e le unghie pericolosamente ridisegnate ad artiglio. 
Lorenzo, però, si limita a ridere un poco. «Sei talmente debole da aver bisogno di nasconderti dietro uno di quelli che tu stesso hai definito cani, tra questi, poi, proprio ad una ragazza, per di più, e dire che dovresti essere quello con il potere e il cervello, qui dentro.» 
«Semplicemente non voglio sprecarmi con i pezzenti che credono d'essere invulnerabili perché hanno qualche amico ai piani alti.» ma è una risposta debole e come lo sa Amos lo sa Gabriele e lo sa Lorenzo.
E mentre il ragazzo dai capelli bianchi e rossicci continua a chiedersi per quale motivo Gabriele non usi la propria Abilità, Lidia fa un altro passo avanti mentre un inquietante spasmo le fa scattare la testa verso sinistra e l'aria intorno a lei s'addensa. Lorenzo al sentir nominare gli "amici ai piani alti" s'è irrigidito ed ora stringe le nocche fino ad averle bianche mentre gli occhi azzurri gli si rigano di nero e la situazione sembra peggiorare ogni secondo che passa perché, sebbene l'Abilità di Gabriele non la conosca bene Amos ha invece un'idea più che perfetta di quella di Lidia e, soprattutto, del numero di cadaveri che è capace di lasciarsi dietro e, anche se non sa nulla di quella di Lorenzo ha la certezza che non possa reggere il confronto con la ragazza in alcun modo. L'unica cosa che può fare, in quell'istante, è contare i secondi che mancano all'impatto catastrofico contro la parete di cemento armato che gli si è palesata davanti all'improvviso.

«Ora basta!» La voce gli giunge un poco smorzata alle orecchie, ma la sfumatura gelida e imperiosa non gli sfugge affatto. Si volta di scatto insieme a tutti gli altri verso la giovane incappucciata che, con gli occhi bicolori illuminati di un disprezzo che non le importa dissimulare, pare una sdegnosa regina d'altri tempi pronta per tagliare la testa a tutti quegli altri pezzenti che la circondano. «Mi hanno mandato qui spacciando tutto per questo per una promozione, e invece mi trovo a vedere due bambini che bisticciano tra di loro per il pezzo di pane più grosso. Siete ridicoli. E tu» si volta di scatto verso Lidia «non ho la minima idea di cosa tu stia facendo, ma hai esattamente cinque secondi per farla finita prima che ti spari un colpo in testa dato che non ho nessuna voglia di vedere tu e quell'altro sciocco giocare a chi ce l'ha più grosso.» Si blocca e, mentre la stanza resta immersa nel silenzio e Lidia se ne torna al suo posto, la ragazza s'abbassa la maschera con l'indice guantato rivelando due labbra morbide ed un mento a punta. Quando riprende a parlare la voce è perfettamente calma, e questo fa rabbrividire Amos ancora più di quanto non avesse fatto il tono gelido. «Ed ora, signori miei, tornerei cortesemente all'argomento principale, se siete tutti d'accordo, ovviamente.»

*frocio, in sardo
**rincoglionito, sempre in sardo

Nota dell'autrice (che è solo vagamente in ritardo)
Lo so che non ci speravate più (iniziavo a perdere le speranze pure io), ma invece sono tornata. Ebbene sì, non sono morta e il Quartiere (questo il nome informale che ho deciso di dare a questa storiella) torna con me, super carico e pronto ai prossimi capitoli che, finalmente -direte voi-, inizieranno ad essere un po' più densi d'avvenimenti. 
Spero che qualcuno si ricordi ancora a che punto eravamo rimasti, perché qui abbiamo trovato una situazione completamente diversa: nella Mafia (come forse un po' c'era da aspettarsi) la tensione si taglia con un coltello e la situazione è decisamente precaria (e siamo solo all'inizio!). 
Ebbene, che dire, fatemi sapere i vostri pareri su tutti i personaggi di questo capitolo, sia quelli che già conoscevamo (Lidia, Gabriele e Beatrice, che è comparsa all'ultimo ma ha salvato la situazione), sia sui nuovi arrivati (Lorenzo e, ovviamente, il protagonista di questo capitolo, Amos, personaggio che a me piace da morire per una serie di motivi che non vi rivelerò, ops.) E c'è anche un misterioso figuro che, dopo essere comparso, è rimasto in disparte e si è praticamente volatilizzato, su di lui c'è qualche parere? (Forse la sua identità è intuibile, ma se l'avete capita tacete e fingete di non sapere, così mi fate felice) 

Ringrazio chiunque leggerà, anche dopo questo luuuungo periodo e anche chi aspetterà i prossimi aggiornamenti c:
Segnalazioni di eventuali errori sono le benvenute!
||Fox


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